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Woody Hochswender, Greg Martin, Ted

Morino

IL BUDDA NELLO SPECCHIO


Titolo originale: The Buddha in Your
Mirror

© Esperia Edizioni

Creacommercio
s.r.l.

Sede legale: via


Roncaglia 14, Milano

Uffici e
magazzino: via Einaudi 4/10

Peschiera Borromeo
(MI)

Tutti i diritti riservati

Traduzione:
Momi Zanda

Progetto
grafico: Pitis

Immagine
di copertina: © Mark Stephen/Laughing Stock

Prima
edizione: aprile 2005

Edizione digitale: febbraio 2014

ISBN 978 88 6795 021 8

www.esperiashop.it
ISBN: 9788867950218

Q u e s t o l i b r o è s t a t o r e a l i z z a t o c o n B a c k Ty p o

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Indice dei contenuti

PREFAZIONE
«Non suonare note burrose»

I —Il Budda nello specchio


Il Budda nello specchio
La vita del Budda
L’illuminazione del Budda
La strada verso l’illuminazione
Il Buddismo moderno
Il Buddismo e il cosmo

II — La pratica
La pratica
Nichiren e il Sutra del Loto
Perché funziona Nam myoho renge kyo?
Cambiare il proprio karma
Verificare la propria illuminazione lungo il

cammino

III — L’IO E L’AMBIENTE


L’io e l’ambiente
La non dualità della vita e del suo ambiente
La libertà dalle sofferenze di nascita e morte
Il potere che deriva dall’assumersi la

responsabilità
L’oggetto per conseguire la Buddità
La pratica per sé e per gli altri

IV — LA FELICITÀ
La felicità
I miti sulla felicità
Felicità relativa e felicità assoluta
La Buddità: ciò che la felicità è
Sviluppare l’io interiore
Ottimismo: l’alba della speranza
Vivere significativamente con uno scopo ci rende

forti
La trasformazione umana

V — LE RELAZIONI CHE FUNZIONANO


Le relazioni che funzionano
Dipende tutto da noi
La relazione perfetta: due persone che si alzano

da sole insieme
L’esperienza di Janet: l’alcolismo del marito
Trovare la relazione giusta: prendersi cura del

giardino
L’illusione di cercare al di fuori di noi stessi
L’esperienza di Timothy: ho ragione ma sto

perdendo
Il crollo delle aspettative
Lavoro e carriera
L’esperienza di Brandon: un «cattivo karma

economico»

VI — IL BUDDISMO E LA SALUTE
VIl Buddismo e la salute
La visione buddista della malattia
La visione scientifica: l’inseparabilità di corpo e

mente
La visione buddista di mente e corpo
L’esperienza di Albert: la vittoria sull’hiv, un

mistero medico
La resistenza allo stress
L’esperienza di Steve: guarigione dal linfoma di

Hodgkin
Chi cura?
L’esperienza di Susan: la buona salute comincia

con l’amare se stessi


Liberare il potere interiore

VII — DI FRONTE ALLA MORTE


Di fronte alla morte
La visione buddista di vita e morte
I nove livelli di coscienza
La nona coscienza o Buddità
Il modo corretto di morire

VIII — COME PRATICARE


Come praticare
La recitazione di nam myoho renge kyo
PREFAZIONE
«NON SUONARE NOTE
BURROSE»

A
prescindere da quello che è il vostro specifico campo di attività,
qual è il
motivo che vi ha spinto ad acquistare questo libro? Fermiamoci
a riflettere un
momento. Non siete d’accordo che, qualunque sia la
nostra situazione, è sempre
possibile diventare almeno un po’ più felici?
E che, per quanto oggi magari ci
sentiamo molto bene, domani, senza
alcun preavviso e senza nessuna
giustificazione, potremmo ritrovarci a
essere infelici e disperati?
Anche
coloro che apparentemente sono stati baciati dalla fortuna
attraversano periodi
in cui nonostante tutto non riescono a godersi la
vita. Sentono l’esigenza di
qualcos’altro, di qualcosa di più profondo.
Inoltre,
quando sembra che le cose stiano andando alla grande,
spesso tendiamo a non
riconoscere di avere comunque dei problemi. Se
penso ai tanti miei amici e
colleghi musicisti che se ne sono andati, alle
varie «leggende» della musica la
cui voce si è spenta troppo presto, la
cui vita è finita prematuramente,
stroncata dalla malattia o dalle droghe,
l’esigenza di un metodo per
raggiungere una felicità duratura mi sembra
evidente.
La
vita di un musicista jazz non è facile (e sono certo che la stessa
cosa valga
per molte altre professioni). Ci vuole molta forza, fisica e
spirituale, per
continuare a tenere viva la propria creatività, per
affrontare le continue
tournée – talvolta ritrovandosi ogni giorno in una
diversa nazione per mesi di
fila – e per mantenere con gli altri relazioni
sane. Nel mezzo della cruda
realtà della vita, è stata la filosofia del
Buddismo di Nichiren, profonda e
tuttavia facile da comprendere, che
mi ha sostenuto, sia sul piano
professionale sia su quello personale, per
quasi ventinove anni.
Ma
lasciatemi fare un salto indietro. La famiglia in cui sono nato
non era ricca –
a dirla tutta, eravamo poverissimi – ma mi considero
comunque fortunato perché
in tavola c’era sempre qualcosa da
mangiare. Cosa ancor più importante, ho
sempre avuto il sostegno dei
miei genitori, che mi incoraggiarono a realizzare
i miei sogni e mi
aiutarono al massimo delle loro possibilità. Benché non
fossero in grado
di sostenere le spese dell’università, in un modo o nell’altro
riuscirono a
farlo egualmente.
Insieme
al sostegno dei miei genitori, la mia vita è stata in gran
parte guidata dai
vari maestri che ho avuto la fortuna di incontrare nel
corso degli anni fino a
oggi. Tre di loro sono stati particolarmente
importanti. Il primo, o meglio la
prima, di essi fu la signora Jordan, la
mia seconda insegnante di pianoforte.
Prima
che il jazz entrasse a far parte della mia vita, ero un bambino
di nove anni
con al suo attivo due anni di studio di pianoforte. Era il
1949 e vivevo a
Chicago. Oggi non ricordo più in che modo fui
presentato alla signora Jordan,
ma non potrò mai dimenticare quello che
mi insegnò. Nel nostro primissimo
incontro, dopo avermi ascoltato
suonare ammise che era chiaro che sapevo
leggere la musica, ma mi
chiese se sapevo cosa fossero il tocco, lo sfumato, il
fraseggio, tutti
concetti che mi erano completamente estranei. Mi chiese
persino se
sapevo come dovevo respirare quand’ero seduto alla tastiera. A tutte
quelle domande fui costretto a rispondere di no e lei allora mi disse: «Ti
farò
vedere». Si sedette al piano e suonò un brano di Chopin in modo
splendido,
lasciandomi a bocca aperta.
La
signora Jordan mi insegnò che per suonare il piano ci vuole
molto di più che la
semplice conoscenza delle note. Ascoltandola
suonare con quel calore, con
quella dignità, con quella passione, senza
rendermene ben conto, riuscii a
capire per la prima volta che il
pianoforte è uno strumento per esprimere se
stessi. Grazie alla sua
onestà e ai suoi continui sforzi per trovare il modo
giusto di far capire a
un ragazzino ciò che altrimenti gli sarebbe rimasto
incomprensibile, la
signora Jordan stimolò il mio desiderio di imparare. E come
dimostrazione delle sue doti di insegnante, dopo appena un anno e
mezzo vinsi
un importante concorso pianistico di Chicago e potei tenere
un concerto
all’Orchestra Hall con la Chicago Symphony.
A
quanto mi ricordo, studiando con la signora Jordan feci per la
prima volta
l’esperienza di scoprire una nuova dimensione in qualcosa
di apparentemente
familiare, e l’impatto di quell’esperienza è ancora
vivo in me. Di fatto, credo
che sia proprio questo che fanno i grandi
maestri: stimolano negli allievi la
capacità di vedere le cose in un modo
nuovo, in un modo con cui possano
sentirsi particolarmente in sintonia.
Grazie alla signora Jordan sperimentai
anche, pur senza poterlo
comprendere allora, che la sincerità di una persona ha
sugli altri
un’influenza duratura.
Un
altro maestro dello stesso livello fu per me Miles Davis. Era un
artista
eccezionale, con una straordinaria padronanza del suo strumento
e della musica,
al punto da riuscire a ottenere sempre esattamente il
risultato che aveva in
mente. Miles subì moltissime critiche per il fatto
che voltava le spalle al
pubblico durante le sue esibizioni. Ma noi che
suonavamo nel suo gruppo
capivamo benissimo che lo faceva all’unico
scopo di poterci dirigere con gesti
quasi impercettibili – un cenno della
testa qui, un leggero movimento del suo
strumento là – continuando a
suonare virtuosisticamente. Miles semplicemente
andava per la sua
strada, senza mai sentire il bisogno di spiegare le sue
motivazioni.
Chi
lavorava insieme a lui poteva rendersi conto del suo genio
particolare, che
andava al di là del talento musicale. Quel che aveva di
realmente speciale era
la capacità di coinvolgerci tutti nel processo
creativo, riuscendo a integrare
perfettamente qualunque cosa noi
suonassimo.
Ci diceva che ci pagava per esercitarci proprio là sul palco,
che ci aveva
assunto per creare, per dare il nostro contributo. E sia sul
palco sia in
studio dimostrava continuamente di essere in grado di
utilizzare tutto ciò che
usciva dai nostri strumenti. In molte occasioni,
grazie a questa sua capacità,
rimediò ai nostri madornali errori
trasformandoli in temi musicali che
incorporava istantaneamente in
quello che stavamo suonando.
E
quando qualcuno di noi si ritrovava a un punto morto, aveva
l’abilità, nella
sua peculiare maniera, di aiutarlo a sbloccarsi. Una volta
mi stavo scontrando
con l’equivalente musicale del blocco dello
scrittore. Miles si chinò su di me
e mi sussurrò all’orecchio: «Metti un si
nel basso.» Un po’ perplesso, cercai di
mettere in pratica ciò che
pensavo intendesse dire e, com’era prevedibile,
scoccò una scintilla che
lo stimolò, lui a sua volta stimolò me e nacque un
dialogo musicale.
Un’altra
volta, in cui stavo suonando in modo banale, mi urlò:
«Non suonare note burrose!»
Sul momento la sua frase mi lasciò
perplesso. Alla fine, ipotizzai che mi
stesse dicendo di evitare in qualche
modo di scadere nell’ovvio. Tuttora non
sono sicuro se Miles sapesse
realmente quel che voleva dirmi, ma io interpretai
le sue parole come se
mi stesse consigliando di levare le terze e le settime
dagli accordi che
stavo suonando. Senza addentrarmi troppo in tecnicismi, basti
dire che
in questo modo riuscii ad aprire il mio sound così che qualunque
musicista con cui io stessi improvvisando avrebbe avuto molte più
opportunità
di esplorare le possibilità di una melodia. Qualsiasi cosa
Miles avesse in
mente, il suo consiglio funzionò: prendemmo fuoco! Per
me, questo è un esempio
di grande leadership. Invece di dirmi cosa fare,
mi stimolò a trovare la
soluzione dentro di me.
Miles
ci sosteneva costantemente con la piena fiducia di riuscire a
portarci a creare
insieme un’armonia. Ci faceva sentire continuamente
che ognuno di noi aveva un
contributo unico da dare, e lo faceva non
tanto con le parole quanto e
soprattutto col suo comportamento. Allora
non ero in grado di capire fino in
fondo tutto questo, potei farlo solo
dopo avere iniziato a praticare il
Buddismo di Nichiren.
E
questo mi porta al terzo maestro che ha influenzato la mia vita,
Daisaku Ikeda.
In qualità di presidente della Soka Gakkai
Internazionale, Ikeda ha aperto così
tante porte che dodici milioni di
persone in centosessantatré nazioni
[1] hanno avuto accesso ai principi
che vengono spiegati in questo libro.
Per
me, Daisaku Ikeda è un uomo che incoraggia l’espressione
creativa
dell’individuo e l’armonizzazione e la mescolanza dei popoli
del pianeta. È un
uomo che si impegna per la pace, insegnando a tutti le
chiavi per rinnovarsi
quotidianamente, per rinvigorire lo spirito, per
accumulare fortuna e diventare
felici.
Applicando
le lezioni dei suoi numerosissimi scritti e discorsi su
come sfruttare il
potere di Nam myoho renge kyo – il principio mistico
che muove l’universo – ho
abbattuto uno dopo l’altro muri di ostacoli
nella mia vita, e sono riuscito a
realizzare tantissimi obiettivi e a
concretizzare i miei sogni. Ho raggiunto la
ferma convinzione di poter
affrontare qualunque cosa la vita mi riservi.
Grazie
al brillante esempio di Daisaku Ikeda ho sviluppato la
felicità come fondamento
della mia vita, senza cedere mai, senza mai
soccombere alla negatività. Da lui
ho imparato che ogni dato istante può
essere visto da un infinito numero di
prospettive. Tra tutte c’è quella che
ti permette di individuare un sentiero
dorato in ogni istante, di percepire
un diamante nella vita di ogni persona.
Questo modo di vedere le cose
influenza ogni mia attività, dalla registrazione
di un disco a
un’improvvisazione, ai rapporti con le persone che incontro nei
vari
ambiti della mia vita.
Non
importa quale aspetto una persona mostri in un dato momento:
è solo una parte
di un essere umano completo. Ogni persona ha dentro di
sé i semi per
l’illuminazione e perciò merita rispetto. Benché sia facile
dimenticarsi di ciò
– specialmente quando si incontrano le cosiddette
«persone difficili» che si
trovano nel mondo dello spettacolo come in
qualunque altro ambiente – i
consigli e il continuo esempio di Daisaku
Ikeda sono per me un metro per
misurare il mio comportamento e uno
stimolo a far emergere i lati migliori degli
altri, sforzandomi al
contempo quotidianamente di migliorare me stesso.
Ventinove
anni di pratica buddista mi hanno permesso di costruire
delle solide
fondamenta. Guardandomi indietro, posso dire di avere una
padronanza del mio
strumento e della musica che mi rende davvero
felice. Per me, la gioia di
suonare va al di là degli applausi, dei premi,
dell’ammirazione dei fan.
Ovviamente tutto questo è piacevole, ma c’è
qualcosa di molto più profondo. Per
me suonare vuol dire scavare in
profondità nel mio cuore, accettare con
serenità di essere vulnerabile ed
esprimere onestamente questa vulnerabilità,
questo nocciolo della mia
umanità. Vuol dire essere consapevole del mio
ambiente: gli altri
musicisti e gli ascoltatori. Vuol dire far emergere la mia
interiorità e
manifestarla nel presente, lasciando che fluisca dalla sfera più
elevata
della mia vita. Suonare vuol dire fare tutto questo non solo per il
proprio
piacere ma per la sincera speranza di smuovere qualcosa nella vita
degli
altri, aiutandoli a sentirsi bene con se stessi, ispirandoli a sfruttare
le
loro possibilità e a concretizzare le loro speranze per il presente e i loro
sogni per il futuro, stimolandoli a realizzare qualcosa di grande.
Woody
Hochswender, Greg Martin e Ted Morino hanno fatto un
magnifico lavoro
scrivendo questo libro. Anche loro sono discepoli di
Daisaku Ikeda e mettendo
in pratica i suoi consigli hanno sperimentato
l’efficacia del Buddismo di
Nichiren. Il Budda nello specchio rende
facilmente accessibile a tutti il profondo pensiero di Nichiren.
Che
leggiate questo libro per semplice curiosità o perché sentite il
bisogno di
migliorare la vostra vita e le vostre circostanze, vi invito
comunque a mettere
alla prova seriamente i consigli pratici che offre.
Forse il Buddismo può
sembrarvi qualcosa di esotico, magari
lontanissimo dal vostro sentiero
spirituale. Ma se siete a un punto morto,
è tempo di smettere di suonare le
«note burrose» e di rendervi
disponibili a scoprire qualcosa di nuovo nella
melodia della vita. In
fondo, cosa avete da perdere… se non il vostro blues?
[2]

Herbie Hancock

[1] Attualmente il numero di nazioni in cui si pratica il Buddismo di Nichiren diffuso dalla Soka
Gakkai è arrivato a centonovantadue [ndt].

[2] Gioco di parole intraducibile tra due diversi significati di blues che in inglese oltre che
indicare un genere musicale significa anche «tristezza, depressione» [ndt].
I —IL BUDDA NELLO SPECCHIO

«Quando una persona è illusa è


chiamata
essere comune, quando è illuminata è chiamata
Budda. È come uno
specchio appannato, che brillerà
come un gioiello se viene lucidato».
Nichiren

«Se c’è una religione che può


soddisfare le moderne esigenze della
scienza, questa è il Buddismo».
Albert Einstein

IL BUDDA NELLO SPECCHIO

Gli
uccelli cantano, il vento soffia, la Terra gira. Le stelle ardono e
muoiono. Le
galassie si muovono armoniosamente attraverso lo spazio.
Gli esseri umani
nascono, vivono, invecchiano e muoiono. I modelli
dell’esistenza sono
misteriosi e incommensurabili. Chi può anche solo
cominciare a comprenderli? Le
nostre banali vite quotidiane, a modo
loro, non sono meno complesse. Chi
riesce, per esempio, a capire tutti i
bisogni di un bambino di tre anni, per
non parlare delle richieste,
talvolta incomprensibili, dei propri familiari o
del proprio datore di
lavoro? In uno stesso giorno, in alcuni momenti siamo
allegri mentre in
altri ci sentiamo depressi. I nostri sentimenti cambiano di
momento in
momento. Un evento banale può renderci momentaneamente felici,
mentre un altrettanto banale contrattempo può colmarci di inesprimibile
tristezza. L’angoscia e la preoccupazione prendono facilmente il posto
della
felicità. La vita può essere vista come una continua lotta contro i
problemi
grandi e picco
Mai
prima d’ora nella storia dell’Occidente così tante persone si
sono rivolte
all’eterna saggezza del Buddismo per rispondere alle grandi
domande
dell’esistenza e per riuscire a far fronte ai problemi della loro
vita
quotidiana. Non si tratta di una coincidenza: la ragione è che oggi
siamo in
un’epoca dominata dalla sperimentazione e dall’indagine
scientifica, e il
Buddismo è una religione che non è in conflitto con la
scienza. In effetti, il
Buddismo è stato addirittura definito «la scienza
della vita».
È
indubbio che i concetti e il linguaggio del Buddismo siano
sempre più
ricorrenti nella cultura contemporanea: nei film, nelle
canzoni, nelle riviste,
nelle trasmissioni televisive. C’è per esempio il
Budda del romanzo Il Budda delle periferie e il dharma della sitcom
televisiva Dharma & Greg. La parola karma, del resto, è ormai entrata a
far
parte del linguaggio occidentale e viene spensieratamente utilizzata
per ogni
cosa, dai frullati biologici alle relazioni tormentate. Sembra che
oggi tutti
quelli che non ci piacciono particolarmente o che non
riusciamo a capire
abbiano un «cattivo karma». E per tutto c’è un
metodo zen: per il gioco del
golf, per la vittoria sugli avversari politici e
forse persino per il bucato.
Obi Wan Kenobi, uno dei protagonisti del
ciclo di Guerre stellari, non è certo descritto esplicitamente come
buddista, ma la sua padronanza nel controllare la «Forza», il mistico
potere
che permea l’universo sorprendentemente simile al concetto
buddista di forza
vitale, ricorda i leggendari poteri attribuiti al Budda
dalle antiche
scritture.
Dal
punto di vista della tradizione buddista, il reale significato di
tutti questi
termini è diventato piuttosto nebuloso. In Occidente, il
Buddismo è stato a
lungo considerato una religione elitaria o da beatnik,
qualcosa di cui
discutere bevendo un caffè, insieme alla politica radicale
e all’arte
concettuale. Quest’ultima immagine deriva dal periodo beat
dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, dei
libri divulgativi di Alan
Watts e delle innumerevoli scene letterarie con bonzi
e satori (il termine
giapponese che
indica l’illuminazione, utilizzato in particolare dallo
Zen). Si potrebbe
facilmente avere l’impressione che il Buddismo sia
principalmente un sistema
intellettuale astratto o un mezzo per evadere
dalla realtà materiale. L’idea
popolare del Buddismo in larga misura
prevalente è quella di un insegnamento
mistico astruso e impenetrabile,
studiato e praticato nell’isolamento dei
monasteri, la cui meta è la pace
interiore fine a se stessa. C’è una storia
famosa sul Budda storico che
spiega perché questa visione è errata.
Camminando
un giorno nel Parco dei daini a Benares, in India, il
Budda si imbatté in un
cervo che giaceva a terra, colpito al fianco dalla
freccia di un cacciatore.
Mentre il cervo lentamente moriva, due
sacerdoti brahmani stavano in piedi
accanto al cervo ferito, discutendo
sull’esatto momento in cui la vita avrebbe
lasciato il corpo. Vedendo il
Budda e desiderando risolvere la loro disputa,
chiesero la sua opinione.
Ignorandoli, il Budda immediatamente si avvicinò al
cervo e gli estrasse
la freccia dal fianco, salvandogli la vita.
Il
Buddismo è una bella filosofia ma, soprattutto, incita all’azione.
Se
le immagini e gli adattamenti popolari del Buddismo sono
talvolta sbrigativi e
imprecisi, indicano nondimeno una verità
sorprendente: il linguaggio e la
saggezza del Buddismo vengono
applicati in misura crescente alla complessità
della vita moderna perché
sembrano adattarvisi realmente. I concetti e le
strategie buddiste,
applicati alla felicità, alla salute, alle relazioni, alla
carriera e persino
all’invecchiamento e alla morte, sono adeguati alla realtà
dell’esistenza
moderna, alla concreta pulsante realtà della vita. Le idee buddiste
stanno
entrando nell’uso comune perché contengono un potere descrittivo che
ben
si adatta alla fluidità e alla mobilità del mondo moderno, senza il
peso di una
morale dogmatica.
Il
Buddismo spiega le profonde verità della vita, ma offre anche un
grandioso
metodo pratico per superare gli ostacoli e per trasformare se
stessi. Ciò che
apprenderete in queste pagine può essere applicato a
qualunque ambito della
vostra vita: la famiglia, il lavoro, le relazioni, la
salute. E può essere
applicato da chiunque. Questo libro ha il potere di
cambiare la vostra vita.
Benché esso non sia, rigorosamente parlando, un
libro di auto-aiuto, contiene i
più antichi ed efficaci segreti dell’auto-
aiuto che siano mai stati formulati:
in questo libro infatti troverete
l’onnicomprensivo sistema di pensiero del
Buddismo. È intitolato Il
Budda nello
specchio
perché la sua fondamentale e più importante
intuizione è che il
Budda sei tu. Cioè, ogni singolo
essere umano
possiede intrinsecamente la capacità di essere un Budda, un’antica
parola indiana che
significa letteralmente «risvegliato» e indica quindi
chi ha compreso la verità
eterna e immutabile della vita.
Attingendo
a questo vasto potenziale interiore – la nostra natura
buddica – troviamo
illimitate risorse di saggezza, di coraggio e di
compassione. Invece di temere
o di evitare i nostri problemi, impariamo
ad affrontarli con gioioso vigore,
fiduciosi nella nostra capacità di
superare qualunque cosa la vita ci metta di
fronte sul nostro cammino.
Questo potenziale latente potrebbe essere paragonato
a un cespuglio di
rose in inverno: i fiori sono dormienti, anche se sappiamo
che il
cespuglio conserva la potenzialità di fiorire.
Ma
nella nostra vita di ogni giorno questo io superiore, questo stato
illuminato,
è nascosto alla vista: è il proverbiale tesoro troppo vicino per
essere visto.
Questo aspetto fondamentale della condizione umana è
illustrato dalla parabola
buddista della gemma nella veste, raccontata nel
Sutra del Loto. Si tratta
della storia di un uomo povero che fa visita a un
amico ricco e che, dopo
essersi ubriacato, si addormenta.

La
casa era molto sontuosa
e
gli furono serviti vassoi di leccornie.
L’amico
prese un gioiello inestimabile,
lo
cucì nella fodera della veste dell’uomo
povero,
e
se ne andò senza dire una parola;
l’uomo,
che stava dormendo, non si accorse
di nulla.
Al
suo risveglio
vagò
qua e là in diversi paesi
in
cerca di cibo e vesti per mantenersi in vita,
incontrando
molte difficoltà nel guadagnarsi
da vivere.
Se
la cavò con quel poco che riuscì a trovare
disperando
di poter avere qualcosa di meglio,
ignaro
del fatto che nella fodera della sua
veste
custodiva
un gioiello inestimabile.
In
seguito l’amico che gli aveva donato il
gioiello
incontrò
per caso l’uomo povero
e,
dopo averlo rimproverato aspramente,
gli
mostrò il gioiello cucito nella veste.
Quando
l’uomo povero vide il gioiello,
il
suo cuore si riempì di grande gioia
perché
era ricco e poteva disporre di beni e
ricchezze
sufficienti
a soddisfare i cinque desideri.
[3]

Questa
parabola descrive la cecità degli esseri umani davanti alla
preziosità della
loro vita e alla fondamentale condizione vitale della
Buddità. Lo scopo di
questo libro è aiutarvi a scoprire questo
formidabile gioiello dentro di voi e
a lucidarlo fino a farlo risplendere
così che possa illuminare non solo la
vostra vita ma anche quella delle
persone attorno a voi. Perché il Buddismo
insegna che il proprio
risveglio (o la propria trasformazione) ha un effetto
immediato e di vasta
portata anche sulla propria famiglia, sugli amici e sulla
società. Questo è
un punto chiave. Se riflettiamo sulle lezioni del XX secolo,
costellato di
massacri e sofferenze, dobbiamo riconoscere che gli sforzi di
riformare
e ristrutturare le istituzioni sociali si sono rivelati insufficienti
a
incrementare realmente la felicità umana. Il Buddismo indica la
trasformazione interiore dell’individuo come modo per favorire
soluzioni
durature e sostenibili ai problemi del mondo.
Ma
cosa significa essere un Budda? La parola buddha
era un nome
comune usato in India al tempo in cui visse Shakyamuni, il Budda
storico. Questo è un punto importante perché dimostra che
l’illuminazione non è
considerata una qualità esclusiva di un solo
individuo. I sutra buddisti
parlano dell’esistenza di altri Budda oltre a
Shakyamuni. In un certo senso,
allora, il Buddismo include non solo le
dottrine del Budda ma anche
l’insegnamento che mette in grado tutte le
persone di diventare Budda.
[3] Il Sutra del Loto, trad. di Burton Watson, Esperia, Milano, 1998, pag. 196. Di seguito citato
come Il Sutra del Loto.
LA VITA DEL BUDDA

A
differenza delle religioni occidentali come il Giudaismo, il
Cristianesimo e
l’Islam, il Buddismo non rivendica alcuna rivelazione
divina. È invece
l’insegnamento di un essere umano che, attraverso i
propri sforzi, si risvegliò
alla legge della vita esistente dentro di lui. Il
Budda non lasciò nulla di
scritto e su di lui sappiamo ben poco, ma il
poco che sappiamo è diventato il
catalizzatore del cambiamento di
milioni di individui.
Il
Budda storico, il cui nome proprio era Siddhartha (Colui che ha
raggiunto la
sua meta) e il nome di famiglia Gautama (la Mucca
migliore), nacque nell’India
settentrionale approssimativamente tra
duemilacinquecento e tremila anni fa.
Sulla data effettiva della sua
nascita le opinioni differiscono, ma le ricerche
moderne tendono a
situarla nel VI o nel V secolo avanti Cristo. Questa datazione,
benché
approssimativa, è significativa. Come ha osservato il filosofo tedesco
Karl Jaspers, Siddhartha visse all’incirca nello stesso periodo in cui
vissero
Socrate in Grecia, Confucio in Cina e Isaia nel regno di Israele.
Secondo
Jaspers, la comparsa simultanea di questi grandi uomini segnò
l’alba della
civiltà spirituale.
Il
padre di Siddhartha era un sovrano del clan degli Shakya, una
piccola tribù
ubicata vicino al confine del Nepal, per cui il Budda arrivò
a essere
conosciuto con l’appellativo di Shakyamuni (il Saggio degli
Shakya). Dal
momento che i riferimenti scritti sono scarsi, i dettagli
della prima parte
della sua vita restano vaghi. Sappiamo che Siddhartha
era un principe e viveva
negli agi. E sappiamo che era dotato di
un’intelligenza penetrante e di una
natura introspettiva. Da giovane
sposò la cugina Yashodhara che gli diede un
figlio, Rahula. Alla fine
abbandonò la sua esistenza opulenta e privilegiata
per seguire il sentiero
della saggezza e della conoscenza di sé. Ciò che lo
spinse a lasciare il
lusso del palazzo e la sicurezza della famiglia è
illustrato dalla leggenda
dei quattro incontri.
Si
dice che il giovane principe fosse uscito dal suo palazzo di
Kapilavastu in
quattro diverse occasioni. Uscendo dalla porta orientale
del palazzo, incontrò
un uomo curvo e rinsecchito dall’età. Lasciando il
palazzo dalla porta
meridionale, vide una persona malata. Una terza
volta uscì dalla porta
occidentale e vide un cadavere. In ultimo, un
giorno in cui si allontanò dalla
porta settentrionale, vide un religioso
dedito all’ascetismo. Il vecchio,
l’ammalato e il cadavere rappresentano
i problemi della vecchiaia, della
malattia e della morte. Insieme alla
nascita (o alla vita stessa) queste
condizioni sono chiamate le «quattro
sofferenze» – i problemi fondamentali
dell’esistenza umana. Il motivo
per cui Shakyamuni abbandonò la sua condizione
principesca per una
vita ascetica non era altro che il desiderio di scoprire
come superare le
quattro sofferenze.
Alla
maniera degli arhat, gli antichi
santi indiani che girovagavano
per il paese alla ricerca della verità ultima,
Siddhartha cominciò il suo
viaggio. Sappiamo che il sentiero fu arduo e colmo
di sfide fisiche e
mentali. Prima andò verso sud e arrivò a Rajagriha, la
capitale del regno
di Magadha, dove praticò sotto il maestro Alara Kalama, che
si diceva
avesse raggiunto, attraverso la meditazione, «il regno dove nulla
esiste».
Dopo avere ottenuto rapidamente la stessa condizione del suo maestro,
Siddhartha scoprì che le sue domande erano rimaste senza risposta. Si
rivolse
allora a un altro saggio, Uddaka Ramaputta, che aveva raggiunto
«il regno in
cui non vi è né pensiero né non pensiero». Dopo essere
diventato padrone anche
di questa meditazione, Siddhartha non aveva
ancora trovato risposta alle sue
profonde domande.
Come
ha scritto Daisaku Ikeda, uno dei principali interpreti
moderni del Buddismo,
nel suo libro La vita del Budda: «Per
maestri
come Alara Kalama e Uddaka Ramaputta, lo Yoga era diventato fine a
se
stesso [...] Sia lo Yoga sia lo Zen sono ottime pratiche di meditazione
elaborate dalle filosofie e dalle religioni orientali ma, come Shakyamuni
spiegò molto chiaramente, dovrebbero essere usati come metodi per
giungere a
una comprensione della verità ultima e non come fini a se
stessi».[4]
Siddhartha
si impegnò allora in una serie di pratiche ascetiche, tra
cui la sospensione
temporanea del respiro, il digiuno e il controllo della
mente. Dopo avere
tormentato per diversi anni il suo corpo quasi fino
alla morte, decise alla
fine di abbandonare il sentiero del rigoroso
ascetismo che lo aveva debilitato
e si sedette a meditare nei pressi di
Gaya sotto un albero di pipal (un tipo di
fico, il Ficus religiosa, che in
seguito venne chiamato albero della bodhi). Finalmente, a circa
trent’anni,
raggiunse l’illuminazione e divenne un Budda.

[4] Daisaku
Ikeda, La vita del Budda, Bompiani,
Milano, 1988, pag. 45
L’ILLUMINAZIONE DEL BUDDA

È
impossibile sapere esattamente quello che il Budda comprese
sotto quell’albero,
ma sulla base dei suoi molti insegnamenti che, come
l’Odissea di Omero, furono all’inizio trasmessi oralmente dai suoi
seguaci, sappiamo che sedendo sotto il pipal cercò di andare al di là
della
coscienza ordinaria entrando in uno stato in cui percepì se stesso
come una
cosa sola con la vita universale.
Secondo
le scritture, nei primi stadi della sua meditazione
Shakyamuni era ancora
vincolato dalla distinzione tra soggetto (se
stesso) e oggetto (il mondo
esterno). Era consapevole che la sua
coscienza era circondata da un muro: i
limiti del suo corpo e l’ambiente
esterno a lui. Alla fine, secondo quanto
spiega Daisaku Ikeda nel libro
già citato, «[...] Shakyamuni ebbe allora una
chiara visione della propria
vita in tutte le manifestazioni che essa aveva
avuto nel tempo. Secondo
la dottrina della trasmigrazione, sostenuta dal
brahmanesimo da tempi
immemorabili, la vita dell’essere umano non è affatto
limitata al
presente. Shakyamuni, assorto in meditazione sotto l’albero della
Bodhi,
ripercorse con mente chiara e lucida tutte le esistenze che aveva
vissuto,
una per una, e percepì la vita che stava ora vivendo come un anello in
una catena ininterrotta di nascita, morte e rinascita, che continuava nel
tempo
dagli oscuri recessi di un passato incalcolabile.
«Non
si trattò di qualcosa che gli giunse come un’intuizione, né la
percepì come un
concetto o un’idea. Era un vero e proprio ricordo,
perfettamente chiaro – non
molto diverso, anche se su un piano assai
differente, da quello che si ha
quando, trovandosi in uno stato di estrema
tensione o concentrazione,
improvvisamente si ricordano fatti o eventi
profondamente sepolti nei recessi
della mente.»[5]
Shakyamuni
comprese che il vero aspetto della realtà è
l’«impermanenza». Ma questo cosa
significa?
Tutte
le cose, tutti i fenomeni subiscono costanti mutamenti. La
vita, la natura e la
società non cessano mai di cambiare neanche per un
istante. Apparentemente la
sedia su cui siete seduti, il libro che state
tenendo in mano, o la casa in cui
vivete sono solidi. Ma essi prima o poi
si sgretoleranno. Il Buddismo spiega
chiaramente che le sofferenze
emergono nel nostro cuore perché abbiamo
dimenticato il principio
dell’impermanenza e crediamo che ciò che possediamo
possa durare per
sempre.
Supponiamo
che siate giovani e abbiate un partner di bell’aspetto.
Trascorrete molto tempo
a pensare come apparirà fra trenta o
quarant’anni? Ovviamente no. È nella
natura umana credere che la
salute e la giovinezza dureranno eternamente.
Analogamente, sono
poche le persone ricche che pensano che un giorno potrebbero
non avere
più un soldo. Non c’è nulla di strano in coloro che pensano in questo
modo. Tuttavia soffriamo proprio a causa di queste concezioni. Potete
desiderare che il vostro partner resti giovane e bello per sempre e fare
continui sforzi perché il vostro amore duri. Nondimeno, se e quando
arriverà il
momento di separarvi, soffrirete intensamente. A causa del
desiderio di
accumulare ricchezze, alcuni si spingono a combattere
contro gli altri, ma
quando si perde la propria ricchezza si deve
assaggiare l’amaro frutto della
sofferenza. Anche lo stesso attaccamento
alla vita comporta sofferenza, perché
ci porta a temere la morte. Il
Buddismo ci insegna a riconoscere questi cicli
di impermanenza e ad
avere il coraggio di accettarli.
Nella
mente risvegliata di Shakyamuni, oltre alla comprensione
dell’impermanenza, si
dice che si sia svelata l’interconnessione di tutti i
fenomeni. L’universo è in
uno stato di costante flusso e tutte le cose che
esso contiene sorgono e
cessano, appaiono e scompaiono, in un ciclo
senza fine di cambiamento
condizionato dalla legge di causalità. Tutti i
fenomeni sono soggetti alla
legge di causa ed effetto, e di conseguenza
nulla può esistere
indipendentemente dal resto. Questo concetto buddista
di causalità è noto anche
come «consorgere condizionato» o «origine
dipendente». Shakyamuni si risvegliò
all’eterna legge della vita che
permea l’universo, l’aspetto mistico della vita
per cui tutti i fenomeni
nell’universo sono in relazione reciproca e si
influenzano
vicendevolmente in un ciclo interminabile di nascita e morte.
La
sostanza del risveglio di Shakyamuni è chiarita dal concetto
delle quattro
nobili verità, che spiega che (1) tutta l’esistenza è
sofferenza, (2) la
sofferenza è causata dal desiderio egoistico, (3)
l’estinzione del desiderio
egoistico causa la cessazione della sofferenza
e permette di raggiungere il nirvana,
(4) esiste una via che porta
all’estinzione del desiderio, e questa via
consiste nella disciplina
dell’ottuplice sentiero. Qui troviamo la prima
indicazione che il
processo dell’emancipazione dalla sofferenza e del
raggiungimento della
felicità assoluta è un sentiero o un viaggio.
Disperdere
l’ignoranza e stabilire una corretta visione sono gli
obiettivi centrali della
pratica buddista e costituiscono l’originaria
motivazione che diede avvio a una
ricerca trimillenaria – iniziata con lo
stesso Shakyamuni – per trovare un
metodo che potesse guidare i
praticanti buddisti lungo il sentiero della
cessazione della sofferenza e
del raggiungimento della felicità assoluta. Tutte
le varie scuole e
pratiche buddiste nascono e si sviluppano nello sforzo di
dare vita a un
tale metodo.
Per
un certo tempo dopo il suo risveglio Shakyamuni restò seduto
sotto l’albero
della bodhi in uno stato di gioia. Quando rientrò nel
mondo, però, cominciò ben
presto a essere tormentato dal pensiero che
la sua illuminazione alla legge della
vita si sarebbe potuta rivelare
difficile da comunicare. Dal momento che la sua
comprensione superava
grandemente quella dei più progrediti ricercatori
spirituali del suo
tempo, decise di preparare i suoi ascoltatori istruendoli
dapprima
attraverso parabole e analogie di facile comprensione. In questo modo,
Shakyamuni risvegliò gradualmente i suoi discepoli, mantenendosi
sempre fedele
al suo scopo ultimo di far capire a tutte le persone che
possedevano la
Buddità.
L’obiettivo
che egli espose in un brano eloquente del Sutra del
Loto: «Questo è il mio
pensiero costante: / come posso far sì che tutti gli
esseri viventi / accedano
alla via suprema / e acquisiscano rapidamente
[6]
il corpo di Budda?», non era certo un compito facile. Shakyamuni
trascorse i restanti quarant’anni
della sua vita predicando alle persone
sofferenti nel modo che più si adattava
alla loro comprensione. Alla luce
di ciò, possiamo capire quanto sia sbagliata
l’idea che il Buddismo sia
riservato ai monaci che si ritirano sulla cima di una
montagna a
meditare. Shakyamuni non intese mai limitare i suoi insegnamenti
solo a
un gruppo ristretto di devoti. Tutte le evidenze suggeriscono che egli
desiderava che i suoi insegnamenti si diffondessero ampiamente e
fossero
adottati dalle persone comuni. Le sue lezioni furono compilate
nei cosiddetti
ottantaquattromila insegnamenti che, analogamente agli
insegnamenti di Gesù,
furono interpretati e reinterpretati nel corso dei
secoli. In realtà, il
problema principale dei buddisti non è stato tanto
cosa disse il Budda ma come
metterne in pratica gli insegnamenti.
Ovvero, come sperimentare l’illuminazione
del Budda e raggiungere la
sua stessa straordinaria saggezza. In altre parole,
come diventare a
propria volta dei Budda.

[5] Ibid.,
pag. 62

[6] Il Sutra del Loto, pag. 305


LA STRADA VERSO
L’ILLUMINAZIONE

Oggi
esistono molte scuole di Buddismo, forse addirittura migliaia.
Lo studioso
britannico Christmas Humphreys ha scritto: «Descrivere [il
Buddismo] è
difficile come descrivere Londra. È Mayfair, Bloomsbury
o la Old Kent Road? O è
il minimo comune multiplo di tutte queste
zone, o l’insieme di tutte queste
zone e qualcosa di più?»
Espandendosi
gradualmente dall’India verso nord, in Cina e in
Tibet, e verso sud, in
Thailandia e nel sud-est asiatico, la filosofia
buddista assorbì i costumi e le
credenze religiose locali, venendone
influenzata. Il Buddismo che si diffuse in
Tibet e in Cina e attraverso
queste regioni in Corea e in Giappone, fu chiamato
Mahayana, che
significa «grande veicolo», mentre quello che si diffuse verso
sud nel
sud-est asiatico e nello Sri Lanka fu chiamato Hinayana, «piccolo
veicolo», un termine peggiorativo attribuito dai buddisti mahayana. Le
scuole
hinayana, basate sui primi insegnamenti di Shakyamuni,
caratteristicamente si
concentrano su un codice di condotta rigoroso ed
estremamente dettagliato,
finalizzato alla propria salvezza personale.
L’unica scuola hinayana ancora
esistente è la scuola Theravada
(insegnamenti degli anziani). Le scuole
mahayana sottolineano invece la
necessità che il Buddismo sia un mezzo
compassionevole che permetta
alle persone comuni di ottenere l’illuminazione, e
ricercano quindi un
metodo pratico che possa servire come veicolo in grado di
trasportare il
maggior numero di persone (per questo è chiamato il grande
veicolo)
verso la Buddità.
La
grande profusione di sutra e di differenti teorie buddiste arrivò a
essere
fonte di grande confusione, particolarmente nella Cina del I e del
II secolo. A
quell’epoca, gli studiosi cinesi si trovarono di fronte alla
casuale
introduzione dei diversi sutra delle molte scuole hinayana oltre
che delle
scritture mahayana. Disorientati dalla moltitudine e dalla
varietà degli
insegnamenti, i buddisti cinesi tentarono di comparare e
classificare i sutra.
Nel
V secolo la sistematizzazione del canone buddista aveva fatto
enormi passi
avanti. In particolare, un monaco buddista chiamato Chih-
i, in seguito
conosciuto come il gran maestro T’ien-t’ai, sviluppò il
criterio definitivo
noto come «i cinque periodi e gli otto insegnamenti».
Sulla base della propria
illuminazione, che potrebbe rivaleggiare con
quella di Shakyamuni, T’ien-t’ai
elaborò un sistema che classifica i sutra
sia sotto il profilo cronologico sia
dal punto di vista della loro
profondità. Determinò che il Sutra del Loto, il
penultimo insegnamento
in ordine cronologico, che Shakyamuni aveva predicato
verso la fine
della sua vita, conteneva la verità ultima. T’ien-t’ai formulò
questa
verità attraverso il principio dei «tremila regni in un singolo istante
di
vita». Questo principio impiega un approccio fenomenologico,
descrivendo
tutte le emozioni e gli stati mentali caleidoscopici che gli
esseri umani
possono sperimentare in ogni dato istante. La teoria dei
tremila regni in un
singolo istante di vita sostiene che tutti gli
innumerevoli fenomeni
dell’universo sono inclusi in un singolo istante
della vita di un comune
mortale. Perciò il macrocosmo è contenuto nel
microcosmo.
La
vasta dimensione della vita alla quale Shakyamuni si risvegliò
sotto l’albero
della bodhi era al di là della
portata dell’ordinaria
coscienza umana. T’ien-t’ai descrisse questa verità
suprema tramite il
principio dei tremila regni in un singolo istante di vita,
riconoscendo che
il Sutra del Loto era l’unico sutra ad asserire che tutte le
persone –
uomini e donne, buoni e cattivi, giovani e vecchi – hanno il
potenziale
per ottenere la Buddità nella vita presente.
Restava
una questione cruciale: com’era possibile per le persone
comuni applicare
questo principio nella loro vita? A questo fine, T’ien-
t’ai ideò una pratica
rigorosa per osservare la propria mente attraverso la
meditazione, scavando
sempre più in profondità fino ad afferrare la
verità fondamentale dei tremila
regni in un singolo istante di vita.
Purtroppo questo tipo di pratica era
attuabile solo dai monaci, che
avevano tutto il tempo a disposizione per
contemplare il messaggio
implicito nel Sutra del Loto, mentre era praticamente
impossibile da
seguire per i laici, che dovevano lavorare per vivere e avevano
tante
altre cose di cui preoccuparsi. La piena fioritura del Buddismo non si
sarebbe compiuta fin quando esso, lungo le rotte commerciali, non
arrivò in
Giappone. Il Buddismo oggi non sarebbe così ampiamente
praticato e rispettato
senza le intuizioni e l’incredibile coraggio di un
monaco giapponese del XIII
secolo di nome Nichiren, la cui acuta
interpretazione del Sutra del Loto ebbe
un diretto impatto sulla gente
comune e sulla loro vita quotidiana.
IL BUDDISMO MODERNO

Nichiren,
nato in Giappone nel 1222, diede un’espressione pratica e
concreta alla
filosofia buddista della vita che Shakyamuni aveva
insegnato e T’ien-t’ai aveva
delucidato. Egli espresse il cuore del Sutra
del Loto, e perciò l’illuminazione
del Budda, in una forma accessibile a
tutti. Basandosi sul titolo del Sutra del
Loto, stabilì la pratica
dell’invocazione di Nam myoho renge kyo.
Ciò
che fece è simile alla traduzione di una complessa teoria
scientifica in una
tecnica pratica. Proprio come la scoperta
dell’elettricità da parte di Benjamin
Franklin non poté essere sfruttata a
fini pratici fin quando molti anni dopo
Thomas Edison non inventò la
lampadina, l’illuminazione di Shakyamuni restò
inaccessibile alla
stragrande maggioranza degli esseri umani fin quando
Nichiren non
insegnò la pratica fondamentale grazie alla quale tutte le persone
possono far emergere la legge della vita dalla propria interiorità. La
concretizzazione di questo principio ebbe il potere di influenzare e di
ispirare le persone comuni, annunciando una nuova epoca nella storia
del
Buddismo.
Nichiren
rivelò il supremo insegnamento mahayana – il grande
veicolo – tramite il quale
tutte le persone possono raggiungere la
Buddità. Come dice lo stesso Nichiren:
«Una mosca blu, se si posa sulla
coda di un buon cavallo, può viaggiare per
diecimila miglia, e la verde
edera che si abbarbica intorno al possente pino può
crescere fino a mille
piedi». Per la prima volta le persone comuni potevano
intraprendere un
viaggio precedentemente riservato solo ai santi e ai saggi.
Il
Buddismo di Nichiren ha dimostrato di avere un immenso valore
per milioni di
persone. Solo Nichiren espresse l’essenza del Sutra del
Loto in modo tale da
permettere a tutti gli esseri umani,
indipendentemente dal loro livello di
conoscenza, di entrare nel sentiero
dell’illuminazione. Questa è stata una
svolta rivoluzionaria nella storia
della religione.
Se
il Buddismo all’inizio era semplicemente l’insegnamento di un
singolo essere
umano che si era risvegliato alla legge della vita esistente
dentro di sé, col
tempo arrivò a includere le interpretazioni che di
quell’insegnamento diedero i
successivi studiosi e profeti. Come
abbiamo già detto, la parola buddha originariamente significava
«illuminato» e indicava una persona che si è risvegliata alla verità, o alla
legge, della vita (dharma). Questa
verità è eterna e senza limiti. È
presente sempre e in ogni luogo. In questo
senso, la legge della vita non
è esclusiva proprietà del Budda Shakyamuni né
dei monaci buddisti.
La
verità è aperta a tutti allo stesso modo. Nel Buddismo che viene
esposto in
queste pagine, non ci sono preti né guru, non vi è nessuna
autorità suprema che
decide cosa è corretto e cosa no, cosa è giusto e
cosa è sbagliato. Nell’ambito
di questo insegnamento il muro tra preti e
laici è stato abbattuto, portando a
una completa democratizzazione della
pratica. Poiché esso è essenzialmente non dogmatico,
si adatta anche
agli scettici. La legge fondamentale ed eterna che il Budda
percepì
potrebbe essere considerata un’altra definizione del concetto di Dio
che
molte persone hanno. D’altro canto, una persona che non riesce a
credere in
un Dio antropomorfo può interpretarla come un’energia che
sta alla base
dell’universo. La larghezza di vedute del Buddismo
abbraccia entrambe le
visioni e si focalizza sull’individuo.
Non
c’è nessuna fonte esterna a cui dare la colpa, e nessuno da
implorare per la
salvezza. Nel Buddismo, non vi è nessun Dio e nessuna
entità soprannaturale che
progetta e modella il nostro destino. Nella
religione occidentale ci si può
avvicinare a Dio grazie alla fede ma non
si può mai diventare Dio. Nel
Buddismo, non è possibile essere separati
dalla saggezza di Dio perché la
saggezza suprema è sempre esistente nel
cuore di ogni persona. Attraverso la
pratica buddista noi cerchiamo di
far emergere quella parte della forza vitale
universale che esiste
originariamente ed eternamente dentro di noi – ciò che
chiamiamo
Buddità – e di manifestarla diventando un Budda. I buddisti diventano
consapevoli dell’esistenza, nella loro interiorità più profonda, della
legge
eterna che permea sia l’universo sia i singoli esseri umani, e
mirano a vivere
ogni giorno in accordo con questa legge. Così facendo,
scoprono un modo di
vivere che reindirizza tutte le cose verso la
speranza, il valore e l’armonia.
È la scoperta stessa di questa legge
oggettiva, che si manifesta all’interno
dell’individuo, che crea valore
spirituale, e non qualche potere o essere
esterno. Come Nichiren affermò
in una sua famosa lettera intitolata Il conseguimento della Buddità in
questa
esistenza: «La pratica degli insegnamenti buddisti non ti
solleverà affatto
dalle sofferenze di nascita e morte a meno che tu non
percepisca la vera natura
della tua vita. Se cerchi l’illuminazione al di
fuori di te, anche eseguire
diecimila pratiche e diecimila buone azioni
sarà inutile, come se un povero
stesse giorno e notte a contare le
ricchezze del suo vicino, senza guadagnare
nemmeno mezzo
centesimo».[7]
Quest’idea
che il potere per raggiungere la felicità si trovi
esclusivamente all’interno
dell’individuo può essere sconcertante. Essa
comporta un totale senso di
responsabilità. Come ha scritto Daisaku
Ikeda: «La società è complessa e
severa, e richiede una dura lotta per la
sopravvivenza. Nessuno può rendervi
felici. Che raggiungiate la felicità
oppure no dipende solo da voi... Un essere
umano è destinato a una vita
di grande sofferenza se è debole e vulnerabile
all’ambiente esterno».
Ma
lungi dall’essere un approccio alla vita angosciante e nichilista,
la pratica e
la filosofia buddista sono colme di speranza e di soluzioni
pratiche ai
problemi dell’esistenza quotidiana. La filosofia presentata in
questo libro è
talmente concreta che noi generalmente non la definiamo
una «religione» (per
quanto lo sia) ma una «pratica», perché la maggior
parte delle persone che la
seguono l’hanno trovata estremamente utile.
Perciò in tutto il libro, seppure
discuteremo ampiamente anche della
teoria e della filosofia del Buddismo
moderno, l’accento verrà posto sul
modo in cui l’individuo – ognuno di noi –
può utilizzare il Buddismo
come efficace strumento per risolvere i problemi
della sua vita
quotidiana.
Come
ricorda Nichiren citando il Sutra del Loto: «Nessuna
questione mondana è mai
contraria alla vera realtà» e «tutti i fenomeni
dell’universo sono
manifestazioni della Legge buddista». In altre parole,
la vita quotidiana è il
terreno su cui si vince o si perde la battaglia per
l’illuminazione. Nichiren
insegnò che i comuni mortali, senza sradicare i
loro desideri né cambiare la
propria identità, possono raggiungere la
Buddità proprio qui in questo mondo.
In un’epoca di scetticismo e di
diffusa sfiducia nei confronti delle fedi e
delle istituzioni tradizionali,
una pratica religiosa così dinamica e centrata
sull’individuo diventa
particolarmente apprezzabile.
Il
Buddismo è essenzialmente non autoritario, democratico e
scientifico, e si basa
sulla comprensione ottenuta principalmente
attraverso gli sforzi individuali
rivolti all’autoperfezionamento. Ma il
Buddismo ha anche effetti immediati e di
vasta portata sulla società
attorno a noi. Il Buddismo è un modo di vivere che
non fa alcuna
distinzione tra l’essere umano e l’ambiente in cui esso vive. Col
suo
concetto di interconnessione di tutte le forme di vita in una complessa
rete al di là della totale comprensione umana, il Buddismo può fornire
un
inquadramento spirituale e intellettuale alla coscienza ecologica. La
visione
del mondo occidentale, esposta dal Cristianesimo e dal
Giudaismo, tende a
essere antropocentrica e situa l’umanità al vertice
dell’ordine naturale. Dal
canto suo il Buddismo vede l’umanità come
una parte della natura, sostenendo e
confermando la nozione di bioetica.
Dal momento che ogni individuo è connesso a
tutto ciò che esiste sulla
terra, il destino del nostro pianeta è influenzato
dalle singole azioni
individuali.
Il
Buddismo moderno è anche non moralistico. In un mondo
caratterizzato da una grande
diversità di popoli, di culture e di stili di
vita, il Buddismo non prescrive
alcun particolare modo di vivere. Non ci
sono «comandamenti». Il Buddismo ci
accetta esattamente come siamo,
con tutte le nostre colpe e i nostri difetti,
passati e presenti. Ciò non
significa, tuttavia, che possiamo mentire, rubare o
uccidere. La forza
morale del Buddismo non dipende da un elenco di regole di
condotta ma
da una trascinante trasformazione interiore. I praticanti buddisti
arrivano
ad agire con maggiore gentilezza e compassione, e con assoluto
rispetto
per il valore della vita degli altri, in un processo che diventa quasi
automatico.

[7] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, IBISG, Firenze, 2008, vol. I, pagg. 3-4. Di
seguito citato come Raccolta degli
scritti di Nichiren Daishonin.
IL BUDDISMO E IL COSMO

Infine,
nulla di ciò che il Budda storico insegnò contraddice in
modo rilevante le
scoperte di Galileo e Einstein, di Darwin e di Freud.
Tuttavia le sue idee si
sono formate migliaia di anni prima, senza l’aiuto
dei telescopi, della
tecnologia e persino della parola scritta. Il modello
buddista dell’universo ha
una forte similarità con la cosmologia oggi
accettata. Benché il Budda non
abbia mai parlato di un Big Bang, ha
nondimeno postulato un cosmo teoricamente
conforme a quello
attualmente descritto da molti scienziati. Nei suoi aspetti
fondamentali,
la teoria buddista accetta le vaste dimensioni e i concetti
spazio-
temporali della fisica moderna ed è addirittura congruente con i più
astrusi concetti della teoria quantistica. Gli ultimi progressi della fisica
delle particelle, per esempio, hanno delle notevoli rassomiglianze con la
dottrina dell’impermanenza esposta dal Budda. Il Sutra del Loto, il testo
centrale del Buddismo mahayana, espone una visione grandiosa
dell’universo,
espressa attraverso la nozione di «sistema maggiore di
mondi», un concetto su
vastissima scala che implica sia l’esistenza di
innumerevoli galassie sia la
possibilità di vita senziente su altri pianeti
diversi dal nostro. Contiene
anche una dettagliata analisi della vita che
penetra le profondità della psiche
umana. Perciò il Buddismo mahayana
assume come sua premessa basilare l’esistenza
di numerosi pianeti
abitati in tutto l’universo, e contemporaneamente si
propone come forza
motrice per la riforma spirituale degli esseri umani,
assicurando così la
pace eterna e la sopravvivenza a lungo termine delle
civiltà.
Per
tutti i suoi duemilacinquecento anni di storia, la diffusione del
Buddismo è
stata caratterizzata dalla tolleranza, dalla gentilezza e
dall’amore per la
natura. Come affermò lo studioso francese Sylvain
Levi: «Il Buddismo può
rivendicare il merito di avere conquistato una
parte del mondo senza avere mai
fatto ricorso alla forza delle armi.»
Infatti la meta dei buddisti – e lo scopo
di fondo di questo libro – è la
pace mondiale. Lo slogan del Buddismo potrebbe
essere: «la pace
mondiale attraverso l’illuminazione individuale». Una società
pacifica e
sicura sarà il risultato di un processo di dialogo che si espanda da
un
individuo all’altro fino a quando la guerra e le sue cause spariranno
dalla
terra. Per tutte queste ragioni, il Buddismo si appresta a giocare un
ruolo
dinamico nella cultura scientifica del XXI secolo.
Sullo
sfondo di questo luminoso scenario, rivolgiamoci ora alla
pratica individuale,
basata sulla legge segreta nascosta nelle profondità
del Sutra del Loto che
Nichiren scoprì. Perché, prima di poter cambiare
il destino del mondo, dobbiamo
per prima cosa cambiare noi stessi.
II — LA PRATICA

«
Essere un filosofo non significa
semplicemente pensare con
acutezza, e nemmeno fondare una scuola […] significa
risolvere alcuni dei
problemi della vita, non teoricamente ma praticamente
».
Henry David Thoreau

«
Non c’è alcun modo di uscire da questo
pasticcio se non
diventare illuminati e poi goderselo
».
Robert Thurman
LA PRATICA

In
apparenza i cigni scivolano sull’acqua con serena tranquillità,
ma sotto la
superficie dell’acqua, senza che noi possiamo vederlo,
nuotano incessantemente
con le zampe. Analogamente i buddisti
svolgono una vigorosa pratica quotidiana
che, pur non priva di sforzi,
spiana la strada perché le cose della vita vadano
bene. La pratica
buddista permette di affrontare i travagli dell’esistenza con
serenità ed
equilibrio. L’illuminazione, ovvero la consapevolezza della verità
universale che sta alla base di tutti i fenomeni, fa emergere gli aspetti
più
nobili e più favorevoli della vita di un individuo.
Ma
qual è dunque la corretta pratica buddista quotidiana che
consente di
progredire verso l’illuminazione?
Nel
pieno della mutevole sinfonia del mondo esterno, la vita
cambia di momento in
momento. Anche la sedia su cui siete seduti sta
cambiando, a livello
molecolare, benché voi non siate in grado di
percepirlo. Questo costante
cambiamento, o fluttuazione, espresso dal
concetto buddista di «impermanenza»,
dà origine alle fondamentali
sofferenze dell’esistenza umana. Ma
occasionalmente, in mezzo al
flusso della vita, forse per un fugace istante,
riusciamo a percepire un
ritmo – una vibrazione o una pulsazione – che sta
dietro ogni cosa. Tali
momenti di intuizione e di comprensione spesso si
verificano nel corso
di un’esperienza di straordinaria bellezza e serenità, per
esempio
contemplando, durante una vacanza, uno splendido tramonto caraibico.
O
possono verificarsi durante una prestazione estrema, come la scalata
di una
parete di roccia a strapiombo, o l’esecuzione di un concerto
particolarmente
complesso, o l’effettuazione di un lancio perfettamente
calcolato appena al di
là della portata dei difensori. Quando capitano
simili momenti è come se ci
trovassimo in una zona speciale, dove
l’imprevedibile mondo esterno e il
turbolento mondo interiore si
fondono. Il tempo è sospeso, e noi sentiamo
all’improvviso che non c’è
nulla che non possiamo fare.
Ma
come possiamo sperimentare questi momenti sublimi tutte le
volte che vogliamo?
Come possiamo attingere da questa sorgente di
energia e di saggezza che
permette alle nostre vite di vibrare in
meravigliosa sintonia con la vita
universale?
Nichiren,
il maestro buddista che visse nel Giappone del XIII
secolo, espresse questo
ritmo, questa pulsazione di fondo della vita, con
la frase Nam myoho renge kyo. Questa frase consente a tutti di attingere
a
piacimento da un illimitato potenziale, dalla suprema condizione vitale
che noi
chiamiamo Buddità. Negli scritti di Nichiren l’illuminazione
non è una meta
finale, uno scopo quasi impossibile che deve essere
perseguito vita dopo vita
in un’interminabile fatica di Sisifo. Piuttosto è
una qualità immanente, sempre
presente nella vita, che può essere
risvegliata in qualunque momento.
Secondo
questo insegnamento buddista, ognuno di noi possiede il
potenziale per essere
felice. Dentro di noi abbiamo la capacità di vivere
con coraggio, di avere
relazioni appaganti, di godere di buona salute, di
mostrare compassione per gli
altri e di affrontare e superare i nostri
problemi più profondi. Per vivere
questo tipo di esistenza vittoriosa,
l’individuo deve intraprendere una
trasformazione interiore. Questo
processo implica una trasformazione del nostro
stesso carattere, una
«rivoluzione umana» individuale.
Consideriamo
un possibile scenario: al lavoro vi sentite
sottovalutati. Forse il vostro capo
vi è ostile o vi ignora. Dopo un po’,
iniziate a covare un grande risentimento.
Per quanto abili possiate essere
nel nascondere la vostra negatività, di tanto
in tanto essa si manifesta. È
possibile che i vostri colleghi o il vostro capo
pensino di conseguenza
che non siete abbastanza dediti al vostro lavoro, o
magari percepiscono
che il vostro atteggiamento è negativo. Ovviamente, ci sono
migliaia di
ragioni che giustificano il vostro atteggiamento, e tutte «valide».
Ma
quali che siano le ragioni, voi perdete le opportunità di carriera per colpa
del cattivo rapporto con il vostro capo. Questa oggi è una situazione
piuttosto
comune negli ambienti di lavoro.
Ma
supponiamo che voi cominciate ad andare al lavoro con un
diverso atteggiamento
che non è dovuto solo a uno sforzo mentale ma a
una nuova prospettiva sostenuta
da un profondo senso di vitalità, di
fiducia e di compassione. La vostra
compassione vi porta a entrare in
empatia con il vostro capo. Armati di
comprensione, lo trattate in
maniera differente da prima, offrendogli sostegno
e sentendovi sempre
meno scoraggiato da qualunque pregiudizio possa mostrare
nei vostri
confronti. Il vostro capo comincia allora a sua volta a vedervi in
una
nuova luce, e vi offre le opportunità che desideravate.
Questo
ovviamente è un esempio molto semplice, così come
apparentemente è semplice
risolvere la situazione descritta. Ma vivere in
questo modo ogni giorno
richiede un fondamentale cambiamento del
cuore. Una volta che il cambiamento è
compiuto, come in un
interminabile effetto domino possiamo avere una continua
influenza
positiva sulle persone che ci circondano. Il catalizzatore per
sperimentare questa rivoluzione interiore è la pratica buddista insegnata
da
Nichiren, che afferma che si possono ottenere questi e molti altri
risultati
semplicemente recitando Nam myoho renge kyo.
La
fondamentale pratica buddista stabilita da Nichiren consiste
nella recitazione
di Nam myoho renge kyo davanti al Gohonzon, un
rotolo di carta di riso iscritto
con caratteri cinesi e sanscriti. (Non è
necessario avere un Gohonzon per
iniziare a praticare il Buddismo, ma
milioni di persone ce l’hanno. Di questo
però parleremo meglio più
avanti.) Ovviamente, noi recitiamo Nam myoho renge
kyo per
raggiungere l’illuminazione; ma possiamo recitare anche con
l’intenzione di raggiungere la felicità, per la crescita personale, per
migliorare la nostra salute o per scopi più terreni come la risoluzione di
un
problema lavorativo del genere di quello appena descritto. In realtà,
si può
recitare per qualunque cosa si desideri.
Potete
recitare per un lavoro migliore, o per avere successo in
quello che avete ora.
Potete recitare anche per crearvi una professione,
se non ne avete una. Potete
recitare per trovare un partner, o per andare
maggiormente d’accordo con quello
con cui state. Potete anche recitare
per non sentirvi depressi o per ribaltare
un sentimento di disperazione.
In effetti, la maggior parte dei buddisti recita
quotidianamente per
svariate cose, dal miglioramento del proprio carattere alla
creazione di
un ambiente più pacifico. Ma in ogni istante la preghiera buddista
è in
ultima analisi diretta a rivelare la nostra Buddità intrinseca, lo stato
di
vita più elevato. Come giunse Nichiren a enunciare questa concreta ed
efficace formula per realizzare i sogni della vita?
Come
il Budda Shakyamuni prima di lui, Nichiren desiderava
condurre tutte le persone
all’illuminazione. In molte scuole di Buddismo
l’illuminazione è vista come una
meta remota, che può essere raggiunta
solo dopo molte vite di sforzi pazienti.
Conseguire l’illuminazione
diventa dunque un’impresa quasi sovrumana. Le
tradizionali strategie
buddiste hanno incluso rigide austerità, alcune delle
quali
contemplavano drastici cambiamenti nelle abitudini alimentari e nello
stile di vita. Nel corso della storia i buddisti si sono ritirati in
eremitaggio nelle foreste, nelle montagne e nei monasteri. Ma ai nostri
giorni,
per la maggior parte delle persone non è possibile lasciare il
proprio lavoro e
la propria routine quotidiana per rifugiarsi in un ritiro
spirituale – anche
solo per un fine settimana. Né sarebbe realistico
dedicarsi periodicamente alla
vita monastica, ad esempio andando in
India una o due volte l’anno. Nichiren,
nel XIII secolo, indicò una via
per abbreviare il cammino.
NICHIREN E IL SUTRA DEL
LOTO

Dall’età
di dodici anni Nichiren, il figlio di un pescatore, cominciò
a studiare i
sutra, facendo voto di diventare «la persona più saggia di
tutto il Giappone».
Nato il 16 febbraio del 1222, visse in un periodo di
grande fermento religioso
e di disordine politico, in cui i signori feudali
lottavano per il potere e il
Giappone era governato dagli shogun,
carica
che si trasmetteva per via ereditaria. Nel XIII secolo il Giappone fu
frequentemente colpito da epidemie e terremoti, e oltre all’instabilità
politica interna dovette fronteggiare la minaccia di un’imminente
invasione
straniera. A sedici anni Nichiren fu ordinato monaco e
cominciò un serio studio
comparativo della confusa varietà di
insegnamenti buddisti, particolarmente di
quelli della scuola Tendai,
basati sugli insegnamenti del saggio cinese T’ien-t’ai.
Esaminò anche
gli insegnamenti Zen e quelli della scuola della Pura terra, che
si erano
diffusi rapidamente nel periodo di tumulto sociale conseguente al
declino dell’aristocrazia imperiale e all’ascesa della classe guerriera. Gli
insegnamenti della Pura terra divennero popolarissimi tra la popolazione
in
generale, mentre lo Zen conquistò il consenso soprattutto tra i
samurai.
Nichiren, tuttavia, comprese chiaramente che la maggior parte
delle persone
restava inconsapevole della propria natura buddica, e
anche se teoricamente
accettava la nozione di Buddità, non aveva la
minima idea di come attivarla
nella propria vita quotidiana.
Pur
riconoscendo i meriti di T’ien-t’ai nella classificazione dei
sutra e, in
particolare, nel riconoscimento della superiorità del Sutra del
Loto su tutti
gli altri sutra, Nichiren comprese che i metodi di
meditazione da lui
prescritti erano al di là delle capacità delle persone
comuni. Si rese anche
conto che i preti delle varie scuole, dai templi di
Kyoto ai monasteri del
monte Hiei, conducevano delle vite
particolarmente dissolute. Essi
rivaleggiavano tra di loro per la fama e il
profitto e alla fine cominciarono a
inseguire il potere politico e si
allontanarono dalla gente. Non fa meraviglia,
quindi, che il Buddismo
fosse incapace di aiutare le persone a diventare felici
nella loro vita
quotidiana.
Il
28 aprile del 1253 Nichiren dichiarò per la prima volta che Nam
myoho renge kyo
è la vera Legge, il grande «segreto» nascosto nelle
profondità del Sutra del
Loto. Superficialmente, egli utilizzò Myoho
renge kyo – la lettura giapponese
dei caratteri del titolo del Sutra del
Loto nella traduzione cinese fatta da
Kumarajiva del sanscrito
Saddharma Pundarika Sutra – per esprimere l’idea
dell’illuminazione,
premettendo la parola nam
che significa «devozione a». Da una
prospettiva più profonda, Nichiren per la
prima volta rese accessibile a
tutti l’illuminazione di Shakyamuni, espressa
concettualmente nel Sutra
del Loto. Questo fu un enorme progresso nella storia
del Buddismo, e
l’inizio di una rivoluzione nella stessa concezione della
religione.
Il
Buddismo di Nichiren non richiede la rinuncia o la soppressione
dei desideri.
Questo è stato un fondamentale cambiamento di prospettiva
rispetto alle altre
scuole, che insistevano sull’estinzione dei desideri
terreni allo scopo di
raggiungere una saggezza superiore. Nichiren
affermò che la fonte di tutti i
desideri è la vita stessa; finché la vita
continua, istintivamente desideriamo
vivere, proviamo amore,
cerchiamo il profitto, e così via. Dal momento che il
desiderio sorge dal
più intimo nucleo della vita, è virtualmente
indistruttibile. Anche la
ricerca dell’illuminazione è una forma di desiderio.
La
civiltà è progredita grazie agli istinti e ai desideri degli esseri
umani.
L’aspirazione alla ricchezza produce la crescita economica. La
volontà di
resistere al freddo invernale ha portato allo sviluppo delle
scienze naturali.
L’amore, che è un desiderio umano fondamentale, ha
ispirato la letteratura.
Non
solo noi possiamo realizzare i nostri desideri cambiando noi
stessi
dall’interno, ma i desideri stessi cominciano a cambiare. Si
purificano o si
elevano. E i desideri che abbiamo servono da carburante,
spingendoci verso la
nostra illuminazione. I seguaci di Nichiren recitano
mattina e sera per i loro
desideri personali sullo sfondo dei più grandi
desideri dell’illuminazione
individuale e della pace mondiale. Questo
processo di rivoluzione umana
interiore – la trasformazione dei desideri
– è inestricabilmente connesso con
la riforma dell’ambiente circostante.
I buddisti lavorano instancabilmente per
portare pace e armonia nel loro
ambiente di lavoro, nella famiglia e nella
comunità in cui vivono,
lottando tenacemente per manifestare la Legge dal
proprio interno.
Nessuno è obbligato ad andare sulla cima di una montagna, ma
ogni
giorno, mattina e sera, a casa nostra, noi buddisti scaliamo la montagna
dell’illuminazione per mezzo della pratica buddista.
Nei
termini delle antiche convenzioni religiose indiane, la frase
Nam myoho renge
kyo può essere definita un mantra,
mentre il
Gohonzon, un rotolo di carta di riso davanti al quale si recita, è un
mandala. Ma la pratica buddista di
Nichiren è tutto tranne che una
forma passiva di meditazione; piuttosto, è una
dinamica espressione
della mente e dello spirito. I risultati possono
manifestarsi in modi sia
sottili sia spettacolari. Per fare un esempio, nella
sua autobiografia, Io,
Tina (su cui è
basato il film Tina - What’s Love Got to
Do With It?), Tina
Turner descrive la sua incapacità di fare appello alla
sua forza interiore
per sfuggire agli abusi e alle brutalità di suo marito.
Questa storia è ben
nota ed è simile a tutte quelle situazioni della nostra
vita in cui ci
sentiamo totalmente intrappolati. Nulla sembra funzionare e non
c’è
nessuna apparente via d’uscita dalla nostra sofferenza e dalle nostre
circostanze. Ma quando un conoscente insegnò a Tina a recitare Nam
myoho renge
kyo, lei immediatamente cominciò a reagire. Vincendo la
propria timidezza, Tina
si avviò a conquistare la sua libertà. Alla fine del
percorso, intraprese una
carriera artistica indipendente ottenendo un
favoloso successo. Nel suo caso,
la recitazione di Nam myoho renge kyo
le diede la forza di agire, l’impeto per
cambiare il suo destino per il
meglio. Il suo bisogno primario non era la pace
interiore ma la
determinazione per affrontare le sue circostanze esterne. In
innumerevoli casi i praticanti buddisti trasformano la loro passiva
rassegnazione in un atteggiamento gioioso e combattivo.
In
molte forme di meditazione può essere difficile discernere se si
sta meditando
correttamente – o se si sta meditando tout
court.
Facilmente si perde la concentrazione sul respiro o sul mantra. La
mente
può essere facilmente distratta dalle preoccupazioni, dalle fantasie e da
altri pensieri. Al contrario, recitare serve a concentrare la mente. Si
recita
Nam myoho renge kyo con un ritmo costante e vigoroso (ma non
a voce così alta
da disturbare i vicini o da far venire il mal di testa al
proprio compagno di
stanza).
Sulle
prime la recitazione può sembrare strana, ma è decisamente
concreta e può
essere fatta da chiunque. Potete provare anche voi:
ripetete la frase a voce
alta tre volte, con calma o energicamente, come
preferite. (Per una guida al
ritmo e alla pronuncia vedere il capitolo
otto). Se provate a recitare, che ci
crediate o no, avete già fatto un passo
significativo sul sentiero verso
l’illuminazione.
PERCHÉ FUNZIONA NAM
MYOHO RENGE KYO?

La
domanda che sorge immediatamente è: come può la recitazione
di una frase di cui
non si capisce il significato avere un qualunque
effetto, positivo o negativo
sulla propria vita? Il paragone che spesso
fanno i buddisti è quello tra Nam
myoho renge kyo e il latte. Un
bambino è nutrito all’inizio dal latte materno e
quando cresce dal latte di
mucca, molto prima che possa capire il significato
di latte. Il potere
nutritivo è
intrinseco nel latte. Per usare un altro esempio, non abbiamo
bisogno di sapere
come funziona un’automobile per poterla utilizzare. È
sensato imparare qualcosa
sul funzionamento di un’auto, e lo studio è
una parte importante di una pratica
buddista completa. Ma è importante
capire che la recitazione funziona che voi
la capiate o no, che crediate
che funzioni oppure no. In realtà, molti iniziano
a recitare Nam myoho
renge kyo con l’esplicita intenzione di dimostrare ai loro
amici che non
funziona, e invariabilmente sono sorpresi di scoprire che invece
funziona. Nam myoho renge kyo funziona per tutti, giovani e vecchi,
ricchi e
poveri, scettici e creduloni, ignoranti e scaltri, africani e asiatici,
conservatori e progressisti.
Secondo
il Buddismo di Nichiren Nam myoho renge kyo è la
Legge dell’universo:
recitandola rivelate la Legge nella vostra vita,
mettendovi in armonia o a
ritmo con l’universo. La parola legge
qui è
usata nel suo significato scientifico, analogo a quello di legge di
gravità.
Dal momento che la gravità è una legge della vita, ha un’influenza su
di
voi, che ne comprendiate il funzionamento oppure no. Se vi foste sporti
troppo dall’orlo di un precipizio prima del 1666, l’anno in cui Isaac
Newton
formulò questa legge, ne avreste comunque subito le
conseguenze. Anche Nam
myoho renge kyo è una legge della vita, ha
spiegato Nichiren. In realtà è la legge della vita. Come è possibile
ciò?
Per
iniziare a capire questo punto, potrebbe essere d’aiuto
considerare Nam myoho
renge kyo alla luce della teoria della relatività
ristretta formulata da
Einstein ed espressa dalla famosa equazione
E=mc2. Questa formula è
la pietra miliare della nostra visione del
cosmo. Ma la comprendiamo davvero?
Sappiamo che E sta per energia e
m per massa. La massa viene moltiplicata
per la velocità della luce al
quadrato, c2.
Benché generalmente i lettori abbiano solo una vaga idea
di quello che questi
termini significano, tutti sanno che i simboli usati da
Einstein – E, m, c – si
riferiscono a concetti della fisica e della
matematica che, sebbene astratti,
indicano precise realtà del nostro
mondo: il tempo, lo spazio, la materia e
l’energia. Lo stesso vale per
ognuno dei caratteri di Nam myoho renge kyo.
Anche
se il reale significato di E=mc2 ci sfugge, quasi tutti oggi
sono
disposti ad ammettere la validità dell’equazione di Einstein, poiché
è stata
dimostrata innumerevoli volte nel mondo reale. All’inizio della
sua carriera
Einstein fu ridicolizzato e liquidato come un ateo pazzo e
uno «scienziato
bolscevico». Fu solo nel 1919 che la sua teoria si
dimostrò corretta, quando in
occasione di un’eclissi di sole una
spedizione britannica sull’isola di
Principe, al largo della costa
occidentale dell’Africa, fu in grado di misurare
la deviazione dei raggi
luminosi in prossimità del sole, constatandone la
corrispondenza con i
principi della relatività. Da allora le teorie di Einstein
sono state
verificate nel mondo fisico in differenti casi, dalla fissione nucleare
all’astronomia avanzata, dimostrando che il modello dell’universo di
Einstein è
essenzialmente corretto.
In
maniera analoga, il Buddismo ha sia una base teorica sia una
base scientifica.
Nichiren rivelò la Legge della vita, Nam myoho renge
kyo, trasmettendola ai
suoi seguaci e alle future generazioni con
un’implicita istruzione: questa è la
Legge, ora andate e verificatela nelle
realtà della vita e dell’universo.
Verificate se funziona sempre, in
qualunque circostanza e in tutte le
condizioni. Tutti coloro che recitano
Nam myoho renge kyo perciò stanno
conducendo un esperimento
permanente per determinare il potere e l’efficacia di
questa legge nella
loro vita.
Ma,
per avere un risultato, si deve recitare. Potete leggere e parlare
di Buddismo,
ma alla fine sarà solo teoria. La differenza tra uno studio
puramente teorico e
la pratica buddista può essere paragonata a quella
che intercorre tra la
conoscenza dell’ingegneria mineraria e il possesso
di una miniera d’oro. Per
usare un’altra analogia, limitarsi a studiare il
Buddismo sarebbe un po’ come
cercare di capire cos’è un gelato alla
fragola per l’abitante di una remota
regione desertica che non conosce
né le fragole né il gelato. Può imparare che
è umido e freddo, cremoso e
dolce. Ma, come tutti sappiamo, una descrizione
verbale non potrà mai
equivalere alla reale esperienza di assaggiare un gelato
alla fragola. Nel
Buddismo, come nella vita, nulla può sostituire l’esperienza
diretta. Con
questa avvertenza sempre in mente, volgiamoci ora a una
definizione
della frase Nam myoho renge kyo. Come abbiamo detto, questa
«formula» è in effetti basata sul titolo del Sutra del Loto, il culmine
degli
insegnamenti di Shakyamuni.
Il
titolo è preceduto da nam, che deriva
dal sanscrito namas
(dedicarsi). Al
titolo di un sutra veniva data grande importanza. Come
scrisse Nichiren: «Nel
titolo, o daimoku di Nam myoho renge kyo, c’è
l’intero sutra, con tutti gli
otto volumi, ventotto capitoli e 69.384
[8]
caratteri, senza alcuna omissione». Come i simboli nella teoria della
relatività ristretta di Einstein, ognuno dei
caratteri di Nam myoho renge
kyo rappresenta una profonda verità della vita,
che spieghiamo qui di
seguito.
Myoho
significa «Legge mistica» o quello che, benché vero, non
può essere spiegato.
Per esempio, cos’è realmente la gravità? Perché
alcune persone nascono belle e
altre no? Perché alcuni muoiono
giovani?
Nichiren
scrisse: «Cosa significa myo
(mistico)? È semplicemente
la misteriosa natura della nostra vita di istante in
istante, che la mente
non riesce a comprendere e le parole non possono
esprimere. Guardando
la nostra mente in ogni singolo istante, non percepiamo né
colore né
forma per verificare che esiste. Eppure non possiamo nemmeno dire che
non esiste, poiché molti pensieri differenti sorgono di continuo. Non
possiamo
né ritenere che la mente esista né che non esista. È una realtà
inafferrabile
che trascende sia le parole sia i concetti di esistenza e di
non esistenza. Non
è né esistenza né non esistenza, e tuttavia manifesta
le proprietà di entrambe.
È la mistica entità della Via di mezzo che è
l’unica vera realtà. Myo è il nome
dato alla misteriosa natura della vita e
ho quello attribuito alle sue
manifestazioni».[9]
Come
spiega Nichiren, myo letteralmente
significa «mistico», o al
di là della descrizione, e rappresenta quindi la
realtà ultima della vita,
mentre ho
significa «tutti i fenomeni». L’unione dei due caratteri,
myoho, indica che tutti i fenomeni della vita sono espressioni
della
Legge.
Nichiren
spiega anche tre significati del carattere myo.
Il primo
significato è «aprire», nel senso che esso mette in grado una persona
di
sviluppare pienamente il proprio potenziale di essere umano. Un altro
significato del carattere myo è
«rinvigorire», «far rivivere». La Legge
mistica ha il potere di rivitalizzare
la vita di chi ne recita il nome. Un
ulteriore significato di myoho è «essere perfettamente dotato».
La Legge
mistica dota una persona della fortuna necessaria a realizzare e
preservare la propria felicità.
In
altri scritti Nichiren spiega che myo
corrisponde alla morte e ho
alla
vita. Ma come può un’unica parola – myoho
– avere una tale
ricchezza di significati? Tanto per cominciare, il cinese
scritto – la
lingua degli studiosi dell’antico Giappone usata spesso anche da
Nichiren – è sorprendentemente descrittivo, e ogni singolo carattere
evoca un
contesto di più vasti significati a esso collegati. Su myoho si
potrebbe scrivere un capitolo lunghissimo, se non
addirittura un intero
libro.
Il
carattere successivo è renge, che
letteralmente significa «fiore di
loto», da cui deriva il titolo «Sutra del
Loto». Nella tradizione buddista
il loto è profondamente significativo. In
natura, la pianta del loto fiorisce
e fruttifica contemporaneamente,
simboleggiando così la simultaneità di
causa ed effetto.
Sappiamo
dalla scienza che tutti i fenomeni si basano sulla legge di
causalità. Ogni
cosa ha le sue cause e i suoi effetti. Il Budda comprese
questo principio più
di duemilacinquecento anni fa. Ma nel Buddismo la
legge di causalità ha una
risonanza più profonda in riferimento alla vita
umana. Noi creiamo cause
attraverso i pensieri, le parole e le azioni. Nel
momento in cui una qualunque
causa viene creata, simultaneamente
nella profondità della vita viene
registrato un effetto, che si manifesterà
quando incontreremo le adeguate
circostanze ambientali. Nel Buddismo
il fiore di loto è apprezzato come simbolo
anche perché fiorisce in uno
stagno melmoso, e rappresenta quindi l’emergere
della nostra natura
buddica dallo «stagno» dei desideri e dei problemi
quotidiani. Per
analogia, anche la società è paragonata a uno stagno melmoso in
cui noi
Budda appariamo. Perciò, per quanto difficile sia la nostra vita, per
quanto dure siano le circostanze in cui ci troviamo, il fiore della Buddità
può
sempre sbocciare.
Kyo
significa «sutra» o «insegnamento», ma può anche essere
interpretato come
«suono». Il Budda tradizionalmente insegnava
attraverso la parola parlata in
un’epoca in cui la scrittura era considerata
inaffidabile e suscettibile di
falsificazioni e di fraintendimenti. Si dice
che «la voce compie il lavoro del
Budda», e innegabilmente una persona
che sta recitando Nam myoho renge kyo
emana un senso di forza: si
possono percepire una calma determinazione e
un’energica volontà nel
ritmo della recitazione che si fonde col ritmo dell’universo.
Tutti
questi caratteri uniti a formare la frase Nam myoho renge kyo
possono dunque
essere tradotti come «Io dedico me stesso alla Legge
mistica di causa ed
effetto attraverso il suono». Ma è importante capire
che non è necessario (né
particolarmente desiderabile) tradurre la frase
nella nostra lingua o tenere a
mente costantemente il suo significato per
potere ottenere benefici nel
recitarla. In realtà, anche se nei primi stadi
della propria pratica può essere
difficile capire tutto, ciò che conta è
semplicemente recitare con sincerità
per i propri obiettivi e poi, con
mente aperta, vedere cosa accade.
La
recitazione di Nam myoho renge kyo è piuttosto differente dalla
preghiera come
è comunemente concepita in Occidente. Invece di
implorare una forza esterna che
risolva i loro problemi, i buddisti fanno
appello alle proprie risorse
interiori per affrontarli. Recitare può essere
paragonato ad azionare una pompa
per far sgorgare la natura buddica
dalla profondità della propria vita. Quando
si recita, si formula un voto o
una determinazione. Più che «desidero che
accada questo e quello» o
«Signore, dammi la forza di far accadere questo e
quello», alla preghiera
buddista sono più adatte espressioni come «farò
accadere questo e
quello» o «determino di realizzare questo e quel cambiamento
nella mia
vita così che accada questo e quello».

[8] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. I, pag. 820


[9] Ibid.,
pag. 4
CAMBIARE IL PROPRIO KARMA

La
maggior parte di noi riconosce la validità della legge di causa ed
effetto come
regola generale della natura e come fondamento del
moderno metodo scientifico.
Accettiamo senza difficoltà la nozione che
tutte le cause producono effetti, e
che ogni cosa che succede nella vita
può essere fatta risalire a una serie di
cause che portano a una serie di
relativi effetti. Se premete l’interruttore, la
luce si accende. Se piove, il
tetto si bagna. Noi tendiamo dunque a vedere la
legge di causalità in
termini lineari come una catena senza fine di cause ed
effetti. Ma,
secondo il Buddismo, la legge di causa ed effetto è molto più
sottile e
complessa.
Il
Buddismo insegna che la causa e l’effetto sono, in sostanza,
simultanei. Nel
momento in cui viene creata una causa, viene registrato
un effetto, come un
seme piantato nelle profondità della vita. Benché
l’effetto si produca nello
stesso istante in cui è stata creata la causa, esso
può non apparire
immediatamente. L’effetto si manifesta solo quando si
presentano le circostanze
esterne adeguate. Mettiamo il caso che una
ghianda cada dall’albero e
attecchisca nel terreno. Possono volerci
decenni prima che una quercia vigorosa
si manifesti come pieno effetto
di quella causa. Perciò, benché l’effetto sia
simultaneo, nel senso che la
causa perché si sviluppi una quercia è stata
creata, esso non si
manifesterà che molti anni dopo. Anche se l’effetto finale
della quercia è
latente nella ghianda, ci vogliono anni di pioggia e di sole
per ottenere le
circostanze adatte perché la quercia si sviluppi. Oppure, per
fare un
esempio negativo, supponiamo che una persona mangi cibi ad alto
contenuto di colesterolo per un lungo periodo di tempo. Possono volerci
molti
anni prima che appaiano gli effetti deleteri di una tale
alimentazione, come
l’arteriosclerosi o una malattia cardiaca. Gli esseri
umani ogni giorno creano
miriadi di cause con i loro pensieri, le loro
parole e le loro azioni, e per
ogni causa riceveranno un effetto. Ma
l’effetto può non manifestarsi per lungo
tempo.
Il
Buddismo suddivide ulteriormente il concetto di causa ed effetto
in cause interne, circostanze (o relazioni), effetti
latenti ed effetti
manifesti. Come
ha affermato Daisaku Ikeda: «Ogni attività vitale è il
risultato di qualche
stimolo esterno. Allo stesso tempo, la vera causa è la
causa inerente
all’essere umano. Per fare un esempio semplicissimo, se
qualcuno vi colpisce e
voi lo colpite di rimando, il primo colpo è lo
stimolo che porta al secondo, ma
non è la causa ultima. Potete sostenere
di avere colpito quella persona perché
lei vi ha colpito, ma in realtà la
avete colpita perché voi siete voi. La vera
causa era dentro di voi, pronta
per essere attivata da una circostanza
esterna».
Elaborando
questo esempio, possiamo supporre che nei primi anni
della vostra vita abbiate
appreso a essere collerici e diffidenti come
risposta difensiva al
comportamento altrui. Forse avevate un fratello che
vi tiranneggiava, e ben
presto avete imparato che l’unico modo per
ottenere ciò che volevate era usare
le mani per difendervi. È questo
atteggiamento interiore da parte vostra,
questa predisposizione a
rispondere agli attacchi, ciò che causa la vostra
reazione quando
qualcuno vi colpisce, e non il solo fatto di essere colpito. Si
potrebbe
dire che restituire il colpo in quella situazione fosse il vostro
karma.
Il
concetto di karma, una parola sanscrita che originariamente
significava
«azione», è stato fondamentale per la filosofia indiana sin
dall’epoca delle Upanishad, trecento anni prima
dell’illuminazione di
Shakyamuni. Ci sono tre tipi di azione karmica: i
pensieri, le parole e le
azioni propriamente dette. Insieme questi tre tipi di
azioni, o cause,
compiute nel corso della vita formano cumulativamente il karma
di
ciascuno. In altre parole, il vostro karma è il risultato finale di ogni
singola causa che abbiate mai creato nella vostra vita (e nelle vostre vite
precedenti: ma di questo parleremo in seguito). In linea generale, il
karma può
essere diviso in karma positivo e karma negativo, proprio
come le cause possono
essere caratterizzate come cause positive e cause
negative. Queste categorie si
applicano a tutte e tre le forme di azione
karmica: il pensiero, la parola e
l’azione. Per esempio, un karma
positivo può sorgere da gesti di compassione e
di tolleranza ma anche
dai corrispondenti stati mentali. Un karma negativo può
derivare invece
da attitudini negative come l’avidità o la rabbia, e dalle
varie azioni
concrete alle quali questi stati mentali danno origine.
Il
nostro karma è come un saldo bancario di effetti latenti che
sperimenteremo
quando la nostra vita incontrerà le giuste condizioni
ambientali. Le cause
positive producono effetti piacevoli e benefici, le
cause negative producono
sofferenza. Le nostre azioni del passato
esercitano un’influenza sul nostro
presente, mentre le nostre azioni nel
presente formano il nostro futuro.
Il
principio del karma, secondo Nichiren, è assolutamente rigoroso.
Non si può sfuggire
in alcun modo alle nostre azioni passate. La legge di
causa ed effetto permea
la nostra vita attraverso le esistenze passate,
quella presente e quelle
future. Nulla viene dimenticato, cancellato o
perso. È un errore pensare che
possiamo lasciarci dietro tutti i nostri
problemi e andarcene semplicemente, ad
esempio, alle Hawaii o in
qualche altro paradiso tropicale per vivere una vita
senza pensieri.
Dovunque andiamo ci portiamo dietro il nostro karma, come un
bagaglio. Ogni cosa nella nostra esistenza è eternamente incisa nei più
profondi livelli della nostra vita. Ma allora non abbiamo altra scelta che
rassegnarci e accettare passivamente gli effetti di qualsiasi karma
abbiamo
creato nel passato? No di certo.
Secondo
il Buddismo noi creiamo il karma tramite le nostre azioni
e perciò abbiamo il
potere di cambiarlo. Questo è ciò che promette la
pratica buddista. Benché in
teoria tutto quello che dobbiamo fare per
riuscire nella vita sia creare le
migliori cause possibili, nella maggior
parte dei casi abbiamo pochissimo
controllo sulle cause che creiamo.
Tendiamo a essere intrappolati
nell’ininterrotta catena di cause ed effetti
che, nel bene e nel male,
costituisce il nostro karma, e siamo spinti ad
agire di conseguenza. Ma quando
recitiamo Nam myoho renge kyo
cominciamo a illuminare gli aspetti negativi del
nostro karma – vedendo
chiaramente la nostra debolezza – e possiamo poi fare
dei passi per
trasformare noi stessi e il nostro destino. Nichiren utilizzò la
metafora
dello specchio per suggerire questo processo di autopercezione. Più di
settecento anni fa egli scrisse: «Quando una persona è illusa è chiamata
essere
comune, quando è illuminata è chiamata Budda. È come uno
specchio appannato che
brillerà come un gioiello se viene lucidato. Una
mente annebbiata dalle
illusioni derivate dall’oscurità innata è come uno
specchio appannato che,
però, una volta lucidato, sicuramente diverrà
limpido e rifletterà la natura
essenziale dei fenomeni e il vero aspetto
della realtà. Risveglia in te una
profonda fede e lucida con cura il tuo
specchio notte e giorno. Come dovresti
lucidarlo? Solo recitando Nam
myoho renge kyo».[10]
Nei
termini della legge di causalità, Nichiren ha affermato che
recitare Nam myoho
renge kyo è la migliore causa che una persona
possa creare. Ciò non significa
che una persona che sta fronteggiando un
grave problema debba necessariamente
stare a casa a recitare tutto il
giorno. Un comportamento come questo sarebbe
semplicemente una
fuga dalla realtà. Piuttosto, si dovrebbe prima recitare per far
emergere
la saggezza necessaria ad affrontare apertamente il problema, e poi
agire
con determinazione per risolverlo. Nella chiara luce dell’illuminazione,
non solo arriviamo a capire noi stessi, ma possiamo anche cambiare noi
stessi e
raggiungere il piano di esistenza più elevato che si possa
immaginare.
In
definitiva, recitiamo Nam myoho renge kyo per rivelare la nostra
Buddità,
potendo così percepire e comprendere la legge dell’universo
mentre, allo stesso
tempo, esercitiamo la saggezza per utilizzare questa
legge. Occorre tenere a
mente che, così come la ghianda contiene il
seme di una quercia vigorosa, il
seme dell’illuminazione è già dentro di
noi. Come ha scritto Daisaku Ikeda:
«Quando invocate Nam myoho
renge kyo, richiamate la vostra natura buddica, o
Nam myoho renge kyo
dentro di voi. Allora voi stessi siete un Budda».

[10] Ibid.,
pag. 4
VERIFICARE LA PROPRIA
ILLUMINAZIONE LUNGO IL
CAMMINO

Le
persone comuni, impantanate nelle esigenze della vita
quotidiana, comunemente
non aspirano al nobile e felice stato di vita
della Buddità, non almeno in
maniera costante. Se avete difficoltà a
pagare l’affitto e a sfamare la vostra
famiglia, è piuttosto difficile che vi
preoccupiate di come raggiungere
l’illuminazione. Perciò non è
irragionevole recitare per i propri fondamentali
bisogni materiali ed
emotivi allo scopo di stabilire delle salde fondamenta da
cui aspirare a
mete più elevate, compresa la Buddità. La pratica del Buddismo
di
Nichiren inizialmente procura benefici evidenti e pratici, prima di tutto
uno spirito più positivo – di sfida e di speranza invece che di sconfitta e
di
rassegnazione – che si genera dal profondo dell’interiorità. Questo
spirito a
sua volta porta a sviluppare saggezza e ad agire
costruttivamente così da
trasformare qualsiasi situazione negativa che si
possa incontrare.
Per
iniziare la vostra pratica, sforzatevi di recitare ogni giorno Nam
myoho renge
kyo, diciamo cinque minuti la mattina e cinque minuti la
sera. Trovate il tempo
necessario e sistematevi in un luogo tranquillo
dove non disturbate nessuno. La
stanza da letto o il tinello vanno
benissimo. Potete recitare anche in macchina
(ma preferibilmente non in
mezzo al traffico caotico delle ore di punta).
Sedete con la schiena dritta
e respirate tranquillamente. Non preoccupatevi se
vi sentite un po’
annoiati. Non è necessario pensare a nulla di particolare, e
non dovete
meditare sul significato della frase. Cercate di recitare
ritmicamente.
Se
volete, potete recitare più a lungo di cinque minuti. In tempi di
crisi
personale, quando ad esempio un proprio caro è gravemente
malato, i buddisti
talvolta recitano per molte ore di seguito, fermandosi
solo per bere un
bicchier d’acqua o per altre necessità. Potete recitare
tutte le volte che
volete e per il tempo che volete. Ma è importante
essere costanti. La
disciplina di recitare mattina e sera porta un nuovo
fresco ritmo all’esistenza
che, di per sé, ha un effetto salutare.
Una
crescente speranza, il miglioramento di una relazione, un
maggiore senso di
motivazione – questi sono tra i molti benefici
spirituali ed emotivi che
vengono sperimentati dalle persone che
iniziano a praticare il Buddismo di
Nichiren. Inoltre i principianti
vengono spesso incoraggiati a recitare per
degli scopi specifici e a
concentrarsi sul raggiungimento di un obiettivo chiaro
e concreto. Per
esempio, se siete un rappresentante, forse potreste recitare
per
raggiungere o addirittura superare i vostri obiettivi di vendita. Se siete
un musicista, potreste voler recitare per padroneggiare un brano
particolarmente impegnativo. Questi sono obiettivi molto specifici. Su
un piano
più generale, può darsi che vogliate scrivere poesie o
commedie ma che per
vivere siate obbligati a fare un lavoro del tutto
estraneo alle vostre
aspirazioni. In questo caso, il vostro scopo potrebbe
essere quello di riuscire
a fare dei piccoli passi costanti per realizzare le
vostre ambizioni artistiche
utilizzando il vostro tempo libero. Grazie
all’ottenimento di benefici
tangibili tramite la recitazione, i buddisti
principianti troveranno ben presto
che il loro intero quadro di
riferimento è cambiato, e i loro sogni impossibili
sono diventati obiettivi
del tutto reali.
Col
crescere dell’esperienza i principianti non solo riescono a
risolvere i loro
problemi di base ma vanno anche incontro a profondi
cambiamenti. Ecco un breve
elenco dei molti risultati che potete
aspettarvi se proseguirete la vostra
pratica buddista:
Saggezza:
la capacità di trarre il massimo valore dalle proprie
conoscenze.
Comprensione dell’eternità della
vita: praticando e osservando il
funzionamento della legge di
causa ed effetto, si comincia a vedere la
vita come una serie di cause e di
effetti che dal passato si estendono
verso il futuro, piuttosto che come un
qualcosa di limitato al momento
presente.
Perseveranza e tolleranza:
la capacità di sfidare le circostanze e di
coltivare la pazienza e la forza
vitale necessarie per affrontare
positivamente gli ostacoli che si incontrano.
Serenità:
la calma di fronte al convulso dinamismo della vita.
Compassione:
un sentimento crescente di compassione e la
capacità di provare empatia per gli
altri.
Illuminazione:
uno stato permeato di saggezza, in cui tutte le azioni
riflettono la propria
natura buddica di fondo, uno stato di perfetta libertà,
purificato dalle
illusioni e splendente di compassione.
Roma
non è stata costruita in un giorno. Ed è semplicemente
impossibile risolvere
tutti i vostri problemi la prima volta che recitate. Il
karma accumulato nel
corso di (almeno) una vita, come la ruggine, deve
essere accuratamente
raschiato via, giorno dopo giorno. Ma è raro che
chi recita costantemente e con
una certa sincerità non sperimenti
qualche beneficio o segno tangibile – un
passo avanti al lavoro, la
telefonata di un amico di cui avevamo perso le
tracce che arriva al
momento opportuno, un guadagno inatteso, o semplicemente
il fatto che
siamo più sorridenti e di conseguenza gli altri ci considerano in
modo
diverso da prima. Ogni beneficio che otteniamo grazie alla recitazione è
un incoraggiamento a continuare. E nel momento in cui iniziamo a
vedere la
prova concreta del potere della nostra pratica buddista,
sentiamo il naturale
desiderio di condividere con gli altri le nostre
esperienze. Questa
condivisione è un’altra chiave per sviluppare il
nostro potenziale interiore
per l’illuminazione, o la Buddità. Alla fine ci
ritroveremo a recitare con
entusiasmo per la felicità degli amici, dei
familiari e dei colleghi di lavoro.
Perché un aspetto integrante del
processo verso l’illuminazione è la
comprensione che l’io individuale è
connesso a tutte le altre persone e che la
nostra felicità è quindi collegata
alla felicità generale della società in cui
viviamo.
Come scrisse il poeta John Donne:
«Nessun uomo è un’isola».
Nella profondità della vita siamo tutti parte della
stessa forza vitale
cosmica. Perciò, è essenziale che pratichiamo tanto per la
nostra felicità
quanto per quella degli altri. Come vedremo nel prossimo
capitolo, il
Buddismo insegna che la nostra vita è inestricabilmente legata a
quella
dei nostri amici, al nostro ambiente fisico, al nostro pianeta e
addirittura
all’intero universo.
III — L’IO E L’AMBIENTE

«
Se vuoi cambiare la società, cambia prima
te
stesso
».
Thomas Carlyle

«
La rivoluzione umana di un singolo individuo
contribuirà al
cambiamento [...] nel destino di tutta l’umanità
».
Daisaku Ikeda
L’IO E L’AMBIENTE

In
una famosa scena del film Cantando sotto
la pioggia, Gene
Kelly danza in una strada cittadina sotto una pioggia
scrosciante,
piroettando atleticamente attorno ai lampioni, allegro e felice
nonostante
la pioggia. Ormai da decenni questo film è amato da generazioni di
spettatori, e non solo perché mette allegria. Esso sottolinea anche
un’importante verità spesso ignorata nella realtà della vita quotidiana:
per
quanto il mondo esterno possa essere soleggiato o nuvoloso, quel
che realmente
conta è come ci sentiamo interiormente.
Una
persona illuminata può affrontare un uragano di ostacoli con
saggezza ed
equilibrio. Quest’immagine di soddisfazione interiore nel
mezzo del tumulto
esterno è perfetta per introdurre il concetto buddista
di inseparabilità di
individuo e ambiente.
Essenzialmente,
noi tendiamo a considerare la nostra pelle come il
confine tra il nostro corpo
e il mondo esterno. Vediamo l’interazione tra
questi due domini limitata
all’ingestione, alla respirazione e agli
occasionali stimoli della realtà. Ma
la filosofia buddista vede la nostra
vita come una parte inscindibile del
nostro ambiente fisico, che in
profondità è unita alla vita delle altre persone
e alla grande forza vitale
cosmica dell’universo.
Usiamo
un semplice esempio per mostrare la validità di questa
grandiosa idea. Sappiamo
che la forza gravitazionale della terra ha
effetto su qualunque cosa. Ora
supponiamo di lanciare in aria una palla.
La traiettoria della palla è
influenzata da vari meccanismi operanti
all’interno di essa (come per esempio
la densità della gomma), dalla
forza delle vostre braccia e dall’attrazione
gravitazionale della terra. Ma
ciò che probabilmente è meno ovvio è che il moto
della palla è anche
sottilmente influenzato dagli altri corpi celesti
dell’universo. Non solo la
terra ma anche la luna, il sole e le stelle stanno
agendo sulla palla.
Questa remota influenza dei corpi celesti è come un
messaggio dai
lontani confini del cosmo. Che un corpo celeste distante anni
luce dalla
terra stia influenzando la vita sul nostro pianeta è sorprendente,
ma è
proprio vero. Per fare un esempio più vicino a noi (ad appena
centoquarantanove milioni di chilometri di distanza): se la temperatura
superficiale della nostra stella, il sole, dovesse aumentare anche di pochi
gradi, qui sulla terra gli effetti sarebbero catastrofici, dallo scioglimento
dei ghiacci polari che cambierebbe il clima del pianeta ai letali raggi
ultravioletti che costringerebbero gli esseri umani a evitare la benché
minima
esposizione alla luce solare.
In
tutto il cosiddetto mondo esterno sono intrecciati innumerevoli
fili invisibili
che legano l’individuo al macrocosmo. La percentuale di
ioni nell’aria e
persino il colore di una stanza possono influenzare
sottilmente le nostre
emozioni. Il nostro comportamento esercita un
innegabile impatto sulle persone
attorno a noi. E la società umana nel
suo complesso ha un incontestabile
impatto sull’ambiente naturale. Non
siamo separati dal mondo in cui viviamo,
bensì siamo coinvolti in una
dinamica interazione con esso. Il Buddismo va
addirittura oltre questi
concetti. Secondo la filosofia della vita esposta da
Shakyamuni,
delucidata da T’ien-t’ai e perfezionata da Nichiren nel Giappone
del
XIII secolo, il nostro ambiente e le nostre circostanze rispecchiano in
effetti la nostra vita interiore. Questi tre pensatori compresero che il
mondo
non può essere separato dalla percezione che ne abbiamo. In
questo hanno
anticipato il pensiero dei fisici del XX secolo come Albert
Einstein, Niels
Bohr e Werner Heisenberg. Ciò che voi siete determina
in gran parte la qualità
del vostro ambiente. Questo concetto non è molto
facile da accettare, perché va
contro il nostro radicato pregiudizio di
attribuire alle circostanze la colpa
dei nostri problemi. Ed è ancor più
difficile da mettere in pratica, dato che
in Occidente siamo riusciti a
dominare in larga misura il nostro ambiente e a
raggiungere un alto
livello di benessere materiale proprio considerando
l’individuo e la
natura essenzialmente separati.
Nel
Buddismo, però, la non dualità dell’individuo e del suo
ambiente costituisce
una visione onnicomprensiva della realtà. Come
scrisse Nichiren in una lettera
a un suo seguace: «L’insegnamento
essenziale dei sutra predicati prima del
Sutra del Loto è che tutti i
fenomeni sorgono dalla mente. Per spiegare, essi
dicono che la mente è
come la terra, mentre tutti i fenomeni sono come l’erba e
gli alberi. Ma
il Sutra del Loto è diverso. Esso insegna che la mente è la
terra, e che la
terra è l’erba e gli alberi».
Ciò
non significa che la vita è un sogno. Piuttosto, suggerisce che
non c’è nessuna
fondamentale differenza tra la mente e la materia.
Se
applichiamo queste nozioni al campo delle relazioni umane,
emergono notevoli
intuizioni. Possiamo cominciare a comprendere che
le persone che si trovano nel
nostro ambiente immediato tendono a
rispecchiare la nostra vita interiore. In
generale, se una persona incontra
l’ostilità degli altri spesso è perché lei
stessa, in un modo o nell’altro, sta
provocando quella reazione. Analogamente,
se quella persona diventa
più amichevole, gli altri cominceranno a reagire
diversamente. Una
persona insolitamente gentile e di buon cuore tenderà a
credere che
anche gli altri siano così. A una persona posseduta dalla sete di
potere,
anche l’azione più altruista e benevola sembrerà una mossa astuta per
acquistare potere. Quando amiamo gli altri con la stessa profonda
reverenza del
Budda, la loro natura buddica ci proteggerà. D’altro canto,
se sminuiamo gli
altri o li consideriamo con disprezzo, saremo
disprezzati a nostra volta, come
se guardassimo la nostra immagine
riflessa in uno specchio. Per quanto talvolta
sia difficile pensarlo, in
molte situazioni un sorriso e qualche parola gentile
possono fare
miracoli per superare l’ostilità. Ci sono persone che non appena
entrano
in una stanza alleggeriscono immediatamente l’ambiente e alzano il
morale di tutti i presenti. Questi sono tutti esempi di quello che il
Buddismo
chiama il principio di inseparabilità della vita e del suo
ambiente.
LA NON DUALITÀ DELLA VITA
E DEL SUO AMBIENTE

Il
principio di non dualità della vita (o dell’individuo) e del suo
ambiente
merita di essere esaminato estesamente. Il termine giapponese
che indica questo
principio è esho funi. La prima
parola è una
contrazione di eho
(ambiente) e shoho (l’individuo o
l’io). La seconda
parola, funi,
significa «due ma non due» e potrebbe essere tradotta con il
termine
«inseparabilità». La vita e il suo ambiente o, in altre parole, gli
esseri
senzienti e le cose insenzienti, sono di norma visti come entità
separate
(«due»). Questo è il modo in cui ci appaiono e così noi li
consideriamo. Ma su
un altro livello sono «non due». Le scienze naturali
hanno rivelato la
complessa interazione tra gli organismi viventi e i loro
ambienti. La catena di
causa ed effetto in cui è inserito ogni singolo
fenomeno – una goccia di pioggia
che cade sulla guancia – può essere
sbalorditivamente intricata. Il clima,
l’ecologia e il cervello sono esempi
di sistemi complessi che non possono
essere pienamente compresi dalle
analisi matematiche o con le simulazioni. Come
mai la scienza non
riesce a spiegare adeguatamente questi fenomeni naturali? Un
motivo è
che, in tali fenomeni, eventi piccolissimi e impercettibili possono
produrre grandi cambiamenti – il cosiddetto effetto farfalla.
L’effetto
farfalla prende il nome dalla seguente ipotesi: supponiamo
che una farfalla
nella foresta pluviale amazzonica batta le ali. Questa
minima azione diventa il
punto di partenza per una catena di eventi
apparentemente infinita – una foglia
che cade da un ramo, uno stagno
che si increspa, un’onda che fa alzare il vento
– finendo per causare un
cambiamento climatico in qualche lontanissimo angolo
della terra. Ma
se il giorno dopo la stessa farfalla batte le ali, ciò potrebbe
non avere il
benché minimo effetto sul clima. Questa incertezza è uno degli
aspetti
caratteristici della «scienza della complessità», che in anni recenti è
nata
in contrapposizione alla scienza analitica.
Con
un po’ di immaginazione l’effetto farfalla può essere esteso
anche alla sfera
interpersonale. Un sopracciglio inarcato o un rapido
sguardo durante una
riunione d’affari possono avere, se osservati dalla
persona sbagliata,
conseguenze di vasta portata sulla propria carriera.
Un minimo gesto compiuto
in presenza della persona amata – forse
anche solo un sospiro o un quasi
impercettibile cenno di impazienza –
possono cambiare il corso di una
relazione.
Man
mano che le tecniche e le misurazioni sempre più sofisticate
della scienza
moderna rivelano i sottili legami tra eventi naturali
apparentemente disparati,
e di conseguenza l’interconnessione di tutte le
cose, la nostra visione del
mondo sta cambiando. In realtà, l’antico
concetto buddista dell’io e
dell’ambiente come «due ma non due» sta
gradualmente venendo accettato nel
mondo occidentale. Come disse il
defunto storico inglese Arnold Toynbee in un
dialogo che ebbe con
Daisaku Ikeda: «Io credo che la distinzione mentale tra un
essere
vivente e il suo ambiente non abbia alcuna corrispondenza nella realtà
[...] Il principio di esho funi mi
sembra una spiegazione concisa di ciò
che io suppongo sia la vera realtà. Il
tentativo egoistico di un essere
vivente di organizzare l’universo attorno a sé
è la condizione e
l’espressione della sua vitalità [...] L’altruismo, o
l’amore, è un tentativo
di rovesciare la naturale tendenza degli esseri viventi
di organizzare
l’universo attorno a se stessi. L’amore è la controtendenza
dell’essere
vivente che si dedica all’universo invece di sfruttarlo».
Nessuno
esiste in isolamento. Siamo legati ai genitori che ci hanno
concepito e ci
hanno allevato, agli insegnanti che ci hanno istruito e agli
amici che ci hanno
incoraggiato. Siamo legati anche a quelle persone
che non abbiamo mai
incontrato ma che producono e distribuiscono il
nostro cibo, confezionano i
nostri vestiti, scrivono i libri che danno
forma al nostro pensiero – di fatto,
siamo legati a tutti coloro i cui sforzi
aiutano a tenere insieme il tessuto
sociale. Non c’è nessuno nel mondo
che non sia legato a noi. Il commediografo
John Guare ha
drammatizzato questo concetto nella sua pièce teatrale Sei gradi di
separazione
(poi trasposta in un film), in cui un personaggio teorizza
che
ogni essere umano può essere collegato a ogni altro abitante del
pianeta
tramite una serie di relazioni che non implicano più di altre sei
persone. In
una prospettiva più profonda, ognuno di noi è legato a tutti
gli altri in virtù
del fatto che tutti partecipiamo della stessa realtà
fondamentale della vita,
la natura buddica.
Benché
il mondo interiore dell’io e il mondo esterno della realtà
sembrino distinti,
in definitiva essi sono non due, ma uno – non solo
sono interconnessi o
reciprocamente dipendenti, ma sono inseparabili
l’uno dall’altro. Nel Buddismo
definiamo questa inseparabilità «il vero
aspetto di tutti i fenomeni», cioè la
verità fondamentale o la natura
buddica. Nichiren la chiamò anche Legge mistica
e la espresse come
Nam myoho renge kyo. La relazione tra l’io e la verità
fondamentale è
chiamata «mistica» perché è al di là della nostra comprensione
intellettuale. Ma ciò non significa che non possiamo riflettere su di essa,
discuterla
e verificarne il valore nella nostra vita. Inoltre, per quanto sia
mistica, non
dobbiamo perdere di vista il fatto che essa dà forma a una
visione dell’umanità
e dell’universo che sta venendo sempre più
convalidata dalla scienza.
LA LIBERTÀ DALLE
SOFFERENZE DI NASCITA E
MORTE

Leggete
questo brano tratto da una delle più famose lettere di
Nichiren, intitolata Il conseguimento della Buddità in questa
esistenza,
scritta nel 1255, nel periodo corrispondente al medioevo
occidentale, e
vedete se non vi colpisce per la sua modernità: «Se vuoi
liberarti dalle
sofferenze di nascita e morte che sopporti dall’eternità e
ottenere
sicuramente la suprema illuminazione in questa esistenza, devi
cogliere
la mistica verità che è originariamente inerente a tutti gli esseri
viventi.
Questa verità è Myoho renge kyo. Di conseguenza recitare Myoho renge
kyo[11] ti permetterà di cogliere questa mistica verità innata in
tutti gli
esseri viventi. Il Sutra del Loto è il re dei sutra, autentico e
corretto sia
nella lettera sia nella teoria. I suoi caratteri sono il vero
aspetto di tutti i
fenomeni e questo vero aspetto è la Legge mistica (myoho). È
chiamata
Legge mistica perché rivela la relazione di mutua inclusione tra un
singolo istante di vita e tutti i fenomeni. È questa la ragione per cui
questo
sutra è la saggezza di tutti i Budda.
«“Mutua
inclusione tra un singolo istante di vita e tutti i fenomeni”
significa che la
vita in ogni singolo istante abbraccia il corpo e la mente,
l’io e l’ambiente
di tutti gli esseri senzienti dei Dieci mondi e anche di
tutti gli esseri
insenzienti dei tremila regni: le piante, il cielo e la terra,
fino al più
piccolo granello di polvere. La vita in ogni singolo istante
permea l’intero
regno dei fenomeni e si manifesta in ognuno di essi.
Risvegliarsi a questa
verità è di per sé la relazione di mutua inclusione
tra un singolo istante di
vita e tutti i fenomeni. Tuttavia, se reciti e credi
in Myoho renge kyo, ma
pensi che la Legge sia al di fuori di te, stai
abbracciando non la Legge
mistica ma un insegnamento inferiore. [...]
Perciò, quando invochi myoho e reciti renge devi sforzarti di credere
profondamente che Myoho renge kyo è
la tua vita stessa.»[12]
Per
Nichiren, «liberarsi dalle sofferenze di nascita e morte»
significa trascendere
la legge del decadimento e del declino, definita
prima come la teoria della non
sostanzialità. Nulla dura per sempre. La
solidità, la sostanzialità della vita,
è un’illusione. La fisica delle
particelle ci insegna che a livello subatomico
non possiamo parlare di
materia stabile o solida ma solo di modelli o onde di
energia in costante
cambiamento. Come ci dicono i fisici, la materia è composta
non
semplicemente di atomi, con i loro elettroni, protoni e neutroni
apparentemente distinti, ma di unità ancora più piccole e più misteriose
di
materia ed energia in movimento chiamate leptoni, quark, bosoni,
forza debole e
forza oscura. Il mondo della meccanica quantistica è
talmente instabile e
sfuggente che, per quanto si sforzino, i fisici trovano
difficile definire con
precisione i componenti elementari primari. Per
farlo ci vorrebbe qualche punto
di riferimento fisso, e questo è proprio
ciò che la realtà, a livello
subatomico, si rifiuta di fornire. Il filosofo
della scienza Jacob Bronowski
scrisse in L’ascesa dell’uomo: «Lo
scherzo tra i professori era [...] che lunedì, mercoledì e venerdì
l’elettrone
si sarebbe comportato come una particella, e martedì, giovedì
e sabato si
sarebbe comportato come un’onda. Come si potevano
armonizzare questi due
aspetti, presi dal mondo macroscopico e
compressi in un’unica entità, in questo
mondo lillipuziano da Viaggi di
Gulliver
dell’interno dell’atomo?»
Ma
torniamo ora alle parole di Nichiren: «devi sforzarti di credere
profondamente
che Myoho renge kyo è la tua vita stessa». «La tua vita
stessa» potrebbe essere
interpretata come la vera sostanza di cui siamo
fatti – le «onde» tra le
particelle, la vibrazione che caratterizza le
particelle, l’energia negli
interstizi tra di esse, le particelle stesse, così
come sono. Nichiren così, oltre
che fornirci una meravigliosa intuizione
su ciò a cui pensare mentre recitiamo,
ci sta dicendo che il suono che
emettiamo quando recitiamo Nam myoho renge kyo
è, in verità, il ritmo
dell’universo. Quando recitiamo stiamo vibrando sulla
stessa tonalità
dell’universo, quell’armonia di fondo che è parte di tutte le
cose.
Come
abbiamo visto il Buddismo, come la fisica, insegna che ogni
cosa è in uno stato
di costante flusso. Ma lo scopo del Buddismo è molto
diverso da quello della
fisica. Più che tentare di chiarire la natura del
mondo fisico (cosa che fa
incidentalmente), il Buddismo cerca di
illuminare la condizione umana. Per
Nichiren «libertà» non significa
una fuga dal regno dei fenomeni mutevoli ma la
scoperta, al suo interno,
di un punto di riferimento assoluto. Di conseguenza
possiamo
manifestare la saggezza buddica che ci permette di percepire la vera
natura di tutti i fenomeni, inclusa la nostra relazione con essi,
liberandoci
in questo modo dai vincoli del karma.
Poiché
l’individuo e l’ambiente sono fondamentalmente una cosa
sola, qualunque sia lo
stato di vita che stiamo manifestando esso si
manifesterà simultaneamente anche
nell’ambiente. Questo è ciò che
Nichiren intende quando scrive, in un’altra
occasione: «L’ambiente è
come l’ombra, e la vita è come il corpo». Se il corpo
vacilla, anche
l’ambiente vacilla. Se il corpo mostra rispetto, l’ambiente di
rimando
mostrerà rispetto. Una persona le cui tendenze vitali di base sono
l’odio
e l’ostilità susciterà angoscia e infelicità nel proprio ambiente, mentre
chi ha come stato vitale di base la Buddità godrà di protezione e di
sostegno
dal mondo esterno. Quando Nichiren affermò che non
dovremmo pensare che la
Legge sia fuori di noi, voleva dire di non
cercare nell’ambiente né la fonte né
la risoluzione delle nostre
sofferenze. Paragonarci continuamente agli altri,
sia in positivo sia in
negativo, pensare che gli altri siano responsabili della
nostra felicità, o
che non possiamo essere felici fin quando qualcun altro non
cambia, o
che il nostro valore dipenda dall’ammontare del nostro conto in
banca,
sono tutti esempi di ciò che si intende con «cercare la Legge fuori di
noi». Così come la filosofia trascendentale americana di Emerson e
Thoureau, il
pensiero buddista è fortemente centrato sull’autonomia
individuale.

[11] Qui Nichiren sceglie di omettere il carattere Nam, che significa «devozione a», in favore del
titolo esatto del Sutra del Loto, Myoho renge kyo. Comunque, la lettera si conclude con la frase
Nam myoho renge kyo ripetuta due volte, a indicare che questa è l’invocazione corretta [Nota
degli autori].
[12] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. I, pag. 3
IL POTERE CHE DERIVA
DALL’ASSUMERSI LA
RESPONSABILITÀ

Se
il nostro ambiente rispecchia davvero la nostra vita (e la
rispecchia!),
dobbiamo allora dedurne che ogni cosa è colpa nostra? Ma
questo non significa
forse incolpare la vittima?
Il
fatto è, come riconosce il Buddismo, che i problemi sono
naturali. Essere vivi
vuol dire trovarsi di fronte a dei problemi – il
problema di sfamarci e i morsi
della fame quando non possiamo farlo, il
problema di vivere al sicuro in una
società violenta, il problema di far
crescere i figli felici e realizzati. E
tantissimi altri. Questi problemi non
sono delle nostre colpe, fanno
semplicemente parte della vita.
Anche
se non siamo responsabili del comportamento degli altri –
che è una loro
responsabilità – dobbiamo assumerci la responsabilità del
nostro comportamento.
Questo implica anche assumersi la
responsabilità di trovarsi nelle circostanze
in cui ci troviamo, per quanto
difficili e fortuite esse possano sembrare.
Sulle
prime può non essere chiaro quali cause ci hanno condotto a
essere poveri o
duri d’orecchio o incredibilmente timidi. Tuttavia il
Buddismo spiega che,
dalla prospettiva dell’eternità e alla luce delle
miriadi di azioni positive e
negative che abbiamo compiuto, in realtà noi
abbiamo creato le cause per essere
quello che siamo in questa vita. Le
nostre circostanze sono in tutto e per
tutto il risultato delle nostre azioni
compiute nell’arco di molte vite. Tutti
noi in definitiva siamo
responsabili di ogni aspetto della nostra vita.
Siamo
davvero gli artefici della nostra esistenza, e il nostro
ambiente riflette
precisamente ciò che abbiamo costruito. Il Buddismo
comporta un totale senso di
responsabilità ma offre all’individuo il
potere di attuare un cambiamento. Se
le nostre circostanze ci rendono
infelici, abbiamo la capacità di fare qualcosa
per cambiarle.
Oggi
nella società americana l’idea di assumersi la responsabilità
della propria
vita è molto in voga, forse perché per molto tempo è stata
ignorata, ma il
genere di responsabilità di cui stiamo parlando qui è, in
effetti, piuttosto
estremo. La visione buddista della vita ci chiede di
accettare il cento per
cento della responsabilità della nostra vita.
Può
essere difficile concepire di essere responsabili di qualcosa
come il fatto di
avere un datore di lavoro terribile. Ma non siete voi che
avete scelto la
vostra professione e vi siete fatti assumere dalla persona
per cui lavorate?
Certo, non siete voi che avete reso terribile il vostro
capo, e non è colpa
vostra se lui è cattivo. Ma siete però responsabili di
essere alle sue
dipendenze e di restarvi. Fra l’altro, in moltissimi casi i
datori di lavoro,
per quanto possano essere esigenti e arroganti,
solitamente tra gli impiegati
hanno un certo numero di favoriti, che
eseguono i loro ordini e vanno d’accordo
con loro abbastanza
facilmente. Perché non siete uno di questi favoriti? Avete
scelto di non
esserlo, per qualche nobile ideale o per altri motivi? Qualunque
sia la
ragione, è stata una vostra scelta. In realtà, più esaminiamo
attentamente
una qualunque situazione della vita, usando l’occhio buddista
della
chiarezza e della saggezza, e più comprenderemo che siamo davvero
responsabili di tutte le nostre scelte; questo vale, nel bene e nel male, per
tutte le nostre esperienze nell’ambiente.
Tuttavia,
potreste ancora pensare che questa discussione è una vera
e propria assurdità.
Come può un individuo essere ritenuto responsabile
per, diciamo, un terremoto o
un incidente aereo?
Anche
se raramente, un paradigma di pensiero di questo genere si
può trovare anche al
di fuori del mondo buddista. Prendiamo per
esempio Rain Man, il film che ha vinto vari premi Oscar. In quel film, se
vi ricordate, il personaggio interpretato da Dustin Hoffman, lo
strascicante e
borbottante Raymond (il titolo del film, Rain
Man, deriva
dal fatto che suo fratello, quand’erano piccoli, non riusciva a
pronunciarne correttamente il nome) ha una grave forma di autismo. Ha
trascorso
la maggior parte della sua vita in un istituto psichiatrico, ma ha
uno strano
talento per i calcoli matematici. Quando il fratello minore
Charlie,
interpretato da Tom Cruise, cerca di portarlo in California,
sorgono delle
complicazioni. A un certo punto, sono in un aeroporto e
Charlie sta cercando di
scegliere un volo per Los Angeles. Dopo che ne
ha prenotato uno, di una
compagnia aerea americana, Raymond fa delle
difficoltà. Perché? Perché negli
ultimi decenni le compagnie aeree
americane avevano avuto diversi gravi
incidenti aerei. Frustrato, Charlie
suggerisce allora la Continental Airlines,
ma di nuovo Raymond fruga
nella sua memoria e sputa una serie di numeri
relativi ai passeggeri feriti
o uccisi nei disastri aerei della Continental.
Alla fine Charlie si rassegna
e chiede a Raymond con quale compagnia aerea
vuole volare.
«La
Qantas» è la risposta di Raymond.
La
Qantas, la compagnia di bandiera australiana, non era mai stata
coinvolta in
disastri aerei. Ovviamente, la Qantas non effettua voli
interni negli Stati
Uniti, perciò non costituiva un’opzione possibile, e
Charlie finisce per
noleggiare una macchina.
Dietro
la comica assurdità della scena si nasconde un punto
importante: quando volate,
dovete assumervi la responsabilità della
possibilità, quantunque minima, che
l’aereo cada. Chiunque vola su un
aereo di linea si assume un certo rischio. È
un rischio piccolo,
statisticamente molto più piccolo di quello che si corre
andando in auto.
Ma il rischio c’è. Il Buddismo non vi biasima se siete a bordo
di un
aereo quando cade, ma pretende che ve ne assumiate la responsabilità.
Dopo tutto, avete scelto voi di salire su quell’aereo, o comunque di
volare.
Sicuramente
nessuno può essere incolpato se si trova coinvolto in
un terremoto. Ma
ragionevolmente gli si potrebbe chiedere: eri a
conoscenza della storia sismica
del luogo in cui vivevi o che stavi
visitando? Le persone che vivono presso la
faglia di Sant’Andrea (gli
abitanti di Los Angeles e di San Francisco, ad
esempio) dovrebbero
essere consapevoli di avere una certa responsabilità per il
fatto di vivere
in una delle zone notoriamente più instabili del mondo. Allo
stesso
modo, coloro che costruiscono le loro case in una piana alluvionale
devono vivere con il rischio di essere sommersi durante la stagione delle
piogge.
Nella
vita non esiste il caso, secondo il Buddismo, e non ci sono
coincidenze. C’è
solo la ferrea legge di causa ed effetto o, per essere più
precisi, Nam myoho
renge kyo. Quando adottate la visione buddista e
interiorizzate profondamente
questa legge nella vostra vita, cominciate
ad acquisire un enorme potere su voi
stessi e sulle vostre relazioni con il
mondo esterno.
L’OGGETTO PER CONSEGUIRE
LA BUDDITÀ

A
questo punto è ragionevole la domanda: teoricamente tutto
questo non fa una
piega, ma come è possibile applicarlo nella vita
quotidiana? Certamente non
basta limitarsi a vedere il mondo in maniera
diversa di tanto in tanto, né
decidere intellettualmente con distacco che
l’inseparabilità di individuo e
ambiente è il corretto modo di pensare.
Nel Buddismo di cui stiamo parlando
limitarsi a «pensare» senza portare
avanti una pratica diligente diventa, alla
fin fine, puro idealismo che non
può certo cambiare la nostra vita.
Fortunatamente, anche se la teoria che
sta alla base della recitazione di Nam
myoho renge kyo è profonda, la
pratica di per sé è facile. Che capiate o no il
significato di Nam myoho
renge kyo, o della «mutua compenetrazione tra un
singolo istante di vita
e tutti i fenomeni», o di qualunque altro termine che
trovate in questo
libro, recitando quest’unica frase potete egualmente ricevere
grandi
benefici, proprio come potete accendere il vostro computer premendo un
bottone, anche se forse non avete la più pallida idea di come funzioni.
Lo
scopo della pratica buddista non è «capire» la verità come se
fosse un oggetto
esterno a noi ma diventare una sola cosa con la verità.
Nella terminologia
specialistica buddista, ciò è chiamato fusione di
realtà (oggetto) e saggezza
(soggetto). Come abbiamo già accennato, la
meditazione buddista tradizionale
mira a trascendere la separazione tra
soggetto e oggetto e a realizzare la
perfetta unità dell’io con la realtà
esterna. Riguardo a questo principio
Nichiren scrisse: «Non intendono
forse dire i sutra e i commentari che la via
alla Buddità si trova nei due
elementi di realtà e saggezza? Realtà significa
la vera natura di tutti i
fenomeni, e saggezza significa l’illuminazione o la
manifestazione di
questa vera natura. Perciò quando il letto del fiume della
realtà è
infinitamente ampio e profondo, l’acqua della saggezza fluirà
incessantemente. Quando realtà e saggezza si fondono, si consegue la
Buddità nella
propria forma presente».
Il
Budda realizza la perfetta identità tra sé e la Legge, o la realtà
fondamentale. Questo suona elementare, specialmente se si crede,
intellettualmente, nell’essenziale unità tra gli esseri umani e l’universo
che
abbiamo descritto prima. In fin dei conti, tutti noi siamo Budda,
giusto? Ma il
fatto che la natura buddica sia innata, non significa di per
sé che siamo
concretamente dei Budda. Ci risvegliamo a questa natura
buddica solo quando la
nostra saggezza soggettiva si fonde
completamente con la realtà oggettiva.
Perché questo sia possibile a
tutti, Nichiren ha materializzato la sua
illuminazione in un oggetto di
culto chiamato Gohonzon, un rotolo di carta di
riso con le parole Nam
myoho renge kyo scritte al centro dall’alto in basso in
caratteri netti.
Per
noi oggi il Gohonzon corrisponde all’oggetto, mentre la nostra
pratica davanti
al Gohonzon corrisponde al soggetto, o alla saggezza
soggettiva. Quando
recitiamo Nam myoho renge kyo davanti al
Gohonzon, la dicotomia tra soggetto e
oggetto si dissolve,
permettendoci di fonderci con il macrocosmo. In quel
momento
manifestiamo lo stato di Buddità.
Come
si compie questa fusione? Il termine nam
di Nam myoho
renge kyo significa «devozione», cioè la nostra pratica di
recitare
davanti al Gohonzon. Attraverso la nostra pratica quotidiana
dedichiamo
la nostra vita a, o fondiamo la nostra vita con, l’immutabile realtà
fondamentale materializzata nel Gohonzon. Come risultato dei nostri
sforzi
facciamo emergere simultaneamente una saggezza infinita che
funziona in accordo
con le nostre circostanze mutevoli. Tramite questa
saggezza noi esseri umani
possiamo sperimentare una gioia e una libertà
illimitate nonostante le
incertezze della nostra vita quotidiana.
Dopo
che avete recitato, per esempio, le persone possono apparirvi
sotto una nuova
luce. Le relazioni complicate sembrano più chiare, forse
per la prima volta.
Quando andate in ufficio, i bizantinismi e gli intrighi
di corridoio vengono in
superficie. Ad esempio, potete rendervi conto
all’improvviso che il vostro
capo, dietro tutte le sue prepotenze e i suoi
comportamenti arbitrari, in
realtà è una persona insicura che desidera
essere benvoluto. Anche in famiglia,
situazioni stagnanti che duravano
da lungo tempo vengono riconsiderate, magari
intuitivamente, sotto una
nuova prospettiva. Tutte queste nuove percezioni
originano dal vedere il
mondo con l’occhio della saggezza. Il divario che
comunemente esiste
tra la realtà oggettiva e la propria saggezza soggettiva è
stato colmato.
Per la maggior parte di noi, i problemi della vita nascono dalla
grande
discrepanza tra la realtà e la valutazione soggettiva che ne diamo. Ora,
forse per la prima volta da lungo tempo, possiamo usare questa
saggezza, questa
incredibile visione d’insieme di situazioni complesse,
per compiere le azioni
compassionevoli necessarie per risolvere i nostri
problemi.
LA PRATICA PER SÉ E PER GLI
ALTRI

Dato
che la nostra vita è inseparabile dalla vita dell’universo, e
dato che noi come
individui siamo connessi a ogni altro individuo sulla
terra, allora dobbiamo
anche assumerci la responsabilità della felicità
dei nostri congiunti e dei
nostri amici. Come dice il proverbio, se la casa
dei vostri vicini sta
bruciando, come potete essere davvero al sicuro?
Questa consapevolezza è
all’origine di quella che il Buddismo chiama
«la via del bodhisattva». Un
bodhisattva è un individuo che si sforza di
conseguire l’illuminazione
impegnandosi contemporaneamente ad
aiutare gli altri a raggiungere la stessa
meta. In termini pratici, gli sforzi
fatti per il bene degli altri sono di
fatto più utili a cambiare il proprio
karma degli sforzi fatti unicamente per
il proprio miglioramento. La
pratica per gli altri può includere la
condivisione della propria
esperienza, il sostegno morale ed emotivo,
l’incoraggiamento e, in
definitiva, qualunque azione che aiuti gli altri a
praticare il Buddismo.
Tuttavia, il Buddismo è altamente individualistico, e si
basa
principalmente sui propri solitari sforzi nella recitazione. Ma se i
propri
sforzi sono diretti solo verso il miglioramento personale, qualunque
verità raggiunta sarà solo parziale.
Ecco
quindi un paradosso del Buddismo. Se da un lato esso
sostiene che la pratica
primaria per la propria crescita è la pratica
individuale di recitare Nam myoho
renge kyo davanti al Gohonzon,
dall’altro afferma che non è possibile una vera
rivoluzione dell’io se non
ci impegniamo al massimo per il bene degli altri.
Robert Thurman,
scrittore e professore di religione alla Columbia University,
una volta
condusse un intero seminario basato su un semplice precetto riportato
da
Shantideva, un monaco indiano dell’VIII secolo: «Tutta la felicità nel
mondo
deriva dal pensare agli altri; tutte le sofferenze nel mondo
derivano dal
pensare solo a se stessi.» Preoccupandosi dei problemi
degli altri, i propri
problemi rimpiccioliscono, sia in prospettiva, poiché
si capisce che forse i
problemi degli altri sono più gravi dei nostri, sia
nella realtà, perché quando
si smette di essere concentrati sulle proprie
difficoltà esse perdono il
dominio che abitualmente hanno su di noi.
Per
usare un’analogia, una goccia di inchiostro versata in una tazza
d’acqua
colorerà l’acqua interamente. La stessa goccia versata
nell’oceano si
dissolverà. Allo stesso modo, se ci impegniamo a
sostenere gli altri nelle loro
lotte, possiamo sviluppare la nostra naturale
compassione (quella che il
Buddismo chiama la nostra natura di
bodhisattva) e acquistiamo così la saggezza
e la forza vitale per superare
anche i nostri problemi.
La
vita è una continua battaglia tra la propria natura buddica e il
funzionamento
dell’illusione. Quando recitiamo Nam myoho renge kyo
e ci sforziamo per gli
altri, possiamo far emergere la nostra natura
buddica e superare la nostra
natura illusa. Questo principio può essere
applicato anche alla società: se gli
ideali umanistici del Buddismo si
diffondono, la società diventerà più umana in
ogni suo aspetto. Secondo
il principio di non dualità della vita e del suo
ambiente, l’ambiente
riflette sia il positivo sia il negativo. Perciò, dalla
tragedia della guerra
alle costanti minacce all’ecosistema planetario, il vero
cambiamento
duraturo dipende dal far emergere la natura illuminata di
innumerevoli
individui. Stabilire nella nostra vita e nella società la
filosofia
umanistica che il Buddismo propone è una via efficace per portare
pace
e armonia al nostro mondo.
IV — LA FELICITÀ

«
Noi riteniamo che le seguenti verità siano
di
per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati
creati uguali, che
essi sono stati dotati dal loro
creatore di alcuni diritti inalienabili, che
fra questi
sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità
».
Thomas Jefferson
(dalla Dichiarazione di
Indipendenza)

«
La maggior parte delle persone sono felici
pressappoco quanto
decidono di esserlo
».
Abraham Lincoln
LA FELICITÀ

Il
Buddismo insegna che la felicità è lo scopo della vita. Essa non è
però
qualcosa che si possa ottenere senza sforzo. Dal momento che nel
corso della
nostra vita incontriamo continui ostacoli, molti di noi non
realizzano mai
pienamente questo fondamentale fine della vita, se non
per brevi periodi.
Spesso le nostre esperienze felici sono così fuggevoli
che noi ossessivamente
rievochiamo «i bei tempi» e per il resto ci
sentiamo inquieti e insoddisfatti.
«Quand’ero giovane ero felice» è un
ritornello comune (in realtà, quand’eravamo
giovani eravamo goffi e
insicuri, avevamo i brufoli e un mucchio di altri
problemi). Oppure:
«Siamo stati davvero felici durante quella vacanza estiva»
(quando, in
verità, ci siamo annoiati e ci siamo pure scottati al sole). O
anche: «Ero
felice quando stavo con Maria» (benché ci fossero parecchie ragioni
perché voi desideraste lasciare Maria o perché Maria desiderasse
lasciare voi).
E così via, all’infinito. È successo qualcosa, le cose sono
cambiate, e con il
cambiamento se n’è andata la nostra felicità
Tramite
una pratica buddista corretta si possono creare le cause
fondamentali che ci
portano a una felicità indistruttibile. Gli
insegnamenti del Buddismo spiegano
il «segreto» che rende possibile
godere la vita pienamente, non cercando
incessantemente la felicità ma
raggiungendola e mantenendola qui e ora, così
come siamo. Ma per
prima cosa è necessario definire cos’è la felicità, in modo
da sapere
esattamente cosa stiamo cercando.
Fin
dai tempi di Jefferson, gli americani credono fermamente nel
loro diritto alla
«ricerca della felicità». In rapporto alle altre cose che le
persone sperano di
ottenere – la salute, la ricchezza, il successo, lo status
sociale – la
felicità per la maggior parte di noi viene al primo posto.
Insieme alla vita e
alla libertà, senza le quali diventerebbe un fattore in
gran parte irrilevante,
la felicità è il vero fondamento dello stile di vita
americano.
Tuttavia,
vale la pena sottolineare che secondo molti studiosi la
famosa ricerca della
felicità di Jefferson si riferiva alla libera impresa,
cioè alla facoltà degli individui
di perseguire il proprio benessere
economico senza restrizioni da parte di
paesi stranieri e senza il peso di
imposte gravose. Faceva parte della nuova
visione del mondo di quei
tempi l’idea che se le persone fossero state libere
di perseguire le loro
ambizioni economiche, cosa che fino ad allora era stata
negata dai
colonizzatori europei, avrebbero conseguentemente raggiunto la
felicità.
Oggi, in un’epoca di ricchezza e di benessere materiale
inimmaginabili
al tempo di Jefferson, sappiamo che questa definizione è
incompleta. I
grandi capitalisti e i possessori di cospicue fortune personali
non sono
necessariamente individui felici.
Nondimeno,
la vita, la libertà e l’acquisto
della felicità sono
diventati i nuovi ideali americani. Per quanto sia innegabilmente
piacevole acquistare i «giocattoli» che crediamo possano renderci felici,
è
anche vero che la gioia che proviamo non dura a lungo. L’eccitazione
per
l’acquisto di una nuova macchina svanisce velocemente di fronte
alle continue
spese che il suo possesso comporta. Un abito nuovo
diventa consunto o fuori
moda. Per riprovare la gioia che un acquisto ci
dà inizialmente, dobbiamo
continuare a comprare sempre più cose. Non
sorprende che la convinzione che
saremmo più felici se solo avessimo
più soldi sia entrata a far parte del
pensare comune.
I MITI SULLA FELICITÀ

La
visione della felicità che predomina oggi in America suggerisce
che, oltre alla
ricchezza, la fama, il successo, la gioventù e la bellezza
sono elementi
essenziali della felicità. Dopo tutto, non sono più felici le
persone giovani,
ricche, famose e belle? Non è un vincitore nella vita
chi accumula il maggior
numero di «giocattoli»?
Gli
psicologi e i ricercatori che per lungo tempo si sono concentrati
sull’analisi
delle cause dell’infelicità – la depressione, lo stress, il dolore
– stanno
cominciando a focalizzare la propria attenzione sulla felicità.
La loro
conclusione è che la felicità non è ciò che la maggior parte delle
persone
pensa che sia.
Sorprendentemente,
è risultato che quelle differenze tra gli
individui che noi consideriamo come
significativi indicatori di felicità
(per esempio il denaro, l’età, il sesso,
la salute, la razza, l’istruzione, la
professione e l’appartenenza geografica)
hanno effetti minimi sulla
soddisfazione complessiva che una persona prova
nella vita. Per quanto
possa sembrare strano, le circostanze hanno poco a che
fare con la
felicità.
Un’aggravante
del problema è la tendenza a paragonarsi agli altri
nei termini di questi
standard illusori, aumentando così quel senso di
ansiosa insoddisfazione che
alimenta l’infelicità. Ci sforziamo di essere
all’altezza degli altri perché
gli altri, in base a quei criteri,
apparentemente sono più felici di noi. Ma il
problema è che noi
crediamo che essi lo siano, ed è questa percezione distorta
che crea uno
stato di infelicità che prima non esisteva. I pubblicitari
sfruttano la
nostra propensione a paragonarci a coloro che essendo più ricchi
sembrano più felici di noi. Ci bombardano di immagini di persone che
con il
loro stile di vita originale, i loro corpi splendidi, le loro famiglie
armoniose, e via dicendo, suscitano la nostra invidia risvegliando i
nostri
appetiti per ciò che gli altri hanno. Questa infelicità architettata
artificialmente stimola in noi l’impulso a comprare gli ingredienti
«mancanti»
della nostra felicità.
Un’altra
idea ampiamente diffusa è che saremmo più felici se
avessimo meno problemi, o
che una volta che i problemi che abbiamo
ora si risolveranno il risultato sarà
la felicità. Ma questo non succede
quasi mai, perché i problemi di oggi vengono
sostituiti da nuovi
problemi in una successione senza fine. Non abbiamo quasi
la
possibilità di riprendere fiato prima di incontrare nuove sfide. Questo
modo
di pensare identifica i problemi con l’infelicità. Ma è possibile
vivere senza
problemi, almeno per un certo periodo? Il Buddismo dice
di no.
La
felicità sostenibile non è l’assenza di problemi. Come scrive
Nichiren: «Non
permettere mai che le avversità della vita ti
preoccupino, nemmeno i santi o i
saggi possono evitarle».[13]Tutti hanno
problemi. Tuttavia ci sono
persone che hanno problemi enormi e sono
felici, e persone che hanno tutte le
fortune e ciò nonostante sono infelici.
Il
Buddismo descrive la vita come una serie di sofferenze derivanti
dall’eterno ciclo
di nascita, vecchiaia, malattia e morte. Ci sono
certamente anche altri tipi di
sofferenze, come la perdita di una persona
cara, la depressione, il
licenziamento, l’essere poveri in una società
ricca, le discriminazioni
razziali ed etniche: tutte cose che aumentano la
sofferenza e l’angoscia.
Al
livello più fondamentale, il Buddismo riconosce che la vita è
piena di
problemi. Questa prospettiva esistenziale ha iniziato a filtrare
anche nella
cultura occidentale. «La vita è difficile», sono le parole di
apertura di uno
dei più popolari libri di auto-aiuto che siano mai stati
pubblicati, Voglia di bene, di Morgan Scott Peck.
«Questa è una grande
verità, una delle più grandi verità», continua Peck e, in
nota, spiega che
questa è la prima delle quattro nobili verità insegnate dal
Budda.
Capire
che vivere significa affrontare le difficoltà è una liberazione,
perché ci
aiuta a considerare i problemi e le sofferenze come parte
naturale della vita e
non come un segno della nostra inadeguatezza. Un
proverbio dice: «Un cuore
piccolo si abitua all’infelicità e diventa
docile, mentre un cuore grande si
erge al di sopra della sfortuna». Dal
punto di vista del Buddismo, il fatto che
la vita sia piena di problemi
non è un motivo per essere depressi, scoraggiati
o rassegnati a un
destino miserevole. Il Buddismo non è stoicismo. Il Buddismo
scopre la
felicità nel mezzo dei problemi piuttosto che nell’assenza di essi.
Nella
maggior parte dei casi, la ragione per cui così tante persone
sono infelici è
l’illusione. Esse credono ai miti dominanti diffusi dalla
nostra cultura in
relazione alla felicità.
Nichiren
spiegò che l’unica differenza tra un Budda (una persona
che ha raggiunto la
vera felicità) e un comune mortale (una persona che
non l’ha raggiunta) è che
il comune mortale è illuso, mentre il Budda è
illuminato. Detto in maniera più
semplice, gli esseri umani non riescono
a comprendere la vera natura della
felicità e di conseguenza sono spesso
incapaci di trovarla perché la cercano
nel posto sbagliato.
Per
realizzare le nostre aspettative realistiche di diventare felici non
basta lo
sforzo. Dobbiamo sapere cosa è e cosa non è la felicità, e prima
di tutto
dobbiamo avere un metodo pratico per raggiungerla. Nichiren
spiegò con
chiarezza qual è la pratica che ci permette di costruire una
felicità duratura
e indistruttibile.

[13] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. I, pag. 607


FELICITÀ RELATIVA E
FELICITÀ ASSOLUTA

Secondo
il Buddismo mahayana insegnato da Nichiren, ci sono due
tipi di felicità: la
felicità relativa (temporanea) e la felicità assoluta
(duratura).
La
felicità relativa è il senso di soddisfazione, di gratificazione o di
euforia
che si prova per avere raggiunto un obiettivo o avere realizzato
un desiderio.
A causa della natura temporanea di ciò che abbiamo
raggiunto o acquisito,
questo genere di felicità normalmente svanisce
col tempo. Se siamo persone
fondamentalmente infelici, rimaniamo tali
e addirittura, dopo avere
sperimentato questo tipo di felicità, spesso
diventiamo ancora più sfiduciati,
perché ne sentiamo più acutamente la
mancanza.
Per
esempio, se siete stati felicemente sposati, la morte del coniuge
vi farà
cadere nella più profonda infelicità. Oppure, molti tra coloro che
hanno goduto
di una certa fama o popolarità finiscono la loro vita nella
solitudine, nella
miseria e nell’infelicità.

la ricchezza, né lo status, la fama o la bellezza possono
garantirci una vita
felice. Il motivo è che la felicità basata su queste cose
è una felicità
relativa. Dipende dalle circostanze ed è temporanea.
Chiunque si sforzi di
costruire una vita felice sulla base di queste cose
prima o poi andrà incontro
all’insoddisfazione, alla perdita e
all’infelicità. Il Buddismo insegna invece
una felicità assoluta e
duratura. La felicità assoluta è uno stato di vita che
ci permette di godere
della nostra esistenza in qualunque circostanza. Questo
stato di felicità
assoluta è chiamato anche Buddità.
Siamo
nati in questa vita per essere felici e non per sopportare solo
sofferenze.
Questa è una premessa fondamentale del Buddismo
insegnato da Nichiren e dalla
Soka Gakkai Internazionale,
l’organizzazione laica che riunisce i seguaci di
Nichiren in tutto il
mondo.
Come
possiamo raggiungere una felicità duratura quando il nostro
abituale stato di
vita è così instabile?
Un
principio buddista fondamentale chiamato i «dieci mondi»
descrive sistematicamente
l’incessante cambiamento della nostra vita
istante per istante. Questo
principio insegna che noi sperimentiamo
continuamente diversi stati vitali, o
mondi, che operano a un livello
molto al di sotto della mente conscia. Questi
stati, dal più basso al più
elevato, sono:

1. Inferno
2. Avidità
3. Animalità
4. Collera
5. Umanità
6. Cielo (o Estasi; è chiamato anche
felicità relativa
o temporanea)
7. Apprendimento
8. Realizzazione
9. Bodhisattva (il mondo della
compassione)
10. Buddità (chiamato anche Illuminazione o
felicità assoluta).

Praticamente
tutti gli esseri umani hanno una tendenza a dimorare
in un mondo piuttosto che
in un altro. Per esempio, qualcuno potrebbe
essere consapevole fin
dall’infanzia di essere irascibile nei suoi rapporti
con gli altri. Chi ha
questo temperamento tende a vivere nel mondo di
Collera. O magari vi sentite
invece passivi e timorosi, quel tipo di
persona che lascia che le cose vadano
come vogliono. Allora
probabilmente il vostro mondo dominante è l’Umanità, e la
passività è il
vostro tallone d’Achille. O forse siete una persona che non ne
ha mai
abbastanza, che si tratti di denaro, di sesso o di lodi. In questo caso
il
vostro mondo è l’Avidità.
Potremmo
definire questa tendenza la propria «tendenza vitale» o,
meglio ancora, il
proprio karma. La maggior parte di noi lotta per tutta
la vita contro la stessa
immutabile tendenza che domina le nostre
relazioni professionali, sociali e
familiari. Per quanto ci sforziamo, ci
sono sempre uno o due mondi, o stati
vitali, attorno ai quali sembriamo
gravitare. E spesso troviamo estremamente
difficile cambiare queste
tendenze di base, a dispetto dei nostri sforzi
erculei per migliorarci.
Per
capire come questi dieci mondi, o condizioni vitali, funzionano
nella psiche
umana, immaginiamo un’ipotetica giornata tipo.
Vi
svegliate, vi alzate dal letto, bevete il vostro caffè mattutino,
leggete il
giornale. Magari avete un labrador che sonnecchia
pacificamente ai vostri
piedi. Siete nel mondo di Umanità (5), dove si
resta tranquilli.
Poi
cominciate la vostra routine quotidiana, prendendo la macchina
per andare al
lavoro e tuffandovi nel traffico caotico. Durante il tragitto
un’altra auto vi
taglia la strada e quasi vi urta nel tentativo di
guadagnare un po’ di strada.
Vi scambiate sguardi ostili col guidatore
maleducato. Per un brevissimo istante
siete nel mondo di Collera (4).
Arrivati
al lavoro, scoprite che il vostro immediato superiore si è di
nuovo attribuito
i meriti del vostro miglior lavoro e, di nuovo, vi ha
scaricato sulla scrivania
una pila di pratiche noiose e di basso profilo.
Disgustati ma privi del
coraggio di scontrarvi con l’autorità, ve la
prendete invece con il vostro
assistente, assegnandogli quanti più
compiti sgradevoli riuscite a trovare.
Siete sprofondati nel mondo di
Animalità (3), dove si viene facilmente dominati
e a propria volta si
cerca di dominare gli altri.
Arriva
l’ora di pranzo e andate a mangiare. Come al solito, non
potete fare a meno di
osservare le persone che trovate attraenti.
Purtroppo, attualmente non avete
una relazione; a dirla tutta avete quasi
perso la speranza di riuscire mai a
incontrare la «persona giusta».
Questo sentimento di tristezza e rassegnazione
tinge tutto quello che
vedete e che fate. Siete nel mondo di Avidità (2), dove
gli intensi
desideri insoddisfatti distorcono la visione della realtà.
Tornati
in ufficio, telefonate alla persona con cui uscivate fino a
poco tempo fa e le
chiedete un appuntamento. Lei però vi dice che la
vostra relazione è davvero
finita, che i vostri gusti personali, compresa
la vostra passione per il jazz,
rendono impossibile ogni ulteriore
contatto. Sconvolti e feriti, iniziate a
pensare che non avete alcuna via
d’uscita, che non sarete mai felici. La vostra
carriera è una frana. Non
riuscite a far durare una relazione. I vostri
problemi sono schiaccianti.
Vi trovate ora nel mondo di Inferno (1), una
condizione di estrema
sofferenza, dove persino la possibilità di raggiungere
anche solo qualche
briciola di felicità sembra negata.
Proprio
in quel momento, quando sembra che non abbiate più
speranze, squilla il
telefono. È una persona che avete conosciuto per
motivi di lavoro, che trovate
molto attraente. Vi dice che ha un biglietto
in più per un concerto jazz che si
terrà quella sera, e vi chiede se vi
piacerebbe accompagnarla. Istantaneamente
siete nel mondo di Cielo
(6), il mondo in cui i desideri sono realizzati, uno
stato di felicità
relativa (talvolta chiamato anche mondo di Estasi). La vostra
visione di
quella giornata è interamente cambiata. Le circostanze che vi
avevano
fatto cadere nel mondo di Inferno perdono di importanza, e un’aura di
fortuna avvolge la vostra vita. (Per il Buddismo Cielo e Inferno non
sono
luoghi, ma condizioni vitali).
Questo
è il mutevole paesaggio interiore dell’esistenza umana. Nel
flusso di pensieri
ed emozioni che questa storia descrive probabilmente
potete riconoscere la
mutevolezza della vostra mente. Il nostro stato
interiore è caleidoscopico,
cambia colore e schema con varietà e
sottigliezza infinite nella confusione e
nel caos della vita moderna. In
verità, quando accade qualcosa che ci esalta,
il complesso delle nostre
circostanze è cambiato di poco. Ciò che è mutato è il
nostro stato
interiore, che di fatto stava cambiando costantemente fin dal
momento
in cui ha squillato la sveglia.
I
mondi che abbiamo descritto fino a ora sono noti nel Buddismo
come i «sei
sentieri inferiori». La grande maggioranza degli esseri
umani per l’intero
corso della propria vita viene sballottata avanti e
indietro, come la pallina
di un flipper, tra questi sei mondi inferiori. Si
potrebbe ragionevolmente
chiedere: cosa c’è di sbagliato nel vivere nei
mondi di Umanità e di Cielo?
Il
problema è che questi stati non durano. Nei sei sentieri inferiori
noi viviamo
principalmente in reazione alle circostanze esterne. In
questi mondi inferiori,
siamo in balia dell’ambiente. Il nostro benessere
dipende da qualcos’altro o da
qualcun altro. Chi vive la sua vita nei
mondi inferiori è perciò destinato a
un’esistenza che potrebbe essere
paragonata alle montagne russe – felice quando
le cose vanno bene,
infelice quando le cose vanno male – e in definitiva ha uno
scarso
controllo sulla propria vita, a dispetto dei suoi sforzi spesso
sovrumani.
La vera felicità non può mai essere fondata sulle sabbie mobili.
Ma
dentro di noi esiste il potenziale per un diverso e più solido
genere di
felicità, che culmina nella felicità assoluta della Buddità. I
mondi superiori,
compreso il mondo di Buddità, sono chiamati i
«quattro mondi nobili».
Diversamente
dai sei mondi inferiori, che sono condizionati e si
manifestano in reazione
alle circostanze esterne, i primi tre mondi nobili
– Apprendimento,
Illuminazione parziale e Bodhisattva – sono
indipendenti dall’ambiente esterno.
Il Buddismo di Nichiren usa questi
tre stati come base per una pratica che ci
conduce a uno stato di felicità
assoluta creato autonomamente.
Torniamo
al racconto della nostra giornata tipo. Col morale alto per
l’invito ricevuto e
non volendo sprofondare nuovamente nel pantano di
recriminazioni che vi suscita
il vostro lavoro, vi concentrate con
rinnovato entusiasmo su un importante
progetto di ricerca nel quale siete
coinvolti da un certo tempo, un progetto
qualificante che vi permette di
arricchire e migliorare le vostre capacità
professionali. Le ore sembrano
volare. Siete nel mondo di Apprendimento (7),
dove si acquisiscono
conoscenze sulla vita, anche se al di fuori di un quadro
di riferimento
buddista. Tornati a casa, per passare il tempo prima del vostro
appuntamento decidete di mettervi a suonare il piano e vi ritrovate
completamente assorbiti da un particolare riff,
che esplorate con una
miriade di variazioni. Siete ora nel mondo di
Realizzazione (8), che è
solitamente descritto come un risveglio ottenuto
attraverso la disciplina.
Questo mondo corrisponde anche all’emozione che si
prova riuscendo a
portare a termine un compito difficile, e si applica tanto
alla costruzione
di una barca nel prato dietro casa o all’imparare l’arte del
ricamo,
quanto alla scrittura di un sonetto o alla composizione di una
sinfonia.
Supponiamo
ora che un accordo particolarmente struggente vi
susciti il pensiero di un
amico malato ricoverato in ospedale. Decidete di
andare a trovarlo prima del
concerto. Siete ora nel mondo di Bodhisattva
(9), caratterizzato dalla compassione
e dalla disponibilità ad aiutare gli
altri. Questo mondo è noto anche come
«aspirazione all’illuminazione»,
dato che, come vedremo, la preoccupazione per
la felicità e il benessere
degli altri è una parte integrante del comportamento
di un Budda.
LA BUDDITÀ: CIÒ CHE LA
FELICITÀ È

Il
decimo mondo, il più elevato, è più difficile da descrivere perché
non lo
sperimentiamo spesso. Nichiren parla di questo stato di vita nei
termini delle
sue virtù: le qualità della nostra natura buddica, che sono le
qualità che
rendono gli esseri umani veramente grandi.
Nella
sua lettera I tre tipi di tesori
Nichiren scrisse: «Più preziosi
dei tesori di un forziere sono i tesori del
corpo e prima dei tesori del
corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui
leggerai questa
lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore!»[14]
I
tesori di un forziere sono i possessi materiali e la ricchezza. I
tesori del
corpo sono la salute, la bellezza, la conoscenza, lo status
sociale, ecc.
Benché entrambi questi tipi di tesori siano importanti e
trascurarli ci
causerebbe una sofferenza non necessaria, sono tutti
soggetti alla legge
dell’impermanenza, per cui essi sono in definitiva
relativi. Cambiano col tempo
e non possono essere il fondamento di una
felicità duratura.
I
tesori del cuore indicano invece i tesori del regno interiore, le
qualità e gli
attributi che derivano dalla nostra natura di Budda. I veri
tesori della vita
sono quelle qualità che migliorano le nostre azioni nella
vita quotidiana,
dandoci la saggezza, il coraggio e la fiducia per vincere
su qualunque
circostanza. Il fondamento della felicità umana si trova nel
regno interiore.
La felicità costruita in questo regno non è condizionata,
transitoria o
contingente ma è indipendente e, per usare le parole di
Amleto, resistente «ai
colpi e agli strali dell’oltraggiosa fortuna».
Nichiren
definisce questo regno interiore «torre preziosa» (un altro
nome per la
Buddità). Egli scrisse: «Non esiste altra torre preziosa che
gli uomini e le
donne che abbracciano il Sutra del Loto. Perciò ne
consegue che coloro che
recitano Nam myoho renge kyo, qualunque sia
la loro condizione sociale, sono
essi stessi la torre preziosa [...] Il luogo
dove reciti il daimoku diventerà
la dimora della torre preziosa».[15]
I
tesori del cuore (le qualità della felicità assoluta, gli attributi del
Budda)
sono immagazzinati nella torre preziosa della vita umana. Noi
esseri umani
siamo le torri preziose. Recitando Nam myoho renge kyo
possiamo riconoscere di
essere dotati di tutto ciò di cui abbiamo bisogno
per essere assolutamente
felici. Possiamo aprire la torre preziosa della
nostra vita e possiamo
rivitalizzarci manifestando i tesori in essa
contenuti nella nostra vita
quotidiana.
Come
cominciare? Iniziate recitando Nam myoho renge kyo.
Ripetutamente. Recitate la
mattina e la sera. Recitate quando siete tristi
e quando siete felici. Recitate
a lungo (un’ora o più) quando state
affrontando una sfida o una crisi. E allora
cominceranno a verificarsi i
cambiamenti. Più recitate, più la vostra tendenza
vitale dominante
diventa il mondo di Buddità.
La
Buddità non è una meta remota, un inaccessibile picco montano
che può essere
scalato solo dopo molti decenni, o forse addirittura molte
vite, di ardui
sforzi. Al contrario, Nichiren spiegò che è il fine della
propria pratica
quotidiana.
Immaginate
di sfregare un pezzo di ferro contro un magnete: grazie
a questo sfregamento il
pezzo di ferro si polarizza e acquisisce il potere
di attrarre altri oggetti in
ferro. Più recitiamo sinceramente e più la
nostra vita comincia ad acquisire il
«magnetismo» dell’illuminazione.
Attraverso la recitazione di Nam myoho renge
kyo (lo sfregamento
contro il magnete), acquistiamo saggezza e forza vitale (ci
«polarizziamo») e conseguentemente, essendo in armonia con il nostro
ambiente,
siamo in grado di attrarre protezione e fortuna.
Per
esempio, anche se siamo nello stato di Collera, questo stato
vitale è
trasformato e la collera può esprimersi in modo da produrre
valore – ad esempio
sotto forma di indignazione contro l’ingiustizia. In
un momento di crisi, la
tranquillità del mondo di Umanità diventa la
virtù della pazienza.

[14] Ibid.,
pag. 755

[15] Ibid.,
pagg. 264-265
SVILUPPARE L’IO INTERIORE

Le
ricerche psicologiche contemporanee ci dicono che per essere
felici bisogna (1)
avere autostima, (2) sentire di avere il controllo della
propria vita, (3)
avere una visione ottimistica e (4) impegnarsi per uno
scopo nobile. Gli
psicologi concordano che oltre a queste qualità
interiori anche (5) avere un
lavoro significativo e coltivare altri interessi
nel tempo libero e (6)
mantenere una relazione d’amore duratura, sono
componenti importanti di una
vita felice (di questi ultimi aspetti
discuteremo più in dettaglio nel prossimo
capitolo).
Secondo
uno studio su scala nazionale condotto dall’Università del
Michigan, il
migliore indicatore di una generale soddisfazione di vita
non è la vita
familiare, né le amicizie, né il reddito, ma la realizzazione
dell’io. Come ha
scritto Daisaku Ikeda: «La vera felicità non è l’assenza
di sofferenze. Il
cielo non può essere sereno tutti i giorni. La vera felicità
sta nel costruire
un io che si erge dignitoso e indomabile. Felicità non
significa avere una vita
libera dalle difficoltà, ma essere in grado di
raccogliere l’indomito coraggio
e l’incrollabile convinzione per
affrontare e superare qualunque difficoltà
possa sorgere, senza esserne
minimamente scossi».
In
ultima analisi la felicità è determinata dal grado di stabilità del
nostro io.
L’io stabile è in effetti il vero io della nostra vita, l’eterna vita
del Budda
che esiste in armonia con la legge dell’universo. Scoprendo i
grandi tesori, o
le virtù, della vita tramite la pratica buddista, possiamo
modificare
drasticamente la nostra immagine dell’io, risvegliandoci alla
nostra intrinseca
grandezza.
In
questo senso, il conseguimento della Buddità corrisponde al
processo di
scoperta di tutto ciò che attualmente è latente nel nostro
cuore, cioè la
scoperta del nostro vero io universale. Tuttavia, lo stato di
vita così
conseguito non è confinato nel solo regno interiore. La
trasformazione
dell’immagine dell’io che realizziamo nella profondità
della nostra vita
diventa manifesta nel nostro comportamento e nel
nostro ambiente. La
recitazione di Nam myoho renge kyo ha l’enorme
potere di indirizzare il nostro
universo – il nostro corpo e la nostra
mente, le nostre relazioni e il nostro
ambiente – verso la felicità.
Possiamo
dire che portando avanti la nostra pratica buddista
facciamo emergere la
condizione di vita più elevata, cioè l’assoluta
felicità o Buddità. Poiché
questa felicità è costruita interiormente, non
può essere distrutta dalle
circostanze esterne che mutano di continuo.
Essa ci libera dalla dipendenza
dagli eventi esterni ed è una forma di
massimo controllo o di padronanza di sé,
un aspetto importante della
felicità.
«L’inferno
è andare alla deriva, il paradiso è essere alla guida», ha
detto George Bernard
Shaw. Impegnandoci nello studio e nella pratica
del Buddismo otteniamo un
crescente controllo sul nostro stato interiore
e, conseguentemente, anche sulle
circostanze esterne. Assumiamo
letteralmente la guida del nostro universo,
governando la nostra mente e
diventando padroni del nostro destino.
Anche
al di fuori del mondo della filosofia buddista,
l’autocontrollo, o la
padronanza di sé, è riconosciuto come un
importante ingrediente della felicità.
Secondo lo studio dell’Università
del Michigan, il quindici per cento della
popolazione che sentiva di
avere il controllo della propria vita provava
«straordinari sentimenti
positivi di felicità». Tra quelle persone, tre su
cinque – il doppio della
media nazionale – riferivano di essere «molto felici».
Coloro che
avevano un forte «luogo del controllo interno» normalmente
ottenevano
risultati migliori a scuola, gestivano meglio lo stress e vivevano
più
felicemente.
Per
vedere il funzionamento di questi principi nel Buddismo
esaminiamo
un’esperienza di vita realmente vissuta, quella di una
giovane donna che quando
iniziò a praticare il Buddismo si trovava in
circostanze particolarmente
infelici. Per tutta la vita aveva ripetuto uno
schema fallimentare sia nelle relazioni
sia nell’ambito lavorativo. Era
profondamente pessimista sul suo futuro ed era
depressa per la maggior
parte del tempo. In termini buddisti, potremmo dire che
si trovava in
uno stato di Inferno senza speranza.
Cominciò
per prova a recitare Nam myoho renge kyo,
concentrandosi sull’obiettivo di
realizzare un rapporto di coppia
duraturo e una carriera professionale
significativa. Quantunque ci
fossero dei miglioramenti su entrambi i fronti, il
fallimento continuava
ad affliggerla. Ma gradualmente ella sviluppò una
maggiore conoscenza
di se stessa, che la portò a riconoscere la radice dei suoi
problemi: l’odio
verso se stessa. La sua critica interiore la tormentava
costantemente
portandola a dubitare di se stessa e del proprio valore.
Dopo
una rottura sentimentale particolarmente dolorosa, pur
avendo recitato per un
certo periodo, continuava a chiedersi: «Perché
nessuno mi ama? Cosa c’è di
sbagliato in me?». Continuando a recitare,
si rese conto che nessuno la amava
perché lei stessa non si amava. Da
quel momento in poi si concentrò
sull’obiettivo di riuscire a percepire il
suo vero io, le sue grandi qualità,
la sua natura di Budda. Arrivò ad
accettare la sua debolezza come una cosa
naturale e a osservare e
riconoscere le sue peculiari e meravigliose risorse.
Più riusciva ad amare
e apprezzare se stessa, più il suo ambiente rifletteva il
suo cambiamento
interiore.
In
ambito professionale migliorò i suoi rapporti con gli altri
conquistando una
stima e una fiducia sempre maggiori. Ciò le aprì
nuove opportunità che le
permisero di migliorare la sua situazione
economica. Riallacciò una vecchia
relazione e ora è felicemente sposata
e ha due bambini. Tutto partì
dall’acquisizione del controllo e dallo
sviluppo del suo io interiore, il
fondamento della felicità.
OTTIMISMO: L’ALBA DELLA
SPERANZA

Per
raggiungere la felicità assoluta dobbiamo anche vivere con
ottimismo. Gli
ottimisti sono più sani e hanno più successo. «Nessun
empowerment è così efficace come l’auto-empowerment», ha scritto lo
storico ed economista dell’Università
di Harvard David S. Landes nel
suo libro La
ricchezza e la povertà delle nazioni: perché alcune sono
così ricche e altre
così povere (1999). «In questo mondo gli ottimisti
hanno successo, non
perché abbiano sempre ragione, ma perché sono
sempre positivi. Anche quando
sbagliano sono positivi, e questa è la via
per il successo».
Il
Buddismo ci insegna a considerare ogni cosa in una luce
positiva, come
un’opportunità di crescita, come la materia prima per
costruire la felicità
assoluta. Recitare Nam myoho renge kyo è la fonte
dell’ottimismo e della
crescita, di ciò che il Buddismo chiama
«creazione di valore». Questa fonte
mette in grado i praticanti di
trasformare qualunque cosa nella loro vita – sia
le gioie sia le sofferenze
– in una causa per la felicità assoluta. Di
conseguenza, essi acquistano
fiducia nel loro potere di trasformare anche le
sofferenze più intense
negli ingredienti della loro felicità. Con questo potere
ogni cosa diventa
un beneficio, un’opportunità.
Vediamo
un’altra esperienza di vita vissuta, quella di un praticante
buddista di
cinquantotto anni che lavorava come ingegnere nei quadri
direttivi di una
grande azienda alla quale aveva dedicato la sua intera
carriera. Quando fu
licenziato in conseguenza di una riduzione di
personale, la sua felicità e la
sua autostima furono duramente messe alla
prova.
Alla
sua età le prospettive di trovare un altro lavoro erano scarse.
Nonostante
facesse grandi sforzi per cercare una nuova occupazione,
passarono le settimane
e i mesi senza che gli si presentasse la benché
minima occasione. Ben presto i
risparmi di famiglia si esaurirono e lui
non fu più in grado nemmeno di pagare
le bollette.
Ma
la cosa più grave fu che cominciò a perdere la speranza. Questa
perdita di
speranza lo privò della determinazione e dell’energia
necessarie per cercare di
iniziare una nuova carriera. Stava rischiando di
perdere tutto ciò per cui
aveva lavorato per un’intera vita. Si trovò faccia
a faccia con la natura
incostante della felicità basata sul successo, sullo
status e sulla ricchezza
materiale.
Chiese
un consiglio sulla fede a un altro praticante con maggiore
esperienza, il quale
lo incoraggiò a considerare la sua situazione come
un’opportunità per
sviluppare una base più solida per la sua vita
interiore, a cercare i tesori
del cuore piuttosto che quelli del forziere.
Comprese allora di avere
trascurato la sua famiglia e le relazioni umane,
oltre che la sua salute e la
sua crescita personale. In realtà aveva
scambiato oro con immondizia, per usare
una metafora che si legge
negli scritti di Nichiren.
Si
impegnò nella recitazione di Nam myoho renge kyo, utilizzando
quella crisi come
l’occasione per dare un nuovo corso alla sua vita, con
le giuste priorità.
Cominciò a considerare il suo problema come una
grande opportunità. Grazie a
questo cambiamento di prospettiva, dalla
profondità della sua vita cominciarono
a fluire un rinnovato ottimismo e
una nuova determinazione. Ritrovò l’energia e
la disponibilità per
cercare un lavoro anche in campi che precedentemente non
aveva
considerato.
Quasi
immediatamente gli si presentò l’opportunità di iniziare a
lavorare, seppure a
un livello minimo, in un settore completamente
nuovo. Si informò meglio e
scoprì che le prospettive erano
sorprendentemente eccitanti. Le possibilità di
avanzamento erano
illimitate. Alla fine riuscì a costruirsi una nuova carriera
di grande
successo che si rivelò molto più soddisfacente del lavoro che faceva
prima. Ma la cosa più importante fu che questa nuova carriera non lo
distrasse
dall’impegno verso il proprio miglioramento personale, la
famiglia e gli amici.
Mantenne la sua vita in equilibrio e realizzò una
condizione di felicità che
non avrebbe mai pensato possibile.
Come
ha scritto Daisaku Ikeda: «La vera gioia scaturisce
incessantemente dall’interno
della vostra vita quando combattete con
coraggio per superare qualunque
tempesta di difficoltà. Questo tipo di
gioia fluisce senza fine. Non potete
godere una gioia vera e profonda se
siete indulgenti con voi stessi e cercate
solo le situazioni comode in cui
non dovete mai affrontare dure difficoltà».
VIVERE SIGNIFICATIVAMENTE
CON UNO SCOPO CI RENDE
FORTI

Ognuno
di noi è sia forte sia debole; nessuno è totalmente l’una o
l’altra cosa. Detto
semplicemente, siamo forti quando abbiamo qualcosa
di importante da fare e
siamo deboli quando non abbiamo nulla di
significativo da realizzare. La
debolezza di vita di tutti coloro che sono
dominati da ossessioni e dipendenze
è il sintomo della mancanza di
scopi profondamente radicata nella nostra
società. «Vivete ogni giorno
con entusiasmo, con determinazione» scrive Ikeda
«e con la profonda
soddisfazione derivante dalla coscienza di avere portato a
termine i
vostri compiti. Chi nutre questi sentimenti è felice».
La
vera felicità è legata all’impegno per un grande scopo. Chi vive
in questo modo
è forte, così forte da essere felice in qualunque
circostanza. Chi vive in
questo modo sperimenta un senso di
soddisfazione nella profondità della vita
che non è influenzato dal
costante cambiamento dell’ambiente. «Ovviamente»
continua Ikeda «la
missione, o l’obiettivo, che vi siete assunti deve essere in
accordo con la
vostra felicità e con quella degli altri. Questo è ciò che rende
possibile la
felicità assoluta».
Il
Buddismo di Nichiren insegna la necessità di una prospettiva che
tenga conto
sia di se stessi sia degli altri. Perciò i buddisti praticano per
diventare
felici e, allo stesso tempo, aiutano gli altri a diventarlo. Essi si
sforzano
di costruire una società pacifica, riconoscendo che in definitiva
è impossibile
costruire la felicità personale sulle sofferenze e
sull’infelicità altrui.
Inoltre, gli sforzi per la felicità degli altri diventano
un’importante causa
per la propria felicità. Sforzarsi per il bene degli
altri è la missione più
nobile che esista. Così facendo, l’io egoista (o
piccolo io) si fa da parte ed
emerge il vero io, o la Buddità.
Ovviamente,
ci sono molti modi di agire compassionevolmente
verso gli altri. La disciplina
del Buddismo include sia la pratica per sé
sia la pratica per gli altri, con
l’idea che dare agli altri il mezzo per
sviluppare la capacità di superare
l’infelicità e diventare assolutamente
felici sia il supremo atto di
compassione.
Noi
recitiamo per la felicità degli altri, insegniamo agli altri come
recitare e
studiamo assieme il Buddismo. Chi ha più esperienza
condivide la propria
conoscenza e le proprie intuizioni e, a sua volta, è
incoraggiato a rinnovare
la sua pratica dai risultati ottenuti dai nuovi
praticanti. Ci impegniamo
continuamente per aumentare la nostra
capacità di creare armonia con gli altri
in tutti gli ambiti della nostra vita
– in famiglia, con gli amici, con i
colleghi di lavoro, con i vicini e così
via.
La
soddisfazione sorge dalla consapevolezza di avere la missione
di aiutare gli
altri a realizzare il loro potenziale e dall’impegno nel
realizzarla. Vivere
senza compassione è un modo di vivere superficiale.
La via del bodhisattva, la
via dell’altruismo, è il sentiero sicuro verso la
felicità assoluta. Per citare
di nuovo George Bernard Shaw, in Uomo e
superuomo egli dice: «Questa è la vera gioia nella vita, essere usati per
uno scopo che voi stessi ritenete grande; essere totalmente consumati
prima di
venire gettati nel mucchio dei rottami; essere una forza della
natura invece
che uno stupido egoista, piagnucoloso e pieno di malanni,
che si lamenta che il
mondo non si dedica a renderlo felice».
In
questo senso, per essere veramente felici non basta
semplicemente avere nobili
ideali, ma bisogna agire per realizzare il
proprio scopo o la propria missione
nella vita a favore degli altri. Le
ultime parole che scrisse Victor Hugo
furono: «Amare è agire».
Analogamente potremmo dire: «Essere felici è agire».
Come
affermò Nichiren: «Il vero significato dell’apparizione in
questo mondo del
Budda Shakyamuni, il signore degli insegnamenti, sta
nel suo comportamento da
essere umano. [...] Il saggio si può definire
[16]
umano, ma gli sconsiderati non
sono altro che animali». Le incessanti
azioni di Shakyamuni per
condurre gli altri esseri umani
all’illuminazione, per condividere la sua
Buddità nel modo più profondo
possibile, a seconda delle capacità dei suoi
ascoltatori, in altre parole il
«suo comportamento da essere umano», erano
altrettanto importanti di
tutto ciò che diceva.
Recitare
Nam myoho renge kyo per voi stessi e per gli altri è il
«segreto» per diventare
assolutamente felici in questo mondo. Come
scrisse Nichiren: «Non c’è felicità
più grande per gli esseri umani che
recitare Nam myoho renge kyo». Recitare Nam
myoho renge kyo
risveglia l’impulso compassionevole che è latente dentro di noi
e fa
emergere la più alta condizione vitale in direzione della quale dobbiamo
sforzarci sinceramente. La felicità individuale dipende dal proprio
impegno per
la felicità degli altri.

[16] Ibid.,
pag. 756
LA TRASFORMAZIONE UMANA

Sulla
base dell’insegnamento dei dieci mondi, il Buddismo spiega
che il modo per
raggiungere la felicità assoluta in questa vita – in questo
mondo, nelle nostre
presenti circostanze – è assumersi la responsabilità
del proprio stato di vita
interiore. Inconsapevoli dei dieci mondi inerenti
alla nostra vita (e
specialmente della nostra intrinseca natura di Budda),
sprechiamo un’enorme
quantità di energia inseguendo la felicità
relativa.
Ciò
che imprigiona le persone nei sei mondi inferiori sono le
illusioni derivanti
da quelli che il Buddismo chiama i «tre veleni», cioè
l’avidità, la collera e
la stupidità. Permettendo ai tre veleni di dominare,
per esempio, col credere
che l’acquisto di beni materiali porti alla
felicità, di fatto restiamo
intrappolati negli stati più bassi, dove la
continua sofferenza e l’infelicità
sono l’unico risultato possibile.
Se
le illusioni sono la causa dell’infelicità, mentre credere in una
filosofia
corretta permette di raggiungere la felicità assoluta, allora la
riforma delle
nostre convinzioni errate diventa il metodo pratico per
raggiungere la
felicità. Perciò Nichiren concluse che se vogliamo
diventare felici dobbiamo
affrettarci a cambiare le nostre convinzioni e
abbracciare la saggezza del
Buddismo.
La
pratica buddista ha lo scopo di aiutarci a cambiare le
convinzioni illusorie
che nutriamo nel cuore. Questo processo di riforma
interiore – che noi
chiamiamo rivoluzione umana – diversamente dalle
rivoluzioni del passato non
implica ideologie, sistemi morali, codici di
comportamento o violenza. Noi
semplicemente recitiamo Nam myoho
renge kyo fiduciosi nel suo potere benefico,
con la speranza di riuscire a
realizzare gli scopi della nostra vita.
Sentirsi
felici o infelici in definitiva dipende da noi. Se non
cambiamo il nostro stato
di vita, non possiamo raggiungere una vera
felicità. Ma se cambiamo la nostra
condizione interiore, il nostro intero
mondo si trasforma. Il mezzo per
compiere questa trasformazione è
recitare Nam myoho renge kyo, la pietra
angolare della pratica buddista.
Noi recitiamo Nam myoho renge kyo per compiere
la nostra rivoluzione
umana, per correggere le nostre convinzioni e per
sviluppare la forza
interiore che ci permette di trascendere le nostre
difficoltà personali e di
aiutare gli altri.
V — LE RELAZIONI CHE
FUNZIONANO

«
Più
è grande il mio amore per l’umanità in generale, meno
amo le persone in
particolare, vale a dire prese separatamente, come
individui
».
Fëdor Dostoevskij

«
Io definisco l’amore in questo modo: il
desiderio di estendere il
proprio io allo scopo di nutrire la propria crescita
spirituale o quella
dell’altro
».
Morgan Scott Peck
LE RELAZIONI CHE
FUNZIONANO

Amare
le persone o l’umanità in astratto è relativamente facile.
Sentire compassione
verso gli individui concreti, amare un singolo
essere umano è considerevolmente
più difficile. La maggior parte di noi
ha sentito parlare di persone che
sostengono cause sociali benemerite, o
finanziano organizzazioni filantropiche
o gruppi socialmente attivi, ma
la cui vita privata è caratterizzata
dall’insensibilità o addirittura dalla
crudeltà verso coloro che sono loro
vicini. Per contro, negli
insegnamenti buddisti la compassione per l’umanità
non è mero
idealismo, ma qualcosa per cui dobbiamo sforzarci ogni giorn
Abbiamo
detto che la natura buddica dimora dentro ogni individuo
e che la felicità
individuale è basata sulla costruzione di un saldo io
interiore. Benché il
Buddismo sia un potente strumento per la
costruzione della forza interiore, non
è un’attività solitaria. Piuttosto, la
filosofia buddista insegna che
interagire con gli altri
compassionevolmente è il modo più soddisfacente di
vivere nella società
ed è, di fatto, un virtuale prerequisito
dell’illuminazione.
Una
persona saggia cerca di far emergere e di rafforzare gli aspetti
migliori degli
altri. L’umanesimo del Sutra del Loto, l’insegnamento
fondamentale per l’epoca
moderna, può essere ricondotto alla
valorizzazione dell’individuo. Chi vive
nello stato di Buddità rispetta
l’individualità degli altri e desidera che
anch’essi possano manifestare le
loro uniche qualità. L’obiettivo buddista
dell’illuminazione universale
parte perciò dalla valorizzazione del nostro io,
poi degli individui vicini
a noi e si estende infine verso l’esterno sino ad
abbracciare tutti gli
esseri umani.
Il
modo di sviluppare questo atteggiamento e di coltivare relazioni
soddisfacenti
è l’argomento di questo capitolo.
Una
cosa è certa: tutti hanno delle relazioni. Anche chi vive in un
monastero
interagisce comunque con gli altri monaci. Le relazioni di
vario genere sono
una parte ineliminabile dell’esistenza umana, tanto
più per chi vive nella
realtà quotidiana della famiglia, delle amicizie e
del lavoro. Ma al di là di
questo, il desiderio di compagnia è
profondamente radicato nell’essere umano.
Nella ricerca della felicità
individuale gli esseri umani sono spinti a
desiderare relazioni durature e
appaganti, e in particolare relazioni intime.
Le
relazioni soddisfacenti e durature contribuiscono moltissimo
alla nostra
felicità. Purtroppo, però, fin troppo spesso le relazioni – tanto
con i
familiari quanto con gli amici o i colleghi – sono fonte di
sofferenza e di
dolore più che di gioia e di soddisfazione. E
frequentemente le relazioni che
una volta erano soddisfacenti non
durano. Dato che tante persone sincere e ben
intenzionate riversano un
mucchio di sforzi e di energie nella ricerca e nella
costruzione di
relazioni, perché invece esse falliscono così spesso?
Falliscono
perché manchiamo della saggezza per farle funzionare.
Troppo spesso le iniziamo
per ragioni che non sono propizie alla loro
sopravvivenza.
DIPENDE TUTTO DA NOI

Vivere
una relazione positivamente o negativamente dipende da
noi, dalle nostre
convinzioni e dai nostri atteggiamenti. Sulle prime
quest’idea può sembrare
difficile da accettare. Tuttavia, il successo di
una relazione comincia con l’assunzione
della totale responsabilità della
propria vita e del proprio ruolo all’interno
della relazione.
«È
difficile volare come un’aquila» recita uno slogan popolare,
«quando si è
circondati da tacchini». Il Buddismo insegna che il nostro
ambiente riflette il
nostro stato vitale interiore. Suggerisce perciò che se
siamo circondati da
tacchini è molto probabile che, anziché un’aquila,
pensiamo di essere o siamo
in realtà noi stessi un tacchino. E per
estensione il nostro ambiente è un
allevamento di tacchini. Il problema
non è quindi che gli altri tacchini ci
stanno impedendo di alzarci in volo
ma piuttosto che dobbiamo diventare
l’aquila che desideriamo essere.
Dato
che ognuno è essenzialmente un Budda, non c’è nulla di
sbagliato in noi. Non
siamo impuri o imperfetti. È la nostra mente non
illuminata che è imperfetta.
Ciò non vuol dire che la colpa è della
vittima. Certamente ci sono persone che
si comportano male, causando
sofferenza agli altri – forse proprio a noi. Noi
però non siamo
responsabili del comportamento degli altri ma solo del nostro.
Se si
capisce questo, ci si rende conto che quest’idea è estremamente
liberatoria: dal momento che abbiamo il controllo delle nostre scelte,
abbiamo
il potere di fare qualcosa quando una relazione non funziona.
Nichiren
insegnò che la sofferenza deriva dal «cercare fuori di noi»
la causa o la
soluzione dei nostri problemi. Il fatto che siamo noi a
soffrire significa che
il problema da risolvere è nostro e non di qualcun
altro. Se stiamo cercando di
far cambiare gli altri, potremmo aspettare
molto a lungo. Ciò nonostante le
persone fanno sforzi straordinari per
modificare il comportamento degli altri
nel tentativo di far funzionare le
relazioni. Ma in definitiva questo è vano
come pulire uno specchio nel
tentativo di pulire il proprio viso. Lo specchio
continuerà a riflettere
sempre la stessa immagine.
Tramite
la pratica buddista, iniziamo a vedere noi stessi più
precisamente, forse per
la prima volta nella vita, con tutte le nostre
debolezze e i nostri punti di
forza. Giorno dopo giorno, gradualmente
(benché non sia insolito anche avere
delle improvvise e importanti
intuizioni su noi stessi), arriviamo a
comprendere sempre meglio che le
relazioni che abbiamo creato sono il riflesso
del nostro stato di vita.
Allora possiamo intraprendere un processo costante e
a lungo termine
per sviluppare la nostra saggezza e le nostre capacità di
esseri umani.
La
chiave per trasformare le relazioni sta nel trasformare noi stessi.
Dato che la
sola persona di cui possiamo controllare il comportamento
siamo noi, usiamo al
massimo questo potere. Occorre lavorare
dall’interno verso l’esterno.
Il
Buddismo insegna che gli atteggiamenti sbagliati o le
convinzioni erronee
sull’io e sugli altri, che portano all’infelicità e alla
sofferenza, possono
essere ricondotte ai «tre veleni»: l’avidità, la collera
e la stupidità. In
particolare la collera, il veleno composto in egual
misura dall’arroganza e
dall’egocentrismo, distrugge le relazioni. Il
veleno della collera conduce
inevitabilmente allo scontro e al conflitto
tra gli individui, che si tratti di
singole persone, di gruppi o di nazioni.
La guerra è radicata nel veleno della
collera.
Il
Buddismo chiama «piccolo io» l’io avvelenato, arrogante ed
egocentrico che
esiste dentro ognuno di noi. Lo scopo supremo della
pratica buddista è quello
di manifestare il grande io o vero io. La
comprensione dello scopo delle
relazioni e la purificazione dai tre veleni
vanno di pari passo.
LA RELAZIONE PERFETTA:
DUE PERSONE CHE SI ALZANO
DA SOLE INSIEME

Un
maestro buddista una volta spiegò che ci sono tre stadi nello
sviluppo del
carattere degli esseri umani: la dipendenza, l’indipendenza
e la
collaborazione. Purtroppo la maggior parte delle persone è del tutto
ignara del
terzo stadio, la collaborazione (o interdipendenza), e
contempla solo due
opzioni, la dipendenza o l’indipendenza.
L’indipendenza,
l’io che si regge da solo, può essere una
condizione felice perché ci consente
di avere il controllo, una
condizione necessaria per la felicità. Un io forte e
sicuro tuttavia può
facilmente diventare arrogante e isolato. Ma l’arroganza e
le relazioni
non vanno d’accordo. È molto probabile che una persona arrogante
sia
incapace di mantenere relazioni soddisfacenti. Al contrario, le sue
relazioni finiranno molto spesso nel conflitto e nello scontro.
Per
i più l’alternativa sono le relazioni dipendenti (o codipendenti).
Il rispetto
e l’amore non vengono dati liberamente ma con delle
condizioni. Questo è
l’approccio «contrattuale» alle relazioni: «Ti amerò
fin quando mi darai ciò di
cui ho bisogno».
Questo
tipo di relazioni è simile a un otto volante emotivo, in cui a
picchi di
euforia si alternano abissi di disperazione. La ragione è che la
vostra
felicità dipende dal comportamento dell’altro, dal fatto che vi
confermi che
siete degni di essere amati.
In
qualunque situazione la felicità non può essere raggiunta senza
avere il
controllo di se stessi. Dipendere da un altro per sentirsi degni
d’amore dà a
quella persona il controllo sulle vostre emozioni e sulla
vostra autostima.
Avete rinunciato al vostro potere.
L’ESPERIENZA DI JANET:
L’ALCOLISMO DEL MARITO

Per
molti anni Janet aveva combattuto per tenere in piedi il suo
matrimonio.
L’alcolismo di suo marito le aveva causato un’immensa
sofferenza, non solo
fisicamente ed emotivamente ma anche
spiritualmente. Aveva cercato di farlo
ragionare. Aveva cercato di
migliorarsi, di diventare una brava moglie. Ma
nonostante i suoi sforzi
non era riuscita a cambiare la situazione. Ciò la
portò a dubitare di se
stessa e ad avere una visione pessimista della vita.
Abbandonò la
speranza che suo marito smettesse di bere o che il loro matrimonio
potesse essere felice.
Janet
prese in considerazione la possibilità di separarsi, ma l’idea di
restare sola
la terrorizzava. In fondo suo marito sapeva che lei non lo
avrebbe mai lasciato
perché dipendeva da lui, finanziariamente ed
emotivamente. Così il matrimonio
andò avanti, anno dopo anno.
Visto
che, dopo tutto, il problema era l’alcolismo di suo marito, a
Janet non era mai
venuto in mente che lei stessa sarebbe dovuta
cambiare. Dopo avere cercato a
lungo e sinceramente una soluzione, si
rassegnò a quella situazione, troppo
debole e disperata per decidere di
fare qualcosa per superare la sua
infelicità. Com’era prevedibile, le cose
peggiorarono.
Alla
fine, un amico parlò a Janet del Buddismo di Nichiren. Lei
cominciò a praticare
sinceramente, recitando tutti i giorni Nam myoho
renge kyo. Nelle settimane
successive, oltre a diversi benefici concreti,
ebbe una grande intuizione:
stava cercando di cambiare la persona
sbagliata. Era sempre stata convinta che
tutti i suoi sforzi dovessero
concentrarsi nel tentativo di far cambiare al
marito il proprio
comportamento, e che finché questo non fosse successo lei
avrebbe
continuato a essere infelice. Ma approfondendo la sua conoscenza della
filosofia buddista e facendo emergere la sua saggezza grazie alla
recitazione,
capì che lei doveva riuscire a diventare felice
indipendentemente dal fatto che
suo marito smettesse di bere oppure no.
Comprese che, in tutti quegli anni,
permettendosi di essere infelice non
aveva rispettato se stessa.
Sviluppando
un forte io interiore per mezzo della pratica buddista,
l’atteggiamento di
Janet nei confronti di suo marito (che fino ad allora
era stato alimentato
dalla rabbia e dalla frustrazione) cambiò, e dal suo
cuore scaturì una sincera
preoccupazione per la sua felicità. Recitando
per la felicità di entrambi
riuscì a trovare dentro di sé la forza e la
determinazione per affrontare la
situazione. Arrivò a capire che la loro
relazione stava favorendo la debolezza
e la dipendenza di entrambi: alla
fine consolidò la sua decisione di risolvere
il problema e parlò col
marito.
Questa
volta il suo approccio fu diverso: non era motivato dalla
paura o dalla rabbia
e non comunicava implicitamente il messaggio che
lui avrebbe dovuto cambiare
per amor suo. Gli disse: «Mi dispiace che
tu beva, ma io non ho più intenzione
di farmi coinvolgere dal tuo
problema. Io sono responsabile della mia felicità
e spero che la mia
serenità mentale possa aiutare anche te». Di fronte a questo
nuovo
sincero atteggiamento la risposta del marito fu sorprendente: per la
prima volta prese seriamente le parole di sua moglie. Finalmente poteva
ascoltarla. Quella stessa notte, smise di bere.
Cosa
ancor più importante, nella loro relazione ci fu un rapido e
profondo
cambiamento. Abbandonarono la loro dipendenza reciproca
sostituendola con
l’interdipendenza e la collaborazione. Cominciarono a
provare un grado di
felicità che entrambi avevano creduto essere al di là
della loro portata. Il
cambiamento interiore di Janet – la saggezza, la
forza e la determinazione che
aveva scoperto grazie alla sua pratica
buddista – fu la chiave per una svolta
esterna che modificò la loro vita.
Dunque
la colpa della nostra infelicità è del nostro partner? In
senso superficiale,
può darsi di sì. Ma essenzialmente è colpa nostra,
nella misura in cui
continuiamo a lasciare al nostro partner – che lo
voglia o no – l’ultima parola
sulla nostra felicità, e nella misura in cui
crediamo di non poter essere
felici senza l’aiuto o il cambiamento di
comportamento dell’altro.
Ma
cosa sarebbe successo, potreste chiedere ora, se il marito di
Janet non avesse
smesso di bere? Lei disse che si sarebbe sentita
dispiaciuta per lui, ma che
era pronta a essere felice che lui smettesse o
no, persino se ciò avesse
significato la separazione. Non era più disposta
a far dipendere la sua
felicità dal marito e dal suo comportamento. E
comprese quanto anche lui fosse
infelice per la loro situazione. Janet
aveva ceduto il suo potere. Il
comportamento del marito era diventato il
fattore determinante della loro
relazione. La sua forte decisione di
diventare assolutamente felice a
prescindere dalle circostanze liberò
entrambi dalla loro dipendenza reciproca.
In
qualunque relazione, dobbiamo mantenere il nostro potere,
sviluppare una forte
identità e la capacità di essere felici interiormente.
Alzandoci da soli sulla
solida base della nostra felicità, possiamo allora
cercare all’esterno e
coltivare relazioni collaborative e interdipendenti,
nelle quali diamo
liberamente il nostro amore senza attaccamenti e
senza aspettative. Non abbiamo
«bisogno» dell’altro e non siamo
dipendenti dall’altro. Una relazione tra due
persone che hanno questo
atteggiamento di base dà vita a un amore profondo e
duraturo.
Prima
di andare a cercare un partner collaborativo, dobbiamo
sforzarci di sviluppare
questa capacità dentro di noi. Solo allora sarà
possibile stimolare e
alimentare la stessa capacità negli altri. «La felicità
non ci può essere data
da qualcun altro, da un fidanzato o da una
fidanzata», ha scritto Daisaku Ikeda
nel suo libro In cammino con i
giovani.
«La felicità non è una condizione che possa dipendere
dall’altro: la si deve
raggiungere per se stessi. Il solo modo per farlo è di
sviluppare il carattere
e le nostre capacità come esseri umani, di
realizzare appieno il nostro
potenziale. Se sacrifichiamo la crescita e il
talento all’amore non troveremo
mai la felicità».[17]

[17] In cammino con i giovani, Esperia, Milano, 2004, pag. 27


TROVARE LA RELAZIONE
GIUSTA: PRENDERSI CURA DEL
GIARDINO

A
questo punto potreste dire: «Il mio problema non è quello di
salvare una
relazione che non funziona; il mio problema è che io non ho
una relazione. Se
l’avessi potrei lavorarci sopra». Questa è una
lamentela comune. Ma in realtà
tutti noi abbiamo un mucchio di
relazioni e non siamo in grado di sapere come
potrebbero evolversi. Ci
sono tante persone che hanno visto un’amicizia intima
trasformarsi in
una storia d’amore, o un rapporto nato in ambito lavorativo
diventare
una relazione più profonda. Non potete mai essere sicuri di dove,
come
e quando la «relazione della vostra vita» possa fiorire.
Trovare
la relazione giusta non è come acquistare un vestito:
provare tutti i capi
(cioè i possibili partner) fin quando non troviamo
proprio quello che ci sta a
pennello, restituendo quelli che non ci
piacciono o scartando quelli che
abbiamo acquistato quando passano di
moda. Invece, il processo è più simile a
ciò che avviene quando
traslochiamo in una nuova casa e scopriamo che il
giardino è stato
trascurato per lungo tempo.
Coltiviamo
con cura le molte piante sconosciute che troviamo nel
giardino, aspettando
pazientemente di vedere quali sono i fiori e i frutti
che esse produrranno
quando il tempo sarà maturo. Non conoscendo i
tempi e i modi della loro
fioritura, le curiamo tutte, godendoci la
scoperta delle peculiarità di ogni
singola pianta. Lo scopo è quello di
diventare un esperto giardiniere delle
relazioni.
Come
il giardinaggio, coltivare una relazione può darci molte gioie
e molte
soddisfazioni. Aspettarsi che una relazione dia frutti
immediatamente è
irrealistico e di fatto controproducente per la
creazione di un legame
duraturo. Le relazioni sono come le piantine
appena nate: coltivatele tutte e
godetevi la loro crescita, la loro fioritura
e alla fine i loro frutti. Troppo
spesso strappiamo le piantine prima
ancora di averne intravisto le
potenzialità. Ciò non vuol dire che non
possiamo continuamente aggiungere nuove
piante nel giardino. Se noi ci
sviluppiamo avremo sempre nuove meravigliose
relazioni da coltivare,
senza alcun limite. Piuttosto che cercare costantemente
la relazione
«giusta» è più importante coltivare quelle che già abbiamo. Da
qualche
parte nel giardino della nostra vita, fiori straordinari aspettano di
sbocciare.
Per
quanto una relazione sentimentale cominci solitamente perché
ci siamo
innamorati dell’altra persona, è importante considerare tutte le
nostre
relazioni come un terreno fertile per la nostra crescita, il nostro
sviluppo,
la nostra maturazione e il rafforzamento del nostro carattere.
Ciò che ci rende
felici è la realizzazione dell’io che sperimentiamo
grazie a una buona
relazione, e non la relazione in sé. Questo tipo di
crescita e di sviluppo
emotivo è chiamato rivoluzione umana, la
trasformazione interiore promossa
dalla pratica buddista. I caratteri
cinesi che rappresentano questo concetto
indicano la trasformazione che
avviene nello spazio tra le persone. La
trasformazione è il risultato
dell’interazione con gli altri intesa a favorire
la crescita reciproca. La
crescita degli esseri umani è un processo
interdipendente.
Nella
storia che abbiamo appena raccontato, è stata la
trasformazione interiore di
Janet che ha portato a un risultato positivo.
Janet avrebbe potuto scegliere
semplicemente di lasciare il marito, ma in
questo caso avrebbe perso
l’opportunità di realizzare quella crescita
personale che diventò la causa di
una maggiore felicità e di un più
profondo senso di appagamento. Senza quella
crescita, nelle sue future
relazioni Janet avrebbe avuto le stesse illusioni e
le stesse debolezze,
rivivendo ripetutamente le stesse sofferenze.
L’ILLUSIONE DI CERCARE AL
DI FUORI DI NOI STESSI

L’Inferno
nelle relazioni deriva dal cercare di cambiare il
comportamento di qualcun
altro anziché il nostro. Quando esercitiamo
l’autocontrollo, cominciando col
diventare felici interiormente, abbiamo
la capacità di influenzare il cuore
degli altri. È solo quando smettiamo di
cercare di controllare gli altri che
acquisiamo il potere di influenzarli
davvero. Per esempio, non vi siete mai
trovati a dire: «Basta, mi stai
facendo arrabbiare!» a qualcuno il cui
comportamento vi disturba o vi
irrita? L’implicazione di questa affermazione –
«mi stai facendo
arrabbiare» – è che in qualche modo non avete il controllo
della vostra
rabbia. Gli altri si comportano in un dato modo e, siccome voi
avete
ceduto loro il controllo e il potere, se volete eliminare la vostra
rabbia
dovete cambiare il loro comportamento. Ma ovviamente voi non avete
alcun
potere di cambiare il loro comportamento, perciò più cercate di
farlo e più vi
arrabbierete.
Non
tutta la rabbia è cattiva. Ci sono certamente situazioni di reale
ingiustizia
in cui la collera è appropriata. Anche in tali casi però
l’autocontrollo è la
chiave per influenzare il cambiamento. Il Buddismo
ci insegna che in risposta a
qualunque situazione, a seconda della scelta
che facciamo, ci troviamo in uno
dei dieci mondi: Inferno, Avidità,
Animalità, Collera, Umanità, Cielo,
Apprendimento, Illuminazione
parziale, Bodhisattva o Buddità. Riconoscendo che
siamo noi a scegliere
e assumendoci la responsabilità della nostra scelta,
acquisiamo il potere
di scegliere il nostro stato di vita. Questo ci
restituisce il controllo.
L’ESPERIENZA DI TIMOTHY:
HO RAGIONE MA STO
PERDENDO

Il
dilemma di un giovane praticante buddista di Seattle ci fornisce
un esempio di
ciò di cui stiamo parlando. Benché Timothy fosse un
giovane brillante, bello e
di successo, il suo matrimonio gli stava
causando moltissima sofferenza. Sua
moglie era convinta, sulla base di
prove circostanziali, che lui la avesse
tradita. Egli sapeva di non averlo
fatto, e tuttavia la donna persisteva nella
sua convinzione e i risoluti
dinieghi di Timothy non facevano che convincerla
ulteriormente.
Sebbene
intelligente e perspicace, Timothy non riusciva a capire la
causa prima dei
suoi problemi con la moglie. Di conseguenza, il
matrimonio e la famiglia, che
per lui significavano tutto, stavano
andando in pezzi e lui era costantemente
in collera.
Sulla
base dei consigli degli amici, manifestò la sua rabbia. Non
poteva tenersela
dentro. Ma le cose peggiorarono. Allora cercò, di
nuovo seguendo i consigli
altrui, di tenere la rabbia sotto controllo senza
esprimerla. Neanche questo fu
di aiuto. Timothy pareva destinato a
perdere le persone più importanti della
sua vita a causa di «divergenze
inconciliabili». Aveva di fronte la prospettiva
del divorzio e della
conseguente separazione dai suoi figli.
Il
punto fondamentale per lui era il fatto di «avere ragione». La
situazione
specifica alla radice del litigio era una percezione distorta
degli eventi da
parte di sua moglie. Lei aveva semplicemente «torto».
Tuttavia lui stava
soffrendo (come anche lei). Sembrava avere perso
qualunque capacità di cambiare
la sua vita (o più specificamente sua
moglie). Come nella nostra storia
precedente, stava cercando di
cambiare la persona sbagliata, benché in
superficie il cambiamento di
sua moglie sarebbe stata la soluzione più facile.
La sua frustrazione
derivava dal fatto di essere impotente (come lo siamo
tutti) a indurre un
cambiamento in un’altra persona. Cosa fare?
Timothy
era profondamente convinto che la causa della sua collera
fosse il
comportamento di sua moglie. In questo senso, era stato
accecato dal fatto di
avere ragione. Pensando che essendo nel giusto la
sua collera fosse
giustificata, continuò a scontrarsi con sua moglie.
Fortunatamente, continuò
anche a ricercare una comprensione più
profonda attraverso la pratica e lo
studio del Buddismo, e i consigli di
altri praticanti. Arrivò così a capire che
stava «cercando al di fuori di se
stesso».
Continuando
a recitare Nam myoho renge kyo, Timothy alla fine
comprese che doveva invece
cercare una soluzione dentro di sé, nel suo
comportamento, la sola cosa che
fosse realmente sotto il suo controllo.
Nel far così, si rese conto di avere
davvero la responsabilità del
deterioramento della situazione. Benché sua
moglie avesse avuto torto,
lui aveva aggravato la situazione aggiungendo il
veleno della sua
collera. Così, un’incomprensione relativamente semplice era
rapidamente degenerata in un violento scontro, alimentato
principalmente dal
suo comportamento. In altre parole, lui aveva sia
ragione sia torto. Comprese
che le accuse di sua moglie sorgevano da
una mancanza di fondo di sicurezza e
autostima esacerbata dalle sue
violente esplosioni di collera.
Riconoscendo
la sua complicità nel conflitto, Timothy focalizzò la
sua pratica buddista
sulla propria responsabilità piuttosto che
sull’aspettativa che sua moglie
cambiasse per prima. Nel mentre i suoi
problemi si erano estesi al luogo di
lavoro e alle amicizie. La maggior
parte delle volte, in relazione agli eventi
specifici aveva ragione lui, ma
finiva per trovarsi sempre più arrabbiato e
isolato. Il punto non era che
dovesse ammettere di avere torto quando sapeva di
avere ragione, cosa
che in ogni caso sarebbe andata contro la sua natura.
Doveva imparare a
sostenere la sua ragione con saggezza.
Sviluppando
una maggiore saggezza e un più fermo autocontrollo,
recitando per rispondere
agli errori degli altri con compassione, si trovò
ad assumere il controllo del
proprio stato emotivo. Cominciò a
riconoscere la stupidità di credere che
qualcuno potesse farlo arrabbiare
se lui avesse scelto di non arrabbiarsi. Come
risultato, il suo
matrimonio, che era quasi distrutto, cominciò nuovamente a
prosperare
e alla fine diventò una relazione bella e armoniosa. Benché i
sospetti di
sua moglie non fossero cessati immediatamente, non ebbero più il
potere
di sconvolgere il suo stato emotivo. In assenza della rabbia, che li
aveva
alimentati, persero di importanza e alla fine svanirono del tutto.
Paragonare
noi stessi agli altri è un’altra variante dell’illusione di
guardare
all’esterno. C’è un vecchio adagio che dice «non potete
conoscere un libro
dalla copertina». Non si può dire molto sulla vita di
una persona – se sta
migliorando o peggiorando, se è felice o infelice –
guardando l’apparenza. Il
solo paragone significativo che si può fare è
quello tra la nostra vita di oggi
e quella di ieri, del mese scorso o
dell’anno scorso. Gli analisti di Wall
Street, per esempio, generalmente
non confrontano l’ibm con la General Motors o Amazon.com con at&t.
Confrontano i profitti
trimestrali di ogni singola compagnia con quelli
del trimestre precedente, o
dello stesso trimestre dell’anno precedente,
valutando la crescita della
compagnia relativamente alle performance
del passato. Analogamente, se nella
vostra vita le cose vanno meglio di
prima, allora state conducendo il miglior
genere di vita, una vita che
migliora, che cresce. Come abbiamo già detto in
questo libro, non potete
dire molto della vostra vita guardando la vita degli
altri. La vita cambia
costantemente. Il cambiamento è la natura del cosmo. Ecco
perché la
crescita è così importante. Anche se potessimo creare delle
circostanze
completamente felici, possiamo solo aspettarci che cambino. La
capacità
di crescere con questi cambiamenti è la vera felicità.
In
definitiva, costruiamo una vera felicità se sviluppiamo al
massimo la nostra
vita. Cercare di essere qualcun altro o quello che
pensate che qualcun altro
vuole che voi siate è un modo sicuro per
soffrire. Siate ciò che siete e
siatelo bene. Se crescete e progredite
continuamente, avrete la vita migliore
del mondo perché siete certi che
domani sarà sempre meglio di oggi.
IL CROLLO DELLE
ASPETTATIVE

Le
aspettative sono importanti. La ricerca indica che i bambini si
sviluppano solo
fino al punto in cui arrivano le aspettative degli adulti
che li attorniano. Ma
le aspettative possono anche distruggere una
relazione assolutamente valida.
Tutti nutriamo delle aspettative sugli
altri: ci aspettiamo che siano buoni
mariti, buone mogli, buoni figli,
buoni amici, buoni datori di lavoro, buoni
dipendenti, e così via. Queste
aspettative talvolta sono irrealisticamente
elevate, molto più elevate
delle aspettative che abbiamo su noi stessi.
Immaginiamo
una relazione in cui la passione iniziale sia sbiadita.
La luna di miele è
finita. Ora marito e moglie stanno prendendo
coscienza del fatto che il loro
coniuge non è perfetto. Diciamo che
entrambi vanno bene solo all’ottanta per
cento. «Mio marito/mia moglie
ha dei difetti e delle manchevolezze, come li
abbiamo tutti», ragionano.
Dato che tengono l’uno all’altra e hanno a cuore il
loro matrimonio,
entrambi desiderano e si aspettano che l’altro faccia degli
sforzi per
migliorarsi. Ognuno si aspetta che l’altro colmi il divario e
diventi il
partner ideale.
Motivati
dal loro amore, nel modo più affettuoso e premuroso
possibile cominciano a far
notare reciprocamente quel venti per cento
che manca. Ognuno crede che l’amore
che esiste tra loro motiverà
l’altro a sforzarsi duramente per colmare il
divario. Poiché sono motivati
dall’amore, quindi dalle migliori intenzioni, si
sorprendono nello
scoprire che dopo un periodo iniziale di risposte positive le
cose
peggiorano progressivamente. Perché? Dov’è finito l’amore?
Vi
suona familiare questo scenario? Conoscete qualche coppia che
all’inizio era
profondamente innamorata e non molti anni dopo ha finito
per separarsi
astiosamente? Perché succede questo? Sebbene ogni
situazione sia unica,
generalmente tutte hanno in comune una stessa
sottile illusione, un’illusione
che è un’insidia per tutti nelle relazioni
significative, con i figli, con i
familiari, con gli amici. Il problema è che
per quanto noi siamo motivati dalle
migliori intenzioni, spesso
riversiamo sull’altro un fiotto di critiche e di
recriminazioni. Questo non
è affatto incoraggiante e a dispetto del nostro
amore l’altro si allontana
da noi o addirittura si ribella. Il problema è che,
per quanto i nostri
sentimenti siano sinceri, manchiamo di saggezza. Spinti
dall’amore ma
privi di saggezza, la risposta che i nostri sforzi suscitano è
l’opposto di
quella che ci aspettavamo. Una volta che questa spirale
discendente è
iniziata, risulta molto difficile invertirla.
Le
persone non reagiscono bene alla negatività e alle critiche
costanti. Ciò
significa che dovremmo semplicemente accontentarci di
qualcosa di meno? No,
significa, ancora una volta, che stiamo cercando
di cambiare la persona
sbagliata. Se vogliamo che le persone facciano di
più, dobbiamo lodare e apprezzare
quello che stanno già facendo per
noi. In altre parole, dovremmo focalizzare la
nostra attenzione
sull’ottanta per cento che già c’è e non sul venti per cento
che manca!
Le persone amano la lode e l’apprezzamento e si sforzano duramente
per ottenerli. Mettere queste due cose alla base di tutte le vostre
relazioni
può avere una grande influenza positiva. Per il giardiniere delle
relazioni,
lode e apprezzamento sono come il sole e l’acqua. Gli altri si
sforzeranno e
cresceranno rigogliosamente se vengono lodati e
apprezzati.
Le
critiche e le recriminazioni creano un ambiente cupo, un
giardino in cui le
relazioni non possono prosperare. È una grande
illusione pensare che gli altri
possano essere motivati dalle critiche.
Nichiren scrive: «Quando siamo lodati,
non consideriamo il nostro
rischio personale, quando al contrario siamo
criticati, possiamo
incautamente causare la nostra rovina. Tale è la via dei
comuni mortali».
LAVORO E CARRIERA

L’ambiente
di lavoro e le relazioni che formiamo al suo interno
sono un’importante sfida
nel cammino verso l’illuminazione. In un certo
senso, i fatti della vita e del
lavoro sono il campo di prova della nostra
pratica buddista. Quale carriera uno
sceglie ha poco a che fare con la sua
felicità. A fare la differenza non è ciò
che facciamo per vivere, ma come
lo facciamo, e se il nostro lavoro è per noi
significativo e ci fa sentire
utili. Perciò, per quanto sia importante recitare
molto per scegliere una
professione che sia in sintonia con le nostre
aspirazioni, tormentarsi
sulla scelta della professione è in una certa misura
irrilevante al fine
della nostra felicità.
Questo
non vuol dire che non vi siano tantissime persone scontente
del proprio lavoro.
Ci sono. Ma la colpa non è del lavoro; sono gli
atteggiamenti e le convinzioni
delle persone che impediscono loro di
essere felici e soddisfatte.
Tsunesaburo
Makiguchi, il primo presidente della Soka Gakkai
(l’organizzazione laica dei
praticanti del Buddismo di Nichiren in
Giappone), insegnò che ci sono tre tipi
di valore: la bellezza, il
guadagno e il bene. Il lavoro perfetto dovrebbe
includerli tutti e tre. Nel
mondo del lavoro, bellezza significa trovare un
lavoro che piace; il
guadagno indica un lavoro che permetta di guadagnare
abbastanza per
vivere; il valore del bene si riferisce a un lavoro utile agli
altri e che
contribuisce al buon andamento della società. Il lavoro ideale
sarebbe
quindi un lavoro che vi piace, che vi offre una sicurezza economica e
vi
permette di contribuire alla società. Sembra fantastico, ma raramente
corrisponde alla realtà. Pochi riescono a trovare il lavoro perfetto
dall’inizio. Alcuni hanno un lavoro che apprezzano, ma non guadagnano
abbastanza da sbarcare il lunario; altri magari guadagnano parecchio ma
odiano
il proprio lavoro. Così spesso vanno le cose. Ci sono anche quelli
che scoprono
di non essere affatto tagliati per la professione che
sognavano e che hanno
cercato di intraprendere.
La
cosa più importante per trovare soddisfazione nel lavoro è
diventare
indispensabili ovunque voi siate. Il modo migliore per trovare
il lavoro
migliore è diventare il miglior impiegato. Le buone circostanze
non formano
necessariamente buoni individui, ma i buoni individui
assicurano una buona
atmosfera nell’ambiente di lavoro. Imparando a
essere un individuo esemplare
nel lavoro, vi si presenteranno nuove
opportunità, aprendo un sentiero che vi
condurrà alla successiva fase
della vostra vita, durante la quale dovrete
comunque continuare a fare
del vostro meglio. Questi continui sforzi vi
permetteranno sicuramente
di trovare un lavoro che vi piace, che vi fa
guadagnare in modo
soddisfacente e che vi permette di contribuire alla società.
Allora,
quando in seguito vi guarderete indietro, vedrete che tutti gli sforzi
fatti
in passato sono diventati preziose risorse per il vostro lavoro ideale.
Vi
renderete conto che gli sforzi che avete fatto e le difficoltà che avete
dovuto superare non sono andati sprecati.
Per
i beni immobili si dice che le tre cose più importanti sono la
posizione, la
posizione e la posizione. Per trovare felicità nel lavoro le
tre cose più
importanti sono l’atteggiamento, l’atteggiamento e
l’atteggiamento. Al primo
importante principio per avere successo nel
lavoro – diventare indispensabili –
dobbiamo aggiungerne un secondo:
creare armonia nell’ambiente di lavoro.
Il
luogo di lavoro è una società o una comunità sui generis, nella
quale è
importante creare relazioni armoniose con tutti i colleghi,
compresi i vostri
superiori e i vostri subordinati, usando saggezza e
discrezione lungo il cammino.
Se suscitate l’ostilità dei vostri colleghi
per il vostro comportamento egoista
o egocentrico, sarete un perdente
sia nel lavoro sia nella società. La saggezza
– che include il tatto – è
vitale per avere successo nel proprio lavoro.
L’ESPERIENZA DI BRANDON:
UN «CATTIVO KARMA
ECONOMICO»

Parecchi
anni fa Brandon, un giovane trentenne, chiese un
consiglio a un praticante
buddista con maggiore esperienza di lui perché
voleva cambiare quello che lui
chiamava il suo «cattivo karma
economico».
Brandon
era disperato. Si era appena licenziato, era sul punto di
perdere la casa, e
sua moglie, ritenendolo un irresponsabile, stava
pensando di lasciarlo e di
andarsene con i figli. Nel chiedere consiglio
Brandon spiegò molto chiaramente
che aveva bisogno di trovare
immediatamente un lavoro che gli facesse
guadagnare un mucchio di
soldi. Voleva sapere come recitare per realizzare
questo obiettivo.
Gli
fu detto che Nam myoho renge kyo non è una formula magica
come «abracadabra»
(benché talvolta sembri che lo sia) e che il
Buddismo non era un racconto delle
fate. Nell’udire queste parole
Brandon fu sorpreso e un poco scoraggiato. Gli
venne chiesto quali
erano state le sue esperienze di lavoro e in che modo si
era cacciato in
quel vicolo cieco. Egli ammise che sembrava incapace di tenere
a lungo
un lavoro. Aveva cambiato otto lavori in meno di dieci anni. «Perché
devo avere un karma di lavoro così cattivo?» si chiedeva. «I lavori che
prendo
sulle prime sembrano sempre buoni ma poi per qualche ragione
non funzionano
mai. Come posso recitare per avere un lavoro migliore e
duraturo?» Ogni volta
che aveva lasciato un lavoro o che era stato
licenziato era stato a causa dei
suoi capi. Non riusciva proprio ad andare
d’accordo con loro. Gli fu chiesto se
vedeva uno schema in questi
eventi. «Oh sì» rispose. «Ciò che voglio realmente
sapere è perché ho
un così cattivo karma con i capi. Qualunque capo abbia mai
avuto era
autoritario ed era impossibile lavorare con lui. Come posso recitare
per
trovare un capo migliore?»
Brandon
era un programmatore di computer altamente qualificato e
con eccellenti
credenziali. La persona che gli stava dando il consiglio gli
parlò del ruolo
del piccolo io nel distruggere l’armonia nelle relazioni,
spiegandogli che una
delle qualità più importanti di un buon dipendente
è la capacità di collaborare
con gli altri e di seguire le direttive dei suoi
superiori. Sottolineò poi che
gli elementi dello schema che Brandon
ripeteva (il cattivo rapporto con i suoi
capi, la perdita del lavoro e la
conseguente precarietà economica) erano tutti
sintomi della sua
incapacità di superare le divergenze al fine di lavorare
assieme agli altri.
Benché fosse un consiglio severo, Brandon riconobbe la sua
natura
arrogante e collerica e ammise che questo per lui era stato un problema
fin
dall’infanzia.
Disse
allora: «Stavo pensando di mettermi in proprio, così non
dovrò lavorare per
nessuno. Come posso recitare per riuscire a farlo?»
Fu avvertito che lavorare
in proprio richiedeva una capacità ancora
maggiore di avere buoni rapporti con
gli altri. Che lavorasse in proprio o
per qualcun altro, doveva trascendere il
suo egocentrismo e imparare a
rispettare gli altri; doveva vincere la sua
arroganza. Se lo avesse fatto,
sarebbe stato in grado di trasformare la sua
situazione lavorativa e di
risolvere anche i suoi problemi coniugali, dal
momento che avevano la
stessa origine.
Il
suo amico buddista lo avvertì anche che avrebbe sicuramente
affrontato
nuovamente una situazione in cui avrebbe pensato che il suo
lavoro non stava
funzionando e avrebbe voluto licenziarsi o scontrarsi
con i suoi superiori
(cioè ripetere il suo schema di comportamento
abituale). Quando questo avverrà,
gli disse, non agire. Aspetta e recita.
Com’era
prevedibile, circa tre mesi dopo Brandon si trovò per
l’ennesima volta sul
punto di lasciare il lavoro. L’amico gli chiese di
rimandare la sua decisione
di due settimane e di sforzarsi allo stesso
tempo nella pratica buddista con la
decisione di controllare la sua
arroganza, rispettando e ascoltando il suo
capo. Lo incoraggiò a
sforzarsi per diventare indispensabile. Brandon seguì il
consiglio e, con
sua grande sorpresa, invece di venire licenziato ricevette una
promozione. Grazie alla sua nuova stabilità lavorativa, la sua situazione
finanziaria cominciò a migliorare, lui e sua moglie si riconciliarono e
alla
fine poterono comprare una casa nuova. Tutto questo non successe
«miracolosamente», dal giorno alla notte. Fu il risultato di un sottile ma
profondo cambiamento interiore, ottenuto attraverso la pratica buddista,
che gradualmente
si manifestò nell’ambiente di Brandon. Questo è il
potere della rivoluzione
umana.
VI — IL BUDDISMO E LA
SALUTE

«La salute è talmente necessaria per tutte le


incombenze, oltre che per i piaceri, della vita, che il
crimine di sperperarla
è pari alla follia
».
Samuel Johnson

«Nam myoho renge kyo è come il ruggito di


un
leone. Quale malattia può quindi essere un
ostacolo?
»
Nichiren
VIL BUDDISMO E LA SALUTE

Benché
non fosse un medico, il Budda Shakyamuni fu spesso
definito «il grande re della
medicina». Tramite la meditazione arrivò a
capire che la medicina più efficace
è l’illuminazione, o la Buddità,
perché grazie alle sue virtù facciamo emergere
la saggezza innata e la
forza vitale necessarie per curare le nostre malattie
fisiche e mentali.
Perciò, lo scopo principale della medicina buddista è
aiutare gli
individui a sviluppare i loro naturali poteri di autoguarigione,
coltivando
l’illuminazione per mezzo della pratica buddista. Questa concezione
di
salute sta ottenendo un diffuso riconoscimento anche al di fuori
dell’ambito
buddista. Il preambolo della carta dell’Organizzazione
mondiale della sanità
dichiara: «La salute è uno stato di completo
benessere fisico, mentale e
sociale e non semplicemente l’assenza di
malattie e di infermit
Siamo
tutti esseri umani, fatti di carne e ossa. È un fatto innegabile
che nessuno
può evitare di ammalarsi, prima o poi. Ma le radici della
malattia giacciono
nelle profondità del nostro essere. Dal punto di vista
del Buddismo, la
malattia non può distruggere la nostra felicità (a meno
che non le permettiamo
di farlo) e, dato che la causa della malattia è
dentro di noi, anche il rimedio
fondamentale per guarire dalla malattia è
dentro di noi. È importante
ricordarsene. Non c’è, dunque, nessun
motivo di essere dominati dalla malattia,
di permetterle di farci
precipitare nella sofferenza, nella paura o
nell’angoscia.
Il
Buddismo ci insegna che abbiamo il potere non solo di
trasformare uno stato
negativo in uno stato neutrale ma addirittura di
utilizzarlo per raggiungere
uno stato ancora più positivo. In altre parole,
superando la sofferenza della
malattia arricchiamo la nostra vita
rendendola più nobile, e la malattia
diventa così la materia prima per
aumentare giorno dopo giorno il nostro senso
di appagamento e
soddisfazione.
Nella
sua autobiografia La storia della mia
vita Helen Kellerscrisse
che
«ogni cosa ha le sue meraviglie, anche l’oscurità e il silenzio, e in
qualunque
stato io mi trovi imparo a esserne contenta». Proprio come la
vera felicità non
è semplicemente l’assenza di problemi, ma uno stato
vitale interiore che ci
permette di sfidare qualunque ostacolo alla felicità
che si presenta sul nostro
cammino, la salute non è semplicemente
l’assenza di malattie. Piuttosto è uno
stato dell’essere che ci permette di
superare la malattia e gli ostacoli alla
nostra salute. Il punto
fondamentale è se riusciamo a sconfiggere la malattia
quando ci
colpisce, o se invece lasciamo che sia la malattia a sconfiggere noi.
Il
Buddismo ci indica la fonte della saggezza e della forza vitale necessarie
per sconfiggere la malattia. Poiché sia la salute sia la malattia esistono
come
potenzialità nella nostra vita, possiamo ammalarci ma possiamo
anche tornare a
essere sani.
Una
notizia di cronaca di pochi anni fa illustra questa verità.
Durante
una partita di football di una scuola superiore alcune
persone si sentirono
male. I loro sintomi erano quelli di
un’intossicazione alimentare. A una prima
indagine sembrò risultare che
la causa fosse una bevanda analcolica
contaminata. Il bar venne chiuso
immediatamente e fu fatto un annuncio
chiedendo a chiunque avesse
comprato delle bibite al bar di non berle
assolutamente. Subito dopo
l’annuncio, moltissimi spettatori sugli spalti
cominciarono a vomitare e
a svenire. Molti si precipitarono al pronto soccorso.
Più di cento persone
furono ricoverate in ospedale.
Il
giorno successivo fu appurato che le bevande non avevano nulla
a che fare con i
sintomi presentati dalle persone che erano state male per
prime. La vera causa
era infatti una particolare varietà di influenza. Non
appena questa
informazione venne diffusa, tutti gli spettatori che
avevano accusato sintomi
analoghi guarirono «miracolosamente». I loro
sintomi semplicemente scomparvero
e anche coloro che erano stati
ricoverati in ospedale si alzarono dal letto e
se ne andarono. La causa
del loro malessere non era un agente patogeno ma
un’idea espressa in
parole che aveva avuto un immediato e drastico effetto nel
causare tanto
la malattia quanto l’improvvisa guarigione.
Un
altro caso del genere è quello di un giovane che grazie alla sua
forte pratica
buddista e alle eccellenti cure mediche era riuscito a guarire
dal cancro non
una, ma ben due volte. Una terza volta però gli venne
diagnosticato un cancro
del sangue e gli fu detto che non c’erano
possibilità di guarigione e che gli
restavano solo pochi mesi di vita.
Benché avesse già sconfitto il cancro due
volte, davanti a quella
prognosi perse le speranze e la sua salute cominciò
rapidamente a
peggiorare. Gli amici, i familiari e persino i medici erano
convinti che
stesse per morire. In seguito venne scoperto che in laboratorio il
suo
campione di sangue era stato scambiato con quello di un’altra persona.
Nel
suo sangue non c’era alcuna traccia di cellule cancerose. Quando lo
seppe, il
giovane riacquistò immediatamente le energie e si riprese
rapidamente.
Questo
è ciò che può succedere quando siamo fortemente
influenzati da una diagnosi di
malattia o quando, viceversa, facciamo
appello alle nostre risorse per
superarla. Tale è il potere della
convinzione.
Un’altra
dimostrazione del potere della convinzione è il cosiddetto
effetto placebo. La
ricerca medica ha dimostrato da molto tempo che
una sostanza inerte può avere
un effetto positivo sui pazienti se questi
credono che si tratti di una
medicina efficace. Innumerevoli studi
riportano che una considerevole
percentuale di pazienti ai quali sono
state date pillole di zucchero invece di
farmaci hanno mostrato segni di
guarigione. Non solo, se i pazienti erano stati
informati di quali
sarebbero dovuti essere gli effetti della cura, essi
presentavano proprio
quegli effetti.
LA VISIONE BUDDISTA DELLA
MALATTIA

Mantenersi
in buona salute o superare una malattia inizia dalla
nostra comprensione della
vera natura dell’io. La malattia può essere
un’opportunità per costruire una
base ancora più solida della nostra
felicità, stimolandoci a cambiamenti di
vita significativi, benché spesso
difficili. Come Nichiren ha scritto: «La
malattia fa nascere la decisione
di entrare nella Via».
Ciò
non vuol dire che noi rifiutiamo la medicina moderna in favore
di qualche sorta
di terapia autogestita. Al contrario, il Buddismo di
Nichiren suggerisce tre
punti essenziali per guarire da una malattia:
andare da un bravo medico,
prendere medicine efficaci ed essere un
paziente eccellente. Quest’ultimo punto
si riferisce a uno stato di vita
interiore. Nichiren spiega che la cosa
migliore che possiamo fare per
purificare il nostro stato di vita è recitare
Nam myoho renge kyo. Scrisse
anche: «Nam myoho renge kyo è come il ruggito di
un leone. Quale
malattia può quindi essere un ostacolo?»
Recitare
Nam myoho renge kyo è la fonte della saggezza che ci
permette di trovare il medico
giusto, e della forza vitale che renderà
efficaci le medicine. La recitazione
di Nam myoho renge kyo è di per sé
un’energia guaritrice.
Il
processo di guarigione comincia col rafforzare la fiducia e la
convinzione di
essere in grado di sconfiggere la malattia, di trasformare
in medicina il
veleno della malattia. Se il nostro atteggiamento è di
sconfitta, sarà la
malattia a vincere sulla nostra volontà di guarire. Se
invece assumiamo un
atteggiamento di sfida, allora le nostre possibilità
di guarigione sono
massime.
LA VISIONE SCIENTIFICA:
L’INSEPARABILITÀ DI CORPO E
MENTE

Ci
sono crescenti prove scientifiche di un’intima e inscindibile
relazione tra il
funzionamento della mente e quello del corpo. La
credenza nella separazione
dualistica tra mente e corpo, che ha
fortemente influenzato gli albori della
scienza medica, sta gradualmente
cedendo il posto a una visione più profonda,
molto vicina alla visione
buddista dell’inseparabilità di corpo e mente.
In
realtà il termine giapponese che viene qui tradotto come «non
dualità»
significa più precisamente «due ma non due» (vedi il paragrafo
La non dualità della vita e del suo ambiente
nel terzo capitolo), nel
senso che per quanto la mente e il corpo appaiano
superficialmente
come due fenomeni distinti, a un livello più profondo sono una
sola
cosa.
Come
funziona la non dualità di mente e corpo? Gli scienziati
hanno scoperto che
l’elaborazione degli stimoli ambientali da parte del
cervello genera complesse
reazioni bioelettriche e biochimiche nel
corpo, che a loro volta causano il
nostro comportamento. Nel caso della
malattia, la sequenza è più o meno questa:
quando uno stimolo
ambientale viene percepito ed elaborato dal cervello
(consciamente o
inconsciamente), questo processo è fortemente influenzato dalle
proprie
convinzioni, idee e aspettative. Ciò suscita una complessa reazione
biologica (ad esempio, nell’ipotalamo, la reazione neuroendocrina e il
rilascio
di ormoni) che influenza la risposta immunitaria del corpo
determinando la
«capacità» di far fronte alla malattia. Questo dà luogo
ai sintomi fisici, come
il naso che cola, il mal di testa, o il dolore alle
articolazioni.
Dal
momento che le idee, le aspettative e le convinzioni hanno un
potente effetto
sul funzionamento del corpo, il pensiero distorto
(l’illusione) avrà un forte
impatto sulla propria salute e sulla capacità di
superare la malattia.
Gli
psicologi hanno identificato varie opinioni sulla vita che
possono minare la
salute, ostacolare la capacità di superare la malattia e
causare disturbi
psicologici e spirituali come la depressione, l’ansia e il
panico. Tra queste
opinioni vi sono: considerare gli altri responsabili del
proprio dolore;
interpretare i pensieri e le azioni degli altri come se
fossero rivolti contro
di noi, o credere che gli altri pensino a noi più di
quanto in effetti non
facciano; trarre conclusioni generali fataliste sulla
base di eventi specifici
o di informazioni limitate.
Perciò,
per superare le malattie, oltre alle cure mediche è
necessario anche un
cambiamento di pensiero. Non basta identificare i
nostri pensieri distorti:
bisogna cambiare il nostro modo di pensare
compiendo un mutamento di paradigma.
È la pratica buddista che ci
permette di compiere questo mutamento.
LA VISIONE BUDDISTA DI
MENTE E CORPO

Da
una prospettiva buddista la buona salute inizia con la
comprensione della vera
natura della relazione mente-corpo. La malattia
non è solamente un fenomeno
fisico, essa può anche riflettere uno
squilibrio spirituale nella nostra vita.
Da
quattromila anni il Buddismo spiega la relazione mente-corpo
in termini
notevolmente simili a quelli della moderna ricerca medica.
Come ha spiegato il
maestro cinese T’ien-t’ai, esistono cinque
componenti che rendono unico ognuno
di noi: 1) la forma (il corpo), 2)
la percezione, 3) la concezione, 4) la
volizione e 5) la coscienza.
Ognuno di noi ha una forma unica. Ognuno di noi
vede le cose
soggettivamente, traendo conclusioni che talvolta sono
diversissime da
quelle delle altre persone che sperimentano gli stessi
fenomeni. Sulla
base delle conclusioni che abbiamo tratto, compiamo delle
azioni.
Questo processo è enormemente influenzato dal nostro grado di
consapevolezza della realtà.
Facciamo
l’esempio di una donna che camminando di notte in un
viottolo buio intravede un
pezzo di tessuto bianco sopra un albero.
Subito capisce di cosa si tratta e
pensa: «Toh, guarda, un lenzuolo steso
ad asciugare è stato portato via dal
vento e si è impigliato sull’albero».
Un istante dopo nello stesso punto passa
un uomo che vedendo il
lenzuolo impigliato sull’albero si spaventa
terribilmente credendo di
avere visto un fantasma, ha un attacco di cuore e
muore sul colpo. Che
cosa lo ha ucciso? Sicuramente non il lenzuolo
sull’albero. È stata la sua
percezione distorta della situazione, la
conclusione di essere di fronte a
una grave minaccia, la conseguente scarica di
adrenalina e
l’innalzamento della pressione sanguigna, e l’effetto di tutto
questo sulle
sue condizioni fisiche.
Nel
Buddismo cerchiamo di sostituire la visione distorta della vita
con la
saggezza. Come ha scritto Daisaku Ikeda nei Misteri
di nascita e
morte: «Risvegliare la natura di Budda permette di
neutralizzare gli
effetti patologici e di armonizzare gli elementi costitutivi
della vita,
mantenendo così la stabilità interna. Perciò la natura buddica può
essere
considerata la forza vitale pura che regola e mantiene l’equilibrio
omeostatico della vita individuale e della vita in genere. Quando
attingiamo
questa forza vitale [...] possiamo accordare il ritmo della
nostra vita
individuale con quello dell’universo e accrescere così la
nostra vitalità e la
nostra forza. Questo è l’ideale buddista di buona
salute».[18]
In
altre parole, recitando Nam myoho renge kyo facciamo emergere
dalla nostra vita
la condizione del Budda, ricca di saggezza e di
compassione. Possiamo allora
riflettere positivamente sulle nostre
convinzioni e sulle nostre azioni, il che
ci permette di regolare e
riformare la nostra vita. Possiamo spezzare la catena
karmica negativa di
pensieri e azioni, stabilendo una direzione positiva e dinamica.
Le nostre
tendenze vitali da negative diventano positive.
Avere
una condizione vitale sana è fondamentale per avere un
corpo e una mente sani.
Nichiren scrisse: «L’inseparabilità di corpo e
mente è il sentiero supremo
della vita».
La
chiave, allora, sta nel liberarci dei nostri attaccamenti alle
opinioni
illusorie o che vanno contro la vita. Per citare di nuovo
Nichiren: «Perciò
affrettatevi a cambiare i princìpi su cui si basa il
vostro cuore e ad
abbracciate l’unico vero veicolo, la sola buona dottrina
[del Sutra del Loto].
Se lo farete [...] il vostro corpo troverà pace e
sicurezza e la vostra mente
sarà calma e indisturbata».[19]
Combattere
le illusioni che indeboliscono la nostra capacità di
lottare contro la malattia
è essenziale per sviluppare e mantenere la
buona salute. Mentre la scienza sta
cominciando relativamente da poco
tempo a riconoscere la relazione tra la
nostra prospettiva spirituale e la
nostra salute, il Buddismo si occupa di
questa relazione da migliaia
d’anni. La sua conclusione è che gli esseri umani
sono in grado di
produrre dall’interno la medicina risanatrice.
Racchiusi
nella nostra vita esistono i grandi tesori della natura
buddica: la saggezza,
la compassione e il coraggio. Quando utilizziamo
queste medicine, siamo davvero
il Budda nello specchio. In termini
medici, ogni essere umano è sia uno
stabilimento farmaceutico – è in
grado, cioè, di produrre le medicine
necessarie per evitare o superare le
malattie – sia una riserva di tutte le
emozioni umane positive che
possono influenzare la propria capacità di
combattere la malattia. La
chiave per attingere da questa riserva è recitare
Nam myoho renge kyo.

[18] I misteri di nascita e morte, Esperia, Milano, 2004, pagg. 64-65

[19] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. I, pag. 26


L’ESPERIENZA DI ALBERT: LA
VITTORIA SULL’HIV, UN
MISTERO MEDICO

Albert
non potrà mai dimenticare la sera del 20 febbraio 1986.
Tornando a casa dal
lavoro, si fermò a fare un po’ di spesa. Uscendo dal
negozio fu aggredito e
colpito due volte alla coscia e una volta al collo
con una siringa ipodermica.
Tutto per cinque dollari e pochi spiccioli.
Fu
portato all’ospedale dove gli medicarono le ferite. Dal momento
che era stato
ferito con una siringa, il suo medico era consapevole della
possibilità che
fosse stato infettato dal virus hiv,
ma non poté fare altro
che incoraggiarlo a prendersi cura della sua salute e a
sottoporsi a
regolari controlli.
Tredici
anni dopo, l’hiv comparve nel suo
sangue. Quando lo
seppe, Albert fu assalito dalla paura, chiedendosi se sarebbe
riuscito ad
affrontare la malattia. Quanto sarebbe vissuto? Avrebbe sopportato
gli
effetti collaterali delle terapie?
Nel
mentre aveva cominciato a praticare il Buddismo di Nichiren,
perciò dopo la
comparsa del virus recitò più intensamente per la propria
salute e il proprio
benessere fisico. Il costante incoraggiamento dei
compagni di fede lo spronò a
fare notevoli sforzi nella pratica, grazie ai
quali riuscì a conservare la
fiducia, il coraggio e lo spirito combattivo.
Benché ovviamente attraversasse
dei periodi bui, Albert mantenne un
atteggiamento positivo e non perse mai la
speranza. Era determinato a
superare la sua malattia.
Alla
fine, gli venne diagnosticato l’aids
conclamato e subito dopo
fu ricoverato per una polmonite. Il suo peso scese da
settantadue a
cinquantaquattro chili. Il suo medico gli prescrisse tre diversi
farmaci.
Da parte sua, Albert fece le sue ricerche personali che lo portarono a
controllare l’alimentazione e ad assumere regolarmente varie tisane di
erbe
medicinali che minimizzarono gli effetti collaterali. Durante quel
difficile
periodo, disse al suo medico di avere due obiettivi: riacquistare
il suo peso
di settantadue chili e ridurre la sua carica virale (la quantità
di virus hiv presenti nel corpo) a un livello non
rilevabile entro due
mesi. Il medico lo avvertì che ci sarebbero voluti come
minimo da sei a
otto mesi – ammesso che fosse vissuto tanto – ma lui non si
lasciò
scoraggiare e continuò a combattere la malattia usando la sua pratica
buddista. Per raggiungere i suoi obiettivi, recitava non meno di un’ora al
giorno, partecipava alle riunioni buddiste e studiava gli scritti e gli
insegnamenti di Nichiren tutte le sere. Tramite queste azioni la sua
fiducia
crebbe e lui si sentiva sempre più determinato a cambiare la sua
condizione.
Inoltre il suo desiderio di guarire trovò una motivazione più
grande: voleva
provare agli altri che potevano guarire anche loro.
Acquisì un nuovo controllo
sul suo destino. Gli amici buddisti si
raccolsero al suo fianco, recitando
assieme a lui per molte ore in tutto
quel periodo.
Tre
mesi dopo, ripeté le analisi del sangue. La sua carica virale non
era davvero
più rilevabile! Il suo peso era salito fino a sessantaquattro
chili. Cinque
mesi dopo, la carica virale era ancora non rilevabile e il
suo peso era
arrivato a settantaquattro chili. Tre medici diversi gli
dissero che dal punto
di vista scientifico era impossibile. Tuttavia era
successo. Albert non aveva
dubbi che la sua pratica buddista gli avesse
salvato la vita, dandogli la forza
interiore e la determinazione di lottare e
di vincere, contro tutte le
probabilità.
LA RESISTENZA ALLO STRESS

Le
emozioni positive sono davvero così importanti nella lotta tra
salute e
malattia? Esistono prove scientifiche a sostegno di ciò che il
Buddismo afferma
con forza? Le prove concrete esistono, e aumentano
di continuo. Prendiamo come
esempio lo stress.
Nell’American Journal of Community Psychology 6,
la psicologa
Barbara Dohrenwend descrive tre modalità con cui gli individui
possono
reagire allo stress: 1) crescita psicologica come risultato di un
evento di
vita stressante, che porta un individuo a maturare, a cambiare valori
e
aspirazioni o a imparare nuovi comportamenti che lo aiuteranno ad
affrontare
eventi simili nel futuro; 2) nessun cambiamento psicologico
sostanziale
permanente: l’individuo semplicemente riprende la sua vita
di prima senza
nessuna differenza di rilievo; 3) sviluppo di una
persistente psicopatologia
implicante modalità maladattive di
affrontamento.
Secondo
Dohrenwend, gli individui più esposti a esiti maladattivi
sono quelli che
sentono che le risorse disponibili sia in se stessi sia nel
loro ambiente sono
insufficienti per permettergli di gestire l’evento
stressante. In termini
buddisti, un «esito maladattivo» è un
comportamento basato sull’illusione di
essere impotenti a causare un
cambiamento delle proprie circostanze.
È
importante notare che nella tesi di Dohrenwend uno dei possibili
risultati di
una malattia è una positiva crescita psicologica. Il modo in
cui reagiamo alla
malattia determina se essa ci migliorerà, ci sconfiggerà
o semplicemente non
produrrà alcun cambiamento significativo.
Sono
stati identificati diversi tratti della personalità (convinzioni e
atteggiamenti) che possono facilitare una positiva gestione dello stress.
Nel
suo saggio Resources for Stress
Resistance: Parallels in Psychology
and Buddhism (Risorse di resistenza
allo stress: parallelismi tra
psicologia e Buddismo), Kathleen H. Dockett,
professore di psicologia
all’Università del Distretto di Columbia, identifica
un «modello di
personalità resistente allo stress» consistente di tre fattori:
impegno,
controllo e sfida. Essenzialmente, le persone resistenti sono quelle
che:
(1) si impegnano profondamente nel proprio miglioramento e nelle
attività
della vita quotidiana, (2) credono di potere controllare gli eventi
e (3)
considerano la vita come una sfida stimolante per una crescita
ulteriore e non
come una minaccia.
Dockett
sostiene che queste qualità sono tra quelle contenute nella
torre preziosa
della vita umana che la pratica buddista permette di
sviluppare.
In
conclusione Dockett afferma: «Il Buddismo di Shakyamuni, del
quale Nichiren
scelse il più alto insegnamento, il Sutra del Loto, è antico
di quasi tremila
anni, mentre la psicologia è nata poco più di cent’anni
fa. Tuttavia, la
profonda saggezza del Buddismo conosce e utilizza da
lungo tempo metodi che
solo di recente la psicologia ha convalidato
come approcci sani al benessere
psichico. Questo precedente suggerisce
con forza che il Buddismo ha molto da
offrire nel campo dello sviluppo
delle potenzialità umane, certamente molto al
di là dello specifico
ambito della resistenza allo stress».
L’ESPERIENZA DI STEVE:
GUARIGIONE DAL LINFOMA DI
HODGKIN

Subito
dopo avere compiuto quarant’anni Steve, che per tutta la
vita aveva goduto di
un’ottima salute, improvvisamente iniziò a stare
male. I suoi sintomi
includevano forti mali di schiena, sudorazioni,
brividi di freddo, nausea e
spossatezza. Gli fu diagnosticato un linfoma
di Hodgkin al quarto stadio con
prognosi infausta.
Si
erano formati dei tumori dietro l’orecchio, su entrambi i lati del
collo, nello
sterno e nell’addome. Un tumore grosso come una palla da
golf era fuso con la
spina dorsale. Un team di oncologi gli prescrisse sei
cicli di chemioterapia
particolarmente aggressiva. Steve praticava il
Buddismo da tredici anni. Sapeva
di dover affrontare una battaglia
all’ultimo sangue sia contro la malattia sia
contro gli effetti collaterali
della chemioterapia, e cominciò a recitare
energicamente Nam myoho
renge kyo mattina e sera per rafforzare il suo sistema
immunitario.
Dopo
quattro mesi di cure le sue condizioni peggiorarono. Fu
ricoverato in ospedale
con febbre alta e il sistema immunitario
compromesso. Sentendo che la morte si
stava avvicinando rapidamente,
iniziò a recitare Nam myoho renge kyo con tutte
le forze che gli erano
rimaste.
La
mattina del secondo giorno di ricovero, dopo moltissime ore di
recitazione, la
febbre cessò e Steve si sentì rivitalizzato. Parecchi giorni
dopo gli venne
fatta una tac. Sorprendentemente
non c’erano più tracce
di cancro.
Steve
è in perfetta salute dal 1987. Il cancro non è più ricomparso.
Il team di
oncologi che aveva seguito il suo caso rimase profondamente
impressionato dalla
capacità di Steve di rafforzare il suo sistema
immunitario attraverso la
pratica del Buddismo di Nichiren, liberandosi
così da tutte le cellule
cancerose.
CHI CURA?

Molti
di noi credono che la cura di una malattia dovrebbe essere
lasciata interamente
ai medici. Benché sia vero che dovremmo avere
fiducia nella capacità dei medici
di aiutarci, se riponiamo troppa fiducia
nel potere degli altri corriamo il
gravissimo rischio di perdere il nostro
potere, di indebolire la nostra forza
interiore. Possiamo reagire meglio
alla malattia se comprendiamo che noi non
siamo solo i pazienti ma
anche i medici di noi stessi. Il Buddismo ci chiede di
essere degli ottimi
pazienti, di trovare medici eccellenti e di fare squadra
con loro per
sconfiggere la malattia. Ma siamo noi che dobbiamo prendere il
comando.
In
definitiva, secondo il Buddismo, ciò che cura la malattia è la
nostra forza
vitale. I bravi medici e le migliori terapie possono sostenere
questa funzione,
ma non possono sostituirla. E recitare Nam myoho
renge kyo è la fonte di questa
forza vitale. Si dice che Nam myoho renge
kyo sia la migliore medicina mai
scoperta dagli esseri umani e che il
Budda sia il miglior medico.
Per
illustrare questa verità, nel Sutra del Loto Shakyamuni racconta
una parabola
intitolata «Il bravo medico e i suoi figli malati».
Un
eccellente medico, tornato a casa dopo un viaggio, trova i suoi
numerosi figli
che si stanno contorcendo dal dolore sul pavimento per
aver preso un veleno.
Prepara rapidamente un’eccellente medicina che li
libererà dalle loro
sofferenze e gliela offre. Alcuni dei figli,
rallegrandosi del ritorno del
padre, prendono subito la medicina e
guariscono. Altri, però, sono talmente
fuori di sé per il dolore che non
riconoscono il padre e rifiutano la medicina.
Solo quando finalmente lo
riconoscono e accettano di prendere la medicina,
anche loro sono
liberati dalla sofferenza.
Possiamo
interpretare questa parabola equiparando il medico al
Budda, mentre noi siamo i
figli che si contorcono dal dolore a causa
dell’avidità, della collera e della
stupidità. Secondo Nichiren,
l’eccellente medicina è la recitazione di Nam
myoho renge kyo. Tutti
quelli che prendono la medicina possono superare le loro
sofferenze di
questa vita.
Il
risveglio della nostra innata Buddità cura le malattie del corpo e
della mente.
Inoltre, la saggezza del Budda a cui attingiamo recitando
Nam myoho renge kyo
può aiutarci a mantenere la buona salute o a
recuperarla quando l’abbiamo
persa.
L’ESPERIENZA DI SUSAN: LA
BUONA SALUTE COMINCIA
CON L’AMARE SE STESSI

Susan
era cresciuta in una famiglia con un padre alcolista e una
madre instabile.
Aveva subìto abusi fisici e sessuali ed era cresciuta con
una scarsissima
autostima. Non ancora ventenne, era andata via di casa
per sfuggire a quella
situazione ma quasi immediatamente si era
ritrovata prigioniera di una
relazione caratterizzata dagli abusi, mentre
cercava di educare i suoi due
bambini. Se ne andò di nuovo. La sua
mancanza di autostima si trasformò in odio
di sé. Divenne dipendente
dal crack.
I suoi figli furono affidati ai servizi sociali. Susan faceva
qualunque cosa
pur di stare su e dimenticarsi della sua infelicità e del
disgusto che provava
per se stessa. La sola idea di potersi amare le era
sconosciuta. Era
inevitabile che fosse profondamente depressa.
Susan
viveva in questo stato miserevole quando una famiglia che la
conosceva le parlò
del Buddismo di Nichiren e lei cominciò a praticare.
Per quanto il cambiamento
non avvenne dall’oggi al domani, lo studio
del Buddismo e la costante
recitazione di Nam myoho renge kyo
gradualmente fecero crescere in lei la
determinazione di amare se stessa.
Cominciò a dare importanza a se stessa e ai
suoi figli.
Non
fu facile. Nel suo ambiente non c’era mai stato qualcuno che
la sostenesse, ma
all’improvviso fu circondata da persone che, sulla base
della filosofia
buddista, le ricordavano costantemente che dentro di lei
esisteva la Buddità.
Recitò per accrescere la sua autostima. Recitò per
amare se stessa e non
permettere più che qualcuno la trattasse in modo
degradante. Si sforzò di
aiutare gli altri, per quanto si sentisse
inadeguata a farlo.
Dopo
quell’inizio, si liberò della dipendenza dalla droga e creò una
certa stabilità
nella sua vita. Determinò che il suo karma di subire abusi
sarebbe finito con
lei e non si sarebbe trasmesso ai suoi figli, come
troppo spesso succede. La
sua pratica buddista la aiutò a spezzare la
catena di sofferenze che si era
tramandata nella sua famiglia per molte
generazioni.
LIBERARE IL POTERE
INTERIORE

Tra
le molte funzioni positive della recitazione di Nam myoho
renge kyo – la Legge
mistica – in riferimento alla buona salute, ci sono
le seguenti:

La Legge mistica ha il potere di


aprire l’io. Il Buddismo insegna
che ognuno di noi possiede dentro di
sé una riserva infinita di energia.
Come poter accedere a questa riserva è il
punto più importante. A tale
scopo, Nichiren ci ha donato la chiave per aprire
questo serbatoio di
energia. Recitare Nam myoho renge kyo libera il potenziale
nascosto
nella profondità della nostra vita. Questa è stata la grande scoperta
del
Buddismo. La pratica buddista apre l’accesso a questa preziosa riserva
interna, permettendoci di attingere da un potenziale illimitato.

La Legge mistica ha il potere di


rivitalizzare. La recitazione di
Nam myoho renge kyo fa emergere forza
vitale dall’interno ed è di per
sé risanatrice. Ha il potere di rivitalizzare,
di rinnovare e anche di
riunificare e ristrutturare la nostra vita. Attraverso
la recitazione di Nam
myoho renge kyo diventa possibile una nuova vita.
L’energia ottenuta
con la recitazione e i cambiamenti positivi che possiamo
attuare grazie a
essa sono rivoluzionari. La pratica del Buddismo genera la
propria
rivoluzione umana, che è un termine moderno corrispondente al
concetto
di «conseguimento della Buddità». La pratica buddista
rivitalizza la nostra
vita sviluppando i nostri tesori interiori.

La Legge mistica ha il potere di


dotare. Perciò, qualunque cosa
sia necessaria alla nostra felicità
diventerà nostra. La salute è una delle
molte «doti», o benefici, che possiamo
ricevere attraverso la recitazione
di Nam myoho renge kyo.
Ikeda
scrive: «Riassumendo, queste tre proprietà della Legge
mistica ci consentono di
attivare la nostra innata forza vitale, di
armonizzare le nostre funzioni
fisiche e spirituali e di sviluppare le
risorse necessarie per influenzare il
nostro ambiente per il meglio,
rispondendo con saggezza agli innumerevoli
cambiamenti esterni e
mantenendo l’equilibrio tra la nostra vita e l’ambiente.
Quando basiamo
le nostre vite su questa Legge, praticando il Buddismo come
insegna
Nichiren, possiamo sfruttare l’illimitato potere che esiste dentro di
noi, e
la malattia allora non è più causa di disperazione ma viene addirittura
trasformata in una fonte di crescita, di gioia e di vera soddisfazione».
Il
potere della nostra vita è infinito. Il potere liberato attraverso la
recitazione è il supremo potere curativo, è un’esplosione di energia
risanatrice dall’interno. Questa energia ha anche il potere di far tornare
la
propria vita alla sua forma originale.
Recitare
Nam myoho renge kyo. Sfruttare le enormi potenzialità
della vita. Raccogliere
le nostre risorse interiori nella lotta contro la
malattia. Questo è il
sentiero buddista per una vita lunga e sana.
VII — DI FRONTE ALLA MORTE

«Mentre le epoche precedenti parlavano


schiettamente della morte ma erano reticenti sulla
sessualità, la nostra epoca
è tediosamente loquace
sul sesso ma si rifiuta di considerare la morte come
un
fatto della vita
».
George F. Will

«Non ho paura di morire. Semplicemente non


voglio esserci
quando accadrà
».
Woody Allen
DI FRONTE ALLA MORTE

Quando
si parla della visione buddista della morte, si pensa subito
alla
reincarnazione: rinascere come un altro essere umano (più ricco e
più bello,
speriamo!), o magari come animale o perfino come insetto, a
seconda di quanto
virtuosi o spregevoli siamo stati in vita. Questa è la
visione popolare, ma è
quasi una caricatura del pensiero buddista. I
seguaci di Nichiren, che oggi
sono più di dodici milioni in tutto il
mondo, raramente, se non mai, si
riuniscono per discutere delle loro vite
precedenti.
Il
Buddismo è ragione e la pratica buddista non richiede nessun atto
di fede
stravagante. Logicamente, nessuno può sapere cosa succede
dopo la morte, perché
nessuno è tornato indietro a raccontarlo. Perciò il
tema della reincarnazione
rimane nel campo di ciò che è mistico, ovvero
di ciò che, in base agli attuali
sviluppi della scienza e della conoscenza
umana, non può essere spiegato o
compreso pienamente. È importante
perciò sottolineare che non è necessario
credere nella reincarnazione per
iniziare a praticare il Buddismo.
Per
quanto i dettagli specifici della rinascita – in quale forma e
quando
rinasceremo – siano in definitiva inconoscibili, il Buddismo
descritto in
questo libro accentua l’importanza di vedere il quadro
complessivo, scoprendo
l’eternità della vita dentro di sé. In questo
sistema di pensiero, la sfida
costituita dalla morte è quella di trovare il
modo di vivere più valido.
Dal
momento che tutti noi prima o poi dobbiamo morire, a cosa
serve vivere? Se
abbiamo già vissuto altre vite, perché non possiamo
ricordarcele? Se la vita è
eterna, in quale forma continueremo a esistere
dopo la morte?
Le
risposte del Buddismo a queste importanti domande ci
permettono perlomeno di
liberarci dalla paura della morte e forse
addirittura di guardare a essa con
fiducia. Il Buddismo parte dall’analisi
della sofferenza umana. Non lo fa per
rattristare il nostro cuore bensì per
illuminarlo. Il tema principale discusso
dal Budda Shakyamuni fu quello
delle quattro sofferenze universali di nascita
(cioè l’esistenza
quotidiana), invecchiamento, malattia e morte. Nessun essere
umano è
esente da queste sofferenze, e si può dire che le ultime tre sono
essenzialmente collegate all’estrema sofferenza della morte.
Come
scrive Daisaku Ikeda: «Solo l’essere umano è consapevole di
dover morire molto
prima che ciò avvenga realmente, e solo l’essere
umano ha il privilegio di
vivere con questa consapevolezza. Tutti gli
altri esseri sono egualmente
mortali, ma solo negli ultimissimi istanti di
vita sono consapevoli di questa
realtà. Sotto questo aspetto, l’essere
umano è dotato della speciale
prerogativa di sapere che morirà, e
proprio per questo può restare paralizzato
dalla paura e dall’angoscia».
Nessun
essere vivente può sfuggire alla morte. La morte può
gettare un’ombra cupa sul
cuore umano, ricordandoci costantemente
della natura finita della nostra
esistenza. Per quanto illimitate possano
sembrare la nostra ricchezza e la
nostra fama, per quanto duraturo possa
essere un amore o un altro rapporto
affettivo, la consapevolezza della
nostra scomparsa finale può minare il nostro
benessere. Per molti, la
paura della morte è profondamente radicata. Essa può
indebolire le basi
della nostra vita, causandoci ansia, sofferenza e tormento.
Allo stesso
tempo, se le basi della nostra vita sono deboli, possono
manifestarsi vari
problemi spirituali ed emotivi. Questo è un circolo vizioso
nella mente e
nel cuore causato dalla consapevolezza della morte. Nichiren
comprese
che la nostra paura della morte influenza profondamente il nostro
cuore
e la nostra felicità. Egli scrisse: «Dovremmo prima risolvere il problema
della morte e poi studiare tutte le altre questioni».
Si
dice che la ricerca dell’illuminazione da parte di Shakyamuni
fosse stata
motivata dal desiderio di trovare una soluzione alle quattro
sofferenze
fondamentali e, più specificamente, dal desiderio di superare
la paura della
morte. E il problema della morte – come affrontarla e
come trascenderla –
ispirò la creazione anche di molti altri sistemi
religiosi o filosofici.
La
questione della morte è stata definita la madre della filosofia. Il
filosofo
esistenzialista tedesco Martin Heidegger descrisse l’esistenza
umana come
«essere per la morte», dato che l’uomo fin da piccolo porta
dentro di sé la
conoscenza della propria morte incombente. Di qui il
detto buddista: «la causa
della morte non è la malattia ma la nascita».
Potrebbe sembrare preferibile non
pensare alla morte, fuorché forse
negli ultimi momenti della nostra vita.
Tuttavia oggi, a causa dei
progressi della medicina, il periodo in cui le
persone si trovano faccia a
faccia con la morte si è considerevolmente
allungato. L’agonia e
l’incertezza si prolungano per mesi, anche per anni. Ciò
ha portato a una
diversa considerazione sociale della morte in termini medici
ed etici,
come è dimostrato, ad esempio, dal dibattito sull’eutanasia.
Tuttavia, pur
con tutti i progressi della medicina, ancora non è stato trovato
un
accordo sul momento in cui la vita comincia e finisce.
Gran
parte dell’incertezza e dell’instabilità che osserviamo nella
società
contemporanea può essere fatta risalire alla mancata
comprensione della morte.
Il senso di finitezza della nostra vita – la
convinzione che la morte fisica
segni la fine assoluta e definitiva della
nostra esistenza – genera
nell’individuo una sorta di disperata urgenza.
Il pensiero che «si vive solo
una volta» spinge ad accumulare la
maggiore quantità possibile di piaceri e
sensazioni nel tempo limitato a
nostra disposizione. Come dice il proverbio:
«Mangia, bevi e stai
allegro, perché domani morirai». La scarsità di tempo
nell’attuale
società ha portato a escogitare ogni genere immaginabile di
strumenti e
servizi per farci risparmiare preziosi istanti da dedicare ad
attività
piacevoli. Un arcigno stacanovismo diurno spesso la sera cede il posto
a
uno sfrenato edonismo. Non sorprende che la ricerca del piacere sia
diventata
frenetica e che la spinta ad accrescere la propria ricchezza
materiale sia
ormai una vera e propria ossessione. Troppo spesso la vita
viene asservita al
carrierismo e alla ricerca del successo. Tuttavia, al
momento della morte, sono
poche le persone che guardandosi indietro
penseranno: «Avrei potuto trascorrere
più tempo in ufficio».
Dal
punto di vista di una società saldamente fondata sul
materialismo, la morte è
la negazione finale di tutte le nostre
caratteristiche materiali, perciò la
temiamo enormemente, proprio come
durante la vita temiamo la perdita dei nostri
possessi materiali. Di
conseguenza viviamo solo per l’istante, senza fare alcun
tentativo di
esaminare il funzionamento interiore della mente o di indagare
sulla
natura della morte. Cos’è la morte? Cosa ci succede dopo che moriamo?
Non
cercare risposte a queste domande è come trascorrere gli anni di
studio
all’università senza mai pensare a quel che faremo dopo la laurea.
Se non si
accetta la morte, non è possibile avere una direzione precisa
nella vita. La
comprensione della morte ci permette di rendere la nostra
vita veramente
stabile e profonda.
Ma
esiste una visione della morte e di ciò che accade dopo la morte
che attinga a
una dimensione spirituale ma non contraddica le
conoscenze scientifiche sulle
leggi dell’universo? Di fatto esiste. Il
Buddismo propone una visione della
morte naturalistica e non
sovrannaturale. Spiegheremo ora cosa intendiamo dire
con questo.
LA VISIONE BUDDISTA DI VITA
E MORTE

Per
molte persone, morte significa mera assenza di vita. In
quest’ottica, la vita è
percepita come tutto ciò che è bene – ciò che
incarna la pienezza e la luce. La
morte è percepita al contrario come
tutto ciò che è male – ciò che denota il
vuoto e l’oscurità. Questa
percezione negativa della morte ha influenzato
l’esistenza umana sin
dagli albori della storia. Ma questa visione della morte
è semplicistica e
infantile, specialmente alla luce dei cicli di creazione ed
estinzione che
governano il mondo naturale e l’universo stesso. Come abbiamo
visto, il
Buddismo insegna con grande precisione l’intima e inscindibile
relazione che lega il microcosmo della vita umana individuale al
macrocosmo
della vita universale. Tutti i fenomeni universali sono
contenuti in un singolo
istante di vita, nella profondità della nostra vita,
e ogni istante di vita
vibra a ritmo con tutti i fenomeni dell’universo.
Questa non è un’intuizione
limitata ai seguaci di Nichiren o a qualche
particolare scuola filosofica.
Basti pensare ai versi del poeta William
Blake:

Vedere
un mondo in un grano di sabbia
e
il Paradiso in un fiore di campo,
tenere
l’infinito nel palmo della mano,
l’eternità
in un’ora.

Avere
una simile percezione significa davvero vivere nell’istante, e
non per l’istante.
La differenza è quella che passa tra ciò che è materiale
e ciò che è eterno. Il
Buddismo vede la nostra vita nel contesto del
macrocosmo, la vita dell’universo
che è esistita per tutta l’eternità (o
almeno da un passato inimmaginabilmente
remoto). Allo stesso modo
anche la nostra vita, che è una sola cosa con la vita
dell’universo, è
sempre esistita in una forma o nell’altra, percorrendo un
ciclo senza fine
di nascita e morte, declino e rinnovamento, soggetto alle
leggi fisiche di
questo universo. Secondo l’insegnamento del Budda, la vita,
come
l’energia, non può essere né creata né distrutta, e la morte è
semplicemente il processo di declino e rinnovamento che governa tutti i
fenomeni. Perciò la filosofia buddista anticipa di quasi tremila anni le
leggi
della conservazione dell’energia e della materia, che affermano
che né
l’energia né la materia vanno mai perse ma si convertono
semplicemente in forme
differenti. (Per esempio, l’energia elettrica che
attraversa il filamento di
una lampadina si converte in luce e calore.)
Nichiren insegnò che vita e morte
sono gli aspetti alterni del nostro vero
io, espressi dalla Legge di Nam myoho
renge kyo. Egli scrive: «
Myo
rappresenta la morte e ho la vita.
Gli esseri viventi che attraversano le
due fasi di vita e morte sono le entità
dei dieci mondi, o le entità di
Myoho renge kyo […] Nessun fenomeno, il cielo e
la terra, yin e yang,
il sole e la luna, i cinque pianeti
[20] o
ciascuno dei mondi dall’Inferno
alla Buddità, sono liberi dalle due fasi di
vita e morte. Vita e morte sono
semplicemente le due funzioni di Myoho renge
kyo».
In
altre parole, tutte le cose che si manifestano fisicamente nello
stato di vita,
si ritirano in uno stato di latenza dopo la loro estinzione o
morte. Il
Buddismo distingue tra la realtà fisica e uno stato di latenza in
cui la vita
continua a esistere invisibilmente. Questa condizione di
latenza, che è uno
stato né di esistenza né di non esistenza, può creare
sconcerto agli
occidentali. Per noi, una cosa o esiste o non esiste. Ma
pensate a un fiore di
ciliegio in inverno. Benché il fiore non sia visibile,
esiste, dormiente, in
attesa di sbocciare quando si presenteranno le
condizioni adatte (la primavera).
Lo stesso vale per la nostra vita.
Quando il corpo fisico cessa di funzionare,
la nostra vita entra in una
nuova fase, un periodo di latenza, seguito dalla
rinascita. Come scrive
Daisaku Ikeda: «Secondo la visione buddista la vita è
eterna e si
reincarna continuamente, per cui il Buddismo considera la morte non
tanto la fine della vita quanto l’inizio di una nuova esistenza. Per i
buddisti
il fenomeno della reincarnazione è evidente di per sé, come lo
era per gli
antichi indiani, che lo chiamavano, in sanscrito, samsara.
[…] La premessa fondamentale del Buddismo è che la vita è
eterna e
che ogni singolo essere vivente attraversa un ciclo ininterrotto di
nascite
e morti. Alcuni dei risultati di recenti ricerche scientifiche sia nel
campo
della medicina sia in quello della parapsicologia tendono a suffragare
queste idee. Tali ricerche includono gli studi sulle “esperienze di
quasi-
morte” e quelli sulle “esperienze di vite passate”».
Per
quanto riprendere una prospettiva filosofica orientata verso la
vita eterna
potrebbe sembrare idealistico o non scientifico, nient’altro
che un balsamo
emotivo per il nostro terrore esistenziale, in verità è il
modo più ragionevole
e realistico di considerare la questione. Senza la
morte, non ci potrebbe
essere vita. Josei Toda, il secondo presidente
della Soka Gakkai, una volta
scrisse: «Nulla sarebbe più spaventoso che
non morire. Un conto sarebbe se ci
fossero solo esseri umani. Ma se tutti
gli esseri viventi non dovessero morire,
le conseguenze sarebbero
veramente disastrose. Supponiamo che tutti i gatti, i
cani, i topi e persino
i polpi non morissero. Ciò creerebbe enormi problemi. Se
nulla dovesse
morire, cosa succederebbe? Anche se qualcuno o qualcosa venisse
battuto, o ucciso, o investito da un treno, o privato del cibo, non
morirebbe.
La conseguenza sarebbe un pandemonio».
La
morte è necessaria. Ci permette di apprezzare la meraviglia
della vita, di
assaporare la grande gioia di essere vivi. Nichiren afferrò il
profondo
concetto di vita e morte espresso dal Sutra del Loto, che spiega
che sia la
vita sia la morte sono intrinseche alla vita umana. Sottolineò
che l’opinione
comune che la vita e la morte sono due fenomeni separati
conduce o alla
credenza in un’anima che continua a esistere
eternamente, o all’idea che la
morte corrisponda all’annullamento e che
al di là di essa non vi sia niente.
«Il resto è silenzio», per dirla con
Amleto. Entrambe le prospettive, disse
Nichiren, sono illusorie, perché
ignorano il ciclo di vita e morte che permea
l’universo. Come egli
scrisse: «Odiare la vita e la morte e cercare di
separarsi da esse è
illusione o illuminazione parziale. Percepire che la vita e
la morte sono
essenziali è illuminazione o completa comprensione. Ora, quando
Nichiren e i suoi discepoli recitano Nam myoho renge kyo, sanno che
vita e
morte sono l’intrinseco funzionamento dell’essenza fondamentale.
Essere e non
essere, nascita e morte, apparizione e scomparsa, esistenza
terrena e futura
estinzione, sono tutti processi essenziali ed eterni».
Comprendendo
profondamente questa raffinata visione possiamo
progredire verso
l’illuminazione e affrontare la morte con dignità. Ma
resta la domanda: se la
vita continua, in quale forma continua? Dal
momento che la forma implica
l’incarnazione o la materia, e gli
insegnamenti buddisti non suggeriscono che
l’io fisico sopravviva in
qualche modo per poi rinascere, è necessario un altro
approccio. Per
afferrare pienamente la prospettiva buddista sulla morte,
dobbiamo
analizzare in dettaglio la teoria delle «nove coscienze».

[20] Nel XIII


secolo erano conosciuti solo Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno [Nda].
I NOVE LIVELLI DI COSCIENZA

La
teoria buddista delle nove coscienze è un sistema psicologico
che è spesso
stato paragonato al lavoro pionieristico dello psicologo
svizzero Carl Jung,
che postulò un «inconscio collettivo» di ricordi
comuni a tutti gli esseri umani.
Questi ricordi provengono dal lontano
passato e contengono immagini
archetipiche che ricorrono in tutte le
culture e sono state trasmesse fin dai
tempi preistorici. Il concetto
junghiano di inconscio collettivo è analogo
all’ottava coscienza (la
coscienza alaya)
della teoria buddista, che funge da deposito per i
ricordi accumulati dalle
prime sette coscienze e che sopravvive dopo la
morte.
Secondo
l’analisi buddista, le prime cinque coscienze
corrispondono ai cinque sensi
della vista, dell’udito, dell’olfatto, del
gusto e del tatto. La sesta
coscienza integra le percezioni dei cinque
sensi in immagini coerenti e giudica
il mondo esterno. Prendiamo, per
esempio, un petalo di rosa. È rosso, soffice e
profumato. La nostra sesta
coscienza riunisce questi dati sensoriali e forma
l’idea di una rosa
(anziché quella, diciamo, di una fragola). Insieme, le prime
sei
coscienze costituiscono la mente conscia.
In
contrasto con le prime sei coscienze, che si occupano del mondo
esterno, la
settima coscienza, o coscienza mano,
non dipende
direttamente dai sensi ed è deputata a discernere il mondo
interiore. In
questo contesto mano
significa infatti «discernimento». Dalla settima
coscienza viene il giudizio
ponderato: una rosa è bella. Si dice che la
consapevolezza dell’io e
l’attaccamento a esso abbiano origine nella
coscienza mano, così come la capacità di distinguere il bene dal male.
Nei
termini della psicologia freudiana potrebbe essere considerata
analoga all’ego.
Fu attraverso la sua percezione della settima coscienza
che il filosofo
francese René Descartes potè formulare la famosa prova
della propria esistenza:
«Penso, dunque sono». Quando siamo svegli, i
sei sensi (cioè i cinque sensi più
la sesta coscienza) sono dominanti.
Quando dormiamo, la settima coscienza affiora
nella forma dei sogni,
mentre le funzioni dei sei sensi diventano latenti.
L’ottavo
livello, la coscienza alaya, è un
gradino più in profondità
della coscienza mano,
ovvero del regno dell’ego individuale. Tutte le
reazioni dei sei sensi agli
stimoli esterni e i nostri giudizi su di essi,
anche le nostre impressioni più
fugaci, vengono registrate e
immagazzinate nell’ottava coscienza. Questo
deposito è grosso modo
paragonabile alla memoria, ma è anche molto di più. Il
Buddismo
sostiene che l’ottava coscienza ricorda e conserva non solo ogni
esperienza di questa vita – comprese tutte le cause che abbiamo creato
attraverso i pensieri, le parole e le azioni – ma anche tutte le esperienze
del
passato.
Il
Buddismo insegna che non esiste un’anima o uno spirito che
governa la mente e
il corpo e dopo la morte continua a esistere,
fluttuando nell’aria. Il
Cristianesimo e le altre religioni occidentali
sostengono che un individuo vive
una sola volta e che le azioni che
compie durante questo periodo limitato
determinano per sempre il
destino della sua anima eterna. Nella visione
buddista, per usare una
metafora, la vita è come la pagina di un libro. Quando
si volta pagina, ne
appare una nuova.
Anziché
la nozione di un’anima eterea, il Buddismo espone quella
di vero io, che
continua a esistere che si sia vivi o morti. La coscienza
alaya può essere considerata il luogo in cui si intrecciano tutte
le cause e
gli effetti che costituiscono il destino di questo io individuale.
Quando la
vita riappare nel mondo fenomenico, i semi karmici nella coscienza
alaya fioriscono nuovamente, ma in nuove
circostanze e in una nuova
forma fisica. Il Buddismo considera come un dato di
fatto che il proprio
io continui a esistere per tutta l’eternità. Che sia
latente nello stato di
morte o manifesto nello stato di vita, si tratta della
stessa energia vitale.
Consideriamo
questo semplice fatto: tanto a due anni quanto a
diciassette, a cinquantadue o
a settantotto, noi siamo sempre la stessa
persona. Anche se, come ci dice la
scienza medica, quasi ogni cellula
del nostro corpo viene sostituita durante la
durata della nostra vita, noi
continuiamo a essere noi stessi. La nostra
personalità può anche
cambiare radicalmente, possiamo cambiare professione,
opinioni
politiche, e così via, ma nella profondità della nostra vita esiste un
continuum. È l’essenza della nostra individualità. Tutti i ricordi, le
abitudini e il karma immagazzinati col trascorrere del tempo nella
coscienza alaya formano l’io individuale, o la
struttura dell’essere
individuale che ripete il ciclo di nascita e morte.
Questo
karma o coscienza ereditata non ha nulla di statico o di
irreversibile. Non
importa quale sia il nostro karma, possiamo sempre
migliorarlo usando la nostra
libera volontà. In altre parole, il concetto
buddista di karma non corrisponde
in alcun modo a ciò che s’intende
ordinariamente per fato o destino. Alcune
persone cadono nel fatalismo,
considerando solo un aspetto del karma, cioè
l’idea che il karma delle
proprie vite passate continua nella vita presente.
Tuttavia, secondo la
legge di causalità, in ogni istante noi creiamo nuovo
karma. Ciò
significa che anche nel momento presente, di nostra libera volontà,
stiamo creando una nuova tendenza vitale e dando forma al futuro.
Nichiren
disse che nell’eterno ciclo di nascita e morte la legge di causa
ed effetto è
una regola ferrea. Con la consapevolezza che è possibile
trovare un significato
positivo in qualunque cosa ci accada nella vita, la
recitazione di Nam myoho
renge kyo è il modo per migliorare o
cambiare il proprio karma.
Quando
riconosciamo che le cause e le condizioni essenziali per la
nostra felicità
risiedono dentro la nostra vita, possiamo trovare il
coraggio di assumerci la
responsabilità delle nostre sofferenze e di fare
ogni possibile sforzo per
trasformarle e diventare felici. Se
comprendiamo di essere noi stessi i
creatori del nostro destino, troviamo
dentro di noi una luce di speranza che
illumina ogni aspetto
dell’esistenza.
Dopo
la morte, tuttavia, nella nuova esistenza, anche se la nostra
«memoria» karmica
resta integra, noi non avremo alcun ricordo
cosciente della nostra vita
precedente. Come afferma il Sutra Agama
misto: «Gli effetti karmici esistono, ma la persona che li ha causati non
più». In effetti, si è obbligati a bere l’acqua del Lete, il fiume della
mitologia greca che fa dimenticare il passato. Come le moderne
neuroscienze
hanno stabilito, la memoria fisica ha bisogno di un
cervello fisico, e il
cervello che ricorda gli eventi di questa vita è
differente dalla coscienza che
ha registrato gli eventi della vita
precedente. Quando il cervello fisico
muore, scompaiono anche i suoi
ricordi. La memoria karmica che noi chiamiamo alaya, nella quale sono
impresse tutte
le cause che abbiamo creato, è di un genere differente
dalla memoria cerebrale.
Ma l’io che sta alla base è lo stesso. Proprio
come il sonno, che per quanto
lungo e profondo non può cambiare la
nostra identità, il nostro karma continua
a esistere anche dopo la morte.
La
natura di ciò che rinasce è stata oggetto di interminabili e vane
discussioni.
Quando accendiamo una candela con un’altra, la luce
rimane la stessa? Ma nella
ricerca dell’illuminazione i dettagli non sono
importanti. La teoria delle nove
coscienze, dopo tutto, è solo una teoria.
Ma è una teoria particolarmente
suggestiva alla luce delle attuali
conoscenze sull’universo e sulla natura e la
psiche umana. Secondo la
teoria delle nove coscienze, la coscienza alaya, che costituisce la base di
tutte
le funzioni emotive e spirituali, è in costante flusso, come un
torrente
impetuoso che incessantemente subisce cambiamenti e
trasformazioni. Questo
stato dinamico che sta alla base della vita
individuale mantiene le
caratteristiche uniche proprie di ciascun
individuo. Quando siamo svegli, la
coscienza alaya è nascosta sotto la
superficie e genera sentimenti indistinti, influenzando intensamente le
nostre
impressioni e i nostri gusti. Quando dormiamo le prime sei
coscienze si
ritirano, e la coscienza mano assume
il controllo. Ciò non
significa che i nostri sensi siano completamente inattivi.
Un rumore
forte o una luce intensa possono svegliarci. Quando moriamo, invece,
la
nostra vita recede interamente nel regno della coscienza alaya. Perciò
non possiamo né vedere, né
udire, né odorare, né gustare né provare
sensazioni tattili. La nostra
coscienza è al di là anche della settima
coscienza e si ritrae totalmente nella
coscienza alaya.
L’analogia
tra il sonno e la morte (il «grande sonno») è inevitabile.
Come ha scritto il
leader buddista britannico Richard Causton nel suo
libro La meravigliosa Legge del Loto: «Il sonno, come la morte, è
un
aspetto fondamentale e misterioso della vita. Andiamo a letto stanchi e
ci
svegliamo rinvigoriti. Il Buddismo inoltre insegna che moriamo
quando siamo
consumati e che poi l’entità della nostra vita rinascerà
sotto nuove forme.
Sonno e morte esprimono così il continuo ritmo di
myoho, la Legge mistica. la lezione qui è chiara, perché quando saremo
davvero in grado di considerare la morte
proprio come il sonno, cioè un
periodo di riposo e di recupero nell’eternità
della nostra vita, allora essa
non ci incuterà più terrore, e potremo
addirittura aspettarla con la stessa
gioia con cui pregustiamo una buona
dormita notturna dopo una
giornata di duro lavoro, fiduciosi che la nostra vita
rinascerà fresca e
vigorosa».[21]
I
ricercatori hanno dimostrato che ci sono diversi livelli di sonno.
Durante la
fase rem (rapid eye movements, rapidi movimenti oculari) le
onde cerebrali
sono particolarmente intense e se il sonno viene interrotto
i sogni possono
essere ricordati facilmente. Secondo Causton, il
Buddismo considera il sogno
come la «liberazione» dei vari pensieri,
parole e azioni immagazzinati
nell’ottava coscienza, a causa del fatto
che la mente conscia lascia la sua
presa per alcune ore. Una persona che
viene svegliata durante il sonno rem è immediatamente consapevole del
suo
ambiente, mentre chi viene svegliato dai livelli di sonno più
profondi, il
cosiddetto sonno delta, sperimenta un estremo
disorientamento e un vuoto di
memoria. In un brano estremamente
suggestivo del suo romanzo Alla ricerca del tempo perduto, Marcel
Proust illustra questo fenomeno: «Ma era sufficiente che, nel mio stesso
letto,
il mio sonno fosse profondo e tale da distendere completamente il
mio spirito,
ed ecco che questo abbandonava la mappa del luogo dove
mi ero addormentato e,
svegliandomi nel pieno della notte, io non
sapevo più dove mi trovassi e, in un
primissimo momento, nemmeno chi
fossi; avevo nella sua semplicità primaria
soltanto il sentimento
dell’esistenza così come può fremere nella profondità di
un animale; ero
più privo di tutto dell’uomo delle caverne: ma a quel punto il
ricordo –
non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove
avevo abitato e sarei potuto essere – veniva a me come un soccorso
dall’alto
per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a
sfuggire; in un
secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini,
confusamente intraviste, di
qualche lampada a petrolio, poi di alcune
camicie col collo piegato,
ricomponevano a poco a poco i tratti originali
del mio io».
Questo
stato di «non essere» così espressivamente descritto da
Proust suggerisce
l’esistenza di un livello di coscienza ancora più
profondo di quello
sperimentato durante il sonno normale. Un livello
che ricorda le esperienze
documentate di persone che sono tornate dalla
soglia della morte. Le esperienze
di quasi-morte, con i loro resoconti
vividamente coerenti dell’osservazione del
proprio corpo dall’esterno in
uno stato sereno e distaccato, suggeriscono che
il proprio io, anche se il
corpo è virtualmente morto, rimanga vivo. Nei
racconti buddisti il
defunto generalmente attraversa un fiume, che indica il
passaggio dalla
coscienza mano alla
coscienza alaya. Queste esperienze e
questi
racconti sembrano indicare che, nella profondità dell’impetuoso torrente
della coscienza alaya, vi sia una
condizione vitale pura e pacifica,
l’eterna e immutabile natura di Budda.

[21] Richard
Causton, La meravigliosa Legge del Loto,
Esperia, Milano, 2012, pag. 185
LA NONA COSCIENZA O
BUDDITÀ

Si
può dire che il motivo per cui l’insegnamento buddista riesce a
inquadrare la
morte in una prospettiva più ampia è che ha scoperto nella
vita individuale il
livello fondamentale, libero da tutte le impurità
karmiche. Questo livello è
chiamato coscienza amala, o
illuminazione.
Amala significa
purezza assoluta. La coscienza amala
è direttamente
connessa alla vita universale, cioè a Nam myoho renge kyo, la
legge
fondamentale di vita e morte. Nichiren chiamò questo livello della vita
anche «il palazzo della nona coscienza». Sia la vita sia la morte sono
espressioni dell’esistenza umana, ed entrambe sono incluse nella grande
vita
universale della Buddità che esiste nella profondità della nostra vita
individuale. Basandoci sulla condizione di Buddità stabilita in questa
vita
attraverso la fede e la pratica assidua, possiamo morire in pace e
dignitosamente.
Riferendosi
alla morte del padre di un suo giovane seguace,
Nichiren scrisse: «Finché era
in vita egli era un Budda vivente e ora è un
Budda defunto. Si è Budda sia
nella vita sia nella morte. Questa è la
profonda dottrina del conseguimento
della Buddità nella forma
[22]
presente». In questo passo, Nichiren
espone il principio che si può
essere felici eternamente conseguendo la Buddità
in questa vita. Il
messaggio fondamentale del Sutra del Loto è che la Buddità è
un
potenziale che esiste dentro ognuno di noi. Nichiren insegnò il modo di
sviluppare e rafforzare la Buddità dentro di noi. Perciò, se mentre siamo
vivi
facciamo sgorgare costantemente la Buddità dalle profondità della
nostra vita,
questo flusso continuerà anche dopo la morte e nella vita
successiva.
Praticando
gli insegnamenti di Nichiren e recitando Nam myoho
renge kyo possiamo
sviluppare la saggezza e la convinzione che ci
permettono di inquadrare la
morte in una prospettiva più ampia.
Illuminando noi stessi continuamente,
possiamo anche stabilire
un’incrollabile fiducia nell’eternità della nostra
stessa vita. Inoltre,
praticando il Buddismo di Nichiren, facciamo emergere la
gioia
dall’interno. Infine, dal momento che il coraggio è un aspetto della
Buddità, possiamo vincere la paura della morte. Solo allora è possibile
concentrarsi su come utilizzare il tempo che ci resta da vivere per la
felicità
del genere umano, realizzando la nostra missione in questa vita e
in questo
mondo. Nei Misteri di nascita e morte
Daisaku Ikeda scrive:
«[Nichiren] diede concreta espressione alla coscienza amala con Nam
myoho renge kyo, aprendo
così un sentiero attraverso il quale tutte le
persone possono rivelare la
Buddità e far emergere dalla latenza il loro
grande io. [...] Nam myoho renge
kyo è la via per aprire la Buddità
innata in ognuno di noi, permettendole di
sgorgare dall’interno verso
l’esterno e purificare così la nostra vita».[23]

[22] Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. I, pag. 403

[23] I misteri di nascita e morte, Esperia, Milano, pagg. 165-166


IL MODO CORRETTO DI
MORIRE

Come
richiede la legge di causa ed effetto, moriamo nel modo in
cui siamo vissuti.
Al momento della morte, le nostre cause passate si
manifestano con particolare
chiarezza nel nostro aspetto. In quel
momento non c’è alcun modo di nascondere
la verità sulla vita che
abbiamo vissuto. Perciò, stabilire quale sia il modo
ideale di morire
significa in realtà stabilire il modo ideale di vivere.
Dobbiamo portare
avanti la nostra pratica buddista ora, così da non avere
rimpianti in
punto di morte. Il modo in cui affrontiamo il momento della morte
determina se abbiamo realizzato pienamente la nostra vita oppure no.
Il
Buddismo dà un valore assoluto alla vita di ogni essere umano.
Per il Buddismo
una persona che ha sviluppato pienamente il suo
potenziale è, in un certo
senso, un Budda. Una persona che ha fatto tutto
il possibile per compiere la
sua missione in questa vita è chiamata un
Budda. Ikeda scrive: «Un giorno o
l’altro la morte arriva per tutti.
Possiamo morire avendo lottato duramente per
la nostra fede e le nostre
convinzioni, o possiamo morire senza averlo fatto.
Dato che dobbiamo
morire in ogni caso, non è di gran lunga meglio intraprendere
il viaggio
verso la prossima esistenza con lo spirito alto, con un luminoso
sorriso
sul volto, sapendo che tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto
nel miglior modo possibile e pensando con emozione “È stata davvero
una vita
interessante”?»
Perciò,
da una prospettiva buddista, la nostra capacità di
attraversare positivamente
il processo della morte dipende dagli sforzi
compiuti in vita per accumulare
buone cause, contribuendo alla felicità
degli altri e rafforzando le fondamenta
della bontà e dell’umanità nella
profondità del nostro essere. Se siamo stati
vincitori nella vita possiamo
esserlo anche nella morte. Questo è il modo di
usare la legge di causa ed
effetto per creare il massimo valore.
Possiamo
dunque capire che la morte è più che l’assenza di vita;
che la morte, insieme
con la vita, è necessaria per formare un tutto più
vasto ed essenziale. Tutto
questo riflette la più profonda continuità di
vita e morte che sperimentiamo
come individui ed esprimiamo come
cultura. Una sfida cruciale per il nuovo secolo
è quella di stabilire una
cultura basata sulla comprensione della relazione tra
la vita e la morte e
della essenziale eternità della vita. Un simile
orientamento non
disconosce la morte, ma la affronta direttamente e la colloca
correttamente entro il più vasto complesso della vita.
Morire
felicemente è difficile. Ma dato che la morte è il rendiconto
finale della
propria vita, il momento della morte è il momento in cui
emerge il nostro vero
io. Noi pratichiamo il Buddismo per vivere felici e
morire felici. Il Buddismo
assicura che coloro che praticano
sinceramente moriranno in una condizione di
suprema soddisfazione.
VIII — COME PRATICARE
COME PRATICARE

Nel
corso di questo libro abbiamo spiegato che la chiave per
superare gli ostacoli
della vita e realizzare gli obiettivi che ci siamo
prefissi si trova dentro di
noi. Abbiamo esaminato l’interconnessione tra
noi stessi e gli altri, e tra la
nostra vita e il nostro ambiente. Abbiamo
anche esposto una prospettiva diversa
e incoraggiante sulla realtà della
morte. Il passo decisivo ora è mettere in
pratica ciò che abbiamo
imparato, passando dalla mera teoria alla realizzazione
concreta del
nostro enorme potenziale. Come abbiamo detto, il Buddismo è
ragione,
e cosa c’è di più ragionevole che valutare l’efficacia di qualcosa
solo
dopo averlo messo alla prova? La pratica primaria, come abbiamo
spiegato,
è recitare Nam myoho renge kyo.
LA RECITAZIONE DI NAM
MYOHO RENGE KYO

Nam
myoho renge kyo può essere recitato dovunque e in
qualunque momento –
possibilmente senza disturbare gli altri – ma gli
effetti della pratica si
vedono meglio quando viene svolta regolarmente.
Vi suggeriamo di riservare un
po’ di tempo alla recitazione ogni mattina
e ogni sera, diciamo almeno cinque
minuti alla volta. Sedetevi comodi
ma con la schiena dritta, preferibilmente di
fronte a una parte spoglia
della parete o comunque a uno sfondo neutro, che non
vi distragga.
Unite le palme delle mani all’altezza del petto, con le dita
inclinate in
avanti e rivolte verso l’alto, così che la punta delle dita si
trovi più o
meno al livello del mento.
La
pronuncia può essere resa in italiano in questo modo: Nám mió
hó rén ghé chió,
con l’unica avvertenza aggiuntiva che l’h
di «ho» va
aspirata leggermente. Come vedete ogni sillaba è accentata e costituisce
una battuta di eguale lunghezza delle altre.
La
frase va ripetuta di seguito ininterrottamente, senza pause tra un
Nam myoho
renge kyo e il successivo. Ovviamente siete liberi di
fermarvi per prendere il
respiro tutte le volte che è necessario,
riprendendo poi il ritmo della
recitazione. Cercate di mantenere un tono
e un ritmo uniformi, ma senza
preoccuparvi troppo se inizialmente vi
riesce difficile. In breve tempo
diventerà naturale. Potete sia
concentrarvi su uno specifico obiettivo o un particolare
problema, sia
lasciare che la vostra mente scorra liberamente di pensiero in
pensiero.
Presto vedrete qualche risultato tangibile.
D’altra
parte, non è necessario essere convinti fin dall’inizio che
qualcosa accadrà. È
del tutto naturale avere dei dubbi. Già il vostro
iniziale tentativo di
«provare a vedere» è comunque un atto di fiducia, e
la fiducia si approfondirà
col tempo, grazie alle continue prove concrete
che otterrete. Tuttavia il
dubbio è un aspetto con il quale i praticanti si
devono sempre confrontare.
Come disse lo scrittore tedesco Hermann
Hesse: «La fede e il dubbio si
corrispondono e si integrano. Non c’è
vera fede dove non c’è nessun dubbio».
La
cosa essenziale, comunque, è utilizzare i vostri dubbi come
stimoli per cercare
le risposte alle vostre domande. In pratica, è utile
confrontarsi con altri
praticanti che possano incoraggiarvi negli
inevitabili periodi difficili, e che
a vostra volta potrete incoraggiare sulla
base delle esperienze che farete.
Come abbiamo sottolineato in questo
libro, non viviamo nel vuoto, e i nostri
sforzi per aiutare gli altri a
diventare felici accrescono proporzionalmente il
livello della nostra
felicità.
Se
volete fare un ulteriore passo avanti, esiste una vasta comunità
di persone che
praticano il Buddismo di Nichiren e che potrà fornirvi
sostegno mentre
sperimentate la pratica buddista. L’Istituto Buddista
Italiano Soka Gakkai
tiene riunioni di discussione e altre attività
culturali in tutta Italia. La
maggior parte delle riunioni sono informali e
si svolgono nelle case dei
praticanti. Tramite la comunità buddista,
potete imparare la pratica di
supporto, che consiste nel recitare, ogni
mattina e ogni sera, una porzione di
due capitoli del Sutra del Loto. La
pratica di supporto ha la funzione di
rafforzare la recitazione quotidiana
di Nam myoho renge kyo. La recitazione dei
due capitoli del sutra
presenta maggiori difficoltà di pronuncia, che possono
essere superate
grazie all’aiuto di chi ha maggiore esperienza.
Attraverso
l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai potrete anche
ricevere il Gohonzon,
l’«oggetto di culto», per potervi concentrare su di
esso durante la
recitazione. Il Gohonzon vi permette di fondere la vostra
saggezza soggettiva
con la realtà oggettiva dell’universo (come spiegato
in dettaglio nel terzo
capitolo).
Avere
degli amici buddisti che vi aiutino lungo il cammino è
estremamente utile per
portare avanti correttamente la vostra pratica, e
nell’Istituto Buddista
Italiano Soka Gakkai potrete trovarne tanti. Di
fatto, grazie alla Soka Gakkai
Internazionale, l’organizzazione mondiale
a cui fanno riferimento le comunità
buddiste dei singoli paesi, potrete
trovare amici in tutto il mondo
(attualmente ci sono più di dodici milioni
di praticanti in centonovantadue
nazioni). Per avere informazioni sulle
riunioni e le attività buddiste nella vostra zona, potete chiamare la sede
nazionale dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, a Firenze (Tel.
055426971), o visitare il sito: www.sgi-italia.org.
All’inizio
di questo libro abbiamo parlato dell’illimitato potenziale
di saggezza,
speranza, compassione, vitalità e resistenza che ogni
individuo possiede.
L’avventura inizia fin dalla primissima volta che
recitate Nam myoho renge kyo:
in quel momento il Budda si riflette
nello specchio della vostra vita.

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