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DOTTRINA
ARTICOLI:
PISANI M., Cauzione e libertà personale (Spunti de iure condendo) ................... 3
GROSSO C.F., Su alcuni problemi generali di diritto penale ................................ 18
MANTOVANI F., Sui principi generali del diritto internazionale penale ................ 40
STELLA F., La costruzione giuridica della scienza: sicurezza e salute negli am-
bienti di lavoro ............................................................................................. 55
NOBILI M., Storie d’una illustre formula: il ‘‘libero convincimento’’ negli ultimi
trent’anni ...................................................................................................... 71
AMODIO E., Giusto processo, procès équitable e fair trial: la riscoperta del giusna-
turalismo processuale in Europa .................................................................. 93
PULITANÒ D., Il laboratorio del giurista: una discussione su strumenti e scopi .. 108
DONINI M., Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria .............................. 141
MILITELLO V., Partecipazione all’organizzazione criminale e standards interna-
zionali d’incriminazione ............................................................................... 184
CAPONE A., Note critiche in tema di ricorso straordinario per errore di fatto ..... 224
VICOLI D., Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e
art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione ......................................... 251
VOGLIOTTI M., Al di là delle dicotomie: ibridismo e flessibilità del metodo di rico-
struzione del fatto nella giustizia penale internazionale .............................. 294
MARINUCCI G., Finalismo, responsabilità obiettiva, oggetto e struttura del dolo . 363
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— II —
FIORE C., Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina finalistica. Il caso ita-
liano .............................................................................................................. 380
PADOVANI T., La concezione finalistica dell’azione e la teoria del concorso di per-
sone nel reato ............................................................................................... 395
NOTE A SENTENZA:
LOZZI G., L’ambito di operatività dell’art. 392 c.p.p. ......................................... 502
IAFISCO L., Avviso di chiusura delle indagini preliminari e giudizio immediato: la
Corte costituzionale riduce gli ambiti del ‘‘giusto processo’’ ....................... 511
PECORI L., Procedura di ricusazione e durata della custodia cautelare ............... 539
PENNISI A., Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni
della parte civile ........................................................................................... 558
ROCCHI D., Il giudizio abbreviato c.d. incondizionato e la patologia che affligge il
provvedimento negatorio del giudice ............................................................ 570
BELLAGAMBA F., Conspiracy e associazione per delinquere alla luce dei principi
della previsione bilaterale del fatto e del ne bis in idem in materia di estradi-
zione ............................................................................................................. 583
LOZZI G., Intervento chirurgico con esito infausto: non ravvisabilità dell’omicidio
preterintenzionale nonostante l’assenza di un consenso informato ............. 611
PANEBIANCO G., Minore infermo di mente e socialmente pericoloso: l’inadegua-
tezza dell’attuale sistema di misure di sicurezza minorili ........................... 636
CENTONZE F., La Corte d’assise di fronte al ‘‘ragionevole dubbio’’ ..................... 673
RASSEGNE
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
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— III —
GIURISPRUDENZA
Estradizione
— Reato di conspiracy e reato associativo - Previsione del fatto come reato in en-
trambi gli ordinamenti - Necessità - Esclusione (Trattato di estradizione Ita-
lia-USA, art. II, § 2) (con nota di F. BELLAGAMBA) .................................... 582
Giudice
— Ricusazione - Dichiarazione - Presentazione - Effetti - Sospensione dei termini
di custodia cautelare - Esclusione - Limiti (C.p.p. art. 37) (con nota di L. PE-
CORI) ............................................................................................................. 528
Giudizio abbreviato
Richiesta semplice ex art. 438, comma 1, c.p.p. nel testo novellato dalla l. n. 479
del 1999 - Pluralità di imputati - Ritenuta necessità di trattazione unitaria
del processo - Ritenuta necessità di integrazione probatoria - Ritenuta in-
compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedi-
mento - Provvedimento di rigetto - Abnormità - Sussistenza (con nota di D.
ROCCHI) ......................................................................................................... 566
Giudizio immediato
— Necessità che la richiesta del p.m. sia preceduta dall’avviso di conclusione
delle indagini - Esclusione - Questione di legittimità costituzionale - Manife-
sta infondatezza (C.p.p., art. 453; Cost., artt. 3, 24, comma 2) (con nota di
L. IAFISCO) .................................................................................................... 508
Imputabilità
— Minore età - Maturità - Vizio di mente - Pericolosità sociale - Misure di sicu-
rezza (C.p. artt. 88, 89, 98, 224; d.P.R 22 settembre 1988, n. 448, artt. 36,
37, comma 2) (con nota di G. PANEBIANCO) ............................................... 616
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— IV —
Incidente probatorio
— Indagini preliminari — Preclusione della possibilità di richiedere ed effettuare
l’incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari allorquando i rela-
tivi termini siano già scaduti — Violazione del diritto alla prova e, quindi,
del diritto di difesa nonché del principio della parità delle parti — Manifesta
infondatezza. (Cost. artt. 3, 24, 111; C.p.p. artt. 392 e 393) (con nota di G.
LOZZI) ........................................................................................................... 499
Parte civile
— Effetti della costituzione - Assoluzione dell’imputato in primo grado - Con-
danna in grado d’appello su impugnazione del solo pubblico ministero -
Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile - Ammissibi-
lità (C.p.p. artt. 76, 538, 576) (con nota di A. PENNISI) ............................. 550
Prove
— Regola probatoria e di giudizio nel processo penale - Incompleta formulazione
dell’art. 530, comma 2, c.p.p. - Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio -
Vigenza nel nostro ordinamento (con nota di F. CENTONZE) ...................... 654
Reato in genere
— Nesso di causalità nei reati commissivi - Accertamento oltre ogni ragionevole
dubbio - Regola probatoria e di giudizio nel processo penale - Principio del-
l’oltre ogni ragionevole dubbio - Dubbio non irragionevole, arbitrario o ir-
realistico - Assoluzione per insussistenza del fatto (con nota di F. CENTONZE) .... 654
Reati contro la persona
— Omicidio preterintenzionale - Fattispecie - Intervento medicochirurgico effet-
tuato in assenza di consenso informato - Esclusione (C.p. art. 584) (con
nota di G. LOZZI) ......................................................................................... 604
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(2) Sulla portata dell’alternativa v. STARACE, La Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo e l’ordinamento italiano, 1992, p. 91 ss.; v., inoltre, i richiami in PISANI, Commenta-
rio alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
2001 (a cura di BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI), sub art. 5, p. 135.
(3) Ne riferisce GRÜTZNER, L’attività del Consiglio d’Europa nel campo del diritto pe-
nale, in Rass. st. penit., 1968, p. 771.
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(4) Sul tema v. HULSMAN, Le Conseil de l’Europe se prononce sur la détention pré-
ventive, in Cahiers de dr. europ., 1966, p. 271.
(5) Si veda il resoconto Nona Conferenza dei Ministri europei della giustizia, in
Rass. st. penit., 1974, p. 893. Per i successivi passaggi in sede di Comitato europeo v. CEN-
TRO NAZIONALE DI PREVENZIONE E DIFESA SOCIALE (a cura di), La custodia preventiva nell’ap-
plicazione giudiziaria, 1978, p. 2 ss. A titolo di contributo italiano per i lavori di ricogni-
zione, la ricerca (p. 6) aveva assunto come area di indagine (soltanto) ‘‘il complesso dei casi
appartenenti per competenza ad una stessa circoscrizione, quella di Firenze, relativamente al
primo semestre del 1974.’’ Per tale arco di tempo, ‘‘non è risultato alcun caso in cui la libe-
razione (a titolo sia di scarcerazione sia di libertà provvisoria) sia stata accompagnata dalla
imposizione di una cauzione, dalla prestazione di malleveria o dalla prescrizione di specifici
obblighi ai sensi degli artt. 272 e 282 c.p.p.’’ (p. 158).
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(6) Per il testo in lingua francese v. in questa Rivista, 1981, p. 698; per la traduzione
italiana v. in Ind. pen., 1981, p. 820.
(7) È da notarsi che ANDRIOLI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il pro-
cesso giusto, in Temi romana, 1964, pp. 456-457, già a livello della più generica previsione
dell’art. 5, § 3, parlava direttamente e tout court di ‘‘cauzione’’ (misura attenuatrice del ‘‘di-
ritto di essere posto in libertà’’). Viceversa, sul più generale problema del carattere non ‘‘self
executing’’ della normativa contenuta degli artt. 5 e 6 della Convenzione v. CONSO, I diritti
dell’uomo e il processo penale, in Riv. dir. proc., 1968, p. 315.
(8) Nel rapporto MURDOCH sull’art. 5 della Convenzione (Dossiers sur les droits de
l’homme no 12) edito dal Consiglio d’Europa (1994), si indica quella decisione come inedita.
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(9) Per il testo delle due decisioni v. Foro it., 1968, IV, c. 89 ss. V., inoltre, CHIAVA-
RIO, Un primo bilancio sugli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema
di durata della carcerazione preventiva, in Ind. pen., 1970, p. 469 ss., e spec. pp. 474-475.
(10) È però il caso di precisare che, temporibus illis, non era ancora maturata, entro
la prospettiva europea, elettivamente attenta alla tutela dei diritti dell’uomo-accusato, una
più spiccata vocazione per la tutela delle vittime del reato.
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nel passaggio dai ‘‘principi e criteri direttivi’’ delle leggi di delega alla fase
della codificazione, è stata decretata la scomparsa della cauzione quale
misura sostitutiva della custodia cautelare in carcere.
Nel codice 1930 (artt. 282 ss.) si prevedeva l’istituto della cauzione
(e così pure l’omologo istituto della malleveria) come strumento di garan-
zia patrimoniale per l’adempimento degli obblighi imposti con il provvedi-
mento di liberazione, specialmente per effetto della ‘‘libertà provvisoria’’,
e dunque come misura sostitutiva ex post: successiva, cioè, alla carcera-
zione, e alternativa al protrarsi della medesima. Una sorta di cauzione (o
malleveria) liberatoria.
Mentre non era mancato l’auspicio che le due misure subissero un
mutamento genetico, così da poter divenire misure autonome, e, come
tali, sostitutive ex ante della carcerazione (14) — del che non mancavano
certo i modelli nelle legislazioni straniere —, a cominciare dall’iter di at-
tuazione della prima legge-delega, per la cauzione e la malleveria fu invece
decretato una sorta di generale e radicale ostracismo.
La vicenda fece però registrare alcuni passaggi significativi.
In una primissima fase, e cioè in sede di commissione redigente, pur
non essendo mancato il rilievo — si era agli inizi del 1975 — che il pro-
getto di articolato relativo alle misure di coercizione personale aveva in-
tenzionalmente omesso di riprendere, dall’impostazione del codice 1930,
l’istituto della cauzione (15), ‘‘a causa della efficacia discriminatoria di
fatto di tale provvedimento’’, alla fine di una riunione, e col parere favore-
vole del presidente, l’istituto venne però ‘‘reintrodotto’’ a larga maggio-
ranza, con un emendamento diretto a ‘‘tener conto delle possibilità econo-
miche dell’imputato’’ (16).
Lo schema redatto dalla Commissione ministeriale passava poi al va-
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(17) Commissione consultiva per la riforma del Codice di procedura penale - Parere
su lo schema legislativo delle misure di coercizione personale (dattil.), 1975, p. 48.
Sarà poi la stessa Commissione consultiva — nel finale Parere sul progetto preliminare
del Codice di procedura penale, 1979, p. 221 — a ricordare quella proposta di modifica, an-
noverandola tra ‘‘le più significative’’.
(18) Relazione cit., p. 209.
(19) Ne seguiva la spiegazione: ‘‘... La cauzione, infatti, opera con sicurezza se è co-
struita non come obbligo ma come onere, vale a dire come situazione giuridica alternativa
alla soggezione ad altra misura più grave già disposta: in tal caso l’imputato ha un evidente
interesse a prestarla, se ne abbia la possibilità economica, perché solo in tal modo può sot-
trarsi alla restrizione più grave. Ma se la cauzione è finalizzata a garantire meglio l’adempi-
mento di altri obblighi, che non si concretano in una attuale soggezione a forme di restri-
zione della libertà dell’imputato, questi, come può sottrarsi agli obblighi, così può rifiutare il
pagamento spontaneo della cauzione: nel qual caso lo Stato si troverà a dover agire in execu-
tivis, con procedure tanto lunghe e macchinose, quanto inadeguate alle finalità cautelari
delle misure di coercizione, che per loro natura esigono una immediata operatività’’.
Con tutto ciò, peraltro, ancora non si spiegava perché si dovesse restare prigionieri
dello schematismo del codice 1930, cioè a dire perché non si riteneva di poter apprestare,
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con quel salto di qualità di cui non era mancato qualche auspicio, per l’appunto il passaggio
della cauzione-obbligo (obbligo accessorio rispetto ad altri) alla cauzione-onere, ‘‘vale a dire
come situazione giuridica alternativa ad altra misura più grave’’ (leggasi: la custodia caute-
lare in carcere). Già alla luce dell’art. 288 c.p.p. 1930 CARNELUTTI, Lezioni sul processo pe-
nale, vol. II, 1947, p. 152, parlava, al di là dell’‘‘erronea locuzione’’ della norma, di onere
dell’imputato detenuto.
(20) Relazione, cit., p. 72.
Nella stessa Relazione, quanto ai ‘‘poteri cautelari sull’estradando’’ (rectius: sull’estra-
dabile) si metteranno così in evidenza (p. 154) i ‘‘criteri di fondo’’ dai quali il Progetto ha
tratto ispirazione: da un lato ‘‘l’abbandono dell’idea che la custodia in carcere dell’estra-
dando sia un elemento indispensabile del procedimento di estradizione e, dall’altro, che non
v’è ragione perché all’estradando, in tema di misure di coercizione, non sia riservato lo
stesso trattamento dell’imputato avanti ad un giudice italiano; salvo poi a prevedere, come
ulteriore presupposto legittimante tali misure, il pericolo di fuga in considerazione della par-
ticolare situazione in cui tale soggetto viene a trovarsi’’. (V. ora gli artt. 714 ss. c.p.p.).
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bre 1988, n. 47), quella nuova misura avrà però vita breve. Infatti, la
legge dell’agosto 1988, che pur anticipava — rispetto al codice imminente
— i criteri generali di fondo per le misure cautelari (adeguatezza e pro-
porzionalità), altrettanto non era in grado di fare quanto alla cauzione,
che per l’appunto il legislatore dei tempi nuovi, a partire dal 24 ottobre
1989, aveva destinato all’ostracismo.
Ma quella scelta non trovò unanimi i pareri della dottrina, che si
trovò anzi ad esprimere assai più di una riserva critica (21).
(21) La scomparsa della cauzione, già nel Progetto 1978, dal novero delle cautele so-
stitutive della detenzione preventiva, era apparsa a CHIAVARIO, Processo e garanzie della per-
sona, 3a ed., vol. II, 1984, p. 351, nota (92), come ‘‘una soluzione estrema che, forse, può
diventare, nella sua radicalità, controproducente, impedendo di usare anche nei casi oppor-
tunamente manovrabili con riferimento al criterio delle condizioni economiche del soggetto
un mezzo non del tutto inutile’’ (l’A. non mancava neanche di fare riferimento alla giurispru-
denza della Corte europea) mentre CONSO (Cauzione = privilegio?, in La Stampa del 6 aprile
1980, p. 1) prudentemente, ed anche in coerenza con posizioni assunte per il passato, conti-
nuava a propugnare la ‘‘sopravvivenza’’ della cauzione.
Anche diversi anni dopo, quando il codice nuovo era ormai giunto al traguardo, ci fu
chi ebbe a lamentare i ‘‘termini fin troppo drastici’’ coi quali anche il Progetto di attuazione
della seconda delega aveva estromesso la cauzione (così GREVI, in AA.VV., La libertà perso-
nale dell’imputato verso il nuovo processo penale, a cura dello stesso, 1989, p. 279; e ciò in
coerenza col più remoto, ma diretto, auspicio di veder congegnata la cauzione come misura
adottabile anche ab origine: v. voce Libertà personale dell’imputato, in Enc. del dir., vol.
XXIV, 1974, p. 403).
A chi si dovesse proporre di saggiare l’utilità di un ripristino della cauzione può risul-
tare di qualche interesse l’esame della pur remota casistica che, a titolo esemplificativo, qui
passiamo a riferire, con le approssimazioni consentite dalla stampa quotidiana. Si tratta di
casi di cauzione imposta, nella vigenza del codice 1930, in sede di concessione della libertà
provvisoria:
— Milano, 29 dicembre 1967: G.R., anni 33, arrestato il 13 novembre perché coin-
volto ‘‘nel grosso affare dei vaglia falsificati’’; cauzione: lire 2.000.000;
— Milano, 21 febbraio 1970: B.J., cittadino polacco, arrestato il 22 gennaio per un
omicidio e un tentato omicidio compiuti in una birreria di Stoccarda nel febbraio 1949; cau-
zione: lire 5.000.000;
— Genova, 3 settembre 1972: L.D., geometra, ‘‘ufficialmente nullatenente’’, arrestato
sei settimane prima in qualità di capo di una organizzazione di contrabbandieri internazio-
nali di sigarette; cauzione: lire 70.000.000;
— Milano, 15 febbraio 1975: S.D., anni 39, amministratore di una società di combu-
stibili accusato di frode erariale per violazioni, poste in essere nell’ambito di sei aziende,
delle norme doganali e tributarie; cauzione: lire 3.000.000.000;
— Roma, 3 giugno 1977: V.C., ex presidente della ESSO, arrestato il 22 maggio (e de-
tenuto nell’infermeria del carcere) a titolo di appropriazione indebita e falso in bilancio; cau-
zione: lire 100.000.000.
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(22) L.W. LEVY, Origins of the Bill of Rights, 2001, p. 231, ne fa risalire l’origine al-
l’English Bill of Rights del 1689.
(23) Si veda la sentenza Carlson v. Landon, 342 U.S. 524, 545 (1952), menzionata
da FELLMAN, alla cui trattazione dell’argomento — in AA.VV., La libertà personale (a cura
di ELIA e CHIAVARIO), 1977, p. 156 ss. — qui si fa rinvio. Scrive, in particolare, questo A.:
‘‘Una delle ragioni della cauzione è che, essendo l’imputato innocente fino alla effettiva con-
danna per un reato [cfr. art. 27, comma 2o, Cost.; art. 6, § 2, Conv. cit.] al pari di tutti gli
innocenti, non deve stare in prigione’’. V., inoltre, BASSIOUNI, Lineamenti del processo pe-
nale, in AA.VV., Il processo penale negli Stati Uniti d’America (a cura di AMODIO e BAS-
SIOUNI), 1988, p. 62 ss.
La previsione del bail trova un riconoscimento costituzionale anche nell’art. 40 della
Costituzione irlandese: v. art. 40.4.3o, mentre sub 7o si stabilisce che, in forza di legge, il bail
possa essere rifiutato dalla Corte alla persona accusata di gravi reati ‘‘where it is reasonably
considered necessary prevent the commission of a serious offence by that person’’. Sul re-
gime processuale dell’istituto v. MCAULEY e O’DOWD, Ireland, in Criminal Procedure
Systems in the European Community (ed. Van Den Wyngaert), 1993/94, p. 201.
(24) A.T.H. SMITH, England and Wales, ibid., p. 82. Per un più frequente ricorso alla
liberazione dietro cauzione si era espresso un report di un gruppo di lavoro dell’Home of Of-
fice, dal titolo Bail Procedures in Magistrate Courts, HMSO, 1974.
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Il Bail Act del marzo 1976 in qualche misura sancisce il right to bail,
vale a dire, almeno in linea generale, il diritto dell’accusato di restare in li-
bertà, salvo una motivata decisione della Corte la quale accerti che, se la-
sciato libero, l’accusato, o non comparirebbe in giudizio, o commette-
rebbe un reato o intralcerebbe l’attività giudiziaria (25).
La disciplina che i vari altri sistemi processuali offrono in ordine al
nostro tema si presenta come notevolmente differenziata, e chi, qualche
tempo addietro, ha compiuto una certa ricognizione al riguardo, ha rite-
nuto di poter attestare che la maggioranza dei sistemi riconosce la cau-
zione, o come misura cautelare del tutto indipendente e separata (26), o
come ‘‘sostitutiva’’ della custodia in carcere (27).
Volendo procedere ad una comparazione utile in una prospettiva
d’ordine interno de iure condendo, sembra opportuno far capo, prestando
però tutta la necessaria attenzione ai relativi contesti, alle discipline della
cauzione approntate nei Paesi facenti parte dell’ambito della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo.
A tale riguardo sembrano particolarmente interessanti gli assetti nor-
mativi, e le pratiche di attuazione concreta, offerti dalla Francia e dal Por-
togallo.
Nella vicina repubblica la cauzione fa parte della disciplina composita
del ‘‘controle judiciaire’’ introdotta nel 1970, e poi emendata da una legge
del 15 giugno 2000, a seguito della quale è stabilito (art. 138, n. 11,
C.P.P.) che il giudice istruttore fissa l’ammontare, e i termini di versa-
(25) SPENCER, La procédure pénale anglaise, 1998, p. 49 ss. Per più ampi sviluppi v.
ASHWORTH, The Criminal Process, 2nd Ed., 1998, p. 207 ss.; CORRE, Bail in Criminal Pro-
ceedings, 1990; DELEUZE, in Procédures pénales d’Europe (ed. Delmas-Marty), Le système
anglais, 1995, p. 165 (trad. it.: Procedure penali d’Europa, 2a ed., a cura di CHIAVARIO,
2001, p. 273); DEVLIN, Criminal Courts and Procedure, 2nd Ed., 1967, p. 66 ss.; STREET, Le
garanzie della libertà personale nel Regno Unito, in AA.VV., La libertà personale, cit., p.
119 ss.
ASHWORTH, op. cit., p. 216, ricorda la tipologia dei reati gravi, e dei relativi autori, in
ordine ai quali gli artt. 25 e 26 del Criminal Justice and Public Order Act del 1994 escludono
la liberazione dietro cauzione. In due casi sottoposti al giudizio della Corte europea dei di-
ritti dell’uomo (Grande Camera 8 febbraio 2000, Caballero; sez. III, 19 giugno 2001,
S.B.C.), nei quali l’istanza di bail era stata respinta sulla base del predetto art. 25 (reati ses-
suali), il Governo britannico ha espressamente riconosciuto la violazione dell’art. 5, commi
3 e 5, della cit. Convenzione europea (v. Dir. pen. e proc., 2000, p. 642; 2001, p. 1175).
(26) Nello stesso ordine di idee ricordiamo ancora, quanto al nostro ordinamento, la
breve stagione dell’art. 282 c.p.p. 1930, dopo la riforma attuata con la l. n. 330 del 1988.
(27) L’A. al quale si deve tale ricognizione — PLACHTA, Transfer of Prisoners under
International Instruments and Domestic Legislation, 1993, p. 47 — distingue i vari Paesi in
tre gruppi (ma gli accorpamenti sono meritevoli di un qualche aggiornamento), al primo di
questi ascrivendone alcuni (Unione Sovietica, Cecoslovacchia e Svezia) che mettono al
bando la cauzione come ‘‘misura antidemocratica’’; accorpandone altri (tra i quali Romania
e Ungheria) nei quali si sarebbe realizzato, in forme diverse, un compromesso tra le opposte
esigenze, e poi dando atto del quod plerumque accidit, come riferito nel testo.
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mento, in una o più rate, ‘‘in particolare tenuto conto delle risorse econo-
miche e dei carichi di famiglia’’ dell’interessato (28).
In Portogallo, dove il 22 gennaio 1987 è stato promulgato un nuovo
Código de Processo Penal, proprio per effetto (v. Lei no 43/86, del 26 set-
tembre e Decreto-Lei n. 78/87, del 17 febbraio), della speciale attenzione
dedicata alle regole del Consiglio d’Europa, si è decretata la eliminazione
della categoria dei ‘‘crimes incaucionaveis’’, affidando al giudice le singole
determinazioni nei casi concreti: determinazioni da operarsi alla stregua
degli artt. 197, 205 ss. (29).
Procedendo, poi, nell’avvio di qualche spunto ricostruttivo, sembra
che si possano ragionevolmente prospettare alcuni dati ulteriori, memori
delle riserve critiche della nostra dottrina di contro al progettato ostraci-
smo dell’antica misura, ed anche degli insegnamenti derivabili dai vari iti-
nerari percorsi a Strasburgo.
In un sistema che, come il nostro attuale (30), ha visto il delinearsi,
ex novo, di una gamma molteplice di misure coercitive ‘‘fino alla custodia
in carcere’’ (v. art. 285), la quale (art. 275, comma 3) ‘‘può essere dispo-
sta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata’’, la cauzione può
verosimilmente trovare un suo spazio: senz’altro limitato, ma assai più
consistente di quello praticabile ai tempi nei quali si faceva ancora sentire
l’alternativa drastica del tipo ‘‘to bail or to jail’’ (31). Uno spazio, dunque,
ragionevolmente al riparo dal rischio di potenzialità odiosamente discri-
minatorie, tenuto anche conto della possibilità di graduare adeguatamente
(28) Cfr. l’ampia analisi critica compiuta da BOUQUET, Cautionnement pénal et poli-
tique criminelle: une relation à géométrie variable, in Arch. de polit. crim., 2001, p. 53 ss.
Quanto al Belgio, dove la cauzione è prevista (art. 35 al. 5 l. 20 luglio 1990: v. in Pro-
cedure penali d’Europa, cit., p. 91) come ‘‘sostitutivo della detenzione cautelare’’, si dà
conto (VAN DEN WYNGAERT, Belgium, in Criminal Procedure Systems, cit., p. 25) di una
scarsa pratica dell’istituto, ed anche di una istintiva riluttanza per le sue potenzialità discri-
minatorie. Anche in Danimarca il release on bail viene indicato come di applicazione estre-
mamente scarsa (GREVE, ibid., p. 65), restando però aperta la questione se tale pratica si ar-
monizzi o meno con il testo della citata Convenzione europea. Quanto all’Olanda, dove il
‘‘conditional release’’ è di uso piuttosto frequente, è però rara la richiesta del ‘‘payment of
bail’’ a guisa di condizione (SWART, ibid., p. 302).
(29) Per i casi di impossibilità, o anche solo di ‘‘graves dificuldades ou inconvenien-
tes’’ nel prestare la cauzione, d’ufficio o su richiesta il giudice (art. 197) può sostituirla con
qualche altra misura coercitiva, eccettuati la prisão preventiva e la nuova misura degli arresti
domiciliari, in aggiunta alle altre misure imposte in precedenza. Nella determinazione del-
l’ammontare si devono tenere presenti gli scopi della misura adottata, la gravità del reato og-
getto d’addebito, il danno causato e la condizione socio-economica del soggetto.
(30) Quanto alle discipline previgenti cfr. REINA, Cauzione e libertà personale, in
Arch. pen., 1966, I, p. 525; MITTONE, Scarcerazione automatica ed oneri patrimoniali, in
questa Rivista, 1971, p. 621.
(31) G. ALESSI, Il processo penale - Profilo storico, 2001, p. 89, ne parla come ‘‘di al-
ternativa di lunghissima durata’’.
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(32) In quest’ordine di idee v. già CONSO, Libertà provvisoria con o senza cauzione
(1966), in Costituzione e processo penale, 1969, p. 213.
(33) Le ‘‘regole minime’’ approvate, in sede ONU, con la Risoluzione 30 agosto
1955 (v. § 85.1), subiranno poi un adattamento, trasfuso nelle ‘‘Regole minime per il tratta-
mento dei detenuti’’, approvate con la Risoluzione (73)5 del Consiglio d’Europa (v. §§ 7 b e
85.1), e successivamente nella loro versione aggiornata, oggetto della Raccomandazione
(87)3 (v. §§ 11.1, 91 ss.). Per tutti questi testi si fa rinvio a COMUCCI e PRESUTTI (a cura di),
Le regole penitenziarie europee, 1989.
Nel senso che il problema di ‘‘ridurre al minimo il rischio di ingiustizia, che la custodia
preventiva comporta’’, riguardasse ‘‘in prima linea, i modi con i quali essa viene attuata’’, si
era espresso CARNELUTTI, Principi del processo penale, 1960, p. 182. Va anche aggiunto che
il testo, datato 4 novembre 1997, dell’art. 130-ter, varato dalla nota « Commissione bicame-
rale per le riforme istituzionali », prevedeva quanto segue: ‘‘La legge assicura che la custodia
cautelare venga disposta in appositi istituti’’.
Si tenga presente che, da tempo, in Inghilterra si è pensato di istituire un sistema di
bail hostels, nell’intento di procurare una residenza fissa per coloro ai quali la libertà dietro
cauzione sarebbe rifiutata per la mancanza di una residenza permanente: su tale istituzione
v., anche, prima di quello richiamato a nota (24), il Report of the Advisory Council of the
Treatment of Offenders, dal titolo Preventive Detention (HMSO, 1963), pp. 15-16. Si ve-
dano, peraltro, le puntualizzazioni critiche di recente operate da ASHWORTH, op. cit., p. 234.
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(34) A titolo d’esempio ricordiamo la disciplina del Portogallo (art. 14, d.l. 16 agosto
1975, n. 437: ‘‘In qualsiasi momento deve essere concessa all’estradando la libertà provviso-
ria su cauzione, fino a quando la decisione finale non sia passata in giudicato, nei casi e nei
modi previsti dalla legge processuale penale comune’’; v. anche art. 29) e la disciplina della
Spagna (art. 8, § 3, l. 21 marzo 1985, n. 4, in base al quale la cauzione figura essere una
delle misure che, da sola o con altre, ed al fine di evitare la fuga, il giudice, anche ‘‘con ri-
guardo alle circostanze del caso’’, potrà in concreto adottare).
(35) Si fa rinvio al passo (p. 154) della Relazione ministeriale richiamata a nota (20).
(36) Ad oggi va intanto segnalata la possibilità — prevista nella disciplina della re-
sponsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società ed enti equiparati (d.lgs. 8 giu-
gno 2001, n. 231) — che il giudice, accogliendo la richiesta di sospensione delle previste mi-
sure cautelari interdittive (artt. 9, comma 2, e 45, comma 1), determini una cauzione, alle
condizioni e nelle forme previste dall’art. 49.
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SU ALCUNI PROBLEMI GENERALI
DI DIRITTO PENALE (*)
SOMMARIO: 1. Premessa: Marcello Gallo, grande Maestro della Scuola penalistica torinese.
— 2. L’offesa dell’interesse protetto quale idea centrale per la costruzione di un di-
ritto penale liberal-democratico. — 3. Codice penale unico o sottosistemi penali. —
4. Il diritto penale minimo: obbiettivo fondamentale della legislazione penale. — 5. Il
problema della riforma del sistema delle pene. — 6. Dogmatica, organizzazione siste-
matica degli istituti penali, rigore e relatività della argomentazione giuridica nell’inse-
gnamento di Marcello Gallo.
(*) Questo scritto è destinato ad essere inserito in un volume di scritti degli allievi del
prof. Marcello Gallo in onore del loro Maestro.
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(1) Fra i molti scritti del Maestro ricordo: La teoria dell’azione finalistica nella più
recente dottrina tedesca, Milano, 1950; Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951; Il
dolo. Oggetto e accertamento, Milano, 1953; Lineamenti di una teoria sul concorso di per-
sone nel reato, Milano, 1957; voce Dolo (diritto penale), in Enc. dir., XIII, 1967, p. 750 ss.;
voce Colpa penale, ivi, VII, 1960, p. 624 ss.; voce Aberratio, ivi, I, 158, p. 58 ss.; I reati di
pericolo, in Foro pen., 1969, p. 1 ss.; voce Capacità penale, in Noviss. dig. it., II, 1958, p.
880 ss.
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metti di Appunti di diritto penale presi a lezione dagli studenti più volon-
terosi (legge penale, elemento oggettivo del reato, forme di manifesta-
zione del reato) (2) che, trascritti e stampati a cura degli studenti con la
supervisione del Professore, hanno circolato per anni fra i cultori della
materia come prezioso supporto per le loro ricerche; e che soltanto ora, a
distanza, forse, di troppi anni dal clima culturale e scientifico nel quale
sono maturati, ma tuttora smaglianti per stile e linearità di pensiero, il
Maestro si è finalmente deciso a dare ufficialmente alle stampe con alcune
modificazioni (3). Con i suoi scritti, e con la tradizione dell’insegnamento
orale, Marcello Gallo è stato per anni crocevia ineliminabile per chi si ac-
cingeva ad affrontare gli studi di diritto penale. Alcune delle sue intuizioni
e delle sue idee, nonostante le critiche cui talvolta sono state sottoposte,
appartengono ormai alla storia del diritto penale, e non potranno essere
cancellate.
Per un torinese quale io sono, c’è un solo grande rimpianto: che il no-
stro Maestro, non so per quali arcane suggestioni od ambizioni, ancora
nel pieno della sua evoluzione scientifica e didattica abbia voluto lasciare
l’Università di Torino e farsi chiamare a La Sapienza di Roma. Nono-
stante questo lungo distacco dalla sua Università di origine, nella quale
egli stesso aveva iniziato gli studi di diritto penale sotto la guida di Fran-
cesco Antolisei, egli verrà comunque ricordato come autorevolissimo ca-
poscuola della scuola penalistica torinese.
(2) La legge penale, Torino, 1967; L’elemento oggettivo del reato, Torino, 1967; Le
forme del reato, Torino, 1967.
(3) Appunti di diritto penale, I, La legge penale, Torino, 1999; Appunti di diritto pe-
nale, II, Il reato, I, La fattispecie oggettiva, Torino, 2000; Appunti di diritto penale, II, Il
reato, II, L’elemento psicologico, Torino, 2001.
(4) GALLO, voce Dolo, cit., p. 781 ss.; ID., L’elemento oggettivo del reato, Torino,
1967, p. 16 ss.; per uno sviluppo della impostazione di M. Gallo, v. NEPPI MODONA, Il reato
impossibile, Milano, 1965.
(5) Sul bene giuridico quale elemento centrale della impostazione liberale del diritto
penale v. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 2001, p. 429 ss.; FIANDACA-
MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2001, p. 4 ss.; ANGIONI, Contenuto e fun-
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zioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 42; MUSCO, Bene giuridico e tutela del-
l’onore, Milano, 1974, p. 59 ss.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV,
1985, p. 89; STRATENWERT, Il diritto penale nella crisi della società industriale, in Materiali
per una storia della cultura giuridica, 1994, p. 254 ss.
(6) Su questo orientamento v. ANGIONI, op. cit., p. 20 ss. e 46 ss.; BRICOLA, voce Teo-
ria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, 1973, p. 28 ss.; BARATTA, Positivismo giuri-
dico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 61 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte
generale, Padova, 200 1, p. 104.
(7) In questo senso M. Gallo si ricollegava strettamente alla impostazione illumini-
stica sullo scopo del diritto penale. Sul punto v., da ultimo, GROSSO-NEPPI MODONA-VIO-
LANTE, Giustizia penale e poteri dello Stato, Milano, 2002, pp. 147 s., 206 ss.
(8) Sulla scuola tecnico-giuridica v., da ultimo, GROSSO-NEPPI MODONA-VIOLANTE,
Giustizia penale, cit., p. 171 ss.
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ne’ nella dizione dell’art. 49 comma 2 c.p., egli ha allora sostenuto, signi-
ficava il fatto oggettivo del reato, che per risultare punibile doveva essere
appunto idoneo a determinare l’evento giuridico ad evitare il quale era
stata prevista la norma penale incriminatrice. Se il fatto a posteriori risul-
tava essere stato inidoneo a realizzare l’offesa, scattava di conseguenza il
principio di non punibilità previsto dalla disposizione menzionata (9).
In questo modo, facendo salvi i principi del giuspositivismo, e tra-
sformando l’art. 49 comma 2 c.p. da disposizione tutto sommato margi-
nale a norma centrale del sistema di punibilità elaborato dal codice pe-
nale, Marcello Gallo ha intelligentemente realizzato l’obbiettivo fonda-
mentale, da un punto di vista ideologico e da un punto di vista pratico, di
considerare penalmente irrilevanti agli effetti della applicazione della pena
fatti che, pur riproducendo gli estremi descritti da una norma penale in-
criminatrice, sono privi di offensività, o determinano una offensività tal-
mente marginale da non meritare di essere puniti. Confesso che ho sem-
pre giudicato lo specifico ragionamento interpretativo posto a fondamento
della c.d. concezione realistica del reato più un espediente argomentativo
per non abdicare ai principi del giuspositivismo che una argomentazione
giuridica davvero convincente. A mio avviso, che il fatto tipico non offen-
sivo, o scarsamente offensivo, non debba essere punito nel quadro di un
diritto penale di impostazione illuministico-liberale è di solare evidenza.
Ho sempre ritenuto che questa soluzione avrebbe potuto essere comun-
que desunta, indipendentemente dalla individuazione di una norma di di-
ritto positivo che la riconoscesse espressamente, dalle premesse generali
concernenti lo scopo del diritto penale: se lo scopo del diritto penale è in-
dividuabile non tanto nella necessità logica o morale di punire gli autori di
una infrazione, quanto nella esigenza pratica di assicurare una protezione
forte a determinati interessi umani, è evidente che ove la offesa di tali in-
teressi non si è verificata, o si è verificata in una dimensione scarsamente
significativa, viene meno lo stesso presupposto logico che giustifica la ap-
plicazione della pena. Punire significherebbe infatti contraddire la stessa
ragione di esistenza del diritto penale.
La menzionata costruzione di Marcello Gallo, ribadita da autorevoli
studiosi anche di altre scuole penalistiche (basti pensare, per tutti, a Giu-
liano Vassalli (10) e Carlo Fiore (11), e, con specifico riferimento alle
prospettive di natura costituzionale, a Franco Bricola (12)), ed utilizzata
da numerose sentenze di giudici di merito e di legittimità per dare razio-
(9) GALLO, voce Dolo, cit., p. 786; ID., Le forme del reato, cit., p 59 ss.
(10) VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti Pioletti, Milano,
1982, p. 617 ss.
(11) FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959; ID., Il principio di offensività, in Ind.
pen., 1994, p. 280 ss.
(12) BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., p. 72 ss.
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nalità al sistema penale sul terreno della sua applicazione concreta (13), è
stata criticata da una parte della dottrina (14). Si è osservato che, in caso
di irrilevanza penale di fatti dotati di scarsa offensività, la concezione rea-
listica del reato contrasterebbe con il principio di legalità e di certezza del
diritto, rendendo il giudice arbitro della responsabilità o della irresponsa-
bilità penale dell’agente; si è soggiunto che essa costituirebbe d’altronde
inutile superfetazione giuridica con riferimento ai casi di totale mancanza
di offesa, trattandosi di casi riconducibili a pochi esempi di scuola pro-
spettabili esclusivamente nel settore dei delitti contro la fede pubblica
(falso innocuo, falso grossolano), e pressoché mai rinvenibili nella realtà.
Piuttosto, si è sostenuto, il principio di offensività dovrebbe essere inteso
come mero criterio di politica criminale, o come criterio interpretativo
delle norme penali: in altre parole, come spinta per il legislatore a co-
struire fattispecie penali modulate in modo da assicurare che alla loro rea-
lizzazione corrisponda sempre la lesione o la messa in pericolo dell’inte-
resse protetto, o come pungolo per l’interprete ad intendere, se possibile,
le norme penali in modo che sia assicurata la loro applicazione a sole si-
tuazioni caratterizzate dalla offesa di tale interesse.
Non ho mai condiviso queste critiche. La asserita libera applicazione
del diritto penale riguarderebbe, invero, fette di reità marginale (i casi, ap-
punto, di lesività minima del fatto, come tale inidonea a dare luogo a di-
screzionalità significativa); tale circoscritta discrezionalità giudiziale ope-
rerebbe d’altronde in favor rei, e non potrebbe pertanto comunque forzare
la garanzia sottesa ai principi di legalità e di certezza del diritto, che come
tutti i principi di garanzia previsti dal sistema penale trovano il loro limite
naturale nella conseguenza di disfavore. Per altro verso, la enunciazione
del principio di irrilevanza dei fatti tipici inoffensivi costituisce logico co-
rollario della concezione illuministica del diritto penale, che individua la
funzione del diritto penale nella tutela dei beni giuridici; per cui, se dav-
vero si vuole dare corpo ad un sistema penale ispirato ai principi dell’illu-
minismo è giocoforza affermare che se non si è verificata offesa di nessun
interesse non può logicamente essere applicata una sanzione penale. E
tale enunciazione, al di là del suo eventuale scarso rilievo pratico, avrebbe
comunque un rilevantissimo significato di principio (15).
(13) Sul punto v., da ultimo, la giurisprudenza citata da Trib. Roma 2 maggio 2000,
in Cass. pen., 2001, p. 2535 ss. con nota di GROSSO, Proscioglimento per furto di cose di va-
lore particolarmente esiguo: inoffensività o irrilevanza penale del fatto?
(14) Fra gli altri cfr. STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi con-
formi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3 ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività del
reato nella costituzione, in Scritti Mortati, Milano, 1977, p. 477 ss.; PALAZZO, Meriti e limiti
dell’offensività come principio di ricodificazione, in Prospettive di riforma del codice penale
e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 73; FIANDACA, L’offensività è un principio codifica-
bile?, in Foro it., 2001, V, c. 1 ss.
(15) Per una difesa della c.d. concezione realistica del reato v. comunque, amplius,
NEPPI MODONA, Reato impossibile, in Dig. disc. pen., XI, 1996, p. 259 ss.
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(16) Sul testo della Commissione bicamerale v. FIANDACA, La giustizia penale in bi-
camerale, in Foro it., 1997, V, c. 161 ss.; PALAZZO, Le proposte della Commissione bicame-
rale (diritto penale sostanziale), in Dir. pen. proc., 1998, p. 37 ss.; DONINI, L’art. 129 del
progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, in Crit. dir., 1998, p. 95
ss.
(17) ‘‘Per il testo e la Relazione al ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice pena-
le’’, della Commissione v. questa Rivista, 2001, p. 574 ss.
(18) Sul tema della irrilevanza penale del fatto cfr. BARTOLI, L’irrilevanza penale del-
fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la ipertrofia c.d. ‘‘ver-
ticale’’ del diritto penale, in questa Rivista, 2000, p. 1473 ss.; DIOTALLEVI, L’irrilevanza pe-
nale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale: un grande avvenire dietro le
spalle, in Cass. pen., 1998, p. 2806 ss.; S. FIORE, Osservazioni in tema di clausole di irrile-
vanza penale e trattamento della criminalità bagatellare. A proposito di una recente propo-
sta legislativa, in Crit. dir., 1998, p. 274 ss.; PIGHI, L’‘‘irrilevanza penale del fatto nel diritto
penale minorile’’, in Studium juris, 1999, p. 71 ss. In particolare con riferimento all’istituto
della particolare tenuità del fatto nel sotto-sistema del giudice di pace, v. SGUBBI, L’irrile-
vanza penale del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Verso una giustizia
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penale ‘‘conciliativa’’, a cura di Picotti, Milano, 2002, p. 159 ss.; BARTOLI, Le definizioni al-
ternative del procedimento, in Dir. pen. proc., 2001, p. 173 ss.
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(19) Relazione alle modifiche al progetto preliminare di riforma della parte generale
del codice penale approvate dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale
nella seduta del 26 agosto 2001, in questa Rivista, 2001, p. 658.
(20) Per questa impostazione, pur con angolazioni diversificate, v. FERRAJOLI, Diritto
e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma, 1998; ID., Per un programma di diritto pe-
nale minimo, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela,
a cura di Pepino, Milano, 1993, p. 60 ss.; ID., Sul diritto penale minimo, in Foro it., 2000, V,
c. 125 ss.; BARATTA, Principi di diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come
oggetti e limiti della legge penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 443 ss.; HASSEMER,
Spunti per una discussione sul tema ‘‘Bene giuridico’’ e riforma della parte speciale, in Bene
giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli, 1985, p. 367 ss. In posizione
critica su questi orientamenti riduzionistici, v. MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘‘minimo’’
e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 802 ss.
(21) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in
Doc. giust., 1992, p. 304 ss.
(22) V. art. 129, ult. comma: ‘‘nuove norme penali sono ammesse solo se modificano
il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia’’.
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bito della reità, non essendo pensabile che le numerose norme penali pre-
viste oggi da tale legislazione possano entrare a fare parte del codice pe-
nale. Dall’altro essa assicurerebbe pressoché altrettanto automaticamente
l’omogeneità dei principi generali applicabili alle fattispecie penali, non
essendo accettabile che all’interno di un corpo penale unico si realizzino,
o si realizzino addirittura in maniera massiccia, regole diverse di imputa-
zione penale (23).
Dall’altra vi sono studiosi che teorizzano il sistema opposto, o per ne-
cessità pratica, o per vera e propria impostazione di politica crimi-
nale (24). Si sostiene, in altre parole, che l’idea di un unico codice onni-
comprensivo, o comunque comprensivo della centralità delle fattispecie di
reato avrebbe fatto il suo tempo, e dovrebbe essere sostituito da una orga-
nizzazione normativa più articolata, costituita da un insieme di sottosi-
stemi penali ciascuno destinato a regolare settori omogenei di materia pe-
nale. Questa idea si è sviluppata soprattutto fra i civilisti (25), costretti ad
occuparsi di una materia vasta ed eterogenea, e comunque svincolati dalla
necessità di fare i conti con una corposa disciplina di tipo generale concer-
nente i presupposti della responsabilità. Essa è stata tuttavia mutuata da
alcuni penalisti (26), sia pure di minoranza, che la hanno difesa, come di-
cevo, o su di un terreno meramente pratico, sostenendo che non essen-
dovi oggi le condizioni culturali e politiche per operazioni di ricodifica-
zione di grande respiro, mentre esiste invece la necessità di mettere mano
alla riforma del sistema vigente, l’unica strada sarebbe quella di operare
per settori omogenei di disciplina, o, ed è questo il profilo che più mi
preoccupa, teorizzando la necessità di costruire sottosistemi penali in ra-
gione delle necessità particolari dei diversi settori della materia, o quanto-
meno di taluni di essi (27).
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accentuata differenziazione dei principi processuali penali, attraverso modelli di doppio bi-
nario e di regole speciali derogatorie in materia di formazione della prova: v. le due note suc-
cessive.
(28) Cfr. INSOLERA, Il diritto penale complementare, in Ind. pen., 1992, p. 10.
(29) Si vedano i contributi raccolti in Quest. giust., 2002, n. 3, Parte II, Le peculia-
rità del processo per fatti di mafia, ed in particolare, INSOLERA, Il reato di associazione ma-
fiosa: rapporti tra norme sostanziali e norme processuali; FASSONE, La valutazione della
prova nei processi mafia; cfr. altresì, FIANDACA, Modelli di processo e scopi della giustizia
penale, in Foro it., 1992, I, c. 2023 ss.
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(30) Cfr., seppur con diversità di accenti, FIORE, Prospettive della riforma penale. Il
ruolo della legislazione speciale, in Dem. dir., 1977, p. 685 ss.; ID., Decodificazione e siste-
matica dei beni giuridici, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, p. 73 ss.; PA-
LAZZO, A proposito di codice penale e leggi speciali, in Quest. giust., 1991, p. 310 ss.; ID.,
Certezza del diritto e codificazione penale, in Pol. dir., 1993, 365 ss.; PEDRAZZI, voce Diritto
penale, in Dig. disc. pen., IV, 1990, p. 74 ss.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ri-
codificazione. Progetti e nuovi codici penali in Francia, Italia, Spagna, Inghilterra, in questa
Rivista, 1995, p. 815 ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività nello schema di delega legi-
slativa per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1997, p. 336; FLORA, Manuale per lo
studio della parte speciale del diritto penale, I, Padova, 1998, p. 51 ss.; FIORELLA, La parte
speciale tra codificazione e legislazione complementare, in Prospettive di riforma del codice
penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 265 ss.; PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e
fattispecie criminose. Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Bologna, 2002, p.
27 ss.
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(31) La riforma della legislazione penale complementare. Uno studio di diritto com-
parato, a cura di Donini, Padova, 2000.
(32) In questa Rivista, 2001, p. 661 e la relazione sul punto a p. 582.
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(36) GROSSO, Il sistema penale nel primo anno e mezzo del Governo Berlusconi, di
prossima pubblicazione in un volume su La giustizia nel primo anno e mezzo del Governo
Berlusconi, a cura di L. Pepino, ed. La Terza; v. altresì PALIERO, Premessa alla sesta edi-
zione, Codice penale e normativa complementare, Milano, 2002, p. XV.
(37) Si tratta di un quadro di insieme dell’attuale sistema penale sul quale vi è ampia
convergenza in dottrina: v. FERRAJOLI, Per un programma di diritto penale minimo, in La ri-
forma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di Pepino, Mi-
lano, 1993, p. 57 ss.; FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi
giudiziaria e dottrina, ivi, p. 19 ss.; INSOLERA, Progetti di riforma del codice Rocco: il volto
attuale del sistema penale, in Introduzione al sistema penale, I, Torino, 2000, p. 31 ss.; PA-
VARINI, Lotta alla criminalità organizzata e ‘‘negazione’’ della pena, in Crit. dir., 2000, p.
130 ss.; PEPINO, Spunti in tema di politica criminale e politica giudiziaria, in Dei delitti e
delle pene, 1993, p. 81 ss.
(38) MUSCO, A proposito del diritto penale ‘‘comunque ridotto’’, in La riforma del di-
ritto penale, cit., p. 170 ss.
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(42) PALIERO, op. ult. cit. Sulla legislazione penale simbolica v. FIANDACA, Concezioni
e modelli, cit., p. 20; AMELUNG, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW,
1980, p. 19 ss.; HASSEMER, Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NStZ, 1989,
p. 553 ss.
(43) PALIERO, op. ult. cit.; ID., L’autunno del patriarca. Rinnovamento e trasmuta-
zione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1220 ss.; MAZZACUVA, Il fu-
turo del diritto penale, in Crit. dir., 2000, p. 122 ss. Si veda nella dottrina tedesca, ALBRE-
CHT, Formalisierung versus Flexibilisierung: Strafrecht quo vadis?, in Von Guten, das noch
stets das Böse schafft, Frankfurt, 1993, p. 265; ID., Erosione del diritto penale dello Stato di
diritto, in Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, a cura di Borrè e Palom-
barini, Milano, 1998, p. 105 ss. NAUCKE, Schwerpunktverlagerungen im Strafrecht, in KritV,
1993, p. 125 ss.; PREUß, Strafgesetzgebung und Rechtsstaat, ivi, p. 183 ss.
(44) Cfr. LÜDERSSEN, Zurück zum guten, alten, liberalen, anständigen Kernstraf-
recht?, in Von Guten, das noch stets das Böse schafft, cit., p. 268 ss.; HASSEMER, Kennzei-
chnen und Krisen des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, p. 378 ss.
(45) PALIERO, op. ult. cit.
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ture classiste nella disciplina del diritto penale. Di fronte a tali nuovi
orientamenti di politica criminale, nel solco della tradizione illuministica
occorre pertanto, a mio avviso, riaffermare con forza la necessità di conti-
nuare a porre a fondamento di ogni serio tentativo di riforma organica del
sistema penale quei valori fondati sulla importanza dei beni giuridici che
la migliore dottrina italiana degli anni sessanta/settanta ha elaborato con
indimenticabile impegno ed entusiasmo, attenta alla considerazione pri-
maria dei valori desumibili dalla Costituzione. Penso ovviamente, su que-
st’ultimo profilo, specificamente a Franco Bricola (46). Ma sul piano ge-
nerale penso ancora una volta a Marcello Gallo, ed alla efficacia delle sue
parole quando, delineando lo scopo del diritto penale, disegnava un razio-
nale sistema di reati e pene dosati sui valori della società civile in una ot-
tica di efficace prevenzione generale contro le aggressione ai beni giuridici
di maggiore rilievo (47).
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cipi processuali, ivi, p. 37 ss.; PRESUTTI, L’effettività della pena nel contesto della fase esecu-
tiva, ivi, p. 57 ss.
(49) Relazione della Commissione Grosso, cit., p. 578.
(50) Relazione della Commissione Grosso, cit., p. 578 ss. e 615 ss.
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(51) In dottrina v. DOLCINI, Riforma della parte generale del codice penale e rifonda-
zione del sistema sanzionatorio penale, in questa Rivista, 2001, p. 823 ss.; CIANI-IADECOLA-
IZZO-VIGLIETTA, Osservazioni sulla relazione della Commissione ministeriale per la riforma
del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998 e presieduta dal prof. C.F. Grosso, in
Riv. pen., 2000, p. 118 ss.
(52) Sulle impostazioni ‘‘unitarie’’ dell’illecito penale e amministrativo, al fine di in-
dividuare una base comune di garanzie, SINISCALCO, Depenalizzazione e garanzie, Bologna,
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1995, p. 143 ss.; ROSSI VANNINI, Illecito depenalizzato amministrativo. Ambito di applica-
zione, Milano, 1990, p. 173 ss. alle cui indicazioni bibliografiche si rinvia.
(53) GALLO, L’elemento oggettivo, cit., p. 102 ss.
(54) GALLO, voce Dolo, cit., p. 753.
(55) GALLO, voce Dolo, cit., p. 760 ss.
(56) GALLO, Le forme del reato, cit., p. 76.
(57) GALLO, voce Dolo, cit., p. 770 ss.
(58) GALLO, Lineamenti, cit.; ID., Le forme del reato, cit., p. 92.
(59) GALLO, Lineamenti, cit., p. 66; ID., Le forme del reato, cit., p. 94.
(60) Retro, § 2.
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(61) V. GROSSO, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, capitolo I, passim; MARI-
NUCCI,Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p.
1198 ss.
(62) MOCCIA, Euforie tecnicistiche nel ‘‘laboratorio della riforma del codice penale’’,
in questa Rivista, 2002, p. 453 ss.
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SUI PRINCIPI GENERALI
DEL DlRITTO INTERNAZIONALE PENALE (*)
(*) Il presente scritto costituisce il testo della relazione alla Conferenza nazionale per
i professori italiani di diritto e procedura penale e diritto internazionale, tenutasi a Siracusa
il 7-9 dicembre 2001, presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali su ‘‘Di-
ritto penale internazionale: una nuova disciplina’’.
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principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa in-
terna dei sistemi giuridici del mondo, compresa, ove occorra (e il ri-
chiamo appare significativo ai fini della legalità), la normativa interna de-
gli Stati che avrebbero avuto giurisdizione sul crimine; sempre che tali
principi non siano in contrasto con lo Statuto, con il diritto internazionale
e con le norme e i criteri internazionalmente riconosciuti; b) ai principi di
diritto e alle norme giuridiche risultanti dalle interpretazioni fornite nelle
proprie precedenti decisioni;
3) la soluzione, della conciliazione della giustizia sostanziale con la
legalità formale, realizzabile soltanto con la integrale codificazione del di-
ritto internazionale, nelle sue Parti speciale e generale, in un testo scritto.
Si tratta della soluzione ottimale, perché offre una risposta: a) al pro-
blema primario del diritto internazionale penale, che è sempre stato
quello dell’osservanza del principio di legalità, stante l’inadeguatezza
delle sue fonti a soddisfare i requisiti della legalità: per quanto riguarda
non solo e primariamente i principi generali e la consuetudine, ma anche
le convenzioni, che raramente descrivono le condotte vietate e, tanto
meno, disciplinano gli istituti di Parte generale; b) alle istanze della dot-
trina contemporanea che, nel suo insieme, ritiene che anche rispetto al di-
ritto internazionale penale il principio di legalità debba essere affermato,
tanto più nei casi di applicazione del medesimo da parte di organi di giu-
stizia internazionale, poiché tale diritto, senza la descrizione dei vari cri-
mini e la previsione degli istituti della Parte generale, risponde solo margi-
nalmente al principio di legalità. Di qui l’auspicio, come unico rimedio,
della codificazione del diritto internazionale in un testo scritto, che è stata
la sempre delusa aspirazione a partire dal primo dopoguerra, poiché i vari
tentativi in questo senso andarono falliti per la sfiducia nella giurisdizione
internazionale, il ritorno negli anni cinquanta del secolo scorso alla vio-
lenza come strumento della politica (guerra di Corea, repressione della ri-
voluzione ungherese, crisi di Suez) e l’infausto collegamento dei progetti
di codice all’insuperabile problema della definizione di ‘‘aggressione’’.
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discontantisi da quella dei codici penali europei (da noi qui seguita), ap-
pare: a) innanzitutto limitarlo al solo dolo, con conseguente esclusione
della responsabilità colposa (quanto meno per colpa); b) ricomprendervi
anche il dolo eventuale; c) implicitamente escludere la responsabilità per
il mero dolo eventuale, allorché singoli crimini richiedano un dolo inten-
zionale o, addirittura, di premeditazione (es.: nei crimini di sterminio, di
stupri etnici, di deportazioni, di riduzione in schiavitù, di attacchi delibe-
rati contro la popolazione civile); oppure la responsabilità per il mero
dolo generico, allorché singoli crimini richiedano un dolo specifico (es.:
negli atti di genocidio). Anche se, circa la colpa, con qualche implicita ec-
cezione, quale quella in materia di responsabilità del comandante militare
per il mancato controllo sulle forze militari sotto il suo comando, quando
‘‘avrebbe dovuto sapere che esse commettevano o stavano commettendo
crimini di competenza della Corte’’ (art. 28).
Nel disciplinare l’errore lo Statuto (art. 32) limita l’efficacia scusante:
a) dell’errore di fatto, nei soli casi in cui esclude l’elemento psicologico
del crimine, ossia il dolo, in quanto — va precisato — il soggetto per ef-
fetto di un tale errore, ‘‘essenziale’’, vuole un fatto diverso da quello pre-
visto come crimine (errore sul fatto); b) dell’errore di diritto, quando però
esso non si limita ad un errore sulla illiceità del fatto, ma esclude l’ele-
mento soggettivo, cioè il dolo, traducendosi anch’esso in un errore sul
fatto. Impuniti restano, pertanto, i crimini commessi per errore colposo,
essendo essi punibili — come sembra — solo a titolo doloso.
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LA COSTRUZIONE GIURIDICA DELLA SCIENZA:
SICUREZZA E SALUTE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO (*)
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del rischio socialmente accettabile ‘‘richiede una decisione che deve essere
assunta sulla base di una valutazione normativa, per la quale le regole tec-
niche assumono lo status di materiale di lavoro’’; e ciò spiega come vi sia
oggi, nel dibattito costituzionalistico, un largo consenso ‘‘sul fatto che il
rinvio a regolamentazioni private... è costituzionalmente illegittimo, poi-
ché esso lede, in virtù del mutamento delle competenze, il principio costi-
tuzionale di democrazia’’ (9).
Sulla stessa lunghezza d’onda, in Italia, si sostiene che le regole tecni-
che diventano precetti giuridici solo se sono riconosciute da una legge:
‘‘non è raro — osserva Guariniello — sentire insinuare che le regole tecni-
che assurgerebbero al rango della legge. Bisogna stare in guardia verso
pretese tanto drastiche... In realtà le regole tecniche non costituiscono di
per sé precetti giuridici. Lo diventano, a patto che siano richiamate da una
fonte del diritto. E allora si procurano l’efficacia tipica della fonte che le
recepisce: e dunque, volta a volta, forza di legge o di regolamento. Para-
digmatiche sono le norme CEI, regole di buona tecnica, elaborate dal Co-
mitato Elettrotecnico Italiano, su incarico del Consiglio nazionale delle
Ricerche. Sono, in effetti, norme con valore di legge, avendo ricevuto ri-
conoscimento giuridico da una legge del 1968, in cui si dispone che appa-
recchiature ed impianti elettrici ed elettronici vengano costruiti a regola
d’arte, e in cui espressamente si considerano a regola d’arte quelle appa-
recchiature e quegli impianti realizzati, appunto, secondo le norme del
Comitato Elettrotecnico Italiano’’ (10).
L’esempio è proprio calzante: una legge o un regolamento dello Stato
individua le regole tecniche, ne dà una valutazione nell’interesse della col-
lettività, e le indica come punti di riferimento cogenti per il privato. È sal-
vato così il principio di democrazia e il principio della riserva di legge, ed
è soddisfatta l’esigenza di una valutazione dell’interesse collettivo.
Queste precisazioni di Guariniello trovano un’eco nelle preoccupa-
zioni manifestate da un altro studioso italiano della sicurezza sul lavoro:
per Culotta, la valutazione del rischio non può essere considerata un com-
pito del singolo datore di lavoro, giacché questa è ‘‘un’incombenza che
presuppone il possesso di capacità tecnico-professionali da lui inesigibi-
li’’ (11).
Il quadro si completa se si considerano i principi enunciati dalla Co-
stituzione italiana.
Da questi principi emerge in modo chiarissimo l’incostituzionalità di
(9) SCHÜNEMANN, Die Regeln der Technik im Strafrecht, in Festschrift für Karl Lack-
ner, Berlin-New York, 1987, pp. 367-397.
(10) GUARINIELLO, Se il lavoro uccide, Einaudi, Torino, 1985, p. 176.
(11) CULOTTA, La disciplina prevenzionale italiana dopo il d.lgs. n. 626/1994 e suc-
cessive modificazioni, ed. 2000-2001, p. 12.
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ogni norma che attribuisca funzioni pubbliche, come la valutazione del ri-
schio per la sicurezza sul lavoro, ad un privato.
Infatti, per l’art. 41, comma 2 e 3 della Costituzione, l’iniziativa eco-
nomica privata ‘‘non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in
modo da recare danno alla sicurezza... La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività pubblica e privata possa essere indi-
rizzata e coordinata a fini sociali’’.
È dunque la legge, cioè il Parlamento, che deve provvedere alla tutela
di quei beni che, come la sicurezza sul lavoro, hanno un rilievo costituzio-
nale assoluto; e va da sé che il Parlamento non può e non deve arretrare di
fronte a questo fondamentale compito istituzionale ‘‘di controllo’’ e, so-
prattutto, non può e non deve arretrare delegando questo suo compito al
soggetto meno adatto, cioè al privato: ‘‘il rapporto tra iniziativa econo-
mica privata e una ‘utilità sociale’, tra iniziativa economica privata e ‘fini
sociali’ è mediato attraverso la legge, che è espressa dalle assemblee elet-
tive, diretta emanazione della sovranità popolare. È disattesa l’idea che le
decisioni sul se intervenire, in nome dell’utilità sociale, sull’iniziativa eco-
nomica privata, e sul come, sul quando, sul dove intervenire, possano es-
sere direttamente prese dal potere esecutivo o dal potere giudiziario, fuori
da quelle sedi entro le quali si esprime la partecipazione politica dei citta-
dini, senza un confronto con le forze politiche e con le forze sociali, senza
un dibattito di fronte all’opinione pubblica; è disattesa l’idea che, fuori di
questo confronto e di questo dibattito, si possano determinare i pro-
grammi e i controlli che il comma 3 ritiene necessari per indirizzare e
coordinare l’attività economica a fini sociali’’ (12).
In altre parole, solo leggi dello Stato possono prevedere dei ‘‘controlli
dell’iniziativa economica, soprattutto per quanto attiene alla sicurezza
dentro e fuori le sedi aziendali e alla tutela del lavoro in quanto prestato
nelle imprese’’ (13).
(12) Cfr. GALGANO-RODOTÀ, Rapporti economici, tomo II, (artt. 41-44), in Commen-
tario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 250.
(13) BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 2001, p. 405.
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trarre dalla consapevolezza della molteplicità delle culture la via per sfug-
gire alla decadenza della ‘‘cultura toccataci’’.
È ben noto, ad esempio, come funziona il sistema amministrativo
americano: ad agenzie amministrative federali, quali l’agenzia per la pro-
tezione ambientale (Environmental Protection Agency, EPA), e le autorità
per la salute e la sicurezza sul lavoro (Occupational Safety and Health
Administration, OSHA e National Institute for Occupational Safety and
Health, NIOSH), il Congresso ha demandato il compito di controllare il
rischio per la sicurezza del lavoro e per la salute.
Queste agenzie sono dotate di ampie risorse finanziarie, che consen-
tono loro di utilizzare, nella procedura di valutazione del rischio, una va-
sta gamma di competenze specialistiche: l’EPA ha quasi 18.000 dipen-
denti, dei quali 4.500 sono scienziati, più di 2.000 sono ingegneri e tec-
nici, e 1.000 sono giuristi; l’OSHA ha circa 2.400 dipendenti, tra ispet-
tori, investigatori, medici, ingegneri e altri tecnici nei 200 uffici sparsi in
tutto il Paese (17).
Il lavoro di questi scienziati, ingegneri, tecnici, giuristi consiste nell’e-
laborazione di linee-guida per la tutela della salute e della sicurezza, alle
quali poi le singole imprese devono dare realizzazione, sotto il controllo
delle stesse agenzie che hanno anche il compito di emanare ‘‘ingiunzioni’’.
Vale la pena di segnalare il carattere molto dettagliato e capillare con
cui i rischi vengono individuati dalle agenzie, nonché l’importanza da esse
attribuita alla stima dei rischi e il peso assegnato alla giustificazione delle
decisioni regolamentatorie adottate.
Proprio simili caratteristiche dell’attività regolamentatoria dimo-
strano con quanta decisione e quanta chiarezza il modello americano ha
ripudiato l’idea di far svolgere alla ‘‘capra’’ i compiti del ‘‘giardiniere’’: le
singole imprese sono messe in grado di conoscere, nei dettagli e sotto tutti
i profili rilevanti, la valutazione pubblica del rischio e di dar vita ai pro-
grammi interni di protezione, secondo le indicazioni vincolanti delle linee-
guida.
(17) I dati relativi all’EPA si possono trarre dal sito Internet (www.epa.gov). Analo-
gamente, i dati relativi alla struttura di OSHA, NIOSH si possono leggere nei siti relativi (ri-
spettivamente, www.osha.gov; www.cdc.gov/niosh/homepage).
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(20) JASANOFF, Science at the Bar: Law, Science and Technology in America, 1995,
trad. it. La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001, p. 135.
(21) È di questo periodo la decisione relativa al tentativo della FDA di proibire i con-
tenitori per bevande prodotti con polimeri di acrilonitrile: nessuna agenzia poteva ritenersi
tenuta a regolamentare un rischio di misura insignificante come quello che quantità piccolis-
sime di acrilonitrile potessero passare dalle pareti del contenitore alla bevanda; dello stesso
periodo la decisione della Corte Suprema sul benzene, forse il caso più importante di politica
della scienza degli anni ’80: l’OSHA aveva stabilito che l’esposizione al benzene, negli am-
bienti di lavoro, doveva scendere da 10 ppm a 1 ppm, sulla base del rilievo che le cono-
scenze scientifiche disponibili non consentivano di stabilire un livello sicuro di esposizione
ad una sostanza notoriamente cancerogena come il benzene; la Corte Suprema rilevò che
l’OSHA aveva omesso un passo cruciale nell’analisi posta a fondamento della regolamenta-
zione, giacché non aveva dimostrato che il rischio fosse ‘‘significativo’’ e che lo standard
proposto avrebbe portato un miglioramento misurabile nella salute dei lavoratori; ancora
dello stesso periodo fu la decisione con cui la Corte d’appello federale per il Quinto Circuito
respinse la proposta dell’agenzia Consumer Products Safety Commission di vietare l’uso di
un materiale isolante, la schiuma di formaldeide, comunemente impiegato nell’edilizia abita-
tiva: la Corte concluse che la Commissione non aveva addotto prove consistenti a sostegno
della propria proposta.
Infine, è di questo periodo la sentenza con cui la Corte Suprema, nel 1987, dichiarò
che il metodo delle estrapolazioni lineari ‘‘che si basa sui risultati di esposizione a livelli
molto alti dei contaminanti pericolosi dimostrerà un qualche rischio a qualunque livello e ciò
per le leggi matematiche e non per qualche conoscenza particolare. In effetti, il rischio, ad
un certo punto della linea estrapolata, può non aver nessun rapporto con la realtà. Non c’è
nessun motivo particolare di pensare che la linea effettiva di incidenza del danno sia rappre-
sentata da una linea retta... Perciò statuiamo — conclude la Corte — che la valutazione del-
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l’amministrazione deve essere basata solo sul rischio per la salute’’ (per queste notizie, cfr.
JASANOFF, op. cit., p. 144 ss.; STELLA, op. cit., p. 423 ss.).
(22) È del 1997 la sentenza sul caso Joiner, che prende posizione su un altro pilastro
della politica regolamentatoria, l’estrapolazione da animale ad uomo (l’efficacia causale del-
l’esposizione ai PCB non poteva essere asserita sulla base delle prove addotte dall’attore, re-
lative a dei topi che in tenera età avevano ricevuto alte dosi di PCB iniettate direttamente
nello stomaco, mentre l’attore, un adulto, aveva subìto solo esposizioni a tracce di PCB); è
del 2000 la sentenza della Corte d’appello del distretto di Columbia che affronta il tema dei
limiti-soglia del cloroformio (la regolamentazione dell’EPA viene definita arbitraria e capric-
ciosa perché utilizza il metodo delle estrapolazioni lineari, in presenza di evidenze scientifi-
che che indicano l’esistenza di una soglia, al di sotto della quale non vi è rischio da esposi-
zione a cloroformio). Su queste sentenze, cfr. STELLA, op. cit., p. 427 ss.
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(23) Sull’importanza della cultura civica negli ambiti considerati, cfr. JASANOFF, op.
cit., p. 44.
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possono variare di sei ordini di grandezza tra gli esperti, di tutti gli aspetti
problematici connessi con l’incertezza scientifica?
Cosa ne sa dei dilemmi posti dal principio ‘‘maximin’’ e della distin-
zione tra rischio reale e rischio percepito?
Ma questi, per il nostro legislatore, sono dettagli trascurabili: quel
che conta è che l’opinione pubblica sia in qualche modo anestetizzata; e
cosa importa che questo scopo sia raggiunto riesumando ‘‘il relitto storico
dell’arresto di un singolo reo’’ (24)? Cosa importa che in questo modo si
diventi complici dell’irresponsabilità generalizzata (25)?
Ma c’è di più. La statuizione dell’obbligo, a carico delle singole im-
prese, di provvedere alla valutazione del rischio senza il corredo di appro-
priate linee guida può tradursi, nei fatti, sotto il profilo della responsabi-
lità penale, in un autentico scempio dei sommi principi, anche costituzio-
nali, posti a presidio della democrazia in tutti i Paesi del mondo occiden-
tale.
Ed infatti, una volta verificatosi un incidente sul lavoro o un danno
alla salute dei lavoratori, gli organi cui spetta la promozione dell’azione
penale possono essere indotti ad appagare le attese di giustizia dei parenti
delle vittime e dell’opinione pubblica proprio utilizzando il grimaldello
della valutazione del rischio: sarà così chiamato a rispondere di omicidio
o di lesioni colpose o di disastro colposo il datore di lavoro che doveva va-
lutare il rischio. Quasi scontato l’esito del processo penale: ex post la va-
lutazione del rischio sarà, come già dimostra la prassi giurisprudenziale,
ritenuta insufficiente dal giudice per definizione, o — per aggiungere le
beffe ai danni — insufficiente rispetto agli standard delle linee-guida delle
agenzie amministrative americane, definite lo ‘‘stato dell’arte’’ (26).
Può prendere vita così, alla giornata, una inammissibile opera di fles-
sibilizzazione del diritto penale. L’accusa e il giudice non hanno infatti gli
strumenti per sostenere che il datore di lavoro ha causato, con la valuta-
zione del rischio insufficiente, l’evento lesivo: la mancanza di linee-guida
appropriate non consente di individuare la valutazione ‘‘sufficiente’’ e
quindi di stabilire se una valutazione sufficiente avrebbe scongiurato il ve-
rificarsi dell’evento lesivo. Bisogna dunque piegare il diritto penale a ma-
lintese funzioni di prevenzione, cancellando il requisito della causalità in-
dividuale o facendolo diventare un fantasma non bisognoso di prove (27).
Fortunatamente, contro l’ormai diffusa opera di flessibilizzazione del
diritto penale d’evento, si sono levate voci autorevoli: il superamento del
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(28) Cass., sez. IV pen., 28 settembre 2000; Cass., sez. IV pen., 28 novembre 2000;
Cass., sez. IV pen., 29 novembre 2000, in questa Rivista, 2001, p. 277 ss.
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(29) Su questa sentenza, vd. TURCO, Zero in sicurezza dei luoghi di lavoro. Italia
bocciata per la l. n. 626, in Diritto e giustizia, 22 dicembre 2001, p. 46 ss.
(30) TALLACCHINI, Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, prefazione a JASA-
NOFF, op. cit., p. 3 ss.
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(34) ROSSI, Il fenomeno dei gruppi e il diritto societario: un nodo da risolvere, in Riv.
soc., 1995, p. 1152.
(35) ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, p. 9.
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STORIE D’UNA ILLUSTRE FORMULA:
IL ‘‘LIBERO CONVINCIMENTO’’
NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI (*)
(*) Sono gli appunti per una relazione svolta al convegno — in memoria di Antonino
Galati — dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, su Il libero convincimento
del giudice penale: vecchie e nuove esperienze, Siracusa, 6-8 dicembre 2002.
In cima ad essi, avevo trascritto tre massime: ‘‘Our valour is to chase what flies’’(SHA-
KESPEARE, Cymbeline, III.3, 42).
‘‘Ciò prova la sua colpevolezza, disse la Regina. Ciò non prova niente del genere, disse
Alice’’ (CARROLL, Alice’s adventures, 1862, trad. it., Milano, Garzanti, 1975, p. 124).
‘‘Where’s satisfaction?’’ (SHAKESPEARE, Otello, III.3, 296).
Successivamente è stato tradotto un ottimo volume, di cui ho qui tenuto conto: M.R.
DAMASKA, Il diritto delle prove alla deriva, Bologna, Il Mulino, 2003.
I numeri di articoli senza ulteriori specificazioni si riferiscono al testo vigente del co-
dice di procedura penale.
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mutarli: qualcuno, che pur l’aveva bollata con parole di fuoco, poi ha av-
vertito il richiamo di quella potente libertà, guardandola con occhi am-
miccanti, diversi. E viceversa.
Essa torna proteiforme, con il dono dell’ubiquità: supponevi d’averla
lasciata al posto giusto, ma te la ritrovi — per sortilegio — in tutt’altro
spazio concettuale, in tutt’altre aree e categorie della procedura penale. È
sgusciata via, magari per infilarsi dentro al capitolo dell’accusare: se il
giudice non è libero nelle prove, inappagato diviene l’esercizio dell’azione.
E così via, via. Via ancora, come quella volta che sbucò in scena — pale-
semente una ‘‘intrusa’’ (1) — per contrastare ‘‘strumenti di valutazione
delle attitudini professionali del magistrato’’. Era il 1978: verifiche del ge-
nere — dedussero — vìolano anche il principio del libero convinci-
mento (2).
Eravamo tutti sicuri che il codice del 1987-89 l’avesse ristretta ben
bene. La disciplina delle prove fu, infatti, tra le migliori, compresa la cate-
goria della inutilizzabilità, che pure ad alcuni spiacque, anche se ancora
non ne ho potuto intendere la ragione. Quelle superiorità tornarono in-
vece imperterrite. La successiva giurisprudenza preferì ancora, praticò,
sovrappose ‘‘libertà inalienabili’’ dove — ad esempio — le norme fissano
una radicale invalidità, o in caso di perquisizione disposta solo in base ad
‘‘anonimi’’; o per partorire (congiunta con l’art. 189: disposizione colta,
elegante in sé; ma, in pratica, più pericolosa che altro) una categoria
strana e storta già nelle espressioni usate: ‘‘mero accertamento di fatti,
[non già] atto processuale formale [e, così, per l’appunto] liberamente uti-
lizzabile e valutabile’’; o per sfuggire a un divieto, scambiando fra loro
norma speciale (art. 238) e norma generale (art. 234); o per scrollar via
un vizio ex art. 191, nella fase preliminare. Dove — proprio lì — sta
scritto: ‘‘inutilizzabile in ogni stato del procedimento’’, ritrovammo sosti-
tuita — pure quella volta — una libertà. Il campionario — si sa — po-
trebbe essere assai più esteso (3).
Consideriamo, ora, una ulteriore, recente vicenda: quella in cui un
tribunale scoprì che una certa disciplina probatoria ‘‘porta a incidere sulla
possibilità del giudice di conoscere i fatti’’, ‘‘sacrifica[ndo] il potere del
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diffidenza per il potere, l’Autorità (7) e non v’è spazio per incertezze di
diagnosi: questa è la sostanza, l’eredità, il contenuto che si è voluto assu-
mere dal positivismo e dal periodo fascista.
L’intento non è quello di completezza, o di digressioni sciorinate. Ma
è indispensabile — per specifiche opinioni da proporre al dibattito e tor-
nando più addietro — non dimenticare anche una vicenda che possiamo
etichettare, per brevità: delle nozze fauste e tradite.
Pochi princìpi o istituti vantano un albero genealogico, un pedigree
come il nostro: da ‘‘foresta incantata’’ fu scritto (8). Il riferimento va a
una doppia vicenda. Primo: la rivoluzione copernicana che sostituì l’as-
setto epistemologico medioevale, ormai disfattosi. Ci si sbarazzò di relitti
finali, sfigurati, scompaginati: la poltiglia cui si erano ormai ridotte — alla
fine del Seicento — le prove legali. Risultava diverso, a quel tempo, il
concetto di norma: si trattava piuttosto della dottrina e quel sistema —
dopo quattro secoli — non rispondeva ormai più ad alcun ordo cogno-
scendi (9). Ma la storia — quella anteriore, delle prove legali — sarebbe
istruttiva: non riducibile alle reazioni frettolose, come sdegnate, di parec-
chi. Non è qui possibile neppure sfiorarla.
Secondo: il connubio magnifico, giustificativo, nel quale il libero con-
vincimento fu portato e portatore del metodo procedurale più avanzato —
sino ad oggi, per l’Europa continentale — in termini d’‘‘accusatorio’’: col-
legialità, giurie, garanzie e quant’altro. L’unione, entusiasmante, parve —
ai più alti pensatori dell’Ottocento — come indistruttibile. Fu, invece, la
vicenda d’un matrimonio tradito.
Ancora lei, la pretesa regola, si mostrò in effetti camaleontica, prepo-
tente, bizzarra, se non fantasiosa come gli accoppiamenti infedeli di Zeus:
cigno o, altra volta, toro, pioggia; aquila o serpente. Dalla fine del secolo
scorso essa, per l’appunto, divenne contrassegno antitetico alle garanzie,
al modello, alla sostanza originaria e, più di recente, ci ha fatto assistere a
uno strano, impietoso destino: proprio la massima che tutta Europa aveva
salutato come ferrea componente dell’ ‘‘accusatorio’’, duecento anni
dopo, è stata quella con cui, in sostanza, si pretese d’affossare il primo
tentativo italiano d’un codice all’insegna dell’accusatorio stesso.
(7) G. DI CHIARA, Ad faciendam fidem: i contributi narrativi nel processo penale tra
ars rethorica, esperienza forense ciceroniana e diritto probatorio vigente, ora in Iura, 1997
[ma 2002], p. 80 s.
(8) F.M. IACOVIELLO, La motivazione, cit., p. 64.
(9) Ciò è ben spiegato in due saggi troppo poco citati: quello di G. ALESSI PALAZZOLO
(Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli, Jovene, 1979.
pp. 16, 106 etc.) e quello di I. ROSONI (Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria
della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano, Giuffrè, 1995, spec. pp. 14 s.,
313 s.).
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sempre in vista delle particolari questioni odierne, un vertice non può es-
sere accantonato: la pagina di Carrara che segna — per il libero convinci-
mento — il finale dell’originaria curva virtuosa.
Con la brevità e la semplicità dei grandi, Carrara, ossia il culmine
della concezione liberale, fissa qualcosa di definitivo. È il paragrafo 886
del Programma, Parte Terza, Del giudizio criminale: il conoscere del pro-
cesso penale non può che nascere dalla gnoseologia comune, ma tutto in-
tero (l’autore sta espressamente trattando del convincimento e del vaglio
probatorio) ha una faccia in più: la giuridicità. La conclusione — pur va-
riamente ripetuta poi da tutti — è però meno ovvia e davvero condivisa di
quanto potrebbe apparire.
Salto — infatti — ai giorni presenti, per trasporre in termini d’attua-
lità. Questa assai semplice affermazione contrasta chi concepisce, esalta il
momento finale dell’iter probatorio, come libero: il sistema non potrebbe
far altro — arrivanti a quel punto — che una sorta di mero, nudo ‘‘rinvio
recettizio’’ alla gnoseologia comune, senza altro. Ci scontriamo tuttavia
con un dato: le decine d’illustri, brillanti studi su tecniche (extra-giudi-
ziali) di razionalità nella critica delle prove danno la sensazione di spazi,
coltivazioni rimaste avulse, isolate, oltre che spesso antagonistiche fra loro.
Ma v’è altro e — poiché il punto è delicato, pressante — diviene do-
verosa qualche precisazione. Innanzi tutto, non essere ostili o chiedere
una disciplina per ogni fase del procedimento probatorio, non equivale a
sposare un concetto di epistemologia giudiziale che se ne vada bizzarra-
mente e bizzosamente per i fatti suoi, disinteressandosi del conoscere co-
mune o scientifico. Per contro, ammettendo, esaltando sopraggiunte li-
bertà finali, intangibili, non vorrei che facessimo come Saturno, il Crono
della Teogonia, il quale — al momento conclusivo — finì per rimangiarsi,
lui stesso, i propri figli, ossia, fuor di metafora: all’indietro, la legalità
delle fasi anteriori.
L’altra linea si oppone, invece, all’idea che ‘‘la legalità del decidere
[investa solo] i primi due momenti [ammissione e formazione della prova,
e si fermi davanti] al terzo’’. ‘‘Se così davvero fosse, ci troveremmo di
fronte a un dato paradossale: il processo sarebbe legale — e quindi garan-
tito — fino al momento della formazione del materiale probatorio; sa-
rebbe libero [invece] — e quindi privo di garanzie — nella fase rovente
della valutazione’’. Dunque, le ‘‘operazioni [valutative] non avvengono in
uno spazio giuridicamente amorfo, presidiato dal libero convincimen-
to’’ (10).
Insomma, l’idea di un’area preclusa a ‘‘regole di valutazione probato-
ria non convince’’, né ‘‘vi è traccia nel sistema di questa smisurata fiducia
(10) F.M. IACOVIELLO, La motivazione, cit. p. 69; ID., voce Motivazione della sen-
tenza penale, in Enc. del diritto, Aggiornamento, vol. IV, Milano, Giuffrè, 2000, p. 766.
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(11) Così è rafforzato, il pensiero del medesimo autore, nell’egregio saggio di qual-
che anno successivo (F.M. IACOVIELLO, voce Motivazione, cit. pp. 763, 766). A questo spa-
zio corrisponde poi — specularmente — la ‘‘struttura legale di motivazione’’ (ivi, p. 767), le
cui specificità — a loro volta — costituiscono una (ulteriore) via per risalire alla disciplina
normativa sul valutare la prova penale.
(12) G. DI CHIARA, Ad faciendam fidem, cit., p. 95.
(13) M. TARUFFO, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 205, 224-225, 292.
(14) Qualcuno è tiepido pure rispetto a questo ‘‘parallelismo all’incontrario’’: quanto
maggiore sia la fiducia nelle capacità euristiche del convincimento giudiziale, tanto minori
saranno gli sbarramenti e limiti posti, anche a livello di ammissione ed assunzione delle
prove. Così A. MAMBRIANI, Giusto processo e non dispersione delle prove, Piacenza, La Tri-
buna, 2002, p. 183.
(15) ‘‘Non c’è nulla di sconcertante in tutto questo [...] Ben vi possono essere regole
[normative] che disciplinano l’argomentazione giudiziale’’: F.M. IACOVIELLO, voce Motiva-
zione, cit. p. 763.
L’attenzione — da un lato — non cade sul solo tema dei ‘‘pentiti’’, o del nesso di cau-
salità nelle materie esaminate da F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, Giuffrè, ed. 2002
e da S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici, trad. it., Milano, Giuffrè, 2001. Dall’altro
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nata con metodo probatorio leale, con ogni riguardo per le garanzie dibat-
timentali, eppure malferma, infida o, comunque, bisognosa di prescrizioni
per il momento in cui quel giudice (ripeterei: pur avendo dato fondo ai va-
lori del ‘‘contradicere’’, inteso pure come mezzo di buona gnoseologia)
entra nell’area del valutare-decidere.
Su percorsi del genere — per il rapporto tra formazione e valutazione
delle prove penali — preme tuttavia una aperta postilla: ammettere quelle
regole, non significa affatto preferirle — magari nelle forme di blandi o in-
concludenti criteri valutativi — in luogo di netti divieti probatori là dove
occorrono. Insomma, come la disciplina sull’acquisizione della prova non
rende inutili garanzie per la fase successiva, così queste non possono es-
sere avanzate quale alibi surrettizio per rammollire, superare, abbando-
nare il primo fronte, d’importanza ancor maggiore.
lato va a possibili interventi parziali della legge, così da restare ovviamente nella dimensione
espressa da una efficace similitudine generale: una ‘‘disciplina legale [che] copre soltanto
un’area limitata’’ (pp. 331, 319, 323), ossia — nell’ambito di ‘‘criteri conoscitivi propri della
razionalità generale’’ — ‘‘alcune ‘zone’ in cui operano [...] regole giuridiche che in vario
modo [...] si sovrappongono e si sostituiscono a tali criteri’’.
Ancor più in sintesi: è come ‘‘una ‘pelle di leopardo’ in cui le macchie equivalgono alle
aree di disciplina giuridica, [...] mentre il fondo equivale alla parte non regolata giuridica-
mente e quindi rimessa solo ai criteri della razionalità’’ (M. TARUFFO, La prova dei fatti giuri-
dici, Milano, Giuffrè, 1992, p. 333). Per i regimi di common law, in termini analoghi: M.R.
DAMASKA, Il diritto delle prove, p. 34. A ‘‘un genus che tenta di intrecciare regole legali e re-
gole logiche’’, allude F.M. IACOVIELLO (voce Motivazione, cit. p. 764), il quale tuttavia — e
forse eccessivamente — par quasi rovesciare le proporzioni: ‘‘interstizi di libertà’’; ‘‘passaggi
del ragionamento probatorio [in cui] scattano momenti di libertà del giudice’’ (p. 772).
(16) È il c.d. progetto PITTELLI (Modifiche al codice di procedura penale e al codice
penale in attuazione dei principi del giusto processo; testo unificato del disegno di legge
C/1225, Anedda e vari altri): art. 13, 15, 24, 25, 26, destinati a riformare, rispettivamente,
gli artt. 187 (art. 187-bis), 190-bis, 192 (compreso il comma 3 sui c.d. riscontri), 530
comma 1, 533 comma 1, 546 comma 1, lettera ‘‘e’’.
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(19) Proprio discutendo sul ‘‘libero convincimento’’ e sull’art. 101, comma 2, i Giu-
dici della Consulta specificarono: viene ‘‘garanti[ta] la libertà e l’indipendenza del giudice,
nel senso di vincolare la sua attività alla legge e solo alla legge, in modo che egli sia chia-
mato ad applicarla senza interferenze od interventi al di fuori di essa, che possano incidere
sulla formazione del suo libero convincimento’’. Ma la Carta fondamentale non esclude
norme, in proposito, volte ‘‘a regolare l’attività degli organi giurisdizionali, dettando disposi-
zioni che il giudice è tenuto ad applicare’’ (sent. n. 8 del 1962).
L’art. 101, comma 2, ‘‘legando il giudice alla legge, vuole assoggettarlo, non solo al
vincolo di una norma che specificamente contempli la fattispecie da decidere, ma altresì alle
valutazioni che la legge dà dei rapporti, degli atti e dei fatti, e al rispetto degli effetti che ne
desume; in tal caso, è sempre alla legge che il giudice si collega [e] la pronunzia giudiziaria si
mantiene sotto l’impero della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo con-
vincimento’’ in un certo modo (sent. n. 50 del 1970).
Prospettazioni d’illegittimità vennero accolte nei soli casi di un convincimento vinco-
lato a provvedimenti della pubblica amministrazione: in particolare ciò venne espresso dalle
sent. n. 88 del 1982 e n. 247 del 1983 cit. Conta poi, più in generale, la giurisprudenza sui
‘‘vincoli pro judicato’’: la Consulta escluse violazioni del libero convincimento e dell’art.
101, comma 2. Accolse, invece, le deduzioni — assai diverse — ex art. 24, comma 2, rimuo-
vendo effetti ‘‘erga omnes’’, per lesione del diritto di difesa rispetto a chi non aveva potuto
partecipare all’accertamento. Fra varie, soprattutto spiccarono — in tal senso — la sent. n.
55 del 1971 e la sent. n. 5 del 1965.
(20) È la sent. n. 247 del 1989 (redatta dal prof. Dell’Andro) sull’art. 4, n. 7 della l.
n. 516 del 1982 e su regole per valutare l’entità di evasioni fiscali. Erano allora conosciute
come ‘‘criterio assoluto’’, ‘‘criterio percentuale’’, ‘‘criterio proporzionale’’.
(21) Il riferimento (alla sent. 241 del 1994) non equivale, ovviamente, a condividere
simpatie che sottostavano alla pronunzia stessa e alla soluzione normativa ivi controllata. In-
fatti l’art. 500 — nella sua redazione legislativa intermedia (per l’appunto del d.l. 8 giugno
1992, n. 306) — degradava la forza dell’anteriore divieto in morbidi criteri di valutazione.
‘‘In cauda’’ rinnegava poi se stesso: il giudice poteva affermare l’equivalenza probatoria fra
dichiarazioni attuali e pregresse, anche in base a un sindacato di non genuinità di quelle di-
battimentali, desunta dai soli modi di esse. Dunque, ed in fondo, ritrovavamo il vecchio cri-
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terio della credibilità che il giudice poteva assegnare all’atto della fase preliminare. Primeg-
giava e tornava, così, un ‘‘cultura valutativa’’, ‘‘al limite della percezione soggettiva’’: lo illu-
stravano e l’ammettevano coloro che avevano avversato la ben diversa nettezza della solu-
zione originaria (E. FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organiz-
zata, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Bari, Laterza, 1993,
pp. 273, 250, 234 s.).
(22) Pur non potendo qui seguire e riferire l’intera serie, segnalazione speciale merita
una pronunzia poco nota (sent. n. 120 del 1975), sui rapporti fra ‘‘libero convincimento’’ e
procedura di formazione della prova. Alludo alla figlia della capostipite in materia d’intercet-
tazioni telefoniche (sent. n. 34 del 1973), celebre per aver aperto la via alla futura categoria
sanzionatoria della inutilizzabilità. Dal canto suo, l’affermazione breve e recisa del 1975 re-
spinse assunti pur reiterati dalla magistratura: quelli ‘‘secondo cui dovrebbe prevalere il
principio del libero convincimento del giudice, anche con riferimento a prove assunte senza
l’osservanza delle disposizioni che le disciplinano’’.
(23) Si tratta della sent. n. 32 del 2002 e di quattro ordinanze: n. 36 del 2002; n.
293 del 2002; n. 365 del 2002; n. 431 del 2002.
(24) A. BEVERE, La chiamata di correo, ed. 2001, Milano, Giuffrè, p. 195.
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(25) Così, ad esempio, varie ordinanze di rimessione, riferite dai provvedimenti della
Corte n. 261 del 2001; n. 262 del 2001; n. 429 del 2001, oltre che da quelli — poc’anzi ri-
cordati (nt. 23) — del 2002.
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(26) Riferimenti, oltre che nel ricordato volume di Federico Stella, in S. JASANOFF, La
scienza davanti ai giudici, cit., pp. 83, 101. Una divergenza e critica (‘‘gravi fraintendimen-
ti’’) è segnalata da F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 165, nei confronti di F.M. IACO-
VIELLO, La motivazione, cit., p. 218 s., nonché voce Motivazione, cit., pp. 762, 778, 780.
(27) È un criterio, questo, ‘‘assai più elevato di quello della [mera] prevalenza di
conferma logica di un’ipotesi rispetto alle altre’’ (M. TARUFFO, Sui confini, cit., p. 232).
(28) In tale linea suonarono certe immediate massime giurisprudenziali: con la nuova
norma ‘‘deve ritenersi che si sia inteso ribadire in pieno il principio del libero convincimen-
to’’ (Cass. 15 ottobre 1990, Batani, in Commentario breve al nuoco codice di proc. pen.
Complemento giurisprudenziale, ed. 2002, Padova, Cedam, sub art. 192, II e varie altre).
Per conseguenza: l’art. 192, comma 3 ‘‘non rappresenta un limite al principio della li-
bera valutazione della prova’’ (Cass. 28 aprile 1997, Matrone, ivi). Unanime, in senso con-
trario, la dottrina: ‘‘limite al libero convincimento del giudice’’ (D. SIRACUSANO, in Dir. proc.
pen., vol. I, ed. 2001, Milano, Giuffrè, p. 346); ‘‘condizione necessaria del giustificato con-
vincimento’’ del giudice (L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 130).
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tutto, e coglie poi nel segno chi ci sottolinea: son divenute ‘‘clausol[e] di
stile in tutte le [odierne] legislazioni processuali’’ (29).
Sarà allora meglio passare ad altro, compresa qualche minuzia. An-
che se ci stanno intorno tempi e climi stemperati con l’acquarello del ‘‘di-
ritto flou’’, ‘‘senza fattispecie’’ (30), egualmente proporrei un rilievo a chi
conserva apprezzamento per l’esegesi testuale e per ciò che ci insegna
l’art. 12 delle ‘‘preleggi’’: quel ‘‘senso delle parole’’ che evoca radici
straordinarie nell’etica del linguaggio (31). Ovvio: il legislatore del 1987-
89 conosceva quanto noi la clausola del libero convincimento. Non è per-
ciò senza senso che l’abbia riservata e affermata nei soli artt. 485 e 486
(ora 420-bis comma 2 e 420-ter comma 2): esclusivamente lì, in colloca-
zione contrapposta alla disciplina generale, incontriamo l’ammissione di
un ‘‘liberamente valutata’’.
Dal canto suo, dice assai meno di quanto si ripeta, l’art. 192, comma
1: quel ‘‘dar conto’’ sarebbe l’unico contrappeso che — come tale — di-
mostrerebbe proprio il regime del convincimento libero. Ma la norma non
lo implica univocamente, perché la garanzia del motivare resta e vale, a
maggior ragione, pure a fronte di regole legali sul convincimento del giu-
dice.
Apprendiamo di più dai vari casi in cui l’ordinamento interviene per
l’atto del valutare le prove, non lasciando libero il giudice. Anche se ab-
bozzeremo qui solo esemplificazioni, l’inventario sarebbe non breve: poi-
ché è in gioco un metodo conoscitivo giudiziale, esso assume rilievo tutte
le volte in cui un provvedimento va per l’appunto adottato in base alle
prove disponibili. Considerando poi la sequela, l’iter procedurale comples-
sivo, per certo non interessano solo le norme per la sentenza, cosicché si
rimarca opportunamente che problemi e disposizioni sul valutare le cono-
scenze giudiziali si pongono ben prima (32).
Né si cada nella torsione di chiudere i discorsi, asserendo che tutta la
differenza starebbe nel mutare dell’oggetto del decidere: infatti il legisla-
tore potrebbe limitarsi a fissare o presupporre — senz’altra specificazione
— tale disparità della materia (adottare la sentenza; disporre il dibatti-
mento; intercettare; accertare i cosiddetti fatti secondari come la condotta
illecita dell’art. 500, commi 4 e 5). Ma, oltre a ciò, può stabilire regole
nuove, per quel (già) differente oggetto. Insomma può cambiare, non solo
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(33) In rapporto e in aggiunta — come già detto — alla posizione di specifici, vari
oggetti del decidere. A volte, lo si denomina il ‘‘quantum di prova’’ richiesto: P. TONINI, La
prova penale, ed. 2000, p. 219 (pericolo di fuga etc.).
Anche qui non s’intende bene perché tale disciplina resterebbe estranea al tema della
valutazione probatoria e del libero convincimento. Esattamente, invece, F.M. IACOVIELLO
(voce Motivazione, cit. pp. 766 e 794) la include e considera sia le differenti tappe dell’iter,
sia — per l’appunto — la tipologia di norme relative al c.d. quantum di prova: ‘‘non è pensa-
bile che i legiferatori abbiano voluto riservare al ‘libero convincimento’ di ogni giudice di fis-
sare il proprio standard’’.
(34) Le varie soluzioni sono ripercorse criticamente dal recente saggio di M. DA-
NIELE, La regola di giudizio in udienza preliminare, in Riv. dir. proc., 2002, p. 560.
(35) Così M.L. BUSETTO, La provata condotta illecita fra Costituzione e codice, Bolo-
gna, 2002 (ed. c.d. provvisoria), spec. Introduzione e paragrafi I.3, II.2 e 8.
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nell’area delle misure cautelari; l’art. 274 lettera ‘‘a’’ pone una regola le-
gale negativa di valutazione (36): tu, giudice, non puoi convincerti (s’in-
tende, nel senso giuridico, processuale del termine) in base all’esercizio
del cosiddetto diritto al silenzio, o a mancate ammissioni di responsabilità
(confessione). Dal canto suo, l’art. 292, lettera ‘‘c’’ si può — volendo —
ben qualificare come un regime legale ‘in positivo’: nel tuo valutare, devi
‘‘ten[er] conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato’’.
Dimensioni non dissimili — seppure meno penetranti — ritroviamo
anche a proposito dei provvedimenti coercitivi (in senso lato) per l’acqui-
sizione d’una prova; nelle perquisizioni: ‘‘fondato motivo di ritenere’’ (art.
247, comma 1); nelle intercettazioni: ‘‘gravi indizi’’ (art. 267, comma 1),
a fronte d’una soglia più bassa per indagare sulla criminalità organizzata:
‘‘sufficienti indizi’’ (d.l. n. 152 del 1991). Altri campi stanno, invece,
pressoché al lato opposto, fissando il criterio della ‘‘prova evidente’’: art.
129, comma 2 e — per il giudizio immediato — art. 453, comma 1.
Non di rado, poi, il sistema del 1988 consegna — a chi giudica —
una prova la quale — poniamo — risulterebbe addirittura irrefutabile (se-
condo il ‘‘sapere ordinario’’), circa un fatto criminoso addebitato a due
autori. Stiamo dunque considerando un elemento identico, comune a due
imputati. Tuttavia — in nome di valori diversi, ossia con piena ragionevo-
lezza — si stabilisce: tu non puoi affermare il tuo convincimento — altri-
menti e in effetti non controvertibile su quel fatto — per entrambi i sog-
getti. Ciò vale nell’ipotesi dell’art. 403, oltre che in quelle dell’art. 63, del-
l’art. 238, comma 4 e, ora, dell’art. 493, comma 3 (c.d. prova consentita o
negoziata). I giuristi — si sa — sono avvezzi a disquisire; eppure la con-
clusione è manifesta: pure qui una legge interviene, si sovrappone, limita
o esclude libertà di convincimento.
La serie potrebbe proseguire con le varie disposizioni (qualcuna è
nuova rispetto al codice abrogato) degli artt. 529-531, oltre all’art. 526,
comma 1-bis (37), mentre all’attenzione che merita l’aggettivo ‘‘sufficien-
te’’ dell’art. 530, comma 2, già ho fatto cenno. Ruoli espansivi, sovrani,
andrebbero sottolineati a parte, là dove è la Costituzione stessa a dettar
disciplina, come nell’art. 27, comma 2, il quale va assunto pure come re-
gola probatoria sul valutare, convincersi, decidere (38).
(36) Tutte queste partizioni e catalogazioni (compresa quella delle ‘‘prove legali’’)
variarono, non rimasero ferme nel corso della storia e non lo sono, oggi, presso i vari autori.
Qualcosa del genere riscontreremo, fra breve, a proposito dell’art. 500, comma 2.
(37) Si veda il rinvio della nt. 39.
(38) G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli,
1978, cap. III e IV.
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impegnativi, fitti interventi in direzione opposta: ossia per negare che, ivi,
s’incontri una regola sulla valutazione della prova (39).
Ma si resta perplessi (40), a fronte di un testo che — soppesato al mi-
croscopio quattro volte, dibattuto in ogni sua parte — mantiene l’e-
spresso, testuale esordio: le dichiarazioni contestate al testimone ‘‘pos-
sono essere valutate’’. S’aggiunga ora (pur ad abundantiam, e di per sé
non risolutiva) la procedura dell’art. 499, comma 6: chi giudica, non solo
ascolta le dichiarazioni pregresse del testimone scruta le sue reazioni, ma
può (ed è assai ragionevole) voler mettere gli occhi, verificare il preciso
testo delle carte anteriori. Il presidente ‘‘ordin[a], se occorre, l’esibizione
del verbale’’.
Sono catalogazioni — lo rammentavo — che oscillarono nel corso
della storia (41), ma coglie nel segno una odierna diagnosi: ‘‘si tratta, in
realtà, di [quelle norme che] che predetermina[no] in astratto il valore di
una prova, di cui pure riconosciamo la legittimità’’ (42); appartengono
(39) Nel senso di una regola d’esclusione (e non già di valutazione), più volte è inter-
venuto P. FERRUA, Giusto processo: l’attuazione si misura con le incertezze della giurisdi-
zione, in Diritto e giustizia, 2001 (fasc. 26), p. 33; ID., La Corte costituzionale promuove la
‘regola d’oro’ del processo accusatorio, in Dir. pen. e processo, 2002, pp. 402, 404; ID., L’at-
tuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della prova. Intro-
duzione, ivi, 2001, p. 587.
Per contro P. FERRUA (in Giusto processo. Nuove norme, cit. p. 525, nonché L’attua-
zione del giusto processo. Introduzione, cit. p. 587) qualifica un’altra norma ‘‘difficile’’, l’art.
526, comma 1-bis: ‘‘non già [come] una regola di esclusione probatoria, ma [come un] crite-
rio legale di valutazione’’ che si risolve in un divieto al giudice.
(40) Quale caso emblematico di deroga alla ‘‘libera valutazione della prova’’, M.R.
DAMASKA (Il diritto delle prove, p. 31 s.) indica proprio le regole di ‘‘ammissibilità parziale’’:
in particolare quelle in cui ‘‘la legge prevede che un elemento possa essere utilizzato per sta-
bilire la credibilità di un testimone ma non ai fini della decisione di merito’’ (precisamente
come nel ‘‘nostro’’ art. 500, comma 2), nonché i casi in cui si ‘‘utilizz[a] un’informazione
solo con riferimento ad una delle diverse accuse collegate che derivano da un medesimo
evento’’ (ivi, p. 53).
(41) Si veda la nota 36. Sintetizza M. TARUFFO (La prova, cit., p. 321): ‘‘regola di
prova legale [è quella che] opera nel senso di escludere o limitare la valutazione discrezio-
nale del soggetto’’ che giudica. Ma, sottolinea A. NAPPI (Guida, cit., p. 173), ‘‘può essere dif-
ficile [da stabilire una differenza] fra regole d’esclusione e criteri di valutazione’’.
(42) A. NAPPI (Guida, cit., p. 174), il quale tuttavia conclude — per l’art. 500,
comma 2 — nel senso d’una regola d’esclusione (contrapposta a quelle di valutazione).
Non mancano ulteriori tipi d’inquadramento: ‘‘un giudizio di rilevanza legalmente pre-
determinato’’ (G. ILLUMINATI, in Prolegomeni a un commentario breve al nuovo codice di
procedura penale, Padova, Cedam, 1990, p. 418); ‘‘discussa e discutibile [...] regola di valu-
tazione negativa’’ (A. MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 184, nt. 172); quel comma ‘‘ri-
duce da ‘pieno’ a ’indiretto’ l’uso di talune dichiarazioni’’. Esso, che pur ‘‘limit[a] l’utilizza-
bilità in sede decisoria, [... in realtà] provvede a vincolare, ai fini della ricostruzione fattuale,
la valutazione del giudice concernente l’(in)affidabilità del dichiarante e dell’atto investiga-
tivo compiuto in sede di indagini preliminari’’ (G. UBERTIS, Argomenti di procedura penale,
Milano, Giuffrè, 2002, pp. 85 e 138).
Nel lessico dei lavori preparatori (Relaz. al prog. preliminare, sub art. 493, ora art.
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500) si distingue questo tipo di conoscenze dibattimentali (dell’attuale art. 500, ora comma
2), contrapponendolo ai casi in cui viene invece riconosciuta una ‘‘efficacia probatoria pie-
na’’.
(43) Nella mappa disegnata da F.M. IACOVIELLO (voce Motivazione, cit. pp. 764,
799), che pure non menziona tale norma, l’art. 500, comma 2 direi rientri nella classe defi-
nita dall’autore: delle ‘‘regole legali d’uso’’, la quale — per definizione — confina e risulta
diversa da quelle della inutilizzabilità e della patologia delle prove. Per l’opinione sostanzial-
mente analoga di Damaska: nt. 40.
(44) Ammette che possa ‘‘persino essere una prodezza psicologica’’, M.R. DAMASKA,
Il diritto delle prove, p. 53.
(45) Insomma, è lo spazio in cui è terminato il compito delle regole di formazione
(con le relative patologie e invalidità): F.M. IACOVIELLO, voce Motivazione, cit. p. 765, che
— per l’appunto — contrappone, all’area della invalidità (inutilizzabilità o nullità), la fase
successiva, nella quale — dunque, per le prove pur legittimamente acquisite — le norme giu-
ridiche non si arrestano, ma incidono sulla ‘‘organizzazione logica del materiale probatorio
[appunto] già [legittimamente] formato’’. Con questa disciplina, la legge ‘‘stabili[sce] come
il giudice può maneggiare il materiale probatorio’’.
(46) Poiché sono partizioni concettuali ri-disegnabili, naturalmente qualcuno potrà
preferire indirizzi, percorsi, composizioni diverse, che — estromettessi i casi vari sin qui
considerati, per questa o quella via del catalogare — portino così l’area residua, quadrando i
conti, alle ‘‘usuali’’ libertà.
Ad esempio, un indirizzo antitetico rispetto al censimento proposto in queste pagine,
parrebbe quello di G. UBERTIS, Argomenti, cit., p. 139: ‘‘va segnalato come [nel codice in vi-
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gore] non risultino esistenti norme direttamente regolatrici della valutazione probatoria
complessiva’’.
(47) Infatti — in uno spazio così esteso — si possono tracciare varie distinzioni in-
terne. Ad esempio, fra ‘‘regole legali di uso’’ e ‘‘regole di decisione’’: F.M. IACOVIELLO, voce
Motivazione, cit. p. 764.
(48) Ulteriori precisazioni vengono ora da L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 127.
(49) Per lo più erano denominate ‘‘prove legali negative’’. Ma — già ho insistito — le
terminologie risultarono oscillanti.
(50) Per l’analoga tendenza dei sistemi di common law in materia di ‘‘corrobora-
tion’’, M.R. DAMASKA (Il diritto delle prove, p. 32, nt. 28) esplicita: tali regole di valutazione
‘‘non esigono mai che i fatti siano dati per provati, nonostante il diverso convincimento del
giudice’’; ci si riferisce, dunque, a disposizioni di garanzia per l’imputato.
(51) Immaginiamo qualche tipologia approssimativa: individuo l’evasione fiscale, po-
nendo regole sul valutare (accertamento), o anche sui mezzi di prova da esperire o, invece,
punisco (direttamente) chi evada una imposta superiore a un certo quantum (specificato), o
chi sia còlto mentre esce nel nero della notte, da una abitazione, con un revolver fumante in
mano, o chi sia scoperto con tasso alcolico, nel sangue, superiore a una percentuale dettata
dalla norma stessa.
Così non riesco a intendere perché mai sarebbe consentito che il legislatore fissi un ele-
mento della fattispecie sostanziale e gli sarebbe vietato escludere — poniamo — che l’eb-
brezza sia provata tramite mere testimonianze ‘‘de visu’’. Ecco un esempio tratto da norme
sammarinesi: ‘‘chiunque guida veicoli in stato di alterazione psico-fisica [etc.] è punito [...].
Si considera in stato di ebbrezza la persona con un tasso alcoolico presente nel sangue pari o
superiore a 0,80 mg/ml. — Le alterazioni psico-fisiche predette potranno comunque essere
dedotte da elementi obiettivi’’.
La fissazione dei mezzi conoscitivi da utilizzare in rapporto a certe materie venne co-
stantemente ricondotto al novero delle prove legali, categoria — rammentiamolo ancora una
volta — dal contorno sfuggente e oscillato nel tempo.
Gli esempi anteriori sono affastellati e volutamente sgangherati, per far intendere
quale delicato e ampio terreno di riflessione congiunta — diritto sostanziale e processuale —
servirebbe, anche per i corollari e per le diversità che l’uno o l’altro percorso (diretti a un
identico o analogo obiettivo) determinano. Ma l’unità di diritto e processo (non solo nell’a-
rea della prova), prosegue a sfuggire, in Italia: è una miope trascuratezza dei nostri studi,
con la malcelata stortura di priorità ‘‘scientifiche’’, autonomie, e persino con avvilenti con-
tese, pretese e proteste accademiche.
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(52) P. FERRUA, Garanzie formali e garanzie sostanziali nel processo penale, in Que-
stione giustizia, 2001, p. 1120.
(53) L’immagine risale a un saggio antesignano — presentato proprio all’inizio dei
nostri ‘‘trent’anni’’ — da U. SCARPELLI (Il metodo giuridico, in Riv. dir. proc., 1971, p. 553):
costruito con eleganza sulla metafora di ‘‘Humpty Dumpty’’ e, all’opposto, di ‘‘Alice’’, esso
merita riletture, compreso l’ ‘‘asterisco’’ iniziale e una pagina conclusiva. ‘‘In questo scritto
il personaggio di Humpty Dumpty simboleggia [posizioni] accomunate dalla convinzione
che ai segni di un linguaggio, ed in ispecie ai segni del linguaggio giuridico, si possa far signi-
ficare un po’ quel che si vuole’’. ‘‘Si manifesta qui una scarsa simpatia per i giuristi e soprat-
tutto per i giudici humptydumptiani che credono di poter fare una rivoluzione cambiando il
metodo dei giudici. Voglio sottolineare che (se è concesso servirsi in materia delle logore e
troppo larghe etichette di ‘destra’ e ‘sinistra’) il mio attacco non viene da destra, ma da sini-
stra’’.
E ‘‘questa Alice [...] non è detto che meriti, o meriti sempre, la taccia di reazionaria,
come non è detto che Humpty Dumpty sia sempre un progressista’’ (p. 571). ‘‘Non intendo
affatto confondermi con il moderatismo giuridico che invoca contro i giuristi e i giudici
humptydumptiani il principio di legalità, e poi lascia la legge morta quando è in contrasto
con forti interessi costituiti ed istituzioni potenti. [Tuttavia] un atteggiamento di fedeltà dei
giuristi, e dei giudici in ispecie, verso la legge posta è una condizione, ovviamente non suffi-
ciente, ma necessaria, perché la legge possa servire [al suo] scopo’’. ‘‘Il problema centrale
[...] resta quello della legislazione, delle ragioni della sua crisi, delle forze politiche e delle
strutture costituzionali che possano riaffermarne il primato’’ (p. 553 s.). Ovviamente sono
pagine da leggere nella loro interezza’’.
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Diagnosi identica venne ripetuta alcuni anni dopo: A. GIULIANI, Prova e convincimento: pro-
fili logici e storici, in Quaderni del CSM (n. 98), 1997, p. 235.
(57) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., pp. 118-119.
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GIUSTO PROCESSO, PROCÈS ÉQUITABLE E FAIR TRIAL:
LA RISCOPERTA DEL GIUSNATURALISMO PROCESSUALE
IN EUROPA (*)
SOMMARIO: 1. Il giusto processo incorporato nella Costituzione italiana come diritto inviola-
bile dell’uomo. — 2. L’erronea dicotomia tra garanzie oggettive e garanzie soggettive
quale conseguenza di uno snaturamento dei valori del giusto processo. — 3. La via
italiana al giusto processo. L’attribuzione di un rango costituzionale al diritto delle
prove elaborato nel 1989. — 4. Il procès équitable nel preambolo del codice di proce-
dura penale francese: una normativa meramente programmatica e lacunosa. — 5. Il
fair trial del sistema inglese dopo lo Human Rights Act 1998. — 6. Il giusto processo
come valore comune della cultura europea e il problema dell’armonizzazione dei di-
versi sistemi.
(*) Testo della relazione svolta al Convegno sul tema ‘‘Da un processo ‘ingiusto’ a un
giusto processo?’’, tenutosi a Spoleto nei giorni 11-12 aprile 2002.
(1) V. legge cost. 23 novembre 1999, n. 2.
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mente giusto’’ (2). E, su un piano diverso, si sono espresse riserve sul te-
nore letterale dell’art. 111, comma 1, Cost., nel quale si afferma che ‘‘la
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge’’,
perché la giurisdizione sarebbe ‘‘tecnicamente neutra’’, dovendo essa
‘‘prescindere sul piano finalistico dal tipo, dalla natura e dalla qualità del
risultato sostanziale ottenibile nel giudizio’’ (3).
Queste visuali, tanto riduttive da immiserire la portata veramente
storica della riforma attuata con il nuovo testo dell’art. 111 Cost., si pos-
sono spiegare solo alla luce di una lettura della norma del tutto avulsa dal
retroterra culturale e storico cui è invece saldamente ancorata. Giusto
processo è nozione che riflette nel nostro sistema concetti di conio seco-
lare come fair trial e due process of law, il primo elaborato ben prima del-
l’età moderna dalla cultura inglese (4), il secondo testualmente recepito
nel V Emendamento della Costituzione Americana del 1791 (5). Sia pure
attraverso la mediazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
il cui art. 6 garantisce all’individuo il diritto ad un fair and public trial, la
formula ora racchiusa nell’art. 111 Cost., che appare stonata alle orecchie
di chi ha familiarità solo con i vocaboli della legge positiva, riecheggia un
modo espressivo tipico dell’età anteriore alle codificazioni.
Sottratto alla suggestione banalizzante del vocabolario positivista (6),
l’aggettivo ‘‘giusto’’ che compare nella nuova norma costituzionale a ca-
ratterizzare il sostantivo ‘‘processo’’ rivela un’adesione a valori etico-poli-
tici che si collocano al di sopra della legge scritta, ricavati dalla natura e
dalla ragione secondo i moduli del giusnaturalismo. Si tratta dunque di
una formula tutt’altro che neutra o retorica (7) dal momento che essa rac-
chiude l’esercizio della iurisdictio entro un preciso orizzonte di principi
senza il rispetto dei quali viene meno il minimum necessario a definire
‘‘processo’’ la sequenza delle attività dirette ad accertare un fatto penal-
mente rilevante.
Del resto, il lessico giusnaturalista non era del tutto ignoto alla nostra
(2) FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in
Questione giustizia, 2000, p. 50.
(3) V., in relazione al processo civile, COMOGLIO, Il ‘‘giusto processo’’ civile nella di-
mensione comparatistica, in Riv. dir. proc., 2002, p. 739.
(4) Sulle origini del concetto di fair trial nella common law inglese v. MOCCIA, Il si-
stema di giustizia inglese. Profili storici e organizzativi, Rimini, 1984.
(5) Cfr. VIGORITI, Garanzie costituzionali del processo civile. Due process of law e
art. 24 Cost., Milano, 1970, p. 30, nota 12.
(6) Improprio e fuorviante è il rilievo, più volte avanzato anche nelle cronache gior-
nalistiche, secondo cui ‘‘definire giusto il processo che si costituzionalizza ha un senso in
quanto si reputi ingiusto quello sinora praticato’’: v. FERRUA, op. cit., p. 51.
(7) V. invece in questo senso, GREVI, Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel
processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, in questa Rivista, 1998, p.
728.
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(11) È proprio nell’ambito di una visuale che abbraccia i diversi profili garantistici ri-
conosciuti all’imputato che si parla di natural justice: v. STEIN e SHAND, I valori giuridici
della civiltà occidentale, Milano, 1981, p. 114 ss.
(12) Cfr. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di ‘‘giusto
processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e garanzia del contradditto-
rio), in Pol. dir., 2000, p. 437; MARZADURI, Commento alla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2,
in Leg. pen., 2000, p. 773, nonché, nell’ambito di una impostazione più problematica, NAPPI,
La ragionevole durata del giusto processo, in Cass. pen., 2002, p. 1542.
(13) Sulla possibilità di superare l’indeterminatezza dei diritti naturali v. HAMBUR-
GER, Natural Rights, Natural Law and American Costitution, in New Yale Law Journal,
1993, p. 907.
(14) Il legislatore ordinario ha poi provveduto a ridisciplinare i problemi attinenti
alla prova penale nella l. 1o marzo 2001, n. 63.
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(15) CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 12. V., invece, nel
senso che il nuovo art. 111 Cost. privilegia le garanzie quali strumenti di tutela dell’imputato
a fronte dell’interesse riconducibile alla correttezza dell’accertamento processuale, GREVI,
op. cit., p. 430.
(16) V. TONINI, Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, in
Dir. pen. proc., 2000, p. 1390.
(17) GREVI, op. cit., p. 436; MARZADURI, op. cit., p. 771, secondo cui solo nell’art. 6
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la ragionevole durata del processo sarebbe
concepita come diritto dell’individuo.
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tura che se ne vorrebbe ricavare dall’art. 111 Cost., quella antitesi tra ga-
rantismo e difesa sociale cui da sempre viene attribuito un ruolo centrale
nella disciplina del processo penale.
In questo errore c’è il segno dell’eredità deformante proveniente dalla
vecchia cultura inquisitoria. Nel momento in cui il nostro ordinamento re-
cepisce nell’architettura della giurisdizione le garanzie dell’imputato come
diritti dell’uomo è davvero un atto di resistenza ai nuovi valori ridefinire
gli istituti processuali nella chiave di un’oggettività-efficienza del sistema
finalizzata a salvaguardare le posizioni di primato della parte pubblica.
Già lo stesso concetto di ‘‘garanzia oggettiva’’ si rivela intrinseca-
mente contraddittorio alla luce della tradizione culturale della civiltà occi-
dentale (18). Nel processo le garanzie sono limiti posti all’esercizio dei
poteri della autorità e non possono che far capo all’individuo il quale ri-
vendica la sua tutela di fronte all’apparato giudiziario. È bensì vero che in
alcune sentenze la Corte costituzionale ha fatto uso di questa formula, ma
con finalità del tutto antitetiche a quelle di chi oggi la recupera per farne
uno strumento contra reum. Si ricorderà che in relazione al diritto di di-
fesa, al quale i terroristi delle Brigate Rosse rinunciavano ostentatamente
per disconoscere il potere stesso dello Stato di giudicarli, la Corte aveva
correttamente elaborato la nozione di una garanzia necessaria a consa-
crare la correttezza dell’accertamento processuale, come tale oggettiva e
irrinunciabile perché dettata dall’interesse a mantenere il giudizio entro le
forme canoniche del rito (19). Questa opzione in favore della indefettibile
presenza del difensore si traduce però, sia pure attraverso la forma della
supplenza dello Stato, nella sola indisponibilità della difesa tecnica che è
garantita al fine di rafforzare la tutela dell’imputato e non certo per inde-
bolirla o limitarla. Al contrario, la garanzia oggettiva che si prospetta in
tema di ragionevole durata del processo è chiaramente contra reum per-
ché mira a far prevalere l’esigenza della collettività a definire celermente i
giudizi anche al prezzo di una riduzione delle garanzie difensive.
A ben vedere, quindi, nel processo penale è la sola garanzia dell’as-
sistenza tecnica a delinearsi tuttora come diritto indisponibile. Ogni altra
tutela riconducibile alla matrice del giusto processo è invece caratterizzata
dal profilo della disponibilità da parte dell’imputato. Così è, anzitutto, per
il diritto alla prova, nelle due forme del potere di richiedere l’ammissione
di elementi a discarico e di condurre il controesame delle persone chia-
mate a rendere dichiarazioni contra reum. Il contraddittorio è rinunciabile
per espressa previsione costituzionale che consente la formazione della
prova senza controesame del difensore quando vi sia il consenso dell’im-
putato (art. 111, comma 5, Cost.).
(18) Basterà ricordare la definizione del processo come ‘‘rito inalterabile costituito
come freno dei giudicanti’’, elaborata da CARRARA, op. cit., §§ 804 e 814.
(19) V. Corte cost., 10 ottobre 1979, n. 125, in Giur. cost., 1979, p. 852.
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(20) Diversa è invece la disciplina del patteggiamento in cui la contrazione delle atti-
vità processuali è subordinata al consenso del pubblico ministero, richiesto perché l’accordo
verte su una decisione di merito.
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Corte cost., 24 aprile 1996, n. 131, in Giur. cost., 1996, p. 1139; Corte cost., 20 maggio
1996, n. 155, ivi, 1996, p. 1464; Corte cost., 17 giugno 1999, n. 241, ivi, 1999, p. 2132.
(24) Cfr. sul punto, in particolare, Corte cost., n 440/2000 e n. 32/2002.
(25) Il progetto di riforma elaborato dalla Commissione è raccolto nel volume La
fase preparatoria del processo penale nel progetto Delmas-Marty, a cura di PISANI e GALAN-
TINI, Bologna, 1994.
(26) Non a caso si parla di équilibre e non di parità tra le parti, come nell’art. 111
della nostra Costituzione. Come è noto, la giurisprudenza della Corte europea ha ricavato
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dal fair trial il concetto di uguaglianza delle armi che sembra più pregnante di quello rece-
pito nell’article préliminaire francese.
(27) V. sul punto PISANI, Il nuovo article préliminaire del codice di procedura penale
francese, in Riv. dir. proc., 2000, p. 1008.
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5. Il fair trial del sistema inglese dopo lo Human Rights Act 1998.
— Si poteva pensare che l’ordinamento inglese, considerato come il luogo
di nascita del giusto processo, non dovesse porre alcun problema con ri-
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(32) Di ciò non si è mai dubitato, sia per i contenuti specifici della fairness, sia per la
rilevanza attribuita ai temi della prova, tradizionalmente negletti nella tradizione continen-
tale postcodicistica.
(33) V. al riguardo, JENNINGS, ASHWORTH e EMMERSON, Silence and Safety: the Im-
pact of Human Rights Law, in Criminal Law Review, 2000, 887 ss.
(34) EMMERSON e ASHWORTH, Human Rights and Criminal Justice, 2001, pp. 457-
458.
(35) EMMERSON e ASHWORTH, op. cit., p. 115.
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rate nel patrimonio culturale del Paese (36). Ha invece messo a punto un
congegno che mira a garantire la concreta operatività del fair trial anche
là dove le singole disposizioni del sistema si discostino dalla stessa.
L’Act del 1998 stabilisce, in primo luogo, che le norme europee pre-
valgono su quelle interne che hanno il loro fondamento nel common law,
vale a dire in quel complesso di principi e regole che appartengono alla
tradizione giuridica inglese, o nell’equity, cioè nel corpus normativo stori-
camente sorto dalla prassi della Chancery’s Court per colmare le lacune
del common law. Per quanto attiene però al diritto di fonte legislativa
(primary legislation), non è riconosciuta ai conventional rights la stessa
prevalenza: ai giudici è fatto obbligo di interpretare e applicare le norme
interne adeguandole alle disposizioni pattizie. E, per ricostruire i conte-
nuti di queste ultime, i magistrati inglesi debbono tener conto della giuri-
sprudenza della Corte e di tutti gli atti non giurisdizionali provenienti
dalla stessa, così come dei pareri espressi dalla Commissione e dalle deli-
berazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Il punto nevralgico del nuovo sistema emerge dalla disciplina dettata
per i casi in cui in sede processuale si rilevi un conflitto tra una disposi-
zione legislativa e una clausola convenzionale. Qui l’Act del 1998 predi-
spone un meccanismo imperniato sulla declaratoria di incompatibilità
della norma interna rispetto alla Convenzione con il conseguente potere
del giudice di segnalare il ‘‘vizio’’ al Parlamento che viene così sollecitato
a modificare la norma incompatibile. A norma della section 10 è poi an-
che un Ministro della Corona a poter assumere l’iniziativa di un remedial
order che attiva perentoriamente il potere legislativo, quando sia già stata
pronunciata una decisione in materia dalla Corte europea contro il Regno
Unito (37).
È evidente l’affinità tra la declaration of incompatibility e la declara-
toria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità che con-
sente ai nostri giudici di demandare alla Corte costituzionale il giudizio
sulla legge ordinaria. Nel modello inglese risulta però ben chiaro che il
congegno volto a rimuovere il contrasto con un conventional right si svi-
luppa su un piano che non scalfisce il primato riconosciuto al Parlamento,
così da escludere i giudici dal sindacato sulla legittimità delle leggi.
Posta a confronto con l’incorporazione costituzionale del giusto pro-
cesso attuata in Italia e con la scelta minimalista di collocare il procès
équitable in un preambolo codicistico come si è fatto in Francia, la via in-
glese alla riaffermazione del fair trial appare come quella più lontana dalle
(36) Il Regno Unito è stato infatti tra i primi paesi a sottoscrivere la Convenzione eu-
ropea nel 1951 e a ratificarla nel 1953. Il ritardo della Francia nell’aderire al trattato (1973)
dimostra assai bene quanto sia stato diverso l’approccio alla normativa europea nei due
Paesi.
(37) EMMERSON e ASHWORTH, op. cit., p. 135 ss.
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(38) DELMAS-MARTY, La place d’un droit pénal commun dans la construction euro-
péenne, Relazione presentata al Convegno tenutosi a Spoleto l’11 e 12 aprile 2002 sul tema
‘‘Da un processo ‘ingiusto’ a un giusto processo?’’.
(39) A proposito dei rischi che derivano dalle suggestioni di un diritto globalizzato
che impedisce di percepire le differenti discipline esistenti nei diversi ordinamenti v. TWI-
NING, Una disciplina cosmopolita? Alcune conseguenze della ‘‘globalizzazione’’ dell’educa-
zione giuridica, in Soc. dir., 2001, p. 17.
(40) TONINI, Il progetto di un pubblico ministero europeo nel Corpus iuris, in La giu-
stizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Atti del convegno di studio ‘‘Enrico
de Nicola’’, 8-10 ottobre 1999, Milano, 2000, p. 117.
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una forzata omologazione che comporta arretramenti sul piano delle ga-
ranzie. Bisogna inoltre tenere conto che, al di là delle divergenti discipline
che affiorano in singoli settori dei differenti ordinamenti, sono ancora al-
cune strutture di fondo ad impedire l’approdo ad un modello processuale
unico. Il nostro processo continua a rimanere condizionato dall’irrisolto
problema dello status ordinamentale del pubblico ministero, la cui statura
dominante nella fase delle indagini dipende anche da una sostanziale equi-
parazione del suo ufficio a quello del magistrato giudicante, assetto che
non ha equivalenti in altri ordinamenti dell’area europea. D’altra parte in
Inghilterra, dove non a caso tutta l’attenzione per le garanzie si è sempre
concentrata sulla fase del trial, cioè sul dibattimento, manca una sistema-
tica disciplina della fase anteriore al giudizio e conseguentemente l’obiet-
tivo delle riforme degli ultimi venti anni è stato quello di trovare migliori
equilibri tra poteri della polizia, l’unico vero organo investigativo, e diritto
di difesa dell’indagato. Infine, per quanto riguarda la Francia, il nodo cru-
ciale contro cui si scontrano le istanze di rinnovamento è quello del persi-
stente vuoto sul fronte del diritto delle prove, conseguenza della inossida-
bile vitalità del principio che fa gravare sul giudice la ricerca della verità
materiale, regola sulla quale è stato storicamente edificato il rito inquisito-
rio.
A voler tentare una armonizzazione in Europa, si potrebbe pensare di
muovere proprio verso una law of evidence comune a tutti i sistemi, non
dimenticando che in epoca anteriore alle codificazioni è stato il diritto
delle prove elaborato dalla pratica medievale, sia pure con l’affermazione
di valori e prassi ora ripudiati, a cementare l’unità del processo.
Sarebbe questa una meta ben allineata al giusnaturalismo processuale
se è vero che la materia delle prove è permeata da principi logici in gran
parte extralegislativi, dedotti da quella ragione che costituisce uno dei pi-
lastri dello ius naturale.
ENNIO AMODIO
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IL LABORATORIO DEL GIURISTA:
UNA DISCUSSIONE SU STRUMENTI E SCOPI
(1) S. MOCCIA, Euforie tecnicistiche nel laboratorio della riforma del codice penale,
in questa Rivista, 2002, p. 453 s., in polemica con le tesi da me svolte nell’articolo Nel labo-
ratorio della riforma del codice penale, in questa Rivista, 2002, p. 3 s.
(2) Non uso l’espressione ‘‘fraintendimento’’ per rispetto del mio interlocutore: la
continuazione del dialogo rende preferibile non porre il problema se il difetto di comunica-
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letana (3). Dirò dunque su che cosa sono d’accordo, su che cosa mi sem-
bra vi sia dissenso, e cercherò di annodare alcuni fili di una discussione
che possa essere utilmente proseguita attorno al laboratorio del giurista,
ai suoi strumenti, ai suoi fini.
Concordo (ovviamente, vorrei dire) con l’affermazione che il diritto è
formalizzazione di scelte politiche, e che la scienza giuridica ha a che fare
non solo con i mezzi, ma con i fini e i valori in gioco nelle scelte relative al
diritto penale. Concordo con la frase, che Moccia cita, di un comune
amico e maestro, Franco Bricola: ‘‘Altro è che la teoria generale del reato
debba essere condotta in termini rigorosamente positivi, altro è che in ciò
si esaurisca il compito del giurista in genere e del penalista in specie’’ (4).
Sono concetti che anch’io ho avuto occasione di enunciare (5) e che ho
inteso assumere (altri dirà se ci sono riuscito) a filo conduttore del mio la-
voro. L’impegno per la riforma penale, e le mie riflessioni sul laboratorio
della riforma, poggiano proprio sulla dichiarata premessa che le ragioni,
delle quali la scienza giuridica è portatrice, siano essenziali per una poli-
tica del diritto che aspiri ad essere razionale, nella scelta dei fini oltre che
dei mezzi, e non già imposizione di una voluntas quale che sia.
Su un punto chiave non mi è chiaro quale sia la posizione di Moccia.
Nel riassumere la posizione di Arturo Rocco, egli scrive che il compito
della scienza giuridica sarebbe limitato alla ‘‘elaborazione tecnico-giuri-
dica del diritto positivo vigente’’ (fin qui la citazione fra virgolette) (6), in
nome di un carattere neutro ed avalutativo della scienza del diritto penale
(frase di Moccia, corsivo mio). Azzardo l’ipotesi che nel mio articolo sia
stata letta una concezione o aspirazione ad una scienza del diritto penale
di carattere neutro ed avalutativo, e che su questo punto (sull’idea o
zione sia imputabile a poca chiarezza da parte mia, ovvero a errori di lettura, o a entrambe le
cose.
(3) A. CAVALIERE, Riflessioni sulla sistematica del reato e sulla rilevanza delle scu-
santi nel progetto preliminare di riforma della parte generale, in AA.VV., Le riforma della
parte generale del codice penale. La posizione della dottrina sul progetto Grosso, 2003 (Atti
del Convegno presso l’ISISC di Siracusa del 3-5 novembre 2000 La riforma), p. 251 s.
(4) F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., XIX, 1974, p. 12.
(5) PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, p. 1209 s.
Forse soltanto terminologica è la differenza fra la mia posizione e quella enunciata da
Moccia su che cosa ‘‘s’intende normalmente per dogmatica’’ (o dovrebbe ‘‘correttamente’’
intendersi) (le parole fra virgolette sono di S. MOCCIA, op. cit., p. 456). Alune espressioni
usate da Moccia sembrano postulare una distinzione da operare ‘‘correttamente’’ fra i con-
cetti di dogmatica (che si occupa del diritto positivo) e di teoria generale (che sarebbe elabo-
razione e sistematizzazione di un ordine concettuale trascendente il dato interpretativo). La
definizione di ‘‘dogmatica’’ che Moccia propone corrisponde a ciò che io definirei ‘‘dogma-
tica del diritto positivo’’; in questo senso è più ristretta, tutta interna all’orizzonte culturale
positivistico.
(6) Da A. ROCCO, Il problema e il metodo della scienze del diritto penale, in Opere
complete, III, 1933, p. 294.
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(7) Cfr. in proposito le puntuali considerazioni di M. DONINI, Teoria del reato, 1996,
p. 13 s.
(8) S. MOCCIA, op. cit., p. 459.
(9) A. CAVALIERE, op. cit., p. 290.
(10) Per restare nel nostro campo, ‘‘operazione non di separazione, ma di distinzione
delle varie parti’’ è l’analisi del reato, ha osservato B. Petrocelli in un importante, forse non
sufficientemente studiato articolo di quattro decenni fa (Riesame degli elementi del reato, in
questa Rivista, 1963, p. 337 s.; la citazione è da p. 341).
(11) L’autonomia del diritto dalla morale non significa opposizione, ma ‘‘possibilità
logica di instaurare una relazione tra diritto e morale’’: BARATTA, Positivismo giuridico e
scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 102. Cfr. anche HART, Il positivismo e la separa-
zione tra diritto e morale, in Contributi all’analisi del diritto, Milano, 1964, p. 107 s.; SCAR-
PELLI, Cos’è il positivismo, cit., in particolare, p. 130 s.
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(12) Accetto perciò l’idea che la ‘‘dogmatica’’ sia ‘‘riserva dei giuristi’’, se intesa
come sinonimo di scienza giuridica; non mi riconosco invece nella tesi (pure a me attribuita
da A. CAVALIERE, loco cit.) che la politica criminale sarebbe dominio del legislatore, se si
pensa ad un dominio esclusivo.
(13) S. MOCCIA, op. cit., p. 456.
(14) Il termine ‘‘dogmatica’’ evoca modelli rigidi, astratti, di deduzione formale da
principi assunti come ‘‘dogmi’’. Così non è, nemmeno per la ‘‘dogmatica’’ di un dato ordina-
mento positivo: né i suoi concetti, né il suo oggetto (le norme di legge) si esauriscono in
‘‘punti fermi e indiscutibili’’. Le leggi vanno interpretate; i concetti e le norme sono soggetti
a mutamento. L’approccio della scienza moderna è giusto il contrario di un modello ‘‘dog-
matico’’. Per questa ragione, mi piacerebbe poter evitare l’uso del termine: lo uso quando
occorra tenere conto dell’uso fattone da altri.
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regole d’uso del linguaggio teorico possono essere poste con definizioni
stipulative, e si sottraggono ad una valutazione in termini di ‘‘verità’’ o
falsità. Problemi di verità si pongono invece per le proposizioni in cui i
concetti ‘‘teorici’’ siano utilizzati (18), vuoi per l’interpretazione di norme
o di ordinamenti positivi (19), vuoi in affermazioni relative al mondo dei
fatti.
Peraltro, anche i concetti ‘‘convenzionali’’ della teoria, per poter pre-
tendere validità culturale o scientifica, debbono giustificarsi di fronte a
criteri razionali di accettazione. Requisito necessario per l’accettabilità
teorica del modello concettuale (la rete dei concetti e le proposizioni ‘‘teo-
riche’’ che la definiscono) è la coerenza logica. Condizione della sua uti-
lità pratica è la capacità di contribuire ad un discorso significativo sull’og-
getto per il quale il modello concettuale viene proposto: un problema non
di verità, ma di orthotes ton onomaton (20), di correttezza o adeguatezza
dei termini del linguaggio rispetto alle esigenze legate al loro uso. Una
correttezza, dunque, ‘‘strumentale’’.
In quanto ‘‘strumenti’’ del lavoro scientifico, i concetti della teoria,
pur restando ‘‘convenzionali’, incorporano un sapere attorno alle que-
stioni cui si riferisce (alla cui stregua va valutata) l’adeguatezza ‘‘strumen-
tale’’ del modello teorico. Sotto questo aspetto, il linguaggio della scienza
giuridica è esso stesso un prodotto, oltre che strumento, di un patrimonio
culturale storicamente formato, fatto di esperienze, riflessioni e tentativi
di soluzione di problemi normativi, in un orizzonte più ampio di quello di
singoli ordinamenti positivi. E più ampio, anche, di quello del diritto, se
vale per il linguaggio quanto è stato osservato circa le parti principali
della teoria generale del reato: non ‘‘scoperte’’ della dottrina, ma affina-
menti di esperienze che si sono rivelate corrette bei der Auseinanderset-
zung uber Konflikte, nell’approccio a comportamenti devianti (21).
Secondo la corrente vulgata ‘‘teleologica’’ (22), i concetti della ‘‘dog-
matica’’ andrebbero ricostruiti in raccordo con gli scopi di tutela del di-
DACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 4a ed. 2001, p. 150; e anche C. FIORE, Diritto
penale, Parte generale, I, 1993, p. 116.
(18) È questo il modello di scienza proposto e divulgato in particolare da K. POPPER,
Congetture e confutazioni, trad. italiana 1972; si veda in particolare il saggio introduttivo su
‘‘Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza’’.
(19) È quindi ovviamente inammissibile e da evitare che una costruzione di concetti
convenzionali, appartenenti al metalinguaggio della dogmatica, precostituisca l’interpreta-
zione di materiali normativi: opportuno, su questo punto, il monito di C. FIORE, Ciò che è
vivo e ciò che è morto nella dottrina finalistica. Il caso italiano, in questa Rivista, 380 ss.
(20) Traggo la terminologia, e anche la sostanza del concetto, dal Cratilo di Platone.
(21) W. NAUCKE, Grundlinien einer rechtsstaatlich - praktischen allgemeinen Strafta-
tlehre, 1979 (la citazione è da p. 21).
(22) È la ben nota lezione di K. ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 1973,
che al di là delle critiche su singoli punti può ritenersi divenuta la base dell’approccio forse
attualmente prevalente ai problemi della sistematica penalistica.
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ritto penale (23) e con funzioni significative sul piano della politica crimi-
nale. Credo opportuno distinguere il teleologismo degli istituti (e dei prin-
cipi) da quello dei concetti. Per principi intendo proposizioni di carattere
normativo, che dicano qualcosa sul dover essere; anche quando si tratta di
principi elaborati in sede ‘‘dogmatica’’ (poniamo, il principio d’offensività
o il principio di colpevolezza) il loro telos ha a che fare con la dimensione
politica. È ai principi che guarda l’esigenza di costruire una dogmatica
consapevole dei nessi con la politica del diritto penale, teleologicamente
orientata, di segno garantista.
Principi normativi possono essere enunciati anche in forma di defini-
zioni di concetti o istituti: per es., definizioni contenutistiche di dolo o di
colpa o di altri presupposti della responsabilità penale. Ma la scienza giu-
ridica fa uso (non può fare a meno) anche di concetti che non incorpo-
rano principi normativi, pur essendo utilizzabili e utilizzati per la loro for-
mulazione; concetti per così dire costruiti dalla scienza come pezzi ele-
mentari del linguaggio giuridico. Il telos di siffatti concetti ‘‘teorici’’ (non
implicanti indicazioni normative) può essere ragionevolmente identificato
per l’appunto nella costruzione di un linguaggio scientifico adeguato,
adatto ad una buona formulazione ed analisi dei problemi di conoscenza e
di elaborazione teorica propri delle scienze penalistiche.
I modelli analitici della teoria del reato debbono servire all’inquadra-
mento e alla discussione dei problemi rilevanti per il diritto penale, e alla
sistemazione concettuale delle soluzioni normative (storicamente date o
teoricamente concepibili; buone o meno buone). Fra modelli concettuali
ugualmente coerenti, potrà essere ragionevolmente preferito in sede scien-
tifica quello che consenta un discorso più chiaro e completo, con il mas-
simo di semplicità compatibile con la complessità della materia.
Anche concetti puramente formali possono essere teleologicamente
adeguati alle finalità del discorso scientifico; tendenzialmente, anzi, più
adeguati di concetti sovraccaricati di contenuti sostanziali, ovvero forgiati
secondo il teleologismo valutativo che caratterizza i principi.
Al più alto livello di astrazione, la regola d’uso dei concetti fonda-
mentali della teoria generale è opportunamente data da definizioni for-
mali. Valga come esempio la definizione di reato come fatto sanzionato
con pena (24): è una proposizione ‘‘analitica’’, una tautologia che non
dice nulla sui caratteri del reato, e che tuttavia consente di utilizzare in
modo non ambiguo il concetto di reato, inteso come puramente formale,
nelle proposizioni relative ai diversi elementi o requisiti del reato (id est
fatto punibile) in questo o quell’ordinamento, od eventualmente in un
tipo ideale di ordinamento.
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(25) Ha scritto POPPER, op. cit., p. 55, che per la conoscenza scientifica ‘‘i problemi
legati al significato o alla definizione delle parole sono privi di importanza’’; problemi di ve-
rità si pongono per le teorie scientifiche, non per le parole. ‘‘Le parole sono importanti sol-
tanto come strumenti per la formulazione delle teorie’’.
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che qualsiasi modello possa andar bene. Un modello teorico opera una se-
lezione e sistemazione delle partizioni ritenute significative. Se trascura
partizioni significative, non è un modello completo. Se dà rilievo a distin-
zioni poco significative, o enfatizza distinzioni meno significative di altre,
scade nel futile, poco funzionale, e forse fuorviante (26).
Tutto questo fa parte dell’idea di scienza giuridica cui ho sempre cer-
cato di orientare il mio lavoro. Ho l’impressione che non sia, a tutt’oggi,
un’idea generalmente condivisa. Sono sempre in agguato, per un verso, la
riduzione positivistica della scienza giuridica a interpretazione e dogma-
tica del diritto positivo, e per altro verso una sorta di platonismo che ipo-
statizza ‘‘verità dogmatiche’’. Il passaggio dalla scolastica metafisica alla
scienza moderna, per la cultura giuridica non è ancora del tutto compiuto.
3. Autonomia reciproca e interrelazioni fra scienza giuridica e pro-
duzione del diritto.
3.1. L’autonomia della scienza giuridica dalla ‘‘sistematica’’ del co-
dice. — Entro l’orizzonte, tecnico e politico insieme, di un impegno scien-
tifico ‘‘nel laboratorio’’ della auspicata riforma, ho inserito la tesi (che a
Moccia non è piaciuta) della reciproca autonomia del legislatore e della
scienza giuridica. La ho intesa come non escludente la possibilità e legitti-
mità di interazioni: autonomia, non separazione. E l’affermazione di au-
tonomia della scienza implica ovviamente l’affermazione di una piena au-
tonomia critica su tutti i punti del lavoro legislativo, nel suo farsi e nei
suoi risultati.
Il discorso sulla autonomia reciproca è stato invece interpretato come
un voler mettere in discussione il diritto della scienza di intervenire nella
fase de lege ferenda, ai fine di sostenere le scelte normative ritenute mi-
gliori e di prevenire eventuali errori del legislatore (27). Tutto al contra-
rio, era mia intenzione, scrivendo l’articolo sul laboratorio della riforma,
continuare un dialogo che ritenevo e ritengo indispensabile, se si vuole ar-
rivare a un disegno di riforma supportato da ragioni valide e capaci di
consenso e ben tradotte anche sul piano tecnico. Quando Moccia scrive
essere ‘‘nella natura delle cose l’interazione tra scienza del diritto e legi-
slazione, pur nel rispetto assoluto dei ruoli’’ (28), addita la medesima esi-
genza che credevo di avere additato, anche sottolineando l’importanza dei
problemi di comunicazione, e l’esigenza di un controllo di idoneità del
(26) La teoria generale del reato può adempiere al suo compito, solo se non viene ca-
ricata di troppe particolarità: W. NAUCKE, op. cit., p. 35.
(27) S. MOCCIA, op. cit., p. 457. A. CAVALIERE, op. cit., p. 297, mi attribuisce un in-
sensato ‘‘invito ad aspettare l’entrata in vigore del codice per poi criticarne le scelte sistema-
tiche, ed eventualmente proporre una propria sistematica’’.
(28) S. MOCCIA, op. cit., p. 460.
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cativo sotto questo aspetto). Più in generale: quando sono in gioco scelte
di contenuti normativi, il giurista può legittimamente aspirare a che le
proprie concezioni di politica del diritto (e, a maggior ragione, di difesa di
principi costituzionali) siano prese in considerazione dal legislatore. Su
questo piano, principi tradizionalmente etichettati come ‘‘dogmatici’’
(come il principio di colpevolezza) svolgono una funzione che è, in tutto e
per tutto, ‘‘politica’’.
Introducendo il tema della autonomia reciproca del legislatore e della
scienza giuridica, non pensavo a questioni di contenuti normativi, sì in-
vece (forse non sono stato abbastanza chiaro) all’apparato concettuale e
alla ‘‘sistematica’’ (delle costruzioni teoriche, o di un codice esistente o in
fieri). Sul versante della scienza giuridica, il mio intento era (è) innanzi
tutto di sottolineare l’autonomia intellettuale anche dal legislatore; auto-
nomia nel linguaggio, nella costruzione di sistemi concettuali, nella posi-
zione di problemi (33). Sotto altro aspetto, parlando di autonomia del le-
gislatore, ho inteso (anche qui, forse, avrei dovuto essere più chiaro)
prendere posizione contro l’idea che la sistematica del legislatore (la ‘‘col-
locazione dei mobili’’ nelle stanze del codice) debba preferenzialmente
coincidere con una particolare sistematica elaborata dalla scienza giuri-
dica per finalità sue proprie (34).
La polemica attorno alla ‘‘collocazione dei mobili’’ è stata ripresa in
diversi interventi della scuola napoletana sul progetto Grosso (35). Ven-
(33) È in questo senso che avevo richiamato (op. cit., p. 16) l’esempio dell’errore sul
precetto, che Moccia ha criticato scrivendo (p. 461) che se il tema fosse stato trattato nella
sede più idonea (cioè nel contesto della disciplina della colpevolezza, e non in quello in cui
lo ha collocato il codice Rocco) ‘‘probabilmente si sarebbe risparmiato tempo ed iniquità’’.
Non mi sembra che la storia del problema dia supporto a tale critica. Com’è noto, il princi-
pio d’irrilevanza dell’error juris è stato recepito nel codice Zanardelli e poi nel codice Rocco,
nei medesimi termini e con collocazione diversa. Nel codice Zanardelli era collocato (art.
44) in apertura della disciplina dell’imputabilità, cioè nel contesto che oggi riteniamo appro-
priato per la disciplina dell’errore di qualsiasi tipo; il profilo di iniquità (punizione anche in
caso di errore incolpevole) non era diverso che sotto la successiva vigenza del codice Rocco,
che, nel recepire il medesimo principio vi ha assegnato una diversa collocazione codicistica e
un più marcato carattere ideologico. Quando poi, pur nella vigenza del codice Rocco, un
nuovo orizzonte costituzionale e culturale ha portato al riesame della questione dell’errore
sul precetto, la collocazione codicistica ‘‘sbagliata’’ di un principio ritenuto non più accetta-
bile non è stata d’ostacolo al superamento del principio, con le difficoltà e nei tempi di un
delicato processo di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Mi sia consentito tornare a
citare, come esempio di una riflessione non subalterna al sistema codicistico, il mio vecchio
libro su L’errore di diritto nella teoria del reato, 1976.
Ai fini della riscrittura di un codice, concordo ovviamente sull’opportunità (per una
migliore ‘‘leggibilità’’ del messaggio) di collocare la disciplina dell’errore sul precetto nel ca-
pitolo della colpevolezza, come è stato fatto nel progetto Grosso.
(34) Sotto altri aspetti, lo stesso legislatore incontra vincoli, sui quali ho cercato di
avviare qualche (non semplice) riflessione: D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 10 s.
(35) A. STILE, in AA.VV., Le riforma della parte generale del codice penale. La posi-
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zione della dottrina sul progetto Grosso, 2003, p. XX s. (Atti del Convegno presso l’ISISC di
Siracusa del 3-5 novembre 2000); A. CAVALIERE, op. cit., p. 252 s.; S. MOCCIA, op. cit., p.
461.
(36) D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 15.
(37) S. MOCCIA, nell’intervento ora pubblicato in La riforma, cit., p. 467.
(38) A. STILE, op. cit., p. XXII.
(39) La avrei preferita anch’io, essenzialmente perché più in linea con una ‘‘estetica
del codice’’ largamente condivisa. Sulle ragioni della diversa scelta ‘‘topografica’’ del pro-
getto Grosso, mi sono espresso in Problemi di riforma della disciplina dell’imputabilità, in
AA.VV., Imputabilità e misure di sicurezza, 2002, p. 216: ‘‘Nel progetto, le disposizioni che
definiscono i casi di non imputabilità e di capacità ridotta sono collocate nella parte relativa
alle sanzioni, a ridosso della disciplina del trattamento conseguente. Ciò consente una pre-
sentazione più compatta della disciplina del trattamento, a costo di allontanare la definizione
della (non) imputabilità dalla disciplina degli altri presupposti del giudizio di colpevolezza.
Scelta discutibile, certo, il cui significato è però limitato, per così dire, all’estetica del codice,
e non ha ovviamente alcuna rilevanza né per i contenuti della disciplina, né per l’elabora-
zione ‘dogmatica’. Dovunque sia collocata nel codice la norma sull’imputabilità, starà alla
scienza giuridica svolgere il suo compito di elaborazione concettuale e sistematica, e rilevare
il nesso fra imputabilità e colpevolezza, così come è stato possibile di fronte al sistema del
codice Rocco, che colloca l’imputabilità nel titolo del reo’’.
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(40) Come esempi di discorso francamente futile attorno alla sistematica del codice,
valuto quelli che rimproverano al progetto Grosso di avere collocato la colpevolezza prima
dell’antigiuridicità (A. CAVALIERE, op. cit., p. 252), non diversamente, peraltro, non solo dal
codice Rocco, ma anche dal progetto Pagliaro, da un codice spesso additato a modello, lo
StGB tedesco, e da altri che al modello si sono ispirati, come il codice portoghese; oppure
l’asserito ‘‘errore sistematico’’ di avere anteposto la disciplina dell’errore sulla legge penale a
quella dell’errore sul fatto o sulle scriminanti. Discorsi del genere possono tutt’al più riguar-
dare l’estetica del codice, ma sono certamente privi di qualsiasi rilevanza sul piano ermeneu-
tico, ed anche su quello sistematico, se per sistematica intendiamo le relazioni logiche e nor-
mative fra gli istituti, e non la mera sequenza delle norme di un testo legislativo.
(41) G. MARINUCCI, Il reato come azione, p. 132, adesivamente citato da C. FIORE,
Ciò che è vivo, cit., 389.
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scorso dei miei interlocutori mi par di cogliere una concezione che asse-
gna significati più stringenti (‘‘ontologici’’?) alle categorie ‘‘dogmati-
che’’ (42), e ritiene opportuno che il legislatore recepisca la sistematica
‘‘scientificamente corretta’’. In questo senso ho inteso l’affermazione che
sarebbe opportuno, in sede di riforma, ‘‘prendere in considerazione l’idea
che dolo e colpa costituiscono elementi essenziali della tipicità’’, e che ciò
sarebbe una scelta non solo ‘‘dogmaticamente più sofisticata’’, bensì ‘‘una
precisa opzione conforme alla natura delle cose ed orientata nel senso
delle garanzie individuali’’ (43).
Delle costruzioni dogmatiche che pretendano di avere una validità
‘‘ontologica’’, questa tesi è un esempio particolarmente significativo sul
piano storico e su quello teorico, per il suo radicamento nella teoria finali-
stica. La ripulsa dell’ontologismo della teoria finalistica non necessaria-
mente significa ripulsa delle asserite implicazioni, ma reinterpreta il di-
scorso relativo alla ‘‘collocazione dogmatica’’ di dolo e colpa come costru-
zione di un modello teorico. La possibilità di costruire concettualmente il
modello dei finalisti in modo coerente, sulla base di appropriate defini-
zioni stipulative, lo mette al riparo da ogni possibilità di falsificazione, al-
l’interno del gioco linguistico di cui fa parte, e al stesso tempo lo rende
estraneo ad un giuoco linguistico diverso (poniamo, quello della teoria tri-
partita classica).
Nel riportare il dolo e la colpa entro il capitolo del ‘‘fatto tipico’’, la
teoria finalistica pone in rilievo aspetti di grande interesse. Dietro le for-
mule, è dato cogliere concreti apporti di conoscenza. Tutti i punti in cui si
articola il contenuto essenziale della teoria rivisitata (44) possono essere
condivisi, salvo che nella pretesa che non sia proponibile (o non sia utile)
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un concetto di fatto tipico che non comprenda fin dal principio (45) l’ele-
mento psicologico della condotta incriminata.
La pretesa ontologica, che attraversa tutte le versioni della teoria fi-
nalistica, non riesco a interpretarla se non come negazione della rilevanza
(teorica? normativa?) di distinzioni analitiche logicamente possibili.
Certo, la mera possibilità logica di una distinzione non basta ad attribuirvi
un interesse conoscitivo; vi possono essere distinzioni futili, o scarsa-
mente significative. La classica partizione analitica fra il fatto ‘‘materiale’’,
da un lato, e dolo o colpa dall’altro, è una distinzione non conforme alla
natura delle cose, o comunque futile? Certamente no. È una distinzione
logicamente possibile, nel senso che è possibile distinguere, nel fatto del-
l’uomo, un aspetto ‘‘materiale’’ dal quale dipende l’incidenza del fatto nel
mondo reale (in termini, poniamo, di offesa o messa in pericolo di un dato
bene o interesse) e ulteriori aspetti che, a parità di incidenza materiale, as-
sumono rilievo per il significato sociale del fatto stesso e in definitiva per
la questione del ‘‘rimprovero’’ del fatto a un dato soggetto.
La partizione analitica fra i presupposti obiettivi dell’offesa e i pre-
supposti del rimprovero è una distinzione tendenzialmente irrinunciabile
per una analisi ordinata e completa dei problemi della teoria del reato.
Anche i finalisti la fanno, dentro la casella del fatto tipico (46). E la fanno
gli ordinamenti giuridici positivi, che, quando dettano norme su dolo e
colpa, lo fanno nella ‘‘parte generale’’ del codice, separatamente dalle
norme incriminatrici che descrivono i diversi tipi di reato.
Sgombrato il campo dalla pregiudiziale ‘‘ontologica’’, l’alternativa dei
finalisti è solo un diverso ‘‘gioco linguistico’’, che può aiutare ad illumi-
nare alcuni aspetti della struttura del reato, pagando un prezzo: scosta-
mento da modelli consolidati, rischio di appannamento della dimensione
oggettiva dell’offesa tipica, e rischio di rendere meno nitida la peculiare ri-
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levanza del dolo e della colpa quali presupposti non dell’offesa, bensì del
rimprovero personale. Rispetto alle esigenze di comunicazione, nel mondo
dei giuristi teorici e soprattutto degli operatori del diritto, il modello clas-
sico può essere ragionevolmente ritenuto più funzionale, in quanto pone
in più netto rilievo, in modo lineare, distinzioni fondamentali per il pro-
blema penale e per gli istituti di diritto positivo.
D’altra parte, proprio l’approccio convenzionalistico e strumentale
apre la strada alla possibile accettazione di qualsiasi sistema concettuale
che sia logicamente coerente, e allo stesso tempo considera ‘‘discutibile’’
qualsiasi sistema, alla luce di criteri e di esigenze diversi dalla verità (op-
portunità, chiarezza, e simili). Riconosce dunque piena legittimità alla si-
stematica preferita dai finalisti a proposito della collocazione (nella teoria
e nel codice) di dolo, colpa, imputabilità; e può anche lasciare aperto il
problema, se non vi siano ragioni per preferire (in taluni contesti) quella
collocazione. Viene invece negata la pregiudiziale ‘‘ontologica’’, cioè la
pretesa che esista un’unica sistematica ‘‘vera’’, ugualmente vincolante per
la teoria e per il legislatore (47). La ragion sistematica può esprimersi in
forme diverse; e le ragioni della struttura concettuale della teoria possono
non coincidere con le ragioni della sistematica di un codice.
Quanto alla giusta preoccupazione per le garanzie, la ricerca di una
‘‘dogmatica garantista’’, che attraversa l’appassionato studio di G.V. De
Francesco, ha lucidamente messo in luce (48) il problema sostanziale:
contrastare ‘‘i maggiori varchi nell’apparato delle garanzie sostanziali’’,
che ‘‘appartengono alla sfera dell’imputazione soggettiva’’. Da ciò l’esi-
genza di orientare i criteri dell’imputazione soggettiva ‘‘verso una più sta-
bile e marcata formalizzazione empirico-descrittiva’’: un obiettivo che
l’autore citato non crede possa essere ‘‘efficacemente perseguito all’in-
terno della colpevolezza’’. Come però ricorda anche un attento difensore
della teoria finalistica, costruzioni puramente concettuali non possono
servire a precostituire l’interpretazione del materiale normativo (49). Le
categorie dommatiche hanno a che fare con l’involucro ideologico (50), la
sostanza normativa sta tutta nella ‘‘stabile e marcata formalizzazione em-
pirico-descrittiva’’ dei criteri dell’imputazione soggettiva. Dal punto di vi-
sta teorico, una tale formalizzazione è perfettamente coerente con il mo-
dello analitico tradizionale, non meno che con il modello della teoria fina-
listica.
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Non solo sul piano teorico, ma anche per quanto riguarda la possibi-
lità di mordere sui principi, difendendo le garanzie, l’ontologismo dei con-
cetti è una tigre di carta (51). Il problema delle garanzie è problema di
principi normativi, e, in misura praticamente determinante, di cultura de-
gli operatori. È un obiettivo che può e deve essere perseguito, dal legisla-
tore e dagli interpreti della legge, quali che siano i modelli concettuali uti-
lizzati.
3.3. La dogmatica nel codice e i problemi ermeneutici. — Ancora a
proposito dei rapporti fra teoria giuridica e ‘‘dogmatica del codice’’, nelle
discussioni attorno al progetto Grosso è stato fatto un elenco di concetti,
usati nel progetto ma non nel codice vigente, di chiara matrice dogmatica:
pericolo concreto, posizioni di garanzia, colpevolezza, esimenti; potrei ag-
giungere altri, come prevenzione speciale. L’aspirazione ad una ‘‘legge-
rezza dommatica’’ del progetto sarebbe smentita dalla sua concreta artico-
lazione (52).
Potrei commentare che l’uso di un linguaggio di matrice ‘‘dogmatica’’
non è incompatibile con l’aspirazione ad una ‘‘struttura dogmatica’’ soft,
là dove, come nella maggior parte dei casi sopra richiamati, il concetto
tecnico è introdotto come mera denominazione di un istituto, con un lin-
guaggio già entrato nell’uso dottrinale, in un significato puramente for-
male. Un esempio: il concetto di posizione di garanzia è introdotto sempli-
cemente per designare i presupposti della responsabilità commissiva me-
diante omissione, la disciplina concreta sta nella tipizzazione delle singole
posizioni di garanzia. Chi non sia abituato al linguaggio della dottrina po-
trebbe sentirsi, in prima battuta, un po’ spaesato, ma, una volta compreso
il significato formale o classificatorio del concetto di posizione di garan-
zia, sarà in grado di maneggiarlo senza alcuna complicazione esegetica o
‘‘dogmatica’’, mentre problemi (e non pochi) prevedibilmente sorgereb-
bero in relazione alla disciplina delle posizioni di garanzia tipizzate. Con-
siderazioni analoghe valgono anche per formule dogmatiche (per es., peri-
colo concreto) sui cui contenuti v’è discussione, che nel progetto sono
state collegate a statuizioni normative determinate: è la statuizione nor-
mativa, e non il concetto dogmatico, che rappresenta il contenuto reale
del progetto, e che sollecita una valutazione da un punto di vista di poli-
tica del diritto, già nella fase di elaborazione di uno sperato codice fu-
turo (53).
(51) Anche qui riprendo una felice metafora di C. FIORE, op. cit.
(52) In questo senso A. CAVALIERE, op. cit., p. 292. L’introduzione di concetti dom-
matici è stata considerata un pregio, e non un difetto, ‘‘nella misura in cui tali concetti risul-
tino funzionali ad esigenze politico-criminali, in particolare di chiarezza sistematica’’: ivi, p.
293.
(53) Vi sono peraltro anche casi in cui il concetto di matrice dogmatica incorpora il
contenuto essenziale della disciplina, e funziona quindi come principio normativo: è il caso,
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per es., della prevenzione speciale come criterio finalistico della scelta e della commisura-
zione delle sanzioni. Dal punto di vista dell’interprete, sarebbero questi i casi ‘‘difficili’’. Sul
riferimento alla prevenzione speciale, cfr. gli importanti rilievi di S. MOCCIA, in La riforma,
cit., p. 473 s.
(54) La formula è di A. CAVALIERE, op. cit., p. 292.
(55) A. CAVALIERE, op. cit., p. 257.
(56) D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 18.
(57) Rileggiamo ancora B. PETROCELLI, op. cit., p. 340: ‘‘Di fronte alle esasperazioni
di certa dottrina l’esperienza ci presenta il normale, e, staremmo per dire, indifferente fluire
della vita pratica del diritto; il quale subisce, e deve indubbiamente subire, nel corso del
tempo, scosse più o meno profonde, ma per virtù di ben altre cause che non il tambureggiare
di effimeri acquazzoni dommatici’’.
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(60) A. ALESSANDRI, False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, in
AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di A. ALESSANDRI, 2002, p. 186 s.; C.
SANTORIELLO, Il nuovo diritto penale delle società, 2003, p. 34 s., e ivi ulteriori indicazioni.
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(61) D. PULITANÒ, La riforma del diritto penale societario, fra dictum del legislatore e
ragioni del diritto, in questa Rivista, 2002, p. 934 s.; ID., False comunicazioni sociali, in
AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 141 s.
(62) Le diversità nella soluzione di taluni problemi esegetici, che pure emergono nei
citati lavori miei e di Alessandri (a proposito, per es., delle soglie quantitative), non sono in
relazione necessaria con le diversità di inquadramento concettuale.
(63) A. ALESSANDRI, op. cit., p. 188.
(64) Per questa impostazione cfr. W. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbre-
chens, Frankfurt/M., 1973, p. 19 s.
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Non solo nella storia delle teorie del bene giuridico, ma anche nel
concreto argomentare della scienza giuridica, si intrecciano entrambi gli
approcci (dal problema di tutela alle soluzioni normative, o viceversa
dalle soluzioni al bene giuridico) e vengono fatti giocare concetti diversi,
in un vario combinarsi della funzione intrasistematica e di funzioni ‘‘criti-
che’’ in qualche misura trascendenti il sistema. Termini identici vengono,
in concreto, adoperati con accezioni differenti, e su di essi vengono co-
struite ‘‘teorie dei beni giuridici’’ che parlano di cose diverse. Dietro appa-
renti contrapposizioni, spesso vi sono differenti linguaggi e modelli con-
cettuali.
2. Davvero superata la concezione ‘‘metodologica’’ del bene giuri-
dico? — Com’è noto, teorie concernenti gli oggetti di tutela penale na-
scono nel clima della filosofia giuridica dell’illuminismo liberale, come
teorie critiche volte a restringere l’area di legittima utilizzazione del diritto
penale (reato come violazione di diritti soggettivi) (65). L’idea del reato
come offesa ad un ‘‘bene’’ (66), nata come alternativa a tale concezione,
si è sviluppata in una storia, ampiamente esplorata, nella quale si intrec-
ciano dimensione critica e dimensione intrasistematica, in varie combina-
zioni.
La dimensione ‘‘critica’’ resta presente, nel pensiero penalistico del
secolo XIX, nel lavoro di giuristi impegnati per la riforma del sistema pe-
nale. Particolarmente significativa l’opera di v. Liszt, il quale mantiene e
sviluppa l’idea che il contenuto materiale (antisociale) dell’illecito ‘‘è indi-
pendente dalla sua corretta valutazione da parte del legislatore (è ‘meta-
giuridico’). La norma giuridica lo trova, non lo crea’’ (67). L’attenzione
agli interessi in gioco nel diritto penale resta (come nella filosofia dell’illu-
minismo) elemento portante di un programma di rinnovamento della teo-
ria e della prassi penalistica.
Concezioni rigidamente intrasistematiche si affermano nel clima del
positivismo giuridico fra ’800 e ’900. ‘‘Bene giuridico’’ può essere ‘‘tutto
ciò alla cui conservazione il diritto positivo ha interesse, secondo il suo
punto di vista’’, e che perciò il diritto, con le sue norme, cerca di difen-
dere da indesiderate offese e messe in pericolo (68). È la posizione della
norma che fa di qualcosa un ‘‘bene giuridico’’. Tutta interna a questo oriz-
(65) In questa sede vengono richiamati solo alcuni passaggi di una storia piuttosto
complessa. Per un quadro approfondito sulla storia delle teorie del bene giuridico, cfr. K.
AMELUNG, Rechtsguterschutz und Schutz der Gesellaschaft, 1972; W. HASSEMER, op. cit.
Sulla concezione illuministica, puntuali riferimenti in E. DOLCINI e G. MARINUCCI, Corso di
diritto penale, 2001, p. 432 s.
(66) Com’è noto, la paternità del concetto viene fatta risalire al giurista tedesco
Birnbaum, in un articolo pubblicato nel 1834 in Archiv des Criminalrechts.
(67) F.V. LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, ed. 1927, p. 174.
(68) K. BINDING, Die Normen und ihre Ubertretung, 1872, p. 193.
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(69) Arturo ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, 1910, in
Opere complete, III, 1933.
(70) R. HONIG, Die Einwilligung des Verletzten, 1919, p. 94.
(71) È d’obbligo il riferimento a F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig.
it., 1974, p. 7 s., nel cui solco si è mossa la dottrina successiva. Nella manualistica recente,
v. per tutti DOLCINI-MARINUCCI, Corso di diritto penale, 2001; FIANDACA-MUSCO, Diritto pe-
nale, Parte generale, 2001, p. 4 s.
(72) Lo ha rilevato, in chiave critica, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte
speciale, I, 14a ed., 2002, p. 18.
(73) G.D. PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, 1948.
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(74) All’oggetto sostanziale specifico del reato — che, ‘‘diverso da reato a reato’’,
‘‘esprime la funzione della singola norma incriminatrice’’ — è ancora dedicato un breve pa-
ragrafo in un importante manuale (A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, 7a ed., 2000, p.
222). La terminologia è ancora usata, per es., da A. ALESSANDRI, op. cit., p. 23. Il modulo ar-
gomentativo mi sembra emerga in giurisprudenza, per es., in Cass., Sez. Un., 26 giugno
2002, in Cass. pen., 2002, p. 3372, dove, a proposito della distinzione fra reato circostan-
ziato e titolo autonomo di reato, leggiamo che ‘‘per individuare l’interesse tutelato dalla fat-
tispecie penale [...] è necessario prima esaminare la struttura della stessa fattispecie, distin-
guendo i suoi elementi essenziali da quelli accidentali; sicché si potrà registrare un muta-
mento del bene tutelato solo quando e perché è stato accertato un mutamento degli essentia-
lia delicti’’ (Sez. Un., cit., p. 3374 s.).
(75) B. SCHÜNEMANN, Methodologische Prolegomena zur Rechtsfindung im besonde-
ren Teil des Strafrechts, in Fest. Bockelmann, 1979, p. 131.
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(80) Persino dietro le leggi repressive più infami — poniamo, le c.d. leggi razziali, o
le norme poste a tutela autoritaria di un regime politico — è dato ravvisare gli ‘‘interessi’’
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tende apprestare tutela (e quindi che gli oggetti di tutela non dipendono
dalle opzioni legislative di tutela) (81) ha un contenuto ‘‘critico’’ rispetto
a dogmi e opinioni di un positivismo giuridico ingenuo, e non è senza con-
seguenze sul modo di impostare i problemi, anche di interpretazione del
diritto positivo, relativi ai ‘‘beni giuridici’’. Un discorso coerente su ‘‘beni
giuridici’’ non può non tenere conto della distinzione concettuale e nor-
mativa fra l’oggetto della tutela e la valutazione giuridica di tale oggetto.
Deve saper parlare dell’oggetto della tutela quale ‘‘interesse di fatto’’, in-
dipendente dalla sua tutela legale, e saper esaminare sul piano fattuale se
e come avvenga l’incontro (eventuale) fra il problema di tutela e le scelte
del diritto positivo.
L’interprete del diritto positivo, per cogliere la sostanza delle dire-
zioni offensive dei reati tipizzati, potrà trovare un utile, spesso decisivo
punto di riferimento nelle classificazioni o etichette che esprimono l’ideo-
logia del legislatore; ma potrà anche trovarsi nella necessità di guardare
oltre le etichette. L’interesse offeso da un dato tipo di fatto dipende dal
contenuto della fattispecie; la classificazione legislativa (l’etichetta ideolo-
gica) può essere un dato rilevante sul piano ermeneutico, ma ciò che è in
ultima analisi decisivo è l’impatto del reato, così come tipizzato dal legi-
slatore, su questo o quest’altro interesse.
Classificazioni puramente ideologiche sono non rare nel codice
Rocco, né estranee alla prassi legislativa recente. L’intreccio e, insieme, la
distinzione fra le classificazioni formali del legislatore e la concreta dire-
zione lesiva può essere colto in modo esemplare nella riforma dei delitti
sessuali, di cui alla l. n. 66 del 1996. La traslazione e rietichettatura di
quei delitti, nel capo dei delitti contro la persona, ha rappresentato la cifra
ideologica di una riforma che, in sede politica e nella comunicazione me-
diatica, è stata presentata come superamento di una morale sessuale ar-
caica, e come affermazione che è in gioco la tutela della persona, non di
una astratta moralità pubblica. Sul piano della retorica della comunica-
zione, l’operazione ha avuto successo: un forte impatto simbolico. Sul
piano della coerenza concettuale, sono stati oggetto di rilievi critici la ri-
nuncia a un esplicito riferimento alla libertà sessuale, e un accostamento
non felice a reati di natura molto diversa (82). Quanto ai contenuti nor-
mativi, la ricollocazione delle fattispecie è del tutto neutra: i contenuti
che il legislatore ha inteso tutelare; interessi che, per quanto inaccettabili, la scienza ha il
compito di rilevare, anche come premessa per le successive valutazioni critiche.
(81) Conforme, con un’argomentazione incentrata sul vincolo alla Costituzione, BRI-
COLA, voce Teoria generale, cit., p. 17. Nella letteratura manualistica, sottolinea che la
‘‘preesistenza ontologica’’ del bene rispetto alla norma è presupposto della funzione critico-
garantista F. MANTOVANI, Diritto penale, 2001, p. 209.
(82) T. PADOVANI, in Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della
legge contro la pedofilia, a cura di A. CADOPPI, 1999, p. 21.
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delle vecchie e delle nuove fattispecie ci dicono che si tratta di delitti con-
tro la persona, sia prima che dopo la riforma: il riferimento alla moralità
pubblica, opportunamente eliminato, era già da tempo un mero residuo
verbale dell’ideologia del legislatore del 1930, privo di qualsiasi ragione-
vole significato per l’interpretazione ed applicazione delle vecchie norme;
la libertà sessuale, ieri (e non più oggi) evocata in una autonoma parti-
zione codicistica, è sempre l’interesse della persona (il profilo di libertà
personale) specificamente tutelato.
Prendendo spunto dalla trasmigrazione dei delitti sessuali da un titolo
all’altro del codice, un acuto commentatore ha osservato che ‘‘come l’eti-
chetta non cambia il contenuto del vaso, così il contenuto offensivo di una
fattispecie non può essere determinato da questa o quella collocazione to-
pografica, se ad essa non corrisponde poi un assetto teleologico effettiva-
mente corrispondente alla classificazione’’ (83). Pochi anni prima lo
stesso autore aveva scritto, in una introduzione alla parte speciale, che ‘‘la
tecnica di organizzazione della parte speciale... è un medium che si identi-
fica fatalmente con il messaggio, nel senso che l’organizzazione delle fatti-
specie risulta sempre, di per sé, espressiva di un contenuto destinato a ri-
percuotersi sugli specifici contenuti delle singole disposizioni’’ (84). L’e-
sperienza concreta della riforma dei delitti sessuali, nel confermare la
forza dei messaggi simbolici, ha evidenziato come il rapporto fra organiz-
zazione formale e contenuti normativi possa essere molto meno univoco
di quanto non dicano il ‘‘fatalmente’’ e il ‘‘sempre’’ della frase citata. Per
cogliere quel rapporto in modo realistico, e non ideologico, serve un
punto di vista esterno alle classificazioni legislative.
Certo, la classificazione legislativa è un dato che il giurista interprete
non può espungere dalla sua riflessione. In alcuni casi, la classificazione
legislativa ha un autonomo rilievo formale, come premessa della applica-
zione di disposizioni comuni a un dato gruppo di reati. In ogni caso si
pone il problema della rilevanza a fini esegetici, posto che la classifica-
zione legislativa dovrebbe essere un elemento di ricostruzione della vo-
lontà del legislatore; interpretazioni che vadano oltre la tutela del bene ad-
ditato dal legislatore dovrebbero essere scartate, nell’ottica di una nor-
male interpretazione teleologica. Ma non sempre il telos delle concrete
scelte normative è adeguatamente espresso nelle etichette o partizioni co-
dicistiche; l’interpretazione razionale può legittimamente fare perno su al-
tre e più sostanziali ragioni.
Dal punto di vista della teoria dell’interpretazione, abbiamo qui un
buon esempio della possibilità di distinguere nel messaggio legislativo gli
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aspetti rilevanti sul piano ermeneutico, da altri che tale rilevanza non ab-
biano.
In sede di riflessione sull’apparato concettuale della scienza giuridica,
il punto da mettere in rilievo è che, se gli interessi che possono costituire
un problema di tutela sono indipendenti dalle scelte del legislatore, anche
la scienza giuridica, nel rilevare e discutere ‘‘interessi’’, è indipendente dal
legislatore. Il vincolo alla legge concerne il contenuto normativo delle
scelte di tutela, e soltanto esso. Nella ricognizione di dati di fatto, come
gli interessi in gioco in situazioni tipizzate o tipizzabili dalla legge, la
scienza giuridica non è soggetta a vincoli normativi, sì invece a vincoli di
realtà. Sotto questo profilo, ha la medesima autonomia intellettuale e i
medesimi vincoli di qualsiasi impresa conoscitiva che aspiri alla dignità di
scienza.
4. Il discorso sui beni giuridici: quali interessi di conoscenza? — In
tutti gli studi sulla parte speciale cui ho avuto occasione di dedicarmi nel
recente periodo mi è parso che un approccio ‘‘a partire dai problemi di tu-
tela’’ apra la strada ad un esame più completo della materia, e ad un di-
scorso più interessante sotto il profilo della acquisizione di conoscenze (in
un senso che cercherò di precisare) rispetto al discorso che pure può es-
sere svolto partendo dalle soluzioni legislative di un dato momento.
Un discorso ‘‘a partire dalle soluzioni normative’’ nasce entro un
orizzonte più ristretto, centrato sulla soluzione che il legislatore abbia im-
posto. Tende a ridurre il bene giuridico a riflesso speculare della struttura
delle singole fattispecie, nell’ottica della concezione ‘‘metodologica’’. Le
proposizioni in cui articola le sue conclusioni offrono un contributo di ca-
rattere esegetico (85); ci informano sulle scelte contenutistiche del legisla-
tore, in un linguaggio tendenzialmente coerente con l’ideologia del legisla-
tore. Può non esser poco, ma non esaurisce l’apporto di conoscenze che la
scienza giuridica può dare attorno ai problermi di tutela che il legislatore
abbia (bene o meno bene) risolto in uno fra diversi modi possibili.
Partendo dai problemi, è possibile formulare un maggior arco di do-
mande, e formularle in modo più aperto, sollecitando risposte di conte-
nuto informativo maggiore. Le soluzioni legislative vengono messe in rap-
porto con interessi o beni giuridici, la cui sostanza ‘‘fattuale’’ è (e viene ri-
conosciuta) preesistente e condizionante rispetto alle soluzioni possibili.
Le proposizioni in cui il discorso sui e dai problemi articola le sue conclu-
sioni, non si esauriscono in contributi esegetici, ma offrono inoltre contri-
buti conoscitivi che, assumendo il diritto posto come oggetto di cono-
scenza in un contesto più ampio, ci dicono non semplicemente qualcosa
sul sistema normativo dato, ma anche qualcosa sui rapporti fra il sistema
(85) Anche su questo piano, è un contributo incompleto, che non esaurisce il di-
scorso sul sistema entro cui inquadrare le singole scelte normative.
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patrimoniali di tutti coloro che, pur facendo parte del pubblico dei desti-
natari della comunicazione sociale, non rientrino nelle categorie dei soci o
dei creditori, sia soprattutto condizionando ad un evento di danno, diffi-
cilmente afferrabile, una tutela che nel diritto previgente era anticipata
alla lesione della trasparenza informativa: un interesse che ieri era tutelato
a tutto campo, quale interesse strumentale (anche) agli interessi patrimo-
niali in gioco nel traffico giuridico di e con soggetti aventi forma societa-
ria, ed oggi trova un moncherino di tutela autonoma in figure contravven-
zionali fortemente ristrette.
L’affermazione che, nel sistema previgente, non veniva riconosciuto
‘‘alcuno spazio alla considerazione dei beni finali come rilevanti all’in-
terno della fattispecie’’ (86), è senz’altro una proposizione ‘‘vera’’, entro
un discorso di tipo esegetico. Ma non può valere come obiezione contro
un discorso che intenda approfondire il problema dei nessi obiettivi, e an-
che teleologici, fra il problema dell’informazione societaria e la tutela di
interessi patrimoniali.
Parlando di rilevanza di interessi ‘‘finali’’ di tipo patrimoniale, sullo
sfondo del sistema di tutela dell’informazione societaria, non ho inteso
dire che quegli interessi fosero formalmente ‘‘rilevanti all’interno della fat-
tispecie’’ del vecchio art. 2621 (o lo siano nel nuovo), ma che il senso
obiettivo (e, credo, anche nelle intenzioni di un legislatore ragionevole) di
una tutela dell’informazione societaria è (anche, non soltanto) strumen-
tale ad interessi patrimoniali del pubblico dei destinatari dell’informa-
zione. Su questa premessa, che mi pare difficilmente contestabile sul
piano fattuale della individuazione dei problemi di tutela, è corretto non
solo dire che la tutela di interessi patrimoniali, apprestata dal nuovo di-
ritto penale societario, non concerne interessi ‘‘nuovi’’ rispetto alla disci-
plina previgente (87), ma anche che essa è divenuta molto più ristretta di
quella apprestata (in modo indiretto ma più efficacemente ‘‘anticipato’’)
dal vecchio sistema costruito sulla tutela a tutto campo della trasparenza
informativa. Gli interessi patrimoniali, che ad una lettura interna e forma-
listica delle nuove norme potrebbero dirsi di nuova emersione (e tali li di-
rebbe una concezione ‘‘metodologica’’ del bene giuridico), ad una lettura
‘‘a partire dai problemi di tutela’’ appaiono meno tutelati (88).
Condivido dunque (e credo che i miei scritti lo mostrino chiara-
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mente) il giudizio di chi vede nella riforma penale societaria una ‘‘rottura
profonda con i precedenti indirizzi politico-criminali in materia di infor-
mazione societaria’’ (89). Ritengo che anche questo giudizio possa trovare
una migliore espressione entro un discorso attento a mettere a fuoco le
connessioni (sia di continuità che di discontinuità) fra le risposte legisla-
tive vecchie e nuove, e gli interessi obiettivamente in gioco nel diritto so-
cietario. È proprio la continuità del campo d’interessi in gioco a far risal-
tare la profonda discontinuità (fino alla ‘‘rottura’’) nei modi di tutela (90).
Seguendo la logica interna dell’approccio ‘‘a partire dai problemi’’,
siamo arrivati a parlare di campi o di reti d’interessi, e ad attribuire un ri-
lievo centrale ai nessi fra beni strumentali e finali. Questo punto è stato
chiaramente colto da Alessandri, il quale commenta che l’impostazione in
esame, ‘‘condotta alle estreme conseguenze, potrebbe portare un colpo
non piccolo all’accettazione, già controversa, di beni intermedi o strumen-
tali: tutto sarebbe trasferito ai modi con i quali apprestare tutela ai beni
finali’’ (91).
Questa osservazione coglie un problema normativo di grande impor-
tanza: fin dove si può spingere legittimamente il diritto penale, nell’antici-
pare la tutela in nome di interessi strumentali? La questione rinvia al pro-
filo costituzionale della teoria del bene giuridico, e non rientra nell’og-
getto di questo articolo. In una riflessione sui concetti della teoria giuri-
dica, mi sembra importante distinguere il problema di conoscenza ‘‘scien-
tifica’’ dell’assetto complessivo d’interessi, cui il diritto penale è o po-
trebbe essere collegato, dal problema normativo, quale sia la rilevanza at-
tribuibile ad interessi strumentali. L’analisi dei problemi — e dei sistemi
normativi di possibile soluzione — ha il compito di cogliere le reti d’inte-
ressi in gioco, nella loro realtà indipendente e condizionante rispetto all’e-
ventuale intervento penale: la scienza ha innanzi tutto (in ordine logico) il
compito di cogliere gli eventuali nessi strumentali, ed anche (è un profilo
spesso trascurato) eventuali rapporti di tensione con ‘‘controinteres-
tutela, affermo qualcosa che ha una pretesa di verità (e si sottopone quindi al vaglio di una
possibile falsificazione), dentro l’orizzonte in cui valgono criteri di controllo obiettivo, scien-
tifico. Fuori di quell’orizzonte (ma non del campo d’interessi del giurista) stanno invece le
ulteriori questioni di valore, e non più di verità wertfrei, concernenti il giudizio politico sulle
soluzioni apprestate dall’ordinamento.
(89) L. FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in AA.VV., I
nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. GIARDA e S. SEMINARA, 2002, p. 317.
(90) Anche per questo, ritengo frutto d’un equivoco l’aver letto una ‘‘rassicurante
immagine’’ (così L. FOFFANI, loco ult. cit.) nella mia sottolineatura di una ‘‘fondamentale
continuità di disciplina delle false comunicazioni sociali’’ in studi dedicati ai problemi di di-
ritto intertemporale. Sul significato, anche esegetico, della tesi della continuità, e sulle sue
implicazioni anche di legittimità costituzionale, rinvio a D. PULITANÒ, Legalità discontinua?,
in questa Rivista, 2002, p. 1270 s.
(91) A. ALESSANDRI, loco ult. cit.
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si’’ (92). Dopo di che sarà possibile discutere razionalmente, alla luce dei
pertinenti criteri, il problema normativo dell’ambito e dei limiti di legitti-
mità di un eventuale intervento penale sulla rete d’interessi in gioco (93).
DOMENICO PULITANÒ
(92) Anche su questo punto, concordo con una chiara indicazione di SCHUNEMANN,
op. cit., p. 129: la prospettiva teleologica non può essere ridotta alla sola considerazione
della tutela dei beni giuridici, ma esige una elaborazione sistematica anche degli Strafein-
schränkungsinteressen.
(93) In questa sede mi limito a notare che risponde ad un’ottica garantista il valutare
la ‘‘anticipazione’’ con riferimento all’interesse che costituisce l’oggetto ultimo, e quindi
possa essere identificato come reale fondamento della tutela: rispetto a quell’interesse, è
‘‘anticipato’’ l’intervento penale che prescinda dalla sua concreta lesione, attestandosi su un
momento (ritenuto) prodromico. Proprio chi difenda la possibile legittimità ed opportunità
di tecniche di anticipazione della tutela, deve preoccuparsi del rischio che, dando nome e
parvenza di autonomia ad ‘‘interessi strumentali’’ quali che siano, venga oscurato il dato so-
stanziale dell’allargamento dell’area d’intervento penale, con i problemi a ciò connessi. La
costruibilità concettuale di interessi ‘‘strumentali’’ può invece essere utile se e in quanto
valga a mettere in luce la complessa struttura dei sistemi di tutela in discussione, le loro ra-
gioni e le eventuali controindicazioni.
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SUSSIDIARIETÀ PENALE
E SUSSIDIARIETÀ COMUNITARIA (*)
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312 ss., 347 s.; VOGEL, Estado y tendencias de la armonización del Derecho penal material
en la Unión Europea, in Revista penal, 2002, p. 128. In un più ampio contesto di globalizza-
zione, v. anche il saggio di SILVA SÁNCHEZ, La expansión del Derecho penal. Aspectos de la
política criminal en las sociedades postindustriales, Civitas, Madrid, 1999.
(2) Sul tema rinvio da ultimo agli atti del Convegno, ‘‘Il diritto penale nella prospet-
tiva europea - Quali politiche criminali per quale Europa?’’ (Bologna, 28 febbraio 2 marzo
2002), in corso di pubblicazione. In precedenza, oltre le pregevoli e anticipatorie riflessioni
dottrinali contenute, per es., nelle raccolte di saggi a cura di DELMAS-MARTY (ed.), What
Kind of Criminal Policy for Europe?, Kluwer Law International, The Hague-London-Boston,
1996; ID. (dir.), Quelle politique pénale pour l’Europe?, Economica, Paris, 1993; in SIEBER
(Hrsg.), Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, C. Heymanns, Köln-Berlin-
Bonn-München, 1993, e in GRASSO, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica crimi-
nale degli Stati membri: nascita di una ‘‘politica criminale europea’’?, in Indice pen., 1993,
p. 65 ss., ricordo che la realtà travolgente delle iniziative europee, dopo Schengen e Maastri-
cht (cfr. LABAYLE, L’application du titre VI du Traité sur l’Union européenne et la matière
pénale, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1995, p. 35 ss. e più in generale i vari contributi rac-
colti nello stesso numero della rivista; SICURELLA, Il titolo VI del Trattato di Maastricht e il
diritto penale, in questa Rivista, 1997, p. 1307 ss.), e quindi dopo Amsterdam, Tampere,
Nizza, in tema di Europol, Eurojust e Pubblico Ministero europeo (cfr. SALAZAR, L’Unione
europea e la lotta alla criminalità organizzata da Maastricht ad Amsterdam, in Doc. giust.,
1999, p. 391 ss.; CALVANESE-DE AMICIS, Le nuove frontiere della cooperazione giudiziaria
penale nell’Unione europea, ibidem, 2000, p. 1303 ss., e tutto il n. 6/2000 di Doc. giust.),
attraverso azioni comuni e decisioni-quadro in vari settori della criminalità organizzata e
non (stupefacenti, xenofobia, riciclaggio, pornografia infantile e sfruttamento di minori, in-
formatica, ambiente ecc.: per un quadro aggiornato di queste tendenze ‘‘di parte speciale’’,
VOGEL, Estado y tendencias, cit., p. 122 ss.), sino alla Proposta di direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio relativa alla tutela penale degli interessi finanziari della Comunità,
presentata dalla Commissione in data 23 maggio 2001 (COM (2001) 272), e poi al Libro
verde della Commissione europea delll’11 dicembre 2001 sulla tutela penale degli interessi
finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea (v. infra nota 4 e § 5), e alla
recente decisione-quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto eu-
ropeo, attesta un trend che appare inarrestabile verso la attuazione normativa di una politica
criminale (efficace rappresentazione in DELMAS-MARTY, La place d’un droit pénal commun
dans la construction européenne, in La sanction du droit. Mélanges Couvrat, PUF, Paris,
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2001, p. 229 ss.; MILITELLO, Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto
al crimine organizzato, in MILITELLO-PAOLI-ARNOLD (curatori), Il crimine organizzato come
fenomeno transnazionale. Forme di manifestazione, prevenzione, repressione in Italia, Ger-
mania, Spagna, Giuffré-Iuscrim, Freiburg i. Br., 2000, p. 22 ss.; SATZGER, Auf dem Weg zu
einem Europäischen Strafrecht, in Zeitschr. für Rechtspolitik, 2001, p. 549 ss.; TERRADILLOS
BASOCO, Política y Derecho penal en Europa, in Rev. pen., 1999, p. 61 ss.), che necessaria-
mente precede e accompagna la formalizzazione degli strumenti giuridici europei per ren-
derla operante. Per un inquadramento giuridico dell’attuale valore normativo e della cogenza
degli atti d’impulso comunitari (direttive, decisioni-quadro, azioni comuni) verso la crimina-
lizzazione di determinate condotte e la tutela penale di certi interessi, cfr., da un punto di vi-
sta dell’ordinamento tedesco, HUGGER, Strafrechtliche Anweisungen der Europäischen Ge-
meinschaft, Nomos, Baden-Baden, 1999, passim. Con particolare attenzione ai limiti costitu-
zionali (nell’ordinamento tedesco) dell’attuale normativa e politica criminale comunitaria,
cfr. SATZGER, Die Europäisierung des Strafrechts, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-Mün-
chen, 2001, pp. 152 ss., 187 ss. Una specifica attenzione, invece, ai doveri comunitari dello
Stato di attuare una tutela penale esecutiva di normative comunitarie, nel recente studio di
SOTIS, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in questa
Rivista, 2002, p. 171 ss.
(3) Cfr. BERNARDI, I tre volti del ‘‘diritto penale comunitario’’, in PICOTTI (a cura di),
Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 1999, p. 43 ss.;
PRADEL-CORSTENS, Droit pénal européen, Dalloz, Paris, 1999, p. 2 ss.; SATZGER, Die Euro-
päisierung des Strafrechts, cit., pp. 58 ss., 143 s.
(4) È ciò che oggi progetta di attuare, previa una modifica del Trattato CE (con l’in-
troduzione di un art. 280-bis) la Commissione europea nel ‘‘Libro verde’’ licenziato l’11 di-
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cembre 2001. Non si tratta, peraltro, di un’estensione delle competenze legislative del Parla-
mento europeo, ma della Commissione. Lo scopo dell’unificazione è sostanzialmente con-
centrato sugli interessi finanziari della Comunità, e si ipotizzano, in via esemplificativa, for-
mulazioni unitarie di fattispecie in materia di frode, corruzione, riciclaggio di capitali, frode
in materia di aggiudicazione di appalti, associazione a delinquere, abuso di ufficio, rivela-
zione di un segreto d’ufficio, con ulteriori unificazioni sanzionatorie, anche in ordine ai re-
gimi di prescrizione. L’art. 280-bis del Trattato proposto dalla Commissione, invero, non
contiene un’elencazione tassativa delle competenze penali, con riferimento ai reati, lasciando
al Consiglio il potere (su proposta della Commissione e previo parere conforme del Parla-
mento europeo) di emanare un regolamento che fissi gli elementi costitutivi delle infrazioni
penali per frode e per qualsiasi attività illegale lesiva degli interessi comunitari della Comu-
nità, nonché le pene previste per ciascuna di esse, oltre alle regole di procedura concernenti
il Procuratore europeo e l’ammissibilità delle prove.
(5) Più radicalmente (e problematicamente), nel senso che la garanzia della legalità
democratica, tanto nei diritti nazionali come in quello comunitario, non si fonda tanto sull’o-
rigine parlamentare della norma, quanto sul controllo giurisdizionale sulla sua legittimità,
PALAZZO, La legalidad penal en la Europa de Amsterdam, in Rev. pen., 1999, p. 40.
(6) Nel più recente dibattito penalistico, è un’idea largamente ribadita nella lettera-
tura tedesca: ricordo, per es., LÜDERSSEN, Europäisierung des Strafrechts und gubernative
Rechtssetzung (2002), p. 1 ss. (dattiloscritto); PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena zu ei-
nem künftigen Corpus juris Criminalis für Europa, in ZStW, 2001, spec. p. 789 ss.; PERRON,
Strafrechtsvereinheitlichung in Europa, in DÖRR-DREHER (Hrsg.), Europa als Rechtsgemein-
schaft, Nomos, Baden-Baden, 1997, p. 141 s.; v. anche SILVA SÁNCHEZ, Los principios inspi-
radores de las propuestas de un Derecho penal europeo. Una aproximación crítica (Bologna,
febbraio 2002, dattiloscritto), p. 20 ss.; con riferimento più generale a una formazione più
democratica (‘‘dal basso’’) di un possibile diritto penale europeo, HASSEMER, ‘‘Corpus juris’’:
Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, in KritV, 1999, p. 133 ss.; ID., Ein Straf-
recht für Europa, conferenza tenuta a Würzburg, giugno 2002 (dattiloscritto), p. 8 ss.; TER-
RADILLOS BASOCO, Política y Derecho penal, cit., p. 72 s., con altri richiami. Ampia e siste-
matica trattazione in SATZGER, Die Europäisierung, cit., spec. p. 110 ss., e qui, p. 129, il rin-
vio a specifiche indagini comparate europee, dalle quali emerge in generale l’accoglimento
(salvo che in alcune tendenze di matrice tedesca) di meccanismi di delegazione legislativa a
organi governativi.
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(7) MANTOVANI, Diritto penale, PG4, Cedam, Padova, 2001, p. 1001 ss., che peraltro
impiega anche la locuzione diritto penale-amministrativo come sinonimo, quale in effetti è
diventato.
(8) Riferimenti ampi in ROCCO, Sul così detto diritto penale amministrativo, in Riv.
dir. pubbl., 1909, p. 385 ss., poi in ID., L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale,
Bocca, Milano-Torino-Roma, 1913, p. 356 ss.; MATTES, Untersuchungen zur Lehre der Ord-
nungswidrigkeiten, Bd. II, Geltendes Recht und Kritik, Duncker & Humblot, Berlin, 1982,
p. 254 ss.; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Cedam, Padova, 1988, p. 498 ss.; PA-
DOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, fra storia
e politica criminale, in MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Mi-
lano, 1985, pp. 445-449. Nel senso di una possibile rivitalizzazione del modello contravven-
zionale di illecito (lo si chiami anche ‘‘delitto’’, nominando vari delitti come ‘‘crimini’’, non
importa), profondamente rinnovato e ridotto nel numero (e quindi sempre nel senso del
mantenimento di una bipartizione delle figure di reato) si consenta di rinviare a DONINI, La
riforma della legislazione penale compelementare: il suo valore costituente per la riforma del
codice, in ID. (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di di-
ritto comparato, Cedam, Padova, 2000, p. 3 ss.; ID., Per un codice penale di mille incrimina-
zioni, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 1652 ss., con altri richiami.
(9) Sulle origini concettuali, storiche e ideologiche di quest’uso della categoria del di-
ritto ‘‘penale-amministativo’’ (esempi d’uso, fra i tanti, oltre che in Mantovani, cit., in FIAN-
DACA-MUSCO, Diritto penale, PG , Zanichelli, Bologna, 2001, p. 831 ss.; M. ROMANO, Com-
4
mentario sistematico del codice penale, vol. I2, Giuffrè, Milano, 1995, Art. 39/13), in vista
della ricerca di principi comuni, tanto più a fronte di vaste aree di diritto punitivo ammini-
strativo decriminalizzato, rinvio soprattutto (in chiave ora descrittiva, ora prescrittiva) a BA-
RATTA, Contro il metodo della giurisprudenza concettuale nello studio del diritto penale co-
munitario, in Prospettive per un diritto penale europeo, Cedam, Padova, 1968, p. 21 ss., al-
l’indagine comparata di PALIERO, Il ‘‘diritto penale-amministrativo’’: profili comparatistici,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1980, p. 1254 ss.; e quindi sempre a ID., ‘‘Materia penale’’ e illecito
amministrativo secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: una questione ‘‘classica’’ e
una svolta radicale, in questa Rivista, 1985, p. 894 ss., spec. p. 920 ss.; ID., voce Depenaliz-
zazione, in DDP, vol. III, Utet, Torino, 1989, spec. p. 437 ss.; ID., voce Ordnungswidrigkei-
ten, ivi, vol. IX, Utet, Torino, 1995, spec. p. 130.
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(10) Sul tema specifico, assai più attuale in considerazione delle competenze della
CE a introdurre sanzioni amministrative comunitarie, di una parte generale europea del di-
ritto punitivo amministrativo, v. le opportune riflessioni di VOGEL, Wege zu europäisch-ein-
heitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, pp. 332 s., 338. Am-
plius, MAUGERI, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo co-
munitario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, pp. 527 ss., 929 ss.
(11) Si consenta di rinviare, con particolare riguardo alle dimensioni europee del
principio di offensività, a DONINI, Prospettive europee del principio di offensività, in corso di
pubblicazione negli atti del convegno ‘‘Verso un codice penale modello per l’Europa. La
parte generale’’ tenutosi a Convegno Parma, nei giorni 29-30 settembre 2000.
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(12) Sulla prospettiva di un simile diritto punitivo generale, entro il quale inserire
previsioni punitive civili, amministrative o criminali differenziate, v. DONINI, Selettività e pa-
radigmi della teoria del reato, in questa Rivista, 1997, pp. 338 ss., 353 ss., 383 ss.; ID., voce
Teoria del reato, in DDP, vol. XIV, Utet, Torino, 1999, p. 252, ma già prima (nel rapporto
col diritto amministrativo) i lavori di PALIERO, op. cit., alla nota 9. A favore dell’espansione
di un progetto di diritto punitivo-amministrativo e penale tendenzialmente omologabili (c.d.
modello tedesco e modello europeo della ‘‘materia penale’’ della Corte di Strasburgo), pen-
sato per il settore economico, e attuato in una ‘‘parte generale’’ di diritto penale-punitivo co-
munitario unificato, da ultimo, PALIERO, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia
per la ‘‘Parte generale’’ di un codice penale dell’Unione europea, in questa Rivista, 2000,
spec. p. 475 ss.
(13) Sul punto cfr. rispettivamente BERNARDI, Art. 7. Nessuna pena senza legge, in
BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tu-
tela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova, 2001, pp. 256 ss., 271
ss., nonché il rapporto del Groupe de recherches, Droit de l’homme et logiques juridiques su
La matière pénale au sens de la Convention européenne des droits de l’homme, flou du droit
pénal, in Rev. sc. crim. dr. pen. comp., 1987, p. 819 ss.; MAUGERI, Il regolamento, cit.; PISA-
NESCHI, Le sanzioni amministrative comunitarie, Cedam, Padova, 1998, passim; CARNEVALI-
RODRÍGUEZ, Derecho penal y Derecho sancionador de la Unión Europea, Editorial Comares,
Granada, 2001, p. 186 ss.
(14) Cfr. HEITZER, Punitive Sanktionen im Europäischen Gemeinschaftsrecht, Mül-
ler, Heidelberg, 1997, p. 34 ss. È peculiare della cultura europea un certo relativismo stri-
sciante rispetto alle distinzioni sostanziali fra diritto penale e diritto amministrativo, in or-
dine alla struttura degli illeciti. Almeno tradizionalmente e sino al più recente affermarsi di
singole direttive o indicazioni più specificamente orientate alla criminalizzazione. In ogni
modo, se il peso delle sanzioni rende ‘‘sostanzialmente penale’’ un illecito, non è ancora ma-
turata una riflessione comune circa l’identità sostanziale di ciò che non può, comunque, es-
sere reato, e ancor meno di ciò che, in positivo, si ritiene debba esserlo.
Lo stesso riconoscimento del principio di proporzione, in fondo, obbedisce alla medesima
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prospettiva relativistica: tutto dipende dalla sanzione minacciata, non dalla conformazione
dell’illecito in sé.
I tempi sono quindi maturi per interrogarsi sui contenuti della ‘‘cultura penale europe-
a’’ al riguardo: sulla presenza o l’assenza di una cultura penale europea relativa ai limiti co-
stituzionali — e non ai semplici limiti politici — alle scelte di criminalizzazione quanto a
beni giuridici, tecniche di tutela e sistemi sanzionatori adottabili.
La subordinazione del diritto penale alla politica, anziché della politica penale ai prin-
cipi d’offensività e di extrema ratio, traspare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia
delle Comunità europee nell’indirizzo che facendo leva sull’art. 5 (ora art. 10) del Trattato di
Roma, impone agli Stati l’obbligo di fedeltà comunitaria.
Come è noto, la Corte, muovendo da quella norma, ha individuato uno strumento ca-
pace di incidere in modo profondo nella politica economica e sanzionatoria degli Stati mem-
bri, affinché predispongano sistemi di tutela efficaci a tutela dei beni e degli interessi comu-
nitari. Gli Stati, cioè, hanno un’obbligazione di mezzi, che è quella di predisporre per la tu-
tela degli interessi e dei beni comunitari, strumenti e sanzioni di efficacia pari a quelli posti a
tutela degli interessi ‘‘interni’’ o nazionali.
Si tratta di una logica puramente efficientista e strumentale, dove lo stesso diritto pe-
nale, al pari degli altri rami dell’ordinamento, è concepito come un mezzo neutro rispetto ai
fini e ai valori. Ciò che interessa è che i beni comunitari meritevoli di tutela siano effettiva-
mente protetti: non importa se con il diritto penale, anziché con quello amministrativo. Se lo
strumento penale è più efficace, nulla osta al suo impiego quando esso è utilizzato per beni
nazionali di valore corrispondente, e anzi tutto depone a favore di una sua estensione comu-
nitaria.
Questa ideologia strumentale, d’altro canto, ha anche un positivo rovescio della meda-
glia: il diritto penale non è affatto privilegiato come lo strumento più efficace per antonoma-
sia. Può ben essere che la tutela amministrativa sia assai utile in termini di effettività e di
resa pratica, tanto da sconsigliare l’impiego di apparati sanzionatori più gravosi. La cultura
pragmatista dell’obbligo di fedeltà comunitaria, in altri termini, appare agnostica rispetto al
tema della penalità, e può svolgere un ruolo inflativo o deflativo a seconda degli assetti san-
zionatori dei singoli Stati e della tenuta dei rispettivi ‘‘sistemi punitivi’’ (in senso lato), e pre-
cettivi nel loro complesso, e spinge verso una verifica in termini economici e di efficienza di
quei sistemi. Essa risponde, quindi, a un’esigenza di analisi sperimentale dei sistemi sanzio-
natori.
(15) Per una panoramica comparata europea si consenta di rinviare a DONINI (a cura
di), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Cedam,
Padova, 2000.
(16) Muovo dunque da una premessa che assume la correttezza di diversificare i pa-
radigmi ‘‘generali’’ del reato, non più incentrandoli su fattispecie di delitti naturali quali mo-
delli tendenzialmente esclusivi, ma non al prezzo di un ribaltamento dell’orizzonte a favore
di paradigmi presi a prestito dal diritto penale dell’economia in senso lato (in Italia sareb-
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bero le leggi complementari...) ed estesi a tutto il resto (v. anche infra, nota 71). Il vento di
Law and Economics, si capisce, non sarà contenibile in compartimenti stagni. La stessa ana-
lisi economica del diritto peraltro (per es. l’impiego sistematico di una logica costi-benefici
nella costruzione e nell’applicazione delle incriminazioni e delle relative sanzioni), pur svec-
chiando l’idealismo retribuzionista di tante e insensibili idiosincrasie all’empiria e alla misu-
razione delle conseguenze, non pare estensibile a tutti i territori del diritto criminale classico.
(17) Il cui undicesimo ‘‘considerando’’ letteralmente afferma: ‘‘Decisi a portare
avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui
le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della
sussidiarietà’’. Sulla storia del principio, fra gli altri, ISENSEE, Subsidiaritätsprinzip und Ver-
fassungsrecht, 1968, Duncker & Humblot, Berlin, pp. 14 ss., 48 ss.; PIEPER, Subsidiarität,
Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 1994, pp. 30-60; CLERGERIE, Le principe de subsi-
diarité, Ellipses, Paris, 1997, p. 7 ss.; MILLON-DELSOL, L’État subsidiaire, PUF, Paris, 1992,
passim; CASS, The Word that Saves Maastricht? The Principle of Subsidiarity and the Divi-
sion of Powers within the European Community, in Comm. Market Law Rev., 1992, spec. p.
1110 ss.; CHICARRO LÁZARO, El Principio de Subsidiariedad en la Unión Europea, ARAN-
ZARDI, NAVARRA, 2001, P. 44 SS.
(18) CFR. IN PARTICOLARE, PER LA DISTINZIONE FRA LA SUSSIDIARIETÀ COME PRINCIPIO E COME
REGOLA, SCHILLING, A New Dimension of Subsidiarity: Subsidiarity as a Rule and a Principle,
in Yearbook of European Law, 1994, pp. 203 ss., 213 ss.
(19) Prescrive l’art. 130 r, comma 4, cit., dell’Atto Unico europeo: ‘‘La Comunità
agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al paragrafo 1 possono es-
sere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri.
Fatte salve talune misure di carattere comunitario, gli Stati membri assicurano il funziona-
mento e l’esecuzione delle altre misure’’.
(20) Riferimenti su tali consolidazioni in WATHELET, La subsidiarité au sein de l’U-
nion européenne: le processus décisionnel, in VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la subsidiarité,
Bruylant, Bruxelles, 2000, spec. p. 138 ss.; CHICHARRO LÁZARO, El Principio, cit., p. 197 ss.
(21) Per un puntuale commento, oltre alle opere che saranno successivamente richia-
mate sul principio di sussidiarietà, faccio rinvio a Ch. CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.),
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Kommentar EUV/EGV2, Luchterhand, Neuwied, Kriftel, 2002, Art. 5/1 ss.; BOGDANDY-NET-
TESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF (Hrsg.) Das Recht der Europäischen Union, Beck,
München, 1991 e ss. (aggiorn. 1994), Rdn. 19 ss.; ZULEEG, Art. 3 b, in von der GROEBEN-
THIESING-EHLERMANN (Hrsg.), Kommentar zum EU/EG Vertrag5, Nomos, Baden-Baden,
1997, Bd. I, 1/208 ss., 1/224 ss., LENAERT-YPERSELE, Le principe de subsidiarité et son con-
texte: étude de l’article 3 b du Traité CE, in Cahiers de droit européen, 1994, p. 3 ss., nonché
a WATHELET, La subsidiarité au sein de l’Union Européenne, cit., in VERDUSSEN (dir.), L’Eu-
rope de la subsidiarité, cit., spec. pp. 137 ss., 152 ss., e alle trattazioni di BARUFFI, Art. 5, in
POCAR, Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione europea, Cedam, Pa-
dova, 2001, p. 99 ss.; TOTH, A Legal Anaylsis of Subsidiarity (p. 37 ss.), di STEINER, Subsi-
diarity under the Maastricht Treaty (p. 49 ss.) e di EMILIOU, Subsidiarity: Panacea or Fig
Leaf? (p. 65 ss.), in O’KEEFFE-TWOMEY (Ed.), Legal Issues of the Maastricht Treaty, Wiley
Chancery Law, Baffins Lane, Chichester (West Sussex), 1994, via via con ulteriori richiami.
(22) Su tale idea, in diritto pubblico prima ancora che in quello comunitario, esiste
una letteratura sterminata. Rinvio soltanto, limitandomi a monografie più recenti di diritto
europeo, a CHICHARRO LÁZARO, El Principio, cit., p. 33 ss.; VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la
subsidiarité, cit.; RONGE, Legitimität durch Subsidiarität, Nomos, Baden-Baden, 1998; D’A-
GNOLO, La sussidiarietà nell’Unione europea, Cedam, Padova, 1998; CALLIESS, Subsidiari-
täts- und Solidaritätsprinzip in der Europäischen Union, 2 Aufl., Nomos, Baden-Baden,
1999, p. 25 ss.; SCHIMA, Das Subsidiaritätsprinzip im Europäischen Gemeinschaftsrecht,
Springer, Wien, 1994; LECHELER, Das Subsidiaritätsprinzip, Strukturprinzip einer europäi-
scher Union, Duncker & Humblot, Berlin, 1993, p. 43 ss.; PIEPER, Subsidiarität, cit., p. 62
ss.; CLERGERIE, Le principe de subsidiarité, cit., p. 7 ss.; MILLON-DELSOL, L’État subsidiaire,
cit.
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(23) Particolarmente significativi gli sviluppi lisztiani dell’idea, peraltro già illumini-
stica e con ascendenze (sotto altri criteri, come quello della ‘‘necessità’’, per es.) anche ante-
riori: richiami puntuali a v. Liszt in ROXIN, Franz von Liszt und die kriminalpolitische Kon-
zeption des Alternativentwurfs (ZStW, 1969), in ID., Strafrechtliche Grundlagenprobleme,
De Gruyter, Berlin-New York, 1973, p. 40 ss. Cfr. poi, quali espressioni o recuperi partico-
larmente significativi dell’idea, BRICOLA, Carattere sussidiario del diritto penale e oggetto
della tutela, in Studi in memoria di G. Delitala, vol. I, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 107 ss.,
117 s., 133; ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in DE ACUTIS-PA-
LOMBARINI (a cura di), Funzioni e limiti del diritto penale, Cedam, Padova, 1984, pp. 3 ss.,
19 ss.; ID., voce Teoria generale del reato, in NNDI, vol. XIX, 1973, (estratto, Utet, Torino,
1974), p. 15 ss.; DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza
della legislazione (già in RIDPP, 1984), in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in
trasformazione, cit., p. 388 ss.; MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in
Jus, 1974, p. 477 s.; M. ROMANO, Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice
penale italiano, in ROMANO-STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale
dei reati, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 155, 169 s.; ANGIONI, Contenuto e funzioni del con-
cetto di bene giuridico, Giuffrè, Milano, 1983, p. 215 ss.; GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit
und Strafunrechtsausschluß, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, p. 192 ss.;
ARTH. KAUFMANN, Subsidiaritätsprinzip und Strafrecht, in Fest. Henkel, De Gruyter, Berlin-
New York, 1974, p. 89 ss.; ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe (Jur. Schul., 1966,
poi) in ID., Strafrechtliche Grundlagenprobleme, cit., p. 14 ss.; H. MAYER, Strafrechtsreform
für heute und morgen, Duncker & Humblot, Berlin, 1962, p. 57 ss., e più in generale i con-
tributi all’Alternativ-Entwurf tedesco: cfr. per tutti la trattazione di MOCCIA, Politica crimi-
nale e riforma del sistema penale. L’Alternativ-Entwurf e l’esempio della Repubblica fede-
rale tedesca, Jovene, Napoli, 1984, p. 6 ss., con ricchissimi rinvii; cfr. anche, nella letteratura
svizzera, NIGGLI, Ultima Ratio? Über Rechtsgüter und das Verhältnis von Straf- und Zivil-
recht bezüglich der sogennanten ‘‘subsidiären oder sekundären Natur’’ des Strafrechts, in Rev.
pén. suisse, 1993, p. 236 ss. Nella più recente letteratura italiana, fra gli altri, PALIERO, Il
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principio di effettività nel diritto penale: profili politico-criminali, in Studi Nuvolone, vol. I,
Giuffrè, Milano, 1991, p. 395 ss., spec. p. 415 s.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e va-
lore, ESI, Napoli, 1992, p. 112 ss.; EUSEBI, Brevi note sul rapporto fra anticipazione della tu-
tela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in Riv. trim. dir. pen.
econ., 1995, p. 743 ss.; DONINI, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato
il 4 novembre 1997. Un contributo alla progressione ‘‘legale’’, prima che ‘‘giurisprudenzia-
le’’ dei principi di offensività e di sussidiarietà, in Crit. dir., 1998, p. 95 ss.; FORTI, L’immane
concretezza, Cortina ed., Milano, 2000, p. 149 ss.; ID., La riforma del codice penale nella
spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte speciale, in questa Rivi-
sta, 2002, spec. p. 68 ss.; STELLA, Giustizia e modernità, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 353 ss.,
387 ss., 460. Ricordo comunque che proprio Roxin, che può vantarsi di essere stato tra i
primi, nell’ambito dei professori che sostenevano il Progetto Alternativo, che hanno rinno-
vato l’esigenza della sussidiarietà penale, ritenga oggi che quel principio sia più una direttiva
politica che un dovere cogente (in termini ROXIN, Strafrecht, AT3, Beck, München, 1997,
§ 2/41). Chi volesse peraltro individuare nel dibattito italiano attuale i promotori più avan-
zati della sussidiarietà, dovrebbe decodificare il concetto e reinquadrarlo nell’etichetta del
diritto penale minimo (con varie e rilevanti differenze e sfumature, ricordo fra gli altri le po-
sizioni di Ferrajoli, Baratta, Moccia, Pavarini, ecc. Sull’argomento v. anche da ultimo gli Atti
del Convegno di Abano del 2000, organizzato da Magistratura Democratica: CURI-PALOMBA-
RINI (a cura di), Diritto penale minimo, Donzelli, 2002), ovvero nella critica al diritto penale
del comportamento, che rappresenta un po’ un aggiornamento delle posizioni favorevoli a
un diritto penale dell’evento proprie degli anni Settanta, attraverso una (ennesima?) risco-
perta della vittima tutelabile mediante strumenti extrapenali (da ultimo STELLA, Giustizia e
modernità, cit., passim), salvo valutare, rispetto a tutte queste posizioni, l’effettiva adegua-
tezza dei sistemi punitivi o di controllo o di prevenzione alternativi a quello penale. Nella let-
teratura spagnola, parimenti, è il ‘‘principio de intervención minima’’ (per es. MUÑOZ
CONDE, Introducción al Derecho penal, Bosch, 1975, p. 59 ss.; MARTOS NUÑEZ, El principio
de intervención minima, in Anuario der. pen. y ciencias pen., 1987, p. 99 ss.; PORTILLA CON-
TRERAS, Principio de intervención minima y bienes jurídicos colectivos, in Cuad. de pol.
crim., 1989, p. 723 ss.; SILVA SÁNCHEZ, Aproximación al Derecho penal contemporáneo, Bo-
sch, 1992, p. 246 ss.; AGUADO CORREA, El principio de proportionalidad en Derecho penal,
Edersa, Madrid, 1999, p. 214 ss.; MUÑOZ CONDE-GARCÍA ARAN, Derecho penal, PG4, Tirant
lo Blanc, Valencia, 2000, pp. 79 ss., 103, via via con altri richiami) che attrae su di sé l’ere-
dità dell’extrema ratio, insieme alla critica al diritto penale del rischio (da ultimo, SILVA SÁN-
CHEZ, La expansión del Derecho penal, cit.). Oltralpe, per cogliere nell’ambiente culturale
tedesco contemporaneo istanze significative di ancoraggio del diritto penale al principio di
ultima ratio, occorre rivolgersi (al di là delle imbalsamazioni manualistiche e dogmatiche
della categoria e del principio, e di talune letture del rapporto tra Strafwürdigkeit e Strafbe-
dürftigkeit) soprattutto al dibattito sul diritto penale ‘‘simbolico’’ (ampio quadro in VOß,
Symbolische Gesetzgebung, Gremer, Ebelsbach, 1989, e spec., sulla sussidiarietà, p. 154 ss.;
efficace sintesi, da ultimo, in HASSEMER, Das Symbolische am symbolischen Strafrecht, in
Fest. Roxin, De Gruyter, Berlin-New York, 2001, p. 1001 ss.), oppure su una concezione
‘‘personale del bene giuridico’’ (sempre HASSEMER, Grundlinien einer personalen
Rechtsgutslehre, in Jenseits des Funktionalismus. Arth. Kaufmann zum 65. Geburtstag, Mül-
ler, Heidelberg, 1989, p. 85 ss.) o sulla ‘‘dannosità sociale’’ del reato (una sintesi in AME-
LUNG, Rechtsgutverletzung und Sozialschädlichkeit, in JUNG-MÜLLER-DIETZ-NEUMANN, Recht
und Moral, Nomos, Baden-Baden, 1991, p. 269 ss.), oppure sullo sviluppo di un ‘‘diritto pu-
nitivo dell’intervento’’ (HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in
ZRP, 1992, p. 378 ss.; ID., Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Müller, Heidel-
berg, 1994, p. 3 ss.) e in generale al dibattito che da anni ormai conduce la Frankfurter
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Schule (con particolare riferimento al diritto penale europeo, v. già quanto riconosciuto da
PIETH, Internationale Harmonisierung von Strafrecht als Antwort auf transnationale Wirt-
schaftskriminalität, in ZStW, 109, 1997, p. 771 ss.) in posizione critica rispetto alla legisla-
zione penale ed europeo-comunitaria: ricordo a mero titolo di esempio (da una serie amplis-
sima di interventi e pubblicazioni) sul diritto penale europeo, P.-A. ALBRECHT-BRAUN-FRAN-
KENBERG-K. GÜNTHER-NAUCKE-SIMITIS, 11 Thesen zur Entwicklung rechtstaatlicher Grundla-
gen europäischen Strafrechts, cit., p. 279 ss. (e amplius tutto il n. 3/2001 della rivista
KritV); LÜDERSSEN, Europäisierung des Strafrechts, cit. (ante, nota 4); PRITTWITZ, Na-
chgeholte Prolegomena zu einem künftigen Corpus Juris Criminalis für Europa, cit.; HASSE-
MER, ‘‘Corpus juris’’: Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, cit., p. 133 ss.; ID.,
Ein Strafrecht für Europa, dattiloscritto cit. (ante, nota 4); e più in generale, LÜDERSSEN, Die
Krise des öffentlichen Strafanspruchs, in ID., Abschaffen des Strafens?, Suhrkamp, Frankfurt
a.M., 1995, p. 22 ss., spec. p. 50 ss., e qui lo sviluppo (in chiave di sostanziale ‘‘sussidiarietà
penale’’) di una concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale; P.A. ALBRECHT-
HASSEMER-VOß, Rechtsgüterschutz durch Entkriminalisierung, Nomos, Baden-Baden, 1992;
LÜDERSSEN-NESTLER-TREMEL-E. WEIGEND (Hrsg.), Modernes Strafrecht und ultima-ratio-
Prinzip, P. Lang, Frankfurt a.M., Bern-New York-Paris, 1990; PRITTWITZ, Subsidiär, frag-
mentarisch, ultima ratio? Gedanken zu Grund und Grenzen von Strafrechtsbeschränkun-
gspostulaten, in Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt (Hrsg.), Vom unmöglichen
Zustand des Strafrechts, P. Lang, Frankfurt a.M., 1995, p. 387 ss.; P.A. ALBRECHT, Formali-
sierung versus Flexibilisierung: Strafrecht quo vadis?, in BÖLLINGER-LAUTMANN (Hrsg.), Vom
Guten, das noch stets das Böse verschafft. Kriminalwissenschaftliche Essays zu Ehren H. Jä-
ger, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1993, p. 255 ss.
(24) Per una lettura orientata in questo senso, cfr. per es. DRIENDL, Zur Notwendig-
keit und Möglichkeit einer Strafgesetzgebungswissenschaft in der Gegenwart, Mohr, Tübin-
gen, 1983, p. 39 ss., e passim; quindi, secondo una ricostruzione particolare dei rapporti fra
i principi di laicità, sussidiarietà, necessità, nel quadro dell’effettività, PALIERO, Il principio di
effettività nel diritto penale, cit., p. 395 ss.
(25) Sul piano delle sanzioni v. per es. i riferimenti contenuti nei lavori di MOCCIA,
DOLCINI-MARINUCCI, op. cit., a nota 22, e da ultimo NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio:
considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, in questa Rivista, 1995, p. 321
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è stato ampiamente elaborato in generale (vale a dire non solo con riferi-
mento alla materia penale) dalle varie Corti di giustizia (soprattutto costi-
tuzionale) dei singoli Stati e della stessa CE, da dove è poi confluito nelle
attuali fonti legislative CE (26).
Quanto detto, in ogni modo, non significa che anche in diritto penale
l’idea della sussidiarietà non presenti aspetti di continuità importanti con
s.; EUSEBI, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa?, in questa Rivi-
sta, 2002, p. 105 ss. Quanto alla (non) punibilità, GARCÍA PÉREZ, La punibilidad en el Dere-
cho penal, Aranzadi, Pamplona, 1997, p. 336 ss.; DONINI, Non punibilità e idea negoziale,
in Indice pen., 2001, pp. 1038 ss., 1044; ID., Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e
non punibilità, in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno di Teramo, 7-9 giugno
2001, su ‘‘Politica criminale e riforma della parte speciale tra ‘codificazione’ e ‘decodifica-
zione’ ’’. L’idea dell’ultima ratio, peraltro, è sempre stata sottintesa vagamente al movimento
di depenalizzazione e di sviluppo di pene alternative a quelle detentive, anche se non fre-
quentemente sviluppata in chiave generale come principio avente una sua specifica, auto-
noma e costante dimensione rispetto al momento applicativo e commisurativo della san-
zione, anche per mancanza di sapere empirico (e di strumenti processuali per raggiungerlo)
conforme all’attuazione dell’idea, al di là del suo significato di orientamento tendenziale.
(26) Per richiami essenziali, a cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, cfr., dal
punto di vista costituzionalistico in generale, CLÉRICO, Die Struktur der Verhältnissmässig-
keit, Mohr, Tübingen, 1999; MORRONE, Il giudice della ragionevolezza, Giuffrè, Milano,
2001, passim, con ampi rinvii, e pp. 192 ss., 219 ss. per riferimenti penalistici (considerato
che la proporzione del dibattito di lingua tedesca, e soprattutto la proporzione penalistica,
rimane in buona misura ricompresa, come sua parte, nel giudizio di ragionevolezza); nella
letteratura comunitaria, EMMERICH-FRITSCHE, Der Grundsatz der Verhältnismässigkeit als Di-
rektive und Schranke der EG-Rechtsetzung, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, p. 136 ss. e
passim; EMILIOU, The Principle of Proportionality in European Law. A Comparative Study,
London, 1996, p. 126 ss. e passim; KISCHEL, Die Kontrolle der Verhältnismäßigkeit durch
den Europäischen Gerichtshof, in Europarecht, 2000, p. 380 ss.; MAUGERI, Il regolamento n.
2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario, in Riv. trim. dir. pen.
econ., 1999, p. 952 ss.; LUGATO, Principio di proporzionalità e invalidità di atti comunitari
nella giurisprudenza della Corte di giustizia della CE, in Dir. com. e degli scambi intern.,
1991, p. 67 ss.; con specifico riguardo alla previsione del principio di proporzione nelle leggi
comunitarie, BERNARDI, I principi e criteri direttivi in tema di sanzioni nelle recenti leggi co-
munitarie, in Annali Univ. Ferrara, vol. XIV, 2000, p. 98 ss.; nel dibattito strettamente pe-
nalistico, ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, cit., p. 163 ss.; BEL-
FIORE, Giurisprudenza costituzionale e materia penale. Il diverso contributo delle Corti costi-
tuzionali italiana e tedesca, Giappichelli, Torino, 2000 (ed. provv.), pp. 9 ss., 41 ss.; PA-
LAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi
penali, in RIDPP, 1998, p. 350 ss. (e spec. p. 370 s. su offensività ed extrema ratio); GUAZ-
ZALOCA-INSOLERA-SFRAPPINI-TASSI, Controllo di ragionevolezza e sistema penale, in DDDP,
1998, n. 1, p. 29 ss.; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte costituzio-
nale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di propor-
zione e di tassatività, in RIDPP, 1999, parte I, spec. p. 468 ss.; AGUADO CORREA, El princi-
pio de proporcionalidad, cit.; LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte,
Mohr, Tübingen, 1996, pp. 21 ss., 52 ss. Cfr. altresì WEIGEND, Der Grundsatz der Verhältni-
smäßigkeit als Grenze staatlicher Strafgewalt, in Fest. Hirsch, De Gruyter, Berlin-New York,
1999, p. 917 ss., e pure lo studio comparato di KUTSCHER-RESS (Hrsg.), Der Grundsatz der
Verhältnissmässigkeit in europäischen Rechtsordnungen, Müller, Heidelberg, 1985, e qui
anche i contributi di Teitiger, Ermacora e Ubertazzi.
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NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das Recht der Europäischen Union, cit., Rdn.
11 ss.; ZULEEG, Art. 3 b, cit., 1/214 ss., 1/230; CHICHARRO LÁZARO, El Principio de Subsidia-
riedad, cit., p. 125 ss. Nel senso che sarebbero di competenza esclusiva tutte le materie tra-
sferite dagli Stati alla Comunità nei trattati istitutivi originari (eliminazione delle barriere
nella circolazione di beni, persone, servizi e capitali, politica commerciale comune, regole
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sulla concorrenza, organizzazione comunitaria dei mercati agricoli, conservazione delle ri-
sorse ittiche e organizzazione comunitaria del mercato del pesce, politica dei trasporti), men-
tre di competenza concorrente sarebbero, in generale, le attribuzioni successivamente ripar-
tite con l’Atto Unico Europeo e il Trattato di Maastricht, TOTH, Legal Analysis of Subsidia-
rity, cit., p. 40 s. Tale interpretazione, si noti, collima pienamente con quanto ha sostenuto la
stessa Comunicazione della Commissione europea al Consiglio e al Parlamento europei del
27 ottobre 1992 (in Bull. EC, 10-1992, p. 116 ss.), dedicata appunto alla sussidiarietà, dove
la Commissione interpreta le aree di competenza esclusiva, inserendovi quelle sopra indi-
cate, riconducibili agli artt. 18, 133, 33 e 71 del Trattato CE (op. cit., p. 127).
(29) Cfr. D’AGNOLO, La sussidiarietà nell’Unione europea, Cedam, Padova, 1998, p.
82 e nota 111; ZULEEG, Art. 3 b, cit., 1/231 (Rdnr. 29).
(30) È la tripartizione della proporzione diffusa nella giurisprudenza della CGCE e
nella letteratura costituzionalistica tedesca. Richiami in KISCHEL, Die Kontrolle der Verhält-
nissmäßigkeit, cit., p. 383 ss.; BERMANN, Taking Subsidiarity Seriously: Federalism in the
Community and the United States, in Col. Law Rev., 1994, p. 386 s.; EMMERICH-FRITSCHE,
Der Grundsatz der Verhältnismässigkeit, cit.; CLÉRICO, Die Struktur der Verhältnissmässig-
keit, cit. La riprendo nel testo con qualche modifica.
(31) Analogamente, riprendendo i criteri adottatti dalla Corte costituzionale tedesca
in tema di Verhältnissmäßigkeit, BELFIORE, Giurisprudenza costituzionale, cit., p. 18 s.
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(34) Nel senso che le indagini empiriche sono un elemento fondamentale per l’attua-
zione della sussidiarietà e del ‘‘principio de intervención minima’’, a differenza del principio
di proporzione, essendo i primi due ‘‘principios de naturaleza empirica frente a la natura-
leza eminentemente normativa del principio de proporcionalidad’’, AGUADO CORREA, El
principio, cit., p. 240, e qui altri richiami.
(35) Consultabile per es. in TIZZANO, Codice dell’Unione europea3, Cedam, Padova,
2002, p. 419 ss.
(36) È il punto v) del § 2 del documento redatto a Edimburgo, corsivi aggiunti.
(37) In Bull. C.E., 10-1992, p. 122 ss. Sulla concreta recezione del principio di sussi-
diarietà da parte della Commissione europea, negli anni successivi, v. l’ampia disamina di
WATHELET, La subsidiarité, cit., in VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la subsidiarité, cit., pp.
158-185.
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(Hrsg.), Das Subsidiaritätsprinzip in der Europäischen Union - Bedeutung und Wirkung für
ausgewählte Politikbereiche, Nomos, Baden-Baden, 1995, p. 95 ss.; ZULEEG, Justitiabilität
des Subsidiaritätsprinzips, in NÖRR-OPPERMANN (Hrsg.), Subsidiarität: Idee und Wirklich-
keit. Zur Reichweite eines Rechtsprinzips in Deutschland und Europa, Nomos, Baden-Ba-
den, 1997, p. 27 ss.
(47) V. ancora D’AGNOLO, op. cit., pp. 178-181; nonché CATTABRIGA, Il Protocollo
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, cit., p. 361 ss.
(48) In termini, per es., EMILIOU, Subsidiarity: Panacea or Fig Leaf?, in O’KEEFFE-
TWOMEY (Ed.), Legal Issues of the Maastricht Treaty, cit., p. 78.
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(49) Un’utile rassegna comparata in GROPPI, I poteri istruttori della Corte costituzio-
nale nel giudizio sulle leggi, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 56-68.
(50) Si tratta di un principio variamente ribadito (fra i molti ZULEEG, Art. 3, cit.,
1/225 (Rdnr. 18); STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integrazione europea:
un’incognita e molte aspettative, in Jus, 1994, spec. p. 367 ss.; RONGE, Legitimität durch
Subsidiarität, cit., p. 172 s., con altri richiami), ed espressamente contenuto nei documenti
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comunitari sulla sussidiarietà, da ultimo nel 7o Protocollo del Trattato di Amsterdam, che è
stato allegato al Trattato CE, al punto 3: ‘‘Il principio di sussidiarietà non rimette in que-
stione le competenze conferite alla Comunità dal Trattato, come interpretato dalla Corte di
giustizia. I criteri di cui all’art. 3 B, comma 2, del Trattato, riguardano settori che non sono
di esclusiva competenza della Comunità. Il principio di sussidiarietà dà un orientamento sul
modo in cui tali competenze debbono essere esercitate a livello comunitario. La sussidiarietà
è un concetto dinamico e dovrebbe essere applicata alla luce degli obiettivi stabiliti nel Trat-
tato. Essa consente che l’azione della Comunità, entro i limiti delle sue competenze, sia am-
pliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente, ristretta e sospesa laddove essa
non sia più giustificata’’. Cfr. STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integra-
zione europea: un’incognita e molte aspettative, in Jus, 1994, spec. p. 367 ss.
(51) In tal senso, per es., DONY, L’ambigua sussidiarietà nell’Unione europea, in
Pen. e dir., 1994, p. 408 s.
(52) Oltre a DONY, op. ult. cit., cfr. per es. CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i
suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento nazionale, in Qua-
derni cost., 1993, p. 7 ss.; BERNARDI, ‘‘Europeizzazione’’ del diritto penale commerciale?, in
RTDPE, 1996, p. 36 s.
(53) Cfr. DASHWOOD, The Limits of European Community Powers, in Eur. Lew Rev.,
1996, p. 113 ss.; Ch. CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.), Kommentar EUV-EGV2, cit.,
Art. 5/8 ss.; BOGDANDY-NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das Recht der Europäi-
schen Union, cit., Rdn. 3 ss.; LENAERTS-YPERSELE, Le principe, cit., p. 13 ss. (n. 15 ss.);
SATZGER, Die Europäisierung, cit., p. 419 ss.
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(55) Model Penal Code for Europe. Memorandum prepared at the request of the legal
affairs of the Council of Europe (Nr. AS/Jur[22]45).
(56) Nella sostanza già PAGLIARO, Limiti all’unificazione del diritto penale europeo,
in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 204 s.; v. quindi CADOPPI, Verso un diritto penale unico
europeo?, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea,
Giuffrè, Milano, 1999, p. 31 ss., spec. p. 39 s. (e già ID., Towards a European Criminal
Code?, in European Journal of Crime, Crim. Law and Crim. Justice, 1996, I, pp. 2 ss., 15
ss.); BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in Annali
dell’Università di Ferrara - Scienze giuridiche, Saggi III, 1996, pp. 57 ss., 130 ss. e passim;
SIEBER, Memorandum für ein Europäisches Modellstrafgesetzbuch, in JZ, 1997, p. 376 ss.
Cfr. anche sul punto v. gli opportuni rilievi di WEIGEND, Strafrecht durch internationale Ve-
reinbarungen - Verlust an nationaler Strafrechtskultur?, in ZStW, 105 (1993), p. 783 ss., e
di DANNECKER, Strafrecht in der Europäischen Gemeinschaft, in Juristenzeitung, 1996, p.
879 s. Un’ampia difesa della strategia armonizzatrice mediante codici-modello in BERNARDI,
Strategie per l’armonizzazione dei sistemi penali europei, relazione svolta al Convegno ‘‘Il
diritto penale nella prospettiva europea - Quali politiche criminali per quale Europa?’’ (Bolo-
gna, 28 febbraio-2 marzo 2002), p. 41 ss. (del dattiloscritto).
(57) WEIGEND, op. cit., p. 791 s.
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(58) Cfr. il testo relativo, accompagnato dai relativi commenti e studi comparati di
fattibilità, in DELMAS-MARTY/VERVAELE (ed.), The Implementation of the Corpus Juris in the
Member States, vol. I, Intersentia, Antwerpen, Groningen-Oxford, 2000, p. 187 ss. (tomo
poi seguito da altri tre). Oltre ai rapporti presenti in tale volume, tra i contributi più rilevanti
allo studio dell’iniziativa, peraltro pubblicati ancora a fronte della prima edizione del Corpus
juris, cfr. HUBER (Hrsg.), Das Corpus Juris als Grundlage eines Europäischen Strafrechts,
Europäisches Colloquim, Trier, 4-6 marzo 1999, Iuscrim, Freiburg i. Br., 2000; PICOTTI (a
cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Atti del Convegno di
Trento, 3-4 ottobre 1997, cit.; GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi fi-
nanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione, Giuffrè, Milano, 2000; ID.
(a cura di), Prospettive di un diritto penale europeo, Atti del Seminario di Catania, 26 mag-
gio 1997, Giuffrè, Milano, 1998, nonché il n. 3/1999 della Revista penal. Cfr. altresì
AA.VV., Le Corpus juris au regard du droit belge, Bruylant-Maklu, Bruxelles, 2000; PALIERO,
La fabbrica del Golem, cit., p. 480 ss.; PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena, cit.; AA.VV.,
Europäisches Strafrecht 2000, Zweites Symposium des ‘‘Strafverteidiger’’, Frankfurt/M, 20
ottobre 2000, in StV, 2000, p. 62 ss.; AA.VV., Diritto penale europeo, a cura di Martone,
Cedam, Padova, 2001; P.-A. ALBRECHT-BRAUN-FRANKENBERG-K. GÜNTHER-NAUCKE-SIMITIS,
11 Thesen, cit., p. 279 ss.; SAMMARCO, Interessi comunitari e tecniche di tutela penale, Giuf-
frè, Milano, 2002, p. 352 ss. Al Corpus juris 2000 è stato dedicato il Seminario di Trento del
24 novembre 2000, i cui atti sono in corso di pubblicazione. Tra i contributi relativi già ap-
parsi autonomamente cfr. BERNARDI, Corpus juris e formazione di un diritto penale europeo,
in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, p. 283 ss., e qui, alla nota 20, altri richiami. La ‘‘filiazione
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Commissione europea nel dicembre 2001 (59), né, per ora, il progetto
privato di ‘‘delitti europei’’ (‘‘Europa-Delikte’’) di recente elaborato da un
gruppo di penalisti sotto la direzione di Klaus Tiedemann (60): i primi
due, infatti, si prefiggono l’introduzione (oltre a un apparato di norme
processuali) di poche incriminazioni a tutela di interessi strettamente co-
munitari, e quindi un sistema settoriale molto circoscritto e immediata-
mente operativo in tutto il territorio dell’Unione con identico contenuto,
non come modello per distinte e libere codificazioni entro gli Stati mem-
bri; il terzo progetto, invece, sembra coltivare l’aspirazione a che le norme
previste (34 incriminazioni di diritto penale economico in senso lato, oltre
a un corredo di disposizioni generali) si calino integralmente negli Stati
membri, per sostituire le discipline originarie (normalmente esistenti) e in
ogni caso ha per oggetto un ventaglio di disposizioni sempre molto par-
ziale, oltre a nascere da una mediazione culturale fra poche, elitarie cul-
ture di tradizione dogmatica (soprattutto quelle tedesca, spagnola e ita-
liana) (61).
Il Corpus juris, dunque, per quanto si sforzi di enucleare anche prin-
cipi europei e alcune definizioni di parte generale (mens rea, errore, re-
sponsabilità penale individuale, tentativo, responsabilità di capi e prepo-
sti, nonché delle persone giuridiche), oltre a norme sulle sanzioni e sulle
discipline processuali, non costituisce un codice-modello per la ristrettis-
sima cerchia delle fattispecie contemplate (otto incriminazioni: artt. 1-8) e
per il fatto che si colloca nell’ottica esclusiva (‘‘raison d’être’’) di una tu-
tela degli interessi finanziari dell’Unione (62): un progetto dal raggio d’a-
zione così circoscritto non può costituire un paradigma generale per una
legislazione europea, ma un microsistema penale europeo, che aspira a
naturale’’ (più o meno riconosciuta) del Corpus juris trovasi oggi materializzata nel Libro
verde della Commissione europea del dicembre 2001.
(59) V. ante, nota 4.
(60) Il testo (58 articoli, dei quali 22 solo di parte generale) degli ‘‘Eurodelitti’’, ela-
borati da una commissione privata di studiosi di varie nazionalità europee, coordinati da
Klaus Tiedemann, si può ora leggere in TIEDEMANN (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der eu-
ropäischen Union, Freiburg-Symposium, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 2002,
p. 449 ss., preceduto da ampie relazioni introduttive, generali e sulle varie materie regolate
(per l’Italia, cfr. i contributi di Palazzo e Foffani). Oltre all’introduzione di Tiedemann in
questo volume, cfr. anche ID., ‘‘Europa-Delikte’’ - Vorschläge zur Harmonisierung des Wirt-
schaftsstrafrechts in der EU, in Fest. Spinellis, Sakkoulas Verlag, 2001, p. 1097 ss. (estratto,
s.l.).
(61) Nel senso che non possa parlarsi di codici penali modello con riferimento a pro-
getti di settore, MILITELLO, Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto al
crimine organizzato, in MILITELLO-PAOLI-ARNOLD (curatori), Il crimine organizzato come fe-
nomeno transnazionale, cit., p. 17, nota 46.
(62) Così, espressamente, la sintesi introduttiva curata da DELMAS-MARTY, in DEL-
MAS-MARTY/VERVAELE (eds.), The Implementation of the Corpus Juris in the Member States,
vol. I, cit., p. 62.
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(63) Si cfr. in particolare i §§ da 6 a 8 (pp. 43-77 del dattiloscritto) del Libro verde.
(64) Cfr. TIEDEMANN, Grunderfordernisse einer Regelung des Allgemeinen Teils, in
ID., (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der europäischen Union, cit., p. 5.
(65) Sulle tecniche di attuazione di un modello come gli ‘‘Eurodelitti’’ i proponenti
sono molto aperti (cfr. TIEDEMANN, Vorwort a ID. (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der euro-
päischen Union, cit., pp. IX-X) e si affidano sostanzialmente a strumenti ‘‘collaborativi’’ del
terzo pilastro: cfr., nel citato volume curato da Tiedemann, i contributi redatti da SATZGER,
Rechtspolitische Möglichkeiten zur Realisierung der Tatbestandsvorschläge, cit., spec. p. 86
s., e PRADEL, Wege zur Schaffung eines einheitlichen Europäischen Rechtsraums, ivi, p. 55
ss. Sull’argomento v. ora anche i rilievi di BERNARDI, Strategie per l’armonizzazione, cit., p.
31 ss. (dattiloscritto).
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ché invade e soppianta il diritto penale economico di tutti gli Stati. È più
generico, se si considera che gli Eurodelitti non si misurano (per ora?)
con collaudi di fattibilità nei vari sistemi nazionali degli Stati membri, né
sorgono da un’opera di comparazione ‘‘dal basso’’ e di maggior valore de-
mocratico, né si preoccupano degli indispensabili raccordi processuali e
ordinamentali. Si tratta, perciò, di un progetto obiettivamente lontano da
una realistica recezione a breve termine. Nessuno potrebbe seriamente
pensare, oggi, di introdurlo così com’è nel diritto degli Stati membri. Ciò
considerato, esso può solo aspirare, in un prosieguo eventuale della sua
elaborazione, a diventare un codice modello del diritto penale economico
europeo, con eventuali, ulteriori estensioni per materia (66).
(66) Non rappresenta, invece, un modello a sé quello che faccia leva sulla predisposi-
zione di accordi specifici per singole materie (o gruppi di norme) di volta in volta elaborate,
da attuare mediante accordi internazionali sottoscritti da tutti i paesi dell’UE. A favore di un
tale modus procedendi RIZ, Unificazione europea e presidi penalistici, in RTDPE, 2000, p.
197 ss. Questo strumento tecnico, di per sé, è utilizzabile rispetto a tutti e tre i paradigmi so-
pra delineati, ma non rappresenta un modello autonomo per il fatto che riguarda solo gli
strumenti operativi per realizzare progetti dal contenuto più variabile, e comunque ipotesi di
intervento circoscritte, da delibare di volta in volta. Una politica dei piccoli passi certo reali-
stica e percorribile da subito, che tuttavia rappresenta la rinuncia a inquadramenti più gene-
rali tali da coinvolgere maggiormente i sistemi interni, oppure tali da affiancare ai sistemi in-
terni, altri sistemi paralleli di diritto penale europeo.
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(a difesa di tali costruzioni classiche, da ultimo, WEIGEND, Zur Frage eines ‘‘internationalen’’
Allgemeinen Teils, in Fest. Roxin, cit., spec. p. 1380 ss.; diversa posizione in VOGEL, Wege
zu europäisch-einheitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, cit., p. 331 ss.).
Penso peraltro che le parti generali siano da sempre state riempite di scelte politiche diffe-
renziate: ciò è accaduto ogni qual volta all’interno di una categoria (tentativo, concorso di
persone, causalità, errore, ecc.) si sono confrontate diverse letture che, nella prassi, hanno
trovato tutte applicazione: magari alcune a certi tipi di reati e di autori e altre ad altri tipi di
reati e autori. Ciò sia detto non per legittimare l’esistente, ma per evidenziare da un lato l’ap-
parente imparzialità di varie soluzioni generali e la loro inevitabile manipolabilità in con-
creto, e dall’altro la stessa opportunità di soluzioni più chiare ed esplicite nel loro orienta-
mento politico.
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(72) Sulla questione dell’esperibilità di tali procedure di infrazione nei confronti de-
gli strumenti del terzo pilastro, cfr. BERNARDI, Strategie per l’armonizzazione, cit., p. 33 ss.
(del dattiloscritto).
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(77) Anche nel Libro verde dell’11 dicembre 2001 manca una disciplina di raccordo
fra regole europee comuni e discipline nazionali generali, ciò che peraltro dipende dalla
scelta operata dalla Commissione, di rinunciare a una formulazione di norme di parte gene-
rale (salvo che in materia sanzionatoria e di prescrizione), in vista del rinvio diretto e inte-
grale alle diverse discipline nazionali, delle quali terrà conto la Procura europea nella stessa
scelta dell’autorità giudiziaria da adire.
(78) Ricordo ancora i rilievi di ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., pp. 220-223, che
proprio per tali ragioni riteneva più operativo il principio di proporzione rispetto a quello di
sussidiarietà (ivi, p. 223).
(79) Di recente, su tali aspetti, nella comparazione fra Corte costituzionale italiana e
tedesca, BELFIORE, Giurisprudenza costituzionale e materia penale, cit., p. 41 ss. Nell’ambito
di tale ordine di idee mi sono espresso, ancora, in DONINI, L’art. 129 del progetto di revi-
sione costituzionale, cit., p. 105 s. Devo peraltro precisare che le riserve verso un allarga-
mento dei poteri di intervento della Corte in un senso più ‘‘politico’’ discendeva e discende
dall’assenza di criteri per rendere ‘‘operativo’’ il principio di ultima ratio, esattamente come
avviene per tutti i principi che sono di (prevalente) indirizzo politico. Tuttavia — e qui ri-
siede il nucleo del problema — noi siamo chiamati a cercare quei criteri (altrimenti ‘‘prescri-
viamo’’ una politica criminale della quale non sappiamo valutare la razionalità o indichiamo
parametri troppo soggettivi per valutarla), e l’esempio europeo della sussidiarietà comunita-
ria, a mio avviso, costituisce un terreno importante di discussione e di verifica nel senso indi-
cato.
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(80) Per es. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, cit., p. 370; FIANDACA, La legalità
penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale, in Foro it., 2000, V, c. 142; GUAZ-
ZALOCA-INSOLERA-SFRAPPINI-TASSI, Controllo di ragionevolezza, cit., p. 46 s., via via con altri
richiami. Istruttivo, al riguardo, anche il dibattito sull’art. 129 del Progetto di revisione co-
stituzionale della Bicamerale.
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(84) In tal senso si parla già di diritto penale europeo in senso lato. Per una precisa
analisi dell’influenza del diritto comunitario e dell’esigenza di interpretazioni conformi al di-
ritto europeo, sul terreno del diritto penale alimentare, della concorrenza e delle frodi, dal
punto di vista dell’esperienza tedesca, cfr. HECKER, Strafbare Produktwerbung im Lichte des
Gemeinschaftsrechts, Mohr Siebeck, Tübingen, 2001, p. 344 ss. e passim.
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(85) HASSEMER, Ein Strafrecht für Europa, cit., pp. 9-10 (del dattiloscritto).
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PARTECIPAZIONE ALL’ORGANIZZAZIONE CRIMINALE
E STANDARDS INTERNAZIONALI D’INCRIMINAZIONE
LA PROPOSTA DEL PROGETTO COMUNE EUROPEO
DI CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA (*)
(*) Testo, rivisto e completato dei riferimenti, della relazione presentata al convegno
‘‘Criminalità transnazionale tra esperienze europee e risposte penali globali’’ (Centro F. Car-
rara, Lucca 24-25 maggio 2002).
(1) Esempi di recenti iniziative globali in GODSON-WILLIAMS, Strenghtening Coopera-
tion against Transnational Crime: A new security Imperative, in Combating Transnational
Crime. Concepts, Activities and Responses, Williams-Vlassis (eds.), London 2001, p. 332.
Per le iniziative delle Nazioni Unite sul terreno, specifico ma di grande importanza, del ter-
rorismo, cfr. CORELL, Possibilities and Limitation of International Sanctions Against Terro-
rism, in Countering Terrorism through International Cooperation, Schmid et al. (eds.), Mi-
lano 2001, p. 245 s.
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(4) I lavori sono stati raccolti in tre volumi e pubblicati dal Max-Planck-Institut für
internationales und ausländisches Strafrecht: Il crimine organizzato come fenomeno tran-
snazionale. Forme di manifestazione, prevenzione in Italia, Germania e Spagna, MILITELLO-
PAOLI-ARNOLD (a cura di), Milano-Freiburg, 2000 (in Italia il volume è distribuito da Giuf-
frè); Organisierte Kriminalität als grenzüberschreitendes Phänomen. Erscheinigungsformen,
Prävention und Repression in Italien, Deutschland und Spanien, MILITELLO-ARNOLD-PAOLI
(Hrsg.), Freiburg, 2000; Towards a European Criminal Law Against Organised Crime. Pro-
posals and Summaries of the Joint European Project to Counter Organised Crime, MILI-
TELLO-HUBER (eds.), Freiburg, 2001. Informazioni sulla struttura, i contenuti e le proposte
conclusive del progetto sono reperibili in www.iuscrim.mpg.de/forsch/beide/falcone1.html.
Cfr. anche RUGA RIVA, in questa Rivista, 1999, p. 1435 s., MEHRENS, in ZStW, 2000, p. 461
s. e da ultimo PAPA, Repressione del crimine organizzato: incertezze italiane e prospettive
transnazionali, in Dir. pen. proc., 2002, p. 797 s.
(5) L’Unione Europea, tramite il proprio Commissario alla Giustizia ed agli Affari in-
terni, Antonio Vitorino, ha aderito alla Convenzione nel primo gruppo delle parti contraenti,
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che hanno formalizzato la propria adesione ad apertura della Conferenza di Palermo (12 di-
cembre 2000). A distanza di un anno e mezzo il numero dei Paesi firmatari della Conven-
zione ha raggiunto i tre quarti degli Stati membri delle Nazioni Unite (maggio 2002, 141 -
fonte: United Nations Centre for International Crime Prevention). Per un primo orienta-
mento sui tratti qualificanti del testo cfr. H.J. ALBRECHT, The UN Transnational Crime Con-
vention - An Introduction, in The Containment of Transnational Organized Crime, H.J. AL-
BRECHT-FIJNAUT, Freiburg, 2002, p. 1 s.
(6) Sin dal primo congresso del 1955 vennero fissate le regole standard minime per il
trattamento dei prigionieri. Per una completa panoramica su tali iniziative cfr. il Compen-
dium of U.N. Standards and Norms in Crime Prevention and Criminal Justice, in www.un-
cjin.org/standards/compendium.
(7) Per un quadro di sintesi della normativa speciale in Italia, INSOLERA, Diritto pe-
nale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, p. 25 s. ed i richiami a p. 199 s. Più di re-
cente G. DE FRANCESCO, Prospettive de lege ferenda in materia di criminalità organizzata:
un’introduzione, in La criminalità organizzata tra esperienze normative e prospettive di col-
laborazione internazionale, Id. (cur.), 2001, p. 12 s. Un’ampia indagine comparata sulle
normative in tema di criminalità organizzata nei principali sistemi penali può trovarsi in
Rechtliche Initiativen gegen organisierte Kriminalität, GROPP-HUBER (Hrsg.), Freiburg,
2001. Per la Francia cfr. anche MAYAUD, Le crime organisé, in Le nouveau code pénal en-
jeux et perspectives, Paris, 1994, p. 60 s.; BERNARDI, La disciplina prevista dal nuovo codice
francese in tema di criminalità organizzata, in questa Rivista, 2000, p. 988 s.
(8) È diffuso il rilievo che il richiamo alla ‘‘criminalità organizzata’’ sia stato una
sorta di salvacondotto utilizzato dai legislatori nazionali per ricorrere a misure restrittive
delle libertà personali: cfr. in tal senso la sintesi della ricerca comparata già ricordata
(GROPP, Rechtsvergleichende Beobachtungen, in Rechtliche Initiativen, cit., nt. 7, p. 943). In
termini ancor più radicali, i riferimenti del Trattato UE di Amsterdam alla nozione di ‘‘crimi-
nalità organizzata’’ sono stati criticati in quanto si tratterebbe di una ‘‘definizione priva di
contenuti empirici’’, che ‘‘si sottrae ad una interpretazione razionale e dai contenuti determi-
nabili’’ (così P.A. ALBRECHT et alii, 11 Thesen zur entwicklung rechtsstaatlicher Grundlagen
europäischen Strafrechts, in Kritische Vierteljahreschrift für Gesetzgebung und Rechtswis-
senschaft (di seguito KritV), 2000, p. 283 s.). Peraltro le ‘‘critiche fondamentalistiche’’ nei
confronti dell’impegno europeo in campo penale rischiano di trascurare le caratteristiche at-
tuali del fenomeno criminale, come rileva anche chi sengala le difficoltà di questa ‘‘nuova
frontiera’’: SCHÜNEMANN, Ein Gespenst geht um in Europa - Brüsseler ‘‘Strafrechtspflege’’ in-
tra muros, in GA, 2002, p. 513.
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(9) Art. 2: ‘‘Ai fini della presente Convenzione: ‘Gruppo criminale organizzato’ in-
dica un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più per-
sone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti
dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio
finanziario o un altro vantaggio materiale’’.
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vista in Italia (cinque anni) dove può arrivare nel massimo al doppio della
prima (dieci anni: art. 629 c.p.); in Francia l’art. 312-1 c.p. prevede un
massimo di sette anni di emprisonnement, la pena prevista per la catego-
ria intermedia dei delitti il cui massimo è fissato in generale in dieci anni
(art. 131-4 1o c.p.); invece in Portogallo, nei casi non aggravati il massimo
non supera i tre anni (art. 317 c.p.), mentre in Spagna la pena va da un
minimo di un anno ad un massimo di cinque (art. 243 c.p.). Ovviamente,
le discrasie aumentano a dismisura non appena il confronto si estende a
sistemi giuridici appartenenti ad aree giuridiche più lontane: solo per ri-
chiamare un esempio in tema di estorsione, in Bolivia la si considera un
delitto meno grave e si commina una reclusione da uno a tre anni (art.
333 c.p.), pur in un sistema penale che prevede la pena di morte (art. 26
c.p.).
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma tanto basta a comprovare
che il riferimento della Convenzione di Palermo ad una pena detentiva di
quattro anni per il ‘‘reato grave’’, assunto a scopo dell’organizzazione cri-
minale, lascia fuori situazioni come quelle richiamate per l’estorsione in
Belgio ed in Bolivia. Di fronte allora ad una situazione sanzionatoria an-
cora fortemente frammentata a livello mondiale, sarebbe stato preferibile
affidare ai singoli stati, in sede di ratifica, la specificazione della nozione
di reato grave e limitarsi ad indicare in sede sovranazionale una lista di
singoli reati da considerare necessariamente come tali.
La formula adottata in relazione all’altro elemento normativo richia-
mato dalla norma, la definizione di ‘‘gruppo strutturato’’, risulta invece
non altrettanto determinata, in quanto si esclude solo l’ipotesi estrema
che il gruppo sia ‘‘casualmente formato per la commissione immediata di
un reato’’. Si potrebbe allora pensare che si sia con ciò inteso limitare la
portata del riferimento alle situazioni in cui il gruppo presenti una qual-
che stabilità dei componenti e nei rispettivi ruoli criminali. Ma ciò viene
espressamente escluso: la norma specifica che ‘‘non è necessario che il
gruppo abbia ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità dei
partecipanti o una struttura sviluppata’’ (art. 2, lett. c). Si tratta di un im-
portante punto distintivo rispetto ai requisiti richiesti in altri recenti docu-
menti internazionali in materia: ad esempio, la prima risoluzione del già
inizialmente richiamato Congresso dell’Association International de Droit
Pénal di Budapest del settembre 1999 richiede l’esistenza di una ‘‘orga-
nizzazione altamente strutturata’’. Un requisito che però restringe immo-
tivamente la fenomenologia contemporanea del crimine organizzato (10).
L’adozione di un rigido modello organizzativo è solo una possibilità, stori-
(10) Criticamente in proposito, durante la fase dei lavori preparatori, ad es. MARI-
NUCCI,General Part, in Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, XVIth Internatio-
nal Congress of Penal Law - Introduction to Debate, Milano, 1999, p. 7.
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(11) Il rilievo è condiviso da PAPA, Repressione del crimine organizzato, cit. nota 4,
p. 799.
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(12) Art. 5, comma 1, a), ii: ‘‘La condotta di una persona che, consapevole dello
scopo e generale attività criminosa di un gruppo criminale organizzato o della sua intenzione
di commettere i reati in questione, partecipa attivamente: a) alle attività criminali del
gruppo criminale organizzato; b) ad altre attività del gruppo criminale organizzato consape-
vole che la sua partecipazione contribuirà al raggiungimento del suddetto scopo criminoso’’.
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lité organisée, Leclerc (dir.), Paris, 1996, p. 164 s. — la svolta in proposito a livello europeo
si deve alla versione di Amsterdam dei Trattati ed alla contestuale adozione del ‘‘Piano d’a-
zione contro la criminalità organizzata’’, adottato dal Consiglio dell’Unione europea nel giu-
gno del 1997 e pubblicato in GUCE C 251 del 15 agosto 1997. Sull’importanza di tale qua-
dro normativo per l’emersione di un diritto comune europeo in tema di criminalità organiz-
zata ho richiamato l’attenzione in Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il con-
trasto alla criminalità organizzata, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale,
cit. nt. 4, p. 15 s. Posizioni più scettiche però non mancano: cfr. ad es. FIJNAUT, Transnatio-
nal Organized Crime and Institutional Reform in the European Union: the Case of Judicial
Cooperation, in Combating Transnational Crime, cit. nt. 1, p. 276 s., la cui valutazione è pe-
raltro riferita ad una ricostruzione degli sviluppi in materia fino alla metà del 1998 (oltre che
fondata su una sottovalutazione dell’importanza della cooperazione internazionale in mate-
ria penale per contrastare il crimine organizzato: p. 280). Ma, oltre alle azioni comuni qui di
seguito richiamate, l’impegno politico europeo sul tema è stato ribadito in ulteriori prese di
posizione: il piano di azione del Consiglio di Vienna del dicembre 1998; le conclusioni del
Consiglio di Tampère dell’ottobre 1999, dedicato proprio ai temi della Giustizia; il memo-
randum dell’Unione europea sulla strategia contro il crimine organizzato, pubblicato il 3
maggio 2000.
(15) La citata azione comune, adottata il 21 dicembre 1998 dal Consiglio sulla base
dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, è pubblicata in GUCE L 351 del 29 dicembre
1998.
(16) Il riferimento è sopratutto alle azioni comuni (sempre adottate dal Consiglio
sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea) in tema di contrasto dei profitti ille-
citi e di estensione della punibilità alla corruzione nel settore privato: rispettivamente del 3
dicembre 1998, sul riciclaggio di denaro e sull’individuazione, il rintracciamento, il congela-
mento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato; e del 22 dicembre
1998 sulla corruzione nel settore privato (in GUCE L 333 del 9 dicembre 1998 e L 357 del
31 dicembre 1998).
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(17) Europol (ed.), 2000 European Union organised crime situation report, Luxem-
bourg (Office for Official Pubblications of the European Communities), 2001, in specie p.
10 s. (oltre alla qui citata versione pubblica, del rapporto esiste anche un’edizione riservata
contenente maggiori dati e valutazioni). Su tale struttura di avanzata cooperazione di polizia
cfr. GAUTIER, La genèse d’Europol (aspects juridiques), in La criminalité organisée, cit. nt.
14, p. 241 s.; OBERLEITNER, Shengen und Europol, Wien, 1998, p. 54 s., p. 92 s.; MEYER, Or-
ganisierte Kriminalität, in Festschrift für Kaiser, H.-J. Albrecht et al. (Hrsg.), Berlin, 1999,
p. 642 s.
(18) La polizia criminale tedesca rileva dal 1992 che i gruppi a composizione nazio-
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origine straniera (19), fra cui in particolare vengono segnalate come com-
ponenti più significative quelle italiana, kossovo-albanese e turca, confer-
mando così i corrispondenti dati provenienti dall’Europol (20).
3.1.2. A fronte di una accertata presenza di manifestazioni transna-
zionali nell’attuale realtà criminale europea, la considerazione legale del
fenomeno nei sistemi penali degli Stati membri appare ancora fortemente
differenziata. La molteplicità delle singole risposte nazionali può ordinarsi
secondo un triplice livello di formalizzazione legale (21): a) la soluzione
che non prevede un’incriminazione autonoma; b) la previsione di una fi-
gura di reato autonoma, ma genericamente rivolta all’associazione per de-
linquere; c) l’introduzione di una figura di reato non solo autonoma, ma
anche specificamente mirata alle caratteristiche delle organizzazioni crimi-
nali. Per comprendere meglio la rispettiva adeguatezza all’esigenza di con-
trastare il fenomeno in questione è utile considerare distintamente caratte-
ristiche e diffusione delle indicate tipologie normative.
a) La prima soluzione è adottata da un numero limitato di Paesi
membri dell’Europa del Nord, come la Finlandia, la Danimarca e la Sve-
zia, i cui codici penali non incriminano autonomamente la partecipazione
all’organizzazione criminale in quanto tale. La rilevanza penale della con-
dotta dei soggetti dipende dalla commissione di un diverso reato, almeno
nella forma tentata, e dalla possibilità di applicare le regole sul concorso
di persone. Rispetto alla realizzazione individuale, la partecipazione ad un
gruppo organizzato può rilevare al più come circostanza che aggrava la
pena prevista per il reato commesso. Il fatto di reato rimane dunque fon-
damentalmente identico nei suoi caratteri costitutivi, ma la provenienza
nale eterogenea non solo rappresentano la netta maggioranza, ma segnalano anche una de-
cisa crescita: da meno del 60% nel 1992 hanno raggiunto nel 1998 il 77,2% sul totale: cfr.
BUNDESKRIMINALAMT (Hrsg.), Lagebild Organisierte Kriminalität 1998 Bundesrepublik
Deutschland. Kurzfassung, Wiesbaden 1999, p. 8 s.
(19) Sempre secondo i dati della polizia criminale tedesca, nel 1998 la quota di stra-
nieri indagati in Germania per fatti di criminalità organizzata è stata del 62,7% sul totale:
cfr. BUNDESKRIMINALAMT, ivi, p. 8 s.
(20) Così sulla base di considerazioni attinenti al grado di organizzazione, professio-
nalità, insediamento dei singoli gruppi, BUNDESKRIMINALAMT, ivi, p. 35.
(21) Invece, per una più semplice bipartizione delle soluzione positive adottate nei
Paesi-membri, a seconda che la incriminazione autonoma della conspiracy sia o meno di-
stinta dalla definizione del concorso di persone nel reato, cfr. il rapporto di sintesi della se-
conda edizione del corpus juris: DELMAS-MARTY, Necessity, legitimity and feasibility of the
corpus juris, in The implementation of the corpus juris in the Member States, Delmas-Marty-
Vervaele (eds.), Antwerp, 2000, p. 69. Il testo si fonda sul rapporto comparato di SICU-
RELLA, Criminal Law Special Part: Articles 1-8 Corpus Juris (draft of 1997), ivi, p. 232 s.
Non sembra peraltro che tale lettura sia chiarificatrice perché per un verso porta ad accomu-
nare sistemi in cui esiste un’incriminazione autonoma (come la Francia) con quelli che ne
sono invece del tutto privi (come la Danimarca) e per altro verso non differenzia fra l’incri-
minazione generale dell’associazione (come in Germania ed in Portogallo) ed una figura spe-
ciale che definisca particolare modalità di realizzazione (come in Italia l’art. 416-bis c.p.).
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(22) Così in particolare in Finlandia (cap. 6, sez. 2, c.p.; ed in specie, per i reati in
materia di stupefacenti, cap. 50); in Danimarca (par. 80, comma 2, c.p. per la possibile rile-
vanza in sede di commisurazione della pena); in Svezia (dove peraltro è prevista un’incrimi-
nazione autonoma, ma relativa ai casi in cui il gruppo di soggetti assuma carattere di banda
armata o natura paramilitare: cap. 18, sez. 4, c.p.).
(23) ‘‘1) Constitue une association de malfaiteurs tout groupement formé ou entente
établie en vue de la préparation, caractérisée par un ou plusieurs faits matériels, d’un ou
plusieurs crimes ou d’un ou plusieurs délits punis de dix ans d’emprisonnement. 2) La par-
ticipation à une association de malfaiteurs est punie de dix ans d’emprisonnement et de
1 000 000 F d’amende’’. Sulla maggiore ampiezza rispetto al precedente art. 265 del c.p. del
1810 cfr. BORRICAND, La criminalité organisée transfrontière, cit., nt. 14, p. 158.
(24) ‘‘Sono punibili le associazioni illecite, considerandosi tali: 1) Quelle che hanno
come obiettivo la commissione di qualche delitto o, dopo essere state costituite, ne promuo-
vono la commissione. 2) Le bande armate, le organizzazioni o i gruppi terroristici.
3) Quelle che, pur avendo come obiettivo una finalità lecita, impiegano per il suo raggiungi-
mento mezzi violenti o di alterazione o controllo della personalità. 4) Le organizzazioni di
tipo paramilitare. 5) Quelle che promuovono la discriminazione, l’odio o la violenza contro
persone, gruppi o associazioni in ragione della loro ideologia, religione o convinzioni, del-
l’appartenenza dei loro membri o di alcuni di essi ad un’etnia, razza o nazione, del loro
sesso, tendenze sessuali, situazione familiare, infermità o menomazione o incitano a ciò’’.
(25) ‘‘Associaziane criminosa: 1) Chiunque promuove o fonda un gruppo, organiz-
zazione o associazione la cui finalità è attività sia diretta alla commissione di delitti è punito
con la pena della reclusione da 1 a 5 anni. 2) È punito con la stessa pena chi fa parte di tali
gruppi, organizzazioni o associazioni o chi li appoggia, in particolare fornendo armi, muni-
zioni o strumenti del delitto, protezioni o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del
reclutamento di nuovi elementi. 3) Chiunque capeggia o dirige i gruppi, organizzazioni o as-
sociazioni di cui ai numeri precedenti è punito con la pena della reclusione da 2 a 8 anni.
4) Le pene stabilite possono essere specialmente attenuate o può essere esclusa la punibilità
se l’agente impedisce o si sforza seriamente di impedire il perdurare di gruppi, organizza-
zioni o associazioni, o comunica all’autorità la loro esistenza in modo che questa possa evi-
tare la commissione di delitti’’.
(26) Alla luce delle modifiche apportate con l. 4 aprile 1999, il testo è del seguente
tenore: ‘‘1) La partecipazione in un’organizzazione che ha ad oggetto la commissione di
reati sarà punita con un periodo di detenzione non superiore a sei anni o con un’ammenda di
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quarta categoria (Fior. ol. 100.000). 2) La partecipazione alla continuazione delle attività di
una persona giuridica che sia vietata dall’autorità giudiziaria e per quelle materie che sono
state interdette sarà punita con un periodo di detenzione non superiore ad un anno o con
un’ammenda di terza categoria (Fior. ol. 10.000). 3) Nei confronti dei fondatori e dei diret-
tori il periodo di detenzione può essere aumentato di un terzo o può essere applicata un’am-
menda di categoria più elevata’’.
(27) In particolare: l’art. 322 c.p. belga, che incrimina l’associazione formata al fine
di attentare a persone o a beni, al pari dell’art. 322 c.p. lussemburghese; gli artt. 187 e 188
c.p. greco incriminano l’accordo e costituzione di una banda finalizzata alla commissione di
reati e, rispettivamente, la partecipazione ad una società illecita.
(28) ‘‘1) Chiunque fonda un’associazione i cui scopi o la cui attività siano diretti a
commettere reati, o partecipa ad una tale associazione come membro, la propaganda o la so-
stiene, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria. (...) 3) È
punibile il tentativo di fondare un’associazione del tipo descritto al comma 1. 4) Se l’agente
fa parte dei dirigenti o dei mandanti, oppure sussiste un caso particolarmente grave, si deve
infliggere la pena detentiva da sei mesi a sei anni. 5) Per i partecipanti la cui colpevolezza
sia minima e la cui cooperazione sia di importanza subordinata il giudice può rinunciare alla
pena prevista dai commi 1 e 3’’.
(29) La figura punisce ogni accordo tra due o più persone diretto alla commissione
di un atto illecito o al raggiungimento di un fine lecito tramite mezzi illeciti, Si tratta di un
reato di common law che in Inghilterra ha ricevuto una formalizzazione normativa nel Cri-
minal Law Act 1977 (GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993, pp. 92 s.,
127 s., 149 s.), mentre nel sistema statunitense le fattispecie in questione sono numerosis-
sime (oltre cento ne segnala PAPA, La ‘‘conspiracy’’ nel diritto penale statunitense, Firenze,
1989, p. 20 s.).
(30) Esempi di questa versione sono le già richiamate figure dell’associazione illecita
punita in Spagna e della conspiracy nella tradizione di common law.
(31) Ad es. in Francia ‘‘gruppo dedito al traffico di stupefacenti’’ (artt. 222-34; 222-
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35, comma 2, c.p. franc.; sui relativi rapporti con l’incriminazione dell’association de mal-
faiteurs cfr. MAYAUD, Le crime organisé, cit. nt. 7, p. 64; più problematica invece la conside-
razione dei reati di terrorismo fra i reati di criminalità organizzata: cfr. BERNARDI, op. cit., nt.
7, p. 1000 s.; ZIESCHANG, Frankreich, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 394); in Germa-
nia l’incriminazione dell’associazione terroristica (par. 129a c.p. ted.) e della banda dedita al
traffico di stupefacenti (parr. 30, 30a, legge stup. ted.); in Gran Bretagna, l’incriminazione
delle organizzazioni terroristiche (di recente modificata con il Terrorism Act 2000: cfr. HU-
BER, England, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 251 s.); in Spagna le incriminazioni
delle bande armate, delle organizzazioni o gruppi di terrorismo, della partecipazione ad or-
ganizzazioni finalizzate o al riciclaggio o al traffico di stupefacenti (rispettivamente artt.
571, 302, 369, comma 6, c.p. spagn., sui quali PIFARRÉ, La criminalità organizzata in Spa-
gna, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, cit. nt. 4, pp. 134 s., 154 s.,
149 s.); in Grecia, l’incriminazione della costituzione di associazioni finalizzate a particolari
reati gravi, come attentati alla sicurezza area traffico di stupefacenti, omicidio lesioni gravi
mediante armi o esplosivi etc. (l. n. 1916/1990 sulla ‘‘tutela della società contro il crimine
organizzato’’, abrogata però dalla l. n. 2172/1993: cfr. KAREKLAS, Griechland, in Stra-
frechtsentwicklung in Europa - 4.1, Eser-Huber (Hrsg.), Freiburg, 1993, p. 564 s.; LIADI,
Griechland, in op. cit. - 5.2, Eser-Huber (Hrsg.), ivi, 1999, p. 988).
(32) Ad es. in Francia il nuovo codice penale ha avvertito il collegamento fra crimi-
nalità organizzata e traffico di stupefacenti (v. le incriminazioni richiamate alla nota prece-
dente), ma non quello con la corruzione, benché in dottrina sia ormai segnalato il dato che
questa non è più una vicenda che si esaurisce fra due persone, ma che ha assunto il carattere
di un ‘‘sistema organizzato’’: così DUCOULOUX-FAVARD, Fausses factures et corruption, Dal-
loz, 1996, chronique 353.
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(33) Cfr. l’incisivo giudizio di INGROIA, Associazione per delinquere e criminalità or-
ganizzata. L’esperienza italiana, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale,
cit. nt. 4, p. 239. Il dato è riconosciuto anche all’estero: ad es. DEBACQ, La lutte contre la cri-
minalité organisée de type mafieux en Italie: développements récents, bilan et perspectives,
in La criminalité organisée, cit. nt. 14, p. 211.
(34) Così ad esempio l’organizzazione criminale è ora punita anche in Austria (par.
278a c.p.), in Belgio (art. 324-bis e 324-ter c.p.) ed in Lussemburgo (art. 324-bis e 324-ter
c.p.).
(35) Il riferimento della norma richiamata nel testo è ad un’associazione strutturata,
esistente da tempo e composta da almeno tre persone che agiscono in modo concertato —
dunque secondo una ripartizione del lavoro — per realizzare un programma criminoso quali-
ficato. I reati che vi rientrano devono essere di una gravità predeterminata in generale e rife-
rita alla sanzione massima minacciata (non deve essere inferiore a quattro anni di pena de-
tentiva); inoltre, le relative condotte possono essere sorrette anche da un fine di profitto o di
indebita influenza dell’operato dell’autorità pubblica. L’analitica definizione di organizza-
zione criminale contenuta nell’azione comune europea non è peraltro esente da profili poco
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prima indicati, vale a dire quello più profilato rispetto alla specifica peri-
colosità del fenomeno. La successiva previsione dell’azione comune euro-
pea impegna gli Stati membri ad incriminare penalmente condotte, la cui
tipicità fuoriesce dai confini della suddetta nozione di organizzazione, per
fondarsi sui principi generali del concorso di persone in relazione tanto al-
l’organizzazione criminale quanto alle sue attività (art. 2, comma 1, lett.
a) (36).
Si segna così un arretramento al primo dei modelli di rilevanza nor-
mativa del crimine organizzato, che è però sostanzialmente inidoneo a
fondare la specifica meritevolezza di pena delle rispettive forme di manife-
stazione. Né tanto basta: il riferimento alle condotte concorsuali appena
richiamate è affiancato subito dopo dalla possibilità che gli Stati membri
puniscano anche il mero accordo criminoso fra due soggetti non seguito
dall’effettiva realizzazione del reato (art. 2, comma 1, lett. b) (37). Si fini-
sce dunque lontanissimi dalla specifica pericolosità che può legittimare
l’incriminazione dell’organizzazione criminale: una simile previsione è
sorretta solo dalla volontà di non lasciare fuori nessuna possibile forma di
condotta illecita attualmente conosciuta in qualcuno degli Stati membri (il
riferimento è al sistema inglese ed all’ampiezza dei confini che in essa ha
assunto la figura della conspiracy).
Se a tutto ciò si aggiunge che la nozione di organizzazione criminale
viene descritta nell’azione comune con riferimento tanto alla nozione di
convincenti, che affiorano non appena si considera che l’indicazione normativa in questione
si rivolge ad ordinamenti dai caratteri differenziati. Oltre a quanto osservato in precedenza
in relazione all’identico riferimento ai reati scopo dell’organizzazione rilevante ai sensi della
Convenzione ONU (vale a dire, l’incongruenza di un riferimento fisso ad un livello sanziona-
torio per accomunare ordinamenti che conoscono scale sanzionatorie molto differenziate),
non va trascurato che la specificazione nel testo europeo del fine di profitti materiali o di in-
fluenze illecite è operata non come elemento necessario, ma in via solo esemplificativa. Una
scelta che però rende quel riferimento finalistico sostanzialmente superfluo rispetto al fine di
garantire una caratterizzazione realmente selettiva del fenomeno che si intende regolare.
(36) L’art. 2 prevede l’impegno di ciascuno Stato membro a rendere punibili con
sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive almeno una di due condotte connesse
alle organizzazioni criminali, la prima delle quali viene così descritta: ‘‘La condotta di una
persona che, intenzionalmente ed essendo a conoscenza dello scopo e dell’attività criminale
generale dell’organizzazione di commettere i reati in questione, partecipi attivamente:
— alle attività di un’organizzazione criminale rientranti nell’art. 1 anche quando tale
persona non partecipa all’esecuzione materiale dei reati in questione e, fatti salvi i principi
generali del diritto penale dello Stato membro interessato, anche quando i reati in questione
non siano effettivamente commessi;
— alle altre attività dell’organizzazione, essendo inoltre a conoscenza del fatto che la
sua partecipazione contribuisce alla realizzazione delle attività criminali dell’organizzazione
rientranti nell’art. 1.
(37) La seconda condotta di cui l’art. 2 prevede la possibile adozione da parte degli
Stati membri riguarda ‘‘un accordo con una o più persone per porre in essere un’attività la
quale, se attuata, comporterebbe la commissione dei reati che rientrano nell’art. 1, anche se
la persona in questione non partecipa all’esecuzione materiale dell’attività’’.
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(38) Già durante i lavori preparatori della Convenzione delle Nazioni Unite l’Unione
europea aveva espresso il proprio favore all’iniziativa: Posizione comune del 29 marzo 1999
definita dal Consiglio in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sulla proposta
convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata, in GUCE L 87 del 31
marzo 1999, p. 1.
(39) Si tratta di una dichiarazione ufficiale del Ministero della giustizia danese, ripor-
tata in CORNILS-GREVE, Dänemark, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 29.
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(40) Si tratta rispettivamente del noto corpus juris in tema di ‘‘eurofrodi’’, già giunto
alla seconda versione, e del più recente ed ampio progetto di ‘‘eurodelitti’’ in materia econo-
mica condotto da un gruppo di ricerca su iniziativa tedesca; cfr. rispettivamente The imple-
mentation of the corpus juris in the Member States, cit. nt. 20; e Wirtschaftsstrafrecht in der
Europäischen Union, TIEDEMANN (Hrsg.), Köln e al., 2002.
(41) L’insufficienza della previsione originaria rispetto alla caratterizzazione dell’or-
ganizzazione criminale era stata segnalata ad es. da OTTO, Anmerkungen zu den Tatbestän-
den des Besonderen Teils des corpus juris, in Das corpus juris als Grundlage eines Europäi-
schen Strafrechts, Huber (Hrsg.), Freiburg, 2000, p. 162.
(42) La versione inglese del corpus juris nuova edizione riferisce all’organizzazione
l’attributo di ‘‘operational’’, che può intendersi come organizzazione capace di operare an-
che con un apparato mimino di persone e mezzi. Se così intesa però la norma europea ri-
mane nell’ambito della vecchia associazione per delinquere di stampo francese, che non
esprime una pericolosità ulteriore in virtù della complessità della rete criminale creata o
delle sue particolari modalità operative. Invece proprio tale specificità è la ragione d’essere
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nata restrizione dei reati scopo alle sole eurofrodi, vale a dire il requisito
dell’adeguatezza organizzativa, andrebbe chiarito rispetto al relativo ter-
mine di riferimento: una cosa è valutare se l’organizzazione debba essere
adeguata a costituire una presenza stabile, altra invece la valutazione di
adeguatezza rispetto alla capacità di porre in essere particolari tipologie
criminose.
Anche nel recentissimo progetto di ‘‘eurodelitti economici’’ è conte-
nuta una previsione che aspira ad individuare requisiti comuni di una no-
zione di ‘‘associazione criminale’’ a livello europeo. Benché la norma sia
ristretta al pur importante settore dell’immigrazione illegale e della tratta
di esseri umani (art. 28), e così trascuri le possibili manifestazioni della
criminalità organizzata in altre materie pur considerate dallo stesso pro-
getto (sfruttamento di lavoratori, traffico di rifiuti tossici o di specie ani-
mali protette: artt. 23, 41, 43), non manca uno sforzo di specificare i ca-
ratteri strutturali della nozione accolta. In particolare, finalmente si indica
espressamente il requisito organizzativo, ancorché in modo inadeguato ri-
spetto al suo ruolo di ragione stessa dell’incriminazione in questione.
Invece che definire direttamente la organizzazione criminale for-
nendo indicazioni sui termini in cui la struttura organizzativa vada intesa
a livello europeo, la proposta normativa ricorre alla vecchia terminologia
di matrice tedesca di ‘‘associazione criminale’’ e la riferisce ad una ‘‘deci-
sione comune organizzata’’. Al di là di questa innovativa qualificazione,
l’elemento della decisione comune è descritto in termini ampiamente ri-
presi dai precedenti documenti internazionali: deve intercorrere fra al-
meno tre persone, avere carattere duraturo ed essere rivolta alla commis-
sione o dei reati di immigrazione illegale e tratta di esseri umani, previsti
dallo stesso art. 28 del progetto citato, o di altri reati puniti con una pena
detentiva, il cui livello non viene però precisato. Proprio l’incertezza sul
punto è una spia significativa di un contrasto irrisolto in sede di stesura
della proposta: se infatti l’apertura ad altri reati esprime la consapevo-
lezza dell’esigenza di una definizione non limitata allo specifico settore
oggetto della norma, d’altra parte la mancata determinazione del livello di
pena che determina la rilevanza dei reati scopo riflette la difficoltà di fis-
sare un livello unitario in presenza di una situazione sanzionatoria ancora
estremamente diversificata in seno ai sistemi penali europei. Solo una di-
versa tecnica di rinvio ai reati scopo, non vincolata a nessun livello
astratto di pena comune, può però evitare l’inconveniente in questione,
ma non si è riusciti a mettere a punto una soluzione innovativa in propo-
sito.
Neppure il contributo esplicativo della proposta in esame ne riesce a
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(44) In merito alla specificazione di una serie comune di reati gravi ed alla norma
sulla competenza, v. infra, par. 4.3.2.
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(47) Per tale caratteristica cfr. ad es. FIJNAUT, Organisierte Kriminalität: eine wirkli-
che Bedrohung für die europäischer Union?, in Festschrift für Kaiser, cit. nt. 17, p. 512.
Sulle conseguenze in materia processuale ORLANDI, Strumenti processuali e contrasto alla
criminalità organizzata in Italia, in Il crimine organizzato, cit. nt. 4, p. 423 s.
(48) Per limitarsi ad alcuni esempi, cfr. l’art.4 della già citata (supra nt. 15) azione
comune dell’U.E. in tema di partecipazione all’associazione criminale; gli art. 8 e 9 della de-
cisione quadro del Consiglio del 29 maggio 2000, relativa al rafforzamento della tutela per
mezzo di sanzioni penali e altre sanzioni contro la falsificazione di monete in relazione all’in-
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toduzione dell’euro; gli art. 2, 8 e 9 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002
sulla lotta contro il Terrorismo; gli art. 4 e 5 della decisione quadro del Consiglio del 21 di-
cembre 2000 nella lotta alla tratta degli esseri umani.
(49) HUBER, Government Witnesses and Undercover Agents, in Towards a European
Criminal Law, cit. nt. 4, pp. 9-10, e per il relativo rapporto esplicativo p. 109 s.
(50) Cfr. in proposito MEHRENS, Die Kronzeugenregelung für organisiert begangene
Straftaten gemaß Art. 5 KronzG, in Organisierte Kriminalität als transnationales Phänomen,
cit. nt. 4, pp. 306, 313 s.; e da ultimo, RUGA RIVA, Il premio per la collaborazione proces-
suale, Milano, 2002, p. 129 s.
(51) Per tale compatibilità di principio cfr. già PADOVANI, Il traffico delle indulgenze.
‘‘Premio’’ e ‘‘corrispettivo’’ nella dinamica della punibilità, in questa Rivista, 1986, p. 405
s.; PULITANÒ, Tecniche premiali fra diritto e processo penale, ivi, p. 1039 s.
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(52) In particolare, osservazioni scritte alla proposta originaria sono state formulate
in occasione del III workshop del Progetto comune europeo — che si è svolto a Madrid nei
giorni 15-17 giugno 2000 a cura dell’Instituto Europeo de España — da Ardizzone (Univer-
sità di Palermo); Arnold (Max-Planck-Institut, Freiburg); Ingroia (Procura della Repubblica,
Palermo), Kinzig (Max-Planck-Institut, Freiburg); Perez del Valle (Tribunal Supremo de
España, Madrid); successive prese di posizione sono state avanzata da Ducouloux-Favard
(Université de Paris IX) e da Kareklás (Università di Salonicco). Ai rispettivi autori, agli al-
tri intervenuti al dibattito di Madrid che hanno preso posizione sul tema dell’organizzazione
criminale (Aliquò, Procura Generale della Repubblica, Palermo; Eser, Max-Planck-Institut,
Freiburg), ed ad altri colleghi che sono intervenuti sulla proposta in altri incontri di studio
(Silva Sánchez, Università ‘‘Pompeu Fabre’’ di Barcellona, Papa e Grasso, rispettivamente
Università di Firenze e Catania) rivolgo un sentito ringraziamento per gli apporti tanto infor-
mativi, quanto critici, che sono stati forniti alla definizione della proposta.
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(53) L’esatto rilievo delle specificità che ad un attento esame comparato presenta cia-
scun sistema penale (nei confronti delle proposte sovranazionali di standards normativi in
tema di criminalità organizzata PAPA, op. cit., nt. 4, p. 800 richiama l’attenzione sul dato che
‘‘ogni ordinamento è una realtà ... a suo modo unica’’) non deve far trascurare l’impegno di
armonizzazione normativa in materia scolpito nelle norme dei Trattati europei (su cui infra
par. 5).
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(54) Sul punto, nel senso esatto, v. l’intervento di Ingroia al workshop di Madrid. A
conclusioni analoghe giungevo anche in Agli albori, cit. nt. 14, pp. 16 s., 21 s. (incompleto è
dunque il richiamo operato da Kinzig a Madrid al mio riconoscimento delle diversità in ma-
teria esistenti fra i diversi Paesi europei). Anche Perez del Valle, nel suo intervento presen-
tato nella stessa occasione a Madrid, ha efficacemente confutato i tentativi di negare una ri-
levanza europea del fenomeno della criminalità organizzata a partire dall’origine nordameri-
cana della relativa terminologia (come invece sostenuto ad es. da P.A. ALBRECHT-BRAUM, De-
fizite europäischer Strafrechtsentwicklung, in KritV, 1998, p. 465 s.).
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(55) Come la già citata Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale si
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riferisce ad un ‘‘gruppo strutturato di tre persone o più’’, senza richiedere il carattere della
‘‘stabilità’’ (art. 2, lett. a)); al contrario, si specifica che la nozione di ‘‘gruppo strutturato’’
non necessita né di ruoli predefiniti dei suoi partecipanti, né di una continuità degli stessi, né
infine di una struttura sviluppata (art. 2, lett. c).
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(56) Su tali orientamenti recenti in relazione agli omicidi sul muro di Berlino
(BGHSt, vol. 40, p. 218; conf. BGH, 5 StR 42/97 del 30 aprile 1997) e la loro applicabilità
sul terreno della criminalità organizzata, cfr. soprattutto ROXIN, Probleme von Täterschaft
und Teilnahme bei der organiserten Kriminalität, in Festschrift für Grünwald, Samson et al.
(Hrsg.), Baden-Baden, 1999, p. 549 s.; v. anche AMBOS, Tatherrschaft durch Willens-
herrschaft kraft organisatorischer Machtapparate, in Goltdammer’s Arkiv, 1998, p. 226 s. e
per i riferimenti ulteriori CRAMER-HEINE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommen-
tar, München, 2001, p. 498, sub par. 25 ann. 25-25a.
(57) Sul terreno della criminalità mafiosa la decisione di riferimento è quella del c.d.
maxi-processo di Palermo: Cass. 30 gennaio 1992, in Foro it., 1993, II, c. 39, con nota di
FIANDACA. Sul punto in particolare CRUPI, Consenso tacito e partecipazione ai delitti scopo,
con particolare riferimento all’associazione mafiosa, Marsala, 1999.
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(58) Un contrasto che svela tutta l’insufficienza del compromesso liberale fra garan-
zie dell’autore del reato e tutela della potenziale vittime: in proposito sia consentito rinviare
a MILITELLO, Dogmatica penale e politica criminale in prospettiva europea, in questa Rivi-
sta, 2001, p. 416 s.
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limiti in cui questa sia strutturata sul modello verticistico; invece, l’esclu-
sione dei fatti imprevedibili serve solo ad agevolare la prova del rapporto
fra il vertice dell’organizzazione criminosa e le singole azioni criminose e
ciò si giustifica proprio per la notoria impenetrabilità delle articolazioni
interne alle organizzazioni in questione. Del resto, se davvero si trattasse
di una responsabilità strutturalmente colposa, la conclusione non do-
vrebbe essere quella di rifiutare il suddetto schema di imputazione per i
capi, ma di prevedere un’eventuale diminuzione della relativa pena ri-
spetto alla corrispondente forma dolosa degli esecutori materiali. L’evi-
dente contraddizione di valutazione che in tal modo si finirebbe per rea-
lizzare, sanzionando in misura maggiore le pedine dell’attività criminale e
attenuando la responsabilità di chi tiene le fila del complesso apparato che
ne consente l’esplicazione, consiglia però di ribadire la formulazione qui
proposta.
(59) Significativa la vicenda richiamata supra nel testo intorno alla nota 39.
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(60) Per una più ampia illustrazione delle differenze fra azioni comuni e decisioni
quadro nella materia in questione e più in generale del salto di qualità consentito dal Trat-
tato di Amsterdam all’azione di contrasto alla criminalità organizzata in ambito europeo, sia
consentito rinviare a MILITELLO, op. cit., nt. 14, pp. 32 s., 38 s.
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NOTE CRITICHE
IN TEMA DI RICORSO STRAORDINARIO
PER ERRORE DI FATTO
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Errore di fatto e giudicato. — 3. Errori del giudice e vizi dei
provvedimenti della cassazione. — 4. Limiti alla rilevabilità dell’errore di fatto. —
5. Un’interpretazione ‘‘costituzionale’’ dell’errore di fatto.
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(3) Vedi C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2002, p. 371.
(4) Il concetto odierno di mezzi ordinari di impugnazione costituisce l’esito di un di-
battito assai vivace che ha impegnato i maestri del diritto processuale civile. Lessico e con-
cetti sono di matrice francese: il codice di procedura civile prevedeva ‘‘des voies extraordi-
naires pour attaquer les jugements’’, che, secondo la dottrina d’oltralpe, a differenza dei
mezzi ordinari, non impedivano il passaggio in giudicato della sentenza. La distinzione fu ac-
colta nell’ordinamento italiano dall’art. 465 c.p.c. 1865, che classificava tra i mezzi ordinari
l’opposizione e l’appello e tra quelli straordinari la revocazione, l’opposizione di terzo e il ri-
corso per cassazione. L’inclusione di quest’ultimo, però, costituiva un tratto originale: nel-
l’ordinamento francese, per ragioni legate alla storia dell’istituto, il ricorso per cassazione
era disciplinato da leggi speciali. La dottrina italiana cominciò quindi a porsi degli interroga-
tivi sull’effettiva esistenza di tratti comuni alle due classi di impugnazioni e sulla loro ido-
neità a determinare il momento del passaggio in giudicato della sentenza. Si fronteggiavano
tre posizioni. Secondo Calamandrei, la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari si identi-
ficava con quella tra mezzi di gravame e azioni di impugnativa (P. CALAMANDREI, La cassa-
zione civile, II, Torino, 1920, p. 217); poiché non comportano la prosecuzione del processo
bensì l’instaurazione di un procedimento diverso per petitum e causa petendi, le azioni di
impugnativa, e perciò i mezzi di impugnazione straordinari, non possono impedire il passag-
gio in giudicato della sentenza (ivi, pp. 200-207). L’adesione, seppure su basi diverse, al si-
stema francese veniva integrata con la classificazione del ricorso per cassazione tra le azioni
di impugnativa: conseguentemente, anche in pendenza dei termini per proporre il ricorso, la
sentenza doveva comunque considerarsi definitiva (ivi, pp. 234-244). Secondo Mortara, in-
vece, le differenze strutturali tra appello e ricorso per cassazione dovevano considerarsi mi-
nime: quest’ultimo, nei fatti, costituiva un terzo grado di giurisdizione ed era pertanto ragio-
nevole includerlo nella categoria dei rimedi ordinari (L. MORTARA, Commentario del codice e
delle leggi di procedura civile, IV, Milano, s.d., pp. 203-204). Questo Autore, pur conser-
vando alla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari un valore teorico, la riteneva irrile-
vante ai fini della determinazione del passaggio in giudicato della sentenza: in particolare,
dal carattere di condizione risolutiva da attribuirsi a un’eventuale riforma in appello doveva
trarsene la conseguenza della piena efficacia della sentenza di primo grado (ivi, p. 215). La
posizione di Chiovenda era ancora più radicale: la distinzione tra mezzi straordinari e ordi-
nari non solo non poteva essere usata per determinare il momento del passaggio in giudicato
della sentenza, ma non aveva alcun fondamento razionale. A suo giudizio, l’effetto di accer-
tamento del diritto non poteva che conseguire a una sentenza definitiva, ‘‘perché la certezza
non può essere provvisoria’’ (G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Na-
poli, 1936, p. 525). Tale definitività doveva essere accertata in base a tre criteri: larghezza
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nelle condizioni di ammissibilità dell’impugnazione, brevità del termine per proporla, cer-
tezza del dies a quo. L’opinione che lentamente si è imposta in dottrina è poi risultata essere
quella di Chiovenda; sulle posizioni di Calamandrei, però, vedi F. CARNELUTTI, Diritto e pro-
cesso, Napoli, 1958, pp. 276-277. Da notare la discontinuità semantica nell’uso odierno
delle categorie ‘‘mezzi ordinari’’ e ‘‘mezzi straordinari’’: i criteri distintivi generalmente ac-
colti sono quelli impiegati da Chiovenda proprio per smentire la validità della classificazione
(cfr. A. CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973, nt. 68, p. 37). Per un’accu-
rata ricostruzione del dibattito d’inizio secolo, vedi C. CONSOLO, La revocazione delle deci-
sioni della cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989, nt. 9, pp. 192-198.
(5) Per la distinzione tra impugnazioni ordinarie e straordinarie qui accolta, vedi C.
BALBI, La decadenza nel processo civile di cognizione, Milano, 1983, pp. 318-319; M. CHIA-
VARIO, Processo e garanzie della persona, I, Milano, 1982, pp. 206-207; C. MANDRIOLI, op.
cit., pp. 385 e 390; A. GALATI, op. cit., p. 436; G. LEONE, Sistema delle impugnazioni penali,
Napoli, 1935, pp. 48-49; O. LUPACCHINI, Profili sistematici delle impugnazioni penali, in Le
impugnazioni penali, trattato diretto da A. Gaito, Torino, 1998, pp. 131-132; G. TRAN-
CHINA, Impugnazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 750.
(6) A proposito della revisione, vedi F. CARFORA, Cosa giudicata (materia penale), in
Dig. it., VIII, parte 4a, Torino, 1898-1900, p. 281, secondo il quale tale rimedio non impedi-
sce il formarsi della cosa giudicata in quanto ‘‘presuppone uno stato di fatto diverso da
quello che formava la base del pronunziato’’. Nel medesimo senso, di recente, Cass., sez.
un., ud. 26 febbraio 1988, Macinanti, in Cass. pen., 1988, p. 2036.
(7) A volte si rinviene, in dottrina, l’affermazione secondo la quale si definiscono
‘‘straordinari’’ i mezzi di impugnazione che possono essere proposti avverso le sentenze già
passate in giudicato (così, ad esempio, G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, I,
Milano, 1965, p. 50). Si tratta, in un certo senso, di un’inversione logica: è il passaggio in
giudicato che si individua grazie alla struttura del mezzo d’impugnazione, non viceversa (in
tal senso, vedi M. CHIAVARIO, op. cit., p. 206). Può darsi che si tratti semplicemente di un’e-
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spressione sintetica; non va escluso, però, che essa riveli l’adesione ad un orientamento che,
seppure non espressamente, svaluta ogni differenza di tipo strutturale tra mezzi di impugna-
zione ordinari e straordinari, i quali andrebbero distinti solo in base all’avvenuto passaggio
in giudicato della sentenza, aliunde determinato. Ci riferiamo, in particolare, alla teoria del-
l’invalidità proposta da G. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955. Per
spiegare la peculiare efficacia che nel diritto processuale spiegano gli atti viziati, secondo tale
concezione, bisogna presupporre, accanto alle fattispecie valide, ossia perfette ed efficaci in
via definitiva, altrettante fattispecie ‘‘ad effetti precari’’, ossia imperfette ma efficaci fino ad
annullamento o sanatoria (ivi, pp. 47-50). Tra gli elementi necessari delle fattispecie proces-
suali andrebbero ricompresi, perciò, non solo quelli sufficienti a produrre gli effetti per i
quali l’atto è predisposto, ma anche quegli elementi la cui assenza costituisce un motivo di
annullamento (ivi, p. 60). Ogni tipo di reazione dell’ordinamento alle imperfezioni degli atti
costituirebbe una autonoma specie di invalidità (ivi, pp. 56-57). Tra le varie specie d’invali-
dità, occorrerebbe riconoscerne una contraddistinta dall’insanabilità dell’imperfezione, ac-
compagnata tuttavia dalla produzione di effetti, seppure in forma precaria. Nelle imperfe-
zioni sottoposte a tale trattamento, per le quali il giudicato non opera come sanatoria e che
corrispondono alle ‘‘imperfezioni deducibili mediante le c.d. impugnazioni straordinarie’’, gli
effetti ‘‘si producono sia pure in modo precario, nel senso che il vizio rimane latente, pronto
a travolgere il giudicato non appena si realizzino le condizioni richieste al riguardo’’ (ivi, p.
96). È evidente che, secondo tale concezione, non potrebbe determinarsi il passaggio in giu-
dicato della sentenza in base al carattere ordinario o straordinario del mezzo d’impugna-
zione, ma, al contrario, sarebbe la struttura del mezzo di impugnazione ad esser condizio-
nata dal giudicato. Per una critica di tale concezione, vedi F. CORDERO, Le situazioni sogget-
tive nel processo penale, Milano, 1956, pp. 46-52.
(8) Cfr. G. MESSUTI, Commento a Corte cost. n. 17 del 1986, in Le nuove leggi civili
commentate, 1986, p. 589: ‘‘la nozione di ‘straordinarietà’ dei mezzi di impugnazione è le-
gata ai ‘motivi’ che consentono di impugnare una decisione già passata in giudicato e non al
tipo — d’appello, di cassazione — di decisione che si impugna’’.
(9) Nella ricostruzione proposta da A. CRISTIANI, La revisione del giudicato nel si-
stema del processo penale italiano, Milano, 1970, pp. 103-104, concepire la revisione come
rimedio all’errore giudiziario è tecnicamente inesatto, perché prima della revisione stessa
non è possibile parlare di errore, e sistematicamente inappropriato, in quanto non riesce a si-
pegare l’esistenza di limti alla revisione; questa, invece, costituisce uno specifico rimedio per
il caso in cui sorga una diversa certezza giuridica contraddittoria con quella affermata con il
giudicato: solo in questo caso ‘‘il sentimento di sicurezza del diritto che ha bisogno dell’in-
tangibilità del giudicato non viene offeso in quanto dall’antinomia la certezza del giudicato è
stata già posta in crisi’’ (ivi, p. 99).
(10) Sul novum come tratto distintivo della revisione, vedi A. ROCCO, Trattato della
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Alla luce di quanto detto finora, appare evidente che, con l’introdu-
zione dell’art. 625-bis c.p.p., il rapporto tra sentenze della Corte di cassa-
zione e giudicato diventa problematico. I caratteri strutturali del ricorso
per errore di fatto sono quelli tipici dei mezzi di impugnazione ordinari: il
vizio che legittima il ricorso, come meglio apparirà nei paragrafi succes-
sivi, emerge dal contrasto tra sentenza e atti del processo; l’impugnazione
è proponibile entro termini perentori, sebbene più lunghi del consueto, i
quali decorrono dal deposito del provvedimento. Proprio per le medesime
caratteristiche, d’altra parte, la revocazione civile per errore di fatto previ-
sta dall’art. 395, n. 4, c.p.c., che ha costituito il modello al quale si è ispi-
rato il legislatore, nella dottrina processualcivilistica viene pacificamente
considerata alla stregua di un mezzo di impugnazione ordinario (11). Non
a caso, quando, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 17
casa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, in Opere giuridiche, II, Roma,
1932, pp. 267-268; in senso conforme G. DEAN, La revisione, Padova, 1999, pp. 7-8; A. GA-
LATI, op. cit., p. 538; G. GUARNERI, Regiudicata (diritto processuale penale), in Nss. Dig. it.,
XV, Torino, 1976, p. 234; G. SPANGHER, Revisione, in Dig. Disc. pen., XII, Torino, 1997, p.
143. Anche la recente pronuncia dei giudici di legittimità che ha esteso il concetto di nuove
prove di cui all’art. 630, lett. c), c.p.p. alle prove acquisite nel processo ma non valutate dal
giudice (Cass., sez. un., ud. 26 settembre 2001, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 1952), non
scalfisce il principio. L’argomento clou del ragionamento della Corte risiede nell’osserva-
zione che le prove acquisite, ma non valutate dal giudice, non sono state oggetto di giudizio
e, dunque, nel giudizio di revisione costituiscono elementi nuovi (ivi, pp. 1977-1978). L’ar-
gomento logico viene poi rafforzato da un sostegno testuale: l’art. 637, comma 3, c.p.p. vieta
il proscioglimento solo sulla base di una ‘‘diversa valutazione delle prove assunte nel prece-
dente giudizio’’; dunque, se nel giudizio di revisione si valutano per la prima volta prove mai
valutate, non si ha una diversa valutazione delle medesime prove (ivi, p. 1976). L’argomento
regge e le sue finalità sono senz’altro commendevoli. Non è chiaro, però, perché, di fronte
all’omessa valutazione di prove, che costituisce di sicuro un’irregolarità processuale ai sensi
dell’art. 546, lett. e), c.p.p., che potrebbe agevolmente essere considerata una vera e propria
causa d’invalidità della sentenza ai sensi degli artt. 125, comma 3, c.p.p. e 606, lett. c),
c.p.p. e che è conosciuta dalle parti grazie alla semplice lettura della motivazione della sen-
tenza, la Corte di cassazione preclude la strada del controllo di legittimità, che sarebbe la sua
sede fisiologica (vedi, ex plurimis, Cass., ud. 20 novembre 1998, Forlani, in Arch. n. proc.
pen., 1999, p. 49; Cass., sez. III, ud. 9 febbraio 1998, Martiniello, in Cass. pen., 1999, p.
1157), per includere poi tra i motivi di revisione quello che appare come un vero e proprio
vizio della sentenza impugnata. Tra l’altro, la pronuncia in esame stride con l’orientamento
maggioritario della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il giudice ha il potere di
scegliere le prove da porre a fondamento della sua decisione e, conseguentemente, non ha
l’obbligo di motivare su tutte le prove (vedi Cass., sez. II, ud. 10 novembre 2000, Gianfreda,
in Cass. pen., 2002, p. 732; Cass., sez. V, c.c. 17 aprile 2000, Garasto, in Rep. Foro it.,
2000, p. 1561; Cass., sez. I, 11 novembre 1998, Maniscalco, in Giust. pen., 1999, III, c.
597; Cass., sez. VI, ud. 24 ottobre 1997, Todini, in Cass. pen., 1999, pp. 190-191; Cass.,
sez. fer., c.c. 20 agosto 1991, Iermanò, ivi, 1992, p. 969).
(11) Vedi, tra gli altri, CERINO CANOVA-TOMBARI FABBRINI, voce Revocazione, I) Di-
ritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, XVII, Roma, 1991, p. 7; G. CHIOVENDA, op.
cit., p. 525; G. DE STEFANO, La revocazione, Milano, 1957, pp. 4-5; C. MANDRIOLI, op. cit.,
pp. 515 -516.
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lare (14), non ha più capacità esplicativa delle regole che presiedono al
formarsi della cosa giudicata, e provare a individuarne di nuove. Non si
può tuttavia non rilevare, a questo punto, l’esistenza di un ulteriore osta-
colo: far dipendere il passaggio in giudicato dei provvedimenti giurisdizio-
nali esclusivamente dalle determinazioni del legislatore ordinario, o co-
munque attribuire ad esso la facoltà di modificare le regole di formazione
del giudicato, sembra entrare in collisione con l’art. 27, comma 2, Cost.
La Costituzione, affermando che ‘‘l’imputato non è considerato col-
pevole sino alla condanna definitiva’’, impone che nella materia penale
non possa essere data esecuzione ad una sentenza di condanna prima che
essa sia passata in giudicato (15). Si tratta perciò di stabilire se il riferi-
mento alla ‘‘definitività’’ della condanna vada inteso in senso formale ai
provvedimenti che di volta in volta il legislatore considera passati in giudi-
cato o se la norma costituzionale implichi un’autonoma nozione sostan-
ziale di sentenza definitiva. Il problema, in termini generali, è formulabile
nel modo seguente: può ammettersi che una norma costituzionale ricolle-
ghi determinati effetti a presupposti indeterminati, liberamente modifica-
bili dal legislatore ordinario? (16). Depone a favore della interpretazione
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onore di E.T. Liebman, III, Milano, 1979, pp. 1860-1861, secondo il quale ‘‘la descrizione
della fattispecie normativa costituisce una scelta necessaria di ogni disposizione’’, nonché C.
MANDRIOLI, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 della Costituzione, Mi-
lano, 1967, pp. 45-46, secondo il quale la ratio dell’art. 111, comma 7, Cost. consiste nell’e-
sigere che provvedimenti idonei a incidere su diritti soggettivi in modo incontrovertibile non
passino in giudicato senza il preventivo controllo di legalità affidato alla Corte di cassazione.
(17) Secondo V. GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed
efficienza del processo, in Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni,
Milano, 2000, pp. 20-21, l’ostacolo all’esecuzione provvisoria delle sentenze ‘‘rappresentato,
all’interno dell’art. 27, comma 2, Cost., dal riferimento alla ‘condanna definitiva’ non po-
trebbe essere aggirato da una legge che, in ipotesi, qualificasse formalmente come definitiva
le sentenze (anche di condanna) idonee a definire un grado di giudizio, sebbene ancora im-
pugnabili. Una legge del genere, infatti, risulterebbe senza dubbio illegittima, almeno finché
nel nostro testo costituzionale sarà contenuta la previsione di un mezzo di impugnazione
(qual è il ricorso per cassazione nel disposto dell’art. 111, comma 2, Cost.) come rimedio in-
defettibile contro tutte le sentenze’’. L’art. 111 Cost., dunque, impone almeno il rimedio or-
dinario del controllo di legittimità, mentre l’art. 27 Cost. impedisce passaggio in giudicato ed
esecuzione provvisoria della sentenza soggetta ai rimedi ordinari positivamente previsti. Il le-
gislatore potrebbe perciò abrogare tutti i mezzi di impugnazione previsti, ad eccezione del ri-
corso per cassazione, limitando con ciò anche l’ambito di applicabilità dell’art. 27, ma non
potrebbe conservare ulteriori mezzi di impugnazione ordinari e tuttavia impedire che ad essi
si applichi l’art. 27. Le due disposizioni, insomma, hanno ciascuna una propria sfera di effi-
cacia.
(18) A. CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, cit., p. 1895,
colloca tra i ‘‘principi della nostra civiltà giuridica’’ quello in forza del quale l’autorità della
sentenza presuppone la consumazione dei gravami ordinari; nel medesimo senso M. CHIAVA-
RIO, op. cit., II, p. 195 e M. COLAMUSSI, La sentenza tra definitività e irrevocabilità, in Pre-
sunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, cit., p. 208, che collegano la
definitività della sentenza di cui all’art. 27, comma 2, Cost. all’esperimento degli ordinari
mezzi di impugnazione. Sostanzialmente in termini P. FERRUA, Presunzione di non colpevo-
lezza e definitività della condanna penale, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, pp.
119-122, secondo il quale il precetto costituzionale dell’ineseguibilità della sentenza non de-
finitiva implica una nozione di sentenza definitiva costituzionalmente vincolante. Affermano
l’equivalenza tra sentenza impugnabile e sentenza non definitiva, G. LOZZI, Favor rei e pro-
cesso penale, cit., p. 9 ed E. ZAPPALÀ, Il controllo di legittimità e la presunzione di non col-
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(20) Ferma restando l’esigenza che la decisione sia stata condizionata in modo deter-
minante dall’errore (vedi, per tutti, F. ROTA, Revocazione nel diritto processuale civile, in
Dig. Disc. priv., Sez. civ., XVII, Torino, 1998, p. 480), nella dottrina processualcivilistica vi
chi è mette in risalto l’aspetto ‘‘soggettivo’’ dell’errore di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., ravvi-
sandone il tratto specifico nel ‘‘difetto percettivo’’ del giudice (in tal senso, A. ATTARDI, La
revocazione, Padova, 1959, pp. 193-196; F. CAMPISI, Cassazione per vizi di motivazione e re-
vocazione per errore di fatto, in Giust. civ., 1994, I, p. 2575; F. MIANI CANEVARI, Revoca-
zione delle sentenze di cassazione, in AA.VV., La cassazione civile, II, Torino, 1998, pp.
1699-1700; L. PAOLINI, nota a Cass. civ., sez. II, ud. 2 maggio 1996, in N. giur. civ. comm.,
1997, p. 27) e chi ne mette in risalto l’aspetto ‘‘oggettivo’’, costituito dalla difformità di rap-
presentazioni emergenti dalla sentenza e dagli atti (in tal senso, V. ANDRIOLI, Commento al
codice di procedura civile, II, Napoli, 1957, p. 630; G. DE STEFANO, op. cit., pp. 189-190; F.
ROTA, op. cit., p. 481; VALITUTTI-DE STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, I, Pa-
dova, 1996, p. 237).
(21) Vedi A. TRABUCCHI, Errore (diritto civile), in N. Dig. it., V, Torino, 1938, p.
482, secondo il quale ‘‘l’errore, come vizio, non toglie la volontà del dichiarante; non c’è
contrasto tra la volontà manifestata ed una volontà vera, ma semmai tra la volontà reale
quale appare anche dalla manifestazione ed una volontà ipotetica, quale si avrebbe se il sog-
getto non fosse stato in errore’’. Secondo BIGLIAZZI GERI-BRECCIA e altri, Diritto civile, I, To-
rino, 1997, p. 648: l’errore è una falsa conoscenza della realtà che ‘‘altera il normale corso
psicologico che conduce all’interna determinazione del soggetto’’.
(22) Vedi A. ATTARDI, La revocazione, cit., pp. 41-42, il quale sottolinea che, es-
sendo la sentenza un atto a contenuto vincolato, ‘‘ciò che conta logicamente (...) è la sua
conformità o contrarietà alla legge (...). L’atto che sia intrinsecamente conforme alla legge
sarà valido anche se l’agente l’abbia compiuto con la convinzione di porre in essere un atto
invalido o sotto la violenza morale esercitata nei suoi confronti’’; ancora più recisamente, V.
DENTI, Note sui vizi della volontà negli atti processuali, Pavia, 1959, p. 50, afferma che
‘‘solo il peso della tradizione pandettistica e la preminente considerazione che, nell’elabora-
zione della teoria dell’atto giuridico, ha avuto l’atto negoziale, fanno sì che si parli ancor
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oggi, rispetto all’atto giurisdizionale, di un problema della ‘volontà’ in senso soggettivo, ar-
gomentando dai riferimenti al ‘dolo’ o all’ ‘errore’ contenuti in norme le quali hanno di mira
non l’invalidazione dell’atto, ma la giustizia della decisione: quindi non un vizio dell’attività
processuale, ma un vizio ‘sostanziale’ del dictum giudiziale’’.
(23) Vedi, in tal senso, P. MIRTO, Teoria degli atti processuali penali, in Giust. pen.,
1923, II, c. 338; B. PETROCELLI, I vizi della volontà nel processo penale, in Corte d’appello,
1929, p. 134; G. CONSO, I fatti giuridici processuali, Milano, 1955, p. 64.
(24) Vedi, per tutti, V. PIETROBON, voce Errore, I) Diritto civile, in Enc. giur. Trec-
cani, XIII, Roma, 1989, p. 1.
(25) Con chiarezza, E. FLORIAN, Nuovi appunti sugli atti giuridici processuali penali
(i vizi della volontà), in Riv. dir. proc. pen., 1920, I, p. 9 individua un duplice postulato:
‘‘che i vizi di volontà, i quali infettino gli atti processuali, sono sempre denunciabili e ripara-
bili fino a che almeno lo consenta la struttura tecnica del processo e che i vizi non mai assur-
gano a motivi che di per sé annullino od esautorino l’atto’’; in senso conforme, vedi F. COR-
DERO, Procedura, cit., pp. 322-323, per il quale i vizi della volontà non ‘‘invalidano i provve-
dimenti: rispetto agli inoppugnabili, non interessa cosa sia avvenuto; gli impugnati cadono
quando, decomposti dalla consueta analisi, risultino invalidi o ingiusti’’.
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gersi peraltro che il difensore che l’ha presentato non è iscritto nell’albo
speciale come richiede l’art. 613 c.p.p. In tutti e tre i casi, abbiamo un’er-
rata rappresentazione di un fatto processuale, dovuta a un difetto percet-
tivo, e un contrasto tra decisione effettiva e decisione ipotetica. La diffe-
renza sta nel fatto che, a prescindere dalle rappresentazioni mentali del
giudice, nel primo caso siamo di fronte a una vera e propria invalidità ex
art. 179 c.p.p.; nel secondo caso, siamo di fronte a una mera irregolarità;
nel terzo caso, siamo di fronte a un provvedimento perfettamente valido.
Sarebbe veramente paradossale se, nel secondo e nel terzo caso, la tutela
della correttezza del procedimento di formazione della volontà del giudice
dovesse condurre all’annullamento di decisioni che sotto ogni altro profilo
risultano valide e giuste.
Per evitare simili incongruenze, la Corte interpreta il secondo dei re-
quisiti dell’errore di fatto attribuendogli un significato più compatibile
con la struttura del processo. Non importa che il difetto percettivo abbia
condotto a una decisione diversa da quella che altrimenti sarebbe stata
adottata: si ha errore di fatto solo quando il difetto percettivo abbia con-
dotto a una decisione invalida o ingiusta (26). L’ambito di applicazione
dell’art. 625-bis c.p.p., così individuato, corrisponde peraltro all’idea del
nuovo istituto che si è diffusa nella prassi: tutti i ricorsi finora presentati
riguardano situazioni in cui la ‘‘svista’’ del giudice ha determinato una
delle ipotesi già codificate di invalidità (27). Secondo la Corte, in defini-
(26) Una recente conferma di quanto si va dicendo si ricava da Cass., sez. V, c.c. 23
ottobre 2002, n. 39407 del 22 novembre 2002, Sgarbi, di cui vedi un breve riassunto in D. e
G., 14 dicembre 2002, n. 44, p. 69. Il ricorrente, in relazione al rigetto del ricorso presen-
tato ex art. 606, lett. c), c.p.p. per violazione del principio di immutabilità del giudice, la-
mentava il fatto che, per un difetto percettivo, i giudici di legittimità avessero ritenuto che la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale fosse stata completa, anziché parziale, come ef-
fettivamente era stata. Investita del ricorso straordinario, la Corte osserva che ‘‘il ricorso non
si preoccupa minimamente (...) di indicare quale potesse essere la rilevanza di una tale im-
precisione con riferimento al rigetto del motivo attinente alla violazione del principio d’im-
mutabilità del giudice. Ritiene questa Corte, in definitiva, che la questione di un errore per-
cettivo (...) in ordine all’estensione della rinnovazione del dibattimento non ha alcuna inci-
denza sulla soluzione giuridica adottata dalla sentenza impugnata’’. Se il difetto percettivo
non ha condotto ad alcuna patologia della sentenza, che risulti tale alla luce della nosografia
consolidata, secondo la Corte, si resta perciò al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art.
625-bis c.p.p.
(27) In Cass., sez. I, c.c. 7 settembre 2001, Schiavone, in Arch. n. proc. pen., 2002,
p. 52, si discute dell’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso; in Cass., sez. VI,
c.c. 30 ottobre 2001, Botteselle, in Arch. n. proc. pen., 2002, p. 37, dell’omessa pronuncia
su un motivo di ricorso; in Cass., sez. I, c.c. 13 novembre 2001, Salerno, cit., p. 861, del-
l’uso di una prova inutilizzabile; in Cass., sez. VI, c.c. 6 dicembre 2001, Galletta, in Giur. it.,
2002, p. 2376 e Cass., sez. IV, c.c. 27 giugno 2002, Abanto, inedita, dell’omessa notifica-
zione al difensore dell’avviso dell’udienza; in Cass., sez. III, c.c. 13 dicembre 2001, Reg-
giani, in Giur. it., 2002, p. 2736, della falsa applicazione di norme penali; Cass., sez. VI, 20
febbraio 2002, Negri, ivi, p. 2353, dell’errore nell’individuazione del giudice competente; in
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Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Chiatellino, inedita, della mancata dichiarazione di pre-
scrizione del reato; in Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Degraft, inedita e Cass., sez. V,
c.c. 23 ottobre 2002, Sgarbi, cit. della mancata rilevazione di una nullità; Cass., sez. un., c.c.
27 marzo 2002, Basile, cit., dell’illogicità della motivazione; Cass., sez. un., c.c. 27 marzo
2002, De Lorenzo, in Cass. pen., 2002, n. 870, di un errore di diritto e della mancanza di
motivazione relativa a due capi d’imputazione.
(28) Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 990.
(29) Così, G. CONSO, op. cit., p. 95.
(30) F. CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, in questa Rivista, 1958, p.
255.
(31) Così, V. DENTI, Nullità, cit., p. 469.
(32) Con riferimento al sistema delle impugnazioni previgente, vedi G. CONSO, Il re-
gime dei vizi della sentenza di cassazione, in Giur. it., 1955, IV, c. 133, il quale escludeva
che, fatta eccezione per i casi di inesistenza, i provvedimenti della Corte di cassazione con i
quali si chiude il processo potessero essere affetti da alcun di vizio. Tutt’al più, si diceva, la
figura della nullità può riscontrarsi in relazione agli atti compiuti prima della sentenza e fino
a che essa non viene pronunciata.
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(33) Per questa distinzione, vedi G. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali
nel processo penale, Torino, 1953, pp. 627-628. Esemplare, nel senso del fraintendimento,
la risposta della cassazione a chi aveva sostenuto che l’errore di fatto dovesse necessaria-
mente colpire gli atti del giudizio di legittimità, in quanto solo in tali ipotesi ‘‘la Corte di cas-
sazione è anche giudice del fatto, come avviene nel caso dell’applicazione delle norme pro-
cessuali’’ (così, C. RIVIEZZO, op. cit., pp. 85-86): ‘‘È stato sostenuto, da una parte della dot-
trina, che l’operatività del ricorso straordinario è limitata alle decisioni relative alle questioni
processuali, per le quali la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, sicché l’erronea sup-
posizione, per essere rilevante, dovrebbe inerire ad un error in procedendo dovuto a un di-
fetto di percezione degli atti che formano oggetto di esame nel giudizio di legittimità (...).
Una simile interpretazione restrittiva dell’ambito applicativo dell’errore di fatto non è giusti-
ficata dall’effettiva portata dell’art. 625-bis c.p.p. Infatti non è controvertibile che la sen-
tenza impugnata, sottoposta al sindacato della Corte, costituisce l’oggetto del giudizio di cas-
sazione e che l’errore percettivo può anche cadere su un dato fattuale, nei precisi termini,
ovviamente, accertati dal giudice di merito’’ (così Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile,
cit., p. 900).
(34) Corte cost., sent. n. 17 del 1986, cit.
(35) Per l’ordinanza di rimessione, vedi Cass., sez. un. civ., ord. 8 febbraio 1983, n.
101, in Foro it., 1983, I, c. 1931.
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same di uno qualunque dei motivi di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c. (36).
Nel caso sottoposto al suo giudizio, difatti, la Corte di cassazione, consi-
derando erroneamente tardivo un ricorso presentato ai sensi dell’art. 360,
nn. 3 e 5, c.p.c., lo aveva dichiarato inammissibile. Il giudice delle leggi ri-
levò che il ragionamento svolto nella sentenza del 1986 per il difetto per-
cettivo ‘‘in cui la Corte di cassazione incorra nel controllo degli atti del
processo a quo, (...) non può non valere anche (anzi, a fortiori) per l’ana-
logo errore in cui quella Corte incorra nella lettura di atti interni al suo
stesso giudizio’’ (37). La distinzione tra errore di fatto che cade su atti del
processo a quo oppure su atti interni è perciò dovuta ai due passaggi da-
vanti alla Corte costituzionale, ma non vale a discriminare l’errore di fatto
ammissibile da quello inammissibile. Le sezioni unite civili della Corte di
cassazione, difatti, hanno poi operato una reductio ad unum classificando
tutti gli atti sui quali poteva cadere l’errore di fatto come ‘‘interni’’, se-
condo un’accezione che però abbracciava entrambe le categorie: sono in-
terni tutti gli atti che la cassazione deve esaminare direttamente ‘‘purché
nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio’’; ap-
partengono al giudizio di cassazione gli atti ‘‘che devono essere letti dalla
Corte per decidere’’ (38).
Come limite oggettivo, perciò, il requisito degli atti interni risulta me-
ramente apparente: non conta l’individuazione della fase processuale nella
quale è stato formato il documento, ma solo l’individuazione del giudice
che è caduto nel difetto percettivo. Come chiarisce l’art. 625-bis c.p.p.,
laddove esige che l’errore sia ‘‘contenuto nei provvedimenti pronunciati
dalla Corte di cassazione’’, il ricorso non può essere presentato affinché la
Corte rimedi agli errori di fatto compiuti dal giudice di merito ma solo a
quelli compiuti dalla Corte di cassazione stessa. Il difetto percettivo della
Corte, però, potrebbe cadere su uno qualsiasi dei documenti che costitui-
scono oggetto del suo giudizio: documenti del procedimento di cassazione
e documenti dei gradi di merito che la Corte deve esaminare in quanto ri-
levanti per decidere sui motivi di ricorso (39).
(36) Corte cost., sent. n. 36 del 1991, in Foro it., 1991, I, c. 1033.
(37) Ivi, c. 1035.
(38) Cass., sez. un. civ., sent. 20 marzo 1992, n. 3519, Giordano c. ENI, in Foro it.,
1993, I, c. 837.
(39) È astrattamente concepibile un errore di fatto che cade su un atto del processo a
quo in due casi: quando la Corte fonda la sua decisione di rigetto del ricorso ignorando o
travisando un atto del giudizio di merito sottoposto alla sua cognizione, oppure, eccezional-
mente, quando la Corte, in sede di controllo di legittimità, incorre nel medesimo difetto per-
cettivo in cui era già caduto il giudice di merito. In senso contrario, vedi M. GIALUZ, Appunti
sul concetto di ‘‘errore di fatto’’ nel nuovo ricorso straordinario per cassazione, in Cass.
pen., 2002, p. 2324, per il quale l’art. 625-bis c.p.p. farebbe riferimento ai soli vizi in cui sia
incorsa la cassazione, e non il giudice di merito. In effetti, la norma esige inequivocabilmente
che l’errore sia compiuto dai giudici di legittimità, ma non si vede perché l’errore compiuto
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anche dai giudici di legittimità, che per avventura dovessero incorrere nella medesima svista
dei giudici di merito, debba considerarsi irrilevante. Si tratta, ovviamente, di ipotesi del tutto
marginali, che però hanno un precedente illustre nella vicenda che condusse all’estensione
della revocazione civile per errore di fatto ai provvedimenti della cassazione. La controversia
nasceva da un procedimento per lo scioglimento del matrimonio, all’interno del quale l’u-
dienza di conciliazione è imposta a pena di nullità degli atti successivi, a meno che le parti
non risultino ingiustificatamente assenti. Nel caso di specie, il Tribunale civile di Torino,
constatata l’ingiustificata assenza di uno dei coniugi, aveva proseguito il procedimento. In
realtà, il coniuge assente aveva tempestivamente inviato al Tribunale la prova del suo legit-
timo impedimento, ma evidentemente il giudice non se n’era avveduto. Sfortuna volle che,
proposto il ricorso per cassazione, i giudici di legittimità verificassero la tempestività dell’in-
vio, non già dal timbro posto sulla busta che conteneva il certificato medico, che effettiva-
mente era stato consegnato in termini, bensì da quello posto su una busta che conteneva un
atto del tutto diverso, consegnato in data successiva. Dopo il nuovo ricorso, i giudici di cas-
sazione, accertata l’irrimediabilità dell’errore, sollevarono la questione di legittimità davanti
alla Corte costituzionale. Qui abbiamo un vizio verificatosi nel giudizio di merito, non rile-
vato per una duplice svista: dello stesso giudice di merito, in prima battuta, e dei giudici di
legittimità, in sede di controllo. Per una ricostruzione della vicenda, vedi l’ordinanza di ri-
messione, Cass., sez. un. civ., ord. 8 febbraio 1983, n. 101, cit.
(40) Corte cost., ord. n. 395 del 2000, in Cons. Stato, 2000, II, pp. 1345-1346.
(41) Vedi, in tal senso, G. FUMU, Commento all’art. 6 l. n. 128/2001, in L.P., 2002,
p. 428 e C. RIVIEZZO, op. cit., pp. 85-86.
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nere l’area dell’errore di fatto nello stesso ambito dei suoi ‘‘precedenti’’
giurisprudenziali (42), presta il fianco ad alcuni rilievi. In primo luogo, ha
lo svantaggio di dover ridefinire il concetto di ‘‘errore di fatto’’, riducen-
dolo nell’ambito del difetto percettivo che si verifica nel corso di un’atti-
vità istruttoria, mentre in genere esso indica una falsa rappresentazione
della realtà, sempre dovuta a un difetto percettivo, senza alcuna specifica-
zione in ordine al tipo di attività che si sta svolgendo. In secondo luogo, la
Corte ha poteri istruttori non solo in relazione al compimento delle pro-
prie attività processuali, ma anche in sede di controllo sugli eventuali erro-
res in procedendo denunciati nei motivi di ricorso (43). La tesi finisce per-
ciò per autoconfutarsi: l’errore di fatto dovrebbe coerentemente compren-
dere non solo i vizi processuali che hanno colpito gli atti interni al giudi-
zio di legittimità, ma anche quelli verificatisi nelle fasi di merito e non ri-
levati dalla Corte.
b) Errore decisivo. — Abbiamo in precedenza osservato che, nell’in-
terpretazione dei giudici di legittimità, ai fini della sussistenza dell’errore
di fatto è necessario che il difetto percettivo abbia condotto ad un vizio
della sentenza (44). Prendendo in prestito una formula comunemente im-
piegata dagli studiosi del processo civile in materia di revocazione (45), la
Corte di cassazione ha espresso tale concetto enunciando il principio della
necessaria ‘‘decisività’’ dell’errore di fatto (46). Questa affermazione la-
scia perplessi. In linea generale, si qualifica come non decisivo un error in
iudicando, quando non ha inciso sulla giustizia della sentenza. La matrice
storica è costituita dalla figura dell’error causalis: sfugge all’annullamento
la sentenza fondata su una pluralità di motivi, se, dimostrata l’erroneità di
uno, essa si giustifica comunque sulla base degli altri (47).
(42) Così G. FUMU, op. cit., p. 428 e C. RIVIEZZO, op. cit., p. 85. Per l’individuazione
dei casi giurisprudenziali che hanno condotto all’approvazione dell’art. 625-bis c.p.p., vedi
infra, § V.
(43) Cfr. A. LORENZETTO PESERICO, Errores in procedendo e giudizio di fatto in cas-
sazione, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 653 ss.
(44) Vedi supra, § 3.
(45) Vedi, per tutti, CERINO CANOVA-TOMBARI FABBRINI, op. cit., p. 4.
(46) Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 900.
(47) Sull’origine storica della nozione di error causalis, vedi P. CALAMANDREI, La teo-
ria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Studi sul processo civile, I, Pa-
dova, 1930, pp. 135-142. Nel codice attuale, tale figura è riproposta nell’art. 619, comma 1,
c.p.p., in base al quale gli errori di diritto che non abbiano avuto un’influenza decisiva sul
dispositivo possono essere rettificati dalla Corte di cassazione (vedi Cass., sez. VI, ud. 24
gennaio 1995, Ronchi, in Riv. pen., 1995, p. 1322) e nell’art. 606, lett. d), c.p.p., che pre-
vede quale motivo di ricorso in cassazione la mancata ammissione ex art. 495, comma 2,
c.p.p. di una prova decisiva (vedi Cass., sez. VI, ud. 26 giugno 1997, Abatini, in Cass. pen.,
1998, p. 2030). La giurisprudenza estende il medesimo criterio all’ipotesi di illogicità della
motivazione ex art. 606, lett. e), c.p.p. (vedi Cass., sez. II, c.c. 14 novembre 1997, Meriani,
in Cass. pen., 1999, p. 183) e all’ipotesi di acquisizione di prove inutilizzabili ex art. 606,
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lett. c), c.p.p. (vedi, Cass., sez. un., ud. 25 febbraio-7 aprile 1998, Gerina, in Gazz. giur.,
1998, n. 16, pp. 52-53). La valutazione sulla ‘‘tenuta’’ della sentenza pur in presenza del vi-
zio viene perciò effettuata in due casi di error in iudicando (artt. 619, comma 1, c.p.p. e
606, lett. e), c.p.p.) e in due casi di errori relativi al procedimento istruttorio (artt. 606, lett.
c) e d), c.p.p.). In dottrina, si tende a escludere la piena assimilabilità delle quattro ipotesi
sulla base di due argomenti che convergono, nonostante premesse contrastanti. Per chi ri-
conduce i vizi relativi al procedimento istruttorio nell’alveo degli errores in procedendo, la
dottrina dell’error causalis è incongrua sotto il profilo teorico, in quanto la giustizia della
sentenza (rectius, il convincimento del giudice superiore in ordine alla giustizia della sen-
tenza) non vale a sanare le invalidità processuali; si propone, perciò, di distinguere la decisi-
vità-error causalis, propria del controllo sull’error in iudicando, dalla decisività propria del
controllo sul materiale istruttorio usato per la decisione, attribuendo a quest’ultima un carat-
tere più astratto: la Corte deve verificare non se la sentenza, nonostante il vizio, sia comun-
que fondata, ma se, per caso, quella prova non acquisita o illegittimamente acquisita sia su-
perflua o irrilevante rispetto al fatto accertato; in tal senso, vedi A. BARGI, Il ricorso per cas-
sazione, in Le impugnazioni penali, cit., II, pp. 500-502; P. DELL’ANNO, Presupposti e limiti
del sindacato della Corte di cassazione sul vizio della motivazione, in Giust. pen., 1993, III,
p. 702, nonché, volendo, A. CAPONE, Diritto alla prova e obbligo di motivazione, in Ind.
pen., 2002, pp. 43-44. Per chi, invece, riconduce i vizi relativi al procedimento istruttorio
nell’alveo degli errores in iudicando, la dottrina dell’error causalis è in concreto inapplicabile
perché condurrebbe ad attribuire alla Corte di cassazione poteri che non le competono. Se
difatti i giudici di legittimità dovessero valutare, ex art. 606, lett. d), c.p.p., l’efficacia dimo-
strativa di una prova contraria non acquisita o, ex art. 606, lett. c), c.p.p., l’efficacia dimo-
strativa delle prove validamente acquisite che figurano in motivazione, escludendo mental-
mente quelle viziate, di fatto sarebbero chiamati a effettuare un nuovo giudizio storico ex ac-
tis senza istruzione, senza oralità e senza contraddittorio; in tal senso, vedi F. CORDERO, Tre
studi sulle prove penali, Milano, 1963, nt. 25, pp. 188-189; P. FERRUA, Oralità del giudizio e
letture di deposizioni testimoniali, Milano, 1981, pp. 442-443; A. SCELLA, Prove penali e
inutilizzabilità, Torino, 2000, p. 203; contra G. LEONE, Trattato di diritto processuale pe-
nale, II, Napoli, 1961, nt. 194, p. 242.
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duto in assenza della difesa; qui non resta che annullare la decisione e fis-
sare una nuova udienza: la (ritenuta) giustizia sostanziale della sentenza
non può ‘‘sanare’’ le nullità del procedimento. Se invece il difetto percet-
tivo ha determinato l’ingiustizia della sentenza, a fortiori ogni ulteriore in-
dagine è superflua: la decisività è in re ipsa (48).
(48) Una conferma del ragionamento fin qui svolto viene dal caso discusso dalle se-
zioni unite, nel quale il ricorrente lamentava l’omessa considerazione di uno dei motivi di ri-
corso. L’errore di fatto qui risulta dal difetto percettivo (la Corte non si è avveduta di una
delle censure) che ha determinato il vizio di omessa pronuncia. I giudici di legittimità, in os-
sequio al principio di decisività, hanno stabilito che se i motivi del ricorso non considerato
risultano infondati, il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. non va accolto (Cass., sez.
un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 900). Com’è stato correttamente evidenziato, in que-
sto modo si confondono giudizio rescindente e rescissorio, mentre il principio di decisività
non ha alcuna ragione d’essere applicato. A norma dell’art. 625-bis c.p.p., la Corte può adot-
tare i provvedimenti necessari per correggere l’errore di fatto. Nel caso in cui, a causa di un
difetto percettivo, sia stato trascurato un motivo di ricorso, ma questo risulti comunque in-
fondato, la Corte, unificando iudicium rescindens e rescissorium, dovrà accogliere il ricorso
straordinario ex art. 625-bis c.p.p. e contestualmente rigettare, con idonea motivazione, il ri-
corso originariamente proposto ex art. 606 c.p.p. (in tal senso, vedi M. GIALUZ, Omesso
esame di una censura da parte della cassazione e ricorso straordinario per errore di fatto, in
Dir. pen. proc., 2002, pp. 995-996).
(49) Vedi, ad esempio, F. CARNELUTTI, Contro il giudicato penale, in Riv. dir. proc.,
1951, I, p. 289 ss., e, in certa qual misura, V. GIANTURCO, Il ricorso per cassazione nell’inte-
resse della legge e l’error iuris del giudicato penale, Milano, 1958, p. 49. Altri Autori, pur
prendendo polemicamente posizione contro il giudicato, in realtà sostennero l’ampliamento
del casi di revisione, sempre sul presupposto di un contrasto tra differenti accertamenti giu-
diziali; in tal senso, vedi B. PETROCELLI, op. cit., p. 178; G. LEONE, Il mito del giudicato, in
questa Rivista, 1956, pp. 178-182. Più recentemente, favorevoli all’introduzione di casi di
impugnabilità delle sentenze di cassazione, A. GAITO, In tema di ‘‘irrevocabilità’’ ed ‘‘esecu-
tività’’ della sentenza, in Il giusto proc., 1990, n. 5, p. 96 e A. GIARDA, Ancora sull’intangi-
bilità assoluta delle sentenze della Corte di cassazione, in questa Rivista, 1995, p. 925.
(50) Vedi infra, nt. 57-59.
(51) Si veda Cass., sez. un., ud. 26 settembre 2001, Pisano, cit., p. 1967: ‘‘Mutuando
dalla più autorevole dottrina, si è così affermato che la base giustificativa della res iudicata
non è di ordine teorico ma di natura eminentemente pratica. Da tale peculiare carattere sca-
turisce che l’ordinamento, con precise scelte di politica legislativa, ben può sacrificare il va-
lore del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori. E,
rispetto alla regola dell’intangibilità del giudicato, uno dei valori fondamentali, cui la legge
attribuisce priorità, è costituito proprio dalla necessità dell’eliminazione dell’errore giudizia-
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rio, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio
del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pra-
tica — quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti — per
impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situa-
zioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario (...). Non man-
candosi di rimarcare come in tale medesima prospettiva si sia collocata la giurisprudenza di
legittimità che identifica la precipua funzione della revisione nella necessità di sacrificare il
rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale’’. Da notare
che l’ ‘‘autorevole dottrina’’ citata è il noto intervento di F. CARNELUTTI, Contro il giudicato
penale, cit., p. 290, nel quale l’Autore sostenne la necessità di abolire, coerentemente con la
sua concezione ‘‘medicinale’’ della pena, ogni forma di giudicato in materia penale, sia di as-
soluzione che di condanna. Per l’idea che la revisione sia ‘‘il rimedio che la legge appresta
contro il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della
giustizia reale’’, vedi, invece, A. DE MARSICO, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, pp.
328-329.
(52) Secondo CANZIO-SILVESTRI, op. cit., p. 3543, l’art. 625-bis c.p.p. costituisce
‘‘uno specifico strumento processuale diretto a porre riparo agli errori del giudice di legitti-
mità, in vista delle esigenze di giustizia sostanziale e del diritto ad ottenere un effettivo con-
trollo di legittimità sulla decisione impugnata, demandato alla Corte di cassazione dall’art.
111 Cost., nonché per evitare irreparabili compromissioni del diritto di difesa ex art. 24
Cost.’’. Anche secondo, G. INZERILLO, Riflessioni ‘‘a prima lettura’’ sul ricorso straordinario
per errore di fatto, in Ind. pen., 2000, pp. 85-88, le esigenze di ‘‘giustizia sostanziale’’ hanno
costituito ‘‘l’humus della riforma’’. Sulla scorta di tali considerazioni, propongono la censu-
rabilità ex art. 625-bis c.p.p. del c.d. travisamento del fatto, G. INZERILLO, ibidem; A.A.
SAMMARCO, Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Milano,
2001, pp. 318-321 e V. SANTORO, Cassazione: sezione ad hoc per i ricorsi inammissibili, in
Guida dir., 2001, n. 16, p. 57. B. D’ALASCIO, Rimedi possibili all’errore ‘‘percettivo’’ della
Corte di cassazione, in Giur. it., 2001, nt. n. 26, p. 2359 e F. FEDERICO, Il ricorso straordina-
rio per errore di fatto tra oscillazioni giurisprudenziali e aspirazioni al giusto processo, ivi,
2002, p. 2371 ritengono invece opportuno ricomprendere nell’ambito dell’errore di fatto an-
che l’error iuris. Di tali opinioni non suscita riserve, naturalmente, la proposta di trovare dei
rimedi per i summenzionati vizi, che appare ispirata alle più sane esigenze equitative, bensì
l’assenza di un’adeguata riflessione sul modo di contemperare le esigenze di giustizia con la
necessità di giungere ad una definizione della controversia, il che costituisce la ratio essendi
della funzione giurisdizionale (vedi A. ROCCO, op. cit., p. 206; E. ALLORIO, Nuove riflessioni
critiche in tema di giurisdizione e giudicato, in Sulla dottrina della giurisdizione e del giudi-
cato, Milano, 1957, p. 67). In questa prospettiva, vedi M. GIALUZ, Ancora sul concetto di
‘‘errore di fatto’’ come vizio dei provvedimenti della cassazione, in Cass. pen., 2002, n. 870,
secondo il quale solo l’errore revocatorio, che ha rango costituzionale ex artt. 3 e 24 Cost., e
che ‘‘non comporta la necessità di rimettere in discussione la valutazione compiuta dal giu-
dice — di per sé censurabile all’infinito’’, può consentire una deroga al principio di incensu-
rabilità delle decisioni della cassazione, di cui parimenti ravvisa un fondamento costituzio-
nale negli artt. 24, comma 1, e 111, comma 7, Cost.
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vedere per casi simili opportuni rimedi, osservarono che ‘‘di certo non
può dirsi imposto dall’art. 24 che eventuali nullità verificatesi per viola-
zione del diritto di difesa debbano poter esser fatte valere in qualsiasi mo-
mento, senza limiti di tempo, e pur dopo il formarsi del giudicato’’. L’art.
24 Cost., difatti, assicura l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e
grado del procedimento, ‘‘nell’interno, cioè, del rapporto processuale, ma
senza oltrepassare l’arco complessivo delle varie fasi in cui esso è positiva-
mente articolato’’ (56).
Il medesimo orientamento è stato ribadito dalla Corte costituzionale
in altre occasioni, nelle quali ha affermato che ‘‘la scelta legislativa di ren-
dere improponibile in un determinato grado del procedimento eccezioni
di nullità, che si assumono violate in fasi precedenti ed esaurite, non può
dirsi irrazionale, ma appare, al contrario, ispirata dall’intento di evitare la
perpetuazione dei giudizi al fine di garantire la definizione del procedi-
mento stesso’’ (57) e che l’inoppugnabilità delle decisioni della Corte di
cassazione è ‘‘pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo di le-
gittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall’art. 111’’ (58).
Di recente la Corte è ritornata ancora sul tema, negando che il formarsi
del giudicato possa comportare una lesione del diritto di difesa ed anzi af-
fermando che l’ ‘‘esigenza di definitività e certezza costituisce un valore
costituzionalmente protetto, in quanto ricollegabile sia al diritto alla tutela
giurisdizionale (...) sia al principio della ragionevole durata del proces-
so’’ (59).
L’affermarsi, nell’ambito del processo penale, di un nuovo mezzo di
impugnazione contro le sentenze della Corte di cassazione non segna per-
ciò il prevalere di generiche esigenze di giustizia a danno dell’irrevocabi-
lità della sentenza, ma si colloca all’interno di una differente prospettiva
teorica. La nozione di errore di fatto, nella giurisprudenza penale degli ul-
timi dieci anni, sorge col fine di individuare, nel variegato ambito dei di-
fetti della sentenza che trovavano un rimedio attraverso la correzione de-
gli errori materiali ex art. 130 c.p.p., un gruppo di patologie dalle caratte-
ristiche peculiari. In particolare, ci si poneva il problema dell’irrimediabi-
lità di situazioni nelle quali, per effetto di una svista dei giudici di cassa-
zione nella lettura di qualche documento processuale, era stata erronea-
mente dichiarata l’inammissibilità del ricorso (60), non era stata rilevata
(56) Corte cost., sent. n. 136 del 1972, in Giur cost., 1972, p. 1388.
(57) Corte cost., sent. n. 21 del 1982, in Giur. cost., 1982, p. 210.
(58) Corte cost., sent. n. 294 del 1995, in Giur. cost., 1995, p. 2301.
(59) Corte cost., ord. n. 501 del 2000, in Cass. pen., 2001, p. 799.
(60) Cass., sez. III, c.c. 13 febbraio 1996, Conte, in Cass. pen., 1997, p. 2744. Vedi
anche Cass., sez. V, c.c. 15 dicembre 1999, Cervetti, in Cass. pen., 2001, p. 895: ‘‘Quando
la Corte di cassazione (...) decide in modo non conforme a giustizia, come nella ipotesi di
declaratoria di inammissibilità del ricorso sul presupposto, errato in punto di fatto, della pre-
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l’invalidità della notifica dell’avviso del giorno d’udienza (61) o era stata
omessa la pronuncia su uno o più dei motivi di ricorso presentati (62).
Con l’espressione ‘‘errore di fatto’’ non si indicava perciò la totalità dei
casi che nel processo civile giustificano la revocazione, ma solo un in-
sieme più ristretto. Il loro tratto comune era ravvisabile nella circostanza
che i ricorrenti erano stati privati della possibilità di far valere le loro ra-
gioni davanti ai giudici di legittimità o comunque queste non erano state
prese in considerazione.
Quando la Corte costituzionale, nella vicenda che poi ha condotto al-
l’introduzione dell’art. 625-bis c.p.p., è stata nuovamente chiamata a pro-
nunciarsi in merito all’inoppugnabilità dei provvedimenti della Corte di
cassazione, la questione proveniva da un processo nel quale i giudici di le-
gittimità avevano dichiarato inammissibile il ricorso sull’erroneo presup-
posto che mancasse lo specifico mandato al difensore (63). L’ordinanza di
rimessione aveva proposto gli stessi argomenti che erano stati posti a fon-
damento della sentenza n. 17 del 1986 (64). La decisione della Consulta,
invece, pur concordando sul fatto che il caso sottoposto al suo esame inci-
deva negativamente sui valori costituzionali, ha implicitamente messo da
parte quel suo precedente. Dopo un rapido e formale omaggio agli artt. 3
e 24 Cost., i giudici delle leggi hanno osservato che l’art. 111, comma 7,
Cost., così come imponeva il controllo di legalità sulle sentenze e sui
provvedimenti in materia di libertà personale, specularmente assicurava
‘‘il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema,
cioè il diritto al processo in cassazione’’ (65). In questa prospettiva, era
evidente che i casi come quelli sottoposti al suo esame minavano l’effetti-
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(66) Ibidem. È interessante notare come già nel 1972, nel commentare la sentenza
della Corte costituzionale n. 136, M. CHIAVARIO, Inoppugnabilità delle sentenze di cassa-
zione ed art. 24 Cost., in Giur. cost., 1972, p. 1381, prospettava le linee guida della riforma
che oggi è stata realizzata, proponendo l’introduzione di uno speciale rimedio contro il giu-
dicato per i casi che, ai sensi del punto n. 70 dei criteri direttivi della riforma del codice di
procedura penale allora in discussione, figuravano come lesione della ‘‘necessità delle con-
clusioni della difesa nel dibattimento davanti alla Corte di cassazione’’.
(67) Vedi, ancora, A. CRISTIANI, op. cit., p. 99.
(68) Vedi supra, § 3.
(69) Cass., sez, un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., pp. 989-900. Da notare che la
Corte esclude espressamente dal novero degli errori di fatto soltanto l’error iuris, ma sembra
intendere, con tale formula, unicamente l’errore che è originato da un’erronea interpreta-
zione di una norma. Se rileva ex art. 625-bis c.p.p. l’errore su un dato fattuale, per come è
stato accertato dal giudice di merito (ibidem), rientrano nella fattispecie anche ipotesi che,
se verificatesi nei gradi precedenti, giustificherebbero un ricorso ex art. 606, lett. b), c.p.p.;
ad esempio la mancata dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo, remissione
della querela, prescrizione. Né potrebbero escludersi l’applicazione in sede di legittimità di
norme più favorevoli, ex art. 619, comma 3, c.p.p., o un annullamento senza rinvio perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato, che siano dovuti a una svista nella lettura della
motivazione. Finora, l’ipotesi di un difetto percettivo che cade sulla motivazione della sen-
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tenza, e che perciò potrebbe perfino giustificare un ricorso straordinario perché la Corte, nel
controllo ex art. 606, lett. e), c.p.p., non si è avveduta di un’illogicità della sentenza, non ha
trovato riscontro giurisprudenziale. Se la nozione di errore di fatto è quella propugnata dalle
sezioni unite, però, non vi sarebbe ragione di escluderla. In tal senso, peraltro, seppure non
del tutto esplicitamente, vedi CANZIO-SILVESTRI, op. cit., p. 3544, i quali considerano oggetto
del difetto percettivo tutti gli atti del processo, la motivazione della sentenza e, quando alla
Corte sono consentite decisioni di merito, i fatti storici oggetto di valutazione.
(70) Cass., sez. I, c.c. 13 novembre 2001, Salerno, cit., p. 863.
(71) Qualche rilievo sull’omessa pronuncia. Fermo restando che tra mancanza di mo-
tivazione e omessa pronuncia sussiste una chiara differenza concettuale (‘‘la motivazione
manca quando una decisione c’è; quando una decisione non c’è, la motivazione non manca
per la buona ragione che si deve motivare ciò che si decide, non quello che non si decide’’,
F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Mi-
lano, 1997, p. 287; nel medesimo senso E. AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in
Enc. dir., XVII, Milano, 1977, p. 222), ai fini dell’eventuale riconoscimento dell’autonomia
del vizio di omessa pronuncia, occorre preventivamente chiarire se debba ravvisarsi la figura
del giudicato implicito anche nei provvedimenti della Corte di cassazione che rendono defi-
nitiva una condanna. Nel processo penale, in genere, ricorre la figura del giudicato implicito
in quanto l’efficacia vincolante della decisione si estende ‘‘oltre che ai fatti dei quali è stata
specificatamente accertata la presenza o la mancanza, a tutti quegli altri, la cui esistenza o
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inesistenza fungono da postulato rispetto alla conclusione in essa recepita’’ (così F. COR-
DERO, Contributo allo studio dell’amnistia nel processo, Milano, 1957, p. 125). Se tale figura
dovesse applicarsi anche al giudizio di legittimità, l’omessa pronuncia non sarebbe mai con-
figurabile (fatta eccezione per i casi in cui ad essere omessa fosse la decisione su un’intero
capo d’imputazione, vedi E. AMODIO, Considerazioni sui ‘‘vizi del dispositivo’’ della sen-
tenza dibattimentale, in questa Rivista, 1967, p. 396; F. CORDERO, Procedura penale, Mi-
lano, 2001, p. 999): il difetto della sentenza emergerebbe necessariamente quale vizio della
motivazione (‘‘non vi è ‘pronuncia’ implicita, che per ciò stesso non appaia anche immotiva-
ta’’, così B. LASAGNO, Premessa per uno studio sull’omissione di pronuncia nel processo ci-
vile, in Riv. dir. proc., 1990, p. 449). La distinzione tra mezzi di gravame e azioni di impu-
gnativa, in forza della quale, nei rimedi del secondo tipo, l’oggetto della decisione ‘‘verte sul-
l’esistenza del diritto d’impugnativa’’ (così P. CALAMANDREI, Vizi della sentenza e mezzi di
gravame, in Studi sul processo civile, cit., p. 194) non appare risolutiva. Poiché l’art. 129,
comma 1, c.p.p. consente alla Corte di rilevare, a prescindere dal motivo di ricorso presen-
tato, qualunque causa di non punibilità, potrebbe anche ritenersi che ogni pronuncia della
Corte su un singolo motivo di ricorso non esclude che i giudici di legittimità si siano prospet-
tati ognuna delle questioni che potrebbero condurre ad un proscioglimento. Il giudicato im-
plicito, però, ha una valenza più forte: non si tratta di verificare se il giudice poteva porsi
una certa questione, bensì quali sono le questioni che costituiscono il necessario e logico
presupposto di una decisione. Nelle decisioni pronunciate nei gradi di merito, effettivamente
‘‘ogni pronuncia di condanna postula la soluzione di tutte le questioni rilevanti ai fini dell’ac-
certamento del dovere di punire in ordine a un determinato fatto’’ (così, F. CORDERO, Contri-
buto, cit., p. 127). In sede di legittimità, tuttavia, la situazione appare diversa: la decisione
negativa in ordine alla fondatezza di un certo motivo di ricorso non postula necessariamente
lo scioglimento in senso negativo di tutte le questioni che in astratto potrebbero condurre al-
l’annullamento della decisione impugnata. Il rigetto di un ricorso in quanto l’asserito vizio
della motivazione non sussiste, ad esempio, non implica logicamente alcunché in ordine al-
l’eventuale sussistenza di errori di diritto. In senso favorevole all’inclusione dell’omessa pro-
nuncia nella nozione di errore di fatto, vedi Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit.,
che, corregge l’orientamento espresso in Cass., sez. VI, c.c. 30 ottobre 2001, Botteselle, cit.;
in senso prevalentemente adesivo, vedi M. GIALUZ, Omesso esame di censura, cit., pp. 993-
994. Per un approfondimento del dibattito in sede civilistica, che però si svolge su binari di-
versi, adde, G. CRISTOFOLINI, Omissione di pronuncia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, I, p. 96;
F. CARNELUTTI, Effetti della casszione per omessa pronunzia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, II,
p. 68; C. CALVOSA, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in Scritti giuridici in onore di
F. Carnelutti, II, Padova, 1950, p. 515.
(72) Il ricorso straordinario è stato accolto in un caso nel quale la cassazione aveva
dichiarato inammissibile il ricorso sul falso presupposto che non fossero stati depositati i
motivi (Cass., sez. I, c.c. 7 settembre 2001, Schiavone, cit.) e in un caso nel quale era stata
omessa la notificazione al difensore dell’avviso dell’udienza (Cass., sez. VI, c.c. 6 dicembre
2001, Galletta, cit.); Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., esclude che nel caso
sottoposto al suo giudizio vi sia stata un’omissione di pronuncia, ma la ritiene censurabile ai
sensi dell’art. 625-bis c.p.p.
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SCELTE DEL PUBBLICO MINISTERO NELLA TRATTAZIONE
DELLE NOTIZIE DI REATO E ART. 112 COST.:
UN TENTATIVO DI RAZIONALIZZAZIONE (*)
(*) Il presente saggio prende spunto da una borsa di studio bandita nell’ambito del
progetto di ricerca sul tema ‘‘La ragionevole durata del processo’’, cofinanziato dal Mini-
stero dell’Università e della Ricerca.
(1) V., fra i tanti che mettono in risalto l’impossibilità per gli uffici requirenti di eva-
dere il carico di lavoro costituito dalle notizie di reato pervenute, V. ZAGREBELSKY, Stabilire
le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in AA.VV., Il pubblico ministero
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tempi e dei modi di svolgimento delle indagini, rappresenta uno dei mo-
menti in cui la rigidità della regola di condotta prevista dall’art. 112 Cost.
risulta maggiormente mitigata, se non del tutto svuotata di significato,
dall’aprirsi di ampi spazi valutativi.
La consapevolezza che l’obbligatorietà dell’azione penale sia inevita-
bilmente destinata a convivere con scelte discrezionali è da tempo radi-
cata (2). Il fenomeno può dirsi, quindi, tutt’altro che recente; sembra indi-
scutibile, però, che il modello processuale disegnato dal codice del 1988
abbia contribuito ad enfatizzarne le dimensioni.
Sul piano generale, le cause possono individuarsi nella mutata im-
pronta che caratterizza i contenuti della fase preliminare: necessari ven-
gono qualificati non più tutti gli atti funzionali all’accertamento della ve-
rità (art. 299 c.p.p. abr.), ma — in termini più circoscritti — solo quelli
indispensabili per sciogliere l’alternativa tra azione penale ed archivia-
zione (artt. 326 e 358 c.p.p.) (3). Significative spinte verso i lidi della di-
screzionalità si colgono, poi, sotto altri profili: spostamento in avanti del-
l’esercizio dell’azione penale con il risultato di rendere problematico ed
incerto l’ancoraggio dell’art. 112 Cost. agli stadi iniziali dell’iter procedi-
mentale (4), introduzione di un registro dei fatti non costituenti notizia di
reato (5), maggiore ampiezza della regola decisoria che presiede alla ri-
chiesta di archiviazione (6), struttura delle indagini preliminari come « se-
rie variabile nei componenti intermedi » (7) sottratta al costante controllo
giurisdizionale, possibilità per il pubblico ministero di scegliere la forma
secondo cui promuovere l’azione con forti ricadute — nel caso dei riti
premiali — sul terreno sostanziale (8).
Gli aggiustamenti di natura correttiva e le modifiche legislative, che
oggi (Atti del convegno di studi ‘‘Enrico de Nicola’’, Saint Vincent 3-4 giugno 1993), Mi-
lano, 1994, p. 102 s.
(2) Sul punto si vedano le considerazioni più che mai attuali di V. ZAGREBELSKY, In-
dipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in Pubblico ministe-
ro e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di G. Conso, Bologna, 1979,
p. 9 s.
(3) Nel combinato disposto di tali norme, G.P. VOENA, voce Investigazioni ed inda-
gini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. VII, 1993, p. 265, coglie « uno storico intento » del
legislatore. V. anche G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari, in Profili del nuovo codice di
procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, 3a ed., Padova, 1993, pp. 304-305.
(4) V., più ampiamente, M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il princi-
pio e la realtà, in Il pubblico ministero oggi, cit., p. 76.
(5) Si tratta del c.d. modello 45, introdotto dal d.m. 30 settembre 1989, n. 334, in
attuazione di quanto previsto dall’art. 206 disp. att. c.p.p.
(6) V. F. CORDERO, Procedura penale, 6a ed., Milano, 2001, p. 420.
(7) Così F. CORDERO, op. cit., p. 795.
(8) Sugli interrogativi che, in relazione all’art. 112 Cost., pongono le scelte del pub-
blico ministero circa l’accesso ai riti premiali v. E. MARZADURI, Sul principio di obbligato-
rietà dell’azione penale, in Il Ponte, 1998, n. 2-3, p. 93 s.
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si sono affastellati nel corso degli anni con lo scopo — fra gli altri — di ri-
condurre la posizione del pubblico ministero su binari più coerenti con il
precetto dell’art. 112 Cost., hanno solo lambito il cuore del problema; l’a-
gire del pubblico ministero, infatti, continua ad essere contrassegnato da
molteplici ambiti di discrezionalità riguardanti il se, il quando e il come
del procedere (9).
In simile contesto, l’esigenza di un ripensamento delle problematiche
connesse al carattere dell’azione penale e, di riflesso, alla posizione istitu-
zionale del pubblico ministero si è fatta per forza di cose più pressante; al
riguardo, il punto cruciale, facilmente intuibile, è quello di individuare la
direttrice lungo la quale muoversi: insistere sul binomio indipendenza del
pubblico ministero-obbligatorietà dell’azione penale ovvero aderire, con
un brusco cambio di rotta, a quello, diametralmente opposto, dipendenza-
opportunità?
A favore della prima opzione sembrano militare — a parte i possibili
rischi, indotti da un sistema ad azione facoltativa, di interferenze politiche
nell’attività del pubblico ministero (10) — considerazioni che poggiano
sul ruolo accessorio dell’art. 112 Cost. rispetto ad altri principi cardine
dell’impianto disegnato dalla Costituzione; rimosso un tassello indispensa-
bile, quale l’obbligatorietà dell’azione penale, del mosaico costituzionale,
il quadro complessivo dei valori ne uscirebbe alterato (11).
Sembra sufficiente ricordare come risulterebbe una garanzia monca
la soggezione del giudice soltanto alla legge, poiché il precetto dell’art.
112 Cost., dettando con riferimento al pubblico ministero un canone di
legalità del procedere, completa il disposto dell’art. 101, comma 2,
Cost. (12); in sintesi, l’art. 112 Cost., coprendo il momento dell’azione, e
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(13) Nel 1997, in seguito all’istituzione della Commissione bicamerale per le riforme
istituzionali, sono stati avanzati diversi progetti di legge accomunati dal disegno di intro-
durre il principio di opportunità dell’azione penale, al quale si affiancava la dipendenza del
pubblico ministero dal potere politico. Per un’analisi di tali progetti, v. V. BORRACCETTI,
L’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, p. 144 s.; E. BRUTI LIBERATI, Il di-
battito sul pubblico ministero: le proposte di riforma costituzionale in una prospettiva com-
parata, ibidem, p. 132 s.; V. GREVI, op. cit., p. 493.
(14) In particolare, la Raccomandazione n. 18 del 1987 sulla ‘‘Semplificazione della
giustizia penale’’ adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa auspicava l’intro-
duzione nei sistemi processuali dei Paesi membri del principio di opportunità ovvero la
messa a punto di misure tendenti alla medesima finalità (v. A. GIARDA, Riforma della proce-
dura e riforme del processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 1399). Al riguardo, va detto
che, in una recente Raccomandazione ‘‘Sul ruolo del pubblico ministero nel sistema della
giustizia penale’’ (n. 19 del 2000), lo stesso organismo internazionale ha manifestato mag-
giore consapevolezza dei rischi connessi al carattere facoltativo dell’azione penale, indicando
alcune garanzie finalizzate ad assicurare trasparenza ed imparzialità delle scelte discrezionali
compiute dagli uffici requirenti (v. N. ZANON-F. BIONDI, Diritto costituzionale dell’ordine
giudiziario, Milano, 2002, p. 170 s.). A livello internazionale, va ricordata anche la Risolu-
zione relativa al processo penale stilata al termine del XV Congresso dell’Associazione inter-
nazionale di diritto penale (Rio de Janeiro, 4-10 settembre 1994), nella quale si prende posi-
zione a favore del principio di legalità dell’azione penale (Rev. intern. dr. pén., 1995, p. 39).
(15) In questo senso, M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio
e la realtà, cit., pp. 84-85; E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), in Enc.
giur., vol. IV, Roma, 1996, p. 20.
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sistemi stranieri (20) e che risultano in parte già attuati nell’ambito del
nostro panorama processuale (21), perseguono lo scopo di una depenaliz-
zazione non in astratto, ma in concreto. Il fine ultimo non è quello di argi-
nare l’ipertrofia ‘‘orizzontale’’ del diritto penale, vale a dire l’esponenziale
moltiplicarsi delle incriminazioni (22); diversamente, si mira ad allargare,
fermi restando i confini dell’universo penalistico, le maglie dell’art. 112
Cost., in modo da giustificare il non esercizio dell’azione penale in pre-
senza di fattori che possono apprezzarsi quali indici della oggettiva super-
fluità del processo (23).
Un simile disegno può essere messo in atto, tuttavia, solo a condi-
zione che il principio cristallizzato dall’art. 112 Cost. venga concepito in
termini flessibili (24), così che il processo possa ritenersi inutile in situa-
(20) Si allude, in particolare, al sistema tedesco che, per i reati di minore impor-
tanza, prevede la possibilità per il pubblico ministero di non procedere qualora la colpevo-
lezza dell’autore sia esigua e manchi l’interesse pubblico all’applicazione della pena (§ 153
StPO) e quella di archiviare il procedimento, con la necessaria autorizzazione del giudice e il
consenso dell’imputato, se l’interesse dello Stato alla repressione del reato possa essere sod-
disfatto mediante l’imposizione di prescrizioni e la gravità della colpevolezza non sia di osta-
colo (§ 153a StPO) (v., ampiamente, G. CORDERO, Oltre il ‘‘patteggiamento’’ per i reati ba-
gatellari? La limitata discrezionalità dell’azione penale operante nell’ordinamento federale
tedesco e il ‘‘nostro’’ art. 112 Cost., in Leg. pen., 1986, p. 665 s.; R. BARTOLI, L’irrilevanza
penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro l’ipertrofia
c.d. ‘‘verticale’’ del diritto penale, in questa Rivista, 2000, p. 1478 s.). Vanno ricordate, inol-
tre, le ipotesi di archiviazione condizionata di recente introdotte nell’ordinamento francese
(v. M.G. AIMONETTO, op. cit., p. 101 s.); in quest’ultimo caso, è importante ricordare, tutta-
via, che si tratta di modifiche inserite in un contesto improntato al principio di opportunità
dell’azione penale. Per un’analisi d’insieme della tendenza, che si registra nei Paesi europei
ispirati al canone dell’obbligatorietà, volta a mitigare la rigidità di tale regola di condotta, v.
L. LUPÀRIA, op. cit., p. 1754.
(21) L’unica ipotesi di ‘‘deprocessualizzazione’’ in senso proprio presente nel sistema
italiano è rappresentata dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in materia di procedimento
davanti al giudice di pace; tale norma, infatti, consente al pubblico ministero di chiedere l’ar-
chiviazione nei casi di particolare tenuità del fatto (v. C. CESARI, La particolare tenuità del
fatto, in Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di G. Giostra-G. Illuminati, To-
rino, 2001, p. 325 s.). Altre forme di definizione anticipata del procedimento, praticabili nel
rito davanti al giudice di pace, nonché l’istituto dell’irrilevanza del fatto nel processo mino-
rile operano solo dopo l’instaurazione della fase processuale in senso stretto.
(22) Sul fenomeno dell’ipertrofia ‘‘orizzontale’’ del diritto penale e le relative cause,
v. C.E. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizza-
zione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 12 s.
(23) Come è noto, l’elaborazione di tale regola di giudizio si deve a Corte cost., 15
febbraio 1991, n. 88, cit., secondo la quale « il limite implicito alla stessa obbligatorietà, ra-
zionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggetti-
vamente superfluo ».
(24) R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione e ‘‘irri-
levanza del fatto’’, in AA.VV., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costitu-
zionale e riforme, Milano, 1996, p. 212, sottolinea come disconoscere che una concezione ri-
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gida del principio di obbligatorietà sia oggi irrealistica rappresenti una « [...] pura ipocrisia,
o, se si preferisce, una ‘‘bugia convenzionale’’ ».
(25) Per alcuni spunti in questo senso, v. M. CHIAVARIO, op. ult. cit., pp. 88-89; L.
LUPÀRIA, op. cit.
(26) V., più ampiamente, G. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e que-
stioni interpretative, 2a ed., Torino, 1994, p. 8.
(27) Sottolinea come tale vincolo rappresenti un corollario del principio di obbligato-
rietà dell’azione penale G. GIOSTRA, op. cit., p. 11.
(28) Per tale impostazione, v. V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio ob-
bligatorio dell’azione penale, cit., p. 104 s.
(29) In termini analoghi, il rischio è prospettato da L. BRESCIANI, Commento al d.lgs.
19 febbraio 1998, n. 51, Art. 227, in Leg. pen., 1998, p. 479.
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(30) La direttiva, pubblicata nel Notiziario C.s.m., 1977, n. 18, p. 5, sollecitava gli
uffici requirenti ad una programmazione « nello svolgimento del lavoro penale in modo da
consentire in primo luogo la trattazione dei processi più gravi ».
(31) Come emerge dalla relazione sullo stato dei lavori al 6 maggio 1994 presentata
al ministro (Doc. giust., 1994, c. 1087 s.), la Commissione è giunta a conclusioni molto va-
ghe, che possono essere così sintetizzate: compatibilità dei criteri di priorità con l’art. 112
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quattro anni più tardi (32); per arrivare, infine, alla mozione sulla giusti-
zia votata dal Senato il 5 dicembre 2001, che ha individuato, tra le indi-
spensabili riforme che il governo è chiamato ad attuare, anche l’introdu-
zione, ferma restando l’obbligatorietà dell’azione penale, di criteri di prio-
rità nel suo esercizio (33).
A rivestire particolare interesse sono naturalmente le ipotesi in cui un
sistema di priorità nella trattazione degli affari penali è stato tradotto in
pratica. Passare brevemente in rassegna quest’ultime consente di mettere
in risalto come l’idea di organizzare il lavoro giudiziario secondo una
scala di priorità dei procedimenti sia nata, con l’avallo del Consiglio supe-
riore della magistratura (34), sul terreno della prassi per essere poi rece-
Cost., a condizione che riguardino scelte di orientamento generale e non singole notizie di
reato; possibilità di attribuire al Parlamento un compito di indirizzo dell’operato degli uffici
requirenti.
(32) In seno alla Commissione bicamerale, il confronto sul principio di obbligatorietà
dell’azione penale e sulla necessità di predisporre soluzioni finalizzate a razionalizzarlo è
stato molto approfondito, ma i risultati sul piano propositivo si sono rivelati nel complesso
deludenti. In particolare, l’intervento sull’art. 112 Cost. si era inizialmente sostanziato, se-
condo quanto previsto dalla c.d. ‘‘terza bozza Boato’’, nella semplice inserzione di una clau-
sola di rinvio alla legge ordinaria, alla quale veniva rimessa l’individuazione delle misure
volte a rendere effettivo il principio di obbligatorietà. Premesso che tale clausola, nel rinviare
in modo incondizionato al legislatore ordinario, risultava « [...] idone[a] a legittimare anche
il più totale svuotamento dello stesso principio di obbligatorietà teoricamente confermato »
(così M. CHIAVARIO, Notarelle a prima lettura sul progetto della Commissione bicamerale in
tema di azione penale, cit., p. 133, nota 8) e, nella migliore delle ipotesi, del tutto pleona-
stico, va detto che sembrava una « illazione francamente azzardata » (L. BRESCIANI, op. cit.,
p. 481) ricavare dalla formula adottata un implicito richiamo ai criteri di priorità. In ogni
caso, i possibili dubbi sul punto sono stati fugati dal testo dell’art. 132 del progetto di revi-
sione costituzionale approvato in via definitiva dalla Commissione, norma che si limitava a
prevedere che « il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale e a tal fine av-
via le indagini quando ha notizia di un reato » (per un commento, v. V. GREVI, Garanzie
soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzio-
nale, in questa Rivista, 1998, p. 748 s.).
(33) In Cass. pen., 2001, p. 3625 s. A tale mozione, si ispira il disegno di legge n.
1257 recante « Delega al Governo in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione
penale », di iniziativa del sen. Cossiga e attualmente pendente al Senato, in base al quale
spetterebbe al Parlamento il compito di approvare la proposta sulle priorità da seguire for-
mulata, anche alla luce di quelle indicate da ciascun procuratore generale presso la corte
d’appello, dal ministro della giustizia.
(34) Consiglio superiore della magistratura, Sezione disciplinare, 20 giugno 1997,
Vannucci, in Cass. pen., 1998, p. 1489 s., con nota di D. CARCANO, Stabilire i criteri di prio-
rità nella trattazione dei procedimenti è un dovere dei capi degli uffici. Il caso, oggetto della
pronuncia, merita di essere riportato. Un magistrato del pubblico ministero, al momento di
essere trasferito ad un ufficio giudicante, aveva lasciato un arretrato di circa 7.000 fascicoli,
relativi a procedimenti introitati negli anni precedenti; il motivo era da rinvenire, a quanto
risulta dalla ricostruzione operata dalla Sezione disciplinare, nella scelta, compiuta dal sosti-
tuto procuratore stesso, di privilegiare la trattazione di procedimenti relativi a reati di mag-
giore gravità e/o allarme sociale, rispetto a quelli riguardanti fatti di minore gravità e/o al-
larme sociale e destinati, quasi sempre, a prescriversi nel corso del giudizio di primo grado.
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pita, sia pure in via transitoria ovvero con finalità settoriali, da disposi-
zioni di legge; ma soprattutto appare necessario al fine di verificare, in un
successivo momento dell’indagine, se il disegno di vincolare la discrezio-
nalità del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato a cri-
teri oggettivi sia stato trasposto sul piano normativo secondo schemi che,
alla luce dell’art. 112 Cost., possano essere assunti come paradigmi per
interveti futuri.
È noto come l’iniziativa che, per prima, ha manifestato all’esterno
l’intento di far fronte all’impossibilità di trattare tempestivamente tutte le
notizie di reato attraverso un sistema organizzativo del lavoro incentrato
sulla fissazione di un ordine di priorità sia stata assunta nel 1990 dal Pro-
curatore della Repubblica presso l’allora Pretura di Torino (35).
Sulla scia della c.d. circolare Zagrebelsky, si collocano analoghe di-
rettive formalizzate in appositi provvedimenti a carattere interno dai diri-
genti di altri uffici giudiziari (36) e, soprattutto, le due norme di legge che
In sostanza, alla luce dell’assenza di direttive impartite dal capo dell’ufficio, il sostituto pub-
blico ministero aveva deciso, autonomamente, di procedere ad una selezione, secondo criteri
oggettivi e non arbitrari, delle notizie di reato acquisite. Ebbene, a parere della Sezione disci-
plinare, tale comportamento non consente di formulare un giudizio di rimproverabilità, visto
che, nell’impossibilità oggettiva di esaurire in modo tempestivo la trattazione di tutte la noti-
zie di reato, « è compito del Procuratore della Repubblica, e in difetto del sostituto procura-
tore, elaborare criteri di priorità che, escluso il mero riferimento al caso o alla successione
cronologica della sopravvenienza, non possono non derivare dalla gravità e/o offensività so-
ciale dei reati ».
(35) Si tratta della c.d. circolare Zagrebelsky, il cui testo è riportato in Cass. pen.,
1991, p. 362 s., in base alla quale i procedimenti venivano suddivisi, secondo un ordine de-
crescente di priorità, in tre categorie: quelli nei quali siano state adottate misure cautelari
personali o reali; quelli relativi a reati da ritenere gravi, in base alla personalità dell’indagato,
alla lesione subita dall’interesse penalmente protetto, alla reiterazione della condotta, al
danno (patrimoniale e non) cagionato e non risarcito o altrimenti rimosso; quelli residui.
Tale circolare, adottata sulla base dei poteri conferiti dall’art. 70, comma 3, ord. giud. al
capo dell’ufficio, era stata preceduta da quella a firma congiunta del Presidente e del Procu-
ratore generale presso la Corte d’appello di Torino (in Cass. pen., 1989, p. 1616 s.), con la
quale si manifestava il convincimento che occorresse « un filtro scrupoloso delle priorità da
assegnare ai singoli processi [...] ».
(36) Alcune di tali circolari, che solo in alcuni casi sono state rese pubbliche, sono
menzionate da G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest.
giust., 1997, p. 297, nota 20. Un rilievo particolare merita la circolare in data 27 maggio
1999, contenente disposizioni di servizio sull’assetto organizzativo dell’ufficio, del Procura-
tore della Repubblica presso il Tribunale di Torino; tale provvedimento si caratterizza sotto
tre profili: il carattere organico del sistema di ‘‘precedenze’’, che si articola in due categorie
di reati (quelli con priorità 1 e quelli con priorità 2), e di trattazione delle notizie di reato;
l’indicazione analitica dei reati appartenenti a ciascuna categoria; la suddivisione dei sostituti
procuratori in gruppi di lavoro, destinati ad occuparsi di procedimenti omogenei dal punto
di vista dell’interesse protetto dalle norme che si assumono violate (v. I. MANNUCCI PACINI,
L’organizzazione della Procura della Repubblica di Torino: criteri di priorità o esercizio di-
screzionale dell’azione penale?, in Quest. giust., 2000, p. 175 s., cui segue il testo della cir-
colare sopra richiamata).
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(37) Che questa sia l’intentio primaria della previsione emerge dalla Relazione al
d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in Gazz. uff. 20 marzo 1998, suppl. ord., n. 2. A conferma di
tale impostazione, milita la natura di norma transitoria dell’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, la
cui efficacia nel tempo è limitata ai procedimenti pendenti alla data di efficacia del decreto
stesso, che è quella del 2 giugno 1999.
(38) In questo senso, v. L. BRESCIANI, op. cit., p. 475; I. PATRONE, Le priorità nel pro-
cesso penale: una scelta difficile, in Quest. giust., 1998, pp. 579-580, secondo il quale dei
criteri di priorità, fissati in base all’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, non potrà non tenersi
conto anche per il carico di lavoro che si verrà a creare ex novo negli uffici ormai riuniti.
(39) Apprezzabile negli intenti, vale a dire evitare che i criteri di priorità assumano
una dimensione eccessivamente localistica, tale previsione va accolta con qualche riserva,
poiché costituisce un ulteriore segno del ruolo di ‘‘garante’’, al fine di una corretta ammini-
strazione dell’attività giurisdizionale, che nel silenzio della legge il Consiglio superiore della
magistratura ha ormai assunto (L. BRESCIANI, op. cit., p. 483, nota 39).
(40) Inserito dal d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modificazioni nella l.
19 gennaio 2001, n. 4.
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(45) V. F. CORDERO, op. cit., p. 419, secondo il quale « [...] a indagini concluse, biso-
gna calcolare le chances dell’eventuale accusa. [In questo senso] la discrezionalità è fisiolo-
gica ». V. anche G. GIOSTRA, op. cit., p. 7 s. e 23 s.
(46) Per la distinzione tra discrezionalità ‘‘libera’’ e discrezionalità ‘‘vincolata’’, sia
pure con riferimento ai poteri del giudice, v. E. DOLCINI, voce Potere discrezionale del giu-
dice (diritto penale), in Enc. dir., vol. XXXIV, 1985, p. 747 s. V., anche, R. SATURNINO,
voce Discrezionalità, in Enc. giur., vol. XI, 1983, p. 2 s.
(47) A queste conclusioni è giunta Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, cit., la quale,
nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 125 disp. att. c.p.p., ha sot-
tolineato l’esigenza imprescindibile che la regola di giudizio prevista per l’archiviazione sia
configurata in modo tale da segnare il discrimine tra l’oggettiva superfluità e la mera inop-
portunità del processo e da assicurare efficacia al successivo controllo giurisdizionale. Entro
tali limiti, pertanto, non contrasta con l’art. 112 Cost. la circostanza che al pubblico mini-
stero siano lasciati spazi di discrezionalità valutativa circa il grado di attitudine degli ele-
menti acquisiti a costituire adeguata piattaforma dell’accusa in giudizio. Sul punto, v. V.
GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’ ed obbligatorietà dell’azione penale, in
questa Rivista, 1990, pp. 1295-1298; v., inoltre, G. PIZIALI, L’archiviazione nella giurispru-
denza costituzionale, in Ind. pen., 1993, p. 407.
(48) Sulle fattispecie di dovere a formazione progressiva, v. F. CORDERO, Le situa-
zioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 169; A. CRISTIANI, La discrezionalità
dell’atto nel processo penale, Milano, 1985, p. 50 s.
(49) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 169. Sul fenomeno dell’eterointegrazione norma-
tiva, si vedano le osservazioni critiche di F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale,
Milano, 1965, p. 46 s.
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mente diversi fra loro, tali da produrre effetti riflessi sulla portata dell’art.
112 Cost. (52).
Lo testimonia il fatto che, già all’indomani dell’entrata in vigore del
codice del 1988, lo spostamento in avanti, al termine della fase prelimi-
nare, dell’esercizio dell’azione penale sia stato avvertito come una scelta
foriera di ricadute sul piano del principio di obbligatorietà. È apparso su-
bito chiaro, infatti, come il mutato assetto processuale imponesse di far
retroagire — per evitarne possibili aggiramenti — l’efficacia precettiva
dell’art. 112 Cost. ai momenti iniziali dell’iter procedimentale; di qui,
l’ancoraggio del principio di obbligatorietà allo svolgimento delle inda-
gini, elevato al rango di corollario dell’art. 112 Cost. e configurato — in
presenza di una notizia di reato — come dovere del pubblico ministero. In
caso contrario, consentendo all’organo d’accusa di omettere l’accerta-
mento sulla fondatezza della notizia di reato in base a criteri di opportu-
nità, scelte collocate a monte delle indagini sarebbero andate a pregiudi-
care l’an dell’iniziativa penale, con il risultato di vedere frustrato lo spirito
dell’art. 112 Cost. (53).
Tale assunto si risolve in un ostacolo al tentativo di individuare in
una contrazione dell’arco di procedimento coperto dall’art. 112 Cost. le
basi concettuali su cui costruire un sistema di priorità delle notizie di
reato.
Le isolate prese di posizione in senso contrario constano di pochi
passaggi: poiché l’alternativa tra azione penale ed archiviazione deve es-
sere sciolta solo al termine delle indagini preliminari, il precetto dell’ob-
bligatorietà non potrebbe essere riferito alla fase investigativa, che, per-
tanto, non sarebbe governata dall’art. 112 Cost; ad orientare, di conse-
guenza, l’attività del pubblico ministero nel corso di tale spazio procedi-
mentale dovrebbe essere l’art. 97, comma 1, Cost., secondo una logica
volta ad accentuare l’applicazione di principi propri del campo ammini-
strativo a quello giudiziario (54).
Ragionando in questi termini, quindi, a reggere la fase delle indagini
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(55) Tale orientamento sembra ispirarsi alla posizione espressa da G. FOSCHINI, Il pu-
blico ministero in un processo penale a struttura giurisdizionale, in Justitia, 1967, p. 138,
secondo il quale « [...] imparzialità significa che l’ufficiale, nell’espletamento della propria
funzione pubblica, non deve inserire in essa interessi particolari della sua o di altra persona,
dovendosi attenere solo all’interesse pubblico per il quale la funzione è preveduta e gli è affi-
data ». Sulla stessa linea, v. anche O. DOMINIONI, Per un collegamento fra Ministro della giu-
stizia e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. 80.
(56) L’impossibilità di affidare le determinazioni del pubblico ministero in materia di
svolgimento delle indagini al governo dei principi di buon andamento ed imparzialità trova
solide conferme nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha circoscritto la portata
dell’art. 97, comma 1, Cost. ai soli aspetti organizzativi della funzione giudiziaria. V. Corte
cost., 30 maggio 2001, n. 201, in Giur. cost., 2001, p. 654; Id., 15 giugno 1995, n. 281, ivi,
1995, p. 2815; Id., 30 marzo 1992, n. 140, ivi, 1992, p. 1155.
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tratti essenziali, lineare: mentre per la richiesta ex art. 416 c.p.p. è neces-
sario che la notizia di reato risulti fondata, per l’avvio delle indagini, al
contrario, è sufficiente il fatto della sua acquisizione. Il pubblico mini-
stero, pertanto, è tenuto ad iscrivere nell’apposito registro ogni notizia di
reato — cioè a prescindere dal suo grado di fondatezza — che gli sia per-
venuta o abbia acquisito di propria iniziativa (art. 335, comma 1, c.p.p.);
in seguito, scatta l’obbligo di svolgere le indagini ritenute necessarie (artt.
326 e 358 c.p.p.).
Anche su questo terreno, tuttavia, alla perentorietà dell’art. 112 Cost.
non corrispondono rigidi automatismi, per la presenza di spazi valutativi
destinati ad essere riempiti dal pubblico ministero. Il problema è noto:
consentendo al pubblico ministero di stabilire se le informative pervenute
o acquisite presentino i requisiti minimi della notizia di reato, l’art. 109
disp. att. c.p.p. si colloca nel sistema come crocevia di opposti destini:
iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p., da cui discende l’ob-
bligo di svolgere le indagini, ovvero in quello dei fatti che non costitui-
scono reato, che certifica la decisione di non procedere ad alcuna attività
investigativa in senso stretto (57).
È inevitabile che tale impostazione risenta del vuoto definitorio rela-
tivo alla consistenza e al contenuto della notitia criminis, dove « per ‘‘con-
sistenza’’ [si intende] il livello di corrispondenza a dati effettuali verificati
(‘‘notizia’’) e per ‘‘contenuto’’ il grado di conformità ad una fattispecie ti-
pica (‘‘reato’’) » (58); il che rende oltremodo labile ed incerto il confine
tra iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. e trasmissione all’archivio
senza controllo giurisdizionale (59). Anche in questo caso, soccorre lo
schema dell’eterointegrazione della fattispecie, che consente di qualificare
la posizione del pubblico ministero in termini pur sempre di dovere; in as-
senza, però, di parametri e di controlli normativamente previsti, i vincoli
risultano poco stringenti.
In via interpretativa, non si può far altro che individuare, più che dei
criteri di giudizio, delle linee programmatiche, riassumibili nella formula
secondo cui l’obbligo di iscrizione viene meno solo dinanzi « ad una non-
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(67) Cfr. F.S. BORRELLI, Il ruolo del pubblico ministero nel nuovo processo penale, in
Il pubblico ministero oggi, cit., pp. 30-31; G. ICHINO, op. cit., p. 293 s.; V. ZAGREBELSKY, In-
dipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 9 s.
(68) V. E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), cit., p. 9.
(69) Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, in Cass. pen., 2001, p. 2603 s.; Id., 23 di-
cembre 1994, n. 442, in Giur. cost., 1994, p. 3865; Id., 10 giugno 1994, n. 239, ibidem, p.
1968; Id., 10 febbraio 1993, n. 48, ivi, 1993, p. 350; Id., 12 giugno 1992, n. 270, ivi, 1992,
p. 2069; Id., 25 maggio 1992, n. 222, ibidem, p. 1778; Id., 9 marzo 1992, n. 92, ibidem, p.
904; Id., 15 febbraio 1991, n. 88, cit. In dottrina, v. F. CAPRIOLI, op. cit., p. 535; V. GREVI,
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op. ult. cit., p. 1299; E. MARZADURI, Sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, cit.,
p. 88.
(70) In quest’ottica, v. V.L. BRESCIANI, op. cit., p. 482 s.; C. CASTELLI, Esigenze di de-
flazione e risposte possibili tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest.
giust., 1990, p. 101 s.; M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 95 s.; G. CONSO, Introduzione alla ri-
forma, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. XVI; F. CORDERO, op. ult. cit., p. 419;
A. GAITO, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una di-
scussione, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., pp. 17 e 24; V. GREVI, Ga-
ranzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione co-
stituzionale, cit., p. 752; ID., Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per
legge ordinaria?, cit., p. 495; G. ICHINO, op. cit., p. 296 s.; E. MARZADURI, Commento al
d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, Premessa, in Leg. pen., 1998, p. 379; G. NEPPI MODONA,
Principio di legalità e processo penale, in Il pubblico ministero oggi, cit., pp. 123-124; I. PA-
TRONE, op. cit., p. 578 s.; V. ZAGREBELSKY, Flusso delle notizie di reato, organizzazione delle
risorse, obbligatorietà dell’azione penale, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro
dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, Quaderni del C.S.M., n. 56, 1991, p. 161
s.; ID., Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, cit., p. 101 s.
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con l’art. 112 Cost. una filosofia del lavoro investigativo ispirata a para-
metri elaborati in un ambito di discrezionalità vincolata, che risponda,
cioè, a canoni oggettivi e controllabili?
Posizioni di netta chiusura, incertezze e perplessità sono state manife-
state da più voci, tutte sul presupposto che scelte degli uffici d’accusa
circa l’ordine secondo il quale trattare le notizie di reato si porrebbero in
contrasto con il quadro dei valori costituzionali (71).
Ad essere violato sarebbe, in primis, il principio di obbligatorietà in-
teso quale canone di condotta del pubblico ministero; è stato evidenziato,
infatti, come introdurre un sistema di priorità, in base al quale certi proce-
dimenti vanno trattati prima di altri, e stabilire, di conseguenza, quali ti-
pologie di reato, individuate in astratto, debbano correre sulle corsie pre-
ferenziali e quali sulla strada comune, darebbe luogo ad una forma surret-
tizia di opportunità (72). In particolare, si ritiene che, poiché la legalità
del procedere determina il dovere di perseguire le condotte violatrici della
legge penale, tra la previsione di un fatto-reato e l’attivarsi del pubblico
ministero non possano inserirsi scelte di priorità, in quanto così facendo,
si verrebbe ad interrompere, per i procedimenti destinati ad essere poster-
gati, l’automatismo, imposto dall’art. 112 Cost., tra notitia criminis ed
iniziativa dell’organo d’accusa (73).
Tale chiave di lettura si basa su una impostazione che non coglie la
prospettiva secondo la quale sono destinati ad operare i criteri di priorità.
Questi, infatti, non configurano un meccanismo diretto a consentire, per
una parte delle notizie di reato acquisite, l’esonero del pubblico ministero
dagli obblighi che l’art. 112 Cost. gli impone; al contrario, la decisione di
trattare le notizie di reato secondo una scala di priorità e quindi di attri-
(71) Rilievi critici vengono mossi sotto più profili, tutti riconducibili al precetto del-
l’art. 112 Cost.: rispetto del principio di legalità in campo processuale, indipendenza del
pubblico ministero da altri poteri, uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; in questo
senso, v. V. BORRACCETTI, op. cit., pp. 147-148; M. CICALA, Il pubblico ministero e l’azione
penale, in Doc. giust., 1997, c. 1524; G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità,
obbligatorietà dell’azione penale ed uguaglianza a proposito dei ‘‘criteri di priorità’’ nell’e-
sercizio dell’azione penale, in Giur. cost., 1998, p. 1878 s.; M. DEVOTO, Obbligatorietà - di-
screzionalità dell’azione penale. Ruolo del pubblico ministero, in Cass. pen., 1996, p. 2049
s.; P. FERRUA, Primi appunti critici sul giudice unico in materia penale, in Crit. dir., 1998, p.
27; M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo - teoria dello stato - epistemologia, in
Ind. pen., 1999., p. 33; U. NANNUCCI, Flusso delle notizie di reato, organizzazione delle ri-
sorse, obbligatorietà dell’azione penale, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro
dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, cit., p. 183 s.; F. PINTO, Obbligatorietà
dell’azione penale e organizzazione delle Preture circondariali, in Quest. giust., 1991, p. 427
s.; A. ROSSI, Per una concezione ‘‘realistica’’ dell’obbligatorietà dell’azione penale, ivi,
1997, pp. 315-316. Si vedano., inoltre, le osservazione avanzate in chiave problematica da F.
CAPRIOLI, op. cit., p. 597 s.; E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), cit., p.
21.
(72) U. NANNUCCI, op. cit., p. 184.
(73) G. D’ELIA, op. cit., p. 1884.
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(76) V. G. CONSO, op. ult. cit., p. XVI; V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 105.
(77) V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 105. In senso analogo, v. M. CHIAVARIO, op. ult.
cit., p. 95; G. NEPPI MODONA, op. ult. cit., p. 124.
(78) G. D’ELIA, op. cit., p. 1883.
(79) V., più in dettaglio, supra, § 2.
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(80) V. infra, §§ 9 s.
(81) In tale esigenza (nullum crimen sine iniuria), si traduce il principio di offensi-
vità o di necessaria lesività, il quale, pertanto, implica l’idea di un diritto penale pensato
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come strumento di tutela dei beni giuridici e, di riflesso, una concezione ‘‘realistica’’ del
reato (F. MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in
onore di C. Mortati, vol. IV, Milano, 1977, p. 447). È noto come, nella prospettiva origina-
ria, il principio di offensività si inserisse nel disegno, le cui fondamenta teoriche sono in se-
guito cadute, di ancorare alla Carta costituzionale i beni oggetto di tutela penale (F. BRI-
COLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., vol. XIV, 1973, p. 7 s.). Sui diversi
destini che hanno segnato la teoria del bene giuridico costituzionalmente orientato e il prin-
cipio di offensività, v. V. MANES, Il principio di offensività. Tra codificazione e previsione co-
stituzionale, in AA.VV., Meritevolezza di pena e logiche deflattive, a cura di G. De France-
sco e E. Venafro, Torino, 2002, p. 145 s.
(82) C. FIORE, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, p. 276. Al riguardo, deve
seguirsi una prospettiva che tenga conto delle principali componenti graduabili del reato; in
particolare, il giudizio di offensività si compendia nella formula: grado di disvalore dell’a-
zione, grado di disvalore dell’evento, intensità della colpevolezza (C.E. PALIERO, op. cit., p.
714).
(83) C.E. PALIERO, op. cit., p. 707, con diffusi rinvii alla dottrina tedesca.
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diato in forma più o meno sottile dal potere politico » (P. FERRUA, Il nuovo processo penale e
la riforma del diritto penale sostanziale, in Studi sul processo penale, II - Anamorfosi del
processo accusatorio, Torino, 1992, pp. 22-23).
(99) Tra i primi a sottolineare la possibilità di individuare un bilanciamento tra gli
opposti valori, v. M. NOBILI, La recente polemica sul pubblico ministero: un pericoloso ‘‘aut-
aut’’, in Pol. dir., 1983, p. 379.; v., inoltre, G. DI FEDERICO, Il pubblico ministero: indipen-
denza, responsabilità, carriera ‘‘separata’’, in Ind. pen., 1995, p. 402, secondo il quale tra-
sparenza delle scelte che governano le priorità nell’esercizio dell’azione penale ed autonomia
del pubblico ministero sono ingredienti essenziali anche per garantire l’eguale trattamento
del cittadino di fronte alla legge.
(100) Per uno sguardo alle soluzioni accolte in alcuni Paesi stranieri, v. G. DI FEDE-
RICO, op. ult. cit., p. 402 s.; ID., L’indipendenza del pubblico ministero e il principio demo-
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(108) Per un quadro sintetico, v. A. TORRENTE, voce Consiglio superiore della magi-
stratura, in Enc. dir., vol. IX, 1961, p. 329 s. Sebbene prive di riflessi sotto il profilo della le-
gittimazione democratica dell’organo, vanno tenute presenti le recenti modifiche apportate
dalla l. 28 marzo 2002, n. 44.
(109) Cfr. N. ZANON, op. cit., pp. 246-247.
(110) V. V. ONIDA, La posizione costituzionale del C.s.m. e i rapporti con gli altri
poteri, in AA.VV., Magistratura, C.s.m. e principi costituzionali, a cura di B. Caravita,
Roma-Bari, 1994, pp. 18-19.
(111) V. V. ONIDA, op. cit., p. 20.
(112) Cfr. V. ZAGREBELSKY, Magistratura, la gerarchia da smantellare, in Relazioni
sociali, 1972, p. 23; N. ZANON, op. cit., p. 244.
(113) V. S. BARTOLE, In tema di autorizzazione a procedere per vilipendio dell’ordine
giudiziario, in Giur. cost., 1973, p. 1422.
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L’assunto rinvia alla dicotomia fra gli organi che esercitano funzioni
giurisdizionali e quelli che svolgono funzioni di amministrazione della giu-
risdizione, cioè attività a carattere burocratico ancillari rispetto alle
prime (114). Ebbene, nel secondo gruppo di soggetti, si colloca il Consi-
glio superiore; tratto saliente, infatti, del modello costituzionale di orga-
nizzazione è proprio quello di aver affidato, al fine di rafforzare l’indipen-
denza dei magistrati, tali attività amministrative, che sono in rapporto di
strumentalità rispetto all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ad un organo
distinto ed autonomo dal potere esecutivo (115). Solo entro tali confini,
pertanto, può parlarsi di un potere di indirizzo del Consiglio supe-
riore (116).
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Sotto altri profili, tuttavia, vi sono alcuni punti controversi che oc-
corre affrontare. Il primo nodo da sciogliere riguarda la tipologia di atto
parlamentare con il quale sarebbe possibile dettare guidelines agli uffici
requirenti. È stato evidenziato, infatti, come il rapporto tra magistratura e
Parlamento sia di tipo astratto, nel senso che quest’ultimo può esprimersi
nei confronti della funzione giudiziaria solo attraverso la legge, che — in
quanto tale — deve possedere i requisiti della generalità e dell’astrattezza;
sarebbe, infatti, un’inammissibile interferenza nella sfera di attribuzioni
del potere giudiziario una legge-provvedimento, diretta ad incidere su un
singolo caso (119).
Sulla base di questa premessa, non sembra percorribile la strada della
risoluzione o dell’ordine del giorno (120).
Del resto, è la natura stessa di tali atti a porsi come ostacolo rispetto
alla possibilità di una loro adozione come ‘‘contenitori’’ di direttive per gli
uffici requirenti. Insieme alla mozione, infatti, la risoluzione e l’ordine del
giorno sono strumenti di indirizzo politico, che servono a provocare un
voto delle Camere, il cui destinatario è il governo (121); si tratta, in sin-
tesi, di atti che, pur potendo essere adottati per gli scopi specifici più di-
versi, sono accomunati dalla caratteristica di inserirsi nel rapporto tra po-
tere esecutivo e Parlamento, al quale spetta di controllare che l’attività del
governo sia conforme al programma esposto al momento della fiducia.
Tale connotazione degli atti di indirizzo politico emerge in modo chiaro
anche dalla loro struttura formale, che si articola in due parti; la prima è
costituita dalla premessa motivata, nella quale si illustra il tema discusso,
XXXI, 1981, p. 757, ad avviso del quale non esiste una funzione generale di garanzia del
Parlamento, dal momento che quest’ultimo non è in una posizione di neutralità e non si rin-
vengono disposizioni che gli attribuiscano tale ruolo. Per una sintesi delle problematiche in
materia e delle diverse tesi, v. S. SICARI, voce Controllo e indirizzo parlamentare, in Dig.
disc. pubbl., vol. IV, 1989, p. 103 s.
(119) In questo senso, B. CARAVITA, Tra crisi e riforme. Riflessioni sul sistema costi-
tuzionale, Torino, 1993, p. 157; ID., Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione del
pubblico ministero: profili costituzionali, cit., p. 301, secondo il quale, nei rapporti tra magi-
stratura e Parlamento, il termine legge è assunto nel suo significato idealtipico, vale a dire
non solo di atto che promana dall’iter legislativo, bensì anche come atto generale ed astratto
che produce norme nel senso più classico della parola.
(120) In senso contrario, v., in particolare, V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., pp. 115-
116, secondo il quale la risoluzione e l’ordine del giorno avrebbero il vantaggio di risultare
adeguati al livello di incidenza sui comportamenti dei magistrati, livello che è quello dei do-
veri d’ufficio valutabili non sul piano delle conseguenze processuali, ma da parte del Consi-
glio superiore su quello della deontologia e della capacità professionale.
(121) Al riguardo, v. A. MANZELLA, op. ult. cit., p. 295 s.; M.L. MAZZONI HONORATI,
Lezioni di diritto parlamentare, 3a ed. aggiornata, Torino, 1999, p. 363 s., ad avviso della
quale può dirsi, in via di prima approssimazione, che la mozione apre il dibattito su un certo
argomento, la risoluzione lo conclude e l’ordine del giorno manifesta la volontà parlamen-
tare su un tema accessorio rispetto a quello in esame.
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(122) V., più ampiamente, M.L. MAZZONI HONORATI, op. cit., p. 365 s.
(123) In questo senso, A. MANZELLA, op. ult. cit., p. 300.
(124) V. M. CIAURRO, voce Ordine del giorno, in Enc. giur., vol. XXX, 1980, p.
1034.
(125) È di questo avviso B. CARAVITA, op. ult. cit., p. 307.
(126) Così A. ROSSI, op. cit., p. 315; in chiave problematica, si esprime anche F. CA-
PRIOLI, op. cit., cit., p. 597, secondo il quale non si comprende quale posto occuperebbero
nella gerarchia delle fonti le guidelines di politica criminale, posto che la loro osservanza de-
terminerebbe la disapplicazione della legge penale. V. anche le critiche e le perplessità avan-
zate da V. BORRACCETTI, op. cit., p. 147 e da M. DEVOTO, op. cit., p. 2051.
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(127) In questi termini, M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 97. In altro scritto (Notarelle a
prima lettura sul progetto della Commissione bicamerale in tema di azione penale, cit., p.
133, nota 10), lo stesso Autore ribadisce come, attraverso l’introduzione di criteri di prio-
rità, ‘‘nessuno [...] ha mai pensato che in tal modo si potesse giungere a promettere, magari
per pubblici proclami, che certi fatti — considerati come reati dalla legge penale — non sa-
rebbero perseguiti, per un certo periodo di tempo, sull’intero territorio nazionale ovvero in
questa o quella circoscrizione’’.
(128) Sul carattere comparativo del giudizio di proporzione e sui diversi momenti in
cui si articola, v. F. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di cri-
minalizzazione, in questa Rivista, 1992, pp. 454-456. V. anche M. DONINI, L’art. 129 del
progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997. Un contributo alla pro-
gressione ‘‘legale’’ prima che ‘‘giurisprudenziale’’, dei principi di offensività e di sussidia-
rietà, in Crit. dir., 1998, p. 106.
(129) Sull’importanza di tale criterio nell’ambito del processo di selezione dei beni
giuridici, v. F. PALAZZO, op. cit., p. 466 s.
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Ultimo tema da trattare è quello dei rapporti interni agli uffici del
pubblico ministero (130). Nell’ambito del modello proposto, infatti, le
guidelines parlamentari hanno come principali destinatari i capi degli uf-
fici, ai quali va attribuito il compito di tradurle in direttive di dettaglio che
siano vincolanti per i magistrati addetti.
È noto come il disposto dell’art. 70, commi 3 e 4, ord. giud., nel testo
modificato dall’art. 20 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, sia stato letto,
con riguardo ai rapporti tra titolare dell’ufficio e suoi sostituti nella fase
delle indagini preliminari, secondo cadenze interpretative dagli esiti anti-
tetici, che hanno condotto ad affermare ora la supremazia gerarchica del
primo (131), ora la piena autonomia dei secondi (132).
In nessun caso, tuttavia, viene messo in discussione che al procura-
tore capo siano attribuite funzioni direttive ed organizzative, essendo il di-
stinto problema della loro ampiezza a costituire l’oggetto di divergenti ve-
dute (133). Infatti, anche chi tende a valorizzare l’autonomia del pubblico
ministero nella fase delle indagini, riconosce al capo dell’ufficio un ruolo
di sovraordinazione rispetto ai magistrati addetti; e di qui, la possibilità
per il primo di adottare direttive interne e il dovere per i secondi di rispet-
tarle.
In questo senso, il disposto dell’art. 70, comma 3, ord. giud., secondo
cui il titolare dirige l’ufficio e ne organizza l’attività, non può essere inteso
in chiave riduttiva, limitandone la portata agli aspetti meramente burocra-
tici, con esclusione dei profili che attengono all’esercizio delle funzioni
(130) In questa sede, non è possibile affrontare le molteplici problematiche che sol-
leva, sul terreno dell’art. 112 Cost., il tema dell’indipendenza interna del pubblico ministero;
si rinvia, per una trattazione più diffusa, a P.M. BELLONE, voce Pubblico ministero (diritto
processuale penale), in Noviss. Dig. it., Aggiornamento, 1993, p. 201; M. CHIAVARIO, Rifles-
sioni sul principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, in Studi in onore di C.
Mortati, vol. IV, cit., p. 128; M. NOBILI, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale,
cit., p. 126 s.; G. NEPPI MODONA, Art. 112, in Commentario della Costituzione, a cura di G.
Branca, Bologna, 1987, p. 77; M. SCAPARONE, voce Pubblico ministero (dir. proc. pen.), in
Enc. giur., vol. XXXVII, 1998, p. 1107.
(131) Così L. CARLI, Personalizzazione delle funzioni di p.m., in Procure circonda-
riali. Organizzazione del lavoro dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, cit., p.
29 s.
(132) Di questo avviso sono A.A. DALIA, Il problema del coordinamento, dei collega-
menti e dei controlli nell’esercizio della funzione d’accusa, in AA.VV., Accusa penale e
ruolo del pubblico ministero, cit., p. 101 s.; A. PIGNATELLI, Rapporti tra Procuratori della Re-
pubblica e sostituti alla luce della nuova formulazione dell’art. 70 dell’ordinamento giudi-
ziario, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro dei magistrati e rapporto con la
polizia giudiziaria, cit., p. 139.
(133) Esclusa per tabulas la possibilità di configurare un rapporto gerarchico con ri-
guardo allo svolgimento dell’udienza, un’altra questione controversa riguarda gli effetti della
designazione, operata dal capo dell’ufficio, sotto il profilo della stabilità dell’incarico confe-
rito al sostituto.
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giudiziarie (134). Al riguardo, sebbene non sia agevole tracciare una netta
linea di confine tra il potere direttivo e quello di organizzazione, è possi-
bile individuare due distinti settori di competenza.
Innanzitutto, il capo dell’ufficio svolge funzioni di natura ammini-
strativa, che sono strumentali rispetto all’esercizio di quelle giudizia-
rie (135); spetta, infatti, al titolare il compito di predisporre i mezzi mate-
riali e le attività burocratiche connesse allo svolgimento del servizio che
l’ufficio presta (136). Inoltre, il titolare è investito del ruolo di coordina-
tore, al fine di assicurare che i membri dell’ufficio seguano linee di indi-
rizzo uniformi; pertanto, deve essere riconosciuto al dirigente della pro-
cura il potere di dettare disposizioni a carattere generale, riguardanti lo
svolgimento delle funzioni d’accusa (137).
Di conseguenza, nella fase preliminare, l’autonomia dei singoli magi-
strati risulta diminuita, dal momento che essa incontra il limite rappresen-
tato dall’obiettivo di garantire l’uniformità dei comportamenti (138); di
riflesso, quindi, non può dirsi realizzata una piena personalizzazione
delle funzioni requirenti, poiché il titolare dell’ufficio è investito di poteri
(134) In questo senso, V. ZAGREBELSKY, Sull’assetto interno agli uffici del pubblico
ministero, in Cass. pen., 1993, p. 719.
(135) V. A. PIZZORUSSO, voce Organi giudiziari, in Enc. dir., vol. XXXI, 1981, pp.
92-93.
(136) Così L. CARLI, op. cit., p. 34, che riconduce tali funzioni al concetto di organiz-
zazione; al contrario, A. PIGNATELLI, op. cit., p. 139, le riconduce al potere direttivo. Va sot-
tolineato come, limitatamente a tale aspetto, sussista un rapporto gerarchico tra i capi degli
uffici e il Consiglio superiore della magistratura, il quale può annullare i provvedimenti dei
primi e dare ad essi direttive vincolanti in base ai principi dell’organizzazione amministrativa
(A. PIZZORUSSO, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in
Italia, cit., p. 298).
(137) V. L. CARLI, op. cit., p. 34; A. PIGNATELLI, op. cit., pp. 141-142, il quale sotto-
linea che le direttive adottate dal capo dell’ufficio non devono avere carattere particolare,
con la conseguenza che non può ritenersi consentito ordinare un singolo atto d’indagine, in
modo che sorga il dovere di compierlo nel sostituto designato.
(138) Pone l’accento sulla necessità di scongiurare il rischio che, all’interno dell’uffi-
cio, vengano seguiti indirizzi contraddittori V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., pp. 719-720; ID.,
Modifiche all’ordinamento giudiziario e nuovo ruolo del pubblico ministero e del giudice, in
Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione (Atti del Convegno dell’Associa-
zione degli studiosi del processo penale, Ostuni 8-10 settembre 1989), Milano, 1991, p. 124.
In giurisprudenza, Sez. un., 23 ottobre 1992, Cordova, in Cass. pen., 1993, p. 526, ricono-
sce al procuratore capo poteri di coordinamento dell’attività dei sostituti e di conferimento
di un impulso unitario alla conduzione dei processi; v. anche Sez. un. civ., 15 marzo 2001,
Pititto, in Dir. giust., 2001, n. 24, p. 24. Anche il Consiglio superiore ha evidenziato tale esi-
genza, ritenendo « sconsigliabile un’eccessiva ‘‘personalizzazione’’ del magistrato incaricato
di seguire il procedimento » e mettendo in luce la « necessità di assicurare, specie nella fase
delle indagini preliminari, unitarietà o, almeno, uniformità di indirizzo » (Parere del Consi-
glio superiore della magistratura sul progetto preliminare delle norme di attuazione del co-
dice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice dalla
legge delega ai decreti delegati, vol. VI, t. I, Padova, 1990, p. 106).
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(139) V. V. ZAGREBELSKY, Sull’assetto interno degli uffici del pubblico ministero, cit.,
p. 721.
(140) Il riferimento è, in particolare, ai possibili punti di aggancio con la controversa
teoria (v. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, 2a ed., Padova,
1990, p. 56 s.) sulla sospensione temporanea, in situazioni d’emergenza, dei principi costitu-
zionali.
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AL DI LÀ DELLE DICOTOMIE:
IBRIDISMO E FLESSIBILITÀ DEL METODO DI RICOSTRUZIONE
DEL FATTO NELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE (*)
(*) Lo scritto è destinato alla pubblicazione nel volume che raccoglierà i risultati di
una ricerca interuniversitaria finanziata dal MIUR e intitolata ‘‘Verso un diritto penale co-
mune in materia di repressione di crimini internazionali’’ (Coordinatore scientifico: Prof.
Antonio Cassese; Responsabile scientifico: Prof. Mario Chiavario). L’autore rivolge un parti-
colare ringraziamento ad A. CARCANO, R. GALLMETZER e P. MASSIDDA, ‘‘Juristes Adjoints aux
Chambres’’, per la loro accoglienza al TPIY e per la loro preziosa collaborazione.
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(1) Cfr., sul punto, H. BRADY, The System of Evidence in the Statute of the Interna-
tional Criminal Court, in Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, F.
LATTANZI and W. A. SCHABAS eds., I, L’Aquila, Il Sirente, 1999, p. 286 e V. FANCHIOTTI,
Completata la stesura delle Rules of Procedure and Evidence, in Dir. pen. e proc., 2000, p.
1402, che sottolinea come l’inadeguata preparazione processualistica e comparatistica di
molti delegati abbia accreditato una versione assai semplicistica e fuorviante della contrap-
posizione dei due modelli processuali.
(2) Così, invece, seppur in forma dubitativa, M. FINDLAY, Synthesis in Trial Procedu-
res? The Experience of International Criminal Tribunals, in International and Comparative
Law Quarterly, 2001, p. 52, il quale aggiunge che « what now seems to be a triumph for
synthesis may be more reliant on the political moment of internationalisation rather than on
any real and significant developments towards a new, fused procedural tradition » (p. 53).
(3) V., ad esempio, il seguente passo tratto da Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), De-
cision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective measures for Victims and Witnes-
ses, 10 agosto 1995, § 22, in cui si chiarisce che « another unique characteristic of the In-
ternational Tribunal is its utilization of both common law and civil law aspects. Although
the Statute adopts a largely common law approach to its proceedings, it deviates in several
respects from the purely adversarial model. [...] As such, the International Tribunal constitu-
tes an innovative amalgam of these two systems ».
(4) P. L. ROBINSON, Ensuring Fair and Expeditious Trials at the International Crimi-
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Per chiarire ulteriormente tale favor per ibridazioni funzionali alle specificità
istituzionali della giustizia penale internazionale, può essere utile ricordare un
passo dell’opinione separata espressa dall’ex presidente del TPIY, Antonio Cassese,
nel caso Erdemovic. Prendendo spunto dalla questione se i giudici del Tribunale
fossero tenuti ad applicare le regole della common law in tema di guilty plea, Cas-
sese puntualizza alcune caratteristiche generali della procedura penale internazio-
nale. Questa non deriverebbe da un « corpus de droit uniforme », ma sarebbe il ri-
sultato, in larga misura, « de la fusion de deux systèmes juridiques différents, celui
des pays relevant de la common law et celui des pays de droit romain ». Ne deriva
che la procedura in questione, da un lato, non privilegia « la philosophie sous-ten-
dant l’un des deux systèmes pénaux internes au détriment de l’autre » e, dall’altro,
evita di promuovere la semplice « juxtaposition d’éléments appartenant aux deux
systèmes ». Essa opera, piuttosto, « la combinaison et la fusion, généralement de
façon assez satisfaisante, entre le système contradictoire ou accusatoire [...] et un
certain nombre de caractéristiques importantes du système inquisitoire ». Tale
« combinaison ou cet amalgame », si prosegue, « est unique et génère une logique
juridique qui est sensiblement différente de celle de chacun des deux systèmes pé-
naux internes » (5).
nal Tribunal for the Former Yugoslavia, in European Journal of International Law, 2000, p.
579, che considera il sistema del TPIY come un sistema « sui generis » (p. 588).
(5) Procureur v. Erdemovic (IT-96-22-A), Opinion individuelle et dissidente du juge
Cassese, 7 ottobre 1997, IA4.
(6) Prosecutor v. Aleksovski (IT-95-14/1-AR73), Arrêt relatif à l’appel du Procureur
concernant l’admissibilité d’éléments de preuve, 16 febbraio 1999, § 19.
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stice, not to delay it, and not to permit mere technicalities to intrude
where there has been no material prejudice caused by a non-com-
pliance » (7).
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mentazioni delle parti non hanno mancato di prospettare. Non a caso, è proprio
traendo spunto dall’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea e dagli ef-
fetti di armonizzazione da essa indotti nella trama normativa delle procedure na-
zionali che il promotore di un’importante ricerca comparatistica ha voluto scor-
gere il delinearsi, tra i paesi membri del Consiglio d’Europa, dei « tratti principali
di un modello che, lasciando da parte l’antitesi storica tra accusatorio e inquisito-
rio, potrebbe trovare la sua qualificazione mediante il solo aggettivo impiegato al
riguardo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: ‘‘contraddittorio’’ » (9).
nianze sul presupposto che, nel caso in esame, non si trattasse di deposizioni di un testimone
in senso tecnico, ma di deposizioni di un coimputato (§ 41).
(9) M. DELMAS-MARTY, Verso una prossima tappa, in Procedure penali d’Europa, a
cura di M. DELMAS-MARTY, II ed. it. coord. da M. CHIAVARIO, Padova, Cedam, 2001, p. 697
(Procédures pénales d’Europe, Paris, PUF, 1995).
(10) Su questa duplice valenza del principio del contraddittorio v., specialmente, L.
FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, pp. 629-
632, P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale II.
Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, GIAPPICHELLI, 1992, p. 47 s. e G. UBERTIS, La
ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G.
UBERTIS, Milano, Giuffrè, 1992, spec. pp. 13 e 15.
(11) Cfr., sul punto, gli atti della Conferenza internazionale tenutasi a Siracusa dal
16 al 20 dicembre 1997 in occasione del 25o anniversario dell’Institut Supérieur Internatio-
nal de Sciences Criminelles, pubblicati col titolo significativo Les systèmes comparés de ju-
stice pénale: de la diversité au rapprochement, in Nouvelles études pénales, 1998, Toulouse,
Erès, 1998.
(12) Uno dei limiti dell’attuale giustizia penale internazionale è di aver coinvolto, nel
processo di ibridizzazione delle forme di giustizia, i soli modelli occidentali. Questo vizio et-
nocentrico ha impedito, alla comunità giuridica internazionale, di confrontarsi proficua-
mente con altre tradizioni giuridiche che, non solo per tipologie delittuose minori (quelle
‘‘gestite’’ in alcuni ordinamenti nazionali dalle diverse forme di mediazione), ma anche per
crimini di massa come quelli di competenza della giustizia penale internazionale, sembrereb-
bero fornire soluzioni più adeguate rispetto a quelle proprie alla forma di giustizia espressa
dalla modernità occidentale. Cfr., ad esempio, l’esperienza delle commissioni ‘‘verità e ricon-
ciliazione’’ o il recupero, in Ruanda, di una forma tradizionale di giurisdizione, il ‘‘gacaca’’,
per fornire al genocidio del 1994 una risposta giuridica più ‘‘giusta’’ ed efficiente di quella
che potrebbe fornire il modello occidentale di giustizia seguendo il quale, ai ritmi dei primi
anni di svolgimento dei processi, ci sarebbe voluto più di un secolo per giudicare tutti i dete-
nuti delle carceri ruandesi (v. amplius, M. VOGLIOTTI, Quale giustizia per il genocidio? La
soluzione ‘‘gacaca’’ in Ruanda, di prossima pubblicazione in La legisl. pen, 2003, n. 2). Una
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riflessione simile si presta ad essere fatta anche a proposito dell’esperienza italiana di ‘‘Tan-
gentopoli’’. Probabilmente, se ci fosse stata una maturazione culturale e giuridica adeguata,
si sarebbe potuta elaborare una soluzione a questo fenomeno di massa più soddisfacente
(cioè meno lacerante il tessuto sociale ed istituzionale, meno diseguale, più rapida ed in
grado di evitare la sindrome del capro espiatorio) rispetto al processo penale classico, conce-
pito per rispondere a fatti criminosi individuali. Ma a volerlo proseguire, questo discorso che
si interroga sui fondamenti di giustizia della giurisdizione penale internazionale e sui limiti
del processo penale classico ci porterebbe troppo lontano dal tema di questo lavoro. Cfr., co-
munque, sul paradigma nascente della ‘‘giustizia ricostruttiva’’ (restorative justice), L. WAL-
GRAVE, La justice restaurative: à la recherche d’une théorie et d’un programme, in Crimino-
logie, 1999, p. 7 s. e A. GARAPON, La justice reconstructive, in A. GARAPON - F. GROS - T.
PECH, Et ce sera justice. Punir en démocratie, Paris, Odile Jacob, 2001, p. 245 s.
(13) Cfr., a questo proposito, E. AMODIO, Il processo penale tra disgregazione e recu-
pero del sistema, in Jud. pen., 2003, p. 16, che si augura uno « stemperamento del rigido
formalismo che caratterizza attualmente i nostri studi ». Sulla difficoltà della cultura proces-
sualistica italiana a distinguere ‘‘valori’’ e ‘‘miti’’, v. M. CHIAVARIO, Cinque anni dopo
(1993), in Procedura penale. Un codice tra ‘‘storia’’ e cronaca, II ed., Torino, Giappichelli,
1996, pp. 165-166.
(14) E. FASSONE, Garanzia e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in
Quest. giust., 1991, p. 125.
(15) Ibidem.
(16) Su questo ‘‘clima’’ v. E. AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo
processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, in Il processo penale negli
Stati Uniti d’America, a cura di E. AMODIO e M. C. BASSIOUNI, Milano, Giuffrè, 1988, p.
VII s.
(17) Durante la lunga e travagliata fase di gestazione del codice, i rari studi ‘‘pionie-
ristici’’ del sistema di common law non riuscirono a far breccia in una comunità processual-
penalistica ‘‘figlia della sua epoca’’, e cioè ancora condizionata dalla chiusura prodotta dal
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processo di statalizzazione del diritto, inaugurato, come si sa, dalle codificazioni ottocente-
sche e dai nazionalismi romantici. In Italia, poi, questa chiusura — allentata dal fervore ri-
formista di fine XIX e inizio XX secolo, non supportato, però, da adeguato metodo compa-
ratistico e spesso mosso da intenti apologetici all’origine di fraintendimenti del dato legisla-
tivo straniero — si fa soffocante con la Scuola positiva e il fascismo (v., in proposito, E.
AMODIO, La procedura penale comparata tra istanze di riforma e chiusure ideologiche
(1870-1989), in questa Rivista, 1999, p. 1338 s.). Tra quelle prime aperture va segnalato,
innanzitutto, il lavoro di M. SCAPARONE, Common law e processo penale, Milano, Giuffrè,
1974, a cui hanno fatto seguito — sempre nella fase ante riforma — contributi più recenti
come quelli di V. FANCHIOTTI, Origini e sviluppo della giustizia contrattata nell’ordinamento
statunitense, in questa Rivista, 1984, p. 56 s. e, del medesimo autore, Lineamenti del pro-
cesso penale statunitense, Torino, Giappichelli, 1987, di R. GAMBINI MUSSO, Il plea bargai-
ning fra common law e civil law, Milano, Giuffrè, 1985, di G. CORDERO, La testimonianza
in diritto inglese, in questa Rivista, 1985, p. 193 s. e di M. PAPA, Contributo allo studio delle
rules of evidence nel processo penale statunitense, in Ind. pen., 1987, p. 299 s.
(18) Cfr., a riguardo, E. GRANDE, Imitazione e diritto: ipotesi sulla circolazione dei
modelli, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 85-86 e E. AMODIO, Processo penale, in Giuristi e
legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto,
Atti dell’incontro di studio tenutosi a Firenze dal 26 al 28 settembre 1996, a cura di P.
GROSSI, Milano, Giuffrè, 1997, p. 374, che sottolinea come la comparazione abbia « rivestito
un ruolo marginale nella messa a punto del modello ». Dal canto suo, M. CHIAVARIO, Cinque
anni dopo, cit., p. 165, nota che « mentre l’antitesi ‘accusatorio-inquisitorio’ ha concentrato
sin troppi entusiasmi (spesso superficiali) non sono stati molti i tentativi di fondare, su valu-
tazioni davvero attente delle realtà normative ed esperienziali di altri paesi, puntuali innova-
zioni. La cultura processualpenalistica (quella accademica non meno di quella degli opera-
tori) sembra, nel complesso, ancora assai lontana dalla capacità di guardare con discerni-
mento — e senza troppa dipendenza dagli stereotipi — a quanto accade altrove ».
(19) Così, E. GRANDE, Imitazione, cit., p. 47 s.
(20) E. AMODIO, Processo penale, cit., p. 375.
(21) Questa superiorità ideologica del sistema accusatorio si rinviene, del resto, in un
po’ tutta la comunità processualistica internazionale e ha condizionato i lavori preparatori
della Corte penale internazionale. V., a proposito di questa ‘‘mauvaise presse’’ del sistema
inquisitorio, G. BITTI, Les tribulations de la justice pénale internationale au 20ème siècle: la
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accusatorio poteva vantare agli occhi di giuristi che non potevano non es-
sere condizionati dall’abbinamento fascismo-rito inquisitorio, ha finito per
generare « eccessi di zelo ideologico » che si sono tradotti nella creazione
di norme « con una funzione di mero ripudio degli istituti del vecchio si-
stema o con portata precipuamente demolitoria di concetti ritenuti ideolo-
gicamente inquinanti » (22). In definitiva, quindi, ciò che circola nel caso
italiano non sembrano essere « né le regole né le categorie concettuali del
sistema di riferimento, quanto piuttosto un messaggio di tipo politico-filo-
sofico associato al modello stesso ed autonomo rispetto alla realtà giuri-
dica di riferimento » (23).
La circolazione del ‘‘mito’’ accusatorio piuttosto che del suo ‘‘logos’’
non poteva che determinare una scrematura del modello per espungervi
quelle componenti che non apparivano in linea con la sua immagine agio-
grafica e con certe sensibilità e abitudini inveterate nella mentalità civi-
lian. Così, mentre si è disposti a recepire istituti e principi ‘‘virtuosi’’, che
appaiono l’espressione di una cultura giuridica liberale, egualitaria e tra-
sparente, come la passività del giudice di fronte all’autonomia probatoria
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(24) V., per questa locuzione, D. SIRACUSANO, Vecchi schemi e nuovi modelli per
l’attuazione di un processo di parti, in La legisl. pen., 1989, p. 84.
(25) Sull’incoerenza tra la tutela del diritto al silenzio dell’imputato testimone e la
salvaguardia del contraddittorio, v., specialmente, P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con
l’accusatore, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 1506 s. e V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’impu-
tato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in questa Rivista, 1998, p. 1129 s.
(26) Cfr., tra i primi che hanno messo in chiara luce questa anomalia, G. NEPPI MO-
DONA, Processo accusatorio e tradizioni giuridiche continentali, in Il nuovo codice di proce-
dura penale visto dall’estero, Atti del Seminario di Torino (4-5 maggio 1990), a cura di M.
CHIAVARIO, Milano, Giuffrè, 1991, p. 263 s. e, in particolare, pp. 269-270 e E. FASSONE,
L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Quest. giust., 1991, p. 623 s.
(27) Analoga impostazione è stata adottata in occasione di un’altra riforma conno-
tata da forti tinte ideologico-politiche (la c.d. introduzione dei principi del ‘‘giusto processo’’
nell’art. 111 della Costituzione, da parte dell’art. 1 l. cost. 23.11.1999, n. 2, su cui v., in par-
ticolare, M. CHIAVARIO, Giusto processo. II Processo penale, in Enciclopedia giuridica Trec-
cani, 2002, Agg. X, p. 1 s. ed E. MARZADURI, La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contin-
genti e ricerca di un modello costituzionale del processo penale, in La legisl. pen., 2000, p.
755 s.). Come sottolinea opportunamente V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello
costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e
garanzia del contraddittorio), in Pol. del dir., 2000, p. 434, tale trapianto normativo — effet-
tuato senza una chiara consapevolezza della complessa opera di bilanciamento delle garanzie
previste nell’art. 6 della Convenzione ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo —
ha prodotto un « cumulo di previsioni garantistiche tra loro giustapposte » e provenienti da
« tradizioni giuridiche e culturali diverse, le une più o meno artificiosamente collocate ac-
canto alle altre nel medesimo contesto, ma in assenza di qualunque rapporto preordinato di
concatenazione e di contemperamento ».
(28) Di questo si è infatti sostanzialmente trattato, non di una loro ibridizzazione
come nel caso della giustizia penale internazionale.
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(29) Come sottolinea E. GRANDE, Imitazione, cit., p. 111, « svuotato del suo signifi-
cato originario, il diritto delle prove anglo-americano circola nel sistema italiano a livello
simbolico ». La complessa architettura delle rules on evidence del sistema americano è, in-
fatti, da un lato, strettamente collegata alla presenza della giuria e all’assenza di motivazione
della decisione sul fatto e, dall’altro, è la conseguenza del monopolio assegnato alle parti
sulla raccolta e sulla produzione delle prove.
(30) Per una particolare sottolineatura di questa svolta, v. P. FERRUA, Studi sul pro-
cesso penale II, cit.
(31) Nel saggio Faut-il récupérer aidos pour délier Sisyphe? A propos du temps clos
et instable de la justice pénale italienne, in L’accélération du temps juridique, sotto la dir. di
Ph. GÉRARD - F. OST - M. VAN DE KERCHOVE, Bruxelles, Bruylant, 2000, p. 661 s., si è analiz-
zata questa ‘‘sindrome di Sisifo’’ del processo penale italiano attraverso la vicenda emblema-
tica rappresentata dalle oscillazioni normative dell’art. 513 del c.p.p., cercando di coglierne
le ragioni e di prospettare vie d’uscita.
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metta ai suoi attori di adattarle alle peculiarità delle diverse vicende del
mondo della vita. Il processo, infatti, più di ogni altro campo del diritto, è
soggetto al learning by doing, alla necessità — se vuole essere ‘‘giusto’’ —
di mostrarsi sensibile alle sfumature dei casi, sia per evitare di semplifi-
care eccessivamente la complessità valoriale delle questioni che deve risol-
vere sia per poter reagire a condotte abusive messe in opera tramite usi
formalistici delle regole (32).
Come chiariva già Aristotele nell’Etica Nicomachea, il ‘‘giusto lega-
le’’ è differente dal ‘‘giusto giudiziale’’. Il primo attiene al generale e la
sua giustizia non è inficiata da tipologie di casi che — nella loro concre-
tezza — sembrano negarla. La legge si attiene « a ciò che è per lo più » ed
eventuali carenze evidenziate da particolari episodi della vita non la ren-
dono « per niente meno retta: l’errore non è infatti nella legge né nel legi-
slatore, ma nella natura del fatto » (Et. Nic., 1137 b 15). Alterazioni degli
equilibri processuali non possono che manifestarsi, perciò, quando la
legge abbandona il suo campo naturale di giustizia per occuparsi diretta-
mente dell’ambito di giustizia che non gli appartiene. Ciò avviene quando
il legislatore, nella speranza di ridurre l’attività giurisdizionale a mera tec-
nica, si munisce di un apparato normativo il più dettagliato possibile, os-
sessionato dalla volontà di risolvere a priori tutte le questioni che il pro-
cesso pone. Quest’hybris del legislatore, che si occupa più del ‘‘caso’’ che
della legge e ambirebbe ad essere sia giudice che legislatore, lo obbliga a
riscrivere continuamente le norme per tentare di anticipare o per rincor-
rere i multiformi casi della vita, finendo così per rendere ‘‘ingiusti’’ sia il
‘‘giusto legale’’ sia il ‘‘giusto giudiziale’’ (33). Quest’ultimo necessita di
un margine di apprezzamento locale, appositamente ritagliato dalla legge,
per evitare di generare strappi alle regole (spesso causa, a loro volta, di ul-
teriori lacerazioni normative o di tensioni istituzionali) o ingiustizie do-
vute a decisioni che, a causa della rigidità delle regole, sono indotte a pri-
vilegiare certi interessi o valori a discapito di altri egualmente importanti.
(32) V., sul tema dell’abuso del processo, le considerazioni e i rinvii bibliografici ef-
fettuati nel nostro Le metamorfosi dell’incriminazione. Verso un nuovo paradigma per il
campo penale?, in Politica del diritto, 2001, pp. 660-661.
(33) Contro quest’hybris degli attori della giustizia, che li spinge a fuoriuscire dai
loro limiti generando laceranti squilibri istituzionali, si è sottolineata la necessità di recupe-
rare — prendendo spunto da un passo del Protagora di Platone — la virtù opposta dell’ai-
dos, che evoca un’area semantica prossima a quella espressa da termini come ‘‘rispetto’’,
‘‘pudore’’, ‘‘self-restraint’’. V., in proposito, il nostro saggio Faut-il récupérer aidos, cit.
(34) Si è preferito rendere i concetti di ‘‘équité’’ e di ‘‘fairness’’ con il ‘‘venerando
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concetto’’ di ‘‘equità’’ (così G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, p. 205)
in luogo dell’aggettivo ‘‘giusto’’ con cui tradizionalmente viene reso, nel lessico processuali-
stico italiano, il concetto espresso da quei termini. Nelle traduzioni ufficiali della Conven-
zione europea, il termine ‘‘équité’’ è tradotto, comunque, con ‘‘equità’’.
(35) Procureur v. Sikirica et alii (IT-95-8-T) Décision relative à la requête de l’accu-
sation aux fins de verser au dossier des comptes rendus en application de l’article 92bis du
Règlement, 23.5.2001, § 4.
(36) Analogo risalto al concetto di équité-fairness è espresso dall’art. 14 c. 1 del
Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e, re-
centemente, dall’art. 47 c. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata
il 7 dicembre 2000: « Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitable-
ment ».
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la ricchezza normativa di questo concetto olista, la cui funzione precipua non con-
siste tanto nel riassumere una serie di valori etico-giuridici quanto nell’esprimere
un certo atteggiamento nei confronti dei valori.
(37) A questo proposito si può segnalare il diverso atteggiamento che ha ispirato i re-
dattori della riforma dell’art. 111 della Costituzione italiana. Come sottolinea V. GREVI,
Spunti problematici, cit., p. 431, questa riforma è caratterizzata da « un certo squilibrio
nella costruzione delle garanzie relative al ‘giusto processo’, in quanto esse risultano enun-
ciate secondo un’ottica prioritariamente attenta alla posizione dell’imputato: cioè, in so-
stanza, secondo un’ottica di garanzie soggettive anziché di garanzia oggettiva ». In una pro-
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spettiva per certi versi analoga, M. CHIAVARIO, Giusto processo, cit., p. 2, mette in guardia
dal rischio di semplificare la natura prismatica e problematica del concetto di ‘‘giusto pro-
cesso’’, riducendolo al contenuto della revisione dell’art. 111 della Costituzione.
(38) Inoltre, tramite l’istituto dell’amicus curiae, anche esponenti della società civile
possono far sentire la loro voce nel processo penale internazionale.
(39) CEDH, Doorson c. Pays-Bas, 26 marzo 1996, § 70.
(40) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Prosecutor’s Motion Reque-
sting Protective measures for Victims and Witnesses, cit., § 55. Circa la questione del con-
temperamento dei diritti della difesa con l’interesse alla protezione dei testimoni nel quadro
del TPIY v. A. C. LAKATOS, Evaluating the Rules of Procedure and Evidence for the Interna-
tional Tribunal in the Former Yugoslavia: Balancing Witnesses’ Needs Against Defendants’
Rights, in Hastings Law Journal, 1995, n. 46, p. 918 s. e A. M. LA ROSA, Réflexions sur l’ap-
port du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie au droit à un procès équitable, in
Revue générale de droit international public, 1997, p. 962 s.
(41) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 11 s.
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l’accusé est contrebalancé par celui que subirait l’Accusation si était exclu
le témoignage qu’elle entendait présenter » (44). Ugualmente, nell’altra
decisione, la Camera d’appello — chiamata a pronunciarsi sul ricorso in-
tentato contro l’ammissione di alcuni affidavits ai sensi della R. 94ter, in
seguito abrogata — ha precisato che, per interpretare la regola in que-
stione al fine di attribuirle un ‘‘effetto utile’’, bisogna che una « satisfac-
tory balance is struck between protection of the rights of the accused pre-
served by the safeguards in the prevision and the need to ensure that trial
proceedings are properly and expeditiously conducted » (45).
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quanto riguarda il Corpus giustinianeo, vetusto delle leges. Queste — e in particolare le fonti
romane — assolvevano principalmente la funzione di legittimare le costruzioni giuridiche dei
giuristi ispirate da quel concetto chiave che era l’aequitas. La centralità di questo concetto
nel mondo giuridico medievale e il suo significato di ‘‘rerum convenientia’’ (‘‘accordo’’, ‘‘ar-
monia delle cose’’) non possono che stimolare interessanti analogie con l’attuale riscoperta
dell’equità. Tali analogie, che qui non si possono sviluppare per ovvie ragioni, incontrano,
tuttavia, un limite fondamentale. Nel diritto contemporaneo, infatti, la ‘‘convenientia’’ non è
più un ‘‘oggetto’’ presupposto nella natura delle cose (‘‘in rebus consistit’’), ma deve essere
un ‘‘progetto’’ a cui tutti gli attori del diritto devono tendere. Sul significato di lex, interpre-
tatio ed aequitas v. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, Laterza, 1995, p. 135 s.
(49) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Prosecutor’s Motion Reque-
sting Protective measures for Victims and Witnesses, cit.
(50) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Décision concernant la requête de la défense
sur les éléments de preuve indirects, 5 agosto 1996.
(51) Tra queste due fonti vi è, formalmente, una gerarchia, ma — data la normatività
lacunosa e vaga dello Statuto — la soluzione giuridica non è il risultato di un processo li-
neare, dall’alto verso il basso, bensì l’effetto di un ‘‘aggrovigliamento’’ di livelli gerarchici e
di fonti eterogenee, pilotato verso l’obiettivo del ‘‘giusto processo’’ (condizione procedurale
per una ‘‘giusta decisione’’) dalle ‘‘rationes’’ dei giudici e degli altri attori processuali che
operano nel contesto argomentativo e fattuale del processo. Sul concetto di ‘‘gerarchie ag-
grovigliate’’ (fenomeno paradossale per cui « quelli che si presume siano livelli gerarchici
ben precisi e netti, inaspettatamente s’intrecciano in un modo che viola i principi gerar-
chici »), per illustrare le dinamiche relazionali proprie di ogni sistema complesso, v. D. R.
HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Milano, Adelphi, 1990, p.
749 (Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid, New York, Basic Books, 1979).
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(52) Per l’utilizzo della metafora letteraria della ‘‘rapsodia’’ (dal greco rhaptein ‘‘cu-
cire’’ e oide ‘‘canto’’) per rappresentare la produzione del diritto nelle società contempora-
nee, v. M. VOGLIOTTI, La ‘‘rhapsodie’’: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser
l’écriture juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, in Revue
interdisciplinaire d’études juridiques, 2001, p. 141 s. e ID., De l’auteur au ‘‘rhapsode’’ ou le
retour de l’oralité dans le droit contemporain, ibidem, 2003, p. 115 s. In generale, sul para-
digma della ‘‘rete’’ per rappresentare la struttura del diritto nel mondo contemporaneo, v. F.
OST e M. VAN DE KERCHOVE, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du
droit, Bruxelles, Fusl, 2002.
(53) Nel sistema statunitense, l’ideale regolativo che — attraverso il metabolismo
delle corti (e specialmente della Corte Suprema) — rappresenta il principio di unità nella
rete delle multiformi fonti processuali è la ‘‘due process clause’’ (v., per una presentazione di
questo sistema processuale ‘‘rapsodico’’ o, come afferma l’autore, di ‘‘empiria ragionata’’, E.
AMODIO, Il modello accusatorio statunitense, cit., p. XXVI s.).
(54) Un convinto apprezzamento per questa reviviscenza del ‘‘giudice legislatore’’ è
stato espresso dal Procuratore del Tribunale per la ex Yugoslavia, Carla del Ponte, in occa-
sione di una conferenza tenuta a Bruxelles lo scorso anno. È noto, invece, che i giudici della
Corte penale internazionale non posseggono questo potere normativo, potendosi limitare a
proporre, a maggioranz assoluta, degli emendamenti o a stabilire, « dans les cas urgents où
la situation particulière portée devant la Cour n’est pas prévue par le Règlement », delle re-
gole provvisorie in attesa di una loro conferma o smentita ad opera dell’Assemblea degli
Stati parte (art. 51 commi 2 e 3 dello Statuto).
(55) In quest’ottica M. CHIAVARIO, Cinque anni dopo, cit., pp. 163-164, dopo aver
stigmatizzato la « lunghezza e la complessità della legge-delega » e la « tecnica deviata e de-
viante » di redazione del codice e di gestione della « riforma della riforma » (caratterizzata
da « un gran numero di regole dettagliatissime, senza una chiara percezione della gerarchia
da stabilire tra vari livelli di prescrizioni »), si mostra favorevole « ad una reviviscenza del
‘diritto pretorio’ nel suo significato originario, come temporaneo programma d’azione di sin-
goli uffici o gruppi di uffici, per i problemi di dettaglio (e, beninteso, sempre in modo da non
ledere il principio di eguaglianza) ».
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ciando col modificare la tecnica di redazione delle norme di rito. Dopo il dibattito
sul ‘‘diritto penale minimo’’, che ha impegnato in questi ultimi anni la comunità
penalistica, la scienza processualistica dovrebbe porre, tra le priorità della sua
agenda, il tema della ‘‘legge processuale minima’’. Con tale locuzione intendiamo
un corpo legislativo essenziale e duttile, privo dei soffocamenti dovuti a regole in-
tricate, dettagliate e rigide (e perciò fatalmente volatili), che spesso diventano
fonti d’incertezza e d’ineguaglianze, di lentezza e di abusi degli strumenti proces-
suali. All’ipertrofia legislativa si dovrebbe sostituire un’architettura normativa che
sappia prudentemente dosare i ‘‘pieni’’ e i ‘‘vuoti’’, rinunciando all’irrealizzabile e
dannoso obiettivo di attribuire al legislatore il compito di risolvere ex ante, in con-
dizione di monopolio giuridico, tutte le questioni processuali. Il processo deve es-
sere concepito come un corpo vivo in costante divenire, la cui evoluzione va affi-
data, in parte, a dinamiche interne, guidate dal ‘‘canovaccio’’ normativo fissato dal
legislatore, dalla fedeltà sincera ai valori dell’equo processo da parte di tutti gli at-
tori della giustizia, da un’effettiva e leale dialettica processuale e dalle sedimenta-
zioni giurisprudenziali lasciate nei passati giudizi sotto l’attenta vigilanza della co-
munità scientifica, del legislatore, della Corte costituzionale e della Corte europea
dei diritti dell’uomo.
È ovvio che questo programma richiede, da un lato, un mutamento della
mentalità e dell’educazione giuridica che non può che richiedere tempi lunghi e,
dall’altro, opportuni interventi ordinamentali ed istituzionali, a cominciare — per
quanto riguarda l’Italia — da una riforma delle Sezioni Unite che ne accresca l’au-
torevolezza, grazie, soprattutto, ad un sistema di selezione dei giudici ispirato a
comprovata professionalità, prestigio ed indipendenza e aperto a soggetti esterni
alla magistratura come auspicato, del resto, dall’ineffettivo terzo comma dell’art.
106 della Costituzione. Pur consapevoli delle difficoltà e dei rischi di un simile
orientamento, ci sembra, tuttavia, che in una società sempre più complessa ed in
rapida evoluzione come la nostra non sia più differibile un profondo ripensamento
delle categorie concettuali ereditate dalla modernità, il cui distacco — sia sul ver-
sante ‘‘descrittivo’’ sia sul versante ‘‘prescrittivo’’ — dalla realtà del diritto (dalla
law in action) ha assunto una portata scientificamente non più tollerabile (56).
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(58) Cfr., ad esempio, F. TERRIER, The Procedure before the Trial Chamber, in The
Statute of the International Criminal Court: a Commentary, vol. II, ed. by A. Cassese, P.
GAETA, J.R.W.D. Jones, Oxford University Press, 2002, p. 1290 e H. BRADY, The System of
Evidence, cit., p. 279-280, secondo cui « the ICC need not be ‘straight-jacketed’ by the ple-
thora of strict rules of evidence familiar to common law lawyers. These are unnecessary
since there is no jury to protect from evidence that it may find hard to evaluate properly or to
ignore. In addition, the Court should concentrate on hearing the case at hand rather than di-
vesting its time by ruling on numerous motions on the admissibility of evidence ».
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(59) L’art. 19 della Carta del Tribunale di Norimberga stabiliva il principio secondo
cui « The Tribunal shall not be bound by technical rules of evidence. It shall adopt and ap-
ply to the greatest possible extent expeditious and non-technical procedure, and shall admit
any evidence which it deems to be of probative value ». Analoga previsione era contenuta
nella Carta del Tribunale di Tokyo. V, per maggiori dettagli, R. MAY-M. WIERDA, Trends in
International Criminal Evidence: Nuremberg, Tokyo, The Hague and Arusha, in Columbia
Journal of Transnational Law, 1999, n. 37, p. 729 s.
(60) Report of the Preparatory Committee on the Establishment of an International
Criminal Court, Vol. I, U.N. GAOR, 50th Sess., Supp. n. 22, U.N. Doc. A/51/22 (1996),
p. 60.
(61) In questi termini l’allora presidente del TPIY, McDonald, come ricorda, in senso
critico, tuttavia, V. FANCHIOTTI, Completata la stesura, cit., p. 1403, nota 2.
(62) D.K. PIRAGOFF, Article 69. Evidence, § 4, in Commentary on the Rome Statute
of the International Criminal Court, O. Triffterer ed., Baden-Baden, Nomos Verlagsgesell-
schaft, 1999, p. 904.
(63) Prosecutor v. Delalic, Mucic, Delic and Landzo (‘‘Celebici’’) (IT-96-21-T), De-
cision on the Prosecution’s Oral Requests for the Admission of Exhibit 155 into Evidence
and for an Order to Compel the Accused, Zradavko Mucic, to Provide a Handwriting Sam-
ple, 19 gennaio 1998, § 30.
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Oltre a questa regola generale che fissa criteri flessibili per l’ammis-
sione della prova, nei testi normativi della CPI e del TPIY vi è un’ampia
costellazione di concetti flous e di regole a maglie aperte che permettono
al giudice di contemperare, nel contesto specifico della decisione, la com-
plessità dei valori in conflitto.
Per limitarsi alla Corte penale internazionale (68) si può citare, ad esempio,
l’art. 56 dello Statuto che, nel prevedere un meccanismo simile al nostro ‘‘inci-
dente probatorio’’, evita di fissare una procedura formale, affidando costante-
mente al giudice il compito di specificare di volta in volta i valori ed i principi
espressi dalla norma. Secondo il comma 1 lett. b, la Camera preliminare può, su
domanda del procuratore, « prendre toutes mesures propres à assurer l’efficacité et
l’intégrité de la procédure et, en particulier, à protéger les droits de la défense ». A
questo proposito, il capoverso del medesimo articolo indica, a titolo puramente
esemplificativo, alcune misure a disposizione dei giudici. Tra queste, anche la pre-
senza del difensore alla procedura è rimessa all’autorizzazione della Camera preli-
minare la quale, in particolari situazioni (si pensi al caso dell’esame anticipato di
un teste la cui identità, per ragioni di protezione, sia celata pro tempore alla difesa
o alla necessità di esaminare o verificare un elemento di prova a carico inaudita
altera parte) potrebbe ritenere ‘‘equo’’ estrometterlo dalla partecipazione all’e-
scussione o alla verifica dell’elemento di prova. Un’altra manifestazione del prag-
matismo che regola il metodo probatorio della CPI è il potere della Camera — ti-
pico dello stile inquisitorio — di domandare « la présentation de tous les éléments
de preuve qu’elle estime nécessaires à la manifestation de la vérité » (art. 69.3).
Sempre alla giurisprudenza della Corte si è affidato, sostanzialmente, il compito di
disciplinare la hearsay evidence e sia lo Statuto sia il Regolamento hanno finito
per non pronunciarsi esplicitamente sulla questione della testimonianza anonima,
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(70) Cfr., in proposito, D. DANCE, The Best Evidence Principle, in Iowa Law Review,
n. 73, 1988, p. 229 s.
(71) P.M. WALD, To ‘‘Establish Incredible Events by Credible Evidence’’: The Use of
Affidavit Testimony in Yugoslavia War Crimes Tribunal Proceedings, in Harvard Internatio-
nal Law Journal, 2001, p. 537.
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(74) CEDH, Deuxième Section, A.M. c. Italie, 14 dicembre 1999, § 25. Nel caso di
specie, la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 6 in quanto le giurisdizioni italiane si
erano basate « exclusivement » sulle dichiarazioni assunte per rogatoria, ai sensi dell’art.
512-bis c.p.p., da persone residenti negli Stati Uniti, senza che l’imputato fosse stato messo
nelle condizioni di confrontarsi, in nessuna fase della procedura, con i suoi accusatori.
(75) CEDH, Unterpertinger c. Autriche, 24 novembre 1986. V., per una presentazione
della giurisprudenza della Corte, M. CHIAVARIO, Art. 6, cit., p. 238 s., G. UBERTIS, Principi di
procedura penale europea, Milano, Cortina, 2000, p. 35 s. e A. TAMIETTI, Il diritto di interro-
gare i testimoni tra Convenzione europea e Costituzione italiana, in Dir. pen. e proc., 2001,
p. 509 s.
(76) CEDH, Barberà, Messegué e Jabardo c. Espagne, 6 dicembre 1988.
(77) CEDH, Delta c. France, 19 dicembre 1990.
(78) CEDH, Van Mechelen et autres c. Pays Bas, 23 aprile 1997. Proprio il diverso
peso probatorio delle testimonianze anonime — insieme con la diversa qualificazione sogget-
tiva dei dichiaranti (agenti di polizia / quivis de populo) — ha indotto la Corte europea a di-
stanziarsi dalla decisione Doorson c. Pays Bas, 26 marzo 1996, dove il giudice nazionale
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non aveva fondato « son constat de culpabilité uniquement, ou dans une mesure détermi-
nante, sur les témoignages de Y.15 et Y.16 ».
(79) CEDH, Première Section, Lucà c. Italie, 27 febbraio 2001, § 43. Sempre in tema
di utilizzo dichiarazioni di coimputati che si avvalgono, a dibattimento, della facoltà di non
rispondere, vanno segnalate due decisioni di segno contrario rispetto alla sentenza Lucà, mo-
tivate dalla circostanza che, in queste fattispecie, la condanna era fondata su altre prove (in-
tercettazioni telefoniche ed altre dichiarazioni fatte da testi che gli imputati avevano potuto
interrogare in udienza). Si tratta delle decisioni d’inammissibilità relative ai casi Vella c. Ita-
lie, 30 novembre 2000 (ricorso n. 48388/99) e P.m. c. Italie, 8 marzo 2001 (ricorso n.
43625/1998).
(80) CEDH, Isgrò c. Italie, 19 febbraio 1991.
(81) CEDH, Asch c. Autriche, 26 aprile 1991. Cfr., per un ulteriore esempio di rigetto
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del ricorso, la sentenza Artner c. Autriche, 28 agosto 1992, nella quale, oltre al criterio della
presenza di altri elementi di prova a sostegno della condanna, la Corte ha fatto riferimento
alla circostanza che l’assenza per tre anni dell’imputato aveva reso impossibile il confronto
con il teste e che, successivamente, lo stesso teste si era reso irreperibile, malgrado gli sforzi
delle autorità nazionali volti ad assicurarne la presenza in udienza.
(82) Così M. CHIAVARIO, Giusto processo, cit., p. 18, che sottolinea, inoltre, come —
paradossalmente — l’assenza, nella norma costituzionale, del criterio del bilanciamento del
peso probatorio potrebbe esporre l’Italia ad una censura da parte della Corte europea, qua-
lora una sentenza di condanna sia fondata in misura unica o prevalente su una dichiarazione
accusatoria di un teste sottoposto a « provata condotta illecita » non confermata a dibatti-
mento (p. 19). Lo stesso può dirsi, aggiungiamo noi, a proposito dell’eccezione dell’« accer-
tata impossibilità di natura oggettiva ».
(83) Seguendo l’esperienza del TPIY il Regolamento della CPI consente che la deposi-
zione orale sia presentata « par liaison audio ou vidéo, pour autant que la technique utili-
sée » permetta alle parti e al giudice « d’interroger le témoin pendant qu’il dépose » (R.
67.1). La stessa norma impone che la postazione remota si presti ad « une déposition fran-
che et sincère ainsi qu’au respect de la sécurité, du bien être physique et psychologique, de
la dignité et de la vie privée du témoin » (§ 3).
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con l’art. 6 della Conv. eur., dall’art. 67.1 e) dello Statuto e mette la Corte nelle
migliori condizioni per valutare l’attendibilità della deposizione, permettendole,
qualora lo ritenesse opportuno, di porre domande direttamente al teste.
A questo principio segue, tuttavia, nello stesso paragrafo, une serie di ecce-
zioni formulate, come d’abitudine, in termini vaghi. Infatti, a condizione di rispet-
tare le disposizioni dello Statuto e del Regolamento e che le misure in oggetto non
siano « ni préjudiciables ni contraires aux droits de la défense », la Corte può
« également autoriser un témoin à présenter une déposition orale ou un enregi-
strement vidéo ou audio, et à présenter des documents ou des transcriptions écri-
tes ». Com’è stato notato (84), la presenza di questi limiti al principio dell’oralità
riflette l’evoluzione che i tribunali ad hoc hanno subito in direzione di un sistema
probatorio più temperato. L’ampiezza che questi limiti assumeranno concreta-
mente nella giurisprudenza della CPI dipenderà anche, in buona misura, dalle sol-
lecitazioni rivolte alla Corte per assicurare un processo ragionevolmente rapido ed
economico.
Per quanto riguarda lo Statuto, un’eccezione al principio secondo il quale il
testimone deve essere sentito davanti alla Corte che dovrà giudicare nel merito è
rappresentato dall’art. 56 (la R. 114 del Regolamento vi aggiunge soltanto delle
precisazioni marginali). Questa norma, la cui souplesse è già stata sottoli-
neata (85), permette al Procuratore (o alla Camera preliminare, nell’interesse della
difesa) di raccogliere, durante le indagini, una testimonianza o una deposizione
nel caso in cui si ritenga che questa possibilità « ne se présentera plus par la
suite » (§ 1 a). Questa procedura, simile al nostro ‘‘incidente probatorio’’, rappre-
senta un limite all’oralità nella misura in cui impedisce alla Camera di assistere,
senza mediazioni, alla deposizione del teste. Tale deroga trova giustificazione nella
necessità di preservare certe prove dal rischio di sparizione (il classico esempio è
rappresentato dal caso di un testimone il cui stato d’infermità potrebbe impedirgli
di testimoniare a dibattimento).
Nell’evitare di sottoporre questo istituto a condizioni di ammissibilità troppo
esigenti, i redattori dello Statuto hanno mostrato di trarre ancora una volta pro-
fitto dall’esperienza del Tribunale per la ex Yugoslavia, che aveva rivelato l’oppor-
tunità di incentivare il ricorso a questa particolare forma di dibattimento antici-
pato. Il Tribunale, infatti, sempre nell’ottica di valorizzare la prova scritta senza
apportare lesioni intollerabili all’equità del procedimento, avrebbe poi provve-
duto, nel novembre 1999, ad emendare la R. 71 A) del Regolamento per far fronte
alle necessità indicate dalla prassi. In seguito alla suddetta modifica, l’accesso a
questa procedura non è più subordinata alla stretta condizione, prevista nel testo
originario, della presenza di « circonstances exceptionnelles », essendo sufficiente,
ormai, che « l’intérêt de la justice le commande ».
(84) G. BOAS, Developments in the Law of Procedure and Evidence at the Internatio-
nal Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and the International Criminal Court, in
Criminal Law Forum, 2001, pp. 181-182.
(85) Si è gia ricordato il potere discrezionale dei giudici in ordine all’ammissione o
meno del difensore dell’imputato (§ 2 d). Altre variabili floues sono previste, come l’affida-
mento all’apprezzamento case by case dei giudici circa la redazione del verbale e il potere
della Camera preliminare di attribuire alle deposizioni il valore probatorio che ritenga op-
portuno (§ 4).
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chiarazioni certificate sotto giuramento può essere utile, per esempio, per corro-
borare testimonianze rese di persona o per provare fatti collaterali. L’importante,
come ci insegna la Corte europea dei diritti dell’uomo, è che queste dichiarazioni
scritte, non sottoposte al vaglio del contraddittorio, non siano utilizzate per fon-
dare, da sole o in misura determinante, una sentenza di condanna. Lo stesso atteg-
giamento si rinviene nel silenzio riservato alle deposizioni dei periti. In conformità
con i sistemi di common law, il perito è considerato alla stregua di un testimone e,
in via di principio, deve essere sentito oralmente a dibattimento come un qualsiasi
testimone. Eppure, la natura tecnica e presuntivamente disinteressata di questa
fonte di prova potrebbe legittimare certi temperamenti al principio dell’oralità,
come suggersice, ancora una volta, il diritto pretorio del TPIY (R. 94bis).
Come accennato in apertura di questo paragrafo, sarà, presumibilmente, la
fonte giurisprudenziale — sollecitata dalle questioni problematiche poste dai casi
— che si incaricherà di porre rimedio ad eventuali squilibri messi in luce dalla
prassi, grazie alla flessibilità dell’assetto normativo dello Statuto.
5.3. Il Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia. —
Come si è già avuto modo di ricordare, il sistema originario del TPIY era
profondamente influenzato dallo stile adversary. Certo, non era assente
qualche ‘‘contaminazione’’ tipica della tradizione inquisitoria, come la
flessibilità delle regole sull’ammissibilità della prova e l’affidamento al
giudice della facoltà di disporre ex officio, in certi casi, la produzione di
prove (88). Tuttavia, la mancata previsione di un giudice istruttore (o
delle indagini preliminari) e la riduzione della prova scritta a un ruolo
marginale facevano del modello processuale dei tribunali ad hoc un si-
stema nel quale l’anima accusatoria era chiaramente predominante. Pro-
gressivamente, e con un’accelerazione significativa nel corso di questi ul-
timi anni, il TPIY si è orientato verso un sistema in cui la scrittura gioca un
ruolo più importante di quanto lo sia nelle regole della CPI e, come nota il
giudice Wald, nel sistema americano (89). Questa metamorfosi del TPIY è
il risultato della sinergia di fattori interni, connessi alla logica dell’equità,
e di fattori esterni, collegati a pressioni ‘‘politiche’’ per una giustizia più
rapida e meno dispendiosa.
Per quanto riguarda i primi, la prassi del Tribunale ha rivelato piutto-
sto rapidamente la necessità di ammorbidire la rigidità dell’imperativo
dell’oralità, al fine di consentire ai giudici di tener conto di altri impor-
tanti interessi che una concezione massimalistica di quest’ultima finiva
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dic (93), Blaskic (94), Aleksovski (95) e Kordic (96). La posizione della
Corte è ben riassunta nella decisione della Camera d’appello relativa al
caso Aleksovski.
I giudici cominciano col ricordare che « il est bien établi dans la pratique du
Tribunal que la preuve indirecte est recevable ». L’ammissibilità di questa prova
viene ricollegata alla R. 89 C), che offre alle Camere « toute latitude pour admet-
tre une preuve indirecte pertinente ». Per far ciò, la Corte deve essere convinta che
la prova indiretta sia « crédible en ce sens qu’elle est volontaire, véridique et digne
de foi ». Per stabilire la credibilità della deposizione resa fuori udienza si prenderà
in considerazione « à la fois le contenu de la déclaration et les circonstances dans
lesquelles elle a été faite; ou comme l’a dit le juge Stephen, la valeur probante
d’une telle déclaration dépend du contexte et du caractère du moyen de preuve en
question ». Ora, per il Tribunale, « le fait que la preuve est indirecte ne la prive
pas nécessairement de sa force probante mais on admet que l’importance ou la
valeur probante qui s’y attache sera habituellement moindre que celle accordée à
la déposition sous serment d’un témoin qui peut être contre-interrogé, bien que
cela dépende encore des circonstances extrêmement variables qui entourent ce té-
moignage » (§ 15).
Nel caso di specie, l’accusa riteneva che la Camera avesse commesso un er-
rore nel non domandare alla difesa le ragioni per le quali non avesse citato a com-
parire il testimone in persona e nel decidere che il diritto dell’accusa a contro-in-
terrogare il teste fosse rispettato nella misura in cui essa aveva potuto interrogarlo
nell’ambito di un altro processo (caso Blaskic). A sostegno della prima doglianza,
l’appellante richiamava le regole, a volte estremamente precise, che — in certi
paesi — definiscono le circostanze nelle quali le giurisdizioni interne possono fare
ricorso alla prova indiretta.
La Camera d’appello rigettò il ricorso ribadendo, innanzitutto, che il Tribu-
nale « n’est pas lié par les règles de preuve nationales » e che, in assenza di ecce-
zioni sollevate dall’appellante durante il processo di primo grado, la Camera non è
tenuta ad informarsi presso l’accusato sulle ragioni della decisione di non citare il
testimone a comparire. Ugualmente, per quanto riguarda la seconda doglianza, la
Corte d’appello nota che i fatti all’origine dell’imputazione dei due accusati (Ale-
ksovski e Blaskic) « se sont produits dans la même région, la vallée de Lasva, et
que les deux actions (qui découlent du même acte d’accusation) ont beaucoup de
points en commun sur le plan des faits et du droit ». Ora, prosegue la Corte, l’ap-
pellante « n’a pas tenté de démontrer l’existence d’une technique de contre-inter-
rogatoire qui serait judicieuse et importante dans l’affaire Aleksovski et ne le se-
rait pas dans l’affaire Blaskic » (§ 20). Come si può notare, la presenza di una se-
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(98) Prima dell’introduzione di questa regola, il Tribunale, nel caso Tadic, aveva am-
messo questa forma di testimonianza, specificando le modalità procedurali della deposizione
e il suo valore probatorio (Prosecutor v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Defence Motions
to Summon and Protect Defence Witnesses, and on the Giving of Evidence by Video-Link,
25 giugno 1996).
(99) Prosecutor v. Naletilic & Martinovic (IT-98-34-PT), Decision on Prosecutor’s
Motion to Take Depositions for Use at Trial (Rule 71), 10 novembre 2000, p. 4.
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erano prove di natura ripetitiva; ii) la norma in questione non richiede che
i testimoni di cui è ammessa la deposizione scritta nelle forme dell’inci-
dente probatorio non siano in grado di raggiungere il Tribunale; iii) la na-
tura sussidiaria delle testimonianze riduce gli svantaggi derivanti dall’im-
possibilità di osservare direttamente il comportamento dei testi o di porre
domande; iv) come per altre forme di prova indiretta, anche in questo
caso la Corte potrà conferire alle prove scritte un peso probatorio minore
rispetto alle prove assunte oralmente. Infine, per quanto riguarda la R.
94bis, la possibilità di evitare la cross-examination del ‘‘testimone esper-
to’’ è subordinata alla condizione che la controparte accetti il rapporto del
perito e che la Camera non vi scorga motivi per citare il teste a deporre in
persona.
Questo processo di rafforzamento della prova scritta ha subito une
decisa accelerazione ad opera delle modifiche al Regolamento intervenute
durante la ventitreesima Sessione Plenaria (13 dicembre 2000). Il fine di-
chiarato delle modifiche apportate in quell’occasione, come risulta dal
Rapporto annuale del Tribunale, era di « speed up trials and the pre-trial
process and to minimize delays » (100), in conformità con i desiderata
espressi nel citato Rapporto del Gruppo di esperti, rimesso l’anno prece-
dente. Probabilmente, un altro fattore che ha spinto i giudici a temperare
ulteriormente il principio dell’oralità è stata la volontà di reagire a due de-
cisioni della Camera d’appello (101). La prima, già esaminata supra al
§ 4, aveva annullato la decisione della Camera di prima istanza con cui si
era ammessa la dichiarazione di un testimone morto, nei confronti del
quale la difesa non aveva mai potuto esercitare il suo diritto al contraddit-
torio (102). La seconda aveva fornito un’interpretazione particolarmente
restrittiva di alcune condizioni di ammissibilità della prova per affidavit
previste nella R. 94ter (103).
In seguito a queste modifiche, il principio dell’oralità ha perso la su-
premazia che possedeva nel sistema originario. Infatti, la lettera A) della
R. 90, che stabiliva il principio di massima secondo cui i giudici « enten-
dent les témoins directement », è stato cancellato. Parallelamente, la R. 89
è stata arricchita di una nuova disposizione (la lettera F) che sembra met-
tere su un piano di eguale dignità la logica dell’oralità e la logica della
scrittura: « la Chambre peut recevoir la déposition d’un témoin orale-
ment, ou par écrit si l’intérêt de la justice le commande ».
La norma che tenta di trovare un equilibrio soddisfacente tra le due
(100) Annual Report for 2000, U.N. Doc. A/55/273, S/2000/777, § 288.
(101) Così, G. BOAS, Creating Laws, cit., p. 76.
(102) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.5), Decision on Appeal Re-
garding Statement of a Deceased Witness, 21 luglio 2000, cit.
(103) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.6), Decision on Appeal Re-
garding the Admission into Evidence of Seven Affidavits and One Formal Statement, cit.
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logiche è la R. 92bis (« Proof of Facts Other than by Oral Evidence »), che
va a sostituire la R. 94ter.
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rements of a fair trial demand that the accused be given the right to cross-
examine the witnesses » (§ 25) (107).
Nel caso Galic (108), la Camera d’appello ha avuto modo di confer-
mare questa interpretazione, aggiungendovi, peraltro, un’ulteriore restri-
zione. Secondo i giudici, infatti, « where the evidence is so pivotal to the
prosecution case, and where the person whose acts and conduct the writ-
ten statement describes is so proximate to the accused, the Trial Chamber
may decide that it would not be fair to the accused to permit the evidence
to be given in written form » (§ 13). Nel caso in cui, quindi, la persona
(non necessariamente inferiore gerarchico o correo) i cui atti sono oggetto
della prova scritta è ‘‘così prossima’’ all’imputato, potrebbe conseguirne
non solo la necessità di citare l’autore della dichiarazione, ma anche il più
radicale effetto di vietarsi l’ammissione dei verbali. Come esempio di que-
st’ipotesi, la Corte cita il caso in cui la prova scritta descriva gli atti di una
persona diversa dall’accusato che si sono verificati in presenza di questo.
La decisione Galic affronta anche altre questioni interpretative. Qui
di seguito verranno presentate le due più rilevanti.
La prima concerne la lettera C) della R. 92bis. Il Procuratore, nella
sua opposizione all’appello dell’imputato, proponeva, nell’ipotesi in cui il
Tribunale ritenesse di non poter ammettere le dichiarazioni scritte fa-
cendo leva sulla lettera A), di seguire il percorso tracciato dalla lettera C).
Si trattava, infatti, di due testimonianze i cui autori erano deceduti. L’ar-
gomento dell’accusa tendeva a mostrare che, per i casi particolari previsti
in questa disposizione (morte, infermità o irreperibilità del teste), non vi
fosse la necessità che la prova scritta portasse su un « point autre que les
actes et le comportement de l’accusé », come richiede, invece, la regola
generale della lettera A). Oltre all’argomento della littera legis (la disposi-
zione in questione non contiene, diversamente dalle lettere A) e D), que-
sto limite), l’accusa si richiamava alla ratio della norma. Se, nelle ipotesi
delle lettere A) e D), l’ammissibilità della prova scritta è finalizzata essen-
zialmente ad accelerare la procedura (i testimoni di cui si chiede l’ammis-
sione delle dichiarazioni potrebbero deporre in dibattimento), nelle ipo-
tesi previste alla lettera C), in cui le persone non possono essere citate a
deporre oralmente davanti alla Corte, lo scopo è quello di ammettere la
‘‘miglior prova’’ disponibile, e cioè la hearsay evidence, la sola, in questo
caso, disponibile. La Camera d’appello non ha accolto, tuttavia, questo ar-
(107) Nella sua opinione separata, il giudice Robinson sostiene che quando le dichia-
razioni scritte « expose the accused to liability in relation to a critical element of the Prose-
cution’s case » — come nel caso di dichiarazioni che coinvolgono la responsabilità degli infe-
riori gerarchici — « cross-examination is not at the discretion of the Trial Chamber; it is a ri-
ght of the accused » (§ 10).
(108) Prosecutor v. Galic (IT-98-29-AR73.2), Decision on Interlocutory Appeal Con-
cerning Rule 92bis(C), cit.
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gomento. La lettera C), infatti, « does not provide a separate and self-con-
tained method of producing evidence in written form in lieu of oral testi-
mony ». Questa disposizione, « both in form and in substance », si limite-
rebbe ad escludere la necessità dei requisiti formali « required by Rule
92bis(B) for written statements to become admissible under Rule 92-
bis(A) » (§ 24).
La seconda concerne i rapporti tra la R. 92bis e la R. 89 C) alla
quale, come si è visto, il Tribunale ha collegato l’ammissibilità della hear-
say evidence. Sempre con l’intenzione di contrastare l’appello della difesa,
l’accusa cercava, infatti, di eludere le strettoie della R. 92-bis attraverso la
via più comoda rappresentata dalla disposizione generale in tema di
prova. Anche in questo caso, tuttavia, i giudici hanno rifiutato di aderire
alla strategia argomentativa della Procura, precisando che la R. 92-bis è
una species del genus contenuto nella R. 89 C) e che, di conseguenza, se
vi sono tipologie probatorie che rientrano nell’alveo della prima regola,
l’applicazione della norma generale non può ritenersi ammessa.
Per la Corte, la lex specialis si applica alle dichiarazioni scritte che
sono preparate espressamente per essere impiegate in vista di un pro-
cesso. Queste prove indirette sono, infatti, di un « very special type, with
very serious issues raised as to its reliability » (§ 28). I documenti ad esse
pertinenti non sono redatti « in the ordinary course by persons who have
no interest other than to record as accurately as possible matters relating
to the business with which they are concerned ». La normale esclusione
che colpisce questo tipo di hearsay evidence nei sistemi di common law,
sottolinea la Corte, « also rested upon the recognised potential in relation
to such documents for fabrication and misrepresentation by their makers
and of such documents being carefully devised by lawyers or others to en-
sure that they contained only the most favourable version of the facts sta-
ted » (§ 29). La conclusione del ragionamento è quindi che « a party can-
not be permitted to tender a written statement given by a prospective wit-
ness to an investigator of the OTP under Rule 89(C) in order to avoid the
stringency of Rule 92bis ». Il fine di quest’ultima disposizione è infatti « to
restrict the admissibility of this very special type of hearsay to that which
falls within its terms ».
Come si può notare già da questa breve presentazione della giurispru-
denza del TPIY, i giudici mostrano grande accortezza nel contemperare,
sulla bilancia dell’equità, i valori sottesi al principio dell’oralità con quelli
tutelati dal principio della scrittura.
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indotto a focalizzare la sua attenzione non più tanto sulla qualità formale
di regole fissate a priori (guidato dall’ideale regolativo della ‘‘legge perfet-
ta’’, in grado di risolvere completamente in astratto i casi della vita),
quanto piuttosto sulla qualità delle persone (giudici, rappresentanti del-
l’accusa e della difesa) che utilizzano le regole, sulla qualità della dialet-
tica processuale e sulla qualità della giustificazione dell’applicazione delle
regole. Buona parte del successo della futura Corte penale internazionale
dipenderà, allora, dall’articolazione di almeno questi tre fattori: i) il pro-
filo professionale ed etico delle persone che saranno chiamate a rivestire i
ruoli del giudice e dell’accusa al fine di assicurare autorevolezza ed impar-
zialità alla Corte (109); ii) la cura con la quale i giudici sapranno definire
criteri chiari ed equilibrati per guidare il loro potere discrezionale, la de-
terminazione con cui cercheranno di rispettarli e l’attenzione che preste-
ranno nel rispondere agli argomenti delle parti e nel motivare in modo
trasparente le loro decisioni (110); iii) l’effettività e la lealtà della dialet-
tica processuale, in modo da evitare che le forme del diritto si trasfor-
mino, da risorsa essenziale all’equità del processo, in strumenti per vanifi-
carla.
In altre parole, queste caratteristiche della giustizia penale internazio-
nale — la cui importanza per ripensare la struttura delle procedure penali
nazionali non si è mancato di sottolineare — suggeriscono al giurista di
non concentrare la propria attenzione soltanto sulla qualità delle regole
del diritto, ma anche sulla qualità degli uomini del diritto e sul contesto in
cui essi operano, al fine di riequilibrare un rapporto tradizionalmente sbi-
lanciato sul versante semantico-sintattico del fenomeno giuridico. Un’epi-
stemologia giuridica più fragile — che ha rinunciato all’hybris moderna di
un diritto fondato su se stesso, senza bisogno della virtù (111) degli attori
giuridici per funzionare (anzi un diritto concepito proprio sulla diffidenza
(109) V., in questo senso, A. CASSESE, The Statute of the International Criminal
Court: Some Preliminary Reflections, in European Journal of International Law, 1999, p.
171, secondo il quale « the election of persons of great competence and integrity may ensure
that the ICC will become an efficient body, capable of administering international criminal
justice in such manner as to attract the trust and respect of states, while fully realizing the
demands of justice ».
(110) Dell’importanza di questo fattore per il buon funzionamento del processo si è
mostrato consapevole il Tribunale per la ex Yugoslavia. Per un chiaro indizio di questa sensi-
bilità, v. il seguente passo della decisione Tadic sull’hearsay evidence (cit. alla nota 50): « la
Chambre de première instance convient qu’il est important que les parties connaissent les
critères qu’elle appliquera pour décider de l’admissibilité d’éléments de preuve indirectes. De
plus, à l’occasion de ce premier procès, une analyse du Règlement permettra de poursuivre
l’objectif qui consiste en tous cas à assurer la transparence de la procédure » (§ 14).
(111) È risaputo che per gli Antichi l’attività di dire il diritto, propria del giudice,
presupponesse « moins la maîtrise d’une science que la possession d’une vertu: la prudence
(‘phronesis’) » (B. FRYDMAN-G. HAARSCHER, Philosophie du droit, II ed., Paris, Dalloz, 2002,
p. 72).
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(112) Queste tematiche sono state maggiormente approfondite nel saggio La ‘‘rhap-
sodie’’: fécondité d’une métaphore littéraire, cit., p. 168 s.
(113) La ‘‘paideia’’ del giurista dovrebbe farsi il più possibile interdisciplinare e tesa
a valorizzare la dimensione teorico-argomentativa, socio-economica e storico-comparatistica
del diritto. Per quanto riguarda specificamente il giudice, essa dovrebbe mirare, in partico-
lare, a valorizzare e a rafforzare quella virtù tipica dell’ars iudicandi che è la ‘‘phronesis’’
(prudenza), la cui formazione dipende, da un lato, dall’esperienza del mondo della vita e
delle professioni giuridiche e, dall’altro, dalla frequentazione delle ‘‘humanitates’’ (lettera-
tura, arte, filosofia) la cui presenza, nella ‘‘Bildung’’ del giurista, è andata via via scemando,
specie dopo l’accesso liberalizzato alla Facoltà di Giurisprudenza.
(114) Nel contesto giuridico nordamericano, da sempre attento alla dimensione prag-
matica del diritto, il tema della legal ethics è da anni al centro dell’esperienza giuridica, co-
m’è reso evidente dall’abbondante letteratura giuridica in materia. A questo proposito, parti-
colarmente significativa è stata l’approvazione, nel 1983, delle ‘‘Model Rules of Professional
Conduct’’, da parte dell’American Bar Association. Esse hanno segnato il punto d’arrivo di
una trasformazione ideologica e culturale che ha condotto all’abbandono della logica del
laissez faire attraverso la quale si era concepito tradizionalmente il processo adversary. La
nuova filosofia della legal ethics americana tende a ricercare un equilibrio tra la tradizionale
lealtà nei confronti degli interessi del cliente e il dovere di leale collaborazione con la parte
avversa e con il giudice, al fine di contribuire alla realizzazione di obiettivi di giustizia e ve-
rità. Questo ruolo di ‘‘officer of the court’’, apparentemente penalizzante la figura della di-
fesa, ha, al contrario, migliorato l’immagine e rafforzato il prestigio e l’autorevolezza della
classe forense, contribuendo a porre l’ordinamento giuridico americano nelle condizioni di
affrontare, e probabilmente di risolvere, molti problemi di funzionamento del suo sistema di
giustizia (in questi termini, A. DONDI, Introduzione, in Avvocatura e giustizia negli Stati
Uniti, antologia a cura del medesimo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 38). Su questa problema-
tica v., nella letteratura americana, G.C. HAZARD Jr.-W.W. HODES, The Law of Lawyering,
III ed., Gaithersburg, Aspen Publishers, 2000. Nella letteratura processualpenalistica italiana
si segnala, rara avis, il lavoro di L.P. COMOGLIO-V. ZAGREBELSKY, Modello accusatorio e
deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in questa Rivi-
sta, 1993, p. 435 s. Del resto, quest’assenza di sensibilità per il tema della deontologia giudi-
ziaria — scalfita, invero, negli ultimissimi anni (cfr., in particolare, il convegno ‘‘Etica e
deontologia giudiziari’’, tenutosi a Roma il 14 e 15 gennaio 1999 presso l’Accademia dei
Lincei e relativamente al quale si può leggere l’intervento di L. FERRAJOLI, L’etica della giuri-
sdizione penale (Contributi per una definizione della deontologia dei magistrati), in Quest.
giust., 1999, p. 483 s. e il convegno Abuso del processo e deontologia dei soggetti proces-
suali, organizzato dall’Unione delle Camere penali a Modena il 5 e 6 aprile 2002) — è dif-
fusa anche al di fuori del campo penale (A. DONDI, Spunti in tema di ‘‘Legal ethics’’ come
etica della difesa in giudizio, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1995, p. 260, denunciava, a
proposito dell’elaborazione teorica e di ricerche pratiche in Italia in tema di legal ethics, l’e-
sistenza di « un grande e pervasivo vacuum »).
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criteri per selezionare i giudici della Corte. Nel terzo paragrafo di questa
disposizione si fa riferimento, innanzitutto, al fatto che i giudici siano
« choisis parmi des personnes jouissant d’une haute considération mo-
rale, connues pour leur impartialité et leur intégrité », che posseggano,
inoltre, una « compétence reconnue » nei campi del diritto penale e della
procedura penale o del diritto internazionale e che essi abbiano, infine,
un’« expérience nécessaire du procès pénal, que ce soit en qualité de juge,
de procureur ou d’avocat » o « une grande expérience dans une profession
juridique qui présente un intérêt pour le travail judiciaire de la Cour ».
MASSIMO VOGLIOTTI
Professore a contratto
di Teoria generale del diritto
nell’Università del Piemonte Orientale
e professore
all’Académie européenne de
Théorie du droit di Bruxelles
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IN ONORE DI EUGENIO RAUL ZAFFARONI
(1) Lectio doctoralis tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa
da parte della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Macerata, il 3 aprile 2003 (tradu-
zione di Ezequiel Malarino e Massimo Pavarini rivista dall’autore).
(2) Il naturalismo positivista normativizzato può notarsi, ad esempio, in GRISPIGNI,
Filippo Derecho Penal Italiano, trad. spagnola di Isidoro De Benedetti, Buenos Aires, 1949;
FLORIAN, Eugenio, Parte generale del diritto penale, Milano, 1934; nel diritto olandese, G.A.
VAN HAMEL, Inleiding tot de studie van het Nederlansche Strafrecht, Haarlem, 1927; il nor-
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mativismo in BETTIOL, Giuseppe, Diritto penale, Padova, 1982; il finalismo in autori come
Latagliata, Santamaría, ecc.
(3) A questo proposito ogni classificazione finisce per rinviare a quella originaria di
BAUER, Antón, Die Wahrnungstheorie nebst einer Darstellung und Beurtheilung aller Straf-
rechtstheorien, Göttingen, 1830.
(4) Sull’occultamento nella riflessione positivista della natura repressiva della rispo-
sta penale, già metteva in guardia BINDING, Karl, Die Normen und ihre Übertretung, II, Leip-
zig, 1914, p. 464.
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10. La connessione punitiva può basarsi sulla stessa teoria del reato
oppure si può ridurre la teoria del reato al puro illecito e costruire la con-
nessione nella teoria della pena (6). All’inizio del secolo scorso si optava
per questa seconda via: la pericolosità positivista era la connessione puni-
tiva costruita sulla teoria della pena. Von Liszt ridusse il reato a mero ille-
cito, mentre la connessione punitiva era la pericolosità nella teoria della
pena (7). Nel chiamare colpevolezza l’elemento soggettivo del reato, Von
Liszt provocò una grande confusione semantica.
(5) Cfr. JHERING, Rudolf von, L’esprit du Droit Romain dans les diverses fases de son
devéloppement, Paris, 1877; PASINI, Dino, Ensayo sobre Jhering, Buenos Aires, 1962; WOLF,
Erik, Grosse Rechtsdenker der deutschen Geistesgechichte, Tübingen, 1951, p. 616.
(6) FERRI, Enrico, Principii di diritto criminale, Torino, 1928.
(7) Com’è noto, von Lizt sintetizzò questa posizione nel 1882 nel celebre programma
di Marburgo, pubblicato originariamente nella ZStW, 1883, p. 1 ss.; cfr., Der Zweckgedanke
im Strafrecht, trad. italiana di Alessandro CALVI, La teoria dello scopo nel diritto penale, Mi-
lano, 1962.
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bito, qualcosa che si deve pagare (8) oppure qualcosa di valorativo, men-
tre Von Liszt pretendeva utilizzare un concetto descrittivo di colpevolezza
(nel senso: c’è o non c’è nesso psichico). Un ‘‘tassello di strano legno’’
(come fu definita dal suo allievo Lilienthal (9), la cui posizione fu poi se-
guita in Italia da Antolisei) (10) era la nozione di imputabilità, basata
sulla normale motivazione (11); nozione che fu ben presto criticata (12).
(8) Cfr. BETTIOL, Giuseppe, El problema penal, trad. in castigliano, Buenos Aires,
1996; dello stesso, Sobre las ideas de culpabilidad en un derecho penal moderno, in Proble-
mas actuales de las ciencias penales y de la filosofía del derecho, Buenos Aires, 1970, p.
639.
(9) LILIENTHAL, Karl, Zurechnungsfähigkeit, in Vergleichende Darstellung des Deut-
schen uns Ausländisches Strafrechts, Berlin, 1908, p. 1.
(10) ANTOLISEI, Franceso, Manuale di diritto penale, Parte generale, (aggiornato da
Luigi Conti), Milano, 1969, p. 481, riconduce il problema dell’imputabilità alla categoria
della punibilità, esattamente come Lilienthal.
(11) LISZT, Franz von, Lehrbuch des Deutschen Strafrechts, Berlin, 1891, p. 165.
(12) CATHREIN, Viktor, Principios fundamentales del Derecho Penal, Estudio filosó-
fico-jurídico, trad. di José M.S. de Tejada, Barcelona, 1911, p. 102.
(13) FRANK, Reinhart von, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, Giessen, 1907, Son-
derabdruck aus der Festschrift der Juristischen Fakultät der Universität zur Dritten Jahrhun-
dertfeier der Alma Mater Ludoviciana, trad. in castigliano di Sebastián SOLER, Estructura del
concepto de culpabilidad, Santiago de Chile, 1966.
(14) Non si può negare che la c.d. teoria normativa altro non fu che una riproposi-
zione di qualche cosa di più antico, perché già vi erano chiari accenti valorativi negli hege-
liani (per esempio, vedi KÖSTLIN, Christian Reinhold, Neue Revisión der Grundbegriffe des
Criminalrechts, Tübingen, 1845, p. 131), in CARMIGNANI (cfr. SCARANO, Luigi, La non esigi-
bilità nel diritto penale, Napoli, 1948, p. 11), in BINDING (sul punto, Otto, HARRO, Grund-
kurz Strafrecht, Allgemeine Strafrechtslehre, Berlin, 1996, p. 186), in MERKEL, Adolf, (Dere-
cho Penal, trad. di P. Dorado Montero, Madrid, s.d.).
(15) FREUDENTHAL, Berthold, Schuld und Vorwurf im geltenden Strafrecht, Tübingen,
1922.
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mica) (27), causata dal reato, secondo il principio della prevenzione gene-
rale positiva (28).
24. La critica più forte della sociologia si radica nello svelare l’inne-
gabile selettività con cui il dovere essere penale si realizza nella realtà del
potere punitivo e del sistema penale (30). Ciò obbliga la dottrina penale
ad assumere un livello di sincerità mai in precedenza tollerato, che consi-
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28. Questa è la ragione per cui ho pensato che sia necessario ten-
tare la ricostruzione della teoria del diritto penale a partire da un’altra
prospettiva. Vista l’enorme eterogeneità di criteri, fino a questo momento
non siamo stati in grado di affermare quale debba essere il senso della
(31) Forse questa affermazione non sembra completamente esatta, poiché sembra es-
sere stata anticipata da Bodino nel secolo XVI. Sto attualmente analizzando il discorso giuri-
dico di quest’ultimo.
(32) Opuscoli di diritto criminale del prof. comm. Francesco Carrara, Prato, 1885.
(33) BARATTA, Alessandro, op. e loc. cit.; riporta la medesima argomentazione nella
monografia, Criminologia critica e critica del diritto penale, Bologna, 1982.
(34) BUSTOS RAMÍREZ, Juan, Manual de Derecho Penal. Parte General, Barcelona,
1996.
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pena, ma sappiamo che ogni volta che il diritto penale ha apportato qual-
cosa di utile all’umanità lo ha fatto percorrendo la strada capace di limi-
tare il potere punitivo. Occorre partire da questa constatazione per rifon-
dare il diritto penale su base sicura. La legittimità del diritto penale come
scienza o sapere si fonda sulla sua capacità di limitare il potere puni-
tivo (35).
(35) Questa posizione è già stata espressa in En busca de las penas perdidas, Buenos
Aires, 1990; la sviluppiamo, anche in ZAFFARONI-ALAGIA-SLOKAR, Derecho Penal. Parte Ge-
neral, Buenos Aires, 2000; 2a ed., 2002.
(36) In questo senso si può leggere la lunga polemica di Giuseppe Bettiol contro il
positivismo, specialmente in Scritti giuridici, Padova, 1966-1987.
(37) Su tale argomenti si basarono autori di tutti i tempi; cfr., ENGISCH, Karl, Unter-
suchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin, 1930; GROPP, Walter,
Strafrecht, Allg. Teil, Berlin, 1997, p. 231.
(38) Cfr. BLEJER, José, Psicología de la conducta, Buenos Aires, 1963.
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32. Non c’è dubbio che nel quadro della colpevolezza della con-
dotta occorrerà altresì prendere in considerazione la personalità dell’a-
gente, ma in senso assolutamente diverso, poiché si tratta di rimproverar-
gli ciò che ha fatto in funzione del catalogo di condotte possibili che egli
poteva tenere, condizionato dalla sua personalità (nella colpevolezza del-
l’autore all’agente si rimprovera la personalità malvagia e l’azione crimi-
nosa finisce per essere solo un sintomo della stessa). Nella colpevolezza
dell’atto gli si rimprovera l’illecito in funzione della sua personalità e delle
circostanze in cui si è trovato ad agire; in quella dell’autore gli si rimpro-
vera ciò che è in funzione dell’ingiusto.
34. Dato che la colpevolezza dell’atto è un limite, essa non può in-
dicare in tutti i casi la quantità della reazione punitiva senza prendere in
considerazione il dato della selettività. Non è etico, né razionale da parte
della dottrina invitare le agenzie giuridiche a trascurare il difetto etico più
noto della colpevolezza, su cui da più di due secoli si richiama l’atten-
zione, con i correttivi che sono sfociati nella teoria della c.d. corresponsa-
bilità colpevole (39) e che provengono da Marat (40) e dal bravo giudice
Magnaud (41), ma che non sono sufficienti per incorporare l’elemento
della selettività.
(39) Anche se si tratta di un concetto molto più antico, si è ritenuto che esso fosse
stato elaborato per la prima volta dal diritto penale dei paesi socialisti, in particolare dalla
Repubblica Democratica Tedesca. Al riguardo si veda, NOLL, Peter, Schuld und Praevention
unter dem Gesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts, in Fest. f. Hellmuth Mayer,
Berlin, 1966; ORSCHEKOWSKI, Walter, La culpabilidad en el derecho penal socialista (trad. di
J. Bustos Ramirez e S. Politoff), in Revista de Ciencias Penales, Sgo. De Chile, 1972, p. 3.
(40) MARAT, Jean Paul, Plan de législation criminelle, con commenti ed introduzione
di Daniel Hamiche, Paris, 1974; esiste una traduzione in spagnolo, Principios de legislación
penal, Madrid, 1891 ed una nuova edizione critica con commenti ed introduzione di Manuel
de Rivacoba y Rivacoba, Buenos Aires, 2000.
(41) LEYRET, Henry, Les jugements du Président Magnaud réunis et commentés, Pa-
ris, 1904; esiste una traduzione in spagnolo di D. DÍEZ ENRÍQUEZ, Las sentencias del Magi-
strado Magnaud reunidas y comentadas por Henry Leyret, Madrid, 1909.
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(42) Il pregiudizio è stato condiviso anche dalla criminologia marxista degli inizi del
XX secolo; così BONGER, Willelm, Criminality and Economic Condition, New York, 1916
(reed. 1967).
(43) Questa idea è stata espressa alcune decade fa con sufficiente chiarezza dall’am-
ministrativista MERKL, Adolf, Teoría General del Derecho Administrativo, México, 1980.
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41. Per quanto fin qui detto, il sistema penale presenta diversi livelli
di pericolosità per i cittadini a seconda del loro status sociale e delle loro
caratteristiche personali. Si può facilmente accertare come alcune mino-
ranze siano sovrarappresentate nella popolazione carceraria, come quella
costituita dagli immigrati, ovvero — in alcuni casi — da minoranze ses-
suali; ma ovunque nel modo, la popolazione carcerizzata è composta da
giovani maschi, disoccupati, che provengono dai quartieri marginali, ecc.
La pericolosità del sistema penale si differenzia in ragione della vulnerabi-
lità delle persone, come se si trattasse di un’epidemia.
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43. Ciò dipende dal fatto che non è il mero status o stato di vulne-
rabilità a determinare la criminalizzazione. Non si seleziona una persona
per il suo puro stato ‘‘virtuale’’ di vulnerabilità, ma per il fatto che essa si
trova in una situazione ‘‘concreta’’ di vulnerabilità. Partendo da un certo
stato ‘‘potenziale’’ di vulnerabilità, occorre che vi sia anche uno ‘‘sforzo’’
personale del candidato alla criminalizzazione per raggiungere la situa-
zione di vulnerabilità concreta, in cui si materializza la pericolosità del po-
tere punitivo. La persona deve fare qualcosa per pervenire a quella situa-
zione concreta ed è quello che io chiamo sforzo personale per raggiungere
la situazione concreta di vulnerabilità.
47. Occorre poi avvertire che ci sono momenti storici in cui la sele-
zione criminalizzante si altera per altre ragioni: come ad esempio per ne-
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cessità politiche, come accade nei regime autoritari, ovvero quando la se-
lezione criminalizzante finisce per selezionare minoranze etniche, sessuali,
ecc., come accade nelle numerose emergenze che inventa il potere puni-
tivo per eliminare gli ostacoli al suo esercizio. Ma i criteri della selettività
non cambino ugualmente di molto, poiché si tratta solamente di una mo-
difica negli stereotipi criminali, ovvero di un complemento degli originari.
49. Per contro è anche ragionevole che non si riversi questo limitato
potere giuridico di contenimento nei confronti di coloro che si sono impe-
gnati in uno sforzo considerevole per raggiungere la situazione concreta di
vulnerabilità. Si tratta di una logica analoga a quella che potrebbe utiliz-
zarsi nel salvataggio di naufraghi: tacendo di ogni diversa ragione umani-
taria, sembra ragionevole che nell’opera di salvataggio si lascino alla fine
coloro che si sono resi responsabili nell’affondamento della nave.
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mente etica. Il diritto penale, come esercizio del potere giuridico volto a
ridurre il potere punitivo, non legittima questo ultimo, ma lo limita e lo
filtra in modo razionale. Io penso che la elaborazione dogmatica di una
nozione di connessione punitiva attraverso la via della colpevolezza pe-
nale dialettica sia uno strumento significativo per il raggiungimento di
questo obiettivo di contenimento del potere punitivo da parte del diritto
penale.
(49) Questo sforzo va riconosciuto a KÖHLER, Michael, Strafrecht, Allg. Teil, Berlin,
1997, p. 348.
(50) In proposito THOREL, Gianpaolo, Contributo ad un’etica della colpevolezza, in
Studi sulla colpevolezza, a cura di L. Mazza, Torino, 1990, p. 149.
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(51) Sulla ragion di stato, cfr.: SETTALA, Ludovico, La razón de estado, México,
1988; MEINECKE, Friedrich, La idea de la razón de estado en la edad moderna, Madrid,
1983; FOUCAULT, Michel, El origen de la tecnología del poder y la razón de estado, in Revista
Siempre, México, 1982.
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‘‘LAUDATIO’’ PER LA LAUREA AD HONOREM
DEL PROF. EUGENIO RAUL ZAFFARONI (*)
(*) Testo della Laudatio letta dal prof. Gaetano Insolera in occasione del conferi-
mento della laurea honoris causa al prof. Eugenio Raul Zaffaroni da parte della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università degli studi di Macerata il 3 aprile 2003.
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plare lo darà con la sua lectio doctoralis, dedicata al tema centrale della
colpevolezza.
In questo modo, nel suo discorso, si riconnettono i diversi percorsi di
una originale esperienza di ricercatore e di intellettuale. La sua capacità di
ricostruire le discipline penalistiche collocandole nel contesto dei reali
rapporti di forza, svelando la natura di questi ultimi, costituisce un esem-
pio ed una sollecitazione forte per tutti i penalisti, del ‘‘margine’’ e del
‘‘centro’’, contro la intramontabile tentazione di rappresentarsi quali at-
tori inconsapevoli o neutrali della violenza punitiva.
Un merito questo che, anche da solo, darebbe motivo alla laurea ad
honorem conferitagli dalla Università di Macerata.
GAETANO INSOLERA
Straordinario di Diritto penale
nell’Università degli Studi
di Macerata
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LA TEORIA FINALISTICA OGGI
SOMMARIO: I. Politica del diritto penale e ‘‘capacità di rendimento’’ del finalismo. — II. Il fi-
nalismo di fronte ai delitti qualificati dall’evento. — III. Il finalismo di fronte al pro-
blema dell’oggetto e della struttura del dolo.
(*) Testo della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al convegno su ‘‘Signifi-
cato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, organizzato dal Diparti-
mento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Università ‘‘Federico II’’ -
Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pénal.
(1) M. GALLO, La teoria dell’azione ‘‘finalistica’’ nella più recente dottrina tedesca,
in Studi Urbinati, 1948-49; 1949-50, p. 213.
(2) MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’. Critica di un dogma, 1971.
(3) GIMBERNAT ORDEIG, Delitos cualificados por el resultado y causalidad, 1966, p.
111 ss.; ID., Finalität und Vorsatz, in NJW, 1966, p. 533 ss.; cfr. la replica di WELZEL, Das
Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 65.
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che (4) criticate da Stratenwerth (5) e da Hirsch (6) — come leva per ma-
nipolare in modo occulto le legislazioni penali nazionali. Oggi, però, si
tratta di tracciare un bilancio del finalismo, anche per saggiare non più
occultamente, ma a viso aperto la sua fecondità come modello de lege fe-
renda di un diritto penale desiderabile.
Non deve meravigliare che il finalismo venga esaminato da questo an-
golo visuale: per appurare cioè se contenga una provvista di soluzioni per
giuste scelte di politica della legislazione penale. L’aspirazione di fondo
del finalismo, come ha sottolineato con vigore Hirsch, in effetti è proprio
questa: tracciare ‘‘il cammino verso esiti dotati di validità generale’’,
‘‘verso una scienza penalistica a carattere internazionale, non rinchiusa
entro i confini degli ordinamenti giuridici nazionali’’: una scienza penali-
stica capace di ‘‘pervenire ad esiti idonei, per la loro validità generale, ad
essere trasferiti in altri sistemi giuridici’’ (7).
Breve: il finalismo ha l’aspirazione a proporsi come un insieme di
enunciati capaci di fornire un modello per le legislazioni nazionali biso-
gnose di riforme. È questo il punto di vista dal quale svolgerò le mie os-
servazioni. Mi proverò perciò a saggiare se quel modello è in grado di
dare risposte a due problemi capitali di ogni pensabile riforma del diritto
penale italiano: la responsabilità oggettiva — con particolare riguardo ai
delitti qualificati dall’evento — e la struttura e l’oggetto del dolo.
(4) Si allude, notoriamente, agli esponenti della ‘‘Bonner Schule’’, inaugurata da Ar-
min Kaufmann e sviluppata sino alle estreme conseguenze da Zielinski: un chiaro rendiconto
di questa versione del finalismo è stato fornito da MILONOPOULOS, Über das Verhältnis von
Handlungs-und Erfolgsunwert im Strafrecht. Eine Entwicklung der personalen Unrechts-
lehre, 1981, p. 30 ss.
(5) STRATENWERTH, Zur Relevanz der Erfolgsunwertes im Strafrecht, in Festschrift für
Friederich Schaffstein, 1975, p. 177 ss.
(6) HIRSCH, Die Streit um Handlungs-und Unrechtslehre, inbesondere im Spiegel der
Zeitschrift fur di gesamte Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 1982, p. 240 ss.; ID., Grundla-
gen, Entwicklungen und Missdeutung des ‘‘Finalismus’’, 2002, p. 4 ss. (del dattiloscritto).
(7) HIRSCH, Grundlagen, cit., p. 12.
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(8) Cfr. per tutti ROXIN, Strafrecht, A.T., 3a ed., 1997, p. 275 ss.
(9) WELZEL, Ein unausrottbares Missverständnis? Zur Interpretation der finalen
Handlungslehre, in NJW, 1968, p. 425 ss.
(10) Da ultimo in WELZEL, Das neue Bild des Strafrechtssystem, 4a ed., 1961, p. XI.
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gliendo per i soli delitti aggravati dall’evento, come aveva suggerito von
Kries, la teoria della causalità adeguata, che limitava già sul terreno della
fattispecie ‘‘gli sviluppi causali rilevanti’’, ed escludendo solo per quei de-
litti ‘‘gli sviluppi causali del tutto straordinari’’ (13). Non diversamente
Maurach scriveva nel 1948 che nei delitti aggravati dall’evento si poteva
apportare alla teoria della condicio sine qua non il correttivo offerto dalla
‘‘teoria dell’adeguatezza’’: ‘‘Causa è solo la condizione che è generalmente
idonea a provocare l’evento; vanno esclusi i decorsi che secondo l’espe-
rienza sono atipici’’ (14).
b) Con la riforma del 1953, che introducendo il § 53 ricalcava la
proposta avanzata dalla maggioranza dei progetti di riforma del codice pe-
nale tedesco, e che fu ribadita con la riforma del codice penale del 1969-
1975 (l’attuale § 18), l’imputazione dell’evento qualificante, e l’inflizione
della relativa pena più grave, fu subordinata alla sussistenza ‘‘almeno
della colpa’’, desumendo apertamente questo limite dal principio di colpe-
volezza, tra i cui contenuti la colpa compariva allora in modo pressoché
incontrastato. Contrasti e obiezioni potevano venire solo dal campo del fi-
nalismo: l’apposizione del limite della colpa, motivato e fondato sul prin-
cipio di colpevolezza, sarebbe dovuta apparire ai massimi sostenitori del
finalismo come una contraditio in adiecto (15). Così non fu. Maurach sot-
tolineava nel 1969 che, con quella riforma, era diventato finalmente possi-
bile eliminare una regolamentazione ‘‘sgradevole e anacronistica’’, intro-
ducendo finalmente con il limite della colpa ‘‘il correttivo della colpevolez-
za’’ (16). Scrivendo nel 1972 un saggio in onore di Maurach, Hirsch riba-
diva che non poteva essere in discussione il ritorno all’antica sgradevole
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l’evento più grave, e il dolo non può (riferirvisi), perché altrimenti subentrerebbe l’ancor più
grave fattispecie dolosa’’ (p. 50).
(17) HIRSCH, Zur Problematik des erfolgsqualifizierten Delikts (Reinarth Maurach
zum 70. Geburtstag in Verehrung gewidmet), in GA, 1972, p. 65.
(18) HIRSCH, op. ult. cit., p. 73.
(19) HIRSCH, ibidem.
(20) HIRSCH, Leipziger Kommentar, 2001, sub § 227, Rn. 14.
(21) HIRSCH, ibidem.
(22) HIRSCH, ibidem.
(23) HIRSCH, ibidem.
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(26) HIRSCH, Zur Problematik, cit., p. 73; ID., Leipziger Kommentar, loc. cit.; nella
letteratura italiana ben presto sottolineò il limite solo apparente della formula del codice te-
desco ‘‘almeno per colpa’’ DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante: un contributo di
diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 755 ss.
(27) HIRSCH, Leipziger Kommentar, loc. cit.
(28) GÜNTHER, sub § 151, Rn. 18, SK, 2001; HERDEGEN, Leipziger Kommentar,
2001, sub § 251, Rn. 8.
(29) Cfr. GÜNTHER, ibidem.
(30) In questi termini WELZEL si esprimeva quasi subito dopo la riforma del 1953
(Das Deutsche Strafrecht, 7a ed., 1960, p. 65), sino all’ultima edizione del manuale del 1969
(Das Deutsche Strafrecht, cit., p. 72).
(31) Per tutti cfr. JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 262; ROXIN, Strafrecht, A.T.,
3a ed., 1996, p. 275 ss.; SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, cit., p. 354 ss., e per la letteratura d’inizio
secolo passato (riferendosi anche alle codificazioni preunitarie) BINDING, Die Normen und
ihre Übertretung, Bd. IV, 1919 (rist. 1965), pp. 271 ss. e 281 ss.; ID., Lehrbuch des gemei-
nen deutschen Strafrechts, Besonderer Teil, Bd. I, 1902 (rist. 1969), p. 16 ss.
(32) § 7 del codice penale austriaco: cfr., per tutti, BURGSTALLER, Wiener Kommen-
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tar zum Strafgesetzbuch, 1979, p. 8 ss.; art. 18 c.p. portoghese: cfr., per tutti, MAIA GONÇAL-
VES, Código penal português, 1992, p. 102.
(33) Così BURGSTALLER, Spezielle Fragen der Erfolgszurechnung und der objektiven
Sorgfaltwidrigkeit, in Festschrift fur Pallin, 1989, pp. 55-56 e nota 17 (per le citazioni di let-
teratura e giurisprudenza), il quale propone modeste limitazioni all’orientamento dominante
per ‘‘casi eccezionali’’ (la violazione del dovere di diligenza andrebbe negata quando le pecu-
liarità concrete del fatto-base ‘‘non presentano la pericolosità tipicamente richiesta in rela-
zione all’evento qualificante’’ (p. 57).
(34) Lo ha sottolineato proprio WELZEL, annotando che la Corte nel 1967 ha solo
‘‘desunto dall’art. 20 GG. il principio costituzionale della responsabilità personale come pre-
supposto della punizione’’: Das Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 138. Più esattamente,
il Bundesverfassungsgericht ha fondato sull’art. 2 (non 20) GG l’affermazione che ‘‘il princi-
pio nulla poena sine culpa ha il rango di principio costituzionale’’, astenendosi dal dare un
volto alla culpa: ha solo detto, con una formulazione in bianco, che ‘‘con la pena viene
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zione degli interpreti, nella forma della interpretazione conforme alla Co-
stituzione delle ipotesi di responsabilità obiettiva, a cominciare dai delitti
aggravati dall’evento (39). Peraltro, l’apposizione del limite della mera
colpa rischia di tradursi — in tutti gli ordinamenti — in un’operazione co-
smetica, destinata solo a camuffare la sopravvivenza della responsabilità
obiettiva. In Italia gli sforzi degli interpreti rischiano di cadere nell’insidia
tesa dalle manipolazioni giurisprudenziali della colpa per inosservanza di
leggi — proverbiale camuffamento della responsabilità obiettiva. In altri
ordinamenti, che pur hanno esplicitamente introdotto il limite della colpa
nei delitti qualificati dall’evento, l’esperienza ha mostrato, come si sa, che
quel limite è illusorio. La via d’uscita — dappertutto — è l’innalzamento
legislativo del grado della colpa, come colpa grave, non solo per salva-
guardare il necessario rapporto tra misura della pena e grado della colpe-
volezza, ma ancor prima per conquistare davvero il territorio del delitti
qualificati dall’evento al nulla poena sine culpa (40).
Sotto questo profilo, va ascritto a gran merito dei finalisti tedeschi
aver fecondato il dibattito politico-criminale in quest’ultima direzione, an-
che pagando lo scotto di un’involontaria palinodia, con la ‘‘restituzione’’
del dolo e della colpa (in ogni grado) alla colpevolezza come principio di
rango costituzionale — un principio ben più cogente e vincolante, anche
agli occhi dei finalisti tedeschi, di ogni contraria apodittica visione ‘‘onto-
logica’’.
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(46) Per un quadro di diritto comparato dei risvolti politico-criminali sottostanti alle
diverse discipline dell’erronea supposizione di una causa di giustificazione cfr. MARINUCCI,
Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, p.
424 ss.
(47) Tuttora fondamentale BELING, Unschuld, Schuld und Schuldstufen, 1910 (ri-
stampa 1971); per un quadro aggiornato cfr., per tutti, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 994 ss.
(48) MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in questa Rivista, 1991, p. 4 ss.
(49) HIRSCH, Grundlagen, Entwicklungen und Missdeutung des ‘‘Finalismus’’, cit.,
p. 11.
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(50) Nella letteratura tedesca contemporanea cfr., per tutti, il quadro riassuntivo
tracciato da F.C. SCHROEDER, Leipziger Kommentar, 14 Lieferung, 1994, § 15, Rn. 9 e RO-
XIN, Strafrecht, p. 994 ss.
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(51) ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahlrässigkeit, 1930 (rist. 1964), p.
50 ss.
(52) Cfr. WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 65.
(53) HIRSCH, Die Lehre von den negativen Tatbestandsmerkmalen, cit., p. 271 e
nota 13.
(54) VEST, Vorsatzbeweis und materielles Strafrecht, 1986, p. 93 ss., in particolare
p. 98.
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(55) HASSEMER, Kennzeichen des Vorsatzes, in Armin Kaufmann - GS, 1989, p. 289
ss.
(56) M. GALLO, Il dolo. Oggetto e accertamento, 1952.
(57) BRICOLA, Dolus in re ipsa, 1960. Sull’importanza di questo lavoro nell’appro-
fondimento dei temi dell’accertamento del dolo cfr. MARINUCCI, Ricordo di Franco Bricola,
in questa Rivista, 1995, p. 1025 ss.
(58) PROSDOCIMI, Dolus eventualis: il dolo nella struttura delle fattispecie penali,
1993.
(59) EUSEBI, Il dolo come volontà, 1993.
(60) Per un quadro delle tendenze a modellare il diritto penale in ‘‘funzione probato-
ria’’ cfr. VEST, Zur Beweisfunktion des materielles Strafrechts in Bereich des objektiven und
subjektiven Tabestandes, in ZStW, 1991, p. 584 ss. Per un principio di discussione di questa
tematica nella letteratura italiana cfr. MARINUCCI, Il diritto penale messo in discussione, in
questa Rivista, 2002, p. 1040 ss.
(61) Cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza,
cit., p. 430 ss.
(62) Per un quadro dettagliato e aggiornato cfr. VINCIGUERRA, Diritto penale inglese
comparato. I principi, 2a ed., 2002, p. 288 ss.
(63) VINCIGUERRA, op. loc. cit.
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CIÒ CHE È VIVO E CIÒ CHE È MORTO
NELLA DOTTRINA FINALISTICA.
IL CASO ITALIANO (*)
(*) Testo riveduto e annotato della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al
convegno su ‘‘Significato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, orga-
nizzato dal Dipartimento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Univer-
sità ‘‘Federico II’’ - Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pènal.
(1) Com’è attestato dal contributo di G. DANNERT, Die finale Handlungslehre Wel-
zels im Spiegel der italienischen Strafrechtsdogmatik, Gottingen, 1963.
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cetto ontologico di condotta che assorba tutti gli aspetti del reato — della concezione unita-
ria-intuitiva del reato e di una sua strumentalizzazione autoritaria’’ (Diritto penale, p. gen.,
4a ed., Padova, 2001, p. 130 s.). Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, 15a ed. agg. e
integr. da L. Conti, Milano, 2000, p. 329 ss.
(5) Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, p. gen., 4a ed., Bologna, 2001, p.
190 s.
(6) Cfr. Studien zum System des Strafrechts, ZStW, 58 Bd., 1939; ora in Abhandlun-
gen zum Strafrecht und zur Rechtsphilosophie, Berlin, 1975, p. 135 ss.
(7) Cfr. Das deutsche Strafrecht, 11a ed., Berlin, 1969, pp. 127 ss., 202 ss.
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(8) Per tutti, H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, allg. T., 4a ed., 1988, pp. 214
ss., 521 ss.; C. ROXIN, Strafrecht, allg. T., Bd. 1, München 1992, pp. 112, 143, 169.
(9) Vd. sopra, nt. 4.
(10) FIANDACA-MUSCO, op. loc. cit.
(11) WELZEL, Deutsches Strafrecht, cit., p. 37.
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(15) Che non a caso, come si dirà, corrispondono alle svolte dommatiche a cui op-
pongono una tenace resistenza settori consistenti della dottrina italiana. Sull’infondatezza
delle preoccupazioni di tipo ‘‘garantistico’’, talora addotte per convalidare l’opportunità di
un ritorno alla sistematica belinghiana, si vedano le finissime osservazioni di V. DE FRANCE-
SCO, Il ‘‘modello analitico’’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella col-
locazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in RIDP, 1991, p. 126 ss.
(16) Per convalidare quest’assunto, WELZEL si è servito, fra l’altro, di un esempio a
mio parere assai efficace. Fra A e B, entrambi sanitari, scoppia una lite in camera operatoria;
A da’ di mano a un affilatissimo bisturi e con questo vibra un colpo a B. Accidentalmente, il
bisturi va ad incidere un pericoloso favo, che affliggeva B e che, in tal modo, guarisce. È evi-
dente che, nonostante l’identità del processo causale, delle conseguenze oggettive, dei mezzi
di esecuzione, del contesto di azione, della qualità dei soggetti coinvolti, il fatto di A non
realizza una condotta assimilabile ad un intervento chirurgico, ma un fatto ben diverso: e
cioè un tentativo di lesioni o di omicidio. Il reale significato sociale della condotta e la sua ri-
levanza per un determinato tipo di fatto deriva qui interamente dal contenuto della volontà
di A. Questo significa dire che la volontà è ‘‘un fattore che coscientemente forma la realtà
oggettiva’’. Deutsches Strafrecht, 7a ed., 1962, p. 38 s.
(17) La costruzione ‘‘separata’’ dei tipi di reato, del resto, ha un senso solo all’in-
terno di un concetto dommatico del reato che includa nel Tatbestand l’elemento psicologico.
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È infatti del tutto evidente che, dal punto di vista oggettivo-materiale, non c’è nessuna diffe-
renza fra un omicidio doloso e un omicidio colposo. La differenza sta interamente nel fatto
che nell’omicidio doloso l’agente innesca, orienta e governa consapevolmente i decorsi cau-
sali, mentre nell’omicidio colposo essi sfuggono al suo (doveroso) controllo. Per questo dolo
e colpa restano categorie irriducibilmente alternative. La tesi opposta, ripresa di recente con
particolare finezza argomentativa da G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa - Morte della
‘‘imputazione oggettiva’’ e trasfigurazione nella colpevolezza, in questa Rivista, 1991, p. 3
ss., sembra prescindere del tutto dal fatto che l’inclusione dell’elemento psicologico nel Tat-
bestand non ha mai oscurato la distinzione fra Tatbestand oggettivo e Tatbestand sogget-
tivo. Questo significa che nel caso in cui il rischio creato dall’autore è un rischio socialmente
adeguato, o se si preferisce, un rischio permesso — che è quanto dire non giuridicamente di-
sapprovato — l’esclusione della punibilità dipenderà direttamente da questo dato, rilevante
sul piano dell’imputazione oggettiva, e non già dall’assenza di colpa! Il chirurgo che, per sba-
razzarsi di un rivale, intenzionalmente omette di suturare un vaso, ben sapendo che ciò con-
durrà ad una emorragia, forma la realtà oggettiva, nella misura in cui orienta i decorsi cau-
sali verso il risultato voluto; se involontariamente omette di effettuare la sutura, risponderà
dell’evento a titolo di colpa, se avrà violato una regola di diligenza oggettiva. È certo che
quello stesso chirurgo, se avrà effettuato l’intervento (necessario) a perfetta regola d’arte,
non risponderà di omicidio doloso (quali che fossero le sue riposte intenzioni); ma questo
non perché ‘‘la morte è stata lo sviluppo lesivo di un rischio operatorio non colposo’’ (così
MARINUCCI, op. ult. cit., p. 29), bensì perché la sua azione non ha creato alcun rischio giuri-
dicamente disapprovato: il che è quanto dire che la condotta non è idonea ad assumere al-
cuna rilevanza penale, già dal punto di vista del Tatbestand oggettivo.
(18) Cfr. F. GRISPIGNI, La nuova sistematica del reato nella più recente dottrina tede-
sca, in SP, 1950, p. 1 ss. In seguito, B. PETROCELLI, Riesame degli elementi del reato, in que-
sta Rivista, 1963, p. 337 ss. Un posto a sé merita la posizione di M. GALLO, La teoria, cit.,
passim. Il GALLO, che divide sicuramente con D. SANTAMARIA (Prospettive del concetto fina-
listico di azione, Napoli, 1955) il merito di aver introdotto e divulgato in Italia la dottrina fi-
nalistica, mostra apertamente di condividere gli esiti principali del pensiero di Welzel — in
primo luogo la separazione delle fattispecie dolose da quelle colpose, ma anche gli spunti per
la ricostruzione del concetto di colpevolezza — ma prende esplicitamente le distanze dalle
‘‘premesse ideologico-filosofiche da cui la teoria muove’’ e sottolinea di essere pervenuto alle
medesime conclusioni su alcuni punti centrali senza allontanarsi ‘‘dal metodo tecnico-giuri-
dico’’ (op. cit., p. 36 s.).
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(25) Non c’è dubbio che la concezione del concorso di persone più diffusa nella dot-
trina italiana sia imperniata su un concetto tipicamente causale dell’azione (che pure a pa-
role tutti dichiarano superato); con l’effetto di incoraggiare la tendenza giurisprudenziale ad
accreditare una nozione del concorso che, notoriamente, va addirittura oltre il limite del ri-
goroso criterio condizionalistico che lo stesso legislatore si era ben guardato dal superare,
perfino in rapporto alla ‘‘eccezionale’’ figura di responsabilità oggettiva, delineata nell’art.
116 del c.p. per il caso dell’evento non voluto da taluno dei concorrenti. Eppure, l’art. 110
del c.p. — là dove stabilisce che ‘‘Quando più persone concorrono in un reato, ciascuna di
esse soggiace alla pena per questo stabilita’’ — se da un lato manifesta, in un modo che non
potrebbe essere più esplicito, la scelta di appiattimento delle condotte di concorso dal punto
di vista sanzionatorio, non per questo obbliga l’interprete a identificare la nozione di ‘‘rea-
to’’ con un fatto tipico spoglio di ogni contenuto psicologico (come ha, a suo tempo, magi-
stralmente dimostrato A.R. LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli,
1964).
(26) Una prima conseguenza è l’uso del termine ‘‘colpevolezza’’, da parte della dot-
trina, con significati tutt’altro che uniformi; il che non contribuisce certo ad un coerente
orientamento della prassi. In tema di concorso di persone, ad esempio, non è difficile preve-
dere l’emergere di non lievi problemi interpretativi, se dovesse tradursi in norma la proposta
della Commissione Grosso (1999), secondo cui ‘‘Ciascun concorrente risponde nei limiti
della sua colpevolezza’’ (art. 45, comma 2 del progetto di articolato).
(27) Così MARINUCCI, Il reato, cit., p. 132, che evoca sul punto G. RADBRUCH, Zur
Systematik der Verbrechenslehre, in Festg. f. R. Frank, Tübingen, 1930, p. 159.
(28) A proposito della collocazione dell’elemento psicologico, ad esempio, T. PADO-
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VANI, che pure alla colpevolezza ha dedicato studi di sicuro spessore (cfr. Appunti sull’evolu-
zione del concetto di colpevolezza, in questa Rivista, 1973, p. 554 ss.; Teoria della colpevo-
lezza e scopi della pena, ivi, 1987, p. 798 ss.), nel suo Diritto penale, 6a ed., Milano, 2002,
p. 171, scrive testualmente: ‘‘Anche il mantenimento del nesso psichico nell’orbita della col-
pevolezza meriterebbe una riconsiderazione... ma, in questa sede, si è preferito aderire alla
prospettiva più tradizionale’’ (corsivo ns.). Una sostanziale ambiguità contrassegna anche
l’esposizione del tema in MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 293 ss. e in FIANDACA-MUSCO,
Diritto penale, cit., p. 275 ss., nonostante l’ampiezza della trattazione e la ricchezza dei rife-
rimenti storico-dommatici. Anche in MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Mi-
lano, 2002, p. 642 ss., non ci pare sia data adeguata visibilità alle motivazioni, sulla cui base
il dolo viene collocato una volta per tutte nella colpevolezza.
(29) Per quest’assunto, G. MARINUCCI, Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., I, Torino,
1987, p. 175 ss.
(30) Per la convergenza della dottrina di lingua tedesca, praticamente senza ecce-
zioni, sull’idea di una ‘‘doppia collocazione’’ del dolo, cfr. già JESCHECK, Lehrbuch, cit., p.
218. C. ROXIN, Kriminalpoliltik und Strafrechtssystem, 2a ed., Berlin, 1973, trad. it., Napoli,
1986, p. 71, osserva lucidamente che la vecchia questione, se il dolo ‘‘appartenga’’ al Tatbe-
stand o alla colpevolezza, costituisce in realtà ‘‘un falso problema’’. Il dolo, infatti, ‘‘è essen-
ziale per la tipicità perché senza di esso la descrizione legale del reato non si può realizzare
nella forma richiesta dallo stato di diritto; esso però è ugualmente rilevante dal punto di vi-
sta della colpevolezza, in quanto deve delimitare la forma più grave di colpevolezza da
quella più lieve (la colpa), perciò dev’essere configurato, per quanto riguarda il contenuto,
secondo i principi valutativi propri di questa categoria del reato’’.
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essa espliciti l’esigenza del riconoscimento, nel singolo autore, della possi-
bilità di orientare le proprie scelte secondo le pretese dell’ordinamento,
come ulteriore inderogabile presupposto del ‘‘rimprovero’’ di colpevo-
lezza. Le opzioni della Corte in tema di teoria generale sono in verità del
tutto manifeste; e, del resto, si evincono dallo stesso tenore della deci-
sione, che espressamente valorizza non già l’elemento (di carattere psico-
logico) della conoscenza o mancata conoscenza della legge, bensì il dato,
squisitamente normativo, della sua conoscibilità (33). Si può quindi par-
lare di costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, in una forma
che recepisce un’accezione di questo requisito della responsabilità penale
in termini caratteristicamente normativi.
Di straordinario rilievo è il collegamento che la Corte stabilisce tra la
funzione preventiva della pena e la categoria della colpevolezza: sia in
rapporto alle finalità rieducative della pena, che in rapporto alla ‘‘fun-
zione di orientamento culturale e di determinazione psicologica operata
dalle leggi penali’’. Né potrebbe essere più esplicito il riconoscimento, che
ne consegue, del ruolo ‘‘garantistico’’ del principio di colpevolezza. Nel
sottolineare che la categoria della colpevolezza deve essere ‘‘arricchita’’ di
un ‘‘ulteriore requisito minimo d’imputazione’’ costituito dalla ‘‘effettiva
possibilità di conoscere la legge penale’’, la Corte precisa, espressamente,
che è proprio tale possibilità di conoscenza della legge penale a fondare
‘‘la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione’’. L’irroga-
zione di una pena che prescinda dall’insieme, così integrato, dei requisiti
della colpevolezza costituirebbe, pertanto, una inammissibile strumenta-
lizzazione della persona umana, in vista delle esigenze, potenzialmente il-
limitate, della prevenzione generale o speciale.
Dunque, poiché c’è un art. 27 della Costituzione, conformato in un
certo modo, noi oggi sappiamo che cos’è per noi storicamente la colpevo-
lezza. La struttura del reale, in questo caso, si è fissata in un dato norma-
tivo!
Questa memorabile sentenza costituisce un chiaro esempio di rico-
struzione del sistema, teleologicamente orientata dai principi costituzio-
nali, in cui sono stati usati, con grande consapevolezza, strumenti resi di-
sponibili da una lunga e raffinata elaborazione della dottrina del reato.
Tanto più appaiono inquietanti, allora, specie se in rapporto con attività
di riforma legislativa, atteggiamenti di consapevole svalutazione della
dommatica, che anche di recente è stata da qualcuno paragonata alla col-
locazione ‘‘dei mobili in una stanza’’! (34).
La dommatica, naturalmente, è ben altro. Quando non si trasformi in
(33) Non è certo per un caso che la questione dei limiti di rilevanza dell’errore sulla
legge penale appare risolta negli stessi termini, nel quadro di una coerente concezione nor-
mativa della colpevolezza, da D. SANTAMARIA, Colpevolezza, in Enc. dir., VII, 1960, p. 664.
(34) Da ultimo, D. PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in que-
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sta Rivista, 2001, p. 17. Per una puntuale replica, si veda S. MOCCIA, Euforie tecnicistiche
nel ‘‘laboratorio della riforma del codice penale’’, ivi, 2002, p. 453 ss.
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LA CONCEZIONE FINALISTICA DELL’AZIONE
E LA TEORIA DEL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO (*)
SOMMARIO: 1. La ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ ed il concorso di persone nel reato. Teorie
sul concorso a partire dal concetto di ‘‘autore’’ e a partire dal concetto di ‘‘reato’’. —
2. La ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ e la figura dell’autore mediato quale riafferma-
zione della centralità dell’autore. — 3. Incongruenza dell’autore mediato nel sistema
penale italiano. — 4. La teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale e la sua cri-
tica. L’impraticabilità del dogma causale. — 5. Il criterio di strumentalità quale ca-
none di ricostruzione del ‘‘reato nel quale si concorre’’. — 6. Strumentalità e dolo di
concorso. Conclusione.
(*) Testo della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al convegno su ‘‘Signifi-
cato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, organizzato dal Diparti-
mento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Università ‘‘Federico II’’ -
Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pénal. Sono stati aggiunti i
riferimenti bibliografici essenziali.
(1) Cfr. MORSELLI, Un breve bilancio fine-secolo sul finalismo e le sue prospettive di
sviluppo, in Riv. it., p. 1321.
(2) Cfr. HEGLER, Die Merkmale des Verbrechens, in Z.Str.W., 1915 (XXXYI), pp. 19
s. e 184 s.
(3) Cfr. HEGLER, Zum Wesen der mittelbaren Täterschaft, in Die Reichsgerichtspra-
xis im deutschen Rechtsleben, V, 1929, p. 307 s.
(4) Cfr. Eb. SCHMIDT, Die mittelbare Täterschaft, in Frank-Festg., II, 1930, p. 121.
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(5) Sugli sviluppi del concetto di ‘‘signoria sul fatto’’ v., per tutti, l’ampia analisi di
ROXIN, Täterschaft und Tatherreschaft, Berlin/New York, 20007, p. 60 s.
(6) Cfr. WELZEL, Studien zum System des Strafrechts, in Z.Str.V., 1939 (LVIII), p.
537 s.
(7) Cfr. WELZEL, Das deutsche Strafecht, Berlin 196911, p. 101.
(8) Cfr. LATAGLIATA, I principi deI concorso di persone nel reato, Napoli 19642, p.
149 s.
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(12) Cfr. BETTIOL, Diritto penale, Parte generale, Padova 1982, p. 549.
(13) Cfr. WELZEL, op. loc. ult. cit.
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rietà c.d. estrema o l’istigatore dell’agente non doloso nel caso dell’acces-
sorietà c.d. limitata, o l’istigatore di chi agisce in presenza di una causa di
giustificazione della quale non possa beneficiare (per averne, ad es., deter-
minato dolosamente i presupposti), nel caso dell’accessorietà c.d. minima.
Il ruolo di ‘‘autore equivalente’’ finiva tuttavia col dipendere essenzial-
mente da un’esigenza politico-criminale (evitare assurde lacuna nella pu-
nibilità), tanto forte quanto era debole il suo fondamento dogmatico (al
punto che Hoegel definì pittorescamente l’autore mediato ‘‘un omuncolo
distillato dagli alambicchi della dottrina penalistica’’) (14).
Nella prospettiva welzeliana, l’autore mediato acquista piena dignità
di autore, in quanto portatore esclusivo della ‘‘signoria finalistica sul fat-
to’’ idonea a fondarne la qualità: così nel caso di utilizzazione di un sog-
getto agente non liberamente, per coazione o per difetto della capacità di
volere (minori; infermi di mente) o per la condizione determinata da un
ordine criminoso vincolante; o nel caso di un soggetto esecutore privo del
dolo necessario ad integrare la volontà finalistica del fatto; o, ancora, nel
caso dello strumento agente in difetto della qualifica personale richiesta
per l’integrazione della fattispecie, qualifica presente invece nell’istiga-
tore; o, infine, nel caso dello strumento agente lecitamente, e cioè in pre-
senza di una scriminante riferibile soltanto all’agente, ma non al suo de-
terminatore. In tutte queste ipotesi l’identificazione dell’autore si basa sul
riconoscimento, in capo al soggetto che non realizza personalmente la fat-
tispecie ma si avvale della condotta di un terzo, del dominio finalistico sul
fatto: lui, e lui soltanto, è in condizione di orientare la direzione dei fattori
causali messi in campo verso lo scopo volontariamente perseguito (15).
Per vero, la dottrina successiva avanzerà serie riserve circa la con-
gruità della ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ a fornire un valido fondamento
dogmatico a tutte le ipotesi di reità mediata inserite nel suo solco. Come
osserva Roxin, l’oggetto della ‘‘signoria’’ esercitata nelle diverse ipotesi ri-
sulta tanto diversa da imporre una risistemazione analitica. Altro è il do-
minio esercitato sull’azione del necessitato, altro quello sulla volontà del-
l’esecutore indotto in errore, o determinato da un vincolo coattivo (co-
stringimento, ordine, apparato organizzato di potere), altro ancora il do-
minio ‘‘sociale’’ sul fatto proprio del determinatore qualificato rispetto al-
l’agente sprovvisto della qualifica. In questa prospettiva, la ‘‘signoria sul
fatto’’ viene concepita come un concetto ‘‘aperto’’, e cioè formato sulla
base di un procedimento descrittivo, adattato al mutevole significato delle
(14) Cfr. HOEGEL, Akzessorische Natur der Teilnahme, mittelbare Täterschaft, Even-
tualvorsatz, in Z.Str.W., 1916 (XXXVII), p. 651 s.
(15) WELZEL precisa tuttavia (Studien, cit., p. 543) che quando la qualità d’autore
implica anche presupposti soggettivi (ad es. pubblico ufficiale) o momenti subiettivi (ad es.
dolo specifico), la signoria sul fatto non si esprime semplicemente in termini finalistici, ma
anche sociali (‘‘signoria sul fatto nel suo pieno disvalore eticosociale’’).
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(19) Come, in qualche modo, riconosce lo stesso WELZEL (Studien, cit., p. 543)
quando, in questi casi, postula una signoria sul fatto anche in termini ‘‘sociali’’.
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(20) Per maggiori precisazioni e sviluppi sia consentito rinviare a PADOVANI, Le ipo-
tesi speciali di concorso nel reato, Milano 1973, p. 48 s.
(21) Cfr. BETTIOL, op. cit., p. 595. Corsivo aggiunto.
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(22) Cfr. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persona nel reato, Milano
1987, p. 293. Corsivo aggiunto.
(23) Cfr. LATAGLIATA, op. loc. ult. cit.
(24) Cfr. DELL’ANDRO, op. cit., p. 80 s.; M. GALLO, op. cit., pp. 20 s. e 27 s.
(25) Cfr. DELL’ANDRO, op. cit., p. 102 s.
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spetto al reato proprio (26), per cui la responsabilità dei concorrenti in-
consapevoli della qualifica e delle altre condizioni suscettibili di determi-
nare il mutamento del titolo, implica che almeno un concorrente possieda
il dolo su tale elemento modificativo). Sembra chiaro che, se il dolo di al-
meno un concorrente viene richiesto per estendere la responsabilità agli
altri, tanto più esso deve risultare necessario per fondare il concorso.
In termini negativi, ai fini della determinazione del concetto di ‘‘rea-
to’’ nel quale si concorre, non risulta punto necessario né che la condotta
tipica sia realizzata da uno soltanto dei compartecipi, né che il dolo sia
presente nell’esecutore, o in uno degli autori della condotta frazionata
piuttosto che in uno qualsiasi dei concorrenti. Se si presuppone di rico-
struire il concorso (e cioè un fenomeno tipicamente plurisoggettivo) a
partire dal concetto di reato, è ovvio che il reato possa e debba essere ri-
composto anche utilizzando elementi frazionari. I requisiti ritenuti indi-
spensabili per integrare la nozione nel contesto della fattispecie plurisog-
gettiva eventuale possono rinvenirsi, in linea di principio, presso qualsiasi
concorrente. Ciò che si ricerca non sono infatti i caratteri dell’accessorio
rispetto al principale (partecipe/autore), ma i termini dell’insieme rispetto
alle sue parti (reato/concorrenti).
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(30) Cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale - Parte generale, Milano 20007, p. 538.
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NOTE DI DIRITTO STRANIERO
E COMPARATO
LA DETENZIONE
DI MATERIALE PORNOGRAFICO MINORILE
SOMMARIO: 0. g. World. - 0.1. Reati senza vittima. - 0.2. Finalità dell’indagine. — 1. Il qua-
dro legislativo e le sue origini. - 1.1. Lunario. - 1.1.1. Anatomia. - 1.1.1.1. Critiche. -
1.1.2. Spunti in tema di oscenità. - 1.2. Osceno e materiale pornografico minorile: una
distinzione non fuzzy. - 1.3. Child Protection Act of 1984. — 2. Interventi statali. -
2.1. Il § 263.15 della legge penale dello Stato di New York. - 2.2. New York v. Ferber:
il fatto. - 2.3. (Segue): le perplessità della Corte d’appello. - 2.4. (Segue): le motiva-
zioni della Corte Suprema Federale. - 2.4.1. ‘‘De minimis’’. - 2.4.2. I limiti. -
2.4.2.1. Legalità penale e diritto vivente. - 2.5. Suggestioni. — 3. La detenzione di ma-
teriale pornografico minorile. Casi e questioni. - 3.1. La premessa: Stanley v. Georgia. -
3.2. Osborne v. Ohio: crollano le mura. - 3.2.1. Indeterminatezza e supplenza giudizia-
ria. - 3.2.2. Massachusset v. Oaks. - 3.2.3. Justice Brennan, dissenting (I). - 3.2.4. Ju-
stice Brennan, dissenting (II). — 4. Ipertrofie applicative: United States v. Knox. -
4.1. United States v. Dost (Dost’s test). - 4.2. Le interpretazioni. - 4.2.1. L’oggettivi-
smo di United States v. Villard. - 4.2.2. Idee criminali. — 5. Le evoluzioni etiche della
dannosità sociale. - 5.1. La resistenza dei principi. — 6. L’incostituzionalità della fatti-
specie che punisce la detenzione di materiale pornografico nell’ordinamento penale ca-
nadese.
(1) C.E. PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della persona umana (a
cura di) L. FIORAVANTI, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri,
Milano, 2001, p. 401 ss.; W. HASSEMER, Das Symbolische am symbolischen Strafrecht, FS C.
Roxin, Berlin, 2001, p. 401 ss.
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tentativo di arginare un fenomeno di indubbia gravità ha varato, nel breve spazio di un’e-
state, una complessa trama normativa con la quale ha inteso assicurare un’adeguata tutela
ad un interesse — l’integrità psico-fisica dei minori — da tutti ormai percepito come bene di
primaria rilevanza.
Nel panorama europeo la scelta del legislatore italiano non appare affatto eccentrica al-
lineandosi ad un percorso evolutivo diffuso e sempre più consolidato. Senza alcuna pretesa
di completezza basti qui ricordare l’intervento del legislatore tedesco che, in tempi recenti,
ha novellato il suo codice penale apportando rilevanti modifiche a preesistenti fattispecie
allo scopo di renderle applicabili al triste fenomeno delle violenze sessuali sui minori. Conte-
stualmente, con un’azione in territorio sconosciuto, ha anche ampliato il catalogo delle con-
dotte rilevanti introducendo incriminazioni di nuovo conio tra le quali spicca quella relativa
alla detenzione di materiale pornografico riguardante minori degli anni quattordici (§ 184
Abs. 5 in relazione ai §§ 176 e 184c StGB) (2). Nella stessa direzione si sono mossi i legisla-
tori di Austria, Spagna, Portogallo e Francia che, al momento di por mano alla riforma delle
proprie legislazioni penali, hanno ritenuto opportuno introdurre specifiche incriminazioni le
cui comminatorie edittali minacciano pene severe per chiunque si renderà responsabile di
abusi sessuali contro minori, della produzione o della diffusione di pornografia minorile e,
seppur con alcune eccezioni, per chi detenga detto materiale (3). Di recente, analoghe inizia-
tive sono state intraprese anche dal legislatore inglese il quale ha dedicato all’argomento due
importanti interpolazioni al quadro cristallizzato nel Protection of Children Act del 1968 e
nel Criminal Justice Act del 1988 (4).
Il rilievo assunto da questa materia è testimoniato anche dalla pluralità di atti che a li-
vello internazionale si sono occupati dello sfruttamento sessuale di minori. Grazie alla predi-
sposizione di svariate ‘‘norme modello’’, Unione Europea, Consiglio d’Europa, Nazioni
Unite ed alcune organizzazioni non governative hanno dato un forte impulso all’introdu-
zione di una rigida disciplina di fonte statuale con il dichiarato intento di colmare ogni possi-
bile vuoto di tutela e di gettare le fondamenta per la costruzione di una ramificata ragnatela
di reati capace di confrontarsi in modo adeguato con la ‘‘transnazionalità’’ tipica di questo
fenomeno criminoso (5).
Nel quadro comparato un ruolo di primo piano spetta però agli Stati Uniti d’America,
dove, nell’estate del 1997, quando ancora il tema non agitava i sonni del legislatore nazio-
nale, era già tempo di bilanci. La ventennale esperienza maturata a partire dal Protection of
Children Against Sexual Exploitation Act, si offre agli occhi dell’interprete come un punto di
osservazione privilegiato e non solo per la lunga consuetudine dimostrata (6). Le ragioni di
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questo interesse sono infatti di ben altro lignaggio, coinvolgendo l’approfondimento di alcuni
snodi del processo di criminalizzazione in astratto ed in concreto, e, con specifico riferi-
mento alla detenzione di materiale pornografico minorile, la soluzione di delicatissime que-
stioni di legittimità costituzionale: tema affrontato e risolto a più riprese dalle Corti Supreme
federali e statali.
0.1. Reati senza vittima. — L’osservatore continentale che abbia un minimo di fami-
liarità con la legislazione penale statunitense non può che rimanere sorpreso dall’ampiezza
della discussione che ha coinvolto questi temi e dalla sua resistenza all’usura del tempo, so-
prattutto se tiene nella dovuta considerazione la peculiare tendenza di questo ordinamento, a
tutt’oggi ancora vitale, di reprimere penalmente il vizio, di utilizzare la sanzione penale nei
confronti di comportamenti ritenuti immorali (7). Infatti, se si è disposti ad ammettere che
lo Stato possa infliggere una pena privativa della libertà personale anche per casi di sodomia
consumati tra le mura domestiche tra adulti consenzienti (8), non si intravede alcuna plausi-
bile ragione per dubitare dell’analogo trattamento da riservare a chi fruisce di materiale
pedo-pornografico (9).
L’insistenza con la quale si dibattono i problemi di costituzionalità di queste incrimina-
zioni se da un lato stupisce, dall’altro dimostra che anche all’interno di un sistema ormai vo-
tato ad un utilitaristico efficientismo (10) non si possono sottrarre spazi alla verifica di com-
patibilità di tali incriminazioni con i sovraordinati principi di libertà e di garanzia del citta-
dino in nome di contingenze politiche o di, veri o presunti, bisogni di tutela (11).
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tenzione della dottrina italiana: la novità e la delicatezza della materia, oltre alle innovative
scelte di politica criminale, non potevano certo passare inosservate.
Le diffuse aspettative di una pronta soluzione penalistica del ‘‘problema pedofilia’’, as-
sociate alle molte asperità sistematiche e linguistiche dell’articolato, hanno contribuito ad
economizzare lo sforzo ermeneutico indirizzandolo sulle questioni dotate di maggior impatto
applicativo, quali, ad esempio, l’individuazione della nozione di sfruttamento; la soluzione
da offrire all’astratta coesistenza della l. n. 269\1998 con la disciplina della Legge Merlin
(concorso apparente di norme vs concorrenza dei reati); l’esatta individuazione della no-
zione ‘‘cardine’’ di ‘‘materiale pornografico’’; la tenuta di alcuni degli elementi essenziali
delle nuove incriminazioni nell’impatto con i profili tecnologici che caratterizzano questa
forma di criminalità.
I pur importanti risultati ottenuti non possono, però, far dimenticare che in questo
modo si sono lasciati sullo sfondo i nodi più rilevanti di questa normativa — riconducibili al
problema dei limiti costituzionali dell’intervento penale — che, specie in materia di deten-
zione di materiale pornografico, rappresentano il più grave tra i deficit che affliggono le
nuove fattispecie (12).
A ben guardare l’accennata contrapposizione appare artificiosa e, soprattutto, contro-
producente. Infatti, se davvero si vogliono formulare ponderate soluzioni applicative, ci si
deve immergere in un’ottica teleologica la quale, a sua volta, non può che rimanere forte-
mente influenza dai valori costituzionali coinvolti in questa materia (13). L’ideale obbiettivo
del presente contributo è di riuscire a dimostrare questo assunto attraverso la ricostruzione
dei principali passaggi del dibattito riguardante i profili di costituzionalità della normativa in
materia di pornografia minorile (14).
Da un diverso angolo prospettico, il variegato panorama giurisprudenziale statunitense
segnala l’importanza della ‘‘motivazione dissenziente’’ come indispensabile strumento di
problematizzazione di decisioni che, per la loro complessità e delicatezza, impegnano i giu-
dici nella ‘‘ri-costruzione’’ della portata di fondamentali principi di garanzia e di libertà dei
cittadini anche attraverso difficili bilanciamenti tra interessi contrapposti. Di queste ‘‘virtù’’
le vicende che hanno interessato i giudizi di costituzionalità delle leggi contro la pornografia
minorile ne danno ampia prova: il costante e autorevole impiego di tale tecnica ha infatti
consentito di tenere sempre desta l’attenzione degli interpreti evitando, così, che la tutela of-
ferta all’interesse dei minori debordasse irragionevolmente fino al punto di conculcare i li-
(12) A. MANNA, Profili problematici della nuova legge in tema di pedofilia, in Ind.
pen., 1999, p. 51. Contra, però, B. ROMANO, Difetti normativi e margini interpretativi in
tema di pedofilia (a cura di) L. FIORAVANTI, La tutela penale della persona, Milano, 2001, p.
247 ss. Auspica una verifica dei fondamenti, anche costituzionali, che sorreggono questo in-
tervento del diritto penale L. MONACO, Art. 600-quater (a cura di) A. CRESPI-F. STELLA-G.
ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, Padova, 19993. Un ampio quadro è trac-
ciato da A. CADOPPI, Art. 1, in Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della
legge contro la pedofilia, Padova, 20023, p. 471 ss., ma spec. p. 488 ss.
(13) Importanti precisazioni in G. FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del
buon costume, Padova, 1984, p. 140 ss. In un’ottica più ampia si veda anche la significativa
problematizzazione operata da F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2001, p. 3 ss. Poi-
ché, a volte, le apparenze ingannano, va detto che non mancano autori che lamentano la
scarsissima considerazione riservata ai problemi di compatibilità delle leggi ‘‘antipornografia
minorile’’ rispetto al First Amendment: A. ADLER, The Perverse Law of Child Pornography,
in Colum. L. Rev., 2001, p. 210, nt. 5. Tuttavia, anche se numericamente scarsi e poco signi-
ficativi, l’esistenza di questi contributi è dimostrazione di una sensibilità costituzionale al-
trove sconosciuta.
(14) Il modello ‘‘diffuso’’ di controllo della costituzionalità delle leggi proprio del si-
stema giuridico statunitense — A. CERRI, Lezioni di giustizia costituzionale, Milano, 1996, 6
ss. —, rende molto variegato il quadro delle opinioni e, quindi, arricchisce di stimoli l’inda-
gine del comparatista.
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miti garantistici imposti dalla Costituzione all’esercizio del potere punitivo da parte dello
Stato (15).
1. Il quadro legislativo e le sue origini. — Negli USA la strategia per contrastare ogni
forma di sfruttamento di minori a scopo pornografico si è sviluppata lungo due direttive di
intervento. Conformemente al quadro dei poteri designato dalla Costituzione, esiste una legi-
slazione federale e una assai più varia, di fonte statuale (16).
a) Cenni sulla ripartizione di competenze tra federal criminal law e leggi penali statali.
- Come è noto l’art. 1 Sec. 8 della United States Constitution assegna al potere legislativo fe-
derale la potestà di regolamentare i rapporti con le nazioni straniere, le questioni di interesse
interstatale ed ogni materia relativa al territorio federale (ad esempio Discrict of Colum-
bia) (17). Sotto il profilo penalistico questa scelta determina un’ampia riserva di compe-
tenza in favore dei singoli stati ai quali, come riconosciuto dalla stessa Corte Suprema, è af-
fidato in via primaria il compito di legiferare in materia penale, anche in omaggio al princi-
pio secondo cui spettano al Congresso soltanto i poteri ad esso espressamente riconosciuti
dalla Costituzione (18).
Nella realtà quotidiana questa apparentemente rigida separazione ha subito delle atte-
nuazioni che, per una molteplicità di ragioni che non possono essere qui analizzate, hanno
finito per alimentare marcate forme di interferenza tra le due sfere di sovranità di cui si com-
pone la potestà punitiva. Nel tentativo di venire a capo di queste difficoltà la giurisprudenza
si è avvalsa di alcuni rimedi: i casi ‘‘sovrapposizione’’ vengono risolti dalla ‘‘double jeo-
pardy theory’’ (19), mentre le ipotesi di ‘‘sconfinamento per appropriazione’’ (20) sono state
fronteggiate con la creazione giurisprudenziale di un griglia di principi il cui rispetto mette al
riparo le norme federali da eventuali eccezioni di legittimità costituzionale (21).
b) Riflessi sulla disciplina della pornografia minorile. - Sulla base della Grundnorm
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che regola i rapporti tra i due poli dell’ordinamento, il tema della pornografia interessa mar-
ginalmente le istituzioni federali, poiché la loro competenza è limitata alle sole ipotesi che
soddisfino la Commerce Clause nexus. Tuttavia, l’ampiezza con la quale il potere legislativo
ha interpretato questo limite (22) ha consentito una quasi totale sovrapposizione tra la di-
sciplina di fonte federale e quella di origine statale (23).
Prima di delineare gli sviluppi del quadro legislativo sia consentita un’ultima precisa-
zione. Secondo un’opinione abbastanza diffusa, l’ordinamento penale federale assicurerebbe
al cittadino una maggiore garanzia poiché lo standard di legalità imposto alle leggi penali fe-
derali, anche sotto il profilo della necessaria determinatezza, sarebbe più stringente a causa
dell’inesistenza di poteri creativi in capo al giudice che, al contrario, sono tipici dei common
law crimes. Breve: ‘‘nell’interpretazione degli statuti [federali] vi sono meno spazi per la fles-
sibilità’’ rispetto ai cc.dd. crimini di diritto comune (24).
A tacer d’altro questa ipotesi si rivela fin troppo benevola nei confronti di una legisla-
zione non selettiva che, a dispetto dei limiti imposti dalla c.d. Vagueness Doctrine (25), re-
golamenta ‘‘un enorme numero di comportamenti dai più atroci ai più banali’’ (26). La vi-
cenda che ha interessato l’interpretazione della ‘‘lascivious exibition’’ (18 USC Sec. 2256 n.
2 lett. e)) ben dimostra quanto sia nel vero l’opinione di coloro che bollano quell’opinione
come constatazione così parziale da avvicinarsi ad una bugia (27). Si può dunque conclu-
dere che nessuno dei sistemi penali che coesistono all’interno dell’ordinamento statunitense
possiede un valore aggiunto, almeno in termini di legalità, che lo fa preferire all’altro.
1.1. Lunario. — Come si diceva in precedenza, la legislazione penale federale vanta
una lunga consuetudine nella repressione della pornografia minorile (28). L’anno di nascita
di questo interesse è il 1977 quando, con l’entrata in vigore del Protection of Children
Against Sexual Exploitation Act, si è cercato di porre un freno a quella che, già allora, veniva
considerata, oltre che un’ignobile forma di approfittamento dell’immaturità di soggetti indi-
fesi, una fiorente industria multimilionaria (29). Vengono così sottoposti ai rigori della legge
penale tutti quei comportamenti che, nella peculiare ottica della Commerce Clause, appaiono
collegati ad attività di produzione o di diffusione di materiale pornografico minorile.
La struttura dell’Act si articola su due capisaldi: la fattispecie che punisce le condotte di
impiego di minori nella realizzazione di materiale pedo-pornografico destinato ad essere spe-
dito o trasportato verso Stati diversi da quello di produzione (Sec. 2251 § 18 U.S.C. 1979)
e quella che reprime il trasporto, la consapevole recezione o la spedizione ‘‘in interstate
commerce’’ di detto materiale (Sec. 2252 (a) Supp. II, 1978) (30).
Nella complessiva strategia di contrasto al fenomeno, un passaggio di rilievo è rappre-
sentato dai coevi interventi operati sul White Slave Traffic Act (c.d. Mann Act) del 1910. In-
fatti, parallelamente all’introduzione delle incriminazioni di cui si è detto, il legislatore ha
provveduto ad estendere l’ambito applicativo di tale normativa stabilendo che debbono con-
siderarsi ricompresi nelle attività vietate dalla legge contro il traffico di esseri umani anche
(22) United States v. Robinson, 137 F.3d 652 (1th Circ. 1998); United States v. Bau-
sch, 140 F.3d 739 (8th Circ. 1998).
(23) Ragioni di sintesi ed unità dell’indagine consigliano di limitare l’attenzione alla
disciplina federale, fatte salve le ipotesi in cui una deroga appaia indispensabile.
(24) United States v. Mc Goff, 831 F.2d, 1071, 1077 (D.C. Circ. 1987).
(25) Papacristou v. Jacksonville, 405 U.S. 156 (1972); Chicago v. Morales, 527 U.S.
41 (1999). W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 559 ss.
(26) W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 509.
(27) D.M. KAHAN, Is Chevron, p. 471. In precedenza ID., Lenity and Federal Common
Law Crimes, in Sup. CT. Rev., 1994, p. 345 ss.
(28) L’interesse dei singoli Stati è cronologicamente antecedente ma così sporadico da
non presentare alcuna seria consistenza. Cfr. T.J. WEISS, Note, The Child Protection Act of
1984: Child Pornography and the First Amendment, in 9 Seton Hall Leg. J., 1985, p. 327 ss.
(29) Su fattori che hanno contribuito a suscitare l’attenzione del legislatore per questi
fatti L.S. SMITH, Private Possession of Child Pornography: Narrowing At-Home Privacy Ri-
ghts, in Annual Survey of American Law, 1991, p. 1012 s.
(30) Si leggono in L.S. SMITH, Private Possession, p. 1013, nt. 27 e 28.
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tutte le condotte di trasporto interstatale di giovani allo scopo di avviarli alla prostituzione o
al compimento di una vasta gamma di atti di natura sessuale, tra quali rientra anche la pro-
duzione di materiale pornografico (31).
A fronte di tale ‘‘articolato’’ intervento, la dottrina non ha mancato di sottolineare che
la diffusione della pornografia minorile doveva considerarsi penalmente illecita già prima
del 1977, trattandosi di materiale che rientrava a pieno titolo nella sfera applicativa dell’al-
lora vigente statuto penale della produzione e diffusione di rappresentazioni oscene (32).
Questa precisazione mette bene in evidenza il carattere ‘‘interstiziale’’ del tema, la cui
indubbia forza evocativa è destinata a convivere con una pletora di comportamenti già valu-
tati come meritevoli e bisognosi di tutela. Si tratta, infatti, di un problema che può essere in
larga parte risolto facendo applicazione di alcune delle fattispecie poste a presidio della per-
sona (riduzione in schiavitù, sequestro di persona, violenza sessuale, violenza privata), a tu-
tela della moralità pubblica (33) se non del patrimonio (ricettazione) (34).
Se è vero che tale opzione non si apprezza in termini di mera deterrenza, si può marcare
questa preferenza come l’ennesima ‘‘trappola’’ simbolica del diritto penale moderno? No,
poiché è plausibile ritenere che la stessa esprima un’autonomo significato sul piano ‘‘rappre-
sentativo-comunicativo’’ (35). In altre parole: in una prospettiva ancorata alla valorizza-
zione della funzione ‘‘integratrice’’ della prevenzione generale, questa scelta, riducendo al
minimo l’incidenza di possibili interferenze distorsive, manifesta un proprio ‘‘valore aggiun-
to’’ individuabile nella sua capacità di favorire la piena funzionalità del meccanismo di sta-
bilizzazione controfattuale dell’interesse violato (36). Breve: facilita la creazione di con-
senso (37).
Per quanto apprezzabile nel suo profilo ‘‘ideale’’, questa aspirazione è stata oggetto di
severe critiche da parte di coloro che ne hanno rimarcato il carattere simbolico; la facile
strumentalizzazione alla quale si presta in termini di soddisfacimento di bassi interessi po-
(31) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 449. Sottolinea la valenza ‘‘metaforica’’ del-
l’equiparazione tra schiavitù e le sue ‘‘nuove forme’’ (ad esempio: prostituzione e pornogra-
fia minorile) criticandone l’allineamento all’interno di una medesima regolamentazione nor-
mativa R. POSNER, Overcoming Law, Cambridge et alii, 1997, pp. 212, 498 ss.
(32) D.D. BURKE, The Criminalization of Virtual Child Pornography: A Costitutional
Question, in Harv. J. on Leg., 1997, p. 449, nt. 62. Con riferimento alla detenzione di mate-
riale pornografico la medesima soluzione è sostenuta da United States v. Bevacqua, 864
F.2d. 19 (3th Circ. 1988); United States v. Merchand, 803 F.2d 174 (5th Circ. 1986); United
States v. Andersson, 803 F.2d 903 (7th Circ. 1986).
(33) Al riguardo le lucide argomentazioni di Ashcroft v. Free Speech Coalition, 535
U.S. 3 ss. (al momento di licenziare le bozze del lavoro, questa importante pronuncia non ri-
sulta essere stata inclusa in alcun repertorio ufficiale. Il testo, in versione provvisoria, è co-
munque reperibile in www.supremecourtus.gov. Sito consultato il 25 agosto 2002).
(34) Nell’ordinamento francese si ammette, ad esempio, che la semplice detenzione di
materiale pedo-pornografico possa essere punita a titolo di ricettazione. M. VÉRON, Droit pé-
nal spécial, Paris, 20008, p. 185 ove rif. Nella dottrina italiana il tema è sviluppato da B. RO-
MANO, Difetti normativi, p. 267.
(35) Nella dottrina francese S. LÉGER, Les infraction de nature sexuelle commises à
l’enconte de mineurs, in Arch. de pol. crim., 1999, p. 13.
(36) Nel contesto europeo, senza alcuna pretesa di completezza bibliografica, è d’ob-
bligo il rinvio a G. JAKOBS, Strafrecht. AT., Berlin et alii, 19912, p. 35 ss. Questa prospettiva
di indagine è sviluppata anche da D. KAHAN, The Secret Ambition of Deterrente, in 113
Harv. L. Rev., 1999, p. 413 ss.; ID., Social influence, Social Meaning and Deterrence, in 83
Va. L. Rev., 1997, p. 349 ss.; ID., What Do Alternative Sanctions Mean?, in 63 U. Chi. L.
Rev., 1996, p. 591 ss. Per una valutazione critica, da ultimo, G. DE VERO, L’incerto percorso
e le prospettive di approdo dell’idea di prevenzione generale positiva, in questa Rivista,
2002, p. 437 ss.
(37) Cfr. C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p.
851 ss.
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litici (38); gli effetti negativi prodotti sul contenimento del numero e della qualità delle con-
dotte penalmente rilevanti (39).
Al già ampio reticolo predisposto a livello federale si affianca una cospicua serie di in-
terventi di fonte statuale ai quali è rimesso il compito di regolamentare, se del caso, ogni at-
tività connessa alla pornografia minorile, purché priva della predetta finalità intersta-
tale (40). Il risultato ottenuto è stato quello di mettere in moto un processo di criminalizza-
zione a sfere concentriche la cui estensione copre un’amplissima gamma di condotte, al cui
interno le debolezze dell’una sono spesso supplite dalla decisione dell’altra. Breve: un catch
all system.
1.1.1. Anatomia. — L’originaria formulazione della Sec. 2251 (a) conteneva una legge
mista alternativa che puniva ogni forma di impiego di minori nella produzione di materiale
contenente la rappresentazione di ‘‘condotte sessuali esplicite’’ da parte di questi, a condi-
zione che il soggetto attivo avesse la consapevolezza che detto materiale fosse destinato ad
essere impiegato nel commercio interstatale; la successiva Sec. 2252 (a) sanzionava, invece,
l’intero fascio di condotte situate ‘‘a valle’’ della realizzazione, con l’eccezione della semplice
detenzione, qualificando come penalmente illecito qualunque consapevole atto di distribu-
zione o commercializzazione in ‘‘in interstate o foreign commerce’’.
Con riferimento a quest’ultima previsione era opinione del Congresso che ad essa do-
vesse essere attribuita la finalità di ‘‘distruggere l’industria’’ del materiale pornografico mi-
norile, poiché con una facile equazione, si riteneva che agendo sull’offerta in senso restrit-
tivo si sarebbe poi contratta anche la domanda e che, di conseguenza, si sarebbero drastica-
mente diminuite le occasioni di aggressione diretta ai minori. Nell’ottica delle autorità fede-
rali la ‘‘meritevolezza’’ di condotte riconducibili, lato sensu, a forme di attività commerciali
si legittimava in quanto strumentale al perseguimento dell’obbiettivo primario di evitare che
il minore potesse essere coinvolto in situazioni idonee a comprometterne il sano sviluppo
psico-fisico (41).
La Sec. 2252 (a), a differenza dell’ipotesi attualmente vigente, conteneva significative li-
mitazioni alla rilevanza penale delle condotte di trasporto e spedizione, specificando:
a) che la produzione del materiale ‘‘illecito’’ doveva coinvolgere un minore degli anni
sedici;
b) che l’oggetto materiale della rappresentazione doveva ritrarre tali soggetti nel com-
pimento di una condotta sessuale (‘‘sexually explicit’’);
c) che lo stesso doveva essere osceno (‘‘obscene material’’).
I lavori preparatori segnalano che il legislatore del tempo, in ciò supportato dall’opi-
nione del Department of Justice (DoJ), era portato a ritenere che la Sec. 2252 (a) potesse es-
sere viziata da incostituzionalità qualora non si fosse introdotto questo riferimento limita-
tivo. Pertanto, pur avendo già ristretto la nozione di materiale pornografico alle sole ipotesi
di rappresentazione di condotte sessuali esplicite, si ritenne opportuno imporre ai giudici
l’accertamento dell’oscenità di detto materiale. Il dubbio nasceva da una attenta considera-
zione dell’ambito di tutela offerta dal primo emendamento alla libertà di espressione dei cit-
tadini, diritto che, almeno da un punto di vista astratto, poteva adattarsi anche alla porno-
grafia minorile (42);
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tle against Child Sexual Exploitation: Proposals for Reforma, in Harv. Women’s L.J., 1986,
p. 110 ss.
(43) La fattispecie relativa alle ipotesi di sfruttamento — comprendente l’impiego,
l’induzione, l’adescamento e la costrizione — non conteneva alcun riferimento agli elementi
sub c) e d) poiché la diretta incidenza delle ipotesi delittuose sulla sfera personale del minore
impediva di considerare le stesse espressione di un diritto di libertà la cui compressione, per
considerarsi legittima, richiedeva un bilanciamento con l’interesse penalmente protetto. L.S.
SMITH, Private Possession, p. 1017, nt. 56.
(44) Per un quadro delle critiche mosse contro questa soluzione L.S. SMITH, Private
Possession, p. 1015 ss. anche per le indispensabili indicazioni bibliografiche.
(45) Per un quadro L.S. SMITH, Private Possession, p. 1014 s.
(46) G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale,
Milano, 2000, p. 10 ss.
(47) Per vero questo aspetto rappresenta uno dei punti più problematici della ricerca
empirica in tema di abuso di minori a fini sessuali. Cfr. G. KAISER, Kriminologie, Heildel-
berg, 19973, p. 793 s. Limitandosi alla realtà nordamericana: tra l’iperbolica descrizione
della ‘‘pedofilia’’ come holding industriale con un ‘‘fatturato che supera i 5 bilioni di dollari’’
— L.J. LEDERER, Poor Children Targets of Sex Exploitation, in Nat’l Catholic Rep., Nov. 22,
1996, p. 11 — e la denuncia di chi ritiene che il fenomeno della pornografia minorile a
scopo commerciale sia un’invenzione frutto di un ‘‘moral panic’’ ingiustificato dalla realtà dei
fatti, ma socialmente diffuso perché artificialmente indotto — Free Speech Coalition,
www.freespeechcoalition.com/industry/truth/childporn.htlm (consultato il 13 dicembre
2001) — vi è in comune una, seppur opposta, visione ‘‘ideologica’’ che inquina alla radice la
credibilità di entrambe. Il deficit che si viene così a creare facilita campagne di law and order
e la perdita di ogni capacità critica del legislatore rispetto alla pressante domanda di tutela
proveniente dall’opinione pubblica. Nell’ambito della pornografia minorile ciò può compor-
tare uno scivolamento della tutela penale verso comportamenti privi di un reale profilo di
dannosità sociale. Sul punto, in una letteratura sterminata, Z. BAUMANN, Social Issues of
Law and Order, in British Journal of Criminology, 2000, p. 215 ss.; R. REINER, Media Made
Criminality: The Representation of Crime in the Mass Media, in The Oxford Handbook of
Criminology, Oxford, 19972, p. 189 ss.; A. ADLER, The Perverse Law, p. 214 ss. anche per
ulteriori riferimenti. Nella dottrina italiana ma, con accenti meno critici, P. MARTUCCI, La
pornografia minorile e i net crimes. Pedofilia e sfruttamento sessuale dei minori come ultime
frontiere della devianza (a cura di) ID., Infanzia e abuso sessuale, Milano, 2000, p. 108 ss.;
A. COLUCCI-E. CALVANESE-L. LORENZI, Bisogni formativi e ruolo dei mass media in un’inda-
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Va detto, però, che questa inusuale attenzione ai risultati della verifica empirica, già si-
gnificativa nell’ottica della ricostruzione dei formanti delle scelte di criminalizzazione, è
stata facilitata dall’esistenza di vere ‘‘autostrade informative’’ stabilmente strutturate all’in-
terno del procedimento legislativo, capaci di mettere immediatamente in comunicazione le
ovattate stanze parlamentari con la tumultuosa realtà dei fenomeni di devianza: hearings,
commissioni di inchiesta, pareri espressi da istituzioni pubbliche o private, sono gli stru-
menti che hanno consentito di adeguare ‘‘prontamente’’ il quadro legislativo ai ‘‘mutati’’ bi-
sogni di tutela o alle rinnovate esigenze di effettività della disciplina normativa.
Sebbene non si possano escludere, anche in ragione dei deficit metodologici che tuttora
affliggono i rapporti tra criminologia e scienza della legislazione penale (49), distorsioni
nella raccolta dei dati, parzialità nella scelta degli stessi e, quindi, nella fondatezza del pro-
cedimento attraverso il quale si sono formate le riferite opinioni critiche, l’esistenza di stabili
canali di comunicazioni tra ‘‘fatti’’ e ‘‘norme’’ costituisce un punto di merito per il legisla-
tore americano, la cui importanza si apprezza in modo particolare in tutti i casi nei quali lo
stesso si vede costretto ad intervenire su campi di materia ‘‘nuovi’’ situati al confine tra
comportamenti moralmente riprovevoli e aggressioni dotate di reale spessore offensivo di in-
teressi altrui (50).
1.1.2. Spunti in tema di oscenità. — Nonostante le vibranti critiche alle quali era an-
data incontro, l’inclusione di un riferimento all’osceno costituiva un passaggio obbligato:
nell’ottica del sistema, infatti, l’oscenità rappresentava il limite cogente alle possibilità di
comprimere la libertà di manifestazione del pensiero garantita dal First Amendment della
Costituzione degli Stati Uniti d’America (51).
Questa conclusione era il frutto di una lenta evoluzione della giurisprudenza della Corte
Suprema degli Stati Uniti la quale, sin dai primi anni ’40, aveva a poco a poco eroso l’assolu-
tezza del First Amendment ritenendo costituzionalmente legittimo che limitate classi di
espressioni, tra le quali rientravano anche quelle oscene o lascive (‘‘obscene and lewd spee-
ches’’), rimassero sfornite di tutela. Con prammatico distacco: poiché le stesse non possie-
dono alcun valore sociale non vi è interesse alla loro diffusione (52).
Il primo passo in questa direzione è compiuto dalla Supreme Court in Chaplinski v.
New Hampshire (53). Nella decisione si sosteneva, dopo aver reso il dovuto omaggio all’alto
valore della libertà di manifestazione del pensiero (54), che tale diritto non può considerarsi
assoluto ed intangibile quanto meno perché sussistono classi di opinioni il cui contenuto è
gine sugli insegnanti della città di Milano a proposito di percezione sociale dell’abuso ses-
suale, ivi, p. 29 ss. Un quadro generale dello stato delle ricerche sulla ‘‘fear of crime’’ in T.
BANDINI et alii, Criminologia, Milano, 1991, p. 624 ss. e, con specifico riferimento al diritto
penale ‘‘moderno, W. HASSEMER, Das Symbolische, p. 1005 ss.; G. FORTI, La riforma del co-
dice penale nella spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte spe-
ciale, in questa Rivista, 2002, p. 40 s.
(48) R.J. CLINTON, Note. Child Protection Act of 1984 - Enforceable Legislation to pre-
vent Sexual Abuse of Children, in Okl. City U.L. Rev., 1985, p. 121 ss.; L.S. SMITH, Private
Possession, p. 1015.
(49) L. MONACO, Su teoria e prassi dei rapporti tra diritto penale e criminologia, in St.
Urb., 1984, p. 64 ss. Nella letteratura giuridica di lingua inglese il fenomeno è riscontrato e
ampiamente analizzato, seppur in un diverso contesto, da G.E. LYNCH, Rico: The Crime of
being a Criminal. Part I & II, in Col. L. Rev., 1987, pp. 663, 664 s.
(50) L. ZENDER, Regulating Sexual Offences within the Home (a cura di) I. LOVE-
LAND, Frontiers of Criminality, London, 1995.
(51) Come è noto tale disposizione garantisce la libertà di parola (‘‘Congress shall
make no law... abriding the freedom of speech’’), di stampa e la laicità dello Stato. Cfr. U.
MATTEI, Common law, p. 144 ss., ma spec. p. 149.
(52) Una ricostruzione fortemente critica di questi sviluppi e dei risultati conseguiti è
sviluppata da A. ADLER, Post-Modern Art and the Death of Obscenity Law, in 99 Yale L.J.,
1990, p. 1359 ss.
(53) 315 U.S. 568 (1942).
(54) loc. ult. cit., 570.
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privo di ogni reale contributo alla circolazione delle idee. Pertanto, trattandosi di espressioni
prive di un adeguato valore sociale, il legislatore può legittimamente vietarne la circolazione
in tutti i casi in cui sussista un predominante (‘‘outweighted’’) interesse statuale a mantenere
l’ordine e la moralità pubblica. In altri termini: l’interesse soggettivo alla distribuzione o alla
fruizione di materiale osceno, pur rappresentando una forma di manifestazione del pensiero,
è destinato a soccombere, secondo uno schema di composizione tra beni contrapposti (‘‘due
process of law’’), quando vi si oppongano esigenze di salvaguardia di altri interessi generali
di pari rango.
Nella stessa direzione si muove la pronuncia resa nel caso Roth v. United States (55):
pur concordando nei risultati, la sentenza segna però un importante passo in avanti nella
chiarificazione dei rapporti tra diritti di libertà e disciplina penale dell’osceno.
Per mano del giudice Brennan, le argomentazioni della Corte si dipanano limpidamente
a partire da una premessa: la protezione offerta alla libertà di manifestazione del pensiero si
propone di facilitare lo scambio di opinioni allo scopo di contribuire alla realizzazione di una
matura democratizzazione della vita politica e sociale. Poiché nel caso di espressioni lascive
od oscene può seriamente dubitarsi del contributo da esse offerto al raggiungimento di tale
obbiettivo, si deve escludere che l’oscenità possa venir ricompresa nell’area costituzional-
mente protetta dal First Amendment (56). L’intervento statuale volto a reprimere questo ge-
nere di comunicazioni deve considerarsi ammissibile senza condizioni, non esistendo alcun
limite di natura costituzionale che si opponga a ciò.
Le argomentazioni per principi affascinano, ma ai fini di una equilibrata applicazione
della normativa, l’operatore del diritto ha bisogno di certezza: ciò che manca alla soluzione
così approntata. La Corte, infatti, dopo aver disancorato la materia dal classico potere di bi-
lanciamento tra interessi si trova ad operare con un concetto quasi completamente privo di
confini, la cui area applicativa copre l’intera gamma dei comportamenti attinenti alla sfera
sessuale (57).
Allo scopo di porre rimedio a questa grave situazione di incertezza, la Corte separa il
piano oggettivo della rappresentazione da quello valutativo tipico dell’oscenità, selezio-
nando, per quest’ultimo, il parametro di giudizio da impiegare.
Per evitare scompensi applicativi la maggioranza ritenne infatti opportuno rimarcare la
profonda differenza che intercorre tra sessualità e oscenità, anche dal punto di vista del ri-
spettivo valore sociale, limitando la seconda alle sole ipotesi nelle quali la rappresentazione
della sfera sessuale umana abbia l’unico scopo di sollecitare la morbosità (‘‘which deals
with sex in a manner appealing to prurient interest’’). In quest’ottica dovevano considerarsi
oscene (rectius: estranee alla sfera di tutela della disposizione costituzionale) tutte quelle
rappresentazioni che nella loro interezza appaiono richiamarsi, alla luce degli standards va-
lutativi socialmente dominanti, ad un ‘‘prurient interest’’ (58).
Seppur apprezzabile nelle sue finalità, il tentativo di razionalizzare e consolidare per
questa via la ricostruzione dei problematici rapporti tra libertà di manifestazione del pen-
siero e diffusione di comunicazioni oscene non poteva dirsi completamente riuscito, tanto da
costringere la Corte Suprema a ritornare sull’argomento per precisare che il test sull’oscenità
costruito in Roth doveva essere completato richiedendo che l’oggetto o la rappresentazione
fosse ‘‘utterly without redeming social value’’ (59).
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Anche questa ulteriore precisazione non sembrava però in grado di indicare con esat-
tezza la linea di confine tra libera manifestazione del pensiero ed il compimento di una con-
dotta penalmente rilevante, tanto da suggerire alla Corte la necessità di ripensare funditus
l’argomento.
In Miller v. California (60) la Corte sviluppa un modello di valutazione incentrato su
tre parametri di riferimento. Il test deve considerarsi soddisfatto qualora:
a) secondo il giudizio di una persona media, l’opera considerata nel suo insieme fa
appello ad interessi libidinosi (‘‘prurient interest’’);
b) se l’opera rappresenta o descrive, in modo platealmente offensivo (‘‘patentley offen-
sive way’’), condotte sessuali così come definite da una legge statale;
c) se l’opera, considerata nel suo complesso, non possiede alcun serio valore lettera-
rio, artistico, politico o scientifico.
A seguito di questi chiarimenti la nozione di osceno viene circoscritta a quelle rappre-
sentazioni che esprimono, in modo offensivo ai ‘‘community standards’’ (61), un contenuto
erotico e provocante al solo scopo di eccitare il loro fruitore (62).
A prima vista, la complessa articolazione del Miller’s test sembra giustificare il diffuso
giudizio negativo sulla sua utilità in tema di pornografia minorile. Se però si vuol tentare di
offrire una lettura meno superficiale di questa problematica occorre anche ricordare che la
Corte Suprema, in parallelo alle decisioni in precedenza esaminate, aveva sviluppato, in re-
lazione al problema della tutela dei minori, la c.d. ‘‘varabile obscenity clause’’ al fine di con-
sentire interventi regolativi da parte legislatore anche al di fuori dei rigorosi requisiti previsti
in tema di osceno. Su questa base la Corte aveva giudicato costituzionalmente legittima la
proibizione riguardante la vendita a minori di determinati materiali quando gli stessi, in ra-
gione delle peculiari caratteristiche dell’acquirente, apparivano idonei a violarne il senti-
mento di pudore, indipendentemente dal fatto che detto materiale non fosse considerato
osceno secondo il giudizio di un adulto (63). Se correttamente applicato questo orienta-
mento avrebbe potuto giovare anche all’interprete delle norme in materia di pornografia mi-
norile, consentendogli di allargare le maglie del Miller’ test, senza però annullare completa-
mente le esigenze di razionalità della tutela connesse alla ‘‘obscenity clause’’. Ma così non è
stato!
La mancata espressa considerazione di questo profilo porta a dubitare delle buona fede
degli oppositori i quali hanno abilmente dissimulato una innovativa soluzione di politica-
criminale mascherandola sotto un profilo tecnico e apparentemente ‘‘neutrale’’ (64).
1.2. Osceno e materiale pornografico minorile: una distinzione non fuzzy. — L’acco-
stamento che caratterizzava in origine il Protection of Children Act, merita un’ulteriore con-
siderazione.
L’accorpamento all’interno di una unica disposizione della obscenity clause e del ri-
chiamo alla presenza di una sexually explicit conduct sta a dimostrare, nonostante l’appa-
rente salto logico a cui era chiamato l’interprete, che trattasi di elementi tra loro non sovrap-
ponibili, tali essendo il piano dell’accertamento in fatto richiesto dalla seconda e quello del
giudizio valutativo imposto dalla prima. Ai fini del giudizio di rilevanza penale era dunque
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essere tacciata di ‘‘inconsistenza’’ a patto, però, di tenere bene a mente che si tratta di un’ec-
cezione motivata da un vero o presunto horror vacui, la cui gestione applicativa non do-
vrebbe essere affidata a schemi di giudizio di tipo valutativo di natura generalizzante che
prescindono dall’incidenza offensiva dell’atto sul bene giuridico della persona.
1.3. Child Protection Act of 1984. — Dalla sinergia tra bisogni di tutela e l’acquisita
consapevolezza dell’importanza dell’interesse tutelato si origina il successivo provvedimento
legislativo in materia. Il Child Protection Act del 1984 nasce infatti in risposta alle richieste
da più parti avanzate di incidere in senso migliorativo sulla disciplina del 1977 al fine di ga-
rantire un’efficace sfera di protezione ad un interesse che la stessa Corte Suprema ha defi-
nito di ‘‘surpassing importance’’ (73).
Vengono così eliminati il requisito della finalità commerciale e, soprattutto, qualsiasi ri-
ferimento all’osceno (74).
Osservata nell’ottica del diritto nazionale, l’eliminazione del fine di profitto offre l’occa-
sione per una breve digressione in considerazione della rilevanza assunta da questo pro-
blema nelle discussioni sulle prospettive e sui limiti della tutela penalistica della persona.
Si è già messo in evidenza che per convincere il legislatore dell’opportunità di omettere
qualsiasi riferimento al ‘‘purpose of sale’’, la dottrina statunitense ha battuto il tasto della
discrasia con il dato empirico. Come è noto, analogo problema affligge la disciplina interna
specie con riferimento al delitto di cui all’art. 600-ter, comma 1, c.p. (75): a differenza di
quanto avviene negli USA, le motivazioni addotte dalla dottrina per censurare possibili in-
terpretazioni ‘‘economicistiche’’ attingono ad un piano ‘‘ideale’’. Si osserva infatti, seppur in
relazione ad un diverso problema, che ‘‘lo scopo di lucro, in sé stesso non è una ragione di
illiceità: il fine di profitto economico da solo non può bastare a trasformare un fatto che
fosse penalmente lecito, in fatto penalmente illecito’’ poiché ‘‘la ragione dell’illiceità penale
del fatto stà... nella manipolazione della persona’’ (76).
Tale chiusura appare del tutto condivisibile nella misura in cui il fatto base di cui si di-
scute rappresenti, per così dire, un’indubitabile forma di aggressione nei confronti della per-
sona (ad esempio, ibridazione umana, sfruttamento della prostituzione e della pornografia
minorile ecc.). Rimane invece da valutare l’opportunità di ricorrere alla finalità soggettiva
come elemento selettivo delle condotte penalmente rilevanti ogni qualvolta il fatto base
possa essere considerato espressione anche di un diritto di libertà (ad esempio, surrogazione
procreativa, detenzione di materiale pornografico minorile ecc.) (77).
codice penale, Milano, 1993, p. 76. Analoga posizione è assunta da M.L. RASSAT, Droit pé-
nal spécial, Paris, 20013, p. 588.
(73) New York v. Ferber, 1123.
(74) Senza anticipare quanto verrà detto infra, § 5, si deve ricordare che le disposi-
zioni in commento hanno subito un’ulteriore modifica con gli importanti emendamenti ap-
portati dal Congresso nel 1996.
(75) Sul punto sia consentito rinviare a G. MARRA, La nozione di ‘‘sfruttamento’’ nel
delitto di pornografia minorile e la terza via delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2001, anche
per ulteriori riferimenti.
(76) A. PAGLIARO, Relazione di sintesi, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Mi-
lano, 1993, p. 517.
(77) Esigenza a tal punto sentita da aver suggerito al legislatore USA una parziale in-
versione di rotta rispetto alle scelte del Child Protection Act del 1984: il Congresso ha infatti
di recente introdotto, sotto forma di defense, un elemento quantitativo capace di garantire
un minimo contemperamento tra questi due aspetti. Cfr. Sec. 2252 (4), lett. c), n. 1 e Sec.
2252 (a) (5), lett. d), n. 1. Sul punto D.T. COX, Litigating Child Pornography and Obscenity
in the Internet Age, in Jour. of Tech. Law & Policy, www.journal.law.uff.edu (consultato il
30 aprile 2002), p. 4 ss. il quale non manca di sottolineare l’opportunismo dimostrato dal
Congresso nell’affrontare la questione. V. anche quanto osservato in New York v. Ferber,
777 s. Sulla defense v., in generale, W.R. LE FAVE-A.W. SCOTT jr., Criminal Law, § 1.8, p.
71 ss. Analoga sensibilità sembra ‘‘ispirare’’ la decisione di Cass. Sez. Un., 31 maggio 2000,
in Cass. pen., 2000, p. 2983 ss.
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Nel contesto della novella del 1984, si segnala anche l’innalzamento dell’età del minore
fino ai 18 anni, soluzione che finisce per accomunare l’ordinamento federale statunitense
alle scelte operate da quello italiano nel fatidico agosto del 1998 (78).
Non meno significativo è l’intervento sulla controversa definizione di materiale porno-
grafico. Il Congresso, infatti, venendo incontro agli sviluppi impressi dalle interpretazioni
delle Corti ha proceduto a sostituire il termine ‘‘lascivious’’ con il sinonimo ‘‘lewd’’ rite-
nendo quest’ultimo maggiormente pregante sotto il profilo della ricostruzione della dimen-
sione offensiva del fattto.
Come emerge dalla lettura dei lavori preparatori, l’intenzione del legislatore storico era
quella di sottolineare la differenza tra la disciplina della pornografia minorile e quella ri-
guardante il controllo della diffusione di materiale osceno. La ‘‘lascivia’’ appariva, infatti
troppo compromessa con la tradizione e, quindi, incapace di marcare significativamente la
distinzione tra vecchia e nuova prospettiva di tutela (79). Tuttavia, pur tacendo l’eccessiva
ampiezza semantica che caratterizza entrambi (80), la giurisprudenza statunitense aveva in
più di un’occasione rimarcato la valenza sinonimica delle due espressioni, ritenendole in
tutto e per tutto sovrapponibili (81).
Alleggerita dai suoi punti più controversi, la normativa dettata dal legislatore federale a
tutela dell’infanzia risulta di immediato gradimento degli interpreti i quali non tardano a re-
cuperare il tempo perduto nella speranza di annullare il gap venutosi a creare tra cifra
oscura e criminalità registrata (82).
2. Interventi statali. — Le non trascurabili difficoltà applicative a cui era andato in-
contro il sistema penale federale avevano indotto i singoli stati della federazione a distaccarsi
da questo modello prima ancora della modifica introdotta nel 1984.
A livello statale si era subito fatta strada l’idea che l’ ‘‘obscenity clause’’ rappresentasse
un’intralcio alle attività di enforcement senza apportare alcun apprezzabile contributo in ter-
mini di garanzia (83).
Accanto a questo argomento di matrice schiettamente utilitaristica, l’assalto da più parti
condotto alla clausola di oscenità si giovava di motivazioni ben più ‘‘nobili’’, legate ad una
migliore comprensione di quella che, nella terminologia in uso nella scienza penalistica euro-
pea, è definita come ‘‘meritevolezza di pena’’.
In quest’ottica, sono particolarmente significative le vicende della legge penale dello
(78) Quest’opzione, nonostante le critiche alle quali è andata incontro, ha fino ad oggi
brillantemente resistito ad alcune eccezioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione
alla sua ‘‘overbreath’’. United States v. X - Citment Video, 115 S.Ct 464, 468 (1994). V. an-
che R.R. STRANG, She Was just Seventeen... and the Way She Looked Was beyond [her
Years]: Child Pornography and Overbreath, in 90 Col. L. Rev., 1990, p. 1779 ss.
(79) D.D. BURKE, The Criminalization of Virtual Child Pornography: a Costitutional
Question, in Har. J. of. Leg., 1997, p. 454.
(80) Contra United States v. Numbers, 740 F.2d 286 (4th Circ. 1984) che ritiene il ter-
mine ‘‘lewd’’, a differenza del suo predecessore, sufficientemente determinato (‘‘generally
well recognized meaning’’); X - Citiment Video, 472 la quale, pur riconoscendo l’ampiezza
dell’aggettivo ha respinto la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla sua ecces-
siva indeterminatezza.
(81) United States v. Reedy, 845 F.2d 239, 241 (10th Circ. 1988); United States v.
Wiegand, 812 F.2d 1239, 1243-44 (9th Circ. 1987); United States v. Long, 831 F. Supp.
582, 587 (W.D. Ky. 1993).
(82) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1021, nt. 102. In un altro contesto analoghe
considerazioni sono sviluppate da G.E. LYNCH, Rico, p. 713 ss. Occorre ricordare che questo
intervento contiene anche importanti adeguamenti alla severità del carico sanzionatorio e
l’introduzione di efficaci strumenti di tutela ablativi di natura civilistica. Cfr. D.D. BURKE,
The Criminalization, p. 450, nt. 73.
(83) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1017 ss.
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Stato di New York ove, a cavallo della settima ed ottava decade del crepuscolo del secolo ap-
pena trascorso, fu introdotta una fattispecie incriminatrice che proibiva di produrre, ven-
dere, spedire, distribuire ecc. materiale pornografico riguardante minori degli anni sedici, in-
dipendentemente dal fatto se tale materiale fosse o meno osceno: la prova della non oscenità
della rappresentazione non era infatti considerata una valida defense (84).
2.1. Il § 263.15 della legge penale dello Stato di New York. — Il paragrafo in com-
mento stabiliva che doveva essere considerato responsabile della promozione di fatti di por-
nografia minorile chiunque ‘‘conoscendone il carattere ed il contenuto, produce, dirige o
promuove qualunque attività che includa una condotta sessuale da parte di un minore degli
anni sedici’’. La disposizione stabiliva altresì che ai fini di questa legge nella nozione di pro-
mozione erano da ricondurre le condotte di ‘‘procurare, produrre... vendere, inviare... trasfe-
rire... pubblicare’’ ecc. detto materiale.
Ben conscio delle difficoltà connesse ad un’esatta delimitazione dei confini della no-
zione di materiale pornografico, il legislatore non aveva mancato di cimentarsi nell’opera di
definizione di questo elemento essenziale del reato. Il § 263.00 precisava, infatti, che la no-
zione di pornografia si estendeva fino a ricomprendere tutti i ‘‘rapporti sessuali, reali o simu-
lati, i rapporti sessuali deviati... [la] masturbazione... o ogni altra esibizione lasciva dei geni-
tali’’.
La legge statale conteneva anche un’altra disposizione con la quale si puniva, come fe-
lony di classe D, la distribuzione di materiale osceno: l’ampiezza di questa previsione e l’an-
cora nebulosa distinzione concettuale tra pornografia minorile ed osceno costituivano le ra-
gioni che avevano portato taluno ad ipotizzare la possibilità di sussumere la distribuzione di
materiale pedo-ponografico anche nell’ipotesi di reato in commento e, di conseguenza, ad in-
terrogarsi sulla legittimità della scelta di valutare il medesimo fatto in modo così diverso, so-
prattutto in relazione all’accertamento degli elementi essenziali dell’illecito. Al di là dei me-
riti specifici di questa ipotesi di lavoro, non è dubbio che la stessa segnalava la presenza di
una possibile incongruenza di sistema i cui effetti, come si vedrà di qui a poco, non giova-
vano ad un’esatta ricostruzione dei limiti e del fondamento costituzionale di queste incrimi-
nazioni.
Indipendentemente dalla chiave di lettura adottata, il salto di qualità intervenuto con
l’abbandono del soffocante involucro imposto dall’ ‘‘obscenity clause’’ era destinato a far di-
scutere: su questo profilo si appuntarono, infatti, le prime veementi critiche alla legge in
commento, tanto forti da richiedere un celere intervento da parte della Corte Suprema degli
Stati Uniti.
2.2. New York v. Ferber: il fatto. — Il fatto oggetto della vicenda processuale è il se-
guente. Il titolare di un esercizio commerciale specializzato nella vendita di materiale porno-
grafico vende a due agenti sotto copertura delle cassette contenti immagini di minori intenti
a pratiche di autoerotismo. Tratto a giudizio, lo stesso viene ritenuto colpevole di aver vio-
lato il § 263.15 della legge dello Stato di New York concernente il controllo della diffusione
della pornografia minorile.
L’attacco alla costituzionalità della norma, per violazione del primo emendamento della
Costituzione degli Stati Uniti d’America, inizia immediatamente dopo la chiusura del proce-
dimento di primo grado mediante la proposizione di una mozione processuale per invalidare
il giudizio. L’istanza, respinta sia dal primo giudice sia dall’Appellate Division, incontra il fa-
vore della New York Court of Appeal che, ravvisando un insanabile contrasto tra la fattispe-
cie incriminatrice e la garanzia costituzionale del primo emendamento, annulla la sentenza
di condanna.
2.3. (Segue): le perplessità della Corte d’appello. — Nella sua motivazione la Corte
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questo limite in diciotto anni, altri si accontentano di sedici o diciassette — vi sono una se-
rie di Stati che equiparano a questi soggetti anche coloro che ‘‘appaiono essere in età prepu-
bescente’’, dimostrando così l’esistenza di una precisa volontà di ampliare la sfera della tu-
tela penale anche a condotte che appaiono ben lontane dal cagionare quel danno sociale di
rilevante entità posto a base dell’intera argomentazione della Corte.
Concludendo: poiché la legislazione newyorkese risponde ad entrambe le condizioni
dettate dai supremi giudici federali, sfugge a possibili eccezioni di legittimità sebbene le in-
trinseche ambiguità del riferimento alla ‘‘lascivious exibition’’ creino un preoccupante cono
d’ombra al cui interno l’interprete è libero di agire con la massima libertà.
Nonostante l’acribia dimostrata nel vagliare questo profilo, alcuni autori hanno lamen-
tato l’assenza di una definizione ‘‘giurisprudenziale’’ di che cosa debba intendersi per por-
nografia minorile. A parere di questi scrittori, la passività dimostrata dai giudici in Ferber
non è soltanto il sintomo di una profonda difficoltà ‘‘concettuale’’ (95) ma anche la princi-
pale causa dell’incontrollata espansione alla quale è andata incontro la disciplina riguar-
dante la pornografia minorile (96).
Sotto un diverso profilo l’atteggiamento della Supreme Court potrebbe però essere letto
come un tentativo di sottolineare l’importanza di un intervento diretto da parte del legisla-
tore nella definizione dell’estremo de quo. In altre parole: questo silenzio andrebbe interpre-
tato nel senso di ritenere che l’immediata incidenza di tale operazione sull’espansione o
sulla contrazione dell’area dell’illecito impone al giudice di astenersi da interventi diretti ad
individuare questo confine in assenza di ogni mediazione da parte del potere legislativo. Re-
sta però il fatto che questo ‘‘vuoto’’ costituisce un’autentica novità nel panorama nordame-
ricano, il cui significato non può essere spiegato con uno sbrigativo ricorso ad un possibile
‘‘retropensiero’’ della Corte! (97).
2.4.2.1. Legalità penale e diritto vivente. — La sentenza si conclude, in risposta alle
osservazioni formulate dalla Court of Appeal, con un ‘‘monito’’ all’interprete: una norma
non può essere considerata costituzionalmente illegittima per il solo fatto di dar luogo, in al-
cuni casi, a soluzioni interpretative in contrasto con la Costituzione. Richiamando Broadrick
v. Oklahoma (98), si afferma che è compito del giudice accertare se, nel singolo caso, la rap-
presentazione di atti sessuali tra o con minori rifletta un motivo scientifico, letterario, arti-
stico o un qualsiasi altro interesse che giustifichi l’esenzione da responsabilità dell’autore
della condotta incriminata.
In Broadrick, i giudici hanno dettato il principio di diritto secondo cui non è consentito
al cittadino sollevare una questione di legittimità di uno Statue sulla base della possibile in-
costituzionalità di talune sue interpretazioni, quando le stesse non siano direttamente rile-
(95) R.H. FALLON jr., Making Sense of Overbreath, in 100 Yale L.J., 1991, p. 896.
(96) A. ADLER, Inverting the First Amendment, in 149 U. Pa. L. Rev., 2001, p. 936 ss.
Chiaro sintomo dell’attenzione riservata a questa materia dai prosecutors sono l’elenco delle
‘‘priorità’’ e gli ‘‘ordini di spesa’’ elaborati Department of Justice. Cfr. rispettivamente, Me-
morandum from E.H. Holder, Jr. Deputy Attorney General U.S. Department of Justice, to all
U.S. Attorney Re: Prosecutions Under the Federal Obscenity Statues,
www.usdoj.gov/04foia/readingroom/obscen.htm (consultato il 5 maggio 2002); House Sub-
commitee Criticizes DoJ Not Prosecuting Internet Obscenity, in Tech. L.J., http://techla-
wjournal.com/crime/20000524.htm (consultato il 5 maggio 2002). Sotto il profilo della cri-
minalizzazione in concreto v. anche L. SCOTT TILLETT, FBI Turning internet on Photografers,
http:/www.nwfusion.com/news/2000/0203fbi.net.htlm. Citato anche in A. ALDER, Inverting,
p. 933, nt. 56. Sul ruolo della discrezionalità riconosciuta alle agenzie di controllo cfr., an-
che per le essenziali indicazioni bibliografiche, W. STUNZ, The Pathological, 509 ss. Nella
dottrina italiana M. PAPA, Considerazioni, p. 1293 ss. e, più in generale, G. FORTI, L’immane
concretezza, 50 ss.
(97) Cfr., quanto al bilanciamento di interessi, Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) e le
ampie osservazioni sviluppate da R. DWORKIN, Il dominio della vita, p. 139 ss. anche per ul-
teriori riferimenti. Quanto all’osceno supra, § 1.1.2) Spunti in tema di oscenità.
(98) Broadrick v. Oklaoma, 413 U.S. 601, 1973.
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vanti per il giudizio nel quale la questione viene proposta. L’elementare principio di conser-
vazione degli atti aventi forza di legge, associato alla natura personale dei diritti costituzio-
nali sono i motivi che, a parere della Corte, rendono opportuno limitare l’overbreath scruti-
nity. Non meno significative del carattere di extrema ratio di tale eccezione, sono quelle pro-
nunce che hanno riconosciuto in capo al giudice il dovere di ‘‘interpretare’’ lo statuto in
senso conforme alla Costituzione e soltanto nel caso in cui ciò non sia possibile di affermare
l’invalidità costituzionale della norma sotto il profilo in parola (99).
Secondo la Corte, il § 263.15 rappresenta ‘‘un caso di scuola’’ di questo indirizzo. Pur
riconoscendo che la formula linguistica utilizzata dal legislatore potrebbe prestarsi ad
un’ampia e, probabilmente ingiustificata, applicazione, non è attraverso un suo annulla-
mento per contrarietà alla Costituzione che deve essere affrontato il problema. Infatti, le cir-
costanze che potrebbero rendere lecita la diffusione di materiale astrattamente riconducibile
alla nozione di ‘‘lascivious exibition’’ (finalità di scienza, artistiche ecc.) sono del tutto mar-
ginali ed una loro esclusione dall’area del penalmente rilevante può avvenire ‘‘mediante
un’analisi caso per caso’’ (100).
La posizione della Corte è innovativa e allo stesso tempo assai rigorosa (101): la Costi-
tuzione non contiene alcun ostacolo che possa inibire allo Stato di intervenire con la san-
zione penale allo scopo di prevenire la diffusione di materiale pedo-pornografico, alla sola
condizione che le immagini ‘‘incriminate’’ rappresentino atti sessuali realmente intercorsi tra
minori o siano compiuti su minori.
2.5. Suggestioni. — Agli occhi del comparatista non sfuggono le forti suggestioni che
emergono dalla motivazione di questa sentenza. Innanzitutto, il vigoroso richiamo alle pecu-
liarità psicologiche dei soggetti coinvolti in queste vicende come ratio giustificatrice della
singolarità delle architetture politico-criminali della disciplina di settore (102); poi, la cor-
posa sottolineatura dell’esigenza di un preciso intervento legislativo nella definizione di
quello che, con una certa sicurezza, può essere definito il problema centrale delle fattispecie
incriminatrici relative allo sfruttamento di minori a fini pornografici. È su queste premesse
che la Corte Suprema istituisce quel nesso di condizionamento biunivoco tra definizione
della ‘‘sexually explicit conduct’’ e la natura del bene giuridico tuelato; tra il tipo di offesa
inferta al soggetto passivo da tali aberranti pratiche e letture restrittive dell’actus reus del
reato.
Questa prospettiva di tutela ha trovato per lungo tempo una vasta risonanza nelle inter-
pretazioni in tema di elemento soggettivo. Sulla scia di United States v. X - Citment Vi-
deo (103) la giurisprudenza, respinte le lusinghe ‘‘preventive’’ della recklessness (104), ha
in più occasioni arrichito l’oggetto della mens rea fino a ricomprendervi la consapevole rap-
presentazione dell’età della persona offesa e la consapevolezza della natura ‘‘sexually expli-
cit’’ delle condotte riprese o riprodotte (105). Senza poter ricostruire nei dettagli queste vi-
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ciente una rappresentazione generica della sua natura e delle sue caratteristiche. United Sta-
tes v. Scmeltzer, 20 F.3d 610, 611 (5th Circ. 1994); United States v. Cochran, 17 F.3d 56, 59
(3d Circ. 1994); United States v. Long, 831 F. Supp. 582, 585-586 (W.D. Ky. 1993).
(106) Nella dottrina italiana originali spunti di riflessione sono svolti da F. BRICOLA,
Limite esegetico, elementi normativi e dolo nel delitto di pubblicazione e spettacoli osceni,
in Scritti di diritto penale, vol. II, t. I, Milano, 1997, p. 1879 ss., ma spec. p. 1890 ss.
(107) New York v. Ferber, 1127.
(108) Ashcroft v. Free Speech Coalition, 8 ss. e la ‘‘canadese’’ Regina v. Sharpe,
www.canlii.org/bc/can/bcca/1999, 1 ss. Nella dottrina italiana A. CADOPPI, Art. 3, pp. 555,
566 ss. e, volendo, G. MARRA, La nozione, p. 438.
(109) L’incriminazione è stata introdotta con il Child Protection Restoration and Pe-
nalties Enactment Act of 1990. D.T. COX, Litigating Child Pornography, p. 4. Al di fuori del
dibattito statunitense una stimolante lettura dei rapporti tra diritto penale, scelte di crimina-
lizzazione e rispetto della sfera privata del cittadino è offerta da G. JAKOBS, Kriminalisierung
im Vorfeld einer Rechtsgutverletzung, in ZStW, 1985, p. 753 ss.
(110) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1022 ss.
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(111) Stanley v. Georgia, 394 US 557 (1969) p. 550. In questo passaggio è forte l’eco
del pensiero di J.S. MILL, Sulla libertà, Milano, 1990, p. 35 ss. Una riflessione sui rapporti
tra ‘‘liberalism and democracy’’ in R.A. POSNER, Overcoming law, p. 21 ss.
(112) L’attuale definizione della ‘‘sexually explicit conduct’’ (Section 2256, n. 2) ri-
sulta così formulata: ‘‘ ‘sexually explicit conduct’ means actual or simulated (a) sexual in-
tercorse, including genital-genital, oral-genital, anal-genital or anal-genital, whether between
persons of the same or opposite sex; (b) bestiality; (c) masturbation; (d) sadistic or
masochistic abuse, or (e) lascivious exbition of the genital or pubic area of any person’’.
(113) G. KAISER, Kriminologie, p. 793 ss. sottolinea che sebbene allo stato non sia
possibile stabilire alcun legame tra consumo di materiale pornografico ed aumento dei reati
contro la libertà sessuale è plausibile l’idea di chi ritiene che la diffusione della c.d. härte
pornografie rappresenti, almeno in astratto, un pericolo per questi beni e debba perciò essere
repressa. Più sensibile alle esigenze del controllo penale C.R. SUNSTEIN, Neutrality in Costi-
tutional Law (with special reference to Pornography, Abortion, and Surrogacy), in Colum. L.
Rev., 1992, p. 22 ss.
(114) Stanley v. Georgia, 546.
(115) Stanley v. Georgia, 548, nt. 7. Per corroborare questa sua conclusione la Corte
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Se a ciò si aggiunge che nel caso di specie il diritto alla libera manifestazione del pen-
siero assume connotati particolari — in quanto esercitato all’interno di uno spazio sociale
che, salve rarissime eccezioni, è immune da intrusioni governative — le motivazioni che
hanno spinto la Corte Suprema degli Stati Uniti a dichiarare l’incostituzionalità della norma
diventano immediatamente intellegibili.
Sull’epitaffio della norma dello Stato della Georgia la Corte Suprema, richiamando la
celebre Olmstead v. United States (116), iscrive queste precise parole: ‘‘è incontrovertibile
che la Costituzione protegge il diritto di ciascuno di ricevere informazioni o idee da parte di
altri... indipendentemente dal loro valore sociale. Tale libertà costituisce un caposaldo della
nostra società libera. Altrettanto fondamentale, ad eccezione di alcune limitate ipotesi, è il
diritto di essere lasciato libero da qualunque intrusione governativa nella propria privacy’’.
Al diritto penale non può, dunque, esser consentito di limitare diritti che trovano la loro
fonte in norme di rango sovraordinato.
3.2. Osborne v. Ohio: crollano le mura. — L’ipoteca introdotta da Stanley v. Georgia
sull’incostituzionalità di fattispecie che proibiscono la detenzione di materiale pornografico
era piuttosto gravosa. Ovvio, quindi, che di fronte a norme come quella del § 2907.323 (A)
(3) del codice penale dello Stato dell’Ohio (117) le obiezioni dei suoi detrattori si basassero
quasi integralmente su questo precedente.
Con un sottile distinguo, fondato sulle conclusioni di New York v. Ferber, la Corte
sgombra subito il campo dal pesante fardello riuscendo così ad impostare la discussione in
piena libertà.
L’argomento sviluppato dall’opinione di maggioranza aggira l’ostacolo frapposto da
Stanley v. Georgia osservando che il valore ‘‘eccessivamente modesto’’ dell’interesse a poter
liberamente visionare materiale pornografico minorile preclude la possibilità di richiamare
l’operatività della clausola di salvaguardia contenuta nel primo emendamento.
Questo distingiuishing sarebbe stato vano se la motivazione avesse ricostruito la ratio
politico-criminale della norma utilizzando quella prospettiva paternalistica stigmatizzata in
Stanley: non è quindi casuale che la Corte, richiamando alcuni passaggi sviluppati in Ferber,
si impegni in un’autonoma ricostruzione dell’interesse tutelato utilizzando come chiave di
lettura l’esigenza di prevenire futuri abusi in danno dei minori.
Si osserva, infatti, che attraverso il divieto di possedere materiale pedo-pornografico lo
Stato si propone di ‘‘essiccare il mercato’’ (‘‘dry up the market’’) e di ‘‘distruggere il [turpe]
mondo della pornografia minorile’’ al fine di garantire la salvaguardia dell’integrità psicofi-
sica dei minori coinvolti in queste degradanti pratiche (118), non senza far notare che ‘‘l’in-
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trinseca ragionevolezza di questa scelta mette al riparo lo Stato dell’Ohio da ogni possibile
eccezione di illegittimità costituzionale (119).
3.2.1. Indeterminatezza e supplenza giudiziaria. — L’ultima sezione della parte mo-
tiva è dedicata all’approfondimento dell’esatta definizione di ciò che deve essere considerato
pornografico, poiché, secondo il ricorrente, la soluzione accolta dalla legge penale dell’Ohio
ignora i principi stabiliti in New York v. Ferber e, quindi, deve ritenersi costituzionalmente
illegittima (120).
A differenza della soluzione newyorkese l’allora vigente § 2907.323 (A) (3) dimo-
strava, infatti, una scarsa propensione a selezionare l’estremo de quo in ragione del grado di
invasività degli atti sul bene giuridico tutelato, limitandosi a stabilire che ‘‘non è consentito
ad alcuna persona... di possedere o visionare qualunque materiale o spettacolo che mostri
un minore, il quale non sia il proprio figlio o nipote, che si trovi in stato di nudità’’.
Secondo il ricorrente questa scelta si presta ad essere censurata anche per aver ignorato
il c.d. divieto di ‘‘overbreath’’ (121).
Nel suo ricorso Osborne sottolinea che l’eccessiva ampiezza della nozione finirebbe per
criminalizzare un gamma estremamente ampia di condotte, tra le quali rientrerebbero anche
espressioni costituzionalmente garantite, in palese contrasto con alcuni capisaldi della giuri-
sprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di legalità e ragionevolezza della
norma penale.
A parere della Corte nessuna delle censure mosse dal ricorrente è fondata. Si ricorda,
infatti, che in più occasioni la giurisprudenza della Supreme Court ha avuto modo di rimar-
care che l’ ‘‘indeterminatezza marginale’’ che oscura la descrizione del fatto di reato non può
essere motivo di incostituzionalità della norma se essa seleziona in modo sufficientemente
chiaro un’ampia gamma di condotte da sottoporre a pena (122). Ma, soprattutto, si osserva
che la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema dell’Ohio, intesa ad includere nella
sfera del penalmente rilevante soltanto le rappresentazioni licenziose di un minore, è perfet-
tamente in grado di annullare il preteso vizio di indeterminatezza.
Secondo la Corte statale, la proibizione legale di detenere o visionare ‘‘materiale raffigu-
rante un soggetto minorenne in stato di nudità’’ deve ritenersi limitata ai soli casi in cui
detta rappresentazione ‘‘costituisca una esibizione lasciva o nei casi in cui sia realizzata me-
diante una focalizzazione dell’immagine (‘‘grafic focus’’) sui genitali’’ dello stesso.
Impegnata a districare il groviglio di questioni riguardanti il rispetto del canone di lega-
lità dei reati, la Corte non sembra avvedersi dei mutamenti che tali conclusioni producono
sulla qualità della dimensione offensiva dei reati. Non è dubbio, infatti, che questa decisione
rappresenta una soluzione di continuità con gli originari insegnamenti impartiti in Ferber,
destinata a produrre una vera ‘‘rivoluzione’’ nel teleologismo della fattispecie.
La svolta non rappresenta, però, un fulmine a ciel sereno, in quanto tali evoluzioni
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erano state preparate da una decisione intermedia nella quale, per la prima volta, si intac-
cava il punto centrale della decisione Ferber relativo ai limiti della definizione di materiale
pornografico (123). Per vero, il rilievo di Massachusset v. Oaks (124) si apprezza più sul
piano del metodo che su quello della decisione di merito: tuttavia, l’enucleazione di una di-
versa prospettiva di indagine non poteva rimanere senza significato per la soluzione del pro-
blema. Non è un caso, quindi, che la motivazione richiami più volte questo precedente.
3.2.2. Massachusset v. Oaks. — La norma sottoposta al vaglio della Corte Suprema
descriveva le condotte illecite incentrando la sua attenzione sulla ‘‘state of nudity’’ del sog-
getto passivo infradiciottenne. La lower court, chiamata a pronunciarsi sul caso, aveva con-
dannato il ricorrente a una severa pena detentiva per aver realizzato una serie di foto aventi
ad oggetto una ragazza quattordicenne con il corpo parzialmente nudo. La condanna fu suc-
cessivamente annullata perché, a parere della Corte Suprema del Massachusset:
a) l’immagine costituiva una mera rappresentazione del pensiero che, in quanto tale,
meritava piena tutela sul piano costituzionale;
b) la descrizione legale dei possibili oggetti della rappresentazione illecita era eccessi-
vamente ampia.
Nonostante il chiaro aut aut all’eccessiva disinvoltura con la quale il legislatore dello
Stato del Massachusset aveva affrontato la questione, la Corte Suprema Federale imbocca
una strada ben diversa giungendo, seppur a maggioranza, ad un’innovativa conclusione: la
scelta di ampliare la definizione della pornografia minorile anche a rappresentazioni della
semplice nudità non è contraria alla Costituzione in quanto non rappresenta un profilo valu-
tabile alla luce del divieto di ‘‘substancial overbreath’’ (125).
Nell’ottica di questo studio maggior significato assume l’opinione concorrente redatta
dal giudice Scalia per il quale la decisione della maggioranza, oltre che erronea sul piano del-
l’interpretazione della ‘‘overbreath doctrine’’ (126), non affronta in modo corretto il vero
nodo dell’intera problematica: l’ampia portata della definizione di materiale pornografico. A
parere del giudicante, alla luce dei principi stabiliti in Broadrick e Ferber, l’estensione della
norma definitoria non può essere considerata eccessiva in quanto ‘‘gli scopi legittimi da essa
perseguiti eccedono quelli illegittimi che attraverso la stessa possono essere conseguiti’’.
Conclusione tanto più valida se si considera che la norma in commento contiene una cospi-
cua serie di ipotesi di non punibilità per tutti i casi di c.d. ‘‘bona fides purpose’’ (127).
L’ampiezza del riferimento, trovando una sua correzione già sul piano astratto, non in-
tacca il diritto del cittadino di poter usufruire degli spazi di libertà riconosciutigli dal First
Amendment. La censura mossa contro lo statuto del Massachusset non può dunque trovare
accoglimento, anche perché i lamentati ed ipotetici ‘‘eccessi’’ applicativi esulano, nel caso di
specie, dalla competenza decisionale della Corte Suprema.
In conclusione: l’opinione del giudice Scalia, con la sua visione quantitativa del pro-
blema, apre la via per l’allontanamento della normativa contro la pornografia minorile dalla
dimensione del danno concreto ai minori e, quindi, anche al positivo giudizio di costituzio-
nalità del riferimento al ‘‘graphic focus on nudity’’.
3.2.3. Justice Brennan, dissenting (I). — In relazione a questo punto si sviluppa l’opi-
nione dissenziente sottoscritta in Osborne dai giudici Brennan, Marschall e Stevens i quali,
dopo aver ricordato una copiosa serie di precedenti ove si esclude che la ‘‘semplice nudità’’
possa rappresentare un motivo sufficiente per negare la protezione del primo emendamento,
fanno osservare la profonda differenza tra la definizione newyorkese e quella del
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§ 2907.323 (A) (3) dello Stato dell’Ohio, per poi concludere a favore dell’esistenza di un
profilo di indeterminatezza costituzionalmente apprezzabile in relazione a quest’ultima.
A parere dei dissenzienti questa severa conclusione non può essere smentita richia-
mando l’interpretazione adottata sul punto dalla Corte Suprema dell’Ohio in quanto an-
ch’essa presenta evidenti profili di indeterminatezza. Le precisazioni fornite dall’Alta Corte
non riescono infatti a selezionare un elemento di relativa certezza sul quale ancorare gli svi-
luppi dell’attività interpretativa.
Due, in particolare, sono i profili sui quali si polarizza la critica dei dissenzienti: a) il
‘‘grafic focus test’’; b) l’eccessiva valorizzazione della ‘‘lewd exibition’’.
Le critiche mosse nei confronti di questi due capisaldi della ridefinizione giurispruden-
ziale dell’espressione nudity possono essere così sintetizzate:
a) il ‘‘grafic focus test’’ è ‘‘intollerabilmente ampio’’ perché nella costruzione della
Corte statale la verifica è incentrata sulla nudità e non sull’esibizione di ‘‘organi genitali’’ o
altre zone erogene. Infatti, almeno in linea astratta, la focalizzazione grafica del nudo può
adattarsi alle riprese di ‘‘alcune bagnati’’ comodamente distese ‘‘in topless, su di una spiag-
gia del mediterraneo’’ e, allo stesso tempo, alle riproduzioni fotografiche o filmiche delle più
aberranti pratiche sessuali commesse con o su minori (128), finendo così per rendere penal-
mente illecita una vasta gamma di immagini senza che tra di esse sia possibile individuare al-
cun profilo di comparazione. L’estrema latitudine che intrinsecamente caratterizza la defini-
zione legislativa finisce per rendere ancora più intollerabile l’ampiezza di questo elemento di
fattispecie;
b) il riferimento alla ‘‘lewd exibition of nudity’’ pecca invece di eccessiva astrattezza
rendendo di fatto impossibile la selezione di un significato di immediato riscontro applica-
tivo. Breve: la lasciva esibizione della nudità può essere ragionevolmente paragonata ad un
‘‘territorio inesplorato’’ (129), ove l’interprete si muove senza disporre di idonei punti di ri-
ferimento.
Secondo i redattori dell’opinione dissenziente, questi ampi spazi di discrezionalità rap-
presentano un palese vizio di costituzionalità della norma poiché consentono ‘‘alla polizia, ai
prosecutors ed alle giurie, di determinarsi e di decidere esclusivamente in base alle loro per-
sonali predilezioni’’ (130).
Non meno significativi sono i passaggi dedicati alla mancanza di un accettabile criterio
di valutazione della lewdness. Ci si chiede, infatti, se essa debba essere determinata utiliz-
zando come parametro di riferimento la valutazione di un uomo medio oppure di un pedo-
filo medio; se vada interpretata tenendo conto degli standards validi per una specifica comu-
nità locale ovvero secondo una media nazionale. Poiché nessuno di questi sembra essere un
metro di giudizio realmente praticabile e, soprattutto, ragionevole, la conclusione che si trae
porta a ritenere che l’esatta ricostruzione del carattere lascivo di un’esibizione è affidata uni-
camente ‘‘alla prospettiva di giudizio e alle idiosincrasie dell’osservato’’, in palese violazione
della legalità del reato e della certezza del diritto (131).
3.2.4. Justice Brennan, dissenting (II). — Stringente è altresì la critica mossa alla co-
stituzionalità della scelta di criminalizzare il possesso privato di materiale pornografico mi-
norile.
A parere dei tre giudici la facilità con la quale la maggioranza della Corte ha evitato il
confronto con le conclusioni raggiunte nel caso Stanley v. Georgia è completamente fuor di
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luogo: non si vede infatti per quale ragione si debba distinguere, sotto il profilo costituzio-
nale, la detenzione di materiale pornografico dal possesso di immagini dello stesso tenore
aventi però ad oggetto minori.
Per prima cosa, si fa osservare che il richiamo a New York v. Ferber non è pertinente; la
conclusione qui raggiunta lascia del tutto impregiudicata la questione del possesso (132). In-
fatti, il riconoscimento della potestà statuale di regolamentare anche attraverso la sanzione
penale la produzione e la distribuzione della pornografia minorile non è significativa per
quanto riguarda il diverso problema della detenzione (133).
Con un’apertura alle esigenze di extrema ratio della sanzione penale si osserva che
mentre New York v. Ferber istituisce una parificazione, seppur sui generis, tra pornografia
minorile ed osceno, la decisione resa in Stanley v. Georgia lascia aperta la questione relativa
all’individuazione dei limiti entro cui può essere consentita la regolamentazione della frui-
zione di questo materiale. Infatti, ‘‘l’esistenza di un potere di intervento da parte dello Stato
sulla libera diffusione di determinati materiali non esclude che non vi sia alcuna barriera
costituzionale all’esercizio concreto di tale potere’’ (134).
Approfondendo ancora lo spunto connesso alla natura sussidiaria dello strumento pe-
nale, si contesta il fondamento dell’affermazione secondo cui soltanto attraverso la crimina-
lizzazione della detenzione sarebbe possibile distruggere alla radice il turpe mercato che
ruota attorno alla realizzazione di immagini pedo-pornografiche.
Secondo i tre giudici, lo Stato, al fine di porre un freno al presunto dilagare dell’abuso
sessuale di minori, potrebbe sempre ‘‘impiegare altre armi per combattere questo serissimo
problema sociale’’ evitando così di intrufolarsi sotto il tetto di privati cittadini per poi even-
tualmente colpirli con una più o meno severa pena detentiva. A parere di Brennan, Mar-
schall e Stevens non è infatti sufficientemente dimostrato che la sola punizione della produ-
zione e della distribuzione sia un rimedio inefficace rispetto al fine, così come, sul piano em-
pirico, non è del tutto certo che la criminalizzazione della detenzione sia la chiave di volta
per costruire un’efficace strategia repressiva tesa a spezzare il circolo vizioso che si instaura
tra la domanda, l’offerta e l’abuso sessuale di minori (135). Comunque, anche a voler rite-
nere infondate queste preoccupazioni, non si vede alcuna valida ragione per giustificare una
così palese violazione del diritto di ciascuno di leggere o visionare ciò che meglio
crede (136).
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nale della disposizione in commento, nonostante i forti dubbi espressi nell’opinione dissen-
ziente, la pronuncia ha offerto l’abbrivio per un’ulteriore evoluzione della giurisprudenza
delle corti inferiori. In particolare nella sentenza United States v. Knox (137), il terzo cir-
cuito ha impresso una forte spinta verso l’applicazione della normativa a situazioni ben lon-
tane da quella reale dannosità per il minore che ha costituito la chiave di volta della prima
fase della discussione sulla costituzionalità delle disposizioni che reprimono la pornografia
minorile. Superando le preclusioni introdotte in Ferber e in molte altre sentenze riguardanti
la sfera di protezione del primo emendamento, la Corte ha stabilito che il riferimento alla
‘‘lascivious exibition of genitals’’ si applica anche a tutte le rappresentazioni aventi ad og-
getto queste parti del corpo sebbene coperte (138).
L’innovativa soluzione, prontamente definita come un ‘‘uragano politico’’, ha innescato
una reazione a catena il cui principale effetto è stato quello di rinfocolare le polemiche sul-
l’intollerabile incertezza che ancora avvolge la questione (139).
L’ampiezza del riferimento è stata censurata, prima ancora che da parte dei commenta-
tori, dal Procuratore generale degli Stati Uniti il quale ha sottoscritto una ‘‘brief’’ alla Corte
Suprema, dove il caso era approdato in sede di gravame, ove si sostiene che l’interpretazione
adottata dai giudici del terzo circuito è eccessivamente ampia e contraria alle indicazioni for-
nite dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in Ferber, auspicandone, quindi, una celere ‘‘corre-
zione’’ ed indicando nella ‘‘discernibility’’ il limite massimo di tensione della nozione in
commento (140).
Sotto un altro profilo, quello della criminalizzazione in concreto, la pronuncia ha of-
ferto l’occasione per estendere grandemente lo spazio della vigilanza delle agenzie di con-
trollo. Lo dimostrano tra l’altro molte pagine di cronaca locale ove, a partire dal 1994, ven-
gono a più riprese segnalati discutibili interventi delle autorità di polizia e di vari Prosecu-
tors. Basti infatti considerare che in nome della ‘‘lotta senza quartiere’’ alla pornografia mi-
norile sono stati processati fotografi per aver realizzato libri di immagini ‘‘d’autore’’, sia
detto senza ironia, ritraenti minori in stato di nudità; arrestati commercianti per aver dete-
nuto, ai fini di commercio, nientemeno che il film, tratto dall’omonimo romanzo, ‘‘Il tam-
buro di latta’’ già vincitore di un premio Award, anziane signore per aver fotografato i nipoti
mentre facevano il bagno, giornalisti per aver svolto indagini, dall’interno, sul mondo della
pedofilia minorile (141): per non parlare poi dei sequestri di cataloghi commerciali, di ritagli
di giornali riguardanti campagne pubblicitarie e dei conseguenti processi celebrati perché
tali immagini, in ragione delle ‘‘sinister minds’’ dei loro detentori, erano considerate di ‘‘por-
nographic significance’’ (142).
(137) United States v. Knox, 977 F. 2d 815, 820-23 (3d Circ. 1992).
(138) Il passaggio è significativo. Fino a questo momento, infatti, la giurisprudenza si
era consolidata attorno alla massima secondo cui la ‘‘semplice nudità non si pone al di fuori
della sfera di protezione accordata dal primo emendamento in quanto detta modalità appare
neutra sotto il profilo della sollecitazione dell’istinto sessuale’’. Cfr., tra le tante, Shad v.
Bourog of Mount Ephraim, 452 U.S. 61, 66 (1981).
(139) A. ADLER, Perverse Law, p. 213 ss. la paragona ad una ‘‘discussione talmudica’’.
(140) La Corte Suprema, valutando positivamente l’opinione del Governo (114, S.Ct.
375 (1993)), ha imposto all’United States Court of Appeals un nuovo esame della questione
alla luce delle argomentazioni sviluppate dal Procuratore generale. La revisione non ha co-
munque modificato in nulla la decisione. Cfr. United States v. Knox, www.l.lfin-
daw.com/3rd/9034.htlm (consultato il 30 aprile 2002), 1 ss. dalla quale sono tratte le ulte-
riori citazioni.
(141) A. ADLER, Perverse law, p. 240 s. Ad onor del vero va detto che alcuni di questi
eccessi hanno trovato la ferma opposizione della giurisprudenza. Il sequestro del film ‘‘The
Tiny Drum’’, ad esempio, è stato invalidato da un giudice federale in State v. Blockbuster Vi-
deos, Inc. (decisione citata in A. ADLER, Inverting, p. 969, nt. 217).
(142) Queste iniziative si sono diffuse a macchia di leopardo in tutta l’area di com-
mon law. Cfr. ADLER, Inverting, p. 944, nt. 105. Si spiega così la ragione che ha indotto gli
studiosi hollywoodiani a rinunciare ad un remake del classico Lolita.
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In termini più generali questo effetto della decisione Knox si uniforma ad una tendenza
che da sempre caratterizza la legislazione penale americana specie in tema di tutela della
moralità e del buon costume o, se si preferisce, del ‘‘vizio’’ tout court. Recentemente de-
scritta come una delle principali cause patogene della malattia che affligge il sistema penale
statunitense (143), essa si salda molto bene con la vocazione ad offrire ampi spazi di mano-
vra alla pubblica accusa idonei a preservarne intatta la capacità di rispondere con sollecitu-
dine a specifici inputs di criminalizzazione (144).
La decisione offre poi l’occasione di focalizzare l’indagine su alcuni importanti tentativi
volti alla formalizzazione di criteri di giudizio in grado di indirizzare o, se si preferisce, re-
stringere, la discrezionalità degli interpreti nell’interpretazione della ‘‘lewd exibition of geni-
tals’’.
4.1. United States v. Dost (Dost’s Test). — Nonostante l’apprezzabile intervento defi-
nitorio realizzato dal Congresso nella Sec. 2256 n. 2 lett. a), b), c), d), il potere legislativo
non ha desistito dall’utilizzare una clausola di chiusura (‘‘lewd exibition’’) affetta da un’in-
trinseca ambiguità che se non ponderata sul piano applicativo rischia di mutare il genotipo
della tutela isolato in Ferber. Non è quindi casuale che di fronte all’indeterminatezza di que-
sto capoverso, parte della giurisprudenza, per il timore che tale deficit potesse invalidare la
costituzionalità della legge, ha tentato di sintetizzare degli anticorpi in grado di arrestare la
costante rarefazione cui è andata incontro nell’impatto con la prassi.
Riprendendo lo schema elaborato in Miller v. California, una lower Court dello Stato
della California, ha stilato una complessa ceck list in base alla quale sarebbe possibile giudi-
care correttamente la rilevanza di rappresentazioni concernenti minori ai fini dell’applica-
zione delle norme in materia di pornografia minorile.
Il test, rapidamente diffusosi in tutti i circuiti federali, si compone di una varietà di ele-
menti; alcuni di natura descrittiva, altri di matrice valutativa; alcuni plasmati sulle peculia-
rità del soggetto passivo, altri, invece, costruiti attorno alla finalità soggettiva che muove
l’autore della condotta.
In Dost, la Corte afferma che per rispondere alla domanda se una rappresentazione
concernente minori costituisca una ‘‘lascivious exibition’’ è necessario verificare:
a) se il centro della rappresentazione riguarda i genitali o l’area del pube;
b) se la rappresentazione è sessualmente suggestiva oppure contenga luoghi o pose ge-
neralmente associate ad attività sessuali;
c) se, tenuto conto dell’età del soggetto, l’immagine riproduca un bambino in pose in-
naturali o in atteggiamenti inappropriati;
d) se il bambino è totalmente o parzialmente vestito, oppure nudo;
e) se la rappresentazione suggerisce una ‘‘sexual coyness’’ o l’intenzione di partecipare
ad un’attività sessuale;
f) se la rappresentazione è intesa o appare finalizzata a suscitare una reazione ses-
suale nel fruitore (145).
Anche in considerazione del fatto che, come sottolineato dalla Corte, quest’elencazione
non può ritenersi esaustiva di tutti i criteri idonei a giudicare la lascivia della rappresenta-
zione, i risultati raggiunti in termini di certezza e di ispessimento della dimensione offensiva
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delle forme di aggressione del bene giuridico sono, a parere di parte della dottrina, del tutto
insoddisfacenti.
Un primo fattore di critica si lega all’opinione di coloro i quali fanno notare che l’insi-
stenza dell’azione legislativa sulla pornografia minorile, specie al di fuori dei casi di macro-
scopica aggressione del bene giuridico del minore, favorirebbe la crescita e la diffusione di
una rappresentazione dell’infanzia come possibile oggetto del desiderio sessuale (146). Si os-
serva infatti che tale distorto effetto di catalizzazione non potrebbe essere eliminato nem-
meno attraverso i buoni risultati della concreta attività di enforcement, poiché l’alta cifra
oscura associata a tali illeciti (147) e l’artificialità dei criteri di giudizio diffusi in giurispru-
denza dopo Knox, minano in radice la funzione ‘‘espressiva’’ della legge penale (148).
La seconda obiezione si incentra, invece, sulla rilevanza disgiunta degli indici di valuta-
zione: ammettendo che un’esibizione o un’immagine possa essere considerata lasciva sol-
tanto in presenza di alcuni degli elementi sopra indicati, si lascia uno spazio troppo ampio
alla libera discrezionalità dell’interprete (149). Si corre, così, il rischio di sottostimare l’im-
portanza dei criteri lato sensu oggettivi — gli unici realmente espressivi di momenti di effet-
tivo danno per l’integrità dei minori — favorendo il consolidarsi di valutazioni incardinate
sulla presenza di incerti e sfumati profili soggettivi che, per loro stessa natura, producono
uno slittamento del modello criminoso verso una palese forma di Täterstrafrecht (150).
Considerate le premesse che fanno da sfondo all’intervento sanzionatorio, la conclu-
sione non dovrebbe stupire. Negli USA, ma il giudizio può essere generalizzato, la regola-
mentazione penale della pornografia minorile è sostenuta da un forte giudizio di disvalore
morale e sociale, aggregato, però, non tanto attorno ad una seppur generica descrizione di
un fatto ritenuto intollerabile perché lesivo, ma ad una pletora di comportamenti tutti acco-
munati da un minimo comune denominatore: la riprovevole finalità sessuale che motiva il
soggetto attivo (151). Se ciò è vero, non è fuor di luogo ritenere che la rappresentazione del
tipo di autore costituisce il ‘‘gradiente’’ ultimo di tutti i percorsi emeneutici ed il principale
fattore di condizionamento dei processi di criminalizzazione in concreto.
Per focalizzare al meglio l’intervenuta mutazione nel paradigma di tutela è sufficiente
tratteggiare il quadro interpretativo emerso con riferimento alla lett. e) del Dost’s test.
(146) A. ADLER, Perverse law, p. 255 ss.; argomento sviluppato, seppur in un diversa
prospettiva, anche da F. MANTOVANI, Criminalità sommergente e cecità politico criminale, in
questa Rivista, 1999, p. 1201 ss. La letteratura statunitense sugli effetti involontari della re-
golazione è vasta. Tra i tanti W.J. STUNTZ, Self-Defeating Crimes, in 86 Va. L. Rev., 2000, p.
1871 ss. e in termini più generali R.H. MC ADAMS, Development and Regulation of Norms,
in 96 Mich. L. Rev.; R.H. PILDES, The Unintended Cultural Consequence of Public Policy: A
Comment on Symposium, ivi, p. 936 ss.; C. SUSTEIN, Congress, Costitutional Moments, and
the Cost-Benefit State, in Stand. L. Rev., 1996, p. 247 ss.
(147) U. EISENBERG, Kriminologie, München, 20005, § 45, Rdn. 59.
(148) D. KAHAN, The Secret Ambition, p. 413 ss.; ID., Social influence, in Va. L. Rev.,
1997, p. 349 ss.; W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 520 ss.
(149) Esemplare, al riguardo, la posizione assunta dalla prassi in State v. Vander Logt,
No. 96-2015-CR, 1998 WL 315960 (Wis. Ct. App. June 17, 1998).
(150) Al riguardo A. ADLER, Inverting, p. 953 ss. In senso contrario United States v.
Matthews, 209 F.3d 338 (4th Circ. 2000) la quale ha stabilito che anche ‘‘well-intended uses
of images of child pornography are unprotected’’. V. anche A. GARAPON-D. SALAS, La Re-
pubblica penale, Macerata, 1997, p. 62.
(151) Cfr. H. JÄEGER, Irrationale, p. 22 s. il quale, con riferimento ai lavori preparatori
della 27 legge di riforma del codice penale tedesco, sfociati nell’introduzione del § 184 Abs.
5, ha osservato che ‘‘l’indignazione — pessima consigliera della politica criminale — ha mo-
nopolizzato l’intera discussione’’ e, così facendo, ha finito per spingere il diritto penale verso
la tutela di comportamenti solo ‘‘moralmente riprovevoli’’. In termini più ampi, significative
precisazioni sul funzionamento del meccanismo della criminalizzazione astratta sono svolte
da C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, p. 851 ss., ma spec. p. 866 ss.
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menti ‘‘esoterici’’ quali l’intenzione di sollecitare l’istinto sessuale del destinatario della rap-
presentazione o lo scopo di invogliare taluno al compimento di atti sessuali (152). Questi
elementi, per poter essere correttamente applicati, necessitano almeno di un’esatta ‘‘misura
di riferimento’’ poiché da essa dipende la soluzione del singolo caso e, quindi, l’estensione
della ‘‘lascivious exibition’’. Misura che, nonostante gli iniziali proclami, United States v.
Dost ben si guarda dal fornire.
Il silenzio serbato sul punto ha consentito alla successiva giurisprudenza di muoversi
nella più assoluta libertà alla ricerca dell’indispensabile criterio di giudizio che in alcuni casi
è stato individuato nella natura stessa dell’immagine, in altri, invece, nelle intenzioni del suo
detentore.
4.2.1. L’oggettivismo di United States v. Villard. — Nel primo caso si è sostenuto che
è all’oggettivo significato dell’immagine che occorre riferirsi per giudicare della rilevanza dei
casi dubbi (153), rimanendo del tutto irrilevanti le reazioni o le sensazioni del soggetto che
ha realizzato quell’immagine o la detiene. Infatti ‘‘non può ritenersi pornografica una foto
innocente soltanto perché il pedofilo ricava dalla stessa una qualche gratificazione sessuale.
Occorre guardare la fotografia piuttosto che alle reazioni del suo fruitore’’ (154), poiché ‘‘le
fantasie private debbono considerarsi estranee all’ambito applicativo della disciplina penale
della pornografia minorile’’ (155).
In questa direzione appare significativa la decisione resa da una Corte del 5o Circuito
che giunge ad escludere che possa qualificarsi come ‘‘lascivious exibition’’ una rappresenta-
zione fotografica che si limiti a riprendere il corpo nudo di una ragazza, anche qualora la
stessa venga riprodotta in una pubblicazione lussuriosa (‘‘raunchy’’). Breve: nemmeno il
contesto in cui è utilizzata è in grado di modificarne il significato oggettivo (156).
4.2.2. Idee criminali. — All’estremo opposto si colloca un folto gruppo di decisioni
per le quali il test andrebbe svolto sulla base di un criterio meramente soggettivo, qual’è
quello connesso alla verifica della finalità del fruitore dell’immagine. Secondo questa impo-
stazione devono considerarsi penalmente rilevanti tutte le immagini che, secondo l’inten-
zione dello spettatore, hanno lo scopo di suscitarne la concupiscenza (157). Con formula el-
littica si afferma che la valutazione dell’effetto prodotto dall’immagine sul fruitore costitui-
(152) Nella dottrina italiana, tra i tanti, G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti: note dom-
matiche e politico criminali (a cura di) G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Diritto penale in trasfor-
mazione, Milano, 1985, p. 196; F. BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in
questa Rivista, 1988, p. 18 ss. e Corte cost., 8 giungo 1981, n. 96, in Giur. cost., 1981, p.
806 ss., con nota di P.G. GRASSO, Controllo sulla rispondenza alla realtà empirica delle pre-
visioni legali di reato.
(153) L’oggettivismo di questo orientamento non dipende da una caratterizzazione in
sé dell’oggetto dell’interpretazione, ma dalla circostanza che l’ineliminabile valutazione sog-
gettiva, che è tipica di ogni attività ermeneutica, viene svolta sulla base di parametri di giudi-
zio standardizzati secondo valutazioni sociali medie. A. ADLER, Inverting, p. 958, nt. 165.
Sul punto la sintesi di F. DENOZZA, La struttura dell’interpretazione, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1995, p. 1 ss. anche per gli ampi riferimenti alla riflessione maturata nell’area di com-
mon law.
(154) United States v. Villard, 885 F. 2d 117 (3d Circ. 1989). Significativa è anche la
sentenza United States v. Amirault, 173 F.3d 28 (1st Circ. 1999): la foto di una bambina
nuda sulla spiaggia non può essere considerata un’esibizione lasciva dei genitali. In questo
caso l’assunto accusatorio era di ritenere detta immagine sessualmente suggestiva in quanto
la spiaggia è un luogo spesso associato alla ‘‘luna di miele’’. V. anche United States v. Lam-
born, 798 N.E. 2d 350 (Ill. 1999).
(155) United States v. Wiegand, 812 F2d 1239, 1245 (9th Circ. 1987).
(156) Faloona v. Hustler Magazione Inc., 607 F. Supp 1341, 1344 & n. 10 (N.D. Tex.
1985) aff’d 799 F.2d 1000 (5th Circ. 1986). Per una critica A. ADLER, Perverse law, p. 263,
nt. 295.
(157) United Sates v. Wiegand, 812 F.2d at 1244.
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sce l’elemento da cui desumerne le intenzioni: se taluno viene trovato in possesso di alcune
immagini di bambine ritratte mentre si stanno facendo una doccia, la sua condotta deve con-
siderarsi penalmente riprovata se si accerta che dette immagini sono state dallo stesso utiliz-
zate per finalità di tipo sessuale (nel caso la videocassetta veniva regolarmente visionata dal-
l’imputato prima di avere rapporti sessuali con la sua usuale partner) (158).
‘‘Poiché il carattere lascivo [di una rappresentazione — n.d.t. -] dovrebbe essere esami-
nato nel contesto di una valutazione compiuta dal pedofilo, questa Corte ritiene di interpre-
tare le immagini che ritraggono giovani ragazze mentre si trovano a scuola... o in una pi-
scina, nello stesso modo in cui vengono considerate dal pedofilo. Tali immagini sono da
questo ricondotte all’idea di bambino e, quindi, associate all’oggetto del suo desiderio. Per-
tanto, si deve concludere che ogni immagine che si soffermi sulle zone erogene di bambini o
bambine ritratti in quei luoghi [indipendentemente dal fatto che i minori siano vestiti —
n.d.t. —] consente al pedofilo di fantasticare sulla possibilità di avere incontri sessuali con
gli stessi (159).
Questo passaggio ben evidenzia che il fulcro dell’intero modello decisionale è il ‘‘perver-
so’’ fruitore dell’immagine in quanto è dalle sue precipue intenzioni che dipende la qualifica-
zione del materiale come pornografico o meno. Secondo questo standard, qualsiasi imma-
gine può divenire pornografica per il semplice fatto che un pedofilo la considera sessual-
mente stimolante (160). Breve: è la mera cogitatio a segnare il profilo di offensività sociale
del fatto (161).
‘‘La nostra interpretazione del termine lascivo si raccorda con la ratio dello statue e con
l’intenzione del Congresso di eliminare i gravissimi danni inferti a bambini e adolescenti
quando gli stessi vengano utilizzati in riprese fotografiche a fini pornografici’’ (162). ‘‘Il
danno che il Congresso ha inteso prevenire’’, così continua la Corte, ‘‘è quello prodotto con
la realizzazione di materiale visivo che abbia ad oggetto l’area genitale del minore e che, da
un punto di vista soggettivo, sia sorretta dall’intento di produrre un’immagine che susciti la
lascivia del pedofilo’’ (163).
Questa marcata subiettivizzazione non sembra riconducibile a quello che, con termino-
logia ‘‘europea’’, può essere definito processo di personalizzazione dell’illecito penale: a ri-
levare è, infatti, il principio di tutela dei beni giuridici inteso in un’accezione positiva dove
domina incontrastato il paradigma del ‘‘nemico’’ (164). Ove a venire in gioco sia una disci-
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plina penale così orientata, eventuali eccezioni al principio ‘‘de interni non curat praetor’’
non appaiono né stravaganti, né discutibili (165).
Le gravi difficoltà applicative connesse all’impiego di questo schema di giudizio (166);
la paradossalità delle conclusioni che induce a formulare (167); le forti riserve da più parti
espresse sotto il profilo della determinatezza e del rispetto della ‘‘neutralità’’ (168) dell’inter-
vento giuridico-penale; l’inammissibile strumentalizzazione a cui si presta in termini proces-
suali (169), dispensano da ulteriori commenti.
5. Le evoluzioni etiche della dannosità sociale. — L’indagine sin qui condotta dimo-
stra il grado di circospezione con il quale il legislatore ha inteso affrontare i molti problemi
che hanno caratterizzato la sua azione in tema di pornografia minorile. Per una molteplicità
di ragioni, l’ortodossia costituzionale professata dal Congresso ante 1996 era però destinata
a subire un netta inversione di tendenza.
Con il dilagare delle tecnologie informatiche diventa a tutti chiaro che una decisa batta-
glia contro il fenomeno della pornografia minorile non può permettersi di trascurare questo
profilo: non soltanto perché Internet rappresenta una tecnica di comunicazione interperso-
nale particolarmente appetibile per tutti coloro che intendono distribuire, pubblicizzare o
semplicemente prendere visione di materiale pedo-pornografico (170), ma anche perché le
peculiarità del mondo virtuale mettono a dura prova la tenuta di apparati normativi architet-
tati in tempi nei quali l’utilizzo di queste tecnologie poteva apparire un attributo del futuro
più remoto (171).
sforderung der gegenwart (hrsg), A. ESER et alii, Die deutsche Strafrechtswissenschaft von
der Jahrtausendwende, München, 2000, p. 51 s.
(165) G. JAKOBS, Kriminalisierung, p. 755 ss. Sulla ‘‘coerenza dell’idea dello scopo’’,
per tutti, L. MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo’’ nella teoria della pena, Napoli,
1984, passim pp. 76 ss., 99 ss. Sui perversi effetti processuali di tale soluzione riflette A. CA-
DOPPI, Art. 1, in Commentario, p. 501. e, più in generale, anche G. FIANDACA, Problematica,
p. 113 ss.
(166) Il profilo della ‘‘scissione tra intento ed effetto’’ è indagato da A. ADLER, What’s
Left?: Hate Speech, Pornography, and the Problem for Artistic Expression, in 84 Cal. L.
Rev., 1996, p. 1499 ss., ma spec. p. 1560 ss.
(167) Si potrebbero infatti includere tra le rappresentazioni pedo-pornografiche anche
tutte quelle immagini che ritraggono luoghi (come scuole, campetti da gioco, giostre ecc.)
normalmente frequentati da bambini — A. ADLER, Perverse law, p. 258 — o punire taluno
per aver detenuto materiale pornografico qualora lo si trovi in possesso di collezioni, più o
meno ampie, di cartoni animati. Va detto, però, che la decisione Knox fa sua la preoccupa-
zione, da più parti espressa durante i lavori preparatori del Child Pornography Prevention
Act del 1996, che la diffusione di immagini che ritraggono bambini in pose ritenute sessual-
mente significative siano utilizzate dal pedofilo per eccitarsi e, peggio ancora, possano rap-
presentare un fattore eziologico per la commissione di fatti di violenza sessuale vera e pro-
pria. Lo slogan è ‘‘pornography is the theory and rape is the practice’’ A. ADLER, Perverse
law, p. 216, nt. 32 anche per gli indispensabili riferimenti; C. SUNSTEIN, Neutrality in Costi-
tutional Law (with special reference to Pornography, Abortion and Surrogcy), in Colum. L.
Rev., 1992, p. 24 s.
(168) C. SUNSTEIN, Neutrality, p. 1 ss., ma spec. p. 18 ss. Nella dottrina italiana si
veda B. MAGRO, Etica e tutela della vita umana: riflessioni sul principio di laicità nel diritto
penale, in questa Rivista, 1994, p. 1397.
(169) Sul punto, con riferimento ad un caso di ‘‘profilassi del reato mediante provoca-
zione’’ (‘‘entrapment’’) Jacobson v. United States, 503 U.S. 540, 551 s. (1992). Sull’istituto,
in generale, C. DE MAGLIE, L’agente provocatore, Milano, 1991, p. 155 ss. e, con riferimento
all’art. 14 l.n. 268\1998, C. PARODI, Il ruolo della polizia giudiziaria nel contrasto alla por-
nografia minorile, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1442, ma spec. p. 1446.
(170) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 440.
(171) Problema sentito anche dal legislatore italiano. Per l’approfondimento cfr. L. PI-
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L’avvento dell’informatica modifica, dunque, l’agenda delle priorità anche nel settore
della pornografia minorile. Nell’opinione del DoJ e di alcune qualificate voci della dottrina
statunitense inizia ben presto a farsi strada l’idea che la nuova frontiera della criminalità
contro i minori è rappresentata dalla creazione di immagini pornografiche virtuali ottenute
dalla combinazione artificiale tra spezzoni di diverse immagini di vita reale se non autogene-
rate con appositi programmi software [‘‘morphing’’] (172): da qui, le ripetute richieste di un
pronto adeguamento della legislazione alla sfida lanciata dalla modernità tecnologica (173).
L’annus mirabilis è il 1996: con l’introduzione di alcuni emendamenti al Chapter 10 del
§ 18 USC [Children Pornogrphy Prevention Act (CPPA)], il Congresso affronta a tutto
tondo il problema della produzione, della diffusione e della visione di materiale pornografico
minorile per via telematica.
Nell’economia di questo studio, l’innovazione più significativa è rappresentata dall’e-
splicita parificazione del morphing alle rappresentazioni pornografiche che abbiano ad og-
getto minori in carne ed ossa.
La marcia di avvicinamento tra legislazione penale e nuove tecnologie parte però da più
lontano e trova le sue scaturigini nel Child Protection and Obscenity Enforcement Act del
1988 che, con previsione innovativa, vietava di utilizzare il computer per trasportare, distri-
buire, o ricevere pornografia minorile (174).
Tuttavia, di fronte al massiccio impiego dell’informatica che è tipico di questa forma di
criminalità, la modifica del 1988 era poco più che una goccia nell’oceano.
Omissio medio: il CPPA si concentra sulla ‘‘fonte’’ della rappresentazione pedo-pono-
grafica parificando alle ipotesi di immagini prodotte mediante lo sfruttamento reale di un
minore degli anni diciotto quelle dove le rappresentazioni visive (film, foto, video ecc.) ‘‘ap-
paiano realizzate’’ con la partecipazione di tali soggetti [§ 2256 (8) (B)], anche se artificial-
mente ‘‘create, modificate o adattate’’ [Sec. 2256 (8) (c)], o che siano ‘‘spacciate’’ dal loro
distributore in modo tale da suscitare l’impressione che esse ‘‘rappresentino il compimento
di condotte sessuali da parte di un minore [§2256 (8) (D)] (175).
L’intervento del 1996 non rappresenta però un mero aggiornamento della precedente
disciplina: le modifiche apportate alle Sec. 2252 (a) e 2256, portando a compimento un per-
corso iniziato in Osborne, ufficializzano la presenza di una prospettiva di tutela che emar-
gina il riferimento alla concreta dannosità fino al punto di caratterizzare la fruizione di mate-
riale pornografico minorile come male in sé, facendo così assumere al legislatore le sem-
bianze di un occhiuto censore della moralità dei cittadini (176).
Il solco che separa la rinnovata dimensione dell’offensività dal quadro originario è così
marcata da aver costretto gli interpreti ad interrogarsi se, nel quadro costituzionale dato, si
possa giustificare la presenza di un’incriminazione che ha trasformato la pornografia mino-
COTTI, Art. 3, in Commentari, p. 586 ss.; A. CADOPPI, Art. 4, ivi, p. 632 ss. anche per i neces-
sari richiami.
(172) Prima dell’approvazione del CPPA le Corti avevano attribuito alla pornografia
‘‘simulata’’ un valore probatorio ai fini della ricostruzione dell’elemento soggettivo del de-
litto di detenzione. Cfr. United States v. Layne, 43 F.3d 127 (5th Circ. 1995) cert. denied 115
S.Ct. 1722 (1995).
(173) Nella dottrina italiana questa esigenza è sottolineata da C.F. GROSSO, Funzione,
p. 32.
(174) Una ricostruzione dei profili essenziali si legge in D.D. BURKE, The Criminaliza-
tion, pp. 440 s., 461 ss. Per un quadro delle soluzioni apportate dal legislatore inglese C.
MANCHESTER, Criminal justice, p. 124 ss. V. anche U. SIEBER, Kinderpornographie, Jugen-
dschutz und Providerverantwortlichkeit im Internet, Bonn, 1999, passim.
(175) Sul reale significato innovativo di queste disposizioni cfr. Ashcroft v. Free
Speech Coalition (Renquist C.J., dissenting), 3 ss.
(176) Discutono questo passaggio D.D. BURKE, The Criminalization, p. 461 ss.; A.
ADLER, Inverting, p. 996 ss. via via con ulteriori riferimenti. Esigenza limpidamente ricono-
sciuta anche nell’atto di ‘‘appello’’ dal Ministero della giustizia avverso la sentenza Free
Speech Coalition v. Reno. Cfr. Ashcroft v. Free Speech Coalition, 1 ss.
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rile in un’ ‘‘idea immaginativa’’ che, per quanto ripugnante, rimane pur sempre un’i-
dea (177). Quale ragione cogente può consentire in questi casi la soppressione della ‘‘free-
dom of speech’’ per mezzo del diritto penale?
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volendo ammettere che la pornografia minorile rappresenti una forma di manifestazione del
pensiero, non sarebbe comunque possibile ascriverla alla sfera di garanzia del First Amen-
dment in quanto sia la distribuzione sia la detenzione di materiale pedo-pornografico presen-
tano profili di interconnessione, se non di immediata finalizzazione, con la commissione di
fatti penalmente illeciti (sub species: abusi sessuali).
(182) Brandeburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969) (per curiam): ‘‘la garanzia costituzio-
nale della libertà di parola non consente allo Stato di vietare l’uso della forza... ad eccezione
dei casi in cui ciò sia diretto ad incitare la prossima realizzazione di azioni illecite’’. Nello
stesso senso Chaplinsky v. New Hampshire, 572.
(183) J.R. POTUTO, Stanley + Ferber = The Costitutional Crime of At - Home Child
Pornography Possession, in 76 Ky. L.J., 1987-1988, p. 25 ss. citata in D.D. BURKE, The Cri-
minalization, p. 461 alla quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti.
(184) S. LYND, Brandeburg v. Ohio: A Speech test for All Season?, in 43 U. Chig. L.
Rev., 1975, p. 151 ss. ove si sottolinea che lo scopo dell’intervento consiste nell’assicurare
allo Stato il potere di controllare comportamenti che alterano la pubblica tranquillità o l’or-
dine pubblico. Osservazione ripresa anche in Herceg v. Hustler Magazine, 814 F.2d 1017,
1023 (5th Circ. 1987).
(185) A. ADLER, Inverting, p. 926 ss. Nella dottrina italiana riflette su questo punto L.
MONACO, Art. 600-quater, in Commentario breve.
(186) A. ADLER, Perverse Law, p. 244. Infatti ‘‘se si ritiene che per giustificare l’inter-
vento governativo è sufficiente evidenziare la presenza di un effettivo condizionamento so-
ciale [causato dalla comunicazione a terzi di proprie opinioni] si porrebbe fine alla nostra li-
bertà di manifestazione del pensiero’’ Am. Boosellers Ass’n v. Hundnut, 771 F.2d 323, 300
(7th Circ. 1985).
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nalmente illegittima la norma contenuta nel § 163 del codice penale canadese, in quanto ti-
rannica, eccessivamente ampia, anche sotto il profilo dell’età dei possibili soggetti passivi, ir-
ragionevole e sproporzionata (187).
Per il nesso di derivazione che li lega alle osservazioni già sviluppate dalla Corte Su-
prema degli Stati Uniti di America, gli argomenti fondanti la decisione non rappresentano
una novità: significativa è invece la ‘‘decisione’’ con la quale la Court of Appeal of British Co-
lumbia ha affrontato e risolto la questione senza lasciarsi condizionare da quella domanda di
pena che, nella materia che qui interessa, ha ampiamente superato i limiti di guardia.
In rapida sintesi: dall’argomento storico (‘‘nessuna legge canadese... ha mai punito pe-
nalmente il mero possesso di qualunque tipo materiale espressivo di idee o pensieri’’) la
Corte trae lo spunto per evidenziare l’alto valore di libertà di questa scelta politico-criminale:
‘‘ci sono’’ infatti ‘‘valide ragioni per ritenere che il divieto [di intromettersi nelle idee, nei
pensieri e nelle espressioni di un uomo contenute nei suoi libri o nelle sue carte] rappresenti
un fondamentale valore costituzionale’’ che non può essere compresso dall’intervento del di-
ritto penale. ‘‘Questo è stato il secolo della Gestapo e del KGB, di organizzazioni statuali
che hanno incoraggiato i figli a denunciare i loro genitori... a bruciare libri in nome di un ar-
cano concetto di un bene comune’’, sovvertendo così il sistema delle garanzie e delle libertà
fondamentali. Se si vuole evitare di ricadere in questi eccessi, si dovrà riconoscere che ‘‘la
nostra etica politica ci impedisce di considerare il mero possesso come un crimine, anche nei
casi in cui si ritenga che il possessore potrà commettere, in futuro, un crimine proprio in ra-
gione della disponibilità di questi oggetti’’. ‘‘In una società democratica di uomini liberi’’
così conclude la Corte ‘‘al legislatore non è consentito di criminalizzare il semplice possesso
di espressive materials’’.
Da questa inequivoca premessa, Justice A. Soutin sviluppa gli specifici motivi di cen-
sura nei confronti del § 163 del codice penale canadese: irragionevolezza (‘‘una previsione
legislativa che criminalizza il possesso privato di oggetti o materiali ma consente che con-
dotte analoghe possono essere tenute liberamente in pubblico è priva di ogni ragionevolez-
za’’); inoffensività (‘‘la criminalizzazione della mera disponibilità di expressive materials ri-
chiede la più assoluta certezza della sua necessità’’ — dimostrazione che nel caso di specie
il legislatore si è ben guardato dal fornire —) (188). Breve: non tutto ciò che appare ragione-
vole nel mondo della logica può essere ritenuto tale dall’ordinamento giuridico-penale. Per
tutti questi motivi, considerata anche l’ampiezza della formulazione del tipo legale, la
norma deve essere dichiarata incostituzionale (189).
La ferma posizione assunta dalla Corte canadese nei confronti degli eccessi punitivi del
legislatore contribuisce a riaffermare l’esatto disvalore delle condotte che si situano a monte
della semplice fruizione. Nessun dubbio che la pornografia minorile rappresenti una pratica
‘‘dannosa’’ per questi ultimi prima ancora che per ‘‘il corpo sociale’’ e che, di conseguenza,
meriti di essere regolamentata anche attraverso l’impiego della sanzione penale. Tuttavia,
una cosa è reclamare l’intervento del diritto penale nei confronti di ipotesi di produzione,
(187) Cfr. Regina v. Sharpe, 1 ss. Merita di essere ricordato che la giurisprudenza ca-
nadese si caratterizza per una maggiore tolleranza nei confronti degli interventi del legisla-
tore penale nel contesto dei cc.dd. hate speeches. M. ROSENFELD, Pragmatism, Pluralism and
Legal Interpretation: Posners’s and Rorty’s justice without metaphysics meets Hate Speech,
in Card. L. Rev., 1996, p. 140 ss.
(188) La necessità che il legislatore fornisca, ogni oltre ragionevole dubbio, la prova
della dannosità dei comportamenti che intende criminalizzare è esclusa dalla United States
Supreme Court in Paris Adult Theatre v. Slaton, 450 ss. V. anche Ginsberg v. New York, 642
s.; Noble State Bank v. Haskell, 219 U.S. 104, 110.
(189) Un commento dei principali passaggi di questa pronuncia in H. STEWART, A Ju-
dicious Response to Overbreath. R. v. Sharpe, in Crim. Law Quarterly, 2000, p. 159 ss. Sul
punto sia consentito rinviare, anche per la traduzione delle motivazioni di questa sentenza, a
G. MARRA, Gli occhiali di J.S. Mill. I limiti costituzionali alla costruzione dello statuto
penale della pornografia minorile in due sentenze di common law (in corso di prepara-
zione).
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GABRIELE MARRA
Assegnista di ricerca
Università di Urbino
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LA NUOVA DISCIPLINA SULL’INDAGINE DIFENSIVA.
L’ESPERIENZA INGLESE.
(1) A mero titolo esemplificativo, oltre alla legge in commento: d.lgs. 28 agosto 2000,
n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace a norma dell’art. 14 della
l. 24 novembre 1999, n, 468); l. 13 febbraio 2001, n. 45 (Modifica della disciplina della pro-
tezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché di-
sposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza); l. 1o marzo 2001, n. 63 (Mo-
difiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valuta-
zione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost.); l. 6
marzo 2001, n. 660 (Disposizioni in materia di difesa d’ufficio); l. 26 marzo 2001, n. 128
(Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini); l. 29 marzo 2001, n.
134 (Modifiche alla l. 30 luglio 1990, n. 217 recante istituzione del patrocinio a spese dello
Stato per i non abbienti).
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fosse consapevoli del fatto che solo l’esperienza, la concreta applicazione e la dinamica effet-
tiva del processo, avrebbe potuto dare la conferma della ‘bontà’ degli istituti in esso discipli-
nati. Così, dal 1991 in poi, anche per adeguare il testo normativo alle decisioni della Corte
costituzionale (2), il legislatore ha provveduto ad emanare una serie di provvedimenti che
hanno più o meno direttamente inciso sull’assetto originario del codice del 1988, ed in parti-
colar modo sulla fase strettamente procedimentale del processo penale (3).
Ma è con la legislazione degli ultimi due anni che si è giunti ad un vero e proprio ‘ribal-
tamento’ degli equilibri tra le singole fasi processuali e dei ruoli dei soggetti che vi prendono
parte e, paradossalmente (4), proprio nel medesimo arco di tempo in cui hanno trovato in-
gresso nel nostro ordinamento, con la modifica dell’art. 111 Cost., i principi sul giusto pro-
cesso (5).
La precisa definizione dei poteri del difensore in ordine alla ricerca della prova nella
fase delle indagini preliminari è, di fatto, divenuta indispensabile dopo l’emanazione della l.
16 dicembre 1999, n. 479, stante la forte caratterizzazione in senso ‘processuale’ da questa
attribuita agli atti di indagine, nonché la enorme rilevanza che il diritto alla prova quale
aspetto del più ampio diritto di difesa veniva, conseguentemente, ad assumere (6).
In virtù delle nuove disposizioni, miranti a rendere effettivo quell’aspetto fondamentale
del processo adversary rappresentato dalla egalité des armes, auspicata dal legislatore dele-
gante del 1987 (7) e trasfusa nel nuovo dettato dell’art. 111 Cost., i poteri dei difensori nella
fase delle indagini preliminari non risultano più compressi entro i limiti di un tanto generico,
quanto angusto jus postulandi nei confronti dell’organo dell’accusa in funzione dello svolgi-
mento di indagini a favore dell’indagato (art. 358 c.p.p.), né tantomeno limitati ad un mero
controllo di legalità delle attività investigative svolte dalla medesima accusa, ma possono
spingersi sino al compimento di autonome attività d’indagine, dando così attuazione a quel-
l’aspetto fondamentale del diritto di difesa rappresentato dal ‘‘diritto di difendersi provan-
(2) C. cost., 31 gennaio 1992, n. 24 (Giur. cost., 1992, 114); C. cost. 3 giugno 1992,
nn. 254 (Giur. it., 1993, I, 1, p. 533) e 255 (Giur. it., 1993, I, 1, p. 1858).
(3) Cfr. il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356 (Modifi-
che urgenti al nuovo c.p.p. e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa); l. 8, ago-
sto 1996, n. 332 (Modififche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei
procedimenti di misure cautelari e di diritto di difesa); l. 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica
delle disposizioni del codice di procedura in tema di valutazione delle prove).
(4) In proposito, la natura spesso caotica degli interventi legislativi in materia di pro-
cesso penale è sottolineata da P. FERRUA. L’Autore, infatti, osserva come il nostro codice si
sia ‘‘ridotto ad un puzzle di norme eterogenee, ispirate a logiche contraddittorie...’’, Garan-
zie formali e garanzie sostanziali nel processo penale, in Questione giustizia, n. 6/2001, p.
1116.
(5) Per una chiara analisi dei principi ispiratori delle recenti novelle (l. n. 479/1999,
l. n. 397/2000, l. n. 63/2001) e del carattere ‘antitetico’ dei loro risvolti pratici, cfr. G.
LOZZI, La realtà del processo penale ovvero il ‘‘modello perduto’’, in Questione giustizia, n.
6/2001, pp. 1098-1113.
(6) In particolare:
— l’art. 415-bis c.p.p. consente all’indagato, previo avviso del pubblico ministero
della conclusione delle indagini, ‘‘di presentare memorie, produrre documenti, depositare
documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il
compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero
chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio’’;
— l’art. 421-bis c.p.p. (Ordinanza per l’integrazione delle indagini) e l’art. 422 (Atti-
vità di integrazione probatoria del giudice) ampliano sensibilmente i poteri di integrazione
probatoria del giudice dell’udienza preliminare,
— l’art. 438 ha subordinato l’instaurazione del giudizio abbreviato (a richiesta del
solo imputato) ad un’integrazione probatoria;
— infine, l’art. 442 comma 1-bis c.p.p. consente al giudice, ai fini della decisione del
giudizio abbreviato, di utilizzare gli atti delle indagini preliminari.
(7) Legge 16 febbraio 1987, n. 81, direttiva n. 3.
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do’’ (8) sancito dalla Convenzione europea (art. 6) e tutelato, nel nostro ordinamento, dagli
artt. 24 e 111 Cost.
Tuttavia, la l. 7 dicembre 2000, n. 397 pur avendo il pregio di colmare un vuoto norma-
tivo durato più di dieci anni dovuto all’assenza di un’analitica disciplina sui poteri investiga-
tivi dei difensori, a fronte di una tutt’altro che lacunosa disciplina delle attività d’indagine
del pubblico ministero, si inserisce proprio in quella accennata tendenza ‘deflattiva’ rispetto
alla fase dibattimentale che ha caratterizzato la legislazione processualpenalistica degli ultimi
anni, concorrendo ad accrescere, non solo quantitativamente, l’importanza degli atti e degli
elementi ‘acquisiti’ nel corso delle indagini, a discapito della fase dominata dall’oralità e dal
contraddittorio delle parti nella formazione della prova e continuando quella generale ten-
denza involutiva di ‘‘anamorfosi del processo accusatorio’’ (9). Ne discende pertanto un pro-
blema di compatibilità della nuova normativa sulle indagini difensive con i principi costitu-
zionali sul ‘giusto processo’: da un lato, l’art. 111 Cost., come modificato dalla l. n.
63/2001, costituzionalizzando il principio del contraddittorio nel momento di formazione
della prova, ha espressamente attribuito al dibattimento il carattere di luogo privilegiato per
l’assunzione della prova; dall’altro, la circostanza che le dichiarazioni contenute nel fascicolo
del difensore siano utilizzate dalle parti ai fini di cui agli artt. 500, 512 e 513 (art. 391 de-
cies, comma 1 c.p.p.) ha ulteriormente ampliato la possibilità che elementi raccolti nella fase
delle indagini trovino ingresso nel dibattimento attraverso il sistema delle letture (10).
Il testo delle nuove disposizioni sulle indagini difensive, entrato in vigore il 3 gennaio
2001, è il risultato di un iter parlamentare che si è protratto per più di tre anni. Esso trova le
premesse in due distinte iniziative: una parlamentare (la proposta di l. 14 maggio 1996, n.
850) ed una governativa (il disegno di l. 27 novembre 1996, n. 2774) le quali, a loro volta,
derivano da una proposta elaborata dalle Camere penali ed esposta in un convegno tenutosi
nel 1993 a Siracusa, all’indomani, cioè, di quelle sentenze della Corte costituzionale e di
quei decreti governativi che ampliarono enormemente i poteri dei pubblici ministeri in or-
dine all’acquisizione della prova nel corso della fase delle indagini preliminari e che resero
drasticamente evidente l’impossibilità di raggiungere la tanto auspicata parità tra accusa e
difesa, ‘‘formula tanto vigorosa retoricamente quanto equivoca concettualmente’’, se non la
si intende come ‘‘idoneità dei poteri difensivi a controbilanciare quelli dell’accusa’’ (11).
In attesa di una definitiva sistemazione legislativa all’annosa questione dei poteri di ri-
cerca della prova del difensore nella fase d’indagine, il Consiglio nazionale forense aveva pe-
raltro provveduto, nel 1997, a predisporre una regolamentazione deontologica del ‘diritto di
difendersi provando’ con lo scopo di guidare il difensore nell’attività di ricerca della prova, e
che ha, in sostanza, supplito alla carenza di una dettagliata ed esaustiva disciplina codici-
stica (12).
(8) G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p.
12.
(9) P. FERRUA, Studi sul processo penale, III, Giappichelli, Torino, 1997.
(10) Come si vedrà più avanti, l’ingresso in dibattimento di prove assunte durante la
fase delle indagini è stato ulteriormente ampliato dalla l. n. 397/2000 attraverso il riconosci-
mento in capo al difensore della facoltà di richiedere l’incidente probatorio anche al di fuori
delle ipotesi previste dall’art. 392 comma 1 c.p.p.
Per un ampio ed approfondito panorama delle problematiche afferenti ai rapporti tra
giusto processo e indagini difensive, cfr. P. FERRUA, Garanzie formali e garanzie sostanziali,
op. cit.; G. GIOSTRA, Analisi e prospettive di un modello probatorio incompiuto, in Que-
stione giustizia, 6/2001, pp. 1129-1144; M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive:
verso una nuova procedura penale?, in Diritto penale e processo, 1/2001; G. LOZZI, op. cit.
(11) P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit. p. 104.
(12) ‘‘La normativa deontologica ha supplito fino ad oggi alla carenza delle norme
processuali e anzi ha concorso concretamente a precisarne i contenuti, poiché si deve pro-
prio all’elaborazione deontologica la dettagliata articolazione delle indagini difensive’’. Così
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R. DANOVI, Dopo la rivoluzione delle indagini difensive solo piccoli ritocchi ai codici deon-
tologici, in Guida al diritto, 2/2001, p. 10.
(13) Il testo della norma era il seguente: 1. ‘‘Al fine di esercitare il diritto alla prova
prevista dall’art. 190 c.p.p., i difensori, anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici,
hanno facoltà di: a) svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a
favore del proprio assistito; b) conferire con le persone che possano dare informazioni e
farsi rilasciare da esse dichiarazioni scritte.
2. Le persone indicate nel comma 1, lett. b), sono avvertite della facoltà di rifiutare il
colloquio.
3. Se l’interpellato lo richiede, al colloquio è presente una persona di sua fiducia, che
sottoscrive l’eventuale dichiarazione scritta.
4. La facoltà prevista dal comma 1 lett. b), non può più essere esercitata dopo che la
persona è stata ammessa come testimone nell’incidente probatorio, nell’udienza preliminare,
o nel dibattimento.
5. L’attività prevista dal comma 1 lett. a) può essere svolta su incarico del difensore,
da investigatori privati autorizzati’’.
(14) Il C.S.M. suggerì che la convocazione sarebbe dovuta avvenire per iscritto, con
l’avviso che non vi era l’obbligo giuridico di comparire e con l’indicazione della persona per
conto della quale veniva richiesta e dell’oggetto della stessa.
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l’aggiunta di un secondo comma, fu introdotta una esplicita menzione per gli investigatori
privati. Tuttavia, la portata della norma, rispetto all’analoga previsione del progetto prelimi-
nare, risultava assai ristretta poiché si limitava, in sostanza, a sancire in capo ai difensori la
titolarità delle indagini con la possibilità di conferire con le persone informate sui fatti.
Fonte di equivoci fu poi anche l’inciso iniziale dell’art. 38: ‘‘Al fine di esercitare il di-
ritto alla prova prevista dall’art. 190 del codice (...)’’, che secondo alcuni legittimava un’in-
terpretazione restrittiva dei poteri della difesa nel senso che il rapporto paritario accusa-di-
fesa dovesse circoscriversi alla fase del giudizio. In realtà ratio della disposizione era quella
secondo cui l’indagine difensiva fosse finalizzata al giudizio, sede naturale della formazione
della prova, come peraltro la stessa relazione al codice di procedura penale enuncia (‘‘Le di-
sposizioni... del libro III’’ — e, quindi, anche quella dell’art. 190, richiamata espressamente
dall’art. 38 — ‘‘si osservano nella fase interiore al dibattimento’’).
Il silenzio dell’originario art. 38 circa le modalità dell’impiego processuale di quanto ac-
quisito dal difensore, condusse la giurisprudenza di merito (15), tra il 1990 ed il 1991 e poi,
dal 1992, anche la giurisprudenza di legittimità, ad escludere un possibile utilizzo della do-
cumentazione raccolta dal difensore nel corso del procedimento, se non a fini esclusiva-
mente interni alla difesa. In altri termini, gli atti di indagine difensiva potevano servire ‘‘a
sollecitare il rappresentante dell’accusa all’acquisizione di elementi di prova oppure per ri-
chiedere l’intervento del g.i.p. per l’espletamento dell’incidente probatorio, ma non potevano
essere portati alla diretta cognizione del giudice, come è confermato dall’art. 348 e dall’art.
358’’ (16), che prevede l’obbligo del pubblico ministero di svolgere altresì accertamenti su
fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini ‘‘e che dunque comporta
che gli elementi di prova da utilizzare nella fase delle indagini preliminari, anche ai fini cau-
telari, debbano essere assunti dal pubblico ministero’’ (17), dal momento che quest’ultimo,
durante le indagini preliminari, ‘‘non è parte, bensì l’unico organo preposto, nell’interesse
generale, alla raccolta ed al vaglio dei dati positivi e negativi afferenti fatti di possibile rile-
vanza penale’’. Ne deriva che tutti i dati utili devono essere canalizzati sul pubblico mini-
stero nella fase anteriore all’esercizio dell’azione penale (18). Le ragioni giuridiche alla base
delle argomentazioni della Suprema Corte riguardano il carattere sostanzialmente ‘‘infor-
male ed extra-procedimentale’’ delle ricerche effettuate dalla difesa; la prova, viceversa, ‘‘per
risultare idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti non può prescindere da forme volte a
garantire genuinità ed affidabilità sicura’’ (19).
Stante la sua estrema genericità, l’art. 38 disp. att. finì con il porre problemi più ampi di
quelli ai quali aveva cercato di fornire una risposta, in quanto ben poco apportava alla già
scarna disciplina delle attività difensive, non prevedendo nulla, come già accennato, in or-
dine alle modalità di svolgimento delle attività investigative, né tantomeno in ordine alla pos-
sibilità di documentazione degli atti compiuti.
È quindi intervenuta la l. n. 332/1995, il cui art. 22 ha inserito all’art. 38 due ulteriori
commi, riguardanti in primo luogo il diritto del difensore dell’indagato di presentare diretta-
mente al giudice, senza cioè un potere di filtro del pubblico ministero (come affermava, in-
vece, la Corte di cassazione), la documentazione delle investigazioni svolte (comma 2 bis); in
secondo luogo il potere/dovere di inserire tale documentazione nel fascicolo degli atti di in-
dagine (comma 2-ter).
(15) Cfr. Ass. Milano, 31 ottobre 1991, Bruzzini, in Crit. dir., 1993, n. 1-2, 49;
G.i.p. Trib. Bologna, 8 maggio 1990, Cerri, in Cass. pen., 1990, II, 352; Trib. Lecce, 29 set-
tembre 1993, Santolla, in Cass. pen., 1994, p. 452.
(16) Cass. Sez. I, 31 gennaio 1994, Vincenti, in Giust. pen., 1994, III, p. 223.
(17) Cass. Sez. I, 16 marzo 1994, Cagnazzo, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 364.
(18) Cass. Sez. fer. 18 agosto 1992, Burrafato, in questa Rivista, 1993, p. 1169.
(19) Cass. Sez. VI, 1o marzo 1993, Minzolini, in Cass. pen., 1995, 974, con nota di
G. JESU.; in senso conforme, Cass. Sez. II, 16 marzo 1995, Marras, in Arch. n. proc. pen.,
1996, p. 150.
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Tuttavia, l’introduzione dei commi 2-bis e 2-ter non è stata sufficiente ad evitare una di-
sciplina scarna e lacunosa dell’indagine difensiva, in particolare sui modi ed i limiti di im-
piego della documentazione presentata dal difensore, precisazione tanto più necessaria
quanto più si tenga conto del fatto che ‘‘il legislatore, legittimando l’inserimento della docu-
mentazione a discarico nel fascicolo degli atti di indagine, ha posto le premesse affinché un
utilizzo processuale realmente vi fosse’’ (20).
(20) Così G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 4a ed., Giappichelli, Torino 2001.
(21) L’introduzione della nuova disciplina sull’investigazione difensiva ha, peraltro,
coerentemente eliminato l’incongruenza derivante dal fatto che l’art. 2 della l. 30 luglio
1991, n. 217, istitutiva del gratuito patrocinio dei non abbienti, avesse escluso dal proprio
àmbito di operatività ‘‘i soggetti che svolgono investigazioni per individuare elementi di
prova di cui all’art. 38 disposizioni di attuazione c.p.p.’’: la l. 29 marzo 2001, n. 134 (art.
11) ha infatti modificato l’art. 4 e l’art. 12 della l. n. 217/1990, includendo gli investigatori
privati autorizzati tra i soggetti il cui compenso rientra nella disciplina del patrocinio a spese
dello Stato.
(22) In virtù delle nuove disposizioni, infatti, le ipotesi di incompatibilità con l’uffi-
cio di testimone sono state estese al ‘‘difensore che abbia svolto attività di investigazione di-
fensiva e (a) coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle infor-
mazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter’’ (art. 3 l. n. 397/2000). Ne discende che non po-
tranno deporre solamente quei difensori che abbiano svolto attività investigativa e quanti ab-
biano formato la relativa documentazione (consulenti tecnici ed investigatori privati autoriz-
zati i quali non hanno proceduto alla documentazione delle dichiarazioni o delle informa-
zioni ottenute dalle persone in grado di fornire notizie utili, pur potendovi assistere).
Per un approfondita analisi dei profili soggettivi della legge in commento, cfr. G. SPAN-
GHER, I profili soggettivi, in AA.VV., Le indagini difensive, Ipsoa, Milano 2001.
(23) G. SANTALUCIA, Persona offesa e attività di investigazione, in Giust. pen., 2001,
III, p. 449 ss.; A.A. ARRU, L’attività investigativa difensiva preventiva, in AA.VV., Processo
penale: il nuovo ruolo del difensore, a cura di L. Filippi, Padova, 2001, p. 319 ss.. Prima
della l. n. 397/2000, G. BISCARDI, Investigazioni difensive tra attualità e prospettive future,
in Diritto penale e processo, 1998, p. 1435.
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indicare elementi di prova ai sensi dell’art. 90 c.p.p. non può ridursi ad un flatus vocis e, per
altro verso, che tanto la formula adottata dall’art. 38 comma 1 disp. att. c.p.p., quanto
quella analoga dell’art. 327-bis c.p.p. appaiono riferite non già all’esercizio immediato, bensì
alle finalità di attuazione del medesimo diritto, tale da non potersi trarre in dubbio che la
persona offesa sia ben in grado di perseguire quegli scopi vuoi in fase preliminare, vuoi dopo
aver acquisito la qualità di parte civile’’ (24).
Non vi è dunque motivo, a nostro avviso, di dubitare della possibilità per il difensore
della persona offesa di espletare direttamente proprie attività d’indagine. A sostegno della
tesi estensiva vi sono, infatti, oltre all’ampia formulazione adottata dal legislatore, ‘consi-
stenti’ riscontri normativi che presuppongono in capo alla futura parte civile non la sola fun-
zione di stimolo o di controllo dell’attività del pubblico ministero, ma veri e propri poteri
autonomi d’indagine e di accesso ai risultati investigativi dell’organo pubblico di accusa (25).
3.2. I tempi. — L’incipit dell’abrogato art. 38 disp. att. (‘‘Al fine di esercitare il diritto
alla prova previsto dall’art. 190 del codice...’’) induceva a pensare, come accennato, che il
diritto di difendersi provando potesse essere validamente esercitato solo a processo instau-
rato. La l. n. 397/2000 (art. 7) ha eliminato questo dubbio introducendo l’art. 327-bis, il
quale stabilisce che le indagini possono svolgersi ‘‘sin dal momento dell’incarico professio-
nale... in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il
giudizio di revisione’’, ampliando notevolmente lo spazio temporale disponibile alla difesa
per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito.
Una delle novità più significative concerne la possibilità per il difensore che abbia rice-
vuto apposito mandato, rilasciato con sottoscrizione autenticata (ai sensi dell’art. 39 disp.
att.c.p.p.) e contenente la nomina e l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce, di svolgere atti-
vità investigativa preventiva, ‘‘per l’eventualità che si instauri un procedimento penale’’ (art.
391-nonies c.p.p.). Trattasi di un utile strumento per valutare le strategie difensive più ido-
nee da attuare nel caso concreto (26).
In virtù del richiamo all’art. 327-bis, comma 3, il diritto di svolgere indagini preventive
deve intendersi esteso anche al difensore della persona offesa, nonché ai sostituti, ai consu-
lenti tecnici ed agli investigatori privati. Nessuna sanzione di carattere processuale è prevista
nell’ipotesi in cui il difensore ometta l’indicazione dei fatti nel mandato. Il legislatore ha, tut-
tavia, previsto un limite di carattere oggettivo concernente gli atti che richiedono l’autorizza-
zione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, e dunque le ipotesi previste dall’art. 391-bis,
comma 7 (colloquio, ricezione di dichiarazioni e assunzione di informazioni da persona dete-
nuta) e dall’art. 391-septies, comma 1 (accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico qua-
lora non vi sia il consenso di chi ne ha la disponibilità).
(24) G. RUGGIERO, Le investigazioni difensive della persona offesa dal reato, in Di-
ritto penale e processo, n. 8/2002, p. 931.
(25) L’art. 335 c.p.p. consente alla persona offesa ed al suo difensore di ottenere la
comunicazione delle iscrizioni nel registro delle notitiae criminis; l’art. 410 c.p.p. consente
alla persona offesa di opporsi alla richiesta di archiviazione e le impone, a pena di inammis-
sibilità dello stesso atto di opposizione, di indicare elementi di prova; l’art. 414 c.p.p. con-
sente alla persona offesa di sollecitare la riapertura delle indagini; il nuovo art. 391-bis
comma 10 c.p.p. attribuisce alla persona offesa il potere di richiedere l’incidente probatorio.
(26) Nel nuovo istituto vede un pericolo non solo per la genuinità delle fonti investi-
gative, ma per la stessa instaurabilità del procedimento, M. MADDALENA, Per la difesa libera
di investigare facoltà e diritti, nessun dovere, in Diritto e giustizia, 40/2000, p. 8 ss. L’Au-
tore sottolinea, infatti, come possa rivelarsi altamente probabile la circostanza che il difen-
sore di un potenziale indagato, contattando eventuali ‘fonti’ di una notitia criminis sfavore-
voli al proprio assistito prima ancora che quella giunga all’autorità giudiziaria o alla polizia
giudiziaria, possa favorire ‘‘opere di pressione, intimidazione, corruzione, lusinga... dirette a
scoraggiare la comunicazione della notitia a chi di competenza. Anche perché da nessuna
parte è scritto ... che il difensore ha la facoltà o il diritto, e men che meno il dovere, di tacere
al suo committente l’esito della commissione’’.
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Coerente con la scelta di una disciplina delle investigazioni difensive non poteva non es-
sere la previsione, accanto ad un’indagine preventiva, di un’indagine integrativa, successiva
cioè all’emissione del decreto che dispone il giudizio, ad ulteriore conferma dell’intenzione
del legislatore di ricondurre ad un sostanziale equilibrio i rapporti tra i poteri del pubblico
ministero e del difensore. L’art. 430 comma 2, c.p.p., però, impone l’immediato deposito
della relativa documentazione nella segreteria del pubblico ministero, quasi ad imporre una
discovery coatta, compromettendo in tal modo importanti esigenze legate alle strategie difen-
sive. Menomazione in parte compensata dall’assenza di un’esplicita sanzione in caso di inos-
servanza dell’obbligo di deposito.
4.2. L’accesso ai luoghi pubblici o privati. — Gli artt. 391-sexies e 391-septies riguar-
dano, il primo, la possibilità per il difensore di effettuare un accesso al fine di prendere vi-
sione dello stato dei luoghi e delle cose ovvero per procedere alla loro descrizione o per ese-
guire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi; il secondo disciplina l’ac-
cesso a luoghi privati o non aperti al pubblico. In tal caso sussiste, tuttavia, un limite: è ne-
cessario il consenso di chi ne ha la disponibilità, in mancanza del quale il difensore può chie-
dere al giudice l’autorizzazione (con decreto motivato) all’accesso. Inoltre, la persona pre-
sente deve essere avvertita della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché questa
sia prontamente reperibile e idonea a norma dell’art. 120 c.p.p. Non è inoltre consentito l’ac-
cesso ai luoghi d’abitazione ed alle loro pertinenze, salvo che sia necessario accertare le
tracce e gli altri effetti materiali del reato.
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4.4. L’assunzione della prova dichiarativa. — Il ‘cuore’ della nuova legge sulle inda-
gini difensive concerne senza dubbio l’assunzione della prova dichiarativa. Essa si articola in
tre momenti: a) il colloquio con la persona informata dei fatti; b) la richiesta di dichiara-
zioni scritte; c) l’assunzione di informazioni.
a) Il colloquio informale. Il difensore, il sostituto, gli investigatori autorizzati o il con-
sulente tecnico possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini
delle indagini, salve le incompatibilità con l’ufficio di testimone previste dalle lettere c) e d)
dell’art. 197 c.p.p. Al difensore è pertanto vietato acquisire notizie non documentate, di rice-
vere dichiarazioni e di assumere informazioni dal responsabile civile e dalla persona civil-
mente obbligata per la pena pecuniaria (lett. c)); da coloro che, nel medesimo procedimento
svolgono o abbiano svolto la funzione del giudice, di pubblico ministero, di loro ausiliario;
dal difensore che abbia svolto attività d’investigazione difensiva; da coloro che abbiano for-
mato la documentazione delle dichiarazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p. (lett. d)).
La disposizione in esame ha peraltro risolto un dubbio interpretativo relativo alla possi-
bilità per il difensore di deporre su quanto appreso nella sua attività, e dunque quale teste de
relato. Mentre la Corte costituzionale si manifestava a favore di un’interpretazione estensiva
dell’art. 38 disp. att. c.p.p. (30), l’art. 56 del codice deontologico forense con maggior rigore
stabilisce che ‘‘per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su
circostanze apprese nell’esercizio della propria attività (...). Qualora l’avvocato intenda pre-
sentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo’’.
Il comma 9 dell’art. 391-bis impone al difensore o al sostituto di interrompere l’assun-
zione di informazioni da parte della persona non imputata, ovvero della persona non sotto-
posta ad indagini, qualora essa renda dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo
carico. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha
rese (in analogia a quanto previsto a carico del testimone dall’art. 198 comma 2 c.p.p). La
norma riproduce, sostanzialmente, l’art. 63 c.p.p.
L’attività in oggetto è funzionale rispetto alla successiva eventuale richiesta di dichiara-
zioni scritte o di informazioni documentate, svolge dunque una funzione di orientamento del
difensore in ordine alle strategie difensive da adottare.
b) Dichiarazioni scritte e c) informazioni documentate. Il comma 2 dell’art. 391-bis
prevede il potere del difensore e del sostituto di chiedere alle persone sentite, al termine del
colloquio, il rilascio di una dichiarazione scritta ovvero di rendere informazioni documen-
tate (31).
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scopo del colloquio, anche se non è imposto l’obbligo di rivelare il nome del proprio assi-
stito, né di esibire la nomina; se intendono semplicemente conferire ovvero ricevere dichiara-
zioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le modalità e la forma di documenta-
zione; dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso proce-
dimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato; della facoltà di non rispon-
dere o di non rendere la dichiarazione; del divieto di rivelare domande eventualmente for-
mulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date, divieto che si ri-
collega ad analogo divieto posto a carico del difensore dal comma 4 del medesimo art. 391-
bis c.p.p. (specularmente, l’art. 9 della l. 397/2000, modificando l’art. 362 c.p.p., fa divieto
al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria di assumere informazioni da persone già sen-
tite dal difensore o dal suo sostituto).
(32) La l. n. 397/2000 ha altresì introdotto importanti modifiche al diritto penale so-
stanziale, ed in particolare al titolo del codice penale dedicato ai delitti contro l’amministra-
zione della giustizia. È stato integrato l’art. 371-bis (False informazioni al pubblico mini-
stero), con l’aggiunta del comma 2-bis; è stato introdotto l’art. 371-ter (False informazioni al
difensore), (per i cui eventuali profili di illegittimità costituzionale, V. PATALANO, Nasce il
reato di false dichiarazioni al difensore, in Guida al diritto, 1/2001, pp. 51-54.), nonché
l’art. 379-bis (Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento). Le innovazioni ‘sostanziali’
apportate dalla disciplina sulle investigazioni difensive sono secondo l’Autore citato, sin-
tomo di uno stato ‘patologico’ del codice penale del 1930, ‘‘fortemente datato, costretto a
convivere con un codice di rito sempre più accusatorio’’ (V. PATALANO, op. cit., p. 51).
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coltà di non rispondere, o di non rendere la dichiarazione. In tal caso il difensore può chie-
dere al pubblico ministero di disporne l’audizione, cui dovrà procedersi entro sette giorni
dalla richiesta medesima. La norma non si applica, a differenza di quella contenuta nel suc-
cessivo comma 11, nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate nello stesso
procedimento, in procedimento connesso, o per reati collegati. L’eventuale violazione del-
l’obbligo da parte del pubblico ministero di disporre l’audizione, non è sanzionata se non nei
limiti dell’art. 124 c.p.p., né è prevista l’impugnabilità del diniego.
In alternativa all’audizione, il difensore potrà chiedere che si proceda con incidente pro-
batorio all’assunzione della testimonianza, o all’esame della persona che abbia esercitato la
facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione, anche al di fuori delle ipotesi
previste dall’art. 392 comma 1 c.p.p.: non è pertanto necessario che sussista fondato motivo
di ritenere che il teste non possa essere esaminato in dibattimento, per infermità o altro
grave impedimento o che sia esposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di
altra utilità affinché non deponga o deponga il falso, né è necessario che l’esame del coinda-
gato verta su fatti concernenti la responsabilità di altri.
Si è osservato, in proposito, come il consentire al difensore di chiedere l’incidente pro-
batorio senza limiti per l’assunzione di testimonianze, ‘‘oltre a creare giustificate preoccupa-
zioni per l’economia processuale, induc(a) a ravvisare un vizio di legittimità costituzionale in
relazione all’art. 3 Cost. e, quindi, al principio di eguaglianza inteso come principio di ragio-
nevolezza, dal momento che situazioni omogenee comportano regolamentazioni legislative
omogenee e non vi è alcuna ragione per consentire al difensore la richiesta di incidenti pro-
batori in casi in cui è vietata al p.m.’’ (33).
Non sono previste norme che attribuiscano al pubblico ministero il potere di dichiarare
l’inammissibilità della richiesta o di rigettarla. Si noti, inoltre, che la legge non indica al di-
fensore un termine entro il quale richiedere al pubblico ministero l’audizione della persona
che si sia avvalsa della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione. Non vi è,
tuttavia, bisogno della richiesta al pubblico ministero nelle ipotesi di persone sottoposte ad
indagini o imputate nello stesso procedimento e nei confronti delle persone sottoposte ad in-
dagini o imputate in un diverso procedimento nelle ipotesi previste dall’art. 210.
Il riferimento all’esame previsto dal comma 11 riguarda le persone sottoposte alle inda-
gini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato col-
legato. Per contro, al pubblico ministero non può essere chiesta l’audizione di dette persone,
ai sensi del comma 10.
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mentazione degli atti art. 134 (modalità di documentazione), 135 (redazione del verbale),
136 (contenuto del verbale), 137 (sottoscrizione del verbale), 138 (trascrizione del verbale
redatto con il mezzo della stenotipia), 139 (riproduzione fonografica o audiovisiva), 142
(nullità dei verbali).
(35) G. IADEGOLA, Le nuove indagini investigative da parte del difensore, in Giur.
mer., 2001, p. 560; M. MADDALENA, Per la difesa libera di investigare facoltà e diritti, nes-
sun dovere, op. cit., p. 8; MAGI, Commento sistematico alla l. 7 dicembre 2000, n. 397, Na-
poli, 2001, p. 69 s. Contra, A. BARAZZETTA, Le nuove indagini difensive dal punto di vista
del giudice, in AA.VV, Le indagini difensive. Legge 7 dicembre 2000, n. 397, Milano, 2001,
p. 94: G. FRIGO, L’indagine difensiva da fonti dichiarative, in AA.VV. Processo penale: il
nuovo ruolo del difensore, a cura di L. Filippi, Padova, 2001, p. 19 ss.; P. VENTRA, Falsa do-
cumentazione di indagini difensive, in Diritto penale e processo, n. 7/2002, pp. 895-902.
(36) P. VENTURA, Falsa documentazione di indagini difensive, op. cit., p. 898. L’Au-
tore, tra l’altro, richiama le parole di O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale, Milano,
1985, 152, secondo cui ‘‘il diritto di difesa costituisce la proiezione nel processo di quegli at-
tributi di libera autodeterminazione, autonomia e autoresponsabilità che assistono l’indivi-
duo in ogni settore della vita sociale’’.
(37) A mero titolo esemplificativo: artt. 246 comma 1 (Ispezione di luoghi o di cose)
e 250 comma 3 c.p.p. (Perquisizioni locali) c.p.p. ed art. 391-septies c.p.p. (Accesso ai luo-
ghi privati o non aperti al pubblico); art. 248 c.p.p. (Richiesta di consegna) ed art. 391-qua-
ter c.p.p. (Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione), art. 373 c.p.p. (Do-
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tono al difensore di esercitare i suoi poteri di indagine difensiva in maniera subordinata alla
volontà del pubblico ministero (38).
cumentazione degli atti), ed artt. 391-bis comma 1 c.p.p. (Colloquio, ricezione di dichiara-
zioni e assunzione di informazioni da parte del difensore) e 391-septies c.p.p. (Accesso ai
luoghi privati o non aperti al pubblico).
(38) Art. 233 comma 1-bis c.p.p. (Consulenza tecnica fuori dei casi di perizia), art.
366 comma 2 c.p.p. (Deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori), art. 391-
quinquies comma 1 c.p.p. (Potere di segretazione del pubblico ministero).
(39) Il disegno di legge del governo (art. 38-septies) aveva introdotto un ‘‘meccani-
smo di verifica dei risultati investigativi della difesa’’ che attribuiva al giudice il potere di di-
sporre l’audizione delle persone le cui dichiarazioni erano state assunte dalle parti private, al
fine di consentire al giudice di verificare la genuinità e l’attendibilità del materiale prodotto
dal difensore. Recepito dalla Camera dei deputati, tale meccanismo, esperibile anche d’uffi-
cio, è stato eliminato dalla Commissione giustizia. Gli elementi di prova addotti dalla difesa,
‘‘concorrono con quelli del pubblico ministero, certamente non soggetti a nessun controllo,
alle decisioni da assumere nel corso delle indagini preliminari’’ (Relazione della seconda
Commissione giustizia dell’on. Follieri sul D.D.L. n. 3979-A).
(40) G. PIZIALI, Profili temporali dell’attività investigativa e regime di utilizzabilità,
in AA.VV. Le indagini difensive, Ipsoa, 2001, 227.
(41) Si noti, peraltro, che per il procedimento per decreto l’art. 459 c.p.p. prevede
unicamente la trasmissione da parte del pubblico ministero del proprio fascicolo, e per l’ab-
breviato l’art. 442 comma 1-bis c.p.p. prevede che ai fini della decisione il giudice utilizzi gli
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serito in quello del pubblico ministero; pertanto è solo in virtù di questa ‘riunione’ degli atti
d’indagine difensiva a quelli del pubblico ministero che i primi divengono utilizzabili dal giu-
dice.
B) Per quanto riguarda l’ingresso in dibattimento degli atti compiuti dal difensore a fa-
vore del proprio assistito, va segnalata in primo luogo la modifica apportata dall’art. 15 della
l. n. 397/2000 all’art. 431 c.p.p. in virtù della quale, oggi, anche i verbali degli atti irripeti-
bili compiuti dal difensore possono trasmigrare nel fascicolo per il dibattimento ed acquisire
così valore istruttorio attraverso il sistema delle letture ex art. 5 11 c.p.p.
Gli atti d’indagine difensiva possono poi confluire nel fascicolo per il dibattimento an-
che in virtù del ‘patteggiamento’ introdotto dalla l. n. 479/1999 negli artt. 431 comma 2 e
493 comma 3 c.p.p.
Indubbiamente, però, il punctum dolens della disciplina sulle indagini difensive è sem-
pre stato il problema dell’utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dal difensore ai fini degli
artt. 500, 512 e 513. La l. n. 397/2000 ha espressamente stabilito che le dichiarazioni inse-
rite nel fascicolo del pubblico ministero sono utilizzabili a fini contestativi (42).
Il rinvio all’art. 500 (come modificato dall’art. 16 della legge 1o marzo 2001, n. 63) sta
a significare che le parti possono utilizzare anche le dichiarazioni assunte dalla difesa al fine
di valutare la credibilità del teste; ma qualora vi siano elementi concreti per ritenere che il te-
stimone è stato sottoposto a violenza o minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra uti-
lità, affinché non deponga o deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del
pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibat-
timento, previa valutazione del giudice su richiesta della parte che può fornire gli elementi
concreti che facciano ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta
o promessa di denaro o di altra utilità. Infine, il comma 7 del nuovo art. 500 prevede che, in
assenza delle suddette condizioni perturbatrici, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del
pubblico ministero siano acquisite al fascicolo del dibattimento su accordo delle parti.
Per quanto riguarda il regime di utilizzabilità degli atti ad irripetibilità sopravvenuta, il
legislatore, modificando l’art. 512 (art. 18, l. n. 397/2000) ha esteso la possibilità di dare
lettura anche agli atti formati dal difensore durante le indagini. Va, tuttavia, rilevato che la
nuova disciplina sul punto non è priva di incongruenze: da un lato, l’art. 391-decies stabili-
sce l’applicabilità dell’art. 512 alle sole dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore, dal-
l’altro, l’art. 512 consente la lettura di ogni atto la cui irripetibilità sia sopravvenuta; da un
lato, l’art. 512 elenca i soggetti che debbono aver formato l’atto affinché ne sia consentita la
lettura, non menzionando gli ausiliari del difensore, dall’altro, l’art. 391-decies fa riferi-
mento, più genericamente, all’utilizzabilità delle dichiarazioni contenute nel fascicolo della
difesa.
Infine, l’art. 513 c.p.p., come modificato dalla l. 1o marzo 2001, n. 63, trova oggi appli-
cazione nei confronti dei soggetti di cui all’art. 210 comma 1 c.p.p. (coimputati del mede-
simo reato e imputati di reato connesso a norma dell’art. 12 lett. a) c.p.p.), e non nei con-
fronti degli imputati di reato connesso a norma dell’art. 12 lett. c) e degli imputati di reato
collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., i quali, laddove decidano di rendere
dichiarazioni erga alios, acquisiranno la qualifica di testimoni e per l’utilizzazione dibatti-
mentale delle loro dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari troveranno applica-
zione gli artt. 500 e 512 c.p.p., ovvero le regole dettate per l’esame testimoniale.
atti contenuti nel fascicolo di cui all’art. 416 comma 2, la documentazione di cui all’art. 419
comma 3 e le prove assunte all’udienza senza nulla dire dei fascicoli difensivi.
(42) Vigente l’art. 38 disp. att. coord. c.p.p., timidi riconoscimenti della possibile ri-
levanza a fini contestativi degli atti di indagine difensiva erano stati affermati dalla stessa
giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass., sez. III, sentenza 26 settembre 1997, n. 2812, Luf-
tjia, in Dir. pen. proc., 1998, p. 994; Cass. sez. VI, sentenza 2 dicembre 1997, Vacca, in
Cass. pen., 1998, p. 2090, con nota di JESU; Cass. Sez. IV, 18 gennaio 2001, Arcopinto, ine-
dita.
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7. Parità tra accusa e difesa nella fase del pre-trial (43). — Il sempre maggiore avvici-
namento dei vari sistemi giuridici che l’apertura verso l’Europa comporta rende ormai inelu-
dibile l’esigenza di affrontare studi basati sulla comparazione, in totale coerenza peraltro con
la storia, specie europea, degli ultimi cinquant’anni, caratterizzata da una continua tensione
dei singoli Stati verso la ricerca di principi comuni e valori universali attraverso la sottoscri-
zione e la ratifica di convenzioni internazionali (44).
La funzione del diritto comparato non va però, a nostro avviso, confinata entro i limiti
di una forzata omogeneizzazione culturale dei sistemi giuridici. Invero, esso pone ‘‘a raf-
fronto due o più sistemi giuridici, o certe loro parti, per coglierne le differenze e/o le somi-
glianze’’ (45).
Tuttavia, indipendentemente dalle finalità e dal metodo (uniformante l’uno,teso ad evi-
denziare le differenze l’altro) che si intende applicare all’analisi comparata di istituti e si-
stemi giuridici, è entro una superiore e generale nozione di conoscenza che la funzione del
diritto comparato deve correttamente collocarsi. Il diritto comparato, infatti, ha a disposi-
zione un maggior numero di ‘modelli’, di punti di riferimento a seconda di quanti siano i si-
stemi giuridici presi in considerazione dall’interprete in un dato momento, rispetto alla
scienza del diritto che si limiti a studiare lo specifico ordinamento giuridico nazionale, natu-
ralmente limitata nell’oggetto.
Devono, pertanto, ritenersi superate le critiche mosse da una parte della dottrina ita-
liana circa la possibilità, o meglio, l’utilità di richiami al diritto comparato e dell’applica-
zione degli strumenti concettuali da questo offerti alla fase delle indagini preliminari, a causa
di una (presunta) impossibilità di porre a confronto sistemi normativi ‘‘così diversi’’ (46).
Inoltre, si è soliti vedere una delle principali differenze tra i sistemi continentali e quelli
di Common Law nella preminenza, nei primi, del diritto legislativo (o codificato) rispetto a
quello di origine giurisprudenziale. In realtà, oggi nei Paesi di Common Law si tende sempre
di più ad unificare, a razionalizzare ed a semplificare il diritto ed a sentire sempre più il biso-
gno di portare il diritto giurisprudenziale ad un ordine sistematico; per contro, nei Paesi di
Civil Law si afferma sempre più l’evoluzione del diritto ad opera dei giudici. È un dato di
fatto che spesso i codici vigenti nei paesi continentali (è noto come il nostro codice di proce-
dura penale sia particolarmente rappresentativo di questa tendenza) perdono, con il passare
del tempo, di attualità, con la conseguenza di rendere necessari continui aggiustamenti da
parte della giurisprudenza.
(43) Nel presente lavoro, con il termine pre-trial si fa riferimento, forse non senza
una certa approssimazione, a quella parte del processo penale inglese concernente l’insieme
delle attività preparatorie (indagini della polizia, committal proceedings, preparatory hea-
rings, ecc.) del giudizio (trial), e solo in parte sovrapponibile alla nostra fase delle indagini
preliminari. La scelta, dettata oltre che da esigenze di semplificazione espositiva, delle quali
non si sarebbe potuto tener conto in uno studio di più ampio respiro, è stata operata sulla
base di esigenze per cosl dire ‘strutturali’, inerenti cioè alla impossibilità di ravvisare una
scansione delle singole fasi processuali all’interno del processo penale inglese analoga e cor-
rispondente a quella operata comunemente per il nostro processo penale (indagini prelimi-
nari, udienza preliminare, dibattimento) stante altresì, come vedremo tra breve, il differente
modus procedendi in relazione alle varie fattispecie criminose.
(44) Chiarificatrice e attualissima la definizione che del diritto comparato diede Sa-
leilles cento anni or sono al Congresso internazionale di diritto comparato che si tenne a Pa-
rigi nel 1900: tale scienza si propone di ‘‘estrapolare dall’insieme delle istituzioni particolari
un fondo comune o, per lo meno, dei punti di avvicinamento capaci di far comparire, sotto
l’apparente diversità delle forme, l’unità sostanziale della vita giuridica universale’’. (Con-
ception et objet de la science du droit comparé, Bulletin de la societé de législation compa-
rée, 1900, p. 383).
(45) G. GORLA, Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, pp. 1-14.
(46) G. RICCIO, La fase delle indagini preliminari, in ‘Il giudizio di primo grado’, Jo-
vene, Napoli 1991, p. 259 ss.
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L’interesse per la realtà processuale penale inglese ha radici lontane e giustificazioni sto-
rico-ideologiche precise.
Si è giustamente osservato che ‘‘l’atto di nascita del processo penale moderno, segnato
dal traumatico rigetto della procedura inquisitoria dell’ancien régime in omaggio agli ideali
di libertà ed eguaglianza imposti dalla Rivoluzione francese, contiene in sé la prima manife-
stazione di un bisogno comparativo’’ (47). A costituire il ‘‘perno ideologico’’ di tutta la ri-
cerca comparativa svolta dagli esponenti della cultura liberale nell’ottocento in Europa, fu
proprio il rito accusatorio inglese, orale e dominato dall’istituto della giuria, assunto dai phi-
losophes e dagli uomini della Rivoluzione come modello per quell’attività di depurazione del
processo penale da elementi inquisitori.
In Inghilterra non esiste un corpus di norme che disciplini analiticamente i poteri e le
singole attività del difensore nella fase del pre-trial. Tuttavia, se da un lato per tutta la durata
delle indagini è negato alla difesa il diritto di accesso al fascicolo contenente gli atti della po-
lizia (titolare esclusiva delle indagini), dall’altro, al fine di assicurare un fair trial, è previsto
un diritto della difesa alla comunicazione delle prove da parte dell’accusa prima dell’udienza
dibattimentale, data, com’è ovvio, la disparità nella disponibilità di strumenti e poteri coerci-
tivi tra la polizia ed il Crown Prosecution Service da un lato e l’indagato/imputato dall’al-
tro (48). È naturale, pertanto, che, nel processo penale inglese, il rapporto difesa-prova si in-
stauri in un momento successivo rispetto a quanto accade oggi nella nostra fase delle inda-
gini preliminari.
Come accennato, in Inghilterra la polizia è titolare esclusiva della fase investigativa. Per-
tanto essa, e non il pubblico ministero, detiene il potere di ricerca della prova, mentre il
Crown Prosecution Service può soltanto proseguire o bloccare i procedimenti avviati dalla
polizia. A seguito delle indagini da lei stessa compiute, la polizia sceglierà poi tra archivia-
zione o incriminazione, sulla base del principio di opportunità dell’azione penale (49).
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Gli strumenti processuali con i quali si attua il reciproco scambio di informazioni tra ac-
cusa e difesa differiscono a seconda del tipo di reato (fattispecie gravi, lievi, intermedie o di
natura mista) per cui si procede ed a seconda del materiale probatorio oggetto di disclosure
(elementi che il prosecutor intende o non intende produrre).
7.2. Disclosure (53). — Ha ad oggetto elementi di prova che l’accusa non intende pro-
durre e trova applicazione nell’ipotesi di un summary trial (54) in cui l’imputato si dichiari
non colpevole ed in relazione ad un procedimento di competenza della Crown Court (indic-
table offence).
L’attività di disclosure è oggi disciplinata dal Criminal Procedure and Investigation Act
(CPIA), entrato in vigore il 1o aprile 1997. Attraverso questa sistemazione di carattere statu-
tory che si è data alla materia dapprima disciplinata dalla common law, si è operato un vero
e proprio capovolgimento dei doveri e delle facoltà facenti capo ai due antagonisti del pro-
cesso penale: prima del 1997, infatti, l’accusa aveva il dovere di rivelare alla difesa ogni in-
formazione in suo possesso, mentre la difesa, dal canto suo, aveva soltanto l’obbligo di rive-
infine, qualora il reato denunciato sia punibile con la pena detentiva, invece di pronunciare
un summons pronuncia un mandato di arresto (warrant).
(50) In un solo caso l’accusa può non accogliere la richiesta della difesa: quando vi
sia pericolo di intimidazione dei testimoni o di altre interferenze con il regolare corso della
giustizia (Rule 5. Si veda anche R. v. Bromley Magistrates’ Court, ex p. Smith).
(51) La prassi in realtà evidenzia una certa discrezionalità da ufficio ad ufficio del
Crown Prosecution Service nel fornire il materiale oggetto della richiesta di advance infor-
mation: fotocopie di dichiarazioni scritte a mano o di appunti della polizia, riassunti della
causa inviati dalla polizia al Crown Prosecution Service, ecc.
(52) Rule 4.
(53) In generale, sulla disciplina, cfr. J. ANDREWS, M. HIRST, Andrews & Hirst on cri-
minal evidence, III ed., Sweet and Maxwell, London 1997; I. BING, Criminal procedure and
sentencing in the Magistrate’ court, Sweet and Maxwell, London 1994; C. ELLIOT, F. QUINN,
English legal system, II ed. Longman, London 1998; A. KEANE, The modern law of evidence,
IV ed. Butterworths, London 1996; J. SPRACK, The Criminal Procedure and lnvestigation Act
1996: (1) The Duty of Disclosure, Crim. L. Rev., p. 308 ss.; ID., Emmins on criminal proce-
dure, VII ed., Blackstone Press Limited, London 1997.
(54) Per quanto concerne la rivelazione da parte dell’accusa di materiale che essa in-
tende produrre nei procedimenti aventi ad oggetto summary offences, la disciplina è analoga
a quella contenuta nelle Magistrates’ Court (Advance Information) Rules 1985 e commen-
tata nel par. 7.1.
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lare all’accusa che avrebbe chiesto l’audizione di un teste o provato l’esistenza di un alibi a
favore del proprio assistito. Oggi, invece, il CPIA attribuisce all’accusa un potere discrezio-
nale su cosa rivelare alla difesa, mentre questa ha un dovere di disclosure molto più ampio.
L’attività di disclosure si articola in tre momenti: la primary prosecution disclosure, la
redazione di un defence statement, la secondary prosecution disclosure.
Il Code of Practice, contenente norme di attuazione del CPIA (Parte II), enumera gli atti
raccolti dagli agenti ed ufficiali di polizia rilevanti ai fini della disclosure (duty to retain ma-
terial): a) denunce di reato; b) dichiarazioni rese da testimoni; c) le prime dichiarazioni
rese da un testimone, qualora questi renda, in un secondo momento, dichiarazioni contra-
stanti; d) verbali e trascrizioni di interrogatori; e) relazioni peritali; f) ogni elemento che
ponga in dubbio la credibilità di una confessione o di un testimone.
Qualora dalle indagini siano emersi degli elementi cd. sensitive (55) questi devono es-
sere riportati in una lista separata.
Il criterio sulla base del quale il pubblico ministero giunge a rivelare alla difesa il mate-
riale in suo possesso è di natura soggettiva in quanto la disclosure avverrà soltanto se l’ac-
cusa riterrà opportuno (in the prosecutor’s opinion) rivelare quegli elementi undisclosed che
possano indebolire (undermine) l’impianto accusatorio (56).
Prima del CPIA, i criteri ai quali doveva ispirarsi la disclosure dell’accusa venivano indi-
viduati dalla common law a) nella circostanza che il materiale in possesso dell’accusa fosse
relevant or possibly relevant to an issue in the case; b) to raise or possibly raise in a new is-
sue whose existence is not apparent from the evidence the prosecution proposes to use; c) to
hold out a real (as opposed to a fanciful) prospect of providing a lead of evidence which goes
to a) or b) (57).
Con il termine undermine introdotto dal CPIA si è inteso circoscrivere il materiale og-
getto di possibile disclosure. È quanto emerge dalle parole del Ministro degli Interni, David
McLean, secondo il quale le disposizioni in tema di disclosure contenute nel CPIA sono det-
tate al fine di assicurare ‘‘that the prosecutor discloses at the first stage material that, gene-
rally speaking, has an adverse effect on the strength of the prosecution case. It is not confi-
ned to material raising a fundamental question about the prosecution... The disclosure
scheme is aimed at undisclosed material that might help the accused, notwithstanding the
fact that there is enough evidence to provide a realistic prospect of conviction’’ (58).
Una volta compiuta la primary prosecution disclosure, spetta alla difesa fornire per
iscritto all’accusa ed alla Corte un defence statement contenente, in termini generali, l’espo-
sizione della propria linea difensiva nonché le questioni sulle quali l’accusato concorda con il
pubblico ministero e perché (CPIA, par. 5). Tuttavia, qualora la dichiarazione della difesa
faccia riferimento ad un alibi, devono esserne forniti tutti i particolari, inclusi, ad es., il
nome e l’indirizzo del teste (59).
(55) ‘‘Sensitive material is material which the investigator believes it is not in the pu-
blic interest to disclose’’. Esso include, ad esempio, materiale riguardante la sicurezza nazio-
nale, notizie apprese dai servizi segreti o attinenti alle tecniche adoperate dalla polizia nel
corso delle indagini nonché deposizioni testimoniali rese da un minore.
(56) ‘‘Material need not to be disclosed just because it may be helpful to a possible
line of defence, or because it relates to the credibility of a minor prosecution witness. It must
be capable, if believed, of undermining or weakning a significant part of the prosecution
case. It need not (and ordinarily will not) be so dramatic as to put the validity of the entire
prosecution case in question, but it must at least work against it.’’ J.A. ANDREWS, M. HIRST,
Andrews and Hirst on criminal evidence, op. cit. Al contrario di quanto avviene, come ve-
dremo, nel caso della secondary disclosure: qui, infatti, sarà oggetto di disclosure quel mate-
riale ‘‘which... might be resonably expected to assist the accused’s defence as disclosed by
the defence statement’’.
(57) R. v. Keane, (1994) 1 W.L.R., p. 746.
(58) HANSARD, House of Commons standing Committee B, 14 May 1996, col. 34.
(59) Questa disposizione sostituisce quella contenuta nel paragrafo 11 del Criminal
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Il dovere che il CPIA impone al difensore di rivelare, prima del giudizio, gli elementi di
prova raccolti, rappresenta una delle novità fondamentali introdotte dal CPIA. Si obiettava,
infatti, che imporre alla difesa l’obbligo di effettuare la disclosure contrastasse con due prin-
cipi fondamentali del processo penale: quello che riserva all’accusa l’onere della prova, e
quello concernente il diritto dell’imputato di non rendere dichiarazioni contra se.
L’obbligo di presentare — entro quattordici giorni dal compimento della primary prose-
cution disclosure — il defence statement pone il difensore in una condizione difficile in or-
dine alla scelta della più corretta linea difensiva. Egli deve, infatti, valutare i vantaggi e gli
svantaggi di un dettagliato e circostanziato defence statement. Una dichiarazione estrema-
mente dettagliata può determinare la rivelazione di ulteriore materiale d’accusa mentre una
disclosure che sia di fatto una non-discolsure può condurre verso indizi sfavorevoli nei con-
fronti dell’imputato (60).
Occorre rilevare che il dovere della difesa di scoprire gli elementi di prova raccolti è di
natura diversa da quello previsto in capo al prosecutor: questi deve rivelare unused material
(elementi di prova, cioè, che egli non intende introdurre nel processo). Per contro, la difesa
ha il dovere di ‘scoprire’ tutto quanto intenderà fare oggetto di valutazione da parte della
giuria in dibattimento e non è obbligata a rivelare ciò di cui non intende servirsi.
Una volta presentata la dichiarazione difensiva, l’accusa ha il dovere di rivelare all’im-
putato ciò che potrebbe ragionevolmente aiutare la difesa così come delineata nel defence
statement (cd. secondary prosecution disclosure), ossia any prosecution material which...
might be resonably expected to assist the accused’s defence as disclosed by the defence sta-
tement’’ (61). Permane il limite del pubblico interesse nonché quello concernente elementi
di prova raccolti mediante intercettazioni telefoniche (Interception of Communications Act
1985).
Tipico elemento coperto dalla public interest immunity è l’identità di un informa-
tore (62). Il fondamento di questa regola è evidente e consiste nell’esigenza di evitare ritor-
sioni nei confronti degli informatori, e che la rivelazione della loro identità possa creare diffi-
coltà alla polizia nel reperire utili risorse investigative (anche se si ammette l’eccezione a tale
regola nell’ipotesi in cui il nome dell’informatore debba essere rivelato per dimostrare l’inno-
cenza dell’imputato).
Il Code of Practice fornisce un elenco (non tassativo) di elementi esclusi dalla disclosure
in quanto coperti dalla public interest immunity. Essi includono: informazioni attinenti alla
sicurezza nazionale, confidenziali, relative all’identità o all’attività di cd. agenti informatori,
o informazioni che rivelano tecniche di sorveglianza ed, in genere, le tecniche di indagine
adottate dalla polizia, o provenienti da un minore.
Nell’ipotesi in cui l’accusa ritenga di non dover rivelare gli elementi probatori in suo
possesso sulla base del ‘pubblico interesse’, la difesa può, tuttavia, richiedere al giudice di
imporre al prosecutor di rivelare ogni elemento probatorio. Ciò può accadere soltanto dopo
che la difesa abbia fornito una dichiarazione difensiva. Risulterà sicuramente molto difficile
per la difesa provocare questa ‘discovery’ da parte dell’organo requirente, poiché vi è il pro-
blema di individuare il materiale probatorio non rivelato dall’accusa. La difesa dovrà confi-
Justice Act 1967, abolita peraltro dal paragrafo 74 del CPIA. Tuttavia, la definizione dell’a-
libi quale prova del fatto è sostanzialmente la medesima in entrambi i testi normativi (‘‘evi-
dence tending to show that by reason of the presence of the accused at a particular place or
in a particular area at a particular time he was not, or was unlikely to have been, at the
place where the offence is alleged to have been committed at the time of its alleged commis-
sion’’).
(60) In riferimento ai rapporti tra disclosure e possibilità di scelta di strategie difen-
sive incentrate sul silenzio, cfr. L. MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative
al silenzio, Giappichelli, Torino 2000.
(61) Il criterio è di natura oggettiva.
(62) V. Marks v. Beyfus (1890) 25 QBD 494.
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dare, pertanto, nella buona fede e nell’efficienza dell’investigante che è incaricato di sotto-
porre all’attenzione dell’accusa il materiale alla base della secondary disclosure: questi infatti
presumibilmente si sarà fatto un’idea in ordine alla colpevolezza dell’imputato che condizio-
nerà la scelta del materiale utile alla difesa. Senza considerare che il disclosure officer non ha
né l’esperienza né la ‘prospettiva’ della difesa idonee all’individuazione di elementi probatori
utili in dibattimento.
Altra ipotesi in cui il giudice può imporre all’accusa di effettuare la disclosure sussiste
quando ritiene che vi sia ragionevole motivo (reasonable grounds) per credere che il mate-
riale in possesso dell’accusa possa rivelarsi utile alla linea difensiva, così come espressa nel
defence statement.
Il pubblico ministero conserva un dovere di continua verifica dell’eventuale esistenza di
elementi che possono sostenere l’accusa od aiutare la difesa. Nel secondo caso egli deve rive-
larne il contenuto all’imputato as soon as reasonably practicable. Questo dovere di continua
verifica, entra in gioco, ad esempio, se un testimone dell’accusa rende dichiarazioni contrad-
dittorie rispetto a quelle in precedenza rese dinanzi agli organi di polizia. Se la difesa ignora
l’esistenza della precedente dichiarazione, il pubblico ministero deve rivelarla, consentendo
così di utilizzarla nella cross-examination per valutare la credibilità del teste (63).
(63) Il paragrafo 11 del CPIA disciplina, infine, alcuni degli errori che possono es-
sere commessi dall’imputato e che possono condurre all’inammissibilità delle sue richieste di
‘esibizione’ degli elementi raccolti: a) omissione o tardiva presentazione del defence state-
ment; b) esporre una linea difensiva contraddittoria; c) in dibattimento una linea difensiva
in contrasto con quella espressa nel defence statement; d) chiedere al dibattimento l’ammis-
sione di un teste d’alibi senza averne previamente fornito i particolari.
(64) Così G. PAOLOZZI, Fase prodromica della difesa ed efficacia persuasiva degli
elementi di prova, in AA.VV., Indagini difensive, Ipsoa, Milano 2001, p. 15.
(65) Nella tendenza, forse ormai irreversibile, verso l’ampliamento degli atti di inda-
gine suscettibili di essere posti a fondamento della decisione da parte del giudice, si pone la
recente ordinanza della Corte costituzionale n. 3681/2002, (in Guida al diritto, 33/2002, p.
79 ss.), con la quale la Consulta ha dichiarato manifestamente infondata la questione di le-
gittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e
111 Cost., dal G.i.p. del Tribunale di Ancona. In assenza del pericolo di ‘‘irrimediabile di-
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In altri termini, se la tutela delineata dalla disciplina sulle indagini difensive rientra in
una pseudogaranzia è solo la prassi applicativa che potrà rivelarlo (66).
Anche per il processo penale inglese, la considerazione delle caratteristiche della fase
dedicata allo svolgimento di attività investigative ha mostrato come la fase delle indagini
possa rivelarsi utile strumento, a sua volta, di indagine del grado di accusatorietà del sistema
processuale; ed in particolare, di verifica della sussistenza di elementi di erosione che, ten-
denzialmente, allontanano il processo penale inglese dal modello accusatorio cd. puro e, nel
contempo, riducono il divario culturale e concettuale tra quel sistema processualpenalistico
e quello nostrano.
Le pur ampie garanzie riconosciute dal CPIA alla difesa in ordine alla comunicazione da
parte dell’organo dell’accusa degli elementi probatori raccolti nel corso della fase investiga-
tiva non possono dirsi pienamente attuative della parità tra accusa e difesa, intesa come so-
stanziale eguaglianza circa la possibilità di accesso a materiale utile alle indagini e, dunque,
al dibattimento: il difensore non ha, infatti, poteri di ricerca della prova. Si è visto poi
quanto ampi siano gli spazi di discrezionalità lasciati al prosecutor in relazione alle decisioni
sul se e sul cosa rivelare alla difesa nella primary prosecution disclosure e quanti atti rien-
trino nell’ambito della public interest immunity, ed esclusi pertanto dall’attività di disclosure.
spersione della prova’’, stabilisce la Corte, non è consentito richiedere l’incidente probatorio
tra la conclusione delle indagini preliminari e l’inizio dell’udienza preliminare; di contro, ove
suddetto pericolo fosse ravvisabile ‘‘non potrebbe non essere assicurata alle parti, anche in
tale fase, la facoltà di richiedere l’assunzione della prova in via di incidente’’.
(66) Una distinzione tra garanzie formali in senso positivo o ‘sostanziali’ e garanzie
formali o pseudogaranzie è delineata da P. FERRUA. Le prime sono, secondo l’Autore, le ga-
ranzie predeterminate dal legislatore e perciò, appunto, legali, connaturate, cioè, ad un pro-
cesso ‘‘regolato dalla legge’’ (art. 111, comma 1 Cost.); le seconde sono, invece, quelle ga-
ranzie che ‘‘in un modo o nell’altro, riescono inadeguate alla loro ideale funzione: o perché
non danno effettiva tutela ai valori sovraordinati o perché li tutelano in modo iperbolico o
unilaterale’’; cfr. op. cit., p. 1115.
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RASSEGNE
CODICE PENALE
Parte generale
ART. 2
Successione di leggi penali
(Ord. 24 giugno 2002, n. 273, in G.U., I serie speciale,
3 luglio 2002, n. 26 - manifesta infondatezza)
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da una esigenza di economia processuale, cioè evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravve-
nire di modifiche normative; un fondamento questo meno ‘‘alto’’ ed importante rispetto a
quello a base della regola della retroattività della norma favorevole; un fondamento che lo
stesso legislatore non ha ritenuto sufficiente per limitare l’applicazione della norma favore-
vole in caso di abolitio criminis (art. 2, comma 2, c.p.). Ecco che, allora, il giudice remit-
tente mette in discussione la ragionevolezza di una diversa disciplina tra l’abolitio criminis e
la mera modifica della disciplina legislativa, almeno nei casi in cui quest’ultima ponga in di-
scussione, come nel caso del reato di oltraggio, non solo il quantum della sanzione ma lo
stesso an, mediante la previsione di una condizione di procedibilità prima non richiesta.
Inoltre, aggiunge il remittente, la disciplina censurata finirebbe per scontrasi con il principio
di uguaglianza in quanto legittimerebbe effetti sanzionatori diversi per fatti identici com-
messi da due soggetti nel medesimo tempo, solo a ragione del diverso momento in cui inter-
viene il giudicato (momento del tutto accidentale dovuto ad elementi del tutto casuali). L’ac-
coglimento della citata questione di costituzionalità, conclude il remittente, consentirebbe di
applicare l’art. 673 c.p.p. ogniqualvolta la successiva legge più favorevole escludesse la puni-
bilità del fatto per qualsiasi ragione (anche attinente al regime di procedibilità) ovvero l’ap-
plicazione di una pena detentiva.
Con la seconda questione il giudice a quo osserva che, se in tutti i giudizi di cognizione
in corso per effetto dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 c.p. dovrà trovare applicazione
la più mite disciplina di cui all’art. 594 c.p. (ingiuria), ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p., al
contrario, nei procedimenti di esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate in giudi-
cato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 341 c.p. comporterebbe l’ap-
plicazione, in luogo della disciplina di cui all’art. 2 c.p., dell’art. 30 della l. 11 marzo 1953,
n. 87, il quale — diversamente dal caso del sopravvenire di un atto legislativo abrogativo, il
quale, come visto, comporta la necessità, in ordine alle conseguenze, di distinguere tra aboli-
tio criminis e mera successione nel tempo di leggi penali — non consentirebbe distinzione al-
cuna, poiché si imporrebbe sempre e comunque l’efficacia retroattiva della pronuncia di in-
costituzionalità senza alcun limite di carattere processuale. Ciò premesso, l’art. 341 c.p., an-
che se abrogato, sarebbe illegittimo laddove configurerebbe l’oltraggio a un pubblico uffi-
ciale come autonomo reato, anziché quale aggravante del reato di ingiuria e laddove preve-
derebbe una pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva e un regime di procedibilità
procedibilità a querela di parte.
In questo modo il giudice, ottenuta la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 341 c.p.,
non applicherebbe più l’art. 2, comma 3, c.p., ma l’art. 30 della l. n. 87 del 1953 e, quindi,
sul piano processuale, l’art. 673 c.p.p., con la conseguente revoca, nel giudizio principale,
della sentenza di condanna.
La Corte, dichiarando l’infondatezza di entrambe le questioni, corregge il presupposto
interpretativo accolto dal giudice in forza del quale l’abrogazione dell’art. 341 c.p., ad opera
dell’art. 18 della l. n. 205 del 1999, avrebbe configurato una successione nel tempo di leggi
penali anziché una vera e propria abolitio criminis. I giudici costituzionali ricordano come,
dopo l’ordinanza di rimessione, le sezioni unite della Corte di cassazione, in una pronuncia
del 17 luglio 2001, hanno risolto nei termini sopra riferiti il citato contrasto interpretativo,
ponendo alla base della loro scelta due argomenti centrali.
Il primo si concretizza nell’assenza di una disciplina transitoria nel d.lgs. n. 205 del
1999. Infatti l’art. 19 della citata legge, prevedendo nuovi termini per la proposizione della
querela, non riguarda l’abrogato reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ma altri reati che, in
precedenza, anch’essi perseguibili d’ufficio erano divenuti perseguibili a querela.
Il secondo argomento fatto proprio dalle sezioni unite fa leva invece sulla limitatezza dei
poteri del giudice dell’esecuzione in sede di revoca ex art. 673 c.p.p. della sentenza di con-
danna. Infatti a questo non sarebbe consentito né accertare il fatto in modo difforme da
quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato, né modificare l’originaria imputazione e,
quindi, estendere il suo giudizio a istituti, che potrebbero operare come esimenti solo nell’in-
giuria, quali la ritorsione o la provocazione.
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Per la Corte costituzionale questa preclusione, qualora fosse accolta la tesi della succes-
sione di leggi penali nel tempo, avrebbe come corollario la violazione dell’art. 24 Cost. (di-
ritto di difesa) in quanto al condannato per oltraggio non sarebbe stata offerta, nel corso del
giudizio di cognizione, l’opportunità di provare l’esistenza delle eventuali esimenti proprie
del delitto di ingiuria; una prova che, come visto, non potrebbe certo essere recuperata di
fronte al giudice dell’esecuzione, il quale, come detto, sarebbe sfornito di pieni poteri valuta-
tivi.
La soluzione dell’abolitio criminis non lascerebbe comunque senza tutela i pubblici uffi-
ciali che fossero stati offesi da pregressi fatti di oltraggio, poiché, in relazione a tali fatti, essi
dovrebbero unicamente rinunciare alla pretesa punitiva dello Stato, ma non si vedrebbero
sottratto il diritto di ottenere il risarcimento del danno; nel caso di condanna passata in giu-
dicato, l’abolitio criminis comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecu-
zione ai sensi dell’art. 673 c.p.p. solo relativamente ai suoi capi penali non anche a quelli ci-
vili; pertanto se vi è stata costituzione di parte civile e condanna al risarcimento dei danni,
quest’ultima resta ferma; se invece tale costituzione non ci fosse stata, permarrebbe per il
pubblico ufficiale la possibilità di esercitare l’azione nella sede civile, fino al termine di pre-
scrizione, in quanto la formula assolutoria per l’ipotesi di sopravvenuta abrogazione della
norma incriminatrice (‘‘il fatto non è previsto dalla legge come reato’’) non è fra quelle alle
quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile.
CODICE PENALE
Parte speciale
ART. 262
Rivelazione di notizie
di cui sia stata vietata la divulgazione
(Sent. 28 giugno 2002, n. 295, in G.U., I serie speciale,
3 luglio 2002, n. 26 - non fondatezza)
Il dubbio di costituzionalità riguarda l’art. 262 c.p. che punisce chiunque rivela notizie
delle quali l’Autorità ha vietato la divulgazione. Ad avviso del remittente la norma, qualifica-
bile come ‘‘norma penale in bianco’’, lascerebbe l’individuazione concreta delle notizie che
non possono essere divulgate (c.d. notizie riservate) ad atti amministrativi emessi in virtù di
poteri non direttamente conferiti dalla legge, i cui limiti resterebbero pertanto assai incerti e
labili. Per di più la circostanza che l’art. 262 c.p. non indichi i motivi per i quali la divulga-
zione delle notizie può essere vietata, rimettendoli così anch’essi in toto all’apprezzamento
dell’autorità amministrativa, impedirebbe al giudice di valutare se il divieto di divulgazione
sia stato legittimamente imposto. Il giudice a quo, prima di giungere a siffatta conclusione,
affronta e risolve due problemi che hanno visto dividersi al proprio interno la giurispru-
denza. La comprensione del primo di questi necessita una breve illustrazione dell’evoluzione
storica e giuridica della nozione di segreto di Stato. L’art. 256 c.p., introducendo la distin-
zione tra ‘‘notizie segrete’’ (segreto di Stato in senso stretto) e ‘‘notizie riservate’’ (notizie di
cui lo Stato ha vietato la divulgazione), aveva finito per ancorare la legittimità di queste alla
tutela di due categorie di interessi: a) quello alla sicurezza dello Stato (c.d. segreto militare);
b) quello politico, interno o internazionale dello Stato (c.d. segreto politico). L’entrata in vi-
gore della l. 24 ottobre 1977, n. 801, ha fornito, nell’art. 12, una nuova nozione di segreto
di Stato, e quindi di ‘‘notizie segrete’’, espressamente destinata a sostituire la definizione di
cui all’art. 256 c.p. con riferimento al segreto politico (cfr. art. 18 l. n. 801 del 1977). Il legi-
slatore del 1977, riformulando la nozione di ‘‘segreto di Stato’’, accoglieva infatti una conce-
zione oggettiva del segreto di Stato, facendo proprie le indicazioni che erano provenute dalla
Corte costituzionale (sent. 86 del 1977) e individuando nuovi e diversi interessi tutelabili dal
regime di ‘‘segretezza’’. È proprio con riferimento al rapporto tra la citata legge e la nozione
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di ‘‘notizie riservate’’ che si sono posti i problemi più delicati; quelli attorno ai quali lo
stesso remittente, prima di sollevare il dubbio di costituzionalità, si è trovato a dover pren-
dere una precisa posizione interpretativa. È doveroso premettere che gli elementi che con-
correvano, prima della riforma del 1977, a differenziare la ‘‘notizia riservata’’ da quella ‘‘se-
greta’’ erano rinvenibili nel fatto che la notizia riservata era conosciuta o conoscibile da un
numero indeterminato di persone in un determinato ambito e dalla circostanza che la non di-
vulgabilità della notizia era conseguenza di un provvedimento dell’Autorità amministrativa
competente. Questi elementi non sono venuti meno tuttavia, dopo la riforma, ci si è chiesti
quale fosse stata la sorte delle c.d. notizie riservate.
Un primo orientamento ha ritenuto che la nuova legge avrebbe implicitamente abrogato
la nozione di ‘‘notizie riservate’’. Diversi i motivi portati a sostegno di questa tesi: la disci-
plina introdotto dalla l. n. 801 del 1977 ha ridisegnato l’area di tutto il segreto penalmente
rilevante in modo da dar vita ad un sistema chiuso ed esclusivamente concentrato sulla tu-
tela degli interessi definitiva dall’art. 12. Nel contempo l’art. 15 cit. legge avrebbe eliminato
il riferimento alle ‘‘notizie riservate’’ circoscrivendo il dovere di astenersi dal testimoniare ed
il divieto di esame testimoniale a quanto coperto dal segreto di Stato. Invece per un secondo
e maggioritario orientamento — quello a cui aderisce il giudice remittente — la disciplina
delle ‘‘notizie riservate’’ dovrebbe considerarsi sopravvissuta alla riforma del 1977 fonda-
mentalmente in base al rilievo che la l. n. 801 del 1977 si interessa unicamente del concetto
di segreto di Stato, disinteressandosi di un concetto diverso quale quello di ‘‘notizie riserva-
te’’ (Cass., 30 gennaio 1989, Negrino, in Giust. pen., II, 1986, p. 642; Cass., 4 luglio 1985,
Acunzo, in Giur. it., II, 1986, p. 436; Cass., 23 aprile 1982, Biasci, in Cass. pen., 1983, p.
1554). Quest’ultimo sarebbe un quid minus rispetto a quello di ‘‘notizia segreta’’. Infatti se
la seconda non può essere divulgata in ragione di interessi superiori dello Stato, la prima è
un’informazione che può essere divulgata solo a certe condizioni e a determinate persona
per ragioni di ‘‘alta amministrazione’’. Tuttavia è proprio la mancanza di qualsiasi riferi-
mento alla nozione di ‘‘notizia riservata’’ da parte della l. n. 801 del 1977, ed in particolare
la mancanza di indicazioni di quali ‘‘interessi’’ sarebbero appunto ‘‘riservabili’’, che rende-
rebbe l’art. 262 c.p. incompatibile con il principio di determinatezza-tassatività.
La Corte risolve il dubbio di costituzionalità su un piano squisitamente interpretativo.
Implicitamente accogliendo la tesi della sopravvivenza del concetto di ‘‘notizie riservate’’ al-
l’entrata in vigore della l. n. 801 del 1977, essa non concorda con il remittente, la cui pre-
messa interpretativa pertanto sarebbe erronea, quando questo afferma che sarebbe impossi-
bile riferire alla categoria delle ‘‘notizie riservate’’ protette dall’art. 262 c.p. le indicazioni (in
tema di interessi tutelabili) rinvenibili nella l. n. 801 del 1977 a proposito di segreto di
Stato. Infatti i giudici costituzionali aderiscono a quel filone giurisprudenziale della Cassa-
zione penale (sez. I, 29 gennaio 2002, n. 3348) per il quale la l. n. 801 del 1977, una volta
individuati nell’idoneità delle notizie segrete di incidere sugli specifici interessi statuali indi-
viduati dall’art. 12 e dall’idoneità della loro diffusione di creare un concreto pregiudizio agli
stessi interessi, ritiene che tali requisiti di ‘‘pertinenza’’ e di ‘‘idoneità offensiva’’ devono sus-
sistere anche per la categoria delle notizie ‘‘riservate’’, stante l’omogenietà sostanziale di
queste con le notizie segrete. Infatti le ragioni, cioè le categorie di interessi, che giustifiche-
rebbero il segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 l. n. 801 del 1977, ora, dopo la riforma del
1977, legittimerebbero anche l’apposizione del divieto di divulgazione. Diversamente ragio-
nando si finirebbe per consentire un’impropria, estensiva ed arbitraria utilizzazione della ca-
tegoria del segreto da parte della pubblica amministrazione, alimentando in siffatto modo
proprio le censure di indeterminatezza che vengono mosse all’art. 262 c.p. La Corte con-
clude auspicando comunque un intervento del legislatore diretto a porre mano ad una revi-
sione complessiva della materia del segreto dando così seguito a quanto contenuto nell’art.
18 della l. n. 801 del 1977 che assegnava carattere di ‘‘transitorietà’’ al regime delineato dal
titolo I del libro II del codice penale. (Sul tema v. P. PISA-L. SCOPINARO, Segreto di Stato e
notizie riservate: un’interpretazione costituzionalmente corretta in attesa della riforma del
codice penale, in Giur. cost., n. 3/2002, p. 2130).
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ART. 405
Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico
(Sent. 9 luglio 2002, n. 327, in G.U., I serie speciale,
17 luglio 2002, n. 28 - illegittimità costituzionale)
La Corte costituzionale, intervenuta per sindacare la legittimità dell’art. 405 c.p. (Tur-
bamento di funzioni religiose del culto cattolico), lo dichiara illegittimo nella parte in cui
prevede pene più gravi anziché quelle ‘‘diminuite’’ stabilite dall’art. 406 c.p. per gli stessi
fatti commessi contro gli altri culti. L’organo remittente — ponendo in relazione il suddetto
articolo, nella parte in cui punisce chi impedisce o turba l’esercizio di funzioni religiose del
culto cattolico, con l’art. 406 c.p., il quale prevede invece una pena diminuita quando il me-
desimo fatto venga posto in essere contro un culto ammesso nello Stato (cioè un culto acat-
tolico) — ritiene che l’art. 405 c.p. violi l’art. 3 Cost., nella parte in cui questo consacra la
pari dignità ed uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge ‘‘senza distinzione di religio-
ne’’, nonché l’art. 8 Cost. laddove si afferma l’uguale libertà di tutte le confessioni religiose
davanti alla legge. Anziché prevedere una pena analoga a quella prevista per i culti ammessi,
l’art. 405 c.p. privilegerebbe dal punto di vista sanzionatorio il culto cattolico in quanto tur-
bamenti delle proprie funzioni o cerimonie verrebbero punite più gravemente rispetto ad
analoghe condotte quando queste venissero portate contro cerimonie o funzioni acattoliche.
La Corte opera la citata unificazione del trattamento sanzionatorio in quanto imposta
dal principio fondamentale di laicità dello Stato: un’unificazione sanzionatoria attuata attra-
verso una tecnica (quella dell’innesto delle pene ‘‘diminuite’’ di cui all’art. 406 c.p. in altra
fattispecie criminosa) che i giudici costituzionali avevano, a suo tempo, operato con la sen-
tenza n. 327 del 1997 quando ad essere oggetto di giudizio di costituzionalità era stata la
sanzione contenuta nell’art. 404 c.p. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di
cose), il quale, analogamente all’art. 405 c.p., prevedeva una tutela penale rafforzata per il
culto cattolico.
Nell’odierna pronuncia la Corte, una volta operata l’equiparazione edittale, lascia co-
munque impregiudicato non solo il problema se l’art. 406 c.p. costituisca un’attenuante di
un reato base (quello di cui all’art. 405 c.p.) oppure una figura autonoma di reato ma anche
quello della qualificazione da riservare al comma 2 dell’art. 405 c.p. (‘‘se concorrono fatti di
violenza o di minaccia, si applica la pena da uno a tre anni’’). Tuttavia ammonisce che, qua-
lunque sia l’interpretazione che la giurisprudenza penale vorrà accordare, l’equiparazione
della tutela penale dei culti ‘‘va soddisfatta in relazione a tutte le previsioni dell’art. 405
c.p.’’.
Circa il primo problema posto dalla Corte sembra più logico ritenere l’art. 406 c.p.
come una figura autonoma di reato (la relazione al codice la qualificava invece come circo-
stanza attenuante) in quanto, dopo l’avvenuta equiparazione, verrebbe a mancare l’ipotesi
base alla quale dovrebbe accedere.
La diminuzione di pena prevista dall’art. 406 c.p. dovrebbe determinare, applicandosi il
principio ricavabile dall’art. 65 c.p., che la pena sia diminuita in misura non eccedente un
terzo. Ciò farebbe sì che la cornice edittale del reato di cui all’art. 405 c.p., nell’ipotesi non
aggravata del reato di cui al comma 1, sia da quindici giorni (in applicazione dell’art. 23,
comma 1, c.p.) ad anni uno e mesi quattro di reclusione, mentre, per l’ipotesi aggravata di
cui al comma 2 dell’art. 405 c.p., la pena, autonomamente determinata, sia quella della re-
clusione da otto mesi a due anni.
ART. 688
Ubriachezza
(Sent. 17 luglio 2002, n. 354, in G.U., I serie speciale,
24 luglio 2002, n. 29 - illegittimità costituzionale)
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c.p. Questa previsione — che, prima della depenalizzazione del 1999 che è intervenuta sul
comma 1 del citato articolo, era da inquadrarsi come forma aggravata del reato di ‘‘ubria-
chezza’’ (di cui al comma 1), nella quale l’aver riportato una precedente ‘‘condanna per de-
litto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale’’ costituiva circostanza aggravante
del reato base — ora ha assunto una sua autonoma fisionomia nella quale la precedente con-
danna è diventata elemento costitutivo del reato (o condizione obiettiva di punibilità). Per il
remittente non avrebbe senso ritenere che lo stato di ubriachezza, sotto l’aspetto punitivo,
rilevi soltanto per una certa categoria di soggetti in quanto la possibilità che un agente che si
trovi in stato di ubriachezza commetta un reato più grave sarebbe identica tanto nel caso in
cui egli sia incensurato quanto in quello in cui egli sia pregiudicato. Violati risulterebbero il
principio di uguaglianza e, sotto un profilo logico-giuridico, anche i princìpi di legalità ed of-
fensività e materialità della legge penale.
La Corte accoglie la questione dichiarando l’illegittimità dell’art. 688, comma 2, c.p. Se
il fine perseguito dalla depenalizzazione è stato quello di rendere più lieve la posizione della
persona colta in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico (tale
condotta oggi viene punita a titolo di illecito amministrativo), tuttavia tale operazione ha
comportato un peggioramento per chi, avendo in passato riportato condanne per delitti non
colposi contro la vita e l’incolumità individuale, venga colto in stato di manifesta ubria-
chezza. Se prima della riforma il giudice avrebbe potuto bilanciare l’aggravante di cui all’art.
688, comma 2 c.p. con eventuali circostanze attenuanti, e quindi applicare la pena di cui al
reato base prevista al comma 1 (nei casi più lievi, l’ammenda), oggi invece ‘‘la possibilità di
commisurare la pena all’effettivo disvalore del fatto è fortemente limitata’’.
Infatti, essendo la previsione di cui al comma 2 dell’art. 688 c.p. un reato autonomo,
non è più possibile alcun bilanciamento con circostanze attenuanti, le quali, se presenti, pos-
sono determinare solo un abbattimento del minimo edittale, ma mai impedire al giudice di
applicare comunque la pena dell’arresto.
Non solo: risulterebbe messo in crisi anche il principio di offensività in quanto la con-
travvenzione di cui all’art. 688, comma 2, c.p., dando rilievo ad un precedente penale che è
privo di una correlazione con lo stato di ubriachezza, finisce col punire non tanto l’ubria-
chezza in sé quanto una qualità personale del soggetto. In questo modo la citata contravven-
zione assumerebbe i tratti di una sorta di ‘‘reato d’autore’’ in aperta violazione del principio
di offensività.
Si badi come quest’ultimo, nella presente pronuncia, non viene enucleato dal solo art.
25, comma 2, Cost. (come avveniva in passato) bensì da quest’ultimo letto sistematicamente
con ‘‘l’insieme dei valori connessi alla dignità umana’’. Un particolare combinato disposto,
quello testé accennato, che vieta, secondo la Corte, che ‘‘la qualità di un condannato per un
determinato delitto possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non co-
stituisce illecito penale’’. Infine — conclude la Corte — la norma censurata, avendo trasfor-
mato in elementi costitutivi del reato di ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una
condanna irrevocabile, vanificherebbe la finalità rieducativa che l’art. 27, comma 3, Cost. as-
segna alla pena.
LEGISLAZIONE SPECIALE
ART. 15
L. 8 febbraio 1948, n. 47
(Disposizioni sulla stampa)
Reato di pubblicazioni
a contenuto impressionante o raccapricciante
(Ord. 5 aprile 2002, n. 92, in G.U., I serie speciale,
10 aprile 2002, n. 15 - manifesta infondatezza)
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(Disposizioni sulla stampa), nella parte in cui esso, estendendo la norma penale di cui all’art.
528 c.p. (Pubblicazioni e spettacoli osceni) agli stampati che descrivono od illustrano, con
particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche sol-
tanto immaginari, richiama come oggetto di tutela giuridica il turbamento del ‘‘comune sen-
timento della morale’’. Tale locuzione indeterminata e generica non solo avrebbe reso per il
remittente la citata norma incriminatrice incompatibile con l’art. 25, comma 2, Cost., ma il
suo richiamo avrebbe comportato una lesione dell’art. 21, comma 6, Cost., il quale vieta la
pubblicazione a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al ‘‘buon co-
stume’’.
La norma oggetto, vietando anche le pubblicazioni contrarie alla ‘‘morale comune’’ at-
traverso appunto il richiamo del bene giuridico ‘‘comune sentimento della morale’’, avrebbe
oltrepassato il limite costituzionale, rendendo la zona dell’illecito più ampia rispetto a quella
delimitata dalla norma costituzionale, essendo indubbio per il remittente che il concetto di
‘‘morale comune’’ è più esteso di quello di ‘‘buon costume’’ (nella fattispecie l’imputato era
accusato di avere affisso manifesti raffiguranti un feto umano ricoperto di sostanza ematica e
la testa di un feto sorretto da una pinza chirurgica). La lamentata indeterminatezza della lo-
cuzione ‘‘comune sentimento della morale’’ è argomentata in base al fatto che l’accerta-
mento del reato, cioè l’esistenza, mediante la diffusione di pubblicazioni a contenuto racca-
pricciante o impressionante, del turbamento dell’oggetto giuridico tutelato, finirebbe per di-
pendere dai parametri culturali proprio del giudicante. Non solo: l’indeterminatezza della lo-
cuzione incriminata non potrebbe essere colmata in via interpretativa. Mancherebbe un indi-
rizzo giurisprudenziale sufficientemente consolidato, senza dimenticare l’esiguità delle pro-
nunce esistenti (sul punto cfr. Cass. pen., 21 dicembre 1999, Bordonaro Bixio, in Riv. pen.,
2000, p. 338 ss.; Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 1982, Valentini, ivi, 1983, p. 637 ss.; Trib.
Roma, 3 febbraio 1995, Minerbi, in Dir. inf. e informatica, 1996, p. 43 ss.; Trib. Milano, 10
ottobre 1995, Pennachioli, ibidem, 47 ss.).
La Corte, nel decidere per l’infondatezza della questione, non può che richiamare la
sentenza n. 293 del 2000 (in Giur. cost., 2000, p. 2239, con nota di A. ODDI, La riesuma-
zione dei boni mores, p. 2245 ss.), la quale aveva deciso un analogo dubbio sollevato dalla
Corte di cassazione. Nonostante, quella volta, maggiore attenzione fosse stata accordata
dalla Cassazione all’argomento dell’indeterminatezza della fattispecie, la Consulta in quella
pronuncia aveva analizzato preliminarmente la presunta violazione della libertà di manifesta-
zione del pensiero. È proprio l’art. 21, comma 6 — avevano sottolineato i giudici costituzio-
nali — a demandare alla legge la predisposizioni di meccanismi e strumenti adeguati a preve-
nire e a reprimere le violazioni del precetto costituzionale; tuttavia allora, e neppure oggi
mediante l’ord. n. 92 del 2002, la Consulta si è espressa direttamente sui rapporti che sussi-
sterebbero tra il concetto di ‘‘morale comune’’ e ‘‘buon costume’’, omettendo una risposta
puntuale a quella che era stata la censura del remittente. Tuttavia una soluzione a questo in-
terrogativo sembrerebbe indirettamente arrivare nel momento in cui la Corte nel 2000 aveva
affrontato il nodo strettamente penalistico della questione di costituzionalità, cioè la viola-
zione dell’art. 25, comma 2, Cost. Con riguardo alla locuzione ‘‘comune sentimento della
morale’’ i giudici avevano ritenuto che tale espressione rappresentasse non solo ‘‘ciò che è
comune alle diverse moralità del nostro tempo ma anche alla pluralità delle concezioni eti-
che che convivono nella società contemporanea’’. Più in particolare tale ‘‘contenuto mini-
mo’’, patrimonio comune di una pluralità di morali ed etiche, non sarebbe altro che il valore
del ‘‘rispetto della persona umana’’, valore che animerebbe l’art. 2 Cost. e alla luce del quale
andrebbe letta la norma incriminatrice.
Non è mancato chi in dottrina abbia sottolineato come nella sentenza n. 293 del 2000 i
giudici costituzionali abbiano finito per riconoscere al limite costituzionale del ‘‘buon costu-
me’’ un significato ampio del tutto identico a quello dell’omologa nozione civilistica (coinci-
dente con il concetto di ‘‘morale pubblica’’). In questo modo non solo si sarebbe contrad-
detta la prevalente dottrina, assestata su posizioni dirette a ritenere che al limite del ‘‘buon
costume’’ debba essere ascritta una portata semantica più ristretta rispetto alla sua nozione
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civile, cioè sostanzialmente coincidente con quella ricavabile dalle norme penalistiche che
presidiano il ‘‘pudore’’ e la ‘‘pubblica decenza’’. Tornando al problema dell’indeterminatezza
del precetto penale, dalla sentenza del 2000 sembra emergere come il rinvio operato dal legi-
slatore a concetti elastici trovi la propria giustificazione e il relativo limite nella tutela della
dignità umana. Se da un lato, infatti, il riferimento ad un concetto aperto permetterebbe al
giudice di merito di adeguare la propria valutazione della condotta punibile all’evoluzione
della società, dall’altro la ratio della norma, consistente nella tutela della dignità umana,
sembrerebbe escludere, affermano i giudici, il rischio di dilatazioni arbitrarie della fattispecie.
La sentenza del 2000, come d’altronde la presente ordinanza, si pone in linea con quella
giurisprudenza ormai consolidata della Corte in tema di giudizio sulla determinatezza, la
quale, con argomentazioni spesso anche differenti, ha sempre escluso la violazione dell’art.
25, comma 2, ritenendo che il più delle volte i dubbi sulla determinatezza della fattispecie
potessero essere risolti su un piano puramente interpretativo, scaricando così sulla magistra-
tura il compito di dare concretizzazione ad enunciati elastici e generici (da ultimo, per un fi-
lone diretto a valorizzare il principio di offensività, cfr. sentt. Corte cost., n. 263 del 2000, n.
519 del 2000, n. 531 del 2000, n. 39 del 2001).
Nel caso concreto la Corte opera un rinvio alla ratio della norma, cioè al bene giuridico
ivi tutelato, cosicché, attraverso un rimando al medesimo, sarebbe possibile ancorare la fatti-
specie alla tutela dei principi fondamentali così da escludere il pericolo di interpretazioni ar-
bitrarie da parte della giurisprudenza Tuttavia non si può sottolineare come il rinvio alla ‘‘tu-
tela della dignità umana’’, quale bene giuridico protetto dall’art. 15 l. n. 47 del 1948, non sia
stato espressamente valorizzato dal legislatore al momento della formulazione della norma
ma sia il risultato finale di un’operazione ‘‘creatrice’’ della Corte. Ora, se si considera l’as-
senza di una giurisprudenza consolidata sull’art. 15, appare evidente la tendenza della Corte
a far valere la propria pronuncia come unico parametro per la futura attività ermeneutica dei
giudici.
ART. 171-ter
L. 22 aprile 1941, n. 633
(Protezione del diritto d’autore
e di altri diritti connessi al suo esercizio)
Vendita e noleggio di videocassette e simili
senza contrassegno SIAE.
(Sent. 23 maggio 2002, n. 209, in G.U., I serie speciale,
29 maggio 2002, n. 21 - manifesta inammissibilità)
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1997, Nannucci, in Riv. dir. ind., 1998, II, p. 369; Cass., 4 marzo 1997, Favilli, in Dir. au-
tore, 1998, p. 108; Cass., 10 febbraio 1998, Sambataro, in Riv. pen., 1998, p. 464; Cass.
pen., sez. III, 26 marzo 1999, Fiorentino, in Foro it., 1999, II, c. 716). Pertanto l’art. 171-ter
non presenterebbe profili di indeterminatezza nell’individuazione della condotta punibile in
quanto proprio l’art. 12 contenuto nel citato regio decreto indicherebbe le modalità di appo-
sizione del contrassegno SIAE. Un diverso orientamento — quello al quale il remittente mo-
stra di aderire compiendo poi però l’errore di sollevare il dubbio di costituzionalità sull’altra
interpretazione affinché la Corte possa disattenderla — ritiene che l’art. 171-ter rappresenti
una ‘‘norma penale in bianco’’ la cui condotta punibile risulterebbe incompleta dal momento
che difetterebbe una disciplina regolamentare ad hoc che fissi le modalità di apposizione del
contrassegno SIAE. Tale disciplina non sarebbe rinvenibile nel r.d. n. 1369 del 1944, il cui
art. 12 sarebbe riferibile alle sole opere letterarie (cfr. Cass., 28 aprile 1998, Melucci, in Dir.
autore, 1998, p. 529; Cass., 16 giugno 1998, Stinga, in Riv. dir. ind., 1998, II, p. 370; Trib.
Torino, 8 novembre 1997, ivi, 1998, II, p. 370; Trib. Milano, 20 giugno 1996, in Annali it.
dir. autore, 1997, p. 756).
La Corte dichiara inammissibile la questione perché formulata in maniera contradditto-
ria. Il giudice a quo, infatti, mostrando di aderire alla tesi che ritiene inapplicabile l’art. 171-
ter in quanto (attualmente) privo del relativo regolamento di esecuzione, avrebbe dovuto
trarre le dovute conseguenza dichiarando l’irrilevanza penale della condotta ascritta all’im-
putato. Il contrasto interpretativo denunciato dal giudice — e tale da creare problemi di
compatibilità con l’art. 25, comma 2, Cost. della norma denunciata qualora fosse stato ac-
colto l’orientamento che nega la possibilità di integrazione del precetto mediante l’applica-
zione del r.d. n. 1369 del 1944 — è stato risolto dalla sentenza della Corte di cassazione,
sez. un., 19 febbraio 2000, n. 2, nel senso che i fatti previsti dall’art. 171-ter, comma 1, lett.
c), della l. n. 633 del 1941, introdotto dall’art. 17 d.lgs. n. 685 del 1994, costituiscono tut-
tora reato, a nulla rilevando che l’emanazione del regolamento di esecuzione non sia avve-
nuta, dovendosi intendere il riferimento al regolamento contenuto nel citato articolo come
fatto al regolamento approvato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369. La ragione principale
viene rinvenuta nel fatto che il d.lgs. n. 685 del 1994, che ha introdotto l’art. 171-ter nella
legge sul diritto d’autore, ha inteso riaffermare il valore centrale di quest’ultima tant’è che le
innovazioni legislative ivi apportate sono avvenute attraverso la tecnica dell’interpolazione:
pertanto il rinvio al regolamento d’esecuzione non potrebbe essere che rivolto proprio al re-
golamento del 1941.
Non convince pienamente il modo in cui la Corte di cassazione ha cercato di superato
l’obiezione in forza della quale l’art. 12 del regolamento di esecuzione del 1941 si riferirebbe
unicamente alle ‘‘opere letterarie cartacee’’ e risulterebbe pertanto inapplicabile alle opere
dell’ingegno descritte nell’art. 171-ter. Per i giudici di legittimità il comma 3 dell’art. 12 con-
terrebbe una ‘‘statuizione a previsione aperta’’ nella parte in cui stabilisce che ‘‘le categorie
di opere che devono essere oggetto di contrassegno in applicazione delle disposizioni della l.
[n. 633 del 1941]... nonché le modalità del contrassegno medesimo... possono essere stabi-
lite anche da accordi economici collettivi tra le associazioni sindacali interessate’’.
ARTT. 30-31
L. 13 settembre 1982, n. 646
Omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali
in materia di prevenzione antimafia
(Ord. 24 aprile 2002, n. 143, in G.U., I serie speciale,
2 maggio 2002, ed. str. - manifesta infondatezza; manifesta inammissibilità)
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zione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento all’art. 3
della Costituzione. Il comma 1 del citato articolo fa obbligo alle persone ‘‘già sottoposte, con
provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della l. 31 maggio 1965, n.
575’’ di comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tribu-
taria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del pa-
trimonio concernenti elementi di valore non inferiore a venti milioni di lire e altresì di comu-
nicare entro il 31 gennaio di ciascun anno le variazioni intervenute nell’anno precedente,
sempre se al di sopra della soglia di valore anzidetta. Dalla lettura del citato comma si desu-
merebbe che l’obbligo di comunicazione è imposto a soggetti sottoposti con provvedimento
‘‘definitivo’’ alla misura preventiva. Tuttavia i commi 2 e 3, stabilendo rispettivamente che il
suddetto termine di dieci anni decorre ‘‘dalla data del decreto’’ applicativo della misura di
prevenzione e che ‘‘gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di preven-
zione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione’’, farebbero intendere che il
medesimo obbligo di comunicazione decorra già dalla data dell’emanazione del decreto o dal
momento della sua esecuzione e, comunque, anteriormente alla definitività del provvedi-
mento, creando così ‘‘incertezza del diritto, con conseguente impossibilità di assicurare ai
soggetti destinatari parità di trattamento dinanzi alla legge’’.
La seconda questione investe invece l’art. 31 della stessa l. n. 646 del 1982, in riferi-
mento all’art. 27 Cost., mentre la terza riguarda ancora dell’art. 31 della citata legge, avendo
tuttavia riguardo agli artt. 3, 35, 41 e 42 Cost.
Con riferimento alla violazione dell’art. 27 Cost., si lamenta la sproporzione in eccesso
nonché l’inefficacia del minimo edittale; ciò discenderebbe dal fatto che l’applicazione delle
pene stabilite dalla disposizione non assicurerebbe la conoscenza delle reali variazioni dei
patrimoni dei mafiosi in quanto tali mutamenti patrimoniali verrebbero effettuati avvalen-
dosi di terze persone (c.d. prestanomi).
Con riferimento alla terza questione, il rimettente denuncia sempre l’art. 31 in quanto
prevede, quale ulteriore conseguenza della condanna per il reato di omessa comunicazione
delle variazioni patrimoniali, ‘‘la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del
corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati’’; nel sistema penale la confisca è una mi-
sura di sicurezza che si fonda sulla pericolosità della disponibilità di alcune cose, che sono
servite o che sono state destinate a commettere il reato o che di questo sono il prodotto o il
profitto, e pertanto essa mira a prevenire la commissione di ulteriori reati. Tale ratio nel caso
in questione mancherebbe. Nella disposizione in questione la misura della confisca — appli-
candosi senza distinzione alcuna anche a beni pervenuti per successione ereditaria o per do-
nazione, o relativamente ai quali il condannato abbia, in ipotesi, acceso un mutuo bancario,
pagando le relative rate con i proventi del proprio lavoro — apparirebbe sproporzionata ri-
spetto alla finalità legislativa di controllo dei movimenti patrimoniali dei soggetti mafiosi (di
qui la violazione del principio di uguaglianza e del canone di coerenza e razionalità della
legge), nonché in contrasto con gli artt. 35, 41 e 42 Cost., essendo prevista l’ablazione di
beni e utilità anche quando siano il prodotto del lavoro e del risparmio e dunque quando
l’acquisto della proprietà derivi da attività consentite e protette dal diritto.
La Corte, rispondendo alle prime due censure, non può non richiamarsi all’ordinanza n.
442 del 2001, successiva alle ordinanze di rinvio ora in esame: allora la Corte aveva sottoli-
neato come la prima questione avesse sollevato un mero dubbio di carattere interpretativo
che sarebbe spettato al giudice dissolvere mentre la seconda questione si era risolta in consi-
derazioni critiche circa l’opportunità della norma, non traducibili in censure di costituziona-
lità apprezzabili, specie poi a fronte dell’ampia discrezionalità del legislatore nella determi-
nazione dei reati e delle relative sanzioni. La Corte invece affronta per la prima volta la terza
questione dichiarandola tuttavia manifestamente inammissibile. In primo luogo, ed in via
preliminare, i giudici costituzionali sottolineano come la questione sollevata abbia natura de-
rivata nel senso che il problema di costituzionalità si porrebbe solo dopo l’affermazione di
responsabilità del soggetto per il reato di cui all’art. 30 della l. n. 646 del 1982; un’afferma-
zione che tuttavia mancherebbe. Ciò nonostante il remittente viene invitato a non scartare
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quel filone interpretativo della norma in oggetto che esclude la sussistenza del reato, sotto
il profilo dell’elemento soggettivo, quando le operazioni siano costituite da atti legalmente
soggetti a forme di pubblicità che rendano di per sé impossibile l’occultamento di essi.
ART. 2
D.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490
(T.U. delle disposizioni legislative
in materia di beni culturali e ambientali)
Reati di contraffazione, commercio
e autenticazione di opere d’arte
(Sent. 10 maggio 2002, n. 173, in G.U., I serie speciale,
15 maggio 2002, n. 19 - infondatezza)
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contenute nell’art. 127 T.U. non si riferissero anche alle opere di autori viventi o di recente
esecuzione.
Sebbene per la Corte si imponga un’interpretazione storico-sistematica dell’art. 2,
comma 6, tesa a non estendere la citata esclusione anche alle norme incriminatrici della l. n.
1062 del 1971 contenute oggi nell’art. 127 del T.U., è palese come il denunciato difetto di
coordinamento in cui è caduto il legislatore delegato possa incidere, e non poco, sulla chia-
rezza della norma penale, minando il principio di determinatezza: le prescrizioni contenute
in un precetto penale dovrebbero essere per il cittadino di immediata evidenza e comprensi-
bilità. Obiettivi che, nel caso in questione, sono possibili solo attraverso una complessa rico-
struzione delle normative che sono state trasfuse nel T.U.
ANDREA GIANNOTTI
Dottorando di ricerca
in Storia e dottrina delle istituzioni
nella Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università dell’Insubria
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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
Questa tesi di dottorato ripropone al dibattito scientifico i legami che uniscono tre temi
del XIX secolo ingiustamente trascurati: il filosofo tedesco Karl Christian Friedrich Krause
(1781-1832), la sua teoria penalistica e la sua connessione con il « correccionalismo » spa-
gnolo.
Krause elaborò una filosofia idealista; egli però voleva applicarla alla vita, tanto che la
chiamò « scienza dell’arte di vivere ». Le sue opere mirano quindi a costruire una teoria della
società che possa essere tradotta in pratica e proprio questo suo desiderio lo portò a vedere
nella massoneria la struttura adatta a costituire il germe di quella « lega dell’umanità » da cui
sarebbe potuto scaturire lo Stato mondiale. L’invasione napoleonica della Germania e, sul
piano personale, il suo conflitto con la massoneria gli imposero numerosi cambiamenti di
università e ostacolarono la diffusione del suo pensiero sociale e penale, che ebbe ben poca
fortuna in Germania.
Uno strumento fondamentale per realizzare la società solidaristica teorizzata da Krause
era la pedagogia, che doveva plasmare individui capaci di una convivenza armonica. Di qui
nasceva anche la sua visione del diritto penale come strumento per migliorare il deviante al
fine di reinserirlo nella società e, quindi, la sua visione della pena come strumento di corre-
zione, e non di afflizione o di retribuzione. Il suo pensiero sul diritto penale e sulla funzione
della pena fa parte di un più vasto sistema filosofico e va perciò ricostruito componendo in
unità i frammenti sparsi nelle sue opere filosofiche. La sua opera più ricca di spunti penali-
stici è quella dedicata alla filosofia del diritto, che però venne pubblicata postuma dal suo
unico seguace in campo penalistico, Karl David August Röder (1806-1879). Tuttavia anche
quest’ultimo non ebbe in Germania miglior fortuna del maestro.
A questa sfortuna in patria fa da contrappunto un vasto e duraturo successo in Spagna
(tema di cui si occupa la ricerca dell’Autrice: ma il successo del pensiero krausiano riguarda
l’intera penisola iberica e anche le sue colonie sudamericane). Il rifiuto tedesco e il successo
spagnolo di Krause e di Röder si spiega con la diversa situazione politica e culturale delle
due aree geografiche.
In Germania la teoria solidaristica di Krause venne interpretata come un’ultima difesa
del despotismo illuminato, cioè come la fase conclusiva del pensiero illuministico. Ormai ne-
gli Stati tedeschi si facevano strada le teorie liberali del diritto penale, che miravano soprat-
tutto a tutelare l’individuo dall’arbitrio del sovrano. Il diritto penale doveva, secondo
Krause, riconciliare il deviante con la morale e riportarlo nel seno della società, mentre per i
liberali il diritto andava separato dalla morale. Anche la teoria dell’umanizzazione dell’ese-
cuzione penale, propugnata da Röder, venne di fatto ignorata dai suoi contemporanei tede-
schi.
In Spagna, la forza del regime assolutistico e clericale ritardò la penetrazione delle idee
illuministiche già diffuse nel resto d’Europa, cosicché in queste ultime gli intellettuali spa-
gnoli videro soprattutto lo strumento per il riscatto dall’arretratezza culturale. La visione ar-
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monica di Krause, il fondamento su Dio del suo intero edificio filosofico e il suo pedagogi-
smo sociale lo rendevano particolarmente adatto ai fini perseguiti dai liberali spagnoli.
Quindi lo sfasamento culturale fra Spagna e Germania si trasformò in un fattore di successo
per la filosofia sociale (e quindi anche penale) di Krause e di Röder.
Il pensiero di Krause divenne in Spagna la bandiera del riformismo sociale, tanto che
questo movimento prese il nome di « krausismo », si affermò in tutta la penisola iberica e, di
lì, passò alle colonie spagnole e portoghesi dell’America latina. Gli scritti sul krausismo nel
mondo ibero-americano possono riempire intere biblioteche.
L’opera qui esaminata si concentra sulla recezione in Spagna del pensiero penalistico di
Krause e di Röder. All’origine dell’affermazione spagnola di Krause è la traduzione d’una
sua opera massonica da parte di Julián Sanz del Río (1814-1869): è di qui che prende inizio
quel « racionalismo armónico » che costituisce la filosofia del liberalismo spagnolo. La filo-
sofia krausista ebbe modo di tradursi in pratica durante la Prima Repubblica (1868-1874),
come si vedrà fra poco. Il krausismo spagnolo non era una recezione rigorosamente orto-
dossa del pensiero krausiano, ma piuttosto un diffuso atteggiamento che ad esso si ispirava,
restando aperto a ogni influsso straniero che servisse ad ammodernare la Spagna. Per questo
il krausismo fu la via attraverso cui anche il positivismo entrò nella penisola iberica, che co-
nobbe così un « krausopositivismo », il quale a sua volta influenzò il « socialismo umanista »
e l’anarchismo spagnolo.
Anche la recezione del pensiero penalistico krausista non si presentò come un movi-
mento unitario, ortodossamente discendente da una dottrina-guida. Il « correzionalismo spa-
gnolo » indica anzi una serie di dottrine diverse, che hanno in comune una concezione della
pena intesa come ricupero sociale del deviante. L’importanza di questo movimento è da ve-
dere soprattutto nella sua capacità di tradurre in pratica le idee teoriche sviluppate a partire
da Krause. La denominazione del movimento spagnolo deriva direttamente da un’opera di
Röder: in una nota della traduzione spagnola del 1871 si legge che il termine tedesco « Bes-
serungstheorie » viene tradotto con « teoría correccional » perché in essa « la pena se consi-
dera como condición para el mejoramento del delincuente » (p. 64, nota 7).
Il libro di Bettina Wirmer-Donos si sofferma dettagliatamente su due grandi temi: dap-
prima il correzionalismo spagnolo e i suoi rappresentanti più significativi (pp. 61-112); poi,
la recezione in Spagna delle idee di reato, di pena, di imputazione e dell’intera dottrina pena-
listica di Krause (pp. 113-215). Qui è possibile accennarne soltanto per sommi capi.
Francisco Giner de los Ríos (1839-1915), una delle figure centrali del liberalismo spa-
gnolo, fu un fedele seguace di Röder, di cui tradusse l’opera principale. A lui si deve la crea-
zione della « Institución Libre de Enseñanza », realizzazione delle idee pedagogiche di
Krause e centro di cultura esistente ancora ai giorni nostri. Nel penalista Pedro Dorado
Montero (1861-1915) — rappresentante del socialismo « armonico » o « humanista » - il
pensiero fondato su Dio, tipico di Krause, viene fuso con la visione positivistica, generando
il « krausopositivismo »: la pena si fonda così su un concetto trascendente di ragione, aperta
però al razionalismo e all’empirismo sociologico tipici del positivismo. L’apertura di Dorado
Montero al positivismo si può far risalire agli anni trascorsi a Bologna (1884-1887), nei
quali entrò in contatto con il pensiero di Lombroso, Ferri e Garofalo.
Il correzionalismo spagnolo si biforcò in una corrente krausista (con gli autori appena
visti) e in una corrente eclettica, nella quale emerge la figura della penalista e ispettrice car-
ceraria Concepción Arenal (1820-1893). La sua vasta opera si fonda più su studi empirici
sul delinquente (fondati sulla sua attività di ispettrice carceraria) che su studi teorici (pre-
sentati in numerosi congressi europei, pur non essendo la loro autrice mai uscita dalla Spa-
gna). Concepción Arenal cerca di andare oltre ai modelli krausisti, peraltro a lei ben noti, e
va considerata « una precorritrice della Défense sociale » (p. 70).
Da queste teorie spagnole scaturirono notevoli interventi legislativi. All’attività concreta
di miglioramento della vita carceraria, propria di Concepción Arenal, va aggiunto il « Labo-
ratorio de criminología » di Giner de los Ríos. Divenuto poi « Escuela de criminología » e
destinato a formare un personale penitenziario atto a promuovere la redenzione morale del
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detenuto, questo istituto venne chiuso sotto la dittatura di Primo de Rivera. Venne poi ria-
perto e giunse con alterna fortuna sino ai giorni nostri con il nome di « Escuela de estudios
penitenciarios ». In queste attività si fondono le componenti penalistica e pedagogica del
pensiero krausista.
Le teorie krausiste influirono sulla realtà giudiziaria e penitenziaria spagnola anche at-
traverso la legislazione penale. In Spagna l’« esecuzione progressiva » venne introdotta col
decreto del 3 giugno 1901 e la libertà condizionale con la legge del 1914, mentre con il de-
creto del 18 maggio 1903 il sistema tutelare sostituì la tradizionale organizzazione carceraria
fondata sul modello militare. Le teorie di Dorado Montero sul « diritto come protettore del
deviante » si tradussero nella creazione dei tribunali per i minori (Tribunales para niños,
legge del 2 agosto 1918) e nell’attribuzione allo Stato d’un forte potere di intervento sulla li-
bertà dei giovani e sui diritti dei genitori, al fine di tutelare la società da un’educazione po-
tenzialmente pericolosa. Per Dorado il diritto penale era infatti una parte del diritto ammini-
strativo (p. 106). Queste norme restarono in vigore sino alla fine del franchismo e vennero
sostituite da un nuovo diritto minorile nel 1974 e nel 1992, riportando quest’area nell’am-
bito del diritto penale generale.
L’apogeo dell’influsso krausista sul diritto positivo spagnolo si ebbe con ogni probabi-
lità con la rilevante figura di studioso e politico Luis Jiménez de Asúa (1889-1970). Come
deputato del partito socialista (PSOE) partecipò alla stesura della Costituzione del 1931 e
alla riforma del diritto penale, fermo al 1870. Le idee krausiane della riabilitazione trova-
rono un’applicazione pratica nella legge sui vagabondi, da lui propugnata (Ley de vagos y
maleantes del 1928; poi Ley de rehabilitación social). Essa contiene una serie di misure per
la riabilitazione e il reinserimento sociale degli emarginati, fondate sull’idea krausiana della
« pena indeterminada » in funzione della pericolosità sociale del singolo. Si è ormai all’inizio
del XX secolo e quindi alle idee krausiste si sommano gli influssi della Défense sociale e
della scuola nordamericana. Queste norme restarono in vigore fino alla riforma del 1995.
La voce del krausismo torna a riecheggiare, dopo la fine del regime di Franco, anche
nella costituzione spagnola del 1978, il cui articolo 25, comma 2, sancisce la funzione « cor-
rezionalista » della pena con queste parole iniziali: « Le pene detentive e le misure di sicu-
rezza sono dirette alla rieducazione e al reinserimento sociale e non possono consistere in la-
vori forzati ». (Mario G. Losano).
ALESSANDRI A. (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società. D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61,
Milano, Ipsoa, 2002, pp. XIV-645.
L’opera si apre con una Prefazione di C. Pedrazzi che in pochi paragrafi disegna con
singolare nitidezza alcuni dei punti più critici della riforma e si chiude con un « tranquillo
pronostico »: per la dottrina e la giurisprudenza il nuovo diritto penale societario « rappre-
senterà una sfida decisamente severa » (e non occorre sottolineare, in questa sede, con
quanta puntualità quel pronostico sia stato rispettato).
Proseguendo idealmente su questa linea argomentativa, il Curatore, nella prima sezione
dedicata ad una valutazione complessiva della riforma, rileva come l’impegno a « superare le
angustie » di una « prima lettura » e la natura collettanea dell’opera abbiano portato ad esiti
interpretativi anche fortemente differenziati, in parte frustrando quel compito di « chiari-
mento » e « sistemazione » che la dottrina, « a torto o a ragione, usualmente si attribuisce ».
Tali esiti divergenti sarebbero « il segno caratteristico della nuova disciplina » e, andando
ben oltre la normale differenziazione delle soluzioni interpretative generata da una novità le-
gislativa, sarebbero favoriti dagli ambigui dati testuali, « che legittimano sovente una vasta
gamma di soluzioni ». La prima sezione prosegue analizzando « le linee generali della ri-
forma »: non sembra che le impegnative « parole d’ordine » della riforma — sussidiarietà,
extrema ratio, certezza del diritto, offensività, certezza delle pene — abbiano trovato com-
piuta applicazione e, in ogni caso, non è ben chiaro quali scelte di politica criminale ne con-
siglino un’attuazione differenziata nell’ambito del diritto penale societario. Il risultato è un
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arretramento della soglia del penalmente rilevante immotivata e capricciosa ed una ristruttu-
razione delle oggettività giuridiche in chiave patrimoniale che priva la materia della propria
individualità sistematica, convogliando un messaggio di sostanziale disuguaglianza rispetto
al trattamento riservato alla criminalità « comune ».
La seconda sezione è dedicata alla trattazione delle « questioni generali »: in questa
parte dell’opera trovano collocazione un capitolo che si occupa della « estensione delle quali-
fiche soggettive »; ben due capitoli volti all’analisi della « responsabilità delle persone giuri-
diche » (il secondo dei quali è interamente dedicato ai modelli di organizzazione, gestione e
controllo, vero cuore della disciplina del D.Lgs. 231/2001, ed alle specifiche problematiche
che la costruzione di tali modelli in relazione a reati tipicamente di vertice come quelli socie-
tari potrà presentare); un capitolo dedicato alla confisca; uno dedicato alle delicate questioni
di diritto intertemporale sollevate dalla riforma ed uno relativo alle questioni processuali.
Esaurita la trattazione delle questioni generali, l’opera prosegue analizzando le singole
fattispecie introdotte o novellate dalla riforma con le sezioni riservate, rispettivamente: alle
falsità (il commento degli articoli 2621 e 2622 c.c. è affidato a due diversi Autori, rendendo
immediatamente evidente quella divergenza di esiti interpretativi preannunciata dal Curatore
nelle pagine introduttive); agli aspetti economici ed alle questioni contabili del falso in bilan-
cio (questa sezione offre una lettura delle tanto discusse soglie di rilevanza da parte di uno
studioso di economia aziendale, che ne sottolinea la fondamentale irrazionalità e la totale in-
congruenza con le regole ed i principi che reggono la formazione dei bilanci); alla tutela pe-
nale del capitale sociale e delle riserve obbligatorie per legge; alle infedeltà; alla tutela del re-
golare funzionamento degli organi; alla tutela penale del mercato; alle modifiche alla legge
fallimentare.
La decima ed ultima sezione, dedicata alle considerazioni comparatistiche, costituisce
uno degli aspetti più originali dell’opera; nessuna delle opere di commento alla riforma de-
dica tanto spazio all’analisi del trattamento riservato dagli altri ordinamenti ai reati societari
(oltre alle iniziative dell’Unione Europea, vengono prese in considerazione le soluzioni adot-
tate negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania ed in Spagna): essa si inseri-
sce armoniosamente nel piano generale dell’opera e rappresenta l’ideale completamento dei
numerosi — ma necessariamente sintetici — riferimenti comparatistici che costellano le pa-
gine che la precedono, denunciando la totale distonia dell’intervento del legislatore italiano
rispetto ai moderni strumenti di lotta alla criminalità economica.
Chiude l’opera un’appendice normativa contenente, a conferma della particolare atten-
zione prestata alle questioni comparatistiche, anche il testo integrale del Sarbanes - Oxley
Act 2002. (Matteo Saccavini).
Gli Scritti sono una raccolta di opere del professor Contento, presentata nel primo anni-
versario della Sua scomparsa. È una sintesi critica, una selezione, piuttosto che una riprodu-
zione integrale, delle opere cosiddette minori, cioè non monografiche. Oltre a scritti già pub-
blicati, la maggior parte, vedono le stampe due inediti di particolare pregio, rispettivamente
del 1978-1980, in materia di concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, e del
2000, in tema di proposte de lege ferenda sulla disciplina del concorso di persone nel reato.
Una nota bio-bibliografica e la presentazione del curatore aprono il volume (*), che pro-
pone un’articolazione in tre parti così intitolate: Il volto umano del diritto penale, In difesa
della legalità, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Gli Scritti compendiano tratti essenziali della proposta penalistica di Gaetano Contento:
(*) I titoli citati in nota sono quelli del volume, con relativa pagina di riferimento; tra
parentesi è indicato l’anno dello scritto.
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una proposta, unitaria come il filo conduttore della raccolta, che ne attraversa le partizioni
senza alcuna sostanziale cesura. La persona è il fulcro dell’esperienza giuridica, e la permea
così intimamente che il diritto penale assume un volto, un volto ... umano. Di qui l’intitola-
zione della prima parte, che svela anzitutto le radici culturali dell’Autore, ed i Suoi più pro-
fondi convincimenti.
Nel richiamo ad un’imprescindibile connotazione personalistica del diritto emergono
anzitutto gli insegnamenti di Aldo Moro e di Renato Dell’Andro, Maestri indimenticati: la
persona e l’uomo di Moro, e di Dell’Andro, sono senz’altro presenti nei molti soggetti che
popolano l’opera di Contento, e che in essa sono tutti protagonisti, ciascuno a proprio titolo,
dell’esperienza giuridica.
Chi sono questi soggetti? Il detenuto, e gli operatori penitenziari, ma anche lo stesso le-
gislatore, i giudici, e tutta intera la comunità sociale.
Il riferimento ai soggetti, un riferimento che lascia il segno, nella memoria di chi legge,
ricorre dunque a denotare un particolare legame che avvince l’uomo al diritto. È così che la
vita umana e la vita del diritto appaiono binari che devono correre paralleli, e svolgersi all’u-
nisono. Questo riesce a spiegare anzitutto il rifiuto delle sovrastrutture concettuali, che ine-
vitabilmente allontanano il mirino della giustizia penale dall’uomo, e dall’uomo colto in-
sieme al suo evolversi nella storia: per l’Autore — siamo nelle prime pagine della raccolta —
« la evoluzione della pena carceraria va di pari passo con la evoluzione della libertà del-
l’uomo » (1). Al contempo, l’adesione alla concretezza storica della vicenda umana non smi-
nuisce gli slanci ideali propri della stessa vicenda umana, che si trovano espressi anche nelle
norme, e specialmente nelle norme costituzionali. Ebbene, le indicazioni della Carta fonda-
mentale confermano una concezione del diritto penale a misura dell’uomo, il cui cardine è la
colpevolezza intesa non come (mero) elemento costitutivo del reato, ma piuttosto come
« postulato della stessa idea della giustizia penale » (2) che si ritiene « debba essere posto a
fondamento della responsabilità penale alla stregua, ad esempio, dei principi di legalità, di
determinatezza, di necessaria lesività del fatto » (3).
In armonia con questa particolare idea di colpevolezza la centralità della persona umana
si declina inizialmente nella proposta di un’alternativa al carcere, proposta che si dispiega
nel superare il « monopolio » di questa sanzione, perché assolutamente inadeguata nel caso
delle pene detentive di breve durata. In sua sostituzione possono risultare più efficaci altre
pene, in quanto incidenti su beni della vita ugualmente importanti per il singolo rispetto al
bene della libertà in senso stretto che viene colpito dalla permanenza in carcere. Quali beni
ugualmente importanti « esistono una quantità di situazioni soggettive a cui l’uomo, nella
vita di oggi, tiene per lo meno quanto alla libertà, poiché sono esse che danno un significato
e un valore pratico alla stessa libertà » (4). Le potenzialità di questa diversa filosofia della
pena sono presto svelate: « qualunque sospensione dell’esercizio di facoltà che nella vita di
oggi sono concesse agli individui, protratta nel tempo, può essere lo stimolo e la garanzia mi-
gliore del recupero dell’individuo, se quella attività gli è cara, se il godimento di quel bene
gli è caro » (5).
Concretamente emerge il primato della funzione rieducativa della sanzione penale: l’e-
spiazione della pena non può perciò ridursi a mera retribuzione-riparazione del mal fatto o
minaccia di un castigo che distolga dal delinquere, altrimenti si renderebbe la pena una ven-
detta (6), o un cieco strumento di deterrenza. L’Autore richiama l’umana comprensione del
(1) Osservazioni sui limiti naturali e funzionali della pena carceraria nella civiltà
moderna (1964), 8.
(2) La responsabilità senza colpevolezza nell’applicazione giurisprudenziale (1988),
245.
(3) La responsabilità senza colpevolezza, cit., 244.
(4) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 15.
(5) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 16.
(6) Cfr. Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro (1998), 34.
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(7) Il primato della persona umana nel pensiero e nell’opera di Renato Dell’Andro
(1988), 25.
(8) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 9.
(9) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 5.
(10) Il primato della persona umana, cit., 25.
(11) Il primato della persona umana, cit., 29.
(12) Limiti della norma e fattispecie non punibili (1965), 46.
(13) Limiti della norma, cit., 47.
(14) Limiti della norma, cit., 55.
(15) Note sulla discrezionalità del giudice penale, con particolare riguardo al giudi-
zio di comparazione fra le circostanze (1978), 90.
(16) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 90.
(17) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 90.
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dirsi soddisfatta isolando le indicazioni contenute nell’art. 133 c.p., norma che di per sé sola
fornisce gli oggetti di valutazione senza alcun vincolo per la formulazione del giudizio, e
senza nemmeno la possibilità di rinvenire indirizzi sufficientemente univoci ai quali infor-
mare la valutazione.
Il superamento dell’impasse è nell’interpretazione, ancora una volta, di tutto l’ordina-
mento, giacché « il sistema, nelle sue varie espressioni normative, offre, di regola — o, co-
munque, può offrire in numerosi casi — un « criterio » di valutazione « qualificativo » di de-
terminati elementi, cui dunque, può e deve essere rapportato e riferito il « tipo » di valuta-
zione che il giudice è chiamato a compiere, nell’esercizio del suo potere discrezionale ex art.
133 c.p. » (18).
Ad analoghe esigenze di limitazione della discrezionalità giudiziale è ispirata la proposta
di scorgere dei vincoli oggettivi per la formulazione del giudizio di comparazione tra circo-
stanze. Detti vincoli rinvengono da una quantificazione del « grado, per così dire, « intrin-
seco » di intensità della circostanza » (19), da valutarsi configurando le possibili alternative
sulle quali parametrare quella concretamente verificatasi, di guisa che la circostanza assuma
« un valore oggettivo » (20).
Nella riflessione sul Concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi si coglie
ancora una volta il sentiero della ricognizione ed interpretazione dell’intero sistema come
metodo di risoluzione dei singoli problemi del diritto penale. In particolare, la valutazione
che l’ordinamento riserva a taluni contributi causali rispetto alla realizzazione dei singoli atti
di partecipazione è ritenuta contrastante con l’ipotesi della rilevanza dei medesimi contributi
a titolo di concorso nel reato associativo, perché quest’ultima ipotesi opererebbe in dispregio
della selezione effettuata dal legislatore mercé la tipizzazione di talune forme di apporto
(quali favoreggiamento, assistenza, propaganda, etc.). Questa posizione — avverte l’A. —
non trova consensi nella prassi applicativa: l’intento della magistratura di supplire alle la-
cune e alle carenze dell’organo legislativo, impiegando con grande ampiezza la figura del
concorso esterno, ha prodotto sul piano operativo i risultati attesi, nei termini in cui « il cit-
tadino è sicuramente incentivato ad astenersi, nel dubbio, da qualsiasi tipo di attività che,
anche in modo non chiaramente definito, possa essere valutata anche solo lontanamente im-
parentata con fatti illeciti veri e propri » (21). Interrogandosi sul se una tal opzione « valga il
prezzo (...), che si è costretti a dover pagare », Contento è « dell’avviso che non si possa e
non si debba rinunciare alla chiarezza, e, nei limiti del possibile, alla certezza del diritto, né
al postulato della riserva assoluta di legge in materia penale, e, quindi, all’esigenza di deter-
minatezza della fattispecie » (22).
La riserva assoluta di legge è dunque un postulato... e come tale principio guida anche
nei rapporti tra Magistratura, giurisprudenza penale e potere politico. Si tratta di rapporti
difficili, addirittura critici, nella cui fenomenologia la magistratura, affrancandosi da un’in-
terpretazione passiva delle norme ed operando in nome di una concretizzazione dei valori
costituzionali, finisce col travolgere proprio la riserva assoluta di legge ogniqualvolta si sur-
roga al legislatore per « colmare », ermeneuticamente, le lacune (effettive o ritenute tali) del
sistema » (23). La critica è dunque indirizzata a quella giurisprudenza che dimentica « il vin-
colo obiettivo imposto all’attività ermeneutica dal principio di tassatività dell’illecito pe-
nale » (24), accordando prevalenza ad altri obiettivi, quegli « altri » valori costituzio-
nali » (25) ai quali risulta finalizzato l’uso della coercizione penale, e sempre in un’ottica di
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in ogni momento del suo duro lavoro; un giudice che viva e condivida l’esperienza delle vit-
time, e la tragedia inenarrabile delle famiglie colpite dal delitto, ma sappia essere, nello
stesso tempo, immune dalla tentazione di identificarsi con quel Sommo (ed unico!) giudice
che, solo, non ha mai bisogno di prove, perché tutto conosce. Non è utopia: di questi giudici,
anzi, anche oggi per fortuna ve ne sono tanti che infondono, con il loro stesso semplice « es-
serci », nell’istituzione, fiducia e speranza in un possibile mutamento » (31).
In Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale Contento si (pre)occupa « di
come sia possibile (e, anzi, si deve precisare, « se » sia possibile) conciliare il rispetto del
« principio di legalità » in materia penale con la « creatività » dell’interpretazione giurispru-
denziale » (32). L’Autore riprende il perseguimento da parte della magistratura di propri in-
dirizzi di politica criminale, autonomamente promossi come meritevoli di un’operazione vi-
caria del potere legislativo da parte degl’intepreti, che si traduce nell’interpretazione additiva
delle fattispecie criminose, con occasionali ampliamenti dell’area del penalmente rilevante. Il
controllo sulla legittimità costituzionale, rispetto al principio di legalità, di tali operazioni è
rimesso all’eventuale promozione di un pronunciamento della Consulta da parte del giudice
di merito, sicché « il principio di legalità è inesorabilmente destinato a soccombere — al-
meno de iure condito — poiché non esiste alcun mezzo idoneo ad ottenerne coattivamente il
rispetto » (33) ... « a meno che, naturalmente, non si giunga a formare (cosa estremamente
improbabile!) una diversa « cultura » della giurisdizione penale » (34).
Per il rispetto del principio di legalità sotto il profilo della « legalità della contesta-
zione », un’innovativa proposta è quella « di affidare il controllo della sua osservanza, in al-
ternativa alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ad un particolare ed ancor più rappre-
sentativo consesso giudicante (eventualmente integrato da esponenti della cultura giuridica)
che il cittadino dovrebbe essere facultato ad investire senza dover attendere la mediazione
dei giudizi intermedi, affinché la questione di « legalità » della incriminazione possa essere
decisa, una volta per sempre, sin dal sorgere del processo, e nel momento stesso in cui la
contestazione venga formulata, prima ancora che siano compiuti gli accertamenti istruttori
rivolti alla sussistenza concreta del fatto e della possibilità di attribuirne la commissione al-
l’imputato » (35).
Il discorso prosegue, come si è già notato, in un continuum, e nella terza parte della rac-
colta si concretizza gran parte della proposta di Contento, per una verifica applicativa dei
principi generali, già emersi, nel settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, nel quale particolarmente si fronteggiano i due opposti interessi del potere
politico-amministrativo, attento alle sue prerogative, e quello giudiziario, teso ad esercitare
un controllo sugli atti e sulle attività del primo.
Per la composizione del conflitto il primo ingrediente è uno strumento di equilibrio
« terzo » rispetto alle parti, individuato nella supremazia della legge. La difesa della legalità
si propone anche come l’antidoto ai problemi di interferenza tra i poteri dello Stato; e in par-
ticolare il difficile rapporto tra magistratura penale ed amministrazione pubblica, tanto più
nello specifico settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione,
trova soluzione nel « »necessario rispetto » del principio di legalità » (36). In questa dire-
zione si rende indispensabile l’operare di precisi vincoli normativi alla giurisprudenza penale
nella sindacabilità di atti ed attività della PA, specialmente di quelli discrezionali, per i quali
il rischio di una vera e propria supplenza giurisdizionale si manifesta, questa volta, nei con-
fronti di scelte di amministrazione.
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L’ammonimento è sempre quello della ricerca di un punto di equilibrio, per non « in-
camminarsi verso strade senza ritorno » (37).
In tutta la raccolta si può constatare che la fedeltà al sistema, il pervicace impegno per
la difesa della legalità, non sono cieco ossequio della legge: « solo proprio gli ingenui peren-
nemente illusi possono aspettarsi che basti ritoccare una norma, ridefinire un concetto,
esprimere con più chiarezza qualcosa che magari è già chiara (ma che evidentemente non si
vuole intendere) per ottenere dei risultati » (38); che la scienza penale, in generale la scienza
giuridica (il cui « postulato fondamentale » è « la possibilità di una interpretazione fedele ed
obiettiva del sistema » (39)), può e perciò deve elaborare strumenti e soluzioni tecnicamente
appropriate ed adeguate agli obiettivi che il legislatore intende perseguire (40).
Di più, i limiti della lettera delle norme rispetto al risultato della loro interpretazione
sono espressi in modo evidente in un chiaro invito « riassuntivo » ad « essere fedeli interpreti
della legge, ossequienti al principio di tipicità, convinti della impossibilità di affermare l’ille-
cito penale senza il riscontro della necessaria lesività del fatto, legati ad una ricostruzione del
reato di tipo sostanziale e ricca di contenuti significativi » (41).
Per concludere, la posizione sempre centrale, primaria, dei soggetti che popolano le
opere di questa raccolta, sembra denotare una proposta complessiva che riesce davvero a ca-
ratterizzare un diritto penale teso « alla promozione ed al perfezionamento dell’Uomo » (42)
anche attraverso una pena alla quale è irrinunciabile « una finalità di conservazione o di pro-
gresso nella vita della comunità » (43). (Gianluca Denora).
FROSINI B., Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, Giuffrè,
2002, pp. 184.
Fra i « temi della modernità », ai quali si ispira la collana diretta da Stella in cui si inse-
risce il lavoro di Frosini, quello del diverso atteggiarsi delle prove statistiche nel processo ci-
vile ed in quello penale occupa un ruolo di sicuro rilievo. La prospettiva è quella delineata
da Stella nell’opera (Giustizia e modernità, 2001, rist. 2002) che ha inaugurato la collana:
l’inadeguatezza del processo penale ad assecondare aspirazioni di giustizia (in primis, delle
vittime dei processi produttivi) che debbono fare i conti con la regola di giudizio dell’« oltre
il ragionevole dubbio »; la necessità di sperimentare le chances del processo civile, in cui
opera la diversa regola della « preponderanza dell’evidenza », o del « più probabile che no ».
Per mettere a punto i problemi suscitati dal ricorso a valutazioni probabilistiche ed al-
l’inferenza statistica nel processo penale (compito che esula dalle attitudini e dalla mentalità
stessa del giurista classico) ecco allora emergere la necessità — anche questa tutta « mo-
derna » — di una prospettiva interdisciplinare, in grado di assicurare alla conformazione ed
all’applicazione di essenziali istituti giuridici il necessario supporto scientifico.
L’autore di questo pregevole libro, in effetti, non è un giurista, ma uno studioso di stati-
stica teoretica. Ma solo in una visione cocciutamente restia a riconoscere l’unitarietà del sa-
pere potrebbe rimanere nell’ombra il dato per cui lo studio delle inferenze statistiche nel
processo ha trovato impulso decisivo, specialmente nei paesi di lingua inglese, proprio nel
contributo degli studiosi della probabilità: è in quel contesto che è maturato — come osserva
Stella nella prefazione — il passaggio dal dominio della bayesiana concezione « quantita-
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tiva » nella valutazione delle prove all’emersione di una concezione « qualitativa » della pro-
babilità, intesa come grado di conferma dell’ipotesi sul fatto.
Innanzitutto, un consiglio al lettore, almeno a quello non avvezzo a metodi e concetti
propri delle scienze statistiche: iniziare la lettura dell’opera dal fondo, e cioè dalla breve
« appendice » in cui l’autore offre, in forma il più possibile semplificata, alcune nozioni di lo-
gica, matematica e statistica utili per la comprensione degli argomenti trattati e dell’usuale
linguaggio degli statistici.
Frosini è ben consapevole della strumentalità delle conoscenze statistiche rispetto all’ap-
plicazione del diritto, e fin dal capitolo introduttivo chiarisce quali saranno le direttrici del
lavoro, che risulterà costantemente segnato dal confronto fra processo penale e processo ci-
vile sotto il profilo della rilevanza probatoria delle prove statistiche in relazione alla diversità
dei valori in gioco nei due tipi di processo (da una parte valori di somma importanza, come
l’onorabilità e la libertà personale, dall’altra interessi di minore portata, perlopiù di indole
patrimoniale).
Il capitolo successivo — relativo a « significato e valutazione delle probabilità » — con-
tiene alcune considerazioni generali sulle teorie delle probabilità, ed in particolare delinea il
carattere ineliminabilmente soggettivo — dipendendo in maniera consistente dall’esperienza,
dalle scelte di metodo e dalle stesse finalità del valutatore — che le determinazioni di proba-
bilità presentano quando è in gioco la vita umana o il benessere di uno o più individui: « la
gran maggioranza dei problemi operativi, che gli individui, le imprese, le organizzazioni pub-
bliche, devono affrontare e risolvere, si basano su valutazioni di probabilità squisitamente
soggettive, o perché si riferiscono a eventi unici (quando non è configurabile un esperimento
casuale che può essere ripetuto — almeno in linea di principio — sotto condizioni omoge-
nee), o perché non esistono informazioni sulla realizzazione dell’esperimento teoricamente
configurato ». Il carattere soggettivo delle valutazione probabilistiche assume un significato
particolare allorché esse si situino all’interno di un campo — appunto, il processo penale —
in cui operano importanti condizionamenti di valore, come la presunzione di innocenza e la
regola del « ragionevole dubbio » ai fini del giudizio di responsabilità. Anticipando il leit mo-
tiv dei capitoli successivi, Frosini mette subito in chiaro che tale regola va interpretata in
senso più qualitativo che quantitativo: « una probabilità anche molto elevata di colpevolezza,
che però ammetta zone d’ombra, ovvero che non consenta di escludere ogni verosimile ipo-
tesi di non colpevolezza, non può essere assimilata al conseguimento della pratica certezza,
nella quale si estrinseca il suddetto criterio. Da ciò discende, quindi, che le valutazioni pro-
babilistiche trovano il loro terreno di elezione soprattutto — anche se non esclusivamente —
nel processo civile, dove tipicamente vale la regola del ‘più probabile che no’ ».
Nel terzo capitolo, relativo a « valori in gioco e probabilità nel processo civile e nel pro-
cesso penale », si entra decisamente nel cuore della problematica delle valutazioni probabili-
stiche in ambito processuale, di cui vengono esaminati concetti e metodologie, con costante
riferimento a casi-guida ora fittizi, ora reali (si vedano, ad esempio, le stimolanti pagine sul
caso Dreyfus). Particolare interesse presenta la trattazione della nota formula di Bayes, e
cioè dello strumento principe per eseguire un’inferenza su base statistica dagli effetti (noti)
alle cause (ignote): pur riconoscendo all’impostazione bayesiana ampie possibilità applica-
tive, Frosini ne evidenzia nel contempo alcuni limiti di affidabilità, legati al carattere inevita-
bilmente soggettivo delle probabilità iniziali o a priori. Ne risulta che se « dal punto di vista
delle ‘indagini’ (...) lo schema bayesiano costituisce un quadro razionale di riferimento, che
almeno approssimativamente viene di fatto applicato, sembra alquanto problematica la sua
applicazione nel dibattimento processuale », attesa la sostanziale improponibilità dell’ipotesi
che accusa e difesa convengano sull’accettazione di un nucleo comune di probabilità a priori.
Una conclusione — quella dell’inutilizzabilità dell’approccio bayesiano ai fini della deci-
sione — che conferma, dall’interno della scienza statistica, il giudizio a suo tempo espresso
da Taruffo, e recentemente ripreso da Stella, sul fallimento in ambito giudiziale delle dot-
trine bayesiane e delle altre concezioni quantitative della probabilità.
L’ultima parte del lavoro, che tratta « criteri della prova e regole di giudizio », si sof-
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ferma sulla regola dell’« oltre il ragionevole dubbio », di cui viene inizialmente riferita l’in-
terpretazione comune, secondo cui è richiesta una « probabilità molto elevata » di colpevo-
lezza per arrivare ad una sentenza di condanna: probabilità che viene a volte situata (ap-
pena) al di sopra del 95%, a volte a livelli ancora superiori e tendenti al 100%.
Non mancano però autori, come L.H.Tribe, secondo i quali le sanzioni penali non do-
vrebbero essere comunque applicate « in presenza di un dubbio espressamente riconosciuto
e quantitativamente misurabile ». Frosini condivide in linea di principio questa opinione (at-
tesa l’incertezza quasi sempre presente nelle valutazioni soggettive di probabilità), ma non
può fare a meno di porsi il problema dell’uso che in giudizio si dovrebbe fare di quelle
« nude statistiche », strettamente attinenti ai fatti dedotti in processo, che rivelino una pro-
babilità di colpevolezza molto elevata (il riferimento è al caso Chedzey, in cui una probabi-
lità di 0,9996 non fu considerata sufficiente per ritenere l’imputato penalmente responsabile
di una telefonata che, secondo un dispositivo di rilevazione che aveva manifestato 5 errori su
12.700 individuazioni di chiamate a numeri noti, risultava effettuata dall’apparecchio in uso
all’imputato).
Successivamente, il significato del principio del ragionevole dubbio viene verificato dap-
prima in rapporto al complesso tema del calcolo della probabilità di errore, che riveste parti-
colare interesse a proposito dell’attribuzione all’imputato di un profilo DNA; poi con riferi-
mento all’impatto delle indagini epidemiologiche allorché da esse emerga che ad una data
esposizione — ad esempio, a prodotti chimici — si associ un aumento del rischio di con-
trarre malattie professionali (in particolare tumori): secondo Frosini — ed anche in questo
caso la sua conclusione è pienamente condivisibile — la difficoltà, se non l’impossibilità, di
trasferire informazioni concernenti leggi statistiche al caso individuale in un campo caratte-
rizzato da eziologia multifattoriale, comporta l’irraggiungibilità del livello di « pratica cer-
tezza » dell’attribuzione causale necessario ai fini della condanna penale. (Luigi Fornari).
GIARDA A., SEMINARA S. (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, CE-
DAM, 2002, pp. VII-835.
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più controverso ed ‘originale’ dell’intera disciplina dei nuovi reati societari » che « ha dato e
darà luogo a numerosi problemi interpretativi ». Si prosegue affrontando il tema dei riflessi
che l’introduzione di un evento di danno e di un’ipotesi di perseguibilità a querela sembrano
spiegare nell’economia delle ipotesi criminose previste dall’articolo 2621, in termini di « pa-
trimonializzazione e « privatizzazione » della fattispecie, tali da spiegare un effetto espansivo
anche nella ricostruzione dell’oggettività giuridica della fattispecie contravvenzionale: « il
centro di gravità della nuova figura delittuosa viene a dislocarsi dalla trasparenza dell’infor-
mazione societaria (bene giuridico sovraindividuale ed indisponibile) all’interesse dei soci e
dei creditori [...] ». La disamina tocca poi i temi dei rapporti tra l’ipotesi contravvenzionale e
quelle delittuose (con il problema degli effetti di una mancata presentazione o di una remis-
sione della querela), dei profili di diritto intertemporale e si conclude con alcuni cenni di di-
ritto comparato (il timore è che l’evanescente efficacia delle soluzioni nazionali nel « con-
trollo penale della legalità della gestione delle società commerciali » crei le condizioni per
« un deprecabile fenomeno di ‘forum shopping’ penalistico »).
I capitoli successivi trattano, rispettivamente: della tutela del capitale sociale; della tu-
tela del corretto funzionamento degli organi sociali (ivi compresa l’analisi delle importanti
innovazioni in tema di infedeltà patrimoniale); della tutela del mercato; degli illeciti ammini-
strativi; delle « ulteriori innovazioni » (trovano qui collocazione l’analisi della nuova fattispe-
cie di bancarotta fraudolenta impropria e della circostanza aggravante dell’art. 622 c.p. in
cui è confluito il vecchio art. 2622 c.c). Il settimo ed ultimo capitolo è dedicato — con
un’ampiezza del tutto particolare e caratterizzante rispetto ad altre opere di commento alla
riforma — alle questioni di diritto processuale penale societario, in considerazione delle pre-
gnanti implicazioni di carattere procedurale « anche da un punto di vista formale e teorico »
sottese alla riforma, tali da « suggerire, se non addirittura da imporre, una rivisitazione dei
più importanti istituti processuali [da essa] coinvolti o condizionati ». (Matteo Saccavini).
GIUNTA F. (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commer-
ciali. Commentario del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Torino, Giappichelli, 2002, pp.
XX-340.
Fin dal titolo quest’opera si propone come un commentario, il genere letterario — come
ricorda il Curatore nella presentazione — che « più specificamente mira a cogliere la dimen-
sione applicativa del diritto ». Un’opera che si presenta dunque di stampo schiettamente — e
dichiaratamente — esegetico; rivolta più ai pratici che agli studiosi del diritto, essa mira ad
« essere di aiuto nella prima lettura della vigente normativa ».
La struttura del commentario, in effetti, seguendo l’ordine degli articoli del decreto legi-
slativo, ne riproduce l’opacità tassonomico-classificatoria, rinunciando, ma solo in appa-
renza, ad una lettura sistematica e d’insieme. Già nella Presentazione del Curatore vengono
puntualmente indicati gli aspetti caratterizzanti della riforma, che spaziano « dal potenzia-
mento della funzione selettiva del dolo all’incentivazione delle condotte riparatorie, dalla mi-
tezza delle pene alla differenziazione del regime di procedibilità ». Il valore dei principi ispi-
ratori della riforma appare « indiscusso » ma « è la loro concreta attuazione che è parsa
inopportuna sotto il profilo politico-criminale »: così « la scelta di sovraccaricare le fattispe-
cie incriminatrici di elementi costitutivi non sempre necessari [...] ha finito per produrre
norme talvolta incoerenti e di complessa interpretazione »; allo stesso modo le modificazioni
che hanno toccato le oggettività giuridiche dei riformulati reati societari « sono andate oltre
l’obiettivo di una adeguata concretizzazione dei beni meritevoli di protezione »; la mitezza
delle pene, infine, pur rappresentando il Leitmotiv di numerosi interventi dottrinali e legisla-
tivi, quando si concretizza nella previsione « per talune fenomenologie criminose tutt’altro
che bagattellari, del minimo edittale nella misura del minimo legale [...], rischia di simboleg-
giare una flessione dell’attenzione del diritto penale nei confronti della criminalità econo-
mica ».
L’organicità dell’opera non è però limitata alle brevi battute introduttive: la si può co-
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gliere in trasparenza dalla lettura dei singoli commenti che sovente non si appiattiscono sulla
mera esegesi testuale, ma assumono un notevole respiro argomentativo e presentano, per
così dire, allo stato diffuso quei riferimenti sistematici cui il piano dell’opera non permette di
dedicare un’autonoma trattazione. Menzione particolare meritano, a parere di chi scrive, i
commenti dedicati agli articoli 2634 e 2635 c.c (infedeltà patrimoniale ed infedeltà patrimo-
niale in seguito a dazione o promessa di utilità) ed all’articolo 3 del decreto legislativo (re-
sponsabilità amministrativa della società) oltre, naturalmente, ai commenti dedicati agli im-
belli eredi della vecchia fattispecie di false comunicazioni sociali.
Nel complesso l’opera in esame si presta ad un duplice utilizzo: essa è innanzitutto
un’opera di consultazione; ed in quest’ottica risulta di grande utilità la presenza di un indice
analitico e di indicazioni bibliografiche specifiche, di seguito al commento di ogni singola di-
sposizione, che, pur soggette, inevitabilmente, ad una rapida obsolescenza, rappresentano un
utile strumento per chi, per necessità professionali o per interesse, desideri approfondire un
determinato argomento. (Matteo Saccavini).
LANZI A., CADOPPI A. (a cura di), I nuovi reati societari (Commentario al decreto legislativo
11 aprile 2002, n. 61), Padova, CEDAM, 2002, pp. XV-323.
« La radicale e completa riforma dei reati societari [...] consente, anzi sprona, alla ste-
sura di un Commentario analitico, articolo per articolo, della nuova disciplina ». Sono queste
le parole con cui si apre la succinta Presentazione all’opera che qui si commenta e che me-
glio si prestano a descriverne la natura e gli obiettivi: « [...] dar vita ad una collettanea sinte-
tica, ma anche esaustiva [...] » che possa « [...]essere utile e di agevole consultazione per
tutti gli operatori del diritto [...] ». Per espressa volontà degli autori non hanno trovato in-
gresso nell’opera « le polemiche, anche aspre, che, provenienti da più parti, hanno caratteriz-
zato — fin dall’apparire della Legge Delega 366/2001 — molti degli scritti che si sono occu-
pati della riforma ». Al perseguimento di questo proposito, concorrente con il dovuto ri-
spetto, da parte dei Curatori, per gli autonomi e personali giudizi di ciascun Autore, risulta
tutt’altro che disfunzionale la natura collettanea e, per così dire, destrutturata del Commen-
tario, in cui l’analisi di ogni singolo articolo rappresenta una piccola opera a sé stante, corre-
data dei propri riferimenti sistematici. Un esempio tra i molti possibili: dal commento agli
articoli 2621 e 2622 c.c — e pur in presenza di numerosi spunti critici — traspare una ten-
denziale adesione al processo di « individualizzazione » e « patrimonializzazione » che, ri-
spetto alla previgente fattispecie, ha investito l’oggettività giuridica di queste due incrimina-
zioni, mentre diverso sembra il giudizio di chi ha curato il commento dei due articoli succes-
sivi (nonostante la questione sia in quella sede solamente sfiorata in via incidentale ed i toni
siano lungi dall’essere polemici).
Oltre allo scontato richiamo ai commenti agli articoli 2621 e 2622 c.c., veri monopoliz-
zatori dei commenti che hanno accompagnato, spesso in chiave critica, il varo della riforma,
due contributi meritano di essere segnalati. Il commento all’articolo 3 del d.lgs. 61/2002 (re-
sponsabilità amministrativa delle società) nel quale una breve analisi del sistema introdotto
nel nostro ordinamento con il d.lgs. 231/2001 è seguita da una disamina degli aspetti diffe-
renziali che l’art. 25-ter presenta rispetto ai criteri generali di cui al decreto (tra gli altri: non
integrale riproposizione dei criteri di imputazione oggettiva di cui all’art. 5 c. 1 del d.lgs
231/2001; mancato richiamo ai modelli di organizzazione e gestione; assenza di sanzioni in-
terdittive). Il commento all’art. 4 del d.lgs. 61/2002 tratta della modifica dell’art. 223, cpv.
n. 1, l. fall. e della difficoltosa coordinazione della nuova disposizione con il superstite e suc-
cessivo n. 2 dello stesso articolo.
Nell’opera non è inclusa un’autonoma sezione dedicata alle indicazioni bibliografiche.
La carenza è solo apparente: ogni commento è corredato da una nutrita serie di note di rife-
rimento, più che sufficienti per fornire indicazioni a chi desideri approfondire gli argomenti
trattati. (Matteo Saccavini).
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MUSCO E., I nuovi reati societari, Milano, Giuffrè, 2002, pp. X-252.
In quest’opera l’Autore propone un primo commento organico della recente riforma dei
reati societari che ha visto la luce con il d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61.
Il primo capitolo fornisce un’analisi di più ampio respiro circa le scelte di politica crimi-
nale dalle quali la riforma prende le mosse e funge da introduzione ai capitoli successivi, de-
dicati ad una puntuale analisi esegetica delle singole fattispecie neointrodotte.
In questo primo capitolo introduttivo l’Autore, premesso che la riforma, in attuazione
della delega contenuta nell’art. 11 della legge n. 366 del 3 ottobre 2001, trova il suo impulso
primario nell’esigenza di « razionalizzare la materia penale societaria, da un lato ridimensio-
nando il numero dei reati [...] e dall’altro provvedendo finalmente a colmare vuoti e nuovi
bisogni di tutela », rileva come essa, a suo dire, sottolinei « con forza » la coerenza delle
nuove fattispecie ai principi del diritto costituzionale: determinatezza e tassatività dell’ille-
cito, sussidiarietà e frammentarietà-offensività, intesa, quest’ultima, come accorta valuta-
zione dei beni giuridici penalmente rilevanti e come selezione delle sole condotte realmente
lesive di tali beni. È su quest’ultimo piano, quello della frammentarietà-offensività, che si
colgono i profili di maggior novità della riforma, con l’abbandono del modello della pluriof-
fensività, che aveva dato vita, in questa materia, ad « ingiustificate estensioni dell’area di ri-
levanza penale »: si assiste ad una « drastica riduzione » dell’area di intervento penale, ri-
volta ora alla tutela di interessi ben definiti (patrimonio, integrità del capitale sociale e rego-
lare funzionamento degli organi sociali) che, tuttavia, l’Autore giudica essere non sempre
corrispondenti agli effettivi bisogni di tutela. Un altro aspetto innovativo messo in evidenza è
quello relativo alla formulazione delle fattispecie incriminatrici: abbandonando la c.d. tec-
nica del rinvio si è tentato di disegnare i precetti penalistici secondo modelli di tipizzazione
che, pur fondati sull’irrinunciabile riferimento alla normativa civilistica, approdino a formu-
lazioni il più possibile autonome e coerenti. Sempre in questa sezione dell’opera trovano col-
locazione alcuni cenni sul dibattito politico-criminale che ha accompagnato ed è seguito al-
l’approvazione della nuova normativa, corredati da alcuni riferimenti ai lavori delle Commis-
sioni e sottocommissioni che si sono, a vario titolo, occupate della riforma: di particolare in-
teresse il paragrafo dedicato alla previsione di soglie quantitative di rilevanza penale per le
false comunicazioni sociali, la cui introduzione, a giudizio dell’Autore, « è da accogliere po-
sitivamente, in quanto indica al giudice una via sicura di valutazione », pur nella consapevo-
lezza che nell’operato del legislatore delegato — « come può intuirsi da un attento esame
cronologico delle varie proposte in tema di soglie quantitative » — abbia prevalso « la prefe-
renza per soluzioni normative dirette ad eliminare lo spazio valutativo attribuito al giudice,
anche a costo [...] della possibile creazione di aree di impunità ». L’introduzione di dette so-
glie sarebbe « fortemente criticabile », piuttosto, per via della « insanabile genericità della
legge delega », che mal si concilia con il principio di riserva assoluta di legge. Il capitolo si
chiude con i paragrafi dedicati, rispettivamente, alla tipizzazione normativa dei soggetti di
fatto; alla previsione di una forma speciale di confisca; ed all’estensione anche ai nuovi reati
societari della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Come anticipato, i re-
stanti capitoli si dedicano all’analisi delle singole fattispecie: nell’esegesi l’Autore segue
un’impostazione analitica, illustrando, per ogni incriminazione, i soggetti attivi; il bene giuri-
dico tutelato; i fatti punibili; l’elemento soggettivo. Questo schema base viene adattato, con
l’eventuale aggiunta di ulteriori elementi, alle particolarità della disposizione che si com-
menta. L’organizzazione della trattazione non segue la numerazione del codice, ma riordina
la materia per aree tematiche; i capitoli successivi al primo sono rispettivamente dedicati:
alle ipotesi di falsità; alla tutela penale del capitale sociale; alla tutela penale del patrimonio
sociale; alla tutela penale del regolare funzionamento della società; alla tutela penale contro
le frodi; alla tutela penale delle funzioni di vigilanza; agli illeciti dei liquidatori; ed, infine,
agli illeciti amministrativi.
Alle due ipotesi di false comunicazioni sociali è dedicato, com’è prevedibile, un ampio
spazio: in considerazione della profonda affinità tra le due fattispecie l’Autore ha optato per
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una trattazione congiunta delle stesse. Le carenze della previgente fattispecie di falso in bi-
lancio, da individuarsi nella « assoluta indeterminatezza dei contenuti normativi », tale da
aprire amplissimi spazi alla dilatazione giurisprudenziale del campo di applicazione della
norma, hanno aperto la strada, a giudizio dell’Autore, alla presente « forte reazione legisla-
tiva », in cui « l’attesa di porre un freno agli abusi applicativi di una fattispecie penale
prende il sopravvento sulle esigenze di repressione »: è in quest’ottica di maggiore tipizza-
zione — fino all’eccesso — dei confini del penalmente rilevante che si spiega gran parte delle
novità introdotte nelle due fattispecie gemelle. L’ultimo paragrafo della sezione dell’opera ri-
servata alle due fattispecie di false comunicazioni sociali è dedicato alle questioni di diritto
intertemporale.
Chiudono l’opera un’appendice normativa, in cui è riportata integralmente la Relazione
ministeriale al d.lgs. 61/2002 ed un’ampia bibliografia. (Matteo Saccavini).
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nita « manuale pratico »), come conferma anche la circostanza che nel corso della tratta-
zione compaia sempre il riferimento a tale formulario, nonché al numero del registro dell’uf-
ficio di sorveglianza, nel quale vengono iscritti i procedimenti ed i diversi provvedimenti. Il
volume vuole, infatti, rappresentare uno strumento di agevole approccio ad una disciplina
assai complessa, ed allo scopo si propone di fornire le prime essenziali informazioni. (Laura
Cesaris).
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GIURISPRUDENZA
b) Giurisprudenza costituzionale
Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 del codice di
procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Ancona con ordinanza del 2 agosto
2001, iscritta al n. 933 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2002 il Giudice relatore Guido
Neppi Modona. Ritenuto che con ordinanza del 2 agosto 2001 il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Ancona ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt.
392 e 393 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che
la richiesta di incidente probatorio possa essere presentata nella fase delle indagini
preliminari anche quando i relativi termini sono già scaduti;
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che il rimettente premette che aveva accolto una richiesta di incidente pro-
batorio presentata da persone sottoposte alle indagini sul presupposto che si trat-
tava di perizia che, se disposta nel dibattimento, ne avrebbe potuto determinare
una sospensione superiore a sessanta giorni, e che nel corso dell’udienza fissata
per l’espletamento dell’incidente probatorio il pubblico ministero, dopo aver chie-
sto la proroga del termine delle indagini preliminari, aveva comunicato che il ter-
mine era già scaduto da tempo;
che il giudice a quo rileva che il provvedimento di ammissione dell’incidente
probatorio dovrebbe essere revocato, in quanto a norma degli artt. 392, comma 1,
e 393, comma 1, cod. proc. pen. l’incidente può essere chiesto solo « nel corso »
ed « entro i termini » delle indagini preliminari;
che ad avviso del rimettente la situazione in esame non rientra nella sfera di
operatività della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 1994, che ha esteso
alla fase dell’udienza preliminare la possibilità di chiedere ed eseguire l’incidente
probatorio, ma nel caso di specie sussisterebbero le medesime ragioni che avevano
allora indotto la Corte ad accogliere la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 392 e 393 cod. proc. pen.;
che il giudice a quo ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto i termini di
decadenza stabiliti dalla disciplina censurata sarebbero « privi di ogni ragionevole
giustificazione e lesivi del diritto alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di-
fesa »;
che, in particolare, dopo l’intervento della Corte costituzionale sarebbe irra-
gionevole che l’incidente probatorio possa essere chiesto sia in pendenza dei ter-
mini per le indagini preliminari, sia dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ma non
nella fase intermedia;
che la disciplina censurata sarebbe in contrasto anche con l’art. 111, terzo
comma, Cost., nella parte in cui prevede che la persona accusata di un reato di-
sponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa, in
quanto l’indagato, ove venga « tardivamente a conoscenza delle indagini, è co-
stretto ad attendere la richiesta di rinvio a giudizio prima di poter avanzare quella
di incidente probatorio »;
che sarebbero inoltre violati gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., sotto il
profilo della disparità di trattamento e della lesione del principio di parità tra le
parti, in quanto, mentre il pubblico ministero, conoscendo lo sviluppo delle inda-
gini preliminari, può presentare in ogni momento richiesta di incidente probato-
rio, per la persona sottoposta alle indagini il termine per la richiesta verrebbe a di-
pendere dal momento della conoscenza della pendenza del procedimento, con il
rischio di perdere la possibilità di ricorrere a un mezzo istruttorio « indispensabile
per l’acquisizione al processo di elementi — in tesi — necessari all’accertamento
dei fatti e per garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova, che sarebbe al-
trimenti irrimediabilmente perduta » (sentenza n. 77 del 1994);
che tale preclusione non potrebbe ritenersi compensata dalle facoltà ricono-
sciute all’indagato dall’art. 415-bis cod. proc. pen., dal momento che tale norma
non prevede alcun obbligo del pubblico ministero di compiere le indagini even-
tualmente richieste dall’imputato e di acquisire prove utilizzabili in dibattimento;
che la possibilità di chiedere l’incidente probatorio in udienza preliminare
non eliminerebbe l’interesse dell’indagato a presentare anticipatamente la relativa
richiesta per dimostrare subito la propria innocenza;
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di « garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova », a sua volta espressione
del diritto di difesa;
che consentire l’assunzione mediante incidente probatorio, di prove non
esposte al rischio di irrimediabile dispersione anche dopo la scadenza del termine
per le indagini preliminari comporterebbe una profonda alterazione dei rapporti
tra tale fase e il giudizio e una irragionevole dilatazione della durata delle indagini
e, quindi, dei tempi del procedimento;
che, in assenza del pericolo di perdita irrimediabile della prova, anche le
censure prospettate dal rimettente in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost. si rivelano
prive di fondamento;
che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata in riferi-
mento a tutti i parametri evocati dal rimettente.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, se-
condo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzio-
nale.
——————
(1) L’ambito di operatività dell’art. 392 c.p.p.
(1) Ordinanza 9 maggio 2001 n. 118, in Giur. Cost., 2001, p. 959, con nota di RENON, Limiti cro-
nologici dell’incidente probatorio e diritto alla prova.
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(4) Corte Cost., 10 marzo 1994 n. 77, in Cass. pen., 1994, p. 1788 s., con nota di A. MACCHIA, In-
cidente probatorio e udienza preliminare: un matrimonio con qualche ombra.
(5) A. MACCHIA, Incidente probatorio, cit., p. 1792, osserva che l’effettivo intendimento della
Corte costituzionale era quello di « consentire la celebrazione dell’incidente probatorio nel corso dell’u-
dienza preliminare, non soltanto nei casi previsti dal comma 1 dell’art. 392, ma anche in quello previsto
dal comma 2, vale a dire quando viene richiesta una perizia il cui espletamento si presume comporti un
termine superiore ai sessanta giorni » e soggiunge che tale « effettivo intendimento lo si desume con cer-
tezza oltre che dall’univoco tenore del dispositivo della sentenza, anche dal fatto che, nel disattendere
l’eccezione di aberratio sollevata dall’Avvocatura, la sentenza ha espressamente riconosciuto che le perizie
richieste nei giudizi a quibus presentavano un oggetto tale da far presumere una durata eccedente i ses-
santa giorni, cosicché il mancato richiamo del requisito previsto dall’art. 392 comma 2 non poteva certo
costituire motivo di irrilevanza delle questioni ». Peraltro, il MACCHIA, Incidente, cit., p. 1792, osserva che
« se tale è stata dunque la chiara volontà della Corte, quanto mai discutibili sono invece...i presupposti ar-
gomentativi che sostengono il decisum ».
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sere decorsi i termini delle indagini preliminari potrà reiterare la richiesta stessa
nella udienza preliminare. Il dubbio di legittimità appare invece non manifesta-
mente infondato con riferimento ai processi penali con citazione diretta a giudizio.
È conforme al principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza il
fatto che un indagato, il quale soltanto alla fine delle indagini preliminari sia stato
messo in condizioni di valutare la necessità di una perizia complessa, non possa
più effettuare tale richiesta prima del dibattimento a causa della mancanza dell’u-
dienza preliminare (6)? La risposta non è così agevole come mostra di credere la
Corte costituzionale. Infatti, non può dirsi, come asserito nella ordinanza
118/2001, che « sarebbe palesemente incongruo differire la vocatio in ius per l’as-
sunzione di una prova per la quale non sia ravvisabile alcun pericolo nel ritardo ».
A ben vedere, sono frequenti le situazioni in cui soltanto una perizia complessa
può mettere in condizioni l’imputato di capire se la scelta del patteggiamento o del
giudizio abbreviato sia o no da effettuarsi.
Orbene, posto che la scelta dei riti deflativi del dibattimento costituisce una
importante estrinsecazione del diritto di difesa, non pare del tutto ragionevole la
disparità di trattamento che si verifica, allorquando la notifica dell’avviso ex art.
415 bis c.p.p. venga effettuata in prossimità della scadenza del termine delle inda-
gini preliminari, a seconda che il processo sia un processo a citazione diretta op-
pure no. Infatti, nel primo caso, non sarà più consentito effettuare la richiesta di
una perizia complessa e, conseguentemente, effettuare una scelta meditata in or-
dine ai riti deflativi del dibattimento mentre, nel secondo caso, la richiesta pre-
detta risulterà possibile nella udienza preliminare. Potrà dubitarsi che tale dispa-
rità comporti una violazione dell’art. 3 Cost. ma non può certo dirsi, come ha
detto la Corte costituzionale nella ordinanza 118/2001, che sarebbe « palesemente
incongruo » un differimento per assumere una prova rispetto alla quale non sussi-
sta un rischio di dispersione. La congruità consisterebbe nella possibilità, già ri-
cordata, di compiere scelte meditate sulla instaurazione del rito processuale.
2. Le due ordinanze delle Corte costituzionale, con il ribadire più volte (tesi
non del tutto esatta per la ragioni sopra esposte), che nell’udienza preliminare è
consentita unicamente l’assunzione di prove che, ove differite, sarebbero irrime-
diabilmente perdute, suscitano con questa considerazione il problema se le modifi-
che apportate con la l. 7 agosto 1997 n. 267 all’art. 392 c.p.p. possano trovare at-
tuazione nell’udienza preliminare. Il nuovo testo dell’art. 392 c) e d) c.p.p., così
come modificato, consente, a differenza del testo precedente, l’incidente probato-
rio per l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la re-
sponsabilità di altri e per l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ancor-
ché non sussista alcun pericolo di dispersione o di inquinamento della prova. Na-
sce il problema se tale esame possa, quindi, effettuarsi pur non sussistendo il peri-
colo predetto nella udienza preliminare, il che sarebbe da escludersi sulla base
delle argomentazioni enunciate nelle ordinanze della Corte costituzionale qui ri-
chiamate.
Nella prassi giudiziaria detto problema viene risolto in maniera positiva.
Anzi, a dire il vero, normalmente non viene neppure posto. Infatti, è molto fre-
(6) Né potrebbe sostenersi la possibilità di effettuare l’incidente probatorio per l’assunzione di una
perizia complessa ai sensi del combinato disposto degli artt. 554 e 467 c.p.p., posto che l’art. 467 c.p.p.,
con il precisare che le prove assumibili nella fase predibattimentale possono essere soltanto quelle non
rinviabili si riferisce, valutata tale locuzione nel contesto della norma, che ha come rubrica « atti ur-
genti », ad « atti ‘naturalmente’ non rinviabili, così da escludere quelli che — come la perizia di lunga du-
rata — presentano connotazioni di rinviabilità meramente funzionale » (così A. MACCHIA, Incidente, cit.,
p. 1793).
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tezza. V’è di più: l’incidente probatorio comporta, altresì, una menomazione del
principio del contraddittorio nella formazione della prova. Infatti, se contradditto-
rio come connotazione della giurisdizione significa contraddittorio espletato da
tutte le parti del processo penale davanti ad un giudice chiamato a decidere, il
quale assiste, al fine di un corretto esercizio della giurisdizione, all’assunzione
della prova, non può non emergere il carattere eccezionale dell’incidente probato-
rio. La ratio dell’ampliamento degli incidenti probatori, stante l’impossibilità di
giungere rapidamente alla fase dibattimentale, sede naturale della assunzione della
prova, è quella per cui, nella scelta tra il sacrificio del contraddittorio nel mo-
mento di formazione della prova mediante la lettura dei verbali delle indagini pre-
liminari ed il sacrificio dell’immediatezza mediante l’assunzione della prova da un
giudice diverso da quello che deve decidere (come avviene nel caso di incidenti
probatori), si è ritenuto più accettabile sacrificare l’immediatezza. Tale scelta può
anche essere ritenuta ragionevole a condizione che ci si renda conto che in assenza
della immediatezza il contraddittorio risulta menomato. La presenza del giudice
terzo chiamato a decidere appare indispensabile per una corretta attuazione del
contraddittorio inteso come « statuto epistemologico » della giurisdizione (8). Il
contraddittorio nell’assunzione della prova è fondamentale per le prove narrative
quali sono quelle previste nelle lettere c) e d) dell’art. 392 c.p.p. Infatti, per le
prove narrative non hanno rilievo soltanto le dichiarazioni ma anche le modalità
delle dichiarazioni stesse. Un « sì » pronunciato con sicurezza senza alcuna esita-
zione viene valutato dal giudice in modo diverso rispetto ad un « sì » pronunciato
dopo una lunga pausa e con evidente imbarazzo. Il giudice del dibattimento che
legge le trascrizioni delle dichiarazioni rese nell’incidente probatorio è nell’impos-
sibilità di valutare sia l’imbarazzo sia l’esitazione. Ne segue che il giudice chia-
mato a decidere sulla base di prove assunte negli incidenti probatori e, quindi, im-
possibilitato a valutare le modalità delle dichiarazioni, viene privato di un contrad-
dittorio pieno indispensabile per un corretto esercizio della funzione giurisdizio-
nale.
Dalle considerazioni sopra enunciate discende l’impossibilità di una applica-
zione analogica dell’art. 392 c.p.p. e conseguentemente la non riferibilità all’u-
dienza preliminare delle modifiche introdotte successivamente alla declaratoria di
parziale illegittimità costituzionale dell’art. 392 c.p.p.
GILBERTO LOZZI
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Giudizio immediato - Necessità che la richiesta del p.m. sia preceduta dall’avviso
di conclusione delle indagini - Esclusione - Questione di legittimità costituzio-
nale - Manifesta infondatezza (C.p.p., art. 453; Cost., artt. 3, 24, comma 2).
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agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., dal Tribunale di La Spezia, con l’ordinanza in
epigrafe’’. (Omissis).
——————
(1) Avviso di chiusura delle indagini preliminari e giudizio immediato: la Corte
costituzionale riduce gli ambiti del ‘‘giusto processo’’.
(1) La disposizione è stata inserita nell’originario corpus normativo del codice dall’art. 17, comma
2, della l. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge ‘‘Carotti’’).
(2) Si vuole alludere in particolare ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati con riferimento
alla precedente normativa laddove consentiva l’instaurazione del procedimento per decreto senza la pre-
ventiva notificazione dell’invito a comparire per rendere l’interrogatorio, confutati nel senso della confor-
mità alla legge suprema da Corte cost., ord. 16 luglio 1999, n. 326, in Leg. pen., 1999, p. 974; Corte
cost., ord. 23 dicembre 1998, n. 432, in Cass. pen., 1999, p. 1100. Cfr. pure infra, nota n. 4.
(3) In verità l’art. 111, comma 3, Cost. utilizza la locuzione ‘‘persona accusata di un reato’’, che
sembrerebbe evocare la figura di un soggetto nei cui confronti sia stata già formalizzata un’imputazione:
sennonché non si è mancato di sottolineare come un’interpretazione del genere vanificherebbe in radice la
funzione della norma, onde il destinatario di essa andrebbe più correttamente rinvenuto in ogni soggetto
cui l’autorità competente attribuisca comunque la commissione di un fatto costituente reato. In tal senso
si vedano, tra i tanti: CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 145; CONTI, Giusto pro-
cesso (dir. proc. pen.), in Enc. dir., aggiornamento V, Milano, 2001, p. 631; CORDERO, Procedura penale,
Milano, 2001, pp. 1268-1269; FERRUA, Il ‘‘giusto processo’’ in Costituzione, in Dir. e giust., n. 1, 2000, p.
79; GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3319;
LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2002, p. 341; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e
alternative al silenzio, Torino, 2000, p. 101; MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999,
n. 2, in Leg. pen., 2000, pp. 776-777; TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2000, p. 46. In
senso contrario CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto pro-
cesso’’, in Giust. pen., 2000, III, p. 678.
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(4) È quanto accaduto nel caso esaminato da Cass., sez. I, 17 settembre 2001, Farabi, in Dir. pen.
e proc., 2002, p. 600.
(5) Per questa puntualizzazione si vedano in particolare CONTI, Giusto processo (dir. proc. pen.),
cit., p. 631; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 99 ss.; TONINI,
Manuale di procedura penale, cit., 46.
(6) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, in Ind.
pen., 2000, p. 510, nota n. 13; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle
indagini preliminari, in Arch. nuova proc. pen., 2002, p. 130; BONINI, sub art. 17 l. 16 dicembre 1999, n.
479, in Leg. pen., 2000, p. 362; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione, in Guida al
dir., n. 1, 2000, p. XLVI; ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il
nuovo processo penale davanti al giudice unico, Milano, 2000, p. 118; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase
investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, in AA.VV., Il
processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, p. 273; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 291; MARANDOLA, Due significative no-
vità per il processo penale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori
del giudice dell’udienza preliminare, in Studium iuris, 2001, pp. 1134-1135; NUZZO, L’avviso di conclu-
sione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, in Cass. pen., 2001, p.
683; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esi-
genze di completezza della fase procedimentale, in AA.VV., Nuovi scenari del processo penale alla luce
del giudice unico, a cura di S. Nosengo, Milano, 2002, p. 57, nota n. 5; SCALFATI, La riforma dell’udienza
preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, in Cass. pen., 2000, p. 2818.
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c.p.p. non si potrebbe, però, invocare una presunta mancanza di sanzione per le
omissioni verificatesi nei casi non specificamente presi in considerazione dalla
speciale comminatoria di nullità, atteso che questi rientrerebbero pur sempre nel
generale disposto della lett. c) dell’art. 178 c.p.p., baluardo di tutte le violazioni
(commissive e omissive, a prescindere da una previsione ad hoc) del diritto all’in-
tervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato.
Inconferente risulterebbe, pertanto, un rigido riferimento al principio di tas-
satività delle nullità degli atti processuali penali sulla scorta della considerazione
per cui, essendo l’omissione dell’invio dell’avviso di chiusura delle indagini com-
minata a pena di nullità per il solo caso di rinvio a giudizio ex art. 416 c.p.p. e di
citazione diretta a giudizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 550 e 552,
comma 2, c.p.p., le restanti forme di esercizio dell’azione penale elencate dal
comma 1 dell’art. 405 c.p.p. rimarrebbero inevitabilmente al di fuori dell’alveo di
operatività della nullità in discorso: in tal caso scatterebbe, come si è detto, la nul-
lità di ordine generale di cui all’art. 178, lett. c), c.p.p., che serve appunto a san-
zionare la violazione di norme che il legislatore non ha dotato di una specifica san-
zione sub specie nullitatis. Se tutto quanto precede è vero, l’apposita previsione di
nullità speciale negli artt. 416 e 552, comma 2, c.p.p. carica di un significato pre-
gnante il silenzio serbato dal legislatore sull’applicabilità dell’art. 415-bis c.p.p.
nelle restanti ipotesi: infatti, poiché anche in mancanza di una comminatoria spe-
ciale il vizio per l’omissione dell’invio dell’avviso sarebbe comunque potuto di-
scendere dalle previsioni generali in tema di nullità, l’averlo previsto specificata-
mente può far supporre la volontà di escludere l’applicazione dell’istituto nei casi
diversi da quelli in cui la sua omissione determina la sanzione speciale, antepo-
nendo così alla fattispecie generale (inevitabilmente applicabile a tutte le ipotesi di
elevazione dell’imputazione) quella speciale.
Insomma, affermare o meno l’esistenza dell’obbligo di inviare l’avviso di
chiusura delle indagini a ogni fattispecie imputativa costituisce antecedente logico-
giuridico rispetto all’individuazione di un’eventuale sanzione per la sua omissione,
che scatterebbe solo sul presupposto dell’effettiva operatività dell’istituto: chiara
l’inversione logica riscontrabile laddove si volesse dedurre l’insussistenza dell’ob-
bligo in questione da una presunta mancanza di sanzione processuale per la sua
violazione, nel caso di specie neppure professabile, stante il generale disposto del-
l’art. 178, lett. c), c.p.p.
Se la volontà del legislatore è stata veramente quella di escludere l’applica-
zione dell’art. 415-bis c.p.p. alle modalità di esercizio dell’azione penale diverse
da quella ordinaria, bisogna verificare se il sacrificio di una disposizione di evi-
dente portata garantistica come quella contenuta nella norma in parola appaia cio-
nonostante rispettoso del principio di uguaglianza e del diritto di difesa: parametri
non a caso invocati dal giudice rimettente per sollevare l’incidente di costituziona-
lità di cui si sta discorrendo, anche se non minori perplessità suscita il raffronto
con quanto disposto dall’art. 111 Cost.
Nella pronuncia che si commenta la Corte costituzionale ha in primo luogo
affermato che le garanzie scaturenti dalla ‘‘sommaria enunciazione del fatto per il
quale si procede’’ di cui all’art. 415-bis c.p.p. sarebbero ‘‘ai fini della contesta-
zione del fatto (...) sostanzialmente analoghe’’ a quelle previste dall’art. 453 c.p.p.
per l’attivazione del giudizio immediato, e cioè la sussistenza dell’evidenza della
prova e il previo interrogatorio sui fatti dai quali essa emerge: asserzione sulla
quale, come si vedrà, si può anche convenire. A suscitare maggiore perplessità è,
invece, la successiva precisazione per la quale ‘‘l’unica differenza’’ a livello di ga-
ranzie difensive tra quanto stabilisce l’art. 415-bis c.p.p. e quanto consente l’iter
procedurale sotteso all’instaurazione del giudizio immediato sarebbe costituita dal
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deposito, previsto nella prima ipotesi, della documentazione delle indagini esple-
tate cui equivarrebbe la contestazione verbale degli elementi e fonti di prova con-
tenuta nell’invito a comparire ex art. 375, comma 3, ultima parte, c.p.p.: una volta
espletato l’interrogatorio, poi, l’indagato sarebbe in grado di esercitare tutte le ini-
ziative defensionali previste nelle indagini preliminari per contrastare l’evidenza
della prova ed evitare così di essere tratto a giudizio. Il tutto sotto il rassicurante
leitmotiv per il quale il confronto tra la serie dei diritti garantiti in via ordinaria e
quelli riconosciuti nei riti speciali non può non tenere conto degli specifici presup-
posti e della peculiare struttura di questi ultimi in generale, nonché, nel partico-
lare caso in esame, del giudizio immediato.
L’autorevolezza della fonte di provenienza suggerisce di sottoporre ogni sin-
gola affermazione dei giudici costituzionali ad un attento e approfondito esame, a
cominciare dall’asserita equipollenza tra la contestazione del fatto che ha luogo in
occasione dell’inoltro dell’invito a rendere l’interrogatorio e quella contenuta nel-
l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
3. Quando la persona sottoposta alle indagini è chiamata a rendere l’interro-
gatorio, il pubblico ministero provvede a notificarle l’invito a presentarsi con i
contenuti previsti dall’art. 375 c.p.p., il cui comma 3 impone la ‘‘sommaria enun-
ciazione del fatto’’: presentatasi per l’espletamento dell’incombente, la persona è
dunque già in possesso di una conoscenza embrionale dell’oggetto del dialogo con
l’inquirente tale da consentirle una ragionata scelta circa l’esercizio o meno del di-
ritto al silenzio garantito dalla lett. b), comma 3, dell’art. 64, c.p.p. Il collega-
mento diacronico tra l’insieme di avvertimenti previsti dal comma 3 dell’art. 64 e
le attività che il successivo art. 65 configura come prodromiche all’effettivo esple-
tamento dell’atto induce a concludere che, ove l’interrogando opti per il diritto al
silenzio, non troveranno luogo né la successiva contestazione del fatto ‘‘in forma
chiara e precisa’’ né la rivelazione delle fonti e degli elementi di prova: insomma
‘‘la dichiarazione dell’indagato di non voler rispondere preclude i momenti succes-
sivi’’ (7), anche per (continuare a) preservare il segreto interno delle indagini, che
non ha motivo di essere sacrificato laddove non vi siano da valorizzare contrappo-
ste esigenze di tutela della difesa (8). Secondo la disciplina generale, quindi, se
(7) DOMINIONI, sub artt. 64-65, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da
E. Amodio-O. Dominioni, I, Milano, 1989, p. 404; FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimen-
tale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, pp. 7-8; TRIGGIANI, Interrogato-
rio ‘‘nel merito’’: obbligo o facoltà per il giudice di porre direttamente domande all’indagato?, in Cass.
pen., 1997, p. 443; Cass., sez. II, 10 gennaio 2001, Ursino, ivi, 2002, p. 1763. Invece secondo MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 160, una consapevole scelta tra ius ta-
cendi e dichiarazione non può avvenire senza la preventiva contestazione dell’addebito, onde all’avverti-
mento di cui all’art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p. dovrebbe comunque seguire la contestazione e la comuni-
cazione degli elementi a carico, qualunque sia la volontà dell’indagato di partecipare all’atto. In quest’ul-
timo senso anche MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia
probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 843, per il quale la contestazione dell’addebito andrebbe fatta an-
che nel caso in cui l’interrogato ‘‘abbia impropriamente risposto all’avvertimento della facoltà di non ri-
spondere affermando la sua intenzione di avvalersi in toto della medesima’’; RUGGIERI, La giurisdizione di
garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996, pp. 170, 173; VARRASO, Interrogatorio in vinculis del-
l’imputato: tra istanze di difesa, esigenze di garanzia, ragioni di accertamento, in questa Rivista, 1999, p.
1392.
(8) Sul bilanciamento tra queste due antitetiche esigenze TONINI, Segreto, IV) Segreto investiga-
tivo, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1989, p. 1. Per una recente risottolineatura del carattere necessario del
segreto investigativo quale ‘‘contenuto nucleare del segreto processuale’’ GIOSTRA, Segreto, X) Segreto
processuale - Dir. proc. pen., in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1998, p. 4. Sulla base di queste considerazioni
è necessario, pertanto, evitare che attraverso la pubblicità data a un atto investigativo di scarso valore per
la difesa come il verbale di interrogatorio chiusosi con l’affermazione dello ius tacendi, possa venire inopi-
natamente meno il segreto delle indagini: ciò che avverrebbe se nel verbale di tale atto, depositato nella
cancelleria del p.m. procedente ex art. 366 c.p.p., dovesse rimanere traccia della parziale discovery effet-
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tuata ai sensi dell’art. 65 c.p.p. In generale, sull’eterogeneità degli interessi che stanno alla base della tu-
tela del segreto, si veda già PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale, Milano, 1960, p. 143 ss.
(9) BONINI, sub art. 17, cit., p. 358; RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini prelimi-
nari, cit., p. 170.
(10) Secondo TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 349, con la contestazione dell’adde-
bito ex art. 415-bis c.p.p. l’indagato, ‘‘che poteva anche aver ricevuto soltanto un’informazione di garan-
zia, ha una migliore cognizione del fatto che gli è addebitato’’.
(11) MARZADURI, sub art. 2 l. 16 luglio 1997, n. 234, in Leg. pen., 1997, p. 760.
(12) Sulla base di questa considerazione BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in defla-
zione, cit., p. XLIV (ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 116), ritiene
ultroneo l’invio dell’invito a comparire con i contenuti stabiliti dall’art. 375, comma 3, c.p.p. per il caso di
interrogatorio richiesto dopo l’invio dell’avviso di chiusura delle indagini, considerando sufficiente ‘‘un
semplice avviso di fissazione dell’interrogatorio’’. Partendo dalle medesime premesse VERDOLIVA, L’avviso
all’indagato della conclusione delle indagini, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura pe-
nale, a cura di L. Kalb, I, Milano, 2000, p. 103, esclude la sussistenza della nullità ex art. 416 c.p.p. per
essere l’invito a presentarsi sprovvisto della parte informativa, poiché in tale fase esso assumerebbe solo
‘‘la funzione di fissazione dell’atto richiesto’’.
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terminato soggetto — tra le garanzie rispettivamente contenute nei due atti, con
conseguente inesistenza dei profili di illegittimità costituzionale prospettati.
4. Qualche dissenso suscita, invece, l’ulteriore affermazione della Corte se-
condo la quale ‘‘l’unica differenza’’ riscontrabile attiene al deposito degli atti d’in-
dagine previsto dalla prima e non dalla seconda disposizione: nulla di particolar-
mente grave di cui dolersi secondo i giudici costituzionali, atteso che a tale depo-
sito ‘‘fa riscontro, ove si ponga mente alla specificità del giudizio immediato, la
contestazione verbale degli elementi e delle fonti su cui si basa l’evidenza della
prova, richiamata dagli artt. 453 e 375 comma 3 c.p.p.’’. L’affermazione non può
essere condivisa: intendendo l’aggettivo ‘‘verbale’’ come riferito alla parola quale
modalità di comunicazione contrapposta ai gesti (indipendentemente dalla forma
orale o scritta che essa in concreto assume), integrerebbe senz’altro una contesta-
zione verbale la parafrasi degli elementi e fonti di prova che deve contenere l’in-
vito a comparire nel caso in cui il pubblico ministero intenda avanzare richiesta di
giudizio immediato, così come stabilito dall’ultima parte dell’art. 375, comma 3,
c.p.p.: tuttavia una cosa è comunicare verbis all’indagato un complesso di infor-
mazioni sintetiche sugli elementi e fonti di prova, altro renderlo pienamente
edotto del contenuto degli stessi mediante il deposito degli atti ex art. 415-bis
c.p.p.
A questo punto per ottenere una conoscenza più dettagliata e analitica sulla
piattaforma probatoria di quella fornita dall’ultima parte dell’art. 375, comma 3,
c.p.p., il soggetto destinatario dell’avviso potrebbe acconsentire ad essere interro-
gato: tuttavia, a prescindere dal carattere più o meno difensionale o investigativo
che si è inclini ad attribuirgli, è alquanto improbabile che l’interrogatorio avvenga
secondo le sequenze more geometrico puntigliosamente enucleate dalla legge. Esso
si atteggia piuttosto come un atto fluido, gestito monopolisticamente dall’autorità
procedente sulla base di elementi investigativi fatti filtrare all’indagato in una pro-
spettiva fisiologicamente tesa a convalidare l’ipotesi accusatoria (13), di tal che
‘‘ogni negazione smentita dai dati occulti in mano all’interrogante costitui(sce) in-
dizio’’ (14) valido a screditare l’interrogato e la sua versione dei fatti: a quest’ul-
timo proposito la giurisprudenza ha avuto modo di confermare prassi che si disco-
stano variamente dalla sequenza delineata dalla legge, avallando da un lato ‘‘una
preventiva descrizione soltanto sommaria ed alquanto ‘‘abbottonata’’ dei presunti
elementi a carico’’ (15); consentendo dall’altro che la contestazione dell’addebito
avvenga in vari momenti comunque successivi a quello in cui l’indagato si sia di-
chiarato disposto a parlare (16).
(13) Sulla tendenza dell’accusa a rimanere ancorata alla propria ipotesi ricostruttiva, che ‘‘funge
da punto prospettico di fuga al quale vengono piegati i fatti, che altrimenti porterebbero ad itinerari inve-
stigativi differenti’’ si veda, con suggestivi riferimenti ai meccanismi psicologici e scientifici tesi a giustifi-
care un simile modus operandi GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte
costituzionale?, in Quest. giust., 1999, p. 203.
(14) In tal senso, seppure con riferimento a un certo stile inquisitoriale degli interrogatori cele-
brati nei confronti dei sospetti untori nella Milano del 1630, CORDERO, Procedura penale, cit., p. 247.
(15) Così, criticamente, MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit.,
p. 159; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari,
cit., p. 129. Sintomatica di questa tendenza è la prassi, avallata dalla giurisprudenza della Suprema Corte,
di ritenere valido l’interrogatorio condotto dal giudice delegato ex art. 294, comma 5, c.p.p. senza il fasci-
colo delle indagini, purché vi sia stata una chiara contestazione dell’addebito effettuabile sulla base del
contenuto dell’ordinanza custodiale: Cass., sez. VI, 16 ottobre 1998, Fraddosio, in Cass. pen., 2000, p.
707; Cass., sez. V, 22 maggio 1997, Miozzo, ivi, 1999, p. 926.
(16) La prassi fornisce molteplici esempi, come quelli contenuti in Cass., sez. VI, 22 gennaio
1992, Frati, in Giur. it., 1993, II, c. 69; Cass., sez. fer., 14 settembre 1993, Maiolo, in Cass. pen., 1994,
p. 2496; Cass., sez. I, 29 settembre 1994, Profilo, in Ced Cass., 199866. Nettamente contraria la dottrina,
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che teorizza una rigorosa e inderogabile applicazione del procedimento individuato dagli artt. 64-65
c.p.p.: AIMONETTO, nota di commento a Cass., sez. VI, 22 gennaio 1992, Frati, cit., p. 70; DOMINIONI, sub
artt. 64-65, cit., pp. 406-407; LORUSSO, Interrogatorio della persona sottoposta alle indagini preliminari e
comunicazione delle fonti di prova, in Cass. pen., 1995, p. 3422; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’in-
dagato e alternative al silenzio, cit., p. 158; RANCATI, Imputato e ‘‘indagato’’, in Protagonisti e compri-
mari del processo penale, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiava-
rio-E. Marzaduri, Torino, 1995, p. 167.
(17) Finanche nelle sue primissime battute, allorquando venga eseguito il fermo o l’arresto e l’in-
terrogatorio effettuato in tale occasione viene considerato idoneo a supportare la richiesta di giudizio im-
mediato da parte del p.m.: si veda, al proposito, la giurisprudenza riportata infra, nota n. 20.
(18) In questo senso, tra i tanti, variamente: CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1043; DALIA,
Giudizio immediato, in AA.VV., I procedimenti speciali, a cura di A. Dalia, Napoli, 1989, p. 236; GAITO,
Riti alternativi, II) Giudizio immediato, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1989, p. 2; IACOVIELLO, Evidenza
della prova e decidibilità allo stato degli atti nella conversione del giudizio immediato in abbreviato, in
Cass. pen., 1992, pp. 691-692; ILLUMINATI, Il giudizio immediato, in AA.VV., I riti differenziati nel nuovo
processo penale, Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Salerno, 30 set-
tembre-2 ottobre 1988), Milano, 1990, pp. 150-152; MARAFIOTI, Evidenza della prova ed interrogatorio
dell’imputato nel giudizio immediato su richiesta del p.m., in AA.VV., I giudizi semplificati, coordinato
da A. Gaito, Padova, 1989, pp. 273-274; PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in AA.VV.,
I giudizi semplificati, cit., p. 221; VALENTINI REUTER, Il diritto di difesa a fronte del decreto che dispone il
giudizio immediato, in Giur. it., 1993, II, c. 327 ss. In giurisprudenza: Cass., sez III, 2 febbraio 2001, Pe-
droza, in Cass. pen., 2002, p. 1762; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, ivi, 1998, p. 3103; Cass., sez.
I, 15 aprile 1993, Ceraso, ivi, 1994, p. 2141.
(19) Con l’ulteriore conseguenza, sottolineata da LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 486,
per la quale sul pubblico ministero non graverebbe, oltre all’obbligo di contestare i fatti comportanti l’evi-
denza della prova, anche quello di enunciare all’interrogato gli esatti termini della valutazione di evidenza
ad essi sottesa.
(20) Un sentore di questo fenomeno è riscontrabile nell’asserita e ormai pacifica equipollenza del-
l’interrogatorio eseguito dal giudice in sede precautelare con quello espletato dal p.m. ai fini di una valida
richiesta di giudizio immediato: Cass., sez. III, 2 dicembre 1999, Fusco, in Cass. pen., 2001, p. 1278;
Cass., sez. IV, 16 ottobre 1997, Hristowski, ivi, 1999, p. 1861; Cass., sez. VI, 11 febbraio 1994, Dionani,
ivi, 1996, p. 850; Cass., sez. VI, 30 settembre 1993, Palma, ivi, 1995, p. 324; Cass., sez. V, 3 marzo
1992, Giannoccaro, in Giur. it., 1994, II, c. 224.
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(21) SPANGHER, sub artt. 17-18, in AA.VV., Il processo penale dopo la ‘‘legge Carotti’’, in Dir.
pen. e proc., 2000, p. 186.
(22) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
509, nota n. 13; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione, cit., p. XLII; ID., Chiusura
delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 111; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investi-
gativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 282, nota n.
99; MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, in Leg. pen., 2000, p. 248; NUZZO, L’avviso di
conclusione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 680; SPAN-
GHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit.,
p. 75.
(23) SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187.
(24) GIORDANO, Indagini: dimezzato il pubblico ministero, in Guida al dir., n. 1, 2000, p. XXXIV.
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(25) MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 157, il quale de-
nuncia la propensione a rendere l’interrogatorio ‘‘il più possibile veicolo di ammissioni o, almeno, di ulte-
riori spunti investigativi da parte dell’interrogato’’. Degenerazione patologica di tale situazione è rappre-
sentata dal possibile uso degli strumenti cautelari per ottenere confessioni e delazioni, denunciato per
esempio da GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’im-
putato, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari,
Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Catania, 30 settembre-2 ottobre
1993), Milano, 1995, p. 19 ss.; LOZZI, Conclusioni, ivi, pp. 209-219; ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali
in tema di libertà personale e di ricerca della prova, ivi, p. 64 ss.
(26) Esemplificativa al proposito è la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 293, comma 3,
c.p.p. nella parte in cui non prevede(va) la facoltà per il difensore di estrarre copia degli atti presentati
con la richiesta del pubblico ministero di applicazione di una misura cautelare, al fine di rendere attuabile
un’adeguata e informata assistenza e difesa del soggetto in vinculis all’interrogatorio espletato ex art. 294
c.p.p.: Corte cost., sent. 24 giugno 1997, n. 192, in Cass. pen., 1997, p. 2983 accolta favorevolmente, tra
gli altri, da DI CHIARA, Deposito degli atti e ‘‘diritto alla copia’’: prodromi del contraddittorio e garanzie
difensive in una recente declaratoria di incostituzionalità, in Giur. cost., 1997, p. 1883; GIARDA, Un’altra
tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato, in questa Rivista, 1998, p. 1022; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 178.
(27) Per questa precisazione si vedano: CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedi-
menti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 276; KOSTORIS, Udienza pre-
liminare e giudizio abbreviato, snodi problematici della riforma, in AA.VV., Nuovi scenari del processo
penale alla luce del giudice unico, cit., p. 41; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative
al silenzio, cit., p. 265; MARANDOLA, Due significative novità per il processo penale: l’avviso della chiu-
sura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giudice dell’udienza preliminare, cit., p.
1131; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 81-82. In giurispru-
denza Trib. Catanzaro, ord. 21 agosto 2000, in Giust. pen., 2001, III, p. 60, con nota adesiva di MURONE,
Note in tema di omesso deposito di atti di indagine ex art. 415-bis c.p.p.
(28) L’efficace immagine si deve a MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al
silenzio, cit., p. 160.
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(29) In tal senso DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva
anticipazione della ‘‘soglia di giudizio’’, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale,
cit., p. 7. Non è neppure mancato chi ha visto nella vigente disciplina i segnali di ‘‘una parziale retroces-
sione di tutela’’ sull’interrogatorio investigativo, reso ormai obbligatorio solo in presenza di una congrua
richiesta dell’indagato: così BONINI, sub art. 17, cit., p. 359.
(30) SALVI, Luci ed ombre di un convulso fine di legislatura, in Leg. pen., 2001, p. 491.
(31) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248; NUZZO, L’avviso di conclu-
sione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 687.
(32) DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva anticipa-
zione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 9, per il quale l’eventuale inerzia difensiva rischia di ‘‘fortificare
(...) la pretesa punitiva rivolta al giudice’’.
(33) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 881.
(34) AMODIO, Lineamenti della riforma, in AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive, Milano,
2000, p. 26. Nello stesso senso, con varietà di sfumature: BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova
udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p. 504; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso
della conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 129; BONINI, sub art. 17, cit., 353; BRICCHETTI,
Udienza preliminare protagonista in deflazione, cit., p. XLII; ID., Chiusura delle indagini preliminari e
udienza preliminare, cit., p. 108; CASARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, in
AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 79; GIORDANO, Indagini: dimezzato il pubblico mini-
stero, cit., p. XXXIV; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 264;
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to’’ (35); aumenta ‘‘le chances offerte all’indagato di intervenire nella formazione
del materiale investigativo’’ (36), contribuendo altresì all’auspicata completezza
degli atti d’indagine attraverso la prospettazione di una versione alternativa a
quella colpevolista implicita nel presupposto dell’accusa di non dovere formulare
richiesta di archiviazione (37). Puntuali le smentite sull’effettiva capacità di rag-
giungere gli obiettivi preconizzati: sotto il primo angolo visuale l’accusatore par-
rebbe ‘‘già ‘orientato’ piuttosto che ‘da orientare’ ’’ (38) e ‘‘il cammino della di-
fesa è in salita’’ (39), onde si è individuata quale sede maggiormente garantita per
la difesa quella dell’udienza preliminare, con i vasti poteri di istruzione probatoria
esercitabili in tale sede e una regola di giudizio che consente ormai un ampio ri-
corso al non luogo a procedere (40); dall’altro si è posto in dubbio che il pubblico
ministero sia in un simile frangente il soggetto maggiormente indicato cui indiriz-
zare i risultati delle indagini difensive e le istanze probatorie (41). A quest’ultimo
proposito — senza addentrarsi troppo in una problematica in cui a entrare in di-
scussione sono la stessa natura e le finalità dell’organo dell’accusa (42) — appare
lecito supporre che quello che procede all’interrogatorio chiesto da una difesa che
ha ormai piena conoscenza degli atti sia un pubblico ministero ‘‘che deve abban-
donare impostazioni esclusivamente accusatorie’’ (43), anche per non incappare
in quella valutazione di incompletezza delle indagini che legittimerebbe, da parte
del giudice dell’udienza preliminare, l’emanazione dell’ordinanza ex art. 421-bis
c.p.p. (44) (nonché nella possibile avocazione dell’organo superiore); quando non
MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedimenti alternativi, in Dir. pen. e
proc., 2002, p. 608; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., p. 87.
(35) GIARDA, Il ‘‘decennium bug’’ della procedura penale, in AA.VV., Il nuovo processo penale
davanti al giudice unico, cit., p. 12.
(36) CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di con-
clusione delle indagini preliminari, cit., p. 267.
(37) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
504; BONINI, sub art. 17, cit., p. 354; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti con-
tro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 270; CASARTELLI, Nuove garanzie di-
fensive nelle indagini preliminari, cit., pp. 79-80; DI BITONTO, Il pubblico ministero nelle indagini prelimi-
nari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Cass. pen., 2000, pp. 2862-2863; PIATTOLI, L’avviso di con-
clusione delle indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase
procedimentale, cit., pp. 58-61; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 351.
(38) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248.
(39) DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva anticipa-
zione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 8.
(40) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 249; SALVI, Luci ed ombre di un
convulso fine di legislatura, cit., p. 491.
(41) In tal senso, con varietà di motivazioni: BONINI, sub art. 17, cit., pp. 354, 359; CAPRIOLI,
Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini
preliminari, cit., pp. 271, 283; DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’ef-
fettiva anticipazione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 9; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e
alternative al silenzio, cit., pp. 269, 282; NUZZO, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari ov-
vero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., pp. 680, 687; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle
indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale,
cit., pp. 59, 63; SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 186. In senso contrario VERDOLIVA, L’avviso all’inda-
gato della conclusione delle indagini, cit., pp. 83, 105.
(42) Per un excursus si veda, da ultimo, NOBILI, Recenti orientamenti in tema di pubblico mini-
stero ed esercizio dell’azione penale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 173 ss.
(43) MARZADURI, sub art. 2, cit., p. 760. Da questo angolo visuale non si è mancato di intravedere
in quello disciplinato dall’art. 415-bis c.p.p. un istituto in grado di rivitalizzare in qualche modo l’evane-
scente disposto dell’art. 358 c.p.p.: AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 27; BONINI, sub art. 17, cit.,
pp. 354, 359; CASARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 79; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 269.
(44) Sarebbe questo, secondo TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 351, il possibile esito
di quella sorta di ‘‘ultimatum’’ che la difesa lancia all’accusa nel momento in cui avanza ex art. 415-bis
c.p.p. le proprie richieste probatorie e queste dovessero rimanere inascoltate; DI BITONTO, Il pubblico mi-
nistero nelle indagini preliminari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit., p. 2864; MARAFIOTI, Scelte au-
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l’attivazione dei poteri istruttori di cui all’art. 422 c.p.p., concepiti in funzione
della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (45). Considerazioni del
genere non possono non valere, a fortiori, laddove la pubblica accusa decida di in-
staurare il giudizio immediato sulla base di una valutazione che, seppure non pre-
ceduta dall’invio dell’avviso di chiusura delle indagini, è pur sempre sottoposta al
vaglio giurisdizionale: la condizione di evidenza probatoria prevista dall’art. 453
c.p.p. lascia supporre che ‘‘sarà lo stesso p.m. a poter costruire lo stato di evi-
denza quale risultato di una indagine preliminare (...) tipica, tendenzialmente
esaustiva (...) dove solo la scrupolosa ricerca degli eventuali elementi a discarico
vale a scongiurare il pericolo di puntigliose discussioni e contestazioni difensi-
ve’’ (46).
Insomma, nell’approccio alle richieste formulate ex art. 415-bis c.p.p. l’or-
gano dell’accusa dovrà tenere nella massima considerazione le possibili integra-
zioni al proprio fascicolo attuabili in sede di udienza preliminare, ispirandosi ‘‘ad
una particolare ‘qualificata’ probable cause’’ (47): obiettivo cui appare funzionale
una — per quanto non obbligata (48) — scrupolosa e approfondita presa di con-
tatto con le allegazioni fattuali e le istanze probatorie avanzate dalla difesa (sem-
pre che questa abbia deciso di esercitare i poteri attribuitile dall’art. 415-bis
c.p.p.) (49).
Al di là delle ‘‘poche certezze (e) molti interrogativi’’ (50) che la disposizione
contenuta nell’art. 415-bis c.p.p. per più versi suscita, essa appare comunque in
grado di mettere in crisi il precedente assioma per il quale ‘‘chi non sa di essere in-
todifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 281; SCALFATI, La riforma dell’udienza prelimi-
nare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., pp. 2820, 2828.
(45) AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 28; NUZZO, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 681.
(46) GAITO, Riti alternativi, II) Giudizio immediato, cit., p. 2.
(47) MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 278; GIORDANO,
Indagini: dimezzato il pubblico ministero, cit., p. XXXIV, per il quale il significato ultimo dell’art. 415-
bis c.p.p. è quello di ‘‘spingere il p.m. verso una maggiore completezza delle indagini’’.
(48) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
503; BONINI, sub art. 17, cit., pp. 359, 361; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione,
cit., p. XLIV; ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 108; CAPRIOLI, Nuovi
epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari, cit., p. 283; CORDERO, Procedura penale, cit., p. 880; KOSTORIS, Udienza preliminare e giudizio ab-
breviato, snodi problematici della riforma, cit., p. 41; MANNUCCI, Brevi considerazioni sulle modifiche ap-
portate al procedimento penale dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Cass. pen., 2000, p. 1502; MAN-
ZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 247; MARANDOLA, Due significative novità per il
processo penale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giu-
dice dell’udienza preliminare, cit., pp. 1131-1132; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preli-
minari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 62;
SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., pp. 349-350. Contra,
con varietà di motivazioni e conclusioni: AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., pp. 27-28; BARBUTO,
Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 132; CASAR-
TELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 84; E. VALENTINI, Il diritto al contrad-
dittorio nel procedimento per decreto penale a confronto con le recenti modifiche normative, in Cass.
pen., 2000, p. 2005; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., p. 105.
(49) A questo proposito si è giustamente sottolineato: a) che in tal modo si verrebbe a configu-
rare in capo alla difesa una ‘‘indebita spinta a ‘‘cooperare’’ alla completezza delle indagini’’ (MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 275) per di più con un soggetto il cui
operato non appare scevro da logiche di parte e strategie tese a rimodellare eventualmente in chiave accu-
satoria elementi di prova potenzialmente pro reo; b) che comunque, vista la tardività dell’avviso, ‘‘la pista
investigativa favorevole all’indagato potrebbe risultare non più utilmente praticabile’’ (CAPRIOLI, Nuovi
epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari, cit., pp. 281-282).
(50) SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 186.
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considerazioni sulle modifiche apportate al procedimento penale dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit.,
p. 1501; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 265; MARZADURI,
Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 782; NUZZO, L’avviso di conclusione delle in-
dagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 677; TONINI, Manuale di proce-
dura penale, cit., p. 351; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 71,
74, 87. Ritiene al contrario che l’intera disciplina delle indagini preliminari sia perlopiù indifferente ai
principi del giusto processo, i quali ‘‘hanno specifica rilevanza nei confronti del giudizio in senso stretto’’
CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto processo’’, cit., p.
679.
(60) Così GREVI, Ancora e sempre alla ricerca del ‘‘processo giusto’’, in Leg. pen., 2001, p. 478, il
quale non manca tuttavia di individuare proprio nel provvedimento normativo che ha introdotto l’art.
415-bis c.p.p. il segnale di ‘‘un indirizzo legislativo piuttosto schizofrenico rispetto alla pressoché contem-
poranea riforma dell’art. 111 Cost.’’ (op. ult. cit., p. 476); KOSTORIS, Udienza preliminare e giudizio ab-
breviato, snodi problematici della riforma, cit., p. 51.
(61) Auspicavano il diffondersi di una simile interpretazione, pur senza nascondersene le difficoltà
ermeneutiche MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedimenti alternativi,
cit., p. 610; E. VALENTINI, Il diritto al contraddittorio nel procedimento per decreto penale a confronto con
le recenti modifiche normative, cit., p. 2006. Secondo PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56,
nota n. 3, invece, il richiamo al comma 2 dell’art. 405 c.p.p. sarebbe giustificato dal solo scopo di indivi-
duare il termine entro cui procedere alla notifica dell’avviso, che andrebbe quindi eseguita in tutti i casi in
cui il procedimento non debba essere archiviato.
(62) Per queste puntualizzazioni SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187.
(63) Da questo angolo visuale a rimanere fuori è, senza dubbio, il giudizio direttissimo nel quale le
varie situazioni di evidenza probatoria legislativamente prefissate escludono la necessità di una fase inve-
stigativa che si dipani secondo le cadenze ordinarie: nel caso di arresto e di confessione, infatti, un ipote-
tico invio dell’avviso da un lato non aggiungerebbe garanzie ulteriori rispetto alla conoscenza dell’adde-
bito e delle fonti d’accusa, dall’altro risulterebbe inutile in quanto inidoneo a scongiurare l’esercizio del-
l’azione penale (per un’applicazione giurisprudenziale Trib. Cremona, 22 maggio 2000, Jamel, in Cass.
pen., 2001, p. 674). Quanto al giudizio abbreviato e al patteggiamento, essi si instaurano in seguito alla
normale celebrazione dell’udienza preliminare preceduta dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio
ex art. 416 c.p.p.
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penale di condanna (64), proprio sul giudizio immediato instaurato a richiesta del
pubblico ministero. In effetti le istanze di massima celerità e semplificazione in ge-
nere sottese ai procedimenti speciali e solitamente invocate per giustificare le varie
deviazioni dall’iter ordinario sembrano non attagliarsi pienamente all’ipotesi del
giudizio immediato. Qui il rispetto del più breve termine di 90 giorni decorrente
dall’iscrizione della notizia di reato attiene allo svolgimento e al completamento
delle indagini, mentre la presentazione della richiesta con la trasmissione del fasci-
colo può avvenire in un momento successivo non presidiato da termini peren-
tori (65): il possibile innesto del procedimento di notificazione dell’avviso di chiu-
sura delle indagini non sembra pertanto snaturare la ratio del rito, in quanto non
andrebbe a intaccare i termini speciali inderogabilmente previsti per raccogliere
elementi probatori evidenti né il principio secondo cui per la loro acquisizione
sono sufficienti indagini preliminari più brevi del consueto (66). Per di più esso
non sembra comportare un tale appesantimento procedurale né significativi ag-
gravi per l’autorità procedente, già tenuta all’inoltro dell’invito a comparire ex
artt. 375, comma 3 e 453, comma 1, c.p.p., caratterizzato da un contenuto prati-
camente equivalente a fini contestativi all’avviso di chiusura delle indagini: alla
stesura di esso dovrebbe semplicemente far seguito la mera attività materiale di
messa a disposizione del fascicolo investigativo nella segreteria, con l’avverti-
mento della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.
Insomma, se la speditezza del rito può venire a dipendere dalla maggiore o
(64) La Corte di cassazione, in epoca successiva all’introduzione dei principi del giusto processo
nell’art. 111 Cost., ha perentoriamente escluso che la notificazione dell’avviso di chiusura delle indagini
debba precedere la richiesta di emissione del decreto penale e che la sua eventuale omissione possa deter-
minare la nullità del procedimento monitorio: Cass., sez. I, 10 maggio 2001, Aliprandi, in Arch. nuova
proc. pen., 2001, p. 540; Cass., sez. I, 17 settembre 2001, Farabi, cit.; Cass., sez. I, 21 dicembre 2000,
Villa, in Cass. pen., 2002, 1737; Cass., sez. I, 5 ottobre 2000, Giuliano, in Giur. it., 2002, c. 139. Nello
stesso senso, in dottrina: BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti spe-
ciali, cit., p. 511; BRICCHETTI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 110; CA-
SARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 80, nota n. 20; GAZZANIGA, Princi-
pio di tassatività delle nullità e omesso invito dell’imputato a presentarsi prima della citazione a giudizio
a seguito di opposizione a decreto penale, in Cass. pen., 2000, p. 2664; IAI, Non dovuto l’avviso di con-
clusione delle indagini nel procedimento per decreto penale, in Giur. it., 2002, c. 139; MANZIONE, Quale
processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248; MARANDOLA, Due significative novità per il processo pe-
nale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giudice dell’u-
dienza preliminare, cit., p. 1134; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela
del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56, nota n. 3; SPANGHER,
sub artt. 17-18, cit., p. 188. Di diverso avviso altra parte della dottrina, per la quale una volta ricono-
sciuto all’indagato ‘‘il diritto di introdurre nel procedimento gli elementi necessari per scongiurare un pos-
sibile esercizio avventato dell’azione penale ai suoi danni, non si vede perché il principio non dovrebbe
valere (...) con riferimento alla richiesta di decreto penale di condanna’’: CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della
fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p.
274 e, nello stesso senso BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle inda-
gini preliminari, cit., p. 133; BONINI, sub art. 17, cit., pp. 364-365; MARAFIOTI, Scelte autodifensive del-
l’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 270; MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari nei procedimenti alternativi, cit., pp. 609-610; SCALFATI, Le nuove prospettive del decreto penale, in
AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 534.
(65) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
511, nota n. 14; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, cit., p. 3104; Cass., sez. III, 26 settembre 1995,
Pellegrino, in Cass. pen., 1997, p. 112, con nota critica di MARANDOLA, In tema di richiesta ‘‘tardiva’’ di
giudizio immediato da parte del pubblico ministero; cfr. pure DEAN, Sul rispetto del termine per l’instau-
razione del giudizio immediato, in Giur. it., 1992, II, c. 523; LORUSSO, Un singolare obiter dictum della
Corte di cassazione in tema di giudizio immediato, in Cass. pen., 1996, pp. 170-171. Allo stesso modo la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che la qualifica di imputato conseguente all’esercizio dell’a-
zione penale si acquista indipendentemente dal deposito e dalla notificazione degli atti di cui all’art. 405
c.p.p., essendo sufficiente che questi siano venuti a esistenza: Cass., sez. VI, 19 ottobre 1990, Sica, in
Cass. pen., 1991, II, p. 93; Cass. sez. VI, 22 marzo 1994, Sepe, in Riv. pen., 1995, p. 514.
(66) Insomma, quello che efficacemente è stato definito il carattere ‘‘cronologico’’ dell’evidenza
sottesa al giudizio immediato: così ILLUMINATI, Il giudizio immediato, cit., p. 151.
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minore diligenza del p.m. nel presentare la relativa richiesta e del giudice nell’ac-
coglierla o meno (67), e in assenza di ‘‘priorità nella fissazione dell’udienza ri-
spetto ai giudizi ordinari’’ (68), non sembra azzardato prospettare che un’even-
tuale decelerazione del procedimento possa essere provocata dall’introduzione
della fase di garanzia difensiva innestata dall’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. in
un momento anteriore a quello di presentazione della domanda di giudizio: in
un’ottica non esasperatamente tesa all’efficienza (69), potrebbe sostenersi che la
dilatazione temporale così inevitabilmente cagionata andrebbe in alcuni casi a es-
sere compensata dal risparmio di energie processuali provocato dai possibili esiti
archiviativi (70). Neppure l’esigenza di modulare le forme di esercizio del diritto
di difesa in funzione della specialità del procedimento paiono del tutto persua-
sive (71): se non si rinvengono altri valori costituzionali degni di tutela in un’ot-
tica di bilanciamento di interessi contrapposti, essa finisce per risolversi in una pe-
tizione di principio, incapace di spiegare il reale motivo per cui il diritto a evitare
un possibile esercizio arbitrario dell’azione penale venga disconosciuto nel giudi-
zio immediato solo in ragione della sua specialità (72). Se la compressione del di-
ritto di difesa non trova riscontro in altri valori costituzionalmente protetti, la di-
sparità di trattamento con il soggetto rinviato a giudizio in via ordinaria non trova
più giustificazione: al proposito non sembra neppure che possa invocarsi la mode-
stia delle conseguenze sanzionatorie del rito speciale in discorso, al quale non
sono collegati aspetti di premialità o benefici di sorta (73). L’imputato nei cui
confronti sia stata avanzata richiesta di giudizio immediato viene così ingiustifica-
tamente privato del diritto di non acquisire mai tale status vedendo chiuso il pro-
cedimento a suo carico nella fase delle indagini: con tutti i vantaggi che si possono
intuire quanto a costi sostenuti per l’assistenza difensiva e lunghezza dei tempi in
cui un soggetto — che, giova ribadirlo, è per la legge suprema presunto innocente
(67) Visto il carattere ordinatorio del termine previsto dall’art. 455 c.p.p. per la decisione del giu-
dice in ordine alla richiesta di giudizio immediato.
(68) Di tal che la celebrazione del giudizio immediato può svolgersi ben al di là dei novanta giorni:
ILLUMINATI, Il giudizio immediato, cit., p. 155.
(69) Esclude che il riferimento al tempo necessario per predisporre la difesa debba necessaria-
mente ‘‘porsi in una logica di contrapposizione rispetto al principio di efficienza del sistema processuale’’
MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 781. Denuncia invece il rischio
che un cumulo eccessivo di previsioni garantistiche possa allungare a dismisura il tempo dei processi e
l’efficienza complessiva del sistema GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale,
cit., pp. 3323-3324; secondo MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 249, l’art. 415-
bis c.p.p. si pone in contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata dei procedimenti.
(70) AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 26; CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto processo’’, cit. p. 680; DI BITONTO, Il pubblico ministero nelle in-
dagini preliminari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit., pp. 2862-2863; GIARDA, Il ‘‘decennium bug’’
della procedura penale, cit., p. 12.
(71) In senso opposto, invece, oltre agli Autori citati nella nota n. 64, si vedano, proprio con riferi-
mento al verdetto emesso dalla Corte con l’ordinanza che si commenta: BRICCHETTI, La Corte costituzio-
nale esclude l’obbligo per la natura del procedimento speciale, in Guida al dir., n. 23, 2002, pp. 46-47;
NUZZO, La Corte costituzionale esclude l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedi-
menti speciali, in Cass. pen., 2002, p. 3740.
(72) Avanza serie riserve sulla ‘‘opportunità della soluzione normativa’’ CAPRIOLI, Nuovi epiloghi
della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit.,
p. 274. Nello stesso senso: BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle in-
dagini preliminari, cit., p. 133; MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedi-
menti alternativi, cit., pp. 609-610; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela
del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56, nota n. 3; VERDO-
LIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 76-80.
(73) A dire il vero dalla normativa emerge che a fronte di procedimenti per reati puniti con pene
istituzionalmente contenute nei limiti di cui all’art. 550 c.p.p. azionati con citazione diretta da parte del
p.m. trovi luogo l’avviso di chiusura delle indagini, mentre lo stesso deve escludersi per i procedimenti
transitati a dibattimento con rito immediato, ove non vigono limiti quanto alle sanzioni astrattamente ap-
plicabili: tuttavia il rilievo non è parso decisivo a SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 188.
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— rimane sottoposto agli organi della giustizia penale. Simili considerazioni non
possono che acuirsi di fronte a un dettato costituzionale diretto a far sì che l’inda-
gato disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa:
per quanto il contenuto di una tale guide line appaia sprovvisto di determinatezza
e precettività tali da rendere automaticamente censurabili le disposizioni codicisti-
che coinvolte (74), sarebbe opportuno sfruttare la genericità della garanzia costi-
tuzionale per rimeditarne gli spazi applicativi.
Dott. LUCA IAFISCO
(74) Al punto che se ne è autorevolmente proposta un’interpretazione tale per cui essa si limite-
rebbe a fornire un requisito soddisfatto dalla presenza di un termine a comparire durante il quale eserci-
tare le prerogative della difesa, secondo il combinato disposto degli artt. 429, comma 3 e 466 c.p.p.: COR-
DERO, Procedura penale, cit., p. 1269. A questo proposito non appare inutile ricordare come proprio il di-
ritto di disporre del tempo e delle condizioni per la difesa abbia ispirato la modifica dei termini previsti
dagli artt. 456, 458 c.p.p. per la scelta dei riti speciali nel giudizio immediato, come fatto rilevare da:
BRICCHETTI, Termini più ampi per accedere al giudizio abbreviato, in Guida al dir., n. 13, 2001, p. 63;
DANIELE, Nuovi termini per la notificazione del decreto di giudizio immediato e per la conversione del
rito, in AA.VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. Kostoris, Torino,
2002, p. 266; SPANGHER, Giudizio immediato: tempi più adeguati per le scelte dei riti speciali, in AA.VV.,
Giusto processo e prove penali, Milano, 2001, p. 177.
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c) Giudizi di Cassazione
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lità a regime intermedio (cfr. Sez un., 27 giugno 2001, Di Sarno), la quale, però,
non essendo stata tempestivamente eccepita nei temini di cui agli artt. 180 e 182
c.p.p. (all’udienza camerale, infatti, il difensore regolarmente avvisato e presente
nulla dedusse in ordine al mancato avviso al secondo difensore), non può essere
dedotta in questa sede.
2. Può, quindi, passarsi all’esame della questione portata all’attenzione delle
Sezioni unite e che può essere così sintetizzata: se la dichiarazione di ricusazione
del giudice, da parte dell’imputato che versi in stato di custodia cautelare, legittimi
o non, ex art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p., la sopensione dei relativi termini.
3. La disciplina contenuta nell’art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p. prevede
che il dibattimento e l’udienza preliminare sospesi o rinviati per impedimento del-
l’imputato o del suo difensore ovvero su richiesta dei medesimi, sempre che la so-
spensioneo il rinvio non siano disposti per esigenze istruttorie o difensive (conces-
sione di termini per la difesa), sospendono i termini di durata massima della cu-
stodia cautelare.
Una peculiare lettura della norma in esame (riproduttiva, in sostanza, di
quella di cui all’art. 272 comma 7 c.p.p. ’30) ha indotto larga parte della giuri-
sprudenza di legittimità a ricomprendere nell’area delle cause di sospensione an-
che la dichiarazione di ricusazione, sulla base della considerazione che detta
norma, nella parte in cui fa riferimento ad una ‘‘richiesta’’ dell’imputato o del suo
difensore idonea a comportare il rinvio del processo, richiamerebbe implicita-
mente anche la dichiarazione di ricusazione, che sarebbe, per ciò, assoggettata alla
stesa disciplina, vale a dire sospensione del processo e sospensione dei termini di
durata massima della custodia cautelare.
4. Il dibattito giurisprudenziale, nel qual si inscrive tale orientamento mag-
gioritario, si è sviluppato sotto il segno della continuità, nel senso che le soluzioni
ermeneutiche adottate, nel vigore del codice di rito del 1930 e incostanza dell’as-
setto normativo attuale, sono sovrapponibili.
4.a. Nella vigenza del codice del 1930, la giurisprudenza segue inizialmente una
linea rigorosa e restrittiva nell’individuare il campo di operatività dell’art. 272
comma 7, sottolineando che ‘‘il termine di carcerazione preventiva resta sospeso
quando la sospensione o il rinvio del dibattimento, a richiesta dell’imputato o
della difesa, siano disposti nell’esclusivo intresse dell’imputato o della difesa, ma
non già quando detti provvedimenti di sospensione o di rinvio del dibattimento,
anche se sollecitati dalla parte, siano disposti per sostanziali esigenze di giustizia’’,
intendendosi per tali non soltanto l’espletamento di incombenti istruttori ritenuti
necessari, ma anche questioni pregiudiziali ‘‘attinenti all’esistenza del reato ... o
alla validità della norma, come la pregiudiziale costituzionale’’; in sostanza, si
esalta il profilo teleologico della richesta avanzata dall’imputato, per stabilire se
questa tenda al conseguimento delle finalità primarie dell’ordinamento o piuttosto
a soddisfare interessi circoscritti alla sfera personale dell’imputato, nel quale ul-
timo caso soltanto possono derivare al predetto effetti pregiudizievoli (cfr., in par-
ticolare, Cass. Sez. I 6 dicembre 1976, Fonti e, in termini analoghi, Sez. I 5 giugno
1986, Matrone; Sez. I 15 dicembre 1986, Musto; Sez. I 19 maggio 1986, Licciar-
dello).
Tale interpretazione, però, viene ben presto contrastata e gli argomenti da
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zione; Sez. I 19 giugno 1997, Cannatella; Sez. I 20 giugno 1997, La Monica; Sez.
VI 11 gennaio 1999, Ferraro).
Altre decisioni, meno numerose, rifacendosi all’ispirazione di fondo della sen-
tenza ‘‘Mancini’’ delle Sez. un., negano ogni automatismo tra dichiarazione di ri-
cusazione, sospensione del procedimento e sospensione dei termini cautelari ed
esaltano il principio secondo cui la linea di demarcazione tra sospensione o non
dei termini di custodia cautelare non è l’istanza di parte, bensì la ragione vera sot-
tesa al rinvio del processo, se disposto cioè per meri interessi personali dell’impu-
tato che non assurgono a dignità di diritti di difesa ovvero per esigenze che travali-
cano la sfera personale e si identificano con interessi pubblici, primariamente e di-
rettamente tutelati dall’ordinamento, a prescindere dall’istanza dell’imputato. Non
mancano tali decisioni di richiamare la specifica disciplina che governa l’istituto
della ricusazione, per inferirne che l’attivazione della relativa procedura inciden-
tale non comporta l’automatica sospensione del processo principale (cfr. Sez. I 17
gennaio 1997, Battaggia; Sez. I 27 luglio 1992, Greco; Sez. 29 maggio 1992 Di
Grigoli).
5. Le Sezioni unite condividono, in linea di massima, quest’ultimo orienta-
mento minoritario, che abbisogna, però, di essere meglio puntualizzato, in stretta
aderenza al dato normativo vigente, sia in ordine alle ragioni che lo giustificano,
sia in ordine alla non assolutezza del principio affermato.
Occorre procedere con ordine e individuare, innanzi tutto, la natura e la ratio
dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. e, poi, verificare se la stasi del processo sia
una conseguenza necessaria della dichiarazione di ricusazione.
5.a. Sul primo punto, osserva la Corte che la sospensione dei termini custo-
diali connessa a fatto riferibile all’imputato o al suo difensore trova l’antecedente
storico del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 (‘‘provvedimenti urgenti sulla giustizia pena-
le’’), convertito nella l. 7 giugno 1074, n. 220, il quale aveva aggiunto all’unica
ipotesi, precedentemente conosciuta, di sospensione dei termini di custodia pre-
ventiva (quella cioè della sottoposizione dell’imputato ad osservazione psichia-
trica) l’ulteriore previsione, conglobata nel comma 6) poi, divenuto 7) dell’art.
272 c.p.c. ’30), della operatività di detta sospensione ‘‘nella fase del giudizio, du-
rante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per legittinmo impedi-
mento dell’imputato, ovvero a richiesta sua o del suo difensore, sempre che la so-
spensione o il rinvio non siano stati disposti per esigenze istruttorie, ritenute indi-
spensabili con espressa indicazione nel provvedimento di sospensione o di rinvio’’.
Alla decretazione d’urgenza, in quel contesto storico, si pervenne per ovviare
all’imminente scadenza dei termini di custodia preventiva, previsti in via transito-
ria dall’art. 3 d.l. n. 192 del 1970, e quindi all’immediata scarcerazione di ‘‘peri-
colosi criminali’’.
Il contenuto dell’art. 272 comma 7 c.p.c. ’30 è stato, in sostanza, recepito ed
ulteriormente ampliato dall’art. 304 del vigente codice di rito, norma quest’ultima
che, pur non deputata a fronteggiare una situazione di emergenza, ribadisce, nella
sola prospettiva di garantire effettività all’istituto della custodia cautelare e quindi
al processo penale nel suo complesso, un tassativo sistema di deroghe alla disci-
plina di principio dei termini di durata della custodia cautelare. La dilatazione di
questa, già sottoposta a termini di durata massima, in virtù degli eventi tassativa-
mente previsti dall’art. 304, comma 1, lett. a) e b), c.p.p., non può che rappresen-
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tare l’eccezione, con la conseguenza che detta norma va interpretata in modo rigo-
rosamente restrittivo e non è suscettibile di applicazione analogica.
Negli stessi termini si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza n.
298 del 1994, che dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 304 comma 1 lett. a) e b) nella parte in cui non consentiva, all’epoca (si è
prima della riforma introdotta dalla l. n. 332 del 1995), di adottare l’ordinanza di
sospensione dei termini di custodia cautelare, per impedimento dei difensori, an-
che quando si procedeva con il rito abbreviato.
Per completezza espositiva, va precisato che la sospendibilità dei termini de
quibus, originariamente prevista per la sola fase del giudizio, è stata estesa, per ef-
fetto dell’art. 15 della l. n. 332 del 1995, che ha revisionato il comma 4 dell’art.
304 c.p.c., all’udienza preliminare, in caso di sua sospensione o rinvio per le ipo-
tesi previste dal comma 1 lett. a) e b) dello stesso art. 304; con il d.l. n. 82 del
2000, convertito nella l. n. 144 del 2000, è stata riproposta, in modo esplicito, la
stessa disciplina per il giudizio abbreviato.
La ratio della norma in esame, com’è stato rilevato da più parti, risiede certa-
mente nell’esigenza di scoraggiare l’imputato o il suo difensore dall’uso strumen-
tale di determinate situazioni tipiche per meri scopi tattici o dilatori e di evitare,
quindi, possibili, indebite scarcerazioni come conseguenza di detto comporta-
mento, in ordine al quale il giudice precedente non ha alcun potere di valutazione
preliminare, per verificarne la strumentalità o il fumus di serietà.
5.b. Il secondo punto da esaminare, di decisivo rilievo per la soluzione della
questione rimessa alle Sez. un., attiene alle interferenze tra la norma di cui si è
parlato e la disciplina della ricusazione, al rapporto tra procedimento principale e
procedimento incidentale sulla ricusa e, quindi, alla sussistenza o meno di auto-
matismo tra dichiarazione di ricusazione, stasi del processo e sospensione dei ter-
mini cautelari.
Devesi prendere atto che il vigente codice di rito ha disciplinato l’istituto
della ricusazione in maniera nettamente diversa rispetto al codice del 1930 e di
tanto non sembra avere preso coscienza, sul piano applicativo, l’orientamento giu-
risprudenziale maggioritario, connotato da opzioni che si rifanno a modelli supe-
rati, utilizzano la fossilizzazione di un’esegesi normativa propria del vecchio im-
pianto processuale, ma non più attuale, perché assolutamente inconciliabile con le
modulazioni sistematiche previste dal nuovo rito.
È opportuno, preliminarmente, sgomberare subito il campo dall’equivoco che
è alla base del denunciato contrasto giurisprudenziale: non sussiste, oggi, alcuna
conseguenzialità necessaria tra dichiarazione di ricusazione e sospensione proces-
suale, situazione questa che poteva avere una ragion d’essere, sia pure con qualche
strappo all’ortodossia esegetica, nel pregresso sistema.
5.c. Il legislatore del 1930, che aveva riproposto sostanzialmente il modello
accolto nel codice del 1913 ed ancor prima in quello del 1865, infatti, stabiliva
che il giudice competente per la ricusazione, riconosciuta ammissibile la dichiara-
zione del ricusante, dovesse ordinare che ne fosse dato avviso al giudice ricusato
(art. 69 comma 1), il quale, ‘‘avuta notizia della presentazione della dichiarazio-
ne’’, poteva compiere ‘‘soltanto atti urgenti di istruzione’’ (art. 69 comma 2).
Ciò raffigurava — secondo i più — un’ipotesi di sospensione processuale, sia
pure impropria, da cui derivava, quale conseguenza immediata, la sospensione
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prevista ex lege dall’art. 272 comma 7 dei termini di carcerazione preventiva. Per
il vero, anche nel rito abrogato la sospensione del processo e, quindi, la restrizione
dei poteri giurisdizionali del giudice ricusato non scattavano automaticamente,
quale effetto della dichiarazione di ricusazione, ma presupponevano sempre il ‘‘fil-
tro’’ di ammissibilità del giudice competente a decidere la ricusazione, così come
confermato autorevolmente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del
1983, nella quale si precisa che soltanto dal momento in cui è ricevuta la ‘‘noti-
zia’’ di cui all’art. 69 comma 2 ‘‘il processo principale resta di fatto sospeso’’.
Nondimeno, la soluzione prescelta dell’automatismo appariva unanimemente,
se non ineccepibile, compatibile comunque col sistema, in virtù della necessità di
evitare, come autorevole dottrina aveva denunciato, che il meccanismo si trasfor-
masse ‘‘in un autentico incentivo ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pre-
testuose ed ingiustificate’’; per altro una volta avuta notizia della presentazione
della dichiarazione, sia la sospensione processuale sia quella dei termini di custo-
dia erano effetti ineludibili ed obbligati, la cui anticipazione al momento della pre-
sentazione della dichiarazione, dunque, non aveva effetti disarticolanti la norma-
tiva sul punto.
Esclusivamente in tale assetto normativo, la tesi dell’automaticità poteva
avere una qualche dignità; ma l’essere stata essa riproposta, pur nella vigenza del
nuovo rito, dalla giurisprudenza largamente maggioritaria è frutto di una non cor-
retta operazione ermeneutica, che si risolve in un anacronistico assioma.
5.d. Come già accennato, nel nuovo impianto normtivo, i rapporti tra proce-
dimento principale ed incidentale sono radicalmente mutati.
Il lungo e vivace dibattito che ha preceduto tale impianto evidenziava i limiti
della disciplina previgente e sollecitava l’esigenza di evitare che la semplice am-
missibilità della dichiarazione potesse dare luogo all’automatica limitazione dei
poteri del giudice sospetto, stigmatizzando la scelta del legislatore ‘‘che ha co-
struito un meccanismo talmente assurdo da trasformarsi in un autentico incentivo
ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pretestuose ed ingiustificate’’; solleci-
tava, quindi, una ‘‘riforma radicale’’ che ottemperasse, anzitutto, alla necessità di
fare ‘‘scomparire l’automatismo della stasi processuale’’.
Il legislatore del 1988 ha accolto tale invito, stabilendo, quanto agli effetti
della dichiarazione di ricusazione, che la semplice presentazione di questa e anche
la delibazione preliminare sulla sua ammissibilità non comportano per il giudice
ricusato alcuna limitazione di poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali.
Non è più previsto l’obbligo di dichiarare l’ammissibilità e di dare avviso di ciò al
ricusato; a costui, ex art. 37 comma 2 c.p.p., è fatto soltanto divieto ‘‘di pronun-
ciare o di concorrere a pronunciar sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordi-
nanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione’’, con l’ovvio effetto che
esso divieto, concernendo esclusivamente il momento deliberativo, non determina
alcuna paralisi dell’attività processuale, che può e deve regolarmente proseguire.
Tanto si evince dalla relazione al codice, nella quale, a commento dell’art. 41
comma 2, si legge che la norma ‘‘serve ad evitare i gravi inconvenienti, non solo
per la celerità del processo, ma anche per l’accertamento dei fatti, cui ha dato
luogo il disposto di cui all’art. 69 comma 2 codice di rito del 1930... Infatti, è
stato stabilito che spetterà alla Corte (o al Tribunale) disporre, caso per caso, che
il giudice nei confronti del quale è stata proposta ricusazione si astenga dal prose-
guire l’attività processuale o si limiti al compimento di alcuni atti’’.
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zione e sospensione del procedimento, rafforza la funzione di filtro svolta dal giu-
dice della ricusazione, al quale solo compete la scelta in ordine all’eventuale so-
spensione del processo principale e, quindi, la valutazione del fumus boni iuris
che assiste la dichiarazione presentata. Ne consegue che le dichiarazioni di ricusa-
zione pretestuose, dilatorie, strumentali, ostruzionistiche ed, in genere, ogni possi-
bile abuso trovano un forte deterrente nella stessa disciplina dettata in materia,
proiettata a salvaguardare, per quanto possibile, l’incolumità del processo nel suo
complesso.
Residua, per la verità, nel descritto sistema, un aspetto del tutto peculiare che
ripropone l’automatismo dichiarazione di ricusazione — sospensione del processo:
è il caso in cui la dichiarazione di ricusazione interviene, all’esito di ogni adempi-
mento istuttorio e processuale, nel momento immediatamente precedente la deli-
berazione finale, quando cioè al ricusato è inibito ex lege (art. 37 comma 2 c.p.p.),
in assoluto, adottare o concorrere ad adottare tale deliberazione, senza neppure
disporre di alcun potere di preventiva valutazione in ordine alla pretestuosità o
meno dell’istanza proposta.
È di palmare evidenza che, in tale ipotesi, diventa ineludibile ed automatica la
sospensione del processo, perché imposta dal dettato normativo e non certo ef-
fetto, come di norma accade, di una valutazione di merito del giudice di cui all’art.
40 c.p.p. Questo aspetto va risolto analizzando il ruolo che l’art. 304 c.p.p. svolge
nel contesto normativo che disciplina l’istituto della ricusazione.
6. È principio pacifico che alla richiesta esplicita e diretta, avanzata dall’im-
putato o dal suo difensore, di rinvio o di sospensione del dibattimento (o dell’u-
dienza preliminare), quale presupposto per la sospensione dei termini cautelari, è
equiparata anche l’ipotesi in cui la sospensione ed il rinvio derivino, come stretta
conseguenza, da un’istanza non direttamente ed immediatamente rivolta a tale
scopo, e ciò in linea con quella che è la precisata ratio dell’art. 304, commi 1 lett.
a) e 4, c.p.p., di tal che anche un’istanza apparentemente diretta alla tutela di ap-
prezzabili interessi dell’imputato e non a fini meramente dilatori o comunque in-
consistenti può, in tesi, determinare, secondo la citata norma, la sospensione dei
termini di cusodia cautelare (Sez. un., 6 luglio 1990, Mancini).
Naturalmente l’istanza dell’imputato che comporti comunque la sospensione
del processo, per produrre l’ulteriore conseguenza pregiudizievole sul decorso dei
termini cautelari, deve porsi, anche solo potenzialmente, come strumentale, dilato-
ria e abusiva.
È di indubbia esattezza il principio di fondo che ispira la sentenza ‘‘Mancini’’
delle Sezioni unite secondo cui il limite invalicabile di operatività della sospen-
sione di cui all’art. 304 è la tutela di diritti fondamentali e costituzionalmente ga-
rantiti: certamente rientra in tale categoria la pregiudiziale costituzionale, che in
quella sede veniva in rilievo; altrettanto può dirsi per l’imparzialità del giudice
come ‘‘canone oggettivo indeclinabile per la disciplina della funzione giurisdizio-
nale’’ ed elemento costitutivo del giusto processo, ipotesi qui considerata.
Il mero richiamo teorico ai detti diritti, nei quali è insito un rilevante interesse
pubblico che sovrasta quello particolare del soggetto interessato, non è, però, ar-
gomento sufficiente e decisivo per escludere, in assoluto, l’operatività della norma:
Come le stesse Sezioni unite hanno chiaramente lasciato intendere, infatti, la so-
spensione dei termini cautelari, in tali ipotesi, non opera sempre che il ‘‘diritto
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sposizione in procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del d.l., è già
stata dichiarata l’apertura del dibattimento — i termini della custodia cautelare,
previsti dall’art. 303 comma 1, restano sospesi ‘‘dalla data del provvedimento che
accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione a quella in cui il dibatti-
mento davanti al nuovo giudice perviene allo stato in cui si trovava allorché è in-
tervenuta la dichiarazione di astensione o di ricusazione’’, con le ulteriori precisa-
zioni che detta sospensione non può comunque superare il termine di 90 o di 60
giorni, a seconda che trattasi rispettivamente di procedimento per taluno dei de-
litti indicati nell’art. 51, comma 3-bis o di procedimento per altri reati, e che la de-
correnza parte dall’entrata in vigore del d.l., se il provvedimento di accoglimento è
stato già emesso.
Tale normativa, pur circoscritta alla sola fase del giudizio e alle peculiari si-
tuazioni d’incompatibilità stabilite dall’art. 34 comma 2, conferma, per un verso,
che normalmente la procedura di ricusazione non incide sui termini custodiali, al-
trimenti non si spiegherebbe la previsione della sospensione ex lege dei detti ter-
mini con decorrenza che muove dall’intervenuto accoglimento della astensione o
della ricusazione ovvero dall’entrate in vigore del d.l.; per altro verso, chiarisce la
costante preoccupazione del legislatore di raggiungere, nella prospettiva di evitare,
anche nel particolare contesto venutosi a determinare per effetto delle numerose
declaratorie d’incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p., irragionevoli distor-
sioni del sistema, un punto di equilibrio nella ponderazione di opposti interessi co-
stituzionalmente protetti, contemperando le esigenze di funzionalità del processo
e di difesa sociale con le garanzie sancite dall’art. 13 della Costituzione.
È agevole constatare che si è esattamente sulla stessa linea ispiratrice, innanzi
illustrata, del sistema codicistico.
7. Alla luce delle argomentazioni svolte, vanno enunciati, ex art. 173
comma 3 disp. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:
— la presentazione, da parte dell’imputato (o di chi agisce nel suo interesse),
della dichiarazione di ricusazione del giudice non comporta ordinariamente, se-
condo l’assetto normativo del vigente codice di rito, la sospensione del procedi-
mento e, conseguentemente il giudice ricusato, ove l’imputato versi in stato di cu-
stodia cautelare, non può sospendere, ex art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p., il
decorso dei relativi termini;
— la sospensione dell’attività processuale può essere eventualmente disposta,
ex art. 41 comma 3 c.p.p., soltanto dal giudice della ricusazione, che non ha, però,
alcun potere di sospendere anche i termini cautelari;
— nella sola ipotesi in cui la dichiarazione di ricusazione intervenga nel mo-
mento immediatamente precedente la pronuncia della sentenza, si verifica ineludi-
bilmente, ex art. 37 comma 2 c.p.p., la sopensione del procedimento, quale effetto
indiretto della richiesta dell’imputato, con conseguente legittima adozione da
parte del giudice sospetto del provvedimento di sospensione anche dei termini
cautelari.
8. L’ordinanza impugnata, per quello che è dato evincere dal relativo resto,
non sembra essere in linea con i richiamati principi, perché ha fatto leva su quel-
l’indirizzo giurisprudenziale, in questa sede non condiviso, secondo cui la dichia-
razione di ricusazione del giudice è atto dal quale consegue comunque la sospen-
sione dei termini di custodia cautelare.
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(1) Procedura di ricusazione e durata della custodia cautelare.
(1) Ci si riferisce, evidentemente, alla l. 7 novembre 2002, n. 248 che introduce il ‘‘legittimo so-
spetto’’ tra le possibili cause di rimessione del processo.
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meno che essa non intervenga nel momento immediatamente precedente la deliba-
zione della sentenza finale. Si tratta certamente di una decisione che non si pone
affatto in linea con l’orientamento sinora maggioritario in materia ed anzi riabilita
l’indirizzo giurisprudenziale minoritario, sulla base di nuove e interessanti consi-
derazioni che meritano di essere condivise.
La sentenza prende le mosse dalla normativa previgente al codice attuale. An-
che allora, l’art. 272 c.p.p. abr. (2), il cui contenuto si è nella sostanza riversato
nell’odierna formulazione dell’art. 304 c.p.p., si prestava ad una duplice ed oppo-
sta interpretazione laddove prevedeva la sospensione dei termini di custodia cau-
telare per il caso di rinvio del dibattimento richiesto dall’imputato o dal suo difen-
sore (3). In alcune pronunce si privilegiava un criterio di mero automatismo tra ri-
chiesta di rinvio del dibattimento e sospensione dei termini massimi di custodia
cautelare; in altre, per verità più sparute, si faceva strada l’idea che — ai fini del-
l’applicabilità dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p.— la richiesta di rinvio com-
portasse un vaglio ‘‘teleologico’’ del giudice, volto a stabilire se un eventuale acco-
glimento dell’istanza avrebbe tutelato valori costituzionalmente rilevanti o piutto-
sto meri interessi personali del richiedente. Solo in questa seconda ipotesi sarebbe
scattato il meccanismo sospensivo previsto dalla norma in esame. Dopo il 1989 il
panorama giurisprudenziale in materia appare pressoché immutato: con riferi-
mento specifico alla dichiarazione di ricusazione, l’orientamento dominante ri-
mane nel senso di considerarla una causa indiretta (4) ma necessaria (5) di so-
spensione del processo e pertanto automaticamente rilevante ai fini dell’art. 304,
comma 1, lett. a) c.p.p. Restano alquanto isolate le pronunce che valorizzano la
necessità di un vaglio giurisdizionale sulla richiesta di rinvio dell’imputato, al fine
di individuare la ragione vera dell’istanza (6); va da sé che solamente in presenza
di tattiche ostruzionistiche o dilatorie messe in atto dall’imputato sarebbe scattato
il meccanismo sospensivo dei termini di custodia cautelare.
Segue questa via la sentenza che si commenta, la quale non solo riabilita l’ac-
cennato orientamento minoritario ma ne chiarisce al contempo il significato e ne
delimita il campo applicativo. Più precisamente, due sono le questioni di cui si oc-
cupa la Suprema Corte per avallare le sue conclusioni. In prima battuta, i giudici
di legittimità individuano la natura e la ratio dell’art. 304 c.p.p., quale norma pre-
disposta dal legislatore per garantire effettività all’istituto della custodia cautelare:
sua funzione precipua è scoraggiare l’imputato o il difensore dall’uso strumentale
di certe richieste — quali, ad esempio, le istanze di rinvio del dibattimento — per
(2) Per alcune riflessioni in tema di sospensione dei termini di custodia cautelare, con riferimento
alla normativa previgente, si veda V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano,
1976, p. 208 ss.; P. FERRUA, in AA.VV., La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale,
Padova, 1985, p. 301; A. GIARDA, Commento all’art. 272, comma 7, c.p.p., nel testo modificato dall’art. 3
della l. n. 398 del 1984, in Leg. pen., 1985, p. 87.
(3) Si tratta del fulcro della questione affrontata dai giudici di legittimità poiché le opinioni diver-
genti delle sezioni semplici, dalle quali origina la pronuncia in esame, riguardano la possibilità o meno di
far rientrare l’istanza di ricusazione tra le cause di rinvio o sospensione del dibattimento riconducibili ad
un richiesta dell’imputato o del suo difensore, idonee a sospendere i termini cautelari ai sensi dell’art.
304, comma 1, lett. a) c.p.p.
(4) È principio pacifico, in dottrina ed in giurisprudenza, che alla richiesta esplicita e diretta di
rinvio o sospensione del dibattimento vada equiparata l’ipotesi in cui l’istanza non sia direttamente rivolta
a tale scopo ma lo implichi, quale diretta conseguenza.
(5) Per un’ampia panoramica giurisprudenziale sul tema si veda infra, § 2, note n. 17, 18, 19.
(6) In questo senso si vedano Cass., sez. I, 10 febbraio 1997, Battaggia, in Giust. pen., 1997, III,
p. 321 con nota di E. ZAFFALON, Termini di custodia e procedimento incidentale di ricusazione, nonché in
Cass. pen., 1998, p. 196; Cass., sez. I, 27 luglio 1992, p.m. in proc. Greco, ivi, 1993, p. 2890; Cass., sez.
I, 6 luglio 1992, p.m. in proc. Di Grigoli, in Ced, n. 191027. Si tratta di pronunce che si richiamano al-
l’interpretazione di fondo di Cass., sez. un., 23 ottobre 1990, Mancini, in Cass. pen., 1991, p. 219, la
quale, a sua volta, ripropone la linea di pensiero di Cass., sez. I, 6 dicembre 1976, Fonti, ivi, 1978, p.
461, in riferimento all’art. 272 c.p.p. abr.
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scopi tattici o dilatori. Va da sé che fine ultimo della norma in esame è evidente-
mente quello di scongiurare lo spettro di scarcerazioni indebite, imposte dalla sca-
denza dei termini massimi di custodia cautelare. Alla luce di questa ratio va dun-
que letta la previsione del meccanismo sospensivo di cui all’art. 304 c.p.p., per il
caso di rinvio del dibattimento richiesto dell’imputato (7).
Successivamente la Suprema Corte entra nel vivo della questione sottoposta
al suo esame, vale a dire se la dichiarazione di ricusazione rientri o meno nel rag-
gio d’azione di tale norma. Si tratta allora di verificare se tale istanza imponga ne-
cessariamente quella sospensione o rinvio del dibattimento riconducibile a una vo-
lontà dell’imputato, che è annoverata tra le cause di sospensione dei termini mas-
simi di custodia cautelare. Solamente una risposta negativa, infatti, consentirebbe
di sottrarre alla sfera di operatività dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. la propo-
sizione di un’istanza di ricusazione. Fatte queste premesse, ecco la conclusione
alla quale giungono i supremi giudici.
Diversamente dal pregresso sistema processuale (8), la normativa attuale im-
pone di escludere la sussistenza di una consequenzialità necessaria tra dichiara-
zione di ricusazione e sospensione del processo (9), in quanto sono mutati i rap-
porti tra il procedimento principale e quello incidentale di ricusa. Lo si evince fa-
cilmente dalla circostanza che la mera presentazione dell’istanza di ricusazione e
la delibazione di ammissibilità del giudice chiamato a pronunciarsi su di essa, di
norma non comportano alcuna limitazione di poteri per il giudice ricusato, al
quale è precluso solamente di pronunciare sentenza finché non sia intervenuta
l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di ricusazione. Ciò si-
gnifica che l’attività processuale prosegue regolarmente fino alla soglia della deci-
sione finale e non risulta affatto paralizzata per effetto della mera istanza di ricu-
sazione. Alla sospensione ex lege del processo (10), prevista dal codice abrogato,
si è, in effetti, sostituita una sospensione per atto giudiziale, che non assume mai
connotati di cieca automaticità, in quanto l’organo competente a decidere sulla ri-
cusazione potrebbe — ma senza esserne obbligato — sospendere in tutto o in
parte i poteri del ricusato, caso per caso, in base al suo prudente apprezza-
mento (11). In altri termini, il sistema delineato dal legislatore del 1988 spezza il
preesistente automatismo tra istanza di ricusazione e sospensione del procedi-
mento e rafforza la funzione di filtro svolta dal giudice della ricusazione, unico or-
gano competente a disporre, eventualmente, la sospensione del processo princi-
(7) In tal modo le Sezioni unite implicitamente avallano quella giurisprudenza risalente che valo-
rizzava la necessità di un vaglio teleologico del giudice sulla richiesta di rinvio dell’imputato. Tale inter-
pretazione dell’art. 304, comma 1, lett. a), infatti, lascia intendere che il giudice potrà decidere sulla so-
spensione dei termini custodiali solamente al termine di un’indagine volta ad individuare la ragione vera
dell’istanza di rinvio.
(8) In verità, anche sotto la vigenza del codice abrogato, la questione non era del tutto pacifica: da
più parti si evidenziava come la sospensione del processo e quindi la restrizione dei poteri del giudice ri-
cusato non scattasse automaticamente, quale effetto della dichiarazione di ricusazione, ma presupponesse
sempre il filtro di ammissibilità del giudice competente a decidere sulla ricusazione. Tale orientamento
trovava inoltre autorevole conferma da parte della Corte costituzionale nella sentenza 16 maggio 1983 n.
138. Per alcune significative riflessioni sul tema si legga M. CHIAVARIO, La sospensione del processo pe-
nale, Milano, 1967, p. 54 ss.
(9) Tra i tanti, esclude categoricamente la presunta consequenzialità necessaria tra richiesta di ri-
cusazione e sospensione processuale T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo pe-
nale, Milano, 1996, p. 242.
(10) Come autorevole dottrina aveva denunciato, era forte il rischio che tale meccanismo si tra-
sformasse in un autentico incentivo ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pretestuose ed ingiustifi-
cate. Così G. CONSO, Ricusazione istituto da rivedere, in Arch. nuova proc. pen., 1975, p. 92.
(11) È evidente come in tal modo l’istituto della ricusazione, correttamente interpretato, sia in
grado di neutralizzare possibili abusi e non si presti ad ingiustificate strumentalizzazioni da parte di chi ha
interesse a rallentare l’iter procedimentale. Così si legge anche in Corte cost., 8 aprile 1993, n. 156, chia-
mata a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 41 c.p.p.
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pale. Ragionevole appare allora la conclusione delle Sezioni unite laddove esclu-
dono dal raggio d’azione dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. l’istanza di ricusa-
zione: l’applicabilità di tale norma — è opportuno ribadirlo — richiede a monte
un provvedimento di sospensione o di rinvio del dibattimento e, normalmente, la
mera dichiarazione di ricusazione non integra tale presupposto, in quanto la so-
spensione del procedimento che da essa può derivarne non è necessitata ma solo
eventuale. A conferma di tale conclusione, la Suprema Corte aggiunge un ulteriore
rilievo che discende dalla ratio dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p.
Solamente al giudice chiamato a vagliare la richiesta di ricusazione la legge ri-
conosce il potere di disporre la sospensione del processo, una volta escluso qualsi-
voglia intento ostruzionistico o dilatorio del richiedente. È dunque tale organo
che, in astratto, al termine della sua indagine sulla ‘‘bontà’’ dell’istanza di ricusa-
zione, potrebbe o meno disporre il congelamento dei termini di custodia cautelare,
ma logica e buon senso portano ad escludere una tale possibilità. Sarebbe, infatti,
irragionevole che la legge consentisse a tale giudice di pregiudicare la posizione
dell’imputato con la sospensione dei termini di custodia cautelare proprio dopo
aver accertato la fondatezza dell’istanza di ricusazione e disposto la sospensione
del processo. Diversamente opinando, si finirebbe per legittimare l’operato di un
giudice che sospende il decorso dei termini di custodia cautelare pur in assenza di
qualsivoglia tattica dilatoria dell’imputato, in palese contrasto con le finalità pro-
prie dell’art. 304 c.p.p. In sintesi, la decisione del giudice di sospendere il pro-
cesso consegue ad un suo vaglio preliminare sulla fondatezza dell’istanza di ricu-
sazione che ne esclude necessariamente la pretestuosità e rende superfluo o addi-
rittura vessatorio far scattare il meccanismo di congelamento dei termini di custo-
dia cautelare. Si tratta dunque di una conclusione che perfettamente si combina
con la nuova disciplina del procedimento incidentale di ricusa, la quale attual-
mente già prevede, al suo interno, appositi meccanismi idonei ad assicurare l’effet-
tività del processo in corso (12). La finalità perseguita dall’art. 304 c.p.p., infatti,
è assicurata dalle regole che disciplinano l’istituto della ricusazione, le quali mi-
rano a scoraggiare le istanze pretestuose e dilatorie poste in essere dall’impu-
tato (13).
Residua un’ipotesi affatto peculiare per la quale questa conclusione non si ad-
dice, mancandone gli stessi presupposti. Si tratta del caso in cui l’istanza di ricusa-
zione intervenga nel momento immediatamente precedente la pronuncia della sen-
tenza, all’esito di ogni adempimento istruttorio e processuale: inevitabilmente, in
questo caso, si verifica un’automatica sospensione del processo, in quanto è il det-
tato normativo che impedisce al giudice di pronunciare sentenza finché non sia in-
(12) A tale proposito, non va sottovalutato l’intervento della Corte costituzionale che con la sen-
tenza 23 gennaio 1997, n. 10, in Cass. pen., 1997, p. 1305, ha contribuito a ridurre i rischi di paralisi
processuale, eliminando il divieto per il giudice di pronunciare sentenza qualora la dichiarazione di ricusa-
zione sia riproduzione di un’altra precedente. Si vedano, in tal senso, i rilievi di V. GREVI, Un freno al-
l’uso distorto della richiesta di rimessione a tutela dell’efficienza del processo penale: la parziale illegitti-
mità dell’art. 47, comma 1, c.p.p. (con un corollario sulla correlativa illegittimità dell’art. 37, comma 2,
in tema di ricusazione), in Cass. pen., 1997, p. 1277.
(13) Tale conclusione trova indiretta conferma nel d.l. n. 553 del 1996 (conv. in l. n. 652 del
1996) il quale impone, nei procedimenti in corso, la sospensione dei termini di custodia cautelare per il
caso in cui sia stata formulata istanza di ricusazione sulla base delle nuove ipotesi di incompatibilità deri-
vanti dalle coeve sentenze 24 aprile 1996, n. 131 e 20 maggio 1996, n. 155 della Corte Costituzionale. La
previsione di una sospensione ad hoc dei termini custodiali lascia ragionevolmente desumere che normal-
mente la procedura di ricusazione non incida affatto sugli stessi. Sul punto si legga E. MARZADURI, La tor-
mentata genesi e gli aspetti salienti di una normativa bicefala, in Leg. pen., 1997, p. 283. In giurispru-
denza si veda: Cass., sez. I, 8 febbraio 1999, Barreca, in Cass. pen., 2000, p. 1022; Cass., sez. I, 10 set-
tembre 1997, p.g. in proc. Marcianò, in Ced, n. 208347; Cass., sez. VI, 4 maggio 1999, Romeo, in Ced, n.
214053 nonché, alquanto diversamente, Cass., sez. I, 21 agosto 1997, Giambalvo, in Cass. pen., 1999, p.
1566.
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(14) La quale si presenta come ipotesi affatto peregrina dal momento che il giudice procedente è
privo di un potere delibativo preliminare sulla fondatezza dell’istanza ed inoltre si verifica un’immediata
sospensione ex lege del processo (art. 37, comma 2, c.p.p.): si può anzi maliziosamente ritenere insito
nella richiesta stessa il sospetto di finalità meramente dilatorie o ostruzionistiche.
(15) Così, apoditticamente, Cass., sez. I, 10 gennaio 1992, Cirillo, in Cass. pen., 1993, p. 110. In
riferimento alla normativa previgente, si veda, ex multis, Cass., sez. VI, 27 maggio 1991, Della Stella, in
Ced, n. 187607.
(16) E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Milano, 1989, p. 158, effettua una significa-
tiva comparazione tra la normativa attuale e quella previgente, la quale prescriveva una forte restrizione
di poteri del magistrato procedente — paragonabile ad un’ipotesi di sospensione del processo — perché
‘‘il giudice ricusato, avuto notizia della dichiarazione di ricusazione, poteva compiere solo atti urgenti di
istruzione’’. Nel nuovo codice, invece, la presentazione dell’istanza di ricusazione non comporta per il giu-
dice ricusato nessuna limitazione di poteri nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali; né tantomeno
la costituzione di un obbligo di astensione. L’unico divieto imposto dalla legge — per l’evidente motivo di
non pregiudicare in modo definitivo le ragioni del richiedente — è quello previsto dall’art. 37, comma 2,
c.p.p.
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bio che esso non abbia diritto di cittadinanza nell’attuale sistema processuale. La
mera preclusione per l’organo giudicante di pronunciare sentenza non può, infatti,
essere considerata quale ipotesi sospensiva di ogni attività processuale. Ciò nondi-
meno, si sono registrati, in giurisprudenza, frequenti tentativi di aggirare l’osta-
colo in questione. Più precisamente, i giudici di legittimità hanno in più occasioni
ipotizzato che proprio l’ampiezza dei poteri del giudice sospetto possa autoriz-
zarlo a sospendere i termini di custodia cautelare; tale organo sarebbe dunque le-
gittimato ad emanare qualsiasi tipo di provvedimento, purché diverso dalla sen-
tenza finale (17). Ipotesi certo suggestiva ma del tutto scevra dal dato normativo
che collega la sospensione dei termini di custodia cautelare ad una preventiva so-
spensione del processo riconducibile ad una richiesta dell’imputato (art. 304,
comma 1, lett. a) c.p.p.), la quale, nel procedimento di ricusazione, potrebbe es-
sere disposta solo eventualmente e per di più ad opera di un giudice diverso da
quello procedente.
Altre pronunce sono giunte ad una conclusione analoga basandosi però su un
diverso ordine di rilievi. Segnatamente, la Suprema Corte ha in più occasioni chia-
rito che la dichiarazione di ricusazione è atto da cui legittimamente consegue la
sospensione dei termini di custodia cautelare, in quanto al giudice procedente è
precluso ogni potere di valutazione preliminare circa la fondatezza dell’istanza di-
fensiva. Tale organo non potrebbe dunque evitare strumentalizzazioni dell’istituto
in esame, né tantomeno potrebbe bilanciare le opposte esigenze di non sacrificare
la libertà personale dell’imputato oltre il necessario e di impedire il decorso dei
termini cautelari, a fronte di istanze pretestuose. In tale contesto, dunque, l’unica
soluzione ragionevole imporrebbe di privilegiare l’interesse al mantenimento della
misura restrittiva (18).
Alla luce di quanto detto, appare comprensibile che la giurisprudenza abbia
tentato di forzare il testo della norma (19), senza però appoggiare le proprie con-
clusioni su un’esegesi accettabile del dato sistematico. Tutto ciò, ovviamente, al
fine di salvaguardare le ragioni dell’effettività del processo e della custodia caute-
lare, anche a discapito del diritto alla libertà personale dell’imputato.
Non sono mancate, per verità, alcune pronunce di segno opposto, che hanno
in qualche modo anticipato l’indirizzo fatto proprio, attualmente, dalle Sezioni
unite. Si fa strada l’idea (20) che non già la mera dichiarazione di ricusazione
bensì la ragione stessa sottesa a tale istanza rilevi ai fini qui considerati. In altri
termini, l’operatività della sospensione dei termini di custodia cautelare, in riferi-
mento ad una richiesta proveniente dall’imputato o dal suo difensore, dipende dal
contenuto della richiesta stessa, la quale merita di essere diversamente considerata
e trattata a seconda che poggi su motivi personali o, invece, su motivi ricollegabili
all’esigenza, di carattere obiettivo, di assicurare un processo giusto. Infatti, se dal-
l’accoglimento della richiesta conseguisse la stasi del procedimento, non si po-
(17) Così, Cass., sez. I, 5 marzo 1991, De Tommasi, in Giust. pen., 1991, III, p. 614 e Cass., sez.
I, 4 aprile 1997, Gentile, in Cass. pen., 1999, p. 1184.
(18) Così Cass., sez. I, 8 settembre 1997, Cannatella, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 647 ed
in Cass. pen., 1998, p. 2999 nonché Cass., sez. VI, 22 febbraio 1999, Ferraro, ivi, 2000, p. 452.
(19) Addirittura, in alcune pronunce, si è esplicitamente estesa la sospensione dei termini custo-
diali nei confronti del ricusante al coimputato non ricusante che non abbia chiesto di precedere nei suoi
confronti, previa separazione dei processi. Si veda, in tal senso, Cass., sez. I, 20 giugno 1997, La Monica,
in Giust. pen., 1998, III, p. 500.
(20) A conferma di questa ispirazione garantista e particolarmente attenta al valore della libertà
personale viene in considerazione il tipo di provvedimento — esplicito e passibile di impugnazione — che
la legge prevede per la sospensione dei termini custodiali. Ciò significa che l’eventuale provvedimento di
sospensione del processo pronunciato in assenza di un’istanza pretestuosa potrà essere impugnato ai sensi
dell’art. 310 c.p.p.
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(21) Così Cass., sez. I, 10 febbraio 1997, Battaggia, cit. sub nota 6.
(22) Si veda, in tal senso, Cass., sez. un., 23 ottobre 1990, Mancini, cit. sub nota 6.
(23) Così Cass., sez. I, 29 maggio 1992, p.m. in proc. Di Grigoli, cit. sub nota 6, secondo cui, poi-
ché la sospensione dei termini di custodia cautelare è diretta ad evitare che l’imputato possa beneficiare di
eventi da lui determinati a fini dilatori, tale meccanismo non scatta qualora il legame tra l’istanza dell’im-
putato ed il rinvio del dibattimento si interrompa. Ciò si verifica quando la causa che ha determinato la
sospensione del processo trova origine nell’esercizio di attività processuali che la legge rende obbligatorie,
indipendentemente dall’istanza dell’imputato, ponendosi questa solo come impulso all’espletamento di
un’attività doverosa del giudice. Ad analoga conclusione pervengono: Cass., sez. I, 27 luglio 1992, p.m. in
proc. Greco, cit. sub nota 6; Cass., sez. I, 19 novembre 1993, Mamone, in Ced, n. 196587; Cass., sez. un.,
3 luglio 1996, Vernengo, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 954; Contra: Cass., sez. I, 2 giugno 1992, p.m. in
proc. Battaglia, in Cass. pen., 1993, p. 2890. In riferimento alla normativa previgente si veda Cass., sez. I,
6 dicembre 1976, Fonti cit. sub nota 6 nonché Cass., sez. I, 29 dicembre 1971, O’Brien, in Cass. pen.,
1973, p. 152.
(24) Per il caso della ricusazione ci si riferisce evidentemente al potere-dovere di astensione del
giudice procedente.
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(25) Alla stessa conclusione, in riferimento però all’istanza di rimessione, giunge L. GIULIANI, Ri-
messione del processo e valori costituzionali, Torino, 2002, p. 292.
(26) Sul tema si legga M. CHIAVARIO, voce Sospensione del processo, in Enc. giur., XXX, Roma,
Treccani, 1993, p. 1; P. RIVELLO, voce Sospensione del processo in Dig. Disc. pen., Torino, vol. XIV,
1999, p. 473; G. UBERTIS, Sospensione del processo penale in Enc. dir., Aggiornamento, vol. I, Milano,
1997, p. 937.
(27) Per un’analisi dei concetti di sospensione obbligatoria e facoltativa si veda P. RIVELLO, op.
loc. cit.; G. UBERTIS, op. loc. cit.
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pio, nei casi di astensione e ricusazione del giudice procedente; vi sono poi ipotesi
che senz’altro rilevano ai fini dell’applicazione dell’art. 159 c.p. in quanto il giu-
dice è pressoché costretto a sospendere il processo come accade nei casi in cui si
discute dell’incapacità dell’imputato (28). Diversa conclusione s’impone invece
con riferimento a quell’ipotesi residuale, isolata dalla Suprema Corte nella sen-
tenza qui annotata: qualora, infatti, l’istanza di ricusazione sia proposta al termine
di ogni attività processuale, poco prima della pronuncia della sentenza finale, si
verifica senz’altro una sospensione ex lege del processo e di conseguenza i termini
di prescrizione andranno ragionevolmente congelati, secondo quanto dispone l’art.
159, comma 1, c.p.
I rilievi svolti dalle Sezioni unite inevitabilmente impongono di restringere a
quest’ultima ipotesi l’ambito di operatività dell’art. 159 c.p.: per il caso ordinario
di ricusazione, viceversa, il processo non si arresta e i termini prescrizionali prose-
guono il loro corso (29). Si tratta, del resto, di una soluzione alquanto ragione-
vole, ulteriormente confortata dal rilievo che non sarebbe giustificabile un pregiu-
dizio per l’imputato, quale la sospensione dei termini di prescrizione, nel contesto
di una situazione processuale — il procedimento incidentale di ricusazione — che
già al proprio interno consente l’attivazione di rimedi volti a prevenire eventuali
manovre pretestuose.
4. La soluzione delle Sezioni unite alla luce del parametro costituzionale-
della durata ragionevole del processo. — La conclusione prospettata dalla Su-
prema Corte appare senz’altro meritevole di plauso, anche alla luce degli effetti in-
diretti che ne derivano in tema di prescrizione. In effetti, riducendo le possibilità
di sospensione dei termini massimi per la dichiarazione di colpevolezza ed anzi li-
mitandole a quell’unica ipotesi residuale sopra vista, l’interpretazione delle Se-
zioni unite imprime un’accelerazione allo svolgimento del processo e si pone
quindi a baluardo della sua ragionevole durata. Così almeno ci sembra che debba
essere. Prima di avallare con certezza tale conclusione però bisogna fare i conti
con una possibile obbiezione. Vien da chiedersi, infatti, se una visione più mali-
ziosa ma certo più realistica della vicenda procedimentale possa o meno scalfire
l’assolutezza di tale considerazione in merito ai tempi del processo. Sotto quest’ot-
tica, in effetti, l’interpretazione delle Sezioni unite potrebbe contribuire a rallen-
tare piuttosto che ad accelerare i tempi del processo, una volta allontanato dal-
l’imputato lo spettro della sospensione del corso della prescrizione. In altri ter-
mini, tale soluzione potrebbe paradossalmente incentivare possibili ‘‘abusi’’ del di-
ritto di difesa, segnatamente la presentazione di istanze pretestuose di ricusazione,
al fine di far scadere il tempo massimo per la dichiarazione di colpevolezza (30).
Si tratta, a ben vedere, di un’evenienza non del tutto peregrina ma che certamente
non si presta a generare conseguenze devastanti, quanto meno con riferimento al
(28) Si tratta di una conclusione valida non solo nei processi a carico di imputati detenuti ma an-
che nei procedimenti relativi ad imputati in stato di libertà, alla luce della recente interpretazione delle Se-
zioni unite. Si veda in tal senso, Cass., sez. un., 28 novembre 2001, Cremonese, in Cass. pen., 2002, p.
1309 con nota di M.L. DI BITONTO, Le Sezioni unite reinterpretano il combinato disposto degli artt. 159
c.p. e 304 c.p.p.: l’astensione collettiva dei difensori dalle udienze penali sospende il corso della prescri-
zione.
(29) Diversa conclusione è stata prospettata in dottrina per il caso in cui venga presentata un’i-
stanza di rimessione del processo: se si condivide l’assunto che la sospensione del processo disposta dalla
Cassazione su richiesta dell’imputato sia idonea a sospendere i termini cautelari, appare ragionevole giu-
stificare anche la sospensione dei termini di prescrizione (così, prima dell’approvazione della l. 7 novem-
bre 2002, n. 248, L. GIULIANI, op. cit., p. 291).
(30) Si veda, a tale proposito, L. PECORI, ‘‘Impedimento dell’imputato o del difensore e sospen-
sione dei termini di prescrizione’’ in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc., ove, in effetti, si giunge a
queste conclusioni.
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solve in una semplice presa d’atto del mutamento di regole sottese all’istituto della
ricusazione.
Se, finora, la giurisprudenza maggioritaria si era mostrata inerte a fronte dei
profondi cambiamenti del procedimento incidentale, finalmente la Suprema Corte
ne dà conto e ne ricava l’interpretazione oggigiorno più rispettosa dei valori in
campo e tale da non compromettere il necessario bilanciamento fra garanzie indi-
viduali ed efficienza del processo.
Si tratta infatti di soluzione capace di fare i conti con l’abituale realtà delle
aule giudiziarie, che non impedisce di porre un freno alle pur frequenti manovre
pretestuose poste in essere dall’imputato: quand’anche egli reiterasse la richiesta
di ricusazione, accampando motivi diversi da quelli che avevano sorretto l’istanza
precedente, resterebbe comunque ferma la facoltà del giudice di sospendere i ter-
mini di custodia cautelare e di conseguenza il corso della prescrizione. Come si
vede dunque, è scongiurato il rischio che l’imputato possa artatamente ottenere la
scarcerazione o addirittura lucrare un proscioglimento per scadenza dei termini
massimi per la dichiarazione di colpevolezza.
LAURA PECORI
Dottoranda di ricerca
in Procedura penale
nell’Università di Ferrara
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giugno 2000, Mariotti, avevano ritenuto che il giudice di secondo grado, quando
su appello del pubblico ministero condanna l’imputato assolto in primo grado, è
tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile, anche se questa non ha pro-
posto impugnazione.
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l’inizio degli anni Settanta, che, incidendo sul c.p.p. del 1930, avevano ricono-
sciuto alla parte civile il diritto di proporre ricorso per cassazione contro le sen-
tenze di proscioglimento: la prima, del 22 gennaio 1970, n. 1, aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p. 1930, in riferimento all’art. 111,
comma 2 Cost., nella parte in cui poneva limiti a che la parte civile potesse pro-
porre ricorso per cassazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i
suoi interessi civili; la seconda, del 17 febbraio 1972, n. 29, aveva dichiarato l’ille-
gittimità dell’art. 23 c.p.p. del 1930, in riferimento all’art. 111, comma 2, Cost.,
nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull’azione civile
anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento,
l’azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi civili, proseguiva in sede di
cassazione e di eventuale giudizio di rinvio.
Prima di queste sentenze nel caso di proscioglimento la parte civile non po-
teva proporre impugnazione ma poteva solo partecipare al giudizio di impugna-
zione eventualmente promosso dal pubblico ministero, e il giudice d’appello se
emetteva una pronuncia di condanna era tenuto, a norma dell’art. 489, comma 1,
c.p.p. del 1930, a condannare l’imputato alle restituzioni e al risarcimento dei
danni cagionati dal reato, a favore della parte civile che ne aveva fatto domanda e
ne aveva diritto. La partecipazione al giudizio di impugnazione e il dovere del giu-
dice d’appello di provvedere nel caso di condanna dell’imputato anche sulla do-
manda della parte civile si ricollegavano al principio di immanenza della parte ci-
vile, presente anche nei codici di rito anteriori a quello del 1930, che lo aveva
espressamente codificato nell’art. 92, comma 1. Se però il pubblico ministero non
proponeva impugnazione la parte civile non aveva alcun mezzo per rimettere in
discussione una sentenza di proscioglimento lesiva del suo diritto. È su questa si-
tuazione che hanno inciso le due sentenze della Corte costituzionale, riconoscendo
alla parte civile il diritto, garantito dall’art. 111, comma 2, Cost., di ricorrere per
cassazione e quindi dotandola di una tutela ulteriore. È interessante notare che
nella sentenza 22 gennaio 1970, n. 1 la Corte costituzionale aveva avuto cura di
avvertire che ‘‘il ricorso per cassazione della parte civile, quando è proposto con-
tro sentenza di primo grado, per lei inappellabile, produrrà effetto soltanto se con-
tro la stessa sentenza non segua un esame in appello, cui la parte civile ha titolo
per partecipare in forza del disposto dell’art. 92 c.p.p. e che abbia luogo a seguito
di gravame proposto dall’imputato o dal pubblico ministero’’.
3. Dopo queste due sentenze per molti anni la giurisprudenza non ha dubi-
tato che fosse rimasto fermo il principio di immanenza nel senso tradizionale e che
quindi il giudice d’appello, anche in mancanza dell’impugnazione della parte civile
contro la sentenza di proscioglimento, se condannava l’imputato era tenuto a
provvedere pure sulla domanda della parte civile (ved. Sez. IV, 7 novembre 1977,
La Spada, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, p. 602, n. 588). È con Sez. IV, 23 gen-
naio 1984, Seragiotto (in Cass. pen., 1986, p. 962, n. 729), che ha iniziato a farsi
strada in una parte della giurisprudenza l’idea che la parte civile che non propone
impugnazione contro la sentenza di proscioglimento deve considerarsi acquie-
scente, con la conseguenza che la sentenza ‘‘acquista efficacia di giudicato in rife-
rimento all’azione risarcitoria’’; idea che è stata successivamente sviluppata in
modo assai argomentato da Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario (in Cass. pen.,
1987, p. 1952, n. 1649), la quale è giunta alla conclusione che ‘‘la parte civile,
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qualora voglia ottenere una modifica in senso per lei vantaggioso della pronuncia
di primo grado, deve proporre rituale impugnazione... senza che a tal fine possa
avvalersi dell’eventuale gravame del pubblico ministero’’. È con questa sentenza
che al diritto di proporre ricorso per cassazione, riconosciuto dalla Corte costitu-
zionale, si è fatto corrispondere per la parte civile, ‘‘come altra faccia della stessa
medaglia, l’onere di impugnare la sentenza, qualora intenda ottenere una specifica
decisione di riforma del provvedimento gravato’’ (sentenza Di Sario, citata).
Il contrasto giurisprudenziale si è accentuato nel tempo e si è riprodotto dopo
l’entrata in vigore dell’attuale c.p.p. determinando l’intervento delle Sezioni unite
che con la sentenza 25 novembre 1998, Loparco (in Cass. pen., 1999, p. 2084, n.
987) hanno aderito al secondo indirizzo giurisprudenziale e hanno affermato il
principio che ‘‘alla parte civile costituita non può riconoscersi il risarcimento del
danno, se, assolto l’imputato nel giudizio di primo grado, vi sia condanna dello
stesso su appello del solo pubblico ministero’’.
Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza Loparco sono state messe in di-
scussione da due successive decisioni: Sez. V, 1o marzo 1999, Maellare (rv.
215559) e Sez. III, 1o giugno 2000, Mariotti (rv. 216996). La prima ha rilevato
che ‘‘non bisogna confondere il potere di impugnazione con l’onere di impugna-
zione diretta, che sussiste soltanto per altri provvedimenti pregiudizievoli che, di-
versi da quelli concernenti l’accertamento del fatto-reato, negano il diritto sostan-
ziale al risarcimento o limitano l’entità dei danni’’, e ha sostenuto, riprendendo un
orientamento tradizionale, che ‘‘l’impugnazione autonoma, in definitiva, è un ulte-
riore rimedio approntato dall’attuale ordinamento giuridico processuale, che si è
uniformato alla giurisprudenza della Corte costituzionale’’. La seconda, dopo
avere affermato che ‘‘non sussiste nel processo penale una piena indipendenza del-
l’azione civile rispetto a quella penale, per cui non può essere una tale pretesa au-
tonomia a legittimare il principio affermato dalle Sezioni unite’’, ha ricordato che,
oltre ai più volte richiamati artt. 76, comma 2 e 601, comma 4, c.p.p., altri articoli
del c.p.p. indicano un collegamento tra l’azione penale a l’azione civile anche nei
gradi di impugnazione, come gli artt. 574, comma 4 e 587, comma 3, c.p.p.; ha
osservato che la disposizione dell’art. 601, comma 4, c.p.p. non avrebbe senso se
la parte civile che non ha proposto impugnazione rimanesse vincolata dalla pro-
nuncia assolutoria; ha concluso che la parte civile, anche quando non ha proposto
impugnazione, deve essere citata, oltre che nel giudizio d’appello, in quello di cas-
sazione e in quello di rinvio e che ‘‘il giudice di rinvio deve pronunciarsi sulle sue
richieste’’.
Queste decisioni fanno dubitare delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza
Loparco e in particolare dell’idea che l’evoluzione normativa originata dalle due
pronunce della Corte costituzionale e passata attraverso il codice di rito del 1988
sia approdata a una compiuta autonomia dell’azione civile in seno al processo pe-
nale. A ben vedere infatti non ci sono disposizioni dalle quali possa espressamente
trarsi questa conclusione e gli argomenti che la sorreggono sono fortemente con-
trovertibili.
4. Una ricostruzione della disciplina non può non muovere dalla vicenda
normativa che l’ha riguardata.
Il sistema del codice di rito del 1930 — come si è visto — era basato sul prin-
cipio dell’immanenza della costituzione di parte civile e della completa subordina-
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zione dell’azione civile alle vicende del processo penale: la decisione sull’azione ci-
vile dipendeva totalmente da quella sull’azione penale; nel senso che in mancanza
della condanna non poteva esserci alcuna decisione sulla responsabilità civile,
mentre nel caso di condanna, anche se in grado d’appello su impugnazione del
pubblico ministero, il giudice, a norma degli artt. 92, comma 1 e 489, comma 1,
c.p.p. (corrispondenti agli attuali artt. 76, comma 2 e 538, comma 1, c.p.p.) era
tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile. A questo scopo era prevista
dall’art. 517, comma 2, c.p.p. 1930, corrispondente all’attuale art. 601, comma 4,
c.p.p., la citazione della parte civile nel giudizio d’appello.
Le sentenze della Corte costituzionale avevano integrato il sistema ricono-
scendo alla parte civile il potere di proporre ricorso per cassazione ai sensi del-
l’art. 111 Cost. nel caso in cui il pubblico ministero non avesse proposto impugna-
zione. Essendo per il resto rimasto immutato il sistema non c’erano dati normativi
che potessero giustificare la trasformazione, operata da una parte della giurispru-
denza, della tutela aggiuntiva, riconosciuta dalla Corte costituzionale in una tutela
esclusiva con le caratteristiche di un onere; trasformazione che ha fatto venir
meno gli effetti dell’immanenza della costituzione di parte civile e il correlativo
obbligo del giudice, nel caso di condanna, di pronunciare anche sull’azione civile.
Il legislatore del 1988 nel disciplinare il potere di impugnazione contro le sen-
tenze di proscioglimento, ormai incontestabilmente riconosciuto alla parte civile,
ha ritenuto che lo stesso non dovesse essere limitato al ricorso per cassazione, e ha
dato alla parte civile la possibilità di impugnare ‘‘con il mezzo previsto dal pub-
blico ministero’’ (art. 576 c.p.p.), senza per il resto apportare modificazioni so-
stanziali alla disciplina contenuta in materia nel codice del 1930.
È vero che il c.p.p. vigente ha per molti aspetti omologato la disciplina dell’a-
zione civile a quella del codice di rito civile ma nessuna significativa innovazione
ha apportato alle disposizioni sui rapporti tra azione penale e azione civile nei
gradi di impugnazione. Come è stato ricordato da Sez. III, 1o giugno 2000, Ma-
riotti, sono indicativi dello stretto collegamento tra le due azioni, oltre agli artt.
76, comma 2 e 601, comma 4, generalmente richiamati, anche gli artt. 574,
comma 4 e 587, comma 3, c.p.p.
Indipendentemente dall’impugnazione sui capi civili, infatti la prima disposi-
zione estende al capo civile gli effetti dell’impugnazione dell’imputato nei con-
fronti della decisione di condanna (con una disciplina che può considerarsi sim-
metrica a quella che comporta l’estensione alla domanda della parte civile degli ef-
fetti dell’impugnazione del pubblico ministero contro la decisione di prosciogli-
mento); la seconda disposizione stabilisce che l’impugnazione proposta dall’impu-
tato giova anche al responsabile civile.
Ne viene fuori un sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione
sulla responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità ci-
vile automaticamente, vale a dire anche in mancanza di impugnazione del capo
concernente l’azione civile, che nei casi indicati forma oggetto di una devoluzione
di diritto.
5. Non risultano decisivi per giustificare una disciplina diversa gli argomenti
di carattere sistematico valorizzati nella sentenza delle Sezioni unite del 25 no-
vembre 1998, Loparco. Secondo questa sentenza dal quadro normativo emerge-
rebbe il ‘‘principio di autonomia dell’azione civile rispetto a quella penale, pur en-
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primo grado non impugnato dalla parte civile forma nei confronti di questa un
giudicato, e del resto se effettivamente si formasse un giudicato resterebbero assai
difficilmente spiegabili le disposizioni degli artt. 72, comma 2 e 601, comma 4,
c.p.p.
Al riguardo un’indicazione significativa si trae anche dall’art. 75, comma 3,
c.p.p., il quale opportunamente stabilisce che ‘‘Se l’azione civile è proposta in sede
civile contro l’imputato... dopo la sentenza penale di primo grado il processo civile
è sospeso fino alla pronuncia della sentenza non più soggetta a impugnazione’’;
perciò, ad esempio, nel caso di proscioglimento in primo grado con una formula
non preclusiva per la parte civile questa neppure revocando la costituzione po-
trebbe ottenere in sede civile una decisione se prima la sentenza non fosse dive-
nuta irrevocabile.
6. Poiché come si è visto non può affermarsi che sulla sentenza di proscio-
glimento di primo grado non impugnata dalla parte civile si formi agli effetti civili
il giudicato, ove si convenisse con l’orientamento giurisprudenziale che nega la
possibilità di decidere nel giudizio di impugnazione sulla domanda risarcitoria si
dovrebbe ritenere preclusa solo la condanna, solitamente generica, al risarcimento
del danno, ma resterebbero operanti gli effetti dell’accertamento della responsabi-
lità penale eventualmente compiuto nel giudizio di impugnazione conclusosi con
la condanna. Anche sotto questo aspetto allora deve ritenersi che non si sia realiz-
zata quell’autonomia dell’azione civile, rispetto all’azione penale, posta a base del-
l’orientamento giurisprudenziale preclusivo, e non può non rilevarsi che sotto l’a-
spetto sostanziale tra una condanna generica al risarcimento del danno e un accer-
tamento della responsabilità anche agli affetti civili la differenza di regola non è
particolarmente rilevante.
Di ciò si è reso conto un autore che, aderendo in parte alle conclusioni della
sentenza Loparco, ritiene preclusa la condanna dell’imputato al risarcimento dei
danni nei confronti della parte civile non appellante ma esclude che la decisione di
primo grado sul capo civile passi in giudicato. Dopo avere giustamente dubitato
‘‘che sia consentita l’adozione di due decisioni discordanti nell’ambito del mede-
simo processo’’, questo autore conclude che ‘‘la sentenza penale diviene irrevoca-
bile ai fini civili nel momento stesso in cui passa in giudicato agli effetti penali’’ e
sostiene che il principio di immanenza ha perduto il suo significato originario
forte per assumerne uno debole: la parte civile non appellante non potrebbe otte-
nere la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni ma potrebbe appoggiare
l’impugnazione del pubblico ministero, contrastare l’impugnazione dell’imputato e
‘‘dedurre una nullità che comporta la regressione del procedimento in primo
grado o nella fase delle indagini preliminari, così travolgendo la sentenza sfavore-
vole del giudice di prime cure’’.
È una strana situazione quella che si vorrebbe ricostruire, in cui la parte civile
per una sorta di ‘‘acquiescenza’’ o comunque di negligenza risulta ‘‘dimezzata’’: in
appello non può chiedere l’accoglimento della domanda ma può agire per ottenere
una decisione più vantaggiosa. Sta di fatto però che le diverse disposizioni prece-
dentemente ricordate non giustificano la tesi dell’‘‘indebolimento’’ del principio di
immanenza, nel senso prospettato.
In conclusione, dato che ‘‘la costituzione di parte civile produce i suoi effetti
in ogni stato e grado del processo’’ (art. 76, comma 2), che il giudice d’appello è
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tenuto a citare la parte civile (art. 601, comma 4) e che se l’appello è stato propo-
sto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento il giudice d’ap-
pello può pronunciare condanna ‘‘e adottare ogni altro provvedimento imposto o
consentito dalla legge’’ (art. 597, comma 2 lett. a) e b)), appare corretta l’afferma-
zione che, ‘‘quando pronuncia sentenza di condanna’’, il giudice d’appello deve
decidere ‘‘sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno’’, anche se
la parte civile non ha proposto impugnazione (artt. 538, comma 1 e 598 c.p.p.).
Pertanto in accoglimento del ricorso delle parti civili la sentenza impugnata
deve essere annullata nel capo relativo al rigetto della domanda di risarcimento
dei danni con rinvio, a norma dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in
grado d’appello.
Tenuto conto dell’esito dei ricorsi, Guadalupi deve essere condannato al pa-
gamento delle spese del procedimento e al rimborso delle spese processuali in fa-
vore delle parti civili, che, in mancanza della relativa nota, sono liquidate in com-
plessivi 2.500 euro.
——————
(1) Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della
parte civile.
(1) V. la sentenza a Sezioni unite 26 novembre 1998, Loparco, in Cass. pen., 1999, n. 987, p.
2084.
(2) Ci sia consentito citare il nostro L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Milano,
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Giuffrè, 1981, pp. 128-171, anche per i necessari approfondimenti di ordine storico, sistematico e compa-
ratistico. Da ultimo, la problematica è stata ampiamente affrontata in dottrina da M. NOFRI, Sul principio
di immanenza della costituzione di parte civile, in questa Rivista, 2001, p. 112 ss.
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della parte civile nei gradi di giudizio successivi al primo non comporta revoca
della costituzione, per cui la stessa parte può, a suo piacimento, rimanere assente
da un grado del giudizio senza perdere la sua qualità e neppure il diritto di parte-
cipare agli ulteriori gradi del processo.
Al di fuori di tali effetti, il codice di procedura penale non ne fa scaturire altri
dall’immanenza della costituzione di parte civile, ed in particolare quello di esi-
mere la parte civile dall’onere di impugnare la sentenza che non abbia accolto in
tutto o in parte la sua domanda. In tal caso, la parte civile non impugnante conser-
verà il diritto di partecipare ai successivi gradi di giudizio sollecitati dalle impu-
gnazioni delle altre parti, ma al solo scopo di evitare una reformatio in peius della
sentenza in relazione ai suoi interessi e non anche con la prospettiva di ottenere
una reformatio in melius (3).
4. Ancor meno significativi sono gli argomenti a favore della devoluzione di
diritto, che si traggono dalle norme di cui agli artt. 574, comma 4 e 587, comma
3, c.p.p.
Secondo le Sezioni unite, dal contenuto delle due norme ‘‘ne viene fuori un
sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione sulla responsabilità penale
si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità civile automaticamente, vale a
dire anche in mancanza di impugnazione del capo concernente l’azione civile che
nei casi indicati forma oggetto di una devoluzione di diritto’’.
Ma è facile cogliere la differenza della situazione giuridica evocata dagli arti-
coli richiamati, rispetto a quella che ci riguarda: differenza che costituisce con-
ferma della tesi opposta a quella della devoluzione di diritto.
Invero, nell’art. 574, comma 4, c.p.p. l’effetto estensivo dell’impugnazione
proposta dall’imputato contro la pronuncia di condanna penale o di assoluzione
(sempre che la pronuncia dipenda dal capo o dal punto impugnato) al capo della
sentenza relativo alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle
spese processuali, si ricollega alla inscindibilità della responsabilità penale e civile
in capo alla stessa persona fisica dell’imputato. Di qui, la naturale e logica conse-
guenza che l’effetto devolutivo dell’impugnazione dell’imputato o del responsabile
civile avverso i capi penali della sentenza si estenda ai capi civili.
Ma l’argomento a contrario più significativo che si trae da tale norma è che,
malgrado l’inscindibilità delle due posizioni giuridiche in capo alla stessa persona,
il legislatore ha ritenuto doveroso prevedere espressamente l’eccezione al princi-
pio generale dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione.
Lo stesso discorso vale per l’art. 587, comma 3 e 4, c.p.p., dove, nonostante
la comunione di interessi civilistici tra l’imputato e il responsabile civile, il legisla-
tore ha ritenuto necessario prevedere espressamente l’eccezione al principio gene-
rale dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione stabilendo espressa-
mente un effetto estensivo dell’impugnazione.
Previsione espressa di effetto estensivo ai capi civili che, invece, manca per
l’impugnazione del pubblico ministero. E ciò riteniamo costituisca argomento ri-
solutivo per escludere la pretesa devoluzione di diritto.
Ma le Sezioni unite vanno oltre, invocando anche la norma di cui all’art. 572
c.p.p., la quale riconosce alla parte civile (oltre che alla persona offesa) il potere di
sollecitare l’impugnazione del pubblico ministero.
(3) Per un ulteriore approfondimento dei significati e dei limiti dell’immanenza, sotto il codice di
procedura abrogato, v. A. GIARDA, Sentenza assolutoria dell’imputato, potere di ricorso per Cassazione e
principio di immanenza della parte civile, in Scritti in memoria di G. Bellavista, vol. II, in Il Tommaso
Natale, 1978, p. 756.
Sotto il codice vigente, v. M. NOFRI, op. cit., p. 114 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo pro-
cesso penale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 178 s.
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(4) Sulla ridefinizione dei ruoli impersonati nel vigente codice di procedura penale, rispettiva-
mente, dalla persona offesa e dal danneggiato-parte civile, v., E. AMODIO, Persona offesa dal reato, in
Commentario del nuovo codice di procedura penale a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano,
Giuffrè, 1989, p. 536 ss.; G. DI CHIARA, Parte civile, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 237; A.
GHIARA, Commento all’art. 74 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da
M. Chiavario, vol. I, Torino, Utet, 1989, p. 363 ss.
(5) Cfr. la Relazione al Progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo
codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, Padova, Cedam, 1990, vol. IV, p. 1279.
Sulla ratio dell’effetto estensivo dell’impugnazione dell’imputato v. G. SPANGHER, Impugnazioni penali, in
Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, Utet, 1992, p. 229; nonché, V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., in
Commento coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, Utet, 1991, p. 117.
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benza della parte civile nel giudizio di primo grado, attraverso l’impugnazione
dello specifico capo di sentenza.
Secondo le Sezioni unite, una volta che il giudice dell’impugnazione è stato
ritualmente investito della decisione sull’azione penale attraverso l’impugnazione
del pubblico ministero, la pronuncia sull’azione civile discenderebbe quale conse-
guenza naturale della condanna penale.
In sostanza, la condanna penale si sostituirebbe all’effetto devolutivo dell’ap-
pello che non è stato proposto, ricreando, nei giudizi di impugnazione (e nell’e-
ventuale giudizio di rinvio) le condizioni per una decisione del giudice penale sul-
l’azione civile.
Siffatto superamento dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, attraverso la
condanna penale, non è conforme al nostro sistema processuale penale.
Vero è che l’art. 538, comma 1, c.p.p. lega indissolubilmente la decisione sul-
l’azione civile alla condanna penale (fatta eccezione per le ipotesi di cui all’art.
578 c.p.p.), ma la condanna penale se è una condizione necessaria non è anche
sufficiente.
Invero, condizione della pronuncia sulle restituzioni e sul risarcimento del
danno è anche (e soprattutto) la domanda della parte civile, presentata e artico-
lata nei modi e nei termini di cui al combinato disposto degli artt. 74 e 523,
comma 2, c.p.p.: dalla presentazione di tale domanda sorge il potere-dovere del
giudice penale di decidere sull’azione civile con la sentenza di condanna dell’im-
putato.
Ma, se la domanda non viene accolta parzialmente o totalmente nel giudizio
di primo grado, la parte civile soccombente ha l’onere di riproporla con l’impu-
gnazione della sentenza.
Solo attraverso l’assolvimento di quest’onere della parte il giudice dell’impu-
gnazione viene investito della cognizione sull’azione civile, ristabilendosi nei giu-
dizi di impugnazione quella condizione della domanda che serve anche a segnare i
limiti della pronuncia civile del giudice penale.
Il predetto onere non può considerarsi assolto con la sola presentazione delle
conclusioni.
Nel giudizio di impugnazione la funzione delle conclusioni è soltanto quella
di riassumere, prima della decisione della causa, i contenuti della domanda: per-
tanto le conclusioni presuppongono l’attualità della domanda che, se non accolta
nel grado precedente del giudizio, va rinnovata con l’impugnazione della sentenza.
L’attualità della domanda della parte civile è tanto più necessaria se si consi-
dera che dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, a seguito del-
l’impugnazione proposta dal p.m., non scaturisce sempre e automaticamente la re-
sponsabilità civile dello stesso imputato e dell’eventuale responsabile civile, né
l’accertamento di un danno di natura civile.
Tutti questi delicati giudizi che si collocano al di fuori della condanna penale
non possono essere compiuti d’ufficio dal giudice penale, come pretenderebbe la
sentenza annotata.
6. La tesi sostenuta dalle Sezioni unite costituisce il retaggio di una giuri-
sprudenza che poteva giustificarsi solo prima della svolta decisiva impressa ai po-
teri di impugnazione della parte civile dalle sentenze costituzionali n. 1 del 1970 e
n. 29 del 1972 e dall’art. 576 del vigente codice di procedura penale. E si spiegava
unicamente per le limitazioni del potere di impugnazione della parte civile quali ri-
sultavano dalla stesura originaria dell’art.195 del codice di procedura penale abro-
gato: limitazioni che, a loro volta, dipendevano dal principio dell’accessorietà del-
l’azione civile.
L’operatività dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione presup-
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pone, invero, che la parte nei cui confronti l’effetto opera abbia il potere-onere di
impugnare e, ciò malgrado, non se ne avvalga (6).
Allorché la legge non conferiva alla parte civile il potere-onere di impugnare
la sentenza di proscioglimento, non le si poteva addebitare alcun mancato assolvi-
mento dell’onere, e non si determinava per il giudice ad quem alcuna preclusione
a prendere in esame le questioni relative alla responsabilità civile, a meno che que-
st’esame fosse impedito dal tenore della pronuncia sui capi penali.
Non potendo operare l’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione con
riferimento agli interessi civili, il riesame del giudice dell’impugnazione, anche sul
solo gravame del pubblico ministero, poteva eccezionalmente estendersi dalla re-
sponsabilità penale a quella civile, determinandosi quello che la giurisprudenza
definiva come effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione del pubblico mini-
stero (7).
Unica condizione, a tal fine, era la partecipazione della parte civile al giudizio
di impugnazione e la presentazione delle conclusioni entro i limiti della domanda
presentata nel giudizio di primo grado.
Tutto ciò oggi non può avvenire, dopo il conferimento di pieni poteri di im-
pugnazione alla parte civile, la quale è libera di scegliere se coltivare o meno l’a-
zione in sede penale. Pertanto, ove la stessa, per negligenza o di proposito, non
impugni la sentenza penale che la vede soccombente, rimane del tutto priva di giu-
stificazione giuridica un’eventuale reformatio in melius della sentenza nei suoi
confronti, anche se l’impugnazione avverso la sentenza di primo grado sia stata
proposta dal pubblico ministero.
7. Le sanzioni per la parte civile non impugnante consisteranno, oltre che
nell’impossibilità di ottenere una reformatio in melius della sentenza, anche nell’i-
nammissibilità (ai sensi dell’art. 606, comma 3, c.p.p.) di un eventuale ricorso
omisso medio, avverso la decisione del giudice d’appello, per gli stessi motivi che
avrebbero potuto proporsi contro la decisione del primo giudice (8).
L’omessa proposizione dell’impugnazione non determinerà, invece, alcuna re-
voca tacita della costituzione di parte civile, e quindi l’estromissione di quest’ul-
tima dai gradi ulteriori del processo penale.
La partecipazione ai giudizi di impugnazione o di rinvio resta assicurata dal
principio di immanenza della costituzione e dalle norme, già viste, che in concreto
lo realizzano.
Con la conseguenza che la parte civile presente ai giudizi di impugnazione,
anche se non impugnante, potrà ottenere la condanna dell’imputato e dell’even-
tuale responsabile civile soccombenti al rimborso delle spese, nel caso in cui si ac-
certi un suo concreto interesse a partecipare al giudizio.
L’interesse della parte civile, anche se non impugnante, a partecipare ai gradi
successivi del giudizio penale, oltre che nei casi in cui il processo si sia concluso
(6) Sulla definizione dommatica del potere di impugnazione, v. G. TRANCHINA, La potestà di im-
pugnare nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1970, p. 3 ss.; M. MASSA, Contributo allo studio dell’ap-
pello nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1969, p. 7 ss.
(7) V., Cass., Sez. IV, 29 marzo 1977, Galllina, in Cass. pen. Mass. ann., 1978, n. 1381, p. 1348;
Id., sez. IV, 7 novembre 1977, ivi, 1979, n. 588, p. 602; Id., sez. IV, 8 febbraio 1980, Bulleri, in Giust.
pen., 1981, III, c. 225; in dottrina, v. E. FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, Giuffrè,
1980, p. 556 ss.
(8) Così, sotto il codice abrogato, Cass., Sez. III 23 settembre 1986, Di Sarioin, in Foro it., 1988,
II, c. 306 ed ivi la nota critica di E. D’ANGELO, Ricorribilità per Cassazione della sentenza d’appello ad
opera della parte civile in assenza di un’impugnazione avverso la decisione di primo grado. Sotto il vi-
gente codice, v. Cass., Sez. IV, 3 febbraio 1994, P.M. in proc. De Palma, in Giur. it., 1994, II,
c. 798.
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in primo grado con la condanna penale e con la conseguente condanna dei respon-
sabili civili, può configurarsi anche se la sentenza è di assoluzione, e ciò per gli ef-
fetti vincolanti del giudicato penale nel giudizio civile.
L’interesse è evidente nell’ipotesi in cui la sentenza di assoluzione sia stata
impugnata dal pubblico ministero, perché, in tal caso, partecipando ai giudizi di
impugnazione, la parte civile potrà contribuire alla riforma di una sentenza preclu-
siva dell’azione civile in separata sede.
Ma un interesse vi può essere anche se ha impugnato il solo imputato (e que-
sto spiega perché va sempre ordinata la citazione della parte civile ai sensi dell’art.
601, comma 4, c.p.p.), sol che si consideri che l’imputato di solito ha interesse ad
impugnare solo le sentenze di proscioglimento con formula da cui residua la possi-
bilità di un’azione civile o disciplinare.
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Tale partecipazione, se non potrà servirle per ottenere una reformatio in me-
lius della decisione agli effetti della responsabilità civile, potrà giovarle per contri-
buire alla formazione di un giudicato penale che non la pregiudichi nel successivo
giudizio civile (9).
ANGELO PENNISI
Straordinario di Diritto processuale penale
nell’Università di Catania
(9) Come correntemente sostenuto nella sentenza a Sezioni unite 25 novembre 1998, Loparco, cit.
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Giudizio abbreviato - Richiesta semplice ex art. 438, comma 1, c.p.p. nel testo no-
vellato dalla l. n. 479 del 1999 - Pluralità di imputati - Ritenuta necessità di
trattazione unitaria del processo - Ritenuta necessità di integrazione probato-
ria - Ritenuta incompatibilità con le finalità di economia processuale proprie
del procedimento - Provvedimento di rigetto - Abnormità - Sussistenza.
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normativa, il giudice non ha più; inoltre, in costanza delle nuove norme, non sa-
rebbe neppure certa l’applicabilità del meccanismo di recupero della diminuente,
introdotto dalla Corte Costituzionale.
Vero è che, sotto il vigore del precedente sistema processuale, era stato rite-
nuto che, non essendo previsto alcun mezzo di impugnazione avverso l’ordinanza
del G.U.P. reiettiva della richiesta di giudizio abbreviato, in forza del principio di
tassatività delle impugnazioni (art. 568, comma 1, c.p.p.), ogni censura dovesse
essere fatta valere dall’interessato nella successiva fase del dibattimento con l’im-
pugnazione della sentenza di guisa che era inammissibile dedurre la ‘‘quaestio
nullitatis’’ con l’immediato ricorso in cassazione, esistendo nell’ordinamento il ri-
medio costituito dal sindacato del giudice di merito sulla legittimità dell’aspetta-
tiva dell’imputato al trattamento premiale caratteristico del rito abbreviato (Cass.
n. 7040 del 1999 rv 215029).
La modifica dell’‘‘aspettativa’’ in un ‘‘diritto’’ dell’imputato, operata dalla l,
n. 479 del 1999, comporta quindi non solo il mutamento del profilo sostanziale
del giudizio abbreviato, ma l’introduzione di un diritto ‘‘processuale’’ alla scelta
del rito, la cui violazione è insanabile in quanto il suo esercizio preclude l’emis-
sione del decreto che dispone il giudizio nelle forme ordinarie.
La norma per cui ‘‘sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la
quale dispone il giudizio abbreviato’’ (art. 438, comma 4, c.p.p.), configura, in
caso di richiesta ‘‘incondizionata’’, un atto dovuto del giudice che non prevede un
atto di valenza contraria, ma, al più, l’assunzione di ‘‘elementi necessari ai fini
della decisione’’.
Ed invero, seppure la questione non rientra nel ‘‘thema decidendum’’, non
può revocarsi in dubbio che il potere del giudice del dibattimento di applicare in
quella fase la diminuente fosse giustificato dalla necessità di un’istruttoria, come
tale ritenuta ‘‘ex ante’’, e di una valutazione di merito degli esisti della stessa ‘‘ex
post’’, circa la fondatezza del dissenso del pubblico ministero o circa l’ininfluenza
del dibattimento ai fini della definizione del processo allo stato degli atti (Corte
Cost. sent. n. 81 del 1991, n. 23 del 1992), attività non più configurabile a fronte
del diritto assoluto dell’imputato (che ha presentato la richiesta ‘‘pura’’) alla ridu-
zione di pena in caso di condanna.
L’elusione di un tale diritto, che la riforma riconosce all’imputato che sceglie
il rito abbreviato non subordinato a un’integrazione probatoria, configura la suc-
cessiva fase, la cui apertura dipende dall’ordinanza che respinge la richiesta e rin-
via l’imputato a giudizio, come estranea al sistema processuale voluto con la ri-
forma: in tal senso l’ordinanza che, in violazione del comma 4 dell’art. 438 c.p.p.,
non dispone il giudizio abbreviato, non è soltanto invalida, tale cioè da determi-
nare l’invalidità conseguente degli atti successivamente compiuti e la regressione
del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo (art. 185
c.p.p.), ma è abnorme, in quanto, determinando il passaggio di fase, confligge con
la struttura stessa del sistema di giudizio abbreviato, come modificato dalla l. n.
479 del 1999, ed è come tale immediatamente ricorribile in cassazione.
Osserva infine il Collegio che la ritenuta abnormità dell’ordinanza impugnata,
provvedimento che tuttavia non può dirsi giuridicamente inesistente (ragione per
cui l’impugnazione è sottoposta al rispetto dei termini ex art 585 c.p.p., nella spe-
cie, quindici giorni: S.U. n. 11 del 1997), esclude l’applicabilità delle disposizioni
in generale sulla deducibilità e sulla sanatoria delle nullità, in specie della regola
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(1) Il giudizio abbreviato c.d. incondizionato e la patologia che affligge il provve-
dimento negatorio del giudice.
(1) ‘‘Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocra-
tica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudi-
ziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti ai giudici di pace e di
esercizio della professione forense, in Gazz. Uff., 18 dicembre 1999, n. 296; ripubblicata, corredata di
note, in Gazz. Uff., 18 gennaio 2000, n. 13, Suppl. Ordinario n. 16.
(2) Si tratta, in particolare delle sentenze della Corte costituzionale nn. 66 e 183 del 1990; n. 81
del 1991; n. 23 del 1992; n. 318 del 1992; n. 56 del 1993 e n. 442 del 1994. Più ampiamente, infra, nel
testo e nelle relative note.
(3) In proposito si vedano le osservazioni di LOZZI, Giudizio abbreviato e contraddittorio: dubbi
non risolti di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 2002, p. 1087.
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(4) Si segnala, in particolare, MARAFIOTI, Giudizio abbreviato comulativo e diritto dei coimputati
al contraddittorio, in Giur. it., 1990, II, pp. 25-28.
(5) Così la Relazione al nuovo codice di procedura penale, in Speciale documenti giustizia, II,
Roma, 1989, p. 230.
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1987 (6) l’udienza preliminare, fase emblema del nuovo modello processuale ad-
versary, veniva a configurarsi come un’udienza plurifunzionale (7) nella quale è
consentita, in determinati casi, la definizione del processo medesimo. Ed il giudi-
zio abbrevato è propriamente un rito ‘‘in virtù del quale il processo viene definito
nell’udienza preliminare’’ (8). La scelta strutturale originaria prevedeva l’instaura-
zione del rito speciale su richiesta del solo imputato il quale, tuttavia, doveva ac-
quisire il consenso del pubblico ministero quale presupposto indefettibile per po-
tersi discostare dall’ambito del processo ordinario. Efficacemente definito quale
‘‘patteggiamento sul rito’’ (9) (sì da evidenziarne le analogie e le diversità rispetto
all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. per
il quale generalmente si parla di ‘‘patteggiamento sul merito’’), data la inequivoca-
bile negoziazione delle parti relativamente al quomodo del procedimento, il giudi-
zio abbreviato fugava i dubbi di legittimità costituzionale relativamente all’art.
112 Cost., in quanto la giurisprudenza e la dottrina erano concordi nel ritenere
che la previsione del necessario consenso del pubblico ministero consentiva a tale
organo di restare dominus dell’esercizio dell’azione penale (e delle sue
forme) (10). In realtà, la più autorevole dottrina ebbe immediatamente a rilevare
come il pubblico ministero esercitasse in tal modo non solo un potere ampiamente
discrezionale ‘‘ma, addirittura, una vera e propria facoltà’’ (11), in quanto, dall’as-
senza di parametri e criteri posti dal legislatore sui quali l’organo accusatorio
avrebbe dovuto fondare il proprio dissenso, ne discendeva la non obbligatorietà di
una sua motivazione. Non solo, ma il dissenso immotivato veniva a risultare, in tal
modo, del tutto insindacabile. Peraltro, l’imputato che avesse ottenuto il consenso
al rito abbreviato da parte del pubblico ministero, poteva vedersi negare l’instau-
razione del rito medesimo da parte del giudice dell’udienza preliminare, qualora,
sulla base degli elementi probatori raccolti sino alla presentazione della richiesta,
questi ritenesse di non poter decidere. La vecchia normativa risultava fondata, in-
fatti su una rigorosa previsione di decidibilità allo stato degli atti: il rito abbreviato
era propriamente un giudizio ex actis (12), ancorché sussistesse l’eventualità di
una sua instaurazione successiva all’espletamento dell’attività di assunzione delle
(6) Circa l’ampliamento apportato ai riti speciali dalla legge delega del 1987, rispetto alla vecchia
delega del 1974 ed il relativo progetto del 1978 si veda CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale,
Padova, 2000, p. XVI-XVII, ove è posto in evidenza come i riti speciali fossero ridotti ‘‘al minimo nel si-
stema 1974-1978’’ e come ‘‘la scelta operata dalla delega del 1987’’ si ponesse ‘‘in direzione pressoché
antitetica rispetto alla delega del 1974. Non più il dibattimento sempre e in ogni modo, come nel progetto
del 1978, ma il dibattimento soltanto quando nessuna delle vie che ne prescindono si sia rivelata percorri-
bile’’. Ciò che in un certo senso comportava un contrasto con ‘‘gli slogans — allora molto di moda — di-
retti a presentare il nuovo processo come modellato sul dibattimento nordamericano’’ caratterizzato dalla
centralità di esso nell’intero sistema.
(7) Sulle diverse funzioni dell’udienza preliminare si veda, esaustivamente, sia anteriormente che a
seguito della riforma del 1999, LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 364 ss. In relazione
all’udienza preliminare considerata quale nuovo ‘‘baricentro’’ del processo, si veda SPANGHER, I procedi-
menti speciali tra razzionalizzazione e modifiche del sistema, in AA.VV., Il nuovo processo penale da-
vanti al giudice unico, Milano, 2000, p. 183. La centralità dell’udienza preliminare sin dalla emanazione
del nuovo codice di procedura penale è rilevata da LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento,
in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, vol. IV, Torino, 1990.
(8) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2001, p. 410, il quale rileva come ‘‘certa-
mente il giudizio abbreviato comporta una metamorfosi dell’udienza preliminare, la quale da udienza ‘fil-
tro’, destinata ad accertare se sia o no necessario il dibattimento, diventa un’udienza in cui si accerta la
responsabilità o no dell’imputato’’.
(9) Si veda, in particolare, BALDUCCI, Giudizio abbrevviato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, p.
1, la quale precisa che la definizione appartiene all’On. Casini, intervento alla Camera dei Deputati, 26
giugno 1984; nonché ORLANDI, Procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale
cit., p. 543.
(10) In tal senso BALDUCCI, Giudizio abbreviato, cit., p. 2.
(11) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 415.
(12) In questo senso si veda BALDUCCI, Giudizio abbreviato, cit., p. 4, la quale rileva come il giudi-
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prove ammesse ex art. 422 c.p.p. il quale articolo, tuttavia e come è chiaro, non
configurava uno specifico meccanismo di integrazione probatoria proprio del rito
abbreviato medesimo. A seguito del provvedimento del giudice che disponeva il
rito abbreviato, invero, era impedita qualunque attività di integrazione probatoria.
Una normativa di tal genere non poteva non suscitare dubbi di legittimità co-
stituzionale, in primis con riferimento al principio di uguaglianza sostanziale san-
cito dall’art. 3 della Costituzione. Dalla mancanza di una motivazione del dissenso
del pubblico ministero, infatti, derivava la possibilità che situazioni analoghe pote-
vano conoscere un diverso trattamento non soltanto processuale ma anche sostan-
ziale, discendendo dalla celebrazione del rito abbreviato ed in caso di condanna
dell’imputato, la riduzione della pena edittale. Pertanto, la Corte costituzionale sin
dai primissimi anni di entrata in vigore del codice del 1988, che aveva introdotto
ex novo l’istituto del giudizio abbreviato, suscitando positivi entusiasmi sull’effet-
tivo conferimento di funzionalità e snellezza al processo penale, è intervenuta più
volte sulla relativa disciplina in maniera talmente incisiva che, come ha eviden-
ziato autorevole dottrina, ‘‘ne sconvolse l’impianto’’ (13).
Anzitutto, con la sentenza n. 81 del 1991 (14), la Corte costituzionale ha reso
obbligatoria la motivazione del dissenso da parte dell’organo accusatorio rile-
vando come non potesse consentirsi, in un processo di stampo accusatorio, fon-
dato sulla partecipazione paritaria dell’accusa e della difesa in ogni stato e grado
del procedimento (15), che il pubblico ministero ‘‘con un semplice atto di volontà
immotivato, e perciò incontrollabile si trovi in grado di privare’’ l’imputato ‘‘di un
rilevante vantaggio sostanziale’’. Al contempo ‘‘rimettendo ad una imperscrutabile
decisione della parte pubblica l’esperibilità del rito e la fruibilità dei benefici che
ne conseguono si rende possibile che imputati, in identiche condizioni sostanziali
e processuali, siano assoggettati ingiustificatamente, a differenti trattamenti san-
zionatori’’. In linea con precedenti pronunce, relative e al giudizio abbreviato
‘‘transitorio’’ (disciplinato dall’art. 247 delle norme di attuazione, di coordina-
mento e transitorie del c.p.p.) (16), e al giudizio abbreviato instaurato a seguito
zio abbreviato sia un giudizio ‘‘cartolare’’ e, cioè, ‘‘a prova contratta per il congelamento della situazione
probatoria’’.
(13) ORLANDI, Procedimenti speciali, cit., p. 344.
(14) Con la sentenza n. 81 del 15 febbraio 1991 (in Gazz. Uff., 20 febbraio 1991, n. 8), la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440,
442 c.p.p., nella parte in cui non era previsto l’obbligo per il pubblico ministero di esplicare le ragioni del
proprio dissenso nonché la sua sindacabilità da parte del giudice del dibattimento, al quale veniva ricono-
sciuto, di conseguenza, il potere di ridurre la pena ex art. 442 c.p.p. all’esito del dibattimento ed in base
ad un giudizio prognostico ex ante. A parere della Corte, infatti, il sindacato de quo, non poteva essere af-
fidato al giudice dell’udienza preliminare in quanto ciò avrebbe comportato l’adozione del rito abbreviato
‘‘contro le determinazioni del pubblico ministero’’ (sent. n. 81 del 1991, p. 1016), il quale, con il proprio
dissenso, aveva inequivocabilmente espresso la volontà che il processo fosse definito in sede dibattimen-
tale. Non sembra irrilevante il fatto che tale decisione abbia suscitato notevoli contrasti in dottrina. In
particolare si è rilevato come la Corte abbia, in tal modo, fatto ‘‘cadere il nesso inscindibile tra tratta-
mento premiale e la funzione deflattiva del rito, a favore del mero sconto di pena senza contropartita’’. Ne
risultava perciò ‘‘un giudizio ‘allungato’ anziché un giudizio abbreviato’’. Così BALDUCCI, Giudizio abbre-
viato cit., p. 4, la quale ha evidenziato, altresì che il giudizio ora per allora da parte del giudice del dibatti-
mento avrebbe necessariamente comportato la sua venuta a conoscenza del fascicolo del pubblico mini-
stero. Nello stesso senso GIOSTRA, Primi intenventi della Corte costituzionale in materia di giudizio abbre-
viato, in Giur. cost., 1990, p. 1286 ss.
(15) Sul punto è opportuno ricordare che l’art. 2 della legge delega per il nuovo codice di proce-
dura penale, nel menzionare i principi e i criteri cui il legislatore delegato doveva attenersi nell’elabora-
zione del codice, al fine di attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, al n. 3 cita:
‘‘partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento...’’.
(16) Si tratta, in particolare della sentenza del 18 gennaio 1990, n. 66 (in Giur. cost., 1990, p.
274) con la quale, proprio al ‘‘debutto’’ del nuovo codice di procedura penale, la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 247 disp. att., nella parte in cui non
prevedevano che il pubblico ministero avrebbe dovuto motivare il proprio dissenso, nonché laddove non
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del giudizio direttissimo (così come era previsto dall’art. 452 comma 2 (17), la
Corte costituzionale ha affermato che i requisiti e i criteri sulla base dei quali il
pubblico ministero avrebbe dovuto fondare il proprio dissenso non potevano che
concernere ragioni strettamente probatorie, venendo così, esplicitamente, a ‘‘rac-
cordare anche la scelta del p.m. alla definibilità del processo allo stato degli atti’’.
Con la sentenza n. 23 del 1992 (18), successivamente, la Corte veniva ad incidere
sul lato del giudizio discrezionale del giudice dell’udienza preliminare di non deci-
dibilità allo stato degli atti. Anche in tal caso si è considerato necessario e reso ob-
bligatorio il sindacato da parte del giudice del dibattimento, in quanto si è eviden-
ziato come, sottrarre a tale organo il ‘‘controllo diretto a verificare la sussistenza
del presupposto della decidibilità allo stato degli atti’’, avrebbe limitato ‘‘in modo
irragionevole il diritto di difesa dell’imputato, nell’ulteriore svolgimento del pro-
cesso, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale’’.
Già prima dell’intervento legislativo del 1999, pertanto, il sistema normativo
relativo al giudizio abbreviato risultava profondamente diverso rispetto alla sua
originaria conformazione. Tale intervento, inoltre, deve considerarsi una necessa-
ria risposta agli espressi moniti diretti al legislatore dalla stessa Corte costituzio-
nale che, sin dal 1992, pur dichiarandola inammissibile, non ha ritenuto infondata
la questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438,
439 e 440 c.p.p., laddove non prevedeva la possibilità di integrazioni probatorie
nei casi in cui il pubblico ministero motivasse il proprio dissenso adducendo l’im-
possibilità di definire il processo rebus sic stantibus. La Corte, ponendo in evi-
denza come la mancanza di una tale previsione comportasse ‘‘l’inaccettabile para-
dosso’’ per cui il pubblico ministero poteva legittimamente escludere l’instaura-
zione del rito abbreviato allegando lacune probatorie da lui stesso discrezional-
mente determinate e, affermando la necessità, ‘‘al fine di ricondurre l’istituto a
piena sintonia con i principi costituzionali’’, dell’introduzione di un meccanismo
di integrazione probatoria che consentisse di superare ‘‘il vincolo derivante dalle
scelte del pubblico ministero’’, concludeva con il rigetto della questione e con un
prevedevano che il giudice del dibattimento, all’esito dello stesso, avrebbe potuto applicare la riduzione di
pena prevista dall’art. 442 comma 2 c.p.p. In tale occasione la Corte ebbe a precisare l’individuazione dei
parametri su cui doveva basarsi la motivazione del dissenso da parte dell’organo dell’accusa: ‘‘al momento
non vi è altra interpretazione che quella di raccordare anche la scelta del pubblico ministero alla definibi-
lità del processo allo stato degli atti’’. Per ulteriori precisazioni si veda BALDUCCI, Giudizio abbreviato,
cit., p. 3, la quale evidenzia i dubbi già manifestati, proprio con riferimento all’art. 247 delle norme tran-
sitorie, dalla dottrina (NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 225; LAT-
TANZI, Giudizio abbreviato e patteggiamento, in Cass. pen., 1988, II, p. 2196) e dalla giurisprudenza (Tri-
bunale di Roma, ord. n. 646, 9 novembre 1989, in Gazz. Uff., I, serie speciale, n. 50, p. 1989). Si veda al-
tresì: GIAMBRUNO, Il giudizio abbreviato, Cedam, 1997, p. 78 ss.; FASSONE, Il giudizio abbreviato al primo
controllo della Corte costituzionale: oltre l’illegittimità della normativa transitoria difficili equilibri da rea-
lizzare, in Leg. pen., 1990, p. 191-295; TAORMINA, Quid iuris per il giudizio abbreviato tipico, dopo le
sentenze costituzionali n. 66 e 183 del 1990?, in Giust. pen., 1990, I, pp. 129-140.
(17) Con la sentenza del 12 aprile 1990, n. 183 la Corte costituzionale, sulla base delle medesime
osservazioni svolte nella sentenza n. 66 del 1990, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 452
comma 2 c.p.p. per il contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva il motivato dissenso da
parte dell’organo accusatorio alla richiesta di giudizio abbreviato ed il conseguente sindacato del giudice
dibattimentale. Sul punto si vedano: GIOSTRA, Primi interventi della Corte costituzionale in materia di
giudizio abbreviato, in Giur. cost., 1990, pp. 1286-1301; LIMA, Corte costituzionale e giudizio abbreviato:
una piccola (ma non tanto) controriforma del codice di procedura penale?, in Cass. pen., 1990, II, pp.
335-361; RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giu-
dice, in Giur. cost., 1991, pp. 3498-3504; RIVELLO, L’incompatibilità a celebrare il giudizio abbreviato
per chi abbia disposto il giudizio immediato è conforme alle direttive della legge delega, in Giur. cost.,
1992, pp. 2019-2023.
(18) Con la sentenza n. 23 del 31 gennaio 1992 (in Gazz. Uff., 5 febbraio 1992, n. 6), la Corte co-
stituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e
442 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che il giudice, all’esito del dibattimento, ritenendo che il pro-
cesso poteva essere definito allo stato degli atti e, dunque, giudicando erronea l’ordinanza del giudice del-
l’udienza preliminare, potesse applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p.
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(19) Nella sentenza n. 92 del 9 marzo 1992, la Corte costituzionale ha precisato che la configura-
zione del rito abbreviato come giudizio ‘‘a prova contratta (...) non è affatto un connotato ineliminabile’’,
tanto più che ‘‘un modello di giudizio abbreviato che consente un’integrazione probatoria è positivamente
previsto, nello stesso codice, per il caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato
(art. 452 comma 2 c.p.p.)’’.
(20) Sul punto, infatti, la Corte costituzionale era intervenuta anche successivamente. Più precisa-
mente, con la sentenza del 23 dicembre 1994, n. 442, aveva dichiarato inammissibile la questione di legit-
timità costituzionale degli artt. 452 comma 2 c.p.p. e 247 comma 2. disp. att. in relazione agli artt. 3 e 25
comma 2 Cost., per la parte in cui tali disposizioni subordinavano la trasformazione del giudizio direttis-
simo in giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero, il quale risultava ‘‘arbitro di determinare
la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire la condizione per negare il con-
senso alla trasformazione del rito’’. Anche in tal caso la Corte non aveva ritenuto infondata la questione
ma il giudizio di inammissibilità della stessa era dovuto all’impossibilità di emanare una sentenza additiva
nell’ambito di una scelta operativa di discrezionalità legislativa. Con la sentenza citata, peraltro, la Corte
sembrava dare un ‘‘ultimatum’’ al legislatore: ‘‘corre, tuttavia, l’obbligo di precisare che avendo la Corte
già sollecitato il legislatore ad intervenire (...) i giudici costituzionali sottolineano come, perdurando lo
stato di inerzia, non potranno esimersi — ove siano investiti da ulteriori questioni di costituzionalità ri-
guardanti lo specifico tema — dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più
volte constatata distonia con i principi costituzionali’’. Si veda sul punto LOZZI, Lezioni di procedura pe-
nale, cit., p. 418, il quale riporta tali affermazioni della Consulta sottolineandone il tono di vera e propria
‘‘minaccia’’.
(21) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 419. V’è da precisare che il valore di prova
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assunto dalle indagini preliminari, in base alle quali può essere accertata la responsabilità dell’imputato,
risulta conforme al dettato del comma 5 dell’art. 111 Cost., il quale consente alla legge di regolare ‘‘i casi
in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato’’.
(22) In questi termini ancora LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 419-421, ove considera
le prospettive di riforma del giudizio abbreviato anteriormente all’intervenuta novella del 1999. L’A. in
tale ambito prende in considerazione anche la proposta di riforma per la quale il giudizio abbreviato si sa-
rebbe dovuto porre come la regola mentre il dibattimento come l’eccezione, vale a dire che l’instaurazione
di quest’ultima fase sarebbe dovuta avvenire soltanto su espressa richiesta dell’imputato. Tale proposta,
come sottolinea l’A., oltre a prestare il fianco a critiche non facilmente superabili sarebbe comunque in-
congruente in un sistema come il nostro che nella fase dibattimentale attribuisce notevole valore probato-
rio agli atti delle indagini preliminari. Si veda, in termini più chiari e precisi, LOZZI, op. loc. ult. cit.
(23) Sembra opportuno un breve cenno sulla modificazione subita dall’intero sistema della fase
delle indagini preliminari, così come prospettato dal legislatore del 1989, avvenuto essenzialmente ad
opera della giurisprudenza della Corte costituzionale. All’entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale, infatti, al pubblico ministero competeva lo svolgimento di indagini al solo fine delle determina-
zioni inerenti l’esercizio dell’azione penale (artt. 326 c.p.p. e 125 disp. att.), da cui derivava come conse-
guenza logica la non necessarietà che le indagini stesse fossero complete. A partire dal 1992 con l’affer-
mazione da parte della Corte costituzionale del principio della ‘‘non dispersione delle prove’’ (non riscon-
trabile a livello di diritto positivo), insieme alle incisive modifiche subite da numerosi articoli del nuovo
codice di procedura penale, che attribuivano solo in casi eccezionali valore di prova agli elementi acquisiti
nella fase delle indagini preliminari (in specie gli artt. 500 e 513 c.p.p.), si è completamente scardinato il
modello retto sulla distinzione tra procedimento e processo. Il pubblico ministero, consapevole del fatto
che il materiale raccolto non sarà ‘‘disperso’’, compie delle indagini che necessariamente tendono alla
completezza. Ne è derivata una ‘‘tensione’’ tra diverse norme del codice, che ha posto la necessità di una
loro modificazione.
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(24) Sentenza 7-9 maggio 2001, n. 115, in Cass. pen., 2001, p. 2603 ss., con nota di ZACCHÈ,
Nuovi poteri probatori nel giudizio abbreviato, ivi, p. 2610 ss. Con tale sentenza, la Corte costituzionale
affronta, per la prima volta dopo la novela del 1999, le tematiche relative al ‘‘nuovo’’ giudizio abbreviato,
risolvendole in larga parte.
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costituzionale degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, ‘‘nella parte in cui non prevedono che il giudice del dibattimento
possa applicare, all’esito del giudizio, la diminuzione di pena prevista dall’art. 442
c.p.p., ove ritenga ingiustificata o comunque erronea la decisione con cui il giudice
dell’udienza preliminare abbia rigettato la richiesta di giudizio abbreviato, subor-
dinata ad integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ritenendola
non necessaria ovvero non conciliabile con le finalità di economia processuale
proprie del rito alternativo’’. Com’è chiaro, il giudice remittente ha prospettato
alla Corte costituzionale la possibilità di rendere operativo, anche nel nuovo si-
stema, il rimedio prospettato dalla stessa Corte con la sentenza n. 23 del 1992, in
virtù del quale veniva riconosciuto al giudice del dibattimento il potere di appli-
care la riduzione di pena qualora il giudice dell’udienza preliminare avesse effet-
tuato un’erronea valutazione di non decidibilità allo stato degli atti.
Con la sentenza n. 54 del 2002, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissi-
bile la questione, considerando incongrua la soluzione prospettata dal giudice a
quo rispetto alla nuova disciplina del giudizio abbreviato, la quale non richiede
più una valutazione fondata sulla definibilità del processo allo stato degli atti,
bensì ancorata ad ‘‘un parametro molto più circoscritto’’ (25).
Sulla base di quanto già affermato con riferimento alle connotazioni di incon-
gruità e vaghezza del criterio stabilito nel comma 5 dell’art. 438 c.p.p., tali conclu-
sioni non appaiono condivisibili. L’assenza di una specifica disposizione legislativa
che consenta il controllo del provvedimento che nega, erroneamente o ingiustifica-
tamente, la concessione del rito abbreviato, infatti, impone di ritenere quanto
meno opportuna l’attribuzione al giudice del dibattimento del potere di effettuare
il controllo su di una decisione del giudice dell’udienza preliminare che, incidendo
sull’entità della pena deve poter essere sottoposta a verifica da parte di un organo
diverso da quello da cui promana.
3. La Corte di cassazione con la sentenza in esame annulla senza rinvio l’or-
dinanza impugnata, qualificandola come ‘‘abnorme’’. Sul punto occorre anzitutto
segnalare l’esistenza di un contrasto nella medesima giurisprudenza di legittimità
laddove altro orientamento, tuttavia minoritario, considera l’ordinanza che rigetta
la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato da parte dell’imputato come me-
ramente illegittima (26). In tal senso, la Corte di cassazione non ritiene di poter
ravvisare la determinazione di un danno irreparabile per l’imputato, essendo pre-
vista la possibilità per lo stesso di rinnovare la richiesta. Tuttavia tale interpreta-
zione non appare convincente per diversi ordini di ragioni. Anzitutto perché grava
l’imputato dell’onere di reiterare una richiesta che ha prontamente avanzato in
(25) Così nella sentenza 27 febbraio-15 marzo 2002, n. 54, con la quale, come si è visto, la Corte
costituzionale ha ritenuto inammissibile, la questione di costituzionalità degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p.
sotto i profili della irragionevolezza e della lesione del diritto di difesa, laddove non prevedono il potere
del giudice del dibattimento di sindacare il rigetto ingiustificato da parte del giudice per le indagini preli-
minari della richiesta dell’imputato di giudizio abbreviato subordinata a una integrazione probatoria. L’i-
nammissibilità dichiarata, tuttavia (per quanto rilevato dallo stesso giudice remittente nella decisione suc-
cessiva alla pronuncia della Corte costituzionale), si è resa doverosa per la prospettazione di una solu-
zione incongrua da parte del remittente, che riproponeva l’adozione, da parte della Corte, di una sentenza
addittiva (sulla falsariga del modulo procedimentale individuato dalla sentenza n. 23 del 1992), con la
quale attribuire al giudice, in esito al dibattimento, il potere di valutare se la prova, a suo tempo richiesta
dall’imputato era necessaria e, in caso positivo, di applicare, nell’eventualità di condanna, la riduzione di
pena ex art. 442 c.p.p. La Corte, in altri termini, nel ritenere tale richiesta inammissibile sottolinea la di-
versa valutazione che deve compiere, attualmente, il giudice a fronte della richiesta di rito abbreviato con-
dizionato rispetto al passato e evidenzia l’opportunità di un sindacato del giudice del dibattimento che,
tuttavia, non può più porsi in esito al dibattimento.
(26) Si veda, in particolare, Sez. I, 25 gennaio 2001, n. 1405, Sangani, in Giust. pen., 2002, III, p.
103.
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(27) Nello stesso senso: Sez. I, 20 dicembre 2000, Strangio, in Giust. pen., 2002, p. 103; Sez. I,
11 dicembre 2000, Litrico.
(28) Si veda, in proposito, CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 1025, il quale parla di
‘‘invenzione terapeutica’’ della giurisprudenza che ha inizio negli anni Trenta: ‘‘le regole su cosa sia impu-
gnabile e come, valgono rispetto all’anomalo ‘normale’, ossia concernono provvedimenti imperfettamente
conformi ai modelli, ma esistono gli abnormi, ignoti al sistema legale, sfuggono alle relative previsioni, a
fortiori, esigono rimedio e l’unico possibile è impugnarli in cassazione’’.
(29) Così, TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 1999, p. 599, ove precisa le ragioni di
struttura con l’esempio dell’adozione di ‘‘ordinanza anziché sentenza di incompetenza’’ e le ragioni di
funzione, ‘‘cioè di caduta del provvedimento rispetto allo scopo del modello legale’’ L’A. sottolinea anzi-
tutto come l’abnormità vada riferita sia ai provvedimenti del giudice che del pubblico ministero e rileva
come la costruzione giurisprudenziale in parola, sia ‘‘potuta avvenire cogliendo la portata diretta dell’art.
111 Cost., secondo il quale ogni provvedimento, in quanto motivato, deve essere legale e cioè corrispon-
dente al modello della fattispecie processuale penale’’.
(30) In questi termini SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, Mi-
lano, 1999, p. 441.
(31) Nonostante l’inesistenza materiale o giuridica degli atti processuali possa per un certo verso
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considerarsi una eclatante ipotesi di abnormità, le distinzioni rispetto alle ipotesi precipue, individuate
dalla dottrina e dalla giurisprudenza, di abnormità dei provvedimenti giurisdizionali, non sembrano seria-
mente contestabili. Sia le situazioni alle quali le due costruzioni teoriche pongono rimedio, sia i termini
per poter far valere i vizi, sia le conseguenze che ne discendono si pongono su piani inconfutabilmente di-
stinti. La natura abnorme degli atti processuali, inoltre, sembra potersi esclusivamente riferire a quelli di
competenza giudiziaria.
(32) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 167.
(33) Si veda VOENA, Atti, in CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale, cit., pp. 256-257.
(34) In tal senso si veda MASSARI, Illegittimo rifiuto di celebrare il giudizio abbreviato: quali ri-
medi?, in Cass. pen., 2001, p. 2804 ss.
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1 dell’art. 438 c.p.p. e dalla voluntas legis. A tale obbligo fa da pendant un diritto
dell’imputato, sul quale, ovviamente e secondo i principi di civiltà giuridica, grava
il rispetto dei requisiti minimi di forma richiesti dalla legge. Orbene, anche a vo-
lersi ammettere che una richiesta viziata formalmente non possa più essere ripro-
posta dall’imputato, tale sanzione deve trovare ragione tra i principi generali in
tema di inammissibilità, non potendosi in alcun modo concordare con una inter-
pretazione a contrario ex art. 438 comma 6 c.p.p. (35).
Pertanto, si ribadisce, l’abnormità dell’ordinanza che rigetta la richiesta in-
condizionata al rito abbreviato non può ritenersi tale in quanto causa di stallo del
processo, bensì in quanto del tutto al di fuori del sistema normativo attualmente
previsto in materia di giudizio abbreviato.
La garanzia dell’imputato di poter ricorrere per cassazione a fronte di un ri-
getto del giudice nei confronti della sua richiesta semplice di giudizio abbreviato,
non dovrebbe ritenersi, tuttavia, l’unico strumento di cui l’imputato stesso può
fruire. Egualmente a quanto rilevato in relazione al sindacato da parte del giudice
dibattimentale sul provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che rigetta
la richiesta di giudizio abbreviato subordinata alla richiesta di integrazione proba-
toria, deve ritenersi plausibile il riconoscimento di una possibile valutazione (che,
in tali casi si porrebbe come mero controllo), da parte dello stesso organo dibatti-
mentale, relativa ai casi come quello in esame, di rigetto di una richiesta semplice
di rito abbreviato.
Tali considerazioni ci sembrano rafforzate dalla ristrettezza dei termini ine-
renti la possibilità di adire il Supremo collegio a mezzo del ricorso immediato che
resta, pur sempre, lo strumento di maggiore garanzia per l’imputato e che, in ul-
tima analisi, deve ritenersi ammissibile, anche qualora, auspicabilmente, venga ri-
conosciuta l’ulteriore garanzia del sindacato del giudice dibattimentale.
Dott.ssa DANIELA ROCCHI
(35) Di tale avviso, invero, ORLANDI, Procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Compendio di proce-
dura penale, cit., p. 549 ss.
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(1) Conspiracy e associazione per delinquere alla luce dei principi della previsione
bilaterale del fatto e del ne bis in idem in materia di estradizione.
(1) Se non andiamo errati, prima della sentenza in esame, la Suprema Corte si era pronunciata
sulla estradabilità del reato di conspiracy soltanto in altre tre occasioni, anche se, per la verità, in una di
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queste ancora sotto la vigenza del Trattato precedente (cfr. sez. I, 15 dicembre 1972, Coppola, in Giust.
pen., 1973, II, c. 408, che riconosceva espressamente la compatibilità tra il delitto di conspiracy e quello
di associazione per delinquere). Una è la sentenza Grandia (sez. I, 17 novembre 1989, Grandia, in Cass.
pen., 1991, p. 273, su cui v. supra, nota 37); l’altra la sentenza Aramini (sez. I, 14 settembre 1995, Ara-
mini, in Cass. pen., 1996, p. 3686, su cui v. supra, nota 56).
(2) Sebbene il principio del ne bis in idem non costituisca una norma di diritto internazionale ge-
neralmente riconosciuta ai sensi e per gli effetti dell’art. 10 Cost., esprimendo, anzi, il nostro ordinamento
positivo l’opzione per la soluzione opposta, come desumibile dall’art. 11 c.p. e pertanto non sia un princi-
pio riconosciuto come vincolante sul piano internazionale, ciò non significa che sia sconosciuto nei rap-
porti tra gli Stati, essendo, piuttosto, oggetto di espressa previsione da parte della stragrande maggioranza
delle Convenzioni internazionali. In particolare si veda l’art. 54 della Convenzione di applicazione del-
l’Accordo di Schengen, resa esecutiva in Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388, così come estensiva-
mente interpretato da una recentissima sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee dell’11
febbraio 2003, in Guida dir., 9, 2003, p. 100 e ss., con commento di E. SELVAGGI, La procedura giudizia-
ria che estingue l’azione penale esclude il nuovo giudizio di un altro Stato europeo, ivi, p. 106.
(3) Per un’approfondita analisi degli elementi costitutivi della fattispecie di wire fraud, poiché
coincidenti con quelli propri dell’incriminazione gemella denominata mail fraud, si veda, M. PAPA, Consi-
derazioni sui rapporti tra previsioni legali e prassi applicative nel diritto penale federale statunitense, in
questa Rivista, 1997, p. 1273.
(4) Ratificato con l. 26 maggio 1984, n. 225, pubblicata in Suppl. ord. Gazz. Uff., 16 giugno
1984, n. 165.
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contestato il reato continuato di truffa, per aver indotto, mediante artifici e rag-
giri, i soci ad investire in attività rappresentate come molto produttive, senza nel
contempo aver provveduto a versare le quote a loro spettanti, l’eventuale trasferi-
mento del male captum in conti esteri e la sua presunta ripulitura o l’occulta-
mento tramite investimenti in attività economiche o finanziarie non sono punibili,
rimanendo assorbiti nel disvalore espresso dalla fattispecie della truffa. Diversa-
mente nel sistema americano, ove si persegue l’intero percorso criminoso intra-
preso dall’autore di un delitto presupposto, il quale ponga in essere una serie di
fatti penalmente rilevanti in coerente e consequenziale successione, al fine di ga-
rantirsi la certezza di conseguire dal delitto principale il profitto che, derivante
dalla condotta truffaldina, necessita, tuttavia, per così dire, di un consolidamento
ottenuto mediante l’occultamento e la difficoltà di ricostruzione del circuito crimi-
nale.
Quanto, poi, ai singoli episodi di truffa, pur nella sostanziale equivalenza
della struttura delle fattispecie incriminatrici, ai sensi degli artt. 705/1 c.p.p. e VI
e VII del Trattato Italia-Stati Uniti (5) osta alla concessione dell’estradizione il di-
vieto del bis in idem, inteso nel duplice ampio significato di pendenza di un proce-
dimento penale per il medesimo fatto nei confronti della persona della quale è do-
mandata l’estradizione (c.d. litispendenza de eadem persona et re) — e questo è il
caso degli estradandi, iscritti nel registro delle notizie di reato ex art. 335 c.p.p.
per quegli stessi episodi di truffa — o di esistenza di un giudicato penale. Senza
che, tra l’altro, rilevi la distinzione introdotta dagli artt. VI e VII citati, nel senso
della previsione di un divieto o della concessione di una facoltà al Ministro di Gra-
zia e Giustizia, a seconda che ci si trovi dinanzi ad una sentenza definitiva o ad
un’ipotesi di mera litispendenza internazionale, per effetto di quanto disposto
dalla Corte costituzionale con sentenza 14 febbraio-3 marzo 1997, n. 58 (6).
Il giudice delle leggi, chiamato a decidere sulla legittimità costituzionale (7)
degli artt. 1 e 2 della l. 30 gennaio 1963, n. 300 (8), nella parte in cui consentono
di dare esecuzione agli artt. 8 e 9 della Convenzione europea dell’estradizione,
laddove il primo riconosce all’autorità politico-amministrativa un potere discrezio-
nale di concessione dell’estradizione se il procedimento penale per lo stesso fatto
oggetto della domanda di estradizione è tuttora in corso nello Stato richiesto anzi-
ché essere già pervenuto alla consacrazione del giudicato (9), ha concluso per la
infondatezza della questione alla luce della seguente ricostruzione dei rapporti tra
(5) Osserva F. MARTINES, Procedimenti penali in corso ed estradizione, in questa Rivista, 1997, p.
1419, come, sebbene la dottrina maggioritaria tenda a considerare la litispendenza un aspetto del ne bis
in idem estradizionale, perché ispirati entrambi dalla stessa esigenza di garanzia per l’estradando, essa
trovi fondamento non tanto nella tutela dell’individuo, che sta alla base del divieto di estradizione in caso
di sentenza passata in giudicato, quanto piuttosto nella necessità di non moltiplicare i giudizi, in ossequio
ad un principio di economia di procedimenti.
(6) Pubblicata in questa Rivista, 1997, p. 1403, e in Foro it., 1998, I, c. 641.
(7) L’attribuzione di un potere discrezionale al Ministro di Grazia e Giustizia di concessione del-
l’estradizione comporterebbe, secondo la Corte di cassazione, che d’ufficio ha sollevato la questione di-
nanzi alla Corte costituzionale, violazione: a) dell’art. 24/2 Cost., in quanto sarebbe precluso all’estradato
l’esercizio di difendersi partecipando al processo, che, d’altra parte, non potrebbe né venir meno, stante
l’irretrattabilità dell’azione penale, né essere sospeso, senza violare il diritto dell’imputato ad una sollecita
definizione del processo; b) degli artt. 25/1 e 112 Cost., perché la decisione discrezionale di estradizione
sottrarrebbe il processo al giudice interno precostituito e porterebbe all’abbandono del processo pendente
in Italia ed alla rimessione della formazione del giudicato alla giurisdizione dello Stato richiedente, sfo-
ciando, di conseguenza, nella ritrattazione dell’azione penale esercitata nel nostro Stato.
(8) Con tale legge si è data ratifica ed esecuzione alla Convenzione europea dell’estradizione, fir-
mata a Parigi il 13 dicembre 1957.
(9) Distingue, la Corte di cassazione, nell’ordinanza di rimessione, tra il ne bis in idem estradizio-
nale, con cui ci si riferisce al divieto, per lo Stato richiesto, di estradare un individuo una volta che l’auto-
rità giudiziaria nazionale abbia emanato nei suoi confronti una sentenza passata in giudicato sugli stessi
fatti per i quali viene richiesto; ed il ne bis in idem internazionale, con cui si intende il divieto, per lo
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norma interna e norma internazionale pattizia. L’art. 705/1 c.p.p., che determina
le condizioni alle quali la Corte d’appello pronuncia sentenza favorevole all’estra-
dizione, in esordio delimita il proprio ambito applicativo ai casi in cui ‘‘non esista
Convenzione o questa non disponga diversamente’’, ponendosi come norma ‘‘ce-
devole’’ rispetto a norme internazionali incompatibili. Non potrebbe, tuttavia, rite-
nersi — sostiene la Corte costituzionale — che ci si trovi in presenza di una Con-
venzione che dispone diversamente per il solo fatto della mancata coincidenza di
formulazione tra la norma pattizia e quella del codice. Mentre questa è diretta,
come detto, a disciplinare le condizioni alle quali, secondo l’ordinamento interno,
l’organo giudicante deve pronunciare sentenza favorevole alla consegna, tra cui,
per quel che qui interessa, l’assenza di un procedimento penale per lo stesso fatto
nei confronti dell’estradando; quella si fa carico di fissare le ipotesi in cui l’obbligo
internazionale di estradare viene meno, pur senza essere sostituito da un divieto.
In conclusione ed in sintesi, alla norma internazionale che attribuisce una fa-
coltà corrisponde una situazione di assenza di obbligo dello Stato richiesto nei
confronti dello Stato richiedente e, pertanto, nulla osta a che trovi piena applica-
zione la norma interna che richiede, ai fini dell’estradizione, l’assenza di una liti-
spendenza per lo stesso fatto. Una norma pattizia in contrasto con quella interna
sarebbe quella che sancisse l’obbligo per lo Stato richiesto di concedere l’estradi-
zione pur in pendenza di un procedimento penale e non quella che assegna un po-
tere discrezionale al Ministro. Quindi, non essendovi una norma convenzionale
contrastante, trova applicazione l’art. 705/1 c.p.p., che alla facoltà di rifiutare l’e-
stradizione sostituisce il divieto di concederla.
Ciò chiarito, a seguito dell’applicazione dei principi della doppia incrimina-
zione, da un lato, e del ne bis in idem estradizionale, dall’altro, la Corte d’appello
provvede ad un vistoso ridimensionamento della domanda di estradizione, tanto
da ridursi, al cospetto della Suprema Corte, alla sola ipotesi, contestata al capo
primo, della conspiracy finalizzata alla commissione di frodi per mezzo del tele-
grafo.
2. La struttura del reato di conspiracy. — Nei sistemi di common law il
reato di conspiracy viene definito come l’accordo tra due o più persone volto alla
commissione di un fatto genericamente illecito oppure di un fatto lecito per il tra-
mite di mezzi illeciti (10). Come è agevole constatare, sul piano oggettivo, ai fini
della punibilità dei conspirators, è richiesta soltanto la prova dell’intesa raggiunta
Stato richiesto, di sottoporre un individuo a procedimento penale, qualora sia già stato giudicato per gli
stessi fatti con sentenza definitiva in uno Stato estero.
Vale la pena osservare, inoltre, come non sia mancato in dottrina (cfr. E. AMODIO-O. DOMINIONI,
L’estradizione ed il problema del ne bis in idem, in Riv. dir. matr., 1968, p. 362; O. DOMINIONI, La com-
pétence en matière des délits contre la navigation aérienne, in Riv. intern. dr. pen., 1976, p. 153) chi ri-
tiene che il principio del ne bis in idem estradizionale non esprima lo stesso contenuto che gli è normal-
mente attribuito nel quadro dei rapporti tra procedimenti penali all’interno del medesimo Stato. Mentre
secondo la sua accezione usuale il ne bis in idem impedisce l’esercizio dell’azione penale sul fatto su cui
sia già intervenuta sentenza irrevocabile, in campo estradizionale la mancata concessione dell’estradizione
per effetto del giudicato non sarebbe comunque preclusiva all’instaurabilità, nello Stato richiedente, di un
procedimento penale su quel medesimo fatto oggetto del diniego. Diversamente G.A. DE FRANCESCO,
Estradizione, in NN. Dig it., App. III, Torino, 1982, p. 570, che critica la tesi ora esposta perché accorpa,
senza distinguere, le due diverse prospettive: a) della valutazione, su un piano puramente obiettivo, del
rapporto tra la vicenda processuale svoltasi nei due Stati, che porta ad escludere un’assimilazione tra i
due principi, non ravvisandosi un divieto di procedibilità a carico dello Stato richiedente; b) della inter-
pretazione del significato che il diniego di estradizione assume nello Stato detentore, che, bloccando di
fatto l’esecuzione dell’eventuale pronuncia giurisdizionale intervenuta nello Stato richiedente, riconosce
l’esistenza di una vera e propria ‘‘preclusione ad una moltiplicazione di pretese punitive sul medesimo fat-
to’’.
(10) Così, per tutti, R. PERKINS, On Criminal Law, New York, 1982, p. 681: ‘‘agreement between
two or more persons to do an unlawful act, or a lawful act by unlawful means’’.
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da almeno due soggetti (agreement), avente ad oggetto un fine comune, senza che,
tra l’altro, necessiti che le parti comunichino il loro consenso seguendo particolari
modalità di forma o che siano tutte imputabili o punibili (11). D’altro canto, tutta-
via, se si ha cura di precisare che determinati requisiti non debbono ricorrere af-
finché l’accordo possa ritenersi sussistente, non si mostra altrettanta premura nel-
l’individuare quali siano gli elementi in assenza dei quali l’incontro delle volontà
tra due soggetti assume valore da un punto di vista meramente naturalistico, ma
non anche da un punto di vista giuridico (12).
Circa l’oggetto dell’accordo, già dalla suddetta definizione del reato di conspi-
racy, può ricavarsi che esso può consistere tanto in un fatto illecito quanto in un
fatto lecito, sia pur perseguito facendo ricorso a mezzi illeciti. Il che rende la fatti-
specie in esame non solo del tutto indeterminata e perciò più facilmente ‘‘gestibi-
le’’ sotto il profilo processuale, non dovendo il prosecutor prodursi nell’acquisi-
zione di elementi idonei a provare un fatto materiale unitario ed omogeneo, ma
anche funzionale a colmare, quale fattispecie aperta, quei vuoti di tutela che né il
legislatore né la magistratura avevano avuto cura di ripianare. Anche se non è
mancato chi ha rilevato la palese discrasia sussistente tra la regola enunciata e la
regola applicata, tra il piano degli enunciati e quello operazionale, nel senso che
dall’analisi della applicazione giurisprudenziale risulta che l’oggetto dell’accordo
in concreto punito, salvo rare eccezioni (13), è sempre coinciso con un fatto già di
per sé costituente reato, in forza del common law o di un preesistente statute (14).
Quanto poi all’elemento soggettivo, va distinta la coscienza e volontà di ac-
cordarsi (intent to agree), che rappresenta la componente psichica (la c.d. mens
rea) dell’actus reus costituito dall’agreement, dalla coscienza e volontà di realiz-
zare l’illecito programmato (intent to archieve the unlawful purpose), che rende,
secondo l’opinione dominante, specifico il dolo del reato di conspiracy, in quanto
la finalità di portare a compimento il reato-scopo sta oltre il fatto materiale tipico
descritto dalla fattispecie (15). La circostanza, poi, che il soggetto conspirator
debba essere animato dal proposito di realizzare una particolare condotta illecita
induce ad escludere la configurabilità di detto reato rispetto ad illeciti soltanto col-
posi o a responsabilità oggettiva.
Quanto meno sotto il profilo della law in the books (16), la conspiracy costi-
(11) Circa il problema dell’unicità o pluralità di conspiracies, si ravvisa un solo grande agreement
sia in presenza di una ‘‘wheel’’ che di una ‘‘chain’’ conspiracy. Con la prima ci si riferisce a quella forma
di intesa in cui ciascuno dei partecipanti ha preso contatto con uno solo degli altri membri, il quale vice-
versa comunica con tutti; con la seconda quella species di accordo, ove ognuno ha rapporti con un solo
partecipe, il quale a sua volta si confronta con uno diverso, seguendo le maglie di una catena in cui manca
l’elemento collante comune. Cfr., sul punto, E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta
legalità nell’analisi comparata, Padova, 1993, p. 74.
(12) In questo senso, M. PAPA, Conspiracy, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 102, secondo il
quale ‘‘il significato del termine agreement si presenta, spesso, come una sorta di ‘buco nero’, i cui confini
risultano delimitati, sul piano concettuale, più che altro in negativo’’, essendo in positivo ‘‘disponibili, per
lo più, soltanto criteri di valutazione a posteriori, basati sulla casistica giurisprudenziale’’.
(13) In particolare, si fa riferimento alla conspiracy to defraud, tramite cui si è potuto perseguire
una serie di condotte fraudolente non contemplate da altre norme incriminatrici (segnatamente l’usura), o
comportamenti che, pur non cagionando perdite di denaro o di beni alla pubblica amministrazione, ne
pregiudicano comunque l’efficienza ed il buon funzionamento. Si veda in materia, A. GOLDSTEIN, Conspi-
racy to defraud the United States, in Yale Law Journal, 1959, p. 425.
(14) Cfr., per tutti, nel sistema inglese, G. HARRISON, Conspiracy as a Crime and as a Tort in
English Law, London, 1924, p. 22 e ss. e 77 e ss.
(15) In questi termini, M. PAPA, Conspiracy, cit., p. 106.
(16) Circa i divergenti risultati cui conducono, sotto molteplici profili, le due diverse e talora in-
conciliabili dimensioni in books, ovvero relativa alla previsione normativa astratta, ed in action, relativa
invece alla concreta applicazione giudiziaria, si veda l’originale contributo di A. CADOPPI, Il valore del pre-
cedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, passim. In
merito allo specifico argomento della inadeguatezza, nella prospettiva della concreta applicazione delle re-
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tuisce, innanzitutto, uno strumento di anticipazione della soglia della punibilità ri-
spetto al momento in cui si intendono realizzati gli estremi del delitto tentato: l’e-
lemento dell’accordo tra due o più soggetti permetterebbe di derogare alla richie-
sta di una condotta prossima alla realizzazione del reato-scopo ed a quella si sosti-
tuirebbe. Senza che, tra l’altro, suddetta anticipazione venga meno qualora al re-
quisito dell’accordo tra le parti si aggiunga quello dell’overt act, ovvero di un atto
posto in essere in esecuzione dell’accordo. Infatti l’overt act connota qualsiasi
atto, anche avente natura meramente preparatoria, dall’accertamento del quale,
tuttavia, sia possibile inferire l’esistenza di un concerto volto alla commissione di
un determinato fatto di reato. Non consterebbe, perciò, tanto in un requisito a ca-
rattere sostanziale, quanto in una richiesta di tipo processuale, essenziale ai fini
della costituzione di quella prova indiziaria necessaria alla dimostrazione della
sussistenza dell’intento di porre in essere quanto progettato. Diversamente nelle
ipotesi in cui si fa riferimento al c.d. substantial step (‘‘passo sostanziale’’), che,
introdotto dai compilatori del Model Penal Code quale criterio volto a stabilire l’i-
nizio dell’attività punibile a titolo di tentativo, ma pur sempre ricomprensivo di
condotte marcatamente prodromiche rispetto al momento consumativo (17), fini-
sce per risultare formula vuota, che le Corti hanno progressivamente provveduto a
riempire, facendo ricorso alle precedenti regole di common law, come testimo-
niato, tra le altre, dalla nota sentenza United States v. Manley (18).
In secondo luogo, la fattispecie in esame si presenta come un’efficace alterna-
tiva rispetto all’istituto del concorso di persone, perché consente, in virtù della
c.d. Pinkerton rule o doctrine (19) e quanto meno a livello di enunciazione della
regola, di addossare a ciascun cospiratore, per il solo fatto della partecipazione
alla conspiracy, la responsabilità penale, a titolo di concorso, per ogni fatto crimi-
noso realizzato, in esecuzione e durante la permanenza del programma concor-
dato, da ciascun altro cospiratore, con evidenti risvolti di agevolazione proces-
suale, stante la difficoltà del prosecutor di conseguire la prova dell’effettiva parte-
cipazione dei membri del sodalizio ai singoli episodi contestati. La ragione della
previsione di una sorta di responsabilità di posizione a carico dei conspirators
viene solitamente ravvisata nella rigorosa applicazione del principio di derivazione
civilistica, secondo cui chiunque entri a far parte di un gruppo di persone costitui-
tosi in società, ‘‘agisce, per così dire, in nome e per conto degli altri soci, realiz-
gole, dell’inquadramento dogmatico della conspiracy tra gli ‘‘anticipatory crimes’’ si rinvia all’accurato
studio di E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, cit., p. 98 e ss.
(17) Tra queste, a titolo esemplificativo, basti ricordare il mero appostamento, la perlustrazione
del luogo del reato o il pedinamento della vittima del programmato reato.
(18) United States v. Manley 632 F. 2d 987 (1980), ove si definisce il substantial step come
‘‘qualcosa di più di un mero atto preparatorio, anche se qualcosa di meno rispetto all’ultimo atto necessa-
rio affinché si giunga alla consumazione del reato’’, aggiungendo che ciò consente a chi è deputato al suo
accertamento di attribuire rilievo non solo a quanto ancora necessario ai fini della lesione del bene tute-
lato, ma anche a quello che sin lì ed a quel fine è già stato realizzato. ‘‘A substantial step must be some-
thing more than mere preparation, yet may be less than the last act necessary before the actual commis-
sion of the substantive crime, and thus the finder of fact may give weight to that which has already been
done as well as that which remains to be accomplished before commission of substantive crime’’.
(19) In United States v. Pinkerton, l’imputato era stato accusato di conspiracy per evadere le im-
poste, nonché di alcune singole evasioni fiscali, materialmente commesse dal fratello mentre il primo si
trovava in carcere. La rilevanza della regola che emerge dalla risoluzione del caso si deve al fatto che, nel
corso del processo, risultò ampiamente dimostrata la corresponsabilità dell’imputato a ciascun reato-
scopo contestatogli sotto il profilo oggettivo, del contributo causale da costui prestato, e sotto il profilo
soggettivo, della sussistenza del dolo, ma nonostante questo, la Corte Suprema, chiamata a decidere sul
ricorso presentato dal Pinkerton, affermò che, ai fini del giudizio di condanna, sarebbe stato sufficiente
provare l’esistenza della conspiracy e della sua strumentalità rispetto ai singoli fatti di reato oggetto del
programma criminoso. Aggiungendo, per la verità, l’ulteriore condizione, sebbene altrove non ribadita,
della ragionevole prevedibilità, al momento dell’accordo, della realizzazione dei reati-scopo quale conse-
guenza dell’accordo (‘‘reasonably forseeble at the moment of the agreement’’).
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zando in capo a questi gli effetti giuridici degli atti da lui commessi’’ (20). Non al-
trettanto si avrebbe applicando l’ordinaria disciplina del concorso di persone, pre-
vista dallo U.S. code alla sezione II del Titolo 18, che richiede, ai fini della punibi-
lità del concorrente, un contributo rilevante alla realizzazione del reato, descritto
facendo riferimento a condotte, quali l’aiutare e l’incoraggiare (‘‘aiding and abet-
ting’’), l’incitare (‘‘inciting’’), il consigliare (‘‘counceling’’), l’indurre (‘‘inducin-
g’’), che, comunque le si intendano, non paiono in alcun modo assimilabili all’a-
greement, elemento costitutivo della conspiracy. Come già detto, la responsabilità
del conspirator per il reato-scopo altro non è che una forma di responsabilità ‘‘ex
lege’’, che prescinde da qualsiasi forma di partecipazione diretta alla commissione
o anche alla sola organizzazione di esso, limitandosi la prova all’accertamento
della sussistenza di un’intesa plurisoggettiva diretta al perseguimento di un deter-
minato obiettivo. Il che significa, in altri termini, che si ammette la punibilità di
un tipo di ‘‘tentativo di concorso’’. E pure sotto il profilo soggettivo non pare che
la ragionevole prevedibilità del reato-scopo, richiesta dalla Pinkerton rule affinché
possa ritenersi che tra la condotta di conspiracy e l’evento intercorra non soltanto
un rapporto di causalità ma anche una concreta rimproverabilità dell’imputato —
che, tra l’altro, richiama alla mente criteri di accertamento più consoni alla colpa
che al dolo — sia equiparabile al dolo di concorso, per la cui sussistenza necessita,
all’evidenza, qualcosa di ben più penetrante della mera possibilità di prevedere
certe conseguenze come effetto di specifici comportamenti (21).
3. Il fondamento del principio della previsione bilaterale del fatto. — Deli-
neate, sia pur sommariamente, le linee portanti del reato di conspiracy, occorre
ora stabilire il fondamento e la portata applicativa del principio della previsione
bilaterale del fatto, per poi esaminare, alla luce di essi, la validità della soluzione
prospettata dalla Corte di cassazione sui rapporti intercorrenti tra conspiracy, così
come prevista dalla legge statunitense, e reato associativo, così come previsto dal
sistema italiano. Prescindendo, per i limiti del presente lavoro, dall’analisi del con-
creto atteggiarsi di esso nelle singole problematiche ipotesi di divergenza del no-
men iuris del reato o della pena e della sussistenza, in uno degli ordinamenti coin-
volti, di una causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza o della puni-
bilità o di estinzione di essa, nonché dell’assenza di una condizione di procedibi-
lità o di punibilità.
Il requisito della duplice previsione come reato, indicato altresì con i termini
‘‘doppia incriminazione’’ e ‘‘punibilità bilaterale’’, rappresenta, come è noto, uno
dei principi-cardine in materia di estradizione (22). Tuttavia, se è agevole regi-
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1973, passim; inoltre, M.R. MARCHETTI, Estradizione, in Dig disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 400; R. QUA-
DRI, Estradizione, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 25; V. DEL TUFO, Estradizione (dir. intern.), in Enc.
giur., XIII, Roma, 1989, 3; G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale. Estradizione - Roga-
torie - Effetti delle sentenze penali straniere, Milano, 1995, p. 53.
(23) Per un’elencazione delle Convenzioni internazionali che accolgono detto principio si veda
G.A. DE FRANCESCO, Il concetto di ‘‘fatto’’ nella previsione bilaterale e nel principio del ‘‘ne bis in idem’’
in materia di estradizione, in Ind. pen., 1981, p. 624, nota 3.
(24) In questo senso, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 147-148, secondo il quale, in difetto di
rilevanza penale del fatto nello Stato reclamante, l’estradizione eventualmente concessa sarebbe inutiliter
data.
(25) In questi termini, cfr. G. PECORELLA, I presupposti dell’estradizione. Aspetti sostanziali e pro-
cessuali, in Riv. dir. matr., 1968, p. 354, secondo il quale il principio di reciprocità, sul piano logico, in-
dica ‘‘una parità, o meglio, un’assoluta intercambiabilità tra situazioni facenti capo a soggetti diversi’’.
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(26) Cfr., P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 35 e ss., il quale si spinge oltre nell’indagine, po-
nendosi l’ulteriore quesito se la riconosciuta autonomia tra previsione bilaterale del fatto e reciprocità
trovi conferma anche nelle ipotesi di estradizioni extraconvenzionali. In assenza di un’esplicita disposi-
zione che richieda la garanzia di reciprocità indipendentemente dalla previsione bilaterale del fatto, la ri-
sposta al quesito dipende — ad avviso di detto autore — dalla posizione che si intende assumere in ordine
al pregiudiziale problema della portata applicativa dell’art. 13/2 c.p. Se, come alcuni sostengono, esso
deve essere interpretato restrittivamente, con esclusivo riferimento all’estradizione passiva, la reciprocità
verrebbe garantita soltanto da una spontanea adesione da parte dello Stato richiedente al criterio seguito
dallo Stato richiesto di estradare per fatti previsti come reato da entrambi gli ordinamenti, non essendovi
alcun vincolo di natura convenzionale che lo imponga.
Se, viceversa, si ritiene di estendere la sfera di operatività dell’art. 13/2 c.p. anche all’estradizione
attiva, difficilmente potrà verificarsi l’eventualità di una consegna, da una parte e dall’altra, per fatti non
preveduti come reato da entrambe le legislazioni, stante l’obbligo che lo Stato richiedente si dà di non
presentare domande di estradizione aventi ad oggetto fatti che alla stregua del suo ordinamento non inte-
grino gli estremi di una fattispecie criminosa. Senza che, peraltro, venga meno la possibilità per la contro-
parte — pur in presenza di una domanda rispettosa del principio della doppia incriminazione — di assu-
mere un atteggiamento di diniego, in quanto giuridicamente incoercibile per l’assenza di un obbligo di de-
rivazione pattizia. Nello stesso senso, v. D. CERRI, Previsione bilaterale del fatto in materia di estradi-
zione: orientamenti della giurisprudenza italiana, in Cass. pen., 1983, p. 199. Diversamente, pur condivi-
dendone la conclusione, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 53 e ss., secondo
il quale, affinché operi, la reciprocità presuppone un’identica configurabilità del fatto come reato in en-
trambe le legislazioni, non che il fatto sia previsto come reato, che è invece quanto necessario ai fini del
rispetto del principio della previsione bilaterale del fatto.
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(27) Ancora, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 151, che annovera tra gli interessi, potenzial-
mente suscettibili di trovare attuazione anche estradando un soggetto per un fatto non punibile nello
Stato al quale la domanda è rivolta, quello ‘‘di liberarsi di un ospite ‘scomodo’, di evitare complicazioni
internazionali, di soddisfare la richiesta di un paese alleato’’.
(28) Per una opportuna delimitazione dei confini delle due nozioni, v., per tutti, F. MANTOVANI,
Diritto penale, cit., p. 715.
(29) In questo senso, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 157.
(30) È di questo avviso, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 54.
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(31) Quanto ai rapporti tra Stati membri dell’Unione europea si veda il testo della decisione qua-
dro del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (pubbl. in G.U.C.E. 18 luglio 2002, n. L-190)
istitutiva del mandato di arresto europeo, con relativo commento di L. SALAZAR, Il mandato di arresto eu-
ropeo: un primo passo verso il mutuo riconoscimento delle decisioni penali, in Dir. pen. proc., 2002, p.
1044 e ss., secondo il quale il mandato di arresto europeo, se va considerato sul piano giuridico come
‘‘parte del programma di misure per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni
giudiziarie’’, su quello politico ‘‘esso partecipa allo sforzo di far coincidere l’apparenza dei rapporti tra le
autorità giudiziarie degli Stati membri con la realtà dell’appartenenza di questi ultimi ad una Unione fon-
data sui ‘principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello
Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri’ (art. 6, § 1, Trattato UE), differenziando,
dunque, i rapporti estradizionali esistenti tra di essi rispetto a quelli in vigore con i paesi terzi’’.
(32) In questo senso, I.A. SHEARER, Extradition in International Law, Manchester, 1971, p. 137.
(33) Così, espressamente, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 53; E.
SELVAGGI-G. DE DONATO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi-E.
Lupo, Milano, 2000, I, p. 328; M.C. BASSIOUNI, International Extradition in American Practice and World
public Order, in BASSIOUNI-NANDA, A Treatise on International Criminal Law, II, Jurisdiction and Coope-
ration, Springfield, 1973, p. 359. Un accenno si rinviene anche in T. TREVES, La giurisdizione nel diritto
penale internazionale, Padova, 1973, p. 19, n. 40, ove si rileva che ‘‘nell’art. 13 c.p. la qualifica di reato
alla stregua dell’ordinamento straniero è presupposta (altrimenti lo Stato straniero non chiederebbe l’e-
stradizione), mentre la funzione di garanzia rivestita dal principio della doppia incriminazione è basata
sull’incriminazione da parte del diritto italiano’’; Del medesimo avviso, pur in assenza di un esplicito rife-
rimento al principio di legalità, sembrano, R. QUADRI, Estradizione, cit., p. 25, il quale afferma che come
‘‘l’esigenza alla quale risponde tale principio, esigenza il cui peso appare decisivo quali che siano gli in-
convenienti e le difficoltà cui l’adozione del principio stesso dà luogo, è evidente: la deroga all’asilo o
quanto meno alla minore gravità delle semplici misure di espulsione, esige una elementare garanzia che è
data dalla punibilità (in astratto o in concreto) del fatto nell’ordinamento dello Stato richiesto’’; M. RO-
MANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, p. 146, secondo cui la ratio del prin-
cipio de quo consiste ‘‘una ricerca di garanzia per il soggetto da estradare’’.
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nostro sistema penale tra l’art. 13/2 c.p., che, come è noto, subordina la conces-
sione dell’estradizione alla previsione del fatto come reato anche secondo l’ordina-
mento dello Stato richiesto e gli artt. 1 c.p. e 25/2 Cost., ove si stabilisce che la
materia penale sia regolata dal principio del nullum crimen nulla poena sine lege.
Inspiegabile, nella sua contraddittorietà, apparirebbe la scelta del legislatore che,
da un lato, mostri cura nel disciplinare la materia penale avendo particolare ri-
guardo alle esigenze di tutela del diritto della persona a non subire limitazioni di
libertà che non fossero riconducibili a violazione di norme preesistenti al fatto, dal
contenuto precettivo determinato e, dall’altro, ne ammetta la consegna ad altro
Stato, pur in assenza di una disposizione dell’ordinamento interno che giustifichi
una collaborazione internazionale alla protezione di interessi penalmente rilevanti.
La valutazione sull’estradabilità di un individuo, se non vuole tradursi in inutile e
sterile passaggio di carte, deve necessariamente fondarsi sul rispetto dei valori po-
sti a fondamento dello Stato chiamato a decidere (34). La mancata cooperazione
in presenza di un fatto, non riconducibile ad alcuna fattispecie incriminatrice san-
zionata dallo Stato di rifugio dell’estradando, andrebbe spiegata, secondo tale tesi,
non come riaffermazione della propria sovranità nazionale o come carenza di inte-
resse dovuta ad una prognosi favorevole di non pericolosità del soggetto ospitato,
bensì come estrema ed universale applicazione del principio di legalità in ambito
penalistico.
Invero non è mancato, chi, pur muovendo dal riconoscimento di una conti-
guità tra il postulato della duplice previsione del fatto come reato e le esigenze di
garanzia salvaguardate dal principio di legalità, limita la portata applicativa alle
atipiche ipotesi in cui l’estradando rivesta la qualifica giuridico-formale di citta-
dino dello Stato richiesto o comunque intrattenga con questo uno stabile collega-
mento di diversa natura (residenza, domicilio, dimora ecc). Non invocabile sa-
rebbe, viceversa, il canone della legalità nella situazione-tipo dell’estradando citta-
dino o residente nello Stato richiedente, che, dopo aver commesso un reato sul
territorio di quest’ultimo, ripari in altro Stato. Nella situazione descritta, la fun-
zione garantista del principio di legalità non sarebbe in discussione, ‘‘in quanto
l’estradando era perfettamente in grado di modellare la propria condotta adeguan-
dosi agli schemi di comportamento tracciati dal legislatore dello stato di cittadi-
nanza (e/o di residenza) dell’estradando stesso’’ (35).
A nostro avviso, a tacer d’altro, sarebbe illogico valutare la fondatezza del ri-
chiamo al principio di legalità alla luce di un criterio evanescente ed estemporaneo
quale quello della nazionalità o residenza dell’estradando. La delibazione circa l’e-
stradabilità di un soggetto che si sia reso autore di un fatto offensivo di beni giuri-
dicamente tutelati ha come riferimento il sistema di norme che lo Stato richiesto
ha inteso darsi, non certo il grado di ‘‘prossimità spaziale’’ dell’estradando — de-
(34) In questa direzione pare essersi orientata la stessa Corte cost. (sent., 15 aprile 1987, n. 128,
in Giur. cost., 1987, I, p. 898 e ss.) che, nel dichiarare l’illegittimità, per violazione degli artt. 27/1-3 e 31
Cost. della l. 9 ottobre 1974, n. 634 di esecuzione del Trattato di estradizione Italia e USA 18 gennaio
1973, nella parte in cui si consentiva l’estradizione dell’imputato ultraquattordicenne ed infradiciottenne
anche nei casi in cui l’ordinamento dello Stato richiedente non li considerava minori, ha riaffermato il
principio secondo cui l’ordinamento italiano non può prestare la propria collaborazione ad organi di un
altro Stato, se ciò comporta un contrasto con i principi stabiliti dalla nostra Costituzione; Corte cost., 21
giugno 1979, n. 54, in Foro it., 1979, I, c. 1943, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale, per viola-
zione degli artt. 3/1 e 27/4 Cost., del r.d. 30 giungno 1870, n. 5726 sull’estradizione tra Italia e Francia,
nella parte in cui consente l’estradizione per i reati sanzionati con la pena edittale della morte nell’ordina-
mento dello Stato richiedente, afferma, tra l’altro, che ‘‘ai fini di tale deliberazione (da parte della sezione
istruttoria presso la competente Corte d’appello) occorre accertare, in particolar modo, la compatibilita
dell’estradizione con i principi cui si informano, secondo Costituzione, reato e pena nell’ordinamento in-
terno’’.
(35) In questi termini, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 155, che conclude ritenendo che il ri-
chiamo al principio di legalità abbia ‘‘un valore episodico e sostanzialmente mistificatorio’’.
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(36) Il testo dell’art. II, § 2, del Trattato Italia-USA è il seguente: ‘‘Un reato dà luogo all’estradi-
zione anche se consiste nel tentativo di commettere o nel concorso nella commissione di un reato previsto
al § 1 del presente articolo. Ogni forma di associazione per commettere reati di cui al § 1 del presente ar-
ticolo, così come previsto dalle leggi italiane, e la ‘conspiracy’ per commettere un reato di cui al § 1 del
presente articolo, così come prevista dalle leggi statunitensi, è altresì considerato reato che dà luogo all’e-
stradizione’’.
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fattispecie lato sensu associative: in questo caso non ci si potrebbe esimere dall’ac-
certamento se esse presentino o meno caratteri fondamentali comuni (37).
La debolezza di questa interpretazione emerge, a nostro avviso, da un triplice
ordine di considerazioni. Innanzitutto, non si vede come la funzione di una norma
sia quella negativa di ‘‘superare il raffronto diretto tra l’associazione per delin-
quere e la conspiracy, che sono in effetti reati diversi’’ (38), anziché quella posi-
tiva di subordinare la concessione dell’estradizione alla ricorrenza di determinati
requisiti. Non appare, cioè, concepibile l’esistenza di una norma, che abbia come
obiettivo quello di esonerare l’interprete dall’improbo compito di mettere in rela-
zione due fattispecie, la cui non coincidente struttura non consentirebbe di perce-
pire con immediatezza se ed a quali condizioni l’una possa ritenersi punibile anche
alla stregua dell’ordinamento che contiene l’altra. In secondo luogo, il principio
della previsione bilaterale del fatto, una volta fatto oggetto di specifico riconosci-
mento dal legislatore pattizio, non potrebbe trovare applicazione, per così dire, ‘‘a
corrente alternata’’, dovendosi riferire a qualsiasi fattispecie autonoma di reato, a
prescindere dal rapporto di mezzo a fine che intercorra tra l’una e l’altra. Se la
conseguenza della consegna di un soggetto affinché venga giudicato nel luogo di
commissione del fatto è, in caso di condanna, l’irrogazione di una sanzione penale,
si impone la verifica circa la sua corrispondenza con una fattispecie di reato previ-
sta nell’ordinamento dello Stato richiesto, a meno che a tale principio non si dero-
ghi espressamente. Non sembra concepibile, in definitiva, che esso operi diretta-
mente per un reato ed indirettamente per un altro, solo perché a questo avvinto da
un nesso teleologico e che, pertanto, adempia alla funzione, che gli è propria, a re-
gime ‘‘ridotto’’ o ‘‘pieno’’, a seconda dell’oggetto della domanda di estradizione.
Maggiori coerenza e rigore logico avrebbero contrassegnato un’interpretazione
che fosse pervenuta alle estreme conseguenze di ritenere codificata una scelta di
politica-criminale volta a sancire, per esigenze di celerità nella repressione di fatti
espressivi di un particolare disvalore, un’equiparazione ex Tractatu delle fattispe-
cie dell’associazione per delinquere e della conspiracy, che impedisse all’interprete
qualsiasi concreta operazione di raffronto, a prescindere dalla estradabilità dei
reati oggetto del programma criminoso. In terzo luogo, non facendo la sentenza
cenno al fondamento del principio in esame, non è neppure in grado di indicare le
ragioni della sua derogabilità, nonché il modo in cui ogni eventuale eccezione
debba essere enunciata.
La ricostruzione del significato del § 2 dell’art. II del Trattato può essere ef-
fettuata seguendo la duplice direttrice: 1) dell’indagine storica, che consenta di far
luce sul momento e sulle ragioni dell’introduzione di suddetta disposizione; 2) del
fondamento del principio della previsione bilaterale del fatto, onde fare chiarezza
sull’ammissibilità o meno di deroghe o eccezioni.
1) Da un punto di vista storico, vale la pena di ripercorrere, sia pur per
sommi capi, il processo che ha condotto alla nuova formulazione dell’art. II, at-
tualmente in vigore (39). Attuandosi un auspicio invocato da più parti in più cir-
costanze, con il nuovo Trattato si è passati da un sistema di tipo qualitativo o, se-
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condo altri, misto, che si fondava sulla combinazione tra il criterio enumerativo o
della ‘‘lista’’ dei reati e quello dell’indicazione di un minimo edittale di pena, ad
un sistema quantitativo o eliminativo, che fa leva esclusivamente sulla misura
della pena per individuare le fattispecie passibili di estradizione (40). L’elenca-
zione nominativa dei reati per i quali potesse farsi luogo all’estradizione se, da un
lato, aveva come effetto quello di relegare il principio della previsione bilaterale
del fatto ad un ruolo marginale, data l’adozione del criterio della lista (41), dall’al-
tro acuiva la difficoltà di accertamento, nel corso dell’iter estradizionale, della cor-
rispondenza del titolo e della natura di reati collocati in ordinamenti diversi. Ciò
indusse le parti contraenti a precisare, in una disposizione ad hoc, le condizioni in
presenza delle quali l’Italia, nella veste di Stato richiesto, avrebbe acconsentito al-
l’estradizione per il reato di associazione per delinquere, imponendo che la do-
manda di estradizione fornisse ‘‘anche gli elementi di conspiracy’’, onde superare
l’ostacolo rappresentato dall’astratta e irriducibile divergenza della loro struttura.
A riprova del fatto che, ben lungi dall’abdicare al principio della doppia incrimina-
zione, se ne riaffermava piuttosto l’irrinunciabilità, preoccupandosi, altresì, di in-
dicarne i presupposti di una concreta operatività in quelle ipotesi di più marcata
disomogeneità tra le fattispecie contemplate nelle legislazioni degli Stati contraenti.
Con l’adozione, nel nuovo Trattato, del sistema quantitativo, sono andati ten-
denzialmente ad attenuarsi molti degli inconvenienti che emersero durante l’appli-
cazione del precedente sotto il profilo dell’effettiva osservanza del principio della
doppia incriminazione. Il che convinse il legislatore pattizio a riprodurre il § 2
dell’art. II, sia pur con qualche leggera variante nel senso della semplificazione e
dell’adeguamento all’evoluzione delle nuove forme associative. Semplificazione,
perché non si ritenne di dover riproporre la medesima formula ‘‘anche gli elementi
della conspiracy’’, limitandosi a riconoscere che si trattava di fattispecie estrada-
bili, sempre comunque alla luce del presupposto, allora espressamente indicato e
successivamente omesso perché considerato inutile, della effettiva coincidenza tra
i loro elementi costitutivi. Adeguamento, perché, soltanto l’anno precedente alla
sottoscrizione del nuovo Trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti, si giunse
all’approvazione, in Italia, della l. n. 646 del 1982 (42), volta a reprimere quella
particolare forma di associazione per delinquere, che è l’associazione di stampo
mafioso (43).
Tenendo, altresì, presente che la norma convenzionale si apre estendendo l’e-
stradizione a fatti costitutivi di tentativo di reato e di concorso criminoso, così
come avveniva nell’analoga disposizione del precedente Trattato, l’art. II, § 2 su-
scita, nel suo complesso, un’impressione di superfluità e, fatta eccezione per l’e-
stensione dell’estradizione a forme associative diverse da quelle tradizionali, non
sembra perseguire altro scopo se non quello di ‘‘evitare equivoci interessati, deri-
(40) Sul punto, cfr., G. CATELANI-D. STRIANI, L’estradizione, Appendice di aggiornamento, Mi-
lano, 1987, p. 6.
(41) In questo senso, P. PISA, Commento all’art. II del Trattato di estradizione tra Italia e USA, in
Leg. pen., 1984, pp. 408-410, che riferisce come il criterio della lista sia stato sempre fatto oggetto di pe-
netranti rilievi critici sia per la sua incompletezza e rigidità, poiché, per quanto ampio e dettagliato po-
tesse essere l’elenco dei reati, la collaborazione rimaneva circoscritta alla lotta contro il crimine, senza, tra
l’altro, consentire quell’adattamento automatico di fronte all’introduzione di nuove fattispecie, che è in-
vece garantito dal criterio eliminativo; sia per la sua ambiguità ed indeterminatezza, in quanto, fondan-
dosi sulla menzione delle fattispecie criminose con un dato nomen iuris, offriva spazio ‘‘ad argomenta-
zioni difensive più o meno capziose da parte dell’estradando’’, laddove le figure criminose non venissero
intese nello stesso significato da entrambi gli ordinamenti.
(42) L’art. 1 della l. 13 settembre 1982, n. 646 ha fatto seguire all’art. 416 c.p., l’art. 416-bis c.p.,
che punisce, come è noto, chiunque faccia parte di un’associazione di tipo mafioso.
(43) Tanto è vero che il § 2 dell’art. II non fa più riferimento all’associazione per delinquere, ma
ad ‘‘ogni forma di associazione per commettere reati di cui al § 1 del presente articolo’’ (il corsivo è no-
stro).
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vanti dalla mancata riproduzione nel nuovo Trattato della clausola prevista dal
precedente’’ (44).
2) Dal punto di vista del fondamento del principio della previsione bilate-
rale del fatto, se, come sembra, esso debba ravvisarsi, come detto, nel soddisfaci-
mento di solidaristiche esigenze di difesa comune, che induce gli Stati a collabo-
rare in concorrenza di fatti offensivi di interessi tutelati da entrambi gli ordina-
menti mediante la previsione di specifiche fattispecie incriminatrici, non si vede
come se ne possa prescindere, solo perché il reato oggetto della domanda di estra-
dizione è, di regola, il presupposto per la commissione di altri ad esso collegati da
un nesso teleologico, quando la formulazione della norma non lascia intravedere
alcuna intenzione di derogarvi. La circostanza che il principio della previsione bi-
laterale del fatto sia considerato, con unanimità di vedute, requisito intrinseco,
connaturato dell’estradizione e che esso debba ritenersi sancito, in via implicita,
anche nei rari casi in cui le Convenzioni non lo enuncino espressamente, in virtù
di una presunzione valida finché non risulti una diversa volontà della legge (45),
fa propendere per la conclusione che il medesimo possa, almeno in linea teorica,
patire eccezioni soltanto se espressamente indicate. La fondatezza di tale asser-
zione sembra confermata dalla lettura dell’art. 3 della Convenzione del 27 settem-
bre 1996 (46), stabilita sulla base dell’art. k. 3 del Trattato sull’Unione europea,
relativa all’estradizione tra gli Stati membri della stessa (47), che, con estrema
chiarezza, da un lato, esclude che lo Stato richiesto possa opporre un rifiuto alla
domanda di estradizione rivoltagli da altro Stato membro, solo perché nel suo or-
dinamento non è previsto il reato associativo; dall’altro, delimita rigorosamente
l’estensione della deroga al principio della doppia incriminazione, comunque con-
templato all’art. 2, elencando, in modo tassativo, i reati oggetto del programma
criminoso, reati accomunati dalla particolare gravità e dalla struttura di per sé ten-
denzialmente associativa (48). Come è agevole constatare, questa norma, pur ri-
nunciando, nell’intento di reprimere fatti di disvalore tale da suscitare un allarme
sociale particolarmente intenso, al principio della previsione bilaterale del fatto,
non ne tradisce l’essenza per un duplice ordine di ragioni: a) innanzitutto, perché
lo fa in modo esplicito, avendo premura di circoscriverne i casi; b) in secondo
luogo, perché è dettata dalla necessità di colmare le lacune di quei sistemi che,
ignorando del tutto le fattispecie associative, pongono dinanzi alla rigida ed inelu-
dibile alternativa tra derogare alla doppia incriminazione o lasciare impuniti fatti
(44) Cfr., P. PISA, Commento all’art. II, cit., p. 411, che rileva come avesse significato, alla luce
del criterio della lista, l’espressa menzione al tentativo, vista l’autonomia riconosciuta alla fattispecie ten-
tata e come non lo abbia più oggi, essendo sufficiente, alla luce del criterio eliminativo, che il fatto rag-
giunga gli standard di gravità richiesti dal § 1; G. CATELANI-D. STRIANI, L’estradizione, cit., p. 9.
(45) Per tutti, R. QUADRI, Estradizione, cit., p. 25; M.R. MARCHETTI, Estradizione, cit., p. 400.
(46) Per comodità si riporta, per intero, il testo del § 1, che attiene alla materia che ci occupa:
‘‘Quando, secondo la legge dello Stato membro richiedente il fatto su cui si basa la domanda di estradi-
zione è configurato quale cospirazione o associazione per delinquere ed è punito con una pena privativa
della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi, l’estradizione non può essere rifiutata per il motivo
che la legge dello Stato membro richiesto non prevede che gli stessi fatti costituiscano reato, purché la co-
spirazione o l’associazione abbiano per fine la commissione di: a) uno o più reati di cui agli artt. 1 e 2
della Convenzione europea per la repressione del terrorismo, o b) qualsiasi altro reato punibile con pena o
misura di sicurezza privativa della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi, concernente il traffico
di stupefacenti e altre forme di criminalità organizzata o altri atti di violenza contro la vita, l’integrità fi-
sica o la libertà di una persona o che comporti un pericolo collettivo per le persone’’.
(47) Pubblicata sulla G.U.C.E., del 23 ottobre 1996, n. C-313.
(48) Opta per il superamento dei principi della doppia incriminazione e di specialità, nella pro-
spettiva, però, di passare da un sistema di estradizione ad uno di semplice consegna, dando, così, vita ad
uno spazio di giustizia comune, il Trattato Italia-Spagna del 28 novembre 2000 (pubbl. in Doc. giust.,
2000, p. 1405) che all’art. 1, § 2 recita ‘‘la qualificazione giuridica dei fatti e la misura della pena sono
determinati secondo l’ordinamento della parte richiedente’’. In tema si leggano le osservazioni di G. LAT-
TANZI, La nuova dimensione della cooperazione giudiziaria, in Doc. giust., 2000, p. 1041.
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offensivi di beni meritevoli di tutela qualificata. Scelta che esula dal caso esami-
nato dalla sentenza che si annota, ove si affronta il diverso problema del difetto di
corrispondenza tra due fattispecie disomogenee dal punto di vista strutturale, ma,
poiché coincidenti quanto alla ratio incriminatrice, comunque potenzialmente su-
scettibili di convergere, come tra breve osserveremo, in un’unica ed omogenea fat-
tispecie concreta passibile di estradizione (49).
5. La valutazione sull’estradabilità del reato di conspiracy. — Quanto si è
venuto sin qui osservando si pone come pregiudiziale rispetto all’ulteriore e con-
clusiva questione sulla valutazione dell’estradabilità del reato di conspiracy. Rico-
nosciuto che il principio di previsione bilaterale del fatto non tollera eccezioni, che
non risultino espressamente dal testo della norma; che la disposizione del § 2 non
è, in alcun modo, interpretabile come manifestazione dell’intento del legislatore
pattizio di introdurre una deroga; che la sensazione che dà, ad una lettura che
tenga conto anche della sua formulazione precedente, è quella di una sostanziale
inutilità, in quanto retaggio di un sistema di attuazione del principio della doppia
incriminazione oramai abbandonato, nondimeno conserva la funzione di indiriz-
zare l’interprete nel disagevole compito di verificare se risultino integrati i requi-
siti di entrambe le fattispecie.
A conclusioni opposte si perverrebbe se si optasse per la diversa soluzione,
astrattamente configurabile, dell’equiparazione ‘‘qui e per sempre’’ ex Tractatu
delle due fattispecie, proprio finalizzata all’accelerazione delle procedure di conse-
gna, che non subirebbero intralci dovuti a complicate indagini di raffronto tra
norme difficilmente comparabili. In realtà, aderendo a questa impostazione, non
ci si limiterebbe ad introdurre un’eccezione alle modalità di accertamento della
sussistenza della doppia incriminazione, ma si finirebbe per derogarvi implicita-
mente, assumendo come rispettato un principio nella sostanza disatteso.
È, difatti, indiscutibile che l’accertamento della doppia incriminazione non
possa prescindere, risultandone condizionato, dall’indagine sul tipo di rapporto
che intercorre tra le fattispecie appartenenti a ordinamenti diversi e messe a raf-
fronto.
A questo proposito sono emersi, in dottrina, due contrapposti orientamenti,
che pervengono a conclusioni divergenti quale conseguenza del diverso procedi-
mento seguito nell’individuazione dei connotati del ‘‘fatto’’, come risulta dalla for-
mulazione delle fattispecie legali dei due ordinamenti tra cui si instaura la vicenda
estradizionale.
Il primo orientamento, minoritario, che fa leva sulla struttura delle fattispecie,
considera adempiuto il requisito della previsione bilaterale del fatto all’esito di un
accertamento che si sviluppa attraverso le due successive fasi della verifica: a)
(49) Non pare, in proposito, improprio neppure richiamarsi all’art. 2 della decisione quadro sul
mandato di arresto europeo (su cui v. supra nota 28), nonostante ivi si elenchino una serie di fattispecie,
per le quali si ammette la consegna ‘‘indipendentemente dalla doppia incriminazione’’. La conclusione che
si tenda progressivamente, quanto meno in ambito europeo, a prescindere dalla previsione bilaterale del
fatto come reato quale requisito cardine dell’estradizione, sebbene suggerita dal disposto normativo, ri-
sulta affrettata e non corrispondente al vero. La realtà è che l’esperienza giuridica degli Stati membri del-
l’Unione europea sta ad evidenziare come si tratti di reati comuni a tutti gli ordinamenti, in quanto posti a
presidio dei beni di maggior rilievo, e che quindi la doppia incriminazione sia, per così dire, implicita
nella elencazione stessa. Ciò che la previsione normativa si limita a stabilire è, dunque, la non necessità di
una valutazione su di essa, nell’obiettivo di accelerare le procedure di consegna. A conferma dell’esattezza
di tale interpretazione si legga il § 4 del medesimo art. 2, che, per i reati non compresi nella lista, subor-
dina la consegna alla condizione che i fatti per i quali è stato emesso il mandato di arresto costituiscano
un reato secondo la legge dello Stato di esecuzione, riproponendo un obbligo di valutazione della sussi-
stenza della duplice punibilità, che trova la sua ragion d’essere proprio nella irriconducibilità della fatti-
specie alla lista predisposta dalle parti contraenti. Sul punto, v., di recente, E. SELVAGGI, Il mandato euro-
peo di arresto alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2002, p. 2983.
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della natura del fatto oggetto di qualificazione (e già qualificato) alla stregua di
una fattispecie penale dell’ordinamento dello Stato richiedente; b) della corrispon-
denza di tale fatto ad una fattispecie dello Stato richiesto, ovvero, in altri termini,
qualora il fatto costituisca reato ‘‘nello Stato detentore in virtù di quei medesimi
elementi che integrano una fattispecie penale nello Stato che domanda l’estradi-
zione’’ (50). L’inconveniente che scaturirebbe da un’interpretazione eccessiva-
mente restrittiva del requisito della previsione bilaterale del fatto, intesa, cioè, a ri-
conoscerne la sussistenza soltanto in presenza di un’assoluta, e difficilmente rea-
lizzabile, identità delle fattispecie legali, verrebbe superato includendovi anche
quelle che, pur non coincidenti, si trovino in rapporto di specialità unilaterale, al-
lorché gli elementi specializzanti siano contenuti in quella appartenente alla legge
dello Stato che domanda l’estradizione. Non altrettanto potrebbe dirsi nell’ipotesi
in cui la fattispecie speciale sia quella prevista dalla legge dello Stato richiesto o si
tratti di norme in rapporto di specialità reciproca (51), che dovrebbe sottostare ad
una disciplina analoga a quella adottata nel caso della specialità dal punto di vista
dello Stato detentore.
Per vero, una soluzione del genere, desta, a nostro avviso, notevoli perplessità
oltre che da un punto di vista metodologico, da quello della ridotta praticabilità
del requisito in esame. La limitazione che ne deriverebbe in termini di consegna
dell’estradando non sarebbe giustificabile sulla base dell’argomentazione dell’irri-
levanza degli ulteriori elementi presenti nella fattispecie speciale appartenente al-
l’ordinamento dello Stato richiesto ai sensi della legislazione dello Stato richie-
dente, alla luce della quale soltanto il fatto andrebbe qualificato. Si finirebbe, in-
fatti, da un lato, per dimenticare che lo Stato richiesto è chiamato ad accertare se
quel fatto oggetto della domanda di estradizione risulti penalmente rilevante an-
che alla stregua della propria legislazione, non interessando soltanto la qualifica-
zione che di esso ne dia lo Stato detentore; dall’altro, per confondere il problema
dell’individuazione dell’unica norma effettivamente applicabile al caso di specie,
perché ritenuta prevalente, con il diverso problema della ricerca di quel nucleo di
fatto comune che sia simultaneamente riconducibile a due distinte fattispecie, di
cui se ne integrino gli estremi.
Il secondo orientamento, prevalente, fondandosi sul criterio del fatto concre-
tamente posto in essere dall’estradando, ritiene soddisfatto il requisito della dop-
pia incriminazione, allorché il fatto in questione realizzi non solo gli elementi ri-
chiesti dalla fattispecie dello Stato richiedente, ma anche i particolari connotati
cui è affidata la rilevanza penale di esso nello Stato richiesto (52). In sostanza, af-
finché il principio in esame venga rispettato, il fatto storico, dedotto a fondamento
della domanda di consegna, deve risultare riconducibile a due distinte fattispecie
incriminatrici, seppur appartenenti ad ordinamenti diversi, con un procedimento
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(53) Si parla di fattispecie in rapporto di eterogeneità, qualora esse non coincidano per alcun ele-
mento [si fa l’esempio della rissa (art. 588 c.p.) e della falsità in monete (art. 453 c.p.)]; di fattispecie in
rapporto di incompatibilità, laddove esse presentano elementi tra loro incompatibili e, quindi, si esclu-
dono a vicenda [si fa l’esempio dell’appropriazione indebita (art. 646 c.p.), che ha come presupposto il
possesso della res e del furto (art. 624 c.p.), in cui, viceversa, il possesso deve mancare]. Così, F. MANTO-
VANI, Diritto penale, cit., p. 488.
(54) La letteratura in materia è imponente. Si vedano, tra gli altri, G.A. DE FRANCESCO, Associa-
zione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 295 e ss.; ID.,
Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 107; G. DE
VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 260, che considera l’apparato organizzato fi-
nalizzato prima che alla commissione dei reati oggetto del programma ‘‘alla conservazione ed al potenzia-
mento dell’associazione come tale’’; ID., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista,
1993, p. 106; G. INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 91; F. IACOVIELLO, L’organiz-
zazione criminogena prevista dall’art. 416 c.p., in Cass. pen., 1994, p. 579-580; ID., Ordine pubblico e as-
sociazione per delinquere, in Giust. pen., II, 1990, c. 60 e ss.; G. NEPPI MODONA, Criminalità organizzata
e reati associativi, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987; V. PATALANO, L’associazione per
delinquere, Napoli, 1971, p. 181.
(55) Nulla vieta, infatti, che si abbia specialità unilaterale, oltre che per specificazione, ove il quid
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pluris è esso stesso una species del corrispondente elemento della fattispecie generale, anche per aggiunta,
ove, invece, il quid pluris costituisce un elemento aggiuntivo estraneo alla fattispecie generale.
Lo stesso dicasi per la specialità reciproca, che oltre a presentarsi nella forma della specialità per
coincidenza tra sottofattispecie, può caratterizzarsi per la coincidenza tra fattispecie ed elemento partico-
lare, ove l’una coincide per un’ipotesi particolare del corrispondente elemento costitutivo dell’altra e que-
sta è, a sua volta, specifica, perché richiede elementi in più (es., truffa ed emissione di assegni a vuoto,
oggi depenalizzata). Cfr., per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 487-488.
(56) Nel senso del testo già, in passato, G. TURONE, L’estradizione dagli Stati Uniti in Italia: la do-
cumentazione a sostegno delle richieste, in L’estradizione e l’assistenza giudiziaria nei rapporti Italia-
Stati Uniti, Milano, 1986, p. 40, che, nell’indicare al giudice le modalità con cui formulare una richiesta
di estradizione agli Stati Uniti per il reato di associazione per delinquere, onde conseguire l’effetto deside-
rato della consegna, afferma testualmente: ‘‘... Così, quando viene richiesta l’estradizione di una persona
accusata di associazione per delinquere, la relazione del giudice italiano dovrà mettere in evidenza i mezzi
di prova atti a dimostrare la sussistenza degli elementi del reato di conspiracy, così come esso è definito
dalla legge degli Stati Uniti, altrimenti vi è il rischio che il giudice americano non ravvisi la doppia incri-
minabilità nei fatti addebitati all’estradando’’. Se, dunque, nel caso in cui l’Italia sia lo Stato richiedente, il
giudice italiano è tenuto a dimostrare non tanto e non solo che il fatto è ivi punibile, quanto e soprattutto
che esso risulta punibile negli Stati Uniti quale Stato richiesto, lo stesso dovrà valere, reciprocamente, se
la richiesta proviene dagli Stati Uniti, per il reato di conspiracy, rispetto alla punibilità di quel fatto, in Ita-
lia, come associazione per delinquere.
(57) In senso analogo, sez. I, 14 settembre 1995, Aramini, cit., p. 3686 che, capovolgendo la solu-
zione in precedenza adottata dalla sentenza Grandia, con chiarezza stabilisce quanto segue: ‘‘è vero che il
concetto anglosassone di conspiracy non coincide con la nostra fattispecie astratta di associazione per de-
linquere, d’altronde non prevista nella legislazione statunitense; ma per soddisfare il requisito della dop-
pia incriminabilità del fatto non è necessario che lo schema astratto della norma incriminatrice dell’ordi-
namento straniero trovi il suo esatto corrispondente in una norma del nostro ordinamento, ma è suffi-
ciente che lo stesso fatto sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla rilevando l’even-
tuale diversità del titolo e la difformità del trattamento sanzionatorio. Non si tratta, quindi, di stabilire se
esista in astratto equivalenza tra la conspiracy dell’ordinamento statunitense, ma di stabilire se il fatto
addebitato all’Aramini è punito dalla legislazione statunitense a titolo di conspiracy sia previsto come
reato dell’ordinamento interno. Non si pone in contrasto con l’art. 13, comma 2, c.p. e neppure con prin-
cipi costituzionalmente garantiti, l’art. II, comma 2, del Trattato, che prevede espressamente come reato
tale da dar luogo all’estradizione ogni forma di associazione per delinquere per commettere reati da una
parte e la conspiracy per commettere un reato dall’altra, dovendosi intendere l’estradizione in ogni caso
subordinata al requisito della doppia incriminabilità, e cioè alla condizione che un fatto previsto dal no-
stro ordinamento come reato associativo sia punito anche negli USA a titolo di conspiracy e viceversa’’ (i
corsivi sono nostri).
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difensori del Volterrani, ritenuto che l’appello proposto dal rappresentante della
pubblica accusa avverso la pronuncia di primo grado avesse prodotto la revivi-
scenza dell’imputazione più grave, la cui cognizione spettava, a norma dell’art. 5
lett. B c.p.p., alla Corte d’assise d’appello, annullava la decisione del giudice di se-
condo grado e trasmetteva gli atti all’organo competente.
Con sentenza del 3 ottobre 2001 la Corte d’assise d’appello di Torino ha as-
solto il Volterrani con ampia formula. La Corte di merito in base alle risultanze
processuali analiticamente illustrate considera accertato:
1) che il Moroni acconsentì agli interventi di riduzione dell’ernia e, sia pure
implicitamente, di laparotomia, ma non a quello più invasivo e demolitorio poi di
seguito eseguito;
2) che neppure i parenti del Moroni prestarono tale consenso nel corso del-
l’operazione, dovendosi considerare sicuramente non veritiera la versione difen-
siva della temporanea sospensione dell’intervento per informare quanto meno la
moglie e la figlia del paziente;
3) che la duodenocefalopancreasectomia non era stata preordinata fin dall’i-
nizio come erroneamente sostenuto dal primo giudice, essendo la concomitanza di
un tumore al pancreas solo ipotetica, una mera eventualità incompatibile con una
determinazione già raggiunta;
4) che il Moroni era affetto, come confermato dai successivi esami, non già
da ‘‘un carcinoide argentaffine e da tessuti metastatizzati’’, bensì da un vero e pro-
prio tumore maligno endocrino angioinvasivo, più esattamente da ‘‘un gastrino-
ma’’, che imponeva un intervento ablativo immediato e radicale al fine di evitare
all’infermo una sopravvivenza assai breve e dolorosa;
5) che il Volterrani non si era posto per suo fatto doloso o colposo in una
situazione di ‘‘non ritorno’’, tale da costringerlo a proseguire l’intervento con le
modalità più gravose, non essendo tale evenienza in alcun modo causalmente col-
legabile alla mancanza del consenso del paziente, né ad errori diagnostici o opera-
tivi, anche perché la grave emorragia seguita allo ‘‘scollamento del blocco duode-
nopancreatico’’ costituiva un evento raro, non rientrante ‘‘nell’ambito degli eventi
normalmente prevedibili’’, e tale per sua natura da rendere inevitabile il passaggio
dalla laparotomia alla duodenocefalopancreasectomia;
6) che conseguentemente non poteva porsi in dubbio, nella specie, la sussi-
stenza di ‘‘tutti gli estremi della causa di giustificazione del soccorso in stato di ne-
cessità’’, secondo la previsione dell’art. 54 c.p., essendo ‘‘in gioco la vita del pa-
ziente’’ e l’intervento eseguito proporzionato a tale estrema eventualità;
7) che, in ogni caso, doveva escludersi che l’imputato avesse agito con il
dolo richiesto dall’art. 584 c.p., incompatibile con una ‘‘condotta in cui siasi
estrinsecato un trattamento medico-chiurgico rivolto intenzionalmente al migliora-
mento delle condizioni di salute del paziente, compiuto ‘‘secondo le regole del-
l’arte e di sperimentata validità terapeutica’’;
8) che, infine, la tesi sposata dal giudice di primo grado urtava sia contro
l’obiezione, mossa anche dalla Corte di legittimità (sez. IV, 9 marzo 2001, n. 585,
Barise) all’opinione della compressione della libertà di autodeterminazione del
malato non consenziente (art. 610 c.p.), dell’impossibilità di considerare come
violento o minaccioso il comportamento del medico che compie il proprio dovere,
fuori di un espresso divieto oppostogli dall’interessato, sia contro la dimostrata
presenza di una causa di giustificazione, ‘‘la cui stessa supposizione erronea esclu-
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derebbe il dolo (ai sensi dell’art. 59 comma 4 c.p.) di qualsiasi reato configurabile
per il quale sia richiesto tale elemento soggettivo’’.
2. Ricorre per cassazione il procuratore generale della Repubblica di Torino.
Con il primo motivo il ricorrente deduce ‘‘erronea applicazione della legge pe-
nale’’ per avere il giudice di merito erroneamente escluso la configurabilità del de-
litto di cui all’art. 584 c.p. senza considerare ‘‘che l’atto medico arbitrario che ab-
bia cagionato aggressione all’integrità fisica, indipendentemente dalla motivazione
dell’agire (che sarà sempre il bene del paziente) [è] connotato da quanto penal-
mente parlando si definisce dolo’’ e ciò perché ‘‘dal punto di vista dell’elemento fi-
sico’’ l’intervento terapeutico determina una lesione, intesa come ‘‘alterazione
cruenta dello stato anteriore’’, da cui può derivare una malattia, che secondo l’art.
582 c.p. non significa ‘‘peggioramento della salute’’, ma offesa all’integrità fisica,
corporea o psichica, del soggetto passivo.
Il ricorrente fa precedere queste considerazioni da alcune riflessioni sul signi-
ficato e la funzione del consenso informato del paziente, senza ulteriori chiari-
menti sull’incidenza che, nella fattispecie, avrebbe avuto l’eventuale benestare del
Moroni all’asportazione del cancro.
Con il secondo motivo, articolato in tre punti, il pubblico ministero denuncia
la violazione dell’art. 54 c.p. e, in ogni caso, vizio di motivazione circa la sussi-
stenza della scriminante.
Partendo dalla premessa per cui dalla stessa esposizione in fatto della sen-
tenza impugnata emergerebbero con chiarezza la negligenza, l’imprudenza e l’im-
perizia del Volterrani, che non si rese conto dell’assoluta inutilità dell’intervento,
resa evidente dalla particolare natura del carcinoma, e che compiendolo ugual-
mente accorciò quantomeno di sette anni la vita del paziente, il ricorrente con-
clude nel senso che ‘‘la pretesa situazione di pericolo (fu conseguenza) della vo-
lontà colpevole dell’imputato ed era assolutamente evitabile’’.
Critica, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata laddove ritiene pro-
porzionata l’‘‘asportazione di mezzo apparato digerente’’ alla risoluzione dell’e-
morragia provocata dalla ‘‘manovra di Coker’’, anch’esssa arbitraria perché estra-
nea alla consentita laparotomia, fronteggiabile con ordinari interventi trasfusionali.
Il ricorrente, infine, riproducendo le osservazioni svolte sui profili di colpa
ravvisabili nella condotta dell’imputato, che compì un evidente errore nella scelta
dello strumento terapeutico adeguato al caso concreto, limitandosi, per giunta, ad
asportare una massa metastatica e trascurando il tumore primitivo non reperito,
censura la sentenza impugnata allorché esclude ogni responsabilità del medico, di-
menticandosi ‘‘di valutare... almeno l’errore colposo nella ritenuta sussistenza
della causa di giustificazione ovvero l’eccesso colposo nei limiti imposti dalla ne-
cessità’’. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
3. Il ricorso non merita accoglimento.
La materia del processo è indubbiamente spinosa e si presta a pratiche di
massaggio mentale. Ne sono evidente conferma l’ambiguità della formulazione
della stessa accusa, in bilico tra responsabilità per colpa o per dolo; le variegate
pronunce dei giudici di merito, che si sono occupati del caso; il tono solo apparen-
temente sicuro e perentorio dell’atto d’impugnazione.
È d’uopo allora cercare di mettere un pò d’ordine nel profluvio di enunciati di
cui grondano la sentenza e il ricorso.
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Per evitare inutili divagazioni e restare entro i confini del caso concreto oc-
corre prendere le mosse dal capo d’imputazione.
Il nucleo essenziale dell’accusa rivolta al Volterrani sta nell’addebito di avere
cagionato ‘‘con atti diretti a ledere... il decesso [art. 584 c.p.] di Annibale Moroni
sottoponendolo a intervento chiurugico di duodenocefalopancreasectomia senza il
suo consenso’’.
In una singolare contaminazione con altre figure criminose, nella contesta-
zione si delineano anche pesanti profili di colpa (chiaro segno questo del disagio
avvertito dall’inquirente nella esatta definizione dell’accusa), il che avrebbe con-
sentito al giudice anche di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa senza
tema di incappare nella nullità prevista dall’art. 522 c.p.p.
Conviene, dunque, sgombrare subito il campo da questa digressione accusa-
toria, che mina la linearità del discorso principale riguardante il concorso degli
elementi costitutivi del delitto di omicidio preterintenzionale.
Va rilevato in proposito che la Corte territoriale, attraverso un’analisi appro-
fondita e attenta delle risultanze processuali e, in particolare, dei pareri espressi
dalla moltitudine di esperti intervenuti a vario titolo nel processo, è pervenuta alla
conclusione, tutt’altro che irragionevole o campata in aria, che il chirurgo agì nel
frangente ‘‘lege artis’’, coerentemente escludendo, quindi, ogni connotazione d’im-
perizia, imprudenza, negligenza e inosservanza dei canoni propri della scienza me-
dica nell’operazione compiuta sul Moroni dal Volterrani, che fece esattamente ciò
che doveva e fronteggiò con iniziative frutto di scelte calibrate e accorte gli svi-
luppi drammatici della situazione, caratterizzata dall’incalzante e progressiva
emissione di gravi complicanze non tutte rientranti nell’ordine naturale delle cose e
conseguentemente di difficile, se non impossibile prevedibilità.
La motivazione adottata sul punto della Corte torinese è completa ed esente
da smagliature logiche di rilevanza tale da diradarne il tessuto e provocarne la la-
cerazione.
D’altro canto, le critiche mosse dal ricorrente a questa parte della sentenza
impugnata, benché formalmente prospettate come vizi di legittimità, si risolvono
effettivamente nella proposizione di una lettura diversa e alternativa dei dati sto-
rici analizzati e valutati dai giudici di merito, e, quindi, nella sollecitazione di un
giudizio di merito estraneo ai compiti istituzionali di questa Corte di legittimità.
Passando, perciò, senz’altro, al tema centrale del processo, quello, sicura-
mente scottante e di grande attualità, del rilievo del consenso del paziente all’ese-
cuzione sulla sua persona di interventi terapeutici importanti come quello subito
dal Moroni e produttivi, comunque, di una menomazione, anche solo temporanea,
dell’integrità fisica o psichica, non può che pervenirsi alla conclusione, solo appa-
rentemente dirompente e già adombrata nella giurisprudenza di questa Corte, se-
condo cui la volontà del soggetto interessato in ambito giuridico e penalistico in
particolare svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia eventalmente espressa in
forma negativa.
Conseguentemente, il fatto che il Volterrani abbia dilatato la sua azione tera-
pautica ben oltre i confini tracciati dall’adesione dell’infermo agli interventi mi-
nori non deve assolutamente considerarsi per ciò solo illecito e arbitrario.
In altri termini, un eventuale preventivo consenso del Moroni esteso all’esen-
zione della duodenocefalopancreasectomia, non avrebbe avuto, di per sé, effica-
cia liberatoria dalla conseguenza dell’esito infausto dell’operazione.
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(1-2) Intervento chirurgico con esito infausto: non ravvisabilità dell’omicidio
preterintenzionale nonostante l’assenza di un consenso informato.
La Corte di cassazione in tre recenti sentenze (Cass. Sez. IV, 11 luglio 2001,
FIRENZANI, in Cass. pen., 2002, p. 2041; Cass. Sez. IV, 9 marzo 2001, BARESE, in
Cass. pen., 2002, p. 517 e nella pronunzia qui annotata che è la più recente) ha
preso in considerazione il problema della ravvisabilità del reato di lesioni dolose e
conseguentemente dell’omicidio preterintenzionale con riferimento ad interventi
chirurgici, per i quali il paziente non aveva prestato consenso o lo aveva prestato
in modo incompleto.
Le tre sentenze su un punto, peraltro di estrema importanza, sono perfetta-
mente concordi: quello di ritenere che l’attività del medico trovi in se stessa fonda-
mento e giustificazione. In altri termini, la liceità non deriva dal consenso dell’a-
vente diritto ma discende dal fatto che l’attività medica tutela il bene della salute
costituzionalmente garantito. Si tratta di una forma di autolegittimazione. Del re-
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sto, si soggiunge, il consenso dell’avente diritto non può giustificare l’attività me-
dica, dal momento che tale consenso incontra limiti ben precisi individuati dal-
l’art. 5 c.c., il quale vieta atti di disposizione del proprio corpo cagionanti una di-
minuzione permanente della integrità fisica. A sostegno di questa tesi comune alle
tre sentenze, si osserva in dottrina che, anche interpretando l’art. 5 c.c. in rela-
zione all’art. 32 Cost. (che prevede la tutela della salute come fondamentale di-
ritto dell’individuo e interesse della collettività), in modo da ritenere consentita
una deroga al principio della limitata disponibilità del proprio corpo allorquando
venga messo in pericolo il diritto alla salute, ‘‘rimangono in ogni caso situazioni,
come quelle del trattamento sanitario obbligatorio ex lege, o del paziente incapace,
anche per causa transitoria, di intendere e di volere, e perciò di consentire... in cui
la cura viene egualmente praticata, al di fuori del consenso, lecitamente’’ (IADE-
COLA, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del consenso nell’at-
tività chirurgica, in Cass. pen., 2002, p. 2046). L’inidoneità del consenso dell’a-
vente diritto a giustificare la liceità penale della attività medica spiega e rende ac-
cettabile la tesi della autolegittimazione.
Sulla base di questa premessa comune le tre decisioni della Cassazione non
hanno, peraltro, conclusioni uniformi. Infatti, la sentenza 11 luglio 2001, FIREN-
ZANI, per giustificare una condanna per lesioni colpose ravvisate in un intervento
chirurgico senza il consenso del paziente, ritiene che l’intervento chirurgico ese-
guito in assenza del consenso integri il reato di lesioni, che risulteranno colpose se
per errore colposo il chirurgo ritenga il consenso sussistente mentre dovranno rite-
nersi dolose se il chirurgo sia consapevole dell’assenza del consenso.
Questa decisione si pone, quindi, nell’ordine di idee della sentenza Cass. Sez.
V, 21 aprile 1992, MASSIMO, in Cass. pen., 1993, p. 63, che ha ritenuto configura-
bile l’omicidio preterintenzionale nell’ipotesi di intervento chirurgico senza con-
senso informato e con esito infausto. Peraltro, la sentenza Massimo non partiva
dalla premessa sopra indicata e, quindi, non asseriva l’autolegittimazione della at-
tività medica.
La tesi sostenuta nelle due sentenze Massimo e Firenzani porta a ravvisare il
reato di lesioni dolose anche nell’ipotesi di intervento chirurgico con esito fausto
ma effettuato senza un completo consenso. Per giungere a tale conclusione è ne-
cessario sostenere (come, appunto, sostengono le pronunzie predette) che per la
configurabilità delle lesioni è sufficiente quella necessaria effrazione dell’integrità
fisica costituente il presupposto dell’intervento chirurgico e, pertanto, negare che
la nozione di malattia ricomprenda necessariamente una menomazione funzionale
dell’organismo. In altri termini, per individuare la malattia sarebbe sufficiente una
alterazione cruenta dello stato fisico del paziente senza che sia necessario un peg-
gioramento o un pregiudizio per la salute.
È, però, significativo notare come queste sentenze si riferiscano a situazioni
del tutto anomale, veri e propri casi limite, in cui la gravità della situazione non
era certo data dalla carenza del consenso. La sentenza Massimo riguardava l’inter-
vento su una paziente molto anziana, che non solo aveva reiteratamente precisato
che rifiutava un intervento chirurgico consentendo unicamente ad una resezione
endoscopica, ma che effettivamente non necessitava per l’asportazione del polipo
diagnosticato di un intervento chirurgico, essendo sufficiente la mera resezione
endoscopica. Il chirurgo, nonostante il dissenso esplicito più volte manifestato e
nonostante l’inutilità dell’intervento chirurgico, aveva effettuato un intervento de-
molitivo di amputazione di intestino retto, che aveva determinato la morte della
paziente. La sentenza Firenzani esamina, invece, il comportamento del chirurgo
che, dovendo intervenire sul ginocchio sinistro oggetto di precedenti accertamenti
determinati da forti dolori, aveva operato per errore il ginocchio destro. Le tesi so-
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stenute in queste due sentenze non possono non essere state influenzate dalla ma-
croscopica gravità delle situazioni prese in esame.
La sentenza Barresi e la sentenza Volterrani, portando alle logiche conse-
guenze la tesi della autolegittimazione, negano che l’attività medica esercitata in
assenza di consenso informato renda possibile, unicamente per l’assenza del con-
senso, la configurabilità delle lesioni dolose e, quindi, ove si verifichi l’evento
morte, quella dell’omicidio preterintenzionale. Infatti, appare non coerente soste-
nere l’autolegittimaziome dell’attività medica in quanto attività socialmente utile e
diretta a concretare un diritto sancito dalla Costituzione e, poi, ravvisarvi un de-
litto per l’assenza del consenso da parte del soggetto che beneficia di tale attività
(v. IADECOLA, Sugli effetti penali, cit., p. 2049).
Inoltre, la nozione di malattia, è stato giustamente osservato, ha da essere
quella fornita dalla scienza medica e, quindi, nel caso di intervento chirurgico, alla
alterazione anatomica deve seguire una alterazione funzionale ‘‘con pregiudizio ef-
fettivo della salute fisica o mentale’’ non certamente ravvisabile nell’ipotesi di in-
tervento chirurgico, che rechi beneficio al paziente migliorando le sue condizioni
di salute (IADECOLA, Sulla configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale
in caso di trattamento medico con esito infausto praticato al di fuori dell’urgenza
e senza consenso del paziente, in Cass. pen., 2002, p. 532). Ne segue che, nell’i-
potesi di intervento chirurgico con esito favorevole, l’impossibilità di ravvisare il
reato di lesioni discende dalla insussistenza dell’evento naturalistico ‘‘malattia’’.
Né è dato ravvisare l’elemento soggettivo del reato. Infatti, il chirurgo che
agisce per migliorare le condizioni fisiche del paziente non si rappresenta in modo
diretto l’evento naturalistico ‘‘malattia’’ nel senso sopra precisato, il che esclude la
ravvisabilità dell’elemento soggettivo in quanto il dolo del delitto di lesioni pur es-
sendo un dolo generico è giustamente ritenuto in giurisprudenza un dolo diretto,
vale a dire un dolo denotante ‘‘tensione aggressiva’’. Il soggetto agente, cioè, deve
rappresentarsi il pregiudizio per la salute del soggetto passivo del reato, il che cer-
tamente non si verifica nel caso di intervento chirurgico eseguito seguendo le ‘‘re-
gole dell’arte’’. Tale ‘‘tensione aggressiva’’, necessaria per la individuazione del
dolo, risulta ulteriormente accentuata per quanto concerne l’omicidio preterinten-
zionale. Infatti, l’art. 584 c.p., richiedendo che gli atti determinanti la morte deb-
bano essere ‘‘diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli artt. 581 e 582
c.p.’’, esige il requisito della univocità degli atti costituente una delle connotazioni
del delitto tentato previsto dall’art. 56 c.p. Ciò significa che, per l’integrazione del-
l’omicidio preterintenzionale, la condotta deve essere rivolta in maniera univoca
alla realizzazione di uno dei reati previsti dagli artt. 581 e 582 c.p. e tale connota-
zione deve riflettersi nella rappresentazione del soggetto agente per la ravvisabilità
del dolo. Il che esclude il dolo nel comportamento del chirurgo che, sia pure senza
consenso informato, effettui un intervento chirurgico diretto a migliorare le condi-
zioni fisiche del paziente.
La sentenza annotata, che è anche, come si è detto, la più recente delle pro-
nunzie sopra ricordate, appare particolarmente drastica nell’escludere la ravvisa-
bilità di un reato nel comportamento del medico che agisca ‘‘lege artis’’. Infatti,
nel caso di specie il giudice di merito aveva ritenuto sussistente la scriminante
dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p. ma la Suprema corte ha ritenuto
di correggere in diritto la motivazione asserendo che quando il giudice di merito,
chiamato a giudicare la condotta di un chirurgo che abbia effettuato senza con-
senso informato un intervento con esisto infausto, ‘‘riconosca, in concreto, il con-
corso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con
la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica
deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di liceità
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d) Giudizi di merito
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cui all’imputazione, pure confessati: per aver portato fuori dalla propria abita-
zione nell’occasione del delitto due coltelli, armi da punta e da taglio; per aver
fatto la stessa cosa tre giorni prima, sempre al fine di uccidere la religiosa alla
quale D.M. sotto il falso nome di Erica, aveva telefonicamente dato appuntamento
dicendosi bisognosa di aiuto: intento non potuto realizzare perché suor Maria
Laura, insospettita dalla inconsueta richiesta, aveva invitato un’amica, Elide
Luzzi, a transitare come per caso sul luogo dell’incontro, e questo aveva vanificato
il piano; per il danneggiamento di varie autovetture parcheggiate sulla pubblica
via in Chiavenna il 13 maggio 2000; per avere sottratto il giorno stesso un cane a
tale Silvano Scinetti che l’aveva lasciato all’interno della sua automobile; per il
tentativo effettuato di seviziare e sacrificare a Satana il povero animale che però
era riuscito a liberarsi ed a fuggire.
La G.A. e la D.M. erano altresì accusate d’aver trafugato, in concorso con
tale P.N. ed altra minore non identificata, una Bibbia dalla Chiesa di San Lorenzo
in Chiavenna il 14 ottobre 1998, e per avere successivamente dato fuoco a quel
volume, ancora in omaggio a Satana.
Il Pubblico ministero proseguiva nelle indagini e procedeva agli interrogatori
avvalendosi dell’assistenza della pedagogista dott.ssa Giovanna Cattaneo; dispo-
neva altresì consulenza psicologica e psichiatrica a mezzo del dott. Massimo Pi-
cozzi e della dott.ssa Roberta Perduca.
Successivamente il G.U.P., espletato l’esame delle imputate, accoglieva la ri-
chiesta che il processo si svolgesse con il rito abbreviato e, ritenendo necessario
un approfondimento di natura psichiatrica che più compiutamente definisse le
condizioni mentali delle imputate stesse all’epoca dei fatti, disponeva perizia no-
minando a tal fine il dott. Ugo Sabatello ed i professori Adolfo Francia e Simone
Vender.
La Difesa di ciascuna delle prevenute veniva affiancata da un consulente di
parte: il dott. Franco Martelli per P.V., la dott.ssa Valeria La Via per D.M., il dott.
Mario Mantero per G.A.
Al giudizio presenziavano le parti offese a sensi dell’art. 31 d.P.R. n. 448 del
1988 in relazione all’art. 90 c.p.p.
Con sentenza del 9 agosto 2001, il G.U.P. presso il Tribunale per i Mino-
renni, riconosciuta G.A. totalmente inferma di mente, la assolveva per tale ragione
da tutti i reati a lei ascritti, eccettuato quello di cui all’art. 424 c.p. in ordine al
quale la formula assolutoria era per insussistenza del fatto. Per la G.A. veniva
dunque dichiarata la cessazione della misura cautelare della custodia in carcere,
applicata la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario da eseguirsi nelle
forme del collocamento in comunità per un periodo non inferiore a tre anni, di-
sposta con separata ordinanza, secondo richiesta del Pubblico ministero, l’applica-
zione provvisoria della stessa misura che, successivamente, con sentenza del 12
ottobre 2001, il Tribunale per i Minorenni disponeva in via definitiva.
D.M. e P.V. erano giudicate affette da vizio parziale di mente: dichiarate dun-
que responsabili dei reati loro ascritti, escluso quanto alla D.M. come per la G.A.
quello di cui all’art. 424 c.p., e applicata la diminuente della minore età e l’altra di
cui all’art. 89 c.p., concesse le attenuanti generiche, espresso giudizio di preva-
lenza sulle contestate aggravanti, ritenuti i reati stessi unificati dal vincolo della
continuazione ed operata la riduzione per la scelta del rito abbreviato, venivano
condannate rispettivamente alla pena di anni 8, mesi 6 e giorni 20 di reclusione,
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affrontando i vari problemi quale quello della sfiducia di base che l’accompagna
nella relazione con l’adulto. Ha iniziato un lento processo di revisione del suo pas-
sato cercando anche di assumere nei confronti di se stessa le proprie responsabi-
lità.
Dall’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo si descrive il percorso tratta-
mentale attuato per P.V. dalla fase iniziale connotata da blocchi paralizzanti e
paure ed estrema difficoltà di comunicazione; a quella successiva in cui fu possi-
bile avviare una relazione proficua con gli operatori e farla partecipare ad attività
formative e ricreative mentre si intraprendeva il trattamento psicoterapeutico ad
orientamento analitico; al periodo che immediatamente precedette la condanna di
primo grado, caratterizzato da una crescente apertura e mobilizzazione affettiva e
di costruzione di senso nella sua vita mentale, da un percorso lento, difficile, fati-
coso, ancora molto instabile e fragile, ma continuo e costante; alla fase attuale, in
cui prosegue il trattamento psicoterapico, si intensificano le attività educative, e si
è anche prevista l’iscrizione ad un liceo artistico romano per favorirne la ripresa
scolastica nella prospettiva di un percorso di recupero a lungo termine.
Dalla Comunità Irene di Arluno, ove recentemente la G.A. è stata trasferita,
giunge notizia della sua capacità di adattarsi alla nuova situazione e di relazionarsi
correttamente con operatori e compagne. L’imputata è descritta come estrema-
mente fragile, manifesta fortissimi sensi di colpa e contrasti interiori. Ha ripreso
gli studi con assiduità ed interesse. È sottoposta a trattamento psicoterapico e psi-
chiatrico, la ricostruzione di se s’intravede possibile. In precedenza, dall’I.P.M. to-
rinese Ferrante Aporti, ove era stata inizialmente ristretta, s’era data notizia di
gravi condizioni di disagio psicologico che dal gennaio 2001 avevano preso a ma-
nifestarsi in lei, con episodi di alterazione dello stato di coscienza frequenti e di
varia durata, i quali ne avevano consigliato il ricovero presso il reparto psichia-
trico dell’ospedale Mauriziano di Torino. La relazione 13 marzo 2002 della Comu-
nità Irene non riferisce di analoghi episodi successivi, mentre l’ultima, datata 28
marzo 2002, informa di una ripresa dei fenomeni allucinatori all’approssimarsi
della data del processo d’appello.
All’udienza partecipavano tutte le imputate che, a tal fine invitate, faticosa-
mente e in tono dimesso, rilasciavano brevi dichiarazioni.
Presenziavano ancora le parti offese assistite da legali.
Gli operatori dei vari Istituti confermavano le relazioni surriferite.
Il difensore di G.A. chiedeva la reiezione del gravame e, in subordine, la so-
spensione del processo per messa alla prova della sua assistita, con istanza altresì
di eventuale riaudizione dei periti o di rinnovamento degli esami. Chiedeva che in
caso di condanna la pena fosse contenuta in prossimità del minimo e venisse co-
munque disposto il collocamento della giovane in comunità.
Gli altri difensori concludevano come in epigrafe, riportandosi ai rispettivi
atti d’impugnazione e richiedendo che l’appello del Pubblico ministero presso il
Tribunale per i Minorenni, proposto nei confronti delle loro assistite, fosse dichia-
rato inammissibile.
Il Procuratore generale modificava in parte le conclusioni di cui all’atto d’im-
pugnazione instando, tra l’altro, per la dichiarazione di inammissibilità dell’ap-
pello, a sensi dell’art. 443, comma 3 c.p.p., con riferimento alle due imputate con-
dannate.
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cere una sua ‘‘normalità’’, la Corte condivide il giudizio concorde dei periti del
G.U.P. e dei consulenti del Pubblico ministero che l’affermano senza tentenna-
menti.
La si può ritenere anzi più accentuata rispetto alla D.M. essendo la P.V. mag-
giormente portata ad intraprendere l’azione.
G.A.
È la più dotata delle tre sul piano intellettivo, ed è quella che più delle altre
ha dato da pensare agli esperti i quali alla fine hanno espresso pareri antitetici sia
pure sulla base di considerazioni che non sembrano essere invece in contrasto stri-
dente tra loro.
Anche per la G.A. si riscontrano quelle perturbate dinamiche familiari già ve-
dute, fino alla dissoluzione di un nucleo comunque gravemente carente nel fornire
elementi identificativi cui uniformarsi.
Analogo fu il percorso: dal fallimento familiare a quello scolastico, al senso di
vuoto e insicurezza e insoddisfazione, all’uscita verso un mondo esterno in cui non
fosse più necessario conformarsi alle aspettative altrui, soprattutto materne, alla
formazione di un gruppo, o sottogruppo, costruito in chiave liberatoria e trasgres-
siva, per il quale il richiamo del satanismo rappresentò, sia pure in termini di asso-
luta superficialità, un passaggio rilevante verso una scelta di malefizio banale ma
ideologicamente giustificata. Il tutto fatalmente appesantito dagli aspetti patolo-
gici di personalità che, assai simili a quelli delle amiche, furono l’essenziale col-
lante dello scellerato sodalizio.
I consulenti del Pubblico ministero concludono con una diagnosi di Disturbo
Dipendente di Personalità dopo avere evidenziato, analizzando il materiale clinico,
la presenza di una patologia narcisistica in un soggetto depresso.
Nondimeno, i diversi elementi deducibili da detto materiale, non ultimi i ri-
sultati dei test psicodiagnostici, li inducono a ritenere G.A. pienamente capace di
intendere e di volere al momento del delitto.
Effettivamente, attraverso tali elementi, la ragazza risulta d’un livello intellet-
tivo persino superiore alla media, e di buona capacità di adattamento sociale e abi-
lità nell’esprimere giudizi su situazioni concrete: ella rappresentava l’elemento
colto del trio. L’analisi del test di Rorschach mostra complessivamente un buon li-
vello di elaborazione dello stimolo, l’esame di realtà e la capacità di cogliere il
senso comune appaiono ben conservati.
Per contro i periti del G.U.P. concludono per un Disturbo Dissociativo Non
Altrimenti Specificato in fase di precario compenso, diagnosi in ordine alla quale
pare che molto abbiano influito le varie crisi dissociative sopravvenute nel corso
della detenzione della ragazza all’Istituto Ferrante Aporti di Torino; crisi che tut-
tavia non risulta si siano ripresentate in seguito salvo che nelle ultime settimane
precedenti l’udienza d’appello.
È vero che il comportamento della G.A. nella fase preparatoria ed in quella
esecutiva del delitto, fu caratterizzato da incertezze, resipiscenze, cambiamenti di
programmi, tentativi di restarne fuori, ma ciò accadeva in qualche misura anche
per le complici, la ‘‘tempesta del dubbio’’ è momento di crisi che non coglie solo i
malati di mente, e pare azzardato ipotizzare, anzi diagnosticare per questo uno
sdoppiamento di personalità. L’affermazione che durante le fasi del crimine la gio-
vane si realizzasse in due persone che non si riconoscevano ed anzi si negavano,
con un evidente distacco psicotico dal mondo reale, non trova riscontro ad avviso
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della Corte, oltre che nell’esame dei test somministrati, nei vari interrogatori resi,
in cui l’esame di realtà permane integro, ed in alcun elemento del processo che in
qualunque modo concerna il suo modo di essere e di atteggiarsi sino all’inizio
della sua detenzione. La G.A. fu anzi colei che meglio delle altre ragazze, e finché
le fu possibile, mantenne il controllo della situazione mostrando di avere un con-
tatto ben fermo con l’esterno reale.
Rimane la vicenda delle crisi di cui s’è parlato, incubi notturni, contatti fanta-
smatici con la vittima, immagini di sangue: manifestazioni tutte di alcuni mesi suc-
cessive all’arresto. Ma, come già chiarito, nessun elemento probante esiste di una
psicosi dissociativa di tipo schizofrenico presente al momento dell’assassinio. Cer-
tamente all’epoca della consulenza Picozzi-Perduca i meccanismi di difesa psico-
tici di negazione della realtà attraverso processi difensivi di tipo proiettivo e disso-
ciativo non erano rilevanti, come suffragato dai risultati testali. Quindi, ammesso
che la diagnosi dei periti del G.U.P. sia corretta, la patologia dissociativa della
G.A. può solo essere assimilabile allo sviluppo di quei sintomi che si verificano di
norma nel Disturbo Post-traumatico da Stress, la conseguenza del sovraffollarsi
alla memoria di eventi drammaticamente vissuti e dall’ansia delle varie attività
processuali che la vedevano protagonista nelle diverse fasi, unitamente alle forti
sollecitazioni emotive cui certamente era o si sentiva sottoposta all’interno dell’I-
stituto di pena torinese.
Tale assunto non è condiviso dal G.U.P. secondo il quale il disturbo psicotico
in oggetto non può essere ingenerato da un sia pur grave evento traumatico ma
trova le sue radici nella particolare vulnerabilità della giovane che non ha struttu-
rato quella necessaria forza dell’Io capace di affrontare gli eventi traumatici della
vita... Solo dando per acquisita una base fortentente compromessa, quale quella
della giovane... il trauma permette alla patologia psicotica già presente di scate-
narsi.
A sua volta la Corte non condivide siffatta impostazione in quanto, come già
esposto, da nessuno dei test e degli elementi di valutazione psichiatrica in atti è
possibile inferire la diagnosi di patologia psicotica in questione riferendola all’e-
poca del crimine. Lo stesso inquadramento delle crisi dissociative della ragazza
nella diagnosi di Disturbo Dissociativo N.A.S. rimanda ad una insufficiente strut-
turazione dell’Io di fronte a forti sollecitazioni emotive e pulsionali; l’intero
gruppo diagnostico del D.S.M.-IV, al quale si fa riferimento, comprende varie
forme dissociative di ciò che in passato era compreso nel termine più ampio di ne-
vrosi isterica. Le caratteristiche delle crisi, la loro episodicità ed insorgenza in con-
comitanza con importanti scadenze processuali, fanno pensare ad un deficitario
controllo dell’ansia e al ricorso alla dissociazione come specifico meccanismo di
difesa. Nemmeno le relazioni di aggiornamento che ne descrivono i comporta-
menti, il progressivo impegno attivo nell’iter psicoterapeutico, il buon adatta-
mento alle condizioni di vita comunitaria, consentono di trovare conferma dell’esi-
stenza di ‘‘tratti caratteristicamente schizotipici della personalità’’, della ‘‘modalità
delirante di negazione della realtà, attuate attraverso processi difensivi di tipo
proiettivo e dissociativo’’, della ‘‘anaffettività dello psicotico’’ e della presenza e
rilevanza di ‘‘sintomi negativi’’ che rimanderebbero, secondo i periti del G.U.P.,
alle manifestazioni dissociative dei disturbi psicotici del gruppo della Schizofrenia.
La deriva psicotica paventata dai periti del G.U.P. non appare quindi plausibile.
Vero è che il disturbo post traumatico da stress riguarda normalmente per-
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sone che siano vittime dei reati piuttosto che coloro che li commettono; ma in casi
atipici, ad esempio ove l’autore sia un minorenne, dunque un soggetto in fase evo-
lutiva, e per di più portatore di disturbi di personalità, può bene ammettersi che
comportamenti violenti e feroci, determinati da anomale forze scatenanti, siano a
loro volta produttivi di effetti psicologici dilaceranti, simili a quelli che possono
ingenerarsi, appunto, nelle vittime.
Soprattutto nel nostro caso in cui fu protagonista il sangue, tanto sangue, con
ciò che esso rappresentava anche simbolicamente per un soggetto certamente fra-
gile e predisposto al collasso psichico quale G.A.
Non ritiene peraltro la Corte che la capacità di intendere e di volere di G.A.
fosse all’epoca dell’omicidio pienamente integra, come i consulenti del Pubblico
ministero stimano, poiché i risultati dei test psicodiagnostici evidenziano comun-
que, accanto ai veduti indicatori di buon livello di elaborazione della realtà, una
spiccata vulnerabilità di fronte a situazioni intensamente emotive ed ansiogene.
Può essere allora condivisa la valutazione dei consulenti stessi di Disturbo Di-
pendente di Personalità e di patologia narcisistica in soggetto depresso; ma tale va-
lutazione, unitamente al riconosciuto bisogno di appartenenza al gruppo, alla ne-
cessità vitale di adeguarsi o di delegare o di compiacere l’altro, delineano il quadro
di una personalità comunque deficitaria, sia sotto l’aspetto della capacità di inten-
dere, sia soprattutto sotto quello della sua possibilità di mantenere integra la li-
bertà di autodeterminarsi, specie in particolari situazioni di fortissima pressione
psicologica dovuta a fattori esterni o interiori.
I comportamenti ambigui o contrastanti segnalati dai periti del G.U.P., se non
convincono ad una diagnosi di tipo dissociativo, inducono a ritenere, dato atto dei
deficit riscontrati dai consulenti del Pubblico ministero, l’esistenza di un Disturbo
di Personalità della G.A. assimilabile a quello delle sue complici.
E infatti l’impressione che si ricava alla prima lettura degli atti, che alla let-
tura finale diviene certezza, è quella di tre giovani che senza cercarsi si trovano e
s’aggregano, in un momento cruciale del loro percorso evolutivo, non per affinità
d’intelletti o per comuni interessi di vita o per corrispondenze affettive, ma per
profonda similarità di strutture di personalità malate.
Infine, come per le amiche, va confermato il giudizio di pericolosità sociale
della G.A., tenuto conto delle patologie suddette, in particolare del disturbo di-
pendente di personalità, specie per l’eventualità, tutt’altro che remota, per la già
considerata ‘‘attrazione dei simili’’, di ricostituzione di un gruppo di pari caratteri-
stiche.
Ricorre dunque per tutte le imputate l’ipotesi di cui all’art. 89 c.p.: la consa-
pevolezza della ‘‘illiceità’’ del loro agire fu certarnente sempre presente in cia-
scuna, e tuttavia, a causa dei considerati disturbi di personalità, in notevole mi-
sura offuscata, prima durante e dopo. E ancora: sempre presenti in ciascuna fu-
rono le risorse di volontà che avrebbero potuto fermare la macchina di morte
tanto pervicacemente allestita, risorse nondimeno affievolite nel tempo sempre di
più, man mano che prendeva corpo reale l’allucinante ideazione criminosa.
Le considerazioni che precedono non consentono di chiudere la vicenda così
come auspicato dalle Difese e rendono necessario affrontare tutti gli altri argo-
menti sottoposti dalle prevenute e dal Pubblico ministero all’attenzione di questo
giudice.
È infondato innanzi tutto l’assunto delle imputate in merito alla contestata
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del loro agire fu la volontà di spaventare la gente di Chiavenna, non dunque di av-
venturarsi in una sorta di mefistofelica sfida all’Eterno né, in alternativa, di dimo-
strarne l’inesistenza o la natura imbelle, o la sua identità con il maligno. Che
spinta risolutiva, allora, fu solo quella di vincere la noia: leggi il vuoto interiore as-
soluto (cfr. interrogatorio P.V. 2 agosto e 23 settembre 2000).
È probabile che la motivazione satanica e quella meramente esistenziale coe-
sistessero, forse per questo le imputate ritennero che il sangue di suor Maria
Laura avrebbe tra l’altro contribuito a rinsaldare il loro rapporto di amicizia (v.
interrogatorio; D.M. 17 ottobre 2000).
La disquisizione potrebbe proseguire anche ai fini della valutazione dell’ag-
gravante dei motivi abbietti o futili, ma rischia d’essere accademica.
Poiché il legislatore ha ritenuto di adottare all’art. 61 n. 1 c.p. la congiun-
zione disgiuntiva tra i due motivi in oggetto, l’aggravante deve essere comunque
ritenuta sussistente in capo alle prevenute. Nelle quali, si ribadisce, certamente so-
pravviveva un sia pur ridotto spazio mentale di libera determinazione.
Se la ragione del loro operare fu l’obbedienza o il tributo a Satana, il motivo
non fu certo futile, ma fu indiscutibilmente abbietto: il male per il Male, l’abie-
zione per definizione. Se la ragione fu il vuoto dell’anima, il motivo fu, per defini-
zione, futile. Se i motivi concorsero, vi furono futilità e abiezione con colorazione
prevalente verso la prima o la seconda in rapporto all’incidenza maggiore o mi-
nore dell’uno o dell’altro, verosimilmente in modo differenziato fra le tre protago-
niste dell’ignobile rappresentazione, la spinta verso l’occultismo essendo a quanto
pare più accentuata nella P.V., meno convinta nelle altre.
Sulla scorta di tali considerazioni ritiene la Corte, come sopra anticipato, che
il giudizio di comparazione delle due pesantissime aggravanti non possa essere di
subvalenza rispetto alle attenuanti generiche, benevolmente concesse, ed alla dimi-
nuente della seminfermità mentale, ma al più di equivalenza. Premeditazione e
motivazione abietta o futile costituiscono due macigni poderosi che in condizioni
normali sono le premesse dell’ergastolo, che dunque non possono esser fatti sva-
nire d’incanto e dovranno conservare una parte rilevante del loro peso nella deter-
minazione della pena. E si badi: a queste imputate è stata risparmiata, poiché di
questo si tratta, l’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. che non sarebbe stata biz-
zarra cosa contestare ponendo mente alle raccapriccianti immagini fotografiche
dello strazio da loro compiuto sul povero corpo della religiosa, la cui unica ed
estrema difesa fu quella di abbandonarsi alla sua sorte raccogliendosi in un com-
movente atteggiamento di preghiera. Non fu sufficiente massacrarle il cranio a
colpi di pietra: quindici, forse venti pugnalate al volto, alla gola, al petto occorsero
ancora per placare la loro belluina sete di sangue.
Vero è che nel corso del processo le tre ragazze non mostrarono spirito oppo-
sitivo, se si eccettua il primo tentativo della G.A. di chiamarsi fuori, ma è lecito il
dubbio che tale scelta fosse originata da una valutazione di mera convenienza alla
collaborazione posto che i dati emersi dalle indagini le inchiodavano dalle battute
iniziali a responsabilità ben definite.
È quanto mai significativa a tale proposito la prima enunciazione della D.M.
in sede di interrogatorio reso al Pubblico ministero in data 28 giugno 2000:
‘‘spero che la giustizia tenga conto del mio atteggiamento di pronta ammissione’’.
Il giudizio di prevalenza contrasta con le stesse motivazioni del G.U.P. lad-
dove si tratta della personalità delle imputate, del grave disinvestimento di D.M. e
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che rivelatrici di drammi interiori, i capelli rossi che divennero neri, ed infine l’in-
teressato atteggiamento di collaborazione con gli inquirenti dal momento del
fermo.
I descritti comportamenti della D.M. paiono alla Corte di gravità pari a quelli
della P.V. fu meno determinata nella fase preparatoria, più ‘‘efficace’’ in quella
cruenta. Il Pubblico ministero appellante ha sostenuto che si ebbe ruolo di co-
mando della seconda nella conduzione dell’impresa, ma la Corte ritiene invece,
come quasi tutti i professionisti che hanno esaminato il caso, che tale ruolo non
esistesse affatto o venisse via via scambiato fra le amiche in corso di realizzazione
del progetto; apporti causali, intensità del dolo e gravità d’azione registrano diffe-
renze di scarsa sostanza. Tant’è che la D.M. interrogata il 17 ottobre 2000, di-
cendo di rendersi allora conto che il leader del gruppo era la P.V., aggiunse tutta-
via che la stessa era stata sempre ritenuta da lei e dalla G.A. la più debole fisica-
mente e psicologicamente.
È vero, come evidenziato dal Pubblico ministero, che la P.V. la quale aveva
avuto tra l’altro il compito di accompagnare suor Maria Laura sul luogo prescelto
per l’assassinio, non essendo riuscita subito a farsi seguire da lei, raggiunse le ami-
che dicendo che andassero loro ‘‘a prenderla’’; ma è arbitrario ravvisare in tale in-
vito l’ordine perentorio del capo. È più plausibile che si trattasse invece di una ri-
chiesta di mutamento di compiti o di semplice aiuto, posto che la manovra di irre-
timento, anche se ben congegnata, si dimostrava meno agevole del previsto.
Non vi è motivo pertanto di diversificare il trattamento sanzionatorio tra le
suddette imputate salvo, naturalmente, il maggior aumento computato dal G.U.P.
ex art. 81 c.p. per la D.M. non avendo l’altra partecipato al reato di cui sub G).
G.A.
Per i reati minori vale quanto detto a proposito delle coimputate.
La G.A. è stata quella che con evidenza ha cercato di misurare le proprie verità
volgendole ad alleggerire per quanto possibile la sua posizione in danno delle al-
tre, specie della P.V. indicata in modo interessato quale elemento trainante. Ma
certamente fu attiva in tutte le fasi del crimine, dall’ideazione alla progettazione
all’esecuzione. Aveva preso parte tempo prima ad un patto di sangue e per questo,
disse poi, non poteva tirarsi indietro, anche se in fondo, come pure affermò, a Sa-
tana non credeva più di tanto (cfr. interrogatori resi dalla stessa al Pubblico mini-
stero in date 4 luglio, 14 luglio e 8 agosto 2000). Si ritrovò all’agguato fallito del 3
giugno, poi a quello finale dando apporto determinante all’opera di convincimento
della vittima a seguire il gruppetto fino al luogo stabilito. Ed è impressionante il
racconto della D.M. sull’accanimento della G.A. contro la suora: la colpì in testa
con la grossa pietra, ripetutamente, ‘‘sbattendola’’ anche con violenza contro il
muro di recinzione costeggiante la via Poiatengo, una sassata fu tanto vigorosa che
quasi le disintegrò la faccia, secondo un’espressione usata dalla P.V. Quindi af-
fondò come le altre la lama. Le tre avevano pure un secondo coltello, più piccolo:
se fu usato non si sa, ma è dubbio irrilevante.
Anche la G.A. udì suor Maria Laura invocare per le sue carnefici il perdono
divino (interrogatorio al Pubblico ministero 5 luglio 2000) e ci rimase male, nien-
t’altro: solo delusione, dunque, perché il suo gesto insensato aveva prodotto qual-
cosa di troppo diverso da quanto si aspettava, perché la giovane e le sue complici
non potevano cogliere l’enormità di quelle parole, la distanza siderale che si frap-
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poneva tra la luminosità grandiosa di quella donna morente e la tenebra dei loro
cuori.
I comportamenti successivi della G.A. non differirono da quelli già descritti:
la macchina dell’Agosti, l’autoscontro, le telefonate, i capelli lunghi sulle spalle sa-
crificati a caschetto. Quindi il tentativo di professarsi innocente e la successiva
resa all’evidenza.
La sua posizione, complessivamente riguardata, induce ad una valutazione
sostanzialmente conforme a quella delle coimputate.
Trattamento sanzionatorio.
Per D.M. e P.V. ritenuta l’inammissibilità dell’appello del Pubblico ministero,
e non essendo stata riconosciuta l’attenuante della minima partecipazione al fatto,
la sentenza di primo grado deve essere confermata.
Ritengono le Difese che ingiustamente il G.U.P. abbia assunto quale pena
base quella di anni 24 di reclusione anziché quella minima di anni 21, ed abbia
applicato le diminuzioni di pena per le concesse attenuanti generiche e per la mi-
nore età in misura di gran lunga inferiore al massimo consentito.
Osserva la Corte, in primo luogo, che a sensi dell art. 133 c.p., nell’esercizio
del suo potere discrezionale, il giudice deve tener conto delle condizioni personali
del colpevole, peraltro nel nostro caso già ampiamente considerate, ma anche del-
l’oggettiva gravità del reato; e poiché è difficile sotto quest’ultimo profilo immagi-
nare un delitto piu grave, truce ed esecrabile di quello di cui si tratta, pare alla
Corte che nessuna delle imputate possa dolersi della pena base indicata; a meno
che non si voglia insistere sulla tesi obsoleta del ‘‘diritto al minimo’’ sempre e co-
munque.
Non esiste l’errore di calcolo rilevato dalla Difesa della P.V. nel computo de-
gli aggravi di pena operato dal G.U.P. a sensi dell’art. 81 c.p. Infatti l’aumento ap-
pare essere stato effettuato in ragione di un mese per ‘‘ciascuno’’ dei reati di cui ai
capi B) e C) e non già di un solo mese per i due reati unitariamente considerati.
L’aggravio complessivo per lei risulta quindi correttamente calcolato in mesi cin-
que di reclusione.
Per il resto, è vero che il primo giudice ha operato riduzioni di pena esigue ex
artt. 98 e 62-bis c.p., ma cio ha fatto non solo valutando l’età delle imputate e la
scarsa consistenza delle ragioni che l’inducevano alla concessione delle attenuanti
generiche, ma soprattutto per adeguare la sanzione alla gravità del reato e dunque,
correttamente, per pervenire alla pena considerata equa.
Infatti, prendendo le mosse da quello che la Corte ritiene giudizio erroneo di
prevalenza delle attenuanti, avrebbe inflitto altrimenti una pena finale assoluta-
mente incongrua, che sarebbe stata offensiva per la memoria di suor Maria Laura
e per il sacrosanto desiderio di giustizia dei parenti della vittima, della consorelle e
di quanti l’amarono.
Nel diluvio di carte processuali, tra i mille arzigogoli di norme e codicilli, con
la mente rivolta al caso interessante di tre giovani soggetti strani da passare al va-
glio della scienza, si finisce facilmente col perdere il senso della realtà.
La realtà è suor Maria Laura, la protagonista vera della storia, di cui troppo
poco forse ci si è preoccupati in questo processo. La realtà è il volto di lei sfigu-
rato, dilaniato per l’appagamento delle sue carnefici. Suor Maria Laura, che con le
parole estreme imploranti il perdono divino non intese raccomandare al mondo e
ai giudici clemenza e tenerezze ma al contrario, dischiodandosi dalla croce volle
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farne carico alle tre sventurate perché ne sperimentassero il tormento. E con esso,
si spera, la potenza salvifica.
La pena di otto anni e mezzo non può essere ulteriormente ridotta. È anzi an-
ch’essa eccessivamente mite. L’errore non è riparabile ma per la Corte, che in-
tende mantenere la propria libertà di giudizio, esso non è ragione di condiziona-
mento e dunque la G.A. sarà condannata alla pena che qui si ritiene giusta. Non
soddisfa, certamente, che si adottino per imputate meritevoli della stessa sanzione
sanzioni difformi: peraltro il sistema normativo del rito abbreviato non determina
in questo caso danni per alcuna di esse ma solo un beneficio, pur senza meriti, per
due di loro.
Pertanto ad A.G. sarà inflitta la pena di anni 12 e mesi 4 di reclusione, così
computata: pena base per l’omicidio, anni 24, come già ritenuto equo dal G.U.P.,
ridotti ad anni 18 per la diminuente della minore età: la riduzione è di un quarto
poiché l’imputata era ormai diciassettenne all’epoca; con aumento di mesi sei a
norma dell’art. 81 c.p. (un mese per ciascuno dei reati di cui ai capi B, C, E, e G,
un mese e 15 giorni per il reato di cui al capo D, 15 giorni per il reato di cui al
capo F), e con la riduzione di un terzo per la scelta del rito abbreviato.
Misure di sicurezza.
Si richiama quanto già esposto. Dunque, alla luce delle valutazioni complessi-
vamente svolte dai vari professionisti che hanno proceduto ai numerosi esami di
personalità delle prevenute, la Corte ribadisce senza alcuna incertezza la sussi-
stenza di grave pericolosità sociale in tutte; ed è assolutamente necessario che
esse, anche a tutela di sé, rimangano sotto appropriato controllo sino a quando il
giudizio suddetto non sia rimosso.
Verranno dunque confermate le disposizioni del primo giudice, e solo si prov-
vederà ad equiparare la posizione della G.A. a quella delle altre imputate, do-
vendo essere per lei ordinato il ripristino della misura cautelare della custodia in
carcere, come richiesto dal Pubblico ministero, con sospensione della misura prov-
visoria in atto.
Messa alla prova.
L’ipotesi di messa alla prova è stata nel presente grado avanzata dalla D.M. e
G.A. ma può essere considerata anche con riguardo alla P.V. condividendosi l’o-
rientamento per il quale il beneficio può essere valutato e concesso dal giudice an-
che senza sollecitazione di parte.
La Corte conferma il giudizio negativo espresso dal G.U.P.
Per definizione infatti i disturbi di personalità non conoscono una remissione
spontanea né a breve termine. La possibilità di trattamento esiste: il più promet-
tente è certamente la psicoterapia individuale mentre quella di gruppo può fornire
un complemento all’intero piano curativo, così come l’uso di farmaci che è consi-
gliabile per limitare le sintomatologie più gravi. Ma i sintomi strutturati nel carat-
tere sono quelli che richiedono una terapia di durata maggiore. Queste patologie,
a differenza delle comuni nevrosi, sono così solidamente ‘‘incastrate’’ nell’indivi-
duo che occorre un intervento prolungato per cambiare in senso evolutivo la strut-
tura stessa del funzionamento mentale. Inoltre nel caso di disturbo borderline di
personalità risulta difficile instaurare un rapporto psicoterapeutico caratterizzato
da una stabile alleanza di lavoro. Molto spesso in questi casi si assiste a brusche
interruzioni della terapia da parte del paziente.
Le tre ragazze, pur nella loro specificità, presentano tutte problemi di iden-
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la sentenza resa dal G.U.P. presso il Tribunale per i Minorenni di Milano il 9 ago-
sto 2001 nei confronti di D.M. e P.V.
Visto l’art. 605 c.p.p., conferma la sentenza stessa nei confronti di D.M. e
P.V. in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiara G.A. colpevole dei
reati a lei ascritti ai capi A), B), C), D), E), F) e G) e riconosciuta la diminuente
del vizio parziale di mente e concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti
le suddette attenuanti e diminuente alle aggravanti della premeditazione e dei mo-
tivi abbietti o futili, applicata la diminuente della minore età, unificati i reati sotto
il vincolo della continuazione, ed operata la riduzione per la scelta del rito abbre-
viato, la condanna alla pena di anni 12 e mesi 4 di reclusione.
Dispone per G.A. il ripristino della misura cautelare della custodia in carcere.
Conferma la misura di sicurezza applicata nei confronti della stessa sospen-
dendone l’esecuzione in corso.
Applica ad G.A. la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per il
periodo di tre anni.
Conferma la disposta confisca. (Omissis).
——————
1. La sentenza che si annota offre il destro per analizzare uno degli aspetti
più problematici del vigente sistema penale minorile: intendiamo riferirci al tratta-
mento sanzionatorio riservato al minore, non imputabile o semi imputabile a ca-
gione di un’infermità, del quale sia stata riconosciuta la pericolosità sociale.
L’individuazione delle misure di sicurezza minorili, già difficoltosa a causa
della carente chiarezza della disciplina originariamente disposta dal codice penale,
è divenuta maggiormente problematica a seguito della relativamente recente ri-
forma del processo penale minorile, che, volta appunto ad adeguare la disciplina
processuale minorile ai principi saldamente affermatisi in sede internazionale, ha
finito per coinvolgere anche i profili sostanziali, alterando gli equilibri interni alla
disciplina codicistica. Ciò spiega l’opportunità di un’analisi che, attraverso il preli-
minare riferimento a quest’ultima, dia conto delle misure di sicurezza minorili at-
tualmente vigenti al fine di verificare la correttezza delle soluzioni prospettate
dalla prassi — in cui si inscrive la presente sentenza — in ordine alla problematica
che più direttamente ci interessa.
2. Il sistema sanzionatorio di tipo dualistico introdotto dal codice Rocco, la
cui elaborazione fu promossa da esigenze di difesa sociale particolarmente avver-
tite dal regime del tempo impegnato a contrastare la dilagante criminalità che ca-
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(1) Cfr., per tutti, E. MUSCO, voce Misure di sicurezza, in Enc. dir., Aggiornamento, I, Milano,
1997, p. 763.
(2) Che le esigenze di prevenzione fossero particolarmente avvertite anche in ordine ai delinquenti
minorenni risulta in modo esplicito dai lavori preparatori del codice ROCCO: cfr. Relazione Ministeriale
sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura
penale, V, Roma, 1929, n. 203.
(3) Risale al 1912 il tentativo di redigere un Codice dei minorenni: l’elaborazione fu affidata ad
una commissione presieduta dal senatore Oronzo Quarta, dal quale prese il nome il relativo progetto che,
però, non ebbe seguito (cfr. G. PACE, Il discernimento dei fanciulli. Ricerche sulla imputabilità dei minori
nella cultura giuridica moderna, Torino, 2000, p. 156 ss.).
In realtà, l’esigenza di riservare ai minori autori di reato un trattamento giuridico differenziato ri-
spetto a quello previsto per gli adulti ha radici antichissime: già nel diritto romano era prevista la totale
impunità per i c.d. infantes, cioè per i minori di sette anni, mentre gli impuberes (così erano definiti i sog-
getti di età compresa tra i sette ed i quattordici anni se maschi, e tra i sette ed i dodici anni se femmine)
erano puniti solo se doli capaces, cioè se avevano agito con dolo, e se non si trattava di un reato omissivo;
i puberes (tali erano i ragazzi dai quattordici anni — dodici se femmine — in su), infine, erano considerati
doli capaces a pieno titolo, ma andavano incontro ad un trattamento punitivo meno severo fino al rag-
giungimento della maggiore età. Tale partizione dell’età, accolta dai giuristi medievali, influenzò le codifi-
cazioni preunitarie e, attraverso il codice Zanardelli, ha trovato ulteriore elaborazione nel codice vigente
(cfr. G. PACE, op. cit., p. 11 ss., al quale si rinvia per una attenta analisi storica sulla problematica dell’im-
putabilità minorile).
Non altrettanto radicata, invece, è la specializzazione dell’organo giudicante per i minori. L’Italia,
infatti, è stato il penultimo Paese (dopo la Svizzera) a provvedere all’istituzione del Tribunale per i mino-
renni, introdotto dal r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404: cfr. L. DE CATALDO NEUBURGER, Analisi storico-giuri-
dica del sistema del processo penale minorile, in Crit. pen., 1990, p. 13.
La differenziazione della risposta istituzionale al reato commesso dal minore, non potendo prescin-
dere sia da una preliminare determinazione dello stadio evolutivo a partire dal quale l’uomo è in grado di
comprendere l’illiceità del comportamento ed il significato della reazione sanzionatoria, sia dalla gradua-
zione dell’intervento in ragione delle caratteristiche di un soggetto psichicamente e fisicamente in forma-
zione, comporta non solo l’indispensabile avallo di altre scienze ai fini dell’individuazione dello stadio di
non imputabilità, ma anche il fondamentale confronto con tutte le altre istituzioni, inclusa la famiglia,
coinvolte nel processo educativo del minore. L’estrema variabilità, nel tempo e nello spazio, delle solu-
zioni adottate, è dovuta proprio a queste complesse intersezioni tra discipline differenti: cfr. M. BOU-
CHARD, voce Processo penale minorile, in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 137 ss., cui si rinvia per
una breve sintesi sull’evoluzione storica del processo penale minorile.
(4) Per una recentissima riproposizione del quadro delle sanzioni criminali e dei relativi presuppo-
sti personali, comprensivo ora di un ‘‘terzo’’ binario, v. G. DE VERO, Introduzione al diritto penale, To-
rino, 2002, p. 73 ss. e 243 ss.
(5) Particolarmente significative sono le indicazioni che emergono dalla lettura dei lavori prepara-
tori: ‘‘La soluzione offerta dal Progetto, del gravissimo problema della delinquenza minorile ... s’inquadra
nel programma del Governo fascista, mirante alla salvezza fisica e morale dei giovani virgulti della stirpe,
che ha culminato nella creazione dell’Opera Nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia
[...]. Nel Progetto la personalità del minore è obbietto di cure assidue, perché questi possa essere salvato
nei primi disorientamenti, e ricondotto sulla diritta via. Il potere discrezionale, concesso al giudice, di ri-
conoscere o meno l’esistenza delle condizioni dell’imputabilità nel periodo dai 14 anni ai 18; le facoltà
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concessegli di astenersi dal giudizio o dalla condanna, di sospendere la esecuzione, e, in determinati casi,
di perdonare al minore degli anni 18, sono i cardini del sistema. Ma questo può intendersi in tutta la sua
portata, solo tenendo presente la disciplina delle misure di sicurezza, che possono essere inflitte al mi-
nore, ed il trattamento penitenziario, al quale egli deve essere sottoposto’’: Relazione, cit., n. 107.
La previsione di una soglia minima di età sotto la quale è sancita l’impunità, la differenziazione del
trattamento processuale e sanzionatorio tra adulto e minore, la specializzazione dell’organo giudicante,
costituiscono, ormai, le linee guida della normativa internazionale in materia minorile. Ci si riferisce, in
particolare, alla raccomandazione dell’assemblea dell’ONU concernente le Regole minime per l’ammini-
strazione della giustizia minorile approvata il 29 novembre 1985 (cosiddette ‘‘regole di Pechino’’) ed alla
Convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall’ONU il 20 novembre 1989 e ratificata e resa esecutiva
in Italia con la l. 27 maggio 1991, n. 176: cfr., per tutti, L. PEPINO, voce Imputato minorenne, in Dig.
disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, p. 287.
(6) Cfr., con particolare chiarezza, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, a cura
di L. Conti, 15a ed., Milano, 2000, p. 608.
(7) I lavori preparatori fanno esplicito richiamo al ‘‘principio della necessaria specializzazione
delle misure di sicurezza, in relazione alla speciale pericolosità delle persone’’: Relazione, cit., n. 222.
(8) Ciò risulta non solo in modo pressoché esplicito dalle disposizioni di cui agli artt. 223 comma
2, 226 comma 1, 231 comma 2 c.p., ma dagli stessi lavori preparatori del codice penale: cfr. Relazione,
cit., nn. 228 e 229.
(9) Il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata trovavano sempre applicazione qualora il minore
fosse stato condannato per delitto durante l’esecuzione di una misura di sicurezza precedentemente inflit-
tagli per difetto di imputabilità (art. 225 comma 2 c.p.). Inevitabile era poi l’operatività della misura del
riformatorio giudiziario in presenza delle forme di pericolosità specifica (art. 226 c.p.). A seguito dell’a-
bolizione dell’istituto della pericolosità presunta per effetto dell’art. 31 l. 10 ottobre 1986, n. 663, l’appli-
cazione di tali misure è comunque subordinata all’accertamento della pericolosità sociale del minore. Sul
particolare contenuto che l’accezione di pericolosità sociale minorile ha assunto a seguito del d.P.R. n.
448 del 1988, v. infra, nota 68.
(10) È da escludere che il minore infradiciottenne possa essere considerato imputabile ai sensi del-
l’art. 98 c.p. quando abbia un livello di maturità psichica assimilabile a quello presunto nel soggetto in
età adulta. Se così fosse, dovrebbe ritenersi, come pure è stato sostenuto, che il legislatore ha indicato nel
‘‘diciottenne normale’’ il parametro alla stregua del quale giustificare la reazione punitiva nei confronti
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del minore; sennonché, laddove il legislatore avesse ritenuto punibile solo il minore che ha acquisito quel
bagaglio di esperienze, conoscenze e capacità volitive di autocontrollo ravvisabili nel soggetto che ha com-
piuto i diciotto anni, avrebbe dovuto elevare di molto l’età imputabile, non essendo ipotizzabile un quat-
tordicenne con un livello maturativo di un diciottenne normale: cfr. A. C. MORO, Manuale di diritto mi-
norile, 2a ed., Bologna, 2000, p. 423. Nel senso qui criticato A. BARSOTTI-G. CALCAGNO-C. LOSANA-P.
VERCELLONE, Sull’imputabilità dei minori tra 14 e 18 anni, in questa Rivista, 1975, p. 1232 ss., secondo
cui il legislatore, presumendo la sussistenza della capacità di intendere e di volere nel diciottenne, ed indi-
cando i difetti di capacità rilevanti in ragione di cause diverse dall’incompiuto sviluppo della personalità
psichica, avrebbe fatto riferimento al livello medio di maturità del ragazzo di 18 anni. Ciò troverebbe con-
ferma e non smentita, come da taluno obiettato (per tutti A.C. MORO, op. cit., p. 423), nella obbligatoria
diminuzione di pena prevista dall’art. 98 c.p.: ai sensi di tale disposizione, infatti, il minore infradiciot-
tenne che ha la capacità di intendere e di volere è imputabile, ma (cioè: nonostante questo) la pena è di-
minuita.
(11) Poiché tanto le alterazioni tossiche quanto quelle dovute a minorazione fisica in tanto rile-
vano in quanto abbiano prodotto effetti analoghi a quelli previsti dalle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89
c.p., per comodità espositiva d’ora innanzi si farà riferimento al vizio totale o parziale di mente.
(12) Cfr. Cass., sez. I, 15 febbraio 1990, n. 2083, Agostinelli, inedita, secondo cui ‘‘immaturità e
infermità mentale sono concetti ontologicamente diversi e i due stati possono, in un minore d’età, coesi-
stere o meno’’; v. anche, fra le altre, Cass. sez. I, 17 marzo 1983, n. 2147, Greco, inedita.
(13) Più precisamente, il legislatore aveva preso esplicita posizione sull’applicabilità della misura
dell’ospedale psichiatrico giudiziario ai minori nel quarto comma dell’art. 222 c.p., specificando che essa
avrebbe dovuto operare anche nei confronti dei minori prosciolti per ragioni di età; ciò implicava chiara-
mente che tale misura di sicurezza dovesse applicarsi ai minori innanzitutto nel caso di proscioglimento
per vizio totale di mente ai sensi del primo comma dello stesso art. 222. Per l’attuale inapplicabilità ai mi-
nori della misura dell’ospedale psichiatrico giudiziario a seguito della declaratoria di incostituzionalità in-
tervenuta sull’art. 222 c.p., v. oltre.
La denominazione ‘‘ospedale psichiatrico giudiziario’’, in luogo dell’originario riferimento al ‘‘mani-
comio giudiziario’’, è stata introdotta dall’art. 62 dell’ord. penit. (l. 26 luglio 1975 n. 354), ma, nella so-
stanza, l’istituto è rimasto invariato.
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ordinato il ricovero in una casa di cura e di custodia’’ (14): ciò ad ulteriore prova
della specialità del riformatorio unicamente rispetto alla misura dell’assegnazione
a una colonia agricola o ad una casa di lavoro, dovendosi riconoscere, a parità di
sanità mentale, la peculiarità della condizione minorile rispetto al soggetto in età
adulta.
Del resto una conferma dell’interpretazione qui avanzata viene dalla disci-
plina dei casi di ‘‘trasformazione di misure di sicurezza’’: per quanto disposto dai
commi secondo e terzo dell’art. 212 c.p., laddove un’infermità psichica colpisca
una persona sottoposta a misura detentiva il giudice deve ordinarne il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia; cessata l’infer-
mità, e persistendo la pericolosità sociale, dovrà ordinarne l’assegnazione ad una
colonia agricola o ad una casa di lavoro ovvero ad un riformatorio giudiziario, se
non ritiene di dover applicare la libertà vigilata. È allora difficile credere che il so-
pravvenire di una infermità determinasse, per il soggetto in età adulta, la possibi-
lità di ricorrere al trattamento maggiormente adeguato alla condizione psichica in
cui versa (ospedale psichiatrico o casa di cura e di custodia); mentre, il minore —
a volersi escludere la sua ricoverabilità in casa di cura e di custodia — sarebbe do-
vuto andare incontro alla trasformazione incondizionata del riformatorio giudizia-
rio in ospedale psichiatrico giudiziario a prescindere dall’entità dell’infermità so-
pravvenuta, oppure, adottandosi un’interpretazione maggiormente rispettosa del
principio di tassatività, al permanere della originaria misura detentiva del riforma-
torio quando la condizione psichica in cui versa sia riconducibile alle previsioni di
cui al comma 1 dell’art. 219 e non dell’art. 222 c.p. Ove sussistessero ancora
dubbi, si tenga infine presente che l’art. 258 del regolamento per gli istituti di pre-
venzione e pena (r.d.l. 18 giugno 1931, n. 787), prevedendo l’assegnazione dei
minori infradiciottenni a sezioni speciali delle case di cura e di custodia, aveva
operato una sorta di interpretazione autentica dell’art. 219 c.p. cui, evidente-
mente, dovrebbe riconoscersi ‘‘forza di generale statuizione’’ (15).
Se l’interpretazione sistematica appena prospettata è esatta, in base all’origi-
naria disciplina codicistica le misure di sicurezza applicabili ai minori erano non
soltanto il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata, ma altresì il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario (16) e — nonostante l’assenza di un’esplicita in-
dicazione a riguardo — l’assegnazione a una casa di cura e di custodia (17).
3. La necessità di provvedere alla limitata specificità delle norme proces-
suali in materia minorile portò alla emanazione del d.P.R. 22 settembre 1988, n.
488, volto a disciplinare, appunto, il processo penale a carico di imputati mino-
renni (18). La nuova normativa, la cui finalità è quella di adeguare i principi gene-
(14) Come è possibile leggere negli stessi lavori preparatori del codice penale, ‘‘il fondamento
della disposizione sta... nella incompatibilità logica della misura di sicurezza con altra detentiva, attesi gli
scopi di cura ad essa inerenti’’: Relazione, cit., n. 230.
(15) I. BAVIERA, Diritto minorile, vol. II, 3a ed., Milano, 1976, p. 159.
(16) V. retro, nota 13.
(17) Sostiene di contro l’inapplicabilità ai minori di quest’ultima misura, R. RICCIOTTI, La giustizia
penale minorile, 2a ed., Padova, 2001, p. 191, secondo cui tale interpretazione negativa è imposta dal
principio di tassatività della legge penale.
(18) Il r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, che aveva provveduto all’istituzione del tribunale per i mino-
renni, costituì un intervento alquanto modesto anche in ragione del suo contenuto normativo composito
caratterizzato dalla presenza di disposizioni di natura ordinamentale, processuale penale, amministrativa
e civile (cfr. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV. Il processo penale minorile, a cura
di G. Giostra, Milano, 2001, p. 4, al quale si rinvia per un ampio ed analitico studio della normativa pro-
cessualpenalistica attualmente vigente nel settore minorile). Ancora una volta, però, la specificità minorile
non suggerì l’emanazione di una distinta codificazione: la l. 16 febbraio 1987, n. 81 (in G.U. 16 marzo
1987, n. 62, Supplemento ordinario) delegava il Governo ad emanare il nuovo codice di procedura penale
(art. 1 l.d.) e a ‘‘disciplinare il procedimento a carico di imputati minorenni al momento della commis-
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rali del rinnovato processo penale alle esigenze ‘‘imposte dalle particolari condi-
zioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educa-
zione’’ (19), pone a suo fondamento i principi generali elaborati in materia dalla
normativa internazionale (20). Il processo minorile viene così a caratterizzarsi in
senso specifico ed ordinato con grande attenzione alle esigenze della personalità in
età evolutiva (21).
In realtà, l’assetto normativo conseguente all’intervento legislativo del 1988 è
tutt’altro che chiaro. La nuova disciplina pone problemi di raccordo con la norma-
tiva preesistente non solo sul piano processuale, a causa dell’assenza di un’espli-
cita abrogazione della disposizioni previgenti, ma anche su quello sostanziale (22).
L’articolato, suddiviso in quattro parti, regola all’ultimo capo il procedimento
sione del reato secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni
imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua
educazione’’, nonché, in particolare, dall’attuazione degli specifici criteri puntualmente indicati nella de-
lega (art. 3 l.d.). Il d.P.R. n. 448 del 1988 disciplina appunto gli istituti e le attività processuali per i quali
è imprescindibile un’autonoma normativa nell’eventualità in cui sia coinvolto, in veste di imputato, un mi-
nore, rinviando, per quanto da esso non previsto, al nuovo codice di procedura penale: cfr. prima parte
del primo comma dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988. Come è possibile leggere nella relazione al progetto
definitivo del decreto di attuazione, l’art. 1 del d.P.R. n. 448 del 1988, lungi dall’essere una norma di
mero rinvio, vuole affermare che il processo minorile ha regole e valenze sue proprie, ma è e rimane un
processo con tutte le garanzie ordinarie: cfr. Relazione al testo definitivo delle disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni, in Gazz. Uff. n. 250, 24 ottobre 1988, p. 219.
Per un’attenta analisi dell’evoluzione storica del sistema penale minorile v. L. DE CATALDO NEUBUR-
GER, op. cit., p. 3 ss.
(19) Così, espressamente, art. 3 l. 16 febbraio 1987, n. 81.
(20) Nella relazione al testo definitivo del d.P.R. n. 448 del 1988, infatti, si fa esplicito richiamo
alle ‘‘Regole di Pechino’’ ed alla Raccomandazione 87/20 del Consiglio d’Europa concernente ‘‘Le rea-
zioni sociali alla delinquenza minorile’’, approvata dal Comitato dei Ministri nella seduta del 17 settembre
1987: ‘‘Queste solenni enunciazioni dei due alti consessi internazionali ribadiscono il diritto del mino-
renne a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano un rinforzo: ma anche pongono in guardia dai rischi
e dai pregiudizi che possono derivare al minorenne dal contatto con l’apparato della giustizia e dall’in-
gresso nel circuito penale; e sollecitano misure che riducano tali rischi, che favoriscano la chiusura antici-
pata del processo nei casi più lievi, che consentano una ‘uscita dal penale’ attraverso interventi precoci di
sostegno e di messa alla prova, che assicurino la specializzazione degli organi e degli operatori della giu-
stizia minorile a tutti i livelli’’: cfr. Relazione al testo definitivo, cit., p. 217.
(21) Cfr. Relazione al testo definitivo, cit., p. 218. Il processo penale minorile, dunque, pur man-
tenendo la sua autonomia, non si concretizza in un sistema genuinamente autarchico, ma sussidiario; al
principio di sussidiarietà fa da necessario completamento quello di adeguatezza applicativa. Una volta de-
limitato il quadro normativo del procedimento a carico di imputati minorenni, secondo quando disposto
dalla proposizione di esordio del primo comma dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, è necessario applicare la
normativa individuata ‘‘in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne’’: cfr.
seconda parte del comma 1 dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988. Per un articolato esame delle problematiche
concernenti i principi di sussidiarietà ed adeguatezza applicativa v. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448
del 1988, in Il processo penale minorile, cit., p. 7 ss.
(22) La clausola di riserva utilizzata dal legislatore nell’art. 1 del d.P.R. n. 448 del 1988, rinviando
al codice di procedura penale per quanto da esso non previsto e non anche per quanto non previsto da al-
tre disposizioni, indurrebbe a ritenere implicitamente abrogate le norme processualpenalistiche in materia
minorile anteriori al suddetto decreto: cfr. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, in Il processo
penale minorile, cit., p. 4, secondo cui l’opposta interpretazione, che ritiene in vigore le disposizioni del
r.d.l. n. 1404 del 1934 non incompatibili con il c.p.p. e con il d.P.R. n. 448 del 1988, avrebbe avuto ra-
gion d’essere laddove la ‘‘formula di salvezza’’ avesse prescritto, nel procedimento a carico di minorenni,
l’osservanza delle disposizioni del decreto medesimo e quelle del codice di procedura penale non ‘‘per
quanto da esse non previsto’’, ma ‘‘per quanto da esse o da altre disposizioni non previsto’’, con una clau-
sola già adottata per il rito pretorile ed oggi pedissequamente riprodotta per il procedimento innanzi al
tribunale in composizione monocratica (cfr. art. 549 c.p.p.). Del resto, lo stesso legislatore del 1934
aveva espressamente fatto salva la disciplina previgente stabilendo in modo esplicito quali dovessero es-
sere i limiti dell’efficacia derogativa della legge: secondo quanto previsto dall’art. 34 del r.d.l. n. 1404,
nelle materie regolate dal decreto in quanto non fosse disposto o modificato dal decreto medesimo, avreb-
bero dovuto continuare ad osservarsi le norme dei codici, delle leggi e dei regolamenti in vigore: evidente-
mente, una volta ridisciplinata la materia, l’assenza di questa esplicita previsione avrebbe determinato l’a-
brogazione della normativa previgente. Contra, G. SPANGHER, in Commento al codice di procedura pe-
nale, Leggi collegate. Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1994, p. 25, secondo cui,
in mancanza di disposizioni abrogative espresse e nella legge delega e nel d.P.R. n. 448 del 1988, la nor-
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mativa dettata dal r.d.l. n. 1404 del 1934 deve ritenersi in vigore nelle parti non incompatibili con il co-
dice di procedura ordinaria e con le disposizioni sul processo penale minorile.
(23) Il capo I concerne i principi fondamentali della materia e disciplina l’aspetto ‘‘statico’’ del
processo; il capo II è interamente dedicato ai provvedimenti in materia di libertà personale; nel capo III,
invece, è disciplinato l’aspetto ‘‘dinamico’’ del processo.
(24) Cfr. A.C. MORO, op. cit., p. 437.
(25) Ai sensi dell’art. 19 comma 1 d.P.R. n. 448 del 1988 ‘‘nei confronti dell’imputato minorenne
non possono essere applicate misure cautelari personali diverse da quelle previste’’ nel capo del decreto
ad esse relativo: cfr. C. PANSINI, Applicazione provvisoria di misure di sicurezza nel nuovo processo pe-
nale minorile (a proposito della sent. cost. n. 182 del 1991), in Giur. cost., 1991, p. 4134 s.
(26) Ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, ‘‘la misura di sicurezza della libertà vigilata appli-
cata nei confronti di minorenni è eseguita nelle forme previste dagli artt. 20 e 21. La misura di sicurezza
del riformatorio giudiziario è applicata soltanto in relazione ai delitti previsti dall’art. 23, comma 1, ed è
eseguita nelle forme dell’art. 22’’.
(27) Cfr. M.G. COPPETTA, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV., Il processo penale mino-
rile, a cura di G. Giostra, Milano, 2001, p. 436 s.
(28) Cfr. L. FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile?, in questa Ri-
vista, 1993, p. 634.
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comma 5 d.P.R. n. 448 del 1988, con l’inevitabile effetto ‘‘a cascata’’ che contrad-
distingue la trasgressione delle misure cautelari (29).
(29) F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento al codice di procedura penale,
leggi collegate I, Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1994, p. 396. Per quanto ri-
guarda, in particolare, la trasgressione della misura del riformatorio giudiziario, sostengono l’operatività
del comma 4 dell’art. 22 d.P.R. n. 448 del 1988, e, dunque, l’applicazione della custodia cautelare, R.
RICCIOTTI, op. cit., p. 208 in nota; F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. 488 del 1988, in Commento, cit., p. 398
s., la quale ha precisato che ‘‘si può comunque ipotizzare che il minore collocato in comunità, il quale tra-
sgredisca gravemente e ripetutamente le prescrizioni, possa essere trasferito più volte nell’istituto peniten-
ziario, anche se per un periodo massimo di trenta giorni’’.
Questo orientamento trova conforto nella giurisprudenza di legittimità: v. Cass. 16 gennaio 1991, in
Cass. pen., 1992, p. 1507, secondo cui ‘‘in materia di misure di sicurezza, il rinvio operato dall’art. 36
d.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, per le modalità di esecuzione della misura di sicurezza riguardante i mi-
nori, all’art. 22 stesso decreto implica l’applicabilità della complessiva disciplina prevista in tale articolo,
anche per quanto riguarda la sanzione contemplata nel comma quarto, ma non trasforma la misura di si-
curezza in una misura cautelare, perché è stata attuata una trasposizione di forme e di modalità esecutive
e non una sovrapposizione e identificazione degli istituti, che rimangono ben differenziati per ciò che at-
tiene ai loro presupposti, alle rispettive finalità e alla disciplina propria che non riguarda le modalità ese-
cutive. Ne consegue che anche la restrizione prevista dal quarto comma del citato art. 22 costituisce un
inasprimento sanzionatorio della misura di sicurezza prevista per reprimere gravi e ripetute inosservanze
alla disciplina nel corso dell’esecuzione della misura o allontanamenti ingiustificati’’. La Corte Suprema,
però, esclude la sostituzione del collocamento in comunità con la custodia cautelare nei confronti dei mi-
nori infraquattordicenni, data la loro inimputabilità: Cass. 10 settembre 1997, n. 4847, D’Andrea, CED
Cass. 208350. Contra G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico al
cod. pen., vol. III, Milano, 1994, p. 470; F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Mi-
lano, 1991, p. 566; C. PANSINI, op. cit., p. 4134; S. DI NUOVO-G. GRASSO, Diritto e procedura penale mi-
norile, Milano, 1999, p. 461. Per questa opposta interpretazione, in caso di trasgressione delle prescri-
zioni inerenti al collocamento in comunità, deve trovare applicazione la disciplina generale di cui all’art.
214 c.p., che prevede un nuovo decorso della stessa misura di sicurezza. Tale conclusione sarebbe impo-
sta, oltre che dalla lettera dell’art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, dalla diversità ontologica dei due istituti
(misura di sicurezza l’una, misura cautelare l’altra): G. GRASSO, Commentario, cit., p. 470.
Non sono mancate interpretazioni volte a sostenere la contestuale operatività degli artt. 22, comma
4 d.P.R. n. 448 del 1988 e 214 c.p., per cui, in caso di trasgressione della misura del riformatorio giudi-
ziario, il minore dovrebbe essere sottoposto alla custodia in carcere per un nuovo mese, dovendo operare
ab initio il decorso della misura. In questo senso V. MUSACCHIO, Le misure di sicurezza nel nuovo pro-
cesso penale minorile, in Giust. pen., 1996, III, c. 57 s.; R. RICCIOTTI, op. cit., p. 209 s. Contra Cass., 16
gennaio 1991, cit., secondo cui ‘‘in materia di misure di sicurezza riguardanti minori, la nuova disciplina
introdotta dall’art. 36, comma secondo, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 488 sulla revisione delle moda-
lità esecutive della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, in coerenza con le finalità rieducative
e con le esigenze psicologiche dei minori, implica che non è più applicabile — in presenza della specifica
sanzione prevista dall’art. 22 comma quarto stesso decreto per il minore che si sottragga o contravvenga
alla misura di sicurezza e alla sua disciplina — la disposizione dell’art. 214 c.p., per una evidente incom-
patibilità sia con la disciplina di attuazione generale della misura sia con la specifica previsione normati-
va’’.
Invero, si è anche sostenuta l’inapplicabilità di entrambe le norme: all’impossibilità di una ‘‘progres-
sione sanzionatoria espressamente prevista per la sola violazione delle prescrizioni inerenti alle misure
cautelari’’, si aggiungerebbe, infatti, l’inutilità del ‘‘rimedio previsto dall’art. 214 c.p., vanificato dal fatto
che la ‘sanzione’ in esso prevista non sarebbe comunque coercibile’’: L. FORNARI, op. cit., p. 633.
Considerazioni analoghe a quelle svolte in tema di riformatorio giudiziario hanno indotto a soste-
nere l’operatività degli artt. 20, comma 3 e 21 comma 5 d.P.R. n. 448 del 1988 nel caso dell’inosservanza
degli obblighi relativi alla libertà vigilata. Secondo quest’indirizzo, ‘‘per un effetto a cascata, la misura
(meno afflittiva) della libertà vigilata potrà assumere addirittura forme detentive anche nel caso in cui si
sia inizialmente disposta la misura delle prescrizioni ex 20 disp. proc. min., sempre che il minore si dimo-
stri particolarmente restio all’inosservanza degli obblighi imposti e reiteri (anche nel corso della perma-
nenza in casa) le violazioni’’: F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento, cit., p. 396 s.;
cfr. anche R. RICCIOTTI, op. cit., p. 215; contra G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 470; C. PANSINI, op.
cit., p. 4134; S. DI NUOVO-G. GRASSO, op. cit., p. 459. Più specificamente, si è obiettato che la vera que-
stione concerne l’applicabilità del comma 3 dell’art. 21 d.P.R. n. 448 del 1988, mentre nessun dubbio do-
vrebbe sussistere sull’operatività del comma 5 dell’art. 20 del medesimo decreto, ‘‘anche perché in questo
caso il giudice, applicando la misura della permanenza in casa, non ricorre che ad una delle due possibili
forme di esecuzione della stessa misura e cioè della libertà vigilata’’: G. GRASSO, in Commentario, cit., p.
473 s. Quanto alla prima delle disposizioni richiamate, invece, dovrebbe escludersene l’applicabilità, ri-
correndosi, per le ipotesi cui essa si riferisce, alla disciplina prevista dall’art. 231 c.p.. Ciò per due ordini
di ragioni: in primo luogo applicando l’art. 21 comma 5 anche alle trasgressioni della misura di sicurezza
della libertà vigilata si estenderebbe l’operatività del collocamento in comunità al di fuori delle ipotesi in-
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dicate nell’art. 23 d.P.R. n. 448 del 1988; inoltre si giungerebbe all’‘‘inaccettabile conseguenza della sosti-
tuzione di una misura non-detentiva, quale la libertà vigilata, con altra detentiva, in palese contrasto con
il principio di legalità che permea l’intera disciplina delle misure di sicurezza’’: G. GRASSO, in Commenta-
rio, cit., p. 474.
(30) Per le interpretazioni conformi a quella da noi accolta, v. nota precedente, cui si rinvia per
una sia pur sintetica esposizione delle considerazioni utili a sostenerla.
(31) In realtà problemi interpretativi si pongono anche in relazione all’applicabilità dell’art. 232
c.p. che, con riferimento alla persona di età minore, prevede la sostituzione della libertà vigilata con il ri-
formatorio giudiziario in tre ipotesi: impossibilità di affidare il soggetto ‘‘ai genitori, o a coloro che ab-
biano l’obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale’’;
inopportunità di tale affidamento; manchevole manifestazione di ravvedimento. Sennonché, è stato rile-
vato che la sostituzione per difficoltà organizzative, come previsto dall’art. 232 c.p., commi 1 e 2, non solo
urta con la nuova fisionomia della libertà vigilata data la vasta gamma di modalità esecutive per essa pre-
vista, ma è anche inconciliabile con i limiti di operatività del riformatorio, applicabile solo per una ri-
stretta serie di delitti. Per gli stessi motivi dovrebbe escludersi l’operatività della sostituzione per mere ra-
gioni di opportunità, come prescritto dal comma 2 dell’art. 232 c.p.; né potrebbe essa considerarsi possi-
bile nel caso in cui il minore non dia prova di ravvedimento, come disposto dal comma 3 dell’articolo di
cui si discute, data la difficile conciliabilità di tale condizione soggettiva con i principi introdotti in mate-
ria di misure di sicurezza dalla più recente legislazione: G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 474 s.; cfr.
anche L. FORNARI, sub art. 232, in A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale,
3a ed., Padova, 1999, p. 646. Del resto, laddove il mancato ravvedimento dovesse consistere in un’inos-
servanza delle prescrizioni comportamentali imposte al minore, troverebbe applicazione l’art. 231 c.p.: G.
GRASSO, in Commentario, cit., p. 475; contra, R. RICCIOTTI, op. cit., p. 202 e 215.
Minori incertezze sussistono, invece, sul superamento dell’art. 227 c.p. — peraltro scarsamente im-
piegato — per effetto dell’art. 36 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988: la creazione di stabilimenti o sezioni
speciali in ragione dell’intensità della pericolosità è strutturalmente incompatibile con la realtà comunita-
ria e con gli obiettivi che le sono propri: L. FORNARI, sub art. 227, in Commentario breve, cit., p. 640; G.
GRASSO, in Commentario, cit., p. 485; S. DI NUOVO-G. GRASSO, op. cit., p. 457; F. PIRONTI, sub art. 37
d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento, cit., p. 400, in nota.
(32) Cfr. M.G. COPPETTA, sub art. 36, in Il processo penale minorile, cit., p. 437.
(33) M.G. COPPETTA, sub art. 36, in Il processo penale minorile, cit., p. 437. In realtà, un’indica-
zione implicita è rinvenibile nel rinvio operato dall’art. 37, comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988 alle condi-
zioni previste dall’art. 224 del codice penale fra cui figurano le ‘‘condizioni morali della famiglia in cui il
minore è vissuto’’: queste ultime, infatti, saranno elemento utile alla scelta della misura più confacente
alle necessità educative, consigliando di evitare l’affidamento del soggetto alla famiglia, quando risulti
inopportuno, e di preferire, dietro riscontri oggettivi, l’affidamento agli organismi della giustizia minorile:
V. MUSACCHIO, Il sistema delle misure di sicurezza minorili tra problematiche costituzionali, esigenze di
difesa sociale e necessità di rieducazione, in Giur. merito, 1996, p. 424.
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nate ai soggetti in età minore (34). Nonostante l’entrata in vigore del d.P.R. n.
448 del 1988 avesse messo in discussione l’eseguibilità di questa misura nei con-
fronti dei minori, non essendo essa prevista fra quelle per le quali la nuova norma-
tiva aveva disciplinato le modalità applicative, la dottrina prevalente, ritenendo
comunque operativo il comma 4 dell’art. 222 c.p., non mancò di sottolineare la
forte censurabilità dell’equiparazione in esso prevista tra adulti e minori (35); e
ciò a maggior ragione ove si consideri che l’art. 23 d.lgs. n. 272 del 1989, in attua-
zione delle nuove disposizioni sul processo penale minorile, aveva dato la possibi-
lità di disporre l’esecuzione delle misure cautelari della permanenza in casa e del
collocamento in comunità ‘‘in luogo di cura pubblico o privato’’ laddove il mino-
renne si trovasse in stato di infermità (36).
Nel 1998, i rilievi della dottrina trovarono eco nella giurisprudenza costitu-
zionale. Con la sentenza n. 324 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 222 commi 1 e 2, del Codice penale, ‘‘nella parte in cui prevede l’applica-
zione anche ai minori della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psi-
chiatrico giudiziario’’ non essendo prevista, per la sua esecuzione, alcuna modalità
che tenga conto delle specifiche esigenze dei minori (37); ha dichiarato altresì l’il-
legittimità costituzionale del comma 4 del medesimo articolo, che estendeva l’ap-
plicabilità della anzidetta misura anche al minore infermo di mente prosciolto a
cagione di età. Consapevole del vuoto normativo che tale pronuncia avrebbe com-
portato, la Consulta ha precisato che è compito del legislatore colmarlo ‘‘con pre-
visioni adeguate, anche in ordine all’apprestamento delle conseguenti misure orga-
nizzative e strutturali’’ (38).
In attesa di un intervento normativo in questa direzione si pone il problema
della ‘‘misura’’ da applicare al minore, socialmente pericoloso, in stato di infer-
mità psichica o in condizioni ad essa assimilate tali da comportare vizio totale di
mente e che sia stato prosciolto per tale causa; laddove il proscioglimento avvenga
invece per ragione d’età, potranno trovare applicazione le misure del riformatorio
giudiziario e della libertà vigilata da eseguirsi nelle forme per essi previste dal
d.P.R. n. 448 del 1988.
In realtà, già anteriormente alla pronuncia della Corte costituzionale, presso
i giudici di merito era invalsa la prassi di disporre, anche in caso di prosciogli-
mento per vizio di mente, le misure del riformatorio giudiziario o della libertà vi-
gilata, ritenute più idonee a rispondere alle particolari esigenze curative del mi-
nore (39). In linea con questo orientamento, a fronte della sopravvenuta declara-
toria di illegittimità della disposizione di cui all’art. 222 c.p., si è pronunciato il
Tribunale per i minorenni di Milano, avverso la cui decisione è stato presentato
l’appello che ha dato origine alla sentenza che qui si annota. Il giudice di primo
grado aveva assolto una minore ultraquattordicenne — accusata di aver com-
messo, in concorso con due coetanee, una serie di reati culminati nella consuma-
zione di un omicidio volontario — riconoscendola affetta da vizio totale di mente.
Accertatane la pericolosità sociale, le aveva poi applicato la misura di sicurezza
del riformatorio giudiziario, da eseguirsi nelle forme del collocamento in comunità
ex art. 22 d.P.R. n. 448 del 1988, ritenendo tale applicazione ‘‘conforme al prin-
cipio di legalità’’, ed in ciò confortato da una pronuncia della Corte di cassazione
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che, nel 1999, aveva avuto modo di occuparsi della questione: sentenza cui il giu-
dice di merito rinvia (40).
Si rende a tal punto necessario un approfondimento, al fine di verificare gli
esatti termini in cui si è espressa la giurisprudenza di legittimità nel dichiarare ap-
plicabile la misura del riformatorio giudiziario anche al soggetto che, avendo com-
piuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto, sia stato riconosciuto non impu-
tabile per una delle cause indicate nel comma 1 dell’art. 222 c.p. Poiché ai sensi
del comma 3 dell’art. 224 c.p. tale misura trova applicazione nei confronti degli
infradiciottenni prosciolti ‘‘a norma dell’art. 98’’, cioè in quanto minori e non per
vizio di mente, si trattava di accertare se tale soluzione fosse compatibile con il
principio di legalità alla luce di quanto disposto dal comma 3 dell’art. 25 Cost. e
dall’art. 199 c.p.: applicando il riformatorio giudiziario ad un soggetto prosciolto
non già a cagione di età, ma per vizio totale di mente (sia pure trattandosi di un
minore), si profila infatti il rischio di applicare una misura di sicurezza al di fuori
dei casi previsti dalla legge.
La Suprema Corte ha concluso per l’esito positivo di tale accertamento, rite-
nendo che, benché l’infermità psichica di cui all’art. 88 c.p. e l’immaturità che
comporta l’esclusione dell’imputabilità ai sensi dell’art. 98 c.p. siano ‘‘cause onto-
logicamente diverse e tra di loro indipendenti’’, l’ampia formulazione dell’art. 98
c.p., cui il comma 3 dell’art. 224 rinvia, renderebbe tale disposizione ‘‘in sé idonea
a ricomprendere tutti i casi in cui il minore manchi della capacità di intendere e di
volere e quindi anche le ipotesi di vizio totale di mente’’ (41).
In realtà questa soluzione non sembra accettabile, né sotto il profilo della
compatibilità con il principio di legalità, né in ordine alle conseguenze pratiche cui
conduce.
Per quanto concerne l’asserita compatibilità con il principio di legalità, effetti-
vamente, venuta meno la norma di cui al comma 1 dell’art. 222, l’unica disposi-
zione cui potersi riferire per colmare la lacuna normativa creatasi è l’art. 224 c.p.
rubricato, appunto, ‘‘minore non imputabile’’. È pur vero, però, che quest’ultima
disposizione concerne i minori, socialmente pericolosi, non imputabili ai sensi de-
gli artt. 97 e 98, disposizioni, queste ultime, poste a conclusione del capo che, nel
primo libro del codice penale, è dedicato all’imputabilità. Ora, una lettura siste-
matica delle norme contenute in tale capo non può che condurre alla conclusione
che l’art. 98 concerne l’esclusione dell’imputabilità del minore in ragione della sua
immaturità intellettiva e volitiva, e non anche di una sua eventuale infermità (42):
dunque, benché l’art. 98 menzioni la capacità di intendere e di volere al pari degli
art. 85 ss., in realtà esso allude, più propriamente, alla maturità fisio-psichica del
minore (43). Ulteriore conferma di quanto detto viene proprio dall’ultimo capo-
verso dell’art. 224 c.p.: se il legislatore avesse voluto riconoscere all’art. 98 l’am-
pia formulazione oggi attribuitagli dalla Corte di cassazione, non ne avrebbe fatto
esplicito richiamo nella prima disposizione, in quanto sarebbe stato sufficiente il
riferimento al minore di anni diciotto ‘‘riconosciuto non imputabile’’, senza neces-
sità di precisare che detto riconoscimento debba avvenire ‘‘a norma dell’art.
98’’ (44).
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della disposizione significa [...] che il codice ha voluto delimitare, entro confini ben precisi, la sfera di
operatività dell’art. 98, sí da impedire che si facessero entrare, in questo, ipotesi proprie di altre norme’’.
(45) Cfr. M. ROMANO, op. cit., p. 77; M. BERTOLINO, sub art. 98, in Codice penale, cit., p. 855.
Si noti che il quarto comma dell’art. 228 del Progetto definitivo del codice Rocco, corrispondente al
quarto comma dell’attuale art. 222, faceva riferimento ai soli minori degli anni 14 che, trovandosi in una
delle condizioni indicate nel primo comma, avessero commesso un fatto di reato, senza accenno alcuno ai
minori infradiciottenni. Nella relazione che accompagnava tale Progetto, però, si precisava che nessun
dubbio doveva esservi sulla estensione della norma anche ai minori di età compresa tra i quattordici e i di-
ciotto anni ritenuti dal giudice non imputabili. L’attuale formulazione della disposizione, facendo esplicito
riferimento anche ai minori infradiciottenni, prosciolti per ragioni di età, lascia intendere che tali soggetti
possano essere prosciolti anche per ragioni diverse da quelle di cui all’art. 98. La lettera del comma 4 del-
l’art. 222, infatti, sembrerebbe condurre al seguente risultato ermeneutico: le disposizioni di questo arti-
colo si applicano... ai maggiori dei quattordici e minori dei diciotto anni, anche se prosciolti per ragioni di
età, ove si trovino in alcuna delle condizioni di cui agli art. 88, 95 e 96: cfr. M. PORTIGLIATTI BARBOS-G.
MARINI, op. cit., p. 82 s. Inoltre, l’inciso ‘‘prosciolti per ragione di età’’, assente nella formulazione del-
l’art. 228 del Progetto definitivo, depone a favore dell’interpretazione secondo cui i minori infraquattordi-
cenni non possono essere prosciolti per motivi diversi da quelli di cui all’art. 97 c.p. In proposito va ricor-
dato che l’art. 26 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 impone al giudice l’obbligo di pronunciare, anche
d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, sentenza di non luogo a procedere quando accerta che
l’imputato è minore degli anni quattordici.
(46) Giova qui ricordare che l’art. 212 c.p., in ragione della diversa finalità sottesa alle misure di
sicurezza di cui si discute, dispone ai commi secondo e terzo che ‘‘se la persona sottoposta ad una misura
di sicurezza detentiva è colpita da una infermità psichica, il giudice ne ordina il ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Quando sia cessata l’infermità, il giudice,
accertato che la persona è socialmente pericolosa, ordina che essa sia assegnata ad una colonia agricola o
ad una casa di lavoro, ovvero a un riformatorio giudiziario, se non crede di sottoporla a libertà vigilata’’.
(47) È indiscusso che il divieto di analogia, nonostante il silenzio del legislatore costituente, debba
ritenersi implicitamente costituzionalizzato, obbedendo esso alla medesima ratio di garanzia della libertà
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che fino a quando l’interprete, nell’esegesi della norma, annovera i casi cui essa si
riferisce nel rispetto sia della lettera della stessa sia della sua ratio, l’interpreta-
zione c.d. estensiva è legittima; ma quando la norma, pur nel rispetto del suo si-
gnificato semantico, viene applicata a casi non coerenti con le finalità ad essa sot-
tese, e quindi in definitiva estranei al suo ambito di operatività ridimensionato in
chiave teleologica, siamo al di là di ciò che il principio di stretta legalità con-
sente (48). Ed è proprio in quest’ultimo senso che ha operato la Cassazione, lad-
dove, invece, sarebbe stato opportuno, se non doveroso, il ricorso ad una interpre-
tazione di tipo restrittivo dell’art. 224 comma 3 c.p. (49).
Come già accennato, parimenti discutibili sono le conseguenze pratiche cui
conduce la soluzione prospettata dalla Suprema Corte. Laddove, infatti, il minore
infermo di mente al quale sia stato applicato il riformatorio giudiziario si sot-
traesse all’esecuzione della misura, ne dovrebbe seguire, coerentemente con
quanto affermato in altra sede dalla Corte di cassazione, l’applicazione della cu-
stodia cautelare in carcere (50): sicché si avrebbe il recupero, in sede esecutiva, di
una sorta di pena detentiva già ritenuta inapplicabile in sentenza a causa della to-
tale assenza di imputabilità (51). Quest’ultimo inconveniente, già deprecabile nel
caso in cui riguardi il minore ritenuto non imputabile ai sensi dell’art. 98 c.p., è
del tutto insostenibile quando interessi soggetti la cui pericolosità ha origine da
cause patologiche. Fra l’altro, essendo la comunità demandata a ricevere soggetti
del cittadino in generale sottesa al principio nullum crimen sine lege: cfr., fra gli altri, G. FIANDACA-E.
MUSCO, Diritto penale, parte generale, 4a ed., Bologna, 2001, p. 791; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte
generale, 4a ed., Padova, 2001, p. 94; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Milano,
2001, p. 167 ss. Riconosce natura materialmente costituzionale all’art. 14 disp. prel. c.c. e agli artt. 1 e
199 c.p. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, 7a ed., 2000, p. 90 s.
(48) La stessa ammissibilità di una interpretazione estensiva in diritto penale non è del tutto paci-
fica: non è un caso che il Progetto di riforma costituzionale (Progetto di legge costituzionale 4 novembre
1997), vietava espressamente non solo l’interpretazione analogica delle leggi penali, ma anche la loro in-
terpretazione estensiva (art. 129 comma 3): in argomento v. G. FIANDACA, La giustizia penale in bicame-
rale, in Foro it., 1997, V, c. 161 ss. Come è stato correttamente osservato, però, l’interpretazione esten-
siva ‘‘non è una species diversa di interpretazione. È una normalissima interpretazione, valutata dal punto
di vista del suo risultato. L’insieme dei casi cui la norma si applica risulta, a seguito del processo interpre-
tativo (che ovviamente comprende anche il momento teleologico), più ampio di quel che era sembrato a
prima vista. Ma si tratta pur sempre di casi che rimangono entro l’insieme delineato dalla proposizione
linguistica contenuta nella legge ... Il momento teleologico della interpretazione incontra tale limite logico.
Nel caso dell’analogia, tale limite viene superato’’ (A. PAGLIARO, Testo e interpretazione nel diritto penale,
in questa Rivista, 2000, p. 441). Il divieto di applicazione analogica delle disposizioni incriminatrici, dun-
que, appare pienamente giustificato poiché ‘‘mentre l’interpretazione estensiva suppone che il significato
della disposizione, se ben inteso, sia idoneo a disciplinare anche il caso concreto per il quale si ricerca la
regola, l’analogia presuppone tutto il contrario: cioè la riconosciuta inidoneità della disposizione — per
via del limite logico che le è proprio — a fornire una soluzione del problema corrispondente alla visuale
teleologica’’. Non potrebbe giustificarsi, invece, il divieto di interpretazione estensiva delle leggi penali,
poiché essa ‘‘non è una forma specifica di interpretazione, ma è un risultato dell’interpretazione stessa, in
dipendenza del fatto che il risultato di un corretto procedimento esegetico ha, in un caso particolare, una
portata più vasta di quello che si poteva pensare a una prima sommaria indagine (attraverso il momento
letterale della interpretazione). Negarne la validità significherebbe, in questi casi, vietare la interpreta-
zione corretta per privilegiare una interpretazione superficiale’’ (A. PAGLIARO, Testo e interpretazione,
cit., p. 441). Sui più recenti sviluppi della teoria dell’interpretazione cfr. G. FIANDACA, Ermeneutica e ap-
plicazione giudiziale del diritto penale, in questa Rivista, 2001, p. 353 ss.
(49) È bene precisare, coerentemente con quanto affermato nella nota precedente, che non ha
molta importanza la distinzione ricorrente in dottrina tra interpretazione ‘‘dichiarativa’’, ‘‘estensiva’’ e
‘‘restrittiva’’: in realtà l’unico risultato che conti per l’interpretazione ‘‘è il risultato corretto, cioè quello
cui si perviene attraverso l’appropriato svolgersi dei diversi momenti dell’interpretazione’’, a nulla rile-
vando il risultato esegetico diverso che sembrava profilarsi ad una prima impressione: cfr. A. PAGLIARO,
Principi di diritto penale, cit., p. 80 s.
(50) V. supra, nota 29.
(51) Cfr. D. BALDINO, Minori infermi di mente e socialmente pericolosi: dall’ospedale psichiatrico
al collocamento in comunità, in Giur. it., 2000, p. 1479, che, pur condividendo la pronuncia della Cassa-
zione sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, è costretto ad ammetterne l’impraticabilità
quanto alle concrete conseguenze che ne derivano.
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(56) Cfr. F. ZAVATARELLI, sub art. 219, in Codice penale commentato, cit., p. 1337: si aggiunga
che sul piano operativo questa misura non ha mai dato luogo alla predisposizione di istituti psichiatrici
strutturalmente autonomi, concretizzandosi quale mera sezione-reparto degli ospedali psichiatrici giudi-
ziari e determinando, di fatto, un regime trattamentale indifferenziato rispetto alle diverse categorie di ri-
coverati.
(57) Cfr. Corte cost. 24 luglio 1998 n. 324, in Giust. pen., 1999, I, c. 143.
(58) Sulla persistenza del carattere coercitivo del riformatorio giudiziario nonostante l’intervento
del d.P.R. n. 448 del 1988, v. G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 468.
(59) Per una efficace sintesi delle contraddizioni che caratterizzano il sistema del doppio binario v.
G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., p. 649 s.; da ultimo G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 87 ss.
(60) Si noti, peraltro, che per effetto della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 223 c.p.,
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può attribuirsi ad una tale sconsiderata, seppure in atto legittima, scansione cro-
nologica delle due distinte sanzioni applicate?
In realtà sarebbe stato opportuno (se non ineludibile) un intervento norma-
tivo in sede di disciplina sostanziale che, quanto meno per i minori, innovasse l’at-
tuale assetto sanzionatorio, dando così vita ad un ‘‘sistema penale minorile’’ real-
mente autonomo, non più sganciato dalla disciplina generale sul solo piano pro-
cessuale: la specificità della condizione minorile manifesta l’esigenza della specia-
lizzazione dell’intera disciplina che la riguarda, non di una sola parte di essa.
In proposito, nell’alternativa tra l’adozione di un sistema di tipo monistico,
cioè caratterizzato dalla previsione di un solo tipo di sanzione (61), ed il manteni-
mento del sistema di tipo dualistico attualmente vigente, la soluzione più idonea
sembra essere, ancora una volta, frutto di un ragionevole compromesso. Esiste un
modello sanzionatorio che, sebbene si atteggi come dualistico in sede di commina-
toria legale, assume, nella fase esecutiva, le caratteristiche proprie dei sistemi mo-
nistici: è il sistema vicariale che, pur prevedendo l’applicabilità congiunta di pena
e misura di sicurezza, di regola anticipa l’esecuzione di quest’ultima rispetto alla
pena, disponendo il computo della durata della misura in quello della pena (62).
Il modello vicariale, mantenendo lo schema classico del sistema del doppio
binario nella sola fase del giudizio di cognizione e realizzando, invece, un tratta-
mento tendenzialmente unitario in fase esecutiva, sembra rappresentare la ‘‘solu-
zione ottimale in grado di garantire gli esiti più razionali e rispettosi dei diritti di
(ri)educazione e libertà del soggetto’’, in quanto consente di sfruttare al massimo
‘‘la funzionalità special-preventiva comune alle due sanzioni, parimenti tese’’ al
miglioramento del reo ad esse assoggettato, soddisfacendo immediatamente,
‘‘senza attese superflue o addirittura dannose, le specifiche esigenze curative del
soggetto’’ (63). La più proficua attuazione in sede comparatistica di questo si-
stema, sembrerebbe essere quella realizzata dal codice penale spagnolo: l’ineludi-
bile priorità esecutiva della misura di sicurezza detentiva rispetto alla pena, la to-
tale deducibilità della prima dalla durata della seconda e la possibilità di sospen-
dere l’esecuzione della pena residua o di sostituire quest’ultima con altra misura
non detentiva laddove l’esecuzione della pena possa esporre a pericolo i risultati
il conseguimento della maggiore età determinerà la sostituzione della misura del riformatorio giudiziario
con la libertà vigilata ‘‘salvo che il giudice ritenga di ordinare l’assegnazione a una colonia agricola, o ad
una casa di lavoro’’; con l’assurda possibile conseguenza che trovi applicazione in capo alla giovane
adulta semi inferma quest’ultima misura di sicurezza, che mai avrebbe potuto avere esecuzione nei suoi
confronti ove avesse perpetrato il reato dopo il compimento del diciottesimo anno di età, data l’impossibi-
lità di applicare altra misure di sicurezza detentiva ‘‘quando deve essere ordinato il ricovero in una casa di
cura e di custodia’’ (art. 219 comma 4).
(61) Diverse sono le modalità di attuazione dei sistemi monistici: l’applicazione di un unico tipo di
sanzione può essere dovuto o alla effettiva previsione di un unico strumento sanzionatorio, o alla previ-
sione congiunta di pene e misure di sicurezza da irrogare, però, in via alternativa: cfr. G. GRASSO, in M.
ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 361. Quest’ultimo modello sanzionatorio è stato preferito nei
recenti progetti di riforma del codice penale: tanto il Progetto del 1992 (Progetto Pagliaro), quanto i Pro-
getti del 1995 (Progetto Riz) e del 2000 (Progetto Grosso), riservano la misura di sicurezza al solo sog-
getto totalmente non imputabile, prevedendo l’applicabilità esclusiva della pena non solo all’imputabile,
ma anche al semi imputabile.
(62) Cfr. G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 360 s.
(63) Cfr. L. FORNARI, Misure di sicurezza, cit., p. 596 ss., il quale critica le modalità con cui il si-
stema vicariale è stato recepito dal nuovo codice penale tedesco: invero non può negarsi che la possibilità
per il giudice di anticipare l’esecuzione della pena, la computabilità della durata della misura solo sino ai
due terzi della durata della pena inflitta e l’esclusione dalla vicarietà della custodia di sicurezza, limitano
fortemente le potenzialità di questo sistema.
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(64) (Il) Codice penale spagnolo, Padova, 1997, p. 99. Si aggiunga che lo stesso codice vieta la
possibilità di applicare al reo semi imputabile una misura eccedente la durata della pena comminata per il
delitto e, al reo non imputabile, una misura eccedente la pena che sarebbe stata inflitta se ne fosse stata
accertata l’imputabilità: artt. 101-103 e 104 del medesimo codice.
(65) Sul punto cfr. G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 94 ss.
(66) Quanto qui prospettato ha trovato parziale riconoscimento — come rileva M. ROMANO, in M.
ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 373 ss. — in una pronuncia della Corte costituzionale (Corte
cost., 19 giugno 1975, n. 146, in Giur. cost., 1975, p. 1372) che, dichiarando l’illegittimità dell’art. 148
del codice penale ‘‘nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero nel manicomio giudi-
ziario del condannato caduto in stato di infermità psichica durante l’esecuzione di pena restrittiva della li-
bertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa’’ e ‘‘nella parte in cui prevede che il giudice or-
dini la sospensione della pena nel caso in cui il condannato sia ricoverato in una casa di cura e di custodia
ovvero in un manicomio comune’’, ha dato sostanziale applicazione al principio di vicarietà: come ha pre-
cisato la stessa Corte, ‘‘il periodo di ricovero va ora computato come espiazione della pena’’.
(67) Cfr. G. FIANDACA, La giustizia minorile come laboratorio sperimentale di innovazioni estensi-
bili al diritto penale comune, in Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002, p. 145 ss. Si pensi alla
sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, e, per
converso, alla recente introduzione dell’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del
fatto prevista dall’art. 34 del d.lgs. 274 del 2000 relativo alla competenza penale del giudice di pace; pe-
raltro, la normativa da ultimo citata prevede all’art. 35 l’istituto della estinzione del reato conseguente a
condotte riparatorie, che non poche affinità ha con la sospensione del processo e messa alla prova di cui
all’art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988. Tanto è vero che si pongono problemi di interferenza tra gli istituti pre-
visti dal d.P.R. n. 448 del 1988 e la disciplina di cui al d.lgs. 274 del 2000 quando il Tribunale per i mino-
renni giudichi di uno dei reati per i quali è prevista la competenza penale del giudice di pace. Per questa
problematica cfr. C. CESARI, sub artt. 27 e 28 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV., Il processo penale mino-
rile, a cura di G. Giostra, Milano, 2001, p. 249 s. e 293 s.
(68) La legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale aveva indicato la ‘‘ne-
cessità di un giudizio di effettiva pericolosità’’ tra i criteri da seguire per realizzare i caratteri del sistema
accusatorio nel processo penale (art. 2, n. 96, l. 16 febbraio 1987, n. 81). Il legislatore delegato, nel dare
attuazione ai principi generali del nuovo processo penale ‘‘con le modificazioni ed integrazioni imposte
dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazio-
ne’’ (così, espressamente, art. 3 l. 16 febbraio 1987, n. 81) ha riformulato in termini senz’altro più restrit-
tivi il concetto di pericolosità sociale minorile (G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit.,
p. 475): le misure di sicurezza sono applicate ‘‘se ricorrono le condizioni previste dall’art. 224 del codice
penale e quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussi-
ste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza personale o
diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizza-
ta’’ (art. 37 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988). Una duplice limitazione, dunque, concorre a caratterizzare
la nozione di pericolosità minorile in senso specifico: oltre alla precisazione dei presupposti oggettivi del
giudizio di pericolosità individuati in alcuni delitti di particolare gravità, si richiede una prognosi crimi-
nale intesa non più come ragionevole probabilità che il minore possa tornare a delinquere, ma come con-
creto pericolo della commissione dei gravissimi delitti indicati (cfr. C. PANSINI, op. cit., p. 4132); pericolo
da accertarsi sulla base di specifici elementi inerenti al reato commesso ed alla personalità del minore.
Si noti che l’art. 37 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988, subordinando l’applicazione delle misure di si-
curezza ad un presupposto diverso da quello richiesto in sede di disciplina sostanziale, si espone a seri
dubbi di compatibilità con l’art. 76 Cost., in quanto eccedente la delega legislativa. Sul punto cfr. C. PAN-
SINI, op. cit., p. 4130 ss. Contra, Corte cost., 29 aprile 1991, n. 182, in Cass. pen., 1991, p. 558, secondo
cui tale norma, ‘‘non soltanto non contraddice il quadro normativo descritto dal codice penale, ma si pone
in quella prospettiva evolutiva che, a seguito dell’ampia giurisprudenza di questa Corte in tema di perico-
losità presunta, aveva condotto all’emanazione dell’art. 31, l. 10 ottobre 1986, n. 663 con l’imposizione
dell’effettivo accertamento della pericolosità’’. Tali motivazioni non appaiono sufficienti a scongiurare
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anche per gli adulti un giudizio prognostico di ‘‘concreto pericolo’’ della commis-
sione di alcuni delitti di particolare gravità legislativamente predeterminati, quale
presupposto per la doverosa riduzione anche della pericolosità sociale a ineludibili
istanze di determinatezza e di proporzione (69).
GIUSEPPINA PANEBIANCO
Dottoranda in Discipline penalistiche
presso l’Università degli Studi
di Firenze
l’eccesso di delega secondo M. G. COPPETTA, sub art. 37 d.P.R. n. 448 del 1988, in Il processo penale mi-
norile, cit., p. 456.
(69) Cfr. G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 239 s.
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II
Reato in genere - Nesso di causalità nei reati commissivi - Accertamento oltre ogni
ragionevole dubbio - Regola probatoria e di giudizio nel processo penale -
Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio - Dubbio non irragionevole, arbi-
trario o irrealistico - Assoluzione per insussistenza del fatto.
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fesa che spesso culmina in aggressioni verso i presunti persecutori o in azioni sui-
cidiarie. (Omissis).
4.1. (F.P.) abitava proprio sopra l’appartamento della (CA). Esaminata al-
l’udienza del 29 gennaio 2002, la teste, dopo aver riferito dei suoi rapporti con
l’imputata, che negli ultimi anni si erano deteriorati per una serie di ragioni, di-
chiarava che la donna, ex fantina, un tempo gran lavoratrice, era solita urlare ad
ogni ora del giorno. Aveva così avuto modo di sentire le liti tra la (CA) e il suo
convivente, che peraltro non conosceva, ma sapeva essere il suo ragazzo: lei non
lo voleva più, lo voleva sbattere fuori di casa...
Nel pomeriggio del 7 luglio 1998 la (F.P.), ritornata dal lavoro, era andata a
riposare; ad un certo punto era stata svegliata dal frastuono che proveniva dal
piano sottostante. Sentiva urlare la Teresa e un uomo; questi aveva detto che
avrebbe ammazzato quel cane di merda che era lì e la donna, di rimando, gli
aveva urlato: ‘‘Se non te ne vai da casa mia io t’ammazzo’’. Poi il silenzio.
Poco dopo la teste aveva avuto modo di percepire chiaramente i singhiozzi
della (CA), la quale, piangendo disperata, si rivolgeva al cane, di nome Piro, chia-
mandolo ripetutamente e dicendo: ‘‘Adesso vado in galera, adesso vado in gale-
ra’’. Poi ancora silenzio.
La teste proseguiva:
Sono andata in camera, ho alzato la tapparella... e vedo che la gente guarda
su. Che è successo? Allora io guardo giù e ho visto quel che ho visto, un signore a
terra...
Già in precedenza c’era stata una lite furibonda tra le stesse persone: paro-
lacce e vetri in frantumi, tanto che i condomini avevano chiesto l’intervento della
Polizia. La teste precisava infine di aver udito, quel pomeriggio, altre voci prove-
nire dall’appartamento sottostante: non aveva percepito le parole, ma si trattava
sicuramente delle voci di un’altra donna e di un altro uomo.
4.2. (Omissis).
5. A svolgere le indagini era stato il maresciallo (A.G.). Questi, esaminato
nel corso della medesima udienza, confermava, anzitutto, che Massimiliano (D.)
era precipitato dal sesto piano, e precisamente dalla finestra della camera da letto
dell’appartamento abitato dalla (CA), aveva spezzato un filo che univa due bal-
coni sottostanti ed era finito a terra, prono con la testa sul gradino della cartoleria
di (D.N.).
Il teste riferiva di aver ascoltato tutte le persone informate sui fatti e di aver
constatato che le finestre dell’edificio erano tutte aperte.
Sul posto era subito intervenuta una pattuglia del Commissariato della Polizia
di Stato San Siro. Nel corso delle indagini, il teste aveva accertato che l’apparta-
mento della Pavia era perfettamente corrispondente a quello sottostante della (CA).
Il maresciallo (A.G.) passava quindi alla descrizione della camera da letto del-
l’imputata:
... c’era un letto matrimoniale proprio in mezzo attaccato alla parete... sulla
destra. Proprio di fianco al letto c’era la finestra... dove il (D.) è precipitato. Preci-
sava che la finestra non era proprio di fronte alla porta, ma spostata sulla destra.
... vicino al letto c’erano due comodini, uno dalla parte destra e uno dalla
parte sinistra, e poi accanto, proprio sotto nell’angolo sinistro c’era una poltron-
cina che abbiamo constatato che era anche rotta... Abbiamo constatato che c’era
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anche una poltrona proprio... sotto alla finestra nel lato sinistro, non proprio
sotto, la finestra comprendeva tre ante, quindi quella centrale e le due antine....
Sulla sinistra, c’era un grosso armadio... quindi la porta non era proprio di fronte
alla finestra, perché c’era un pezzo di letto che sporgeva. Poi sentendo anche gli
operanti, che hanno fatto anche la relazione di servizio, al momento del fatto,
questo è stato constatato da loro, proprio di fronte al letto vi era un borsone... del
(D.)...
Il teste ricordava di essere però intervenuto nell’appartamento alcuni giorni
dopo il fatto e che la presenza del borsone in quel posto gli era stata riferita dagli
agenti che erano intervenuti subito dopo l’accaduto.
La tapparella della finestra, dalla quale era precipitato (D.), che era stata si-
gillata subito dopo, era completamente abbassata e aveva un’apertura di circa
venti centimetri. Nell’appartamento c’erano altre finestre aperte, come, ad esem-
pio, quella della cucina: tutte avevano le tapparelle alzate. L’unica persiana avvol-
gibile abbassata era dunque quella della finestra della camera da letto, che era
sfondata sulla parte sinistra, però non tutta, c’era... un trenta centimetri che usci-
vano dalle guide, sulla parte sinistra. E quindi... era sfondata in quel punto.
Il teste precisava che la finestra era a tre ante: la parte centrale era aperta e
anche quella di destra, mentre la parte di sinistra era chiusa. Precisava ancora che
dalla porta della camera da letto alla finestra la direzione non era rettilinea, anche
perché c’era un pezzo di letto... che cresceva. Poi... c’era un borsone proprio di
fronte al letto, un borsone da viaggio, e poi c’era la poltroncina proprio messa
sotto dove la tapparella era stata divelta, cioè dalla parte sinistra...
Il teste, rispondendo poi alle domande della difesa dell’imputato, dichiarava
che la tapparella era uscita dalle guide anche sotto il lato destro.
Riferiva infine che i due imputati erano legati da un rapporto di amicizia, che
il (C.), amico anche di Massimiliano (D.), si trovava quel pomeriggio nell’abita-
zione della (CA), pur abitando in un’altra via.
6. (Omissis).
8. Era poi la volta dell’agente (M.M.), il quale, esaminato del pari nel corso
della medesima udienza, riferiva di essere arrivato sul posto non più di dieci mi-
nuti dopo la chiamata al 113:
... arrivato sotto l’abitazione... della (CA), il corpo del signor (D.) era stato
già trasportato in ospedale. Quindi, salito in abitazione c’era la (CA) e l’altro, il
(C.)... erano tutti e due lì, hanno cominciato a... parlare. Dicendo più o meno
quello che era accaduto.
Nella camera da letto c’era una sedia con dei braccioli... abbastanza larga...
Quasi sotto la finestra. E poi c’era un borsone, un borsone tipo calciatore. Messo,
diciamo, tra il letto e un armadio a muro... Quindi al centro quasi della stanza...
Era collocato... un po’ più dietro dalla finestra, comunque quasi al centro del pa-
vimento. Quindi l’unico modo per passare era... saltare o comunque spostare il
borsone... Per passare, diciamo, tra il letto e l’armadio. Perché non vi era molto
spazio... O spostarlo o passare piano, insomma. Cioè, fare... essere un po’ più...
attenti.
Il teste ricordava di aver incontrato il (C.) in strada, quasi davanti al portone.
Aveva subito accompagnato gli agenti nell’appartamento, dove si trovava la (CA).
Per quanto riguarda la finestra della camera da letto, precisava, dopo che gli
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era stata letta l’annotazione di servizio, che in verità la finestra risultava essere
composta di tre ante di vetro; che... due... sul lato centrale o comunque destro
erano chiuse. E quella sulla sinistra era aperta.
Per quanto riguarda il borsone, il teste ricordava che esso si trovava tra il
letto e l’armadio, quasi al centro della stanza, nello spazio compreso tra la porta e
la finestra. Di questo era sicuro, a prescindere dall’esattezza del disegno della
stanza che aveva eseguito successivamente, nel quale peraltro non figurava la pol-
troncina, forse per dimenticanza. E dell’esistenza del borsone in quel posto si era
dato atto nella seconda relazione di servizio, quella redatta il 1o agosto 1998, nella
quale si precisava che si trovava a mezzo metro dalla finestra. (Omissis).
10. Dalla trascrizione della conversazione telefonica avvenuta alle ore 21,22
del 3 agosto 1998 e intercettata presso l’abitazione di (I.D.), la fidanzata dell’im-
putato all’epoca del fatto, la ragazza parla con un’amica del fatto, così come riferi-
tole dal (C.):
io c’ho solo il casino di ’sto problema de Massimo che si è lanciato dalla fine-
stra... Eh beh, tanto normale non era eh!
E che, uno che si lancia dal sesto piano non era tanto normale, a me poi... io
non c’ero quando è successo il fatto...
Massimo però l’ha visto eh! È sceso giù... dal sesto piano è sceso giù... è an-
dato giù a vederlo...
Ma non se ne so’ accorti! S’è lanciato, ha preso la rincorsa...
Ma guarda che nessuno s’aspettava che quello faceva un gesto del genere, eh!
La sera precedente hanno cenato a casa mia tutti tranquilli.
11. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale sono stati sentiti anche alcuni
parenti del defunto.
11.1. Il fratello Andrea Giuseppe (D.), esaminato il 17 aprile 2002, ricor-
dava una lite con il fratello avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1997:
avevano entrambi ecceduto nel bere ed erano intervenuti i Carabinieri.
Il teste ricordava altresì che, oltre a Massimiliano, erano deceduti anche gli al-
tri due fratelli.
11.2. La madre (R.B.), confermava all’udienza del 6 maggio 2002 che le
erano morti tre figli, Rosolino, Stefano, e, tre mesi dopo, Massimiliano. Questi era
rimasto scosso dalla perdita del fratello ed era andato un po’... in depressione. Poi
aveva cercato di riprendersi, andando a lavorare con il padre, che faceva i mercati
di frutta e verdura, e poi, al ritorno, andava a scuola guida.
In passato aveva avuto problemi con la droga, che aveva superato benissimo,
dopo essere stato due anni in comunità. Era quindi ritornato a vivere con i geni-
tori, a Groppello Cairoli, all’età di vent’anni, e non aveva fatto più uso di sostanze
stupefacenti. Era morto a ventisette anni. Da minorenne aveva avuto qualche pro-
blema con la giustizia, mentre da maggiorenne aveva fatto uno scippo... a una ra-
gazza in discoteca. Non so, una roba del genere...
All’incirca venti giorni prima della morte aveva conosciuto in una discoteca
Teresa Virginia (CA). Quella sera non era rientrato a casa. Il pomeriggio del
giorno successivo era ritornato a casa con Teresa; ma poco dopo si era nuova-
mente allontanato, dicendo che andava con la ragazza in una discoteca lì vicino.
Non era andato a lavorare nei giorni successivi. Aveva fatto ritorno a casa un mer-
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coledì in compagnia di Teresa e, al termine del pomeriggio, era uscito. Erano an-
dati a Milano: ...e poi a mio figlio, diciamo, non l’ho più visto, se non per poco
tempo. Massimiliano, andato a vivere a Milano con la ragazza, era però solito te-
lefonare spesso ai genitori: l’ultima telefonata l’aveva effettuata il 5 luglio.
La madre escludeva che Massimiliano avesse manifestato propositi di suicidio.
Rispondendo alle domande del difensore dell’imputato, la teste ricordava che
in verità c’era stata una volta una discussione tra Massimiliano e suo padre; non
era tuttavia in grado di fornire particolari del fatto. Ricordava peraltro la lite che
era sorta con il fratello: era il compleanno di Andrea e avevano bevuto troppo.
Massimiliano si era poi fatto male cadendo a terra, dove c’erano bottiglie rotte.
Massimiliano non era solito eccedere nel bere, gli poteva capitare qualche
volta: allora, magari, si arrabbiava e sbatteva le porte.
11.3. Michele (D.), esaminato all’udienza del 6 maggio 2002, ricordava che
suo figlio Massimiliano aveva sempre vissuto con i genitori, tranne che negli ultimi
venti giorni di vita, durante i quali era andato a vivere a Milano con Teresa. Da
circa due anni lo aiutava nel lavoro di commerciante ambulante di frutta e ver-
dura. Da quando però aveva conosciuto la (CA) si era staccato dalla famiglia: sia
dal lavoro e anche di casa.
Nella tarda serata del 7 luglio era stato avvertito telefonicamente che suo fi-
glio era morto. Si era precipitato con la moglie all’Ospedale San Carlo e lì aveva
trovato la (CA) e altri due ragazzi, tra cui Massimo il Romano. Aveva loro chiesto
notizie:
Mi hanno detto che mio figlio era tranquillo, era stato in casa di questo Mas-
simo Romano, chiamiamolo così, ha mangiato tranquillamente... dico, ‘‘ma mio
figlio aveva bevuto...’’. ‘‘No, No signor (D.). Certamente non abbiamo fatto
niente, più che altro una spaghettata. Abbiamo bevuto un po’ d’acqua, tranquilla-
mente, siamo usciti, siamo andati in casa della Teresa. Dopo un po’ suo figlio,
non so, dice cha ha voluto fumarsi un’ultima sigaretta, qualcosa, ha fatto un lan-
cio e si è buttato’’.
Il teste aggiungeva:
Prima lui mi aveva detto che era lui solo in casa. Dopo mi ha detto che era
lui, la ragazza e mio figlio...
Qualche volta Massimiliano aveva manifestato l’intenzione di porre fine ai
suoi giorni, soprattutto dopo la morte del fratello Rosolino, avvenuta quattro anni
prima, che aveva lasciato la moglie giovane e un bambino in tenera età. Massimi-
liano era molto legato a Rosolino.
L’altro fratello, Stefano, era morto il 19 marzo di quello stesso anno. Dopo la
morte di Stefano, Massimiliano era caduto in depressione, ma era riuscito a ri-
prendersi: aveva preso la patente, era felice e progettava di andare in ferie e di ini-
ziare a lavorare poi con la vedova di Stefano.
Il teste confermava che in passato suo figlio Massimiliano aveva fatto uso di
eroina; poi era stato in comunità e ne era uscito completamente disintossicato. Da
allora non aveva più assunto droga.
Aveva avuto suo figlio problemi con la giustizia, quando era ancora mino-
renne; raggiunta la maggiore età, era stato detenuto per un furto e si diceva anche
con tentato stupro, o qualcosa del genere.
Massimiliano qualche volta si ubriacava, magari quando c’erano gli amici... o
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il sabato sera. Non era violento. Una volta però, il giorno del compleanno della
madre, io avevo fatto una piccola festicciola con gli amici. Ma non è che ci siamo
picchiati, è sempre perché io ci ho la voce grossa, magari una cosa capita male,
qualcosa del genere. Non so, adesso, sinceramente, come è nato il battibecco.
Sono cadute parecchie bottiglie per terra, gli scivolava a destra e a sinistra, lui è
caduto vicino al frigorifero e si è lacerato un po’, diciamo, con ferite di taglio di
bottiglie, di cocci di bottiglia.... Dopo io ho subito chiamato anche l’autolettiga e
dopo un po’ sono venuti i Carabinieri...
Rispondendo alle domande del difensore dell’imputato, il teste ricordava che
qualche volta erano sorti sul lavoro litigi con il figlio; una volta lo aveva sgridato
perché non era andato a lavorare. Ricevute alcune contestazioni, il teste non esclu-
deva di essere stato colpito violentemente in quell’occasione dal figlio, che sem-
brava fuori di sé: lo aveva colpito ripetutamente anche alla testa, lo aveva gettato a
terra: come aveva dichiarato ai Carabinieri il 27 settembre 1996. Diceva però il te-
ste di non ricordare di essere stato ricoverato il 21 settembre, e cioè il giorno del
fatto, presso l’Ospedale Policlinico San Matteo di Pavia.
Il teste conservava del pari pochissimi ricordi di un altro episodio di violenza,
accaduto l’anno successivo, del quale era stato ancora protagonista suo figlio Mas-
similiano: si trattava dell’episodio del quale aveva fatto cenno sua moglie.
Quando era sotto l’effetto dell’alcool Massimiliano non manifestava il propo-
sito di suicidarsi: se diceva qualche volta questa frase... soltanto che avrebbe pre-
ferito morire lui perché era senza figli e non aveva niente, diciamo, a chi distur-
bare, essendo gli altri fratelli erano sposati e avevano giustamente una famiglia:
perché... avrebbe preferito morire lui che il fratello che giustamente ha lasciato la
moglie e i figli.
Il 10 luglio 1998 aveva però dichiarato: ‘‘Conoscendo mio figlio, mi è impos-
sibile pensare che lo stesso si sia suicidato. A meno che mio figlio non fosse sotto
l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcool’’.
11.4. (Omissis).
14. All’odierna udienza la Corte, su accordo delle parti, ha acquisito la co-
municazione di notizia di reato redatta il 23 febbraio 1997 dal maresciallo (F.M.)
comandante della Stazione dei Carabinieri di Garlasco. In essa si riferisce di un in-
tervento effettuato quello stesso giorno presso l’abitazione della famiglia (D.), in
Groppello Cairoli, essendo stata segnalata una rissa con feriti, che era sorta per fu-
tili motivi nel corso di una festa di compleanno. I Carabinieri trovavano alcune
persone ferite, tra cui Massimiliano (D.), mentre suo fratello Andrea Giuseppe, al
pari del padre in evidente stato di ebbrezza, uscito di casa, tentava di rientrarvi
per colpire con un grosso sasso Massimiliano; questi, allora, preso in cucina un
coltello, aveva iniziato a rincorrerlo minacciosamente. Poco dopo Massimiliano
(D.) improvvisamente, con uno scatto repentino agguantava un coltello da cucina
e cercando di autolesionarsi bucandosi la pancia, dopo il primo colpo veniva im-
mediatamente fermato.
15. Teresa (CA) rendeva l’esame il 21 maggio 2002.
Aveva conosciuto non più di tre settimane prima Massimiliano (D.) in disco-
teca e se ne era subito innamorata. Era stata a casa dei suoi genitori e in quell’oc-
casione aveva avuto modo di assistere ad atti di violenza da parte sua: ha iniziato
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a spaccare le porte, voleva mettere le mani addosso ai suoi genitori. Aveva allora
deciso di portarlo a casa sua, a Milano. Si trovava in quel periodo in non buone
condizioni economiche. Alcuni giorni dopo l’inizio della convivenza, era riuscita a
trovare un lavoro per Massimiliano, ma questi non si era preoccupato minima-
mente di recarsi sul posto ove avrebbe dovuto incominciare a lavorare proprio la
mattina di quel 7 luglio:
Mi ricordo ancora che gli ho detto: ‘‘Massimo, mi fai una cortesia? Non sei
andato a lavorare, io non è che ho bisogno del tuo stipendio, ma almeno...’’, per-
ché poi c’era anche il suo cane a casa mia e io non me lo potevo permettere... e ho
detto: ‘‘Mi fai una cortesia? Prepara i bagagli, poi prendi la chiave e gliela lasci a
Massimo’’, che Massimo sarebbe il (C.), il ragazzo della (I.D.), che veniva a lavo-
rare con me sui pendolini... Gliele porti a lui, che non ti voglio vedere più — gli
ho detto — perché il mio problema è che non posso mantenere te, non ce la fac-
cio’’. Oltretutto che avevo anche la luce staccata, non avevo la luce in casa perché
non potevo pagare le bollette...
Era poi uscita per andare a lavorare alle scuderie a San Siro e poi a pulire i
treni. Ritornata a casa, non vi aveva trovato nessuno, ma c’era ancora la borsa di
Massimiliano. Poco dopo era arrivato Massimiliano (D.):
Gli faccio: ‘‘Massimo, ti avevo chiesto di prendere e di andartene via di casa,
ho visto che c’è quel borsone lì’’. Ha preso ed è andato dritto, non mi ha risposto,
si è messo in camera da letto, mi ricordo ancora, si è... tolto le scarpe... Si è messo
sul letto sdraiato senza rivolgermi la parola.
Era sopraggiunto, non molto tempo dopo, Massimiliano (C.), un suo caro
amico, contento di aver avuto la possibilità di comperare un paio di scarpe, il
quale li aveva invitati a cena a casa sua. Aveva accettato, precisando però: Alt,
vengo a mangiare, vengo a mangiare io a casa tua. Massimo non viene perché
prende la sua roba e se ne deve andare.
Massimiliano si era allora alzato di scatto dal letto e l’aveva afferrata strin-
gendole il collo. Il (C.) era subito intervenuto in suo aiuto e si era posto in mezzo,
tra la donna e il (D.). Questi, ad un certo punto, si è girato di colpo e... si è lan-
ciato, ha preso la rincorsa e si è lanciato.
La donna ricordava un episodio: ...due giorni prima che si ammazzava, il sa-
bato, mi ricordo ancora che aveva perso un capello che aveva dentro il documento
di identità, che è di suo fratello che era morto. Ad un certo punto quel sabato lì...
ha iniziato a dire: ‘‘È arrivata la mia ora, di raggiungere mio fratello, devo rag-
giungere mio fratello. Sì, perché ho perso il capello’’. Ad un certo punto fa: ‘‘Però
prima che io raggiungo mio fratello te non ci devi essere più, perché non ti deve
toccare nessuno’’. L’aveva quindi colpita violentemente scaraventandola a terra e,
poi, rialzatasi, l’aveva scagliata contro i vetri della finestra. Era intervenuta la Po-
lizia, chiamata dai vicini. Nell’appartamento erano presenti, in quell’occasione,
altre persone.
Negava la donna di aver detto quelle parole che aveva riferito di aver udito la
teste Fernanda Pavia e precisava che il suo cane si chiamava Murphy.
Non aveva mai visto Massimiliano assumere sostanze stupefacenti; ubriaco,
invece, lo era spesso. Ed anche quel pomeriggio era un po’ bello brillo, un po’
strano.
Passava quindi la donna a descrivere la camera da letto.
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scava, perché lui già aveva preso la rincorsa... Mi ha lasciato, c’è stato un attimo
che mi ha lasciato... Poi ha preso la rincorsa e s’è buttato. Nel frattempo mi son
girato e ho visto che cascava sotto.
Ed ancora: ...praticamente è come se si è buttato dalla piscina, uguale, si è
proprio tuffato... Si è proprio tuffato...
Massimiliano (D.) era un violento: più volte aveva picchiato la (CA), anche in
presenza di altre persone.
17. Nel corso delle indagini il P.M. aveva disposto consulenza tecnica sulla
dinamica dell’incidente, affidando l’incarico all’ing. (L.P.). (Omissis).
f) Nel corso del dibattimento venivano esaminati, alle udienze del 29 gen-
naio e del 17 aprile 2002, l’ing. (L.P.); l’ing. (G.C.), che aveva eseguito le prove
per conto dell’ing. (L.P.); l’arch. (G.V.), che aveva collaborato con il consulente
del P.M.; e l’appuntato dei Carabinieri (M.M.), che aveva assistito all’esperimento
dell’ing. (L.P.). Infine, all’udienza del 21 maggio 2002 veniva esaminato il prof.
(V.G.), consulente tecnico della difesa dell’imputato. Tutte le persone dianzi indi-
cate fornivano ampie spiegazioni sull’attività svolta e, i consulenti, sulle ragioni
del loro convincimento, in sostanza confermando quanto già avevano sostenuto
nelle relazioni scritte.
In conclusione, valutando le consulenze tecniche, anche alla luce dei chiari-
menti forniti in dibattimento, si può dire che non sia emersa una soluzione vera-
mente risolutiva: la forza impulsiva di Massimiliano (D.) avrebbe potuto non es-
sere stata sufficiente a provocare lo sfondamento della persiana avvolgibile e la
precipitazione, ma non è neppure da escludere in maniera assoluta che la precipi-
tazione sia avvenuta in conseguenza di una colluttazione nell’appartamento del-
l’imputata.
18.1. Gli elementi di carattere tecnico forniti dai consulenti confermano
dunque la compatibilità di ipotesi alternative: quella del suicidio e quella dell’omi-
cidio, in ipotesi anche preterintenzionale.
Le ulteriori risultanze processuali emerse nel corso dell’attività istruttoria,
non consentono di dirimere i dubbi sì da poter pervenire a fondate certezze: non
sono emersi cioè elementi sicuri che possano indirizzare verso un’azione omicidia-
ria né, al contrario, dai quali si possa desumere con certezza che Massimiliano
(D.) abbia volontariamente posto fine ai suoi giorni.
Tutte le fonti di prova, comprese quelle provenienti da coloro che abitavano
nello stesso stabile dell’imputata, che pure sono stati provvidi in informazioni,
non consentono di enucleare una ragione per uccidere il (D.). Né certo la prova
dell’uccisione può essere tratta semplicemente da quanto ha affermato di aver
udito quel pomeriggio la teste Pavia, la quale ha detto, tra l’altro, di aver sentito
più voci femminili provenire dall’appartamento sottostante.
Innegabile fondamento ha l’ipotesi della colluttazione, sorta per dividere i due
contendenti, e poi trascesa, nel corso della quale il (C.), più o meno intenzional-
mente, avrebbe potuto aver spinto l’antagonista fuori dalla finestra. Ipotesi, in ve-
rità, non priva di ragionevolezza, se si considera lo stato di alterazione del (D.),
che aveva assunto cocaina e bevande alcoliche, e se si tiene conto del dato certo
della mancanza di alcuni bottoni nella camicia del (C.). Ipotesi che potrebbe tro-
vare ulteriore sostegno nel fatto che la massa dei due uomini (di kg. 80 e 90) av-
vinghiati nella lotta è doppia rispetto a quella del singolo, con la conseguenza che,
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edema del parenchima cerebrale tanto che non si poteva ricollocare — ad opera-
zione conclusa — il frammento di osso, asportato per procedere all’operazione
chirurgica.
Quindi la (C) veniva intubata e tenuta nel reparto di rianimazione del sud-
detto Ospedale e sottoposta a ventilazione forzata per forte compromissione della
funzione respiratoria autonoma.
Nel pomeriggio del 20 giugno il marito veniva messo al corrente dai medici
dell’Ospedale del grave quadro clinico post-operatorio e, quindi, delle condizioni
di salute disperate quanto alla ripresa di una vita normale della moglie all’esito
dell’intervento.
Il 21 giugno il (A) si presentava in Ospedale alle 6,30 chiedendo ulteriori no-
tizie sulle condizioni della moglie; gli venivano comunicate le condizioni staziona-
rie della paziente e l’esito della TAC effettuata per verificare la pressione endocra-
nica, che avevano escluso l’utilità di altri interventi chirurgici.
A questo punto il (A) estraeva dalla tasca una fede nuziale dicendo che inten-
deva metterla al dito della moglie; al rifiuto oppostogli dalla dott.ssa (B), il (A)
estraeva e puntava contro la dott.ssa una pistola, inducendola ad entrare nei locali
della rianimazione.
La dott.ssa (B) tentava di far desistere il (A), che intanto riponeva l’arma
sotto la giacca, mentre cercava di attirare l’attenzione degli infermieri presenti in
loco, ma il (A), deciso nel suo intento, entrava nella sala di rianimazione; quindi,
giunto al letto della moglie estraeva di nuovo l’arma, puntandola contro il torace
della paziente.
La dottoressa urlava per la paura e correva a chiamare al telefono la Polizia,
che sopraggiungeva ed allontanava il personale medico e paramedico.
L’Ispettore (D) entrava nel locale rianimazione a mani alzate mentre il (A)
con la minaccia della pistola vietava l’ingresso a chiunque.
L’ispettore invitava il (A) a deporre l’arma ma non riusciva nel suo intento;
ad un tratto il (A) staccava i tubi dell’apparecchio di ventilazione collegato al
corpo della paziente e successivamente consentiva l’ingresso presso la sala di ria-
nimazione di un proprio cugino infermiere presso la sala di quell’ospedale: signor
(E).
Successivamente (A) richiedeva l’intervento di un medico ed interveniva il
dott. (F), conosciuto dallo stesso (A), che accertava con elettrocardiogramma il
decesso della (C), sempre sotto arma puntata dal predetto.
Certo, ormai, della morte della moglie, il (A) a quel punto deponeva l’arma,
abbracciava il corpo della defunta e le metteva l’anello nuziale al dito e si conse-
gnava agli agenti.
L’imputato ha ammesso l’addebito in occasione dell’interrogatorio davanti al
GIP senza nascondere le sue intenzioni e quindi, le sue responsabilità.
Durante il dibattimento, in primo grado, il P.M. ha rinunciato al suo esame,
ed il (A), rispondendo ad una domanda del suo difensore faceva solo dichiarazioni
confermative, peraltro, di quanto già da lui dichiarato al GIP.
La sentenza della Corte d’assise, in primo grado, come si è detto valutate
tutte le risultanze dibattimentali, si concludeva con un giudizio di penale respon-
sabilità del (A) per i reati sopra indicati. (Omissis).
Sull’omicidio premeditato del coniuge, reato p.e p. dagli artt. 575-577,
comma 1, n. 3, ult. comma, 62, n. 1, c.p., questa Corte ha tenuto presente, in per-
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focolaio emorragico maggiore, non aveva risolto il problema del notevole edema
del parenchima cerebrale, che, come si è detto, continuava ad erniare attraverso
l’apertura chirurgica.
Il teste (I) ha indicato quello della (C) come ‘‘un caso difficilmente confronta-
bile con altri’’, tale da ‘‘porre a rischio la vita della paziente’’ e, comunque da
‘‘non consentire un recupero alla vita normale’’.
La dott.ssa (I) ha detto che in quelle condizioni sulla paziente, dopo l’inter-
vento, a titolo di complicazione necessaria, ‘‘si sarebbe, comunque, verificata, no-
nostante le cure appropriate, la comparsa di nuovi episodi emorragia intracere-
brali con ulteriori ed irreversibili danni, dato il quadro di estrema gravità’’.
Dalle risposte date dai medici alle domande poste in dibattimento, è risultato,
con chiarezza, come la gravissima pressione intracranica ‘‘comprimesse il tronco
cerebrale, responsabile dell’attività respiratoria e dell’attività cardiocircolatoria’’
cioè le due funzioni vitali essenziali.
Alla domanda, rivoltagli dalla difesa, sulla possibilità di ‘‘morte cerebrale’’
della (C) ‘‘in quelle condizioni’’, la dott.ssa (H) ha risposto che, poiché non erano
stati eseguiti e, quindi, non erano state riportate in cartella clinica, quegli accerta-
menti che si debbono fare da parte della Commissione medica per la dichiarazione
di morte cerebrale, ‘‘sulla base degli atti messi a disposizione dei medici interve-
nuti per l’accertamento autoptico, non aveva, elementi certi per affermare che la
morte si fosse verificata..., ma di sicuro la paziente non aveva un respiro auto-
nomo... e questo era un segno di grave compromissione dei centri nervosi...’’.
Quindi per difetto di una documentazione formale, ai fini di una definizione
di morte clinica e strumentale e non per le effettive condizioni patologiche la dot-
toressa, intervenuta in sede autoptica, non poteva affermare con la necessaria fer-
mezza l’avvenuta morte cerebrale della (C); il che non equivale ad esclusione della
stessa, sul piano naturalistico.
La dottoressa ha detto, poi, specificamente: ‘‘quando il centro del respiro non
funziona è uno dei segni che — se non trattati con ventilazione meccanica —
...porta verso la morte cerebrale’’; è uno dei segni che possono far fare una dia-
gnosi di morte cerebrale.
La paziente presentava anche un diametro diverso delle pupille (anisocoria)
ed anche questo è stato indicato come un segno di grossa compromissione cere-
brale, fino alla definitiva fissazione della pupilla che si verifica con la morte.
All’esame autoptico, eseguito mettendo il cervello sotto formalina per la ne-
cessità di fissare per la sezione il materiale stesso, che si presentava assai spappo-
lato, il dottor (I) ha detto che era stata accertata, ‘‘un’area sfacelativa emorragica
di cm. 7x6,5 in corrispondenza del lobo temporale destro che si affondava nel pa-
renchima per circa cm. 2,5.
Inoltre vi era una picchettatura emorragica in corrispondenza della sostanza
bianca del terzo anteriore lobo parietale dx ed altre, plurime aree emorragiche ai
margini dell’area sfacelativo-emorragica di cui si è detto. Ancora, nella cavità ven-
tricolare laterale sx, al terzo posteriore, si evidenziava presenza di materiale ema-
tico coagulato, mentre nella zona del cervelletto si notava un’emorragia sfumata
subaracnoidea in corrispondenza della faccia centrale del verme cerebellare’’.
Anche il cuore della (C) si era presentato danneggiato agli esami clinici effet-
tuati. (Omissis).
Pertanto accanto alla gravità del quadro neurologico, con l’irreversibile com-
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promissione delle funzioni principali del cervello, causa essa stessa — si ripete —
di ‘‘morte rapida’’ il dott. (I) ha indicato una causa aggiuntiva, addirittura di
‘‘morte improvvisa’’ dovuta al danno cardiologico.
Il teste, poi, ha evidenziato che, sempre a seguito dell’accertamento autop-
tico, anche i polmoni della (C) anche se aiutati con la ventilazione meccanica, che
ha il compito specifico di preservarli, si presentavano danneggiati, per edema pol-
monare e per focolai di broncopolmonite, confermati dall’esame istologico.
Tutti gli altri organi della (C) presentavano, poi, una sofferenza anossica ge-
neralizzata, che per il (K), ‘‘richiede un certo numero di ore per verificarsi’’ e,
quindi, ‘‘ragionevolmente, si era sviluppata nel periodo tra il sorgere dell’emorra-
gia e l’intervento e tra quest’ultimo e l’estubazione, non certo nel breve lasso di
tempo tra l’estubazione e l’accertamento della morte’’.
La sofferenza, di cui si è detto, è compatibile, anzi costituisce la spia di una
carenza di ossigeno nei tessuti, benché questi — va sottolineato — fossero sotto-
posti a ventilazione artificiale.
Secondo quanto riferito dal teste (I), poi, anche la broncopolmonite ‘‘in sog-
getti in stato di coma può avere un’evoluzione rapidissima verso la morte’’.
Infine anche le dichiarazioni del dott. (M), ricercatore nel dipartimento di
medicina dell’Università di Pavia, si sono mostrate illuminanti rispetto alla condi-
zione della signora (C) al momento dell’intervento di estubazione posto in essere
dal marito ing. (A).
Il dottor (M) ha evidenziato come, accanto ad un quadro prognostico estre-
mamente negativo quoad vitam rappresentato dalle straordinariamente gravi com-
promissioni neurologiche, che con la relativa compromissione funzionale del
tronco encefalico erano di per sé sole causa di morte vi era una serie di compli-
canze generali, sia a carico del cuore che dei polmoni che, a fronte di una trombo-
citopenia in stato di costante ed inarrestabile aggravamento, era un’ulteriore, indi-
scutibile causa di morte.
Alla specifica domanda della difesa ‘‘se poteva essersi verificata la morte cere-
brale’’ anche se non formalmente registrata il dottor (M) rispondeva, con certezza,
‘‘Sì, poteva esserci morte cerebrale’’ aggiungendo che, in particolare l’accertata
inondazione per emorragia dei ventricoli cerebrali ‘‘è una delle cause più frequenti
di ‘‘morte improvvisa’’, che si può verificare anche in soggetti che godono fino al
momento dell’emorragia, di buona salute’’.
‘‘In sostanza non è necessario avere una patologia grave come quella della si-
gnora (C) per decedere perché i soggetti affetti da emorragia dei ventricoli —
come la (C), che presentava anche tante altre patologie — non fanno nemmeno a
tempo a diventare così gravi, per un black-out delle funzioni vitali cerebrali quindi
per morte repentina’’.
Inoltre nella relazione autoptica si legge che la porpora trombocitopenica as-
sociata all’emorragia cerebrale è gravata da un’elevata mortalità e, in particolare,
che i casi di sopravvivenza nell’adulto, riportati in letteratura ([...]), sono del tutto
aneddoti comunque, si riferiscono a casi in cui la sintomatologia logica sia in fase
di remissione.
Come si è detto in precedenza, nel caso della (C) invece la piastrinopenia si
era via via aggravata.
Bisogna a questo punto richiamare la testimonianza del dott. (I) sul monito-
raggio cui era stata sottoposta la (C) dopo l’intervento chirurgico.
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Prima di tutto va detto che la (C) non era stata sottoposta ad un monitoraggio
continuo e completo di tutte le funzioni generali — che comprende anche inter-
venti a volte cruenti, come introduzioni di cateteri fissi, sonde esofagee ecc., che si
giustificano maggiormente nei casi in cui si prevede, con ragionevole certezza, l’u-
tilizzazione di organi per il trapianto — e, questo, non era, di certo, il caso della
(C).
Il dott. (L) ha dichiarato che l’ultimo monitoraggio per l’attività cerebrale era
stato eseguito alle ore 5,30 del mattino del giorno 21 giugno e cioè almeno un’ora
e dieci minuti prima che l’ing. (A) entrasse nel reparto rianimazione.
‘‘Detto monitoraggio veniva eseguito ad intervalli, per una prassi ospedaliera
che non richiede l’accertamento dei riflessi neurologici minuto per minuto...
Se il paziente va incontro a morte cerebrale, può entrare nella valutazione l’e-
ventuale prelievo di organi o meno, quindi vi è il mantenimento di alcune funzioni
di carattere cardiocircolatorio e respiratorio, meccanico cioè garantito da mac-
chine; per cui capita che un paziente, deceda ad esempio alle due di notte ma gra-
zie a queste apparecchiature viene portato avanti magari fino alle otto o alle nove
del mattino, quando potrà riunirsi la Commissione Medica per la valutazione della
morte cerebrale, secondo quelli che sono i dettami della legge e dei regolamenti’’.
Di fronte a quest’affermazione, al dottor (L) era stata posta un’ulteriore do-
manda: ‘‘se alle 5,35 del mattino, dopo l’ultimo accertamento delle 5,30 la (C)
avesse cessato le proprie funzioni vitali da un punto di vista di morte cerebrale,
non accertata ovviamente dalla Commissione..., come morte cardiaca, invece, la
(C) avrebbe potuto anche non subirla (apparentemente) perché sottoposta a que-
ste macchine?... nel senso che queste macchine avrebbero potuto ‘‘simulare’’ una
non avvenuta morte cardiaca, perché garantivano quelle funzioni?’’.
La risposta del dott. (L) è stata affermativa.
Alla successiva domanda sulla possibilità che (C), nell’intervallo di tempo tra
il rilevamento fatto alle 5,30 del mattino e il momento dell’estubazione, fosse an-
data incontro a morte neurologica il dott. (L) ha risposto: ‘‘non posso escluderlo’’.
Secondo la letteratura medica in materia, i casi di questo genere si possono
definire ‘‘decessi cerebrali in corpi tecnicamente ancora in vita’’ o ‘‘casi di mante-
nimento della vita cardiaca ad una persona già soggetta a morte cerebrale’’ ([...]).
Pertanto, secondo la Corte, sulla base del conclamato difetto assoluto per la
paziente dell’attitudine a rimanere ‘‘vitale’’ alla luce di tutte le acquisizioni docu-
mentali e testimoniali si è fatto riferimento fin qui, quale risposta si deve dare al
primo dei quesiti mossi con i motivi di appello, che si può, riassumere nell’interro-
gativo: si può escludere come irragionevole o irrealistica l’ipotesi che la signora
(C) fosse addirittura morta nel lasso di tempo tra l’ultimo monitoraggio ed il mo-
mento dell’estubazione, in presenza di plurime ed accertate cause addirittura di
morte naturale ‘‘repentina o improvvisa’’.
La risposta, è sicuramente no.
E tale conclusione non risulta arbitraria e basata su meri criteri possibilistici,
perché appare pienamente conforme alle indicazioni provenienti dagli stessi con-
sulenti tecnici escussi che non hanno potuto escludere, su base scientifica in ter-
mini di certezza che la signora (C) fosse morta prima della deconnessione con
l’apparecchio di ventilazione artificiale.
Il difetto di un monitoraggio ai fini di un formale accertamento della morte
neurologica prima dell’estubazione dovuto, come si è visto, ad una prassi ospeda-
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liera, non può nella situazione particolare fin qui descritta essere considerato un
difetto della prova principale dell’avvenuta morte per cause naturali della (C),
prima dell’intervento del coniuge.
L’accertamento, con valore giuridico, della morte effettuato dalla commis-
sione ospedaliera ha un’efficacia dichiarativa ed è di certo essenziale ai fini dell’e-
spianto di organi, come momento essenziale per poter procedere allo stesso.
Ma è di tutta evidenza che non può avere un’efficacia costitutiva della morte
stessa, perché rappresenterebbe una sovrapposizione o addirittura una sostitu-
zione al fatto naturalistico della cessazione della vita, lasciato alla discrezionalità
di un organo tecnico.
Del resto i consulenti hanno detto chiaramente che la morte secondo il con-
cetto naturalistico, può ben risalire ad un periodo anche di alcune ore prima del-
l’accertamento ufficiale.
In sostanza è normale, se non addirittura frequente, che la morte di un sog-
getto preesista alla dichiarazione della commissione tecnica all’uopo riunita, che
interviene alcune ore dopo, per comprensibili esigenze di carattere tecnico-orga-
nizzativo.
Ma — si ripete — ciò che ha importanza rilevante ai fini dell’espianto di or-
gani non può avere la stessa fondamentale rilevanza ai fini dell’accertamento del
reato di omicidio, dove ciò che conta è la certezza dell’esistenza in vita della per-
sona fino al momento della realizzazione della condotta omicidiaria.
Il punto decisivo che questa Corte ha dovuto accertare è se sia stato provato
— oltre ogni ragionevole dubbio — che la signora (C) fosse in vita al momento
dell’atto di estubazione compiuto dal marito (A) — presupposto indispensabile
per la sussistenza del delitto di omicidio volontario — e quindi, se la condotta at-
tribuita al (A) sia stata la causa determinante della morte.
Rispetto al suddetto accertamento, quindi, debbono essere ritenuti determi-
nanti e decisivi tutti quei rilievi di ordine medico-legale che sono stati acquisiti
con l’istruttoria dibattimentale in primo grado, che sono stati rivisitati nel giudizio
di appello nei termini che si è cercato di riportare fin qui.
Come è noto il nesso di causalità nei reati commissivi non può essere affer-
mato in termini ipotetici ma in termini di ragionevole tranquillizzante certezza.
Ora in presenza di plurime, gravi, incombenti ed accertate cause di ‘‘morte
improvvisa’’, in una situazione di organi quali il cervello ed il cuore addirittura,
devastati, ritenute dai Consulenti tecnici elementi causali dell’evento morte — già
di per sé esclusivi — come si può affermare che nel lasso di tempo di più di
un’ora, la signora (C) non sia morta per le preesistenti cause patologiche naturali,
ma che sia stato sicuramente l’intervento del marito a determinare la sua fine?
Invero, per quanto si è detto fin qui, la Corte ritiene che proprio alla luce di
un più meditato controllo delle risultanze dibattimentali, non si possa dire suffi-
cientemente provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il nesso di causalità tra la
condotta del (A) e l’evento morte della (C).
Pertanto, si impone una decisione di assoluzione del (A), in riforma dell’im-
pugnata sentenza del reato di uxoricidio premeditato, perché il fatto non sussiste.
Infine va precisato che, ai fini della suddetta dichiarazione è rimasto un dato
del tutto inconferente il fatto che egli intendesse porre fine all’esistenza della sven-
turata moglie, con l’eliminazione di una (ritenuta) ‘‘trappola’’, tesa dalla tecnolo-
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gia, alle sue emozioni e ai suoi affetti, per convinzioni personali di ordine etico e
culturale.
Come estranea alla valutazione è rimasta la sua intenzione di agire non certo
per un interesse personale, bensì per svolgere, con un gesto estremo di amore, un
compito — stando a quanto da lui stesso, più volte affermato — di interpretazione
e realizzazione della stessa volontà della moglie, espressa quando era ancora in
vita, al fine di evitare un inutile — secondo la sua visione delle cose — futuro ac-
canimento terapeutico, contrario al principio di una vita o di una morte portata
avanti con dignità.
Ed infatti, nel caso di difetto del rapporto di causalità tra azione ed evento, la
formula assolutoria perché il fatto non sussiste prevale su qualsiasi altra formula
diversa ed in particolare rende superflua ogni valutazione della condotta, poiché
siffatto esame comporterebbe un giudizio che, comunque, si risolverebbe in un
obiter dictum.
Si è, dunque, in presenza di un reato impossibile per inesistenza dell’oggetto
dell’azione criminosa e, in particolare, di un omicidio impossibile per insufficienza
della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso sop-
primere.
Non vi è ragione in questo caso di applicare la misura di sicurezza prevista
dall’art. 49, ult. comma, c.p., dato che la particolarità del caso e il movente del
fatto escludono la pericolosità del (A).
L’assoluzione dell’imputato, per difetto della prova della causazione della
morte di (C) rende non prospettabile l’ipotesi subordinata dell’omicidio del con-
senziente, dato che anche tale fattispecie presuppone la causazione dell’evento
mortale. (Omissis).
——————
(1-2) La Corte d’assise di fronte al ‘‘ragionevole dubbio’’.
1. Gli studi di Stella stanno dando frutti copiosi (1): il principio dell’ ‘‘oltre
ogni ragionevole dubbio’’ è riconosciuto come regola probatoria e di giudizio del
nostro ordinamento sia dalla giurisprudenza di legittimità che di merito. Tra le
pronunce della Cassazione, di grande rilevanza è la recente sentenza delle sezioni
unite, nella quale, in tema di causalità omissiva (tema geneticamente esposto al
‘‘ragionevole dubbio’’), i giudici scrivono che ‘‘[...] l’insufficienza, la contradditto-
rietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato
su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso
concreto [...], non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata
dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530, comma 2, c.p.p., secondo il
canone di garanzia in dubio pro reo’’ (2). Non dissimili le argomentazioni in un al-
(1) STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, 2a ed., Mi-
lano, 2002.
(2) Cass., sez. un., 10 luglio 2002 (dep. 11 settembre 2002), n. 30328, in Guida. dir., n. 38, p. 62
ss.; in Riv. pen., 2002, p. 885. Naturalmente il principio di diritto statuito dalle sezioni unite, pur riferito
nel caso sottoposto all’attenzione della Corte al nesso causale, è esplicitamente esteso ad ogni altro ele-
mento della fattispecie: ‘‘non possono non valere’’ per il rapporto causale, scrivono le sezioni unite, ‘‘gli
identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi
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tro precedente intervento della Corte, con riferimento all’accertamento del nesso
causale: ‘‘solo dimostrando che la legge di copertura assicura un coefficiente per-
centualistico vicino alla certezza, il giudice può dire di aver accertato il rapporto
di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale o,
se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio’’ (3).
Tra le pronunce di merito, invece, basti per tutte ricordare la recente sentenza
del Tribunale di Venezia, sulla nota vicenda del Petrolchimico di Porto Mar-
ghera (4). Anche per i giudici veneziani ‘‘[...] la responsabilità deve essere provata
‘oltre ogni ragionevole dubbio’, regola di giudizio che ormai fa parte del nostro or-
dinamento’’.
Nel solco tracciato da questa giurisprudenza si inseriscono le due recentis-
sime sentenze della Corte d’assise e della Corte d’assise d’appello di Milano (5).
Mentre quest’ultima si rivela preziosa per la metodologia di analisi e valutazione
delle risultanze scientifiche emerse in dibattimento e per l’affermazione che il
nesso causale può essere ritenuto sussistente solo ‘‘in termini di ragionevole tran-
quillizzante certezza’’ e deve essere provato ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’, la
prima ha il pregio di enunciare in modo più compiuto la regola e le ‘‘potenti ragio-
ni’’ che la sorreggono: l’oltre ogni ragionevole dubbio, scrive la Corte d’assise,
‘‘deve costituire, al di là dell’incompleta formulazione dell’art. 530, comma 2,
c.p.p., la regola probatoria e di giudizio nel processo penale, indispensabile per as-
sicurare la protezione degli innocenti ed il rispetto dei fondamenti costituzionali
dello Stato’’. Essa infatti, proseguono i giudici milanesi, trova riscontro positivo
‘‘negli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, Cost., sì da costituire diritto vigente
nel nostro paese’’. Alla luce di tali norme il giudice deve pronunciare sentenza as-
solutoria di fronte a prove insufficienti (‘‘quando l’organo dell’accusa non ha di-
mostrato la colpevolezza dell’imputato al di là del ragionevole dubbio’’) o con-
traddittorie (‘‘quando le prove della reità, pur se prevalenti, svelano uno o più
dubbi ragionevoli’’). Tale regola dunque, conclude la Corte, ‘‘non dovrebbe essere
marginalizzata nella prassi, ché vi sono ragioni potenti che la supportano, come si
legge nella famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in re Winship
del 1970, stesa per mano del giudice Brennan’’.
Come si vede, l’estensore richiama a fondamento della motivazione non solo i
principi costituzionali, ma anche, le potenti ragioni che impongono la protezione
dell’innocente come fondamento granitico dell’amministrazione della giustizia pe-
nale in ogni paese democratico e che sono esposte nella celebre sentenza della
Corte Suprema statunitense in re Winship (6).
Vale dunque la pena, prima di seguire nello specifico le motivazioni dei due
collegi milanesi, ripercorrere brevemente i tratti salienti di questa pronuncia,
‘‘stella polare’’ della giurisprudenza penalistica nordamericana (7).
2. Quali sono allora le ‘‘potenti ragioni’’ per le quali il principio del ragione-
vole dubbio è immanente ad ogni sistema penale liberale? Seguiamo il giudice
Brennan.
costitutivi del fatto di reato’’ (corsivi nostri). Su tale pronuncia da ultimo STELLA, Etica e razionalità nella
recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della Suprema Corte di cassazione, in questa Rivista,
2002, p. 767 ss.
(3) Cass., sez IV, 25 settembre 2001 (dep. 13 febraio 2002), n. 1652, in questa Rivista, 2002, p.
737 ss., con nota di D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di Carrara e la le-
zione ‘‘moderna’’ della Corte di cassazione sull’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’.
(4) Trib. Venezia, sez. I, 22 ottobre 2001 (dep. 29 maggio 2002), inedita.
(5) Quest’ultima è pubblicata anche in Guida dir., 2002, n. 40, p. 47 ss.
(6) 397 U.S. 358 (1970).
(7) Così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 102 ss., anche per i riferimenti alla giurisprudenza
successiva.
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(8) Nella giurisprudenza nordamericana sul ragionevole dubbio è costante il riferimento ad una
gamma molto ampia ed articolata di valori fondamentali pregiudicati da un processo penale: particolar-
mente significative, dopo la sentenza Winship, Albright v. Oliver, 510 U.S. 266 (1994), Victor v. Nebra-
ska, 511 U.S. 1 (1994), Spencer v. Kemna, 523 U.S. 1 (1998).
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processo penale. Ecco perché ‘‘la regola dell’oltre il ragionevole dubbio è radicata
nel profondo di una determinazione fondamentale di valore della nostra società’’.
Un’ultima precisazione. La giurisprudenza nordamericana sul punto è ormai
secolare: per rendersene conto è sufficiente leggere la sentenza Coffin del 1895
dove la Corte Suprema ripercorre l’antica genesi del principio (9). E non si è certo
fermata a Winship: dopo una serie ininterrotta si giunge ad un’interessantissima
pronuncia del 2000 in cui i giudici statunitensi riprendono il filo del ‘‘ragionevole
dubbio’’ per ribadire che tale standard di giudizio e probatorio deve investire ogni
elemento idoneo a incidere concretamente sulla determinazione della pena (10).
3. Un tale imponente apparato di principi non può certo essere ritenuto pa-
trimonio esclusivo degli Stati Uniti, come ben si rendono conto i giudici milanesi
che adducono esplicitamente le argomentazioni della sentenza americana a moti-
vazione delle proprie conclusioni.
Il quadro è ancora più ampio e viene messo compiutamente in luce da Stella:
la protezione dell’innocente è un principio radicato nella coscienza dell’uomo oc-
cidentale, costante nei lavori dei grandi maestri dell’Italia liberale dell’Ottocento,
da Carrara a Lucchini, da Carmignani a Stoppato, negli studi successivi di Carne-
lutti e Saraceno, nella dottrina italiana dagli anni sessanta, a tacere dei numerosi
contributi provenienti dai paesi europei (11).
Questo retroterra culturale non è evidentemente rimasto privo di effetti nel
nostro sistema normativo: è la stessa Costituzione, come afferma anche la Corte
d’assise, a rendere, con gli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, diritto vigente
nel nostro paese la regola dell’oltre il ragionevole dubbio (12).
Proprio tali norme poi si pongono come correttivo alla ‘‘incompleta formula-
zione dell’art. 530, comma 2, c.p.p.’’ (13), il ‘‘buco nero’’ del nuovo codice di
procedura penale, che non enunciando esplicitamente la regola di giudizio finisce
per generare incertezze: la prova è insufficiente con riferimento al principio del-
l’oltre ragionevole dubbio o del più probabile che no? E ancora, sulla base di
quale dei due standard la prova deve essere considerata contraddittoria? (14).
Il rischio di tale lacuna è proprio quello denunciato dalla sentenza Camma-
rata: che la regola dell’oltre il ragionevole dubbio sia ‘‘marginalizzata nella prassi’’.
Rischio quest’ultimo non peregrino di fronte al periodico riaffiorare di un ma-
linteso libero convincimento del giudice, ossia la pretesa ‘‘che il giudice debba ri-
cercare la verità materiale, in funzione della repressione della criminalità, e dun-
que la pretesa che la ricerca della verità sia libera’’, fondata sulla mera opinione
del giudicante, sul suo imperscrutabile intuito (15). Il ragionevole dubbio si pone
dunque come barriera al libero convincimento del giudice ed argine contro le ‘‘in-
voluzioni autoritarie’’ dell’ordinamento penale: è l’accusa che deve dare la prova
oltre il ragionevole dubbio, mentre il giudice deve limitarsi a verificare se l’accusa
sia riuscita a rispettare tale standard probatorio.
Ancora la giurisprudenza nordamericana è di grande ausilio per specificare
cosa sia un dubbio ‘‘ragionevole’’: tale non è il dubbio ‘‘immaginario’’, la ‘‘possibi-
lità solo remota’’; né, dall’altra parte, deve essere un dubbio ‘‘argomentato’’, ‘‘ben
fondato’’, ‘‘grave’’. Per riprendere la definizione, citata da Stella, della sezione
1096 del codice penale della California, ‘‘il ragionevole dubbio è [...] quella situa-
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zione che, dopo tutte le comparazioni e considerazioni delle prove, lascia le menti
dei giudici nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile
convinzione nella verità dell’accusa’’.
Non rimane allora che seguire le motivazioni delle due sentenze in commento
per toccare con mano i ragionevoli dubbi.
4. L’applicazione dei principi enunciati è esemplare nella pronuncia della
Corte d’assise d’appello: il caso, intriso di risvolti etici, è quello di un uomo che
stacca i tubi di ventilazione forzata applicati alla moglie ricoverata, con un quadro
clinico ormai disperato, in un reparto di rianimazione. Ma ecco il dubbio emerso
in dibattimento: ‘‘si può escludere come irragionevole o irrealistica’’, si chiedono i
giudici, l’ipotesi che la vittima fosse morta ‘‘nel lasso di tempo tra l’ultimo moni-
toraggio (circa un’ora prima della condotta n.d.r.) ed il momento della estubazio-
ne’’?
Certamente no: i consulenti tecnici infatti non hanno ‘‘potuto escludere su
base scientifica in termini di certezza che la signora fosse morta prima della de-
connessione con l’apparecchio di ventilazione artificiale’’ ed i giudici non possono
conseguentemente dire di nutrire una incrollabile convinzione nella verità dell’ac-
cusa, non possono affermare, per usare le parole della stessa Corte, che ‘‘sia stato
provato oltre ogni ragionevole dubbio che la signora fosse in vita al momento del-
l’atto di estubazione compiuto dal marito’’. Non risulta dunque dimostrato il
nesso causale tra la condotta dell’imputato e l’evento morte e si impone l’assolu-
zione perché il fatto non sussiste.
D’altra parte, come ribadisce la Corte, il rapporto di causalità deve essere af-
fermato non ‘‘in termini ipotetici’’, ma di ‘‘ragionevole tranquillizzante certezza’’.
Tuttavia, è bene ribadirlo, la conclusione non sarebbe stata diversa se il ‘‘dubbio’’
avesse avuto ad oggetto la prova di ogni altro elemento di fattispecie, come dimo-
stra proprio il caso oggetto dell’altra sentenza, la sentenza Cammarata della Corte
d’assise di Milano.
Teresa (CA) e Massimiliano (C.) vengono rinviati a giudizio per rispondere,
in concorso, del reato di omicidio volontario di Massimiliano (D.), compagno di
Teresa (CA). Il pubblico ministero ritiene che i due imputati abbiano spinto fuori
dalla finestra dell’appartamento di Teresa (CA), situato al sesto piano, Massimi-
liano (D) il quale, a causa delle lesioni riportate, decede immediatamente. La con-
sulenza medico-legale accerta che Massimiliano (D.) non riportava segni di collut-
tazione sul corpo, comunque difficilmente individuabili dopo la caduta, ma risul-
tava aver assunto poco prima della morte cocaina e alcool.
Gli imputati contestano l’impostazione accusatoria e sostengono che la vit-
tima si sarebbe suicidata lanciandosi dalla finestra e scardinando la tapparella
semi-chiusa.
Vediamo i fatti emersi in dibattimento. Teresa (CA) e Massimiliano (D.), con-
viventi da poco meno di un mese, litigano spesso, anche molto violentemente; la
mattina poi di quel giorno lei, stanca del suo comportamento, gli intima di andar
via da casa e lo avverte che al suo ritorno dal lavoro non l’avrebbe voluto vedere
lì. Nel tardo pomeriggio invece (D.) è ancora nell’appartamento, dove nel frat-
tempo giunge anche Massimiliano (C.) pensando di trovare la sua fidanzata che
abitualmente si recava in casa della (CA) dopo il lavoro: i due cominciano allora
a litigare (una vicina sente la frase pronunciata dalla (CA) ‘‘se non te ne vai da
casa mia io ti ammazzo’’), il (D.) la aggredisce stringendole il collo; interviene
quindi (C.) cercando di frapporsi tra i due. Da questo momento in poi sulla rico-
struzione del fatto storico cala il buio: Massimiliano (C.) e Teresa (CA) hanno
spinto, magari anche involontariamente, il compagno di quest’ultima fuori dalla fi-
nestra o sarebbe stato quest’ultimo, in preda ad una profonda crisi depressiva,
acuita dalle sostanze tossiche assunte, a suicidarsi?
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RAPPORTI GIURISDIZIONALI
CON AUTORITÀ STRANIERE
1. Com’è ben noto, era stata la ratifica dell’Accordo italo-elvetico del 1998 ad inne-
scare la nostra nuova disciplina codicistica del 2001 in tema di rogatorie: si vuol dire la l. 5
ottobre 2001, n. 367 (1).
L’Accordo non era poi stato ratificato per parte elvetica, ed il Consiglio federale aveva
interposto una pausa d’attesa, ravvisando l’opportunità di subordinare la ratifica all’esito
delle ‘‘decisioni delle corti italiane’’ in ordine agli atti già trasmessi dalla Svizzera all’Ita-
lia (2).
Le decisioni delle Corti italiane sono da ultimo intervenute anche ai livelli più elevati, ed
è quindi ora possibile delineare un quadro di maggiore consistenza sul piano interpretativo.
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In tal modo, peraltro — osserva la Corte nella sua ord. 4 luglio 2002, n. 315 (4) — ‘‘il
giudice rimettente prospetta essenzialmente un conflitto interpretativo tra gli enunciati te-
stuali delle disposizioni legislative censurate e l’asserita prassi internazionale consolidata,
ponendo così in realtà una questione di mera interpretazione, per risolvere la quale non può
rivolgersi alla Corte costituzionale, ma deve avvalersi di tutti gli strumenti ermeneutici appli-
cabili, tra i quali, trattandosi nella specie di un accordo internazionale, anche i principi della
convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati’’.
È il caso di ricordare che, nell’art. 31, § 3, di tale convenzione (ratificata dall’Italia con
l. 12 febbraio 1974 n. 12) si stabilisce che va tenuto conto, oltre che del contesto, anche
della susseguente pratica adottata nell’applicazione di ogni singolo trattato, che fissa l’ac-
cordo delle parti circa l’interpretazione del trattato medesimo.
D’altronde — aggiunge la Corte — ‘‘il giudice a quo non ha verificato, prima di solle-
vare la questione di legittimità costituzionale, se potessero adottarsi differenti interpretazioni
delle norme censurate, già emerse nella giurisprudenza di merito, le quali fossero in grado di
risolvere la proposta questione interpretativa’’.
Ne consegue un giudizio di ‘‘manifesta inammissibilità’’ della questione (5).
3. Con una più recente pronuncia in data 16 ottobre 2002, depositata l’8 novem-
bre (6), la sez. I della Cassazione (ric. P.G. in proc. Strangio e altri) ha preso posizione net-
tamente contraria rispetto ad un’asserita inutilizzabilità di atti assunti tramite rogatoria in
Germania, in base alla disciplina della Convenzione europea, in quanto trasmessi in Italia
senza ‘‘attestazioni di conformità’’.
La Cassazione ha fatto un richiamo — sia pure non strettamente pertinente — all’art.
31 della Convenzione di Vienna del 1986 (invero relativa al diritto dei trattati tra Stati e or-
ganizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali), alla stregua del quale ‘‘non
può prescindersi dalla prassi consolidata’’ sul piano interpretativo. Secondo tale criterio, per
il suo carattere di generalità applicabile anche allo specifico settore qui in esame, ‘‘salvo l’i-
potesi in cui lo stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo stato richiesto li tra-
smette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l’atto formale di trasmissione per conferire
loro garanzia di autenticità e conformità all’originale’’.
Viceversa — ha precisato la Corte — sarebbe in stridente contrasto con la direttiva di
base risultante dall’art. 1 della stessa Convenzione europea ‘‘una disposizione di contenuto
pesantemente formalistico come quella di prescrivere una specifica attestazione di confor-
mità su ogni copia o fotocopia di atto o documento trasmesso, così come completamente
avulsa dal sistema apparirebbe la sanzione di inutilizzabilità che si riferisse alla mancata os-
servanza di tali formalità’’.
(4) Nel Foro ital., 2002, I, c. 2563, l’ordinanza è pubblicata con osservazioni di DI CHIARA.
(5) Il giudizio di inammissibilità è stato poi ribadito nell’ord. 20-26 novembre 2002, n. 487.
(6) Per il testo della sentenza (n. 37774) v. Guida al dir., n. 46/2002, p. 62, e, ivi, p. 68, una nota
di richiami a firma di CALVANESE; Dir. e giustizia, n. 44/2002, p. 41, e ivi, p. 38, un commento di IZZO.
(7) Per il testo della sentenza (n. 34576) v. Guida al dir., cit., p. 59.
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via della trasmissione in forma diretta, anche quest’altra pronuncia ha fatto richiamo all’art.
31, § 3, lett. b) della Convenzione di Vienna del 1969, nel (già richiamato) imprescindibile
rilievo che esso in linea generale conferisce alle prassi e consuetudini interpretative.
E ciò dando risalto al fatto che, nella sua nuova configurazione (per effetto della l. n.
367/ 2001), l’art. 696 c.p.p. ‘‘ribadisce il principio di prevalenza delle convenzioni e del di-
ritto internazionale generale’’: convenzioni tra le quali assume per l’appunto particolare ri-
salto ed efficacia la ricordata Convenzione di Vienna.
A conferma di una prassi orientata nel senso della trasmissione diretta, la Corte ha fatto
inoltre complementare riferimento all’art. XVII dell’Accordo italo-elvetico del 1998 (anche
se non ancora ratificato dal Consiglio Federale elvetico) ed all’art. 53, comma 1, dell’Ac-
cordo di Schengen, ratificato dall’Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388 (anche se la Confe-
derazione elvetica è estranea a quell’Accordo) (8).
La Cassazione aveva poi così concluso le sue argomentazioni sul punto: ‘‘Non può non
osservarsi, infine, con specifico riferimento al caso in esame, che lo stesso art. 15 della Con-
venzione europea [di assistenza giudiziaria] di Strasburgo prevede al comma 4 in ogni caso
la possibilità di comunicazione diretta fra le autorità giudiziarie quando trattasi di richiesta
di indagini preliminari e che le rogatorie internazionali in questione sono intervenute proprio
in tale fase’’.
(8) La Corte, tra l’altro, non ha invece preso in considerazione il Protocollo Italia-Svizzera del 1o
maggio 1869, nel suo prevedere la possibilità di una corrispondenza in forma diretta tra autorità giudizia-
rie ‘‘per tutto quello che riguarda la trasmissione di lettere rogatorie’’.
A tale Protocollo aveva invece dato rilievo il tribunale di Milano, sez. IV, con ordinanza 21 novem-
bre 2001, in questa Rivista, 2002, p. 383 (sotto il titolo: Italia-Svizzera: la ‘‘consegna diretta’’ in materia
di rogatorie).
(9) A proposito di ‘‘previsione dello Statuto albertino’’, v’è da dire che l’art. 5 era così formulato:
‘‘Al Re solo appartiene il potere esecutivo’’. Si aggiungeva poi che, come ‘‘Capo supremo dello Stato’’
egli, tra l’altro, ‘‘... fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere to-
sto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune’’. Solo
per i trattati che importassero un onere delle finanze o variazione di territorio dello Stato era previsto,
perché potessero avere effetto, l’ ‘‘assenso delle Camere’’. Sulla portata di queste disposizioni statutarie si
veda, da ultimo, l’ampio commento (che risulta dalla pubblicazione postuma) di Santi ROMANO, II diritto
pubblico italiano, 1988, p. 414 ss.
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2. A venire in gioco, nel caso di specie, era la parte finale — dedicata ai temi di assi-
stenza giudiziaria (artt. 13 ss.) — della ‘‘Convenzione per l’estradizione dei malfattori’’ tra
Italia e Principato di Monaco, sottoscritta a Firenze il 26 marzo 1866, e resa esecutiva con
r.d. 20 maggio 1866, n. 2940 (11).
L’art. 13 disciplina le commissioni rogatorie in ordine alle deposizioni testimoniali e a
‘‘tout autre acte d’instruction judiciaire’’.
3 La (condivisibile) risposta della Cassazione può risultare anche più significativa, te-
nuto conto della serie di remote convenzioni od intese, solo in materia di estradizione o an-
che in materia di assistenza giudiziaria, che a suo tempo erano state rese esecutive semplice-
mente con regi decreti, e che per lungo tempo sono rimaste, e sono magari ancora, in vigore,
in toto o in parte.
Ne ricordiamo gli Stati stranieri contraenti, con le date dell’ordine di esecuzione: Gran
Bretagna (25 marzo 1873); Belgio (28 febbraio 1875); Costarica (23 aprile 1875); El Salva-
dor (5 gennaio 1873); Giappone (17 marzo 1938); ex Jugoslavia (13 dicembre 1923); Malta
(3 maggio 1863); Messico (31 ottobre 1899); Paraguay (11 maggio 1911); Perù (9 dicembre
1935) e Uruguay (17 aprile 1881) (12).
(10) In senso contrario v. D’ALESSIO, Decreti reali in materia di estradizione, in Giur. cost., 1979,
I, p. 415; Gius. FLORIDIA, L’adattamento del diritto interno alle convenzioni di estradizione. Limiti al sin-
dacato della Corte costituzionale, ibid., p. 1262. Sulla permanente ‘‘validità’’ delle convenzioni di estradi-
zione ed assistenza giudiziaria per le quali ‘‘al tempo della stipulazione non si riteneva che vi fosse biso-
gno di una lex executionis’’ v. invece ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, vol. IV, 1943, p. 285.
(11) Per il relativo testo v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assi-
stenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 226 ss.
(12) Per i relativi testi v. il Codice, cit. alla nota precedente. In particolare, quanto alla conven-
zione con l’Uruguay v. MARZADURI, Autorità giudiziaria e autorità amministrativa nel procedimento di
estradizione passiva, in questa Rivista, 1983, p. 617.
(13) Il Tribunale richiamava la circolare del D.A.P. del 18 settembre 1998, prot. 561557.
(14) Il Tribunale richiamava Cass. sez. I, 29 gennaio 1997, ric. Vasta (in Cass. pen., 1998, p.
2131. n. 1237). V. anche sez. I, 3 febbraio 1988, ric. Virga, ibid., 1989, p. 286, n. 307, del pari esclu-
dente l’ammissibilità di un affidamento in prova presso un consolato italiano all’estero. In linea più gene-
rale, nel senso che la misura « non può svolgersi in una nazione diversa da quella in cui la pena dovrebbe
essere espiata », v. Cass., sez. I, 6 ottobre 1998, ric. Antonacci, ibid, 2000, p. 1421, n. 855; sez. I, 28
aprile 1999, ric. Di Taranto, ibid., 2001, p. 1605, n. 811; sez. I, 26 ottobre 1999, ric. Ceruti, ibid., 2000,
p. 3442, n. 1914.
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A questo punto il tribunale — v. ord. 18 marzo 2000, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, del
20 settembre — non pago del vigente assetto della ‘‘macchina amministrativa delle istituzio-
ni’’, ne chiede (ed invoca) il superamento, facendo appello agli artt. 3, 4, 16, comma 2, e 27,
comma 3o, Cost., e facendo inoltre rilevare che nella prospettiva dello ‘‘spazio giuridico eu-
ropeo’’, e della ‘‘ormai consolidata cittadinanza europea, davvero singolare e antistorico sa-
rebbe escludere un beneficio (...) sol perché i centri di servizio sociale non godono, allo
stato, di competenze normativamente stabilite che permettano loro di coordinarsi con i con-
solati italiani all’estero o con paritetici organismi che all’estero siano operanti’’.
2. La Corte costituzionale prende posizione sul problema con l’ordinanza 9-17 maggio
2001, n. 146, decidendo nel senso che ‘‘la questione appare manifestamente infondata sotto
tutti i profili’’.
a) Quanto ai profili strettamente d’ordine costituzionale, la Corte:
— qualifica come ‘‘di mero fatto’’ la ‘‘disuguaglianza fra cittadini condannati che vi-
vono e lavorano in Italia e cittadini condannati che vivono e lavorano all’estero’’: disugua-
glianza che ‘‘non discende dalla norma impugnata’’, la quale dunque non può ritenersi in
contrasto con l’art. 3, comma 1o, Cost.;
— qualifica alla stessa stregua, e a fronte dell’evocato art. 4 Cost., ‘‘l’ostacolo rispetto
all’esercizio del diritto al lavoro, discendente dalla necessità di dare esecuzione a una con-
danna penale e dalle modalità con cui tale esecuzione deve avvenire’’;
— esclude del tutto l’attinenza rispetto alle ‘‘conseguenze restrittive discendenti da una
condanna penale’’, del diritto di lasciare il territorio nazionale e di rientrarvi (art. 16, comma
2o, Cost.);
— esclude poi la violazione del ‘‘principio di rieducatività della pena’’ (art. 27, comma
3o, Cost.) ‘‘per il solo fatto che l’affidamento in prova al servizio sociale — come ogni altra
misura restrittiva di esecuzione penale — può avvenire solo sul territorio nazionale e può
perciò rivelarsi, in fatto, di più difficile esecuzione, pur essendo, in diritto, sempre possibile,
nei confronti di un condannato che vive e lavora all’estero’’.
b) Quanto poi ai profili inerenti allo ‘‘spazio giuridico europeo’’, analizzando la strut-
tura e la dinamica dell’affidamento in prova al servizio sociale la Corte fa giustamente rile-
vare, in primo luogo, che l’esecuzione di una misura restrittiva del genere ‘‘comporta l’eser-
cizio di poteri autoritativi per il controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte (art. 47,
commi 5, 6 e 9, della l. 26 luglio 1975, n. 354), sotto la vigilanza del magistrato di sorve-
glianza (art. 47, comma 10) e con informazione dell’autorità di pubblica sicurezza (art. 58
della stessa legge): poteri — tutti questi — ‘‘che non potrebbero essere esercitati al di fuori
del territorio nazionale in mancanza di accordi con le autorità di altro Stato’’.
La Corte rileva poi, in secondo luogo, che è certamente prevista, da appositi strumenti
convenzionali internazionali, resi esecutivi in Italia (la Convenzione sul trasferimento delle
persone condannate, del 1983; l’Accordo del 1987 relativo all’applicazione, tra gli Stati
membri delle comunità europee, della Convenzione medesima: Accordo ‘‘non ancora opera-
tivo nei confronti della Germania’’) la possibilità di espiare le pene nel territorio di Stati di-
versi da quello della condanna, e dunque diverso da quello dello Stato italiano.
Ben differente però — essa fa notare — è la situazione che in tali ipotesi ne consegue, e
che vede in campo, a seguito del trasferimento del condannato, l’attività autoritativa di altro
Stato, rispetto a quella che si pensasse di poter realizzare attraverso l’esecuzione, sempre sul
territorio di altro Stato (ma senza previ accordi), di una misura penale direttamente ad
opera delle autorità italiane (15).
(15) La sostanziale differenza di situazioni non era colta da chi (cfr. VANCHERI, Affidamento al ser-
vizio sociale: natura giuridica e possibilità di esecuzione dell’esperimento in località estera, in Ind. pen.,
1998, p. 1022) sul semplicistico ‘‘presupposto che anche l’affidato è in possesso’’ del particolare status
detentionis che è ‘‘caratteristico del detenuto’’, riteneva ammissibile l’affidamento al servizio sociale in
territorio estero, sulla base dell’art. 2 dell’Accordo cit. nel testo (v. in PISANI-MOSCONI, Codice delle con-
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L’istituzione di EUROJUST.
venzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed.. 1996, p. 706 ss.). E ciò salvo
poi pensare alla possibilità di un superamento delle pur prospettate e notevoli ‘‘incertezze e difficoltà’’
con il semplice ausilio di una circolare ministeriale.
(16) Sul tema v. PISANI, La ‘‘Convenzione europea per la sorveglianza delle persone condannate o
liberate con la condizionale e l’ordinamento italiano, in Ind. pen., 1992, p. 193. Ma v. anche, in più am-
pia prospettiva, la risoluzione n. 45/119 approvata il 14 dicembre 1990 dall’Assemblea generale dell’ONU
(se ne riferisce in Riv. dir. int. priv. e proc., 1992, p. 443), in tema di trasferimento della sorveglianza
(‘‘supervision’’).
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zioni nazionali ‘‘alla presente decisione quanto prima e in ogni caso entro il 6 settembre
2003’’.
Pena di morte, ergastolo ed estradizione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.
(17) PISANI, Pena di morte ed estradizione nel trattato Italia - USA: il caso Venezia, in Ind. pen.,
1996, p. 671.
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l’applicazione della pena di morte se una delle circostanze speciali non fosse stata contestata
dal prosecutor ed accertata come sussistente da parte del giudice di merito;
— egli era il solo competente alla contestazione di una circostanza speciale del genere;
nessuna circostanza speciale sarebbe stata contestata in questo procedimento; di conse-
guenza, nessun giudice avrebbe potuto applicare la pena di morte a J. Nivette;
— anche se i fatti fossero stati, in seguito, diversamente qualificati, egli rinunciava in
modo irrevocabile a richiedere la pena di morte; a lui spettava il potere, riconosciuto dalla
legge, di astenersi dal contestare una circostanza speciale anche qualora fosse sussistente ed
egli non l’avrebbe contestata, anche se fosse stata acclarata in seguito; di conseguenza, l’ap-
plicazione della pena di morte diventava impossibile’’.
Il 17 dicembre 1998 l’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi trasmetteva al governo fran-
cese delle dichiarazioni del governo federale che ribadivano l’impegno che la pena di morte
non sarebbe stata né richiesta né applicata.
Il 21 ottobre 1999 il primo ministro francese emetteva un decreto di estradizione, con-
tro il quale J. Nivette presentava ricorso al Consiglio di Stato.
Con decisione 6 novembre 2000 il Consiglio di Stato, oltre a riepilogare l’itinerario an-
tecedente, si esprimeva sottolineando:
‘‘— che per effetto della l. 9 ottobre 1981 la pena di morte è abolita in Francia;
— che a termini dell’art. 1 del Protocollo n. 6 alla Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo e delle libertà fondamentali, operante nell’ordinamento giuridico interno per effetto
della ratifica, (...) « la pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato ad una tale
pena né giustiziato »;
— che l’applicazione della pena di morte ad una persona estradata dal governo francese
sarebbe contraria a l’ordre public francese;
— che, per effetto di ciò, se uno dei fatti in ordine ai quali l’estradizione viene richiesta
alle autorità francesi è punito con la pena capitale dalla legge della Parte richiedente, questa
estradizione non può essere legalmente concessa per un tale fatto se non alla condizione che
la Parte richiedente dia delle garanzie sufficienti che la pena di morte non sarà applicata né
eseguita ’’(18).
Seguiva, poi, un’ulteriore specificazione, nel senso che, invece, ‘‘l’estradizione di una
persona che è incorsa nella pena, non riducibile, del carcere a vita non è contraria all’ordre
public francese né all’art. 3’’ della predetta Convenzione europea (19), e ad ogni modo, con-
clusivamente, la decisione escludeva il diritto di J. Nivette all’annullamento del decreto di
estradizione impugnato.
Premesse e richiamate tutte le predette argomentazioni e statuizioni, la Corte europea
dei diritti dell’uomo (sez. I, presid. Rozakis) con decisione del 14 dicembre 2000 respingeva
il ricorso (20).
B) Con altro ricorso datato 30 ottobre 1998 (n. 44190/98), J. Nivette lamentava che
un’eventuale sua estradizione agli Stati Uniti sarebbe stata contraria al già evocato art. 3
della Convenzione nel caso che egli dovesse venire condannato ad una pena detentiva a vita
non suscettibile di riduzioni.
Di contro a ciò, dal Governo francese veniva richiamata la medesima dichiarazione di
impegno, sottoscritta e giurata dal procuratore generale della Contea di Sacramento il 7 set-
tembre 1999, facendo rilevare la sua idoneità ed operatività anche per escludere una con-
danna perpetua senza possibilità di liberazione condizionale.
(18) Per una analoga presa di posizione del Consiglio di Stato francese — a fronte di un impegno
in tal senso assunto da parte dello Stato del Texas — v. la decisione del 15 ottobre 1993, richiamata a p.
683, nota (27), dello scritto qui richiamato a nota (17).
(19) ‘‘Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti’’.
(20) La decisione è riassunta in Cass. pen., 2002, p. 3241, con l’impropria datazione al 3 luglio
2001 (riferibile, invece, alla decisione della Corte di cui infra).
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L’impegno statunitense, inoltre, veniva ribadito da una nuova dichiarazione in tal senso,
sottoscritta dallo stesso procuratore generale in data 29 marzo 2001.
Con un’altra pronuncia, in data 3 luglio 2001, della stessa 1a Sezione, la Corte europea
(presid. Palm) prendeva atto, adesivamente, di tutto quanto sopra, attribuendo ‘‘una impor-
tanza particolare’’ al predetto e reiterato impegno del Governo della California, ed al fatto
che alla stregua della pure già richiamata sez. 190.2 del Codice penale di quello Stato, nel
caso di specie non può essere pronunciata condanna ad una pena perpetua e irriducibile,
salvo che sia richiesta l’applicazione di una ‘‘circostanza speciale’’ da parte del prosecutor:
‘‘cosa che quest’ultimo si è impegnato a non fare’’.
In tali condizioni — così concludeva, all’unanimità, questa seconda decisione — ‘‘la
Corte ritiene che le assicurazioni ottenute dal Governo francese sono tali da escludere il ri-
schio di una condanna del ricorrente ad una pena perpetua irriducibile. La sua estradizione
non è dunque tale da esporlo al consistente rischio (à un risque sérieux) di un trattamento o
di una pena vietati dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (21).
(21) II riferimento, con effetti preclusivi, al ‘‘risque sérieux’’ di sottoposizione alla pena di morte,
oltre che alla tortura e ad altre pene e trattamenti inumani o degradanti, è testualmente previsto nell’art.
19 § 2 della Carta di Nizza. Di tale paragrafo, la nota ufficiale esplicativa — v. BRAIBANT, La Charte des
droits fondamentaux de l’Union européenne, 2001, p. 149 ss. — scrive che esso ‘‘incorpora la giurispru-
denza della Corte europea dei diritti dell’uomo’’ relativa all’art. 3 della Convenzione.
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della pena, anche non suscettibile di riduzioni, della reclusione a vita, non è contraria nè al-
l’ordre public francese né all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il 19 luglio 2001 il ricorrente veniva estradato verso gli Stati Uniti.
B) Dopo un riepilogo di tutto questo itinerario e l’analisi particolareggiata di una serie
di dichiarazioni e documenti prodotti dalle parti nel corso del medesimo, la Corte di Stra-
sburgo passava ad esaminare i tre motivi del ricorso (n. 71555/01) del quale era stata inve-
stita.
Per ragioni di brevità ci limitiamo a riportare (da Cass. pen., 2002, p. 3246) una brevis-
sima sintesi dell’ampia decisione, ancora una volta adottata con voti unanimi: ‘‘La Corte ri-
tiene inammissibile il ricorso con riferimento all’art. 3 (della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo): gli Stati Uniti hanno dichiarato che il ripristino della pena capitale non si
estende a fatti commessi in precedenza; che in ogni caso non sarebbe stata richiesta dalla
pubblica accusa né sarebbe stata inflitta né eseguita. Con riferimento alla pena dell’erga-
stolo, la Corte osserva che, in base alla legge dello Stato della Pennsylvania, il governatore
può, sia pure sotto certe condizioni, commutare tale pena con altra compatibile con l’istituto
del release on parole: anche se questa possibilità incontra limiti, tuttavia non può conclu-
dersi che sarebbe impossibile ottenere tale beneficio. Da qui la manifesta infondatezza.
La Corte ha esaminato la questione anche sotto il profilo del giusto processo ecc.’’.
4. Ritornando ora alla decisione relativa al ‘‘caso Venezia’’ dal quale abbiamo preso le
mosse, ed alle sue conseguenze immediate (non risulta, d’altronde, che sia stata ancora av-
viata la rinegoziazione dei non pochi trattati di estradizione contenenti clausole simili a
quella dichiarata incostituzionale dalla nostra Corte), ci si è chiesti, da ultimo (SELVAGGI, in
Cass. pen., 2002, p. 3242): ‘‘se la ratio della decisione della Corte costituzionale è che non si
può cooperare laddove c’è la possibilità che venga inflitta la pena di morte, tale ostacolo var-
rebbe anche nel caso, ad esempio, della mutua assistenza?’’.
A dare attualità ad un tale quesito provvede un recente comunicato del ministero della
giustizia francese in data 27 novembre (v. Le Figaro del 28 novembre 2002, p. 10).
Gli Stati Uniti avevano chiesto assistenza giudiziaria alla Francia, a proposito del citta-
dino francese Zacarias Moussaoui ivi incarcerato a seguito delle indagini sugli attentati
dell’11 settembre.
La Cancelleria — questo il comunicato — precisa l’intendimento di rispondere adesiva-
mente alla richiesta d’assistenza, atteso che ‘‘il governo francese ha ottenuto dagli Stati Uniti
la garanzia che le informazioni trasmesse dalla Francia in ordine a Z. Moussaoui non sa-
ranno utilizzate (...) allo scopo di pronunciare o eseguire la pena di morte’’.
Non trattandosi di una ‘‘garanzia assoluta’’, essa, secondo l’oltranzistica e diffidente
‘‘giurisprudenza Venezia’’, alla luce del nostro ordinamento sarebbe, in ipotesi, del tutto
priva di ogni rilievo. Una conclusione nella quale, francamente, è difficile poter convenire.
1. ‘‘È una novità che solleva più problemi di quanti non ne risolva. Il Tribunale fede-
rale ha appena reso pubblica la motivazione del suo ultimo arrêt nell’affaire delle ‘‘madri in
fuga’’, in ordine al quale due settimane or sono aveva dato luce verde per l’estradizione
verso la Francia di una cittadina franco-polacca, rifugiatasi in Svizzera con la figlia di 5 anni.
Una decisione che, inoltre, demanda all’Ufficio federale di giustizia l’incombenza di coordi-
nare questa estradizione con il ritorno della bambina in Francia, per evitare che la piccola
« non sia troppo a lungo privata del contatto con la madre, e non resti inutilmente in un
paese dal quale sono assenti i suoi due genitori, e col quale, in definitiva, ella non ha alcuna
relazione ».
Ed è a questo proposito che le cose si complicano. Perché, se l’Ufficio federale è diretta-
mente responsabile del ritorno in Francia della madre, attualmente in detenzione estradizio-
nale nella prigione femminile de Lonay (cantone di Vaud), la sorte della bambina è, d’altra
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parte, interamente subordinata a una decisione del giudice di pace cantonale. A lui, ed a lui
solo, spetta la scelta di far ritornare la bambina in Francia, come richiede suo padre. Da ciò
la contraddizione: le due procedure giudiziarie, quella della madre e quella della figlia, di per
sé indipendenti, sono ormai interconnesse per volontà del Tribunale federale’’.
Così (in parziale traduzione) nel resoconto sul caso apparso su Le Temps del 23 ottobre
2002 (a firma di E. Michel).
2. Ma vediamo di fornire qualche maggior ragguaglio almeno su una parte della pro-
blematica affrontata dalla sentenza (1 A.175/2002) del Tribunale federale, in data 8 ottobre
2002 (presid. Aemissegger, giudici Reeb e Féraud).
Precisiamo che la ‘‘madre in fuga’’ — nella sentenza indicata con la lettera A. — aveva
presentato ‘‘recours de droit administratif’’ contro la decisione 7 agosto 2002 dell’Ufficio fe-
derale di giustizia.
A) In tema di contumacia. — Il dispositivo della sentenza francese 13 marzo 2002, al-
legato alla domanda di estradizione, indica che il tribunale ‘‘de grande instance di Parigi
aveva deciso mediante jugement contradictoire à signifier’’. A tale riguardo — continua (e
così proseguiamo nella traduzione dal testo francese) il Tribunale federale (2.4) — l’amba-
sciata di Francia a Berna ha di nuovo precisato, il 19 luglio 2002, che una sentenza è qualifi-
cata come contradictoire à signifier quando è accertato che la persona perseguita ha senz’al-
tro ricevuto la citazione ma non si è poi presentata senza una giustificazione ritenuta valida.
In caso di dubbio sulla validità della citazione, si ha una sentenza par défaut, suscetti-
bile di opposizione. Al contrario, la sentenza contradictoire à signifier è suscettibile di ap-
pello. E un tale appello era stato appunto proposto dall’avvocato della (attuale) ricorrente
otto giorni dopo la sentenza (...). È dunque a torto che la ricorrente persiste a ritenere che
sarebbe stata giudicata par défaut.
Se così stanno le cose, non si potrebbe ad ogni modo ritenere che le esigenze che in par-
ticolare discendono dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non siano
state salvaguardate.
(2.5). È stato accertato che A. è stata regolarmente convocata all’udienza del Tribunale
di Parigi, che era stata assistita da un mandatario professionale che l’aveva messa in guardia
sulle conseguenze di un eventuale rifiuto di comparire e che, malgrado queste raccomanda-
zioni, ella ha scelto di abbandonare il Paese del suo domicilio. In tali condizioni, la ricor-
rente, che ha senz’altro rinunciato al diritto di essere giudicata in sua presenza, non può la-
mentare con successo, nella procedura estradizionale, una violazione della garanzia del ci-
tato art. 6 (cfr. ATF 127, I, 213) (...). Ad ogni modo, l’esame sul merito della procedura in-
terna, e in particolare la valutazione delle prove, è sottratta al controllo del Tribunale fede-
rale (...)’’.
B) Sulla doppia incriminabilità. — Prosegue il Tribunale federale, sub 4: ‘‘Secondo la
ricorrente, la condizione della doppia incriminabilità non sarebbe stata realizzata. In diritto
svizzero, l’esercizio del diritto di visita sarebbe tutelato solo dall’art. 292 c.p. — che prevede
una semplice contravvenzione — e non dall’art. 220 c.p. (...).
(4.2) In Francia, la ricorrente è stata condannata ad un anno di detenzione per rifiuto
di consegna di minore a persona avente il diritto di esigerla, delitto punito dagli artt. 227-5 e
227-29 del codice penale francese.
L’interessata avrebbe rifiutato di consegnare X. al padre B., codetentore dell’autorità
parentale, che aveva il diritto di esigerla secondo il diritto di visita e di ospitalità stabilito
dall’autorità competente (...). I fatti sono stati commessi a Parigi e sul territorio francese dal
27 ottobre 2001 al 7 gennaio 2002 (...).
(4.3) In diritto svizzero, l’art. 220 c.p. (sottrazione di minorenne) protegge soprattutto
l’esercizio dell’autorità parentale ma anche, in certa misura, la pace familiare e il benessere
del minore (...). Perché il delitto si compia, occorre si realizzino un atto o un’omissione che
impediscano al detentore dell’autorità parentale o al tutore di decidere sulla sorte del mi-
nore, vale a dire del luogo di residenza, di educazione e delle sue condizioni di vita (ATF
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101, III, 103). Commette questo delitto non solo il coniuge che porta con sé i figli le cure dei
quali sono state affidate all’altro coniuge, ma anche quello tra i coniugi che detiene l’autorità
parentale (ATF 125, IV, 14 e 95, IV, 67)’’.
Dopo altri richiami della giurisprudenza del Tribunale federale, e copiosi riferimenti alla
dottrina elvetica, di orientamento sostanzialmente concordante (riferimenti non certo con-
formi alla prassi e alla tradizione della nostra giurisprudenza), il Tribunale (4.4) ribadisce i
precedenti, secondo i quali l’impedimento del diritto di visita a mezzo di sottrazione o non
consegna a un genitore ricade sotto la previsione dell’art. 220 c.p.
E precisa ulteriormente (4.5): ‘‘La sentenza 13 marzo 2002, sulla quale si fonda la ri-
chiesta di estradizione, non ha per oggetto il trasferimento effettuato in Svizzera da parte
della ricorrente con la figlia, ma l’impedimento all’esercizio, in Francia, del diritto di visita
da parte del padre, codetentore dell’autorità parentale. Non si tratta dunque di sottrazione,
ma piuttosto di rifiuto di consegna, seconda ipotesi considerata dall’art. 220 c.p. (22). In
questo caso, si tratta di delitto continuato che, per essere consumato, deve protrarsi per una
certa durata; una inosservanza insignificante, ad esempio del diritto di visita, non è suffi-
ciente (ATF 110 IV, 25 consid. 1 c p. 37). Orbene, secondo i fatti posti a base della sentenza
13 marzo 2002, la ricorrente avrebbe, in modo sistematico e durante un periodo di più di
due mesi, impedito al padre di incontrare la figlia alle date stabilite.
Occorre dunque riconoscere che la condizione della doppia incriminabilità è realizzata
alla stregua dell’art. 220 c.p.’’.
C) Sulla irrilevanza dell’ordine pubblico del Paese richiedente l’estradizione. Continua
la sentenza (5): ‘‘A. chiama in gioco l’ordine pubblico (l’ordre public) svizzero. Le disfun-
zioni, nello Stato richiedente (la Francia), in ordine alle rimostranze delle madri per gli abusi
sessuali o i maltrattamenti dei loro figli, sarebbero un fatto notorio, che preoccupa le più alte
istanze internazionali.
Non è dato tuttavia di scorgere le ragioni per le quali gli interessi essenziali della Sviz-
zera, o il suo ordine pubblico a sensi dell’art. 1 a della Legge sull’assistenza internazionale in
materia penale potrebbero essere compromessi in caso di concessione dell’estradizione. La
Francia è parte contraente nei vari strumenti internazionali di protezione dei diritti del-
l’uomo, ed è sottoposta alle procedure di controllo istituite da tali strumenti. Non c’è dun-
que dubbio che, se delle disfunzioni dell’importanza di quelle denunciate dalla ricorrente do-
vessero verificarsi, lo Stato stesso dovrebbe adottare le misure necessarie per porvi rimedio.
Come ricorda l’Ufficio federale di giustizia nella sua decisione, la Svizzera non può rifiutare
l’estradizione a uno Stato al quale è vincolata da una convenzione, invocando l’ordine pub-
blico di quello Stato, a meno che non abbia formulato una riserva espressa a tale riguardo
(ATF 112 Ib 342 consid. 2 b p. 346 e giurisprudenza cit.). Non è questo il caso alla stregua
della Convenzione europea di estradizione’’.
3. Dopo aver affrontato altri passaggi — in primis quello qui richiamato in apertura,
in tema di coordinamento tra la procedura di estradizione e il ritorno della bambina in Fran-
cia — il Tribunale federale conclude con la reiezione del ricorso, e pronunce accessorie.
‘‘I magistrati di Mani pulite avevano buoni rapporti con Falcone. (...). Sulle rogatorie
però qualche problema c’era. Falcone era ormai diventato un funzionario alle dipendenze del
ministro Claudio Martelli e a lui era tenuto a riferire. Per questo il pool aveva ritenuto inop-
(22) Così il nuovo testo (conseguente alla l. federale 23 giugno 1989): ‘‘Chiunque sottrae o si ri-
fiuta di restituire un minorenne alla persona che esercita l’autorità parentale o la tutela, è punito, a que-
rela di parte, con la detenzione o con la multa’’.
Per un inquadramento complessivo della tematica nella prospettiva internazionale v. MOSCONI e RI-
NOLDI (a cura di), La sottrazione internazionale di minori da parte di un genitore, 1968.
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portuno inviargli anche gli allegati, che contenevano elementi riservati sulle indagini nei con-
fronti di Craxi e dei suoi uomini. Per sfiducia non in Falcone, ma nei suoi superiori e vicini
di stanza che infatti, di lì a poco, sarebbero finiti anch’essi sotto inchiesta’’. (G. BARBACETTO-
P. GOMEZ-M. TRAVAGLIO, Mani pulite - La vera storia, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 47).
Dopo che la Corte turca per la sicurezza dello Stato, con sentenza poi confermata dalla
Corte di cassazione, aveva condannato Öcalan alla pena di morte (23), nella sua pronuncia
del 30 novembre 1999 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva suggerito al governo
provvisorio turco di adottare le misure necessarie perché la pena di morte non venisse ese-
guita (24).
Una recente corrispondenza da Ankara (Öcalan non sarà giustiziato: per lui carcere a
vita, in Corriere della Sera del 4 ottobre 2002, p. 12) riferisce quanto segue:
‘‘Abdullah Apo Öcalan non sarà giustiziato. Il Tribunale per la sicurezza dello Stato
turco ha commutato ieri la condanna a morte in ergastolo. Una decisione che è un atto do-
vuto: la Turchia ha infatti abrogato la pena di morte il 4 agosto scorso, quando il Parlamento
approvò una serie di riforme della giustizia, su richiesta (e pressione) dell’Unione europea.
Tra queste, appunto, c’era la scomparsa della pena capitale.
La stessa corte ha anche sentenziato che Öcalan resterà in carcere a vita. Per lui non esi-
ste la possibilità di un’amnistia’’.
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‘‘... Tema che è diventato di moda è quello delle rogatorie, mentre fino all’emanazione
della l. 5 ottobre 2001, n. 367 si trattava di uno di quei classici argomenti, la cui disamina
era riservata agli addetti ai lavori. È mia radicata intenzione non quella di formulare un qual-
sivoglia giudizio sulla normativa in questione, bensì di suggerire, sommessamente, con sup-
porto della giurisprudenza una soluzione al più delicato dei problemi suscitati dalla l. n. 367
del 2001, vale a dire quello dell’inutilizzabilità degli atti sancita dall’art. 729 c.p.p.(...) il cui
comma 1, riformulato, dispone che ‘‘la violazione delle norme di cui all’art. 696, comma 1,
riguardanti l’acquisizione o la trasmissione di documenti o di altri mezzi di prova a seguito
di rogatoria all’estero comporta l’inutilizzabilità dei documenti o dei mezzi di prova acquisiti
o trasmessi’’.
La problematica ha investito i documenti che devono essere acquisiti o trasmessi dall’e-
stero in originale o, in subordine, in copie o fotocopie certificate conformi. In realtà tutto è
nato da un equivoco originato da una non felice traduzione del testo francese dell’art. 3,
comma 3, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria che esattamente recita nella
corretta traduzione: la parte richiesta potrà trasmettere solo copie o fotocopie, mentre nella
versione italiana risulta: la parte richiesta non potrà trasmettere che copie o fotocopie certifi-
cate conformi.
La differenza balza evidente: la norma della Convenzione, nell’esatta traduzione, è es-
senzialmente diretta a limitare l’obbligo di collaborazione assunto da ciascun Stato, con rife-
rimento, in particolare, all’esclusione di quello di trasmettere atti originali.
In ogni caso è stata sollevata eccezione di illegittimità costituzionale delle norme intro-
dotte dalla l. n. 367 del 2001, nella parte in cui vietano l’utilizzabilità di documenti tra-
smessi dallo Stato richiesto senza la specifica certificazione di autenticità.
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 315 del 2002 ha dichiarato manifestamente
inammissibile la questione di legittimità costituzionale, non avendo il remittente (Tribunale
di Roma) assolto l’onere di verificare la concreta possibilità di attribuire alla norma denun-
ciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legit-
timità costituzionale.
La Corte Suprema, poi, in una recente decisione (Cass., sez. I, 16 ottobre 2002, n.
(26) Si tratta delle relazioni svolte, il 18 gennaio 2003, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario
presso le Corti d’appello. Le relazioni concernono il periodo 1o luglio 2001-30 giugno 2002.
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7751, Luciano Pietro ed altri) ha precisato che, secondo un generale principio di interpreta-
zione dei trattati internazionali, che si ricava dall’art. 31, comma 3, del Trattato di Vienna
del 21 marzo 1986, la consuetudine internazionale è fonte primaria di diritto internazionale
e, quindi, nella materia in esame non può prescindersi dalla prassi consolidata secondo cui,
salvo l’ipotesi in cui lo Stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo Stato richiesto
li trasmette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l’atto formale di trasmissione per con-
ferire loro garanzia di autenticità e conformità all’originale.
Se l’applicazione della l. n. 367 del 2001 deve essere ancorata alle regole interpretative
indicate dalla giurisprudenza ed implicitamente dalla stessa Corte costituzionale, essa non
costituisce un ostacolo alla necessità — generalmente avvertita — di un processo più celere
anche quando deve farsi ricorso alle rogatorie’’.
(V. VERDEROSA, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2002 alla
Corte d’appello di Salerno, pp. 23, 25-27).
‘‘... Qualche breve e doverosa riflessione va fatta anzitutto sulla complicazione e l’appe-
santimento costituiti dall’accentuata formalizzazione introdotta dalla nuova legge in un
campo in cui le convenzioni internazionali come quella di Bruxelles del 2000 tendono verso
una progressiva semplificazione con l’evidente intento di favorire la cooperazione giudiziaria
internazionale. Se poi si considera che la nuova normativa ha prescritto requisiti che non
rappresentano un effettivo rafforzamento delle garanzie a tutela degli imputati ma si risol-
vono in adempimenti formalistici del tutto irrilevanti appare evidente come anche per questa
via si sia confermata la perniciosa tendenza disorganica della legislazione e si sia allontanata
l’opportunità di rendere più celeri le procedure giudiziarie, più efficace la lotta contro il cri-
mine organizzato’’.
(E. FORTUNA, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte
d’appello di Venezia 1o luglio 2001-30 giugno 2002, pp. 43-44).
‘‘... La l. 5 ottobre 2001, n. 367, nota come legge sulle rogatorie, che tanto clamore ha
suscitato, non è certo monumento di sapienza giuridica. Essa suscita più di un dubbio sul
piano interpretativo (ma questa non è una novità), ha suscitato perplessità a livello di legitti-
mità costituzionale tanto che è stata sollevata relativa eccezione dal Tribunale di Roma con
ordinanza del 7 novembre 2001, ed altre sono preannunciate fino a questo momento; e tut-
tavia la legge suddetta — che generalmente sancisce l’inutilizzabilità probatoria di docu-
menti e atti di autorità straniere che siano privi dell’attestazione di conformità all’originale
— non ha determinato, come da più parti si temeva, sconvolgimenti nel sistema o esiti pro-
cessuali clamorosi, fino a questo momento.
Occorre però aggiungere che questa legge — emanata nell’ambito della ratifica di un ac-
cordo tra Italia e Svizzera in materia di assistenza giudiziaria — rallenterà ancora di più il
già lento corso dei processi penali dove la questione si ponga’’.
(G. RUELLO, Procura Generale della Repubblica - Firenze, Relazione sull’amministra-
zione della giustizia nel periodo 1o luglio 2001-30 giugno 2002, pp. 12-13).
‘‘... Non si sono riscontrati nel nostro distretto casi di applicazione della modifica legi-
slativa ad opera della l. n. 367 del 2001 sulle prove acquisite all’estero. Ma tale riforma si è
rivelata fallimentare nell’applicazione giurisprudenziale, che non ha consentito di conseguire
gli effetti sperati, peraltro non da tutti, a causa del conflitto tra l’intenzione del legislatore di
spingersi oltre misura e gli spazi di intervento consentiti in materia dalla normativa costitu-
zionale ed internazionale, oltre che dal buon senso. Una formulazione più rigida della nuova
normativa (rispettosa delle intenzioni del legislatore) non l’avrebbe sottratta ai profili di in-
costituzionalità, ma la formulazione meno rigida attuale ha fatto sì che quasi nulla mutasse
nella concreta applicazione’’.
(M. MORELLO, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte
d’appello del Molise, p. 28).
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della l. 5 ottobre 2001, n. 367, le relazioni [degli organi giudiziari del distretto] tacciono o si
limitano ad affermare, come quella del procuratore di Potenza, che ‘‘nessuna particolare pro-
blematica è dato di evidenziare’’. A tal proposito giova porre in rilievo, ora, che la Corte di
cassazione (sez. I, 20 settembre-15 ottobre 2002, n. 34576 e 16 ottobre-8 novembre 2002,
n. 37774) ha sciolto i principali nodi interpretativi posti dalla nuova normativa stabilendo
l’utilizzabililà dei documenti scambiati direttamente (anziché tramite ministero) tra autorità
giudiziarie aderenti alla convenzione europea di assistenza in materia penale nonché l’utiliz-
zabilità dei documenti trasmessi in copia giacché l’atto formale di trasmissione dell’autorità
straniera è sufficiente a garantire l’autenticità di tali copie nel senso che non è necessaria, su
ognuna di esse, l’attestazione di conformità all’originale’’.
(V. TUFANO, Relazione del Procuratore Generale per l’inaugurazione dell’anno giudizia-
rio 2003 alla Corte d’appello di Potenza, pp. 57-58).
‘‘... La nota legge sulle rogatorie non ha finora provocato gli effetti devastanti che erano
stati preconizzati al momento della sua entrata in vigore: e ciò in virtù di una (peraltro asso-
lutamente lineare e facile) interpretazione del tutto aderente al testo normativo (per di più
avallata dalla Corte di cassazione e, in certa misura, anche dalla Corte costituzionale, inve-
stita di una questione di legittimità fondata su una diversa ‘lettura’ del testo di legge), inter-
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pretazione che tuttavia — stranamente — non sembra essere ‘piaciuta’ ad alcuni degli stessi
legislatori’’.
(G.C. CASELLI, Relazione sullo stato della giustizia nel distretto Piemonte-Valle d’Aosta
- Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003, p. 13).
‘‘... Non risulta che la l. 5 ottobre 2001, n. 367 sull’acquisizione delle prove all’estero e
sulla loro utilizzazione abbia avuto un’apprezzabile incidenza nel distretto (anche conside-
rata la natura dei procedimenti esistenti nello stesso).
D’altra parte l’interpretazione prevalente dei giudici di merito (alla luce dei principi
della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati) ha evitato che si
producessero i possibili effetti negativi delle nuove norme (prescrizioni e scarcerazioni), so-
prattutto sui processi in corso, il che esclude la sussistenza di vizi di legittimità costituzio-
nale delle stesse (v. al riguardo ordinanza n. 315 del 2002 della Corte Costituzionale).
Tale indirizzo è stato recentemente condiviso dalla Suprema Corte che, con sentenza n.
37774 del 2002 (depositata l’8 novembre 2002), ha affermato che, salvo il caso in cui lo
Stato rogante richieda espressamente la trasmissione di atti o documenti in originale, è suffi-
ciente, come si desume dalle prassi consolidate in materia, l’atto formale di trasmissione del-
l’autorità straniera per garantire l’autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice
fotocopia’’.
(G. BRIGNOLI, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 alla Corte d’ap-
pello di Trieste, pp. 33-34).
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zione con il Canada. Così come è da segnalare la sempre maggiore partecipazione ai lavori
presso vari organismi sopranazionali quali le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Unione
Europea.
Inoltre, l’entrata in vigore della Convenzione di Schengen e il correlato accrescimento
degli spazi di collaborazione tra gli Stati dell’Unione Europea, nonché la prossima entrata in
vigore del mandato d’arresto europeo, fanno sì che la Direzione Generale della Giustizia Pe-
nale sia investita di un accresciuto numero di impegni in materia di mutua cooperazione a
cui viene dedicato un particolare impegno nella consapevolezza dell’importanza strategica
degli obiettivi’’.
(29) La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, in questa Rivista, 2002, p. 1484. V. an-
che Incertezze sul ‘‘mandato d’arresto europeo’’, ibid., p. 1132.
(30) Sul tema ci permettiamo di richiamare un nostro contributo dal titolo: Vittime. Uno statuto
europeo, in Le Due Città (Riv. dell’Amministrazione Penit.), ottobre 2002, p. 27.
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1. Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il
22 giugno 2002, è entrata in vigore (art. 13) la decisione quadro del Consiglio dell’Unione
‘‘sulla lotta contro il terrorismo’’ (2002/475/GAI).
Nel § 2 dell’art. 9 (Giurisdizione ed esercizio dell’azione penale) si prevede, in partico-
lare, quanto segue: ‘‘Se il reato rientra nella giurisdizione di più Stati membri, ciascuno dei
quali è legittimato ad esercitare l’azione penale in relazione ai medesimi fatti, gli Stati mem-
bri in questione collaborano per stabilire quale di essi perseguirà gli autori del reato al fine
di accentrare, se possibile, l’azione penale in un unico Stato membro. A tale scopo gli Stati
membri possono avvalersi di qualsiasi organo o struttura istituiti in seno all’Unione europea
per agevolare la cooperazione tra le rispettive autorità giudiziarie, nonché coordinare le loro
azioni’’. La norma — che evidentemente mira a prevenire un bis in idem internazionale — si
completa con l’indicazione, ‘‘per gradi successivi’’, di una serie di ‘‘elementi di collegamen-
to’’, da tenersi in conto a fini di cooperazione e coordinazione.
Mentre il § 1 dello stesso art. 9 impegna gli Stati membri — nei casi enunciati nelle lett.
da a) ad e) — ad adottare ‘‘le misure necessarie a stabilire la propria giurisdizione per i reati
di cui agli artt. da 1 a 4’’, il § 3 prevede un pari adempimento per il caso in cui lo Stato
membro ‘‘rifiuta di consegnare o di estradare verso un altro Stato membro o un Paese terzo
una persona sospettata di uno di tali reati o per esso condannata’’ (aut dedere aut iudicare).
(31) V. anche il d.l. 12 ottobre 2001, n. 369, convertito nella l. 14 dicembre 2001, n. 431 (Misure
urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale) e la l. 14 febbraio
2003, n. 34.
(32) Sul tema v. anche L’Italia 1935, il terrorismo e la Corte penale internazionale, in questa Rivi-
sta, 2001, p. 336.
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1. Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il
19 luglio 2002 è entrata in vigore (art. 11) la decisione quadro del Consiglio dell’Unione eu-
ropea ‘‘Sulla lotta alla tratta degli esseri umani’’.
Nell’art. 6, § 3, si prevede quanto segue: ‘‘Lo Stato membro che, secondo il suo ordina-
mento giuridico, non concede l’estradizione dei propri cittadini, adotta le misure necessarie
a stabilire la propria giurisdizione sui reati di cui agli artt. 1 [Reati relativi alla tratta degli
esseri umani a fini di sfruttamento di manodopera o di sfruttamento sessuale] e 2 [Istiga-
zione, favoreggiamento, complicità e tentativo] ed, eventualmente, a perseguirli qualora
siano commessi da suoi cittadini al di fuori del suo territorio’’.
L’art. 10, § 1, fissa al 1o agosto 2004 il termine entro il quale è previsto che gli Stati
membri debbano adottare ‘‘le disposizioni necessarie per conformarsi’’ alla decisione quadro.
Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il 5 di-
cembre 2002 è entrata in vigore (art. 11) la decisione quadro (n. 2002/946/GAI) del Consi-
glio dell’Unione europea, in data 28 novembre 2002, ‘‘relativa al rafforzamento del quadro
penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno ille-
gali’’.
Nell’art. 5, § 1, si prevede quanto segue:
‘‘1.a) Ciascuno Stato membro che, in virtù della propria legislazione, non estrada i pro-
pri cittadini prende le misure necessarie a stabilire la propria competenza giurisdizionale per
gli illeciti di cui all’art. 1, § 1 (34), perpetrati da un suo cittadino al di fuori del proprio ter-
ritorio.
b) Ciascuno Stato membro che, ove uno dei propri cittadini sia sospettato di aver
commesso in un altro Stato membro illeciti di cui all’art. 1, § 1, non procede all’estradizione
di questa persona verso l’altro Stato membro unicamente a motivo della cittadinanza, sotto-
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pone il caso al giudizio delle autorità nazionali competenti ai fini di un’eventuale azione pe-
nale. Per consentire l’esercizio dell’azione penale, i fascicoli, gli atti istruttori, il corpo e le
cose pertinenti al reato sono inoltrati secondo le modalità previste all’art. 6, § 2, della Con-
venzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957. Lo Stato membro richiedente è in-
formato in merito alle azioni penali avviate e ai loro risultati’’ (35).
Mentre da noi segna ancora il passo, dopo lo stralcio — approvato dalle Camere nel
1999 — delle disposizioni riguardanti la delega al Governo per dare attuazione allo Statuto
della Corte (36), sembra il caso di segnalare i diversi passaggi, sul piano normativo, realiz-
zati in Francia.
1. Con l’articolo unico della l. n. 2000-282 del 30 marzo 2000 (JO, 31 marzo, n. 77)
era stata tout court autorizzata la ratifica del trattato (17 luglio 1998) recante lo statuto
della Corte.
2. Con l. n. 2002-268 del 26 febbraio 2002 (JO, 27 febbraio, n. 49) era stata concre-
tata la disciplina relativa alla ‘‘cooperazione’’ con la Corte.
A tanto si era provveduto inserendo direttamente nel libro IV del Code de procédure pé-
nale un (nuovo) tit. I, con la rubrica ‘‘De la coopération avec la Cour pénal internationale’’,
contenente, in particolare, la nuova disciplina dell’art. 627, seguita da una numerosa serie di
altri articoli, fino a 627-21 (37).
3. Col decreto presidenziale n. 2002-925 del 6 giugno 2002 (JO, 11 giugno, n. 314),
sulla base della disposta ratifica veniva dato corso alla pubblicazione (in lingua francese) del
testo integrale del trattato istitutivo (38).
Segue, nel contesto del Journal Officiel, una serie di ‘‘Dichiarazioni della Repubblica
Francese.
A una prima, e composita, ‘‘déclaration interpretative’’, articolata in sette punti, di varia
portata (attinenti all’utilizzo di metodi e mezzi di difesa e di guerra, non escluso l’eventuale
impiego dell’arma nucleare), fa seguito una dichiarazione di tono minore, con la quale si
prevede (art. 87, § 2, Stat.) che la richiesta di cooperazione e i relativi supporti siano redatti
in lingua francese, ed una terza dichiarazione secondo cui, in applicazione dell’art. 24 dello
Statuto, la Repubblica francese dichiara di non accettare la competenza della Corte in ordine
alla categoria dei crimini di guerra (art. 8 Stat.), allorquando si sostenga che il crimine è
stato commesso sul suo territorio ovvero da parte di cittadini francesi.
1. Nei giorni 4-5 ottobre 2001 si è svolto a Mosca, anche con la partecipazione degli
Stati ‘‘osservatori’’ del Consiglio d’Europa, la 24a Conferenza dei ministri europei della giu-
stizia.
(35) Nel § 2 dell’articolo si precisa che ‘‘Ai fini del presente articolo, la nozione di ‘cittadino’ di
uno Stato membro va interpretata conformemente a eventuali dichiarazioni rese da tale Stato in forza del-
l’art. 6, § 1, lett. b) e c), della convenzione europea di estradizione, se del caso modificata da eventuali di-
chiarazioni rilasciate per quanto riguarda la convenzione relativa alla procedura semplificata di estradi-
zione tra gli Stati membri dell’Unione europea’’.
(36) La ‘‘Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno
giudiziario 2003’’ dava conto della Commissione — presieduta dal prof. Conforti — ‘‘istituita con il com-
pito di predisporre uno schema di disegno di legge che introduca le norme di adattamento dell’ordina-
mento interno necessarie per consentire (sic) il funzionamento della Corte penale internazionale’’. E ciò
‘‘ad integrazione e completamento di quanto previsto dalla l. di ratifica 12 luglio 1999, n. 232’’.
(37) Il nostro men leggiadro legislatore, per un vezzo duro a morire non si sarebbe sottratto all’in-
gombrante latinorum del -bis, -ter, -quater, e così via seguitando...
(38) Si osservi che, alla stregua dell’art. 128, il testo in lingua francese è, accanto ad altri cinque,
uno dei testi faisant foi dello Statuto.
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Tra i temi affrontati figurava quello della pena detentiva di lunga durata. Oltre che a se-
guito di diversi contributi degli Stati partecipanti alla conferenza, le discussioni si sono
svolte sulla base di un rapporto generale approntato dalla Federazione russa.
Da tale rapporto attingiamo — mediante traduzione dal testo francese pubblicato nel
Bullettin d’information pénologique del Consiglio d’Europa (nn. 23-24, dicembre 2002, p.
15) — la parte più strettamente attinente le tematiche di questa nostra rubrica.
2. ‘‘... Esecuzione delle pene inflitte agli stranieri e agli apolidi. — L’esecuzione delle
pene detentive (soprattutto delle pene di lunga durata) applicate agli stranieri e agli apolidi è
un problema serio per la maggior parte dei Paesi europei. Tale fenomeno rappresenta una
delle inevitabili conseguenze negative dell’internazionalizzazione delle attività umane.
Secondo le statistiche penali del Consiglio d’Europa per il 2000, la proporzione dei con-
dannati stranieri o apolidi supera il 20% in 8 Paesi membri (Svizzera: 62,6%; Lussemburgo:
59,1%; Grecia, 48,4%; Belgio: 40,4%; Austria: 30,1%; Italia: 28,5%; Francia: 21,6%; Sve-
zia: 21,3%).
Nella Federazione russa, i detenuti stranieri rappresentano una percentuale assai mode-
sta della popolazione penitenziaria, ma il loro numero è considerevole (14.200 all’incirca) e
cosa più grave, è in costante aumento. D’altra parte, si fa conto di 4.300 cittadini russi che
scontano la pena all’estero, disseminati in 54 Paesi.
L’Europa già dispone di norme applicabili agli stranieri (che figurano soprattutto nelle
Regole penitenziarie europee (39) e nella Raccomandazione no R (84) del Comitato dei mini-
stri concernente i detenuti stranieri).
Beninteso, il rispetto di queste norme deve andare di pari passo con le attività che mi-
rano al trasferimento dei detenuti stranieri (in virtù di trattati internazionali o con riserva di
reciprocità) verso gli Stati di cui sono cittadini o residenti abituali, e dove continueranno a
scontare la pena. Va tenuto presente che questi trasferimenti, che presentano soprattutto dei
vantaggi pratici (riduzione delle spese, liberazione di posti negli stabilimenti penitenziari)
consentono anche, ai detenuti stranieri, di beneficiare di condizioni più propizie al loro ricu-
pero sociale.
A questo riguardo, è auspicabile l’adozione di certe misure dirette ad aumentare il nu-
mero degli Stati partecipanti alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1983 sul trasferi-
mento delle persone condannate ed al suo protocollo addizionale del 1987 (40). Gli Stati in-
teressati non sono soltanto i membri del Consiglio d’Europa, ma pure (ed anche soprattutto)
gli altri. A nostro avviso, bisognerebbe fare in modo che questi strumenti siano universal-
mente accettati, indipendentemente dalla partecipazione degli Stati ad altri trattati similari,
bilaterali o multilaterali (ad es. le convenzioni dell’organizzazione degli Stati americani del
1993, e della Comunità degli Stati indipendenti del 1998). Noi pensiamo che il Consiglio
d’Europa dovrebbe rivestire un ruolo pilota in questo itinerario.
Giova notare che alcuni Stati, tra i quali la Russia, fanno parte di trattati che consen-
tono di trasferire i detenuti stranieri non solo verso i Paesi di cui sono cittadini, ma anche
verso quello dove essi hanno la loro residenza e il loro domicilio. Noi riteniamo auspicabile
una riflessione sulla possibilità di completare, su questo punto, la Convenzione sul trasferi-
mento delle persone condannate per mezzo di un altro Protocollo (41).
È il caso anche di ricordare qui i problemi legati alla liberazione condizionale anticipata
(39) Tra i principi fondamentali della medesima, figura — come da Allegato alla Racc. n.
R. (87) 3 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa — quello (art. 2) della doverosità della loro
applicazione senza discriminazioni, tra l’altro in relazione alla nazionalità dei detenuti: v. Le regole peni-
tenziarie europee (a cura di COMUCCI e PRESUTTI), 1989, p. 7.
(40) Se ne vedano i testi in Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, a cura di E.
ZANETTI, 1999, p. 5 ss.
(41) Per un più ampio inquadramento della tematica, e i relativi sviluppi v., anche per i rinvii, Sul
trasferimento all’estero delle persone condannate, in questa Rivista, 2000, p. 1628. V., inoltre, B. MA-
PELLI CAFFARENA, in AA.VV., La cooperación internacional frente a la criminalidad organizada, Universi-
dad de Sevilla, 2001, p. 151 (per una presentazione del volume v. in Riv. dir. proc., 2002, p. 279).
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dei detenuti stranieri ed al loro successivo trasferimento verso il Paese di cui sono cittadini o
verso quello dove essi hanno il loro domicilio. Con ogni evidenza, è necessario adottare di-
sposizioni giuridiche e legislative omogenee su scala internazionale. A questo riguardo, sa-
rebbe logico esaminare come è in pratica applicabile la Convenzione europea del 1964 per la
sorveglianza delle persone condannate o liberate sub conditione’’ (42).
‘‘... in alcuni paesi dell’Europa occidentale sono entrate in vigore delle leggi che discipli-
nano in termini generali l’assistenza giudiziaria internazionale nella materia penale e che re-
golano, accanto all’estradizione e all’assistenza cosiddetta minore, anche i nuovi istituti del-
l’esecuzione delle sentenze penali straniere e del trasferimento dei procedimenti. Si tratta più
in particolare della legge austriaca del 4 luglio 1979 (entrata in vigore il 1o luglio 1980),
della legge svizzera del 20 marzo 1981 (entrata in vigore il 1o gennaio 1983) e della legge
della Repubblica federale di Germania del 23 dicembre 1982 (entrata in vigore il 1o luglio
1983).
(42) Sul tema v. PISANI, La ‘‘Convenzione europea per la sorveglianza delle persone condannate o
liberate con la condizionale’’ e l’ordinamento italiano, in Ind. pen., 1992, p. 193.
(43) Sull’argomento v. Verso una ‘‘legge organica’’, in questa Rivista, 2000, p. 1627; Una lacuna
che permane, ibid., 2001, p. 1081.
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3. Per trovare un qualche precedente italiano di un’iniziativa di così ampio respiro nel
settore della cooperazione internazionale occorre risalire al secolo scorso, ed attingere al
programma ed ai lavori della Commissione ministeriale nominata, nel 1881, dal ministro de-
gli esteri Mancini, con l’intento piuttosto limitativo, peraltro, di approntare un disegno di
legge in tema di estradizione (ed anzi soltanto in tema di estradizione ‘passiva’). Presieduta
da Crispi, la Commissione redigeva un progetto di 33 articoli che, insieme ai lavori prepara-
tori, dava corpo a un volume di ‘atti’, pubblicato nel 1885.
Quel progetto, ampiamente discusso ed apprezzato dalla dottrina del tempo, presentava
anche quattro articoli — da 26 a 29 — che esulavano dalla tematica dell’estradizione. Essi,
infatti, contenevano una disciplina delle rogatorie (passive ed attive), oltre che dell’invio al-
l’estero, ‘per iscopo di prova giudiziaria in materia penale’, di condannati od imputati dete-
nuti.
Il progetto, ad ogni modo, non venne mai presentato alla discussione del Parlamento, e
l’impostazione, su basi unitarie, della materia in esame — e più in particolare dell’estradi-
zione — passerà piuttosto attraverso la disciplina dei codici: il codice penale del 1889 e, suc-
cessivamente, i codici di procedura penale del 1913 e del 1930’’.
(Atti parlamentari - Senato della Repubblica - X Legislatura, Disegno di l. n. 774, pre-
sentato dal Ministro di Grazia e Giustizia Vassalli, di concerto con altri ministri, e comuni-
cato alla Presidenza il 18 gennaio 1988, dal titolo: ‘‘Effetti delle sentenze penali straniere ed
esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane’’).
Estradizione e diritti dell’uomo in una sentenza del Supremo Tribunal Federal brasiliano.
1. Dal riordino di alcune carte affiora un’interessante sentenza del Supremo Tribunal
Federal brasiliano, datata Brasilia, 28 agosto 1996. Una data, dunque, non proprio vicinis-
sima, e che potrebbe anche far propendere per un accantonamento, se non fosse che l’impor-
tanza e la precisione dei principi di diritto affermati giustificano un qualche particolare indu-
gio. Si aggiunga, poi, a supporto dell’interesse che si vorrebbe suscitare nel lettore, la con-
temporaneità e, insieme, una qualche dissonanza, rispetto alla notissima sentenza della no-
stra Corte costituzionale (25-27 giugno 1996, n. 223) intervenuta nel ‘‘caso Venezia’’, ovve-
rossia sul trattato di estradizione Italia-Stati Uniti e sull’art. 698, comma 2, c.p.p. (44).
2. Il testo della decisione, rubricato ‘‘Ext 633-9 República Popular da China’’, si arti-
cola (per un totale di 74 pp.) in tre parti.
(44) Per un recente richiamo a questa tematica v. Pena di morte, ergastolo ed estradizione nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2003, p. 685.
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La prima parte presenta i principi di diritto posti a base della decisione; la seconda con-
tiene, a cura del relatore, il testo della richiesta di estradizione; nella terza il relatore dà am-
piamente conto (p. 14 ss.) della motivazione del suo ‘‘voto’’, al quale hanno fatto seguito le
adesioni unanimi del collegio, giudicante in sessione plenaria.
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Ed ancora, sul piano operativo: ‘‘Il capo della missione diplomatica è in grado di assu-
mere, a nome del suo Governo, l’impegno ufficiale di commutare la pena di morte in pena
privativa della libertà, non essendo necessario comprovare, a questo specifico effetto, che sia
stato formalmente autorizzato dal Ministero degli esteri del suo Paese. La Convenzione di
Vienna sulle relazioni diplomatiche autorizza la missione diplomatica a rappresentare lo
Stato accreditante davanti allo Stato accreditato (il Brasile, nella specie) (...). La nota diplo-
matica, che vale per il suo contenuto, fruisce della presunzione iuris tantum di autenticità e
veridicità. Si tratta di un documento formale, la cui efficacia giuridica deriva dalle condizioni
e dalle particolarità della sua trasmissione per via diplomatica’’. Tale presunzione di veridi-
cità — si precisa: ‘‘sempre fatta salva la possibilità di prova contraria — discende dal princi-
pio di buona fede, che regge, sul piano internazionale, le relazioni politiche tra gli Stati so-
vrani’’.
Sostanzialmente sulla base dei principi sovraesposti, ma anche di altre argomentazioni
collaterali, il Tribunale Federale si è espresso per il rifiuto della domanda di estradizione da
parte della Repubblica Popolare Cinese.
Julian Schutte è direttore della Divisione Giuridica del Consiglio dell’Unione Europea.
In questa sua qualità, ma a titolo personale, ha svolto il rapporto introduttivo al Panel 6
della conferenza internazionale svoltasi a Siracusa presso l’I.S.I.S.C., nei giorni 28 novem-
bre-3 dicembre 2002.
A tale riguardo ha presentato le seguenti undici ‘‘tesi’’ (48):
‘‘1. Se, in un processo di integrazione regionale si vuole dar vita a funzioni di polizia e
giudiziarie ad un livello centralizzato federale, allora è necessario creare, al tempo stesso, un
sistema di Corte centrale federale come pure un meccanismo di responsabilità politica per
l’organizzazione di tali strutture di polizia e giudiziarie, sottoposto all’esercizio di un effet-
tivo controllo democratico sulle organizzazioni stesse. All’interno dell’Unione europea, nella
(47) Per altra vicenda v. Repubblica Popolare Cinese-Giappone: il dirottamento del dissidente, in
Ind. pen., 1990, p. 409.
(48) Traduzione a cura di Elena ZANETTI.
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sua forma attuale, mancano le strutture necessarie per l’attribuzione di responsabilità poli-
tica quanto all’avvio e al funzionamento di tali strutture organizzative federali.
2. Per quanto riguarda l’Unione europea, meglio funziona la cooperazione diretta tra
gli apparati della pubblica sicurezza degli Stati membri, minore è la necessità di istituire un
servizio federale europeo di polizia (Europol), dotato di poteri esecutivi.
3. Quanto meglio è regolata e funziona la cooperazione diretta tra autorità giudiziarie
degli Stati membri, tanto minore è la necessità di creare un servizio federale europeo del
pubblico ministero.
4. Non è realistico attendersi che Eurojust, istituito con il compito di agevolare il coor-
dinamento tra le autorità degli Stati membri competenti per l’esercizio dell’azione penale in
indagini complesse con ramificazioni internazionali, possa trasformarsi in un Servizio d’ac-
cusa europeo, in grado di svolgere autonomamente indagini e di esercitare l’azione penale di-
nanzi alle Corti degli Stati membri.
5. La cooperazione operativa di polizia, che comporta lo scambio di notizie riservate e
di altre informazioni, deve garantire:
— la protezione dei dati personali, riconoscendo direttamente alle persone interessate il
diritto di accedere ai dati, di ottenere la correzione degli errori, la cancellazione dagli archivi
dei dati superati, e il risarcimento dei danni in caso di uso improprio o illecito di tali dati;
— che i dati — personali e di altro tipo — siano utilizzati esclusivamente per gli scopi
per i quali sono stati raccolti e forniti (salvo l’esplicito consenso della parte che li ha forniti
al loro impiego per altri scopi), e che l’accesso ai dati sia limitato a coloro che ne hanno ne-
cessità nell’adempimento dei loro doveri d’ufficio;
— che il fatto di fornire e ricevere dati sia documentato, come pure l’uso fatto di tali
dati, e che tali annotazioni siano conservate per un ragionevole periodo di tempo;
— controllo sul trattamento dei dati operato dalla polizia da parte di un’autorità indi-
pendente di controllo.
6. Sono ancora tutte da dimostrare l’utilità e l’importanza pratica della creazione di
squadre investigative congiunte composte da membri delle forze dell’ordine di diversi Stati.
Attribuendo poteri operativi diretti a simili gruppi (informatori, infiltrazioni sotto copertura
nelle organizzazioni criminali, intercettazione di telecomunicazioni, perquisizioni, sequestri,
confische, ecc.), ci si possono attendere gravi complicazioni pratiche e organizzative, che
possono compromettere l’efficacia dell’azione di tali gruppi. In prima battuta, sarebbe op-
portuno fare esperienza con gruppi congiunti strategici, in grado di mettere a punto l’ap-
proccio strategico per le indagini da intraprendere contro le organizzazioni criminali che
operano a livello internazionale e stabilire i mezzi da impiegare a quel fine, lasciando, in-
vece, l’adozione di misure concrete in tale ambito ai servizi nazionali delle forze dell’ordine.
7. Si è spesso affermato che, mancando in Europa un’armonizzazione delle norme
concernenti l’incriminazione di taluni tipi di condotta e il livello di sanzioni ad esse applica-
bili, il crimine organizzato dirigerà le proprie attività verso i territori degli Stati con l’incri-
minazione meno ampia e il livello di sanzioni meno elevato. Questo assunto non è mai stato,
però, suffragato da dati basati su ricerche scientifiche serie. L’armonizzazione delle norme
sostanziali di diritto penale e delle relative sanzioni è, tuttavia, utile e necessaria allo scopo
di fronteggiare efficacemente la violazione di norme che sono eticamente neutre (norme che
attengono a prescrizioni tecniche e alla regolamentazione di un mercato comune, ecc.).
8. La nozione — recentemente introdotta — di ‘mutuo riconoscimento’ di decisioni
giudiziarie quale ‘pietra angolare’ dello sviluppo della cooperazione in materia penale tra gli
Stati membri dell’Unione europea porterà, in primo luogo, ad una riduzione del ruolo dell’e-
secutivo (dipartimenti governativi) nel funzionamento di tale cooperazione e, di conse-
guenza, una diminuzione della responsabilità politica per la qualità delle relazioni tra gli
Stati membri dell’Unione europea. Resta ancora da verificare se, come è nelle attese, in con-
seguenza dell’introduzione di strumenti basati sul ‘mutuo riconoscimento’ aumenteranno in
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