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A cura di :
ELIO SGRECCIA
RELAZIONI INTRODUTTIVE
Prof. MÓNICA LÓPEZ BARAHONA, Recenti progressi in tema di biologia molecolare con un
impatto diretto sulla vita umana
Prof. ANGELO VESCOVI, Cellule staminali cerebrali: stabilità funzionale, plasticità e potenziale
terapeutico
Prof. IGNAZIO MARINO, Etica della ricerca biomedica: per una visione cristiana
Prof. GONZALO HERRANZ, Alcuni contributi cristiani all’etica della ricerca biomedica: una
prospettiva storica
Prof. ADRIANO PESSINA, La relazione tra la ricerca biomedica, l’antropologia e l’etica filosofica.
Appunti per una riflessione metodologica
Prof. WILLIAM MAY, Dignità umana e ricerca biomedica: le rispettive posizioni del soggetto della
ricerca e del ricercatore
Prof. DANIEL SERRÃO, L’etica della ricerca sperimentale sull’uomo: principii e linee guida
Rev. Prof. ROBERTO COLOMBO, I soggetti vulnerabili della ricerca biomedica: il caso
dell’embrione umano
Prof. ANTONIO SPAGNOLO, Comitati di etica per la ricerca: procedure e qualità della revisione
etica
Prof. JUAN DE DIOS VIAL CORREA, L’etica della sperimentazione sugli animali
Prof. PIERMARCO AROLDI, Il coinvolgimento del grande pubblico sullo sviluppo della ricerca
biomedica: il ruolo dei mass-media
S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, La politica della ricerca biomedica: valori e priorità
Comunicato Finale
2
JUAN
DE
DIOS
VIAL
CORREA,
ELIO
SGRECCIA
PRESENTAZIONE
Il
tema
affrontato
in
occasione
dell'annuale
Assemblea
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita:
"Etica
della
Ricerca
Biomedica.
Per
una
Visione
Cristiana"
(Città
del
Vaticano,
24-‐26
febbraio
2003)
si
caratterizza
per
la
vastità
del
panorama
delle
questioni
trattate
e
per
l'attualità
di
molti
problemi
che
vengono
necessariamente
affrontati.
L'etica
della
ricerca
riguarda
anzitutto
tutto
il
processo
che
l'investigazione
programmata
richiede:
il
progetto
nelle
sue
finalità
e
nei
finanziamenti;
l'etica
della
sperimentazione,
che
a
sua
volta
implica
molte
problematiche
(il
rischio,
il
consenso,
il
metodo
di
arruolamento
dei
pazienti,
la
validità
del
programma
investigativo,
l'obiettività
dei
controlli,
la
divulgazione
dei
risultati);
la
fase
applicativa
di
ordine
tecnologico
o
clinico;
la
questione
dell'assegnazione
delle
risorse
economiche
e
la
giustificazione
degli
eventuali
brevetti;
la
messa
a
disposizione
dei
farmaci
o
dei
presidi
terapeutici.
La
stessa
sperimentazione
animale
non
è
scevra
di
problemi
etici,
oggi
presi
in
considerazione
con
maggiore
sensibilità.
Alcune
questioni
delicate
toccano
non
soltanto
il
processo
della
ricerca
come
tale
ma
l'oggetto-‐
soggetto
della
sperimentazione:
l'embrione,
il
feto,
la
donna
in
età
fertile,
i
problemi
emergenti
dalla
procreazione
assistita,
dalla
clonazione,
dall'uso
delle
cellule
staminali:
le
popolazione
primitive,
problemi
questi
che
hanno
già
investito
la
sfera
del
diritto
e
mantengono
un'acuta
attività
e
problematicità
anche
nei
consessi
internazionali.
Altra
novità
degli
ultimi
tempi
è
costituita
dall'incidenza
sempre
più
forte
che
i
problemi
economici-‐finanziari
esercitano
sullo
sviluppo
della
ricerca
tutta,
compresa
quella
biomedica.
Il
livello
di
sviluppo
economico
di
un
Paese
esige
la
ricerca
scientifica
innovativa,
e
la
capacità
di
esportarne
i
risultati
e
i
prodotti.
La
ricerca
biomedica
non
si
sottrae
a
questo
fatto:
i
Paesi
più
sviluppati
economicamente
sono
quelli
che
hanno
una
ricerca
scientifica
più
avanzata
ed
un
livello
di
assistenza
medica.
Lo
svolgimento
dell'importante
incontro
di
studio,
preceduto
come
al
solito
da
una
preparazione
condotta
all'interno
di
una
Task-‐Force
di
specialisti
ha
toccato
la
gran
parte
di
questi
temi,
senza
trascurare
il
quadro
culturale
in
cui
si
collocano,
le
linee
di
tendenza
e
le
frontiere
più
avanzate
in
cui
oggi
si
colloca
la
ricerca
stessa
in
ambito
biologico,
neurologico,
medico-‐chirurgico.
Temi
specifici
come
quelli
della
ricerca
sull'embrione,
della
sperimentazione
sull'animale,
sulle
cellule
staminali
sono
stati
accompagnati
e
confrontati
con
i
temi
specificamente
bioetici,
filosofici,
socio-‐politici
e
normativi.
Ma
c'è
ancora
un
fatto
peculiare
che
qualifica
la
portata
del
Convegno
e
la
rilevanza
del
volume
che
ne
raccoglie
gli
Atti:
al
termine
dei
lavori,
oltre
alla
pubblicazione
delle
Conclusioni
che
ricalcano
le
tematiche
dei
lavori
e
le
linee
etiche
orientative,
è
stato
diramato
un
Appello
ai
Ricercatori,
per
invitarli
a
sottoscrivere
un
impegno
etico
qualificato
su
cui
svolgere
in
seguito
un
confronto
e
perseguire
un
dialogo.
Risulta
che
c'è
già
stata
un'adesione
significativa
a
questo
invito
anche
di
interi
Istituti.
Questo
appello
fa
eco
a
quello
del
Santo
Padre
incluso
nel
Suo
Discorso
ai
partecipanti:
"Rinnovo
pertanto
un
sentito
appello
affinché
la
ricerca
scientifica
e
biomedica,
evitando
ogni
tentazione
di
manipolazione
dell'uomo,
si
dedichi
con
impegno
ad
esplorare
vie
e
risorse
per
il
sostegno
della
vita
umana,
la
cura
delle
malattie
e
la
soluzione
dei
sempre
nuovi
problemi
in
ambito
biomedico"
(L'Osservatore
Romano,
24-‐25
febbraio
2003).
3
Questo
volume,
pertanto,
segna
un
punto
di
specifica
connotazione
delle
istanze
cristiane
nell'ambito
della
ricerca,
ma
porta
anche
il
segno
di
un
cammino
percorso
dalla
PAV,
la
quale,
come
ha
detto
il
Santo
Padre
nello
stesso
Discorso,
"nel
campo
della
ricerca
biomedica
può
costituire
un
punto
di
riferimento
e
d'illuminazione
non
solo
per
i
ricercatori
cattolici,
ma
anche
per
quanti
desiderano
operare
in
questo
settore
della
biomedicina
per
il
bene
vero
di
ogni
uomo"
(Ibid.).
È
un
invito
che
la
PAV
non
può
lasciar
cadere,
ma
ha
la
responsabilità
di
raccogliere
con
umiltà
e
spirito
di
servizio.
4
GIOVANNI
PAOLO
II
Discorso
ai
Partecipanti
alla
IX
Assemblea
Generale
della
PAV
Carissimi
membri
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita!
1.
La
celebrazione
della
vostra
Assemblea
mi
offre
l’occasione
di
rivolgervi
con
gioia
il
mio
saluto,
esprimendovi
apprezzamento
per
l’intenso
impegno
con
cui
l’Accademia
per
la
Vita
si
dedica
allo
studio
dei
nuovi
problemi
nel
campo
soprattutto
della
bioetica.
Un
particolare
ringraziamento
rivolgo
al
Presidente,
Prof.
Juan
de
Dios
Vial
Correa,
per
le
amabili
parole
di
saluto
indirizzatemi,
come
pure
al
Vice
Presidente,
Mons.
Elio
Sgreccia,
solerte
e
valido
nella
sua
dedizione
al
compito
affidatogli.
Saluto
anche
con
affetto
i
membri
del
Consiglio
Direttivo
e
i
Relatori
di
questa
importante
riunione.
2.
Nei
lavori
della
vostra
Assemblea
avete
voluto
affrontare,
in
un
programma
articolato
e
denso
di
riflessioni
fra
loro
complementari,
il
tema
della
ricerca
biomedica,
ponendovi
dal
punto
di
vista
della
ragione
illuminata
dalla
fede.
È
una
prospettiva
che
non
restringe
il
campo
di
osservazione,
ma
piuttosto
lo
amplia,
perché
la
luce
della
Rivelazione
viene
in
aiuto
della
ragione
per
una
più
piena
comprensione
di
ciò
che
è
proprio
della
dignità
dell’uomo.
Non
è
forse
l’uomo
che,
come
scienziato,
promuove
la
ricerca?
Spesso
è
ancora
l’uomo
il
soggetto
su
cui
si
compie
la
sperimentazione.
In
ogni
caso,
è
sempre
lui
il
destinatario
dei
risultati
della
ricerca
biomedica.
È
un
fatto
da
tutti
riconosciuto
che
i
miglioramenti
della
medicina
nella
cura
delle
malattie
dipendono
prioritariamente
dai
progressi
della
ricerca.
In
particolare,
è
soprattutto
in
questo
modo
che
la
medicina
ha
potuto
contribuire
in
maniera
decisiva
a
sconfiggere
epidemie
letali
e
ad
affrontare
con
esiti
positivi
gravi
malattie,
migliorando
notevolmente,
in
grandi
aree
del
mondo
sviluppato,
la
durata
e
la
qualità
della
vita.
Tutti,
credenti
e
non
credenti,
dobbiamo
rendere
omaggio
ed
esprimere
sincero
appoggio
a
questo
sforzo
della
scienza
biomedica,
rivolto
non
soltanto
a
farci
meglio
conoscere
le
meraviglie
del
corpo
umano,
ma
anche
a
favorire
un
degno
livello
di
salute
e
di
vita
per
le
popolazioni
del
pianeta.
3.
La
chiesa
cattolica
intende
esprimere
anche
un
ulteriore
motivo
di
gratitudine
a
tanti
scienziati
dediti
alla
ricerca
nell’ambito
della
biomedicina:
molte
volte,
infatti,
il
Magistero
ha
richiesto
il
loro
aiuto
per
la
soluzione
di
delicati
problemi
morali
e
sociali,
ricevendone
una
convinta
ed
efficace
collaborazione.
Qui
vorrei
ricordare
in
particolare
l’invito
che
il
Papa
Paolo
VI,
nell’Enciclica
Humanae
Vitae,
rivolse
a
ricercatori
e
scienziati,
affinché
offrissero
il
loro
contributo
"al
bene
della
famiglia
e
del
matrimonio",
cercando
di
"chiarire
più
a
fondo
le
diverse
condizioni
che
favoriscono
un’onesta
regolazione
della
procreazione
umana"
(n.24).
È
invito
che
faccio
mio
sottolineandone
la
permanente
attualità,
resa
anche
più
acuta
dalla
crescente
urgenza
di
trovare
soluzioni
"naturali"
ai
problemi
di
infertilità
coniugale.
Io
stesso,
nell’Enciclica
Evangelium
Vitae,
ho
fatto
appello
agli
intellettuali
cattolici
perché
si
rendessero
presenti
negli
ambienti
privilegiati
dell’elaborazione
culturale
e
della
ricerca
scientifica
per
rendere
operante
nella
società
una
nuova
cultura
della
vita
(cfr
n.
98).
Proprio
in
questa
prospettiva
ho
istituito
la
vostra
Accademia
per
la
Vita
con
il
compito
di
"studiare,
formare
e
informare
circa
i
principali
problemi
di
biomedicina
e
di
diritto,
relativi
alla
promozione
e
alla
difesa
della
vita,
soprattutto
nel
diretto
rapporto
che
essi
hanno
con
la
morale
5
cristiana
e
le
direttive
del
magistero
della
Chiesa"
(Motu
Proprio
Vitae
Mysterium,
4)
Nel
terreno
della
ricerca
biomedica
l’Accademia
per
la
Vita
può
quindi
costituire
un
punto
di
riferimento
e
di
illuminazione
non
solo
per
i
ricercatori
cattolici,
ma
anche
per
quanti
desiderano
operare
in
questo
settore
della
biomedicina
per
il
bene
vero
di
ogni
uomo.
4.
Rinnovo,
pertanto,
un
sentito
appello
affinché
la
ricerca
scientifica
e
biomedica,
evitando
ogni
tentazione
di
manipolazione
dell’uomo,
si
dedichi
con
impegno
ad
esplorare
vie
e
risorse
per
il
sostegno
della
vita
umana,
la
cura
delle
malattie
e
la
soluzione
dei
sempre
nuovi
problemi
in
ambito
biomedico.
La
Chiesa
rispetta
ed
appoggia
la
ricerca
scientifica,
quando
essa
persegue
un
orientamento
autenticamente
umanistico,
rifuggendo
da
ogni
forma
di
strumentalizzazione
o
distruzione
dell’essere
umano
e
mantenendosi
libera
dalla
schiavitù
degli
interessi
politici
ed
economici.
Proponendo
gli
orientamenti
morali
indicati
dalla
ragione
naturale,
la
Chiesa
è
convinta
di
offrire
un
servizio
prezioso
alla
ricerca
scientifica,
protesa
verso
il
perseguimento
del
bene
vero
dell’uomo.
In
questa
prospettiva
essa
ricorda
che
non
solo
gli
scopi,
ma
anche
i
metodi
e
i
mezzi
della
ricerca
devono
essere
sempre
rispettosi
della
dignità
di
ogni
essere
umano
in
qualsiasi
stadio
del
suo
sviluppo
e
in
ogni
fase
della
sperimentazione.
Oggi,
forse
più
che
in
altri
tempi
dato
l’enorme
sviluppo
delle
biotecnologie
anche
sperimentali
sull’uomo,
è
necessario
che
gli
scienziati
siano
consapevoli
dei
limiti
invalicabili
che
la
tutela
della
vita,
dell’integrità
e
dignità
di
ogni
essere
umano
impone
alla
loro
attività
di
ricerca.
Sono
tornato
più
volte
su
questo
argomento,
perché
sono
convinto
che
tacere
di
fronte
a
certi
esiti
o
pretese
della
sperimentazione
sull’uomo
non
è
permesso
a
nessuno
e
tanto
meno
alla
chiesa,
cui
quel
eventuale
silenzio
sarebbe
domani
imputato
da
parte
della
storia
e
forse
degli
stessi
cultori
della
scienza.
5.
Una
speciale
parola
di
incoraggiamento
desidero
rivolgere
agli
scienziati
cattolici
perché,
con
competenza
e
professionalità
offrano
il
loro
contributo
nei
settori
ove
più
e
urgente
un
aiuto
per
la
soluzione
dei
problemi
che
toccano
la
vita
e
la
salute
degli
uomini.
Il
mio
appello
è
rivolto
in
particolare
alle
Istituzioni
ed
alle
Università,
che
si
fregiano
della
qualifica
di
"cattoliche"
perché
si
impegnino
ad
essere
sempre
all’altezza
dei
valori
ideali
che
ne
hanno
propiziato
l’origine.
Occorre
un
vero
e
proprio
movimento
di
pensiero
e
una
nuova
cultura
di
alto
profilo
etico
e
di
ineccepibile
valore
scientifico,
per
promuovere
un
progresso
autenticamente
umano
ed
effettivamente
libera
nella
stessa
ricerca.
6.
Un’ultima
osservazione
è
necessaria;
cresce
l’urgenza
di
colmare
il
gravissimo
e
inaccettabile
fossato
che
separa
il
mondo
in
via
di
sviluppo
dal
mondo
sviluppato,
quanto
alla
capacità
di
portare
avanti
la
ricerca
biomedica,
a
beneficio
dell’assistenza
sanitaria
e
a
sostegno
delle
popolazioni
afflitte
dalla
miseria
e
da
disastrose
epidemie.
Penso,
in
special
modo,
al
dramma
dell’AIDS,
particolarmente
grave
in
molti
Paesi
dell’Africa.
Occorre
rendersi
conto
che
lasciare
queste
popolazioni
senza
le
risorse
della
scienza
e
della
cultura
significa
non
soltanto
condannarle
alla
povertà,
allo
sfruttamento
economico
e
alla
mancanza
di
organizzazione
sanitaria,
ma
anche
commettere
un’ingiustizia
e
alimentare
una
minaccia
a
lungo
termine
per
il
mondo
globalizzato.
Valorizzare
le
risorse
umane
endogene,
vuol
dire
garantire
l’equilibrio
sanitario
e,
in
definitiva
contribuire
alla
pace
del
mondo
intero.
L’istanza
morale
relativa
alla
ricerca
scientifica
biomedica
si
apre
così
necessariamente
ad
un
discorso
di
giustizia
e
di
solidarietà
internazionale.
7.
Auguro
alla
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
che
si
accinge
a
iniziare
il
suo
decimo
anno
di
vita,
di
prendere
a
cuore
questo
messaggio
e
di
farlo
giungere
a
tutti
i
ricercatori,
credenti
e
non
6
credenti,
contribuendo
anche
in
questo
modo
alla
missione
della
Chiesa
nel
nuovo
Millennio.
A
sostegno
di
questo
speciale
servizio,
caro
al
mio
cuore
e
necessario
per
l’umanità
di
oggi
e
di
domani,
invoco
su
di
voi
e
sul
vostro
lavoro
il
costante
aiuto
di
Dio
e
la
protezione
di
Maria,
Sede
della
Sapienza.
Come
pegno
dei
lumi
celesti,
imparto
volentieri
a
voi
e
ai
vostri
familiari
e
colleghi
di
lavoro
l’Apostolica
Benedizione.
(pubblicato
in
"L’Osservatore
Romano",
Lunedì-‐Martedì
24/25
Febbraio
2003,
p.
5)
7
JAVIER
LOZANO
BARRAGÁN
Nuovo
paradigma:
origini
e
proposte
Attending
to
United
Nations
meetings,
and
seeing
the
different
positions
of
the
Governments
in
the
World
about
the
principles
and
values
according
to
which
one
must
build
the
Bioethics,
I
tried
to
find
a
ethical
system
from
which
one
can
logically
understand
those
official
issues.
Between
several
settlements
I
find
finally
the
right
material
to
construct
the
synthesis.
This
system
is
called
the
New
Paradigm,
that
now
I
will
expose
synthetically
in
the
first
part
of
my
talk.
Once
individualizing
the
system,
I
thought
it
was
necessary
to
go
to
his
roots.
Some
of
them
I
will
present
in
the
second
part,
and
in
the
third
part
I
will
make
some
evaluation
and
positive
proposals.
THE
NEW
PARADIGM
It
is
strange
that
in
the
matter
of
Ethics
the
norms
will
have
a
compilation
into
a
Paradigm
that
in
its
own
concept
for
many
is
only
a
hypothesis
and
properly
not
required
to
be
truth.
And
it
is
still
more
strange
that
one
can
configure
norms
not
according
to
the
truth;
but
the
fact
is
that
we
have
now
this
Paradigm
and
it
is
taken
as
supreme
law
for
many
Departments
of
Health
in
the
World,
and
guides
the
behaviour
of
many
Bioethics
Committees.
I
synthesize
it
in
12
points.
The
authors
Within
the
United
Nations,
the
World
Health
Organisation
and
UNESCO,
were
requested
to
accept
this
Paradigm
in
particular
by
three
NGOs:
"The
Women's
Environment
and
Development
Organisation",
"The
Earth
Council
Green
peace"and
"The
International
Planned
Parenthood
Federation".
They
have
adopted
a
series
of
principles
within
the
context
of
what
is
called
"new
ethics"
or
"global
ethics".
Some
of
their
significant
points
are
as
follows.
The
global
development
Today's
world,
as
it
is,
cannot
go
on;
after
the
Cold
War
we
are
faced
with
unsustainable
ecological
situations,
we
are
going
towards
a
total
degradation
of
the
planet
because
of
pollution
caused
by
toxic
refuse
of
every
kind,
as
well
as
radioactive
waste.
All
of
this
brings
us
a
constant
malaise
that
continue
cannot
go
on.
We
need
to
work
for
the
everyone's
well-‐being
and
prosperity.
We
need
to
achieve
global
prosperity
and
well-‐being.
The
sustainable
development
Such
global
prosperity
and
well-‐being
is
possible
only
with
global
development
and
not
with
that
kind
of
development
which
has
been
achieved
so
far.
This
is
because
such
development
can
no
longer
be
sustained.
We
should
achieve
sustainable
development,
that
is
to
say
development
that
will
no
longer
damage
the
planet,
where,
indeed,
through
harmonious
development,
there
will
be
prosperity
and
well-‐being
for
everyone,
a
prosperity
and
well-‐being
that
centres
around
the
person.
8
The
quality
of
life
Global
prosperity
and
well-‐being
with
sustainable
development
is
the
aim
of
the
new
global
ethics.
It
is
that
convergence
towards
which
the
new
paradigm
is
directed.
This
global
prosperity
and
well-‐being
is
what
constitutes
that
goal
known
asquality
of
life,
which
is
defined
"as
the
perception
of
the
individual
of
his
position
in
life,
in
the
context
of
the
culture
and
the
system
of
values
in
which
he
finds
himself,
in
relation
to
his
goals,
expectations,
standards
and
interest".
This
is
a
concept
of
life
of
vast
range
that
embraces
in
a
complex
way
the
physical
health
of
the
person,
his
psychological
state,
his
personal
beliefs,
his
social
relations
and
his
ability
to
relate
to
the
relevant
data
of
his
environment
(WHOQOL).
The
fields
of
quality
of
life
Quality
of
life
covers
six
fields:
1.
physical
health;
2.
psychological
health;
3.
industrialisation
and
environmental
degradation,
the
ineptitude
of
institutions,
environmental
pollution,
the
fabrication
of
food,
4.
social
injustice,
5.
forms
of
religious
extremism
and
other
kinds
of
extremism,
intolerance
and
social
exclusion
have
to
be
fought,
6.
the
new
spirituality
that
transcends
all
other
spiritualities
and
religions;
it
fights
them
and
replaces
them
because
they
are
seen
as
bastions
of
resistance
against
some
of
the
values
and
goals
of
the
new
paradigm.
The
values
The
values
of
free
enterprise,
national
sovereignty,
religions,
dogmas,
natural
law
and
traditional
values
must
be
rejected
because
they
are
irrelevant
and
because
they
have
created
an
ethical
void.
Now,
new
values
have
to
be
created,
the
only
ones
that
will
allow
people
to
live
in
peace.
The
values
of
the
new
paradigm
are
those
that
inspire
a
culture
of
peace:
love,
sharing,
care,
comradeship,
a
process
that
leads
decisions
to
be
taken
after
consultation
participatory
democracy,
decentralisation,
negotiation,
processes
of
arbitration
and
positive
adjudication,
no
war,
respect
for
life,
freedom,
justice
and
fairness,
mutual
respect,
and
integrity.
The
pillars
These
ethics
are
based
upon
five
pillars:
human
rights
and
responsibility,
democracy
and
the
components
of
civil
society,
the
protection
of
minorities,
commitment
to
the
peaceful
solution
of
conflicts
and
open
negotiations,
inter-‐generational
equity.
The
spirituality
Given
that
the
various
religions
of
the
world
are
not
able
to
generate
these
global
ethics,
it
is
necessary
to
supplement
them
with
a
new
spirituality
whose
goal
is
global
prosperity
and
well-‐
being
with
sustainable
development.
Nature,
the
earth
(called
"Gaia"),
is
divine
and
inviolable.
Man
is
one
of
various
elements,
and
is
to
be
understood
only
in
harmony
with
the
earth.
This
is
said
not
to
be
a
new
religion
but
a
new
spirituality.
The
religions
that
have
existed
hitherto
have
been
concerned
with
the
other
life
-‐
this
spirituality
is
concerned
with
this
earthly
life.
It
is
a
spirituality
without
God,
to
be
located
at
a
temporal
level,
whose
final
goal
is
the
liveability
of
the
actual
world
and
in
it
the
prosperity
and
well-‐being
of
man.
However,
in
this
new
spirituality
valid
elements
present
in
different
creeds
are
not
rejected.
They
are
brought
together
to
form
global
ethics.
In
this
way,
and
in
particular
from
the
religions
of
the
9
American
native
communities,
are
taken
their
respect
for
nature
and
necessary
interaction
between
man
and
nature.
From
Judaism
is
taken
the
concept
of
holiness;
from
Buddhism,
serenity
and
impassivity;
from
Hinduism,
respect
for
animals;
from
Islam,
the
virtue
of
justice;
and
from
Christianity,
charity
and
mercy.
Despite
all
this,
it
is
asserted
that
no
religion
is
competent
to
resolve
the
ecological
problem;
no
religion
has
valid
answers
for
this
epoch
of
globalisation.
We
need
to
fight
against
hegemonies
that
are
sought
after
and
dogmatic
hierarchies
that
want
to
impose
their
points
of
view.
The
objective
is
to
shape
a
shared
framework
of
behaviour
that
points
out
the
fundamental
ethical
principles
for
emerging
global
society.
Overpopulation,
industrialisation,
environmental
degradation,
the
ineptitude
of
institutions,
environmental
pollution,
the
fabrication
of
food,
social
injustice,
forms
of
religious
extremism
and
other
kinds
of
extremism,
intolerance
and
social
exclusion
have
to
be
fought.
The
new
spirituality
transcends
all
other
spiritualities
and
religions;
it
fights
them
and
replaces
them
because
they
are
seen
as
bastions
of
resistance
against
some
of
the
values
and
goals
of
the
new
paradigm.
The
problems
The
problems
to
be
solved
are
classified
into
four
groups:
the
first
concerns
re-‐establishing
the
correct
relationship
between
man
and
nature;
the
second,
the
meaning
of
happiness,
life
and
fullness;
the
third
examines
the
relationship
between
the
individual
and
the
community,
and
the
fourth
is
concerned
with
the
balance
between
fairness
and
freedom.
The
norms
Such
new
ethics
are
independent
of
dogma
and
natural
law.
They
redefine
the
connection
between
knowledge
and
ethical
practice.
This
connection
is
not
causal
as
is
the
case
with
the
sciences-‐
it
is
situational.
That
is
to
say,
there
is
no
need
for
evident
norms
that
govern
behaviour.
It
is,
rather,
the
behaviour
of
today
that
will
be
translated
into
norms
of
behaviour
for
the
future.
The
problem
is
to
generate
agreement
so
that
the
peoples
of
the
world
accept
these
new
global
ethics,
and
for
this
reason
it
is
necessary
to
motivate
everyone
in
the
most
effective
way.
The
foundations
The
three
foundations
upon
which
these
new
ethics
and
this
new
spirituality
are
founded
are
human
rights,
health
for
everyone,
and
education.
The
human
rights
Human
rights
are
based
upon
total
fairness
amongst
men.
For
this
reason,
the
only
acceptable
remedy
required
is,
on
the
one
hand,
a
stabilisation
of
population
levels,
and
on
the
other,
a
massive
transfer
of
wealth
from
the
rich
to
the
poor.
For
some
supporters
of
these
ethics,
capitalism
is
the
root
of
all
evils,
and
for
this
reason
a
requirement
of
the
new
order
is
opposition
to
economic
globalisation.
They
argue
that
we
need
to
create
a
new,
shared
standard
of
life
for
everyone.
The
diversity
of
cultures
is
respected
and
at
the
same
time
the
aim
is
the
imposition
of
a
universal
culture.
10
Health
for
all
Health
for
everyone
requires
the
presence
of
eight
elements:
education
in
health,
suitable
food,
clean
water,
elementary
forms
of
care,
mother-‐child
health,
vaccination
against
the
principal
infectious
diseases,
the
prevention
and
control
of
local
endemic
diseases,
the
suitable
treatment
of
illnesses
and
management
of
common
disasters,
access
to
essential
drugs
and
medicines,
and
reproductive
health.
This
right
is
inherent
in
social
security,
involves
the
eradication
of
poverty,
global
social
fairness,
and
is
achieved
through
global
governance.
It
requires
concern
for
education
and
democratic
tendencies.
Education
for
all
Education
must
be
education
for
all.
The
contents
of
the
basic
curriculum
of
the
education
of
the
population
is
divided
into
four
categories:
social
and
economic
development
with
emphasis
on
social
demography;
the
environment
and
the
ecosystem,
and
management
of
the
inter-‐
relationship
between
the
population
and
the
environment
in
particular;
sexuality
and
the
achievement
of
personal
complementariness;
and
the
family
and
prosperity
and
well-‐being.
Emphasis
is
placed
upon
human
rights,
sustainable
development,
fairness
within
humanity;
health
security,
participation,
governability,
techniques
for
shaping
support,
global
citizenship,
peace,
the
protection
of
the
environment
and
reproductive
health.
This
education
must
be
holistic.
It
is
the
key
to
obtaining
agreement
on
acceptance
of
the
new
paradigm.
And
because
it
must
be
interdisciplinary
it
has
to
generate
a
complex
process.
It
must
be
both
formal
and
informal.
The
principles
of
bioethics
All
this
helps
to
outline
the
principles
of
bioethics
closed
to
the
Transcendent.
Within
such
bioethics,
which
some
people
have
called
"subjective"
or
"autonomous",
some
general
normative
principles
have
been
formulated
in
order
to
be
able
to
map
out
the
study
of
human
behaviour
within
the
life
and
health
sciences.
These
principles
are
three
in
number
and
they
are
as
follows:
the
principle
of
autonomy;
the
principle
of
doing
good
(and
on
the
negative
side
of
not
doing
harm);
the
principle
of
justice.
The
principle
of
autonomy
means
the
freedom
of
the
moral
agent,
and
this
means
that
an
action
is
good
if
it
respects
the
freedom
of
the
moral
agent
and
other
people.
The
principle
of
doing
good
means
that
good
should
always
be
done
and
doing
wrong
should
always
be
avoided.
The
principle
of
justice
means
that
each
person
should
be
given
what
is
due
to
him.
The
origins
of
the
these
principles
Given
that
as
a
matter
of
fact
this
form
of
bioethics
does
not
contain
objective
norms,
the
justification
of
such
principles
is
complicated.
Some
people
have
attacked
these
principles,
arguing
that
they
have
already
gone
beyond
American
principleism
(a
reference
to
the
place
where
they
were
drawn
up).
Others,
on
the
other
hand,
provide
a
justification
for
these
principles
and
argue
that
their
formulation
was
carried
out
along
experimental
lines
on
the
basis
of
the
good
and
bad
results
of
actions
carried
out
in
the
field
of
bioethics
accompanied
by
a
synthesis
of
their
consequences.
Various
explanations
are
given
or
none
are
given
at
all.
The
different
positions
are
as
follows:
11
the
evolutionistic
theory:
the
evolution
of
the
species
continued
when
man
appeared
and
man
continues
to
evolve
not
only
as
regards
his
nature
but
also
in
terms
of
his
culture,
and
thus
for
each
stage
of
his
history
there
is
a
different
culture
and
a
different
set
of
ethics.
In
the
contemporary
stage
of
his
history,
those
principles
of
bioethics
are
the
valid
one.
The
subjectivist
theory:
it
is
not
possible
to
know
values:
each
person
must
proceed
as
he
thinks
fit
and
as
a
general
result
of
this
procedure
the
principles
that
are
adopted
arise.
The
contract
theory:
given
the
subjectivist
theory
leads
us
to
full
relativism,
it
is
applied,
however,
with
the
support
of
consent,
that
is
to
say
agreeing
with
everyone
and
proceeding
in
line
with
the
opinion
of
the
majority,
a
sort
of
social
contract
between
the
members
of
society.
Everyone
agrees
on
these
principles.
The
clinical
theory:
however,
given
that
it
is
not
always
possible
to
reach
agreement,
each
case
is
examined
in
turn
and
the
action
taken
is
that
considered
the
best
for
that
particular
case.
The
utilitarian
theory:
if
one
asks
what
the
best
is
for
that
particular
case,
the
answer
provided
involves
the
utilitarian
theory
of
cost/benefit,
according
to
which
what
costs
least
and
gives
the
best
results
should
be
carried
out.
The
theory
of
new
principles:
some
authors
(for
example
Peter
Singer)
argue
that
one
should
not
dwell
upon
the
old
principles
but
rather
invent
new
ones.
Thus,
for
example,
one
should
not
adhere
simply
to
the
principle
"thou
shalt
not
kill"
but
adhere,
instead,
to
a
new
one,
which
affirms:
"kill
only
if
you
decide
freely
to
do
so
and
take
responsibility
for
all
the
consequences".
The
principles
that
are
adopted
can
be
adopted
as
ethical
principles,
as
long
as
each
person
decides
freely
and
takes
responsibility
for
all
the
consequences.
SOME
ROOTS
OF
THIS
PARADIGM
Without
entering
into
complex
Eastern
thought
but
remaining
within
the
Western
cultural
sphere,
we
find
two
opposing
ways
of
thinking,
in
varying
conditions
of
contradiction
with
each
other,
about
the
ethical
point
that
logically
arises
from
their
mental
worlds.
These
two
approaches
have
registered
major
successes
but
also
great
failures.
Those
two
positions
we
find
in
the
line
of
to
be
and
to
become,
and
in
the
line
of
to
be
and
to
think.
In
this
second
part,
we
will
also
proceed
in
a
very
schematic
way.
To
be
and
to
become
In
classical
Greek
antiquity
we
find
two
philosophers
Parmenedas
and
Heraclitus
with
divergent
approaches:
that
of
Parmenedas
of
one
and
all,
immobility,
and
that
of
Heraclitus
of
everything
evolves,
mobility.
Classical
Greek
philosphers
would,
through
Aristotle,
join
the
two
alternatives
in
hylomorphism.
Many
centuries
later,
in
the
face
of
nominalism,
St.
Thomas
Aquinas
declared
"ens
est
id
quod
est"
(being
is
what
is),
objective
reality,
whereas
Duns
Scoto
stated
"ens
est
id
quod
potest
esse"
(being
is
what
can
be),
mere
possibility.
This
last
way
of
thinking,
opens
the
door
to
the
Empirisme
of
Bacon,
Hobbes,
Hume
and
Locke,
with
all
its
advantages
and
disadvantages.
The
science
will
be
separated
from
its
transcendental
goal,
in
the
sense
of
St.
Agustin,
and
closed
in
the
material
experience
as
such.
By
another
point
of
view,
Nominalism
of
William
of
Ockham
is
very
important
in
the
Middle
Age
problem
of
the
reality
of
Universals,
according
to
whom
the
Universal
is
nothing
else
but
a
mere
vocal
emission.
Consequently
there
are
no
universal
truths,
and
as
a
result,
no
norms
of
universal
mandatory
application.
12
Thinking
and
being
The
great
change
came
with
Descartes,
or
to
put
it
more
accurately,
with
his
followers,
because
Descartes
probably
remains
in
the
platonic
way
of
thinking
belonging
to
the
Oratory
of
LaBerule.
The
alternative
was:
do
I
think
it
because
it
is
being,
or
is
it
being
because
I
think
it?
If
one
accepts
the
first
part
of
the
alternative
then
an
objective
truth
exists;
if
one
accepts
the
second,
the
truth
is
what
I
accept
it
as.
In
the
context
of
the
second
part
of
the
alternative
a
large
part
of
contemporary
thought
was
forged,
and
this
had
decisive
consequences
as
regards
ethics
because
it
meant
the
absolute
autonomy
of
man:
it
is
he
who
decides
in
the
final
analysis
what
is
true
and
what
is
false,
what
is
good
and
what
is
bad.
This
full
autonomy
would
also
be
deduced
from
other
key
points
in
the
thought
of
Descartes,
that
of
"clear
and
distinct"
ideas
which
belong
only
to
substances:
God,
the
conscience,
and
extension.
The
basic
condition
for
a
thing
to
be
seen
as
a
substance
is
its
full
independence.
Descartes
said
that
a
substance
"est
id
quod
ita
existit
ut
nulla
alia
re
indigeat
ad
existendum"
(it
is
what
exists
so
and
does
not
need
anything
else
to
exist).
This
Cartesian
concept
would
lead
later
to
the
full
independence
and
autonomy
of
man.
Man
in
himself,
was
held
to
be,
absurdly,
his
own
project.
His
own
present
reality
was
his
future
project
and
in
the
best
of
cases,
along
the
lines
of
Engels,
the
"pious
atheist",
his
project
was
the
myth
arising
from
the
multiplication
of
his
own
wishes
to
the
point
of
mathematical
infinity.
We
are
here
in
the
line
of
the
positivistic
way
of
thinking
in
the
Encyclopaedism,
specially
of
August
Comte.
In
this
line
of
not
objectivity,
denying
the
possibility
of
acceding
to
the
noumenon,
Kant
advanced
in
ethics
to
collective
and
formal
subjectivity
with
his
"categorical
imperative";
so
He
formulate
the
norm
according
the
consensus
of
the
majority.
For
his
part,
Hegel
gave
political
consistency
to
this
subjectivity
by
locating
the
highest
realisation
of
the
"spirit"
in
the
State,
in
the
prusian
State,
and
so
making
the
political
power
the
norm
of
morality.
Subsequently,
following
the
path
of
Engels,
Marx
said
that
"Hegel
would
be
made
to
walk
with
his
feet
on
the
ground"
in
dialectical
materialism,
where
the
classless
society
was
seen
as
the
only
source
of
morality
in
the
autonomy
of
consequent
historical
materialism.
Contemporary
currents
In
the
logical
development
of
this
subjectivism,
six
currents
of
thought
have
today
become
established.
They
are
easily
applied
to
this
Paradigm,
and
they
are:
Eclecticism,
which
accepts
any
type
of
behaviour,
outside
its
system,
context
or
evaluation;
Historicism,
according
to
which
truth
changes
according
to
adaptation
to
a
specific
epoch;
Scientism,
in
which
it
is
affirmed
that
the
only
acceptable
truth
is
experimental
truth
in
the
scientific
field;
Pragmatism,
where
ethical
decisions
are
made
taking
into
account
only
the
criteria
of
utility
according
to
the
cost/benefit
tandem
guided
by
the
opinion
of
the
majority;
Nihilism,
in
which
there
is
the
simple
abandonment
of
the
idea
of
reaching
objective
truths;
Post-‐modernity,
in
which
nihilistic
positions
are
adopted.
It
is
obvious
that
in
this
whole
way
of
thinking
in
the
field
of
Ethics,
the
outcome
was
merely
subjective
ethics
opposed
to
the
objectivity
of
nature,
which
was
no
longer
seen
as
real,
because
objectivity
is
conceived
statically
(here
include
also
the
Natural
Law).
As
a
result,
it
was
declared
that
"objective"
ethics,
based
upon
nature,
is
the
outcome
of
ignorance
or
out
of
fashion,
belonging
to
the
Ages
of
darkness
of
the
mankind.
The
experimental
sciences
are
based
in
the
mobility
of
things
that
is
the
only
reality.
Especially
in
the
field
of
medicine:
it
was
asserted
that
13
whereas
until
a
short
time
ago
this
belonged
to
the
field
of
the
observable,
now,
instead,
all
its
action
develops
within
the
field
of
"that
which
can
be
manipulated".
Passing
from
the
scientific
plane
to
the
religious
plane,
the
Christian
Protestant
approach
has
strongly
contested
the
very
concept
of
"nature",
at
least
of
human
nature,
because
it
sees
nature
as
essentially
vitiated.
If
nature
is
indeed
like
that,
it
is
logical
that
human
nature
cannot
be
moral
norm.
SOME
EVALUATION
AND
PROJECT
The
values
of
the
new
paradigm
It
is
right
to
react
against
environmental
degradation,
and
it
is
also
right
to
be
aware
of
the
fact
that
development
has
its
limits
and
that
development
that
does
not
take
into
account
the
degradation
that
it
causes
to
nature
should
not
be
supported.
At
the
same
time,
it
is
right
to
search
for
prosperity
and
well-‐being
and
that
the
greatest
prosperity
and
well-‐being
for
the
greatest
number
of
the
inhabitants
of
the
planet
should
be
ensured.
It
is
equally
right
that
quality
of
life
should
be
procured,
especially
if
by
this
is
understood
self-‐
awareness
of
the
position
that
a
person
occupies
in
his
overall
-‐
both
ecological
and
cultural
in
a
broad
sense,
situation,
which
includes
the
economic,
social,
religious,
political
and
cultural
aspects,
in
the
strict
sense
of
the
terms,
of
the
field
of
education.
It
is
right
to
defend
human
rights,
respect
for
social
minorities,
for
democracy,
for
fairness
amongst
all
men,
that
is
to
say
their
fundamental
equality,
both
as
regards
men
and
women,
to
re-‐establish
a
correct
relationship
between
man
and
the
environment
and
between
the
individual
and
the
community.
It
is
right
to
defend
social
justice,
and
the
economic
injustice
present
in
today's
world
is
very
evident.
To
require
health
for
everyone,
at
least
as
regards
its
basic
elements,
is
an
inescapable
requirement,
and
obtaining
education
for
all
is
also
a
primary
need.
The
anti-‐values
of
the
new
paradigm
The
most
important
anti-‐value
lies
in
the
fact
that
the
new
paradigm
presents
itself,
as
they
say,
as
a
new
spirituality,
which
takes
the
place
of
all
religions
because
these
are
inadequate
to
the
task
of
preserving
the
ecosystem.
In
practical
terms,
this
is
a
new
secularist
religion,
a
religion
without
God,
or
to
put
it
another
way,
with
a
new
God,
the
earth
itself,
which
they
call
Gaia.
The
subordinate
element
of
this
divinity
is
man.
The
series
of
values
that
the
new
paradigm
upholds
are
values
that
are
subordinated
to
this
divinity,
which
is
translated
into
the
supreme
ecological
value,
known
as
sustainable
development.
Within
this
sustainable
development
the
supreme
ethical
goal
is
prosperity
and
well-‐being.
It
is
certain
that
this
paradigm
totally
denies
Christianity
and
its
founding
historical
fact,
namely
the
Word
made
flesh,
the
redemptive
death
of
Christ
and
his
glorious
resurrection.
If
one
accepts
this
historical
fact,
the
pre-‐supposition
of
the
new
paradigm
collapses
completely.
This
does
not
means
that
the
values
espoused
by
the
new
paradigm
also
collapse.
Indeed,
these
are
not
extraneous
to
Christian
thought
but
are
to
be
placed
within
it.
Ever
since
Genesis,
reference
has
been
made
to
homo
sapiens
and
homo
faber.
The
two
have
to
be
reconciled:
man
is
not
the
despotic
master
of
nature
but
a
wise
worker
who
dominates
nature
and
respects
its
laws.
What
makes
the
new
paradigm
unacceptable
is
its
denial
of
God
and
the
life
beyond,
and,
in
concrete
terms,
the
denial
of
Christ
as
the
only
saviour.
14
The
use
of
terms
in
the
New
Paradigm
often
carries
some
confusion:
they
never
speak
of
persons
but
individuals,
not
equality,
but
equity,
not
government
but
new
governance,
not
family
but
peer,
not
procreation,
but
reproductive
health,
etc.
The
equality
of
the
sexes
is
to
be
accepted,
not,
however,
in
the
sense
of
homosexuality
and
the
destruction
of
the
family.
Birth
control
is
to
be
accepted,
but
not
in
a
destructive
sense
such
as
that
planned
through
the
culture
of
death,
which
is
applied
in
a
special
way
in
the
third
world.
Prosperity
and
well-‐being
is
not
the
same
as
happiness.
Christ
does
not
promise
us
in
an
illusory
way
total
prosperity
and
well-‐being
in
this
world,
but
he
does
promise
us
happiness.
The
point
of
discernment
for
any
religion,
or
as
the
new
paradigm
says,
any
spirituality,
is
the
solution
to
the
problem
of
death.
This
is
something
that
the
new
paradigm
does
not
in
the
least
possess
because
it
simply
avoids
it,
and
what
death
involves,
and
in
a
special
way
suffering,
pain
and
illness.
Christ
is
the
only
person
to
give
a
satisfying
answer
to
it:
with
his
glorious
cross
in
the
resurrection.
One
of
the
great
problems
of
the
new
paradigm
is
when
it
becomes
aware
of
the
fact
that
everything
has
to
be
based
upon
examples
of
agreement
that
do
not
arise
from
objective
truths
but
from
subjective
opinions.
It
thus
tries
to
create
artificial
forms
of
agreement.
Such
forms
of
agreement
are
absolutely
variable
and
for
this
reason
ethics
or
bioethics
based
upon
the
new
paradigm
do
not
have
consistency.
An
ethical
law
without
authentic
foundation
cannot
be
a
true
law.
Saying
that
the
actual
behaviour
must
convert
itself
in
norm
for
the
future
generations
is
totally
insane.
Regarding
to
the
principles
of
bioethics
As
we
can
see,
in
each
of
the
given
explanations
to
justify
those
principles
one
arrives
at
a
form
of
relativism,
not
only
in
observing
the
alleged
origins
of
these
principles
but
also
in
examining
the
principles
themselves.
It
is
indeed
the
fact
the
principle
of
autonomy
corresponds
to
acting
with
freedom,
but
this
means
that
for
this
moral
action
those
who
do
not
possess
freedom
are
not
taken
into
consideration:
people
such
as
invalids,
children,
foetuses,
and
embryos.
Regarding
to
the
principle
to
do
good,
but
what
is
good?
What
really
does
good
to
a
person?
If
we
do
not
know
anything
about
what
can
be
good
for
a
person,
we
cannot
do
good
to
that
person.
The
same
applies
to
the
principle
of
justice:
what
is
due
to
every
person?
The
very
principles
advanced,
seen
in
themselves,
doe
not
have
an
explanation.
It
is
usually
said
that
these
principles
must
be
understood
as
actual
principles,
that
is
to
say
as
merely
principles
to
be
actually
applied,
and
not
as
prima
facie
principles,
that
is
to
say
as
theoretical
principles.
But
the
difficulty
remains
in
the
case
of
principles
to
be
actually
applied
as
well:
why
should
I
act
in
this
way
if
it
is
not
reasonable?
In
addition,
when
these
principles
come
into
conflict
with
each
other
which
of
them
should
prevail?
For
example,
if
the
principle
of
autonomy
comes
into
conflict
with
the
principle
of
doing
good
and
this,
in
its
turn,
comes
into
conflict
with
the
principle
of
justice,
which
principle
should
we
follow?
We
need
a
further
and
prior
principle,
which
gives
them
unity
and
which
resolves
a
possible
conflict.
The
principle
of
autonomy,
and
thus
the
principle
of
freedom
as
well,
has
its
own
limits
when
it
has
before
it
the
good
of
a
third
party,
and
the
good
of
a
third
party
is
also
limited
when
it
has
before
it
what
is
due
to
another
person.
In
the
final
analysis,
however,
the
principles
do
not
lay
down
what
is
due
to
that
person.
Thus
some
people
make
recourse
to
what
they
call
ethical
narrative,
in
which
they
narrate,
one
after
the
other,
only
the
cases
that
occur,
and
action
is
taken
following
the
example
of
what
came
before.
Or
refuge
is
taken
in
what
they
call
female
perception,
that
is
to
say
what
the
refined
goodness
adjudges
advisable.
In
this
way
one
draws
near
to
another
criterion
that
they
call
the
criterion
"of
virtue",
by
which
the
person
who
decides
what
is
good
and
what
is
bad
is
the
person
who
has
sufficient
virtue,
where
by
15
virtue
is
understood
acting
according
to
recta
ratio.
In
referring
to
upright
reason,
one
draws
near
to
the
classic
conception
of
objective
bioethics.
The
principles
must
be
accepted
only
by
their
objective
foundation,
withdrawing
them
from
the
relativism
of
the
mere
subjectivity.
Being
and
thinking
The
answer
to
the
question
we
raised
at
the
beginning
according
the
Cartesian
mentality
must
be:
the
being
is
not
because
I
think
in
it,
but
I
can
think
in
it
because
it
exist.
This
is
the
objectivity
in
which
the
Ethics
must
be
founded.
As
regards
the
current
of
thought
that
gives
objectivity
to
ethics,
we
encounter
the
Aristotelian-‐
Thomistic
position,
which,
in
fundamental
terms,
was
adopted
by
the
Magisterium
of
the
Catholic
Church,
without
neglecting
the
valid
elements
that
are
found
in
the
subjectivist
discourse
already
discussed
and
in
all
the
inputs
from
Catholicism
that
have
enriched
it.
In
this
current
of
thought
therefore
truth
lies
in
the
conformity
of
thought
with
the
object.
It
is
not
the
thought
of
man
that
creates
reality,
but
the
existence
that
gives
reality
the
possibility
of
being
thought.
The
criterion
of
morality
by
which
we
know
if
an
action
is
good
or
bad
is
certainly
man,
the
subject,
but
this
subject
is
objective,
is
the
human
nature,
considered
in
his
complexity
which
implies
his
opening
to
the
Transcendent.
Morality
consists
of
the
pathway
by
which
to
realise
the
"human
project"
but
this
pathway
not
only
does
not
exclude
the
transcendent
model
from
man
himself
but
necessarily
includes
it.
A
person
cannot
at
the
same
time
be
his
own
present
and
his
own
future.
In
this
form
man
does
not
create
morality,
morality
transcends
him,
it
is
there
and
he
meets
it,
is
object
"ob-‐jacet".
It
is
not
the
case
that
the
subject
is
not
implied,
indeed
it
is
the
subject
who
follows
the
pathway
and
in
a
certain
way
marks
it
out,
even
though
not
according
to
his
absolute
free
will
because
there
are
norms
that
transcend
him.
Man
has
his
own
autonomy
in
enjoying
his
freedom.
However,
this
autonomy,
this
norm
of
being
himself,
is
not
absolute.
Man
in
his
limited
and
constantly
constructed
reality
must
necessarily
be
open
to
a
model
that
transcends
him.
THE
PROJECT:
SUBJECTIVITY,
OBJECTIVITY
AND
MOBILITY
OF
THE
HUMAN
NATURE
Bioethics
as
a
project
In
speaking
about
the
life
sciences
and
in
asking
ourselves
about
correct
human
behaviour
to
be
followed
in
the
experimental
sciences
that
manipulate
life,
the
question
includes
the
following
factors:
human
life,
lack
of
human
life,
increase
in
human
life,
improvement
of
human
life,
norms
to
be
followed
to
obtain
this
improvement,
and
deviations
to
be
avoided.
In
other
words,
we
find
ourselves
face
to
face
with
the
tandem
"need-‐satisfaction".
This
means
that
there
is
a
living
subject
who
aspires
to
improve
himself,
he
has
to
tread
his
path;
if
he
has
to
follow
a
path
he
must
mark
it
out,
and
if
he
marks
it
out,
he
must
first
know
where
it
leads
if
he
wants
to
mark
it
out.
In
the
field
of
life
one
has
to
know
what
life
is,
what
the
best
life
that
one
wishes
for
is,
which
pathways
should
be
followed
to
achieve
it
and
which
should
be
avoided,
because
these
latter,
rather
than
giving
life,
could
lead
to
its
loss.
Bioethics
thus
appears
as
a
project
for
the
construction
of
man
through
the
life
and
health
sciences.
16
Technology
and
bioethics
To
make
the
point
more
clearly,
we
could
imagine
neutral
technology
(since
in
fact
there
are
no
neutral
sciences
because
every
science
is
analysis
and
synthesis,
and
synthesis
can
never
be
neutral).
If
then
we
could
speak
about
neutral
technology,
closed
within
itself,
we
would
have
to
say
that
according
to
the
laws
of
the
laboratory,
hypothesis,
experimentation,
thesis,
new
hypothesis,
new
thesis
and
new
experimentation
-‐
the
framework
of
technology
in
itself
is
mere
possibility,
whereas
the
framework
of
ethics
is
the
goal.
For
this
reason,
technology
in
itself
can
build
or
destroy
man,
technology
in
itself
is
blind,
however
advanced
and
marvellous
it
may
appear
to
be.
Biotechnology
in
itself
is
blind
and
ambivalent.
An
intelligent
project
For
this
reason,
so
that
a
real
bioethics
can
exist
that
provides
us
with
norms
for
behaviour
in
the
field
of
health
and
life,
the
first
thing
that
we
must
ask
ourselves
concerns
the
project
for
man
that
people
have
in
mind
in
the
manipulation
of
these
fields
of
health
and
life.
Curiously,
having
a
project
denotes
intelligence
but
at
the
same
time
also
indicates
weakness
because
a
project
represents
an
intention
to
improve
reality
which
appears
deficient,
because,
if
such
were
not
the
case,
the
projects
to
improve
it
would
not
exist.
Authentic
bioethics
must
appear
as
a
project
to
improve
human
life
itself
which
contains
all
the
life
and
health
sciences
as
its
intelligence,
as
that
intus
legere
(read
within)
that
in
every
analysis
always
has
present
the
synthesis
of
arrival
which
can
be
nothing
else
but
the
construction
of
human
life.
The
best
self
For
a
project
regarding
life
to
function
(like
any
other
project),
it
has
to
understand
as
completely
as
possible
the
life
reality
that
it
wishes
to
improve,
and
the
"best
self"
to
which
it
aspires.
This
best
self,
which
is
a
goal
and
a
purpose
at
the
same
time,
is
the
model
whose
reproduction
is
sought.
According
to
these
two
realities,
a
tendency,
a
pathway,
an
ethos
from
the
self
to
the
best
self,
is
marked
out.
This
pathway
is
ethics
and,
in
our
case,
bioethics.
In
it
we
find
norms
that
cannot
be
merely
formulations
or
imperatives
outside
the
self
but
real
constructions
of
the
same
"self"
that
gradually
draw
it
near
to
this
best
self,
increasing
its
vital
density.
Therefore
a
science
must
always
finally
be
conceived
in
the
sense
of
St.
Agustin,
as
a
teleological
knowledge;
if
not
it
will
be
dehumanising
and
destroying
man
himself.
Freedom
It
is
ethical
theory
and
practice
as
a
whole
that
opens
up
to
the
true
concept
of
freedom,
which
does
not
consist
simply
in
doing
what
one
wishes
but
in
that
attribute
of
will
that
directs
it
towards
one's
own
construction.
In
this
sense,
the
criterion
of
morality
is
man
himself
in
his
total
complexity
and
not
in
closing
himself
up
in
his
own
ability
to
construct
himself
and
in
his
enormous
capacity
to
destroy
himself.
This
complexity
leads
him
to
be
aware
of
his
own
reality
which
means
being
in
a
relationship,
being
open
and
beginning,
therefore,
to
walk,
or
rather
to
open
himself
freely
to
the
Other,
which
in
this
case
is
the
fullness
of
Strength,
Truth
and
Love,
namely
God.
Man,
through
freedom,
in
his
project
of
construction,
always
opens
himself
to
forces
of
the
authentic
progress
of
biotechnology
in
order
to
increasingly
achieve
his
life
fullness
in
constant
harmony
with
God,
with
the
whole
of
mankind
and
with
the
total
environmental
context.
17
Revelation
Many
times
one
does
not
dare
to
speak
in
the
scientific
fields
of
Revelation,
especially
in
Bioethics,
but
I
think
that
this
is
the
proper
dimension
of
an
authentic
objective
Bioethics
that
will
be
open
to
the
whole
project
of
man.
In
Catholic
thought
such
open,
"objective",
real,
without
frontiers,
ethics
open
up
to
full
communication
with
Almighty
God
the
Father
who
realises
in
us
the
Truth
of
the
Son
through
his
Incarnation,
Passion,
Death
and
Resurrection.
He
fills
up
all
our
aspirations
leading
us
along
the
pathway
that
is
Christ
in
the
fullness
of
the
love
of
His
Spirit.
Catholic
ethics
and
bioethics
are
Christ's
walking
within
us
to
the
Father
through
his
death
and
resurrection
through
the
love
of
the
Holy
Spirit.
Bioethics
is
in
this
way
the
walking
of
the
Spirit
in
us
through
the
pathways
of
the
life
and
health
sciences.
"Those
who
are
led
by
the
Spirit
are
the
children
of
God'.
The
spirit
infuses
in
man
the
ability
to
walk
towards
the
construction
of
total
Christ,
which
is
virtuous
life,
and
maps
out
the
understanding
of
Christ
himself
as
a
pathway
through
the
commandments
and
the
Sermon
on
the
Mount.
Catholic
bioethics,
therefore,
is:
The
systematic
and
deep
study
of
the
behaviour
that
constructs
man
through
the
life
and
health
sciences
in
walking
with
Christ
towards
the
Father,
fullness
of
life,
through
the
strength
of
the
Holy
Spirit.
This
theological
vision
expresses
a
deep
and
structural
dialogue
with
all
the
relevant
sciences
and
forms
of
technology,
with
all
the
unifying
forms
of
thought
of
analyses
carried
out
by
the
different
philosophical
and
theological
currents,
entering
into
dialogue
as
well
with
other
religions
taking
into
account
the
fact
that
it
is
a
study
of
behaviour
and
thus,
as
a
result,
it
cannot
remain
within
the
trajectory
of
reflection
but
must
take
concrete
form
in
light
that
guides
in
the
difficult
solution
of
the
problems
raised
by
genetic
engineering.
18
VINCENZO
CAPPELLETTI
BIOMEDICINA
DEL
VENTESIMO
SECOLO
LA
FISIOPATOLOGIA
COME
PARADIGMA
Sullo
scorcio
del
secolo
decimonono
–
nell’ultimo
venticinquennio
dell’Ottocento,
per
maggiore
esattezza
-‐,
una
rinnovata
medicina,
«scientifica»,
dà
atto
di
sé
come
costruzione
e
applicazione
dell’unità
di
fisiologia
e
patologia:
un
paradigma
teorico
dovuto
a
due
personalità
di
sommo
rilievo
intellettuale,
Rudolf
Virchow
(1821
–
1902)
e
Claude
Bernard
(1813
–
1878).
Nel
periodo
considerato,
Virchow
è
attivo
a
Berlino
tra
l’Università,
di
cui
diventa
rettore
nel
’93,
e
l’Accademia
delle
Scienze:
appartiene
a
lui,
con
una
formula
peculiare,
«pathologische
Physiologie»
[fisiologia
patologica],
l’espressione
poc’anzi
adoperata
per
indicare
l’ancoraggio
concettuale
del
sapere
medico
alla
fine
dello
scorso
secolo.
Nel
primo
numero
dell’Archiv
für
pathologische
Anatomie
und
Physiologie
und
für
klinische
Medicin,
uscito
nel
1847
sotto
la
sua
direzione,
Virchow
aveva
chiarito
che
«le
malattie
non
sono
entità
a
sé
stanti,
chiuse
in
sé
stesse;
esse
non
sono
sostanze
intruse
nel
nostro
corpo,
e
neppure
parassiti
che
vivano
alle
spese
del
corpo:
le
malattie
rappresentano
soltanto
il
decorso
dei
fenomeni
vitali
in
condizioni
abnormi.»
Così
intesa,
la
fisiopatologia
–
riprendiamo
il
termine
corrente
–
finisce
con
l’assumere
un’accezione
tanto
vasta,
da
identificarsi
non
soltanto
con
la
medicina,
ma
con
la
biologia,
«la
teoria
della
vita
in
generale
e
dell’uomo
in
particolare»,
come
la
definirà
lo
stesso
Virchow,
in
un
articolo
pubblicato
sull’Archiv
nel
’53.
Rischiose
illazioni
e
coraggiosi
passaggi
al
limite
erano
anche
incoraggiati
dal
corso
del
sapere
filosofico
negli
anni
ai
quali
ci
riferiamo.
Preparata
da
riflessioni
e
interventi
propositivi
–
insigne
tra
tutti,
il
documento
elaborato
dall’ambasciatore
del
re
di
Prussia
presso
il
Papa,
Wilhelm
von
Humboldt
-‐;
voluta
dallo
Stato
prussiano
come
simbolo
di
rinascita
nazionale
dopo
la
sconfitta
subita
a
Jena
nel
1806
ad
opera
di
Napoleone,
era
sorta
nel
1810
l’Università
di
Berlino,
al
fine
di
ripristinare
l’unità
del
sapere
umanistico
e
scientifico.
Ma
nei
primi
due
decenni
l’influenza
predominante
sarà
quella
dei
filosofi,
attraverso
Fichte,
Hegel
e
Schelling,
malgrado
il
prestigio
e
l’attività
del
fisiologo
Johannes
Müller
(1801
–
1858),
«l’uomo
che
portava
su
di
sé
l’impronta
dello
straordinario»,
come
lo
definirà
un
allievo,
il
neurofisiologo
Emil
du
Bois-‐Reymond,
nel
discorso
commemorativo
tenuto
l’8
luglio
1858
all’Accademia
delle
Scienze
di
Berlino[1].
Sarà
il
geografo
Alexander
Humboldt
(1769
–
1859),
fratello
di
Wilhelm,
a
determinare
l’avvicendamento
del
predominio
umanistico
con
quello
scientifico,
attraverso
un
ciclo
di
conferenze
con
ampie
prospezioni
naturalistiche,
poi
raccolte
(1845
–
’58)
nei
cinque
volumi
del
Cosmo[2].
Ma
nella
cerchia
di
Müller,
pur
perdurando
la
subalternità
delle
scienze
alla
filosofia
nell’ambiente
universitario
berlinese,
aveva
preso
forma
conclusiva
la
teoria
cellulare
con
le
Ricerche
microscopiche
sulla
concordanza
di
animali
e
piante
nella
struttura
e
nell’accrescimento,
di
Theodor
Schwann[3].
Finiva
permerito
dello
Schwann
una
lunga,
millenaria
incertezza
su
due
questioni
fondamentali:
dove
abbia
sede
primaria
la
vita
e
quali
siano
le
sue
proprietà
costitutive.
Ormai
era
possibile
rispondere,
invertendo
i
quesiti:
caratteri
distintivi
della
vita
sono
l’accrescimento,
la
riproduzione
e
l’eccitabilità,
mentre
la
più
semplice
struttura
che
li
possegga
è
la
cellula,
con
la
quale
perciò
s’identifica
l’entità
vivente
elementare.
E’
difficile
sopravvalutare
l’importanza
del
cellularismo:
teoria
e
sperimentazione
si
preoccuparono
di
acquisire
un
rapporto
stretto
e
in
taluni
casi
fondamentale
con
la
prospettiva
schwanniana,
equiparata
a
un’assiomatica
primaria
delle
discipline
biologiche.
Fissato
il
concetto
della
patologia
come
fisiologia
delle
situazioni
morbose,
Virchow
l’aveva
correlata
in
modo
sostanziale
con
le
nuove
vedute
di
Schwann,
intitolando
nel
’58
l’opera
che
rimarrà
stabilmente
legata
al
suo
nome:
Patologia
cellulare
fondatasull’istologia
fisiologica
e
patologica[4].
19
Muovendosi
nell’ambito
della
biologia
generale,
identificata
e
assimilata
alla
fisiopatologia,
Virchow
aveva
introdotto
nel
cellularismo
una
duplice
innovazione:
la
prima,
fondamentale,
consistente
nella
legge
«omnis
cellula
e
cellula»,
secondo
cui
le
nuove
entità
cellulari
si
formano
attraverso
la
divisione
di
cellule
preesistenti
e
non
da
sostanze
interstiziali
per
«generatio
aequivoca»,
e
l’altra,
corollario
della
precedente
e
consistente
nella
distinzione
dell’accrescimento
in
assimilazione
e
riproduzione.
Ma,
nonostante
la
straordinaria
portata
innovativa,
la
fisiopatologia
cellulare
mostrava
i
limiti
di
un’impostazione
che
oggi
chiameremmo
riduzionistica,
sacrificando
i
rapporti
non
descrittivi,
ma
interpretativi
e
esplicativi,
con
le
autonome
e
insopprimibili
realtà
degli
organi
e
dell’organismo.
Una
fisiologia
d’organo
non
si
fece
attendere,
e
sorse
per
merito
di
Hermann
Helmholtz
(1821
–
1894)
in
quella
stessa
scuola
di
Müller,
che
sul
versante
scientifico
era
giunta
a
pareggiare
la
fecondità
teoretica
della
scuola
di
Hegel.
Il
Manuale
di
otticafisiologica[5],
elaborato
e
pubblicato
in
un
cinquantennio,
tra
il
1856
e
il
’95,
e
La
teoria
delle
sensazioni
sonore
come
fondamento
fisiologico
della
teoria
musicale[6],
uscita
nel
’63
e
più
volte
ristampata,
non
contraddicevano
al
postulato
cellularistico,
ma
vi
aggiungevano
l’esigenza
di
una
complessità
strutturale,
sulla
quale
appoggiare
e
dalla
quale
ricavare
la
specifica
funzione,
oggetto
della
ricerca
fisiologica.
Già
con
le
Ricerche
schwanniane
l’analisi,
per
così
dire,
fondamentale,
definitoria
della
vita
aveva
superato
l’ambito
morfologico:
per
aver
associato
proprietà
e
forma,
Schwann
era
riuscito
dove
altri
erano
falliti.
Prima
di
essere
altro,
la
vita
è
l’unità
morfofunzionale
che
Galeno
aveva
avvertita
nella
dimensione
macroscopica,
e
i
microscopisti
dell’Ottocento
avrebbero
riscontrata
in
un
ordine
di
grandezza
centinaia
di
volte
inferiore
alla
normale
osservabilità.
Ma
parlare
di
funzione
e
funzionalità
non
bastava
a
rendere
sicuro
il
passaggio
dalla
morfofisiologia
alla
fisiopatologia,
teorizzata
dal
Virchow
e
condivisa,
esplicitamente
o
implicitamente,
da
tutta
la
medicina
di
fine
Ottocento:
compresa
la
clinica,
dotata
di
una
prerogativa
consistente
nel
proprio
diretto
rapporto
con
le
malattie
e
il
malato.
La
prospettiva
funzionalistica
dava
accesso
a
due
innovazioni
sostanziali:
il
concetto
di
struttura
e
la
categoria
della
qualità.
Non
si
dà
funzione,
se
non
ancorata
a
un
aggregato
di
cellule
o
di
fattori
chimici,
come
si
dirà
in
seguito.
Un
aggregato
ipercomplesso,
chimico
e
morfologico,
finirà
con
l’apparire
anche
la
cellula,
considerata
da
Schwann
l’entità
vivente
elementare.
E
neppure
si
dà
funzione
senza
una
specificità
qualitativa:
la
glicogenesi
non
è
il
trasporto
ematico
dell’ossigeno
e
neppure
la
percezione
del
calore
e
del
suono,
a
non
fare
che
un
solo,
banale
esempio
tra
i
tanti
possibili.
La
fisiologia,
o
fisiopatologia
a
dirla
ancora
con
Virchow,
con
l’abbandono
dell’implicito
presupposto
di
una
natura
uniforme,
priva
di
diversità
sostanziali,
finiva
con
il
sospingere
il
geometrismo
galileiano
e
il
meccanicismo
cartesiano
verso
un
tramonto
irreversibile.
Ne
prenderà
atto
il
neurofisiologo
Emil
du
Bois-‐Reymond
(1818
–
1896),
nel
discorso
su
I
sette
enigmi
del
mondo[7],
tenuto
l’8
luglio
1880
nella
seduta
leibniziana
dell’Accademia
delle
scienze
di
Berlino.
Su
una
natura
concepita
come
sistema
di
atomi
materiali
in
movimento,
affioravano
sette
entità
problematiche,
e
per
alcune
di
esse
si
trattava
di
una
problematicità
insuperabile,
«trascendente»:
l’essenza
della
materia
e
della
forza,
l’origine
del
moto,
l’origine
della
vita,
il
finalismo
apparente
della
natura,
l’origine
della
sensazione
elementare,
il
pensiero
razionale
e
il
linguaggio,
la
libertà
del
volere.
In
realtà
gli
«enigmi»
erano
non
sette,
ma
innumerevoli:
ovunque
affiorasse
una
peculiarità
da
un
substrato
quantitativo,
chi
non
cercasse
una
radice
del
quale
accanto
all’evidenza
del
quanto,
si
precludeva
la
possibilità
di
capire
l’esperienza
o,
per
dirla
con
Platone,
di
«salvare
i
fenomeni».
Consapevole
del
baratro
che
si
era
aperto
innanzi
alla
scienza
meccanicistica,
il
du
Bois
onestamente
concluse
il
suo
discorso
accademico
con
una
lucida
ammissione
di
perplessità:
«Dubitemus».
Drasticamente
rinunciataria
-‐
«Ignorabimus»
-‐
era
stata
invece
l’allocuzione
sui
Confini
della
conoscenza
della
natura[8]
all’Assemblea
dei
naturalisti
e
dei
medici
tedeschi,
svoltasi
a
Lipsia
nell’agosto
’72:
materia
e
coscienza
erano
apparse
fin
da
20
allora
inconcepibili,
«unbegreifliche»,
movendo
da
premesse
meccaniche.
Ma
tra
i
due
termini
emblematici
di
una
crisi
radicale,
quello
usato
per
primo
e
poc’anzi
citato
avrebbe
riassorbito
l’altro,
quando
il
du
Bois-‐
Reymond
lo
avrebbe
fatto
assurgere
a
«immutabile
e
inesorabile
verdetto»
nella
premessa
a
un’edizione
congiunta,
1884,
delle
due
conferenze[9].
Negli
stessi
anni
il
materialista
e
meccanicista
Virchow
passava
sulle
posizioni,
più
moderate,
di
un
«vitalismo
meccanico»,
per
cui
esisterebbe
una
forza
peculiare,
orientatrice
dei
movimenti
nei
processi
delle
singole
cellule
e
dell’organismo.
Fisiologi,
biologi
e
morfologi,
nel
loro
affidarsi
alle
certezze
dell’atomismo
meccanico
–
salvo
a
denunciarne,
come
faceva
il
du
Bois,
i
limiti
esplicativi
per
così
dire
superiori
-‐,
sembravano
non
avvedersi
della
contestazione
empiristica,
che
ne
faceva
in
quegli
anni
il
fisico
Ernst
Mach
(1838-‐
1916)
a
nome
del
dato
sensoriale,
seguito
dal
fisicochimico
Wilhelm
Ostwald
(1853-‐1932)
a
nome
di
una
nuova
grandezza
osservabile,
l’«energia».
Creatrice
della
meccanica
moderna,
solo
la
ragione
poteva
intervenire
a
sanarne
le
arbitrarie
limitazioni
e
a
trascenderne
le
scoraggianti
aporie.
Ma
la
fisiologia
era
in
mani
francesi
oltre
che
tedesche
e,
vista
e
valutata
oggi
da
noi,
la
statura
intellettuale
di
Claude
Bernard
spicca
su
tutte
le
altre
per
la
varietà
dei
programmi
di
ricerca,
per
l’affiancamento
alla
microscopia
di
metodi
autenticamente
fisiologici,
e
infine
per
la
sorprendente
ricchezza
d’intuizioni
epistemologiche
e
metafisiche.
Il
Bernard
sperimentatore
ha
un
profilo
di
assoluta
eccezione:
processi
nutritivi
e
digestivi,
funzioni
del
succo
pancreatico,
glicogenesi
epatica,
attività
dei
nervi
vasomotori,
meccanismo
della
paralisi
curarica,
rapporti
fra
sistema
nervoso
vegetativo
e
termoregolazione
sono
le
aree
principali,
dove
egli
potè
acquisire
conoscenze
sostanzialmente
nuove
e
durature,
adottando
strategie
originali
come
quella
da
lui
stesso
chiamata
«autopsia
chimica».
A
un
caposaldo
della
biologia
e
della
medicina
come
la
Patologia
cellulare
del
Virchow
si
possono
affiancare,
del
Bernard,
le
Lezioni
sulle
proprietà
dei
tessuti
viventi,
tenute
allaSorbona
nel
1864
e
pubblicate
nel
’66[10]:
ma
attorno
ad
esse
c’è
una
vasta
serie
di
volumi
analoghi,
nati
dall’insegnamento
e
distribuiti
in
un
venticinquennio,
dalle
Lezioni
di
fisiologia
sperimentale
del
’56[11],
alle
postume
Lezioni
di
fisiologia
operatoria
del
’79[12].
Bernard
è
tiepido
verso
i
tedeschi:
alla
nozione
di
cellula
antepone
quella
di
protoplasma,
e
a
Virchow
ricorda
che
nell’ampia
sintesi
della
patologia
cellulare
non
bisogna
perdere
«il
sentimento
di
ciò
che
è
speciale»,
per
giungere
fino
all’individuo
e
alla
«idiosincrasia»,
base
di
tutta
la
medicina.
Un
Bernard
ancora
più
grande
è
quello
degli
scritti
che
possono
e
devono
essere
considerati
filosofici:
l’Introduzione
allo
studio
della
medicina
sperimentale
del
1865[13],
i
Principi
di
medicina
sperimentale,
inediti
e
solo
nel
1947
pubblicati
nella
forma
di
un
corposo
compendio
da
L.
Delhoume[14],
il
Cahier
rouge,
inedito
ma
integralmente
pubblicato
nel
1962
da
M.
D.
Grmek[15].
Un
mosaico
di
intuizioni,
di
dubbi,
di
argomentazioni
che
talvolta
sembrano
andare
in
direzioni
divergenti
e
finanche
opposte;
una
trama
concettuale
che
mette
in
evidenza
l’inaccettabile
semplificazione
perpetrata
dal
materialismo
–
meccanicistico
in
Germania,
organicistico
in
Francia;
la
schietta
perplessità
preferita
alla
certezza
fallace:
messe
in
una
sola
cornice,
le
riflessioni
del
Bernard
filosofo
presentano
le
caratteristiche
accennate.
Scienza
e
filosofia
devono
procedere
insieme,
ma
le
pietre
dell’edificio
scientifico
sono
i
fatti.
La
vita
è
creazione,
ma
è
anche
morte.
I
processi
vitali
obbediscono
al
determinismo,
ma
l’individualità
s’impone
ovunque.
L’anatomia
studia
l’organizzazione,
ma
la
funzione
è
indeducibile
dalla
forma.
La
sola
forma
del
ragionamento
è
quella
deduttiva
per
sillogismi,
ma
lo
scienziato
deve
concedersi
le
«expériences
pour
voir».
Alta
e
schietta
testimonianza
quella
resa
dal
Bernard,
fisiologo
e
filosofo,
alla
vita
in
sé
stessa
e
all’umano
pensiero
che
l’investiga.
La
nascita
della
medicina
scientifica
da
quella
prescientifica,
osservativa,
impersonata
nel
secolo
di
Galilei,
Boyle
e
Newton
da
Thomas
Sydenham
(1624
–
1689),
ha
avuto
nel
Maestro
del
Collège
de
France
colui
che
seppe
prenderne
atto
e
auspicarne
gli
sviluppi.
Gli
fu
cara,
l’istituzione
creata
da
Francesco
I
21
nel
1513,
perché
aveva
il
compito
di
scrutare
l’avvenire
della
scienza
e
discuterne
i
metodi.
«La
médicine
scientifique,
que
je
suis
chargé
d’enseigner,
n’existe
pas»,
dichiarò
in
una
sua
lezione.
Quasi
tutto
doveva
esser
fatto,
ma
era
stata
conquistata
una
certezza
:
il
nucleo
della
futura
medicina
scientifica
non
poteva
non
essere
la
fisiopatologia.
L’ANOMALIA
PSICOPATOLOGICA
I
dueiniziatori
della
fisiopatologia
sono
l’uno,
Bernard,
morto
da
un
quindicennio,
e
l’altro,
Virchow,
ancora
attivo
e
assurto
quello
stesso
anno
al
rettorato
dell’Università
di
Berlino,
quando
un
giovane
e
promettente
allievo
della
Facoltà
medica
viennese,
Sigmund
Freud
(1856
–
1939),
pubblica
nel’93
sulle
Archives
de
neurologie
un
articolo:
Alcune
considerazioni
per
una
studio
comparativo
delle
paralisi
motorie
organiche
e
isteriche[16],
che
crea
una
vistosa
anomalia
rispetto
al
paradigma
fisiopatologico
della
medicina
scientifica.
L’anomalia
era
destinata
a
crescere,
anzi
a
ingigantirsi,
passando
dalla
psicoanalisi
alla
psicosomatica,
fino
a
essere
riconosciuta
e
ricompresa
nello
spazio
complessivo
della
medicina,
non
senza
perduranti
incertezze.
Qui
è
necessaria
una
parentesi.
Abbiamo
adottato
una
terminologia
di
derivazione
sociologica
(R.
Merton,
Th.
Kuhn)
–
paradigma,
anomalia
-‐,
con
il
vantaggio
di
acquisire,
per
determinati
termini,
significati
condivisi.
Rispetto
al
paradigma,
insieme
di
asserzioni
basilari
per
una
teoria
o
per
una
disciplina,
si
configura
come
anomalia
ciò
che,
a
differenza
del
puro
e
semplice
ampliamento,
contraddice
uno
o
più
princìpi
sostanziali
dell’impianto
teorico
originario,
pur
accettandone
altre
asserzioni
normative.
Nei
riguardi
della
fisiopatologia
assunta
come
paradigma,
risulta
anomala
la
prospettiva
psicoanalitica
e
psicosomatica,
che
rimanda
a
fattori
non
inerenti
a
strutture
anatomiche
oppure
a
funzioni
di
organi
determinati:
coerente
al
paradigma
era,
viceversa,
lo
sviluppo
della
microbiologia
con
Louis
Pasteur
(1822-‐1895)
e
Robert
Koch
(1843-‐1910).
Riprendiamo
il
nostro
discorso.
Nella
memoria
citata,
Freud
dava
notizia
di
una
nuova
tipologia
di
paralisi,
non
simulate
e
non
accompagnate
da
lesioni
cerebrali,
distribuite
sui
distretticorporei
«come
se
l’anatomia
del
sistema
nervoso
non
esistesse.»
Cominciava
il
lungo
itinerario
freudiano
dalle
neuropsicosi
di
difesa
alle
fobie,
alle
psiconevrosi
d’angoscia,
al
narcisismo,
alle
ossessioni:
stati
morbosi
dove
i
vissuti
psichici
imprimono
sul
soma
il
loro
suggello,
anzitutto
disegnandovi
il
profilo
soggettivo
del
sintomo,
pur
senza
ripetere
da
alterazioni
somatiche
la
loro
origine
e
il
loro
decorso.
Questo
la
fisiopatologia
non
poteva
accettarlo
–
e
lo
aveva
rifiutato
all’aprirsi
della
nuova
prospettiva
con
il
capo
della
scuola
neurologica
di
Vienna,
Theodor
Meynert
(1833-‐1892)
-‐,
pur
avendo
abbandonato,
già
con
Virchow,
la
pregiudiziale
di
un
rigoroso
materialismo,
a
favore
di
altra,
più
aperta
e
meglio
difendibile
premessa
ideologica.
La
priorità
causale
doveva
attribuirsi
al
soma,
la
posteriorità
agli
effetti
e,
tra
essi,
ai
disturbi
psichici.
Secondo
Freud,
il
paziente
affetto
da
paralisi
isterica
subiva
l’effetto
di
ricordi
sottratti
alla
coscienza:
era
l’evento
traumatico
pregresso,
non
una
lesione
anatomica
che
provocava
il
deficit
motorio
e
ne
disegnava
il
contorno.
Come
accedere
a
contenuti
psichici
dimenticati,
sommersi?
Negli
Studi
sull’isteria,
pubblicati
nel
’95
con
Joseph
Breuer
(1842-‐1925)[17],
il
caso
clinico
dominante,
quello
di
Anna
O.,
pseudonimo
di
Berta
Pappenheim,
presentava
una
procedura
curativa
che
la
stessa
paziente
aveva
inventata.
Dando
libero
corso
ai
propri
pensieri,
Anna
O.
vedeva
risolversi
i
deficit
motorî
e
lo
stato
di
agitazione
in
cui
si
trovava.
A
questo
punto
occorreva
trovare
il
coraggio,
da
parte
del
terapeuta,
di
rinunciare
a
ogni
intervento
esterno,
in
particolare
all’ipnosi,
e
adottare
«un
procedimento
di
svuotamento
strato
per
strato,
che
ci
piaceva
paragonare
alla
tecnica
del
dissotterrare
una
città
sepolta.»
Nel
caso
di
Emmy
von
N.,
compreso
negli
Studi,
Freud
giungeva
a
una
delle
nozioni
fondamentali
dell’analisi,
quella
di
22
«conversione»
[Konversion],
per
cui
l’energia
psichica,
proveniente
da
una
rappresentazione
rimossa,
si
traspone
in
sintomo
somatico,
conferendogli
un
contenuto
espressivo
che
diventa
un
significato
da
recuperare.
Ma
negli
stessi
anni
Freud
affrontava
il
problema
del
sintomo
da
un
altro
punto
di
vista
come
«equivalente
dell’attacco
d’angoscia»,
mascherato,
insospettabile.
La
neuropatologia
era
giunta
a
un
bivio,
tra
la
psiche
tradotta
e
talvolta
regredita
in
corporeità,
e
la
corporeità
come
contenitore
di
processi
non
giunti
a
elaborarsi
psichicamente.
Il
secondo
itinerario
sarà
quello
percorso
dalla
medicina
psicosomatica
con
i
suoi
più
autorevoli
Autori
e
i
testi
che
ne
hanno
fissato
l’assetto
teorico:
Franz
Alexander,
Medicina
psicosomatica:
princìpi
e
applicazioni[18],
Michael
Balint,
La
colpa
basilare.
Aspetti
terapeutici
della
regressione[19],
Viktor
von
Weizsäcker,
Natura
e
spirito[20],
Günter
Ammon,
Psicoanalisi
e
psicosomatica[21].
La
psicosomatica
si
allontana
dalla
storia
del
soggetto,
dell’Io,
per
tornare
alla
genesi
delle
strutture
egoiche,
penetrando
nel
cuore
della
struttura
relazionale
produttrice
della
malattia,
che
è
ravvisata
nella
«famiglia
psicosomatogena».
Punto
nodale
dell’evento
morboso
nel
paziente
con
reazioni
psicosomatiche,
secondo
Ammon,
è
il
disturbo
delle
funzioni
basilari
dell’Io
corporeo:
l’aggressività
e
il
narcisismo.
Il
vertice
della
soggettività,
tra
coscienza
e
«potenze
del
destino»,
per
dirla
con
il
Freud
di
Inibizione,
sintomo
e
angoscia[22],
si
perde
in
un
lontano
orizzonte
per
chi
segua
l’itinerario
psicosomatico,
e
non
quello
psicoanalitico
del
Maestro
di
Vienna
e
del
suo
geniale
e
infedele
allievo,
Carl
Gustav
Jung
(1875-‐1961),
analista
dell’espressione
simbolica
tra
psicologia
del
profondo
e
scienze
umane[23].
Si
è
intanto
costituita
una
psichiatria,
totalmente
rinnovata,
attraverso
Karl
Jaspers
(1883
–
1969)
e
la
sua
con
la
Psicopatologia
generale[24]
,
alla
ricerca
d’ipotesi
interpretative
e
tentativi
terapeutici
nell’universo
sovvertito
delle
psicosi.
Quanto
sopra
accennato,
in
particolare
la
complementarità
di
psicoanalisi
e
psicosomatica,
dovrebbe
favorire
il
riassorbimento
dell’anomalia
psicopatologica,
in
funzione
interrogativa
e
problematica,
nella
fisiopatologia,
pur
all’inizio
circoscritta
nella
funzione
di
riferimento
paradigmatico.
E
tuttavia
ciò
tarda
a
verificarsi,
perché
la
corporeità,
come
la
fisiopatologia
è
incline
a
concepirla,
non
offre
un
terreno
ontologicamente
idoneo
all’innesto
della
mente
o,
più
modestamente,
del
mentale.
Sono
rimaste
convinzioni
isolate
quelle
del
Bernard
nel
Quaderno
rosso,
per
cui
la
caratteristica
di
ogni
cosa
risiederebbe
nel
suo
«insieme»,
che
a
sua
volta
non
avrebbe
un
«sostrato
materiale
determinato»,
ma
sarebbe
«per
così
dire,
l’anima
della
cosa.»
Siamo
al
confine
dell’osservabile,
che
troppo
spesso
la
scienza
ha
considerato
e
considera
come
il
confine
del
pensabile,
almeno
in
senso
scientifico.
Saranno
la
teoria
dell’informazione
e
la
cibernetica
a
varcarlo,
il
presunto
limite,
meccanicistico
ed
empiristico,
della
pensabilità,
tra
gli
anni
Quaranta
e
i
Cinquanta:
ilcibernetico
Norbert
Wiener
riconoscerà
che
un
materialismo
non
aperto
all’immaterialità
dell’informazione
si
preclude
il
diritto
di
appartenere
all’odierno
pensiero
scientifico.
Va
riconosciuto
al
paradigma
fisiopatologico
il
merito
di
un’evoluzione
sostanziale
affrontata
e
proseguita
nel
Novecento,
per
rintracciare
e
descrivere
l’unità
somatopsichica
dell’organismo.
Il
sistema
nervoso
autonomo
diventa
il
garante
dell’omeostasi
interna.
Sistema
nervoso
e
ghiandole
endocrine
giungono
a
correlarsi
in
un
nuovo
programma
di
ricerca,
la
già
segnalata
neuroendocrinologia,
superando
la
netta
cesura
che
il
Bernard
aveva
postulata
tra
funzioni
di
relazione
e
funzioni
di
nutrizione.
Ma
l’unità
dell’individuo
che
da
ciò
scaturisce,
pur
rappresentando
una
lusinghiera
conquista,
dev’essere
avviata
verso
l’unità
psicosomatica
della
persona.
Con
l’ontologia
virtuale
che
la
sottende,
tale
unità
rappresenta
il
nuovo
traguardo
che
il
paradigma
fisiopatologico,
e
con
esso
l’intera
medicina,
hanno
avuto
il
grande
merito
di
delineare
e
dovranno
nei
prossimi
decenni
cercar
di
raggiungere,
articolare,
definire.
23
LA
DIMENSIONE
CHIMICA
Alla
fine
del
Settecento,
l’analisi
chimica
della
vita
si
affianca
alle
discipline
morfologiche
della
tradizione,
e
alla
più
recente
fisiologia,
con
Antoine
L.
Lavoisier
(1743
–
1794)
e
la
sua
«révolution
chimique».
Un
coraggioso
innovatore,
Lavoisier,
rispetto
alla
conoscenza
dei
costituenti
elementari
della
natura,
come
Galilei
e
Newton
erano
stati
rispetto
alle
leggi
del
movimento.
Le
due
rivoluzioni
in
corso,
quella
sociale
e
quella
chimica,
culminano
entrambe
nello
stesso
luogo
e
anno:
a
Parigi
nell’89
si
riuniscono
gli
Stati
generali
e
si
pubblica
il
Trattato
elementare
di
chimica[25].
L’aria
non
è
più
un
corpo
semplice,
ma
mostra
d’essere
la
miscela
di
un
elemento
ossidante
e
di
un
altro,
insufficiente
a
preservare
la
vita
e
perciò
chiamato
«azoto».
Si
chiarisce
in
che
cosa
consista
la
respirazione:
i
polmoni
trattengono
l’ossigeno
contenuto
nell’aria
inspirata
e
restituiscono
la
parte
residua.
Nello
stesso
periodo
i
punti
di
vista
dai
quali
erano
osservati
e
descritti
gli
organismi
viventi,
con
il
naturalista
Georges
L.
Buffon
(1707
–
1788)
e
il
fisiologo
Gottfried
R.
Treviranus
(1776
–
1837),
accennano
a
unificarsi
nella
«biologia»,
che
il
Virchow
definirà
«teoria
della
vita
in
genere
e
in
particolare
dell’uomo»,
indicandone
la
compiuta
realizzazione
nella
propria
fisiopatologia.
Tra
questa
prospettiva
e
la
nuova
chimica
Lavoisier
aveva
istituito
un
intrinseco
rapporto:
non
a
caso
una
delle
sue
innovative
memorie
era
apparsa
nell’85
sulle
Annales
de
la
Société
de
médicine[26].
Mandato
alla
ghigliottina
come
«fermier
du
Roi»,
esattore
delle
imposte
al
servizio
della
corona,
Lavoisier
muore
precocemente,
ma
la
strada
aperta
da
lui
si
prolungherà
verso
traguardi
lontani.
La
chimica
fisiologica
Fra
gli
«elementi»
elencati
nel
Trattato
con
ampiezza
di
particolari,
c’era
il
carbonio,
capace
di
combinarsi
con
il
principio
ossidante
dell’aria
formando
un
composto
acido
allo
stato
gassoso.
La
posizione
privilegiata
del
carbonio
nella
scala
elettrochimica
degli
elementi
verrà
in
seguita
adeguatamente
chiarita,
e
potrà
nascere
una
«chimica
organica»,
dapprima
collegata
con
l’organismo
come
presunto
fattore
di
sintesi
per
i
composti
del
carbonio,
poi
affrancata
dall’ipotesi
di
una
«forza
vitale».
All’interno
della
chimica
organica
si
sarebbe
enucleata
una
«chimica
fisiologica»
con
Felix
Hoppe-‐Seyler
(1825
-‐1895),
scopritore
dell’emoglobina
contenuta
nei
globuli
rossi
come
vettore
dell’ossigeno
ai
tessuti:
la
struttura
chimica
e
il
dosaggio
saranno
opera
di
Anders
Angström
(1814
–
1875).
Siamo
negli
anni
in
cui
nascono
la
fisiopatologia
e
la
medicina
scientifica,
con
il
Virchow
e
il
Bernard:
quest’ultimo,
come
dimostrano
alcuni
volumi
nell’imponente
serie
delle
Leçons,
assertore
di
un
esteso
e
intrinseco
rapporto
tra
chimica
e
vita.
Un
allievo
tedesco
del
Bernard,
Wilhelm
Kühne
(1837-‐1900),
coniava
nel
’78
il
termine
«enzima»
e
contribuiva
a
individuare
i
fattori
enzimatici-‐gastrici,
intestinali,
pancreatici
–,
che
agiscono
nei
processi
digestivi.
Come
le
trasformazioni
metaboliche,
anche
quelle
enzimatiche
possono
ottenersi
fuori
dall’organismo.
Se
Friedrich
Wöhler
(1800
–
1882)
nel
’28
aveva
ottenuto
in
laboratorio
l’urea
che
si
produce
nel
metabolismo
delle
proteine,
Edouard
Büchner
(1860
–
1917)
nel
’97
trasformava
il
glucosio
in
etanolo
e
anidride
carbonica
utilizzando
un
estratto
cellulare
di
lievito.
Al
passaggio
dall’Otto
al
Novecento,
chimica
fisiologica
e
fisiopatologia
avevano
lavorato
a
un’estesa
correlazione
dei
propri
ambiti,
mostrando
la
presenza
praticamente
ubiquitaria
di
processi
chimici
in
quelli
vitali,
tanto
da
simulare
un
rapporto
di
causa
a
effetto.
La
«biochimica»
subentra,
quando
il
passaggio
dalla
natura
inorganica
alla
natura
vivente
è
stato
assunto
a
proprio
carico
dalla
teoria
dell’evoluzione,
che
ne
attenua
l’aspetto
problematico
a
vantaggio
dell’inferenza
osservativa,
e
valendosi
di
concetti
che
fungono
da
simulatori
di
evidenza:
quello
stesso
di
evoluzione,
poi
la
selezione,
l’adattamento,
l’autorganizzazione.
Ma
problemi
sostanziali
della
transizione
dalla
fisica
e
dalla
chimica
alla
vita
si
riproporranno
con
il
successivo
passaggio
dalla
biochimica
alla
«biologia
molecolare».
24
La
biochimica
Il
ventesimo
secolo
riceve
in
eredità
una
chimica
per
così
dire
esterna
all’organismo,
dove
va
a
inserirsi,
paradossalmente,
una
classe
di
sostanze
che
l’organismo
stesso
è
incapace
di
sintetizzare,
pur
essendo
indispensabili
a
determinate
funzioni:
le
«vitamine»,
così
chiamate
dal
biochimico
polacco
Casimir
Funk
(1884
–
1967),
che
dedica
loro
nel
1914
un’opera
di
esauriente
informazione[27],totalmente
rielaborata
nel
‘22,
introducendo
il
concetto
di
«malattie
da
deficienza».
Ma
l’apporto
chimico
esogeno,
pur
avvalorato
dai
citati
«catalizzatori
organici»
-‐
la
definizione
è
del
Funk
-‐,
non
arriva
a
pareggiare
per
varietà
di
produzione
e
significato
l’apporto
endogeno,
proveniente
dai
processi
chimici
che
si
svolgono
nei
tessuti
del
corpo
umano
e
animale.
Agli
enzimi
si
aggiungono
gli
«ormoni»
-‐
il
termine
è
dovuto
a
William
M.
Bayliss
(1860
–
1924)
e
Ernest
H.
Starling
(1866
–
1927)
–
e
i
«mediatori
chimici»
tra
nervo
e
muscolo,
individuati
da
Otto
Loewi
(1873
–
1961)
e
Henry
H.
Dale
(1875
–
1968).
Sono
sostanze
che
s’inseriscono
in
connessioni
o
nicchie
funzionali,
e
sembrano
attualizzare
la
metafora
della
macchina
umana,
evocata
nel
Settecento
dal
materialista
Julien
de
la
Mettrie
(1709
–
1751),
ma
ancora
idonea
a
recepire
il
problema
delle
simultaneità
e
sinergie
di
parti
inserite
in
un
tutto.
La
chimica
endogena
è
peraltro
rappresentata
nell’importanza
prioritaria
che
le
compete
da
due
fondamentali
processi:
il
metabolismo
e
l’immunità.
Il
metabolismo
degli
organismi
viventi
dev’essere
considerato
una
delle
massime
conquiste
conoscitive
del
ventesimo
secolo.
I
biochimici
preferiscono
parlare
di
«metabolismo
intermedio»,
riconducendovi
tutte
le
fasi
della
trasformazione
di
proteine,
zuccheri
e
grassi,
fino
al
bivio
tra
utilizzo
energetico
e
impiego
nelle
attività
di
sintesi.
Con
Hans
A.
Krebs
(1900
–
1981),
Albert
Szent-‐Györgyi
(1893
–
1986)
e
Fritz
A.
Lipmann
(1899
–
1986)
–
nomi
che
richiamano
l’esodo
dall’Europa
continentale
di
una
larga
parte
della
ricerca
scientifica
avanzata,
negli
anni
Trenta
–
si
definiscono
i
concetti
di
via
metabolica,
ciclo
di
reazione,
veicolo
molecolare,
legame
chimico
ad
elevata
energia
potenziale:
nozioni
che
mettono
ordine
stretto,
vincolante
nei
rapporti
tra
natura
inorganica
e
natura
vivente.
Dentro
la
cosiddetta
area
centrale
del
metabolismo,
il
«ciclo
di
Krebs»
unifica
le
vie
metaboliche
di
protidi,
glicidi
e
lipidi,
con
reazioni
cataboliche
e
anaboliche,
accompagnate
rispettivamente
da
liberazione
e
assorbimento
di
energia.
Le
ricerche
del
Lipmann
metteranno
in
particolare
evidenza
il
ruolo
di
una
sostanza,
l’adenosintrifosfato
(ATP),
che
contiene
nella
sua
molecola
due
legami
fosforici
ad
alto
potenziale
energetico,
e
pertanto
può
fungere
da
accumulatore
ed
erogatore
di
energia.
In
anni
recenti
Edwin
G.
Krebs
e
E.
Fisher
dimostreranno
la
presenza
dell’ATP
nella
catena
di
conversione
del
glicogeno
in
glucosio,
mediante
fosforilazione
dell’enzima
glicogenofosforilasi,
con
un
processo
a
sua
volta
catalizzato
nei
due
sensi
dal
doppio
fattore
enzimatico
chinasi
–
fosfatasi.
Si
avvicinano
gli
anni
della
«biologia
molecolare»,
e
la
cellula
dello
Schwann
e
del
Virchow,
trasformatasi
in
laboratorio
ipercomplesso,
dopo
aver
infrasceso
con
i
suoi
costituenti
macromolecolari
l’osservabilità
della
microscopia
ottica,
si
ricolloca
al
centro
della
biomedicina.
L’immunità
decorre
parallelamente
al
metabolismo.
I
suoi
inizi
datano
dalle
osservazioni
e
dagli
esperimenti
compiuti
da
Charles
Richet
(1850
–
1935),
mediante
successive
inoculazioni
di
sostanze
velenose
estratte
dalle
anemoni
di
mare:
invece
di
essere
immunizzati,
gli
animali
da
esperimento
morivano
per
dosi
che
avrebbero
provocato
limitati
effetti
incondizioni
normali.
Nel
1902
Richet
conia
il
termine
«anafilassi»,
superdifesa,
e
le
dedica
un’organica
opera
nell’11[28].
L’anafilassi
diventerà
uno
dei
capitoli
dell’immunopatologia,
mentre
l’immunità
viene
meglio
compresa
in
termini
fisiologici
avvicinandola,
per
i
Vertebrati,
a
ciò
che
la
fagocitosi
rappresenta
per
gli
Invertebrati:
un
processo
che
serve
a
difendere
la
specificità
biochimica
ed
è
attivato
quando
sostanze
eterogenee
abbiano
oltrepassato
la
barriera
della
cute
e
delle
mucose
di
un
vertebrato,
penetrando
nei
tessuti.
All’ingresso
dell’antigene
o
dell’aptene
–
proteine
e
25
carboidrati,
ma
anche
lipidi,
acidi
e
acidi
nucleici
-‐,
segue
negli
organi
linfatici
la
formazione
di
anticorpi,
costituiti
da
immunoglobuline
capaci
di
coniugarsi
chimicamente
con
l’antigene
e
d’inattivarlo.
In
sinergia
con
i
linfociti,
elaboratori
degli
anticorpi,
operano
le
cellule
fagocitarie.
Due
teorie,
quella
istruttiva
e
quella
selettiva,
si
sono
proposte
di
spiegare
la
formazione
delle
sostanze
anticorpali.
Secondo
la
teoria
istruttiva,
prevalente
negli
anni
Trenta,
l’anticorpo
si
formerebbe
sotto
l’azione
diretta
dell’antigene,
all’interno
delle
cellule
produttrici.
Secondo
la
più
recente
teoria
selettiva,
gli
anticorpi
sono
invece
formati
partendo
dalla
matrice
di
un’informazione
che
preesiste
nell’organismo
interessato:
l’antigene
seleziona
le
cellule
atte
a
riceverlo
e
indirettamente
ne
provoca
la
proliferazione.
L’immunopatologo
australiano
Frank
M.
Burnet
(1899-‐1985)
ha
aggiunto
alla
teoria
prima
citata
l’ipotesi
della
selezione
clonale,
trasferendo
l’indagine
immunologica
al
livello
molecolare
delle
immunoglobuline.
Aderendo
alla
superficie
della
globulina,
l’antigene
selezionerebbe
il
relativo
clone
anticorpale
negli
organi
linfatici,
che
a
loro
volta
provvederebbero
alla
sua
moltiplicazione
selettiva.
Lo
stesso
meccanismo
è
invocato
per
spiegare
l’«autoimmunità»:
parti
del
corpo
divenute
eterogenee
rispetto
all’organismo,
diventano
il
bersaglio
della
reazione
difensiva,
alla
quale
l’immunità
si
riconduce.
E’
del
Burnet
l’opera
di
riferimento
su
tale
problema
di
frontiera:
Autoimmunità
e
malattie
autoimmuni[29].
Ma
dagli
anni
Cinquanta
si
era
aperto
nella
fisiopatologia,
e
in
particolare
nell’immunopatologia,
il
nuovo
capitolo
dei
trapianti
d’organo:
prima
il
rene,
trapiantato
con
successo
nel
’55
fra
gemelli
monocoriali,
poi
il
cuore
ad
opera
del
cardiochirurgo
sudafricano
Christian
N.
Barnard,
e
ancora
il
fegato,
i
polmoni,
il
pancreas,
l’intestino.
La
risposta
dell’ospite
al
trapianto,
il
rigetto
dei
tessuti
trapiantati
da
parte
dell’ospite
–
ma
anche
il
caso
inverso,
nel
trapianto
di
midollo
osseo:
il
rigetto
che
le
cellule
trapiantate
attuano
verso
i
tessuti
dell’ospite
-‐,
i
trattamenti
farmacologici
capaci
di
sopprimere
il
rigetto
provocando
la
cosiddetta
«immunosoppressione»,
sono
i
problemi
che
l’immunopatologia
individua
e
risolve,
valendosi
di
competenze
specialistiche,
alle
quali
offre
un
terreno
di
convergenza
e
di
unificazione.
La
farmacologia
fornisce
una
nuova
sostanza
attiva,
la
ciclosporina:
un
polipeptide
ciclico
a
11
amminoacidi,
capace
di
interferire
con
l’interleuchina,
sostanza
attivatrice
dei
linfociti
produttori
di
anticorpi.
Le
conoscenze
sull’immunità
sono
giunte
a
pareggiare,
come
già
accennato,
quelle
sul
metabolismo:
e
anch’esse
devono
essere
annoverate
tra
i
massimi
avanzamenti
della
scienza,
ottenuti
nel
Novecento.
La
biologia
molecolare
Il
cellularismo
aveva
aggiunto
alla
dimensione
macroscopica
della
vita
l’osservabilità
microscopica,
permettendo
una
definizione
non
meramente
intuitiva
dell’entità
vivente.
Chimica
fisiologica
e
biochimica
avevano
ottenuto
un
risultato
di
non
minore
importanza:
il
collegamento
di
natura
vivente
e
natura
inorganica,
con
un
rapporto
di
dipendenza
della
prima
dalla
seconda,
almeno
implicitamente
suggerito.
E’
questo
rapporto
che
s’inverte
con
il
passaggio
dalla
biochimica
alla
biologia
molecolare,
dopo
aver
accantonato
il
paradigma
infecondo,
fisicochimico,
della
«biocolloidologia»
(M.
Florkin),
sostituendolo
con
la
strutturistica:
quest’ultima
ancorata
alla
Natura
del
legamechimico
di
Linus
Pauling
(1901-‐1994)[30],
cardine
di
una
nuova
correlazione
assiomatica
di
tutte
le
scienze
della
natura.
Le
molecole
della
vita
hanno
struttura
di
alta
complessità;
sono
qualitativamente
diverse;
si
mostrano
collegate
da
sinergie
o
finalità,
attuali
o
virtuali;
molte
di
esse
possono
ottenersi
allo
stato
cristallino,
a
differenza
dei
colloidi.
La
complessità
è
il
termine
che
emerge
su
tutti
gli
altri:
una
complessità
organizzata
e
codificata.
Chi
per
primo
oppone
l’ordine
trasmissibile
di
un
«codice»,
«code-‐script»,
alla
media
statistica,
e
considera
quest’ultima
insufficiente
a
spiegare
la
trasmissione
ereditaria
dei
caratteri
negli
organismi
viventi,
è
il
fisico
Erwin
Schrödinger
(1887
–
1962),
creatore
della
meccanica
ondulatoria.
In
Che
cos’è
la
vita?[31],
nato
dalle
lezioni
tenute
nel
’43
al
Trinity
College
di
Dublino
26
e
pubblicate
l’anno
successivo,
si
dà
corso
a
una
rettifica
sostanziale
della
filosofia
meccanica
della
natura.
A
riprendere
il
giudizio
di
Bergson
sul
Bernard,
si
potrebbe
dire
che
il
saggio
dello
Schrödinger
è
un
discorso
sul
metodo
per
la
scienza
del
ventesimo
secolo.
Discorso,
ma
anche
profezia:
tra
il
’44
e
il
’53
gli
acidi
nucleici
conferiscono
un’identità
precisa
al
codice
prima
citato.
La
breve
memoria
di
James
D.
Watson
e
Francis
H.
Crick,
intitolata
Struttura
molecolare
degli
acidi
nucleici[32],
esce
sul
periodico
Nature
nell’aprile
1953:
ma
è
preceduta
da
un
decennio
di
elaborazione
concettuale.
Di
primaria
importanza
era
stato
il
contributo
dell’immunopatologia
al
nuovo
ordine
d’idee.
Ma,
come
osserva
il
biochimico
Erwin
Chargaff,
era
necessario
che
chimici
e
biologi
fossero
pronti
ad
accettare
l’esistenza
in
natura
di
molecole
gigantesche:
il
lungimirante
Schrödingeraveva
parlato
del
gene
come
di
una
macromolecola
che
consuma
entropia
negativa.
Si
apre
un
intero
orizzonte
di
nuove
conoscenze,
parte
delle
quali
vanno
a
integrare
la
biochimica
del
metabolismo,
parte
invece
coinvolgono
la
regolazione
funzionale
dell’intero
organismo,
compresa
la
trasmissione
dei
caratteri
ereditari.
L’unità
strutturale
dei
due
acidi
nucleici
–
ribonucleico
(RNA)
e
desossiribonucleico
(DNA)
–
è
il
«nucleotide»,
che
allinea
un
idrato
di
carbonio
e
una
base
azotata,
purinica
o
pirimidinica:
adenina,
citosina,
guanina,
timida,
uracile.
Nel
DNA
del
nucleo
cellulare
umano,
i
nucleotidi
ammontano
a
tre
miliardi
e
agiscono
in
triplette,
i
«codoni».
Sebbene
una
larga
parte
sia
presente
nei
cromosomi
ma
estranea
all’attività
dei
geni,
dunque
non
organizzata
in
triplette,
la
possibilità
dell’accennato
controllo
sulle
funzioni
organiche
è
oltremodo
vasta
e
articolata.
Invece
diventa
problematica
l’unità
–
della
cellula,
dell’organo,
dell’organismo
–
nel
mare
della
molteplicità
che
la
biomedicina
si
trova
a
solcare.
Le
cellule
dell’organismo
umano
sono
stimate
nell’ordine
di
dieci
alla
diciassette,
la
sola
corteccia
cerebrale
ne
avrebbe
cento
miliardi,
ciascuna
cellula
capace
di
cento
miliardi
di
collegamenti
sinaptici.
L’ottenimento
dell’unità
richiederebbe
un
salto
analogo
a
quello
dalla
quantità
inerziale
della
materia
alla
qualità
non
inerziale
dell’«informazione»,
che
la
cibernetica
non
ha
esitato
a
compiere.
Ma
il
passo
dai
molti
all’uno
non
viene
compiuto,
e
si
delinea
una
complessità
non
unificata,
paradossale,
stupefacente,
che
rimane
tale
ancor
oggi.
Il
nuovo
ordine
d’idee,
riprendiamo
una
precedente
espressione,
non
implica
forse
la
messa
in
liquidazione
dell’originaria
fisiopatologia
di
matrice
cellulare?
No,
anzi
ce
n’è
una
conferma
dopo
la
trasformazione
della
cellula
in
un
laboratorio,
che
contiene
il
«codice
genetico»
al
centrodelle
proprie
sinergie
funzionali.
Peraltro
il
riduzionismo
non
è
disposto
a
dare
partita
vinta
allo
strutturalismo,
solo
perché
dal
du
Bois-‐Reymond
allo
Schrödinger
si
sia
dimostrata
insostenibile
l’autosufficienza
della
meccanica:
eppure
la
struttura
avrebbe
un
numero
crescente
di
fatti
da
addurre
a
proprio
favore,
rispetto
al
corpo
materiale
mobile
e
alla
«teoria
dell’urto»,
che
dovrebbe
valorizzarlo.
Le
nuove
parole
d’ordine
sono
macromolecole,
doppia
elica
–
quella
degli
acidi
nucleici,
nucleotidi,
triplette,
ribosomi,
amminoacidi,
mitocondri
–
citati
questi
ultimi
sempre
meno
spesso,
perché
disturbano
lo
schematismo
riduzionistico
che
si
è
costituito.
Invece
s’insinua
nel
discorso
scientifico
un
termine
ambiguo
di
antica
origine,
il
caso.
Il
biochimico
cellulare
Jacques
Monod
in
un
volume
del
1970
che
non
mantiene
la
promessa
contenuta
nel
titolo:
Il
caso
e
la
necessità:
saggio
sulla
filosofia
naturale
dellabiologia
moderna[33],
presume
di
spiegare
l’ordine
della
vita,
e
dunque
l’intera
anatomia
comparata,
con
mutazioni
casuali
della
sequenza
nucleotidica,
che
vengono
accettate
e
incorporate
stabilmente
nel
genoma
attraverso
la
selezione
evolutiva.
Non
lo
segue
il
genetista
François
Jacob,
che
insieme
al
Monod
aveva
individuato
l’azione
dell’acido
ribonucleico
(RNA)
nella
sintesi
delle
proteine,
in
La
logica
del
vivente[34]:
un
organismo
risulta
da
una
serie
di
piani
organizzativi,
incastrati
l’uno
nell’altro.
Con
diversa
responsabilità
intellettuale
un
altro
biologo
molecolare,
Renato
Dulbecco,
ha
rappresentato
il
Progetto
della
vita[35],
collocandovi
la
«macchina
cellulare»
accanto
al
DNA.
Nel
Sogno
del
genoma
umano
e
altre
illusioni
della
scienza[36],
il
genetista
Richard
Lewontin
dell’università
di
Harward,
spinge
oltre
la
critica
con
sottile
ironia:
«Il
DNA
è
una
molecola
morta,
27
una
delle
molecole
meno
attive
e
chimicamente
più
inerti
del
mondo
vivente…
Il
DNA
non
ha
il
potere
di
riprodurre
sé
stesso…Nessuna
molecola
vivente
si
autoriproduce.
Solo
le
cellule
intere
possono
contenere
tutto
il
meccanismo
necessario
per
la
auto-‐riproduzione
e
anch’esse,
nel
corso
dello
sviluppo,
perdono
tale
capacità…La
sequenza
lineare
di
nucleotidi
nel
DNA
è
usata
dal
meccanismo
della
cellula
per
determinare
quale
sequenza
di
aminoacidi
dev’essere
inscritta
in
una
proteina,
e
per
determinare
quando
e
dove
la
proteina
dev’essere
prodotta.»
(pp.112
s.)
Si
può
obiettare
al
Lewontin
che
il
DNA
rimane
la
macromolecola
biologica
con
la
massima
quantità
d’informazione
per
unità
di
volume
o,
detto
altrimenti,
con
la
densità
massima
di
contenuto
informativo.
Ma
sarebbe
un’argomentazione
non
sostanziale:
anche
un
vocabolario
contiene
la
più
elevata
quantità
d’informazione
linguistica,
e
tuttavia
la
finalità
sta
altrove,
nel
linguaggio
con
la
sua
universalità
espressiva
e
il
suo
uso
colloquiale.
Analogamente,
gli
acidi
nucleici
appartengono
al
ciclo
di
produzione
delle
proteine,
ne
rappresentano
il
momento
codificato
dell’invarianza
strutturale:
il
recente
riaffacciarsi
di
una
«proteomica»
nella
biomedicina
potrebb’essere
il
segnale
di
un’inversione
di
tendenza
nel
percorso
teorico
e
sperimentale
della
biologia
molecolare.
Intanto
il
Progetto
Genoma,
un’impresa
internazionale
per
il
sequenziamento
degli
accennati
tre
miliardi
circa
di
nucleotidi
presenti
nei
ventitre
cromosomi
delle
cellule
umane,
si
sarebbe
conclusa
in
maniera
spettacolare,
a
fine
secolo
e
millennio:
il
26
giugno
2000
lo
hanno
annunciato
il
Presidente
degli
Stati
Uniti
e
il
Premier
britannico,
dando
l’impressione
di
voler
suggellare
politicamente
il
secolo
e
il
millennio
in
via
di
conclusione,
con
un
annuncio
peraltro
prematuro.
Spazi
vuoti,
come
dicono
i
genetisti,
sequenze
imprecisate
sull’uno
o
sull’altro
cromosoma
sono
state
chiarite
in
seguito:
è
dei
giorni
scorsi
l’annuncio,
sulla
rivista
Nature,
di
un’analisi
sequenziale
approfondita
del
cromosoma
11,
che
ospita
uno
dei
«loci»
dell’Alzheimer
e
nel
5
percento
dei
casi
si
aggiunge
nella
sindrome
Down
alla
trisomia
del
cromosoma
21
–
l’anomalia
genetica
scoperta
nel
mongolismo
da
Jérôme
Lejeune
(1926-‐1994),
nel
1958.
Il
rapporto
tra
«loci»
genici
e
funzioni
non
è
quello
tra
tasto
e
lettera
della
macchina
per
scrivere,
se
non
in
casi
eccezionali:
alla
singola
funzione
corrisponde
una
struttura
di
più
località
geniche
e
spesso
cromosomiche.
La
vita
è
struttura
a
tutti
i
livelli.
Come
accennato,
solo
il
tre-‐cinque
percento
della
sequenza
nucleotidica
costituisce
i
«geni»,
il
resto
ha
provenienza
e
funzione
sconosciute.
L’accennato
rapporto
costituisce
un
dato
sorprendente.
Si
è
ipotizzatoche
il
cosiddetto
«DNA
spazzatura»,
quello
non
genico,
derivi
da
virus
insinuatisi
nelle
cellule
umane
durante
la
lunga
storia
della
vita.
Se
l’ipotesi
verrà
provata,
potrà
derivarne
la
conferma
dell’esistenza
di
correlazioni
strutturali
forti,
all’interno
delle
classi
in
cui
sono
ripartiti
gli
organismi
viventi:
tipi,
classi,
ordini,
generi,
specie,
fino
alla
classe
che
ha
un
solo
membro,
quella
dell’individuo.
Basandosi
sulle
accennate
correlazioni,
una
minoranza
molecolare
potrebbe
coesistere
con
una
maggioranza
soverchiante
e
esercitare
il
proprio
controllo
sullo
sviluppo:
in
modo
analogo,
il
lungo
nastro
del
DNA
viene
«impacchettato»
nella
cromatina,
obbedendo
una
singola
invarianza
topologica.
LA
MEDICINA
CLINICA
Clinica
e
patologia
La
conferma
della
cellula
come
laboratorio
chimico
della
vita
rappresenta
un
primario
fattore
di
continuità
nello
sviluppo
della
biomedicina.
Nell’ultimo
dopoguerra
si
è
reso
disponibile
il
microscopio
elettronico,
che
ha
permesso
di
osservare
e
descrivere
strutture
nano-‐dimensionali,
là
dove
si
ammetteva
l’esistenza
di
materiali
omogenei,
denotati
da
termini
generici,
come
quello
di
«protoplasma».
Ha
trovato
dettagliate
conferme
il
ruolo
della
forma
come
momento
necessario
delle
funzioni
cellulari.
Si
è
precisato
come
avvenga
la
comunicazione
intercellulare
per
mezzo
di
28
neurotrasmettitori
e
ormoni.
Un
programma
di
morte
cellulare,
l’«apoptosi»,
riscuote
crescente
attenzione
per
spiegare,
attraverso
i
suoi
insuccessi,
la
sopravvivenza
e
il
percorso
degenerativo
delle
cellule
tumorali.
Virus,
retrovirus,
prioni
dipendono
dalla
cellula
come
compiuta
espressione
della
vitalità.
Fisiopatologia
e
cellularismo
erano
intrinsecamente
legati:
la
teoria
scientifica
della
vita
aveva
trovato
nella
cellula
il
fondamento
della
propria
concretezza,
del
proprio
realismo.
La
fisiopatologia
aveva
anche
offerto
un
saldo
ancoraggio
alla
clinica:
essendo
la
clinica
quel
momento
della
medicina
che
parte
non
dalla
classificazione
delle
malattie,
ma
dalla
presa
d’atto,
dall’analisi
e
dalla
descrizione
di
un
singolo
fatto
morboso,
in
vista
della
sua
riconduzione
alle
categorie
fisiopatologiche
attraverso
la
diagnosi.
In
attesa
del
conclusivo
atto
diagnostico,
la
fisiopatologia
s’innesta
sulla
clinica
attraverso
ciò
che
potrebbe
chiamarsi
il
ragionamento
fisiopatologico:
un
percorso
inferenziale
che
parte
dall’individuazione
della
funzionalità
alterata,
si
sofferma
in
un
secondo
momento
a
cercare
la
causa
dell’alterazione,
imposta
quindi
il
giudizio
diagnostico,
e
verifica
infine
la
correttezza
dell’interpretazione
con
gli
effetti
del
rimedio
che
si
è
deciso
di
somministrare.
Sullo
sfondo
resta
qualcosa
che
rimane
un
possesso
prezioso
e
geloso
della
clinica,
e
non
della
patologia:
la
singola
persona,
con
il
suo
stile
di
vita
e
la
sua
individualità
psicofisica,
irriducibili
entrambi
a
singole
categorie
di
qualsiasi
schema
classificatorio.
Le
malattie
rare
Ma
la
cellula,
ripristinata
nel
suo
valore
di
fondamento
concreto
della
fisiopatologia,
e
dunque
della
biologia
intesa
al
modo
del
Virchow,
è
diventata
un
laboratorio
chimico
ipercomplesso,
dove
l’alterazione
o
l’assenza
di
un
singolo
fattore
della
funzionalità
può
provocare
un
evento
morboso
o
una
situazione
patologica.
E’
il
caso
delle
«malattie
rare»,
«orphan
deseases»
nella
terminologia
inglese,
per
la
cui
conoscenza
disponiamo
del
rapporto
redatto
nell’89
dalla
National
Commission
on
Orphan
deseases,
istituita
dal
Governo
degli
Stati
Uniti:
ne
è
emersa
la
difficoltà
di
formulare
tempestivamente
una
diagnosi,
che
talvolta
si
ottiene
soltanto
dopo
mesi
o
anni
di
attesa.
Delle
circa
cinquemila
malattie
rare,
quattromila
sono
genetiche.
In
sede
economica
le
malattie
rare
hanno
posto,
per
il
limitato
smercio,
il
problema
della
produzione
dei
farmaci
atti
a
curarle,
alcuni
dei
quali
hanno
peraltro
trovato
applicazione
anche
nella
cura
di
malattie
diffuse,
con
ricavi
che
arrivano
a
coprire
i
costi
industriali.
I
contatti
con
la
fisiopatologia
cellulare,
o
almeno
con
la
fisiopatologia
d’organo,
sono
mantenuti
dalla
clinica
attraverso
branche
specifiche
di
ciò
che
si
è
ormai
soliti
chiamare
il
Sistema
sanitario,
presente
e
operante
nelle
odierne
società
avanzate:
il
laboratorio
di
analisi
e
la
tecnologia
applicata
alla
medicina.
E
tuttavia
la
medicina
clinica,
pur
nelle
circostanze
indicate,
che
ne
configurano
un
arricchimento,
ma
anche
una
limitazione
dell’autonomia
intuitiva,
conserva
un
duplice
privilegio:
il
rapporto
con
la
totalità
dell’individuo
e
la
partecipazione
all’esercizio
non
meramente
applicativo
della
razionalità
scientifica.
In
natura
non
esistono
repliche:
anche
i
gemelli
omozigoti
hanno
impronte
digitali
diverse.
La
conquista
ippocratica
dello
«hekaston»
-‐
di
ciò
che
è
lontano,
«hekas»,
da
altro,
e
dunque
del
ciascuno,
del
questo
e
del
quello-‐
conserva
tutta
la
propria
validità
diagnostica,
accanto
alla
doverosa
ricerca
di
ciò
che
riconduce
il
caso
singolo
a
un’entità
definita,
e
dunque
virtualmente
universale,
malgrado
la
bassa
frequenza
statistica.
Le
sindromi
Accanto
alla
malattia
e
alla
situazione
morbosa,
è
venuta
acquistando
crescente
importanza,
nella
patologia
e
nella
clinica,
la
sindrome:
che
può
considerarsi
appartenente
a
entrambe,
alla
patologia
per
il
riconoscimento
della
sua
configurazione
anatomo-‐fisiologica,
e
alla
clinica
per
la
variabilità
individuale
delle
sue
manifestazioni.
Negli
anni
Trenta,
l’austriaco
emigrato
in
Canada
Hans
H.B.
Selye
(1907
–
1982)
individuava
una
«sindrome
generale
di
adattamento»,
che
avrebbe
29
poi
ricondotto
alla
nozione
di
«stress»
con
Lo
stress
della
vita[37],
distinguendovi
una
reazione
di
allarme,
una
fase
di
resistenza
e
uno
stadio
di
esaurimento:
l’organismo
è
coinvolto
nella
sindrome
con
il
sistema
nervoso,
l’apparato
endocrino
e
le
strutture
immunitarie.
Secondo
lo
schema
delineato
dal
Selye,
l’ipotalamo
libera
il
fattore
di
rilascio
della
corticotropina
CRF,
che
a
sua
volta
provoca
la
liberazione
di
ormone
adrenocorticotropo
da
parte
dell’ipofisi
anteriore:
questo
raggiunge
le
ghiandole
surrenali,
che
riversano
nel
sangue
ormoni
steroidi,
attivi
su
numerosi
organi-‐bersaglio.
I
due
volumi
su
Ormoni
e
resistenza[38]
hanno
concluso
una
ricerca
di
alta
originalità,
che
ha
riplasmato
il
concetto
generico
di
sindrome
in
quello
di
sinergia
reattiva,
mettendo
in
luce
una
delle
molteplici
dimensioni
unitarie
dell’organismo.
La
recente
«sindrome
da
immunodeficienza
acquisita»,
nota
con
l’acronimo
AIDS,
è
dovuta
ai
retrovirus
HIV,
portatori
dell’enzima
transcriptasi
inversa,
che
permette
di
trasferire
l’informazione
genetica
con
un
percorso
inverso
dallo
RNA
al
DNA.
Alla
trisomia
del
cromosoma
21
è
stata
ricondotta
la
«sindrome
di
Down»,
o
mongolismo,
di
Jérôme
Lejeune,
già
ricordata.
Con
Georges
Devereux,
l’etnopsichiatria
ha
ritenuto
negli
anni
Settanta
di
aver
individuato
alcune
specifiche
«sindromi
etniche»,
su
base
culturale.
La
sindrome
è,
in
tutti
i
casi
segnalati,
l’unità
di
una
molteplicità
morfofunzionale,
e
rappresenta
il
sigillo
della
complessità,
che
si
manifesta,
come
molteplicità
unificata,
anche
nella
patologia
della
vita.
LE
MEDICINE
ALTERNATIVE
Provenienti,
con
l’eccezione
dell’omeopatia,
da
aree
culturali
periferiche,
rispetto
all’Europa
e
agli
Stati
Uniti,
le
cosiddette
medicine
alternative
rivelano
caratteristiche
comuni.
Il
momento
clinico
prevale
su
quello
patologico,
e
finisce
con
il
simulare
un
latente
ippocratismo,
a
condizione
di
sostituirne
la
formula
«observatio
et
ratio»
con
un’altra,
nettamente
diversa,
che
potrebbe
suonare
«observatio
et
sanatio».
Ippocrate
di
Cos
–
il
fondatore
della
medicina
scientifica
al
quale
vengono
fondatamente
attribuiti
taluni
scritti,
di
alta
originalità
e
di
scoperto
impegno
teorico,
compresi
nel
Corpus
hippocraticum
–
aveva
combattuto
la
«medicina
dei
postulati»
e
le
sue
arbitrarie
teorizzazioni,
opponendole
una
feconda
sintesi
di
empirismo
e
razionalismo.
Ciò
che
il
medico
trova
davanti
a
sé,
consiste
sempre
in
un
«questo»,
in
un
«ciascuno».
Ma
Ippocrate,
secondo
la
testimonianza
che
ce
ne
ha
lasciato
Platone
nel
Fedro,
sosteneva
che
né
l’anima
né
il
corpo
si
possono
conoscere
«a
prescindere
dalla
natura
del
tutto»:
con
un
deciso
passaggio
dal
pragmatismo
terapeutico
a
quella
cultura
biomedica
della
totalità,
che
si
costituisce
storicamente
attraverso
processi
complementari
di
accumulazione
e
d’innovazione,
e
si
traduce
in
sintesi
conoscitive
sempre
più
vaste
e
coerenti.
Uno
dei
più
importanti
lavori
di
Ippocrate
è
Antica
medicina
[Archaie
ietrikè]:
e
il
titolo
echeggia
il
lungo
processo
di
crescita
e
di
sedimentazione,
che
permetteva
allora
l’esistenza
di
categorie
del
pensiero
medico,
capaci
d’inquadrare
e
valutare
l’esperienza.
Clinica
senza
patologia
non
c’è,
se
non
nella
forma
delle
baconiane
«tavole
di
assenza
e
di
presenza».
Non
sono
possibili
la
ponderazione
e
la
valutazione
critica
di
quanto
osservato:
il
dato
osservativo
e
la
premessa
teorica
non
entrano
in
un
rapporto
dialettico.
Valutare
l’esperienza
diventa
un
compito
azzardato.
Consideriamo
l’«agopuntura».
Tra
il
1948
e
il
’49
entra
nell’ordinamento
sanitario
della
Repubblica
popolare
cinese
come
rimedio
per
il
trattamento
del
dolore,
nelle
affezioni
funzionali
e
in
numerose
circostanze
morbose
attinenti
all’ostetricia
e
alla
ginecologia.
Si
riferisce
a
una
teoria
generale
dell’universo,
che
ammette
l’esistenza
di
due
principi
opposti,
lo
Yin
e
lo
Yang,
e
di
cinque
elementi,
rappresentanti
l’energia
vitale
che
scorre
in
tutto
il
corpo
attraverso
un
sistema
di
«canali»
o
«meridiani»,
dove
aghisottili
si
prefiggono
di
raggiungerla,
in
punti
30
determinati,
per
ristabilire
l’equilibrio
turbato
dalla
malattia.
Una
pratica
collaterale,
la
moxibustione,
invece
di
aghi
usa
esche
di
Artemisia
(moxa)
a
diretto
contatto
con
la
pelle.
Scrivono
Lu
Gwei-‐Djen
e
Joseph
Needham
–
il
fondatore
della
biochimica
inglese,
passato
alla
sinologia
-‐
in
Aghi
celesti.
Storia
e
fondamenti
razionali
dell’agopuntura
e
della
moxibustione[39]:
«E’
indubbio
che
l’agopuntura
abbia
rappresentato
un
sistema
di
cardinale
importanza
nella
storia
della
medicina
cinese,
ma
la
valutazione
obiettiva
della
sua
reale
portata
è
stata
fino
a
tempi
recenti,
ed
è
in
una
certa
misura
ancor
oggi,
al
centro
di
grandi
dispute.
In
Asia
orientale
si
possono
incontrare
medici
di
formazione
moderna,
sia
cinesi
sia
occidentali,
assolutamente
scettici
circa
la
sua
validità…Presumibilmente
nessuno
sarà
in
grado
di
valutare
appieno
l’efficacia
reale
dell’agopuntura…fino
a
quando
non
verranno
applicati
i
metodi
d’indagine
della
statistica
medica
moderna,
con
l’analisi
di
un’adeguata
casistica;
purtroppo
la
realizzazione
di
un
programma
simile
può
richiedere
un
tempo
anche
superiore
al
mezzo
secolo…»
(pp.7
s.).
La
secrezione
di
endorfine
è
l’ipotesi
spesso
invocata
per
spiegare
l’effetto
antidolorifico
della
terapia.
Senza
una
trama
ordinata
di
definizioni
e
osservazioni
trascritte
in
linguaggio
appropriato,
il
materiale
osservativo
perde
la
possibilità
di
costituirsi
in
terreno
di
conferma,
di
smentita
o
d’inferenza
verso
presupposti
altrimenti
determinati
–
è
la
terza,
feconda
via
del
ragionamento
scientifico,
l’abduzione,
accanto
alla
deduzione
e
all’induzione.
Se
l’agopuntura
riconduce
alla
Cina,
la
«pranoterapia»
porta
all’India:
ma
nell’induismo,
com’è
stato
detto,
tutto
tende
a
divinizzarsi,
e
ogni
manifestazione
divina
risulta
priva
di
ciò
che
il
pensiero
occidentale
chiama,
da
Aristotele
in
poi,
il
«per
sé»,
l’«assolutezza».
Il
termine
sanscrito
«prāna»
rimanda
alle
cinque
forme
dell’energia
che
pervade
tessuti
e
organi,
ed
è
presente
nel
corpo
fino
a
che
risulta
animato
dalla
vita.
Assorbitacon
il
respiro,
l’energia
vitale
sarebbe
convertita
in
sette
appositi
centri,
e
distribuita
attraverso
specifici
canali
a
tutte
le
parti
del
corpo.
La
mano
destra
è
usata
dal
pranoterapeuta
come
mano
radiante,
la
sinistra
come
mano
assorbente.
La
«medicina
manuale»
si
pone
come
l’equivalente,
parziale,
di
pranoterapia
e
chiroterapia
nelle
categorie
e
nella
prassi
della
tradizione
scientifica
occidentale,
in
particolare
americana.
All’India
appartiene
anche
la
medicina
che
si
richiama
all’Ayurveda
o
«conoscenza
della
longevità»,
con
un
esteso
sistema
ospedaliero.
Almeno
un
cenno
va
fatto
alla
medicina
tibetana
o
lamaica,
dove
gli
studi
del
benedettino
Cyrill
von
Korvin-‐Krasinski,
in
particolare
La
filosofia
medica
tibetana.
L’uomo
come
microcosmo[40]
rappresentano
uno
dei
pochi,
riusciti
tentativi
di
ricostruire
un
organico
sistema
di
conoscenze
mediche,
alternative
a
quelle
occidentali,
con
le
loro
profonde
radici
filosofiche
e
cosmologiche.
Verso
il
Giappone
conduce
la
macrobiotica,
un
conio
maldestro
dal
greco
del
giapponese
Nyoiti
Sakurazawa
(1893
–
1966)
per
indicare
la
disciplina
che
dovrebbe
condurre
a
una
lunga
vita,
attraverso
un’alimentazione
che
bandisca
l’uso
di
additivi
sintetici
nell’agricoltura
e
nell’industria.
All’interno
della
tradizione
occidentale,
l’«omeopatia»
iniziata
da
Samuel
F.C.
Hahnemann
(1755
–
1843),
radicata
peraltro
nella
tradizione
ippocratica
e
orientata
verso
un’«arte
razionale
della
guarigione»,
è
la
dottrina
alternativa
più
diffusa
e
autorevole,
ma
nei
limiti
della
terapia
farmacologica.
Il
suo
principio
terapeutico,
assai
noto,
è
il
«similia
similibus
curantur»:
ciò
che
provoca
malattia,
in
dosi
ridotte,
infinitesime,
induce
la
guarigione.
Ma
le
diluizioni
omeopatiche
del
farmaco
arrivano
all’inesistenza,
matematicamente
dimostrata,
della
sostanza:
a
meno
di
ricorrere
a
ipotesi
estreme
come
la
«memoria
dell’acqua»
del
fisico
francese
Jacques
Benveniste,
o
la
«super-‐radianza»
degli
italiani
Giuliano
Preparata
e
Emilio
Del
Giudice:
ipotesi
fortemente
avversate,
ma
sostenute,
soprattutto
la
seconda,
da
studiosi
degni
di
credito.
Il
dialogo
tra
metodologia
omeopatica
e
allopatica
rimane
aperto
con
le
due
correnti
dell’odierna
omeopatia:
quella
umanistica
–
sudamericana
e
italiana,
e
quella
biologico-‐fisica.
Da
segnalare
sull’autorevole
Lancet,
nel
’97,
una
revisione
critica,
o
«meta-‐analisi»,
poi
contestata,
di
prove
e
sondaggi
sulle
31
verifiche
di
validità,
effettuati
negli
anni
precedenti:
i
risultati
ottenuti
non
sarebbero
completamente
spiegabili
con
l’effetto
placebo,
attraverso
autosuggestione,
e
dovrebbero
ipotizzarsi
altre
scorciatoie,
non
ancora
individuate,
per
giustificare
l’effetto
curativo
(pp.
834-‐
843).
L’americano
Office
ofalternative
medicine,
creato
nel
’92
all’interno
dei
National
Health
Institutes
con
la
direzione
dell’omeopata
Wayne
Jonas,
rappresenta
un
presidio
di
oculata
vigilanza,
ma
anche
di
giustificata
flessibilità,
in
un
ambito
forse
ricco
di
promesse
nonché,
almeno
per
il
momento,
di
aleatorietà
conoscitiva.
NEUROSCIENZE,
CIBERNETICA
Le
neuroscienze
appartengono
al
ventesimo
secolo:
la
cellula
nervosa
s’impone
peraltro
all’attenzione
di
anatomici
e
fisiologi
con
Camillo
Golgi
(1844
–
1926)
e
Santiago
Ramón
y
Cajal
(1852
–
1934),
e
il
termine
«neurone»
è
proposto
nel
1891
da
Heinrich
G.
Waldeyer
(1836
–
1921).
Ma
l’Ottocento
aveva
fatto
ben
altro,
creando
la
fisiologia
degli
organi
di
senso
o
«estesiologia»:
un
termine
uscito
dall’uso
dopo
che
si
era
offuscata
l’importanza
fondamentale
del
suo
contenuto.
Prima
che
lo
Helmholtz
vi
apportasse
i
contributi,
già
citati,
delle
due
opere
sull’acustica
e
sull’ottica
fisiologiche,
c’era
stato
un
momento
di
alta
rilevanza
teoretica,
rappresentato
dalla
cosiddetta
«età
goethiana».
J.
Wolfgang
Goethe
(1749
–
1832)
con
la
Teoria
dei
colori[41]
aveva
vittoriosamente
rivendicato
la
natura
soggettiva
della
qualità
cromatica,
e
la
sua
irriducibilità
all’analisi
prismatica
della
luce
bianca,
come
sostenuto
da
Isaac
Newton
(1642
–
1727)
nella
memoria
del
1672
Nuova
teoria
della
luce
e
i
colori[42].
Il
Müller,
già
citato,
aveva
trasferito
la
soggettività
goethiana
in
oggettività
soggettiva,
aggiungendovi
la
sperimentazione
del
soggetto
su
sé
stesso,
con
la
Fisiologia
comparata
del
senso
della
vista
nell’uomo
e
negli
animali[43].
Nel
proclamare
l’«Ignorabimus»
della
concezione
meccanica
del
mondo,
il
du
Bois-‐
Reymond
si
sarebbe
per
l’appunto
richiamato
alla
svolta
dal
quantitativo
al
qualitativo,
e
dall’omogeneo
al
diverso,
avvenuta
con
la
legge
sulle
«energie
specifiche
degli
organi
di
senso»,
formulata
dal
Müller,
suo
maestro:le
diverse
aree
sensoriali
provocano
sensazioni
distinte
–
ciascuna,
quella
che
le
è
propria
-‐,
a
prescindere
dalla
natura
dello
stimolo.
Gli
sarebbe
invece
sfuggita
l’altra
innovazione
mülleriana,
di
carattere
epistemologico:
il
passaggio
da
un’oggettività
esterna
al
soggetto
in
oggettività
intrinseca
alla
soggettività,
ma
capace
di
tradursi
in
affermazione
scientifica
attraverso
l’attività
razionale.
Con
la
scoperta
dell’organo
spirale
dell’orecchio
interno,
dovuta
a
Alfonso
Corti
(1822-‐1876)
e
resa
nota
nel
1851
con
le
Ricerche
sull’organo
dell’udito
nei
mammiferi[44],
il
sistema
nervoso
centrale,
prima
che
sopravvenisse
la
scoperta
del
neurone,
aveva
mostrato
una
delle
sue
mirabili
conformazioni
strutturali:
anche
queste
sfuggite
all’elettrofisiologo
du
Bois,
eppure
degne
di
rappresentare
un
ottavo
«enigma»,
nell’elenco
delle
manifestazioni
incomprensibili
della
natura,
irricavabili
da
uno
scenario
di
parti
materiali
in
reciproco
movimento.
Da
quanto
prima
riferito
appare
chiaro
come
la
neurofisiologia
–
parlare
di
neurofisiopatologia
andrebbe
oltre
l’oggettività
storica
–
abbia
rappresentato
un’area
della
biomedicina
con
accentuata
specificità,
come
terreno
d’incisiva
elaborazione
teorica,
al
confine
con
la
gnoseologia.
Per
correlare
la
continuità
e
la
connessione
delle
attività
razionali
alla
struttura
anatomo-‐
fisiologica
del
sistema
nervoso,
Golgi
ad
esempio
sostenne
la
tesi
delle
rete
interneuronale,
contro
l’opposta
tesi,
poi
prevalsa,
del
Cajal
sull’autonomia
e
polarità
dinamica
del
singolo
neurone.
L’esigenza
unitaria
si
sarebbe
ridestata
con
Charles
Sherrington
(1857
–
1952),
autore
di
un’opera
classica:
L’azioneintegrativa
del
sistema
nervoso[45],
uscita
nei
primi
anni
del
nuovo
secolo.
«Integrativo»,
«integrazione»:
a
tutti
i
livelli
della
sua
struttura
e
del
suo
funzionamento,
il
sistema
nervoso
unisce
entità,
strumenti
e
momenti
diversi,
assumendo
il
ruolo
di
paradigma
32
strutturale
dell’intero
organismo,
che
ha
come
esigenza
primaria
l’unificazione
della
sua
necessaria
diversificazione.
Si
integrano
le
unità
neuronali
attraverso
le
«sinapsi»,
la
trasmissione
elettrica
e
la
mediazione
chimica,
la
contrazione
dei
muscoli
agonisti
e
il
rilasciamento
dei
muscoli
antagonisti,
entrambi
indotti
per
via
nervosa:
ancora,
si
integrano
innervazione
periferica
e
organi
effettori.
L’integrazione
concepita
come
unificazione
conferisce
alla
neurofisiologia
dello
Sherrington
quella
prerogativa
di
vetrina
dell’organismo
vivente,
che
per
lungo
tempo
era
spettata
all’embriologia.
Sherrington
è
un
dualista,
crede
che
mente
e
cervello
siano
entità
distinte,
ma
il
suo
dualismo,
a
differenza
di
quello
cartesiano,
contiene
un’analogia
tra
i
due
termini.
La
funzione
integrativa,
unificante,
del
cervello
è
correlata
all’unità
dell’universo
mentale
e
a
ciò
che
la
produce:
l’essenza
sintetica
del
pensiero.
La
prima
può
fungere
da
strumento
della
seconda
nella
compagine
psicofisica
del
soggetto
umano.
Uno
degli
allievi
dello
Sherrington,
John
Eccles
(1903-‐1997),
ne
riprenderà
l’accennato
dualismo
e
l’esigenza,
problematica
ma
feconda,
di
unificazione.
Con
Il
Sé
e
il
suo
cervello[46],
scritto
dallo
Eccles
in
collaborazione
con
il
filosofo
Karl
Popper
(1902-‐1994),
il
dualismo
dello
Sherrington
diventa
peraltro
«interazionismo»:
fisico,
psichico
e
logico.
Gli
eventi
cerebrali
diventano
soggettività
pensante
perché
giungono
a
diramarsi
in
un’oggettività
pura,
rivendicata
anche
dallamatematica.
Ma
alla
porta
delle
neuroscienze
preme
un
altro
paradigma,
il
cognitivismo,
che
M.S.
Gazzaniga
compendia
in
un
volume
sulle
Scienze
cognitive[47]:
per
studiare
scientificamente
gli
eventi
mentali
si
assume
il
modello
semplificato
del
«robot»,
aggiungendovi
la
plasticità
sinaptica
sherringtoniana.
Il
cognitivismo
diventa
un
torrente
in
piena,
ma
la
matematica
continua
a
fare
argine,
postulando
un’oggettività
di
tipo
arcaico,
originario,
a
presidio
della
mente
che
aspiri
alla
verità
formale
delle
proprie
asserzioni.
Il
solco
tra
logica
e
matematica
da
una
parte,
neurologia
e
psicologia
cognitiviste
dall’altra,
appare
incolmabile,
e
connota
la
dimensione
problematica
della
scienza
contemporanea.
I
grandi
numeri
sono
ormai
entrati
nell’orizzonte
della
biomedicina
e
della
stessa
neurologia:
il
bisogno
di
correlazione
unitaria
è
primario,
ma
l’interruzione
dei
rapporti
con
la
metafisica
ne
rende
difficile
il
soddisfacimento.
L’austriaco
Ludwig
von
Bertalanffy
(1901
–
1972),
poi
emigrato
in
Canada,
apre
alla
«teoria
dei
sistemi»:
ritiene
saggiamente
che
l’unità
del
vivente
debba
essere
analizzata
e
discussa
prima
della
finalità,
ma
la
prospettiva
tecnologica
appare
insufficiente,
limitativa.
Ne
nascerà
tuttavia
la
«bionica»
per
lo
studio
delle
funzioni
motorie
e
sensorie
degli
organismi
viventi,
nonché
per
la
loro
imitazione
con
dispositivi
elettronici
o
di
altro
tipo.
Sagoma
dei
sottomarini,
ecometro,
radar,
sonar,
trasduttori
analoghi
agli
organi
di
senso,
neuroni
artificiali
si
susseguono,
mentre
alla
teoria
dei
sistemi
succede
negli
anni
Quaranta
la
«teoria
degli
automi»
con
la
sua
più
generale
e
organica
formulazione,
la
«cibernetica».
Il
ricorso
al
solito
simulatore
di
evidenza
concettuale,
l’evoluzione,
non
impedisce
che
Norbert
Wiener
(1894
–
1964)
asserisca
e
riconosca
nettamente
l’immaterialità
di
una
grandezza
destinata
a
diventare
ubiquitaria
nella
scienza,
l’«informazione».
Scrive
in
Cibernetica[48]:
«L’informazione
è
informazione,
non
materia
o
energia.
Al
giorno
d’oggi,
nessun
materialismo
che
non
ammetta
questo
può
sopravvivere.»
(p.
177).
Dopo
il
«codice»
di
Schrödinger,
l’
«informazione»,
elaborata
matematicamente
ma
non
definita
da
Claude
Elwood
Shannon
in
una
classica
memoria:
Teoria
matematica
della
comunicazione[49],
anch’essa
uscita
nel
cruciale
’48
-‐,
segnalava
la
ricchezza
che
la
biomedicina
avrebbe
potuto
apportare
a
un’indagine
senza
riserve
sui
fondamenti
teoretici
della
scienza.
Attraverso
Shannon
e
Wiener
s’incontrano,
e
sommano
la
propria
efficacia,
due
diverse
organizzazioni
della
ricerca:
la
«big
science»
dei
Bell
Telephone
Laboratories
e
il
gruppo
interdisciplinare.
La
biomedicina
è
presente
con
neurofisiologi
e
cardiologi
nella
ristretta,
amichevole
comunità,
dov’è
inserito
Wiener
al
Massachusetts
Institute
of
Technology.
L’informazione
ha
le
caratteristiche
della
scoperta
nuova,
ancora
intuitiva:
e
il
suo
assurgere
a
nozione
primaria
in
tutte,
praticamente,
le
assiomatiche
scientifiche,
alcune
delle
quali
impostate
33
con
il
formalismo
matematico,
ne
indica
la
determinante
importanza.
Ma
il
passaggio
nel
novero
delle
entità
che
in
più
riprese
abbiamo
chiamato
«simulatori
di
evidenza»
si
manifesta
come
un
grave
rischio,
e
resta
tale
cinquant’anni
dopo.
Evoluzione,
informazione,
complessità:
il
loro
mancato
approfondimento
filosofico
toglie
alla
biomedicina
l’occasione
d’insediarsi,
con
una
propria
ontologia,
metameccanica,
in
ciò
che
potremmo
chiamare
la
coscienza
dellaconoscenza
scientifica
del
mondo.
L’ESIGENZA
FILOSOFICA
Il
pensiero
nella
medicina
[50]
è
il
titolo
di
un
discorso
che
Hermann
Helmholtz
tenne
a
Berlino
nel
1877,
e
rappresenta
oggi
una
ricca
fonte
di
conoscenze
sugli
anni
che
videro
affermarsi
il
paradigma
fisiopatologico
della
biomedicina
e
costituirsi,
per
merito
dello
stesso
Helmholtz,
la
fisiologia
d’organo.
Osservava
Helmholtz:
«La
scoperta
di
un’idea
non
si
limita
a
mettere
insieme
superficiali
somiglianze,
ma
nasce
da
uno
sguardo
che
abbia
colto
la
profonda
connessione
del
tutto
(…)
»
La
scienza
non
può
sottrarsi
al
compito
di
enucleare
quei
capisaldi
concettuali
delle
teorie
e
quei
nuclei
centrali
delle
assiomatiche,
la
cui
funzione
è
di
collegare
momenti,
aspetti
e
parti
in
una
sintesi
che
a
tutto
conferisca
significato
e
tutto
renda
comprensibile.
La
rinunzia
ai
simulatori
di
evidenza,
da
qualsiasi
fonte
siano
stati
attinti,
va
di
pari
passo
con
l’enucleazione
dei
fondamenti,
nel
senso
di
caratteristiche
determinanti
delle
evidenze
osservate,
delle
analisi
compiute,
degli
esperimenti
effettuati.
E’
sembrato
di
poter
indicare
nel
nuovo
cellularismo,
costituitosi
entro
l’ambito
della
biologia
molecolare,
il
fondamento
dell’odierna
biomedicina
e
il
vantaggio
conoscitivo
della
tradizione,
culminata
nella
fisiopatologia,
sulle
medicine
alternative.
Nella
cellula
si
è
ritenuto
d’individuare
una
caratteristica
saliente,
la
sinergia,
intesa
come
unità
funzionale
di
una
molteplicità
tanto
numerosa
e
diversificata
di
parti
attive,
da
rientrare
nello
schema
della
complessità,
rappresentandone
l’esempio
più
probativo.
Peraltro
sinergia
e
complessità
della
vita
non
si
esauriscono
a
livello
cellulare,
ma
preludono
alle
analoghe
manifestazioni
nella
fisiopatologia
di
organi
e
apparati,
nonché
dell’intero
organismo.
Unità
sinergica
di
una
complessa
molteplicità,
morfologica
e
funzionale:
ecco
«che
cos’è
la
vita»,
la
natura
che
consideriamo
vivente
perché
capace
di
assimilare
sostanze
eterogenee,
di
accrescersi,
di
riprodursi
e
di
rispondere
agli
stimoli
in
maniera
specifica.
Sembra,
la
vita
nella
natura,
il
corollario
di
un’essenza
incondizionata
e
più
alta,
e
tuttavia
essa
introduce
nello
spazio
e
nel
tempo
l’individualità
capace
di
correlarsi
ad
altro,
di
ricostituirsi
da
altro,
di
esplicare
funzioni
e
manifestare
intenzioni.
Il
vivente
apre
uno
spiraglio
su
un
essere
precedente
il
suo
darsi
e
sostanziato
di
autonomia
assoluta.
Pensare
la
biomedicina,
per
l’esigenza
rispecchiata
nella
lapidaria
formulazione
dello
Helmohltz,
è
riflettere
anzitutto
sulla
possibilità,
sulle
implicazioni
e
sul
modo
d’insorgenza,
sul
tempo
e
sullo
spazio
di
una
molteplicità
complessa,
sinergica,
unitaria,
e
come
tale
da
considerarsi
vivente.
E’
necessario
tornare
al
concetto
di
natura,
non
si
può
non
farlo.
Ma
il
cammino
regressivo
dovrà
spingersi
fino
al
concetto
della
realtà
originaria,
precedente
ogni
altra
determinazione.
Prescindere,
presupporre
è
un’opzione
grave
per
un’intera
cultura,
che
nelle
proprie
scelte
rischia
di
distogliersi
dall’archetipo
della
ragione,
intesa
come
esigenza
di
un
incondizionato
comprendere,
per
orientarsi
verso
la
formula
attenuata,
utilitaria
o
tutt’al
più
compromissoria,
della
prassi.
Un
duplice
«taglio
epistemologico»
-‐
icastica
espressione:
«coupure
épistémologique»,
del
razionalista
Gaston
Bachelard
(1884-‐1962)
–
ha
attraversato
il
corso
della
scienza:
fra
meccanica
moderna
e
fisica
aristotelica,
e
fra
concezione
informazionale
della
natura
e
meccanicismo.
Per
il
neurofisiologo
du
Bois-‐Reymond,
la
vita
non
figurava
nell’elenco
degli
«enigmi»:
si
trattava
pur
sempre
di
parti
materiali
con
una
determinata
posizione
nello
spazio
e
connotazioni
di
34
movimento
anch’esse
determinate.
L’informazione
si
aggiunge
peraltro
a
due
corpi
uguali,
nel
senso
ristretto
del
du
Bois,
e
li
rende
diversi
in
termini
di
struttura
e
di
proprietà.
La
domanda,
a
cui
s’intitola
il
saggio
citato
dello
Schrödinger,
non
è
retorica:
la
vita
è
un
problema
che
l’intuizione
affida
all’analisi,
e
che
l’analisi
meccanica
le
restituisce
insoluto.
Ed
è
problema
che
nel
pensiero
si
acuisce,
si
esaspera,
perché
il
momento
della
razionalità
–
che
il
du
Bois
onestamentericonosceva
enigmatico
–
si
presenta
all’uomo
congiunto
con
la
sua
vitalità
corporea,
inevidente.
Ritorno,
dunque,
alla
filosofia,
dopo
il
lungo
e
costruttivo
percorso
della
biomedicina
nel
ventesimo
secolo.
L’etica,
affiorata
come
prepotente
esigenza
in
un
sapere
mostratosi
disposto
adaffrontare
con
opposte
scelte
i
momenti
estremi,
nascita
e
morte
dell’esistenza
individuale,
è
un
segnale
d’allarme,
ma
certo
non
la
soluzione
del
problema
metafisico,
rappresentato
dalla
natura
vivente.
C’è
un
retroterra
ontologico,
che
giustifica
o
squalifica
le
scelte
che
il
medico
e
la
società
si
propongono
di
compiere.
Nella
sede
civile
–
giuridica
o
politica
–,
la
bioetica
è
portata
a
circoscrivere
un
proprio
ambito,
autosufficiente:
ma
i
confini
di
tale
autonomia
si
cancellano,
appena
la
ragione
sopravviene
e
riapre,
con
la
domanda
sull’essenza
della
vita,
un
immenso
scenario,
cosmologico
e
ecologico,
oltre
che
antropologico.
Il
bando
ai
simulatori
di
evidenza
deve
accompagnarsi
a
un
atteggiamento
di
sottile
e
vigile
analisi
verso
teorie
in
corso
di
formazione,
perché
nuove,
elusive
proposte
non
si
sostituiscano
alle
precedenti.
Ciò
vale,
in
particolare,
per
le
vedute
sull’«autoorganizzazione»
dei
sistemi
fisici
e
biologici.
In
quali
limiti
e
da
che
cosa
si
autoorganizza
un
sistema?
La
sinergetica,
che
dovrebb’essere
la
teoria
scientifica
più
vicina
alla
sinergia,
è
una
termodinamica
dei
processi
irreversibili,
che
considera
–
secondo
Hermann
Haken
–
sistemi
fisici,
chimici
e
biologici
lontani
dall’equilibrio
termico,
dove
si
verificano
processi
qualitativamente
nuovi,
che
non
possono
aver
luogo
entro
sistemi
in
equilibrio
o
prossimi
all’equilibrio.
Da
dove
la
novità
tragga
origine,
la
sinergetica
non
dice
e
neppure
ritiene
di
doverlo
ipotizzare.
E
invece
è
proprio
questo
il
problema
da
affrontare,
fino
a
prospettarne
scelte
dilemmatiche
e
soluzioni
alternative.
Ricorriamo
a
un
esempio.
Il
biofisico
Pierre
Lecomte
de
Noüy
(1883
–
1947),
attivo
nella
cerchia
di
Alexis
Carrel
(1873
–
1944)
–
iniziatore
dei
trapianti
d’organo
e
della
cultura
in
vitro
dei
tessuti
–,
affermò
che
dedurre
la
vita
dal
caso
è
come
far
nascere
la
Divina
Commedia
da
una
scimmia,
messa
alla
tastiera
di
una
macchina
per
scrivere.
E
tuttavia
la
probabilità
che
ciò
accada
è
infinitesima,
ma
non
nulla,
come
invece
deve
accadere
per
l’assurdità
razionale.
Anche
l’ipotesi
del
de
Noüy,
se
altrimenti
formulata,
poteva
ridursi
ad
assurdità.
Bastava
far
consistere
il
poema
di
Dante
non
in
una
sequenza
di
parole,
dunque
di
segni
alfabetici,
ma
in
una
costruzione
di
significati:
il
primate
dattilografo,
come
alternativa
al
poeta,
era
escluso
in
radice.
La
risposta
sulla
vita,
una
risposta
coerente
a
quel
che
la
vita
è
venuta
dicendoci
di
sé,
spetta
a
una
filosofia
disposta
a
scelte
coraggiose
–
in
logica
si
direbbe
controintuitive
-‐,
e
alimentata
da
istituzioni
–
università,
accademie,
congressi
–
che
aggreghino
tutta
la
ricerca
e
permettano
al
dialogo
di
superare,
ogni
qualvolta
necessario,
competenze
e
confini
tradizionali.
Perquantoriguarda
la
bioetica,
essa
vedrà
rafforzata
la
reverenza
che
ispirano
comunque
e
a
tutti
la
nascita,
la
sofferenza
e
la
morte:
e
potrà,corroborata
filosoficamente,
formulare
e
giustificare
norme
di
condotta
e
imperativi
inderogabili.
35
[1]
DU
BOIS-‐REYMOND
E.,
Gedächtnissrede
auf
Johannes
Müller.
Gehalten
in
der
Leibniz-‐Sitzung
der
Akademie
der
Wissenschaften
am
8.Juli
1858,
in
Reden,
II,
Leipzig:
Veit
&
C.,
1887:
143-‐334.
[2]
HUMBOLDT
A.
VON,Kosmos,
Entwurf
einer
physischen
Weltbeschreibung,
(5
vol.),Stuttgart:
Cotta,
1845-‐1862.
[3]
SCHWANN
TH.,
Mikroskopische
Untersuchungen
uber
die
Uebereinstimmung
in
der
Struktur
und
dem
Wachsthum
der
Thiere
und
Pflanzen,Berlin:
Sander,
1839.
[4]
VIRCHOW
R.,
Die
Cellularpathologie
in
ihrer
Begründung
auf
physiologische
und
pathologische
Gewebelehre,
Berlin:
Hirschwald,
1858.
[5]
HELMHOLTZ
H.,
Handbuch
der
physiologischen
Optik,
I,
Leipzig:
Voss
1856;
II,
1860;
III,
1867;
IV,
1887;
V,
1889;
VI-‐VII,
1892;
VIII,
1894;
«Schlusslieferung»
1895
[6]
ID.,
Die
Lehre
von
den
Tonempfindungen
als
physiologische
Grundlage
fur
die
Theorie
der
Musik,
Braunschweig:
Vieweg,
1863.
[7]
DU
BOIS-‐REYMOND
E,Die
sieben
Welträthsel,
in
Reden,
I,
Leipzig:
Veit
&
C,
1886:
381-‐411
[8]
ID.,
Ueber
die
Grenzen
des
Naturerkennens,
in
Reden,
II,
…
p.
105-‐140
[9]
ID.,
Ueber
die
Grenzen
des
Naturerkennens.
Die
sieben
Welträthsel,
Leipzig:
Veit
&
C,
18842
[10]
BERNARD
C.,
Leçons
sur
les
propriétés
des
tissus
vivants,
Paris:
Baillière,
1866
[11]
ID,
Leçons
de
physiologie
expérimentale
appliquée
à
la
médecine,
(2vol.),
Paris:Baillière,
1855-‐56
[12]
ID.,
Leçons
de
physiologie
opérative,
Paris:
Baillière,
1879
[13]
ID.,
Introduction
à
l’etude
de
la
médecine
expérimentale,
Paris:
Baillière
1865
[14]
ID.,
Principes
de
médecine
expérimentale,
Paris:
Press
Un.
De
France,
1947
[15]
ID.,
Le
cahier
rouge,
Paris:
Gallimard,
1942
[16]
FREUD
S.,
Quelques
considérations
pour
une
étude
comparative
des
paralysies
organiques
et
histériques,
in
Archives
de
Neurologie,
1899,
XXVI
:
29-‐43
e
in
Gesammelte
Werke,
I,
London
:Imago,
1965:
37-‐55.
[17]
FREUD
S.,
BREUER
J.,
Studien
über
Hysterie,
Leipzig-‐Wien:
Deuticke,1895
e
in
Gesammelte
Werke,
I…….:
75-‐312.
[18]
ALEXANDER
F.,
Psychosomatic
medicin:
ist
principles
and
applications,
New
York:
Norton,
1950.
[19]
BALINT
M.,
The
basic
fault:
therapeutic
aspects
of
regression,
London:
Tavistock
Publications,
1968
[20]
WEIZSÄCKER
V.
von,
Natur
und
Geist.
Erinnerungen
eines
Arztes,
Göttingen:
Vandenhoeck
&
Ruprecht,
1954
[21]
AMMON
G.,
Psychonalyse
und
Psychosomatik,
München:
Piper,
1974
[22]
FREUD
S.,
Hemmung,
Sympton
und
Angst,
Wien:
Int.
Psychoan.
Verlag,
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Wandlungen
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Leipzig-‐Wien:
Deuticke,
1912.
La
quarta
edizione
dell’opera,
totalmente
rielaborata,
uscirà
nel
1952
presso
l’editore
Rascher
a
Zurigo
con
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titolo
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165-‐190.
37
MÓNICA
LÓPEZ
BARAHONA
INTRODUZIONE
La
biologia,
può
essere
definita
come
un’area
di
studio,
che
si
occupa
di
tutti
gli
aspetti
fisico-‐
chimici
della
vita.
Poiché
la
biologia
comprende
molti
argomenti,
per
comodità
di
studio,
è
stata
suddivisa
in
aree
separate.
La
biologia
molecolare
rappresenta
una
di
queste
branche;
in
verità,
attualmente
la
biologia
è
spesso
affrontata
sulla
base
di
vari
livelli,
che
si
occupano
di
unità
fondamentali
degli
organismi
viventi.
A
livello
della
biologia
molecolare,
la
vita
è
spesso
considerata
come
una
manifestazione
delle
trasformazioni
chimiche
ed
energetiche,
che
si
verificano
tra
i
vari
componenti
chimici
che
costituiscono
un
organismo.
Così
come
il
19º
secolo
può
essere
considerato
l’epoca
della
biologia
cellulare,
il
20º
secolo
è
stato
caratterizzato
dai
progressi
in
tema
di
biologia
molecolare.
In
realtà,
la
biologia
molecolare
ha
rappresentato
un’area
di
conoscenza
che
ha
vissuto
una
rivoluzione
drammatica
,
durante
gli
ultimi
due
decenni.
E’
veramente
difficile
riassumere
tutti
i
progressi
che
tale
area
ha
ottenuto.
Comunque,
alcune
di
queste
conquiste
hanno
una
particolare
ripercussione
sulla
vita
umanae
quindi
si
dimostrano
particolarmente
importanti
per
l’Accademia
per
la
Vita.
La
genetica
molecolare
e
la
biologia
cellulare
sono
le
aree
della
biologia
molecolare,
nelle
quali
sono
state
acquisite
le
conoscenze
più
rivoluzionarie.
In
entrambi
i
campi
si
possono
trovare
le
questioni
critiche
della
ricerca,
che
coinvolgono
direttamente
la
vita
umana.
La
genetica
molecolare,
comprende
lo
studio
della
natura
molecolare
del
gene
e
il
meccanismo
con
cui
i
geni
controllano
l’attività
della
cellula.
Sulla
base
di
tale
natura
molecolare
dei
geni,
la
loro
sequenza
può
essere
determinata
e
la
funzione
delle
proteine
che
essi
codificano
predetta.
La
biologia
cellulare,
è
lo
studio
della
fondamentale
unità
strutturale
e
funzionale
dell’organismo
vivente:
la
cellula.
Si
può
dire
che
tale
studio
è
iniziato
nel
17º
secolo,
con
l’invenzione
del
microscopio
composto.
Anche
se
il
maggiore
splendore
è
stato
raggiunto
nel
19º
secolo,
la
fine
del
20º
secolo
e
l’inizio
del
21º
sono
di
grande
importanza
per
tale
area.
GENETICA
MOLECOLARE:
UNA
DELUCIDAZIONE
SU
ALCUNE
IMPLICAZIONI
DEL
GENOMA
UMANO
Probabilmente
il
progresso
più
spettacolare
,
ottenuto
l’anno
scorso,
nel
campo
della
ingegneria
genetica,
è
stato
la
codificazione
della
sequenza
del
genoma
umano,
[1]
che
era
stato
ottenuto
alcuni
anni
prima
di
quanto
fosse
previsto.
Il
fatto
di
conoscere
la
sequenza
del
genoma
umano,
offre
un
potente
strumento
alle
altre
aree
della
scienza
biologica
e
una
via
speciale
all’interno
della
medicina.[2]
In
tutto
il
mondo
alcuni
laboratori
stanno
attualmente
lavorando
per
chiarificare
la
mappa
del
genoma
umano
e
codificare
la
sequenza
del
genoma
stesso,
in
modo
tale
da
mettere
in
codice
tutte
le
differenti
proteine
che
unificano
un
essere
umano.
38
In
realtà,
il
campo
degli
studi
sul
genoma
sta
attualmente
aprendo
vie
di
notevole
interesse,
versogli
studi
proteomici
e
ci
si
aspetta
che
il
proteoma
umano
venga
decifrato
abbastanza
presto.
L’attuale
conoscenza
del
genoma
umano
apre
la
possibilità
di
predire
l’andamento
di
certe
malattie
(
soprattutto
di
quelle
che
hanno
una
origine
genetica
).
Il
cancro
è
una
delle
malattie
con
una
chiara
origine
genetica
e
non
vi
è
alcun
dubbio
che
la
conoscenza
di
tale
patologia
stia
migliorando
grazie
alle
straordinarie
tecniche
di
sequenziamento,
che
permettono
di
evidenziare
i
frammenti
di
DNA.[3]
Per
esempio,
siamo
in
grado
di
classificare
nuovi
tipi
di
tumore,
secondo
il
loro
modello
genico
di
espressione
e
tale
classificazione
permette
di
stabilire
una
migliore
diagnosi
e
di
elaborare,
in
molti
casi,
una
terapia
personalizzata.
Tale
informazione,
che
riguarda
l’evoluzione
di
una
malattia,
offre
nuovi
approcci
terapeutici
e
sta
trasformando
la
medicina
attuale
in
una
medicina
predittiva
e
personalizzata.
Tuttavia
l’identificazione
dei
geni
implicati
in
alcune
malattie,
permette
nello
stesso
tempo
di
classificare
la
popolazione
sulla
base
del
proprio
genoma
e
di
stabilire
categorie
di
pazienti
a
rischio
di
sviluppare
determinate
malattie.
In
confidenza,
a
questo
punto,
esiste
un
problema
molto
importante,
perché
il
fatto
di
sapere
che
una
determinata
persona
possiede
alcuni
geni
mutati
e,
quindi,
ha
un
alto
rischio
di
sviluppare
per
esempio
un
cancro,
può
avere
una
influenza
sulla
polizza
assicurativa
o
sulla
sua
situazione
professionale.
Una
discriminazione
basata
su
un
possibile
determinismo
genetico,
rappresenta
una
problematica
etica
molto
importante,
che
appare
come
una
conseguenza
della
informazione
che
la
conoscenza
del
genoma
umano
porta
con
sé.
Esistono
due
diritti,
chedovrebbero
essere
considerati
e
che
potrebbero
determinare
importanti
conflitti
discriminativi:
Il
diritto
della
compagnia
assicurativa
di
avere
informazioni
circa
il
suo
assicurato
o
il
diritto
della
compagnia
di
avere
informazioni
riguardo
la
salute
dei
suoi
dipendenti.
Il
diritto
di
riservatezza
circa
le
informazioni
di
carattere
genetico,
relative
ad
un
individuo.
E’
fondamentale
prendere
in
considerazione
il
fatto
che
un
essere
umano
non
è
soltanto
un
insieme
di
geni,
molto
ben
organizzati
e
che
la
sua
storia,
persino
la
storia
clinica
di
una
persona,
non
è
solamente
scritta
nei
suoi
geni.
L’uomo
è
corpo
e
anima
e
i
geni
non
determinano
il
suo
comportamento,
neanche
un
suo
comportamento
clinico.
La
Dichiarazione
dei
Diritti
Umani,
sottolinea
con
chiarezza
che:
«
Una
persona
non
può
essere
discriminata
sulla
base
del
proprio
sesso,
razza,
religione
o
codice
genetico
».[4]
Purtroppo,
costantemente
assistiamo
alla
violazione
di
tale
principio,
per
esempio
nella
pratica
eugenetica
delle
cliniche
della
fecondazione
in
vitro,
che
seleziona
gli
embrioni
di
sesso
maschile
che
possono
essere
affetti
da
emofilia.
Non
è
questa
una
discriminazione
di
tipo
genetico?
Un
altro
quesito
interessante
può
derivare
dal
fatto
che
il
progetto
genoma
umano
rappresenta
la
possibilità
di
“brevettare”
i
geni.
Quando
un
brevetto
viene
discusso,
è
importante
distinguere
tra
due
concetti:
invenzione
e
scoperta.
Inventare,
significa
introdurre
qualcosa
di
nuovo
nell’esistenza.
Scoprire,
comporta
il
trovare
qualcosa
che
già
preesiste,
ma
che
risulta
ancora
non
ben
conosciuto
(
Newton
ha
scoperto
la
legge
di
gravità
).
Inventare,
indica
la
fabbricazione
come
risultato
dell’esperimento,
dello
studio
o
dell’ingegnosità[5].
Basandosi
su
tale
definizione,
la
sequenza
del
genoma
umano
non
è
un’invenzione,
ma
una
scoperta
e,
quindi,
non
dovrebbe
essere
brevettata,
perché
essa
appartiene
all’umanità.
39
Tuttavia,
certi
geni
possono
avere
una
utilità
terapeutica
o
possono
essere
usati
come
markers
prognostici
o
come
markers
diagnostici.
La
reale
utilità
dei
geni
non
è
più
una
scoperta,
è
una
invenzione
e
dovrebbe
essere
considerata
come
ogni
altro
composto,
che
funge
da
marker
per
la
diagnosi
o
l’evoluzione
di
certe
malattie
e,
quindi,
potrebbe
essere
brevettata.
Insieme
con
il
progetto
del
genoma
umano,
altri
genomi
di
specie
diverse
sono
stati
sequenziati
e
la
possibilità
di
transgenesiè
stato
oggetto
di
molti
dibattiti.
Gli
organismi,
che
hanno
inseritti
nel
loro
genoma
geni
provenienti
da
altre
specie
(
l’intero
complemento
dei
geni
di
un
organismo
),
vengono
chiamati
trangenici.
Usando
queste
tecniche,
sono
state
generate
parecchie
piante,
animali
e
alimenti.
Per
esempio,
la
produzione
di
piante
transgeniche
resistenti
all’agente
patogeno,
sono
state
ottenute
attraverso
tale
metodologia,
o
proteine
umane
che
hanno
un
utilizzo
terapeutico,
sono
state
prodotte
dagli
animali.
Come
abbiamo
già
accennato,
non
possiamo
ridurre
un
essere
ai
suoi
geni,
specialmente
nel
caso
delle
persone
umane,
dove
la
componente
spirituale
ha
l’importanza
che
tutti
conosciamo.
Al
contrario,
l’impiego
degli
animali
come
fattori
biologici
non
pone
grandi
problematiche
etiche.
La
preoccupazione,
riguardo
i
possibili
pericoli
della
trangenesi,
è
molto
spesso
polarizzata
a
causa
dei
diversi
interessi
economici
o
politici.
Con
una
appropriata
regolazione,
tale
tecnica
mantiene
la
grande
promessa,
di
raggiungere
sostanziali
progressi,
in
particolare
nel
campo
della
agro-‐biotecnologia.
Basandosi
sulla
conoscenza
della
sequenza
di
alcuni
geni,
appartenenti
al
genoma
degli
animali
da
laboratorio,
oggigiorno
la
generazione
di
animali
da
combattimento
è
una
tecnica
ben
dimostrata,
che
ha
offerto
la
possibilità
di
studiare
la
funzione,
in
vivo,
di
un
gene
reale,
eliminandolo
dal
genoma
dell’animale.
BIOLOGIA
CELLULARE:
IMPLICAZIONI
DELLA
CLONAZIONE
La
manipolazione
del
genoma
e
le
tecniche
usate
per
la
generazione
di
animali
da
combattimento
e
di
animali
transgenici,sono
gli
stessi
strumenti
utilizzati
nella
generazione
degli
animali
clonati.
Tale
meccanismo
generativo
degli
animali
clonati,
è
probabilmente
uno
degli
esperimenti
più
spettacolari
dello
scorso
secolo
ed
ha
rappresentato
una
vera
e
propria
rivoluzione
per
la
biologia
cellulare
classica.
Crediamo
che
la
possibilità
di
generare
embrioni
umani,
usando
le
tecniche
già
utilizzate
negli
animali,
abbia
una
conseguenza
direttasulla
vita
umana
edimplicazioni
etiche
molto
importanti,
per
tale
motivo,
descriveremo
nei
dettagli
la
questione
della
clonazione.
La
clonazione,
significa
essenzialmentegenerare
strutture
genetiche
identiche.
Sebbene,
esistano
vie
diverse,
per
ottenere
la
clonazione,
noi
analizzeremo
in
tale
sede,
la
clonazione
attraverso
il
trasferimento
del
nucleo.
La
tecnica
del
trasferimento
nucleare,
è
stata
utilizzata
sin
dal
1938
in
embriologia,
ma
non
comenel
1997,
quando
tali
tecniche
acquisirono
un
significato
universale,
con
la
pubblicazione,
da
parte
di
W.
I.
Wilmuth
et
al.,
della
generazione
della
prima
pecora
clonata,
di
nome
Dolly,
usando
la
tecnica
sopramenzionata.[6]
La
tecnica
di
trasferimento
nucleare,
consiste
nella
generazione
di
uno
zigote,
attraverso
una
riproduzione
di
tipo
non
sessuale.
Si
usa
un’oocita,
nel
quale
è
stato
rimosso
il
nucleo
e
si
trasferisce
tale
oocita
denucleato,
in
un’altra
cellula
somatica
o
cellula
embrionale,
che
contiene
il
genoma
completo.
40
Il
genoma
viene
ri-‐programmato
all’interno
dell’oocita
ed
è
in
grado
di
indirizzare
l’intero
sviluppo
embrionale,
quando
tale
zigote
viene
trasferito
all’interno
dell’utero.
E’
importante
ricordare
che
il
genoma
è
uguale
in
tutte
le
cellule
somatiche,
che
collegano
i
vari
tessuti
ed
organi
ed
è
anche
lo
stesso
genoma
dello
zigote
che
ha
generato
tali
organi
e
tessuti,
tuttavia
non
tutti
i
geni
che
integrano
il
genoma
vengono
ugualmente
espressi
in
tutte
le
cellule,
ogni
cellula
esprime
soltanto
i
geni
di
cui
la
cellula
stessa
ha
bisogno
per
la
sua
funzione.
La
percentuale
di
successo
di
questa
via
di
riproduzione
non
risulta
elevata
e
varia
da
specie
a
specie.
Ad
esempio,
per
generare
la
pecora
Dolly
è
stato
necessario
usare
277
oociti.
Questa
possibilità
di
ri-‐programmare
il
genoma
non
è
esclusivo
dello
zigote.
E’
stato
dimostrato
che
l’ambiente
è
essenziale
per
l’attivazione
dell’espressione
dei
geni
e
ci
sono
alcuni
lavori
importanti,che
rivelano
come
le
cellule
staminali
adulte
possono
essere
ri-‐programmate,
per
generare
cellule
che
non
appartengono
alla
stessa
linea
cellulare.
Generalmente,
si
pensava
che
le
cellule
staminali
adulte
erano
in
grado
soltanto
di
generare
cellule
della
propria
linea
cellulare
e
quindi
che
erano
multipotenti,
tuttavia
molti
esperimenti
dimostrano
che
la
loro
potenza
è
più
elevata
di
quanto
si
pensa
e
che
si
comportano,
in
molti
casi,
come
cellule
staminali
pluripotenti.
Questo
è
stato
dimostrato
–in
vitro-‐
aggiungendo
alla
loro
diversa
differenziazione
e/o
i
fattori
di
crescita;[7-‐8]
o
–in
vivo-‐
trapiantandoli
in
diversi
tessuti
o
organi.
[9-‐10-‐11-‐12]
Tutto
ciò,
ha
aperto
nuove
possibilità
per
le
terapie
di
alcune
patologie
degenerative,
nelle
quali
la
rigenerazione
dei
tessuti
può
essere
fondamentale.
Tuttavia,
le
cellule
staminali
dell’adulto
non
sono
il
solo
tipo
di
cellule
nelle
quali
la
differenziazione
può
essere
indotta,
ma
tutto
questo
può
essere
fatto
anche
con
le
cellule
staminali
embrionali,
come
è
stato
già
descritto.[13-‐14]
Tutte
le
questioni
menzionate,
hanno
stabilito
le
basi
per
rendere
possibile
la
cosiddetta
clonazione
terapeutica.
La
clonazione
terapeutica,
consisterebbe
nella
generazione
di
embrioni
umani
-‐in
vitro-‐
attraverso
il
trasferimento
nucleare,
allo
scopo
di
mantenerlo
in
vita
per
7
giorni
(
fino
al
momento
in
cui
l’embrione
acquisisce
lo
stato
di
blastocisti
)
e
di
distruggerlo
dopo
questo
periodo,
al
fine
di
ottenere
le
cellule
staminali
embrionali
dalla
blastocisti
e
differenziarle,
in
vitro,
tentando
di
avere
differenti
tipi
di
tessuto,
che
dovrebbero
essere
immunologicamente
compatibili
con
il
donatore
del
genoma
,
che
ha
fecondato
l’oocita,
attraverso
il
trasferimento
nucleare.
Questa
pratica,
dovrebbe
essere
un
esempio,
non
soltanto
di
distruzione
di
vite
umane,
ma
anche
di
generazione
di
vite,
a
partire
da
un
certo
genoma,
al
solo
scopo
di
utilizzarle.
Dovrebbe
essere
un
chiaro
esempio
di
utilitarismo.
E’
necessario
ricordare
in
tale
sede
che,
in
molti
paesi,
ci
sono
diversi
embrioni
congelati,
prodotti
per
la
fecondazione
in
vitro,
che
potrebbero
anche
essere
usati
per
la
ricerca,
laddove
la
legge
lo
permetta.
Questi
embrioni
rappresentano,
ovviamente,
una
fonte
di
cellule
staminali
embrionali.
Inoltre,
per
le
implicazioni
etiche
descritte
a
proposito
della
clonazione,
dovremmo
anche
ricordare
che
tale
tecnica
apre
la
possibilità
della
generazione
di
ibridi
inter-‐specie.
Il
ruolo
del
biologo
molecolare,
nella
società,
oltre
alla
sua
responsabilità
morale
ed
etica,
nella
ricerca
e
nello
sviluppo
di
nuove
idee,
ha
condotto
ad
una
revisione
della
gerarchia,
sociale
e
scientifica,dei
valori.
Uno
scienziato,
non
può
più
ignorare
le
conseguenze
delle
sue
scoperte.
La
scienza
deve
agire
per
il
bene
dell’essere
umano,
altrimenti
sarà
un
tipo
di
scienza
che
porterà
al
degrado
della
umanità,
invece
di
aiutarla
a
progredire.
41
La
scienza
di
base,
è
chiamata
a
cercare
la
verità
attraverso
una
via
corretta
,
senza
attentati
ai
valori
umani
essenziali,
come
la
vita:
il
dono
più
prezioso
che
abbiamo.
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ANGELO
VESCOVI
La
recente
scoperta
che
il
sistema
nervoso
centrale
(SNC)
contiene
regioni
neurogeneticamente
attive
che
sono
ricche
di
cellule
staminali
cerebrali
(NSCs)
ha
stimolato
una
plethora
di
nuovi
studi
finalizzati
ad
investigare
sia
gli
aspetti
prominenti
della
fisiologiadi
base
delleNSCs
che
la
loro
applicazione
potenziale
nell’
ambito
della
terapia
delle
malattie
neurologiche.
Le
NSCs
sono
precursori
neurali
multipotenziali
che
si
moltiplicano
ed
autorinnovano
in
coltura
per
periodi
di
tempo
significativi
in
risposta
alla
loro
esposizione
a
fattori
di
crescita
specifici.
Recentemente,
é
stato
suggerito
che
le
NSCs
siano
soggette
a
rapida
trasformazione
in
coltura
e
che
questo
fatto
rappresenterebbe
un
ostacolo
al
loro
utilizzo
in
ambito
terapeutico
per
le
malattie
neurodegenerative.
Inoltre,é
stato
proposto
che
questo
fenomeno
di
rapida
trasformazione
sarebbe
alla
base
della
capacità
delle
NSCs
di
transdifferenziare,
una
proprietà
che
non
sarebbe
quindi
intrinseca
alle
NSCs
.
Questa
presentazione
é
tesa
a
discutere
dati
recenti
del
nostro
gruppo
di
lavoro
che
descrivono
il
comportamento
delle
NSCs
durante
la
loro
coltivazione
per
lunghi
periodi
di
tempo
,
dimostrando
come
queste
cellule
non
sono
assolutamente
soggette
a
trasformazione
e
come
esse
siano
di
fatto
dotate
della
capacità
di
dare
origine
a
cellule
di
origine
non-‐neurale,
e
cioé
di
transdifferenziare.
In
questo
contesto,
le
NSCs
non
mostrano
alcun
segno
di
trasformazione
a
passaggi
di
coltura
sia
precoci
che
molto
tardivi.La
capacità
di
autorinnovamento
delle
NSCs
–
vale
a
dire
la
loro
capacità
di
riprodurre
nuove
NSCs
continuativamente
–
non
cambia
nel
tempo
e
non
si
osservano
anomalie
cromosomiche
fino
a
30
passaggi
in
vitro.
Le
NSCs
mostrano
un
potenziale
di
crescita
stabile
per
molti
mesi
e,
dopo
la
rimozione
dei
mitogeni
dal
terreno
di
coltura,
smettono
di
dividersi
mitoticamente
e,
prontamente,
differenziano
in
neuroni
e
glia
con
frequenze
del
tutto
stabili
e
riproducibili.
Inoltre,
una
analisi
della
loro
risposta
a
citochine
di
varia
identità,
dimostra
come
sia
possible
influenzare
il
differenziamento
delle
NSCs
in
modo
che
almeno
il
50%della
loro
progenia
matura
sia
composta
da
neuroni.
Inoltre,
verrà
discusso
il
risultato
di
studi
recenti
che
confermano
che
le
NSCs
possiedono
la
capacità
di
dare
origine
a
cellule
non-‐neurali
e
cioé
mesodermiche,
dimostrando
che
il
fenomeno
del
transdifferenziamento
non
dipende
dalla
trasformazione
delle
NSCs
in
coltura.
Infine,
verranno
presentate
evidenze
sperimentali
che
dimostrano
l’assenza
di
un
potenziale
tumorigenico
delle
NSCs
e
la
loro
impressionante
capacitàdi
integrazione
nel
SNC
a
supporto
di
una
elevata
potenzialità
di
queste
cellule
in
ambito
terapeutico
per
le
cura
delle
malattie
del
cervello.
Dopo
anni
di
acceso
dibattito,
si
é
ormai
finalmente
affermato
il
concetto
che
alcune
sottopopolazioni
di
neuroni
siano
soggette
a
ricambi
nell’
ambito
della
vita
adulta.
Questo
concetto
fornisce
chiaro
supporto
all’
idea
che
il
processo
neurogenetico
si
continui
per
tutta
la
vita,
implicando
quindi
la
presenza
di
NSCs
nell’ambito
di
alcune
regioni
cerebrali.
Nel
cervello
dei
mammiferi
adulti
la
genesi
di
nuovi
neuroni
é
stata
evidenziata
nell
ippocampo
e
nel
bulbo
olfattivo.
In
particolare,
nel
bulbo
olfattivo,
nuove
cellule
neurali
vengono
continuamente
prodotte
da
NSCs
che
sono
localizzate
nella
regione
subventricolare
dei
ventricoli
telencefalici
(SVZ)
e
raggiungono
la
loro
destinazione
nel
bulbo
dopo
una
migazione
di
alcuni
millimetri
(Lois
and
Alvarez-‐Buylla,
1994).
In
relazione
alla
novità
sottesa
al
concetto
di
neurogenesi
adulta
ed
alle
ovvie
e
stimolanti
potenzialità
terapeutiche
che
sacturiscono
dall’
esistenza
di
cellule
staminali
cerebrali
adulte,
questo
settore
di
studio
é
andato
espandondosi
in
modo
esponenziale.
43
Tuttavia,
lavorando
con
un
tessuto
così
complesso
come
quello
del
sistema
nervoso
centrale
(SNC),
sisono
incontrate
alcune
serie
difficoltà
tecniche
e
ad
oggi
alcuni
aspetti
riguardanti
la
fisiologia
delle
cellule
staminali
neurali
rimangono
ancora
da
chiarire.
Alcuni
dati
recentemente
pubblicati
in
letteratura
suggeriscono
che
è
possibile
utilizzare
alcuni
marcatori
proteici
quali
l’agglutina
delle
arachidi,
l’antigene
stabile
del
calore,
l’antigene
SSA1
per
identificare
le
cellule
staminali
neurali
isolate
in
acuto
(Rietze
et
al.,
2001;
Capela
and
Temple,
2002);
nonostante
cio’,
l’identificazione
univoca
di
cellule
staminali
neurali
risulta
essere
ancora
difficoltosa.Inizialmente,
le
cellule
staminali
neurali
sono
state
studiate
e
caratterizzate
come
modelli
cellulari
cresciuti
in
sistemi
in
vitro
ben
definiti.Questo
approccio
sperimentale
ha
permesso
di
identificare
l’esistenza
di
cellule
di
derivazione
nervosa
in
grado
di
auto-‐rinnovarsi
e
di
dare
origine
a
diversitipi
di
cellule
altamente
differenziate,
tutte
caratteristiche
tipiche
delle
cellule
staminali
bona
fide
(Gritti
et
al.,
2002).
Sebbene
le
cellule
staminali
neurali
condividano
con
le
cellule
staminali
di
altri
tessuti
la
capacità
di
rifornire
continuamente
l’organismo
di
nuove
cellule
differenziate,
esse
posseggono
anche
alcune
caratteristiche
peculiari
che
le
differenziano
delle
altre
cellule
staminali.Per
esempio,
a
differenza
delle
cellule
staminali
ematopoietiche,
le
cellule
staminali
neurali
posseggono
una
capacità
proliferativa
illimitata
se
cresciute
in
un
terreno
di
coltura
abbastanza
semplice,
come
quello
senza
siero.Questa
caratteristica
ha
permesso
l’isolamento
di
linee
di
cellule
staminali
neurali
–
anche
di
origine
umana
–
che
sono
utilizzate
nello
studio
del
potenziale
terapeutico
delle
cellule
staminali
stesse
nella
cura
delle
malattie
neurodegenerative.Inoltre
i
modelli
sperimentali
di
colture
cellulari
di
staminali
neurali
hanno
suggerito
l’idea
che
queste
celllulepotrebbero
non
sviluppare
tutte
le
loro
potenzialità
di
differenziamento
negli
organi
in
vivo.
Infatti
molte
evidenze
sperimentali
hanno
dimostrato
che
le
cellule
staminali
neurali
cresciute
in
terreno
di
coltura,
posseggono
ungrado
di
plasticità
più
elevato
di
quello
riscontrato
in
vivo,
probabilmente
a
causa
di
un
effetto
“di
silenziamento”
a
cui
sono
sottoposte
le
cellulenel
micro-‐ambiente
cerebrale.
Un
esempio
di
questa
elevata
plasticità
è
stata
evidenziata
con
studi
in
cui
cellule
staminali
neurali
erano
in
grado
di
dare
non
solo
di
dare
origine
a
cellule
ematopoietiche
o
muscolari
,
ma
anche
di
integrarsi
in
qualsiasi
tessuto
se
trapiantate
in
sistemi
ematopoietici
rigeneranti,
o
in
muscoli
danneggiati
o
in
blastocisti
murine
in
via
di
sviluppo
(Frisen,
2002).
Questo
suggerisce
che
nell’elevata
potenzialità
di
sviluppo
delle
cellule
staminali
neurali
potrebbe
essere
compresa
anche
capacità
di
trans-‐differenziare
per
dare
origine
a
cellule
che
appartengono
a
tessuti
di
origine
embrionale
diversa.
Nel
1999,
alcune
evidenze
sperimentali
del
nostro
laboratorio
hanno
confermato
le
capacità
di
transdifferenziamento
delle
staminali,
dimostrando
che
cellule
staminali
neurali
clonali
sono
in
grado
di
dare
origine
a
cellule
ematopoietiche
quando
vengono
trapiantate
in
vivo
in
un
modello
murino
adulto
(Bjornson
et
al,
1999).
In
questi
esperimenti,
una
progenie
di
cellule
staminali
neurali
che
costitutivamente
esprimevano
la
galactosidasi
(il
prodotto
del
gene
batterico
lacZ)
sono
state
iniettate
in
topi
recipienti
irradiati
con
dose
sub-‐letali.
Non
solo
le
cellule
staminali
neurali
iniettate
si
sono
integrate
nei
tessuti
ematopoietici
quali
milza,
timo
e
midollo
osseo
dei
topi
recipienti,
ma
hanno
anche
dato
origine
a
molti
dei
precursori
ematopoietici
che
sono
stati
in
grado
di
differenziare
in
quasi
tutti
i
tipi
cellulari
presenti
nel
sangue,
inclusi
megacariociti,
granulociti,
macrofagi,
linfociti
B
e
T:
Non
sono
stati
invece
identificatiglobuli
rossi
originati
dalle
cellule
neurali
transdifferenziate.
Sebbene
non
descritti
nel
lavoro
iniziale,il
trapianto
di
cellule
staminali
neurali
ha
aumentato
la
vitalità
degli
animali
recipienti
suggerendo
che
le
cellule
staminali
neurali
trandifferenziate
nei
precursori
ematopoietici
sono
capaci
di
ricostituire
parzialmente
l’ematopoiesi
dell’animalericevente
irradiato
con
dose
letale
(dati
non
pubblicati).
44
Bisogna
inolte
sottolinare
come
ad
oggi
la
conversione
neuro-‐ematopoietica
è
stata
elegantemente
documentata
anche
utilizzando
cellule
staminali
neurali
di
origine
umana.
Queste
cellule
sono
state
iniettate
in
animali
riceventi
SCID-‐Hu,
precedentemente
trapiantati
con
midollo
osseo
e
frammenti
timici
umani,
al
fine
di
fornire
dei
microambientimidollari
e
timici
sufficientemente
fisiologici
per
ricevere
le
cellule
trapiantate.In
queste
condizioni,
le
cellule
staminali
neurali
umane
sono
state
in
grado
di
contribuire
all’ematopoiesi
dell’animale
ricevente,
come
dimostrato
da
esperimenti
di
ricostituzione
(Shih
et
al.,
2001).
Un
ulteriore
affascinante
approfondimento
delle
scoperte
appena
descritte,
deriva
dall’osservazione
di
come
le
cellule
staminali
neurali
iniettate
in
blastocisti
murine
siano
capaci
di
integrarsi
in
molti
tessuti
derivati
dai
tre
foglietti
germinativi
embrionali
(Clarke
et
al.,
2000).
Curiosamente,
in
questo
lavoro
non
è
stato
osservato
un
contributo
delle
cellule
staminali
neurali
iniettate
in
certi
tessuti
di
origine
mesodermica,
quali
il
sangue
e
i
muscoli
scheletrici.Tuttavia,
successivamente
è
stato
dimostrato
che
le
cellule
staminali
neurali
umane
e
murine,
sono
in
grado
di
transdifferenziare
in
cellule
muscolari
scheletrici,
sia
in
vivo
che
in
vitro
(Galli
et
al.,
2000).
Alcune
peculiari
circostanze
sembrano
essere
necessarie
per
l’espressione
di
cio’che
costituisce
un
latente,
ma
generalizzato
potenziale
di
sviluppo
delle
cellule
staminali
neurali.
Due
principali
fattori
sembrano
essere
necessari
per
il
transdifferenziamento
neuro-‐mesodermico.
Inanzittutto,
solamente
le
cellule
staminali
neurali
bona
fide
sono
in
grado
di
transdifferenziare.
Come
descritto
in
Galli
et
al.
(2000),
possono
transdifferenziare
solo
cellule
staminali
derivate
dalla
zona
subventricolare
del
cervello
(SVZ),
ma
non
quelle
derivate
da
altre
aree
che
non
contengono
cellule
staminali,
come
per
esempio
lo
striato
e
la
corteccia
celebrale.
Questo
dato
è
stato
confermato
anche
da
esperimenti
di
Rietze
et
al.
(2001),
in
cui
si
evidenzia
che
arricchendo
le
colture
cellulari
con
cellule
staminali
neurali
che
esprimono
alcuni
marcatori
di
superficie
(PNAlo
/HSAlo),
il
fenomeno
del
transdifferenziamento
può
essere
incrementato
da
un
2.5%
ad
un
incredibile
57%.Non
solo,
anche
quando
le
progenie
differenziate
di
cellule
staminali
neurali
sono
sottoposte
agli
stessi
segnali
capaci
di
indurre
il
fenotipo
miogenico
in
colture
arricchite
con
cellule
staminali
neurali
indifferenziate,
non
si
osserva
alcun
fenomeno
di
transdifferenziamento.
Questi
risultati
sono
ulteriormente
confermati
da
dati
recenti
che
evidenziano
come
la
totipotenza
delle
cellule
staminali
diminuisca
sempre
più
con
l’aumentare
del
differenziamento.
E’
possibile
speculare
che
per
intraprendere
il
transdifferenziamento,
le
cellule
staminali
neurali
devono
essere
esposte
ad
un
microambiente
che
possiede
segnali
istruttivi
alquanto
peculiari.
Considerando
che
è
stato
dimostrato
che
le
cellule
staminali
del
sistema
nervoso
sono
in
grado
di
colonizzare
i
foglietti
germinativi
durante
i
primi
stadi
della
gastrulazioine
(Clarke
et
al.,
2000),
di
rigenerare
sia
il
tessuto
ematopoietico
(Bjornson
et
al.,
1999)
che
quello
muscolare
(Galli
et
al.,
2000),
che
le
cellule
staminali
del
midollo
osseo
possono
ricostituire
tessuti
muscolari
ed
epatici
danneggiati
(Ferrari
et
al.,
1998;
Theise
et
al.,
2000),
è
possibile
postulare
che
i
segnali
istruttivi
possono
manifestarsi
specificamente
durante
la
fase
rigenerativa
che
segue
un
danno
tissutale
o
alternativamente
che
accompagna
lo
sviluppo
embrionale.
Purtroppo
si
conosce
molto
poco
sull’identità
e
sulla
natura
di
questi
segnali
responsabili
del
cambiamento
del
destino
delle
cellule
staminali
neurali.Uno
degli
ostacoli
più
importanti
nell’identificazione
di
questi
segnali
dipende
dal
fatto
che
la
maggior
parte
dei
modelli
sperimentali
usati
sono
basati
su
saggi
in
vivo.
Ad
oggi
sono
finalmente
disponibili
alcuni
modelli
in
vitro
per
studiare
la
conversione
neuro-‐
mesodermica
al
fine
di
interpretare
e
comprendere
meglio
i
meccanismi
molecolari
sottesi
al
fenomeno
del
trensdifferenziamento.Utilizzando
questi
modelli,
è
emerso
che
la
conversione
neuro-‐mesodermicapuò
essere
osservata
solo
quando
cellule
staminali
neurali
sono
cresciute
in
sistemi
di
co-‐colture,
in
presenza
cioè
di
cellule
miogenichedella
linea
C2C12
o
di
mioblasti
primari,
ma
mai
quando
sono
cresciute
in
presenza
di
cellule
non-‐miogeniche.Di
notevole
45
importanza
il
fatto
che
la
conversione
neuro-‐miogenicarichiedail
contatto
diretto
cellula-‐cellulae
non
avvenga
quando
le
cellule
neurali
e
quelle
miogeniche
sono
separate
fisicamente
per
mezzo
di
una
membrana
porosa,
né
quando
le
cellule
staminali
neurali
sono
cresciute
con
terreno
condizionato
da
cellule
muscolari.
Inoltre,
è
evidente
che
durante
il
fenomeno
della
conversione
neuro-‐miogenica
si
realizza
una
fine
orchestrazione
di
segnali
antagonisti.
Infatti
l’induzione
del
fenotipo
muscolare
esercitato
sulle
cellule
neurali
è
controbilanciato
da
alcuni
segnali
“neutralizzanti”
che
vengono
trasmessi
dalle
cellule
neurali
stesse,
un
fenomeno
che
può
essere
interpretato
come
un
classico
“effetto
comunità”
(Gurdon
et
al.,
1993).
Si
puo’
concludere
quindi
che
un
insieme
di
segnali
istruttivi
piuttosto
che
un
unico
segnale
effettore
sembra
controllare
il
passaggio
da
un
destino
neurale
ad
uno
mesodermico.
In
vivo,
questi
segnali
possono
essere
contenuti
sia
nel
microambiente
extracellulare
che
viene
perturbato
e
alterato
durante
un
danno
tissutale
e
sia
possono
essere
indotti
e
rilasciati
in
seguito
ad
un
contatto
diretto
cellula-‐cellula
che
avviene
tra
le
cellule
riceventi
e
quelle
donatrici.
Un
dubbio
legittimo
su
gli
studi
di
transdifferenziamento
riguarda
la
seguente
domanda:
le
cellule
transdifferenziate
acquistano
veramente
un
fenotipo
differenziato
e
funzionale
o
piuttosto
limitano
l’espressione
di
alcuni
geni
e
di
alcuni
tratti
antigenici
specifici
per
la
morfologia
di
un
foglietto
germinativo
(Weissman
et
al.,
2001).
Indubbiamente
l’
argomento
richiede
studi
più
approfonditi,
ma
ad
oggi
sono
disponibili
esempi
di
conversione
bona
fide
di
cellule
staminali
neurali
in
cellule
mesodermiche
funzionalmente
mature.
Infatti
è
stato
dimostrato
con
studi
di
ultrastruttura
che
i
miotubi
derivati
da
cellule
staminali
neurali
sono
dei
sincitia
polinucleati,
chiara
indicazione
di
differenziamento
terminale.
Inoltre
questi
miotubi
contengono
strutture
sarcomeriche
che
presentano
sia
bande
M
che
bande
Z
(Galli
et
al.,
2000).
Se
il
concetto
che
cellule
di
un
dato
tessuto
possono
dare
origine
a
cellule
di
un
altro
tessuto
di
diversa
derivazione
embrionale
è
stato
esteso
a
molti
tipi
cellulari
adulti
(Frisen,
2002),
questo
fenomeno
è
stato
messo
in
discussione
da
alcuni
recenti
dati
presentati
in
letteratura
(referenze).
In
particolare
studi
condotti
da
Morshead
et
al.
(2002)
evidenziano
l’impossibilità
di
generare
progenie
ematopoietiche
da
cellule
staminali
neurali
iniettate
in
topi
irradiati.
Sebbene
questi
studi
siano
stati
descritti
come
identici
ai
nostri
esperimenti
iniziali,
le
caratteristiche
funzionali
delle
cellule
staminali
neurali
descritte
da
questi
autori
sottolineano
chiaramente
che
le
colture
cellulari
usate
erano
prive
di
cellule
staminali
ed
erano
costituite
prevalentemente
da
cellule
giàdifferenziate.
Il
lavoro
di
Morshead
è
in
aperta
contraddizione
con
una
sovrabbondanza
di
lavori
pubblicati
precedentemente
che
dimostrano
come
né
le
cellule
staminali
neurali
umane
né
quelle
murine
si
trasformano
in
coltura,
ma
piuttosto
conservano
una
stretta
dipendenza
dai
fattori
di
crescita
presenti
nel
terreno,
mantengono
costante
la
cinetica
di
crescita
e
differenziano
velocemente
quando
sono
rimossi
i
fattori
di
crescita
(Reynolds
et
al.,
1996;
Gritti
et
al.,
1999;
Vescovi
et
al.,
1999;
Galli
et
al.,
2002).
Come
già
ricordato
in
precedenza,
la
percentuale
di
cellue
staminali
neurali,
definita
per
mezzo
di
un
classico
saggio
clonogenico,
era
inferiore
di
almeno
20
volte
nel
lavoro
di
Morshead
se
confrontato
con
i
nostri
dati.
Quindi,
la
combinazione
della
presenza
di
un
basso
numero
di
cellule
staminali
neurali
e
di
un
significativo
grado
di
trasformazione
delle
cellule
utilizzate
ha
portato
al
trapianto
di
un
numero
insignificante
di
cellule
staminali
neurali
e
di
per
sé
spiega
il
fallimento
di
questi
esperimenti
nel
coneguire
esempi
di
conversione
neuro-‐ematopoietica,
che
sono
invece
stai
dimostrati
ad
oggi
da
tre
gruppi
indipendenti
(Bartlett,
1982;
Bjornson
et
al.,
1999;
.
Shih
et
al.,
2002)
Recentemente,
è
stato
dimostrato
che
sia
le
cellule
staminali
neurali
che
quelle
del
midollo
osseo
posseggono
la
capacità
di
fondere
con
altre
cellule
ed
originare
delle
cellule
tetraploidi
che
esprimono
molti
dei
marcatori
caratteristici
di
cellule
di
derivazione
embrionale
diversa
da
quella
neurale
o
ematopoietica
(Ying
et
al.,
2002;
Terada
et
al.,
2002).
A
questo
proposito
deve
46
essere
tenuto
in
considerazione
il
fatto
che
in
entrambi
gli
studi
la
fusione
cellulare
è
stata
osservata
in
celllule
staminali
embrionali,
che
non
sono
tuttavia
presenti
nella
vita
adulta
di
un
organismo.
Inoltre,
la
frequenza
riscontrata
degli
eventi
di
fusione
è
significativamentebassa,
compresacioè
tra
10-‐5
e
10-‐6.
E’
possibile
postulare
che
l’acquisizione
di
un
fenotipo
non-‐neurale
da
parte
di
cellule
staminali
neurali
possa
essere
il
risultato
di
una
fusione
cellulare?
Considerando
che
la
frequenza
di
transdifferrenziamento
riportata
nei
vari
lavori
è
più
elevata
di
due
ordini
logaritmici
di
quella
osservata
per
i
fenomeni
di
fusione
cellulare,
e
considerando
che
la
fusione
cellulare
non
è
un
prerequisito
per
la
conversione
neuromiogenica
(Galli
et
al.,
2000),
è
alquanto
improbabile
che
il
fenomeno
del
transdifferenziamento
possa
essere
spiegato
solo
con
la
formazione
di
cellule
tetraploidi.
Per
concludere,
è
evidente
che
il
campo
di
studi
delle
cellule
staminali
adulte
e
la
loro
affascinante
biologia
costituisce
ad
oggi
un’area
di
ricerca
in
espansione
che
ci
porta
a
riconsiderare
alcuni
dogmi
fondamentali
della
biologia.Se
queste
importanti
sfide
biologichepossano
essere
ostacolate
dalle
crescenti
erigorose
indaginirimane
argomento
per
discussioni
future.
47
BARTLETT
P.F.,
Pluripotential
hemopoietic
stem
cells
in
adult
mouse
brain.
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S
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CAPELA
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is
expressed
by
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mouse
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stem
cells,
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as
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pendymal.Neuron
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GALLI
R.,
et
al.,Emx2
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the
proliferation
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stem
cells
of
the
adult
mammalian
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nervous
system.
Development,
129:
1633-‐1644
(2002).
GRITTI
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GRITTI.
A.,
et
al.,
Epidermal
and
fibroblast
growth
factors
behave
as
mitogenic
regulators
for
a
single
multipotent
stem
cell-‐like
population
from
the
subventricular
region
of
the
adult
mouse
forebrain.
J
Neurosci
19,
3287-‐97
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GURDON
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LOIS
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the
adult
mammalian
brain.
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264:1145-‐1148.
MORSHEAD
C.M.,
BENVENISTE
P.,
ISCOVE
N.N.,
VAN
DER
KOOY
D.
Hematopoietic
competence
is
a
rare
property
of
neural
stem
cells
that
may
depend
on
genetic
and
epigenetic
alterations.Nature
Medicine
8,
268-‐273
(2002).
REYNOLDS
B.A.
&
WEISS
S.,
Clonal
and
population
analyses
demonstrate
that
an
EGF-‐responsive
mammalian
embryonic
CNS
precursor
is
a
stem
cell.
Dev
Biol
175,
1-‐13
(1996).
RIETZE
R.L.,
BROOKER
G.F.,
THOMAS
T.,
VOSS
A.K.,
BARTLETT
P.F.,
Purification
of
a
pluripotent
neural
stem
cell
from
the
adult
mouse
brain.
Nature
2001:
412:736-‐739.
SHIH
CC,
WENG
Y,
MAMELAK
A,
LEBON
T,
HU
MC-‐T,
FORMAN
SJ.
Identification
of
a
candidate
human
neurohematopoietic
stem-‐cell
population.
Blood
2001;
98:2412-‐2422.
TERADA
N.
et
al.
Bone
Marow
cells
adopt
the
phenotype
of
adult
cells
by
spontaneous
cell
fusion.
Nature
2002;
416:542-‐545.
THEISE,
N.D.,
et
al.
(2000)
Derivation
of
hepatocytes
from
bone
marrow
cells
in
mice
after
radiation-‐induced
myeloablation.
Hepatology
31:235-‐240.
VESCOVI
A.L.et
al.
Isolation
and
cloning
of
multipotential
stem
cells
from
the
embryonic
human
CNS
and
establishment
of
transplantable
human
neural
stem
cell
lines
by
epigenetic
stimulation.
Exp.
Neurol.
156;
71-‐83
(1999).
YIING
Q.,
NICHOLS
J.,
EVANS
E.P.,
SMITH
A.G.,
Changing
potency
by
spontaneous
fusion.
Nature
2002;416:545-‐548.
to
come.
48
IGNAZIO
MARINO
INTRODUZIONE
La
ricerca
è
componente
integrante
dell’impegno
professionale
dei
medici
e,
quindi,
del
progresso
scientifico.
I
progressi
in
campo
medico,
soprattutto
quelli
raggiunti
negli
ultimi
anni
a
seguito
delle
nuove
scoperte
nel
campo
dell’ingegneria
genetica
e
della
biotecnologia,
aprono
la
strada
a
terapie
e
pratiche
che
spesso
mettono
in
discussione
principi
fondamentali
della
medicina
tradizionale
e
sollevano
annose
questioni
etiche.
La
valutazione
della
condotta
umana
in
ambito
medico
e
scientifico
alla
luce
di
valori
e
principi
morali
si
è
resa
sempre
più
necessaria
negli
ultimi
decenni,
parallelamente
all’avvento
di
scoperte
e
ricerche
che
hanno
rivoluzionato
la
posizione
stessa
dell’uomo
(medico
e
paziente)
nei
confronti
della
natura,
della
vita
e
della
morte.
Non
a
caso
il
termine
“bioetica”
viene
coniato
all’inizio
degli
anni
’70
negli
Stati
Uniti
dall’oncologo
Van
Rensselaer
Potter,
quando
l’esigenza
di
coniugare
approccio
umanistico
e
sapere
scientifico
diventa
urgente
in
seguito
ai
prodigiosi
progressi
ottenuti,
ad
esempio,
nel
campo
dello
studio
del
DNA,
della
medicina
dei
trapianti
d’organo
e
della
terapia
genetica.
Potter
sosteneva
che
la
bioetica
doveva
essere
una
disciplina
che
combinasse
la
conoscenza
biologica
con
la
conoscenza
del
sistema
dei
valori
umani.
Egli
era
preoccupato
della
divisione
tra
i
due
saperi,
quello
umanistico
e
quello
scientifico;
nella
sua
analisi
tale
separazione
aveva
le
potenzialità
di
distruggere
il
nostro
ecosistema.
Vi
era,
quindi,
l’esigenza
di
unire
in
una
nuova
disciplina,
la
bioetica,
i
valori
etici
con
la
biologia
e
tale
scienza
doveva
estendersi
a
tutto
ciò
che
riguardava
la
vita
dell’uomo
(“global
bioethics”)[1].
L’iniziativa
di
istituzioni
quali
l’Hastings
Center
(sorto
ad
opera
del
filosofo
cattolico
Daniel
Callahan
e
dello
psichiatra
Willard
Gaylin
nel
1969)
e
il
Kennedy
Institute
of
Ethics
(fondato
nel
1971
da
André
Hellegers,
un
famoso
ostetrico
di
origine
olandese)
ha
portato
alla
definizione
di
un
ambito
di
indagine
prima
inesplorato
o,
forse,
non
consapevolmente
sollecitato
o
talvolta
solo
spontaneamente
inserito
nella
pratica
scientifica.
Nel
1978,
con
la
pubblicazione
della
Encyclopedia
of
Bioethics,
questa
nuova
disciplina
viene
introdotta
nelle
università.
Oggi
è
impensabile
ignorare
gli
innumerevoli
quesiti
morali
emersi
come
conseguenza
dell’inarrestabile
progresso
scientifico.
La
ricchezza
e
al
tempo
stesso
complessità
della
riflessione
bioetica
nasce
dalla
sua
stessa
natura
interdisciplinare.
Come
confermato
dall’impegno
della
Pontificia
Academia
Pro
Vita,
un
concreto
contributo
agli
interrogativi
morali
posti
dalla
ricerca
biomedica
può
derivare
soltanto
dal
confronto
continuo
fra
studiosi
e
operatori
di
diversa
formazione
e
background:
medici,
biologi,
teologi,
giuristi,
psicologi,
sociologi,
economisti.
Questa
caratteristica
ribadisce
e
mina
il
ruolo
(al
tempo
stesso
centrale
e
marginale)
della
ragione
nell’etica,
un
ambito
in
cui
l’inconciliabilità
di
posizioni
e
scelte
diventa
non
impasse
argomentativo
ma,
piuttosto,
il
motivo
stesso
per
dare
avvio
al
dibattito
pubblico.
E
per
“pubblico”
non
dovremmo
intendere
semplicemente
la
cerchia
multidisciplinare
a
cui
si
è
accennato
poco
sopra
ma
il
ben
più
ampio
pubblico
dei
non-‐tecnici,
dell’opinione
pubblica.
Nelle
prossime
pagine
verrà
sottolineato
come
tale
allargamento
del
dibattito
etico
dovrebbe
essere
gestito
con
maggiore
preparazione,
onestà
e
senso
di
responsabilità
di
quanto
fatto
finora.
Da
un
lato,
infatti,
i
tecnici
devono
possedere
un
bagaglio
formativo
adeguato
che
non
solo
permetta
loro
di
discutere
del
problema
ma
anche
di
porlo
e
presentarlo
ai
non
addetti
ai
lavori
in
maniera
adeguata.
Dall’altro,
dobbiamo
auspicare
che
il
dibattito
su
tali
questioni
diventi
pratica
comune
fra
l’opinione
pubblica
e
adoperarci
49
affinchè
acquisisca
strumenti
e
sensibilità
adatte
alla
valutazione
ragionata
e
non
sensazionalistica.
A
monte,
naturalmente,
è
imperativo
l’impegno
del
ricercatore
o
del
medico
ed
il
suo
“dovere
di
compiere
scelte
coraggiose”[2],
il
che
comporta
talvolta
anche
la
difficile
assunzione
di
responsabilità
qualora
una
scoperta
o
una
terapia
non
venga
illustrata
pubblicamente
se
ritenuta
in
coscienza
di
difficile
interpretazione
etica.
Probabilmente,
l’unica
via
percorribile
è
proprio
quella
della
responsabilizzazione
dell’uomo,
dello
scienziato
come
del
paziente/cittadino
che,
di
fronte
a
quesiti
morali
così
profondi
che
influiscono
o
minacciano
di
influire
sul
futuro
stesso
dell’intera
umanità,
sappia
fermarsi
e
decidere
in
coscienza.Questo
(il
concetto
a-‐culturale
e
a-‐religioso
di
assunzione
di
responsabilità
personale)
potrebbe
costituire
anche
un
primo
passo
fondamentale
per
la
difficile
definizione
delle
caratteristiche
di
una
bioetica
universale
e
per
la
mitigazione
delle
differenze
fra
bioetica
cattolica,
bioetica
protestante,
ortodossa
ecc.
Tutto
questo
è
oggi
assolutamente
necessario
dal
momento
che
la
medicina
non
è
più
solo
assistenza
ma
è
anche
un
modo
di
intervenire
sulla
vita
stessa:
si
può
creare
la
vita
in
provetta
o
posporre
la
morte
oltre
i
limiti
naturali,
utilizzando
la
straordinaria
tecnologia
raggiunta
e
disponibile
nei
reparti
di
rianimazione
e
terapia
intensiva.
BIOETICA
E
DIBATTITO
PUBBLICO
Come
anticipato,
l’apertura
al
pubblico
del
dibattito
bioetico
è
un
requisito
fondamentale
anche
se
necessita
di
modalità,
tempi
e
strumenti
appropriati.
Ripercorrendo
la
storia
del
rapporto
fra
medico
e
paziente
è
interessante
notare
la
lentezza
con
cui
questo
concetto
ha
preso
piede
e,
di
conseguenza,
la
permanenza,
all’interno
del
rapporto
stesso,
di
pregiudizi
e
sfiducia.
Un
esempio
particolamente
calzante
riguarda
il
concetto
di
consenso
informato.
Questo
argomento
offre
spunti
interessanti
per
due
motivi:
innanzitutto,
per
sottolineare
che
l’ambito
della
bioetica
è
quello
di
maggiore
interesse
per
il
paziente
e
quello
che
oggi,
più
che
mai,
necessita
il
suo
intervento
diretto.
In
secondo
luogo,
la
storia
dello
sviluppo
del
concetto
di
consenso
informato
ribadisce
l’arida
predominanza
delle
ragioni
legali
sopra
quelle
morali.
Un
argomento
spesso
sfruttato
per
giustificare
pratiche
e
prese
di
posizione
più
o
meno
“tradizionali”
nel
campo
della
professione
medica
è
il
giuramento
di
Ippocrate.
Dal
punto
di
vista
storico
è
facile
individuare
un
recupero
del
rapporto
gerarchico
medico-‐paziente
riproposto
in
epoca
medioevale
con
il
giuramento
di
Ippocrate.
Dopo
l’isolato
tentativo
platonico
di
instaurare
un
dialogo
più
aperto
fra
medico
e
ammalato
e
la
fase
paleocristiana
della
medicina,
in
cui
il
medico
è
visto
come
guaritore
dell’anima,
non
solo
del
corpo,
il
ruolo
del
paziente
torna
ad
essere
pressoché
ininfluente
di
fronte
al
carisma
indiscusso
di
un
medico
che
è
al
tempo
stesso
tecnico
e
sacerdote.
Ciò
che
manca
del
tutto
è
il
rispetto
dell’autonomia
del
paziente;
in
breve,
il
concetto
di
libera
scelta,
recentemente
elaborato
anche
in
termini
giuridico-‐legali
nell’idea
di
consenso
informato.
Il
concetto
di
responsabilità
inizia
ad
emergere
durante
il
Rinascimento
e
si
fa
definitivamente
spazio,
in
ambiti
diversi,
con
l’Illuminismo
e
pensatori
quali
Locke,
Kant,
Stuart-‐
Mill.
La
partecipazione
all’informazione
da
parte
del
paziente
va
di
pari
passo
ma
è
una
lenta
conquista,
basti
pensare
che
nel
1847
il
primo
codice
di
etica
medica
dell’American
Medical
Association
(AMA)-‐
la
principale
società
medica
statunitense
-‐
contempla
ancora
l’idea
di
inganno
paternalistico
a
fin
di
bene.
Nell’edizione
del
1980
viene
sottolineata
la
necessità
di
rispettare
le
richieste
legali
sul
consenso
informato.
Importante
e
indicativo,
quindi,
il
fatto
che
il
concetto
e
la
pratica
del
consenso
informato
prenda
il
sopravvento
inizialmente
non
per
ragioni
etiche
ma
strettamente
legali.
Solo
in
tempi
recenti
il
consenso
informato
è
stato
visto
come
diritto
morale
del
paziente,
permettendo
all’ammalato
di
partecipare
(o
sottrarsi
consapevolmente)
al
trattamento
o
al
progetto
di
ricerca
terapeutica
proposta
dal
medico-‐professionista.
50
Questo
è
un
esempio
di
come
una
pratica
oggi
accettata
e
rispettata
universalmente
come
diritto
morale
si
sia
inizialmente
affermata
come
puro
requisito
legale.
La
stessa
vicenda,
analizzando
l’evolversi
del
rapporto
medico-‐paziente
(da
“medico
sacerdote”-‐“paziente
ignorante”
a
“medico
professionista”-‐“paziente
informato”),
prova
quanto
sia
fondamentale
il
coinvolgimento
diretto
del
singolo
individuo.
In
altre
parole,
il
dibattito
bioetico
deve
coinvolgere
ogni
cittadino
e
non
un
ristretto
gruppo
di
addetti
ai
lavori.
Questo,
per
non
ripetere
e
recuperare
il
pericoloso
modello
paternalistico
degli
esordi
dell’arte
medica.
UNA
MORALE,
TANTE
BIO-‐ETICHE?
UNA
“MODEST
PROPOSAL”
PER
IL
SUPERAMENTO
DEL
PARTICOLARISMO
ETICO
I
più
cogenti
interrogativi
morali
vengono
posti
oggi
dal
fatto
che
la
ricerca
permette
all’uomo
non
solo
di
intervenire
in
modo
sempre
più
(onni)potente
sulla
cura
e
prevenzione
di
malattie
ma
sulla
stessa
vita,
sulla
sua
origine
e
fine.
Si
va
così
ad
intaccare
il
tabù,
non
solo
cristiano,
della
tentazione
di
dominare
la
natura
e
la
vita.
Sempre
più
frequentemente
i
rischi
conseguenti
da
tale
atteggiamento
vengono
offuscati
in
nome
del
progresso
scientifico
e
la
cosiddetta
neutralità
morale
della
ricerca
è
diventata
sempre
più
tristemente
illusoria.
E’
quindi
necessario
ribadire,
oggi
più
che
mai,
che
scienza
e
tecnica
devono
rispettare
i
criteri
fondamentali
dell’etica.
Il
vero
dibattito
si
apre
sulla
individuazione
e
delimitazione
universale
(o
internazionale,
più
semplicemente)
di
tali
criteri.
La
difficoltà
di
definire
un
unico
ed
universale
codice
deontologico,
considerata
la
delicatezza
dei
quesiti
posti
e
le
diverse
personali
e
culturali
interpretazioni
di
uno
stesso
problema
etico,
è
il
motivo
stesso
della
nostra
convocazione
in
seno
alla
Pontificia
Academia
Pro
Vita.
Da
un
lato
avvertiamo
la
necessità
di
stabilire
linee
guida
universalmente
valide,
dall’altro
sembra
che
il
campo
stesso
di
indagine
lo
impedisca.
La
conseguenza
diretta
di
questo
impasse
o,
meglio,
la
sua
soluzione
abituale
(purtroppo
assai
limitata)
è
molto
spesso
di
tipo
puramente
legale-‐giuridico
(vedi
paragrafo
su
“Bioetica
e
dibattito
pubblico”).
Inutile
dire
quanto
questa
scelta
sia
spesso
influenzata
–
se
non
guidata
–
da
argomenti
politici
ed
economici.
Ci
troviamo
a
confrontarci
con
quello
che
il
Sommo
Pontefice
nel
capitolo
III
della
Enciclica
Evangelium
Vitae
definisce
“relativismo
etico”,
spesso
sancito
da
una
maggioranza
parlamentare
o
sociale
il
cui
carattere
morale
non
è
mai
assolutamente
automatico.
Il
compito
della
legge
civile
resta
diverso
e
più
limitato
rispetto
a
quello
della
legge
morale,
tanto
che
in
alcune
circostanze
possiamo
addirittura
parlare
di
abdicazione
dell’etica.
Lo
stesso
Mons.
Sgreccia,
nella
più
recente
edizione
della
seconda
parte
del
suo
Manuale
dedicata
agli
Aspetti
medico-‐sociali[3],
si
dimostra
consapevole
della
necessaria
specificità
dei
valori
etici.
Non
per
niente
parliamo
di
Bio-‐etica
e
non
di
Bio-‐morale.
Le
problematiche
affrontate
nel
volume
delineano
un
percorso
eziologico
carico
di
malessere
per
il
disagio
sociale
e
il
vuoto
dei
valori
che
indeboliscono
la
capacità
etica
delle
persone
e
delle
stesse
istituzioni.
Per
rompere
questo
cerchio
si
richiede
una
ripresa
vigorosa
della
volontà
di
bene,
di
un
anelito
sincero
verso
la
verità
della
persona
e
della
società
che
è
chiamata
a
costruire,
mediante
la
ritessitura
dell'ordine
dei
valori
e
un
appello
rivolto
alla
coscienza
di
tutti,
anche
dei
legislatori,
e
proponendo
il
sostegno
della
medicina,
soprattutto
preventiva,
e
delle
forze
educative.
Come
accennato
nelle
note
di
introduzione
la
scienza
deve
necessariamente
passare
attraverso
una
“coscientizzazione”
delle
diverse
discipline.
Fermo
restando
che
la
valutazione
razionale
è
prerequisito
indispensabile
a
quella
morale,
dobbiamo
riconoscere
l’ingannevolezza
di
quella
che
Giovanni
Berlinguer
definisce
“bioetica
giustificativa”[4]
ossia
la
falsa
morale
del
dettame
per
il
quale
tutto
ciò
che
è
tecnicamente
possibile
diventa
automaticamente
ammissibile
e
praticabile.
L’arbitrio
del
ricercatore
deve
essere
disciplinato
dal
senso
di
responsabilità,
sempre
bilanciato
dalla
valutazione
lungimirante
non
solo
dei
rischi
ma
anche
delle
conseguenze.
Ciò
è
possibile
su
51
base
razionale,
tecnica
e
non
solo
sulla
spinta
di
una
coscienza
morale
particolarmente
sviluppata,
né
della
fede
religiosa.
Si
tratta
quindi
di
una
concreta
finalità
che
ogni
uomo
di
scienza
(credente
o
meno)
può
e
deve
rispettare.
Anche
in
questo
modo,
anzi
soprattutto
esercitando
questo
tipo
di
auto-‐regolamentazione
ragionata
e
responsabile,
l’uomo
di
scienza
dimostra
di
comprendere
e
di
saper
gestire
l’enorme
potere
che
le
recenti
innovazioni
tecnologiche
mettono
a
sua
disposizione.
E
questo
non
per
recuperare
in
chiave
semplicistica
la
classica
figura
paternalistica
del
medico/sacerdote,
ma
piuttosto
quella
dell’individuo
consapevole,
capace,
responsabile
e
padrone
dei
propri
strumenti
cognitivi.
Questa
può
affermarsi
come
una
nuova
visione
antropologica
che
esula
da
categorizzazioni
religiose
e
culturali
e
che
può
davvero
costituire
la
chiave
di
accesso
alla
soluzione
del
problema
della
specificità
di
etiche
particolari:
la
forza
ed
il
potere
di
fermarsi,
di
evitare,
di
non
spingersi
troppo
oltre,
di
non
valicare
il
punto
di
non
ritorno.
Ciò
non
deve
essere
frainteso
con
una
volontà
bigotta
di
arrestare
il
progresso
scientifico,
bensì
con
quella
di
preservare
il
bene
più
prezioso:
la
vita
umana
e
l’amore
verso
di
essa
–
valori
che
nessuna
cultura
potrà
mai
arrivare
a
negare.
Il
ruolo
dello
scienziato
ne
esce
perfino
potenziato,
investito
di
una
responsabilità
che
si
estende
al
di
fuori
del
laboratorio
o
dell’ospedale,
che
non
si
limita
più
alla
scoperta
ma
alla
sua
valutazione
lungimirante,
in
maniera
responsabile
e
sempre
aperta
al
dibattito,
non
più
sterilmente
ristretto
alla
comunità
di
tecnici.
Non
si
tratta
più,
in
questo
caso,
di
ciò
che
il
Sommo
Pontefice
definisce
“atteggiamento
prometeico
dell’uomo
che
...
si
illude
di
potersi
impadronire
della
vita
e
della
morte
perchè
decide
di
esse”[5].
La
scelta
responsabile
e
lungimirante
dello
scienziato
avrà
pienezza
morale
indipendentemente
dal
fatto
che
essa
scaturisca
e
sia
alimentata
dalla
fede
in
Cristo.
“Il
dovere
di
compiere
scelte
coraggiose”[2]
non
può
essere
limitato
ai
responsabili
della
cosa
pubblica
ma
deve
essere
avvertito
fortemente
anche
da
ogni
singolo
componente
della
comunità
scientifica.
E
comunque,
che
il
professionista
assolva
o
meno
al
suo
compito
di
monitorizzazione
ragionata,
il
singolo
cittadino
dovrebbe
poter
valutare
coscienziosamente,
con
gli
strumenti,
le
nozioni
e
la
pratica
che
la
società
e
lo
Stato
gli
avranno
fornito.
In
quest’ottica
assume
importanza
fondamentale
l’inserimento
ufficiale
e
riconosciuto
della
bioetica,
da
un
lato
nel
curriculum
formativo
obbligatorio
di
professionisti
in
campo
medico,
dall’altro
nel
ventaglio
di
argomenti
con
cui
il
grande
pubblico
si
confronta
regolarmente.
Questa
operazione
aumenterebbe
la
consapevolezza
delle
problematiche
morali
connesse
alla
ricerca
biomedica,
rendendo
il
dibattito
più
consapevole
e
fruttuoso
non
solo
fra
gli
addetti
ai
lavori
ma
anche
fra
quanti
sono
solitamente
esclusi
dalla
fase
decisionale
sebbene
direttamente
coinvolti
nelle
sue
conseguenze
pratiche.
PER
UNA
BIOETICA
CRISTIANA
Un
problema
potenzialmente
tipico
per
la
definizione
di
una
bio-‐etica
cristiana
appare
quello
di
doversi
confrontare
con
discipline
e
tecnici
storicamente
laici,
da
un
lato,
e
con
bio-‐etiche
ispirate
da
diversi
credo,
dall’altro
(bioetica
protestante,
bioetica
ortodossa,
ecc.).
L’approccio
cristiano
parte
dall’assunto
fondamentale
che
la
vera
natura
della
persona
umana
è
al
tempo
stesso
corporale
e
spirituale
e
che
tale
persona
fa
riferimento
ad
una
legge
morale
naturale.
La
prima
conseguenza
è
che
qualsiasi
intervento
sulla
persona
coinvolge
sia
corpo,
sia
spirito.
Da
qui,
un
aumento
di
responsabilità
morale
da
parte
del
medico
o
ricercatore.
Tale
responsabilità
aumenta
anche
considerando
la
persona
come
creazione
e
incarnazione
divina.
L’uomo
è
“corpore
et
anima
unus”[6]:
questa
è
la
cosiddetta
visione
antropologica
a
cui
fare
riferimento
quando
cerchiamo
risposte
ai
quesiti
posti
dalle
nuove
scoperte
biomediche.
Questo
può
aiutare
la
cristianità
a
prendere
decisioni
etiche
anche
in
presenza
di
valori
e
significati
di
ordine
personale
che
spesso
determinano
il
senso
(o
l’assenza
di
senso)
morale
degli
interventi
biomedici
52
sull’uomo.
Il
ruolo
della
Chiesa
può
e
deve
essere
riconosciuto
non
solo
dai
fedeli
ma
da
quanti
vedono
in
essa
un
magistero
comunque
posto
al
servizio
del
bene
ultimo,
la
vita.
E’
la
missione
evangelica
della
Chiesa
ed
il
suo
dovere
apostolico
che
la
autorizzano
a
giocare
un
ruolo
fondamentale
nella
ricerca
e
valutazione
di
risposte
etiche
di
fronte
ai
quesiti
posti
dalla
ricerca
biomedica.
Il
superamento
del
pericoloso
particolarismo
etico
all’interno
di
una
visione
morale
universalmente
accettabile
diventa
allora
compito
della
Chiesa
che
può
vivere
tale
missione
non
come
annullamento
della
fertile
pluralità
di
spunti
e
opinioni,
bensì
come
occasione
di
nuova
“evangelizzazione”.
Il
ruolo
chiave
di
sensibilizzazione
alla
“cultura
della
vita”
si
concretizza
proprio
nell’importante
chiarimento
della
complessità
dell’equilibrio
tra
responsabilità
sociale
ed
autonomia
individuale.
Questo
avviene
ribadendo
il
valore
di
una
coscienza
intatta
e
proiettata
verso
quella
che
il
Sommo
Pontefice
contrappone
alla
“cultura
di
morte”[7]
imperante
e
anzi
promossa
da
alcune
pratiche
mediche
recenti
(vedi
oltre:
“Dalla
compravendita
degli
organi
alle
cliniche
per
il
suicidio”);
ma
questi
valori
non
possono
essere
estranei
ai
non
fedeli,
facendo
comunque
appello
al
concetto
di
responsabilità
ragionata
e
lungimirante,
del
tecnico
così
come
del
singolo
cittadino
–
entrambi
resi
consapevoli
della
possibilità
di
un
coraggioso
atto
di
rinuncia
in
nome
dell’amore
per
la
vita.
Lo
svolgimento
pratico
di
tale
rinnovata
missione
da
parte
della
Chiesa
richiede
certamente
la
collaborazione
e
l’appoggio
di
quanti,
singoli
uomini
e
istituzioni
pubbliche,
non
possono
che
condividerne
la
finalità
universale:
la
loro
stessa
preziosa
sopravvivenza
e
la
possibilità
di
giocare
un
ruolo
chiave
nella
sua
difesa.
IL
CASO
DELLE
GEMELLINE
SIAMESI
E
LA
DONAZIONE
D’ORGANO
DA
VIVENTE
Dibattito
pubblico,
relativismo
e
particolarismo
etico,
bioetica
giustificativa
e
bioetica
cristiana,
sono
tutti
argomenti
che
possono
essere
chiaramente
discussi
alla
luce
di
un
fatto
realmente
accaduto
e
delle
sue
implicazioni
generali.
L’esempio
è
fornito
dalla
drammatica
vicenda
che
nel
maggio
2000
in
Italia
ha
coinvolto
due
gemelline
siamesi
neonate,
entrambe
vigili
e
cerebralmente
intatte,
per
una
delle
quali
si
è
ipotizzata
la
possibilità
di
sopravvivenza
attraverso
il
“prelievo”
di
tessuto
cardiaco
dell’altra.
Una
sorta
di
“donazione
da
vivente”
che
implicava
il
“sacrificio”
della
vita
di
una
delle
due
bambine,
quest’ultima
scelta
sulla
base
della
sua
più
debole
fisiologia.
Il
ripercorrere
analiticamente
tale
vicenda
non
solo
ci
consente
di
ragionare
su
quali
pratiche
oggi
“tecnicamente”
possibili
siano
anche
“eticamente”
lecite,
ma
ci
permette
anche
di
considerare
il
valore
del
dibattito
pubblico
ed
il
peso
in
esso
della
bioetica
giustificativa.
L’episodio
ed
il
dibattito
si
incentrarono
sulla
liceità
di
“sopprimere”
in
sala
operatoria
una
delle
due
bambine,
separarne
il
corpo
dalla
sorella
ed
utilizzare
parte
del
suo
cuore
per
“donarlo”,
come
in
un
trapianto,
all’altra
bambina
che
avrebbe
così
potuto
sopravvivere.Un
cardiochirurgo
si
rese
disponibile
ad
eseguire
l’intervento
e,
personalmente,
si
cercò
invano
di
coinvolgermi
come
potenziale
chirurgo
specialista
nella
chirurgia
del
fegato
e
dei
trapianti.
Infatti,
si
ipotizzava
la
necessità
di
dover
dividere
anche
il
fegato
delle
due
sfortunate
gemelline.
L’intervento,
al
di
là
degli
aspetti
tecnici,
poneva
un
unico
importante
quesito
di
bioetica.
E’
lecito
condurre
in
sala
operatoria
due
individui
con
attività
cerebrale
integra
avendo
scelto
che
uno
di
essi
dovrà
essere
ucciso
per
prelevare
organi
e/o
tessuti
necessari
alla
sopravvivenza
dell’altro?
E’
lecito
sacrificare
una
vita
umana
per
salvarne
un’altra,
entrare
in
sala
operatoria
con
due
infermi
avendo
già
deciso
di
uscirne
con
un
potenziale
convalescente
ed
un
cadavere?
Oltre
agli
aspetti
tecnici
e
all’eventuale
fede
religiosa
credo
che
la
risposta
non
possa
che
essere
un
fermo
“no”.
Se
la
risposta
fosse
“si”
come
si
potrebbe
dire
“no”
ad
uno
scenario
(questa
volta
immaginario)
del
seguente
tipo.
Due
fratelli
gemelli
monocoriali
di
45
anni,
uno
malato
gravemente
di
cuore
al
53
punto
di
richiedere
con
urgenza
un
trapianto
cardiaco
senza
il
quale
morirà
con
certezza,
l’altro
con
un
apparato
cardiovascolare
sanissimo
ma
affetto
da
un
tumore
cerebrale
che
oltre
a
provocargli
molto
dolore
non
gli
concederà
più
di
60
giorni
di
vita.
Perché
non
utilizzare
il
paziente
con
il
tumore
cerebrale,
che
non
preclude
la
donazione
degli
organi,
come
donatore
“vivente”
per
suo
fratello?
Perché
non
portarli
entrambi
in
sala
operatoria,
prelevare
il
cuore
del
paziente
neoplastico,
sopprimendolo
–
mettendo
così
fine
alle
sofferenze
legate
al
tumore
cerebrale
-‐
e,
al
tempo
stesso,
restituire
la
vita
al
gemello
cardiopatico
con
il
trapianto
di
cuore?
Dal
punto
di
vista
del
trapianto
non
solo
ciò
è
tecnicamente
possibile
ma,
essendo
gemelli
monocoriali,
non
sarà
neanche
necessaria
la
terapia
immunosoppressiva,
non
essendoci
rischio
di
rigetto
e,
quindi,
alcun
ostacolo
per
assicurare
un’ottima
qualità
di
vita
al
trapiantato.
Il
fratello
terminerà
la
sua
vita
solo
60
giorni
prima,
mettendo
fine
alla
propria
sofferenza
fisica
e
felice
di
regalare
la
vita
a
chi
ama.
Perché
quindi
non
farlo?
Ritornando
all’esempio
reale
delle
gemelline
siamesi,
dibattito
pubblico,
una
sorta
di
bioetica
giustificativa
sollevata
dai
media
e,
infine,
l’approvazione
del
Comitato
Etico
dell’Ospedale
Civico
di
Palermo
portarono
ad
eseguire
l’intervento
che
si
concluse
con
la
morte
di
entrambe
le
piccole
pazienti.
Tuttavia
questo
tragico
risultato
è
irrilevante
nella
valutazione
bioetica
necessaria
qui
e
nella
scelta
di
coscienza
che
motivò
la
mia
personale
decisione
di
non
partecipare
né
alla
preparazione,
né
all’intervento
stesso.
Dal
punto
di
vista
pratico
si
tratta
di
un
atto
tecnicamente
possibile
e,
quindi,
ripetibile
con
successo
in
futuro.
Ma
è
accettabile
sacrificare
una
vita,
uccidere
per
salvarne
un’altra?
Se
sappiamo
interpretare
l’Enciclica
Evangelium
Vitae
ci
sembra
che
la
risposta
sia
chiara.
“La
vita
umana
è
sacra
e
inviolabile
in
ogni
momento
della
sua
esistenza”.
Questa
sacralità
della
vita
non
è
un
concetto
riconducibile
all’esclusiva
visione
cristiana,
ma
è
certamente
condivisibile
e
condivisa
anche
da
una
bioetica
a-‐religiosa,
che
si
riconduce
al
valore
della
vita
senza
attribuzioni
di
sacralità
e/o
sopprannaturalità.
Ed
ecco
quindi
l’importanza
della
bioetica
come
materia
non
di
esclusivo
possesso
di
scienziati
o
dotti
che
ne
discutano
in
convegni
specializzati.
Ecco
il
valore
del
coinvolgimento
diretto
dei
singoli
individui,
dei
cittadini
non
addetti
ai
lavori.
Al
tempo
stesso
questo
coinvolgimento
richiede
uno
straordinario
impegno
da
parte
degli
addetti
ai
lavori
che
devono
spiegare
il
significato
e
le
implicazioni
di
un
gesto
chirurgico
o
di
un
farmaco
in
modo
che
tutti
possano
comprenderli
e
pervenire
ad
un’opinione
“informata”.
Nella
società
attuale,
largamente
influenzata
dai
media,
questo
si
realizza
molto
raramente
a
causa
di
un
giornalismo
divulgativo-‐scientifico
spesso
gestito
da
professionisti
privi
della
necessaria
preparazione
e
che
in
simili
circostanze
favorisce
una
“bioetica
giustificativa”,
quasi
di
consumo.
La
responsabilità
sia
degli
scienziati
che
dei
professionisti
della
comunicazione
è
altissima:
una
condotta
superficiale
da
parte
di
entrambi
può
determinare
aspettative
irreali
nella
popolazione
in
generale
e
nei
singoli
pazienti.
Gli
uomini
di
scienza
hanno
il
compito
di
spiegare:
questa
attività
oggi
non
può
essere
più
considerata
semplicemente
secondaria
o
complementare.
D’altra
parte
chi
si
occupa
di
comunicazione
dovrebbe
avere
il
rigore
di
comprendere
e
verificare
il
senso
dell’informazione
che
fornisce.
Probabilmente
entrambe
le
categorie
(scienziati
e
giornalisti)
dovrebbero
partecipare
a
corsi
di
bioetica
che
li
rendano
responsabilmente
consapevoli
del
valore
dell’informazione
nel
contribuire
alla
costruzione
di
una
società
pluralista
preparata
a
decidere
come
utilizzare
le
innovazioni
tecniche.
L’esempio
delle
gemelline
siamesi
può
essere
integrato
da
una
realtà
che
pone
problemi
di
bioetica
gravi
e
spesso
ignorati:
la
compravendita
degli
organi
nella
“donazione”
da
vivente.
Premesso
che
il
prelievo
di
un
organo
da
un
donatore
vivente,
che
faccia
liberamente
questa
generosissima
scelta,
è
oggi
un
intervento
molto
sicuro
nel
trapianto
di
rene
e
relativamente
sicuro
nel
trapianto
di
fegato,
è
necessario
che
questa
tipologia
di
intervento
e
la
metodologia
con
54
la
quale
viene
praticato
siano
costantemente
valutati
dal
punto
di
vista
bioetico[8]
affinché
il
semplice
fatto
della
eseguibilità
dell’intervento
non
divenga
la
motivazione
ad
eseguirlo.
Si
tratta,
infatti,
di
una
prestazione
chirurgica
che
prevede,
in
modo
unico,
l’esecuzione
di
un
intervento,
con
rischi
di
morbilità
e
mortalità,
su
un
soggetto,
il
donatore,
che
proprio
in
quanto
tale
è
assolutamente
sano
e
non
necessita
di
alcun
intervento
chirurgico.
Per
questo
il
meccanismo
di
consenso
informato
e
la
procedura
di
selezione
della
coppia
donatore-‐ricevente
devono
essere
particolarmente
rigidi
e
controllati.
In
questo
modo
si
può
con
un
atto
di
amore
e
generosità
consentire
ad
un
altro
essere
umano
di
recuperare
la
pienezza
della
sua
vita.
Con
preoccupazione
si
assiste,
però,
alla
diffusione
di
questa
pratica
non
solo
come
atto
d’amore
ma
come
opportunità
di
organizzare
un
vero
traffico
d’organi
come
di
recente
documentato
in
un
articolo
scientifico
che
ha
valutato
l’impatto
economico
e
sanitario
della
compravendita
degli
organi
in
India[9].
Su
un
totale
di
305
cittadini
di
Chennai
(una
città
di
6
milioni
di
abitanti,
precedentemente
nota
con
il
nome
di
Madras)
intervistati
dopo
aver
venduto
un
rene,
ben
il
96%
ha
riconosciuto
di
aver
accettato
per
pagare
i
debiti
dai
quali
era
onerato.
Dopo
la
vendita
le
condizioni
economiche
del
“donatore”
sono
peggiorate
e
così
anche
le
sue
condizioni
di
salute.
In
particolare,
il
reddito
annuo
familiare
dell’individuo
che
ha
venduto
un
proprio
rene
è
passato
da
660
dollari
a
420
dollari,
rendendone
ancora
più
grave
l’indigenza.
Negli
ultimi
anni
si
è
assistito
ad
un
fiorire
di
proposte
ed
articoli
su
riviste
scientifiche
occidentali
che
tendono
a
giustificare
la
compravendita
degli
organi,
seppure
in
maniera
regolamentata,
e
ne
teorizzano
l’applicabilità
anche
in
paesi
come
l’Inghilterra[10].
Inoltre,
l’American
Medical
Association
ha
proposto
di
avviare
una
ricerca
su
campioni
di
cittadini
americani
con
lo
scopo
di
testare
in
quale
misura
l’introduzione
di
incentivi
economici
potrebbe
influire
sulla
decisione
di
diventare
donatore
di
organi.
La
comunità
scientifica
si
chiede
dunque
se
sia
eticamente
ammissibile
il
pagamento
degli
organi
destinati
al
trapianto.
Il
quesito
è
rapidamente
rimbalzato
dai
comitati
etici
alle
prime
pagine
di
quotidiani
come
TheWall
Street
Journal
innescando
un
dibattito
che
deve
suscitare
un’analisi
bioetica.
Infatti,
il
passo
compiuto
dall’American
Medical
Association,
seppur
con
grande
e
dichiarata
cautela,
conferma
il
generale
rafforzarsi
del
rapporto
fra
sanità
ed
economia,
salute
e
denaro,
bene
fisico
e
(im)mobile,
bioetica
e
benessere
fisico.
Ritornando
alla
questione
iniziale,
sull’ammissibilità
dal
punto
di
vista
etico
del
pagamento
degli
organi
destinati
al
trapianto,
il
quesito
nasce
da
un’esigenza
concreta,
quella
di
sperimentare
nuove
strade
per
incrementare
la
donazione
degli
organi
e
salvare
la
vita
di
molti
ammalati
che
ogni
giorno
muoiono
in
attesa
di
un
trapianto.
Di
fronte
a
dati
sconfortanti
(15
pazienti
in
attesa
di
un
organo
muoiono
ogni
giorno
negli
Stati
Uniti
ed
almeno
3
in
Italia)
i
comitati
etici
dell’American
Medical
Association
e,
più
di
recente,
quello
dell’American
Society
of
Transplant
Surgeons
hanno
voluto
affrontare
l’enorme
discrepanza
tra
la
“domanda”
(pazienti
in
lista
di
attesa)
e
l’“offerta”
(numero
di
donatori)
ipotizzando
anche
di
ricorrere
al
pagamento
degli
organi.
Tutto
questo
offre
l’opportunità
di
valutare
la
medicina
dei
trapianti
come
paradigma
del
rapporto
sempre
più
complesso
fra
sanità,
bioetica,
politica,
economia
e
religione.
Del
resto
la
medicina,
pur
nella
sua
complessità,
si
presta
a
rappresentare
lo
specchio
di
un’epoca
dal
momento
che
in
nessun
altro
ambito
il
singolo
cittadino
è
il
vero
protagonista.
Inserito
nel
panorama
moderno
di
una
sanità
inevitabilmente
legata
all’economia
e
al
profitto,
il
trapianto
si
presta
bene
a
definire
l’individuo
in
termini
di
“commodity”,
di
materia
(prima
e/o
derivata).
La
disponibilità
di
chirurghi
senza
scrupoli
in
alcuni
paesi
del
mondo
(come
Turchia,
India,
Perù,
ecc.)
ha
consentito
il
nascere
di
un
traffico
illecito
di
organi,
probabilmente
limitato
ai
reni,
che
infanga
sia
la
professione
medica
sia
i
paesi
che
lo
tollerano.
Questo
traffico
di
reni
sfrutta
individui
indigenti
e
disperati
ridotti
a
cedere
a
costi
irrisori
(mille
dollari
a
Bombay,
due
mila
a
Manila,
tre
mila
in
Moldavia,
dieci
mila
in
America
Latina)
un
proprio
organo
che
viene
rivenduto
insieme
all’intervento
chirurgico,
eseguito
clandestinamente,
a
cifre
che
oscillano
fra
55
cento
e
duecento
mila
dollari.
Questo
fenomeno
dovrebbe
essere
considerato
come
un
vero
e
proprio
crimine
verso
l’umanità
e
come
tale
punibile
e
perseguibile
in
ogni
paese
del
mondo.
Chiunque
decida,
anche
se
sofferente,
di
sfruttare
la
povertà
altrui
acquistando
un
organo
a
proprio
beneficio,
si
rende
colpevole
di
un
gravissimo
reato.
Bioetica
e
legislazioni
non
possono
rimanere
estranee
a
questi
problemi
solo
perché
avvengono
in
“altrove”.Viaggi
di
questo
tipo,
documentati
recentemente
da
una
popolare
trasmissione
televisiva
americana
(CBS
“48
Hours”,
11
febbraio
2002),
non
possono
essere
confinati
nell’area
delle
leggende
metropolitane
ma
devono
essere
fermati.
La
legislazione
federale
americana
(National
Organ
Transplant
Act)
afferma
con
chiarezza
che“nulla
di
valore
può
essere
scambiato
per
un
organo
(…)”,
escludendo
qualunque
forma
di
compenso
diretta
o
indiretta,
comprese
quindi
le
ipotesi
appena
citate.
Tuttavia,
va
osservato
che
questa
norma
federale,
se
analizzata
dal
punto
di
vista
strettamente
etico,
viene
già
infranta
nei
casi
di
vendita
di
cellule
o
tessuti.
Il
caso
più
chiaro
è
forse
quello
degli
ovociti
umani,
venduti
regolarmente
a
scopo
riproduttivo
negli
Stati
Uniti,
dove
raggiungono
un
valore
di
mercato
di
circa
settanta
mila
dollari.
Un
altro
esempio
è
rappresentato
dalla
Pennsylvania
dove
è
stata
approvata
una
legge
che
prevede
un
contributo
per
le
spese
del
funerale
di
una
persona
deceduta
nel
caso
in
cui
la
famiglia
acconsenta
alla
donazione
degli
organi.
Da
qui
il
passo
è
breve
verso
meccanismi
che
inducano
alla
riduzione
delle
tasse
della
famiglia,
al
pagamento
della
retta
scolastica
di
un
bambino,
oppure
a
staccare
direttamente
un
assegno
permettendo
che
i
parenti
del
donatore
utilizzino
il
denaro
nel
modo
che
ritengono
più
opportuno.
E
se
si
accetta
il
concetto
di
“denaro
contro
organi”,
che
differenza
fa
che
provengano
da
una
persona
deceduta
oppure
da
un
essere
umano
vivo
e
in
piena
salute?
Potrebbe
anzi
essere
ancora
più
giusto
ricompensare
una
persona
in
vita
che,
vendendo
una
parte
di
sè,
rende
possibile
la
guarigione
di
un
suo
simile.
Oppure
indicare
come
“miglioramento
della
qualità
di
vita”
delle
aberrazioni
come
i
recenti
trapianti
di
ovaio
(Arabia
Saudita)
ed
utero
(Cina)
a
scopo
riproduttivo,
con
organi
prelevati
da
donatori
viventi,
che
non
sono
stati
eseguiti
clandestinamente
ma
hanno
addirittura
ricevuto
spazio
su
prestigiose
riviste
scientifiche
ed
il
plauso
di
alcuni
ricercatori.
Insomma,
l’apoteosi
dell’egoismo
individuale
che
infrange
ogni
regola
etica.
Il
ragionamento
porta
lontano
e
alimenta
un
dibattito
che
va
ben
oltre
la
problematica
del
trapianto
dove,
da
una
parte
si
sostiene
che
non
sia
moralmente
accettabile
lasciare
che
i
pazienti
muoiano
in
lista
di
attesa,
per
cui
se
gli
incentivi
economici
possono
contribuire
a
far
aumentare
le
donazioni
ben
vengano;
dall’altra,
invece,
si
pensa
che
esistano
dei
limiti
invalicabili
e
che
il
corpo
umano
non
possa
essere
considerato
come
una
merce,
con
un
prezzo
fissato
per
la
vendita.
Potremmo
allora
considerare
etico
e
moralmente
accettabile
un
sistema
in
cui
le
donazioni
aumentano
ma
dove,
a
conti
fatti,
sono
i
poveri
a
“donare”
mentre
i
più
ricchi
si
possono
accontentare
di
ricevere?
La
verità
è
che
qualunque
strada
che
preveda
una
forma
di
compenso
economico
deve
essere
evitata
perché
porta
ad
una
allocazione
iniqua
degli
organi,
basata
sulla
possibilità
di
pagare
e
non
sulla
reale
urgenza
medica
o
priorità
in
lista
di
attesa.
Idee
di
questo
tipo
mettono
in
discussione
la
dignità
di
ognuno
di
noi
e
rischiano
di
affrancare
una
pericolosa
sovrapposizione
tra
sanità
e
mercato[11-‐13].
Evitiamo
tuttavia
inutili
ingenuità,
è
indubbio
che
il
legame
tra
sanità
e
regole
di
mercato
esiste
e
non
si
può
negare
che
le
leggi
dell’economia
debbano
integrare
la
gestione
sanitaria
ma
questo
deve
avvenire
senza
sorvolare
sui
confini
di
bioetica
che
la
sanità
deve
rispettare.
DALLA
COMPRAVENDITA
DEGLI
ORGANI
ALLE
CLINICHE
PER
IL
SUICIDIO
Un
ben
documentato
e
recentissimo
articolo[14]
descrive
in
modo
agghiacciante
le
ultime
ore
di
vita
di
una
signora,
Marie
Hascoet,che
si
è
recata
da
Parigi
a
Zurigo
per
essere
sottoposta
alla
pratica
(ovviamente
a
pagamento)
di
suicidio
assistito.
L’organizzazione
svizzera
“Dignitas”
dal
56
1998
ad
oggi
ha
assistito
circa
140
individui
che
si
sono
recati
a
Zurigo
per
mettere
fine
alla
propria
esistenza
in
maniera
legale.
Si
tratta
di
cittadini
americani,
inglesi,
egiziani,
israeliani,
tedeschi
e
di
altri
paesi
ancora
che
giungono
in
Svizzera,
firmano
un
consenso
informato
(chiamato
“Declaration
of
Suicide”)
e
vengono
aiutati
a
suicidarsi
in
una
clinica
specializzata.
Richieste
motivate
da
malattie
terminali
ma
anche
sulla
base
di
invalidità
come
il
caso
di
un
musicista
sofferente
di
sordità.
Il
suicidio
assistito
viene
eseguito
utilizzando
una
combinazione
di
farmaci
(antiemetici
e
barbiturici)
secondo
un
preciso
protocollo
farmacologico
coordinato
da
personale
medico
ed
infermieristico
specializzato.
Il
tutto
viene
gestito
con
l’accuratezza
che
potrebbe
essere
tipica
di
una
struttura
di
eccellenza
che
accoglie
pazienti
che
si
affidano
alle
risorse
più
avanzate
della
ricerca
medica
per
potersi
curare
e
salvare
la
propria
vita.
Le
cartelle
cliniche
vengono
preventivamente
inviate
ed
esaminate
a
Zurigo;
successivamente
si
convoca
il
“paziente”
per
una
accurata
visita
medica
che
confermi
“l’indicazione
al
suicidio”;
questi,
infine,
ritorna
nella
propria
città
per
“sistemare
le
proprie
cose”
ed
acquistare
il
biglietto
di
sola
andata
per
il
proprio
ultimo
viaggio.
CONCLUSIONI
Possono
la
ricerca
medica
e
la
tecnologia
oggi
a
nostra
disposizione
essere
utilizzate
allo
scopo
di
mutilare
soggetti
perché
altri
ne
possano
acquistare
gli
organi
oppure
per
assistere
chi
ha
deciso
di
porre
fine
alla
propria
esistenzao,
addirittura,per
sopprimere
un
individuo
in
sala
operatoria
per
salvarne
un
altro,
o
per
pratiche
come
il
trapianto
di
utero
e/o
ovaio,
che
mettono
a
rischio
la
vita
di
una
donna,
solo
perché
forme
di
bioetica
giustificativa
insieme
a
pressioni
sociali
ed
economiche
sembrano
suggerirlo?
Quale
è
il
limite
che
dobbiamo
porci
come
individui,
membri
di
una
società
pluralista,
nell’utilizzare
gli
strumenti
che
la
scienza
ci
pone
a
disposizione
e
quali
sono
invece
le
caratteristiche
di
una
visione
cristiana
di
questi
complessi
problemi?
E’
difficile
conciliare
integralmente
entrambe
le
esigenze
ma
è
sicuramente
possibile
individuare
un
denominatore
comune.
Chi
crede
nella
vita
eterna
e
vive
nella
fede
ha
indubbiamente
una
visione
diversa
ed
anche
un
conforto
differente
nel
valutare
le
situazioni
che
l’esistenza
pone
a
ciascuno.
Tuttavia,
il
rispetto
della
sacralità
della
vita
e
della
dignità
degli
individui
non
è
patrimonio
esclusivo
dei
cristiani.
Se
per
chi
crede
in
Cristo
“l’uomo
è
chiamato
a
una
pienezza
di
vita
che
va
ben
oltre
le
dimensioni
della
sua
esistenza
terrena,
poiché
consiste
nella
partecipazione
alla
vita
stessa
di
Dio”[15],
il
valore
incomparabile
della
persona
umana
è
certamente
patrimonio
comune
di
tutti
gli
appartenenti
alla
società,
o
almeno
dovrebbe
esserlo,
al
di
là
di
qualunque
fede.
A
questo
elemento
è
forse
più
opportuno
ricondursi
perché
si
possano
studiare
ed
applicare
nella
società
principi
e
leggi
che
proteggano
la
vita
umana
ed
impediscano
la
sua
soppressione,
mercificazione
o
la
sua
riduzione
ad
un
bene
di
consumo.
Questo
obiettivo
può
essere
raggiunto
da
tutti
coloro
che
in
una
società
pluralista
abbiano
a
cuore
i
valori
essenziali
della
vita.
Vi
sono
certamente
aree
dove
la
ricerca
medica
pone
quesiti
bioetici
nei
quali
è
difficile
trovare
pieno
accordo
tra
tutte
le
componenti
sociali,
ma
anche
in
queste
aree
deve
esservi
un
costante
impegno
a
seguire
i
progressi
della
ricerca
ed
a
regolamentarne
l’uso.
Non
dovrebbe
accadere
(come,
invece,
assai
spesso
si
verifica
anche
nei
paesi
più
avanzati)
che
la
scienza
individui
nuovi
percorsi
che
vengono
lasciati
senza
normative
per
anni.
L’impegno
in
questo
settore
richiede
investimento
intellettuale
con
apposite
commissioni
di
esperti
e
di
risorse
affinché
cittadini
e
parlamenti
possano
in
maniera
informata
partecipare
al
dibattito
e
decidere
quale
percorso
seguire.
Probabilmente,
il
percorso
più
sciocco
e
pericoloso,
per
laici
e
cristiani
è
quello
di
dimenticare
queste
esigenze
etiche
come
parte
essenziale
della
nostra
esistenza.
57
RINGRAZIAMENTI
Si
ringraziano
il
Prof.
Karl
Golser
dello
Studio
Teologico
Accademico
di
Bressanone
e
il
Prof.
Howard
R.
Doyle
dell’Universita`
di
Pittsburgh
per
l’aiuto
nella
revisione
critica
del
testo.
Un
sentito
ringraziamento
alla
Dott.ssa
Claudia
Cirillo
ed
alla
Dott.ssa
Alessandra
Cattoi
per
l’aiuto
ricevuto
nella
stesura
del
testo.
[1]
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1988.
[2]
Lettera
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del
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Giovanni
Paolo
II
ai
vescovi,
ai
presbiteri
e
ai
diaconi,
ai
religiosi
e
alle
religiose,
ai
fedeli
laici
e
a
tutte
le
persone
di
buona
volontà
sul
valore
e
l’inviolabilità
della
vita
umana,
Città
del
Vaticano,
25
maggio
1995,
2,
90.
[3]
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[4]
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[5]
Lettera
Enciclica
Evangelium
Vitae,
1,
15.
[6]
Concilio
Vaticano
II,
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Gaudium
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14,
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[7]
Lettera
Enciclica
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3.
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2002.
[15]
Lettera
Enciclica
Evangelium
Vitae,
2.
58
ANTONIO
BATTRO
ALLA
SCOPERTA
DEL
CERVELLO
La
rivoluzione
digitale
ha
“messo
a
nudo”
il
cervello
umano
permettendone
lo
studio
e
nuovi
interventi
su
di
esso.
Infatti,
le
nuove
tecnologie
di
“brain
immagining”
sono
il
risultato
diretto
delle
potenzialità
sempre
maggiori
dei
computer
che
permettono
non
solo
una
visione
dettagliata
dell’anatomia
del
cervello
in
vivo,
ma
anche
della
sua
composizione
chimica
così
come
l’identificazione
dei
cambiamenti
funzionali
a
carico
della
complessa
rete
neuronale
durante
le
più
svariate
funzioni
percettive,
motorie
e
cognitive
(Posner
&
Raichle,
1994;
Spelke,
2002).
Inoltre
è
oggi
possibile,
grazie
ad
alcune
sperimentazioni
molto
ben
controllate,
“dedurre
i
comportamenti
dalle
immagini
funzionali
del
cervello”
(Dehaene
et
al,
1998).
Queste
potenzialità
si
potrebbero
un
giorno
estendere
a
contesti
più
ampi,
dando
così
luogo
a
questioni
etiche
rispetto
al
problema
della
privacy
(“lettura
della
mente”).
In
analogia
con
il
“world
wide
web”
(www),
potremmo
parlare
del
“brain
wide
web”
(bww)
formato
dall'insieme
molteplice
di
comparti
corticali
e
sottocorticali
(Battro,
2002),
alcuni
dei
quali
sono
molto
stabili
e
modulari
mentre
altri
più
flessibili
e
plastici,
geneticamente
programmati
attraverso
l’evoluzione
biologica
della
nostra
specie,
o
strutturati
epigeneticamente
nell’evoluzione
culturale
e
nel
percorso
educativo
del
singolo
individuo
(Huttenlocher,
2002).
Le
nuove
neuroscienze
cognitive
ci
permettono
quindi
di
mettere
a
punto
nuovi
strumenti
per
conoscere
meglio
e
migliorare
le
nostre
capacità
di
apprendimento.
Questo
è
lo
scopo
e
l’obiettivo
della
“neuroeducazione”.
NEURO-‐PLASTICITÀ
La
scoperta
forse
più
importante
della
neuroscienza
contemporanea
è
legata
alla
sorprendente
plasticità
neuronale
del
cervello
umano
(Buonmano
&
Merzenich,
1998,
Grafman
&
Litvan,
1999).
Sappiamo
che
il
cervello
umano
di
un
individuo
adulto
produce
costantemente
neuroni.
Come
afferma
Fiona
Doetsch
“rimaniamo
con
l’idea
di
un
cervello
dinamico,
in
cui
i
ricordi
si
formano
probabilmente
dalla
formazione
di
nuove
cellule,
e
con
una
latente
potenzialità
autorigenerativa”
(Doetsch,
2002,
Doetsch,
F
&
Sharff,
C.
2001).
Una
prova
di
questa
affermazione
è
la
straordinaria
riabilitazione
di
alcuni
bambini
che
hanno
subito
l'emisferectomia,
i
quali
dimostrano
come
“metà
cervello
sia
abbastanza”
per
avere
una
buona
qualità
di
vita
nel
quotidiano
e
a
scuola
(Vargha-‐Khadem
et
al,1997,
Battro,
2000).
Non
conosciamo
ancora
bene
i
meccanismi
compensatori
coinvolti
in
questo
processo
e
questi
casi
notevoli
costituiscono
una
sfida
per
la
costruzione
di
modelli
standard
di
mente/cervello.
NEURO-‐IMPIANTI
E
NEURO-‐TRAPIANTI
Il
primo
neuro-‐impianto
ottenuto
con
successo
della
medicina
moderna
è
stato
l’impianto
cocleare,
una
protesi
digitale
connessa
al
nervo
uditivo,
che
ha
cambiato
la
vita
e
l’educazione
di
migliaia
di
bambini
con
problemi
di
udito
(Giraud
et
al,
2001).
Questo
è
un
buon
esempio
di
come
59
la
neuroeducazione
può
essere
applicata
in
campo
umanitario
grazie
all’utilizzazione
della
più
avanzata
biotecnologia.
Nel
futuro
vedremo
più
interventi
diretti
non
solo
di
neuroimpianti
di
questo
tipo
ma
anche
di
neurotrapianti
sul
cervello
danneggiato.
In
un
recente
libro
che
prende
in
esame
l’argomento
(Freed,
2000)
si
mostra
come
l’impianto
di
cellule
staminali
possa
essere
una
valida
alternativa
all’impianto
di
tessuti
fetali,
ad
esempio
nel
cervello
di
pazienti
con
morbo
di
Parkinson,
ma
dobbiamo
ancora
comprendere
meglio
il
meccanismo
di
differenziazione
delle
cellule
staminali
per
produrre
nuovi
neuroni
dopaminergici.Sono
stati
anche
studiati
altri
casi
di
possibile
intervento
sul
cervello
trapiantando
cellule
di
animali
ed
esseri
umani,
creando
così
grandi
aspettative
nell'ambito
della
prevenzione
e
cura
delle
malattie
degenerative.
NEUROINFORMATICA
Il
cervello
è
un
insieme
di
processi
analogici
e
digitali
in
costante
interazione.
Ci
possiamo
aspettareche
un
giorno
la
“neuroinformatica”
fornirà
uno
strumento
per
il
controllo
centrale
diretto
di
un
"mouse
virtuale"
nel
cervello,
una
sorta
di
“strumento
per
tradurre
il
pensiero”
(Kubler
et
al,
1999).
Alcuni
ricercatori
hanno
impiantato
degli
speciali
elettrodi
nella
corteccia
di
tre
pazienti,
affetti
da
sindrome
di
Locked-‐
in;
questi
individui
sonocoscienti
e
con
funzioni
cognitive
intatte
manon
possono
muoversi
o
parlare.
Un’interfaccia
computer
-‐
cervello,
BCI,
permette
ai
pazienti
di
muovere
un
cursore
nello
schermo
di
un
computer
quando
stanno
pensando
di
muovere
il
cursore
verso
un
obiettivo
(Kennedy
et
al.,
2000).
L’aumento
del
tasso
di
eccitazione
dei
neuroni
impiantati
muove
il
cursore
da
sinistra
a
destra
nello
schermo
e
la
velocità
del
movimento
è
proporzionale
al
tasso
di
eccitazione
dei
neuroni.
Per
“controllare
con
la
mente”
questo
spostamento
(per
dirigere
il
cursore)
il
paziente
deve
sviluppare
una
specifica
capacità
analogica
per
raggiungere
le
differenti
icone
che
produrranno
l’emissione
di
una
parola
sintetizzata,
o
per
indicare
la
lettera
target
che
si
vuole
scrivere.
La
capacità
digitale,
“the
clic
option”
è
automaticamente
attivata
da
un
differente
treno
d'impulsi
dalla
corteccia
(che
inoltre
fornisce
un
chiaro
feedback
uditivo
al
paziente).
Gli
autori
si
propongono
ora
di
fornire
ai
pazienti
l’accesso
ad
alcuni
“controllers”
ambientali
e
ad
Internet.
Questo
compito
umanitario
apre
anche
nuove
prospettive
per
lo
studio
dei
cambiamenti
plastici
che
induce
la
“corteccia
cursore”,
come
riferiscono
gli
autori,
in
questi
casi
così
gravi
e
drammatici
(vedi
anche
Taylor
et
al.
2002,
Koning
&
Verschure,
2002).
IL
LINGUAGGIO
ED
IL
CERVELLO
In
un
mondo
globalizzato
la
possibilità
di
raggiungere
milioni
di
persone
che
parlano
centinaia
di
lingue
è
una
delle
più
grandi
sfide
dell’educazione
contemporanea.
La
traduzione
automatica
diventerà
uno
strumento
sempre
più
importante
nella
società
digitale
che
collega
il
nostro
pianeta.
D’altra
parte,
ci
sono
chiare
evidenze
che
il
cervello
bilingue
mostra
differenze
strutturali
e
funzionali
rispetto
al
cervello
monolingue,
fatto
che
può
giustificare
alcuni
tipi
d’interventi
precoci
nell’insegnamento
del
linguaggio
in
una
società
globale
(Perani
et
al.
1996,
Paulesu
et
al.,
2000).
Il
linguaggio
umano
può
anche
essere
indipendente
dal
discorso
orale
e
sappiamo
che
il
linguaggio
scritto,
per
esempio,
che
è
una
nuova
modalità
di
comunicazione,
è
organizzato
nel
cervello
in
modi
che
sono
simili
a
quelli
del
linguaggio
parlato
(
Hickok,
Beluggi
&
Klima,
2002;
Newman
et
al.,
2002;
Petitto
et
al.,
2001).
Il
Bimodalismo
(linguaggio
orale
/scritto)
ha
oggi
un
ruolo
importante
nella
vita
di
molti
individui
sordi.
L’attuale
tendenza
nella
neuroeducazione
è
di
fornire
un
“piano
universale”
per
gli
strumenti
educativi
(digitali)
e
di
utilizzare
diverse
strade
parallele
per
superare
i
più
frequenti
60
ostacoli
nei
processi
di
apprendimento,
come
la
dislessia,
malattie
di
deficit
nell’attenzione,
ecc.
(Rose
&
Meyer,
2002).
Riassumendo,
la
crescente
di
interazione
dei
neuroni
con
gli
strumenti
di
trattamento
delle
informazioni,
in
un
ampio
spettrodi
casi
apre
nuovi
campi
d'indagine
e
dà
speranza
a
molti
esseri
umani
di
tutte
le
età
e
condizioni,
dotati
o
handicappati,
ma
implica
anche
l’insorgere
di
sempre
più
numerosi
problemi
etici
riguardanti
le
procedure,
gli
interventi,
e
gli
obiettivi
delle
nuove
tecnologie.
61
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159-‐182.
62
ADRIANO
BOMPIANI
PREMESSA
Il
contributo
che
viene
presentato
al
Convegno
“Etica
della
ricerca
biomedica:
per
una
visione
cristiana”
-‐
IX
Assemblea
Generale
della
Pontificia
Accademia
Pro
Vita
-‐
ha
per
titolo
LA
RICERCA
SPERIMENTALE
IN
AMBITO
BIOMEDICO:
AMBITI,
METODOLOGIE,
CRITERI
DI
VALIDITA’
DEI
PROGETTI
DI
RICERCA.
Sembra
quasi
pleonastico
iniziare
sottolineando
che
il
mondo
contemporaneo
avverte
come
“necessaria”
una
sempre
più
avanzata
ricerca
biomedica,
intesa
come
fattore
di
progresso
sia
culturale
che
sociale,
per
conseguire
anzitutto
migliori
possibilità
diagnostiche
e
terapeutiche.
La
finalità
pratica
di
questo
sforzo
di
ricerca,
centrato
sulla
“cura”-‐scopo
fondamentale
della
medicina
-‐è
universalmente
condivisa,
anche
se
non
è
l’unica.
Che
sia
“aspirazione
di
ogni
malato
l’essere
curato
efficacemente
e
tempestivamente,
senza
effetti
collaterali”
è
un’osservazione
di
C.
Foster
[1]
assolutamente
veritiera,
come
del
resto
ciò
che
segue:
“Ogni
medico
dovrebbe
realizzare
questo
preciso
obiettivo:
ciò
che
può
verificarsi
talvolta,
ma
raramente
in
modo
così
soddisfacente”.
Certamente
non
è
lecito
disarmare
in
questo
sforzo.
Anche
se
non
si
ottengono
guarigioni
definitive
oggi
si
possono
praticare
terapie
molto
efficaci
per
alleviare
la
condizione
del
paziente
pur
ammettendo
che
lo
specifico
scopo
della
ricerca
medica
dovrebbe
essere
la
sempre
più
perfetta
“prevenzione
delle
malattie”,
oltre
che
la“guarigione
degli
stati
morbosi”.
Obiettivo
fondante
quello
“pratico”,
si
diceva,
ma
non
unico.
La
ricerca
biomedica
produce
un
aumento
delle
conoscenze,
che
ha
valore
in
sé
stesso
e
caratterizza
quella
progressiva,
inarrestabile
ma
anche
infinita
(non
delimitabile)
conquista
di
nozioni
e
di
dati
che
contraddistingue
la
scienza
moderna
e
ne
caratterizza
la
espansione.
Viene
subito
messa
in
evidenza
la
particolare
“responsabilità”
del
ricercatore
in
questa
dinamica,
sulla
quale
si
ritornerà
brevemente
nelle
conclusioni.
In
chiave
di
sociologia
della
scienza,
si
dovrebbe
infine
collegare
la
cultura
tecnico-‐metodologica
delle
pratiche
della
ricerca
scientifica
in
medicina
al
concetto
(sociologico)
di
interesse,
come
avviene
in
tutti
i
settori
della
scienza.
Infatti
–
si
afferma
-‐
poiché
la
conoscenza
nel
mondo
reale
è
destinata,
in
larga
misura,
all’uso,
e
non
alla
semplice
contemplazione,
in
questo
concetto
confluiscono
non
solo
i
già
accennati
interessi
degli
utenti
(reali
o
potenziali)
ad
essere
meglio
curati,
ma
anche
gli
interessi
propri
dei
ricercatori
(economici,
di
prestigio,
di
carriera,
ma
anche
i
sentimenti
di
altruismo
od
all’opposto
di
egoismo,
ecc..),
ed
anche
quelli
di
coloro
che
forniscono
loro
i
mezzi
e
gli
strumenti
della
ricerca
(interessi
economici,
potere
di
mercato,
ecc..).
In
questo
lavoro,
si
cercherà
di
puntualizzare
alcuni
di
questi
obiettivi,
nel
momento
in
cui
confluiscono
in
“progetti
di
ricerca”.
1.
Scienze
biomediche,
comunità
scientifica,
comunità
civile
Come
è
noto,
il
processo
evolutivo
della
scienza
è
affidato
alla
comunità
scientifica,
cioè
a
quell’insieme
di
operatori
che
a
vario
livello
di
preparazione,
azione
e
responsabilità
lavorano
nelle
strutture
della
ricerca
e
per
gli
obiettivi
della
ricerca.
Processo
evolutivo
della
conoscenza
e
ricerca
sono
fra
loro
solidali;
soprattutto
nelle
scienze
applicate,
la
ricerca
sostenuta
da
una
63
appropriata
tecnologia
è
il
motore
indispensabile
dell’evoluzione
della
conoscenza,
e
in
definitiva
della
scienza.
La
medicina,
pur
con
la
suapeculiarità,
condivide
questa
dinamica.
Il
binomio
indicato,
in
cui
il
termine
“scienza”
nel
significato
costitutivo
della
parola
allude
alla
pienezza
della
conoscenza
esperibile
in
un
determinato
momento
storico,
costituisce
con
l’altro
termine
–
la
“ricerca”
–
una
alleanza
che
vale,
sia
che
si
accetti
una
progressiva
definizione
del
rapporto
fra
una
realtà
oggettivamente
esistente
e
la
conoscenza
a
noi
possibile
della
stessa
realtà
–
secondo
il
quale
le
strutture
logiche
riflettono
aristoteliche
strutture
ontologiche
–
sia
che
si
accolgano
rinnovate,
di
recente,
concezioni
costruttivistiche
e
soggettivistiche
di
ispirazione
platonica,
secondo
le
qualila
realtà
è
un’astrazione,
la
scienza
è
un’insieme
di
paradigmi
mutevoli,
elaborati
dagli
scienziati
nel
tentativo
di
dare
progressiva
consistenza
al
processo
mentale
della
conoscenza.
Ciò
premesso,
il
rapporto
che
intendiamo
approfondire
in
questo
breve
contributo
potrebbe
proporsi
–
genericamente
-‐
come
relazione
fra
il
ricercatore
biomedico
da
un
lato
e
la
società
nel
suo
complesso
dall’altro;
tuttavia
è
subito
necessario
–
nel
campo
che
esaminiamo
-‐
operare
una
distinzione
fra
quei
ricercatori
che
lavorano
per
la
salute
in
strutture
che
non
hanno
diretto
rapporto
con
il
paziente,
ed
i
ricercatori
che
operano
sul
paziente
o
meglio
(come
oggi
si
preferisce)
con
il
paziente
(ricercatore
biomedico-‐clinico)[2].
Soprattutto
in
ques’ultimo
caso,
il
rapporto
fra
scienza-‐sperimentazione
biomedica
da
un
lato
e
persona
umana,
dall’altro,
si
configura
come
“dialogo”
fra
un
esperto,
dotato
di
propri
diritti
professionali
ma
anche
di
doveri
ed
un
essere
umano,
titolare
di
diritti
inalienabili
fra
cui
anche
l’omnicomprensivo
“diritto
alla
tutela
della
salute”.
Per
evidenti
motivi,
le
considerazioni
che
presenterò
in
questa
circostanza
saranno
limitate
a
tale
secondo
contesto.
In
definitiva:
nel
mondo
contemporaneo
ed
in
quello
futuro
dobbiamo
attendere
sempre
più
ricerca
biomedica,
e
sempre
più
ricerca
avanzata,
tecnologicamente
progredita,
con
espansioni
sempre
più
ardimentose
verso
le
strutture
fondamentali
della
vita:
geni
e
molecole,
delle
quali
si
vuole
non
solo
conoscere
la
funzione
naturale,
ma
–
talvolta
–
modificare
l’azione
per
desideri
e
scopi
sostenuti
dalla
volontà
personale.
Ma
la
società
non
ha
accettato
del
tutto
passivamente
questa
evoluzione.
Sempre
più
allarmata
da
episodi
che
travalicano
il
sentimento
etico
comune
ed
offendono
la
dignità
dell’uomo,
aumenta
la
pressione
emotiva
dell’opinione
pubblica,
ma
anche
la
vigilanza
giurisprudenziale
e
legislativa
(soprattutto
in
sede
internazionale)
delle
autorità
sanitarie
per
disciplinare
le
attività
di
ricerca,
soprattutto
ove
queste
recano
rischio
di
danno
od
offesa
alla
persona
umana,
con
risultati
peraltro
non
del
tutto
soddisfacenti.
[3]
Sono
state
individuate
nuove
“strutture”,
più
vicine
alla
realtà
operativa
rispetto
ai
tribunali
ed
ai
Parlamenti,
per
dare
consistenza
preventiva
alla
tutela
del
soggetto
umano
sottoposto
a
sperimentazione.
I
Comitati
Etici
(C.E.)
si
presentano
in
questo
contesto
come
luogo
di
dibattito
necessario,
punto
di
valutazione
“esterna”,
di
garanzia
e
di
armonizzazione
fra
le
azioni
progettate
dal
ricercatore
biomedico-‐clinico
e
le
esigenze
di
salvaguardia
dei
diritti
del
paziente.
2.
Libertà
della
scienza,
libertà
della
ricerca
e
“progetti
di
ricerca
biomedica”
I
Comitati
etici,
per
loro
principale
e
naturale
funzione,
si
trovano
di
fatto
a
decidere
su
“progetti
di
ricerca”,
e
cioè
sul
concreto
esercizio
della
libertà
di
ricerca
in
un
definito
e
per
lo
più
ristretto
ambito
delle
scienze
biomediche,
di
fronte
a
domande
che
il
ricercatore
si
è
posto
e
che
presenta
alla
comunità
scientifica
come
degne
per
essere
affrontate.Si
offre,
subito,
un
quesito
generale:
64
la
libertà
della
scienza
–
di
cui
parla
anche
la
nostra
Costituzione
(come
del
resto
alcune
delle
altre
costituzioni
coeve)
–sino
a
che
punto
coincide
con
la
libertà
della
ricerca?
Domanda
importante,
alla
quale
si
può
subito
rispondere
in
termini
etici
generali
affermando
la
necessità
che
anche
la
ricerca
condivida
l’esigenza
di
una
integrazione
antropologica
(v.
ad
es.
Sgreccia,
1994)[4]
ed
in
termini
giuridici,
affermando
che
ogni
principio
costituzionale
deve
accordarsi
con
altri
principi
costituzionali.
Domanda
intrinsecamente
fondamentale
nel
caso
delle
ricerche
biomediche,
essendo
queste
rivolte
non
alla
natura
inanimata
ma
ad
un
essere
vivente
caratterizzato
da
particolare
dignità.
Appare
evidente
già
all’intuizione
etico-‐giuridica
di
senso
comune
che
non
possono
considerarsi
equivalenti
fra
loro
progetti
di
ricerca
che
portino
giovamento
e
progetti
che
arrechino
danno
o
grave
rischio
di
danno
al
soggetto
umano
(vale
l’antico
aforisma
“primum
non
nocere”).
Ciò
crea
una
limitazione
alla
libertà
della
ricerca?
La
libertà
scientifica
è
,
oggi,
interpretata
(come
peraltro
altre
libertà)
nella
proiezione
dei
principi
di
individualismo,
pluralismo
e
universalismo
–
che
(come
è
noto)
–
presentano
significati
diversi
nei
diversi
contesti
in
cui
essi
vengono
esaminati
ed
in
rapporto
all’orientamento
culturale
e
morale
dello
stesso
valutante[5].
Coltivare
i
valori
della
libertà
scientifica
non
esonera
lo
scienziato-‐sperimentatore
biomedico
dai
doveri
generali
di
appartenente
alla
comunità
morale
degli
uomini;
se
mai
ne
esalta
la
responsabilità
e
dovrebbe
portare
a
gradi
elevati
di
prudenza
ed
all’autocontrollo
nell’esercizio
del
proprio
lavoro
specialistico.
Il
fatto
che
quasi
tutte
le
Costituzioni
dei
Paesi
più
avanzati
conferiscano
singolare
rilievo
in
termini
di
protezione
giuridica
alle
attività
della
ricerca
scientifica
è
indice
non
di
privilegio,
ma
della
particolare
dignità
riconosciuta
a
chil’esercita
con
responsabilità[6].
E’
ben
noto,
peraltro,
che
al
di
là
di
questi
principi
etici
che
si
applicano
al
lavoro
del
ricercatore,
esistono
ormai
ben
chiare
norme
di
tutela
giuridica
del
soggetto
sottoposto
alla
ricerca[7].
Una
seconda
domanda
(la
risposta
alla
quale
già
a
prima
vista
sembra
“scontata”)
consiste
nel
chiedersi
il
perché
anche
nella
ricerca
e
sperimentazione
biomedica
si
adottino
progetti
basati
su
espressi,
specifici
“protocolli”.
Questo
criterio
risponde
al
preciso
requisito
della
metodologia
scientifica
che
–
in
generale
–
si
è
sviluppata
nel
corso
dell’
‘800
ed
affermata
nella
prima
metà
del
secolo
XX,
quanto
meno
per
il
grande
raggruppamento
delle
cosidette
“scienze
sperimentali”,
fra
le
quali
–
sia
pure
con
le
sue
specificità
–
si
è
posta
anche
la
medicina.
Metodologia
che,
in
sintesi,
si
svolge
nella
direzione:
problemi-‐
teorie-‐critiche
nel
binomio
congettura-‐confutazione.
Di
recente,
D.
ANTISERI(2001)[8],e
G.FEDERSPIEL
e
coll.
(1999
e
2001)[9]
hanno
richiamato
questa
evoluzione,
con
i
riferimenti
all’applicazione
in
campo
medico,
ed
a
questi
interessanti
articoli
si
rinvia
il
lettore
unitamente
all’insieme
della
pregevole
letteratura
epistemologica
medica
italiana.
I
C.E.
con
l’esame
accurato
dei
“protocolli
di
ricerca”
che
vengono
presentati
dai
ricercatori,
agiscono
come
partecipi
al
giudizio
preventivo
della
qualità
intrinseca
della
ricerca,
e
in
ultima
analisi
operano
a
beneficio
dello
stesso
ricercatore,
allorché
si
esprimano
con
giustizia,
serenità
ed
obiettività,
non
solamente
scartando
(o
chiedendo
la
revisione
dei)
protocolli
che
offrano
rischi
eccessivi
per
il
soggetto
che
si
sottopone
alla
sperimentazione
ma
anche
separando
i
protocolli
dotati
di
razionalità
scientifica
da
quelli
sospetti
di
improvvisazione
o
–
peggio
–
di
frode.[10]
Si
è
molto
discusso,
in
sede
nazionale
ed
internazionale,
se
il
giudizio
della
qualità
scientifica
del
protocollo
spetti
ad
un
unico
organismo
che
assicuri
anche
il
giudizio
etico
dello
stesso,
o
sia
preferibile
mantenere
distinti
i
titolari
delle
due
funzioni.
65
Anche
la
recente
convenzione
del
Consiglio
d’Europa
sui
diritti
umani
e
la
biomedicina
(Convenzione
di
Oviedo,
1997)
non
prende
posizione
al
riguardo,
lasciando
comunque
al
diritto
interno
la
facoltà
di
scelta
fra
modello
unico
e
modello
duplice.
Un
giudizio
sulla
validità
scientifica
e
sull’apporto
innovativo
del
proposto
protocollo
di
ricerca
è
in
ogni
caso
ribadito,
come
condizione
necessaria
per
l’approvazione
del
protocollo
stesso,anche
nel
testo
del
Protocollo
addizionale
sulla
ricerca
alla
Convezione
di
Oviedo
–
in
via
avanzata
di
redazione
-‐
secondo
il
dettato
ben
noto
che
“nessuna
ricerca
è
eticamente
valida
se
non
presenta
in
ogni
caso
intrinseche
qualità
scientifiche”.
Naturalmente,
l’esame
della
praticabilità
scientifica
ed
etica
della
ricerca
proposta
è
molto
più
complesso,
come
verrà
chiarito
proseguendo
il
discorso
sul
tema
che
mi
è
stato
affidato.
3.
Ricerca
e
sperimentazione.
Nel
campo
che
ci
interessa,
queste
due
parole
–
dal
significato
polisemantico
–
vengono
spesso
utilizzate
in
modo
intercambiabile.
Secondo
l’Enciclopedia
Italiana,
per
ricerca
–
con
significato
più
circoscritto
rispetto
alla
generica
“attività
di
ricercare,
trovare,
scoprire
qualcuno
o
qualcosa”
–
si
dovrebbe
intendere
“l’insieme
degli
studi
e
delle
indagini
che
si
svolgono
nell’ambito
delle
discipline
scientifiche
o
umanistiche
per
individuare
documenti
o
fonti,
ricostruire
eventi
o
situazioni,
scoprire
fenomeni,
processi,
regolarità,
leggi
etc.”.
Ricerca,
più
esattamente,
è
ogni
attività
di
studio
che
si
svolga
in
modo
sistematico
e
non
casuale
proponendosi
come
fine
l’acquisizione
di
nuove
conoscenze:
si
dice
scientifica,
allorchè
è
svolta
con
intendimenti
e
metodi
scientifici.
La
medesima
Enciclopedia
definisce
il
termine
“sperimentazione”
come
l’attività
dello
sperimentare
(derivazione
dal
tardo
latino
experimentum):
e
cioè
“applicare,
usare,
mettere
alla
prova
qualche
cosa
per
accertare
e
verificarne
le
capacità
funzionali,
la
validità,
l’efficacia,
il
rendimento
ecc…”.Nell’ambito
della
ricerca
scientifica
significa“il
procedere
secondo
le
norme
del
metodo
sperimentale”.
A
rigor
di
termini,
anche
nella
ricerca
biomedica
si
dovrebbe,
nell’usare
i
termini
in
esame,
distinguere
fra
la
genericità
e
la
onnicomprensività
della
voce
ricerca
esercitata
dalla
medicina
biologica,
consistente
nell’osservazione
delle
caratteristiche
fisiologiche
e
patologiche
dell’organismo
umano
e
la
voce
sperimentazione,
più
adeguata
ad
esprimere
modificazioni
indotte
ad
arte
sull’organismo
(sano
o
malato)
per
derivarne
informazioni
sia
valide
alla
“conoscenza
in
se
stessa”
della
reattività
organica,
sia
utili
all’attività
applicativa
diagnostica
e
terapeutica.
E’
evidente,
altresì,
che
in
rapporto
alla
possibile
generizzabilità
delle
informazioni
[11],
il
loro
significato
può
non
rimanere
circoscritto
al
singolo
individuo
dal
quale
esse
sono
derivate,
ma
può
estendersi
ad
una
serie
di
individui
costituenti
una
categoria,
nella
quale
si
inserisce
–
per
le
sue
caratteristiche
–
anche
il
soggetto
che
ha
fornito
le
informazioni.
Un’ultima
notazione
generale:
si
è
discusso,
nel
passato,
fra
natura
induttiva
o
deduttiva
del
ragionamento
medico
e
del
valore
intrinseco
dell’
“osservazione”[12]
.
L’osservazione
–
considerata
come
“metodologia”
-‐
si
applica
nella
ricerca
biomedica
a
qualsiasi
significato
si
voglia
dare
ai
termini
“ricerca”
e
“sperimentazione”
e
la
tecnologia
biomedica
non
fa
altro
che
amplificare
gli
ambiti
ultrasensoriali
e
consente
molte
volte
di
quantificarla.
In
realtà,
ribadendo
la
necessità
della
corretta
ed
accurata
“base
empirica
osservativa”,
si
ritiene
oggi
che
la
mente
del
medico
–
tanto
più
se
sperimentatore
–
operi
nella
ricerca
diagnostica
ed
in
quella
terapeutica
attraverso
una
esplorazione
graduale
e
progressiva
che
procede
per
congetture
e
confutazioni.
Dunque,
applicando
il
“paradigma”
scientifico
di
modello
Popperiano,
oggi
prevalente.
Questa
lunga
premessa
mi
consente,
ormai,
di
passare
all’analisi
delle
singole
modalità
con
le
quali
viene
in
generale
classificata
la
ricerca
biomedica.
66
METODOLOGIE
DELLA
RICERCA
BIOMEDICA
Sono
molteplici,
ed
loro
uso
preferenziale
dovrebbe
essere
calibrato
sull’obiettivo
da
raggiungere,
attraverso
il
modo
migliore
per
conferire
validità
scientifica
al
protocollo
e
valore
scientifico
al
progetto
di
studio
considerato.
Ciò
non
rappresenta
solo
un
requisito
di
“buona
scienza”,
ma
anche
requisito
“etico”[13].
La
scelta
richiede
“competenza”
da
parte
del
ricercatore
ed
un
forte
impegno
etico
(v.
oltre).
Tre
sono
le
principali
modalità
con
le
quali,
in
generale,
si
svolge
la
ricerca
biomedica
clinica,denominate:
• i
trials
randomizzati
controllati
• la
ricerca
osservazionale
• la
ricerca
cosiddetta
“di
qualità”
Tali
modalità
possono
essere
applicate
in
ambito
prenatale,
neonatale,
pediatrico,
adolescenziale,
nella
vita
adulta,
nell’anziano
,
ecc..
in
rapporto
ai
particolari
“obiettivi”
che
si
intendono
raggiungere:
diagnostico,
terapeutico,
epidemiologico
ecc…[14]
In
generale
si
afferma:
I
trials
randomizzati
controllati
rappresentano
i
metodi
più
indicati
per
escludere
dalla
valutazione
dei
risultati
le
interferenze
dovute
a
preferenze
e
ad
errori.
La
ricerca
osservazionale
è
particolarmente
indicata
in
campo
epidemiologico,
caratterizzandosi
in
senso
narrativo(descrivendo
i
fenomeni
senza
individuarne
le
cause
o
gli
effetti)
o
in
senso
analitico
(ricercando
le
cause
ed
effetti
dei
fenomeni
osservati
e
loro
interconnessioni,
mediante
alcune
varietà:
gli
studi
di
coorte,
gli
studi
caso-‐controllo,
ecc…)
Le
ricerche
di
qualità
cercano
di
interpretare
il
pensiero
della
gente,
a
proposito
di
determinati
fenomeni
o
problemi,
ed
hanno
una
vasta
articolazione:
metodi
puramente
osservativi
dei
comportamenti
da
parte
del
ricercatore,
interviste
qualitative
strutturate
in
questionari
più
o
meno
elaborati,
riflessioni
operative
di
esperti
(“consensus
methods”),
gruppi
di
interazione
su
problemi
particolari
(“focus
groups);
esame
di
casistiche,
ecc..
1.
Revisioni
sistematiche
e
ricerca
Ogni
ricercatore
si
inserisce,
in
generale,
in
filoni
di
ricerca
già
coltivati
e
dei
quali
è
necessario
che
il
soggetto
agente,
prima
di
iniziare
la
stesura
del
protocollo
e
la
precisazione
dell’ipotesi
di
lavoro,
ne
conosca
al
massimo
livello
possibile
i
contenuti[15].
Sono
disponibili
in
moltissimi
settori
della
medicina
riassunti
ed
analisi
dei
risultati
di
studi
precedentemente
pubblicati,
e
sempre
di
più
si
diffondono
“revisioni
sistematiche
e
linee
guida
pratiche”,
che
costituiscono
la
base
della
cosiddetta
“medicina
delle
prove
di
efficacia”
(Evidence
based
medecine).
Questa
deriverebbe
da
una
vasta
analisi
critica,
possibile
quando
i
lavori
esaminati
sono
fra
loro
confrontabili
e
rispondono
a
precise
esigenze
per
la
soluzione
di
espliciti
problemi[16].
Le
revisioni
sistematiche,
denominate
anche
“metanalisi”,
hanno
la
finalità
di
costituire
una
base
consistente
di
studi
paragonabili,
al
fine
di
aumentare
la
precisione
delle
stime
riguardanti
ad
es.
l’effetto
di
un
fattore
etiologico,
la
predittività
di
un
test,
o
l’efficacia
di
un
trattamento
ecc.,
di
accrescere
il
numero
dei
pazienti
considerati
in
sottogruppi
clinicamente
rilevanti,
di
favorire
la
soluzione
di
problemi
relativi
a
risultati
contrastanti
ed
anche
di
indicare
l’opportunità
di
nuovi
studi.
La
metodologia
per
arrivare
a
tali
revisioni
sistematiche
è
piuttosto
complessa
(e
si
rinvia
pertanto
alle
pubblicazioni
specializzate);
val
la
pena
però
di
segnalare
che
l’intuizione
di
ARCHIE
COCHRANE
(1972)[17]
sul
valore
euristico
e
pratico
delle
revisioni
sistematiche
e
delle
67
metanalisi
è
stata
(e
continua
sempre
di
più
ad
essere)
feconda
di
risultati
ai
fini
della
impostazione
della
ricerca
clinica
non
meno
che
della
prassi,
cioè
delle
decisioni
cliniche
di
ogni
medico,
caratterizzandosi
–
peraltro
–
in
molti
casi
–
come
una
vera
e
propria
“ricerca
autonoma”.
2.
Le
metologie
della
ricerca
nella
diagnosi
Il
tentativo
di
predisporre
metodi
sempre
più
affinati
per
scoprire,
con
facilità
di
procedure,
rapidità,
sicurezza
di
risultato,
comodità
di
impiego
e
basso
costo
patologie,
o
condizioni
predisponenti,
nel
soggetto
umano
è
uno
degli
scopi
perenni
della
ricerca
biomedica
e
della
relativa
sperimentazione,
oggi
particolarmente
sensibile
alle
esigenze
della
cosiddetta
medicina
basata
su
dati
forniti
–
in
alcune
circostanze
–
dalla
indagine
genetica
(divenuta
per
alcuni
l’attuale
“paradigma
di
sviluppo”
della
ricerca
biomedica
nel
senso
di
Kuhn)[18]
Le
procedure
per
valutare
un
nuovo
test
diagnostico
o
di
screening[19]
si
basano
fondamentalmente
nel
sottoporre
un
gruppo
di
persone
–
che
si
ritenga
adeguato
per
caratteristiche
–
sia
alla
somministrazione
di
uno
standard
diagnostico
già
comprovato
(il
cosiddetto
gold
standard)
che
al
nuovo
test.
L’interpretazione,
o
la
lettura,
del
test
standard
dovrebbe
essere
fatta
senza
conoscere
i
risultati
del
nuovo
test
e
viceversa.
Si
tratta
di
stabilire
anzitutto
la
sensibilità
e
la
specificità
del
nuovo
test
nei
confronti
anche
del
gold
standard.
Altre
misure
del
“valore”
di
un
test
consistono
nell’apprezzamento
del
potere
predittivo
positivo
e
del
potere
predittivo
negativo.[20]
Si
incontrano,
nella
ricerca
sui
nuovi
test,
varie
questioni
di
carattere
etico:
oltre
a
quelle
relative
all’accertamento
corretto
delle
proporzioni
di
falsi
positivi
e
la
proporzione
di
falsi
negativi
che
il
nuovo
test
può
offrire
in
confronto
con
le
procedure
standard
(valutazioni
errate
possono
influenzare
notevolmente
la
condotta
dell’agente,
e/o
la
decisione
del
paziente),
si
debbono
considerare
anche
i
rischi
connessi
alla
“invasività”
di
alcune
procedure
diagnostiche
invasive
(sia
quelle
“gold
standard”,
sia
quelle
in
sperimentazione).
Valgono,
ovviamente,
le
norme
di
“buona
pratica
clinica”
in
questi
casi
e
ad
esse,
per
brevità,
si
rinvia.
3.
Qualche
indicazione
sugli
studi
clinici
controllati
(controlled
clinical
trials;
randomized
controlled
trials)
e
loro
impiego
soprattutto
nella
sperimentazione
terapeutica
Gran
parte
della
sperimentazione
clinica
si
riferisce
al
settore
farmaceutico,
come
è
ben
noto
(studi
clinici).
Definizione
e
fasi
degli
studi
clinici
farmacologici
Gli
studi
clinici
vengono
generalmente
classificati
in
fasi
I,II,III,IV.
E’
difficile
tracciare
confini
precisi
fra
le
singole
fasi,
in
quanto
esistono
posizioni
divergenti
(talvolta
non
corrette
e/o
non
eticamente
accettabili).
La
Fase
I
riguarda
l’interazione
farmaco-‐volontario
sano
e
ha
lo
scopo
di
fornire
un
profilo
della
farmacocinetica
(Assorbimento,
Distribuzione,
Metabolismo
e
Eliminazione:
ADME)
e
di
avere,
se
possibile
trattandosi
di
soggetto
sano,
una
conferma
delle
risposte
verificate
negli
animali
(attività
farmacodinamica).
Non
rappresenta
uno
scopo
di
questa
fase
–
in
quanto
eticamente
inaccettabile
–
effettuare
ricerche
sulla
tossicità/tollerabilità
del
farmaco;
è
possibile
solo
acquisire
alcuni
dati
preliminari
di
tollerabilità
osservando
la
comparsa
o
meno
di
sintomatologie
soggettive
(nausea,
cefalea,
ecc.)
non
verificabili
nell’animale
da
laboratorio.
Gli
studi
sull’ADME
servono
per
confrontare
i
dati
relativi
verificati
nell’uomo
con
quelli
accertati
negli
animali
di
laboratorio
e
potere
così
tracciare
un
primo
profilo
sulla
sicurezza
del
farmaco:
gli
effetti
tossici
verificati
in
animali
(non
collegabili
all’attività
farmacodinamica
del
principio
68
attivo)
possono
ritenersi
possibili,
quando
le
due
ADME
risultano
identiche
o
molto
vicine,
anche
nell’uomo,
per
determinati
livelli
di
dose
e/o
in
particolari
condizioni
(iperattività);
al
contrario
possono
ritenersi
non
possibili
quando
i
dati
dell’ADME
risultano
diversi.
In
questa
fase,
la
sperimentazione
non
viene
generalmente
condotta
in
cieco,
ma
in
“aperto”
vale
a
dire
che
sia
i
ricercatori
sia
i
soggetti
conoscono
che
cosa
viene
loro
somministrato.
La
fase
II
riguarda
l’interazione
farmaco-‐paziente
(effetti
del
farmaco
sull’organismo:
farmacodinamica)
ha
lo
scopo
di
dimostrare
l’attività
di
un
principio
attivo
in
pazienti
affetti
da
una
malattia
o
da
una
condizione
clinica
per
la
quale
il
principio
attivo
è
proposto.
In
questa
fase
vengono
anche
asquisiti
elementi
per
la
sicurezza
a
breve
termine.
Gli
studi
vengono
condotti
su
numero
relativamente
limitato
di
soggetti,
spesso
secondo
uno
schema
comparativo
(farmaco
confronto,
placebo).
E’
possibile
in
questa
fase
riuscire
a
determinare
un
appropriato
intervallo
di
dosi,
la
dose
tollerabile
(in
base
alla
comparsa
di
effetti
collaterali,
legati
cioè
all’attività
farmacodinamica)
e
di
identificare
un
rapporto
dose/risposta.
La
fase
II
può
non
avere
lo
scopo
di
accertare
un’attività
terapeutica,
ma
soltanto
l’attività
farmcodinamica.
La
fase
III
riguarda
l’interazione
farmaco-‐paziente
(effetti
del
farmaco
sulla
malattia:
farmaco-‐
terapia)
e
ha
lo
scopo
di
determinare,
su
un
numero
elevato
di
pazienti,
arruolati
in
diversi
centri,
l’efficacia
terapeutica
e
la
sicurezza
(limitatamente
alla
numerosità
del
campione)
del
medicamento
in
esame.
Il
disegno
sperimentale
è
quasi
sempre
a
doppio
cieco,
randomizzato,
in
confronto
con
un
placebo
o
con
un
farmaco
di
efficacia
accertata.
In
questa
fase
si
possono
rilevare
molti
degli
effetti
avversi,
in
particolare
gli
effetti
più
manifesti
che
insorgono
dopo
un
trattamento
di
tre/sei
mesi
dopo
la
somministrazione
del
farmaco,
a
patto
che
questi
peò
ricorrano
con
una
frequenza
maggiore
di
1
volta
ogni
100
somministrazioni.
Effetti
tossici
importanti
sotto
l’aspetto
medico
che
si
manifestano
con
un
certo
ritardo
o
ricorrono
con
una
frequenza
minore
di
una
volta
ogni
mille
somministrazioni
possono
quindi
non
venire
rilevati
prima
dell’Autorizzazione
all’Immissione
in
Commercio
(AIC).
La
fase
IV
della
sperimentazione
clinica
prende
l’avvio
dopo
che
il
farmaco
ha
ottenuto
il
permesso
per
la
commercializzazione.
Questa
fase
riguarda
principalmente
l’interazione
medicamento-‐pazienti,
effetti
del
farmaco
nelle
reali
condizioni
d’impiego,
eventuale
comparsa
di
effetti
indesiderati
(farmacovigilanza)
e
in
linea
secondaria
l’osservazione
di
possibili
effetti
terapeutici
non
indicati
all’atto
della
commercializzazione
del
prodotto.
Studi
clinici
aventi
lo
scopo
di
confermare
o
accertare
nuove
indicazioni
vanno
considerati
come
studi
su
nuovi
prodotti
medicinali
e
quindi
ricadere
su
studi
di
fase
II/III.
Occorre
segnalare
che
sulla
definizione
di
questa
fase
non
vi
è
un
completo
accordo.
Le
caratteristiche
dei
“controlled
clinical
trials”
Nel
1998,
in
occasione
del
50°
anniversario
del
primo
studio
clinico
randomizzato
controllato
pubblicato
in
Gran
Bretagna
sull’impiego
della
streptomicina
nella
tubercolosi,
è
stata
organizzata
una
grande
conferenza
internazionale
dal
titolo:
"50
anni
di
trials
clinici”,
i
temi
della
quale
indicano
molto
significativamente
il
percorso
svolto
e
la
complessità
che
ha
assunto
tale
tecnica
sperimentale[21]:
Non
è
certamente
negli
scopi
di
questa
trattazione
offrire
una
esaustiva
analisi
di
questa
complessa
materia;
tuttavia,
qualche
sommario
richiamo
servirà
a
far
intravedere
soprattutto
la
responsabilità
che
caratterizza
i
promotori,
i
programmatori,
e
gli
stessi
esecutori
di
tali
metodologie,
le
quali
hanno
l’obiettivo
di
valutare
qualsiasi
trattamento
potenzialmente
innovativo
con
criteri
per
quanto
è
possibile
rigorosi
[22]
.
69
J.P.
BOISSEL
e
A.LEIZOROVICZ
(2000)[23]
sottolineano
la
“natura”
degli
studi
clinici
controllati,
considerati
un
progresso
fondamentale
nella
storia
dello
sviluppo
e
delle
terapie
efficaci
con
le
seguenti
espressioni:
“Essi
sono
esperimenti
scientifici
e
per
questo
motivo
possono
essere
universalmente
compresi
e
i
loro
risultati
possono
essere
universalmente
applicati,
sempre
che
siano
stati
disegnati
e
condotti
in
accordo
a
principi
oggi
ben
codificati….”.
“Il
concetto
di
studio
clinico
controllato
è
essenzialmente
lo
stesso
per
ogni
branca
della
medicina.
Si
applica
sia
alla
valutazione
dei
farmaci
che
delle
procedure
chirurgiche,
delle
terapie
fisiche
e
delle
terapie
psichiche.
Può
essere
esteso
alla
valutazione
dei
test
diagnostici.
Infine,
gli
studi
clinici
controllati
possono
essere
utilizzati
(e
lo
saranno
sempre
di
più)
per
valutare
diverse
strategie
mediche.
Una
strategia
è
un
insieme
di
interventi,
possibilmente
in
combinazione
con
procedure
diagnostiche
differenti.
Sono
stati
pubblicati
diversi
esempi
di
valutazione
di
differenti
strategie
in
medicina:
per
esempio,
un
approccio
di
tipo
invasivo
rispetto
ad
un
approccio
conservativo,
o
un
trattamento
farmacologico
pre-‐ospedaliero
rispetto
a
quello
ospedaliero”
(pag.1).
E
riprendono:
“Uno
studio
clinico
controllato
è
un
esperimento
nel
corso
del
quale
vengono
raccolti
dei
dati.
La
loro
analisi,
in
accordo
con
il
disegno
dello
studio,
produce
informazioni
che
sono
di
natura
scientifica.
Uno
studio
clinico
deve
pertanto
soddisfare
i
requisiti
fondamentali
di
un
esperimento
scientifico.
La
metodologia
degli
studi
clinici
è
basata
sui
principi
del
metodo
sperimentale,
come
già
inizialmente
identificato
nel
XIX
secolo
ed
oggi
codificato.
Tali
principi
possono
essere
così
riassunti:
L’ipotesi
da
valutare
deve
essere
proposta
per
iscritto
prima
dell’inizio
della
raccolta
dei
dati;
l’ipotesi
viene
verificata
attraverso
le
modificazioni
registrate
nel
sistema
oggetto
di
indagine
(per
esempio
il
paziente,
l’unità
che
fornisce
la
terapia,
ecc..).
Il
sistema
oggetto
di
indagine
è
l’unità
sperimentale.
Il
disegno
sperimentale
deve
essere
tale
per
cui
la
verifica
dell’ipotesi
dipende
dal
confronto
tra
un
gruppo
di
unità
sperimentali
modificate
e
un
gruppo
di
unità
di
controllo
non
modificate;
questo
paragone
è
per
il
ricercatore
la
chiave
di
accesso
ai
risultati
dell’esperimento.
Il
numero
di
unità
sperimentali
deve
essere
sufficientemente
grande
da
minimizzare
il
rischio
che
singole
reazioni
idiosincratiche
delle
unità
sperimentali
abbiano
un
peso
eccessivo
sui
risultati.
Allo
scopo
di
stabilire
una
relazione
di
causalità
tra
la
modifica
del
sistema
e
il
risultato,
i
due
gruppi,
fatta
eccezione
per
l’intervento,
devono
essere
gestiti
in
modo
identico,
prima,
durante
e
dopo
l’intervento
che
determina
la
modifica,
fino
al
completamento
della
raccolta
dei
dati”.
Nei
primi
tempi
di
sviluppo
del
metodo
sperimentale
questi
principi
non
potevano
essere
direttamente
applicati
al
campo
della
ricerca
con
piena
efficienza.
Successivamente
sono
stati
affinati
con
l’adozione
del
modello
statistico
e
con
il
concetto
dei
“fattori
di
confondimento”
.
Seguendo
questi
AA.,
la
“costruzione”
di
uno
studio
clinico
controllato,
in
estrema
sintesi,
deve
prevedere:
l’ipotesi
a
priori
che
deve
essere
testata.
Questa
di
solito
è
relativa
all’efficacia
di
un
certo
intervento
su
un
evento,
un
sintomo,
o
sulla
qualità
della
vita
di
pazienti
con
una
patologia
specifica
e
un
profilo
peculiare
di
eleggibilità.
Tale
ipotesi
rappresenta
il
prodotto
di
un
processo
lungo
e
complesso
ed
è
costruita
gradualmente
intorno
ad
un
ragionamento
basato
sulle
conoscenze
disponibili,
su
intuizioni,
su
relazioni
funzionali
osservate
o
presunte,
e
su
un’accurata
analisi
del
problema
di
salute
al
quale
è
interessato
lo
sperimentatore.
La
stima
dei
cosiddetti
“fattori
di
confondimento”,
necessaria
per
il
fatto
che
numerosi
fattori
possono
interferire
con
l’evoluzione
delle
condizioni
di
un
paziente
dopo
la
somministrazione
di
70
una
terapia.
L’effetto
dell’intervento
terapeutico
è
solo
uno
dei
fattori,
e
non
può
essere
separato
dagli
altri
solamente
osservando
il
decorso
del
paziente.
Altri
fattori
in
gioco
sono
la
cosidetta
regressione
verso
la
media,
il
miglioramento
o
il
peggioramento
spontaneo
della
malattia,
gli
effetti
delle
terapie
concomitanti
e
l’effetto
placebo.
Gli
effetti
di
tutti
questi
fattori
sono
correlati
con
il
tempo[24].
Circa
l’effetto
placebo,
è
noto
che
tale
fattore
interferisce
con
l’evoluzionedella
malattia
di
un
paziente,
nella
maggior
parte
dei
casi
in
modo
positivo.
E’
una
componente
inevitabile
di
tutte
le
terapie.
Per
quanto
sia
difficile
precisare
le
modalità
secondo
le
quali
opera
“l’effetto
placebo”,
nessuno
negherebbe
la
sua
esistenza
[vedi
anche
G.
Folli
(1994);
L.Candia
(1994)].
La
sua
intensità
e
il
peso
delle
sue
componenti
più
verosimili
(la
fiducia
del
paziente
nel
medico
o
nel
farmaco,
le
aspettative
positive
del
malato
e
le
proprie
convinzioni
rispetto
al
“miracolismo”
della
medicina,
ecc..)
non
sono
prevedibili.
Si
suppone
che
molti
siano
i
farmaci
che
funzionano
solo
attraverso
l’effetto
placebo.
La
randomizzazione,
criterio
con
il
quale
i
soggetti
che
accettano
di
partecipare
all’esperimento
sono
collocati
in
ogni
gruppo
di
studio
utilizzando
un
metodo
di
assegnazione
che
non
è
soggetto
a
influenze
esterne
(e
cioè
non
è
permessa
alcuna
preferenza
personale
né
da
parte
dei
ricercatori,
né
dei
pazienti).
E’
provato
che
in
generale
l’assegnazione
casuale
(random)
rappresenta
il
metodo
migliore
per
raggiungere
questo
obiettivo,
ma
il
criterio
si
presta
a
varie
obiezioni
etiche
(che
di
seguito
verranno
precisate).
Il
mascheramento
dell’appartenenza
ai
diversi
gruppi
(blinding,
o
“cieco”).
Così
si
esprimono
ANN
MC
KIBBON,
A.
EADY
e
S.MARKS[25]:
“Negli
studi
relativi
a
trattamenti,
oltre
all’assegnazione
casuale,
i
pazienti,
gli
operatori
sanitari
ed
il
personale
che
partecipa
allo
studio
non
dovrebbero
conoscere,
per
quanto
possibile,
il
gruppo
al
quale
il
paziente
è
assegnato.
Questo
metodo
è
definito
blinding
o
mascheramento
o
cieco,
ed
evita
quello
che
comunemente
viene
definitomeasurement
bias
(errore
di
misurazione).
Considerando
la
realtà
della
natura
umana,
le
aspettative
dei
pazienti
e
degli
operatori
sanitari
sono
forti,
e
spesso
inconsciamente
possono
influenzare
la
rappresentazione
dei
risultati.
Fin
troppo
spesso,
e
con
le
migliori
intenzioni,
le
persone
considerano
come
veritiero
ciò
che
pensano
debba
accadere
o
ciò
che
pensano
che
gli
altri
si
aspettano
debba
accadere.
Per
ridurre
al
minimo
queste
percezioni
errate,
né
gli
operatori
sanitari
né
i
pazienti
dovrebbero
sapere
quale
trattamento
i
pazienti
stanno
ricevendo”
(pag.46).
A
giudizio
di
molti
autori,
da
noi
condiviso,
le
procedure
di
mascheramentosono
complicate
e
presentano
spesso
gravi
riserve
etiche
(in
seguito
richiamate),
soprattutto
nelle
formule
del
“doppio”
o
“triplo
cieco”,
pur
non
mancando
in
linea
di
principio
di
una
loro
razionalità
[26].
Il
controllo
in
corso
d’opera
e
a
distanza
(follow-‐up).
E’
evidente
l’importanza
di
questo
fattore
per
la
valutazione
dei
risultati
degli
studi
randomizzati
controllati,
non
solo
durante
e
al
termine
degli
studi
(momento
previsto
correttamente
nel
protocollo
originale;
ma
che
per
varie
ragioni
viene
spesso
modificato
nel
senso
di
anticipazione
o
ritardo
nella
chiusura
della
fase
sperimentale)
ma
anche
per
quanto
riguarda
la
valutazione
degli
effetti
a
distanza
di
tempo.
Un
tempo
troppo
breve
di
osservazione
può
mascherare
effetti
perversi
emergenti
a
lungo
termine.
Si
ritiene
che
almeno
l’80%
di
tutti
i
partecipanti
che
sono
stati
arruolati
e
randomizzati
all’inizio
dello
studio
debbano
essere
analizzati
alla
fine
di
esso
perché
i
risultati
siano
considerati
validi
o
“veri”,
al
90%
di
probabilità.Questo
significa
tener
conto
di
tutti
i
partecipanti
che
interrompono
il
trattamento
(i
quali
dovrebbero
essere
nel
minor
numero
possibile)
o
che
sono
in
qualche
modo
persi.
Giustamente
A.
MC
KIBBON
et
al.
affermano
che
mantenere
un
buon
follow-‐up
può
essere
facile
o
difficile,
a
seconda
dello
studio[27]
e
S.
Galbraith
e
I.
Marshner
(2002)
–
mettendo
in
evidenza
anche
l’aumento
dei
costi
che
si
determina
con
la
riduzione
dei
dati
“in
corso
d’opera”
hanno
elaborato
criteri
statistici
atti
ad
affrontare
le
varie
situazioni
[28]
.
71
In
ogni
caso,
è
necessario
(tecnicamente)
e
doveroso
(giuridicamente
e
moralmente)
seguire
il
trattamento
e
“monitorarlo”
durante
tutto
lo
stesso
svolgimento,
allo
scopo
di
chiarire
se
il
protocollo
approvato
deve
essere
mantenuto
inalterato
o
modificato.
Ciò
comporta
l’adesione
a
regole
di
appropriata
osservazione
della
casistica,
basata
sulla
tempestività
delle
segnalazioni
degli
effetti
avversi,
la
completezza
delle
stesse,
la
competenza
e
l’esperienza
professionale
di
chi
effettua
il
monitoraggio
e
la
sua
libertà
di
giudizio
nei
confronti
di
possibili
indebite
interferenze
[29].
Il
corretto
impiego
di
metodologie
statistiche.
Secondo
B.PITT
e
altri
(2000),
“l’utilizzo
del
modello
statistico
ha
lo
scopo
di
risolvere
tre
problemi
correlati:
la
variabilità
tra
un
osservatore
e
l’altro,
o
nello
stesso
paziente
a
tempi
diversi
(variabilità
intrapaziente)
o
in
pazienti
diversi
allo
stesso
tempo
(variabilità
tra
pazienti);
la
variazione
casuale
nei
risultati
dello
stesso
esperimento
ripetuto
più
volte;
e
la
previsione
di
eventi
successivi
basata
su
una
serie
di
dati
osservati
in
precedenza.
I
due
strumenti
statistici
che
forniscono
una
soluzione
a
questi
problemi
sono
il
test
di
significatività
e
la
stima
puntuale
con
i
suoi
limiti
fiduciari.
Il
test
di
significatività
fornisce
regole
arbitrarie,
ma
ragionevoli,
per
decidere
se
il
risultato
di
uno
studio,
ossia
la
differenza
osservata
tra
il
comportamento
e
cambiamenti
nei
due
gruppi,
è
dovuto
al
caso
o
può
essere
accettato
come
frutto
di
una
reale
differenza[30].
Una
volta
che
la
differenza
tra
i
cambiamenti
nei
pazienti
trattati
e
quelli
di
controllo
è
stata
calcolata
e
la
significatività
statistica
è
stata
valutata,
il
punto
successivo
che
il
ricercatore
deve
prendere
in
considerazione
è
la
dimensione
dell’effetto
del
trattamento,
specialmente
se
il
valore
di
P
è
piccolo[31].
Come
sottolineano
Calamo-‐Specchia
e
coll
(1994)
[32]
indagini
compiute
da
Meinert
e
coll.
(1984)
hanno
posto
in
evidenza
che
molti
lavori
pubblicati
nella
letteratura
internazionale
a
quell’epoca
non
calcolavano
previamente
la
grandezza
del
campione
necessario,
né
pianificavano
la
valutazione
dei
risultati
con
criteri
di
significatività
statistica:
oggi,
ovviamente,
molto
è
cambiato
a
riguardo
[33].
Concludendo:
le
indicazioni
(ovviamente
non
completamente
esaustive)
fornite
in
questo
paragrafo
dimostrano
la
complessità,
metodologica
e
interpretativa,
dei
trials
clinici:
questa
complessità
mette
alla
prova
non
solo
sperimentatore
,
lo
sponsor
ed
in
generale
i
“tecnici”
della
ricerca
clinica,
ma
anche
i
divulgatori
(la
stampa)
e
la
comprensione
esatta
dei
risultati
da
parte
dell’opinione
pubblica
(R.
Morton,
2001).[34]
4.
Ricerca
sull’eziologia,
sulle
cause
e
sul
danno
Sono
ricerche
molto
importanti
di
carattere
sanitario,
oltreché
di
carattere
clinico
(in
quest’ultimo
caso,
è
frequente
l’impiego
del
concetto
di
“danno”,
anche
in
senso
iatrogeno).
Questi
studi,
che
hanno
per
obiettivo
anche
quello
di
valutare
il
rischio
prodotto
per
un
determinato
soggetto,
o
per
una
popolazione
determinata,
dall’esposizione
a
cause
singole
(o
associate)
di
cui
si
conosce
(o
si
suppone)
l’effetto
patogeno,
sono
molto
complicati
ed
hanno
una
diversa
capacità
di
raggiungere
un
obiettivo
di
verosimiglianza
secondo
l’ordine
decrescente
di
efficacia:
studi
controllati
randomizzati;
studi
coorte;
studi
caso-‐controllo;
studi
trasversali
con
gruppi
aggiustati
statisticamente.
Non
è
possibile,
in
questa
sede,
approfondire
ulteriormente
gli
aspetti
“tecnici”:
basterà
dire
che
vengono
attualmente
ritenuti
“validi”
gli
studi
di
coorte
(cohort
study),
sebbene
non
siano
quelli
più
specifici
nei
risultati
(ma
anche
per
alcuni
aspetti
eticamente
discutibili)
come
lo
sono
i
“prospettici”
studi
clinici
randomizzati.
Peraltro,
anche
gli
studi
di
coorte
sono
difficili
da
eseguire
e
richiedono
tempi
lunghi
e
costi
relativamente
elevati,
caratteristiche
molto
pronunciate
negli
studi
prospettici
randomizzati.
Gli
studi
di
caso-‐controllo
sono
considerati
“deboli”
dal
punto
di
vista
metodologico,
ma
in
clinica
vengono
spesso
usati
per
studiare
ad
es.
effetti
collaterali
rari
dei
trattamenti
perché
hanno
il
72
pregio
di
poter
essere
realizzati
con
relativa
rapidità
e
minori
costi.
Gli
studi
caso-‐controllo
si
basano
sull’anamnesi
circa
l’esposizione
degli
individui
oggetto
di
valutazione
rispetto
all’agente
causale
(noto
o
previsto)
per
la
malattia.
Gli
studi
trasversali
con
gruppi
aggiustati
statisticamente
sono
rapidi
e
facili
da
completare
come
“indicazione”
di
una
causa
eziologica,
ma
vengono
ritenuti
“non
validi”
per
costituire
una
base
attendibile
per
le
decisioni
cliniche.
5.
La
ricerca
riguardante
la
“storia
naturale”
e
l’individuazione
della
prognosi
Come
abbiamo
già
accennato
costituisce
un
capitolo
particolare,
anche
sotto
l’aspetto
etico,
l’osservazione
della
“storia
naturale”
intesa
come
progressione
della
malattia
non
trattata.
Se
questa
è
invece
sottoposta
a
cure
si
parla
di
prognosi,
in
generale
a
partire
dal
momento
dell’avvenuta
diagnosi.
Giustamente,
si
fa
rilevare
che
“i
clinici
hanno
bisogno
di
avere
un
rapido
accesso
alle
informazioni
riguardanti
la
storia
naturale
e
la
prognosi
per
rispondere
alle
domande
dei
propri
pazienti.
Una
delle
prime
domande
poste
dai
pazienti
quando
vengono
messi
al
corrente
di
una
nuova
diagnosi
è
“Cosa
mi
succederà
adesso?”.
Essi
vogliono
conoscere
le
implicazioni
della
malattia
o
condizione
appena
diagnosticata
in
termini
di
sopravvivenza,
progressione
della
patologia
e
stile
di
vita,
ancor
prima
di
cominciare
a
valutare
le
opzioni
ed
i
problemi
di
un
trattamento
o
di
una
terapia
palliativa”
(ANN
MC
KIBBON
et
al.
(2000);
pag.131)[35].
Seguire
la
malattia
astenendosi
da
un
trattamento
che
si
conosca
come
valido,
per
osservare
cosa
avviene
nel
tempo
(come
è
avvenuto
ad
es.
nel
notissimo
caso
del
Tuskegee
Study
of
Untreated
Syphilis
in
the
Negro
Male
(Studio
Tuskegee
sulla
sifilide
non
trattata
nel
maschio
afro-‐americano
(BRAWLEY,
1998)[36],
è
palesemente
immorale
se
ciò
avviene
all’insaputa
del
paziente
perché
tradisce
la
fiducia
di
questiriposta
nel
medico
(dal
quale
si
attende
una
cura).
Valutare
la
“prognosi”
nell’ambito
di
una
ricerca
è
concetto
del
tutto
diverso;ciò
può
essere
fatto
raggruppando
pazienti
di
una
determinata
malattia
in
un
campione
per
quanto
è
possibile
omogeneo
per
caratteristiche
di
inserimento
e
ad
uno
stadio
precoce
di
malattia
(cosiddetta
coorte
incipiente
o
inception
cohort),
seguendo
poi
nel
tempo
e
nel
decorso
in
presenza
di
determinati
trattamenti
almeno
l’80%
dei
pazienti
inizialmente
arruolati
[37].
CONSIDERAZIONI
FINALI
1.
Correnti
etiche
e
sperimentazione
clinica
Al
termine
di
questa
esposizione,
mi
sembra
importante
svolgere
qualche
considerazione,
richiamando
anzitutto
i
termini
con
i
quali
viene
“vissuta”
l’attività
di
ricerca
da
parte
dello
sperimentatore,
in
rapportoalle
correnti
etiche
alle
quali
prevalentemente
egli
si
ispira.
Si
conviene,
largamente,
che
la
sperimentazione
clinica
costituisca
una
tematica
densa
di
implicazioni
culturali,
morali
e
giuridiche[38].
Essa
mette
alla
prova
sia
la
preparazione
professionale
che
il
senso
di
responsabilità
etica
del
medico-‐sperimentatore,
sia
il
sentimento
di
solidarietà
sociale
del
partecipante
alla
ricerca.
Si
conviene
che
ricerca
e
sperimentazione
in
medicina
(biomedicina)
siano
fondate
sull’uso
della
ragione
e
sull’uso
dei
sensi
(vanno
ricomprese
nel
concetto
le
tecnologie
che
implementano
o
sostituiscono
l’uso
dei
sensi),
così
come
in
ogni
ramo
della
scienza
naturale
applicata.
La
descrizione
e
la
misurazione
adeguata
dei
fenomeni
biologici
che
si
osservano
spontaneamente
o
di
quelli
che
vengono
indotti
con
varie
tecniche,
debbono
necessariamente
essere
condotte
secondo
procedure
ben
definite
e
secondo
regole
che
–
nell’esperienza
–
guidano
73
il
ricercatore
verso
affermazioni
giustificate
dall’evidenza,
ancorché
in
futuro
“falsificabili”
in
rapporto
a
successive
differenti
evidenze.
Tali
affermazioni
costituiscono
il
concetto
di
“oggettività”,
al
quale
si
riferiscono
anche
le
ricerche
terapeutiche
condotte
con
le
metodologie
che
abbiamo
ricordato[39].
La
riflessione
etica
sul
singolare
“rapporto”
che
si
instaura
nella
sperimentazione
fra
motivazioni,
valori
ed
interessi
diversi
può
essere
svolta
in
chiave
utilitaristica-‐consequenzialista,
deontologica
tuzioristica,
autonomista
e
personalista.
L’utilitarismo
apporta
alla
discussione
il
criterio
del
“vantaggio
dei
molti”
(attuali
o
futuri)
che
beneficieranno
del
progresso
diagnostico
o
terapeutico
contro
il
rischio
e
la
sofferenza
dei
pochi
sui
quali
si
sperimenta,
privilegiando
il
conseguimento
del
risultato
rispetto
alle
modalità
di
realizzazione.
In
questa
estrema,
schematica
forma
l’utilitarismo
ovviamente
non
è
accettabile;
il
suo
apporto
positivo
sta
nel
fatto
che
invita
a
riflettere
sulla
giustificazione
morale
del
“progetto
di
ricerca”,
sulla
entità
del
beneficio
che
se
ne
può
conseguire
e
sulle
conseguenze
dell’azione.
Il
criterio
deontologico,
o
etica
dei
doveri,
è
rivolto
non
tanto
all’analisi
dell’obiettivo,
quanto
all’apprezzamento
della
moralità
dei
metodi
con
i
quali
di
esperimenta
nell’ambito
delle
caratteristiche
proprie
dell’attività
medica,
che
deve
sempre
privilegiare
il
migliore
interesse
dell’assistito.
In
caso
di
conflitto
fra
interessi
della
ricerca
e
tutela
del
paziente,
è
quest’ultimo
obiettivo
che
deve
prevalere
.
Il
deontologismo
–
che
si
ispira
all’etica
del
“dover
essere”
di
derivazione
Kantiana
–
dà
un
apporto
positivo
alla
valutazione
del
rischio
nei
confronti
della
duplice
condizione
in
cui
può
presentarsi
la
ricerca:
interesse
diretto
per
la
salute
del
paziente,
nessun
interesse
immediato
per
lo
stesso.
Come
è
noto,
la
valutazione
del
rischio
rappresenta
la
formula
“moderna”
per
affrontare
il
problema
nell’evoluzione
subita
dal
primo
documento
di
Helsinki
che
vietava
la
ricerca
non
terapeutica
allorché
priva
di
consenso,
includendo
nel
divieto
coloro
che
non
fossero
in
grado
di
consentire.
L’evoluzione
ha
portato
alle
attuali
formulazioni
del
“consenso
delegato”,
associato
a
particolari
norme
di
tutela
per
i
soggetti
che
non
possono
consentire.
In
ogni
caso,
questo
problema
(che
viene
affrontato
da
altri
Relatori
in
questo
Congresso)
costituisce
uno
degli
argomenti
più
controversi
della
bioetica
della
sperimentazione
(Della
Torre,
1994
[40])
Lo
“sdoppiamento”
potenziale
del
ricercatore
medico
fra
il
suo
ruolo
di
curante
e
quello
di
sperimentatoreobbliga
in
ogni
caso
ad
un
bilanciamento
che
faccia
pendere
l’ago
dal
lato
dell’interesse
del
paziente,
piuttosto
che
da
quello
della
scienza
e
della
società
(World
Medical
Association,
1996;
concetto
accolto
nella
Convezione
di
Oviedo,
1997).
L’etica
dell’autonomia
è
basata
sui
“diritti
della
persona”
(prima
ancora
che
“del
paziente”,
come
si
suol
dire
in
campo
sanitario)
e
si
presenta
–
nel
caso
della
sperimentazione
medica
–
come
applicazione
delle
teorie
“della
scelta”
e
“dell’interesse”.
La
prima,
al
di
là
del
richiamo
al
diritto
fondamentale
alla
libertà,
circoscrive
i
diritti
della
scelta
a
quelle
condizioni
in
cui
altri
hanno
doveri
morali
da
rispettare.
Waldron
[41]
applica
questo
criterio,
ad
es.,
alla
delicata
questione
delle
ricerche
non
terapeutiche,
ove
il
bilanciamento
è
fra
i
doveri
etici
dello
sperimentatore
di
non
far
correre
rischi
al
soggetto,
e
la
facoltà
del
soggetto
consenziente
di
scegliere
per
il
rischio.
La
seconda,
che
risale
J.
Bentham,
circoscrive
la
tutela
degli
interessi
del
soggetto
alle
condizioni
in
cui
è
possibile
in
anticipo
definire
in
sede
pubblica
chi
sia
beneficiario
del
dovere
altrui,
e
si
applica
–
ad
es.
–
ai
cosiddetti
diritti
sociali
della
persona,
fra
cui
(con
le
particolari
modalità
stabilite
dello
Stato)
la
“tutela
della
salute”.
74
Comunque
si
voglia
argomentare,
il
risultato
porta
alla
“autodeterminazione”
di
chi
è
chiamato
a
partecipare
alla
ricerca,
autodeterminazione
che
–
in
letteratura
–
vieneinquadrata
nel
principio
kantiano
della
libertà
della
ragione.
Se
la
questione
è
più
semplice
da
derimere
con
il
principio
dell’interesse
nel
caso
della
ricerca
terapeutica
che
abbia
diretto
potenziale
vantaggio
per
il
malato,
la
decisione
è
ovviamente
più
delicata,
e
richiede
l’accoglimento
del
“principio
della
autodeterminazione”,
nel
caso
della
ricerca
non
terapeutica
e
priva
di
interesse
diretto
per
la
persona
.
La
autodeterminazione
consapevole
di
correre
un
rischio,
che
si
esprime
nelle
note
procedure
dell’informazione
veritiera
e
nella
volontarietà
del
consenso
in
persona
competente,
farebbe
da
contrappeso
nella
relazione
duale
alla
supremazia
di
conoscenza
che
caratterizza
lo
sperimentatore
rispetto
al
soggetto
che
accetta
“fiduciosamente”
(cioè
credendo
nell’informazione)
di
partecipare
alla
ricerca,
giustificandola.
Ciò
non
toglie
che
–
giuridicamente
–
ove
manchi
l’interesse
terapeutico
diretto,
la
scelta
del
soggetto
vada
inquadrata
nell’ambito
delle
attività
rischiose.
Concludendo:
appare
evidente
che
–
nel
concreto
-‐tutte
le
teorie
etiche
sin
qui
richiamate
possono
essere
chiamate
in
causa,
sebbene
in
diversa
misura
–
nelle
varie
modalità
della
ricerca
che
abbiamo
illustrato,
non
sottraendosi,
soprattutto
nel
caso
dell’utilitarismo,
ad
alcune
assolute
limitazioni.
Fermo
restando
che,
sull’argomento,
ha
grande
importanza
quanto
è
stabilito
dalla
copiosa
normazione
che
in
sede
nazionale
ed
internazionale
è
stata
gradualmente
elaborata
per
la
protezione
giuridica
del
soggetto
partecipante
alla
sperimentazione,
ora
desideriamo
offrire
qualche
esempio
delle
limitazioni
indicate
[42].
2.
Alcune
doverose
limitazioni
metodologiche
nella
sperimentazione
clinica
e
l’apporto
dell’etica
personalista
Le
questioni
di
maggiore
impegno
etico
ruotano
(limitandosi
in
questa
sede
alle
sole
considerazioni
sulle
metodologie)
attorno
ai
criteri
di
randomizzazione
(con
la
questione
del
cieco)
ed
all’uso
del
placebo
negli
studi
clinici
controllati.
Prescindendo
da
segnalazioni
pioneristiche
rimaste
isolate
(ad
es.
P.
Martini
“Methodulehereder
Therapeutischen
Untersuchung
“verlag
von
J.
Springer,
Berlin,
1932)
la
tematica
degli
studi
clinici
controllati
si
è
sviluppata
fra
gli
ultimi
anni
’70
e
gli
anni
’90
del
XX
secolo
anche
a
riguardo
degli
aspetti
etici
con
numerosi
contributi,
che
è
impossibile
in
questa
sede
esaminare
analiticamente.
Si
rinvia,
pertanto,
ai
già
citati
studi
di
A.G.
Spagnolo
(1994),
Folli
(1994),
L.Candia
(1994),
Foster
(2001),
B.Pitt
et
al
(2000);
A.
Mc
Kibbon
et
al.
(2000)
ecc..
Una
linea
estremamente
rigorosa
della
sperimentazione
clinica,
come
quella
basata
sull’
“etica
del
risultato”
ampiamente
sostenuta
dall’utilitarismo
ed
espressa
da
alcuni
AA.,
fra
cuiRAPAPORT
(2001),
afferma
l’esclusivo
valore
degli
studi
clinici
randomizzati
controllati
con
placebo
nelle
questioni
terapeutiche
più
controverseperché
unici
in
grado
di
eliminare
gran
parte
deibias
[43]
.
Ottenuta
l’evidenza,
si
potranno
derivare
“linee
guida”
che
opportunamente
diffuse
fra
i
medici,
porteranno
a
migliori
risultati
(soprattutto
nei
tassi
di
sopravvivenza)
sia
per
il
singolo
paziente,
che
per
la
salute
pubblica.
Cosa
pensare
di
questa
strategia?
Che
si
debba
fare
ogni
sforzo
per
eliminare
quei
fattori
che
distorcono
la
valutazione
dell’efficacia
clinica
di
un
trattamento
è
intuitivo.
Che
“linee-‐guida”
basate
su
questo
sforzo
possano
assumere
un
ruolo
di
riferimento
per
la
medicina
corrente,
ed
anche
per
futuri
ulteriori
studi
è
verosimile,
e
tutto
ciò
rappresenterebbe
un’acquisizione
favorevole
nell’evolversi
del
sapere
medico.
E’
un
dato
di
fatto,
però,
che
la
randomizzazione
e
l’uso
del
placebo
con
doppio
o
triplo
cieco
incontrano
molte
difficoltà
ad
essere
poste
in
atto,
e
crescente
contrarietà
nei
medici
e
nei
pazienti
[44].
75
Peraltro,
non
v’è
dubbio
che
il
“paradigma”
oggi
dominante
del
consenso
pienamente
informato
è
difficilmente
compatibile
con
i
criteri
di
“mascheramento”
sin
qui
adottati.
Rimane
–
con
la
sua
forza
etica
non
contestabile
–
la
necessità
di
valutare
caso
per
caso
il
“potenziale
contrasto”
che
gli
studi
clinici
randomizzati
potrebbero
assumere
con
gli
interessi
di
quel
determinato
paziente.
Questo
contrasto
potrebbe
derivare
sostanzialmente
da
due
motivi:
che
il
rischio
a
cui
viene
sottoposto
il
paziente
sia
per
lo
stesso
troppo
elevato
rispetto
al
rischio
generico
medio
previsto
per
la
categoria
di
randomizzazione
in
cui
il
paziente
risulterebbe
inserito.
che
il
paziente
sia
privato
di
terapie
efficaci
–
di
cui
abbia
reale
bisogno
-‐
se,
nella
randomizzazione,
cade
ciecamente
nel
gruppo
del
“placebo”
puro
(senza
alcun
trattamento).
Entrambe
le
evenienze,
da
considerarsi
negative,
comportano
un’attenta
riflessione
da
parte
dello
sperimentatore
ed
una
consapevole
maturità
professionale
e
morale
dello
stesso.
In
merito
alla
prima
(omissione
della
valutazione
personalizzata
del
rischio),
si
può
osservare
che
affidarsi
al
caso,
o
a
sistemi
automatizzati
e
centralizzati
di
assegnazione
del
singolo
paziente
all’uno
o
all’altro
gruppo
di
randomizzazione
può
confliggere
in
modo
palese
e
psicologicamente
intollerabile
con
quel
“migliore
interesse”
che
–
si
afferma
–
la
medicina
dovrebbe
offrire
nella
tutela
della
salute
e
che
il
paziente,
che
al
medico
si
affida
con
fiducia,
si
aspetta
di
ricevere[45].
Affidarsi
a
forme
di“consenso
parzialmente
informato”
–
e
senza
un’esauriente
discussione
orale
-‐
per
dirimere
la
questione
sul
piano
“formale”
non
offre
la
garanzia
che
il
singolo
paziente
comprenda
veramente
la
natura
delle
informazioni
contenute
nel
modulo
che
lo
impegna
ed
i
rischi
associati
alla
partecipazione
allo
studio.
Al
paziente,
comunque,
dovrebbe
essere
lasciato
il
tempo
per
riflettere
sui
rischi
ed
i
benefici
connessi
alla
partecipazione
allo
studio
randomizzato
prima
di
decidere,
ed
il
Comitato
etico
dovrebbe
attentamente
vigilare
sulla
comprensibilità
delle
informazioni
da
fornire
e
della
esaustività
delle
stesse.
Il
secondo
motivo
sopra
accennato
è
altrettanto
importante,
e
spiega
la
crescente
disaffezione
dimostrata
dai
clinici
verso
l’uso
del
“placebo”
in
senso
puro
quando
esiste
una
terapia
standard
già
efficace
con
la
quale
trattare
i
pazienti
che
non
rientrano
nel
gruppo
sperimentale
(TAUBES,
1995[46];
LILFORD
e
JACKSON,
1995[47];
ROTHMAN
e
MICHELS,
1993[48];
ecc.).
Sebbene
si
sostenga
che
senza
l’aiuto
di
studi
clinici
randomizzati
controllati
con
il
placebo
e
condotti
su
un
numero
elevato
di
pazienti
sia
difficile
–
se
non
impossibile
–
determinare
i
rischi
reali
ed
i
benefici
di
una
determinata
strategia
terapeutica,
si
riconosce
da
parte
di
numerosi
autori
che
tale
criterio
può
potenzialmente
sacrificare
il
bene
del
singolo
soggetto.
Ciò
che,
a
nostro
parere,
è
inaccettabile
sotto
il
profilo
dell’etica
personalista.
La
priorità
da
assegnare
all’interesse
del
singolo,
in
termini
di
salute,
rispetto
ad
ogni
altro
interesse
della
scienza
è
riconosciuto
–
del
resto
–
come
“valore”
da
preservare
anche
dai
recenti
documenti
internazionali
sulla
sperimentazione
in
medicina
(v.
ad
es.
CONVENZIONE
sui
diritti
dell’uomo
e
la
biomedicina:
OVIEDO,
1997;
Dichiarazione
sui
diritti
dell’uomo
ed
il
genoma
umano
dell’UNESCO,
New
York,
1996)
[49]
e
per
questo
motivo
appare
“ragionevole”
non
privare
il
gruppo
di
controllo
di
una
forma
di
terapia
tradizionale
scelta
fra
quelle
comunemente
usate
per
la
specifica
forma
morbosa
(Candia,
1994)
[50].
Nel
caso
della
ricerca
terapeutica,
in
definitiva,
una
strategia
ottimale
è
quella
di
impostare
il
protocollo
in
modo
da
ottenere
le
informazioni
circa
l’efficacia
del
trattamento
così
da
promuovere
le
migliori
decisioni
per
i
pazienti
futuri,
ma
nello
stesso
tempo
massimizzando
le
opportunità
di
cura
attuali
dei
pazienti
in
esame.
Questa
strategia
è
–
di
per
sé
–
portata
più
alla
versione
“adaptive
clinical
trials
(ACTs)”
che
non
alla
classica
versione
“randomized
clinical
trials”
(RCTs)[51]
76
3-‐
Vi
sono
altri
aspetti
di
carattere
etico
generale
che
meritano
attenzione
e
richiamo
in
questa
breve
analisi
conclusiva.
Rinviando
alla
relazione
generale
sulla
eticità
della
ricerca
biomedica
che
verrà
svolta
in
questa
sede
da
S.E.
Rev.ma
Mons.
E.
SGRECCIA[52],
vorrei
considerare
solo
alcuni
punti
più
strettamente
correlati
al
tema
a
me
affidato.
Considero,
con
brevità,
solo
i
seguenti:
Obiettivi
della
ricerca
Uno
degli
aspetti
critici
si
riferisce
alla
oculata
scelta
dell’argomento
di
ricerca
sperimentale:
soprattutto
per
chi
segue
un’etica
di
impostazione
personalista
d’ispirazione
cattolica
sono
da
considerare
non
solamente
la
qualità
scientifica
del
protocollo
e
le
metodologie
atte
a
ridurre
al
minimo
il
rischio
del
soggetto,
ma
anche“l’obiettivo”
al
quale
la
ricerca
è
rivolta.
Comprendiamo
che
questo
è
argomento
scabroso,
che
non
si
limita
al
caso
degli
abortivi
precoci
od
a
metodi
di
sterilizzazione
od
all’uso
di
cellule
staminali
embrionali
umane,
ecc..
(per
fare
alcuni
esempi
di
viva
attualità),
ma
potrebbe
estendersi
(sebbene
con
altri
profili)
anche
a
sperimentazioni
ove
intervengano
pesantemente
il
profitto
e
gli
investimenti
per
farmaci
a
larga
diffusione
commerciale,
ma
che
verrebbero
ad
aggiungersi
ad
un
arsenale
già
largamente
disponibile
di
opzioni
a
discapito
di
sperimentazioni
per
settori
“orfani”,
che
sarebbero
più
urgenti
[53],
o
per
sperimentazioni
condotte
in
paesi
in
via
di
sviluppo
o
ad
altissimo
tasso
di
povertà,
ove
né
l’informazione,
né
il
consenso
della
persona
arruolata
corrisponde
ai
principi
validi
nei
paesi
sanitariamente
ed
economicamente
sviluppati
e
la
volontà
dei
singoli
può
essere
facilmente
manipolata
da
mediatori
interessati
[54].
In
questo
contesto
si
inquadra
anche
la
necessità
che
la
sperimentazione
clinica
–
sia
essa
nell’interesse
terapeutico
diretto
che
priva
di
tale
interesse
sia
sempre
“caritatevole”
(cioè
dotata
di
sentimenti
di
empatia
umana)
verso
il
soggetto,
soprattutto
se
malato
e
particolarmente
nelle
condizioni
cliniche
di
emergenza
o
nelle
fasi
terminali
[55].
Per
superare
i
ricorrenti
contrasti
di
opinione
su
tali
argomenti,
che
hanno
contenuti
etici
indubbi,
è
stato
da
taluno
proposto
anche
una
partecipazione
più
ampia
della
società
alle
strategie
dell’innovazione
terapeutica,
ben
oltre
il
ruolo
già
attualmente
esercitato
dai
Comitati
Etici
ospedalieri.
Ciò
che
appare
di
difficile
realizzazione
ma
non
impossibile
per
definiti
progetti
di
ricerca[56].
Gli
effetti
salutogenici
e
la
“compliance”
del
soggetto
partecipante
alla
sperimentazione
Rappresentano,
questi,
aspetti
ulteriormente
da
chiarire
nell’ambito
della
sperimentazione
(in
particolare
farmaco-‐terapeutica),
allorché
si
tratta
di
giudicare
sull’effetto
“reale”
di
un
determinato
trattamento.
La
funzione
esercitata
dal
binomio
cervello-‐mente
nel
mantenimento
della
salute
è,
oggi,
sempre
di
più
oggetto
della
ricerca
delle
neuroscienze,
anche
sulla
base
del
concetto
proposto
da
Antonovsky
nel
1979
[57]
di
“salutogenesi”,
che
sottolinea
le
diversità
di
reazione
delle
diverse
persone
verso
i
medesimi
traumi
dell’esistenza:
alcuni
dimostrando
una
coerenza
interna
globale
di
comportamenti
orientati
alla
salute
ed
all’ottimismo,
altri
alla
depressione
e
alla
malattia.
Varie
ricerche
hanno
dimostrato
l’effetto
“coping”
–
e
cioè
che
la
capacità
delle
varie
persone
di
superare
condizioni
potenzialmente
stressanti
si
correla
con
la
visione
che
tali
persone
hanno
delle
situazioni
stesse;
le
capacità
salutogeniche
del
supporto
sociale
ed
infine
–
ciò
che
è
di
notevole
interesse
in
questa
sede
–
l’effetto
salutogenico
della
fede
religiosa
[
Strang
S.
e
Strang
P.
(2001)[58];
Murphy
et
al.
(2000)[59];
Cinà
(1998)[60],
A.
Bompiani
(2000)[61],
D.
Smith
(2002)[62]].
Che
tali
reazioni
abbiano
una
base
neurobiologica
appare
sempre
più
evidente
da
alcune
ricerche
sulla
localizzazione
nelle
aree
cerebrali
delle
funzioni
di
regolazione
delle
emozioni
in
soggetti
77
normali
e
patologici;
tuttavia
rimane
da
chiarire
quale
effetto
queste
differenze
individuali
nei
meccanismi
di
“salutogenesi”
abbiano
nelle
ricerche
farmacologiche
e
nei
“trials”
clinici.
Un
altro
aspetto
degno
di
considerazione
nell’ambito
delle
metodologie
di
sperimentazione
clinica
è
quello
tecnicamente
indicato
come
“compliance”
del
paziente,
e
cioè
la
“qualità”
della
partecipazione
del
paziente
al
suo
trattamento,
valutata
come
misura
del
comportamento
della
persona
interessata
nei
confronti
degli
orientamenti
medico-‐sanitari
ritenuti
dal
professionista
sanitario
utili
per
la
di
lui
salute
(M.
La
Rosa,
1995)[63].
Molti
sono
i
fattori
che
intervengono
in
questo
fenomeno
(che
riguarda
da
vicino
anche
la
“relazionalità”
che
si
è
creata
fra
paziente
e
curante)
e
che
si
riflettono
nella
(eventuale)
sperimentazione
terapeutica.
Infatti,
il
protocollo
di
studio
presuppone
una
perfetta
compliance
del
paziente
(assunzione
del
trattamento
alle
dosi
e
per
la
durata
prevista),
mentre
una
cattiva
compliance
passata
inavvertita
aumenta
la
variabilità
dei
dati
e
porta
ad
un
errato
apprezzamento
dell’entità
del
risultato
(soprattutto
nei
trials
clinici
di
limitate
estensioni
(P.E.
Lucchelli,
1995)[64].
Vari
metodi
sono
stati
individuati
per
misurare
la
“compliance”
(v.
ad
es.
R.
Novellini,
1995
[65].
Dal
punto
di
vista
etico,
la
questione
si
riconnette
al
“senso
di
responsabilità”
che
il
paziente
dimostra
nell’aderire,
con
convinzione,
alla
sperimentazione
che
gli
viene
proposta.
Ma
più
ancora
si
deve
sottolineare
il
valore
morale
di
una
partecipazione
volontaria
ad
una
sperimentazione
priva
di
interesse
terapeutico
per
chi
vi
si
sottopone,
nel
significato
di
una
consapevole
oblazione
della
propria
corporeità
ai
pur
limitati
(ma
entro
certi
limiti
imprevedibili)
margini
di
rischio,
ove
questa
partecipazione
è
decisa
nell’interesse
del
“prossimo”.
Si
tratta
di
una
forma
di
“carità”
che
identifica
una
originalità
della
morale
cristiana
rispetto
alle
morali
puramente
razionali,
nel
senso
sviluppato
ad
es.
da
F.BOCKLE
[66].
L’integrità
del
ricercatore
Un
ultimo
aspetto
da
considerare
riguarda
quel
complesso
di
comportamenti
che
nel
gergo
è
indicato
come
“integrità”dello
sperimentatore.
Una
prima
questione
inerisce
al
possibile
conflitto
di
interessi
economici[67],
una
seconda
si
riferisce
al
suo
grado
di
rispetto
del
“protocollo”
concordato
e
approvato
dal
Comitato
etico,
una
terza
alla
falsificazione
dei
dati.
Già
la
mancanza
di
un
coscienzioso
attenersi
–
salvo
i
casi
di
palesi
eventi
avversi
e
condizioni
di
urgenza
insorti
nel
corso
del
trials
clinico
–
a
quanto
richiede
il
protocollo
può
comportare
distorsioni
più
o
meno
apprezzabili
dei
risultati
[68];
ma
ben
più
gravi
sono
i
casi
di
falsificazione
dei
dati,
che
compromettono
–
allorché
vengono
riconosciuti
–
la
fiducia
dell’opinione
pubblica
e
influiscono
negativamente
sulla
disposizione
dei
pazienti
a
partecipare
a
studi
clinici.
Nel
rinviare
l’ulteriore
trattazione
di
questo
argomento
agli
ottimi
contributi
di
F.
DI
TROCCHIO
(1993)[69],
di
PORTIGLIATTI-‐BARBOS
e
coll.
(1993)[70],
di
J.
RANSTAM
et
al.
(2000)[71]
segnaliamo
anche
–
in
taluni
ambienti
ad
alta
“competitività”
scientifica
–
la
caduta
di
quel
fondamentale
comportamento
collaborativo
tradizionale
del
ricercatore,
basato
sullo
scambio
di
informazioni
e
di
materiale
fra
pari
[72].
Vogliamo
chiudere
queste
brevi
note
sottolineando
l’attuale,
notevole
carenza
di
processi
“specifici”
di
formazione
dei
ricercatori
in
medicina
e
–
per
converso
–
il
grande
significato
morale
che
rivestono
i
rari
esempi
in
cui
questa
formazione
viene
affrontata
con
serietà
e
metodo.
78
[1]
C.
FOSTER,
The
ethics
of
medical
research
on
humans,
Cambridge
University
Press
2001,
p.1.
[2]
Uso
l’espressione
“paziente”
nel
senso
indicato
dal
documento
“Diritti
del
paziente”
dell’O.M.S.-‐Regione
Europea
(Copenhagen
,
1994),
nel
quale
è
paziente
qualunque
persona
che
ha
diritto
ad
un’assistenza
sanitaria
e
viene
a
contatto
con
una
struttura
sanitaria.
Per
maggiori
informazioni
sull’argomento,
si
rinvia
a
A.
BOMPIANI,
L’Italia
e
la
Dichiarazione
di
Amsterdam
sui
diritti
del
paziente,
Medicina
e
Morale
1998/1,
47-‐90.
[3]
E’
opportuno
avvertire
che
questo
contributo
non
si
occupa
delle
questioni
relative
alla
ricerca
embrionale,
che
è
trattata
da
altra
relazione
(v.Roberto
Colombo).
[4]
SGRECCIA
E.
[
in
SGRECCIA
E.,
Autonomia
e
responsabilità
della
scienza,
in
SPAGNOLO
A.,
SGRECCIA
E.,
(a
cura
di
),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero,
Milano,
1994,
p.39]
scrive:”
la
scienza
dovrà
riferirsi
all’uomo
singolo
e
alla
società,
perché
è
l’uomo
che
pone
in
essere
la
ricerca,
perché
il
bene
dell’uomo
è
il
fine
della
ricerca
scientifica
e
sperimentale
sia
pura
che
applicata
e
perché
il
campo
stesso
esplorato
dalle
scienza
sperimentali
rappresenta
una
dimensione
vera
ma
settoriale
della
realtà”
(p.46)
[5]
Vorrei
sottolineare
quanto
a
me
sembra
opportuno
accogliere
anche
nel
campo
biomedico
dei
significati
attribuiti
a
questi
principi:
• Individualismo,
inteso
come
sottolineatura
delle
capacità
e
delle
volontà
del
ricercatore
a
svolgere
una
funzione
di
promozione
personale
con
l’esercizio
della
ricerca
e
della
scienza
che
–
lo
si
ricordi
–
spesso
le
Costituzioni
accomunano
nelle
libertà
di
scelte
e
d’esercizio
assieme
all’arte
ed
in
stretta
correlazione
con
la
libertà
di
pensiero
e
di
pratica
religiosa.
Non
v’è
dubbio
che
–
sotto
questo
profilo
–
l’esercizio
della
scienza
diviene
esperienza
di
una
“ricerca
di
senso”
della
propria
vita,
fatta
ovviamente
in
quell’ambito
che
è
storicamente
determinato
dal
contesto
esistenziale
di
ciascuno;
ma
in
questo
percorso
personale
si
incontra
inevitabilmente
“il
volto
dell’altro”
e
la
dimensione
sociale
dell’esistere,
realtà
verso
le
quali
si
hanno
diritti
ma
soprattutto
doveri,
affinché
si
possa
accordare
l’individualismo
con
il
rispetto
degli
altri,
la
collaborazione
ed
il
“bene
comune”.
• Pluralismo,
inteso
come
ammissione
di
concezioni
diverse
nel
percorrere
le
vie
della
ricerca,
essendo
ognuno
consapevole
del
dovere
di
documentare
con
sinceritàla
propria
attività
e
la
scelta
del
proprio
percorso,
esercitando
il
rispetto
che
è
dovuto
ad
ogni
altro
serio
ricercatore.
• Universalismo,
inteso
come
proiezione
della
propria
esperienza
di
senso
–
nell’esercizio
della
ricerca
–
nel
contesto
della
comunità
internazionale
dei
ricercatori
e
non
come
orgogliosa
ed
utilitaristica
appartenenza
ad
una
“lobby”
circoscritta
di
potere.
[6]
LABRIOLA
richiama,
con
riferimento
alla
Costituzione
italiana,
questa
tematica
che
si
complementa
nella
lettura
coordinata
dell’art.33,
comma
1
Cost.
“l’arte
e
la
scienza
sono
libere
e
libero
ne
è
l’insegnamento”
con
l’art.9,
comma
1
Cost.
“La
Repubblica
promuove
lo
sviluppo
della
cultura
e
della
ricerca
scientifica
e
tecnica”,
abbracciando
in
tal
modo
la
nozione
di
“attività
scientifica”
(v.pag.8
di
LABRIOLA
S.,
Libertà
di
scienza
e
promozione
della
ricerca,
Cedam
Ed.,
Padova,
1979).
Una
trattazione
più
recente
e
maggiormente
finalizzata
alle
applicazioni
biomediche
dei
principi
costituzionali
italiani
può
leggersi
in
L.
CHIEFFI,
Ricerca
scientifica
e
tutela
della
persona,
Ed.
Sci.Ital.,
Napoli,
1993.
[7]
L’argomento,
amplissimo,
non
viene
trattato
in
questa
relazione,
perché
forma
oggetto
d’analisi
di
altri
contributi
al
Convegno.
[8]
ANTISERI
D.,
Epistemiologia
contemporaneae
logica
della
diagnosi
clinica,
in
SGRECCIA
E.,
(a
cura
di),
Storia
della
medicina
e
storia
dell’etica
medica
verso
il
terzo
millennio,
Rubettino
Ed.,
Soveria
Mannelli
(Ct)
Edit.
2000.
79
[9]
G.
FEDERSPIEL,
La
conoscenza
scientifica
e
il
problema
metodologico
del
dolore
in
medicina,
Minerva
Anestesiologica,
1999,65,679-‐87.
G.
FEDERSPIEL,
R.
VETTOR,
N.
SICOLO,
C.
SCANDELLARI,
L’analisi
decisionale
clinica,
in
Atti
del
102
Congresso
Nazionale
della
Società
Italiana
di
Medicina
Interna,
23-‐26
ottobre
2001,
CEPI
Ed.,
Roma
in
Annali
diMedicina
Interna
16
(suppl.
1),
2001
[10]
La
questione
delle
frodi
nella
ricerca
scientifica
è
di
grande
interesse,
come
capitolo
delle
“trasgressioni”
etiche
del
ricercatore,
ma
non
può
essere
nella
sua
complessità
affrontata
in
questa
circostanza.
Si
rinvia
alla
monografia
di
DI
TROCCHIO
F.,
Le
bugie
della
scienza,
A.
Mondadori
Ed.,
Milano,
1993,ed
all’ottimo
studio
di
PORTIGLATTI
BARBOS
M.,
MAGGIONA
B.,
I
comportamenti
illeciti
nella
pubblicazione
dei
risultati
della
ricerca
medica
e
loro
aspetti
etico-‐
deontologici,
in
Rassegna
di
criminologia
IV/1
(1993),
pp
117-‐166.
[11]
La
questione
della
generalizzabilità
delle
informazioni
nasce
quando
è
possibile
constatare
il
verificarsi
della
stessa
informazione
nelle
medesime
condizioni
di
stimolazione
in
un
numero
appropriato
di
casi.
Tuttavia,
è
problema
epistemiologicamente
complesso
e
da
affrontarsi
in
sede
clinica
con
molta
prudenza
(v.
ad
es.FEDERSPIEL
G.,
I
limitidella
medicina:
rischio,
probabilità
e
linee
guida,
Congresso:
La
fibbrillazione
atriale,
Verbania
Pallanza,
4-‐6
maggio
2000.
[12]
L’osservazione
non
va
intesa,
come
nel
passato,
quale
unico
passivo
criterio
“longitudinale”,
non
interventistico,
per
conoscere
l’evoluzione
naturale
della
malattia.
E’
necessario
però
che
l’osservazione
sia
condotta
con
metodologia
analitica
ineccepibile,
cogliendo
quegli
elementi
che
sono
significativi
per
l’ipotesi
proposta
dal
ricercatore
ed
il
relativo
giudizio
di
verificabilità-‐
falsificabilità.
Di
conseguenza,
l’osservazione
come
procedimento
scientifico
della
biomedicina
comporta
la
precisa
“codificazione”
dei
fenomeni
percepiti
dal
ricercatore
(sensoriali)
o
rilevati
(strumentalmente)
a
carico
del
soggetto
sottoposto
alla
sperimentazione
e
la
loro
esatta
descrizione/memorizzazione.
Si
tratta
del
“linguaggio-‐base”
della
ricerca
(che
si
esprime
in
proposizioni
descrittive
nel
senso
di
Wittgenstein).
Il
complesso
delle
osservazioni
costituiscono
la
“base
empirica”,
delle
proposizioni
che
caratterizzano
il
protocollo,
e
consentono
la
costruzione
della
“sovrastruttura
teorica”
dallo
stesso,
compiuta
in
modo
logicamente
valido
e
coerente
sopra
la
base
empirica.
[13]
Di
proposito,
si
è
usata
l’espressione
vaga
di
“modo
migliore”.
Il
giudizio
complessivo
prende
in
carico
vari
elementi,
da
rapportarsi
alla
specificità
del
“protocollo”,
come
costruito
e
articolato.
Come
è
noto,
B.
Freedman
elaborò
alcune
considerazioni
ad
uso
dei
membri
degli
Institutional
Review
Boards
(IRBS)
distinguendo
fra
validità
scientifica
e
valore
scientifico
dello
studio.
La
validità
scientifica
si
identificherebbe
nella
seguente
serie
di
elementi:
• possibilità
di
avere
informazioni
attendibili
dall’ipotesi
che
intende
valutare;
• l’essere
condizione
prioritaria
e
necessaria
per
la
ricerca;
• non
poter
prescindere
da
conoscenze
note,
dal
protocollo
proposto
e
dall’ipotesi
fatta;
• l’avere
valore
in
sé
mentre
irrilevanti
sono
i
fattori
presuntivi
(capacità
del
ricercaotre,
laboratori,
documentazione
possibile;
• non
poter
sempre
tenere
conto
di
altri
elementi
(come
ad
es.
il
consenso).
Come
elementi
di
giudizio
per
il
CdE
dovrebbero
essere
presi
in
considerazione
il
disegno,
la
statistica,
il
background
clinico
e
delle
scienze
di
base.
Il
valore
dello
studio
si
affiderebbe
ai
seguenti
elementi:
• l’avere
un’ipotesi
utile
o
interessante;
• il
presupporre
la
validità
scientifica;
• l’aver
valore
in
sé
ma
anche
in
relazione
a
quanto
già
noto
o
al
tipo
di
protocollo;
• il
dover
tener
conto
di
fattori
presuntivi
(ricercatore,
laboratorio,
documentazione)
• il
dipendere
da
fattori
esogeni
(costi,
priorità,
abusi)
80
B.
FREEDMAN,
Scientific
Value
and
Validity
as
Ethical
Requirements
for
Research:
a
Proposed
Explication,
IRIB,
9,6
(1987),
pp.7-‐10.
Ulteriore
trattazione
può
trovarsi
in
:
• SPAGNOLO
A.G.,
Principi
etici
e
metodologie
di
sperimentazione
clinica,
in
SPAGNOLO
A.G.,
SGRECCIA
E.,
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero
Ed.,
Milano,
1994
(pp.
51-‐70).
• BIGNAMINI
A.,
Costruzione
di
un
protocollo
di
sperimentazione
clinica
conforme
alla
G.C.P.
in
SPAGNOLO
A.G.,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero,
Milano,
1994
(pp
227-‐242).
[14]
Esula
dagli
scopi
(e
dalla
possibilità)
di
questatrattazione
compiere
una
analisi
degli
aspetti
applicativi
specifici
delle
modalitàdella
ricerca
nelle
varie
condizioni
di
vita
del
soggetto
umano.
[15]
Si
sostiene
che
ciò
serva
ad
evitare
duplicazione
di
ricerche
i
cui
risultati
sono
da
tempo
consolidati,
evitando
dispersione
di
risorse.
Questa
giustificazione
è
validissima,
ma
è
opportuno
riconoscere
che
la
conoscenza
approfondita
di
ciò
che
è
stato
fatto
in
precedenza
può
valere
anche
per
individuare
dubbi
e
lacune
residue,
ed
anche
errori
che
–
in
taluni
casi
–
hanno
portato
“fuori
strada”
il
progresso
medico.
Pertanto,
quando
gli
elementi
a
disposizione
appaiano
insufficienti,
o
dubbi,
è
chiaramente
“scientifico”
e
nell’etica
del
ricercatore
corretto
ripetere
gli
esperimenti.
[16]
Questa
relazione,
per
evidenti
motivi,
non
può
affrontare
il
complesso
dibattito
che
si
è
aperto
sulla
“medicina
delle
prove
di
efficacia”
in
sede
clinica,
ma
si
limita
alle
questioni
della
sperimentazione
che
servono
a
fondarne
i
presupposti.
Si
rinvia
alle
pubblicazioni
di
LIBERTI
A.
(a
cura
di
),
La
Medicina
delle
prove
di
efficacia,
Pensiero
Scientifico
Ed.,
Roma,
1997,
all’editoriale
di
M.
BARNI,
Medicina
della
scelta
o
medicina
delle
evidenze?,
in
Riv.
Ital.
Med.
Legale
XXIV/3-‐
8/2002);
ed
al
lavoro
di
FEDERSPIEL
G.
E
VETTOR
R.,
La
evidence
based
medicine:
unariflessione
critica
sul
concetto
di
evidenza
in
medicina,
in
Ital.
Heart
J.,
Suppl.
Vol
2,
Giugno
2001.
[17]
COCHRANE
A.,
Effectiveness
and
efficacy.,
Nuffield
Provincial
Hosp.Trust,
London,
1972
(Efficienza
ed
efficacia.Il
Pensiero
Scientifico
Ed.,
Roma,
1999).
[18]
KUHN
T.S.,
The
structure
of
scientific
revolutions,
Chicago
Univ.
Press,
1962.
[19]
Si
impiega
la
denominazione
di
test
diagnostico
quando,
applicata
al
singolo
individuo,
la
tecnica
usata
è
in
grado
di
rivelare
una
condizione
morbosa
(malattia
in
atto,
o
disordine
di
funzione,
ecc..)
e
–
nel
caso
dei
test
genetici
–
indicare
se
quella
determinata
persona
possiede
uno
o
più
tratti
genetici
che
possono
predisporre,
o
determinare
in
futuro,
lo
sviluppo
di
malattie
o
disordini
funzionali
della
stessa,
ovvero
dar
luogo
a
malattie
o
disordini
funzionali.
[20]
Secondo
Ann
MC
KIBBON
e
coll.
(2000),
la
sensibilità
misura
la
proporzione
di
pazienti
affetti
dalla
patologia
o
condizione
in
esame
che
hanno
un
risultato
positivo.
La
specificità
del
test
misura
la
proporzione
di
pazienti
non
affetti
dalla
patologia
o
condizione
in
esame
che
hanno
un
risultato
negativo
al
test.
Sia
la
sensibilità
che
la
specificità
devono
essere
elevate
perché
un
test
diagnostico
sia
di
vera
utilità
in
ambito
clinico.
Nella
pratica,
entrambe
dovrebbero
superare
l’80%
perché
il
test
sia
clinicamente
utile.
Per
i
test
di
screening,
la
performance
dovrebbe
essere
prossima
alla
perfezione
(100%)
per
evitare
di
diagnosticare
erroneamente
soggetti
non
affetti
dalla
patologia
in
esame;
i
test
diagnostici
invece
possono
funzionare
bene
con
una
sensibilità
ed
una
specificità
minori.
Nessun
test
ha
una
sensibilità
ed
una
specificità
del
100%.
Spesso,
se
il
livello
di
risultato
del
test
viene
aggiustato
per
massimizzare
la
sensibilità,
la
specificità
diminuisce,
mentre
se
il
livello
di
risultato
del
test
viene
aggiustato
per
massimizzare
la
specificità,
diminuirà
la
sensibilità.
Il
potere
predittivo
positivo
è
la
proporzione
di
pazienti
risultati
positivi
al
test
che
hanno
la
malattia
o
condizione
in
esame.
Il
potere
predittivo
negativo
è
la
proporzione
di
pazienti
risultati
negativi
al
test
che
non
hanno
la
malattia
o
condizione
in
esame.
81
I
valori
predittivi
vengono
influenzati
dalla
prevalenza
della
condizione
in
esame
nella
popolazione
oggetto
di
studio.
Per
la
valutazione
di
un
test
diagnostico,
la
prevalenza
è
la
proporzione
di
pazienti
affetti
da
una
data
condizione
su
tutti
i
pazienti
testati.
La
prevalenza
viene
anche
talvolta
definita
probabilità
pre-‐test
o
verosimiglianza
pre-‐test
di
una
malattia
o
condizione
[21]
I
temi
erano
i
seguenti:
• sviluppo
storico
dei
sistemi
di
valutazione
in
medicina;
• differenze
internazionali
nell’approccio
alla
valutazione
in
medicina;
• differenze
interdisciplinari
nella
valutazione;
• politica
degli
studi
randomizzati
controllati;
• partecipazione
dei
consumatori
negli
studi
randomizzati
controllati;
• industria,
regole
governative
e
studi
clinici;
• qualità
degli
studi
randomizzati
controllati;
• il
lavoro
quotidiano
della
conduzione
di
studi
randomizzati
controllati;
• studi
di
particolare
significato
storico
o
metodologico;
• come
gli
studi
clinici
influenzano
la
pratica
clinica;
• studi
clinici
e
politica
sanitaria
–
priorità
e
studi
clinici;
• il
futuro
della
valutazione
nelle
scienze
sanitarie
[22]
B.
PITT
E
COLL.,
così
si
esprimono
nella
prefazione
alla
monografia
“La
sperimentazione
clinica”
(Il
Pensiero
Scientifico
Ed.,
Roma,
2000):
“E’
di
importanza
cruciale
che
tale
valutazione
sia
oggettiva
e
imparziale,
e
che
venga
attuata
ogni
possibile
strategia
per
evitare
errori
sistematici
e
distorsioni
(bias)
nella
selezione
dei
pazienti,
nella
gestione,
nel
follow-‐up
e
nella
valutazione
dei
risultati.
Lo
studio
clinico
controllato
randomizzato
è
l’unico
strumento
affidabile
per
ottenere
risultati
di
alto
livello
nella
ricerca
clinica.
[23]
BOISSEL
J.P.,
LEIZOROVIEZ
A.,
Disegno
e
condizione
di
uno
studio
clinico,
in
B.
PITT
E
COLL.,
La
sperimentazione
clinica,
Il
Pensiero
Scientifico
Ed.,
Roma,
2000
(pp
1-‐44).
[24]
La
regressione
verso
la
media
si
osserva
quando
un
soggetto
viene
selezionato
sulla
base
di
un
valore
alto
o
basso
di
un
parametro
fisiologico.
E’
un
fenomeno
puramente
statistico,
la
cui
estensione
dipende
dal
processo
di
reclutamento
dei
pazienti.
Dato
che
lo
stesso
parametro
viene
misurato
anche
successivamente
nel
corso
dello
studio,
il
nuovo
valore
osservato
sarà
–
in
generale
–
più
vicino
a
quello
della
media
della
popolazione.
Il
risultato
è
che,
dopo
qualche
tempo,
il
valore
anormale
di
selezione
si
è
spostato
verso
il
valore
medio
della
popolazione
e
se
l’evoluzione
della
malattia
viene
valutata
utilizzando
il
cambiamento
osservato
nel
parametro,
un
cambiamento
puramente
statistico
potrebbe
essere
visto
come
cambiamento
dello
stato
di
malattia.
La
definizione
di
placebo
si
applica
“a
qualsiasi
trattamento
che
non
ha
un’azione
specifica
sui
sintomi
soggettivi
e
sui
segni
obiettivi
di
un
processo
morboso”
(G.Folli,
1994,
p.87);
dunque
può
essere
una
“sostanza
priva
di
qualsiasi
attività
farmacologica”
(sostanza
inerte,
definita
come
placebo
puro)
o
–
quanto
meno
non
fornita
di
attività
specifica
per
la
condizione
morbosa
o
alle
dosi
in
cui
viene
impiegata
(placebo
impuro)
(L.
Candia,
1994,
p.
21).
FOLLI
G.,
L’uso
del
placebo
in
trials
clinici:
significato
scientifico
e
valore
sperimentale,
in
SPAGNOLO
A.G.,
SGRECCIA
E.,
(a
cura),Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero
Ed.,
Milano,
1994,
pp.
85-‐
90.
CANDIA
L.,
L’uso
del
placebo
nei
trial
clinici:
considerazioni
etico
deontologiche,
in
SPAGNOLO
A.G.,
SGRECCIA
E.(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero
Ed.,
Milano,
1994,
pp.
85-‐90.
[25]
ANN
MCIBBONet
al.,
Guida
alla
evidence-‐based
medicine,
Il
Pensiero
scientifico
Ed.,
Roma,
2000.
82
[26]
A.
MC
KIBBON
e
coll.
(l.c.),
così
descrivono
il
criterio
in
esame:
“Tre
sono
i
gruppi
di
persone
solitamente
coinvolti
in
studi
clinici:
i
pazienti,
gli
operatori
sanitari
ed
il
personale
che
lavora
alloallo
studio.
Ilprocesso
di
blindingdenominato
“cieco”
si
riferisce
in
genere
alla
non
conoscenza
del
gruppo
diassegnazione
o
delpaziente
oppure
dell’operatore
sanitario.
Il
“doppio
cieco”
si
riferisce
in
genere
al
fatto
che
né
il
paziente
né
l’operatore
sanitario
sanno
quale
trattamento
medico
o
altro
tipo
di
intervento
il
paziente
stia
ricevendo.
Il
“triplo
cieco”
comporta
che
né
l’operatore
sanitario
né
il
paziente
né
il
personale
che
lavora
allo
studio,
compreso
il
personale
che
gestisce
i
dati,
sanno
quale
dei
trattamenti
sia
quello
attivo
e
quale
il
placebo
o
il
trattamento
standard
fino
al
completamento
dell’analisi
finale
dei
dati”
(pag.47).
Secondo
questi
AA.,
il
triplo
cieco
è
molto
importante
per
gli
studi
sponsorizzati
dall’industria
farmaceutica.
Le
case
farmaceutiche
sono
spesso
criticate
per
il
fatto
di
anteporre
i
loro
profitti
alla
corretta
pubblicazione
dei
dati
negativi
relativi
ai
loro
prodotti,
e
questo
sistema
di
triplo
cieco
esteso
a
tutti
i
livelli
aiuta
tutti
i
fruitori
della
ricerca
medica
a
poter
fare
affidamento
sui
risultati
finali
che
vengono
pubblicati.
Il
doppio
cieco
è
la
forma
più
comune
di
procedura
diblinding”
(pag.48).
[27]
“Un
esempio
di
follow-‐up
facile
è
uno
studio
a
breve
termine
disegnato
per
valutare
i
benefici
relativi
di
un
trattamento
antidolorifico
standard
per
via
endovenosa
con
uno
strumento
controllato
dal
paziente
tramite
un
sistema
di
iniezione
a
pompa,
nelle
prime
24
ore
dopo
un
intervento
di
cardiochirurgia.
In
questo
tipo
di
studio
è
facile
avere
un
follow-‐up
del
100%.
Il
follow-‐up
è
molto
più
difficile
quando
lo
studio
dura
più
a
lungo,
i
pazienti
sono
più
mobili
ed
esistono
minori
incentivi
per
mantenere
l’interesse
dei
pazienti.
Esempi
di
follow-‐up
difficile
sono
un
programma
di
cura
e
prevenzione
della
diffusione
della
tubercolosi
nei
senzatetto
o
studi
poliennali
di
trattamento
con
metadone
e
colloqui
periodici
di
pazienti
con
problemi
di
tossicodipendenza”
(pag.49).
[28]
GALBRAITH
S.,
STAT
M;
MARSCHNER
I,
Guidelines
for
the
design
of
clinical
trials
with
longitudinal
outcomes,
Controlled
Clinicaltrials
23,
257-‐273,
2002.
[29]
Perunapiù
ampia
rassegna
delle
condizioni
di
monitoraggio
si
legga:
CURTIS
L.
MEINERT,Clinical
trials
andtreatementEffects
Monitoring,
Controlled
Clinical
Trials
19,
515-‐522,
1998
[30]
“Il
principio
consiste
nello
stabilire
un’ipotesi
nulla,
che
indica
cioè
che
il
valore
della
differenza
tra
i
cambiamenti
è
zero,
e
calcolare
la
probabilità
(valore
di
P)
della
differenza
osservata
rispetto
all'ipotesi
nulla.
Se
il
valore
di
P
è
alto,
l’esperimento
non
è
stato
in
grado
di
dimostrare
una
differenza,
o
perché
questa
non
esiste
realmente,
o
perché
i
dati
non
erano
sufficienti.
Ciò
può
essere
dovuto
o
a
una
dimensione
dell’effetto
minore,
o
a
una
variabilità
nei
risultati
maggiore
rispetto
al
previsto.
In
entrambi
i
casi
il
numero
di
pazienti
arruolati
nello
studio
era
troppo
bassa
(per
scoprire
un
effetto).
E’
importante
sottolineare
che
il
test
di
significatività
non
è
in
grado
di
distinguere
tra
queste
due
alternative.
Se
il
valore
di
P
è
piccolo,
di
norma
inferiore
a
0.05,
si
può
concludere
che
non
è
probabile
che
la
differenza
sia
un
effetto
del
caso.
Il
test
di
per
sé
non
dice
nulla
a
proposito
di
qualsiasi
relazione
di
causalità
tra
la
differenza
osservata
e
il
trattamento
valutato.
Questo
problema
si
collega
all’assenza
di
bias
nel
disegno
e
nell’esecuzione
di
uno
studio
clinico”
(pag.14).
[31]
Si
ottiene
la
risposta
con
una
procedura
in
due
fasi,
secondo
PITT
e
altri
(2000).
“Per
prima
cosa
si
dovrebbe
dimostrare
che
la
differenza
tra
i
due
gruppi
è
stata
causata
dall’intervento,
e
che
pertanto
la
dimensione
osservata
dell’effetto
è
un
valore
reale,
dato
l’ambito
sperimentale…
In
secondo
luogo,
stabilito
che
la
prima
fase
si
sia
conclusa
con
un
sostegno
soddisfacente
alla
relazione
di
causalità,
si
vorrebbe
conoscere
il
valore
della
dimensione
dell’effetto.
La
teoria
statistica
della
stima
dimostra
che
il
valore
più
probabile
dell’effetto
vero
è
la
differenza
osservata,
ma
che
altri
valori,
sebbene
meno
probabili,
sono
perfettamente
coerenti
con
i
dati
83
raccolti.
Allo
scopo
di
fornire
al
ricercatore
uno
spettro
di
tali
valori,
si
calcolano
i
limiti
fiduciari,
che
costituiscono
l’intervallo
dei
veri
valori
che
non
sono
significativamente
diversi
dalla
differenza
osservata
a
un
livello
di
X%.
Dato
che
X
è
di
norma
fissato
al
5%
di
significatività,
i
limiti
fiduciari
sono
di
conseguenza
al
95%”.
[32]
CALAMO
SPECCHIA
F.P.,
FUSCO
A.,
LOJUDICE
M.T.,
Etica
e
statistica
nella
gestione
dei
dati
sperimentali
in
SPAGNOLO
AG.,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero,
Milano
1994
(pp.
211-‐226).
[33]
MEINERT
C.L.,
TONASCIA
S.,
HIGGINS
K.,
Contents
of
reports
on
clinical
trials:
a
critical
review,
Controlled
Clinical
Trials
5
(1984),
pp
328-‐347.
[34]
R.
MORTON,
The
clinicaltrials:
deceitful
,
disputable,
unbelievable,
unhelpful,
shameful
:
what
next?,
ControlledClinical
Trials,
22,
593-‐604,
2001.
[35]
MC
KIBBON
A.
ET
AL.,
Storia
naturale
e
prognosi,
in
MC
KIBBON
A.
ET
AL.,
Guida
alla
evidence
basedmedecine,Il
Pensiero
Scientifico,
Roma,
2000.
[36]
BRAWLEY
OW,
A
study
of
untreated
syphilis
in
Negro
male,
Int.J.
Radiat.Oncol.Bio.Phys-‐40,
5-‐
8,
1998.
[37]
Pertanto,
valgono
le
indicazioni
dell’Evidence-‐Based
Medicine
Working
Group
per
gli
studi
di
storia
naturale
e
di
prognosi
in
ordine
all’importanza
per
i
clinici
(LAUPACIS
A.
et
al.,
User’s
guides
to
medical
literature:
how
to
use
and
article
about
prognosis,JAMA,
1994;
272:
234-‐7):
• campione
ben
definito
di
pazienti
ad
uno
stesso
punto
del
decorso
della
malattia;
• lunghezza
e
completezza
del
follow-‐up;
• criteri
di
esito
oggettivi
e
non
soggetti
a
bias;
• aggiustamento
per
i
fattori
prognostici
importanti
[38]
Anche
il
Comitato
Nazionale
per
la
Bioetica
(CNB)
non
ha
mancato,
in
più
occasioni,
di
trattare
l’argomento.
Si
vedano,
ad
es.,
i
“Pareri”
seguenti:
• I
comitati
etici
(27
febbraio
1992)
• Informazione
e
consenso
all’atto
medico
(20
giugno
1992)
• La
sperimentazione
dei
farmaci
(17
novembre
1992)
• Sperimentazione
sugli
animali
e
salute
dei
viventi
(8
luglio
1997)
[39]
Scrivono
FIEDERSPIL
e
VETTOR:
“Oggi,
quindi,
la
conoscenza
scientifica
non
è
più
considerata
come
una
conoscenza
“vera”
né
tanto
meno
come
una
conoscenza
“certa”,
ma
solo
come
una
conoscenza
“fondata
ed
oggettiva”.
Il
termine
oggettività
può
avere
però
due
sensi
diversi
che
è
opportuno
distinguere.
Da
un
lato
esso
può
essere
inteso
sia
in
senso
forte,
per
il
quale
è
“oggettivo”
ciò
che
è
“proprio”
di
un
oggetto
ovvero
ciò
che
inerisce
a
quell’oggetto,
sia
in
senso
debole,
per
cui
“oggettivo”
è
ciò
che
prescinde
dai
gusti,
dalle
preferenze
personali,
dai
sentimenti,
dalle
speranze
del
soggetto.
Come
ha
sottolineato
Michael
Dummett,
“la
scienza
(….)
cerca
delle
descrizioni
della
realtà
che
prescindano
dalla
nostra
collocazione
specifica
nell’universo
e
dai
nostri
mezzi
per
percepire
le
cose”.
Fra
i
metodologi
della
scienza
prevale
oggi
il
secondo
senso
della
parola
per
cui
l’oggettività
viene
identificata
con
l’intersoggettività.
Le
“cose”
–
molecole,
specie
animali,
pianeti,
farmaci,
fiumi,
catene
montuose,
raggi
luminosi,
ecc.
–
che
fanno
parte
della
scienza
sono
in
realtà
concetti,
ovvero
oggetti
“costruiti”
mediante
l’uso
di
alcuni
criteri
operativi
che
sono
stati
preliminarmente
accettati
dalla
comunità
scientifica.
Ciò
vuol
dire
che
nella
costruzione
del
loro
sapere
i
membri
della
comunità
scientifica
stipulano
fin
dall’inizio
un
accordo
che
li
vincola
ad
accettare
alcuni
criteri
per
definire
gli
“oggetti”
che
costituiranno
l’ambito
di
una
certa
disciplina
scientifica”.
L’accordo
sul
significato
di
un
termine
non
è
però
sufficiente
a
fondare
l’oggettività
scientifica.
Affinché
si
possa
parlare
di
oggettività
è
infatti
necessario
che
le
operazioni
da
effettuare
e
i
risultati
siano
osservabili
e
registrabili,
almeno
in
via
di
principio,
da
tutti
e
alla
stessa
maniera.
Così,
non
basta
che
tutti
gli
immunologi
siano
d’accordo
sul
fatto
che
un
antigene
84
sia
una
sostanza
che
provoca
la
produzione
di
anticorpi
ma
è
necessario
che
la
presenza
degli
anticorpi
possa
essere
messa
in
luce
mediante
una
serie
di
tecniche
effettuabili
da
tutti
e
sia
osservabile
da
tutti.
“La
determinazione
oggettiva
(..)
–
ha
scritto
Agazzi
–
è
quella
che
deve
valere
per
tutti
i
soggetti
che
si
occupano
di
quel
determinatooggetto”.
Ciò
significa
“semplicemente
che
chiunque
si
metta
in
grado
di
usare
certi
strumenti
e
di
compiere
certe
operazioni,
deve
ritrovare
lo
stesso
risultato”.
Quel
che
si
è
detto
finora
riguarda
l’oggettività
delle
osservazioni
e
dei
concetti
scientifici,
tuttavia,
è
anche
necessario
considerare
l’oggettività
delle
ipotesi
e
delle
teorie
scientifiche.
Di
fronte
ad
un
certo
numero
di
risultati
sperimentali
un
ricercatore
può
sempre
proporre
diverse
ipotesi
esplicative,
ma
è
possibile
sostenere
che
tutte
le
congetture
possibili
sono
ipotesi
oggettive?
Ad
una
simile
domanda
appare
naturale
rispondere
negativamente,
tuttavia
una
simile
risposta
solleva
immediatamente
il
problema
della
distinzione
fra
le
ipotesi
oggettive
e
quelle
non-‐oggettive.
Al
problema
dell’oggettività
Karl
Popper
ha
trovato
una
soluzione
che
è
divenuta
ormai
classica:
“Dirò
soltanto
–
ha
scritto
nella
sua
“Logica
della
scoperta
scientifica”
–
che
l’oggettività
delle
asserzioni
della
scienza
risiede
nel
fatto
che
esse
possono
essere
controllate
intersoggettivamente”.
(FEDERSPIEL
G.,
VETTOR
R.,
l.c.,
p.
681)
[40]
DELLA
TORRE
G.,
La
protezione
dei
soggetti
di
sperimentazione:
il
consenso
informato
e
il
consenso
di
chi
non
può
consentire,
in
SPAGNOLO
AG,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica,
Vita
e
Pensiero
Ed.,
Milano,
1994
,
pp141-‐170.
[41]
WALDRON
J.
(Ed.),
Theories
of
Rights,
OxfordUniv.Press,
Oxford,
1995
[42]
Si
rinvia
,
in
questa
sede,
alle
relazioni
dei
Prof.ri
MAY
e
soprattutto
A.
LORETI
BEGHÉ
e
A.
SPAGNOLO
per
gli
aspettigiuridici
e
operativi.
[43]
E.
RAPAPORT
(2001),
scrive:
“Gli
studi
clinici
randomizzati
controllati
con
placebo
forniscono
l’approccio
scientifico
più
valido
attualmente
disponibile
per
stabilire
se
una
particolare
scelta
diagnostica,
preventiva
o
terapeutica
può
modificare
uno
specifico
risultato.
Stabilita
la
correttezza
del
disegno,
questa
tipologia
di
studi
clinici
fornisce
non
solo
la
possibilità
di
verificare
se
esiste
un
beneficio,
ma
aiuta
anche
a
quantificare
il
livello
di
efficacia
che
può
essere
raggiunto
in
relazione
a
uno
o
più
obiettivi
primari
o
secondari
predefiniti.
Le
scelte
dei
medici
in
merito
alla
cura
dei
pazienti
dipendono
sempre
più
spesso
dai
risultati
forniti
dagli
studi
clinici
randomizzati.
Sebbene
l’esperienza
accumulata
nella
cura
di
una
particolare
malattia
sia
importante,
gli
studi
clinici
randomizzati
forniscono
una
dimostrazione
obiettiva
sulla
quale
ogni
medico
dovrebbe
basare
le
proprie
decisioni.
Se
gli
studi
clinici
randomizzati
nonvengono
realizzati
su
vasta
scala
per
valutare
terapie
importanti,
il
clinico
potrebbe
trovarsi
in
una
posizione
difficile,
incapace
di
stabilire
quale
sia
la
cura
migliore
per
un
particolare
paziente.
[44]
S.
D.
HALPERN
(in
HALPERN
S.D.,
Prospective
preference
assessment:
a
method
to
enhance
the
ethics
and
efficiencyofrandomizedcontrolled
trials,
Controlled
Trials
23,
274-‐288
(2002))
ha
sottolineato
queste
difficoltà,
che
portano
spesso
ad
uno
scarso
arruolamento,
a
limitazione
dell’efficienza
dello
studio
ed
hanno
indotto
a
varie
proposte
per
risolvere
la
questione.
Peraltro,
si
va
diffondendo
il
principio
dell’adattamento
personallizzato
alla
ricerca
clinica
(adattive
clinical
trials:
ACTs),
con
il
quale
il
singolo
paziente
viene
immesso
in
un
braccio
di
trattamento
in
rapporto
alle
informazioni
disponibili.
Questo
criterio
è
tuttora
limitato
,
almeno
in
USA,
per
vari
motivi
logistici
e
statistici
e
per
il
peso
considerevole
che
rivestono
i
bias,
ma
–
secondo
PULLMAN
D.
e
WANG
X.[
in
D.PULLMAN,
WANG
X.,
Adaptive
design,
informed
consent
and
the
ethics
of
research,
Controlled
Clinical
Trials
22,
203-‐210
(2001)
]
dovrebbe
essere
il
criterio
di
scelta
di
fronte
alle
situazioni
cliniche
più
difficili.
[45]
Molti
autori
hanno
insistito
su
questo
aspetto.
Fra
gli
altri,
BEAUCHAMP,
CHILDRESS
J.F.,
Principles
of
medical
ethics,
4a
ed.,
Oxford
University
Press,
New
York,
1994;
DAUGHERTY
85
CK,
Hope
and
the
limits
of
research,
Hastings
Center
Rep.
26,
20-‐21,
1996;
KASS
NE.
ET
AL.,
The
fragile
foundation
of
contemporary
biomedical
research,
Hastings
Center
Rep.
26,
25-‐29,
1996.
[46]
TAUBES
G.,
Use
of
placebo
controls
in
clinical
trials
disputed,
Science
257,
25-‐6,
1995
[47]
LILFORD
RJ,
JACKSON
J.,
Equiposis
and
the
ethics
of
randomization,
J.
Royson.
Med.
88,
532-‐9,
1995
[48]
ROTHMAN
K.J,
MICHELS
KB,
The
continuing
unethical
use
of
placebo
controls,
New
Engl.
J.Med.
331,
394/8,
1993
[49]
Si
rinvia,
per
la
trattazione
di
questi
argomenti,
allarelazione
di
A.Loreti-‐Begué
in
questa
stessa
sede
congressuale
[50]
CANDIA
L.
(l.
cit.)
[51]
Si
veda,
oltre
al
citato
contributo
di
D.PULLMAN
E
X.
WANG
(2001),
anche
BERRY
D.A.,
EICK
SG.,
Adaptive
assignement
versus
balanced
randomization
in
clinical
trials,
Stat.
Med.
14,
231-‐246
(1995).
[52]
SGRECCIA
E.,
La
politica
della
ricerca
biomedica:
valori
e
priorità
(in
questa
sede).
[53]
Spesso
–
è
stato
segnalato
–
le
ricerche
su
vasta
scala
di
trials
clinici
randomizzati
cercano
di
strappare
pochi
punti
di
vantaggio
percentuali
sul
“golden
standard”
attuale,
e
pertanto
necessitano
di
amplissime
casistiche
e
tempi
lunghi
di
realizzazione,
a
scapito
degli
investimenti
su
settori
trascurati
e
di
bassa
frequenza
nei
paesi
economicamente
vantaggiosi
ai
fini
economici
ma
di
altissima
frequenza
in
altri
paesi
economicamente
svantaggiati
(questione
delle
cosiddette
malattie
orfane,
e
dei
farmaci
orfani).
In
ogni
caso,
non
è
affatto
garantito
che
i
“vantaggi”
assicurati
da
tali
trials
si
diffondano
realmente,
con
sufficiente
ampiezza
e
rapidità,
nell’ambito
della
medicina
pratica,
così
da
apportare
benefici
concreti
al
miglioramento
dell’assistenza.
[54]
Sull’argomento,
vedesi
D.
ROTHMAN,
The
Shame
of
medical
research,
New
York
Review,
Nov.
30,
60-‐64,
2000;
National
Bioethics
Advisory
Commission:
“Ethical
and
political
issues
in
international
research”,
Bethesda
NBAC
2001.
[55]
Esempi
dell’utilizzazione
per
attività
sperimentali
di
malati
terminali
(preagonici,
ma
con
coscienza
conservata)
o
di
soggetti
in
stato
vegetativo
permanente,
per
quanto
rare,
ci
vengono
anche
di
recente
dalla
letteratura
americana
(v.
J.
COUZIN,
Study
of
brain
dead,
Science
295
,
1210/11,
2002).
Nel
primo
caso
si
suggerisce
il
rispetto
delle
volontà
del
paziente,
nel
secondo
il
“consenso
indiretto”
dei
famigliari.
Si
rinvia
alla
relazione
di
A.
Spagnolo
per
ulteriori
approfondimenti
in
questa
sede.
[56]
PITT
(2001)
ricorda
la
raccomandazione
di
LEVIN
e
coll.
(1991)
a
proposito
di
una
“consultazione
sociale”
che
coinvolga
i
potenziali
soggetti,
le
organizzazioni
sociali,
le
agenzie
che
erogano
finanziamenti,
e
tutte
le
parti
che
possono
avere
un
ruolo
nella
preparazione
di
uno
studio
clinico.
Sutherland
et
al.,
citati
da
Pitt
(2001),
sottolineano
l’importanza
del
contesto
sociale
nella
progettazione
di
uno
studio.
Essi
enfatizzano
i
potenziali
benefici
di
una
consultazione
sociale
e
suggeriscono
perfino
una
più
ampia
partecipazione
nel
disegno
di
uno
studio.
Hanno
individuato
una
lista
di
punti
che
comprende
le
considerazioni
generali,
quelle
scientifiche
e
quelle
etiche
che
potrebbero
essere
utili
allo
sperimentatore
per
pianificare
uno
studio,
al
comitato
etico
locale
per
la
sua
approvazione,
e
alle
riviste
per
decidere
sulla
sua
pubblicazione.
Di
recente
S.
HALPERN
(in
S.
HALPERN,
Prospective
preference
assessment:
a
method
to
enhance
the
ethics
and
efficiency
of
randomized
controlled
trials,
Controlled
Clinical
Trials
23,
2002,
274-‐
288)
di
fronte
alle
dimostrate,
crescenti
difficoltà
di
arruolamento
riscontrate
per
i
clinical
trials
in
USA,
documenta
il
vantaggio
di
una
discussione
preliminare
con
gli
arruolandi,
capace
di
aumentare
il
loro
interesse
a
partecipare
alla
ricerca
e
modulare
le
metodologie
sulla
compliance
degli
stessi,
senza
sacrificare
l’efficienza
della
ricerca.
Esiste,
ormai,
una
discreta
letteratura
su
86
queste
esigenze
[v.
anche
P.
PEDUZZI
ET
AL.,
Research
on
informed
consent:
investigator-‐
developped
versus
focus
group-‐developped
consent
documents,
a
VA
cooperative
study,
in
Controlled
Clinical
Trials
23
(2002)
178-‐197]
[57]
ANTONOVSKY
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Health,
stress
and
coping.
New
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and
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1979.
[58]
STRANG
S.,STRANG
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Spiritual
thoughts,
coping
and
sense
of
coherence
in
brain
tumor
patients
and
theirs
spouses,
Palliat.
Med.
152,
127-‐134,
2001.
[59]
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antico
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del
paziente
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sperimentazione
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dei
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partecipazione
del
paziente
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1995
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partecipazione
del
paziente
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suo
trattamento,
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[66]
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I
concetti
fondamentali
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Queriniana
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Brescia,
1991.
[67]
Che
vi
siano
condizioni
di
potenziale
conflitto
in
quella
“difficile
alleanza”
che
caratterizza
l’incontro
fra
il
ricercatore
universitario
e
l’industria
farmaceutica
è
opinione
sostenuta
da
molti
[v.
ad
es.
R.
MORTON,
The
clinical
trial:
deceitful,
disputable,
unbelievable,
unhelpful,
and
shameful:
what
next?,
Controlled
Clinical
Trials
22,
593-‐604
(2001);
T.
BODENHENMER,
Uneasy
alliance:
clinical
investigators
and
the
pahrmaceutical
industry,
New
Engl.
J.
Med.
342,
1539-‐1544
(2000)].
L’American
Medical
College
(AAMC)
ha,
di
recente,
emanato
linee
guida
dirette
ad
impedire
lo
svolgimento
di
trials
clinici
da
parte
di
ricercatori
che
abbiano
interessi
economici
nelle
industrie
farmaceutiche
proponenti
[Protecting
subjects,
Preserving
Trust,
Promoting
progress:
policy
and
guidelines
for
the
oversight
of
individual
financial
interest
in
Human
Subjects
Research,
www.aamc.org/member/coitf]
(v.
J.
Kaiser,
Science
295,
246/247,
2002).
[68]
Gli
sperimentatori,
come
affermato
nei
recenti
studi
sul
cancro,
potrebbero
non
seguire
i
criteri
di
inclusione
ed
esclusione
di
un
protocollo
randomizzato,
mentre
l’inclusione
di
pazienti
ineleggibili
potrebbe
compromettere
la
validità
e
l’interpretazione
dei
risultati.
D’altra
parte
se
ci
si
accorge
che
pazienti
non
eleggibili
sono
stati
inclusi
nello
studio,
non
si
può
facilmente
escluderli
dall’analisi
senza
compromettere
i
presupposti
di
una
randomizzazione
bilanciata.
Una
analisi
intention-‐to-‐treat,
che
rappresenta
l’approccio
meno
esposto
ai
potenziali
errori
sistematici,
richiede
che
tutti
i
pazienti
randomizzati
siano
inclusi
nell’analisi
finale.
L’inserimento
in
uno
studio
randomizzato
di
pazienti
ineleggibili
allo
scopo
di
aumentare
la
numerosità
o
perché
lo
sperimentatore
desidera
fornire
una
terapia
nuova
e
potenzialmente
salvavita
a
un
dato
paziente,
minaccia
l’interpretazione
dei
risultati
dello
studio,
ed
è
quindi
un
atto
non
etico.
Il
rischio
a
cui
il
paziente
viene
esposto,
lo
sforzo
dello
sperimentatore,
l’impiego
di
fondi
sia
pubblici
che
privati,
potrebbero
essere
stati
sprecati
qualora
i
risultati
di
uno
studio
clinico
randomizzato
fossero
non
interpretabili
o
interpretati
erroneamente
a
causa
87
dell’inserimento
di
pazienti
ineleggibili.
Questo
raggiro
da
parte
degli
sperimentatori
è
sempre
stato
trascurato
o
minimizzato,
sebbene
non
sia
meno
pericoloso
della
falsificazione
dei
dati.
La
raccolta
incompleta
dei
dati
può
a
sua
volta
mettere
in
pericolo
la
capacità
di
uno
studio
randomizzato
di
dimostrare
la
sicurezza
o
l’efficacia
di
una
data
strategia
terapeutica.
La
mancata
aderenza
al
protocollo
e
la
raccolta
incompleta
dei
dati
sulle
apposite
schede,
sono
motivazioni
che
dovrebbero
essere
utilizzate
per
impedire
la
partecipazione
di
uno
sperimentatore
a
successivi
studi.
La
partecipazione
di
uno
sperimentatore
a
uno
studio
clinico
dovrebbe
essere
considerata
un
privilegio
piuttosto
che
un
diritto,
e
implica
delleresponsabilità
che
vanno
prese
molto
seriamente
se
si
vuole
che
i
rischi
dei
pazienti
siano
giustificati”
(PITT,
2001,
pag.112-‐113).
[69]
DI
TROCCHI
F.,
(l.cit.).
[70]
PORTIGLIATTI-‐BARBOS
M.,
MAGGIONA
B.
(l.cit.).
[71]
J.
RANSTAM
et
al.
(2000),
Fraud
in
medical
research:
an
international
survey
of
biostatisticians,
Control
Clinical
Trials
21
(2000);
415-‐427.
[72]
E.
STOKSTAD
(in
STOKSTAD
E.,
Data
Hoarding
blocks
progress
in
genetics,
Science
295,
599,
2002)
segnala
i
risultati
di
una
richiesta
condotta
dall’Institute
for
Health
Policy,
USA
su
1240
genetisti
e
altri
60
ricercatori
di
100
Università
che
ricevono
fondi
pubblici
dal
NIM,
ben
l’84%
riferisce
di
aver
chiesto
informazioni
o
materiale
ad
altro
collega,
ma
il
47%
denuncia
di
non
aver
avuto
risposta
nei
tre
anni
considerati;
provocando
il
28%
di
rinuncia
alla
collaborazione
ed
il
21%
di
abbandono
di
promettenti
linee
di
ricerca.
I
motivi
della
mancata
risposta/collaborazione
sono
addotti
per
il
90%
all’impegno
necessario
a
produrre
il
materiale
o
l’informazione
richiesta,
per
il
64%
alla
protezione
del
lavoro
dei
collaboratori;
al
50%
alla
protezione
della
propria
capacità
di
pubblicazione
dei
dati;
il
28%
alla
sfiducia
di
poter
godere
di
reciprocità
di
trattamento;
il
27%
alla
tutela
degli
interessi
dello
sponsor,
ecc..
88
GONZALO
HERRANZ
INTRODUZIONE
Gli
studi
sulla
breve
ma
intensa
storia
dell’etica
della
ricerca
biomedica
(erbm)[1]
non
sono
pochi.
È
interessante
rilevare
come,
al
di
là
delle
ovvie
differenze
di
vedute
e
di
approccio,
molti
fra
questi
studi
mostrano
una
spiccata
propensione
in
favore
di
un’interpretazione
convergente
sul
tema,
se
non
uniforme.
La
coincidenza
è
sufficientemente
evidente
da
far
sospettare
che
si
sia
ottenuto
un
accordo
informale
fra
gli
autori
non
solo
relativamente
ai
fatti
principali
da
includere
e
sottolineare
nelle
loro
riflessioni,
ma
anche
riguardo
alla
prospettiva
secolarizzata
e
scientista
con
cui
interpretare
e
ricostruire
la
storia
.
Sembra
che
sia
stato
ottenuto
un
consenso
generale
sul
luogo
e
sul
tempo
di
nascita
dell’erbm,
sui
capisaldi
che
scandiscono
la
sua
evoluzione,
sulle
questioni
dominanti
che
la
caratterizzano
e,
soprattutto,
sulle
forze
interne
che
ne
sospingono
i
progressi[2].
Risultato
di
tale
interpretazione
dominante
è
la
grande
diffusione
di
una
storia
che
tende
ad
illuminare
alcuni
eventi
come
significativi,
cruciali
e
nello
stesso
tempo
ad
eclissarne
altri
come
banali
e
irrilevanti.
Fra
gli
elementi
svalutati
o
cancellati
dalla
storia
standard
dell’erbm
vi
sono
alcuni
pionieristici
contributi
dell’etica
cristiana,
che,
in
conseguenza
di
ciò,
non
vengono
mai
citati.
Il
presente
articolo
vuole
rappresentare
un
primo
sforzo
per
identificare
e
raccogliere
i
contributi
cristiani
all’erbm
nella
sua
fase
iniziale,
al
fine
di
farli
riemergere
dall’oblio
e
di
offrirli
alla
discussione.
LA
VERSIONE
DOMINANTE
DELLA
STORIA
DELL’ERBM
Non
sarà
qui
fuori
luogo
una
breve
caratterizzazione
dell’approccio
nei
confronti
della
storia
dell’etica
della
ricerca
biomedica.
Solo
su
tale
sfondo
si
può
capire
e
apprezzare
adeguatamente
la
significatività
e
il
valore
degli
aspetti
che
l’etica
cristiana
ha
apportato
alla
costruzione
dell’erbm.
Fra
i
tratti
caratteristici
della
versione
standard
che
domina
la
storia
dell’erbm,
i
seguenti
risultano
particolarmente
attinenti
al
nostro
discorso:
• Il
merito
attribuito
al
Codice
di
Norimberga
di
aver
costituito
il
punto
di
partenza
della
storia
dell’erbm.
• L’aver
etichettato
il
periodo
precedente
Norimberga
come
età
buia.
• La
convinzione
che
solo
dopo
la
pubblicazione
della
Dichiarazione
di
Helsinki
ed
il
Rapporto
Belmont
sia
stato
possibile
riconosce
all’erbm
un’autonomia,
emancipandola
dalla
generica
etica
medica.
• Il
ruolo
esclusivo
ed
eminente
assegnato
all’etica
laicista
nello
sviluppo
dell’erbm.
Il
Codice
di
Norimberga,
un
evento
epocale
Si
afferma
spesso
che
l’erbm
nasce
a
Norimberga
il
20
agosto
1947,
quando
viene
pronunciata
la
sentenza
al
processo
contro
i
medici
nazisti,
colpevoli
di
aver
compiuto
esperimenti
disumani
sui
prigionieri
di
guerra.
Come
è
ben
noto,
la
sentenza
del
Tribunale
Militare
Americano
conteneva
una
sezione,
chiamata
successivamente
Codice
di
Norimberga,
in
cui
erano
enumerate
dieci
89
proposizioni,
quali
principi
etici
fondamentali
da
rispettare
al
fine
di
soddisfare
i
requisiti
morali,
etici
e
giuridici
comunemente
accettati
sulle
pratiche
di
sperimentazione
su
soggetti
umani.
La
promulgazione
dei
Dieci
Punti
del
Codice
di
Norimberga
viene
considerato
l’evento
che
segna
in
germe
il
passaggio
da
una
preistoria
antica
e
scura
ad
un
nuovo
tempo
illuminato.
Una
simile
esaltazione
di
Norimberga
non
appare
pienamente
giustificata.
Essa
rappresenta
piuttosto
l’esito
di
una
riscrittura
artificiale
e
politicamente
interessata
della
storia.
A
ben
vedere,
la
legittimità
del
Codice,
sia
nei
contenuti
etici
di
alcuni
articoli
che
come
punto
di
riferimento
giuridico
per
la
condanna
dei
medici
nazisti
al
processo
medico
di
Norimberga,
è
stata
oggetto
di
fondate
critiche[3].
Ma
un
altro
fatto
è
assai
più
importante:
il
Codice
di
Norimberga
non
esercitò
alcuna
influenza
immediata
sul
comportamento
etico
nella
ricerca
medica.
Il
messaggio
di
Norimberga
non
ebbe
alcun
impatto
sulla
professione
medica
perché
era
specificamente
destinato
a
punire
i
perpetratori
dei
crimini
di
guerra,
e
pertanto
non
aveva
implicazioni
per
i
medici
che,
con
buone
intenzioni,
lavoravano
nei
paesi
liberi
e
democratici.
Solo
due
decenni
più
tardi,
allorché
il
Codice
fu
riscoperto,
fu
riconosciuta
apertamente
la
portata
del
suo
contenuto
etico.
In
particolare,
la
dottrina
sul
consenso
volontario
e
libero
ebbe
il
riconoscimento
quando
comparve
in
due
influenti
documenti
successivi,
la
dichiarazione
di
Helsinki
(1964)
e
il
Rapporto
Belmont
(1979).
Il
recepimento
dei
principi
di
Norimberga
da
parte
dei
Codici
di
Etica
delle
associazioni
mediche
nazionali
seguì
pure
un
corso
lento,
fortuito,
quasi
letargico.
Ebbe
impulso
solo
dopo
il
1975,
quando
l’Associazione
Medica
Mondiale
pubblicò
la
seconda
versione
della
Dichiarazione
di
Helsinki[4].
Prima
di
Norimberga,
un
tempo
buio
Non
è
giusto
relegare
il
periodo
precedente
Norimberga
nella
categoria
di
epoca
buia.
Fu
un
periodo
che
per
molti
aspetti
contrasta
con
il
nostro.
Non
si
avvertiva
alcun
bisogno
di
regolamentare
formalmente
l’erbm,
e
questo
per
svariate
ragioni,
fra
cui
il
mancato
riconoscimento
di
una
chiara
separazione
fra
pratica
ordinaria
e
sperimentazione
clinica:
la
maggior
parte
della
ricerca
era
di
tipo
descrittivo
e
osservativo,
e
la
ricerca
non
alterava
il
comune
rapporto
medico-‐paziente;
pertanto,
la
riflessione
etica
poteva
essere
lasciata
in
disparte
senza
rimorsi.
È
vero
che
prima
di
Norimberga
veniva
attribuita
da
parte
degli
scienziati
più
considerazione
all’ethos
della
ricerca
(la
professione
e
le
virtù
specifiche
del
ricercatore,
la
selezione
e
l’istruzione
dei
giovani
ricercatori,
il
rigore
metodologico,
le
responsabilità
sociali,
il
ruolo
di
consulenza,
i
modelli
di
comportamento)
che
all’etica
vera
e
propria[5].
Ma
è
pure
vero,
come
mostreremo
più
avanti,
che
vi
furono
alcuni
medici
appartenenti
al
circolo
francese
della
Morale
Mèdicale
che
presero
in
considerazione
alcune
questioni
fondamentali
dell’erbm
e
riuscirono
a
portare
avanti
alcuni
concetti
etici
pionieristici
e
sorprendentemente
moderni.
L’oscurità
ingiustamente
attribuita
al
tempo
che
precede
Norimberga
consegue
più
ad
una
disattenzione,
forse
involontaria,
per
alcune
fonti
storiche
che
all’assenza
di
autori
e
di
contributi
significativi.
La
convinzione
che
solo
dopo
la
Dichiarazione
di
Helisinki
ed
il
Rapporto
Belmont
fu
identificabile
una
vera
erbm
Solo
di
recente
fu
,essa
a
punto
una
normativa
specifica
ed
esplicita
riguardante
l’erbm.
Prima
del
1947,
erano
stati
pubblicati
sull’erbm
soltanto
alcuni
documenti
normativi
formali,
che
erano
stati
praticamente
ignorati[6].
90
La
carenza
di
documenti
etico-‐normativi
durante
questo
periodo
è
dovuta
soprattutto
al
fatto
che
fino
a
tempi
relativamente
recenti
la
separazione
fra
pratica
medica
quotidiana
e
sperimentazione
era
poco
percepibile
o
non
riconosciuta.
Claude
Bernard,
figura
dominate
della
medicina
sperimentale,
volendo
fornire
giustificazione
morale
alla
sperimentazione
umana,
attribuisce
carattere
sperimentale
a
qualunque
intervento
medico
o
chirurgico,
oscurando
qualunque
separazione
setta
fra
le
due.
Riassumendo
l’opinione
generale
del
suo
tempo,
Bernard
scrive:
“I
medici
compiono
quotidianamente
esperimenti
terapeutici
sui
loro
pazienti,
mentre
il
chirurgo
pratica
ogni
giorno
vivisezioni
sui
suoi
soggetti.
[…]
Esiste
pertanto
il
dovere
di
sottomettersi
alla
sperimentazione
e
il
diritto
corrispondente
ad
effettuarla
qualora
tale
procedura
sia
in
grado
di
salvare
una
vita,
curare
una
malattia,
o
portare
benefici
personali”[7].
Tale
prospettiva
ci
appare
oggi
tipica
di
un’epoca
da
tempo
superata.
Eppure,
è
opportuno
ricordare
che,
un
secolo
più
tardi,
era
divenuta
opinione
medica
comune
ritenere
che,
poiché
tutto
ciò
che
il
medico
decide
di
compiere
a
favore
del
suo
paziente
si
basa
su
una
conoscenza
parziale
e
confusa,
ogni
atto
clinico
condivide
molti
tratti
dell’esperimento
clinico[8].
Il
ruolo
dominante
ed
esclusivo
assegnato
all’etica
laicista
nello
sviluppo
dell’erbm
Si
possono
invocare
due
fattori
per
spiegare
il
ruolo
subordinato
del
contributo
cristiano
all’erbm.
Da
un
lato,
prima
del
1950,
le
fonti
bibliografiche
di
origine
cristiana
prestarono
attenzione
quasi
esclusivamente
a
questioni
legate
ai
problemi
morali
e
ai
bisogni
spirituali
dei
malati.
Gli
autori
cattolici,
più
che
sull’etica
medica,
si
occuparono
della
medicina
pastorale.
Il
loro
interesse
principale
riguardava
gli
effetti
delle
cure
mediche
sull’osservanza
dei
comandamenti
divini
e
sull’amministrazione
dei
sacramenti
della
Chiesa,
questioni
come
la
sacralità
della
vita
umana
e
la
trasmissione
della
vita,
come
l’aborto
e
l’eutanasia,
la
contraccezione
e
la
sterilizzazione,
la
cura
dei
morenti,
il
segreto
professionale,
la
cooperazione
al
male,
il
matrimonio.
L’interesse
per
l’erbm
era
secondario,
al
punto
che
la
maggior
parte
dei
manuali
non
ne
parlavano
affatto,
o
vi
alludevano
in
maniera
superficiale[9].
Dall’altro
lato,
i
profondi
mutamenti
avvenuti
nel
campo
della
bioetica
contemporanea
hanno
determinato,
come
effetto
collaterale,
la
progressiva
riduzione
al
silenzio
e
l’esclusione
dei
contributi
cristiani
all’erbm.
Durante
gli
anni
Cinquanta
e
Sessanta,
i
principi
e
gli
standard
cristiani
costituivano
una
parte
integrante
degli
articoli
e
delle
direttive
riguardanti
l’erbm[10].
Nei
decenni
seguenti,
sotto
l’influenza
di
molteplici
fattori
(la
ribellione
nei
confronti
dell’autorità,
l’aperto
dibattito
pubblico
su
alcuni
illustri
esempi
di
abusi
e
di
comportamento
scorretto
nella
ricerca,
il
ruolo
sempre
più
intenso
dell’elemento
giudiziario
delle
questioni
bioetiche,
la
crescente
influenza
teorica
e
pratica
dell’etica
situazionista
e
utilitarista,
le
rivendicazioni
di
gruppi
di
attivisti
assai
critici
verso
la
religione),
la
bioetica
ricevette
un’impronta
marcatamente
laicista[11].
Oggi,
l’etica
dell’assistenza
sanitaria
è
sottomessa
ai
famosi
quattro
principi,
che
derivano
direttamente
dai
tre
principi
contenuti
nel
Rapporto
Belmont[12].
Molte
disposizioni
etiche
e
giuridiche
della
ricerca
medica
furono
costruite
sul
fondamento
di
quei
principi,
e
conseguentemente
le
deliberazioni
dei
comitati
istituzionali
di
revisione
ruotarono
attorno
ad
alcuni
argomenti
fissi
e
ricorrenti,
come
la
tutela
dell’autonomia
del
soggetto,
la
garanzia
del
consenso
libero
e
informato
in
conformità
alla
legge,
la
comparazione
fra
rischi
e
benefici,
l’equa
distribuzione
dell’onere
etico
della
ricerca
fra
i
membri
della
società,
la
tutela
degli
interessi
dei
soggetti
di
ricerca,
dei
ricercatori,
degli
sponsor
e
della
società.
In
effetti,
i
principi
della
bioetica
monopolizzano
di
fatto
l’attività
di
molti
Comitati.
Nessuna
alternativa
è
al
momento
ritenuta
91
soddisfacente[13].
In
questo
modo,
l’influenza
pratica
dei
valori
cristiani
nell’erbm
è
andata
indebolendosi
e
dimenticandosi
anche
il
suo
significato
storico.
LA
GENESI
DELLA
VERSIONE
STANDARD
Come
vedremo
nella
prossima
sezione,
la
tradizione
morale
cristiana
ha
mantenuto
una
posizione
chiara
e
forte
riguardo
alla
partecipazione
degli
esseri
umani
alla
sperimentazione
biomedica.
Tale
partecipazione
è
un’azione
umana,
che
richiede,
da
un
lato,
che
lo
sperimentatore
abbia
previamente
l’indispensabile
consenso
del
soggetto;
dall’altro,
che
il
soggetto
goda
delle
informazioni
e
della
libertà
necessarie
per
dare
il
suo
consenso
in
modo
veramente
umano
e
moralmente
responsabile.
Come
già
osservato,
questa
tradizione
è
assente
nella
versione
standard
della
storia
dell’erbm.
A
cancellare
la
memoria
di
questa
tradizione
hanno
contribuito
due
fattori.
Il
primo
è
il
restringimento
dello
spazio
e
del
tempo
di
indagine,
comune
fra
gli
storici
della
bioetica,
i
quali
si
limitano
normalmente
nei
loro
studi
ai
fatti
statunitensi
successivi
alla
prima
guerra
mondiale,
così
che
spesso
la
storia
dell’erbm
non
presta
la
dovuta
attenzione
agli
eventi
accaduti
fuori
dagli
Stati
Uniti
prima
di
Norimberga[14].
Il
secondo
fattore
è
l’applicazione
di
specifici
indicatori
che
accertino
che
cosa
sia
e
che
cosa
non
sia
il
consenso
alla
ricerca
secondo
i
bioeticisti
americani
o
i
casi
giudiziari
forniti
unicamente
da
americani.
L’espressione
“consenso
informato”
diviene
così
una
specie
di
marchio
registrato,
di
cui
si
può
fare
solo
un
uso
ristretto
e
autorizzato.
Non
è
un
comune
termine
descrittivo,
ma
un
termine
qualificato,
differente
nella
sostanza
e
superiore
nella
qualità
ad
altri
concetti
utilizzati
in
diversi
tempi
e
luoghi.
Nulla
più
della
distinzione
che
Faden
e
Beuchamp
fecero
fra
due
diversi
tipi
di
consenso
informato
rivela
maggiormente
l’intento
di
trasferire
l’erbm
all’interno
del
patrimonio
culturale
americano[15].
Il
primo
tipo,
chiamato
effettivo,
si
riferisce
alla
mera
procedura
formale
richiesta
dalla
legge
o
dalle
politiche
istituzionali
per
dare
informazioni
e
documentazioni
sull’autorizzazione
del
paziente
a
partecipazione
alla
ricerca,
procedura
attraverso
cui
il
consenso
diviene
formalmente
valido.
Si
tratta
semplicemente
di
riempire
un
modulo,
in
virtù
del
quale
il
soggetto
accetta
la
ricerca
proposta.
Questo
tipo
di
consenso
implica
una
procedura
effettiva,
burocratica
e
formale,
che
soddisfa
materialmente
i
requisiti
minimi
prescritti
dalla
legge,
dal
codice
professionale
o
dalle
regole
istituzionali.
Il
secondo
tipo,
chiamato
“dell’autorizzazione
autonoma”,
definisce
il
consenso
informato
come
una
sottocategoria
dell’atto
autonomo
con
cui
un
soggetto
autorizza
il
ricercatore
ad
intraprendere
un
determinato
intervento
di
ricerca.
È
proprio
il
suo
carattere
di
autonoma
autorizzazione
che
rende
tale
consenso
sostanziale
ed
eticamente
autentico,
in
quanto
manifesta
il
valore
centrale
del
rispetto
per
la
persona.
Questo
genere
di
consenso
fa
onore
alla
sovranità
dei
soggetti,
ai
loro
valori
e
alle
loro
convinzioni,
ed
equivale
di
fatto
ad
un
trasferimento
di
autorità
e
responsabilità
che
viene
compiuto
attivamente
dal
soggetto
in
favore
del
ricercatore.
I
due
tipi
di
consenso
corrispondono
da
vicino
ai
due
modelli
della
beneficenza
e
dell’autonomia,
che
Beuchamp
e
McCullough
hanno
tratteggiato
ideato
nella
loro
descrizione
della
responsabilità
morale
del
medico[16].
Nella
sua
recensione
al
libro
di
Faden
e
Beauchamp[17],
Caplan
afferma
che
soltanto
il
tipo
sostanziale
di
consenso
informato
è,
a
differenza
di
quello
effettivo,
un
vero
consenso,
e
che
tale
consenso
è
un
prodotto
tipicamente
e
necessariamente
americano.
Caplan
accosta
Faden
e
Beuchamp
commettendo
un
errore
madornale,
e
cioè
ritenendo
che
gli
autori,
nonostante
la
loro
attenta
analisi
storica,
omettano
un
fatto
decisivo,
di
estrema
importanza:
la
nozione
di
consenso
informato
orientata
all’autonomia
non
è
solo
nata
e
cresciuta
negli
Stati
Uniti,
ma
si
radica
nel
valore
dell’autonomia
che
rappresenta
un’intuizione
tipicamente
americana.
Al
contrario,
negli
altri
luoghi
e
tempi,
la
pratica
e
gli
scritti
sul
consenso
informato
riguarderebbero
esclusivamente
92
gli
aspetti
formali
e
procedurali,
secondo
la
variante
effettiva.
Il
consenso
autentico
sarebbe
un
fenomeno
moderno
e
radicalmente
americano,
come
proverebbe
lo
stupore
che
i
non
americani
provano
di
fronte
al
ruolo
che
l’autonomia
gioca
nella
pratica
medica
americana[18].
Si
insinua
così
una
nuova
visione
del
consenso
informato,
una
visione
che
rompe
con
il
passato:
è
originale
ed
esclusiva
della
mentalità
americana,
è
“il
risultato
dei
cambiamenti
culturali
avvenuti
negli
ultimi
decenni
nell’etica,
nel
diritto,
nell’economia
e
nell’atteggiamento
culturale
nei
confronti
dell’individualismo
e
della
scelta
personale,
che
si
estendono
ben
oltre
i
confini
della
moralità
medica”[19].
Di
contro
alla
visione
moderata
di
Faden
e
Beuchamp
sulla
difficoltà
di
valutare
le
pratiche
di
consenso
del
passato[20],
Caplan
adotta
un
metro
di
valutazione
del
presente
e
del
passato
più
radicale,
basato
sul
criterio
del
consenso
come
autonoma
autorizzazione,
e
ciò
implica
un
forte
rischio
di
imperialismo
assiologico.
Il
nuovo
concetto
di
consenso
come
autorizzazione
autonoma
poggia
su
criteri
di
giudizio
sorti
in
seno
al
diritto
americano,
presuppone
che
il
soggetto
sia
di
norma
dotato
di
un
solido
intelletto
e
di
un’autonomia
formata.
Di
più:
questo
nuovo
concetto
è
stato
elevato
alla
condizione
di
modello
universale.
Inoltre,
il
nuovo
paradigma
rompe
tutti
i
legami
dell’erbm
con
l’etica
cristiana.
Tutto
ciò
che
la
tradizione
medica
e
cristiana
aveva
affermato
sui
diritti
morali
dei
soggetti
di
ricerca,
sulle
loro
responsabilità
e
libertà,
sul
potere
di
gestione
della
propria
vita
e
del
proprio
corpo,
sulle
capacità
e
sulle
azioni
umane
è
venuto
ad
avere
cattiva
reputazione
o
ad
essere
ridotto
alla
condizione
di
precedente
rudimentale
ed
obsoleto.
Di
fronte
ad
una
simile
spavalda
auto-‐attribuzione
di
importanza
storica
e
di
superiorità
ideologica,
è
dovere
di
tutti
chiedersi
se
questa
versione
della
storia
del
consenso
informato
tenga
conto
di
tutti
i
dati
disponibili
e
li
analizzi
correttamente.
A
mio
avviso
non
è
così,
dato
che
tale
interpretazione
non
considera
una
parte
importante
della
storia
dell’erbm[21].
Di
seguito
presenterò
alcuni
dati
che
mostrano
come
la
versione
standard
della
storia
dell’erbm
tralasci
l’esplorazione
di
autori
e
di
opere
che
hanno
proposto
con
sorprendente
maturità
e
lungimiranza,
molto
prima
di
Norimberga,
idee
molto
avanzate
sui
criteri
etici
per
il
consenso
informato
e
sulla
posizione
che
la
ricerca
biomedica
ricopre
nella
società.
ALCUNI
CONTRIBUTI
ORIGINALI
DELL’ETICA
CRISTIANA
ALL’ERBM
Non
si
tratta
di
un
argomento
semplice.
Per
di
più,
una
buona
percentuale
di
pubblicazioni
non
è
facilmente
reperibile
e,
come
già
notato,
molte
di
esse
non
trattano
di
erbm.
Nonostante
queste
difficoltà,
il
periodo
pre-‐Norimberga
appare
un’età
interessante
e
pacifica,
in
cui
i
problemi
erano
relativamente
semplici
e
l’etica
medica
era
coltivata
soprattutto
dalle
persone
che
avevano
profonde
convinzioni
religiose.
Molti
di
essi
erano
cattolici.
Per
i
teologi
morali,
come
pure
per
i
medici,
le
questioni
di
maggior
interesse
erano
in
gran
parte
quelle
legate
alla
medicina
pastorale,
e
in
specifico
quelle
relative
ai
sacramenti
della
Chiesa,
ai
comandamenti
o
la
sessualità
umana.
D’altra
parte,
i
medici,
i
teologi
e
i
moralisti,
in
quanto
uomini
del
loro
tempo,
erano
imbevuti
di
incertezza
riguardo
ai
confini
di
separazione
fra
pratica
e
ricerca
medica.
Mostrerò
ora
due
interessanti
scoperte,
finora
sconosciute
alla
letteratura
bioetica.
Una
riguarda
il
rispetto
per
la
persona
dei
soggetti
di
ricerca,
nel
contesto
specifico
della
ricerca
psicologica
(non
terapeutica),
quale
luogo
di
energico
richiamo
alla
pratica
del
consenso
informato.
L’altra
scoperta,
che
concerne
la
relazione
fra
scienza,
società
e
individuo,
è
all’origine
di
un
significativo
argomento
attualmente
presente
in
molti
documenti
sull’erbm.
93
Un
primo
richiamo
al
consenso
libero
e
informato
Nella
tradizione
cattolica,
i
medici
e
i
pazienti,
i
ricercatori
e
i
soggetti
devono
essere
guidati
da
uno
spirito
di
rettitudine
morale,
di
amore
fraterno,
di
sincerità
e
di
libertà.
Tutti
sono
ugualmente
esseri
umani
ad
immagine
di
Dio,
dotati
del
medesimo
valore,
resi
capaci
dalla
grazia
divina
di
intessere
una
relazione
con
Dio
diretta,
personale
e
filiale.
Pertanto,
si
può
dedurre
che,
nelle
circostanze
specifiche
della
sperimentazione
biomedica,
esistono
alcune
particolari
relazioni
del
ricercatore
e
dei
soggetti
con
Dio,
relazioni
plasmate
sul
rispetto
per
la
dignità
e
la
libertà
delle
persone
che
sono
contemporaneamente
fratelli
e
creature
appartenenti
a
Dio.
Privare
l’essere
umano
della
libertà
e
della
responsabilità
di
decidere
della
propria
salute
e
del
proprio
corpo,
oppure
accogliere
o
negare
il
suo
consenso
alla
ricerca
non
rappresentano
solo
ripugnanti
abusi,
ma
peccati,
perché
schiavizzano
il
prossimo
e
lo
privano
del
merito
morale
di
aiutare
consapevolmente
la
scienza
e
l’umanità.
Il
consenso
libero
e
informato
costituisce
una
parte
integrante
della
relazione
ricercatore-‐
soggetto
all’interno
della
tradizione
cattolica[22].
Ciò
emerge
come
requisito
radicale
e
obbligato,
chiaramente
delineato
da
autori
appartenenti
alla
scuola
francese,
praticamente
ignorati,
dalla
Morale
médicale
del
XIX
secolo[23],
ne
è
un
esempio
Georges
Surbled.
Quando
Surbled
discute
la
sperimentazione
psicologica,
protesta
energicamente
contro
l’insensibilità
di
certi
colleghi
che
non
riconoscono
i
limiti
imposti
alla
ricerca
dai
principi
morali.
Per
Surbled,
“l’amore
caritatevole
rappresenta
la
prima
e
l’ultima
parola
della
scienza”.
Egli
rimpiange
il
fatto
che
molti
scienziati,
che
non
credono
in
Dio
e
sono
perciò
incapaci
di
amare
in
Dio
il
loro
prossimo,
dimentichino
il
dovere
di
giustizia
richiesto
a
tutti.
Surbled
è
convinto
che
ci
sia
un
modo
per
ripudiare
le
sperimentazioni
abusive
o
immorali:
affermare
senza
possibilità
di
errore
i
“diritti
dell’uomo
e,
perciò,
dei
diritti
del
paziente.
[…]
Ogni
uomo
ha
il
diritto
di
essere
rispettato
nel
corpo
[…],
ha
il
diritto
assoluto
di
non
essere
offeso
o
torturato.
Così,
al
dottore
non
è
permesso
sperimentare
sull’uomo
senza
il
suo
consenso
formale.
E
non
si
è
mai
saputo
di
pazienti
che
hanno
autorizzato
la
pratica
degli
esperimenti
dannosi
e
rischiosi
registrati
poi
dalla
storia
e
condannati
dalla
coscienza
retta.
Tali
esperimenti
sono
stati
eseguiti
surrettiziamente,
su
soggetti
iganri,
con
il
pretesto
perverso
di
praticare
trattamenti
medici.
Il
paziente
non
può
mai
essere
usato
come
oggetto
di
sperimentazione
a
buon
mercato”[24].
Parlando
del
consenso
negli
avvenimenti
clinici
ordinari,
Surbled
non
si
mostra
molto
energico,
ma
ha
idee
estremamente
importanti
sul
punto,
in
quanto
adotta
un
atteggiamento
che
si
discosta
per
alcuni
versi
dall’approccio
beneficialista
e
paternalista
dei
suoi
contemporanei.
Certamente
segue
prima
di
tutto
“l’antica
e
suprema
regola
infusa
nella
coscienza
del
medico
e
regolatrice
di
tutta
la
sua
attività:
primum
non
nocere”,
una
regola
attiva
nella
sperimentazione
così
come
nella
terapia
clinica.
Tuttavia,
in
entrambi
i
casi,
Surbled
sostiene
che
il
paziente
ha
il
diritto
di
rifiutare
qualunque
sperimentazione
o
terapia,
“poiché
gli
basta
barricarsi
dietro
il
suo
volere,
senza
alcun
obbligo
di
fornire
spiegazioni
per
la
sua
decisione
[…].
Egli
è
l’unico
padrone
del
corpo,
che
può
usare
liberamente.
Soltanto,
deve
sottomettersi
alla
volontà
di
Dio”.
Surbled
non
ha
dubbi
nel
definire
criminale
e
mostruoso
il
comportamento
di
quei
ricercatori
che
ingannano
i
soggetti,
sani
o
malati,
iniettando
nelle
loro
ignare
vittime
microrganismi
patogeni.
Il
concetto
che
Surbled
ha
del
consenso
informato,
con
la
sua
profondità
etica,
non
si
piega
alla
nozione
di
consenso
che
vediamo
gelosamente
custodita
da
molti
documenti
odierni.
Il
suo
concetto
include
quei
requisiti
di
rispetto
per
l’autonomia
dei
soggetti
che
Faden
e
Beuchamp
considerano
indispensabili
per
un
consenso
informato
eticamente
impeccabile:
l’assenso
a
partecipare
alla
ricerca
basato
sulla
piena
comprensione
delle
informazioni
rilevanti;
l’autorizzazione
deliberata
e
consapevole
accordata
all’intervento
di
ricerca;
l’assenza
di
coercizione
o
di
incentivi
esterni
che
possano
viziare
o
predeterminare
la
scelta
del
soggetto[25].
94
C’è
tuttavia
una
differenza
significativa
fra
i
due
concetti,
una
differenza
che
rivela
la
grande
distanza
che
intercorre
fra
la
visione
cristiana
e
quella
laicista
dell’uomo.
Infatti,
al
posto
dell’assoluta
autonomia
del
soggetto
propria
dell’etica
laica/secolarizzata,
che
conduce
il
soggetto
ad
una
decisione
isolata,
immanente
e
individualistica,
l’autonomia
del
soggetto
cristiano,
cioè
di
un
uomo
che
vive
alla
presenza
di
Dio
e
fruisce
dell’aiuto
della
grazia,
capisce
lucidamente
che
l’uomo
non
è
il
padrone
assoluto
di
se
stesso,
ma
piuttosto
un
amministratore
prudente
e
responsabile
della
propria
vita
e
del
proprio
corpo,
che
sono
doni
elargiti
(“in
prestito”)
e
che
devono
essere
trattati
con
saggezza
e
responsabilità.
Si
può
dire
esattamente
lo
stesso
dei
doni
ricevuti,
e
dei
doveri
subiti,
dal
ricercatore,
il
quale
conserva
una
relazione
viva
e
attiva
con
Dio
e
con
i
soggetti[26].
La
padronanza
dell’uomo
su
se
stesso
equivale
ad
un
dominio
d’uso,
e
non
ad
una
proprietà,
equivale
ad
un
ruolo
direttivo
subordinato
a
Dio,
che
ognuno
deve
esercitare
in
libertà
e
nel
servizio
agli
altri[27].
L’umanesimo
cristiano
crede
fermamente
nel
valore
e
nella
libertà
dell’uomo,
nei
diritti
umani,
e
nel
compito,
assegnato
da
Dio
all’uomo
nel
giardino
dell’Eden,
di
governare
e
migliorare
il
mondo[28].
L’idea
di
consenso
libero
e
informato
coniata
da
Surbled
appare,
in
scritti
successivi
che
fanno
capo
alla
scuola
francese
della
Morale
médicale,
sotto
differenti
aspetti,
spesso
curiosamente
inclusi
nel
principio
dominante
del
non
fare
male[29].
Altre
volte
viene
enunciata
chiaramente:
Bon[30],
ad
esempio,
inserisce
fra
i
requisiti
per
una
ricerca
legittima
il
fatto
che
“Il
soggetto,
dopo
essere
stato
pienamente
informato
dei
rischi
in
cui
incorrerà,
si
presti
al
ricercatore
in
modo
assolutamente
libero
e
di
sua
volontà”.
Scienza,
società
e
individuo:
la
relazione
etica
La
Dichiarazione
di
Helsinki,
non
nelle
parole
originali
del
1962
ma
nelle
versioni
successive
dal
1975
in
poi,
contiene
una
proposizione
di
profondo
significato
morale:
afferma
la
superiorità
etica
degli
interessi
dell’individuo
sugli
interessi
della
scienza
e
della
società.
Nei
venticinque
anni
fra
il
1975
e
il
2000,
questo
nobile
concetto
è
stato
ripetuto.
“La
preoccupazione
per
gli
interessi
dei
soggetti
deve
sempre
avere
la
prevalenza
sugli
interessi
della
scienza
e
della
società”,
recita
la
clausola
I,
5,
riecheggiata
dalla
clausola
III,
4.
Nella
versione
attuale,
aggiornata
ad
Edimburgo
nel
2000,
la
clausola
5
dell’introduzione
insiste
dicendo:
“Nella
ricerca
medica
sui
soggetti
umani,
le
considerazioni
relative
al
benessere
dei
soggetti
umani
deve
avere
la
precedenza
sugli
interessi
della
scienza
e
della
società”.
Lo
sfondo
dominante
del
valore
della
persona,
rispetto
ad
altri
valori
umani,
è
un
punto
costante
nell’etica
medica
cattolica.
Surbled
afferma
senza
ambiguità
che
il
migliore
interesse
del
paziente
si
impone
con
una
tale
forza
alla
coscienza
del
medico
da
determinare
il
suo
comportamento.
“L’amore
per
la
scienza,
per
quanto
profondo
e
potente
possa
essere,
non
può
mai
prevalere
nel
nostro
cuore
sull’amoreper
i
fratelli
sofferenti
che
necessitano
del
nostro
aiuto”:
Eppure,
molti
anni
prima
di
Surbled,
Max
Simon
affermava
con
determinazione
e
chiarezza
lo
stesso
principio
della
superiorità
delle
persone
sui
più
stimati
valori
della
scienza.
Non
più
tardi
del
1845,
scriveva:
“Né
la
preoccupazione
per
la
scienza,
né
la
determinazione
a
risolvere
un
importante
problema
teorico,
né
il
desiderio
di
aggiungere
un
nuovo
agente
chimico
al
corredo
farmacologico
dei
medici
possono
portare
gli
sperimentatori
a
perdere
il
contatto
con
l’interesse
immediato
dell’individuo
che
costituisce
il
soggetto
dei
loro
studi.
Niente
può
affrancare
i
medici
dal
loro
compito
umanitario
di
assicurare
al
paziente
sofferente
tutti
i
benefici
della
loro
arte”[31].
E
alcuni
anni
più
tardi,
Simon
aggiunge:
“Infine
non
è
possibile
sottolineare
maggiormente
questo
principio,
e
cioè
che
il
paziente
più
indigente
e
privo
di
valore,
il
più
inutile
95
per
la
società,
non
può
essere
soggetto
di
esperimenti
rischiosi
o
pericolosi.
Muoia
piuttosto
la
scienza
che
questo
principio!”[32].
Simon
si
batte
per
la
concentrazione
della
ricerca
medica
all’interno
dei
grandi
ospedali
e
sotto
la
guida
di
rappresentanti
del
mondo
accademico
eminenti
e
altamente
capaci,
poiché
solo
così
diventa
possibile
eseguire
numerose
serie
di
osservazioni
e,
soprattutto,
assicurare
che
i
medici
non
usino
mai
dei
loro
privilegi
per
sacrificare
l’interesse
dell’individuo
agli
interessi
della
società,
e
ancor
meno
al
successo
personale[33].
Sarebbe
molto
interessante
ricercare
il
percorso
che
lega
Simon
ad
Helsinki,
e
scoprire
come
un
libro
scritto
nella
Francia
del
XIX
secolo
nell’ambito
della
Morale
médicale
si
sia
fatto
strada
fino
alla
Dichiarazione
di
Helsinki
del
1975,
che
è
un
prodotto
dell’etica
medica
secolarizzata
del
dopoguerra.
Si
possono
invero
identificare
alcuni
punti
di
raccordo.
Uno
è
il
ben
noto
discorso
che
Pio
XII
pronunciò
il
14
settembre
1952.
In
esso,
il
papa
analizza
l’etica
della
ricerca
biomedica
sulla
scorta
di
tre
principi:
gli
interessi
della
scienza
medica,
gli
interessi
dei
soggetti
individuali
e
gli
interessi
della
comunità.
Sostiene,
fra
l’altro,
che
la
scienza
non
è
il
valore
più
alto,
a
cui
tutti
gli
altri
valori
devono
essere
subordinati,
e
che
la
persona
umana
non
può
essere
utilizzata
dalla
comunità
come
un
oggetto;
infine,
sostiene
che
il
paziente
non
è
il
padrone
assoluto
di
sé,
e
pertanto
non
può
disporre
liberamente
di
sé
come
più
gli
pare[34].
Queste
idee
furono
probabilmente
portate
all’interno
della
Dichiarazione
di
Helsinki
attraverso
il
simposio
sulle
prospettive
religiose
nei
riguardi
della
sperimentazione
medica,
organizzato
dall’Associazione
Medica
Mondiale
durante
la
sua
protratta
incubazione
della
Dichiarazione
di
Helsinki,
pubblicata
poi
nel
1960.
Il
rappresentante
delle
confessioni
protestanti,
Jacques
de
Senarclens,
dopo
avere
affermato
che
né
l’interesse
della
scienza
né
l’interesse
della
società
bastano
a
giustificare
gli
esperimenti
sull’uomo
che
contrastano
con
i
principi
dell’etica
medica,
che
feriscono
la
dignità
degli
esseri
umani
o
che
infrangono
i
precetti
più
elementari
della
fede
cristiana,
invoca
l’autorità
morale
del
papa
proprio
attraverso
le
parole
del
discorso
del
1952:
l’uomo
“non
deve
essere
subordinato
alla
comunità
nel
suo
essere
personale;
al
contrario,
è
la
comunità
che
esiste
per
l’uomo”[35].
È
evidente
che
l’attuale
Dichiarazione
di
Helsinki
mantiene
il
prezioso
legame
con
Simon
nella
sua
integrità,
anche
se
certamente
con
enfasi
ridotta
rispetto
alle
versioni
precedenti.
L’impegno
a
dare
la
precedenza
in
ogni
occasione
al
benessere
dei
soggetti
umani
rispetto
agli
interessi
della
scienza
e
della
società
merita
il
posto
d’onore
che
occupa
nella
Dichiarazione,
addirittura
nella
forma
di
un’ingiunzione.
Il
suo
significato,
non
facile
da
definire
con
precisione,
è
aperto
ad
interpretazioni
divergenti[36].
Nella
sua
vaghezza,
può
essere
inteso
come
valido
strumento
per
accertare
i
limiti
di
rischio
accettabile
in
situazioni
di
ricerca
molto
specifiche,
o
come
disapprovazione
preventiva
degli
esperimenti
pericolosi.
Tuttavia,
può
anche
essere
compreso
come
esortazione
parenetica
ad
affinare
la
nostra
sensibilità
etica
a
favore
della
difesa
dei
soggetti
di
ricerca,
o
come
atteggiamento
morale
fondamentale
che
conferisce
un’accorata
preferenza
all’integrità
dell’essere
umano
rispetto
a
considerazioni
consequenzialiste.
Questo
argomento
è
stato
sviluppato
in
modo
approfondito
da
Jonas,
in
uno
studio
che
è
divenuto
un
classico[37].
96
[1]
La
bibliografia
sull’argomento
è
consistente.
Diamo
qui
soltanto
alcuni
riferimenti
che
offrono
una
panoramica
della
storia
dell’erbm:
Beecher
H.K.,
Research
and
the
individual.
Human
Studies,
Boston:
Little,
Brown,
1970:5-‐15.
Brieger
G.,History
of
human
experimentation,
in
Reich
W.T.
(ed.),
Encyclopedia
of
Bioethics,
New
York:
The
Free
Press,
1978:684-‐92.
Bynum
W.,
Reflections
on
the
history
of
the
use
of
human
subjects
in
research,
in
Spicker
S.F.,
Alon
I.,
de
Vries
A.,
Engelhardt
H.T.
Jr,
(eds.),
The
use
of
human
beings
in
research.
Dordrecht:
Kluwer;
1988:29-‐46.
Howard-‐Jones
N.,
Human
experimentation
in
historical
and
ethical
perspectives,
in
Bankowski
Z.,
Howard-‐Jones
N,
(eds.),
Human
experimentation
and
medical
ethics.
Geneva:
C.I.O.M.S.;
1982:453-‐95.
Ivy
A.C.,
The
history
and
ethics
of
the
use
of
human
subjects
in
medical
experiments,
Science
1948;108:1-‐5.
Jonsen
A.R.,
The
Birth
of
Bioethics.
New
York:
OxfordUniversity
Press;
1998:125-‐
165.
Katz
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Experimentation
with
Human
Beings,
New
York:
Russell
Sage
Foundation;1972.
LadimerI.,
Newman
R.W.
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Clinical
Investigation
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Medicine:
Legal,
Ethical
and
Moral
Aspects.
An
Anthology
and
Bibliography,
Boston:
Law-‐Medicine
Research
Institute,
BostonUniversity;
1963.
Lock
S.,
Research
Ethics
–
a
Brief
Historical
Review
to
1965.
J
Intern
Med
1995;238:513-‐520.Rothman
D.J.,
Strangers
at
the
Bedside.
A
History
of
how
Law
and
Bioethics
Transformed
Medical
Decision
Making,
New
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Basic
Books;
1991:15-‐100.
Rothman
D.J.,
Research,
Human:
Historical
Aspects,
in
Reich
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(ed.),
Encyclopedia
of
Bioethics.
Revised
edition.
New
York:
MacMillan;
1995:
2248-‐2258.
Vaux
K.,
Schade
S.G.,
The
Search
for
Universality
in
the
Ethics
of
Human
Research:
Andrew
C.
Ivy,
Henry
K.
Beecher,
and
the
Legacy
of
Nuremberg,
in
Spicker
S.F.,
Alon
I.,
de
Vries
A.,
Engelhardt
H.T.
jr
(eds.),
The
Use
of
Human
Beings
in
Research,
Dordrecht:
Kluwer;
1988:3-‐16.
[2]
Con
qualche
differenza,
questa
versione
standard
della
storia
dell’erbm
si
ritrova
non
nei
testi
di
ricerca
accademica
o
nei
capitoli
di
monografie
e
di
libri,
ma
nei
brevi
editoriali,
nelle
enciclopedie
e
nelle
pubblicazioni
per
il
vasto
pubblico.
Un
tipico
esempio
è
Booth
C.C.,
Clinical
Research.
In:
Bynum
W.F.,
Porter
R.,
eds.
Companion
Encyclopedia
of
the
History
of
Medicine.
Vol.
1.
London:
Routledge,
1993:205-‐229.
La
troviamo
anche
in
molti
manuali
che
hanno
esercitano
vasta
influenza
in
quanto
usati
in
internet
per
la
prima
istruzione
dei
futuri
membri
di
Comitati
Internazionali
di
Revisione.
In
questo
modo,
il
messaggio
continua
a
persistere
e
ad
essere
diffuso.
[3]
Sull’origine
artificiale
di
Norimberga
e
sul
suo
carattere
improvvisato
come
riferimento
giuridico,
si
vedano:
Grodin
M.
E.,
Historical
Origins
of
the
Nuremberg
Code.In
Annas
G.
J.,
Grodin
M.
E.,
The
Nazi
Doctors
and
the
Nuremberg
Code.
Human
Rights
and
Human
Experimentation.
New
York:
OxfordUniversity
Press,
1992:121-‐144.
sull’incoerenza
interna
del
Codice,
si
veda:
Deutsch
E.,
Der
Nürnberger
Kodex.
Das
Strafverfahren
gegen
Mediziner,
die
zehn
Principien
von
Nürnberg
un
die
bleibende
Bedeutung
der
Nürnberger
Kodex,
in
Tröhler
U.,
Reiter-‐Theil
S.,
Ethik
und
Medizin
1947-‐1997.
Was
leistet
die
Kodifizierung
von
Ethik,
Göttingen:
Wallstein,
1997:103-‐114.
[4]
Herranz
G.,
The
Inclusion
of
the
Ten
Principles
of
Nuremberg
in
Professional
Codes
of
Ethics:
An
International
Comparison,
in
Tröhler
U.,
Reiter-‐Theil
S.,
Ethics
Codes
in
Medicine.
Foundations
and
Achievements
of
Codification
since
1947.
Aldershot:
Ashgate,
1998:
127-‐139.
[5]
Come
esempi
della
letteratura
antica
sull’ethos
della
ricerca
biomedica,
si
vedano:
Cannon
W.
B.,
The
Way
of
an
Investigator,
A
Scientist’s
Experiences
in
Medical
Research.New
York:
W.W.
Norton
&
Co,
1945:
Gregg
A.
The
Furtherance
of
Medical
Research,
New
Haven:
Yale
University
Press,
1941;
Albareda
J.M.,
Consideraciones
sobre
la
Investigación
Científica,
Madrid:
C.S.I.C.,
1951;
Ramón
y
Cajal
S.,
Reglas
y
Consejos
sobre
Investigación
Biológica
(Los
Tónicos
de
la
Voluntad),
6th
ed.
Madrid:
Imprenta
Pueyo,
1923.
[6]
Ad
esempio,
negli
Stati
Uniti
(Cannon
W.B.,
The
Right
and
Wrong
of
Making
Experiments
on
Human
Beings,
Journal
of
the
American
Medical
Association
1916;67:1372;1373)
o
in
Germania
97
(Volmann
J.,
Winau
R.,
The
Prussian
Regulation
of
1900:
Early
Human
Experimentation
in
Germany.
IRB:
a
Review
of
Human
Subjects
Research,
1996;18(4):9;11;
Reich
Minister
of
the
Interior,
Regulation
on
the
New
Therapy
and
Human
Experimentation,
February
28,
1931.
In:
Annas
G.J.,
Grodin
M.A.,
The
Nazi
Doctors
and
the
Nuremberg
Code:
Human
Rights
in
Human
Experimentation.
New
York:
Oxford
University
Press,
1992:129-‐132).
Il
caso
più
eclatante
fu
probabilmente
la
Risoluzione
dell’Associazione
Medica
Mondiale
del
1946,
che
dopo
una
frettolosa
approvazione
al
fine
di
fungere
da
riferimento
etico
durante
il
Processo
di
Norimberga,
iniziò
a
non
essere
considerata
e
scivolò
nell’oblio
(American
Medical
Association,
Requirements
for
Experiments
on
Human
Beings,
Journal
of
the
American
Medical
Association
1946;132:1090).
[7]
Bernard
C.,
Introduction
à
l’étude
de
la
médecine
expérimentale,
Paris:
Garnier-‐Flammarion,
1966:
151-‐152.
[8]
Prima
dell’inizio
degli
studi
clinici
controllati
e
dell’assunzione
della
mentalità
dell’evidence
based
medicine(medicina
delle
prove
di
efficacia,
n.d.t.),
il
buon
senso
induceva
a
sostenere
che
praticamente
ogni
intervento
medico
fosse
in
un
certo
senso
sperimentale.
Ivy,
ad
esempio,
affermava
che
“anche
dopo
aver
trovato
la
terapia
adatta
ad
una
malattia,
le
sue
applicazioni
al
paziente
restano
in
parte
sperimentali.
A
causa
delle
variazioni
fisiologiche
nella
risposta
di
diversi
pazienti
allo
stesso
trattamento,
la
terapia
delle
malattie
è
e
sarà
sempre
un
aspetto
sperimentale
della
medicina”
(Ivy
A.
C.,
The
History
and
Ethics
of
the
Use
of
Human
Subjects
in
Medical
Experiments,
Science
1948;108:1-‐5).E
Shimkin,
alcuni
anni
più
tardi,
osservò
che
“la
sperimentazine
medica
sui
soggetti
umani,
nel
suo
significato
più
ampio
e
per
il
bene
del
singolo
paziente,
si
verifica
continuamente
in
ogni
ambulatorio
medico”
(Shimkin
M.B.,
The
Problem
of
Experimentation
on
Human
Beings,
Science
1953;117:205-‐207).
[9]
Una
parte
consistente
dei
manuali
più
utilizzati
non
include
fra
le
materie
trattate
l’erbm;
si
vedano
ad
esempio:
Bonnar
A.,
The
Catholic
Doctor,
4th
ed.,
London:
Burns
Oates
&
Washburne,
1944;
Marshall
J.,
The
Ethics
of
Medical
Practice,
Darton,
Longman
&
Todd,
London,
1960;
Peyró
F.J.,
Deontología
médica,
5a
edición,
Madrid:
Marbán
editor,
1954.
Pazzini
A.,
Il
Medico
di
Fronte
alla
Morale,
Brescia:
Editoriale
Morcelliana,
1950.
[10]
In
quegli
anni,
era
consuetudine
invitare
i
teologi
cristiani
a
partecipare
ai
dibattiti
o
ai
lavoro
collettivi
sull’erbm.
Nel
1960,
l’Associazione
medica
Mondiale
sponsorizzò
un
simposio
dei
rappresentanti
delle
maggiori
religioni,
come
passo
necessario
verso
lo
sviluppo
della
futura
Dichiarazione
di
Helsinki
(Human
Experimentation.
A
World
Problem
from
the
Standpoint
of
Spiritual
Leaders,
World
Medical
Journal
1960;7:80-‐83,
86).
Nelle
monografie
e
nelle
antologie
pubblicate
successivamente
sono
regolarmente
inclusi
articoli
scritti
da
teologi
morali,
come
pure
direttive
sulle
ricerca
emanate
da
istituzioni
cattolicahe
si
assistenza
sanitaria,
e
anche
pronunciamenti
del
magistero,
soprattutto
di
papa
Pio
XII
(Beecher
H.K.,
Research
and
the
Individual.
Human
Studies,
Boston:
Little,
Brown
and
Co,
1970;
LadimerI.,
Newman
R.W.,
eds.,
Clinical
Investigation
in
Medicine:
Legal,
Ethical,
and
Moral
Aspects.
An
Anthology
and
Bibliography,
Boston:
Law-‐Medicine
Research
Institute,
1963;
Katz
J.
Experimentation
with
Human
Beings.
The
Authority
of
the
Investigator,
Subject,
Professions,
and
State
in
the
Human
Experimentation
Process,New
York:
Russell
Sage
Foundation,
1972).
[11]
Callahan
D.,
Religion
and
the
Secularization
of
Bioethics,
HastingsCenter
Report
1990;20(4
Suppl):2;4.
[12]
National
Commission
for
the
Protection
of
Research
Subjects
of
Biomedical
and
Behavioral
Research
(Commissione
Nazionale
per
la
Difesa
dei
Soggetti
di
Ricerca
della
Sperimentazione
Biomedica
e
Comportamentale,
n.d.t.),
The
Belmont
Report:
Ethical
Principles
and
Guidelines
for
the
Protection
of
Human
Subjects
of
Research,
Washington,
D.C.:
Government
Printing
Office,
1979.
98
[13]
Come
afferma
Veatch,
“l’autonomia
sta
fra
noi
e
l’abisso
morale”.
Veatch
R.
M.,
From
Nuremberg
through
the
1990s:
The
Priority
of
Autonomy.
In:
Vanderpool
H.
Y.,
The
Ethics
of
Research
Involving
Human
Subjects.
Facing
the
21th
Century.
Frederick,
MD:
University
Publishing
Group,
1996:
44-‐58.
[14]
Faden
e
Beauchamp,
trattando
l’evoluzione
storica
dei
requisiti
per
il
consenso
nel
campo
della
ricerca
biomedica,
dichiarò
che
il
loro
scopo
principale
era
mostrare
come
il
consenso
fosse
emerso
e
maturato
negli
Stati
Uniti.
Affermano
inoltre
che,
a
differenza
di
quel
che
accadde
nel
fertile
campo
dell’assistenza
clinica
ordinaria,
nel
contesto
dell’etica
della
ricerca
prima
della
seconda
guerra
mondiale
furono
pochissimi
i
fatti
che
richiesero
l’apporto
della
morale.
Una
ricerca
scientifica
e
rigorosa
sugli
esseri
umani
si
verifica
negli
Stati
Uniti
solo
dopo
la
guerra,
mentre
il
criticismo
morale
relativamente
alla
ricerca
biomedica
inizia
ivi
a
crescere
verso
la
metà
degli
anni
Sessanta.
Si
veda
Faden
R.R.,
Beauchamp
T.L.,
A
History
and
Theory
of
Informed
Consent.
New
York:
OxfordUniversity
Press,
1986:150-‐151.
[15]
Faden
R.R.,
Beauchamp
T.L.,
O.
c.
:
274-‐297.
[16]
Beauchamp
T.L.,
McCullough
L.B.
Medical
Ethics:
The
Moral
Responsibilities
of
Physicians.
Englewood
Cliffs,
N.J.:
Prentice
Hall,
1984.
[17]
Caplan
A.
L.,A
History
and
Theory
of
Informed
Consent,
by
Ruth
R.
Faden
and
Tom
L.
Beauchamp.
Book
Review.
JAMA
1987;257:386-‐387.
[18]
La
riaffermazione
da
parte
di
Caplan
della
cittadinanza
esclusivamente
americana
della
comprensione
sostanziale,
e
non
meramente
formale,
delle
ragioni
per
il
consenso
informato
raggiunge
un
tono
di
esultanza
quando
l’autore
parla
del
“totale
sconcerto
manifestato
da
europei,
asiatici,
mediorientali
e
sudamericani
al
vedere
la
nostra
apparente
ossessione
per
l’autonomia”,
caratteristica,
questa,
che
era
passata
inosservata
ed
era
stata
trascurata
da
Faden
e
Beauchamp.
Caplan
A.L.,
A
History
and
Theory
of
Informed
Consent,
by
Ruth
R.
Faden
and
Tom
L.
Beauchamp
(Book
review).
Journal
of
the
American
Medical
Association
1987;257:386-‐387.
[19]
Caplan,
o.c.:
387.
[20]
Faden
R.R.,
Beauchamp
T.L.,
A
History
and
Theory
…:
55.
[21]
Ha
suscitato
frequentemente
critiche
l’atteggiamento
di
alcuni
bioeticisti
americani
che,
per
giustificare
la
loro
rivendicazione
del
titolo
di
fondatori
della
moderna
etica
medica,
tendono
ad
ignorare
i
contributi
vecchi
e
nuovi
di
autori
appartenenti
ad
altri
luoghi
e
tempi.
L’irritazione
che
provano
a
riguardo
alcuni
europei
è
sincera
e,
secondo
me,
in
parte
giustificata.
Scriveva
Serres
alcuni
anni
or
sono
in
maniera
retorica:
“le
novità
sono
spesso
fatte
di
cose
che
abbiamo
dimenticato.
Importiamo,
con
grandi
spese
di
traduzione,
libri
sull’etica
fatti
di
plastica
friabile,
mentre
dimentichiamo
che
la
nostra
tradizione
europea
scolpisce
l’etica
da
due
millenni
nel
granito
e
nell’oro”.
Serres
M.,
Préface,
in
Testard
J.,L’Œuf
Transparent,
Paris:
Flammarion,
1986:11-‐12.
[22]
Soane
B.,
Consent
and
Practice
in
the
Catholic
Tradition,
in
Dunstan
G.R.,
Seller
M.J.,
Consent
in
Medicine.
Convergence
and
Divergence
in
Tradition,
London:
King
Edward’s
Hospital
Fund,
1983:37-‐44.
[23]
È
sorprendente
verificare
come
né
in
Francia
né
in
altri
Paesi
siano
stati
studiati
gli
autori
di
libri
sull’etica
e
sulla
deontologia
medica
esistenti
in
Francia
nel
XIX
secolo.
Non
si
trova
alcuna
citazione
negli
articoli
e
nei
libri
dedicati
alla
storia
dell’erbm
in
Francia
ai
contributi
di
Surbled
e
di
Simon,
i
due
autori
considerati
più
avanti.
Si
vedano,
ad
esempio,
Ambroselli,
C.
L’Éthique
Médicale,
2nd
ed,
Paris:
Presses
Universitaires
de
France,
1988.
Fagot-‐Largeault
A.,
L’Homme
Bio-‐
éthique.
Pour
une
Déontologie
de
la
Recherche
sur
le
Vivant,
Paris:
Maloine,
1985.
Hoerni,
B.
L’Autonomie
en
Médecine.
Nouvelles
Relations
entre
les
Personnes
Malades
et
les
Personnes
Soignantes.Paris:
Payot,
1991.
Moulin,
A.-‐M.,
Medical
Science
and
Ethics
before
1947,
in
TröhlerU.,
Reiter-‐Theil,
S.,
Herych,
E.
eds.
Ethics
Codes
in
Medicine.
Foundations
and
Achievements
of
99
Codification
since
1947.
Aldershot:
Ashgate,
1998.
Moulin,
A.-‐M.,
Medical
Ethics
in
France,
Theoret
Med1989,9:271-‐285.
[24]
Questa
proclamazione
dei
diritti
umani
del
paziente
nella
situazione
specifica
di
soggetto
di
un
esperimento
è
tratta
dall’edizione
del
1905
di
Surbled
G.,
La
Morale
dans
ses
Rapports
Avec
la
Médecine
et
l’
Hygiène,
Paris:
V.
Retaux
et
fils,
1905,
Vol.
3
:
216-‐217.
Non
è
stato
possibile
oggi
recuperare
le
edizioni
precedenti
del
lavoro,
in
particolare
la
prima,
del
1891.
le
parole
di
Surbled
riportate
precedono
di
almeno
un
decennio
quelle
così
frequentemente
citate
di
B.
Cardozo,
che
comprende
la
famosa
frase:
“Ogni
essere
umano
adulto
e
mentalmente
capace
ha
il
diritto
di
determinare
che
cosa
deve
essere
fatto
con
il
suo
corpo;
un
chirurgo
che
esegue
un’operazione
senza
il
consenso
del
paziente
commette
un
atto
di
violenza
per
il
quale
è
imputabile
di
risarcimento
dei
danni”.
Schloendorf
v.
Society
of
New
York
Hospitals
(1914),
as
appears
in
Katz
J.,
ed.,
Experimentation…:526.
[25]
Faden
R.
R.,
Beauchamp
T.
L.,
O.
c.
:
241-‐262.
[26]
Il
consiglio
di
Witts
al
ricercatore
è
pieno
di
arguzia
e
di
fede
religiosa:
“[…]
non
ci
sono
formule
standard
che
il
medico
coinvolto
in
uno
studio
clinico
posa
usare
per
dirigere
le
sue
azioni.
Egli
deve
piuttosto
avere
una
coscienza
sveglia
e
accorta,
e
deve
essere
preparato
a
giustificare
ogni
sua
azione
davanti
al
Creatore.
Dovrebbe
inoltre
essere
pronto
a
difenderle,
prima,
nei
tribunali”.
Witts
L.J.,
The
Ethics
of
Controlled
ClinicalTrials,
in
Hill
A.B.,
ed.,
Controlled
Clinical
Trials,
Oxford:
Blackwell
Scientific
Publications,
1960:13.
[27]
Sulla
visione
cristiana
del
dominio
dell’uomo
sulla
sua
vita
e
sul
suo
corpo,
da
una
prospettiva
personalista,
si
veda
Sgreccia
E.,
Manuale
di
Bioetica.
I.
Fondamenti
ed
Etica
Biomedica,
2ª
ed,
Roma:
Vita
e
Pensiero,
1994:153-‐199.
Di
grande
interesse
sono
anche
le
idee
sul
personalismo
pruidenziale
in
Ashley
B.M.,
O’Rourke
K.D.,
Health
Care
Ethics.
A
Theological
Analysis,
4th
ed.,
Washington,
D.C.:
GeorgetownUniversity
Press,
1997:166-‐169.
[28]
Sul
profondo
valore
umano
e
cristiano
dell’atteggiamento
di
intelligente
e
fedele
accettazione
della
volontà
di
Dio,
così
come
viene
manifestata
dalla
rivelazione
divina
e
specificata
dal
magistero
della
Chiesa,
si
veda
Smith
J.E.,
The
Introduction
to
the
Vatican
Instruction,
in
McCarthy
D.G.,
ed.,
Reproductive
Technologies,
Marriage
and
the
Church,
Braintree,
Mass:
The
Pope
John
Center,
1988:13-‐28.
[29]
Payen
G.,
Deontología
médica
según
el
Derecho
Natural,
Deberes
de
Estado
y
Derechos
Profesionales,
Barcelona:
Sucesores
de
Juan
Gili,
1944:164-‐183.
[30]
Bon
H.,
Précis
de
Médecine
Catholique,
Paris:
Félix
Alcan,
1936.
[31]
Simon
M.,
Déontologie
Médicale
ou
des
Devoirs
et
des
Droits
des
Médecins
dans
l’Etat
Actuel
de
la
Civilisation,
Paris:
J.B.
Baillière,
1845:335.
[32]
Simon
M.,
O.
c.,
337.
[33]
Simon
M.,
O.
c.,
334.
[34]
Il
discorso
sui
limiti
etici
della
sperimentazione
umana
e
degli
interventi
medici,
tenuto
al
primo
convegno
internazionale
di
istopatologia
del
sistema
nervoso
il
14
settembre
1952,
fu
pubblicato
negli
Acta
Apostolicae
Sedis
(AAS
1952,
44:779;
789).
Fu
anche
riportato
e
commentato
da
molte
riviste
mediche.
Una
traduzione
inglese
si
può
trovare
in
Linacee
Quart.
1952;19:98-‐107,
e
pure,
in
versione
quasi
completa,
in
Ladimer
I.,
Newman
RW.,
O.
c.:
276-‐286.
Some
select
fragments
appear
in
Katz
J.
Experimentation
with
Human
Beings:
731-‐733
y
549-‐551.
Il
discorso
è
stato
dettagliatamente
recensito
da
Beecher
H.K.,
O.
c.:
189-‐200.
Commenti
più
o
meno
estesi
sono
inseriti
in
President’s
Advisory
Committee,
Final
Report,
The
Human
Radiation
Experiments,
New
York:
Oxford
University
Press,
1996:
88;
Ford
J.,
Human
Experimentation
in
Medicine:
Moral
Aspects.
Clin
Pharmacol
Therap
1960;1:396-‐400;
Jonsen
A.R.,
O.
c.:
149;
O’Donnell
T.J.,
Medicine
and
Christian
Morality,
New
York:
Alba
House,
1976:91-‐93.
and
in:
Vallery-‐Radot,
j.,
Lenègre,
J.,
Milliez,
P.,
Étude
des
conditions
Morales
d’Exploration
Clinique
en
100
Médecine.
I
Congrès
International
de
Moral
Médicale,
Vol.
1,
Rapports.
Paris:
Ordre
National
des
Médecins,
1955:
123.
[35]
Giuseppe
B.M.,
De
Senarclens,
J.,
Groen
J.
J.,
Human
Experimentation.
A
World
Problem
from
the
Standpoint
of
Spiritual
Leaders.
World
Med
J
1960;
7:80-‐83,
96.
The
three
contributions
are
reproduced
in
LadimerI.,
Newman
R.W.,
O.
c.
:
267-‐270.
[36]
Schaupp
W.,
Der
etische
Gehalt
der
Helsinki
Deklaration.
Eine
historisch-‐systematische
Untersuchung
der
Richtlinien
des
Weltärztebunds
über
biomedizinische
Forschung
am
Menschen.Frankfurt
am
Main:
Peter
Lang,
1993:243-‐245.
[37]
Jonas
H.,
Philosophical
Reflections
on
Experimenting
with
Human
Subjects,
en
Shannon
T.A.,
ed.,
Bioethics,
3rd
ed,
Mahwah,
New
Jersey:
Paulist
Press,
1987:253-‐279.
Di
particolare
interesse
per
questo
nesso
sono
le
sezioniche
esaminano
la
polarità
individuo-‐società,
cioè
fra
benessere
privato
e
benessere
pubblico,
da
un
lato,
e,
dall’altro,
la
suggestiva
analisi
delle
contrastanti
componenti
di
sacrificio
e
di
contreatto
sociale
insiti
nella
sperimentazione
umana.
101
ADRIANO
PESSINA
Premessa
L'interdisciplinarità
è
diventata
oggi
un'esigenza
diffusa:
essa
esprime
una
richiesta
di
unità
di
fronte
all’
eccessiva
frammentazione
e
parcellizzazione
dei
saperi,
resi
possibili
dalla
progressiva
suddivisione
del
lavoro,
delle
competenze,
delle
aree
di
studio.
Si
tratta,
per
certi
aspetti,
di
un
movimento
inverso
rispetto
a
quello
innestato
nell’epoca
moderna
con
la
nascita
delle
scienze
sperimentali,
quando
il
problema
era
proprio
quello
di
salvaguardare
l’autonomia
delle
singole
discipline.
Nell’ambito
della
biomedicina,
questa
necessità
di
stabilire
una
prospettiva
unitaria
(anche
se
non
univoca)
è
riconducibile
alla
nascita
stessa
della
bioetica.
Sebbene
di
interdisciplinarità
si
parli
spesso,
occorre
però
riconoscere
che
non
è
sempre
facile
comprendere
in
che
cosa
consista
realmente,
quali
siano
le
premesse
teoriche
che
la
rendano
possibile,
quale
tipo
di
interazione
si
intende
promuovere.
Ci
sembra,
infatti,
che
si
possa
parlare
di
interdisciplinarità
in
diversi
modi,
o
a
diversi
livelli.
Da
una
partel'interdisciplinarità
può
essere
pensata
come
mezzo
per
una
determinata
finalitàpratica
o
conoscitiva,
che
non
può
essere
perseguita
attraverso
un
solo
approccio
disciplinare.
Per
esempio,
questo
avviene
nella
prassi
medica
quando
la
formulazione
di
una
diagnosi
è
il
risultato
di
differenti
dati
conoscitivi,
ottenuti
con
strumenti
conoscitivi
differenti.
Spesso
l'interdisciplinarità
è,
quindi,
più
"vissuta",
"praticata"
che
adeguatamente
teorizzata
(e
questo
fatto
è
facilmente
documentabile
nella
biomedicina,
dove
si
intrecciano
conoscenze
e
metodologie
che
si
radicano
in
discipline
che
hanno
anche
una
loro
autonomia,
come,
a
titolo
di
esempio,
la
chimica,
la
matematica,
la
biologia,
la
statistica,
la
fisica
e
via
dicendo).
L'interdisciplinarità
può
essere
intesa
anche
soltanto
come
interazione
comunicativa,
che
permetta
di
integrare
diverse
informazioni
per
meglio
definire
l’oggetto
di
cui
si
parla.
Facendo
un
esempio
banale,
il
paziente
di
cui
si
occupa
il
medico
è
anche
l'uomo
di
cui
parla
la
filosofia
ed
è
anche
il
contribuente
di
cui
si
interessa
l’economia
o
il
padre
di
famigliala
cui
funzione
è
oggetto
di
studio
della
sociologia,
ma
è
inoltre
il
depresso
in
cura
dallo
psicanalista
e,
soprattutto
è
Carlo,
cioè
un
individuo
unico
ed
irripetibile,
che
nessuna
scienza
può
mai
esprimere
adeguatamente.
Il
convergere
delle
definizioni
per
meglio
denotare
ciò
di
cui
si
sta
parlando,
permette
una
visione
olistica
che
può
essere
utile
anche
all'esercizio
della
singola
disciplina.
Ma
l’esigenza
maggiore,
quando
si
parla
di
interdisciplinarità,
è
quella
di
trovare
una
prospettiva
unificante
in
grado
di
coordinare
le
varie
attività
umane,
comprese
quelle
conoscitive,
in
vista
di
finalità
moralmente
buone.
In
questo
caso,
l’
interdisciplinarità
risulta
necessaria
perché
fornisce
alla
morale
le
conoscenze
necessarie
alla
determinazione
della
valutazione.
Per
usare
un
linguaggio
classico,
potremmo
dire
che
l’interdisciplinarità
è
necessaria
per
formulare
la
premessa
minore
di
un
eventuale
sillogismo
pratico.
Tutti
questi
aspetti
non
possono
essere
trascurati
quando
ci
chiediamo
a
che
proposito
si
può
parlare
della
bioetica
come
disciplina
interdisciplinare.
Ma
prima
di
entrare
in
merito
a
questo
tema,
è
necessario
accennare
brevemente
all'origine
della
scienza
moderna
per
comprendere
alcuni
problemi,
ereditati
dal
passato,
che
rendono
arduo
soddisfare
l'
esigenza
di
interdisciplinarità.
102
Autonomia
ed
eteronomia
Come
è
noto,
la
nascita
delle
scienze
sperimentali,
e
la
progressiva
determinazione
delle
identità
metodologiche
che
le
caratterizzano,
avviene
attraverso
processi
storici
complessi,
articolati[1],
che
non
si
prestano
a
facili
sintesi
né
a
schemi
di
comodo.
Le
interpretazioni
che
tendono
a
polarizzare
questa
storia
sulla
base
delle
polemiche
e
delle
dispute
che
contrapposero,
per
lungo
tempo,
umanisti
e
scienziati[2],
rischiano
certamente
di
essere
riduttive,
ma
possono
servire
almeno
ad
illuminare
alcune
"categorie"
che
rendono
difficile
"pensare"
oggi
in
termini
corretti
all'interdisciplinarità,
specie
laddove
è
in
gioco
la
questione
"morale".
Il
riferimento
all’etica
sembra,
infatti,
minare
alcune
nozioni
meta-‐scientifiche
che
hanno
accompagnato
la
nascita
delle
scienze,
e
in
particolare
le
tesi
riguardanti
l'autonomia,
la
libertà
di
ricerca
e
la
neutralità
assiologica
proprie
di
ogni
scienza.
Il
timore
di
una
indebita
ingerenza
della
morale
all’interno
della
stessa
pratica
multidisciplinare
ha
delle
motivazioni
teoriche
e
delle
radici
storiche.
Dal
punto
di
vista
storico,
possiamo
ricordare
che
le
scienze
si
sono
progressivamente
costituite
proprio
attraverso
un
processo
di
"emancipazione"
dalla
teologia
e
dalla
filosofia,
dai
loro
contenuti
e
dai
loro
metodi
e
che,
in
tempi
recenti,
esse
hanno
dovuto
"liberarsi"
dalle
ideologie
politiche
ed
economiche.
Dal
punto
di
vista
teorico,
l'interdisciplinarità
sembra
mettere
alla
prova
proprio
le
nozioni
cardine
sulle
quali
si
radica
la
scienza
come
tale,
dalla
teologia
(che
i
medioevali
chiamavano
scienza
sacra),
alla
filosofia,
dalle
cosiddette
scienze
esatte
a
quelle
sperimentali
(discipline
che
i
medioevali
accorpavano
nelle
scienze
profane).
Può
essere
interessante
ricordare
che
già
Tommaso
d'Aquino
stabiliva
con
chiarezza
la
distinzione
tra
le
varie
forme
del
sapere,
basata
sull'autonomia
dei
loro
procedimenti
specifici
e
sulla
fiducia
nell'uso
del
"lume
naturale":
"La
dottrina
sacra
è
scienza;
ma
occorre
sapere
che
vi
è
una
duplice
classe
di
scienze.
Alcune
infatti
procedono
da
principi
noti
col
lume
naturale
dell'intelletto,
come
l'artimetica,
la
geometria
e
simili:
altre
invece
procedono
da
principi
noti
col
lume
di
una
conoscenza
superiore.
In
quest'ultima
maniera
la
sacra
dottrina
è
scienza,
perché
procede
da
principi
noti
col
lume
di
una
conoscenza
superiore,
la
quale
è
la
conoscenza
di
Dio
e
dei
beati.
Onde,
come
la
musica
crede
ai
principi
che
le
offre
l'aritmetico,
così
la
sacra
dottrina
crede
ai
principi
rivelati
da
Dio".[3]
Questa
citazione
ci
ricorda
che
per
Tommaso
l'intelletto
può
correttamente
operare
in
base
ai
principi
che
può
apprendere
da
solo
e
che
la
dottrina
sacra
non
si
sostituisce
alla
scienza
profana
nel
suo
campo,
né
serve
per
far
funzionare
correttamente
l'intelletto,
ma
per
fornire
quella
visione
superiore
che
è
necessaria
all'uomo
per
ben
condurre
la
sua
vita
e
realizzare
adeguatamente
il
fine
per
cui
è
stato
creato.
Questo
passo
ci
fa
comprendere
come
la
scienza
(e
per
Tommaso
era
allora
in
questione
soprattutto
l'autonomia
della
filosofia)
non
è
subordinata
in
quanto
scienza
ad
altre
forme
di
sapere,
neppure
alla
dottrina
sacra,
che
pure
è
giudicata
indispensabile
per
avere
una
visione
adeguata
della
finalità
dell'uomo.
Possiamo
trarre
un'indicazione
da
queste
osservazioni:
l'interdisciplinarità,
se
non
è
pura
giustapposizione
di
saperi,
necessita
di
una
chiarificazione
del
significato
specifico
di
"scienza"
e
di
"autonomia".
Già
in
Tommaso
emerge
un
uso
analogo
del
concetto
di
scienza,
che
rimanda
all'idea,
oggi
spesso
trascurata
o
negata,
del
significato
analogo
del
termine
"ragione"
umana.[4]
Se
rileggiamo
la
lunga
e
travagliata
storia
del
rapporto
tra
le
scienze
nascenti,
il
loro
legame
con
la
tecnica,
e
i
loro
rapporti,
spesso
problematici,
con
la
filosofia
e
con
la
teologia
dell’epoca
moderna,
possiamo
comprendere
il
"timore"
(oggi
spesso
evocato)
di
far
cadere
la
ricerca
scientifica
in
una
sorta
di
"eteronomia"
disciplinare.
Questo
"timore"
esprime
anche
l’esigenza
di
103
salvaguardare
un
"valore":
si
tratta,
infatti,
del
timore
che
le
scienze,
qualora
perdano
la
loro
autonomia,
tradiscano
la
loro
vocazione
specifica,
sebbene
circoscritta,
alla
"verità",
che
passa
attraverso
la
ricerca
delle
"cause"
dei
fenomeni
che
studiano.
Il
riferimento
al
"vero"
è,
in
fondo,
ma
su
questo
torneremo,
il
terreno
di
incontro
e
di
scontro
tra
le
diverse
forme
del
conoscere,
sia
perché
spesse
volte
si
dimentica
che
anche
la
nozione
di
verità
è
analoga
e
non
univoca,
sia
perché
le
vie
per
determinare
la
verità
intorno
allo
specifico
oggetto
di
indagine
sono
diversificate
proprio
dai
principi
di
riferimento
e
dagli
scopi
ultimi
che
si
prefiggono
le
varie
scienze.
Per
stabilire
quale
debba
essere
la
relazione
tra
la
biomedicina,
l’antropologia
e
l’etica
filosofiche
occorre
però
tenere
conto
che
la
stessa
medicina
tende
oggi
a
pensarsi
in
termini
di
"scienza
naturale"
e,
quindi,
a
rendere
problematica
quella
connessione
con
l'etica
che
per
lungo
tempo
era
data
come
evidente.
A
ciò
si
deve
aggiungere
un’altra
considerazione.
Mentre
risulta
facile
parlare
di
una
biomedicina,
oggi
sembra
impossibile
parlare
di
una
antropologia
e
di
una
etica
filosofiche.
Dallo
stesso
versante
della
filosofia,
infatti,
è
teorizzata
l’idea
che
sia
impossibile
non
soltanto
di
fatto,
ma
in
linea
di
principio,
affermarne
una
unitarietà
di
metodo
e
di
contenuto
a
proposito
dell’etica
e
dell’antropologia.
La
frantumazione
della
filosofia
in
"filosofie",resa
evidente
sia
dall'ormai
consueto
discorso
sul
pluralismo
etico
(nell'accezione
dell'incommensurabilità
delle
etiche),
sia
dal
dibattito
intorno
alla
nozione
di
"persona",
contribuisce
a
complicare
l’attuazione
dell’interdisciplinarità.
Scienza
medica
e
arte
medica
In
ciò
che
noi
chiamiamo
"medicina"
possiamo
distinguere
diversi
livelli:
da
una
parte
c'è
l'insieme
delle
conoscenze
scientifiche
che,
acquisite
attraverso
differenti
strumenti
e
con
l'apporto
di
discipline
specialistiche
(dalla
biologia
alla
statistica)
costituiscono
ciò
che
si
chiama
la
"scienza
medica";
dall'altra
esiste
la
prassi
medica
che,
nell'epoca
contemporanea,
ha
esteso
le
proprie
finalità
al
di
là
dello
scopo
terapeutico,
includendo
prassi
di
stampo
diagnostico
e
preventivo,
nonché
attività
sperimentali
che
si
situano
tra
il
piano
terapeutico
e
quello
della
ricerca
scientifica.
Questi
due
"macrolivelli"
possono
essere
distinti
in
ordine
alla
differente
finalità
che
di
per
sé
perseguono:
la
medicina
come
"scienza"
ha
come
scopo
primario
la
conoscenza,
mentre
la
medicina
come
"arte"
o
professione
medica
ha
come
scopo
primario
la
cura,
la
guarigione
o
il
"prendersi
cura"
della
persona,
in
quanto
"paziente"
reale
o
in
quanto
"paziente"
possibile[5].
Esula
dallo
scopo
di
questa
riflessione
articolare
ulteriormente
questa
distinzione,
che
peraltro
contiene
già
in
sé
alcuni
elementi
che
possono
farci
comprendere
quanto
sia
complessa
una
riflessione
sulla
medicina
nella
sua
veste
contemporanea.
Non
tutti,
però,
sono
disposti
a
riconoscere
questa
distinzione
di
piani.
H.
Jonas,
per
esempio,
scrive:
"Alla
scienza
medica,
come
scienza
generale
del
corpo
sia
malato
che
sano,
non
si
adatta
quindi
-‐già
il
nome
lo
dice-‐
ciò
che
altrimenti
è
valido
per
la
scienza,
e
cioè
avere
il
suo
scopo
nella
conoscenza:
con
tale
conoscenza
essa
intende
fin
dall'inizio
aiutare
il
medico
nella
sua
capacità
di
guarire.
Non
è
perciò
priva
di
scopi
né
neutrale.
E
ancora
una
volta
ciò
che
distingue
l'arte
medica
dalle
antiche
arti
dell'umanità
è
che
fin
dall'antichità
-‐da
Ippocrate-‐
essa
è
intimamente
legata
a
una
scienza
che
ne
costituisce
il
fondamento"[6].
Jonas
pretende
di
negare
questa
distinzione
sia
per
evidenziare
la
peculiarità
del
rapporto
che
intercorre
tra
la
scienza
medica
e
l'arte
medica
(rapporto
che
sarebbe
totalmente
differente
rispetto
a
quello
che
può
intercorrere
tra
una
scienza
-‐per
es.
la
fisica-‐
e
le
sue
possibili
applicazioni
pratiche),
sia
per
segnalare
il
fatto
che
nella
medicina
come
scienza
e
come
arte
l'oggetto
non
è
un
corpo
qualsiasi,
ma
il
corpo
della
persona
umana.
104
L'esigenza
di
Jonas
è
condivisibile,
ma
si
può
conservare
questa
sua
esigenza
senza
giungere
all'eliminazione
della
distinzione
che
abbiamo
posto.
Lo
scopo
conoscitivo
di
una
scienza,
infatti,
non
può
essere
ricavato
guardando
all'intenzione
del
soggetto
che
fa
scienza[7].
Il
ricercatore
che
studia
il
corpo
umano
può
avere
come
scopo
l'applicazione
pratica
del
suo
sapere,
ma
lo
scopo
della
sua
ricerca
non
è
l'applicazione
stessa,
ma
la
scoperta,
per
esempio,
del
come
avvengano
i
processi
fisiologici
del
corpo
umano.
In
questo
senso
possiamo
perciò
distinguere
la
scienza
medica
dall'arte
medica.
Solo
la
seconda
è
in
sé
determinata
alla
guarigione
e
alla
cura:
la
prima,
infatti,
potrebbe
sussistere
anche
in
assenza
della
possibilità
di
applicazione.
Così,
per
esempio,
le
conoscenze
anatomiche
sono
condizioni
necessarie,
ma
non
sufficienti
per
l'esercizio
della
chirurgia
e
sussisterebbero
anche
qualora
mancassero
gli
strumenti
tecnici
per
operare.
Ciò
che,
infatti,
determina
la
non
neutralità
assiologica
di
una
scienza
(la
sua
rilevanza
morale)
non
è
il
suo
carattere
di
scienza,
ma
il
suo
modo
di
ottenere
la
conoscenza.
Le
scienze
sperimentali,
infatti,
non
sono
"neutre"
soltanto
perché
il
loro
modo
di
ottenere
i
risultati,
a
differenza
di
quanto
avviene
in
altre
scienze
speculative
(come,
per
es.
le
matematiche
o
la
stessa
filosofia)
è
"pratico",
cioè
comporta
una
trasformazione
e
un
intervento
sull'oggetto
di
studio.
La
medicina
come
scienza
richiede
una
valutazione
etica
non
perché
avrebbe,
come
dice
Jonas,
il
medesimo
scopo
dell'arte
medica,
ma
perché
(e
questo
è
evidente
nel
suo
lato
sperimentale,
dove
si
coniuga
sia
l'esigenza
di
dare
beneficio
ad
un
paziente,
sia
il
desiderio
di
conoscere
l'effetto,
poniamo,
di
un
farmaco)
per
ottenere
la
conoscenza
deve
intervenire
quasi
sempre
(ci
sono
anche
aspetti
di
pura
osservazione
nella
stessa
scienza
medica)
sul
suo
"oggetto
di
studio".
Ed
è
in
riferimento
all'
"oggetto
di
studio"
della
medicina
che
emerge
la
peculiarità
di
questa
"scienza".
Infatti,
sia
la
scienza
sia
l'arte
medica
hanno
a
che
fare
con
il
corpo
umano,
che
è
il
corpo
della
persona
umana.
Va
subito
detto
che,
a
motivo
della
struttura
multidisciplinare
della
scienza
medica,
molte
volte
la
ricerca
si
svolge
su
parti
del
corpo
(su
cellule
o
su
organi)
e
non
sempre
sul
corpo
vivente
della
persona
(come
avviene,
per
esempio,
nell'ambito
della
sperimentazione
farmacologica
nella
sua
fase
finale).
Pertanto,
sul
versante
della
scienza
medica
possiamo
affermare
che
essa
può
a
giusto
titolo
rivendicare
una
"neutralità"
assiologica
e
una
sua
autonomia
dalle
considerazioni
etiche
soltanto
in
quanto
ha
come
scopo
la
conoscenza..
Per
neutralità
intendiamo
affermare
che,
quando
consideriamo
una
scienza
come
tale,
l'etica
riguarda
l'attività
del
ricercatore
(che
deve
essere
onesto,
deve
rispettare
i
metodi
propri
della
ricerca
stessa,
deve
essere
veritiero
e
via
dicendo),
e
non
la
scienza
stessa.
Questa
osservazionevale
per
ogni
attività
di
ricerca
dell'uomo,
ma
non
è
più
sufficiente
laddove
il
modo
del
conoscere
si
attua
attraverso
un
intervento
pratico
su
una
realtà
che
è
in
sé
dotata
già
di
valore
intrinseco,
come
è
appunto
la
corporeità
vivente
della
persona
umana.
Scienza
medica
e
arte
medica
si
trovano
a
condividere
la
medesima
responsabilità
morale
laddove
la
ricerca
si
svolge
inmodo
pratico
sull'uomo
concreto,
che
è
unico
ed
irripetibile.
Questa
rilevanza
etica
diventa
più
chiara
se
prendiamo
in
esame
l'arte
medica.
A
questo
proposito
vale
la
pena
di
citare
ancora
Jonas,
e
per
esteso,
perché
ci
sembra
che
le
sue
considerazioni
siano
estremamente
pertinenti.
"Un
tratto
essenziale
dell'arte
medica
è
dunque
che
il
medico
ha
ogni
volta
a
che
fare
con
il
suo
simile
e
ogni
volta
tipicamente
al
singolare.
Il
paziente
si
aspetta
e
deve
confidare
sul
fatto
che
la
cura
sia
finalizzata
a
lui
solo.
Più
specificamente,
però,
se
prescindiamo
dalla
psichiatria,
l'arte
medica
è
volta
al
corpo
tramite
cui
l'uomo
appartiene
al
regno
degli
organismi
animali,
è
cosa
di
natura
tra
cose
di
natura
e
in
questo
senso
rientra
nella
scienza
della
natura.
Ma
si
tratta
di
un
corpo
di
una
persona
(…)
Per
consentire
a
una
persona
di
vivere,
il
corpo
deve
essere
aiutato.
Il
corpo
è
l'elemento
oggettivo,
ma
è
il
soggetto
ad
essere
in
gioco.
"
[8]
105
Il
corpo
(sia
esso
sano
o
malato)
è
l’oggetto
della
considerazione
medica,
ma
si
tratta
di
un
“oggetto”
particolare,
poiché
il
corpo
umano
vivente
è
sempre
il
segno
della
persona
umana,
cioè
della
soggettività.
Il
corpo
umano
vivente
esprime
bene
il
significato
originario
del
termine
“persona”,
cioè
di
quella
“maschera”
che
mentre
permette
di
identificare
un
soggetto
ne
nasconde
l’identità
profonda,
la
sua
“personalità”
umana.
Da
questo
punto
di
vista,
è
abbastanza
evidente
il
fatto
che
non
ci
si
preoccupa
di
una
persona
malata
senza
passare
attraverso
la
sua
corporeità:
il
corpo
vivente
è
“segno”,
più
o
meno
opaco,
della
persona
umana
che,
pur
eccedendo
la
corporeità,
non
è
mai
senza
il
corpo.
Ogni
violenza
fatta
al
corpo
umano
è
anche
una
violenza
fatta
alla
persona
umana.
Il
corpo
umano
vivente
si
colloca,
per
così
dire,
come
il
luogo
di
confine
tra
la
pura
materialità
e
la
pura
spiritualità:
situazione-‐limite
ben
espressa
dalla
possibilità
di
considerarlo
soltanto
alla
luce
deiprocessi
biochimici
che
lo
connotano
o
attraverso
l'eccedenza
delle
attività
umane
(che
non
sono
soltanto
attività
mentali)
che
lo
qualificano.
Proprio
questa
struttura
dell'umano
fa
sì
che
l’arte
medica
si
costituisca
sempre
nei
termini
di
una
relazionalità
interpersonale
anche
quando
l'esercizio
della
professione
si
svolga
sopra
il
corpo
e
verso
il
corpo.
Ma
anche
il
“corpo”
studiato
dalla
scienza
medica
e
dall’anatomia
non
è
mai,
in
ultima
analisi,
soltanto
“un
corpo”,
anche
se
la
sua
struttura
può
essere
considerata
a
partire
da
discipline
differenti,
che
lo
“dissezionano”
secondo
la
logica
conoscitiva
di
diverse
forme
di
sapere
(dalla
biochimica
alla
fisiologia),
come
se
fosse
un
corpo
qualsiasi.
Proprio
a
questo
livello
si
pone,
ci
sembra,
l'intrinseca
necessità
tanto
per
la
medicina
quanto
per
l'arte
medica
di
instaurare
una
chiara
relazione
con
le
conoscenze
antropologiche
ed
etiche.
La
medicina,
infatti,
richiede
anche
una
competenza
di
stampo
antropologico
e
filosofico
proprio
perché
il
suo
oggetto
è
il
corpo
umano
e
le
conoscenze
"oggettive"
del
corpo
trascurano
quella
componente
"soggettiva"
che
specifica
il
corpo
come
corpo
umano.
Non
solo:
ma
la
stessa
"malattia"
porta
con
sé
il
duplice
livello
del
dolore
corporeo
e
della
sofferenza
psicologica
ed
esistenziale.
Non
si
dà
comprensione
del
fenomeno
"malattia"
senza
un
riferimento
al
"vissuto"
del
malato
e
senza
quindi
fare
i
conti
con
gli
aspetti
della
soggettività.
L’unità
psicofisica
dell’uomo
concreto
impedisce
alla
medicina
di
stabilire
un
confine
netto,
un
punto
di
demarcazione
tra
dove
inizia
lo
spirito
e
dove
finisce
il
corpo
e
impone
al
medico
una
consapevolezza
antropologica
che
trascende
quanto
ha
appreso
sull'uomo
in
termini
di
scienza
"naturale".
In
base
a
questa
consapevolezza,
la
medicina
può
considerare
il
corpo
vivente
umano
in
tutte
le
sue
fasi,
dalla
generazione
alla
morte,
come
segno
della
persona
umana.
Ma
non
solo
sul
versante,
per
così
dire,
dell'"oggetto"
della
scienza
e
dell'arte
medica
si
impone
la
questione
antropologica
(il
"chi
è"?
l'uomo)
e
morale
(che
cosa
è
bene
o
lecito
fare
per
conoscere
meglio
il
corpo
umano
e
per
prendersi
cura
di
questo
uomo?),
ma
anche
sul
versante
del
"soggetto"
della
ricerca
e
dell'arte
medica
si
impongono
delle
considerazioni
morali.
E
questo
per
almeno
due
motivi
di
fondo.
Il
primo,
perché
è
necessario
riconoscere
come
“bene”
morale
la
dedizione
per
la
salute
concreta
dell’uomo
vivente
per
dedicarsi
alla
cura
degli
altri;
il
secondo,
perché
non
c’è
cura
o
studio
del
corpo
che
non
sia
anche
interazione
con
la
persona
umana
e,
quindi,
non
tutti
i
modi
del
conoscere
e
del
curare
sono
rispettosi
della
persona
umana
vivente.
Da
questo
punto
divista,
possiamo
inoltre
affermare
che
la
fonte
specifica
dell’arte
medica
è
sempre
di
stampo
extrascientifico.
L'arte
medica
non
si
attua
in
nome
del
sapere
sperimentale
sulle
strutture
della
corporeità
umana,
ma
in
nome
del
riconoscimento
del
valore
intrinseco
dell’uomo
vivente
e,
quindi,
del
valore
della
salute
come
condizione
che
contribuisce
all’espressione
della
personalità
umana..
In
fondo,
a
ben
vedere,
la
medicina
è
il
maggior
progetto
anti-‐darwiniano
della
storia,
poiché
opera
contro
la
pretesa
selezione
"naturale"
che
privilegia
l'avvento
del
più
forte
e
del
più
sano.
Sarebbe
interessante,
ma
esula
dallo
scopo
di
questa
riflessione,
mostrare
come
sia
difficilmente
106
conciliabile
una
lettura
"naturalistica"
dell'umano
di
stampo
darwiniano
o
neodarwiniano
con
lo
scopo
dell'arte
medica.
Possiamo
anzi
dire,
a
conclusione
di
questa
prima
analisi,
che
il
rapporto
tra
arte
medica
e
scienza
medica
è,
dal
punto
di
vista
cronologico,
inverso
rispetto
a
quello
metodologico:
è
stato
uno
scopo
pratico
a
rendere
sempre
più
necessario
un
approccio
scientifico
all'uomo,
anche
se
è
oggi
evidente
che
nessuno
scopo
pratico
può
avvenire
senza
premesse
scientifiche.
In
termini
generali
possiamo
allora
fare
questa
osservazione:
lo
scopo
della
ricerca
è
la
conoscenza;
la
conoscenza
è
un
valore
morale
in
sè,
ma
la
conoscenza
è
sempre
conoscenza
di
qualcosa:
il
valore
della
conoscenza
perciò,
non
può
collidere
o
eliminare
il
valore
del
“conosciuto”
senza
eliminare
anche
il
valore
morale
della
stessa
conoscenza.
Il
valore
del
conosciuto
impone
che
i
mezzi
per
conoscerlo
adeguatamente
ne
rispettino
i
caratteri.
Tutto
ciò
risulta
evidente
quando
questo
"conosciuto"
e
"conoscibile"
si
identifica
con
il
corpo
personale,
cioè
con
il
corpo
umano.
La
medicina,
come
scienza
e
non
soltanto
come
arte,
quindi,
implica
che
si
sappia
chi
è
l'uomo
di
cui
si
studia
il
corpo.
Il
metodo
della
bioetica,
tra
descrittivo
e
prescrittivo
Il
carattere
interdisciplinare
della
bioetica
è
stato
espresso
fin
dall’inizio
dalla
ormai
celebre
definizione
proposta
nel
1978
dall’
Encyclopedia
of
Bioethics:
"studio
sistematico
del
comportamento
umano
nel
campo
delle
scienze
della
vita
e
della
salute,
in
quanto
questo
comportamento
è
esaminato
alla
luce
di
valori
e
principi
morali"[9].
La
definizione
della
bioetica,
come
è
noto,
resta
ancora
un
problema
aperto,
in
quanto
resta
ancora
da
definire
con
chiarezza
quale
sia
il
suo
statuto
epistemologico[10]:
in
particolare
resta
aperta
la
questione
se
la
bioetica
possa
o
no
assolvere
ad
un
compito
prescrittivo,
o
si
debba
limitare
all’aspetto
descrittivo
o
di
chiarificazione
dei
problemi
che
affronta.
Decidere
per
una
bioetica
soltanto
descrittiva
o
anche
prescrittiva
significa,
in
ultima
istanza,
decidere
se
l’etica
della
bioetica
riesce
a
superare
l’impasse
in
cui
si
è
trovata
gran
parte
della
filosofia
morale
contemporanea
che
ha
assunto
come
proprio
modello
teorico
l’impianto
analitico.
Resta
comunque
il
fatto
che,
mentre
sul
piano
della
scienza
medica
l’interdisciplinarità
può
assolvere
ad
un
compito
descrittivo,
quando
si
entra
nell’ambito
dell’arte
medica
emerge
come
inevitabile
il
problema
del
che
cosa
si
deve
fare.L’arte
medica,
per
sua
stessa
natura,
richiede
un
momento
prescrittivo.
Ed
è
proprio
quando
la
bioetica
è
chiamata
a
gestire
dei
contenuti
problematici
che
emerge
l’esigenza
di
stabilire
un
metodo
che
permetta
di
indicare
ciò
che
si
deve
fare,
e
non
soltanto
ciò
che
di
fatto
si
fa.
Per
quanto
riguarda
il
metodo
della
bioetica,
vale
la
pena
prendere
in
esame
la
proposta
di
E.
Sgreccia,
che
si
è
imposta
come
punto
di
riferimento
delle
ricerche
del
Centro
di
Bioetica
dell’Università
Cattolica
(e
non
soltanto
di
questo).
Questo
metodo
è
stato
presentato
attraverso
la
figura
della
triangolazione:
esposizione
del
fatto
biomedico,
approfondimento
del
significato
antropologico,
individuazione
dei
valori
in
gioco.
La
figura
del
triangolo[11],
nella
sua
geometrica
chiarezza
permette
di
individuare
ciò
che
possiamo
definire
le
“emergenze”
teoriche
della
questione
bioetica:
rappresentata
appunto
dai
tre
vertici
del
triangolo.
La
figura,
peraltro,
esprime
la
necessità
che
siano
presenti
tutti
e
tre
i
vertici
teorici:
se
ne
venisse
a
mancare
uno,
verrebbe
a
mancare
la
figura
stessa.
Se
abbiamo
ben
inteso
la
proposta
di
Sgreccia,
il
significato
simbolico
del
metodo
della
triangolazione
ci
permette
di
affermare
che
la
bioetica
non
è
definita
soltanto
dalla
presenza
di
questi
“vertici”
tematici,
ma
dalla
loro
connessione,
che
permette
appunto
di
tracciare
un
itinerario.
Se
leggiamo
la
proposta
metodologica
di
Sgreccia,
rappresentata
da
questa
figura,
alla
luce
delle
concrete
tesi
che
egli
ha
svolto
nel
suo
Manuale,
emergono
diversi
aspetti
dell’interdisciplinarità,
sui
quali
è
opportuno
riflettere.
La
relazione
“triangolare”
tra
bio-‐medicina,
antropologia,
etica,
107
infatti,
si
assesta
su
due
piani:
dapprima
permette
una
chiarificazione
del
tema
(momento
descrittivo)
che
è
fatto
oggetto
della
riflessione
bioetica,
poi
segue
un
momento
prescrittivo,
in
cui,
però
le
conclusioni
sono
guadagnate
discutendo
quelle
prospettive
metaempiriche
che
di
fatto
sono
presenti
nei
due
dei
lati
della
figura
triangolare.
In
questo
modo
la
bioetica
si
presenta
secondo
una
connotazione
tanto
valutativa
quanto
critica.
Valutativa,
perché
lo
scopo
della
bioetica
non
è
quello
semplicemente
di
descrivere
l’insieme
dei
dati
che
entrano
in
una
relazione
che
si
presenta
più
o
meno
problematica,
ma
di
proporre
delle
soluzioni
a
questi
stessi
problemi:
e
si
tratta
di
soluzioni
di
natura
etica,
e
perciò
prescrittivi.
La
connotazione
etica
della
bioetica,
pertanto,
non
si
mostra
secondo
una
improponibile
logica
deduttiva,
ma
grazie
ad
un’interazione
sistematica
delle
diverse
forme
del
sapere
che
trovano
la
loro
conclusione
in
un
giudizio
di
coscienza
(premessa
del
giudizio
ultimo
pratico,
cioè
dell’azione
vera
e
propria),
cioè
in
una
valutazione
di
ciò
che
è
bene
fare
qui
ed
ora.
Ora,
questo
metodo
si
distingue
dal
proceduralismo
di
altre
prospettive
sia
per
la
sua
connotazione
contenutistica,
che
ha
il
suo
perno
in
una
concezione
sostanzialistica
della
persona
umana,
sia
per
la
sua
struttura
critica
o,
se
si
preferisce,
dialettica.
Non
va,
infatti,
trascurato
che,
se
abbiamo
ben
inteso
l’itinerario
argomentativo
di
Sgreccia,
la
concezione
etica
ed
antropologica
che
egli
propone
è
chiaramente
di
stampo
cognitivista,
e
pertanto
si
muove
nella
convinzione
che
si
possano
guadagnare
alcune
verità
intorno
all’uomo
e
alla
sua
prassi,
riconoscibili
in
linea
di
principio
da
tutti.
In
questa
figura
“triangolare”
emerge,
peraltro,
il
significato
analogo
della
verità,
che
resta
il
terreno
sul
quale
costruire
una
valutazione
morale.
I
tre
lati
del
triangolo
possono
essere
tracciati
perché
c’è
qualcosa
che
accomuna
i
tre
vertici
e
li
rende
comunicanti
pur
nella
differenza:
ed
è
appunto
il
significato
analogo
della
verità.
Se
l’immagine
dell’umano
e
del
valore
della
sua
esistenza
e
della
sua
prassi
(cioè
l’antropologia
e
l’etica)
fossero
soltanto
il
frutto
storico
culturale
delleopzioni
del
singolo
e
delle
comunità,
allora
non
si
comprenderebbe
in
base
a
che
cosa
si
potrebbero
avanzare
delle
pretese
nei
confronti
dell’attività
scientifica,
che
resterebbe
l’unica
ancorata
al
criterio
del
vero
e
del
falso.Ma
proprio
perché
tutte
e
tre
le
discipline,
secondo
i
metodi
che
le
caratterizzano,
hanno
a
che
fare
con
la
verità,
sono
in
grado
di
comprendersi
ed
interagire
nell’itinerario
di
valutazione
di
ciò
che
è
in
gioco
nella
prassi
umana.
Nella
prospettiva
di
Sgreccia,
infatti,
la
bioetica
non
sorge
dalla
somma
delle
competenze,
ma
emerge
come
disciplina
nella
costruzione
di
un
itinerario
(il
triangolo)
che
ha
la
sua
realizzazione
laddove
il
giudizio
di
coscienza
è
formulato
in
base
alle
verità
acquisite
ed
integrate.
Il
momento
prescrittivo,
che
indica
indubbiamente
come
l’oggetto
formale
della
bioetica
sia
di
stampo
etico,
non
è
pertanto
frutto
di
una
pura
deduzione
dai
principi
morali,
ma
sorge
dentro
un
complesso
itinerario
teorico
che
tiene
conto
dei
diversi
approcci
alla
realtà,
resi
possibili
dall’attività
conoscitiva
dell’uomo.
Questo
riferimento
alla
prassi
conoscitiva
che
accomuna
queste
discipline
è
il
fondamento
della
legittimità
della
valutazione
etica.
L’etica,
infatti,
ha
sempre
come
oggetto
le
azioni
umane
e,
quindi,
non
si
trova
“fuori
luogo”
laddove
interviene
per
individuare
i
beni
che
sono
in
gioco:
beni
che
riguardano
anche
la
scienza
dal
suo
interno,
perché
essa
è
sempre
e
comunque
espressione
dell’umano
e
della
verità
della
sua
condizione.
Il
carattere
dinamico
di
questo
processo
ci
permette
di
evidenziarne
anche
la
portata
dialettica:
la
stessa
verità
sull’uomo,
nelle
sue
molteplici
dimensioni,
è,
infatti,
anche
un
guadagno
teoretico,
e
non
soltanto
un’eredità
del
pensiero
classico.
In
questa
prospettiva,
allora,
si
comprende
lo
sforzo
per
ritrovare
le
ragioni
che
fanno
dell’antropologia
e
dell’etica
un
sapere,
che
si
assesta
discutendo
ed
argomentando,
prendendo
sul
serio
le
tesi
che
a
questo
itinerario
si
contrappongono.
Questo
modello
teorico
rende
la
bioetica
un’impresa
teoreticamente
dinamica
non
soltanto
perché
ha
a
che
fare
con
le
scoperte
scientifiche
che
vengono
di
volta
in
volta
riproposte,
ma
perché
tiene
anche
conto
delle
diverse
modalità
con
le
quali
l’uomo
108
contemporaneo
percepisce,
in
modo
più
o
meno
adeguato,
la
propria
identità
e
l’insieme
dei
valori
che
lo
connotano
come
uomo.
Ora,
è
importante
sottolineare
che
questo
impianto
argomentativo
è
metodologicamente
caratterizzato
dalla
capacità
di
confrontarsi
sia
con
le
istanze
dell’ateismo
e
della
secolarizzazione,
sia
con
le
proposte
della
fede
e
della
teologia,
cattolica
e
non.
Si
tratta
dell’
impianto
metodologico
e
non
semplicemente
della
volontà
dell’Autore:
è,
infatti,
proprio
della
struttura
dialettica
ed
argomentativa
della
ragione
la
capacità
di
considerare
tutto
ciò
che
le
si
presenta
come
in
grado
di
contribuire
alla
scoperta
della
verità.
Questa
capacità
metodologica
di
non
escludere
a-‐priori
nessun
interlocutore,
e
di
saper
distinguere
la
fonte
di
una
tesi
dal
valore
in
sé
della
tesi
stessa,
permette
di
fornire
un’indicazione
precisa
alla
vexata
quaestio
del
pluralismo
etico,
che
vorrebbe
ricondurre
anche
la
bioetica
ad
una
provincia
dei
singoli
territori
nei
quali
si
dividerebbe
la
mappa
dell’etica.
Nessun
dubbio
sul
fatto
che
l’etica
sia
terreno
di
scontro
e
di
differenze:
ma
questo
fatto
non
può
pretendere
alcuna
normatività,
anzi
ne
richiede
proprio
il
superamento.
Superamento
richiesto
dal
fatto
che
quando
si
mette
a
tema
il
bene
morale
si
mette
a
tema
l’umano
che
c’è
in
ognuno
di
noi:
quando
si
agisce
in
nome
della
morale
si
agisce
in
nome
dell’umanità
e
perciò
si
interpella
ogni
uomo
come
soggetto
morale.
Da
qui
deriva
la
spinta
al
confronto
e
alla
discussione,
animata
dallo
spirito
della
ricerca
della
verità
e
non
dall’esigenza
del
dominio
e
del
puro
consenso.
A
chi
ha
una
formazione
scientifica,
empirica,
potrà
sembrare
che
questa
impostazione
rischi
di
essere
conflittuale,
a
fronte
delle
modalità
assertorie
con
le
quali
le
quali
si
trasmettono
i
risultati
scientifici:
ma
è
un’impressione
erronea,
che
non
tiene
conto
della
specificità
metodologica
del
sapere
filosofico
e
dimentica
che
questa
dimensione
dialettica
è
analoga
alla
logica
dell’ipotesi
e
della
verifica
con
la
quale
si
costruisce
il
sapere
sperimentale.
Mantenere
questa
consapevolezza
metodologica
potrebbe
essere
un
ottimo
antidoto
anche
nei
confronti
di
possibili
derive
ideologiche
che
potrebbero
condizionare
la
trasmissione
di
alcuni
contenuti
bioetici:
nella
trasmissione
dei
contenuti,
infatti,
è
necessario
aver
cura
di
indicare
anche
le
ragioni
che
li
supportano
e
le
tappe
dialettiche
che
ne
hanno
permesso
la
formulazione.
Certo,
questa
impresa
non
è
di
facile
attuazione
in
un
contesto
culturale
che
sembra
oggi
privilegiare
una
linea
ermeneutica
che,
in
nome
di
un
inventario
delle
possibili
ed
indefinite
letture
della
realtà,
rifiuta
di
pensare
la
stessa
possibilità
della
soluzione
ai
problemi
etici.
Ma
questo
è
un
tema
che
qui
non
possiamo
affrontare.
Linee
conclusive
Per
prima
cosa
è
opportuno
ricordare
che
c’è
un
nesso
intrinseco
tra
tutte
le
attività
umane
e
la
questione
morale:
per
usare
l’espressione
tomistica
idem
sunt
actus
morales
et
actus
umani.
Come
è
noto,
per
Tommaso,
gli
atti
umani
sono
quelli
liberi
e
consapevoli,
dei
quali
possiamo
“rispondere”,
che
determinano
progressivamente
la
nostra
personalità
morale
e
la
nostra
capacità
non
soltanto
di
fare
il
bene
e
il
male,
ma
di
essere
buoni
o
cattivi.
Da
qui
deriva
un
fatto:
tutte
le
attività
umane,
considerate
dal
lato
del
soggetto,
hanno
a
che
fare
con
la
morale.
Su
questo
aspetto
si
fonda
l’esistenza
della
deontologia
sia
come
mezzo
per
ottenere
risultati
confacenti
allo
scopo
specifico
della
ricerca
medica
(valore
dell’onestà
intellettuale,
della
precisione,
e
via
dicendo),
sia
come
mezzo
perché
il
singolo
agente,
attraverso
le
sue
opere,
rispetti
e
promuova
la
propria
identità
morale.
Questo
aspetto
“immanente”,
deontologico,non
può
però
essere
né
l’unico
né
il
fondamentale
tema
da
affrontare
laddove
si
parla
di
interdisciplinarità.
In
termini
paradossali
potremmo
esprimere
il
limite
della
riduzione
dell’etica
a
deontologia
professionale
ricordando
che
anche
per
ottenere
scopi
cattivi
possono
essere
richieste
virtù
(cioè
abilità)
morali:
così
occorre
serietà,
impegno,
precisione
anche
per
109
costruire
un’arma
letale,
ma
questa
profusione
di
virtù
non
rende
lo
scopo
in
sé
buono
e
apre
la
questione
delle
responsabilità
del
soggetto
agente
e
della
loro
estensione.
L’interdisciplinarità
emerge
con
un’altra
esigenza,
quella
della
valutazione
sia
dei
mezzi
sia
degli
scopi
dell’attività
biomedica:
qui
la
questione
etica
trascendela
ricerca
stessa,
e
si
costituisce
secondo
una
valenza
“architettonica”.
La
valutazione
morale
non
mina
l’autonomia
disciplinare
in
quanto
tale,
ma
la
considera
in
funzione
di
un’altra
prospettiva
disciplinare.
Questa
impostazione
è
già
sottesa,
per
esempio,
al
convincimento
diffuso
checiò
che
si
può
concretamente
fare
non
coincide
di
per
sé
con
ciò
che
è
moralmente
bene
fare.
Si
noti
che
è
possibile
anche
un
rapporto
differente,
cioè
si
può
dare
una
valutazione
medica
di
una
prassi
morale,
come
valutazione
estrinseca
e
non
per
questo
lesiva
dell’autonomia
della
morale
stessa.
Poniamo,
a
titolo
di
esempio,
la
legittimità
di
interrogarsi
circa
la
salubrità
o
no
di
un
digiuno
prolungato,
dettato
da
criteri
religiosi,
o
di
portare
a
termine
una
gravidanza
rischiosa.
Un’azione
può
così
essere
“buona”
moralmente,
ma
anche
“nociva”
dal
punto
di
vista
della
salute:
a
livello
conoscitivo
è
così
possibile
invertire
le
relazioni
tra
le
varie
discipline.
Il
carattere
della
interdisciplinarità,
infatti,
permette
lo
scambio
delle
parti,
senza
che
per
questo
venga
determinata
(in
linea
di
principio)
una
violazione
dell’autonomia
delle
singole
discipline
correlate.
La
necessità
della
valutazione
morale,
come
abbiamo
cercato
di
provare,
deriva
dalla
caratterizzazione
pratica
della
scienza
e
dell’arte
medica.
Le
considerazioni
finora
svolte
sul
versante
della
morale
possono
essere
facilmente
estese
sul
piano
antropologico,
distinguendo,
anche
in
questo
caso,
una
relazione
intrinseca
ed
una
relazione
estrinseca.
Da
una
parte,
infatti,
la
ricerca
sul
corpo
dell’uomo
richiede
una
concezione
dell’uomo
e
non
soltanto
una
conoscenza
della
sua
struttura
biologica,
anatomica,
chimica
e
fisica
per
il
semplice
motivo
che
queste
strutture
non
esistono
in
astratto,
ma
sono
qualificate
dalla
condizione
umana
stessa.
La
peculiarità
umana
è
anche
la
peculiarità
qualificata
della
corporeità
umana.
Un’ultima
annotazione,
di
tipo
storico,
si
impone.
Per
lungo
tempo
la
medicina,
come
arte
e
come
scienza,
non
ha
avvertito
la
necessità
di
una
connessione
strutturale
con
le
discipline
filosofiche
semplicemente
perché
essa
assumeva
dall’ambiente
culturale
nel
quale
operava
le
categorie
antropologiche
ed
etiche.
Per
molto
tempo
la
medicina
è
stata
“naturalmente”
cristiana
semplicemente
perché
si
era
formata
e
sviluppata
in
una
Weltanschauung
cristiana.
Oggi
la
situazione
è
profondamente
diversa,
perché
il
contesto
culturale
è
contrassegnato
da
diverse
forme
di
secolarizzazione
e
perché
non
si
può
più
parlare,
a
livello
sociologico,
di
un
indiscusso
primato
dell’umanesimo
di
stampo
cristiano.
Non
esiste
più,
a
livello
sociologico,
una
concezione
omogenea
alla
quale
fare
riferimento:
il
“buon
senso”
non
è
in
grado
di
supplire
alle
specifiche
conoscenze
antropologiche
ed
etiche.
Da
questa
situazione
storico-‐ambientale
deriva
le
necessità
di
guadagnare
a
livello
teorico
molte
delle
categorie
che,
per
lungo
tempo,
hanno
fatto
da
“sfondo”
naturale
e
non
conflittuale
alla
biomedicina
occidentale.
Il
futuro
della
scienza
e
dell’arte
medica
richiede
una
nuova
consapevolezza
sul
piano
delle
conoscenze
e
delle
competenze
etiche
ed
antropologiche.
110
1]
Tra
i
numerosissimi
studi
dedicati
alla
storia
delle
scienze
e
al
loro
rapporto
con
la
filosofia,
ci
limitiamo
a
ricordare
qualche
testo:
A.
Koyré,
Dal
mondo
Chiuso
all'universo
infinito,
Feltrinelli,
Milano
1970;
A.C.
Crombie,
Da
S.
Agostino
a
Galileo.
Storia
della
scienza
dal
Val
XVII
secolo,
Feltrinelli,
Milano,
1970;
P.
Rossi,
I
filosofi
e
le
macchine
(1400-‐1700),
Feltrinelli,
Milano
1972.
[2]
Una
riedizione
di
questa
polemica,
nel
nostro
secolo,
si
è
realizzata
a
partire
dalla
riflessione
intorno
alla
tecnica
e
al
rapporto
che
essa
intrattiene
con
la
cultura
umanistica.
[3]
Tommaso
d’Aquino,
Summa
Teologiae,
I.
q.1,
a
2.
[4]
Può
essere
utile
rileggere
il
sintetico
ed
interessante
contributo
di
M.
Lenoci,
La
ragione
umana
tra
scienza
e
filosofia,
in
S.
Zaninelli,
Scienza,
tecnica
e
rispetto
dell'uomo.
Il
caso
delle
cellule
staminali,
Vita
e
Pensiero,
Milano
2001,
pp.
27-‐38.
[5]
Su
questi
temi
cfr.
D.
Callahan,
La
medicina
impossibile,
trad.
it.,
Baldini
&
Castaldi,
Milano
2002e
il
recente
Pareredel
Comitato
Nazionale
per
la
Bioetica
dal
titolo
Scopi,
limiti
e
rischi
della
medicina,
14
dicembre
2001.
[6]
H.
Jonas,
Tecnica,
medicina,
etica,
trad.
it.,
Einaudi,
Torino
1997,
p.
110.
[7]
Se
guardiamo
alle
intenzioni
del
soggetto
conoscente
non
possiamo
a
distinguere
tra
scienze
pratiche
e
scienze
speculative:
dal
fatto,
per
esempio,
che
l’intenzione
di
un
matematico
sia
quella
di
ottenere
il
premio
Nobel
con
le
sue
ricerche
non
si
può
evincere
nulla
sulla
natura
della
matematica.
[8]
H.
Jonas,
op.
cit.,
p.
111.
[9]
Cfr.
W.
T.
Reich
(a
cura
di)
Encyclopedia
of
Bioethics,
4
voll.,
The
Free
Press,
Ney
York,
1978,
Introduction,
p.
XIX.
[10]
Per
una
sintetica
analisi
del
problema
mi
permetto
di
rinviare
a
A.
Pessina,
Bioetica.
L’uomo
sperimentale,
B.
Mondadori,
Milano
1999.
[11]
Cfr.
E.
Sgreccia,
Manuale
di
Bioetica,
vol
I,
Vita
e
Pensiero
1999(3°
ed),
pp.
63-‐64.
La
stessa
figura
metodologica
è
utilizzata
nell’analisi
della
relazione
tra
i
diritti
del
malato
e
quelli
del
medico
(cfr.
p.
244
e
ss.).
111
ROBERT
SPAEMANN
Quello
che
noi
oggi
indichiamo
con
la
parola
"scienza"
non
è
la
stessa
cosa
che
era
chiamata
con
questo
nome
fino
al
sedicesimo
secolo.
E'
bene
essere
consapevoli
di
questa
differenza
se
ci
si
vuole
fare
un'idea
adeguata
di
quello
che
fa
la
scienza
moderna.
Episteme
o
scientia
erano
sostantivi
derivati
dal
verbo
"sapere".
Sapere
è
uno
stato
relazionale
dell'anima,
è
l'habitus
di
un
uomo.
Un
habitus:
che
qualcuno
sa
qualcosa
non
significa
che
debba
pensare
attualmente
a
quello
che
sa,
ma
significa
invece
che,
se
ci
pensa,
lo
pensa
correttamente
e
con
certezza
e
più
precisamente
con
una
certezza
che
conosce
le
proprie
ragioni
come
ragioni
definitive.
Questo
differenzia
il
sapere
dall'opinare
e
dal
credere.
In
quanto
concetto
relazionale
il
sapere
non
è
un
fenomeno
puramente
psicologico.
Dal
punto
di
vista
psicologico
il
sapere
non
è
distinguibile
da
una
convinzione
sbagliata.
Vi
sono
convinzioni
sbagliate,
opinioni
sbagliate,
credenze
sbagliate.
Non
vi
è
invece
sapere
sbagliato,
perché
la
verità,
l'"adaequatio
rei
et
intellectus",
fa
parte
della
definizione
del
sapere.
Se
io
credevo
di
sapere
qualcosa
e
in
seguito
arrivo
a
una
convinzione
diversa,
questa
nuova
convinzione
implica
che
la
convinzione
precedente
era
pure
una
convinzione
ma
non
era
sapere.
Il
sapere
viene
attualizzato
quando
pensiamo
coscientemente
a
quello
che
sappiamo,
ma
viene
attualizzato
anche
senza
che
noi
ci
pensiamo
attraverso
il
nostro
comportamento.
Andiamo
in
un
posto
passando
da
una
certa
strada
perché
sappiamo
che
questa
strada
porta
in
quel
posto.
Se
percorriamo
spesso
quella
strada
non
abbiamo
bisogno
ogni
volta
di
rendere
cosciente
questo
sapere.
In
generale
il
sapere
ci
dà
la
possibilità
di
raggiungere
quello
che
vogliamo,
posto
che
sappiamo
che
cosa
vogliamo
davvero.
Il
sapere
pratico
nel
senso
classico
della
parola
non
era
soltanto
e
neppure
innanzi
tutto
know
how,
ma
sapere
di
ciò
che
l'uomo
vuole
davvero
e
soprattutto.
E
poiché
ogni
uomo
in
fondo
desidera
essere
felice,
quello
che
deve
sapere
è
in
che
cosa
consista
la
felicità,
l'eudaimonia,
la
beatitudo.
Aristotele
ha
insegnato
che
la
più
alta
forma
di
felicità
consiste
essa
stessa
nell'attualizzazione
del
sapere
teoretico
più
elevato,
nella
theoria,
ovvero
nella
contemplazione
delle
realtà
eterne,
necessarie
e
immutabili
e
non
di
quelle
terrene,
contingenti
e
mutevoli.
La
theoria
non
serve
alla
praxis
ma
ne
è
essa
stessa
la
forma
più
alta.
Per
Platone
questo
sapere
supremo
è
la
conoscenza
del
Bene.
Alla
fin
fine
ogni
sapere
è
sapere
soltanto
se
è
fondato
sulla
conoscenza
del
Bene
in
quanto
questo
è
"la
causa
della
conoscenza
e
della
realtà"
di
tutte
le
cose.
Che
cosa
sia
un
coccodrillo
lo
si
sa
soltanto
se
si
sa
che
cosa
distingue
un
coccodrillo
ben
riuscito
da
uno
mal
riuscito,
un
coccodrillo
sano
da
uno
malato.
E
chi
dicesse
di
sapere
che
cosa
è
un
coltello,
ma
non
fosse
in
grado
di
distinguere
un
coltello
affilato
da
uno
che
non
taglia,
in
realtà
non
sa
che
cosa
è
un
coltello.
Il
concetto
classico
di
sapere
presuppone
una
visione
teleologica
della
realtà.
Sapere
veramente
significa
comprendere
una
struttura
teleologica.
E
abbiamo
davvero
compreso
che
cosa
sia
l'indefinibile
"Bene
in
sé"
quando
questo
determina
il
nostro
comportamento.
Chi
fa
il
male,
dice
Platone,
evidentemente
non
conosce
veramente
il
bene.
E
così
ancora
san
Tommaso
insegna
che
nessuno
fa
volontariamente
il
male
ovvero
ciò
che
non
è
desiderabile.
La
colpa
dell'azione
cattiva
è
sempre
preceduta
da
un
errore
colpevole
rispetto
a
ciò
che
è
desiderabile
qui
e
ora
ovvero
rispetto
al
bene.
Ancora
Dante
scrive
che
l'inferno
è
il
luogo
di
coloro
"c'hanno
perduto
il
ben
dell'intelletto".
Per
questo
la
tradizione
della
filosofia
classica
sostiene
che
la
prudentia
è
la
più
alta
delle
virtù
cardinali.
Ciò
che
più
importa
in
questa
caratterizzazione
della
scienza
è
che
il
sapere
è
sempre
e
soltanto
lo
stato
di
un
singolo
uomo
reale.
Non
è
possibile
che
qualcosa
"si"
sappia.
Vi
è
la
convinzione
112
comune
di
più
uomini.
Ma
una
tale
convinzione
può
diventare
sapere
sempre
e
soltanto
in
un
uomo
concreto.
Soltanto
un
uomo
concreto
può
essere
sapiente.
Ma
il
sapere
nel
senso
tradizionale
culmina
appunto
nella
sapienza.
Il
desiderio
di
sapere
è
un
tratto
fondamentale
dell'uomo.
"Tutti
gli
uomini
per
natura
tendono
al
sapere":
con
queste
parole
inizia
la
Metafisica
di
Aristotele.
Come
prova
empirica
di
questa
caratteristica
degli
esseri
umani
Aristotele
cita
il
fatto
che
essi
provano
piacere
nel
vedere,
anche
indipendentemente
da
ogni
utilità
pratica
e
da
ogni
riferimento
all'azione.
Questo
desiderio
di
sapere
fine
a
sé
stesso
è
stato
considerato
criticamente
dai
dottori
cristiani.
L'influenza
maggiore
la
ebbe
la
critica
della
curiositas
di
Agostino.
Si
può
leggere
questa
critica
come
una
radicalizzazione
della
dottrina
platonica
della
conoscenza
del
"Bene
in
sé"
ovvero
del
Bene
supremo.
Per
Platone
si
può
parlare
di
sapere
in
senso
stretto
soltanto
se
ciò
che
è
saputo
viene
fondato
fino
ad
arrivare
al
fondamento
ultimo
che
è
il
Bene
in
sé.
Solo
pochi
sono
in
grado
di
farlo,
i
filosofi.
Affinché
lo
Stato
sia
ordinato,
negli
altri
devono
essere
coltivate
opinioni
corrette
cui
essi
si
adeguino
senza
comprenderle
più
profondamente.
Il
cristianesimo
ha
democratizzato
la
filosofia
platonica:
tutti
sono
chiamati
ad
arrivare
alla
conoscenza
della
verità,
cioè
alla
conoscenza
di
Dio.
La
fede
non
è
doxa,
opinione
nel
senso
che
l'Antichità
dava
a
questa
parola,
ma
sapere
che
poggia
sulla
rivelazione
che
Dio
ha
fatto
di
sé
e
che
ha
una
certezza
tale
da
superare
il
sapere
acquisito
dall'uomo
con
i
propri
mezzi.
Infatti
nei
confronti
di
noi
stessi
possiamo
e
dobbiamo
diffidare.
Ma
nel
caso
della
fede
vale
il
detto
dell'Apostolo:
"Scio
cui
credidi".
Perciò,
a
differenza
che
per
Platone,
per
Agostino
il
desiderio
terreno
di
sapere
fine
a
sé
stesso
va
condannato
come
curiositas.
Il
desiderio
di
sapere
è
giustificato
soltanto
quando
il
sapere
è
utile
per
la
vita
degli
esseri
umani
oppure
come
mezzo
per
la
conoscenza
di
Dio.
La
conoscenza
di
Dio
è
fine
a
sé
stessa
in
quanto
Dio
è
lui
stesso
il
fine
e
la
conoscenza
sfocia
nel
"frui
Deo",
nella
dedizione
amorosa
a
lui.
La
conoscenza
del
finito,
invece,
quando
non
sia
utile
nel
senso
che
si
è
detto,
termina
nell'autocompiacimento,
nell'"amor
sui
usque
ad
contemptum
Dei".
Tommaso
cerca
di
conciliare
Aristotele
e
Agostino,
non
soltanto
riconoscendo
il
desiderio
di
sapere
come
costante
antropologica,
ma
vedendo
in
esso
la
realizzazione
del
fatto
che
l'uomo
è
immagine
di
Dio.
In
questo
senso
ogni
sapere
in
quanto
tale
contiene
già
di
per
sé
un
riferimento
a
Dio
in
quanto
origine
della
verità.
Il
vizio
della
curiositas
consiste
perciò
soltanto
nel
recidere
questo
riferimento
ovvero
nella
ricerca
di
un
sapere
che
pregiudizialmente
rifiuti
ogni
riferimento
a
questa
origine.
Ciò
che
muove
il
ricercatore
è
allora
soprattutto
la
superbia,
vanità
e
ambizione,
e
non
l'amore
della
verità.
E'
interessante
il
fatto
che
in
un
passo
Tommaso
definisce
la
curiositas
come
una
forma
di
acedia,
la
pigrizia
spirituale.
Per
perseguire
il
suo
fine
ultimo
l'uomo
deve
mettere
in
gioco
le
sue
energie
più
profonde.
Quando,
in
conseguenza
della
"fuga
finis",questo
non
accade,
l'uomo
si
trascina
per
così
dire
senza
meta
tra
la
massa
infinita
dello
scibile.
Hans
Blumenberg,
nel
suo
libro
La
legittimità
dell'età
moderna,
ha
indicato
la
riabilitazione
della
curiosità
teorica
come
una
caratteristica
fondamentale
di
tale
epoca.
Questa
tesi
appare
corretta
soltanto
a
patto
che
teniamo
presente
che
il
concetto
di
scienza
si
è
al
tempo
stesso
profondamente
trasformato.
Voglio
caratterizzare
questa
trasformazione
evidenziandone
quattro
fattori.
1)
Oggetto
della
scienza
non
sono
più
le
strutture
teleologiche
della
realtà
ma
nessi
causali
regolari.
2)
Il
sapere
non
è
né
sapere
pratico
né
theoria
nel
senso
di
contemplazione
di
ciò
che
è
conosciuto;
ciò
che
è
conosciuto
teoricamente
è
il
presupposto
su
cui
si
basano
delle
applicazioni
pratiche
oppure
è
uno
stadio
nel
progredire
infinito
della
ricerca.
3)
Il
sapere
scientifico
non
è
affatto
sapere
nel
senso
classico
della
parola
ma
ipotesi,
opinione
più
o
meno
ben
fondata,
sempre
falsificabile
in
linea
di
principio,
giacché
poggia
non
sull'intuizione
di
essenze,
ma
sul
tentativo
di
ordinare
da
un
punto
di
vista
teorico
i
dati
empirici.
4)
La
scienza
non
è
il
sapere
di
uomini
concreti
ma
un'impresa
collettiva
che
offre
informazioni
che
a
seconda
delle
113
necessità
possono
essere
acquisite
parzialmente
da
uomini
concreti
al
fine
di
ulteriori
ricerche
o
di
applicazioni
pratiche.
1)
L'ontologia
classica
è
biomorfa.
La
realtà
è
fatta
di
cose
con
le
loro
proprietà
e
relazioni.
Il
caso
paradigmatico
di
che
cosa
sia
una
cosa
è
il
vivente.
Il
caso
paradigmatico
dell'essere
nel
senso
dell'esistenza
è
il
vivere.
"Vivere
viventibus
est
esse",
si
legge
in
Aristotele.
Però
che
cosa
sia
un
essere
vivente
e
che
cosa
sia
vivere,
noi
lo
sappiamo
innanzi
tutto
perché
conosciamo
noi
stessi.
Il
caso
paradigmatico
del
vivente
è
l'uomo
e
così
questa
ontologia
in
ultima
analisi
è
antropomorfa.
"Essere"
non
significa
innanzi
tutto
essere
oggetto,
ma
essere
in
sé.
Ma
è
proprio
del
vivente
l'"essere
in
cerca
di
qualcosa".
Fintanto
che
viviamo,
ci
interessa
qualcosa,
foss'anche
soltanto
la
sopravvivenza.
Conoscere
il
vivente
significa
perciò
conoscerne
la
struttura
teleologica.
Chi
non
sa
a
che
cosa
serve
un
polmone
e
come
mai
gli
uccelli
in
inverno
volino
verso
sud,
non
sa
nulla
dell'organismo
dei
mammiferi
e
non
sa
nulla
degli
uccelli
migratori.
La
scienza
moderna
comincia
con
un
rifiuto
programmatico
della
considerazione
teleologica
della
realtà.
Questa,
come
scrive
Francis
Bacon,
"sterilis
est,
et
tanquam
virgo
Deo
consecrata
nihil
parit",
è
sterile
e
non
genera
nulla
come
una
vergine
consacrata
a
Dio.
L'Illuminismo
ha
poi
realmente
cacciato
dai
monasteri
tutte
le
vergini
consacrate
a
Dio
a
meno
che
non
facessero
qualcosa
di
utile
come
fare
scuola
ai
bambini
o
curare
i
malati.
Ma
vediamo
già
in
queste
parole
di
Bacon
il
nuovo
ideale
di
scienza:
la
scienza
deve
essere
utile.
Il
sapere
deve
avere
una
utilità
pratica
oppure
deve
essere
tale
da
generare
nuovo
sapere.
Il
sapere
teleologico
suscita
il
sospetto
di
essere
un
"asylum
ignorantiae",
una
scusa
per
la
"ignava
ratio",
la
ragion
pigra.
Che
i
polmoni
siano
necessari
per
l'assunzione
di
ossigeno
è
una
constatazione
di
per
sé
priva
di
interesse.
Al
massimo
può
avere
un
qualche
valore
euristico
per
un
programma
di
ricerca
che
indaghi
i
processi
microbiologici
attraverso
i
quali
i
polmoni
si
formano
e
funzionano.
Lo
stesso
vale
per
le
migrazioni
degli
uccelli.
La
conoscenza
di
nessi
causali
regolari,
però,
a
differenza
della
considerazione
teleologica,
porta
all'apeiron,
va
all'infinito.
E'
interminabile.
Per
questo
non
può
offrire
alcun
orientamento
per
l'azione,
ma
soltanto
renderla
più
efficiente.
2)
Per
questo
motivo
la
scienza
moderna
non
è
contemplazione
ma
ricerca.
In
quanto
tale,
però,
essa
non
è
come
la
theoria
dell'Antichità,
forma
suprema
della
prassi,
ma
è
al
servizio
di
una
prassi
che
mira
alla
progressiva
sottomissione
della
natura.
Il
sapere
teleologico
è
privo
di
ogni
utilità
ai
fini
del
dominio
della
natura,
anzi
è
piuttosto
un
ostacolo.
Si
possono
condurre
esperimenti
sugli
animali
con
meno
remore
se
si
ignora
che
gli
animali
soffrono.
Il
sapere
causale
ci
insegna
però
come
noi
possiamo
intervenire
sulla
natura.
E
questo
sapere
viene
acquisito
di
solito
soltanto
attraverso
tali
interventi,
cioè
attraverso
degli
esperimenti.
Conoscere
una
cosa
ora
non
significa
più
comprenderla
per
così
dire
dall'interno,
ma,
come
scrive
Thomas
Hobbes,
"to
know
what
we
can
do
with
it
when
we
have
it".
Aristotele
credeva
-‐-‐
e
questo
è
quello
che
io
intendo
sottolineare
parlando
di
"ontologia
biomorfa"
-‐-‐
di
poter
comprendere
perché
le
pietre
cadono
verso
il
basso.
La
scienza
moderna
si
limita
a
constatare
quali
connessioni
regolari
vi
siano
dietro
la
caduta
delle
pietre,
ma
rinuncia
a
intendere
il
vivente
in
modo
biomorfo
e
l'uomo
in
modo
antropomorfo.
La
considerazione
antropomorfa
dell'uomo
viene
lasciata
all'ermeneutica
delle
scienze
umane,
la
considerazione
biomorfa
del
vivente
non
ha
più
luogo.
La
vita
non
viene
più
compresa
a
partire
dal
vissuto
umano,
ma
come
un
caso
particolare
di
processo
fisico,
perché
soltanto
in
processi
fisici
così
intesi
noi
possiamo
intervenire.
Per
questo,
soltanto
questa
forma
di
sapere
è
utile.
Possiamo
chiarire
questo
passaggio
da
una
scienza
"comprendente"
a
una
scienza
"calcolante"
considerando
un
esempio
che
consentì
già
a
Leibniz
di
vedere
chiaramente
come
stiano
le
cose.
E'
l'esempio
del
movimento.
Nella
tradizione
classica
il
movimento
in
quanto
continuo
si
sottraeva
alla
trattazione
matematica.
Appunto
per
questa
ragione
la
fisica
non
poteva
essere
matematizzata,
a
differenza
dell'ottica,
nel
cui
caso
si
fa
astrazione
dal
movimento
e
che
può
114
essere
trattata
in
modo
puramente
geometrico.
La
fisica
matematizzata
moderna
divenne
possibile
soltanto
grazie
al
calcolo
differenziale
e
integrale
che
fu
inventato
contemporaneamente
da
Leibniz
e
da
Newton.
Questo
permette
di
scomporre
il
movimento
in
stati
stazionari
con
intervalli
sempre
più
piccoli
la
cui
sequenza
è
ora
calcolabile.
Il
prezzo
da
pagare
per
la
calcolabilità,
tuttavia,
è
la
scomparsa
del
movimento
in
quanto
movimento
ovvero
in
quanto
continuo.
A
differenza
di
tanti
scienziati
moderni,
Leibniz
questo
lo
ha
visto
chiaramente
e
ha
perciò
introdotto
il
concetto
di
conatus
che
prende
il
posto
del
concetto
aristotelico
di
dynamis
e
cerca
di
comprendere
il
movimento
per
così
dire
dall'interno.
Tale
comprensione
non
può
fare
a
meno
dell'idea
di
anticipazione.
Il
corpo
in
movimento
nell'istante
t1
si
differenzia
dal
corpo
immobile
nello
stesso
istante
per
il
fatto
che
il
suo
trovarsi
in
un
altro
luogo
nell'istante
t2
è
già
contenuto
nella
definizione
del
suo
stato
presente.
Questo
suona
come
un
paradosso.
Ma
questa
affermazione
ha
un
fondamento
nell'esperienza
e
più
precisamente
nell'esperienza
che
noi
abbiamo
delle
nostre
azioni.
Si
può
definire
un'azione
soltanto
caratterizzandone
l'inizio
attraverso
il
fine
a
cui
si
tende.
Ogni
definizione
del
movimento
in
quanto
movimento
contiene
perciò
un
antropomorfismo
occulto.
Chi
vuole
evitarlo
deve
negare
che
vi
sia
una
realtà
quale
quella
del
movimento
e
definire
il
movimento
come
ciò
che
il
calcolo
infinitesimale
rende
calcolabile:
una
successione
di
stati
stazionari
con
una
distanza
minima
l'uno
dall'altro.
Avendo
compreso
questo,
Leibniz
concepì
due
forme
di
scienza
della
natura
che
potremmo
chiamare
una
"fisica
dall'esterno"
e
una
"fisica
dall'interno",
cioè
una
filosofia
della
natura
che
non
tratta
della
realtà
sotto
l'aspetto
della
sua
oggettivabilità,
ma
tratta
della
realtà
in
quanto
tale.
Questo
può
voler
dire
soltanto
che
ne
tratta
dal
punto
di
vista
della
sua
somiglianza
con
noi.
Questa
scienza
non
è
antropocentrica
come
la
scienza
moderna,
ma
è
antropomorfa.
Né
antropocentriche
né
antropomorfe
sono
soltanto
due
forme
di
sapere
che
per
questo
motivo
secondo
Platone
devono
essere
strettamente
legate
tra
loro:
la
matematica
pura
e
la
metafisica.
La
matematica
tuttavia
ha
trovato
nella
conoscenza
della
natura
un
campo
di
applicazione
che
ha
del
prodigioso.
Per
la
metafisica,
invece,
lo
spazio
si
è
ristretto.
L'opera
metafisica
più
significativa
del
ventesimo
secolo
è
quella
di
un
matematico,
Alfred
North
Whitehead.
E'
un'opera
rimasta
solitaria.
Dov'è
nello
scientismo
moderno
il
posto
per
speculazioni
metafisiche
rigorose
e
degne
di
rispetto?
Descartes
si
è
espresso
con
chiarezza
a
tale
proposito.
Lo
scopo
della
scienza
è
la
sua
applicazione
finalizzata
alla
crescita
della
felicità
umana.
I
campi
di
applicazione
sono
la
meccanica,
la
medicina
e
la
psicologia.
Sono
questi
i
frutti
dell'albero
del
sapere.
Il
tronco
dell'albero
è
la
fisica.
La
radice
è
la
metafisica.
E'
un
cambiamento
significativo.
La
metafisica
classica
vedeva
sé
stessa
come
il
vertice
degli
sforzi
teoretici
dell'uomo.
La
theoria,
scrive
Aristotele,
in
realtà
è
qualcosa
di
più
divino
che
umano.
Per
i
dottori
cristiani
essa
era
un
anticipo
della
visio
beatifica.
Per
Descartes
invece
la
metafisica
è
il
mezzo
con
cui
raggiungere
in
sé
stessi
la
certezza
e
la
stabilità
che
occorre
avere
nel
momento
in
cui
si
intraprende
l'avventura
della
scienza.
Senza
idee
ontologiche
a
fare
da
fondamento
tutto
quello
che
facciamo
resta
campato
per
aria.
Ma
queste
questioni
non
sono
tali
da
occuparci
per
tutta
la
vita.
Bisogna
sbrigare
questa
faccenda
una
volta
per
tutte
e
eventualmente
richiamare
alla
mente
per
poche
ore
ogni
anno
quello
che
abbiamo
così
compreso
per
dedicarsi
nel
tempo
che
resta
alla
"vita",
di
cui
fa
parte,
per
chi
ne
è
ha
la
capacità,
la
scienza.
Praticare
la
scienza
diventa
però
per
Descartes
un
dovere
morale.
Infatti
ci
possiamo
permettere
il
dubbio
metodico
soltanto
se
con
la
scienza
cerchiamo
poi
di
rimuovere
sistematicamente
ogni
dubbio
e
ci
adoperiamo
per
promuovere
la
felicità
dell'umanità.
3)
Su
questo
punto
tuttavia
il
cammino
della
scienza
europea
si
è
allontanato
da
Descartes.
L'ideale
di
Descartes
era
di
sostituire
con
la
certezza
il
sapere
soltanto
probabile
e
plausibile.
La
scienza
doveva
progredire
di
certezza
in
certezza
fino
a
divenire
un
sistema
deduttivo
completo.
115
In
realtà
la
scienza
europea
ha
fatto
sua
piuttosto
la
concezione
degli
empiristi.
Ha
rinunciato
alla
fondazione
metafisica.
Ha
rinunciato
all'ideale
della
certezza
e
ha
rinunciato
all'idea
di
compiutezza.
Non
conosce
alcun
sapere
assoluto
e
perciò
definitivo,
ma
soltanto
ipotesi
che
vengono
fondate
sempre
meglio
e
meritano
una
fiducia
crescente
a
mano
a
mano
che
falliscono
i
tentativi
fatti
di
falsificarle,
sebbene
non
siano
mai
definitivamente
sottratte
al
rischio
di
essere
ridimensionate
o
rivoluzionate.
4)
La
rinuncia
al
sapere
nel
senso
di
certezza
è
una
conseguenza
necessaria
del
fatto
che
la
scienza
diventa
una
impresa
collettiva
in
cui
vale
il
principio
della
divisione
del
lavoro.
Sapere
o
essere
certi
possono
esserlo
soltanto
uomini
concreti.
Sapere
è
una
condizione
della
ragione.
Ma
la
ragione
esiste
soltanto
come
ragione
individuale.
Heidegger
ha
scritto:
"La
scienza
non
pensa".
Si
potrebbe
anche
dire:
"La
scienza
non
sa".
La
scienza,
infatti,
è
un'astrazione
ricavata
dall'attività
di
tanti
uomini
diversi.
Questi
uomini
possono
arrivare
a
mettersi
d'accordo
in
gran
numero.
Ma
quello
su
cui
sono
d'accordo
può
anche
essere
un
errore.
Il
consenso
fonda
una
presunzione
di
verità.
Ma
l'atto
per
cui
dal
consenso
deriva
la
certezza
di
una
verità
può
essere
soltanto
un
atto
individuale.
(J.
H.
Newman
ha
affrontato
la
questione
del
passaggio
dalla
probabilità
oggettiva
alla
certezza
soggettiva
nella
sua
Grammar
of
Assent.)
Si
trovano
qui
peraltro
le
radici
di
un
conflitto
sempre
latente
nella
scienza.
Quello
che
dal
punto
di
vista
scientifico
è
a
rigore
una
ipotesi
falsificabile
può
diventare
una
certezza
per
il
singolo
scienziato.
In
questo
caso
lo
scienziato
difenderà
questa
ipotesi
con
una
parzialità
che
contraddice
l'ideale
scientifico
di
Popper.
E
dai
lavori
di
Kuhn
e
Lakatos
abbiamo
pure
appreso
che
il
processo
secondo
cui
la
scienza
si
sviluppa,
in
particolare
il
processo
di
sostituzione
dei
paradigmi
non
si
svolge
secondo
l'ideale
popperiano
ma
piuttosto
in
modo
darwiniano.
Le
ipotesi
di
solito
non
vengono
semplicemente
confutate.
Grazie
al
ricorso
a
ipotesi
supplementari
esse
vengono
puntellate
da
parte
di
coloro
che
le
hanno
care
e
rimangono
così
al
sicuro
finché
non
arriva
una
nuova
generazione
che
ha
nuove
idee
e
per
la
quale,
considerata
l'efficacia
del
vecchio
paradigma,
non
vale
più
la
pena
difenderlo.
I
paradigmi
hanno
del
resto
uno
status
diverso
dalle
teorie.
Essi
rappresentano
un
quadro
teoretico
normativo
all'interno
del
quale
devono
muoversi
le
teorie
che
aspirino
a
essere
prese
seriamente
in
considerazione.
Così
la
teoria
dell'evoluzione
ha
oggi
lo
status
di
un
paradigma.
Lacune
empiriche,
obiezioni
teoriche
da
parte
della
biochimica
ecc.
non
portano
a
ripensare
il
paradigma
e
a
sviluppare
possibili
alternative.
Si
dà
per
scontato
in
linea
di
principio
che
alle
questioni
aperte
si
troverà
un
giorno
una
risposta
nel
quadro
di
questo
paradigma.
La
maggiore
forza
del
paradigma
sta
nel
fatto
che
dietro
alle
obiezioni
che
vengono
sollevate
non
stanno
teorie
alternative
che
potrebbero
rivendicare
una
analoga
capacità
esplicativa.
La
storia
della
scienza
mostra
però
che
le
teorie
che
sono
arrivate
ad
assumere
lo
status
di
paradigmi
possono
essere
costrette
alla
resa
soltanto
da
teorie
alternative
che
possano
vantare
una
capacità
esplicativa
dello
stesso
livello
o
più
elevata
e
non
da
un
"ignoramus".
Gli
argomenti
contro
la
pretesa
da
parte
della
teoria
dell'evoluzione
di
spiegare
l'origine
della
vita
e
l'emergere
della
coscienza
non
hanno
da
offrire
nessuna
alternativa
sullo
stesso
piano
ma
soltanto
un
"ignoramus".
Per
questo
hanno
scarse
possibilità
di
successo.
Nel
caso
della
psicoanalisi
di
Freud
le
cose
stanno
diversamente.
Certamente
essa
dispone
di
una
strategia
perfetta
per
immunizzarsi
contro
le
obiezioni
teoriche.
Tuttavia
essa
è
risultata
impotente
di
fronte
ai
risultati
di
ricerche
statistiche
empiriche
sul
suo
successo
dal
punto
di
vista
terapeutico.
Poiché
i
casi
di
guarigione
di
pazienti
trattati
con
la
psicoanalisi
non
sono
più
frequenti
dei
casi
di
guarigione
spontanea,
la
psicoanalisi
appare
squalificata
come
terapia,
quale
che
sia
il
parziale
valore
conoscitivo
che
resta
ancora
associato
al
suo
studio.
Il
caso
Galilei
è
una
bella
esemplificazione
di
quanto
detto.
L'Inquisizione
dimostrò
di
aver
compreso
il
principio
della
scienza
moderna
meglio
di
Galilei
quando
gli
chiese
di
qualificare
la
116
sua
teoria
come
ipotesi.
Qualsiasi
astronomo
moderno
accetterebbe
immediatamente
di
farlo,
limitandosi
ad
affermare
che
le
formule
che
si
ricavano
quando
si
faccia
girare
la
terra
intorno
al
sole
sono
molto
più
semplici
e
più
"belle"
di
quelle
che
si
ricavano
nel
caso
contrario.
Ammettere
che
il
sole
giri
intorno
alla
terra
comporta
il
ricorso
a
una
quantità
tale
di
costruzioni
teoriche
che
ne
vale
la
pena
soltanto
se
è
in
gioco
la
verità
della
Rivelazione.
Che
questa
non
fosse
in
gioco
i
cardinali
lo
ritenevano
possibile.
Ma
per
considerare
come
davvero
realizzata
questa
possibilità
occorreva
rivedere
una
serie
di
convinzioni
condivise
fino
a
quel
momento.
Si
sarebbe
voluto
prendere
in
considerazione
la
possibilità
di
farlo
soltanto
se
le
idee
di
Galilei
si
fossero
imposte
con
una
necessità
assoluta.
Partita
patta,
insomma.
Galilei
vinse
perché
di
fronte
all'enorme
valore
esplicativo
della
sua
teoria
venne
meno
l'interesse
a
continuare
a
sostenere
la
teoria
opposta
accettando
l'ipotesi
estremamente
artificiosa
degli
epicicli.
La
"nuova
scienza"
è
diventata
nel
fattempo
lo
strumento
più
importante
del
dominio
dell'uomo
sulla
natura.
Ha
facilitato
il
lavoro
umano,
migliorato
la
salute,
prolungato
la
vita
terrena,
reso
più
comoda
la
vita
e
aumentato
a
dismisura
la
produzione
di
beni
materiali.
A
causa
del
suo
carattere
non
teleologico
essa
deve
tuttavia
rinunciare
a
offrire
all'uomo
un
orientamento
per
il
suo
agire.
Il
sapere
che
essa
mette
a
disposizione
dà
potere,
non
sapienza.
E'
chiaro
perciò
che
accanto
a
questa
scienza
che
permette
di
scoprire
e
di
ordinare
sistematicamente
fatti
e
connessioni
regolari
tra
fatti
si
afferma
un'altra
forma
di
ricerca
scientifica
che
si
occupa
di
quei
fatti
che
senza
una
comprensione
"dall'interno",
senza
comprensione
del
loro
significato,
non
possono
neppure
essere
percepiti
ovvero
i
discorsi
e
le
azioni
degli
uomini.
In
tedesco
si
parla
di
Geisteswissenschaften,
in
inglese
di
human
o
moral
sciences,
in
francese
di
sciences
sociales.
La
descrizione
fisicalistica
di
una
azione
umana
non
la
renderebbe
neppure
identificabile
come
azione
e
avrebbe
piuttosto
un
effetto
comico.
Pascal
parlò
a
questo
proposito
di
"esprit
de
finesse"
contrapponendolo
all'"esprit
de
géométrie".
Oggi
parliamo
di
"ermeneutica",
laddove
tuttavia
si
dovrebbe
parlare
anche
di
una
"ermeneutica
della
natura".
La
nozione
di
"informazione"
sembra
presentarsi
oggi
come
un
ponte
tra
human
science
e
biologia.
Non
voglio
adesso
approfondire
questa
questione.
La
questione
che
desidero
affrontare
è
quella
delle
implicazioni
morali
dell'idea
moderna
di
scienza.
Innanzi
tutto
è
chiaro
che
una
scienza
non
teleologica
non
può
sicuramente
essere
quella
guida
nella
vita
che
essa
doveva
essere
stando
ai
proclami
del
Positivismo
di
un
tempo.
Ma
ancora
oggi
gli
scienziati
vengono
continuamente
consultati
pubblicamente
in
merito
a
questioni
di
carattere
etico
o
politico.
A
questo
proposito
bisogna
capire
che
la
scienza
moderna
non
è
ipotetica
soltanto
nel
senso
che
le
sue
risposte
sono
provvisorie
e
falsificabili,
ma
anche
nel
senso
che
nel
migliore
dei
casi
può
essa
dirci
come
raggiungere
un
obiettivo
che
noi
vogliamo
raggiungere
e
quali
costi
questo
comporta.
Quando
la
scienza
ci
voglia
insegnare
quale
obiettivo
noi
dobbiamo
perseguire
e
quale
prezzo
dobbiamo
pagare
per
il
suo
conseguimento,
la
prudenza
è
d'obbligo.
Pensiamo
soltanto
a
quanti
consigli
ha
già
dato
la
pedagogia
scientifica
soltanto
per
poi
constatare
di
essersi
sbagliata.
Emerge
qui
un
problema
di
fondo
che
ha
a
che
fare
con
il
detto
"ars
longa,
vita
brevis".
La
scienza
non
"sa"
perché
non
è
una
persona
individuale.
La
scienza
è
un'impresa
collettiva
non
limitata
nel
tempo.
Per
lei
gli
errori
non
sono
qualcosa
di
negativo.
Al
contrario,
essa
può
imparare
dagli
errori
più
che
da
verità
ovvie.
Il
suo
cammino
significa
"trial
and
error".
Le
cose
stanno
però
in
tutt'altro
modo
per
le
persone
reali,
finite
e
mortali,
che
subiscono
le
conseguenze
di
questi
errori.
Mi
ricordo
l'esclamazione
di
una
infermiera
di
fronte
al
fatto
che
mi
era
stata
diagnosticata
una
psittacosi:
"Il
dottore
sarà
contento
di
poter
finalmente
vedere
una
psittacosi!".
Io
non
ero
altrettanto
contento.
Una
diagnosi
sbagliata
per
la
scienza
non
è
una
disgrazia,
ma
lo
è
per
il
paziente
e
per
il
medico
ovvero
per
il
medico
in
quanto
medico,
non
in
quanto
ricercatore
in
campo
medico.
Gli
interessi
della
scienza
medica,
infatti,
non
coincidono
117
con
quelli
della
pratica
medica
che
si
regola
sui
bisogni
del
paziente.
La
consapevolezza
di
questa
discrepanza
fa
parte
naturalmente
dell'ethos
del
medico.
II
E'
importante
rendersi
bene
conto
che
la
scienza
non
ha
un
ethos
e
non
può
avercelo.
Solo
il
singolo
scienziato
o
una
comunità
concreta
di
scienziati
costituita
di
persone
singole
può
essere
morale.
E
questo
ethos
dello
scienziato
si
mostra
sia
nel
servizio
leale
alla
scienza
sia
nei
limiti
che
sono
posti
a
questo
servizio.
Questi
limiti
non
sono
i
limiti
del
desiderio
di
sapere.
La
brama
di
sapere
sembra
essere
una
forza
primitiva
che
cerca
di
sfondare
tutti
i
limiti
contro
i
quali
si
scontra.
Non
ci
si
deve
fare
un'idea
troppo
elevata
di
questa
forza.
Di
per
sé
essa
è
moralmente
indifferente.
Il
dominio
della
natura
fa
parte
dell'affermazione
di
sé
da
parte
dell'uomo.
Ma
i
cristiani
sanno
bene
che
il
potere
dell'uomo
dopo
il
peccato
originale
è
ambivalente.
La
scienza
moderna
però
dà
potere.
Il
suo
intreccio
con
la
tecnica
è
sempre
più
inestricabile.
Lo
stato
della
tecnica
prescrive
in
buona
parte
alla
scienza
le
prospettive
della
sua
ricerca
e
spesso
la
verifica
di
una
teoria
scientifica
consiste
in
un
grande
evento
come
l'esplosione
di
una
bomba
atomica.
La
prima
reazione
alla
bomba
di
Hiroshima
da
parte
dei
fisici
nucleari
tedeschi,
come
racconta
Carl
Friedrich
von
Weizsäcker,
fu
di
stupore
e
di
ammirazione:
"Ma
allora
è
possibile!".
Quando
oggi
si
chiede
la
disponibilità
di
embrioni
a
fini
di
ricerca,
questo
avviene
perché
altrimenti
certe
conoscenze
non
potrebbero
essere
acquisite.
"La
scienza"
non
può
rinunciare
a
tali
conoscenze,
perché
non
può
rinunciare
a
alcunché.
Ma
l'uomo
che
pratica
la
scienza
può
e
deve
rinunciarvi.
Vi
sono
tuttavia
conoscenze
la
cui
acquisizione
è
come
tale
immorale.
Non
si
tratta
in
questo
caso
di
conoscenze
scientifiche
teoriche
ma
tecnico-‐pratiche
ovvero
quelle
conoscenze
che
chiamiamo
know
how.
I
fondamenti
teorici
della
produzione
di
armi
di
distruzione
di
massa
di
per
sé
sono
moralmente
indifferenti.
Ma
l'"arte"
di
produrre
tali
armi
non
è
un
oggetto
di
conoscenza
che
sia
lecito
a
qualcuno
studiare.
Tuttavia
anche
qui
vi
è
una
eccezione.
Una
volta
che
tale
sapere
già
esista,
può
essere
necessario
acquisirlo
per
sapere
come
ci
si
può
proteggere
da
questo
nuovo
male.
Alle
virtù
della
vita
brevis
nel
rapporto
con
l'ars
longa
appartiene
anche
e
soprattutto
la
consapevolezza
di
una
certa
incommensurabilità
tra
le
due.
Il
presidente
francese
Pompidou
era
solito
dire
che
ci
si
può
rovinare
in
tre
modi,
con
il
gioco,
con
le
donne
e
con
i
consigli
degli
esperti.
L'esperto
scientifico
si
muove
nell'ambito
di
condizioni
ideali.
Egli
deve
necessariamente
ridurre
la
complessità
del
caso
singolo.
Le
sue
informazioni
sono
importanti
per
prendere
una
decisione
in
un
caso
concreto,
i
suoi
consigli
possono
essere
sbagliati.
L'esperto
in
quanto
scienziato
non
deve
essere
infastidito
da
questo
fatto.
Egli,
infatti,
trova
la
sua
soddisfazione
nel
poter
dire
a
cose
fatte
perché
i
suoi
consigli
erano
sbagliati
e
perché
le
cose
sono
andate
in
tutt'altro
modo
rispetto
a
quanto
prognosticato.
La
scienza
che
osserva
e
ordina
i
fatti
è
incommensurabile
con
l'unicità
di
ogni
singolo
evento.
Finora
ho
parlato
soprattutto
dei
limiti
etici
e
cognitivi
della
scienza.
L'etica
tratta
soprattutto
dei
limiti
delle
nostre
azioni.
In
linea
di
principio
non
vi
sono
limiti
etici
del
sapere
teorico.
Nel
racconto
biblico
del
Paradiso
terrestre
Dio
non
ordina
di
rinunciare
a
una
conoscenza
ma
di
rinunciare
a
un'azione.
La
trasgressione
del
comandamento
ha
però
come
conseguenza
una
conoscenza
che
senza
tale
esperienza
non
sarebbe
possibile,
la
conoscenza
della
differenza
di
bene
e
di
male.
Il
sapere
scientifico
nel
senso
moderno,
come
ho
cercato
di
mostrare,
è
per
sua
natura
senza
fine.
Non
ha
limiti
immanenti,
soltanto
gli
restano
inaccessibili
certe
dimensioni
del
reale,
come
i
colori
al
daltonico
o
certe
qualità
musicali
a
chi
non
ha
orecchio.
I
limiti
etici
del
sapere
con
i
quali
la
scienza
deve
confrontarsi
in
realtà
non
sono
limiti
del
sapere,
ma
limiti
dell'agire,
che
di
fatto
indirettamente
mettono
dei
limiti
anche
al
desiderio
di
sapere.
Si
tratta
per
un
verso
dei
limiti
di
118
ciò
che
possiamo
fare
per
acquisire
il
sapere
e
per
un
altro
verso
dei
limiti
di
ciò
che
possiamo
fare
per
applicare
il
sapere
acquisito.
Sempre
di
più,
peraltro,
questi
due
tipi
di
limiti
tendono
a
confondersi.
Oggi
come
oggi
è
sempre
più
la
tecnica
che
decide
della
possibilità
di
acquisire
ulteriore
sapere
scientifico,
perché
questo
sapere
può
essere
acquisito
solo
con
il
dispiegamento
di
grandi
mezzi
tecnici.
In
medicina,
del
resto,
è
sempre
stato
vero
che
soltanto
l'applicazione
di
quello
che
si
ritiene
essere
un
sapere
verifica
o
falsifica
l'ipotesi.
E
qui
si
può
immediatamente
vedere
qualche
caso
esemplificativo
delle
limitazioni
etiche
di
cui
stiamo
parlando.
Le
limitazioni
a
cui
mi
riferisco
dipendono
dal
carattere
della
persona
come
fine
a
sé
stessa.
Kant
ha
formulato
l'imperativo
categorico
affermando
che
non
si
devono
mai
usare
gli
uomini
soltanto
come
mezzi.
La
parola
"soltanto"
è
importante,
perché
ovviamente
noi
ci
usiamo
continuamente
gli
uni
gli
altri
come
mezzi
per
raggiungere
i
nostri
fini.
E
ogni
persona
su
cui
vengano
condotti
degli
esperimenti
viene
strumentalizzata,
cioè
usata
come
mezzo
per
un
fine.
Ma
ciò
che
è
decisivo
sono
i
limiti
di
questo
uso.
Essi
esigono
innanzi
tutto
che
nessuno
sia
usato
senza
il
suo
consenso.
Questo
implica
per
esempio
che
generalmente
bambini
e
handicappati
psichici
non
possano
essere
usati
come
cavie
in
un
esperimento
se
questo
comporta
un
qualche
danno
per
loro.
Questo
implica
naturalmente
che
la
vita
e
la
salute
di
qualcuno
non
possono
essere
sacrificate
a
vantaggio
della
vita
e
della
salute
di
altri,
come
fecero
i
medici
nazisti
che
nei
lager
condussero
sui
prigioneri
esperimenti
di
congelamento
i
cui
risultati
avrebbero
dovuto
servire
ai
soldati
che
combattevano
nell'inverno
russo.
I
limiti
all'uso
delle
persone
come
mezzi
vietano
anche
ogni
acquisizione
di
conoscenze
che
derivi
da
esperimenti
che
comportano
la
distruzione
di
embrioni.
Ma
anche
nella
prassi
sperimentale
quotidiana
questo
problema
emerge
a
proposito
della
sperimentazione
di
nuovi
farmaci.
Talvolta
succede
che
prima
che
finisca
la
serie
degli
esperimenti
previsti
il
medico
arrivi
a
convincersi
che
il
medicinale
in
questione
è
effettivamente
molto
efficace
nella
cura
di
una
malattia.
Nel
momento
in
cui
se
ne
convince
deve
interrompere
la
sperimentazione
e
somministrare
a
tutti
i
pazienti
quel
farmaco,
anche
al
gruppo
di
controllo
che
fino
a
quel
momento
aveva
ricevuto
un
placebo.
"Salus
aegroti
suprema
lex":
quello
di
cui
qui
si
parla
è
un
concreto
paziente
di
un
concreto
medico,
che
non
può
essere
sacrificato
alla
salus
di
una
massa
indistinta
di
futuri
pazienti.
A
questo
punto
bisogna
anche
dire
una
parola
in
merito
ai
cosiddetti
comitati
etici
che
da
qualche
anno
spuntano
ovunque
come
funghi.
E'
il
sintomo
di
una
crisi.
Mostra
che
l'ethos
professionale
dei
medici,
che
è
quasi
identico
a
una
lex
artis,
non
adempie
più
la
sua
funzione
di
garantire
che
ci
sia
una
qualche
normalità
etica
liberando
chi
agisce
dal
peso
della
riflessione.
Si
sono
aperte
troppe
nuove
possibilità
per
affrontare
le
quali
le
semplici
regole
di
questo
ethos
non
bastano
più.
I
medici
non
erano
preparati
a
riflettere
sulle
loro
scelte
risalendo
ai
principi
su
cui
esse
si
basano
e
hanno
ceduto
il
compito
di
condurre
questa
riflessione
ai
comitati
etici.
Ma
è
una
illusione
credere
che
moralisti
di
professione
diano
qualche
garanzia
di
decisioni
buone
e
giuste.
Al
contrario,
i
più
radicali
oppositori
della
tradizione
etica
europea
sono
di
professione
professori
di
Etica,
come
per
esempio
Peter
Singer.
Fidarsi
di
loro
perché
sono
professori
di
Etica
sarebbe
più
o
meno
come
se
si
volesse
lasciare
decidere
che
cosa
è
giusto
a
degli
avvocati
professionisti
soltanto
perché
questi
sono
capaci
di
formulare
una
qualunque
decisione
in
linguaggio
giuridico
professionistico
e
di
giustificarla
con
argomenti
giuridici.
Il
medico
oggi,
in
presenza
di
problemi
complicati,
ha
bisogno
dell'aiuto
di
gente
con
una
preparazione
specifica
nel
campo
della
riflessione
etica.
Ma
non
deve
mai
sospendere
il
proprio
giudizio
rimettendosi
al
giudizio
di
una
commissione
e
tali
commissioni
devono
essere
sempre
soltanto
organi
consultivi
e
mai
organi
deliberativi.
Non
affiderei
il
mio
destino
a
un
medico
che
non
sia
disposto
a
ascoltare
i
consigli
di
persone
competenti.
Egli
deve
prendere
le
proprie
decisioni
conoscendo
il
punto
di
vista
di
altre
persone
competenti.
Ma
può
seguire
i
loro
consigli
soltanto
se
è
convinto
lui
stesso
che
siano
giusti.
E
sicuramente
non
avrei
fiducia
in
un
medico
119
che
in
una
situazione
difficile
rinuncia
a
dare
il
proprio
giudizio
rimettendosi
al
parere
di
una
commissione.
Vi
sono
norme
morali
obiettive.
Ma
è
morale
soltanto
una
persona
che
agisce
avendo
fatto
di
queste
norme
obiettive
un
proprio
convincimento.
Del
resto
anche
il
discorso
scientifico
è
soggetto
a
norme
morali.
Esso
deve
servire
a
scoprire
la
verità.
Questo
può
essere
ostacolato
da
diversi
fattori.
Uno
di
questi
è
l'ambizione
personale
che,
come
è
noto,
ha
portato
in
diversi
casi
a
falsificare
i
risultati
delle
ricerche.
Ma
vi
sono
anche
fattori
di
disturbo
meno
evidenti.
Uno
di
questi
non
può
probabilmente
essere
eliminato:
l'interesse
del
ricercatore
a
ottenere
un
determinato
risultato.
Questo
interesse
può
essere
di
natura
ideologica.
Il
caso
più
clamoroso
è
forse
la
biologia
di
Lysenko
con
la
sua
teoria
dell'ereditarietà
dei
caratteri
acquisiti.
Quello
che
vi
stava
dietro
era
l'ideologia
stalinista.
Ma
vi
sono
esempi
di
political
correctness
più
vicini
a
noi.
Si
veda
ad
esempio
il
tentativo
di
mettere
a
tacere
lo
psicologo
inglese
Eysenk
che
aveva
presentato
i
risultati
di
ricerche
empiriche
sulla
relazione
tra
la
razza
e
certe
capacità
cognitive.
La
scienza
moderna
proprio
a
causa
del
suo
carattere
non
teleologico
non
dà
mai
giudizi
di
valore.
I
suoi
risultati
consentono
reazioni
e
applicazioni
diverse.
Se
ci
viene
detto
che
i
giapponesi
mediamente
hanno
un
quoziente
di
intelligenza
più
alto
che
gli
europei,
dobbiamo
prenderne
atto,
posto
che
questo
risultato
sia
stato
ottenuto
lege
artis.
Se
poi
da
questo
noi
traiamo
la
conclusione
di
far
immigrare
più
giapponesi
in
Europa
o
al
contrario
di
cercare
di
limitarne
l'immigrazione,
questo
non
viene
suggerito
in
alcun
modo
dalla
constatazione
di
fatto.
Gli
interessi
hanno
spesso
un
grosso
peso
nel
caso
delle
scienze
umane,
soprattutto
nella
ricerca
storica,
i
cui
risultati
vengono
usati
per
legittimare
o
discriminare
persone
e
gruppi.
Fa
parte
perciò
dell'ethos
del
discorso
scientifico
che
l'interesse
a
ottenere
un
determinato
risultato
venga
dichiarato
apertamente
e
che
per
quanto
possibile
i
portatori
di
tale
interesse
si
astengano
dall'intervenire
nella
discussione
riconoscendo
di
non
essere
imparziali.
Un
esempio
di
questo
è
la
discussione
in
merito
alla
cosiddetta
morte
cerebrale.
Vi
è
un
interesse
enorme
e
del
resto
rispettabile
da
parte
dei
medici
che
praticano
i
trapianti
a
ottenere
gli
organi
viventi
da
trapiantare.
Riconoscere
il
venir
meno
delle
funzioni
cerebrali
come
morte
dell'uomo
è
in
linea
con
questo
interesse.
Il
riconoscimento
della
morte
cerebrale
in
Germania
non
si
sarebbe
mai
avuto
senza
il
grande
peso
dei
medici
impegnati
nel
trapianto
di
organi.
Troppi
fenomeni
suggeriscono
il
contrario.
Anestesisti
e
infermiere
spesso
cercano
inutilmente
di
convincersi
che
è
morto
un
uomo
che
respira,
che
distende
il
braccio,
che
suda
e
le
cui
ghiandole
secernono
ormoni
se
gli
si
fa
un
taglio
nella
pelle
e
che
perciò
viene
sottoposto
ad
anestesia
prima
che
gli
organi
siano
prelevati.
La
constatazione
della
morte
era
sempre
stata
una
questione
che
riguardava
i
parenti
che
vedevano
che
il
morire
era
terminato
e
che
il
morente
era
morto.
Un
medico
veniva
chiamato
per
confermare
il
giudizio
dato
così
prima
facie
oppure
per
constatare
invece
che
la
persona
era
ancora
viva.
Se
adesso
l'onere
della
prova
viene
invertito
e
in
nome
della
scienza
viene
dichiarato
morto
un
uomo
di
cui
tutti
gli
astanti
vedono
che
è
vivo,
quello
che
vi
sta
dietro,
come
ho
detto,
è
un
interesse
in
sé
legittimo
della
trapiantologia.
Ma
non
è
bene
che
sia
così.
Questo
rende
più
difficile
la
ricerca
della
verità.
Gli
studi
nel
neurologo
americano
Shewmon
e
di
altri
scienziati
hanno
mostrato
che
l'integrazione
delle
diverse
parti
nell'organismo
vivo
non
dipende
né
soltanto
dal
cervello
né
soltanto
dal
cuore.
Quando
un
ragazzo
le
cui
funzioni
cerebrali
sono
completamente
estinte
sopravvive
ancora
per
diversi
anni
e
in
questo
periodo
compaiono
i
cambiamenti
puberali,
definire
questo
ragazzo
un
cadavere
è
inconciliabile
con
la
sana
ragione.
Lo
stesso
vale
per
la
donna
ricoverata
nella
clinica
universitaria
di
Erlangen
che
secondo
il
criterio
di
Harvard
era
morta
ma
dopo
mesi
ha
ancora
dato
alla
luce
un
bambino.
E'
vero
che
questi
uomini
sarebbero
morti
ben
prima
se
non
li
si
fosse
tenuti
in
vita
artificialmente.
E
non
voglio
discutere
la
questione
se
non
sarebbe
stato
meglio
lasciarli
morire
in
pace.
Ma,
dato
che
non
li
si
è
lasciati
morire,
non
erano
appunto
morti
ma
vivi.
Pio
XII
ha
dichiarato
espressamente
che
"la
vita
umana
continua
fintanto
che
le
sue
funzioni
vitali
120
-‐-‐
a
differenza
della
semplice
vita
degli
organi
-‐-‐
si
manifestano
spontaneamente
o
anche
con
l'aiuto
di
procedimenti
artificiali"
("la
vie
humaine
continue
aussi
longtemps
que
ses
fonctions
vitales
-‐-‐
à
la
difference
de
la
simple
vie
des
organes
-‐-‐
se
manifestent
spontanément
ou
même
à
l'aide
de
procédés
artificiels").
Sarebbe
contro
l'esperienza
comune
delle
cose
umane
affermare
che
è
solo
un
caso
se
il
momento
in
cui
è
stata
proposta
la
nuova
definizione
della
morte
coincide
con
il
momento
in
cui
si
sono
aperte
nuove
possibilità
nel
trapianto
di
organi.
I
medici
che
praticano
i
trapianti
e
vogliano
lavorare
con
la
coscienza
a
posto
dovrebbero
perciò
rifiutarsi
di
entrare
nel
processo
con
cui
si
forma
il
giudizio
in
merito
alla
morte
cerebrale.
Proprio
perché
il
loro
interesse
coincide
obiettivamente
in
modo
così
immediato
con
l'amore
del
prossimo
-‐-‐
che
cosa
vi
può
essere
di
più
nobile
che
donare
i
propri
organi
per
salvare
la
vita
di
un
altro?
-‐-‐
esso
tende
a
indebolire
pregiudizialmente
tutti
gli
argomenti
in
contrario.
Vi
è
ancora
un
altro
interesse
che
ostacola
la
scoperta
della
verità
nel
processo
della
ricerca
scientifica
e
che
non
può
essere
eliminato,
ma
può
però
essere
neutralizzato:
l'interesse
del
ricercatore
alla
conferma
della
sua
teoria.
Popper
ha
espresso
l'esigenza
che
la
scienza
sostenga
soprattutto
le
teorie
improbabili
dalla
cui
falsificazione
può
imparare
di
più
che
da
conferme
che
sono
sempre
soltanto
provvisorie.
In
realtà
il
ricercatore
ha
l'interesse
opposto
a
vedere
confermata
la
propria
teoria.
Questo
non
è
preoccupante
in
quanto
di
solito
vi
sono
altri
ricercatori
pronti
a
fare
i
necessari
tentativi
di
falsificazione.
Soltanto
là
dove
la
scientific
community
nel
suo
insieme
è
d'accordo
su
una
determinata
teoria,
diventa
difficile
e
spesso
impossibile
per
il
singolo
outsider
farsi
ascoltare
e
trovare
una
rivista
in
cui
presentare
i
suoi
argomenti
in
contrario.
L'ethos
della
ricerca
esige
che
ci
si
opponga
a
questo
meccanismo.
Da
ultimo
desidero
menzionare
in
questo
contesto
il
problema
della
rilevanza.
"Ars
longa,
vita
brevis".
Ma
senza
la
"vita
brevis"
l'"ars
longa"
è
soltanto
virtuale.
Essa
è
reale
soltanto
come
attività
di
uomini
che
sono
esseri
finiti.
La
finitezza
umana
non
riguarda
soltanto
la
durata
della
vita,
ma
anche
la
limitatezza
materiale
delle
risorse.
In
ambito
medico
questa
limitatezza
fa
sì
che
la
società,
nonostante
l'incommensurabilità
di
ogni
persona,
debba
negare
a
alcune
persone
una
terapia
che
concede
a
altre,
scegliendo
in
base
a
criteri
che
in
qualche
modo
rendono
paragonabile
ciò
che
paragonabile
non
è.
In
questa
sede
non
devo
affrontare
questo
problema,
ma
voglio
soltanto
menzionarlo.
Per
la
ricerca
si
presenta
un
problema
analogo.
Non
possiamo
studiare
tutto,
perché
la
vita
è
breve
e
perché
i
mezzi
sono
limitati
e
la
ricerca
diventa
sempre
più
costosa.
I
soldi
che
vengono
spesi
nella
ricerca
non
vengono
spesi
altrove.
E
i
soldi
che
vengono
spesi
nella
ricerca
in
una
disciplina
non
vengono
spesi
in
un'altra.
Il
problema
di
fissare
delle
priorità
è
un
problema
politico
e
perciò
sempre
anche
un
problema
morale,
sebbene
l'etica
lasci
qui
un
ampio
spazio
di
libertà.
Verso
la
fine
degli
anni
Sessanta
vi
furono
accese
discussioni
sul
problema
della
rilevanza
della
ricerca.
Secondo
qualcuno
ogni
ricerca
avrebbe
dovuto
dimostrare
la
propria
utilità
sociale,
laddove
peraltro
i
criteri
in
base
ai
quali
stabilire
che
cosa
fosse
utile
apparivano
pesantemente
ideologizzati.
Per
fortuna
questa
è
acqua
passata.
Ma
naturalmente
il
problema
rimane.
Per
quanto
riguarda
la
ricerca
nell'ambito
delle
scienze
naturali,
si
tratta
in
buona
parte
di
un
aspetto
del
problema
più
ampio
del
rapporto
tra
interessi
di
breve
e
di
lungo
periodo.
La
cosiddetta
ricerca
di
base
spesso
porta
vantaggi
soltanto
a
lungo
termine
e
non
è
neppure
sicuro
che
li
porti.
Ma
tutti
i
progressi
tecnici
e
medici
degli
ultimi
secoli
si
devono
a
ricerche
che
quando
furono
fatte
non
potevano
promettere
con
sicurezza
tali
vantaggi
e
anzi
spesso
non
miravano
affatto
a
risultati
di
quel
tipo.
Una
politica
saggia
si
distingue
per
un
verso
da
una
politica
populistica
e
per
l'altro
verso
da
una
politica
stalinista
per
il
fatto
che
cerca
di
trovare
un
equilibrio
tra
gli
interessi
di
coloro
che
vivono
adesso
e
i
probabili
interessi
delle
generazioni
future.
Il
nostro
primo
dovere
nei
loro
confronti
è
di
non
vivere
a
loro
spese,
121
consumandone
le
risorse
e
facendo
debiti
che
loro
dovranno
pagare.
Non
vi
è
invece
un
dovere
ugualmente
assoluto
di
fare
per
loro
investimenti
smisurati.
Il
problema
della
rilevanza
della
ricerca,
soprattutto
in
ambito
medico,
ha
anche
un
altro
aspetto
ancora
più
evidente.
Vi
sono
in
medicina
interrogativi
rispondere
ai
quali
ha
un'importanza
enorme
dal
punto
di
vista
terapeutico
e
può
essere
fatto
con
un
impegno
finanziario
relativamente
modesto.
Ma
proprio
perché
le
cose
sono
così
semplici
tali
ricerche
non
comportano
un
grande
prestigio
scientifico.
Non
ci
si
può
fare
un
nome
lavorando
in
quel
campo.
E
istituzioni
di
ricerca
non
sono
disposte
a
spendere
soldi
in
quelle
aree,
sebbene
in
tal
modo
molti
pazienti
potrebbero
essere
aiutati.
Ha
un
valore
simbolico
il
fatto
che
la
prima
fecondazione
in
vitro
sia
stata
eseguita
a
Calcutta,
una
città
in
cui
neonati
abbandonati
muoiono
sulla
strada.
Chi
avesse
aiutato
uno
di
questi
bambini
a
trovare
dei
genitori
adottivi
sarebbe
rimasto
sconosciuto.
Il
dottore
che
in
un
quartiere
elegante
lì
vicino
ha
eseguito
questo
intervento
spettacolare
è
entrato
per
sempre
nella
storia
della
medicina.
Mi
pare
che
Tommaso
d'Aquino
abbia
colto
nel
segno
là
dove
dice
che
il
movente
che
corrompe
il
desiderio
di
sapere
è
la
superbia,
ambizione
e
vanità.
Anche
qui
è
di
nuovo
chiaro
che
la
moralità
e
l'immoralità
consistono
innanzi
tutto
e
soprattutto
nelle
virtù
e
nei
vizi
di
persone
individuali.
Queste
virtù
e
questi
vizi
hanno
conseguenze
più
o
meno
vaste
per
altri
uomini
e
per
il
mondo.
Ma
è
importante
ricordare
che
la
Chiesa
non
è
interessata
innanzi
tutto
alle
conseguenze
terrene
di
un'azione,
ma
alle
anime
di
chi
la
compie
e
di
chi
la
subisce.
Quello
che
accade
dipende
da
noi
solo
in
minima
parte.
Ma
noi
possiamo
evitare
di
commettere
azioni
ingiuste.
122
WILLIAM
MAY
INTRODUZIONE
Dopo
alcune
riflessioni
iniziali
sul
significato
della
dignità
umana,
prenderò
in
considerazione
il
significato
della
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani,
la
sua
necessità,
la
natura
e
la
tipologia
di
tale
ricerca.
Successivamente,
prenderò
in
esame
i
criteri
scientifici
di
tale
ricerca
e
quindi
mi
occuperò
più
in
dettaglio
di
principi
e
di
norme
etiche
o
morali
di
base,
che
regolano
ricerche
di
questo
tipo,
tentando
di
correlare
tali
principi
e
norme
alle
rispettive
posizioni
del
soggetto
della
ricerca
e
del
ricercatore.
In
conclusione,
focalizzerò
l'attenzione
sulla
legittimità
del
"consenso
per
delega"
in
situazioni
non
terapeutiche,
soggetto
di
un
impegnativo
dibattito.
DIGNITÀ
UMANA
La
tradizione
Cattolica,
1
riconosce,
per
quanto
riguarda
la
persona
umana,
una
dignità
di
tre
tipi:
la
prima
è
intrinseca,
naturale,
inalienabile,
ed
è
una
donazione
o
dono;
la
seconda
èugualmente
intrinseca,
ma
è
una
conquista,
non
un
dono;
una
conquista
resa
possibile,
data
la
realtà
del
peccato
originale
e
i
suoi
effetti,
soltanto
dall'inesauribile
grazia
di
Dio;
la
terza
è
ancora
una
dignità
intrinseca,
ma
è
allo
stesso
tempo
un
dono,
non
una
conquista,
ma
un
dono,
che
di
gran
lunga
trascendela
natura
umana
e
che,
letteralmente,
la
rende
divina;
inoltre,
gli
è
concesso
come
fosse
un
bene
molto
prezioso,
che
deve
saper
custodire
e
coltivare
e
che
egli
può
perdere,
qualora
scelga
in
piena
libertà
di
commettere
peccati
gravi.
Il
primo
tipo
di
dignità,
proprio
degli
esseri
umani,
è
quella
dignità
che
appartiene
ad
essi
semplicemente
in
virtù
del
fatto
che
fanno
parte
della
specie
umana
,
che
Dio
ha
chiamato
alla
vita
quando,
in
principio,
Egli
"creòl'uomo
a
sua
immagine
e
somiglianza…maschio
e
femmina
li
creò"
(Genesi
1,27).
Ogni
essere
umano
è
un'immagine
vivente
di
Dio
santissimo
e,
quindi,
può
essere
giustamente
definito
come
una
"parola
creata"
di
Dio,
la
"parola
creata"
in
cui
si
è
trasformato
il
suo
Mondo
non
Creato
ed
esiste
proprio
per
rivelarci
quanto
Dio
ci
ama.
La
prima,
inalienabile
dignità
della
persona
umana,
è
importante
sia
per
il
soggetto
della
ricerca
che
per
il
ricercatore,
ma
è
della
massima
importanza
per
il
soggetto
della
ricerca.
È,
come
vedremo,
il
fondamento
essenziale
che
sottende
i
principi
morali
di
base
della
ricerca
biomedica
sulle
persone
umane.
D'ora
innanzi,
io
chiamerò
questa
nostra
dignità
proprio
in
quanto
persone.
Quando
entriamo
nell’esistenza
noi
siamo,
in
virtù
di
tale
dignità
intrinseca,
persone
che
superano
in
dignità
e
valore
l'intero
creato.
La
persona
umana
è
in
verità
la
"
sola
creatura
che
Dio
abbia
voluto
fortemente
proprio
per
se
stesso"
(Gaudium
et
Spes,
24).
In
quanto
persone,
siamo
dotati
della
capacità
di
conoscere
la
verità
e
di
decidere
della
nostra
vita
scegliendo
liberamente
di
conformare
la
nostra
esistenza
e
le
nostre
azioni
alla
verità.
Tuttavia,
al
momento
della
nascita
noi
non
siamo
ancora
del
tutto
gli
esseri
che
Dio
desidera
che
noi
diventiamo.
123
Ciò
porta
a
considerare
il
secondo
tipo
di
dignità
propria
delle
persone
umane,
una
dignità
intrinseca
ma
che
è
una
conquista
(resa
possibile
soltanto
in
virtù
dell'inesauribile
grazia
di
Dio)
e
non
un
dono.
Questo
secondo
tipo
di
dignità
è
quella
alla
quale
siamo
chiamati
in
quanto
persone
intelligenti
e
libere,
capaci
di
decidere
delle
nostre
vite,
con
le
proprie
libere
scelte.
Questa
è
la
dignità
che
siamo
invitati
a
dare
a
noi
stessi,
scegliendo
liberamente
di
attuare
le
nostre
scelte
e
le
nostre
azioni
secondo
la
verità,
ossia
in
accordo
con
la
legge
eterna
di
Dio,
alla
quale
noi
prendiamo
parte
attraverso
la
legge
naturale.
Come
ha
affermato
il
Concilio
Vaticano
II,
"l'uomo
scopre
nel
suo
cuore
una
legge
scritta
da
Dio
[la
legge
naturale];
la
sua
dignità
sta
nell'obbedire
a
questa
legge
e
secondo
questa
egli
sarà
giudicato".
(Gaudium
et
Spes,
16).
Tale
dignità,
come
vedremo,
è
della
massima
importanza
sia
per
il
soggetto
della
ricerca
che
per
il
ricercatore,
ma
è,
ritengo,
di
importanza
ancora
maggiore
per
il
ricercatore.
D'ora
in
poi,io
farò
riferimento
a
questo
tipo
di
dignità
come
alla
nostra
dignità
proprio
in
quanto
agenti
morali.
Il
terzo
tipo
di
dignità,
è
nostra
in
quanto
"figli
di
Dio",
fratelli
e
sorelle
di
Gesù,
membri
della
famiglia
divina.
Questo
tipo
di
dignità
è
un
dono
puramente
gratuito
datoci
dallo
stesso
Dio,
che
ce
lo
concede
quando,
per
mezzo
del
battesimo,
noi
siamo
"rigenerati"
come
veri
e
propri
figli
di
Dio
e
ci
viene
data
la
vocazione
per
diventare
santi,
proprio
come
lo
è
il
Padre
celeste,
e
di
diventare
colleghi
di
Cristo,
suoi
collaboratori
per
la
redenzione
del
mondo.
Questa
dignità,
che
possiamo
definire
la
nostra
dignità
proprio
in
quanto
figli
di
Dio,
è
un
bene
prezioso
che
ci
viene
affidato
e
che
possiamo
perdere
scegliendo
liberamente
di
compiere
delle
azioni
molto
gravi.
Esiste
uno
stretto
legame
tra
questo
tipo
di
dignità
e
la
nostra
dignità
proprio
in
quanto
agenti
morali.
Nella
parte
che
segue,
tuttavia,
focalizzerò
l’attenzione
sui
primi
due
tipi
di
dignità,
ossia,
la
nostra
dignità
propria
in
quanto
persone
e
la
nostra
dignità
in
quanto
agenti
morali.
RICERCA
BIOMEDICA
SU
SOGGETTI
UMANI:
LA
SUA
NECESSITÀ,
LA
SUA
NATURA
E
LA
TIPOLOGIA
La
necessità
della
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani,
è
ampiamente
riconosciuta
dalla
comunità
medica
2e
dal
Magistero.3
Tale
ricerca
è
necessaria
se
la
scienza
medica
deve
acquisire
ed
ampliare
la
conoscenza
e
le
tecniche
necessarie
e/o
utili
per
la
diagnosi,
la
prevenzione
e
la
cura
delle
persone
umane,
che
necessitano
di
assistenza
sanitaria
e
hanno
bisogno
di
alleviare
la
loro
sofferenza.
La
sperimentazione
umana,
nella
pratica
della
medicina,
è
antica
quanto
la
stessa
pratica
medica,
anche
se
è
stato
soltanto
nel
secolo
scorso
o
giù
di
lì,
dai
tempi
di
Louis
Pasteur
e
di
Claude
Bernard,
che
i
medici,
nell’esercizio
della
attività
professionale,
sono
diventati
fortemente
consapevoli
della
necessità
di
una
sperimentazione
e
di
una
ricerca
condotte
con
prudenza,
scientificamente
valide
e
programmate.
4L'Associazione
Medica
Mondiale,
individua
brevemente
il
fine
di
tale
ricerca:
essa
"
deve
migliorare
le
procedure
diagnostiche,
terapeutiche
o
di
profilassi
e
la
comprensione
dell'eziologia
e
della
patogenesi
della
malattia
".
5
La
ricerca
può
essere
definita
come
"
un'attività
sistematica,
intrapresa
allo
scopo
di
acquisire
una
nuova
conoscenza
e
una
comprensione
o
per
confermare
la
conoscenza
che
già
si
possiede
".6
Nonostante
alcuni
Autori
facciano
una
netta
distinzione
tra
ricerca
sperimentale
su
soggetti
umani
e
terapia,
in
quanto
l'obiettivo
principale
della
ricerca
non
è
quello
di
curare
ma
di
imparare,
7
è
diventata
ormai
una
consuetudine
classificare
la
ricerca
come
terapeutica
o
nonterapeutica.
124
La
prima,
studia
gli
effetti
derivanti
dall'impiego
di
metodi
diagnostici,
preventivi
o
terapeutici,
che
si
discostano
dalla
prassi
medica
abituale,
ma
che
hanno
delle
ragionevoli
prospettive
di
successo,
mentre
la
seconda
non
viene
effettuata
a
vantaggio
del
soggetto
della
ricerca,
ma
allo
scopo
di
acquisire
una
conoscenza
o
per
sviluppare
delle
tecniche,
dalle
quali
possano
trarre
beneficio
altre
persone.
8
CRITERI
SCIENTIFICI
PER
LA
RICERCA
BIOMEDICA
SU
SOGGETTI
UMANI
Le
domande
alle
quali
la
ricerca
biomedica,
su
soggetti
umani,
cerca
di
dare
una
risposta
devono
essere
poste
in
modo
tale
che
possano
essere
accettate
come
sufficientemente
fondate,
dal
punto
di
vista
scientifico.
Questa
è
fondamentalmente
una
questione
di
buona
scienza,
ma
è
anche
una
questione
etica
o
morale.
9
Diversi
articoli
del
Codice
di
Norimberga,
forniscono
delle
indicazioni
sui
criteri
scientifici
per
la
ricerca
su
soggetti
umani.
I
principi
enunciati
nel
Codice
sono
della
seguente
natura:
L'esperimento
dovrebbe
essere
tale
da
fornire
dei
risultati
proficui
per
il
bene
della
società,
risultati
che
non
si
potrebbero
ottenere
con
altri
metodi
di
studio
e
che
non
siano,
per
la
loro
natura,
casuali
e
superflui.
3.
I
risultati
dovrebbero
essere
progettati
e
fondati
sui
dati
ottenuti
con
la
sperimentazione
sugli
animali
e
su
una
conoscenza
della
storia
naturale
della
malattia
o
di
altri
problemi
facenti
parte
dello
studio,
in
modo
tale
che
i
risultati
previsti
giustifichino
l’esecuzione
dell'esperimento.
L'esperimento
dovrebbe
essere
condotto
esclusivamente
da
persone
qualificate,
da
un
punto
di
vista
scientifico.
È
necessario
che
vi
sia,
in
tutte
le
varie
fasi
dell’esperimento,
il
massimo
livello
di
abilità
e
di
attenzione
,
da
parte
di
tutti
coloro
che
lo
conducono
o
che
vi
sono
in
qualche
modo
coinvolti.
10
L'Associazione
Medica
Mondiale,
ha
formulato
molti
criteri
analoghi
nella
Dichiarazione
di
Helsinki.
Tra
i
"
Principi
di
base
",
che
regolano
la
ricerca
su
soggetti
umani,
enunciati
nel
1975,
nella
edizione
riveduta
della
Dichiarazione,
vi
sono
i
seguenti:
1.
La
ricerca
biomedica,
che
coinvolge
soggetti
umani,
deve
attenersi
ai
principi
scientifici
generalmente
accettati
e
dovrebbe
essere
basata
su
una
sperimentazione
di
laboratorio
e
su
animali,
condotta
in
modo
corretto
e
su
una
profonda
conoscenza
della
letteratura
scientifica.
2.
Il
progetto
e
l'esecuzione
di
ogni
procedura
sperimentale,
che
coinvolge
soggetti
umani,
dovrebbero
essere
formulati
con
chiarezza
in
un
protocollo
sperimentale,
che
dovrebbe
essere
trasmesso
ad
un
comitato
indipendente,
nominato
appositamente
a
tale
scopo
per
averne
una
valutazione,
un
commento
ed
un
orientamento.
11
3.
La
ricerca
biomedica,
che
coinvolge
soggetti
umani,
dovrebbe
essere
condotta
esclusivamente
da
persone
qualificate,
da
un
punto
di
vista
scientifico
e
sotto
la
supervisione
di
un
medico
competente,
dal
punto
di
vista
clinico.
La
responsabilità
per
i
soggetti
umani,
deve
sempre
spettare
ad
una
persona
qualificata,
dalpunto
di
vista
medico
e
mai
al
soggetto
della
ricerca….
4.
La
ricerca
biomedica
che
coinvolge
soggetti
umani
non
può
essere
portata
avanti
legittimamente
se
l'importanza
attribuita
all'obiettivo
da
raggiungere
non
è
proporzionale
al
rischio
intrinseco
per
il
soggetto.
5.
Ogni
progetto
di
ricerca
biomedica,
che
coinvolge
soggetti
umani
dovrebbe
essere
preceduto
da
un'attenta
valutazione
dei
rischi
prevedibili
rispetto
ai
benefici,
sia
per
il
soggetto
che
per
le
altre
persone.
La
preoccupazione
per
gli
interessidel
soggetto
deve
sempre
prevalere
sugli
interessi
della
scienza
e
della
società.
12
Ho
riportato
in
corsivo
un
passaggio
del
quinto
principio
di
Helsinki
che,
per
la
sua
natura,
è
principalmente
etico
o
morale
e
non
scientifico.
Ma
anche
i
criteri
"scientifici"
di
questo
125
documento
e
del
Codice
di
Norimberga
hanno
delle
implicazioni
morali,
nella
misura
in
cui
i
medici
e
gli
scienziati,
coinvolti
nella
ricerca,
sono
moralmente
obbligati
ad
osservare
tali
requisiti
scientifici.
In
questo
documento
stiamo
prendendo
in
esame
la
ricerca
su
soggetti
umani
principalmente
dal
punto
di
vista
del
ricercatore.
È,
inoltre,
evidente
che
il
tipo
di
dignità
umana
qui
principalmente
in
gioco
è
la
dignità
proprio
in
quanto
agente
moraledel
ricercatore.
PRINCIPI
E
NORME
ETICHE
PER
LA
RICERCA
BIOMEDICA
SU
SOGGETTI
UMANI
La
dignità
degli
esseri
umani
proprio
in
quanto
persone
è
il
principio
cardine
che
regola
la
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani.
Come
ha
affermato
Papa
Giovanni
Paolo,
"
la
norma
etica,
fondata
sul
rispetto
della
dignità
della
persona
umana,
dovrebbe
illuminare
e
disciplinare
sia
la
fase
della
ricerca
che
l'applicazione
dei
risultati
ottenuti
grazie
ad
essa
".
13
Prima
di
essere
eletto
Papa,
Karol
Wojtyla
aveva
formulato,
nel
suo
libro
"Amore
e
responsabilità",
quello
che
egli
definiva
il
"principio"
o
la
"norma"
personalistica
che,
"
nel
suo
aspetto
negativo
afferma
che
la
persona
è
quel
tipo
di
bene
che
non
ammette
di
essere
usato,
così
come
di
essere
trattato
come
ilmezzo
per
il
raggiungimento
di
un
fine
"
e
"
nel
suo
aspetto
positivo…conferma
questo:
la
persona
è
un
bene
verso
il
quale
l'unico
atteggiamento
corretto
e
adeguato
è
l'amore
".
14
Il
principio
del
consenso
libero
e
informato
Il
principio/norma
fondamentale,
che
serve
da
fondamento
per
il
più
importante
principio
di
base
che
regola
la
sperimentazione
biomedica
sulle
persone
umane,
è
il
"principio
del
consenso
libero
e
informato".
Come
ha
sottolineato
Gonzalo
Herranz,
questo
principio
è
stato
chiaramente
riconosciuto
ed
affermato
dagli
autori
cattolici
nel
diciannovesimo
secolo
molto
prima
che
fosse
espresso
proprio
nel
primo
articolo
del
Codice
di
Norimberga
del
1949.
G.
Herranz
richiama
l'attenzione
sul
lavoro
del
medico
cattolico
francese
George
Surbled,
che
ha
espresso
chiaramente
questo
principio,
nella
prima
edizione
(1891)
del
suo
libro
"La
morale
nei
suoi
rapporti
con
la
medicina
e
l'igiene",
e
nella
forte
affermazione,
del
suo
predecessore
Max
Simon,
del
principio
della
supremazia
della
persona
umana
sulla
ricerca
scientifica,
nel
suo
volume
del
1845,
"
Deontologia
medica
o
dei
doveri
dei
medici
allo
stato
attuale
della
civiltà
".
15
Questo
principio,
come
è
stato
notato,
è
stato
chiaramente
affermato
nel
primo
articolo
del
Codice
di
Norimberga
ed
è
importante
ricordare
che
tale
codice
è
stato
formulato
quando
il
ricordo
delle
atrocità
compiute
dal
Terzo
Reich,
in
nome
della
ricerca
scientifica,
era
ancora
vivissimo
nelle
menti
degli
uomini.
Il
magistero
della
Chiesa
è
molto
chiaro
riguardo
alla
necessità
di
un
consenso
libero
ed
informato
nel
caso
in
cui
la
ricerca
biomedica
abbia
bisogno
di
una
giustificazione.
Papa
Pio
XII
ha
fatto
numerose
dichiarazioni
sulla
necessità
del
consenso
libero
ed
informato.
16
Come
ha
affermato
Papa
Giovanni
Paolo
II,
"il
medico
ha
soltanto
quel
potere
e
quei
diritti
che
lo
stesso
paziente
gli
concede
".
17
Il
Codice
di
Norimberga
enuncia
le
caratteristiche
di
questo
principio,
dichiarando
quanto
segue:
"
Ciò
significa
che
la
persona
coinvolta
dovrebbe
avere
la
capacità
legale
di
dare
il
consenso;
se
si
trovasse
nella
condizione
tale
da
poter
esercitare
il
potere
della
libera
scelta,
senza
l'intervento
di
alcuna
componente
di
forza,
frode,
inganno,
violenza,
imbroglio
o
forme
ulteriori
di
costrizione
o
coercizione,
e
che
dovrebbe
avere
sufficiente
conoscenza
e
comprensione
degli
elementi
dell'argomento
in
questione
tanto
da
consentirgli
di
prendere
una
decisione
intelligente
ed
illuminata.
Quest'ultimo
elemento
richiede
che
prima
di
prendere
una
decisione
affermativa,
il
126
soggetto
che
si
sottopone
ad
un
esperimento
dovrebbe
essere
informato
della
natura,
della
durata
e
dell’obiettivo
dell'esperimento;
del
metodo
e
dei
mezzi
con
cui
dovrà
essere
condotto;
di
tutti
gli
inconvenienti
e
i
rischi
che
si
potrebbero
ragionevolmente
prevedere;
e
degli
effetti
sulla
sua
salute
o
persona,
che
potrebbero
eventualmente
derivare
dalla
sua
partecipazione
all'esperimento.
Il
dovere
e
la
responsabilità
di
accertarsi
della
qualità
del
consenso
dipendono
da
ogni
individuo
che
avvia,
dirige
o
si
impegna
in
un
esperimento.
Si
tratta
di
un
dovere
e
una
responsabilità
personali,
che
nonpossono
essere
delegati
impunemente
ad
un
altro
".
18
Ho
riportato
in
corsivo
le
ultime
due
frasi
di
questo
articolo
del
Codice
di
Norimberga,
in
quantodimostrano
che
la
responsabilità
principale
di
un
consenso
libero
ed
informato
è
attribuibile
al
ricercatore
ed
è
connessa
direttamente
alla
sua
dignità
proprio
in
quanto
agente
morale
ed
al
suo
obbligo
di
rispettare
la
dignità
del
soggetto
proprio
in
quanto
persona.
Il
soggetto
dell'esperimento
ha,
inoltre,
la
responsabilità,
ben
radicata
nella
dignità
proprio
in
quanto
agente
morale,
di
formare
la
propria
coscienza
in
modo
adeguato
e
di
rifiutare
di
prendere
parte
ad
esperimenti
di
natura
immorale
o
progettati
per
raggiungere
ulteriori
fini
immorali.
La
dignità
del
soggetto
in
quanto
agente
morale
gli
richiede
questo.
In
quanto
agente
morale,
il
soggetto
deve
rifiutare
la
sperimentazione
nel
caso
in
cui,
come
afferma
il
Catechismo
della
Chiesa
Cattolica,
"questa
esponga
la
vita
o
l'integrità
fisica
o
biologica
del
soggetto
a
rischi
eccessivi
o
evitabili".
(n.
2295).
Molte
autorità,
tra
cui
Henry
K.
Beecher,
19
famoso
per
i
suoi
studi
sulla
ricerca
medica,
hanno
notato
che
è
molto
difficile,
a
volte
quasi
impossibile,
garantire
un
consenso
interamente
libero
ed
informato.
Ciò
che
il
principio
richiede
è
un
consenso
"ragionevolmente"
libero
e
"adeguatamente"
informato.
Fondamentalmente,
qui
la
posta
in
gioco
è
la
fiduciatra
il
ricercatore
ed
il
soggetto,
la
certezza
che
il
ricercatore
non
proporrà
alcun
esperimento
senza
comunicare
al
soggetto
informazioni
sufficienti,
per
consentirgli
di
prendere
una
decisione
informata
e
consapevole.
20
Tale
requisito
è
assolutamente
fondamentale,
in
quanto
è
radicato
nella
dignità
del
soggetto
proprio
in
quanto
persona,
ed
è
in
relazione
direttamente
con
la
dignità
del
ricercatorein
quanto
agente
morale.
Il
principio
del
consenso
libero
ed
informato
è
necessario
in
ogni
tipo
di
ricerca
biomedica,
terapeutica
e
non
terapeutica,
che
sia
effettuata
su
soggetti
capaci
(in
grado
di
dare
un
consenso
libero
ed
informato
per
se
stessi),
su
soggetti
non
capaci
quali
i
bambini,
nati
o
non
ancora
nati
o
su
pazienti
"senza
voce".
Parlerò
più
approfonditamente
del
consenso
"per
delega"
più
avanti.
Prima
di
farlo,
tuttavia,
è
importante
notare
un'"eccezione"
relativa
al
requisito
di
consenso
libero
ed
informato
e
quindi
altre
norme
di
base
che
regolano
la
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani.
Una
"eccezione"
al
principio
del
consenso
libero
ed
informato
Se
prendiamo
in
considerazione
le
trattamenti
terapeutici
medici,
notiamo
che
esiste
una
chiara
eccezione
alla
richiesta
del
consenso
espresso;
una
eccezione,
tuttavia,
che
in
nessun
modo
indebolisce
l'esigenza
normativa,
che
richiede
il
consenso
personale
del
paziente
alle
cure
mediche.
Questo
è
il
tipo
di
situazione
in
cui
il
consenso
è
ragionevolmente
presunto
o
implicito,
quando
una
persona
si
trova
in
una
situazione
di
estremo
pericolo
e
non
può
dare
il
proprio
consenso
esplicitamente
o
implicitamente,
né
quando
vi
è
l'opportunità
di
un
consenso
"per
delega".
Come
sostiene
la
Carta
degli
operatori
sanitari,
in
casi
estremi
di
questo
tipo,
"se
vi
è
una
perdita
temporanea
di
conoscenza
e
volontà,
l'operatore
sanitario
può
agire
in
virtù
del
principio
della
fiducia
terapeutica…
Nel
caso
in
cui
dovesse
verificarsi
una
perdita
permanente
di
conoscenza
e
volontà,
l'operatore
sanitario
può
agire
in
virtù
del
principio
di
responsabilità
sanitaria,
che
obbliga
l'operatore
sanitario
ad
assumersi
la
responsabilità,
nell'interesse
del
127
paziente
".
21Ritornerò
a
quello
che
la
Cartadefinisce
il
"principio
di
responsabilità
sanitaria"
più
avanti,
quando
prenderò
in
considerazione
i
problemi
del
"consenso
per
delega".
La
dignità
qui
principalmente
in
gioco
è
la
dignitàdel
ricercatoreproprio
in
quanto
agente
morale,
che
ha
il
dovere
di
prendersi
cura
della
vita
e
della
salute
del
soggetto,
la
cui
dignità
proprio
in
quanto
persona
gli
dà
il
diritto
di
ricevere
le
cure
necessarie
per
tutelare
la
sua
vita
e
la
sua
salute,
qualora
esse
siano
in
pericolo.
Altri
principi/norme
etiche
che
regolano
la
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani
Il
consenso
libero
e
informato,
non
è
soltanto
il
principio
morale
specifico
che
giustifica
la
ricerca
biomedica
su
soggetti
umani.
Un
altro
principio/norma
chiave
è
noto
come
il
"principio
dell'ordine
discendente".
Il
filosofo
Hans
Jonas,
ha
suggerito
tale
principio
nel
selezionare
i
soggetti
della
ricerca.
Esso
richiede,
da
parte
dei
ricercatori,
una
scelta
dei
soggetti
tra
le
persone
meno
vulnerabili.22
L’obbligo
primario,
è
quello
di
proteggere
le
persone
vulnerabili
e
di
impedire
che
si
approfitti
di
loro
nella
"scelta"
dei
soggetti
della
sperimentazione.
Tali
soggetti,
naturalmente,
devono
dare
il
proprio
consenso
libero
e
informato
al
progetto
di
ricerca
per
il
quale
sono
stati
"scelti"
e
per
il
quale
essi
si
offrono
spontaneamente.
Ci
sono
due
principali
categorie
di
"persone
vulnerabili";
la
prima
include
le
persone
che
non
sono
in
grado
di
dare
il
consenso
alla
sperimentazione;
i
bambini,
nati
o
non
ancora
nati,
e
gli
anziani
che
sono
mentalmente
incapaci;
il
secondo
gruppo
include
persone
vulnerabili
alla
manipolazione
o
alla
coercizione
(magari
di
tipo
sottile)
da
parte
di
altri,
ad
esempio
prigionieri,
persone
residenti
in
istituti,
poveri,
studenti
che
frequentano
istituti
che
svolgono
delle
ricerche,
ecc.
Il
criterio
dell'ordine
discendente,
non
significa
che
le
persone
vulnerabili
non
possano
essere
mai
scelte
a
buon
diritto
o
non
possano
mai
offrirsi
spontaneamente
come
soggetti
della
ricerca
biomedica;
richiede
semplicemente
che
i
soggetti
della
ricerca
siano
scelti
sulla
base
di
un
principio
di
giustizia.
Benedict
Ashley,
O.P.
e
Kevin
O’Rourke,
O.P.,
propongono
il
seguente
criterio
generale,
relativo
a
tale
principio:
"
i
soggetti
dovrebbero
essere
scelti
in
modo
tale
che
i
rischi
e
i
vantaggi
non
ricadano
in
maniera
diseguale
su
uno
stesso
gruppo
della
società
".
23
Tale
esigenza
ricade
sul
ricercatore
e,
in
quanto
tale,
è
direttamente
correlato
alla
sua
dignità
proprio
in
quanto
agente
morale.
Negli
Articoli
9
e
10
del
Codice
di
Norimberga,
vengono
formulati
altri
due
validi
principi.
Nell'Articolo
9,
si
afferma
che:
"
nel
corso
dell'esperimento,
il
soggetto
umano
dovrebbe
essere
libero
di
portare
a
termine
l'esperimento
nel
caso
in
cui
questi
abbia
raggiunto
quello
stato
fisico
o
mentale
tale
da
fargli
apparire
impossibile
la
continuazione
dell’esperimento
".
Nell'Articolo
10,
si
dichiara:
"
Nel
corso
dell'esperimento,
lo
scienziato
che
se
ne
sta
occupando
deve
essere
preparato
a
concludere
l'esperimento
stesso,
in
qualunque
fase,
se
ha
ragionevoli
elementi
per
ritenere
(nell'esercizio
della
buona
fede,
di
capacità
superiori
e
di
un
attento
discernimento
chegli
è
richiesto),
che
la
continuazione
dell'esperimento
potrebbe
avere
come
conseguenza
delle
lesioni,
l'invalidità
o
la
morte
del
soggetto
implicato
nell'esperimento".24
In
questo
caso
sono
importanti
sia
la
dignità
del
soggetto
proprio
in
quanto
persona
e
la
dignità
del
ricercatore
proprio
in
quanto
agente
morale.
Consenso
volontario
in
una
situazione
non
terapeutica:
potrà
mai
essere
moralmente
obbligatorio
?
Prima
di
passare
a
considerare
il
consenso
"per
delega"
alla
sperimentazione,
sia
terapeutica
che
non
terapeutica,
è
necessario
porsi
la
domanda
se
possa
esistere
un
obbligo
o
una
responsabilità
morale
per
le
personein
grado
di
offrirsi
spontaneamente
come
soggetti
in
tali
esperimenti.
Per
anni
ho
pensato
che
non
potesse
sussistere
tale
obbligo
morale
e
che
l'offrirsi
spontaneamente
128
per
partecipare
a
tale
sperimentazione
fosse
un
atto
di
pietà,
come
una
specie
di
dono.
Ma
nel
preparare
questo
scritto
e
dopo
aver
discusso
la
questione
con
altre
persone,
in
particolare
con
Germain
Grisez,sono
ora
dell'opinione
che
il
principio
della
giustizia
può
a
volte
portare
un
adulto,
nel
pieno
delle
sue
facoltà,
a
scegliere
liberamente
di
partecipare
ad
esperimenti
biomedici
non
terapeutici,
con
determinate
condizioni.
Ad
esempio,
se
il
medico
di
base
di
una
persona
le
ha
chiesto,
nel
corso
di
analisi
mediche
di
routine,
di
dare
un
campione
di
urina,
per
un
programma
finalizzato
al
confronto
dell'urina
di
adulti
sani
con
quella
di
persone
che
soffrono
di
una
particolare
malattia,
in
modo
tale
da
verificare
alcune
ipotesi
relative
alla
cura
di
tale
malattia
o
dei
suoi
sintomi,
si
dimostra,
che
in
tutta
equità,
una
persona
potrebbe
averel’obbligo
morale
di
offrire
il
proprio
aiuto.
In
un
caso
del
genere,
una
persona
potrebbe
facilmente
fare
del
bene
all’umanità,
senza
costi
o
con
costi
minimi
per
se
stesso.
La
situazione
sembra
essere
analoga,
a
quella
di
un
adulto
sano
che
vede
un
anziano
debole
che
cerca
di
trasportare
una
valigia
dall’altra
parte
della
strada;
l’equità,
radicata
nella
Regola
d'Oro,
come
ha
intuito
la
tradizione
cristiana,
richiederebbe
normalmente
che
l'adulto
sano
venisse
in
aiuto
della
persona
anziana
e
debole.
Nonostante
tale
responsabilità
non
possa
essere
obbligatoria,
da
un
punto
di
vista
legale,
è
ragionevole
pensare
che
per
un
adulto
sano
possa
sussistere
un
obbligo
morale
a
partecipare
ad
una
sperimentazione
biomedica
non
terapeutica,
in
situazioni
di
questo
tipo.
Se,
tuttavia,
la
sperimentazione
non
terapeutica
impone
delle
condizioni
o
degli
inconvenienti
più
che
onerosi,
allora
l'equità
non
esigerebbe
che
una
persona
si
offrisse
spontaneamente
come
soggetto
di
ricerca;
la
propria
scelta
libera
ed
informata
a
prendere
parte
alla
ricerca,
sarebbe
effettivamente
un
atto
di
pietà,
un
"dono"
di
se
stessi.
Il
problema
del
consenso
per
delega
o
surrogato
nelle
situazioni
terapeutiche
Non
esiste
un
dibattito
serio
tra
le
diverse
autorità
-‐
legale,
medica
o
morale-‐
nel
trovare
legittimo
il
consenso
per
delega
o
surrogato,
quando
la
sperimentazione
/
ricerca
/
trattamento
sia
terapeutica,
intesa
come
un
beneficio,
ad
esempio,
verso
la
salute
o
la
vita
di
un
soggetto
incapace
o
"senza
voce".
25
Parecchie
volte,
le
responsabilità
di
coloro
che
delegano
il
loro
consenso,
per
le
procedure
di
tipo
terapeutico,
vengono
descritte
come
scelte
fatte
in
accordo
alle
preferenze
dellapersona
incapace,
se
sono
conosciuti
o
moralmente
onesti,
oppure
facendo
tali
scelte
in
accordo
ai
"migliori
interessi"
dell’individuo,
se
egli
o
ellanon
ha
mai
espresso
le
sue
preferenze,
per
esempio,
se
qualcuno
funge
da
tutore
di
un
neonato
(nato
o
non
ancora
nato),
di
un
bambino,
o
di
un
adulto
che
non
è
stato
mai
capace
di
agire
in
modo
moralmente
responsabile,a
causa
di
qualche
anomalia.
Di
conseguenza
i
vescovi
degli
Stati
Uniti
dichiarano
che
le
decisioni
prese
a
nome
di
una
persona,
da
parte
di
un
delegato
nominato
appositamente
o
di
unmembro
responsabile
della
famiglia,
dovrebbero
"essere
fedeli
ai
principi
morali
Cattolici
e
alle
intenzioni
e
ai
valori
della
persona
rappresentata
[in
modo
tale
da
essere
in
accordo
con
i
principimorali
Cattolici),
o
se
le
intenzioni
della
persona
sono
sconosciute,
con
i
migliori
interessi
della
persona
stessa
".
26
Allora,
quale
sarebbe
la
giustificazione
ultima
per
concedere
il
"consenso
per
delega",
agliindividui
le
cui
"intenzioni"
siano
sconosciute?
Io
credo
che
il
"consenso
per
delega",
quando
viene
fatto
a
nome
di
coloro
che
non
sono
mai
stati
capaci
di
esprimere
le
loro
preferenze,
riguardo
il
tipo
di
procedure
terapeutiche,
sono
disponibili
ad
accettare,
non
è
tanto
un
consenso
per
"delega",
ad
esempio,
un
consenso
fatto
in
nome
di
un’altra
persona
(come
i
genitori
danno,
nel
battesimo,
il
consenso
per
il
bambino),
come
é
il
consenso
personale,
richiesto
alla
persona(e)
moralmente
responsabili
della
cura
degli
esseri
umani
"senza
voce".
129
Se
la
salute
o
la
vita
di
una
persona
umana,
in
particolare,
una
persona
per
la
quale
abbiamo
una
particolare
responsabilità
(come
i
genitori
nei
confronti
dei
loro
figli),
é
in
pericolo
o
soffre
per
qualche
malattia
e
ci
sono
strumenti
che
potrebbero
proteggere
e/o
ottimizzare
la
vita
e
la
salute
della
persona
e/o
migliorare
la
sua
condizione,senza
imporre
gravi
pesi
alla
persona,
noi
siamo
moralmente
obbligati,
a
ragione
della
nostra
dignità
proprio
come
agenti
morali,
ad
autorizzare
la
ricerca/esperimento/trattamento,
nella
situazione
terapeutica.
Mi
sembra
che
la
Carta
degli
Operatori
Sanitari
identifica
correttamente
il
fondamento
morale
del
così
detto
consenso
"per
delega",
in
tale
situazione,
quando
abbiamo
parlato
del
"
principio
di
responsabilità
nella
cura
della
salute
".
27
CONSENSO
PER
DELEGA
NELLA
SITUAZIONE
NON
TERAPEUTICA:
È
SEMPRE
GIUSTIFICABILE
?
Può
essere
giustificato
il
consenso
"per
delega"
nella
situazione
non
terapeutica,
ad
esempio,
quando
la
ricerca/esperimento/trattamento
proposta,
non
intende
beneficare
il
soggetto
umano
di
tali
procedure,
ma
piuttosto
migliorare
le
conoscenze,
che
in
futuro
potrebbero
essere
di
grande
beneficio
ad
altre
persone?
In
tale
sede,
primariamente
passerò
in
rassegna
gli
argomenti
avanzati
per
legittimare
e
per
contrastare
il
consenso
per
delega
nella
situazioni
non-‐terapeutica.
Successivamente
esaminerò
l’Insegnamento
Magisteriale
più
significativo.
Argomentazioni
pro
e
contro
L’argomentazione
principale,
avanzata
per
giustificare
il
consenso
per
delega
nella
situazione
non-‐terapeutica,
veniva
proposta,
nel
1970,
da
Richard
McCormick.
La
sua
argomentazione
di
base
era
che
il
consenso
per
delega,
a
scopo
terapeutico,
viene
giustificato,
propriamente
perché
i
genitori
ed
altri
loro
rappresentanti
possono
presupporre
che
tali
soggetti
vorrebbero
essi
stessi
acconsentire,
se
potessero,
perché
avrebbero
il
dovere
diacconsentire,
in
virtù
del
loro
obbligo
morale
di
proteggere
la
propria
vita
e
la
propria
salute.
Similmente,
egli
ha
argomentato,
nelle
situazioni
non
terapeutiche,
che
non
comportano
alcun
rischio
significativo
o
rischio
minimo,
nelle
quali
viene
promesso
un
grande
beneficio,
il
consenso
per
delega
per
i
bambini
e
per
altri
incapaci
viene
giustificato
dal
momento
che,
come
si
può
ragionevolmente
supporre,
le
persone
non
capacivorrebbero
per
se
stessi
se
potessero,
perché
dovrebbero
rendersi
conto
che
essi
dovrebbero
acconsentire
a
tali
esperimenti
a
causa
della
loro
natura
sociale
e
il
dovere
dipromuovere
il
bene
comune
della
società,quando
essi
possono
fare
così
con
un
piccolo
sforzo
e
nessun
pericolo
o
il
minimo
rischio
per
se
stessi.28
Paul
Ramsey
ed
io,
rifiutammo
l’argomento
proposto
da
Mc
Cormick
nel
quale
si
giustifica
il
consenso
per
delegain
ambedue
casi,
sia
a
scopo
terapeutico,
come
non
terapeutico,
precisamente
perché
non
ci
sono
motivi
per
presumere
che
i
bambini
e
altri
incapaci
vorrebbero,
se
potessero,acconsentire
in
tali
situazioni
perché
capirebbero
che
dovrebbero
fare
così.
Non
c’è
bisogno
di
supporre,
come
ha
fatto
Mc
Cormick,
che
i
bambini
ed
altri
incapaci
hanno
qualche
obbligo
morale.
29
Essi
non
lo
hanno,
precisamente
perché
non
ne
sono
capaci,
ma
sono,
tuttavia,
personeche
mai
dovrebbero
essere
usate
come
semplici
strumenti,
per
fini
estrinseci
a
loro
stessi.
30
Trattarli
come
se
fossero
agenti
morali
che
hanno
obblighi
morali
da
realizzare,
farli
partecipare
ad
esperimenti
non
terapeutici,
che
promettono
un
grande
beneficio,
con
un
minimo
o
con
nessun
rischio
significativo,
significa
non
riuscire
a
riconoscerli
per
quello
che,
in
verità,
essi
sono,
vale
a
dire,
persone
umane
vulnerabili,
indifese,totalmente
dipendenti
da
altri.
130
Credo
che
tali
considerazioni
mostrano
con
chiarezza
che
l’argomentazione
di
Mc
Cormick,
per
giustificare
il
consenso
per
delega
alla
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
non
sia
affatto
valida.
Anche
se,
ho
sottolineato
precedentemente,
che
gli
adulti
capaci
potevano
avere,
in
certe
condizioni,
un
obbligo
morale
a
partecipare
ad
alcuni
tipi
di
ricerca
non
terapeutica,
i
non
capaci,
persone
"senza
voce"
non
possono
avere
tale
obbligo
precisamente
perché
essi
non
hanno
obblighi
morali,
a
causa
della
loro
condizione.
Come
P.
Ramsey,
ho
trovato
non
accettabile
la
giustificazione
di
R.
Mc
Cormick,
nei
confronti
del
consenso
per
delega
a
scopo
non
terapeutico.
Infatti,
dal
1970
fino
al
Settembre
2002,
quando
presentai
una
bozza
preliminare
di
tale
documento
alla
riunione,
organizzata
dalla
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
in
preparazione
della
sessione
plenaria
del
Febbraio
2003,
trovai
la
mia
posizione
contestata
aspramente.
Ho
mantenuto
fermamente
la
posizione,
secondo
la
quale
non
è
mai
moralmente
corretto,
da
parte
di
altre
persone,
concedere
il
cosiddetto
consenso
"per
delega"
nei
confronti
di
incapaci,
persone
umane
senza
voce,
a
favore
della
ricerca/sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico.
Fondamentalmente,
l’argomento
che
sostiene
tale
conclusione,
avanzata
nel
1970
da
Paul
Ramsey
e
dal
sottoscritto,
sostiene
che
le
persone
umane
incapaci
o
"senza
voce",
a
ragione
della
loro
dignità
proprio
come
persone,
non
devono
essere
mai
utilizzate
come
soggetti
nelle
procedure
a
scopo
non
terapeutico,
intraprese
non
aloro
beneficio,
ma
per
il
beneficio
di
altri.
Secondo
questo
argomentazione,
anche
se
tali
procedure
non
possono
"danneggiarli",
risultano
immorali
perché
violano
la
loro
dignità
come
persone.
P.
Ramsey
ha
espresso
bene
questa
posizione
quando
ha
affermato:
Sperimentare
sui
bambini
[o
altri
soggetti
non
capaci
],
con
modalità
che
non
si
rivolgono
a
loro
come
pazienti,
è
già
una
forma
ripulita
di
barbarie;
già
li
rimuove
dalla
vista
e
non
presta
attenzione
alla
pienezza
di
fiducia
che,
come
un
bambino,
semplicemente
un
normale
ammalato
o
un
bambino
morente,
pone
su
di
noi
e
sulla
cura
medica
...
Tentare
didecidere
per
un
bambino
perché
sia
un
soggetto
della
sperimentazione,
è
trattare
il
bambino
come
un
non-‐bambino...
La
sperimentazione
non
a
scopo
terapeutico,
non
a
scopo
diagnostico,
che
coinvolge
soggetti
umani,
deve
essere
basata
su
un
consenso
vero,
se
deve
procedere
come
un
azione
umana
.
Nessun
bambino
o
adulto
incapace,
può
scegliere
di
diventare
un
membro
delle
imprese
medichee
nessun
altro
sulla
terra
dovrebbe
decidere
di
sottoporre
queste
persone
a
sperimentazioni,
non
in
relazione
con
il
proprio
trattamento.Questo
è
un
criterio
di
lealtà
nei
loro
confronti.
Semplicemente
gli
è
dovuto
come
essere
umano,
bambino
o
incapace.
31
Come
ho
già
sottolineato,
ero
stato
indotto
a
cambiare
la
mia
immutabile
posizione,
che
si
opponeva
all’intero
consenso
per
delega
per
le
procedure
a
scopo
non
terapeutico,
a
motivo
delle
obiezioni
contrarie
sollevate
nella
riunione
del
27-‐28
Settembre
2002
ed
anche
a
motivo
del
risultato
delle
discussioni
che
successivamente
ho
avuto
con
German
Grisez.
Sono
giunto
alla
conclusione
che,
comunque,
l’argomentazione
di
Mc
Cormick
per
giustificare
il
consenso
per
delega,
a
favore
dei
soggetti
"senza
voce",
a
scopo
non
terapeutico,
possa
essere
seriamente
criticata,
per
le
ragioni
già
dette,
la
posizione
che
ho
assunto,
può
essere
difesa
per
altri
motivi.
Alcuni
partecipanti
al
Convegno,
che
si
è
svolto
nel
Settembre
2002,
si
riferirono
ad
un’unica
linea
di
pensiero,
suggerita
precedentemente
per
giustificare
tale
consenso
"
per
delega
".
La
richiesta
di
base
non
sarebbe
irragionevole,
e
perciò
non
contraria
ai
criteri
morali
obiettivi,se
i
genitori,per
esempio,
dovessero
permettere
la
sperimentazione
sui
loro
bambini
per
ilbeneficio
di
altri,
se
l’esperimento
non
comportasse
alcun
rischio
significativo.
Dopo
tutto,
i
genitori
spesso
portano
i
loro
bambini,
compresi
i
neonati,
a
fare
viaggi
in
auto
non
intrapresi
per
un
loro
beneficio
(ad
esempio,
per
acquistare
alcuni
vestiti
per
la
loro
mamma)
e
131
tali
viaggi
comportano
certamente
dei
rischi
ma,
dopo
tutto,
i
rischi
di
questo
tipo
sono
accettabili
sia
per
sé
stessi,
sia
per
coloro
di
cui
ci
si
prende
cura.
E
potrebbero
essere
riferiti
altri
esempi.
Perciò,
se
non
è
sbagliato
agire
così
per
i
genitori,
perché
sarebbe
sempre
immorale
per
loro
dare
il
consenso,
affinché
i
propri
bambini
prendano
parte
alla
ricerca/sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico?
Germain
Grisez,
a
tale
proposito,
ha
enunciato
queste
linee
guida:
La
gente
prendendo
decisioni
per
un’incapace
–
per
esempio
i
genitori
per
un
figlio
-‐
potrebbe
non
accettare
alcun
rischio
significativo
(
che
è
ogni
rischio
che
oltrepassa
il
livello
dei
rischi
comuni
della
vita),
riguardo
alla
sua
salute,
a
motivo
di
un
possibile
beneficio
dell’esperimento
per
gli
altri.
I
genitori
ed
altri
rappresentantidegliincapaci,
hanno
la
responsabilità
d’agire
nei
loro
interessi
personali,
senza
subordinarli
a
quelli
degli
altri.
Nemmeno
una
tale
subordinazione
degli
interessi
del
proprio
assistito,
puòessere
un
atto
dimisericordia,
essendo
la
misericordia
un
fatto
che
comporta
il
proprio
sacrificio,
ma
non
impone
i
sacrifici
nei
confronti
di
colui
del
quale
si
è
responsabili.
32
Desidero
far
notare
alcuni
note
caratteristiche
della
presentazione
fatta
da
G.
Grisez.
Innanzitutto,
offre
una
chiara
definizione/descrizione
del
rischio
"significativo".
Egli
identifica
come
significativo,
un
rischio
che
sta
"al
di
là
dei
rischi
comuni
della
vita",
ad
esempio,
alcuni
rischi
come
guidare
la
macchina,
attraversare
una
strada…
"rischi"
come
quelli
che
i
genitori
abitualmente
assumono
quando
hanno
accompagnano
i
propri
figli,
in
tipi
di
attività,
che
non
sono
finalizzate
ad
apportare
alcun
beneficio
per
i
figli
stessi.
G.
Grisez
ci
offre
così,
un
criterio
chiaro
e
ben
definito,
che
ci
aiuta
a
determinare
se
un
certo
rischio
è
"significativo".
L’applicazione
di
questo
criterio,
perciò,
potrebbe
essere
diversa,
in
relazione
alla
condizione
socio-‐culturale.
Così,
ciò
che
rappresenta
un
rischio
"significativo"
a
Manhattan,
a
New
York,
potrebbe
risultare
diverso,
da
quello
"significativo"
a
Wagga
Wagga,
in
Australia.
In
secondo
luogo,
G.
Grisez
è
chiaramente
persuaso
che
un
tale
consenso
dei
genitori,
in
nessun
modo
"subordina"
i
propri
figli
agli
interessi
degli
altri,
dal
momento
che
lo
stesso
consenso
rifiuta
tale
subordinazione.
Quando
le
condizioni
offrono
garanzie
nei
confronti
del
consenso
dei
genitori
(o
il
consenso
da
parte
di
altri
tutors)
alla
partecipazione,
di
coloro
che
vengono
loro
affidati,
alla
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
in
altre
parole,
tale
consenso
viene
consegnato
in
buona
fede
alla
fiducia,
che
viene
data
loro
per
proteggere
l’inviolabiledignità
proprio
come
persone,
delle
persone
incapaci,
del
cui
benessere
sono
i
responsabili.
Egli
rifiuta
esplicitamente,
inoltre,
che
tale
subordinazione
possa
essere
"un
atto
di
misericordia,
perché
la
misericordia
comporta
il
proprio
sacrificio,
non
è
un
sacrificio
imposto
su
qualcun’altro,
di
cui
si
è
responsabili
".
Dopo
avere
riflettuto
sulle
ragioni
portate
avanti
da
coloro
che
considerarono
la
mia
visione
troppo
restrittiva
e
non
necessariamente
in
grado
di
proteggere
la
dignità
inviolabile
delle
persone
"senza
voce",
ho
concluso
che
non
sarebbe
irragionevole
per
i
genitori
permettere
ai
loro
bambini
di
essere
soggetti
di
studi
a
scopo
non
terapeutico,
che
non
comportano
alcunrischio
"significativo"
(come
definito
sopra)
e
non
provocano
un
disagio
significativo,
o
non
rappresentano
un
peso
per
i
loro
bambini.
Essi
non
tratterebbero
i
bambini
come
meri
oggetti
di
uso
o
non
mancherebbero
di
responsabilità,
nel
proteggere
la
loro
vita
e
la
loro
salute,
tramite
ogni
ragionevole
mezzo.
Ora
penso,
che
la
visione
che
ho
difeso
per
molti
anni
rappresentasse
infatti
una
reazione
eccessiva
agli
esperimenti
immorali
sulle
persone
non-‐capaci
e
una
paura,
ragionevole
in
se
stessa,
che
la
dignità
intrinseca
di
persone
così
vulnerabili
fosse
messa
in
pericolo
dal
desiderio
di
subordinarli
all'interesse
di
altri.
Il
consenso
"per
delega",
in
tali
condizioni,
non
è
un
vero
consenso
per
delega,
cioè,
un
consenso
dato
anome
delle
stesse
persone
non
capaci.
132
È
il
consenso
personale,
dei
genitori
o
dei
rappresentanti
delle
persone
"senza
voce",che
permette
a
coloro,
di
cui
hanno
una
seria
responsabilità
a
motivo
della
partecipazione
alle
sperimentazioni
non
a
scopo
terapeutico
se,
e
solamente
se,
tali
esperimenti
non
presentano
un
rischio
"significativo",
promettono
un
grande
beneficio
e
non
possono
essere
eseguite
su
altri
soggetti.
Come
prima
abbiamo
notato
(si
veda
sopra
la
nota
29
),
penso
che
i
bambini
che
hanno
raggiunto
"
l'uso
della
ragione
",
possano
prendere
decisioni
libere
e
informate,
anche
se
i
genitori
devono
fornire
ai
loro
figliinformazioni
sufficienti,
affinché
loro
facciano
una
scelta
libera
ed
informata,
riguardo
al
problema
e
possano
rispondere
ad
alcuni
loro
bisogni
e
mantenereil
potere
di
veto
sulle
decisioni
dei
loro
figli,
riguardo
a
tale
questione,
quando
lo
giudichino
necessario.
L’INSEGNAMENTO
MAGISTERIALE
PIÙ
SIGNIFICATIVO
Riguardo
all’insegnamento
magisteriale
più
significativo
su
tale
argomento,
è
molto
importante
considerare
a)
il
consenso
per
delega
alla
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
sulle
persone
umane
non
ancora
nate
e
b)
e
la
stessa
sperimentazione
sulle
persone
già
nate.
Il
Magistero
Universale
della
Chiesa,
ritiene
assolutamente
immorale
il
consenso
per
delega
a
favore
degli
esperimenti,
a
scopo
non
terapeutico,
sulle
persone
umane
non
ancora
nate.
Un
passaggio
chiave,
nella
Donum
Vitae,
di
assoluta
importanza
che
riguarda
tale
argomento
è
il
seguente:
Per
quanto
riguarda
la
sperimentazione,
presupposta
la
distinzione
generaletra
quella
con
finalità
non
direttamente
terapeutica
e
quella
chiaramente
terapeutica
per
il
soggetto
stesso,
nella
fattispecie
[
sperimentazione
sugli
embrioni
umani
e
sui
feti
]
occorre
distinguere
anche
tra
la
sperimentazione
attuata
sugli
embrioni
ancora
vivi
e
la
sperimentazione
attuata
su
embrioni
morti.
Se
gli
embrioni
sono
vivi,
viabili
o
non,
devono
essere
rispettati
come
tutte
le
persone
umane;
la
sperimentazione
non
direttamente
terapeutica
sugli
embrioni
è
illecita.
33
Nessuna
finalità,
anche
in
se
stessa
nobile,
come
la
previsione
di
un
utilità
per
la
scienza,
per
altri
esseri
umani
o
per
la
società,
può
in
alcun
modo
giustificare
la
sperimentazione
sugli
embrioni
o
feti
umani
vivi,
viabili
e
non,
nel
seno
materno
o
fuori
di
esso.
Il
consenso
informato,
normalmente
richiesto
per
la
sperimentazione
clinica
sull’adulto,
non
può
essere
concesso
dai
genitori,
i
quali
non
possono
disporre
né
della
integrità
fisica
,
né
della
vita
del
nascituro.
D’altra
parte,
la
sperimentazione
sugli
embrioni
o
feti,
comporta
sempre
il
rischio,
anzi
il
più
delle
volte
la
previsione
certa
di
un
danno,
per
la
loro
integrità
fisica,
o
addirittura
della
loro
morte.
Usare
l’embrione
umano,
o
il
feto,
come
oggetto
o
strumento
di
sperimentazione,
rappresenta
un
delitto
nei
confronti
della
loro
dignità
di
esseri
umani,
che
hanno
diritto
allo
stesso
rispetto
dovuto
al
bambino
già
nato
e
ad
ogni
persona
umana.
34
Quando
ho
letto
questo
passaggio,
per
la
prima
volta
nel
1987
e
negli
anni
successivi,
lo
interpretai
nella
prospettiva
della
mia
posizione,
che
considera
come
immorale
l’intero
consenso
per
delega,
per
le
cosiddette
persone
"
senza
voce
",a
favore
della
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
propriamente
perché
tale
consenso
viola
la
loro
dignità
come
persone.
Per
tali
motivazioni,
suppongo
che
la
ragione
fondamentale
per
cui
la
Donum
Vitae
rifiuta
in
modo
assoluto
il
consenso
per
delega
alla
sperimentazione,
a
scopo
non
terapeutico,
sul
bambino
non
ancora
nato
fosse
la
stessa
ragione
per
la
quale
io
stesso
l’ho
rifiutata.
Comunque,
il
testo
in
questione
mi
sembra
suscettibile
di
essere
interpretato
in
tale
direzione,
in
quanto
il
rifiuto
a
tale
consenso
è
iniziato,
sottolineando
il
rispetto
dovuto
agli
embrioni
umani,
come
persone
che
hanno
la
stessa
dignità
di
tutte
le
altre
persone
umane.
Infatti,
suppongo
che
sia
la
Donum
Vitae,
sia
Papa
Giovanni
Paolo
II,
nel
passaggio
citato
nella
nota
a
piè
di
pagina
nº
29,
considerarono
immorale
la
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
sugli
embrioni
umani
–
e
certamente
tutte
le
persone
umane
incapaci
di
sottoscrivere
un
133
personale
consenso
informato
–
perché
tale
sperimentazione
considera
gli
embrioni
umani
ed
altre
persone
umane
incapaci,
come
"oggetti"
o
"strumenti"
da
utilizzare.
Così,
quando
in
seguito
ho
scoperto
che
i
Vescovi
degli
Stati
Uniti,
che,
insieme
con
la
Donum
Vitae
e
Papa
Giovanni
Paolo
II,
hanno
rifiutato
in
assoluto
come
illecito
il
consenso
per
delega,
a
favore
degli
esperimenti
a
scopo
non
terapeutico
sulle
persone
umane
non
ancora
nate,
35ciò
nonostante
hanno
autorizzato
i
genitori
a
fornire
il
sopraccitato
consenso,
a
favore
delle
sperimentazioni
a
scopo
non
terapeutico
sui
bambini
già
nati,
se
tali
esperimenti
non
comportano
alcun
"rischio
significativo
per
il
bene
delle
persone
implicate
in
essi".
36
Io
li
accuso
di
usare
un
"duplice
criterio",
uno
che
riguarda
i
bambini
non
ancora
nati
e
un
altro
per
i
bambini
già
nati.
37
Una
posizione
simile
a
quella
dei
Vescovi
degli
Stati
Uniti
è
stata
presa
dalla
gerarchia
Australiana.
38
Tuttavia,
attualmente,
dopo
aver
cambiato
la
mia
posizione,
relativa
al
consenso
per
delega
alle
sperimentazioni
a
scopo
non
terapeutico,
che
non
comportano
un
rischio
"significativo"
per
le
persone
incapaci
o
"senza
voce",
ho
capito
che
avevo
letto
le
mie
opinioni
nella
Donum
Vitaee
nel
passaggio
di
Papa
Giovanni
Paolo
II
già
citato.
Ero
colpevole
di
esegesi
e
avevo
dimenticato
di
considerare
la
possibilità
di
interpretare
gli
argomenti
in
modo
diverso.
Attualmente,
penso
che
la
ragione
principale
per
la
quale
la
Donum
Vitae
rifiuta
il
consenso
per
delega
per
le
sperimentazioni
a
scopo
non
terapeutico,
sulle
persone
umane
non
ancora
nate
è
che:
"
[…]
la
sperimentazione
sugli
embrioni
o
sui
feti
comporta
sempre
il
rischio,
anzi,
il
più
delle
volte,
comporta
la
previsione
certa
di
un
danno
per
la
loro
integrità
fisica
o
addirittura
della
loro
morte
".
(
Donum
Vitae
1.4;
il
corsivo
è
stato
aggiunto
).
E’
per
tale
ragione
che
la
Donum
Vitae
sottolinea,
inoltre,
che
tale
sperimentazione
considera
l’embrione
umano
vivo
come
un
mero
"oggetto"
o
come
uno
"strumento".
Una
obiezione
ragionevolmente
valida,
perché
tutte
le
sperimentazioni
a
scopo
non
terapeutico,
sul
bambino
non
ancora
nato,
sono
illecite,
a
motivo
dei
gravi
rischi
che
esse
comportano
e
per
quale
motivo
tali
esperimenti
sono
giustificati
sulle
persone
umane
già
nate?
Un
bambino
non
ancora
nato
non
può
essere
un
soggetto
legittimo
degli
esperimenti
a
scopo
non
terapeutico,
ma
evidentemente
lo
stesso
bambino,
dopo
la
nascita,
può
diventarlo.
Tutto
questo
mi
sembra
assurdo.
Come
risposta
a
tale
obiezione
logica,
penso
che
sia
fondamentale
mettere
in
evidenza
che
i
genitori
e
altri
soggetti,
che
hanno
la
responsabilità
di
prendersi
cura
delle
persone
"senza
voce"
o
incapaci,
non
possono
lecitamente
accettare
di
sottoporre
quest’ultimi
a
procedure
senza
alcuno
scopo
terapeutico,
se
tali
procedure
comportano
dei
rischi
"significativi".
Inoltre,
sostengo
che
i
neonati
sono
soggetti
molto
vulnerabili
e
si
può
ragionevolmente
ottenere
che
gli
esperimenti
condotti
su
di
loro,
a
scopo
non
terapeuticonon
comportino
rischi
significativi,
maggiori
dei
benefici
che
ci
aspetta.
CONCLUSIONE
SUL
CONSENSO
"PER
DELEGA"
A
FAVORE
DEI
SOGGETTI
INCAPACI
O
"SENZA
VOCE"PER
LA
LORO
PARTECIPAZIONE
ALLE
SPERIMENTAZIONI
A
SCOPO
NON
TERAPEUTICO
Come
abbiamo
gia
visto,
qui
il
termine
consenso
"per
delega"
viene
usato
impropriamente,
dal
momento
che
i
soggetti
potenziali,
precisamente
perché
non
capaci
o
senza
voce,
non
sono
in
grado
di
dare
il
loro
consenso
e
nessuno
dovrebbe
presumere
di
dare
il
consenso
per
loro.
Il
consenso
in
questione,
è
il
consenso
personale
dei
genitori
e
di
altri
tutors.
134
La
dignità
propria
degli
esseri
umani
in
quanto
persone
e
la
dignitàproprio
come
agenti
morali,
sono
entrambi
in
pericolo.
Per
i
genitori
e
per
altri
custodi,
che
potrebbero
dare
il
consenso,
per
coloro
che
sono
sotto
la
lorocura,
per
partecipare
agli
esperimenti
con
finalità
non
terapeutica,
la
prima
dignità
a
rischio
é
la
loro
dignità
proprio
come
agenti
morali,
in
quanto
devono
rispettare
assolutamente
la
dignità
come
persone,
di
coloro
che
sono
"senza
voce",
incapaci,
affidati
alla
loro
fiducia.
Se
a
loro
giudizio,
la
sperimentazione
proposta
non
violasse
la
dignità
proprio
come
persone
dei
propri
rappresentati,
tutto
questo
potrebbe
non
essere
ancora
irragionevole
o
rappresentare
una
violazione
alla
fiducia
a
loro
affidata,
per
dare
il
consenso
necessario.
Una
condizione
sine
qua
non,
se
tale
consenso
possa
essere
moralmente
lecito,
è
precisamentela
richiesta
che
l’esperimento
proposto
non
comportialcun
"rischio
significativo"
(così
comè
stato
gia
definito),
per
le
persone
affidate
alla
loro
cura.
1
JOSEF
SEIFERT,
ha
distinto
una
radice
«quadrupla»
della
dignità
umana
(
o
4
tipi
di
dignità
umana
)
in
un
eccellente
ed
utile
saggio,
«Il
diritto
alla
vita
e
la
radice
quadrupla
della
dignità
umana
»,
in
«
La
natura
e
la
dignità
della
persona
umana
come
fondazione
del
diritto
alla
vita:
Le
sfide
del
contesto
culturale
contemporaneo
»
(
Atti
dell’8ª
Assemblea
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
Città
del
Vaticano,
25-‐27
Febbraio
2002
),
eds.
Juan
de
Dios
Vial
Correa
e
Elio
Sgreccia
(
Città
del
Vaticano:
Libreria
Editrice
Vaticana,
2003
),
pp.
194-‐215.
Laprima,
la
terza
e
la
quarta
“radice”
della
dignità
umana
che
egli
distingue,
corrisponde
ai
tre
tipi
di
dignità
umana
che
descrivo
in
questa
sede.
Il
secondo
tipo
di
dignità
umana
che
J.
Seifert
distingue
è
la
dignità
che
gli
esseri
umani
hanno
in
quanto
persone,
realmente
consapevoli
di
loro
stessi
come
soggetti,
in
possesso
dell’esercizio
delle
facoltà
di
conoscere,
ponderare
e
di
scegliere.
J.
Seifert,
giustamente
sottolinea
che
dalla
reale
consapevolezza
ha
origine
una
«
seconda
e
nuova
dimensione
della
dignità
della
persona
»,
che
consiste
nella
«
consapevole
realizzazione
della
persona,
nella
cosciente
consapevolezza
personale,
che
rappresenta,
in
un
certo
senso,
l’atto
dell’essere
personale
»
(p.
206).
I
bambini
non
ancora
nati,
i
neonati
ed
altre
categorie
di
esseri
umani,
che
sono
certamente
persone
in
potenza
e
non
soltanto
potenziali
persone,
fanno
parte
del
primo
tipo
di
dignità
che
ho
descritto
e
che
J.
Seifert
include
in
questa
quadruplice
classificazione.
Tuttavia,
tali
persone
che
godono
di
tale
consapevolezza
personale,
hanno
gli
stessi
diritti
delle
persone
la
cui
consapevolezza
non
è
stata
ancora
realizzata
(
come
ad
esempio,
bambini
non
ancora
nati
)
o
nelle
quali
tale
consapevolezza
risulta
assente
o
gravemente
ridotta
a
causa
di
una
lesione
o
non
è
posseduta
a
causa
di
una
malattia.
Così,
tutte
le
persone
umane,
che
siano
realmente
consapevoli
oppure
no,
hanno
il
diritto
di
vivere,
a
motivo
del
loro
essere
persone,
ma
non
hanno
altri
tipi
di
diritti
reali,
come
il
diritto
di
libertà
di
parola,
come
al
contrario
hanno
le
persone
consapevolmente
consapevoli
di
loro
stesse.
Tale
radice
di
una
dignità
umana
già
distinta,
di
conseguenza,
ha
avuto
uno
spazio
molto
importante
nel
saggio
di
Seifert,
che
si
è
occupato
della
relazione
tra
i
differenti
tipi
di
dignità
e
di
diritti
umani.
Mi
concentrerò,
in
tale
sede,
sul
diritto
di
tutte
le
persone
umane
di
essere
riconosciute
come
esseri
di
inalienabile
dignità,
a
ragione
della
loro
dignità
proprio
come
persone
e
sul
dovere
morale,
non
sul
diritto
morale,
di
acquisire,
in
quanto
persone
consapevolmente
consapevoli,
la
propria
dignità
come
agenti
morali,
formando
la
propria
vita
e
formulando
le
proprie
scelte,
in
accordo
con
la
verità.
2
Così
dichiarava
l’Associazione
Medica
Mondiale,
nella
giustamente
famosa
Dichiarazione
di
Helsinki,
adottata
dalla
18ª
Assemblea
Medica
Mondiale,
nel
1964
e
rivisitata
dalla
29ª
Assemblea,
nel
1975:
«
Il
progresso
medico
è
fondato
sulla
ricerca
che,
in
definitiva,
deve
basarsi
135
in
parte
sulla
sperimentazione
che
coinvolge
soggetti
umani
»
(
Introduzione
).
E’
possibile
trovare
il
testo
di
tale
Dichiarazione
in
«
Contemporary
Issues
in
Bioethics
»
eds.
TOM
L.
BEAUCHAMP
E
LEROY
WALERS
(
2ª
ed.
C.A.
Belmont:
Wadsworth,
1986
);
pp.
511-‐512.
3
Consultare,
ad
esempio,
Pope
Pius
XII,
Allocution
to
First
International
Congress
of
Histopathology,
14
settembre
1952;
in
The
Human
Body:
Papal
Teachings
(Boston:
St.
Paul
Editions,
1979),
nn.
637-‐649.
Consultare,
inoltre,
Catechism
of
the
Catholic
Church
(1994),
nn.
2292-‐2293,
e
Pontifical
Council
for
Pastoral
Assistance
to
Health
Care
Workers,Charter
for
Health
Care
Workers
(1994),
n.
75-‐82
e
fonti
in
esso
citate
4
Studi
meritevoli
della
ricerca
medica
e
della
sua
storia
vengono
forniti
da
BEECHER,
HENRY,
Research
and
theIndividual
(Boston:
Little,
Brown,
1977)
e
da
KATZ,
JAY;
CAPRON,
ALEXANDER;
e
SWIFT-‐GLASS,
ELEANOR,Experimentation
with
Human
Beings
(New
York:
Russell
Sage
Foundation,
1972).
Moraczewski,
ALBERT,O.P.,
dà
una
panoramica
breve
ma
utile
nel
suo
saggio,
“Human
Experimentation
and
Research,”
in
Catholic
Health
Care
Ethics:
A
Manual
for
Ethics
Committees,
eds.
MORACZEWSKI,
ALBERT,
O.P.,
e
CATALDO,
PETER,
(Boston:
National
Catholic
Bioethics
Center,
2001),
capitolo
23.
5
Associazione
Medica
Mondiale,
Dichiarazione
di
Helsinki,
Introduzione.
6
Catholic
Health
Australia,Code
of
Ethical
Standards
for
Catholic
Health
and
Aged
Care
Services
in
Australia
(ACT:
Catholic
Health
Australia,
2001),
n.
6.1,
p.
49.
7
APPLEBAUM,
PAUL,
et
al.,
“False
Hopes
and
Best
Data:
Consent
to
Research
and
Therapeutic
Misconceptions”,Hastings
Center
Report
17
(2)
(Aprile,
1987)
16-‐30.
8
A
riguardo,
consultare
ASHLEY,
BENEDICT,
O.P.
e
O’ROURKE,
KEVIN,
O.P.,
Health
Care
Ethics:
A
Theological
Analysis
(
4
thed.
Washington,
D.C.:
Georgetown
University
Press,
1997),
pp.345-‐346.
Come
il
Codice
dei
Criteri
EticiAustraliano
ne
descrive
l’importanza:
“
E’…
importante
distinguere
tra
una
ricerca
che
è
terapeutica,
che
è
condotta
con
l’intenzione
di
procurare
un
chiaro
beneficio
clinico
al
partecipante
alla
ricerca
stessa
con
il
miglioramento
della
conoscenza,
e
una
ricerca
che
è
non-‐terapeutica,
che
è
condotta
non
con
l’intenzione
di
procurare
un
beneficio
al
partecipante
ma
piuttosto
con
l’intenzione
di
migliorare
l’informazione
che
può
nel
tempo
giovare
ad
altri.
”
9
A
riguardo,
consultare
FOSTER,
CLAIRE,
The
Ethics
of
Medical
Research
on
Humans
(
Cambridge:
Cambridge
University
Press,
2000
),
p.
21.
10
Testo
inBEUCHAMP/WALTERS,
p.
510.
11
Il
Governo
Statunitense
richiede
che
tutte
le
istituzioni
che
portano
avanti
progetti
di
ricerca,
finanziati
con
fondi
pubblici,
nominino
un
comitato
di
revisione
istituzionale
(CRI)
e
il
governo
federale
degli
Stati
Uniti
non
finanzierà
progetti
di
ricerca,
se
questi
non
saranno
stati
prima
approvati
da
tale
CRI
(CommissionE
DEL
PRESIDENTE
PER
LO
STUDIO
DI
PROBLEMI
ETICI
IN
MEDICINA
E
NELLA
RICERCA
Biomedica
E
COMPORTAMENTALE,CRI
Guidebook(Washington,
D.C.:
Ministero
della
Sanità
e
dei
Servizi
Umani,
1983).
12
Associazione
Medica
Mondiale,
Dichiarazione
di
Helsinki,
in
BEAUCHAMP/WALTERS,
pp.
511-‐512.
13
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
Rappresentanti
della
Società
Italiana
di
Medicina
e
alla
Società
Italiana
di
ChirurgiaGenerale,
27
Ottobre
1980,
in
Insegnamenti
III/2,
1009,
n.
3.
14
Karol
Wojtyla,
Amore
e
responsabilità,
trad.
H.
Willetts
(New
York:
Farrar,
Straus
and
Giroux,
1981),
p.
41.
15
HERRANZ,
GONZALO,
“Christian
Contributions
to
the
Ethics
of
Biomedical
Investigation:
An
Historical
Perspective,”
un
saggio
contenuto
in
questo
volume.
Consultare
in
particolare
le
note
21
e
28.
16
Molte
affermazioni
di
PAPA
PIO
XII
sono
raccolte
in
The
Pope
Speaks,
vol.
1,
nn.
3
e
4
(1954).
Tra
i
suoi
discorsi
più
importanti
su
tale
argomento
ci
sono
quelli
relativi
al
Primo
Congresso
Internazionale
sull'
Istopatologia
del
Sistema
Nervoso
(14
Settembre
1952),
il
Sedicesimo
136
Congresso
Internazionale
di
Medicina
Militare
(19
ottobre
1953)
e
il
suo
discorso
all'Ottavo
Congresso
dell'Associazione
Medica
Mondiale
Settembre
1951).
17
PAPA
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
Rappresentanti
della
Società
Italiana
di
Medicina
ed
alla
Società
Italiana
di
Chirurgia
Generale,
27
ottobre
1980,
in
Insegnamenti
III/2,
1009,
n.
5.
Io
ritengo
che
le
riflessioni
del
suddetto
Paul
Ramsey
sul
“principio”
del
consenso
libero
ed
informato
siano
molto
pertinenti
su
tale
argomento.
Dopo
aver
notato
che
altri
aspetti
della
ricerca,
ad
esempio
le
esigenze
scientifiche
di
un
progetto
sperimentale
corretto
e
della
conoscenza
e
della
competenza
professionali,
considerano
il
soggetto
come
passivo
o
come
paziente,
Ramseyha
affermato:
«un
essere
umano
è
più
di
un
paziente
o
di
un
soggetto
sperimentale:
è
un
soggetto
personale—ogni
parte
di
esso
è
un
uomo
allo
stesso
modo
del
medico
che
effettua
l'esperimento.
In
procedure
del
genere,
la
lealtà
è
tra
uomo
e
uomo.
Il
consenso
esprime
o
stabilisce
tale
relazione
e
l'esigenza
di
ottenere
tale
consenso
la
supporta.
La
lealtà
è
il
legame
tra
l'uomo
che
dà
il
proprio
consenso
e
l'uomo
che
dà
il
proprio
consenso,
in
procedure
del
genere.
Il
principio
del
consenso
informato
è
uncanone
cardine
della
lealtà
che
unisce
gli
uomini
nella
prassi
e
nell'indagine
medica.
In
tale
requisito,
la
fedeltà
tra
uomini—la
fedeltà
che
è
di
norma
per
tutti
i
patti
o
gli
impegni
morali
della
vita
con
la
vita—acquista
importanza
per
le
relazioni
primarie,
tipiche
della
prassi
medica».
P.
Ramsey
delinea
la
questione
molto
bene
quando
egli
ha,
inoltre,
affermato:
«
nessun
uomo
è
competente
abbastanza
per
effettuare
degli
esperimenti
su
di
un
altro,
senza
il
consenso
di
quest’ultimo».
Fare
riferimento
a
RAMSEY,
PAUL,
The
Patient
as
Person
(New
Haven:
Yale
University
Press,
1970),
pp.
5,
7.
18
Codice
di
Norimberga,
Articolo
1;
il
testo
si
trova
in
Beauchamp/Walters,
p.
511.
19
Consultare
il
suo
«Research
and
the
Individual»,
pp.
18-‐19,
231f.
20
Ramsey
nota
che
“Sir
Harold
Himsworth
ha
affermato
(1953)
che
il
giuramento
di
Ippocrate
può
essere
reso
con
un'unica
frase:
«
Agisci
sempre
in
modo
da
aumentare
la
fiducia…Questa
frase
potrebbe
recitare
ancor
meglio
nel
modo
seguente:
Agisci
sempre
in
modo
da
non
abusare
della
fiducia:
agisci
sempre
in
modo
da
mostrare
lealtà,
da
meritare
ed
ispirare
fiducia
»
in“The
Patient
as
Person”
,
p.
8,
nota
a
piè
di
pagina
6.
21
CONsiglio
PontificIO
PER
L'ASSISTENZA
Pastorale
AGLI
OPERATORI
SANITARI,Carta
degli
operatori
sanitari(1994),
n.
73.P.
Ramsey
ha
espresso
chiaramente,
a
mio
avviso,
il
significato
di
quello
che
la
Carta
definisce
il
"principio
di
responsabilità
sanitaria"
nel
modo
seguente:
«
potremmo
dire
che
se
un
medico
si
ferma
sulla
strada
di
Gerico,
invece
di
passare
sulla
propria
strada,
per
leggere
un
documento
di
ricerca
prima
di
una
riunione
scientifica
o
di
andare
a
visitare
i
suoi
pazienti
abituali
e
paganti,
si
autodefinisce
come
sufficientemente
competente
per
la
pratica
medica,
senza
il
consenso
espresso
dall'uomo
bisognoso
».
A
tale
riguardo,
consultare
il
suo
libro
«
Patient
as
Person
»,
pp.7-‐8.
22
JONAS,
HANS,
“Philosophical
Reflections
on
Experimenting
with
Human
Subjects,”
in
H.
Jonas,
PhilosophnicalEssays:
From
Current
Creed
to
Technological
Man
(Chicago:
University
of
Chicago
Press,
1980),
pp.105-‐131.
23
Ashley
and
O’Rourke,HealthCare
Ethics,
pp.
346-‐347.
24
Il
testo
di
questi
Articoli
viene
fornito
in
Beauchamp/
Walters,
I
nomi
di
battesimo
degli
autori
e
il
titolo
?????p.
511.
25
Il
termine
significativo,
“senza
voce”,
veniva
usato
da
PAUL
RAMSEY
per
descrivere
bambini
e
altri
incompetenti,
dipendenti
da
altri
per
la
cura,
nel
suo
saggio:
«
A
Reply
to
Richard
Mc
Cormick.
The
Enforcement
of
Morals:
Non-‐therapeutic
Research
on
Children
»,
Hastings
Center
Report
6.4
(May,
1976
);
21-‐23.
26
NATIONAL
CONFERENCE
OF
CATHOLIC
BISHOPS,
Ethical
and
Religious
Directives
forCatholic
Health
Care
Facilities
(1994),
n.
25.
27
Charter
for
Health
Care
Workers,n.73.
137
28
MC
CORMIK,
RICHARD,
S.J.,
How
Brave
a
New
World?
Dilemmas
in
Bioethics
(Garden
City,
NY:
Doubleday,
1981),
capitolo
4°,
“Proxy
Consent
in
the
Experimental
Situation”,
pp.
61-‐62e
capitolo
6º,
“Sharing
in
Sociality:
Children
and
Experimentation”,
pp.
87-‐98.
29
In
tale
sede
desidero
sottolineare
che
io
credo,
insieme
ad
altri,
che
i
bambini
nella
misura
in
cui
crescono,
diventano
capaci
di
esercitare
il
loro
intelletto,
e
il
potere
di
scegliere
liberamente.
In
accordo
con
il
Codice
di
Diritto
Canonico,
riconosciamo
che
“minorenni”,
ad
esempio,
individui
al
di
sotto
del
18°
anno
d’età,
“alla
fine
del
settimo
anno
di
vita..
[sono
]
presumibilmente
in
grado
di
usare
la
ragione
(“Minor...
expleto
autem
septennio,
usum
rationis
habere
praesumitur”)
(Canone
97.2).
Coloro
che
hanno
raggiunto
l’uso
della
ragione,
io
penso,
possono
dare
il
loro
personale
consenso
libero
e
informato
per
essere
soggetti
delle
ricerche/esperimenti
non
terapeutichecome
di
quelle
terapeutiche.
Comunque,
io
credo
che
i
genitori
dei
bambini
minorenni,
possono
proibire
tale
autorizzazione.
30
A
riguardo
consultare
il
mio
saggio:
«Experimenting
on
Human
Subjects
»,
The
Linacre
Quarterly
41(3
):
238-‐252
e
inoltre
il
mio
saggio:
«
Human
Existence,
Medicine,
And
Ethics:
Reflections
on
Human
Life
»
(Chicago:
Franciscan
Herald
Press,
1977),
pp.
21-‐28;
P.
RAMSEY,
“A
Reply
to
Richard
Mc
Cormik:
«TheEnforcement
of
Morals:
NonTherapeutic
Research
on
Children
».
31
P.
RAMSEY:
«
The
Patient
as
Person
»;
pp.
12-‐14.
32
GERMAIN
GRISEZ:
«
The
Way
of
the
Lord
Jesus
»,
vol.
2;Living
a
Christian
Life
(Quincy,
IL:
Franciscan
University
Press,
1993),
p.
534,
la
sottolineatura
è
stata
aggiunta.
33
CONGREGAZIONE
PER
LA
DOTTRINA
DELLA
FEDE,
Istruzione
Donum
Vitae
(1987);
1.4,
AAS
80,
81-‐83.
L’originale
è
in
italiano.
A
questo
punto,
si
rimanda
alla
nota
a
piè
di
pagina,
n°
29.
Essa
afferma:
«
Condanno,
nel
modo
più
esplicito
e
ufficiale,
le
manipolazioni
sperimentali
dell’embrione
umano,
perché
è
un
essere
umano,
dal
momento
del
suo
concepimento
sino
alla
morte,
non
deve
essere
strumentalizzato
per
nessuna
ragione
».Cf.
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
Partecipanti
al
Convegno
della
Pontificia
Accademia
delle
Scienze,
(23
Ottobre
1982),
in
AAS
75
(1983)
37.
34
Ibid.
35
A
tale
proposito,
consultare
NATIONAL
CONFERENCE
OF
CATHOLIC
BISHOPS,
“
Ethical
and
Religious
Directives
for
Catholic
Health
Care
Facilities
“;
nº
51:
«
La
sperimentazione
a
carattere
non
terapeutico,
sull’embrione
vivo
o
sul
feto,
non
sono
permessi,
neanche
con
il
consenso
dei
genitori
».
Consultare
inoltre
“
Charter
for
Health
Care
Workers
“
nº
82.
36
Ibid,
nº
31,
che
in
parte
afferma:
«
Nel
caso
di
sperimentazione
a
scopo
non
terapeutico,
il
delegato
può
dare
il
consenso
solo
se
l’esperimento
non
comporta
un
rischio
significativo
per
tutte
le
persone
implicate
in
esso
»
(
il
corsivo
è
stato
aggiunto).
37
Ho
fatto
tale
accusanel
mio
saggio:
«
Catholic
Bioethics
and
the
Gift
of
Human
Life
»
(
Hunting,
IN:
Our
Sunday
Visitor,
2000
);
pp.
208-‐209.
38
A
tale
proposito
consultare
il
testo:
Australian
Bishops’
“Code
of
Ethical
Standards
for
Catholic
Health
and
Aged
Services
in
Australia”.
Al
nº
6.6
di
tale
documento
leggiamo:
«
La
ricerca
che
coinvolge
persone
vulnerabili
deve
essere
intrapresa
soltanto
quando
la
conoscenza
che
è
stata
ottenuta
è
sufficientemente
avanzata,
da
garantire
persone
così
vulnerabili,
coinvolte
in
tale
ricerca
e
tale
conoscenza
non
può
essere
ottenuta
attraverso
altri
mezzi
[…]
La
sperimentazione,
con
finalità
non
terapeutica,
non
deve
comportare
alcun
rischio
significativo
per
tutte
le
persone
coinvolte
in
essa
»
(
il
corsivo
è
stato
aggiunto
).
138
DANIEL
SERRÃO
INTRODUZIONE
Gli
aspetti
etici
della
ricerca
sperimentale
sull’uomo
sono
oggi
tra
le
questioniprincipali
della
società
civile
perché
le
biotecnologie
sono
percepite
dall’opinione
pubblica
laica
come
una
possibileminaccia
personale.
Per
questa
ragione
molte
organizzazioni
internazionali,
come
l’OMS,
il
CIOMS
ed
altre,
hanno
dedicato
tempo
e
risorse
per
discutere
gli
aspetti
scientifici
ed
etici
della
ricerca
sperimentale
sugli
animali
e
sugli
uomini,
compresi
gli
embrioni
ed
i
feti.
Nel
mio
contributo
mi
occuperò
soltanto
della
ricerca
su
esseri
umani
adulti
nello
specifico
ambito
della
sanità.Non
è
oggetto
di
questa
trattazione
la
questione
degli
animali
e
delle
piante,
come
soggetti
della
ricerca,
pur
essendo
un
argomento
d’indubbia
importanza
per
l’uomo
e
meritevole
di
attenzioneper
l’avvenire.
Ci
sono
differenti
tipi
di
ricerca
legati
al
contesto
sanitario.
Secondo
una
recente
pubblicazione
del
Nuffield
Council
on
Bioethics
(1)
gli
ambiti
più
importanti
sono:
la
ricerca
di
base
la
ricerca
clinica
la
ricerca
epidemiologica
la
ricerca
sociale
e
comportamentale
studi
d’intervento,
compresistudi
sia
clinici
sia
di
popolazione
studi
sull’erogazione
del
servizio
sanitario
La
ricerca
di
base
è
generalmente
incentrata
su
attività
di
laboratorio
che
comprendono
studi
a
livello
cellulare,
studi
immunologici
e
patogenetici.
Questo
tipo
di
ricerca
dipende
spesso
dall’utilizzazione
di
campioni
prelevati
dal
paziente.
La
ricerca
clinica
è
spesso
eseguita
con
i
pazienti
in
un
contesto
medico,
ad
esempio
un
ospedale,
con
lo
scopo
di
ottenere
migliori
informazioni
sulla
storia
naturale
o
lo
sviluppo
patogenetico
di
una
malattia
per
poternemigliorare
le
strategie
di
diagnosi,
di
cura
o
di
prevenzione.
La
ricerca
epidemiologioca
riguarda
normalmente
indagini
su
popolazioni,
che
possono
comprendere
studi
incrociati
su
popolazioni
selezionate
(studi
di
caso-‐controllo)
oppure
su
tutti
i
membri
di
una
comunità,
o
può
coinvolgere
studi
longitudinali
prospettici
sulle
popolazioni
(studi
di
coorte).
Questo
tipo
di
ricerca
è
condotta
per
conoscere
meglio
la
storia
naturale
di
una
malattia
o
per
identificare
fattori
che
aumentano
o
diminuiscono
l’incidenza
di
rischio
di
una
malattia
negli
individui.
Questi
tipi
di
ricerche
riguardano
spesso
lo
studio
di
grandi
popolazioni
e
possono
essere
di
tipo
osservazionale
o
d’intervento.
Lo
scopo
è
di
identificare
strategie
per
il
miglioramento
della
prevenzione
o
della
cura
della
malattia
una
comprensione
più
approfondita
dei
fattori
di
rischio
della
malattia
o
della
sua
progressione.
La
ricerca
sociologica
e
comportamentale
è
spesso
una
parte
della
ricerca
epidemiologica
ed
è
incentrata
sullo
studio
dei
fattori
comportamentali
e
socialiche
possono
modificare
il
rischio
d’incidenza
di
una
malattia
nei
singoli
individui
o
nelle
popolazioni.
Questo
tipo
di
ricerca
può
implicare
la
raccolta
dei
dati
sensibili
riguardo
alla
persona
e
al
suo
stile
di
vita
(ad
es.
i
comportamenti
sessuali).
Mentre
alcuni
tipi
di
ricerca
sono
semplicemente
osservazionali
altri
139
possono
riguardare
i
modi
di
esaminare
o
verificare
il
cambiamento
dei
comportamenti
e
delle
condizioni
sociali.
Studi
d’intervento
sono
condotti
per
valutare
l’impatto
di
specifici
interventi
di
prevenzione
della
malattia,
spesso
nel
contesto
di
studi
su
popolazioni,
o
di
modificazione
del
decorso
clinico
di
una
malattia,
spesso
nel
contesto
di
studi
clinici.
Questo
tipo
di
ricerca
può
costituire
la
base
per
definire
linee
di
condotta
sulle
decisioni
da
prendere
e
sulle
priorità
da
attribuire.
Gli
studi
d’intervento
riguardano
spesso
il
confronto
fra
le
diverse
cure
o
strategie
di
prevenzione
in
cui
il
metodo
utilizzato
correntemente
è
messo
a
confronto
con
un
altro,
spesso
nuovo,
che
potrebbe
essere
più
efficace
di
quello
già
esistente.
Se
non
ci
sono
trattamenti
efficaci
già
esistenti
possono
essere
utilizzati,
sia
un
placebo
sia
“nessuna
cura”
come
termini
di
paragone
su
cui
stimare
l’impatto
del
nuovo
trattamento.
Idealmente
gli
individui
sono
distribuiti
casualmente
per
ricevere
idiversi
trattamenti
che
saranno
confrontati
nello
studio.
Le
ricerche
sui
servizi
sanitari
e
sulle
politiche
di
erogazione
del
servizio
riguardano
lo
studio
dei
metodi
di
erogazione
della
cura
sanitaria,
dell’accesso
ai
trattamenti
e
della
qualità
della
cura,
allo
scopo
di
trovare
metodi
più
efficaci
per
una
migliore
cura.
Questi
studi
riguardano
spesso
anche
la
valutazione
dei
costidi
accesso
ad
una
cura
medica
e
dei
benefici
forniti.
Nel
campo
della
ricerca
su
individui
adulti,
uomini
e
donne,
ci
sono
molti
problemi
che
meritano
di
essere
posti
all’attenzione
dell’opinione
cattolica.
Esistono
molti
documenti
internazionali
e
linee
guida
che
hanno
seguito
il
Codice
di
Norimberga,
mapresenterò
qui
il
Protocollo
sulla
Ricerca
Biomedica,
preparato
dallo
Steering
Committee
on
Bioethics(CDBI)
ed
aperto
alla
discussione
pubblica,
la
cui
versione
finale
sarà
approvata
nel
2002
e
proposta
per
la
firma
agli
stati
membri
nel
2003.
Il
Protocollo
copre
l’intera
gamma
delle
attività
di
ricerca
biomedica
comprendendo
qualsiasi
tipo
d’intervento
sugli
esseri
umani,
ma
non
riguarda
la
ricerca
sugli
embrioni
in
vitro;
riguarda,
invece,
la
ricerca
sul
feto
e
sugli
embrioni
in
vivo,
così
come
sulle
donne
gravide.
L’opinione
cattolica
non
è
contro
le
ricerche
su
individui
umani
a
patto
che
siano
pienamente
rispettati
la
dignità
ed
i
diritti
dell’uomo.
In
questo
senso
il
Protocollo
afferma,
come
la
Convenzione,
che
l’interesse
ed
il
benessere
degli
esseri
umani
che
partecipano
alla
ricerca
deve
prevalere
al
solo
interesse
della
società
e
della
scienza.
Per
proteggere
la
dignità
ed
i
diritti
umani
il
protocollo
afferma
che
ogni
progetto
di
ricerca
debba
essere
approvato
da
un’autorità
competente
dopo
un
esame
indipendente
sul
suo
valore
scientifico,
compresa
la
valutazione
dell’importanza
dello
scopo
della
ricerca
ed
un
vaglio
multidisciplinare
della
sua
accettabilità
etica.
La
revisione
etica
da
parte
di
un
comitato
indipendente
e
multidisciplinare
è
il
punto
centrale
per
la
protezione
della
dignità
e
dei
diritti
dell’uomo.
Questo
punto
è
sottolineato
anche
dalla
Dichiarazione
di
Helsinki
(Edimburgo,
2000)
che
afferma
“il
comitato
deve
essere
indipendente
dai
ricercatori,
dallo
sponsor
e
da
qualsiasi
tipo
d’indebita
influenza”:
il
Protocolloafferma
che
i
membri
del
comitato
etico
devono
dichiarare
tutte
le
circostanze
che
possono
portare
ad
un
conflitto
d’interessi.
Se
un
conflitto
dovesse
sorgere
le
persone
coinvolte
non
dovrebbero
partecipare
alla
revisione.
Per
promuovere
una
buona
e
solida
conoscenza
del
comitato
etico
il
Protocollo
fornisce,
negli
Articoli
successivi,
i
dettagli
sulle
informazioni
che
i
ricercatori
ed
i
promotori
sono
obbligati
a
presentare,
la
dimostrazione
che
nessuna
indebita
influenza,
compresi
guadagni
finanziari,
viene
esercitata
sulle
personeper
partecipare
alla
ricerca,
con
particolare
attenzione
alle
persone
dipendenti
e
vulnerabili.
E’
inoltre
importante
che
l’informazione
sia
fornita
ai
partecipanti
della
ricerca
e
che
sia
completa
e
comprensibile.
Questa
informazione
è
la
condizione
sine
qua
non
per
140
ottenere
il
consenso
da
parte
di
coloro
che
intendono
partecipare
alla
ricerca.
I
principali
argomenti
dell’informazione
devono
essere:
la
natura,
l’entità
e
la
durata
delle
procedure
coinvolte,
in
particolare
i
dettagli
di
qualsiasi
peso
imposto;
i
rischi
implicati;
i
diritti
e
le
tutele
prescritte
per
legge
in
loro
protezione;
Il
loro
diritto
di
rifiutare
il
consenso
o
di
ritirarlo
in
ogni
momento,
senza
che
venga
pregiudicato
il
loro
diritto
ad
appropriate
e
tempestive
cure
mediche,
e
senza
che
venga
subito
alcun
danno,
le
disposizioni
per
affrontare
eventuali
eventi
avversi
o
le
inquietudini
dei
partecipanti;
provvedimenti
per
assicurare
il
rispetto
della
vita
privata
e
la
riservatezza
dei
dati
personali;
provvedimenti
per
l’accesso
alle
informazioni
rilevanti
sui
partecipanti
che
derivano
dalla
ricerca
e
dai
risultati
completi;
provvedimenti
per
un’adeguata
indennità
in
caso
di
danno;
qualsiasi
prevedibile
utilizzazione
ulteriore,
compreso
l’uso
commerciale,
dei
risultati
della
ricerca,
dei
dati
o
del
materiale
biologico.
Il
punto
più
difficile
è
la
protezione
della
persona
che
non
è
in
grado
di
dare
un
consenso
per
la
ricerca.
Se
le
ricerche
sono
in
grado
di
dare
un
reale
e
diretto
beneficio
alla
sua
salute
e
con
le
precauzioni
prescritte
per
legge,
queste
ricerche
possono
essere
accettabili.
Senza
questi
benefici
l’accettabilità
della
ricerca
è
problematica
ed
aperta
alla
discussione.Anche
se
il
rischio
ed
il
peso
della
ricerca
è
minimo,
in
soggetti
che
non
sono
in
grado
di
dare
il
consenso,
compresi
i
minori,
con
un
tutor
che
dia
il
consenso,
e
con
qualche
probabilità
di
produrre
risultati
che
diano
un
beneficio
diretto
per
la
salute
della
persona
coinvolta,
mi
sembra
che
si
tratti
di
una
manipolazione
non
in
accordo
con
l’affermazione
enfatica
che
il
benessere
delle
persone
che
partecipano
alla
ricerca
debba
prevalere
al
solo
interesse
della
società
e
della
scienza.
In
generale
l’opinione
cattolica
non
è
d’accordo
con
questo
tipo
di
ricerche.
Gli
studi
clinici
promossi
dalle
industrie
farmaceutiche
sono
un
altro
punto
da
prendere
in
considerazione.
Ci
sono
quattro
fasi
distinte
di
questi
trials:
(Tradotto
da
(1))
Studi
di
Fase
I
Gli
studi
di
fase
I
sono
il
primo
momento
in
cui
i
soggetti
umani
sono
esposti
a
medicine
potenzialmente
nuove.
L’obiettivo
di
questi
trials
sarà
di
studiare
la
farmacodinamica
e
risposta
alla
dose,
e
nel
caso
dei
vaccini,
la
risposta
immunitaria,
e
di
determinare
la
dose
massima
che
può
essere
tollerata
dai
partecipanti.
Nel
caso
della
maggior
parte
delle
medicine
nuove
questi
studi
saranno
svolti
su
un
piccolo
numero
di
volontari
sani.
Non
ci
si
aspetta
che
l’efficacia
della
medicina
sia
messa
in
evidenza
dagli
studi
di
Fase
I.
Studi
di
Fase
II
Utilizzando
le
informazioni
riguardanti
le
dosi
sicure
fornite
dagli
studi
di
Fase
I,
il
farmaco
sarà
somministrato
ai
pazienti
che
soffrono
della
malattia
bersaglioed
ora
un
numero
significativo
d’individui
sarà
coinvolto
nello
studio.
Quasi
sempre
questi
studi
vengono
svolti
in
vari
centri
clinici.
Lo
scopo
dello
studio
di
Fase
II
e
di
dimostrare
l’efficacia
della
medicina
contro
una
specifica
malattia.
Ulteriori
informazioni
sulla
sicurezza
della
cura
saranno
messe
in
evidenza
da
questi
studi
perché
un
maggior
numero
di
individui
è
esposto
alla
cura.
Nel
trial
di
Fase
II
il
paziente
è
spesso
assegnato
casualmente
al
gruppo
che
riceverà
la
nuova
cura
o
al
gruppo
che
riceverà
il
placebo
(
un
composto
che
non
possiede
alcun
effetto
terapeutico),
o
più
spesso,
al
trattamento
convenzionale
e
già
collaudato.
141
Studi
di
Fase
III
Se
un
farmaco
ha
dato
prova
di
essere
efficace
e
senza
significativi
effetti
collaterali,
si
entrerà
in
Fase
III,
dove
molte
centinaia,
a
volte
qualche
migliaia
di
pazienti
saranno
arruolati.
Questa
fase
è
generalmente
condotta
non
solo
per
confermare
l’efficacia
clinica
del
farmaco,
ma
anche
per
stabilire
la
sua
efficacia
in
confronto
ai
trattamenti
tradizionali.
Questi
studi
sono
spesso
multicentrici
e
spesso
condotti
su
basi
internazionali.
Di
nuovo
viene
posta
una
grande
attenzione
ai
possibili
effetti
collaterali
in
quanto
un
gran
numero
di
pazienti
è
esposto
alla
cura.
Gli
end-‐points
di
Fase
III
includonola
dimostrazione
di
un
miglioramento
statisticamente
significativo
dell’efficacia
della
nuova
medicina
rispetto
a
terapie
già
collaudate,
se
ne
esistono.
Studi
di
Fase
IV
Una
volta
che
la
nuova
medicina
entra
in
commercio
sarà
soggetta
a
controlli
post-‐
marketing
per
identificare
gli
effetti
collaterali
ed
altri
affetti
avversi
che
si
metteranno
in
evidenza
perché
un
numero
molto
maggiore
d’individui
saranno
trattati
con
quel
farmaco.
Inoltre
studi
clinici
formali
continueranno
per
sviluppare
una
maggiore
comprensione
del
farmaco
e
dei
suoi
effetti
in
un
contesto
clinico
più
ampio,
ma
anche
per
estendere
la
sua
utilizzazione
ad
altre
indicazioni
cliniche
o
a
differenti
gruppi
di
pazienti,
come
i
bambini
e
le
persone
più
anziane.
Speciali
disegni
di
studio
possono
essere
utilizzati
a
seconda
degli
obiettivi
dello
studio
per
la
valutazione
dell’efficacia
e
della
sicurezza.
Questi
trialspossono
includere
studi
di
andamento
temporale,
studi
di
caso-‐controllo,
o
l’introduzione
graduale
di
un
trattamento
in
differenti
aree.
Gli
studi
di
Fase
IV
possono
anche
essere
messi
a
punto
per
misurare
l’impatto
della
cura
in
pattern
epidemiologici
o
di
trasmissione
di
una
malattia
infettiva.
Quando
ci
si
propone
di
avviare
questi
studi
nei
paesi
in
via
di
sviluppo
c’è
il
rischio
che
non
esista
un
comitato
etico
indipendente
e
multidisciplinare
per
dare
un’opinione
di
carattere
etico
dopo
aver
revisionato
il
progetto
di
ricerca.
Dopo
la
notizia
di
abusi
in
alcune
città,
come
in
Africa,
le
OMS
così
come
alcune
organizzazioni
internazionali,
come
laWorld
Medical
Association,
il
Council
for
International
Organization
of
Medical
Sciences,
ed
altre
hanno
preparato
un
documento-‐
Operational
Guidelines
for
Ethics
Commettees
that
Review
Biomedical
Research-‐
per
sostenere
il
miglioramento
dell’organizzazione,
della
qualità
e
degli
standards
di
revisione
etica
nel
mondo:
penso
che
questo
documento
possa
essere
approvato
dalla
nostra
Accademia
e
che
questa
approvazione
posa
essere
comunicata
all’OMS.
Il
Forum
Europeo
per
la
Buona
Pratica
Clinica,
così
come
il
Parlamento
Europeo
e
la
Commissione
Europea
hanno
preparato
dei
documenti
per
mettere
d’accordo
la
legge
ed
i
provvedimenti
amministrativi
che
regolano
gli
studi
clinici
di
Fase
II
e
III.
L’opinione
cattolica
sostiene
i
valori
promossi
da
questi
documenti;
e
rafforza
le
disposizioni
sull’utilizzazione
del
placebo
della
dichiarazione
di
Helsinki
riguardo
alla
“grande
attenzione
che
dovrebbe
essere
presa
nell’utilizzare
trialscon
placebo
di
controllo,
e
più
in
generale,
questa
metodologia
dovrebbe
essere
utilizzata
solo
in
assenza
di
terapie
provate
già
esistenti”.L’utilizzazione
del
placebo
può
aprire
la
strada
all’abuso
di
quelle
persone
coinvolte
nello
studio
terapeutico
che
non
possono
essere
informate
del
fattoche
potranno
ancheprendere
la
vera
medicina
ma
una
simile
che
non
ha
alcuna
azione
terapeutica.
Ci
sono
notizie
di
certe
ricerche
terapeutiche
sull’AIDS,
in
corso
in
Africa,
che
sono
condotte
con
medicine
contro
il
placebo
in
donne
incinte-‐
chiaramente
contro
la
Dichiarazione
di
Helsinki.
Dal
punto
di
vista
cattolico
è
sempre
necessaria
una
chiara
affermazione
dell’imperativo
morale
del
rispetto
della
dignità
umana.
Questo
ci
richiama
a
riconoscere
che
ogni
persona
deve
essere
142
trattata
innanzi
tutto
come
persona
e
come
un
fine
in
se
stessa,
non
come
un
oggetto
o
come
unmezzo
per
un
fine;
questo
significa
rispettare
il
diritto
di
prendere
decisioni
libere
ed
informate
nel
rispetto
dell’esercizio
del
consenso
individuale.
I
ricercatori
dovrebbero
riconoscere
e
legittimare
la
realtà
cheun
consenso
libero
ed
informato
è
frutto
di
un
processo
e
non
è
semplicemente
il
mettere
una
firma
nella
scheda
di
consenso.
Il
processo
inizia
con
il
primo
contatto
con
i
potenziali
partecipanti,
comprende
il
dialogo
e
la
condivisione
delle
informazioni,
e
continua
per
tutto
l’iter
del
progetto.
Le
esigenze
morali
di
una
reale
comprensione,
di
una
reale
assenza
di
controllo
da
parte
di
terzi,
e
di
un’autorizzazione,
concessa
al
ricercatore,
per
far
qualcosa
ai
partecipanti,
non
sono
suscettibili
alla
formulazione
di
valutazioni
da
parte
dei
ricercatori,
o
dei
Comitati
Etici
quali
il
Research
Ethics
Boards.
Questo
è
un
punto
molto
importante
e
le
istituzioni
cattoliche,
così
come
i
partecipanti
cattolici
ai
Research
Ethics
Boards
dovrebbero
sempre
vigilare
molto
attentamente
sul
processo
d’informazione
data
al
paziente
coinvolto
nel
programma
di
ricerca
e
sull’espressione
del
consenso.
Questo
vale
soprattutto
nei
Paesi
in
via
di
sviluppo,
dove
gli
ostacoli
culturali,
sociali
e
politici
sono
così
preoccupanti
che
i
promotori
non
informano
le
persone
che
saranno
coinvolte
nello
studio
ma
le
autorità,
che
danno
o
no
il
consenso
per
la
ricerca.
Sfortunatamente,
in
certi
paesi,
i
soldi
e
la
corruzione
sono
i
mezzi
più
efficaci
per
ottenere
autorizzazioni
alla
ricerca
su
soggetti
umani.
Le
ricerche
condotte
nei
paesi
in
via
di
sviluppo,
sulla
Malaria
e
l’infezione
da
HIV,
sono
state
criticate
perché
non
si
utilizzano
trattamenti
per
i
pazienti
con
infezione
da
HIV
che
fanno
parte
del
gruppo
cui
è
somministrato
il
placebo.
Una
discussione
ben
equilibrata
sulle
questioni
etiche
è
stata
presentata
da
V.Leontis
(2).
Nel
riferimento
(1)
può
essere
trovata
una
discussione
pregnante
e
molto
completa
sulle
questioni
etiche
correlate
alla
ricerca
nei
paesi
in
via
di
sviluppo.
L’opinione
Cattolica
può
essere
d’accordo
con
le
istanze
proposte
dal
Nuffield
Report;
questi
aspetti
dovrebbero
essere
considerati
nel
revisionare
proposte
di
ricerca
nei
paesi
in
via
di
sviluppo.
Riassumendo
l’opinione
cattolica
riguardo
l’etica
della
ricerca
sperimentale
negli
esseri
umani
può
essere
presentata
in
tre
punti.
In
ogni
tipo
di
ricerca
la
sacralità
della
vita
umana
creata
da
Dio,
e
la
dignità
dell’essere
umano
sono
i
valori
principali
che
devono
essere
rispettati.
I
principi
dedotti
da
questi
valori
sono,
nella
ricerca
in
ambito
sanitario,
il
dovere
di
alleviare
la
sofferenza,
il
dovere
di
rispettarela
persona,
il
dovere
di
non
sfruttare
i
più
vulnerabili.
Questi
principi
devono
essere
tradotti
nella
pratica
e
per
questo
deve
esistere
una
procedura
appropriata.
I
comitati
etici
di
ricerca
con
un
ampio
spazio
d’intervento,
sono
una
parte
molto
importante
e
necessaria
per
un’appropriata
procedure
di
controllo
del
rispetto
dei
principi.
Comunque
i
comitati
etici
di
ricerca
devono
essere
forniti
di
membri
indipendenti
e
competenti,
e
dare
pareri
chiaramente
giustificatied
aperti
alla
responsabilità
pubblica
e
democratica.
Gli
esseri
umani,
compresi
gli
embrioni
ed
il
feto,
non
possono
mai
essere
usati,
nella
ricerca
sperimentale,
come
mezzi
per
un
fine,
senza
rispetto
per
le
loro
vite,
dignità
e
benessere,
anche
se
il
fine
si
presenta
come
un
bene
per
la
società
o
la
salute
dell’umanità.
143
APPENDICE
-‐
Nuffield
Council
of
Bioethics
“Issues
to
be
considered
when
reviewing
research
proposals”
Aspetti
politici
La
ricerca
ha
bisogno
di
essere
condotta
nei
particolari
paesi
in
esame?
Lo
scopo
della
ricerca
può
essere
giustificato?
La
ricerca
proposta
è
pertinente
per
le
priorità
nazionali
di
ricerca
sulla
salute?
Se
la
ricerca
non
è
conforme
alle
priorità
nazionali,
è
in
ogni
caso
giustificata?
Sono
stati
rilevati
i
criteri
per
selezionare
la
popolazione
in
studio?
Sono
state
considerate
tutte
le
questioni
correlate
al
genere
di
popolazione
da
studiare?
I
fondi
stanziati
per
la
ricerca
sono
sufficienti
per
completare
il
progetto?
Se
positivi,
i
risultati
possono
essere
implementati
sia
ora
sia
nel
prossimo
futuro?
Aspetti
scientifici
I
ricercatori
che
intraprendono
la
ricerca
sono
appropriatamente
qualificati
e
hanno
esperienza
relativa
all’argomento
della
ricerca?
Il
ricercatore
è
disponibile
per
tutta
la
durata
dello
studio?
E’
disponibile
lo
staff
che
supporta
la
ricerca
e
le
attrezzature,
comprese
quelle
tecniche,
sono
adeguate?
E’
questa
la
prima
volta
in
cui
è
portato
avanti
questo
tipo
di
ricerca?
Se
non
lo
è,
il
valore
scientifico
per
intraprendere
la
ricerca
è
giustificato?
Il
progetto
della
ricerca
è
appropriato?
E’
in
grado
di
fornire
risposte
chiare
alle
questioni
che
la
ricerca
si
è
posta?
E’
possibile
ottenere
un
controllo
di
qualità
dei
dati
e
delle
analisi?
Sono
stati
presi
in
considerazione
gli
aspetti
legati
alla
biosicurezza
e
ad
una
buona
pratica
gestionale?
Gli
interventi
diagnostici,
terapeutici
e
di
prevenzione
possono
essere
condotti
con
sicurezza?
E’
utilizzato
nella
ricerca
un
gruppo
di
controllo?
Se
sì,
sono
inclusi
nel
progetto
i
dettagli
sulla
cura
che
sarà
somministrata?
Ci
sono
forme
di
follow-‐up
per
chi
partecipa
alla
ricerca?Se
sì,
sono
forniti
i
dettagli
per
questo?
Aspetti
etici
La
ricerca
è
stata
appropriatamente
revisionata
dal
punto
di
vista
scientifico?
Il
progetto
è
stato
approvato
dal
comitato
etico
di
revisione
nel
paese
ospite/sponsorizzatore?
E’
stato
fatto
ogni
sforzo
di
consultazione
con
le
relative
comunità
durante
il
corso
di
progettazione
della
ricerca?
Sono
stati
forniti
i
dettagli
sulle
misure
da
prendere
nel
reclutare
gli
eventuali
partecipanti
alla
ricerca?
E’
stato
considerato
chi
beneficerà
della
ricerca?
Sono
state
fornite
considerazioni
sui
rischi
implicati
nell’intraprendere
la
ricerca?
Sono
state
prese
misure
per
minimizzare
il
rischio
dei
partecipanti?
Ci
sono
adeguati
provvedimenti
per
il
monitoraggio
dei
dati
raccolti
e
per
assicurare
la
sicurezza
dei
soggetti?
Sono
stati
forniti
i
dettagli
sulle
informazioni
che
saranno
rese
disponibili
per
gli
eventuali
partecipanti?
Sono
appropriate
e
complete?
Sono
fornite
in
un
linguaggio
e
ad
un
livello
di
complessità
appropriato
per
gli
eventuali
partecipanti
alla
ricerca?
144
Sono
stati
forniti
i
dettagli
sulle
procedure
che
saranno
utilizzate
per
ottenere
il
consenso
a
livello
delle
istituzioni
e
della
società,
dove
sia
opportuno?
Sono
stati
forniti
dettagli
sulle
procedure
che
saranno
utilizzate
per
ottenere
il
consenso
dai
singoli
partecipanti?
E’
opportuno
chiedere
ai
partecipanti
di
firmare
una
scheda
di
consenso
informato?
Se
non
lo
è,
come
sarà
documentato
il
loro
consenso?
Laddove
sia
previsto
un
consenso
orale
alla
ricerca,
c’è
un
adeguato
procedimento
per
provare
l’avvenuto
consenso?
Sono
stati
messi
a
punto
provvedimenti
per
ricevere
e
rispondere
alle
domande
o
alle
lamentele
da
parte
dei
partecipanti
alla
ricerca
e
dei
loro
rappresentati
durante
il
progetto
di
ricerca?
Sono
stati
forniti
i
dettagli
su
chi
avrà
l’accesso
ai
dati
personali
dei
partecipanti
alla
ricerca,
comprese
le
cartelle
cliniche
ed
i
campioni
biologici?
Sono
state
prese
misure
per
mantenere
la
riservatezza
e
queste
misure
sono
adeguate?
Gli
standards
di
cura
proposti
sono
accettabili?
Sono
appropriati
per
il
paese
in
cui
la
ricerca
è
condotta?
Ci
sono
altri
progetti
di
ricerca
che
possono
rispondere
alle
questioni
poste
dalla
ricerca?
Se
sì,
perché
è
stato
proposto
questo
particolare
progetto?
Si
può
utilizzare
uno
strumento
di
controllo?
Se
sì,
la
sua
utilizzazione
è
adeguatamente
giustificata?
Se
viene
proposto
che
il
gruppo
di
controllo
nella
ricerca
debba
ricevere
meno
rispetto
al
generale
standard
di
cura,
questo
è
giustificato?
Vengono
forniti
i
dettagli
su
come
saranno
distribuiti
i
trattamenti?
Sono
stati
inclusi
i
dettagli
su
quali
informazioni
riceveranno
i
partecipanti
al
gruppo
di
controllo?
Sono
giustificati
progetti
per
eliminare
o
rifiutare
le
terapie
standard
a
scopo
di
ricerca?
Quali
standards
di
cura
saranno
forniti
ai
partecipanti
che
svilupperanno
la
malattia
o
condizioni
diverse
da
quelle
studiate?
Se
si
tratta
di
standards
più
bassi
rispetto
alla
migliore
cura
disponibile
come
parte
del
sistema
sanitario
pubblico
nazionale,
questo
è
giustificato?
Saranno
offerte
ai
partecipanti
alla
ricerca
pagamenti,
doni
o
altri
incentivi
in
cambio
della
loro
partecipazione?
Questi
sono
appropriati?
Ci
saranno
follow-‐up
e
revisioni
a
lungo
termine
della
ricerca?
Se
sì,
saranno
forniti
i
dettagli
su
come
questi
saranno
portati
avanti?
Ci
sono
provvedimenti
d’indennità
o
trattamenti
nel
caso
di
morte
o
danno
dei
partecipanti
alla
ricerca?
I
ricercatori
si
sono
preoccupati
di
fornire
un
accesso
sicuro
a
trattamenti
efficaci
post-‐trial
per
i
partecipanti
allo
studio?
Se
no,
la
mancanza
di
queste
disposizioni
è
giustificata?
Viene
considerata
la
possibilità
di
introdurre
una
cura
che
si
sia
dimostrata
di
successo
in
un
contesto
più
ampio
e
mantenere
la
sua
disponibilità?
Se
non
è
possibile
rendere
disponibile
il
trattamento
per
una
parte
o
l’intera
popolazione
nel
paese
in
cui
la
ricerca
è
stata
condotta,
la
ricerca
è
comunque
giustificata?
Il
comitato
etico
della
ricerca
formulerà
dei
resoconti
regolari
sull’andamento
della
ricerca?
Se
sì,
sono
forniti
i
dettagli
sulla
frequenza
con
cui
vengono
fatti?
Sono
forniti
i
dettagli
di
ogni
disposizione
effettuata
per
fornire
un’adeguata
documentazione
al
comitato?
Sono
forniti
i
dettagli
su
come
saranno
utilizzati
i
risultati
della
ricerca?
Come
saranno
divulgati
i
risultati
della
ricerca
ai
partecipanti
ed
alle
altre
parti
interessate?
La
ricerca
include
programmi
per
lo
sviluppo
della
competenza
sulla
ricerca
nei
paesi
in
via
di
sviluppo
in
cui
lo
studio
sarà
condotto?
Se
no,
è
giustificata
la
mancanza
di
questi
provvedimenti?
145
Ricerche
condotte
su
popolazioni
vulnerabili
E’
giustificata
l’inclusione
nelle
ricerche
d’individui
che
non
possono
dare
il
consenso?
Le
questioni
poste
dalla
ricerca
sono
importanti
per
la
salute
ed
il
benessere
di
questa
popolazione
vulnerabile?
Il
progetto
di
ricerca
è
appropriato?
Sono
state
poste
nel
progetto
di
ricerca
le
cautele
necessarie
per
prevenire
indebite
coercizioni
o
influenze
su
questo
gruppo?
[1]
The
ethics
of
research
related
to
healthcare
in
developing
countries.
Nuffield
Council
on
Bioethics
publication.
London,
2002.
[2]
VASSILI
LEONTIS
–
Ethical
challenges
posed
by
trials
of
biomedical
intervention
on
human
subjects
conducted
in
developing
countries.
Information
paper
presented
at
the
European
Conference
of
National
Ethics
Committee.
Porto
(Portugal)
1998.
CDBI/INF
(98)2.
146
EUGENE
DIAMOND
La
medicina
è
una
libera
professione
dotata
di
una
sua
etica
intrinseca,
per
la
quale
il
fine
della
medicina
è
ordinato
ad
un
bene,
cioè
alla
salute.
Tecnica
e
condotta
medica
non
sono
quindi
neutrali
rispetto
ai
valori,
ma
sono
ordinate
al
bene
generale
rappresentato
dalla
salute,
che
è
il
fine
datole
per
natura.
La
medicina
è
una
professione
precisamente
perchéprofessa
questo
fine.
Essere
professionisti
è
più
che
essere
tecnici.
La
professione
pubblica
della
medicina
come
modo
di
vita
rappresenta
un’affermazione
della
natura
morale
dell’operato
medico.
La
medicina
come
professione
equivale
a
dichiarare
pubblicamente
la
volontà
di
dedicarsi
agli
altri
e
di
servire
un
bene
superiore.
Il
medico
è
pertanto
un
soggetto
morale
che
professa
e
afferma
la
natura
morale
della
sua
attività.
Negli
ultimi
anni
abbiamo
assistito
al
tentativo
di
convertire
la
nostra
professione
in
un’attività
volta
ad
uccidere.
I
medici
abortisti
uccidono
bambini
non
nati;
altri
medici
si
assumono
la
responsabilità
di
uccidere
pazienti
senza
il
loro
consenso,
come
in
Olanda,
o
di
entrare
nei
meccanismi
del
suicidio
medicalmente
assistito,
come
nello
Stato
dell’Oregon
in
America.
Il
medico
fedele
alla
sua
chiamata,
al
contrario,
non
viola
la
proibizione
di
uccidere
né
per
amore
né
per
soldi.
Ecco
perché
la
medicina
deve
essere
una
professione
e
non
un
mero
business.
Il
medico
che
è
mosso
principalmente
dalla
motivazione
del
profitto,
infatti,
ha
rinunciato
all’idea
che
il
miglior
interesse
del
paziente
coincide
con
la
ricerca
della
sua
salute.
C’è
stata
recentemente
l’erosione
di
alcuni
fra
i
baluardi
che
si
erano
andati
formando
a
difesa
del
paziente
e
della
società.
Prima
di
tutto,
consideriamo
l’informazione
pubblicata
sulle
riviste
mediche.
Tale
informazione
ci
aiuta
a
delineare
meglio
le
decisioni
diagnostiche
e
terapeutiche.
Perché
una
rivista
medica
sia
valida,
occorre
che
pubblichi
informazioni
autorevoli,
aggiornate
e
libere
da
condizionamenti
commerciali.
Ciò
comporta
che
le
associazioni
finanziarie
degli
autori
vengano
allo
scoperto
e
che
non
influenzino
la
pubblicazione
degli
articoli:
solo
così
si
possono
evitare
pregiudizi,
reali
o
apparenti,
basati
sul
conflitto
di
interessi.
Oltre
che
agli
autori,
la
libertà
dal
conflitto
di
interessi
si
deve
estendere
al
processo
direvisione
da
parte
dei
colleghi
di
pari
grado
(peer
review).
Se
coloro
che
assistono
l’editore
nella
selezione
degli
articoli
adatti
alla
pubblicazione
non
sono
a
loro
volta
liberi
rispetto
a
simili
associazioni
finanziarie,
le
possibilità
di
discriminazione
aumentano[1].
La
connessione
fra
aziende
biomediche
e
ricerca
sta
crescendo
rapidamente.
Oltre
al
supporto
finanziario
direttamente
volto
alla
ricerca
o
alla
sperimentazione
terapeutica,
gli
autori
possono
ricevere
compensi
per
consulenza,
far
parte
di
consigli
consultivi
(advisory
board),
possedere
capitali
azionari,
avere
diritti
di
brevetto,
ricevere
onorari
per
conferenze
o
per
deposizione
ai
processi
in
qualità
di
esperti.
Di
recente
il
New
England
Journal
of
Medicine[2]
e,
per
illazione,
il
Journal
of
the
American
Medical
Association[3],
hanno
modificato
le
loro
politiche
editoriali
in
modo
che
gli
autori
sia
di
articoli
originali
che
di
rassegne
e
di
editoriali
non
abbiano
interessi
finanziari
“significativi”
all’interno
di
una
società
(o
dei
suoi
concorrenti)
che
causa
la
discussione
di
un
prodotto
all’interno
di
un
articolo.
Il
NIH
(National
Institute
of
Health)[4]
e
la
Association
of
American
Medical
Colleges[5]
hanno
parimenti
ammorbidito
i
requisiti
relativi
alle
associazioni
finanziarie,
con
i
possibili
pregiudizi
da
ciò
derivanti.
Tale
tentativo
ha
lo
scopo
di
quantificare
in
quale
misura
le
associazioni
possono
produrre
pregiudizi.
Il
provvedimento
chiave
sarebbe
quello
stabilire
il
limite
superiore
della
somma
annuale
percepita
dagli
autori,
oltre
il
quale
si
può
147
valutare
un
rapporto
finanziario
come
“significativo”.
Attualmente
il
livello
è
di
10.000
$.
Al
di
sopra
di
questo
tetto,
ogni
patrimonio
finanziario
in
cui
il
potenziale
profitto
non
è
limitato,
come
nel
caso
di
azioni,
opzioni
e
possesso
di
brevetti,
risulterebbe
probabilmente
un
elemento
squalificante.
La
giustificazione
di
tali
mutamenti
nella
politica
editoriale
pare
essere
l’incapacità
di
eleggere
un
numero
di
autori
e/o
di
revisori
adeguato
a
portare
avanti
le
funzioni
delle
riviste,
dal
momento
che
moltissimi
accademici
e
clinici
sono
coinvolti
in
complicate
relazioni
finanziarie
con
case
farmaceutiche[6].
Inevitabilmente
il
risultato
della
politica
sarà
l’accresciuta
possibilità
di
ricorrenza
del
conflitto
di
interessi,
nonché
una
ridotta
sicurezza
nell’affidabilità
dei
dati
pubblicati.
Ciò
si
estenderà
non
solo
al
processo
decisionale
dei
medici
e
dei
ricercatori,
ma
anche
al
grande
pubblico.
Quasi
tutti
i
principali
mezzi
di
comunicazione
degli
Stati
Uniti
hanno
un
editore
scientifico
e
uno
staff
che
si
occupa
della
letteratura
medica
corrente,
spesso
basandosi
su
sommari
e
annunci
pubblicati
dalle
riviste
stesse
al
fine
di
promuoverle.
Fornire
un
simile
servizio
rappresenta
una
cospicua
fonte
di
reddito,
ad
esempio,
per
l’Associazione
Medica
Mondiale.
Un
solo
caso:
un
articolo
del
New
England
Journal
sull’RU
486
(Silvestre
L.
et
Al.
New
Eng
J
Med
322:
645,
1990)
concludeva
che
l’RU
486
è
“efficace
e
sicura”.
Coloro
che
ritenevano
i
dati
forniti
eccessivamente
fiduciosi
e
rassicuranti
poterono
rinforzare
le
loro
preoccupazioni
grazie
alla
rivelazione,
effettuata
in
una
sede
autorevole,
che
tutti
i
sei
autori
erano
dipendenti
della
Roussel-‐Uclef,
che
produceva
l’RU
486
e
contava
su
ingenti
profitti
dalla
vendita
del
prodotto.
Venire
a
conoscenza
del
fatto
che
il
sedicente
articolo
“scientifico”
fosse
in
realtà
un
pezzo
promozionale
camuffato
poteva
dare
origine
ad
un
salutare
cinismo
da
parte
del
lettore.
E
tuttavia
l’infondato
entusiasmo
per
il
prodotto
fu
incoraggiato
come
dato
di
fatto
non
solo
dal
produttore,
ma
anche
dall’intero
apparato
pubblicitario
delle
lobby
abortiste
e
dai
suoi
collaboratori
nei
mezzi
di
comunicazione.
Una
nostra
delegazione
della
Catholic
Medical
Association
incontrò
il
direttore
esecutivo
e
il
comitato
di
redazione
dello
JAMA
per
manifestare
perplessità
sul
fatto
che
nel
corso
dei
precedenti
tre
anni
erano
stati
pubblicati
circa
quindici
articoli
pro-‐aborto
e
nemmeno
uno
contro.
Il
pregiudizio
editoriale
venne
negato
con
veemenza.
Tuttavia,
successivamente,
entrammo
in
possesso
di
un
memorandum
interno[7],
fornitoci
da
un
impiegato
dello
JAMA,
che
informava
il
comitato
editoriale
dello
JAMA
come,
di
fatto,
la
loro
politica
fosse
quella
dimostrata,
cioè
di
non
pubblicare
studi
contrari
all’aborto
o
studi
statistici
sfavorevoli
all’aborto.
Se
questo
pregiudizio
ideologico
ora
venisse
accresciuto
dal
potenziale
discriminatorio
fondato
sul
rendiconto
economico,
la
professione
medica
e
l’opinione
pubblica
verrebbero
completamente
compromesse.
Il
presidente
Bush
è
stato
di
recente
chiamato
a
prendere
decisioni
salomoniche
riguardo
alla
ricerca
sulle
cellule
staminali.
Fu
certamente
una
decisione
perfetta
quella
che
lo
portò
a
compiere
l’importante
distinzione
fra
cellule
staminali
embrionali
(prodotte
da
embrioni
creati
con
lo
scopo
di
ucciderli
per
procacciarsi
cellule
staminali)
e
cellule
staminali
derivanti
da
adulto
(da
fonti
come
il
sangue
del
cordone
ombelicale,
il
midollo
osseo,
ecc.),
come
pure
quella
di
vietare
i
fondi
federali
per
la
creazione
di
nuove
linee
di
cellule
staminali
embrionali;
tuttavia,
il
presidente
ritenne
ammissibile,
nella
sua
linea
di
condotta,
la
conservazione
delle
linee
cellulari
embrionali
già
esistenti.
Ma
quando
un
albero
è
avvelenato
lo
sono
anche
i
frutti;
infatti,
poiché
le
cellule
staminali
derivanti
da
adulto
avevano
oramai
soppiantato
le
cellule
staminali
embrionali
sia
nella
pratica
clinica
che
nei
laboratori,
risultava
difficile
comprendere
l’insistenza
dogmatica
da
parte
della
comunità
scientifica
sulla
superiorità
e
sulla
necessità
di
linee
cellulari
embrionali.
Si
scoprì
poi
che
molte
delle
linee
cellulari
embrionali
esistenti
avevano
avuto
il
permesso
di
essere
conservate
perché
di
fatto
erano
possedute
da
università
e
da
altre
imprese
decisamente
148
intenzionate
a
trarre
profitto
dalla
diffusione
e
dalla
distribuzione
di
cellule
staminali
embrionali
per
la
ricerca.
Durante
il
dibattito
sulla
clonazione[8]
al
Congresso
degli
Stati
Uniti,
fu
rivelato
che
esistevano
tre
brevetti
di
clonazione
umana
in
attesa
all’ufficio
brevetti
USA.
Il
promotore
dell’atto
di
proibizione
sulla
clonazione
umana
(Human
Cloning
Prohibition
Act),
il
senatore
Brownback,
precisò
che
l’idea
di
uccidere
una
persona
per
trovare
un
terapia
a
vantaggio
di
un’altra
persona
è
una
falsa
compensazione,
che
trascura
i
progressi
compiuti
con
altre
fonti
di
cellule
staminali
non
embrionali.
Ancora
più
preoccupante
è
la
prospettiva
di
coloro
che,
in
seno
alla
società
americana,
possiedono,
commerciano,
comprano
e
vendono
persone
(clonate)
come
fossero
di
loro
proprietà.
Tale
questione
deve
essere
inclusa
nel
dibattito
sulla
clonazione.
Quando
il
senatore
Brownback
propose
l’emendamento
sulla
non
brevettabilità
umana
per
proscrivere
i
cloni
umani
in
attesa
di
diritto
di
brevetto[9]
fu
sconfitto,
e
ciò
accadde
lo
stesso
giorno
in
cui
un’equipe
dell’Università
del
Minnesota
riportò
la
versatilità
delle
cellule
staminali
da
adulto
e
la
loro
capacità
di
convertirsi
in
centinaia
di
cellule
specializzate
del
corpo,
assumendone
la
forma[10].
Jonathan
Swift
diceva:
“la
falsità
vola
e
la
verità
giunge
lenta
più
tardi,
così
che
quando
per
gli
uomini
arriva
la
disillusione,
lo
scherzo
è
finito
e
la
finzione
ha
già
ottenuto
il
suo
effetto”.
La
cultura
della
morte,
che
ha
chiaramente
controllato
negli
ultimi
trent’anni
la
stampa
e
i
media,
mostra
ora
una
sinistra
inclinazione
verso
il
controllo
della
letteratura
scientifica
e
perciò
dei
processi
politici.
Attraverso
il
potente
incentivo
del
profitto
si
fa
largo
l’evidente
conflitto
di
interessi
fra
l’investigazione
scientifica
obiettiva
e
la
scienza
difensiva
in
cerca
di
un
tornaconto
economico.
L’ultima
perversione
del
commercio
nella
ricerca
medica
potrebbe
diventare
la
vendita
di
parti
del
corpo
per
scopi
di
sperimentazione.
La
reale
fattibilità
di
un
business
attivo
riguardante
le
parti
del
corpo
fetale
è
stata
l’oggetto
di
numerose
ricerche
da
parte
delle
agenzie
investigative
pro-‐life.
Si
è
dimostrato
che
questa
emanazione
dell’industria
abortista
intende
pubblicizzare
la
disponibilità
di
organi
provenienti
da
bambini
abortiti
nelle
riviste
scientifiche.
Non
si
tratta
di
semplici
illazioni,
ma
di
fatti
innegabili,
poiché
sono
stati
presentati
veri
annunci
pubblicitari
che
contengono
listini
dei
prezzi
di
tessuti
umani.
Sono
state
scoperte
offerte
come
“fegato
fetale,
reni
fetali
del
secondo
trimestre,
tessuto
dell’isola
pancreatica
ciascuna
con
lista
dei
prezzi
allegata,
predisposte
dai
cosiddetti
“laboratori”
che
sono
in
affari
con
le
fonti
abortiste[11].
Esiste
attualmente
un
movimento
che
opera
affinché
sia
ammesso
un
compenso
per
i
donatori
d’organi
da
parte
di
potenziali
beneficiari.
Al
momento
l’Atto
nazionale
sui
Trapianti
d’organo
(National
Organ
Transplant
Act)
dichiara
che
“chiunque
consapevolmente
acquisti,
riceva
o
in
altro
modo
trasferisca
un
organo
umano
per
trapianto
a
scopo
oneroso”
commette
un
atto
illegale.
L’Associazione
Medica
Americana
(AMA)
ha
richiesto
uno
studio
che
indaghi
la
possibilità
di
pagamento
ai
donatori
per
i
loro
organi[12].
Lo
sfondo
di
un
simile
cambiamento
totale
di
prospettiva
politica
è,
come
è
ovvio,
l’annuale
diminuzione
della
disponibilità
di
donazioni
d’organo.
Il
database
della
United
Network
for
Organ
Sharing
indica
che
ci
sono
attualmente
75000
pazienti
in
attesa
di
un
organo.
Un
terzo
fra
quelli
che
aspettano
un
trapianto
di
cuore
o
di
fegato
moriranno
prima
che
l’organo
sia
disponibile.
La
fonte
primaria
di
organi
provenienti
da
donatori
sarebbe
la
cosiddetta
donazione
da
Cadavere
a
Cuore
Battente.
Si
tratta
di
pazienti
che
hanno
subito
la
cessazione
irreversibile
e
totale
delle
funzioni
cerebrali
e
che
sono
tenuti
sotto
ventilazione
meccanica
nelle
unità
di
terapia
intensiva.
Essi
rappresenterebbero
una
risorsa
pari
a
10-‐12
mila
potenziali
donatori
l’anno,
ma,
nonostante
l’intensa
campagna
di
sensibilizzazione
pubblica,
la
proporzione
di
potenziali
donatori
non
è
cresciuta
a
sufficienza[13].
Fra
le
motivazioni
ci
sono
state
il
maggior
affidamento
riposto
nei
149
donatori
viventi
(di
reni),
i
trapianti
parziali(di
fegato
e
polmoni)
e
quelle
fonti
di
reperimento
di
carattere
eticamente
discutibile,
come
i
neonati
anencefalici
e
gli
animali[14].
Un’altra
potenziale
sorgente
di
organi
trapiantabili
sono
i
pazienti
dichiarati
morti
secondo
i
tradizionali
criteri
cardio-‐polmonari,
e
non
sulla
morte
cerebrale.
Il
successo
dei
trapianti
che
utilizzano
gli
organi
provenienti
da
quest’ultima
fonte
sono
limitati
a
causa
dei
problemi
causati
dall’ischemia
a
caldo.
Questi
cadaveri
a
cuore
non
battente
rientrano
generalmente
in
due
categorie:
1)
morte
cardio-‐polmonare
non
controllata
(normalmente
nelle
sale
del
pronto
soccorso)
e
2)
morte
controllata
per
tempo
e
luogo.
Questa
seconda
categoria
segue
un
metodo
comunemente
conosciuto
come
protocollo
di
Pittsburgh[15].
Secondo
tale
protocollo,
le
famiglie
che
hanno
deciso
di
rinunciare
ai
mezzi
di
sostentamento
vitale
vengono
convocati
per
proporre
loro
la
donazione
d’organi.
Il
tempo
dell’ischemia
a
caldo
è
reso
minimo
portando
il
paziente
in
sala
operatoria,
ivi
sospendendo
il
supporto
vitale
e
rimuovendo
gli
organi
immediatamente
o
poco
dopo
la
dichiarazione
di
morte.
Le
questioni
etiche
sollevate
dall’utilizzo
di
cadaveri
a
cuore
non
battente
in
qualità
di
donatori
hanno
a
che
fare
con
il
processo
di
ottenimento
del
consenso,
con
la
questione
dell’irreversibilità
e
con
quella
della
dichiarazione
precoce
di
morte.
Si
presentano
inoltre
intuitivi
problemi
legati
al
fatto
che
la
procedura
pare
attuarsi
e
risolversi
dichiarando
morto
il
paziente
solo
dopo
averlo
allontanato
dai
parenti
stretti
e
averlo
condotto
in
una
sala
operatoria.
Le
forze
di
mercato
hanno
iniziato
ad
indebolire
il
principio
della
donazione
disinteressata
da
parte
dei
donatori
viventi
attraverso
la
possibilità
di
reperire
organi
fuori
dagli
Stati
Uniti.
Gli
americani
comprano
organi
dalla
Cina,
dal
Perù
e
dalle
Filippine,
poi
ritornano
negli
Stati
Uniti
per
effettuare
la
terapia
dei
trapianti[16].
Un’altra
sfida
ai
principi
altruistici
che
sottendono
l’Atto
è
l’aumentata
frequenza
delle
donazioni
di
rene
da
parte
di
pazienti
non
legati
ai
beneficiari,
dal
momento
che
non
è
più
necessaria
l’affinità
genetica.
Si
danno
perciò
possibilità
di
acquisto
illegale
e
di
profitto
illegale
che
vanno
al
di
là
del
controllo
dei
centri
per
i
trapianti[17].
Il
movimento
per
la
liberalizzazione
della
normativa
che
regola
il
libero
mercato
nella
compravendita
di
organi
accresce
lo
spettro
di
una
guerra
dell’offerta,
nella
quale
candidati
facoltosi
ma
meno
bisognosi
di
trapianto
acquisiscono
la
priorità
su
candidati
poveri
che
non
hanno
la
possibilità
di
comprare
organi.
Un
economista
afferma
che
gli
individui
meno
abbienti
potrebbero
comunque
accedere
a
prestiti
per
acquistare
organi,
come
fanno
oggi
per
acquistare
la
macchina
o
la
casa.
Tuttavia,
cosa
accadrebbe
se
l’acquirente
fosse
incapace
di
restituire
il
debito?
Abbiamo
qualche
sistema
per
confiscare
o
riavere
un
rene?
L’attuale
sistema
per
conferire
incentivi
etici
o
umanitari
alle
donazioni
dovrebbe
tutela
la
distribuzione
non
discriminatoria
degli
organi
in
base
al
criterio
della
maggior
necessità[18].
Risulterebbe
impossibile
controllare
criteri
di
brocheraggio
negli
Stati
Uniti.
Se
l’attuale
proibizione
del
commercio
d’organi
fosse
annullata,
non
ci
sarebbero
giustificazioni
legali
per
impedire
alle
persone
di
aggirare
il
sistema
regolativo
e
entrare
in
concorrenza
all’interno
di
un
mercato
senza
controllo.
Portare
l’attenzione
sulla
potenziale
iniquità
di
un
simile
mercato
e
sulla
preferibilità
di
rafforzare
gli
incentivi
etici
(riconoscimenti
pubblici,
restituzione
delle
spese
funerarie
o
delle
tasse)
sarebbe
il
modo
migliore
per
sostenere
l’interesse
generale
della
società[19].
Occorre
anche
spendere
qualche
parola
sul
bioterrorismo,
un
conflitto
d’interessi
fondamentale
sorto
dalla
questione
se
un
biologo
debba
pubblicare
un
lavoro
che
può
essere
usato
per
il
male.
L’Accademia
Nazionale
delle
Scienze
ha
riunito
un
gruppo
di
esperti
per
studiare
come
prevenire
le
applicazioni
distruttive
delle
biotecnologie
avanzate[20].
Studi
recenti
sull’epidemia
di
virus
influenzale
del
1918,
svolti
dall’Istituto
di
Patologia
delle
Forze
Armate,
hanno
indicato
quali
risorse
potenziali
occorrano
per
ricostruire
il
virus
del
1918
rendendolo
più
resistente
al
sistema
150
immunitario[21].
Sono
stati
pubblicati
studi
analoghi
che
dimostrano
come
manipolare
i
microrganismi
perché
si
diffondano
più
rapidamente,
resistano
ad
antibiotici
e
vaccini,
e
possano
rappresentare
perciò
armi
più
efficaci
per
il
bioterrorismo.
Il
problema
se
tali
informazioni
debbano
essere
disponibili
nelle
riviste
è
certamente
grave.
Fra
gli
esperti
di
armi
biologiche
del
governo
e
la
Società
Americana
di
Microbiologia
è
sorto
un
conflitto
di
interessi
sulla
questione
se
in
questi
casi
vi
debba
essere
una
speciale
peer
review.
Neanche
a
dirlo,
gli
scienziati
sono
assai
restii
ad
accettare
l’idea
che
il
loro
lavoro
o
dei
dati
importanti
debbano
essere
sottoposti
a
censura
per
ragioni
politiche.
Sebbene
i
conflitti
di
interessi
non
siano
evidenziabili
all’interno
del
sistema
medico
tanto
quanto
lo
sono
nel
sistema
capitalista,
essi
sono
tuttavia
inevitabili
in
un
sistema
basato
sul
privato,
sia
nella
forma
del
pagamento
a
servizio
(fee
for
service)
che
in
quella
della
assistenza
sanitaria
managerizzata
(managed
care).
La
principale
difesa
contro
l’intrusione
di
questioni
politiche
o
economiche
nell’assistenza
medica
è
il
ritorno
al
sistema
ippocratico
dell’etica
medica,
che
resta
attuabile
in
tutte
le
culture
e
in
tutte
le
forme
di
risarcimento.
Infine,
un’altra
opportunità
di
conflitto
di
interessi
consiste
nella
cosiddetta
“scienza
difensiva”.
Essa
consiste
nell’avanzare
pretese
di
supposta
“scientificità”
o
nel
rifiutare
le
pretese
contrarie,
basandosi
non
sulla
qualità
dei
dati
implicati,
ma
su
un
intenzioni
politiche
nascoste
o
sulla
ricerca
della
correttezza
politica.
Troviamo
la
principale
occasione
di
impiego
della
scienza
difensiva
nella
ricerca
sull’eziologia
e
sul
trattamento
dell’omosessualità
o
dei
disordini
attrattivi
verso
lo
stesso
sesso.
I
media
hanno
promosso
l’idea
che
sia
stato
già
scoperto
un
“gene
del
gay”,
e
vi
sono
state
alcune
organizzazioni
professionali
che
non
hanno
disconosciuto
tale
assunzione.
Se
l’attrazione
verso
lo
stesso
sesso
fosse
determinata
geneticamente,
allora
ci
si
potrebbe
aspettare
che
i
gemelli
identici
siano
identici
anche
nell’attrazione
sessuale.
Invece,
molti
studi
mostrano
come
gemelli
identici
abbiano
tendenze
sessuali
differenti[22-‐23-‐24].
Tuttavia,
assistiamo
a
crescenti
tentativi
per
convincere
il
grande
pubblico
che
l’attrazione
verso
lo
stesso
sesso
è
geneticamente
fondata.
Tali
tentativi
sono
motivati
politicamente
da
un
presupposto,
e
cioè
che
l’opinione
pubblica
risponda
in
modo
verosimilmente
più
favorevole
a
mutamenti
di
legge
e
di
insegnamento
religioso
se
crede
che
l’attrazione
verso
lo
stesso
sesso
sia
geneticamente
determinata
e
immutabile.
Una
controversia
analoga
si
ritrova
nella
questione
se
la
condizione
omosessuale
sia
curabile
e
reversibile.
All’interno
del
dibattito
fra
essenzialismo
e
costruttivismo
sociale,
chi
crede
nella
legge
naturale
sosterrà
che
l’essere
umano
ha
una
natura
essenziale
–
maschio
o
femmina
–
e
che
inclinazioni
peccaminose
come
il
desiderio
di
coinvolgersi
in
atti
omosessuali
sono
costruite,
e
pertanto
possono
essere
demolite.
Alcuni
membri
dell’American
Psychiatric
Association,
invece,
sono
giuntiad
asserire
che
tali
tentativi
di
cambiare
gli
omosessuali
non
sono
solo
senza
successo,
ma
anche
non
etici.
Tuttavia,
un
certo
numero
di
terapeuti
ha
scritto
diffusamente
che
la
terapia
riparativa
ha
successo
nel
30%
circa
delle
persone
che
sperimentano
attrazione
per
lo
stesso
sesso,
mentre
un
altro
30%
nota
un
miglioramento[25-‐26-‐27-‐28].
Il
dottor
Robert
Spitzer,
il
noto
ricercatore
psichiatrico
della
Columbia
University
che
fu
in
gran
parte
responsabile
della
rimozione
dell’omosessualità
dalla
lista
APA
dei
disturbi
mentali,
ha
ora
rivelato
che
le
sue
ricerche
più
recenti
mostrano
come
il
cambiamento
prolungato
possa
davvero
essere
raggiunto[29].
Altri
esempi
di
Scienza
Difensiva
sono
il
rifiuto
della
American
Cancer
Society
di
accettare
la
relazione
fra
aborto
e
cancro
della
mammella[30],
nonostante
schiaccianti
evidenze
in
proposito,
e
l’insistenza
del
NIH
sull’efficacia
del
preservativo
nella
prevenzione
dell’AIDS.
Quando,
nel
corso
di
un
importante
convegno
internazionale
che
radunava
i
principali
esperti
di
AIDS,
si
pose
151
la
questione
di
quanti
avrebbero
voluto
avere
un
rapporto
sessuale
con
un
sieropositivo,
pur
dotato
di
preservativo,
nessuno[31]
nell’assemblea
alzò
la
mano.
I
fatti
suggeriscono
con
forza
che
i
burocrati
di
numerose
organizzazioni
professionali
come
l’AMA
e
l’American
College
of
Obstetrics
and
Gynecology
devono
evadere
una
fitta
agenda
di
richieste
di
scuse
per
avere
sostenuto
l’aborto
o
per
aver
supportato
le
lobby
dei
diritti
omosessuali,
nonostante
evidenze
contrarie
e
nonostante
la
diversa
opinione
di
molti
fra
i
membri
di
base.
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La
maggior
parte
delle
ricerche
biomediche
presenta
delle
incertezze
circa
gli
effetti
degli
agenti
impiegati,gli
interventi
eseguiti
e
le
loro
conseguenze
sui
soggetti
di
ricerca.
Per
questa
ragione
tutti
i
partecipanti
agli
studi
sperimentali
sono
di
principio
vulnerabili.
Il
mito
degli
"studi
clinici
esenti
da
rischio"
è
stato
da
tempo
demolito
e
la
categoria
degli
"studi
a
rischio
minimo",
che
lo
ha
sostituito,
non
risulta
di
facile
definizione
ed
applicazione.[1]
La
vulnerabilità
è
considerata
un'espressione
universale
della
condizione
di
limitatezza
dell'uomo
che
caratterizza
la
sua
esistenza
terrena
dal
principio
sino
alla
morte,
e
«la
particolare
vulnerabilità
dei
soggetti
di
ricerca»[2]
è
stata
da
lungo
tempo
riconosciuta.
Tuttavia,
«le
condizioni
e
le
circostanze
da
cui
origina
la
vulnerabilità
sono
state
messe
a
fuoco
solo
molto
recentemente».[3]
Il
termine
"vulnerabilità"
deriva
dal
latino
vulnus,
una
ferita
che
può
guarire
o
risultare
anche
mortale.
Similmente,
l'uso
contemporaneo
del
termine
si
riferisce
a
«uno
stato
di
esposizione
e
di
incapacità
a
resistere
al
danno,
alla
malattia,
alla
lesione,
all'insulto,
alla
debolezza
o
alla
tentazione».[4]
Nel
presente
contesto,
per
vulnerabilità
si
intende
la
condizione
di
alcuni
individui
–
intrinseca
o
situazionale
–
che
li
espone
ad
un
rischio
maggiore
di
venire
arruolati
in
un
progetto
di
ricerca
eticamente
scorretto.
A
ben
vedere,
il
concetto
di
vulnerabilità
orienta
in
due
direzioni.
Da
una
parte,
la
vulnerabilità
costituisce
una
debolezza
che
caratterizza
il
soggetto
stesso:
«uno
stato
di
assenza
di
protezione
o
di
particolare
esposizione
nei
confronti
di
qualcosa
di
nocivo
o
che
risulti
comunque
indesiderabile».[5]
D'altra
parte,
il
termine
ci
ricorda
che
esistono
persone
«che
sono
disposte
a
trarre
profitto
da
tale
debolezza»,[6]
sfruttando
(intenzionalmente
o
negligentemente)
questa
opportunità
ed
avvantaggiandosi
in
modo
disonesto
a
detrimento
del
soggetto.
Nella
maggior
parte
delle
ricerche
e
delle
situazioni
cliniche,
i
soggetti
possono
risultare
vulnerabili
sia
in
conseguenza
della
loro
limitata
capacità
di
decidere
(come
nel
caso
dei
bambini
e
degli
adulti
con
disabilità
mentale)
o
di
attuare
una
decisione
(come
nel
caso
dei
prigionieri),
sia
perché
sono
particolarmente
esposti
al
rischio
di
sfruttamento
(soggetti
il
cui
status
morale
non
è
adeguatamente
riconosciuto
o
protetto
in
un
certo
ambiente
di
ricerca
o
nella
società).
Un
resoconto
completo
della
vulnerabilità
nella
ricerca
biomedica
dovrebbe
considerare
entrambe
le
tipologie,
la
seconda
delle
quali
risulta
connessa
al
concetto
di
sfruttamento.
Al
pari
della
vulnerabilità,
lo
sfruttamento
è
diventato
in
tempi
recenti
una
questione
accesa
nell'ambito
dell'etica
della
ricerca.[7]
Tuttavia,
il
concetto
di
sfruttamento
non
è
esente
da
alcune
ambiguità
che
richiedono
una
chiarificazione
nel
contesto
della
ricerca
biomedica.
Secondo
Ruth
Macklin,
mentre
«nessuno
è
a
favore
dello
sfruttamento»
e
«risulta
facile
raggiungere
un
accordo
su
questo
punto
[...],
il
consenso
svanisce
quando
si
esaminano
le
diverse
posizioni
nei
casi
specifici».[8]
In
un
recente
saggio,[9]
David
Resnik
ha
fornito
un'analisi
ragionata
dello
sfruttamento
(in
generale)
e
ha
applicato
questa
analisi
ad
alcuni
contesti
della
ricerca
biomedica.
L'Autore
sostiene
che
non
tutta
la
"ricerca
sfruttativa"
risulta
eticamente
inaccettabile:
uno
studio
può
apparire
prima
facie
come
uno
sfruttamento,
ma
essere
moralmente
giustificato
in
alcune
situazioni.
Perciò,
«qualificare
uno
studio
come
sfruttamento
non
risolve
definitivamente
le
questioni
circa
la
moralità
dello
studio»
stesso.[10]
Tuttavia,
occorre
considerare
che
«esistono
atti
che,
per
se
stessi
e
in
se
stessi,
indipendentemente
dalle
circostanze,
sono
sempre
gravemente
illeciti
in
ragione
del
loro
oggetto».[11]
Questi
atti
includono
«tutto
ciò
che
è
contro
la
vita
stessa,
come
ogni
specie
di
omicidio,
il
genocidio,
154
l'aborto,
l'eutanasia
e
lo
stesso
suicidio
volontario;
tutto
ciò
che
viola
l'integrità
della
persona
umana,
come
le
mutilazioni,
le
torture
inflitte
al
corpo
e
alla
mente,
gli
sforzi
per
violentare
l'intimo
dello
spirito»;
e
«tutto
ciò
che
offende
la
dignità
umana»
e
tratta
gli
individui
«come
semplici
strumenti
di
guadagno,
e
non
come
persone
libere
e
responsabili».[12]
Ogniqualvolta
lo
sfruttamento
di
un
soggetto
di
ricerca
comporta
un
atto
che
attenta
alla
sua
vita,
alla
sua
integrità
ed
alla
sua
dignità
umana,
o
tratta
il
soggetto
semplicementecome
mezzo,
e
non
allo
stesso
tempo
come
un
fine
in
se
stesso,[13]
nessuna
circostanza
clinica
o
intenzione
terapeutica
può
“trasformare
un
atto
intrinsecamente
disonesto
per
il
suo
oggetto
in
un
atto
"soggettivamente"
onesto
o
difendibile
come
scelta”.[14]
L'analisi
dello
sfruttamento
è
stata
condotta
da
vari
autori
a
partire
da
fondamenti
differenti.
Esistono
valutazioni
dello
sfruttamento
che
si
rifanno
alla
dottrina
kantiana,
altre
a
quella
del
libero
arbitrio
o
alla
teoria
marxista,
ma
non
sono
le
sole.[15]
Sviluppando
il
concetto
di
sfruttamento
iniquo
di
Alan
Wertheimer,[16]
Resnik
sostiene
che
vi
sono
tre
elementi
di
base
dello
sfruttamento
–
il
danno,
la
mancanza
di
rispetto
e
l'ingiustizia
–
e
che
in
tutti
i
casi
di
sfruttamento
è
coinvolto
almeno
uno
di
questi
elementi.[17]
Tuttavia,
mentre
è
conveniente
per
scopi
analitici
distinguere
tra
differenti
aspetti
dello
sfruttamento,
in
pratica
tali
aspetti
spesso
si
sovrappongono
ed
interagiscono
tra
di
loro.
Inoltre,
vi
sono
diversi
gradi
di
sfruttamento,
che
variano
da
atti
gravissimi,
quali
la
pratica
della
schiavitù
o
il
commercio
di
organi
umani,a
situazioni
di
sfruttamento
più
contenuto,
come
il
coprirsi
della
gloria
altrui
o
usare
per
scopi
di
ricerca,
senza
il
consenso
specifico
del
paziente,
dei
campioni
di
sangue
in
esuberanza.
Poiché
la
ricerca
biomedica
si
accompagna
spesso
ad
una
somma
di
benefici
e
di
danni
per
i
soggetti,
le
situazioni
possono
risultare
ancora
più
complesse.
Nel
caso
di
un
protocollo
clinico
non
strettamente
terapeutico,
dove
il
rapporto
beneficio/danno
non
risulta
favorevole
per
il
soggetto
di
ricerca
ma
lo
è
per
altri
pazienti,
tale
ricerca
dovrebbe
essere
considerata
uno
sfruttamento?
Secondo
l'argomentazione
di
Resnik,
sebbene
alcune
considerazioni
etiche
–
come
il
consenso
informato
espresso
dal
soggetto
e
l'assenza
di
un
elevato
rischio
di
danneggiare
seriamente
la
vita
e
l'integrità
dello
stesso
soggetto
–
possono
giustificare
l'esperimento,
il
protocollo
«è
tuttavia
uno
sfruttamento».[18]
Negli
studi
dai
quali
i
singoli
pazienti
non
possono
aspettarsi
un
beneficio
sostanziale,
il
dilemma
morale
è
se
il
danno
inferto
a
ciascuno
di
questi
soggetti
può
essere
giustificato
tenendo
conto
dei
benefici
di
cui
godranno
altri
pazienti.
Alcuni
autori
ritengono
che
“esistono
buone
ragioni
per
considerare
tutta
la
ricerca
come
essenzialmente
non-‐
terapeutica”,[19]
essendo
ogni
conseguenza
terapeutica,
considerata
in
riferimento
a
ciascun
individuo
che
è
soggetto
della
ricerca,
una
caratteristica
del
tutto
contingente
del
medesimo
processo
di
ricerca.[20]
Altri
obiettano
che,
nelle
fasi
avanzate
dei
trial
clinici,
la
conoscenza
della
efficacia
di
un
nuovo
trattamento
è
così
elevata
che
è
molto
probabile
che
i
soggetti
di
ricerca
ne
traggano
un
beneficio.
Il
dibattito
è
tuttora
aperto
e
non
sarà
affrontato
in
questa
sede.
Tuttavia,
si
può
osservare
come
diversi
autori
concordino
nel
ritenere
che,
«in
un
contesto
di
ricerca,
lo
sfruttamento
si
traduce
in
una
questione
di
rischi
e
di
benefici,
e
non
di
volontarietà».[21]
Perciò,
le
soluzioni
adottate
per
proteggere
i
potenziali
soggetti
di
ricerca
dalla
coercizione
sono
differenti
da
quelle
necessarie
per
proteggerli
dallo
sfruttamento.
Il
consenso
informato,
sia
personale
che
per
procura,
non
può
prevenire
il
possibile
sfruttamento
dei
soggetti
di
ricerca.
La
vulnerabilità
nella
ricerca
biomedica
Il
rischio
è
la
probabilità
che
un
danno
possa
verificarsi,[22]
e
una
valutazione
del
rischio
dovrebbe
contenere
dei
giudizi
di
probabilità:
«la
quantificazione
del
rischio
implica
un
esame
sia
del
grado
o
della
grandezza
del
danno
che
potrebbe
manifestarsi
sia
della
possibilità
che
tale
155
danno
si
verifichi».[23]
Un
soggetto
può
venire
danneggiato
in
conseguenza
di
una
aumentata
suscettibilità
nei
confronti
di
condizioni
solitamente
meno
nocive,
oppure
il
danno
connesso
alla
ricerca
può
derivare
dallo
sfruttamento
di
una
o
più
delle
sue
debolezze
fisiche
e
non
fisiche.
In
funzione
di
questo,
la
vulnerabilità
può
essere
classificata
sulla
base
della
natura
del
danno
per
il
quale
i
soggetti
di
ricerca
sono
a
più
elevato
rischio
(tipo
di
rischio)
o
in
riferimento
alla
ragione
per
la
quale
questi
soggetti
sono
vulnerabili
(tipo
di
vulnerabilità).
Levine[24]
ha
classificato
i
rischi
dei
soggetti
della
ricerca
biomedica
in
quattro
categorie:
fisico,
psicologico,
sociale
edeconomico.
Sebbene
adottata
frequentemente
dagli
Institutional
Review
Board
(IRB)
e
dagli
Ethical
Committee
(EC),
questo
elenco
di
danni
potenziali
non
è
completo
e
tralascia
due
altri
tipi
di
danno,
di
natura
differente:
quello
legale
e
quello
nella
dignità.
Le
sei
categorie
non
si
escludono
reciprocamente
e
più
di
un
tipo
di
danno
può
essere
presente
in
un
determinato
studio.
I
termini
danno("harm")
e
lesione("injury")
hanno
acquisito
un
significato
distinto
nel
diritto,
ma,
coerentemente
con
altri
saggi,[25]
saranno
in
seguito
usati
scambievolmente
per
quanto
concerne
gli
aspetti
etici
della
vulnerabilità.
I
danni
fisici
si
estendono
fino
a
comprendere,
da
un
lato,
la
morte,
la
menomazione
dello
sviluppo
e
la
lesione
permanente,
e,
dall'altro,
uno
stato
temporaneo
di
malattia,
dolore
o
disagio.[26]
I
danni
psicologici
includono
la
percezione
negativa
di
sé
da
parte
del
partecipante
alla
ricerca,
la
sofferenza
emotiva,
e
le
aberrazioni
cognitive
e
comportamentali.[27]
I
danni
sociali
si
riferiscono
agli
effetti
negativi
sulle
relazioni
familiari
e
sociali
del
soggetto.
Gli
esempi
comprendono
il
rischio
di
stigmatizzazione
in
conseguenza
del
risultato
positivo
di
un
test
per
l'HIV[28]
o
il
rischio
che
alcuni
studi
genetici
possano
escludere
una
paternità.[29]
I
danni
economici
derivano
dall'onere,
a
carico
dei
partecipanti
ad
una
ricerca,
di
costi
finanziari
(o
dei
loro
equivalenti
in
termini
di
tempo
e
di
lavoro)
non
rimborsati
o
sottostimati.[30]Danni
legali
possono
sopravvenire
nel
corso
di
studi
sul
possesso
e
l'uso
illegale
di
alcune
sostanze,
sugli
abusi
sessuali
o
fisici,
o
su
altri
tipi
di
comportamenti
perseguibili.[31]
Una
particolare
attenzione
dovrebbe
essere
riservata
ai
cosiddetti
danni
alla
dignità,
cioè
le
ingiurie
che
un
soggetto
può
subire
nella
sua
dignità
umana
durante
le
fasi
di
arruolamento,
operativa
o
di
follow-‐up
previste
dal
protocollo
di
ricerca.
I
danni
alla
dignità
sono
una
conseguenza
degli
attentati
ai
diritti
umani,
poiché
«il
fondamento
sul
quale
si
erigono
tutti
i
diritti
umani
è
la
dignità
della
persona».[32]
La
violazione
di
alcuni
diritti
umani
fondamentali
e
inalienabili
–
quali
il
diritto
di
un
essere
umano
a
non
vedere
la
propria
integrità
fisica
e
psicologica
menomata
per
qualsivoglia
ragione
che
non
sia
quella
strettamente
terapeutica
–
risulta
già
compresa
nelle
precedenti
categorie
di
danno.
Tuttavia,
la
dignità
umana
non
è
ristretta
né
riducibile
ai
vari
aspetti
della
vita
fisica,
psicologica,
sociale
ed
economica.
In
quanto
agente
morale,
ogni
essere
umano
gode
di
valori
e
preferenze
personali,
di
una
concezione
del
bene
e
del
male,
e
di
impegni
individuali.
Queste
ed
altre
dimensioni
spirituali
della
vita
umana
sono
profondamente
radicate
nella
«esperienza
originale
o
elementare”
che
costituisce
la
nostra
identità
nel
modo
in
cui
affrontiamo
ogni
realtà,
cioè
quel
«complesso
di
esigenze
e
di
evidenze
con
cui
l'uomo
è
proiettato
dentro
il
confronto
con
tutto
ciò
che
esiste
[...],
talmente
originali
che
tutto
ciò
che
l'uomo
dice
o
fa
da
esse
dipende».[33]
A
questo
livello
ci
troviamo
di
fronte
al
"cuore"
della
dignità
umana.
Questo
"cuore"
è
vulnerabile,
e
la
sua
vulnerabilità
è
testimoniata
da
quell'«indefinibile
disagio
da
cui
si
viene
presi
quando,
ad
esempio,
si
è
trattati
come
oggettodi
interesse
o
di
piacere».[34]
In
termini
kantiani,
la
dignità
umana
è
danneggiata
ogni
volta
che
tu
non
“agisci
in
modo
tale
da
trattare
l'umanità,
così
nella
tua
persona
come
nella
persona
di
ogni
altro,
sempre
insieme
come
fine,
mai
semplicemente
come
mezzo».[35]
Per
evitare
i
danni
alla
dignità
è
necessario
un
profondo
rispetto
per
ogni
dimensione
della
dignità
umana,
compreso
il
senso
religioso,
il
radicale
impegno
della
persona
con
la
vita
ed
il
suo
significato,
qualunque
sia
l'identità
di
tale
significato
della
propria
vita.
A
sua
volta,
la
dignità
umana
si
fonda
sulla
natura
156
propria
e
originaria
dell'uomo
–
«la
natura
della
persona
umana»[36]
–
che
è
«la
persona
stessanell'unità
di
anima
e
di
corpo,
nell'unità
delle
sue
inclinazioni
di
ordine
sia
spirituale
che
biologico
e
di
tutte
le
altre
caratteristiche
specifiche
necessarie
al
perseguimento
del
suo
fine».[37]
Le
ragioni
della
vulnerabilità
Diverse
sono
le
ragioni
per
cui
i
soggetti
di
ricerca
risultano
vulnerabili,
e
gli
ultimi
anni
hanno
visto
un
incremento
degli
studi
sulle
cause
della
vulnerabilità.[38]
Secondo
Kipnis,[39]
esse
possono
venire
raccolte
in
sei
tipologie.
Un
settimo
tipo,
la
vulnerabilità
sociale,
è
stato
aggiunto
da
altri
autori.[40]
La
classificazione
è
alquanto
ridondante,
ma
può
risultare
utile
per
decidere
se
una
particolare
categoria
di
soggetti
è
vulnerabile
oppure
no,
ed
in
quale
misura.
La
vulnerabilità
cognitiva
o
comunicativa
è
la
più
familiare
ai
ricercatori
e,
probabilmente,
è
più
comune
di
quanto
solitamente
riportato.
Le
circostanze
che
suggeriscono
la
presenza
di
questo
tipo
di
vulnerabilità
dovrebbero
comprendere
non
solo
l'immaturità
(come
nel
caso
di
bambini
e
adolescenti),[41]
il
ritardo
mentale,[42]
la
demenza[43]
e
alcune
forme
di
malattia
mentale,[44]
ma
anche
le
carenze
educative
e
la
non
familiarità
con
la
lingua[45]
così
come
le
situazioni
che
non
consentono
agli
adulti,
per
altri
versi
competenti,
di
esercitare
effettivamente
le
loro
capacità
(come
nel
caso
di
emergenze
stressanti).[46]
Questi
deterioramenti
cognitivi
o
comunicativi
influenzano
il
processo
decisionale
del
soggetto
e
limitano
l'autonomia
degli
eventuali
partecipanti
alla
ricerca.
La
vulnerabilità
giuridica
o
istituzionale
si
riferisce
al
caso
di
un
soggetto
che
è
sottoposto
all'autorità
formale
di
altri
(quali
genitori,
tutori,
agenti
di
custodia,
ufficiali
e
giudici)
che
possono
avere
degli
interessi
propri
(vantaggi
privati
o
pubblici)
rispetto
all'assenso
dello
stesso
individuo
al
proprio
arruolamento
in
uno
studio
biomedico.[47]
I
soggetti
possiedono
una
vulnerabilità
deferenziale
–
una
forma
sottile
e
sottostimata
di
vulnerabilità
–
quando
la
loro
subordinazione
decisionale
ad
altri
(come
parenti,
amici,
insegnanti,
medici
e
opinion
makers)
è
il
frutto
di
una
gerarchia
informale.[48]
La
vulnerabilità
medica
può
riguardare
i
potenziali
partecipanti
(pazienti)
che
soffrono
di
malattie
gravi
per
le
quali
non
esistono
trattamenti
standard
disponibili,
efficaci
o
accettabili
(per
esempio,
le
forme
tumorali
molto
aggressive,
gli
ultimi
stadi
dell'AIDS,
alcune
malattie
rare).[49]
A
motivo
della
loro
condizione,
che
esige
una
eccezionale
assistenza
medica,
lo
sfruttamento
di
questi
pazienti
attraverso
la
loro
speranza
di
remissione
o
di
miglioramento
non
è
rara.
I
soggetti
di
ricerca
manifestano
una
vulnerabilità
economica
o
allocativaquando
risultano
svantaggiati
nella
distribuzione
sociale
di
beni
e
servizi
come
il
reddito,
la
casa
o
l'assistenza
sanitaria.
L'offerta
di
un
compenso
per
la
partecipazione,
o
di
accesso
gratuito
a
determinati
servizi
sanitari,
può
costituire
un
incentivo
per
un
arruolamento
ingiusto,
che
passa
attraverso
lo
sfruttamento
di
una
autonomia
economica
ridotta.[50]
Quando
il
reclutamento
dei
soggetti
richiede
o
presuppone,
da
parte
loro,
una
disponibilità
di
risorse
o
di
prestazioni
che
contribuiscono
in
modo
decisivo
alla
loro
sicurezza
personale
nel
corso
dello
studio
(come
un
sistema
rapido
di
comunicazione,
un
regime
dietetico
attendibile
e
dei
professionisti
sanitari
esperti),
i
possibili
partecipanti
sono
esposti
ad
una
vulnerabilità
infrastrutturale.[51]
Da
ultimo,
la
vulnerabilità
sociale
si
riferisce
agli
individui
che
appartengono
a
gruppi
sociali
o
comunità
sottovalutati.[52]
In
alcuni
casi
questo
tipo
di
vulnerabilità
è
subdola
e
insidiosa,
ed
«è
una
funzione
della
percezione
sociale
di
determinati
gruppi,
che
si
accompagna
a
degli
stereotipi
e
può
condurre
ad
una
discriminazione».[53]
Con
l'eccezione
del
primo
tipo
di
vulnerabilità,
quella
cognitiva
o
comunicativa,
che
sconsiglia
la
eleggibilità
di
una
persona
che
ne
è
affetta
al
ruolo
di
chi
viene
autorizzato
adecidere
nel
caso
di
157
un
soggetto
di
ricerca
non
competente,
le
rimanenti
forme
di
vulnerabilità
posso
riguardare
anche
lo
stesso
procuratore.
Per
quanto
concerne
la
ricerca
sugli
embrioni
e
sui
feti
in
utero,
la
naturale
e
prima
scelta
della
persona
che
deve
prendere
una
decisione
per
procura
cade
sulla
madre,
se
essa
è
competente
a
decidere,
non
solo
perché
ci
si
aspetta
che
una
madre
percepisca
e
difenda
i
diritti
del
proprio
figlio
non
ancora
nato
meglio
di
chiunque
altro
(se
questo
non
è
il
caso,
può
sorgere
un
conflitto
etico
e
legale
la
cui
soluzione
è
spesso
molto
difficile),[54]
ma
anche
in
ragione
del
fatto
che
attualmente
ogni
ricerca
sull'embrione
(post-‐impianto)
e
sul
feto
vivente
passa
attraverso
il
corpo
della
madre,
e
in
nessuna
circostanza
ciò
avviene
senza
un
rischio
per
la
gestante.
In
questo
caso
di
consenso
per
procura,
la
vulnerabilità
di
colei
che
è
chiamata
a
decidere
può
essere
una
conseguenza
della
sottomissione
della
madre
ad
una
autorità
formale
(come
nel
caso
dei
i
genitori,
se
essa
è
minorenne),
a
rapporti
informali
di
potere,
istituiti
socialmente
(per
esempio,
con
il
proprio
ostetrico),
o
a
dipendenze
di
natura
più
soggettiva
(come
quelle
che
possono
instaurarsi
con
una
persona
amica
influente).
In
conseguenza
della
diagnosi
prenatale,
la
donna
può
venire
a
conoscenza
di
una
malformazione
o
di
una
malattia
grave
da
cui
è
affetto
il
feto
e
per
la
quale
non
esiste
un
trattamento
efficace
standard.
Se
alla
madre
viene
chiesto
di
partecipare
ad
un
protocollo
sperimentale
di
terapia
fetale,
è
prevedibile
che
la
vulnerabilità
medica
possa
costituire
il
punto
di
maggior
debolezza
del
suo
processo
decisionale.
In
altre
circostanze,
la
madre
può
essere
sola
e
senza
lavoro,
appartenere
ad
una
famiglia
povera
o
vivere
in
un
paese
rurale
e
sottosviluppato,
privo
di
strutture
adeguate
per
un'assistenza
ostetrica.
Infine,
la
gestante
può
appartenere
ad
un
gruppo
sociale
emarginato,
per
esempio,
di
immigrati
o
di
rifugiati.
In
tutti
questi
casi,
la
vulnerabilità
economica,
infrastrutturale
o
sociale
della
madre
espone
il
bambino
non
ancora
nato
ad
un
rischio
maggiore
di
essere
arruolato
in
un
progetto
di
ricerca
che
può
essere
eticamente
scorretto.
Il
non
competente
che
risulta
eleggibile
per
una
ricerca
biomedica
rimane
un
soggetto
potenzialmente
vulnerabile
anche
quando
sia
stato
autorizzato
un
consenso
per
procura
al
fine
di
compensare
il
suo
deficit
cognitivo
o
comunicativo.
Salvo
evidenza
contraria,
una
vulnerabilità
indiretta
–
che
passa
attraverso
il
consenso
per
procura
–
non
può
essere
esclusa,
e
si
dovrebbero
istituire
procedure
etiche
e
strumenti
legali
per
proteggere
il
non
competente
dallo
sfruttamento
di
cui
può
essere
vittima.
Non
si
può
infatti
sempre
presumere
che
il
procuratore
sostenga
con
fermezza
i
diritti
del
rappresentato
o
sia
in
grado
di
proteggerli
incondizionatamente.
I
soggetti
più
vulnerabili
Fino
a
tempi
più
recenti,
la
vulnerabilità
nella
ricerca
biomedica–
in
quanto
caratteristica
etica
propria
di
una
sottopopolazione
di
soggetti
eleggibili
per
gli
studi
sperimentali
–
ha
ricevuto
scarsa
attenzione
sistematica.
Tuttavia,
la
necessità
di
tale
riflessione
era
ormai
evidente
da
qualche
decennio.[55]
Durante
gli
anni
'70,
negli
Stati
Uniti,
alcuni
episodi
di
ricerca
scorretta
ampiamente
discussi
(come
lo
studio
sull'epatite
nei
bambini
della
Willowbrook
State
School,[56]
la
ricerca
oncologica
sugli
anziani
debilitati
e
sui
pazienti
indigenti
presso
il
Brooklyn
Jewish
Chronic
Disease
Hospital[57]
e
lo
studio
sulla
sifilide
a
Tuskegee,
condotto
su
uomini
di
origine
afro-‐americana
poveri
e
ignoranti[58]),
mentre
sono
stati
all'origine
delle
attuali
procedure
per
assicurare
la
conduzione
etica
delle
ricerche
nelle
scienze
biologiche
e
mediche,
hanno
anche
messo
in
luce
come
queste
procedure
(che
comprendono
la
considerazione
della
validità
e
del
valore
scientifico
di
uno
studio,
l'analisi
dei
rischi
e
dei
potenziali
benefici,
ed
il
consenso
informato)
non
riescono
sempre
ad
impedire
che
i
ricercatori
sfruttino
(intenzionalmente
oppure
no)
alcune
debolezze
degli
individui
e
dei
gruppi
sociali
che
li
rendono
maggiormente
esposti
a
venire
coinvolti
in
trial
sperimentali
e
clinici
ad
elevato
rischio.
I
casi
precedentemente
ricordati
158
ed
diversi
altri
hanno
sollevato
il
dubbio
circa
l'opportunità
di
lasciare
il
giudizio
sulla
partecipazione
di
un
soggetto
ad
uno
studio
alla
sola
discrezione
dei
ricercatori.
Sin
dagli
albori
della
bioetica
la
richiesta
di
una
protezione
speciale
per
gli
individui
e
le
popolazioni
vulnerabili[59]
è
stata
presente
in
ogni
manuale
e
in
ogni
corso
che
affrontava
l'etica
della
medicina
e
della
ricerca.
Nell'identificare
i
soggetti
vulnerabili
della
ricerca
biomedica
un
ruolo
particolare
viene
attribuito
all'analisi
dei
rischi
e
dei
potenziali
benefici
per
i
partecipanti
ed
alle
procedure
di
selezione
dei
soggetti
nei
protocolli
di
ricerca.
Il
riferimento
al
concetto
di
"rischio
minimo"
è
spesso
presente
(vedi
sopra,
nota
1).
Per
esempio,
questo
concetto
è
centrale
nello
schema
per
l'analisi
dei
rischi
nella
ricerca
che
coinvolge
i
bambini
e
le
persone
ricoverate
come
malati
mentali
proposto
dalla
U.S.
National
Commission
on
the
Protection
of
Human
Subjects
of
Biomedical
and
Behavioural
Research.[60]
Tuttavia,
la
distinzione
tra
"ricerca
che
non
comporta
un
rischio
superiore
al
minimo"
e
"ricerca
che
comporta
un
rischio
maggiore
del
minimo"
non
è
applicabile
facilmente
e
senza
ambiguità.
Di
fronte
alle
esperienze
fisiche,
psicologiche
o
sociali
della
maggior
parte
dei
soggetti
vulnerabili,
il
riferimento,
contenuto
nella
definizione,
alla
«probabilità
e
grandezza
del
danno
fisico
e
psicologico
che
si
incontra
normalmente
nella
vita
di
tutti
i
giorni
o
negli
esami
medici
e
psicologici
di
routine»[61]
non
è
così
immediato
e
chiaro
come
pretende
di
essere.
A
riguardo
di
questo
modello
di
analisi
etica
del
rischio,
il
Rapporto
di
Belmont
fornisce
pochi
dettagli
ulteriori,
ma
sottolinea
l'importanza
di
una
“analisi
sistematica
e
non
arbitraria
dei
rischi
e
dei
benefici”
attraverso
«l'accumulo
e
la
valutazione
delle
informazioni
su
tutti
gli
aspetti
della
ricerca»,
e
invita
«a
considerare
sistematicamente
le
alternative».[62]
Le
alternative
ad
uno
studio
invasivo,
o
comunque
potenzialmente
dannoso,
condotto
su
soggetti
vulnerabili
rimangono
la
soluzione
etica
ideale
al
dilemma
posto
da
molti
trial
che
coinvolgono
questi
gruppi
di
partecipanti.
Ciò
non
di
meno,
queste
alternative
non
sono
sempre
facilmente
escogitabili
ed
applicabili,
e
–
anche
se
disponibili
e
fattibili
–
non
tutti
i
ricercatori,
le
società,
le
agenzie,
i
governi
ed
i
cittadini
sono
preparati
ad
accettarle,
soprattutto
quando
si
ritiene
che
il
percorso
verso
i
risultati
biotecnologici
e
clinici
attesi
sia
più
lungo
e/o
più
faticoso
e
costoso.
L'embrione
umano
è
un
soggetto
estremamente
vulnerabile?
La
questione
della
vulnerabilità
dell'embrione
umano
nel
contesto
della
ricerca
biomedica
emerge
dalla
evidente
condizione
di
debolezza
che
caratterizza
la
vita
embrionale,
in
modo
particolare
quella
dell'embrione
umano
in
vitro.
La
precarietà
propria
della
condizione
dell'embrione
umano
che
si
sviluppa
al
di
fuori
del
grembo
materno
non
può
essere
negata.
Anche
da
un
punto
di
vista
meramente
biologico,
che
trascuri
l'umanità
dell'embrione
in
quanto
membro
della
famiglia
umana,
il
concepito
che
si
sviluppa
in
vitro
è
tra
i
più
deboli
e
non
autosufficienti
esseri
umani
descritti
nella
letteratura
medica,
la
cui
condizione
fisica
–
per
quanto
concerne
la
totale
dipendenza
da
un
sistema
di
supporto
vitale
–è
paragonabile
a
quella
dei
pazienti
in
condizioni
acute
di
pericolo
di
vita,
come
il
neonato
gravemente
prematuro
in
una
incubatrice,
il
paziente
chirurgico
durante
l'anestesia
totale
ed
il
malato
critico
in
terapia
intensiva.
Nonostante
i
continui
sforzi
per
migliorarli,[63]
i
mezzi
e
le
condizioni
di
coltura
degli
embrioni
sono
lontani
dall'essere
ideali
se
confrontati
con
il
naturale
ambiente
tubarico
e
uterino,[64]
e
lo
sviluppo
embrionale
in
vitro
è
esposto
ad
una
serie
di
rischi
che
includono
il
ritardo
nella
crescita,
le
infezioni,
la
frammentazione
dei
blastomeri,
la
cavitazione
parziale,
una
anomala
distribuzione
delle
cellule
tra
la
massa
cellulare
interna
ed
il
trofoblasto,
le
alterazioni
della
zona
pellucida
ed
il
ritardo
dell'hatching.[65]
Inoltre,
la
crioconservazione
in
azoto
liquido
–
una
159
procedura
eseguita
nel
caso
in
cui
l'embrione
non
venga
trasferito
in
utero
entro
5
o
6
giorni
di
coltura
–
non
è
una
condizione
di
sicurezza
per
la
conservazione
degli
embrioni.
In
dipendenza
dello
stadio
di
sviluppo
embrionale,
delle
tecniche
impiegate
e
della
durata
della
crioconservazione,
un
numero
di
embrioni
viene
danneggiato
irreversibilmente
o
esposto
al
rischio
di
morte.[66]
Tutto
considerato,
l'embrione
umano
in
vitro
è
completamente
dipendente
dall'ambiente
artificiale
del
laboratorio
e
dalla
cura
dei
biologi
e
dei
tecnici.[67]
Ogni
strumento
difettoso,
mezzo
di
coltura
alterato
o
mancanza
di
conformità
alle
regole
di
precauzione
(come
quelle
che
riguardano
la
sterilità)
può
avere
conseguenze
drammatiche
per
la
vita
e
l'integrità
dell'embrione.[68]
Sebbene
anche
quello
in
utero
non
sia
esente
da
rischi,
lo
sviluppo
embrionale
in
vitro
è
caratterizzato
da
una
insolita
esposizione
a
diverse
cause
di
danno
e,
a
motivo
di
questo,
l'embrione
umano
in
vitro
è
un
soggetto
altamente
vulnerabile.
Oltre
ai
rischi
che
sono
comuni
ad
ogni
procedura
di
fertilizzazione
in
vitro
(IVF)
e
di
coltura
(EC)
e
trasferimento
(ET)
di
embrioni,
i
protocolli
di
ricerca
aggiungono
una
ulteriore
esposizione
degli
embrioni
a
condizioni
pericolose.
Alcuni
esperimenti,
per
la
loro
stessa
natura,
richiedono
la
distruzione
dell'embrione
in
fase
di
sviluppo.
E'
il
caso
della
ricerca
sulle
cellule
staminali
embrionali
(ESC)
pluripotenti,[69]
ottenute
rimuovendo
la
massa
cellulare
interna
della
blastocisti
a
5-‐6
giorni
dalla
fertilizzazione
e
coltivando
le
cellule,
così
ricavate,
in
presenza
di
alcuni
fattori
di
crescita.[70]
Altri
tipi
di
esperimenti,
almeno
in
quanto
tali,
sono
meno
distruttivi.
Tra
di
essi
sono
da
annoverare
gli
studi
sul
ciclo
cellulare,
sulla
espressione
dei
geni
(sintesi
di
mRNA
e
proteine)
e
sul
metabolismo
degli
embrioni
allo
stadio
di
segmentazione,
di
morula
e
di
blastocisti.[71]
Al
fine
di
compiere
queste
ricerche,
un
certo
numero
di
cellule
vengono
asportate
dall'embrione
o
iniettate
con
sostanze
traccianti
ed
analizzate
mediante
tecniche
microscopiche,
immunochimiche
o
molecolari.[72]
Per
le
cosiddette
"ragioni
di
sicurezza"
–
evitare
la
possibile
nascita
di
un
bambino
con
difetti
congeniti
–
agli
embrioni
che
sopravvivono
a
questi
esperimenti
non
viene
però
consentito
di
svilupparsi
e
di
essere
trasferiti
nell'utero.
Da
ultimo,
la
ricerca
di
nuove
tecniche
per
la
IVF
microassistita[73]
e
la
diagnosi
pre-‐
impianto,[74]
sebbene
di
natura
meno
invasiva
e
mirate
alla
generazione
di
embrioni
che
si
sviluppino
normalmente,
è
gravata
da
un
numero
di
insuccessi,
inclusa
la
malformazione
e
la
morte
degli
embrioni
stessi.
«La
sperimentazione
sugli
embrioni
e
sui
feti
comporta
sempre
il
rischio,
anzi,
il
più
delle
volte
la
previsione
certa
di
un
danno
per
la
loro
integrità
fisica
o
addirittura
della
loro
morte».[75]
Tuttavia,
i
danni
fisici
non
sono
in
ogni
caso
il
solo
tipo
di
lesione
che
un
embrione
umano
può
subire
durante
la
sua
generazione
ed
il
suo
sviluppo
al
di
fuori
del
grembo
materno
e,
ancor
più,
se
sottoposto
ad
uno
studio
sperimentale.
La
dignità
dell'embrione
umano
in
quanto
individuo
umano
(soggetto)
–
figlio
o
figlia
di
una
donna
e
di
un
uomo,
dotato
della
loro
stessa
dignità
–
è
minacciata
quando
altre
persone
esercitano
un
dominio
incontrastato
sulla
vita
e
l'integrità
del
concepito
che
si
sviluppa.
Per
quanto
appaiano
importanti
i
dati
scientifici
e
clinici
ottenuti
e
sia
nobile
ed
umanitario
lo
scopo
di
uno
studio
sperimentale,
esso
non
può
ridurre
l'embrione
umano
ad
un
"oggetto"
o
"strumento".
«L'uso
degli
embrioni
o
dei
feti
umani
come
oggetto
di
sperimentazione
costituisce
un
delitto
nei
riguardi
della
loro
dignità
di
esseri
umani,
che
hanno
diritto
al
medesimo
rispetto
dovuto
al
bambino
già
nato
e
a
ogni
persona».[76]
In
secondo
luogo,
e
nel
contesto
in
cui
usiamo
il
termine
"vulnerabilità",
esso
ci
ricorda
che
alcuni
ricercatori,
consapevolmente
o
negligentemente,
in
modo
scorretto
hanno
sfruttato
a
proprio
vantaggio
la
debolezza
dell'embrione
umano,
conducendo
esperimenti
su
un
soggetto
non
competente
e
"senza
voce".
Le
ragioni
per
le
quali
l'embrione
è
molto
suscettibile
di
venire
sfruttato
in
una
ricerca
biomedica
non
etica
consentono
di
mettere
in
luce
nuovamente
la
elevata
vulnerabilità
di
questo
soggetto
di
ricerca.
Sebbene
la
raccolta
di
un
consenso
libero
e
informato
non
sia
il
solo
criterio
etico
per
giustificare
una
ricerca
su
soggetti
umani,
l'assenza
della
capacità
160
di
decidere
consapevolmente
se
partecipare
oppure
no
ad
uno
studio
sperimentale
è
considerata
unanimemente
un
sicuro
indicatore
di
vulnerabilità.
La
vulnerabilità
cognitiva,
in
presenza
di
un
rischio
per
i
soggetti
che
sia
superiore
al
"minimo",
sarebbe
sufficiente
ad
escludere
l'ammissibilità
del
consenso
per
procura
in
un
contesto
sperimentale
non
terapeutico.
Questo
dovrebbe
valere
anche
per
l'embrione
umano.
«Nessuna
finalità,
anche
in
se
stessa
nobile,
come
la
previsione
di
una
utilità
per
la
scienza,
per
altri
esseri
umani
e
per
la
società,
può
in
alcun
modo
giustificare
la
sperimentazione
sugli
embrioni
o
sui
feti
umani,
vitali
o
non,
nel
seno
materno
e
fuori
di
esso.
Il
consenso
informato,
normalmente
richiesto
per
la
sperimentazione
clinica
sull'adulto,
non
può
essere
concesso
dai
genitori,
i
quali
non
possono
disporre
né
dell'integrità
fisica
né
della
vita
del
nascituro».[77]
Gli
embrioni
umani
in
utero
sono
sotto
la
potestà
formale
dei
loro
genitori
(o
della
sola
madre)
se
questi
sono
competenti,
mentre
l'embrione
in
vitro
può
essere
soggetto
ai
genitori
legali
che
hanno
fornito
i
gameti
per
il
processo
di
fertilizzazione
o
ad
altre
persone,
come
i
medici,
i
ricercatori
e
i
giudici
(embrioni
eccedenti
rispetto
ai
cicli
di
ETo
generati
esclusivamente
per
scopi
sperimentali).
A
motivo
di
questa
subordinazione,
gli
embrioni
umani
sono
vulnerabili
giuridicamente:
essi
sono
sottoposti
alla
autorità
di
altri
che
possono
avere
un
interesse
che
trascura
o
risulta
in
conflitto
con
il
"migliore
interesse"
del
soggetto
di
ricerca.[78]
Questa
particolare
vulnerabilità
solleva
obiezioni
sulla
validità
del
consenso
alla
ricerca
sugli
embrioni
dato
dai
loro
genitori
o
da
altri
soggetti
coinvolti
nella
IVF-‐ET.
«Una
speciale
preoccupazione
sorge
quando
coloro
che
esercitano
l'autorità
sono
anche
quelli
che
conducono
o
commissionano
la
ricerca,
oppure
ne
traggono
in
qualche
modo
un
beneficio».[79]
L'embrione
umano,
in
quanto
soggetto
della
ricerca
biomedica,
risulta
anche
vulnerabile
in
modo
indiretto,
cioè
attraverso
la
vulnerabilità
della
persona
a
cui
è
chiesto
di
fornire
il
consenso
per
procura.
Tale
persona
può
essere
giuridicamente
vulnerabile,
come
nel
caso
di
una
ragazza
sotto
l'autorità
dei
propri
genitori
o
di
una
donna
affidata
ad
un
tutore.
Per
esempio,
i
genitori
possono
essere
affetti
da
una
vulnerabilità
deferenziale
in
conseguenza
di
una
forte
pressione
culturale
e
sociale
in
favore
dell'uso
delle
ESC
per
la
ricerca
sulla
terapia
cellulare
di
malattie
gravi.[80]
Essi
possono
celare
un
desiderio
interiore
di
non
consentire
ad
una
ricerca
o
trovarsi
in
forte
difficoltà
a
respingere
una
richiesta
–
che
può
riguardare,
per
esempio,
la
cosiddetta
"donazione
di
embrioni
per
la
ricerca"
–
fatta
dal
proprio
medico.
Un
modo
scorretto
di
risolvere
la
questione
Il
modo
più
insidioso
e
pericoloso
attraverso
il
quale
un
embrione
umano
diviene
un
soggetto
di
ricerca
altamente
vulnerabile
deriva
dalla
negazione
della
sua
soggettività.
Quando
non
è
riconosciuto
come
soggetto
di
ricerca
–
quale
è
ogni
essere
umano
coinvolto
nella
ricerca
biomedica
–
non
esistono
ragioni
cogenti
per
trattare
l'embrione
umano
secondo
gli
stessi
criteri
di
rispetto
e
di
protezione
che
dovrebbero
essere
adottati
nei
confronti
di
tutti
gli
individui
umani
ai
quali
si
attribuisce
comunemente
lo
status
morale
e
legale
di
persone.
Al
contrario,
«la
Chiesa
ha
sempre
insegnato,
e
tuttora
insegna,
che
al
frutto
della
generazione
umana,
dal
primo
momento
della
sua
esistenza,
va
garantito
il
rispetto
incondizionato
che
è
moralmente
dovuto
all'essere
umano
nella
sua
totalità
e
unità
corporale
e
spirituale:
"L'essere
umano
va
rispettato
e
trattato
come
una
persona
fin
dal
suo
concepimento"[81]».[82]
Nel
contesto
delle
attuali
discussioni
sulla
ricerca
biomedica,
l'oblio
della
soggettività
dell'embrione
umano
e
le
implicazioni
etiche
che
questo
comporta
sono
spesso
mascherate
dalla
argomentazione
etica
della
"protezione
speciale
(o
adeguata)"
che
viene
accordata
al
concepito.
Un
esempio
di
questo
approccio
alla
questione
della
ricerca
sugli
embrionipuò
essere
trovato
nella
Convenzione
per
la
protezione
dei
diritti
umani
e
la
dignità
dell'essere
umano
in
riferimento
alle
applicazioni
della
161
biologia
e
della
medicina(Convenzione
di
Oviedo
sui
diritti
umani
e
la
biomedicina)
della
Comunità
Europea,
il
cui
articolo
18
recita:
«Laddove
la
ricerca
sugli
embrioni
in
vitro
è
consentita
dalla
legge,
questa
assicurerà
una
protezione
adeguata
all'embrione».[83]
L'espressione
riflette
la
posizione
quanti
sostengono
che,
sebbene
gli
embrioni
umani
prima
dell'impiantorichiedano
una
certa
protezione,
essi
tuttavia
non
devono
venire
rispettati
come
esseri
umani.[84]
Gli
argomenti
in
favore
di
questa
opinione
variano
da
un
autore
all'altro,
e
comprendono
la
supposta
discontinuità
di
sviluppo
tra
l'embrione
in
vitro
e
in
utero,
lo
status
non-‐personale
o
pre-‐
personale
dell'embrione
umano,
alcune
versioni
deboli
dell'argomento
di
potenzialità,
l'approccio
del
"conflitto
di
interessi"
alle
questioni
morali
e
sociali,
e
l'idea
che
l'embrione
umano
possiede
solo
un
"valore
simbolico"
che
preclude
la
sua
distruzione
per
ragioni
banali.[85]
Le
argomentazioni
citate
non
saranno
oggetto
di
discussione
in
questa
sede.
Nell'ambito
della
vulnerabilità
dei
soggetti
di
ricerca,
le
nostre
osservazioni
conclusive
si
focalizzeranno
sul
significato
oscuro
ed
ambiguo
–
in
riferimento
alla
sperimentazione
sugli
embrioni
umani
–
dell'espressione
"protezione
speciale
(o
adeguata)".
Nel
linguaggio
quotidiano,
così
come
nell'ambito
etico
e
giuridico,
la
frase
"proteggere
qualcuno
o
qualcosa"
richiama
l'attenzione
della
gente
alla
necessità
di
preservare
o
salvare
il
protetto
da
un
pericolo
presente
o
prevedibile.
Se,
da
una
parte,
la
natura
e
la
gravità
del
pericolo
possono
variare
notevolmente
e
si
può
valutare
da
quali
pericoli
un
soggetto
o
un
oggetto
debba
essere
protetto,
vi
è
tuttavia
un
consenso
unanime
nell'affermare
che
il
minimo
grado
di
protezione
da
garantire
ad
una
entità
che
abbia
un
certo
valore
sia
il
preservarla
o
il
salvarla
dalla
morte
e
dalla
distruzione.
Il
livello
successivo
è
la
protezione
della
sua
integrità
e
della
sua
attività
fondamentale.
A
prescindere
da
come
l'embrione
umanoin
vitro
venga
considerato
nell'attuale
dibattito
–
se
un
soggetto
umano
con
piena
dignità
personale
e
tutti
i
diritti,
oppure
un'entità
biologica
il
cui
valore
si
fonda
sulla
sua
potenzialità
di
divenire
una
persona
–
la
richiesta
di
protezione
dell'embrione
nell'ambito
della
ricerca
biomedica
dovrebbe
almeno
mettere
al
bando
esplicitamente
ogni
sperimentazione
che
di
sua
natura
e
nelle
intenzioni
ne
provoca
la
morte
(distruzione)
o
il
deterioramento
permanente
della
capacità
intrinseca
di
sviluppo.
Se
non
è
garantito
il
rispetto
per
la
vita
e
l'integrità
dell'embrione
umano
in
qualunque
situazione
clinica
o
sperimentale
si
trovi,
come
può
essere
accordata
al
concepito
in
vitro
una
"protezione
speciale
(o
adeguata)"?
Una
delle
interpretazioni
proposte
per
questa
affermazione
è
la
seguente:
gli
embrioni
umani,
nel
loro
complesso,
meritano
di
essere
adeguatamente
protetti
dalla
distruzione,
dal
danno
e
dallo
sfruttamento
nel
corso
di
ricerche
sperimentali
condotte
su
di
essi.
Pertanto,
solo
un
limitato
numero
di
embrioni
umani,
in
speciali
circostanze,
può
essere
arruolato
in
protocolli
di
ricerca
non
terapeutica
che
porteranno
alla
loro
morte
o
ne
pregiudicheranno
lo
sviluppo.
Questo
concetto
di
rispetto
collettivo
considera
gli
embrioni
umani
come
una
specie
da
proteggere
e
non
come
soggetti
i
cui
diritti
individuali
devono
essere
salvaguardati
da
un
oltraggio.
In
analogia
a
quanto
avviene
per
gli
animali
in
via
di
estinzione,
il
valore
della
vita
umana
sotteso
a
questa
modalità
di
applicazione
del
principio
della
"protezione
speciale"
non
sgorga
dalla
"dignità
speciale
(unica)"
–
intrinseca
ed
inalienabile
–
di
ogni
essere
umano,
qualunque
sia
la
sua
condizione
personale,
ma
riflette
il
"ruolo
speciale"
accordato
ai
primi
stadi
della
vita
umana
individuale
nel
mondo
o
in
una
società.
Poiché
questo
ruolo
è
associato
alla
nascita
di
un
bambino,
i
cosiddetti
"embrioni
sovrannumerari"
(messi
da
parte
nel
corso
dei
cicli
di
IVF,
crioconservati
oppure
no)
–
qualora
non
più
richiesti
per
un
ET
–
perdono
la
loro
"funzione"
e
vengono
considerati
dei
candidati
ideali
per
le
ricerche
sperimentali.
Così,
si
sente
spesso
affermare
che
la
generazione
di
embrioni
umani
mediante
IVF
realizzata
esclusivamente
per
finalità
di
ricerca
è
eticamente
inaccettabile,
mentre
l'utilizzazione
degli
"embrioni
sovrannumerari"
sarebbe
meno
discutibile.[86]
Tuttavia,
altri
mettono
in
dubbio
o
addirittura
162
negano
l'esistenza
di
una
differenza
morale
tra
le
due
procedure:
«Non
solo
l'embrione
è
usato
strumentalmente
in
entrambi
i
casi,
ma
anche
lo
status
morale
dell'embrione
è
identico».[87]
L'argomentazione
esibita
da
Annas
et
al.[88],
secondo
cui
nei
due
casi
l'intenzione
di
coloro
che
mettono
a
disposizione
i
gameti
al
momento
della
fertilizzazione
è
fondamentalmente
diversa,
risulta
debole.
«Anche
nel
contesto
di
una
normale
IVF,
non
ogni
embrione
è
creato
come
un
"fine
in
sé
stesso".
L'obiettivo
della
IVF
è
una
soluzione
alla
mancanza
involontaria
di
figli,
e
la
perdita
di
alcuni
embrioni
in
sovrannumero
è
calcolata
preventivamente».[89]
Un
secondo
modo
di
affrontare
la
questione
della
"protezione
speciale"
dell'embrione
umano
nasce
dall'approccio
proporzionalista
e
utilitarista
ai
dilemmi
etici
degli
studi
biomedici
che
generano
benefici
per
alcuni
soggetti
e
provocano
danni
ad
altri.
Mentre
esiste
un
ampio
consenso
tra
i
fautori
di
questa
concezione
etica
circa
il
fatto
che
il
solo
scopo
accettabile
della
ricerca
sull'embrione
umano
debba
essere
un
beneficio
per
la
salute
dell'uomo,
le
opinioni
riguardo
all'applicazione
di
questo
principio
sono
differenti.[90]
La
maggior
parte
degli
autori
sottolinea
che
la
ricerca
sugli
embrioni
umani
può
essere
giustificata
solo
nel
caso
in
cui
ci
si
possa
ragionevolmente
attendere
dei
rilevanti
e
diretti
benefici
clinici
per
altri
embrioni,
per
i
neonati
o
per
gli
adulti.
Pochi
autori,
invece,
sono
disposti
ad
accettare
anche
la
ricerca
di
base.[91]
In
questo
contesto,
l'avvento
della
ricerca
sulle
ESC
umane
e
delle
ipotesi
sul
loro
possibile
contributo
alla
terapia
cellulare[92]
ha
avuto
l'effetto
di
catalizzare
la
diffusione
di
questo
tipo
di
pensiero,
secondo
il
quale
il
concetto
di
rispetto
relativo
dovrebbe
sostituire
l'idea
di
"rispetto
incondizionato"
per
la
vita
e
l'integrità
di
ciascun
embrione
umano.[93]
Una
terza
soluzione
che
è
stata
adottata
per
rendere
operativo
il
concetto
di
"protezione
speciale"
fa
ricorso
al
cosiddetto
"principio
di
necessità"
o
di
"sussidiarietà",[94]
che
conduce
ad
una
forma
di
rispetto
revocabile
per
la
vita
e
l'integrità
dell'embrione
umano.
Secondo
il
principio
di
necessità,
gli
embrioni
umani
possono
venire
arruolati
in
ricerche
sperimentali
solo
se
non
esistono
delle
valide
alternative
per
raggiungere
un
obiettivo
di
altissimo
valore
nel
campo
della
medicina,
come
la
cura
di
gravi
malattie
che
minacciano
la
vita
del
paziente.
Sia
la
Warnock
Commission
(Regno
Unito)
sia
la
Royal
Commission
(Canada)
hanno
attribuito
al
termine
"necessità"
il
significato
di
una
assenza
(o
di
una
inadeguatezza)
dei
modelli
animali
necessari
per
condurre
esperimenti
analoghi
e
raggiungere
i
risultati
attesi.[95]
Un'area
di
ricerca
per
la
quale
è
stata
invocata
la
"necessità"
di
usare
gli
embrioni
umani
è
quella
della
terapia
cellulare.
I
sostenitori
della
tesi
che
la
ricerca
sulle
ESC
umane
rappresenta
l'opportunità
più
promettente
di
entrare
nell'era
della
"medicina
rigenerativa"
spesso
negano
che
le
cellule
staminali
di
origine
diversa
rispetto
all'embrione
allo
stadio
di
blastocisti
–
quali
quelle
che
provengono
dal
sangue
cordonale
e
dai
tessuti
fetali
e
postnatali
–
possano
costituire
un'efficace
alternativa
per
la
terapia
cellulare.
Al
contrario,
vi
è
una
solida
e
crescente
evidenza
che
cellule
staminali
o
progenitrici,
isolate
da
diversi
tessuti
e
coltivate
in
vitro,
sebbene
non
dotate
di
una
illimitata
capacità
di
autorinnovamento
e
di
un
potenziale
epigenetico
amplissimo
come
le
ESC,
mostrano
una
sorprendente
capacità
di
differenziarsi
o
transdifferenziarsi
in
un
numero
di
linee
cellulari
differenti
(plasticità
cellulare).
Si
sta
lavorando
per
confermare
la
plasticità
funzionale
delle
cellule
staminali
provenienti
da
alcuni
tessuti
dell'adulto,
scoprire
nuove
fonti
di
cellule
staminali,
dimostrare
la
ripopolazione
clonale
degli
organi
in
cui
sono
state
innestate
le
cellule
di
derivazione
staminale
e
identificare
dei
meccanismi
per
incrementare
l'efficienza
del
loro
innesto.[96]
Come
ha
ricordato
Giovanni
Paolo
II
nel
suo
discorso
al
18th
International
Congress
of
the
Transplantation
Society,
«su
queste
vie
dovrà
avanzare
la
ricerca,
se
vuole
essere
rispettosa
della
dignità
di
ogni
essere
umano,
anche
allo
stadio
embrionale».[97]
Per
quanto
più
lungo
e
laborioso
possa
essere
il
percorso
alternativo
per
raggiungere
l'obiettivo
della
terapia
cellulare,
la
sua
fattibilità
scientifica
di
principio
e
l'assenza
di
controindicazioni
assolute
di
natura
clinica
ed
etica
non
giustificano
il
ricorso
al
principio
di
necessità.
A
ben
vedere,
il
principio
stesso
non
è
163
applicabile
nelle
circostanze
in
cui,
per
soddisfare
alle
necessità
di
un
soggetto,
si
richiede
di
violare
il
rispetto
dovuto
alla
vita
e
alla
integrità
di
un
altro
individuo.
Il
"rispetto",
inteso
secondo
queste
prospettive,
viene
ridotto
ad
una
forma
debole
di
protezione
ed
applicato
secondo
una
modalità
che
risulta
appropriata
per
un
oggetto
(per
quanto
preziose,
le
cose
non
hanno
un
valore
intrinseco)
ma
inadeguata
per
un
soggetto
(il
valore
degli
essere
umani
non
dipende
da
ciò
che
è
estrinseco
ad
essi).
Nel
contesto
della
ricerca
biomedica,
la
dissoluzione
della
soggettività
dell'essere
umano
conduce
ad
un
drammatico
aumento
della
sua
vulnerabilità.
Il
rispetto
incondizionato
che
è
moralmente
dovuto
all'essere
umano
L'unica
forma
di
protezione
adeguata
all'embrione
umano
come
soggetto
di
ricerca
è
la
piena
protezione
dei
suoi
diritti
individuali,
che
gli
competono
in
quanto
essere
umano:
«“Il
frutto
della
generazione
umana,
dal
primo
momento
della
sua
esistenza,
e
cioè
a
partire
dal
costituirsi
dello
zigote,
esige
il
rispetto
incondizionato
che
è
moralmente
dovuto
all'essere
umano
nella
sua
totalità
corporale
e
spirituale».[98]
Ogni
forma
più
debole
di
protezione
non
consente
di
riconoscergli
“i
diritti
della
persona,
tra
i
quali
anzitutto
il
diritto
inviolabile
di
ogni
essere
umano
innocente
alla
vita”.[99]
Attualmente,
la
vita
dell'embrione
in
vitro
è
esposta
ad
un
rischio
di
essere
minacciata
nel
corso
degli
studi
sperimentali
che
è
superiore
rispetto
a
quello
della
vita
di
ogni
altro
essere
umano.
L'embrione
umano
è
dunque
uno
dei
soggetti
di
ricerca
più
vulnerabili.
La
vulnerabilità
richiede
un’attenzione
singolare
per
il
vulnerabile,
e
questa
cura
deve
essere
promossa
dalla
condotta
etica
degli
scienziati
e
dei
medici
e
garantita
dalla
legislazione
nazionale
ed
internazionale.
Il
soggetto
vulnerabile
è
un
soggetto
povero
di
protezione,
non
di
diritti.
La
protezione
dei
poveri
è
un
dovere
morale
e
civile
che
non
può
essere
trascurato
nel
corso
della
ricerca
biomedica.
In
una
prospettiva
cristiana,
fedele
alla
cura
particolare
per
i
più
piccoli
che
il
Vangelo
esige,
l'etica
della
ricerca
biomedica
deve
porre
una
speciale
attenzione
ai
diritti
di
questi
soggetti
di
ricerca:
«Ogni
volta
che
avete
fatto
queste
cose
ad
uno
solo
di
questi
miei
fratelli
più
piccoli,
lo
avete
fatto
a
me».
(Mt
25,
40)
164
[1]
Nonostante
la
valutazione
ottimistica,
espressa
dall'Advisory
Committee
on
Human
Radiation
Experiments,
che
«il
40-‐50%
delle
ricerche
sui
soggetti
umani
presentano
solo
minimi
rischi
minimi
di
danneggiare
i
soggetti»
coinvolti
(Final
Report,
Washington,
D.C.:
U.S.
Government
Printing
Office,
1995,
Chapter
17,
Commentary
following
Finding
22),
il
dibattito
sul
cosiddetto
“rischio
minimo
stardard”
ed
il
suo
riverbero
sull'etica
e
sul
diritto
dei
trial
clinici
continua
ad
essere
acceso.
Secondo
l'U.S.
Federal
Policy
for
the
Protection
of
Human
Subjects
del
Department
of
Health
and
Human
Services,
il
“rischio
minimo”
si
riferisce
ad
un
contesto
di
ricerca
nel
quale
«la
probabilità
e
la
grandezza
del
danno
o
del
disagio
previsti
nel
corso
dello
studio
non
sono
maggiori,
in
sé
stessi
e
per
sé
stessi,
di
quelle
che
si
incontrano
ordinariamente
nella
vita
quotidiana
o
durante
lo
svolgimento
di
esami
o
test
di
routine,
fisici
o
psicologici».
(Code
of
Federal
Regulations,
Title
45,
Part
46,
§
102
(i)
:
Federal
Register,
June
18,
1991,
56:
28003)
Evidentemente,
per
quanto
concerne
i
rischi
della
"vita
quotidiana",
non
vi
è
nulla
che
sia
comune
a
tutti,
ed
ogni
interpretazione
del
criterio
proposto
è
discutibile.
Per
un'analisi
critica
della
classificazione
delle
ricerche
che
si
fonda
sul
rischio
minimo
standard,
si
veda:
Prentice
E.D.
and
Gordon
B.G.,
Institutional
Review
Board
Assessment
of
Risks
and
Benefits
Associated
with
Research,
in:
National
Bioethics
Advisory
Commission,
Ethical
and
Policy
Issues
in
Research
Involving
Human
Participants,
Bethesda,
MD:
National
Bioethics
Advisory
Commission,
2001,
vol.
2,
pp.
L1-‐
L16,
alle
pp.
L7-‐L9.
[2]
Evans
D.
and
Evans
M.,
A
Decent
Proposal.
Ethical
Review
of
Clinical
Research,
Chichester:
Wiley,
1996,
p.
17.
[3]
Blacksher
E.
and
Stone
J.R.,
Introduction
to
"Vulnerability"
Issues
of
Theoretical
Medicine
and
Bioethics,
Theoretical
Medicine
and
Bioethics
2002,
23:
421-‐424,
p.
422.
[4]
Fox
K.,
Hotep's
story:
Exploring
the
wounds
of
health
vulnerability
in
the
US,
Theoretical
Medicine
and
Bioethics
2002,
23:
471-‐497,
p.
472.
[5]
Kipnis
K.,
Vulnerability
in
research
subjects:
a
bioethical
taxonomy,
in:
National
Bioethics
Advisory
Commission,Ethical
and
Policy
Issues
in
Research
Involving
Human
Participants,
op.
cit.,
vol.
2,
pp.
G1-‐G13,
p.
G5;
si
veda
anche
Id.,Seven
vulnerabilities
in
the
pediatric
research
subject,
Theoretical
Medicine
and
Bioethics
2003,
107-‐120,
pp.
108-‐109.
[6]
Kipnis
K.,
Vulnerability
in
research
subjects:
a
bioethical
taxonomy,
op.
cit.,
p.
G5.
[7]
Negli
ultimi
anni,
diversi
autori
hanno
affrontato
il
tema
dello
sfruttamento
nella
ricerca
biomedica
e
nei
trial
clinici,
con
particolare
riferimento
ai
paesi
in
via
di
sviluppo
ed
alla
ricerca
sull'AIDS.
Si
veda,
per
esempio,
Angell
M.,
The
ethics
of
clinical
research
in
the
Third
World,
The
New
England
Journal
of
Medicine
1997,
337:
847-‐849;
Lurie
P.
and
Wolf
S.,Unethical
trials
of
interventions
to
reduce
perinatal
transmission
of
the
human
immunodeficiency
virus
in
developing
countries,
ibid.:
853-‐856;
Varmus
H.
and
Satcher
D.,
Ethical
complexities
of
conducting
research
in
developing
countries,ibid.:
1000-‐1005;
Savulescu
J.,
On
the
commercial
exploitation
of
participants
of
research,
Journal
of
Medical
Ethics
1997,
23:
392;
Resnick
D.,
The
ethics
of
HIV
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in
developing
nations,
Bioethics
1998,
12:
286-‐306;
Mbidde
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and
local
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Science
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279:
155;
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S.R.,
Avoiding
exploitation
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clinical
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Quarterly
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Healthcare
Ethics
2000,
9:
562-‐565;
Bhagat
K.
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Nyazema
N.,
Ethics
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HIV
research
in
Zimbabwe,
Central
African
Journal
of
Medicine
2000,
46:
105-‐107;
Mullings
A.,
Genetic
research
in
the
Third
World
(developing)
countries:
science
or
exploitation?,
St.
Thomas
Law
Review
2001,
13:
955-‐964;
Miller
F.
and
Brody
H.,What
makes
clinical
trials
unethical?,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2(2):
2-‐10;
Resnik
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Exploitation
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the
ethics
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clinical
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ibid.:
28-‐30;
Agrawal
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Voluntariness
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clinical
research
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the
end
of
life,
Journal
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Pain
Symptoms
Management
2003,
25:
S25-‐S32;
e
Lee
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Kristjanson
L.,
Human
research
ethics
committees:
issues
in
palliative
care
research,
International
Journal
of
Palliative
Nursing
2003,
9:
13-‐18.
165
[8]
Macklin
R.,
After
Helsinki:
unresolved
issues
in
international
research,
Kennedy
Institute
of
Ethics
Journal
2001,
11:
17-‐36,
pp.
23.25.
[9]
Resnik
D.B.,
Exploitation
in
biomedical
research,
Theoretical
Medicine
and
Bioethics
2003,
24:
233-‐259.
[10]
Ivi,
p.
234.
[11]
Giovanni
Paolo
II,
Esortazione
apostolica
post-‐sinodale
Reconciliatio
et
paenitentia
(2
Dicembre
1984),
17,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1985,
77:
185-‐275,
p.
221;
citata
in:
Id.,
Lettera
enciclica
Veritatis
splendor
(6
Agosto1993),
80,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1993,
85:
1133-‐1228,
p.
1197.
[12]
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II,
Costituzione
pastorale
sulla
Chiesa
nel
mondo
contemporaneo
Gaudium
et
spes
(7
Dicembre
1965),
27.
[13]
Cf.
Kant
I.,
Grundlegung
zur
Metaphysik
der
Sitten,
Lipsia:
Hartknoch,
1785
(Fondazione
della
metafisica
dei
costumi
[trad.
di
F.
Gonnelli],
Bari:
Laterza,
2a
ed.,
2002,
p.
91).
[14]
Giovanni
Paolo
II,
Veritatis
splendor,
81,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1993,
85,
p.
1198.
[15]
Reeve
A.
(ed.),
Modern
Theories
of
Exploitation,
Beverly
Hills,
CA:
Sage
Publications,
1987;
Feinberg
J.,
Harmless
Wrongdoing,
New
York,
N.Y.:
Oxford
University
Press,
1988;
Wood
A.,
Exploitation,
Social
Philosophy
and
Policy
1995,
12:
136-‐150;
Holmstrom
N.,
Exploitation,
Canadian
Journal
of
Philosophy
1997,
7:
353-‐370;
Carling
A.,
Exploitation,
in:
Chadwick
R.
(ed.),
Encyclopedia
of
Applied
Ethics,
San
Diego,
CA:
Academic
Press,
1998,
vol.
2,
pp.
219-‐232;
Arneson
R.,Exploitation,
in:
Becker
L.
and
Becker
C.
(eds.),
Encyclopedia
of
Ethics,
New
York,
N.Y.:
Routledge,
2001,
vol.
1,
pp.
515-‐517.
[16]
Secondo
Wertheimer,
sfruttare
qualcuno
in
modo
iniquo
implica
sempre
trarre
da
costui
un
vantaggio
non
giusto
destinato
allo
stesso
sfruttatore:
Wertheimer
A.,
Exploitation,
Princeton,
NJ:
Princeton
University
Press,
1996,
p.
10.
[17]
Resnik
D.B.,
Exploitation
in
biomedical
research,
op.
cit.,
p.
240.
[18]
Ivi,
p.
243.
[19]
Edwards
S.D.,
An
argument
against
research
on
people
with
intellectual
disabilities,
Medicine,
Health
Care
and
Philosophy
2000,
3:
69-‐73,
p.
70.
[20]
Cf.
Evans
D.
and
Evans
M.,
A
Decent
Proposal,
op.
cit.,
p.
17.
[21]
Agrawal
M.,
Voluntariness
in
clinical
research
at
the
end
of
life,
op.
cit.,
p.
S29.
[22]
Una
discussione
utile
sul
concetto
di
rischio
si
trova
in
Van
Ness
P.H.,
The
concept
of
risk
in
biomedical
research
involving
human
subjects,
Bioethics
2001,
15:
364-‐370,
e
nella
bibliografia
citata
dall'Autore.
[23]
Berg
J.W.,
Legal
and
ethical
complexities
of
consent
with
cognitively
impaired
research
subjects:
proposed
guidelines,
Journal
of
Law
and
Medical
Ethics
1996,
24:
18-‐35,
p.
24.
[24]
Levine
R.,
Balance
of
Harms
and
Benefit.
Ethics
and
Regulation
of
Clinical
Research,
New
Haven:
YaleUniversity
Press,
2nd
ed.,
1988,
pp.
37-‐65.
[25]
Si
veda,
tra
gli
altri,
The
President’s
Commission
for
the
Study
of
Ethical
Problems
in
Medicine
and
Biomedical
and
Behavioural
Research,
Implementing
Human
Research
Regulation:
The
Adequacy
and
Uniformity
of
Federal
Rules
and
of
Their
Implementations,
Washington,
D.C.:
U.S.
Government
Printing
Office,
1983;
National
Bioethics
Advisory
Commission,
Ethical
and
Policy
Issues
in
Research
Involving
Human
Participants,
op.
cit.,
vol.
1.
[26]
Lemberger
L.,
Early
clinical
evaluation
in
man:
the
buck
stops
here,
Xenobiotica
1987,
17:
267-‐273;
Weijer
C.
and
Fuks
A.,
The
duty
to
exclude:
excluding
people
at
undue
risk
from
research,
Clinical
and
Investigative
Medicine
1994,
17:
115-‐122;
Elliott
C.,
Doing
harm:
living
organ
donors,
clinical
research
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The
Tenth
Man,
Journal
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Medical
Ethics
1995,
21:
91-‐96;
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Lumb
P.D.,
At
the
coalface
–
medical
ethics
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practice.
First,
do
no
harm,
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166
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23:
377-‐378;
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Kadane
J.B.,
Placebos
that
harm:
sham
surgery
controls
in
clinical
trials,
Statistical
Methods
in
Medical
Research
2002,
11:
413-‐427.
[27]
I
danni
psicologici
includono
anche
l'angoscia,
l'irritazione
o
il
senso
di
colpa
che
possono
nascere
dalla
rivelazione
di
informazioni
imbarazzanti,
e
l'ansia
ed
il
timore
che
conseguono
alla
scoperta
della
probabilità
di
sviluppare
una
malattia
per
la
quale
non
esiste
un
trattamento
efficace:
Glass,
K.C.,
Weijer
C.,
Lemmens
T.,
Palmour
R.M.,
and
Shapiro
S.H.,
Structuring
the
Review
of
Human
Genetics
Protocols,
Part
II:
Diagnostic
and
Screening
Studies,
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A
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1-‐13;
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Literature,
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574-‐578.
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305:
699-‐701;
Beloqui
J.,
Chokevivat
V.,
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and
human
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from
three
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efficacy
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Health
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1998,
3:
38-‐58;
Leider
P.A.,Domestic
AIDS
vaccine
trials:
addressing
the
potential
for
social
harm
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the
subjects
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human
experiments,
California
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2000,
88:
1185-‐1232.
[29]
Wertz
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and
Fletcher
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an
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5:
212-‐232;
Weil
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MacKay
C.R.,
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Cambridge
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1993,
2:
229-‐237;
Ross
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misattributed
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1996,
10:114-‐130;
Ritter
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Genetic
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Lancet
2001,
358:
241;
Lucassen
A.
and
Parker
M.,
Revealing
false
paternity:
some
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Lancet
2001,
357:
1033-‐1035.
[30]
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Laurence
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287:
675-‐677;
Guest
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Compensation
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moral
rights
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patients
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the
power
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research
ethics
committees,
Journal
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Medical
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1997,
23:181-‐185.
[31]
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Hamilton
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Consequences
of
knowing
ethical
and
legal
liabilities
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illicit
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Social
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1996,
43:
1591-‐1600;
Id.,
Confidentiality,
disseminated
regulation
and
ethico-‐legal
liabilities
in
research
with
hidden
populations
of
illicit
drug
users,
Addiction
1997,
92:
1099-‐1107;
Loxley
W.,
Hawks
D.,
and
Bevan
J.,
Protecting
the
interests
of
participants
in
research
into
illicit
drug
use:
two
case
studies,
Addiction
1997,
92:1081-‐
1085;
Kinard
E.M.,
Ethical
issues
in
research
with
abused
children,
Child
Abuse
and
Negligence
1985,
9:
301-‐311.
[32]
Giovanni
Paolo
II,
Esortazione
apostolica
postsinodale
Ecclesia
in
America
(22
Gennaio
1999),
57,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1999,
91:737-‐815,
p.
792.
A
questa
concezione,
che
vede
i
diritti
umani
profondamente
radicati
nella
dignità
di
ogni
individuo,
si
contrappone
la
«“interests”
theory
of
rights»
–
frequentemente
proposta
nel
contesto
del
dibattito
sull'aborto
(si
veda,
per
esempio,
Purdy
L.
and
Tooley
M.,
Is
abortion
murder?,
in:
Perkins
R.
(ed.),
Abortion:
Pro
and
Con,
Cambridge,
Massachusetts:
Schenkman,
1974,
p.
144)
–
secondo
cui
un
essere
può
avere
dei
diritti
solo
se
è
in
grado
di
avere
"desideri
coscienti"
o
"interessi".
Su
questo
presupposto,
gli
embrioni
e
i
feti
umani
non
sono
titolari
di
diritti
umani
inalienabili,
neppure
del
diritto
alla
vita,
allo
sviluppo
ed
alla
integrità
fisica.
Rifacendosi
a
questa
teoria,
Feinberg
sostiene
che
qualcuno
è
danneggiato
solo
quando
i
suoi
interessi
sono
stati
contrastati,
umiliati,
invasi
o
abbattuti
(Feinberg
J.,
Harm
to
Others,
New
York:
Oxford
University
Press,
1984,
pp.
31–64).
Questa
definizione
permetterebbe
di
includere
un
numero
virtualmente
illimitato
di
danni
che
i
soggetti
coscienti
potrebbero
lamentare
e,
invece,
di
escludere
il
danno
più
devastante
inferto
agli
individui
non
coscienti.
L'approccio
"per
interessi"
alla
fondazione
dei
diritti
mostra
tutta
la
sua
167
debolezza
quando
è
messo
a
confronto
con
la
questione
morale
della
obbligazione
a
riconoscere
e
rispettare
i
diritti
di
un
altro
essere.
Il
solo
fatto
che
qualcuno
possiede,
o
è
capace
di
avere,
desideri
e
interessi
non
è
ovviamente
una
ragione
sufficiente
perché
ciascuno
di
noi
accondiscenda
a
questi
desideri
e
protegga
questi
interessi.
[33]Giussani
L.,
Il
senso
religioso,
Milano:
Rizzoli,
1997,
pp.
8-‐9.
[34]
Ivi,
p.
14.
[35]
Kant
I.,
Fondazione
della
metafisica
dei
costumi,
op.
cit.,
p.
91.
Una
lucida
discussione
intorno
a
questa
affermazione
nel
contesto
della
teoria
morale
di
Kant
si
trova
in
Hill
T.E.
Jr.,
Humanity
as
an
end
in
itself,
Ethics
1980,
91:
84-‐90
e
in
Cooper
N,
The
Formula
of
the
end
in
itself,
Philosophy
1988,
63:
401-‐415.
[36]
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II,
Gaudium
et
spes,
51.
[37]
Giovanni
Paolo
II,
Veritatis
splendor,
50,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1993,
85,
p.
1173.
[38]
Riportiamo,
tra
i
molti,
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is
vulnerable
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[39]
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Vulnerability
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research
subjects:
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bioethical
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G7-‐G12.
[40]
Si
veda,
per
esempio,
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Bioethics
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Policy
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Research
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Participants,
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depressed
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1380-‐1384;
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Gold
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Lahti
A.C.,
Queern
C.A.,
Conley
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Bartko
J.J.,
Kovnick
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Appelbaum
P.S.,
Decisional
capacity
for
informed
consent
in
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research,Archives
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General
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2000,
57:
533-‐538;
Kim
S.Y.,
Cox
C.,
and
Caine
E.D.,
Impaired
decision-‐making
ability
in
subjects
with
Alzheimer's
disease
and
willingness
to
participate
in
research,
American
168
Journal
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Psychiatry.
2002,
159:
797-‐802;
Kim
S.Y.,
Karlawish
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state
of
research
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decision-‐making
competence
of
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impaired
elderly
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1-‐
65.
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Smithline
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Mader
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Crenshaw
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Do
patients
with
acute
medical
conditions
have
the
capacity
to
give
informed
consent
for
emergency
medicine
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[47]
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Regehr
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M.,
and
Bradford
J.,
Research
ethics
and
forensic
patients,
Canadian
Journal
of
Psychiatry
2000,
45:
892-‐898
[si
vedano
anche
i
commenti
a
questa
articolo
apparsi
sulla
stessa
rivista,
2002,
47:
384-‐386].
[48]
Hewlett
S.,
Consent
to
clinical
research:
adequately
voluntary
or
substantially
influenced?,
Journal
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Medical
Ethics
1996,
22:
232-‐237;
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J.S.,
Bradley
C.,
Dennis
J.,
Frauman
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Criswell
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School-‐based
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problems
of
access
and
consent,
Journal
of
Pediatric
Nursing
2000,
15:
14-‐21;
Rothstein
M.A.,
Ethical
guidelines
for
medical
research
on
workers,
Journal
of
Occupational
and
Environmental
Medicine
2000,
42:
1166-‐1171;
Hayman
R.M.,
Taylor
B.J.,
Peart
N.S.,
Galland
B.C.,
and
Sayers
R.M.,
Participation
in
research:
informed
consent,
motivation
and
influence,Journal
of
Paediatric
and
Children
Health
2001,
37:
51-‐54;
Pentz
R.D.,
Flamm
A.L.,
Sugarman
J.,
Cohen
M.,
Daniel
Ayers
G.,
Herbst
R.,
and
Abbruzzese
J.L.,
Study
of
the
media's
potential
influence
on
prospective
research
participants'
understanding
of
and
motivations
for
participation
in
a
high-‐profile
phase
I
trial,
Journal
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Clinical
Oncology
2002,
20:
3785-‐3791.
[49]
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Ethical
considerations
of
ensuring
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informed
and
autonomous
consent
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research
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the
critically
ill.
American
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Care
Medicine,
1996,
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582-‐586;
Casarett
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Beyond
vulnerability:
the
ethics
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end-‐of-‐life
research,
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Pain
Symptoms
Management
1999,
18:
143-‐145;
Schutta
K.M.
and
Burnett
C.B.,
Factors
that
influence
a
patient's
decision
to
participate
in
a
phase
I
cancer
clinical
trial,
Oncology
Nursing
Forum
2000,
27:
1435-‐1438;
Ellis
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Attitudes
towards
and
participation
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review
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the
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Oncology
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939-‐945;
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Obtaining
voluntary
consent
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desperately
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40(9
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V64-‐
V68;
Casarett
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Knebel
A.,
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Helmers
K.,Ethical
challenges
of
palliative
care
research,
Journal
of
Pain
Symptom
Management
2003,
25:
S3-‐S5;
Karlawish
J.H.T.,Conducting
research
that
involves
subjects
at
the
end
of
life
who
are
unable
to
give
consent,
ibid.:
S14-‐S24.
[50]
Quanto
lo
sfruttamento
della
vulnerabilità
economica,
qualora
associata
alla
vulnerabilità
sociale,
potesse
risultare
facile
e
pervasivo
fu
messo
in
luce
chiaramente
dallo
scandalo
dello
studio
sulla
sifilide
a
Tuskegee(U.S.
Department
of
Health,
Education
and
Welfare,
Final
Report
of
the
Tuskegee
Syphilis
Study
Ad
Hoc
Advisory
Panel,
Washington,
D.C.:
U.S.
Government
Printing
Office,
1973;
Jones
J.H.,
Bad
Blood:
The
Tuskegee
Syphilis
Experiment,
New
York:
Free
Press,
2nd
ed.,
1993;
Pence
G.,
Classic
Cases
in
Medical
Ethics,
New
York:
McGrow-‐Hill,
2nd
ed.,
1995,
pp.
225-‐252).
Lo
studio,
iniziato
nel
1932,
si
protrasse
per
40
anni,
coinvolgendo
600
uomini
afro-‐
americani
che
abitavano
nel
Macon
Country
(Alabama),
dei
quali
399
erano
affetti
da
sifilide
e
201
erano
sani.
I
ricercatori
sfruttarono
l'elevato
grado
di
vulnerabilità
dei
soggetti
–
dovuto
a
169
indigenza,
ignoranza
e
discriminazione
razziale
–
senza
fornire
loro
alcuna
informazione
sullo
studio
in
atto
e
senza
richiedere
il
consenso
ad
esso.
Gli
uomini
ricevettero,
come
compenso
per
la
partecipazione
alla
ricerca,
l'accesso
a
cure
mediche
non
legate
alla
malattia,
alcuni
pasti
ed
i
mezzi
di
trasporto
gratuiti,
e,
nelle
fasi
più
avanzate
dello
studio,
un
contributo
di
50
dollari
per
la
sepoltura
al
fine
di
incoraggiare
il
consenso
all'autopsia.
La
remunerazione
per
la
partecipazione
ad
una
ricerca
è
una
pratica
comune
ma
poco
discussa.
Per
una
riflessione
critica
sulla
questione
si
veda
Dickert
N.
and
Grady
C.,
What's
the
price
of
a
research
subject:
approaches
to
payment
for
research
participation,
The
New
England
Journal
of
Medicine
1999,
341:
198-‐203
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Weijer
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The
research
subject
as
wage
earner,
Theoretical
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2002,
23:
359-‐376.
[51]
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ethics,
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involving
the
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challenges,
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1999,
8:
501–513.
[53]
National
Bioethics
Advisory
Commission,
Ethical
and
Policy
Issues
in
Research
Involving
Human
Participants,
op.
cit.,
vol.
1,
p.
90.
Several
aspects
of
social
vulnerability
are
discussed
in:
Weisstub
D.N.,
Arboleda-‐Florez
J.,
and
Tomossy
G.F.,
Establishing
the
boundaries
of
ethically
permissible
research
with
special
populations,
Health
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Law
in
Canada
1996,
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45-‐63;
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The
origin
and
nature
of
informed
consent:
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15:
281-‐287;
Dyregrov
K,
Dyregrov
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Refugee
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experience
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participation,
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13:
413-‐426.
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Involving
Human
Participants,
op.
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Department
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80:
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Giovanni
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Congregazione
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la
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vitae,
I,
4,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1988,
80,
p.
82.
[78]
L'espressione
"nel
migliore
interesse
del
paziente"
è
spesso
usata
nei
colloqui
quotidiani
intorno
al
letto
di
degenza
o
nel
contesto
della
ricerca
biomedica.
Tuttavia,
se
il
"migliore
interesse"
non
è
esplicitato,
il
significato
della
affermazione
risulta
ambiguo
e
talvolta
anche
ingannevole.
Per
una
utile
discussione
di
questa
espressione
in
differenti
situazioni
cliniche,
si
veda
Daniels
K.R.,
Blyth
E.,
Hall
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and
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The
best
interests
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not
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interest,
American
Academy
of
Psychiatry
Law
2002,
30:
196-‐200;
Mainous
R.O.,
Conjoined
twins:
whose
best
interest
should
prevail?
An
argument
for
separation,
Pediatric
Nursing
2002,
28:
525-‐529;
Wasserman
D.,
Comment
on
"Whose
best
interest?"
Judging
and
balancing
the
interests
of
conjoined
twins,
Pediatric
Nursing
2002,
28:
530-‐531;
e
Hirsch
N.J.,In
the
patient's
best
interest:
a
call
to
action,
a
call
to
balance,
Bioethics
Forum
2002,
18(1-‐2):24-‐29.
[79]
Kipnis
K.,
Vulnerability
in
research
subjects:
a
bioethical
taxonomy,
op.
cit.,
pp.
G5.
[80]
Per
una
discussione
sulle
pressioni
culturali
e
sociali
che
condizionano
la
campagna
sulle
ESC
e
la
terapia
cellulare,
si
veda
Frist
B.,
The
promise
and
peril
of
embryonic
stem
cell
research:
a
call
for
vigilant
oversight,
Yale
Journal
of
Health
Policy,
Lawand
Ethics
2001,
2:
167-‐176;
McLaren
A.,
Human
embryonic
stem
cell
lines:
socio-‐legal
concerns
and
therapeutic
promise,
Comptes
Rendus
de
Séances
de
la
Société
de
Biologie
2002,
325:
1009-‐1012;
Konsen
A.H.,
Are
we
killing
the
weak
to
heal
the
sick?
Federally
funded
embryonic
stem
cell
research,
Health
Matrix
Cleveland
2002,
12:
507-‐555;
Bruce
A.,
The
search
for
truth
and
freedom:
ethical
issues
surrounding
human
cloning
and
stem
cell
research,
Journal
of
Law
and
Medicine
2002,
9:
323-‐335;
Nippert
I.,
The
pros
and
cons
of
human
therapeutic
cloning
in
the
public
debate,
Journal
of
Biotechnology
2002,
98:
53-‐
60;
Schmid
R.,
Stem
cells:
a
dramatic
new
therapeutic
tool,
Jounal
of
Gastroenterology
and
Hepatology
2002,
17:
636-‐642;
FitzGerald
K.T.,
Questions
concerning
the
current
stem
cell
debate,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2:
50-‐51;
Baker
R.,
Stem
cell
rhetoric
and
the
pragmatics
of
naming,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2:
52-‐53;
McGee
D.B.,
The
idolatry
of
absolutizing
in
the
stem
cell
debate,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2:
53-‐54;
MacDonald
C.,
Stem
cell
ethics
and
the
forgotten
corporate
context,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2:
54-‐56;
London
A.J.,
Embryos,
stem
cells,
and
the
"strategic"
element
of
public
moral
reasoning,
American
Journal
of
Bioethics
2002,
2:
56-‐57;
e
Rosenthal
N.,
Prometheus's
vulture
and
the
stem-‐cell
promise,
New
England
Journal
of
Medicine
2003,
349:
267-‐274.
[81]
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
Donum
vitae,
I,
1,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1988,
80,
p.
79.
[82]
Giovanni
Paolo
II,
Evangelium
vitae,
60,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1995,
87,
p.
469.
[83]
Council
of
Europe,
Convention
for
the
Protection
of
Human
Rights
and
Dignity
of
the
Human
Being
with
Regard
to
the
Application
of
Biology
and
Medicine
(Oviedo:
April
4,
1997),
Council
of
Europe,
ETS
no.
164,
art.
18.
[84]
Si
veda,
tra
gli
altri,
Hursthouse
R.,
Beginning
Lives,
Oxford
–
Cambridge:
Blackwell,
1987.
174
[85]
Dunstan
G.R.,
The
moral
status
of
the
human
embryo:
a
tradition
recalled,
Journal
of
Medical
Ethics
1984,
10:
38-‐44;
Strong
C.,
Ethics
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Reproductive
and
Perinatal
Medicine.
A
New
Framework,
New
Haven
–
London:
YaleUniversity
Press,
1977;
Green
R.M.,
The
Human
Embryo
Research
Debates.
Bioethics
in
the
Vortexof
Controversy,
Oxford:
OxfordUniversity
Press,
2001.
Per
una
critica
dell'argomento
del
"valore
simbolico",
si
veda
Quinn
K.P.,
Embryonic
stem
cell
research
as
an
ethical
issue:
on
the
emptiness
of
symbolic
value,
St.
Thomas
Law
Review
2001,
13:
851-‐861.
[86]
Coloro
che
non
ritengono
che
l'embrione
umano
in
vitro
sia
già
un
soggetto
titolare
di
diritti
umani,
ma
affermano
che
esso
«merita
un
rispetto
speciale»
e
una
«seria
considerazione
morale
in
quanto
rappresenta
una
forma
di
vita
umana
che
si
sta
sviluppando»,
sono
disposti
ad
«approvare
la
ricerca
sugli
embrioni
prodotti
in
sovrannumero
nei
tentativi
di
trattare
la
infertilità
di
coppia
attraverso
la
IVF,
ma
disapprovano
la
creazione
e
la
successiva
distruzione
di
embrioni
esclusivamente
per
scopo
di
ricerca.
Secondo
il
loro
pensiero,
la
pratica
di
creare
embrioni
per
la
ricerca
strumentalizza
e
priva
del
suo
significato
la
vita
umana,
e
come
tale
dovrebbe
essere
proibita».
(Robertson
J.A.,
Symbolic
issues
in
embryo
research,
Hastings
Center
Report
1995,
25[1]:
37-‐38,
p.
37)
[87]
Pennings
G.
and
de
Wert
G.,
Evolving
ethics
in
medically
assisted
reproduction,
Human
Reproduction
Update
2003,
9:
397-‐404,
p.
398.
La
distinzione
non
può
essere
giustificata
neppure
assumendo
che,
prima
dell'impianto,
l'embrione
umano
non
sia
un
soggetto
titolare
del
diritto
a
non
essere
ucciso
o
danneggiato:
«Se
gli
embrioni
sono
troppo
poco
sviluppati
fisicamente
per
poter
venire
danneggiati,
non
dovrebbe
risultare
rilevante
il
fatto
che
i
ricercatori
usino
degli
embrioni
in
sovrannumero
derivati
dalla
IVF
piuttosto
che
crearli
appositamente
per
la
sperimentazione.
In
entrambi
i
casi,
infatti,
gli
embrioni
si
trovano
allo
stesso
stadio
di
sviluppo».
(Robertson
J.A.,
Symbolic
issues
in
embryo
research,a.c.,
p.
37)
[88]
Annas
G.,
Caplan
A.,
and
Elias
S.,
The
politics
of
human
embryo
research:
avoiding
ethical
gridlock,
The
New
England
Journal
of
Medicine
1996,
334:
1329-‐1332.
[89]
Pennings
G.
and
de
Wert
G.,
Evolving
ethics
in
medically
assisted
reproduction,
op.
cit.,
p.
398.
See
also
Iglesias
T.,IVF
and
Justice.
Moral,
Social
and
Legal
Issues
related
to
Human
In
Vitro
Fertilisation,
London:
The
Linacre
Centre
for
Health
Care
Ethics,
1990.
[90]
Cf.
Pennings
G.
and
de
Wert
G.,
Evolving
ethics
in
medically
assisted
reproduction,
op.
cit.,
p.
398.
[91]
ESHRE
Task
Force
on
Ethics
and
Law,
The
moral
status
of
the
preimplantation
embryo,
Human
Reproduction
2001,
16:
1046-‐1048.
[92]
Ahmann
J.,
Therapeutic
cloning
and
stem
cell
therapy,
National
Catholic
Bioethics
Quarterly
2001,
1:
145-‐150;
Shannon
T.A.,
Human
embryonic
stem
cell
therapy,
Theological
Studies
2001,
62:
811-‐824;
Hirai
H.,
Stem
cells
and
regenerative
medicine,
Human
Cell
2002,
15:
190-‐198;
Cai
J.
and
Rao
M.S.,
Stem
cell
and
precursor
cell
therapy,
Neuromolecular
Medicine
2002,
2:
233-‐249;
Lindvall
O.,
Stem
cells
for
cell
therapy
in
Parkinson's
disease,
Pharmacological
Research
2003,
47:
279-‐287.
Strauer
B.E.
and
Kornowski
R.,
Stem
cell
therapy
in
perspective,
Circulation
2003,
107:
929-‐934;
Henningson
C.T.Jr.,
Stanislaus
M.A.,
and
Gewirtz
A.M.,
Embryonic
and
adult
stem
cell
therapy,
Journal
of
Allergy
and
Clinical
Immunology
2003,
111(2
Suppl):
S745-‐S753;
Terai
S.,
Yamamoto
N.,
Omori
K.,
Sakaida
I.,
and
Okita
K.,
A
new
cell
therapy
using
bone
marrow
cells
to
repair
damaged
liver,
Journal
ofGastroenterology
2002,
37
(14
Suppl):162-‐163;
Partridge
T.A.,
Stem
cell
route
to
neuromuscular
therapies,
Muscle
and
Nerve
2003
27:
133-‐141;
Hassink
R.J.,
Dowell
J.D.,
Brutel
de
la
Riviere
A.,
Doevendans
P.A.,
and
Field
L.J.,
Stem
cell
therapy
for
ischemic
heart
disease,
Trends
in
Molecular
Medicine
2003,
9:
436-‐441;
Hochedlinger
K.
and
Jaenisch
R.,
Nuclear
transplantation,
embryonic
stem
cells,
and
the
potential
for
cell
therapy,
New
England
Journal
of
Medicine
2003,
349:
275-‐286.
175
[93]
Una
della
prime
dichiarazioni
pubbliche
che
esprimono
questa
posizione
è
attribuita
al
Ethics
Advisory
Boarddell'allora
U.S.
Department
of
Health,
Education
and
Welfare.
Nel
1979
l'Advisory
Board
dichiarò
che
l'embrione
umano
ha
«diritto
ad
un
profondo
rispetto;
ma
questo
rispetto
non
comprende
necessariamente
i
pieni
diritti
morali
e
legali
attribuiti
alle
persone».
(Citato
in:
Callahan
D.,
The
puzzle
of
profound
respect,
Hastings
Center
Report
1995,
25[1]:
39-‐40,
p.
39).
Se
confrontato
con
il
rispetto
incondizionato
che
è
dovuto
ad
una
persona,
anche
il
"profondo
rispetto"
che
è
accordato
agli
embrioni
si
configura
come
un
rispetto
relativo
e
non
obbliga
nessuno
a
rinunciare
ad
usare
l'embrione
umano
come
un
mezzo
per
cercare
nuove
possibili
vie
per
la
cura
delle
persone
affette
da
gravi
malattie.
[94]
Cf.
Pennings
G.
and
de
Wert
G.,
Evolving
ethics
in
medically
assisted
reproduction,
op.
cit.,
p.
398.
[95]
«Nessuno
dovrebbe
intraprendere
ricerche
sugli
embrioni
umani
il
cui
scopo
possa
verire
raggiunto
attraverso
l'impiego
di
altri
animali
o
in
qualche
altro
modo».
(Department
of
Health
and
Social
Security,
Report
of
the
Committee
of
Inquiry
into
Human
Fertilization
and
Embryology,
London:
Her
Majesty's
Stationery
Office,
1984,
p.
63).
Si
veda
anche
Royal
Commission
on
New
Reproductive
Technologies
(Canada),
Proceed
with
Care:
Final
Report
of
the
Royal
Commission
on
New
Reproductive
Technologies,
Ottawa:
Minister
of
Government
Services,
1993,
p.
630.
[96]
Per
una
rassegna
equilibrata
delle
ricerche
in
corso
sulle
cellule
staminali
e
sulla
terapia
cellulare,
si
veda:
Cogle
C.R.,
Guthrie
S.M.,
Sanders
R.C.,
Allen
W.L.,
Scott
E.W.,
and
Petersen
B.E.,
An
overview
of
stem
cell
research
and
regulatory
issues,
Mayo
Clinic
Proceedings
2003,
78:
993-‐1003.
[97]
Giovanni
Paolo
II,
Discorso
al
18th
International
Congress
of
the
Transplantation
Society
(29
Agosto
2000),
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
2000,
92:
822-‐826,
p.
826.
[98]
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
Donum
vitae,
I,
1,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1988,
80,
p.
79.
[99]
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede,
Donum
vitae,
I,
1,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1988,
80,
p.
79;
citata
in:
Giovanni
Paolo
II,
Evangelium
vitae,
60,
in:
Acta
Apostolicae
Sedis
1995,
87,
p.
469.
176
ANTONIO
SPAGNOLO
LO
SVILUPPO
DELLA
REVISIONE
ETICA
FORMALIZZATA
DELLA
RICERCA
BIOMEDICA
I
Comitati
Etici
per
la
Ricerca
biomedica
(d’ora
in
avanti
CER)
possono
essere
definiti
come
organismi
indipendenti
composti
da
persone
con
diverse
competenze,
medico-‐scientifiche
e
non,
che
hanno
la
responsabilità
di
assicurare
che
i
progetti
di
ricerca
biomedica
che
coinvolgono
soggetti
umani
siano
conformi
ai
principi
dell’etica
biomedica.[1]
Questa
esigenza
della
revisione
etica
formalizzata
della
ricerca
biomedica
deriva
dal
fatto
che
proprio
la
sperimentazione
ha
rappresentato
una
di
quelle
esperienze
morali
che
hanno
turbato
profondamente
le
coscienze
nella
seconda
metà
del
XX
secolo
e
che
possiamo
collocare,
insieme
con
la
tecnologizzazione
della
medicina
e
l’uso
ideologico
della
stessa,
fra
le
condizioni
storico-‐
culturali
che
sono
all’origine
della
bioetica
come
movimento
e
come
disciplina.[2]
All’indomani
del
Processo
di
Norimberga,
infatti,
emerse
con
sconcertante
evidenza
che
la
ricerca
medica
poteva
essere
utilizzata,
oltre
che
per
curare,
anche
per
commettere
delitti,
delitti
oggi
conosciuti
e
raccolti
dagli
atti
del
Processo
che
rimangono
come
una
testimonianza
in
negativo
di
quanto
possa
essere
fatto
dal
potere
assoluto
svincolato
dalla
morale
o
presunto
detentore
della
morale
stessa,
anche
con
la
collaborazione
di
medici
e
ricercatori
che
si
lasciarono
strumentalizzare
dal
potere
politico,
ritenendosi
giustificati
perché
“costretti”[3].
Così,
nonostante
che
da
sempre
la
ricerca
biomedica
fosse
stata
condotta
in
modo
più
o
meno
controllato
–
anche
in
ossequio
alle
esigenze
del
metodo
sperimentale
-‐
la
preoccupazione
specifica
degli
aspetti
etici
implicati
nella
conduzione
della
ricerca
si
manifestò
concretamente
proprio
dopo
la
Seconda
Guerra
Mondiale,
con
la
documentazione
delle
atrocità
commesse
dai
medici
nazisti
in
nome
di
questa
ricerca.
E
il
Codice
di
Norimberga
(1947),
con
il
richiamo
alla
irrinunciabilità
del
consenso
informato
dei
soggetti
di
sperimentazione
e
alla
protezione
“oggettiva”
di
essi
da
parte
dello
sperimentatore
rappresentò
uno
dei
primi
documenti
di
bioetica
ante
litteram.
Due
linee
di
normative
si
svilupparono
a
partire
da
quel
momento
tragico:
la
dottrina
dei
“diritti
dell'uomo”,
culminata
nella
Dichiarazione
Universale
dei
diritti
dell’uomo
del
1948,
e
l'approvazione
via
via
aggiornata
di
linee-‐guida
specifiche
per
l’etica
della
sperimentazione
emanati
da
organismi
internazionali,
come
l'Associazione
Medica
Mondiale
cui
si
deve
la
famosa
Dichiarazione
di
Helsinki,
emanata
nel
1964
e
successivamente
rivista
più
volte
(l’ultima
ad
Edimburgo
nell’ottobre
del
2000).
Questa
normativa
sovranazionale
necessariamente
veniva
ad
implicare
e
richiedere
una
fondazione
teoretica
e
giustificativa
dell’etica
della
ricerca
biomedica,
facendo
confluire
di
fatto
tale
fondazione
fra
gli
ambiti
di
riflessione
della
bioetica,
la
nuova
disciplina,
appunto,
che
stava
per
sorgere.
Ci
volle
un
certo
tempo
prima
che
il
Codice
di
Norimberga
venisse
implementato
in
termini
di
sorveglianza
formale
della
ricerca
sull’uomo.
E
così
anche
dopo
Norimberga
la
società
nord-‐
americana
degli
anni
‘50-‐‘60,
dovette
confrontarsi
con
la
realtà
di
alcune
ricerche
che
non
avevano
nulla
da
invidiare
a
quelle
compiute
dai
medici
nazisti,
abusi
sistematicamente
organizzati
di
sperimentazione
selvaggia
sull'uomo
che
generarono
profonda
sofferenza
morale.
Nel
1963,
ad
esempio,
al
Jewish
Chronic
Disease
Hospital
di
Brooklyn
erano
state
iniettate,
nel
corso
di
una
sperimentazione,
cellule
tumorali
in
pazienti
anziani,
senza
il
loro
consenso,
al
fine
di
studiare
le
modalità
di
diffusione
del
tumore.
L’età
dei
soggetti
e
la
prospettiva
che
gli
177
eventuali
effetti
negativi
di
tale
esperimento
probabilmente
non
avrebbero
fatto
in
tempo
a
manifestarsi
in
loro,
permettendo
invece
lo
studio
dei
meccanismi
di
metastatizzazione
delle
neoplasie,
furono
le
ragioni
addotte
dai
medici
chiamati
a
risponderne
in
tribunale.
O,
ancora,
nel
periodo
1965-‐1971
al
Willowbrook
State
Hospital
di
New
York
vennero
condotti
una
serie
di
studi
sull'immunizzazione
contro
l’epatite
virale,
inoculando
il
virus
in
alcuni
bambini
orfani,
psichicamente
handicappati,
ricoverati
nell'ospedale.
Henry
Beecher,
professore
di
anestesiologia
alla
Facoltà
di
medicina
dell’Università
di
Harvard
pubblicò
circa
venti
anni
dopo
il
Codice
di
Norimberga
un
famoso
articolo
nel
quale
riportava
alcune
decine
di
esempi
di
ricercatori
che
avevano
messo
a
rischio
la
vita
e
la
salute
di
soggetti
umani
senza
informarli
dei
pericoli
che
la
ricerca
comportava
e
senza
ottenere
previamente
il
loro
consenso.[4]
E
l’anno
dopo
M.H.
Pappworth[5]
denunciò
centinaia
di
sperimentazioni
non
etiche
molte
delle
quali
pubblicate
su
prestigiose
riviste
scientifiche.
Sarebbe
un
errore,
tuttavia,
pensare
che
prima
della
introduzione
formalizzata
di
una
revisione
sistematica
della
ricerca
non
vi
fosse
alcuna
attenzione
alla
sicurezza
e
agli
interessi
dei
soggetti
coinvolti
nella
sperimentazione.
Walter
Reed
che
ha
studiato
a
lungo
la
febbre
gialla,
introdusse
sin
dal
1900
un
vero
e
proprio
consenso
informato
per
i
soggetti
che
partecipavano
alla
sperimentazione
su
questa
malattia,
con
la
informazione
previa
su
rischi
e
la
documentazione
del
consenso
espresso.[6]
E
la
Germania,
forse
primo
paese
al
mondo,
emanò
nel
1931
delle
linee
guida
ufficiali,
rivolte
ai
centri
di
ricerca
universitari,
che
i
medici
avrebbero
dovuto
seguire
per
l'uso
di
"nuove
terapie"
e
per
l'esecuzione
di
esperimenti
scientifici.
Fatto
ancor
più
sorprendente,
tali
raccomandazioni
riguardanti
la
sperimentazione
avevano
già
un
precedente
in
una
direttiva
emanata
nel
1900
dal
governo
prussiano
in
seguito
al
dibattito
acceso
dal
"caso
Neisser".
Nel
1898
il
prof.
Albert
Neisser,
scopritore
del
batterio
che
causa
la
gonorrea
-‐
che
venne
chiamato
appunto
Neisseria
gonorreae
-‐
pubblicò
i
dati
di
una
sperimentazione
su
pazienti
sifilitici.
Tale
pubblicazione
fu
accompagnata
da
discussioni
e
polemiche
poiché
Neisser
per
raggiungere
i
suoi
scopi
scientifici
aveva
iniettato
il
siero
proveniente
da
malati
sifilitici
a
donne
dedite
alla
prostituzione
e
ad
altri
pazienti
ricoverati
per
altre
patologie,
inconsapevoli
e
ignari
di
tutto
ciò.[7]
Nonostante
le
raccomandazioni
contenute
nelle
Richtlinien
possano
essere
considerate
non
meno
avanzate
e
cogenti,
e
in
alcuni
elementi
anche
più
dettagliate
di
quelle
del
Codice
di
Norimberga
e
della
Dichiarazione
di
Helsinki,
esse
non
ebbero
la
forza
e
l'incisività
per
impedire
a
diversi
medici
di
macchiarsi
di
orribili
crimini
contro
persone
inermi,
vittime
dell'abominio
nazista
nei
campi
di
concentramento.[8]
Quello
che
era
mancato
in
questi
esperimenti
era
non
solo
il
consenso
informato
dei
soggetti,
ma
anche
la
correttezza
delle
procedure
del
disegno
sperimentale,
la
protezione
contro
i
rischi
eccessivi
a
cui
i
soggetti
erano
esposti,
la
libertà
di
potersi
ritirare
in
qualsiasi
momento
dalla
sperimentazione,
e
altri
ancora.
Furono
perciò
questi
aspetti
che
la
comunità
scientifica
e
sociale
ritenne
si
dovessero
valutare
prima
di
dare
inizio
ad
una
sperimentazione
clinica
ed
è
da
qui
che
nasce
sostanzialmente
l’esigenza
di
una
revisione
etica
previa,
sistematica
e
formale,
di
ogni
progetto
di
ricerca
da
parte
di
una
commissione
indipendente.
La
nascita
e
la
diffusione
dei
CER
deriva,
cioè,
dall'esigenza
di
impedire
il
verificarsi
di
abusi
come
quelli
perpetrati
in
molte
esperienze
del
passato
attraverso
sperimentazioni
effettuate
su
soggetti
umani,
frequentemente
appartenenti
a
categorie
particolarmente
vulnerabili.
Ma
sia
il
Codice
di
Norimberga
sia
la
prima
versione
della
Dichiarazione
di
Helsinki
del
1964
non
facevano
alcuna
menzione
ai
comitati
di
revisione;
in
questi
documenti
la
responsabilità
della
tutela
della
salute
e
dei
diritti
dei
soggetti
coinvolti
nella
ricerca
era
fatta
ricadere
esclusivamente
sul
ricercatore.
178
SISTEMA
GIURIDICO
VS.
SISTEMA
NON
GIURIDICO
DELLA
REVISIONE
ETICA
DELLA
RICERCA
La
formalizzazione
della
revisione
etica
delle
ricerca
da
parte
di
Commissioni
etiche
seguì
sostanzialmente
due
diverse
strade:
quella
del
sistema
giuridico
che
si
sviluppò
rapidamente
negli
Stati
Uniti
(USA)
e
che
sostenne
su
un
piano
legislativo
federale
ben
codificato
la
istituzione
di
queste
commissioni
indipendenti;
e
quella
del
sistema
non
giuridico,
autoregolamentativo,
che
è
stato
prevalente
fino
a
pochi
anni
fa
in
Europa
e
in
particolare
nel
Regno
Unito
(UK),
in
cui
linee-‐guida
di
organizzazioni
scientifiche
e
non
norme
di
legge
davano
indicazioni
su
come
costituire
e
far
funzionare
tali
commissioni
ai
fini
della
revisione
etica
della
ricerca.
Negli
USA,
la
Federal
Food,
Drug
and
Cosmetic
Act
del
1938
permetteva
ai
medici
di
sperimentare
i
nuovi
farmaci
senza
che
ci
fosse
una
revisione
etica
del
protocollo.
Nel
1962
tale
legislazione
venne
emendata
a
seguito
dei
drammatici
danni
che
aveva
causato
sui
feti
la
sperimentazione
della
talidomide
nelle
donne
in
gravidanza,
e
così
per
la
prima
volta
al
mondo
venne
esplicitamente
introdotto
in
una
legislazione
l’obbligo
del
consenso
informato
dei
soggetti
a
cui
venisse
somministrato
un
farmaco
sperimentale
(anche
se
questo
non
aveva
impedito
che
si
attuassero
tutte
quelle
sperimentazioni
non
etiche
degli
anni
’60
che
abbiamo
prima
richiamato).
Un
primo
documento
federale
che
richiedeva
la
revisione
etica
della
ricerca
da
parte
di
una
Commissione
indipendente
fu
emanato
già
nel
1953
(Group
Consideration
for
Clinical
Research
Procedures
Deviating
from
Accepted
Medical
Practice
or
Involving
Unusual
Hazard).
Tali
linee-‐
guida,
però,
erano
applicabili
solo
a
ricerche
condotte
in
centri
clinici
pubblici
presso
i
National
Institutes
of
Health
(NIH)[9]
che
in
quegli
anni
venivano
ad
essere
istituiti
e
che
erano
finanziati
con
fondi
federali.
Il
Direttore
dei
NIH
istituì
una
Commissione
che
esaminasse
il
sistema
più
opportuno
per
una
revisione
etica.
Delle
altre
istituzioni
di
ricerca,
come
università
e
centri
privati
statunitensi
si
sa,
invece,
poco
circa
la
presenza
in
quegli
anni
di
organismi
di
revisione
per
la
sperimentazione.
Nel
1961-‐62,
fu
rilevato,
attraverso
questionari
inviati
a
dipartimenti
di
medicina
di
università
americane,
che
un
terzo
di
quelli
che
avevano
risposto
avevano
dei
comitati,
e
un
quarto
di
essi
aveva
avviato
le
procedure
per
istituirlo.
Nel
1966,
il
nuovo
Direttore
Generale
Federale
della
Sanità
degli
Stati
Uniti
(Surgeon-‐General
of
the
United
States
Public
Health
Service,
USPHS),
il
dr.
William
H.
Stewart,
emanò
una
disposizione
sulla
responsabilità
delle
istituzioni
riguardo
alla
attività
di
ricerca
che
si
faceva
all’interno
di
esse.
Egli
sostenne
infatti
che,
accettando
i
fondi
pubblici
per
la
ricerca,
le
scuole
di
medicina,
gli
ospedali
e
le
altre
istituzioni
di
ricerca
accettavano
anche
di
condividere
la
responsabilità
pubblica
del
loro
uso.
Pertanto
egli
chiedeva
che
le
istituzioni
assicurassero
all’USPHS
che
tutte
le
proposte
di
ricerca
che
coinvolgessero
soggetti
umani
fossero
sistematicamente
sottoposti
ad
una
revisione
etica
indipendente,
sottolineando
anche
la
necessità
che
si
trattasse
di
persone
esterne
qualificate
sul
piano
scientifico[10].
Tale
Commissione
avrebbe
dovuto
esaminare
i
diritti
ed
il
benessere
degli
individui
coinvolti,
l'appropriatezza
dei
metodi
utilizzati
per
richiedere
il
consenso
informato,
i
rischi
ed
i
potenziali
benefici
medici
della
ricerca[11].
E
negli
NIH
venne
istituito
un
apposito
Ufficio
che
avrebbe
dovuto
dare
attuazione
alle
disposizioni
del
Direttore
Generale
Federale
della
Sanità
(Office
for
Protection
of
Research
Risk,
OPRR).
Ma
nonostante
queste
indicazioni
per
la
ricerca
pubblica,
ancora
nel
1972
un
nuovo
shock
sconvolse
l’opinione
pubblica,
quando
venne
alla
luce
il
tristemente
famoso
“Taskegee
Study”,
la
ricerca
–
iniziata
alcuni
decenni
prima
-‐
che
aveva
lasciato
senza
trattamento
antibiotico
circa
300
braccianti
negri
dell’Alabama
affetti
da
sifilide,
per
valutare
l’evoluzione
naturale
della
malattia.
179
Come
reazione
pubblica
a
questo
studio,
nel
1974
il
Presidente
Nixon
firmò
la
legge
sulla
ricerca[12]
nella
quale,
alla
sezione
474,
si
chiedeva
l’istituzione
degli
Institutional
Review
Boards
(IRBs)
in
tutte
le
sedi
dove
si
faceva
ricerca
con
fondi
pubblici
di
carattere
biomedico
e
comportamentale
che
coinvolgeva
soggetti
umani,
affinché
venissero
protetti
i
diritti
di
questi
ultimi
nel
corso
della
ricerca.
Tali
commissioni
dovevano
essere
presente
nello
stesso
istituto
dove
si
conduceva
la
sperimentazione.
Fu
regolamentata,
così,
una
realtà
già
molto
diffusa
in
molti
istituti
di
ricerca
negli
Stati
Uniti[13].
La
stessa
legge
istitutiva
anche
una
“Commissione
Nazionale
per
la
protezione
dei
soggetti
umani
nella
ricerca
biomedica
e
comportamentale”
che
avrebbe
avuto
il
compito
di
fornire
linee-‐guida
etiche
per
la
ricerca
(in
particolare
su
soggetti
vulnerabili
come
prigionieri,
bambini,
malati
mentali,
ecc.),
come
pure
indicazioni
per
il
funzionamento
degli
IRBs
incaricati
della
revisione
dei
protocolli
di
sperimentazione
e
la
formulazione
di
alcuni
princìpi
etici
fondamentali
che
avrebbero
dovuto
guidare
la
sperimentazione
sull’uomo.
La
Commissione
lavorò
dal
1974
al
1978,
producendo
il
famoso
Rapporto
Belmont
che
venne
pubblicato
nel
Registro
Federale
il
18
aprile
1979[14]
nel
quale
vennero
riportati
i
principi
fondamentali
a
cui
i
ricercatori
dovevano
ispirarsi:
principio
del
rispetto
delle
persone,
principio
di
beneficità,
principio
di
giustizia,
e
alla
luce
dei
quali
gli
IRBs
dovevano
valutare
i
protocolli
presentati
per
l’approvazione.[15]
A
fronte
di
questo
sistema
statunitense
di
revisione
etica
della
ricerca
rigidamente
controllato
dalla
legislazione
federale,
oltre
oceano,
in
particolare
nel
Regno
Unito,
la
costituzione
dei
Comitati
Etici
per
la
ricerca
(Research
Ethics
Committees,RECs)
fu
il
risultato
di
una
iniziativa
promossa
dalle
società
professionali
e
non
di
disposizioni
da
parte
delle
autorità:
il
Ministro
della
sanità,
anzi,
si
astenne
dall'intervenire
ritenendo
che
si
trattasse
di
materia
di
natura
squisitamente
etico-‐professionale.
Nell’ambito
di
questo
sistema
non
giuridico,
il
Royal
College
of
Physicians
(RCOP)
già
nel
1967
aveva
raccomandato
che
tutte
le
sperimentazioni
cliniche
fossero
previamente
approvate
da
un
gruppo
di
medici
comprendente
persone
esperte
nella
sperimentazione
clinica:
"all
projects
were
approved
by
a
group
of
doctors
including
those
experienced
in
clinical
investigation.
This
group
should
satisfy
itself
of
the
ethics
of
all
proposed
investigations"[16].
Negli
anni
successivi,
pur
con
una
notevole
variabilità
nella
composizione
e
nelle
modalità
di
funzionamento,
si
costituirono
comitati
per
l'etica
della
sperimentazione
ovunque
nel
Regno
Unito.
Perciò,
il
RCOP
nel
1984
ritenne
opportuno
pubblicare
delle
linee
guida
che
suggerissero
una
certa
uniformità
di
obiettivi,
strutture
e
procedure
per
un
miglior
funzionamento
dei
RECs.[17]
Anche
sul
piano
degli
organismi
internazionali,
lo
sviluppo
dei
CER
avvenne
inizialmente
nel
senso
di
un
sistema
non
giuridico.
E
la
prima
menzione
di
un
comitato
con
funzioni
di
revisione
della
ricerca
in
un
documento
internazionale
inerente
la
ricerca
clinica,
risale
alla
Dichiarazione
di
Helsinki
dell’Assemblea
Medica
Mondiale,
nella
revisione
di
Tokyo
del
1975
(non
vi
era
invece
traccia
del
riferimento
a
un
comitato
di
revisione
per
la
sperimentazione
clinica
nella
dichiarazione
originaria
del
1964).
In
tale
revisione
fu
stabilito
che
“il
progetto
e
l’esecuzione
di
ogni
fase
della
sperimentazione
riguardante
l’uomo
debbono
essere
chiaramente
definiti
in
un
protocollo
sperimentale
che
deve
essere
sottoposto
ad
un
Comitato
indipendente
nominato
appositamente
a
tale
scopo”
(I,
2).
Come
si
vede
tale
comitato
non
era
ancora
connotato
con
il
termine
“etico”,
ma
nella
maggior
parte
delle
nazioni
dove
via
via
andavano
costituendosi,
questi
comitati
vennero
denominati
Comitati
Etici
per
la
Ricerca
(CER)
o
più
semplicemente
Comitati
etici
(CE).
Negli
Stati
Uniti,
dove
la
denominazione
"comitato
etico"
(o,
meglio,
comitato
di
etica,
Ethics
Committee)
viene
utilizzata
generalmente
per
i
comitati
afferenti
ad
un
ospedale
e
che
hanno
funzioni
di
consulenza
etica
per
la
prassi
clinica
-‐
e
quindi
sono
di
supporto
alle
decisioni
cliniche
al
letto
del
malato
-‐
la
legge
federale
con
cui
sono
stati
istituiti
li
ha
denominati,
come
abbiamo
180
visto,
richiamando
la
loro
esclusiva
autorità
e
responsabilità
nell'autorizzare
la
conduzione
di
sperimentazioni
in
cui
sono
coinvolti
soggetti
umani[18].
Successivamente
i
CER
si
diffusero
in
tutte
le
nazioni
dove
si
svolgeva
ricerca
clinica,
con
diversa
denominazione
ma
con
il
compito
preciso
di
revisione
della
ricerca:
in
Canada,
alcuni
anni
dopo
gli
USA
fu
istituito
il
Comité
Deontologique
de
la
Recherche
(1978),
con
responsabilità
simili
circa
l'autorizzazione
delle
sperimentazioni,
ma
anche
per
offrire
"una
valutazione,
un
commento
e
una
guida"[19];
in
altre
nazioni
comparvero
con
vari
nomi:
Commissions
Facultaires
d'Ėthique
in
Belgio
(1984);
Ethik
Kommissionen
in
Germania
(1984);
Comité
Consultatif
de
Protection
des
Personnes
dans
la
Recherche
Biomédicale
in
Francia
(1988)[20].
In
Spagna
i
comitati
che
si
occupavano
di
etica
della
sperimentazione
clinica
incominciarono
a
sorgere
dopo
l'emanazione
della
legge
3
agosto
1982
che
obbligava
ogni
ospedale
ad
istituire
un
proprio
comitato
per
la
sperimentazione
con
ben
definite
caratteristiche
e
funzioni[21].
In
Italia
l’obbligo
di
sottoporre
alla
valutazione
di
un
CER
i
protocolli
di
sperimentazione
clinica
è
venuto
dalla
pubblicazione
sulla
Gazzetta
Ufficiale
del
Decreto
del
Ministro
della
Sanità
del
27
aprile
1992
che
ha
recepito
la
Direttiva
della
Comunità
Europea
91/507
relativa
alle
"norme
di
buona
pratica
clinica"
(GCP),
finalizzate
a
stabilire
i
principi
standard
nella
conduzione
dei
trials
per
la
sperimentazione
su
soggetti
umani
di
nuovi
prodotti
farmaceutici.
Così,
a
seguito
di
tale
Direttiva,
i
CER
hanno
cominciato
a
diffondersi
nei
vari
luoghi
di
ricerca
anche
se
non
era
ancora
prevista
una
regolamentazione
della
istituzione
e
del
funzionamento
di
tali
organismi
i
quali
hanno,
perciò,
continuato
a
sorgere
in
modo
spontaneo
ed
improvvisato,
senza
coordinazione
fra
loro
fino
alla
emanazione,
nel
1997-‐1998,
di
nuovi
Decreti
che
hanno
in
qualche
modo
regolamentato
l’attività
dei
CER[22].
Oggi,
come
vedremo,
il
loro
ruolo
di
revisione
della
ricerca
venne
previsto
da
tutte
le
linee-‐guida
internazionali
riguardanti
la
sperimentazione
sull’uomo
e
considerato
irrinunciabile
ai
fini
dell’attuazione
della
sperimentazione
stessa.
LA
QUALITÀ
DEI
CER:
DALLO
STATUTO
ALLE
PROCEDURE
OPERATIVE
DI
REVISIONE
ETICA
Storicamente,
dunque,
l'oggetto
fondamentale
della
valutazione
del
CER
è
stato
quello
della
tutela
dei
diritti
e
del
benessere
dei
soggetti
umani
inclusi
nelle
sperimentazioni,
attraverso
la
richiesta
del
loro
consenso
informato,
affinché
la
partecipazione
fosse
consapevole,
libera
e
volontaria,
e
l'analisi
dei
rischi
e
dei
benefici.
Nel
1978
la
National
Commissionaggiunse
come
ulteriore
requisito
l'equità
nella
selezione
dei
soggetti
di
ricerca[23].
La
National
Commission
era
particolarmente
preoccupata
della
tutela
dei
soggetti
più
vulnerabili
rispetto
all'eventualità
di
un
loro
utilitaristico
coinvolgimento
nelle
sperimentazioni.
Successivamente,
allorché
la
partecipazione
ad
alcuni
tipi
di
sperimentazioni
vennero
percepite
come
un
possibile
beneficio
(ad
es.,
nel
caso
del
rischio
di
patologie
cardiovascolari
nelle
donne
in
età
menopausale
o
delle
terapie
anti-‐AIDS)
ai
CER
fu
richiesto
di
assicurare
un
equo
accesso
a
tali
benefici
alle
categorie
di
persone
più
svantaggiate
e
bisognose
di
maggiore
protezione
sociale[24].
L'attività
dei
CER
è
quindi
da
sempre
primariamente
e
spesso
esclusivamente
dedicata
a
cercare
di
assicurare
che
la
ricerca
clinica
e
scientifica,
che
costituisce
di
per
sé
un
valore
positivo
e
da
promuovere
per
le
ricadute
benefiche
che
può
dare
nel
progresso
biomedico
e
sociale,
non
si
rivolga
contro
l'uomo
stesso
che
ne
è
direttamente
coinvolto
e
che
vi
contribuisce
in
modo
fondamentale,
sia
conforme
ad
una
serie
di
requisiti
rilevanti
ai
fini
del
giudizio
di
eticità.
Un
carattere
simile
avevano,
fino
al
1973[25],
i
comitati
che
stabilivano
il
rischio
di
vita
per
la
madre
in
vista
della
richiesta
di
praticare
l'aborto.
La
finalità
ristretta
e
il
carattere
vincolante
della
decisione
di
questi
comitati
non
hanno
avuto
seguito
nei
comitati
di
etica
ospedalieri
181
istituiti
negli
Stati
Uniti
negli
anni
'80,
dopo
un
pronunciamento
dellaPresident's
Commission
for
the
Study
of
Ethical
Problems
in
Medicine
and
Biomedical
and
Behavioral
Research
che
raccomandava
la
costituzione
in
tutti
gli
ospedali
di
comitati
di
etica
che
svolgessero
tre
attività
fondamentali:
la
consulenza
etica
di
casi
clinici,
la
redazione
di
linee-‐guida
e
raccomandazioni
e
la
formazione
sugli
aspetti
etici
della
prassi
clinica[26].
Per
il
compito
di
salvaguardia
della
sicurezza,
dell'integrità
e
dei
diritti
delle
persone
coinvolte
nella
sperimentazione
e
per
evitare
il
ripetersi
di
abusi
e
prevaricazioni
di
carattere
scientifico
ed
economico,
il
CER
rappresenta
un
organo
di
garanzia
etica
ma
anche
deontologica
e
legale,
essendo
riconosciuta
la
sua
attività
di
revisione
nelle
normative
e
regolamenti
nazionali
e
internazionali.
Tale
espressione
di
garanzia,
in
effetti,
ha
un
valore
fondamentale
ed
una
ricaduta
positiva
e
foriera
di
benefici
anche
per
la
qualità
della
ricerca
clinica
in
generale
e
delle
singole
sperimentazioni.
Nel
1996
l'Unione
Europea,
insieme
a
Stati
Uniti
e
Giappone
con
l’emanazione
delle
International
Conference
on
Harmonisation
–
Good
Clinical
Practice
(ICH-‐GCP)[27],
poi
recepite
dalle
singole
nazioni,
intendevano
conseguire
proprio
questo
duplice
obiettivo:
promuovere
lo
sviluppo
e
la
qualità
della
ricerca
clinica
utilizzando
al
meglio
le
risorse
disponibili,
e
garantire
la
sicurezza
e
la
tutela
dei
diritti
dei
soggetti
partecipanti.
Il
principale
e
determinante
strumento
applicativo
di
queste
nuove
linee
guida
veniva
riaffermato,
con
più
forza,
essere
il
CER
(definito
in
quel
documento
Comitato
Etico
Indipendente),
dopo
le
precedenti
linee
guida
europee
del
1991.
I
CER
sono
chiamati,
dunque,
ad
assolvere
un
compito
fondamentale
per
il
bene,
prima
di
tutto,
delle
persone
coinvolte,
poi
della
società
e
del
progresso
biomedico,
attraverso
un'efficacia
operativa
ancora
maggiore,
che
va
oltre
la
necessaria
legittimazione
ufficiale
e
i
rigori
formali.
È
importante,
allora,
che
il
CER
acquisisca
il
riconoscimento
del
valore
della
sua
attività
di
revisione
e
delle
sue
decisioni
in
forza
della
dimostrazione
della
sua
indipendenza
ed
autonomia,
della
sua
competenza
e
del
perseguimento
del
principale
e
fondamentale
obiettivo
della
tutela
della
vita
e
della
dignità
dei
soggetti
di
sperimentazione,
prima
che
del
progresso
della
ricerca
clinica.
Le
disposizioni
normative
vigenti,
oltre
ai
documenti
internazionali
di
riferimento
etico-‐
deontologico,
implicano
per
i
CER
alcuni
impegni
irrinunciabili:
la
conformazione
del
proprio
statuto
ai
principi
fondamentali
contenuti
nelle
linee
guida
e
l'organizzazione
operativa
necessaria
ad
un
adeguato
funzionamento
del
CER
stesso.
Rimane
determinante
e
centrale,
però,
il
recupero
e
la
promozione
del
ruolo
"etico",
rispetto
all'attività
di
revisione
ma
anche
a
quella
di
formazione,
del
CER
disgiungendolo
da
quello
burocratico-‐amministrativo,
che
le
stesse
disposizioni
di
legge
prevedono
e
forse
enfatizzano.
Infatti,
l'attribuzione
di
un
potere
decisionale
a
carattere
vincolante
ha
reso
plausibile
il
rischio
di
trasformare
questo
organismo
in
un
comitato
di
controllo
amministrativo
piuttosto
che
in
un
luogo
di
revisione
e
di
riflessione
scientifica
ed
etica
sulla
sperimentazione
e
di
supporto
per
i
ricercatori[28].
Diventano,
dunque,
fondamentali
nell'attività
del
CER
l'atto
istitutivo,
con
il
riferimento
ai
principi
e
finalità
predefiniti
nello
statuto,
e
le
modalità
di
funzionamento
preventivamente
organizzate
ed
eventualmente
perfezionabili
secondo
le
singole
esperienze
e
necessità.
Anche
la
World
Health
Organization
attraverso
l'emanazione
nel
2000
delle
Operational
Guidelines
for
Ethics
Committees
That
Review
Biomedical
Research
(d’ora
in
avanti
WHO
Operational
Guidelines)richiama
la
necessità
di
stabilire
per
i
CER
procedure
che
"assicurino
coerenza
e
facilitino
la
cooperazione"
(n.
3)[29].
L'atto
costitutivo
di
un
CER,
da
parte
di
un'istituzione
sanitaria
e
di
ricerca
(ospedale,
azienda
sanitaria,
università,
…),
potrebbe
essere
preceduto
e
facilitato
da
una
commissione
promotrice
di
esperti
(che
non
faranno
parte
del
CER),
in
parte
interni
alla
stessa
struttura
e
in
buona
parte
esterni
(per
salvaguardare
l'indipendenza),
con
il
compito
di
emanare
lo
statuto
(in
concordanza
182
con
le
norme
vigenti
e
con
i
principi
dell'istituzione)
e
di
individuare
le
persone
competenti
a
svolgere
il
ruolo
di
componente
rispetto
alla
professionalità
richiesta.
L'indicazione
a
procedere
innanzitutto
con
l'elaborazione
dello
statuto
deriva
da
un'esigenza
di
trasparenza
e
visibilità
dell'attività,
di
coerenza
e
lealtà
rispetto
ai
criteri
di
riferimento
dell'ente
promotore
e
del
CER
stesso.
La
dichiarazione
pubblica
dei
principi
ispiratori,
dei
criteri
e
delle
linee
guida
di
riferimento,
delle
priorità
da
perseguire,
qualificano
la
natura
non
solo
ideologica
ma
anche
operativa
del
CER;
perciò
sarebbe
opportuno
che
l'emanazione
di
tale
documento
preceda
la
costituzione
del
CER,
pur
rimanendo
la
possibilità
di
verifica
successiva
dell'idoneità
delle
modalità
costitutive
e
l'eventuale
proposta
di
elementi
correttivi
e
migliorativi.
I
riferimenti,
oltre
a
quelli
ovvi
alla
normativa
nazionale
vigente,
ai
principali
Documenti
internazionali
come
la
Dichiarazione
Universale
dei
diritti
dell'uomo
(ONU,
1948)
e
soprattutto
a
quelli
relativi
alla
sperimentazione
sull'uomo,
come
la
Dichiarazione
di
Helsinki
nella
versione
più
recente,
le
ICH-‐GCP
dell'Unione
Europea,
le
International
Guidelines
del
CIOMS
(2002),
la
Convenzione
europea
sui
diritti
dell'uomo
e
la
biomedicina
del
Consiglio
d'Europa
(1996),
i
Codici
di
deontologia
medica,
i
documenti
dei
Comitati
Nazionale
per
la
Bioetica,
costituiscono
un
elemento
imprenscindibile
al
perseguimento
delle
finalità
proprie
del
CER.
Inoltre,
nel
caso
di
un'istituzione
sanitaria
di
ispirazione
religiosa
o
che
intende
caratterizzarsi
per
il
rispetto
di
determinati
valori
e
principi
morali,
lo
statuto
dovrebbe
contenere
il
riferimento
a
tali
principi
(ad
esempio,
in
una
istituzione
sanitaria
cattolica
potrebbe
essere
opportuno
il
riferimento
alle
indicazioni
del
Magistero
cattolico[30]);
tale
sottolineatura
non
rappresenta
una
mera
formalità
ma
un
elemento
fondamentale
che
contraddistingue
quella
particolare
istituzione
sanitaria
e
l'attività
dello
stesso
CER,
un
elemento
dirimente
e
da
far
valere
soprattutto
in
eventuali
contenziosi
fra
la
legge
civile
e
i
suddetti
principi
(vedi
più
avanti).
Oltre
a
principi
ispiratori
e
finalità,
lo
statuto
dovrebbe
indicare
la
composizione
e
tutti
quegli
elementi
necessari
all'operatività
dei
membri
che
non
possono
essere
stabiliti
dagli
stessi
nel
regolamento
interno:
gli
aspetti
economici,
l'autorità
che
approverà
e
istituirà
il
CER.
Per
l'Italia,
il
Decreto
Ministeriale
del
15
luglio
1997
stabilisce
che
i
comitati
etici
per
la
valutazione
delle
sperimentazioni
cliniche
sono
istituiti
dall'organo
di
amministrazione
delle
strutture
sanitarie
che
intendono
eseguire
sperimentazioni
cliniche
(art.
3)[31].
Insieme
al
requisito
della
multidisciplinarietà
e
della
composizione
multisettoriale,
dovrebbe
essere
ribadita
nello
statuto
l'esigenza
fondamentale
dell'indipendenza
del
CER
da
ogni
influenza,
interna
ed
esterna
all'istituzione,
per
cui
anche
la
composizione
dovrebbe
riflettere
tale
volontà.
A
questo
proposito,
l'European
Forum
for
Good
Clinical
Practice
(EFGCP)
nelle
Guidelines
and
Recommendations
for
European
Ethics
Committees
(una
proposta
di
linee
guida
e
raccomandazioni
per
i
comitati
etici
europei
coinvolti
nella
valutazione
della
ricerca
biomedica)
raccomanda
che
i
comitati
etici
non
siano
nominati
da
persone
o
istituzioni
che
possano
avere
interessi
specifici
nella
sperimentazione,
come
sponsor
o
sperimentatori
(2.A)[32],
mentre,
più
realisticamente,
le
WHO
Operational
Guidelines
richiedono,
laddove
tale
conflitto
di
interessi
sia
inevitabile,
che
vi
sia
trasparenza
e
siano
resi
noti
tali
interessi
(4.1.3).
Entrambi
i
documenti
raccomandano
comunque
di
prevedere
una
procedura
per
la
nomina
che
includa
oltre
al
nome
della
struttura
o
del
responsabile
della
nomina,
anche
la
procedura
per
selezionare
i
candidati
e
il
metodo
per
la
scelta
del
candidato
(ad
esempio,
se
per
consenso,
per
voto
di
maggioranza,
per
scelta
diretta).
Le
modalità
della
nomina
dovrebbero
includere,
al
minimo,
oltre
alla
durata
e
alla
condotta
per
il
rinnovo,
anche
le
procedure
per
le
dimissioni,
per
la
ricusazione,
per
la
sostituzione.
Insieme
ai
componenti
effettivi
del
CER,
un
importante
contributo
alla
revisione
dei
protocolli
di
sperimentazione
può
venire
da
consulenti
esterni
e
indipendenti
che
possono
essere
invitati
ad
hoc
o,
come
suggeriscono
le
WHO
Operational
Guidelines,
essere
scelti
e
inclusi
in
una
lista
permanente:
tali
consulenti,
che
possono
anche
fornire
solo
un
commento
scritto
(6.1.5)
possono
183
essere
esperti
di
specifici
aspetti
del
protocollo
o
di
patologie
o
di
metodologie,
o
anche
rappresentanti
di
associazioni
o
di
particolari
gruppi
di
pazienti,
e
le
modalità
di
consultazione
dovrebbero
essere
precedentemente
definite
(4.6).
Naturalmente,
anche
i
consulenti
esterni
invitati
a
collaborare
con
il
CER
sono
esplicitamente
vincolati,
come
i
componenti
del
CER,
all’obbligo
della
segretezza
sulle
informazioni
che
verranno
a
conoscere
nello
svolgimento
del
proprio
incarico.
La
valutazione
etica
di
un
protocollo
di
sperimentazione
implica
un
giudizio
relativo
al
rispetto
dei
diritti
dei
soggetti
per
quanto
concerne
l’integrità
fisica,
psichica
e
morale,
dei
principi
di
giustizia
e
pari
opportunità,
dei
diritti
delle
persone
che
accedono
alla
struttura
per
motivi
assistenziali
e
che,
pur
non
essendo
direttamente
coinvolti
nel
protocollo,
possono
risentire
delle
conseguenze,
del
diritto
del
medico
partecipante
a
svolgere
il
proprio
compito
primario
di
terapeuta
senza
condizionamenti.
Perciò
il
CER
ha
anche
la
funzione
di
verificare
la
compatibilità
delle
sperimentazioni
non
solo
con
le
normative
ed
i
regolamenti
vigenti,
ma
anche
con
le
caratteristiche
culturali
ed
il
background
etico-‐morale
e
religioso
della
popolazione
locale,
con
le
condizioni
operative
della
struttura
dove
si
svolgerà
la
sperimentazione,
con
i
diritti
fondamentali
della
persona.
Le
già
menzionate
Guidelines
del
1997
dell’EFGCP
contengono
le
indicazioni
sulle
disposizioni
che
dovrebbero
essere
prestabilite
dal
CER
circa
le
competenze
auspicabili
per
una
idonea
revisione
del
protocollo,
oltre
al
quorum
minimo
dei
componenti.
L’EFGCP
(come
le
ICH-‐GCP)
raccomanda
che
un
minimo
di
cinque
persone
costituisca
il
quorum
e
rileva,
per
quanto
concerne
il
numero
massimo,
che
non
dovrebbe
essere
superiore
a
dodici,
poiché
con
un
grande
numero
di
persone
è
più
difficile
pervenire
alle
decisioni.
Nello
stesso
documento
si
raccomanda
che
nel
quorum
siano
rappresentati
soggetti
di
entrambi
i
sessi,
un’ampia
fascia
di
età,
l’espressione
culturale
della
comunità
locale,
ed
inoltre
siano
presenti
almeno
i
seguenti
membri:
due
medici
che
abbiano
esperienza
e
pratica
corrente
di
ricerca
clinica
secondo
le
GCP,
indipendenti
dall’istituzione
dove
è
condotta
la
sperimentazione,
un
componente
“laico”,
un
giurista
e
un
paramedico
(2.E)[33].Oltre
alla
competenza
ed
esperienza
professionale
nell’area
specificamente
richiesta,
le
persone
cui
viene
richiesto
di
collaborare
nel
CER
dovrebbero
essere,
anche
per
ovvi
motivi
di
credibilità
esterna,
di
riconosciuto
valore
etico
ed
integrità
professionale.
Una
questione
che
è
connessa
con
i
membri
del
CER
è
la
loro
indipendenza
nei
confronti
dell’istituzione:
certamente
una
significativa
presenza
(e
l’eventuale
presidenza)
di
componenti
non
dipendenti
dalla
istituzione
potrebbe
rappresentare
un
elemento
determinante
nella
salvaguardia
del
CER
da
influenze
indebite[34].
Tale
misura
non
dovrebbe
essere
sottovalutata,
dato
che
l’interesse
a
condurre
sperimentazioni
cliniche
non
è
solo
animato
da
motivi
scientifici
o
accademici
ma
anche
e
soprattutto
di
natura
economica
(gli
introiti
economici
previsti
dagli
sponsor
non
sono
solo
per
gli
sperimentatori
ma
anche
per
l’istituzione)
che
potrebbero
condizionare
le
decisioni
in
caso
di
presidenti
professionalmente
dipendenti
(soprattutto
se
direttamente
coinvolti
nell’amministrazione)
della
stessa
istituzione
in
cui
opera
il
CER.
Un'altra
misura
da
porre
in
essere
per
quanto
concerne
l’imparzialità
della
decisione
è
l’allontanamento
dalla
riunione
e
l’astensione
dal
partecipare
alla
discussione
e
alla
decisione
riguardante
protocolli
o
questioni
da
parte
del
componente
del
CER
che
vi
abbia
un
qualche
interesse
o
condizionamento.
Come
si
evince
dalle
raccomandazioni
dell’EFGCP
(2.C.i)
e
della
WHO
(7.1),
nel
caso
di
conflitto
di
interesse,
tale
procedura
di
esclusione
(e
prima
ancora
di
comunicazione
e
registrazione
per
iscritto
di
tale
condizione)
dovrebbe
essere
stabilita
nello
statuto
o
nel
regolamento
del
CER,
e
sottoscritta
dai
singoli
componenti
all’atto
di
accettazione
della
nomina.
Occorre
considerare,
inoltre,
che
il
conflitto
di
interesse
può
essere
diretto
o
indiretto,
come
il
coinvolgimento
nella
progettazione
o
nella
conduzione
della
sperimentazione,
i
rapporti
di
cointeresse
o
di
dipendenza
con
lo
sperimentatore,
i
rapporti
di
consulenza
con
184
l’azienda
produttrice
del
farmaco[35].
Complessa
è
in
particolare
la
questione
relativa
al
cointeresse
economico
rispetto
soprattutto
alle
grandi
aziende
farmaceutiche
internazionali,
spesso
quotate
in
borsa
e
coinvolte
in
investimenti
economici,
cui
potrebbe
partecipare,
sotto
forma
di
prodotto
finanziario,
un
qualsiasi
cittadino,
quindi
anche
un
componente
del
CER.
Nello
statuto
deve
essere,
infine,
fatto
riferimento
al
funzionamento
del
CER,
rimandando
alle
procedure
operative
che
dovranno
essere
in
seguito
definite
nel
regolamento
interno.
Dopo
l'approvazione
dello
statuto
e
la
nomina
dei
componenti
del
CER
da
parte
dell'autorità
competente,
è
indispensabile,
come
indicato
nelle
WHO
Operational
Guidelines
(4.4),
per
un
adeguato
funzionamento,
l'istituzione
di
un
ufficio
di
segreteria
che
abbia
la
responsabilità
dell'organizzazione
tecnica
delle
riunioni,
della
tempestiva
distribuzione
ai
componenti
dei
documenti
da
esaminare,
dell'archiviazione
della
documentazione,
dei
contatti
con
i
componenti
e
con
gli
utenti
esterni,
da
qui
l'esigenza
di
pianificare
anche
la
spesa,
per
dotare
delle
necessarie
risorse
tale
ufficio.
Perciò
per
contribuire
a
coprire
tali
costi
viene
generalmente
prevista
una
tassa
a
carico
dello
sponsor
per
l'istruzione
della
pratica.
Un
tema
importante
che
dovrebbe
essere
sottolineato
anche
nello
statuto
del
CER
è
quello
dell'educazione
continua
e
dell'aggiornamento
dei
membri.
Nella
dichiarazione
di
accettazione
dell'incarico
ogni
componente
del
CER
dovrebbe
sottoscrivere
anche
questo
particolare
impegno
a
partecipare
a
occasioni
di
formazione
e
di
aggiornamento.
La
disponibilità
a
ricevere
uno
specifico
training
introduttivo
e
ulteriori
successivi
aggiornamenti
per
contribuire
a
migliorare
il
lavoro
del
CER
viene
anzi
indicata
dalle
WHO
Operational
Guidelines
come
una
condizione
da
accettare
al
momento
della
nomina
(4.7).
Dopo
aver
visionato
lo
statuto
e
eletto
le
principali
cariche
(presidente
e
vicepresidente),
occorre
dunque
procedere
all'elaborazione
delle
procedure
operative,
definite
in
un
regolamento
che
sarà
vincolante
per
i
membri
del
CER
e
per
coloro
che
sottoporranno
una
richiesta
di
parere
etico
su
una
sperimentazione
clinica.
Queste
procedure,
che
dovranno
essere
il
più
possibile
funzionali,
flessibili,
trasparenti
e
standardizzate,
costituiscono
lo
strumento
che
traduce
in
un
certo
senso
tutta
l'attività
multidisciplinare
di
revisione
del
CER,
dal
momento
della
richiesta
fino
alla
comunicazione
del
parere.
L'applicazione
standardizzata
delle
procedure
operative
contribuisce,
inoltre,
a
garantire
imparzialità
e
coerenza
nella
valutazione,
continuità
di
riferimento
e
uniformità
di
lavoro
sia
per
coloro
che
richiedono
il
parere
sia
per
gli
stessi
componenti
del
CER
sia
per
altri
CER
chiamati
a
valutare
le
stesse
sperimentazioni.
L'aderenza
alle
procedure,
come
la
continua
revisione
dell'efficacia
di
esse,
permettono
al
CER
di
funzionare
in
modo
regolare
e
idoneo,
tenendo
conto
delle
opportunità
per
aumentare
la
qualità
della
valutazione.
Di
certo
la
prova
della
condotta
appropriata
ed
equilibrata
del
CER
è
rappresentata
proprio
dalla
risultante
dell'attività
di
discussione
e
valutazione
e
cioè
il
parere
scritto,
motivato,
sulle
singole
sperimentazioni.
Per
pervenire
all'emanazione
del
parere
il
CER
dovrà
affidarsi
ad
una
componente
rigida
o
burocratica
-‐
i
vincoli
operativi
fondamentali
e
le
formalità,
in
genere
richiesti
dalle
norme
vigenti,
per
la
validità
delle
riunioni,
l'emissione
dei
pareri,
l'istruttoria
del
protocollo,
ecc.
-‐
ed
una
più
interessante
ed
impegnativa
componente
dinamica
delle
procedure.
Quest'ultima,
che
dovrà
tenere
conto
di
esigenze
e
caratteristiche
locali,
potrà
trasformare
indicazioni
e
raccomandazioni
di
ordine
generale
in
una
guida
flessibile
di
lavoro
e
stimolare
il
CER
ad
un
continuo
confronto
tra
i
criteri
costitutivi
e
la
realtà
in
cui
opera.
Questa
particolare
capacità
di
adattamento
del
CER
potrà
facilitare
una
evoluzione
delle
sue
qualità
e
renderne
più
efficace
il
lavoro,
aumentando,
quindi,
innanzitutto
la
garanzia
di
protezione
dei
pazienti
(ad
esempio,
nell'evidenza
di
ripetute
necessità
di
particolari
competenze,
potrebbe
essere
modificata
la
composizione),
e
svolgendo
una
funzione
pedagogica
per
i
ricercatori.
Utili
indicazioni
potrebbero
derivare
anche
per
gli
sponsor
farmaceutici,
oltre
ad
ottenere
i
pareri
in
185
tempi
ragionevoli.
È
importante,
perciò,
che
le
procedure
stesse
prevedano
una
continua
auto-‐
valutazione.
Indispensabili
indicazioni
per
l'elaborazione
delle
procedure
operative
vengono
oltre
che
da
leggi
e
regolamenti
delle
singole
nazioni
(che
in
genere
derivano
da
recepimenti
e
adattamenti
dalle
linee
guide
internazionali),
dalle
già
citateWHO
Operational
Guidelines
e
Guidelines
dell'European
Forum
for
Good
Clinical
Practice,
oltre
che
dalle
ICH
GCP,
nel
paragrafo
relativo
ai
comitati
di
etica.
Utili
suggerimenti
possono
derivare
anche
da
associazioni
o
altri
organismi
che
si
occupano
di
etica
della
sperimentazione.
I
punti
fondamentali
considerati
in
questi
documenti
e
che
dovrebbero
essere
parte
integrante
delle
procedure
istitutive
ed
operative
del
CER
possono
confluire
in
uno
schema
generale
che
comprende
le
procedure
per
le
riunioni,
le
cariche
e
l'avvicendamento
dei
membri,
le
procedure
per
presentare
la
richiesta
e
per
la
revisione
del
protocollo
di
sperimentazione,
le
procedure
per
la
formulazione
e
la
comunicazione
del
parere,
le
procedure
per
il
monitoraggio
della
sperimentazione,
le
procedure
per
la
documentazione
e
l'archiviazione
e,
infine,
quelle
per
la
revisione
dell'attività
dello
stesso
CER.[36]
Il
momento
centrale
dell'attività
del
CER
è
costituito
dall'esame
del
protocollo
di
sperimentazione,
dall'analisi
di
tutte
le
sue
parti,
dalla
discussione
sui
molteplici
aspetti,
e
soprattutto
quelli
problematici,
che
lo
caratterizzano,
anche
se
la
revisione
non
è
limitata
al
solo
protocollo
ma
include
anche
altri
documenti
allegati
(ad
esempio,
i
pareri
eventualmente
già
emessi
da
altri
CER).
Per
quanto
riguarda
le
procedure
per
la
valutazione
del
protocollo,
dopo
la
distribuzione
della
documentazione
ai
componenti
prima
della
riunione,
può
essere
utile
eseguire,
prima
dell'analisi
complessiva
degli
aspetti
etici
e
scientifici
del
protocollo,
una
revisione
contenutistico-‐
strutturaleper
accertare,
da
parte
della
segreteria,
la
completezza
della
documentazione.
Quindi
una
valutazione
di
validità
scientifica
e
fattibilità
tecnica
potrebbe
essere
preventivamente
(rispetto
alla
riunione
collegiale)
condotta
da
un
nucleo
-‐
un
subcomitato
tecnico-‐scientifico,
eventualmente
implementato
da
consulenti
esterni
-‐
del
CER
ed
infine,
nell'ambito
della
riunione
collegiale,
disponendo
già
di
dati
tecnici
se
non
di
un
giudizio
sulla
validità
scientifica,
può
aver
luogo
la
valutazione
complessiva
di
eticità
-‐
con
l'analisi
degli
aspetti
scientifici
ed
etici,
assicurativi,
etc.,
attraverso
la
discussione
ed
i
contributi
individuali
dei
vari
membri.
Lo
sperimentatore
potrebbe
anche
essere
invitato
a
presentare
la
ricerca
o
a
chiarire
particolari
aspetti
di
essa.
Uno
schema
degli
elementi
da
considerare
ai
fini
della
valutazione
etica
del
protocollo
di
ricerca
è
riportato
nella
Tab.
1
e
riprende
integralmente
il
punto
6.2
delle
WHO
Operational
Guidelines.
Il
CER
potrebbe
anche
prevedere
delle
procedure
per
revisioni
"accelerate"
(expedited
review)
dei
progetti
di
ricerca,
stabilendo
le
condizioni
di
applicabilità
di
tale
modalità
e
il
carattere
della
decisione
presa
in
tale
evenienza[37].
Imprescindibile
dalla
valutazione
del
CER
non
è
solo
la
validità
scientifica
della
sperimentazione,
ma
anche
l'adeguatezza
delle
condizioni
di
protezione
dei
soggetti,
la
conformità
alle
GCP,
alla
Dichiarazione
di
Helsinki
e
alle
norme
vigenti,
e
la
fattibilità
nella
struttura
in
oggetto.
In
particolare,
la
decisione
sulla
validità
scientifica
implica
l'onere
e
la
responsabilità
del
giudizio
tecnico-‐scientifico
di
diverse
e
specifiche
figure
che
devono
necessariamente
possedere
adeguata
competenza,
per
i
riflessi
determinanti
che
avrà
il
loro
parere
nel
corso
della
valutazione
e
del
parere
complessivo.
186
Tab.
1
-‐
Elementi
di
revisione
etica
di
una
ricerca
(WHO,
Operational
Guidelines
for
Ethics
Committees
that
review
biomedical
research,
Geneva
2000,
6.2)
Disegno
scientifico
e
conduzione
dello
• le
cure
mediche
che
saranno
• l’adeguatezza,
completezza
e
studio
fornite
al
soggetto
di
ricerca
comprensibilità
della
• l’appropriatezza
del
disegno
durante
e
dopo
la
ricerca
informazione
scritta
e
dello
studio
in
relazione
agli
stessa;
verbale
che
sarà
data
ai
obiettivi,
alla
metodologia
• l’adeguatezza
della
soggetti
di
ricerca
e,
se
del
statistica
(inclusa
le
dimensioni
supervisione
medica
e
il
caso,
ai
loro
legali
del
campione)
e
la
possibilità
supporto
psico-‐sociale
per
i
rappresentanti;
di
raggiungere
valide
soggetti
di
ricerca;
• una
chiara
giustificazione
se
conclusioni
con
il
più
piccolo
• le
azioni
che
saranno
si
intende
includere
nella
numero
di
soggetti
di
ricerca;
intraprese
se
i
soggetti
di
ricerca
soggetti
che
non
• la
giustificazione
dei
rischi
e
ricerca
si
ritirano
possono
acconsentire
e
una
degli
inconvenienti
prevedibili
volontariamente
durante
lo
completa
descrizione
delle
soppesati
in
rapporto
ai
svolgimento
della
ricerca;
modalità
di
ottenimento
del
benefici
attesi
per
i
soggetti
di
• i
criteri
per
un
accesso
esteso,
consenso
o
l’autorizzazione
ricerca
e
le
comunità
coinvolte;
per
emergenza
e/o
per
un
uso
per
la
partecipazione
di
tali
• la
giustificazione
dell’uso
di
un
compassionevole
del
prodotto
soggetti;
gruppo
di
controllo;
in
studio;
• la
garanzia
che
i
soggetti
di
• i
criteri
per
il
ritiro
anticipato
• le
modalità,
se
del
caso,
per
ricerca
riceveranno
le
dei
soggetti
di
ricerca;
informare
il
medico
curante
informazioni
che
si
• i
criteri
per
la
sospensione
o
la
(medico
di
famiglia)
del
renderanno
disponibili
nel
conclusione
di
tutta
la
ricerca;
soggetto
di
ricerca
incluse
le
corso
della
ricerca
e
che
• l’adeguatezza
dei
procedure
per
acquisire
il
saranno
rilevanti
ai
fini
della
provvedimenti
che
saranno
consenso
dei
soggetti
di
loro
partecipazione
(incluse
presi
per
monitorare
e
valutare
ricerca
p er
f are
c iò;
quelle
relative
ai
loro
diritti,
la
conduzione
della
ricerca,
• la
descrizione
di
come
si
alla
sicurezza
e
al
benessere);
inclusa
la
costituzione
di
un
renderà
disponibile
ai
• le
disposizioni
per
ricevere
e
comitato
per
il
monitoraggio
soggetti
di
ricerca
il
prodotto
rispondere
alle
domande
e
dei
dati
sulla
sicurezza
(CMDS);
in
studio
una
volta
conclusa
la
alle
lamentele
da
parte
dei
• l’adeguatezza
della
struttura,
ricerca;
soggetti
di
ricerca
o
dei
loro
incluso
lo
staff
di
supporto,
le
• la
descrizione
di
qualsiasi
rappresentanti
durante
lo
risorse
disponibili
e
le
costo
economico
per
i
soggetti
svolgimento
del
protocollo
di
procedure
di
emergenza;
di
ricerca;
ricerca;
• le
modalità
con
cui
i
risultati
• i
compensi
e
i
rimborsi
per
i
della
ricerca
saranno
soggetti
di
ricerca
(sia
in
Considerazioni
sul
piano
sociale
comunicati
e
pubblicati;
denaro,
sia
in
servizi
e/o
• l’impatto
e
la
rilevanza
della
regali);
ricerca
sulla
comunità
locale
Reclutamento
dei
soggetti
di
ricerca
• le
modalità
di
indennizzo
o
come
pure
sulle
comunità
• le
caratteristiche
della
trattamento
medico
in
caso
di
interessate
da
cui
sono
popolazione
da
cui
saranno
danni,
disabilità
o
morte
del
reclutati
i
soggetti
di
ricerca;
presi
i
soggetti
di
ricerca
soggetto
di
ricerca
attribuibile
• i
passi
che
sono
stati
(inclusi
sesso,
età,
scolarità,
alla
partecipazione
alla
intrapresi
per
consultare
le
aspetti
culturali
ed
etnici,
stato
ricerca;
comunità
interessate
durante
economico);
• l’assicurazione
e
le
la
fase
della
progettazione
• i
mezzi
mediante
i
quali
sarà
disposizioni
per
il
della
ricerca;
attuato
il
contatto
inizialee
il
risarcimento
dei
danni;
• l’influenza
della
comunità
sul
reclutamento
dei
soggetti;
consenso
dei
singoli
soggetti
• i
mezzi
mediante
i
quali
sarà
Protezione
della
riservatezza
dei
di
ricerca;
fornita
l’informazione
ai
soggetti
di
ricerca
• le
modalità
di
consultazione
potenziali
soggetti
di
ricerca
o
della
comunità
nel
corso
ai
loro
rappresentanti;
• descrizione
delle
persone
che
della
ricerca;
• i
criteri
di
inclusione
e
di
avranno
a ccesso
a i
d ati
• l’ambito
in
cui
la
ricerca
può
esclusione
dei
soggetti
di
personali
d ei
s oggetti
d i
contribuire
alle
sue
ricerca;
ricerca,
inclusa
la
cartella
possibilità
costruttive,
come
187
Cura
e
protezione
dei
soggetti
di
clinica
e
i
campioni
biologici;
il
miglioramento
della
sanità
ricerca
• le
misure
intraprese
per
locale,
della
ricerca
e
della
• l’adeguatezza
della
assicurare
la
riservatezza
e
la
capacità
di
rispondere
ai
qualificazione
ed
esperienza
e
la
sicurezza
delle
bisogni
di
sanità
pubblica;
del/i
ricercatore/i
nell’ambito
informazioni
personali
• la
descrizione
della
dello
studio
proposto;
riguardanti
i
soggetti
di
disponibilità
e
possibilità
di
• ogni
previsione
di
sospensione
ricerca;
usufruire
del
prodotto
o
non
inizio
delle
terapie
sperimentato
con
successo
standard
a
motivo
della
ricerca,
Procedure
del
consenso
informato
da
parte
delle
comunità
e
giustificazione
di
tale
• completa
descrizione
delle
interessate,
alla
fine
della
condotta;
procedure
per
ottenere
il
ricerca;
consenso
informato,
inclusa
la
• le
modalità
con
cui
i
risultati
identificazione
di
coloro
che
della
ricerca
saranno
resi
saranno
responsabili
di
disponibili
ai
partecipanti
questo;
alla
ricerca
e
alle
comunità
interessate.
Anche
nell'analisi
dei
rischi-‐benefici,
nelle
misure
per
limitare
o
evitare
i
rischi,
nei
criteri
per
la
sospensione
o
l'interruzione
della
partecipazione
dei
soggetti,
in
tutti
quegli
aspetti
in
cui
è
assolutamente
necessaria
una
competenza
tecnica
specialistica
sarà
il
parere
dei
membri
"tecnici"
ad
assumere
un
rilievo
fondamentale,
mentre
i
membri
con
competenze
non
medico-‐
scientifiche
saranno
chiamati
a
porre
particolare
attenzione
agli
aspetti
etici,
legali,
ma
anche
psicologici,
per
l'impatto
che
la
sperimentazione
può
avere
sulle
persone
partecipanti
(ad
esempio,
valutando
se
la
partecipazione
alla
sperimentazione
condizionerà
eccessivamente
situazioni
già
difficili
o
precarie
dovute
alla
patologia)
ma
anche
sulla
comunità
locale.
Ampio
spazio
deve
essere
dato
nelle
procedure
alle
modalità
di
revisione
della
informazione
e
della
dichiarazione
di
consenso
dei
soggetti.
Per
questo
elemento
del
protocollo,
spesso
carente,
il
CER
potrebbe
redigere
una
guida
per
lo
sperimentatore
affinché
le
schede
di
informazione
e
consenso
presentate
per
l'approvazione
contengano
almeno
gli
elementi
di
eticità
previsti
dalla
normativa
e
dalle
linee
guida
internazionali.
L'ampiezza
e
completezza
dell'informazione
non
è
condizione
sufficiente,
da
sola,
di
eticità:
occorre
tenere
conto
delle
diversità
culturali
e
soggettive,
quindi
porre
attenzione
alla
chiarezza
e
scorrevolezza
del
testo[38],
alla
comprensibilità
dei
termini,
alla
caratterizzazione
del
linguaggio
(né
terroristico,
né
persuasivo).
Oltre
a
quelli
propri
del
protocollo,
altri
aspetti
da
prevedere
nelle
procedure
di
valutazione
della
sperimentazione
sono:
l'idoneità
del
ricercatore,
in
relazione
alla
sua
qualificazione
ed
esperienza,
e
della
sede,
gli
oneri
economici
che
non
devono
gravare
sulla
struttura,
l'adeguatezza
della
supervisione
medica
e
del
follow-‐up
dei
soggetti
e
la
polizza
assicurativa.
Tutti
questi
elementi
devono
essere
vagliati
prima
della
formulazione
del
parere,
che
dovrebbe
seguire
un
metodo
ben
definito
ed
uniforme.
È
certamente
auspicabile
che
il
CER
emetta
un
parere
che
esprima
il
più
ampio
consenso
o
dissenso
dei
membri,
anche
se,
qualora
l'accordo
sarà
improbabile,
dovrà
essere
previsto
il
voto
e
la
decisione
a
maggioranza
(due
terzi
dell'assemblea)
e
la
possibilità
per
i
dissenzienti
di
aggiungere
la
loro
opinione.
Il
parere,
se
sub
conditione,
deve
specificare
i
requisiti
da
acquisire,
e
se
negativo
deve
essere
supportato
da
chiare
motivazioni.
Nelle
procedure
di
comunicazione
del
parere
deve
essere
sottolineata
la
necessità
di
esprimersi
in
modo
chiaro
e
inequivocabile
sull'esito
della
valutazione.
A
questo
proposito
vi
sono
precise
indicazioni
nelle
ICH-‐GCP,
che
devono
essere
riprese
nelle
procedure
del
CER.
Anche
per
questa
procedura
il
CER
può
predisporre
un
modulo
standard
per
il
parere
scritto
con
tutti
i
punti
che
devono
essere
presenti:
titolo
e
data
della
sperimentazione,
i
documenti
esaminati,
il
nome
e
le
qualifiche
dei
componenti,
l'esplicitazione
della
decisione
raggiunta,
eventuali
prescrizioni
188
vincolanti
per
il
parere
positivo,
eventuali
raccomandazioni
aggiuntive,
le
motivazioni
del
parere
negativo
o
di
sospensione.
È
importante
-‐
anche
per
dare
un
contributo
al
miglioramento
della
qualità
della
ricerca
clinica
-‐
fornire
tutti
elementi
di
critica
che
hanno
condotto
a
un
parere
negativo,
e
che
potrebbero
essere
successivamente
considerati
e
corretti
in
vista
di
una
nuova
presentazione.
L'emanazione
del
parere,
dopo
l'approvazione
della
sperimentazione,
non
conclude
i
compiti
di
revisione
del
CER:
perciò,
dovranno
essere
previste
dal
CER
anche
delle
procedure
che
permettano
di
eseguire
delle
verifiche
periodiche
sull’andamento
della
sperimentazione
fino
alla
sua
chiusura
formale.
Tali
verifiche,
che
richiederanno
una
segreteria
efficiente
per
l’aggiornamento
della
documentazione
nel
corso
dello
studio
e
per
lo
scadenzario,
riguardano
essenzialmente,
oltre
al
follow-‐up
dello
studio,
gli
emendamenti,
la
valutazione
degli
eventi
avversi
seri,
la
chiusura
dello
studio.
Le
verifiche
dovrebbero
essere
ancora
più
accurate
soprattutto
per
quegli
aspetti
che
possono
avere
conseguenze
sulla
sicurezza
dei
soggetti.
Perciò
il
CER
ha
il
compito
di
valutare
con
rigore
anche
tutte
le
notifiche
che
possono
pervenire
da
altri
CER
o
da
altri
centri
di
sperimentazione,
e
rinnovare
o
ritirare
l’approvazione
già
espressa
sul
protocollo.
Oltre
alle
procedure
per
un’idonea
registrazione
e
archiviazione
della
documentazione,
dei
pareri
sulle
sperimentazioni
e
dei
verbali
e
della
corrispondenza
del
CER,
che
potranno
essere
sottoposti
alle
verifiche
delle
autorità
regolatorie
o
di
altri
che
potranno
accedere,
secondo
le
modalità
precedentemente
stabilite,
un’ultima
considerazione
va
fatta
sulle
procedure
di
revisione
dell’attività
ed
efficienza
del
CER
stesso
(la
verifica
annuale
della
periodicità
delle
riunioni,
il
numero
di
protocolli
esaminati,
il
tempo
di
attesa
per
il
parere,
la
necessità
di
sostituire
qualche
componente
o
di
inserire
delle
nuove
competenze,
ecc.).
Il
CER
dovrebbe,
infatti,
avere
in
se,
grazie
alla
presenza
al
suo
interno
di
figure
qualificate
professionalmente
e
moralmente,
all’adeguata
presenza
di
membri
esterni
alla
struttura,
alle
competenze
multidisciplinari
e
nel
perseguimento
di
un
continuo
miglioramento
della
qualità
del
proprio
lavoro,
un
forte
stimolo
all’auto-‐critica
e
un
impegno
per
la
revisione
delle
proprie
procedure
operative
e
delle
attività
svolte.
CONCLUSIONI:
DARE
FIDUCIA
MA
VERIFICARE
Sebbene
il
sistema
di
revisione
dei
CER
sia
radicato
sulla
fiducia
nei
ricercatori,
collaborando
con
loro
e
presupponendo
le
loro
migliori
intenzioni,
vin
sono
però
importanti
responsabilità
da
parte
del
CER
di
verificare
che
le
intenzioni
di
proteggere
i
soggetti
di
ricerca
siano
in
pratica
messe
in
atto.
Riportando
i
risultati
di
alcuni
anni
di
ispezione
agli
IRB,
un
ispettore
dell’FDA,
George
Grob,
ha
fornito
una
serie
di
interessanti
osservazioni
che
possono
servire
per
capire
in
quale
direzione
dovrebbero
muoversi
tali
organismi
di
revisione
della
ricerca
e
quale
trasformazione
dovrebbero,
dunque,
avere.[39]
Grob
rileva
che
vi
sono
almeno
sei
elementi
principali
che
contraddistinguono
l’attuale
situazione
degli
CER:
1)
In
passato
la
ricerca
era
condotta
per
lo
più
in
singole
istituzioni
universitarie
e
ospedaliere,
da
parte
di
un
singolo
ricercatore,
con
un
piccolo
numero
di
soggetti,
per
cui
i
CER
avevano
un
minor
carico
di
lavoro
e
più
tempo
per
esaminare
attentamente
i
protocolli
e
valutarne
i
rischi.
Oggi,
la
ricerca
è
condotta
spesso
da
sponsor
commerciali,
che
premono
per
avere
subito
l’approvazione
da
parte
dei
CER,
trattandosi
di
studi
multicentrici,
e
vedono
di
cattivo
occhio
le
loro
richieste
di
modifiche
di
tali
protocolli.
A
ciò
si
aggiunga
che
la
ricerca
riguarda
spesso
dati
genetici
e
che
vi
è
una
forte
pressione
da
parte
degli
stessi
potenziali
soggetti
di
ricerca
ad
189
entrare
in
uno
studio,
per
cui
i
CER
devono
accertarsi
che
vi
sia
un’adeguata
informazione
che
assicuri
la
comprensione
dei
soggetti
della
differenza
tra
ricerca
e
trattamento.
2)
Sebbene
il
monitoraggio
della
ricerca
dopo
l’approvazione
costituisca
un
mezzo
importante
per
proteggere
i
soggetti
partecipanti,
l’enorme
mole
di
lavoro
impedisce
ai
CER
di
esercitare
tale
ruolo,
dedicando
in
genere
solo
pochi
minuti
nel
corso
della
riunione.
3)
La
stessa
numerosità
dei
protocolli
da
rivedere,
e
dunque
la
necessità
di
fare
presto
per
esaminarli
tutti,
rappresenta
un
motivo
di
poca
attenzione
e
di
superficialità
nella
valutazione,
rinunciando
spesso
a
convocare
un
esperto
nel
settore
specifico
di
ricerca.
4)
Né
i
CER
né
gli
organismi
governativi
pongono
molta
attenzione
alla
necessità
di
valutare
l’efficacia
del
lavoro
dei
CER:
migliora
effettivamente
la
modalità
di
informazione
ai
fini
del
consenso?
I
soggetti
di
ricerca
hanno
effettivamente
ricevuto
il
meglio
nella
loro
condizione?
I
CER
hanno
controllato
se
le
modifiche
da
loro
richieste
sono
state
effettivamente
attuate?
5)
Spesso,
molti
dei
membri
del
CER
hanno
interessi
di
diversa
natura
relativamente
al
protocollo
che
essi
sono
chiamati
a
valutare
e
spesso
ci
sono
pochi
membri
esterni
alla
istituzione
a
garantire
l’imparzialità
del
parere.
6)
I
CER
e
le
istituzioni
di
appartenenza
forniscono
troppo
poco
aggiornamento
e
formazione
ai
ricercatori
e
ai
componenti
stessi
del
CER.
In
conseguenza
di
questi
rilievi
viene
perciò
raccomandato
che
i
CER
rivedano
le
loro
procedure
operative
e
tutto
il
loro
lavoro
al
fine
di
ovviare
alle
carenze
riportate
e
migliorare
sempre
di
più
la
protezione
per
i
soggetti
di
ricerca,
nonché
il
valore
e
la
validità
scientifica
della
ricerca
stessa.
Si
inserisce
a
questo
punto
il
recente
dibattito
che
si
è
sviluppato
riguardo
al
significato
che
hanno
le
sempre
più
numerose
linee
guida
emanate
nell’ambito
della
sperimentazione
sull’uomo
in
generale.
Richiamando
i
termini
della
questione,
Jonathan
Moreno[40]
ha
evidenziato
come
all’inizio
del
XX
secolo
le
linee
guida
sulla
sperimentazione,
compresa
la
Dichiarazione
di
Helsinki,
si
basassero
sostanzialmente
sulla
discrezione
del
ricercatore.
Con
il
tempo,
però,
si
è
andati
sempre
più
verso
un’imposizione
dall’esterno
degli
elementi
etici
che
devono
essere
salvaguardati
nella
ricerca.
Si
sarebbe
passati,
cioè,
attraverso
tre
diversi
gradi
di
protezione:
1.
debole:
tutto
veniva
affidato
alle
qualità
morali
(virtù)
del
ricercatore;
2.
moderata:
le
virtù
personali
erano
importanti
ma
non
erano
considerate
sufficienti,
per
cui
si
cominciò
a
richiedere
il
rispetto
di
alcune
linee-‐guida;
3.
forte:
la
protezione
è
stabilita
per
legge
ma
manca
l’incentivazione
per
il
ricercatore
ad
esercitare
le
sue
virtù.
La
domanda
di
Moreno
è:
siamo
sicuri
che
aumentare
la
protezione
da
parte
di
enti
esterni
sia
il
modo
migliore
per
condurre
eticamente
la
ricerca?
Con
una
protezione
forte,
infatti,
sembrerebbe
che
i
soggetti
siano
più
tutelati,
ma
nella
realtà
i
codici
etici,
le
linee-‐guida,
il
consenso
informato,
i
Comitati
Eticisono
solo
punti
di
partenza,
certamente
irrinunciabili,
ma
che
non
sostituiscono
la
coscienza
etica
del
ricercatore,
che
è
la
migliore
garanzia
di
sicurezza
per
i
soggetti
di
ricerca.
Ed
è
alla
formazione
di
questa
coscienza
che
deve
puntare
anche
il
CER
il
quale
non
può
rinunciare
alla
sua
funzione
pedagogica
nei
confronti
dei
ricercatori.
190
[1]
Foster
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Regulation
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A,
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cura
di),
Il
processo
di
Norimberga
a
Cinquant'anni
dalla
sua
celebrazione
(Atti
del
simposio
internazionale,
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[10]
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[11]
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Regulation
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the
Use
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Human
Subjects
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Research:
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Approach
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Two
Federal
Agencies,
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with
Human
Subjects,
George
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New
York
1970,
pp.
402-‐454.
[12]
National
Research
Act
Public
Law
93-‐348,
July
12,
1974
[13]
U.S.
National
Commission
for
the
Protection
of
Human
Subjects
of
Biomedical
and
Behavioral
Research,
Institutional
Review
Boards,
DHEW
Publication
No.
(OS)
78-‐0008,
Washington
1978.
[14]
The
National
Commission
for
the
Protection
of
Human
Health
Subject
of
Biomedical
and
Behavioral
Research:
The
Belmon
Report:
Ethical
Principles
and
Guidelines
for
the
Protection
of
Human
Subject
of
Research.U.S.
Office
for
Protection
from
Research
Risks
(OPRR),
National
Institutes
of
Health
(NIH),
Public
Health
Service
(PHS),
Human
Health
Service
(HHS).
Washington,
D.C.,
1979.
[15]
Come
è
noto,
tali
principi
vennero
poi
estesi
da
Beauchamp
e
Childress
dall’ambito
limitato
della
sperimentazione
sull’uomo
a
tutti
i
campi
della
bioetica
(cfr.
Spagnolo
A.G.,
I
principi
della
bioetica
nord-‐americana
e
la
critica
del
“principlismo”,
Camillianum
1999,
20:
225-‐246.)
[16]
Supervision
of
the
Ethics
of
Clinical
Investigations
in
Institutions.
Report
of
the
Committee
appointed
by
the
Royal
College
of
Physicians
of
London,
Br.
Med.
J.,
1967,
3,
429-‐430.
[17]
Royal
College
of
Physicians
of
London,Guidelines
of
the
Practice
of
ethics
Committees
in
Medical
Research,
London
1984.
[18]
National
Commission
for
The
Protection
of
Human
Subjects
of
Biomedical
and
Behavioral
Research,
Report
and
Recommendations:
Institutional
Review
Boards,
Publication
n.
(OS)
78-‐0008.
Washington
D.C:
Department
of
Health,
Education
and
Welfare.
[19]
Medical
Research
Council
of
Canada,
Guidelines
on
Research
Involving
Human
Subjects,
Ottawa
1987.
[20]
Viafora
C.,
Comitati
etici:
la
bioetica
all'interno
delle
istituzioni
sanitarie,
in
A
Bompiani
(a
cura
di
),
Bioetica
in
medicina,
CIC
Edizioni
internazionali,
Roma
1996:
434-‐450.
191
[21]
Herranz
G.,
Il
Comitato
centrale
di
deontologia
spagnolo,
in
Spinsanti
S.
(a
cura
di),
I
comitati
di
etica
in
ospedale,
Edizioni
Paoline,
Cinisello
Balsamo
(Mi)
1988:
141-‐148.
[22]
Spagnolo
A.G.,
Bignamini
A.A.,
De
Franciscis
A.,
I
Comitati
di
Etica
fra
linee-‐guida
dell'Unione
Europea
e
decreti
ministeriali,
Medicina
e
Morale
1997,
6:
1059-‐1098.
[23]
Levine
R.J.,
Ethics
and
Regulation
of
Clinical
Research,
2d
ed.,
Urban
and
Schwarzenberg,
Baltimore
1986.
[24]
Levine
C.,
Has
AIDS
Changed
the
Ethics
of
Human
Subjects
Research?,
Law,
Medicine
and
Health
Care,
1988,
16(3-‐4):
167-‐173.
[25]
L'accesso
all'aborto
negli
Stati
Uniti,
dopo
la
sentenza
Roe
versus
Wade
del
1973,
è
stato
riconosciuto
come
diritto
di
privacy
della
donna,
e
quindi
sottratto
al
controllo
dei
comitati.
[26]
US
President's
Commission
for
the
Study
of
Ethical
Problems
in
Medicine
and
Biomedical
and
Behavioral
Research,Deciding
to
Forego
Life-‐Sustaining
Treatment,
US
Government
Printing
Office,
WashingtonDC
1983.
[27]
International
Conference
on
Harmonisation
of
Technical
Requirements
for
Regulation
of
Pharmaceuticals
for
Human
Use,
Tripartite
guidelines
for
good
clinical
practice,
International
federation
of
Pharmaceutical
manufacturers
Association,
Geneva
1996.
[28]
Cfr.
A.G.
Spagnolo
-‐
D.
Sacchini
-‐
G.
Torlone
-‐
A.A.
Bignamini,
Il
laboratorio
del
Comitato
Etico.
Istituzione
e
procedure
operative
standard,
Medicina
e
Morale,
1999,
2:
221-‐263.
[29]
World
Health
Organization,
Operational
Guidelines
for
Ethics
Committees
That
Review
Biomedical
Research,
Geneva
2000.
[30]
Ad
esempio,
la
Carta
per
gli
Operatori
Sanitari,
emanata
dal
Pontificio
Consiglio
per
la
Pastorale
degli
Operatori
Sanitari
o
le
Ethical
and
Religious
Directives
for
Catholic
Health
Care
Services.
[31]
Ministero
della
Sanità,
Decreto
Ministeriale
15
luglio
1997,
Recepimento
delle
linee
guida
dell'Unione
europea
di
buona
pratica
clinica
per
la
esecuzione
delle
sperimentazioni
cliniche
dei
medicinali,
Gazzetta
Ufficiale
della
Repubblica
Italiana,
serie
generale,
suppl.
ord.,
18
agosto
1997.
[32]
European
Forum
for
Good
Clinical
Practice,
Guidelines
and
Recommendations
for
European
Ethics
Committees,
revised
edition
1997;
pubblicata
anche
nella
traduzione
in
italiano
su
Medicina
e
Morale,
1998,
5:1037-‐1057.
[33]
In
Italia,
i
CER
“dovrebbero
preferibilmente
includere:
due
clinici,
un
biostatistico,
con
documentata
esperienza
e
conoscenze
sui
trias
clinici
randomizzati,
un
farmacologo,
e,
come
componenti
ex
officio,
un
farmacista,
il
direttore
sanitario
o
il
direttore
scientifico
della
struttura
stessa
e
un
esperto
in
materia
giuridica;
gli
altri
componenti
dovrebbero
avere
qualifiche
e
competenze
in
medicina
generale,
bioetica,
settore
infermieristico,
volontariato
(Ministro
della
Sanità,
Decreto
18.3.1998
Linee
guida
di
riferimento
per
l’istituzione
e
il
funzionamento
dei
comitati
etici,
gazzetta
ufficiale
della
repubblica
italiana,
serie
generale,
n.122,
28.5.1998).
[34]
É
quanto
raccomanda,
ad
esempio,
per
l’Italia
il
DM
del
18.3.1998:
“È
opportuna
una
significativa
presenza
di
componenti
non
dipendenti
dalla
istituzione
che
si
avvale
del
Comitato
e
di
componenti
estranei
alla
professionalità
medica
e
alle
professionalità
tecniche
correlate.
L’esigenza
di
rendere
manifesta
l’assoluta
imparzialità
dell’organo
richiede,
inoltre,
che
la
presidenza
del
Comitato
venga
preferibilmente
affidata
a
componente
non
dipendente
dalla
istituzione”.
[35]
Tale
evenienza
viene
esplicitamente
enunciata
nella
situazione
italiana,
ad
esempio,
nel
DM
del
18.3.1998.
[36]
La
stessa
OMS
successivamente
al
documento
Operational
Guidelines
ha
emanato
un
nuovo
documento
che
si
propone
di
fornire
delle
linee-‐guida
su
come
valutare
le
pratiche
di
revisione
etica
da
parte
dei
CER
(WHO,
Surveying
and
Evaluating
Ethical
Review
Practices.
A
complemetary
guideline
to
the
Operational
Guidelines
for
Ethics
Committees
that
review
biomedical
192
research,
Geneva,
February
2002).
E
contemporaneamente,
l’European
Forum
for
Good
Clinical
Practice
ha
fornito
le
European
Guidelines
for
Auditing
Independent
Ethics
Committees,
EFGCP
2002,
www.efgcp.org)
[37]
World
Health
Organization,
Operational
Guidelines
for
Ethics
…,
n.
6.3.
[38]
Berto
D.,
Peroni
M.,
Milleri
S.,
Spagnolo
A.G.,
Evaluation
of
the
readability
of
information
sheets
for
healthy
volunteers
in
phase-‐I
trials,
Eur.
J.
Clin.
Pharmacol
2000,
56:
371-‐374.
[39]
Grob
G.,
Institutional
Review
Boards:a
time
for
reform,
US
Department
of
Health
and
Human
Services,
Office
of
Inspector
General,
1998.
[40]
Moreno
J.D.,
Goodbye
to
all
that.
The
end
of
moderate
protectionism
in
human
subjects
research.
HastingsCenter
Report
2001;
31(3):
9
193
JUAN
DE
DIOS
VIAL
CORREA
L’ETICA
DELLA
SPERIMENTAZIONE
SUGLI
ANIMALI
Gli
animali
sono
stati
spesso
maltrattati
fino
alla
crudeltà.
Capita
spesso
che
la
caccia,
le
guerre,
la
nostra
necessità
di
nutrimento
e
di
sperimentazioni,
la
manipolazione
industriale,
ecc.
siano
andate
ben
oltre
ogni
limite
ed
abbiano
procurato
estreme
ed
inutili
sofferenze
agli
animali,
per
non
parlare
della
estinzione
di
alcune
specie
animali,
del
degrado
dell’ambiente
e
dell’impoverimento
di
tutte
le
vite,
inclusa
ovviamente
quella
umana.
La
biologia
sperimentale
si
è
sviluppata
prima
che
fossero
conosciuti
anche
i
più
rudimentali
metodi
di
anestesia.
Per
fare
solo
un
esempio
particolarmente
incisivo,
il
ruolo
fisiologico
del
dolore
localizzato
nella
zona
delle
fibre
nervose
delle
radici
posteriori,
fu
stabilito
in
sperimentazioni
su
animali
non
anestetizzati,
che
fece
sottolineare
a
Müller[1]:
“Diese
Versuche
sind
bei
hoheren
Thieren
die
grausamsten
die
man
erdenken
kann”.
Le
condizioni
di
custodia
degli
animali
sono
state
spesso
pessime
e
nella
maggior
parte
dei
casi
sembra
che
il
nutrimento
ed
il
mantenimento
generale
sia
stato
tenuto
allo
stretto
necessario
per
assicurare
risultati
sperimentali
attendibili.
Comunque,
dal
XIX
secolo
in
poi,
sono
stati
fatti
grandi
sforzi
in
molti
paesi
per
prevenire
la
crudeltà
sugli
animali,
non
solo
nella
vita
di
tutti
i
giorni
ma
sempre
di
più
negli
animali
utilizzati
per
le
sperimentazioni.
Gli
ovvi
vantaggi
arrecati
dall’utilizzazione
degli
animali
(nella
sperimentazionea
salvaguardia
della
vita
e
della
salute
degli
esseri
umani;
il
risparmio
in
termini
di
costi
e
di
tempi
per
la
ricerca),
sono
stati
sempre
più
bilanciati
rispetto
alle
sofferenze
inflitte.
Come
conseguenza
sono
state
applicate
regolamentazioni
più
forti
ed
è
stata
fatta
maggiore
attenzione,
nello
stesso
momento
in
cui
è
stato
fatto
il
possibile
per
spiegare
all’opinione
pubblica
(l’opinione
pubblica
in
generale,
i
legislatori
ed
i
media)
la
necessità
di
ricorrere
alla
sperimentazione
animale.
Comunque
lo
sviluppo
delle
biotecnologie
pone
nuovi
interrogativi
e
un
nuovo
accento
sulla
sperimentazione
animale.
La
clonazione
a
scopo
industriale
e
gli
xenotrapianti
possono
essere
citati
tra
gli
aspetti
che
hanno
suscitato
notevoli
interessi.
Anche
l’ambito
più
generale
della
manipolazione
genetica,
degli
animali
transgenici,
ecc.
merita
di
essere
preso
in
considerazione.
Anche
solo
per
una
maggiore
consapevolezza
sociale,
siamo
oggi
ad
un
punto
in
cui
lo
statuto
etico
degli
animali
da
sperimentazione
deve
essere
preso
in
considerazione
in
maniera
più
approfondita
rispetto
al
passato.
L’etica
riguarda
“il
perchè”
delle
azioni
umane,
in
risposta
alla
domanda
“cosa
dobbiamo
fare”?
Alla
base
di
ogni
giudizio
etico[2]
risiede
una
esperienza
morale
che
è
paragonabile
ad
un
dato
empirico
appreso
dalla
ragion
pratica.
L’azione
può
essere
giudicata
come
approvata
all’interno
della
mia
tradizione,
esperienza,
ad
una
prima
considerazione
e
ad
un
primo
approccio,
in
breve
potrei
sentirmi
inclinato
all’azione.
Un
passo
successivo
corrisponde
all’intelligenza
che
raffinerà
questo
giudizio
e
cercherà
di
identificare
che
cosa
è
che
attira,
quali
sono
i
valori
positivi,
quali
gli
aspetti
della
realtà
percepita
che
richiedono
la
mia
approvazione.
Questo
sforzo
porterà
anche
all’identificazione
dei
valori
negativi,
nel
senso
che
attraggono
in
quanto
realtà
fallaci.
Il
giudizio
attraverso
l’inclinazione
viene
così
trasformato
in
un
giudizio
di
valore.
Questo
approccio
è
più
vicino
ad
una
saggezza
pratica
che
ad
un
ragionamento
discorsivo
e
richiede
un’apertura
al
bene
della
realtà,
ad
es.
una
disposizione
a
lasciarsi
attrarre
o
diventare
desideroso
della
pienezza
dell’essere.
Quando
questa
disposizione
è
profondamente
radicata,
l’azione
fluisce
dalla
nostra
esperienza.
Questa
propensione
dell’anima
verso
le
azioni
giuste
è
ciò
che
intendiamo
con
il
termine
“virtù”.
194
Nel
caso
dell’atteggiamento
da
tenersi
verso
gli
animali,
noi
avvertiamo
l'inclinazione
a
prenderci
cura
di
loro,
a
rispettarli
e
anche
ad
amarli.
La
crudeltà
o
la
trascuratezza
gratuita
verso
gli
animali
suscita,
d’altra
parte,
sentimenti
di
disapprovazione.
Se
sottoponiamo
questa
“inclinazione”
ad
una
analisi
più
sottile,
scopriamo
motivazioni
biologiche,
psicologiche
e
culturali
che
stanno
alla
base
di
tale
sentimento
e
lo
rafforzano.
Scopriamo
“valori”
in
certi
atteggiamenti
nei
confronti
degli
animali.
Allargano
la
prospettiva
ad
altri
ambiti
della
nostra
esperienza,
ci
accorgiamo
di
situazioni
che
hanno
a
che
fare
con
il
nostro
rapporto
con
gli
animali.
Di
questo
tipo
sono
gli
atteggiamenti
verso
gli
animali
selvatici,
o
anche
gli
esseri
viventi
in
generale.
Scopriamo
un
valore
nella
multiforme
realtà
che
chiamiamo
“vita”,
e
percepiamo
che
ciascuna
delle
sue
manifestazioni
lancia
una
particolare
sfida
al
comportamento
dell’uomo.
Questo
è
strettamente
connesso
alla
scoperta
che
in
qualche
modo
siamo
legati
ad
ogni
vita
e
che
dipendiamo
dalla
vita
per
vivere.
Comunque
al
livello
dell’analisi
dei
valori,
la
questione
del
maltrattamento
degli
animali
è
diventata
profondamente
connessa
con
alcune
delle
questioni
filosofiche
e
scientifiche
più
urgenti
e
dibattute
del
nostro
tempo,
cioè
quelle
che
riguardano
la
vita
in
generale
e
l’ambiente.
Il
giudizio
pratico
e
la
ricerca
di
valori
sono
sostituiti
da
argomentazioni
ideologiche.
In
questa
prospettiva
si
tratta
di
offrire
una
spiegazione
razionale
circa
le
relazioni
fra
l’uomo,
la
vita
e
l’ambiente.Particolarmente
pressante
è
la
richiesta
di
fondazione
per
un'etica
del
comportamento
umano
rispetto
agli
esseri
viventi
(ed
in
minor
misura
rispetto
ai
non-‐viventi).
“L’etica
dell’ambiente”
ed
anche
la
"filosofia
dell’ambiente"
stanno
diventando
argomenti
di
ampia
discussione
negli
ambienti
scientifici
soprattutto
fra
le
generazioni
più
giovani.
Anche
se
non
è
questo
il
contesto
per
una
trattazione
sistematica
dell’argomento,
può
essere
utile
parlarne
brevemente
a
causa
di
un
crescente
consenso
basato
suposizioni
completamente
incompatibili
con
l’etica
Cristiana.
Un
giudizio
di
valore
richiede
una
delucidazione
sullo
statuto
dell’animale
e
degli
esseri
viventi
più
in
generale.
Questo
è
reso
più
urgente
dal
momento
che
sia
negli
ambienti
scientifici,
sia
nell’opinione
pubblica
ferve
una
corrente
culturale
che
interpreta
l’esistenza
dell’uomo
come
un
prodotto
dell’evoluzione
biologica
nell'ambito
di
una
visione
totalmente
materialistica.
In
questa
concezione
ampiamente
diffusa,
non
possono
essere
a
rigore
invocate
differenze
qualitative
per
distinguere
l’uomo
dal
resto
delle
cose
viventi.
Non
ci
sono
dubbi
che
in
questo
modo
la
specifica
dignità
dell’uomo
risulta
soppressa,
e
che
il
risultato
finale
non
consista
tanto
nel
dare
maggiore
dignità
agli
animali,
quanto
nel
ridurre
quella
dell’uomo.
La
storia
dell’evoluzionismo
materialistico
getta
una
luce
sul
significato
di
alcune
delle
presenti
considerazioni
sullo
statuto
degli
animali.
Durante
il
XIX
secolo
l'insorgere
del
materialismo
trovò
un
potente
appoggio
nell’idea
della
selezione
naturale
come
il
meccanismo
che
guida
la
differenziazione
nel
mondo
degli
esseri
viventi.
Il
carattere
graduale
e
non
finalistico
dell’evoluzione
sembrò
essere
in
armonia
con
la
radicalità
della
interpretazione
materialistica
della
realtà.
I
Primati
non
umani,
non
venivano
più
visti
come
qualitativamente
differenti
dagli
uomini,
e
questo
pose
le
basi
per
una
nuova
e
probabilmente
più
alta
considerazione
della
condizione
degli
animali.
Spesso
si
trascura
il
fatto
che
questa
pretesa
rivalutazione
degli
animali
nella
prospettiva
dell’evoluzione
in
realtà
è
accompagnata
da
una
svalutazione
della
condizione
umana.
Questo
era
comunque
perfettamente
chiaro
ai
grandi
apologisti
dell’evoluzione
monistica
e
materialistica
nel
XIX
secolo.
Ernst
Haeckel,
insigne
biologo
tedesco,
così
afferma:
"[pensiero
e
razionalità]
si
trovano
certamente
nei
vertebrati
superiori,
soprattutto
nei
mammiferi
placentati,
la
classe
da
cui
è
derivato
l’uomo.
Il
grado
di
coscienza
dei
primati,
dei
cani,
degli
elefanti
ecc.,
differisce
da
quella
degli
uomini
soltanto
per
grado,
non
qualitativamente,
ed
il
grado
di
coscienza
che
separa
questi
placentati
“razionali”,
dalla
più
bassa
razza
degli
uomini
(
i
Vedda
ecc.,),
è
minore
del
corrispondente
intervallo
tra
le
razze
non
civilizzate
ed
i
più
alti
modelli
di
195
profonda
umanità
(
ad
es.
Spinoza,
Goethe,
Lamarck,
Darwin
ecc.)…”[3]
(
E’
ben
noto
che
idee
come
queste
hanno
ispirato
crudeli
sperimentazioni
etnologiche,
come
lo
erano
le
esposizioni
degli
indiani
del
sud
America
nei
musei
e
nei
giardini
zoologici
in
Europa.
Inoltre
esse
hanno
avvalorato
l’idea
che
qualsiasi
specifica
considerazione
dello
statuto
dell’uomo
sia
insostenibile).[4]
Una
delle
tesi
più
influenti
proposte
in
questa
prospettiva
è
espressa
nella
massimadi
Peter
Singer“Tutti
gli
animali
sono
uguali”,
in
cui
naturalmente
s’intende
comprendere
gli
uomini
tra
gli
animali.
[5]
Un
approccio
utilitaristico
verso
gli
animali
richiederebbe
quindi
l’identificazione
di
un
“interesse
comune”
che
dovrebbe
essere
ugualmente
considerato
per
tutti
e
per
ciascuno
individuo.
Singer
respinge
come
sostanzialmente
irrilevante
l’usuale
confronto
fra
gli
animali
sulla
base
del
loro
potere
cognitivo
e
adotta
l’idea
di
Jeremy
Bentham
secondo
cui
la
domanda
realmente
rilevante
rispetto
agli
animali-‐
se
ci
si
sta
interrogando
circa
la
bontà
del
trattamento
cui
sottoporli
-‐,
è
“..possono
soffrire?”
[6]
.
Sembra
ovvio
che
gli
animali
possano
soffrire
e
che
reagiranno
con
forza
contro
qualche
forma
di
dolore
o
sofferenza.
Ma
sembra
che
non
ci
siano
valide
ragioni
per
equiparareil
loro
“tipo”
di
sofferenza
con
quella
degli
uomini,
inestricabilmente
collegata
con
riverberi
di
tipo
cognitivo
e
morale.
Sembra
che
le
valutazioni
di
Singer
implichino
un
antropomorfismo
infondato.
Singer
ha
presentato
un
caso
eloquente
contro
l’uccisione
degli
animali
sia
in
vista
del
nostro
sostentamento,
sia
a
scopi
scientifici,
così
come
in
rapporto
alle
crudeli
condizioni
di
allevamento.
Secondo
questa
prospettiva
gli
animali
considerati
individualmente
sono
assimilati
agli
esseri
umani,
senza
che
risulti
un
particolare
interesse
nella
difesa
delle
specie.
La
valutazione
si
focalizza
solo
sui
singoli
animali
e
sulle
loro
sofferenze.
Questa
posizione
è
stata
aspramente
messa
in
discussione,
tra
gli
altri,
da
Regan
[7]
.
Egli
sostiene
che
l’uguaglianza
della
condizione
non
è
logicamente
seguita
da
nessun
dovere
di
equità
di
trattamento,
ed
inoltre
che
sarebbe
normalmente
impossibile
fare
una
valutazione
attendibile
di
ciò
che
è
bene
e
male
rispetto
ad
una
qualsiasi
azione
sugli
animali.
Se
non
è
garantito
nessun
diritto
assoluto
su
nessuno,
sarebbe
giusto
che
la
sofferenza
di
uno
possa
essere
un
mezzo
perfettamente
accettabile
per
assicurare
il
benessere
di
un
numero
più
grande.
Regan
afferma
che
le
deficienze
dell’etica
utilitarista
in
difesa
degli
animali
possono
essere
superate
solo
dal
riconoscimento
dei
diritti
del
singolo
animale.
Entrambe
queste
posizioni
hanno
in
comune
l'assimilazione
dello
statuto
degli
animali,
considerati
individualmente,
con
quello
degli
uomini.
Queste
posizioni
devono
essere
distinte
rispetto
ad
altre
teorie
filosofiche
che
pongono
l’uomo
come
uno
dei
tanti
elementi
integrati
nel
complesso
degli
esseri
viventi
(
e
non
viventi).
Di
questo
tipo
è
l’etica
della
terra
di
Leopold[8]
e
la
“deep
ecology”
di
Naess[9]
e
altri.
Questi
approcci
olistici
non
hanno
una
relazione
diretta
con
il
trattamento
degli
animali,
proprio
perché
la
sofferenza
è
una
parte
del
corso
naturale
della
vita
di
ogni
animale.
E’
comunque
importante
ricordarli
in
questo
momento
per
due
ragioni
principali.
Prima
di
tutto
essi
sono
il
retroterra
culturale
dell’etica
relativa
agli
interventi
sulla
Natura
dei
nostri
giorni;
ed
in
secondo
luogo
essi
condividono
con
l’etica
sopra
citata
di
Singer
e
Regan
la
prospettiva
che
per
principio
depriva
l’uomo
di
ogni
speciale
considerazione.
Il
pensiero
di
Leopold
esige
che
la
considerazione
morale
sia
estesa
alle
categorie
che
sono
state
tradizionalmente
escluse,
e
comincia
a
tracciare
un
percorso
verso
la
valorizzazione
di
un
equilibrio
dell’ecosistema.Naess
(ibid)
va
oltre,
sottolineando
le
relazioni
biologiche
piuttosto
che
quelle
individuali
che
sono
viste
come
subordinate
ad
una
rete
d’interazioni.
Nonostante
i
loro
pregiudizi
depersonalizzanti,
le
etiche
fondate
sulla
Natura
sono
di
un
certo
interesse
per
il
fatto
che
esse
rappresentano
un
tipo
di
reazione
contro
le
etiche
prevalenti,
196
soprattutto
quelle
di
tendenza
utilitaristica.
La
Natura
non
è
vista
come
un
oggetto
da
depredare
attraverso
lo
sfruttamento
tecnologico.
Se
l'aspetto
positivo
di
queste
etiche
della
natura
è
di
regolare
l’azione
dell’uomo,
questo
significa
che
si
stanno
riscoprendo
da
molti
valori
oggettivamente
buoni,
nonostante
il
fatto
che
questi
valori
sembrano
essere
grossolanamente
distorti,
ed
esasperati.
Autori
come
Singer
e
Regan
cercano
quindi
di
estendere
agli
animali-‐
almeno
agli
animali
superiori-‐
la
specifica
dignità
conferita
agli
uomini,
mentre
l’approccio
ecologico
integra
l’uomo
nell'insieme
della
natura,
le
cui
leggi
comprendono
quelle
di
ogni
essere
vivente.
Di
conseguenza,
mentre
secondo
la
prospettiva
di
Singer
la
sofferenza
dell’animale
è
un
male
da
minimizzare,
in
quella
di
Leopold,
questafa
parte
integrante
dellecomplesse
dinamiche
della
vita.
L’approccio
di
Singer
porta
con
sé
il
segno
delle
sue
radici
individualistiche
ed
inevitabilmente
va
contro
l’approccio
olistico.
Le
prospettive
utilitaristiche
ed
olistiche
sono
deformazioni
di
sistemi
di
valore
che
richiedono
di
essere
integrati
in
una
rinnovata
prospettiva
antropocentrica,
e
che
spaziano
dalla
compassione
per
gli
animali
e
la
ripugnanza
per
lesofferenze
inflitte
loro
inutilmente,
alla
partecipazione
dell’uomo
nell’insieme
della
vita
della
terra.
Per
quanto
distanti
da
una
prospettiva
Cristiana,
tutte
queste
etiche
suggeriscono
un
rispetto
per
la
vita
più
profondamente
radicato.
E’
il
valore
della
vita
in
se
che
emerge
da
questeconfuse
"fondazioni
filosofiche".
Sottoforma
del
rispetto
della
vita
emerge
una
nuova
consapevolezza
del
fatto
che
esistano
atteggiamenti
ed
azioni
che
sono
oggettivamente
giuste
o
sbagliate.
Il
ruolo
della
Natura
tende
a
supplire
quello
dello
stesso
Dio,
ma
in
questo
modo
si
richiede
inevitabilmente
un'indagine
più
approfondita
sul
significato
della
vita
umana.
Questo
atteggiamento
indica
l'affermarsi
di
una
sorta
di
“religione
naturale”
che
esige
l'abbandono
del
ruolo
autocratico
ed
ateo
tanto
spesso
assunto
dall’uomo[10].
La
Bibbia
presenta
una
prospettiva
ben
diversa
da
quella
di
qualsiasi
“religione
naturale”.
L’uomo
è
stato
creato
ad
immagine
di
Dio,
con
il
mandato,
ricevuto
dal
suo
Creatore,
di
soggiogare
e
di
dominare
la
terra[11].
All’uomo
era
stato
affidato
l’intero
Creato
sapientemente
disposto
dall’onnipotenza
di
Dio[12].
La
creazione
era
stata
considerata
da
Dio
come
"cosa
buona"[13]
ed
il
potere
conferito
all’uomo
non
poteva
essere
interpretato
come
il
diritto
di
spadroneggiare
e
depredare,
quanto
di
adempiere
ad
un
mandato
che
“
riflette
l’azione
stessa
del
Creatore
dell’universo”[14].
Il
volere
di
Dio
è
riaffermato
nella
Genesi
quando
l’uomo
è
posto
nel
Giardino
dell’Eden
per
coltivarlo
e
custodirlo[15].
L’uomo
è
responsabile
della
creazione
di
Dio
nei
confronti
dello
stesso
Dio.
I
recenti
sviluppi
sperimentali,
soprattutto
quelli
riguardanti
la
manipolazione
del
genoma
hanno
nuovamente
portato
alla
luce
il
bisogno
di
una
particolare
attenzione
verso
gli
animali
sia
per
evitare
inutili
crudeltà
nei
loro
confronti
sia
per
evitare
impatti
dannosi
sull’ambiente
e
causa
di
una
incontrollata
manipolazione
del
genoma.
In
particolare
bisognerebbe
essere
attenti
alle
nuove
questioni
derivate
dagli
animali
transgenici,
animali
il
cui
assetto
genetico
è
alterato
dalla
introduzione
di
uno
o
più
geni
esogeni.In
questo
caso
non
è
solo
la
condizione
dell’animale
sperimentale
ad
essere
oggetto
di
particolare
interesse,
compresa
la
necessità
di
risparmiare
inutili
sofferenze,
ma
anche
la
condizione
della
progenie,
l’attenzione
ad
evitare
l’alterazione
della
biodiversità
ed
un
possibile
impatto
sull’ambiente.
La
Pontificia
Accademia
Per
la
Vita
ha
pubblicato
un
documento
sugli
xenotrapianti,
che
affronta
anche
i
problemi
etici
della
transgenesi
e
della
sperimentazione
sugli
animali
più
in
generale.
Come
afferma
il
documento:
“…va
riaffermato
il
diritto
ed
il
dovere
dell'uomo,
su
mandato
del
suo
Creatore
e
mai
contro
l'ordine
naturale
da
Lui
stabilito,
di
agire
sul
creato
e
nel
creato,
anche
servendosi
di
altre
creature,
per
raggiungere
il
fine
ultimo
di
tutta
la
creazione:
la
gloria
di
Dio
e
la
realizzazione
piena
e
definitiva
del
suo
Regno,
attraverso
la
promozione
dell'uomo.
Risuonano
197
ancora
in
tutta
la
loro
verità
le
parole
di
S.
Ireneo
di
Lione:
«L'uomo
vivente
è
la
gloria
di
Dio
e
vita
dell'uomo
è
la
visione
di
Dio»
”
(Adv.Haereses,4,20,7)[16].
"L'uguaglianza
tra
animali
e
uomini”
postulata
da
Singer,
ed
i
“diritti
degli
animali”
di
Regan
sono
espressioni
adoperate
in
un
senso
naturale
e
giustificabile,
ma
è
solo
nella
specie
umana
che
si
possono
trovare
individui
capaci
di
rendersi
conto
di
esse
e
di
aderire
agli
obblighi
che
potrebbero
imporre.
Analogamente,
è
solo
l’uomo
ad
essere
consapevole
degli
obblighi
nei
confronti
della
natura
e
questa
consapevolezza
lo
pone
in
una
posizione
unica
di
fronte
all’universo.
L’uomo
può
sentirsi
responsabile
del
sano
ed
armonioso
sviluppo
della
vita,
ma
egli
richiede
a
pieno
titolo
di
essere
il
soggetto
di
diritti
inviolabili.
L’uomo
trascende
l’insieme
degli
esseri
e
tutte
le
analogie
tra
la
sua
condizione
e
quella
degli
altri
esseri
hanno
un
valore
molto
relativo.
Come
afferma
il
documento
sopra
citato
sugli
Xenotrapianti
(16)
“...un
semplice
sguardo
alla
lunga
vicenda
umana
sulla
Terra
è
sufficiente
per
far
emergere
con
tutta
evidenza
un
dato
inconfutabile:
è
l’uomo
che,
da
sempre,
governa
le
realtà
terrene,
gestendo
gli
altri
esseri,
viventi
e
non,
secondo
determinate
finalità.
In
particolare,
l’uomo
si
è
sempre
servito
degli
animali
per
i
suoi
bisogni
primari
(alimentazione,
lavoro,
vestiario,
ecc.),
in
una
sorta
di
«cooperazione»
naturale
che
ha
costantemente
segnato
le
varie
tappe
del
progresso
e
dello
sviluppo
della
civiltà…”.
La
coscienza
di
questa
condizione
potrebbe
indurre
erroneamente
l’uomo
a
trasformare
questa
unicità
in
una
relazione
di
dominio
della
Natura.
La
ragione
umana
condannerà
comunque
ogni
crudeltà
o
inutile
maltrattamento
degli
esseri
viventi.
“…il
sacrificio
degli
animali
può
essere
giustificato
solo
se
richiesto
dal
raggiungimento
di
un
bene
rilevante
per
l'uomo…Tuttavia
(in
ogni)
caso
è
eticamente
richiesto
che,
nell'usare
gli
animali,
l'uomo
osservi
alcune
condizioni
quali:
evitare
agli
animali
stessi
sofferenze
non
necessarie,
rispettare
i
criteri
di
vera
necessità
e
ragionevolezza,
evitare
modificazioni
genetiche
non
controllabili
che
possano
alterare
in
modo
significativo
la
biodiversità
e
l'equilibrio
delle
specie
nel
mondo
animale.
Dal
punto
di
vista
teologico
e
morale…si
lasciano
aperte
le
valutazioni
sulla
diversità
di
sensibilità
tra
animali
di
specie
differenti…”
(16).
L’appropriato
rispetto
nei
confronti
degli
animali
e
l'attenzione
ad
evitarne
inutili
sofferenze
sono
atteggiamenti
che
aiutano
a
riconoscere
lo
splendore
della
vita
e
che,
se
inadempiuti,
risultano
degradanti
ed
autodistruttivi
per
l’uomo
stesso.
Allo
stesso
tempo
chi
si
prende
cura
degli
esseri
viventi
imita
il
Creatore
al
cui
posto
soltanto,
l’uomo
può
agire
per
contribuire
al
progresso
universale.
Il
prendersi
cura
della
vita
e
degli
esseri
viventi
è
un
modo
di
conoscere
il
debito
dell’uomo
verso
Dio.
198
[1]
MÜLLER
JOHANNES.Handbuch
der
Physiologie
des
Menschen
Ersten
Bandes
zweit
Abtheilung
Coblenz
Verlag
von
J
Hölseher,
1833,
pp.
649-‐650.
[2]
MARITAIN
JACQUES.An
introduction
to
the
basic
problems
of
moral
phiosophy
Magi
Books
Inc.
Albany,
N.Y.
(1988).(Translated
from
Neuf
leçcon
sur
les
notions
premières
de
la
philosphie
morale,
first
published
in
Paris,
1950
by
Pierre
Taqui)
Chapters
2
and
3.
[3]
HAECKELERNST.The
Riddle
of
the
Universe.Published
1899,
translatedfrom
Die
Welträthsel,
1899
by
Joseph
McCabe,
Prometheus
Books,
1992),
p.
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[4]
AGUILERA
NELSON,
CLAUDIA
ESPINOZA.
Presencia
de
indígenas
de
Fuego.
Patagonia
en
teritorio
europeo.
In
Boletín
surdelsurpatogonia.com/erase
una
vez/pueblos,
66n1.htm.
[5]
SINGER
PETER.All
animal
are
equal.Originally
published
in
Philosophic
Exchange,
vol
I,
n5:
243-‐257
(1974).Reproduced
in
Environmental
Philosophy.Zimmermann
HE,
Callicott
JB,
Sessions
G,
Waqrren
Kj;
Clark
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Editors.Prentice
Hall,
N.J.,
26-‐40
(2002).
[6]
Cit.
In
(5),
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[7]
REGAN
TOM.
Animal
rights,
human
wrongs.Originally
appeared
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Environmental
ethics.Vol
2,
n2,
99-‐120
(1980).Reproduced
in
Environmental
Philosophy.Zimmermann
HE,
Callicott
JB,
Sessions
G.
Warren
KJ,
Clark
J.
Editors.Prentice
Hall,
N.
J.
41-‐55
(2001),
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[8]
LEOPOLD
ALDO.Originally
appeared
as
The
Land
Ethic.In
“A
sand
country
almanac
and
asketches
here
and
there”,Oxford
University
Press,
1949.Reproduced
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Environmental
Philosophy.Zimmermann
HE.
Callicott
JB,
Sessions
G.
Waqrren
KJ,
Clark
J.
Editors,
Prentice
Hall,
N.J.,
97-‐110
(2001),
pp
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[9]
NAESS
ARNE.The
deep
ecological
movement:
some
philosophical
aspects.
Originally
appeared
in
Philosophical
Inquiry
8:
1-‐2
(1986).Reproduced
in
Environmental
Philosophy.Zimmermann
HE,
callicott
JB,
Sessions
G.
Waqrren
KJ,
Clark
J.
Editors,
Prentice
Hall,
N.J.,
185-‐203
(2001),
pp
189-‐190.
[10]
FISSO
MARIA
BEATRICE,
ELIO
SGRECCIA.Etica
dell’ambiente.Medicina
e
Morale
1996/6:1057-‐1082,
pp
1068
and
1074.
[11]
H.H.JOHN
PAUL
II.Encyclical
Letter
Laborem
Exercens
n4.
[12]
Gen.
1:26-‐28.
[13]
Gen.1.
[14]
H.H.JOHN
PAUL
II.Encyclical
Letter
Laborem
Exercens
n4.
[15]
Gen.
2:15.
[16]
PONTIFICAL
ACADEMY
FOR
LIFE.Prospects
for
Xenotransplantation.Librería
Editrice
Vaticana
(2991),
nn.7,
8,15.
199
ADRIANA
LORETI-‐BEGHE’
Sommario:
1.
Introduzione
2.
Libertà
di
ricerca
scientifica
e
tutela
dei
diritti
umani
3.
La
Convenzione
di
Oviedo
e
il
Protocollo
addizionale
sulla
ricerca
biomedica
4.
Manipolazioni
genetiche
e
clonazione
5.
Il
diritto
all’integrità
psico-‐fisica
nella
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea
6.
Conclusioni.
1.
Se
e
vero
che
la
“rivoluzione”
scientifica
e
tecnologica
che
ha
caratterizzato
l’ultimo
decennio
del
secolo
trascorso
(e
senz’altro
segnerà
gli
anni
a
venire)
passa
anche
attraverso
l’elaborazione
di
idonee
norme
giuridiche
che
disciplinino
le
applicazioni
delle
moderne
tecnologie
(non
solo
di
diritto
interno,
ma
anche
e
soprattutto
di
diritto
internazionale
e
comunitario),
i
giuristi
possono
legittimamente
fregiarsi
del
(o
almeno
condividere
il)
titolo
di
“architetti
del
futuro”.
Personalmente,
faccio
mia
questa
osservazione
per
una
riflessione
più
profonda.
Sono
infatti
convinta
che
le
dimensioni
assunte
dalla
ricerca
biomedica
evidenzino
l’esigenza
di
assicurare
efficaci
forme
di
garanzia
dei
diritti
fondamentali
dell’uomo,
ma
al
contempo
sono
anche
convinta
che
la
disciplina
giuridica
e
la
tutela
giurisdizionale
non
esauriscono
la
gamma
delle
garanzie
possibili.
Al
riguardo,
vorrei
ricordare
che
la
norma
giuridica
raccoglie
bisogni,
spinte
e
valutazioni
che
nascono
prima
e
fuori
dal
mondo
del
diritto,
sulla
base
di
un
processo
preliminare
di
formazione
del
consenso
sociale.
Se
il
consenso
costituisce
la
base
per
qualsiasi
disciplina
giuridica,
ne
consegue
che
anche
il
riconoscimento
esplicito
dei
diritti
fondamentali
e
la
possibilità
di
esperire
rimedi
giurisdizionali
a
loro
tutela
devono
essere
preceduti
(o
integrati)
da
specifiche
misure
volte
a
garantire
ed
attuare
tali
diritti
anche
mediante
l’abolizione
di
ostacoli
di
natura
anzitutto
“culturale”,
come
dimostra,
ad
esempio,
l’esperienza
acquisita
nel
campo
delle
discriminazioni
fondate
sul
sesso.
Mi
sembra
quindi
necessario
introdurre
o
perfezionare,
accanto
ai
divieti
di
selezioni
eugenetiche
e
di
utilizzo
a
fini
discriminatori
delle
tecniche
di
ingegneria
genetica,
solo
per
citare
alcuni
esempi,
i
processi
di
educazione
ed
informazione
atti
a
garantire
una
piena
trasparenza
nella
comunicazione
degli
obiettivi
della
ricerca
e
della
sperimentazione
biomedica
e
ad
assicurare,
in
modo
durevole,
la
fiducia
e
la
partecipazione
pubblica
ai
programmi
di
indagine
genetica.
Occorre,
in
altri
termini,
stimolare
e
sondare
adeguatamente
il
consenso
sull’orientamento
complessivo
della
ricerca
scientifica
e
tecnologica,
perché
la
gestione
della
conoscenza
e
del
sapere
tecnico-‐scientifico
nella
società
contemporanea
richiede
una
sempre
maggiore
possibilità
di
partecipazione
e
di
“condivisione”
democratica.
Nel
contesto
descritto
è
particolarmente
avvertita
l’esigenza
di
assicurare
forme
di
garanzia
dell'eticità
e
della
legittimità
della
ricerca
e
della
sperimentazione
biomedica
ulteriori
e
diverse
da
quelle
tradizionali,
anche
mediante
la
“associazione”
dell’opinione
pubblica
e
dei
mass-‐
media
nella
fase
di
elaborazione
delle
decisioni
politiche
o
legislative
concernenti
gli
sviluppi
e
le
applicazioni
delle
tecniche
di
ingegneria
genetica.
Il
rischio
insito
nello
sviluppo
senza
controllo
della
biomedicina
e
delle
biotecnologie
è
sempre
più
avvertito
dagli
individui
e,
conseguentemente,
il
diritto
di
conoscere
(“right
to
know”)
dei
cittadini
rappresenta
sempre
più
un’esigenza
imperativa.
In
questa
prospettiva,
vanno
individuate
modalità
e
procedure
adeguate
200
delle
scelte
tecnico-‐scientifiche
che
sono
alla
base
delle
trasformazioni
più
avvertite
dalla
società,
allo
scopo
di
rendere
effettivo
il
diritto
all’informazione
ed
alla
partecipazione
ai
processi
decisionali
relativi
ai
temi
della
scienza
e
della
ricerca
applicata[1].
Un
esempio
importante
in
tal
senso
è
costituito
dalla
istituzione
di
specifici
gruppi
di
lavoro
nel
quadro
delle
iniziative
collegate
alla
attuazione
del
Libro
bianco
sulla
governance
europea,
presentato
dalla
Commissione
europea
nel
2000.
Nel
contesto
di
tali
iniziative,
volte
a
colmare
il
lamentato
deficit
democratico
del
metodo
di
governo
comunitario,
sono
stati
infatti
previsti
due
gruppi
di
esperti,
uno
incaricato
di
formulare
proposte
nel
campo
della
democratizzazione
del
sapere
scientifico,
particolarmente
nei
settori
della
salute
e
della
sicurezza,
l’altro
responsabile
per
le
iniziative
connesse
alla
partecipazione
della
società
civile[2].
Ai
fini
indicati,
grande
rilievo
assume
anche
la
diffusione
a
livello
internazionale,
europeo,
nazionale
e
locale
di
organismi
di
vigilanza
e
di
forum
consultivi,
imparziali
e
indipendenti
(quali
i
Comitati
etici,
su
cui
tornerò
più
avanti),
che
possano
farsi
espressione
della
“sostenibilità”
complessiva
delle
sperimentazioni
in
linea
con
i
principi
di
sussidiarietà
(nel
senso
lato
di
avvicinare
il
più
possibile
i
cittadini
ai
gangli
decisionali)
e
di
precauzione.
In
particolare,
il
principio
di
precauzione,
rapidamente
assurto
al
rango
di
principio
generale
di
diritto
(in
specie
di
diritto
comunitario),
implica
l’adozione
di
una
strategia
strutturata
di
adozione
delle
decisioni
che
vede
nella
valutazione
preventiva,
nella
gestione
e
nella
comunicazione
dei
rischi
configurabili,
nonché
nel
coinvolgimento
di
tutte
le
parti
interessate,
i
suoi
elementi
essenziali.
Tale
principio,
come
è
stato
rilevato,
può
considerarsi
un
esempio
applicativo
di
un
modo
per
interpretare
il
sapere
scientifico
e
si
applica
quando
lo
stato
delle
conoscenze
scientifiche
in
un
determinato
settore
non
permette
di
apprezzare
compiutamente
i
rischi
collegati
o
conseguenti
alle
applicazioni
tecnologiche
delle
scoperte
scientifiche
e
le
probabilità
che
essi
hanno
di
verificarsi,
anche
sotto
il
profilo
temporale[3].
Un
preciso
obbligo
giuridico
deriva,
in
tal
senso,
agli
Stati
parti
della
Convenzione
di
Oviedo
dall’art.
28
dell’Accordo,
che
pone
a
carico
dei
Paesi
contraenti
l’obbligo
di
vigilare
affinché
i
problemi
fondamentali
posti
dallo
sviluppo
e
dalle
applicazioni
della
biologia
e
della
medicina
formino
oggetto
di
consultazione
e
dibattito
pubblico
appropriati,
in
particolare
alla
luce
delle
implicazioni
mediche,
sociali,
economiche,
etiche
e
giuridiche
pertinenti.
La
sensibilizzazione
e
l’educazione
del
pubblico
sono
dunque
obblighi
positivi
assunti
dagli
Stati
che
hanno
ratificato
lo
strumento
internazionale.
D’altra
parte,
appare
realmente
necessario
introdurre
nuove
forme
di
mediazione
tra
scienza
e
società,
soprattutto
in
società
multiculturali
e
multietniche
come
quella
contemporanea,
poiché
è
diffusamente
avvertito
il
progressivo
“scollamento”
tra
scienza
e
società
e
l’assenza
di
comuni
fondamenti
di
eticità
e
di
legittimità
della
ricerca
scientifica.
Ciò
rischia,
evidentemente,
di
minare
alle
basi
i
diritti
fondamentali
dell’uomo,
con
riferimento
sia
al
loro
riconoscimento,
che
alle
forme
ed
agli
strumenti
di
tutela,
primi
tra
tutti
l’azionabilità
diretta
da
parte
dell’interessato.
Può
dirsi,
pertanto,
che
la
regolazione
giuridica
delle
questioni
bioetiche
non
può
precedere
la
maturazione,
nel
corpo
sociale,
di
scelte
morali
e
di
opzioni
etiche
sufficientemente
condivise
e
consolidate
sulle
soluzioni
da
perseguire,
alla
cui
realizzazione
il
diritto
è
chiamato
ad
offrire
il
supporto
degli
strumenti
più
idonei.
Sarà
così
possibile
non
solo
contemperare
le
esigenze
individuali
di
controllo
sull’uso
del
materiale
genetico
(e,
segnatamente,
delle
informazioni
in
esso
contenute)
con
le
più
generali
esigenze
di
tutela
pubblica
delle
risorse
genetiche,
ma
anche
fornire
un
contenuto
più
preciso
alle
nozioni
di
“patrimonio
comune
dell’umanità”
e
di
“responsabilità
intergenerazionale”.
2.
La
libertà
di
ricerca
scientifica
è
un
principio
ampiamente
affermato
sia
nelle
costituzioni
dei
singoli
Stati
che
negli
strumenti
internazionali.
201
E’
vero,
però,
che
non
sempre
è
agevole
distinguere
tra
ricerca
pura
(che
consiste
essenzialmente
nell’ampliamento
delle
conoscenze
dei
fondamenti
che
sono
alla
base
dei
fenomeni
osservabili)
e
ricerca
applicata
(l’attività
di
investigazione
rivolta
sì
all’acquisizione
di
nuove
conoscenze,
ma
finalizzata
ad
obiettivi
precisi),
trattandosi
di
due
fasi
del
medesimo
processo
cognitivo,
che,
per
i
caratteri
della
scienza
moderna,
si
presenta
necessariamente
come
sperimentale
e
da
cui
derivano,
in
molti
casi,
non
solo
conseguenze
pratiche
ed
applicative,
ma
implicazioni
di
rilievo
per
lo
sviluppo
ulteriore
della
ricerca
scientifica
pura.
E’
altrettanto
vero
che
i
risultati
senza
precedenti
del
progresso
scientifico
e
tecnologico,
succedutisi
negli
ultimi
anni
ad
un
ritmo
travolgente,
sembrano
destinati
a
penetrare
i
segreti
dello
spazio,
della
materia
e
della
vita
e
ad
incidere
sempre
più,
in
futuro,
sull’ambiente,
l’ecosistema
e
l’habitat
dell’uomo.
Da
questo
punto
di
vista,
va
appena
precisato
che
la
biologia
molecolare
e
le
tecniche
di
ingegneria
genetica
(le
c.d.
scienze
della
vita)
costituiscono
i
settori
maggiormente
fecondi
di
novità
davvero
rivoluzionarie.
Le
biotecnologie,
segnatamente,
si
differenziano
dalle
altre
moderne
tecnologie
pure
sviluppatesi
in
anni
recenti:
basti
rilevare,
in
proposito,
il
fabbisogno
di
materie
prime
particolarissime
e
diverse
rispetto
a
quelle
tradizionali
(i
geni,
considerati
“l'oro
verde”
del
XXI
secolo),
i
significativi
riflessi
sulla
salute
umana
derivanti
dalle
applicazioni
della
ricerca
biotecnologica
o
ancora
la
possibilità
che
le
biotecnologie
influenzino
i
valori
posti
a
fondamento
della
civile
convivenza
verso
sviluppi
non
del
tutto
conformi
ai
principi
dello
stato
di
diritto,
come
anche
l'opinione
pubblica
sembra
ormai
percepire
chiaramente.
In
particolare,
i
progressi
conseguiti
in
questo
settore
destano
la
preoccupazione,
evidenziata
dal
Parlamento
europeo
fin
dal
1989,
circa
il
possibile
utilizzo
discriminatorio
dei
risultati
delle
biotecnologie,
soprattutto
a
fini
di
controllo
sociale
e
demografico[4].
In
tal
senso
possono
essere
interpretate
anche
le
osservazioni
di
chi
lamenta
i
rischi
derivanti
da
una
«seconda
Genesi»,
concepita
artificialmente
nei
laboratori
di
biotecnologia
dei
Paesi
industrializzati
e
intesa
a
ripopolare
la
biosfera
terrestre
secondo
criteri
di
selezione
eugenetica[5].
I
rischi
collegati
e
conseguenti
all’utilizzo
improprio
dei
risultati
della
ricerca
scientifica,
evidenziati
da
fenomeni
celebri
quanto
tragici
(da
Hiroshima
alla
crisi
della
“mucca
pazza”),
dimostrano
non
solo
la
duplice
valenza
del
progresso
tecnico-‐scientifico,
ma
anche
l’esigenza
di
disciplinare
l’esercizio
delle
attività
che
sono
alla
base
di
tale
progresso
in
modo
da
indirizzarne
gli
sviluppi
futuri
verso
il
conseguimento
di
risultati
vantaggiosi
per
l’intera
umanità
e
utili
al
rafforzamento
delle
basi
della
civile
convivenza.
In
questo
contesto,
la
tutela
internazionale
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali
è
assurta
al
centro
di
un’ampia
riflessione,
in
quanto
l’avvento
delle
moderne
tecnologie,
soprattutto
in
campo
biomedico,
suscitano
preoccupazioni
ed
incertezze,
comportando
nuove
minacce
alla
libertà
degli
individui,
e
sviluppano
un
articolato
dibattito
sulla
esistenza
di
nuovi
diritti
e
sulla
esigenza
di
garantirne
il
rispetto:
si
pensi,
ad
esempio,
alle
modificazioni
genetiche
le
cui
“ricadute”
possono
interessare
non
solo
i
soggetti
direttamente
interessati,
ma
anche
le
generazioni
successive.
Le
esigenze
richiamate
trovano
maggiore
rispondenza,
come
è
naturale,
sul
piano
del
diritto
internazionale.
Numerosi
sono,
infatti,
i
fattori
che
spingono
verso
una
crescente
“mondializzazione”
delle
attività
di
ricerca,
così
come
numerose
appaiono
gli
obiettivi
da
promuovere
e
realizzare
mediante
idonee
norme
internazionali.
Salvo
tornare
nel
prosieguo
della
trattazione
sui
diversi
profili
evidenziati,
occorre
fin
d’ora
rilevare
che
gli
accordi
conclusi
in
seno
all’Organizzazione
delle
Nazioni
Unite
(ONU)
a
partire
dalla
fine
della
seconda
guerra
mondiale,
allo
scopo
di
disciplinare
la
collaborazione
internazionale
in
materia
di
ricerca
scientifica,
hanno
contribuito
soprattutto
a
fornire
attuazione,
in
tale
settore,
al
generale
obbligo
di
cooperazione
contenuto
nello
Statuto
dell’ONU,
alla
luce
degli
obiettivi
fondamentali
da
esso
202
individuati:
il
mantenimento
della
pace
e
della
sicurezza
internazionale,
da
una
parte,
il
rispetto
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali,
dall’altra.
Già
nel
preambolo
della
Carta
delle
Nazioni
Unite,
adottata
a
San
Francisco
nel
1945,
gli
Stati
avevano
riaffermato
la
loro
fede
nei
diritti
fondamentali
dell’uomo,
nella
dignità,
nel
valore
della
persona
umana.
La
celeberrima
Dichiarazione
dei
diritti
dell’uomo,
adottata
dall’Assemblea
generale
delle
NU
nel
1948,
ha
avuto
il
merito
di
trasferire
per
la
prima
volta
in
uno
strumento
internazionale
la
considerazione
e
la
salvaguardia
dei
valori
naturali,
universali,
indivisibili
e
irrinunciabili
dell’essere
umano.
Tale
strumento,
anche
se
redatto
in
forma
declaratoria
e
quindi
privo
di
efficacia
vincolante,
è
stato
il
primo
di
numerosi
atti
volti
a
far
assumere
dagli
Stati
impegni
pattizi
di
carattere
positivo
allo
scopo
di
tutelare
i
diritti
dell’uomo
e
le
libertà
fondamentali,
tra
cui
significativo
rilievo
ha
assunto
il
principio
dell’autonomia
dell’individuo
nella
gestione
della
propria
corporeità.
Vincolanti
per
gli
Stati
contraenti
sono
invece
i
Patti
sui
diritti
civili
e
politici
e
quelli
sui
diritti
economici,
sociali
e
culturali
del
1977.
Il
Patto
sui
diritti
civili
fissa
l’obbligatorietà
di
un
preventivo
libero
consenso
informato
dell’individuo
allo
svolgimento
di
esperimenti
medici
o
scientifici
(art.
7),
mentre
il
Patto
sui
diritti
economici
contiene
un
preciso
riferimento,
tra
l’altro,
al
diritto
individuale
a
godere
dei
benefici
del
progresso
scientifico
e
delle
sue
applicazioni
(art.
15).
Un
cenno
a
parte,
per
la
loro
diversa
efficacia,
meritano
infine
le
norme
deontologiche
adottate
dall’Assemblea
medica
mondiale
(la
Dichiarazione
di
Helsinki
del
1949,
modificata
da
ultimo
a
Edimburgo
nel
2000)
e
dal
Consiglio
delle
organizzazioni
internazionali
di
scienze
mediche
(CIOMS),
che
fissano
i
principi
etici
applicabili
alla
ricerca
biomedica
sugli
esseri
umani.
Si
tratta
di
norme
che
hanno
orientato
e
disciplinato
le
applicazioni
delle
tecnologie
mediche
secondo
valori
e
criteri
universali
e
oggettivi
di
rigore
scientifico
e
correttezza
etica,
divenuti
oggi
presupposti
imprescindibili
per
la
valutazione
e
l’approvazione
di
una
ricerca
biomedica.
Il
legame
tra
ricerca
scientifica
e
diritti
umani
è
stato
ribadito
in
diverse
occasioni
dall’Assemblea
generale
delle
Nazioni
Unite,
che
ha
adottato
numerose
risoluzioni
e
altri
atti
non
vincolanti
in
materia.
Può
ricordarsi,
in
particolare,
la
risoluzione
n.
38/135
del
19
dicembre
1983,
sui
diritti
dell’uomo
e
il
progresso
della
scienza
e
della
tecnica,
con
cui
l’Assemblea
generale
ha
invitato
tutti
gli
Stati,
gli
organismi
delle
Nazioni
Unite
e
le
altre
organizzazioni
internazionali,
governative
e
non
governative,
ad
adottare
le
misure
necessarie
affinché
i
risultati
del
progresso
scientifico
e
tecnologico
fossero
utilizzati
esclusivamente
nell’interesse
della
pace
internazionale
e
a
beneficio
dell’umanità,
promovendo
e
incoraggiando
il
rispetto
universale
dei
diritti
dell’uomo
e
delle
libertà
fondamentali[6].
Con
particolare
riferimento
all’ambito
della
ricerca
biomedica,
è
possibile
ricordare,
inoltre,
le
risoluzioni
adottate
nel
marzo
e
nel
dicembre
1993
dall’Assemblea
generale
delle
Nazioni
Unite,
intitolate
rispettivamente
«Diritti
umani
e
bioetica»
e
«Diritti
umani
e
progresso
della
scienza
e
della
tecnica».
Con
tali
risoluzioni,
le
Nazioni
Unite
hanno
espresso
l’auspicio
che
il
progresso
scientifico
potesse
svilupparsi
nel
rispetto
dei
diritti
fondamentali
dell’uomo,
mediante
l’elaborazione
di
una
«etica
delle
scienze
della
vita»
a
livello
nazionale
ed
internazionale.
A
tal
fine,
le
Nazioni
Unite
hanno
invitato
i
governi,
gli
istituti
specializzati
e
le
altre
organizzazioni
internazionali,
anche
a
livello
regionale
e
non
governativo,
ad
informare
il
Segretario
generale
dell’ONU
delle
misure
adottate
per
assicurare
lo
sviluppo
delle
scienze
della
vita
nel
rispetto
dei
diritti
dell’uomo,
ivi
compresa
la
costituzione
di
organismi
consultivi
nazionali
e
la
promozione
degli
scambi
di
esperienza
tra
istituzioni[7].
3.
Il
principale
strumento
vincolante
di
natura
internazionale
posto
a
tutela
della
dignità
e
dell’integrità
dell’essere
umano
nei
confronti
della
biomedicina
è
costituito
dalla
«Convenzione
del
Consiglio
d’Europa
sulla
protezione
dei
diritti
umani
e
della
dignità
dell’essere
umano
con
riguardo
alle
applicazioni
della
biologia
e
della
medicina
(c.d.
Convenzione
sulla
biomedicina)»,
203
adottata
il
19
novembre
1996
dal
Comitato
dei
ministri
di
quell’Organizzazione,
firmata
a
Oviedo
il
4
aprile
1997
ed
entrata
in
vigore,
sul
piano
internazionale,
il
1º
dicembre
1999.
Pur
espressamente
dedicata
alla
tutela
della
dignità
e
dell’integrità
dell’essere
umano
con
riguardo
alle
«applicazioni»
della
biomedicina
(art.
1),
la
Convenzione
di
Oviedo
contiene
anche
norme
relative
alla
tutela
dell’essere
umano
con
riguardo
alla
ricerca
scientifica
in
sé
considerata.
Al
riguardo,
la
Convenzione
compie
anzitutto
una
chiara
scelta
di
principio
sancendo,
all’art.
2,
il
primato
de
«l’interesse
e
del
bene
dell’essere
umano
…
sull’interesse
della
società
o
della
scienza».
Si
tratta
di
una
rilevante
affermazione
di
principio,
che,
trovando
collocazione
tra
le
Disposizioni
generali
dell’Accordo,
dovrebbe
condizionare
l’interpretazione
e
l’applicazione
dello
stesso,
nel
senso
di
garantire
il
rispetto
dell’essere
umano
in
ogni
stadio
della
sua
formazione
e
del
suo
sviluppo.
Siffatta
ispirazione
garantista
dell’essere
umano
è
ribadita
dalla
Convenzione
nel
quadro
della
disciplina
della
ricerca
medica
e
biologica
(Capo
V,
artt.
15-‐18),
il
cui
«libero
esercizio»
è
subordinato
all’osservanza
delle
disposizioni
pattizie
e
delle
altre
disposizioni
giuridiche
che
assicurano,
appunto,
la
protezione
«dell’essere
umano»
(art.
15).
Meno
garantiste
appaiono,
invece,
le
norme
della
Convenzione
concernenti
la
protezione
sostanziale
dell’embrione,
quali
l’art.
18
sulla
ricerca
scientifica
sugli
embrioni
in
vitro,
che
offre
un
livello
di
tutela
palesemente
insufficiente.
Tale
disposizione,
infatti,
rimette
alle
legislazioni
nazionali
la
scelta
di
autorizzare
o
meno
la
ricerca
scientifica
sugli
embrioniin
vitro,
limitandosi
a
stabilire
che,
ove
tale
ricerca
sia
ammessa
dalla
legge
nazionale,
quest’ultima
debba
assicurare
«un
livello
di
protezione
adeguato».
Va
aggiunto
che
la
palese
insufficienza
di
questa
disposizione
appare
appena
bilanciata
dal
divieto
di
creazione
di
embrioni
umani
a
fini
di
ricerca,
sancito
dallo
stesso
art.
18,
che
peraltro
non
esclude
la
sperimentazione
sugli
embrioni
umani
prodotti
a
scopi
di
fecondazione
assistita
ma
rimasti
inutilizzati
e
crio-‐conservati
(c.d.
embrioni
soprannumerari).
Si
ricordano,
in
proposito,
gli
orientamenti
assunti
dal
Regno
Unito,
dagli
Stati
Uniti
d’America
e
dalla
Francia,
intesi
a
legittimare
l’utilizzo
a
fini
di
ricerca
(condotta
con
fondi
privati)
degli
embrioni
soprannumerari.
In
particolare,
va
qui
ricordato
il
disegno
di
legge
sulla
bioetica
approvato
dall’Assemblea
nazionale
francese,
in
prima
lettura,
il
22
gennaio
2002.
L'elemento
di
maggior
portata
“rivoluzionaria”
del
progetto
di
legge,
che
dovrebbe
assicurare
alla
Francia
il
ruolo
di
leader
europeo
nel
campo
della
ricerca
biomedica
e
porla
su
un
piano
di
competitività
con
l’Inghilterra
e
gli
Stati
Uniti,
è
il
discutibile
“via
libera”
accordato
alle
ricerche
sugli
embrioni
c.d.
soprannumerari,
e
cioè
sugli
embrioni
crio-‐conservati
a
scopi
di
riproduzione
assistita.
Tale
previsione
è
giustificata,
nelle
intenzioni
dell’Assemblea,
dalla
necessità
di
consentire
il
progresso
delle
ricerche
in
campo
medico
necessario
a
debellare
quelle
malattie
(come
il
cancro
o
il
morbo
di
Parkinson)
nei
confronti
delle
quali
le
attuali
conoscenze
mediche
appaiono
insufficienti.
Come
è
agevole
intuire,
il
rischio
collegato
alla
scelta
di
sostenere
tale
forma
di
sperimentazione
(c.d.
clonazione
terapeutica)
è
quello
di
avallare,
dal
punto
di
vista
morale
e
nel
più
lungo
periodo,
la
clonazione
tout
court
di
esseri
umani
(c.d.
clonazione
riproduttiva),
attualmente
vietata
da
fonti
normative
internazionali
ed
nazionali.
Tale
rischio
è
stato
stigmatizzato
dalla
Risoluzione
del
Parlamento
europeo
del
7
settembre
2000,
in
cui
l’Assemblea
di
Strasburgo
ha
denunciato
l’utilizzo
di
«una
nuova
strategia
semantica»
intesa
ad
«indebolire
il
significato
morale
della
clonazione
umana»
allo
scopo
di
favorire
ulteriori
sviluppi
della
produzione
e
dell’utilizzo
di
embrioni
a
scopo
di
ricerca.
Per
il
Parlamento
europeo,
al
contrario,
«non
vi
è
alcuna
differenza
tra
clonazione
a
fini
terapeutici
e
clonazione
a
fini
di
riproduzione»
(è
bene
tuttavia
precisare
che
la
Risoluzione
in
parola
è
stata
approvata
con
una
strettissima
maggioranza:
237
voti
a
favore
contro
230
voti
contrari
e
43
astensioni)[8].
Le
altre
norme
della
Convenzione
di
Oviedo
concernenti
la
protezione
delle
persone,
anche
incapaci,
che
si
prestano
ad
una
ricerca,
sono
quelle
contenute
negli
artt.
16
e
17.
Si
tratta
204
essenzialmente
di
norme
volte
ad
assicurare
la
protezione
della
dignità
e
dell’integrità
fisica
e
psichica
dell’essere
umano
mediante
l’applicazione
del
tradizionale
strumento
di
tutela
dell’autonomia
individuale
in
campo
medico
(il
consenso
libero
ed
informato,
espresso
in
forma
scritta)
ed
una
serie
di
principi
e
criteri
ormai
consolidati
(proporzionalità
tra
rischi
e
benefici
attesi
dalla
ricerca;
approvazione
preventiva
dei
profili
scientifici
ed
etici
della
ricerca
da
parte
di
«istanze
competenti»;
inesistenza
di
un
metodo
alternativo
alla
ricerca
su
esseri
umani
e
di
efficacia
equivalente).
Non
va
poi
dimenticato
che,
essendo
la
Convenzione
un
vero
e
proprio
accordo-‐quadro,
che
stabilisce
obiettivi
e
norme
di
principio,
essa
rimanda,
per
gli
aspetti
più
sensibili
della
materia,
all’adozione
di
strumenti
giuridici
ulteriori.
Tra
questi,
si
ricorda
il
Protocollo
addizionale
sul
divieto
di
clonazione
di
esseri
umani,
firmato
a
Parigi
il
12
gennaio
1998,
nonché
i
progetti
di
Protocolli
dedicati
ai
trapianti
d’organo
e
tessuti
umani,
alla
ricerca
biomedica,
alla
tutela
dell’embrione
umano,
alla
genetica
umana
e,
da
ultimo,
agli
xenotrapianti.
A
ciò
si
aggiunga
che,
al
fine
di
tener
conto
degli
sviluppi
scientifici,
la
Convenzione
prevede
la
possibilità
di
riesaminare
le
norme
introdotte
entro
cinque
anni
dalla
loro
entrata
in
vigore,
e
cioè
entro
la
fine
del
2004.
Tra
i
progetti
di
Protocollo
poc’anzi
ricordati,
particolare
rilievo
assume
quello
dedicato
alla
ricerca
biomedica.
Anche
se
il
testo
del
Protocollo
(in
corso
di
avanzata
elaborazione)
non
è
ancora
definitivo,
mi
sembra
opportuno
ricordare
i
punti
salienti
dello
strumento
internazionale,
che
prende
le
mosse
dalla
constatazione
della
transnazionalità
e
della
transdisciplinarietà
della
ricerca
biomedica.
Il
progetto
di
Protocollo
si
articola
in
undici
Capitoli,
dedicati
all’oggetto
e
al
campo
di
applicazione;
ai
principi
generali;
ai
Comitati
etici;
all’informazione
e
consenso;
alla
protezione
delle
persone
incapaci;
alle
c.d.
situazioni
particolari;
alle
ricerche
in
situazioni
di
gravidanza
o
allattamento;
alla
sicurezza
e
sorveglianza
della
ricerca;
alla
riservatezza
e
diritto
all’informazione;
alle
ricerche
condotte
dagli
Stati
terzi
rispetto
al
Protocollo,
alle
disposizioni
finali.
Numerosi
sono
gli
articoli
del
progetto
volti
a
tutelare
gli
esseri
umani
che
si
prestano
ad
una
ricerca
biomedica,
ivi
compresi
gli
embrioni
in
vivo
(ma
non
in
vitro).
Particolare
attenzione
è
fornita,
inoltre,
sul
piano
delle
garanzie
offerte
ai
soggetti
partecipanti
alle
ricerca,
alle
persone
incapaci,
sono
previste
norme
specifiche
per
tutelare
le
persone
in
situazioni
di
dipendenza
o
vulnerabilità,
allo
scopo
di
evitare
ingiustificabili
pressioni
all’atto
di
espressione
del
consenso
alla
ricerca
(art.
13).
Competenze
dettagliate,
ai
fini
indicati,
sono
attribuite
ai
Comitati
etici,
ai
quali
è
affidato
anzitutto
il
compito
di
condurre
l’esame
pluridisciplinare
degli
obiettivi
della
ricerca,
l’analisi
scientifica
del
Protocollo
e
la
sua
accettabilità
dal
punto
di
vista
etico.
A
tal
fine,
i
Comitati
adottano
pareri
obbligatori
e
motivati
(ma
non
vincolanti).
Come
già
previsto
dalle
c.d.
norme
di
buona
pratica
clinica,
il
progetto
di
Protocollo
indica
le
informazioni
che
devono
essere
fornite
ai
Comitati,
con
particolare
riferimento
alla
competenza
ed
all’idoneità
dei
ricercatori,
nonché
all’indicazione
dei
soggetti
responsabili
sia
sul
piano
clinico
che
finanziario.
Usuali
obblighi
di
informazione
sono
anche
quelli
aventi
ad
oggetto
il
metodo
di
ricerca,
le
procedure
d’indagine
e
l’analisi
statistica,
che
devono
essere
indicati
nei
protocolli
di
ricerca
unitamente
ad
un
riassunto
del
progetto
medesimo.
Una
novità
è
invece
costituita
dall’obbligo
del
ricercatore
di
informare
gli
altri
centri
di
ricerca,
il
Comitato
etico
e
l’autorità
nazionale
competente
sugli
sviluppi
della
ricerca
che
possano
giustificare
un
suo
riesame
sul
piano
etico
(art.
26).
I
risultati
della
ricerca,
infine,
devono
formare
oggetto
di
un
rapporto
finale
al
Comitato
etico
o
all’autorità
nazionale
competente
(art.
30).
Sotto
questo
profilo,
occorre
rilevare
che
il
progetto
di
Protocollo
avrebbe
potuto
rivelarsi
più
incisivo
qualora
avesse
previsto
l’obbligatorietà
della
pubblicazione
e
della
diffusione
dei
205
risultati
delle
ricerche
anche
in
caso
di
esito
negativo,
pur
essendo
comprensibili
le
reticenze
che
i
ricercatori
potrebbero
esprimere
al
riguardo.
Come
è
agevole
osservare,
infatti,
la
storia
delle
conquiste
scientifiche
è
la
storia
di
ipotesi
di
ricerca
che
trovano
conferma,
o
meno,
nella
sperimentazione:
in
particolare,
la
moderna
tecnologia
appare
come
un
“processo”
in
continua
evoluzione,
in
cui
è
difficile
“fissare”
strumenti
metodologici
e
concettuali
definitivi.
Monitorare
una
strada
che
non
conduce
a
risultati
positivi
e
mettere
a
disposizione
della
comunità
scientifica
i
dati
di
tali
ricerche
permetterebbe
quindi
non
solo
di
evitare
sperimentazioni
ripetitive
e
superate
(oltre
che
costose),
ma
anche
di
rendere
più
manifesta
la
natura
di
“patrimonio
comune”
della
ricerca
scientifica,
ove
la
verità
(come
gli
errori)
non
è
mai
tale,
ma
costituisce
soltanto
il
frutto
più
elevato
che
è
possibile
raggiungere
con
le
conoscenze
scientifiche
di
cui
si
dispone
in
un
particolare
momento.
Pertanto,
sono
da
salutare
con
favore
iniziative
quali
la
pubblicazione
di
apposite
riviste
specializzate:
si
ricorda,
per
tutte,
il
Journal
of
Negative
Observations
of
Genetic
Onocology
(NOGO)[9].
Un
giudizio
positivo
può
invece
esprimersi
con
riferimento
alla
previsione
di
indicare,
nei
progetti
di
ricerca,
l’utilizzo
dei
risultati,
dai
dati
e
del
materiale
biologico
a
scopi
commerciali
(art.
12).
Si
segnala,
da
ultimo,
la
novità
relativa
alle
ricerche
condotte
nei
Paesi
che
non
saranno
parti
del
Protocollo,
quando
questo
entrerà
in
vigore.
Ai
sensi
dell’art.
31,
infatti,
le
norme
etiche
e
le
fondamentali
garanzie
di
sicurezza
enunciate
dal
Protocollo
saranno
applicate
anche
alle
ricerche
eseguite
sugli
esseri
umani
cittadini
di
Paesi
terzi.
Non
può
tuttavia
farsi
a
meno
di
rilevare
che,
per
garantire
una
più
efficace
protezione
giuridica
dei
cittadini
dei
Paesi
terzi
(soprattutto
se
Paesi
in
via
di
sviluppo),
sarebbe
stato
opportuno
introdurre
la
figura
del
“mediatore
culturale”,
cittadino
dello
Stato
terzo,
anche
allo
scopo
di
assicurare
la
reale
e
completa
informazione
e
comprensione
dei
rischi
e
dei
benefici
collegati
e
conseguenti
alla
ricerca.
Diversamente,
ben
si
potrà
dubitare
che
il
consenso,
fornito
anche
per
iscritto,
sia
un
consenso
realmente
informato
e
consapevole
dei
rischi
della
sperimentazione,
in
ossequio
al
principio
di
autonomia
dell’individuo
nella
gestione
della
propria
corporeità.
4.
Un
tema
di
peculiare
rilevanza
bioetica,
che
la
Convenzione
di
Oviedo
affronta
espressamente,
è
quello
della
ricerca
sul
genoma
umano
e
delle
potenziali
manipolazioni
genetiche.
In
questo
campo,
infatti,
è
da
tempo
avvertito
il
timore
circa
il
possibile
utilizzo
discriminatorio
e
lesivo
della
dignità
umana
dei
progressi
della
biomedicina,
timore
che
alimenta,
in
particolare,
il
dibattito
sulla
necessità
di
regolamentare
le
applicazioni
delle
tecniche
di
ingegneria
genetica
e
delle
biotecnologie.
Si
avverte,
in
altri
termini,
il
rischio
collegato
e
conseguente
ad
un
“ritorno”
all’applicazione
di
criteri
di
selezione
eugenetica,
dopo
i
drammatici
episodi
accaduti
nel
corso
dell’ultimo
conflitto
mondiale[10].
Tenendo
conto
di
tali
preoccupazioni,
la
Convenzione
e
il
Protocollo
addizionale
di
Parigi
vietano
gli
interventi
volti
alla
modificazione
del
genoma
umano
che
non
siano
giustificati
da
ragioni
preventive,
diagnostiche
o
terapeutiche
(art.
13)[11],
nonché
la
clonazione
degli
esseri
umani[12].
Quest’ultima
tecnica,
avente
come
scopo
deliberato
la
creazione
di
un
essere
umano
«geneticamente
identico»
ad
un
altro
essere
umano,
costituisce
un
«uso
improprio
della
biologia
e
della
medicina»
ed
è
espressamente
qualificata
come
«contraria
alla
dignità
dell’uomo»
(Preambolo
del
Protocollo,
punto
V)[13].
E’
significativo
osservare
che
i
divieti
in
parola
tengono
particolarmente
conto
della
necessità,
affermata
dal
Preambolo
e
dall’art.
13
della
Convenzione,
di
rispettare
l’essere
umano
sia
come
individuo
che
come
membro
della
specie
umana
e
di
utilizzare
i
progressi
della
biomedicina
a
beneficio
delle
generazioni
presenti
e
future.
In
tal
senso,
può
dirsi
che
la
Convenzione
recepisce
il
principio
della
responsabilità
intergenerazionale,
206
già
indicato
come
cardine
del
c.d.
sviluppo
sostenibile
dalla
Convenzione
sulla
diversità
biologica
(c.d.
biodiversità),
firmata
a
Rio
de
Janeiro
nel
giugno
1992[14].
Precise
indicazioni
in
quest’ottica
emergono
anche
dalle
esigenze
di
solidarietà
formalizzate
dalla
Dichiarazione
universale
dell’UNESCO
sul
genoma
umano
e
i
diritti
dell’uomo,
adottata
l’11
novembre
1997[15].
La
Dichiarazione,
infatti,
proclama
simbolicamente
il
genoma
umano
«patrimonio
comune
dell’umanità»,
per
sottolineare
l’unità
fondamentale
di
tutti
i
membri
della
famiglia
umana
e
la
dignità
inerente
ciascuno
di
essi
(art.
1)[16].
La
Dichiarazione
ribadisce,
inoltre,
le
esigenze
di
tutela
della
dignità
e
dei
diritti
dell’individuo,
indipendentemente
dalle
caratteristiche
genetiche
dello
stesso
(art.
2),
e
precisa
che
il
genoma
umano,
per
sua
natura
soggetto
ad
evoluzione,
contiene
potenzialità
in
grado
di
esprimersi
differentemente
a
seconda
di
fattori
mutevoli,
quali
l’educazione,
le
condizioni
di
vita,
l’alimentazione,
lo
stato
di
salute
e,
più
in
generale,
il
rapporto
tra
ciascun
individuo
ed
il
proprio
habitat
naturale
e
sociale
(art.
3).
Emerge
chiaramente,
così,
l’approccio
fatto
proprio
dalla
Dichiarazione
universale,
volto
ad
escludere
ogni
forma
di
“determinismo
genetico”
che
porti
ad
identificare
l’essere
umano
con
il
proprio
patrimonio
genetico
e
con
le
informazioni
ivi
racchiuse[17].
Occorre
tuttavia
rilevare
che
la
Convenzione
di
Oviedo
(art.
21)
e
la
Dichiarazione
dell’UNESCO
(art.
4)
vietano
la
commercializzazione
del
corpo
e
del
genoma
umano
«nel
suo
stato
naturale»,
senza
perciò
precludere
la
possibilità
di
instaurare,
ad
esempio,
un
regime
normativo
di
tutela
brevettuale
delle
invenzioni
biotecnologiche,
come
è
effettivamente
avvenuto
a
livello
comunitario
con
l’adozione
della
Direttiva
del
Parlamento
europeo
e
del
Consiglio
n.
98/44
(che
fa
leva
sostanzialmente
sulla
nozione
di
invenzione,
cui
si
ricollegano
i
tradizionali
requisiti
della
novità,
della
attività
inventiva
e
dell’applicazione
industriale)[18].
Pur
non
potendo
in
questa
sede
esaminare
compiutamente
l’atto
comunitario
e
la
problematica
ad
esso
sottesa,
deve
tuttavia
precisarsi
che
la
solenne
proclamazione
del
genoma
umano
come
patrimonio
comune
dell’umanità
mal
si
concilia
con
una
realtà
in
cui
l’enorme
potenziale
economico
sotteso
alla
brevettazione
dei
risultati
della
ricerca
biomedica
orienta
quest’ultima,
come
è
agevole
intuire,
secondo
logiche
di
profitto
poco
compatibili
con
le
esigenze
di
tutela
dei
diritti
fondamentali
dell’uomo
e,
in
particolare,
di
una
vera
e
propria
“identità
biologica”.
In
materia
si
registra
da
tempo,
del
resto,
una
vera
e
propria
corsa
all’oro:
al
giugno
2002
risultavano
presentate
circa
720.000
richieste
di
esclusiva
su
sequenze
genetiche
umane
(si
ricorda
che
può
formare
oggetto
d'invenzione
un
materiale
biologico
isolato
dal
suo
ambiente
naturale
o
prodotto
tramite
un
procedimento
tecnico,
anche
se
preesistente
allo
stato
naturale).
Le
sollecitazioni
di
natura
economica
che
costituiscono
il
presupposto
del
regime
di
tutela
brevettale
possono
peraltro
indurre
a
commettere,
con
riferimento
alle
biotecnologie,
clamorosi
“errori”:
basti
ricordare
l’“incidente”
costituito
dalla
decisione
dell’Ufficio
europei
dei
brevetti
(UEB)[19]
di
concedere
all’Università
di
Edimburgo,
in
data
8
dicembre
1999
(n.
EP
0695351),
un
brevetto
concernente
«method
of
preparing
a
transgenic
animal»,
ove,
nell’inglese
scientifico,
il
termine
«animal»
può
applicarsi
anche
agli
esseri
umani.
Questa
decisione
è
apparsa
in
contrasto
con
lo
stesso
Regolamento
di
esecuzione
della
Convenzione
di
Monaco,
il
quale
esclude
la
possibilità
di
concedere
brevetti
«in
respect
of
biotechnological
inventions
wich
…
concern
…
processes
of
cloning
human
beings»[20],
tanto
da
indurre
lo
stesso
UEB
a
rilasciare
una
dichiarazione
in
cui
affermava
di
essere
incorso
in
errore
(sic!)
e
che,
pur
non
rientrando
nei
suoi
poteri
la
rettifica
del
brevetto
ormai
accordato[21],
l’ambito
della
protezione
accordata
non
poteva
ritenersi
esteso
alla
clonazione
umana[22].
5.
Esaminati
brevemente
gli
strumenti
giuridici
destinati
a
rafforzare,
sul
piano
universale,
la
tutela
dei
diritti
fondamentali
alla
luce
degli
sviluppi
scientifici
e
tecnologici
(la
Convezione
di
Oviedo
e
la
Dichiarazione
dell’UNESCO),
è
possibile
ora
ricordare,
sul
piano
del
diritto
207
comunitario,
che
la
Comunità
europea
segue
da
tempo
le
problematiche
collegate
o
conseguenti
agli
sviluppi
della
biologia
molecolare
ed
all’applicazione
delle
tecniche
di
ingegneria
genetica,
come
dimostra
l’adozione
della
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
europea,
proclamata
solennemente,
a
Nizza,
dai
presidenti
di
Parlamento
europeo,
Consiglio
e
Commissione
il
7
dicembre
2000
(anche
se,
per
il
momento,
sprovvista
di
efficacia
giuridica
vincolante)[23].
Per
quanto
concerne
gli
aspetti
di
maggior
rilievo
in
questa
sede,
è
anzitutto
significativo
rilevare
che,
al
punto
2
del
Preambolo,
l’Unione
europea
dichiara
di
porre
«la
persona
al
centro
della
sua
azione»
e
di
basarsi
sui
principi
della
libertà,
della
democrazia
e
dello
stato
di
diritto,
già
posti
a
fondamento
dell’Unione
medesima
dai
Trattati
di
Maastricht
e
di
Amsterdam[24].
A
tali
principi,
il
Preambolo
della
Carta
aggiunge
un
riferimento
ai
valori
della
dignità
umana,
dell’uguaglianza
e
della
solidarietà,
espressamente
qualificati
«indivisibili
e
universali»
nella
consapevolezza
del
«patrimonio
spirituale
e
morale»
dell’Unione[25].
Altra
importante
affermazione
di
principio
è
quella
contenuta
nell’art.
1,
che
sancisce
l’inviolabilità
della
dignità
umana.
E’
poi
significativo
rilevare
che
l’art.
3
della
Carta
riconosce
il
diritto
all’integrità
fisica
e
psichica
di
ciascun
individuo
nei
confronti
delle
applicazioni
della
medicina
e
della
biologia[26].
Tale
diritto
è
garantito,
oltre
che
dal
tradizionale
strumento
di
tutela
dell’autonomia
individuale
in
campo
medico
(il
consenso
libero
ed
informato),
da
una
serie
di
divieti:
di
pratiche
eugenetiche
selettive,
di
clonazione
riproduttiva
di
esseri
umani
e
di
trarre
fonte
di
profitto
dal
corpo
umano
e
dalle
sue
parti.
Si
noti
che
il
divieto
di
«pratiche
eugenetiche
…
aventi
come
scopo
la
selezione
delle
persone»,
nonché
il
divieto
di
«clonazione
riproduttiva
di
esseri
umani»,
sono
stati
così
formulati
per
recepire
le
proposte
del
Gruppo
europeo
per
l’etica
delle
scienze
e
delle
nuove
tecnologie
contenute
nel
documento
Droits
des
citoyens
et
nouvelles
technologies:
un
defi
lance
a
l’Europe,
Rapport
sur
la
Charte
des
droits
fondamentaux
en
relation
avec
l’innovation
technique
demandé
par
le
President
Prodi
le
3
février
2000,
Bruxelles,
23
mai
2000.
Grande
importanza
riveste
anche
l’art.
21
della
Carta,
che
vieta
qualsiasi
forma
di
discriminazione,
tra
cui
quelle
fondate
sulle
caratteristiche
genetiche
dell’individuo.
Tale
divieto
si
ricollega,
con
tutta
evidenza,
a
quello
sancito
dall’art.
13
del
Trattato
di
Roma,
introdotto
ex
novo
dal
Trattato
di
Amsterdam,
che
attribuisce
al
Consiglio
dell’Unione
la
competenza
per
adottare
i
provvedimenti
volti
a
combattere
le
discriminazioni
fondate
sul
sesso,
la
razza
e
l’origine
etnica,
la
religione
o
le
convinzioni
personali,
gli
handicap,
l’età
o
le
tendenze
sessuali.
E’
agevole
intuire,
infatti,
che
la
disposizione
in
parola
costituisce
la
cornice
ideale
entro
cui
ricondurre
un
futuro
divieto
convenzionale
di
“discriminazione
genetica”,
tenendo
anche
conto,
in
prospettiva,
dell’esigenza
di
recepire
nel
corpus
dei
Trattati
i
contenuti
della
Carta
dei
diritti
fondamentali[27].
6.
Il
vertiginoso
progresso
della
tecnica
costituisce
una
realtà
alla
quale
occorre
responsabilmente
porsi
e
confrontarsi.
La
tecnica
moderna,
a
differenza
di
quanto
avveniva
in
passato,
non
mira
a
raggiungere
un
punto
di
equilibrio,
ma
diventa
l’occasione
per
passi
ulteriori.
Oggi
l’innovazione
scientifica
e
lo
sviluppo
tecnologico
si
diffondono
velocemente
nel
mondo
intero,
anche
in
forza
del
c.d.
processo
di
globalizzazione
e
delle
interconnessioni
individuali,
suscitando
preoccupazioni
e
incertezze
per
quanto
concerne
sia
l’oggi
che
il
futuro
delle
nuove
generazioni.
Particolarmente
significativo
è
quindi
il
risveglio
di
una
riflessione
etica
intorno
alla
vita
umana,
con
la
nascita
e
lo
sviluppo
della
bioetica,
che
favorisce
la
riflessione
e
il
dialogo
tra
credenti,
anche
di
diverse
religioni,
sui
problemi
etici
fondamentali
concernenti
la
vita
dell’uomo.
Come
ha
affermato
Giovanni
Paolo
II
nell’Evangelicum
Vitae,
occorre
altresì
mobilitare
e
formare
le
coscienze
di
tutti
per
arrivare
ad
un
comune
sforzo
etico
volto
a
costruire
una
nuova
cultura
della
vita.
Nuova
perché
in
grado
di
affrontare
e
risolvere
gli
inediti
problemi
di
oggi
circa
la
vita
208
dell’uomo,
nuova
perché
fatta
propria
con
più
salda
e
operosa
convinzione
da
parte
di
tutti
i
cristiani,
nuova
perché
capace
di
suscitare
un
serio
e
coraggioso
confronto
culturale
con
tutti.
Suscitare,
sostenere,
addirittura
fondare
un
sentimento
per
la
umanità
è
dunque
un
importantissimo
compito
educativo
ed
intellettuale
per
il
mondo
di
domani[28].
[1]
Colloque
international
“Science
et
Societé”,
Paris,
30
novembre
2000,
in
http://www.recherche.gouv.fr/discours/2000/dsciences.htm.
[2]
Si
vedano
i
lavori
di
tali
organismi
in
http://europa.eu.int/comm/governance.
[3]
Così
Tallacchini
M.C.,
Politica
della
scienza
e
diritto:
epistemologia
della
identità
europea,
Politeia,
2001,
62:
6-‐21.
[4]
Cfr.
la
risoluzione
sui
problemi
etici
e
giuridici
della
manipolazione
genetica,
adottata
il
16
marzo
1989,
in
Guce
n.
C96
del
17
aprile
1989,
p.
165.
[5]
Così
Rifkin
J.,
Il
secolo
delle
biotecnologie,
in
Internazionale,
n.
229,
1998:
p.
17
e
ss.
Sul
punto
si
rimanda
anche
a
Fantini
M.,
Il
fantasma
dell'eugenica,
in
Rodotà
S.
(a
cura
di),
Questioni
di
bioetica,
Bari:
Laterza,
1993:
301-‐331,
nonché
Santosuosso
A.,
La
genetica:
problemi
di
legittimazione
medica
e
di
controllo
sociale,
in
Barni
M.-‐
SantosuossoA.
(a
cura
di),
Medicina
e
diritto.
Prospettive
e
responsabilità
della
professione
medica
oggi,
Milano,
1995:
p.
330
e
ss.
[6]
Come
è
noto,
le
risoluzioni
delle
organizzazioni
internazionali,
che
di
per
sé
non
hanno
efficacia
vincolante,
possono
acquistare
tale
efficacia
solo
se
trasformate
in
fonti
di
diritto
internazionale
generale
(consuetudine)
o
particolare
(convenzioni
e
trattati).
Vero
è
che
le
risoluzioni,
comunemente
ricondotte
alla
sfera
del
c.d.
diritto
morbido
(“soft
law”),
non
sono
del
tutto
improduttive
di
effetti
giuridici
e
vengono
in
rilievo
ai
fini
dell’accertamento
del
diritto
internazionale
consuetudinario.
Sotto
il
primo
profilo,
B.
Conforti,
Diritto
internazionale,
Napoli:
Editoriale
scientifica,
2001,
178,
parla
di
«effetto
di
liceità»,
intendendo
con
ciò,
in
buona
sostanza,
l’operare
della
risoluzione
internazionale
come
causa
di
esclusione
dell’illecito
eventualmente
posto
in
essere
da
uno
Stato
che,
per
eseguire
una
risoluzione,
tenga
un
contegno
contrario
ad
obblighi
derivanti
da
fonti
consuetudinarie
o
convenzionalmente
assunti.
Sotto
il
secondo
profilo,
di
maggiore
interesse
in
questa
sede,
va
precisato
che
le
risoluzioni
possono
costituire
manifestazioni
autorevoli
dell’opinio
juris
degli
Stati
e
contribuire
così,
coniugandosi
con
analoghi
elementi
della
prassi
internazionale,
alla
ricostruzione
delle
norme
di
diritto
internazionale
generale.
[7]
Si
ricorda,
in
questo
contesto,
anche
la
risoluzione
adottata
dalla
Conferenza
generale
dell’UNESCO
il
16
novembre
1999,
dal
titolo
Dichiarazione
sulla
scienza
e
l’utilizzo
del
sapere
scientifico
e
l’Agenda
per
la
scienza
–
Quadro
d’azione.
[8]
Vedi
la
risoluzione
in
Guce
n.
C135
del
7
maggio
2001,
p.
263.
[9]
Cfr.
http://www.path.jhu.edu/NOGO.
[10]
Ma
non
solo.
E’
noto,
infatti,
che
tentativi
di
manipolare
il
patrimonio
genetico
umano
sono
stati
condotti
non
solo
nei
campi
di
concentramento
nazisti,
come
dimostrano
gli
atti
del
processo
di
Norimberga,
ma
anche,
fino
ad
anni
recenti,
in
ospedali
e
carceri
degli
Stati
Uniti
d’America
e
della
ex-‐Unione
Sovietica.
Anche
a
seguito
della
scoperta
di
episodi
eclatanti
(quali
il
Tuskegee
Syphilis
Study,
un
esperimento
relativo
alla
diffusione
della
sifilide
avviato
negli
anni
Trenta
su
una
comunità
di
neri
del
Sud
degli
Stati
Uniti
e
continuato
anche
dopo
la
scoperta
della
penicillina;
o
le
sperimentazioni
approvate
dal
Committee
on
Medical
Research
creato
allo
scoppio
della
seconda
guerra
mondiale)
e
dell’avvio
della
riflessione
etica
sulla
medicina
e
la
ricerca
scientifica,
venne
creata
negli
USA,
nel
1974,
la
National
Commission
for
the
Protection
of
209
Human
Subject
of
Biomedical
and
Behavioural
Research.
Come
già
ricordato
nel
Capitolo
I,
sulla
scorta
del
risultato
dei
lavori
di
tale
Commissione
ha
visto
la
luce
il
rapporto
intitolato
Ethical
Principles
and
Guidelines
for
the
Protection
of
Human
Subject
of
Research
(c.d.
Belmont
Report),
in
cui
sono
stati
enunciati
i
principi
che
hanno
successivamente
ispirato
l’analisi
dei
problemi
bioetici
in
ambito
medico
e
sanitario.
[11]
Si
noti
che
la
Convenzione
di
Oviedo
si
preoccupa
anche
di
vietare
l’utilizzo
di
tecniche
di
assistenza
medica
alla
procreazione
qualora
lo
scopo
di
tali
interventi
sia
di
determinare
il
sesso
del
nascituro,
eccezion
fatta
per
l’ipotesi
di
evitare
una
malattia
grave
legata
al
sesso
(art.
14).
Per
quanto
riguarda
il
possibile
utilizzo
discriminatorio
dei
risultati
della
ricerca
sul
genoma,
invece,
la
Convenzione
pone
un
divieto
di
discriminazione
in
ragione
del
patrimonio
genetico
(art.
11)
e
disciplina
l’impiego
dei
c.d.
test
genetici
predittivi
(art.
12).
[12]
Gli
obiettivi
del
Protocollo
sono
chiaramente
enunciati
dal
Preambolo
dell’Atto,
in
cui
gli
Stati
membri
del
Consiglio
d’Europa,
pur
mostrandosi
consapevoli
dei
progressi
che
le
tecniche
di
clonazione
possono
apportare
alle
conoscenze
scientifiche
ed
alle
applicazioni
terapeutiche,
condannano,
poiché
contraria
alla
dignità
dell’uomo
ed
anche
in
considerazione
delle
difficoltà
di
ordine
medico,
psicologico
e
sociale
derivanti
dall’utilizzo
deliberato
di
tale
pratica
biomedica,
la
«strumentalizzazione
dell’essere
umano
attraverso
la
creazione
deliberata
di
esseri
umani
geneticamente
identici».
Nell'ordine
delle
conseguenze
del
divieto
sancito
dal
Protocollo
addizionale
devono
essere
fatte
rientrare,
tra
l’altro,
le
attività
dirette
alla
commercializzazione
o
all'offerta
di
gameti,
di
cellule
somatiche
di
embrioni
o
di
altro
materiale
genetico
umano
a
fini
di
clonazione,
nonché
le
relative
forme
di
pubblicità.
[13]
Nello
stesso
senso
si
veda
anche
l’art.
11
della
Dichiarazione
universale
sul
genoma
umano
e
i
diritti
dell’uomo
dell’UNESCO,
su
cui
si
tornerà
tra
breve.
Va
precisato
che
per
clonazione
umana
(o
animale)
si
intende
la
produzione
di
embrioni
umani
(o
animali)
geneticamente
identici,
ottenuti
mediante
replicazione
non
sessuata
di
un
unico
altro
essere
vivente
umano
(o
animale),
a
qualsiasi
stadio
del
suo
sviluppo
e
della
sua
vita,
a
partire
dallo
zigote
(cellula-‐uovo
fecondata,
prima
che
inizi
il
processo
di
segmentazione)
o
dopo
la
sua
morte.
Sugli
aspetti
scientifici
ed
etici
della
clonazione
si
rimanda
a
Comitato
nazionale
per
la
bioetica,
La
clonazione,
Roma:
IPZS,
1997,
ed
alla
bibliografia
ivicitata.
Si
ricorda,
in
proposito,
che
già
la
Raccomandazione
dell’Assemblea
parlamentare
del
Consiglio
d’Europa
1046
(1986),
del
24
settembre
1986,
relativa
all’utilizzo
di
embrioni
e
feti
umani
a
fini
diagnostici,
terapeutici,
scientifici,
industriali
e
commerciali,
invitava
i
governi
dei
Paesi
membri
ad
adottare
le
misure
necessarie
per
vietare
la
«création
d’êtrs
humains
identiques
par
clonage
ou
par
d’autres
méthodes»
(in
Textes
du
Conseil
de
l’Europe
en
matière
de
biéthique,
cit.,
p.
19).
Il
contenuto
di
tale
Raccomandazione,
ribadito
dalla
Raccomandazione
1100
(1989)
del
26
gennaio
1989,
è
stato
ripreso
dall’art.
20
del
Rapporto
sulla
procreazione
umana
artificiale,
adottato
nel
1989
dal
Comitato
ad
hocdi
esperti
sul
progresso
delle
scienze
biomediche
del
Consiglio
d’Europa,
secondo
cui
«l’utilisation
des
techniques
de
procréation
humaine
artificielle
afin
de
créer
des
être
humains
identiques
par
clonage
ou
par
toute
autre
méthode
doit
être
interdite»
(ibidem,
p.
149).
Da
ultimo,
anche
il
Piano
d’azione
adottato
al
termine
del
secondo
summit
dei
capi
di
Stato
e
di
governo
del
Consiglio
d’Europa,
tenutosi
a
Strasburgo
nell’ottobre
1997,
impegnava
gli
Stati
membri
dell’Organizzazione
a
vietare
le
tecniche
di
clonazione,
conferendo
al
Comitato
dei
ministri
il
mandato
necessario
per
l’approvazione
di
un
Protocollo
addizionale
alla
Convenzione
di
Oviedo
(ibidem,
p.
137).
Anche
nell’ambito
delle
Comunità
europee
la
clonazione
umana
ha
fatto
oggetto
di
“condanna”,
in
particolare
da
parte
della
Dichiarazione
del
Consiglio
europeo
tenutosi
ad
Amsterdam
il
16-‐17
giugno
1997
(cfr.
l’allegato
IV
delle
Conclusioni
della
Presidenza),
che
richiama
espressamente
il
parere
sugli
aspetti
etici
delle
tecniche
di
clonazione
del
Gruppo
europeo
per
l’etica
delle
scienze
e
delle
nuove
tecnologie
(cfr.
il
parere
n.
9
del
28
maggio
1997),
210
nonché
le
Risoluzioni
del
Parlamento
europeo
del
1993
e
del
1997
dedicate
alla
clonazione
umana
e
di
embrioni
umani
(in
Guce
n.
C315
del
22
novembre
1993,
p.
224,
e
n.
C115
del
14
aprile
1997,
p.
92,
cui
si
sono
aggiunte
le
Risoluzioni
del
1998
e
del
2000
pubblicate
in
Guce
n.
C34
del
2
febbraio
1998,
p.
164,
in
Guce
n.
C378
del
29
dicembre
2000,
p.
95,
e
in
Guce
n.
C135
del
7
maggio
2001,
p.
263).
Nell’ultima
Risoluzione
citata,
del
7
settembre
2000,
il
Parlamento
europeo
ha
incisivamente
affermato
che
la
c.d.
clonazione
terapeutica
«pone
un
profondo
dilemma
etico,
costituisce
un
passo
senza
non
ritorno
per
quanto
riguarda
le
norme
della
ricerca
e
si
pone
in
contrasto
con
l’impostazione
in
materia
di
ordine
pubblico
e
buon
costume
adottata
dall’Unione
europea».
[14]
Secondo
l’art.
13
della
Convenzione
di
Oviedo
«un
intervento
che
ha
come
obiettivo
di
modificare
il
genoma
umano
non
può
essere
intrapreso
se
non
per
ragioni
preventive,
diagnostiche
o
terapeutiche
e
solamente
se
non
ha
come
scopo
di
introdurre
una
modifica
nel
genoma
dei
discendenti».
Si
ricorda
che
la
Convezione
sulla
diversità
biologica
è
stata
adottata,
insieme
alla
Dichiarazione
sull'ambiente
e
lo
sviluppo,
alla
Convenzione
sui
cambiamenti
climatici
ed
alla
c.d.
Agenda
21,
dalla
Conferenza
delle
Nazioni
Unite
su
ambiente
e
sviluppo
(UNCED)
tenutasi
a
Rio
de
Janeiro
dal
3
al
14
giugno
1992.
Si
tratta
di
importanti
atti
di
natura
internazionale,
intesi
a
formalizzare
la
volontà
degli
Stati
partecipanti
alla
Conferenza
di
Rio
di
conseguire
uno
sviluppo
economico
e
sociale
compatibile
con
la
salvaguardia
dell'ambiente
(per
un
esame
di
tali
atti
si
veda,
per
tutti,
G.
Garaguso-‐S.
Marchisio
(a
cura
di),
Rio
1992:
vertice
per
la
Terra,
Milano:
Franco
Angeli,
1993).
L'Agenda
21,
in
particolare,
ha
assegnato
all'Assemblea
generale
delle
Nazioni
Unite
il
compito
di
procedere
alla
verifica
quinquennale
dei
risultati
conseguiti
nel
quadro
dell'attuazione
degli
impegni
assunti
a
Rio,
cui
ha
provveduto
la
XIX
sessione
speciale
dell'Assemblea
generale
(UNGASS)
tenutasi
a
New
York
nel
giugno
1997.
Sui
risultati
raggiunti
in
tale
sede,
si
veda
S.
Marchisio
et
al.,
Rio
cinque
anni
dopo,
Milano:
Franco
Angeli,
1998,
nonché
United
Nations
Environment
and
Development,
Earth
Summit
II,
Outcomes
and
Analysis,
London,
1998.
[15]
La
Dichiarazione
dell’UNESCO
si
articola
in
un
Preambolo
e
sette
capitoli:
Dignità
umana
e
genoma
umano
(artt.
1-‐4);
Diritti
delle
persone
interessate
(artt.
5-‐9);
Ricerche
sul
genoma
umano
(artt.
10-‐12);
Condizioni
di
esercizio
dell’attività
scientifica
(artt.
13-‐16);
Solidarietà
e
cooperazione
internazionale
(artt.
17-‐19);
Promozione
dei
principi
della
Dichiarazione
(artt.
20-‐
21);
Attuazione
della
Dichiarazione
(artt.
22-‐25).
Si
ricorda
che
il
contenuto
della
Dichiarazione
dell’UNESCO
è
stato
ripreso
in
toto
dalla
Risoluzione
sui
diritti
umani
e
il
genoma,
adottata
dall’Assemblea
generale
delle
Nazioni
Unite
il
9
dicembre
1998
(A/RES/53/152).
Va
precisato
che
la
Dichiarazione
dell’UNESCO
e
la
Risoluzione
delle
Nazioni
Unite,
pur
essendo
dotate
di
una
portata
più
ampia
della
Convenzione
di
Oviedo
(in
ragione
del
diverso
numero
di
Stati
membri
delle
tre
Organizzazioni),
sono
sprovviste
di
efficacia
vincolante.
[16]
La
nozione
di
“patrimonio
comune
dell’umanità”
è
ormai
diffusa
nel
diritto
internazionale
per
indicare
le
esigenze
collegate
o
conseguenti
alla
responsabilità
(internazionale
ed
intergenerazionale)
di
promuovere
e
realizzare
lo
sfruttamento
di
risorse
naturali
esauribili
a
beneficio
dell’intera
umanità.
Tale
nozione
si
rinviene,
in
particolare,
nelle
risoluzioni
dell’Assemblea
generale
delle
Nazioni
Unite
e
nell’art.
136
della
Convenzione
di
Montego
Bay
del
10
dicembre
1982,
concernenti
lo
sfruttamento
delle
risorse
del
fondo
e
del
sottosuolo
marino
oltre
i
limiti
delle
giurisdizioni
nazionali
(c.d.
mare
internazionale),
nonché
nelle
risoluzioni
dell’Assemblea
generale
dell’ONU
concernenti
l’utilizzo
delle
risorse
dell’Antartide.
Per
una
ricostruzione
di
tale
nozione
nell’ambito
qui
in
esame
si
rimanda
a
G.B.
Kutukdjian,Le
génome
humain:
Patrimoine
Commun
de
l’Humanité,
in
Héctor
Gros
Espiell
Amicorum
Liber,
Bruxelles,
1997,
I,
601.
211
[17]
Si
veda
espressamente,
in
tal
senso,
l’art.
2,
lett.
b,
della
Dichiarazione
universale.
L’art.
12
della
Dichiarazione
precisa
che
«ognuno
dovrebbe
avere
accesso
ai
progressi
della
biologia,
della
genetica
e
della
medicina,
concernenti
il
genoma
umano,
nel
rispetto
della
propria
dignità
e
dei
propri
diritti….Le
applicazioni
della
ricerca,
soprattutto
quelle
in
biologia,
genetica
e
medicina,
concernenti
il
genoma
umano,
devono
tendere
ad
alleviare
la
sofferenza
ed
a
migliorare
la
salute
dell’individuo
e
dell’umanità
intera».
Precise
esigenze
di
solidarietà
e
cooperazione
internazionale
sono
inoltre
sancite
dalla
Dichiarazione
agli
artt.
17-‐19,
secondo
cui
gli
Stati
dovrebbero,
anzitutto,
incoraggiare
le
ricerche
destinate
ad
identificare,
prevenire
e
curare
le
malattie
di
natura
genetica,
come
pure
le
malattie
rare
o
endemiche
che
colpiscono
una
parte
importante
della
popolazione
mondiale.
Nei
rapporti
tra
Paesi
industrializzati
e
Paesi
in
via
di
sviluppo
(PVS),
la
Dichiarazione
prevede
poi
che
i
primi
dovrebbero
incoraggiare
la
cooperazione
scientifica
e
culturale
con
i
secondi,
favorendo
la
diffusione
internazionale
della
conoscenza
scientifica
sul
genoma
umano,
sulla
diversità
umana
e
sulle
ricerche
genetiche,
nonché
rafforzare
la
capacità
di
ricerca
biologica
dei
PVS,
permettendo
a
questi
ultimi
di
trarre
beneficio
dai
progressi
della
biomedicina.
[18]
Va
ricordato,
in
proposito,
il
caso
ormai
di
scuola
del
Sig.
Moore,
affetto
da
una
rara
forma
di
leucemia,
al
quale
venne
asportata
la
milza
presso
l’Università
di
San
Diego
(California).
A
tale
prelievo
ne
seguirono
molti
altri
(sangue,
pelle,
midollo
osseo
e
liquido
seminale)
diretti
al
monitoraggio
della
malattia,
ma
anche
alla
produzione
di
una
linea
cellulare
successivamente
brevettata
dall’equipe
medica
che
aveva
in
cura
il
Sig.
Moore
e
posta
in
commercio
in
forma
di
prodotti
farmaceutici
di
successo
nel
trattamento
di
molteplici
e
gravi
affezioni.
Gli
sviluppi
giudiziari
della
vicenda
videro
riconoscere
al
Moore,
in
secondo
grado,
un
generale
diritto
di
proprietà
sulle
proprie
cellule
e
sulle
altre
parti
del
corpo,
mentre,
nell’ultimo
grado
del
giudizio
(1989),
tale
diritto
di
proprietà
venne
escluso,
riconoscendosi
al
paziente
un
più
limitato
diritto
al
risarcimento
del
danno
per
aver
omesso
il
medico
di
informarlo,
al
momento
dei
prelievi,
circa
l’esistenza
di
un
suo
interesse
personale
al
trattamento
ed
alla
commercializzazione
dei
materiali
biologici
prelevati.
Si
noti
tuttavia
che,
più
di
recente,
l’azione
di
pressione
esercitata
da
associazioni
e
fondazioni
sorte
spontaneamente
per
difendere
i
diritti
dei
pazienti,
soprattutto
negli
Stati
Uniti
d’America
e
nel
Regno
Unito,
sta
indirizzando
la
giurisprudenza
di
quei
Paesi
verso
risultati
affatto
diversi
da
quelli
raggiunti
nel
caso
Moore:
cfr.,
con
particolare
riferimento
al
Terry
Case
del
2000,
A.
Santosuosso,
Il
gene
dell’azionariato
diffuso,
in
Il
Sole
24Ore
del
10
giugno
2001,
p.
IX.
In
generale,
sulla
proprietà
di
parti
del
corpo
umano
e
sulla
tutela
dei
diritti
che
attengono
ai
caratteri
genetici
dell'uomo,
si
veda
Paganelli
M.,
Alla
volta
di
Frankestein:
biotecnologie
e
proprietà
(di
parti)
del
corpo
umano
(nota
a
Corte
di
appello
della
California
31
luglio
1988),
in
Il
Foro
italiano,
1989,
IV,
417-‐421;
Edelman
H.,
Discutendo
il
caso
Moore,
in
Rivista
critica
di
diritto
privato,
1989:
469-‐482;
Martin
L.,
Le
droit
de
tirer
profit
de
ses
caracteristiques
personnelles,
notamment
genetiques,
est-‐il
illimité?,
in
Journal
International
de
Bioéthique,
1996,
4:
296-‐321.
[19]
Si
tratta,
occorre
precisare,
di
un
Ufficio
del
tutto
indipendente
dalla
Comunità
europea,
essendo
stato
istituito
nel
1977
nel
quadro
della
Convenzione
di
Monaco
sulla
concessione
di
brevetti
europei.
[20]
Cfr.
l’art.
23D
della
versione
modificata
ed
integrata
dalla
decisione
dell’Administrative
Council
del
16
giugno
1999,
che
ha
provveduto
ad
inserire
un
nuovo
capo
sulle
invenzioni
biotecnologiche
conforme
alla
disciplina
introdotta
dalla
Direttiva
comunitaria
n.
98/44.
Si
noti
che
il
brevetto
rilasciato
dall’UEB
appariva
in
contrasto
anche
con
l’art.
6
di
tale
Direttiva,
che
proibisce
la
clonazione
umana.
[21]
Rispetto
al
quale
restava
comunque
salva
la
facoltà
di
presentare
opposizione,
secondo
quanto
previsto
dalla
Convenzione
di
Monaco.
212
[22]
Sul
punto
si
è
pronunciato
anche
il
Parlamento
europeo
con
la
Risoluzione
del
30
marzo
2000
(in
Guce
n.
C378
del
29
dicembre
2000,
p.
95),
nonché
il
Comitato
Nazionale
per
la
Bioetica
con
la
Dichiarazione
del
25
febbraio
2000.
[23]
Si
noti
che,
nel
corso
dei
lavori
preparatori,
diversi
Paesi
membri
(tra
cui
l’Italia),
nonché
le
istituzioni
comunitarie
(e
in
particolare
il
Parlamento
europeo),
avevano
auspicato
l’integrazione
della
Carta
nei
Trattati.
In
particolare,
nelle
ultime
fasi
del
negoziato,
era
stata
presentata
la
proposta
di
inserire
nell’art.
6,
par.
2,
del
Trattato
di
Maastricht
un
riferimento
esplicito
alla
Carta,
formalizzando
così
la
sua
posizione
nel
quadro
dell’Unione
ed
inserendola
tra
i
principi
generali
del
diritto
comunitario.
Tali
richieste
non
possono
che
essere
condivise,
soprattutto
ove
si
consideri
il
fatto,
ormai
paradossale,
che
il
Trattato
di
Maastricht
continua
a
fare
riferimento
esclusivo
ad
un
testo
(quale
la
CEDU)
elaborato
in
seno
ad
una
organizzazione
internazionale
diversa
dalle
Comunità
(il
Consiglio
d’Europa),
mentre
oggi
le
Comunità
e
l’Unione
dispongono
di
un
proprio
catalogo
di
diritti
fondamentali.
Il
mancato
accoglimento
delle
richieste
in
parola
appare
appena
bilanciato
dal
fatto
che
il
dispositivo
della
Carta
appare
formulato
in
modo
tale
da
poter
essere
utilizzato,
in
prospettiva,
come
strumento
giuridicamente
vincolante.
[24]
Oltre
al
Preambolo,
la
Carta
comprende
sette
Capitoli,
dedicati
alla
Dignità
umana
(artt.
1-‐5),
alla
Libertà
(artt.
6-‐19),
all’Uguaglianza
(artt.
20-‐26),
alla
Solidarietà
(artt.
27-‐38),
alla
Cittadinanza
(artt.
39-‐46),
alla
Giustizia
(artt.
47-‐50),
nonché
alle
Disposizioni
generali
(le
c.d.
norme
orizzontali
di
cui
agli
artt.
51-‐54).
[25]
E’
significativo
ricordare
che,
nel
corso
dei
lavori
preparatori,
era
stato
proposto
un
riferimento
«al
patrimonio
culturale,
umano
e
religioso»
dell’Unione.
Tuttavia,
secondo
alcuni
Stati
(ed
in
particolare
la
Francia),
tale
espressione
si
prestava
a
costituire
un
fattore
di
potenziale
discriminazione.
[26]
Si
ricorda,
in
proposito,
che
l’art.
13
della
Carta
proclama
anche
la
libertà
della
ricerca
scientifica.
[27]
Si
ricorda
che
il
divieto
di
discriminazione
genetica
è
già
sancito
dall’art.
11
della
Convenzione
di
Oviedo
e
dall’art.
6
della
Dichiarazione
dell’UNESCO,
sopra
esaminate.
Rileva,
in
proposito,
la
formulazione
utilizzata
dal
Protocollo
addizionale
alla
CEDU
n.
12
del
2000,
che
proibisce
non
solo
le
discriminazioni
fondate
sul
«sesso,
la
razza,
il
colore,
la
lingua,
la
religione,
le
opinioni
politiche,
l’origine
nazionale
o
sociale,
l’appartenenza
ad
una
minoranza
nazionale,
la
proprietà,
la
nascita»,
ma
anche
quelle
fondate
su
«altri
status».
[28]
Secondo
le
attuali
parole
di
Jonas
H.,
Tecnica,
medicina
e
etica,
Torino:
1997.
213
PIERMARCO
AROLDI
IL
QUADRO
TEORICO
DI
RIFERIMENTO
Il
tema
di
queste
pagine
suggerisce
un
esercizio
di
riflessione
sul
confine
tra
due
territori,
quello
rappresentato
dalla
ricerca
biomedica
e
dal
suo
sviluppo
e
quello
del
sistema
dei
media
e
della
comunicazione
sociale.
Si
tratta
di
un
confine
che
unisce
più
di
quanto
separi,
ricco
di
varchi
e
di
passaggi
attraverso
i
quali,
sempre
più
frequentemente,
transitano
soggetti,
idee
e
problemi.
Nel
corso
di
questa
relazione
si
tenterà
sinteticamente
di
tracciare
alcuni
dei
passaggi
più
transitati
e
delle
questioni
più
significative
che
attraversano
i
due
territori.
Se
questa
intenzione
definisce
in
partenza
i
limiti
entro
cui
si
muoverà
il
discorso,
il
quadro
teorico
in
cui
esso
si
iscrive
richiede
un
respiro
più
ampio.
Per
non
ridursi
a
una
descrizione
più
o
meno
fedele
del
panorama,
lo
sguardo
ha
bisogno
di
punti
di
riferimento,
di
categorie
mentali
che
permettano
di
riconoscere
e
nominare
i
fenomeni,
di
cogliere
somiglianze,
analogie,
differenze.
Da
questo
punto
di
vista,
la
riflessione
etica
sulla
biomedicina,
da
una
parte,
e
sulle
comunicazioni
sociali,
dall’altra,
costantemente
sollecitate
dal
Magistero,
forniscono
alcune
indicazioni
comuni
a
entrambi
i
territori
che
vale
la
pena
evocare
sinteticamente.
Diversi
autori,
in
anni
recenti,
hanno
non
a
caso
colto
significative
analogie
tra
quanto
sta
avvenendo
nell’ambito
della
ricerca
scientifica
e
medica
e
la
brusca
accelerazione
che
la
telematica
ha
inferto
al
sistema
globale
dei
media,
proponendo
o
discutendo
metafore
che,
spesso
in
modo
suggestivo,
operano
per
slittamento
semantico
tra
questi
due
campi[1].
Le
problematiche
sollevate
da
questi
mutamenti
sono
ricche
di
conseguenze
pratiche
spesso
rilevanti,
al
punto
che,
da
più
parti,
si
è
suggerita
l’istituzione
di
Comitati
di
Videoetica
o
di
Etica
dei
media
sul
modello
di
quelli
adottati
in
ambito
biomedico,
e
che
le
Istituzioni
politiche
hanno
avvertito
la
necessità
di
costituire
la
figura
del
Garante
per
le
comunicazioni.
Al
di
là
di
queste
analogie,
su
alcune
delle
quali
varrà
forse
la
pena
tornare,
sono
però
altri
i
fondamenti
–fra
loro
intimamente
connessi-‐
che
è
bene
richiamare
brevemente
come
categorie
utili
a
affrontare
entrambi
i
campi
di
riflessione:
si
tratta
delle
nozioni
-‐centrali
nella
tradizione
del
pensiero
cristiano-‐
di
persona
umana
e
di
verità.
Dalla
prima
deriva
la
tradizione
personalista
che,
come
ricorda
Antonio
Spagnolo,
“affonda
le
sue
radici
nella
ragione
stessa
dell’uomo
e
nel
cuore
della
sua
libertà”:
l’uomo
è
persona
perché
capace
di
riflessione
su
di
sé,
di
autodeterminazione,
di
scoprire
il
senso
delle
cose
e
attribuirlo
alle
proprie
espressioni;
“in
ogni
persona
umana
il
mondo
tutto
si
ricapitola
ed
acquista
senso,
ma
il
cosmo
è
nello
stesso
tempo
travalicato
e
trasceso.
In
ogni
uomo
sta
racchiuso
il
senso
dell’universo
e
tutto
il
valore
dell’umanità:
la
persona
umana
è
unità,
un
tutto
e
non
una
parte
di
un
tutto
[…]
una
‘unitotalità’
di
corpo
e
spirito
che
rappresenta
il
suo
valore
oggettivo,
di
cui
la
soggettività
si
fa
carico”[2].
L’essere
umano
così
concepito
a
immagine
e
somiglianza
del
suo
Creatore
può
essere
sempre
solo
fine
e
mai
mezzo.
Questa
nozione,
così
familiare
alla
tradizione
culturale
di
questa
Accademia,
guida
anche
la
riflessione
nell’ambito
dell’etica
della
comunicazione;
la
comunicazione,
infatti,
come
ricorda
Guido
Gatti,
“si
iscrive
nell’ambito
dei
rapporti
interpersonali
di
cui
rappresenta
una
fattispecie
di
particolare
rilievo;
è
un
tipo
di
rapporto
interpersonale
particolarmente
intimo
e,
più
di
ogni
altro,
specifico
della
condizione
di
persone
e
214
della
appartenenza
al
mondo
dello
spirito
di
coloro
che
vi
partecipano.
Nella
comunicazione
gli
uomini
entrano
in
un
rapporto
di
reciproco
scambio
[…]
creando
in
questo
modo
una
reale
unità
interpersonale”[3].
Anche
la
comunicazione
operata
dai
mass-‐media
si
iscrive
in
questa
prospettiva,
come
sintetizza
il
Pontificio
Consiglio
delle
Comunicazioni
Sociali
quando
osserva
che
“in
tutte
e
tre
le
aree,
messaggio,
processo,
questioni
strutturali
e
sistemiche,
il
principio
etico
fondamentale
è
il
seguente:
la
persona
umana
e
la
comunità
umana
sono
il
fine
e
la
misura
dell'uso
dei
mezzi
di
comunicazione
sociale.
La
comunicazione
dovrebbe
essere
fatta
da
persone
a
beneficio
dello
sviluppo
integrale
di
altre
persone”[4].
A
un’etica
della
prima
persona,
cioè
della
responsabilità
personale,
rimandano
autori
come
Spaemann,
Abbà
e
Rhonheimer,
cui
fanno
riferimento,
tra
gli
altri,
Bettetini
e
Fumagalli
nel
proporre
le
loro
“idee
per
un’etica
delle
comunicazione”[5].
Ancor
più
sintetico
dovrà
essere
il
riferimento
al
secondo
principio,
connesso
al
primo,
quello
di
verità:
così
centrale
nella
riflessione
bioetica
a
partire
dalla
verità
ontologica,
la
verità
della
persona
appena
ricordata
e
che
l’enciclica
Veritatis
splendor
pone
alla
base
stessa
dell’etica,
la
questione
della
verità
è,
forse
ancor
più
evidentemente,
fondamentale
nella
riflessione
sulla
comunicazione.Qui
non
è
solo
in
gioco
la
verità
dei
soggetti
personali
coinvolti
nel
processo
comunicativo,
ma
anche
la
loro
veridicità
–intesa
meno
come
“oggettiva
corrispondenza
del
messaggio
espresso
nei
confronti
di
una
precisa
realtà
fattuale”,
cioè
come
verità
logica,
che
non
come
“soggettiva
corrispondenza
del
messaggio
col
pensiero
del
comunicante
e
la
volontà
del
comunicante
di
esprimere
la
verità
del
proprio
pensiero
senza
infingimenti
e
senza
schermi
intenzionali”[6].
Ne
deriva
non
solo
la
negatività
intrinseca
della
menzogna,
ma
anche
la
dimensione
pragmatica
della
verità
dell’atto
comunicativo
stesso,
sperimentato
prima
di
tutto
come
forma
di
inter-‐azione
tra
persone.
Se,
infatti,
la
verità
logica
non
è
sempre
prerequisito
fondamentale
della
comunicazione,
almeno
in
quanto
l’errore
in
buona
fede
fa
parte
dei
rischi
della
comunicazione,
l’autenticità
dei
soggetti
(potremmo
dire
la
loro
deontologia)
e
l’autenticità
della
loro
relazione
personale
costituisce
un
elemento
strutturale
della
autentica
comunicazione,
anche
nell’ambito
dei
mass-‐media[7].
Ricordati
questi
riferimenti
di
fondo,
vale
ora
la
pena
avvicinarsi
all’universo
della
comunicazione
sociale
o
di
massa
(vorrei
usare
i
due
termini
come
sinonimi,
pur
nella
consapevolezza
della
loro
differenza
storica
e
semantica)
per
rilevarne,
innanzitutto,
la
portata
di
ambiente
culturale:
se
il
termine
medium
significa,
infatti,
tanto
canale
quantoambiente,
dobbiamo
dire
che
ormai
è
questo
secondo
aspetto
a
prevalere.
Ciò
è
evidente
tanto
a
livello
delle
tecnologie
impiegate,
quanto
a
quello
della
loro
capacità
di
produrre
significati
sociali.
Sul
primo
livello
(che
costituisce,
come
si
è
visto,
elemento
in
comune
tra
ambito
comunicativo
e
ricerca
biomedica)
si
esprime
con
grande
chiarezza
Francesco
Botturi
quando
osserva
che,
a
differenza
della
antica
tecnica,
la
moderna
tecnologia
“precede
ed
eccede
il
soggetto
e
le
sue
intenzioni.
Il
soggetto
certamente
utilizza
e
innova
le
tecniche,
ma
ne
dispone
limitatamente;
molto
più
ne
è
disposto,
perché
la
tecnologia
è
un
fatto
sempre
meno
settoriale,
ma
è
un
amplissimo
insieme
di
dispositivi,
che
con
la
sua
pervasività
e
capillarità
dà
forma
a
gran
parte
del
contesto
vitale
e
dell’orientamento
mentale
dell’uomo
contemporaneo,
cioè
costituisce
ambiente”[8]
entro
cui
egli
fa
esperienza
di
sé,
degli
altri
e
del
mondo.
Con
una
serie
di
metafore
particolarmente
suggestive
il
cardinale
Carlo
Maria
Martini
parlava,
a
questo
proposito,
di
“un’atmosfera,
un
ambiente
nel
quale
si
è
immersi,
che
ci
avvolge
e
ci
penetra
da
ogni
lato.
Noi
stiamo
in
questo
mondo
di
suoni,
di
immagini,
di
colori,
di
impulsi
e
di
vibrazioni
come
un
primitivo
era
immerso
nella
foresta,
come
un
pesce
nell’acqua.
E’
il
nostro
ambiente,
[…]
un
nuovo
modo
di
essere
vivi”[9].
Proprio
perché
luogo
dell’esperienza
quotidiana,
seppur
mediata,
i
mezzi
di
comunicazione
finiscono
per
costituire
un
ambito
privilegiato
per
la
produzione
e
la
riproduzione
della
cultura,
215
una
fitta
rete
di
discorsi
pubblici
e
privati
all’interno
della
quale
diventa
difficile
isolare
singoli
messaggi
o
singoli
testi
e
che
facilmente
si
propone
come
orizzonte
reale,
seppur
simbolico,
entro
il
quale
situare
i
percorsi
di
attribuzione
di
senso,
di
riconoscimento
dei
valori,
di
coordinamento
dell’azione
individuale
e
collettiva.
Da
questo
punto
di
vista,
senza
certo
voler
ridurre
la
ricchezza
culturale
delle
nostre
società
alla
cultura
di
massa
espressa
dai
media,
è
inevitabile
cogliere
profonde
consonanze
tra
le
forme
del
pensiero
apparse
nella
modernità
radicalizzata
e
le
forme
culturali
rappresentate
dai
flussi
comunicativi
che
attraversano
le
reti
dell’informazione,
dell’intrattenimento,
della
divulgazione.
Ciò
significa,
ai
fini
del
nostro
tema,
che
se
da
una
parte,
come
osserva
Claudio
Giuliodori
a
proposito
della
bioetica,
i
media
sono
il
luogo
in
cui
le
tematiche
specialistiche
assumono
dignità
e
cittadinanza
sociale[10],
dall’altra
essi
definiscono
il
principale
contesto
culturale
e
il
set
di
linguaggi
possibili
entro
cui
le
questioni
più
rilevanti
per
la
persona
e
per
la
comunità
vengono
pensate,
affrontate,
rappresentate,
discusse,
valorizzate
e
giudicate.
Questa
considerazione
porta
con
sé
alcune
conseguenze
problematiche
rilevanti,
che
saranno
indicate
nella
seconda
parte
di
questo
intervento;
ma
prima
ancora
preme
sottolineare
questa
ulteriore
analogia
o
continuità
tra
i
territori
della
ricerca
biomedica
e
della
comunicazione
di
massa:
entrambi
sono
luoghi
di
una
produzione
culturale
rapidamente
e
radicalmente
mutati
dalle
tecnologie,
entro
i
quali
la
riflessione
su
alcuni
temi
decisivi
come
la
nozione
di
naturale
e
artificiale,
la
percezione
della
corporeità
e
dei
suoi
limiti,
il
nodo
dell’identità
–biologica
e
culturale-‐
viene
sviluppata
alla
luce
–giocoforza
un
po’
crepuscolare-‐
del
tramonto
delle
neutralità.
Finito
il
mito
della
neutralità
della
scienza
e
della
tecnologia,
accantonato
quello
della
neutralità
dell’informazione,
i
media
possono
divenire
facilmente
lo
spazio
simbolico
in
cui,
anche
a
causa
della
pluralità
dei
soggetti
coinvolti,
si
confrontano,
non
sempre
consapevolmente,
paradigmi
divergenti,
assiologie
contrastanti
e
a
volte
contraddittorie,
strategie
di
sviluppo
e
di
controllo:
basti
pensare,
per
esempio,
come
l’informazione
televisiva
sia,
almeno
in
Italia,
uno
degli
ambiti
di
discorso
socialmente
più
rilevanti
in
cui
convivono
quotidianamente
voci
e
tendenze,
per
così
dire,
“naturalistiche”
(ambientalismo,
animalismo,
biologismo
etc…)
e
opposte
spinte
“artificialistiche”
(biotecnologie,
controllo
dei
processi
riproduttivi
etc…).
La
cultura
dei
media,
intesi
non
tanto
come
sistema
ma
come
insieme
dei
discorsi
sociali
che
lo
attraversano
e
lo
articolano,
dimostra
così
facilmente
una
profonda
e
inconsapevole
contraddittorietà;
la
contraddizione
insita
in
posizioni
che
non
accettano
la
sperimentazione
su
animali
ma
accetterebbe
quella
sugli
embrioni
umani,
o
i
timori
nei
confronti
delle
biotecnologie
che
convivono
con
l’assunto
della
loro
utilità
ai
fini
della
scoperta
di
terapie
contro
diverse
malattie
ne
sono
solo
alcuni
esempi.
Ma
proprio
perché
ambiente
socio-‐culturale,
i
media
sono,
dunque,
non
solo
il
luogo
di
principale
manifestazione
delle
contraddizioni
e
delle
tensioni
che
attraversano
i
diversi
campi
del
sapere
e
dell’agire
sociali,
ma
anche
lo
spazio
di
una
loro
possibile
negoziazione,
l’ambito
della
costruzione
del
consenso,
l’agorà
in
cui
si
confrontano
competenze
differenti.
Sono,
in
poche
parole,
l’arena
in
cui
si
gioca
l’opinione
pubblica,
non
più
intesa
come
giudizio
articolato
razionalmente
in
funzione
di
strumento
di
controllo
e
stimolo
sull’operato
di
governo,
ma
come
doxa,
sentire
comune,
gioco
di
specchi
in
cui
riconoscersi
o
da
cui
prendere
le
distanze.
In
virtù
della
crescente
complessità
del
sistema,
inoltre,
gli
opposti
fenomeni
di
autoreferenzialità
e
di
interattività
suggeriscono
come
i
media
possano
essere
anche
soggetti
o
luoghi
privilegiati
non
solo
della
parola
e
del
discorso
ma
anche
dell’intervento,
dell’azione,
del
mutamento:
i
primi
rendono
conto
di
come
una
notiziafalsa
possa
circolare
per
anni,
ripresa
da
un
medium
all’altro,
nonostante
le
smentite
ufficiali;
o
di
come
posizioni
in
realtà
minoritarie
possano
avere
più
successo
nei
media
che
nella
cosiddetta
“realtà
dei
fatti”.
Le
risposte
più
o
meno
indirette
innescate
dai
flussi
di
comunicazione
provocano,
a
loro
volta,
azioni
e
reazioni,
cambiamenti
di
216
rotta,
prese
di
posizione.
Il
caso
Di
Bella
costituisce,
da
questo
punto
di
vista,
un
esempio
da
cui,
forse,
non
sono
ancora
state
tratte
tutte
le
lezioni
necessarie.
Per
tutti
questi
motivi
può
essere
utile
osservare
più
da
vicino,
seppure
schematicamente,alcuni
snodi
del
rapporto
tra
media
e
ricerca
medico-‐scientifica.
PER
UNA
SISTEMATIZZAZIONE
DELLA
QUESTIONE
Per
meglio
affrontare
la
questione
può
essere
utile
procedere
facendo
riferimento
a
una
formula
schematica
che
scompone
il
sistema
delle
comunicazioni
di
massa
nei
suoi
elementi
fondamentali:
il
riferimento
sarà
qui,
per
amore
di
sintesi,
al
paradigma
di
Lasswell.
Come
è
noto,
infatti,
esso
occupa
un
posto
di
rilievo
nella
tradizione
della
communication
research
proprio
in
quanto,
fornendo
una
descrizione
statica
della
catena
comunicativa,
ha
permesso
di
isolare
diversi
settori
specifici
di
ricerca,
contribuendo
così
ad
articolare
gli
studi
sulla
comunicazione
in
modo
più
ricco
e
complesso.
Come
osserva
Mauro
Wolf,
“lo
schema
di
Lasswell
ha
organizzato
la
nascente
communication
research
intorno
a
due
dei
suoi
temi
centrali
e
di
maggior
durata
–
l’analisi
degli
effetti
e
l’analisi
del
contenuto-‐
e
nel
contempo
ha
individuato
gli
altri
settori
di
sviluppo
del
campo”[11].
Poco
importa,
in
questo
contesto,
la
mancanza
di
processualità
e
lo
schiacciamento
su
un
modello
unidirezionale,
intenzionale
e
trasmissivo
della
comunicazione,
ampiamente
superata
sia
dalle
tecnologie
dei
media,
sia
dalle
teorie
della
comunicazione
sviluppatesi
a
partire
dagli
anni
Sessanta
sulla
scorta
dei
contributi
della
linguistica
e
della
semiotica:
ai
nostri
fini
esso
presta
solo
una
matrice
per
isolare
i
diversi
ambiti
-‐disciplinari
e
processuali-‐
della
comunicazione
nei
quali
il
tema
posto
a
oggetto
di
queste
pagine
si
rivela
particolarmente
pertinente
e
ricco
di
conseguenze.
Nelle
parole
di
Lasswell,
come
si
ricorderà,
“un
modo
appropriato
per
descrivere
un
atto
di
comunicazione
è
rispondere
alle
seguenti
domande:
chi
dice
cosa
attraverso
quale
canale
a
chi
con
quale
effetto
?
Lo
studio
scientifico
del
processo
comunicativo
tende
a
concentrarsi
su
uno
o
l’altro
di
tali
interrogativi”[12].
A
partire
da
questa
schematizzazione
è
possibile
isolare,
dunque,
l’area
degli
emittenti
(il
primo
“chi”
del
modello),
storicamente
indagato
da
una
omonima
sociologia,
l’area
dei
contenuti
(dice
“cosa”),
tradizionalmente
oggetto
della
content
analysis,
l’area
dei
mezzi
(i
“canali”),
analizzata
soprattutto
dai
cosiddetti
teorici
dei
media
–da
Innis
a
McLuhan,
a
de
Kerckhove-‐,
l’area
dei
pubblici
(il
secondo
“chi”),
terreno
degli
audience
studies,
per
finire
con
la
lunga
sequela
delle
teorie
sugli
effetti
individuali
e
sociali
dei
media.
Le
prossime
pagine
tenteranno
di
analizzare
alcuni
degli
snodi
più
problematici
del
rapporto
tra
ricerca
biomedica
e
comunicazioni
di
massasulla
base
di
questa
sistematizzazione,
descrivendo
ora
le
modalità,
ora
le
conseguenzedell’operare
dei
media.
Chi
?
Il
primo
ambito
di
analisi
è,
dunque,
quello
studiato
dalla
sociologia
degli
emittenti.
In
questa
tradizione
di
ricerca
figurano
studi
che
hanno
sviluppato
metodologie
di
indagine
anche
molto
diverse
per
comprendere,
da
una
parte,
i
processi
di
formazione
e
di
socializzazione
professionale
degli
operatori
della
comunicazione,
dall’altra
i
meccanismi
di
negoziazione
che
presiedono
alla
costruzione
sociale
della
notizia.
217
Chiaramente,
entrambi
i
temi
hanno
connessioni
molto
strette
con
il
coinvolgimento
dell’opinione
pubblica
su
questioni
di
grande
complessità
quali
quelle
implicatedalla
ricerca
biomedica.
Sul
primo
versante,
infatti,
è
rilevante
la
formazione
culturale
e
la
preparazione
professionale
–generale
e
specifica-‐
del
giornalista
o
del
comunicatore
che
svolge
la
funzione
di
mediazione
tra
la
comunità
scientifica
e
il
grande
pubblico,
mentre
sul
secondo
acquistano
rilevanza
le
routine
produttive
in
cui
si
articola
quotidianamente
la
sua
prassi
professionale
e
le
relazioni
che
egli
è
in
grado
di
instaurare
con
le
sue
fonti.
In
via
preliminare
varrà
anche
la
pena
ricordare
come
il
complesso
di
studi
in
questo
ambito
tendano
a
polarizzarsi
intorno
a
due
letture
dei
fenomeni
analizzati;
le
si
può
definire,
sempre
per
semplicità,
teorie
del
complotto
e
teorie
della
distorsione
involontaria.
La
prima
lettura
tende
a
enfatizzare
la
dimensione
ideologica
del
controllo
sui
media
operato
da
una
élite
(qualificata,
di
volta
in
volta,
in
modo
differente,
ma
sempre
in
grado
di
sovradeterminare,
nella
pratica,
la
produzione
omologata
di
informazione),
la
seconda
a
svalutare
il
peso
dell’intenzionalità
dei
soggetti
coinvolti
a
vantaggio
di
un
condizionamento
strutturale
e
operativo
incorporato
nelle
routine
di
produzione
dell’informazione.Nelle
prossime
pagine
le
due
prospettive
saranno
messe
in
dialogo
l’una
con
l’altra
per
evitare
sia
il
rischio
di
una
visione
ingenua
dei
rapporti
di
forza
che
stanno
all’origine
del
processo
informativo,
sia
quello
di
una
semplicistica
riduzione
del
fenomeno.
Una
prima
questione
rilevante
sembra
essere
legata,
dunque,
alla
natura
negoziale
della
comunicazione,
e
dell’informazione
in
particolare.
Secondo
una
battuta
famosa,
infatti,
la
risposta
alla
domanda
“cosa
è
una
notizia
?”
è
“ciò
che
il
giornalista
ritiene
tale”.
Ma,
come
tutta
la
ricerca
sul
newsmaking[13]
ha
messo
in
luce
l’aleatorietà
di
questa
risposta
rende
conto
di
un
complesso
processo
di
costruzione
sociale
della
notizia,
in
cui
giocano
diversi
fattori
e
diversi
soggetti.
E’
possibile
elencare
alcuni
di
questi
fattori
per
meglio
comprendere
i
diversi
livelli
di
contrattazione
in
gioco:
si
tratta
di
fattori
professionali,
dipendenti
dal
processo
di
socializzazione
cui
i
giornalisti
sono
soggetti
all’interno
del
proprio
gruppo
di
lavoro
(cultura
e
pratiche
professionali,
gioco
delle
aspettative
di
ruolo
etc.);
di
criteri
più
o
meno
oggettivi
di
notiziabilità
(relativi
ai
fatti
e
ai
soggetti
coinvolti,
al
prodotto,
alla
concorrenza,
al
pubblico
etc.);
di
routines
produttive
(mix
di
tempo,
mezzi
e
accesso
alle
fonti,
ruolo
delle
agenzie,
rigidità
dello
scadenziario
etc.);
di
procedimenti
consequenziali
(selezione,
editing,
tematizzazione
etc.).
Ma,
come
ricorda
Carlo
Sorrentino,
“ancor
prima
di
essere
definita
dalle
logiche
professionali
e
organizzative
la
trasformazione
di
ogni
fatto
in
notizia
è
un
processo
sociale;
una
negoziazione
che
si
compie
fra
diversi
attori
sociali
che
mettono
in
gioco
risorse
politiche,
economiche,
culturali
[…]
un
intenso
processo
di
scambio
fra
più
attori
sociali
diversamente
coinvolti:
protagonisti
dell’evento,
fonti,
media-‐men,
lettori”[14].
Alcune
fasi
di
questo
processo
negoziale
meritano
di
essere
approfondite,
in
particolare
–come
si
vedrà-‐
la
relazione
che
si
instaura
tra
il
giornalista
e
le
sue
fonti.
A
proposito
delle
routine
di
produzione,
vale
la
pena
ricordare,
con
Sorrentino,
che
“l’intrinseca
imprevedibilità
della
materia
trattata
dall’informazione
richiede
l’individuazione
di
precise
procedure”[15],
una
sorta
di
burocratizzazione
della
professione
giornalistica
basata
su
operazioni
standardizzate
e
sull’organizzazione
del
lavoro.
E’
questa
organizzazione
che
permette
di
fare
fronte,
mediante
costrizioni
pratiche
razionali,
all’improvvisazione
e
alla
discontinuità
del
reale.
Tutto
ciò
si
traduce
in
una
gestione
della
catena
produttiva
della
notizia
che,
spesso
in
modo
inavvertito
dagli
stessi
operatori,
finisce
per
condizionare
strutturalmente
il
lavoro
di
selezione
e
di
rappresentazione
dei
risultati
della
ricerca
scientifica.
Nell’ambito
degli
studi
sui
processi
di
newsmaking,
il
contributo
della
sociologa
Dorothy
Nelkin[16]
costituisce
un
punto
di
riferimento
in
grado
di
evidenziare
la
pertinenza
di
alcuni
dei
218
meccanismi
produttivi
dell’informazione
con
le
modalità
di
copertura
del
settore
della
scienza
e
della
ricerca
biomedica;
in
particolare,
la
Nelkin
osserva
come
l’ideologia
della
notizia
–che
pure
sembra
essere
coerente
con
la
visione
della
prassi
di
ricerca
scientifica
come
fonte
di
scoperte
continue,
cioè
di
novità
dal
punto
di
vista
dell’informazione-‐
contraddica,
in
realtà,
alcuni
tratti
fondamentali
della
ricerca
stessa,
a
partire
proprio
dal
fatto
che
la
scienza,
di
solito,
produce
le
sue
novità
in
tempi
lunghi,
non
sempre
prevedibili,
sulla
scorta
di
indagini
e
ipotesi
destinate
a
rimanere
tali
fino
al
riconoscimento
–anch’esso
non
immediato-‐
da
parte
della
comunità
scientifica.
I
tempi
stretti
di
lavorazione,
invece,
la
fame
di
aggiornamento
costante
e
la
necessità
di
cavalcare
l’attualità
propri
degli
apparati
informativi
spesso
impediscono
una
elaborazione
adeguata
degli
argomenti
scientifici,
e
implicano
anche
il
rischio
di
diffondere
notizie
precipitose
o
del
tutto
false.
In
modo
analogo,
l’aspettativa
nutrita
da
parte
dei
giornalisti
circa
i
caratteri
che
un
fatto
scientifico
deve
possedere
per
diventare
notizia
(i
cosiddetti
criteri
di
notiziabilità)
tende
a
privilegiare
ciò
che
può
colpire
l’attenzione
o
la
fantasia
del
pubblico,
o
per
la
sua
eccentricità
o
per
le
controversie
che
può
scatenare
a
livello
di
discorsi
sociali.
Da
quest’ultimo
punto
di
vista,
inoltre,
l’autrice
individua
due
comportamenti
opposti:
da
una
parte
la
tendenza
a
minimizzare
le
precauzioni
normalmente
adottate
dai
ricercatori
nel
divulgare
gli
esiti
del
proprio
lavoro,
enfatizzando
la
certezza
della
scoperta
scientifica
nella
convinzione
che
al
pubblico
interessino
fatti
e
non
ipotesi;
dall’altra
parte,
in
caso
di
controversia,
la
prassi
di
presentare
tutte
le
opinioni
possibili,
equiparando,
di
fatto,
quelle
più
fondate
con
quelle
prive
di
qualsiasi
legittimità
in
nome
di
una
discutibile
interpretazione
del
criterio
di
obiettività.
Spesso,
così,
il
contenuto
della
notizia
finisce
per
essere
la
controversia
stessa,
rispetto
alla
quale,
però,
il
pubblico
si
trova
sprovvisto
di
parametri
di
valutazione.
Un
ultimo
aspetto
riguarda
la
dipendenza
del
lavoro
giornalistico
dalle
fonti;
su
questo
tema
si
tornerà
più
avanti,
ma
per
ora
è
utile
riportare
l’osservazione
di
Gabriel
Galdòn
Lòpez[17]
secondo
il
quale
l’ambito
della
divulgazione
scientifica
è
particolarmente
esposto,
a
causa
dell’esiguità
del
numero
delle
fonti
autorevoli,
al
rischio
della
omogeneizzazione,
della
standardizzazione
e
della
reiterazione.
L’esigenza
di
tenere
desta
l’attenzione
su
un
certo
tema
scientifico
-‐o
perché
incontra
il
favore
del
pubblico
o
perché
le
pagine
dedicate
alla
ricerca
hanno
una
programmazione
periodica
fissa
che
non
corrisponde
alla
reale
possibilità
di
disporre
quotidianamente
di
vere
e
proprie
novità-‐
e
la
necessità
di
non
“bucare”,
come
si
dice
in
gergo,
una
notizia
riportata
dai
media
concorrenti,
conducono
così
talvolta
a
un
lavoro
di
ripetizione
o
di
artificiale
enfatizzazione
del
tema.
Ma
la
questione
probabilmente
più
spinosa
riguarda
proprio
la
dipendenza
dalle
fonti
informative.
Si
tratta,
come
si
vedrà,
di
una
questione
ricca
di
conseguenze,
sia
per
il
lavoro
in
redazione,
sia
per
la
formazione
dell’opinione
pubblica.
Come
è
noto,
infatti,
le
fonti
costituiscono
il
primo
anello
della
catena
informativa,
il
luogo
in
cui
avviene
la
prima
selezione
dei
fatti
e
la
prima
codifica
dei
materiali
destinati
a
divenire
notizia.
Nel
caso
dei
media
destinati
al
grande
pubblico,
la
copertura
informativa
della
ricerca
scientifica
–nel
nostro
caso
biomedica-‐
dipende
quasi
totalmente
dalle
fonti
e
dalla
loro
accessibilità
entro
i
vincoli
già
ricordati
delle
routine
redazionali.
Nel
sistema
dei
media,
poi,
che
cosa
sia
una
fontedipende
dal
medium
stesso
e
dal
tipo
di
prodotto
che
esso
confeziona.
Fonti
per
antonomasia
sono
le
Agenzie
di
informazione
nazionali
e
internazionali
(che
hanno
a
loro
volta
il
problema
di
trovare
i
fatti
notiziabili
sulla
base
della
propria
rete
di
corrispondenti,
delle
riviste
internazionali,
specializzate
e
no,
delle
altre
Agenzie),
i
collaboratori
esterni
(ricercatori
o
giornalisti
scientifici),
gli
Uffici
Stampa
delle
Istituzioni
che
presiedono
alla
ricerca
scientifica
e
delle
aziende
collegate,
Internet.
Come
si
può
notare,
alcune
fonti
sono
attive,
altre
passive[18]:
le
prime
producono
di
loro
iniziativa
materiale
informativo,
le
seconde
si
limitano
a
rispondere
alle
richieste
delle
redazioni.
E’
anche
intuibile,
219
visti
i
condizionamenti
dettati
dalle
routine
di
produzione
che
lasciano
poco
tempo
per
forme
di
giornalismo
investigativo
o
di
reportage
a
carattere
scientifico,
che
le
fonti
attive
saranno
privilegiate.
La
prima
selezione
verrà
dunque
operata
soprattutto
da
quei
soggetti
istituzionali,
pubblici
o
privati,
dotati
di
potere
e,
quindi,
di
grande
peso
negoziale
nei
confronti
delle
redazioni,
in
grado
di
spingere
l’informazione
verso
gli
apparati
mediali
secondo
un
principio
di
convergenza
tra
i
propri
interessi
e
le
routine
professionali.
Il
ruolo
delle
fonti
si
rivela
decisivo
non
solo
in
fase
di
selezione
ma
anche
durante
quel
processo
di
negoziazione
con
gli
apparati
informativi
che
avvia
la
costruzione
sociale
della
notizia.
Alle
relazioni
istituzionali
si
affiancano,
infatti,
le
relazioni
personali
tra
singoli
giornalisti
e
rappresentanti
delle
istituzioni.
Solo
per
dare
un’idea
della
complessità
della
negoziazione,
basterà
ricordare
come
la
stretta
frequentazione
delle
fonti
da
parte
dei
giornalisti
–non
solo
scientifici-‐
sia
criticata
da
una
parte
degli
osservatori
e
degli
stessi
operatori
dell’informazione
in
quanto
causa
di
una
eccessivasocializzazione,
una
vera
e
propria
convergenza
sociale
e
culturale
che
può
trasformarsi
in
“un
rapporto
fiduciario
utile
ma
anche
potenzialmente
pericoloso”[19];
rispondendo
alle
accuse
di
un
sostanziale
appiattimento
sulle
posizioni
delle
proprie
fonti,
i
giornalisti
tendono,
al
contrario,
a
motivare
frequentazioni
molto
strette
con
la
necessità
di
andare
oltre
la
facciata
ufficiale
e
di
comprendere
a
fondo
le
logiche
istituzionali
proprio
per
evitare
il
rischio
di
essere
strumentalizzati[20].
Entro
questo
rapporto
di
fiducia
continuamente
rinegoziato,
un
tipico
“rituale
strategico”
di
resistenza
all’interpretazione
suggerita
dalle
fonti
è
lo
spostamento
del
piano
del
discorso
verso
ambiti
limitrofi
o
marginali,
dirottando
il
preferred
meaning
delle
fonti
su
un
registro
emotivo,
curioso
o
sensazionale.
Probabilmente
l’aumento
di
soft
news
a
carattere
scientifico,
registrato
anche
in
occorrenza
di
gravi
crisi
a
carattere
sanitario
o
alimentare[21],
ha
in
questo
fenomeno
una
delle
sue
spiegazioni.
Infine
bisogna
ricordare
che
più
un
giornalista
frequenta
le
sue
fonti,
meno
è
sottoposto
ai
processi
di
socializzazione
professionale
attivati
dalla
redazione;
cresce
la
sua
familiarità
con
il
mondo
della
ricerca
scientifica,
i
suoi
problemi
e
le
tematiche
specialistiche,
ma
più
facilmente
perde
il
senso
del
prodotto
comunicativo
nel
suo
complesso
e
il
rapporto
con
il
pubblico.
I
suoi
referenti
principali
diventano
le
fonti
stesse
e
i
colleghi
delle
testate
concorrenti[22].
Nel
caso
della
divulgazione
scientifica,
inoltre,
la
catena
delle
fonti
conosce
un
passaggio
intermedio
di
grande
importanza:
le
riviste
scientifiche
specializzate
a
carattere
internazionale;
destinate
a
un
pubblico
di
specialisti,
ricercatori
o
medici,
esse
costituiscono
il
vero
punto
di
riferimento
del
settore
per
tutti
coloro
che
si
occupano
di
divulgare
i
risultati
della
ricerca
biomedica
attraverso
i
media.
La
centralità
di
queste
pubblicazioni
nel
processo
di
costruzione
della
notizia
le
rende
un
luogo
privilegiato
per
individuare
anche
i
limiti
e
i
rischi
della
pratica
comunicativa.
Il
rischio
più
evidente
si
chiama
conflitto
di
interesse:
nelle
parole
di
D.F.
Thompson
possiamo
definirlo
come
un
insieme
di
condizioni
in
cui
il
giudizio
professionale
che
riguarda
un
interesse
primario
(come
la
salute
di
un
paziente
o
la
validità
di
una
ricerca)
tende
a
essere
indebitamente
influenzato
da
un
interesse
secondario
(come
un
guadagno
economico
o
vantaggio
personale)[23].
Come
è
stato
più
volte
osservato,
si
tratta
di
una
condizione
prima
ancora
che
di
uncomportamento,
e
come
tale
può
replicarsi
in
ambiti
differenti.
In
questo
contesto
interessa
soprattutto
il
conflitto
che
può
evidenziarsi
al
momento
della
pubblicazione
di
una
ricerca
su
una
rivista
scientifica.
Come
osserva
Drummond
Rennie,
editor
del
prestigioso
Journal
of
American
Medical
Association,
“le
informazioni
scientifiche
non
esistono
finché
non
vengono
pubblicate
e
diffuse”;
la
pubblicazione
costituisce,
cioè,
il
momento
di
effettiva
valorizzazione
della
ricerca
e
dei
suoi
risultati.
Costituisce,
dunque,
anche
il
momento
di
massima
esposizione
a
un
rischio
di
conflittualità
che
coinvolge
i
ricercatori,
i
loro
colleghi,
gli
sponsor
e
i
finanziatori,
le
Istituzioni
di
cura
e
universitarie
di
appartenenza,
i
direttori
stessi
delle
riviste.
Il
tutto
è
particolarmente
220
accentuato
nel
momento
in
cui
l’industria
farmaceutica
investe
grandi
risorse
economiche
per
la
ricerca
clinica,
sostituendosi,
di
fatto,
molte
volte,
all’intervento
pubblico.
Diversi
casi
di
conflitto
di
interesse
che
legava
i
ricercatori
ai
loro
sponsor
condizionando
l’integrità
dei
risultati
pubblicati
sono
stati
denunciati
nell’ultimo
decennio;
si
è
trattato
ora
di
casi
eclatanti
che
hanno
sollevato
scalpore
anche
al
di
fuori
della
comunità
scientifica[24],
ora
di
studi
sistematici
che
hanno
evidenziato
la
diffusione
di
questa
condizione
potenziale
a
gran
parte
delle
pubblicazioni
scientifiche[25].
Il
“continuum
tra
un
potenziale
conflitto
che,
per
la
sua
modestia,
non
interferisce
con
il
proprio
giudizio
e
un
conflitto
attuale,
economicamente
rilevante,
che
condiziona
pesantemente
il
giudizio”[26]
può
esprimersi
in
forme
molto
diverse
e
giungere
alla
manipolazione
dei
dati
di
ricerca
per
ottenere
la
pubblicazione
nella
consapevolezza
che
i
risultati
positivi
vengono
accolti
più
favorevolmente
di
quelli
negativi.
Drummond
Rennie
elenca,
al
proposito,
“l’influenza
commerciale
dovuta
all’esistenza
–per
il
ricercatore-‐
di
interessi
economici
diretti
nell’industria
farmaceutica,
la
remunerazione
diretta
per
il
reclutamento
dei
pazienti
nei
clinical
trial,
i
discutibili
criteri
con
cui
vengono
inseriti
o
eliminati
i
nomi
di
autori
di
editoriali
e
revisioni,
i
simposi
sponsorizzati
e
i
proceedings
che
ne
derivano,
la
trasparenza
nel
modo
di
riportare
i
risultati
dei
clinical
trials
e
la
successiva
condivisione
dei
dati,
la
frequente
mancanza
di
trasparenza
nella
valutazione
economica
dei
farmaci
e
delle
tecnologie,
la
pubblicazione
selettiva
dei
risultati
degli
studi
positivi
e
la
influenza
e
intimidazione
verso
autori
di
studi
i
cui
risultati
non
sono
graditi
agli
sponsor.
Sono
tutte
facce
possibili
del
conflitto
di
interesse
nel
processo
di
pubblicazione
dei
risultati”[27].
Ovviamente,
la
cosa
più
interessante,
a
questo
proposito,
è
che
la
centralità
delle
pubblicazioni
scientifiche
nella
catena
informativa
determina,
alla
lettera,
un
“inquinamento
della
fonte”
che
si
ripercuote,
amplificato,
sull’intero
sistema
della
comunicazione:
i
media
attingeranno
alla
fonte
e
estenderanno
i
danni
prodotti
a
pubblici
più
ampi
e
ad
altri
media
più
popolari.
Una
situazione
molto
simile
si
replica,
d’altra
parte,
più
avanti
lungo
la
catena
informativa,
quando
testate
destinate
al
grande
pubblico
si
trovano,
per
esempio,
a
offrire
informazioni
circa
farmaci
e
terapie
e,
contemporaneamente,
a
ospitare
sulle
proprie
pagine
le
campagne
pubblicitarie
delle
aziende
che
producono
quegli
stessi
farmaci.
Infine,
la
pluralità
delle
fonti
attive,
impegnate
a
spingere
la
propria
informazione
verso
i
media
in
modo
concorrenziale,
congiunta
alla
centralità,
nel
processo
di
produzione
della
notizia,
di
un
numero
limitato
di
riviste
scientifiche
che
finiscono
per
agire,
di
fatto
in
modo
determinante,
come
un
filtro
di
selezione,
può
dare
origine
anche
in
ambito
medico-‐scientifico
al
problema
dell’accesso.
Si
tratta
di
una
questione
ben
nota
in
ambito
di
partecipazione
socio-‐politica,
dove
il
diritto
alla
libertà
di
espressione
si
scontra
talvolta
con
una
strutturale
resistenza
degli
apparati
mediali
a
dare
voce
a
tutti
i
soggetti
coinvolti
e
a
tutte
le
voci
titolari
di
tale
diritto,
e
dove,
non
a
caso,
l’accesso
ai
principali
media
viene
talvolta
regolamentato
per
legge[28].
Non
è,
possibile,
a
questo
proposito,
evitare
di
porre
almeno
a
livello
teorico
l’eventualità
che
la
convergenza
di
interessi
tra
istituzioni
scientifiche,
industria
farmaceutica
e
apparati
mediali
–fonti
intermedie
comprese-‐
provochi
di
fatto,
se
non
intenzionalmente,
una
riduzione
della
possibilità
di
accesso
ai
mezzi
di
comunicazione
da
parte
di
quei
settori
della
ricerca
meno
allineati
sulle
posizioni
di
maggior
potere
contrattuale.
Come
si
vedrà
più
avanti
a
proposito
delle
teorie
degli
effetti,
una
tale
limitazione
dell’accesso
può
avere
conseguenze
molto
importanti
sul
coinvolgimento
dell’audience
e
sulla
formazione
dell’opinione
pubblica.
Tutto
ciò
suggerisce
di
vedere
l’ambito
della
negoziazione
della
notizia
come
un
terreno
accidentato,
in
cui
complessivi
fenomeni
di
“distorsione
involontaria”
non
escludono
singole,
locali,
responsabilità
personali.
Entro
questo
processo,
dunque,
c’è
ampio
spazio
perché
si
riproduca
quello
che
altrove
è
stato
definito
“conflitto
di
interessi”.
Appare
infatti
evidente
che,
sia
a
livello
macro
che
microstrutturale,
i
punti
di
contatto
e
di
intreccio
tra
sistema
dei
media,
221
sistema
industriale
farmaceutico,
sistema
pubblicitario,
sistema
della
ricerca,
sistema
ospedaliero
e
sistema
politico
sono
moltissimi
e
tutti
potenziali
luoghi
di
contrattazione
della
notizia.
Quando
tra
ricercatore
e
giornalista
(per
rimanere
al
solo
caso
dell’informazione)
si
inserisce
il
cosiddetto
“terzo
pagante”,
chiunque
egli
sia,
le
derive
comunicative
sono
difficilmente
prevedibili.
Cosa
?
Per
quanto
riguarda
l’area
dei
contenuti
della
comunicazione,
la
tradizione
di
ricerca
sui
media
suggerisce
alla
nostra
attenzione
un’ipotesi
particolarmente
interessante
che
va
sotto
il
nome
di
agenda
setting;
sulla
scorta
di
questa
ipotesi,
il
potere
dei
media
non
sta
tanto
nel
“dire
alla
gente
cosa
pensare”
quanto
nel
“dire
alla
gente
intorno
a
cosa
avere
un
pensiero”.
Secondo
una
formulazione
più
corretta,
potremmo
dire
che
“la
gente
tende
a
includere
o
escludere
dalle
proprie
conoscenze
ciò
che
i
media
includono
o
escludono
dal
proprio
contenuto”[29].
Se,
dunque,
da
una
parte,
l’ipotesi
dell’agenda
setting
rientra
a
pieno
titolo
tra
quelle
teorie
degli
effetti
di
cui
si
parlerà
più
avanti,
d’altra
parte
essa
richiama
l’attenzione
sul
contenuto
dei
media
-‐frutto,
a
sua
volta,
di
quel
lavoro
di
selezione,
gerarchizzazione
e
scrittura
che
abbiamo
visto
precedentemente-‐
come
un
luogo
strategico
di
costruzione
della
visibilità
sociale
e
della
legittimazione
discorsiva
dei
temi
della
ricerca
scientifica
e
della
prassi
medica.
Come
sintetizza
ancora
Mauro
Wolf,
“sempre
nuovi
aspetti
della
realtà
vengono
posti
al
centro
della
(momentanea)
attenzione,
divengono
issuessulle
quali
si
organizza
transitoriamente
il
dibattito
pubblico,
punti
di
riferimento
al
costituirsi
incessante
di
climi
d’opinione”[30].
L’aspetto
più
interessante
di
tutto
ciò,
al
di
là
della
costruzione
sociale
di
realtà
operata
da
questa
attribuzione
divisibilità,
è
forse
da
cercarsi
nella
dinamica
innovativa
che
regge
l’ideologia
della
notizia
e
che,
come
si
è
detto,
sembra
particolarmente
coerente
con
il
procedere
per
conquiste
successive
proprio
della
scienza
(o
di
una
sua
rappresentazione
sociale
particolarmente
diffusa
ed
efficace).
In
questo
senso
l’emergere
provvisorio
di
tematiche,
problemi,
tensioni,
soggetti
collettivi
sostenuto
dai
media
costituisce
non
solo
“un
movimento
che
coagula
interessi
e
organizza
prospettive
in
confronto,
in
conflitto,
ruotanti
su
valori
contrapposti”[31],
ma
soprattutto
una
spinta
in
grado
di
accelerare
il
mutamento
sociale
attraverso
la
sua
rappresentazione.I
media
contribuiscono
a
rendere
possibile
il
mutamento
“per
il
fatto
di
costruire
le
condizioni
mediante
le
quali
il
mutamento
stesso
diventa
visibile,
diventa
un
punto
di
riferimento
pubblicamente
noto,
una
meta
socialmente
legittima”[32].
Una
volta
entrato
nel
contenuto
discorsivo
dei
media
(e
nei
relativi
discorsi
sociali
che
attraversano
il
sistema
della
comunicazione
e
i
suoi
pubblici),
un
tema
tende
così
ad
acquistare
legittimazione
sociale
secondo
un
meccanismo
di
rinforzo
reciproco
offerto
dai
vari
mezzi
di
comunicazione.
Non
è,
infatti,
solo
il
genere
informativo
(stampa
quotidiana,
Telegiornali,
divulgazione
medico-‐scientifica
etc.)
il
luogo
di
costruzione
della
visibilità:
la
fiction
e
l’intrattenimento,
soprattutto
di
parola
come
il
talk-‐show,
giocano,
sotto
questo
aspetto,
un
ruolo
ancor
più
importante
perché
incorporano
le
tematiche
specialistiche
nel
tessuto
dell’esperienza
quotidiana,
o
in
quanto
saperi
pratici,
utili
ad
affrontare
situazioni
di
crisi
(per
esempio
la
malattia),
o
in
quanto
spunti
narrativi
e
situazioni
drammatiche
intorno
alle
quali
articolare
la
produzione
di
storie.
Quest’ultimo
aspetto
merita
un’osservazione
particolare:
il
fatto
che
i
media
costituiscano
il
principale
sistema
di
story
telling
della
modernità
ne
fa
uno
dei
più
importanti
apparati
simbolici
grazie
al
quale
gruppi
e
società
sono
messi
in
condizione
di
pensarsi
riflessivamente,
di
riconoscere,
confermare
o
modificare
i
propri
sistemi
di
valore,
di
progettare
il
proprio
sviluppo.
La
“narrazione
comune”
implica
riferimenti
identitari
e
appartenenze,
suggerisce
stereotipi,
codifica
emozioni,
legittima
comportamenti
e
media
il
mutamento
sociale.
Da
questo
punto
di
222
vista,
probabilmente,
il
successo
delle
molte
fiction
televisive
che
hanno
per
ambientazione
i
luoghi
della
cura
e
per
protagonisti
i
membri
del
personale
medico-‐sanitario
non
è
solo
il
prodotto
legittimo
di
alchimie
di
genere
particolarmente
felici,
riconducibili
a
logiche
di
grammatica
e
di
sintassi
narrativa,
(ambiente
chiuso,
set
di
personaggi
ampio,
fisso
nei
suoi
elementi
principali
–i
medici-‐
me
sempre
vario
in
quelli
secondari
–i
pazienti-‐,
tematiche
di
interesse
umano
etc.),
ma
può
essere
letto
come
sintomo
del
bisogno
di
un
discorso
sociale
sui
temi
della
salute,
della
malattia,
del
dolore,
del
rapporto
medico-‐paziente,
della
morte
(e
del
suo
senso)
che
prende
le
forme
di
una
narrazione
diffusa
e
seriale.
Temi
come
l’eutanasia,
i
trapianti
o
la
prevenzione
dell’Aids,
per
fare
qualche
esempio
particolarmente
drammatico,
attingono
probabilmente
più
legittimazione
sociale
da
questo
tipo
di
discorsi
che
dalla
informazione
specialistica,
dalla
divulgazione
scientifica
o
dai
dibattiti
etico-‐politici
che
si
accompagnano
all’apertura
di
nuove
frontiere
della
ricerca.
E
non
a
caso,
infatti,
l’attenzione
delle
lobbies
e
dei
gruppi
di
pressione
si
è
storicamente
concentrata
sulla
fiction
cinematografica
e
televisiva
forse
in
modo
ancor
più
massiccio
di
quanto
non
abbia
fatto
nei
confronti
dell’informazione[33].
A
chi
?
Il
pubblico
costituisce
una
variabile
particolarmente
interessante
entro
il
processo
comunicativo,
anche
se
–almeno
dal
punto
di
vista
che
interessa
queste
pagine-‐
forse
meno
problematica
di
altre.
La
sua
pertinenza
nel
condizionare
l’informazione
biomedica
sembra
rilevante
a
due
livelli
differenti.
Il
primo
livello
è,
per
così
dire,
strutturale:
lacostruzione
di
un
pubblico
di
lettori,
ascoltatori,
spettatori
o
utenti
è
il
primo
obiettivo
di
ogni
apparato
informativo;
questo
obiettivo
è
tanto
più
rilevante
quanto
più
l’organo
di
informazione
opera
in
un
regime
economico
di
concorrenza;
l’informazione
è,
da
questo
punto
di
vista,
un
settore
dell’industria
culturale
che
risente
di
tutte
le
leggi
del
mercato
in
cui
opera.
Fare
audience,
mantenere
e
accrescere
nel
tempo
il
proprio
pubblico,
significa
per
qualsiasi
mezzo
di
comunicazione
fare
i
conti
con
i
suoi
interessi,
le
sue
passioni,
i
suoi
gusti,
le
sue
esigenze,
gli
usi
peculiari
che
esso
fa
dell’informazione
offerta.
Il
successo
(l’attenzione,
la
curiosità,
l’investimento
economico
sempre
crescenti
etc.)
che
l’audience
decreta
a
temi
e
argomenti
a
carattere
scientifico
e
sanitario
non
comporta
solo
l’espansione
quantitativa
delle
testate
e
degli
spazi
dedicati
alla
ricerca,
alla
salute
e
alla
medicina,
che
pure
costituisce
uno
dei
fenomeni
editoriali
più
rilevanti
degli
ultimi
anni;
comporta
soprattutto
la
definizione
qualitativa
di
alcune
aree
tematiche
privilegiate
a
scapito
di
altre;
facilita
l’affermazione
di
vere
e
proprie
mode
culturali
anche
nell’ambito
della
divulgazione
scientifica;
contribuisce
a
tratteggiare
le
condizioni
di
rilevanza
pubblica
di
certi
filoni
di
ricerca
piuttosto
che
di
altri
e
disegna
un
ambiente
comunicativo
più
o
meno
favorevole
alla
circolazione
dei
rispettivi
risultati.
In
altre
parole,
il
pubblico
costituisce
–come
in
altri
ambiti
dell’informazione-‐
uno
dei
criteri
di
notiziabilità
mediante
i
quali
avviene
la
selezione
e
la
gerarchizzazione
dei
fatti
scientifici
destinati
a
divenire
notizie.
Ma
l’audience
costituisce
una
variabile
rilevante
anche
a
un
secondo
livello;
se,
infatti,
il
pubblico
contribuisce
a
chiudere
il
circuito
informativo
attribuendo
senso
alle
notizie
e
interpretando
i
contenuti
della
comunicazione,
bisogna
considerare
come
differenti
segmenti
del
pubblico
producano
significati
differenti
sulla
scorta
della
propria
preparazione
culturale,
delle
proprie
competenze,
della
propria
esperienza.
Ciò
significa
soprattutto,
ai
fini
del
nostro
discorso,
che
esistono
pubblici
che,
per
circostanze
contestuali,
sono
particolarmente
sensibili
alla
comunicazione
sui
temi
della
salute,
della
medicina,
delle
terapie.
Basti
pensare,
per
esempio,
ai
malati
e
ai
loro
familiari
che,
sulla
base
della
propria
esperienza
diretta,
possono
tendere
a
reinterpretare
le
informazioni
entro
un
frame
di
immediata
applicazione
al
proprio
caso,
maturando
speranze
o
andando
incontro
a
delusioni.
In
un
contesto
ridefinito
a
partire
dalla
223
condizione
della
malattia,
l’insieme
dei
processi
comunicativi
subisce
un
riorientamento
funzionale
i
cui
effetti,
a
livello
sociale,
saranno
tratteggiati
più
avanti
ma
che,
a
livello
personale,
hanno
tutti
i
tratti
di
un
forte
coinvolgimento
emotivo
e
fiduciario.
Su
quale
canale
?
Abbiamo
già
detto
come
i
media
siano
da
intendersi
sempre
più
come
ambienti
e
sempre
meno
come
canali
in
grado
di
trasmettere
un
contenuto.
Interrogarsi
sulla
natura
di
questi
canali
implica,
dunque,
ragionare
su
quelle
caratteristiche
strutturali
o
di
linguaggio
che
fanno
di
un
medium
un
ambiente
simbolico
più
o
meno
favorevole
alla
sopravvivenza
e
alla
circolazione
di
idee,
concetti,
rappresentazioni
della
realtà.
Una
di
queste
forme
di
rappresentazione
è,
ovviamente,
il
macrogenere
divulgazione
scientifica:
diverse
ricerche[34]
hanno
messo
a
fuoco,
negli
ultimi
anni,
i
differenti
modelli
di
divulgazione
della
scienza
(e
della
stessa
scienza)
che
si
sono
succeduti,
anche
storicamente,
a
guida
della
prassi
discorsiva
dei
mass
media.
Varrà
qui
la
pena
ricordare
solo
come
una
visione
progressista
e
cumulativa
della
ricerca
scientifica,
in
grado
di
produrre
conoscenze
certe
e
incontrovertibili
e
necessariamente
volte
a
migliorare
l’esperienza
vitale
dell’uomo
sia
stata
affiancata
più
recentemente
da
una
versione
probabilistica
(e
problematica)
del
sapere
scientifico.
Contemporaneamente,
forme
divulgative
ispirate
al
modello
pedagogista
e
parascolastico
dei
media
(soprattutto
della
Tv)
sono
state
superate
da
format
più
spettacolari,
in
grado
di
accogliere
le
istanze
comunicative
di
generi
diversi
e
di
tradurre
la
necessaria
operazione
di
semplificazione
entro
i
loro
linguaggi
specifici.
Da
questo
punto
di
vista,
ovviamente,
non
tutti
i
media
sono
uguali.
Almeno
due
elementi
vale
la
pena
tenere
presenti
per
meglio
comprendere
le
trasformazioni
avvenute
nell’ambito
della
formazione
dell’opinione
pubblica
negli
ultimi
due
decenni.
Il
primo
riguarda
la
progressiva
trasformazione
dell’ambiente
costituito
dai
media
elettronici
di
broadcasting:
lo
sviluppo
impetuoso
della
televisione
commerciale
in
Europa,
la
moltiplicazione
dei
canali
e
dell’offerta
complessiva,
la
finalizzazione
della
programmazione
alla
costruzione
dell’audience
e
la
crisi
di
parte
della
stessa
nozione
di
servizio
pubblico
in
ambito
televisivo
e
radiofonico
hanno
di
fatto
indebolito
sia
gli
atteggiamenti
di
tipo
pedagogico
(i
media
come
luogo
di
emancipazione
culturale
e
di
democratizzazione
del
sapere),
sia
quelli
di
tipo
partecipativo
(i
media
come
luogo
del
confronto
pubblico
e
di
costruzione
della
pubblica
opinione
habermasianamente
intesa).
Per
contro,
la
complessità
del
reale
è
andata
via
via
crescendo,
chiedendo
ai
cittadini
di
dotarsi
di
strumenti
concettuali
sempre
più
difficili
da
padroneggiare
per
essere
adeguati
alla
sua
comprensione
e
al
suo
governo.
Il
risultato
è
che
tematiche
come
quelle
che
ci
interessano
in
queste
pagine,
dalle
implicazioni
etiche
e
antropologiche
spesso
complesse,
vanno
incontro
a
due
destini
diversi
e
spesso
complementari:
da
una
parte
la
crescita
di
complessità
richiede,
se
si
vuole
salvaguardare
ciò
che
resta
della
funzione
(pedagogica
e
partecipativa)
del
servizio
pubblico,
di
accentuare
la
componente
tecnico-‐specialistica
del
dibattito,
moltiplicandola
sul
numero
delle
diverse
posizioni
concettuali
registrate.
La
figura
dell’esperto,
che
-‐come
è
noto-‐
costituisce
una
figura
chiave
della
retorica
mediale,
non
produce
più
un
“expertise
monolitico,
fattuale
e
incontrovertibile”[35];
la
tradizionale
e
indiscussa
autorevolezza
dello
scienziato
è
ricondotta
a
un
modello
discorsivo
dialettico
o
conflittuale
che
prevede
la
possibilità
di
più
opinioni
in
disaccordo
tra
loro
ma
tutte
ugualmente
legittimate
dal
riferimento
al
sapere
scientifico.
Quest’ultimo
è,
in
pratica,
spesso
ridotto
a
un
sapere
tecnico-‐operativo
di
natura
quasi
politica.
D’altra
parte,
le
stesse
questioni
finiscono
per
essere
rappresentate
con
linguaggi
(format
narrativi
e
visivi,
per
esempio)
ed
entro
contesti
di
relazione
con
il
grande
pubblico
(abitudini
di
consumo
mediale,
aspettative,
precomprensioni
etc.)
che,
di
fatto,
ne
obliterano
gli
aspetti
più
224
rilevanti
per
enfatizzarne
altri,
più
immediatamente
trattabili,
cioè
gli
aspetti
più
emotivi
e
spettacolari.
In
altre
parole,
radio
e
televisione
si
comportano
sempre
più
come
macchine
delle
emozioni
alle
prese
con
una
innovazione
scientifica
e
sociale
che
viene
ricondotta
alla
dimensione
del
senso
comune,
quando
non
del
sentimento
e
degli
affetti.
Questo
non
significa
che
il
discorso
dei
media
sia
sottratto
alle
regole
del
dibattito
pubblico;
significa
che
le
sue
regole
sono
più
complesse,
più
stratificate,
e
che
i
diversi
livelli
a
cui
esse
si
attestano
(il
discorso
specialistico
e
quello
emotivo)
sono
in
grado
di
interagire
tra
di
loro.
Come
osserva
ancora
Bucchi,
se
ancora
qualche
tempo
fa
era
possibile
mantenere
distinti
i
piani
del
senso
comune
e
quello
della
divulgazione
scientifica
che
tendeva
a
illuminarlo,
oggi
la
problematizzazione
della
conoscenza
scientifica
fa
saltare
questa
stessa
distinzione
e
contrapposizione.
In
particolare,
a
fronte
delle
situazioni
che
possono
destare
allarme
sociale
(per
esempio
il
tema
della
clonazione)
“si
potrebbe
osservare
che
non
vi
è
più
un
ambito
del
senso
comune
in
cui
le
situazioni
di
emergenza
vengono
affrontate
e
percepite
secondo
il
linguaggio
del
pericolo
che
è
proprio
di
questo
ambito
e
un
ambito
scientifico
in
cui
vengono
tradotte
nel
codice
delrischio”[36].
E’
possibile
provare
a
elencare
alcune
emergenze
linguistico-‐espressive
di
questa
commistione
di
discorsi,
in
cui
i
pareri
scientifici
invadono
l’area
del
senso
comune
e
viceversa:
la
retorica
partecipativa,
per
esempio,
realizza
l’istanza
-‐sempre
più
diffusa
nei
media
elettronici-‐
di
coinvolgere
il
pubblico
nella
definizione
della
situazione
e
nella
costruzione
sociale
della
sua
consapevolezza.
Interviste
a
comuni
cittadini,
sondaggi
d’opinione,
racconto
in
prima
persona
dei
protagonisti
di
una
certa
vicenda
medica
(malati
e
loro
familiari),
contributi
telefonici
dal
pubblico
a
casa
sono
solo
alcuni
esempi
di
forme
espressive
che
obbediscono
a
questa
strategia
contribuendo
a
dare
una
visione
competente
degli
spettatori;
in
modo
analogo
funziona
il
coinvolgimentopragmatico
dello
spettatore
come
agente,
caricato
retoricamente
della
possibilità
di
intervenire
concretamente
modificando
la
situazione,
per
esempio
largendo
fondi
per
la
ricerca
scientifica
o
mobilitandosi
a
livello
associativo.
la
personalizzazione
delle
posizioni
concettuali
è,
d’altra
parte,
una
strategia
complementare
alla
precedente,
basata
sul
principio
della
umanizzazione
del
problema.
In
alcuni
casi
sono
i
soggetti
deboli
a
subire
questo
processo
per
aumentare
il
livello
patemico
del
discorso;
in
altri
sono
invece
gli
esperti,
che
sono
invitati
ad
abbandonare
l’impersonalità
asettica
del
loro
ruolo
per
essere
costruiti
-‐talvolta
con
il
loro
assenso,
altre
volte
in
modo
involontario-‐
secondo
un
profilo
individuale
più
marcato,
al
limite
della
creazione
di
un
vero
e
proprio
personaggio
televisivo.
Entrano
qui
in
gioco
fattori
come
la
capacità
comunicativa
dell’esperto,
la
sua
simpatia,
la
possibilità
di
incarnare,
anche
fisicamente,
una
serie
di
valori
in
conflitto
entro
l’arena
della
dialettica
concettuale.
Quanto
più
un
personaggio
televisivo
“funziona”
entro
i
limiti
espressivi
del
mezzo,
tanto
più
facilmente
la
sua
presenza
sarà
ricercata
in
trasmissioni
analoghe,
autoconfermandosi
nel
ruolo
fino
ad
assumere
la
funzione
di
icona
immediatamente
riconoscibile
di
un
tema
o
di
una
posizione
teorica.
Non
bisogna
poi
dimenticare
come
la
pratica
della
personalizzazione
sia
particolarmente
coerente
con
l’esigenza,
da
parte
degli
apparati
informativi,
di
possedere
una
rubrica
di
esperti
non
solo
competenti
ma
anche
facilmente
raggiungibili,
disponibili
a
cooperare
entro
i
vincoli
di
tempo
e
di
spazio
in
cui
si
gioca
il
lavoro
della
redazione,
e
che
possibilmente
abbiano
già
dato
buona
prova
di
sé
in
video,
in
audio,
in
una
intervista
o
come
consulenti.
Tutte
queste
caratteristiche
congiunte
rendono
l’esperto
una
risorsa
preziosa
e
non
facilmente
sostituibile,
che
garantisce
autorevolezza
e,
nello
stesso
tempo,
un
buon
margine
di
sicurezza
in
fase
di
produzione.Spesso,
inoltre,
la
negoziazione
tra
l’apparato
informativo
e
l’esperto
è
faticosa
e
complessa:
è
quindi
più
conveniente
mantenere
i
rapporti
già
consolidati
piuttosto
che
inaugurarne
di
nuovi.
Tutto
ciò,
evidentemente,
contribuisce
alla
cristallizzazione
della
figura
225
dell’esperto
in
relazione
a
un
certo
tema
scientifico
e
alla
posizione
culturale
che
egli
rappresenta.
la
polarizzazione
narrativa,
spesso
combinata
con
gli
elementi
precedenti,
contribuisce
a
definire
un
quadro
più
semplice,
e
dunque
più
comprensibile,
della
vicenda.
E’
più
facile
raccontare
un
fenomeno
complesso
se
lo
si
può
ricondurre,
retoricamente
e
narrativamente,
a
uno
scontro
tra
un
protagonista
e
un
antagonista.
Moltissime
metafore,
dallo
sport
al
conflitto
politico
o
militare,
fino
alla
mobilitazione
dell’immaginario
romanzesco,
possono
articolarsi
intorno
a
questa
semplificazione.
Da
questo
punto
di
vista,
un
dato
particolarmente
significativo
con
cui
fare
consapevolmente
i
conti
sembra
essere
la
predominante
natura
narrativa
dei
media,
anche
di
quelli
a
carattere
informativo.
La
fine,
forse
troppo
celebrata,
dei
“grandi
racconti”
ha
lasciato
ampio
spazio
a
una
narrativizzazione
diffusa;
una
miriade
di
“piccole
storie”,
destinate
a
diventare
“good
stories”
e
dunque
altamente
notiziabili,
si
affollano
intorno
ad
alcuni
schemi
narrativi
che
finiscono
per
darsi
come
paradigmatici.
Spesso
l’origine
di
questi
modelli
è
a
sua
volta
mediale,
mutuata
dal
cinema
o
dalla
letteratura,
come
nel
caso
esemplare
dei
riferimenti
fantascientifici
o
gotici
puntualmente
mobilitati
quando
si
parla
di
clonazione.
Altrettanto
spesso,
poi,
questi
modelli
nascondono
narrazioni,
per
così
dire,
mitologiche
tutt’altro
che
scomparse
insieme
ai
grandi
racconti
ideologici.
Meno
evidenti,
forse,
ma
per
questo
ancora
più
efficaci,
operano
–per
esempio-‐
il
mito
salvifico
della
scienza,
il
racconto
stereotipo
della
inconciliablità
tra
fede
e
ragione,
il
luogo
comune
dell’integralismo
e
così
via.
Queste
e
simili
narrazioni
sono
particolarmente
potenti
perché
fanno
insensibilmente
da
sfondo,
da
cornice
interpretativa
per
attribuire,
con
poco
sforzo,
familiarità,
comprensibilità
e
senso
a
questioni
spesso
molto
complesse;
lo
stereotipo
è,
infatti,
un
comodo
strumento
concettuale
di
riduzione
della
complessità.
Il
secondo
elemento
di
trasformazione
del
panorama
dei
media
è
da
cercare
nello
sviluppo
delle
nuove
tecnologie
della
comunicazione
basate
sull’informatica
e
sulla
telematica;
questo
sviluppo,
infatti,
ha
progressivamente
imposto
un
nuovo
modello
di
relazione
tra
i
soggetti
sociali
coinvolti
nel
processo
informativo,
modificandone
ruoli
e
poteri.
L’interattività
resa
possibile
da
queste
tecnologie
ha
eroso
la
distinzione
tra
chi
produce
informazione
e
chi
la
consuma,
contribuendo
a
ridefinire
la
funzione
stessa
dei
professionisti
della
comunicazione
in
quanto
mediatori.
Le
conseguenze
sono
particolarmente
visibili
su
due
fronti:
il
primo
è
quello
della
trasformazione
della
professione
giornalistica,
sottoposta
a
un
numero
crescente
di
fonti
e
a
una
massa
esorbitante
di
informazioni,
non
sempre
controllabili;
il
secondo
è
quello
della
professionalizzazione
del
consumatore,
da
una
parte
autorizzato
a
farsi
egli
stesso
fonte
(o
contro-‐informatore),
dall’altra
sollecitato
ad
compiere
in
prima
persona
il
lavoro
di
newsgathering,
cioè
la
raccolta
delle
informazioni
che
gli
servono
per
orientarsi
praticamente
e
culturalmente
nella
complessità
dell’esperienza
quotidiana.
In
concreto,
per
il
tema
che
interessa
queste
pagine,
le
trasformazioni
appena
ricordate
significano
una
disponibilità
sempre
crescente
(sia
dal
punto
di
vista
quantitativo,
sia
da
quello
della
sua
accessibilità)
di
informazione
scientifica
e
biomedica
ma,
contestualmente,
una
minore
possibilità
di
discriminare
al
suo
interno
sulla
base
della
attendibilità
istituzionalizzata
delle
fonti
o
dell’autorevolezza
delle
figure
di
mediazione.
Il
processo
di
costruzione
sociale
della
notizia
diviene
così
meno
controllabile
(dunque
più
libero,
ma
anche
più
rischioso)
e,
per
certi
versi,
più
permeabile
a
fenomeni
di
rumore
(con
la
conseguente
perdita
di
visibilità
di
parte
dell’informazione)
e
di
disinformazione
(è
il
caso,
per
esempio,
delle
false
notizie
che
circolano
in
Internet
in
modo
quasi
virale).
Per
inciso,
varrà
la
pena
ricordare
come
questo
processo
di
disintermediazione
reso
possibile
dalla
rete
agisca,
contemporaneamente,
nei
confronti
degli
operatori
dell’informazione
tanto
quanto
nei
confronti
della
stessa
categoria
professionale
dei
medici,
se
è
vero
che
Internet
226
costituisce
una
delle
prime
fonti
di
consultazione
nella
prassi
di
automedicina
e
soprattutto
nel
ricorso
alle
medicine
alternative:
modificare
gli
strumenti
di
accesso
al
sapere
(scientifico,
medico,
specialistico
…)
tende
a
modificare,
come
si
vedrà
nel
prossimo
paragrafo,
i
rapporti
sociali
e
le
pratiche
quotidiane
che
dalla
diversa
distribuzione
dei
saperi
e
delle
competenze
prendono
forma.
Con
quali
effetti
?
L’ambito
di
studio
degli
effetti
sociali
dei
media
è
stato
attraversato,
a
partire
dagli
anni
Settanta,
da
diversi
fermenti
che
hanno
contribuito
a
definire
meglio
la
capacità
di
influenza
che
i
mezzi
di
comunicazione
esercitano
sul
corpo
sociale[37];
in
estrema
sintesi,
si
tratta
della
capacità
di
interagire,
per
accumulo
sul
medio
e
lungo
periodo,
sulla
dimensione
cognitiva
dei
loro
destinatari,
incidendo
sugli
schemi
mentali,
sulle
precomprensioni,
sulle
categorie
concettuali
e
sui
processi
logici
con
cui
ogni
soggetto
percepisce
la
realtà
che
lo
circonda,
vi
riflette
sopra
e
agisce
per
modificarla.
Non
si
tratta
tanto,
dunque,
di
una
forza
direttamente
persuasiva
o
manipolatrice,
quanto
di
un
insieme
dirappresentazioni
del
mondo,
a
carattere
informativo
o
narrativo,
che
contribuiscono
a
orientare
le
modalità
con
cui
il
mondo
stesso
si
dà
come
oggetto
di
pensiero,
di
esperienza,
di
valutazione.
A
questa
interpretazione
ecologicadell’influenza
dei
media
contribuiscono
diverse
teorie
che
analizzano
come
i
mezzi
di
comunicazione
“creano
la
cultura
e
l’ambiente
simbolico
e
conoscitivo
nei
quali
l’individuo
vive
e
costituiscono
una
risorsa
che
egli
usa
nelle
interazioni
sociali
per
situare
e
rendere
significativo
il
proprio
agire”[38].
Nel
contesto
di
questo
processo
di
costruzione
sociale
della
realtà
e
delle
condizioni
della
sua
pensabilità,
un
motivo
di
riflessione
particolarmente
significativo
in
relazione
al
tema
di
queste
pagine
è
suggerito
dalla
teoria
che
Noelle
Neumann
ha
definito
“spirale
del
silenzio”;
secondo
questa
visione,
“il
processo
di
formazione
dell’opinione
pubblica
è
principalmente
l’interazione
tra
il
monitoraggio
che
l’individuo
compie
sull’ambiente
sociale
circostante
e
gli
atteggiamenti
ed
i
comportamenti
dell’individuo
stesso”[39];
il
consenso
all’interno
di
un
gruppo
umano
sarebbe
così
il
frutto
di
un
continuo
lavoro
sociale
fatto
di
costanti
processi
di
allineamento
attraverso
i
quali
i
soggetti
cercano
di
evitare
il
proprio
isolamento
culturale.
Si
attiva
così
un
meccanismo
circolare
e
ricorsivo
che
condanna
alla
scomparsa
dall’orizzonte
del
dibattito
pubblico
quelle
posizioni
culturali
che
nell’ambiente
socio-‐simbolico
dei
media
vengono
rappresentate
come
minoritarie:
nelle
parole
della
Noelle
Neumann
l’opinione
pubblica
è
quindi
“l’opinione
dominante
che
costringe
alla
conformità
di
atteggiamento
e
comportamento
nella
misura
in
cui
minaccia
di
isolamento
l’individuo
che
dissente
o
di
perdita
del
sostegno
popolare
l’uomo
politico”[40].
Se
a
questa
“pressione
ambientale”
esercitata
dai
mezzi
di
comunicazione
“alla
quale
le
persone
rispondono
sollecitamente,
con
acquiescenza
o
con
il
silenzio”[41]
si
aggiungono
la
selettività
nell’accesso
al
sistema
dei
media
e
la
sua
forte
autoreferenzialità
si
capirà
come
i
temi
e
i
soggetti
sociali
più
dotati
di
visibilità
mediale
tenderanno
ad
acquisirne
sempre
di
più,
mentre
quelli
poco
presenti,
scarsamente
visibili
o
comunque
minoritari
vedranno
progressivamente
ridotta
a
zero
la
loro
possibilità
di
influenzare
la
costruzione
dell’opinione
pubblica.
Chiaramente,
tutta
la
portata
del
coinvolgimento
di
maggiori
o
minori
fette
di
questa
pubblica
opinione
si
manifesta
con
ricadute
significative
sugli
stessi
sviluppi
della
ricerca
scientifica
e
della
pratica
medica.
Una
prima
conseguenza
di
quanto
detto
sin
qui
è
l’effettiva
pertinenza
del
tema
indicato
dal
titolo
di
questa
relazione.
Non
solo
il
coinvolgimento
del
grande
pubblico
intorno
al
dibattito
sulla
ricerca
biomedica
è
un
dato
di
fatto,
testimoniato
dal
crescente
numero
di
trasmissioni
televisive
e
di
rubriche
giornalistiche
dedicate
–certo
in
modo
generale-‐
ai
temi
della
salute,
della
medicina,
della
ricerca
scientifica[42];
ma,
soprattutto,
questo
coinvolgimento
è
funzionale
alla
comparsa
di
un
soggetto
sociale
consapevole
in
grado
di
intervenire,
in
modi
227
diversi,
sullo
sviluppo
stesso
della
ricerca.
Due
mi
sembrano
le
principali
direttrici
di
questo
intervento.
In
primo
luogo,
la
costruzione
del
consenso
intorno
alle
politiche
di
ricerca
da
adottare
si
realizza
principalmente
attraverso
i
media,
soprattutto
in
una
società
come
la
nostra
in
cui
i
corpi
intermedi
della
partecipazione
sociale
e
politica
sembrano
segnare
il
passo
rispetto
al
processo
di
disintermediazione
sviluppato
dai
mezzi
di
comunicazione
di
massa.
Le
grandi
iniziative
volte
a
raccogliere
fondi
da
destinare
alla
ricerca
passano
necessariamente
attraverso
i
percorsi
della
comunicazione
di
massa
dove
diventa
talvolta
difficile
operare
i
distinguo
necessari;
la
complessità
della
ricerca
passa
in
secondo
piano
rispetto
all’emotività
spettacolare
che
governa
il
successo
di
pubblico
ed
economico
di
questi
grandi
eventi.
Anche
i
sondaggi
sono,
sempre
da
questo
punto
di
vista,
un
potente
strumento
di
indagine
che
facilmente
si
trasforma,
secondo
il
modello
della
profezia
che
si
autorealizza,
in
strumento
di
controllo.
Il
grande
pubblico
costituisce
così
sia
il
prodotto
sia
lo
strumento
di
una
aggregazione
d’opinione
da
intercettare
politicamente
con
iniziative
legislative
e
politiche
che,
a
loro
volta,
saranno
oggetto
di
comunicazione.
D’altra
parte
non
bisogno
dimenticare
che
le
modalità
con
cui
la
formazione
dell’opinione
pubblica
si
traduce
in
consenso
intorno
alle
politiche
di
ricerca
sono
più
complesse
e
meno
lineari
di
quanto
si
possa
pensare;
come
osservano
Bucchi
e
Neresini,
“due
decenni
di
ricerche
internazionali
sulla
comunicazione
e
consapevolezza
pubblica
della
scienza
mostrano
con
grande
chiarezza
come
a
livelli
più
elevati
di
informazione
non
corrisponda
affatto
una
maggiore
disponibilità
a
sostenere
la
ricerca.
Anzi,
proprio
tra
le
fasce
più
informate
della
popolazione
e
più
sensibili
ai
temi
medico-‐scientifici
si
riscontra
la
maggiore
propensione
alla
mobilitazione
critica”[43].
Per
contro,
i
dati
riportati
dal
Censis
per
l’Italia
(Censis
2001)
evidenziano
una
correlazione
positiva
tra
capitale
culturale
disponibile,
consumo
di
informazione
e
atteggiamento
favorevole
nei
confronti
delle
biotecnologie:
dopo
una
fase
di
ottimismo
distratto
e
superficiale
e
una
di
delega
crescente,
“nella
fase
attuale
l’assenso
e
il
consenso
nei
confronti
degli
sviluppi
delle
biotecnologie
appaiono
sempre
più
vincolati
rispetto
al
passato
[…]
alla
richiesta
esplicita
di
informazione
e
di
trasparenza
da
attuare
ad
opera
dell’amministrazione
pubblica,
dell’industria
e
del
mondo
stesso
della
ricerca”[44].
Probabilmente
bisogna
tenere
conto
di
tensioni
e
retroazioni
complesse:
più
diminuisce
il
gap
di
conoscenza
tra
specialisti
e
opinione
pubblica,
più
aumentano
le
istanze
valutative
da
parte
di
quest’ultima;
più
il
processo
è
condotto
secondo
modalità
consensualiste,
più
facilmente
la
valutazione
si
traduce
in
un
atteggiamento
di
fiducia,
più
spazio
ottengono
le
voci
conflittualiste,
più
l’opinione
pubblica
è
portata
a
utilizzare
il
margine
di
conoscenza
ulteriore
in
funzione
di
controllo
o
di
mobilitazione
sociale.
In
entrambi
i
casi,
quella
che
sembra
affermarsi
è
comunque
una
volontà
di
partecipazione,
un
recupero
di
protagonismo
da
parte
dei
soggetti
interessati,
una
esigenza
di
maggiore
consapevolezza
e
informazione:
In
secondo
luogo,
e
in
modo
forse
ancora
più
diretto,
la
crescente
mole
di
informazione
medico-‐
scientifica
consumata
da
telespettatori
e
lettori
finisce
per
modificare,
come
un
elemento
condizionante
talvolta
in
positivo,
talaltra
in
negativo,
il
mercato
stesso
della
prassi
medica:
ridefinisce
le
relazioni
medico-‐paziente
su
nuove
basi
di
competenze
e
di
fiducia
(o
di
sfiducia),
opera
una
sorta
di
legittimizzazione
sociale
tanto
della
malattia
(si
pensi
ai
discorsi
pubblici
sull’Aids)
quanto
della
cura
(ancora
il
caso
italiano
della
somatostatina
o
delle
cosiddette
medicine
alternative),
ingenera
aspettative
-‐e
a
volte
pretese-‐
che
possono
difficilmente
essere
corrisposte,
può
stimolare
un
“consumismo
funzionale
solo
a
un
pervicace
accanimento
diagnostico
e
terapeutico”[45].
Più
che
approfondire
questo
tema
è
opportuno
segnalare
la
sua
stretta
connessione
con
la
dimensione
culturale
dei
media
che
ho
ricordato
inizialmente:
come
è
stato
228
osservato
da
più
parti,
sono
la
nuova,
diffusa,
“cultura
del
farmaco”
e
“la
medicalizzazione
di
qualsiasi
disturbo
o
disagio
esistenziale,
che
nella
medicina
vede
la
soluzione
e
che
alla
medicina
garantisce
una
rendita
di
posizione”
a
costituire
“il
fertile
terreno
su
cui
matura
ogni
genere
di
conflitto
di
interesse”[46].
Una
questione
centrale
rispetto
all’intero
sistema
riguarda,
dunque,
le
due
categorie,
fondamentali
per
la
nostra
società
almeno
secondo
analisi
come
quella
di
Anthony
Giddens[47],
di
rischio
e
di
fiducia.
Tutti
i
meccanismi
di
disaggregazione
(disembedding)
e
di
distanziamento
spazio-‐temporale
tipici
della
modernità
come
le
tecnologie,
i
sistemi
esperti
e
i
mezzi
di
comunicazione
di
massa
(anche
sotto
questo
aspetto
ricerca
e
prassi
biomedica
e
media
rivelano
un
tratto
in
comune)
implicano
una
dose
crescente
di
fiducia,
a
fronte
di
una
altrettanto
crescente
dose
di
rischio.
Secondo
Roger
Silverstone,
i
media
hanno
a
che
fare
con
la
nostra
sicurezza
ontologica,
“rafforzano
la
nostra
volontà
di
fidarci
di
altri
sistemi
astratti
e
ci
offrono
una
struttura
per
fidarci
l’uno
dell’altro”,
ma
la
“fiducia
è
come
l’informazione:
non
si
esaurisce
con
l’uso.
Più
ce
n’è
più
è
probabile
che
ce
ne
sia;
al
contrario,
si
esaurisce
se
non
viene
utilizzata.
I
media
del
mondo
moderno
offrono
entrambe,
ma
in
un’epoca
di
mutamento
la
loro
capacità
di
farlo
è
notevolmente
indebolita”[48].
Un
discorso
a
parte
meriterebbero
poi
i
cosiddetti
nuovi
media;
Internet,
per
esempio,
costituisce
un
ambiente
simbolico
–il
cosiddetto
Cyberspazio-‐
in
cui
il
bene
fiducia
è
fondamentale.
Le
comunità
virtuali
vivono
di
fiducia
reciproca;
l’informazione
che
circola
liberamente
nella
rete
è
insieme
incontrollabile
(spesso
non
se
ne
conoscono
le
fonti
e
dunque
è
impossibile
applicare
criteri
di
legittimazione
autorevole)
magarantita
dall’appartenenza
alla
stessa
comunità
deicybernauti.[49]
A
volte,
poi,
i
due
termini
di
rischio
e
fiducia
sono
in
diretta
relazione,
come
quando
i
media
di
massa
sono
delegati
o
investiti
della
funzione
di
rappresentare
e
gestire
socialmente
le
situazioni
di
pericolo
sociale
(catastrofi,
azioni
di
terrorismo,
allarme
alimentare,
epidemie
etc.).
Chiaramente,
la
questione
è
di
grande
rilievo
quando
il
tema
è
così
delicato
quale
quello
della
salute
e
dello
sviluppo
della
medicina.
In
questo
caso
l’investimento
emotivo
e
fiduciario
che
tramite
la
struttura
confidenziale
dei
media
viene
riversato
sul
mondo
della
ricerca
e
della
medicina
è
inferiore
solo
alla
delusione
e
al
disinganno
che
derivano
dalla
scoperta
di
aver
mal
riposto
la
propria
fiducia.
Secondo
alcuni
osservatori,
la
crisi
di
fiducia
che
il
nostro
sistema
sanitario
sta
attraversando
sarebbe
da
ricollegare
proprio
a
una
eccessiva
amplificazione
delle
potenzialità
della
ricerca
medica
e
alle
conseguenti,
irrealistiche
aspettative
del
pubblico,necessariamente
deluse.
Antidoto
contro
una
informazione
falsata
sarebbe,
però,
solo
un’informazione
migliore:
“l’effetto
regolatorio
di
un
circuito
informativo
nel
campo
ella
salute
e
della
sanità
dipenderà,
dunque,
[…]
dalla
qualità
delle
informazioni”e
dal
modo
in
cui
le
informazioni
circolano
e
sono
messe
a
disposizione;
“per
avere
un
effetto
positivo
ciò
dovrà
avvenire
in
forma
per
lo
più
mediata,
attraverso
soggetti
sociali
di
varia
natura,
in
parte
già
esistenti
e
in
parte
del
tutto
nuovi”[50]
come
le
associazioni
di
malati
e
i
gruppi
i
pressione.
Di
contro,
l’emersione
di
casi
clamorosi
di
conflitto
di
interesse
potrebbero
minare
alle
fondamenta
il
meccanismo
stesso
della
attribuzione
di
fiducia,
scompaginando
in
modo
conflittuale
il
rapporto
tra
i
diversi
attori
al
suo
interno.
Non
sarà
inutile
ricordare,
a
questo
proposito,
come
anche
il
consenso
informato,
per
non
ridursi
a
una
formale
dismissione
di
responsabilità
da
parte
del
medico
per
ridurre
i
possibili
contenziosi,
debba
alimentarsi
costantemente
di
una
relazione
fiduciaria;
se
poi,
come
si
ricorda
da
più
parti,
la
fiducia
costituisce
non
solo
il
quadro
relazionale
in
cui
si
deve
inserire
il
rapporto
(anche
comunicativo)
medico-‐paziente,
ma
addirittura
il
primo
placebo,
a
entrare
in
crisi
è
la
stessa
possibilità
di
cura.
229
PER
CONCLUDERE
Nelle
pagine
precedenti
si
è
tentato
di
individuare
i
diversi
snodi
del
sistema
comunicativo
che
possono
rivelarsi
problematici
rispetto
a
un
corretto
uso
dei
media
nel
coinvolgimento
del
grande
pubblico
e
alla
possibilità
di
affermare
una
visione
cristiana
su
questioni
legate
alla
ricerca
biomedica.
Alla
luce
di
questa
riflessione
è
possibile
tentare,
in
sede
conclusiva,
qualche
indicazione
operativa,
sia
a
livello
delle
professionalità
e
delle
routine
produttive
dell’informazione,
sia
in
relazione
a
una
più
vasta
e
generale
sfida
culturale
rappresentata
dal
panorama
delle
comunicazioni
di
massa.
Sul
primo
versante,
come
si
è
detto,
lo
spazio
della
costruzione
sociale
della
notizia
costituisce
anche
lo
spazio
in
cui
possono
riprodursi
condizionamenti
non
solo
diretti,
sulla
scorta
degli
investimenti
pubblici
o
privati
alla
ricerca,
ma
anche
indiretti,
in
grado
di
creare
artificialmente
consenso
intorno
a
certi
farmaci
o
certe
terapie.
E’
in
questo
spazio
che
si
insinua
la
possibilità
di
strumentalizzazioni
demagogiche
e
populiste,
sia
a
carattere
economico,
sia
a
carattere
ideologico.
Tornare
alla
considerazione
iniziale
delle
affinità
radicali
tra
etica
della
ricerca
biomedica
ed
etica
delle
comunicazioni
di
massa
può
essere
utile
per
suggerire
una
prospettiva
operativa
a
questo
proposito.
Come
osserva
Claudio
Giuliodori,
infatti,
“una
vera
comunicazione
delle
problematiche
bioetiche
non
può
prescindere
dalla
dimensione
propriamente
etica
[…]
Arriviamo
così
a
individuare
il
nocciolo
del
problema,
ossia
la
necessità
che
si
sviluppi
una
vera
e
propria
‘etica
della
comunicazione’”[51].
Il
coinvolgimento
del
grande
pubblico
in
un
dibattito
cristianamente
ed
eticamente
orientato
sullo
sviluppo
della
ricerca
biomedica
passa,
innanzitutto,
attraverso
una
comunicazione
intrinsecamente
etica,
naturalmente
rispettosa
dei
valori
della
verità
e
della
persona.In
questo
quadro,
anche
le
singole
questioni
sollevate
nel
corso
di
questa
riflessione
possono
essere
affrontate
in
termini
di
deontologia
professionale
o
di
etica
pragmatica,
ma
probabilmente
richiedono
anche
la
considerazione
di
livelli
di
intervento
che
superano
un’“etica
della
prima
persona”.
Si
tratterà,
per
esempio,
di
sviluppare
una
riflessione
sulla
qualità
dell’informazione,
almeno
entro
alcuni
comparti
particolarmente
sensibili
come
quello
dell’informazione
medica
e
sanitaria;
ancora,
si
tratterà
di
ragionare
in
termini
digaranzie
di
sistema
capaci
di
escludere
in
modo
efficace
il
rischio
di
conflitti
di
interesse.
Per
questo
motivo
è
necessario
pensare
a
interventi
correttivi
che
agiscano
almeno
su
due
livelli
contemporaneamente:
da
una
parte
si
tratterà,
come
suggerisce
Ron
Collins,
di
sviluppare
strumenti
di
controllo
che
forniscano
costantemente
all’opinione
pubblica
la
possibilità
di
conoscere
quali
rapporti
contrattuali
intercorrono
tra
le
aziende
interessate
e
gli
scienziati
o
i
centri
di
ricerca
universitaria[52];
dall’altra
si
tratta
di
configurare
codici
di
comportamento
per
le
diverse
professionalità
coinvolte
nella
fase
della
pubblicazione
dei
risultati
di
ricerca
che
impongano,
per
esempio,
al
ricercatore
che
ha
rapporti
di
consulenza
con
un’azienda
di
dichiararli
negli
articoli
sulle
riviste,
nelle
interviste
alla
stampa,
alle
agenzie
governative
e
così
via[53].
A
questo
proposito,
traducendo
la
questione
in
termini
deontologici,
vale
la
pena
ricordare
l'opportunità
di
iniziative
come
il
“Codice
di
deontologia
del
medico
e
del
giornalista
per
l’informazione
sanitaria”[54];
in
esso
si
raccomandano
la
formazione
specifica
e
permanente
del
giornalista
che
si
occupa
di
materia
biomedica
e
bioetica,
la
completezza
dell’informazione
che
non
deve
“creare
false
aspettative
nei
malati”
(capo
3,
art.
9),
la
distinzione
da
qualsiasi
forma
di
pubblicità,
la
rinuncia
all’enfatizzazione
eccessiva;
anche
l’omissione
di
informazione
dettata
da
interessi
economici
è
considerata
violazione
(art.
17).
Particolarmente
interessanti
sono
poi
le
230
norme
sulla
informazione
in
ambito
di
ricerca
farmacologica,
che
impongono
tra
l’altro
la
citazione
delle
fonti
e
l’esclusione
di
notizie
che
possano
risultare
promozionali
nei
confronti
di
farmaci
in
fase
di
sperimentazione,
e
gli
articoli
relativi
alla
rappresentazione
del
progresso
scientifico
in
sanità
che
raccomandano
la
collaborazione
tra
medici
ricercatori
e
giornalisti
scientifici
e
tra
questi
e
le
fonti
di
natura
pubblica.
Infine
sarà
necessario
investire
in
formazione
sul
versante
degli
operatori
della
comunicazione,
con
particolare
attenzione
nei
confronti
della
prassi
della
divulgazione
medico-‐scientifica
e
dei
suoi
linguaggi.
Centrale
è,
infatti,
la
competenza
dei
divulgatori
e
dunque
la
loro
formazione
sia
etica
che
scientifica;
ma
c’è
anche
un
problema
di
linguaggio,
che
suggerisce
la
necessità
di
individuare
modalità
di
comunicazione
che
permettano
la
semplificazione
senza
il
tradimento
del
senso
profondo,
tenendo
conto
anche
del
fatto
che
la
confusione
genera
disaffezione
e
distacco
da
parte
dell’opinione
pubblica.
La
sfida
si
sposta
così
sul
versante
culturale.
Per
stringere
ancora
più
nettamente
sul
tema
che
ci
sta
a
cuore
bisogna
ricordare
infatti
un’ampia
area
problematica:
è
la
questione
del
grado
di
compatibilità
di
un
discorso
cristiano
volto
a
orientare
eticamente
la
ricerca
biomedica
con
l’ambiente
culturale
rappresentato
dai
media,
soprattutto
a
fronte
di
un’alta
dose
di
attenzione
esercitata
dai
mezzi
di
comunicazione
nei
confronti
della
ricerca
stessa.
Si
tratterà,
allora,
di
sondare
con
maggiore
analiticità
i
singoli
snodi
del
dibattito
culturale
in
cui
possono
annidarsi
occasioni
di
equivoco,
fraintendimenti,
strumentalizzazioni;
si
tratterà
di
guardare
con
consapevolezza
ai
limiti
e
ai
vincoli
degli
strumenti
in
modo
da
non
soggiacere
passivamente
alle
predeterminazioni
iscritte
nel
loro
uso.
Alcuni
tratti
strutturali
del
sistema
sembrano
decisamente
contraddittori:
la
sua
natura
commerciale,
la
sudditanza
alle
leggi
dell’ascolto
e
del
mercato
pubblicitario,
l’endemica
drammatizzazione
delle
notizie
pongono
gravi
ostacoli.
Ancora
più
difficile
sembra,
per
esempio,
un
confronto
tra
la
nozione
di
verità
intesa
antropologicamente
e
filosoficamente
come
base
del
discorso
etico
proprio
della
tradizione
cristiana
e
l’accezione
di
verità
legittimata
dal
sistema
dei
media
che,
come
è
stato
spesso
osservato,
oscilla
tra
relativismo
soggettivo
e
consenso
della
maggioranza.
In
modo
analogo,
non
bisogna
confondere
la
pluralità
di
voci
e
posizioni
rappresentate
dai
media
con
una
loro
ipotetica
neutralità:
qualunque
discorso
sui
valori,
per
esempio,
non
può
prescindere
dalla
consapevolezza
che,
in
ambito
mediale,
l’ostacolo
non
sta
tanto
nella
loro
mancanza
ma,
paradossalmente,
nella
loro
abbondanza
priva
di
qualsiasi
gerarchia,
nella
loro
fungibilità,
nella
loro
equivalenza,
nella
loro
alternanza
non
stabilmente
traducibile
in
assiologia.
Infine,
la
formazione
del
pubblico
è
richiesta
su
più
fronti:
quello
mediale
(media
education)
per
fornire
gli
strumenti
di
un
uso
critico
e
consapevole
delle
risorse
informative
e
culturali
messe
a
disposizione
dal
sistema;
quello
scientifico,
per
consentire
una
migliore
comprensione
del
reale
spessore
delle
questioni
in
gioco,
al
di
là
dei
riduzionismi
operati
dai
media;
quello
morale,
per
formare
cittadini
responsabili
e
impegnati
sul
versante
delle
proprie
scelte
in
ambito
di
partecipazione
sociale
agli
indirizzi
della
ricerca.
Realizzare
una
simile
pluralità
di
livelli
e
di
modalità
di
intervento
significherebbe
operare
per
una
ricomposizione
culturale
unitaria,
rimettere
al
centro
della
comunicazione
la
persona
come
“principio
di
unità
intorno
al
quale
riannodare
tutti
i
fili
della
conoscenza”[55].
231
[1]
Un
esempio
per
tutte,
la
nozione
informatica
di
rete
neurale,
o
quella
di
global
brain
per
indicare
lo
sviluppo
di
Internet
e
delle
sue
potenzialità
conoscitive.
Cfr.
BETTETINI
G.
et
al.
I
nuovi
strumenti
del
comunicare,
Milano:
Bompiani,
2001.
[2]
Spagnolo
A.,
voce
“Bioetica”
in
Tanzella-‐Nitti
G.,
Strumia
A.
(a
cura
di),
Dizionario
interdisciplinare
di
scienza
e
fede,
Città
del
Vaticano:
Urbaniana
University
Press;
Roma:
Città
Nuova,
2002:
196-‐213.
[3]
Gatti
G.,
Etica
della
comunicazione
in
Lever
F.,
Rivoltella
P.,
Zanacchi
A.(a
cura
di)
La
comunicazione.
Il
dizionario
di
scienze
e
tecniche,
Roma:
Eri-‐Elledici,
2002:452-‐461.
[4]
Pontificio
Consiglio
delle
Comunicazioni
Sociali,
Etica
nelle
comunicazioni
sociali,
Città
del
vaticano:
Libreria
Editrice
Vaticana,
2000
n.
21.
[5]
Bettetini
G.,
Fumagalli
A.,
Quel
che
resta
dei
media.
Idee
per
un’etica
della
comunicazione,
Milano:
Angeli,
1998.
[6]
Gatti
G.,
Etica
…p.455.
[7]
Cfr.
Bettetini
G.,
L’occhio
in
vendita,
Venezia:
Marsilio,
1985.
[8]
Botturi
F.,
Tecnologia
ed
esperienza,
in
AROLDI
P.,
SCIFO
B.
(a
cura
di),
Internet
e
l’esperienza
religiosa
in
rete,
Milano:
Vita
e
Pensiero,
2002:
97-‐104.
[9]
Martini
C.M.,
Il
lembo
del
mantello,
Milano:
Centro
ambrosiano,
1991.
[10]
Cfr.
Giuliodori
C.,
Bioetica
e
comunicazione
in
Sgreccia
E.,
DiPietro
M.L.
(a
cura
di),
Bioetica
e
formazione,
Milano:
Vita
e
Pensiero,
2000:117-‐126.
[11]
Wolf
M.,
Teorie
delle
comunicazioni
di
massa,
Milano:
Bompiani,
1985:25.
[12]
LASSWELL
H.D.,
The
structure
and
function
of
communication
in
society,
in
BRYSON
L.
(a
cura
di),
The
communication
of
ideas,
New
York:
Harper;
ora
in
SCHRAMM
W.,
ROBERTS
D.,
The
process
and
effects
of
mass
communication,
Chicago;
University
of
Illinois
Press,
1972:84-‐99.
[13]
Per
una
sintesi
di
questa
tradizione
di
ricerca
sui
media
cfr.
Wolf
M.,
Teorie
…;
Sorrentino
C.,
I
percorsi
della
notizia,
Bologna:
Baskerville,
1995.
[14]
Sorrentino
C.,
I
percorsi…pp.13-‐14.
[15]
ibid.,
p.150
[16]
cfr.
Nelkin
D.,
Selling
science.
How
the
press
covers
science
and
technology,
New
York,
1987;
ID,
Medicine
and
the
media:
an
uneasy
relationship:
the
tensions
between
medicine
and
the
media,
The
Lancet,
1996,
347:1600-‐1603.
[17]
Cfr.
GALDON
LOPEZ
G.,
Desinformcion.
Metodo,
aspectos
y
soluciones,
Ediciones
Universidad
de
Navarra,
1994;
trad.
it.
Informazione
e
disinformazione.
Il
metodo
nel
giornalismo,
Roma:
Armando,
1999.
[18]
cfr.
Cesareo
G.,
RODI
P.,
Il
mercato
dei
sogni,
Milano:
Bruno
Mondadori,
1996.
[19]
Sorrentino
C.,
I
percorsi…
p.182.
[20]
Sorrentino
cita
a
questo
proposito
la
seguente
dichiarazione
di
un
cronista:
“se
non
le
conosci
e
non
le
blandisci
non
riesci
a
costruire
un
meccanismo
di
difesa
dalle
fonti”
(Ibid.,
p.182)
[21]
Per
esempio
il
caso
“mucca
pazza”
secondo
la
ricostruzione
di
BUCCHI
M.,
Vino,
alghe
e
mucche
pazze.
La
rappresentazione
televisiva
delle
situazioni
di
rischio,
Roma:
Rai
Vqpt,
1999.
[22]
Sorrentino
C.,
I
percorsi…
p.188.
[23]
THOMPSON
DF.
Understanding
financial
conflict
of
interest,
New
England
Journal
of
Medicine,
1993,
329:573-‐576;
su
questo
tema
vd.
anche
Catananti
C.,
Medicina,
valori
e
interessi
(dichiarati
e
nascosti),
Milano:
Vita
e
Pensiero,
2002:74.
[24]
Pietro
Dri
cita,
per
esempio,
il
caso
dei
farmaci
anoressizzanti
(New
England
Journal
of
Medicine
del
29
agosto
1996);
il
caso
tiroxina
(Journal
of
the
American
Medical
Association
del
16
aprile
1997);
il
caso
calvizie
(New
England
Journal
of
Medicine
del
23
settembre
1999).
Cfr
DRI
P.,
Conflitti
di
interesse:
basta
chiarirli
?,
Tempo
medico,
666,
2000.
232
[25]
Cfr.
Krimsky
et
al.,
Scientific
journals
and
their
authors’
financial
interests:
a
pilot
study,
Psychotherapy
and
Psychosomatics,
1998,
67:194-‐201.
[26]
ANONIMO,
I
medici
di
fronte
al
conflitto
di
interesse,
Bollettino
di
informazione
sui
farmaci,
7,
gennaio-‐febbraio
2000,
1:2.
[27]
RENNIE
D.,
Riviste
scientifiche
e
confitto
di
interessi,
intervento
alla
V
Riunione
Annuale
Network
Cochrane
Italiano
“Evidence-‐based
medicine
e
conflitti
di
interesse”,
Milano,
5-‐6
ottobre
2000;
disponibile
all’url:http://www.isi.it/research/2000/lifescience/projects/Conflitto_interessi_e_EBM.pdf.
[28]
E'
il
caso,
per
esempio,
della
propaganda
politica
in
campagna
elettorale.
[29]
SHAW
E.,
Agenda-‐setting
and
mass
communication
theory,
Gazette
International
Journal
for
Mass
Communication
Studies,
1979,
XXV,
2:96-‐105.
[30]
WOLF
M.,
Le
discrete
influenze,
in
JACOBELLI
J.
(a
cura
di),
Quali
poteri
la
Tv
?,
Bari:
Laterza,
1990:150-‐154.
[31]
Ibid.
p.151.
[32]
Ibid
[33]
cfr.
Bettetini
G.,
Fumagalli
A.,
Quel
che
resta
...;
BUCCHI
M.,
NERESINI
F.,
Un
Nobel
a
Sanremo
(ma
la
scienza
rimane
sconosciuta),
Problemi
dell’informazione,
2,
2000:233-‐250
[34]
cfr.
BETTETINI
G..
GRASSO
A.,
Lo
specchio
sporco
della
televisione,
Torino:
Fondazione
Agnelli,
1988.
[35]
BUCCHI
M.,
Vino,
alghe
…,
p.101.
[36]
Ibid.,
p.103.
[37]
WOLF
M.,
Gli
effetti
sociali
dei
media,
Milano:
Bompiani,
1992.
[38]
Ibid.,
p.73.
[39]
Ibid.,
p.67.
[40]
NOELLE
NEUMANN
E.,
The
spiral
of
silence.
A
theory
of
public
opinion,
Journal
of
Communication,
Spring,
1974:43-‐52.
[41]
Ibid.,
p.51.
[42]
Cfr.
i
dati
riportati
dal
Censis,
Cultura
scientifica
e
informazione,
Milano:
Angeli,
2001.
[43]
BUCCHI
M.,
NERESINI
F.,
Un
Nobel…p.????
[44]
Censis,
Cultura
scientifica
…p.188
[45]
Catananti
c.,
Medicina
…
[46]
Ibid.
[47]
Cfr.
Giddens
a.,
The
consequences
of
Modernity,
Cambridge:
Polity
Press,
1990;
trad.
it.
Le
conseguenze
della
modernità,
Bologna:
Il
Mulino,
1994.
[48]
Silvestone
R.,
Why
study
the
media
?,
London:
Sage,
1999;
trad.
it.
Perché
studiare
i
media,
Bologna:
Il
Mulino,
2002:194.
[49]
Esempio
ne
siano
le
mail
a
catena
che
hanno
per
oggetto
la
richiesta
di
aiuto
(non
economico
ma
informativo)
su
patologie
gravi
e
particolarmente
rare.
[50]
Satolli
R.,
Una
buona
informazione,
questo
è
il
rimedio,
Telèma,
III,
1997:14-‐18.
[51]
Giuliodori
C.,
Bioetica
e
…
[52]
Uno
strumento
di
questo
tipo
reso
disponibile
dal
"Centre
for
science
in
the
public
interest"
è
il
progetto
Integrity
in
Science
guidato
dallo
stesso
Ron
Collins;
si
tratta
di
un
database
che
contiene
migliaia
di
nomi
di
scienziati
che
hanno
qualche
forma
di
legame
economico
con
le
aziende.
[53]
Cfr.
intervista
a
Ron
Collins
realizzata
per
la
trasmissione
“Le
oche
di
Lorenz”
disponibile
all’url
http://www.radio.rai.it/radiotre.html.
[54]
Elaborato
dalla
Commissione
di
bioetica
dell’Ordine
Provinciale
di
Roma
dei
Medici
Chirurghi
e
degli
Odontoiatri
in
collaborazione
con
la
Commissione
Culturale
del
Consiglio
233
Nazionale
dell’Ordine
dei
Giornalisti;
consultabile
all’url
http://www.numedi.it/asmi/intesal/codice.html.
[55]
Gargantini
M.,
Divulgazione
in
Tanzella-‐Nitti
G.,
StrumiaA.
(a
cura
di),
Dizionario
interdisciplinare
…
234
ELIO
SGRECCIA
DEFINIZIONE
DEI
TERMINI
E
AMBITI
DELLA
TRATTAZIONE
La
ricerca
Il
New
Shorter
Oxford
English
Dictionary
dà
la
seguente
definizione
della
ricerca:
“
A
search
or
investigation
undertaken
to
discover
facts
and
reach
new
conclusions
by
the
critical
study
of
a
subject
or
by
a
course
of
scientific
inquire”
[1].
Noi
intendiamo
parlare
in
modo
specifico
della
ricerca
biomedica,
che
può
coinvolgere
soggetti
umani
ed
è
destinata
a
beneficio
di
soggetti
umani:
si
tratta
di
ricerca
fatta
dallo
scienziato
per
l’uomo,
talora
in
laboratorio,
talora
sull’uomo
e
con
l’uomo.
Anche
la
ricerca
sull’animale,
di
cui
parleremo
più
avanti,
può
avere
delle
connessioni
importanti
con
l’ambito
biomedico.
Da
questo
tipo
di
ricerca
si
attendono,
come
la
storia
della
scienza
ha
dimostrato,
grandi
e
continui
vantaggi
soprattutto
nella
identificazione
delle
cause
delle
malattie.
Come
ricorda
C.Weijer
[2],
la
caratteristica
della
ricerca
biomedica
è
rappresentata
da
due
elementi
che
si
implicano:
la
intenzione
di
produrre
qualcosa
che
possa
essere
applicata
e
accettata
comunemente
e
inoltre
che
abbia
come
oggetto
ambiti
della
biomedicina
o
ad
essa
riferibili.
Tali
ambiti
non
sono
facilmente
suscettibili
di
delimitazione,
perché
possono
comprendere
una
grande
varietà
di
elementi:
sostanze
chimiche,
radiazioni,
strumenti
chirurgici,
materiali
per
protesi,
geni,
agenti
biologici
(microrganismi),
le
condotte
comportamentali,
metodi
psicodiagnostici
e
psicoterapeutici,
lo
stesso
corpo
umano
e
le
sue
funzioni.
E’
chiaro
che
ognuno
di
questi
territori
della
ricerca
biomedica
comporta
approcci
metodologici
diversi
[3].
Le
principali
tipologie
di
ricerca
biomedica
sono
raggruppabili
dentro
le
seguenti
denominazioni:
lo
studio
di
case
series:
consiste
nello
studio
retrospettivo
di
casi
in
cui
una
procedura
(ad
es.
chirurgica)
è
stata
applicata
su
soggetti
che
presentano
una
analoga
patologia
e
richiedono
un’identica
tecnica
d’intervento,
per
considerarne
e
compararne
gli
esiti.
L’observational
study:
una
coorte
di
casi
viene
scelta
in
base
ad
analoghe
caratteristiche
e
viene
seguita
con
un
trattamento,
per
ricavarne
in
prospettiva
dei
risultati,
senza
randomizzazione.
Il
case
control
study:
si
tratta
di
studi
retrospettivi,
in
cui
due
gruppi
di
casi
sono
presi
in
considerazione
in
base
alla
presenza/assenza
di
una
caratteristica
che
si
vuol
prendere
come
oggetto
di
analisi,
per
poi
paragonare
e
controllare
i
dati
rilevati
per
l’accertamento
di
un
possibile
legame
causa-‐effetto.
E’
frequente
l’impiego
di
questo
genere
negli
studi
epidemiologici.
I
Trials
clinici
ben
noti
nella
sperimentazione
farmacologica;
in
essi
il
disegno,
o
programma
sperimentale,
può
prevedere
il
gruppo
di
controllo,
la
randomizzazione,
con
o
senza
il
“cieco”
o
“doppio
cieco”.
E’
lo
studio
più
conosciuto
in
ambito
clinico.
La
ricerca
genetica:
a
partire
dalle
scoperte
della
biologia
molecolare
la
ricerca
genetica
ha
rappresentato
una
vera
rivoluzione
nell’ambito
della
ricerca
biomedica:
la
identificazione
delle
malattie
cromosomiche
e
dei
difetti
genetici
ha
stimolato
progetti
sempre
più
vasti
per
la
mappatura,
il
sequenziamento
e
la
identificazione
dell’intero
genoma
umano.
Questo
ambito
di
ricerca,
tuttora
in
rapido
e
continuo
sviluppo,
ha
una
sua
metodica
che
può
essere
rivolta
alla
conoscenze
dei
geni,
ma
può
anche
consentire
l’intervento
sperimentale
con
intenti
terapeutici
o
anche
manipolatori.
Negli
ultimi
anni
è
iniziata
la
fase
della
ricerca
farmacogenetica
volta
a
stabilire
le
differenze
interindividuali,
di
natura
genetica,
nell’azione
dei
farmaci.
235
Una
distinzione
che
viene
correntemente
presa
in
considerazione
divide
in
due
grandi
ambiti
la
ricerca:
la
ricerca
di
basee
la
ricerca
clinica.
La
prima
si
svolge
prevelentemente
in
laboratorio
(su
molecole,
geni,
tessuti,
microrganismi)
e
l’altra
sull’individuuo
sano
o
malato.
Per
la
preparazione
del
farmaco
abbiamo
una
fase
di
ricerca
di
base
e
successivamente
una
fase
clinica
[4].
Bisogna
ricordare
che
oggi
anche
l’embrione
umano
viene
fatto
oggetto
di
ricerca
di
base
in
laboratorio,
con
conseguenze
usualmente
soppressive
e
misconoscimento
della
sua
propria
dignità.
Un’altra
distinzione,
che
è
di
ovvia
comprensione,
è
quella
che
connota
il
finanziamento:
si
parla
di
ricerca
pubblicaprogrammata
e
finanziata
dallo
Stato
attraverso
i
suoi
organi
specifici
(Ministero
o
Istituti
di
Ricerca
deputati
dallo
Stato
e
da
esso
finanziati,
come
i
National
Institutes
of
Health
(NIH)
negli
USA,
l’Istituto
Superiore
di
Sanità
in
Italia)
e
la
ricerca
privata
che
è
programmata
e
finanziata
dalla
iniziativa
e/o
dall’industria
privata,
come
avviene
nella
industria
farmaceutica
e
nelle
industrie
biotecnologiche.
Ci
sono
forme
miste
in
cui
la
iniziativa
è
privata,
ma
gode
di
finanziamento
dello
Stato
come
gli
Istituti
Universitari
o
quelli
a
carattere
scientifico
che
si
qualificano
per
determinate
ricerche
ed
ottengono
un
riconoscimento
dallo
Stato.
La
distinzione,
consona
con
un
regime
di
libertà
della
ricerca,
ha
anche
una
portata
etica
notevole
come
vedremo,
per
la
maggiore
sensibilità
per
il
profitto
economico
che
è
propria
della
ricerca
privata.
LA
POLITICA
DELLA
RICERCA
Non
è
facile
cogliere
l’esatto
significato
di
questa
espressione
anche
per
la
portata
semantica
diversa
che
si
riscontra
nelle
varie
lingue
della
parola
“politica”:
mi
pare
di
poter
constatare
che
nella
lingua
italiana
il
significato
prevalente
viene
collegato
con
l’esercizio
del
potere
pubblico,
mentre
nel
linguaggio
anglosassone
(Policy)
la
parola
ha
un
significato
più
ampio
e
designa
la
programmazione
in
senso
ampio
operata
da
una
qualsiasi
impresa
di
un
certo
respiro,
e
include
anche
l’insieme
delle
regolamentazioni
anche
esterne
alla
ricerca,
non
riguarda
cioè
soltanto
i
finanziamenti
ma
anche
le
norme
deontologiche
ed
etiche
[5].
Per
essere
più
precisi
e
riferendomi
alla
letteratura
specifica,
si
possono
identificare
i
seguenti
significati
relativi
alle
politiche
della
ricerca:
a)
Il
primo
significato,
riportato
dalla
Encyclopedia
of
Bioethics
è
così
definito:
“refers
to
policy
that
establiches
a
program
for
a
general
course
or
plan
of
action
intended
to
reach
a
desired
target
or
goal.
In
biomedical
research
the
goal
or
target
is
usually
specified
in
terms
of
a
program
relevant
to
the
diagnosis,
prevention,
treatment,
or
cure
of
a
specific
desease
or
condition”
[6].
In
questo
significato
policy
significa
programmazione
in
senso
ampio,
tale
che
può
prevedere
anche
un
insieme
di
protocolli
di
ricerca
rivolti
alla
messa
a
punto
di
una
terapia,
come
ad
es.
quella
di
preparare
un
vaccino
per
l’AIDS,
oppure
per
individuare
la
causa
di
una
infezione
il
cui
agente
sia
sconosciuto.
Tale
programmazione
più
facilmente
può
essere
impostata
e
finanziata
dall’autorità
pubblica,
ma
può
rientrare
anche
nell’interesse
della
ricerca
privata.
Nell’ottica
di
questo
significato
rientra
anche
l’impegno
di
stabilire
la
priorità
dei
programmi
e
del
modo
di
stabilire
tali
priorità
[7].
Naturalmente
stabilire
queste
priorità
rappresenta
anche
un
momento
di
eticità.
Come
anche
costitutisce
materia
di
riflessione
etica
l’assegnazionedelle
risorse
per
la
ricerca
biomedica
sia
come
percentuale
del
Prodotto
interno
lordo
(PIL)
sia
nello
stabilire
i
criteri
di
ripartizione
ai
vari
settori
della
ricerca.
Un
problema
particolare
di
carattere
etico
e
politico
è
costituito
dal
coinvolgimento
del
pubblico
nel
determinare
questa
priorità.
b)
Un
secondo
significato
“refers
to
policy
that
imposes
conditions
or
restraints
on
biomedical
research
investigators
or
their
institutions”
[8]
In
questo
senso
policy
significa
regolamentazione
o
l’insieme
delle
condizioni
prescritte
per
attuare
la
ricerca.
236
Tali
condizioni
o
restrizioni
dovranno
comportare
una
complessa
armonizzazione:
la
protezione
dei
soggetti
della
sperimentazione,
gli
obblighi
e
gli
interessi
dei
ricercatori
[9]
e
la
esclusione
dei
conflitti
di
interesse
da
parte
degli
stessi
[10],
l’uso
degli
animali,
l’inclusione
delle
donne
o
delle
minoranze
etniche;
il
perseguimento
del
bene
comune
compreso
quello
dei
soggetti
che
sono
colpiti
da
malattie
gravi
ma
rare.
In
questa
armonizzazione
è
compreso
il
contributo
della
industria
e
delle
università.
E’
in
questa
fase
applicativa
che
intervengono
molti
problemi
etici
di
grande
rilevanza,
problemi
che
sono
oggetto
dei
codici
che
guidano
la
sperimentazione.
Tra
i
compiti“politici”
dello
Stato
in
quanto
tale
(analogamente
quelli
delle
autorità
internazionali)
c’è
quello
di
stabilire
i
processi
di
approvazione
delle
ricerche
presentate
dai
ricercatori
e
ciò
sia
per
quanto
riguarda
i
farmaci
sia
per
quanto
riguarda
gli
strumenti
chirurgici
(devices)
e
inoltre
è
compito
dell’autorità
politica
formulare
le
procedure
operative
[11]
degli
organismi
di
controllo.
c)
Un
terzo
significato
più
estensivamente
“politico”
viene
sempre
più
ultimamente
preso
in
considerazione
attualmente
ed
è
quello
che
si
riferisce
alla
presa
di
coscienza
da
parte
degli
Stati
singoli
e
della
comunità
internazionale
della
rilevanza
decisiva
che
ha
la
ricerca
scientifica
in
rapporto
al
futuro
sviluppo
non
soltanto
di
una
nazione
ma
dell’umanità
nel
suo
insieme.
Si
tratta
della
messa
in
relazione
dei
termini
“Ricerca
scientifica
e
Sviluppo”
(R/D:
Research/Developement)
su
base
mondiale
su
base
mondiale.
In
questa
ottica
emergono
le
istanze
volte
ad
evitare
il
monopolio
dello
Stato
nella
ricerca
[12]
l’eccesso
della
sua
politicizzazione
che
storicamente
ha
fatto
registrare
le
aberrazioni
di
certi
regimi
e
d’altra
parte
si
delinea
sempre
di
più
un
problema
di
globalizzazione
della
ricerca
mondiale
nella
faticosa
costruzione
dello
sviluppo
giusto,
sostenibile
e
pacifico
[13]).
In
questa
ottica
esiste
anche
una
posizione
di
critica
verso
il
c.d.
“messianismo
scientifico”,
critica
fondata
sul
rischio
della
ingovernabilità
delle
applicazioni
tecnologiche.
In
questo
ambito
si
parla
della
caduta
dell’utopia
del
progresso
e
si
invoca
l’affermarsi
della
bioetica
come
appello
verso
un
governo
del
progresso
scientifico
e
tecnologico
globale
[14].
Nel
nostro
tempo
si
assiste
a
questo
sincronico
e
bilanciato
atteggiamento:
da
una
parte
la
considerazione
della
rilevanza
decisiva
del
progresso
scientifico
per
lo
sviluppo
della
società
e
della
umanità
nel
rapporto
R-‐D
(Research
and
Development);
d’altra
parte
la
riflessione
sull’ambivalenza
dello
stesso
progresso,
specialmente
quando
viene
considerato
non
più
soltanto
come
“sapere”,
ma
anche
come
“potere”.
A
questa
congiunzione
“sapere-‐potere”
si
attribuisce
la
pericolosità
della
scienza
e
della
tecnologia
e
la
possibile
deriva
dello
stesso
progresso.
E’
certo
che
la
fiducia
nella
scienza
non
è
più
oggi
quella
“illuministica”
nel
senso
dell’automatismo
ottimistico,
fondato
sul
presupposto
che
la
ragione
non
sbaglia
mai;
oggi
il
progresso
è
percepito
come
ambivalenza
e
le
popolazioni
rimangono
sempre
di
più
sensibilizzate
dall’alternanza
del
successo
e
della
paura.
Anche
per
questo
motivo
si
spiega
e
si
giustifica
l’inclusione
dell’etica
all’interno
dello
stesso
management
politico
della
ricerca.
E’
necessario
ora
passare
all’analisi
di
questi
tre
diversi
significati
della
politica
della
ricerca.
LA
POLITICA
DELLA
RICERCA
INTESA
COME
PROGRAMMAZIONE
L’esame
dei
problemi
etici
nell’ambito
delle
politiche
della
programmazione
e
della
ricerca
sono
numerosi
e
riguardano
sia
la
ricerca
di
base
sia
quella
clinica.
Tenendo
presente
il
programma
di
questa
Conferenza,
alcuni
di
questi
temi
saranno
appena
accennati,
perché
hanno
uno
sviluppo
in
altre
relazioni:
tali
ad
es.
sono
il
tema
relativo
alle
normative
internazionali
della
ricerca
sperimentale,
il
tema
del
conflitto
d’interessi
che
può
riguardare
il
ricercatore,
il
tema
della
sperimentazione
farmacologica
e
il
tema
della
237
sperimentazione
animale.
Ma
anche
così
delimitato
il
panorama
dei
temi
etici
rimane
molto
ampio
e
complesso.
Anzitutto
va
considerato
il
fatto
del
finanziamento
pubblico
della
ricerca,
e
s’impone
l’esame
delle
conseguenti
responsabilità
del
potere
politico
e
dei
suoi
rapporti
con
il
finanziamento
privato.
L’interessamento
dello
Stato
nella
ricerca,
dopo
la
pagina
“nera”
della
esperienza
nazista
durante
l’ultima
guerra,
ha
assunto
nel
mondo
democratico
una
duplice
funzione:
quella
promozionale
in
relazione
allo
sviluppo
e
alla
qualità
di
vita
e
quella
regolativa
in
rapporto
ai
diritti
del
paziente
e
in
relazione
anche
alla
libertà
della
ricerca
privata
e
universitaria
[15].
Il
modello
di
questa
gestione
(promozionale-‐regolativa;
pubblica-‐privata)
è
stato
offerto
anzitutto
dagli
Stati
Uniti
da
cui
hanno
preso
ispirazione
gli
Stati
industrializzati
anche
di
altri
continenti.
La
constatazione
del
peso
decisivo
che
aveva
avuto
la
risorsa
della
scienza
nel
determinare
le
sorti
e
la
fine
della
2ª
guerra
mondiale
aveva
convinto
l’autorità
politica
degli
USA
a
dare
incentivi
alla
ricerca
scientifica
come
fattore
di
sviluppo
sia
nel
campo
della
tecnologia
in
generale
sia
nel
campo
biotecnologico
e
biomedico.
Ancor
prima
della
esperienza
bellica
mondiale
tuttavia
il
Congresso
degli
USA,
già
nel
1887,
aveva
creato
un
organismo
per
lo
studio
del
colera
e
di
altre
malattie
infettive
(The
Staten
Island
Hygenic
Laboratory)
e
nel
1930
l’aveva
rinnovato
e
incrementato
nelle
competenze
creando
il
NIH
cui
fu
aggiunto
nel
1937
il
National
Cancer
Institute.
Questi
Istituti
venivano
provvisti
dal
Congresso
dell’autorità
di
coordinamento
della
ricerca
e
del
budget
necessario.
Dopo
la
II
guerra
mondiale
il
budget
dell’NIH
si
espande
enormemente:
dal
1946
al
1949
passa
dal
180.000
a
800
milioni
di
dollari.
Nel
1993
lo
stesso
Istituto
ha
avuto
il
budget
di
9.8
bilioni
di
dollari
e
nel
1994
11
bilioni:
nello
stesso
tempo
attorno
all’NIH
si
sono
coagulate
altre
17
istituzioni
tra
cui
la
National
Library
of
Medicine.
Il
programma
“politico”
di
ricerca
prevede
4
fasi:
a)
l’authorization
che
è
atto
del
Congresso
che
stabilisce
il
programma
e
i
limiti
degli
stanziamenti;
b)
l’appropriation:
assegnazione
della
disponibilità
annua;
c)
allocation:
la
distribuzione
per
i
singoli
programmi;
d)
obbligation:
liquidazione
dell’importo.
Nel
1985
uno
speciale
programma
prevedeva
l’arruolamento
di
6
mila
ricercatori.
Nell’assegnare
i
fondi
il
Congresso
stabilisce
talora
anche
i
limiti
etici
dell’impiego
ad
es.
nel
1993
erano
vigenti
restrizioni
sopra
l’impiego
per
ricerche
sull’aborto
o
sull’Ru486.
Ho
voluto
dilungarmi
nello
spiegare
il
funzionamento
delle
politiche
delle
ricerche
negli
USA,
perché
tale
modello
è
in
qualche
modo
ripetuto
negli
altri
Stati
(salvo
che
per
l’ammontare
delle
somme
stanziate!).
Va
aggiunto
che
nella
funzione
regolativa
le
autorità
degli
USA,
quando
pongono
restrizioni
di
natura
etica
per
l’impiego
di
fondi
pubblici,
non
impongono
tali
restrizioni
–
direttamente
almeno
–
alle
industrie
private.
Altra
differenza
sta
nel
fatto
che
molti
Stati
industriali
come
il
Canada,
il
Regno
Unito,
Germania,
Giappone
ed
altri,
designano
una
percentuale
fissa
del
budget
di
tutta
la
ricerca
destinandolo
alla
sanità
per
il
sosteno
della
ricerca
biomedica
e
si
destina
in
genere
una
cifra
(set-‐aside)
agli
Istituti
di
ricerca
medica
(MRCs)
[16].
Ciò
può
meglio
garantire
la
depoliticizzazione
della
ricerca
biomedica.
L’ammontare
dell’impegno
statale
nella
ricerca
ha
un
significato
non
soltanto
politico
ma
anche
etico,
perché
nei
confronti
degli
investimenti
privati
in
generale
l’impegno
pubblico
è
chiamato
a
porre
attenzione
alle
esigenze
sociali
e
di
bene
comune,
mentre
gli
investimenti
privati
risentono
dell’aspettativa
del
profitto
per
la
industria
stessa.
Per
avere
un’idea
di
quella
che
è
oggi
la
politica
degli
investimenti
pubblici
offro
qualche
dato
che
ho
attinto
a
diverse
fonti,
con
non
lieve
difficoltà.
Recentemente
il
CENSIS
[17]
ha
fornito
alcuni
dati
che
riguardano
la
ricerca
in
generale
e
comprendono
anche
la
ricerca
biomedica
e
farmacologica
[18]:
si
tratta
perciò
di
dati
che
possono
offrirci
un’idea
generale.
Secondo
questi
dati
nel
mondo
il
valore
medio
della
spesa
publica
per
la
Ricerca
e
lo
Sviluppo
(R-‐S)
è
del
3.5%
238
riservata
alle
biotecnologie,
in
Italia
è
dello
0.4%
,
nel
Belgio
del
13.8%
e
nel
Canada
del
10.1%.
Per
queste
ricerche
si
sono
sviluppate
alleanze
regionali
e
internazionali;
sul
totale
delle
alleanze
nel
1998
il
48.3%
erano
alleanze
a
carattere
internazionale
e
l’altra
parte
era
a
livello
intraregionali.
Di
quelle
internazionali
la
maggioranza
riguardava
le
alleanze
USA-‐Europa.
I
dati
statistici
relativi
alle
pubblicazioni
scientifiche
vedono
nella
classifica
il
primato
USA;
seguono
Giappone,
e
di
seguito
Regno
Unito,
Canada,
Germania,
Francia,
Spagna,
Olanda,
Italia.
In
generale,
come
vedremo
nell’ultima
parte
della
relazione,
l’investimento
di
stanziamenti
nei
Paesi
Sviluppati
per
la
Ricerca
collegata
allo
sviluppo
tende
al
rialzo
e
al
collegamento
mondiale.
Paesi
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
Danimarca
26
19
Germania
197
197
279
378
453
461
437
412
430
438
Grecia
10
7
7
16
16
17
21
19
20
28
Spagna
58
84
92
88
139
126
148
Irlanda
10
11
10
14
12
13
15
Italia
25
23
14
13
27
26
21
45
Regno
Unito
58
157
140
174
149
173
196
226
242
Circa
la
domanda
dei
brevetti,
i
dati
desunti
dal
Rapporto
OCSE
2001
per
il
periodo
1990-‐97
sul
totale
delle
domande
di
brevetti
depositate
presso
l’EPO
(European
Patent
Office)
mostrano
un
incremento
del
5.7%
per
l’Unione
Europea
(UE),
del
4.8%
per
gli
USA,
dell’1.1%
per
il
Giappone.
Tali
brevetti
riguardano
sia
il
settore
informatico
sia
quello
Biotecnologico:
il
tasso
di
crescita
della
prima
categoria
è
stato
dell’8%
,
nel
secondo
di
oltre
il
10%.
Nel
periodo
1990-‐97
il
maggior
tasso
di
crescita
delle
domande
di
brevetti
biotecnologici
depositate
presso
l’EPO
spetta
al
Canada
(37%)
e
Corea
(32%);
nella
fascia
intermedia
si
collocano
Gran
Bretagna
e
Danimarca
(15%)
e
Spagna
(14%)
e
Belgio
(13%),
Italia
(8%).
Un
dato
significativo
può
essere
desunto
dal
Rapporto
Mondiale
sullo
sviluppo
Umano
2002
per
quando
riguarda
la
Ricerca
collegata
allo
Sviluppo
(RD),
che
comprende
la
ricerca
biomedica,
le
biotenologie,
le
tecnologie
informatiche
e
le
nanotecnologie);
la
statistica
riguarda
tutti
i
Paesi
e
segnala
la
incidenza
del
budeget
relativo
alla
R/D
sul
PIL
di
ogni
Paese.
Si
possono
confrontare
i
dati
nel
prospetto
che
riportiamo
in
appendice,
ove
tuttavia
si
constata
che
molti
Paesi
non
hanno
inviato
i
dati.
239
Una
tendenza
che
si
registra
nei
Paesi
sviluppati
riguarda
la
crescita
dell’intervento
del
settore
privato
rispetto
all’intervento
pubblico
per
quanto
riguarda
sempre
la
ricerca
in
ambito
biotecnologico,
compreso
quello
medico.
Lo
stesso
rapporto
CENSIS
segnala
che
dal
1983
al
1985
la
quota
dei
finanziamenti
industriali
si
raddoppia
(dal
2.9
al
5.7)
mentre
la
quota
pubblica
scende
dal
94%
al
85.6%.
Attualmente
negli
USA
l’industria
privata
fornisce
il
60%
della
partecipazione
nella
ricerca
biomedica
[19].
Un
intervento
rilevante
del
finanziamento
pubblico,
come
è
stato
accennato,
è
prevedibilmente
garanzia
di
maggiore
equità
nella
distribuzione
dei
finanziamenti,
specialmente
in
quei
settori
di
ricerca
per
i
quali
l’industria
privata
non
manifesta
interessi
economici,
settori
che
comunque
sono
bisognosi
di
sostegno
sociale
(malattie
rare
e
farmaci
orfani)
[20].
Spetta
allo
Stato
il
compito
di
stabilire
le
priorità
nella
ricerca
in
base
alle
esigenze
sociali.
L’intervento
pubblico
ha
anche
grande
peso
nella
organizzazione
delle
strutture
di
ricerca,
nel
finanziamento
della
Università
e
dei
Centri
di
Ricerca
nonché
nella
preparazione
dei
ricercatori.
Nei
Paesi
in
cui
non
vi
è
una
organizzazione
di
ricerca
valida
si
determina
la
c.d.
“fuga
di
cervelli”,
il
che
segna
un
depauperamento
di
quei
Paesi
rispetto
al
fattore
umano
più
rilevante.
Sarebbe
importante,
anche
per
le
considerazioni
di
tipo
etico,
avere
dati
significativi
sulla
ricerca
nei
Paesi
in
via
di
sviluppo,
per
cui
è
programmata
un’apposita
Conferenza
a
Bruxelles.
Poco
ho
potuto
raccogliere
anche
dai
contatti
diretti
con
alcuni
nostri
membri
dell’Accademia.
Un
esempio:
il
finanziamento
statale
in
Costa
d’Avorio
per
la
ricerca
è
rivolto
prevalentemente
all’agricoltura,
per
circa
venti
laboratori
il
budget
per
la
ricerca
è
saltuario,
iregolare
e
quando
è
esistito
si
è
aggirato
intorno
ai
7
milioni
(moneta
locale)
per
anno.
Tutta
la
ricefca,
di
vario
tipo,
ottiene
dallo
0,1
allo
0.3
sul
badget
generale.
Nel
quadro
dell’ONU,
riportato
in
appendice,
alcuni
Paesi
africani
figurano
con
un
altyo
indice
di
investimento,
ma
non
ne
conosciamo
la
provenienza
(pubblica
o
privata,
estera
o
nazionale).
Gli
aspetti
eticamente
rilevanti
per
quanto
concerne
la
promozione
della
ricerca
sono
molteplici.
L’autorità
pubblica,
oltre
al
dovere
di
promuovere
la
ricerca,
ha
anche
quello
di
organizzare
il
raccordo
fra
i
vari
attori
dell’impresa
investigativa:
i
ricercatori,
le
Università
e
i
Centri
qualificati
di
ricerca
e
i
soggetti
su
cui
si
può
svolgere
la
ricerca.
Non
tutti
questi
soggetti
operano
conpari
possibilità
di
conoscenze
e
d’intervento
ed
è
compito
dello
Stato
assicurare
la
difesa
del
soggetto
debole
che
è
il
cittadino,
il
quale
è
soggetto
cooperante
con
la
ricerca,
per
garantirlo
dal
rischio
e
per
assicurargli
la
partecipazione
cosciente
mediante
il
consenso
informato
[21]
Di
solito
si
ritiene
che
gli
interessi
dei
ricercatori
coincidano
con
quelli
della
comunità
e
dello
Stato:
in
realtà
questo
non
avviene
sempre
ed
è
compito
della
stessa
autorità
pubblica
vigilare,
non
soltanto
per
reprimere
il
dolo
o
gli
abusi
nella
ricerca
[22],
ma
anche
per
impedire
l’instaurarsi
di
conflitti
d’interessi
privati
al
di
fuori
della
difesa
del
giusto
salario
e
del
riconoscimento
del
merito
intellettuale.
Sono
state
evidenziate
le
situazioni
di
conflitto
d’interesse
ad
es.
là
dove
i
ricercatori
possono
avere
quote
azionarie
nelle
industrie
che
commissionano
la
ricerca
stessa
[23].
C’è
chi
segnala
questo
conflitto
chiedendone
la
repressione
con
urgenza
per
evitare
che
i
pochi
fondi
destinati
alle
ricerche
vengano
indirizzati
più
al
profitto
dei
ricercatori
che
al
bene
delle
popolazioni
[24].
Esiste
poi
l’immenso
problema
etico,
di
cui
parleremo
nell’ultima
parte
della
relazione,
della
grande
differenza
di
possibilità
della
ricerca
-‐
quanto
ai
mezzi,
alle
strutture
e
alle
persone
–
tra
i
Paesi
sviluppati
e
quelli
invia
di
sviluppo:
è
uno
dei
più
gravi
problemi
politici
ed
etici.
Il
compito
di
assicurare
la
correttezza
dei
ricercatori
e
quello
di
armonizzazione
dei
vari
attori
nell’intento
di
conseguire
il
bene
comune
sono
compiti
di
alto
significato
sociale
ed
etico,
ma
non
rendono
il
potere
pubblico
a
sua
volta
immune
da
comportamenti
etici
non
corretti.
Tali
sono
le
autorizzazioni
date
dalla
autorità
degli
Stati
per
finanziare
ricerche
sperimentali
che
mettono
in
240
questione
la
vita
dell’essere
umano
ad
es.
nei
programmi
concernenti
la
procreazione
artificiale,
le
sperimentazioni
sugli
embrioni,
quelle
relative
alla
clonazionene
e
alla
“pillola
del
giorno
dopo”,
come
è
avvenuto
nel
Regno
Unito
da
parte
dell’Authority
preposta
a
questi
compiti
e
come
sta
avvenendo
in
altri
Stati.
Si
deve
denunciare
in
questa
ottica
la
complicità
anche
di
molti
Stati
nel
finanziamento
dei
programmi
di
Agenzie
internazionali
(Fondo
delle
Nazioni
Unite
per
la
Popolazione,
OMS
etc.)
che
hanno
sviluppato
e
sviluppano
tuttora
programmi
di
ricerca
che
comportano
la
pianificazione
famigliare
artificiale,
la
sterilizzazione,
l’aborto
chimico.
Sappiamo
come
la
ricerca
mondiale
a
partire
dal
’68
ha
dato
appoggio,
finanziamento
e
sudditanza
ad
una
vera
e
propria
“congiura”
internazionale
contro
la
vita,
mettendo
a
punto
sostanze
farmacologiche
e
tecniche
appropriate
per
tale
fine
politico.
I
lavori
del
Prof.
Schooyans
hanno
potuto
documentare
queste
complicità.
L’eco
scaturita
dalle
Conferenze
promosse
dalle
Nazioni
Unite
al
Cairo
(1994)ne
è
sufficiente
riprova
[25].
Anche
la
prassi
dell’autorità
politica
in
alcuni
Stati
consistente
nel
negare
il
finanziamento
pubblico
per
certe
ricerche
ritenute
illecite,
ma
nel
lasciare
libere
le
istituzioni
private
di
partecipare
a
tali
sperimentazioni,
è
da
ritenere
un’ambiguità
che
non
si
può
giustificare
con
il
principio
della
libertà
di
ricerca.
Questo
problema
è
vivo
attualmente
negli
USA
a
proposito
dell’impiego
delle
cellule
staminali
di
origine
embrionale
[26]
e
si
sta
ponendo
anche
in
ordine
al
finanziamento
dei
programmi
della
ricerca
all’interno
dei
programmi
dell’Unione
Europea.
LA
POLITICA
DELLA
RICERCA
INTESA
COME
REGOLAMENTAZIONE:
CODICI
ETICI
E
PERCORSI
ORIENTATIVI
Come
abbiamo
ricordato
all’inizio
d
questa
relazione
dando
la
definizione
di
“Politica
della
ricerca”,
rientra
in
questo
ambito
e
sotto
questa
denominazione
anche
il
compito
proprio
delle
istituzioni
di
delineare
la
regolamentazione
dal
punto
di
vista
etico
della
ricerca
biomedica.
La
politica
regolativa
della
ricerca
sull’uomo
–
e
anche
sull’animale
–
ha
attinto
a
diverse
sorgenti
e
da
fonti
convergenti:
quella
degli
USA
si
concretizzò
nelBelmont
Report,
quella
europeaprese
il
via
dal
Codice
di
Norimberga
e
quella
internazionale
si
espresse
nel
Codice
di
Helsinki
emanato
dall’Associazione
Medica
Mondiale
e
in
seguito
si
è
espressa
nelle
Convenzioni
ispirate
ai
Diritti
dell’uomo
come
la
Convenzione
Europea
sui
Diritti
dell’uomo
e
la
Biomedicina
del
1996
e
con
la
Dichiarazione
dell’UNESCO
sul
Genoma
umano
e
i
Diritti
dell’Uomo
(1997).
Altre
relazioni
toccheranno
il
tema
delle
normative,
ma
mi
sembra
utile
accennare
alle
principali
tappe
di
questa
politica
regolamentativa
anche
per
rilevarne
i
principii
etici
ispiratori
ed
anche
quelle
che
si
sembrano,
tuttora,
le
insuficienze
e
le
contraddizioni
dei
codici
e
delle
legislazioni
vigenti.
A
imporre
la
regolamentazione
della
ricerca
in
diverse
parti
del
mondo
primariamente
sono
state
le
notizie
relative
alle
ricerche
condotte
durante
la
2ª
guerra
mondiale
dai
Nazisti
nei
campi
di
concentramento
su
Ebrei,
Russi,
prigionieri
politici,
omosessuali
etc.,
per
una
vasta
gamma
di
indagini
abusive:
tecniche
di
sterilizzazione,
metodi
di
sterminio
di
massa,
esperimenti
di
ipotermia
condotte
a
Dacau
(il
25%
di
soggeti
morirono)
[27].
Ma
non
sono
state
soltanto
le
pratiche
sperimentali
naziste
a
sollecitare
la
necessità
delle
norme
etiche.
Il
più
noto
esperimento
illecito,
condotto
negli
USA,
è
stato
il
The
Tuokegee
syphilis
experiment
su
un
progetto
preparato
dal
Public
Health
Service:
furono
sottoposti
a
sperimentazione
cittadini
USA
di
colore,
e
di
essi
il
20%
morirono
a
seguito
di
trattamenti
invasivi
continuati;
anche
quando
la
penicillina
era
ormai
disponibile
la
sperimentazione
continuò
[28].
241
Un
ufficio
apposito,
l’Office
for
Research
Integrity
(ORI)
in
un
rapporto
del
1993
in
Canada
rilevò
che
un
chirurgo,
in
una
ricerca
sul
cancro
della
mammella,
falsificò
i
dati
di
99
donne
sulle
1511
sottoposte
a
sperimentazione;
tale
falsificazione
rimase
nascosta
e
il
ricercatore,
il
dott.
Roger
Poisson,
aveva
utilizzato
un
milione
di
dollari
[29].
Si
potrebbero
aggiungere
altri
esempi
di
sperimentazioni
condotte
negli
Stati
Uniti
su
anziani
e
su
bambini
senza
consenso
e
con
conseguenze
di
danni
infettivi.
Nel
1947
è
stato
pubblicato
il
Codice
di
Norimberga
con
i
suoi
10
principi
tra
i
quali
il
divieto
di
condurre
esperimenti
senza
il
consenso
del
soggetto.
Lo
stesso
principio
del
consenso
sugli
interventi
ed
i
trattamenti
fisici
sull’individuo
è
compreso
anche
nella
Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
dell’Uomo.
Il
più
famoso
ed
ancor
attuale
Codice
deontologico
è
la
Dichiarazione
di
Helsinki
del
1964
rivisto
più
volte
in
relazione
alle
questioni
nuove
che
si
ponevano:
in
questo
Codice,
oltre
alla
richiesta
del
consenso,
emerge
il
principio
di
evitare
il
danno
al
paziente.
Il
documento
è
emanatodall’Associazione
Medica
Mondiale
e
tuttora
viene
preso
come
base
per
i
trials
clinici.
Altro
importante
documento
internazionale
che
riguarda
la
sperimentazione
è
l’International
Ethical
Guidelines
for
Biomedical
Research
involving
Human
Subjects
pubblicato
dal
Consiglio
delle
Organizzazioni
Internazionali
delle
Scienze
Mediche
(CIOMS)
del
1993.
La
stessa
organizzazione
aveva
pubblicato
sulle
sperimentazioni
in
ambito
epidemiologico
il
documento
intitolato
International
Guidelinesfor
Ethical
Rewiev
of
Epidemiological
Studies
(1999).
In
ambito
regionale
europeo
bisogna
ricordare
le
Good
Clinical
Practices
[30]
che
sono
state
recepite
dagli
Stati
membri
dell’Unione
Europea.
Norme
che
riguardano
la
sperimentazione
sono
contenute,
come
abbiamo
accennato,
nellaConvenzione
Europea
dei
diritti
dell’uomo
e
la
biomedicina[31],
e
per
quanto
riguarda
la
sperimentazione
in
ambito
genetico
si
deve
tener
presente
la
Dichiarazione
Universale
sul
Genoma
Umano
dell’UNESCO
[32].
Sul
piano
nazionale
si
può
dire
che
molte
autorità
ministeriali,
Ordini
dei
Medici
e
Associazioni
specialistiche
hanno
prodotto
i
loro
documenti
normativi
(Codici
Deontologici
Nazionali).
Rimane
storicamente
rilevante
il
Belmont
Reportnegli
USA
pubblicato
nel
1974
ad
opera
della
National
Commission
costituita
proprio
in
reazione
alla
rivelazione
delle
sperimentazioni
selvagge:
in
questo
documento
vengono
sottolineati
i
principi
del
rispetto
per
le
persone,
il
principio
della
beneficienza-‐non
maleficenza
e
di
giustizia.
Negli
USA
nel
1980
fu
anche
costituita
la
President’s
Commission
for
the
Study
of
Ethical
Problems
in
Biomedical
and
Behavioral
Research
che
pubblicò
un
insieme
di
documenti
orientativi
nei
campi
più
avanzati
della
ricerca
biomedica:
ingegneria
genetica,
procreazione
artificiale,
trapianti
di
organi.
Tale
commissione
può
essere
considerata
come
il
primo
Comitato
Etico
Nazionale;
seguirà
l’iniziativa
del
Presidente
Mitterand
in
Francia
nel
1984
con
la
costituzione
del
Comité
National
Consultatif
d’Ethique.
Questi
esempi
saranno
poi
seguiti
in
tutti
i
Paesi
(in
Italia
nel
1990).
I
Comitati
Etici
Nazionali
emettono
pareri
non
soltanto
sul
terreno
assistenziale
ma
prima
di
tutto
nei
campi
della
innovazione
e
della
ricerca.
I
comitati
nazionali
trovano
ora
una
proposta
di
coordinamento
da
parte
dell’UNESCO.
La
istituzione
dei
comitati
etici,
nazionali,
internazionali
(Consiglio
d’Europa,
Unesco),
istituzionali
e
locali
rappresenta
in
efffetti
l’altro
presidio
per
la
tutela
dei
soggetti
e
dell’etica
della
ricerca.
La
Chiesa
dal
canto
suo
ha
promosso
attivamente
con
il
suo
Magistero
istanze
etiche
che
spesso
sono
entrate
a
far
parte
dell’etica
medica
e
degli
stessi
codici
deontologici
[33].
La
presenza
dei
centri
di
etica
applicata
è
accompagnata
dallo
sviluppo
della
Bioetica
come
disciplina
d’insegnamento
e
di
giustificazione
delle
norme
e
dei
principi
etici.
Istituti,
Centri
di
Bioetica,
pubblicazioni
e
dibattiti
continuano
a
sottolineare
nuovi
principi
e
a
indicare
nuove
dimensioni
dei
problemi
etici.
Negli
USA
anche
dopo
la
pubblicazione
del
Belmont
Report,
si
continuò
ad
evidenziare
altri
principi
a
garanzia
della
politica
della
ricerca:
fra
questi
ovviamente
l’esigenza
che
è
intrinseca
alla
ricerca
sperimentale,
e
cioè
la
validità
scientifica
che
viene
242
identificata
come
un
“prerequisito”
e
fa
appello
soprattutto
alla
metodologia.
Insieme
alla
validità
si
sottolinea
il
valore
che
la
ricerca
deve
rappresentare
in
ordine
alla
scienza,
la
medicina
e
la
società
[34]:
ci
può
essere
una
ricerca
metodologicamente
corretta
ma
di
scarso
valore;
chi
fa
parte
anche
oggi
dei
comitati
etici
per
la
sperimentazione
dei
farmaci
sa
che
molti
trials
hanno
scarso
peso
innovativo
e
spesso
si
poggiano
su
piccole
varianti
di
farmaci
già
in
commercio
con
il
solo
risultato
di
assorbire
le
risorse
messe
a
disposizione
dallo
Stato.
Valore
e
validità
sono
rilevanti
anche
per
giustificare
la
proporzionalità
del
rischio
che
si
può
chiedere
al
soggetto
sano.
Nella
letteratura
etica
si
insiste
anche
sull’accuratezza
ed
onestà
nel
rispettare
i
risultati,
le
procedure
e
i
metodi
usati
nel
momento
della
pubblicazione
della
ricerca
stessa.[35]
Un
ulteriore
elemento
che
è
stato
portato
ultimamente
all’attenzione
è
costituito
dal
c.d.
respect
of
communities
che
consiste
nel
prendere
in
considerazione
i
valori,
le
credenze
e
le
strutture
politiche
delle
comunità
isolate
e
primitive,
quando
vi
si
volesse
condurre
una
sperimentazione[36].
In
questi
casi
si
richiede
di
acquisire
previamente
un’accurata
informazione
sugli
usi
e
costumi
e
tradizioni
della
comunità;
di
conseguenza
si
propone
che,
prima
di
avvicinare
i
singoli
individui
di
queste
popolazioni
per
ricevere
il
consenso
alla
sperimentazione,
sia
chiesto
il
consenso
della
autorità
legittima
della
comunità
(il
cui
assenso
non
deve
tuttavia
sostituire
quello
del
soggetto
singolo);
in
terzo
luogo
si
dovrebbe
garantire
che
il
progetto
abbia
a
rispondere
dalle
necessità
del
luogo,
o
comunque,comporti
appropriati
vantaggi
alla
comunità,
rimanendo
ovviamente
prescritto,
come
per
tutti
i
soggetti,
l’obbligo
di
evitare
danni
e
rischi;
infine
si
suggerisce
che
la
popolazione
locale,
mediante
suoi
rappresentanti
possa
partecipare
alla
discussione
del
disegno,
alla
conduzione
della
sperimentazione
e
all’analisi
e
pubblicazione
dei
risultati.
Nuove
esigenze
emergono
sempre
più
evidenti
nella
ricerca
di
tipo
genetico
e
sul
piano
internazionale
vengono
evidenziate
da
Documenti
che
hanno
attinenza
con
i
Diritti
dell’uomo
[37];
riguardano
la
segretezza
dei
dati,
la
eventuale
comunicazione
ai
membri
della
famiglia
che
potrebbero
avere
gli
stessi
rischi,
nonché
i
divieti
di
discriminazione
che
possono
emergere
da
screening
sui
lavoratori,
sulle
famiglie
e
sui
cittadini.
Vedremo
poi
anche
i
limiti
che
presentano
queste
norme
etiche
codificate
per
questi
speciali
temi.
Argomenti
che
vengono
portati
all’attenzione
delle
politiche
di
ricerca
riguardano
anche
la
inclusione
nelle
sperimentazioni
di
popolazioni
o
gruppi
di
individui
che
non
godono
dei
diritti
umani
e
di
sufficienti
condizioni
di
libertà:
queste
ricerche
spesso
vengono
a
ricevere
l’approvazione
da
autorità
che
non
rispettano
i
diritti
umani
così
che
le
ricerche
potrebbero
svolgersi
su
popolazioni
vulnerabili
come,
ad
esempio,
i
rifugiati
privi
di
protezione.
In
questi
casi,
prima
di
procedere
alla
sperimentazione,
si
suggerisce
di
acquisire
una
conoscenza
esatta
sulle
condizioni
politiche
e
umanitarie
relativamente
all’osservanza
dei
diritti
umani,
per
esaminare
a
quali
codizioni
possa
essere
condotta
una
eventuale
sperimentazione.
Tra
le
condizioni
si
suggerisce
la
istituzione
di
un
Indipendent
Istitutional
Review
Board,
si
indicano
i
casi
in
cui
la
considerazione
delle
condizioni
politiche
possano
avere
rilevanza
nella
determinazione
del
rischio
o
nella
compromissione
con
attività
criminose
o
quanto
alla
obiettività
della
ricerca
o
alle
conseguenze
negative
per
i
soggetti
intervistati:
vengono
citati
i
casi
delle
ricerche
sugli
effetti
della
tortura,
sulle
conseguenze
psicologiche
nei
bambini
inseriti
in
attività
illegali.
Queste
condizioni
sono
state
rilevate
in
Nord
Corea
e
in
Cina
[38].
La
discussione
è
anche
divenuta
rilevante
sulla
esclusione
delle
donne
nella
ricerca
scientifica.
La
politica
dell’NIH
e
nel
resto
dei
Paesi
sviluppati
è
di
includere
le
donne
nei
programmi
di
ricerca:
la
esclusione
non
sembrerebbe
giustificata
da
ragioni
scientifiche,
perché
con
la
esclusione
potrebbero
venire
a
mancare
dati
importanti
per
la
ricerca
[39].
Ovviamente
rimane
l’obbligo
della
esclusione
delle
donne
nel
caso
di
gravidanza
per
il
rischio
sul
feto
od
anche
delle
donne
in
243
età
fertile
per
il
fatto
che
si
può
verificare
la
gravidanza
durante
la
sperimentazione.
Per
questa
ultima
evenienza
i
protocolli
spesso,
allo
scopo
di
poter
mantenere
la
donna
nel
trial,
chiedono
che
si
impieghi
il“contraccettivo
efficace”.
In
proposito
la
posizione
cattolica
si
oppone
a
questa
clausola
obbligante
e
chiede
che
sia
sostituita
nei
programmi
di
sperimentazione
con
una
formula
che
non
imponga
la
contraccezione,
ma,
fermo
restando
l’obbligo
ad
evitare
il
concepimento,
lasci
aperta
la
possibilità
di
accesso
a
metodi
che
prevedono
l’astinenza
o
a
metodi
naturali
[40].
L’uso
dell’animale
viene
generalmente
consentito
dalle
pratiche
regolamentative
della
sperimentazione
nonostante
l’opposizione
sempre
più
forte
dei
gruppi
animalisti
estremi.
Non
si
potrebe
sperare
in
molti
casi
il
progresso
della
medicina
e
della
chirurgia
senza
la
sperimentazione
sull’animale.Basta
pensare
ai
progressi
della
chirurgia
dei
trapianti
[41].
Il
tema
coinvolge
la
posizione
dell’uomo
nell’universo
dei
viventi
e
la
inconciliabilità
della
posizione
antropocentrica,
anche
nella
sua
versione
moderata
e
cristiana
con
le
teorie
biologiste
che
negano
la
differenza
ontologica
e
assiologica
tra
l’uomo
e
l’animale
o
difendono
i
paritari
diritti
tra
animali
e
uomini
[42].
Ovviamente
le
norme
che
regolano
la
sperimentazione
sull’animale
prevedono
che
si
evitino
sofferenze
non
necessarie
(l’anestesia)
ed
altre
regole
che
si
riferiscono
alla
custodia
dell’animale
da
esperimento.
Accanto
alle
politiche
di
regolamentazione
espresse
nei
codici
e
nei
comitati,
la
letterautra
registra
anche
lo
sforzo
compiuto
per
inculcare
un
ideale
del
ricercatore
e
configurare
una
sorta
di
“summa”
delle
sue
attitudini
e
qualità
essenziali,
quello
che
A.Bompiani
chiama
l’ethos
del
ricercatore[43].
E’
stato
soprattutto
il
Marton
a
proporre
un
paradigma
ideale
del
ricercatore
[44].
Questo
autore
elenca
alcune
qualità
proprie
del
ricercatore
o
dei
ricercatori
per
garantirne
più
che
altro
la
validità
della
loro
ricerca:
il
Comunismo
(mettere
insieme
i
risultati),
l’Universalismo
(nel
valutare
i
risultati
raggiunti),
il
Disinteresse
(per
quanto
riguarda
le
motivazioni
non
cognitive),
l’Organized
Scepticism
(scietticismo
organizzato
come
metodo);
tali
qualità
vengono
riassunte
nell’anagramma
CUDOS,
che
per
alcuni
doveva
comprendere
anche
l’Originalità
–
con
la
sostituzione
di
organized
scepticism
con
originality–
ed
altri
aggiunsero
ancora,
l’Umiltà
e
il
Riconoscimento
(dei
meriti
altrui)
arrivando
all’acronomo
arricchito
CUDOSUR.
D’altra
parte,
come
nota
sempre
Bompiani,
queste
doti
di
etica
“estrinseca”
vengono
influenzate
sempre
più
da
vicino
dalle
esigenze
della
ricerca
di
base
e
dall’intervento
dell’industria
privata
per
cui
al
CUDOSUR
si
sostituisce
spesso
un
altro
acronimo
il
PLACE
e
cioè
la
ricerca
diventa
anche
Privata
(riservata),
Locale
(circoscritta),
Autorevole
(sostenuta
dall’autorità
del
ricercatore),
Commissionata
ed
Esperta
(affidata
a
gruppi
riconosciuti
come
tali)
[45].
Alle
insufficienze
evidenti
e
alle
altrettanti
evidenti
genericità
di
questi
requisiti
altri
autori
hanno
aggiunto
ulteriori
formulazioni
come
il
Cannavò
[46]
che
ha
proposto
un
ulteriore
acronimo
SHIPS
(le
navi)
ad
indicare
nuove
istanze
di
ricerca
riferite
alla
necessità
che
la
ricerca
sia
Strategica,
Innovativa,
Pubblica,
Scettica.
Da
quanto
abbiamo
scorso
sotto
questo
profilo
si
vede
che
anche
questo
tipo
di
riflessione
sulle
qualità
del
ricercatore
o
dell’impresa
investigativa,
pur
raccogliendo
utili
connotazioni
di
tipo
descrittivo,
non
può
fondare
un’etica
della
ricerca,
mancando
alla
base
una
valida
epistemologia
ed
una
compiuta
antropologia.
LIMITI
ETICI
DEI
CODICI
REGOLATIVI
IN
ORDINE
ALL’ETICA
Tenedo
presenti
le
istanze
poste
dalla
filosofia
della
scienza
[47]
ed
anche
quelle
del
Magistero
della
Chiesa,
pur
riconoscendo
lo
sforzo
e
i
positivi
risultati
raggiunti
nella
elaborazione
dei
codici
deontologici,
nella
definizione
dei
compiti
dei
comitati
etici
e
nella
elaborazione
del
profilo
ideale
del
ricercatore,
si
impone
tuttavia,
a
nostro
avviso,
la
esigenza
di
una
riflessione
244
epistemologica
più
compiuta
sui
rapporti
fra
scienza
sperimentale
ed
etica
e
nello
stesso
tempo
si
richiede
un
riferimento
più
esplicito
ad
una
antropologia
che
dia
sostanziale
significato
al
frequente
richiamo
alla
“dignità
della
persona”.
Per
quanto
riguarda
il
rapporto
fra
la
ricerca
sperimentale
in
campo
biomedico
e
l’etica,
bisogna
tenere
presente
che,
il
metodo
sperimentale
è,
per
la
sua
struttura
stessa,
di
carattere
“riduzionistico”:
questo
significa
che
ciò
cheè
sperimentalmente
valutabile
è
il
dato
biologico
o
biochimico
o
fisico
concernente
determinati
processi
iscritti
nella
corporeità,
e
ciò
ovviamente
nell’ordine
del
quantificabile:
l’esperimento
non
può
dire
nulla
circa
la
natura
ontologica
del
soggetto
e
il
valore
etico
di
un
intervento
biomedico.
La
verità
di
fonte
scientifica
sperimentale
dovrà
essere
perciòintegrata
in
duplice
senso:
anzitutto
con
altre
verità
di
ordine
fisico,
biologico,
rimanendo
sempre
nell’ordine
della
scienza,
in
un
processo
di
integrazione
circolare,
ma,
soprattutto,
dovrà
essere
riferita
alla
verità
ontologica
globale(quando
si
tratta
dell’uomo
dovrà
fare
appello
alla
antropologia)
perché
si
possa
valutare
di
conseguenza
la
dimensione
etica
degli
interventi.
E’
il
procedimento
che
si
può
definire
di
integrazione
triangolare[48]
Non
è
possibile
da
un
punto
di
vista
epistemologico
passare
direttamente
dalla
osservazione
empirica,
o
scientifico-‐sperimentale,
alle
conclusioni
etiche,
tenendo
in
conto
in
questo
senso
la
nota
legge
di
Hume,
secondo
la
quale
dai
fatti
non
si
può
inferire
il
discorso
sui
valori[49].
Lo
sottolineano
anche
gli
epistemologi
moderni.
Mi
piace
ricordare
uno
per
tutti
D.Antiseri
che
afferma:
“La
scienza
non
produce
(logicamente)
etica.
Dalle
proposizioni
descrittive
non
è
possibile
dedurre
asserti
prescrittivi.
La
grande
divisione
fra
fatti
e
valori
–
la
così
detta
legge
di
Hume
–
ci
dice
che
dall’
“è”
non
deriva
il
“deve”,
dall’essere
non
si
deriva
il
“dover
essere”.
Tutto
il
valore,
tutto
il
sapere
sientifico
non
può
produrre
valori
né
può
smentirli
[50].
Il
voler
sostenere
che
dalla
scienza
si
possa
avere
l’etica
comporterebbe
tutt’al
più
la
riduzione
dell’etica
al
semplice
dovere
di
“conoscere
sempre
più”
o
ad
una
“funzione
di
etica
intrinseca”
che
si
concretizzerebbe
soltanto
negli
obblighi
di
scrupolosità,
altruismo,
comunicazione
veritiera,
il
che
non
rappresenta
tutta
l’etica
implicata
nella
ricerca
scientifica,
perché
si
può
sempre
condurre
un’indagine
scrupolosa,
ma
non
eticamente
corretta.
Se,
per
esempio,
si
vuole
indagare
circa
l’eticità
della
fecondazione
in
vitro
applicata
all’uomo
si
dovrà
anzitutto
esporre
in
che
cosa
consista,
in
che
differisce
da
quella
naturale,
quali
siano
gli
effetti
che
ne
derivano
(angolo
A
del
triangolo),
ma
sarà
necessario
poi
domandarsi
quale
significato
tale
tecnologia
procreativa
comporti
per
la
dignità
dell’uomo,
cioè
per
la
vita
e
la
dignità
dell’embrione,
per
la
dignità
dei
genitori
e
dello
stesso
atto
procreativo
(angolo
B
del
triangolo,
il
vertice)
e
soltanto
a
questo
momento
si
potranno
avere
i
dati
validi
per
porre
il
problema
etico
e
si
potrà
porre
il
discorso
dei
valori
compromessi
o
compatibili
(angolo
C).
Per
altro
sappiamo
che
la
conoscenza
della
realtà
non
può
essere
intesa
come
omologa
ma
come
analogica:
un
conto
è
la
conoscenza
propria
delle
scienze
sperimentali;
un
conto
è
la
conoscenza
propria
delle
scienze
c.d.
umane,
(come
la
filosofia
e
la
metafisica
che
riguarda
la
struttura
ontologica
dell’essere
e
può
essere
raggiunta
soltanto
dalla
riflessione
filosifica),
un
conto
è
la
conoscenza
etica
che
riguarda
la
rispondenza
dei
comportamenti
con
il
bene
dell’uomo.
Se
poi,
come
è
proprio
delle
fede
cristiana,
vogliamo
attingere
alla
luce
della
Rivelazione,
da
questa
sorgente
si
riverbera
tutta
una
nuova
dimensione
conoscitiva
sulla
realtà
indagata
dalla
ragione
naturale
sia
essa
scientifica
sia
filosofica
sia
etica,
perché
la
realtà
umana
(la
sua
dignità)
viene
collegata
con
la
dignità
stessa
del
Creatore
e
con
l’opera
della
salvezza
soprannatuale.
La
insufficienza
della
visione
scientista
e
l’esigenza
dell’apporto
della
ragione
nonché
della
visione
di
fede
sono
illustrate
chiaramente
dalla
Enciclica
“Fides
et
Ratio”.
Parlando
del
“pericolo
dello
scientismo”
Giovanni
Paolo
II
afferma
nella
Enciclica
“Fides
et
Ratio”:
“Questa
concezione
filosofica
si
rifiuta
di
ammettere
come
valide
forme
di
conoscenza
diverse
da
quelle
che
sono
proprie
delle
scienze
positive,
relegando
nei
confini
della
mera
immaginazione
245
sia
la
conoscenza
religiosa
e
teologica
sia
il
sapere
etico
ed
estetico”
[51]
...
E
continua
a
propostito
della
cosiderazione
dei
valori
etici
che
è
propria
dello
scientismo:
“In
questa
prospettiva,
i
valori
sono
relegati
a
semplici
prodotti
dell’emotività
e
la
nozione
di
essere
è
accantonata
per
fare
spazio
alla
pura
e
semplice
fattualità.
La
scienza
quindi
si
prepara
a
dominare
tutti
gli
aspetti
dell’esistenza
umana
attraverso
il
progresso
tecnologico.
Gli
innegabili
successi
della
ricerca
scientifica
e
della
tecnologia
contemporanea
hanno
contribuito
a
diffondere
la
mentalità
scientista,
che
sembra
non
aver
più
confini,
visto
come
è
presentata
nelle
diverse
culture
e
quali
cambiamenti
radicali
vi
ha
apportato”
[52].
Abbiamo
seguito
con
attenzione
la
costruzione
dei
codici
deontologici
ed
etici
relativi
alla
ricerca,
ma
non
possiamo
negare
che
in
alcuni
punti,
non
secondari
per
la
dignitàe
la
vita
dell’essere
umano
il
pensiero
scientista
ha
sopraffatto
ed
emarginato
la
considerazione
del
valore
antropologico
ed
etico.
Si
pensi
al
fatto
che
il
Consiglio
d’Europa
nella
“Convenzione
sui
diritti
dell’uomo
e
la
biomedicina”
nell’articolo
18
proibisce
nel
pararafo
“a”
la
produzione
degli
embrioni
con
il
fine
unico
della
sperimentazione,
ma
nel
punto
“b”
tollera
che
alcuni
Stati
che
hanno
già
consentito
tale
sperimentazione
possano
mantenerla
pur
sotto
la
inefficace
e
parvente
“protezione”
dell’embrione
da
parte
della
legge
stessa.
Icodici
deontologici
non
hanno
impedito
nè
bandito
la
sperimentazione
per
la
preparazione
dei
contragestativi
(come
la
RU
486)
e
degli
intercettivi
(o
pillola
del
giorno
dopo)
né
la
messa
al
bando
di
tecniche
abortive
meccaniche
o
dei
dispositivi
intrauterini.
Sappiamo
inoltre
che
la
stessa
“Dichiarazione
dell’UNESCO
sul
Genoma
Umano
e
i
Diritti
dell’uomo”
non
chiarisce
se
i
divieti
di
alterazione
del
genoma
o
di
discriminazione
degli
individui
in
base
alle
caratteristiche
genetiche
valgano
anche
per
l’embrione
o
soltanto
per
il
soggetto
già
nato:
manca
al
fondo
una
antropologia.
Seguendo
il
prevalente
influsso
dello
scientismo
risulta
che
“accanonata
...
la
critica
proveniente
dalla
valutazione
etica,
la
mentalità
scientista
è
riuscita
a
far
accettare
da
molti
l’ideasecondo
cui
ciò
che
è
tecnicamente
fattibile
diventa
per
ciò
stesso
anche
moralmente
ammissibile”[53].
Non
è
infrequente
riscontrare
nelle
soluzioni
etiche
che
si
adottano
in
tema
di
bioetica
una
visione
pragmatica
che
diventa
il
principale
criterio
orientativo.
Il
pragmatismo,
come
ancora
ricorda
la
“Fides
et
Ratio”,
è
“l’atteggiamento
proprio
di
chi,
nel
fare
le
sue
scelte,
esclude
il
ricorso
a
riflessioni
teoretiche
o
a
valutazioni
fondate
su
principi
etici”
La
ricaduta
di
questo
riduzionismo
scientista
e
del
pragmatismo
è
che
“è
la
stessa
antropologia
ad
essere
fortemente
condizionata,
mediante
la
proposta
di
una
visione
unidimensionale
dell’essere
umano,
della
quale
esulano
i
grandi
dilemmi
etici,
le
analisi
esistenziali
sul
senso
della
sofferenza
e
del
sacrificio,
della
vita
e
della
morte”[54].
Anche
quando
si
parla
di
antropologia
medica
o
di
scienze
antropologiche
si
rimane
nell’orizzonte
descritivo
e
“una
più
generale
concezione
sembra
oggi
costituire
l’orizzonte
comune
a
molte
filosofie
che
hanno
preso
congedo
dal
senso
dell’essere”
e
Giovanni
Paolo
II
aggiunge
per
precisione:
“Intendo
riferirmi
alla
lettura
nihilista
che
è
insieme
rifiuto
di
ogni
fondamento
e
la
negazione
di
ogni
verità
oggettiva”[55].
Senza
ripetere
considerazioni
presenti
in
altri
interventi,
non
si
può
non
constatare
che
tutto
il
processo
che
concerne
il
declassamento
dell’embrione
umano,
per
cui
si
sta
legalizzando
la
sua
soppressione
e
la
sperimentazione
distruttiva,
nonché
la
ricerca
sulle
cellule
staminali
embrionali
umane
e
la
clonazione
c.d.
“terapeutica”,
denunciano
la
carenza
di
una
antropologia
sottostante
e
in
particolare
la
carenza
della
ontologia
nell’ambito
della
concezione
della
persona
umana.
Perciò,
una
vera
politica
regolativa
della
ricerca
sull’uomo
non
può
essere
mantenuta
all’interno
del
rispetto
della
“dignità
umana”,
se
non
si
dà
un’impostazione
valida
al
discorso
epistemologico
e
alla
antropologia
filosofica
di
riferimento.
E’
questo
il
compito
della
Bioetica
quando
questa
disciplina
voglia
prendere
a
cuore
l’uomo
nella
sua
verità
e
voglia
compiere
un
percorso
conciliabile
–
quanto
meno
–
con
la
teologia
e
la
morale
della
Chiesa:
chiarire
fino
in
fondo
il
246
problema
dell’incontro
fra
sapere
scientifico
sperimentale
e
sapere
filosofico
ed
etico
e
restituire
la
pienezza
della
dignità
all’uomo
dal
concepimento
alla
morte.
Giovanni
Paolo
II
nel
Discorso
tenuto
in
occasione
della
Sessione
Plenaria
della
Pontificia
Accademia
delle
Scienze
(13
nov.
2000)
ha
approfondito
quello
che
egli
chiama
il
“triplice
significato”
della
“dimesione
umanistica
della
scienza”.
Egli
scrive:
“quando
si
parla
della
dimensione
umanistica
della
scienza,
il
pensiero
corre
per
lo
più
alla
responsabilità
etica
della
ricerca
scientifica
a
motivo
dei
riflessi
che
ne
derivano
per
lo
più
per
l’uomo.
Il
problema
è
reale
ed
ha
suscitato
una
preoccupazione
costante,
specie
nella
2^
parte
del
XX
sec.
Ma
è
chiaro
che
sarebbe
riduttivo
limitare
la
riflessione
sulla
dimensione
umanistica
della
scienza
ad
un
semplice
richiamo
a
questa
preoccupazione.
Ciò
potrebbe
persino
condurre
qualcuno
a
temere
che
si
prospetti
una
sorta
di
controllo
umanistico
sulla
scienza
quasi
che,
sul
presupposto
di
una
tensione
umanistica
fra
questi
due
ambiti
del
sapere
fosse
compito
delle
discipline
umanistiche
dirigere
e
orientare
in
modo
estrinseco
le
aspirazioni
e
i
risultati
delle
scienze
naturali,
protese
verso
la
progettazione
di
sempre
nuove
ricerche
e
verso
l’allargamento
di
sempre
nuovi
orizzonti
applicativi”[56].
Il
Pontefice
aggiunge
che
“da
un
punto
di
vista
dell’osservatore
il
discorso
della
dimensione
antropologica
della
scienza
evoca
soprattutto
una
precisa
problematica
epistemologica:
si
vuole
sottolineare
cioè
che
l’osservatore
è
sempre
parte
in
causa
nell’osservazione
dell’oggetto
osservato”.
Il
punto
di
vista
dell’osservatore
e
“la
particolare
prospettiva
filosofica
dello
scienziato
può
influire
in
modo
significativo
sulla
descrizione
del
cosmo”[
57].
Per
quanto
riguarda
questo
terzo
significato
di
questa
espressione
il
Pontefice
afferma:
“Infine
si
parla
di
umanesimo
della
scienza
o
umanesimo
scientifico
per
sottolineare
l’importanza
di
una
cultura
integrata
e
completa,
capace
di
superare
la
frattura
fra
le
discipline
umanistiche
e
le
discipline
scientifico-‐sperimentali.
Se
tale
separazione
è
importante
nel
momento
analitico
e
metodologico
di
una
qualsiasi
ricerca
essa
è
assai
meno
giustificata
e
non
priva
di
pericoli
nel
momento
sintetico,
quando
lo
scienziato
si
interroga
sulle
motivazioni
più
profonde
del
suo
fare
scienza
e
delle
ricadute
umane
delle
nuove
conoscenze
acquisite”
[58]
La
libertà
e
l’autonomia
dello
scienziato
non
sono
minacciate
dalla
visione
antropologica
per
il
fatto
che
la
scelta
è
illuminata
dai
valori,
perché
i
valori
non
sono
estranei
alla
libertà:
è
tutto
l’uomo
che
si
deve
far
carico
del
suo
simile
ed
opera
scegliendo
il
meglio
che
ha
a
disposizione
in
vista
del
bene
del
suo
simile.
In
questa
ottica
si
può
parlare
di
autonomia
e
responsabilità
dello
scienziato.
Come
ho
ricordato
in
una
precedente
pubblicazione
condividendo
in
buona
parte
il
pensiero
di
Agazzi
e
di
Pellegrino[59],
esistono
tre
livelli
e
modalità
in
cui
si
può
parlare
di
autonomia
della
scienza
e
dello
scienziato:
a)Il
primo
livello
consiste
nel
fatto
che
ogni
scienza
ha
un
suo
ambito
o
campo
specifico
di
riflessione,
ha
inoltre
una
sua
metodologia
di
ricerca
e
infine
ha
dei
propri
criteri
di
validazione.
Un
criterio
valido
dal
punto
di
vista
economico
potrebbe
non
essere
altrettanto
valido
politicamente
o
moralmente
parlando.
Interrompere
le
terapie
ad
un
paziente
di
tumore
può
essere
ritenuto
economicamente
vantaggioso,
ma
eticamente
potrebbe
non
esserlo.
In
questo
senso
l’autonomia
delle
singole
scienze
è
comunque
ritenuta
legittma:
anche
il
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II
ammette
che
le
scienze
e
le
arti
nell’ambito
proprio
di
ciascuna
si
servono
dei
propri
principi
e
di
un
proprio
metodo:
in
questo
ogni
scienza
gode
legittimamente
di
una
propria
autonomia,
che
è
relativa,
perché
chiamata
sempre
a
confrontarsi
con
altri
saperi
[60].
b)
Esiste
un
altro
significato
in
cui
si
parla
dell’autonomia
della
scienza
e
della
ricerca:
tale
significato
è
proposto
nell’ambito
dello
scientismo:
si
vuole
intendere
che
la
ricerca
e
la
scienza
sono
“values
free”.
Si
parla
di
libertà
dai
valori,
dai
controlli
e
nelle
scelte.
Alcuni
sostengono
la
necessità
dell’autonomia
dai
valori
e
dai
controlli,
ma
non
nell’azione
in
cui
ammettono
la
247
legittimità
dell’intervento
della
società
[61]
ed
altri
arrivano
ad
ammettere
anche
i
controlli,
ma
soltanto
per
la
salute
pubblica.
Di
fronte
alla
ricerca
biomedica
–
in
particolare
si
pensi
a
quella
genetica
–
questo
tipo
di
autonomia
dal
giudizio
etico,
e
ancora
più
dal
controllo
della
legge
e
nell’esecuzione
dei
progetti,
non
è
sostenibile;
oltre
tutto
la
ricerca
nell’ambito
biomedico
e
biotecnologico
può
avere
dimensioni
e
conseguenze
di
tipo
planetario.
In
questo
campo
la
lezione
di
Jonas
e
il
suo
richiamo
al
principio
di
responsabilità
conservano
tutto
il
loro
peso
[62].
c)
C’è
un
terzo
modo
di
concepire
l’autonomia
della
scienza,
intesa
soprattutto
come
autonomia
dello
scienziato
ed
è
quella
in
cui
appunto
il
ricercatore
si
fa
liberamente
e
responsabilmente
carico
dei
fini,
dei
mezzi
e
metodi
e
delle
conseguenze
di
un
determinato
programma
di
ricerca.
Questo
modello
è
capace
di
congiungere
insieme
il
sapere
scientifico
e
il
sapere
morale,
e
di
coniugare
insieme
libertà
e
responsabilità.
Tale
modello
suppone
che
lo
scienziato
sia
consapevole
dei
valori
morali
in
gioco,
si
regoli
di
conseguenza
e
con
coerenza
e
sappia
eventualmente
confrontarsi
con
esperti
e
comitati
di
etica.
La
responsabilità
dello
scienziato
vale,
non
soltanto
nel
settore
della
ricerca
applicata
ove
le
conseguenze
sono
più
evidenti,
ma
anche
per
la
ricerca
di
base
ove
fini,
metodi
e
mezzi
devono
sempre
essere
valutati
ed
essere
resi
noti
ai
membri
della
stessa
equipe
dei
collaboratori,
i
quali
possono
evidentemente
avanzare
obiezione
di
coscienza
di
fronte
a
procedure
ritenute
non
lecite.
Collocare
un
ricercatore
o
un
tecnico
a
lavorare,
ad
es.,
in
un
laboratorio
su
cellule
staminali
comporta
l’obbligo
di
palesarne
da
parte
del
direttore,
la
provenienza
e
lo
scopo,
perchè
il
ricercatore
possa
assumere
liberamente
e
responsabilmente
le
proprie
responsabilità.
Un
fatto
che
viene
posto
all’attenzione
oggi
è
che
la
ricerca
applicata
viene
spesso
coordinata
a
livello
multinazionale
e
in
modo
complesso.
Due
fattori
sono
stati
segnalati:
Jonas
parla
di
“espropriazione
dei
risultati”
nel
senso
che
i
risultati
delle
ricerche,
una
volta
comunicati
ed
acquistati
dell’industria,
possono
essere
applicati
in
modi
che
il
ricercatore
non
immaginava
al
momento
della
ricerca
e
della
comunicazione
dei
risultati
[63].
Di
qui
l’obbligo
di
una
formazione
etica
dei
ricercatori
e
di
una
loro
accresciuta
responsabilità
per
non
finire
in
una
catena
di
montaggio
il
cui
prodotto
finale
sia
utilizzato
in
modo
contrario
alla
loro
conoscenza
e
al
bene
dell’uomo.
Jonas
dice
che
siamo
come
i
passeggeri
che
salgono
sul
treno:
liberi
di
salire,
ma
non
di
arrestare
il
treno
o
di
cambiarne
destinazione.
Altro
fattore
da
tener
presente
è
il
rapporto
fra
ricerca
e
potere
politico,
quando
appunto
il
potere
politico
finanzia
i
grandi
progetti
di
ricerca
nei
quali
l’nsieme
dei
risultati
diventa
come
anonimo
e
componibile:
le
banche
dati
e
i
brevetti
diventano
come
casseforti
e
forzieri
a
cui
il
potere
politico
può
attingere
per
un
suo
disegno
non
inteso
dai
ricercatori.
Per
questo
la
presenza
dei
controlli
applicativi
da
parte
degli
scienziati
stessi
e
della
società,
sia
a
livello
nazionale
che
internazionale,
sono
giustificati
e
doverosi.
La
armonizzazione
della
libertà
con
la
responsabilità
dello
scienziato
si
può
dunque
realizzare:
a)
nel
rispetto
della
legittimità
di
ogni
disciplina;
b)nella
composizione
armoniosa
e
nella
ingrazione
dei
saperi
con
l’assunzione
di
una
corretta
epistemologia
e
una
compiuta
antropologia;
c)
nell’accettazione
della
piena
responsabilità
da
parte
degli
scienziati
sia
di
fronte
alle
applicazioni
possibili
sia
di
fronte
al
potere
politico;
d)
nella
necessità
di
controlli
di
natura
etica
che
possano
essere
attuati
non
soltanto
nei
confronti
dei
laboratori
e
nel
momento
dell’approvazione
dei
protocolli
di
ricerca,
ma
anche
nei
confronti
dei
possibili
sviluppi
successivi
operati
dal
potere
pubblico
o
da
quello
economico.
La
politica
della
ricerca
ha
così
dei
doveri
nei
confronti
della
stessa
autorità
politica,
anche
quando
questa
finanzia
i
progetti
di
ricerca.
“Verità,
libertà
e
responsabilità
sono
collegate
nella
esperienza
dello
scienziato;
egli
infatti
nell’intreprendere
il
suo
cammino
di
ricerca,
comprende
che
deve
attuarlo
non
solo
con
l’imparzialità
richiesta
dall’oggettività
del
suo
metodo,
ma
anche
248
con
l’onestà
intellettuale,
la
responsabilità
e
direi
con
una
sorta
di
riverenza
quali
si
addicono
allo
spirito
umano
nel
suo
accostarsi
alla
verità”
[64]
LA
DIMENSIONE
MONDIALE
DELLA
POLITICA
DELLA
RICERCA
Un
documento
di
riferimento
obbligato
per
trattare
questa
parte
del
tema
è
la
“Déclaration
sur
la
science
et
l’utilisation
du
savoir
scientifique”pubblicato
alla
conclusione
della
Conferenza
mondiale
sulla
scienza
svoltosi
a
Budapest
(Ungheria)
dal
26
giugno
al
1
luglio
1999
con
il
titolo:
“La
science
pour
le
XXI
siècle:
un
nouvel
engagement”[65].
La
Conferenza
fu
promossa
dall’UNESCO
e
dal
Consiglio
Internazionale
per
la
scienze
(CIUS),
cui
fece
seguito
l’elaborazione
di
un
piano
d’azione.
Sappiamo
come
le
proclamazioni
contenute
in
documenti
come
questo
rischino
di
rimanere
prive
di
applicazioni
concrete,
tenendo
conto
che
questi
organismi
mancano
spesso
dell’appoggio
concreto
dei
Paesi
che
più
sarebbero
coinvolti
nelle
conclusioni;
tuttavia
rappresentano
sempre
un
fatto
culturalmente
rilevante
e
capace
di
costituire
prima
o
poi
un
punto
di
riferimento,
anche
là
dove
mostrano
limiti
e
necessità
di
miglioramento.
Fatta
questa
premessa,
il
Documento
citato
offre
quanto
meno
la
enunciazione
di
molti
principi
di
carattere
positivo
per
l’orientamento
di
una
politica
della
ricerca
scientifica
a
livello
mondiale.
Anzitutto
sul
piano
della
costatazione
si
conferma
il
fatto
che
“le
savoir
scientifique
a
conduit
à
des
innovations
remarquables
qui
ont
étés
très
bénéfiques
pour
le
gendre
humain”:
ci
si
riferisce
alla
scoperta
dei
rimedi
per
numerose
malattie
con
il
conseguente
allungamento
delle
speranze
di
vita,
l’aumento
della
produzione
agricola
che
ha
consentito
di
rispondere
ai
bisogni
crescenti
dell’alimentazione
delle
popolazioni
in
diverse
regioni
del
mondo;
il
progresso
tecnologico
e
l’utilizzazione
di
nuove
fonti
di
energia,
con
il
grande
potenziale
industriale
che
consente
l’alleggerimento
da
fatiche
pesanti
per
il
lavoro
e
la
facilitazione
nelle
comunicazioni
e
nell’intensificazine
dei
rapporti
fra
gli
uomini
[66].
Da
questa
costatazione
emerge
nello
stesso
documenton
la
necessità
che
tutte
le
nazioni
possano
essere
coscienti
di
questi
benefici
e
che
queste
risorse
debbano
essere
al
servizio
dell’intera
umanità[67].
D’altra
parte
alla
luce
dei
fatti
negativi
in
cui
si
è
constatato
l’abuso
della
scienza,
viene
superato
il
concetto
illuminista
e
utopico
per
cui
ogni
progresso
scientifico
sia
da
ritenere
automaticamente
liberatorio
e
benefico;
si
ammette
al
contrario
che
il
progresso
scientifico
-‐
tecnologico
ha
già
provocato
il
degrado
dell’ambiente,
rischia
di
provocare
catastrofi
e
squilibri
sociali
ulteriori
ed
ha
reso
possibile
la
costruzione
di
armi
atomiche,
chimiche
e
biologiche,
per
cui
la
scienza
oggi
è
chiamata
a
riconvertire
molte
energie
belliche
in
strumenti
di
pace
e
di
progresso
autentico
[68].
Si
enuncia
quindi
come
ulteriore
premessa
il
principio
relativo
alla
necessità
di
instaurare
un
duplice
dialogo:
tra
le
scienze
umane
e
le
scienze
sperimentali
per
far
fronte
ai
problemi
etici,
sociali
e
culturali
messi
in
atto
dal
progresso
scientifico
e
tecnologico
e
nello
stesso
tempo
il
dialogo
tra
i
legislatori,
gli
scienziati
e
il
pubblico
all’interno
di
un
dibattito
democratico
intorno
alla
utilizzazione
del
sapere
scientifico[69].
Sempre
in
premessa
il
documento
denuncia
il
fatto
della
ripartizione
ineguale
delle
risorse
della
scienza
anche
a
motivo
della
circostanza
che,
essendo
le
scoperte
scientifiche
fattore
di
produzione
della
ricchezza,
molti
Paesi
poveri
vengono
contemporaneamente
ad
essere
esclusi
dalla
ricchezza
e
dalle
fonti
di
creazione
delle
risorse
tecnologiche.
In
base
a
queste
constatazioni
preliminari
il
Documento
offre
una
serie
di
“consideranda”
[70]
che
mettono
in
luce:
i
benefici
possibili
provenienti
dalla
ricerca
scientifica
sulla
società,
il
ruolo
delle
conoscenze
scientifiche
per
la
elaborazione
dei
programmi
politici,
la
necessità
che
l’accesso
249
al
sapere
scientifico
faccia
parte
del
diritto
all’educazione
di
ogni
uomo
e
di
ogni
donna
per
la
loro
maturazione
e
per
creare
una
capacità
scientifica
endogena
e
inoltre
le
ricadute
benefiche
per
la
ricerca
per
il
superamento
della
povertà
e
il
progresso
della
umanità,
il
processo
di
mondializzazione
di
tali
conoscenze,
l’urgenza
di
colmare
il
fossato
tra
i
paesi
sviluppati
e
quelli
in
via
di
sviluppo
in
ordine
alla
capacità
di
ricerca
e
alla
infrastrutture
a
ciò
deputate.
D’altro
canto
si
sottolinea
anche
la
necessità
delle
politiche
di
controllo
sulla
ricerca
e
le
sue
applicazioni
per
le
minacce
che
possono
venire
dalle
applicazioni
rischiose
per
la
stessa
sopravvivenza
della
umanità,
e
conseguentemente
si
sottolinea
la
necessità
di
un
riferimento
all’etica
e
ai
diritti
dell’uomo
e
infine
si
afferma
l’urgenza
di
un
nuovo
legame
fra
la
scienza
e
la
società
per
la
risoluzione
di
urgenti
problemi,
quali
la
povertà,
la
fame,
l’insufficienza
delle
cure
sanitarie,
l’insicurezza
in
fatto
di
cibo
e
di
acqua
e
la
crescita
della
popolazione
[71].
Su
queste
premesse
e
istanze,
il
Documento
propone
alcune
linee
di
programma
politico:
La
promozione
della
ricerca
scientifica
fondamentale
e
applicata
è
essenziale
per
il
progresso
“endogeno”
ai
singoli
Paesi
(legame
fra
scienza-‐sapere-‐progresso).
Pertanto
i
governi
devono
riconoscere
il
fondamentale
ruolo
della
ricerca
scientifica
per
l’acquisizione
del
sapere,
la
formazione
degli
scienziati
e
l’educazione
del
pubblico.
La
ricerca
finanziata
dai
privati
va
ritenuta
importante,
ma
non
può
sostituire
la
ricerca
pubblica:
i
due
settori
devono
agire
in
collaborazione
e
con
obiettivi
a
lungo
termine
[72].
La
ricerca
scientifica
è
chiamata
a
contribuire
alla
costruzione
della
pace
e
per
questo
si
deve
garantire
il
principio
del
libero
accesso
alla
informazione
e
ai
dati
e
la
ricerca
scientifica
dovrà
sottostare
alle
indicazioni
etiche
e
la
dovere
della
informazione
al
pubblico.
Inoltre
si
dovrà
favorire
tra
gli
scienziati
la
solidarietà
morale
e
intellettuale
che
è
fondamento
per
la
cultura
della
pace.
“La
collaborazione
degli
scienziati
del
mondo
intero
costituisce
un
prezioso
contributo
per
la
sicurezza
globale
e
lo
sviluppo
delle
pacifiche
relazioni
fra
le
nazioni,
le
società
e
le
culture”.
I
governi
devono
far
sì
che
le
scienze
e
il
sapere
contribuiscano
alla
promozione
dei
diritti
dell’uomo
e
a
eliminare
le
cause
dei
conflitti
[73].
Particolare
attenzione
viene
posta
dal
Documento
nel
definire
il
rapporto
fra
ricerca
scientifica
e
sviluppo
riaffermando
il
dovere
di
perseguire
una
sviluppo
durevole
e
sostenibile,
la
protezione
delle
risorse
naturali,
della
biodiversità
e
i
sistemi
di
sopravvivenza
del
pianeta;
si
richiama
l’impegno
a
eliminare
la
discriminazione
e
la
disuguaglianza
tra
Paesi
ricchi
e
Paesi
in
via
di
sviluppo
in
fatto
di
sapere
scientifico
e
ricerca,
insistendo
sulla
promozione
della
cultura
scientifica
di
base,
sul
ruolo
delle
università
con
rispetto
ai
valori
morali;
si
fa
appello
alla
cooperazione
internazionale
in
tema
di
ricerca
scientifica
e
tecnologica
e
alla
necessità
di
evitare
la
c.d.
“fuga
di
cervelli”
per
motivo
delle
condizioni
negative
per
la
ricerca
esistenti
in
certi
Paesi;
infine
si
sottolinea
la
necessità
di
una
politica
nazionale
della
scienza
e
ad
una
collaborazione
per
la
gestione
dei
rischi
anche
a
livello
internazionale.
Si
richiama
la
necessità
di
una
regolamentazione
dei
brevetti
che
non
impedisca
l’accesso
dei
Paesi
in
via
di
sviluppo
alle
conoscenze
scientifiche
e
per
evitare
nuove
forme
di
monopolio
[74].
Il
Documento
conclude
riaffermando
i
riferimenti
alle
norme
etiche,
ai
diritti
dell’uomo,
al
principio
della
libera
circolazione
delle
informazioni,
all’obbligo
rigoroso
del
controllo
sulla
attendibilità
dei
risultati
e
sulla
osservanza
delle
norme
dell’etica
definita
“scientifica”,
l’uguaglianza
di
accesso
alla
ricerca
delle
donne
[75].
Al
di
là
di
queste
dichiarazioni
promulgate
dall’UNESCO,
che
fanno
comprendere
gli
orientamenti
auspicati
nelle
politiche
della
ricerca
orientata
allo
sviluppo,
orientamenti
che
tendono
a
conseguire
un
effetto
positivo
nel
fenomeno
della
globalizzazione,
è
opportuno
tuttavia
vedere
come
alcuni
Stati
tra
i
più
progrediti
e
sviluppati
realizzano
e
intendono
la
necessità
di
collegare
la
Ricerca
allo
Sviluppo
globale.
250
La
competitività
scientifica
e
tecnologica
viene
sempre
più
vista
nel
contesto
della
globalizzazione
come
condizione
preliminare
per
la
competitività
economica.
Ad
esempio
nelle
“Linee
Guida
del
Governo
Italiano
per
promuovere
la
ricerca
scientifica”
si
afferma
in
premessa
per
gli
anni
2003-‐2006:
“Il
forte
potenziamento
della
nostra
struttura
di
ricerca
scientifica
e
tecnologica
e
del
nostro
sistema
produttivo
si
prospetta
pertanto
come
vitale
necessità
della
nostra
economia,
onde
riuscire
a
reggere
il
sempre
più
duro
confronto
competitivo
indotto
dal
processo
di
globalizzazione
con
le
economie
dei
Paesi
sviluppati
e
dei
Paesi
in
via
di
sviluppo”
[76].
Tenendo
conto
che
la
ricerca
scientifica
comprende
non
soltanto
la
ricerca
biomedica,
ma
anche
la
ricerca
biotecnologica
in
generale,
la
informatica
e
le
nanotecnologie
[77],
si
sottolinea
costantemente
il
legame
tra
ricerca-‐produttività-‐competizione
economica-‐globalizzazione.
Nel
quadro
della
globalizzazione
i
Paesi
industrializzati
stanno
attuando
profonde
revisioni
delle
politiche
scientifiche
come
traspare
dalla
sintesi
che
viene
riportata
dallo
stesso
citato
documento
della
programmazione
italiana
[78].
Si
afferma
che
gli
USA
hanno
recentemente
ridefinito
per
il
2003
la
politica
federale
nel
settore
della
ricerca
decidendo
un
sostanziale
incremento
delle
risorse
(+8.5%)
rispetto
al
2002.
La
cifra
record
di
104
miliardi
di
dollari
è
destinata
per
oltre
il
50%
alla
difesa.
Alla
ricerca
biomedica
sono
destinati
circa
24
miliardi
di
dollari,
con
un
incremento
del
15%;
alla
ricerca
spaziale
15
miliardi
di
dollari,
con
un
incremento
del
4.5%;
mentre
alle
fonti
energetiche
sono
assegnati
8
miliardi
di
dollari,
con
una
crescita
del
5%.
Si
sottolinea
ancora
che
che
l’insieme
dei
paesi
della
UE
assegna
alla
totalità
delle
attività
di
ricerca
la
metà
del
budget
statunitense
e
che
l’investimento
privato
per
la
ricerca
negli
USA
è
notevolmente
superiore
a
quello
pubblico.
In
Gran
Bretagna
il
Department
of
Trade
and
Industry
con
il
documento
di
bilancio
e
di
programma
“Science
and
innovation
201”
ha
definito
i
nuovi
indirizzi
strategici
nel
settore
della
ricerca
e
sviluppo,
considerati
basilari
per
la
competitività
del
Paese.
In
tale
documento
sono
identificate
quali
aree
prioritarie
di
intervento:
il
potenziamento
delle
grandi
infrastrutture
di
ricerca,
le
ricerche
sulla
post-‐genomica,
le
tecnologie
di
base
(nonotecnologie,
fotonica,
sensori,
nuove
materiali,
etc.),
aeronautica
e
spazio
e
l’incremento
quantitativo
e
qualitativo
dei
ricercatori.
Viene
particolarmente
sottolineata
la
necessità
di
una
maggiore
integrazione
tra
ricerca
pubblica
ed
utilizzo
industriale
del
know-‐how
generato,
favorendo
processi
di
osmosi
tra
i
vari
soggetti
e
favorendo
la
nascita
di
imprese
high-‐tech.
L’incremento
della
spesa
è
previsto
nell’ordine
del
7%
annuo
per
i
prossimi
tre
anni.
La
Francia
con
il
“Budget
civil
de
recherche
e
de
developpement
2001”
ha
definito
un
programma
basato
su
quattro
priorità:
misure
a
favore
del
personale
di
ricerca
con
rilevante
incremento
delal
dotazione
finanziaria,
forte
rafforzamento
degli
investimenti
nelle
infrastruture
di
ricerca,
+18%
rispetto
al
2000;
in
particolare
sviluppo
di
centri
di
calcolo
avanzato
(IDRIS),
messa
in
funzione
di
piattaforme
tecnologiche
(INRA);
potenziamento
della
strumentazione
e
creazione
di
nuove
“equipes”
nel
campo
della
epidemiologia
e
della
ricerca
terapeutica(INSERY);
avvio
della
costruzione
della
macchina
di
luce
di
sincrotrone
di
terza
generazione
(SOLEIL);
forte
crescita
degli
investimenti
–
circa
il
15%
-‐
su
tematiche
scientifiche
prioritarie:
genoma,
post-‐genoma,
bio-‐informatica,
tecnologie
per
l’informazione,
nanotecnologie
e
materiali;
incremento
di
circa
il
10%
dei
finanziamenti
per
la
ricerca
industriale,
con
particolare
riferimento
al
partenariato
pubblico-‐privato.
In
questo
ambito
viene
privilegiato
il
settore
aeronautico,
con
un
incremento
di
oltre
il
20%.
Come
si
può
notare
la
ricerca
biomedica
rappresenta
uno
dei
molteplici
settori
della
ricerca
tecnologica,
inclusa
in
un
contesto
di
competitività
economica:
questo
contesto
può
mettere
in
251
ombra
e
in
posizione
secondaria
la
finalità
terapeutica
della
ricerca
biomedica
e
comportare
un
crecente
dislivello
tra
Paesi
sviluppati
e
quelli
in
via
di
sviluppo.
COMPITI
DELLA
CHIESA
NELL’AMBITO
DELLA
RICERCA
Credo
che
a
nessuno
sfugga
il
molteplice
compito
che
si
viene
a
delineare
per
la
Chiesa
nell’ambito
della
ricerca
scientifica.
Esso
è
anzitutto
un
compito
di
orientamento
etico.
Il
Magistero
della
Chiesa
ha
chiarito
già
nella
costituzione
conciliare
“Gaudium
et
Spes”
e
nella
più
recente
Enciclica
“Fides
et
Ratio”
da
una
parte
il
riconoscimento
dell’autonomia
relativa
di
ogni
scienza
e
d’altra
parte
il
suo
richiamo
alla
centralità
dell’uomo
sia
come
soggetto
responsabile
sia
come
fine
e
beneficiario
della
ricerca
e
sia
come
limite
etico
quando
l’individuo
umano
è
oggetto
dela
ricerca
stessa.
Se
il
Magistero
della
Chiesa
ha
insistito
per
il
superamento
dello
“Scientismo”
non
è
per
negare
la
possibilità
della
ricerca
scientifica
e
l’autonomia
degli
ambiti,
dei
metodi
e
dei
criteri
interni
propri
di
ogni
scienza,
ma
per
arricchire
la
ricerca
scientifica
stessa
favorendo
l’apertura
ad
una
visione
integrale
dell’uomo
e
al
perseguimento
del
suo
bene
per
ogni
uomo
e
per
la
universalità
degli
uomini
[79].
La
Chiesa
stessa
per
l’adempimento
della
sua
missione
fatalora
affidamento
e
appello
al
contributo
indispensabile
degli
scienziati
e
della
ricerca
scientifica.
Ricordiamo
l’appello
agli
“uomini
di
pensiero
e
di
scienza”
fatto
al
termine
del
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II:
“Noi
non
possiamo
non
incontrarci
con
voi.
Il
vostro
cammino
è
il
nostro.
I
vostri
sentieri
mai
risultano
estranei
a
quelli
propriamente
nostri”
[80]
Ricordiamo
anche
la
esplicita
richiesta
di
collaborazione
fatta
ai
ricercatori
nella
“Humanae
Vitae”
per
il
superamento
delle
difficoltà
dei
coniugi
in
ordine
alla
soluzione
del
problema
relativo
alla
regolazione
della
fertilità,
problema
che
oggi
si
pone
anche
per
la
ricerca
in
ordine
al
superamento
delle
cause
della
infertilità[81].
Ricordiamo
anche
l’appello
agli
uomini
di
cultura
che
il
S.Padre
Giovanni
Paolo
II
ha
posto
al
termine
della
Enciclica
“Evangelium
Vitae”
includendo
in
questo
appello
la
istituzione
della
Pontificia
Accademia
per
la
vita
[82],
proprio
per
la
tutela
della
vita
umana.
Credo
che
uno
dei
compiti
urgenti
del
“laicato”
nella
Chiesa
sia
proprio
configurabile
in
questo
ambito
della
scienza
e
della
ricerca,
pertinente
alle
realtà
temporali,
ma
legato
alla
integrale
promozione
dell’uomo
e
perciò
anche
al
Regno
di
Dio.
Ci
si
deve
domandare
oggi
se
la
Chiesa,
soprattutto
intesa
come
comunità
che
valorizza
la
missione
propria
del
laici,
debba
sentirsi
impegnata
direttamente
nella
promozione
della
ricerca
scientifica
con
sue
iniziative
soprattutto
nelle
frontiere
ove
è
in
giuoco
il
futuro
dell’uomo
nella
condizione
di
“emergenza”
per
i
risvolti
etici
della
ricerca
o
per
le
condizioni
di
inferiorità
di
popolazioni
prive
delle
risorse
della
scienza
e
dei
presupposti
per
il
proprio
sviluppo.
Non
si
può
ignorare
a
questo
proposito
l’esplicito
appello
del
Pontefice
Giovanni
Paolo
II
nella
lettera
Enciclica
Novo
Millennio
Inuente,
laddove
si
riferisce
a
quanti
si
avvalgono
delle
nuove
possibilità
della
scienza,
specie
sul
terreno
delle
biotecnologie,
perché
non
disattendano
le
esigenze
fondamentali
dell’etica
[83].
Nonè
difficile
constatare
che
fra
i
credenti
talora
è
più
facile
raccogliere
l’appello
per
la
soluzione
di
particolar
problemi
immediati
di
povertà,
di
bisogno
materiale
od
anche
per
strutture
pastorali
di
tipo
educativo
–
cosa
sempre
necessaria
nella
vita
della
Chiesa
–
mentre
è
difficile
o
molto
raro
ottenere
aiuto
per
una
strategia
di
promozione
della
scienza
o
della
ricerca
scientifica
anche
quando
ha
stretta
connessione
con
i
problemi
della
vita.
Mi
viene
facile
qui
il
richiamo
alle
Università
Cattoliche
e
alla
esistenza
in
esse
di
Facoltà
scientifiche
e
mediche,
nonché
di
grandi
istituti
di
ricerca
che
contribuiscono
meritatamente
al
252
progresso
della
società.
Ma
tutti
sanno
come
per
queste
Università
sia
arduo,
specialmente
in
certe
nazioni,
adire
ai
fondi
pubblici
della
ricerca,
a
meno
che
non
siano
aperte
a
compromissioni;
la
difficoltà
diventa
chiusura
da
parte
di
Fondazioni
e
istituzioni
che
perseguono
finalità
contrarie
alla
visione
cattolica
della
vita.
Ma
anche
in
rapporto
al
mondo
Cattolico
l’allestimento
delle
strutture
di
ricerca
e
il
loro
finanziamento
diventano
di
grave
difficoltà
per
i
costi
economici.
E’
l’esperienza
di
molte
Università
cattoliche
e
di
molte
istituzioni
di
ricerca.Pertanto
si
determina
il
pericolo
di
un
eccesso
di
dipendenza
delle
stesse
istituzioni
scientifiche
cattoliche
dal
finanziamento
pubblico.
C’è
il
rischio
che
ne
consegua
un
appannamento
della
identità
di
queste
istituzioni
e
dei
ricercatori
cattolici
attratti
dai
dinamismi
pubblici
e
dalla
necessità
di
rincorrere
i
finanziamenti.
Necessita
forse
creare
nel
mondo
cattolico
delle
vere
e
proprie
“Fondazioni”
orientate
alla
ricerca
scientifica
“qualificata”
per
garantire
la
presenza
nella
comunità
cattolica
di
una
ricerca
chiaramente
aperta
al
bene
integrale
dell’uomo
e
libera
da
dipendenze
e
compromessi
che
ne
possano
attenuare
o
offuscare
l’impegno.
Questo
impegno
non
gioverebbe
soltanto
alla
nascita
e
alla
efficenza
delle
Facoltà
scientifiche
delle
Università
Cattoliche
nel
Terzo
Mondo,
per
valorizzare
le
risorse
di
questi
Paesi
e
garantire
la
presenza
di
un
autentico
sviluppo,
ma
porrebbe
essere
un
presidio
di
libertà
per
la
società
stessa
perché,
ove
si
garantisce
una
ricerca
fedele
al
bene
dell’uomo
e
alla
legge
morale,
si
opera
per
il
bene
non
soltanto
della
Chiesa,
ma
di
tutta
la
umanità
come
è
richiamato
dalla
Costituzione
Apostolica
diretta
alle
Università
Cattoliche
“Ex
corde
Ecclesiae”
pubblicata
il
15
agosto
1990.
In
questa
documento
il
Pontefice
ricorda
che
“senza
per
nulla
trascurare
l’acquisizione
di
conoscenze
utili,
l’Università
Cattolica
si
distingue
per
la
sua
libera
ricerca
di
tuttala
verità
intorno
alla
natura,
all’uomo
e
a
Dio.
Essa
dunque
senza
alcun
timore,
ma
con
entusiamo
si
impegna
su
tutte
le
vie
del
sapere,
consapevole
di
essere
precedutada
Colui
che
è
Via,
Verità
e
Vita”[84].
Definendo
la
natura
e
gli
obiettivi
delle
Università
Cattoliche
il
Pontefice
afferma
nello
stesso
Documento:
“L’Università
Cattolica,
quindi,
è
il
lugo
in
cui
gli
studiosi
esaminano
a
fondo
la
realtà
con
i
metopdi
propri
di
ogni
disciplina
accademica
e,
in
tal
modo,
contribuiscono
all’arricchimento
del
tesoro
delle
conoscenze
umane.
Ciascuna
disciplina
viene
studiata
in
modo
sistematico,
le
varie
discipline
vengono
portate
a
dialogo
fra
loro
al
fine
di
un
reciproco
arricchimento…In
una
Università
cattolica
la
ricerca
comprende:
a)
il
perseguimento
di
una
integrazione
delle
conoscenza;
b)
il
dialogo
fra
fede
e
regione;
c)
una
preoccupazione
etica;
una
prospettiva
teologica
[85].
Forse
è
ancora
attuale
l’appello
citato
dal
Concilio
Vaticano
II
“agli
uomini
di
pensiero
e
di
scienza”
ove
i
Padri
Conciliari
rivolgendosi
loro
affermano:
“Abbiate
fiducia
nella
fede,
questa
grande
amica
dell’
intelligenza!
Rivolgetevi
alla
sua
luce
per
conseguire
la
verità,
tutta
la
verità!
Questo
è
l’augurio,
l’incoraggiamento,
la
speranza
che
vi
esprimono
prima
di
separarsi,
i
padri
del
mondo
intero,
riuniti
in
Concilio
a
Roma”
[86]
Con
realistica
consapevolezza
di
come
oggi
l’impegno
per
la
ricerca
viene
collocato
dalle
politiche
in
collegamento
stretto
con
la
produttività
e
la
competizione
economica
fra
gli
Stati
in
un
contesto
di
crescente
globalizzazione,
è
necessario
che
la
voce
e
l’impegno
della
comunità
cattolica
siano
rivolti
a
far
sì
che
rimanga
vivo
un
duplice
legame:
tra
la
ricerca
scientifica
e
la
salute
delle
persone
e
delle
popolazioni
(anche
laddove
non
ci
sono
profitti
economici
immediati),
e
inoltre
il
legame
con
la
promozione
delle
economie
e
delle
stesse
organizzazioni
di
ricerca
endogene
nei
Paesi
in
via
di
sviluppo,
in
armonia
con
le
istanze
della
giustizia
a
livello
internazionale.
Giovanni
Paolo
II
nella
Enciclica
“Sollecitudo
rei
socialis”
afferma
riferendosi
a
sua
volta
all’Enciclica
di
Paolo
VI
“Popolorum
Progressio”
di
vent’anni
prima:
“Perciò
i
responsabili
della
cosa
pubblica,
i
cittadini
dei
paesi
ricchi
personalmente
considerati,
specie
se
253
cristiani,
hanno
l’obbligo
morale
–
secondo
il
rispettivo
grado
di
responsabilità
–
di
tenere
in
considerazione,
nelle
decisioni
personali
e
di
governo,
questo
rapporto
di
universalità,
questa
interdipendenza
che
sussiste
tra
i
loro
comportamenti
e
la
miseria
e
il
sottosviluppo
di
tanti
milioni
di
uomini.
Con
maggiore
precisione
l’Enciclica
paolina
traduce
l’obbligo
morale
come
“dovere
di
solidarietà”
e
una
tale
affermazione,
anche
se
nel
mondo
molte
situazioni
sono
cambiate,
ha
oggi
la
stessa
forza
e
validità
rispetto
a
quando
fu
scritta”
[87].
Mi
pare
utile
ricordare
infine
il
brano
dell’Allocuzione
dello
stesso
Pontefice
Giovanni
Paolo
II
all’UNESCO
il
2
giugno
1980:
“E’
essenziale
che
ci
convinciamo
della
priorità
dell’etico
sul
tecnico,
del
primato
dell’uomo
sulle
cose,
della
superiorità
dello
spirito
sulla
materia.
La
causa
dell’uomo
sarà
servita
solo
se
la
conoscenza
è
unita
alla
coscienza:
Gli
uomini
di
scienza
aiuteranno
realmente
l’umanità
solo
se
conserveranno
il
senso
della
trascendenza
dell’uomo
sul
mondo
e
di
Dio
sull’uomo”[88].
[1]
Riportata
da
:
WEIJER
CH.,
Research
Methods
and
Policies,
in
Encyclopedia
of
Applied
Ethic,
vol.3,
Accademic
Press,
San
Diego
California1988,
pp.
853-‐860.
[2]
Idem,
pp.
853-‐854.
[3]
Ci
serviamo
per
questa
classificazione
del
citato
studio
di
Weijer,
Reserach
Methods
and
Policies,
o.c.
p.
855.
[4]
BOMPIANI
A.
,
Ricerca.
Etica
Diritto
e
Ricerca
biomedica,
nel
vol.
a
cura
di
COMPAGNON
F.,
Etica
della
vita,
San
Paolo,
Alba,
1996,
pp.
267-‐307.
[5]
Per
questo
argomento
mi
riferisco
alle
seguenti
pubblicazioni:
Mc.
NEIL
P.M.,
The
Ethics
and
Policies
of
Human
Experimentations,
Cambridge
University
Press,
1993,
pp.
1-‐182;McCarty
Ch.R.,
KOPELMAN
L.M.,
LEVINE
C.,
Research
Policy,Encyclopedia
of
Bioethics,
edited
by
W.T.REICH,
New
York,
Simon
and
Schuster,
McMillan,
1995,
vol.
4,
pp.2285-‐
2300.
[6]
McCarty
Ch.R,
Research
Policy.
General
Guidelines,
Encyclopedia
of
Bioethics
...,
o.c.,
p.2285
[7]
RESNIK
D.,
Setting
Biomedical
Research
Priorities:
Iustice,Science
and
Public
Partecipation,
Kennedy
Institute
of
Ethics
Journal,
11
(June
2001),
2,
pp.
181-‐205.
[8]
Vedi
nota
6
[9]
Vedi
nota
7
[10]
Vedi
l’Editoriale
del
Lancet
2001,
358:
854-‐856;
Ripreso
da
Tempo
Medico
14.3.2002
[11]
BRODY
B.A.,
The
Ethics
of
Biomedical
Research.
An
international
Perspective,
Oxford
University
Press,
New
York
Oxford
1998,
pp.
161-‐181.
[12]
P.BISOGNO,
Evoluzione
della
politica
scientifica,
nel
vol.
La
politica
scientifica
italiana
negli
ultimi
40
anni:
risorse,
problemi,
tendenze
e
rapporti
internazionali,
nel
vol.
a
cura
del
CNR),
Roma
1988.
[13]
UNESCO,
Conférence
Mondiale
sur
la
science,
Projet
de
Déclaration
sur
la
Science
et
l’utilisation
du
Savoir
Scientifique,
Budapest
3
juin
1999
;
BLANC-‐LA
PIERRE
A.,
Society
in
the
face
of
Scientific
and
Tecnological
Development
:
Risk,
Decision,
Responsability,
nel
vol.
Pontificiae
Academiae
Scientiarum
Scripta
Varia
n.99
,
Science
and
the
Future
of
ManKind,
Vatican
City,
2001,
pp.
189-‐200.
[14]
MALDAME’
J.
M.,
The
progres
of
Science
and
the
Messiame
Ideal,
nello
stesso
volume
della
Pontificia
Academia
delle
Scienze,
pp.
318-‐332.
254
[15]
McCARTY
Ch.R.,
Research
Policy.
General
Guidelines
in
Encyclopedia
of
Bioethics,
o.c.
p.2286;
BRODY,
The
Ethics
of
Biomedical
Reseach.
An
International
Perspective,
OxfordUniversity
Press,
New
York
1998,
pp.
161-‐212.
[16]
Ibidem,
p.2288
[17]
CENSIS,
Ricerca
biotech
in
Italia:
grandi
aspettative,
poche
risorse
nelle
reti
università-‐
industria
(http://www.censis.it)
[18]
Volume
del
Comitato
Nazione
per
la
Bioetica,
Etica
Sistema
sanitario
e
risorse,
Ed.
Presidenza
del
Consiglio
dei
Ministri,
1998,
pp.137-‐139.
[19]
RESNIK,
Setting
Biomedical
Research
Priorities:
Justice,
Science
and
Public
Partecipation,
Kennedy
Institute
of
Ethics
Journal,
11
(2001),
2,
p.181.
[20]
SPAGNOLO
A.G.,
MINACORI
R,
Farmacogenetica
e
Farmacogenomica:
aspettative
e
problemi
etici,
nel
vol.
DI
PIETRO
M.L.,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Biotecnologie
e
futuro
dell’uomo,
Vita
e
Pensiero,
Milano
in
corso
di
stampa.
[21]
Sull’analisi
del
significato
edella
portata
del
consenso
informato
si
può
vedere
SGRECCIA
E.
Manuale
di
Bioetica
I,
Vita
e
Pensiero
3
ediz.,
Milano
1999,
pp.
210-‐220
[22]
MORENO
J.D.
and
LEDERER
S.,
Revising
the
History
of
Cold
War
Research
Ethics,
Kennedy
Institute
of
Ethics
Journal,
vol.6,
n.3
(1996),
pp.223-‐237.
[23]
LO
B.,
LESLIE
E.,
WOLF
J.D.
and
BERKLEY
A.,
Conflict
of
interest
policies
for
investigators
in
clinical
trials,
NEJM,
novembre
30,
2000,
pp.1616-‐1620.
[24]
Appello
del
periodico
“Tempo
Medico”
del
14
marzo
2002,
il
quale
fa
riferimento
ad
un’analoga
denuncia
firmata
da
molti
direttori
delle
riviste
scientifiche
e
riportato
dal
Lancet
2001,
358,
pp.854-‐856
[25]
SCHOOYANS
M.,
L’avortement:
Enjeu
Politique,
Lou
guenil
(Quebec)
1990,
trad.it.
Aborto
e
politica,
Città
del
Vaticano
1992.
Idem,
Bioétique
et
population,Fayard,
Paris
1994.
Idem,
L’évangile
face
au
desordre
mondial,
Fayard,
Paris
1997.
Vedi,
per
la
Conferenza
del
Cairo,
Medicina
e
Morale
1994,5,
pp.
979-‐1027;
sono
riportati
anche
gli
interventi
di
Giovanni
Paolo
II.
[26]
ROBERTSON
J.A.,
Ethics
and
policy
in
embryonic
stem
cell
research,
Kennedy
Institute
of
Ethics
Journal,
1999,
9(2):
109-‐136;
KRIMSKY
S.
and
HUBBARD
R.,
The
Business
of
research,
Hasting
Center
Report
1995,
1(25):
41-‐43.
Gli
autoriricordano
i
temi
caldi
del
dibattito
sulle
liceità
della
ricerca
nell’ambito
dell’IVF,
dell’esame
genetico
preimpiantatorio,
del
trapianto
nucleare
(clonazione)
e
della
ingegnerizzazione
delle
cellule
della
linea
germinale.
[27]
LIFTON
R.J.,
I
medici
nazisti,
Ed.
Rizzoli,
Milano
1988
[28]
WEIJER
Ch,
Research
methods
and
Policies,
o.c.,
p.856;
JONES
J.H.,
Bad
Blood:
the
turkegee
syphilis
experiment,
New
York,
Free
Press,
1993.
[29]
WEIJER
Ch,
Research
methods
and
Policies,
o.c.,
p.856
il
quale
cita
il
New
England
Journal
of
Medicine
330,
pp.1448-‐1449.
[30]
Concilio
d'Europa,
Comitato
dei
ministri,
Convenzione
sui
diritti
dell'uomo
e
la
biomedicina,
(19.11.1996),
pubblicato
anche
su
Medicina
e
Morale
1997,
1:128-‐149
[31]
Ibidem
[32]
UNESCO,
Universal
Declaration
on
the
Human
Genome
and
Human
rights.
Déclaration
Universellé
sur
le
genome
humain
et
les
droits
de
l’homme,
11.11.1997.
Si
veda
anche
SPAGNOLO
A.G.,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione,
o.c.
[33]
SGRECCIA
E.,
Manuale
di
Bioetica,
I,
Milano,
Vita
e
Pensiero,
1999,
pp.235-‐289
con
ampia
bibliografia;
SPAGNOLO
A.G.,
BIGNAMINI
A.A.,
DE
FRANCISCIS
A.,
I
comitati
di
etica
fra
linee
guida
dell’Unione
Europea
e
decreti
ministeriali,
Medicina
e
Morale,
1997,
6:
1059-‐1097.
Il
pensiero
della
Chiesa
in
tema
di
sperimentazione
sull’uomo
trova
il
riferimento
in
molti
Discorsi
di
Pio
XII
e
Giovanni
Paolo
II.
Ricordiamo
i
principali:
PIO
XII,
Ai
partecipanti
al
I
Congresso
Internazionale
255
di
Ispatologia
del
Sistema
Nervoso
(14.9.52]
in
Discorsi
e
Radiomessagi,
XIV,
Tipografia
Poliglotta
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1961,
pp.317-‐330;
Idem,
Discorso
alla
X-‐VI
Sessione
dell’Ufficio
Intenazionale
di
Documentazione
di
Medicina
Militare
(19.10.53],
in
Discorsi
e
Radiomessagi,
XI,
Tipografia
Poliglotta
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1969,
pp.415-‐428;
Idem,
Discorso
ai
partecipanti
all’VIII
Assemblea
dell’Associazione
Medica
Mondiale.
(30.9.54],in
Discorsi
e
Radiomessagi,
XVII,
Tipografia
Poliglotta
Vaticana,
Città
del
Vaticano1969,
pp.167-‐179;
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
partecipanti
a
due
Congressi
di
Medicina
e
Chirrugia
(27.10.1980],
inInsegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
III,
2,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1980,
pp.
1005-‐1010;
Idem,
Discorso
alla
Pontificia
Accademia
delle
Scienze
(23.10.1982],
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1982,
pp.889-‐898;
Idem,
Discorso
ai
partecipanti
ad
un
convegno
sulla
sperimentazione
biologica
promosso
dalla
Pontificia
Accademia
delle
Scienze
(23.10.1982],
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1982,
pp.898-‐893;
Idem,
Discorso
ai
partecipanti
al
I°
Convegno
Medico
Internazionale
promosso
dal
Movimento
per
la
Vita
(3.12.1982],
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
vol.
V/3,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1982,
pp.
1509-‐1513;
Idem,
Ai
partecipanti
ad
un
corso
distudio
sulle
“pre-‐leucemie
umane”
(15.11.1985],
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
VIII/2,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano1985,
pp.1265ss.;
Idem,
Ai
partecipanti
ad
un
congresso
sul
cancro
(24.6.1986]
inInsegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,IX,
I,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1986,
pp.1052-‐1053;
Idem,
Ad
una
conferenza
sui
farmaci
svoltasi
nell’Aurla
del
Sinodo
(24.10.1986]
in
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
IX/2,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1986,
pp.
1183ss.;
Idem,
A
scienziati
e
operatori
sanitari
(12.11.1987]
in
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
X/2,
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1987,
pp.
1086-‐1087;
Idem.
Lettera
Enciclica
“Evangelium
Vitae
(25.3.1995]Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano,
parte
III;
CONGREGAZIONE
PER
LA
DOTTRINA
DELLA
FEDE,
Istruzione
Donum
Vitae
.......
[34]
WEIJER
,
Research
methods
and
Policies,
p.
858
[35]
Ibidem,
p.
859
[36]
Australia
National
Health
and
Medical
Research
Council
(NHMRC),
Guidelines
on
ethical
makers
in
Oboriginal
and
Torres
Strait
Islander
health
research,
1991.
[37]
Alludiamo
alla
Dichiarazione
sul
genoma
umano
della
UNESCO
e
alla
Convenzione
su
I
diritti
dell’uomo
e
la
biomedicina
del
Consiglio
d’Europa
precedentemente
citate
(note
32
e
33).
[38]
BEYRER
C.,
KASS
N.E.,
Human
rights,
politics
and
rewiews
of
research
ethics,
The
Lancet
2002,
360:
246-‐251.
[39]
LEVINE,
Research……,
p.2289
[40]
COMITATO
ETICO
DELLA
UNIVERSITÀ
CATTOLICA,
Raccomandazioni
riguardo
alla
inclusione
delle
donne
in
età
fertile
nei
protocolli
di
sperimentazione
clinica,
Medicina
e
Morale
1996,
4:
793-‐796.
[41]
MANNI
E.,
Sperimentazione
sull’animale,
Medicina
e
Morale,
1989,
6:
.1057ss.
[42]
CASTIGNONE
S.
(a
cura
di),
I
diritti
degli
animali,
Ed.
Il
Mulino,
Bologna
1985;
CICCONE
L.,
L’animale
ben
creato
e
bene
per
l’uomo.
Aspetti
bioetici
della
sperimentazione
sull’animale,
Medicina
e
Morale,
1989,
6:
1095ss.
Vedi
anche
SGRECCIA
E.,
FISSO
B.,
Etica
dell’ambiente,
estratto
da
Medicina
e
Morale,
1996,
I,
II..
[43]
BOMPIANI
A:,
Ricerca
etica,
diritto
e
ricerca
biomedica,
in
COMPAGNONI
(a
cura
di),
Etica
dell’ambiente,
Alba:
San
Paolo,
1996:
267-‐307.
[44]
Cf.
BOMPIANI,
Ibid.,
p.275.
[45]
Ibid.,
pp.
275-‐276.
256
[46]
CANNAVO’
L.,
La
scienza
fra
collettivizzazione
e
privatizzazione,
nel
vol.
a
cura
di
STATERA
G.
e
CANNAVO’
L.,
Sociologia
della
scienza
e
politiche
della
ricerca,
1987,
citato
in
BOMPIANI,
Ricerca
etica,
p.276,
nota
5.
[47]
AGAZZI
E.,
Il
bene,
ilmale,
la
scienza,
Rusconi,
Milano
1992;
ANTISERI
D.,
Filosofia
della
scienza
e
problemi
etici,
Borla
Roma
1993;
HUBER
C.S.J.,
Limiti
della
validità
delpensiero
scientifico,
nel
vol.
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinica
a
cura
di
Spagnolo
A.G.
e
Sgreccia
E.,
Vita
e
Pensiero,
Milano
1994,
pp.
29-‐39;
LADRIERE
J.,
I
rischi
della
razionalità,
SEI
Torino
1978;
WILLEBRORD-‐WELTEN,
Sessant’anni
difilosofia
della
scienza,,
in
SPAGNOLO
E
SGRECCIA
(a
cura
di),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione,
pp.
21-‐28.
[48]
SGRECCIA
E.,
Pontenzialità
e
limiti
del
progresso
scientifico
e
tecnologico,
Dolentium
Hominum,
1988,
37(1):
137-‐144;
Idem,
Manuale
di
Bioetica,
Vol.
I,
Vita
e
Pensiero,
Milano
1999,
pp.
40-‐47.
In
tema
di
“verità”
scientifica
epistemologicamente
parlando
si
dovrà
distinguere
la
“oggettività”
dei
dati
e
la
“verità”
scientifica
frutto
della
interpretazione
dei
dati.
Non
vogliamo
qui
affrontare
il
problema
della
“evidenza”
e
della
“evidence
based
medicine”
alla
quale
oggi
non
tutti
sono
disposti
a
credere
dando
sempre
più
spazio
alla
interpretazione
del
ricercatore
ed
anche
alla
continua
crescita
del
sapere.
Ma
tutto
ciò
non
toglie
il
valore
scientifico,
sempre
perfettibile
e
fasificabile
delle
scienze
biomediche.
[49]
Hume,
treatise
of
human
nature,
trad.
it.
LECALDANO,
Trattato
sulla
natura
umana,
libro
III,
parte
I,
in
Opere
filosofiche,
vol.
i
Roma-‐Bari:
laterza,
1995:
496-‐749.
[50]
BOMPIANi,
Ricerca
etica,
p.291.
[51]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Lettera
Enciclica
“Fides
et
Ratio”,
14.9.1998,
A.A.S.,
91(1999),
pp.
5-‐88;
n.88.
[52]
Ibidem
[53]
Ibidem,
n.89
[54]
Ibidem
[55]
Ibidem,
n.90
[56]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
tenuto
in
occasione
della
Sessione
Plenaria
della
Pontificia
Accademia
delle
Scienze,
“L’Osservatore
Romano”,
14
nov.
2000.
[57]
Ibidem
[58]
Ibidem
[59]
E.
Sgreccia,
‘Autonomia
e
responsabilità
della
scienza’,
in
A.G.
Spagnolo
and
E.
Sgreccia(eds.),
Lineamenti
di
etica
della
sperimentazione
clinic
(Vita
e
Pensiero,
Milan,
1994),
pp.39-‐50;
E.
Agazzi,‘Autonomia
e
responsabilità
della
scienza’,
in
P.
Cattorini(ed.),
Scienza
ed
etica
nella
centralità
dell’uomo
(F.Angeli
Editore,
Milan,
1990);
E.
Pellegrino,
‘Autonomia
scientifica
e
responsabilità
morale’
in
P.
Cattorini
(ed.).,
Scienza
ed
etica,pp.
173-‐188.
[60]
ConcilioVaticano
II,
Costituzione
Gaudium
et
Spes,
n.
59,
A.A.S.........
[61]
DULBECCO
R.,
Ingegneri
della
vita,
Mondadori,
Milano
1989.
[62]
JONAS
H.,
Il
principio
responsabilità,
Einaudi,
Torino
1999.
[63]
SGRECCIA
E.,
Autonomia
e
responsabilità
della
scienza,
o.c.,
p.45
[64]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
tenuto
in
occasione
della
Sessione
Plenaria
della
Pontificia
Accademia
delle
Scienze,
o.c..
[65]
Documento
proposto
al
termine
della
Conferenza
di
Budapest
(2-‐3
giugno
1999)
ed
approvato
nell'Assemblea
dell'
UNESCO
a
Parigi.
Riportiamo
il
Docmento
in
appendice.
[66]
Ibidem,
n.2
del
Preambolo.
[67]
Ibidem
n.1
del
Preambolo
[68]
Ibidem
n.3
del
Preambolo
[69]
Ibidem,
n.4
of
the
preamble.
[70]Ibidem,
nn
7-‐22.
257
[71]
Ibidem,
n.24
[72]
Ibidem
nn.26-‐27
[73]
Ibidem
nn
28-‐29
[74]
Ibidem
nn.
30-‐35
[75]
Ibidem
nn.
36-‐42
[76]
POSSA
G.
Promuovere
la
ricerca
scientifica
e
tecnologica
per
accellerare
lo
sviluppo
del
Paese:
Linee
Guida
delal
Ricerca,
“Atenei”
Le
Mounier
Firenze,
3-‐4,
2001
[77]
si
parla
di
bioscienze,
monoscienze,
infoscienze:
Ibidem,
p.22.
[78]
Ibidem,
pp.109-‐110
[79]
Giovanni
Paolo
II,
Fides
et
Ratio,
nn.
88-‐90
[80]
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II,
Messaggi
L’heure
de
départ
ad
alcune
categorie
di
persone,
(8.12.1965),
A.A.S.,
1965:
.8-‐18.
[81]
PAOLO
VI,
Lettera
Enciclica
Hmanae
Vitae,
25.7.1968,
n.24,
A.A.S.
60
(1968),
pp.401-‐503.
[82]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Lettera
Enciclica
“Evangelium
Vitae”,
25.3.1995,
n.98;
A.A.S.
87
(1995),
pp.401-‐522:
“Un
compito
particolare
spetta
agli
intellettuali
cattolici,
chiamati
a
rendersi
attivamente
presenti
nelle
sedi
privilegiate
dell’elaborazione
culturale,
nel
mondo
della
scuola
e
delle
università,
negli
ambienti
della
ricerca
scientifica
e
tecnica,
nei
luoghi
della
creazione
artistica
e
della
riflessione
umanistica”.
Tutto
ciò
è
inteso
“per
costruire
una
nuova
cultura
della
vita
umana”
[83]
Lettera
Enciclica
Novo
Millennio
Ineunte
al
termine
del
Grande
Giubileo
dell’Anno
2000,
n.51:
“Un
impegno
speciale
deve
riguardare
alcuni
aspetti
della
radicalità
evangelica
che
sono
spesso
meno
compresi
fino
a
rendere
impopolare
l’intervento
della
Chiesa,
ma
che
non
possono
per
questo
essere
meno
presenti
nell’agenda
ecclesiale
della
carità.Mi
riferisco
al
dovere
d’impegnarsi
per
il
rispetto
della
vita
di
ciascun
essere
umano
dal
concepimento
al
suo
naturale
tramonto.
Allo
stesso
modo
il
servizio
all’uomo
c’impone
diguidare,
opportunamente
e
importunamente,
che
quanti
s’avvalgono
delle
nuove
potenzialità
della
scienza,
specie
sul
terreno
delle
biotecnologie,
non
possono
mai
disattenderele
esigenze
fondamentali
dell’etica
...
Per
l’efficacia
della
testimonianza
cristiana,
specie
in
questo
ambito
delicato
e
controverso
è
importante
fare
un
grande
sforzo
per
spiegare
adeguatamente
i
motivi
della
posizione
della
Chiesa,
sottolineando
soprattutto
che
si
tratta
d’imporre
ai
non
credenti
una
prospettiva
di
fede,
ma
di
interpretare
e
difendere
i
valori
radicati
nella
natura
stessa
dell’essere
umano”.
[84]
ID.,
Costituzione
Apostolica
Ex
corde
Ecclesiae
sulle
Università
Cattoliche,
15
agosto
1990
AAS
82
(1990),
1475-‐1509,
n.
5
[85]
Ibid.,
n.
15
[86]
Conciclio
Ecumenico
Vaticano
II,
Messaggi
....
[87]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Lettera
Enciclica
“Sollecitudo
Rei
Socialis”,
Citta
del
Vaticano30.12.1987,
A.A.S.
(1988):
513-‐586:
[88]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Allocuzione
all’UNESCO,
2.6.1980.
aas,
72(1980)
750,
N.
22;
Idem,
Allocuzione
alla
Pontificia
Accademia
delle
Scienze,
10.11.1979,
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
II,
2
(1979)
1109.
258
Comunicato
Finale
1.
Durante
i
giorni
24-‐26
febbraio,
in
Vaticano,
si
è
svolta
la
IX
Assemblea
generale
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
quest'anno
dedicata
ad
un
tema
di
grande
attualità
ed
impatto
sociale:
l'
"Etica
della
ricerca
biomedica.
Per
una
visione
cristiana".
È
un
fatto
evidente
come,
negli
ultimi
decenni
in
particolare,
il
cammino
della
biomedicina
abbia
conosciuto
uno
sviluppo
straordinario,
sostenuto
anche
dall'enorme
avanzamento
della
tecnologia
e
dell'informatica
che
hanno
amplificato
enormemente
le
possibilità
d'intervento
sui
viventi
ed,
in
particolare,
sull'uomo.
Grandi
conquiste,
ad
esempio,
sono
state
ottenute
nel
campo
della
genetica,
della
biologia
molecolare,
così
come
nel
campo
della
trapiantologia
e
delle
neuroscienze.
Tra
i
fattori
determinanti
di
un
tale
sviluppo,
la
ricerca
biomedica
sicuramente
costituisce,
oggi
più
che
mai,
uno
strumento
privilegiato
per
far
progredire
le
conoscenze
in
questo
settore
della
medicina,
come
il
Papa
stesso
ha
sottolineato
in
questi
giorni:
"è
un
fatto
da
tutti
riconosciuto
che
i
miglioramenti
della
medicina
nella
cura
delle
malattie
dipendono
prioritariamente
dai
progressi
della
ricerca"
(GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
partecipanti
alla
IX
Assemblea
Generale
della
PAV,
n.
2
-‐
pubblicato
su
"L'Osservatore
Romano",
Lunedì-‐Martedì
24/25
Febbraio
2003,
p.
5).
2.
Ogni
nuova
scoperta
nel
campo
della
biomedicina,
nel
contesto
attuale,
sembra
ormai
destinata
a
produrre
effetti
"a
cascata",
aprendo
molteplici
orizzonti
nuovi
in
ordine
alla
possibilità
di
diagnosi
e
di
terapia
per
tante
patologie
ancora
oggi
inguaribili.
Ovviamente,
l'acquisizione
di
una
crescente
possibilità
tecnica
d'intervento
sull'uomo,
sugli
altri
esseri
viventi
e
sull'ambiente,
ottenendo
per
di
più
effetti
sempre
più
incisivi
e
duraturi,
esige,
da
parte
degli
scienziati
e
della
società
tutta,
l'assunzione
di
una
responsabilità
tanto
maggiore
quanto
più
grande
si
dimostra
la
potenza
dell'intervento
stesso.
Ne
deriva
che
le
scienze
sperimentali,
e
quindi
anche
la
biomedicina,
in
quanto
"strumento"
nelle
mani
dell'uomo,
non
bastano
a
se
stesse,
ma
necessitano
di
essere
orientate
a
determinati
fini
e
confrontate
col
mondo
dei
valori.
3.
Il
protagonista
di
questo
processo
continuo
di
"orientamento
etico"
è
inequivocabilmente
l'uomo.
Inscindibile
unità
di
corpo
e
anima,
l'essere
umano
si
caratterizza
per
la
sua
capacità
di
scegliere
in
libertà
e
responsabilità
il
fine
delle
sue
azioni
e
i
mezzi
per
raggiungerlo.
La
sua
ansia
di
ricerca
della
verità,
che
appartiene
alla
sua
stessa
natura
e
alla
sua
particolare
vocazione,
trova
un
aiuto
indispensabile
nella
Verità
stessa,
che
è
Dio,
il
quale
viene
incontro
all'uomo,
svelandogli
il
Suo
volto
attraverso
il
creato
e,
più
direttamente,
attraverso
la
Rivelazione;
così
Egli
asseconda
e
sostiene
gli
sforzi
della
ragione
umana,
consentendole
di
riconoscere
i
tanti
"semi
di
verità"
presenti
nella
realtà
e,
finalmente,
di
entrare
in
comunione
con
la
Verità
stessa
che
Egli
è.
In
linea
di
principio,
quindi,
non
sussistono
limiti
etici
alla
conoscenza
della
verità,
non
vi
è
cioè
alcuna
"barriera"
oltre
la
quale
l'uomo
non
dovrebbe
mai
spingersi
nel
suo
sforzo
conoscitivo:
con
saggezza,
il
Santo
Padre
ha
definito
l'uomo
come
"colui
che
cerca
la
verità"
(GP
II,
Fides
et
Ratio,
n.28);
esistono
invece
precisi
limiti
etici
al
modo
di
agire
dell'uomo
che
ricerca
tale
verità,
poiché
"tutto
ciò
che
è
tecnicamente
possibile
non
è
per
ciò
stesso
moralmente
ammissibile"
(CDF,Donum
Vitae,
n.
4).
È
dunque
la
dimensione
etica
dell'uomo,
che
egli
concretizza
attraverso
i
giudizi
della
sua
coscienza
morale,
a
connotare
la
bontà
esistenziale
della
sua
vita.
4.
Nell'impegno
a
ricercare
e
riconoscere
la
verità
oggettiva
in
ogni
creatura,
un
ruolo
di
particolare
rilievo
hanno
gli
scienziati
dell'area
biomedica,
i
quali
sono
chiamati
ad
operare
per
il
benessere
e
la
salute
degli
esseri
umani;
ogni
attività
di
ricerca
in
questo
campo,
quindi,
deve
259
avere
sempre
come
fine
ultimo
il
bene
integrale
dell'uomo
e,
nei
mezzi
utilizzati,
deve
rispettare
pienamente
in
ciascun
individuo
la
sua
inalienabile
dignità
di
persona,
il
diritto
alla
vita
e
l'integrità
fisica
sostanziale.
Contro
ogni
falsa
accusa
o
malinteso,
vogliamo
riaffermare,
in
comunione
col
Papa,
Giovanni
Paolo
II,
che:
"la
Chiesa
rispetta
ed
appoggia
la
ricerca
scientifica,
quando
essa
persegue
un
orientamento
autenticamente
umanistico,
rifuggendo
da
ogni
forma
di
strumentalizzazione
o
distruzione
dell'essere
umano
e
mantenendosi
libera
dalla
schiavitù
degli
interessi
politici
ed
economici"
(GP
II,
Discorso...,
n.4)
In
quest'ottica,
occorre
manifestare
la
più
grande
gratitudine
alle
migliaia
di
medici
e
ricercatori
di
tutto
il
mondo
che,
generosamente
e
con
grande
professionalità,
ogni
giorno
si
dedicano
con
tutte
le
proprie
forze
al
servizio
dei
sofferenti
e
alla
cura
delle
patologie.
Ancora,
il
Papa
ha
ricordato
che:
"Tutti,
credenti
e
non
credenti,
dobbiamo
rendere
omaggio
ed
esprimere
sincero
appoggio
a
questo
sforzo
della
scienza
biomedica,
rivolto
non
soltanto
a
farci
meglio
conoscere
le
meraviglie
del
corpo
umano,
ma
anche
a
favorire
un
degno
livello
di
salute
e
di
vita
per
le
popolazioni
del
pianeta"
(GP
II,
Discorso...,
n.2).
5.
Per
le
motivazioni
già
ricordate,
a
ragione
quindi
si
può
e
si
deve
parlare
di
una
"etica
della
ricerca
biomedica"
che,
di
fatto,
si
è
andata
sviluppando
ed
articolando
sempre
più
negli
ultimi
trent'anni.
A
tale
sviluppo,
anche
la
riflessione
cristiana
ha
saputo
dare
il
suo
importante
contributo,
facendo
emergere
alcune
problematiche
nuove,
alla
luce
della
sua
originale
visione
antropologica.
Storicamente,
possono
essere
citati
almeno
due
temi
come
esempio
dell'attenzione
etica
della
comunità
cristiana
verso
il
mondo
della
ricerca
biomedica:
il
richiamo
al
rispetto
della
persona,
quando
essa
diviene
soggetto
di
ricerca,
specialmente
nel
caso
della
sperimentazione
non
direttamente
terapeutica;
la
sottolineatura
dello
stretto
legame
esistente
tra
scienza,
società
ed
individuo,
che
si
gioca
nell'intero
processo
della
ricerca.
6.
Nell'elaborazione
di
un
itinerario
di
ricerca
biomedica
che
sia
rispettoso
del
vero
bene
della
persona,
è
quindi
necessario
far
convergere
in
sinergia
le
diverse
discipline
coinvolte
con
una
metodologia
integrativa,
che
renda
ragione
della
unità
complessa
costitutiva
dell'essere
umano.
A
tal
fine,
risulta
appropriata
la
proposta
del
cosiddetto
"metodo
triangolare";
esso
si
articola
in
tre
momenti:
l'esposizione
dei
dati
biomedici;
l'approfondimento
del
significato
antropologico
e
l'individuazione
dei
valori
in
gioco
che
tale
fatto
comporta;
l'elaborazione
delle
norme
etiche
che
possano
guidare
il
comportamento
degli
operatori,
nella
data
situazione,
secondo
i
significati
e
i
valori
precedentemente
individuati.
7.
Un
altro
tema
di
grande
rilevanza,
nell'ambito
della
ricerca
biomedica,
è
senza
dubbio
quello
della
sperimentazione,
terapeutica
e
non,
considerata
nell'ottica
della
sua
applicazione
nell'uomo.
Esso
coinvolge
molti
aspetti
e
problematiche,
sia
di
ordine
scientifico
che
etico.
È
un'esigenza
imprescindibile,
ad
esempio,
quella
di
assicurare
un
alto
livello
di
professionalità
dei
ricercatori
coinvolti
nel
disegno
sperimentale,
così
come
adottare
una
metodologia
che
sia
rigorosa
nell'individuazione
e
nell'applicazione
dei
criteri
procedurali.
Inoltre,
è
eticamente
necessario
che
lo
sperimentatore,
insieme
ai
suoi
collaboratori,
mantenga
una
piena
indipendenza
personale
e
professionale
rispetto
ad
eventuali
interessi
(economici,
ideologici,
politici,
ecc.)
estranei
allo
scopo
della
ricerca,
al
bene
dei
soggetti
coinvolti
e
all'autentico
progresso
dell'umanità.
8.
Ancora,
si
vuole
riaffermare
la
necessità
di
far
precedere
la
fase
sperimentale
clinica
(applicazione
nell'uomo)
da
una
adeguata
sperimentazione
condotta
sugli
animali,
che
permetta
ai
ricercatori
di
acquisire
previamente
tutte
le
necessarie
conoscenze
circa
i
possibili
danni
e
260
rischi
che
tale
sperimentazione
potrebbe
comportare,
allo
scopo
di
garantire
la
sicurezza
dei
soggetti
umani
coinvolti.
Naturalmente,
anche
la
sperimentazione
sugli
animali
esige
di
essere
condotta
nell'osservanza
di
precise
norme
etiche
che
tutelino,
nella
massima
misura
possibile,
il
benessere
degli
esemplari
utilizzati.
9.
Particolare
attenzione,
poi,
deve
essere
riservata
al
coinvolgimento
nei
protocolli
di
ricerca
di
soggetti
umani
particolarmente
"vulnerabili",
a
causa
delle
loro
condizioni
vitali,
come
chiaramente
mostra
il
caso
esemplare
dell'embrione
umano.
Per
la
delicatezza
del
suo
stadio
di
sviluppo,
infatti,
una
eventuale
sperimentazione
su
di
lui
comporterebbe,
alla
luce
delle
attuali
possibilità
tecniche,
dei
rischi
molto
elevati
-‐
e
perciò
non
eticamente
accettabili
-‐
di
procurargli
dei
danni
irreversibili
o
addirittura
di
causarne
la
morte.
Risulta
anche
del
tutto
inaccettabile
la
motivazione
addotta
da
alcuni
circa
la
liceità
di
sacrificare
l'integrità
(fisica
e
genetica)
di
un
soggetto
umano
allo
stadio
embrionale,
fino
a
distruggerlo
se
necessario,
allo
scopo
di
ottenere
dei
benefici
per
altri
individui
umani:
mai
è
moralmente
lecito
compiere
intenzionalmente
un
male,
neanche
per
raggiungere
fini
in
se
stessi
buoni
.
Inoltre,
occorre
tener
presente
come
l'individuo
umano
allo
stadio
embrionale,
pur
meritando
il
rispetto
dovuto
ad
ogni
persona
umana,
non
sia
certamente
un
soggetto
in
grado
di
dare
il
suo
consenso
personale
a
interventi
che
lo
espongono
a
grandi
rischi,
senza
avere
un'efficacia
direttamente
terapeutica
per
lui
stesso;
pertanto,
qualunque
intervento
sperimentale
sull'embrione
umano,
che
non
sia
finalizzato
ad
ottenere
benefici
diretti
per
la
sua
salute,
non
può
essere
considerato
moralmente
lecito.
10.
L'attuale
processo
di
globalizzazione
progressiva
che
sta
interessando
l'intero
pianeta,
le
cui
conseguenze
non
sempre
appaiono
essere
positive,
ci
spinge
a
considerare
la
tematica
della
ricerca
biomedica
anche
sotto
il
profilo
dei
suoi
risvolti
sociali,
politici
ed
economici.
Data
la
limitatezza
crescente
delle
risorse
da
poter
destinare
allo
sviluppo
della
ricerca
biomedica,
è
infatti
necessario
porre
grande
attenzione
a
realizzarne
una
distribuzione
equa
tra
i
vari
Paesi,
tenendo
in
conto
le
condizioni
di
vita
nelle
diverse
aree
del
mondo
e
l'emergenza
dei
bisogni
primari
nelle
popolazioni
più
povere
e
provate.
Ciò
significa
che
a
tutti
dovrebbero
essere
garantite
le
condizioni
e
i
mezzi
minimali
sia
per
poter
usufruire
dei
benefici
derivanti
dalla
ricerca
stessa,
sia
per
poter
sviluppare
e
mantenere
una
capacità
endogena
di
ricerca.
11.
A
livello
legislativo,
poi,
si
rinnova
l'auspicio
e
la
raccomandazione
perché
si
giunga
ad
una
normativa
internazionale
unificata
nei
contenuti,
che
sia
fondata
sui
valori
inscritti
nella
natura
stessa
della
persona
umana.
In
questo
modo,
si
supererebbero
le
attuali
disparità
che,
in
molti
casi,
rendono
possibili
abusi
e
strumentalizzazioni
dei
singoli
individui
e
di
intere
popolazioni.
12.
Infine,
riconoscendo
l'enorme
influsso
che
i
mass-‐media
hanno
nella
formazione
dell'opinione
pubblica
e
l'importante
ruolo
che
essi
svolgono
nel
suscitare
aspettative
e
desideri,
più
o
meno
fondati,
nel
grande
pubblico,
appare
sempre
più
necessario
che
gli
operatori
del
settore,
che
scelgono
di
occuparsi
dell'area
biomedica
e,
più
in
generale,
della
bioetica,
si
formino
accuratamente
tanto
nel
campo
scientifico
come
in
quello
etico,
per
essere
in
grado
di
comunicare,
con
un
linguaggio
semplice
e
sintetico,
la
realtà
dei
fatti
senza
ingenerare
confusione
o
travisamenti.
13.
In
conclusione,
la
Pontificia
Accademia
per
la
Vita
desidera
rinnovare,
con
grande
entusiasmo
e
profondo
senso
di
responsabilità,
il
proprio
impegno
e
la
propria
dedizione
alla
causa
della
vita,
in
sincera
e
rispettosa
collaborazione
con
tutti
coloro
che
operano
nel
campo
della
ricerca
261
biomedica,
come
il
Papa
stesso
ha
indicato
nel
suo
indirizzo
alla
PAV:
"Nel
terreno
della
ricerca
biomedica
l'Accademia
per
la
Vita
può
quindi
costituire
un
punto
di
riferimento
e
di
illuminazione
non
solo
per
i
ricercatori
cattolici,
ma
anche
per
quanti
desiderano
operare
in
questo
settore
della
biomedicina
per
il
bene
vero
di
ogni
uomo."
(GP
II,
Discorso...,
n.
3).
Il
suo
compito
precipuo
continua
ad
essere
quello
di
mettere
a
disposizione
della
Chiesa,
della
società
nel
suo
insieme
e
della
comunità
scientifica
in
particolare
il
proprio
servizio
"statutario"
di
studio,
formazione
ed
informazione,
nello
sforzo
di
individuare
ed
indicare
alla
società
intera
i
valori
radicati
nella
dignità
della
persona
umana
ed
esigiti
dal
perseguimento
del
vero
bene
di
ogni
uomo
e
di
tutto
l'uomo,
allo
scopo
di
dedurne
indicazioni
etiche
che
possano
guidare
gli
operatori
nel
loro
impegno
quotidiano.
(pubblicato in "L'Osservatore Romano", Giovedì 13 Marzo 2003, p. 7)
262
Proposta
di
impegno
etico
per
i
ricercatori
in
ambito
biomedico
Nota
introduttiva:
Il
seguente
"manifesto"
viene
pubblicato
come
appendice
al
comunicato
finale
della
IX
Assemblea
Generale
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita.
Esso
rappresenta
un
frutto
concreto
dei
lavori
assembleari,
quest'anno
dedicati
al
tema
"Etica
della
ricerca
biomedica.
Per
una
visione
cristiana",
che
viene
presentato
come
proposta
aperta
alla
quale
aderire
liberamente.
L'invito
per
una
adesione
personale
è
rivolto
a
tutti
i
ricercatori
e
operatori
della
ricerca
nell'area
biomedica
e
anche
ai
ricercatori
nel
campo
bioetico.
L'eventuale
adesione
personale,
che
presuppone
la
condivisione
dei
principi
esposti
nel
testo,
può
essere
comunicata
in
uno
dei
seguenti
modi:
-‐
per
e-‐mail
(indirizzare
a:
pav@acdlife.va
)
-‐
per
fax
(inviare
al
+39
06
69882014)
-‐
per
posta
ordinaria
(indirizzo:
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
Via
della
Conciliazione
3,
00193
Roma
-‐
ITALY).
Qualunque
sia
la
modalità
prescelta,
è
obbligatorio
indicare
le
proprie
generalità
(nome,
cognome,
indirizzo,
telefono,
fax,
e-‐mail),
professione
e
luogo
di
lavoro,
titoli
accademici
o
di
studio.
13
Marzo
2003
Premessa
Lo
sviluppo
raggiunto
dalla
scienza
negli
ultimi
decenni
ha
prodotto
rilevanti
trasformazioni
culturali
e
sociali,
modificando
qualitativamente
molti
aspetti
dell'esistenza
umana.
L'avanzamento
del
progresso
scientifico
in
diversi
settori,
infatti,
ha
suscitato
grandi
speranze
di
concreti
miglioramenti
per
la
vita
ed
il
futuro
dell'uomo.
Tuttavia,
in
alcuni
settori
della
ricerca
scientifica
sono
sorti
problemi
e/o
dubbi
di
natura
etica
e
religiosa,
che
hanno
mostrato
in
modo
inequivocabile
quanto
sia
necessario,
in
realtà,
un
costante
confronto/integrazione
tra
le
scienze
sperimentali,
da
un
lato,
e
le
altre
scienze
umane
e
la
filosofia,
dall'altro,
in
un
orizzonte
più
ampio,
perché
l'acquisizione
di
conoscenze
sempre
nuove
sia
effettivamente
finalizzata
al
vero
bene
della
persona
umana.
La
vita
e
la
natura
dell'uomo
si
presentano
come
realtà
troppo
complesse
per
poter
essere
esaminate
in
maniera
esaustiva
da
un'unica
prospettiva;
un
approccio
multidisciplinare
appare,
dunque,
indispensabile
per
poter
conoscere
sempre
meglio
l'essere
umano
nella
sua
integralità
ed
offrire
un
apporto
significativo
alla
crescita
di
una
scienza
che
sia
veramente
per
l'uomo.
Inoltre,
un
tale
dialogo
interdisciplinare,
proprio
riportando
l'attenzione
sulla
centralità
della
persona
umana,
renderebbe,
da
una
parte,
gli
uomini
di
scienza
più
consapevoli
delle
implicazioni
etiche
del
loro
operare
e
spingerebbe,
dall'altra,
i
cultori
di
antropologia
filosofica
e
teologica
ad
assumere
un
ruolo
di
collaborazione
dialogica
e
di
supporto
pratico
nei
loro
confronti,
nel
comune
intento
di
accrescere
gli
strumenti
conoscitivi
ed
applicativi
al
servizio
della
comunità
umana
In
tale
prospettiva,
il
riferimento
ai
valori
umani
e,
in
definitiva,
ad
una
visione
antropologica
ed
etica,
è
dunque
un
elemento
imprescindibile
da
porre
come
premessa
per
una
ricerca
scientifica
corretta,
che
sappia
ben
tenere
in
conto
le
responsabilità
verso
se
stessi
e
verso
gli
altri.
263
Senza
riferimento
all'etica,
infatti,
scienza
e
tecnologia
possono
essere
usate
sia
per
uccidere
che
per
salvare
vite
umane,
sia
per
manipolare
che
per
promuovere,
sia
per
distruggere
che
per
costruire.
È
quindi
necessario
che,
mediante
una
gestione
responsabile,
la
ricerca
si
indirizzi
verso
il
vero
bene
comune,
un
bene
che
trascenda
qualsiasi
interesse
meramente
privato,
superando
i
confini
geografici
e
culturali
delle
nazioni,
sempre
tenendo
lo
sguardo
puntato
al
bene
delle
generazioni
future.
Perché
la
scienza
sia
realmente
posta
a
servizio
dell'uomo,
è
necessario
che
essa
sappia
andare
"oltre
la
materia",
intravedendo
nella
dimensione
corporea
dell'individuo
l'espressione
di
un
bene
spirituale
più
grande.
Gli
scienziati
devono
comprendere
il
corpo
umano
come
la
dimensione
tangibile
di
una
realtà
personale
unitaria,
corporea
e
spirituale
allo
stesso
tempo.
L'anima
spirituale
dell'uomo,
sebbene
non
tangibile
in
se
stessa,
sempre
costituisce
la
radice
della
sua
realtà
esistenziale
e
tangibile,
della
sua
relazione
col
resto
del
mondo
e,
di
conseguenza,
del
suo
peculiare
ed
inalienabile
valore.
Solo
una
tale
visione
potrà
rendere
la
ricerca
scientifica
effettivamente
rispettosa
della
persona
umana,
considerata
nella
sua
complessa
unità
corporeo-‐spirituale,
ogni
volta
che
essa
diviene
oggetto
di
investigazione,
con
un
particolare
riferimento
a
quegli
eventi
che
costituiscono
l'inizio
e
il
termine
della
vita
umana
individuale.
A
motivo
di
ciò,
emerge
forte
l'esigenza
di
offrire
percorsi
formativi
per
i
giovani
ricercatori,
che
pongano
l'accento
non
soltanto
sul
versante
della
preparazione
scientifica,
ma
anche
sull'acquisizione
di
nozioni
fondamentali
di
antropologia
e
di
etica;
l'espressione
di
tali
percorsi
potrebbe,
poi,
cristallizzarsi
nell'elaborazione
di
un
vero
e
proprio
codice
deontologico
per
i
ricercatori,
al
quale
ciascun
ricercatore
possa
fare
sicuro
riferimento
nel
suo
lavoro,
e
che
rappresenti
insieme
un
segno
di
speranza
e
di
impegno
per
una
medicina
veramente
"umanizzata",
durante
il
nuovo
millennio.
Una
prima
direttrice
di
cammino
potrebbe
riguardare
proprio
le
modalità
con
cui
il
ricercatore
deve
comportarsi
e
le
norme
da
osservare
per
indirizzare
la
ricerca
stessa
verso
le
finalità
già
esposte.
Tali
indicazioni
etiche,
alle
quali
scegliamo
di
aderire,
desideriamo
proporle
anche
a
tutti
gli
altri
operatori
del
mondo
della
ricerca
biomedica;
in
qualche
modo,
esse
delineano
i
tratti
principali
della
"personalità
morale"
del
ricercatore.
Impegno
-‐
Mi
impegno
ad
aderire
ad
una
metodologia
di
ricerca
caratterizzata
da
rigore
scientifico
e
da
un'alta
qualità
dell'informazione
che
viene
fornita.
-‐
Non
aderirò
a
ricerche
nelle
quali
mi
potrei
trovare
in
conflitto
d'interesse
dal
punto
di
vista
personale,
professionale
od
economico.
-‐
Riconosco
che
la
scienza
e
la
tecnologia
devono
essere
a
servizio
della
persona
umana,
nel
pieno
rispetto
della
sua
dignità
e
dei
suoi
diritti.
-‐
Riconosco
e
rispetto
ogni
tipo
di
ricerca,
e
le
sue
applicazioni,
che
sia
basato
sul
principio
di
"bontà
morale",
riferito
alla
corretta
visione
della
duplice
dimensione
corporale
e
spirituale
dell'uomo.
-‐
Riconosco
che
ad
ogni
essere
umano,
fin
dal
primo
momento
della
sua
esistenza
(processo
di
fertilizzazione)
e
fino
alla
sua
morte
naturale,
va
garantito
il
rispetto
pieno
ed
incondizionato
che
è
dovuto
ad
ogni
persona
umana,
a
ragione
della
sua
peculiare
dignità.
-‐
Riconosco
l'utilità
e
l'obbligo
di
una
seria
e
responsabile
sperimentazione
sull'animale,
condotta
alla
luce
di
determinate
regole
etiche,
prima
di
applicare
all'uomo
nuove
metodologie
diagnostiche
e
terapeutiche,
a
causa
del
mio
dovere
di
tutelare
la
vita
e
la
salute
umana.
Riconosco
anche
che
il
passaggio
dalla
sperimentazione
nell'animale
alla
fase
sperimentale
264
clinica
(nell'uomo)
deve
essere
compiuto
soltanto
quando
le
evidenze
fornite
dalla
sperimentazione
negli
animali
garantiscono
sufficientemente
l'innocuità
o
l'accettabilità
degli
eventuali
danni
e
rischi
che
tale
sperimentazione
implicasse.
-‐
Riconosco
la
legittimità
della
sperimentazione
clinica
sull'uomo,
ma
solo
a
precise
condizioni,
tra
le
quali
in
primo
luogo
la
salvaguardia
della
vita
e
dell'integrità
fisica
dei
soggetti
umani
sottoposti
ad
essa.
Occorrerà
poi
che
la
sperimentazione
sia
sempre
preceduta
da
una
doverosa,
corretta
e
completa
informazione
sul
significato
e
sugli
sviluppi
della
stessa.
Tratterò
ogni
persona
che
aderisce
ad
una
sperimentazione
come
soggetto
libero
e
responsabile
e
mai
come
mero
mezzo
per
il
conseguimento
di
altri
fini.
Mai
accetterò
che
una
persona
sia
arruolata
in
una
sperimentazione
senza
che
abbia
dato
il
suo
libero
consenso
informato.
(pubblicato
su
"L'Osservatore
Romano"
di
Giovedì
13
Marzo
2003,
p.
7)
265