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SULLA SINCERITA’

«Per quanto riguarda l’educazione dei figli penso che si debbano insegnare loro non le piccole
virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la
prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla
verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo,
ma il desiderio di essere e di sapere»
(N. Ginzburg, Le piccole virtù, «Nuovi Argomenti», sett.- ott. 1960

L’onestà

Chiedere onestà a una persona pubblica non vuol dire soltanto chiederle che si astenga dal
commettere dei furti, delle truffe o delle frodi, non vuol dire soltanto chiederle che si astenga da
ogni specie di azione ideata a danno della società o dei privati. Vuol dire anche chiederle che abbia
in odio tortuosità e ambiguità, che in ogni istante si interroghi per capire se l’immagine che ha di
sé stessa dentro di sé è limpida o torbida, se la strada sulla quale procede è dritta o tortuosa. Noi
da diversi anni avevamo preso l’abitudine di pensare che nella vita pubblica, l’onestà individuale
fosse poco, e che occorressero, per giovare alla società, altre qualità più sottili, più complesse, più
sofisticate e più astute. Avevamo preso l’abitudine di situare al posto più alto, nella nostra scala dei
valori, la destrezza e la perspicacia, quella particolare perspicacia politica che è dotata di mille
occhi e di mille antenne, e anche di pungiglioni e di artigli. All’integrità morale, alla rettitudine,
all’onestà, avevamo preso l’abitudine di attribuire un’importanza irrilevante. Soprattutto ci
sembrava che nella vita pubblica, l’onestà individuale fosse cosa di scarso peso, antiquata, e
inadeguata alla crudeltà dei tempi.

Poi a un certo punto ci siamo accorti che quello che appare più infrequente in Italia, nella vita
pubblica e politica, è proprio l’onestà. Nello scenario che abbiamo davanti agli occhi, se ne
scorgono rari esempi. Essendo questi così rari e insoliti, hanno l’esistenza difficile. Li circuiscono,
li assediano e li minacciano da ogni parte i giochi d’astuzia, gli inganni e le frodi. Tuttavia
nonostante tutto l’onestà manda una luce allegra, visibile a ognuno.

L’onestà non è abile, e non è affatto astuta. Non le importa nulla di essere astuta. Non adopera,
nelle sue scelte, l’astuzia, ma ubbidisce unicamente a sé stessa. È intuitiva, ma solo nel discernere
ciò che le rassomiglia da ciò che la offende. Non cerca vittorie. È costantemente disposta a
perdere. La sola cosa che davvero le sta a cuore è non truffare, non frodare, non tradire né gli
altri, né sé stessa. Vuole muoversi, quando è possibile, non al chiuso ma all’aperto, non nella notte
ma nel giorno. Ama le vie dirette e detesta le vie traverse. Non si cura di essere derisa, schernita,
umiliata, di essere considerata ingenua, di essere sola nelle sue decisioni, e di essere priva di
pungiglioni e di artigli, quei pungiglioni e quegli artigli che la società di oggi tanto ammira e ama.
L’onestà non vuol essere ammirata, né vuol essere amata. Presta fede unicamente a sé stessa, e va
dritta per la sua strada.
Quando abbiamo saputo dell’esistenza della Pdue, del partito occulto come si usa chiamarlo,
prima ancora d’aver capito bene che cosa fosse abbiamo però sentito che nei suoi disegni, è
soprattutto presente la determinazione a devastare, nel nostro paesaggio politico, l’idea stessa
dell’onestà. I suoi fini, i suoi disegni sono oscuri, sepolti nelle tenebre, ma la determinazione a
sopprimere in Italia ogni possibile forma o parvenza di sanità e di integrità morale è certa. E
allora, quando abbiamo saputo del partito occulto, abbiamo sentito un profondo ribrezzo per ciò
che è occulto, per ciò che non scorre alla luce del giorno, abbiamo sentito viva l’esigenza di poter
leggere nella vita del paese come in un libro aperto, l’esigenza che ogni parola intorno a noi sia
detta a voce alta, e sia incontestabilmente veritiera. Allora abbiamo pensato che la rettitudine, la
chiarezza morale, l’onestà sono beni di un valore inestimabile, e indispensabili alla vita di un paese
come il pane, come l’acqua e come l’aria.

N. Ginzburg, «l’Unità» il 20 maggio del 1984

veritas parit odium (la verità genera odio)


“ […]essi amano la verità quando si svela (amant eam, cum se ipsa indicat)” ma “la odiano
quando li rivela (oderunt eam, cum eos ipsos indicat)”
(Agostino, Confessioni, X, 23),

[…] Noi, invece, vogliamo diventare quelli che siamo: i nuovi, gli irripetibili, gli
inconfrontabili, i legislatori-di-se-stessi, quelli che si danno da sé la legge, che si creano da
sé!
(Niezsche, Gaia scienza, IV, § 335)
“Non solo io non debbo adattare la mia vita alle richieste della conformità esteriore, ma
neppure posso trovare il modello su cui regolare la mia vita fuori di me. Posso trovarlo
soltanto dentro di me”.
(Charles Taylor)

La sincerità è la virtù “che fa l’uomo onesto (l’honnête homme) nella vita privata, e l’eroe
(l’heros) nei rapporti con i potenti”.
(Montesquieu Elogio della sincerità, 1717)
“Il principio morale che dire la verità sia un dovere se fosse preso in modo assoluto e isolato
(absolue et isolée), renderebbe impossibile ogni tipo di società. Ne abbiamo la prova nelle
conseguenze dirette che ha tratto, da questo primo principio, un filosofo tedesco (un
philosophe allemand), che arriva a sostenere che, persino davanti agli assassini che vi
chiedessero se il vostro amico, che stanno inseguendo, si è rifugiato a casa vostra, la
menzogna (mensonge) sarebbe un crimine”. […] “nessun uomo ha diritto a una verità che
nuoccia agli altri (nul homme n’a droit à la vérité qui nuit à autrui)”
(Benjamin Constant, Sulle reazioni politiche, VIII, 1796).
Il mentitore misericordioso “mostra di non considerare la veridicità (Wahrhaftigkeit) come
un dovere in se stesso (für Pflicht an sich selbst), ma si riserva delle eccezioni (Ausnahmen) a
una regola (Regel) che, per sua stessa natura, non ne ammette alcuna, pena
l’autocontraddittorietà (selbst widerspricht)”
(I. Kant, Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità, 1797).

In Ambito medico deve essere ammessa la “pietosa menzogna (pia fraus) e sospensione del
principio di veridicità che si incontra nella quotidianità. Per Jaspers si tratta di un “mentire
consentito e opportuno (erlaubtes, ja gefordertes Lügen)”, per Jankélévitch, addirittura,
“colui che dice al morente che sta per morire mente (celui qui dit au mourant qu’il va mourir
ment)”, dal momento che l’esito della malattia è sempre incerto e la prognosi medica non
può valere come una verità assoluta”.
(A. Tagliapietra, Sincerità, 2012)
“Rabbi Raffaele di Berschad era noto in ogni luogo per la sua sincerità. Una volta la sua
testimonianza doveva decidere della vita di un ebreo accusato di un misfatto. Rabbi Raffaele
sapeva che l’uomo era colpevole: nella notte precedente la discussione della causa egli non
andò a riposare, ma lottò in preghiera fino all’alba. Poi si stese per terra, chiuse gli occhi e
morì all’istante”.
(M. Buber, racconto chassidico, La testimonianza)
“Essere sinceri, a partire dall’immediatezza di quel coraggio che prevede comunque
l’attitudine gloriosa della stima di sé e, quindi, in qualche modo, un ritorno su se stessi,
presuppone un lavoro, un agire, un fare, un rischio e un impegno che, con l’ampliarsi dello
spazio simbolico dell’identità personale, significheranno anche la capacità di conoscersi e di
costruirsi nel tempo, ovvero di diventare quella persona che vogliamo essere.”
(A. Tagliapietra, Sincerità, 2012)
“La parresia ha un volto negativo e un volto positivo. Quello negativo è il dir
tutto indiscriminato, l’orizzonte della chiacchiera e dell’indiscrezione, del lasciarsi andare a
confidenze perché si è bevuto qualche bicchiere di troppo, del dar aria alla bocca, del
pettegolezzo inopportuno, della stupidità e della sciocchezza di chi parla a vanvera e senza
pensare. È quell’“ignorante licenza verbale (kamathei parresia)” (Oreste, 905), come la
definisce una tragedia di Euripide, che è sinonimo di athyrostomia, ovvero, traducendo alla
lettera, dell’“aver la bocca priva di porta”. Il volto positivo, invece, nella maggior parte dei
testi greci in cui il termine fa la sua comparsa, viene immediatamente posto in relazione con
la verità.”
(A. Tagliapietra, Sincerità, 2012)
“Volta e rivolta nell’animo tuo questi concetti che spesso hai udito, spesso pronunciato. Ma
se li hai ascoltati con sincerità (vere), se li hai espressi con sincerità (vere) dimostrali con i
fatti”
(Seneca. Lettere a Lucilio, 24, 15).
“Non solo agli uomini, ma anche alle cose, bisogna togliere la maschera (persona) e
restituire il loro aspetto autentico (facies sua)”
(Seneca, Lettere a Lucilio, 24, 13)
“Essendo l’uomo un animale fatto per vivere in società, per natura un uomo deve all’altro ciò
che è indispensabile per la conservazione della società umana. Ora, gli uomini non
potrebbero convivere senza credersi reciprocamente, dicendo l’uno la verità all’altro”
(Tommaso D’Aquino, Summa Teologica, II, II, q. 109, a. 3).

“L’individuo moderno è, cioè, colui che si percepisce sempre al di là delle maschere e


dei ruoli che pur assume nel contesto della società. Per questo la sincerità come
veridicità e veracità non basta più. La trasparenza scopre un fondo di opacità
impenetrabile. Comincia la discesa vertiginosa negli abissi del sé alla ricerca dell’io
autentico”.
(A. Tagliapietra, Sincerità, 2012)

“‘Sembra’ (Seems) signora? No, è (it is). Io non conosco ‘sembra’. Buona madre / Non è solo
il mio mantello color dell’inchiostro, / Né gli abiti di circostanza di solenne nero, / Né le
raffiche di sospiri e il fiato mozzo, / No, e nemmeno il fiume copioso nell’occhio. / Né
l’atteggiarsi sconsolato del viso, / Insieme a tutte le forme, le espressioni, / I modi del dolore,
a poter dire la mia verità (That can denote me truly) / Questi invero ‘sembrano’ (seem)
perché sono (are) / Azioni che un uomo può recitare (play). / Ma io ho dentro ciò che non si
mostra (But I have that within which passes show) – / Fuori ci sono i fronzoli e le maschere
del dolore”
(W. Shakespeare Amleto, I, 2, 76-86, 1600-1602).
“non ci siete che voi a sapere se siete vile e crudele, o leale e devoto; gli altri non vi vedono;
vi indovinano per congetture incerte; vedono non tanto la vostra natura quanto la vostra
arte”.
(M. De Montaigne, Saggi, III, II, 1588).
“Noi non siamo che formalismo (cérémonie); il formalismo ci trascina, e tralasciamo la
sostanza delle cose; ci attacchiamo ai rami e abbandoniamo il tronco e il corpo”.(M. De
Montaigne, Saggi, II, XVI, 1588).
“La natura ci ha fatto dono di un’ampia facoltà di intrattenerci con noi stessi, e ci chiama
spesso a farlo per insegnarci che dobbiamo, sì, una parte di noi alla società, ma la parte
migliore a noi stessi”.
(M. De Montaigne, Saggi, II, XVIII, 1588).

“[…] Tuttavia nessuno si dia delle arie. Come ognuno, anche il più grande genio, in una
qualche sfera della conoscenza è decisamente limitato, e in tal modo attesta la sua affinità
con il genere umano essenzialmente stolto e assurdo, così pure ognuno porta dentro di sé
qualche cosa di assolutamente cattivo dal punto di vista morale, e perfino il migliore anzi il
più nobile carattere ci sorprenderà talvolta per certi tratti di cattiveria: quasi che volesse
riconoscere la propria affinità con il genere umano, nel quale troviamo l'indegnità, anzi la
crudeltà, in tutte le loro gradazioni. Infatti, proprio in forza di questo elemento cattivo in lui
insito, di questo principio malvagio, egli è dovuto diventare uomo. E, per questa stessa
ragione, il mondo è in generale ciò che il mio specchio fedele ha mostrato.
Nonostante tutto ciò, la differenza tra uomo e uomo rimane pur sempre incalcolabile, e
molti si spaventerebbero se potessero vedere gli altri come sono. - Oh, se ci fosse un
Asmodeo della moralità, il quale facesse vedere al suo protetto non solo attraverso i tetti e i
muri, ma attraverso il velo di dissimulazione, falsità, ipocrisia, ostentazione, menzogna e
inganno che tutto ricopre, e gli facesse vedere quanto poca vera onestà si può trovare al
mondo, e quante volte, anche dove la si supporrebbe meno che altrove, dietro tutte le
ostentazioni virtuose, intimamente e nel recesso più recondito, l'iniquità è al timone. - Di
qui appunto nascono le amicizie a quattro zampe di tanti uomini di stampo superiore:
infatti, come ci si potrebbe ristorare dall'infinita simulazione, falsità e perfidia degli uomini,
se non ci fossero i cani, nel volto onesto dei quali si può figgere lo sguardo senza diffidenza?
- E il nostro mondo civilizzato non è altro che una colossale mascherata. Vi si trovano
cavalieri, preti, soldati, dottori, avvocati, sacerdoti, filosofi e che altro ancora! Ma essi non
sono ciò che rappresentano, non sono altro che maschere dietro le quali di regola stanno
degli speculatori (money-makers). Avviene, poi, che una persona assuma la maschera del
diritto, facendosela prestare dall'avvocato, solo per poter meglio nuocere a un'altra persona;
a sua volta un'altra persona ha scelto, per lo stesso scopo, la maschera del bene pubblico e
del patriottismo; una terza persona, quella della religione e della fede pura. Già parecchie
persone hanno assunto la maschera della filosofia e perfino della filantropia e così via, per
ogni genere di scopi. Le donne hanno meno scelta: per lo più esse si servono della maschera
della costumatezza, della pudicizia, dell'inclinazione alla vita domestica e della modestia.
Poi vi sono anche maschere generali, senza un carattere particolare, un poco come i domino;
queste, perciò, s'incontrano dappertutto, e sono: la severa probità, la cortesia, l'interesse
sincero e l'amicizia sorridente. Ma dietro tutte queste maschere si nascondono per lo più,
come si è detto, soltanto industriali, commercianti e speculatori. Da questo punto di vista,
l'unica classe onesta è quella dei mercanti; essi soli, infatti, si danno per quello che sono: non
vanno in giro mascherati, ma per la stessa ragione sono anche di rango inferiore. - È molto
importante essere istruiti molto presto, fin dalla giovinezza, sul fatto che siamo al
mondo per assistere a una mascherata. Altrimenti, molte cose non si potranno
comprendere né afferrare, e si rimarrà sbalorditi; più di tutti colui «cui ex meliori luto dedit
praecordia Titan». [Colui al quale il Titano fece un cuore di migliore argilla, Giovenale Sat.
XIV, 34] Le cose che possono far sbalordire sono: il favore di cui gode la bassezza d'animo; la
negligenza con cui il merito, anche quello più raro e più grande, è trattato dagli «specialisti»;
l'odio per la verità e per le grandi capacità; l'ignoranza dei dotti nella loro disciplina; il fatto
che quasi sempre si respinge la merce autentica per cercare quella apparente. Perciò il
giovinetto sappia subito che a questa mascherata le mele sono di cera, i fiori di seta, i pesci
di cartone e tutto, tutto, non è che fanfaluca e burla; sappia anche che, di quei due che là
stanno in così seria trattativa, l'uno spaccia merce assolutamente falsa e l'altro paga con
gettoni.
Ma bisogna fare considerazioni ancora più gravi e dar notizia di cose peggiori. L'uomo è, in
fondo, un animale barbaro e spaventoso. Noi lo conosciamo soltanto allo stato di
repressione e domesticità che si chiama civiltà: perciò le esplosioni occasionali della sua
natura ci fanno paura. Ma, dove e quando il chiavistello e la catena dell'ordinamento legale
cadono e subentra l'anarchia, allora egli fa vedere che cosa è.”
(A. SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena, Tomo I, Sull’etica, 114, 1851)

Amor proprio. La natura dell'amore di sé e di questo «io» umano è di amare soltanto se


stesso e di considerare soltanto se stesso. Ma come farà? Non può certo impedire che
l’oggetto del suo amore non sia pieno di difetti e di miserie: vuol esser grande, e si vede
meschino; vuol essere felice e si vede miserabile; vuol essere perfetto, e si vede pieno di
imperfezioni; vuol essere oggetto dell'amore e della stima degli uomini, e vede che i suoi
difetti meritano solamente la loro avversione e il loro disprezzo. Questa difficoltà genera in
lui la ingiusta criminosa passione che si possa immaginare: perché egli concepisce un odio
mortale contro la verità che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Vorrebbe annientarla e
non potendo distruggerla in lei stessa, la distrugge, per quanto gli è possibile, nella propria
conoscenza e in quella degli altri: mette, cioè, ogni sua cura nel celare i propri difetti a se
stesso e agli altri, e non tollera né che gli vengano mostrati né che sian veduti.
Senza dubbio, esser pieni di difetti è un male, ma è un male ancora più grande esserne
pieni e non volerlo riconoscere, perché ciò significa aggiungervi quelli di un'illusione
volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino; non crediamo giusto che pretendano di
esser stimati da noi più che non meritino: dunque, non è giusto neppure che li inganniamo e
che pretendiamo di esserne stimati più di quanto meritiamo.
Così, quand'essi scoprono in noi soltanto imperfezioni e vizi che abbiamo veramente, è
evidente che non ci usano nessun torto, perché non ne son essi la causa; anzi, ci rendono un
servigio, poiché ci aiutano a liberarci da un male: l'ignoranza di quei difetti. Non dobbiamo
irritarci che li conoscano, e ci disprezzino: è giusto che ci conoscano quali siamo e che ci
disprezzino, se siam degni di disprezzo.
Tali i sentimenti che nascerebbero da un cuore pieno di equità e di giustizia. Che diremo,
dunque, del nostro, scorgendovi un'inclinazione affatto opposta? Non è forse vero, infatti,
che odiamo la verità e coloro che ce la dicono, e che ci fa piacere che si ingannino in
nostro favore, e che vogliamo esser creduti diversi da quel che realmente siamo?
[…] Quanto dev'essere ingiusto e irragionevole il cuore dell'uomo, se giudica un male esser
obbligato a fare con uno solo ciò che, in certo modo, sarebbe giusto che facesse con tutti! È
giusto, infatti, che li inganniamo?
Ci sono diversi gradi in quest'avversione per la verità ma essa si ritrova, in qualche grado,
in tutti, perché è inseparabile dall'amore di sé. È questa falsa delicatezza a obbligare chi
si trova nella necessità di riprendere gli altri a cercare mille giri di parole e
attenuazioni per non urtarli. Deve sminuire i nostri difetti, far le viste di scusarli,
mescolare ai rimproveri lodi e proteste di affetto e di stima. Ciò nonostante, all'amor
proprio la medicina riesce pur sempre amara: esso ne prende meno che può, e
sempre con ripugnanza, e spesso anche con segreto dispetto contro chi gliela porge.
Ne consegue che, se qualcuno ha un certo interesse a esser ben voluto da noi, si guarda
bene dal renderci un servigio che sa quanto ci riesca sgradito e ci tratta come vogliamo esser
trattati: noi odiamo la verità, ed esso ce la nasconde; vogliamo esser lusingati, e ci
lusinga; ci piace esser ingannati, e c'inganna.
Ecco perché ogni grado di fortuna che ci elevi tra gli uomini ci allontana sempre più dalla
verità, giacché cresce sempre più il timore di recar offesa a colui il cui affetto è più utile e
l'avversione più pericolosa.
Un principe potrà essere la favola di tutta Europa, ed egli solo non saperne nulla. Non ne
stupisco: il dire la verità torna utile a colui al quale vien detta, ma dannoso a chi la
dice, perché esso si fa prendere in odio. Ora, coloro che vivono con i principi
antepongono il loro interesse a quello del principe che servono; e così, si guardan bene dal
rendergli un servigio con il rischio di nuocere a se stessi.
Tale disgrazia è certamente più grande e frequente nelle condizioni più elevate, ma non
ne vanno immuni quelle inferiori, perché c'è sempre qualche interesse a farsi ben volere
dagli uomini. Così la vita umana non è se non perpetua illusione: non si fa che adularsi
e ingannarsi a vicenda. Nessuno parla di noi davanti a noi come ne parla in nostra
assenza. L'unione tra gli uomini è fondata soltanto su questo inganno reciproco; e
poche amicizie sussisterebbero, se ciascuno sapesse quel che il suo amico dice di lui
quando non è presente, sebbene allora ne parli con sincerità e senza passione.
L'uomo non è, dunque, se non dissimulazione, menzogna e ipocrisia, e in sé e
verso gli altri. Non vuole c he gli si dica la verità, evita di dirla agli altri; e tutte queste
inclinazioni, così lontane dalla giustizia e dalla ragione, hanno una radice naturale
nel suo cuore.

(Blaise Pascal, Pensieri, L'amore di sé. 253, 1670)

“Come osservava Trilling in Al di là della cultura (1963), l’individuo, omogeneizzato alla


società, crede di scegliere, crede di possedere un gusto e uno stile, ma in realtà non fa che
assumere nei suoi desideri gli oggetti, i modi e le maniere che la società gli suggerisce di
desiderare. Nei momenti di depressione, prosegue con humor lo studioso americano, ci
potremmo persino chiedere se “in un’epoca dominata dalla pubblicità, quest’arte mostruosa
e magnifica che ci insegna a definire la nostra personalità scegliendo lo ‘stile’ appropriato”,
“c’è poi tanta differenza fra l’essere la Persona Che si Realizza attraverso la scelta di questo o
quell’ideale politico, letterario, morale, urbanistico eccetera, e la Persona Che si Realizza
attraverso l’acquisto di pantaloni senza piega”.

[…]

“La società sottile della democrazia consumistica del capitalismo realizzato e del
catastrofico programma della crescita infinita in un pianeta finito, con la sua confortevole e
prepotente dolcezza, getta sull’individuo tutto il peso di definirsi, di capirsi, di giudicare e di
essere giudicato, ma, al contempo, lo priva di peso, lo infantilizza, rende la realtà dell’io
sempre più incerta, immatura, ansiosa ed evanescente.
Ecco allora emergere la convergenza ideologica fra le esigenze sociali di trasparenza e
veridicità, aiutate oggettivamente dal vasto programma panottico di spionaggio e di
intrusione nella privacydegli individui messo in piedi in nome della sicurezza, della guerra al
terrorismo, dell’evasione fiscale, della lotta alla droga o all’obesità, del marketing
commerciale ecc., e una certa configurazione assunta dall’autenticità nella società dello
spettacolo, intesa come l’esibizionismo spudorato e ostentatamente spontaneo e irriflesso di
coloro che non hanno mai nulla da nascondere. Si tratta di quella che potremmo anche
etichettare come l’etica del reality show. In questa concezione dell’autenticità sembra che la
verità, nel più segreto di ognuno, non chieda nient’altro che di uscire allo scoperto e che, se
ciò non avviene, è perché una costrizione la trattiene, perché la violenza repressiva di un
potere inibitorio si esercita su di essa invocando qualcosa di simile a una liberazione. Così
l’individuo occidentale diviene una bestia da confessione, in cui, dissimulando l’inquisizione
del potere che la esige, la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo e alle resistenze
che deve eliminare per formularsi. Solo che gli ostacoli sono sempre più immaginari e la
società contemporanea dei narcisistici consumatori di sé, dei social network, di Facebook e
di Twitter, lungi dal reprimere questo bisogno, fa di tutto per favorirlo e per metterlo a
frutto strategicamente. È quindi opportuno riprendere il chiaroveggente commento di
Foucault: “Bisogna farsi un’immagine capovolta del potere per credere che ci parlino di
libertà tutte quelle voci che, da tanto tempo, nella nostra civiltà, ripetono senza fine la
formidabile ingiunzione di dire ciò che siamo, quel che facciamo, quel che ricordiamo e quel
che abbiamo dimenticato, quel che nascondiamo e quel che si nasconde, quello a cui non
pensiamo e quel che pensiamo di non pensare”. Ma la presunta verità ottenuta con questo
epidemicoouting collettivo, ovvero con questa confessione di massa innanzi al “grande altro”
sociale del mercato, è sorprendentemente uniforme, seriale e stereotipata. Le presunte verità
nascoste esibite dagli innumerevoli ciascuno che fanno professione di sincerità e autenticità
in rete, in tv o nella vita quotidiana, non sono mai state un segreto per nessuno, dal
momento che il loro contenuto è esattamente ciò che la società dello spettacolo e del
consumo di sé si aspettava che ciascuno dicesse o facesse. In questo modo, però, si è
ottenuto lo scopo di convincere ognuno che quell’agglomerato informe di banalità e di
trivialità sono la sua vita e soprattutto che gli appartengono intimamente, più di ogni altra
cosa. Di conseguenza l’illusione dell’ideologia sarà professata dagli individui in piena
sincerità e senza che essa sia avvertita come tale.”

[…]
“Allora la sincerità è la virtù della storia degli individui, del difficile e arduo lavoro su se
stessi alla ricerca del tesoro nascosto dell’esperienza personale che deve venire alla luce, con
sforzo e fatica preziosi. Ma soprattutto essa è il rifiuto di andarsene in silenzio, nella notte,
come un passante anonimo che scompare, poco a poco, nella penombra nebbiosa dei
marciapiedi di quella grande città-mondo globalizzata in cui miliardi di esseri umani si
sfiorano appena, senza aver mai neppure provato a lasciare una traccia di sé nella storia e
nella vita degli altri”
(A. Tagliapietra, Sincerità, 2012)

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