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All’inchiesta del francese Philippe Garnier intorno al mi-

stero Goodis il Sallis di Vite difficili, altrove segnalato,


attinge per uno dei suoi tre saggetti; quella che qui sotto
segue è invece una ricognizione compiuta da Garnier,
pubblicata in due parti originariamente nel 1983, sul-
l’ambiente, ad un tempo bizzarro e spietato, dell’editoria
e del collezionismo dei tascabili: da allora, negli stessi
USA, indagini e studi sul genere e le sue mitologie sono
senza dubbio aumentati, molto meno in Italia dove, an-
cora e sempre smemorate, voci corrono e dimenticanze
impazzano (si provi a cercare, a mo’ d’esempio, un’edi-
zione nostrana del citato “Salomon’s Vineyard” di Lati-
mer) frastornando, sovente, gli stessi addetti ai lavori.

Philippe Garnier

sogni tascabili e paperback writer

“Ho dovuto sciropparmi un mucchio di libracci.”


(Leo Manson mentre spiega le ruvide esigenze del
mestiere d’illustratore di tascabili)

Ci fu un tempo in cui consumavo un sacco di ener-


gie a caccia di vinile in via d’estinzione; scovare il
pezzo da collezione sotto tre tonnellate di merde in-
vendibili, pedinare il filone dei saldi dal Texas al Mi-
chigan passando per Memphis. Ma tutto questo è fi-
nito. Era divertente finché la selvaggina era ancora
disponibile- adesso, tutto vi si oppone: la moda del-
le ristampe, la saturazione del mercato e l’oscenità
dei prezzi. Ora passo il tempo libero alla ricerca di
tascabili prodotti in America dal 1939 al 1959. È al-
trettanto stupido, ma si può praticare senza disporre
di un budget equivalente a quello della Tanzania.
Arriva un momento in cui bisogna lasciarsi dietro le
cose da fanciulli, come consiglia la Bibbia. Trascor-
rere un pomeriggio intero a spulciare tre o quattro-
mila libri usati, fare delle scalate precarie lungo gli
scaffali traditori di Don’s Paperback Shack a Modesto
(più è alto il soffitto, in certi luoghi, più gli sgabelli
sono corti) per scegliere, alla fine, una cinquantina di
tesori variamente malridotti, può sembrarvi impresa
un poco futile e non proprio da adulto. Questo solo
perché non avete dovuto mai estrarre centotrenta
Kinks su Reprise e tre Johnny Burnette da un lotto di
dischi di polka invenduti scovati da Handleman a
Cincinnati, quindicimila album che non hanno visto
la luce dal 1949, quindici palate da mille. E nemme-
no nei più grossi “paperbacks emporium” immagi-
nabili vi troverete al cospetto di un capo magazzi-
niere che vi propone, senza ridere, “tutta la parete
nord” a dieci cent a pezzo…

È l’ultima moda, qui, collezionare vecchi tascabili; da


quattro o cinque anni. La gente vi è arrivata per tutte
le cattive ragioni, certamente. Divenuto sclerotizzato
e ridicolo il mercato dei pulps e dei comics, i vendi-
tori e i malati si sono rivolti al paperback.

Era un percorso inevitabile: la filiazione fra pulps,


comics e paperbacks è del tutto evidente. Se oggi-
giorno le collezioni di libri tascabili non sono che
succursali degli editori o delle aziende che li possie-
dono, non sempre è stato così. Il primo ad aver im-
posto questo prodotto ritenuto impossibile prima
della guerra è Robert De Graff, proveniente da Dou-
bleday; fu lui a creare Pocket Books nel 1939. Ma fu
presto seguito dalle rapide della grande diffusione,
da uomini che si erano fatti le ossa non nei corridoi
degli editori new-yorkesi, ma sgomitando: sia i di-
stributori che avevano fatto fortuna con i pulps, i fan
magazines o i comics; sia i proprietari editoriali che
stampavano quegli stessi prodotti. Neppure stupisce
granché constatare che i “pezzi” più ricercati, eccet-
tuati titoli evidenti come “Hammett Homicides” o
“Nightmare Town”, siano le copertine opera di illu-
stratori già richiesti dai collezionisti di pulps. È triste
e idiota, ma è così. I bottegai di nuovo infetteranno il
mercato, facendo marcire quel piacere innocente
provato nel conservare le reliquie di una delle fasi
più movimentate e dinamiche dell’edizione america-
na; di un’epoca in cui la cultura per le masse era an-
cora epica e divertente.

Ma è ancora possibile (forse non più per molto) tra-


scendere tutte queste stronzate, le solite trappole
delle conventions di collezionisti, le guide e i catalo-
ghi che fissano e indicizzano i prezzi della spazzatu-
ra ed hanno l’effetto di renderla INVISIBILE. In breve,
a dispetto dei mastini che si sforzano di incollare del
MINT, o BUONO STATO o RARO sul vostro piacere
come fosse del bromuro, resta da raccontare una
storia interessante e strana, una storia poco nota,
un’epopea durata solo vent’anni e che potrebbe inti-
tolarsi “PAPERBACKS, U.S.A.”, come il libro di Piet
Schreuders sul tema. Schreuders è quell’Olandese
Volante che pubblica “Furore” ad Amsterdam, una ri-
vista per suonati di ogni genere, una piccola meravi-
glia di follia erudita e illuminata che consacra interi
numeri a McDonald’s (“The Big Mac Story”) o a Cutty
Sark (“Tutto e proprio tutto sulla famosa marca di
whisky”) o ancora a James M. Cain; tutto questo in
olandese, naturalmente (ma, del resto, l’Olanda è
anche il paese dove si trova una rivista interamente
consacrata all’adorazione del Brooklyn Bridge, il
“Brooklyn Bridge Bulletin”…). Più che uno specialista
o un erudito, Schreuders è un tipo che scrive e pensa
i libri con passione. Il suo libro sui paperbacks ame-
ricani non è soltanto l’opera definitiva al riguardo, è
un libro che ha una vita propria; un libro con un’a-
nima, se volete.

Schreuders saggiamente limita l’indagine alle coper-


tine dei tascabili; parla degli illustratori, dei direttori
artistici, dei problemi di confezionamento- tutto
quanto è inerente al paperback come oggetto. Così
apprendiamo che se le copertine dei libri Dell sono
più colorate e si differenziano enormemente dal re-
sto della produzione corrente, è perché i libri non
erano fabbricati a New York come gli altri, ma a Ra-
cine nel Wisconsin. Prima di pubblicare paperbacks,
Dell era una casa editrice specializzata in pulps, in
riviste (come “Modern Screen”) e in comic-books
(“Looney Tunes”, “Flash Gordon”, “Donald Duck”,
ecc…): George Delacorte Jr. faceva stampare i suoi
prodotti dalla Western Printing & Lithographing
Company, un’azienda che non si limitava solo ai co-
mics e ai libri; stampava pure carte da gioco, carte
stradali e puzzles. Tutti questi dettagli possono
sembrare oziosi, ma quando si esamini attentamente
uno dei primi libri Dell, dal logo a buco di serratura
al progetto grafico delle copertine passando poi per
le cartine o i diagrammi volti a spiegare o situare
l’azione del libro sul retro delle copertine (i “map-
backs”, come famigliarmente li chiamano i profes-
sionisti e collezionisti) si comprende meglio perché
quella collana non somiglia in nulla alle altre. Quelle
piccole meraviglie di precisione un poco ingenue
tradiscono le origini di Dell, proprio come le coperti-
ne volgari e chiassose dei libri Avon indicavano chia-
ramente le origini della ditta e del suo proprietario:
Avon non fu la prima casa a seguire il cammino trac-
ciato da De Graff e Pocket Books nel 1939, ma fu la
prima ad utilizzare lo stesso formato ed il termine
“pocket-size book”, abuso che fu costretta a correg-
gere dopo un lungo processo intentato da Pocket
che doveva durare fin quasi alla fine del 1942. Come
Frigidaire o la collezione fondata da Papà Filipacchi
in Francia, Pocket Books era tuttavia destinato a re-
stare il nome generico che designava il nuovo pro-
dotto di consumo corrente. Il responsabile di Avon,
Joseph Meyers, proveniva beninteso dai pulps. E il
suo ingresso nel mercato del libro tascabile era al
contempo fortuito ed opportunista: al principio, la
maggioranza delle case era distribuita dall’ American
News Company, il gigante che a lungo aveva control-
lato la distribuzione dei pulps e delle riviste negli
Stati Uniti (un po’ l’equivalente delle Messaggerie da
noi); come già avevano cercato di fare negli anni
trenta per i pulps, i tipi dell’A.N.C. avevano finito per
cercare di dirigere il mercato dei paperbacks, spin-
gendo gli editori a firmare contratti d’esclusività con
loro allo scopo di annientare la marea crescente dei
distributori indipendenti. Nel ‘41 Pocket fu la prima
ditta a nicchiare, e A.N.C. perse completamente il
suo maggior cliente; A.N.C. chiese a Meyers di varare
una collezione tascabile, semplicemente per colmare
il vuoto lasciato da Pocket. Era nato Avon Books. Se-
condo un concorrente: “Meyers aveva gusti di merda,
non solo in letteratura ma anche in fatto di donne, e
pure nell’arredamento…” Ciononostante le copertine
Avon sono, con quelle di Popular Library, le più am-
bite dai collezionisti. E Charles R. Byrne, direttore di
collana della Avon, alla fin fine non aveva gusti così
marci: Geoffrey Holmes, Chandler, Cain, Burnett, Sa-
royan, Woolrich, perfino Delmer Daves (un western,
naturalmente) oltre al Cardinale Spellman ! A Byrne
piacevano i numeri, soprattutto nei titoli: “Five Mur-
derers” e “Five Sinister Characters” di R. Chandler,
“The Door With Seven Locks” (E. Wallace), “The Big
Four” (A. Christie), “Poison For One” (John Rhode),
“Ten Nights Of Love” (titillazione anonima), “Butter-
field 8” (John O’Hara), “Seven Slayers” (Paul Cain), o
“Seven Footprints To Satan” dell’inenarrabile ed illu-
stre A. A. Merritt. Quest’ultimo fornisce il legame tra
i libri Avon e i pulps, di cui era uno dei giganti. Per-
sino i suoi titoli danno l’eco delle cripte malfamate:
“Burn, Witch, Burn” o “Creep, Shadow, Creep”…

Non ho lo spazio né la competenza per scrivere un


fervorino sugli illustratori o la storia del libro tasca-
bile in America. Non posso che invitarvi a leggere il
testo di Schreuders, se possibile l’edizione america-
na di Blue Dolphin, perché più completa e riveduta.
Voglio solo sottolineare la cura estrema con cui l’au-
tore ci presenta e attira verso l’argomento; l’inces-
sante invenzione, anche: a partire dai risguardi tap-
pezzati di marchi (Dell, Bantam, Bart, Penguin, Gra-
phic, Perma Books, Ace, Gold Medal,, Lion, Avon,
Jacket, Pyramid e tutto il fottuto firmamento) fino
agli studi comparati sui tagli. Come Gaston Maspero,
il Conte di Carnarvon o altri celebri egittologi, il no-
stro Olandese Pazzo ci svela il Segreto nascosto die-
tro i misteriosi simboli apparsi sui dorsi dei libri
Gold Medal tra il 1952 e 56 (quelli di Goodis, Pra-
thers, Thompson, Charles Williams o John D. McDo-
nald, tra gli altri): stelle, X sottolineate, S rovesciate e
segni cabalistici ancora più disorientanti, tutte quelle
iscrizioni avevano soltanto il compito di facilitare il
lavoro dei distributori (i libri erano pubblicati a lotti,
otto o dieci al mese; ogni segno indicava un lotto
preciso, affinché i distributori o commercianti potes-
sero determinare con approssimazione l’anzianità
del prodotto). In un altro accesso di furiosa (e ammi-
revole) follia, Schreuters ci offre una mappa di Man-
hattan in pagina doppia, amorevolmente disegnata
con immobili e grattacieli in prospettiva – alla ma-
niera, proprio, dei famosi “mapbacks” di Dell. L’o-
maggio-volo d’uccello è beninteso disseminato di
bandierine indicanti l’ubicazione di ogni casa editri-
ce, con il logo appropriato. Questo maniaco arriva
fino a indicare gli indirizzi in SUCCESSIONE ! Per
esempio, Lion Books aveva gli uffici nell’Empire State
Building per i primi due anni, quando il marchio era
ancora la testa di leone. In seguito la troviamo in
Park Avenue, con il nuovo blasone e la doppia L me-
dievaleggiante che caratterizza la collezione tra il 52
e 54. Non stupisce che questo toccato abbia scelto di
chiamare la sua rivista “Furore” !

L’esplosione del libro tascabile, durante la guerra e


nell’immediato dopoguerra, negli Stati Uniti è impor-
tante perché faceva uscire la letteratura dalle librerie
e biblioteche. L’idea non era nuova. C’erano stati dei
libri tascabili in Europa fin dagli anni 30 (le austere
edizioni Tauchnitz a Lipsia, ad esempio) e prima an-
cora i “chapbooks” inglesi ed americani. Tra gli ante-
nati del pocket-book, il mio favorito è il Piccolo Libro
Azzurro che costituiva quasi tutto il nutrimento in-
tellettuale (con la Bibbia) che i pionieri dell’ovest si
mettevano davanti agli occhi – o, più spesso, tra la
sella e le chiappe. Quei Little Blue Books si trovavano
nelle scatole di caffè Arbuckle in tutto l’ovest degli
Stati Uniti; il formato esiguo e quadrato (8 cm x 8
cm) permetteva di metterli nella scatola o di riporli
sotto la sella o nelle tasche. Erano di circa cinquanta
pagine, giusti per un testo di Shakespeare, i brani
scelti di Longfellow o l’estratto da Dickens. Sempre
classici, perché di pubblico dominio, visto che Hal-
deman-Julius, l’editore che pubblicava quei Little
Blue Books a Kansas City, non voleva pagare diritti
d’autore. Ogni esemplare costava cinque cents e i
cow-boys se li scambiavano avidamente come i ra-
gazzini facevano a scuola con le biglie. Contraria-
mente alla leggenda, non tutti i vaccari erano incolti;
il lavoro era talmente noioso e triste da spingerli alla
lettura - quando sapevano leggere – e non era raro,
secondo i testimoni dell’epoca, sentire uno sdentato
cow-poke dell’epoca recitare Swinburne o Milton.
Arbuckle Coffee non metteva solo la cicoria nel suo
caffè, ma pure un po’ di cultura.

Se l’idea del libro tascabile non era nuova, era pur


vero che commercialmente non aveva mai funziona-
to. Dal momento che la maggior parte degli impren-
ditori pensava “libro” e “libreria” invece di pensare
“massa” ed “espositore”. L’idea di Robert De Graff,
fondatore di Pocket Books nel 1939, era semplice ma
innovativa: la gente avrebbe comprato i suoi libri se
fossero stati sufficientemente a buon mercato oltre
che ben prodotti. Bisognava dunque abbassare il
prezzo di vendita diminuendo i costi di fabbricazione
(carta a buon mercato e grosse tirature – 200.000 in
media); senza scordare di far passare i diritti d’auto-
re dal 10 al 4 %… Tutto ciò consentiva di offrire un
libro e un “package” attraente per una fesseria, ven-
ticinque cents. Altra rivoluzione: questi prodotti non
si sarebbero trovati nelle librerie (per molti luogo ar-
cigno o intimidente) ma assieme alle riviste e fanzi-
nes nei drugstores, chioschi, stazioni stradali e fer-
roviarie, aeroporti, ecc…Ci sono stati pure, effime-
ramente, distributori automatici di paperbacks. I di-
stributori di Pocket Books si chiamavano, misterio-
samente, “Dadsons”, ed i “Vendavons” sputavano
soltanto libri Avon. Schreuders segnala pure una
compagnia di Los Angeles, Bantam (senza relazione
con l’altra Bantam) che pubblicava tascabili destinati
unicamente ai distributori automatici.

Si può dire che fu la seconda guerra mondiale a for-


nire la maggior spinta, provocando l’affermazione
del libro tascabile negli Stati Uniti; e questo a dispet-
to del razionamento della carta. Su tutti i fronti esteri
i G.I.’s andavano matti per quei pocket books così
pratici. Certi editori non mancarono di renderne
conto nelle proprie pubblicità, cercando di far passa-
re la loro impresa commerciale come “sforzo belli-
co”. Ian Ballantine, il creatore di Penguin U.S., andò
più lontano. Prevedendo razionamenti sempre più
severi, si era subito alleato alla Military Service Publi-
shing Company, dopo una precedente specializza-
zione in libri d’interesse militare del genere “War-
ships At Work”, “Russia”, “Aircraft Recognition” o
“New Ways Of War”. Penguin produceva libri, l’eser-
cito forniva la carta. Grazie al sotterfugio, Penguin
poteva continuare a pubblicare G. Greene, Thoreau,
Caldwell o V. Woolf. Le altre società, come Pocket,
subito risposero con gran colpi di campagne pubbli-
citarie e patriottiche: “OUR BOYS NEED BOOKS !”. Sul
dorso delle copertine si vedeva spesso un’aquila
fiondare sul nemico con una pila di libri tra gli artigli
ed una cartiglio nel becco: “I libri sono armi per la
battaglia delle idee…”

Nel 1946 il paperback si era definitivamente imposto


come oggetto di consumo corrente, e le tre o quattro
“grosse” aziende facevano fortuna, seguite da vicino
da imprenditori meno “rispettabili”. Ogni società
aveva un’immagine propria che spesso ne indicava le
origini. Penguin trasudava classe, sia per gli argo-
menti trattati e gli autori pubblicati, sia con la grafica
delle copertine. Queste ultime erano affidate d’al-
tronde a grafici più che ad illustratori, dopo che al-
cuni artisti si erano già fatti un nome come illustra-
tori “rispettabili”. Gente come George Salter o Haw-
kins, che troviamo spesso associati alle sovraccoper-
te delle prime edizioni; o ancora Robert Jonas, che
ha davvero imposto uno stile ai libri Penguin. Le sue
copertine sono farcite di simboli, piuttosto Bauhaus.
Altri, come il venerabile Hoffman, propendevano per
un daliesco spinto, con personaggi in fuga per pae-
saggi molli ed altri bric-à-brac onirici. Ma Hoffman
sapeva essere letterale quando voleva: è lui ad aver
disegnato una delle mie copertine favorite, quella di
“The Dead Don’t Care” di Latimer; vi si vede un bel-
lissimo paesaggio notturno, una vaga silhouette chi-
na in avanti, ed in primo piano, appollaiato su una
zampa, un airone rosso– o forse una gru. Solo il sot-
totitolo spiega questa misteriosa presenza: “A Billy
Crane Mystery”. Il nome del detective di Latimer si-
gnifica anche “gru”…

Nella Popular Library era ospitata una delle collane


preferite dagli amatori. Va detto che hanno del fasci-
no, quelle copertine, a partire dai colori vivaci e dal-
l’impaginazione, fino al “colophon” Mystery of Pro-
ven Merit (con la P di Popular sagomata a testa di
Dick Tracy, con revolver). I fondatori di Popular non
erano altri che Ned Pines e il dinamico Leo Margulies
(“the little giant of pulps”) i quali avevano già co-
struito un impero sul mercato dei pulp (il gruppo
Thrilling) e delle riviste negli anni ‘20 e ‘30. Per loro,
pubblicare Latimer, John D. Carr o W. Irish non era
molto diverso dal diffondere “Silver Screen”, “Your
Daily Horoscope”, “Real”, “See” o “Screenland”. Biz-
zarramente, date le origini di Ned Pines, le copertine
dei libri editi da Popular durante i primi quattro anni
non furono affidate agli illustratori che tinteggiavano
regolarmente le copertine di “Thrilling Mysteries” o
“Thrilling Detective” con grandi spruzzi di emoglobi-
na (i grandi specialisti di moncherini e mutilazioni
assortite, come Monroe Eisenber o Alex Schomburg).
Eppure le selezioni offerte da Margolies vi si presta-
vano bene: nel 1944, era ancora intento a pubblicare
opere di autori noti per scrivere al metro come Rufus
King, Max Brand o Frank Gruber – tutti sputaparole
ed autentica manna per Thrilling. Solo nel 1949 si
vedono le copertine Popular mutare radicalmente,
virando al “pulposo”, per così dire: in quell’epoca il
mercato dei pulps è pressoché sparito e le vedettes
devono riciclarsi. È il tandem Rudolph Belarski – Earle
Bergey che per alcuni anni fornirà il maggior numero
di copertine Popular Library. Si tratta di due tra gli
artisti più ricercati dai collezionisti. Era sangue nuo-
vo (se così posso dire) per l’edizione tascabile, ed il
loro stile parecchio crudo e osé fu rapidamente imi-
tato. Ogni collezionista vi parlerà con emozione della
famosa “nipple cover” che Bergey ha creato per “La
Vita Privata d’Elena di Troia” – non tanto perché ben
fatta, ma perché delle tette su un tascabile erano de-
cisamente “no-no” nel ‘49 – mentre erano moneta
corrente negli anni ‘30 per i pulps.

Come regola generale, più il contenuto era anodino,


più la copertina era piccante. Fino al 1952 e alla
grande commissione d’inchiesta dei guastafeste del
Gathings Committee che cercava di mettere fine al-
l’immoralità diffusa delle illustrazioni di libri, perio-
dici, manifesti cinematografici ecc., era considerato
del tutto normale mostrare donne in disordine. Rara
era la copertina sprovvista di reggicalze: le intenzio-
ni d’altronde erano più maliziose che maialesche,
secondo lo spirito di un’epoca (proprio come è raro
vedere Claudette Colbert, Jean Harlow o Carole Lom-
bard in un film anni ‘30 senza vedere biancheria). Le
copertine “peek-a-boo” erano perciò la regola, che
aderissero o no all’argomento; i pretesti o i fuori
contesto non mancavano mai: per esempio, l’edizio-
ne Pocket di “Of Missing Persons” di Goodis mostra
una donna nell’atto di lanciarsi da una finestra, gon-
na al vento, con tutto l’intimo in evidenza. Ma gli
anni ‘50 erano nettamente più pudibondi, e gli edi-
tori subivano sempre più pressioni per darsi una
calmata, in zona solletica-eccita. Oggi può sembrare
sorprendente che l’edizione tascabile degli “Amboy
Dukes” di Irving Shulman abbia causato tante con-
troversie: vi si vede solo una specie di Elvis Presley
piegato sul corpo e il viso rovesciato di una bella
bruna polposa e mezzo nuda (ma soltanto mezzo).
Sullo sfondo c’è il ponte di Brooklyn; la copertina è
magnifica, solo moderatamente spinta. Tuttavia ven-
ne ritirata dal commercio, sostituita da una copertina
stilizzata che rappresentava una sorta di pachuco
alla Willy DeVille. Ma il romanzo di Shulman era già
stato venduto in due milioni e mezzo di esemplari
prima del cambio di copertina ! Era il primo di un
nuovo genere di romanzi che in seguito il tascabile
sfrutterà a fondo: la miniera d’oro della delinquenza
giovanile.

Ugualmente, nel 1953, Robert Stanley dovette rifare


la sua copertina per “Fools Die On Friday” (“a Donald
Lam and Bertha Cool Mystery”), riallacciare il reggi-
seno e nascondere i panties. Ironicamente, era sua
moglie a doversi rivestire: Stanley era uno dei tanti
illustratori che economizzavano sulle modelle; foto-
grafava la sua donna, e talvolta se stesso nello spec-
chio. Il suo famoso ritratto di Mike Shayne con la si-
garetta è un autoritratto. Schreuders riporta storielle
spassose circa le piccole manie e pratiche di questi
artisti commerciali, quelli che dipingevano ad acqua,
al bianco d’uovo, all’acrilico o all’olio. Quelli che si
recavano dal direttore artistico con degli originali
formato francobollo, altri con delle tele gigantesche.
Quelli che per risparmiare sulle modelle le utilizza-
vano tre o quattro volte nella stessa illustrazione.
James Avati, una delle grandi stars di Signet, usava
sempre l’identico vecchietto, un non professionista
scovato in un villaggio. Era il suo “vecchio” standard
che gli serviva per tutte le illustrazioni. Compariva
quattro volte sulla copertina di “Trouble In July” di
Caldwell. Avati gli faceva togliere la dentiera prima di
farlo posare. Altri erano condannati a rifare sempre
lo stesso giochetto se per caso una delle loro trovate
avesse coinciso con una vendita eccezionale. È quel
che capitò a Robert Jonas con la copertina per “Il Pic-
colo Campo” che mostrava una fattoria vista attra-
verso un buco di palizzata. A causa del grande suc-
cesso del primo romanzo di Caldwell in tascabile, la
direzione di Penguin decretò subito che i buchi face-
vano vendere e che tutte le copertine di Caldwell do-
vevano ormai essere viste attraverso un buco; buco
di serratura, buco artificiale, finestra, ed anche buco
di pallottola (per un western intitolato
“Rawhide”).Come si vede, i tipi dell’edizione tascabile
erano tanto feticisti del successo e adepti della for-
mula quanto i loro equivalenti di Hollywood. Paul
Kresse, per parte sua, sembra essere stato condan-
nato al rictus perpetuo; un genere di rictus mortis,
se si vuole. Paragonate la copertina per “Addio Mia
Amata” degli anni ‘50 con quella di “It’s A Crime” di
Richard Ellington. È lo stesso giovanotto che le bu-
sca, ed è la stessa smorfia. Soltanto l’oggetto con-
tundente varia secondo i libri e gli intrighi: molla del
saccone o calcio di Smith & Wesson. Per “The Little
Sister” è un punteruolo, naturalmente.

Le preferenze per questa o quella collana variano


naturalmente secondo il gusto dell’amatore. I colle-
zionisti preferiscono in genere Avon o Popular, per
lo stile pulposo delle loro copertine (in aggiunta, il
loro lato maldestro ed ingenuo). Si riconosce subito
il divoratore (o la divoratrice) di “whodunits” dalla
predilezione verso i libri Dell. Le attraenti copertine
di Gerald Gregg e la sua rara tecnica dell’air-brush
(aerografo) vi svolgono un loro ruolo. E poi Dell pub-
blicava molti Agatha Christie, Mignon G. Eberhardt,
Ellery Queen ed altri campioni del delitto al chiuso; e
si potevano sempre rintracciare gli andirivieni del vi-
cario o del maggiordomo grazie agli utili diagrammi
dei “mapbacks” sulle copertine. Spariranno nel 1951,
con gran sollievo dei direttori di vendite e responsa-
bili di pubblicità che avevano sempre detestato quel-
l’idea; i diagrammi erano fastidiosi da preparare e
disegnare, oltre a togliere spazio all’eventuale pub-
blicità. E poi bisognava leggere il fottuto libro per
sapere cosa disegnare ! Era sempre un problema,
soprattutto per i romanzi un po’ meno terra terra ed
“evoluti”. Non c’erano vicari o maggiordomi nei ro-
manzi e racconti di Hammett; allora ci si contentava
di una cartina dettagliata della “Sam Spade’s San
Francisco”. Per “Long Haul” di Bezzerides (“They
Drive By Night”) era una mappa della California che
tracciava le “lunghe tirate” dei camionisti, da L.A. a
Stockton, fino ad Eureka.

In “Paperbacks, U.S.A.” Schreuders sembra privile-


giare Pocket, Bantam, Penguin e Signet – il che è del
tutto normale, visto che lui stesso è grafico. Il suo
privilegiare Signet e soprattutto le copertine di Avati
si spiegano molto meno, se non perché quelle co-
pertine “neo-realistiche” molto caricate profumano
d’epoca: Hell’s Kitchen, i romanzi “impegnati” di Ja-
mes T. Farrell, i romanzi di guerra, il Fronte d’Italia,
il vicolo della delinquenza. Le donne non ridono mai
e somigliano tutte a Lee Remick in “Wild River”. Gli
uomini sono sempre tetri. Siamo parecchio lontano
dalle libere copertine del decennio precedente. An-
che quando la posa è osé, la scena trasuda angoscia
o disperazione esistenziale – come la celebre coper-
tina di Avati per il “Kiss Tomorrow Good-bye” di Ho-
race McCoy.

L’Età dell’Oro del paperback è passata già da molto


tempo. Dopo il 1959, le collane si sono banalizzate o
sono del tutto scomparse. Non c’è più spazio per
l’errore, l’anomalia o la fantasia – e nemmeno per
l’avventura. Il libro tascabile si è “normalizzato”, e la
gran tristezza di tutto ciò si può facilmente verificare
girando tra gli scaffali di Brentano’s o di qualsiasi al-
tro libraio. Osservate le copertine. Come per le ca-
ramelle o i fogli patinati si gioca ad acchiappa-
retina. Bisogna che colpisca, che brilli. Attualmente è
di gran moda la copertina “multipla” (otto o dieci di-
versi colori) e l’ultimo grido è il cartoncino argentato
e soprattutto in rilievo. La copertina che strilla in
braille. Vedendo questo, ci si dice che forse non è
così idiota intestardirsi su libriccini tanto vetusti e
fragili che la maggioranza dei collezionisti nemmeno
li legge per paura di ritrovarsi con un mucchietto di
polvere. Io stesso che vi parlo, ho affinato l’arte di
leggere questi maledetti affari senza aprirli vera-
mente. Tutto uno sport, ne convengo; delle autenti-
che pelli di zigrino ! E tutto mi è noto: dalle colle che
si polverizzano ai cartoncini che si sfaldano fino alla
carta che va in merda; o la disperazione di scoprire –
dopo l’iniziale euforia – che Little Johnnie o Betsy-
Lou hanno scarabocchiato nel libro della mamma, un
magnifico esemplare di “No Pockets In A Shroud” mi-
racolosamente trovato nel garage di un vicino. E co-
noscete la vertigine che vi assale nello scoprire che
malgrado le sei diverse edizioni di “Serenade” già
possedute ve ne manca ancora una ? La più bella,
evidentemente (quella di Jonas per Penguin nel ‘47).

Ma quel periodo non è stato fecondo soltanto di pic-


coli riquadri colorati: durante venti anni in America si
è praticata un‘arte poco vantata, poco o mal studiata
(salvo forse che in Francia, non sempre per buone
ragioni) – quella del romanzo pubblicato solo in pa-
perback, o talora scritto proprio in funzione del pa-
perback. Vedremo in seguito come lavoravano i “pa-
perback writers”, i David Goodis, Jim Thompson,
Charles Williams e Day Keen vari – quelli che scrive-
vano talvolta senza badare al contagiri.

C’è spesso la tendenza a considerare i paper-


backs come oggetti da collezione, oggetti culturali o
motivi di distrazione. Evidentemente, v’è tutto que-
sto allo stesso tempo, ma anche dell’altro. Certo,
non è del tutto superfluo studiare un po’ più da vici-
no le diverse e successive copertine dei più popolari
romanzi. Si può fare, all’occorrenza, un rapido
“Chandler attraverso gli anni”. Ciò che subito colpi-
sce, è senza dubbio la poca influenza del cinema
sull’iconografia, persino dopo il successo degli adat-
tamenti a partire dal 1945. Né Bogart né Dick Powell
sembrano aver colpito gli illustratori, per la buona
ragione che in maggioranza questi hanno avuto il
giudizio d’evitare di mostrare Marlowe sulle coperti-
ne (così come Chandler stesso si mostrava reticente
nella descrizione del personaggio). Le prime sono le
copertine più belle, quasi tutte disegnate da Hoff-
man, cui si devono pure alcune superbe copertine
per i romanzi di Hammett, tra cui l’ineguagliabile
“Red Harvest”. La sua copertina più celebre per
Chandler è certamente quella di “Addio mia Amata”
pensata nel ‘43 per Pocket. Vi si vede un Moose Mal-
loy stagliato come il gabinetto del Dottor Caligari, in
una Central Avenue similmente stilizzata, ambienta-
to al Florian. Hoffman ha messo curiosamente un’in-
segna di barbiere rossa e bianca in primo piano, il
che dà un bizzarro lato veneziano all’insieme; quasi
quasi ci si aspetta di veder spuntare una gondola…
La serie edita da Pocket dieci anni dopo è altrettanto
colorata, meno stilizzata è molto più violenta. Ci ri-
troviamo a chiederci cosa mai pensasse Chandler di
tutti quei calci di pistola e quelle molle a elica. Dopo,
venne il tetro realismo di Tom Dunn; non molto ecci-
tante, ma sempre più o meno fedele a Chandler e
alle trame dei romanzi (c’è proprio una molla da let-
to in un capitolo di “Addio mia Amata” anche se,
francamente, non resta molto in mente).

Là dove si comincia a sghignazzare è verso metà


anni ‘60. Gli illustratori hanno smesso di firmare i
lavori, e vedendo l’insieme delle copertine dell’epoca
un poco li capiamo. La possibilità di firmare una co-
pertina era per molti disegnatori proprio quel che fa-
ceva loro tollerare gli alea di un mestiere poco re-
munerativo, ma preferibile agli incarichi pubblicitari
finanziariamente molto più vantaggiosi. La copertina
di “Addio mia Amata” terza maniera è una vera chic-
ca: su sfondo rosso, una donna in rosso (parecchio
scollata) elimina a bruciapelo un tipo elegante che ha
tutta l’aria d’essere il buon vecchio James Bond; in
ogni caso, somiglia al Bond delle copertine del pe-
riodo, così come lo stile grafico (disegno al tratto,
stile volutamente schizzato, tutto quel che caratte-
rizza “Playboy” agli inizi). Anche il grosso calibro è di
rigore: è almeno una Colt Government .45 quella che
la signora stringe al termine dell’elegante polso. Si fa
fatica ad immaginarla in una borsa. E dal modo in cui
la tiene, ad altezza di bacino e gomito sciolto, pure
Lee Marvin e John Milius si slogherebbero il polso…

Nel 1968 l’ignominia è completa e Pyramid è il suo


profeta. La loro copertina per “Playback” potrebbe
andar bene anche per un romanzo di S.A.S. Il tizio ha
macchie di sangue dappertutto sulla camicia e la
donna (coperta con l’air-brush) è nefandamente
sproporzionata. Per fortuna Raymond era già morto
e non ha dovuto vedere una simile cafoneria. Perso-
nalmente, la mia serie Chandler preferita, e la sola
che abbia cercato di completare con qualche tenacia,
è quella che Ballantine ha pubblicato agli inizi degli
anni 70. Questa edizione uniforme – ed uniforme-
mente disegnata da un certo Tom Adams – è di mol-
to superiore agli orrori neo-pulposi usciti in seguito.
Sulle sue copertine Adams mostra una Los Angeles
senza età, ma tuttavia ne nota gli aspetti più gotici.
Sembra aver tutto compreso di Chandler: l’importan-
za dell’acqua, della pioggia, la tristezza indicibile
delle palme, i fiori carnivori e le carni in decomposi-
zione; il lato organico e vegetale della corruzione.. I
fiori velenosi, grassi e pericolosi sono la costante
delle nove copertine (per la “Signora del Lago” è un
viso di donna in sfacelo ad evocare un nenufar). Le
illustrazioni di Adams (di cui non so praticamente
nulla, malgrado i miei sforzi) sono totalmente arbi-
trarie, sospese, misteriose, esemplari. È la Los Ange-
les di Chandler che egli mostra come tela di fondo
(Mid-Wilshire, MacArthur Park e Santa Monica) ma è
una Los Angeles meno polverosa di quella visibile
oggi, una Los Angeles innaffiata, colma di corruzio-
ne, carica di escrescenze malsane. La sola copertina
atipica è quella di “The Long Goodbye” ed è la più
strana: gli alberi di Joshua sullo sfondo evocano la
Valle o, suppongo, il Messico. L’enorme testa di ser-
pente a sonagli sta per il tradimento, o la corruzione,
o entrambi. Ma la cosa migliore è che il gaucho “da
marciapiede” somiglia troppo a Elliott Gould. Ora, la
copertina è stata disegnata almeno due anni prima
dell’uscita del film di Robert Altman (epoca in cui
Ballantine si è d’altronde affrettato a sostituirla con
una posa del film che ritrae proprio Gould e il suo
gatto). Quanto alla copertina per “Trouble Is My Bu-
siness” mi basterà dire che evoca immancabilmente
“Blade Runner”, con i suoi pesci rossi (sintetici ?) e
quel taglio di capelli alla Deckard.

Ma la grande epoca del libro tascabile americano


presenta un interesse molto più grande delle sole
estetiche o piccole sociologie pop. Tra il 1948 e gli
anni ‘60 si è praticato un genere letterario nato dalle
costrizioni e necessità dell’edizione tascabile – un
genere molto mal documentato e studiato negli Stati
Uniti, ma che tuttavia illumina parecchio quell’ecto-
plasma conosciuto in Francia sotto il nome di polar.
O polard. Contrariamente a ciò che si potrebbe cre-
dere, polar(d) forse non è solo un derivato di “poli-
ziesco”. Nel qual caso, la serie risulterebbe mal desi-
gnata. Ma “polard” vuol dire anche “sesso”,
“daga” (arma un po’ datata) – almeno in Céline e nel-
l’argot parigino (come in “ha tirato fuori il suo polard
e si è messo a darci dentro” – in “Morte a credito”). E,
francamente, pur se il Dizionario Robert non è d’ac-
cordo sull’ortografia, è un’etimologia che pare con-
venire meglio al genere. Non c’è quasi mai un detec-
tive o un poliziotto in Goodis o Thompson o Charles
Williams; ma c’è sempre del sesso.

Se per l’esteta o lo storico le case editrici più affasci-


nanti sono sicuramente Penguin, Bantam, Pocket o
anche Ballantine, sono le altre collane ad interessare
di più il vero amatore di letteratura popolare o di
anomalie letterarie: quelle che giustamente sono
considerate dagli specialisti al fondo della graduato-
ria. Non è un caso se cinque di questi editori appaio-
no sul mercato nello stesso anno: Gold Medal (Faw-
cett), Pyramid, Graphic, Checkerbooks e Lion Books
sono tutte fondate nel 1949, epoca in cui la scom-
messa del libro tascabile sembra definitivamente
vinta. Tutti i “grandi” fanno fortuna, ragione suffi-
ciente perché un buon numero di anziani professio-
nisti della stampa specializzata o della distribuzione
voglia dedicarvisi e tosare lo stesso vello, pur se in
apparenza l’impresa ha molto del racket delle mac-
chinette mangiasoldi. Quei filibustieri in buona parte
avevano già l’infrastruttura; disponevano già di un
distributore o erano già essi stessi distributori. I fra-
telli Fawcett, Wilford e Roscoe, facevano girare Faw-
cett Publications fin dagli anni 20. Nel 1942, gli affa-
ri andavano così forte che dovettero acquistare un
intero immobile di ventuno piani a Manhattan per si-
stemarvi il personale della redazione (questa parola
si può usare nel caso delle edizioni Fawcett) neces-
sario ai quasi sessanta tra periodici e fanzines pub-
blicati dalla ditta: “True Confession”, “True”, “True
Police Cases” (Jim Thompson ha lavorato per questo
tipo di riviste, prima di scrivere libri tascabili) e dei
comics come “Slam Bang”, “Wow Comics” o “Holyday
Comics”.
Per parte sua, il fondatore e proprietario di Lion
Books altri non era che Martin Goodman, l’intrepido
editore che si era già fatto un nome verso la fine de-
gli anni ‘30 sul mercato dei pulps con la sua Manvis
Publications: nel 1937 la famosa (infamous) colle-
zione Red Circles contava quattordici titoli, tra cui
“Mystery Tales”, “Uncanny Tales” o “Real Mystery”. Il
logo era una pallottola scarlatta ed i titoli sbaraglia-
vano la concorrenza dal momento che le copertine e
le storie Red Circles erano le più sanguinose e sen-
sazionali nella storia dei pulps; cose come “Satan Is
My Lover” o “Pawn Of Hideous Desire”… Goodman
era cugino di Stan Lee e più tardi avrebbe fatto for-
tuna con la sua Magazine Management che distribui-
va i Marvel Comics, oltre a riviste erotiche come
“Stag” o “Men Only”.

Lion Books, che in seguito avrebbe pubblicato tre ti-


toli originali di Goodis (più una ristampa) e numerosi
originali di Jim Thompson, Day Keene e David Karp
assortiti, aveva d’altronde debuttato sotto bandiera
Red Circle – ed effettivamente c’erano pochissime
differenze tra cose come “Leg Artist”, “Body Or Soul”,
“Hot Date” o “Passion In The Dust” e le vaccate pulp
di papà Goodman. Soltanto il formato era mutato
mentre le illustrazioni di copertina mantenevano an-
cora un forte sapore di marciapiede, e le sottotitola-
zioni erano ancor più adescatrici e bugiarde: fino a
risultare quasi avvincenti. Quello di “Passion In The
Dust” (un western) proclamava: ”GRILLETTI FACILI – E
DONNE SENZA LEGGE!” I primi sette volumi Lion
compaiono in realtà sotto il marchio Red Circle, così
come i numeri 12 e 13. Il volume 8, il primo a fre-
giarsi della testa di Leone, rappresenta una reale vo-
lontà di cambiamento: è “Hungry Men”, il primo ro-
manzo di Edward Anderson (“Thieves Like Us”) uno
spietato ritratto della vita degli hobo durante la De-
pressione. Anderson non è esattamente un autore li-
cenzioso, e c’era un buon salto tra il suo romanzo e
“Leg Artist” – anche se la copertina mostrava una ra-
gazza a petto scoperto. Il fatto è che nel frattempo
Goodman aveva ingaggiato Arnold Hano per dirigere
la sua collezione. Hano aveva lavorato per Ian Bal-
lantine alla Bantam, dove si era occupato soprattutto
di western; poi Ballantine lo aveva promosso al rango
di general editor. Hano aveva gettato un occhio spa-
ventato (o disgustato) sulle licenziose copertine Red
Circle ed aveva accettato l’offerta di Goodman sol-
tanto a condizione di poter cambiare tutto alla Lion.
Goodman, che non se ne capiva granché di letteratu-
ra, nemmeno popolare, aveva ceduto. Certo, lo stile
a petto scoperto e le pollastrelle delle copertine fu
più difficili farli sparire. C’erano anche le costrizioni
rappresentate da un budget limitato. E poi Goodman
aveva comprato romanzi in anticipo, e Hano dovette
inserirli nelle infornate del primo anno, il che spiega
forse la presenza di “The Indiscreet Confessions Of A
Nice Girl”, “Soft Shoulders” o “The French Touch” in
mezzo a rispettabili western o romanzi seri come
“He Ran All The Way” (il romanzo di Sam Ross che
diede il via al famoso film con John Garfield).

Hano oggi vive in California. Ha una bellissima casa


sul fianco di un canyon sopra Laguna Beach ed inse-
gna all’università. Oltre ad essere stato capo colle-
zione ed editor, lui stesso è stato “paperback writer”.
È autore di circa sessanta libri scritti con diversi
pseudonimi. Dice spesso scherzando che un giorno
scriverà le sue memorie e che il titolo sarà “The
Hack” (il cottimista) e chiama spesso la moglie per
chiederle “sotto che nome ho scritto il romanzo su
Gauguin, quella volta?” (“The Flesh Painter”, a nome
Ad Gordon). Ma i suoi libri sul baseball godono di
buona considerazione, al punto che uno di essi è
stato recentemente ristampato. Sua moglie precisa
che utilizzava tutti quegli pseudonimi non solo per
modestia o falso pudore: “La sua prima moglie dopo
il divorzio sorvegliava da vicino la sua carriera…”Ar-
nold Hano adora parlare di sé e degli autori che
pubblicava; se la sua memoria talvolta fa qualche
confusione, basta mostrargli una copertina o citare
un titolo perché gli tornino a mente gli aneddoti giu-
sti.

“Si arrivava dopo gli altri, e non c’erano molti soldi a


disposizione. Bisognava arrangiarsi con quel che
c’era. Lion aveva una serie di romanzi di guerra; so-
prattutto perché sembrava non interessassero nes-
suno. Potevamo permetterceli perché nessuno faceva
aste al rialzo. Avevo desiderato ripubblicare “Niente
di Nuovo Sul Fronte Occidentale” alla Bantam, ma
avevano rifiutato; allora l’ho fatto alla Lion. Nel ‘49,
pubblicare un romanzo pacifista era come farsi trat-
tare da sporco comunista. Certamente, Martin
Goodman anche stavolta è riuscito ad infilare una
donna sulla copertina, persino in un romanzo che si
svolge quasi tutto nelle trincee. C’è un soldato tede-
sco ucciso, faccia nel fango, sul retro; noi, era questa
che volevamo mettere davanti. Era una battaglia
continua. Si cercava di far qualcosa di buono, pub-
blicare buoni romanzi, puntare su generi trascurati
da altri ma pur sempre interessanti. Chiaro che biso-
gnava far compromessi. Per esempio le copertine
erano davvero mediocri.

Stranamente gli unici problemi di censura che avevo


non erano d’ordine grafico. Goodman, che spingeva
per il sensazionale sulle copertine, aveva una fifa
matta di parolacce ed argomenti tabu come incesto e
simili. Tuttavia una volta ho fatto passare uno “shit”
senza dirglielo; dovevo farlo, per principio ! Mi ricor-
do, volevo far riuscire quel romanzo nei tascabili, un
giochino a base di sesso, una storia d’incesto un po-
chino alla D.H.Lawrence. Si chiamava ”Thunder Wi-
thout Rain” ed era scritto da quel tipo, oh, aveva uno
splendido nome, tipo “zietta” inglese…CLIFTON CU-
THBERT ! Proprio lui, Clifton Cuthbert…Dal momento
che dentro c’era un incesto, bisognò avvertire
Goodman. Gli ho detto che se lo pubblicavamo, ne
potevamo vendere un milione come niente. Ha detto
di no. Ho attraversato la strada e sono andato da Py-
ramid a dire la stessa cosa. Hanno risposto sì, hanno
stampato il libro con un altro titolo, “La Vergogna di
Mary Quinn”, e ne hanno venduto un milione. Ma mi
hanno spedito un assegno per il disturbo. Subito ho
pubblicato altri due romanzi di quel Clifton Cuthbert,
ma non è andata allo stesso modo. Niente incesto,
penso sia per questo…”

Può parere stupefacente che Hano abbia potuto at-


traversare tanto allegramente la strada ed aiutare la
concorrenza, ma quelli del giro sostengono tutti che
all’epoca gli editori non erano così compartimentati,
né la concorrenza così feroce come al giorno d’oggi.
Non era raro che un direttore artistico allertasse uno
o più colleghi quando scopriva un illustratore parti-
colarmente dotato o a buon mercato o rapido, o le
tre cose insieme – pratica oggi impensabile. Questa
relativa flessibilità s’applicava pure a livello redazio-
nale: quando Jim Thompson ha pubblicato ”Signor
Zero” con Dell, il direttore di collana ha semplice-
mente chiesto a Hano di preparare il manoscritto e di
occuparsi di Thompson – solo perché lui e Thomp-
son andavano d’accordo e Hano sapeva come trat-
tarlo. Thompson è, naturalmente, il più celebre “au-
tore della casa” alla Lion ed uno di quelli che scrive-
vano romanzi specificatamente per la collezione,
senza cercare di farli pubblicare “rilegati”, in edizio-
ne cartonata presso un editore “rispettabile”. Hano
spiega come erano arrivati a pubblicare degli “origi-
nali”. Lion d’altra parte non era la prima casa editrice
a farlo: Gold Medal ne pubblicava fin dal 1950, e
credo che sia stato Day Keene, il prodigiosamente
prolifico Day Keene, ad aver scritto il primo “original”
nel 1948 con Avon (“This Is Murder, Mr. Herbert” –
ed, effettivamente, era lui).

“Pubblicavamo otto titoli al mese, e a volte facevamo


fatica; dato che non potevamo pagare più di 1500
dollari a libro (una volta siamo arrivati a 2000 dollari,
ma solo una volta) la scelta era tutto sommato limi-
tata. Allora si rimediava alla penuria in vari modi.
Stampavamo antologie di racconti – di cui vado mol-
to fiero. E cose tipo “Baseball Stars Of 1950”- una
per anno, naturalmente. Era Bruce Jacobs a scriverle.
Scriveva come scriveva, ma comunque poteva anda-
re. In seguito è diventato generale. Si, per incredibile
che possa sembrare, ora è generale di riserva nell’e-
sercito! E poi, sicuro, abbiamo cominciato a ordinare
qualcosa direttamente a diversi autori. Credo che il
nostro primo titolo originale fosse di Prathers, "Lie
Down, Killer”. Mi rivedo ancora a tagliare; hai voglia
a tagliare, era sempre troppo lungo…”

In effetti, il primo originale della Lion deve essere


stato “The Lustful Ape” di Russel Gray, che non è al-
tri che Bruno Fischer. Gli altri “regolari” alla Lion era-
no David Karp, Day Keene e Walter Untermeyer Jr.
(“Lui era ricco, di buona famiglia, e scriveva quando
gli girava; gli altri, erano malridotti”). Benché abbia
pubblicato tre “originali” di David Goodis, Hano non
lo ha mai incontrato, neanche una volta: “Lo Scassi-
natore” è l’unico romanzo che abbiano ricevuto così,
“già bello e pronto”. Soprattutto un manoscritto net-
to e senza sbavature “The Burglar”; l’abbiamo pub-
blicato tale e quale. Goodis non era neanche ricorso
ad un agente, aveva solo imbucato il lavoro. Ci stu-
piva, tanto più che senza dubbio eravamo uno degli
editori che pagavano meno un originale: si pagava
un anticipo di $ 1500, e naturalmente le solite royal-
ties. Gold Medal dava di più, per esempio; tiravano in
quantità superiori, e soprattutto pagavano in base
alla tiratura, non alla vendita. Se tiravano in 250000
copie, pagavano $ 2500 come anticipo, che gli
esemplari si vendessero o no. Lo stesso per le tiratu-
re successive. In breve, “Lo Scassinatore” mi era così
piaciuto che aspettavo il seguente con impazienza.
Si immagini la mia faccia mentre ricevevo “The Blon-
de On The Street Corner”! Era tutto fuorché un ro-
manzo. Solo frammenti di conversazioni in un caffè e
all’angolo di una strada; senza trama o azione, senza
intrigo. Comunque l’ho pubblicato, ma è piaciuto a
pochi. “Venerdì Nero” era migliore. Subito abbiamo
ristampato “Nightfall” con un diverso titolo, “The
Dark Chase”…Non chiedetemi perché…Senza dubbio
qualcuno aveva notato che “Dark” faceva vendere…”

Tutti i romanzi dovevano contare centosessanta pa-


gine all’incirca; mai più di duecento, in ogni caso. Gli
autori lo sapevano. Ho chiesto a Hano se questo po-
tesse spiegare il brutto modo di finire dei romanzi di
Thompson, ad esempio. “No, gli piacevano così. Era
un lavoraccio fargli cambiare la minima cosa.
Thompson era un uomo incapace di riscrivere – e
questo, credo, perché lui non sapeva bene quel che
faceva, dunque era inadatto a correggere. Era un tipo
originale, un istintivo. Mi piaceva molto, e perciò lo
abbiamo fatto tanto lavorare. Non si facevano molti
soldi con i suoi romanzi, non ha mai avuto un grosso
successo; ma nemmeno ci perdevamo. Fu l’agente
Ingrid Hallen a proporcelo, nel 1952 mi pare. Ritor-
nava allora da un lungo soggiorno in ospedale per
disintossicazione; aveva lavorato per “Police Gazette”
e simili. Aveva pubblicato vari romanzi con Harper,
ma era da un bel po’ che non pubblicava niente.
Come facevamo con David Karp de altri, gli abbiamo
dato una sinossi. La prima credo fosse “The Killer In-
side Me”. So che sua moglie ha smentito questo, ma
è la verità. Era Jim Bryans a scriverle, solo una o due
pagine, a volte anche meno. Jim era editor alla Lion,
lavorava con me. Certo, gli si davano solo indicazio-
ni; gli abbiamo detto di scriverci una storia su un
poliziotto di New York che si metteva a violentare ed
ammazzare. Ne ha fatto lo sceriffo di Central City, e
sicuramente era cento volte meglio. Si è fatto così
per due o tre romanzi (“Cropper’s cabin”, “Recoil”) ed
in seguito, visto come lavorava, l’abbiamo lasciato
tranquillo. Gli lasciavamo fare quel che voleva. Un
giorno, si è messo in testa di scrivere un romanzo
senza utilizzare più di cinquecento parole diverse.
Ne ha usate un po’ di più per “Savage Night”, ma non
molto – e credo sia quel che su tutti preferisco. “Bad
Boy” e “Roughneck” costituivano l’autobiografia che
non era mai riuscito a piazzare da nessun editore.
Scriveva molto velocemente. Un anno, per noi ne ha
fatti otto”.

È interessante notare che “Roughneck” era presenta-


to come un romanzo normale, non un’autobiografia.
La copertina mostrava una scena agreste e spiantata
alla Caldwell; vediamo un tipo con un recipiente
d’acquavite illegale ed una bionda in jeans e capelli
corti. Illustrazione che evidentemente non ha niente
a che vedere con il contenuto di “Roughneck”, non
più del sottotitolo abusivo: “He brawled his way th-
rough ten years of booze and bawds”. Il retro mo-
strava una ragazza da burlesque in guanti neri, in
una bottiglia! DAMES AND DAMNATION! HUNGER
AND HELL! Ma è lo stesso Thompson a raccontarsi
una pagina dopo l’altra, Thompson e la moglie Al-
berta con i tre figli, Sharon, Mike e Pat. Bisogna se-
guirlo mentre descrive i suoi pargoli, con lo stesso
affetto riservato dal contadino ad un esercito di ter-
miti: “quei tre mocciosi, Pat Mike e Sharon… Una
sola occhiata è bastata loro per decidere che erava-
mo nulla più di una coppia d’imbecilli felici, non ma-
laccio, ed hanno continuato a crescere senza pre-
starci la minima attenzione. (…) A tavola, appollaiata
su pile di libri, ci davano dentro con i loro coltelli af-
filati come rasoi – ognuno aveva una lama favorita. E
mentre io e Alberta guardavamo, spaventati, un pro-
sciutto intero o un arrosto di nove libbre sparivano
come per magia. Fumavano le mie sigarette. S’impa-
dronivano della mia birra…”

A parte queste omelie domestiche, Thompson rac-


conta in dettaglio tutti i lavori fatti prima di guada-
gnarsi onestamente la pagnotta come scrittore.
Quelle esperienze si ritrovano evidentemente nei
numerosi romanzi. C’è stata tutta una serie di occu-
pazioni infami quando cercava di pagarsi gli studi a
Lincoln, nel Nebraska. Ha scavato come manovale,
lavorato in una panetteria industriale (esperienza di
cui si ricorderà poi in “Savage Night”) è stato conta-
bile poi esattore o recuperato crediti, ed anche rap-
presentante (“A Hell Of A Woman” – “Diavoli di Don-
ne”). E, naturalmente, è stato “roughneck” nei campi
petroliferi del Texas occidentale (“South Of Heaven”,
“Wild Town”). È stato pure fattorino in un giornale e
direttore del Writers Project per l’Oklahoma (anche
se il volume dedicato a questo stato non lo nomina –
lui spiega perché in “Roughneck”). È sempre una del-
le grandi forze dei romanzi di Thompson (come di
quelli di Cain, in grado minore) l’insegnarvi le tecni-
che o le pratiche di lavori tanto arcani: distributore
di film nella provincia profonda (“Nothing More Than
Murder”, un romanzo che dovrebbe tentare un Wim
Wenders – “Nulla Più Di Un Omicidio”, in italiano) ac-
quirente d’oro itinerante e porta a porta (“The Gol-
den Gizmo”, l’unico romanzo ambientato interamen-
te a L.A.) imbonitore all’ingresso dei burlesques o
trivellatore di pozzi – cose che s’imparano in
Thompson. Nel ‘52, quando si presentò da Hano a
New York, tutto ciò era alle spalle.

Può stupire che scrittori come Goodis o Thompson si


siano messi a scrivere in esclusiva per edizioni ta-
scabili. Dopo tutto, Thompson aveva avuto molti libri
editi da nomi rispettabili, e Goodis aveva ottenuto un
grande successo con “Dark Passage” (“La fuga”); ave-
va guadagnato parecchio. Hano suggerisce che è
solo questione di soldi. “Tutti questi tipi, almeno i
migliori, avrebbero potuto farsi pubblicare senza
problemi da Doubleday o Simon & Shuster. Goodis
avrebbe potuto pubblicare in “Front Page Mystery” o
“Inner Sanctum Mystery” o in serie poliziesche simili.
Ogni editore aveva la sua collana; Lippincott aveva
Main Line Mysteries, Dodd, Mead & Co aveva Red
Badge, ecc… Ma loro pagavano soltanto 500 dollari
d’anticipo. Naturalmente, davano le percentuali del
10%, ma se eri malmesso o se non avevi molte spe-
ranze di successo, venivi da noi. 1500 dollari subito
alla consegna del manoscritto. Anche di più da Gold
Medal o Dell. Questi tipi immaginavano che scriven-
do parecchio si sarebbero assicurati delle buone en-
trate – e così era per alcuni. L’unico inconveniente è
che quei libretti tascabili passavano inosservati. I cri-
tici ne stavano lontani, e così gli universitari. Quando
Anthony Boucher, il critico del “New York Times” fece
l’elogio di Thompson, per noi fu un trionfo, eravamo
un po’ più che fieri. Ma era l’eccezione”.

È per questo motivo che certi autori di “polar” vene-


rati in Francia sono sconosciuti negli Stati Uniti, o
perlomeno ciò spiega perché spesso su di loro si
sappia poco dal punto di vista biografico. Charles
Williams era del Texas, è stato a lungo operatore-ra-
dio sulle navi e viveva a San Francisco alla fine dei
suoi giorni. Ma chi ne sa molto di più sull’autore di
“Non è peccato (The Diamond Bikini)” ? Lo stesso di
Goodis. Nessuno si era curato di far ricerche. Pochi
articoli su di lui da vivo o dopo la morte; poche in-
terviste. E almeno, nel caso di Goodis, ci sono state
delle interviste. Ma di persone senza alcun legame
con Hollywood, come Day Keene, William Francis,
David Karp ed altri, nessuno si occupa negli States,
dove tutta l’infrastruttura letteraria è manovrata dal-
la cricca newyorkese. Questi autori, semplicemente
non esistevano per la critica – e poco per Hollywood
(a parte ogni tanto un nome che compare nei titoli di
testa: “tratto da una storia di …”)- anche se questi
stessi autori sono letti da milioni di persone. Solo
che queste persone è molto probabile che abitino a
Kallispell o Albuquerque o Chattanooga; e che com-
prino i libri dal libraio all’angolo, o che li scambino
da Bob’s Book Nook o al Paperback Exchange o Do-
ris’ Book Shack. In effetti, esagero un poco: questi
lettori probabilmente oggi sono scomparsi; i libri da
stazione ed i paperbacks Lion o Gold Medal interes-
savano perlopiù un pubblico che adesso guarda la
televisione, una volta risolti tutti i problemi d’offerta
e ricezione. Tra la televisione e la diffusione presso-
ché generale e quasi legale del porno negli States,
non c’è spazio per prodotti come “Child of Rage” o
“Cassidy’s Girl”. So che alcuni di quegli autori “face-
vano arte” all’insaputa di tutti, ma ignorare le condi-
zioni in cui lavoravano, il mercato cui miravano e i
vincoli di produzione sarebbe altrettanto stupido
quanto ignorare quegli autori col pretesto che scri-
vevano per signore sole e camionisti dell’entroterra.

È altrettanto certo che quegli autori forse beneficia-


vano (come i loro equivalenti del cinema di serie B) di
una libertà di cui non godevano gli altri. Ci si chiede
per esempio se Thompson avrebbe potuto permet-
tersi tante fantasie stilistiche o accostare temi così
oltraggiosi se fosse stato pubblicato da Knopf o
Doubleday o un altro editore “ortodosso”. Penso par-
ticolarmente alla fine di “A Hell Of A Woman”, in cui
Thompson presenta due finali diversi per la storia,
ma in maniera simultanea (il personaggio è schizo);
in uno è castrato a colpi di cesoia, nell’altro si butta
dalla finestra. Al termine di “Diavoli Di Donne” [in
francese reso con “Des Cliques et des Cloaques”] i
responsabili della Série Noire hanno adottato un
compromesso e presentato i due finali, uno di segui-
to all’altro. Thompson, però, senza dubbio radicale
quanto i suoi eroi, voleva presentare le due soluzioni
frammischiate. E Hano si è adeguato: tutto l’ultimo
paragrafo è schizoide e si può leggere una riga, poi
una riga in corsivo senza nulla a che vedere con la
prima, poi la continuazione della prima riga, e così di
seguito. Si può trovare questa fantasia fuori luogo o
ridicola o mal eseguita. Resta il fatto che se Thomp-
son o Hano avevano voglia di sperimentare, nessuno
li ostacolava. Ed i lettori non si lamentavano; difatti,
non ci capivano un acca.

Hano ancora ricorda ridendo quella volta in cui ha


dovuto annunciare a Stanley Ellin che non gli piaceva
il titolo del romanzo rilevato dal suo editore origina-
rio e che lo avrebbe cambiato. “Il suo lavoro si chia-
mava ‘Dreadful Summit’, un titolo proprio terribile,
non si capiva se era un romanzo sullo sci o sugli
sport invernali o la scalata…Quando gli ho detto che
lo avremmo titolato ‘The Big Night’, ha fatto un sal-
to: era proprio il titolo da lui voluto fin dal principio !
Ma i suoi editori non avevano voluto…”

Se talora gli autori trovavano direttori di collana che


li capivano e li sostenevano, non sempre andava
così. Talvolta, l’unica libertà reperibile nei libri ta-
scabili era quella che si prendevano gli editors con il
testo originale. Si sa per esempio che la versione
americana di “Un Lenzuolo Non Ha Tasche”, pubbli-
cata da Signet nel 1948 è stata alquanto scorciata
(dallo stesso McCoy) e trasformata, soprattutto nelle
prime cinquanta pagine. La versione Gallimard del
1946 è la traduzione dell’edizione inglese (la prima)
apparsa nel 1937 (ne esisterebbe pure una traduzio-
ne francese precedente datata ‘38 e intitolata “Un
Suaire N’a Pas de Poches”!). Nell’edizione Signet (la
sola esistente negli States) Myra non è più una co-
munista ma una sporcacciona: “Myra lavora per Mo-
sca, ha fatto la galera in Texas per aver distribuito
volantini” diventa nell’edizione Signet: “She’s a god-
damn sex maniac”; ed in Texas è stata dentro per
“corruzione di minore”. Ugualmente, la versione Si-
gnet di “Kiss Tomorrow Goodbye (Non Ci Sarà Do-
mani)” conta 35000 parole in meno di quella cono-
sciuta. Ma in questo caso preciso (come in altri simili
per Cain) l’autore era d’accordo con i castratori: “No
Pockets In A Shroud” è dedicato a Victor Weybright e
Don Demarest, che all’epoca altri non erano che i di-
rettori di collana alla Signet.

In tutt’altro registro, Popular Library ha pesantemen-


te purgato il testo di un romanzo di Jonathan Latimer
apparso in Inghilterra nel 1941, ”Solomon’s Vi-
neyard”, allorché fu pubblicato nel 1950 col titolo
più accattivante di “The Fifth Grave”. La versione ori-
ginaria è stata da poco restaurata e pubblicata in
edizione limitata da Maurice Neville, un collezionista
ed editore occasionale di Santa Barbara (ha curato
anche lo script di Robert Towne per “Chinatown”). È
divertente notare che nel 1950 l’America si mostrava
più pudibonda e timorata della fiera Albione del
1941; bisogna dire che nel 1941 la fiera Albione non
era fiera ed aveva altre gatte da pelare che non quel-
le di Latimer e del suo detective Karl Craven. Il che
non impediva d’altronde a Popular di presentare la
sua versione “bromuro” con una copertina partico-
larmente calda di Belarski: pigiama strappati, seni
all’aria e così via. Eppure: ”Dal modo in cui le sue
natiche si muovevano sotto la seta nera del vestito,
sapevo che a letto sarebbe stata memorabile” diven-
ta “Da quel che indovinavo sotto il vestito di seta
nera sapevo in anticipo che sarebbe stata un pro-
blema”. E via di seguito. Non sarebbe molto se “Sa-
lomon’s Vineyard” non fosse proprio il miglior ro-
manzo di Latimer (parecchio superiore alla sua serie
di Bill Crane Mysteries) e forse anche uno dei migliori
romanzi “duri da cuocere” d’ogni tempo (a momenti
quasi pari al suo maestro Hammett); è pure uno de-
gli esempi più riusciti di un grande artigiano del ge-
nere che si fa beffe del genere stesso e di quel che è
diventato – pur rimanendo palpitante, bizzarro, pie-
no di nerbo e di lubricità liberatrice (anche con una
gran sorsata di razzismo, bisogna dire).

L’America e soprattutto l’Accademia non si sono an-


cora decise a studiare questi autori o questa fase
tanto particolare della letteratura popolare degli ul-
timi trenta anni, pure se non dovrebbe mancar mol-
to. I rari tentativi già esistenti (come il recente
“Hardboiled America” di Geoffrey O’Brien) si smarri-
scono sempre nelle impasses plastiche e nei pantani
retrò, non sapendo mai scegliere tra la scarpetta di
raso e il vero studio ancora da fare, quello sul modo
in cui erano realmente scritti quei polar così dise-
guali, tanto affascinanti, così diversi e mal noti. Sa-
pere come nascevano quei prodotti, e per qual pub-
blico, non ridurrà tutto ad un’equazione, lungi da
questo; ma questo eviterà almeno di dire troppe
sciocchezze. Il meglio, in tutto ciò, è che invece di
rintuzzare i sogni e la gioia, questo fa venir voglia di
leggerne ancora di più. Perché essere un “paperback
writer” all’epoca era anche un’avventura. Se Jim
Thompson avesse scritto un seguito di “Roughneck”,
forse ne avremmo saputo di ancora più belle…

(“Hollywood”, febbraio 1983)

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