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Fritz Leiber

SPADE CONTRO
LA MAGIA
Le Cronache di Nehwon
Libro Quarto

Racconti
1968 by Fritz Leiber
Titoli originali: Swords Against Wizardry
- In the Witch’s Tent (1968)
- Stardock (1965)
- The Two Best Thieves of Lankhmar (1968)
- The Lords of Quarmall (1964)
Traduzione di Roberta Rambelli
Questo libro è dedicato a
HARRY OTTO FISCHER,
che per primo esplorò Quarmall
e che scrisse trenta pagine,
qui incluse senza alterazioni,
su quel regno sotterraneo.

Inoltre, la seconda parte di questo libro,


La Rampa delle Stelle, è dedicato a
due robusti scalatori:
Poul Anderson e Paul Turner.
NELLA TENDA DELLA STREGA

In cui il Gray Mouser e Fafhrd consultano una fattucchiera con loro grave pe-
ricolo; con l’indicazione di come una fortezza possa venire trasformata in uno
strumento di attacco improvviso e un mezzo di rapida fuga.

La megera si chinò sul braciere. I fumi grigi, ascendenti, si intrecciarono con le


ciocche dei penduli, aggrovigliati capelli neri. Il chiarore del fuoco mostrò la faccia
di lei, scura, dura, e sudicia come le radici appena dissotterrate di un melo nero.
Mezzo secolo di calore e di fumo dei bracieri l’avevano conciata, rendendola nera,
grinzosa e indurita come il prosciutto mingol.
Dalle narici dilatate e dalla bocca molle, che mostrava alcuni denti brunastri,
simili a vecchi tronconi d’albero, in una staccionata irregolare intorno al campo
grigio della lingua, la megera inalava ed espelleva i fumi, gorgogliando.
Quelli che sfuggivano ai suoi avidi polmoni salivano tortuosamente verso il
soffitto malfermo della tenda, poggiato su sette centine incurvantesi dal palo cen-
trale, e depositavano sul vecchio cuoio la sottile offerta di resina e di fuliggine. Si
diceva che una tenda come quella, messa a bollire dopo decenni o preferibilmente
secoli d’uso, produceva un liquido nauseante che dava agli uomini visioni strane e
pericolose.
Oltre le pareti flosce della tenda si irradiavano i vicoli scuri e tortuosi di Illik-
Ving, un centro sovraffollato, volgare e chiassoso, l’ottava e più piccola metropoli
della Terra delle Otto Città.
E in alto rabbrividivano nel vento freddo le stelle estranee del mondo di Ne-
hwon, così simile e così dissimile dal nostro mondo.
Nella tenda, due uomini vestiti alla foggia barbara guardavano intenti la strega
curva oltre il braciere. Quello grande e grosso, dalla chioma biondorossiccia, aveva
gli occhi seri e fermi. Il piccoletto, interamente vestito di grigio, abbassò le palpe-
bre, represse uno sbadiglio e arricciò il naso.
«Non so cosa puzzi di più, lei o il braciere» mormorò. «O forse è tutta la tenda,
o questa pillacchera su cui dobbiamo stare. O magari lei ha come demone familiare
una puzzola. Senti, Fafhrd, se proprio dovevamo consultare un personaggio strego-
nesco, avremmo dovuto rivolgerci a Sheelba o a Ningauble, prima di far vela verso
nord da Lankhmar, attraverso il Mare Interno.»
«Quei due non erano disponibili» rispose l’uomo grande e grosso, in un bisbi-
glio reciso. «Stt, Gray Mouser, credo che sia andata in trance.»
«Vorrai dire che si è addormentata» ribatté irriverente l’ometto.
Il respiro gorgogliante della megera cominciò a sembrare piuttosto un rantolo di
morte. Le palpebre sbatterono, rivelando due sottili linee bianche. Il vento scosse le
pareti scure della tenda... o forse erano presenze invisibili che aleggiavano e flut-
tuavano.
L’ometto non si mostrò per nulla impressionato. Disse: «Non capisco perché
dobbiamo consultare qualcuno. Non è che abbandoniamo completamente Nehwon,
come ci è accaduto nell’ultima avventura. Abbiamo le carte... quel pezzo di perga-
mena di pelle d’ariete, voglio dire, e sappiamo dove andiamo. O almeno, tu dici di
saperlo.»
«Stt!» intimò l’uomo grande e grosso, poi aggiunse con voce rauca: «Prima di
imbarcarsi in una grande impresa, è consuetudine consultare uno stregone od una
strega.»
L’ometto, abbassando a sua volta la voce in un mormorio, replicò: «E allora,
perché non potevamo consultarne uno un po’ civile... un membro stimato della
Corporazione degli Incantatori di Lankhmar. Almeno quello avrebbe avuto intorno
a sé un paio di belle ragazze nude, su cui riposare gli occhi quando cominciassero a
lacrimare per aver troppo scrutato i suoi sgorbi geroglifici o i suoi oroscopi.»
«Una buona strega di campagna è più onesta di certi bricconi cittadini agghin-
dati con tanto di cappello a cono e robone ornato di stelle» ribatté l’uomo grande e
grosso. «Inoltre, questa è più vicina alla nostra gelida destinazione e alle sue in-
fluenze. Tu e la tua passione da cittadino per i lussi e le comodità! Saresti capace di
trasformare il laboratorio di un mago in un postribolo!»
«E perché no?» inquisì l’ometto. «Due cose affascinanti in una volta!» Poi, in-
dicando la megera con il pollice, «Di campagna, hai detto? Io direi piuttosto di le-
tamaio.»
«Stt, Mouser, o le spezzerai la trance.»
«La trance?» L’ometto riesaminò la megera. Aveva chiuso la bocca e respirava
lamentosamente dal naso a becco, la cui punta annerita dalla fuliggine si sforzava
di toccare il mento sporgente. Vi era un ululato fievole e acuto, come di lupi lonta-
ni, o di spettri vicini, o più semplicemente un bizzarro sottofondo del lagno della
strega.
L’ometto aggricciò il labbro superiore e scosse il capo. Gli tremavano un po’ le
mani, ma cercava di nasconderlo. «No, direi che è solo picchiata in testa, quella»
commentò con aria critica. «Non avresti dovuto darle tutta quella resina di papave-
ro.»
«Ma è proprio quello lo scopo della trance» protestò l’uomo grande e grosso.
«Scacciare a sferzate e a sassate lo spirito dal cranio, e costringerlo a salire sulle
montagne mistiche, affinché dalle loro vette possa contemplare le lande del passato
e del futuro, e magari l’altro mondo.»
«Io vorrei che fossero soltanto mistiche le montagne davanti a noi» borbottò
l’ometto. «Senti, Fafhrd, io sono anche disposto a starmene accoccolato qui tutta la
notte, o almeno per altri cinquanta respiri fetidi o duecento annoiati battiti del cuo-
re, per assecondare il tuo capriccio. Ma non ti è passato per la mente che in questa
tenda siamo in pericolo? E non mi riferisco esclusivamente agli spiriti. Vi sono al-
tri vagabondi oltre a noi, in Illik-Ving, alcuni forse impegnati nella nostra stessa
cerca, che sarebbero ben felici di liquidarci. E qui, in questa tenda cieca, siamo
come cerbiatti profilati contro il cielo... o anitre posate.»
Proprio in quel momento il vento ritornò con i suoi fremiti e suoi fruscii, por-
tando inoltre un raspio che poteva essere causato dall’estremità di un ramo smosso
dal vento o dalle lunghe unghie dei morti. C’erano anche ringhi e gemiti sommessi,
e suoni di passi furtivi. I due uomini pensarono all’ultimo ammonimento del Mou-
ser. Questi e Fafhrd guardarono verso l’ingresso della tenda, contornato dalla notte,
e allentarono le spade nei foderi.
In quell’istante il respiro rumoroso della megera s’interruppe, e insieme ad esso
ogni altro suono. Gli occhi si aprirono, mostrando soltanto la sclerotica... ovali lat-
tescenti, infinitamente strani nello scuro groviglio di radici dei lineamenti taglienti
e dei capelli ispidi. La punta grigia della lingua passò come un grosso bruco intor-
no alle labbra.
Il Mouser non fece commenti, ma la palma della mano di Fafhrd, con le dita
protese, era più imperiosa di qualunque Stt.
Con voce molto bassa, ma straordinariamente nitida, quasi di fanciulla, la me-
gera intonò:

Per scopi oscuri e magici, con cuore non giocondo


Andate verso il gelido, crudo orlo del mondo...

“Oscuri”, qui è la parola chiave, pensò il Mouser. Il tipico modo delle streghe,
per non dire niente. È chiaro che questa non sa niente di noi, solo che siamo diretti
a nord, e può averlo saputo da qualche pettegolo...

A nord, a nord, a nord, e a nord dovete andare,


In mezzo a ghiacci lividi ed alle nevi amare...

Altre variazioni sul tema, fu il commento interiore del Mouser. Ma deve insi-
stere tanto, soprattutto sulla neve? Br!

E parecchi rivali, spinti da invidia forte,


Vi seguiran spietati, fino alla vostra morte...

Aha, l’inevitabile minaccia per spaventarci, senza la quale una predizione non
sarebbe completa!

Però dopo il pericolo e il fuoco mondatore


Voi troverete alfine quello che brama il cuore...

E adesso il lieto fine! Per gli dèi, ma anche la più stupida prostituta-chiromante
di Ilthmar saprebbe...

E troverete allora...

Qualcosa di grigioargenteo lampeggiò davanti agli occhi del Mouser, così vici-
no che non ne distinse la sagoma. Senza riflettere, schivò e sguainò il Cesello.
La punta affilatissima della lancia, avventata attraverso il telo della tenda come
se fosse carta, si arrestò a meno di una spanna dalla testa di Fafhrd, e poi venne ri-
tratta.
Un giavellotto eruppe dalla parete di cuoio. Il Mouser lo deviò con la spada.
Fuori si scatenò una tempesta di grida. Il significato generico di alcune era:
“Morte agli stranieri!”, di altre: “Venite fuori, cani, che vi ammazziamo!”.
Il Mouser si girò a fronteggiare la falda di cuoio dell’entrata, con occhi dardeg-
gianti.
Fafhrd, reagendo quasi con la stessa prontezza del compagno, trovò una solu-
zione piuttosto irregolare dell’ingarbugliato problema tattico, il problema di uomini
assediati entro una fortezza le cui mura non li proteggevano, ma in compenso non
permettevano neppure di vedere all’esterno. Come primo passò, balzò verso il palo
centrale della tenda e con un grande strattone lo svelse dal suolo.
La strega, reagendo a sua volta con concreto buon senso, si gettò lunga distesa
per terra.
«Ritiriamoci!» gridò Fafhrd. «Mouser, tu proteggi l’avanguardia e guidami!»
Con queste parole si lanciò alla carica verso l’uscita, trascinando con sé l’intera
tenda. Vi fu una rapida serie di piccole esplosioni quando le vecchie cinghie, piut-
tosto fragili, che tenevano legati ai pioli i lati di cuoio grezzo, si spezzarono. Il bra-
ciere si rovesciò, spargendo intorno i carboni. La megera venne superata. Il Mou-
ser, che precedeva Fafhrd, spalancò la falda dell’ingresso. Dovette servirsi imme-
diatamente del Cesello, per parare un affondo di spada dall’oscurità, ma con l’altra
mano tenne spalancato il passaggio.
Lo spadaccino avversario rotolò all’indietro, forse un po’ sconcertato nel veder-
si attaccato dalla tenda. Il Mouser gli passò sopra. Gli parve di sentire le costole
che si spezzavano, quando Fafhrd fece altrettanto, e questo gli parve un particolare
confacente, anche se brutale. Poi gridò: «Vira a sinistra adesso, Fafhrd! Adesso un
po’ a destra! C’è un vicolo sulla nostra sinistra. Pronto a svoltare bruscamente
quando te lo dirò. Via!» E afferrandosi ai bordi di cuoio della porta, il Mouser col-
laborò a far deviare la tenda mentre Fafhrd ruotava su se stesso.
Dietro di loro si levarono grida di rabbia e di sbalordimento, e uno strillo che
sembrava quello della megera, infuriata nel vedersi rubare la dimora.
Il vicolo era così stretto che i lati della tenda strusciavano contro gli edifici e le
staccionate. Al primo segno di terreno cedevole sotto i loro passi, Fafhrd vi piantò
il palo, ed entrambi sfrecciarono fuori dalla tenda, lasciandola lì a bloccare il pas-
saggio.
Le grida alle loro spalle divennero improvvisamente più forti, quando gli inse-
guitori svoltarono nel vicolo, ma Fafhrd ed il Mouser non corsero via con rapidità
eccessiva. Erano certi che gli aggressori avrebbero impiegato un tempo considere-
vole a esplorare e ad assaltare la tenda vuota.
A lunghi passi si avviarono insieme verso la periferia della città addormentata,
verso il loro accampamento ben nascosto nei dintorni. Le loro narici aspiravano nel
gelo, incanalando l’aria che scendeva dal passo migliore delle Montagne dei Troll,
una catena aspra che cingeva la Terra delle Otto Città isolandola dall’immenso pia-
noro delle Solitudini Fredde, verso nord.
Fafhrd osservò: «È una vera sfortuna che la vecchia sia stata interrotta proprio
quando era sul punto di comunicarci qualcosa d’importante.»
Il Mouser sbuffò. «Aveva già cantato la sua canzone, la cui somma era zero.»
«Mi domando chi fossero quegli individui scortesi e quali moventi avessero»
fece Fafhrd. «Mi è parso di riconoscere la voce di quel trangugiatore di birra, Gnar-
fi, che ha un’avversione per la carne d’orso.»
«Erano bricconi che si comportavano stupidamente quanto noi» rispose il Mou-
ser. «Moventi? Tanto varrebbe attenderseli dalle pecore? Dieci idioti che seguiva-
no un capo idiota.»
«Comunque, si direbbe che qualcuno non ci abbia in simpatia» opinò Fafhrd.
«È mai stata una novità, questa?» ribatté il Mouser.
LA RAMPA DELLE STELLE

Delle fatiche, minacce e piaceri sopportati da coloro che cercano la più alta di
tutte le avventure, e di una tale, alta, crudele, con la neve sulle spalle e il ghiaccio
nello sguardo, che pure era una dama gentile, dispensatrice di favori così come di
morte.

Settimane dopo, di prima sera, la grigia armatura di nubi del cielo si involò ver-
so il sud, frantumata e dissolta come dai colpi di una mazza intinta nell’acido. Lo
stesso poderoso vento di nordest abbatté sprezzantemente anche la muraglia di nu-
vole a oriente, in precedenza inespugnabile, rivelando una catena montuosa di lu-
gubre maestà, che si estendeva da nord a sud e scaturiva bruscamente dal pianoro,
alto due leghe, delle Solitudini Fredde... come un drago lungo cinquanta leghe che
rizzasse, da una sepoltura gelida, la cresta dorsale speronata.
Fafhrd, che conosceva bene le Solitudini Fredde (nato ai piedi di quelle monta-
gne e scalatore, durante l’infanzia, dei loro pendii inferiori), le indicava per nome
una ad una al Gray Mouser, mentre stavano sullo scricchiolante bordo orientale,
coperto di gelo, della depressione che ospitava il loro campo. Il sole, in procinto di
accamparsi a sua volta, splendeva ancora alle loro spalle sulle facce occidentali dei
picchi principali, mentre egli li nominava... Tuttavia non splendeva di un romanti-
co chiarore roseo, ma con una luce nitida, fredda, che faceva spiccare i particolari
della tremenda alterigia di quelle vette.
«Segui con lo sguardo il primo grande sperone a nord» disse al Mouser, «quella
falange di lance di ghiaccio tese a minacciare il cielo, dalle aste di roccia scura e di
verde lucente... Quello è il Saracco. Poi, così colossale da farlo sfigurare al con-
fronto, una lama isolata, gelida e color avorio, non scalabile secondo ogni valuta-
zione ragionevole... è il Dente. Poi un’altra vetta non scalabile, ancora più alta e
con la parete sud formata da un precipizio liscio che sale per una lega e s’incurva
all’esterno verso la cima appuntita: è la Zanna Bianca, dove morì mio padre... il
canino delle Montagne dei Giganti.
«Ora ricomincia con la prima cupola di neve a sud della catena» continuò l’uo-
mo alto dal mantello di pelliccia, dalla barba e dai capelli di rame, a testa scoperta
nell’aria frigida, immota, al livello del suolo, come il fondo marino sotto una tem-
pesta. «La chiamano l’Invito, o l’Insidia. Non sembra gran cosa, eppure molti uo-
mini sono finiti assiderati sulle sue pendici o sono stati trascinati alla morte dalle
sue capricciose, regali valanghe. Poi una cupola di neve ancora più enorme, una
vera regina in confronto alla principessa dell’Insidia, un emisfero del bianco più
puro, abbastanza grandioso per essere il tetto della sala del consiglio di tutti gli dei
che mai furono o saranno... è il Gran Hanack, che mio padre per primo scalò e
conquistò. La nostra città di tende era eretta là, presso la sua base. Non ve ne è
neppure una traccia ora, direi, neppure una concimaia.
«Dopo il Gran Hanack, più vicino a noi, un enorme pilastro dalla cima piatta,
quasi un piedestallo per il cielo, che sembra neve screziata di verde, ma in realtà è
tutto granito pallidissimo sferzato dagli uragani: l’Obelisco Polare.
«Infine» continuò Fafhrd, abbassando la voce e stringendo la spalla del compa-
gno, «leva lo sguardo verso la vetta dalle trecce nivee, dalle rocce scure e dal bian-
co cappuccio tra l’Obelisco e la Zanna Bianca, con la gonna scintillante mascherata
in parte dal primo, ma più alta di entrambi di quanto essi sono più alti delle Solitu-
dini Fredde. Già ora nasconde dietro di sé la luna che ascende. Quella montagna è
la Rampa delle Stelle, la meta della nostra cerca.»
«Una verruca piuttosto graziosa, alta e snella, su questa parte gelata della faccia
di Nehwon» ammise il Gray Mouser, scostando la spalla per liberarsi dalla stretta
di Fafhrd. «E ora dimmi anche, amico mio, perché non hai mai scalato la Rampa
delle Stelle in gioventù, impadronendoti del tesoro che sta lassù, e hai dovuto at-
tendere che ne trovassimo un accenno in una torre polverosa, affocata, pattugliata
dagli scorpioni in un deserto lontano da qui un quarto del mondo... e perché ab-
biamo sprecato mezzo anno ad arrivare fin qui.»
Nel rispondere, la voce di Fafhrd divenne vagamente insicura. «Mio padre non
l’aveva mai scalata: come potevo farlo io? Inoltre, nel clan di mio padre non vi e-
rano leggende che parlassero di un tesoro in vetta alla Rampa delle Stelle... benché
vi fosse un diluvio d’altre leggende, e tutte ne vietassero la scalata. Mio padre ve-
niva chiamato lo Spezzaleggende, e nel clan scrollarono saggiamente le spalle,
quando egli morì sulla Zanna Bianca... In verità, non ricordo molto bene quei gior-
ni, Mouser... presi parecchie botte in testa, da schiantare la mente, prima che impa-
rassi a pestare io per primo... e del resto ero poco più di un ragazzetto quando il
clan lasciò le Solitudini Fredde... anche se le pareti dure e scabre dell’Obelisco Po-
lare erano state il mio campo di giochi...»
Il Mouser annuì dubbioso. Nel silenzio, essi udirono i loro piccoli, robusti ca-
vallini masticare l’erba resa crocchiante dal gelo, nella conca, e poi un fioco rin-
ghio privo d’ira emesso da Hrissa, la gatta dei ghiacci, acciambellata tra il piccolo
fuoco e il mucchio dei bagagli... probabilmente uno dei cavallini era andato a bru-
care troppo vicino. Sulla grande piana gelida intorno a loro non si muoveva nulla...
o quasi nulla.
Il Mouser infilò nella borsa le dita guantate di grigia pelle d’agnello e dalla ta-
sca interna estrasse un piccolo rettangolo di pergamena: poi lesse, più a memoria
che altro:

Chi scalerà la candida Rampa delle Stelle,


L’Albero della Luna, oltre il verme e lo gnomo
E le sbarre invisibili, troverà un gran tesoro:
Avrà il Cuore di Luce, una borsa di stelle.

Fafhrd disse, con voce sognante: «Dicono che un tempo gli dei dimoravano sul-
la Rampa delle Stelle e vi avevano le loro fucine, e di là, tra getti di fuoco e piogge
di scintille, lanciarono tutte le stelle: da qui il nome. Dicono che i diamanti, i rubi-
ni, gli smeraldi, tutte le gemme più preziose, non sono altro che i minuscoli model-
li che gli dèi fecero delle stelle... e li gettarono noncuranti sul mondo, quando ebbe-
ro compiuto la loro opera più grande.»
«Questo non me lo avevi mai raccontato» disse il Mouser, lanciandogli un’oc-
chiata tagliente.
Fafhrd sbatté le palpebre ed aggrottò perplesso la fronte. «Comincio a ritrovare
i ricordi dell’infanzia.»
Il Mouser sorrise appena, prima di riporre la pergamena nella tasca. «L’idea
che una borsa di stelle possa essere un sacchetto di gemme» elencò, «la storia che
il più grande diamante di Nehwon è chiamato Cuore di Luce, poche parole su di un
frammento di pelle d’ariete nella stanza più alta di una torre nel deserto, chiusa e
sigillata da secoli... sono indizi molto vaghi, per attirare due uomini attraverso que-
ste tremende, monotone Solitudini Fredde. Dimmi, Vecchio Cavallo, ti ha preso la
nostalgia per le miserabili pasture bianche della tua infanzia, perché tu finga di
crederci?»
«Quei vaghi indizi» disse Fafhrd, che ora aveva rivolto lo sguardo verso la
Zanna Bianca, «hanno attirato a nord altri uomini, da ogni parte di Nehwon. Dove-
vano esserci in giro altri pezzi di pergamena, anche se non so proprio immaginare
perché siano stati scoperti contemporaneamente.»
«Ci siamo lasciati indietro tutti quanti, a Illik-Ving o addirittura a Lankhmar,
prima di arrivare alle Montagne dei Troll» asserì il Mouser con assoluta sicurezza.
«Erano deboli donnicciole, che fiutavano l’odore del bottino ma tremavano al pen-
siero delle difficoltà.»
Fafhrd scollò lievemente il capo e tese la mano. Tra loro e la Zanna Bianca si
levava un filo sottilissimo di fumo nero.
«Gnarfi e Kranarch ti sembrano deboli donnicciole? Tanto per citare due degli
altri cercatori» domandò quando il Mouser, finalmente, vide ed annuì.
«Può darsi» convenne lugubremente il Mouser. «Ma non ci sono viaggiatori
normali, in queste Solitudini? Non abbiamo più visto un essere umano, dopo i
Mingol.»
Fafhrd rispose, pensoso: «Potrebbe essere un accampamento degli Gnomi dei
Ghiacci... benché lascino di rado le loro grotte, se non in piena estate, e ormai è
passata da un mese...» S’interruppe, aggrottando la fronte, perplesso. «Ma questo,
come faccio a saperlo?»
«Un altro ricordo d’infanzia salito a galla nel calderone nero?» ipotizzò il Mou-
ser. Fafhrd scrollò dubbiosamente le spalle.
«Dunque, per deduzione, sono Kranarch e Gnarfi» concluse il Mouser. «Due
uomini forti, lo ammetto. Forse avremmo dovuto azzuffarci con loro a Illik-Ving»
suggerì. «O forse, anche adesso... una rapida marcia notturna... un attacco improv-
viso...»
Fafhrd scosse il capo. «Ora siamo alpinisti, non uccisori» disse. «Un uomo de-
ve essere interamente scalatore, per sfidare la Rampa delle Stelle.» Guidò di nuovo
lo sguardo del Mouser verso la montagna più alta. «Studiamo piuttosto la parete
occidentale, finché c’è luce.
«Cominciamo dai piedi» disse. «Quella gonna lucente che scende dai fianchi
innevati, alti quasi quanto l’Obelisco... quella è la Cascata Bianca, dove nessuno
può vivere.
«Ora ritorniamo alla testa. Da quella calotta di neve, piatta e inclinata, scendo-
no due grandi, gonfie bande di neve, quasi perpetuamente ruscellanti di valanghe,
come se lei se le pettinasse giorno e notte... sono chiamate le Trecce. In mezzo vi è
una grande scala di roccia scura, segnata in tre punti da cengie. Il più alto dei tre
banchi è la Faccia... hai notato i cornicioni più scuri che segnano gli occhi e le lab-
bra? Quello di mezzo è chiamato i Posatoi, quello più basso, all’altezza della vasta
cima dell’Obelisco... i Covi.»
«E che cosa vi si posa e vi si rintana?» volle sapere il Mouser.
«Questo non lo sa nessuno, perché nessuno ha mai scalato la Scala» rispose
Fafhrd. «Ora, la nostra via... è semplicissimo. Ci arrampichiamo su per l’Obelisco
Polare, una montagna fidata se mai ne è esistita una... poi attraversiamo una sella
innevata, e quello è il tratto pericoloso, passando alla Rampa delle Stelle, e saliamo
la Scala fino in cima.»
«E come saliamo la Scala nei lunghi tratti tra le cengie?» chiese il Mouser, con
un candore quasi infantile. «Cioè, se quelli che stanno nei Covi e sui Posatoi onore-
ranno i nostri passaporti e ci permetteranno di tentare.»
Fafhrd scrollò le spalle. «Un modo ci sarà, dato che la roccia è roccia.»
«Perché non c’è neve, sulla Scala?»
«Troppo ripida.»
«E supponendo che arriviamo fino in vetta» chiese finalmente il Mouser, «co-
me innalzeremo i nostri corpi scheletriti, neri e bluastri, oltre la testa del niveo cap-
pello della Rampa delle Stelle, che sembra incurvarsi verso l’esterno e verso il bas-
so con tanta eleganza?»
«C’è un foro triangolare, lassù da qualche parte, chiamato Cruna d’Ago» rispo-
se con fare negligente Fafhrd. «Almeno, così ho sentito dire. Ma non agitarti così,
Mouser: lo troveremo.»
«Certo che lo troveremo» affermò il Mouser con una disinvolta sicurezza che
suonava quasi sincera, «noi che balziamo attraverso tremuli ponti di neve e dan-
ziamo per le fantastiche pareti verticali senza neppure toccare il granito con le ma-
ni. Ricordami di portare un coltello piuttosto lungo per incidere le nostre iniziali
sul cielo, quando festeggeremo la conclusione della nostra piccola escursione.»
Il suo sguardo deviò leggermente verso nord. In tono diverso, proseguì: «La pa-
rete nord della Rampa delle Stelle, quella scura... mi sembra abbastanza scoscesa,
certamente, ma libera dalla neve fino alla cima. Perché non seguiamo quella via...
dato che, come tu dici con tanta incontestabile saggezza, la roccia è roccia?»
Fafhrd rise, senza ironia. «Mouser» disse, «distingui contro lo sfondo del cielo
che si oscura quel lungo nastro bianco che ondeggia verso sud dalla vetta della
Rampa delle Stelle? Sì, e più sotto un nastro più piccolo... riesci a distinguerlo? Il
secondo passa attraverso la Cruna d’Ago! Ebbene, quei nastri sono chiamati il
Grande e il Piccolo Orifiamma. Sono neve polverizzata, staccata dal vento di nord-
est, che soffia almeno sette giorni su otto, e mai in modo prevedibile. È un vento
così forte che strapperebbe anche lo scalatore più forte dalla parete nord con la
stessa facilità con cui tu ed io potremmo staccare con un soffio i pappi di un dente
di leone dallo stelo. La Rampa delle Stelle protegge la Scala dal vento, invece.»
«E il vento non gira mai in modo da investire la Scala?» chiese con leggerezza
disinvolta il Mouser.
«Soltanto di rado» gli assicurò Fafhrd.
«Oh, è magnifico» rispose il Mouser con travolgente sincerità, e si sarebbe gi-
rato verso il fuoco, se proprio in quel momento l’oscurità non avesse cominciato ad
ascendere rapidamente le Montagne dei Giganti, mentre il sole sprofondava defini-
tivamente ad ovest; e l’ometto grigiovestito restò a guardare il grandioso spettaco-
lo.
Sembrava che una coltre nera venisse sollevata. Prima nascose la gonna scintil-
lante della Cascata Bianca, poi i Covi sulla Scala, e quindi i Posatoi. Ormai tutti gli
altri picchi erano scomparsi, anche le vette crudeli del Dente e della Zanna Bianca,
anche il tetto biancoverdognolo dell’Obelisco Polare. Ormai restava solo la calotta
di neve della Rampa delle Stelle, e sotto questa la Faccia con le argentee Trecce.
Per un momento le cengie chiamate Occhi brillarono, o parvero brillare. Poi tutto
fu notte.
Eppure c’era ancora un pallido riflesso del chiarore. C’era un silenzio profondo,
e l’aria era assolutamente immota. Intorno a loro, le Solitudini Fredde parevano
estendersi all’infinito verso nord, ovest e sud.
E in quello spazio di silenzio qualcosa passò planando e frusciando nell’aria
immobile, con il suono lieve e precipitoso di una grande vela in una brezza mode-
rata. Fafhrd e il Mouser si guardarono intorno, freneticamente. Nulla. Oltre il fo-
cherello, Hrissa, la gatta dei ghiacci, balzò in piedi soffiando. Ancora nulla. Poi il
suono, qualunque cosa l’avesse prodotto, svanì.
A voce molto bassa, Fafhrd incominciò: «C’è una leggenda...» Una lunga pau-
sa. Poi, con un’improvvisa scrollata del capo, in tono più naturale: «Il ricordo mi
sfugge, Mouser; tutte le dita della mia mente non riescono ad afferrarlo. Facciamo
il giro del campo, e poi andiamo a letto.»

Dal primo sonno il Mouser si svegliò con tanta leggerezza che neppure Hrissa,
addormentata contro di lui, dalle ginocchia al petto, sulla parte rivolta verso il fuo-
co, si destò.
Emergendo dietro la Rampa delle Stelle, e con la luce che brillava sulla Treccia
meridionale, apparve la luna tonda: un degno frutto dell’Albero della Luna. Era
strano, pensò il Mouser, che sembrasse tanto piccola, mentre la Rampa delle Stelle
appariva tanto grande, profilata contro il cielo schiarito dalla luce lunare.
Poi, immediatamente al di sotto della sommità piatta del cappello della Rampa
delle Stelle, vide un fulgido brillio celeste. Ricordò che Ashsha, azzurrochiara, lu-
centissima tra tutte le stelle di Nehwon, quella notte era vicina alla luna; e si chiese
se, per un caso raro, la stava vedendo attraverso la Cruna dell’Ago, il che dimo-
strava l’esistenza di quest’ultima. E si chiese anche quale enorme zaffiro o diaman-
te azzurro (magari il Cuore di Luce?) era stato il modello pilota fabbricato dagli dèi
per Ashsha; e sorrise tra sé, semiassopito, per aver pensato ad un mito così sciocco
e grazioso. E poi, abbracciando completamente quel mito, si chiese se gli dèi aves-
sero lasciato sulla Rampa delle Stelle qualche stella su scala normale, senza lan-
ciarla. E poi Ashsha, se pure era lei, si spense.
Il Mouser si sentiva piacevolmente comodo e al calduccio nel mantello foderato
di lana di pecora, ora allacciato in modo da formare un sacco a pelo mediante i
ganci d’osso fissati all’orlo. Fissò a lungo la Rampa delle Stelle, con occhi sognan-
ti, fino a quando la luna se ne staccò, e una gemma azzurra brillò sulla sommità del
cappello e si liberò a sua volta... quella era sicuramente Ashsha. Pensò, senza sgo-
mento, al fruscio ventoso che lui e Fafhrd avevano udito nell’aria immobile... forse
soltanto una lingua protesa di tempesta, discesa per un attimo. Se la tempesta era
destinata a durare, avrebbero dovuto compiere la scalata nel suo turbine.
Hrissa si stirò nel sonno. Fafhrd borbottò a voce bassa nel sogno, avvolto nel
suo grande mantello allacciato, imbottito di piumino.
Il Mouser abbassò lo sguardo sulle fiamme spettrali del fuoco morente, cercan-
do a sua volta il sonno. E le fiamme formarono prima corpi di giovani donne, e poi
visi. Poi un viso di fanciulla, spettrale, verdepallido, forse un’immagine postuma,
pensò lui in un primo momento, apparve oltre il fuoco, fissandolo ad occhi soc-
chiusi al di sopra delle fiamme. Divenne più distinto mentre lui lo guardava, ma
intorno al volto non c’era traccia di una chioma o di un corpo... era librato contro la
tenebra come una maschera.
Eppure era bizzarramente bello: mento affilato, guance alte, labbra piccole, scu-
re come il vino, lievemente imbronciate, naso diritto che si saldava senza depres-
sioni con la fronte ampia, un po’ bassa... e poi il mistero di quegli occhi dalle gran-
di palpebre che sembravano scrutarlo tra le ciglia color vino. E tutto, eccettuate le
ciglia e le labbra, era di un verde chiarissimo, come di giada.
Il Mouser non parlò, non mosse un muscolo, semplicemente perché quel viso
era bellissimo... così come un uomo qualunque spera che un attimo non finisca
mai, quando l’amante nuda, inconsciamente o con un intento segreto, assume un
atteggiamento particolarmente affascinante.
E poi, nello squallore delle Solitudini Fredde, chiunque tesaurizza le illusioni,
benché sappia che quasi con certezza sono tali.
All’improvviso gli occhi si spalancarono, mostrando soltanto l’oscurità che sta-
va dietro, come se il volto fosse davvero una maschera. Allora il Mouser trasalì,
ma non abbastanza da destare Hrissa.
Poi gli occhi si chiusero, le labbra si sporsero in un invito provocante; e il viso
incominciò rapidamente a dissolversi come se, alla lettera, venisse cancellato. Pri-
ma sparì la parte destra, poi la sinistra, e infine il centro: per ultimi gli occhi e le
labbra scure. Per un momento, il Mouser ebbe la sensazione di aver captato un o-
dore di vino: poi tutto si dileguò.
Pensò di svegliare Fafhrd, e quasi rise al pensiero delle reazioni burbere del suo
camerata. Si chiese se quel volto era un segno inviato dagli dèi, o da qualche mago
nero insediato sulla Rampa delle Stelle, o magari l’anima stessa della montagna
(ma dove aveva lasciato, in tal caso, le trecce scintillanti ed il cappello, ed il suo
occhio fulgido come Ashsha?), o forse soltanto una creazione casuale del suo cer-
vello ingegnoso, stimolato dall’astinenza sessuale e, quella notte, dalle montagne
bellissime e diabolicamente pericolose. Piuttosto in fretta, decise che l’ultima spie-
gazione era quella valida, e si addormentò.

Due sere dopo, alla stessa ora, Fafhrd e il Gray Mouser stavano a meno d’un ti-
ro di coltello dalla parete occidentale dell’Obelisco Polare, ed erigevano un tumulo
con i pallidi frammenti verdognoli di roccia caduti nel corso dei millenni. In mezzo
a quegli scarsi detriti vi erano anche ossa di pecore e di capre, quasi tutte spezzate.
Come l’altra volta, l’aria era immota, sebbene freddissima, le Solitudini erano
deserte, la luce del sole tramontato era vivida sulle facce delle montagne.
Da quel punto d’osservazione più vicino, l’Obelisco appariva scorciato dalla
prospettiva in una piramide che sembrava assottigliarsi all’infinito, verticalmente.
Per fortuna, la sua roccia aveva una durezza adamantina, mentre almeno le parti
più basse della parete erano ricche di tozzi appigli per le mani ed i piedi, come
cuoio martellato.
A sud, il Gran Hanack e l’Invito erano nascosti. A sud torreggiava mostruosa-
mente la Zanna Bianca, di un candore giallognolo nel sole, pronta a lacerare il cielo
che ingrigiva. Era stata la fine del padre di Fafhrd, rammentò il Mouser.
Della Rampa delle Stelle, si poteva scorgere la scura parte iniziale della parete
nord sferzata dai venti e l’estremità settentrionale della mortale Cascata Bianca.
Tutto il resto era nascosto dall’Obelisco. Tranne un particolare: quasi direttamente
sulla verticale, come se in apparenza provenisse dall’Obelisco Polare, lo spettrale
Grande Orifiamma sventolava verso sudovest.
Dietro Fafhrd e il Mouser, intenti al lavoro, saliva l’odore stuzzicante di due le-
pri delle nevi che arrostivano sul fuoco, davanti al quale Hrissa strappava lenta-
mente, saporosamente, brani di carne dalla carcassa d’una terza lepre che aveva
abbattuto. La gatta dei ghiacci aveva all’incirca le dimensioni e la forma di un ghe-
pardo, ma con il pelame bianco e vaporoso. Il Mouser l’aveva comprata da un cac-
ciatore Mingol itinerante appena a nord delle Montagne dei Troll.
Dall’altra parte del fuoco, i cavallini masticavano energicamente l’ultima biada,
un cibo ricostituente che non assaggiavano da una settimana.
Fafhrd avviluppò lo spadone inguainato, Astagrigia, nella seta oleata, e lo posò
nel tumulo, poi protese la grossa mano verso il Mouser.
«Il Cesello?»
«La mia spada la porto con me» affermò il Mouser, e poi aggiunse, come giu-
stificazione: «Ma è soltanto una piuma, in confronto alla tua.»
«Domani scoprirai quanto pesa una piuma» profetizzò Fafhrd. Alzò le spalle e
depose accanto ad Astagrigia l’elmo, una pelle d’orso, una tenda ripiegata, bacile e
piccozza, i bracciali d’oro che si era sfilato dai polsi e dalle braccia, penne d’oca,
inchiostro, papiro, una grossa pentola di rame, alcuni libri e rotoli. Il Mouser ag-
giunse varie sacche vuote o semivuote, due lance da caccia, sci, un arco senza cor-
da con una faretra piena di frecce, barattoletti di colori ad olio e quadrati di perga-
mena, e tutti i finimenti dei cavallini: quasi tutti gli oggetti erano avvoltolati come
Astagrigia, per proteggerli dall’umidità.
Poi, con appetito ridestato dai fumi dell’arrosto, i due camerati si affrettarono
ad erigere due corsi di pietre, formando il tetto del tumulo.
Proprio mentre si volgevano verso la cena, girandosi verso il piatto orizzonte
occidentale, irregolarmente bordato d’oro, udirono di nuovo nel silenzio il precipi-
toso frusciare di vela: questa volta era più fievole, ma si fece udire due volte; nel-
l’aria verso nord e, quasi simultaneamente, verso sud.
I due compagni si guardarono intorno, rapidamente, ansiosi: tuttavia non c’era
nulla da vedere da nessuna parte tranne (ed anche questa volta fu Fafhrd a scorger-
lo per primo) un filo di fumo nero vicinissimo alla Zanna Bianca, che saliva da un
punto del ghiacciaio, tra quella montagna e la Rampa delle Stelle.
«Gnarfi e Kranarch, se sono proprio loro, hanno scelto la rocciosa parete setten-
trionale, per la scalata» osservò il Mouser.
«E sarà la loro fine» pronosticò Fafhrd, levando il pollice per indicare l’Ori-
fiamma.
Il Mouser annuì, ma con minor sicurezza, poi domandò: «Fafhrd, che cos’era
quel suono? Tu hai vissuto qui.»
Fafhrd aggrottò la fronte e socchiuse gli occhi. «Una leggenda che parla di
grandi uccelli...» borbottò, in tono quasi interrogativo. «... O di grandi pesci... no,
questo non può essere.»
«Il calderone della tua memoria bolle ancora tutto nero?»chiese il Mouser.
Fafhrd annuì.
Prima di allontanarsi dal tumulo, il Nordico vi depose accanto un grosso pezzo
di sale. «Questo» disse, «insieme alla polla velata dal ghiaccio e le erbe che abbia-
mo appena superato, dovrebbe trattenere qui i cavallini per una settimana. Se non
torneremo, beh, almeno abbiamo mostrato loro il percorso tra qui e Illik-Ving.»
Hrissa levò il muso sorridente dal pasto sanguinolento, come per dire: «Non c’è
bisogno di preoccuparmi per me o per le mie razioni.»

Ancora una volta il Mouser si svegliò non appena il sonno lo afferrò con forza;
questa volta con uno slancio di piacere, come nel ricordo di un convegno. E anco-
ra, ma senza contemplazioni preliminari delle stelle o del fuoco, la maschera viva
lo fronteggiò al di là del fuoco morente: le stesse espressioni e gli stessi lineamenti,
le labbra brevi, il naso e la fronte modellati in linea retta... ma quella notte aveva
un pallore d’avorio, con le labbra e le palpebre e le ciglia verdoline.
Il Mouser ne fu considerevolmente sconcertato, perché la notte precedente era
rimasto sveglio, in attesa della fantasima di quel volto di fanciulla, tentando persi-
no di farlo apparire di nuovo, fino a quando la luna tonda si era alzata di tre spanne
dalla cima della Rampa delle Stelle... ma non c’era riuscito. La sua mente aveva
saputo che il volto era stato un’allucinazione, la prima volta, ma i suoi sentimenti
avevano insistito... con suo considerevole disgusto e con la perdita di un quarto di
notte di sonno.
E poi, di giorno, egli aveva consultato in segreto l’ultima delle quattro quartine
sul pezzo di pergamena conservato nella tasca più profonda della borsa:

Chi scalerà la rocca del Gran Re delle Nevi


Sarà padre dei figli delle sue due figliole;
Pur se cadrà per mano di feroci nemici,
Il suo seme vivrà finché splenderà il sole.

Il giorno prima gli era sembrato piuttosto promettente... almeno la parte relativa
alle due figliole: ma quel giorno, dopo il sonno perduto, gli era sembrato una beffa.
Ma adesso la maschera vivente era ricomparsa, e ripeteva le stesse moine tenta-
trici, incluso il trucco agghiacciante e tuttavia seducente di aprire le palpebre mo-
strando, non già gli occhi, bensì uno sfondo nero come il resto della notte. Il Mou-
ser era incantato e tremante, ma a differenza della prima notte era perfettamente
desto, e per controllare se si trattava di un’illusione sbatté e strizzò le palpebre e
girò silenziosamente la testa entro il cappuccio... ma senza che questo facesse il
minimo effetto alla maschera vivente. Poi, adagio adagio, slacciò il cinghiolo dai
ganci superiori del mantello (quella notte, Hrissa dormiva appoggiata a Fafhrd) e
lentamente allungò la mano, raccolse un sassolino e lo scagliò, oltre le fiamme pal-
lide, verso un punto un poco più in basso della maschera.
Benché sapesse che non c’era niente, oltre il fuoco, tranne i detriti sparsi e la
terra indurita dal gelo e risonante, non vi fu il più lieve tonfo del sassolino contro
qualcosa. Era come se l’avesse lanciato lontano da Nehwon.
Quasi nello stesso momento, la maschera sorrise, provocante.
Il Mouser sgusciò in fretta dal mantello e balzò in piedi.
Ma con una rapidità ancora maggiore, la maschera si dileguò... questa volta in
un fulmineo colpo di cancellino dalla fronte al mento.
Egli si portò alla svelta, quasi con un balzo, dall’altra parte del fuoco, nel punto
in cui gli era parso che fosse librata la maschera, e si guardò intorno, cercando.
Nulla... solo un soffio fuggevole di vino o di spiriti di vino. Riattizzò il fuoco e si
guardò intorno di nuovo. Ancora nulla. Ma Hrissa si svegliò a fianco di Fafhrd,
rizzò le vibrisse e guardò con aria solenne, forse un po’ sprezzante, in direzione del
Mouser, il quale cominciava a sentirsi un po’ sciocco. Si chiese se la sua mente ed i
suoi desideri giocassero l’una contro gli altri una partita piuttosto stupida.
Poi calpestò qualcosa. Il suo sasso, pensò; ma quando lo raccattò, vide che era
un minuscolo barattolo. Sarebbe potuto essere uno dei suoi barattoli di pigmento,
ma era troppo piccolo; era poco più grosso di una falange del suo pollice, e non era
di pietra scavata, ma di una sorta d’avorio, o di una zanna di qualche altro tipo.
Il Mouser s’inginocchiò accanto il fuoco e guardò entro il barattolino, poi vi in-
filò il mignolo, strofinandone la punta sulla sostanza grassa e indurita all’interno. Il
dito ne uscì colorato d’avorio. L’unguento aveva un odore oleoso, non di vino.
Restò a riflettere accanto al fuoco per qualche tempo. Poi, dopo aver lanciato
un’occhiata a Hrissa, che aveva chiuso gli occhi e ripiegato le vibrisse, ed a Fafhrd,
che russava sommessamente, tornò a infilarsi nel suo mantello e si addormentò.
Non aveva detto nulla a Fafhrd della precedente visione della maschera vivente.
La ragione superficiale era che Fafhrd avrebbe riso di quelle assurde, cervellotiche
facce di fumo; la ragione più profonda era la stessa che trattiene ogni uomo dal
parlare al suo amico più caro di una nuova, graziosissima ragazza.
Fu quindi, forse, la stessa ragione che il mattino seguente trattenne Fafhrd dal
raccontare al suo amico più caro ciò che gli era accaduto a tarda ora quella stessa
notte. Fafhrd aveva sognato di toccare la forma di un volto di fanciulla
nell’oscurità assoluta, mentre le snelle mani di lei accarezzavano il suo corpo. La
fanciulla aveva la fronte arrotondata, occhi dalle ciglia lunghissime, guance di me-
la, un nasetto camuso e impudente (lui lo sentiva impudente!) e lunghe labbra, di
cui egli poteva seguire chiaramente il sorriso con tocchi delicati delle dita.
Si svegliò e la luna lo guardava obliquamente da sud, inargentando la parete in-
terminabile dell’Obelisco, e trasformando le sporgenze rocciose in barre d’ombra
nera. Si svegliò anche pieno di un’acuta delusione, perché il sogno era stato soltan-
to un sogno. Poi, sarebbe stato disposto a giurarlo, sentì i polpastrelli leggeri sfio-
rargli brevemente il volto, e udì una lieve risatella argentea allontanarsi rapida. Si
drizzò a sedere come una mummia nel mantello allacciato e si guardò intorno. Il
fuoco era ridotto a poche braci rosse, ma il chiaro di luna era vivo, e non mostrava
assolutamente nulla.
Hrissa gli ringhiò dietro, in tono di rimprovero, per averla disturbata nel sonno.
Fafhrd imprecò contro se stesso, per aver scambiato per realtà il ricordo di un so-
gno. Maledisse le Solitudini Fredde, prive di donne e suscitatrici di visioni di don-
ne. Il freddo crescente della notte gli si insinuò giù per il collo. Si disse che avreb-
be fatto meglio a dormire sodo come faceva il saggio Mouser, cercando di acquisi-
re le forze per la grande fatica dell’indomani. Tornò a sdraiarsi e dopo qualche
tempo si addormentò.

Il mattino seguente, il Mouser e Fafhrd si destarono al primo grigiore dell’alba,


mentre la luna era ancora fulgida come una palla di neve a occidente; fecero cola-
zione in fretta, si prepararono e si volsero a guardare l’Obelisco Polare nel freddo
pungente, dimenticando tutte le donne, e consacrando esclusivamente alla monta-
gna i loro appetiti virili.
Fafhrd portava stivaloni ad allacciatura alta, con i grossi chiodi appena appunti-
ti. Indossava una tunica di pelle di lupo, con il pelo all’interno, ma aperta dal collo
al ventre. Gli avambracci e la parte inferiore delle gambe erano nudi. Le mani era-
no coperte da corti guanti di cuoio grezzo. Sulla schiena reggeva un piccolo zaino,
affardellato nel mantello, cui era agganciato un grosso rotolo di nera corda di cana-
pa. Sulla robusta cintura senza borchie, l’ascia inguainata appesa al fianco destro
bilanciava un coltello, una borraccia e un sacco di chiodi di ferro con la capocchia
ad anello appesi dalla parte opposta.
Il Mouser portava il cappuccio di pelle d’ariete, ora stretto intorno al viso da
una funicella passante, ed una tunica di seta grigia a tre strati. I guanti erano più
lunghi di quelli di Fafhrd, e foderati di pelo; foderati erano anche gli stivali aderen-
ti, dalla suola di crocchiante cuoio di colosso. Alla sua cintura, lo Zampino e la
borraccia bilanciavano il Cesello, con il fodero agganciato lento alla coscia. Allo
zaino avvolto nel mantello era assicurata una corta canna nera di bambù, strana-
mente spessa, che ad una estremità terminava in uno spuntone, all’altra in uno
spuntone con un largo uncino, un po’ come un pastorale.
I due uomini erano profondamente abbronzati, agili e muscolosi, nella forma
migliore per una scalata, induriti dalle Montagne dei Troll e dalle Solitudini Fred-
de; i loro toraci erano un po’ più voluminosi dell’ordinario, dopo quelle settimane
trascorse respirando l’aria rarefatta di quell’immenso altopiano. Non c’era bisogno
di cercare la via migliore per la scalata: Fafhrd lo aveva già fatto il giorno prece-
dente, mentre si avvicinavano all’Obelisco.
I cavallini erano ancora intenti a brucare, ed uno aveva trovato il sale e lo lec-
cava con la grossa lingua. Il Mouser si guardò intorno, per cercare Hrissa e per dar-
le una pacca di commiato, ma la gatta dei ghiacci era occupata a fiutare una traccia
oltre l’accampamento, a orecchie ritte.
«Un congedo felino» disse Fafhrd. «Bene.»
Una lieve sfumatura rosea colorò i cieli ed il ghiacciaio presso la Zanna Bianca.
Scrutando in direzione di quella montagna, il Mouser trattenne il respiro e aguzzò
lo sguardo, mentre Fafhrd scrutava attentamente, facendosi solecchio con la mano.
«Figure scure, sul marrone» disse finalmente il Mouser. «Kranarch e Gnarfi ve-
stono sempre di cuoio bruno, ricordo. Ma io ne vedo più di due.»
«Io ne vedo quattro» disse Fafhrd. «Due stranamente irsute... indossano vesti di
pelliccia marrone, direi. E tutti e quattro salgono dal ghiacciaio sulla parete di roc-
cia.»
«Dove soffierà il vento di tempesta...» cominciò il Mouser. poi alzò gli occhi.
Fafhrd fece lo stesso.
Il Grande Orifiamma era scomparso.
«Tu hai detto che qualche volta...» incominciò il Mouser.
«Dimentica la tempesta e quei due ed i grossolani individui venuti in loro soc-
corso» fece brusco Fafhrd. Si girò di nuovo verso l’Obelisco Polare, e il Mouser
fece altrettanto.
Scrutando ad occhi socchiusi il pendio biancoverdognolo, con la testa ripiegata
nettamente all’indietro, il Mouser disse: «Questa mattina mi sembra ancora più ri-
pido di quella parete nord, ed esteso parecchio in altezza.»
«Puah!» ribatté Fafhrd. «Da ragazzino, io lo scalavo prima di colazione. E
spesso.» Alzò il guanto destro di cuoio grezzo, serrandolo come se impugnasse un
bastone di comando, ed esclamò: «Andiamo!»
Si mise in moto e, senza una pausa, cominciò a salire per la parete accidentata...
o almeno, così pareva perché, sebbene si servisse degli appigli, aggrappandosi con
le mani, teneva il corpo staccato dalla roccia, come deve fare un buon alpinista.
Il Mouser seguì Fafhrd passo per passo e appiglio per appiglio, forzando un po’
più le gambe e tenendosi un poco più vicino alla roccia.

* * *
Era metà mattina, e stavano ancora salendo, senza soste. Il Mouser era tutto in-
dolenzimenti e trafitture. Lo zaino era come un uomo grasso sulla sua schiena, il
Cesello un ragazzetto di buon peso aggrappato alla cintura. E le orecchie gli erano
schioccate già cinque volte.
Immediatamente al di sopra di lui, gli stivali di Fafhrd urtavano le protuberanze
di roccia e si infilavano nelle crepe con un ritmo meccanico, senza esitazioni, che il
Mouser aveva incominciato ad odiare. Tuttavia, teneva gli occhi risolutamente fissi
su di essi. Una volta aveva guardato giù, tra le proprie gambe, e aveva deciso di
non farlo più.
Non era piacevole vedere sotto di sé l’azzurro della distanza, e neppure il gri-
giazzurro della distanza media.
Perciò fu colto alla sprovvista quando un muso bianco e barbuto, con un carico
sanguinolento, salì ondeggiando al suo fianco e lo superò.
Hrissa si fermò accanto a Fafhrd, su di una piccola cengia, e trasse grandi respi-
ri sibilanti; la pelle lanuginosa del ventre le premeva contro la spina dorsale ad o-
gni esalazione. Respirava solo attraverso le narici rosate, perché aveva le fauci oc-
cupate da due lepri delle nevi, sistemate l’una accanto all’altra, con le teste e le
zampe posteriori penzoloni.
Fafhrd le prese dalla bocca di Hrissa, le gettò nella borsa e l’allacciò stretta.
Poi disse, con una certa magniloquenza: «Essa ha dato prova di resistenza e
abilità, e si è pagata il percorso. È dei nostri.»
Al Mouser non era passato per la mente di dubitarne. Per lui, adesso c’erano
semplicemente tre camerati che scalavano l’Obelisco Polare. Inoltre, era molto gra-
to a Hrissa per avere causato la sosta. Un po’ anche per prolungarla, versò metico-
losamente un po’ d’acqua nel cavo della mano e gliela porse, perché l’allappasse.
Poi anch’egli e Fafhrd bevvero un po’.
Per tutta la lunga giornata estiva scalarono la parete occidentale del crudele, ma
fidato Obelisco. Fafhrd pareva instancabile. Il Mouser trovò la seconda riserva di
fiato, la esaurì, e non trovò la terza. Tutto il suo corpo era una grande dolenzia
plumbea, che incominciava nel profondo delle ossa e si estendeva verso l’esterno,
filtrando attraverso la sua carne come un veleno raffinato. La sua vista si popolò di
protuberanze di roccia vere e ricordate, mentre la necessità di non sbagliare mai la
presa con le mani o il modo di posare i piedi sembrava l’ordine di un maestro di
scuola divino e pazzo. Malediceva silenziosamente il folle progetto di scalare la
Rampa delle Stelle, sghignazzando nel proprio cervello all’idea che le strofe allet-
tanti scritte sulla pergamena potessero essere qualcosa di più consistente di un so-
gno ebbro. Eppure non se la sentiva di annunciare che rinunciava, e non cercava di
prolungare le brevi pause che si concedevano. Si meravigliava, un po’ intontito, del
modo in cui Hrissa saliva al loro fianco, balzando e aggobbendosi. Ma verso la me-
tà del pomeriggio notò che la gatta zoppicava, e scorse una leggera impronta in-
sanguinata di due cuscinetti, dove aveva posato una zampa.
Finalmente si accamparono, quasi due ore prima del tramonto, perché avevano
trovato un cornicione piuttosto ampio... e perché era incominciata una nevicata
leggerissima: i fiocchi minuscoli cadevano silenziosi come farina da un setaccio.
Accesero un fuoco di pallottole di resina nel piccolo braciere a zampe artigliate
tolto dallo zaino di Fafhrd, e vi scaldarono l’acqua per il tè d’erbe nell’unica pento-
la alta e stretta. L’acqua impiegò molto tempo a intiepidirsi. Con lo Zampino, il
Mouser rimestò i due pezzetti informi di miele che vi aveva gettato dentro.
La cengia era lunga quanto tre uomini distesi, e profonda uno. Sulla parete ripi-
da dell’Obelisco Polare, quello spazio sembrava vasto come un campo.
Hrissa si stiracchiò pigramente dietro il piccolo fuoco. Fafhrd e il Mouser si
raggomitolarono ai due lati, stretti nei mantelli, troppo stanchi per guardarsi intor-
no, per parlare, persino per pensare.
La nevicata infittì un poco, almeno quanto bastava per nascondere le Solitudini
Fredde, laggiù, lontano.
Dopo il secondo sorso di tè dolcificato, Fafhrd affermò che avevano compiuto
per almeno due terzi la scalata dell’Obelisco.
Il Mouser non riusciva a comprendere come Fafhrd potesse affermare di saper-
lo; come se un uomo, guardando le acque senza sponde del Mare Esterno, potesse
dire quanta parte ne aveva attraversato. Per il Mouser, erano semplicemente al cen-
tro di una pianura vertiginosamente inclinata di granito pallido, screziato di verde e
adesso spruzzato anche di neve. Era ancora troppo stanco per spiegare a Fafhrd
questo concetto, ma riuscì a trovare la forza di dire: «E da bambino, tu scalavi l’O-
belisco e ridiscendevi prima di colazione?»
«A quei tempi facevamo colazione piuttosto tardi» spiegò burbero Fafhrd.
«Senza dubbio il pomeriggio del quinto giorno» concluse il Mouser.
Dopo aver bevuto il tè, scaldarono un altro po’ d’acqua, e vi lasciarono dentro i
pezzi tagliati e disossati d’una delle lepri delle nevi, fino a quando diventarono gri-
gi; poi li masticarono e bevvero il brodo insipido. Nel frattempo, Hrissa si mostrò
interessata alla carcassa scuoiata dell’altra lepre posata davanti al suo naso, accanto
al braciere, perché non si congelasse. Se ne interessò al punto di cominciare a dila-
niarla con le zanne e a masticare ed inghiottire lentamente.
Con molta delicatezza, il Mouser esaminò i cuscinetti delle zampe della gatta.
Erano consumati, sottili come seta, e presentavano alcuni tagli: i ciuffi di pelo
bianco, in mezzo, erano macchiati di un rosa scuro. Con un tocco di piuma, il
Mouser vi spalmò un unguento, scrollando il capo. Poi si chinò, estrasse dalla bor-
sa un grosso ago, un rotolo di lacciuoli sottili, ed un pezzo arrotolato di pelle robu-
sta. Dalla pelle ritagliò, con lo Zampino, una forma simile ad una grossa pera e cu-
cì uno scarponcino per Hrissa.
Quando lo provò sulla zampa posteriore della gatta dei ghiacci, lei lo lasciò fare
per un po’, poi cominciò a mordere la pelle, abbastanza delicatamente, guardando
il Mouser in modo strano. L’uomo rifletté, e poi, meticolosamente, praticò dei fori
per gli artigli non retrattili del felino, quindi calzò lo scarponcino sulla zampa, in
modo che gli artigli ne sporgessero, e lo legò con il cinghiolo scorrevole che aveva
fatto passare nelle fenditure in alto.
Hrissa lasciò stare lo scarponcino. Il Mouser ne fece altri due, e Fafhrd lo aiutò,
tagliandone e confezionandone uno a sua volta.
Quando Hrissa fu debitamente calzata, con le quattro muffole artigliate, le fiutò
una ad una, e poi si alzò e camminò avanti e indietro per tutta la lunghezza del cor-
nicione, un paio di volte; e finalmente si sdraiò accanto al braciere ancora caldo e
al Mouser, posandogli il muso sulla caviglia.
I minuscoli granelli di neve cadevano ancora, a perpendicolo, incrostando il
cornicione ed i capelli ramati di Fafhrd. Questi ed il Mouser cominciarono a rial-
zarsi i cappucci e ad allacciarsi i mantelli per la notte. Il sole splendeva ancora, tra
la nevicata, ma la sua luce filtrata era bianca, e non portava neppure un atomo di
calore.
L’Obelisco Polare non era una montagna rumorosa come tante, sgocciolanti di
acqua glaciale, sferraglianti di frane e crepitanti di strati di roccia per l’irregolarità
dell’assorbimento o della perdita del calore. Il silenzio era profondo.
Il Mouser provava l’impulso di parlare a Fafhrd della maschera viva di donna,
o dell’illusione, che aveva visto di notte, e nel contempo Fafhrd si chiedeva se era
il caso di riferire al Mouser il suo sogno erotico.
In quel momento ritornò, senza preannuncio, il fruscio nell’aria silenziosa; ed
essi videro, profilata nitidamente dalla neve che cadeva, una grande forma piatta e
ondulante.
Scese in picchiata e passò loro accanto, piuttosto lentamente, a circa due lun-
ghezze di lancia dal cornicione.
Non c’era assolutamente nulla da vedere, tranne lo spazio piatto, privo di fioc-
chi di neve, che la cosa tracciava nell’aria, ed i vortici che sollevava: non oscurava
minimamente la neve più oltre. Eppure essi sentirono lo spostamento d’aria del suo
passaggio.
La forma di quella cosa invisibile era molto simile a quella di un rombo gigan-
tesco o di una razza, lunga quattro braccia e larga tre; c’era persino la parvenza di
una pinna verticale e di una lunga coda sferzante.
«Un grande pesce invisibile!» sibilò il Mouser, infilando la mano dentro il man-
tello semiallacciato e riuscendo a sfoderare il Cesello con un unico slancio. «La tua
memoria aveva ragione, Fafhrd, mentre tu pensavi s’ingannasse!»
Mentre l’apparizione profilata dalla neve scompariva planando intorno al con-
trafforte che concludeva la cengia verso sud, da essa giunse una risata ondulante e
beffarda a due voci, una di contralto e l’altra di soprano.
«Un pesce invisibile che ride come due ragazze... veramente mostruoso!»
commentò sconvolto Fafhrd, levando l’ascia che aveva sfoderato a sua volta in tut-
ta fretta, benché fosse ancora fissata alla sua cintura da un lungo cinghiolo.
Poi rimasero accovacciati lì per qualche tempo, dopo essersi liberati dei mantel-
li, e con le armi pronte, attesero il ritorno del mostro invisibile; Hrissa stava in pie-
di in mezzo a loro, con il pelame irto. Ma dopo un po’, i due cominciarono a trema-
re di freddo, furono costretti ad infilarsi di nuovo nei mantelli e ad allacciarseli,
sebbene continuassero a stringere le armi e si tenessero pronti a liberarsi in un lam-
po delle allacciature superiori. Quindi discussero brevemente lo strano spettacolo
cui avevano appena assistito, per così dire, e giunsero persino a confidarsi recipro-
camente le precedenti visioni, o sogni che fossero.
Finalmente il Mouser disse: «Le ragazze potevano essere su quella cosa invisi-
bile, sdraiate sul suo dorso... e invisibili anch’esse! Eppure, che cosa era?»
Quelle parole fecero scattare una piccola molla nella memoria di Fafhrd. Con
una certa riluttanza, egli disse: «Ricordo di essermi svegliato una volta, da bambi-
no, durante la notte, e di avere udito mio padre dire a mia madre: “... come grandi,
spesse vele frementi, ma quelle che non si possono vedere sono le peggiori”. Poi
smisero di parlare: perché mi avevano sentito muovere, credo.»
Il Mouser chiese: «Tuo padre non parlava mai di avere visto delle fanciulle in
alta montagna... carne, apparizioni, oppure streghe, che è un misto dell’uno e del-
l’altro... visibili o invisibili?»
«Non ne avrebbe parlato, se anche le avesse incontrate» rispose Fafhrd. Mia
madre era molto gelosa, e maneggiava i coltelli come un diavolo.
Il candore che i due erano intenti a scrutare si trasformò rapidamente, in un gri-
gio scurissimo. Il sole era tramontato. Non scorgevano più la neve che cadeva.
Rialzarono i cappucci e allacciarono strettamente i mantelli, e si raggomitolarono
contro la parete del cornicione, con Hrissa infilata in mezzo a loro.

I guai cominciarono di buon’ora, il giorno seguente. Si destarono con la prima


luce, ammaccati e turbati dagli incubi, e si sgranchirono con difficoltà, mentre la
razione mattutina di forte tè d’erbe, e di carne in polvere e di neve si scaldava nella
pentola, trasformandosi in una sbobba aromatica appena tepida. Hrissa rosicchiò le
ossa riscaldate della lepre e accettò dal Mouser un po’ di lardo d’orso e d’acqua.
Durante la notte la neve aveva cessato di cadere, ma ogni gradino ed ogni appi-
glio dell’Obelisco ne era impolverato; e sotto la neve c’era ghiaccio... la neve cadu-
ta prima, sciolta dallo scarso calore del pomeriggio precedente sulla roccia, e rapi-
damente ricongelata.
Perciò Fafhrd e il Mouser salirono in cordata, e il piccoletto grigio confezionò
sollecitamente un’imbragatura per Hrissa, tagliando due fori sul lato più lungo di
un rettangolo di pelle. Hrissa protestò discretamente quando le sue zampe anteriori
vennero infilate nei fori, e le falde del rettangolo vennero unite a cucitura doppia
sopra le sue spalle. Ma quando un’estremità della nera corda di canapa di Fafhrd
venne legata intorno all’imbragatura, lungo la cucitura, si limitò a sdraiarsi sulla
cengia, nel punto tepido dove prima stava il braciere, come per dire: «Non accette-
rò mai questo umiliante guinzaglio, anche se lo accettano gli umani.»
Ma quando Fafhrd cominciò lentamente a scalare la parete e il Mouser lo seguì
e la corda si tese su Hrissa, e quando la gatta ebbe alzato la testa e li ebbe visti le-
gati in cordata come lei, li seguì imbronciata. Poco più in su, scivolò su di una
sporgenza (gli scarponcini, per quanto comodi, dovevano impacciarla, abituata
com’era a procedere a zampe nude) e oscillò sospesa, agitandosi avanti e indietro
per lunghi momenti, prima di essere di nuovo in grado di reggere da sé il proprio
peso. Per fortuna, in quell’occasione il Mouser era ben bene aggrappato.
Da quel momento, Hrissa procedette più serenamente, talvolta addirittura ar-
rampicandosi di lato e precedendo il Mouser, voltandosi per sorridergli... in modo
piuttosto sardonico, pensò lui.
La scalata era un poco più ripida del giorno innanzi, ed era ancora più necessa-
rio che ogni presa, ogni appiglio fosse perfetto. Le dita guantate dovevano afferrare
la pietra, non il ghiaccio; i chiodi dovevano penetrare attraverso il sottile velo gela-
to e addentare la roccia. Fafhrd si legò l’ascia al polso destro e usò la parte a forma
di martello per staccare le sottili lamine e le curve traditrici della vitrea acqua gela-
ta.
E l’ascesa era più faticosa perché era più difficile evitare la tensione. Al solo
guardare di sbieco la parete ripida, il Mouser si sentiva serrare l’inguine dalla pau-
ra. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto se fosse incominciato a soffiare il vento, e
doveva lottare contro l’impulso di aggrapparsi piatto alla parete. Ma intanto il su-
dore cominciava a ruscellargli sul volto e sul petto, ed egli fu costretto a gettare
all’indietro il cappuccio e ad allentarsi la tunica sul ventre, per impedire che i suoi
indumenti si infradiciassero.
Ma il peggio doveva ancora venire. Sembrava che la pendenza, più in alto, si
addolcisse; e invece, avvicinandosi, i due scorsero una sporgenza che si protendeva
per due braccia abbondanti, all’incirca sette braccia sopra di loro. La faccia inferio-
re della pendenza era crivellata qua e là da splendidi appigli... solo che si aprivano
verso il basso. Il rigonfiamento di roccia si estendeva a perdita d’occhio da en-
trambe le parti, e in molti punti sembrava anche peggio.
Si trovarono gli appigli migliori e più alti che poterono, molto vicini, e levarono
lo sguardo verso il loro problema. Persino Hrissa, aggrappata a fianco del Mouser,
sembrava impressionata.
Fafhrd disse sottovoce: «Adesso ricordo: dicevano che c’era una sporgenza in-
torno alla vetta dell’Obelisco. La sua Corona, mi pare la chiamasse mio padre.
Chissà...»
«Non ne sei sicuro?» domandò il Mouser, con una certa asprezza. Stava irrigi-
dito, e le braccia e le gambe gli dolevano peggio che mai.
«Mouser» confessò Fafhrd, «nella mia adolescenza non ho mai scalato l’Obeli-
sco Polare per più di metà della distanza dalla base al campo di questa notte. Mi
ero semplicemente vantato per migliorare il nostro morale.»
Poiché non c’era niente da rispondere a tali parole, il Mouser strinse le labbra,
forse un po’ convulsamente. Fafhrd cominciò a fischiettare una melodia stonata e
pescò scrupolosamente nella borsa un grappino con cinque uncini affilati come pu-
gnali, e lo legò saldamente all’estremità della corda nera, ancora avvoltolata sulle
sue spalle. Poi, tendendo il braccio destro il più lontano possibile dalla parete, roteò
il grappino in un piccolo cerchio, sempre più rapidamente, e alla fine lo scagliò
verso l’alto. Lo udirono cozzare contro la roccia, chissà dove, al di sopra della
sporgenza, ma non addentò una crepa o una protuberanza, e ripiombò giù subito,
scivolando, poi precipitò, mancando il Mouser d’una spanna, o almeno così parve a
lui.
Fafhrd ritirò il grappino, con vari indugi, poiché tendeva a impigliarsi in tutte le
crepe e le protuberanze sotto di loro; poi lo roteò e lo lanciò di nuovo. E ancora, e
ancora e ancora, ogni volta invano. In un’occasione il grappino restò su, ma appena
Fafhrd si provò a tirare cautamente la corda, ricadde.
Il sesto lancio di Fafhrd fu il primo veramente pessimo. Il grappino non sparì
neppure. Quando raggiunse il culmine della traiettoria, per un istante luccicò.
«Il sole!» sibilò felice Fafhrd. «Siamo quasi in vetta!»
«Quel “quasi” è un’enormità, però» commentò il Mouser: ma anche lui non riu-
scì ad escludere dalla propria voce una nota di gaiezza.
Ma quando Fafhrd ebbe fallito altri sette lanci, l’allegria aveva di nuovo abban-
donato il Mouser. Provava dolori orribili, il freddo gli intirizziva i piedi e le mani, e
anche il suo cervello cominciava ad intorpidirsi, tanto che, la prima volta che
Fafhrd lanciò e fallì, commise l’imprudenza di seguire con lo sguardo il grappino
che ricadeva.
Per la prima volta in quel giorno guardò veramente verso l’esterno e in basso.
Le Solitudini Fredde erano una distesa celeste, quasi eguale al cielo, ancora più di-
stante, anzi, in apparenza: tutti i boschetti e le alture e i laghetti già da tempo erano
rimpiccioliti e svaniti. Molte leghe verso occidente, quasi all’orizzonte,
un’irregolare fascia d’oro pallido indicava dove finivano le ombre delle montagne.
Al centro della fascia c’era uno squarcio azzurro... l’ombra della Rampa delle Stel-
le continuava oltre l’orlo del mondo.
Stordito dalle vertigini, il Mouser riportò di scatto lo sguardo sull’Obelisco Po-
lare... e benché riuscisse ancora a vedere il granito, gli parve che non avesse più
importanza: solo quattro appigli malsicuri su di una specie di niente verdepallido,
con Fafhrd e Hrissa sospesi, chissà come, accanto a lui. La sua mente non era più
capace di accettare la ripidità dell’Obelisco.
E mentre l’impulso di buttarsi giù si faceva più forte, egli lo trasformò, chissà
come, in uno sbuffo sardonico, e sentì la propria voce dire, con tagliente disdegno:
«Lascia stare questa sciocca pesca, Fafhrd! Ti mostrerò io in che modo la scienza
alpinistica lankhmariana risolve un problemuccio banale come quello che ha fru-
strato tutti i tuoi lanci barbarici!»
E con queste parole si sganciò dallo zaino, con avventata rapidità, il grosso ba-
stone o pastorale di bambù nero e con le dita intirizzite cominciò, imprecando, ad
allungarne le sezioni telescopiche, facendole scattare, fino a quando l’ordigno non
ebbe raggiunto una lunghezza quadrupla di quella originale.
Quell’utensile d’alpinismo tecnico, che effettivamente il Mouser aveva portato
con sé da Lankhmar, era stato oggetto di dispute tra loro durante l’intero viaggio,
poiché Fafhrd asseriva che era un balocco curioso, immeritevole di venire portato
nello zaino.
Ora, tuttavia, il Nordico non fece commenti; arrotolò la corda del grappino e si
infilò le mani contro i fianchi, sotto la giubba di pelle di lupo, per scaldarle e, con
occhi blandi, rimase a guardare la furiosa attività del Mouser. Hrissa si portò su di
una sporgenza più vicina a Fafhrd e restò acquattata là, stoicamente.
Ma quando il Mouser sporse con mosse malferme l’estremità più sottile dell’u-
tensile nero verso il bordo superiore di roccia, Fafhrd tese una mano per aiutarlo a
tenerlo saldo; tuttavia non seppe trattenersi dall’osservare: «Se credi di riuscire a
fare una buona presa con quel gancio sull’orlo, in modo da poterti arrampicare su
per il bastone...»
«Silenzio, briccone! ringhiò il Mouser; e con l’aiuto di Fafhrd infilò l’estremità
dell’asta in una fenditura della roccia ad un dito dall’orlo. Poi assestò la base chio-
data del congegno in una depressione piccola e profonda poco al di sopra della
propria testa. Poi fece scattare fuori dalla base due corte leve incassate, e cominciò
a farle ruotare. Si vide ben presto che comandavano una grossa vite nascosta all’in-
terno dell’asta, perché questa si allungò fino a incastrarsi saldamente tra le due de-
pressioni della roccia, mentre la stessa asta, nera e rigida, si piegava leggermente.»
In quell’istante una scheggia di roccia, sotto la pressione dell’utensile, si staccò
dall’orlo. L’asta si raddrizzò con una vibrazione ronzante e il Mouser, lanciando
una stridula imprecazione, perse la presa e cadde.
Per fortuna la corda tra i due camerati era molto corta e i chiodi degli stivali di
Fafhrd erano piantati saldamente nella roccia come punte di pugnali forgiati da
demoni... perché quando la tensione si fece sentire improvvisa sulla cintura del
Nordico e sulla sua mano sinistra che stringeva la corda, egli la resse senza piom-
bare giù insieme al Mouser: si limitò a piegare appena le ginocchia ed a grugnire
sommessamente, mentre la sua mano destra scattava, afferrando l’asta vibrante e
salvandola.
Il Mouser non era caduto neppure di tanto da staccare Hrissa dal suo appiglio,
sebbene la corda quasi si tendesse, tra loro. La gatta dei ghiacci, con il collo lanu-
ginoso piegato tra le zampe anteriori ed il petto, guardò incuriosita l’uomo penzo-
lante nel vuoto.
Cinereo in viso, Fafhrd non fece commenti; si limitò a porgergli l’asta nera, di-
cendo: «È un buon attrezzo. L’ho riavvitato. Piantalo in un’altra depressione e ri-
tenta.»
Ben presto l’asta fu sistemata saldamente tra l’incavo accanto alla testa del
Mouser e un’intaccatura situata a una spanna dal bordo. La curvatura arcuata era
rivolta in basso. Poi il Mouser si affidò per primo alla corda, e si arrampicò lungo
l’asta, penzolandone a schiena in giù, e trovando con le punte degli stivali minu-
scoli appigli sulle sezioni dell’utensile... al di sopra dell’immenso spazio grigiaz-
zurro che poco prima gli aveva dato le vertigini.
L’asta incominciò ad incurvarsi un poco di più sotto il peso del Mouser: l’e-
stremità chiodata scivolò, spostandosi di un dito nella depressione in alto, con un
sottile, orribile stridio: ma Fafhrd diede un altro giro alla vite, e l’asta resse.
Fafhrd e Hrissa seguirono con gli occhi il Mouser, e lo videro raggiungere
all’estremità dell’asta, soffermarsi per qualche attimo. Poi lo videro alzare il brac-
cio sinistro, che scomparve fino al gomito oltre il bordo della roccia, mentre si af-
ferrava con la destra all’uncino e intrecciava le gambe intorno all’asta. Parve tasta-
re intorno con la mano sinistra, trovare qualcosa. Poi riprese a salire, verso
l’esterno, e dapprima la testa, molto lentamente, e poi il braccio destro, con uno
scatto rapido, scomparvero oltre l’orlo.
Per molti, interminabili istanti i due videro soltanto la metà inferiore del Mou-
ser, con gli stivali dalle scure suole rugose intrecciati saldamente all’estremità del-
l’asta. Poi, piuttosto lentamente, come una lumaca grigia, e con una spinta finale di
uno stivale contro la parte superiore del gancio, egli scomparve completamente.
Adagio adagio, Fafhrd svolse la corda.
Dopo qualche tempo la voce del Mouser, spettrale e tuttavia nitida, scese fino a
loro: «Olà! Ho ancorato la corda intorno a uno spuntone grosso come un tronco
d’albero. Manda su Hrissa.»
Fafhrd mise Hrissa sulla corda, davanti a sé, annodando l’imbracatura con un
nodo scorrevole.
Per un momento, la gatta dei ghiacci si dibatté disperatamente, rifiutando di
farsi sospingere a dondolare sul vuoto, ma poi rimase immobile, come morta. Poi,
mentre cominciava a venire tirata su, lentamente, il nodo di Fafhrd prese a scivola-
re. Prontissima, Hrissa afferrò la corda tra i denti, la bloccò saldamente tra i ferini.
Nell’istante in cui giunse vicina al bordo, gli scarponcini unghiuti si mossero ful-
minei; si aggrappò e poi venne trascinata via, fuori di vista.
Ben presto il Mouser annunciò che Hrissa era sana e salva e che Fafhrd poteva
seguirla. Aggrottando la fronte, egli strinse la vite di un altro mezzo giro, sebbene
l’asta scricchiolasse minacciosamente e poi, con grande delicatezza, vi si arrampi-
cò. Il Mouser teneva tesa la corda dall’alto, ma durante il primo tratto, poteva to-
gliere dall’asta soltanto poche libbre del peso di Fafhrd.
Il chiodo superiore scricchiolò di nuovo, orribilmente, dentro l’incavo, ma res-
se. Ormai aiutato sempre più dalla corda, Fafhrd portò mani e testa oltre l’orlo.
Vide una liscia, dolce pendenza di roccia, che si poteva salire con l’attrito, e in
cima il Mouser e Hrissa profilati contro il cielo azzurro e indorato dal sole.
Poco dopo, il Nordico li raggiunse.
Il Mouser disse: «Fafhrd, quando torneremo a Lankhmar ricordami di donare a
Glinthi l’Artefice tredici diamanti, del bottino che troveremo sul cappello della
Rampa delle Stelle: uno per ogni sezione e giuntura dell’asta, uno per ciascuno dei
chiodi alle estremità e due per ogni vite.»
«Ci sono due viti?» chiese rispettosamente Fafhrd.
«Sì, una ad ogni estremità» disse il Mouser; poi lo incaricò di reggere la corda,
e ridiscese il pendio. Sporgendo oltre l’orlo la parte superiore del corpo, accorciò
l’asta facendone ruotare la vite superiore, fino a quando poté ritirarla trionfalmente.
Mentre il Mouser faceva rientrare l’una nell’altra le sezioni telescopiche,
Fafhrd gli disse, con molta serietà: «Dovresti legartela alla cintura, come faccio io
con la mia ascia. Non possiamo correre il rischio di perdere l’utensile di Glinthi
durante il resto della scalata.»

Ributtando all’indietro i cappucci ed aprendo le tuniche al sole caldo, Fafhrd ed


il Mouser si guardarono intorno, mentre Hrissa si stirava voluttuosamente e si
sgranchiva le zampe snelle, il collo e il corpo, su cui la pelliccia bianca nascondeva
le lividure.
I due uomini erano piuttosto esaltati dall’aria rarefatta, e si sentivano saturi del-
la quiete della mente e dello spirito che segue un grande pericolo superato inge-
gnosamente.
Con grande stupore, notarono che il sole, diretto verso sud, era ancora ben lon-
tano dal raggiungere il meriggio. I pericoli che erano parsi lunghi ore ed ore erano
durati in realtà soltanto pochi minuti.
La vetta dell’Obelisco Polare era un grande campo ondulato di roccia chiara,
troppo esteso per calcolarne l’ampiezza secondo le misure di Lankhmar. Erano ar-
rivati vicino all’angolo sudoccidentale, e il prato di pietra grigia sembrava esten-
dersi ad est e a nord quasi all’infinito. Qua e là c’erano dossi e depressioni, ma
molto dolci. C’erano alcuni grossi macigni sparsi qua e là, ma non erano molto
numerosi, mentre lontano, verso oriente, c’erano sagome più scure, indistinte, che
potevano essere arbusti o alberelli radicati in crepacci pieni di terriccio portato dal
vento.
«Che cosa c’è, oltre la catena?» domandò il Mouser. «Il resto delle Solitudini
Fredde?»
«Il nostro clan non si è mai spinto fin là» rispose Fafhrd, aggrottando la fronte.
«Un tabù sull’intera zona, credo. La nebbia celava sempre l’oriente, durante le
grandi scalate di mio padre... o almeno così diceva lui.»
«Potremmo dare un’occhiata, adesso» propose il Mouser.
Fafhrd scosse il capo. «La nostra strada è quella» disse, indicando verso nord-
est, dove la Rampa delle Stelle stava come una gigantessa immersa in un sonno ve-
ro o simulato: sembrava almeno sette volte più grande e più alta di quanto fosse
apparsa prima che l’Obelisco ne nascondesse la vetta, due giorni prima.
Il Mouser disse, in tono di rammarico: «Tutti i nostri sforzi eroici per scalare
l’Obelisco sono serviti soltanto a rendere più alta la Rampa delle Stelle. Sei sicuro
che sopra non ci sia ancora un altro picco, magari invisibile?»
Fafhrd annuì senza distogliere lo sguardo dalla montagna, imperatrice senza
consorte delle Montagne dei Giganti. Le sue Trecce avevano assunto le proporzioni
di grandi fiumi di neve: ed ora i due avventurieri potevano scorgere in esse lievi
movimenti... valanghe che sorvolavano e precipitavano.
La Treccia Meridionale scendeva in una grande doppia curva ripida verso l’an-
golo nordoccidentale della possente sommità rocciosa su cui si trovavano.
In vetta, il cappello di neve della Rampa delle Stelle, con la parte superiore del-
la tesa scintillante nel sole come se fosse bordata di diamanti, sembrava un po’ più
inclinata verso di loro: sembrava anche la Faccia dagli occhi pudibondi, come una
gran dama che alluda alla possibile concessione dei suoi favori.
Ma dal Cappello non scendevano più i lunghi veli pallidi del Grande e del Pic-
colo Orifiamma. In quel momento, l’aria sopra la Rampa delle Stelle doveva essere
immobile come lì, sopra l’Obelisco.
«Kranarch e Gnarfi hanno avuto una fortuna del diavolo, ad affrontare la parete
nord nell’unico giorno su otto in cui non spira il vento!» imprecò Fafhrd. «Ma sarà
la loro fine... sì, e dei loro portatori impellicciati. Questa calma non può durare.»
«Ora ricordo» osservò il Mouser, «che quando abbiamo sgavazzato insieme a
loro a Illik-Ving, Gnarfi si è vantato di poter chiamare i venti con un fischio, per-
ché aveva imparato il trucco da sua nonna, e poteva anche acquietarli, il che mi
sembra più opportuno.»
«Una ragione di più per affrettarci!» esclamò Fafhrd, raccogliendo lo zaino e
infilando le grosse braccia nelle ampie cinghie. «Avanti, Mouser! Su, Hrissa!
Mangeremo un boccone prima di affrontare quel diedro nevoso.»
«Vuoi dire che dobbiamo affrontare oggi quel problema agghiacciante e tradi-
tore?» protestò il Mouser, che sarebbe stato felice di spogliarsi per rosolare al sole.
«Prima di mezzogiorno!» decretò Fafhrd. E si avviò a passo rigido verso nord,
tenendosi vicino al ciglio occidentale della vetta, come per frustrare in partenza l’e-
ventuale curiosità, da parte del Mouser, di dare una sbirciatina a oriente. Il suo
compagno lo segui con qualche flebile protesta; Hrissa si mosse zoppicando, ini-
zialmente restando indietro parecchio, ma poi li raggiunse quando la zoppia scom-
parve e la sua passione felina per le novità ebbe il sopravvento.
Marciarono attraverso la grande, ondulata piana di granito della vetta dell’Obe-
lisco, screziata qua e là da strisce di calcare bianco come marmo. Dopo un po’, il
suo silenzio intriso di sole e la sua uniformità divennero sconcertanti. Le depres-
sioni erano ingannevolmente poco profonde: Fafhrd ne scorse parecchie in cui a-
vrebbe potuto acquattarsi un battaglione di uomini armati, restando invisibile fino a
quando qualcuno fosse arrivato a tiro di lancia.
Più avanzavano, e più attentamente Fafhrd studiava la roccia percossa dai chio-
di dei suoi stivali. Finalmente si soffermò per indicare un tratto stranamente incre-
spato.
«Giurerei che questo, un tempo, era un fondale marino» disse sottovoce.
Il Mouser socchiuse gli occhi. Ripensando al grande volatore invisibile simile a
un pesce che avevano intravvisto la sera prima, dalla forma di razza che ondulava
tra la neve cadente, si sentì accapponare la pelle.
Hrissa li superò, girando intorno la testa.
Presto superarono l’ultimo, enorme macigno e videro, a meno di un tiro di frec-
cia, lo scintillio della neve.
Il Mouser disse: «La cosa peggiore, nell’alpinismo, è che le parti più facili fini-
scono presto.»
«Ascolta!» ingiunse Fafhrd, stendendosi all’improvviso come un grande scara-
faggio d’acqua a quattro zampe e accostando la guancia alla roccia. «Hai sentito,
Mouser?»
Hrissa ringhiò, guardandosi intorno e rizzando il pelo candido.
Il Mouser fece per chinarsi, ma poi si rese conto che non sarebbe stato necessa-
rio, perché il suono si avvicinava: era un tambureggiare generale, acuto, come se
cinquecento diavoli battessero le unghie gigantesche su di un grande timpano di
pietra.
Poi, senza pausa, piombò diritto verso di loro, superando la più vicina ondula-
zione di roccia, a sudest; era un grande branco di capre, su di un fronte amplissimo:
erano così fitte, e i loro velli erano di un candore così lucido che, per un attimo,
sembrarono un torrente di neve viva. Anche le grandi corna curvilinee dei capi-
branco avevano un colore d’avorio. Il Mouser notò che un tratto d’aria assolata,
sopra il centro del branco, fremeva e tremolava come al di sopra di un fuoco. Poi
lui e Fafhrd si precipitarono correndo per ritornare verso l’ultimo macigno, mentre
Hrissa li precedeva a balzi.
Dietro di loro, il rullo diabolico del branco scatenato divenne sempre più forte.
Raggiunsero il macigno e balzarono con un volteggio sulla sua cima, dove
Hrissa era già accoccolata, giusto un battito di cuore prima dell’orda bianca. Fu
una fortuna che Fafhrd avesse estratto l’ascia nell’istante stesso in cui erano arriva-
ti a destinazione, perché il caprone che avanzava al centro spiccò un balzo altissi-
mo, con le zampe anteriori ripiegate e la testa china per presentare le corna color
panna... così vicino che il Nordico poté vederne le punte scheggiate. Ma nello stes-
so istante Fafhrd lo centrò nella spalla nivea con un grande fendente, così pesante
che la bestia venne lanciata oltre loro, lateralmente, e crollò sulla breve pendenza
che scendeva verso il ciglio della parete occidentale.
Poi la bianca orda frenetica si divise intorno al grande macigno; gli animali e-
rano così fitti che non avevano più spazio per spiccare balzi, e il frastuono degli
zoccoli, degli ansiti e dei belati impauriti era orrendo, ed il fetore caprino era sof-
focante, mentre il macigno tremava al loro passaggio.
Nel momento peggiore vi fu per un attimo una raffica d’aria discendente, che
disperse il fetore, mentre qualcosa passava a poca distanza dalle loro teste, incre-
spando il cielo come una coltre sventolante di vetro liquido, mentre tra il clangore
si poteva udire per un momento una risata aspra e odiosa.
Il torrente meno numeroso dell’orda passò tra il macigno e l’orlo e molte capre
piombarono oltre il bordo del precipizio, con belati che parevano urla di dannati,
trascinando con sé il corpo del grande maschio storpiato da Fafhrd.
Poi, improvvisa nell’allontanarsi come una tempesta di neve che disalbera una
nave nel Mare Ghiacciato, l’orda li superò e si avventò tornando verso sud, de-
viando verso est dal ciglio dell’abisso, mentre le ultime capre, per lo più madri e
piccoli, la seguiva spiccando balzi folli.
Tenendo il braccio verso il sole, come per un affondo di spada, il Mouser gridò
furibondo: «Guarda, dove i raggi si distorcono al di sopra dell’orda! È lo stesso vo-
latore che ci ha appena sorpassati, e che ieri sera abbiamo visto nella neve... il vo-
latore che ha fatto imbizzarrire il branco; i suoi cavalieri l’hanno guidato contro di
noi! Oh, maledette quelle due spettrali sgualdrine ingannevoli, che ci hanno attirato
verso una morte caprina, più fetida di un’orgia nel tempio della Città dei Ghoul!»
«Mi è parso che la risata fosse molto più profonda» obiettò Fafhrd. «Non erano
le ragazze.»
«Allora hanno un ruffiano con la voce gutturale... Questo le fa apparire migliori
ai tuoi occhi? O alle tue grandi orecchie a sventola intontite dall’amore?» chiese
rabbiosamente il Mouser.
Il tambureggiare del branco imbizzarrito si era spento in lontananza con una ra-
pidità anche maggiore di quella con cui era venuto, e nel nuovo silenzio, essi udi-
rono un ringhio soddisfatto a bocca piena. Hrissa, balzando dal macigno al termine
del passaggio dell’orda, aveva abbattuto un grasso capretto e gli stava dilaniando il
candido collo insanguinato.
«Ah, mi pare già di sentirlo arrostire!» esclamò il Mouser con un gran sorriso,
mutando istantaneamente l’oggetto del suo interesse. «Brava Hrissa! Fafhrd, se
quelli là a oriente sono alberelli e arbusti ed erba... e debbono esserlo, perché di
che altro si nutrirebbero le capre? ... allora ci sarà sicuramente legna secca... Oh,
magari ci sarà anche un po’ di menta! E allora potremo...»
«Mangerai carne cruda, a pranzo, o non mangerai affatto!» decretò rabbiosa-
mente Fafhrd. «Dobbiamo rischiare ancora di venire travolti dal branco imbizzarri-
to? O dobbiamo dare a quel volatore ridacchiante la possibilità di scatenare contro
di noi qualche leone delle nevi? Sono sicuro che ci sono anche quelli, e si nutrono
delle capre. E dobbiamo offrire a Kranarch ed a Gnarfi la vetta della Rampa delle
Stelle su di un piatto d’argento tempestato di diamanti? Se questa calma del diavo-
lo dura anche domani, e se loro sono scalatori forti e industriosi, e non oziosi dallo
stomaco raffinato come qualcuno che non nomino!»
E così, dopo qualche altra protesta da parte del Mouser, il capretto venne rapi-
damente dissanguato, sbuzzato e scuoiato; parte della carne della spina dorsale e i
cosciotti vennero avvoltolati e messi nello zaino per servire da cena. Hrissa bevve
un altro po’ di sangue, mangiò metà del fegato, e poi seguì il Mouser e Fafhrd, che
si avviarono verso nord, in direzione del diedro innevato. I due uomini masticava-
no pezzi di carne di capretto crudo spolverati di pepe, ma procedevano a lunghi
passi rapidi e si guardavano alle spalle, cautamente, per timore di veder ricompari-
re il branco imbizzarrito.
Il Mouser si aspettava di poter finalmente vedere qualcosa, a oriente; ma quan-
do guardò verso est lungo la parete nord dell’Obelisco Polare, venne frustrato dalla
prima, grande ondulazione della sella innevata.
A nord, tuttavia, il panorama era spaventosamente maestoso. Mezza lega ab-
bondante sotto di loro, quasi verticale, la Cascata Bianca precipitava misteriosa-
mente, scintillando persino nell’ombra.
Il dosso da cui dovevano transitare si incurvava dapprima verso l’altro per una
ventina di braccia, e poi scendeva dolcemente verso una lunga sella piena di neve,
un’altra ventina di braccia sotto di loro, quindi risaliva fondendosi nella Treccia
Sud, lungo la quale si potevano vedere chiaramente precipitare le valanghe.
Era facile capire che il terribile vento di nordest, soffiando quasi continuamente
ma senza sfiorare la Scala, ammucchiava la neve tra la montagna più alta e l’Obeli-
sco... ma era impossibile capire se il tratto di roccia che congiungeva le due mon-
tagne si trovava sotto lo strato di neve alla profondità di poche braccia o di un
quarto di lega.
«Dobbiamo rimetterci in cordata» decise Fafhrd. «Io andrò avanti e intaglierò i
gradini sul pendio occidentale.»
«E chi ha bisogno di gradini, in questa calma?» chiese il Mouser. «O di passare
vicino al pendio occidentale? È solo che tu non vuoi che io veda a oriente, vero?
La sommità del diedro è abbastanza ampia da permettere il passaggio a due barri
affiancati.»
«La cresta del diedro, che si trova sul percorso del vento, quasi certamente si
affaccia sul vuoto, verso est, e si sgretolerebbe» spiegò Fafhrd. «Stammi a sentire,
Mouser: chi se ne intende di più di nevi e di ghiacci: tu od io?»
«Una volta ho attraversato le Ossa degli Antichi insieme a te» ribatté il Mouser,
con una scrollata di spalle. «Se ben ricordo, c’era la neve.»
«Puah, soltanto un po’ di cipria caduta dal piumino di una dama, in confronto a
questa. No, Mouser, su questo tratto la mia parola è legge.»
«Benissimo» convenne il Mouser.
Si legarono in cordata, piuttosto vicini, Fafhrd, il Mouser e Hrissa nell’ordine, e
senza altri indugi Fafhrd calzò i guanti, si fissò l’ascia al polso con il cinghiolo e
cominciò a intagliare gradini intorno al dosso dell’ondulazione di neve.
Era un lavoro piuttosto lento, perché sotto il velo di neve farinosa la crosta era
dura, e per ogni gradino Fafhrd doveva fare almeno due tagli: prima un colpo con-
tromano per formare lo scalino, poi uno dall’alto in basso per liberarlo. E via via
che il pendio diventava più ripido, egli era costretto a intagliare i gradini sempre
più vicini l’uno all’altro. Erano piuttosto piccoli, almeno per i suoi grossi stivali,
ma ben saldi.
Ben presto la cresta del diedro e l’Obelisco nascosero il sole. L’aria divenne
freddissima. Il Mouser si allacciò la tunica e si strinse il cappuccio intorno al viso,
mentre Hrissa, tra un breve balzo e l’altro da gradino a gradino, eseguiva una sorta
di balletto felino, per non congelarsi le zampe inguantate. Il Mouser si disse che
avrebbe dovuto imbottire gli scarponcini con un po’ di lana, quando avesse cam-
biato l’unguento. Ora teneva l’asta chiusa appesa al polso con una cinghia.
Superarono il dosso dell’ondulazione e arrivarono di fronte all’inizio della sel-
la, ma Fafhrd non prese a intagliare scalini verso quella direzione. Li incideva in-
vece in un angolo più ripido ancora della sella, sebbene il pendio che stavano attra-
versando diventasse molto erto.
«Fafhrd» protestò sottovoce il Mouser, «guarda che siamo diretti verso la cima
della Rampa delle Stelle, non verso la Cascata Bianca.»
«Avevi detto: “Benissimo”» ribatté Fafhrd, tra un colpo d’ascia e l’altro. «E
poi, chi è che fa tutto il lavoro?» L’acciaio risuonò, mordendo il ghiaccio.
«Guarda, Fafhrd» disse il Mouser, «ci sono due capre che vanno verso la Ram-
pa delle Stelle lungo la sommità della sella. No, anzi tre.»
«Dovremmo fidarci delle capre? Chiedi a te stesso perché sono state mandate?»
L’ascia di Fafhrd risuonò di nuovo.
Il sole comparve, innalzandosi verso sud, mandando le tre ombre molto più a-
vanti di loro. Il grigio chiarissimo della neve diventò un candore scintillante. Il
Mouser si tolse il cappuccio sotto i raggi gialli. Per un po’ il piacevole tepore del
sole sulla nuca lo aiutò a tenere la bocca chiusa, ma poi la pendenza divenne anco-
ra più ripida, mentre Fafhrd continuava implacabile a intagliare gradini verso il
basso.
«Mi sembra di ricordare che avessimo intenzione di scalare la Rampa delle
Stelle, ma la mia memoria deve essere in disordine» osservò il Mouser. «Fafhrd, ti
credo sulla parola che dobbiamo tenerci alla larga dalla cresta del diedro, ma è ne-
cessario che ci teniamo tanto lontani? E le tre capre sono passate senza difficoltà.»
Ancora una volta, Fafhrd ribatté soltanto: «Avevi detto: “Benissimo”.» E que-
sta volta c’era un ringhio nella sua voce.
Il Mouser scrollò le spalle. Ormai si puntellava continuamente con l’asta, men-
tre Hrissa indugiava studiatamente prima di ogni balzo.
Le loro ombre li precedevano meno di un tiro di lancia, ormai, e il sole caldo
aveva cominciato a sciogliere lo strato superficiale di neve, mandando rivoletti
d’acqua ghiacciata a bagnare i loro guanti ed a rendere insicuri i punti su cui ap-
poggiavano i piedi.
Eppure Fafhrd continuava a tagliare gradini in discesa. E poi, all’improvviso,
incominciò a intagliarli ancora più ripidamente, aggiungendo con svelti colpi d’a-
scia piccoli appigli per le mani sopra ogni scalino... e quegli appigli erano indi-
spensabili!
«Fafhrd» disse il Mouser in tono sognante, «forse uno spiritello dei ghiacci ti
ha sussurrato il segreto della levitazione, in modo che da questo splendido trampo-
lino tu possa tuffarti, riprendere quota e poi salire spiraleggiando verso la vetta del-
la Rampa delle Stelle. In tal caso, vorrei che insegnassi a me ed a Hrissa come ci si
fa spuntare le ali.»
«Ascolta!» Fafhrd parlò sottovoce, ma concitatamente, in quell’istante. «Ho la
sensazione che stia arrivando qualcosa. Afferrati forte e guarda dietro di noi.»
Il Mouser piantò profondamente l’asta e girò la testa. In quel momento, Hrissa
balzò dall’ultimo gradino indietro su quello dove stava lui, atterrando per metà sul
suo stivale ed aggrappandogli al ginocchio... ma lo fece con tanta destrezza che il
Mouser non perse l’equilibrio.
«Io non vedo niente» riferì il Mouser, levando gli occhi verso il sole. E poi, con
improvvisa bruschezza. «I raggi si distorcono ancora, come una lanterna ruotante!
Gli scintillii sul ghiaccio si increspano e ondeggiano. È il volatore che ritorna! Ag-
grappati forte!»
Giunse il suono rombante, più forte che mai, intensificandosi rapidamente; poi
una grande ondata d’aria, come di un corpo enorme che transitasse a poche spanne
di distanza, fece sventolare i loro indumenti e il pelame di Hrissa, li costrinse ad
afferrarsi disperatamente agli appigli, sebbene Fafhrd avventasse l’ascia, con uno
scatto furioso. Hrissa ringhiò. Fafhrd per poco non venne sbalzato via dalla forza
del suo colpo.
«Giuro che l’ho ferito, Mouser» gridò, recuperando l’equilibrio. «L’ascia ha
toccato qualcosa, oltre l’aria.»
«Sciocco, cervello di gallina!» urlò il Mouser. «I tuoi graffi lo faranno infuria-
re, e ritornerà all’attacco!» Lasciò con la mano l’appiglio intagliato nel ghiaccio e,
sostenendosi con l’asta, si guardò intorno nell’aria soleggiata, cercando altre incre-
spature.
«È molto più probabile che io l’abbia spaventato e messo in fuga» asserì
Fafhrd, imitandolo. Il rombo svanì e non ritornò; l’aria ridivenne quieta, e sul ripi-
do pendio scese il silenzio. Persino lo sgocciolio dell’acqua cessò.
Volgendosi di nuovo verso la parete con un grugnito di sollievo, il Mouser toc-
cò il vuoto. Rimase immobile come un morto. Poi, girando soltanto gli occhi vide
che in alto, a partire da un punto al livello delle sue ginocchia, l’intero diedro di
neve era scomparso, con l’intera sella e un tratto dell’ondulazione, da entrambi i
lati, come se un dio immane avesse proteso le mani mentre il Mouser voltava le
spalle ed avesse strappato via quel tratto di realtà.
Stordito, in preda alle vertigini, si afferrò all’asta. Ora si trovava alla sommità
di una sella appena creata. Oltre il pendio orientale, bianchissimo e sgretolato da
poco, la grande cornice di neve staccatasi silenziosamente precipitava sempre più
rapida, ancora tutta d’un pezzo, grande come una collina.
Dietro di loro i gradini intagliati da Fafhrd salivano verso il nuovo bordo di ne-
ve, e poi sparivano.
«Vedi, avevo intagliato un passaggio appena sufficiente» tuonò Fafhrd. «Mi ero
sbagliato.»
La cornice distaccata piombò fuori di vista, e il Mouser e il Nordico poterono
vedere finalmente ciò che stava a oriente delle Montagne dei Giganti: una distesa
ondulata verdescura, che forse era formata dalle cime degli alberi... ma di lassù an-
che gli alberi più colossali apparivano minuscoli come fili d’erba. Era una distesa
ancora più profonda di quanto lo fossero, alle loro spalle, le Solitudini Fredde. Ol-
tre quella depressione tappezzata di verde, grandeggiava un’altra spettrale catena
montuosa.
«Ho sentito certe leggende della Grande Valle Spaccata» mormorò Fafhrd. «U-
na coppa per la luce del sole cinta dalle montagne, con il fondovalle caldo, una le-
ga al di sotto delle Solitudini.»
Scrutarono.
«Guarda» disse il Mouser. «Gli alberi salgono sulla faccia orientale dell’Obeli-
sco fin quasi alla vetta. Adesso le capre non mi sembrano più una stranezza.»
Tuttavia non riuscirono a vedere nulla della faccia orientale della Rampa delle
Stelle.
«Andiamo!» ordinò Fafhrd. «Se indugiamo, il volatore invisibile dalla risata
ringhiante potrebbe trovare il coraggio di ritornare, nonostante il mio colpo d’a-
scia.»
E senza aggiungere altro, ricominciò risolutamente a intagliare altri gradini...
ancora un poco più in basso.
Hrissa continuò a sbirciare oltre il bordo, quasi posandovi sopra il mento barbu-
to, agitando le narici per captare meglio i lievissimi odori di carne viva che saliva-
no dalla distesa verdescura lontana alcune leghe; ma quando la corda si tese sul-
l’imbracatura, segui i due uomini.
I pericoli si moltiplicarono. Raggiunsero la roccia scura della Scala intagliando-
si una via lungo una parete di ghiaccio quasi verticale, nell’oscurità scintillante sot-
to un’armata cascata di neve che scaturiva da una sporgenza ghiacciata. Forse una
versione in miniatura della Cascata Bianca che formava la gonna della Rampa delle
Stelle.
Quando finalmente si fermarono, intirizziti dal freddo, osando appena credere
di averla spuntata, su di un’ampia cengia scura, videro sulla neve tutto intorno un
groviglio caotico di orme insanguinate di capra.
Senza altri preavvisi, un lungo banco di neve tra il cornicione e il gradino supe-
riore alzò di tre o quattro braccia l’estremità candida più vicina e sibilò spavento-
samente, rivelandosi per un serpente enorme, dalla testa più grossa di quella di un
alce, interamente coperto da un’irsuta pelliccia nivea. I grandi occhi violetti erano
spalancati come quelli d’un cavallo imbizzarrito, e le fauci si aprirono, mettendo in
mostra denti taglienti come quelli degli squali e due grandi zanne che lanciavano
una nebbia di pallido icore.
Il serpente peloso esitò per due oscillazioni, tra l’uomo più vicino e più alto dal-
l’ascia balenante e quello più lontano e più piccolo con il grosso bastone nero. In
quella pausa Hrissa, lanciando a sua volta ringhi sibilanti, balzò avanti, superando
il Mouser dalla parte in discesa del pendio, ed il serpente si avventò contro quel
nuovo e più attivo avversario.
Fafhrd fu investito da un soffio d’alito caldo ed acre, e il vapore emanato dalla
zanna più vicina gli bagnò il gomito sinistro.
L’attenzione del Mouser era fissa su un occhio violetto cinto di pelo, grosso
come un pugno di donna.
Hrissa guardava nella gola rossoscura, spalancata del mostro, orlata da pugnali
d’avorio immersi nella bava e dalle due zanne sgocciolanti icore.
Poi le fauci si chiusero di scatto, ma in quell’istante d’intervallo Hrissa era bal-
zata all’indietro ancora più rapidamente di quanto fosse avanzata.
Il Mouser affondò l’estremità chiodata dell’asta nel feroce occhio violetto.
Avventando l’ascia a due mani, Fafhrd colpì il collo peloso dietro il cranio ro-
busto quanto quello d’un cavallo, e uno zampillo di sangue rosso fumigò, cadendo
sulla neve.
Poi i tre alpinisti si arrampicarono, mentre il mostro si contorceva in preda a
convulsioni che facevano tremare la roccia e chiazzavano di rosso la neve e la pel-
liccia nivea.
Quando arrivarono a distanza di sicurezza, gli scalatori si soffermarono a guar-
darlo morire, non senza lanciare intorno frequenti occhiate, nel timore di veder
comparire altri esseri simili o almeno altrettanto pericolosi.
Fafhrd disse: «Un serpente a sangue caldo, impellicciato... un’assurdità. Mio
padre non me ne aveva mai parlato: senza dubbio non ne aveva mai visti.»
Il Mouser disse: «Scommetto che trovano le loro prede sulle pendici orientali
della Rampa delle Stelle, e vengono qui solo per fare il nido e riprodursi. Forse il
volatore invisibile ha sospinto le tre capre oltre la sella per attirare questo mostro.»
La sua voce assunse un tono sognante. «O forse c’è un mondo segreto, nelle visce-
re della Rampa delle Stelle.»
Fafhrd scosse il capo, come per liberarsi di quelle visioni. «Dobbiamo salire»
disse. «Sarà meglio che ci portiamo al di sopra dei Covi prima che scenda la notte.
Dammi un pezzo di miele, mentre bevo» aggiunse, sganciandosi la borraccia dalla
cintura, mentre si voltava a scrutare la Scala.
Vista dalla base, la Scala era uno stretto triangolo scuro che saliva verso il cielo
azzurro tra le Trecce nevose, sempre frementi di valanghe. Prima c’erano le cengie
su cui si trovavano, dapprima agevoli, ma via via sempre più ripide e strette. Poi
c’era un tratto quasi interamente liscio, segnato qua e là da ombre e increspature
che sembravano offrire appigli, ma non collegati tra loro. Poi un’altra fascia di cen-
gie, i Posatoi. Poi un tratto ancora più liscio del primo. Infine, un’altra striscia di
cornicioni, più stretta e più corta, la Faccia, e in cima qualcosa che sembrava un
minuscolo sgorbio d’inchiostro bianco: la tesa del cappello di neve della Rampa
delle Stelle, ora priva degli Orifiamma.
Il Mouser si sentì riprendere da tutti i dolori e da tutta la stanchezza, mentre
scrutava la Scala e si frugava nella borsa, per cercare il barattolo di miele. Mai, ne
era certo, aveva visto una simile distanza compressa in uno spazio così breve nello
scorcio d’una prospettiva verticale. Era come se gli dèi avessero costruito una scala
per raggiungere il cielo e, dopo averla usata, avessero staccato a calci quasi tutti i
pioli. Ma strinse i denti e si preparò a seguire Fafhrd.

La scalata precedente cominciò ad apparire di una facilità da manuale in con-


fronto a quella che dovettero compiere lottando, gradino per gradino, per tutto il
lungo pomeriggio estivo. Se l’Obelisco Polare era stato un severo maestro di scuo-
la, la Rampa delle Stelle era una regina folle, instancabile nel preparare traumi e
sorprese, imprevedibile nei suoi pazzi capricci.
Le cengie dei Covi erano formate da roccia che talvolta si sgretolava al tocco,
ed erano coperte da ghiaia. Gli scalatori fecero conoscenza con le valanghe di roc-
cia della Rampa delle Stelle, che facevano precipitare intorno a loro piogge di pie-
tre senza il minimo preavviso, costringendoli a tenersi ben stretti alle pareti e indu-
cendo Fafhrd a rimpiangere di aver lasciato l’elmo nel tumulo. All’inizio, Hrissa
soffiò contro ogni ciottolo che le grandinava vicino, ma quando venne colpita al
fianco da un piccolo sasso, s’impaurì e si trascinò accanto al Mouser, cercando di
insinuarsi tra le sue gambe e la parete, fino a quando egli non la rimbrottò.
E una volta videro un cugino del verme bianco da loro ucciso più in basso sol-
levarsi dall’altezza di un uomo e fissarli minacciosamente da un cornicione lonta-
no, però senza aggredirli.
Dovettero portarsi verso il punto settentrionale della cengia più alta prima di
trovare, proprio sul bordo della Treccia Nord, e quasi al di sotto della sua neve ru-
scellante, un canalone intasato di ghiaia che si restringeva salendo in un ampio sol-
co verticale... o camino, come lo chiamò Fafhrd.
Quando ebbero finalmente superato la ghiaia traditrice, il Mouser scoprì che
ora la scalata era veramente molto simile ad una arrampicata all’interno di una can-
na fumaria rettangolare, di ampiezza variabile e priva di una delle quattro pareti...
quella rivolta verso l’esterno. La roccia era più solida di quella dei Covi, ma era
tutto ciò che si poteva dire a suo favore.
Lì era necessario ricorrere a tutti i trucchi dell’alpinismo, e fare appello soprat-
tutto alla forza. Talvolta si issavano aggrappandosi a crepe abbastanza larghe per
infilarvi le dita delle mani e le punte dei piedi; e se una crepa era troppo stretta,
Fafhrd vi piantava uno dei suoi chiodi, per fornire un appiglio; e dopo l’uso, se era
possibile, il chiodo andava recuperato. Qualche volta il camino si stringeva tanto
che essi potevano salire laboriosamente puntellandosi con le spalle a una parete e
con le suole degli stivali a quella di fronte. Per due volte si allargò, e divenne così
liscio che fu necessario puntellare tra parete e parete l’asta telescopica del Mouser,
per formare un gradino indispensabile.
E in cinque punti il camino era bloccato da una roccia enorme o da una pietra
che, precipitando, si era incuneata saldamente; e fu necessario superare quei temi-
bili ostacoli scavalcandoli dall’esterno, in genere con l’aiuto dei chiodi di Fafhrd,
piantati tra il masso e la parete, o del grappino lanciato al di sopra dell’ostruzione.
«La Rampa delle Stelle ha pianto macine da mulino, ai suoi tempi» disse il
Mouser; alludendo a quelle barriere gigantesche, e inarcandosi mentre parlava per
schivare una pietra che precipitava.
La scalata, in generale, era superiore alle capacità di Hrissa, e spesso il Mouser
doveva caricarsela in spalla, o lasciarla su di una strozzatura o su uno dei rarissimi
cornicioni, per poi issarla con la corda appena se ne offriva la possibilità. I due, so-
prattutto quando la stanchezza divenne più terribile, provarono la tentazione di ab-
bandonarla, ma non potevano dimenticare che li aveva salvati, con la sua finta co-
raggiosa, dal primo attacco del verme delle nevi.
Tutta la scalata, soprattutto il superamento degli ostacoli, doveva venire com-
piuta sotto la grandine delle valanghe di sassi della Rampa delle Stelle... tanto che
ogni pietrone che bloccava il camino sopra di loro veniva salutato come un utile
tetto, fino a quando non si rendeva necessario superarlo. Inoltre, talvolta nel cami-
no si insinuava la neve, rovesciandosi da una delle valanghe vere che frusciavano
incessantemente giù per la Treccia Nord... un altro pericolo da cui bisognava guar-
darsi. E di tanto in tanto anche l’acqua diaccia ruscellava lungo il camino, inzup-
pando stivali e guanti e rendendo malsicure le prese.
Oltre a tutto questo, l’aria era meno ossigenata, e spesso erano costretti a fer-
marsi ansimando profondamente per saziare i polmoni. E il braccio sinistro di
Fafhrd cominciava a gonfiarsi, nel punto in cui l’aveva investito la nebbia velenosa
esalata dalla zanna del verme; ormai, egli riusciva a malapena a piegare le dita tu-
mefatte per afferrare le fenditure o la corda. Il braccio prudeva e doleva; il Nordico
l’immerse più volte nella neve, ma inutilmente.
I loro unici alleati in quella tremenda ascesa erano il sole caldo che li rincuora-
va con il suo splendore e scacciava il gelo crescente dell’aria immota e rarefatta, e
la stessa difficoltà e varietà della scalata, che almeno distoglieva la loro mente dal
pensiero del vuoto intorno e sotto di loro... l’abisso era più profondo di quello su
cui si erano affacciati in vetta all’Obelisco. Le Solitudini Fredde sembravano un
altro mondo, separate nello spazio dalla Rampa delle Stelle.
Una volta si fecero forza per mangiare un boccone, e parecchie altre si soffer-
marono per sorseggiare un po’ d’acqua. Poi il Mouser fu preso dal mal di monta-
gna, che gli diede tregua solo quando ebbe vomitato fino a ridursi debole come uno
straccio.
L’unico episodio della scalata non connesso direttamente alla follia della Ram-
pa delle Stelle avvenne mentre stavano superando dall’esterno il quinto pietrone,
lentamente, come due grosse lumache: questa volta il Mouser veniva per primo,
portando Hrissa, seguito da vicino da Fafhrd. In quel punto la Treccia Nord si re-
stringeva, e oltre il fiume di neve si scorgeva la Parete Nord.
Vi fu un fruscio che non era causato da una caduta di pietrisco. Poi un altro fru-
scio ronzante, più vicino, che si concluse con un thunk. Quando Fafhrd si arrampi-
cò sul pietrone si infilò al riparo delle pareti, aveva una freccia uncinata piantata
nello zaino.
A costo di sfidare una terza freccia scagliata verso la sua testa, il Mouser sbir-
ciò verso nord, mentre Fafhrd lo teneva per i calcagni e si affrettava a trascinarlo
indietro.
«Era proprio Kranarch; l’ho visto tirare con l’arco» riferì il Mouser. «Gnarfi
non si vede, ma uno dei loro nuovi compagni impellicciati di bruno era acquattato
dietro Kranarch, puntellato contro lo stesso spuntone. Non ho potuto vederlo in
faccia, ma è un tipo molto robusto, e corto di gambe.»
«Tengono il nostro stesso ritmo» borbottò Fafhrd.
«E per giunta, non si fanno scrupolo di alternare l’alpinismo all’assassinio» os-
servò il Mouser, spezzando la coda della freccia che trapassava lo zaino di Fafhrd,
e sfilandone l’asta. «Oh, caro camerata, temo che il tuo mantello abbia sedici bu-
chi. E la piccola vescica piena di linimento di pino... forata anche quella. Ah, che
fragranza!»
«Comincio a pensare che quei due uomini di Illik-Ving non siano sportivi» af-
fermò Fafhrd. «Quindi... su, avanti!»
Erano tutti stanchi come cani, persino la gatta Hrissa, e il sole era soltanto a
dieci dita (calcolando a braccio teso) dall’orizzonte piatto delle Solitudini Fredde; e
qualcosa, nell’aria, aveva reso l’astro bianco come l’argento... non inviava più il
suo calore a combattere il gelo. Ma le cengie dei Posatoi erano ormai vicine, e si
poteva sperare che offrisse migliori possibilità di accamparsi del camino.
Perciò, sebbene ogni muscolo umano e felino protestasse, obbedirono al co-
mando di Fafhrd.
A metà strada dai Posatoi cominciò a nevicare: granelli farinosi che cadevano
diritti come frecce, allo stesso modo della sera precedente, ma più fitti.
La nevicata silenziosa dava un senso di serenità e di sicurezza ingannevole,
poiché mascherava le cadute di pietrisco che continuavano a grandinare giù per il
camino come l’artiglieria del Dio del Caso.
A cinque braccia dalla sommità, una pietra grossa come un pugno colpì di stri-
scio Fafhrd alla spalla destra, così che anche il suo braccio valido si intorpidì, pen-
zolando inutile; ma l’ultimo breve tratto di scalata era così facile che egli riuscì a
compierla con gli stivali e la mano sinistra tumefatta e a malapena usabile.
Fafhrd sbirciò fuori cautamente dalla sommità del camino, ma in quel punto la
Treccia era di nuovo molto alta, e la Parete Nord non si scorgeva. La prima cengia
era fortunatamente ampia, e coperta da una sporgenza della roccia, così che nella
metà più interna non era caduta neve, e tanto meno le pietre. Il Nordico strisciò
fuori, impaziente, seguito dal Mouser e da Hrissa.
Ma mentre si gettavano giù per riposare contro la roccia, e il Mouser si liberava
del pesante zaino e si slacciava dal polso l’asta da scalatore (perché anche quella
era diventata un peso tormentoso), udirono nell’aria il gran fruscio ormai familiare,
e un’immensa forma piatta scese lentamente attraverso la neve inargentata dal sole
che la contornava. Venne diritta verso la cengia, e questa volta non passò oltre: si
fermò e restò librata lì, come una manta gigantesca che fiutasse l’orlo del mare,
mentre dieci segni sottili di ventose disposte in fila apparivano sulla neve, al bordo
del cornicione, come se vi si aggrappassero dieci corti tentacoli.
Dal centro di quell’invisibilità mostruosa si levò un’invisibilità più piccola pro-
filata dalla neve: e questa aveva l’altezza e lo spessore di un uomo. A metà di quel-
la forma c’era un’unica cosa visibile: una spada sottile dalla lama grigioscura e dal-
l’elsa argentea, puntata direttamente al petto del Mouser.
All’improvviso la spada sfrecciò in avanti, come se fosse stata scagliata, ma
non esattamente, e dietro di essa, con la stessa rapidità, si avventò la colonna gran-
de come un uomo, che rideva aspramente dalla cima.
Con una mano, il Mouser raccattò l’asta sganciata, l’affondò verso la figura
contornata dalla neve dietro la spada.
La lama grigia passò serpeggiando intorno all’asta appuntita e con una brusca
torsione la strappò dalle dita del Mouser, intormentite dalla stanchezza.
L’utensile nero, su cui Glinthi l’Artefice aveva trascorso tutte le serate del Me-
se della Donnola, tre anni prima, svanì nella nevicata argentea e nello spazio.
Hrissa rinculò contro la parete, sbavando e ringhiando, tremando violentemen-
te.
Fafhrd cercò freneticamente di impugnare l’ascia, ma le dita gonfie non riusci-
rono neppure a fare scattare il fermaglio del fodero che la fissava alla cintura.
Il Mouser, infuriato per la perdita della sua preziosa asta, al punto di non preoc-
cuparsi più se il suo avversario era invisibile o no, sguainò il Cesello e parò rabbio-
samente la spada grigia che si avventava di nuovo, fulminea.
Dovette eseguire una dozzina di parate, e per due volte venne scalfito al brac-
cio, e sospinto contro la parete, quasi come Hrissa, prima di riuscire a valutare
l’avversario che ormai era uscito dalla neve ed era diventato completamente invisi-
bile; e poi attaccò a sua volta.
Poi, fissando furiosamente un punto al di sopra della spada grigia (un punto do-
ve dovevano trovarsi gli occhi del nemico, ammesso che li avesse), avanzò scalpi-
tando, battendo con insistenza sulla lama scura, facendole scivolare intorno il Ce-
sello con minutissimi disimpegni, e cercando di legarla con la propria spada, di
sferrare affondi impetuosi contro il braccio ed il tronco invisibili.
Per tre volte sentì la punta colpire la carne, ed una volta si piegò per un istante
contro un osso invisibile.
L’avversario balzò di nuovo sul volatore, lasciando strette orme nel nevischio
che gli si era ammucchiato sul dorso. Il volatore ondeggiò.
Preso dall’ardore del combattimento, il Mouser per poco non seguì il suo nemi-
co su quella piattaforma invisibile, viva e pulsante, ma arrivato sull’orlo si arrestò
prudentemente.
E fu una fortuna, perché il volatore si abbassò di colpo, come una razza in fuga
davanti ad uno squalo, scrollandosi di dosso il nevischio. Vi fu un ultimo scroscio
di risa più simili a gemiti, che svanì lontano, nella semioscurità argentea.
Anche il Mouser cominciò a ridere, piuttosto istericamente, e si ritirò contro la
parete. Asciugò la lama e sentì la viscosità del sangue invisibile, e proruppe di
nuovo in risa stridule.
Hrissa aveva ancora il pelo irto... dovette passare diverso tempo prima che si
appiattisse.
Fafhrd rinunciò ai tentativi di estrarre l’ascia e disse, in tono molto serio: «Le
ragazze non potevano essere con lui... avremmo visto le loro forme o le impronte
sul nevischio accumulato sopra il dorso del volatore. Penso sia geloso di noi e agi-
sca contro di loro.»
Il Mouser rise - questa volta solo scioccamente - per la terza volta.
L’oscurità divenne grigioscura. I due compagni si accinsero ad accendere il
braciere e a prepararsi per la notte. Nonostante i dolori e l’immensa stanchezza, la
scossa e lo spavento dell’ultimo incontro aveva acceso in loro nuove energie, ave-
va risollevato il morale e persino aguzzato l’appetito. Banchettarono con fette di
capretto fatte sfrigolare sulle fiamme della resina o lievemente ingrigite dall’acqua
che, stranamente, si poteva sorseggiare sebbene quasi bollisse.
«Dobbiamo essere ormai vicini al regno degli Dei» borbottò Fafhrd. «Si dice
che essi bevano allegramente il vino bollente... e camminino illesi tra le fiamme.»
«Ma qui il fuoco scotta come altrove» disse con voce opaca il Mouser. «Eppure
l’aria sembra essere meno sostentatrice. Di cosa credi che campino gli Dei?»
«Sono eterei e non hanno bisogno di aria né di cibo» suggerì Fafhrd, dopo aver
riflettuto a lungo, accigliandosi.
«Eppure hai appena detto che bevono vino.»
«Tutti bevono vino» affermò Fafhrd con uno sbadiglio, troncando la discussio-
ne e le vaghe, tacite speculazioni del Mouser, il quale si chiedeva se l’aria più de-
bole, premendo con minor forza sul liquido che si scaldava, lasciasse sfuggire più
facilmente le bollicine in formazione.
Il braccio destro di Fafhrd riacquistò la capacità di muoversi, e quello sinistro
aveva smesso di gonfiarsi. Il Mouser medicò e fasciò le proprie lievi ferite, poi si
ricordò di ungere i cuscinetti di Hrissa e di imbottirle gli scarponcini con un po’ di
piumino profumato di pino, estratto dai buchi aperti dalla freccia nel mantello di
Fafhrd.
Quando si furono allacciati per metà nei manti, Hrissa si insinuò in mezzo a lo-
ro; gettarono qualche altra preziosa pallottola di resina nel braciere, poi Fafhrd tirò
fuori una fiaschetta di forte vino di Ilthmar, e ognuno ne bevve una sorsata, imma-
ginando i vigneti assolati e il suolo caldo e ricco di quella terra lontana.
Un divampare improvviso del braciere mostrò che la neve continuava ancora a
cadere. Alcune pietre caddero scrosciando non lontano, e una valanga di neve fece
udire il suo sibilo, poi la Rampa delle Stelle tacque, nella stretta frigida della notte.
Il nido sembrava stranissimo agli scalatori, posto com’era al di sopra di tutte le al-
tre vette delle Montagne dei Giganti, o probabilmente anche al di sopra di tutto il
resto di Nehwon, eppure murato dall’oscurità come una minuscola stanza.
Il Mouser disse, sottovoce: «Adesso sappiamo che cosa si posa sui Posatoi.
Credi che vi siano dozzine di quelle mante invisibili che tappezzano i pendii intor-
no a noi, o che vi stanno appese? Perché non muoiono assiderate? O forse qualcu-
no mette una stalla a loro disposizione? E il popolo degli invisibili? Non puoi più
dire che sono un miraggio... tu hai visto la spada, e io ho duellato con l’uomo, o
quel che era, che la impugnava. Eppure era invisibile! Ma come può essere?»
Fafhrd scollò le spalle e rabbrividì, perché gli dolevano terribilmente. «Sono
fatti di una sostanza trasparente come l’acqua o il vetro» opinò. «E tuttavia sono
elastici e distorcono assai meno la luce... e senza riflessi in superficie. Hai visto
anche tu sabbie e ceneri rese trasparenti dalla cottura. Forse c’è anche un sistema
per cuocere mostri ed uomini fino a renderli invisibili senza ricorrere al calore.»
«Rendendoli anche così leggeri da poter volare?» chiese il Mouser.
«Bestie rarefatte, adatte all’aria rarefatta» ipotizzò insonnolito Fafhrd.
Il Mouser proseguì: «E poi quei vermi letali... e solo il Diavolo sa quali altri pe-
ricoli stanno in agguato più in alto.» Fece una pausa. «Eppure dobbiamo continuare
la scalata della Rampa delle Stelle fino alla cima, vero? Perché?»
Fafhrd chinò il capo in cenno d’assenso. «Per battere Kranarch e Gnarfi...» bor-
bottò. «Per battere mio padre... il mistero... le ragazze... O Mouser, saresti capace
di fermarti a questo punto, più di quanto saresti capace di fermarti dopo aver tocca-
to la metà di una donna?»
«Non parli più dei diamanti, adesso» osservò il Mouser. «Non pensi che lo tro-
veremo?»
Fafhrd fece per scrollare di nuovo le spalle e borbottò una imprecazione che si
trasformò in sbadiglio.
Il Mouser frugò nella tasca interna della borsa, estrasse la pergamena e, sof-
fiando sul braciere, la lesse interamente alla luce delle ultime fiamme della resina:

Chi scalerà la candida Rampa delle Stelle,


L’Albero della Luna, oltre il verme e lo gnomo,
E le sbarre invisibili, troverà un gran tesoro,
Avrà il Cuore di Luce, una borsa di stelle.

Gli dèi che al tempo antico governavano il mondo


Di questa vetta fecero il loro forte eterno,
Da cui le stelle fulgide venivano lanciate,
E partivan le strade per il Cielo e l’Inferno.

Oltre i Monti dei Troll suvvia venite, eroi,


Oltre le Solitudini, o migliori tra i prodi.
Sollecita, la gloria ogni porta vi schiude:
Non indugiate dunque, siate degni di voi.

Chi scalerà la rocca del Gran Re delle Nevi


Sarà padre dei figli delle sue due figliole,
Pur se cadrà per mano di feroci nemici,
Il suo seme vivrà finché splenderà il sole.

La resina finì di consumarsi. Il Mouser disse: «Ebbene, abbiamo incontrato un


verme, e un individuo invisibile che ha cercato di sbarrarci il cammino... e due
streghe egualmente invisibili che per quanto ne so io potrebbero anche essere le
figlie del Re delle Nevi. In quanto agli gnomi... sarebbero qualcosa di nuovo, no?
Tu hai detto qualcosa a proposito degli Gnomi dei Ghiacci, Fafhrd, Che cosa?»
Con ansia innaturale, rimase in attesa della risposta di Fafhrd. E dopo un po’
incominciò ad udirlo: il suo compagno russava sommessamente.
Il Mouser ringhiò in silenzio; il demone dalla sua inquietudine era diventato
una furia, nonostante tutti i dolori. Non avrebbe dovuto pensare alle donne... o al-
meno non a quella ragazza che era soltanto una maschera provocante, dalle labbra
un po’ imbronciate e dagli occhi di tenebroso mistero, vista al di là di un fuoco.
All’improvviso si sentì soffocare. Sganciò in fretta il mantello e nonostante il
miagolio interrogativo di Hrissa si avviò a tentoni verso sud, lungo la cengia. Ben
presto la neve che pioveva come aghi di ghiaccio sul suo volto arrossato gli disse
che era uscito dal riparo del tetto sporgente. Poi la neve cessò. Un’altra sporgenza,
pensò... Ma non si era mosso. Alzò il capo, aguzzando lo sguardo, e scorse la mas-
sa nera della parte superiore della Rampa delle Stelle profilata contro una fascia di
cielo schiarita dalla luna nascosta e cosparsa di poche stelle fioche. Dietro di lui,
verso occidente, la tempesta di neve oscurava ancora il cielo.
Sbatté la palpebre e poi imprecò sottovoce, perché la parete nera che dovevano
scalare l’indomani splendeva di fievoli luci sparse, violette e rosate e verdechiare e
ambrate. Le più vicine, che comunque erano parecchio distanti, sembravano ret-
tangolari, come finestre illuminate viste dal basso.
Sembrava che la Rampa delle Stelle fosse un grande palazzo.
Poi i fiocchi diacci gli punsero di nuovo la faccia, e la striscia di cielo si restrin-
se e svanì. La nevicata aveva ripreso a battere contro la Rampa delle Stelle, na-
scondendo tutte le stelle ed altre luci.
Il Mouser si sentì svuotato della furia. All’improvviso si sentì molto piccolo e
molto folle, e soprattutto molto infreddolito. La visione misteriosa delle luci restò
nella sua mente, ma smorzata, come se facesse parte di un sogno. Con grande cau-
tela, tornò indietro, sentendo il calore che irradiava da Fafhrd e da Hrissa e dal bra-
ciere ormai spento prima ancora di toccare il suo mantello. Se lo allacciò addosso e
per qualche tempo rimase sdraiato, raggomitolato su se stesso come un bambino, la
mente svuotata di tutto e invasa soltanto dalla tenebra gelida. Finalmente si addor-
mentò.

Il giorno seguente incominciò, buio. I due uomini si massaggiarono e lottarono


un po’, ancora distesi, per liberarsi un po’ dell’irrigidimento e per scaldarsi quel
tanto necessario per alzarsi. Hrissa si scostò da loro, zoppicando imbronciata.
Comunque, le braccia di Fafhrd erano guarite dal gonfiore e dall’intorpidimen-
to, mentre il Mouser si accorgeva appena delle piccole ferite ricevute.
Fecero colazione con tè d’erbe e miele, e cominciarono a scalare i Posatoi sotto
una leggera nevicata. La neve li accompagnò per tutta la mattina, tranne quando
brezze capricciose l’allontanavano dalla Rampa delle Stelle. Allora essi potevano
vedere la grande parete liscia che separava i Posatoi dalle cengie più alte della Fac-
cia. A giudicare da quel che scorgevano, la parete sembrava totalmente priva di vie
d’accesso e di segni di qualunque genere (tanto che Fafhrd rise del Mouser, dando-
gli del sognatore, per via delle finestre che irradiavano luci colorate), ma finalmen-
te, quando si avvicinarono alla base di quel tratto di roccia incominciarono a di-
stinguere qualcosa di simile a una crepa, sottile come un capello, che saliva al cen-
tro.
Non incontrarono gli invisibili volatori piatti, né in volo né appollaiati, anche
se, ogni volta che le raffiche di vento aprivano strani squarci nella nevicata, i due
avventurieri si fermavano e afferravano le armi, e Hrissa scopriva i denti.
Il vento li fece rallentare poco, pur agghiacciandoli molto, perché la roccia dei
Posatoi era stabile e solida.
Dovevano stare comunque in guardia contro le grandinate di pietre, sebbene
fossero meno numerose del giorno precedente, forse perché ormai la maggior parte
della Rampa delle Stelle stava sotto di loro.
Arrivarono alla base della grande parete nel punto in cui incominciava la crepa,
e fu una fortuna, perché la nevicata era divenuta tanto fitta che sarebbe stato diffi-
cile andarla a cercare.
Con grande gioia dei due compagni, la crepa era un altro camino, largo poco
più di un braccio e non molto più profondo, e ricco di sporgenze e di appigli, all’in-
terno, quando era liscia la parete esterna. A differenza del camino del giorno in-
nanzi, non si scorgevano pietre che l’ostruivano. In un certo senso era come una
scala di roccia, parzialmente riparata dalla neve. Persino Hrissa poteva salire da
sola, lì, come aveva scalato l’Obelisco Polare.
Pranzarono dopo aver scaldato il cibo contro la loro pelle. Erano accesi dall’im-
pazienza, tuttavia s’imposero di impiegare un po’ di tempo per masticare e bere.
Quando entrarono nel camino, con Fafhrd in testa, si udirono tre fiochi rombi rin-
ghianti... forse era il tuono, e certamente era malaugurante, tuttavia il Mouser rise.
Poiché avevano a disposizione appigli immancabili e la parete opposta cui pun-
tellarsi con la schiena, l’ascesa fu facile; ma richiedeva molta forza, e perciò impo-
neva soste frequenti, per aspirare un po’ di quell’aria rarefatta. Il camino si restrin-
se soltanto in due punti in modo da costringere Fafhrd a inerpicarsi dall’esterno per
un breve tratto; il Mouser, che era di taglia più snella, poté rimanere all’interno.
Era un’esperienza quasi inebriante. Sebbene la giornata fosse oscurata dalla ne-
vicata sempre più fitta, e i rombi crepitanti si ripetessero, più netti e più forti (era
senza dubbio di tuono, poiché erano preceduti da brevi bagliori pallidi su e giù per
il camino, lampi smorzati dalla neve), il Mouser e Fafhrd si sentivano gai come
bambini che salgono una scalinata misteriosa e tortuosa in un castello infestato dai
fantasmi. Sprecarono addirittura un po’ di fiato in richiami scherzosi che echeggia-
vano debolmente su e giù per il pozzo irregolare che si rischiarava e si oscurava al
ritmo dei lampi.
Ma poi, gradualmente, il camino divenne liscio, quasi quanto la parete esterna,
e nello stesso tempo incominciò ad allargarsi, prima di una spanna, poi di un’altra,
poi di un altro dito, in modo che essi dovettero salire più pericolosamente, puntan-
do le spalle contro una parete e gli stivali contro l’altra, e “camminando” a spinte e
slanci. Il Mouser raccolse Hrissa e la gatta dei ghiacci gli si accovacciò sul petto...
non era un peso da poco. Tuttavia i due uomini si sentivano ancora allegri, e il
Mouser cominciò a domandarsi se per caso non c’era davvero una sostanza ine-
briante nell’aria, vicino al Cielo.
Poiché era più alto del Mouser di tutta la testa ed anche più, Fafhrd era meglio
dotato per quel tipo di scalata, e poté proseguire anche nel momento in cui il Mou-
ser si rese conto che il proprio corpo era teso quasi orizzontalmente, dalle spalle
alle suole degli stivali, con Hrissa piazzata su di lui come un viaggiatore su di un
ponticello. Non riusciva a salire ancora... e non sapeva neppure come avesse fatto
ad arrivare fin lì.
Fafhrd ridiscese come un grosso ragno al richiamo del Mouser, e non si mostrò
molto impressionato della sua situazione: anzi, un lampo rilevò il sogghigno sulla
sua larga faccia barbuta.
«Resta un po’ qui» disse. «Non siamo molto lontani dalla vetta. Credo di averla
scorta al penultimo lampo. Salirò e poi ti tirerò su, mettendo tutta la corda fra te e
me. C’è una crepa, vicino alla tua testa... vi pianterò un chiodo, per sicurezza. In-
tanto, riposati.»
Poi Fafhrd si mise all’opera in fretta e riprese a salire prima che il Mouser tro-
vasse il tempo di proferire qualcuna delle osservazioni sardoniche che gli ribolli-
vano nel ventre contratto.
Una serie di lampi mostrò la lunga figura del Nordico che rimpiccioliva a velo-
cità consolante, fino a quando apparve poco più grossa di un ragno all’estremità
della galleria che costituisce la sua trappola. Un altro lampo, e Fafhrd scomparve,
ma il Mouser non riuscì a comprendere se aveva raggiunto la sommità o se era pas-
sato oltre un gomito.
La corda continuò tuttavia a svolgersi verso l’alto, fino a quando rimase solo un
piccolo rotolo al di sotto del Mouser. Si sentiva abominevolmente indolenzito e
intirizzito, ma digrignò i denti, per reprimere il dolore. Hrissa scelse proprio quel
momento per aggirarsi irrequieta avanti e indietro sul suo ponticello umano. Vi fu
un lampo accecante, e uno scroscio di tuono che squassò la Rampa delle Stelle,
Hrissa si acquattò.
La corda si tese, tirando la cintura del Mouser, e questi si accinse ad affidarle il
suo peso, stringendosi Hrissa al petto, ma poi decise di attendere il richiamo di
Fafhrd. Fu una saggia decisione da parte sua, perché in quell’attimo, la corda si al-
lentò e cominciò a cadere sul ventre del Mouser come un getto di acqua nera. Hris-
sa, per evitarla, gli si rannicchiò sulla faccia. La fune continuò a cadere, per un’e-
ternità, ma finalmente la sua estremità superiore colpì il Mouser sotto lo sterno,
con uno schiocco secco. L’unico fatto positivo fu che non piombò giù anche
Fafhrd. Un altro lampo accecante scosse la montagna e mostrò che la parte superio-
re del camino era completamente vuota.
«Fafhrd!» chiamò il Mouser. «Fafhrd!» Gli rispose soltanto l’eco.
Il Mouser rifletté per qualche istante, poi alzò la mano e tastò la roccia, accanto
all’orecchio, cercando il chiodo che il Nordico aveva piantato con un colpo disin-
volto. Qualunque cosa fosse accaduta a Fafhrd, sembrava non rimanesse altro che
legare la corda al chiodo e scendere fin dove il camino diventava più facile.
Il chiodo si staccò al primo tocco e precipitò con un tintinnio stridulo giù per il
camino, fino a quando un nuovo scroscio di tuono annegò quel lieve suono.
Il Mouser decise di scendere “camminando”. Dopotutto, era salito in quel mo-
do, per le ultime decine di braccia.
Il primo tentativo di muovere una gamba gli rivelò che i muscoli erano contratti
dai crampi. Non sarebbe mai riuscito a piegarla e a raddrizzarla di nuovo senza
perdere la presa e precipitare.
Il Mouser pensò all’asta telescopica di Glinthi, perduta nello spazio bianco, e
soppresse quel pensiero.
Hrissa gli si accoccolò sul petto e lo guardò in faccia con un’espressione che un
altro lampo rivelò: era triste e contemporaneamente critica, come se la gatta delle
nevi volesse dire: «Dov’è la tanto vantata ingegnosità umana?»

Fafhrd si era appena issato fuori dal camino sull’ampio, profondo cornicione
protetto da un tetto di roccia, quando una porta alta due braccia, larga un braccio e
spessa una spanna si aprì silenziosamente nella roccia sul fondo della cengia.
C’era un contrasto straordinario tra la scabrosità della roccia e la levigatezza
perfetta della pietra scura che formava la porta e l’architrave, gli stipiti e la soglia.
Ne uscì una dolce luce rosea, e con essa un profumo, i cui pesanti vapori erano
carichi di sogni di navi del piacere, galleggianti su di un mare increspato al tramon-
to.
I fumi muschiati e narcotici, mescolati all’ebbrezza alcolica dell’aria rarefatta,
per poco non indussero Fafhrd a dimenticare il suo scopo, ma toccare la corda nera
fu come toccare Hrissa e il Mouser all’altra estremità. La snodò dalla cintura e si
preparò a legarla intorno ad una robusta colonna di roccia accanto alla porta aperta.
Per disporre della fune necessaria per fare un nodo solido, dovette tenderla al mas-
simo.
Ma i vapori carichi di sogni divennero più densi, ed egli non sentì più il Mouser
e Hrissa nella corda. Anzi, cominciò a dimenticare completamente i suoi due com-
pagni di avventura.
E poi una voce argentina... una voce che conosceva bene, poiché una volta l’a-
veva udita ridere e una volta ridacchiare... lo chiamò: «Vieni, barbaro. Vieni da
me.»
L’estremità della corda nera gli scivolò dalle dita senza che il Nordico se ne ac-
corgesse e sibilò sommessamente sopra la roccia, poi giù nel camino.
Chinandosi leggermente, egli varcò la soglia e la porta si chiuse dietro di lui,
giusto in tempo per escludere il richiamo disperato del Mouser.
Era in una stanza illuminata da globi rosei appesi all’altezza della sua testa. La
luce dolce e calda colorava gli arazzi ed i tappeti della camera, ma soprattutto la
coperta chiara del grande letto che costituiva tutto l’arredamento.
Accanto al letto stava in piedi una donna snella, con una vestaglia di seta nera
che nascondeva tutto di lei, tranne il viso, ma non celava le curve morbide del suo
corpo. Una maschera di trina nera nascondeva il resto.
La donna guardò Fafhrd per sette tonanti battiti del cuore, poi sedette sul letto.
Un braccio affusolato e una manica rivestiti di merletto nero uscirono dalla vesta-
glia, batterono dolcemente sulla trapunta e restarono lì. La maschera non deviava
mai dal volto di Fafhrd.
Fafhrd si sfilò lo zaino e si sfibbiò la cintura reggi-ascia.

Il Mouser terminò di infilare la lama sottile del pugnale nella crepa accanto al-
l’orecchio, usando come martello la pietra focaia prelevata dalla borsa, così che le
scintille cadevano ad ogni colpo della pietra contro il pomolo, in piccoli lampi che
sembravano rispondere ai giganteschi bagliori ancora balenanti su e giù per il ca-
mino, mentre lo scroscio dei tuoni sembrava echeggiare i colpi del Mouser. Hrissa
gli si era accovacciata sulle caviglie, e di tanto in tanto il Mouser la guardava ma-
lamente, come per dire: “E allora, gatta?”
Una raffica di vento carico di neve salì ruggendo per il camino: sollevò mo-
mentaneamente l’agile bestia pelosa una spanna più in alto del Mouser, e per poco
non scardinò anche lui; ma egli tese ancora di più i muscoli, ed il ponte resistette,
incurvandosi un poco verso l’alto.
Il Mouser aveva appena terminato di annodare un’estremità della corda nera in-
torno alla guardia e all’impugnatura della daga (e si sentiva le dita e gli avambracci
quasi inservibili per la stanchezza) quando una finestra alta tre spanne e larga quasi
due braccia si aprì silenziosamente sulla parete interna del camino, mentre la spes-
sa imposta di roccia scivolava a lato, a meno di una spanna dalla spalla del Mouser.
Una luce rossa scaturì dalla finestra e illuminò quattro facce dai neri occhi por-
cini e sovrastate da teste basse e calve.
Il Mouser le guardò. Decise, spassionatamente, che erano tutte e quattro di una
bruttezza estrema. Soltanto i grossi denti bianchi, balenanti tra le labbra aperte in
ghigni da un orecchio all’altro, avevano una certa bellezza.
Hrissa balzò immediatamente attraverso la finestra rossa e sparì. Le due facce
in mezzo alle quali era passata la gatta dei ghiacci non sbatterono i tondi occhietti
neri.
Poi otto braccia corte e robuste si protesero, staccarono agevolmente il Mouser,
lo sollevarono e lo portarono dentro. Lui lanciò un grido sommesso, per l’improv-
viso intensificarsi del dolore dei crampi. Vide i tozzi corpi dei nani rivestiti di bra-
che e farsetti neri e pelosi (uno portava una gonna nera e pelosa): ma tutti avevano
i piedi nudi, forcuti e dalle grosse unghie. Poi svenne.
Riprese i sensi forse perché lo stavano massaggiando tormentosamente su di
una tavola durissima: era nudo, e spalmato di olio tiepido. Si trovava in una stanza
bassa, male illuminata, ed era ancora circondato dai quattro nani, come poté intui-
re, prima ancora di aprire gli occhi, grazie alle otto mani callose che gli strizzavano
e gli battevano i muscoli.
Il nano che gli massaggiava la spalla destra e contemporaneamente gli batteva
sulla spina dorsale aggrinzi le palpebre verrucose e snudò i bei denti candidi, più
grandi di quelli d’un gigante, in quello che forse voleva essere un ghigno amiche-
vole. Poi disse in un atroce dialetto Mingol: «Io sono Schiacciaossa. Questa è mia
moglie Scioglilardo. Intenti a massaggiare il tuo corpo a babordo sono i miei fratel-
li Stritolagambe e Spaccacrani. Adesso bevi questo vino e seguimi.»
Il vino era pungente, tuttavia scacciò le vertigini del Mouser, e certamente era
una fortuna essersi liberato da quel massaggio omicida... nonché, a quanto sembra-
va, anche dei crampi ai muscoli.
Schiacciaossa e Scioglilardo lo aiutarono a scendere dalla tavola, mentre Strito-
lagambe e Spaccacrani lo strofinavano rapidamente con asciugamani ruvidi. La
stanza bassa e calda oscillò per un momento: poi il Mouser si sentì magnificamen-
te.
Schiacciaossa si avviò nella semioscurità, al di là delle torce fumiganti. Senza
rivolgergli una sola domanda, il Mouser seguì il nano. Oppure, quelli erano gli
Gnomi dei Ghiacci di cui parlava Fafhrd? si chiese.
Schiacciaossa scostò, nel buio, un pesante tendaggio. Ne uscì un ventaglio di
luce ambrata. Il Mouser passò dalla ruvidezza della roccia alla morbidezza più
piumosa. Il tendaggio frusciò, richiudendosi alle sue spalle.
Era solo in una camera dolcemente illuminata da globi pendenti simili a grandi
topazi... tuttavia, ebbe la sensazione che sarebbero rimbalzati come vescie, se li a-
vesse toccati. C’era un divano amplissimo, e più oltre un tavolino basso, appoggia-
to contro una parete rivestita di arazzi. Davanti al tavolino stava uno sgabello d’a-
vorio, e alla parete era appeso un grande specchio d’argento; sul piano erano dispo-
ste piccole, fantastiche boccette e molti, minuscoli barattoli d’avorio.
No, la stanza non era completamente vuota. Hrissa, perfettamente in ordine,
stava acciambellata in un angolo. Ma non guardava il Mouser: fissava un punto al
di sopra dello sgabello.
Il Mouser si sentì scosso da un brivido: ma non era un brivido di paura.
Una piccola chiazza di verde chiarissimo balzò da uno dei barattoli verso il
punto che Hrissa fissava intenta, e lì scomparve. Ma poi egli vide una striatura di
verde riflesso apparire nello specchio. La manovra enigmatica venne ripetuta, e
ben presto sulla superficie argentea aleggiò una maschera verde, un po’ obnubilata
dall’opacità del metallo.
Poi la maschera svanì dallo specchio e nello stesso istante ricomparve nitida
nell’aria, al di sopra dello sgabello d’avorio. Era la stessa maschera che il Mouser
ricordava con chiarezza dolorosa... il mento affilato, gli zigomi arcuati, il naso di-
ritto, la fronte.
Le labbra imbronciate, scure come vino, si schiusero un poco, e una sommessa
voce gutturale chiese: «Il mio viso ti dispiace, uomo di Lankhmar?»
«Tu scherzi crudelmente, Principessa» rispose il Mouser, recuperando tutto il
suo stile ed abbozzando un inchino di corte, «perché tu sei la stessa Beltà.»
Le dita sottili, parzialmente profilate di verde chiarissimo, si tuffarono nel ba-
rattolo d’unguento e ne estrassero una dose più generosa. La sommessa voce guttu-
rale che corrispondeva tanto bene a metà della risata udita dal Mouser in una nevi-
cata, disse: «Ora giudicherai il resto.»
* * *

Fafhrd si svegliò nel buio e toccò la giovane donna accanto a lui. Non appena si
accorse che anche lei era sveglia, l’afferrò per i fianchi. Quando la sentì irrigidire,
la sollevò in aria e la tenne sospesa sopra di sé, mentre giaceva disteso sul dorso.
Era prodigiosamente leggera, come se fosse fatta di zucchero filato o di piumi-
no, eppure, quando egli la depose di nuovo accanto a sé, ne sentì la carne, salda e
liscia.
«Accendiamo una luce, Hirriwi, ti supplico» le disse.
«Sarebbe imprudente, Faffy» rispose la ragazza con una voce simile al tintinnio
d’una cortina di campanelle d’argento lievemente scosse. «Hai dimenticato che ora
sono completamente invisibile? Quasto potrebbe solleticare alcuni uomini, ma tu,
credo...»
«Hai ragione, hai ragione, ti preferisco reale» rispose il Nordico, afferrandola
ardentemente per le spalle, per meglio sottolineare i suoi sentimenti, e poi ritrasse
le mani di scatto, pensando quanto doveva essere delicata.
I campanellini d’argento tinnirono in una risata, come se la cortina fosse stata
urtata bruscamente. «Non temere» gli disse. «Le mie ossa aeree sono di una so-
stanza più forte dell’acciaio. È un enigma che i vostri filosofi non saprebbero spie-
gare e che è connesso con l’invisibilità della mia razza e degli animali da cui è di-
scesa. Pensa quanto può essere forte il vetro temperato, e tuttavia la luce l’attraver-
sa. Il mio maledetto fratello Faroomfar ha la forza di un orso, sebbene sia così snel-
lo, e mio padre Oomforafor è un leone, nonostante i suoi secoli. Lo scontro tra il
tuo amico e Faroomfar non è stato una prova decisiva... ma, oh, quanto ha urlato, e
nostro padre si è infuriato con lui. E poi ci sono i cugini... Non appena questa notte
finirà, e non avverrà tanto presto, mio caro, perché la luna sta ancora salendo, tu
devi ridiscendere dalla Rampa delle Stelle. Promettilo. Mi si agghiaccia il cuore al
pensiero dei pericoli che hai già affrontato... e mi si è raggelato non so mai quante
volte, in questi ultimi tre giorni.»
«Eppure non ci avete mai avvertiti» fece Fafhrd, pensieroso. «Avete continuato
ad allettarci per farci proseguire.»
«Non immagini il perché?» chiese Hirriwi. Fafhrd le stava toccando il nasetto
camuso e le guance di mela, e sentì anche il suo sorriso. «O forse ti dispiace che ti
abbia permesso di rischiare un po’ la vita per arrivare a questo letto?»
Fafhrd depose un fervido bacio sulle ampie labbra di lei per dimostrarle che
non era vero, ma dopo un momento Hirriwi lo respinse.
«Aspetta, Faffy caro» disse. «No, aspetta, ti dico. So che sei assetato e impe-
tuoso, ma puoi attendere almeno che la luna si sposti dell’ampiezza di una stella. Ti
ho chiesto di promettermi che discenderai dalla Rampa delle Stelle, all’alba.»
Nelle tenebre vi fu un silenzio piuttosto lungo.
«Ebbene?» insistette la voce argentina. «Che cosa ti serra le labbra?» chiese
impaziente. «Non hai dimostrato altrettanta indecisione in altre cose. Il tempo pas-
sa, e la luna sale.»
«Hirriwi» disse sottovoce Fafhrd, «io debbo scalare la Rampa delle Stelle.»
«Perché?» domandò lei, in tono risonante. «La poesia si è tradotta in realtà. Hai
avuto la tua ricompensa. Prosegui, e ti attenderanno soltanto gelidi pericoli infrut-
tuosi. Ritorna, ed io ti proteggerò dall’aria, sì, ed anche il tuo compagno, fino alle
Solitudini Fredde.» La voce soave esitò un poco. «Oh, Faffy, non ti basto io, per
indurti a rinunciare alla conquista d’una montagna crudele? Oltre a tutto il resto, io
ti amo... se comprendo esattamente il significato dato dai mortali a questa parola.»
«No» le rispose solennemente il Nordico, nell’oscurità. «Tu sei meravigliosa,
più meravigliosa di qualunque altra donna abbia mai conosciuto... e ti amo, e que-
sta non è una frase che uso spesso... eppure tu accendi più forte in me l’aspirazione
a conquistare la Rampa delle Stelle. Lo comprendi?»
Vi fu un breve silenzio.
«Bene» disse finalmente Hirriwi, «tu hai un carattere imperioso e farai quello
che vuoi. E io ti ho avvertito. Potrei dirti di più. indicarti le ragioni contrarie, discu-
tere ancora, ma so che alla fine non riuscirei a piegare la tua ostinazione... e il tem-
po fugge. Dobbiamo balzare sui nostri destrieri e raggiungere la luna. Baciami an-
cora. Lentamente. Così.»

Il Mouser giaceva ai piedi del letto, sotto i globi ambrati e contemplava Keyai-
ra, distesa nel senso della lunghezza, con le snelle spalle verdemela e il sereno vol-
to addormentato appoggiati su numerosi guanciali.
Egli prese un angolo del lenzuolo, lo inumidì con il vino contenuto in una cop-
pa e strofinò la sottile caviglia destra di Keyaira... con tanta delicatezza che non vi
fu alcun mutamento nel ritmo del respiro che le sollevava ed abbassava il seno. In
poco tempo, asportò tutto l’unguento verdolino da un tratto largo la metà del suo
palmo. Poi si chinò a scrutare il risultato della sua opera. Questa volta si aspettava
di vedere la carnagione, o almeno il cosmetico verde spalmato sulla parte inferiore
della caviglia, ma no, attraverso il piccolo rettangolo irregolare che aveva ripulito
scorse soltanto la piumosa coperta del letto che rifletteva la luce ambrata. Era un
mistero affascinante ed anche un po’ inquietante...
Lanciò un’occhiata interrogativa a Hrissa, la quale adesso stava sdraiata ad una
estremità del tavolino, circondata dalle fantastiche boccette di profumo, tenendo il
mento lanuginoso sulle zampe ripiegate. Al Mouser parve che la gatta lo guardasse
con disapprovazione, e perciò si affrettò a spalmare di nuovo l’unguento dalle altre
parti della gamba di Keyaira, fino a coprire nuovamente di verde quello spazio
vuoto.
Si udì un riso sommesso. Keyaira si era sollevata sui gomiti, e lo guardava tra
le palpebre socchiuse dalle lunghe ciglia.
«Noi invisibili» disse con voce gaia, veramente o fintamente appesantita dal
sonno, «mostriamo soltanto lo strato esterno dei cosmetici o degli indumenti che ci
mettiamo addosso. È un mistero che neppure i nostri veggenti sanno spiegare.»
«Tu sei la stessa regina del Mistero che si aggira tra le stelle» affermò il Mou-
ser, accarezzandole delicatamente il piedino verde. «Ed io sono il più fortunato de-
gli uomini. Ma temo che sia un sogno, e che mi risveglierò sulle gelide cengie della
Rampa delle Stelle. Come mai sono qui?»
«La nostra razza sta per estinguersi» disse lei. «I nostri uomini sono divenuti
sterili. Hirriwi ed io siamo le uniche principesse rimaste. Nostro fratello Faroom-
far. aspira ardentemente a divenire il nostro consorte... si vanta ancora della sua
virilità. È con lui che hai duellato... Ma nostro padre Oomforafor ha dichiarato:
“Deve essere sangue nuovo... sangue di eroi”. Perciò i nostri cugini e Faroomfar,
quest’ultimo controvoglia, debbono volare qua e là e lasciare quelle piccole esche
in rima, scritte su pergamena, in località pericolose e solitarie, capaci di attirare gli
eroi.»
«Ma come possono accoppiarsi i visibili e gli invisibili?» domandò il Mouser.
Keyaira rise deliziata. «La tua memoria è tanto labile, Mouse?»
«Voglio dire, come possono avere una progenie» si corresse lui, un po’ infasti-
dito, ma non molto, perché lei aveva scoperto per puro caso il nomignolo della sua
fanciullezza. «E inoltre, questa progenie non sarà un po’ nebulosa, un miscuglio di
visto e non visto?»
La maschera verde di Keyaira ondeggiò un poco a destra e a sinistra. «Mio pa-
dre è convinto che le unioni saranno fertili, e che i figli saranno completamente in-
visibili, poiché questa caratteristica è dominante rispetto alla visibilità; e tuttavia
trarranno altri grandi vantaggi dall’apporto di un ardente sangue eroico.»
«Allora tuo padre ti ha comandato di accoppiarti con me?» chiese il Mouser un
po’ deluso.
«No, affatto, Mouse» gli assicurò Keyaira. «Sarebbe furibondo, se sognasse che
tu sei qui, e Faroomfar impazzirebbe per la rabbia. No, io mi sono incapricciata di
te, e Hirriwi si è incapricciata del tuo compagno, la prima volta che ti ho spiato nel-
le Solitudini Fredde... è stata una grande fortuna, per voi, perché se aveste conqui-
stato la Rampa delle Stelle, mio padre avrebbe preso il vostro seme in modo ben
diverso. Il che mi ricorda una cosa, Mouse: devi promettermi di discendere dalla
Rampa delle Stelle all’alba.»
«Non è una promessa facile» ribatté il Mouser. «Fafhrd si ostinerà, lo so. E poi
c’è quell’altra faccenda del sacco di diamanti, se è a questo che allude la borsa pie-
na di stelle... oh, è ben poca cosa, lo so, in confronto agli amplessi di una fanciulla
splendida, e tuttavia...»
«Ma se ti dico che ti amo?... Il che è la pura verità...»
«Oh, Principessa» sospirò il Mouser, posandole una mano sul ginocchio. «Co-
me posso abbandonarti all’alba? Una notte soltanto...»
«Oh, Mouse» l’interruppe Keyaira, sorridendo maliziosamente e spostando un
poco la figura verde, «non sai che ogni notte è un’eternità? Nessuna donna te l’ha
ancora insegnato, Mouse? Mi stupisci. Pensa, ci resta ancora mezza eternità... che è
egualmente un’eternità intera, come avrebbe dovuto spiegarti il tuo geometra, sia
che avesse la barba candida od un seno grazioso.»
«Ma se debbo generare molti figli...» incominciò il Mouser.
«Hirriwi ed io siamo un po’ come le api regine» spiegò Keyaira. «Ma non pen-
sarci. Abbiamo l’eternità, stanotte, è vero, ma soltanto se la rendiamo tale. Vienimi
più vicino.»
Un poco più tardi, plagiando se stesso, il Mouser disse sottovoce: «Il solo difet-
to dell’alpinismo è che le parti migliori passano così in fretta.»
«Possono durare un’eternità» gli mormorò all’orecchio Keyaira. «Fai in modo
che durino, Mouse.»

Fafhrd si svegliò tremante di freddo. I globi rosei erano grigi, agitati da raffiche
gelide che entravano dalla porta aperta. La neve portata dal vento si era posata sui
suoi abiti sparpagliati sul pavimento ed era ammucchiata per quasi una spanna sul-
la soglia, dalla quale entrava anche l’unica luce... la luce plumbea del giorno.
Una grande gioia, dentro di lui, lottò con tutte quelle cose grigie e tetre, e le
sconfisse.
Comunque, era nudo e rabbrividiva. Balzò in piedi e sbatté gli abiti contro il
letto e si infilò nella loro rigidezza gelida.
Mentre si affibbiava la cintura, ricordò il Mouser incastrato laggiù, nel camino.
Per tutta la notte, anche quando aveva parlato di lui a Hirriwi, inspiegabilmente
non ci aveva mai pensato.
Raccattò lo zaino e balzò fuori, sulla cengia. Con la coda dell’occhio scorse
qualcosa che si muoveva dietro di lui. Era la porta massiccia che si chiudeva.
Una raffica titanica di vento dal pugno di neve lo colpì. Si afferrò alla grezza
colonna di roccia cui aveva pensato di legare la corda la sera prima, e l’abbracciò
stretta. Gli dèi aiutassero il Mouser, laggiù! Qualcuno arrivò scivolando lungo il
cornicione, nel vento e nella neve, e abbracciò a sua volta la colonna, un po’ più in
basso.
La raffica passò. Fafhrd cercò la porta con lo sguardo. Non ce n’era traccia.
Tutta la neve ammucchiata si era sparsa di nuovo. Tenendosi stretto con una mano
al pilastro e allo zaino, il Nordico tastò con l’altra la parete scabra. Né con gli occhi
né con le unghie riuscì a scoprire la fenditura più sottile.
«Così sei stato buttato fuori anche tu?» disse gaiamente una voce familiare. «Io
sono stato buttato fuori dagli Gnomi dei Ghiacci, se vuoi saperlo.»
«Mouser!» esclamò Fafhrd. «Allora non eri?... Io credevo...»
«Tu non hai mai pensato a me per tutta la notte, se non ti conosco male» ribatté
il Mouser. «Keyaira mi ha assicurato che eri al sicuro, e ha aggiunto qualcosa di
più. Hirriwi avrebbe potuto dirti lo stesso di me, se glielo avessi chiesto. Ma natu-
ralmente non lo hai fatto.»
«Allora anche tu?...» domandò Fafhrd, con un gran sorriso beato.
«Sì, Principe Cognato» gli rispose il Mouser, ricambiando il sogghigno.
Si presero scherzosamente a pugni, inseguendosi intorno alla colonna... per
combattere il freddo, ma anche per sfogare la loro allegria.
«Hrissa?» chiese Fafhrd.
«Dentro al calduccio, la furbacchiona. Qui non mettono fuori il gatto, solo
l’uomo. Però mi domando... Pensi che Hrissa appartenesse già a Keyaira e che pre-
vedesse e pianificasse...» Non finì la frase.
Non erano sopravvenute altre raffiche. La nevicata era così lieve che si poteva
vedere quasi ad una lega di distanza... su, fino al Cappello, al di sopra delle cengie
orlate di neve della Faccia, e giù, fin dove svaniva la Scala.
Ancora una volta le loro menti vennero invase e quasi sopraffatte dall’immensi-
tà della Rampa delle Stelle e dal pensiero della situazione in cui si trovavano... due
esserini minuscoli e semicongelati posati precariamente su un gelido mondo verti-
cale legato a Nehwon solo alla lontana.
A sud brillava in cielo un pallido disco argenteo... il sole. Erano rimasti a letto
fino a mezzogiorno.
«È più facile ricavare un’eternità da una notte di diciotto ore» osservò il Mou-
ser.
«Abbiamo galoppato fin quando la luna si è immersa nelle profondità del ma-
re» fece meditabondo Fafhrd.
«La tua ragazza ti ha promesso di farti scendere?» chiese all’improvviso il
Mouser.
Fafhrd annuì. «Ha tentato.»
«Anche la mia. E non è una cattiva idea. La vetta è pericolosa, a sentir lei. Ma il
camino sembra intasato dalla neve. Tienimi per le caviglie, mentre guardo. Sì. È
completamente riempito. E allora? ...»
«Mouser» disse Fafhrd, quasi lugubremente, «ci sia o no una via per scendere,
io debbo scalare la Rampa delle Stelle.»
«Sai» rispose il Mouser, «comincio anch’io a condividere questa pazzia. Inol-
tre, può darsi che la parete est della Rampa delle Stelle presenti una via di discesa
più facile verso quella lussureggiante Valle Spaccata. Perciò facciamo quel che
possiamo, con le sette ore scarse di luce che ci rimangono. Il giorno non è materia-
le adatto per fabbricare un’eternità.»

Scalare le cengie della Faccia fu insieme l’ascesa più facile e più difficile che
avessero mai compiuto. I cornicioni erano larghi, ma alcuni erano inclinati verso
l’alto, ed ai piedi avevano uno strato di scorie che scivolavano via piombando nel
vuoto al minimo tocco, e di tanto in tanto c’erano brevi traversate da compiere ri-
correndo alla forza bruta e a strette fenditure, talvolta penzolando nel vuoto e te-
nendosi aggrappati solo con le mani.
E la stanchezza e il freddo e la debolezza delle vertigini venivano molto più ra-
pidamente, a quell’altezza. Erano costretti a fermarsi spesso per bere e per riscal-
darsi. Su di una profonda cengia, che doveva essere l’occhio destro della Rampa
delle Stelle, dovettero perdere un po’ di tempo ad accendere il braciere con le ulti-
me pallottole di resina rimaste... un po’ per intiepidire cibo e bevande, ma soprat-
tutto per scaldare se stessi.
Le fatiche della notte precedente avevano contribuito ad infiacchirli, pensavano
talvolta, ma poi i ricordi di quelle fatiche ritornavano per ridonare loro la forza.
E poi c’erano le improvvise, traditrici raffiche di vento, e la nevicata incessante
ma variabile, che talvolta nascondeva la vetta e talvolta la mostrava loro nitida con-
tro il cielo argenteo, con la grande tesa incurvata del Cappello ormai librata minac-
ciosamente sopra di loro... una cornice simile a quella della sella innevata, solo che
adesso loro si trovavano dalla parte sbagliata.
Si fece più forte l’illusione che la Rampa delle Stelle fosse un mondo separato
da Nehwon, nello spazio pieno di neve.
Finalmente il cielo divenne azzurro, ed essi sentirono il tepore del sole sulla
schiena: avevano finalmente superato la nevicata. Fafhrd additò una minuscola
nicchia azzurra nella tesa del Cappello, una nicchia appena visibile al di sopra della
più vicina sporgenza rocciosa striata di neve. E gridò: «L’apice della Cruna d’A-
go!»
In quell’istante, qualcosa piombò su un banco di neve accanto a loro, e vi fu un
tonfo smorzato di metallo sulla roccia, mentre dalla neve spuntava l’estremità in-
taccata e piumata di una freccia.
I due si affrettarono a porsi al riparo di una sporgenza rocciosa più ampia, men-
tre una seconda e una terza freccia urtavano la pietra nuda su cui stavano un attimo
prima.
«Gnarfi e Kranarch ci hanno battuti, maledetti loro» sibilò Fafhrd, «e ci hanno
preparato un’imboscata nella Cruna, il punto più ovvio. Dobbiamo fare il giro e
portarci più in alto di loro.»
«Non credi che se lo aspettino?»
«Sono stati sciocchi a far scattare la trappola troppo presto. Inoltre, non abbia-
mo altre tattiche.»
Perciò cominciarono a salire verso sud, sempre tenendo la roccia e la neve tra
sé e il punto in cui calcolavano fosse la Cruna d’Ago. Finalmente, mentre il sole
scendeva rapido verso l’orizzonte, a occidente, tornarono di nuovo verso nord,
sempre continuando a salire, sul banco di neve sempre più spésso che sopra di loro
invertiva la curvatura formando la tesa del Cappello ormai allungata minacciosa-
mente sopra di loro fino a coprire due terzi del cielo. Sudavano e tremavano di vol-
ta in volta, e lottavano contro attacchi quasi incessanti di vertigine e di debolezza,
ma si sforzavano di muoversi silenziosamente e cautamente, il più possibile.
Finalmente aggirarono un’altra sporgenza di neve e si trovarono affacciati su di
un pendio, al di sopra della nuda distesa di roccia normalmente spazzata dal vento
che passava attraverso la Cruna dell’Ago per formare il Piccolo Orifiamma.
Sul bordo estremo della roccia scoperta c’erano due uomini, vestiti entrambi di
cuoio marrone che qua e là era strappato e mostrava la fodera di pelliccia. Kra-
narch, dinoccolato, con la barba nera e la faccia d’alce, stava ritto e si batteva le
braccia contro il petto per scaldarsi. Accanto a lui giacevano l’arco, con la corda
tesa, e alcune frecce. Il tozzo Gnarfi dalla faccia di cinghiale era inginocchiato e
scrutava oltre il ciglio del precipizio. Fafhrd si chiese dov’erano finiti i due servito-
ri tozzi e brunovestiti.
Il Mouser si frugò nella borsa. Nello stesso istante Kranarch li scorse e raccattò
l’arma, ma più lentamente di quanto avrebbe fatto in un’atmosfera più densa. Con
la stessa lentezza, il Mouser estrasse il sasso grosso come un pugno che aveva rac-
colto parecchi cornicioni più sotto, in preparazione di quel momento.
La freccia di Kranarch passò sibilando tra la sua testa e quella di Fafhrd. Un at-
timo dopo, il sasso scagliato dal Mouser colpì in pieno Kranarch alla spalla che
reggeva l’arco. L’arma gli cadde dalle mani, il braccio restò penzoloni. Poi Fafhrd
e il Mouser si lanciarono avventatamente giù per il declivio innevato, il primo
brandendo l’ascia staccata dal cinghiolo, il secondo sguainando il Cesello.
Kranarch e Gnarfi li ricevettero con le spade in pugno; Gnarfi, inoltre, stringeva
un pugnale nella sinistra. La battaglia che seguì ebbe la stessa lentezza di sogno
dello scambio di proiettili. Inizialmente, lo slancio diede un certo vantaggio a
Fafhrd ed al Mouser. Poi la forza di Kranarch e Gnarfi (o il fatto che erano più ri-
posati) si fece sentire, e poco mancò che i due ricacciassero i loro avversari nel
vuoto. Fafhrd ricevette un fendente alle costole che lacerò la robusta tunica di pelle
di lupo, tagliando la carne e stridendo sull’osso.
Ma poi la superiore destrezza ebbe il sopravvento, ed i due uomini vestiti di
marrone subirono ferite, e all’improvviso si girarono e passarono correndo attra-
verso l’appuntita arcata triangolare della Cruna dell’Ago. E mentre correva, Gnarfi
gridava: «Graah! Krik!»
«Senza dubbio chiama quei servitori o soccorsi dall’abito peloso» ansimò il
Mouser, riposando sul ginocchio il braccio con cui reggeva il Cesello; era quasi
esausto. «Avevano l’aria di grassi campagnoli, poco avvezzi alle armi. Non abbia-
mo molto da temere da loro, credo, anche se accorreranno alla chiamata di Gnarfi.»
Fafhrd annuì, ansimando a sua volta. «Eppure hanno scalato la Rampa delle Stelle»
aggiunse in tono dubbioso.
Proprio in quel momento arrivarono al galoppo attraverso l’arcata nevosa, reg-
gendosi sulle zampe posteriori, con le unghie che stridevano sulla roccia spazzata
dal vento e le rosse fauci zannute e bavose spalancate, e le braccia dai grandi artigli
protesi... due enormi orsi bruni.
Con una rapidità che gli avversari umani non erano stati in grado di ispirare lo-
ro, il Mouser raccattò l’arco di Kranarch e scagliò fulmineamente due frecce, e
Fafhrd fece roteare in cerchio l’ascia lucente e la lanciò. Poi i due camerati balza-
rono uno da una parte e l’altro dall’altra, il Mouser impugnando il Cesello e Fafhrd
sguainando il coltellaccio.
Ma non fu necessario combattere ancora. La prima freccia del Mouser centrò al
collo il primo degli orsi, la seconda gli trapassò la volta rossa del palato ed il cer-
vello, mentre l’ascia di Fafhrd affondava fino al manico tra due costole dell’altro
orso, sul fianco sinistro. I grossi animali crollarono in avanti, nel loro sangue, in
preda alle convulsioni dell’agonia, rotolarono due volte su se stessi e piombarono
ponderosamente oltre il ciglio dell’abisso.
«Senza dubbio erano entrambe orse» osservò il Mouser, guardandoli precipita-
re. «Oh, questi uomini bestiali di Illik-Ving! Comunque, incantare o addestrare be-
stie del genere in modo che portino carichi e scalino le montagne e donino persino
le loro povere vite...»
«Kranarch e Gnarfi non sono sportivi, questo ormai è certo» sentenziò Fafhrd.
«Non elogiare i loro trucchi.» Mentre si infilava uno straccio dentro la tunica, per
proteggere la ferita, fece smorfie varie ed imprecò così ferocemente che il Mouser
non pronunciò la sua battuta: Beh, gli orsi sono soltanto socc-orsi abbreviati. Ho
sempre ragione io.
Poi i due camerati avanzarono lentamente, passando sotto l’alto arco triangolare
di neve, per scrutare il più alto dominio di tutto Nehwon, di cui si erano insignori-
ti... rifiutandosi di pensare, per lo stordimento e la stanchezza, in quel momento di
trionfo, agli esseri invisibili che erano i veri signori della Rampa delle Stelle. A-
vanzarono cautamente, ma non troppo, perché Gnarfi e Kranarch erano fuggiti
spaventati ed erano feriti seriamente... e Kranarch aveva perduto l’arco.
La cima della Rampa delle Stelle, dietro la grande onda nivea del Cappello era
quasi ampia, da nord a sud, quasi quanto la vetta dell’Obelisco Polare, tuttavia il
bordo orientale sembrava lontano poco più di un tiro di freccia. Una crosta spessa
di neve, sotto uno strato più soffice, la copriva interamente, tranne l’estremità nord
e brevi tratti del bordo orientale, dove si scorgeva la nuda roccia scura.
La superficie della neve e della roccia era ancora più piatta di quella dell’Obeli-
sco, e leggermente inclinata da nord a sud. Non c’erano edifici o esseri visibili, né
tracce di cavità in cui potessero nascondersi. Per la verità, né il Mouser né Fafhrd
riuscivano a rammentare di avere mai visto un luogo più solitario e spoglio.
L’unica stranezza che notarono in un primo momento era costituita da tre buchi
nella neve, un poco a sud: ognuno era grande all’incirca quanto una testa di porco,
ma aveva la forma di un triangolo equilatero, ed apparentemente scendeva fino alla
roccia. I tre buchi erano disposti come i vertici di un altro triangolo equilatero.
Il Mouser scrutò attentamente, poi alzò le spalle. «Ma una borsa di stelle do-
vrebbe essere piuttosto piccola, suppongo» disse. «Mentre un cuore di luce... im-
possibile dire che dimensioni ha.»
L’intera vetta era immersa nell’ombra azzurrognola, tranne l’estremità setten-
trionale e una grande striscia di luce dorata irradiata dal sole calante, che andava
dalla Cruna dell’Ago, attraverso la neve spianata dal vento, fino all’orlo orientale.
Al centro di quella strada di sole procedevano le orme di Kranarch e di Gnarfi,
e qua e là la neve era chiazzata di sangue. Altrimenti, la neve davanti a loro non
presentava impronte. Fafhrd e il Mouser seguirono quelle tracce, camminando ver-
so est, sulle loro lunghe ombre.
«Non c’è segno di loro, più avanti» disse il Mouser. «A quanto pare c’è vera-
mente una via che scende dalla parete est, e loro l’hanno presa... o almeno, si sono
spinti abbastanza avanti per preparare un’altra imboscata.»
Mentre si avvicinavano al ciglione orientale, Fafhrd disse: «Vedo altre impron-
te dirette a nord... da quella parte, a un tiro di lancia. Forse hanno deviato.»
«Ma per andar dove?» chiese il Mouser.
Pochi passi ancora, ed il mistero fu orrendamente risolto. Arrivarono dove fini-
va la neve e là, sulla scura roccia insanguinata, nascoste fino a quel momento dal
margine ammucchiato di neve, erano distese le carcasse di Gnarfi e di Kranarch,
con gli abiti strappati dalla parte centrale del corpo, i corpi oscenamente mutilati.
Mentre si sentiva contrarre la gola per la nausea, il Mouser ricordò là frase di-
sinvolta di Keyaira: “Se aveste conquistato la Rampa delle Stelle, mio padre a-
vrebbe preso il vostro seme in modo ben diverso.”
Scuotendo il capo e lanciando in giro occhiate tremende, Fafhrd girò intorno ai
cadaveri, si diresse al bordo orientale, e guardò giù.
Arretrò di un passo, poi s’inginocchiò e tornò a guardare.
La teoria speranzosa del Mouser venne clamorosamente smentita. Mai, in tutta
la sua vita, Fafhrd aveva guardato dall’alto per una simile distanza.
Poche braccia più sotto, la parete orientale spariva verso l’interno. Era impossi-
bile capire per quanto sporgesse il bordo dalla roccia della Rampa delle Stelle.
Da quel punto c’era un precipizio ininterrotto fino all’oscurità verde della Gran-
de Valle Spaccata... almeno cinque leghe di Lankhmar. Forse di più.
Udì il Mouser dire, sopra la sua spalla: «Un percorso per uccelli o suicidi.
Nient’altro.»
Improvvisamente il verde, là sotto, divenne vivace, senza tuttavia mostrare al-
cun particolare, salvo un capello argenteo, che poteva essere un grande fiume, e
che si snodava al centro. Levarono di nuovo lo sguardo, e videro che il cielo era
completamente indorato da un potente riflesso del sole. Si voltarono e rimasero a
bocca aperta per la meraviglia.
Gli ultimi raggi del sole, passando attraverso la Cruna d’Ago, volgendo verso
sud, e dal basso in alto, illuminavano di striscio una forma solida, simmetrica e tra-
sparente, grande come la più grande delle querce, e posata esattamente sui tre bu-
chi triangolari nella neve. Sarebbe possibile descriverla soltanto come una stella
solida, dai contorni nitidi, a circa diciotto punte, appoggiata sopra tre di esse sulla
Rampa delle Stelle, e costruita del diamante più puro o di una sostanza analoga.
Entrambi ebbero lo stesso pensiero: quella doveva essere una stella che gli dèi
non avevano lanciato. La luce del sole aveva sfiorato il fuoco nel suo cuore e l’ave-
va fatto risplendere, ma per un momento soltanto, e debolmente, non per sempre e
con un bagliore incandescente, come sarebbe avvenuto nel cielo.
Uno squillo di tromba argentino e penetrante spezzò il silenzio della vetta.
I due avventurieri girarono lo sguardo verso nord. Profilato dalla stessa luce del
sole, carica ed aurea, più spettrale della stella, e tuttavia chiaramente visibile in al-
cune sue parti contro lo sfondo del cielo giallo, un castello alto e svettante innalza-
va le mura e le torri trasparenti dall’estremità rocciosa della cima. Le guglie più
alte sembravano perdersi lassù.
Poi vi fu un altro suono... un ringhio lamentoso. Un animale chiarissimo balzò
verso di loro, sulla neve, da nordovest. Scostandosi con un salto e un altro ringhio
dai cadaveri straziati, Hrissa corse precipitosamente verso sud, passando loro da-
vanti e lanciando un terzo ringhio.
Quasi troppo tardi, i due compagni videro il pericolo contro cui la gatta dei
ghiacci aveva cercato di metterli in guardia.
Da occidente e da settentrione, sulla neve immacolata, avanzavano dozzine di
orme. Non c’erano piedi, in quelle orme, né corpi sopra di esse, eppure venivano
avanti... impronta destra, impronta sinistra, in successione, sempre più rapidamen-
te. E poi i due scorsero ciò che in un primo momento era sfuggito loro, a causa del-
la prospettiva scorciata: al di sopra di ogni paio di impronte veniva una lancia dal-
l’asta sottile e dalla punta affilata, diretta verso di loro, e avanzava con la stessa
rapidità delle orme.
Corsero verso sud, come Hrissa: Fafhrd per primo. Dopo una mezza dozzina di
grandi passi scattanti, il Nordico udì un grido dietro di lui. Si fermò, e poi si girò di
scatto.
Il Mouser era sdrucciolato sul sangue dei loro defunti avversari ed era caduto.
Quando si rialzò in piedi, le grigie punte delle lance lo cingevano da ogni lato,
tranne dall’orlo. Il Mouser vibrò un paio di frenetici fendenti difensivi con il Cesel-
lo, ma le grigie punte di lancia si avvicinavano implacabili. Ormai formavano un
semicerchio stretto intorno a lui, ad una spanna una dall’altra, ed egli era sul ciglio
dell’abisso. Le punte avanzarono ancora, di scatto, e il Mouser fu costretto ad arre-
trare con un balzo... e cadde.
Vi fu un suono frusciante, e un soffio d’aria gelida investì Fafhrd alle spalle,
mentre qualcosa di morbido e peloso gli strusciava contro i polpacci. Mentre si
preparava a lanciarsi alla carica con il coltello, a uccidere un paio d’invisibili per
vendicare l’amico, due braccia snelle e invisibili lo afferrarono da tergo, e udì la
voce argentea di Hirriwi mormorargli all’orecchio «Fidati di noi» e una seconda
voce, di rame dorato, aggiunse «Andremo a prenderlo» e poi egli si trovò trascina-
to giù, su di un grande, invisibile letto pulsante e irsuto, a tre spanne dalla neve, e
le voci gli dissero «Aggrappati» ed egli si aggrappò al lungo, folto pelame invisibi-
le, e poi all’improvviso il letto vivente sfrecciò in avanti sulla neve, superò l’orlo, e
si inclinò verticalmente, così che Fafhrd si ritrovò con i piedi puntati verso il cielo,
la faccia verso la Grande Valle Spaccata... e poi il letto si precipitò giù, in picchiata
verticale.
L’aria rarefatta gli ruggiva nelle orecchie, gettandogli all’indietro la barba e la
chioma per la velocità della discesa; ma Fafhrd si afferrò più forte al pelame invi-
sibile, ed un braccio snello lo premeva da ogni parte, così che egli sentiva, attraver-
so il pelame, il battito pulsante del cuore del grande essere invisibile ed appiattito
che li trasportava. Si accorse che, chissà come, Hrissa gli si era insinuata sotto il
braccio, perché c’era il piccolo muso felino accanto alla sua faccia, con gli occhi
socchiusi, ed i ciuffi di pelo bianco delle basette e delle orecchie gettati all’indietro
dal vento. E sentiva, accanto al suo, i corpi invisibili delle due ragazze.
Comprese che se occhi mortali avessero osservato la scena avrebbero veduto
soltanto un uomo grande e grosso che teneva stretto un grosso gatto bianco, e pre-
cipitava a testa in giù nello spazio vuoto... ma precipitava assai più velocemente di
quanto fosse possibile, anche cadendo da quell’altezza enorme.
Al suo fianco Hirriwi rise, come se avesse captato il suo pensiero, ma poi la ri-
sata si interruppe all’improvviso, e il ruggito del vento si spense, in un silenzio
quasi assoluto. Fafhrd pensò che fosse avvenuto perché l’aria, addensandosi rapi-
damente, lo aveva assordato.
Le grandi pareti scure che salivano lampeggiando fulminee ad una dozzina di
braccia da lui erano una chiazza indistinta. Eppure, sotto di lui, la Grande Valle
Spaccata era ancora tutta verde, senza particolari... no, i dettagli più grandi comin-
ciavano ad apparire: foreste e radure e fiumi tortuosi sottili come capelli e laghi
piccoli come gocce di rugiada.
Tra sé ed il verde laggiù vide un puntolino scuro. Il puntolino crebbe. Era il
Mouser... caratteristicamente, scendeva a testa in giù, diritto come una freccia, con
le mani giunte tese in avanti, le gambe unite, probabilmente nella vaga speranza di
cadere nell’acqua profonda.
L’essere su cui volavano eguagliò la velocità del Mouser, e poi gradualmente,
corresse il tuffo verso di lui, staccandosi sempre più dalla verticale, in modo che il
Mouser venne a trovarsi premuto contro di loro. Braccia visibili ed invisibili lo af-
ferrarono, tirandolo più vicino, e tutti e cinque si trovarono stretti l’uno all’altro su
quel grande letto vivo.
Poi la picchiata dell’animale si appiattì ancora di più, arrestando la caduta. Vi
fu un lungo istante in cui tutti vennero schiacciati, con lo stomaco gorgogliante,
contro il dorso peloso, mentre gli alberi salivano ancora vertiginosamente verso di
loro: e poi presero a volteggiare sopra le cime delle piante e scesero in una grande
radura.
Ciò che accadde poi a Fafhrd ed al Mouser si svolse precipitosamente, troppo
in fretta: il contatto delle elastiche zolle erbose sotto i piedi, l’aria balsamica che
irrorava i loro corpi, lo scambio di rapidi baci, le risate, le grida di congratulazioni
che suonavano ancora come soffocate voci spettrali, qualcosa di irregolare e di du-
ro, rivestito di una sostanza morbida, messo nelle mani del Mouser, un ultimo ba-
cio... e poi Hirriwi e Keyaira si staccarono, e un grande soffio d’aria appiattì l’erba,
e il grande volatore invisibile s’involò, portando con sé le ragazze.
I due poterono seguire per un poco la sua ascesa spiraleggiante, tuttavia, perché
anche Hrissa era partita sul volatore. La gatta dei ghiacci li sbirciava dall’alto, co-
me per dir loro addio. Poi anche lei scomparve, quando l’aureo residuo di lumino-
sità si spense nel cielo che si oscurava.
I due si appoggiarono l’uno all’altro, per reggersi meglio, nel crepuscolo. Poi si
raddrizzarono, sbadigliando prodigiosamente, e riacquistarono l’udito. Allora udi-
rono il gorgogliare di un ruscello, il cinguettio degli uccelli e un lieve fruscio di
foglie secche che si allontanava da loro, e il ronzio esile d’un moscerino.
Il Mouser aprì la sacca invisibile che aveva tra le mani.
«Sembra che anche le gemme siano invisibili» disse, «anche se le sento bene.
Faticheremo parecchio a venderle... a meno che troviamo un gioielliere cieco.»
L’oscurità si addensò. Minuscoli fuochi freddi cominciarono a brillare tra le sue
mani: smeraldo, zaffiro, ametista, puro diamante.
«No, per Issek!» esclamò il Gray Mouser. «Basterà venderle di notte... che è
indiscutibilmente il tempo migliore per commerciare in gemme.»
La luna appena sorta, anch’essa invisibile oltre le montagne più basse che cin-
gevano a oriente la Valle Spaccata, dipinse pallidamente la metà superiore della
grande, snella colonna della parete orientale della Rampa delle Stelle.
Levando lo sguardo verso quella presenza regale, Fafhrd disse: «Valenti dame,
tutte e quattro.»
I DUE MIGLIORI LADRI DI LANKHMAR

In cui viene pienamente rivelato il segreto, finora tenuto accuratamente celato,


di ciò che gli eroi in verità facciano dei grandi tesori da loro conquistati, e inoltre
i mezzi infallibili con cui li si trascina verso imprese novelle e perigliose.

Per le vie e i vicoli tortuosi della grande città di Lankhmar, la Notte si aggirava,
sebbene non fosse ancora divenuta abbastanza alta da far volteggiare il nero man-
tello tempestato di stelle nel cielo, che mostrava ancora le pallide, torreggianti fan-
tasime del tramonto.
I venditori ambulanti di droghe e di bevande forti vietate di giorno non avevano
ancora incominciato a far tintinnare i campanelli ed a lanciare le esili grida invitan-
ti. Le ragazze del piacere non avevano ancora acceso le lanterne rosse, per uscire
saltellando insolenti. I bravacci, i sicari, i ruffiani, le spie, i truffatori, i lenoni e gli
altri malfattori sbadigliavano e si stropicciavano gli occhi dalle palpebre pesanti,
per scacciarne il sonno. Quasi tutta la Gente della Notte era ancora a colazione,
mentre quasi tutta la Gente del Giorno era a cena. Questo giustificava il vuoto ed il
silenzio per le strade, adatto al passo felpato della Notte; e creava una vasta, nuda
distesa, davanti alla muraglia scura e impenetrabile all’intersezione della Via del-
l’Argento con la Strada degli Dei, un crocicchio dove abitualmente si radunavano i
dirigenti minori e gli operatori principali della Corporazione dei Ladri: e lì si rac-
coglievano anche i pochi ladri indipendenti abbastanza arditi ed abili da sfidare la
Corporazione, e i pochissimi ladri di nascita aristocratica, talvolta dilettanti abilis-
simi, che là Corporazione tollerava e persino adulava, per via della loro nobile a-
scendenza, che conferiva dignità a una professione antichissima ma malfamata.
Al centro dello spoglio tratto di muro, dove nessuno poteva origliare ciò che di-
cevano, si accostarono l’uno all’altro un ladro molto alto ed uno piuttosto piccolo.
E dopo un po’ cominciarono a conversare, in bisbigli da prigionieri.
Tra Fafhrd ed il Gray Mouser era venuto a crearsi un certo distacco, durante il
lungo viaggio tranquillo verso sud, dalla Grande Valle Spaccata. Si era creato a
causa della sazietà della loro reciproca presenza, e soprattutto dei litigi sul modo di
vendere le gemme invisibili, donate da Hirriwi e Keyaira, nel modo più vantaggio-
so... e la disputa aveva finito per diventare così acrimoniosa che i due si erano divi-
si le pietre, e ciascuno aveva portato la propria parte. Quando erano giunti final-
mente a Lankhmar, avevano preso alloggio separatamente, e ognuno aveva preso
contatto con gioiellieri, ricettatori e acquirenti privati. La separazione aveva reso
piuttosto spigolosi i loro rapporti, ma non aveva sminuito affatto la reciproca fidu-
cia.
«Salve, Piccoletto» borbottò sottovoce Fafhrd. «Dunque ti sei deciso a vendere
la tua parte a Ogo il Cieco, o almeno a fargliela vedere... se si può usare una simile
espressione per uno che non ci vede.»
«Come fai a saperlo?» bisbigliò bruscamente il Mouser.
«Era la cosa più ovvia da fare» rispose Fafhrd, con una certa condiscendenza.
«Vendere le gemme ad un acquirente che non notasse né il loro splendore notturno
né l’invisibilità diurna. Un acquirente che dovesse giudicare dal peso, dal tocco, da
ciò che possono scalfire e da ciò che le può scalfire. Inoltre, siamo proprio davanti
alla porta della tana di Ogo. È molto ben difesa, tra l’altro... come minimo, da dieci
spadaccini Mingol.»
«Fammi almeno credito di questi piccoli particolari noti a tutti» rispose sardo-
nicamente il Mouser. «Ebbene, hai indovinato esattamente; si direbbe che, grazie
alla mia lunga frequentazione, tu abbia capito un po’ come funziona la mia intelli-
genza, anche se non credo che questo abbia aguzzato un po’ la tua. Sì, ho già avuto
un colloquio con Ogo, e questa notte concluderemo la transazione.»
Fafhrd disse, tranquillo: «È vero che Ogo conduce tutte le sue trattative nel
buio pesto?»
«Oh! Dunque vi sono alcune cose che ammetti di non sapere! Sì, è verissimo, e
questo rende piuttosto rischioso un incontro con Ogo. Pretendendo l’oscurità asso-
luta, Ogo il Cieco annulla di colpo il vantaggio del suo interlocutore... anzi, il van-
taggio passa ad Ogo, perché è abituato all’oscurità assoluta da tutta la vita... una
vita molto lunga, poiché è molto vecchio, a giudicare dalla voce. No, Ogo non sa
cos’è l’oscurità, poiché non ha mai conosciuto altro. Tuttavia, io ho un mezzo per
ingannarlo, se fosse necessario. Nella mia borsa dai cordoni ben stretti porto fram-
menti di legno luminoso brillantissimo, e posso tirarli fuori in un baleno.»
Fafhrd annuì, con ammirazione, e poi chiese: «E cosa c’è in quell’astuccio piat-
to che tieni stretto sotto il gomito? Una complicata falsa storia di ogni gemma, in-
cisa su pergamena antica, perché Ogo la legga con i polpastrelli?»
«Ti sbagli! No, sono le gemme, protette in modo ingegnosissimo, perché nes-
suno le rubi. Ecco, dai un’occhiata.» E dopo essersi guardato rapidamente intorno e
in alto, il Mouser aprì un poco l’astuccio.
Fafhrd vide le gemme scintillanti di tutti i colori dell’iride inserite artisticamen-
te su di un piano di velluto nero, ma protette da un coperchio interno di finissima,
robusta rete metallica.
Il Mouser richiuse l’astuccio. «Al nostro primo incontro, ho estratto due delle
gemme più piccole e ho lasciato che Ogo le toccasse e le controllasse a modo suo.
Forse spera di rubarmele tutte, ma l’astuccio e la rete glielo impediranno.»
«A meno che non ti rubi l’astuccio intero» ammise Fafhrd. «In quanto a me, mi
tengo incatenata addosso la mia parte di gemme.» E dopo altre occhiate precauzio-
nali, come aveva fatto il Mouser, si rimboccò l’ampia manica sinistra, mostrando
un robusto bracciale di ferro brunito stretto al polso. Dal bracciale pendeva una
breve catena che reggeva, tenendola chiusa, una piccola borsa gonfia. Il cuoio del
sacchetto era ricoperto da un ricamo intrecciato di sottili fili di metallo bruno.
Fafhrd fece scattare il bracciale, che si apriva su di un cardine, e poi lo richiuse.
«Il filo di ferro brunito serve a frustrare le aspirazioni dei tagliaborse» spiegò
disinvolto il Nordico, riabbassando la manica.
Il Mouser inarcò le sopracciglia. Poi anche il suo sguardo le seguì, salendo dal
polso alla faccia di Fafhrd, e la sua espressione di blanda approvazione divenne
vagamente interrogativa. «E tu ti fidi di questi sistemi per proteggere la tua parte di
gemme da Nemia del Crepuscolo?»
«Come hai saputo che ho intavolato trattative con Nemia?» chiese Fafhrd, in
tono appena sorpreso.
«Perché è l’unica donna di Lankhmar che faccia la ricettatrice, ovviamente.
Tutti sanno che preferisci le donne, appena possibile, nelle trattative d’affari, non
solo nelle questioni erotiche. Ed è uno dei tuoi difetti più gravi, se posso dirlo. I-
noltre, la casa di Nemia è accanto a quella di Ogo, anche se questo è un indizio ba-
nale. Tu sai, presumo, che sette strangolatori Kleshiti proteggono la sua persona un
po’ troppo matura? Ebbene, almeno sai in quale trappola ti vai a cacciare. Trattare
con una donna... la scorciatoia per il disastro! A proposito, tu hai parlato di “tratta-
tive”. Il plurale significa forse che questo non è il tuo primo colloquio con lei?»
Fafhrd annuì. «Come nel tuo caso, con Ogo... Tra l’altro, devo intendere che tu
ti fidi degli uomini solo perché sono uomini? È un difetto assai peggiore di quello
che imputi a me. Comunque, come fai tu con Ogo, io vado da Nemia del Crepusco-
lo per la seconda volta, per completare l’accordo. La prima volta le ho mostrato le
gemme in una camera fiocamente illuminata, dove sono apparse al meglio, scintil-
lando quel tanto necessario per apparire reali. Lo sapevi, a proposito, che lei lavora
sempre nella mezza luce o nella penombra? E questo spiega il suo soprannome.
Comunque, non appena le ha vedute, Nemia ha grandemente desiderato le gemme,
tanto che il respiro le si è mozzato in gola, ed ha accettato subito il mio prezzo, che
non è basso, come base per ulteriori trattative. Si dà tuttavia il caso che Nemia se-
gua invariabilmente la regola, secondo me molto giusta, di non concludere mai una
transazione di nessun genere con un esponente dell’altro sesso senza prima averlo
messo alla prova nel commercio amoroso. Ecco il motivo di questo secondo incon-
tro. Se l’esponente è vecchio o comunque brutto, Nemia delega il compito ad una
delle sue ancelle, ma nel mio caso, naturalmente...» Fafhrd tossì, modestamente.
«Un’altra cosa che vorrei precisare: “troppo matura” è un’espressione errata. “In
pieno fiore” o “all’acme della maturità” è quella che devi usare.»
«Credimi, sono sicuro che Nemia è in pienissimo fiore... un fiore dell’agosto
inoltrato. Tali donne preferiscono sempre la penombra per mettere in mostra le loro
bellezze “perfettamente maturate”» rispose il Mouser, con voce soffocata. Da un
po’ faticava a reprimere le risa, che eruppero in brevi scrosci quando egli aggiunse:
«Oh, grosso sciocco! E davvero hai accettato di andare a letto con lei? E speri di
non venir separato dalle tue gemme, inclusi i gioielli di famiglia, o addirittura
strangolato, mentre ti trovi in tale situazione di svantaggio? Oh, è ancora peggio di
quel che pensavo.»
«Non mi trovo mai tanto in svantaggio, a letto, come potrebbe pensare qualcu-
no» rispose Fafhrd, con tranquilla modestia. «Il gioco amoroso, ih me, acuisce i
sensi anziché ottenebrarli. Spero che tu abbia, con un uomo nel buio pesto, la stes-
sa fortuna che avrò io con una donna in una dolce penombra. A proposito, perché
devi avere due colloqui con Ogo? Non per la ragione di Nemia, sicuramente?»
Il ghigno del Mouser sbiadì; si morse leggermente le labbra. Con studiata di-
sinvoltura, disse: «Oh, le gemme debbono venire esaminate dagli Occhi di Ogo... è
la sua regola invariabile. Ma qualunque prova si prepari, io sono organizzato per
superarla.»
Fafhrd rifletté, quindi domandò: «E che cosa o chi è gli Occhi di Ogo? Ne tiene
un paio nella borsa?»
«Chi» disse il Mouser. Poi, con disinvoltura ancora più studiata. «Oh, una spe-
cie di ragazzetta, mi pare. Dovrebbe avere una facoltà intuitiva per quanto riguarda
le gemme. Interessante, no, che un uomo furbo come Ogo debba credere a simili
assurde superstiziose? O che dipenda in qualunque modo dal sesso debole. In pra-
tica, è solo una formalità.»
«“Una specie di ragazzetta”» ripeté meditabondo Fafhrd, chinando più volte il
capo. «Questa frase descrive, fino ai punti rossi dei capezzoli immaturi il tipo di
femmina che tu hai preso a preferire in questi ultimi anni. Ma naturalmente l’aspet-
to amoroso è assolutamente escluso in questa tua transazione, ne sono certo» ag-
giunse, in tono un po’ troppo solenne.
«Assolutamente escluso» rispose il Mouser, un po’ troppo brusco. Poi, guar-
dandosi intorno, osservò: «Abbiamo un po’ di compagnia, sebbene sia ancora pre-
sto. Ecco Dickon della Corporazione dei Ladri, specializzato nel disegnare le pian-
te delle case da derubare... non credo che non abbia più eseguito un lavoro perso-
nalmente dall’Anno del Serpente. E c’è il grasso Grom, il loro vicetesoriere, un al-
tro ladro da poltrona. Chi arriva con tanta drammatica furtività? Per le Ossa Nere, è
Snarve, il nipote del nostro sovrano Glipkerio! E a chi rivolge la parola? Oh, solo a
Tork il Tagliaborse.»
«Ed ecco» riprese Fafhrd, «che compare Vlek, considerato di questi tempi il di-
vo della Corporazione. Osserva il suo sorriso di superiorità, e senti come scricchio-
lano lievemente le sue scarpe. E quella dilettante dagli occhi grigi e dai capelli neri,
Alyx la Scassinatrice... bene, almeno i suoi stivaletti non scricchiolano ed io ammi-
ro il coraggio con cui si avventura qui, dove l’animosità della Corporazione verso
le femmine indipendenti è famigerata quanto quella della Corporazione dei Ruffia-
ni. E adesso, chi sta volando dalla Strada degli Dei, se non la contessa Kronia dalle
Settantasette Tasche Segrete, che ruba per mania, non per metodo. Non mi fiderei
mai di quel sacco d’ossa, nonostante il suo fascino emaciato e la debolezza che tu
mi attribuisci.»
Annuendo, il Mouser sentenziò: «E costoro vengono riconosciuti come l’aristo-
crazia del furto! In tutta sincerità debbo dire che, nonostante le debolezze da te for-
tunatamente ammesse, uno dei due migliori ladri di Lankhmar si trova in questo
momento accanto a me. Mentre l’altro, è superfluo aggiungerlo, calza i miei stivali
di pelle di ratto.»
Fafhrd annuì a sua volta, pur incrociando scrupolosamente le dita.
Soffocando uno sbadiglio, il Mouser disse: «A proposito, hai ancora un’idea di
ciò che farai dopo che quelle gemme ti saranno state rubate, o, molto improbabil-
mente, saranno state vendute e pagate? Io sono stato contattato... o comunque ho
preso in considerazione un viaggio... nella direzione generica delle Terre Orienta-
li.»
«Dove fa ancora più caldo che in questa afosa Lankhmar? Una passeggiata del
genere non mi affascina» rispose Fafhrd, e poi aggiunse distrattamente. «Comun-
que, io pensavo di imbarcarmi su una nave diretta... ehm... al nord.»
«Di nuovo verso quelle abominevoli Solitudini Fredde? No, grazie!» rispose il
Mouser. Poi, sbirciando verso sud, lungo Via dell’Argento, dove una stella pallida
brillava vicina all’orizzonte, proseguì in tono ancora più sbrigativo: «Bene, è l’ora
del mio colloquio con Ogo... e con la sua sciocca ragazza Occhi. Portati a letto la
spada, te lo consiglio, e abbi cura che né Astagrigia né la tua lama più importante ti
venga sottratta nel crepuscolo di Nemia.»
«Oh, dunque il primo baluginio della Stella della Balena è il tempo fissato an-
che per il tuo appuntamento?» osservò Fafhrd, scostandosi a sua volta dal muro.
«Dimmi, qualcuno conosce il vero aspetto di Ogo? Non so perché, ma il suo nome
mi fa pensare a un ragno vecchio, grasso ed enorme.»
«Frena la tua immaginazione, ti prego» rispose bruscamente il Mouser. «Oppu-
re conservala per i tuoi affari, mentre io ti rammento che l’unico ragno pericoloso è
la femmina. No, il vero aspetto di Ogo è sconosciuto. Ma forse questa notte lo sco-
prirò!»
«Vorrei che tu riflettessi sul fatto che il tuo difetto peggiore è l’eccessiva curio-
sità» disse Fafhrd, «e che non si può sperare che anche la ragazza più stupida sia
sempre stupida.»
Il Mouser si girò impulsivamente e disse: «Comunque vadano i nostri colloqui
di stasera, diamoci appuntamento per dopo. L’Anguilla d’Argento?»
Fafhrd annuì. Si strinsero la mano. Poi ognuno si avviò verso la sua porta fati-
dica.

Il Mouser stava leggermente accoccolato, con tutti i sensi frementi, in uno spa-
zio completamente buio. Sulla superficie davanti a lui - un tavolo, l’aveva accertato
al tatto - stava l’astuccio delle gemme, chiuso. La sua mano sinistra era posata sulla
scatola. La destra stringeva lo Zampino e con quell’arma minacciava nervosamente
la tenebra picea che lo circondava.
Una voce secca e impastata gracchiò, dietro di lui: «Apri l’astuccio.»
Il Mouser si sentì aggricciare la pelle all’orrore di quella voce. Tuttavia obbedì
all’ordine. La luce iridata delle gemme racchiuse dalla rete metallica zampillò ver-
so l’alto, rivelando vagamente che la stanza era bassa e piuttosto grande. Sembrava
vuota, a parte il tavolo e, indistinta nell’angolo in fondo a sinistra dietro di lui, una
sagoma bassa e scura che al Mouser non piacque. Poteva essere uno sgabello, o
forse un grosso, tondo cuscino nero. Oppure poteva essere... Il Mouser avrebbe
preferito che Fafhrd si fosse risparmiato l’allusione al ragno.
Davanti a lui una voce carezzevole e argentina, ben diversa dalla prima, disse:
«Le tue gemme, diversamente da tutte quelle che ho veduto finora, brillano in as-
senza della luce.»
Scrutando attentamente al di là della tavola e dell’astuccio, il Mouser non riuscì
a scorgere il secondo interlocutore. Dominando la propria voce perché non tradisse
ansimando l’apprensione, ma risuonasse carica di blanda sicurezza, disse al vuoto:
«Le mie gemme non hanno eguali al mondo. Infatti, non appartengono a questo
mondo, poiché sono fatte della stessa sostanza delle stelle. Eppure tu sai, grazie
alla prova eseguita, che una di esse è più dura del diamante.»
«Sono davvero gemme ultraterrene e bellissime» rispose la serena voce argen-
tina. «La mia mente le trapassa, e sono in effetti ciò che tu dici. Suggerirò ad Ogo
di pagare il prezzo da te richiesto.»
In quell’istante il Mouser udì dietro di sé un lieve colpo di tosse e un rapido
movimento. Si girò di scatto, con lo stiletto levato per colpire. Non c’era nulla da
vedere o da percepire, a parte il cuscino o quello che era, e che comunque non si
era mosso. Il movimento non si udiva più.
Il Mouser tornò a voltarsi di scatto e là, oltre il tavolo, illuminata dalle pietre
scintillanti, stava una snella ragazza nuda dai lisci capelli chiari, la pelle un poco
più scura, e gli occhi immensi, spalancati in un visetto da bambina, con il mento
minuto e le labbra imbronciate.
Assicurandosi con una rapida occhiata che le gemme fossero disposte nell’ordi-
ne giusto sotto la rete metallica e che non ne mancasse nessuna, il Mouser avanzò
rapidamente lo Zampino, in modo che la punta affilatissima toccasse la pelle liscia
tra i seni piccoli ma prominenti.
«Non cercare di sorprendermi di nuovo!» sibilò. «Molti uomini, sì, ed anche
fanciulle, sono morti per molto meno.»
La ragazza non si mosse di un capello, e la sua espressione ed il suo sguardo
sognante ma concentrato non cambiarono: solo le labbra piccine sorrisero, poi si
schiusero per dire, con voce mielata: «Dunque tu sei il Gray Mouser. Mi aspettavo
un briccone furtivo, dalla faccia sfigurata dalle cicatrici, e invece trovo... un princi-
pe.» Le gemme parevano brillare più pazzamente, per la sua voce dolce e la sua
presenza ancora più soave, e traevano scintillii opalescenti dalle iridi pallide.
«E non cercare di adularmi!» intimò il Mouser, arraffando l’astuccio e tenendo-
lo aperto contro il fianco. «Io sono immune, dovresti saperlo, agli incantamenti di
tutte le civette e le ninfe del mondo.»
«Io ho detto solo la verità, come ho fatto a proposito delle tue gemme» rispose
con candore la ragazza. Teneva ancora le labbra leggermente socchiuse, e parlava
senza muoverle.
«Sei tu gli Occhi di Ogo?» domandò il Mouser in tono aspro, ma ritrasse lo
Zampino dal seno di lei. Lo turbò un poco, ma solo un poco, vedere che un rivolet-
to sottilissimo di sangue, come un filo nero, scendeva per due dita dalla puntura
causata dal suo stiletto.
Totalmente dimentica della minuscola ferita, la ragazza annuì. «E posso vedere
dentro di te, come dentro le tue pietre, e in te non vedo nulla che non sia nobile e
splendido, eccettuati certi piccoli, sottili impulsi di violenza e di crudeltà, che una
ragazza come me potrebbe tuttavia trovare deliziosi.»
«In questo i tuoi occhi penetranti errano completamente, perché io sono un gran
malvagio» rispose sprezzante il Mouser, sebbene provasse un guizzo di affettuosa
soddisfazione.
La fanciulla spalancò gli occhi, guardando apprensivamente oltre la spalla di
lui; e dietro il Mouser la voce secca e impastata si fece nuovamente udire: «Attene-
tevi agli affari! Sì, ti pagherò in oro il prezzo richiesto, una somma che tuttavia im-
piegherò qualche ora a radunare. Ritorna allo stesso orario domani sera e conclude-
remo l’affare. Adesso chiudi l’astuccio.»
Il Mouser si era voltato, sempre stringendo la cassetta, quando Ogo aveva in-
cominciato a parlare. Anche questa volta non riuscì a distinguere da dove provenis-
se la voce, sebbene scrutasse meticolosamente. Sembrava provenire da tutta la pa-
rete.
Ora si voltò indietro. Con una certa delusione, si accorse che la ragazza nuda
era sparita. Sbirciò sotto il tavolo, ma non c’era nulla. Senza dubbio una botola, o
qualche mezzo ipnotico...
Ancora sospettoso come un serpente, se ne andò come era arrivato. Visto da vi-
cino, il cuscino nero era solo ciò che sembrava. Poi la porta che dava sull’esterno si
aprì senza far rumore; obbedendo all’ultima ingiunzione di Ogo, egli chiuse in fret-
ta l’astuccio e se ne andò.

Fafhrd guardava teneramente Nemia, sdraiata accanto a lui nella penombra pro-
fumata, ma con la coda dell’occhio sorvegliava il proprio polso robusto e la borsa
che ne pendeva, mentre la sua compagna accarezzava pigramente l’uno e l’altra.
Per rendere giustizia a Nemia, anche a costo di imputare una certa malignità fe-
lina al Mouser, le sue grazie non erano né sfiorite e neppure eccessive, ma solo...
sufficienti.
Dietro la spalla di Fafhrd si levò un soffio sibilante. Egli girò di scatto la testa e
vide gli occhi strabici e azzurri di un gatto bianco, ritto sul tavolino accanto ad una
ciotola di crisantemi bronzei.
«Ixy!» esclamò Nemia in tono di rimprovero, ma languidamente.
Nonostante la sua voce, Fafhrd udì dietro di sé, in rapida successione, lo scatto
di un bracciale che si apriva e quello, un poco più sonoro, di un bracciale che si ri-
chiudeva.
Si voltò istantaneamente, e vide che nel frattempo Nemia gli aveva allacciato al
polso, accanto a quello di ferro brunito, un bracciale d’oro, intorno al quale zaffiri
e rubini marciavano alternandosi in fila indiana.
Guardandolo tra le ciocche dei lunghi capelli scuri, lei disse, con voce guttura-
le: «È soltanto un piccolo dono che faccio a quelli che mi piacciono... molto.»
Fafhrd si accostò il polso agli occhi, per ammirare il regalo, ma soprattutto per
palpare la borsa con le dita dell’altra mano, e per assicurarsi che fosse gonfia e pie-
na come prima.
Infatti lo era; e in uno slancio di generosità, il Nordico disse: «Permettimi di of-
frirti una delle mie gemme, con lo stesso spirito.» E fece per aprire la borsa.
La mano snella di Nemia si protese per impedirlo. «No» mormorò lei. «Le
gemme degli affari non debbono mai venire mescolate ai gioielli del piacere. Ora,
se vorrai portarmi un piccolo dono, domani sera, quando alla stessa ora scambie-
remo le tue gemme con il mio oro e le mie lettere di credito sul conto di Glipkerio,
firmate da Hisvin, il Mercante di Grano...»
«Giusto» disse laconico Fafhrd, nascondendo il sollievo che provava. Sarebbe
stato un idiota a regalare a Nemia una delle gemme... lasciandole un giorno di tem-
po per scoprirne l’anomalia.
«A domani» disse Nemia, spalancandogli le braccia.
«A domani, allora» disse Fafhrd, abbracciandola fervidamente, ma tenendo ben
stretta la borsa con la mano cui era incatenata... e già smanioso di andarsene.

L’Anguilla d’Argento era semivuota, le candele accese erano poche ed i cop-


pieri torpidi, quando Fafhrd ed il Gray Mouser entrarono simultaneamente da due
porte diverse e si diressero verso uno dei numerosi tavoli liberi.
L’unico occhio che li osservò attentamente era un occhio grigio, al di sopra di
una sottile sezione di guancia pallida orlata da capelli neri, che sbirciava oltre la
tenda dello scomparto più lontano.
Quando le grosse candele del loro tavolo furono accese, e le coppe furono posa-
te davanti a loro, insieme a una fiasca di vino fortificato, ed altro carbone di legna
venne rovesciato nel braciere rosseggiante in fondo al tavolo, il Mouser depose l’a-
stuccio piatto e disse sogghignando: «Tutto fatto. Le gemme hanno superato l’esa-
me degli Occhi... una manzetta appetitosa: te ne parlerò dopo. Avrò i contanti do-
mani notte... il prezzo che ho chiesto! Ma tu, amico mio... non avrei mai creduto di
vederti tornare vivo. Beviamo! Ne deduco che sei fuggito dal divano di Nemia in-
tero e sano di organi e membra... a quanto ne sai. Ma le gemme?»
«Ne sono uscite sane e salve anche quelle» rispose Fafhrd, facendo spenzolare
la borsa dalla manica, e poi nascondendola di nuovo. «E anch’io avrò il danaro
domani notte... per l’ammontare del prezzo richiesto, proprio come te.»
Mentre accennava a quella coincidenza, i suoi occhi assunsero un’espressione
pensosa.
E la mantennero, mentre egli beveva due abbondanti sorsate di vino. Il Mouser
l’osservò incuriosito.
«Ad un certo punto» fece finalmente Fafhrd, meditabondo, «ho pensato che lei
stesse tentando il vecchio trucco di sostituire alla mia una borsa identica ma piena
di cose senza valore. Poiché aveva visto la borsa al primo incontro, avrebbe potuto
farne fare una eguale, con tanto di catena e bracciale.»
«Ma allora?...» chiese il Mouser.
«Oh, no, era una cosa completamente diversa» disse leggermente Fafhrd, ben-
ché qualche pensiero mantenesse incise sulla sua fronte due rughe verticali.
«È strano» osservò il Mouser. «Ad un certo momento, un momento solo, bada
bene... gli Occhi di Ogo, se fosse stata estremamente svelta, destra e silenziosa, a-
vrebbe potuto scambiare gli astucci.»
Fafhrd inarcò le sopracciglia.
Il Mouser proseguì, rapidamente: «Cioè, se il mio astuccio fosse stato chiuso.
Ma era aperto, nell’oscurità, e non c’era modo di riprodurre il brillio multicolore
delle gemme. Fosforo o legno luminoso? Troppo fiochi. Carboni accesi? No, avrei
sentito il calore. Inoltre, com’è possibile ottenere in tal modo il puro splendore
bianco del diamante? Impossibile.»
Fafhrd annuì in segno di assenso, ma continuò a guardare oltre le spalle del
Mouser.
Il Mouser accennò ad allungare la mano verso la cassetta ma poi, con una risa-
tella sprezzante, prese la fiasca e cominciò a versarsi ancora da bere, in un filo sot-
tile.
Alla fine Fafhrd scrollò le spalle, sospinse avanti con le nocche delle dita la
coppa di peltro per farsela riempire, e sbadigliò poderosamente, appoggiandosi alla
spalliera della sedia e allargando le mani, a dita protese, sul piano del tavolo, come
per allontanare da sé tutti i piccoli dubbi e le perplessità.
Le dita della mano sinistra toccarono l’astuccio del Mouser.
La sua espressione divenne vacua. Abbassò lo sguardo, lungo il proprio brac-
cio, fino all’astuccio.
Poi, con grande stupore del Mouser, che aveva appena incominciato a riempir-
gli la coppa, il Nordico si piegò e appoggiò l’orecchio alla cassetta.
«Mouser» disse con un filo di voce, «il tuo astuccio ronza.»
La coppa di Fafhrd era già piena, ma il Mouser continuò a versare. Il vino dalla
pesante fragranza traboccò e cominciò a scorrere verso il braciere ardente.
«Quando ho toccato l’astuccio, ho sentito delle vibrazioni» continuò sconcerta-
to Fafhrd. «Ronza. Ronza ancora.»
Con un ringhio sommesso, il Mouser sbatté sul tavolo la fiasca e strappò la cas-
setta sotto l’orecchio di Fafhrd. Il vino raggiunse la base scottante del braciere e
sfrigolò.
Il Mouser aprì violentemente l’astuccio, sollevò anche il coperchio di rete me-
tallica, e poi guardò dentro, insieme a Fafhrd.
La luce delle candele affievoliva, ma senza estinguerli, gli scintilli gialli, violet-
ti, rossastri e bianchi che salivano da vari punti del fondo di velluto nero.
Ma la stessa luce era abbastanza intensa da mostrare, in ognuno di quei punti,
ad irradiare i colori elencati, una piroblatta, una fosforvespa, un’apena notturna e
una mosca diamante. Ognuno degli insetti era vivo, ma fissato delicatamente alla
base dell’astuccio per mezzo d’una finissima reticella d’argento. Di tanto in tanto,
qualcuno faceva fremere le ali o le elitre.
Senza esitare, Fafhrd si slacciò dal polso il bracciale di ferro brunito, staccò la
catena dalla borsa, e la rovesciò sul piano del tavolo.
Gemme di varia grandezza, tutte perfettamente tagliate, formarono un bel muc-
chietto.
Ma erano tutte di un nero spento.
Fafhrd ne prese una molto grossa, provò a scalfirla con un’unghia, poi sfoderò
il coltello da caccia e incise agevolmente la pietra.
La fece cadere meticolosamente al centro del braciere. Dopo un po’, la pietra
lanciò fiamme gialle e azzurre.
«Carbone» disse Fafhrd.
Il Mouser contrasse le mani sull’astuccio pieno di fiochi brillii, come se avesse
intenzione di afferrarla e di scagliarla, attraverso il muro e al di là del Mare Inter-
no.
Invece ridistese le mani e le lasciò penzolare decorosamente lungo i fianchi.
«Me ne vado» annunciò sottovoce, ma in tono molto chiaro. E se ne andò.
Fafhrd non alzò la testa. Era intento a lasciar cadere nel braciere una seconda
gemma nera.
Poi si tolse il bracciale donatogli da Nemia, se lo accostò agli occhi, disse: «Ot-
tone... vetro» e allargò le dita per lasciarlo cadere sul vino versato. Dopo che il
Mouser se ne fu andato, il Nordico vuotò la coppa traboccante, vuotò anche quella
del compagno e la riempì di nuovo, e continuò a bere, mentre gettava una ad una le
gemme nere nel braciere.

Nemia e gli Occhi di Ogo sedevano fianco a fianco su un lussuoso divano. A-


vevano indossato le vestaglie. Alcune candele irradiavano una fioca luce giallogno-
la.
Su un basso tavolo lucente stavano delicate bottiglie di vini e liquori, calici di
cristallo dagli steli sottili, piatti d’oro carichi di dolciumi e leccornie, ed al centro
due mucchi eguali di gemme iridate.
«Che noia sono i barbari» commentò Nemia, reprimendo garbatamente uno
sbadiglio, «anche se una volta ogni tanto sono piacevoli, dal punto di vista sensua-
le. Penso che avrebbe potuto capire, ma ho fatto scattare le due cerniere insieme
con tanta precisione, quando gli ho chiuso sul polso il braccialetto con la falsa bor-
sa e, nello stesso tempo, il mio dono d’ottone. È sorprendente come i barbari si la-
scino ipnotizzare dall’ottone, e da tutti i pezzetti di vetro colorati come rubini e
zaffiri... penso che i tre colori primari paralizzino i loro cervelli primitivi.»
«Furba, furba Nemia» tubò Occhi di Ogo con una tenera carezza. «Anche il
mio piccoletto per poco non mi ha sorpresa mentre operavo lo scambio, ma poi si è
preoccupato esclusivamente di minacciarmi con il suo coltello. Anzi, mi ha colpita
tra i seni. Credo che abbia una mentalità oscena.»
«Lascia che cancelli il sangue con i baci, Occhi, tesoro» propose Nemia. «Oh,
terribile... terribile.»
Mentre rabbrividiva sotto il suo trattamento (Nemia aveva la lingua un po’ ru-
vida) Occhi disse: «Non so perché, ma Ogo lo rendeva un po’ nervoso.» Il suo vol-
to perse ogni espressione, e la bocca imbronciata rimase lievemente aperta.
La parete riccamente drappeggiata di fronte a lei fece udire un lieve suono di
movimento e poi gracchiò con voce secca e impastata: «Apri l’astuccio, Gray
Mouser. Ora chiudilo. Ragazza, ragazza! Smettete quel gioco lascivo!»
Nemia ed Occhi si abbracciarono ridendo. Occhi disse con la sua voce naturale,
se pure ne aveva una: «E se ne è andato ancora convinto che esistesse un vero Ogo.
Ne sono certa. Oh, ma ormai dovrebbero avere tutti e due la bava alla bocca.»
Appoggiandosi alla spalliera, Nemia disse: «Immagino che dovremo prendere
qualche precauzione speciale, perché non tentino incursioni per riprendersi le
gemme.»
Occhi scrollò le spalle. «Io ho i miei cinque spadaccini Mingol.»
Nemia disse. «E io ho i miei tre strangolatori Kleshiti e mezzo.»
«E mezzo?» chiese Occhi.
«Contavo anche Ixy. No, ma sul serio...»
Occhi aggrottò la fronte per mezzo battito di cuore, poi scosse il capo con fare
deciso. «Non credo che dobbiamo preoccuparci di un’incursione da parte di Fafhrd
e del Gray Mouser. Poiché siamo donne, si sentiranno feriti nell’orgoglio, se ne
resteranno chiusi in un silenzio incupito per un po’, e quindi correranno in capo al
mondo, impegnati in qualcuna delle loro avventure.»
«Avventure!» esclamò Nemia, come se dicesse: “Latrine e cessi!”
«Vedi, sono veramente deboli» proseguì Occhi, accalorandosi. «Non hanno
slanci, né ambizioni, né una vera passione per il danaro. Per esempio, se li avesse-
ro, se non trascorressero tanto tempo in posti squallidi lontano da Lankhmar, a-
vrebbero saputo che il re di Ilthmar si è fatto prendere dalla mania delle gemme
che sono invisibili di giorno, ma brillano di notte, e ha offerto metà del suo regno
per sacchetto di gemmestelle. E non avrebbero mai pensato di fare una cosa tanto
idiota come rivolgersi a noi.»
«Cosa credi che se ne farà? Il re, voglio dire.»
Occhi scrollò le spalle. «Non lo so. Costruirà un planetario. O se le mangerà.»
Rifletté un momento. «Tutto considerato, faremmo bene ad andarcene per qualche
settimana. Ci siamo meritate una vacanza.»
Nemia annuì, chiudendo le palpebre. «Deve essere assolutamente il contrario
del posto in cui il Mouser e Fafhrd vivranno la loro prossima... puah... avventura.»
Anche Occhi annuì e disse, in tono sognante: «Cieli azzurri ed acque increspa-
te, una spiaggia immacolata, un vento tiepido, fiori e schiave snelle dappertutto...»
Nemia disse: «Ho sempre desiderato un luogo che non abbia cambiamenti di
clima, ma solo la perfezione. Sai quale metà del regno di Ilthmar ha meno maltem-
po?»
«Meravigliosa Nemia» mormorò Occhi, «sei così civile, tu. E così furba. Salvo
qualcuno che conosco, tu sei sicuramente il miglior ladro di Lankhmar.»
«E quel qualcuno chi è?» volle sapere Nemia.
«Io, naturalmente» rispose con molta modestia Occhi.
Nemia alzò la mano e tirò l’orecchio alla sua compagna... non troppo doloro-
samente, ma abbastanza.
«Se ci fosse in gioco un po’ di danaro» disse sottovoce ma con fermezza, «ti in-
segnerei che le cose stanno diversamente. Ma poiché diciamo solo per dire...»
«Carissima Nemia.»
«Dolcissimi Occhi.»
Le due donne si abbracciarono e si baciarono affettuosamente.

Il Mouser, a labbra strette, stava fissando il suo interlocutore attraverso una ta-
vola, in uno scomparto chiuso da tende della Lampreda Dorata, una taverna non
molto diversa dall’Anguilla d’Argento.
Tamburellò sul piano di teak con la punta delle dita e sull’aria profumata e
stantia con la sua voce, dicendo: «Raddoppia quei venti pezzi d’oro e io farò il
viaggio ed ascolterò la proposta del principe Gwaay.»
L’uomo pallidissimo che gli stava di fronte, e che strizzava le palpebre come se
anche la luce della candela lo abbagliasse, rispose sottovoce: «Venticinque... e lo
servirai per un giorno dopo l’arrivo.»
«Per che specie d’asino mi hai preso?» domandò il Mouser con voce minaccio-
sa. «Potrei essere in grado di risolvere tutti i suoi guai in un giorno solo... e poi?
No, niente servizi preconcordati: mi limiterò ad ascoltare la sua proposta. E... tren-
tacinque pezzi d’oro anticipati.»
«Benissimo, trenta pezzi d’oro... venti da rifondere se rifiuti di servire il mio
padrone, il che sarebbe rischioso, ti avverto.»
«Il rischio è il mio compagno» scattò il Mouser. «Solo dieci da rifondere.»
L’altro annuì, e cominciò lentamente a contare i rilk sul piano di teak. «Dieci
subito» disse. «Dieci quando ti unirai alla carovana, domattina, alla Porta dei Cere-
ali. E dieci quando arriveremo a Quarmall.»
«Non appena scorgeremo le guglie di Quarmall» insistette il Mouser.
L’altro annuì.
Sgarbatamente, il Mouser arraffò le monete d’oro e si alzò. Erano troppo poche.
Per un momento pensò di ritornare da Fafhrd e di escogitare insieme a lui un piano
contro Ogo e Nemia.
No, mai! Si rendeva conto che, nel suo stato di infelicità e di rabbia contro se
stesso, non avrebbe neppure sopportato il pensiero di guardare in faccia Fafhrd.
Inoltre, quasi sicuramente il Nordico doveva già essere ubriaco.
E due rilk, tre al massimo, gli sarebbero bastati per pagarsi certi piaceri tollera-
bili o addirittura interessanti, per riempire le ore, in attesa che l’alba lo liberasse da
quell’odiosa città.

Fafhrd era effettivamente ubriaco, poiché era arrivato alla terza fiasca. Aveva
bruciato tutte le gemme nere, ed adesso, con la massima delicatezza, usando la
punta aguzza del coltello, era intento a liberare, illese, una ad una, le piroblatte, le
fosforvespe, le api notturne e le mosche diamante, che gli svolazzavano intorno,
erraticamente.
Due coppieri e il buttafuori erano venuti a protestare, e adesso era arrivato Sle-
vyas in persona, massaggiandosi la nuca tozza. Era stato punto, e la stessa sorte era
toccata a un avventore. Anche Fafhrd era stato punto due volte, ma non se ne era
quasi accorto. E adesso non prestava la minima attenzione ai quattro che lo arrin-
gavano.
L’ultima ape notturna venne liberata. Sfrecciò rumorosamente oltre il collo di
Slevyas, che la schivò con un’imprecazione. Fafhrd si appoggiò alla spallièra della
sedia, avvilito. Con varie scrollate di spalle il padrone dell’Anguilla d’Argento ed i
suoi tre servitori se ne andarono; uno dei coppieri prendeva a sberle l’aria.
Fafhrd lanciò in alto il coltello. Ricadde quasi a punta in giù, ma non si piantò
nel teak. Egli lo rinfoderò laboriosamente, e poi si fece forza e bevve un sorsetto di
vino.
Come se qualcuno stesse per uscire dallo scomparto di fondo, vi fu un agitarsi
delle pesanti tende, che come tutte le altre erano rivestite da pesanti catene e riqua-
dri di lamine metalliche, in modo che un cliente non potesse pugnalarne un altro, se
non con l’aiuto della fortuna e di uno stiletto sottilissimo.
Ma in quel momento un uomo pallidissimo, che teneva la falda del mantello al-
zata per ripararsi gli occhi dalla luce delle candele, entrò dalla porta laterale e si
avviò al tavolo di Fafhrd.
«Sono venuto per la risposta, Nordico» disse con voce sommessa ma sinistra.
Diede un’occhiata alle fiasche rovesciate e al vino sparso. «Cioè, se ricordi ancora
la mia proposta.»
«Siediti» disse Fafhrd. «Bevi. Attento alle fosforvespe... sono maligne.» Poi,
sprezzante: «Se mi ricordo! Il principe Hasjarl di Marquall... Quarmall. Traversata
via mare. Una montagna di rilk d’oro. Se mi ricordo!»
Stando in piedi, l’altro lo corresse: «Venticinque rilk. Purché tu t’imbarchi su-
bito con me e prometta di servire per un giorno il mio principe. Poi, sarà secondo
gli accordi che concluderete tu e lui.»
Posò sul tavolo una piccola torre aurea di monete contate in anticipo.
«Munifico!» fece Fafhrd, afferrandola ed alzandosi barcollante. Depose cinque
pezzi d’oro sul tavolo e infilò il resto nella borsa, a parte altri tre, che sparse soa-
vemente sul pavimento. Tappò e intascò la terza fiasca di vino. Poi, girando intorno
al tavolo, disse: «Fammi strada, camerata.» Diede uno spintone in direzione della
porta laterale all’uomo che strizzava gli occhi, e lo seguì barcollando.
Nello scomparto in fondo, Alyx la Scassinatrice strinse le labbra e scosse il ca-
po con aria di disapprovazione.
I SIGNORI DI QUARMALL

Come Fafhrd e il Mouser scoprirono un vasto mondo in una minuscola colli-


netta, e delle curiose forme che amor paterno e amor fraterno talvolta possono as-
sumere, nonché inedite rivelazioni sul comportamento di eunuchi e giovani schia-
ve.

La stanza era semibuia, quasi esasperante per un uomo che amava i dettagli ni-
tidi e il sole ardente. Le poche torce fissate alle pareti, che fornivano l’unica illu-
minazione, irraggiavano fiamme pallide ed esili, più simili a fuochi fatui che a un
fuoco vero, sebbene esalassero un gradevole odore d’incenso. Si aveva l’impressio-
ne che gli abitatori di quelle regioni detestassero la luce e ne tollerassero solo un
vapore rarefatto, a beneficio degli estranei.
Nonostante la sua ampiezza immensa, la sala era tutta ricavata nella scura roc-
cia compatta... il pavimento liscio, le pareti levigate ed incurvate, il soffitto a volta:
forse era una caverna naturale rifinita dall’uomo, oppure era stata interamente sca-
vata dalle fatiche umane, sebbene il solo pensiero di un lavoro tanto immane fosse
intollerabile. Nelle numerose nicchie profonde tra le torce, statuette e maschere
metalliche e oggetti ingemmati brillavano cupamente.
La sala era attraversata da una perpetua corrente fresca, che piegava le deboli
fiamme azzurrognole, portando gli odori acidi del suolo umido e della roccia ba-
gnata, che non venivano mai completamente mascherati dal dolce aroma delle tor-
ce.
Gli unici suoni che vi si udivano, erano di tanto in tanto lo strusciare della pie-
tra sul legno, all’altra estremità del lungo tavolo, dove si svolgeva una partita con
le pedine bianche e nere... e, al di là della sala, i sospiri poderosi dei grandi ventila-
tori che aspiravano l’aria pura nell’ultima fase del passaggio dal molto lontano di
lassù e la spingevano a forza in quella regione... e i tonfi incessanti dei piedi nudi
degli schiavi sulle pesanti cinghie di cuoio che azionavano le grandi pale di legno...
e il fioco ansimare di quegli schiavi.
Quando un individuo si trovava in quella regione da alcuni giorni, o anche sol-
tanto da poche ore, il fruscio dei ventilatori, e i tonfi dei passi e i fievoli ansiti dei
polmoni sofferenti sembravano scandire soltanto il nome di quella regione, all’infi-
nito.
«Quarmall» sembravano cantilenare. «Quarmall... Quarmall è tutto...»
Il Gray Mouser aveva i sensi e la mente assediati da quelle sensazioni e da
quelle fantasie. Vestito di seta grigia tessuta irregolarmente, con minuscoli ciuffi di
filato che spuntavano qua e là, sembrava irrequieto quanto una lince e altrettanto
pericoloso.
Da un grande vassoio carico di funghi dai colori e dalle forme stranissime, posti
davanti a lui come se fossero dolciumi, il Mouser scelse sdegnosamente e mordic-
chiò cautamente quello che aveva l’aspetto più normale, tutto grigio. Il sapore pro-
fumato che mascherava un fondo amarognolo lo irritò; se lo sputò di nascosto nel
palmo della mano, poi abbassò la mano sotto il tavolo e scrollò via i frammenti
masticati e bagnati. Poi, mentre si succhiava le guance con aria acida, con le dita
delle due mani cominciò a giocherellare lentamente sulle else della spada, Cesello,
e del pugnale, Zampino, mentre la sua mente giocherellava nello stesso modo con
le sue noie e i tenebrosi stupori.
Lungo ogni lato del tavolo lungo e stretto, su grandi scranni dagli alti schienali
molto spaziati tra loro sedevano sei vecchi scarni, calvi o con il mento e il capo ra-
sati, le guance cascanti, vestiti ognuno di un lindo perizoma bianco. Undici di loro
fissavano intensamente il vuoto e tendevano perpetuamente i muscoli magri, fino a
quando persino le orecchie parevano irrigidirsi, come se si concentrassero con tutte
le loro forze in regni invisibili. Il dodicesimo teneva lo scranno parzialmente girato
ed era intento a giocare, all’angolo del tavolo, il gioco che causava di tanto in tanto
quel lieve struscio. Lo giocava con colui che aveva ingaggiato il Mouser, Gwaay,
signore dei Livelli Inferiori di Quarmall, e figlio minore di Quarmal, Sovrano di
Quarmall.
Sebbene il Mouser fosse da tre giorni nelle profondità di Quarmall, non si era
mai avvicinato a Gwaay più di adesso: lo conosceva solo come un giovane pallido,
bello, tranquillo, non più reale di uno spettro a causa dell’eterna semioscurità e del-
l’invariabile distanza tra loro.
Il Mouser non aveva mai visto quel gioco, che era abbastanza sorprendente sot-
to molti aspetti.
La scacchiera sembrava grigia, sebbene fosse impossibile essere certi dei colori
nell’interminabile penombra delle torce, e non aveva caselle o percorsi percettibili,
eccettuata una linea mediana fosforescente tra gli avversari, che divideva la plancia
in due campi eguali.
Ogni giocatore iniziava la partita con dodici pedine piatte e circolari, collocate
lungo l’orlo della plancia. Le pedine di Gwaay erano nere come l’ossidiana, quelle
del suo vecchissimo avversario bianche come il marmo, perciò il Mouser riusciva a
distinguerle nonostante la semioscurità.
Lo scopo del gioco sembrava essere quello di spostare in avanti i pezzi a caso,
su distanze irregolari, e portarne almeno sette nel campo dell’avversario.
La stranezza stava nel fatto che i giocatori muovevano i pezzi non con le dita,
ma solo fissandoli intensamente. A quanto pareva, se si fissava un solo pezzo, lo si
poteva muovere con grande rapidità. Se se ne guardavano diversi, si potevano
muovere tutti insieme, in fila o in massa, ma più lentamente.
Il Mouser non era ancora del tutto convinto di assistere a una dimostrazione
della forza del pensiero. Sospettava ancora il ricorso a fili, silenziosi soffi d’aria,
subdoli movimenti della plancia dal basso, robusti scarafaggi sotto le pedine e ca-
lamite nascoste, poiché almeno i pezzi di Gwaay, a giudicare dal colore, potevano
essere fatti di magnetite.
In quel momento le pedine nere di Gwaay e quelle bianche del vecchio erano
ammassate intorno alla linea centrale, e si spostavano solo di tanto in tanto: l’avan-
zata era prima di un dito in una direzione, poi nell’altra. Improvvisamente, la pedi-
na più arretrata di Gwaay descrisse rapidamente un cerchio all’indietro e sfrecciò
verso uno spazio aperto, sul bordo della plancia. Due pedine del vecchio formarono
un cuneo e si insinuarono attraverso la linea centrale, nella falla che era venuta a
crearsi. Mentre le due pedine distaccate del vecchio si muovevano, quella di Gwa-
ay passò. La partita era terminata... Gwaay non ne diede alcun segno, ma il vecchio
cominciò a rimettere i pezzi nelle posizioni di partenza, con dita incerte.
«Oh, Gwaay, una facile vittoria!» esclamò baldanzoso il Mouser. «Perché non
affrontarne due insieme? Il vecchio deve essere uno stregone di Seconda Classe per
giocare in modo così debole... o forse un senile apprendista della Terza.»
Il vecchio lanciò al Mouser un’occhiata velenosa. «Noi, tutti e dodici, siamo
stregoni di Prima Classe, e lo siamo fin dalla gioventù» proclamò solennemente.
«Come tu impareresti facilmente se uno di noi puntasse un mignolo contro di te.»
«Hai sentito quello che dice» disse sommessamente Gwaay al Mouser, senza
guardarlo.
Il Mouser, per nulla sconcertato, almeno esteriormente, ribatté: «Comunque,
sono certo che potresti batterne due alla volta, o sette... o l’intera, decrepita dozzi-
na! Se loro sono di Prima Classe, tu dovresti essere della Classe Zero, o di una
Magnitudine Negativa.»
Il vecchio mosse le labbra in silenzio, sbavando saliva a quell’affronto, ma
Gwaay si limitò a dichiarare soavemente: «Se anche tre soltanto dei miei fedeli
maghi interrompessero la loro concentrazione incantata, le irradiazioni di mio fra-
tello Hasjarl eromperebbero dai Livelli Superiori ed io verrei colpito da tutte le in-
fermità elencate nel compendio dei mali, più qualche altra che esiste soltanto nel-
l’immaginazione putrescente di Hasjarl... o forse verrei addirittura cancellato to-
talmente dalla vita.»
«Se nove su dieci debbono vigilare eternamente su di te, non potranno dormire
molto» osservò di rimando il Mouser.
«I tempi non sono sempre tanto calamitosi» rispose tranquillamente Gwaay.
«Talvolta la tradizione o mio padre impone una tregua. Talvolta il nero mare inte-
riore si placa. Ma oggi, so da certi segni che un grande attacco è in atto contro il
fegato, gli occhi, il sangue, le ossa e il resto della mia persona. Il caro Hasjarl ha
una doppia conventicola di stregoni di poco inferiori ai miei... Seconda Classe, ma
Seconda Superiore... e li fa sgobbare. E io sono odioso a Hasjarl, Gray Mouser,
quanto lo sono per le tue labbra i semplici frutti delle nostre aiuole di letame. Que-
sta notte, inoltre, mio padre Quarmal prepara il suo oroscopo nella Torre del Forte,
lassù, al di sopra dei Livelli Superiori di Hasjarl, perciò è opportuno che io faccia
debitamente sorvegliare ogni tana di ratto.»
«Se è l’assistenza magica che ti manca» ritorse arditamente il Mouser, «io co-
nosco un paio d’incantesimi che farebbero friggere le streghe e gli stregoni del tuo
fratello maggiore!» E per la verità aveva nella borsa, su di una pergamena scric-
chiolante, un incantesimo (uno soltanto) che desiderava ardentemente collaudare.
Glielo aveva dato il suo mentore e maestro di stregoneria, Sheelba dal Volto Senza
Occhi.
Gwaay rispose, con voce più sommessa che mai, tanto che il Mouser sentiva
che non l’avrebbe udito, se tra loro vi fosse stato un braccio di distanza in più: «Il
tuo compito consiste nell’allontanare dal mio corpo fisico gli inviati di Hasjarl ar-
mati di spada, in particolare il grande campione che si dice abbia ingaggiato. I miei
stregoni di Prima Classe storneranno le emanazioni stregonesche di Hasjarl. A cia-
scuno l’occupazione che gli compete.» Batté leggermente le mani. Un’esile schiava
apparve silenziosa sotto l’arcata scura dietro di lui. Senza neppure guardarla, Gwa-
ay ordinò sottovoce: «Vino forte per il nostro guerriero.» La ragazza sparì.
Il vecchio aveva riportato laboriosamente le pedine bianche e nere nelle posi-
zioni di partenza, e Gwaay guardava pensieroso le sue. Ma prima di fare una mos-
sa, disse al Mouser: «Se ti annoi, dedica un po’ di tempo alla scelta della ricom-
pensa che ti prenderai quando il tuo compito sarà concluso. E nella tua ricerca, non
trascurare l’ancella che ti porterà il vino. Si chiama Ivivis.»
A quelle parole, il Mouser si azzittì. Aveva già scelto più d’una dozzina di pre-
ziosi, incantevoli oggetti dai cassetti e dalle nicchie di Gwaay, e li aveva chiusi in
uno stanzino in disuso da lui scoperto due livelli più sotto. Se qualcuno se ne fosse
accorto, egli avrebbe spiegato che si limitava a fare un’innocente preselezione in
vista della scelta finale; ma. Gwaay poteva anche pensarla diversamente, e Gwaay
era molto acuto, a giudicare da come aveva notato i funghi risputati ed alcune altre
cose.
Al Mouser non era venuto in mente di prenotare una ragazza o due chiudendole
nel ripostiglio, sebbene fosse senza dubbio un’idea attraente.
Il vecchio si schiarì la voce e disse, ridacchiando sopra la plancia: «Nobile
Gwaay, lascia che il tuo ambizioso spadaccino provi i suoi trucchi magici. Lascia
che li provi su di me.»
Il morale del Mouser salì alle stelle, ma Gwaay si limitò ad alzare la mano ed a
scuotere leggermente il capo; poi puntò il dito sulla plancia. Obbediente, il vecchio
cominciò a spingere avanti un pezzo con il pensiero.
Il morale del Mouser tornò a precipitare. Cominciava a sentirsi molto solo in
quel cupo mondo sotterraneo, dove tutti si muovevano e parlavano a sussurri. Cer-
to, quando l’emissario di Gwaay lo aveva abbordato a Lankhmar, il Mouser era
stato felice di accettare quell’incarico da solo. Sarebbe stata una buona lezione per
il suo chiassoso camerata Fafhrd, se il piccoletto grigio (la mente!) fosse sparito,
una notte, senza una parola... e poi fosse ritornato, magari un anno dopo, con una
cassa traboccante di tesori e un sorriso beffardo.
Il Mouser si era sentito felice anche durante il lungo viaggio in carovana, da
Lankhmar verso sud, fino a Quarmall, lungo il fiume Hlal, oltre i Laghi di Pleea, e
attraverso le Montagne della Fame. Era stato un piacere cullarsi su un cammello
dondolante, lontano dalla mole ingombrante di Fafhrd, dai suoi modi vanitosi e po-
lemici, mentre le notti diventavano sempre più azzurre e più calde e strane stelle
gemmate e fiammeggianti spuntavano dall’orizzonte meridionale.
Ma adesso era a Quarmall da tre notti, dopo il suo arrivo segreto ai Livelli Infe-
riori; tre notti e tre giorni, o meglio centoquarantaquattro interminabili mezze ore
di penombra sotterranea, e cominciava già ad augurarsi segretamente che Fafhrd
fosse lì, anziché a Lankhmar, lontano mezzo continente, o addirittura ancora più
lontano, se aveva messo in atto i suoi progetti nebulosi di visitare nuovamente la
patria nordica. Qualcuno con cui bere, almeno... e persino un ruggente litigio sa-
rebbe stato senza dubbio distensivo, dopo settantadue ore di servitori silenziosi,
stregoni in trance, funghi bolliti, e dell’infrangibile, sommessa equanimità di Gwa-
ay.
Inoltre, a quanto sembrava, Gwaay voleva soltanto un poderoso spadaccino per
annullare la minaccia del campione che Hasjarl, a quanto si diceva, aveva ingag-
giato segretamente, come Gwaay aveva fatto arrivare di nascosto il Mouser. Se
fosse stato lì anche Fafhrd, lui avrebbe potuto essere lo spadaccino di Gwaay, e il
Mouser avrebbe avuto migliori occasioni di vendere al principe le sue facoltà ma-
giche. L’unico incantesimo che aveva nella borsa, e che aveva ottenuto da Sheelba
in cambio dei racconto delle Perversioni di Clutho, gli avrebbe creato un’eterna
fama di arcimago temibilissimo, ne era certo.
Il Mouser si scosse da quelle riflessioni e si accorse che la schiava Ivivis era in-
ginocchiata accanto a lui - non avrebbe saputo dire da quanto stava lì - e gli offriva
un vassoio d’ebano su cui stavano una tozza fiasca di pietra ed una coppa di rame.
Stava inginocchiata con una gamba piegata in due, e l’altra allungata dietro al
corpo, come in un affondo da schermitore che tendeva la corta gonna della tunica
verde, mentre con le braccia reggeva in alto il vassoio.
Aveva un corpo snello ed elastico, e conservava senza sforzo quella posa diffi-
cile. I fini capelli lisci erano chiari come la pelle... gli uni e l’altra di un colore
spettrale. Il Mouser pensò che sarebbe stata benissimo nel suo stanzino, magari
stringendosi ai seno la collana di grosse perle nere che lui aveva scoperto ammuc-
chiata dietro una statuina di peltro, in una delle nicchie di Gwaay.
Tuttavia, Ivivis stava inginocchiata il più possibile lontano da lui, e gli tendeva
il vassoio, e teneva gli occhi pudicamente abbassati, e non avrebbe neppure alzato
le palpebre ai suoi benigni mormorii... che rappresentavano i soli approcci da lui
giudicati adatti in quel momento.
Il Mouser prese la fiasca e la coppa. Ivivis abbassò ancora di più la testa, poi se
ne andò silenziosa, come se volasse.
Il Mouser si versò un dito di vino rosso e denso come sangue, e lo sorseggiò.
Aveva un sapore oscuramente dolce, ma con un fondo amarognolo. Si chiese se era
prodotto dalla fermentazione di funghi scarlatti.
Le pedine nere e bianche scivolavano strusciando, obbedienti agli sguardi di
Gwaay e del vecchio. Le fiamme pallide della torcia si piegavano nell’incessante
brezza fresca, mentre gli schiavi della ventilazione e i loro larghi piedi nudi sulle
cinghie di cuoio e i grandi ventilatori invisibili sugli assi ponderosi mormoravano
all’infinito: «Quarmall... Quarmall è sotterranea... Quarmall... Quarmall è tutto...»

In una sala altrettanto vasta, molti livelli più sopra, ma pur sempre sottoterra,
una sala priva di finestre, dove le torce divampavano più rosse e luminose, ma do-
ve il loro splendore era annullato da un’acre foschia di fumo d’incenso, così che
l’effetto complessivo era una semioscurità esasperante, Fafhrd sedeva in fondo al
tavolo.
Di solito, Fafhrd era un uomo mostruosamente calmo, ma adesso faceva tambu-
reggiare irrequieto il pugno sulla base del pollice, ed era sul punto di ammettere di
fronte a se stesso che sarebbe stato contento se il Gray Mouser fosse stato lì, anzi-
ché a Lankhmar o magari lanciato in chissà quali avventate peregrinazioni nelle
Terre Orientali screziate da deserti.
Il Mouser, pensava Fafhrd, avrebbe avuto forse la pazienza di sciogliere gli e-
nigmi delle mistificazioni e dei comportamenti tortuosi dei Quarmalliani scavatori
di tane. Il Mouser avrebbe forse avuto maggiore facilità ad adattarsi all’orrenda
passione di Hasjarl per la tortura, e almeno quello sciocco piccoletto grigio sarebbe
stato un essere umano con cui bere!
Fafhrd era stato felicissimo di separarsi dal Mouser e dalla sua vanità, dalle sue
furberie e dalle sue chiacchiere, quando l’agente di Hasjarl lo aveva contattato a
Lankhmar, promettendogli una ricca paga in cambio della sua venuta immediata,
segreta e solitaria. Fafhrd aveva persino accennato al piccoletto che forse si sareb-
be imbarcato con alcuni dei suoi compatrioti nordici che avevano attraversato il
Mare Interno.
Però non aveva spiegato al Mouser che, non appena Fafhrd fosse salito a bordo,
la lunga nave avrebbe fatto vela non già verso nord ma verso sud, costeggiando
l’immenso Mare Esterno lungo le rive occidentali di Lankhmar.
Era stato un viaggio idilliaco, quello: un po’ di pirateria di tanto in tanto, nono-
stante le acide obiezioni dell’agente di Hasjarl, le battaglie con le grandi tempeste e
con i calamari giganti, le razze ed i serpenti marini che brulicavano sempre più fitti
nel Mare Esterno, via via che ci si spingeva a sud. A quel ricordo, il pugno di
Fafhrd rallentò il suo tambureggiare, e le sue labbra si atteggiarono quasi ad un
lungo sorriso.
E adesso Quarmall! Quelle interminabili, fetide stregonerie! Quel Hasjarl ma-
niaco delle torture! Il pugno di Fafhrd riprese a tambureggiare rabbiosamente.
I regolamenti! Non doveva esplorare più in basso, perché là c’erano i Livelli
Inferiori e il nemico. Non doveva esplorare neppure più in su... là c’erano gli ap-
partamenti del Padre Quarmal, sacri e inviolabili. Nessuno doveva sapere della pre-
senza di Fafhrd. Doveva accontentarsi delle bevande e delle donne scadenti dispo-
nibili nei limitati Livelli Superiori di Hasjarl. (Perché loro chiamavano superiori
quei labirinti e quelle cripte semibuie!).
Gli indugi! Non dovevano radunare le loro forze, marciare sui piani più bassi e
liquidare il fratello nemico Gwaay; era un’avventatezza impensabile. Non doveva-
no neppure fermare gli enormi ventilatori azionati dagli schiavi, il cui perpetuo
scricchiolio disturbava le orecchie di Fafhrd e inviava l’aria datrice di vita nella
prima fase del suo viaggio verso il mondo sotterraneo di Gwaay... no, quei ventila-
tori non dovevano venire mai fermati, perché il Padre Quarmal avrebbe riprovato
ogni tattica bellica che facesse morire soffocati i preziosi schiavi; e se Padre
Quarmal riprovava qualcosa, i suoi figli se ne astenevano tremando.
Invece, il consiglio di guerra di Hasjarl doveva preparare campagne della dura-
ta di anni, imperniate soprattutto sulla stregoneria, e congegnate in modo da con-
templare la conquista dei Livelli Inferiori a un quarto di galleria o a un quarto di
fungaia per volta.
Le mistificazioni! I funghi dovevano venire serviti a tutti i pasti, ma non biso-
gnava mai mangiarli e neppure assaggiarli. I ratti arrosto, d’altra parte, erano un
manicaretto da mandare in estasi. Quella notte Padre Quarmal avrebbe preparato il
proprio oroscopo e per qualche ragione inspiegabile quella superstiziosa contem-
plazione delle stelle, con i relativi scarabocchi, avrebbe avuto conseguenze enig-
matiche e incalcolabili. Tutte le ancelle dovevano urlare due volte quando qualcu-
no si prendeva delle libertà, indipendentemente da quello che poteva essere il loro
comportamento successivo. Fafhrd non doveva avvicinarsi mai a Hasjarl a meno di
un lungo tiro di pugnale... una regola che impediva al Nordico di scoprire come
facesse il principe a non lasciarsi sfuggire neppure un dettaglio di quanto avveniva
intorno a lui, sebbene tenesse quasi sempre gli occhi chiusi.
Forse Hasjarl aveva una specie di seconda vista a breve raggio, o forse lo
schiavo che gli stava più vicino gli sussurrava incessantemente un resoconto di
quanto avveniva, o forse... beh, Fafhrd non poteva sapere.
Ma, chissà come, Hasjarl poteva vedere a occhi chiusi.
Quel trucco, evidentemente, gli salvava gli occhi dall’irritazione del fumo
dell’incenso, che rendeva rossi e lagrimosi quelli di Fafhrd e degli stregoni del
principe. Comunque, poiché Hasjarl era per il resto un tipo molto energico e irre-
quieto - il corpo deforme dalle gambe storte e le braccia scompagnate erano sem-
pre in movimento, la brutta faccia faceva sempre smorfie - il dettaglio degli occhi
tranquillamente chiusi era particolarmente stridente e agghiacciante.
Tutto sommato, Fafhrd era nauseato dei Livelli Superiori di Quarmall, sebbene
fosse lì da meno di una settimana. Si era addirittura gingillato con l’idea di fare il
doppio gioco con Hasjarl e di vendersi a suo fratello o di diventare informatore di
suo padre... anche se, come datori di lavoro, quei due potevano non costituire un
miglioramento.
Ma soprattutto desiderava scontrarsi in duello con il campione di Gwaay, del
quale sentiva tanto parlare... incontrarlo e ucciderlo, e poi caricarsi sulle spalle la
ricompensa (preferibilmente una fanciulla ben fatta, con un sacco d’oro stretto in
ogni mano) per volgere per sempre le spalle alla maledetta collina di Quarmall,
dalle gallerie semibuie piene di sussurri.
In uno scatto di esasperazione, Fafhrd batté la mano sull’elsa del suo spadone,
Astagrigia.
Hasjarl vide quel gesto perché, sebbene avesse gli occhi chiusi, girò prontamen-
te la faccia bitorzoluta in fondo al lungo tavolo, verso Fafhrd, tra le file dei venti-
quattro stregoni dalle tonache pesanti e dalle folte barbe, affollati spalla contro
spalla. Poi, con le palpebre chiuse, Hasjarl cominciò a torcere le labbra in un pre-
ambolo di discorso e poi, con un tremito iniziale, esclamò: «Ah, ardi dalla voglia di
combattere, eh, giovane Fafhrd? Tieni l’arma nel fodero! Eppure dimmi, che gene-
re d’uomo immagini sia questo guerriero, colui dal quale mi proteggi, il truce sica-
rio di Gwaay? Si dice che sia più forte di un elefante, e più astuto degli stessi Zo-
boldi.» Con uno spasimo finale Hasjarl riuscì, senza aprire gli occhi, a guardare
Fafhrd con aria di attesa.
Fafhrd aveva sentito spesso quelle ipotesi preoccupate, durante l’ultima setti-
mana, perciò si limitò a rispondere, sbuffando:
«Cribbio! Questo lo dicono di chiunque. Lo so. Ma se non mi dai qualcosa da
fare e se non tieni quelle barbe piene di pulci lontano dalla mia vista...»
Interrompendosi di colpo, Fafhrd trangugiò il vino e batté sul tavolo il boccale
di peltro per chiederne ancora. Infatti, anche se Hasjarl aveva il comportamento di
un idiota e l’indole di un gattopardo, faceva servire ottimi fermenti d’uva maturata
sui caldi, bruni pendii meridionali della collina di Quarmall... e non c’era niente da
guadagnare punzecchiandolo.
Hasjarl non parve offendersi... o se anche si offese si sfogò con i suoi barbuti
stregoni, perché subito cominciò a ordinare ad uno di enunciare più chiaramente le
sue rune, chiese ad un altro se le sue erbe erano sufficientemente pestate nei mor-
tai, ricordò ad un terzo che era il momento di far tintinnare tre volte una certa cam-
panella d’argento, e in generale trattò quelle due dozzine di incantatori come se
fossero un branco di scolaretti e lui l’occhiuto pedagogo... sebbene a Fafhrd fosse
stato detto che erano tutti Maghi di Prima Classe.
La doppia schiera di stregoni cominciò ad agitarsi nervosamente; ognuno si
diede da fare con il suo incantesimo, facendo esalare altri vapori fetidi, versando
gocce nere da flaconi più incrostati, agitando altre bacchette, trafiggendo con spil-
loni altre figurine, tracciando più rapidamente nell’aria simboli bizzarri, ammuc-
chiando davanti a sé feticci più orrendi pescati nella borsa, e così via.
In tutte le ore trascorse seduto in fondo al tavolo, Fafhrd aveva appreso che
quasi tutti gli incantesimi avevano lo scopo di infliggere a Gwaay un morbo orren-
do: la Peste Nera, la Peste Rossa, la Morte Disossata, il Declino Calvo, la Cancrena
Lenta, la Cancrena Rapida, la Cancrena Verde, la Tosse Sanguinosa, la Dissenteria,
la Febbre Malarica, l’Emorragia e persino la banale Goccia al Naso. Gli stregoni di
Gwaay, a quanto aveva capito, continuavano a sventare quei sortilegi malefici con
controincantesimi, ma si continuava a mandarli con la speranza che un giorno o
l’altro l’opposizione abbassasse la guardia, fosse pure per pochi istanti.
Fafhrd si augurava quasi che gli aiutanti di Gwaay riuscissero a rimandare gli
incantesimi delle malattie agli stregoni vestiti di scuro che li inviavano. Si era stan-
cato persino degli astrusi segni astrologici ricamati in oro e argento su quelle vesti,
e dei nastri e dei fili di metalli preziosi intrecciati cabalisticamente in quelle pesanti
barbe.
Hasjarl, dopo aver spinto i suoi maghi ad un’attività convulsa, una volta tanto
aprì gli occhi e, con un solo fremito preliminare delle labbra disse a Fafhrd: «Dun-
que tu smani dalla voglia di agire, eh, giovane Fafhrd?»
Fafhrd, immensamente indispettito da quell’ultimo epiteto, piantò un gomito
sulla tavola, agitò la mano in direzione di Hasjarl e gli gridò di rimando: «Sicuro. I
miei muscoli aspirano a gonfiarsi. Tu hai l’aria di avere delle braccia forti, Nobile
Hasjarl. Che ne diresti di una gara di braccio di ferro?»
Hasjarl ridacchiò malignamente ed esclamò: «Proprio ora andrò a fare un’altra
gara di braccio di ferro con una ragazza sospettata di rapporti con uno dei paggi di
Gwaay. Non ha mai gridato neppure una volta... allora. Vuoi accompagnarmi ed
assistere alla scena, Fafhrd?» Improvvisamente richiuse gli occhi, e parve mettersi
due minuscole maschere di carne... eppure li chiuse con tanta fermezza che senza
dubbio non poteva sbirciare tra le ciglia.
Fafhrd si rattrappì sul seggio, arrossendo un po’. Hasjarl aveva indovinato subi-
to il suo disgusto per la tortura, fin dalla prima notte che aveva trascorso nei Livelli
Superiori di Quarmall, e da allora non si era mai lasciato sfuggire l’occasione di
farsi beffe di quella che doveva considerare una sua debolezza.
Per nascondere il suo imbarazzo, Fafhrd trasse dalla tunica un libriccino dalle
pagine di pergamena. Il Nordico avrebbe giurato che le palpebre di Hasjarl non si
erano mosse neppure una volta da quando le aveva richiuse, tuttavia ora il malva-
gio esclamò: «Il sigillo sulla copertina mi rivela che appartiene a Ningauble dai
Sette Occhi. Che cos’è, Fafhrd?»
«Faccende private» ribatté fermamente il barbaro. Per la verità, era piuttosto al-
larmato. Il contenuto del pacchetto era tale che non poteva farlo vedere a Hasjarl. E
proprio come quell’individuo malvagio aveva inspiegabilmente scoperto, sulla co-
pertina c’era veramente la nera immagine d’una mano a sette dita, e su ogni dito un
occhio al posto dell’unghia... uno dei molti segni dello stregonesco patrono di
Fafhrd.
Hasharl tossì rumorosamente. «Nessun servitore di Hasjarl ha faccende priva-
te» sentenziò. «Tuttavia, ne riparleremo un’altra volta. Il dovere mi chiama.» Si
alzò d’un balzo dallo scranno e, scrutando rabbiosamente i suoi stregoni, latrò: «Se
trovo qualcuno di voi che sonnecchia sui suoi incantesimi al mio ritorno, sarebbe
meglio per lui, sì, e anche per sua madre, che fosse nato con le catene degli schiavi
alle caviglie!»
Si fermò, volgendosi per uscire, e girando di nuovo la faccia verso Fafhrd, e-
sclamò rapidamente, ma in tono accattivante: «La ragazza sì chiama Friska. Ha so-
lo diciassette anni. Credo che saprà far bene il braccio di ferro e con molte escla-
mazioni affascinanti. Converserò con lei a lungo. L’interrogherò, mentre girerò la
manovella, molto lentamente. E lei risponderà, farà commenti e descriverà i suoi
sentimenti, con suoni se non con parole. Sei sicuro di non voler venire?» E lascian-
do dietro di sé un risolino maligno, Hasjarl uscì a grandi passi rapidi dalla sala,
mentre le torce rosse nel voltone profilavano di sangue la sua mostruosa figura dal-
le gambe storte.
Fafhrd digrignò i denti. Per il momento non poteva far nulla. La camera delle
torture di Hasjarl era anche il suo corpo di guardia. Tuttavia il Nordico prese men-
talmente nota di un’intenzione, forse di un obbligo.
Per distogliere la propria mente da orribili, snervanti fantasie, prese a rileggere
meticolosamente il libriccino di pergamena che Ningauble gli aveva donato come
ricompensa dei passati servigi, o come assicurazione dei servizi futuri, la notte in
cui il Nordico era partito da Lankhmar.
Fafhrd non temeva che gli stregoni di Hasjarl sbirciassero ciò che leggeva. Do-
po l’ultima minaccia del loro signore, erano tutti furiosamente indaffarati con i loro
incantesimi, come tante formiche nére e barbute.
* * *

«Quarmall venne segnalata per la prima volta alla mia attenzione (lesse Fafhrd
nel libriccino scritto dalla mano, o forse dai tentacoli di Ningauble) dalla segnala-
zione di certe gallerie sotterranee che si spingevano a grande profondità sotto il
mare, e si estendevano fino a certe caverne in cui potrebbero dimorare alcuni su-
perstiti degli Antichi. Naturalmente, inviai degli agenti per controllare la veridicità
della segnalazione: mandai due spie preziose e ben addestrate, più altre due incari-
cate di sorvegliarle, con lo scopo di scoprire i fatti e di accumulare pettegolezzi.
Nessuna delle due coppie ritornò; non mandarono neppure messaggi o spiegazioni,
e in pratica non ne seppi più nulla. Ero interessato: ma poiché a quel tempo non ero
in grado di sprecare materiale prezioso in una ricerca tanto incerta e pericolosa, at-
tesi che mi arrivassero altre informazioni, come accade di solito.
«Dopo vent’anni, la mia discrezione fu ricompensata. (Così proseguiva il testo
scarabocchiato che Fafhrd continuava a leggere.) Un vecchio, coperto di cicatrici
orribili e stranamente pallido, venne condotto da me. Si chiamava Tamorg, e il suo
racconto era interessante, nonostante l’incoerenza con cui lo fece. Affermava di
essere stato catturato, quand’era ancora ragazzo e faceva parte di una carovana in
transito, e di essere stato condotto come schiavo a Quarmall. Là aveva servito ai
Livelli Inferiori, a grande profondità. Non c’era luce naturale, e l’aria veniva aspi-
rata nelle caverne tortuose per mezzo di grandi ventilatori, mossi per mezzo di cin-
ghie; questo spiegava il suo pallore ed il suo aspetto altrimenti insolito.
«Tamorg odiava quei ventilatori, perché era stato incatenato ad uno di essi per
tanto tempo che preferiva non pensarci. (In realtà, non sapeva esattamente per
quanto tempo poiché, secondo le sue affermazioni, nei Livelli Inferiori non esiste-
vano sistemi per misurare il tempo.) Alla fine venne liberato da quel compito one-
roso, a quanto potei dedurre dal suo racconto ingarbugliato, poiché era stato inven-
tato o prodotto per incroci un tipo di schiavo specializzato meglio adatto allo sco-
po.
«Da questo deduco che i Padroni di Quarmall sono sufficientemente interessati
all’economia dei loro possedimenti per migliorarli: una rarità, tra i sovrani. Inoltre,
se venivano allevati e prodotti schiavi specializzati, la durata dell’esistenza di quei
sovrani doveva per forza di cose essere più lunga del normale; oppure la collabora-
zione tra padre e figlio è più perfetta di qualunque rapporto filiale a me noto.
«Tamorg raccontò inoltre di essere stato messo al lavoro negli scavi, insieme ad
altri otto schiavi tolti come lui dai ventilatori. Erano costretti ad allargare e ad e-
stendere certi passaggi e certe camere; quindi, per un altro periodo, dovette scavare
e puntellare. Dovette essere un periodo molto lungo, perché interrogandolo scoprii
che Tamorg aveva scavato e murato, da solo, un corridoio lungo mille e venti pas-
si. Gli schiavi non erano incatenati, a meno che fossero pazzi, e non era neppure
necessario farlo, perché sembra che i Livelli Inferiori siano fatti di labirinti dentro
ad altri labirinti, e se uno sventurato schiavo si allontanava dai percorsi conosciuti
aveva poche possibilità di trovare la via del ritorno. Tuttavia, a quanto riferì Ta-
morg, si diceva che i Signori di Quarmall avessero certi schiavi che avevano impa-
rato a memoria una parte ciascuno di quell’interminabile labirinto. In questo modo,
essi sono in grado di traversare con sicurezza e di passare da un livello all’altro.
«Alla fine, Tamorg fuggì perché sfondò accidentalmente la parete che stava
scavando. Allargò l’apertura e si chinò a guardare. In quel momento un compagno
di lavoro gli diede una spinta, e Tamorg finì a capofitto oltre lo squarcio. Per fortu-
na, in fondo al precipizio c’era un corso d’acqua sotterraneo molto rapido; e Ta-
morg vi cadde dentro. Poiché il nuoto è un’arte che non si dimentica facilmente,
riuscì a tenersi a galla fino a quando raggiunse il mondo esterno. Per parecchi gior-
ni i raggi del sole lo accecarono; si sentiva a suo agio soltanto al fioco lume delle
torce.
«Lo interrogai minuziosamente sui molti, interessanti fenomeni che doveva a-
vere avuto di continuo sotto gli occhi, ma non fornì risposte soddisfacenti, poiché
ignorava del tutto i metodi di osservazione. Comunque, gli trovai un posto come
portinaio nel palazzo di D., di cui volevo controllare gli andirivieni. Questo per
quanto riguarda la mia fonte d’informazione.
«Il mio interesse per Quarmall (proseguiva il libro di Ningauble) e il mio appe-
tito furono aguzzati da questo scarso pasto di fatti, perciò mi diedi da fare per pro-
curarmi altre informazioni. Per mezzo di Sheelba mi misi in contatto con Eeack, il
Supremo Sovrano dei Ratti; facendogli sventolare davanti agli occhi la possibilità
di trovare passaggi segreti fino ai granai di Lankhmar, lo indussi a farmi visita. La
sua visita risultò inutile e imbarazzante. Inutile, perché risultò che a Quarmall i rat-
ti vengono considerati manicaretti squisiti, e cacciati a scopi gastronomici con
l’aiuto di donnole addestrate. Naturalmente, date le circostanze, un ratto entro le
mura di Quarmall aveva poche possibilità di svolgere un lavoro di collegamento, se
non dall’incerta posizione dentro a una pentola. La coorte personale di Eeack, for-
mata da innumerevoli ratti puzzolenti e famelici, consumò tutti i commestibili a
portata di quei denti affilati; e commosso dalla situazione in cui ero venuto a tro-
varmi, Eeack per farmi un favore convinse Scraa a svegliarsi ed a parlare con me.
«Scraa (continuavano gli appunti di Ningauble) è uno di quegli scarafaggi anti-
chissimi, esistiti contemporaneamente ai rettili mostruosi che un tempo dominava-
no il mondo, e le cui memorie razziali risalgono nelle nebbie del tempo, prima che
gli Antichi si ritirassero dalla superficie. Scraa mi presentò la seguente, breve storia
di Quarmall scritta nitidamente su di una bizzarra pergamena, composta di elitre
saldate e appiattite in modo ingegnoso, e ben lisciate. Accludo il documento, scu-
sandomi per il suo stile piuttosto arido e prosaico.
«“La città stato di Quarmall ospita una civiltà quasi inaudita nella sfera
dell’organizzazione antropoide. Forse l’analogia più stretta è quella con le formi-
che schiaviste. Il regno di Quarmall è attualmente limitato alla piccola montagna, o
grossa collina, su cui si trova: ma come un ravanello, la parte più ampia è sepolta
sotto la superficie. Non è sempre stato così.
«“Un tempo i Signori di Quarmall regnavano su ampi pascoli e vasti mari; le
loro navi toccavano tutti i porti conosciuti e le loro carovane percorrevano le piste
da un mare all’altro. Lentamente, Quarmall perse il suo potere sulle valli fertili e i
precipizi sterili, sul deserto e sui mari; non di loro volontà, ma sempre forzati, i Si-
gnori di Quarmall si ritirarono. Inesorabilmente vennero scacciati, anno dopo anno,
generazione dopo generazione, da tutti i loro possedimenti, fino a quando furono
confinati in quell’ultima e più possente roccaforte, l’inespugnabile castello di
Quarmall. La causa di questa ritirata si perde nelle nebbie del mito; ma probabil-
mente fu dovuta a quelle pratiche ripugnanti che ancora oggi fanno apparire Quar-
mall immonda e maledetta agli abitatori dei territori circostanti.
«“Via via che i Signori di Quarmall venivano spinti indietro, nonostante le loro
stregonerie e il loro valore, scavarono sempre più, in profondità ed in ampiezza,
sotto quell’ultima, enorme roccaforte. Ogni Sovrano scavava più profondamente
nelle viscere del piccolo monte su cui stava il Forte di Quarmall. Con l’andar del
tempo il ricordo delle glorie passate svanì e venne dimenticato, ed i Signori di
Quarmall si occuparono dei loro corridoi labirintici, escludendo il mondo esterno.
Anzi, lo avrebbero completamente dimenticato, se non avessero avuto un costante,
crescente bisogno di schiavi e dei mezzi per sostentare tali schiavi.
«“I Signori di Quarmall sono maghi di grande fama e adepti nella pratica
dell’Arte. Si dice che con le loro facoltà possano gettare gli uomini nella schiavitù
del corpo e dell’anima.”
«Questo è quanto scrisse Scraa. Nel complesso, è un pettegolezzo molto insod-
disfacente; non dice nulla di preciso su quelle gallerie che per prime avevano de-
stato il mio interesse; nulla della conformazione di quella terra, o dei suoi abitanti;
non c’è neppure una carta! Ma il povero, vecchio Scraa vive quasi completamente
nel passato... il presente acquisirà importanza per lui solo tra qualche eone.
«Credo tuttavia di conoscere due individui che potrebbero venire indotti a svol-
gere una missione laggiù...» (A questo punto lo scritto di Ningauble terminava, con
grande irritazione e sospetto di Fafhrd... ed anche con sua inquietudine e vergogna,
perché adesso era costretto a pensare di nuovo alla ragazza sconosciuta che Hasjarl
stava torturando.)

Sopra il monte di Quarmall, il sole aveva superato il meridiano, e le ombre a-


vevano incominciato ad allungarsi. I grandi buoi bianchi si sforzavano sotto il gio-
go. Non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima, lo sapevano. Ogni mese,
quando si avvicinavano a quel tratto di strada fangosa, il padrone li frustava frene-
ticamente, cercando di costringerli a sviluppare una velocità che essi, per natura,
non erano in grado di raggiungere. Sforzandosi fino a far scricchiolare i finimenti,
facevano del loro meglio, perché sapevano che, quando avessero superato quel trat-
to, il padrone li avrebbe ricompensati con un pezzo di sale, una rude carezza ed una
breve sosta nella fatica. Era una vera disgrazia che quel tratto di strada restasse
fangoso anche dopo la fine delle piogge, quasi da un anno all’altro. Era una disgra-
zia che ci volesse più tempo per transitare.
Il loro padrone aveva buoni motivi per frustarli. Quella zona era considerata
maledetta dalla sua gente. Da quel punto elevato si potevano scorgere le torri di
Quarmall; e peggio ancora, le torri guardavano la strada, così come dalla strada,
alzando gli occhi, si poteva vederle. Non era igienico guardare le torri di Quarmall,
o venire guardati da esse. C’erano ottime ragioni per quella convinzione. Il padrone
dei buoi sputò, furtivamente, fece un gesto di scongiuro con le dita, e girò pauro-
samente la testa verso le torri merlettate che si levavano nel cielo, mentre attraver-
sava l’ultimo tratto fangoso. Gli bastò quell’occhiata fuggevole per scorgere un ba-
gliore, uno scintillio brillante dal bastione più alto. Con un brivido, raggiunse il be-
nedetto riparo degli alberi, e ringraziò gli dèi che venerava per essere passato in-
denne.
Quella sera avrebbe avuto molte cose da raccontare, alla taverna. Gli altri gli
avrebbero offerto ciotole di vino e di amara birra d’erbe. Per una sera l’avrebbe fat-
ta da signore. Ah, se non fosse stato per la sua prontezza, forse adesso si sarebbe
trascinato, privo d’anima, alle poderose porte di Quarmall, per servire fino a quan-
do per il suo corpo fosse venuta la fine, e anche dopo. Infatti, si parlava molto di
tali incantesimi e di altre cose, tra gli anziani del villaggio; erano storie che non
avevano una morale, ma che tutti ascoltavano. Non era stato proprio all’ultima Vi-
gilia del Serpente che il giovane Twelm si era allontanato dalla comunità umana?
Non aveva riso di quelle storie e, ubriaco, non aveva sfidato le terrazze di Quar-
mall? Sicuro, proprio così! Ed era vero, anche, che il suo meno ardimentoso com-
pagno lo aveva visto arrivare temerariamente, barcollando, fino all’ultima terrazza,
la più alta, fin quasi al fossato; e poi Twelm, spaventato per qualche causa ignota,
si era voltato per fuggire, ma il suo corpo inarcato era stato attirato nella tenebra.
Neppure un grido aveva segnato lo svanire di Twelm dalla terra e dalla comunità
dei suoi simili. Juln, il compagno meno coraggioso o meno ostinato di Twelm, da
allora era immerso in una sorta di stordimento ebbro. E di notte rifiutava di uscire
all’aperto.
Il padrone dei buoi continuò a riflettere per tutto il percorso fino al villaggio.
Cercò di ideare, con il suo fioco intelletto di contadino, un metodo per presentarsi
come un eroe. Ma mentre costruiva faticosamente una storia semplice che gli per-
metteva di fare una bella figura, pensò alla sorte di un tale che aveva osato vantarsi
di aver derubato i vigneti di Quarmall: colui il cui nome veniva pronunciato abbas-
sando la voce, segretamente. Perciò l’uomo decise di limitarsi alla verità, per quan-
to fosse semplice, e di affidarsi all’atmosfera di orrore che sapeva suscitata inevi-
tabilmente da ogni manifestazione di attività in Quarmall.

Mentre il contadino era ancora intento a sferzare i suoi buoi, e il Mouser osser-
vava due uomini d’ombra impegnati in un gioco di pensiero, e Fafhrd trangugiava
vino per annegare il pensiero di una fanciulla sconosciuta in tormento, Quarmal,
Sovrano di Quarmall, stava preparando il proprio oroscopo per l’anno entrante.
Nella torre più alta del Forte egli lavorava faticosamente, mettendo in ordine
l’enorme astrolabio e gli altri massicci strumenti necessari per le sue accurate os-
servazioni.
Tra le tende ricamate, il sole pomeridiano batteva caldo nella stanzetta; i raggi
si riflettevano sulle superfici levigate e scintillavano iridati, quando le toccavano di
sbieco. Era caldo, anche per un vecchio leggermente vestito, e Quarmal si accostò
alle finestre dalla parte opposta al sole, e scostò le tende ricamate, per fare entrare
nell’osservatorio la fresca brezza proveniente dalla brughiera.
Lanciò un’occhiata pigra oltre le profonde strombature. In lontananza, ai piedi
delle pendici a terrazze, poteva scorgere il sottile filo incurvato della strada che
conduceva fino al villaggio.
Le piccole figure che vi si scorgevano sembravano formiche: formiche che si
dibattevano per uscire da una trappola appiccicosa; e mentre Quarmal guardava,
come formiche insistettero nel loro sforzo e finalmente scomparvero. Quarmal so-
spirò, allontanandosi dalle finestre. Sospirò con un lieve disappunto, perché rim-
piangeva di non aver guardato un momento prima. Gli schiavi erano sempre utili.
Inoltre, sarebbe stata una buona occasione per collaudare un paio di strumenti in-
ventati da poco.
Tuttavia Quarmal non aveva l’abitudine di rimpiangere il passato; perciò si al-
lontanò dalla finestra, scrollando le spalle.
Pur vecchio com’era, Quarmal non era particolarmente orribile, fino a quando
non si notavano i suoi occhi. Avevano una forma strana, e i globi oculari erano di
un intenso rosso rubino. Le iridi bianche avevano quel lustro nauseante
dell’iridescenza perlacea che, tra gli esseri viventi, si trova soltanto negli abitatori
del mare: era una caratteristica che aveva ereditato dalla madre, una sirena. Le pu-
pille, simili a scaglie di cristallo nero, brillavano di un’incredibile intelligenza ma-
ligna. La calvizie era accentuata dai lunghi ciuffi di ispidi capelli neri che cresce-
vano simmetricamente sulle orecchie. La pelle butterata e pallidissima pendeva ca-
scante sulle gote, ma era tesa sugli zigomi alti. Sottile come una lama affilata, il
lungo naso adunco gli conferiva l’aspetto di un falco o di un gheppio.
Se gli occhi di Quarmal erano l’elemento più sconcertante del suo viso, la boc-
ca era la cosa più bella. Le labbra erano piene e rosse, straordinarie in un uomo co-
sì vecchio, ed avevano quella particolare mobilità che si osserva negli oratori e ne-
gli attori. Se Quarmal avesse conosciuto la vanità, forse sarebbe stato fiero della
bellezza della sua bocca: era come se quelle labbra perfettamente modellate servis-
sero soltanto ad accentuare l’orrore degli occhi.
Con sguardo velato, Quarmal guardò attraverso i cerchi di ferro una copia del
suo volto che sporgeva da un riquadro privo di finestre sul muro opposto; era la sua
maschera cerea, fatta quell’anno, e realisticamente colorata e ornata di ciuffi di ca-
pelli dal suo artista migliore. Solo, per necessità, gli occhi dalle iridi bianche erano
chiusi... benché la maschera desse egualmente l’impressione di essere intenta a
sbirciare. Era l’ultima di una lunga serie di maschere simili, ognuna un po’ più scu-
rita dagli anni di quella successiva. Sebbene alcune fossero brutte e molte belle,
c’era una notevole rassomiglianza tra quelle facce dagli occhi chiusi, poiché
c’erano state poche o punte intrusioni nella discendenza maschile di Quarmal.
Forse le maschere erano meno numerose di quel che ci si poteva aspettare, per-
ché in generale i Sovrani di Quarmall vivevano molto a lungo ed avevano figli in
tarda età. Tuttavia erano molte, poiché Quarmall era un regno così antico. Le ma-
schere più antiche erano di un bruno quasi nero; e non erano fatte di cera, bensì
della pelle dei volti conciata e mummificata di quegli autocrati primordiali. Le arti
dello scuoiamento e della concia avevano raggiunto molto presto uno squisito gra-
do di perfezione a Quarmall e venivano praticate ancora con abilità gelosamente
orgogliosa.
Quarmal abbassò lo sguardo dalla maschera al proprio corpo avvolto dal legge-
ro robone. Era magro, e i fianchi e le spalle mostravano ancora che un tempo si era
dedicato alla falconeria, alla caccia ed alla scherma insieme ai migliori. I piedi era-
no arcuati, il passo ancora leggero. Le dita nodose erano lunghe e spatolate, e le
palme carnose e muscolose testimoniavano destrezza e scioltezza, necessarie per
uno come lui. Infatti Quarmal era uno stregone, come lo erano sempre stati tutti i
Signori di Quarmall, fin dai tempi più remoti. Dall’infanzia all’età adulta, ogni ma-
schio veniva addestrato in quella vocazione, come certe viti vengono abituate a
prosperare su difficili terrazze.
Mentre Quarmal si allontanava dalla finestra per occuparsi dei suoi doveri, ri-
pensò al suo addestramento. Era una sventura che la Casa di Quarmall avesse due
eredi, anziché uno come al solito. Ognuno dei suoi figli era un abile negromante ed
era esperto anche di altre scienze dell’Arte; entrambi erano estremamente ambizio-
si e pieni d’odio. Nutrivano odio non solo l’uno per l’altro, ma anche per il loro
padre, Quarmal.
Quarmal raffigurò mentalmente Hasjarl, nei suoi Livelli Superiori, sotto il For-
te, e Gwaay nei suoi Livelli Inferiori... Hasjarl che coltivava le sue passioni come
in un girone fiammeggiante dell’Inferno, considerando l’energia e il movimento e
la logica spinti all’estremo come i beni supremi, minacciando costantemente con
fruste e torture e traducendo in atto quelle minacce, ed adesso assoldando un gros-
so, robusto uomo bestiale come suo spadaccino... Gwaay che si nutriva di riserbo,
come nei gironi più gelidi dell’Inferno, e cercava di ridurre la vita all’arte ed al
pensiero intuitivo, cercando a mezzo della meditazione di costringere la roccia sen-
za vita a compiere i suoi comandi e di forzare la Morte con il potere della sua vo-
lontà, e adesso aveva ingaggiato un ometto grigio che sembrava il fratello minore
della Morte, perché diventasse il suo accoltellatore... Quarmal pensò a Hasjarl ed a
Gwaay e per un attimo uno strano sorriso d’orgoglio paterno gli incurvò le labbra;
poi scosse il capo, e il suo sorriso divenne ancora più strano, mentre il suo corpo
veniva scosso da un lieve brivido.
Era un bene, pensò Quarmal, che lui fosse vecchio, anche secondo il computo
degli anni usato dai maghi, perché sarebbe stato spiacevole morire nel pieno vigore
della vita, o anche al crepuscolo. E sapeva che prima o poi, nonostante tutti gli in-
cantesimi protettivi e tutte le precauzioni, la Morte gli si sarebbe avvicinata furtiva
o lo avrebbe aggredito all’improvviso, in un momento di scarsa vigilanza. Quella
notte stessa, il suo oroscopo avrebbe potuto segnalare l’immediato, inevitabile ap-
pressarsi della Morte; e sebbene gli uomini vivessero di menzogne, trattando la ve-
rità stessa come una menzogna da sfruttare, le stelle erano pur sempre le stelle.
Ogni giorno i suoi figli, lo sapeva, diventavano sempre più abili e sottili
nell’uso dell’Arte che egli aveva loro insegnato. E Quarmal non poteva proteggersi
uccidendoli. Il fratello poteva assassinare il fratello, o il figlio il genitore, ma fin
dai tempi più antichi era vietato al padre di uccidere il figlio. Non c’erano buone
ragioni per questa consuetudine, e non erano necessarie. La tradizione, nella Casa
di Quarmall, era incontestata e non si poteva sfidare alla leggera.
Quarmal pensò al piccino che cresceva nel grembo di Kewissa, la sua infantile
concubina preferita. Per quanto potevano assicurarlo le sue precauzioni e la sua vi-
gilanza, il piccino era sicuramente suo... e Quarmal era il più vigile e cinicamente
realista degli uomini. Se il piccino fosse nato e fosse stato un maschio, come pre-
annunciavano gli auspici, e se Quarmal avesse avuto ancora dodici anni per adde-
strarlo, e se Hasjarl e Gwaay fossero stati uccisi dalla sorte o si fossero eliminati a
vicenda... Quarmal escluse dalla propria mente quella concatenazione di ipotesi.
Sperare di vivere ancora una dozzina d’anni, ora che Hasjarl e Gwaay diventavano
di giorno in giorno sempre più abili e sottili nelle loro stregonerie, o sperare che
quei due cautissimi virgulti della sua carne si estinguessero... era una vanità, una
grave assenza di realismo!
Si guardò intorno. I preliminari per la redazione dell’oroscopo erano completi,
gli strumenti erano preparati ed allineati; ora restavano solo le osservazioni finali e
la loro interpretazione. Con una piccola mazza di piombo. Quarmal percosse leg-
germente un gong bronzeo. La risonanza si era appena dispersa quando un uomo
alto e riccamente abbigliato apparve sotto l’arco dell’entrata.
Flindach era il Maestro dei Maghi. I suoi compiti erano numerosi, ma non evi-
denti. Il suo potere, accuratamente celato, era secondo solo a quello di Quarmal.
Una stanca crudeltà segnava il viso scuro, conferendogli un’aria di noia che mal si
abbinava al suo ardente interesse per le vicende altrui. Flindach non era un
bell’uomo: una purpurea voglia di vino gli copriva la guancia sinistra, tre grosse
verruche formavano un triangolo isoscele su quella destra, e il naso e il mento
sporgevano come quelli di una vecchia strega. Sorprendentemente, e con un effetto
di beffarda irriverenza, i suoi occhi avevano la sclerotica di rubino e le iridi perla-
cee come quelli del suo sovrano; era il figlio più giovane della stessa sirena che a-
veva partorito Quarmal... dopo che il padre di questi si era stancato di lei e, secon-
do una delle bizzarre tradizioni di Quarmall, l’aveva donata al suo Maestro dei
Maghi.
Gli occhi di Flindach, grandi e fissi ipnoticamente, si mossero irrequieti mentre
Quarmal parlava: «Gwaay e Hasjarl, i miei figli, oggi sono intenti a operare sui ri-
spettivi Livelli. Sarebbe opportuno chiamarli nella sala del consiglio, questa notte.
Perché è la notte in cui deve venire predetto il mio destino. Ed io ho la premoni-
zione che l’oroscopo non porterà nulla di buono. Ordina loro di cenare insieme, e
permetti che si divertano tramando la mia morte... o cercando di uccidersi a vicen-
da.»
Serrò le labbra quando ebbe finito di parlare: aveva un’aria più malvagia di
quanto potesse averla un uomo in attesa della Morte. Flindach, abituato ai terrori
com’era, riuscì a stento a reprimere un brivido, all’occhiata che gli venne lanciata;
ma ricordando la propria posizione fece il segno dell’obbedienza e se ne andò, sen-
za una parola e senza ricambiare quello sguardo.

* * *
Il Gray Mouser non distolse neppure una volta gli occhi da Flindach, quando
questi avanzò sotto la volta scura della sala delle stregonerie, nei Livelli Inferiori e
si portò al fianco di Gwaay. Il Mouser era affascinato dalle verruche e dalla Voglia
di vino che deturpavano le guance dell’uomo dalle ricche vesti e dalla faccia di
strega, e dai suoi strani occhi dalla sclerotica bianca; e subito assegnò a quella fac-
cia il posto d’onore nel lungo catalogo dei volti mostruosi che serbava nelle cripte
della sua memoria.
Per quanto tendesse l’orecchio, non riuscì ad udire ciò che Flindach diceva a
Gwaay, e ciò che Gwaay gli rispondeva.
Il principe concluse la partita telecinetica mandando tutte le sue pedine nere ol-
tre la linea mediana, in una gran carica strusciante che rovesciò metà delle pedine
bianche sulle ginocchia dell’avversario. Poi si alzò elegantemente dallo sgabello.
«Questa sera cenerò con il mio amato fratello negli appartamenti del mio vene-
rato padre» annunciò a tutti in toni mielati. «Finché sarò là, e sotto la scorta del
grande Flindach qui presente, nessun incantesimo potrà farmi del male. Perciò voi
potrete riposarvi per qualche tempo dalle vostre concentrazioni protettive, o miei
benigni maghi di Prima Classe.» E si voltò per andarsene.
Il Mouser, gettandosi interiormente sull’occasione di rivedere il cielo, sia pure
in una notte gelida, si alzò di scatto dal seggio ed esclamò: «Oh, Principe Gwaay!
Anche se sarai al sicuro dagli incantesimi, non avrai bisogno della protezione delle
mie lame, durante il pranzo? Vi sono stati molti grandi principi che non sono mai
divenuti re, perché venne loro servito ferro freddo nelle costole, tra la minestra e il
pesce. Inoltre, sono un abile giocoliere e conosco molti trucchi da prestigiatore.»
Gwaay si girò a mezzo. «Neppure l’acciaio può farmi del male, quando la mano
del mio genitore è protesa sopra di me» rispose così sommessamente che al Mou-
ser le sue parole parvero lanciate, come palline piumate, appena fino al suo orec-
chio. «Rimani qui, Gray Mouser.»
Il tono era inequivocabilmente deciso, tuttavia il Mouser, temendo di trascorre-
re una serata noiosa, insistette. «Vi è anche la questione del mio grande incantesi-
mo di cui ti ho parlato, Principe... un incantesimo estremamente efficace contro i
maghi dalla Seconda Classe in giù, come quelli impiegati da un certo fratello osti-
le. Questa sarebbe l’occasione buona...»
«Non debbono esservi stregonerie, questa notte!» l’interruppe severamente
Gwaay, sebbene non alzasse la voce. «Sarebbe un insulto al mio genitore ed al suo
grande servitore Flindach qui presente, Maestro dei Maghi, il solo pensare una cosa
simile! Stattene tranquillo, spadaccino, e non parlare più.» La sua voce assunse un
tono pio. «Vi sarà tempo per la stregoneria e per le spade, se si dovrà uccidere.»
Flindach annuì solennemente, e i due se ne andarono in silenzio. Il Mouser se-
dette. Con una certa sorpresa, notò che i dodici vecchi stregoni erano già raggomi-
tolati come aselli sui loro grandi seggi e russavano sonoramente. Non poteva nep-
pure far passare il tempo sfidando uno di loro al gioco del pensiero, sperando di
imparare, o a una partita di scacchi convenzionali. Prometteva di essere una serata
molto squallida.
Poi un pensiero illuminò il volto olivastro del Mouser. Alzò le mani incurvan-
dole a coppa, e le batté leggermente, come aveva visto fare Gwaay.
La snella schiava, Ivivis, comparve sotto l’arcata in fondo. Quando vide che
Gwaay se ne era andato e che i suoi stregoni dormivano, i suoi occhi brillarono
come quelli di un micino. Corse verso il Mouser, muovendo fulmineamente le
gambe agili, gli sedette sulle ginocchia con un ultimo balzo, e lo strinse tra le brac-
cia delicate.

Fafhrd si dileguò senza far rumore in un buio passaggio laterale, mentre Hasjarl
arrivava a grandi passi lungo il corridoio illuminato dalle torce, insieme a un digni-
tario riccamente vestito che aveva la faccia orrendamente sfigurata da tre verruche
e da una voglia di vino, e gli occhi rossi, e accanto al quale avanzava un bel giova-
ne pallido dagli occhi stranamente vecchi. Fafhrd non aveva mai visto Flindach né,
naturalmente, Gwaay.
Hasjarl era chiaramente infuriato, poiché faceva smorfie insane e si torceva le
mani come se le facesse combattere l’una contro l’altra. I suoi occhi, comunque,
erano chiusi. Mentre gli passava accanto scalpitando, Fafhrd ebbe l’impressione di
scorgere un piccolo tatuaggio sulla sua palpebra superiore.
Fafhrd udì il dignitario dagli occhi rossi dire: «Non è necessario che ti precipiti
alla tavola del tuo genitore, Nobile Hasjarl. Siamo in orario.» Hasjarl rispose con
un ringhio, ma il giovane pallido disse soavemente: «Mio fratello è sempre una
perla scaramazza di diligenza.»
Fafhrd avanzò, seguì i tre con lo sguardo fino a quando scomparvero, poi si av-
viò nella direzione opposta, seguendo l’odore del ferro rovente fino alla camera
delle torture di Hasjarl.
Era una stanza ampia e bassa, e la più illuminata che Fafhrd avesse mai visto in
quei tenebrosi Livelli Superiori indegni del loro nome.
A destra c’era un basso tavolo, intorno al quale stavano curvi cinque uomini
tozzi e con le gambe ancora più storte di Hasjarl, e con le facce coperte da masche-
re fino all’altezza del labbro superiore. Erano rumorosamente intenti a rosicchiare
le ossa pescate da un enorme piatto, e bevevano birra da borracce di cuoio. Quattro
delle maschere erano nere, una rossa.
Dietro di loro c’era un fuoco di carboni, in una torre circolare di mattoni alta la
metà di un uomo. La griglia di ferro brillava rossa. I carboni si ravvivavano, diven-
tando quasi incandescenti, e poi ridiventavano rossocupi, mentre una megera storta
e semicalva vestita di stracci azionava lentamente un mantice.
Lungo le pareti, ai due lati, erano appoggiati o appesi, numerosissimi, vari
strumenti di metallo e di cuoio che mostravano il loro orrendo scopo mediante la
spettrale rassomiglianza con varie superfici esterne e orifici interni del corpo uma-
no: stivali, collari, maschere, vergini di Norimberga, imbuti e così via.
A sinistra, una ragazza bionda, piacevolmente rotondetta, coperta da una sotto-
tunica bianca, giaceva legata a una ruota. La mano destra, chiusa in un mezzo
guanto di ferro, era tesa verso un congegno a manovella. Sebbene il suo volto fosse
rigato di lacrime, non sembrava che soffrisse, per il momento.
Fafhrd avanzò verso di lei, togliendo in fretta dalla borsa ed infilandosi al me-
dio della mano destra il massiccio anello che l’emissario di Hasjarl gli aveva con-
segnato a Lankhmar, come dono del suo signore. Era d’argento, con un grosso si-
gillo nero che recava l’emblema di Hasjarl: un pugno chiuso.
Gli occhi della ragazza si riempirono di nuove paure, quando vide avvicinarsi
Fafhrd.
Quasi senza guardarla, mentre si fermava accanto alla ruota, Fafhrd si girò ver-
so i banchettanti mascherati, che adesso lo guardavano a bocca aperta. Tenendo
verso di loro il dorso della mano destra, egli esclamò, aspramente, ma con disinvol-
tura: «Per l’autorità di questo sigillo, consegnatemi la ragazza, Friska!» E con un
angolo della bocca mormorò alla ragazza: «Coraggio!»
L’essere mascherato di nero che corse verso di lui come un cane terrier parve
non riconoscere il sigillo di Hasjarl o non capirne l’importanza, perché disse sol-
tanto, agitando un dito unto: «Vattene, barbaro. Questo grazioso bocconcino non è
per te. Non sperare di placare qui le tue rozze brame. Il nostro Padrone...»
Fafhrd gridò: «Se non accetti l’autorità del Pugno Chiuso in un modo, allora
dovrai subirla in un altro!» E serrando la mano con l’anello, l’avventò contro la
mascella bisunta del torturatore, il quale cadde lungo disteso sulle pietre scure, sci-
volò di una spanna, e restò immobile.
Fafhrd si girò di scatto verso gli altri banchettanti, che si erano alzati a mezzo e,
battendo la mano sull’elsa di Astagrigia, ma senza sguainarla, si piantò le nocche
sui fianchi, si rivolse alla maschera rossa e abbaiò, un po’ come Hasjarl: «Il nostro
Padrone del Pugno ha cambiato idea e mi ha ordinato di venire a prendere questa
Friska, in modo da poter continuare il suo spasso a pranzo, per divertire i suoi
commensali. Volete che un servitore nuovo, come me, riferisca a Hasjarl i vostri
indugi e le vostre negligenze? Scioglietela immediatamente e non dirò niente.»
Puntò un dito verso la megera che azionava il mantice. «Tu... prendi la sua soprav-
veste!»
Gli uomini, a quelle parole, si affrettarono ad obbedire, riabbassandosi le ma-
schere sulle bocche e sui menti. Vi furono mormorii di scusa, che Fafhrd ignorò.
Persino quello che aveva colpito si alzò in piedi, barcollante, e cercò di aiutare gli
altri.
La ragazza era stata liberata dal congegno per la torsione del polso, sotto la su-
pervisione di Fafhrd, e si stava mettendo a sedere sul bordo del tavolato quando la
megera arrivò con un abito e due pianelle, una delle quali era imbottita di ornamen-
ti vari. La ragazza fece per prenderle, ma Fafhrd le afferrò e poi, agguantandola per
il braccio sinistro, la trascinò brutalmente in piedi.
«Non c’è tempo, adesso» comandò. «Lasceremo decidere a Hasjarl come ti
vuole abbigliata per il divertimento.» E senza aggiungere altro uscì a grandi passi
dalla camera delle torture trascinandosela al fianco, pur mormorando ancora: “Co-
raggio” con un angolo della bocca.
Quando ebbero superato la prima svolta del corridoio e furono giunti ad una bi-
forcazione buia, il Nordico si fermò e la guardò aggrottando la fronte. Lei spalancò
gli occhi per il terrore, e si ritrasse, ma poi, assumendo un’espressione più ferma,
disse, con l’ardimento della paura: «Se mi violenti lungo la strada, lo dirò a Ha-
sjarl.»
«Non intendo violentarti, bensì salvarti, Friska» le assicurò rapidamente Fafhrd.
«La storia di Hasjarl che mi ha mandato a prenderti era un trucco. Dov’è un posto
segreto dove io possa nasconderti per qualche giorno?... fino a quando fuggiremo
da queste cripte ammuffite, per sempre! Ti porterò cibi e bevande.»
Friska sembrò spaventarsi ancora di più. «Vuoi dire che non l’ha ordinato Ha-
sjarl? E tu sogni di fuggire da Quarmall? Oh, straniero, Hasjarl mi avrebbe torto il
polso ancora un po’, forse non mi avrebbe fatto troppo male, mi avrebbe fatto subi-
re solo qualche altra umiliazione, e certamente mi avrebbe risparmiato la vita. Ma
se sospettasse che io ho cercato di fuggire da Quarmall... Riportami nella camera
delle torture!»
«No» fece irritato Fafhrd, lanciando occhiate avanti e indietro lungo il corridoio
deserto. «Fatti coraggio, ragazza. Quarmall non è il mondo intero. Quarmall non è
le stelle e il mare. Dov’è una stanza segreta?»
«Oh, è inutile» balbettò lei. «Non potremo mai fuggire. Le stelle sono un mito.
Riportami indietro.»
«Per fare la figura dello stupido? No» ribatté aspramente Fafhrd. «Ti salverò da
Hasjarl, e anche da Quarmall. Deciditi, Friska, perché non cambierò idea. Se ti az-
zardi a gridare ti tapperò la bocca. Dov’è una stanza segreta?» Era talmente esa-
sperato che per poco non le torse il polso, poi si ricordò in tempo; si limitò ad ac-
costare il viso a quello di lei e gracchiò: «Pensa!» La ragazza profumava d’erica,
sotto l’odore del sudore e delle lacrime.
Poi i suoi occhi assunsero un’espressione distante; e con un filo di voce disse,
in tono quasi sognante: «Tra il Livello Superiore e quello Inferiore c’è una grande
galleria, con molte porticine adiacenti. Un tempo era una parte frequentata di
Quarmall, dicono, ma ora viene disputata tra Hasjarl e Gwaay. Entrambi la riven-
dicano, nessuno la cura: non viene neppure spazzata via la polvere. La chiamano la
Galleria degli Spettri.» La sua voce divenne ancora più fioca. «Una volta, il paggio
di Gwaay mi ha supplicata di incontrarmi con lui, lì vicino, ma non ho osato andar-
ci.»
«Ah, è il posto adatto» disse Fafhrd con un gran sorriso. «Conducimi là.»
«Ma non ricordo la strada» protestò Friska. «Il paggio di Gwaay me l’ha spie-
gata, ma io ho cercato di dimenticare...»
Fafhrd aveva intravvisto una scala a chiocciola nella diramazione buia. Si avviò
immediatamente da quella parte, trascinandosi dietro Friska.
«Sappiamo che, tanto per cominciare, dobbiamo scendere» disse con rozza al-
legria. «La tua memoria migliorerà con un po’ di moto, Friska.»

Il Gray Mouser ed Ivivis si erano consolati con i baci e le carezze che sembra-
vano prudenti della Sala delle Stregonerie di Gwaay, ora degli Stregoni Addormen-
tati. Poi, dapprima su invito di Ivivis, avevano fatto visita ad una vicina cucina, do-
ve il Mouser aveva convinto il tozzo cuoco a servirgli tre grosse fette di inconfon-
dibili costate di manzo semicrude, che aveva divorato con grande soddisfazione.
Dopo aver così placato almeno uno dei suoi appetiti, il Mouser aveva consenti-
to a proseguire il loro piccolo vagabondaggio e si era persino soffermato a guarda-
re una fungaia. Era stranissimo vedere, in mezzo alle colonne di roccia rozzamente
rifinite, le file dei funghi bianchi che si confondevano in lontananza, convergendo
verso l’infinito nell’oscurità odorosa d’ammoniaca.
A questo punto, i due avevano cominciato a punzecchiarsi reciprocamente: il
Mouser diceva che Ivivis doveva attrarre molti innamorati con la sua bellezza im-
pertinente, lei negava fermamente. Ma poi finì per ammettere che c’era un certo
Klevis, paggio di Gwaay, per il quale il suo cuore aveva battuto più rapido, una
volta o due.
«E sarà meglio che tu tenga gli occhi aperti, Ospite Grigio» aveva ammonito
Ivivis, agitando un ditino, «perché egli è sicuramente il più ardente ed abile degli
spadaccini di Gwaay.»
Poi, per cambiare argomento e per compensare il Mouser della pazienza dimo-
strata durante la visita alla fungaia, la fanciulla lo aveva trascinato, tenendolo per
mano, in una cantina dei vini. Lì aveva graziosamente pregato il vecchio e stizzoso
cantiniere di dispensare al suo compagno un gran boccale di liquido ambrato. Con
grande gioia del Mouser, era purissima e potentissima essenza d’uva, senza ag-
giunte di sorta.
Ora che due dei suoi appetiti erano stati soddisfatti, il terzo riassalì il Mouser
con maggior ardore. Tenere Ivivis per mano divenne una tentazione, e la tunica
verdechiara non fu più un oggetto d’ammirazione e di complimenti, ma solo una
barriera di cui liberarsi al più presto possibile e con il minimo indispensabile di de-
coro.
Assumendosi il compito di fare da guida, la guidò, per quanto poteva ricordare
la strada e senza troppe parole, verso lo stanzino che aveva requisito per il suo bot-
tino, due piani più sotto la Sala delle Stregonerie di Gwaay. Alla fine trovò il corri-
doio che cercava, tappezzato da arazzi purpurei e rischiarato da candelieri di rame,
appesi a larghi intervalli al soffitto, mediante catene di rame: ciascuno reggeva tre
grosse candele nere.
Fino a quel punto Ivivis lo seguì mostrando solo una scarsa, civettuola riluttan-
za, e facendo pochissime domande con aria innocente per sapere cosa voleva e per-
ché aveva tanta fretta. Ma poi le sue esitazioni divennero convincenti, gli occhi
cominciarono a rivelare un’inquietudine sincera, o addirittura paura, e quando egli
si fermò accanto all’apertura nell’arazzo davanti alla porta dello stanzino e, con il
più cerimonioso dei sorrisi lubrichi le indicò che erano giunti a destinazione, Ivivis
si trasse bruscamente indietro, soffocando un’esclamazione con il palmo della ma-
no.
«Gray Mouser» bisbigliò rapidamente, con uno sguardo che era nello stesso
tempo spaventato e implorante, «c’è una confessione che avrei dovuto farti prima,
e che debbo fare subito. Per una di quelle maligne e beffarde coincidenze che pre-
dominano in Quarmall, tu hai scelto come nascondiglio proprio la camera in cui...»
Fu una fortuna che il Gray Mouser prendesse sul serio l’espressione ed il tono
di Ivivis, e che fosse per natura diffidente e guardingo, e soprattutto che le sue ca-
viglie notassero in quel momento un lieve, insolito soffio d’aria uscente di sotto
l’arazzo. Infatti, senza altro preavviso, un pugno che stringeva uno scuro stiletto
spuntò dall’apertura dell’arazzo dirigendosi di scatto verso la sua gola.
Con il taglio della mano sinistra che aveva sollevato per indicare ad Ivivis la lo-
ro camera da letto, il Mouser colpì, scostandolo, il braccio dalla manica nera.
La ragazza esclamò, non troppo forte: «Klevis!»
Con la destra, il Mouser afferrò il polso che gli sfrecciava accanto e lo torse.
Con la sinistra aperta colpì simultaneamente l’assalitore all’ascella.
Ma la stretta del Mouser, troppo affrettata, era imperfetta. Inoltre, Klevis non
aveva intenzione di resistere e di farsi slogare o spezzare il braccio. Ruotando se-
condo la torsione impressa dal Mouser, eseguì volutamente una capriola in avanti.
Il risultato fu che Klevis perse il pugnale, il quale cadde tintinnando cupamente
sul pesante tappeto, ma si liberò illeso dalla presa del Mouser e, dopo altre due ca-
priole, atterrò leggermente sulle punte dei piedi, voltandosi di scatto e sguainando
il fioretto.
Ma nel frattempo il Mouser aveva sfoderato il Cesello ed anche lo stiletto, detto
Zampino di Gatto, tenendo quest’ultimo dietro la schiena. Attaccò cautamente, con
varie finte. Quando Klevis contrattaccò energicamente, indietreggiò, parando
all’ultimo momento i rabbiosi affondi, in modo che molto spesso la lama
dell’avversario gli sfrecciava accanto sibilando.
Klevis si avventò con particolare furore. Il Mouser parò, in alto, questa volta, e
senza indietreggiare. In un istante si trovarono premuti corpo a corpo, con le spade
impegnate fino all’elsa, al di sopra delle loro teste.
Girandosi un poco, il Mouser bloccò il ginocchio di Klevis, diretto contro il suo
inguine, e con lo stiletto cui l’altro non aveva fatto caso lo pugnalò dal basso: lo
Zampino penetrò sotto lo sterno di Klevis, gli trapassò il fegato, lo stomaco e il
cuore.
Lasciando lo stiletto, il Mouser scostò da sé il corpo inerte e si girò.
Ivivis stava davanti a loro, con lo stiletto di Klevis impugnato per un affondo.
Il corpo crollò con un tonfo sul pavimento.
«Chi dei due ti proponevi d’infilzare?» chiese il Mouser.
«Non so» rispose la ragazza, con voce incolore. «Te, immagino.»
Il Mouser annuì. «Poco prima di questa interruzione, tu stavi dicendo: “Proprio
la camera in cui...” Che cosa?»
«... in cui mi incontravo spesso con Klevis» rispose lei.
Il Mouser annuì ancora. «Quindi lo amavi e...»
«Stai zitto, sciocco!» l’interruppe la ragazza. «È morto?» Nella sua voce
c’erano preoccupazione ed esasperazione.
Il Mouser arretrò, lungo il cadavere, fino ad arrivare all’altezza della testa. Poi,
abbassando lo sguardo, disse: «Come una bistecca. Era un bel giovane.»
Per un lungo attimo si guardarono come leopardi, al di sopra del cadavere. Poi,
girando un po’ la faccia, Ivivis disse: «Nascondilo, imbecille. Vederlo mi strazia il
cuore.»
Annuendo, il Mouser si chinò e fece rotolare il cadavere sotto l’arazzo di fronte
alla porta dello stanzino. Poi gli mise accanto il fioretto, e svelse lo Zampino dal
petto del morto. Zampillò pochissimo sangue. Il Mouser ripulì lo stiletto
sull’arazzo, poi riassestò i drappeggi.
Si rialzò, strappò il pugnale dalla mano della fanciulla meditabonda e lo lanciò
sotto l’arazzo.
Con una mano spalancò il drappeggio, con l’altra strinse la spalla di Ivivis e la
spinse verso la porta che Klevis aveva lasciata aperta.
Immediatamente, la ragazza si svincolò dalla stretta, ma entrò. Il Mouser la se-
guì. Entrambi avevano ancora negli occhi quell’espressione da leopardo.
Una sola torcia rischiarava lo stanzino. Il Mouser chiuse la porta e la sbarrò.
Ivivis ringhiò, riassumendo: «Tu mi devi molto, Straniero Grigio.»
Il Mouser mostrò i denti in un sogghigno privo di gaiezza. Non perse tempo a
controllare se i gingilli che aveva rubato e nascosto lì erano stati toccati. Non gli
passò neppure per la mente.

Fafhrd provò un senso di sollievo quando Friska gli disse che la fenditura più
buia, in fondo al corridoio scuro, lungo e stretto in cui erano appena entrati era la
porta della Galleria degli Spettri. Era stato un cammino affrettato e nervoso, con
molte occhiate oltre gli angoli, e fulminee ritirate nelle alcove buie quando passava
qualcuno, e una discesa più lunga di quanto avesse previsto il Nordico. Se avevano
raggiunto soltanto la sommità dei Livelli Inferiori, allora Quarmall doveva essere
senza fondo! Tuttavia, il morale di Friska era considerevolmente migliorato. Tal-
volta, ora quasi saltellava, nella camicia bianca profondamente scollata sulla schie-
na. Fafhrd camminava a lunghi passi decisi, stringendo nella sinistra la sopravveste
e le pantofole della ragazza, e l’ascia nella destra.
Il sollievo del Nordico non sminuì affatto la sua prudenza; e quando qualcuno
uscì precipitosamente da una tenebrosa imboccatura d’un corridoio davanti alla
quale passavano, sferrò un colpo, quasi con negligenza, e sentì la lama dell’ascia
affondare a metà dentro a un cranio.
Vide un bel giovane biondo, ormai purtroppo morto, e con la bellezza piuttosto
rovinata dall’ascia, rimasta infissa nella grande ferita. Una mano si aprì, e la spada
che impugnava cadde sul pavimento.
«Hovis!» gridò Fiska. «Oh, dèi! O dèi che non ci siete. Hovis!»
Alzando un piede, Fafhrd lo piantò di traverso sul petto del giovane, liberando
l’ascia e, con lo stesso movimento, mandando il cadavere a ruzzolare nel corridoio
buio dal quale si era avventato così imprudentemente da vivo.
Dopo essersi guardato intorno rapidamente ed essere rimasto in ascolto per
qualche istante, si girò verso Friska, pallidissima e ad occhi sbarrati.
«Chi è questo Hovis?» domandò, scuotendola leggermente per la spalla, quan-
do lei non rispose.
Friska aprì la bocca due volte e la richiuse, mentre il suo viso rimaneva ine-
spressivo come il muso di un pesce. Quindi, con un breve gemito, disse: «Ti avevo
mentito, barbaro. Ho incontrato qui Hovis, il paggio di Gwaay. Più di una volta.»
«E allora perché non me l’avevi detto, ragazza?» domandò Fafhrd. «Credevi
che ti avrei rimproverata per la tua immoralità, come certe barbe grigie cittadine?
Oppure non hai alcun riguardo per i tuoi uomini, Friska.»
«Oh, non rimproverarmi» implorò afflitta Friska. «Ti prego, non rimproverar-
mi.»
Fafhrd le batté la mano sulla spalla. «Su, su» disse, «Avevo dimenticato che sei
stata torturata e non eri in grado di ricordare tutto. Andiamo.»
Avevano percorso una dozzina di passi, quando Friska cominciò a rabbrividire
ed a singhiozzare contemporaneamente, in un crescendo rapido. Poi si girò e tornò
in dietro, correndo e gridando: «Hovis, Hovis, perdonami!»
Fafhrd l’afferrò dopo tre passi. La scrollò di nuovo e, quando vide che non ba-
stava a far cessare i singhiozzi, usò l’altra mano per schiaffeggiarla due volte, fa-
cendole ondeggiare un po’ la testa.
Lei lo guardò, ammutolita.
Senza rabbia, ma cupamente, egli le disse: «Friska, debbo ricordarti che ora
Hovis è dove le tue parole e le tue lacrime non potranno mai raggiungerlo. È mor-
to. Non può tornare. Inoltre, l’ho ucciso io. Anche questo è irrimediabile. Ma tu sei
ancora viva. Puoi nasconderti da Hasjarl. E poi, che tu lo creda o no, potrai fuggire
da Quarmall con me. Adesso vieni, e non guardarti indietro.»
Friska obbedì ciecamente, con pochi gemiti soffocati.

Il Gray Mouser si stiracchiò soddisfatto sulla pelle d’orso bordata d’argento che
aveva gettato sul pavimento del suo stanzino. Poi si puntellò sul gomito e, pren-
dendo le perle nere che aveva rubato, provò a vedere come stavano sul seno di Ivi-
vis nella luce pallida dell’unica torcia. Come aveva immaginato, le perle stavano
benissimo. Fece per allacciargliele al collo.
«No, Mouser» obiettò pigramente la ragazza. «Risvegliano uno spiacevole ri-
cordo.»
Lui non insistette ma, tornando a sdraiarsi, disse incautamente: «Ah, sono un
uomo fortunato, Ivivis. Ho te ed ho un principale che, sebbene sia un po’ noioso
con tutti quei sortilegi e quei suoi toni blandi, mi sembra un tipo abbastanza inno-
cuo, certo più sopportabile di suo fratello Hasjarl, se è vero anche soltanto la metà
di quel che ho sentito sul suo conto.»
La voce di Ivivis si animò. «Credi che Gwaay sia innocuo? E migliore di Ha-
sjarl? Toh, che strana idea! Ma solo una settimana fa ha mandato a chiamare la mia
migliore amica, Divis, che era la sua concubina preferita e, dicendole che era una
collana delle stesse pietre, le ha appeso al collo un’aspide smeraldo, il cui morso è
infallibilmente mortale.»
Il Mouser girò la testa e fissò Ivivis. «Perché mai Gwaay ha fatto una cosa si-
mile?» chiese.
La ragazza ricambiò lo sguardo, senza capire. «Come perché? Senza ragione,
naturalmente» disse. «Lo sanno tutti, che Gwaay è fatto così.»
Il Mouser insistette: «Vuoi dire che, invece di annunciarle: “Mi sono stancato
di te”, l’ha uccisa?»
Ivivis annuì. «Credo che Gwaay non sopporti di ferire gli altri scacciandoli,
come non sopporta di gridare.»
«Allora è meglio essere uccisi che scacciati?» chiese ingenuamente il Mouser.
«No, ma per Gwaay è più facile uccidere che respingere. La morte è dovunque,
qui in Quarmall.»
Il Mouser ebbe una fuggevole visione del cadavere di Klevis che si irrigidiva
dietro l’arazzo.
Ivivis proseguì: «Qui, nei Livelli Inferiori, siamo sepolti prima ancora di nasce-
re. Viviamo, amiamo e moriamo sepolti. Anche quando ci spogliamo, portiamo in-
dosso un indumento di muffa invisibile.»
Il Mouser disse: «Comincio a capire perché è necessario coltivare una certa in-
sensibilità, qui a Quarmall, per poter godere tutti i momenti di piacere strappati alla
vita... o forse dovrei dire alla morte.»
«È verissimo, Gray Mouser» disse concisamente Ivivis, stringendosi a lui.

Fafhrd cominciò a togliere le ragnatele che congiungevano i battenti polverosi


della porta semiaperta e costellata di borchie, poi si fermò, e si chinò per passare
sotto quei fragili drappeggi.
«Chinati anche tu» disse a Friska. «È meglio non lasciare tracce del nostro pas-
saggio. Più tardi cancellerò le nostre impronte nella polvere, se è necessario.»
Avanzarono di pochi passi, poi si fermarono, tenendosi per mano, attendendo
che i loro occhi si abituassero all’oscurità. Fafhrd stringeva ancora nell’altra mano
l’abito e le pantofole di Friska.
«È questa la Galleria degli Spettri?» domandò.
«Sì» gli bisbigliò all’orecchio la ragazza, in toni spaventati. «Alcuni dicono che
Gwaay e Hasjarl mandano i loro morti a combattere qui. Altri sostengono che de-
moni, non legati all’uno o all’altro.»
«Basta così, ragazza» ordinò burberamente Fafhrd. «Se debbo combattere dia-
voli o fantasmi, lasciami almeno l’udito e il coraggio.»
Tacquero per qualche istante, mentre la fiamma dell’ultima torcia, venti passi al
di là della porta socchiusa, rivelava loro lentamente un’immensa camera, dal soffit-
to basso formato da enormi, rozzi blocchi di pietra nera legati con calce pallida. I
mobili erano pochi, e coperti da drappi sbrindellati; e vi si scorgevano molte porti-
cine chiuse. Da entrambi i lati vi erano ampi rostri, a poche spanne dal pavimento,
e verso il centro, sorprendentemente, sorgeva qualcosa che sembrava una fontana
asciutta.
Friska bisbigliò: «Alcuni dicono che la Galleria degli Spettri fosse un tempo
l’harem dei sovrani padri di Quarmall, per diversi secoli, quando vivevano sottoter-
ra tra i Livelli, prima che il padre di Quarmal, convinto dalla moglie sirena, ritor-
nasse al Forte. Vedi, se ne andarono così all’improvviso che il soffitto nuovo non
venne neppure rifinito, né intonacato o dipinto, se pure questi erano i progetti.»
Fafhrd annuì. Diffidava di quel soffitto non sorretto da colonne, e pensava che
quel luogo sembrava molto più primitivo delle lucide stanze tappezzate di cuoio
dell’alloggio di Hasjarl. Questo gli fece tornare in mente qualcosa.
«Dimmi, Friska» chiese, «come mai Hasjarl può vedere a occhi chiusi? È...»
«Oh, ma non lo sai?» l’interruppe sorpresa la ragazza. «Non conosci neppure il
segreto del suo orribile sbirciare? Lui...»
Una scura sagoma vellutata che strideva quasi impercettibilmente piombò
dall’alto, passando davanti alle loro facce; con uno strillo, Friska nascose il volto
contro il petto di Fafhrd, e gli si aggrappò stretta stretta.
Mentre le passava le dita tra i capelli odorosi d’erica, per dimostrarle che nes-
sun pipistrello vi si era aggrappato, e poi le faceva scorrere le mani sulle spalle e
sulla schiena nuda, per provare che non era neppure atterrato lì, Fafhrd cominciò a
dimenticare Hasjarl e l’enigma della sua seconda vista... e il timore che il soffitto
crollasse loro addosso.
Secondo la consuetudine, Friska gridò due volte, sottovoce.

Gwaay batté languidamente le mani bianche e ben curate, e con un lieve cenno
del capo segnalò agli schiavi in attesa di togliere i piatti dal basso tavolo. Si abban-
donò pigramente sul seggio imbottito e, tra le palpebre socchiuse guardò per un
momento il suo compagno, prima di parlare. Suo fratello, che gli stava seduto di
fronte, non era di buon umore, ma era raro che Hasjarl non fosse in preda alla rab-
bia o, più spesso, semplicemente incupito e irritato. Questo era forse dovuto al fatto
che Hasjarl era un uomo bruttissimo, e la sua indole si era adattata al corpo: o forse
era vero il contrario. Gwaay era indifferente nei confronti di entrambe le teorie;
sapeva soltanto che, con un’occhiata, tutto ciò che la sua memoria gli aveva detto
di Hasjarl aveva trovato conferma; e si rendeva conto, ancora una volta, dell’amara
immensità del suo odio verso il fratello. Tuttavia, Gwaay parlò gentilmente, con
voce sommessa e gradevole:
«Bene, come mai, Fratello, dobbiamo giocare a scacchi, quel gioco diabolico
che dicono esista in tutti i mondi? Ti darà una possibilità di battermi ancora. Tu
vinci sempre a scacchi, lo sai, tranne quando abbandoni. Debbo far sistemare la
scacchiera davanti a noi?» E poi, in tono accattivante: «Ti concederò un pedone di
vantaggio!» Alzò leggermente le mani, come per batterle di nuovo e ordinare di
tradurre in atto la sua proposta.
Con il frustino che portava appeso al polso, Hasjarl colpì in piena faccia lo
schiavo più vicino, e indicò in silenzio la massiccia, ornata scacchiera in fondo alla
stanza. Era tipico di Hasjarl. Era un uomo d’azione, di poche parole, almeno lonta-
no dal suo territorio.
Per giunta, Hasjarl era di pessimo umore. Flindach lo aveva strappato al suo
passatempo più interessante ed eccitante, la tortura. E per cosa? pensò Hasjarl: per
giocare a scacchi con quell’insopportabile fratello; per starsene seduto a guardare
la sua bella faccia; mangiare cibi che gli sarebbero sicuramente rimasti sullo sto-
maco; attendere il responso delle stelle, che conosceva già... che conosceva da an-
ni; e infine essere costretto a sorridere davanti agli orribili occhi sanguigni di suo
padre, unici in tutta Quarmall ad eccezione di quelli di Flindach, e brindare alla
Casa di Quarmall per l’anno successivo. Tutto questo per Hasjarl era disgustoso, e
lo lasciava capire chiaramente.
Lo schiavo, con un segno sanguinante che si gonfiava rapidamente sulla faccia,
posò cautamente la scacchiera tra i due. Gwaay sorrise mentre un altro schiavo di-
sponeva meticolosamente i pezzi: aveva meditato un piano per esasperare il fratel-
lo. Aveva scelto il nero come al solito, e si riproponeva un gambetto che il suo avi-
do avversario non poteva rifiutare, e che avrebbe accettato a proprio danno.
Hasjarl si appoggiò torvo alla spalliera della sedia, incrociando le braccia. «Do-
vrei farti prendere il bianco» protestò. «Conosco i trucchi meschini che sai fare con
i pezzi neri. Ti ho visto, quand’eri un ragazzino pallido come una bimba, farli vola-
re in aria per sbalordire i marmocchi degli schiavi. Come posso sapere che non ba-
rerai muovendo mentalmente i tuoi pezzi mentre io rifletto?»
Gwaay rispose dolcemente: «I miei meschini poteri, come tu giustamente li va-
luti, Fratello, si estendono soltanto a pezzetti di basalto, di ossidiana e di altre rocce
vulcaniche confacenti al mio livello inferiore. Invece questi pezzi sono di giaietto,
Fratello, e nella tua grande erudizione tu saprai certamente che è soltanto carbone,
sostanza vegetale annerita dalla pressione, non appartenente neppure allo stesso
regno delle poche sostanze soggette alle mie piccole magie. Inoltre, sarebbe una
grande stranezza se ti lasciassi sfuggire il benché minimo trucco, con quegli strani
occhi modificati dall’intervento degli schiavi chirurghi.»
Hasjarl ringhiò. Si mosse solo quando tutto fu pronto; poi, con un movimento
rapido come l’avventarsi di una vipera, prelevò dalla scacchiera un pedone di torre
nero e, con una risatina crepitante, sibilò: «Ricordi, Fratello? Mi avevi promesso
un pedone di vantaggio! Muovi!»
Gwaay fece segno allo schiavo in attesa di avanzare il suo pedone di re. Hasjarl
rispose allo stesso modo. Una pausa di un attimo, e Gwaay eseguì il suo gambetto:
pedone in cinque effe! Hasjarl approfittò immediatamente di quel presunto vantag-
gio e la partita si riscaldò. Gwaay, con un sorriso sereno, sembrava meno interessa-
to al gioco che all’ondeggiare delle ombre lanciate dalle lampade guizzanti sulle
imbottiture di cuoio istoriato, di pelle di vitello, d’agnello, di serpente, e persino di
pelle di schiavi e di esseri umani più nobili; sembrava muovere distrattamente,
senza un piano, e tuttavia con sicurezza. Hasjarl, le labbra contratte per la concen-
trazione, badava alla scacchiera, e ogni sua mossa era un’azione meditata, mentale
e fisica. La concentrazione gli faceva dimenticare per il momento suo fratello, di-
menticare tutto tranne il problema che gli stava davanti, perché Hasjarl amava
troppo vincere.
Era sempre stato così; anche da bambini, il contrasto era stato evidente. Hasjarl
era il maggiore: più vecchio solo di pochi mesi che il suo aspetto e il suo portamen-
to facevano sembrare anni. Il lungo torso deforme era mal sorretto dalle gambe ar-
cuate. Il braccio sinistro era sensibilmente più lungo del destro; e le dita, bizzarra-
mente palmate alla prima falange, erano nodose e pelose, con unghie striate e fragi-
li. Sembrava un rompicapo ricostruito malamente, in modo che tutti i pezzi fossero
mal combinati e sghembi.
Questo valeva in particolare per i lineamenti. Aveva il naso di suo padre, ma
più grosso e coperto da pori grossolani; e questo era contraddetto dalla bocca dalle
labbra sottili e compresse, sempre sporte fino ad assumere un perpetuo aspetto di
sfintere. I capelli, opachi e cadenti, gli crescevano bassi sulla fronte; e gli zigomi
appiattiti aggiungevano un’altra contraddizione.
Da ragazzo, spinto da un capriccio perverso, Hasjarl aveva convinto, corrom-
pendolo, lusingandolo o terrorizzandolo, uno degli schiavi esperti in chirurgia per-
ché eseguisse una piccola operazione sulle sue palpebre superiori. Era una cosa da
poco, in se stessa, eppure le sue implicazioni e i suoi risultati avevano condizionato
spiacevolmente le vite di molti uomini, e non cessavano mai di allietare Hasjarl.
Era incredibile che aprire due minuscoli fori nelle palpebre, centrati sulle pupil-
le quando gli occhi erano chiusi, potesse causare tanto nervosismo negli altri; ep-
pure era così. Due cerchietti leggerissimi d’oro sottile, di giada o, come in quel
momento, d’avorio, impedivano ai fori di richiudersi.
Quando Hasjarl guardava attraverso quelle piccole aperture, creava l’effetto di
un’imboscata, e l’oggetto dei suoi sguardi si sentiva spiegato: ma questa era ancora
la meno esasperante delle sue abitudini.
Hasjarl non faceva mai nulla facilmente: ma faceva tutto bene. Persino nella
scherma l’esercizio costante e il braccio sinistro troppo lungo lo ponevano
all’altezza dell’atletico Gwaay. Il suo modo di amministrare i Livelli Superiori su
cui governava era soprattutto economico e funzionale: perché guai allo schiavo che
mancasse nel minimo dettaglio dei suoi doveri. Hasjarl vedeva e puniva.
Hasjarl era quasi all’altezza del suo maestro, nella pratica dell’Arte; e aveva ra-
dunato attorno a sé una schiera di maghi di calibro poco inferiore a quello dello
stesso Flindach. Ma non era felice delle sue capacità così duramente conquistate,
perché tra il suo desiderio di potere assoluto e la realizzazione del suo desiderio
stavano due ostacoli: il Sovrano di Quarmall, che egli temeva più di ogni altra co-
sa; e suo fratello Gwaay, che odiava con un odio alimentato dall’invidia e dai suoi
desideri frustrati.
Gwaay, per contrasto, era agile, ben fatto e di bell’aspetto. Gli occhi, chiarissi-
mi, erano ingannevolmente dolci e gentili, perché mascheravano una volontà forte
e capace di agire come una molla d’acciaio compressa. Il continuo soggiorno nei
Livelli Inferiori su cui governava aveva dato alla sua carnagione liscia e chiara una
particolare lucentezza cerea.
Gwaay possedeva l’invidiabile capacità di fare tutto bene, con poco sforzo e
anche meno esercizio. In un certo senso era molto peggiore del fratello; mentre Ha-
sjarl uccideva con torture e lente sofferenze e un’evidente soddisfazione personale,
almeno attribuiva qualche importanza alla vita, perché era tanto meticoloso nel to-
glierla; invece Gwaay uccideva sorridendo gentilmente, senza ragione, quasi per
scherzo. Neppure gli stregoni che aveva radunato attorno a sé perché lo protegges-
sero e lo divertissero erano al sicuro dai suoi rapidi e fatali capricci.
Alcuni pensavano che Gwaay non conoscesse la paura, ma non era così. Teme-
va il Sovrano di Quarmall e temeva suo fratello; o meglio temeva di venire ucciso
dal fratello prima di avere la possibilità di ucciderlo. Eppure la sua paura ed il suo
odio erano celati così bene che riusciva a star seduto, rilassato, a meno di due brac-
cia da Hasjarl, ed a sorridere divertito, godendosi ogni istante della serata. Gwaay
si complimentava con se stesso per il perfetto controllo delle proprie emozioni.
La partita a scacchi si era sviluppata oltre la fase iniziale, le mosse erano dive-
nute più lente; ora Hasjarl fece avanzare una torre fino in settima fila.
Gwaay osservò gentilmente: «La tua torre è avanzata in profondità nel mio
campo, Fratello. Corre voce che tu abbia assoldato un robusto campione del nord.
A quale scopo, mi domando, in questo nostro mondo sotterraneo dove regna la pa-
ce? È possibile che sia una sorta di torre vivente.» E rimase con la mano librata
immobile su uno dei suoi cavalli.
Hasjarl ridacchiò. «E se il suo scopo è tagliare belle gole, che t’importa? Non
so nulla di questo guerriero o torre, ma si dice... chiacchiere di schiavi, senza dub-
bio... che tu ti sia procurato un abile spadaccino di Lankhmar. Dobbiamo dire che è
un cavallo?»
«Sì, so stare al gioco» osservò Gwaay con prosaica filosofia, alzando il suo ca-
vallo e posandolo delicatamente ma con fermezza in E6.
«Non ci casco» ringhiò Hasjarl. «Non vincerai facendomi divagare.» E piegan-
do la testa sulla scacchiera, tornò ad ammantarsi nei suoi calcoli assorti.
Sullo sfondo gli schiavi si muovevano senza far rumore, curando le lampade e
riempiendo d’olio i serbatoi. Erano necessari molti lumi per rischiarare la sala del
consiglio, perché era bassa e aveva travi massicce, e le pareti tappezzate di arazzi
riflettevano ben poco dei gialli raggi, e il pavimento di mosaico era stato logorato
fino a diventare opaco dagli innumerosi passi dei tempi andati. La sala era stata ri-
cavata nella roccia viva; mani dimenticate da molto tempo avevano collocato le
enormi travi di cipresso e intarsiato così abilmente il pavimento. Le gaie tappezze-
rie, sbiadite dai secoli, erano state appese dagli schiavi di qualche antico Sovrano
di Quarmall, che le aveva rubate ad una carovana in transito; e lo stesso era vero di
tutti i ricchi ornamenti. Gli scacchi e gli scranni, le lampade intarsiate e l’olio che
ne alimentava gli stoppini, e gli schiavi che le curavano: era tutto bottino. Il bottino
di generazioni passate, quando i Sovrani di Quarmall saccheggiavano molte terre e
prelevavano pesanti pedaggi dalle carovane in transito.

Molto al di sopra della calda sala lussuosamente arredata in cui Gwaay e Ha-
sjarl giocavano a scacchi, il Sovrano di Quarmall concluse gli ultimi calcoli che
avrebbero completato il suo oroscopo. Pesanti tende di cuoio escludevano le stelle
che fino a poco prima avevano irradiato scintillando le loro benedizioni e maledi-
zioni. La sola luce, nella stanza piena di strumenti, era il minuscolo chiarore di
un’unica candela. La consuetudine imponeva quella fioca illuminazione per la let-
tura finale dell’oroscopo, e Quarmal doveva aguzzare gli occhi, pure acuti, per ve-
dere bene i Segni e le Case.
Quando ricontrollò i risultati finali, le labbra si torsero in una smorfia
d’irritazione. Questa notte o domani, pensò, con un brivido di gelo interiore. Al
massimo, domani sul tardi. Gli restava davvero poco tempo.
Poi, come rallegrato da uno scherzo sottile, sorrise e annuì, mentre la sua ombra
scarna eseguiva mostruose giravolte sulle tende e sul muro.
Finalmente Quarmal posò la matita e, prendendo quell’unica candela, la usò per
accendere sette ceri più grandi. Con quella luce migliore rilesse l’oroscopo. Questa
volta non diede segno di piacere o di altre emozioni. Lentamente, arrotolò la per-
gamena coperta di figure e di scritte completate e l’infilò in un tubo sottile, ripo-
nendolo nella cintura. Quindi, strofinandosi le mani magre, sorrise di nuovo. Sul
tavolo accanto c’erano gli ingredienti che gli occorrevano per la riuscita del suo
piano: polveri, oli, minuscoli coltelli, e altre sostanze e strumenti vari.
Aveva poco tempo. Quarmal lavorava rapidamente, e le sue dita spatolate com-
pivano miracoli di destrezza. Una volta si accostò al muro per prendere qualcosa. Il
Sovrano di Quarmall non commise errori; non poteva permetterseli.
Non ci volle molto perché il compito venisse completato con sua soddisfazione.
Dopo aver spento i ceri, Quarmal, sovrano di Quarmall, si abbandonò sullo scranno
e, alla luce fioca dell’unica candela chiamò Flindach, per fare annunciare
l’oroscopo a quelli che lo attendevano.
Secondo la sua abitudine, Flindach arrivò quasi subito. Si presentò al suo signo-
re con le braccia incrociate sul petto e la testa china in atto di sottomissione. Flin-
dach non era mai presuntuoso. La sua figura era illuminata solo fino alla cintura:
poi, l’ombra nascondeva l’interesse che la sua faccia sfigurata dalle verruche e dal-
la voglia di vino poteva tradire. Anche il viso più magro di Quarmal era oscurato, e
solo le iridi pallide brillavano fosforescenti dall’ombra, come due minuscole lune
in un cupo cielo sanguigno.
Come se misurasse Flindach, o come se lo vedesse per la prima volta, Quarmal
alzò lentamente lo sguardo dai piedi alla fronte della figura che gli stava davanti, e
guardando direttamente gli occhi di Flindach, tanto simili ai suoi, parlò: «Maestro
dei Maghi, questa notte tu puoi rendermi un servigio.»
Alzò la mano, perché Flindach stava per rispondere, e continuò in fretta: «Ti ho
visto crescere, da bambino a giovinetto, e da giovinetto a uomo; ho nutrito la tua
conoscenza dell’Arte, fino a che, ora, è seconda solo alla mia. La stessa madre ci
ha partoriti, sebbene io fossi il suo primogenito e tu il figlio del suo ultimo anno
fecondo... questa parentela è stata utile. La tua influenza, in Quarmall, quasi egua-
glia la mia. Perciò penso che la tua diligenza e la tua fedeltà meritino una ricom-
pensa.»
Flindach accennò di nuovo a parlare, ma venne dissuaso da un gesto. Quarmal
parlava più lentamente, accompagnando le parole con bruschi colpetti sul rotolo di
pergamena. «Entrambi sappiamo bene, anche per conoscenza diretta, che i miei
figli tramano la mia morte. Ed è anche vero che in qualche modo essi debbono ve-
nire frustrati, perché nessuno dei due è degno di diventare Sovrano di Quarmall; né
sembra probabile che potranno mai raggiungere la necessaria saggezza. A causa
del loro conflitto, Quarmall morirebbe d’inanizione e di abbandono, come è morta
la Galleria degli Spettri. Inoltre, ognuno di loro, per meglio proteggere le sue stre-
gonerie, ha assoldato in segreto uno spadaccino venuto da lontano... tu hai visto
quello di Gwaay. E questo è solo l’inizio: essi porteranno altri mercenari in Quar-
mall, segnando il crollo della nostra potenza.» Tese una mano verso le scure file di
maschere mummificate e ceree e chiese, retoricamente: «I Sovrani di Quarmall di-
fesero e conservarono il nostro regno nascosto solo perché venisse penetrato, popo-
lato e infine conquistato da capitani stranieri?
«Ora, per passare ad una faccenda più segreta» continuò, abbassando la voce.
«La concubina Kewissa porta in grembo il mio seme: un maschio, secondo tutti i
portenti e gli oracoli... benché questo sia noto solo a Kewissa ed a me, ed ora anche
a te, Flindach. Se mai questo virgulto non ancora nato raggiungesse l’adolescenza
senza fratelli, io potrei morire contento, affidandolo in piena fiducia alla tua tute-
la.»
Quarmal s’interruppe, impassibile come una statua. «Tuttavia, contrastare Ha-
sjarl e Gwaay diviene ogni giorno sempre più difficile, perché il loro potere e le
loro mire crescono. La loro stessa innata perversità li fa accedere a regioni ed a
demoni finora soltanto immaginati dai loro predecessori. Persino io, pur versato
nella negromanzia, spesso mi sgomento.» Tacque e guardò Flindach con aria inter-
rogativa.
Per la prima volta da quando era entrato, Flindach parlò. La sua era una voce
addestrata alla recitazione degli incantesimi, profonda e risonante. «Padrone, ciò
che tu dici è vero. Eppure, come arresterai le loro trame? Tu conosci, come la co-
nosco io, la tradizione che vieta l’unico modo per fermarli.»
Flindach indugiò, come se volesse aggiungere qualcosa, ma Quarmal interven-
ne prontamente: «Ho escogitato un piano, che potrà riuscire o meno. Il successo
dipende quasi interamente dalla tua collaborazione.» Abbassò la voce in un bisbi-
glio, accennandogli di venire più vicino. «Anche le pietre possono avere orecchi, o
Flindah, ed io vorrei che questo piano rimanesse completamente segreto.» Quarmal
fece un altro cenno, e Flindach si accostò, fino alla distanza di un braccio dal suo
maestro. Si chinò, a mezzo, in modo che il suo orecchio fosse vicino alla bocca di
Quarmal. Non ricordava di essersi mai accostato tanto al sovrano, e strani turba-
menti gli invasero la mente, recrudescenze di puerili storie di vecchie comari.
Quell’antico uomo senza età dalle iridi perlacee come le sue appariva a Flindach
non già un fratellastro, ma un patrigno estraneo e spietato. Il suo crescente terrore
si intensificò quando le dita robuste di Quarmal si strinsero sul suo polso e
l’attirarono gentilmente più vicino, quasi in ginocchio, accanto al seggio.
Le labbra di Quarmal si mossero rapidamente e Flindach represse l’impulso di
alzarsi e di fuggire, mentre gli veniva rivelato il piano. Con una frase sibilante, la
frase finale, Quarmal concluse, e Flindach comprese l’intera enormità del piano. E
mentre la comprendeva, l’unica candela guizzò e si spense. Venne la tenebra asso-
luta.

La partita a scacchi procedeva rapidamente; gli unici suoni, oltre all’incessante


scalpiccio dei piedi nudi ed il sibilo degli stoppini delle lampade, erano il ticchettio
dei pezzi degli scacchi che venivano spostati e i colpi di tosse di Hasjarl. Il basso
tavolo su cui i due avevano cenato si trovava di fronte all’ampio portale ad arco
che era l’unica evidente via d’accesso alla sala del consiglio.
Ma un’altra entrata c’era. Portava al Forte di Quarmall; ed era in direzione di
quella porta nascosta dagli arazzi che Gwaay lanciava frequenti occhiate. Era sicu-
ro che gli annunci dell’oroscopo sarebbero stati eguali al solito; ma una certa cu-
riosità lo assillava, quella sera; sentiva un vago presentimento di eventi spiacevoli,
come il vento soffia a raffiche prima di un uragano.
Un portento era stato mostrato a Gwaay dagli dèi, quel giorno: un presagio che
né i suoi negromanti né la sua stessa scienza erano in grado di interpretare in modo
da soddisfarlo completamente. Perciò egli riteneva che sarebbe stato più saggio at-
tendere gli sviluppi degli eventi con animo preparato.
Mentre guardava la tappezzeria dietro la quale stava la porta che Flindach a-
vrebbe varcato per annunciare le conseguenze dell’oroscopo, i drappeggi si gonfia-
vano e tremolavano, come investiti da una brezza o dalla lieve pressione di una
mano.
All’improvviso Hasjarl si gettò contro la spalliera del suo seggio e gridò con
voce acuta: «Scacco di torre a re, e matto in tre mosse!» Abbassò malignamente
una palpebra e scrutò Gwaay con aria trionfale.
Gwaay, senza distogliere gli occhi dalla tappezzeria che continuava a ondeggia-
re, disse in toni precisi e mielati: «Il cavallo s’intromette, Fratello, e scacco di sco-
perta. Io do scacco matto in due mosse. Ti sei sbagliato ancora una volta, amico
mio.»
Ma mentre Hasjarl scaraventava al suolo i pezzi con un violento colpo di mano,
l’arazzo si agitò più forte. Due schiavi lo scostarono, e risuonò un’aspra nota di
gong, annunciando l’entrata di un altro dignitario.
In silenzio, tra i drappeggi uscì la forma alta e scarna di Flindach. La faccia cu-
pa, nonostante la voglia di vino e le tre verruche che la sfiguravano, aveva una di-
gnità grandiosa e solenne. E nella sua cupa inespressività, curiosamente smentita
da un astuto scintillio nelle profondità delle pupille nere di quegli occhi dalle iridi
perlacee e dalla sclerotica cremisi, pareva preannunciare una triste novella.
Ogni movimento cessò nella sala lunga e bassa, quando Flindach, fermandosi
sotto l’arcata tra i ricchi drappeggi, levò un braccio in un gesto che chiedeva silen-
zio. Gli schiavi, bene addestrati, rimasero ai loro posti, con le teste chine in atto di
sottomissione; Gwaay restò com’era, fissando direttamente Flindach; e Hasjarl, che
si era girato a mezzo nell’udire il gong, attendeva a sua volta l’annuncio. Tra un
attimo, lo sapevano, Quarmal, il loro padre, sarebbe comparso dietro Flindach e,
con un sorriso perverso, avrebbe annunciato il suo oroscopo. La procedura era
sempre stata quella; e sempre, a quanto potevano ricordare, Gwaay e Hasjarl in
quel momento avevano desiderato che Quarmal morisse.
Flindach, con il braccio levato in un gesto drammatico, cominciò a parlare.
«La redazione dell’oroscopo è stata completata, e sono state trovate le risultan-
ze. Come i Cieli lo predicono, si compie il fato dell’uomo. Io porto questo annun-
cio a Hasjarl e Gwaay, i figli di Quarmal.»
Con un rapido movimento, Flindach si sfilò dalla cintura una pergamena arroto-
lata e, lacerandola con le mani, la gettò gualcita ai suoi piedi. Quasi con lo stesso
gesto, si portò la mano dietro la spalla sinistra e, uscendo dall’ombra dell’arcata, si
rialzò sulla testa un cappuccio a punta.
Spalancando le braccia, Flindach parlò con una voce che pareva venire da mol-
to lontano:
«Quarmal, Sovrano di Quarmall, non regna più. L’oroscopo si è compiuto.
Piangano tutti coloro che si trovano entro le mura di Quarmall. Per tre giorni, il po-
sto del Sovrano resterà vacante. Così impone la tradizione e così sarà. Domani,
quando il sole entrerà nel suo cortile, ciò che rimane di quello che un tempo fu un
signore grande e possente verrà dato alle fiamme. Ora andrò a piangere il mio Ma-
estro e a sovraintendere alle esequie ed a prepararmi con il digiuno e la preghiera.
Voi fate altrettanto.»
Flindach si girò lentamente e scomparve nell’oscurità da cui era uscito.
Per dieci lunghi battiti di cuore Gwaay e Hasjarl rimasero seduti immobili.
L’annuncio era stato per entrambi come uno scroscio di tuono. Per un secondo
Gwaay provò l’impulso di ridacchiare come un bambino sfuggito inaspettatamente
ad una punizione e invece premiato; ma in fondo alla mente, era quasi convinto di
avere sempre saputo il risultato dell’oroscopo. Tuttavia controllò la gaiezza infanti-
le e rimase in silenzio, ad occhi sbarrati.
Hasjarl, d’altra parte, reagì come ci si poteva attendere da lui. Fece una serie di
bizzarre smorfie e terminò con una risata oscena, semisoffocata. Poi aggrottò la
fronte e, voltandosi, disse a Gwaay: «Non hai udito ciò che ha detto Flindach? De-
vo andare a prepararmi!» Balzò in piedi e attraversò la sala senza far rumore, var-
cando l’ampia arcata.
Gwaay rimase seduto per qualche altro istante, socchiudendo gli occhi incupiti,
come se rimuginasse un problema astruso che richiedeva tutte le sue capacità di
concentrazione. All’improvviso schioccò le dita e, accennando ai suoi schiavi di
precederlo, si preparò a ritornare ai Livelli Inferiori.

Fafhrd aveva appena lasciato la Galleria degli Spettri quando udì il lieve clan-
gore di uomini armati che si muovevano cautamente. Lo stordimento causato dalle
grazie di Friska svanì, come se qualcuno l’avesse innaffiato d’acqua diaccia. Si ri-
trasse nell’oscurità più fonda ed origliò abbastanza a lungo per comprendere che
erano picchetti di Hasjarl, incaricati di sventare un’eventuale invasione delle forze
di Gwaay dai Livelli Inferiori... e non di rintracciare lui e Friska, come aveva temu-
to in un primo momento. Poi si diresse a passo svelto verso la Sala della Stregone-
ria di Hasjarl, torvamente soddisfatto che la sua memoria per i punti di riferimento
e le giravolte funzionasse per i corridoi labirintici come per le piste silvestri e le
ripide scalate montane.
Lo spettacolo bizzarro che lo accolse, quando arrivò a destinazione, lo fece ar-
restare sulla soglia di pietra. Immerso fino alle caviglie, completamente nudo, in
una fumante vasca marmorea a forma di conchiglia marina, Hasjarl rimbrottava ed
arringava la gente che riempiva la sala. E tutti i presenti, stregoni, ufficiali, sovrin-
tendenti, paggi che reggevano grandi asciugatoi frangiati e vesti rossocupe ed altri
oggetti, stavano immobili, tremanti, ad occhi bassi, eccettuati i tre schiavi che insa-
ponavano e lavavano il loro Signore con tremula destrezza.
Fafhrd dovette ammettere che, nudo, Hasjarl era in un certo senso più coerente,
brutto dappertutto... un coboldo nato da una fonte calda. E sebbene il grottesco tor-
so roseo come quello d’un neonato e le braccia spaiate fremessero e si torcessero in
una frenesia d’apprensione, egli aveva una certa dignità.
Ringhiava: «Parlate, tutti quanti, c’è una precauzione che ho dimenticato, un ri-
to che ho omesso, una tana di ratti che ho trascurato e da cui Gwaay potrebbe insi-
nuarsi? Oh, proprio stanotte, quando i demoni stanno in agguato ed io debbo pen-
sare a mille cose e abbigliarmi per le esequie di mio padre, debbo essere servito da
idioti! Siete tutti sordi e muti? Dov’è il mio grande campione, che dovrebbe difen-
dermi adesso? Dove sono i miei cerchietti scarlatti? Meno sapone lì, tu... prendi
questo! Tu, Essem, siamo ben difesi, di sopra? Non mi fido di Flindach. E tu, Yis-
sim, abbiamo abbastanza guardie, da basso? Gwaay è un serpente, capace di colpi-
re attraverso qualunque varco. Dèi tenebrosi, difendetemi! Vai alla caserma, Yis-
sim, prendi altri uomini, e rinforza la guardia, e dacché ci sei, ora che mi ricordo,
ordina di continuare a torturare Friska. Estorcetele le verità! Lei è a parte delle
trame di Gwaay... questa notte me ne ha dato la certezza. Gwaay sapeva che la
morte di mio padre era imminente e aveva preparato da settimane i piani
d’invasione. Chiunque di voi può essere una spia al suo soldo! Oh, dov’è il mio
campione? Dove sono i miei cerchietti scarlatti?»
Fafhrd, che era venuto avanti a grandi passi, affrettò l’andatura quando sentì
nominare Friska. Una semplice capatina nella camera delle torture avrebbe rivelato
la scomparsa della ragazza e la parte che vi aveva avuto lui stesso. Doveva creare
una diversione. Si fermò davanti a Hasjarl, bagnato, roseo e fumante e disse ardi-
tamente: «Ecco il tuo campione, o Signore. Ed egli ti consiglia non una torpida di-
fesa, ma un rapido colpo da sferrare a Gwaay! Senza dubbio, la tua mente poderosa
ha escogitato molti astuti stratagemmi d’attacco. Scagliati come una folgore!»
Fafhrd non poté far altro che continuare a parlare energicamente fino alla fine,
senza permettere che la sua voce si spegnesse mentre la sua attenzione era presa
interamente dalla strana operazione in corso. Mentre Hasjarl se ne stava accoccola-
to immobile con la testa inclinata, uno schiavo dal viso cinereo gli aveva sollevato
la palpebra superiore sinistra tenendola per le ciglia, e inseriva nel foro un minu-
scolo anello scarlatto flangiato non più grande d’una lenticchia. Il cerchietto era
sorretto sulla punta di un bastoncino d’avorio sottile con una pagliuzza, e
l’operazione veniva eseguita dallo schiavo con l’ansia di un uomo che riempisse le
sacche di veleno di un serpente a sonagli... se mai fosse possibile immaginare
un’azione del genere.
L’operazione, comunque, venne rapidamente completata, e fu ripetuta con
l’occhio destro, evidentemente con piena soddisfazione di Hasjarl, perché non per-
cosse lo schiavo con la frusta bagnata e insaponata che gli pendeva ancora dal pol-
so. E quando Hasjarl si raddrizzò, rivolse un gran sorriso a Fafhrd.
«Il tuo consiglio è buono, campione» esclamò. «Questi sciocchi non sapevano
far altro che tremare. C’è effettivamente un colpo progettato da molto tempo che
tenterò ora, un colpo che non violerà le esequie. Essem, porta con te degli schiavi e
vai a prendere la polvere... sai a cosa mi riferisco... e aspettami ai pozzi di ventila-
zione! Ragazze, toglietemi di dosso questo sapone con acqua tiepida. Ragazzo,
dammi le pantofole e l’accappatoio... Gli altri abiti possono aspettare. Seguimi,
Fafhrd!»
Ma proprio in quel momento il suo sguardo rossocerchiato si posò sui venti-
quattro stregoni barbuti e incappucciati ritti accanto ai loro scranni con aria appren-
siva.
«Ritornate immediatamente ai vostri incantesimi, ignoranti!» ruggì. «Non vi ho
detto di fermarvi solo perché io facevo il bagno! Tornate ai vostri incantesimi, e
mandate i vostri malanni a Gwaay, peste rossa e nera e verde, goccia al naso e can-
crena sanguinante... o vi brucerò le barbe fino alle ciglia, come preludio ad altre
peggiori torture! Affrettati, Essem! Vieni, Fafhrd!»

Nello stesso momento, il Gray Mouser stava tornando con Ivivis dallo stanzino,
quando Gwaay, calzato di velluto e seguito da schiavi scalzi, svoltò nel corridoio
semibuio così in fretta che fu impossibile evitarlo.
Il giovane Signore dei Livelli Inferiori sembrava preternaturalmente calmo e
controllato, e tuttavia dava l’impressione che sotto quella calma non vi fossero al-
tro che una fremente eccitazione e un pensiero convulso... tanto che il Mouser non
si sarebbe stupito troppo se da Gwaay avesse visto irradiarsi un’aura di Essenza
Azzurra del Fulmine. Anzi, il Mouser si sentì la pelle prudere come se tale influen-
za uscisse, invisibile, dal suo temporaneo signore.
Gwaay squadrò rapidissimo il Mouser e la graziosa schiavetta, e parlò con voce
gaia e danzante.
«Ebbene, Mouser, vedo che hai assaggiato in anticipo la tua ricompensa. Ah, la
gioventù e i rifugi bui e i sogni tra i guanciali e l’ospitalità amorosa... che altro in-
dora la vita e fa sì che valga la candela fuligginosa e semispenta? La ragazza è stata
brava? Benissimo! Ivivis, cara, debbo ricompensare il tuo zelo. Avevo regalato a
Divis una collana... ne vorresti una? Oppure, ho una spilla a forma di scorpione,
con gli occhi di rubino...»
Il Mouser sentì la mano della ragazza tremare e agghiacciarsi nella sua e si af-
frettò ad interrompere: «Il mio demone mi parla, Nobile Gwaay, e mi dice che que-
sta è una notte in cui i Fati si aggirano tra gli uomini.»
Gwaay rise. «Il tuo demone ha origliato dietro l’arazzo. E ha sentito parlare del-
la rapida dipartita di mio padre.» Mentre parlava, una goccia gli si formò sulla pun-
ta del naso, tra le narici. Affascinato, il Mouser la guardò ingrossarsi. Gwaay fece
per accostarvi il dorso della mano, ma poi la scrollò via. Per un istante si accigliò,
poi rise ancora.
«Sì, i Fati si aggirano su Forte Quarmall, stanotte» disse, ma adesso la sua voce
rapida e gaia era diventata lievemente rauca.
«Il mio demone mi sussurra anche che potenze pericolose si muovono questa
notte» continuò il Mouser.
«Sì, amor di fratello e così via» scattò Gwaay, in risposta, ma la voce era diven-
tata gracchiante. Un’espressione di grande sbigottimento gli fece spalancare gli oc-
chi. Rabbrividì, come scosso dal freddo, e altre gocce gli piovvero dal naso. Tre
capelli gli si staccarono dalla testa e gli caddero sugli occhi. I suoi schiavi si sco-
starono da lui.
«Il mio demone mi ammonisce che faremo bene ad usare subito il mio Grande
Incantesimo contro quelle potenze» insistette il Mouser, tornando come sempre
con il pensiero alla runa ancora non collaudata di Sheelba. «Distrugge soltanto gli
stregoni dalla Seconda Classe in giù. I tuoi, essendo di Prima Classe, non verrebbe-
ro toccati. Ma quelli di Hasjarl periranno.»
Gwaay aprì la bocca per rispondere, ma non emise alcuna parola, solo un gemi-
to d’incubo, simile a quello di un muto. Chiazze rosse gli apparvero sulle guance, e
al Mouser sembrò che un gonfiore rossastro gli salisse sul lato destro del mento,
mentre su quello sinistro si formavano punti neri. Si sentì un fetore orribile. Gwaay
barcollò, e gli occhi gli si riempirono di un icore verdastro. Alzò la mano per ter-
gerseli; era incrostata di giallognolo e di screpolature rosse. Gli schiavi fuggirono.
«La fattura di Hasjarl!» sibilò il Mouser. «Gli stregoni di Gwaay dormono an-
cora! Li sveglierò io! Sostienilo, Ivivis!» Girò su se stesso e corse come il vento
lungo il corridoio e su per la rampa, fino a quando giunse nella Sala delle Stregone-
rie di Gwaay. Vi entrò, battendo le mani e fischiettando aspramente tra i denti, per-
ché effettivamente i dodici scarni maghi in perizoma erano ancora intenti a russare,
raggomitolati sui grandi seggi. Il Mouser sfrecciò dall’uno all’altro, raddrizzando e
scuotendoli sgarbatamente e urlando loro all’orecchio: «Al lavoro! Contravveleno!
Proteggete Gwaay!»
Undici stregoni si svegliarono abbastanza prontamente e presero a fissare il nul-
la ad occhi sbarrati, sebbene per un po’ i loro corpi e le loro teste dondolassero per
gli scrolloni del Mouser... come undici piccole navi appena superate da una tempe-
sta.
Il Mouser aveva maggiori difficoltà con il dodicesimo; ma questi stava comun-
que per svegliarsi e per fare la sua parte, quando Gwaay apparve all’improvviso
sotto l’arcata, con Iviris al fianco, che tuttavia non lo sorreggeva. Il viso del giova-
ne Signore splendeva puro e argenteo nella semioscurità come la sua massiccia
maschera metallica appesa nella nicchia sopra l’arco.
«Fatti da parte, Gray Mouser, sistemerò io l’infingardo» gridò, con voce vivace
e fremente; e raccogliendo un vasetto d’ossidiana lo scagliò verso lo stregone in-
sonnolito.
L’oggetto sarebbe dovuto cadere a metà distanza tra i due. Intendeva svegliare
il vecchio con il rumore? si chiese il Mouser. Ma poi Gwaay fissò il vasetto
nell’aria, e quello accelerò spaventosamente. Fu come se avesse lanciato in aria
una palla, e poi l’avesse colpita con una mazza. Sfrecciando come un dardo sca-
gliato da una robusta catapulta, il vasetto fracassò il cranio del vecchio, spruzzando
le cervella sul seggio e addosso al Mouser.
Gwaay rise, in toni un po’ acuti, e gridò disinvolto: «Debbo frenare la mia ecci-
tazione! Debbo! Debbo! La guarigione improvvisa da due dozzine di morbi morta-
li... o da ventitré più la Goccia al Naso... non è un motivo sufficiente per far perde-
re l’autocontrollo a un filosofo. Oh, mi gira la testa!»
Ivivis gridò all’improvviso: «La stanza rotea! Vedo pesci argentei!»
Anche il Mouser si sentì stordito, e vide una mano verde fosforescente proten-
dersi attraverso l’arcata in direzione di Gwaay... all’estremità di un braccio sottile
che si allungava per decine di passi. Sbatté con forza le palpebre e la mano verde
svanì... ma adesso c’erano nuvolette di vapori purpurei.
Guardò Gwaay e questi, accigliato, stava fiutando e fiutando l’aria, sebbene
non sembrasse che altre gocce si fossero formate all’estremità del suo naso.

Fafhrd stava tre passi dietro Hasjarl che nell’accappatoio allacciato e dal collet-
to alto, di tessuto spugnoso color terra, sembrava uno scimmione.
Al di là di Hasjarl, sulla destra, su di una larga, spessa cinghia di cuoio montata
su rulli, trottavano tre schiavi dall’aspetto mostruoso: grandi piedi biforcuti, gambe
da elefante, enormi toraci a mantice, braccia da gnomi, teste con bocche zannute e
narici più grandi degli occhi e delle orecchie... esseri creati per correre ponderosa-
mente e nient’altro. La cinghia mobile scompariva con un mezzo giro entro un ci-
lindro verticale in muratura del diametro di cinque braccia e riemergeva un poco
più in basso del punto d’entrata, ma muovendosi in direzione opposta, passando
sotto i rulli e completando la curva a forcina. Dal cilindro usciva il gemito del
grande ventilatore ligneo che la cinghia faceva girare e che spingeva l’aria datrice
di vita ai Livelli Inferiori.
Sulla sinistra, al di là di Hasjarl, c’era nel cilindro uno sportello, all’altezza del-
la testa di Fafhrd. Uno ad uno, su per quattro stretti gradini in muratura, vi salivano
in fila gnomi scuri, dalle grosse teste. Ognuno di loro portava sulla spalla un sacco:
quando arrivava alla finestrella lo apriva e lo vuotava nel pozzo rumoroso, scuo-
tendolo scrupolosamente all’interno, e poi lo ripiegava e balzava giù per lasciare il
posto al portatore che lo seguiva.
Hasjarl girò la testa verso Fafhrd, con aria maligna: «Tutto per il naso di Gwa-
ay!» esclamò. «È il riscatto di un re, quello che getto nella corrente in discesa: pol-
vere di papavero, di loto e di mandragora, briciole di canapa. Un milione di piace-
voli sogni osceni tutti per Gwaay! Questo può sconfiggerlo in tre modi: lui dormirà
per un giorno intero e non sarà presente al funerale di mio padre, e allora Quarmall
sarà mia di diritto, per avervi presenziato da solo, e senza spargimenti di sangue,
che turberebbero i riti; i suoi stregoni si addormenteranno e i miei incantesimi in-
fettivi passeranno e lo colpiranno di una morte fetida e gelatinosa; tutto il suo re-
gno dormirà, schiavi e paggi maledetti, e noi li vinceremo, semplicemente scen-
dendo laggiù dopo il funerale. Oh, più svelti!» Prese una lunga frusta dalle mani di
un sorvegliante e cominciò a farla schioccare sopra i coni tozzi delle teste degli
schiavi sulla cinghia, a colpire le loro ampie schiene. Il trotto si trasformò in un pe-
sante galoppo, il gemito del ventilatore divenne più acuto, e Fafhrd si aspettava di
sentirlo spezzarsi o di veder saltare la cinghia, o i rulli spaccarsi sui rispettivi assi.
Lo gnomo che in quel momento stava davanti alla finestrella del pozzo appro-
fittò del fatto che l’attenzione di Hasjarl fosse rivolta altrove per estrarre dal sacco
un pizzico di polvere, portarselo alle narici ed aspirarlo con un sogghigno estatico.
Ma Hasjarl se ne accorse, e gli frustò crudelmente le gambe. Lo gnomo vuotò il
sacco e lo scosse, spiccando saltelli per il dolore. Comunque, non sembrava molto
avvilito o turbato per i colpi, perché mentre usciva dalla camera, Fafhrd vide che si
infilava sulla testa il sacco vuoto e si allontanava barcollante, respirando profon-
damente.
Hasjarl continuò a schioccare la frusta e a gridare: «Più svelti, ho detto! Un u-
ragano drogato per Gwaay!»
Yissim, l’ufficiale, si precipitò nella stanza, verso il suo signore.
«La ragazza Friska è scappata!» gridò. «I tuoi torturatori dicono che il tuo cam-
pione si è presentato con il tuo sigillo, dicendo che avevi ordinato di lasciarla anda-
re... e se l’è portata via! È successo un quarto di giorno fa.»
«Guardie!» strillò Hasjarl. «Prendete il Nordico! Disarmate e legate il tradito-
re!»
Ma Fafhrd era sparito.

Il Mouser, in compagnia di Ivivis, Gwaay, e un’orda colorita di allucinazioni


indotte dalle droghe, entrò barcollando in una camera simile a quella da cui era ap-
pena scomparso Fafhrd. Lì il grande pozzo verticale terminava in un mezzo giro. Il
ventilatore che aspirava l’aria e la gettava fuori per rinfrescare i Livelli Inferiori era
situato verticalmente nell’imboccatura del pozzo: si poteva vederlo girare.
Accanto all’imboccatura c’era appesa una grande gabbia piena di uccelli bian-
chi, tutti con le zampe all’aria sul fondo. Anche il sorvegliante della camera era
steso sul pavimento, sopraffatto dalle droghe lanciate da Hasjarl.
Stranamente, i tre schiavi dalle gambe a pilastro che trottavano ponderosamente
sulla cinghia non sembravano risentirne gli effetti. Presumibilmente i loro cervelli
piccolissimi ed i corpi mostruosi erano immuni a tutte le droghe, al di fuori delle
dosi letali...
Gwaay si avvicinò ad essi barcollando, li schiaffeggiò uno dopo l’altro, ordinò
«Ferma!» e poi cadde a sua volta sul pavimento.
Il gemito del ventilatore si spense, le sette pale lignee divennero chiaramente
visibili quando si arrestò (benché il Mouser le vedesse intessute di allucinazioni
scagliose) e l’unico vero suono fu il lento ansito degli schiavi.
Gwaay rivolse loro uno strano sorriso da terra e alzò un braccio in un gesto eb-
bro, gridando: «Giratevi! Dietro front!» Lentamente, gli schiavi si voltarono, con
una dozzina di passettini, fino a quando tutti e tre furono girati nella direzione op-
posta, sulla cinghia di trasmissione.
«Trottate!» ordinò in fretta Gwaay. Lentamente quelli obbedirono e lentamente
il ventilatore ricominciò a gemere, ma questa volta mandava l’aria su per il pozzo,
contro la compressione dall’alto in basso voluta da Hasjarl.
Gwaay e Ivivis restarono per un po’ sul pavimento, fino a che i loro cervelli
cominciarono a schiarirsi e le ultime allucinazioni scomparvero. Al Mouser sembrò
che venissero risucchiate nel pozzo, attraverso le pale del ventilatore: un’orda in-
consistente di fantasie azzurre e purpuree, armate di lance e sciabole trasparenti e
seghettate.
Poi Gwaay, con gli occhi accesi dall’eccitazione, disse sottovoce, ancora un po’
ansimante: «I miei stregoni... non sono stati sopraffatti... credo. Altrimenti starei
per morire... delle due dozzine di morti inviate da Hasjarl. Ancora un attimo... e
manderò qualcuno dall’altra parte del livello... per invertire il ventilatore di scarico.
Prenderemo l’aria fresca da lì. E metterò altri schiavi su questa cinghia... forse riu-
scirò a rimandare a mio fratello i suoi incubi. Poi mi laverò e mi vestirò per il fune-
rale fiammeggiante di mio padre e salirò per far prendere a Hasjarl un brutto colpo.
Ivivis, appena sei in grado di camminare, sveglia le mie ancelle del bagno. Fai pre-
parare tutto.»
Allungò il braccio e afferrò con forza il gomito del Mouser. «Tu, Grigio» bisbi-
gliò, «preparati ad usare quel tuo possente incantesimo che abbatterà gli stregoni di
Hasjarl. Raduna i tuoi arnesi, recita le tue preghiere demoniache, consultandoti
prima con i miei dodici arcimaghi... se riesci a svegliare il dodicesimo dal suo buio
inferno. Appena le spoglie di Quarmal saranno tra le fiamme, ti manderò il segnale
di pronunciare il tuo incantesimo mortale.» S’interruppe e i suoi occhi brillarono
d’un fuoco stregato nella semioscurità. «È venuto il momento della magia e delle
spade!»
Vi fu un lieve fruscio, quando uno degli uccelli bianchi si rimise in piedi bar-
collando sul fondo della gabbia. Lanciò un trillo che somigliava a un singhiozzo, e
tuttavia aveva ancora una nota di sfida.

Per tutta la notte, tutta Quarmall rimase sveglia. Nella Sala d’Ordinanza del
Forte, un mago entrò precipitosamente, esclamando: «Nobile Flindach! I lettori del
pensiero hanno la certezza incontrovertibile che i due fratelli si fanno guerra. Ha-
sjarl manda resine sonnifere giù per i pozzi, mentre Gwaay gliele rispedisce indie-
tro.»
La faccia sfigurata dalle verruche e dalla chiazza purpurea del Maestro dei Ma-
ghi si rialzò; Flindach era seduto a un tavolo, circondato da una schiera di perso-
naggi in attesa di ordini.
«Hanno sparso sangue?» chiese.
«Non ancora.»
«Va bene. Tenete su di loro gli occhi incantati.»
Poi, fissando severamente sotto il cappuccio coloro cui si rivolgeva, il Maestro
dei Maghi impartì gli altri ordini.
A due maghi abbigliati come suoi supplenti: «Recatevi immediatamente da Ha-
sjarl e da Gwaay. Ricordate loro le esequie e restate con loro fino a quando, con i
rispettivi seguiti, raggiungeranno il cortile del funerale.»
A un eunuco: «Vai dal tuo capo Brilla. Chiedi se ha bisogno di altro materiale o
di aiuto per erigere la pira funebre. Bisogna fornirgli tutto ciò che gli serve, e senza
lesinare.»
A un capitano dei frombolieri: «Raddoppia la guardia alle mura. Fai la ronda
personalmente. Quarmall deve essere completamente al sicuro da attacchi esterni e
da fughe dall’interno, domattina.»
A una donna di mezza età riccamente vestita: «Vai nell’harem di Quarmal. As-
sicurati che le sue concubine siano perfettamente abbigliate e acconciate, come se
il loro Signore in persona intendesse visitarle all’alba. Calma le loro apprensioni.
Mandami l’Ilthmarita Kewissa.»
Nella Sala delle Stregonerie di Hasjarl, il principe si faceva abbigliare per le e-
sequie dai suoi schiavi, senza trascurare di dirigere le ricerche del suo campione
traditore Fafhrd; di istruire i sorveglianti dei pozzi circa le precauzioni da prendere
contro i tentativi, da parte di Gwaay, di rimandare le polveri soporifere, magari con
gli interessi; e di spiegare ai suoi stregoni gli esatti incantesimi che dovevano usare
contro Gwaay non appena il corpo di Quarmal fosse stato divorato dalle fiamme.
Nella Galleria degli Spettri, Fafhrd mangiava e beveva insieme a Friska le vi-
vande e i liquori che aveva portato. Le disse che era caduto in disgrazia presso Ha-
sjarl, e preparò i piani per fuggire insieme a lei dal regno di Quarmall.
Nella Sala delle Stregonerie di Gwaay, il Gray Mouser conferì a turno con gli
undici maghi ossuti dai perizomi bianchi, senza dir loro nulla dell’incantesimo di
Sheelba, ma ottenendo da ciascuno di loro l’assicurazione che erano tutti maghi di
Prima Classe.
Nel suo bagno a vapore, Gwaay recuperava le forze e le facoltà scosse dagli in-
cantesimi pestilenziali e dalle droghe. Le ancelle, sotto la supervisione di Ivivis, gli
portavano oli fragranti ed elisir, e lo massaggiavano e lo lavavano secondo le sue
istruzioni languide ma minuziose. Le figure snelle, confuse e inargentate dalle nubi
di vapore, si muovevano e si fermavano come in un balletto languoroso.

L’enorme pira era stata finalmente completata, e Brilla lanciò un sospiro di sol-
lievo e di soddisfazione per il lavoro ben fatto. Abbandonò la sua figura grassa e
massiccia su una panchina appoggiata al muro e parlò ad uno dei suoi compagni,
con acuta voce femminea:
«Così, senza preavviso, ma gli dèi non si smentiscono, e nessun uomo può
sfuggire alle stelle. È una vergogna, però, pensare che Quarmal debba andarsene
così miseramente accompagnato: solo una mezza dozzina di Lankhmariane,
un’Ilthmarita e tre Mingol, e una di queste imperfetta. Glielo dicevo sempre, io,
che doveva tenere un harem migliore. Comunque gli schiavi maschi sono in buona
forma, e forse rimedieranno un po’. Ah, ma il Sovrano avrà una bellissima fiamma
per rischiarargli la via!» Brilla scosse il capo con aria dolente; tirò su col naso,
sbatté gli occhi porcini per staccarne una lacrima. Era uno dei pochi veramente ad-
dolorati per il trapasso di Quarmal.
Nella sua qualità di Grande Eunuco del Sovrano, Brilla aveva una posizione
che era una sinecura e inoltre era sempre stato affezionato a Quarmal. Una volta,
quand’era un ragazzino grassoccio, Brilla era stato salvato dai tormenti di un grup-
po di schiavi più grandi e virili, i quali lo avevano lasciato andare perché Quarmal
passava di lì. Era stato un piccolo episodio che Quarmal non aveva notato o aveva
dimenticato da molto tempo, ma aveva suscitato in Brilla una devozione eterna.
Ora soltanto gli dèi sapevano cosa riservasse il futuro. Quel giorno il corpo di
Quarmal sarebbe stato bruciato, ed era meglio non pensare a ciò che sarebbe suc-
cesso dopo. Brilla guardò di nuovo la sua opera, la pira funebre. Erigerla in sei ore
soltanto, anche con schiere di schiavi ai suoi ordini, lo aveva sfinito. Adesso tor-
reggiava al centro del cortile, più alta dell’arcata della grande porta, che era tre vol-
te la statura di un uomo. Aveva la forma d’una piramide quadrata e tronca; e la le-
gna infiammabile che la componeva era completamente nascosta da drappi dai co-
lori scuri.
Una passerella saliva dal vasto cortile fino alla cima, su ognuno dei quattro lati;
e alla sommità c’era una piattaforma piuttosto ampia. Là sarebbe stata deposta la
lettiga con il corpo di Quarmal, e là sarebbero state immolate le vittime sacrificali.
Soltanto gli schiavi di età e di doti adeguate avrebbero potuto accompagnare il loro
signore nel lungo viaggio al di là delle stelle.
Brilla si sentiva soddisfatto di ciò che vedeva; stropicciandosi le mani, si guar-
dò intorno incuriosito. Solo in occasioni del genere ci si rendeva conto
dell’immensità di Quarmall, ed erano occasioni rare: un uomo poteva assistere ad
un evento del genere al massimo una volta sola, nella vita. A perdita d’occhio,
Brilla poteva vedere gruppetti di schiavi allineati, fila dietro fila, contro i muri del
cortile, come stava allineata la sua schiera di eunuchi e di carpentieri. C’erano gli
artigiani dei Livelli Superiori, tutti abili artigiani del metallo e del legno; c’erano i
lavoratori dei campi e dei vigneti, abbronzati e muscolosi; c’erano gli schiavi dei
Livelli Inferiori, che sbattevano le palpebre alla luce del giorno cui non erano abi-
tuati, pallidi e curiosamente deformi; e tutti gli altri che servivano nelle viscere di
Quarmall, un gruppo in rappresentanza di ogni livello.
L’affluenza sembrava smentire le voci spaventose, diffuse all’alba, di una guer-
ra segreta combattuta nella notte tra i livelli, e Brilla si sentì rassicurato.
Le più importanti e meglio piazzate erano le due schiere degli armigeri di Ha-
sjarl e di Gwaay, ai due lati della pira. Mancavano soltanto gli stregoni dei due fra-
telli, notò Brilla con una fitta d’inquietudine, sebbene si rifiutasse di chiedersene il
perché.
Sopra quella massa di umanità, sulle mura torreggianti, c’erano le guardie,
sempre silenziose e sempre all’erta; stavano ai loro posti, con le fionde a portata di
mano. Le mura di Quarmall non erano mai state espugnate, e neppure uno schiavo
era riuscito a fuggire, vivo, da quelle mura ben difese.
Brilla era piazzato in un’ottima posizione per osservare tutto ciò che avveniva.
Alla sua destra, sporgente dal muro della corte, c’era il balcone da cui Hasjarl e
Gwaay avrebbero assistito alla consunzione del corpo del padre; alla sua sinistra,
stava la piattaforma da cui Flindach avrebbe diretto i riti. Brilla sedeva vicino alla
porta da cui il Corpo di Quarmal, preparato e purificato, sarebbe stato portato
all’olocausto finale. Si asciugò il sudore dalle guance grasse con l’orlo della sotto-
tunica e si chiese quanto mancasse ancora all’inizio. Il sole non poteva essere or-
mai lontano dalla sommità delle mura, e i riti sarebbero incominciati con i suoi
primi raggi.
Mentre pensava a questo, udì la tremenda, soffocata vibrazione dell’enorme
gong. Tutti allungarono il collo e si girarono in un gran fruscio di vesti; poi silen-
zio! Sul balcone di sinistra apparve la figura di Flindach.
Portava sulla testa il Cappuccio della Morte, e le sue vesti erano di pesanti
broccati, scuri e opachi. Alla cintura gli brillava il Simbolo Aureo del Potere, circo-
lare e a pale di ventilatore, che Flindach, nella sua qualità di Gran Maggiordomo,
doveva mantenere inviolato finché il Trono di Quarmall rimaneva vacante.
Flindach levò le braccia verso il punto in cui il sole sarebbe apparso tra un mo-
mento e intonò l’Inno di Saluto; e mentre cantilenava, i primi raggi rossicci colpi-
rono gli occhi di coloro che si trovavano dall’altra parte del cortile. Vi fu di nuovo
la vibrazione sommessa, che fece tremare le ossa di quanti erano più vicini, e di
fronte a Flindach, sull’altro balcone, apparvero Gwaay e Hasjarl. Entrambi erano
abbigliati allo stesso modo: diversi erano soltanto i diademi e gli scettri. Hasjarl
portava sulla fronte una fascia d’argento costellata di zaffiri, e in mano reggeva lo
scettro dei Livelli Superiori, sovrastato da un pugno chiuso; Gwaay portava un
diadema ornato di rubini e stringeva uno scettro sormontato da un verme trafitto da
un pugnale. I due erano abbigliati in modo identico, con vesti cerimoniali di un
rosso scurissimo, strette da alte cinture di cuoio nero; non portavano armi, e non
erano ammessi altri ornamenti.
Mentre i due sedevano sugli alti sgabelli, Flindach si girò verso la porta vicina a
Brilla e cominciò a cantilenare. Alla sua voce sonora rispose un coro nascosto, e
alcuni dei gruppi schierati nel cortile gli fecero eco. Per la terza volta risuonò il
gong mostruoso e, mentre gli ultimi echi si disperdevano, apparve la lettiga con il
cadavere di Quarmal, portata da sei schiave Lankhmariane e seguita dalle Mingol:
quel gruppetto sparuto era quanto restava delle donne che avevano dormito nel let-
to del sovrano.
Ma dov’era, si chiese Brilla con un sussulto che gli fece battere il cuore,
dov’era Kewissa l’Ilthmarita, la favorita del vecchio Sovrano? Brilla aveva dato
personalmente l’ordine di radunare le ragazze. Kewissa non poteva...
Lentamente, passando tra due file di corpi prostrati, la lettiga avanzò verso la
pira. Il corpo di Quarmal era seduto, e barcollava in modo che faceva pensare or-
rendamente a un essere vivente, mentre le schiave vacillavano sotto quel peso. In-
dossava vesti di seta purpurea e la fronte era ornata delle fasce d’oro dei Sovrani di
Quarmall. Le mani scarne, un tempo così attive nella pratica della negromanzia e
degli incantesimi, erano rigidamente piegate sul libro di magie che era stato la sua
bibbia in vita. Sul polso, incappucciato e incatenato, c’era un grande girifalco, e ai
piedi del padrone morto giaceva il suo leopardo da caccia preferito, immobile nella
quiete della morte. Come il falco era incappucciato, così gli occhi un tempo terribi-
li di Quarmal erano coperti dalle palpebre ceree: gli occhi che avevano visto tanta
morte erano adesso morti anch’essi, per sempre.
Sebbene Brilla fosse ancora agitato a causa di Kewissa, rivolse una parola
d’incoraggiamento alle altre ragazze che passavano, ed una di esse gli lanciò un
mesto sorriso: tutte sapevano che era un onore accompagnare il loro padrone nel
futuro, ma nessuna lo desiderava molto; tuttavia non potevano far altro che seguire
le istruzioni. A Brilla facevano pena: erano tutte così giovani, avevano corpi così
floridi ed erano capaci di dare tanto piacere ad un uomo, poiché egli le aveva adde-
strate bene. Ma bisognava rispettare la tradizione. Eppure, come mai Kewissa?...
Brilla cercò di non pensarci.
La lettiga salì la rampa. La cantilena crebbe di volume quando venne raggiunta
la cima della pira, e i raggi del sole, battendo sul viso morto di Quarmal quando la
lettiga girò in quella direzione, si rifletté sui capelli fulgidi e sulla pelle bianca del-
le schiave Lankhmariane che, insieme alle loro compagne, si erano gettate ai piedi
di Quarmal.
All’improvviso Flindach abbassò le braccia e vi fu silenzio, un silenzio comple-
to, totale, sconcertante nel contrasto con la cantilena misurata e il clangore dei
gong.
Gwaay e Hasjarl sedevano immobili, fissando intenti la figura che era stata il
Sovrano di Quarmall.
Flindach levò di nuovo le braccia: dalla porta di fronte a quella da cui era entra-
to il corpo del re, uscirono correndo otto uomini. Ognuno reggeva una fiaccola, ed
era nudo, ma aveva la testa coperta da un cappuccio purpureo che gli oscurava la
faccia. Con l’accompagnamento delle aspre note del gong, corsero verso la pira,
due per lato e, spingendo le torce nel legno preparato, si lanciarono al di sopra del-
le fiamme da loro accese e, arrampicandosi su per la piramide, abbracciarono di-
speratamente le schiave.
Quasi immediatamente le fiamme divorarono la legna resinosa e impregnata
d’oli. Per un momento, attraverso il denso fumo, si scorsero le forme avvinte e
frementi degli schiavi, e la figura scarna del morto Quarmal che guardava, attraver-
so le palpebre chiuse, direttamente il sole. Poi, irritato dal calore e dai fumi acri, il
grande falco urlò di rabbia e, sbattendo le ali, si alzò dal polso del padrone. La ca-
tena resse; ma tutti poterono vedere il braccio di Quarmal levarsi in un gesto di su-
blime commiato, prima che il fumo lo nascondesse. La cantilena salì, in crescendo,
e poi cessò bruscamente, quando Flindach diede il segnale del termine del rito.

Mentre le fiamme avide consumavano rapidamente la pira ed il suo carico, Ha-


sjarl ruppe il silenzio imposto dalla tradizione. Si volse verso Gwaay e parlò con
un sogghigno malvagio, stringendo l’impugnatura dello scettro.
«Ah! Gwaay, sarebbe stato un lieto spettacolo vedere te tra le fiamme: lieto
quasi quanto il vedere il nostro genitore gesticolare dopo la morte. Vai prèsto, Fra-
tello! Hai ancora una possibilità di immolarti e di conquistare così la fama e
l’immortalità!» E ridacchiò.
Gwaay aveva appena rivolto un cenno discreto a un paggio che gli stava vicino,
e il giovane si allontanò in fretta. Il Signore dei Livelli Inferiori non era per nulla
divertito dalla battuta intempestiva del fratello, ma con un sorriso e una scrollata di
spalle rispose sarcasticamente: «Preferisco cercare la morte per vie meno dolorose.
Tuttavia l’idea è buona: ne farò tesoro.» Poi improvvisamente, con voce più pro-
fonda: «Sarebbe stato meglio che fossimo entrambi nati morti, anziché sprecare la
nostra vita in futili odii. Dimenticherò la tua polvere dei sogni e i tuoi uragani al
papavero, e persino le tue perfide stregonerie, e farò un patto con te, o Hasjarl! Per
gli dèi tenebrosi che regnano sotto la Collina di Quarmal e per il Verme che è il
mio simbolo, giuro che per la mia mano la tua vita è sacrosanta: non ti ucciderò né
con incantesimi, né acciaio né veleno!» Gwaay si alzò in piedi, mentre finiva quel-
le parole, e guardò in faccia Hasjarl.
Colto alla sprovvista, per un secondo Hasjarl restò seduto, in silenzio, con aria
sconcertata; poi un sogghigno gli torse le labbra sottili e, rivolto a Gwaay, sibilò:
«Dunque è così! Mi temi più ancora di quanto io credessi. Sì! E a ragione! Ep-
pure il sangue di quella vecchia brace scorre nelle vene di entrambi, e io ho un de-
bole per mio fratello. Sì, farò un patto con te, Gwaay! Per gli Antichi che si aggira-
no negli abissi bui e per il Pugno che è il mio simbolo, ti giuro che la tua vita è sa-
crosanta... fino a quando la schiaccerò!» E con una maligna sghignazzata finale
Hasjarl, come un ermellino deforme, scivolò giù dallo sgabello e si allontanò.
Gwaay rimase silenziosamente in ascolto, fissando il punto dove prima era se-
duto Hasjarl; poi, sicuro che suo fratello fosse ormai lontano, si batté poderosa-
mente le mani sulle cosce e, scosso da una convulsa risata silenziosa, ansimò, sen-
za rivolgersi a qualcuno in particolare: «Anche le lepri più astute cadono in sem-
plici trappole.» Poi, sempre sorridendo, si voltò a guardare la danza delle fiamme.
Lentamente i gruppi variegati vennero intruppati verso i portoni da cui erano
usciti, e il cortile fu di nuovo sgombro: restarono solo gli schiavi e i sacerdoti trat-
tenuti dai loro doveri.
Gwaay restò a guardare per un po’, poi lasciò a sua volta il balcone. Un lieve
sorriso gli aleggiava ancora agli angoli della bocca, come se l’idea di uno scherzo
indugiasse piacevole nella sua mente.

«... E per il sangue di colui che è morte contemplare....»


Così, sonoramente, invocava il Mouser, mentre ad occhi chiusi e le braccia pro-
tese lanciava la runa, rivelatagli da Sheelba dal Volto Senza Occhi, che avrebbe
annientato tutti gli stregoni inferiori alla Prima Classe entro una distanza impreci-
sata dal punto d’irradiazione... senza dubbio per qualche miglio, si poteva sperare,
riducendo in polvere gli incantatori di Hasjarl.
Indipendentemente dal fatto che il suo Grande Incantesimo agisse o no - e nel
profondo del cuore egli non era molto convinto che funzionasse - il Mouser era
molto soddisfatto dello spettacolo che offriva. Dubitava che lo stesso Sheelba a-
vrebbe saputo fare di meglio. Che magnifici, profondi toni di petto... neppure
Fafhrd lo aveva udito declamare così.
Avrebbe voluto aprire gli occhi almeno per un momento, per osservare l’effetto
che la sua esibizione faceva ai maghi di Gwaay... certamente lo ammiravano a boc-
ca aperta, nonostante tutte le loro altezzose vanterie, ne era sicuro. Ma su questo
punto le istruzioni di Sheelba erano inflessibili: occhi ben chiusi, mentre si recita-
vano le ultime frasi della runa e si pronunciavano le tremende parole proibite: an-
che il più piccolo batter di ciglia avrebbe annullato il Grande Incantesimo. Eviden-
temente i maghi dovevano essere immuni dalla vanità e dalla curiosità... che secca-
tura!
All’improvviso, nelle tenebre della sua mente, avvertì il contatto con un’altra
tenebra ancora più grande: una tenebra malefica e possente, di cui la luce è soltanto
l’assenza. Rabbrividì. Si sentì rizzare i capelli in testa. Un sudore freddo gli colò
pungente sul viso. Per poco non si mise a balbettare mentre pronunciava la parola:
“Slewerisophnak”. Ma, concentrando la forza di volontà, concluse impeccabilmen-
te.
Quando le ultime note echeggianti della sua voce cessarono di riverberare tra il
soffitto a cupola e il pavimento, il Mouser socchiuse un occhio e si sbirciò furtiva-
mente intorno.
Uno sguardo, e l’altro occhio si spalancò. Il Mouser era troppo sbalordito per
parlare.
Ed era problematico anche stabilire a chi avrebbe potuto parlare, se non fosse
stato troppo sbigottito.
La lunga tavola, in fondo alla quale egli stava ritto, non aveva più occupanti.
Dove fino a pochi momenti prima sedevano undici dei più grandi maghi di Quar-
mall, tutti stregoni della Prima Classe, come aveva giurato ognuno di loro sul pro-
prio Grimorio nero... c’era solo il vuoto.
Il Mouser chiamò, sottovoce. Era possibile che quei tipi provinciali si fossero
spaventati di fronte alla maestà del suo tenebroso incantesimo lankhmariano e si
fossero rifugiati sotto la tavola, ma nessuno gli rispose.
Parlò a voce più forte. Si udiva solo l’incessante gemito dei ventilatori, benché,
dopo quattro giorni, egli lo notasse poco di più dello scorrere del proprio sangue
nelle vene. Con una scrollata di spalle, il Mouser si rilassò sullo scranno. Mormorò
tra sé: «Se quei vecchi sciocchi dalle facce glabre sono scappati via, che succede-
rà? E se fossero fuggiti tutti gli scherani di Gwaay?»
Mentre cominciava a rimuginare qualche impossibile strategia da adottare, se
fosse accaduto proprio questo, lanciò una cupa occhiata all’ampio seggio più vici-
no, dove poco prima sedeva quello che gli era parso il più ardito degli arcimaghi di
Gwaay. C’era soltanto un perizoma bianco gualcito... e tra le sue pieghe qualcosa
che sbalordì il Mouser. Un mucchietto di polvere grigia, flocculenta: ed era tutto.
Il Mouser sibilò sommessamente tra i denti e si alzò per vedere meglio gli altri
seggi. Su ciascuno c’erano le stesse cose: un lindo perizoma, un po’ gualcito come
se fosse stato indossato per qualche tempo, e dentro al tessuto un mucchietto di
polvere grigiastra.
All’altra estremità della lunga tavola, una delle pedine nere, che era appoggiata
di taglio, rotolò giù lentamente dalla plancia e cadde sul pavimento con un lievis-
simo tic. Al Mouser quello sembrò l’ultimo rumore del mondo.
Si alzò e camminando senza far chiasso con i mocassini di pelle di ratto, si di-
resse verso l’arcata più vicina, che aveva chiuso con le pesanti tende per il Grande
Incantesimo. Si chiedeva quale era stata la portata dell’incantesimo, dove si era ar-
restato, se pure si era arrestato. E se, per esempio, Sheelba ne avesse sottovalutato
la potenza, ed avesse disintegrato non soltanto gli stregoni ma...
Si soffermò davanti al tendaggio e si lanciò un’ultima occhiata alle spalle. Poi
scrollò il capo, si assestò la cintura e, sorridendo con un coraggio che non provava,
disse, a nessuno in particolare: «Ma mi avevano garantito che erano i più grandi
degli stregoni.»
Mentre tendeva la mano verso la cortina, carica di pesanti ricami, la stoffa on-
deggiò e tremò. Il Mouser si arrestò, con il cuore che gli balzava pazzamente nel
petto. Poi le tende si schiusero un poco, e in mezzo si affacciò il visetto piccante di
Ivivis, con gli occhi spalancati per l’eccitazione e la curiosità.
«Il tuo Grande Incantesimo ha funzionato, Mouser?» gli chiese la ragazza, an-
simando.
Il Mouser esalò un respiro di sollievo. «Tu sei sopravvissuta, comunque» disse,
e l’attirò a sé. Era molto piacevole, il contatto del suo corpo snello. In verità, la
presenza di un qualunque essere vivente sarebbe stata gradita per lui, in quel mo-
mento, ma il fatto che si trattasse proprio di Ivivis era una fortuna che egli non
mancava di apprezzare.
«Carissima» disse sinceramente, «temevo di essere forse l’ultimo uomo rimasto
sulla terra. Ma adesso...»
«E ti comporti come se io fossi l’ultima donna, smarrita da un anno» ribatté lei,
stizzita. «Non è il momento né il luogo per le consolazioni amorose e le piacevo-
lezze intime» continuò, fraintendendo un po’ le sue intenzioni e scostandosi da lui.
«Hai eliminato gli stregoni di Hasjarl?» gli chiese poi, alzando gli occhi con
un’espressione intimorita.
«Ho eliminato alcuni stregoni» ammise il Mouser, con aria critica. «Quanti sia-
no, è una questione di lana caprina.»
«Dove sono quelli di Gwaay?» chiese Ivivis, guardando alle spalle del Mouser i
seggi vuoti. «Se li è portati via tutti?»
«Ma Gwaay non è ancora ritornato dal funerale di suo padre?» chiese a sua vol-
ta il Mouser, eludendo la domanda della ragazza, ma poiché lei continuava a guar-
darlo negli occhi, aggiunse con disinvoltura: «I suoi stregoni sono in qualche posto
a loro congeniale... spero.»
Ivivis lo fissò in modo strano, passò oltre, accorse accanto alla lunga tavola e
scrutò i sedili, avanti e indietro.
«Oh, Mouser!» esclamò in tono di rimprovero: ma lo sguardo che gli lanciò era
carico di autentico timore.
Il Mouser scrollò le spalle. «Mi avevano giurato che erano di Prima Classe» o-
biettò, per difendersi.
«Non è rimasto neppure un ossicino delle dita o un pezzetto di cranio» disse so-
lennemente Ivivis, scrutando da vicino il più vicino mucchietto di polvere grigia e
scuotendo il capo.
«Neppure un calcolo biliare» le fece eco il Mouser, aspramente. «La mia runa
era terribile.»
«Neppure un dente» gli fece eco a sua volta Ivivis, frugando curiosamente nel
mucchietto. «Nulla da rimandare alle loro madri.»
«Le loro madri potranno tenersi i pannolini da riporre insieme a quelli dei loro
figlioletti» ribatté il Mouser, in tono irascibile, sebbene si sentisse alquanto a disa-
gio. «Oh, Ivivis, gli stregoni non hanno madre!»
«Ma che ne sarà del nostro signore, Gwaay, ora che non ci sono più i suoi pro-
tettori?» chiese Ivivis, più pratica. «Hai visto come le fatture di Hasjarl lo hanno
colpito questa notte, quando si erano soltanto assopiti. E se a Gwaay succede qual-
cosa, che ne sarà di noi?»
Il Mouser scrollò di nuovo le spalle. «Se la mia runa ha raggiunto i ventiquattro
stregoni di Hasjarl e ha annientato anche loro, allora non sarà accaduto niente di
male... tranne ai maghi, che del resto conoscono i rischi che corrono, e firmano la
propria condanna a morte quando pronunciano il loro primo incantesimo... è un
mestiere pericoloso.
«In realtà» proseguì, con entusiasmo loquace e un po’ polemico, «noi ci abbia-
mo guadagnato. Ventiquattro nemici uccisi al prezzo di dodici... no, undici perdite
da parte nostra: è un affare che qualunque condottiero sarebbe dispostissimo a con-
cludere! Poi, con gli stregoni tolti completamente di mezzo, eccettuati gli stessi
Fratelli, e Flindach, perché quel tipo con le verruche non deve essere uno scherzo...
io potrò affrontare e uccidere il campione di Hasjarl, e tutto andrà per noi nel mi-
gliore dei modi. E se...»
Non finì la frase. Gli era venuto in mente di chiedersi perché anche lui non era
stato annientato dal proprio incantesimo. Fino a quel momento non aveva mai so-
spettato di essere uno stregone di Prima Classe, poiché, nonostante l’addestramento
ricevuto in gioventù, si era sempre limitato a pasticciare pochissimo con la magia.
Forse c’era di mezzo qualche trucco metafisico o una lacuna logica... Se un incan-
tatore lancia una runa che, a metà della recitazione, annienta tutti gli stregoni, pur-
ché la recitazione venga conclusa, allora annienta se stesso, oppure?... O forse,
cominciò a pensare vanagloriosamente il Mouser, a sua insaputa egli era un mago
di Prima Classe, forse addirittura superiore, o...
Nel silenzio della sua riflessione, il Mouser e Ivivis si accorsero di un suono di
passi che si appressavano, numerosi, diventando in fretta un tumulto. L’uomo gri-
giovestito e la schiava ebbero appena il tempo di scambiarsi uno sguardo apprensi-
vo e interrogativo quando irruppero dai tendaggi, lacerandoli, otto o nove dei prin-
cipali scherani di Gwaay, mortalmente pallidi, e con gli occhi stralunati come paz-
zi. Attraversarono correndo la sala e uscirono dall’arcata opposta, prima ancora che
il Mouser, che si era tirato indietro per schivarli, potesse riprendersi.
Ma i passi non erano cessati. C’era un ultimo paio di piedi che si avvicinava
lungo il corridoio nero, con uno strano galoppo diseguale, come di un invalido che
spiccasse balzi, e con uno sbatacchiare viscido ad ogni passo. Il Mouser si accostò
prontamente ad Ivivis e la cinse con un braccio. Non se la sentiva di restare isolato
in quel momento.
Ivivis disse: «Se il tuo Grande Incantesimo non ha annientato gli stregoni di
Hasjarl, e se le loro fatture hanno raggiunto Gwaay, rimasto indifeso...»
Il suo mormorio impaurito sì spense, quando una figura mostruosa, abbigliata
di scure vesti scarlatte comparve a rapidi scatti convulsi. In un primo momento, il
Mouser pensò che fosse Hasjarl dalle Braccia Spaiate, a giudicare da quanto aveva
sentito dire di lui. Poi vide che aveva il collo cinto da un collare di funghi grigi, la
guancia destra cremisi, la sinistra nera, gli occhi gocciolanti di icore verde e il naso
che spandeva gocce trasparenti. Quando l’orrenda creatura avanzò nella sala con
un ultimo grande passo, la gamba destra cedette, disossata, come una colonna di
gelatina, e la gamba sinistra, posandosi rigidamente sul calcagno, si spezzò a metà
dello stinco e le ossa scheggiate spuntarono dalla carne lacerata. Le mani scrofolo-
se, coperte di croste giallognole e di crepe rossastre, brancolarono invano nell’aria
cercando un sostegno, e il braccio destro, sfiorando la testa, portò via metà dei ca-
pelli da quella parte.
Ivivis cominciò a gemere e a piagnucolare sommessamente per l’orrore e si ag-
grappò al Mouser, il quale aveva a sua volta la sensazione che un incubo alzasse gli
zoccoli per calpestarlo.
In quel modo il Principe Gwaay, Signore dei Livelli Inferiori di Quarmall, ri-
tornava dal funerale del padre, crollando in un fetido, scabbioso, viscido mucchio
sulle tende abbattute e riccamente ricamate, sotto il proprio bel busto d’argento si-
tuato nella nicchia sopra l’arcata.

La pira funebre fumigò a lungo, ma di tutti gli abitanti di quell’immenso regno


ramificato, Brilla, il Grande Eunuco, fu l’unico che rimase a vederla spegnersi. Poi
raccolse qualche pizzico di ceneri per ricordo; le conservò con la vaga idea che for-
se avrebbero avuto qualche valore protettivo, ora che il suo protettore non c’era
più.
Tuttavia quelle ceneri grigie non consolarono molto Brilla, quando ritornò
sconsolato nelle stanze interne. Era turbato e assillato dal pensiero della guerra fra-
tricida che ora si sarebbe scatenata, prima che Quarmall avesse di nuovo un unico
padrone. Oh, era una tragedia che il Nobile Quarmal fosse stato così rapidamente
rapito dai fati prima di avere il tempo di disporre la successione... anche se Brilla
non avrebbe saputo dire quali disposizioni avrebbe potuto dare, considerando i li-
miti imposti dalle tradizioni di Quarmall. Comunque, Quarmal era sempre riuscito
a fare l’impossibile.
Brilla era turbato anche, e più acutamente, dalla colpevole certezza che la con-
cubina di Quarmal, Kewissa, fosse sfuggita alle fiamme. Poteva darsi che ne accu-
sassero lui, sebbene egli non avesse omessa nessuna delle precauzioni abituali. E
bruciare viva sarebbe stata ben poca cosa, in confronto a quello che la povera ra-
gazza avrebbe sofferto ora per la sua trasgressione. Brilla si augurava che si fosse
uccisa con un coltello o col veleno, anche se questo avrebbe condannato il suo spi-
rito a vagare in eterno sui venti che soffiavano tra le stelle facendole brillare.
Brilla si accorse che i suoi passi lo portavano verso l’harem e si fermò, treman-
do. Avrebbe potuto trovarvi Kewissa, e non voleva essere lui a consegnarla.
Se fosse rimasto in quella parte centrale del Forte, si sarebbe imbattuto in Flin-
dach, e sapeva che non avrebbe saputo tenere nascosto nulla, davanti all’austero
sguardo stregato dell’arcimago. Avrebbe dovuto ricordargli la defezione di Kewis-
sa.
Perciò Brilla pensò a una missione che lo avrebbe portato nelle sezioni più pro-
fonde del Forte, appena al di sopra del reame di Hasjarl. Là c’era un magazzino,
affidato alla sua responsabilità, che da un mese non veniva inventariato. Brilla non
amava i Livelli Tenebrosi di Quarmall (si vantava di appartenere alla schiera degli
eletti che lavoravano alla luce del sole o almeno nelle sue immediate vicinanze),
ma ora, a causa delle sue ansie, quei Livelli cominciavano a sembrargli attraenti.
Dopo aver preso questa decisione, Brilla si sentì un po’ rincuorato. Si avviò
immediatamente, con la bizzarra energia degli eunuchi, nonostante la mole elefan-
tesca.
Arrivò al magazzeno senza contrattempi. Quando ebbe acceso una torcia, la
prima cosa che vide fu una donna minuta, dall’aria di ragazzina, rannicchiata tra le
balle di stoffa. Indossava una veste ampia di lucida stoffa gialla, e aveva il grazioso
viso triangolare, i capelli verde muschio e i vividi occhi azzurri di un’Ilthmarita.
«Kewissa» mormorò Brilla, rabbrividendo, ma con calore quasi materno. «Dol-
ce pulcino...»
La ragazza corse verso di lui. «Oh, Brilla, ho tanta paura!»gemette, stringendosi
contro la sua pancia e nascondendosi tra le lunghe maniche.
«Lo so, lo so» mormorò Brilla, schioccando la lingua mentre le lisciava i capel-
li, vezzeggiandola. «Hai sempre avuto paura delle fiamme, adesso lo ricordo. Non
importa, Quarmal ti perdonerà, quando vi incontrerete al di là delle stelle. Senti,
anatrella, è un grosso rischio che corro, ma poiché tu eri la favorita del vecchio So-
vrano, mi sei molto cara. Ho con me un veleno indolore... solo poche gocce sulla
lingua, e poi le tenebre e gli abissi ventosi... Un lungo balzo, è vero, ma sempre
meglio di quello che ordinerà Flindach quando scoprirà...»
Kewissa si scostò da lui. «È stato Flindach a ordinarmi di non seguire il mio
Signore alla sua ultima dimora» rivelò, spalancando gli occhi con aria di rimprove-
ro. «Mi ha detto che le stelle volevano così, e che era stato l’ultimo desiderio di
Quarmal, prima di morire. Io dubitavo e avevo paura di Flindach, con quella faccia
tremenda e gli occhi così orridamente simili a quelli del mio caro Signore... ma non
ho potuto fare a meno di obbedire... Con una certa gratitudine, devo ammetterlo,
caro Brilla.»
«Ma per quale ragione terrena o ultraterrena?...» balbettò Brilla, sconvolto.
Kewissa si guardò in giro. Poi: «Porto in grembo il seme di Quarmal» mormo-
rò.
Per qualche attimo, questo servì soltanto ad accrescere la confusione di Brilla.
Come poteva aver sperato, Quarmal, che il figlio di una concubina venisse accetta-
to come Sovrano di tutto, quando c’erano due figli legittimi adulti? O si era preoc-
cupato così poco della sicurezza del régno da lasciar vivo un bastardo non ancora
nato? Poi gli venne un pensiero che gli fece tremare il cuore... forse Flindach cer-
cava di impadronirsi del potere supremo, servendosi del figlio di Kewissa e di un
immaginario desiderio espresso da Quarmal in punto di morte come pretesti, oltre a
quei suoi occhi così simili a quelli del defunto sovrano. In verità, le rivoluzioni di
palazzo non erano del tutto ignote, a Quarmall. Anzi, secondo una leggenda
l’attuale dinastia aveva dato la scalata al potere ricorrendo al pugnale, anche se era
mortalmente pericoloso accennarvi.
Kewissa continuò: «Ero nascosta nell’harem: Flindach aveva detto che lì sarei
stata al sicuro. Ma poi gli scherani di Hasjarl sono venuti a cercarmi in assenza di
Flindach e sfidando la tradizione e la decenza. Sono fuggita qui.»
Anche questo era spaventosamente logico, pensò Brilla. Se Hasjarl sospettava
che Flindach mirasse a impadronirsi empiamente del potere, avrebbe istintivamente
cercato di colpirlo, trasformando la lotta fratricida in una guerra a tre, coinvolgen-
do anche (sventura delle sventure!) il vertice soleggiato di Quarmall, che fino a
quel momento era sembrato indenne.
Proprio in quell’istante, le paure di Brilla parvero concretarsi, perché la porta
del magazzino si spalancò, ed apparve sulla soglia un uomo che sembrava
l’incarnazione dei barbari orrori della battaglia. Era così alto da sfiorare
l’architrave con la testa; la sua faccia era bella, ma dura e scrutatrice; la chioma
d’oro rosso gli cadeva aggrovigliata sulle spalle; indossava una tunica di pelle di
lupo a borchie bronzee; uno spadone e una massiccia ascia gli pendevano dalla cin-
tura e, al dito medio della mano destra, lo sguardo di Brilla, esercitato a non la-
sciarsi sfuggire il minimo dettaglio ed ora aguzzato dallo spavento, notò un anello
con l’emblema di Hasjarl: il pugno chiuso.
L’eunuco e la ragazza si strinsero l’uno all’altra, tremando.
Ormai certo di avere di fronte soltanto quei due, il nuovo venuto schiuse il vol-
to a un sorriso che sarebbe stato rassicurante in un uomo meno colossale o meno
bellicosamente bardato. Poi Fafhrd disse: «Salve, Nonno. Voglio solo che tu e la
piccola mi aiutiate a trovare la luce del sole e le stalle di questo regno tenebroso.
Venite, faremo in modo che possiate accontentarmi con il minor pericolo per voi.»
E si avviò svelto verso di loro, senza far rumore nonostante la sua mole; il suo
sguardo ritornò, interessato, su Kewissa, quando si accorse che non era una bambi-
na ma una donna.
Kewissa sentì lo sguardo e, sebbene il cuore le battesse forte, pigolò coraggio-
samente: «Non osare violentarmi! Porto in grembo il figlio di un morto!»
Il sorriso di Fafhrd si inacidì considerevolmente. Forse, si disse, avrebbe dovu-
to sentirsi lusingato del fatto che le ragazze cominciassero a pensare alla violenza
carnale non appena lo vedevano, ma la cosa seccava un po’. Lo giudicavano inca-
pace di sedurle in modo civile solo perché era vestito di pelli e non era un nano?
Oh, beh, comunque imparavano presto. Ma che modo orribile di dissuaderlo!
Nel frattempo il grasso Nonno, che invece, come Fafhrd notò nel frattempo,
non era attrezzato per essere né nonno né padre, disse, atterrito: «Lei ha detto la
verità, Capitano. Ma sarò felicissimo di esserti d’aiuto in tutto ciò che...»
Nel corridoio risuonarono passi rapidi, e lo struscio aspro dell’acciaio contro la
pietra. Fafhrd si girò come una tigre. Due guardie che portavano gli usberghi scuri
dei fedeli di Hasjarl entrarono nella stanza. Uno aveva scalfito con la spada appena
sguainata lo stipite dell’uscio, mentre un terzo, dietro di loro, gridava bruscamente:
«Prendete quel voltagabbana di un Nordico! Uccidetelo se oppone resistenza. Io
prenderò la concubina del vecchio Quarmal.»
Le due guardie fecero per avventarsi contro Fafhrd, ma questi, continuando ad
imitare una tigre, balzò verso di loro con rapidità doppia. Astagrigia uscì fulmine-
amente dal fodero e fendette l’aria trasversalmente, verso l’alto, deviando la spada
del soldato più vicino, mentre il piede di Fafhrd calpestava ferocemente il piede
dell’uomo. Poi l’elsa di Astagrigia centrò lo sventurato alla mascella, mandandolo
a sbattere contro il suo compagno. Intanto Fafhrd aveva sfoderato l’ascia con la
mano sinistra: la piantò nella testa dei due avversari, uno dopo l’altro e poi, spin-
gendoli via a spallate mentre cadevano, svelse l’ascia e la scagliò contro il terzo,
configgendogliela in mezzo agli occhi mentre quello si girava per vedere cosa suc-
cedeva: anche il terzo uomo cadde morto.
Ma in distanza si udirono i passi di un quarto e forse di un quinto che fuggiva-
no. Fafhrd balzò verso la porta con un ringhio, si fermò scalpitando e tornò indietro
con la stessa sveltezza, puntando un dito insanguinato verso Kewissa, rannicchiata
contro la grande mole del pallidissimo Brilla.
«La concubina del vecchio Quarmal? E aspetta un figlio da lui?» tuonò; e
quando lei annuì, deglutendo, continuò: «Allora tu vieni con me. Subito! E anche il
castrato.»
Rinfoderò Astagrigia, svelse l’ascia dal cranio del sergente, afferrò Kewissa per
il braccio e avanzò a grandi passi verso la porta, accennando a Brilla di seguirlo
con un cenno del capo, diabolico e ringhiante.
Kewissa gridò: «Oh, pietà, signore! Mi farai perdere il piccino.»
Brilla obbedì, ma insistette, pigolando: «Buon capitano, non ti saremmo utili, ti
infastidiremmo soltanto...»
Fafhrd, volgendosi di nuovo fulmineamente, gli rivolse un rapido discorsetto, e
lo sottolineò scuotendo l’ascia insanguinata: «Se credi che io non capisca il valore
come ostaggio di un pretendente al trono, sia pure non ancora nato, allora il tuo
cranio è privo di cervello così come il tuo basso ventre lo è di seme... e penso che
sia proprio così. In quanto a te, ragazza» aggiunse, apostrofando bruscamente Ke-
wissa, «se c’è qualcosa sotto quei riccioletti verdi, capirai che sei più al sicuro con
un forestiero che con gli scagnozzi di Hasjarl, e che per tuo figlio è meglio venire
abortito che cadere nelle loro mani. Vieni, ti porterò io.» E la sollevò di peso. «Se-
guimi, eunuco: muovi quelle cosce grasse, se hai cara la vita.»
E si avviò per il corridoio, mentre Brilla trottava dietro di lui, pesantemente, e
traeva saggiamente grandi respiri ansimanti, in previsione dei futuri sforzi. Kewis-
sa passò le braccia intorno al collo di Fafhrd e lo guardò con critica ammirazione.
In quanto a lui, si sfogò con due commenti che, evidentemente, aveva tenuto in
serbo per un momento di relativa calma.
Il primo, rabbiosamente sarcastico: «... se oppone resistenza!»
Il secondo, irritato con se stesso: «Quei maledetti ventilatori debbono avermi
assordato, se non li ho sentiti arrivare!»
Dopo quaranta lunghi passi, superò una rampa che portava in alto e svoltò ver-
so un corridoio più stretto e più buio.
Alle sue spalle, Brilla lo richiamò sottovoce, rapidamente, a corto di fiato:
«Quella rampa porta alle stalle. Dove ci conduci, mio Capitano?»
«Giù!» replicò Fafhrd, senza fermarsi. «Non spaventatevi, ho un nascondiglio
per tutti e due... e persino una damigella di compagnia per la qui presente Riccioli
Verdi, la piccola madre del Principe.» Poi, rivolgendosi burberamente a Kewissa,
aggiunse: «Tu non sei la sola ragazza di Quarmall che ha bisogno di essere salvata,
e neppure la più cara.»

Facendosi forza, il Mouser si inginocchiò e scrutò il mucchio ripugnante che


era il Principe Gwaay. Il fetore era abominevolmente forte, nonostante i profumi
che aveva sparso e l’incenso che aveva bruciato solo un’ora prima. Aveva coperto
con lenzuoli serici e mantelli di pelliccia tutta l’orrida figura di Gwaay, tranne la
faccia sorretta dai guanciali e sfigurata dai morbi. L’unica parte del viso sfuggita ai
contagi più atroci era il bel naso sottile, dalla cui punta cadeva un liquido traspa-
rente, goccia a goccia, come lo scandire di un orologio ad acqua, mentre al di sotto
del naso procedeva un incessante filo di vomito, l’unico segno ragionevolmente
certo che Gwaay non fosse del tutto moribondo. Per un po’, il principe aveva lan-
ciato gemiti sommessi e faticosi come i mormorii di un muto, ma ora erano cessati
anche quelli.
Il Mouser rifletté che era veramente molto difficile servire un padrone che non
poteva parlare, scrivere né gesticolare... soprattutto quando c’era da combattere
nemici che cominciavano a rivelarsi tutt’altro che stupidi o trascurabili. Secondo
ogni logica, Gwaay sarebbe già dovuto morire ore prima. Presumibilmente solo la
sua ferrea volontà stregonesca e l’odio divorante per Hasjarl impediva al suo spiri-
to di fuggire da quell’orrido tormento.
Il Mouser si alzò e, con una scrollata di spalle interrogativa, si girò verso Ivivis;
questa sedeva al lungo tavolo, intenta ad orlare due voluminose vesti nere da stre-
gone, che seguendo le istruzioni del Mouser aveva adattato in modo che andassero
bene a lui ed a lei stessa. Il Mouser aveva pensato che, siccome egli era adesso
l’unico mago rimasto a Gwaay, oltre che suo campione, doveva prepararsi ad appa-
rire abbigliato da incantatore, ed a presentarsi almeno con un accolito.
In risposta alla scrollata di spalle, Ivivis si limitò ad arricciare il naso; poi si
strinse le narici con la punta delle dita graziose, e fece spallucce a sua volta. Veris-
simo, pensò il Mouser, il fetore diventava più forte, nonostante i suoi tentativi di
mascherarlo. Si accostò al tavolo e si versò mezza coppa del denso vino rosso san-
gue che aveva cominciato involontariamente ad apprezzare, sebbene avesse saputo
che in realtà era prodotto con funghi scarlatti fermentati. Trangugiò un sorsetto e
riassunse:
«Un bel calderone da strega pieno di problemi. Gli incantatori di Gwaay an-
nientati... sì, d’accordo, sono stato io, lo ammetto. I suoi scherani e i suoi soldati
sono fuggiti... a rifugiarsi nelle gallerie inferiori, immagino, o forse sono passati
dalla parte di Hasjarl. Le sue ancelle sono sparite, tranne te. Anche i suoi dottori
hanno paura di avvicinarglisi... l’unico che sono riuscito a trascinare qui è svenuto.
I suoi schiavi sono paralizzati dalla paura... soltanto le bestie che muovono le cin-
ghie dei ventilatori hanno tenuto la testa a posto, perché non ce l’hanno! Nessuna
risposta al messaggio che abbiamo inviato a Flindach proponendogli di allearci
contro Hasjarl. Non ci sono paggi per inviare un altro messaggio... e neppure un
picchetto per avvertirci, se Hasjarl attacca.»
«Potresti passare anche tu dalla parte di Hasjarl osservò Ivivis.»
Il Mouser rifletté. «No» decise. «C’è qualcosa di troppo affascinante, in una si-
tuazione disperata come questa. Ho sempre desiderato risolverne una. E solo tradi-
re i ricchi e i vittoriosi è divertente. Eppure, che strategia posso usare, senza avere
neppure un esercito ridotto al minimo?»
Ivivis aggrottò la fronte: «Gwaay diceva spesso che, come la guerra con le armi
è solo un altro modo di usare la diplomazia, la stregoneria è solo un altro modo di
combattere con le armi. La guerra della magia. Potresti provare di nuovo con il tuo
Grande Incantesimo» concluse, senza eccessiva convinzione.
«No!» esclamò il Mouser. «Non è servito contro i ventiquattro di Hasjarl, al-
trimenti avrebbe stroncato le loro fatture contro Gwaay. O quelli sono della Prima
Classe, oppure io compio gli incantesimi a rovescio... e in questo caso le gallerie
mi crollerebbero probabilmente addosso, se ci riprovassi.»
«E allora ricorri a un altro incantesimo suggerì vivacemente Ivivis.» Evoca un
esercito di scheletri. Fai impazzire Hasjarl, oppure fargli una fattura, in modo che
si pesti i piedi ad ogni passo. Oppure trasformare in formaggio le spade dei suoi
soldati. O far scomparire le loro ossa. O magari trasformare tutte le sue ancelle in
gatti e incendiarne le code. Oppure...
«Mi dispiace, Ivivis si affrettò a ribattere il Mouser, per frenare quel travolgen-
te entusiasmo. Non lo confesserei a nessun altro, ma... quello era il mio unico in-
cantesimo. Dobbiamo contare esclusivamente sull’intelligenza e sulle armi. Te lo
chiedo di nuovo, Ivivis, quale strategia impiega un generale quando la sua ala sini-
stra è sopraffatta, quella destra è volta in fuga, e il suo centro viene decimato dieci
volte?»
Un suono lieve e dolce, come una campana argentina fatta tintinnare una volta
sola, o una corda d’argento pizzicata di un’arpa, lo interruppe. Sebbene fosse così
fievole, per un momento parve riempire la sala di una luce udibile. Il Mouser e Ivi-
vis si guardarono intorno stupiti e poi, nello stesso istante, levarono gli occhi verso
la maschera argentea di Gwaay nella nicchia al di sopra dell’arcata davanti alla
quale i resti mortali del principe imputridivano avvolti nella seta.
Le lucenti labbra metalliche della statua sorrisero e si schiusero, a quanto si po-
teva vedere nella semioscurità, e ne uscì la voce più vivace di Gwaay: «La tua ri-
sposta: attacca!»
Il Mouser sbatté le palpebre, Ivivis lasciò cadere l’ago. La maschera continuò,
con un brillio negli occhi: Salve, mio capitano senza esercito! Salve, cara fanciulla.
Mi duole che il mio fetore ti offenda... sì, sì, Ivivis, ti ho vista turarti il naso davanti
alla mia povera carcassa, in quest’ultima ora... ma il mondo brulica di cose ripu-
gnanti. Non è una nera vipera della morte quella Che ora serpeggia nella veste nera
da te cucita?
Con un singulto d’orrore, Ivivis balzò in piedi e a lato, con la rapidità di una
gatta, allontanandosi dalla stoffa, e si spazzolò freneticamente le gambe con le dita.
La maschera proruppe in una risata naturalmente argentina, poi disse in fretta:
«Perdonami, dolce fanciulla, scherzavo. Il mio morale è troppo alto, troppo alto...
forse perché il mio corpo è così in basso. Complottare servirà a placare la mia fol-
lia. Ascoltate, ora, ascoltate!»

Nella Sala della Stregoneria di Hasjarl i suoi ventiquattro stregoni fissavano di-
speratamente un enorme schermo magico rizzato parallelamente alla lunga tavola,
e si sforzavano di rendere più chiara l’immagine che vi appariva. Hasjarl. terribile
nelle vesti rossocupe del funerale, guardava alternativamente con gli occhi aperti e
attraverso i fori cerchiati delle palpebre superiori, come se sperasse di far diventare
più nitido il quadro, e inveiva balbettando contro la goffaggine dei suoi maghi, in-
terrompendosi di tanto in tanto per conferire con i suoi militari.
Lo schermo era grigiocupo, e l’immagine vi appariva in una luce stregata, ver-
depallida. Era alto quattro braccia e largo sei. Ogni stregone era responsabile di
una particolare area di un braccio quadrato, su cui proiettava la sua parte
d’immagine chiaroveggente.
Era la Sala della Stregoneria di Gwaay, ma l’effetto migliore finora ottenuto era
un’immagine generalmente sfocata che mostrava il tavolo, i seggi vuoti, un basso
mucchio sul pavimento, un punto di luce argentea in alto, e due figure che si muo-
vevano... queste sembravano sgorbi informi, simili a salamandre, con braccia e
gambe; era impossibile distinguerne il sesso, se pure erano veramente umane, o
almeno maschili e femminili.
Talvolta un braccio quadrato dell’immagine diventava nitido come un’aiuola
fiorita in una giornata limpida, ma era sempre uno spazio in cui non vi erano figu-
re, né altri oggetti più interessanti di un seggio vuoto. Allora Hasjarl latrava im-
provvisamente agli altri stregoni di fare altrettanto, o a quello che era riuscito a tan-
to ingiungeva di scambiarsi il posto con qualcuno il cui riquadro conteneva una fi-
gura: allora l’immagine peggiorava invariabilmente, e Hasjarl strillava e sputac-
chiava; l’immagine si rovinava completamente, ondeggiando, con i riquadri confu-
si e sovrapposti come un rompicapo non risolto, e i ventiquattro stregoni erano co-
stretti a ricontare i riquadri e a ricominciare daccapo, mentre Hasjarl rovesciava
loro addosso minacce spaventose.
Le interpretazioni date al quadro da Hasjarl e dai suoi collaboratori differivano
in misura considerevole. L’assenza degli stregoni di Gwaay parve un buon segno,
fino a quando qualcuno suggerì che dovevano essere stati mandati a infiltrarsi nei
Livelli Superiori, per un attacco taumaturgico a distanza ravvicinata. Un tenente si
prese una feroce sfuriata perché aveva suggerito che le due figure indistinte pote-
vano essere demoni visti nel loro vero aspetto... tuttavia, dopo aver sfogato la pro-
pria collera, Hasjarl era apparso un po’ spaventato dall’idea. La speranza che tutti
gli stregoni di Gwaay fossero stati eliminati fu abbandonata quando si accertò che
nessun incantesimo era stato scagliato recentemente contro di loro da Hasjarl e dai
suoi maghi.
Una delle figure indistinte uscì completamente fuori campo, e il punto di luce
argentea svanì. Questo scatenò altre speculazioni, interrotte dall’ingresso di parec-
chi torturatori di Hasjarl, piuttosto malconci, e di una dozzina delle sue guardie. Le
guardie circondavano, con le spade sguainate puntate contro il suo petto e il suo
dorso, la figura di un uomo inerme, vestito di una tunica di pelle di lupo, con le
braccia legate strettamente dietro la schiena. Era mascherato con un cappuccio di
seta rossa, che aveva due fori all’altezza degli occhi, e dalle sue spalle pendeva un
mantello nero.
«Abbiamo preso il Nordico, Nobile Hasjarl!» annunciò soddisfatto il coman-
dante del drappello di guardie. «Lo abbiamo bloccato nella camera delle torture. Si
era camuffato come uno di costoro, e ha cercato di passare con l’inganno attraverso
le nostre linee, curvandosi e camminando sulle ginocchia: ma la sua statura lo ha
tradito.»
«Bene, Yssim... ti ricompenserò,» approvò Hasjarl. «Ma la traditrice concubina
di mio padre ed il gran castrato che erano con lui quando ha ucciso tre dei tuoi uo-
mini?»
«Erano ancora con lui quando lo abbiamo intravvisto vicino al reame di Gwaay
e l’abbiamo inseguito. Li abbiamo perduti quando lui ha ripiegato verso la camera
delle torture, ma la caccia continua.»
«Trovateli, e sarà meglio per voi,» ordinò Hasjarl in tono truce, «oppure la dol-
cezza della mia ricompensa sarà inacidita completamente dalle sofferenze della
punizione!» Poi, rivolgendosi a Fafhrd: «Ebbene, traditore! Ora giocherò con te a
braccio di ferro... sì, e a cento altri giochi, fino a quando ti sarai stancato del diver-
timento.»
Fafhrd rispose con voce chiara e sonora attraverso la maschera rossa: «Non so-
no un traditore, Harsjarl. Ero solo stanco delle tue smorfie e della tua mania di tor-
turare le fanciulle.»
Gli stregoni lanciarono un grido sibilante. Voltandosi, Hasjarl vide che uno di
essi aveva fatto apparire più nitido il mucchio sul pavimento, e si vedeva benissimo
che era un uomo malato, coperto fino al collo.
«Più vicino!» gridò Hasjarl, tutto impazienza e senza minacce. E forse perché
non erano né frastornati né minacciati, tutti gli stregoni riuscirono ad operare per-
fettamente: sullo schermo apparve, verdepallido, il volto di Gwaay, grande come
un carro tirato da una pariglia di buoi, le infermità rese visibili dalle enormi pusto-
le, dalle croste e dalle escrescenze fungoidi, se non dal colore, gli occhi simili a
grandi vasche ribollenti di icore, la bocca simile a un acquitrino tremulo, mentre
ogni goccia che cadeva dalla punta del naso sembrava enorme come il contenuto di
una brocca.
Hasjarl gridò con voce impastata, come soffocato da un liquore fortissimo:
«Gioia, oh, gioia! Mi si spezzerà il cuore!»
Lo schermo divenne nero, nella sala scese il silenzio, e dall’arcata in fondo en-
trò, planando nell’aria senza far rumore, una piccola forma d’un grigiore d’osso.
Veleggiò sulle ali spiegate come un falco in cerca di preda, sorvolando le spade
che cercavano di colpirla. Poi, descrivendo una curva silente, piombò rapida verso
Hasjarl e, sfuggendo alle sue mani che troppo tardi cercavano di afferrarla, gli sbat-
té sul petto e cadde sul pavimento ai suoi piedi.
Era una freccia confezionata con un pezzo di pergamena, e agli angoli si scor-
gevano righe di scrittura. Non era nulla di pericoloso.
Hasjarl la raccattò, la spiegò facendola scricchiolare e lesse a voce alta:
«“Caro Fratello. Incontriamoci subito nella Galleria degli Spettri per regolare la
successione. Porta i tuoi ventiquattro stregoni. Io ne porterò uno. Porta il tuo cam-
pione. Io porterò il mio. Porta i tuoi scherani e le tue guardie. Porta te stesso. Io mi
farò portare. O forse preferiresti trascorrere la sera torturando fanciulle? Firmato
(per ordine di) Gwaay.”»
Hasjarl gualcì la pergamena nel pugno e, sbirciandola pensosamente e perver-
samente, scandì: «Andiamo! Quello intende giocare sulla mia pietà fraterna... sa-
rebbe un bello scherzo. O forse vuol prenderci in trappola, ma io sarò più furbo di
lui!»
Fafhrd esclamò arditamente: «Forse riuscirai a battere tuo fratello putrefatto, o
Hasjarl, ma il suo campione? Più astuto di Zobold, più feroce di un elefante imbiz-
zarrito! Un uomo simile può battere le tue guardie di pastafrolla, come ho fatto io,
uno contro cinque, nel Forte, e tagliarti quella gola chiassosa! Avrai bisogno di
me!»
Hasjarl rifletté per un battito di cuore e poi, volgendosi verso Fafhrd, disse: «Io
non sono troppo orgoglioso. Accetterei anche il consiglio di un cane morto. Porta-
telo con noi. Tenetelo legato, ma portate le sue armi.»

Per l’ampia e bassa galleria che saliva lentamente, illuminata da torce infisse al-
le pareti e irradianti una luminosità azzurrognola non più viva del gas di palude, e
lontane in apparenza l’una dall’altra come fari sulla costa, il Mouser procedeva a
passi rapidi, ma molto cautamente, guidando un breve, strano corteo.
Indossava una veste nera dal cappuccio a punta che, gettato in avanti, gli avreb-
be nascosto interamente il viso. Sotto la veste portava alla cintura la spada e lo sti-
letto, e un piccolo otre di vino di funghi color rossosangue, ma con le dita reggeva
una sottile bacchetta nera sovrastata da una stella d’argento, per ricordare che per il
momento il suo ruolo principale era quello di Stregone Straordinario di Gwaay.
Dietro di lui trottavano in due file quattro degli schiavi dei ventilatori, dalle
grosse gambe e dalle teste piccole, che quasi sembravano scuri coni ambulanti,
specialmente quando venivano profilati dalla luce d’una torcia appena superata.
Reggendo con le mani le estremità delle stanghe, i quattro trasportavano una lettiga
di mogano e d’ebano riccamente intagliata, su cui giaceva, sopra un materasso e
coperto da pellicce e sete e stoffe riccamente ricamate, la fetida carne indifesa, e lo
spirito indomito, del giovane Signore dei Livelli Inferiori.
Dietro la lettiga di Gwaay veniva quella che sembrava una versione un po’ più
piccola del Mouser. Era Ivivis, camuffata da suo accolito. Teneva una falda del
cappuccio davanti alla bocca e al naso, e spesso fiutava un fazzoletto intriso di spi-
rito di canfora e di ammoniaca. Sotto il braccio portava un gong d’argento in un
sacco di lana, e nell’altro una strana, sottile maschera lignea.
I grossi piedi callosi degli schiavi battevano sul pavimento di pietra con uno
strusciare fioco, sovrastato di tanto in tanto, a lunghi intervalli regolari, dal vomito
gorgogliante di Gwaay. Non si udivano altri suoni.
Le pareti e il basso soffitto brulicavano di immagini dipinte in ocra gialla: de-
moni, strane bestie, donne dalle ali di pipistrello, ed altre bellezze infernali. Appa-
rivano e svanivano lentamente, come in un incubo, ma dolcemente. Nel complesso,
era uno dei tragitti più piacevoli che il Mouser riuscisse a ricordare, paragonabile
ad una traversata dei tetti di Lankhmar, al chiaro di luna, per appendere una ghir-
landa avvizzita su una statua dimenticata del Dio dei Ladri in cima ad una torre, e
per accendergli una piccola lampada ad acquavite.
«All’attacco!» mormorava, allegramente, tra sé. «Avanti, mia falange dai grossi
piedi! Avanti, mio terribile carro da guerra! Avanti, mia graziosa retroguardia! A-
vanti, mio esercito!»

Brilla, Kewissa e Friska sedevano silenziosi come topolini nella Galleria degli
Spettri accanto alla vasca asciutta della fontana, ma vicino alla porta aperta della
camera che era il loro nascondiglio designato. Le giovani donne bisbigliavano con
le teste vicine, e tuttavia non facevano più rumore dello squittio di due topi, così
com’era silenzioso il gran sospiro che Brilla si lasciava sfuggire di tanto in tanto.
Al di là della fontana c’era la grande porta semiaperta da cui entrava l’unica,
fioca luce, e attraverso la quale Fafhrd li aveva condotti, prima di ritornare per tra-
scinarsi dietro gli inseguitori. Alcune delle ragnatele tese tra i battenti erano state
strappate dal passaggio di Brilla.
Calcolando quella porta e quella del nascondiglio come due angoli opposti della
sala, gli altri due angoli opposti erano occupati da un’immensa arcata nera e da una
più stretta; ciascuna si apriva su un’ampia sezione di pavimento rialzato di tre gra-
dini rispetto allo spazio ancora più ampio intorno alla vasca asciutta. Dappertutto,
nel muro, c’erano piccole porte, tutte chiuse, che senza dubbio conducevano nelle
vecchie stanze da letto. E su tutto pendevano i grandi lastroni neri, legati dalla cal-
ce pallida, del soffitto a cupola bassa. Era tutto ciò che i loro occhi, abituati da
tempo all’oscurità, riuscivano a distinguere.
Brilla, il quale sapeva che quel posto era stato un tempo un harem, pensò ma-
linconicamente che adesso era ridiventato una sorta di piccolissimo harem, con
l’eunuco (lui) e una ragazza incinta (Kewissa) che chiacchierava con una ragazza
irrequieta (Friska) preoccupata per la salvezza del suo gigantesco amante barbaro.
Oh, i bei tempi andati! Brilla avrebbe voluto spazzare un po’ la polvere e cercare
drappi, anche un po’ imputriditi, da appendere e da stendere, ma Friska gli aveva
fatto osservare che non dovevano lasciare tracce della loro presenza.
Dalla grande porta giunse un lieve suono. Le ragazze smisero di parlottare,
Brilla di sospirare e di rimuginare: ascoltarono con tutto il loro essere. Poi arriva-
rono altri rumori, passi e il tonfo di una spada inguainata contro la parete della gal-
leria. I tre balzarono in piedi in silenzio e tornarono a precipitarsi nel nascondiglio,
chiudendo la porta: e la Galleria degli Spettri rimase di nuovo sola con i suoi spet-
tri, per qualche istante.
Una guardia con l’elmo e l’usbergo degli uomini di Hasjarl apparve sulla soglia
e si fermò a sbirciarsi intorno con una freccia incoccata alla corda tesa del corto
arco tenuto di traverso. Poi mosse la spalla in segno di richiamo, ed entrò furtiva-
mente, seguito da tre compagni e da quattro schiavi che reggevano alte le torce
gialle, gettando le ombre mostruose delle guardie sul pavimento polveroso, e quel-
le delle loro teste contro la parete incurvata più lontana, mentre cercavano tracce di
trappole o imboscate.
Alcuni pipistrelli svolazzarono e fuggirono oltre le arcate, infastiditi dal chiaro-
re delle fiaccole.
Poi la prima guardia si volse a lanciare un fischio nel corridoio alle sue spalle,
agitò un braccio: sopraggiunsero due gruppi di schiavi che cominciarono a premere
contro i battenti della grande porta, facendoli stridere e cigolare sonoramente sui
cardini. Li spalancarono, sebbene uno degli schiavi balzasse convulsamente lonta-
no, quando un ragno gli cadde addosso da una ragnatela lacerata, o almeno così gli
parve.
Poi arrivarono altre guardie, accompagnate da altrettanti schiavi portatori di
fiaccole, e cominciarono ad aggirarsi avanti e indietro, lanciandosi richiami sotto-
voce; provarono ad aprire tutte le porticine chiuse e scrutarono a lungo, sospetto-
samente, negli spazi neri oltre l’arcata stretta e quella ampia. Ma tutti gli uomini
tornarono indietro per formare un semicerchio protettivo intorno alla grande porta,
racchiudendo gran parte dello spazio della sezione centrale della Galleria degli
Spettri.
Poi, in quello spazio protetto, arrivò a grandi passi Hasjarl, circondato dai fede-
lissimi, e seguito dai suoi ventiquattro stregoni a ranghi serrati. Insieme a Hasjarl
arrivò anche Fafhrd, con le braccia ancora legate e con il rosso cappuccio sulla te-
sta, minacciato dalle spade sguainate delle guardie. Sopraggiunsero anche altri por-
tatori di fiaccole, così che la Galleria degli Spettri si illuminò vivamente intorno
alla grande porta.
Poiché Hasjarl non parlava, anche tutti gli altri tacevano. Ma il Signore dei Li-
velli Superiori non era del tutto silenzioso: tossiva continuamente, in un latrato
straziante, e sputava grumi di catarro in un fazzoletto finemente ricamato. Dopo
ogni breve convulsione si guardava attorno insospettito, abbassando malignamente
una palpebra bucata per far risaltare la sua cautela.
Vi fu un fruscio leggero e qualcuno gridò: «Un ratto!» Un altro scagliò una
freccia nelle ombre oltre la fascia, e il dardo strusciò contro la pietra. Hasjarl do-
mandò a gran voce perché non erano stati portati i suoi furetti... e anche i suoi
grossi segugi, e i suoi gufi, per proteggerlo dai pipistrelli dai denti avvelenati che
Gwaay poteva avventargli contro... e giurò che avrebbe spellato la mano destra ai
colpevoli di tanta negligenza.
Si udì di nuovo il rapido scalpiccio delle unghie minuscole sulla pietra liscia, e
altre frecce vennero lanciate inutilmente a rimbalzare sul pavimento, e le guardie
cambiarono nervosamente posizione: e in mezzo a questa confusione, Fafhrd gridò:
«Levate gli scudi, voi, e fate muro intorno a Hasjarl! Non avete pensato che un
dardo, e questa volta non di pergamena, potrebbe volare silenzioso da una delle
due arcate e trapassare la gola del vostro amato signore, arrestando per sempre
quella tosse preziosa?»
Molti si affrettarono ad obbedire all’ordine, con fare colpevole, e Hasjarl non li
scacciò. Fafhrd rise e osservò: «Mascherare un campione è renderlo terribile, o Ha-
sjarl, ma legargli le mani I dietro la schiena non è il modo più adatto per impres-
sionare il nemico... ed ha altri svantaggi. Se ora si precipitasse qui all’improvviso
quel tale più astuto di Zobold, più pesante di un elefante infuriato, per travolgere le
tue guardie, così facili prede del panico...»
«Tagliategli le corde!» latrò Hasjarl, e qualcuno cominciò a segare con un pu-
gnale i legami di Fafhrd. «Ma non dategli la spada o l’ascia! Però tenetegliele
pronte!»
Fafhrd scrollò le spalle e fletté i robusti avambracci, poi cominciò a massag-
giarseli e rise di nuovo attraverso la maschera.
Hasjarl, furibondo, ordinò di provare ancora ad aprire le porte chiuse. Fafhrd si
preparò ad entrare in azione quando i soldati arrivarono a quella dietro cui si na-
scondevano Friska e gli altri due, perché sapeva che non aveva né barre né serratu-
re. Ma la porta resistette a tutti gli spintoni. Fafhrd immaginò la grossa schiena di
Brilla puntellata contro l’uscio, magari mentre le due ragazze gli premevano contro
lo stomaco, e sorrise sotto la seta rossa.
Hasjarl, sempre più infuriato, maledisse il fratello che tardava tanto e giurò che
aveva avuto intenzione di mostrare pietà per le ragazze e i paggi di suo fratello, ma
adesso aveva cambiato idea. Poi uno dei suoi fedelissimi suggerì che forse il mes-
saggio di Gwaay era stato un trucco per toglierli di mezzo mentre veniva sferrato
un attacco dal basso attraverso altre gallerie, o magari i pozzi di ventilazione, e Ha-
sjarl lo afferrò per la gola e lo scrollò chiedendogli furiosamente perché, se aveva
avuto quel sospetto, non aveva parlato prima.
In quel momento suonò un gong, un suono alto e argentino, e Hasjarl lasciò an-
dare il suo fedelissimo e si guardò intorno, sorpreso. La nota argentina del gong si
fece udire di nuovo, e poi, dall’arcata più ampia, uscirono due figure mostruose,
ognuna delle quali sosteneva una stanga anteriore di un’ornata lettiga rossa e nera.
Tutti coloro che si trovavano nella Galleria degli Spettri conoscevano bene gli
schiavi addetti alla ventilazione, ma vederli lontani dalle loro cinghie di trasmis-
sione era un prodigio grandioso e grottesco, quasi come vederli per la prima volta.
Lo spettacolo pareva preannunciare sovvertimenti di antiche tradizioni e tremendi
cambiamenti, perciò vi furono molti mormorii e qualcuno si tirò indietro.
Gli schiavi continuarono ad avanzare ponderosamente, e i loro compagni ap-
parvero dietro di loro. I quattro avanzarono fin sul bordo del tratto sopraelevato del
pavimento, poi posarono la lettiga e incrociarono le braccia minuscole meglio che
potevano, intrecciando le dita sui toraci giganteschi. E rimasero immobili.
Poi, dalla stessa arcata uscì svelta la figura di uno stregone piuttosto nero, av-
volto in una veste nera con un cappuccio che gli nascondeva i lineamenti, e dietro
di lui, come fosse la sua ombra, venne una figura leggermente più piccola e paluda-
ta allo stesso modo.
Lo Stregone Nero si piazzò a un lato della lettiga, un poco più avanti, con
l’accolito dietro di lui, sulla destra. Sollevò fino all’altezza del cappuccio una bac-
chetta sovrastata da uno scintillio argenteo e disse con voce sonora e impressionan-
te: «Parlo a nome di Gwaay, Maestro dei Demoni e Sovrano di Tutta Quarmall...
come dimostreremo!»
Il Mouser usava la sua voce taumaturgica più profonda, che aveva udito lui sol-
tanto, eccettuata l’occasione in cui aveva annientato gli stregoni di Gwaay... anzi,
pensandoci meglio, era andata a finire che nessun altro l’aveva udita.
Fece una breve pausa, e poi puntò lentamente la bacchetta verso il mucchio che
stava sulla lettiga, alzò l’altro braccio in un gesto imperioso, con la palma della
mano in avanti, e ordinò: «In ginocchio, vermi, tutti quanti, e rendete omaggio al
vostro unico e legittimo sovrano, il Nobile Gwaay, al cui nome i demoni tremano!»
Alcuni degli sciocchi che si trovavano nelle prime file gli obbedirono (eviden-
temente Hasjarl li aveva terrorizzati fin troppo) mentre quasi tutti gli altri spalan-
cavano gli occhi, con aria apprensiva, fissando la figura imbacuccata sulla lettiga...
per la verità, era un vantaggio che Gwaay stesse immobile e supino, simile alla
Morte più orrida: lo faceva apparire come una minaccia ancora più misteriosa.
Scrutando al di sopra delle loro teste dalla caverna del suo cappuccio, il Mouser
individuò qualcuno che doveva essere il campione di Hasjarl - per gli dèi, era un
colosso, grande e grosso come Fafhrd! - ed abile psicologo, se la maschera a sac-
chetto di seta rossa era una sua idea. Il Mouser non era entusiasta dell’idea di duel-
lare con quell’uomo, ma con un po’ di fortuna forse non sarebbe stato necessario.
Poi, tra le file delle guardie intimorite, facendosi largo a colpi di frustino, avan-
zò una figura aggobbita dalle scure vesti scarlatte... Hasjarl, finalmente! E si met-
teva in prima fila, come richiedeva il copione.
La bruttezza e la frenesia di Hasjarl superavano le attese del Mouser. Il Signore
dei Livelli Superiori si erse in tutta la sua statura, davanti alla lettiga, e per un mo-
mento teso non fece altro che fremere, farfugliare e sputacchiare saliva come un
idiota. Poi all’improvviso ritrovò la voce e abbaiò in modo impressionante, sicu-
ramente più forte dei suoi grandi segugi:
«Per diritto di morte... morte recente o imminente... recente quella di mio padre,
colpito dagli astri e ridotto in cenere... imminente quella del mio empio fratello,
colpito dalle mie stregonerie... e che non osa parlare per se stesso, ma deve assol-
dare ciarlatani... io, Hasjarl, mi proclamo unico Sovrano di Quarmall... e di tutti
coloro che vi si trovano... demoni o uomini!»
Poi Hasjarl fece per girarsi, molto probabilmente per ordinare alle sue guardie
di impadronirsi del seguito di Gwaay, o forse per accennare ai suoi stregoni di an-
nientarli magicamente: ma in quell’istante il Mouser batté le mani, sonoramente. A
quel segnale Ivivis, che si era messa tra lui e la lettiga, gettò all’indietro il cappuc-
cio, si aprì la veste e se la fece cadere di dosso quasi in un unico gesto continuo... e
lo spettacolo così rivelato inchiodò tutti, persino Hasjarl, come aveva previsto il
Mouser.
Ivivis era vestita di una tunica trasparente di seta nera, un’opalescenza nera che
luceva sulla sua carnagione pallida e sull’esile figura da adolescente: ma sul volto
portava la maschera bianca di una megera, femminea, ma dalla bocca sogghignante
e zannuta e dagli occhi sbarrati, ardenti, con la sclerotica bianca e l’iride perlacea,
così come il Mouser li aveva frettolosamente ridipinti secondo le indicazioni forni-
te da Gwaay per mezzo della sua statua argentea. Lunghi capelli verdi striati di
bianco ricadevano dalla maschera sulla schiena di Ivivis, e alcune ciocche sottili le
scendevano sul petto. Con la mano destra levata impugnava ritualisticamente un
grosso coltello da potatore.
Il Mouser tese il braccio verso Hasjarl, su cui già erano fissi gli occhi della ma-
schera, e comandò con la sua voce più profonda: «Portalo qui da me, o Madre
Strega!» Ivivis avanzò a passo svelto.
Hasjarl indietreggiò e fissò, preso da un sortilegio di orrore, quella nemesi che
si appressa, tutta maternamente cannibalistica nel viso, tutta fanciulla e silfide nel
corpo, con gli occhi di suo padre che lo sgomentavano e il crudele coltello che an-
nunciava una punizione in nome di tutte le giovani donne che egli aveva lubrica-
mente tormentato, uccidendole o storpiandole.
Il Mouser sapeva di avere il trionfo a portata di mano: gli restava solo da chiu-
dere le dita.
In quell’istante, in fondo all’immensa sala risuonò la grande, smorzata nota di
un gong, profonda quanto quella di Gwaay era stata acuta e argentina: le sue vibra-
zioni scuotevano fino alle ossa. Poi, ai lati della stretta arcata nera, dall’estremità
opposta alla lettiga di Gwaay, con un ruggito si levarono al soffitto due colonne
eguali di fuoco bianco, che attirarono tutti gli sguardi, rovinando l’incantesimo del
Mouser.
La reazione immediata del Mouser fu di maledire interiormente quella superio-
re abilità di messa in scena.
Il fumo salì verso i grandi lastroni neri del soffitto, le colonne si ridussero a get-
ti bianchi alti quanto un uomo, e tra esse si fece avanti la figura di Flindach, nelle
vesti pesantemente ricamate, con l’Aureo Simbolo del Potere alla cintura, ma con il
Cappuccio della morte ributtato all’indietro per mostrare la faccia chiazzata e ver-
rucosa e gli occhi simili a quelli della maschera di Ivivis. Il Grande Maggiordomo
spalancò le braccia in un fiero gesto d’implorazione e la sua voce profonda e riso-
nante riempì la Galleria degli Spettri.
«O Gwaay! O Hasjarl! In nome di vostro padre, arso e al di là delle stelle, e in
nome di vostra nonna di cui anch’io ho gli occhi, pensate a Quarmall! Pensate alla
sicurezza di questo vostro regno e alle devastazioni causate dalle vostre guerre! Ri-
nunciate all’inimicizia, abiurate gli odii fraterni, e tirate a sorte per regolare la suc-
cessione... Il vincitore sarà qui Sovrano Supremo, il perdente partirà subito, con
una grande scorta e cofani di tesori, e attraverserà le Montagne della Fame ed il
deserto e il Mare dell’Est, per trascorrere l’esistenza nelle Terre Orientali, con ogni
lusso e in grande dignità. O se non volete tirare a sorte, allora lasciate che i vostri
campioni si battano a morte per decidere... e tutto sia come ho detto. O Hasjarl, o
Gwaay, io ho parlato.» Incrociò le braccia e restò immobile tra le due colonne di
fiamma pallida alte quanto lui.
Fafhrd aveva approfittato dello sgomento generale per strappare la spada e
l’ascia dalle mani di coloro che le portavano, e per spingersi a fianco di Hasjarl,
come per proteggerlo, poiché stava solo e senza ripari davanti ai suoi uomini.
Fafhrd urtò leggermente il principe e bisbigliò, attraverso la maschera: «Accetta, è
meglio. Io vincerò per te il suo soffocante, orribile regno catacomba... sì, e appena
ricompensato, me ne andrò ancora più rapidamente di Gwaay!»
Hasjarl gli rivolse una smorfia rabbiosa e, volgendosi verso Flindach, gridò: «Io
sono il Supremo Sovrano, qui, e non c’è bisogno di tirare a sorte per stabilirlo! Sì,
ed ho i miei arcimaghi per abbattere chiunque mi minacci con i sortilegi! Ed il mio
grande campione per ridurre in poltiglia chiunque mi minacci con la spada!»
Fafhrd gonfiò il petto e lanciò occhiate terribili attraverso i fori della maschera,
per dare maggior forza a quelle parole.
Il silenzio che seguì la sfida di Hasjarl venne lacerato, come da un coltello affi-
lato, quando una voce di penetrante dolcezza si levò dall’immobile mucchio che
giaceva sulla lettiga, cinta ai quattro angoli dagli impassibili portatori... o da un
punto appena al di sopra di esso.
«Io, Gwaay dei Livelli Inferiori, sono il Supremo Signore di Quarmall, e non il
mio povero fratello, per la cui anima dannata mi addoloro. Ed ho incantesimi che
hanno salvato la mia vita dalle più malvagie delle sue stregonerie, ed ho un cam-
pione che ridurrà a pula il suo campione!»
Tutti parvero sgomentarsi a quel discorso apparentemente magico, eccettuato
Hasjarl, che ridacchiò sputacchiando e facendo smorfie; poi, come se lui e il fratel-
lo fossero due bambini, soli in una sala giochi, gridò: «Bugiardo e spione! Vantone
effemminato! Piccolo ciarlatano? Dove sta questo tuo grande campione? Chiama-
lo! Ordinagli di presentarsi! Oh, confessalo, è solo una invenzione dei tuoi pensieri
morenti! Oh, oh, oh, oh!»
A quelle parole tutti cominciarono a guardarsi intorno, alcuni pensosi, altri pre-
occupati. Ma, poiché non compariva nessuna figura dall’aria bellicosa, alcuni degli
uomini di Hasjarl cominciarono a ridere insieme a lui. Altri li imitarono.
Il Gray Mouser non aveva nessuna voglia di rischiare la pelle, dato che il cam-
pione di Hasjarl gli sembrava, di momento in momento, un avversario sempre più
terribile, armato d’ascia come Fafhrd e adesso anche in funzione di consigliere del
suo signore... forse era un capitano generale, un’eminenza grigia, come lui era
quella di Gwaay. Tuttavia lo tentava irresistibilmente quell’occasione di coronare
tutti i colpi di scena con un colpo di scena ancora più magistrale.
E in quell’istante risuonò ancora la bizzarra voce di campana di Gwaay, che
non usciva dalle sue corde vocali ormai imputridite, ma era creata dalla forza della
sua volontà immortale, capace di dominare gli atomi invisibili dell’aria.
«Dalle profondità più tenebrose, invisibile a tutti, al centro della Galleria... ap-
pari, mio campione!»
Questo fu troppo, per il Mouser. Ivivis aveva indossato nuovamente la nera ve-
ste col cappuccio mentre parlava Flindach, sapendo che il terrore suscitato dalla
sua maschera di megera e dal suo corpo di fanciulla era passeggero, e stava di nuo-
vo accanto al Mouser, come suo accolito. Il Mouser le consegnò la bacchetta con
un gesto rigido, senza guardarla, e levando le mani allo scollo della veste, la gettò
indietro insieme al cappuccio e li lasciò cadere a terra dietro di sé; e sguainando il
Cesello balzò avanti, con un gran colpo di tacco verso l’orlo dei tre gradini, si pro-
tese lanciando occhiate tremende con la spada levata al di sopra della testa. Nelle
vesti di seta grigia e argento appariva come una figura minacciosa, sebbene piutto-
sto piccola, e con una borraccia di vino alla cintura, accanto al pugnale.
Intanto Fafhrd, che stava rivolto verso Hasjarl per scambiare con lui un’ultima
parola, si strappò la maschera rossa a sacchetto, sfoderò Astagrigia con un grande
stridio, e balzò avanti.
Poi si videro e si riconobbero.
La paura che seguì fu, per gli spettatori, una testimonianza della terribilità dei
due... uno così tremendamente alto, l’altro uno stregone trasformato. Evidentemen-
te, si ispiravano a vicenda una grande paura.
Fafhrd fu il primo a reagire, forse perché aveva sempre notato qualcosa di fami-
liare nel portamento e nel linguaggio dello Stregone Nero. Scoppiò in una risata
ciclopica e all’ultimo istante riuscì a trasformarla in un ringhio urlante: «Imbro-
glione! Chiacchierone! Finto mago! Incantatore dilettante. Tappo! Rospetto!»
Il Mouser, forse più sbalordito perché aveva notato e trascurato la rassomi-
glianza tra il campione mascherato e Fafhrd, riprese la battuta del suo compagno...
e appena in tempo, perché stava per scoppiare a ridere. Tuonò, di rimando: «Van-
tone! Spaccone presuntuoso! Cacciatore di gonnelle! Lazzarone! Briccone! Piedi
grossi!»
Gli spettatori, tesissimi, pensarono che quegli insulti fossero un po’ blandi, ma
lo slancio con cui venivano scagliati rimediava alla lacuna.
Fafhrd avanzò di un altro passo scalpitante, gridando: «Oh, quanto ho sognato
questo momento! Ti ridurrò in poltiglia, dalle unghie dei piedi al cervello di galli-
na!»
Il Mouser spiccò un balzo per battere il piede a terra senza perdere di statura
scendendo i gradini, e urlò: «Tutte le mie rabbie trovano uno sfogo felice. Ti strap-
però dalle viscere tutte le tue menzogne, specialmente quelle sui tuoi viaggi al
nord!»
Allora Fafhrd gridò: «Ricordati di Ool Hrusp!» E il Mouser rispose: «Ricordati
di Lithquil!» E si avventarono uno contro l’altro.
Per quanto ne sapevano quasi tutti i Quarmalliani, Lithquil e Ool Hrusp poteva-
no essere, e indubbiamente erano, luoghi in cui i due eroi si erano precedentemente
incontrati a duello, o campi di battaglia in cui avevano combattuto in schieramenti
opposti, o magari ragazze per cui si erano azzuffati. Ma in realtà Lithquil era il Du-
ca Pazzo della città di Ool Hrusp, per divertire il quale Fafhrd e il Mouser avevano
inscenato una volta un duello estremamente realistico e scrupolosamente provato e
riprovato, della durata di mezz’ora. Perciò i Quarmalliani che si aspettavano uno
scontro lungo e spettacoloso non rimasero affatto delusi.
Prima Fafhrd sferrò tre poderosi fendenti, ognuno sufficiente a tagliare in due il
Mouser, ma questi li deviò uno per uno all’ultimo momento, con forza ed abilità,
con il suo Cesello, in modo che i colpi passarono sibilando un dito al di sopra della
sua testa, cantando l’aspro canto cromatico dell’acciaio contro l’acciaio.
Poi il Mouser avventò tre affondi contro Fafhrd, balzando avanti come un pesce
volante e disimpegnando ogni volta la spada dalla parata di Astagrigia. Ma Fafhrd
riuscì sempre a spostarsi con il corpo, con una rapidità quasi incredibile per un in-
dividuo così grande e grosso, e la lama sottile gli passò accanto senza scalfirlo.
Quello scambio di fendenti e affondi fu soltanto il modesto prologo del duello,
che proseguì intorno alla fontana asciutta e divenne in apparenza ferocissimo, co-
stringendo gli spettatori ad arretrare più di una volta, mentre il Mouser improvvi-
sava, facendo schizzare fuori un po’ del denso vino di funghi color sangue, ogni
volta che si trovavano momentaneamente premuti corpo a corpo in uno scambio
rabbioso, in modo che entrambi sembravano seriamente feriti.
Nella Galleria degli Spettri c’erano tre persone che non si interessavano a quel
capolavoro di duelli e quasi non lo guardavano neppure. Ivivis non era una di que-
ste... ben presto gettò all’indietro il cappuccio, si strappò la maschera da megera e
prese a seguire il duello da vicino, incoraggiando il Mouser. E non erano neppure
Brilla, Kewissa e Friska... perché al suono delle spade le due giovani donne aveva-
no insistito per socchiudere appena un poco la porta, nonostante la sollecita ap-
prensione dell’eunuco, e adesso tutti stavano sbirciando, testa sopra testa: Friska, in
mezzo, soffriva per i pericoli corsi da Fafhrd.
Gli occhi di Gwaay erano ingrommati, le palpebre incollate dall’icore, e i ten-
dini che avrebbero dovuto servirgli per alzare la testa si andavano sciogliendo. Non
cercava di esplorare con i suoi sensi stregoneschi in direzione del duello. Era ag-
grappato all’esistenza solo dal filo del grande odio per suo fratello, e tutto il resto
della sua vita era per lui meno di un gioco d’ombre: eppure quell’odio aveva per
lui tutto lo splendore e la dolcezza e l’eccitazione della vita... e gli bastava.
L’immagine speculare di quell’odio in Hasjarl era in quel momento abbastanza
forte per dominare interamente gli istinti e gli appetiti del suo corpo sano e tutti gli
intrighi e le immagini dei suoi pensieri scoppiettanti. Vide il primo assalto del
duello, vide indifesa la lettiga di Gwaay e poi, come se avesse intravvisto per intera
una combinazione vincente di scacchi e ne fosse stato ipnotizzato, fece la sua mos-
sa senza ulteriori riflessioni.
Compiendo un ampio cerchio per aggirare i duellanti e muovendosi svelto
nell’ombra come una donnola, salì i tre gradini accanto al muro e si diresse verso la
lettiga.
Nella sua mente non vi erano idee: vi erano alcune immagini d’ombra, come
distorte da una grande lontananza... una era lui stesso, bambino, che di notte avan-
zava lungo un muro, verso la culla di Gwaay, per graffiarlo con uno spillo.
Non concesse neppure un’occhiata agli schiavi, che probabilmente non lo vide-
ro, o almeno non lo notarono, poiché avevano una mente troppo rudimentale.
Si sporse, impaziente, tra due di essi e scrutò incuriosito suo fratello. Il fetore lo
costrinse a serrare le narici, e la sua bocca si contrasse in uno sfintere strettissimo...
e tuttavia sorrise.
Estrasse un largo pugnale di acciaio azzurrognolo dal fodero appeso alla cintu-
ra, e lo levò sulla faccia del fratello, quasi irriconoscibile per le sue infermità. Il
filo del pugnale era una serie di minuscoli uncini ripiegati a partire dalla punta.
Il clangore delle spade, più sotto, raggiunse uno dei suoi culmini, ma Hasjarl
non se ne avvide.
Disse sommessamente: «Apri gli occhi, Fratello. Voglio che tu parli, prima che
ti uccida.»
Non vi fu risposta da parte di Gwaay... né un movimento, né un sussurro, né
una bolla di vomito.
«Benissimo» fece aspramente Hasjarl, «e allora muori dignitosamente a bocca
chiusa.» E affondò il pugnale.
La lama si arrestò violentemente a un filo dalla guancia di Gwaay, e i muscoli
del braccio di Hasjarl che la spingeva furono storditi dal sussulto.
Allora Gwaay aprì gli occhi, che non erano molto piacevoli da guardare, poiché
non c’era altro, in essi, che icore verde.
Hasjarl chiuse immediatamente i suoi, ma continuò a scrutare attraverso i fori
nelle palpebre.
Poi udì la voce di Gwaay al suo orecchio, come un moscerino argenteo: «Hai
commesso una piccola svista, caro fratello. Hai scelto l’arma sbagliata. Dopo che
nostro padre è stato arso sulla pira, mi hai giurato che la mia vita ti era sacrosanta...
fino a quando tu non mi avessi schiacciato. “Fino a quando ti schiaccerò”, hai det-
to. Gli dèi ascoltano solo le nostre parole, Fratello, non le nostre intenzioni. Se fos-
si arrivato sollevando un macigno, da quel bizzarro gnomo che sei, avresti realizza-
to il tuo scopo.»
«E allora ti farò schiacciare!» ribatté rabbiosamente Hasjarl, accostando di più
il viso e quasi urlando. «Sì, e io me ne starò lì vicino e ascolterò le tue ossa scric-
chiolare... le ossa che ti restano! Tu sei sciocco quanto me, Gwaay, perché anche
tu, dopo i funerali di nostro padre, hai promesso di non uccidermi. Sì, e sei ancora
più sciocco di me, perché ora mi hai rivelato il segreto, il modo in cui puoi essere
ucciso.»
«Io ho giurato di non ucciderti con incantesimi, con l’acciaio, il veleno o la mia
mano» rispose la limpida voce d’insetto di Gwaay. «Diversamente da te, non ho
parlato di schiacciare.»
Hasjarl provò uno strano brivido, mentre alle sue narici saliva un odore acre
come quello del fulmine, mescolato al fetore della putredine.
All’improvviso le mani di Gwaay emersero, fino al palmo, dalle, ricche coper-
te. Le carni si staccavano a brandelli dalle ossa delle dita che puntavano verso
l’alto, in atto d’invocazione.
Hasjarl fu sul punto di spiccare un balzo indietro, ma si trattenne. Sarebbe mor-
to, si disse, piuttosto di arretrare davanti a suo fratello. Era conscio della presenza
di forze terribili intorno a lui.
Vi fu un rumore sordo, raschiante, poi una nevicata strana, ticchettante sulla
coperta e sul collo di Hasjarl... una fine nevicata d’una sostanza pallida e sabbio-
sa... granelli di calce...
«Sì, tu mi schiaccerai, caro fratello» ammise tranquillamente Gwaay. «Ma se
vuoi sapere come mi schiaccerai, ricorda i miei piccoli poteri speciali... o alza gli
occhi!»
Hasjarl girò la testa, e la lastra di basalto nera grande quanto la lettiga precipi-
tava, e l’unico momento di vita che ancora gli restava fu consumata nell’ascoltare
Gwaay che diceva: «Ti sei sbagliato ancora, amico mio.»
Fafhrd arrestò a mezzo un fendente quando udì lo schianto, e per poco il Mou-
ser non lo scalfì con la parata conosciuta a memoria. Abbassarono le lame e, come
tutti gli altri, guardarono la sezione centrale della Galleria degli Spettri.
Dove prima stava la lettiga c’era solo la grossa lastra di basalto striata di calce,
sotto cui sporgevano le quattro stanghe, e lassù, nel soffitto, il bianco foro rettango-
lare da cui la lastra si era staccata. Il Mouser pensò: È ben più grande di una pedi-
na o di una fiasca, per muoverla con il pensiero, eppure è della stessa sostanza ne-
ra.
Fafhrd pensò: Perché non è crollato tutto il tetto? Questo è molto strano.
Forse la stranezza più grande del momento era rappresentata dai quattro schiavi
ancora ritti ai quattro angoli, con lo sguardo fisso in avanti, le dita intrecciate sul
petto, sebbene il lastrone, cadendo, li avesse mancati di pochissimo.
Poi alcuni dei fedeli e degli stregoni di Hasjarl, che avevano veduto il loro si-
gnore avvicinarsi furtivamente alla lettiga, accorsero, ma poi indietreggiarono
quando videro che la lastra era poggiata sul pavimento e scorsero il sottile rivoletto
di sangue che usciva sotto la pietra. Le loro menti tremarono al pensiero dei fratel-
li: si erano odiati tanto intensamente, ed ora i loro corpi erano uniti in un osceno
amplesso interpenetrante.
Intanto Ivivis corse accanto al Mouser e Friska accanto a Fafhrd, per medicare
le ferite: ed entrambe rimasero sbalordite e forse un po’ irritate nello scoprire che
non ne avevano. Anche Kewissa e Brilla uscirono; e Fafhrd, cingendo con un brac-
cio Friska, tese l’altra mano insanguinata dal vino e la chiuse delicatamente intorno
al polso di Kewissa, sorridendole amichevolmente.
Poi la gran nota sommessa del gong risuonò di nuovo e le colonne gemelle di
fiamma bianca salirono ruggendo al soffitto, ai lati di Flindach. Il loro bagliore
mostrò che molti uomini erano entrati dalla stretta arcata dietro Flindach e gli sta-
vano intorno: robuste guardie della compagnia del Forte con le armi imbracciate, e
parecchi dei suoi stregoni.
Mentre le colonne di fiamma si riabbassavano rapide, Flindach alzò imperio-
samente la mano e parlò con voce sonante:
«Le stelle che non possono venire ingannate avevano predetto la fine del So-
vrano di Quarmall. Tutti voi avete udito questi due» e additò la lettiga schiacciata,
«proclamarsi Sovrani di Quarmall. Perciò gli astri sono doppiamente soddisfatti. E
gli dèi, che odono le nostre parole fino al minimo bisbiglio, e ordinano i nostri fatti
secondo esse, sono contenti. Rimane da rivelarvi chi sarà il prossimo Sovrano di
Quarmall.»
Indicò Kewissa e intonò: «Il prossimo Sovrano di Quarmall, salvo uno, dorme
e cresce nel grembo di lei, moglie del Quarmal recentemente onorato con il fuoco e
le immolazioni e i riti cerimoniali.»
Kewissa si ritrasse, spalancando gli occhi azzurri. Poi divenne raggiante.
Flindach continuò: «Rimane ancora da rivelarvi il prossimo Sovrano di Quar-
mall, che sarà tutore del figlio della Regina Kewissa, fino a quando diverrà adulto
per essere un re perfetto ed un saggio stregone, sotto il cui dominio il nostro reame
sotterranei) godrà di una perpetua pace interna e di una prosperità immensa, grazie
alle incursioni all’esterno.»
Poi Flindach tese la mano dietro la sua spalla sinistra. Tutti pensarono che in-
tendesse alzare il Cappuccio della Morte sulla propria testa e sulla fronte e sulle
orride guance sfigurate dalle verruche e dalla voglia di vino per pronunciare un di-
scorso ancora più solenne. Invece si afferrò il collo per i corti capelli della nuca, lo
tirò verso l’alto e in avanti, togliendosi il cuoio capelluto e la chioma, e poi la pelle
della faccia si staccò insieme alla cute, quando egli abbassò la mano: e un po’ luci-
da di sudore apparvero la faccia non sfigurata e il naso sporgente e le labbra piene
e mobili, sorridenti, di Quarmal, mentre i terribili occhi dalla sclerotica rossa e dal-
le iridi bianche guardavano con espressione blanda i presenti.
«Sono stato costretto a visitare il Limbo per qualche tempo» spiegò, con una
familiarità paterna, solenne e tuttavia gioviale, «mentre altri erano Sovrani di
Quarmal in mia vece e le stelle scagliavano i loro strali. È stato meglio così, sebbe-
ne io abbia perduto due figli. Solo così la nostra terra poteva venire salvata da una
devastante guerra intestina.»
Levò, perché tutti potessero vederla, la maschera floscia dalle occhiaie vuote
frangiate dalle ciglia, con la guancia sinistra chiazzata di porpora e la guancia de-
stra con il triangolo di verruche. Poi disse: «Ed ora vi ingiungo di onorare tutti il
grande e possente Flindach, il più devoto Maestro dei Maghi che un re abbia mai
avuto, colui che mi ha prestato la faccia per un inganno necessario e il suo corpo
perché venisse arso al posto del mio, con la mia maschera di cera per coprire la po-
vera parte anteriore della testa, interamente sacrificata. Sovrintendendo solenne-
mente alle mie stesse esequie fiammeggianti, ho onorato soltanto Flindach. Per lui
sono bruciate le mie donne. Questa sua faccia, ben preservata dalla mia abilità di
scuoiatore e di conciatore, resterà appesa per sempre al posto d’onore nelle nostre
sale, mentre lo spirito di Flindach mi serba il seggio nel Mondo Tenebroso oltre le
Stelle, Supremo Sovrano fino a quando vi andrò io, ed in eterno Eroe di Quar-
mall.»
Prima che si levassero applausi o acclamazioni (che potevano tardare un po’,
poiché tutti erano grandemente sbalorditi) Fafhrd gridò: «O astutissimo re, io onoro
tanto te e il tuo piccino e la Regina che lo porta nel grembo che io la veglierò, atti-
mo per attimo, senza scostarmi di un passo da lei, fino a quando io ed il mio picco-
lo camerata non saremo fuori di Quarmall, diciamo di un miglio, insieme ai cavalli
per il trasporto e ai tesori a noi promessi da questi ultimi due re.» E come aveva
fatto Quarmal, additò la lettiga schiacciata.
Il Mouser era stato in procinto di lanciare a Quarmal qualche commento sottil-
mente intimidatorio circa l’abilità stregonesca con cui aveva liquidato gli undici
maghi di Gwaay; ma ora decise che le parole di Fafhrd erano sufficienti e ben det-
te, a parte l’umiliante allusione alla sua persona, e se ne stette zitto.
Kewissa fece per ritirare la mano da quella di Fafhrd, ma egli serrò appena un
poco la stretta, e lei lo guardò e capì. Anzi, esclamò vivacemente a Quarmal: «Oh,
Signor Marito, quest’uomo ha salvato la mia vita e quella di tuo figlio dai diavoli
di Hasjarl in un magazzino del Forte. Mi fido di lui.» Intanto Brilla, tergendosi con
la manica lacrime di gioia, l’assecondò aggiungendo: «Mio carissimo Signore, ella
dice solo la pura verità, la verità nuda come un bimbo appena nato o una novella
sposa.»
Quarmal levò leggermente la mano in atto di rimprovero, come se quei discorsi
non fossero necessari, e anzi un po’ fuori luogo, e sorridendo a labbra strette a
Fafhrd ed al Mouser disse: «Sarà come tu hai chiesto. Non sono né ingeneroso né
stupido. Sappiate che non è stato per puro caso che i miei defunti figli, l’uno
all’insaputa dell’altro, hanno assoldato voi due, anche voi l’uno all’insaputa
dell’altro, come loro campioni. Inoltre sappiate che non sono del tutto ignaro delle
curiosità di Ningauble dai Sette Occhi o degli incantesimi di Sheelba dal Volto
Senza Occhi. Noi grandi maestri della stregoneria abbiamo un... Ma aggiungere
altro servirebbe soltanto ad attizzare la curiosità degli dèi, ad allarmare i troll e ad
attirare l’attenzione degli irrequieti, avidi Fati. Basta così.»
Guardando gli occhi socchiusi di Quarmal, il Mouser fu lieto di non essersi
vantato, e persino Fafhrd rabbrividì leggermente.

Fafhrd fece schioccare la frusta sui quattro cavalli, per indurli a trainare più e-
nergicamente il carro stracarico attraverso il nero, fangoso tratto d’i strada profon-
damente segnato dai solchi delle ruote e dalle orme degli zoccoli dei buoi, ad un
miglio da Quarmall. Friska ed Ivivis erano girate sul sedile per salutare il più a
lungo possibile Kewissa e l’eunuco Brilla, fermi sul ciglio della strada accanto a
quattro impassibili guardie di Quarmall.
Il Gray Mouser, sdraiato bocconi sopra il carico, salutò a sua volta, ma solo con
la mano sinistra: nella destra stringeva una balestra carica, mentre i suoi occhi fru-
gavano gli alberi circostanti per timore di un’imboscata.
Tuttavia il Mouser non era veramente allarmato. Pensava che Quarmal difficil-
mente avrebbe tentato qualche trucco contro un guerriero e uno stregone valente
quanto lui... e contro Fafhrd, naturalmente. Il vecchio Sovrano era stato un ospite
molto benigno, in quelle ultime ore, rimpinzandoli di vini rari e caricandoli di ric-
chi doni, oltre a quelli che avevano chiesto e a quelli che il Mouser si era accapar-
rato in anticipo; aveva addirittura offerto loro altre ragazze, oltre a Ivivis e a Fri-
ska... un premio che essi avevano rifiutato, con un certo segreto rammarico, dopo
aver notato le occhiatacce di quelle due. Due o tre volte Quarmal aveva sorriso in
un modo amichevole un po’ troppo tigresco, ma allora Fafhrd si era avvicinato un
po’ più a Kewissa ed aveva accentuato la lieve ma inflessibile stretta sul polso di
lei, per ricordare al Sovrano che la Regina e il principe nel suo grembo erano gli
ostaggi della sicurezza sua e del Mouser.
Quando la strada fangosa salì leggermente, sopra le cime degli alberi compar-
vero le torri di Quarmall. Lo sguardo del Mouser le sfiorò: studiò pensieroso le gu-
glie merlettate, chiedendosi se le avrebbe riviste mai più. All’improvviso, lo prese
il capriccio di ritornare subito a Quarmall... sì, di scivolare giù dal mucchio del ca-
rico e di accorrervi. Cosa aveva di tanto bello il mondo esterno, che si potesse pa-
ragonare alle meraviglie di quel regno sotterraneo... le gallerie labirintiche ornate
di affreschi che un uomo poteva impiegare l’intera vita a percorrere... le sue delizie
sotterranee... persino i suoi mali bellissimi... i suoi neri deliziosi, infinitamente va-
riati... l’aria sospinta dai ventilatori segreti... Sì, se fosse balzato a terra senza far
rumore in quel momento...
Dalla torre più alta partì un lampo, un brillio. Trafisse il Mouser come un pun-
golo, ed egli allentò la presa e si lasciò scivolare all’indietro, lungo il carico. Ma
proprio in quell’istante la strada svoltò, ridivenne solida, e gli alberi salirono, na-
scondendo le torri, e il Mouser ritornò in sé, e si abbrancò con forza, prima che i
suoi piedi toccassero terra: e restò lì appeso, mentre le ruote cigolavano allegra-
mente e un sudore freddo lo infradiciava.
Poi il carro si fermò, e il Mouser si lasciò cadere, trasse tre profondi respiri; si
affrettò a raggiungere Fafhrd, che era sceso a sua volta e si occupava dei finimenti
dei cavalli.
«Risali, Fafhrd, e frusta!» gridò. «Questo Quarmal è uno stregone più furbo di
quanto immaginassi. Se perdiamo tempo per strada, temo che metteremo in perico-
lo la nostra libertà e le nostre anime!»
«E lo dici a me?» ribatté Fafhrd. «Questa strada è tortuosa, e ci saranno altri
tratti fangosi. Fidarsi della velocità di un carro? Puah! Staccheremo i quattro caval-
li, e prenderemo solo i viveri più semplici e gli oggetti più piccoli e preziosi del
tesoro, e attraverseremo al galoppo la brughiera, da Quarmall, a volo d’uccello. In
questo modo dovremmo evitare le imboscate e battere in velocità gli inseguitori.
Friska, Ivivis! Sbrigatevi, tutti!»

Fine del Libro Quarto.

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