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ATENEO PONTIFICIO REGINA APOSTOLORUM

Licenza in Teologia Spirituale

Il Monte della Verna e Il Monte Carmelo:


le spiritualità francescana e carmelitana messe a confronto
Prof. P. Joseph Spence – Anno Accademico 2021-2022

Introduzione al Corso: Presentazioni e Dettagli sullo svolgimento del Corso

Questo corso è un Seminario: perciò avremo modo di conoscerci meglio e di più,


rispetto a un corso “tradizionale” consistente in delle lezioni frontali tenute dal Professore.
Siccome, appunto, avremo modo di conoscerci meglio nel corso di questo Semestre, direi
che potremmo cominciare facendo solo un brevissimo giro di nomi per presentarci gli uni
agli altri… (Questo è il primo corso che tengo, come docente, in Teologia Spirituale…).
Come avrete forse visto sul “Syllabus” di questo Seminario, sarà strutturato in questa
maniera: le nostre prime tre mattinate, tra cui questa, saranno dedicate a delle lezioni
frontali che vi presenterò io. Dalla quarta mattinata in poi, invece, procederemo a delle
discussioni in aula. La settimana prima, vi darò un file PDF con qualche testo del Santo
francescano (e a volte carmelitano) che prenderemo in esame. Nel corso di quella settimana,
avrete il compito di leggervi quelle pagine che vi avrò dato (tra 30-50 pagine). Poi, qui in
aula la settimana seguente, avremo modo di discutere insieme questi testi: avrò preparato
alcune domande per meglio stimolare la nostra riflessione e dialogo sul santo e i suoi testi.
Esporrò per 5-10 minuti, all’inizio della lezione, qualcosa della vita e del pensiero di quel
santo, e poi discuteremo i testi del santo che avrete già letto.
Questo è quanto riguarda lo svolgimento del Corso. Per altri dettagli, rimando al
“Syllabus”, che mi sembra molto completo, soprattutto per quanto concerne l’esame. Potete
leggervi con calma il “Syllabus”. Poi, se avrete domande, me le chiederete. (Vi consiglio di
leggerlo bene, il “Syllabus”. Parla, appunto, dell’esame, che consisterà dell’insieme tra la
vostra partecipazione attiva alla discussione in aula, come anche da un elaborato scritto tra
8-10 pagine, e una paginetta di sintesi finale, che leggerete [= la paginetta] agli altri
nell’ultima lezione).

1
Introduzione al Corso:

Cominciamo subito, allora, a vedere qualche accenno al nostro tema: ovvero, le due
spiritualità, francescana e carmelitana, messe a confronto.
Intanto, la scelta del nome, o titolo, del Corso, credo sia abbastanza evidente: il
Monte della Verna è la montagna sulla quale, nel settembre del 1224, S. Francesco ha
ricevuto le stimmate: fu il primo in assoluto, nella storia del cristianesimo, ad avere tale
privilegio1. A suo seguito, non pochi (ma neanche molti) mistici e mistiche sia francescani
che non, riceveranno in dono, dal Signore, questa partecipazione anche corporale a quella
compassio che caratterizza l’anima di un amante di Cristo nella sua Passione. San
Bonaventura da Bagnoregio, in particolare, nella sua Legenda Maior, presenterà l’episodio
della stigmatizzazione di S. Francesco come il momento culminante dell’esperienza
spirituale e mistica di Francesco, un vero e proprio “sigillo” di Dio stesso, impresso nella
carne di Francesco, come partecipazione alla sua Passione e conferma della santità del tutto
singolare del Poverello d’Assisi. Il Monte Carmelo, invece, si trova nell’attuale stato
d’Israele, in realtà non lontano da Nazaret: dista una trentina di chilometri, andando verso il
Mar Mediterraneo, appunto partendo da Nazaret, città di Gesù di Nazaret. Il Monte
Carmelo, montagna frequentata già in antichità dal Profeta Elia, diverrà poi l’abitazione di
alcuni eremiti cristiani nel Medioevo: da lì nascerà, appunto, l’Ordine dei Carmelitani,
trasferitosi poi in Occidente, di cui conosciamo bene i Riformatori: Santa Teresa d’Avila e
san Giovanni della Croce, per non menzionare altre sante carmelitane più recenti e molto
amate: Santa Teresa di Lisieux, Santa Elisabetta della Trinità, Santa Teresa Benedetta della
Croce (al secolo Edith Stein). (Avremo modo di approfondire gli scritti di alcuni di questi
santi carmelitani).
Metteremo a fuoco questo confronto, appunto, tra le due spiritualità nel corso di
questo Seminario. Concentreremo però l’attenzione maggiormente sulla spiritualità e sui
santi francescani, senza mancare però dal riferimento continuo e, vorrei dire, fecondo, alla
spiritualità del Carmelo e al confronto tra le due spiritualità.
1
S. Paolo nella sua Lettera ai Galati, al capitolo 6, versetto 17, affermava: «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi:
difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo». Gli studiosi sono concordi, tuttavia, nel ritenere che le “stimmate” di
cui parla san Paolo non siano “stimmate” nel senso in cui le intendiamo noi: ovvero, dei fenomeni mistici che
coinvolgano l’anima, la psiche, e i sentimenti umani, penetrati dall’esperienza mistica sino a traboccare anche in segni
esteriori e fisici, nel corpo, come nel caso, per l’appunto, di S. Francesco d’Assisi. Invece, le “stigmate” di cui parla San
Paolo sarebbero, piuttosto, le ferite (morali, si intende, più che fisiche) ricevute nel sopportare i maltrattamenti subiti
per l’annuncio del Vangelo.
2
Oggi ci focalizzeremo sulle vicende biografiche e spirituali del fondatore della
spiritualità francescana: san Francesco d’Assisi. Sarà importante conoscere un po’ meglio la
figura del santo, perché Dio ha scelto lui, nella storia, come fonte di una spiritualità
profonda e fecondissima, rivissuta e ri-espressa, poi, in innumerevoli santi. L’esperienza
“fontale”, tuttavia, è proprio quella di san Francesco. Tener conto, anche se sullo “sfondo”,
della sua esperienza e dottrina spirituale ci aiuterà, lungo questo semestre, ad interpretare e
comprendere rettamente tutti gli altri santi francescani i cui scritti prenderemo in
considerazione. Anche il proverbio italiano, «Tale padre, tale figlio»; o, il detto in inglese:
«The apple doesn’t fall far from the tree», (cioè, «La mela non cade lontana dall’albero») ci
ricordano – intesi in un senso positivo – che ogni figlio reca in sé qualche somiglianza a suo
padre. Se ciò è vero sul piano naturale, lo è altrettanto su un piano soprannaturale. I figli
spirituali di un santo – in particolare se il santo è un fondatore, reso così dal Signore quale
“fonte” di un carisma, o dono di grazia, per la Chiesa e per il mondo – i figli spirituali,
dicevo, recano sempre impresse in sé l’immagine, più o meno nitida, più o meno
somigliante, del loro “capostipite” spirituale. Certamente, il «primogenito tra molti fratelli»
(cf. Romani 8,29) è unicamente il Cristo; tuttavia, anche i santi fondatori, in particolare,
hanno dei tratti caratteristici che permangono e vengono rivissuti ed espressi, seppure con
sfumature diverse, dai loro “discendenti” spirituali.
Prima di addentrarci però nel vivo delle vicende del Santo di Assisi, mi sembra
interessante, per “stuzzicare” il nostro “appetito” per le spiritualità francescana e
carmelitana, leggere brevemente insieme due “capolavori” delle due spiritualità. Tra molti
altri “capolavori” di spiritualità, ho pensato a due poesie. L’esperienza mistica, infatti,
difficilmente si può tradurre in termini umani. Spesse volte i mistici trovano, come “ambito”
spontaneo e naturale, quello dell’estetica, in particolare l’ambito della poesia sacra, per
meglio esprimere le loro esperienze. La simbolica offre loro un terreno più fecondo, più
ricco, più suggestivo, più pieno di significati, per poter al meglio esprimere una piccola
parte della loro esperienza, di per sé inenarrabile, della presenza travolgente ma serena,
amorevole e reale, di Dio nella loro anima.
La prima poesia che vorrei leggervi è il Cantico di frate Sole di san Francesco
d’Assisi. Dopo una rivelazione del Signore al santo, che gli assicurava la vita eterna,
Francesco ha voluto rendere grazie a Dio con la composizione di una nuova “lauda” del

3
Signore, da parte delle sue creature. Il santo d’Assisi compose anche una melodia
accompagnatoria, e la insegnò ai compagni perché anch’essi la cantassero 2. Si ricordi che
san Francesco compose questa “lauda” nel 1225, un anno prima della sua morte; era già
molto infermo e sofferente, nonché quasi cieco per una grave e dolorosa malattia agli occhi.
E così, in quelle condizioni, san Francesco componeva una lode quasi universale, cosmica,
delle creature al loro Creatore. E così cantava:
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedizione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfane,
e nullu homo ène dignu Te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature,


spezialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
da Te, Altissimo, porta significazione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:


in celu l’ài formate clarite e preziose e belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento


E per aere e nubilo e sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua,


la quale è multo utile et humile e preziosa e casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,


per lo quale ennallumini la notte:
et ello è bello e iocundo e robustoso e forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,


la quale ne sustenta e governa,
e produce diversi frutti con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
e sostengo infirmitate e tribulazione.

Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace,


ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,


da la quale nullu homo vivente po’ skampare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
2
Cf. FRANCESCO D’ASSISI, Scritti (Edizione critica a cura di Carlo Paolazzi), Edizioni Quaracchi, Roma 2009, p. 119.
4
Laudate e benedicite mi’ Signore e rengraziate
e serviateli cum grande humilitate3.

Non mi soffermo ora in spiegazioni particolari; non è il mio intento, in questo


momento, di fare un’esegesi di questo scritto di san Francesco, ma unicamente di farvelo
“gustare”, insieme ad un’altra poesia – tra le tante dei grandi mistici francescani e
carmelitani – per darvi come un “antipasto” e anticipazione dei molti scritti che avremo
modo di approfondire e “sviscerare” nel corso di questo Semestre.
La seconda poesia, dunque, che mi sembra opportuno condividere, procedendo in
ordine cronologico, è quella della Notte Oscura di san Giovanni della Croce. San Juan de la
Cruz, spagnolo, il primo seguace di santa Teresa d’Avila nella Riforma dell’Ordine
carmelitano – lei, delle monache, e lui dei monaci –, scrisse questa poesia a 36 anni di età, a
Toledo. Siamo nell’anno 1578. La scrisse, però, in delle condizioni del tutto particolari: era
stato incarcerato dai suoi confratelli, i Carmelitani, sdegnati per la Riforma che San Juan de
la Cruz stava operando nell’Ordine, fondando così i “Carmelitani scalzi”; incarcerato
dunque nel monastero dei Carmelitani di Toledo, per ben nove mesi, in condizioni pessime,
san Juan de la Cruz compone questa poesia, insieme anche alla poesia Cantico spirituale ed
altri scritti ancora. Saranno proprio queste poesie che, più tardi, su richiesta delle sue figlie
spirituali, commenterà in quelle opere mirabili di scienza mistica che formano le opere
maggiori della sua dottrina mistica. Nella poesia En una noche oscura, si legge con facilità,
tra le righe, quella fuga dal carcere che già meditava da tempo e che poi, effettivamente,
riuscì ad attuare4. La poesia si riferisce però, nel suo senso più profondo, alla fuga
dell’anima – ormai rivestita di ogni virtù – da qualunque presa diabolica, e a quella notte
mistica dell’anima che permette, poi, la congiunzione dell’anima amata col suo Amato, Dio,
nella consumazione di una vera unione mistica tra l’anima e Dio.
San Juan de la Cruz dunque, ha composto questa poesia a mente; poi, grazie al
carceriere nuovo – sempre un frate Carmelitano, suo confratello – però più sensibile del
precedente, san Juan poté chiedergli carta e penna per poter appuntare questi suoi pensieri,
che porterà via, poi, nella sua fuga, e diverranno appunto la base dei suoi scritti futuri. San
Juan, dunque, scriveva:

3
FRANCESCO D’ASSISI, Scritti, pp. 121-123.
4
Cf. B. MORICONI, Il prigioniero di Toledo, Juan de la Cruz, poeta di Dio, Edizioni OCD, Roma 2018, pp.103-115.
5
En una noche oscura, In una notte oscura,
con ansias, en amores inflamada, con ansie, in amori infammata,
¡oh dichosa ventura!, – oh! felice ventura! –
salí sin ser notada, uscii senz’esser notata,
estando ya mi casa sosegada. stando già la mia casa addormentata.

A oscuras, y segura, All’oscuro, e sicura,


por la secreta escala, disfrazada, per la segreta scala, travestita,
¡oh dichosa ventura!, – oh felice ventura! –
a oscuras, y en celada, All’oscuro, e ben celata,
estando ya mi casa sosegada. stando già la mia casa addormentata.

En la noche dichosa, Nella felice notte,


en secreto, que nadie me veía, nel segreto, senza esser veduta,
ni yo miraba cosa, né guardando alcuna cosa,
sin otra luz y guía senza altra luce o guida
sino la que en el corazón ardía. se non quella che nel cuore ardeva.

Aquésta me guiaba Questa mi guidava,


más cierto que la luz del mediodía, più certa che la luce del mezzogiorno,
adonde me esperaba là dove mi aspettava
quien yo bien me sabía, chi bene io conoscevo,
en parte donde nadie parecía. nel luogo dove nessuno si trovava.

¡Oh noche que guiaste! O notte che mi hai guidato!


¡Oh noche amable más que la alborada! O notte amabile più dell’alba!
¡Oh noche que juntaste O notte che hai congiunto
Amado con amada, l’Amato con l’amata,
amada en el Amado transformada! l’amata nell’Amato trasformata!

En mi pecho florido, Sul mio petto fiorito,


que entero para él solo se guardaba, che intatto per lui solo io conservavo,
allí quedó dormido, lì rimase addormentato,
y yo le regalaba, mentre io lo accarezzavo
y el ventalle de cedros aire daba. e la chioma dei cedri ventilava.

El aire de la almena, La brezza dell’altura


cuando yo sus cabellos esparcía, quando i capelli suoi io scompigliavo,
con su mano serena con la sua mano leggera
en mi cuello hería, il mio collo feriva
y todos mi sentidos suspendía. e tutti i sensi miei sospendeva.

Quedéme y olvidéme, Giacqui e mi obliai,


el rostro recliné sobre el Amado, il volto reclinato sull’Amato
cesó todo, y dejéme, cessò tutto, e io m’abbandonai
dejando mi cuidado lasciando ogni pensiero
entre las azucenas olvidado5. tra i gigli obliato.
Ora non è il momento di soffermarmi in altre spiegazioni del poema En una noche
oscura di san Giovanni della Croce. Ci limitiamo qui a gustarcela, nel bellissimo idioma

5
SAN JUAN DE LA CRUZ, Obras Completas (Edición crítica), Editorial de Espiritualidad, Madrid 20096, pp. 175-176.
6
spagnolo. Difatti, come nelle scuole superiori, qui in Italia, si studia il Cantico di frate Sole
come uno dei capolavori della lingua italiana arcaica, così in Spagna giovani studenti si
accostano alla poesia En una noche oscura, di san Juan de la Cruz, altro vero capolavoro
della lingua e della letteratura spagnola, oltre che della tradizione mistica.

Vicende biografiche e spirituali di san Francesco d’Assisi:

Addentriamoci, dunque, nelle vicende biografiche e spirituali del Patrono d’Italia, san
Francesco d’Assisi. Fermiamoci prima, però, seppur brevemente, sul retroscena storico che
precede la vicenda del “Poverello d’Assisi”.
L’Europa e la Chiesa nel XII secolo: il retroterra storico del tempo di san
Francesco6: Con il Concordato di Worms (in Germania), stipulato nel 1122, si mise fine alla
cosiddetta “lotta per le investiture”. Già dal tempo di Carlo Magno, incoronato nell’anno
800 d.C. dal Papa Leone III quale Imperatore del Sacro Romano Impero, viene attribuito
all’Imperatore e ai re un valore sacrale; anche i monasteri e le diocesi, dall’altra parte,
detenevano enormi poteri politici, economici ed anche militari. C’era dunque una
commistione profonda tra potere temporale (o “civile”) e quello religioso. Nell’XI secolo,
molti vescovi esercitavano ormai un potere anche temporale nel territorio delle loro diocesi,
anche per delega esplicita dell’Imperatore. Era dunque naturale per l’Imperatore nominare e
investire di potere questi “vescovi-conti”. A metà dell’XI secolo, nel frattempo, avvennero
diversi fatti decisivi per la vita della Chiesa: il S. Papa Leone IX, in accordo con
l’Imperatore Enrico III, attuò una grande riforma nella Chiesa: depose i prelati con
comportamenti indegni e immorali; condannò la simonia, cioè l’acquisto con denaro di
cariche ecclesiastiche; condannò, inoltre, il concubinato, riaffermando la necessità e
l’obbligo del celibato tra il clero. Papa Leone IX riaffermò anche la supremazia della Chiesa
romana, chiamando presso di sé, per questa opera di riforma diversi riformatori e figure
ecclesiastiche di spicco, tra cui san Pier Damiani. Nel 1054, invece, avvenne il grande e
tragico scisma tra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente (tutt’oggi esistente, per cui
parliamo di “Cattolici” e “Ortodossi”, di cui l’unica differenza sostanziale consiste nella
non-riconoscenza del Vescovo di Roma, cioè il Papa, da parte degli “Ortodossi”, quale

6
Per questa sezione delle dispense, mi riferirò al libro del noto storico medioevale e francescanista RAOUL MANSELLI,
San Francesco d’Assisi. Editio Maior, Edizioni San Paolo, Milano 20132, pp. 72-91.
7
detentore dell’autorità suprema nella Chiesa. Si tratta, in realtà, di una questione più politica
che religiosa, in quanto ogni Chiesa ortodossa ha un suo patriarca, molto venerato e molto
potente, quasi “Papa”, ciascuno di loro, della propria Chiesa). In un Concilio nel palazzo del
Laterano del 1059, si stabilì che il Papa venisse eletto dal collegio cardinalizio; mentre, nel
1075, S. Papa Gregorio VII redige i Dictatus papae, i “Dettati del Papa”, nei quali
rivendicava il diritto di nominare i vescovi, contrariamente alle pretese dell’Imperatore di
nominarli lui. Così si acuì la cosiddetta “lotta per le investiture” tra l’Imperatore e il Papa:
ognuno rivendicava per sé il diritto di nominare i vescovi. Questo contrasto troverà una sua
risoluzione solamente, come dicevo poc’anzi, con il “Concordato di Worms” nel 1122, cioè
quasi 50 anni più tardi. L’Imperatore Enrico V rinuncia, con il Concordato a Worms, alle
investiture dei vescovi, a favore del Papa Callisto II, mantenendosi il privilegio in Germania
di poter assistere a queste nomine e di poter conferire i benefici temporali al nuovo vescovo
appena prima della sua consacrazione7. Nel 1130, avviene il gravissimo scisma, nella Chiesa
d’Occidente, tra il Papa Innocenzo II e l’Antipapa Anacleto II. Sarà san Bernardo da
Chiaravalle, figura spirituale che più spiccava all’epoca, a convincere e trascinare il favore
delle Chiese in Francia, poi Inghilterra, Germania, Spagna, e finalmente in Italia, verso il
Papa Innocenzo II. San Bernardo continuerà, poi, con la sua eloquenza e santità, a
combattere anche le diverse e gravi eresie sorte nella Chiesa in quel tempo. Si tratta, in
modo particolare dei “catari”, come anche dei “valdesi”. I “catari”, dal greco καθαρὸς, cioè
“puro”, si erano molto diffusi in quell’epoca – specialmente nel Centr’Italia, NordItalia, e
nella zona Sud della Francia – fino al tempo anche di san Francesco e del suo
contemporaneo san Domenico di Guzmán, che si dedicò appunto alla predicazione contro i
catari e gli altri eretici, fondando per questo scopo l’Ordine dei Predicatori (conosciuti come
i “Domenicani”). I catari, come anche gli altri movimenti eretici del tempo, facevano leva
sulla corruzione dei costumi del clero, in particolare riguardo all’ambito del potere, del
prestigio, e del denaro. I “missionari” catari si dedicavano alla predicazione diretta alle
folle, nelle città: cominciavano i loro discorsi facendo un confronto tra i cattivi costumi,
evidenti a tutti, del clero, e la vita austera degli stessi predicatori, consumati dai digiuni e
rigorosamente casti. Chi assomigliava di più a Cristo – chiedevano alle folle – i preti ricchi e
corrotti, o loro? La risposta era, in apparenza, evidente. Conquistata la simpatia e il favore
7
Per il riassunto storico di cui sopra, abbiamo attinto da: F.M. AMOROSO – G. BAUDO – M. CAMPARI (ed.), Tutto.
Storia, De Agostini Libri, Novara 2014, alle pagine 135-139. 165-176. Per i dati storici nei paragrafi seguenti, invece, si
consulti il libro già citato di RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, alle pagine 72ss.
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della gente, proseguivano nell’esporre le loro idee (in realtà eretiche) giunte in Occidente
dalle zone della Bulgaria all’inizio del XII secolo. Affermavano che l’universo materiale era
stato creato da Lucifero. Lui e i suoi angeli decaduti sarebbero entrati nei corpi dell’uomo a
partire da Adamo ed Eva; i corpi – sempre secondo questa perniciosa e terribile eresia –
sarebbero dunque una prigione di questi angeli decaduti, che passerebbero da un corpo
all’altro tramite l’atto sessuale. Bisognava dunque rinunciare non solo all’atto sessuale, ma
anche ad ogni cibo derivante dall’atto sessuale degli animali: la carne, le uova, il latte, ecc.
Infine, attraverso un rito di iniziazione con l’imposizione delle mani, e l’osservanza delle
norme di questa setta, si diveniva così partecipi della liberazione degli angeli caduti dai
corpi, ottenendo così la propria liberazione e salvezza. Oltre a questa terribile eresia, era
sorta nella stessa epoca un’altra: quella dei valdesi, seguaci di Pietro Valdo. Anche i valdesi
si dedicavano a una vita di povertà e di predicazione, rifiutavano la validità dei sacramenti
impartiti dai sacerdoti ritenuti, da loro, “indegni”, il rifiuto della gerarchia ecclesiastica e di
qualunque precetto ecclesiastico che non si trovasse esplicitamente nei Vangeli.
Anche ai monaci veniva accusata, dal popolo, la loro solo apparente povertà: è vero
che non avevano proprietà personale, però i monasteri avevano dei possedimenti veramente
vastissimi; i monaci, dunque, non temevano la fame, ed erano considerati come degli
approfittatori, dei “mangiapane” e dei “fannulloni” oziosi. Mentre, quindi, nella prima metà
del XII secolo, erano i monaci, capeggiati da san Bernardo da Chiaravalle, a proporre un
rinnovamento e l’esigenza della povertà e della autenticità di una vita veramente evangelica
nella Chiesa; nella seconda metà del XII secolo, invece, sorgono spontaneamente dal popolo
di Dio, dai laici, dei movimenti pauperistici, alcuni dei quali gravemente ereticali – come,
appunto, i catari e i valdesi – altri invece ortodossi (nel senso etimologico del termine,
ovvero di “retta dottrina” cattolica).
Morto nel 1153 il grande abate cisterciense, san Bernardo da Chiaravalle, mancava
nella Chiesa della fine del XII secolo – ormai da 50 anni – una figura spirituale capace di
trascinare, con la parola e con l’esempio, il popolo di Dio e la Chiesa tutta ad una riforma
basata sui valori evangelici. Ecco allora l’intervento provvidenziale di Dio, in un’antica città
romana, appartenente al potente ducato di Spoleto: ovvero, la città di Assisi.

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Francesco: giovinezza e conversione8: Giovanni di Pietro di Bernardone nasce nel 1182.
Suo padre, assente per un viaggio di affari nella Francia, torna ad Assisi e cambia il nome di
suo figlio: Francesco – che nel gergo di allora significava, in realtà, “francese” –, in onore
degli affari appena riusciti nella Francia, che costituiva per Pietro la fonte della sua grande
ricchezza. Pietro di Bernardone, infatti, era un mercante, ovvero un compratore e venditore
di stoffe preziose. Si recava nella Francia per acquistare le sue stoffe preziose e pregiate,
ambite dai ricchi delle città italiane, per poi rivenderle con un ampio margine di guadagno.
Francesco, come nome, sebbene raro, non era in realtà del tutto sconosciuto in Italia a quel
tempo. Non conosciamo molto – anzi, quasi nulla – dell’infanzia, fanciullezza e giovinezza
di Francesco. Le Biografie di san Franceso, scritte dai suoi contemporanei e testimoni, non
ci vengono in aiuto su questo punto. Sappiamo intanto dai suoi scritti, di Francesco intendo,
della sua discreta conoscenza della lingua latina. Aveva avuta, certamente, quell’educazione
– non profondissima – tipica di un mercante del tempo. Doveva conoscere, quindi, un po’ di
latino, per poter verificare lo scambio commerciale e di denaro che veniva registrata dai
notai, ovviamente tutto e rigorosamente in latino; doveva pur controllare se il notaio avesse
scritto bene la quantità di stoffa comprata e venduta, in maniera da non perdere i propri
guadagni per un’eventuale semplice svista o errore di scrittura. Così, alla stessa maniera – lo
sappiamo dalle Biografie – Francesco doveva conoscere il francese. (Infatti, Francesco
amava cantare delle canzoni in francese). Suo padre viaggiava spesso tra l’Italia e la
Francia, e dovette insegnare a Francesco quel tanto di francese che poteva servirgli, poi, per
proseguire nella carriera di suo padre.
La Biografia che ha più da offrirci, riguardo a questi anni della giovinezza, è la
Leggenda dei tre Compagni, scritta da una persona o più persone che hanno seguito da
vicino e ben conoscono le vicende e la vita della città di Assisi, anche intorno al Santo.
(Questa è la Biografia che il noto storico e francescanista, Raoul Manselli, più predilige;
attingerò molto dal libro, di carattere storico, di Manselli, San Francesco d’Assisi. Editio
Maior per raccontarvi un poco le vicende biografiche di Francesco). La Leggenda dei tre
Compagni offre un quadro molto interessante, e direi anche divertente e simpatico, del
giovane Francesco, un quadro – dicevo – affidabile anche a livello storico. La Leggenda,

8
Per questa sezione delle dispense, attingerò spesso dal libro sopracitato: RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi.
Editio Maior, in particolare alle pagine 100-138; farò riferimento, invece, alle altre fonti man mano nel corso del testo
di queste dispense.

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come le altre Biografie, salta la fanciullezza di Francesco per giungere direttamente alla sua
giovinezza. Ricordiamo, però, che la conversione di Francesco comincia ad avere luogo ai
suoi venti anni di età. A quel tempo, tuttavia, un giovane di 20 anni era già considerato, a
tutti gli effetti, un uomo ormai maturo, un adulto. Bisogna tener presente, infatti, che le
aspettative di vita a quei tempi erano molto ridotte rispetto alle nostre odierne: chi arrivava a
50 anni era considerato anziano. Francesco aveva sì, “solo” 20 anni, ma era già ben avviato
al mestiere di suo padre, cioè alla carriera di un mercante, o venditore di stoffe pregiate, e
svolgeva il mestiere in piena autonomia (e vedremo come fra non molto). Ascoltiamo la
descrizione che vien fatta del giovane Francesco dai testimoni dei fatti, o da coloro che
comunque hanno potuto cogliere nella fama publica, o passaparola, della città di Assisi,
questi dettagli peculiari sul giovane mercante. Scrivevano, appunto, nella Leggenda dei tre
compagni:
Giunto all’età adulta [= 20 anni] e dotato di ingegno acuto, egli prese a esercitare la
professione paterna, cioè il commercio, ma con stile completamente diverso. Francesco era
tanto più allegro e generoso, dedito ai giochi e ai canti, girovagava per la città di Assisi
giorno e notte con amici del suo stampo, tanto generoso nello spendere da dissipare in pranzi
e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare. Per questo motivo i genitori gli
rimproveravano di fare spese così esagerate per sé e per gli altri, da sembrare non loro figlio,
ma il rampollo di un gran principe. Ma siccome erano ricchi e lo amavano teneramente,
lasciavano correre su quel comportamento, non volendolo contristare. La madre, quando
sentiva i vicini parlare della prodigalità del giovane, rispondeva: «Che ne pensate di mio
figlio? Sarà sempre un figlio di Dio, per sua grazia».
Quanto a lui, non era spendaccione soltanto in pranzi e divertimenti, ma passava ogni limite
anche nel vestire, facendosi confezionare abiti più sontuosi di quelli che gli conveniva avere.
Nella ricerca dell’originalità era tanto vano, che a volte faceva cucire insieme nello stesso
indumento stoffa assai preziosa e panno di nessun valore.

Il giovane Francesco, dunque, era ricco, di famiglia assai ricca; e, avendo preso a
«esercitare la professione paterna, cioè il commercio», aveva anche dei soldi personali. Pare
che erano questi – i soldi personali di Francesco, da lui guadagnati – che egli sperperava.
Infatti, la Legenda Trium Sociorum precisa che Francesco era «tanto generoso nello
spendere da dissipare in pranzi e altre cose tutto quello che poteva avere o guadagnare». Si
tratta dunque dei soldi guadagnati da Francesco stesso, che poi egli dispendeva in maniera
esagerata e vanitosa. Era davvero un personaggio! Tuttavia, la Leggenda dei tre compagni
prosegue, Francesco «per indole quasi naturale, era cortese nel comportamento e nel
conversare. E seguendo un proposito nato da convinzione, a nessuno rivolgeva parole
ingiuriose o sporche». Nel testo originale, in latino, dice: «Erat tamen quasi naturaliter
11
curialis in moribus et in verbis, iuxta cordis sui propositum nemini dicens verbum
iniuriosum vel turpe». Francesco, dunque, era curialis, cioè cortese. Questo termine non è
da intendere solamente con il significato che oggi gli attribuiamo. Non significa solamente
che egli era “gentile”. Significa che seguiva lo stile di vita e i costumi dei nobili, vivendo
nelle corti: era “cortese”: viveva come si viveva nelle corti di quel tempo. Francesco quindi
si comportava come un nobile, anche se nobile non era, per provenienza familiare. Suo
padre, Pietro di Bernardone, era ricco, molto ricco, ma non era un nobile. Non erano tra i
maiores, cioè i nobili, ma tra i minores, cioè tra il popolo, della plebea. Tuttavia, nelle città
di quel tempo, in un momento di grande fermento e cambiamento sociale, a volte i più ricchi
tra i minores – ad esempio i mercanti – erano ben più ricchi degli stessi nobili. Francesco
dunque, aspirava alla nobiltà, e si comportava come se fosse già un nobile. Era
spendaccione al di là di quanto si potesse permettere; anche nelle parole e nei
comportamenti, si presentava come un nobile. Certo, come specifica la Legenda trium
sociorum, Francesco era quasi naturaliter curialis, ovvero “quasi naturalmente cortese”.
Così – come i nobili – Francesco pure prodigava il denaro anche in elemosine, dando
volentieri dei soldi ai poveri. La Leggenda dei tre compagni vede in queste gesta l’inizio o il
fondamento, nella natura di Francesco, della grazia futura che avrebbe ricevuta.
Questo giovane mercante, dunque, aspirava alla nobiltà. Infatti, Francesco ebbe
modo, ai suoi venti anni di età, preso dalle sue aspirazioni a conquistare la gloria di questo
mondo, di combattere in una battaglia a Collestrada, a metà strada tra Assisi e Perugia. Fu
preso dai perugini, insieme a vari compagni assisani, e rinchiuso in carcere per un anno
intero. Francesco era detenuto, specifica la Legenda trium sociorum, insieme con i cavalieri,
poiché «nobilis erat moribus», cioè era nobile per costumi. Si riferisce qui non solo al fatto
che si atteggiava da nobile, ma anche perché aveva potuto combattere insieme ai cavalieri, e
quindi cavalcava un cavallo, con le armi. Uno della plebea – è chiaro – non avrebbe potuto
permettersi un cavallo, le armi e l’armatura necessaria di combattere tra i cavalieri.
Conclusa la pace tra Perugia e Assisi, Francesco e gli altri cavalieri vengono liberati e
riportati ad Assisi, forse grazie anche al riscatto, per Francesco, in denaro, pagato da suo
padre Pietro di Bernardone. Ancora preso dal desiderio di diventare nobile, Francesco
decide di partecipare a una spedizione militare nelle Puglie. Difatti, il Papa Innocenzo III,
constatando della totale anarchia, o mancanza di ordine sociale, nel sud dell’Italia, decise di

12
rimettervi l’ordine. Prese dunque degli accordi con i signori locali, per riconquistare i terreni
caduti in mano alla gente locale. Il Papa, in fondo, era il proprietario, il “signore feudale”
delle terre pugliesi; voleva riprendersi quanto gli spettava. Incaricò dunque un uomo
d’arme, Gualtiero di Brienne, di organizzare una spedizione militare nelle Puglie 9. A questa
spedizione volle partecipare un certo nobile della città di Assisi, al fine di «acquistare soldi
e gloria». Francesco, preso anch’egli del desiderio di soldi e di gloria, vuole unirsi a questo
nobile e scendere nelle Puglie. Spera così di poter finalmente coronare il suo sogno:
Francesco intravede la possibilità concreta e vicina, finalmente, di poter diventare un nobile.
Spera nella benevolenza di un certo conte Gentile, probabilmente delle Puglie, poiché questi
lo facesse diventare “cavaliere”. I cavalieri – ricordiamolo – erano considerati nobili. Si
trattava dunque della concreta e reale possibilità di fare un salto sociale, di non essere più un
semplice minore, ma di passare nel rango sociale dei maiores, cioè dei nobili. Francesco
parte. Ecco allora l’intervento di Dio. Il giovane mercante, aspirante alla nobiltà, cade in
preda – non già dei suoi nemici, come l’altra volta a Collestrada – ma in preda alla malattia.
Si sente male, e deve fermarsi a Spoleto. Quella notte, nel dormiveglia – scrive la Legenda
trium sociorum – qualcuno cominciò ad interrogarlo su dove voleva andare. Francesco gli
espose per intero il suo progetto. E la voce gli disse: «Quis potest tibi melius facere?
Dominus aut servus?». Cioè, «chi può esserti più utile: il padrone o il servo?». E Francesco:
«Il padrone»; la voce dunque gli risponde: «Cur ergo relinquis pro servo dominum et
principem pro cliente?». Cioè, «Perché dunque abbandoni il padrone per il servo, e il
principe per il suddito?». Francesco gli risponde: «Quid me vis facere, Domine?». «Cosa
vuoi che io faccia, Signore?». E la voce: «Ritorna nella tua città e ti sarà detto che cosa devi
fare; poiché la visione che ti è apparsa devi interpretarla in tutt’altro senso». Francesco,
infatti, aveva sognato in precedenza, appena prima di partire per le Puglie, un palazzo
splendido pieno di armature, che gli fu detto, nel sogno, appartenesse a lui e ai suoi
cavalieri. Francesco aveva interpretato il sogno come un segno favorevole ai suoi successi
mondani, da cavaliere; anzi, credeva e diceva agli altri che sarebbe diventato un principe 10!
Tornato ad Assisi, Francesco riprende, ancora per poco tempo, la vita di prima. Dopo
alcuni giorni, gli amici lo «elessero loro signore» – cito sempre dalla Leggenda dei tre

9
Cf. RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, pp. 122-123.
10
Cf. Leggenda dei tre compagni, Capitolo II, Paragrafi 4-6. Si vedano le Fonti Francescane (Nuova edizione),
ERNESTO CAROLI (ed.), Editrice Francescane, Padova 2004, pp. 796-797; Fontes Franciscani, ENRICO MENESTÒ –
STEFANO BRUFANI (ed.), Edizioni Porziuncola, Santa Maria degli Angeli – Assisi 1995, pp. 1376-1379.
13
compagni – perché imbandisse un banchetto per loro, come sempre. Cantando e
girovagando per le vie di Assisi, dopo la cena, questa volta però Francesco rimaneva poco
dietro di loro, assorto nelle sue meditazioni. La Legenda trium sociorum racconta:
D’improvviso il Signore lo visitò e il suo cuore fu colmo di tanta dolcezza, che non poteva
muoversi né parlare e non riusciva a sentire o percepire se non quella soavità che lo aveva
estraniato da ogni sensazione fisica, tanto che (come poi ebbe a confidare lui stesso) non
avrebbe potuto muoversi da quel posto anche se lo avessero fatto a pezzi11.

Questa descrizione molto precisa e molto bella di questa visita del Signore all’anima
(e corpo) di Francesco presenta un’esperienza già mistica che può benissimo essere definita
come una “estasi”. (Ora non la leggo, ma riporto in questi miei appunti, a piè di pagina, la
definizione della “estasi” contenuta nel Dizionario dei fenomeni mistici cristiani. La
definizione corrisponde esattamente a quanto descritto dalla Leggenda dei tre compagni in
questo brano che abbiamo appena letto).
Gli amici dunque si accorgono di Francesco, ormai rimasto in lontananza dietro di
loro, e costernati, gli chiedono se forse stesse pensando di prendere moglie. Francesco
risponde, con slancio: «È vero. Stavo pensando di prendermi la sposa più nobile, ricca e
bella che mai abbiate visto». La Leggenda dei tre compagni annota: «Francesco però disse
questo non di sua iniziativa, ma ispirato da Dio. E in verità la sua sposa fu la vita religiosa
che egli abbracciò, resa più nobile e ricca e bella dalla povertà».
Da quel momento il giovane mercante, aspirante alla nobiltà e alle glorie di questo
mondo, comincia a cambiare interiormente. Sebbene si senta ancora attratto dalle glorie
mondane, e non ne è del tutto distaccato, comincia pian piano ad immergersi in Dio e nelle
realtà soprannaturali. Anche se già prima dava le elemosine ai poveri, ora Francesco si
propone «fermamente nel suo cuore», «firmius in corde suo proposuit» di «non rifiutare mai
11
Leggenda dei tre compagni, Capitolo III, Paragrafo 7. Si vedano: Fonti Francescane (Nuova edizione), ERNESTO
CAROLI (ed.), p. 798. Nel Dizionario dei fenomeni mistici cristiani, il fenomeno mistico della “estasi” viene così
descritta: «Per estasi s’intende l’uscita dell’essere umano, corpo e anima, dai confini di se stesso, fino a diventare
estraneo e altro da sé. In questa condizione l’uomo trasferisce in Dio tutte le sue facoltà intellettive, volitive e sensitive
perdendo la sua sensibilità, il controllo di sé e la relazione reale con l’esterno. L’esperienza divina è così forte da
investire sia il corpo che l’anima. L’estatico, sebbene non veda e non senta nulla, non è addormentato né morto. Il suo
volto è radiante e come trasportato in un altro mondo. Egli è inondato di indicibile gioia ed è, per grazia divina, posto
nello stato di sperimentare una comunione con il Signore, da definirsi ineffabile e particolarmente profonda […].
L’estasi può essere di origine contemplativa o affettiva. Nel primo caso è l’intelligenza che va in estasi, pervenendo a
una visione che la supera; nel secondo è la volontà, che potenza al massimo grado la capacità di amare attraverso la
carità. Entrambe permettono una percezione più profonda della presenza di Dio nell’anima. Tuttavia l’estasi può
coinvolgere più facoltà o tutta la persona con una tale intensità che le facoltà esterne vengono anestetizzate. I grandi
santi che hanno sperimentato fenomeni estatici non si accorgevano di ciò che accadeva intorno a loro, poiché nell’estasi
cristiana le facoltà vengono assorbite dalla manifestazione del divino» (Dizionario dei fenomeni mistici cristiani, LUIGI
BORRIELLO – RAFFAELE DI MURO (ed.), Àncora Editrice, Milano 2014, pp. 54-59).
14
l’elemosina ad alcun povero che la chiedesse per amore di Dio, e anzi di elargire elemosine
più spontanee e generose del solito» 12. Sceso in pellegrinaggio a Roma, a S. Pietro vede
come i pellegrini davano offerte molto esigue, e dice tra sé: «Se il principe degli apostoli
deve essere onorato con splendidezza, perché costoro lasciano offerte così striminzite nella
basilica, dove riposa il suo corpo?». E, traendo dalla sua borsa una manciata piena di
monete, le getta oltre la grata dell’altare, «facendo un tintinnio così vivace da rendere
attoniti tutti gli astanti per quella offerta così magnifica»13. Uscito dalla basilica, scambia le
sue vesti per quelle di un povero mendicante e si mette, egli pure, a chiedere elemosine (in
francese) ai pellegrini che uscivano dalla basilica. Riscambiate le sue vesti col povero, risale
su ad Assisi.
A questo punto, è bene fare ricorso al Testamento di san Francesco. Francesco
scriverà il suo Testamento verso la fine della sua vita. È un testo considerato fondamentale
da tutti gli studiosi francescani. Infatti, negli ultimi anni degli studi francescani, si è giunta
alla consapevolezza dell’importanza primaria degli stessi Scritti di Francesco, che – grazie a
Dio – non sono pochi e che ci indicano con più certezza e con più precisione ancora, rispetto
alle Biografie, l’anima, i sentimenti, l’intento e l’esperienza del Santo. Mentre le Biografie
sono comunque e sempre delle “agiografie”, cioè dei racconti ispirati non solo ai fatti
storici, ma anche con l’intento di dimostrare le virtù e i miracoli compiuti dal santo, gli
Scritti del santo offrono la possibilità di penetrare l’animo stesso del santo, senza ulteriori
interpretazioni, come quelle dei vari autori delle Biografie. Ci permettono, in altre parole, di
avere un contatto immediato con Francesco stesso e con il suo pensiero ed esperienza.
Francesco scrive dunque così, nelle prime righe del suo Testamento:
Dominus ita dedit michi fratri Francisco incipere faciendi penitentiam, quia cum essem in
peccatis, nimis michi videbatur amarum videre leprosos, et ipse Dominum conduxit me inter
illos et feci misericordiam cum illis. Et recedente me ab ispsis, id quod videbatur michi
amarum conversum fuit michi in dulcedinem animi et corporis; et postea parum steti et exivi
de seculo14.

12
Leggenda dei tre compagni, Capitolo III, Paragrafo 8. Si vedano le Fonti Francescane (Nuova edizione), ERNESTO
CAROLI (ed.), Editrice Francescane, Padova 2004, pp. 799; Fontes Franciscani, ENRICO MENESTÒ – STEFANO BRUFANI
(ed.), p. 1381.
13
Leggenda dei tre compagni, Capitolo III, Paragrafo 10.
14
In italiano, legge così: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei
peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi
misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo; in
seguito, stetti un poco e uscii dal secolo». Si veda: FRANCESCO D’ASSISI, Scritti (Edizione critica a cura di Carlo
Paolazzi), pp. 394-395.
15
Dopo queste visite con i lebbrosi, nei quali Francesco usò «misericordiam cum illis»
– o meglio, nel frattempo – Francesco era solito condurre un suo amico fuori la città di
Assisi, in una grotta. Gli diceva, al suo amico, che aveva scoperto un grande tesoro; lo
faceva aspettare fuori la grotta, mentre egli, Francesco, vi entrava e sostava in preghiera,
chiedendo a Dio di fargli capire come doveva fare per impadronirsi del “tesoro celeste” 15.
Un giorno, mentre Francesco pregava, il Signore gli fece capire che presto gli avrebbe fatto
capire cosa dovesse fare; e Francesco, ricolmo di gioia, ne parlava con tutti: usava però
termini enigmatici e misteriosi, per non svelare a tutti il suo segreto. Diceva che non aveva
più intenzione di scendere in Puglia, ma di compiere nobili e grandi imprese nella sua patria
(«sed in patria propria nobilia et ingentia se facturum»). Dopo pochi giorni, passando
vicino alla chiesa di San Damiano, gli fu detto in spirito di entrarvi a pregare. Pregando
davanti a un Crocifisso nella chiesa, il Crocifisso gli rivolse queste parole: «Francisce,
nonne vides quod domus mea destruitur? Vade igitur et repara illam mihi». Cioè,
«Francesco, non vedi che la mia casa si va distruggendo? Va’ dunque e riparala per me» 16.
Uscito dalla chiesa, trovò il sacerdote e gli offrì del denaro chiedendogli di far ardere
sempre una lampada dinanzi a quel Crocifisso, e che gli avrebbe procurato altro denaro in
futuro per tale scopo. Viene anche attribuito a Francesco una preghiera che egli avrebbe
composto pregando dinanzi al Crocifisso di San Damiano. Ebbe dunque, come risposta alla
sua preghiera, il dono di quelle parole che il Crocifisso stesso gli rivolse. Mentre pregava,
dunque, prima di sentire quelle parole del Crocifisso, Francesco pregava e diceva: «O alto e
glorioso Dio, illumina le tenebre de lo core mio, e damme fede diritta, speranza certa e
caritade perfetta, senno e cognoscimento, Signore, che io faccia lo tuo santo e verace
commandamento. Amen»17. Carlo Paolazzi, nell’edizione critica degli Scritti di san
Francesco, provvede questa edizione critica della preghiera, basandosi su ben 10 versioni
antiche della stessa preghiera. Con una buona probabilità, dunque, possiamo accettare che
fossero proprie queste le parole, in lingua vernacolare, che Francesco pronunciava davanti al
Crocifisso di San Damiano. Il Signore dunque gli ha risposto, svelando a Francesco il suo
«santo e verace commandamento»: cioè, in qualche modo, lo stesso disegno divino sul
giovane mercante e penitente. Quello, intendo dire, di riparare la casa del Signore: «Vade

15
Cf. Leggenda dei tre compagni, Capitolo IV, Paragrafo 12.
16
Cf. Leggenda dei tre compagni, Capitolo V, Paragrafo 13. La traduzione, più vicina al testo originale rispetto a quella
offerta nelle Fonti Francescane in lingua italiana, è mia.
17
FRANCESCO D’ASSISI, Scritti (Edizione critica a cura di Carlo Paolazzi), p. 35.
16
igitur et repara illam mihi». È bella questa sfumatura che appare qui, nella Legenda trium
sociorum: riparala – gli dice il Signore – «per me». Si tratta di riparare la sua casa non per
un motivo qualunque, ma «per me», per amore del Signore. Solo più tardi Francesco
comprenderà il senso più profondo di quelle parole. Doveva riparare la casa di Dio, la
Chiesa, che si stava distruggendo. Il giovane penitente, invece, comprese che dovesse
riparare la chiesetta di San Damiano, e si accinse a raccogliere pietre per il suo restauro. La
Legenda trium sociorum aggiunge che, da quel momento davanti al Crocifisso di San
Damiano, «vulneratum et liquefactum est cor eius ad memoriam Dominicae passionis»18.
Cioè, il suo cuore fu ferito, o reso “vulnerabile” e “liquefatto” al ricordo della passione del
Signore.
Pieno di gioia, dunque, Francesco si reca a cavallo, con delle stoffe di diversi colori,
a Foligno e vende il cavallo e tutte le stoffe. Tornato con il denaro ricavato dalle vendite,
offre al sacerdote di San Damiano il denaro in vista del restauro della chiesetta di San
Damiano. Temendo però il padre di Francesco, il prete non volle accettare il denaro, ma
accettò di accogliere Francesco presso di sé. Pietro di Bernardone, il padre di Francesco,
saputo del cambiamento così radicale di suo figlio, infuriato si mette alla ricerca del figlio;
Francesco, invece, si nasconde per un mese intero in una grotta nascosta che aveva già
preparata, sapendo che suo padre non avrebbe mai accettato questa sua conversio o
“conversione” dal secolo a una vita di penitenza, digiuni e preghiera. Un solo membro della
sua famiglia sapeva del nascondiglio di Francesco, e di tanto in tanto gli portava del cibo.
Un giorno Francesco decise di lasciare il suo nascondiglio e recarsi in città. Sempre nella
Leggenda dei tre compagni, si legge:
Tutto infuocato di entusiasmo, lasciò la caverna e si mise in cammino verso Assisi, vivace,
lesto e gioioso […]. Al primo vederlo, quelli che lo conoscevano com’era prima, presero a
insultarlo, gridando ch’era un insensato e un pazzo, gettandogli addosso fango delle piazze e
sassi. Vedendolo così cambiato dai costumi di prima, sfinito dalle penitenze fisiche,
attribuivano ogni sua azione ad esaurimento e a follia […]. Si diffuse per le piazze e le vie
della città la notizia di quanto gli accadeva, finché venne agli orecchi del padre, il quale,
sentito come lo maltrattavano i concittadini, si mosse immediatamente a prenderlo […].
Trascinatolo fino a casa, lo rinchiuse in un bugigattolo oscuro per più giorni, facendo di
tutto, a parole e a botte, per ricondurlo alla vita mondana19.

Il padre di Francesco non riusciva a sopportare il dolore e la vergogna che il


cambiamento improvviso di suo figlio gli recava, specialmente considerando la fama
18
Fontes Franciscani, ENRICO MENESTÒ – STEFANO BRUFANI (ed.), p. 1386.
19
Leggenda dei tre compagni, Capitolo VI, Paragrafo 17.
17
publica nuova che andava crescendo in Assisi intorno a Francesco, ritenuto pazzo dai più.
Quando però Pietro di Bernardone dovette partire da casa per motivi urgenti, la madre di
Francesco, la donna Pica, si mosse a compassione per il figlio e lo liberò. Pietro di
Bernardone, tornato ad Assisi, lo venne a sapere e, infuriato, si recò subito al palazzo del
comune, dai consoli della città, chiedendo che gli facessero restituire il denaro che suo figlio
aveva portato via. Francesco però rispose all’araldo, che lo convocava davanti ai consoli,
che ormai era libero per grazia di Dio e non più soggetto ai consoli della città. I consoli
dunque dissero a Pietro: «Dato che tuo figlio si è consacrato al servizio di Dio, non è più
sotto la nostra giurisdizione». E così, in effetti, era. Raoul Manselli, nel suo ottimo libro
storico su san Francesco, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, spiega che il vescovo di
Assisi, evidentemente, era un tenace difensore della libertas Ecclesiae, la “libertà della
Chiesa”: ovvero, della autonomia della Chiesa all’interno della città, «ivi incluso il diritto
per chiunque avesse abbracciato la vita religiosa, e, quindi, anche soltanto un penitente, di
essere giudicato da un tribunale ecclesiastico»20. Pietro va quindi ad esporre il problema di
suo figlio al vescovo di Assisi. Il vescovo provvede a chiamare Francesco «debito modo»,
cioè secondo le consuetudini del tempo, mandando un messaggero o «nuntio». Francesco
obbedisce volentieri e compare davanti al vescovo. Dopo un colloquio per lui confortante,
Francesco compie quel gesto famoso dello spogliamento delle sue vesti. La Leggenda dei
tre compagni racconta:
Entrato nella camera del vescovo, si spogliò di tutte le sue vesti, e deposto su di esse il
denaro, uscì fuori nudo alla presenza del vescovo, del padre e degli altri astanti, e disse:
«Ascoltate tutti e comprendete. Finora ho chiamato Pietro di Bernardone padre mio. Ma dal
momento che ho fatto proposito di servire Dio, gli rendo il denaro per il quale era irritato e
tutti i vestiti avuti dalla sua sostanza, e d’ora in poi voglio dire: “Padre nostro, che sei nei
cieli”, e non “padre Pietro di Bernardone”» […]. Bruciando di dolore e infuriato, suo padre
si alzò, prese i denari e tutti i vestiti e, mentre se li portava a casa, quelli che avevano
assistito a questo spettacolo rimasero indignati contro di lui, che non aveva lasciato al figlio
nemmeno di che vestirsi. E presi da compassione cominciarono a piangere forte su
Francesco.
Il vescovo poi […] lo accolse tra le sue braccia e lo coprì con il suo mantello. Aveva capito
chiaramente che egli agiva per ispirazione divina e riconosceva che quanto aveva visto
conteneva un grande mistero. Da quel giorno diventò il suo aiuto21.

È molto significato quello che Francesco afferma, pubblicamente e ufficialmente:


afferma di essere entrato nel servizio di Dio, e – ancor più significativo – che il suo

20
RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, p. 134.
21
Leggenda dei tre compagni, Capitolo VI, Paragrafo 20.
18
abbandono della casa paterna non è per motivi umani o per risentimento, ma una scelta
precisa di accogliere come padre e tutore Dio stesso: «d’ora in poi voglio dire: “Padre
nostro, che sei nei cieli”, e non “padre Pietro di Bernardone”». Raoul Manselli insiste
moltissimo su di un punto molto importante della conversio o “conversione” di Francesco.
Quando nel Testamento Francesco afferma di essere “uscito dal secolo”, si sta riferendo a
una scelta ben precisa, anche a livello sociale. Usciva dall’ordo laicorum, dallo “ordine dei
laici”, e entrava in una condizione già contemplata e conosciuta dalla Chiesa di allora:
quella dei penitenti. I “penitenti” non erano appartenenti a un gruppo particolare, e
nemmeno vi erano delle regole o modalità di vita particolari già previsti per loro. Si trattava
appunto di “abbandonare il mondo” e dedicarsi alla penitenza e alla preghiera. Non aveva
una forma o un contenuto preciso o previsto. Francesco però – e Manselli insiste molto su
questo punto – aveva già ben chiaro almeno questo aspetto del suo nuovo stato di vita: la
sua era una scelta ben precisa: quella di stare in mezzo ai poveri, ai derelitti, agli ultimi, tra
cui anche i lebbrosi. In una parola, Francesco scelse di prendere il suo posto tra gli esclusi, e
così voleva rimanere, e avrebbe voluto rimanere – ed è rimasto, almeno nel suo cuore – fino
alla fine della sua vita.
Francesco dunque torna alla chiesetta di San Damiano e racconta al prete quanto il
vescovo gli aveva detto. Confeziona per sé un abito «quasi da eremita», «quasi heremiticum
habitum»22, e poi rientra in città per procurare pietre per il restauro della chiesa di San
Damiano. Francesco cammina per le vie di Assisi, dicendo: «Chi mi darà una pietra, avrà
una ricompensa; chi me ne darà due, due ricompense; chi tre, altrettante ricompense!».
Molti però lo deridono, credendolo impazzito. Francesco decide, in quel periodo, di non più
appoggiarsi sulla carità del povero prete di San Damiano, che si sforzava di preparargli cibi
prelibati, conoscendo il suo passato; invece, decide di chiedere anche il cibo in elemosina e,
vincendo sé stesso e l’iniziale disgusto di vedere un mescuglio di cibi diversi nella stessa
scodella, persevera in questa scelta. Il padre di Francesco, poi, ogni volta che lo vedeva, lo
riempieva di maledizioni. Francesco, in cambio – ce lo racconta sempre la Leggenda dei tre
compagni – prende come “padre” un poverello della città e gli dice: «Vieni con me e ti darò
parte delle elemosine che riceverò. Quando vedrai mio padre maledirmi, io ti dirò:
“Benedicimi, o padre”. E tu farai su di me il segno della croce e mi benedirai al suo posto.

22
Questo abito eremitico – lo dirà la stessa Leggenda dei tre compagni – consisteva in un abito povero, un bastone, le
calzature ai piedi e una cintura di pelle ai fianchi (cf. Leggenda dei tre compagni, Capitolo VIII, Paragrafo 1).
19
Mentre il povero lo benediceva così, l’uomo di Dio diceva a suo padre: “Non credi che Dio
possa darmi un padre che mi benedica, contro le tue maledizioni”?».
Ecco allora che la conversio di Francesco comincia ad assumere una fisionomia
sempre più precisa e delineata. Mancava però l’elemento decisivo per comprendere meglio
cosa il Signore volesse da lui. Concluso il restauro di San Damiano, Francesco continuava a
portare l’abito di eremita: un abito povero, un bastone, le calzature ai piedi e una cintura di
pelle ai fianchi. Ascoltiamo ancora un brano dalla Legenda trium sociorum riguardo alla
svolta “evangelica” di Francesco:
Ma un giorno, mentre ascoltava la Messa, udì le istruzioni date da Cristo ai suoi discepoli
quando li inviò a predicare: che cioè per strada non dovevano portare né oro, né argento, né
borsa, né bisaccia, né pane, né bastone, né calzature, né due tuniche. Aiutato poi dallo stesso
sacerdote a comprendere meglio queste consegne, colmo di gioia indicibile esclamò:
«Questo è ciò che bramo realizzare con tutte le mie forze!». E fissando nella memoria tutto
quello che avevo udito, si impegnò ad eseguirlo lietamente. Sbarazzatosi senza indugio della
doppia tunica, da quel momento non fa più uso del bastone, delle calzature, della borsa e
della bisaccia. Si confezionò una tonaca misera e grossolana e, in luogo della cinghia di
pelle, strinse i fianchi con una corda […]. Ispirato da Dio, cominciò ad annunziare la
perfezione del Vangelo e a predicare la penitenza, con semplicità. Le sue parole non erano
vuote, né ridicole, ma piene della forza dello Spirito Santo, capaci di penetrare nell’intimo
dei cuori così da stupire e toccare con forza gli ascoltatori.

Francesco dunque, udito il brano del Vangelo nel quale il Cristo inviava i suoi
discepoli alla predicazione itinerante, e fattosi spiegare il senso del brano dal sacerdote, si
mise alacremente a metterlo in pratica, vivendo così il Vangelo sine glossa, senza aggiunte,
interpretazioni e in tutta semplicità. Si dà alla predicazione, ma una predicazione semplice,
nella quale esortava alla penitenza e alla conversione.
Nella Leggenda dei tre compagni l’autore compie un salto cronologico in avanti, a
questo punto, per venire ad una novità importante nella vita di Francesco: l’aggiunta di
alcuni compagni che vogliono seguire Francesco nella sua forma di vita. Vi si legge:
«Mentre la schiettezza e la veracità dell’insegnamento e della vita del beato Francesco
veniva a conoscenza di molte persone, due anni dopo la sua conversione alcuni uomini si
sentirono stimolati dal suo esempio a fare penitenza, rinunziando ad ogni cosa, e a unirsi a
lui nell’abito e nella vita». Due anni dopo la conversio di Francesco, avviene un evento
sorprendente: altri si aggiungono a lui. Nel suo Testamento, alla fine della vita, Francesco
scriverà: «Et postquam Dominus dedit michi de fratribus, nemo ostendebat michi quid
deberem facere, sed ipse Altissimus revelavit michi quod deberem vivere secundum formam

20
sancti Evangelii»23. Cioè, «E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava
che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma
del santo Vangelo».
Il primo ad unirsi a lui fu Bernardo di Quintavalle, uomo assai ricco e stimato nella
città di Assisi. Affascinato dalla figura di Francesco, lo invita a cena e a dormire a casa sua.
Fingendo di dormire, vede Francesco che prega e piange tutta notte, ripetendo «Dio mio,
Dio mio!». Al mattino, Bernardo – convinto della santità di Francesco – gli svela il suo
desiderio di unirsi a lui nella penitenza e nella rinuncia al secolo 24. Francesco e Bernardo,
raggiunti da Pietro, un altro che aspirava a seguire Francesco, si recano al mattino alla
chiesa di San Nicolò, per sentire «per mezzo del libro dei Vangeli […] quello che il Signore
insegnò ai suoi discepoli» e così ricevere ulteriori indicazioni su ciò che il Signore chiedeva
loro di vivere. Aprendo il libro dei Vangeli per tre volte, secondo quella pratica devozionale
già in uso – ma malvista dai teologi benpensanti del tempo – chiamata la sortes
apostolorum, Francesco e i due compagni trovano tre passi evangelici che diverranno il
fondamento del loro modus vivendi: «Se vuoi essere perfetto, va’ e vendi tutto quello che
possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo» (cf. Mt 19,21); e poi: «Non portate
nulla nel viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (cf.
Lc 9,3); e per ultimo, «Chi vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce
ogni giorno e mi segua» (cf. Lc 9,23). Sono questi i tre brani dell’Evangelo a cui san
Francesco si riferirà, alla fine della vita, nel Testamento, dicendo: «E dopo che il Signore mi
dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi
rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo».
Dopo poco, si aggiunge al gruppo dei tre compagni un quarto: un prete di nome
Silvestro. Francesco dunque, insieme a Bernardo e Silvestro, si trasferisce nei pressi di una
povera chiesa un po’ fuori città, chiamata Santa Maria della Porziuncola, e ivi edificano una
capanna nella quale rifugiarsi periodicamente. Alcuni giorni dopo, si aggiunge a loro un
altro compagno ancora, un assisano di nome Egidio. Allora decisero di dividersi a due a
due: Francesco prese con sé Egidio e andò nella Marca di Ancona. Tornati in seguito a
Santa Maria della Porziuncola, ancora altri uomini di Assisi, Sabatino, Morico e Giovanni
della Cappella si aggiungono ai compagni di Francesco.

23
FRANCESCO D’ASSISI, Scritti (Edizione critica a cura di Carlo Paolazzi), p. 396.
24
Cf. I Fioretti di San Francesco, in: Fonti Francescane (Nuova edizione), ERNESTO CAROLI (ed.), pp. 1132-1135.
21
Mentre molti cittadini di Assisi seguitavano a disprezzare e schernire questi
compagni di Francesco – ed in particolare i loro stessi familiari –, il vescovo di Assisi
invece si dimostrava benevolo. La Legenda trium sociorum riporta un incontro tra
Francesco e il vescovo. Il vescovo infatti gli diceva:
«La vostra vita mi sembra dura e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo».
Rispose il santo: «Signore, se avessimo dei beni, per proteggerli avremmo bisogno di armi,
perché è dalla proprietà che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte
maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo. Per questo non vogliamo
possedere alcun bene temporale a questo mondo».
Al vescovo piacque molto la risposta dell’uomo di Dio, che disprezzò tutte le cose
transitorie e sopra tutto il denaro […]25.

Francesco aveva ancora ben presente la furia e le maledizioni di suo padre, nonché
quelle dei parenti dei suoi compagni, e sapeva bene quanto proprio il danaro fosse motivo di
litigi e divisione. Ecco, quindi, perché non voleva averne – impedivano, in molte maniere, di
vivere l’amore verso Dio e verso il prossimo.
La Leggenda dei tre compagni racconta come Francesco esortò i suoi compagni,
prima di intraprendere le loro predicazioni itineranti, ad avere molta pazienza nelle
tribolazioni, poiché – diceva – sarebbero stati accolti favorevolmente da alcuni ma
perseguitati da molti. E, così, in effetti, fu: mentre alcuni li accoglievano benevolmente,
donando loro ospitalità e addirittura entrando, poi, a far parte della loro compagnia, altri
invece li perseguitavano duramente. Portiamo un solo esempio, sempre tratto dalla
Leggenda dei tre compagni:
Ma se Guido [un loro benefattore] li trattava con tanti riguardi, altri invece li coprivano di
disprezzo. Gente di modesta e di nobile condizione li dileggiava e li ingiuriava fino a
togliere loro di dossi i vestiti miserabili che indossavano. I servi di Dio restavano nudi
poiché, secondo la norma evangelica, portavano soltanto una tunica, e inoltre non
chiedevano la restituzione di ciò che veniva loro portato via. Se però i malversatori, mossi
da compassione, decidevano di ridare loro il vestito rubato, lo ricevevano ben volentieri.
Certuni gettavano loro addosso del fango, altri mettevano dei dadi nelle loro mani,
invitandoli a giocare; altri ancora, afferrandoli da dietro per il cappuccio, se li trascinavano
sospesi sul dorso. Queste e altre simili cose facevano loro, poiché li ritenevano degli esseri
così meschini da poterli sfrontatamente strapazzare a loro piacimento26.

Altri invece, dicevo, accoglievano i frati volentieri e per amor di Dio. Quando questi
tali chiedevano loro a quale Ordine appartenessero, i frati rispondevano «con semplicità di
essere dei penitenti, oriundi della città di Assisi. Infatti – commenta sempre la Legenda
25
Leggenda dei tre compagni, Capitolo IX, Paragrafo 35.
26
Leggenda dei tre compagni, Capitolo X, Paragrafo 40.
22
trium sociorum – il loro Ordine non era ancora detto Religione» 27. Questo fatto non è di
poca importanza. Raoul Manselli insiste sulla scelta di Francesco di non volersi inserire in
una delle due realtà ecclesiali già esistenti per un uomo che volesse mettersi al servizio di
Dio: cioè, il sacerdozio e il monachesimo. Essere prete, al tempo di Francesco, elevava
automaticamente ad uno status di prestigio sociale, nonché la possibilità di accedere al
danaro e al potere, per non parlare, poi, dello status di vescovi e cardinali. Anche esser
monaco, sebbene si vivesse la povertà individuale, non escludeva una grande ricchezza
comunitaria consistente in monasteri imponenti, terreni, potere, prestigio, ecc. In ogni caso,
sia come prete che come monaco, il pane sulla tavola non mancava mai: era garantito.
Francesco, invece – escludendo al contempo anche la vita da eremita – ha voluto prendere il
suo posto definitivamente tra i poveri e gli esclusi, lavorando con le proprie mani (come
dirà, poi, nel suo Testamento) e, quando necessario, chiedendo elemosine. Scelse, dunque,
una vita non sicura o scontata, ma piena di incertezze e di itineranza, proprio come Gesù
negli anni della sua vita pubblica. Francesco vide nella categoria dei «penitenti» la
possibilità di espressione della sua vocazione; era una categoria, di fatto, non ben definita:
offriva un ampio spazio di libertà, nel quale scoprire con più precisione la volontà del
Signore per lui, cosa che scoprì, appunto, con i brani evangelici che sentì durante la Messa e
poi scoprì insieme ai primi due compagni nella chiesa di San Nicolò.
Giunti al numero di dodici compagni, Francesco ritiene che sia ormai giunto il
momento di andare dal Papa (Innocenzo III). Ascoltiamo ancora la voce stessa di Francesco
che sintetizza in poche righe il suo desiderio e l’esaudimento di esso da parte del «signor
papa». Francesco scriveva:
E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo
stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo; e io la
feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me la confermò (et ego
paucis verbis et simpliciter feci scribi, et dominus Papa confirmavit michi)28.

Francesco comparirà davanti al Papa ancora due volte: non sarà più Papa Innocenzo
III ma ormai il Papa Onorio III. Condotto dal Cardinale Ugolino – siamo nel 1223 –
Francesco poté vedere approvata dallo stesso Papa la Regola bollata (che avremo modo di
leggere e discutere insieme più in là nel corso); e, ancora una volta, Francesco poté chiedere
personalmente al Papa di poter avere il Cardinale Ugolino come «protettore della sua
27
Leggenda dei tre compagni, Capitolo X, Paragrafo 37.
28
FRANCESCO D’ASSISI, Scritti (Edizione critica a cura di Carlo Paolazzi), pp. 396-397.
23
Religione»29. Non molto tempo dopo, lo stesso Cardinale Ugolino sarà eletto Papa con il
nome di Gregorio IX. (Sarà lo stesso Papa Gregorio IX, poi, a canonizzare San Francesco il
16 luglio 1228, neanche due anni dopo la morte di Francesco).
Anche se meriterebbe molta attenzione, non posso che accennare soltanto alla nascita
del Secondo e Terz’Ordine di San Francesco: cioè, delle Povere Dame, di cui Santa Chiara è
la prima; e poi il Terz’Ordine di laici. Avremo modo di approfondire la chiamata e la
vicenda biografica e spirituale di santa Chiara, nonché approfondire i suoi scritti, più avanti
in questo Seminario. Così – nella lezione prossima – potrò approfondire ancora qualcosa del
Terz’Ordine: di quei laici cioè, in particolare sposati, che vollero aderire alla vita di
penitenza proposta loro da san Francesco e dai suoi frati.
Non posso che accennare, inoltre, al viaggio di Francesco nella Terra Santa e il suo
incontro pacifico con il sultano d’Egitto Melek-el-Kamel nel maggio o giugno del 1219 fino
probabilmente al mese di agosto del 1220, per una permanenza che durò dunque più di un
anno.
Dal 1209 o 1210, quando Papa Innocenzo III approvò a voce la brevissima e
semplicissima Regola fatta scrivere da Francesco per lui e i suoi primi undici compagni,
fino al Capitolo delle Stuoie nel 1221 (per scegliere due date significative), l’Ordine
conobbe una crescita prodigiosa: al Capitolo delle Stuoie erano cresciuti fino a diventare
ben tremila30! Ecco uno dei motivi, tra gli altri, che spinse Francesco a volersi dimettere
dalla posizione di Generale dell’Ordine nel Capitolo Generale del 29 settembre 1220. Raoul
Manselli precisa che Francesco rinunciò al Generalato per un insieme di motivi: intanto, la
sua fragile condizione di salute. Pare che Francesco abbia contratto due malattie durante il
suo soggiorno in Palestina: per prima, la malaria, dalla quale non guarirà mai e che lo
porterà poi alla sua prematura morte sei anni dopo. E poi, una malattia agli occhi: la
congiuntivite tracomatosa, condizione che porta progressivamente alla quasi-cecità, con un
flusso continuo e abbondante di acqua e pus dagli occhi. La “cura” di quel tempo, che anche
Francesco ha dovuto subire, consisteva nella cauterizzazione della pelle con un ferro
rovente, dall’orecchio sino all’orbita dell’occhio31. Oltre alla malattia, sembra che la
rinuncia al Generalato avvenne non solo e non tanto come segno di “protesta” per il fatto
che il suo ideale non veniva più seguito da tutti i frati dell’Ordine – cosa che faceva certo
29
Cf. Leggenda dei tre compagni, Capitolo XVI, Paragrafo 65.
30
Cf. RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, p. 319.
31
Cf. RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, pp. 333-334.
24
soffrire Francesco –, quanto per il desiderio di vivere fino in fondo e sino alla fine la sua
vocazione originaria: quella di essere e rimanere sempre tra gli ultimi, senza uno “status” di
prestigio sociale32, assumendo per sé quella povertà che Cristo stesse scelse e visse per
amore del Padre e per amore nostro. E così, nella totale e nuda povertà, Francesco, vir Dei –
uomo di Dio –, ormai insignito da due anni dalle stesse stimmate del Cristo, il primo in
assoluto nella storia dell’umanità a ricevere e vivere questo fenomeno mistico, il 3 ottobre
1226, nudo sulla nuda terra33, consegnerà al Padre il suo spirito.

32
Cf. RAOUL MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio Maior, pp. 316-318.
33
Cf. Leggenda maggiore, Capitolo XIV, Paragrafi 3-4.
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