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INDICE-SOMMARIO

DOTTRINA

ARTICOLI:
PISANI M., Cauzione e libertà personale (Spunti de iure condendo) ................... 3
GROSSO C.F., Su alcuni problemi generali di diritto penale ................................ 18
MANTOVANI F., Sui principi generali del diritto internazionale penale ................ 40
STELLA F., La costruzione giuridica della scienza: sicurezza e salute negli am-
bienti di lavoro ............................................................................................. 55
NOBILI M., Storie d’una illustre formula: il ‘‘libero convincimento’’ negli ultimi
trent’anni ...................................................................................................... 71
AMODIO E., Giusto processo, procès équitable e fair trial: la riscoperta del giusna-
turalismo processuale in Europa .................................................................. 93
PULITANÒ D., Il laboratorio del giurista: una discussione su strumenti e scopi .. 108
DONINI M., Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria .............................. 141
MILITELLO V., Partecipazione all’organizzazione criminale e standards interna-
zionali d’incriminazione ............................................................................... 184
CAPONE A., Note critiche in tema di ricorso straordinario per errore di fatto ..... 224
VICOLI D., Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e
art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione ......................................... 251
VOGLIOTTI M., Al di là delle dicotomie: ibridismo e flessibilità del metodo di rico-
struzione del fatto nella giustizia penale internazionale .............................. 294

IN ONORE DI EUGENIO RAUL ZAFFARONI


ZAFFARONI E.R., Colpevolezza e vulnerabilità ...................................................... 339
INSOLERA G., ‘‘Laudatio’’ per la laurea ad honorem del prof. Eugenio Raul Zaffa-
roni ............................................................................................................... 357

LA TEORIA FINALISTICA OGGI

MARINUCCI G., Finalismo, responsabilità obiettiva, oggetto e struttura del dolo . 363

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— II —

FIORE C., Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina finalistica. Il caso ita-
liano .............................................................................................................. 380
PADOVANI T., La concezione finalistica dell’azione e la teoria del concorso di per-
sone nel reato ............................................................................................... 395

NOTE A SENTENZA:
LOZZI G., L’ambito di operatività dell’art. 392 c.p.p. ......................................... 502
IAFISCO L., Avviso di chiusura delle indagini preliminari e giudizio immediato: la
Corte costituzionale riduce gli ambiti del ‘‘giusto processo’’ ....................... 511
PECORI L., Procedura di ricusazione e durata della custodia cautelare ............... 539
PENNISI A., Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni
della parte civile ........................................................................................... 558
ROCCHI D., Il giudizio abbreviato c.d. incondizionato e la patologia che affligge il
provvedimento negatorio del giudice ............................................................ 570
BELLAGAMBA F., Conspiracy e associazione per delinquere alla luce dei principi
della previsione bilaterale del fatto e del ne bis in idem in materia di estradi-
zione ............................................................................................................. 583
LOZZI G., Intervento chirurgico con esito infausto: non ravvisabilità dell’omicidio
preterintenzionale nonostante l’assenza di un consenso informato ............. 611
PANEBIANCO G., Minore infermo di mente e socialmente pericoloso: l’inadegua-
tezza dell’attuale sistema di misure di sicurezza minorili ........................... 636
CENTONZE F., La Corte d’assise di fronte al ‘‘ragionevole dubbio’’ ..................... 673

NOTE DI DIRITTO STRANIERO E COMPARATO

MARRA G., La detenzione di materiale pornografico minorile. Scelte di crimina-


lizzazione e questioni di legittimità costituzionale nell’esperienza statuni-
tense .............................................................................................................. 410
SANDANO S., La nuova disciplina sull’indagine difensiva. L’esperienza inglese .. 449

RASSEGNE

Giurisprudenza della Corte Costituzionale (a cura di M. D’Amico) ................... 470

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

WIRMER-DONOS B., Die Strafrechtstheorie Karl Christian Friedrich Krauses als


theoretische Grundlage des spanischen Korrektionalismus. Rechtspolitisches
Reformpotential und paradigmatische Bedeutung einer vergessenen Strafre-

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— III —

chtstheorie, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2001, pp. 232 (Frankfurter Krimi-


nalwissenschaftliche Studien, Nr. 71) (M.G.L.) ........................................... 482
ALESSANDRI A. (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società. D.Lgs. 11 aprile
2002, n. 61, Milano, Ipsoa, 2002, pp. XIV-645 (M.S.) .............................. 484
CONTENTO G., Scritti (1964-2000), a cura di G. Spagnolo, Bari-Roma, Laterza,
2002, pp. XIII-617 (G.D.) ........................................................................... 485
FROSINI B., Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano,
Giuffrè, 2002, pp. 184 (L.F.) ....................................................................... 491
GIARDA A., SEMINARA S. (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Pa-
dova, CEDAM, 2002, pp. VII-835 (M.S.) ................................................... 493
GIUNTA F. (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le so-
cietà commerciali. Commentario del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Torino,
Giappichelli, 2002, pp. XX-340 (M.S.) ....................................................... 494
LANZI A., CADOPPI A. (a cura di), I nuovi reati societari (Commentario al decreto
legislativo 11 aprile 2002, n. 61), Padova, CEDAM, 2002, pp. XV-323
(M.S.) ........................................................................................................... 495
MUSCO E., I nuovi reati societari, Milano, Giuffrè, 2002, pp. X-252 (M.S.) ..... 496
PRELATI G., Il magistrato di sorveglianza, Milano, Giuffrè, 2002, pp. XI, 1-295
(L.C.) ............................................................................................................ 497

GIURISPRUDENZA

Estradizione
— Reato di conspiracy e reato associativo - Previsione del fatto come reato in en-
trambi gli ordinamenti - Necessità - Esclusione (Trattato di estradizione Ita-
lia-USA, art. II, § 2) (con nota di F. BELLAGAMBA) .................................... 582
Giudice
— Ricusazione - Dichiarazione - Presentazione - Effetti - Sospensione dei termini
di custodia cautelare - Esclusione - Limiti (C.p.p. art. 37) (con nota di L. PE-
CORI) ............................................................................................................. 528
Giudizio abbreviato
Richiesta semplice ex art. 438, comma 1, c.p.p. nel testo novellato dalla l. n. 479
del 1999 - Pluralità di imputati - Ritenuta necessità di trattazione unitaria
del processo - Ritenuta necessità di integrazione probatoria - Ritenuta in-
compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedi-
mento - Provvedimento di rigetto - Abnormità - Sussistenza (con nota di D.
ROCCHI) ......................................................................................................... 566
Giudizio immediato
— Necessità che la richiesta del p.m. sia preceduta dall’avviso di conclusione
delle indagini - Esclusione - Questione di legittimità costituzionale - Manife-
sta infondatezza (C.p.p., art. 453; Cost., artt. 3, 24, comma 2) (con nota di
L. IAFISCO) .................................................................................................... 508
Imputabilità
— Minore età - Maturità - Vizio di mente - Pericolosità sociale - Misure di sicu-
rezza (C.p. artt. 88, 89, 98, 224; d.P.R 22 settembre 1988, n. 448, artt. 36,
37, comma 2) (con nota di G. PANEBIANCO) ............................................... 616

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— IV —

Incidente probatorio
— Indagini preliminari — Preclusione della possibilità di richiedere ed effettuare
l’incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari allorquando i rela-
tivi termini siano già scaduti — Violazione del diritto alla prova e, quindi,
del diritto di difesa nonché del principio della parità delle parti — Manifesta
infondatezza. (Cost. artt. 3, 24, 111; C.p.p. artt. 392 e 393) (con nota di G.
LOZZI) ........................................................................................................... 499
Parte civile
— Effetti della costituzione - Assoluzione dell’imputato in primo grado - Con-
danna in grado d’appello su impugnazione del solo pubblico ministero -
Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile - Ammissibi-
lità (C.p.p. artt. 76, 538, 576) (con nota di A. PENNISI) ............................. 550
Prove
— Regola probatoria e di giudizio nel processo penale - Incompleta formulazione
dell’art. 530, comma 2, c.p.p. - Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio -
Vigenza nel nostro ordinamento (con nota di F. CENTONZE) ...................... 654
Reato in genere
— Nesso di causalità nei reati commissivi - Accertamento oltre ogni ragionevole
dubbio - Regola probatoria e di giudizio nel processo penale - Principio del-
l’oltre ogni ragionevole dubbio - Dubbio non irragionevole, arbitrario o ir-
realistico - Assoluzione per insussistenza del fatto (con nota di F. CENTONZE) .... 654
Reati contro la persona
— Omicidio preterintenzionale - Fattispecie - Intervento medicochirurgico effet-
tuato in assenza di consenso informato - Esclusione (C.p. art. 584) (con
nota di G. LOZZI) ......................................................................................... 604

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE


Cooperazione internazionale in materia penale (a cura di M. Pisani)

— Rogatorie europee e ‘‘corti italiane’’ ............................................................... 679


— Sulle convenzioni internazionali rese esecutive con regio decreto .................. 681
— Sulla non applicabilità extraterritoriale dell’‘‘affidamento in prova’’ ............. 682
— L’istituzione di EUROJUST .................................................................................. 684
— Pena di morte, ergastolo ed estradizione nella giurisprudenza della Corte eu-
ropea dei diritti dell’uomo ............................................................................ 685
— ‘‘Madri in fuga’’ nei rapporti Francia-Svizzera ............................................... 688
— Una rogatoria senza gli allegati ...................................................................... 690
— Dalla Turchia: ultime notizie sul caso Öcalan .............................................. 691
— La cooperazione internazionale nel discorso della Corona ............................ 691
— Parigi e Berlino per un rilancio della cooperazione nell’Unione euopea ....... 692
— La ‘‘legge sulle rogatorie’’ nei discorsi dei Procuratori Generali ................... 692
— L’Ufficio II del Ministero della Giustizia: l’attività nel 2002 ........................ 695
— Unione Europea: decisioni quadro del Consiglio e ‘‘riserva parlamentare’’ .. 696

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— V —

— Cooperazione ed estradizione nella lotta contro il terrorismo ........................ 697


— Estradizione e tratta degli esseri umani ......................................................... 698
— Estradizione e immigrazione clandestina ........................................................ 698
— La Francia e la Corte penale internazionale .................................................. 699
— Sui detenuti stranieri ed il loro trasferimento ................................................. 699
— Una legge generale sulla cooperazione giudiziaria internazionale (ovvero l’ac-
cantonamento di un ‘‘progetto ambizioso’’) ................................................ 701
— Estradizione e diritti dell’uomo in una sentenza del Supremo Tribunal Fede-
ral brasiliano ................................................................................................ 702
— Undici tesi in tema di modalità ed espansione della cooperazione internazio-
nale ............................................................................................................... 704

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DOTTRINA

CAUZIONE E LIBERTÀ PERSONALE


(SPUNTI DE IURE CONDENDO) (*)

SOMMARIO: 1. Le ‘‘direttive europee’’ della materia. — A) Dall’art. 5 della Convenzione dei


diritti dell’uomo alle Raccomandazioni e Risoluzioni degli anni ’80. - B) La giurispru-
denza degli organi di Strasburgo. — 2. Dalle leggi-delega al codice di procedura pe-
nale 1988: la scomparsa della cauzione come misura alternativa alla custodia cautelare
in carcere. — 3. La breve vita dell’art. 43 l. 5 agosto 1988, n. 330 (ovvero la cauzione
‘‘rigenerata’’). — 4. Per una comparazione in prospettiva de iure condendo.

1. Le ‘‘direttive europee’’ della materia. — Il tema della cauzione


come misura alternativa alla limitazione della libertà ante judicium è sicu-
ramente, e non solo per il nostro ordinamento, un tema antico e contro-
verso (1).
Ad offrire lo spunto per una qualche possibile, ed aggiornata, rimedi-
tazione, può essere la presa in esame di quelle che risultano essere le ‘‘di-
rettive europee’’. Più precisamente: le ‘‘direttive’’ dell’ampia disciplina
della libertà personale, entro la quale il nostro tema naturalmente si col-
loca.
A) Dall’art. 5 della Convenzione dei diritti dell’uomo alle Racco-
mandazioni e Risoluzioni degli anni ’80. — Il discorso muove necessaria-
mente dall’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Roma,
4 novembre 1950).
a) Nel contesto di una previsione, in termini tassativi, dei possibili

(*) Contributo agli Studi in onore dell’economista Mario Talamona.


(1) Nell’esprimersi in senso contrario all’istituto, così come delineato nel codice del
1865, il CARRARA, cui pure si deve la celebre teorizzazione della ‘‘immoralità del carcere pre-
ventivo’’ (Opuscoli di diritto criminale, vol. IV, 1874, p. 299 ss.), ricordava un passaggio di
Tito Livio che evocava un primo esempio di liberazione mediante cauzione che ‘‘eccitò gravi
lotte fra i patrizi e la plebe’’ (Lineamenti di pratica legislativa penale, 1874, p. 65, in nota).
In una diversa prospettiva critica, GAROFALO, Criminologia, 2a ed., 1891, p. 401, la-
mentava l’esonero dei ‘‘poveri’’ da ogni cauzione ‘‘quando risultino a loro riguardo favore-
voli informazioni di moralità’’ (art. 214 dello stesso codice) ‘‘quand’anche — proseguiva il
commento — come spesso accade (...) [l’imputato] sia recidivo da parecchi reati. Ne segue
che quasi tutti i poveri sono rimessi in libertà senza alcuna malleveria, salvo quei pochi dei
quali il sindaco attesti la pessima fama. È questo — concludeva Garofalo — un vero privile-
gio che gode in Italia il proletariato!’’.

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casi di privazione della libertà personale (§ 1), il § 3 dà risalto all’ipotesi


della persona che, dati i congrui presupposti (§ 1, lett. c) sia stata arre-
stata o detenuta per essere tradotta — e ciò deve avvenire ‘‘al più presto’’
— davanti all’autorità giudiziaria competente. Per tale persona si sancisce
il ‘‘diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere
messa in libertà durante la procedura’’ (2). La rimessione in libertà
(‘‘mise en liberté’’, ‘‘relaese’’) — continua il § 3 — ‘‘può essere subordi-
nata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza’’.
Pertanto, non viene qui specificata la possibile gamma — il corsivo è
nostro — di tali garanzie, e piuttosto si fa implicito e generico rinvio alle
legislazioni interne.
b) Il tema complessivo della carcerazione preventiva tornerà più
tardi all’attenzione del Consiglio d’Europa. Nella sua 11a sessione (aprile
1959) l’Assemblea consultiva approvava la Raccomandazione 195
(1959), più genericamente intestata alla ‘‘riforma del diritto penale’’ e di-
retta al Comitato dei ministri, perché tra l’altro invitassero gli Stati mem-
bri del Consiglio ad introdurre, nei rispettivi ordinamenti, determinati e
rigorosi principi in tema di limitazione della libertà personale. Nel giugno
dello stesso anno il Comitato dei ministri trasmetteva tale Raccomanda-
zione al Comitato europeo per i problemi criminali, che a sua volta si pro-
nunciava su alcuni punti della Raccomandazione stessa. A seguito di ciò i
delegati dei ministri, nel gennaio 1961, incaricavano lo stesso Comitato
europeo di elaborare una specifica Risoluzione destinata ai governi degli
Stati membri (3).
c) A tanto si giunse con la ‘‘Risoluzione 65 (11) del Consiglio d’Eu-
ropa riguardante la carcerazione preventiva’’ (approvata dal Comitato dei
ministri nell’aprile e dal Consiglio d’Europa nel luglio 1965).
Nel dichiarato intento di ‘‘promuovere e sviluppare l’applicazione dei
principi’’ già riconosciuti nella richiamata Convenzione europea (art. 5),
si raccomandava tra l’altro ai Governi (§ 1) di delimitare in modo rigo-
roso il perimetro della carcerazione preventiva — che, si diceva, ‘‘non
deve mai essere obbligatoria’’ (lett. a); ‘‘dev’essere considerata come una
misura eccezionale’’ (lett. b); ‘‘non deve essere ordinata o mantenuta se
non nel caso in cui è strettamente necessaria’’, e mai ‘‘a scopi punitivi’’
(lett. c) — e più in particolare (per quanto attiene al nostro più specifico
argomento) si raccomandava, indicandola come vantaggiosa, una possi-

(2) Sulla portata dell’alternativa v. STARACE, La Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo e l’ordinamento italiano, 1992, p. 91 ss.; v., inoltre, i richiami in PISANI, Commenta-
rio alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
2001 (a cura di BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI), sub art. 5, p. 135.
(3) Ne riferisce GRÜTZNER, L’attività del Consiglio d’Europa nel campo del diritto pe-
nale, in Rass. st. penit., 1968, p. 771.

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bile ‘‘sostituzione’’ della carcerazione preventiva mediante il ricorso (lett.


g) ad ‘‘altre misure’’. Ne seguiva l’esemplificazione come segue:
‘‘— la custodia a domicilio;
— l’ordine di non lasciare un determinato luogo senza la preven-
tiva autorizzazione del giudice;
— l’ordine di comparire periodicamente davanti ad alcune autorità;
— il ritiro del passaporto o di altro documento di identità;
— la prestazione di una garanzia (il corsivo è nostro);
— il collocamento degli imputati minorenni in un istituto specializ-
zato’’ (4).
Per quanto attiene al tema delle garanzie, è dato dunque di rilevare, e
di apprezzare, il passaggio, dalla previsione di garanzie, in una prospettiva
ex post, come condizione della rimessione in libertà, alla più marcata ipo-
tizzazione, secondo una prospettiva ex ante, della sostituzione, in par-
tenza, della misura coercitiva.
d) L’itinerario delle specificazioni tematiche proseguiva ulterior-
mente nel corso della IX conferenza dei ministri europei della giustizia
(Vienna, maggio 1974). Nella prima delle quattro risoluzioni adottate in
tale occasione, tenuto anche conto delle risultanze acquisite in merito al-
l’applicazione, da parte degli Stati membri del Consiglio, della predetta
Risoluzione (65) 11, veniva attivato l’incarico, in capo al Comitato euro-
peo per i problemi criminali, di proseguire ed approfondire la ricerca, nel-
l’intento di ‘‘elaborare un complesso di norme europee’’ volte ad ‘‘assicu-
rare l’applicazione e la messa in opera dei principi enunciati nella Risolu-
zione (65) 11 nel rispetto degli interessi legittimi della collettività’’ (5).
e) Nel giugno 1980, a livello di delegati, il Comitato dei ministri
adottava la Raccomandazione R (80) 11 sul tema della ‘‘carcerazione
provvisoria’’ — con tale formula superandosi il più antiquato termine de-
tenzione (o carcerazione) ‘‘preventiva — che, sulla base di un articolato
preambolo, raccomandava ai governi degli Stati membri ‘‘di vigilare affin-
ché la loro legislazione e la loro pratica in materia’’ venissero ispirate ad

(4) Sul tema v. HULSMAN, Le Conseil de l’Europe se prononce sur la détention pré-
ventive, in Cahiers de dr. europ., 1966, p. 271.
(5) Si veda il resoconto Nona Conferenza dei Ministri europei della giustizia, in
Rass. st. penit., 1974, p. 893. Per i successivi passaggi in sede di Comitato europeo v. CEN-
TRO NAZIONALE DI PREVENZIONE E DIFESA SOCIALE (a cura di), La custodia preventiva nell’ap-
plicazione giudiziaria, 1978, p. 2 ss. A titolo di contributo italiano per i lavori di ricogni-
zione, la ricerca (p. 6) aveva assunto come area di indagine (soltanto) ‘‘il complesso dei casi
appartenenti per competenza ad una stessa circoscrizione, quella di Firenze, relativamente al
primo semestre del 1974.’’ Per tale arco di tempo, ‘‘non è risultato alcun caso in cui la libe-
razione (a titolo sia di scarcerazione sia di libertà provvisoria) sia stata accompagnata dalla
imposizione di una cauzione, dalla prestazione di malleveria o dalla prescrizione di specifici
obblighi ai sensi degli artt. 272 e 282 c.p.p.’’ (p. 158).

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una serie cospicua di principi, raggruppati in quattro parti (6). Mentre le


prime due erano rispettivamente intitolate ‘‘Principi generali’’ e ‘‘Principi
applicabili alle decisioni relative alla carcerazione provvisoria’’, la terza
parte enunciava analiticamente (§ 15) i ‘‘principi applicabili alle misure
alternative’’.
Di queste ultime, mentre si ripercorreva e si specificava ulterior-
mente la gamma delle esemplificazioni contenute nella Risoluzione (65)
11, più particolarmente a proposito di garanzie da configurarsi in (diretta)
alternativa alla carcerazione provvisoria così veniva previsto:
‘‘... prestazione di una cauzione o di altre garanzie da parte della
persona, tenuto conto delle sue risorse;
— prestazione di una garanzia da parte di un terzo’’ (7).
In tal modo, nel novero delle garanzie si dava specifico risalto alla
misura — non certo ignota neanche nell’ambito delle legislazioni europee
— della cauzione, dando specifico (ma non esclusivo) rilievo (‘‘... tenuto
conto’’) alle risorse economiche della persona interessata, ed aggiungendo
anche la misura omologa — al nostro ordinamento nota come ‘‘malleve-
ria’’ — della garanzia prestata ‘‘da parte di un terzo’’.
In linea più generale, per tutte le misure alternative esemplificate si
prevedeva, per il caso di inosservanza, la sottoposizione alla misura carce-
raria, e viceversa la tendenziale applicazione, nel caso di rispetto delle re-
gole, delle stesse forme di tutela previste per le persone sottoposte alla
carcerazione provvisoria.
B) La giurisprudenza degli organi di Strasburgo. — Atteso che, nel-
l’indicato preambolo dell’ultima Raccomandazione, si dava atto dell’ade-
guata presa in considerazione, da parte del redigente Comitato dei mini-
stri, anche della pertinente giurisprudenza della Commissione e, inoltre,
della Corte europea dei diritti dell’uomo, sembra opportuno fornire qual-
che dettaglio a tale riguardo.
In un suo primo intervento, con pronuncia in data 5 luglio 1976, la
Commissione (rich. n. 6148/73, Swiatkowski c. Regno Unito) (8), ha pre-
cisato che la disposizione dell’art. 5, § 3, della Convenzione, la quale pre-
vede la possibilità di subordinare la messa in libertà della persona ad una

(6) Per il testo in lingua francese v. in questa Rivista, 1981, p. 698; per la traduzione
italiana v. in Ind. pen., 1981, p. 820.
(7) È da notarsi che ANDRIOLI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il pro-
cesso giusto, in Temi romana, 1964, pp. 456-457, già a livello della più generica previsione
dell’art. 5, § 3, parlava direttamente e tout court di ‘‘cauzione’’ (misura attenuatrice del ‘‘di-
ritto di essere posto in libertà’’). Viceversa, sul più generale problema del carattere non ‘‘self
executing’’ della normativa contenuta degli artt. 5 e 6 della Convenzione v. CONSO, I diritti
dell’uomo e il processo penale, in Riv. dir. proc., 1968, p. 315.
(8) Nel rapporto MURDOCH sull’art. 5 della Convenzione (Dossiers sur les droits de
l’homme no 12) edito dal Consiglio d’Europa (1994), si indica quella decisione come inedita.

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garanzia che ne assicuri — si noti — la sua comparizione all’udienza,


mentre di per sé non implica un vero e proprio diritto alla libertà provvi-
soria, purtuttavia non limita la sua portata ad una mera declaratoria di
possibilità.
Per parte sua, la Corte di Strasburgo ha avuto modo di prendere posi-
zione in materia con due sentenze — entrambe in data 27 giugno 1968 —
relative al caso Wemhoff (serie A, n. 7, p. 25, § 15) e al caso Neumeister
(serie A, n. 8, p. 40, § 14) (9).
Nella prima delle due decisioni la Corte ha puntualizzato che, allor-
quando il permanere della detenzione è motivato soltanto dal pericolo di
fuga — e quindi dal rischio della non comparizione successiva davanti al
giudice — la liberazione provvisoria deve essere ordinata allo scopo di as-
sicurare tale comparizione, ed ha precisato, in particolare, che in proce-
dimenti originati da affari finanziari ben si addice la determinazione, a
livello consistente, di cauzioni o malleverie. E ciò nell’intento di costituire
un freno sufficiente per scoraggiare velleità di fuga, più che di rapportarsi
all’entità delle somme in gioco e di assicurare la riparazione del
danno (10).
Più tardi la Commissione europea avrà modo di specificare che, allo
scopo di concretare la misura di un freno adeguato di contenimento, è esi-
gibile, da parte dell’interessato, un atteggiamento di collaborazione con le
autorità nazionali per fornire adeguate informazioni in merito alle sue ri-
sorse economiche (rich. n. 8224/78, Bonnechaux c. Suisse, rapp. Comm.
5 dicembre 1979, D.R. 18, p. 100 ss., spec. pp. 119-121), mentre, d’al-
tronde, ciò non dispensa le predette autorità dall’incombenza di prendere
in esame altre informazioni pertinenti a sua disposizione (rich. n.
8339/78, Schertenleib c. Svizzera, rapp. Comm. 11 dicembre 1980, D.R.
23, pp. 137-196).

2. Dalle leggi-delega al codice di procedura penale 1988: la scom-


parsa della cauzione come misura alternativa alla custodia cautelare in
carcere. — L’indugio sulle ‘‘direttive europee’’ assume un particolare si-
gnificato ove si pensi che, sia la prima delle due leggi-delega al Governo
per l’emanazione di un nuovo codice di procedura penale, la l. 3 aprile
1974, n. 108, che la seconda — la legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 —
imponevano al legislatore delegato (art. 2), oltre che il compito (precisato
ad abundantiam) di ‘‘attuare i principi della Costituzione’’, in particolare

(9) Per il testo delle due decisioni v. Foro it., 1968, IV, c. 89 ss. V., inoltre, CHIAVA-
RIO, Un primo bilancio sugli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema
di durata della carcerazione preventiva, in Ind. pen., 1970, p. 469 ss., e spec. pp. 474-475.
(10) È però il caso di precisare che, temporibus illis, non era ancora maturata, entro
la prospettiva europea, elettivamente attenta alla tutela dei diritti dell’uomo-accusato, una
più spiccata vocazione per la tutela delle vittime del reato.

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anche quello di ‘‘adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ra-


tificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale’’. E
tra tali convenzioni era fuor di dubbio che, ad assumere il primo posto,
fosse proprio la Convenzione europea dalla quale abbiamo preso le
mosse (11).
a) Non senza ispirarsi, in primis, a tale testo normativo, sia la
prima che la seconda delle due leggi stabilivano — per il legislatore dele-
gato (rispettivamente al n. 54 e al n. 59) — il compito della ‘‘previsione di
diverse misure di coercizione personale, fino alla custodia in carcere’’ e,
nella seconda delega, della ‘‘previsione di misure diverse di coercizione
personale, fino alla custodia in carcere’’: in tal modo insistendo entrambe
sulla pluralità delle misure e — nella logica di una graduazione in termini
di progressività — sulla correlativa previsione di misure alternative ri-
spetto alle più severe, ed in qualche modo estreme, forme della carcera-
zione ante sententiam.
V’è da aggiungere che sostanzialmente non difformi erano le previ-
sioni, omologhe rispetto a quelle qui pertinenti dell’art. 5 della Conven-
zione europea, contenute nell’art. 9 del Patto internazionale relativo ai di-
ritti civili e politici approvato in sede ONU il 19 dicembre 1966. Anche
alle previsioni di questo articolo era senz’altro riferibile, ed in concreto è
stato riferito, il richiamato obbligo di ‘‘adeguamento’’ previsto per il legi-
slatore delegato.
Più in particolare, quanto alle alternative alla detenzione ante senten-
tiam, nel § 3 di quell’art. 9 era previsto che la rimessione in libertà po-
tesse essere subordinata a delle garanzie in grado di assicurare, non solo,
come statuiva il § 3 del predetto art. 5, ‘‘la comparizione dell’interessato
all’udienza’’ (12), ma anche — come si è voluto sottolineare — la compa-
rizione anche ‘‘in rapporto a tutti gli altri atti della procedura e, se del
caso, per l’esecuzione della sentenza’’ (13).
b) È però poi avvenuto che, nel corso dei lavori preparatori, e cioè

(11) M. BONETTI, Le convenzioni internazionali ‘‘relative ai diritti dell’uomo e al pro-


cesso penale’’ nei lavori preparatori della delega per il nuovo Codice, in Ind. pen., 1991, p.
190 ss.; CHIAVARIO, ‘‘Cultura italiana’’ del processo penale e Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1990, p. 462 ss.
(12) Nella sua ampia analisi, dal titolo La tutela della libertà personale dell’imputato
nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 1967, p. 886, AMODIO ri-
teneva di poter prescindere da tale previsione normativa, in quanto inidonea a ‘‘trovare ac-
coglimento in un sistema come il nostro nel quale la presentazione dell’imputato al dibatti-
mento non costituisce un comportamento doveroso’’.
(13) Per la sottolineatura v. il Rapporto H (70)7 del Comitato di esperti (settembre
1970) in tema di problemi derivanti dalla ‘‘coesistenza’’ dei Patti ONU e della precedente
Convenzione europea, più in particolare per quanto attinente alle differenze in ordine ai di-
ritti garantiti (v. sub n. 113, p. 29). Un tale finalismo della cauzione, a più ampio raggio,
ispirava già (in sede di concessione della libertà provvisoria) l’art. 205, comma 1, del nostro
c.p.p. del 1865.

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nel passaggio dai ‘‘principi e criteri direttivi’’ delle leggi di delega alla fase
della codificazione, è stata decretata la scomparsa della cauzione quale
misura sostitutiva della custodia cautelare in carcere.
Nel codice 1930 (artt. 282 ss.) si prevedeva l’istituto della cauzione
(e così pure l’omologo istituto della malleveria) come strumento di garan-
zia patrimoniale per l’adempimento degli obblighi imposti con il provvedi-
mento di liberazione, specialmente per effetto della ‘‘libertà provvisoria’’,
e dunque come misura sostitutiva ex post: successiva, cioè, alla carcera-
zione, e alternativa al protrarsi della medesima. Una sorta di cauzione (o
malleveria) liberatoria.
Mentre non era mancato l’auspicio che le due misure subissero un
mutamento genetico, così da poter divenire misure autonome, e, come
tali, sostitutive ex ante della carcerazione (14) — del che non mancavano
certo i modelli nelle legislazioni straniere —, a cominciare dall’iter di at-
tuazione della prima legge-delega, per la cauzione e la malleveria fu invece
decretato una sorta di generale e radicale ostracismo.
La vicenda fece però registrare alcuni passaggi significativi.
In una primissima fase, e cioè in sede di commissione redigente, pur
non essendo mancato il rilievo — si era agli inizi del 1975 — che il pro-
getto di articolato relativo alle misure di coercizione personale aveva in-
tenzionalmente omesso di riprendere, dall’impostazione del codice 1930,
l’istituto della cauzione (15), ‘‘a causa della efficacia discriminatoria di
fatto di tale provvedimento’’, alla fine di una riunione, e col parere favore-
vole del presidente, l’istituto venne però ‘‘reintrodotto’’ a larga maggio-
ranza, con un emendamento diretto a ‘‘tener conto delle possibilità econo-
miche dell’imputato’’ (16).
Lo schema redatto dalla Commissione ministeriale passava poi al va-

(14) VALIANTE, Il nuovo processo penale, 1975, p. 297.


(15) Ad essa soltanto, per ragioni di semplicità, si continuerà qui a fare riferimento.
(16) Rinviamo al verbale (dattil.) della riunione pomeridiana 17 gennaio 1975 della
Commissione plenaria per la riforma del Codice di procedura penale (pp. 4 e 6).
La vicenda riproponeva i termini — e l’esito — di una sia pur remota, ma qualificata,
presa di posizione. In occasione di un noto convegno di studio (promosso nel 1953 dal Cen-
tro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale di Milano; per i relativi atti, editi nel 1954, dal
titolo Atti del convegno nazionale di alcune fra le più urgenti riforme della procedura pe-
nale, v. le pp. 103, 133 e 139), il relatore FRISOLI prospettava la tesi, già enunciata da Carne-
lutti, del superamento delle norme vigenti, così da consentire la prestazione di adeguate ga-
ranzie patrimoniali ‘‘anche in via anticipata’’. E si precisava: al fine cioè ‘‘di evitare proprio
quel danno, che si cercherà poi di attenuare attraverso la concessione della libertà provviso-
ria’’.
Pur sempre mantenendosi entro l’ottica della configurazione vigente, e cioè facendo ri-
ferimento all’istituto della cauzione previsto dall’art. 282 c.p.p. e dalle leggi speciali, nei rap-
porti con la libertà provvisoria, vi fu chi propose (Dall’Ora) di ‘‘togliere dalle garanzie quelle
patrimoniali perché si verrebbe altrimenti a creare una disparità di trattamento assoluta-
mente ingiustificata tra i poveri e gli abbienti’’. Messa ai voti, la proposta fu respinta.

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glio della Commissione consultiva, e, in tale sede, a proposito del mante-


nimento della cauzione (si tenga presente: come semplice misura sostitu-
tiva ex post della carcerazione preventiva), la Commissione, all’unanimità,
si dichiarava ‘‘contraria al mantenimento della misura (...), sia per il ca-
rattere potenzialmente discriminatorio della cauzione, sia perché il ri-
spetto delle prescrizioni connesse alle misure coercitive è adeguatamente
assicurato dalla prevista possibilità di applicare, in caso di trasgressione,
una misura più grave’’ (17).
Alla fine di questo percorso, fedelmente riflesso nella Relazione al
progetto preliminare del codice di procedura penale, datato 1978, mentre,
quanto alle linee direttive ed ai principi fondamentali, si dava particolare
risalto, tra l’altro, alla ‘‘creazione di nuove misure di coercizione perso-
nale idonee a surrogare la carcerazione preventiva che tradizionalmente è
stata concepita come la misura coercitiva per eccellenza’’ (18), quanto
alla cauzione si dava atto d’aver aderito alla proposta, formulata dalla
Commissione consultiva, di sopprimere la misura, così come a suo tempo
configurata nel codice in vigore.
Si passava quindi ad esplicitare le ragioni di una tale scelta, in senso
adesivo (e, quindi, a superamento della precedente ed indicata presa di
posizione). Come primo ‘‘motivo’’ del revirement si dava ancora risalto,
su un piano per così dire ideale, al carattere ‘‘potenzialmente discrimina-
torio’’ della cauzione. Ma si dava poi conto di una ‘‘rimeditazione del pro-
blema’’: a seguito della quale, in una prospettiva di carattere pratico, era
maturata la consapevolezza che la cauzione, ‘‘delineata come versamento
di una somma per assicurare l’adempimento degli obblighi conseguenti a
misura di coercizione non avrebbe avuto molte probabilità di funzionare
efficacemente’’ (19).

(17) Commissione consultiva per la riforma del Codice di procedura penale - Parere
su lo schema legislativo delle misure di coercizione personale (dattil.), 1975, p. 48.
Sarà poi la stessa Commissione consultiva — nel finale Parere sul progetto preliminare
del Codice di procedura penale, 1979, p. 221 — a ricordare quella proposta di modifica, an-
noverandola tra ‘‘le più significative’’.
(18) Relazione cit., p. 209.
(19) Ne seguiva la spiegazione: ‘‘... La cauzione, infatti, opera con sicurezza se è co-
struita non come obbligo ma come onere, vale a dire come situazione giuridica alternativa
alla soggezione ad altra misura più grave già disposta: in tal caso l’imputato ha un evidente
interesse a prestarla, se ne abbia la possibilità economica, perché solo in tal modo può sot-
trarsi alla restrizione più grave. Ma se la cauzione è finalizzata a garantire meglio l’adempi-
mento di altri obblighi, che non si concretano in una attuale soggezione a forme di restri-
zione della libertà dell’imputato, questi, come può sottrarsi agli obblighi, così può rifiutare il
pagamento spontaneo della cauzione: nel qual caso lo Stato si troverà a dover agire in execu-
tivis, con procedure tanto lunghe e macchinose, quanto inadeguate alle finalità cautelari
delle misure di coercizione, che per loro natura esigono una immediata operatività’’.
Con tutto ciò, peraltro, ancora non si spiegava perché si dovesse restare prigionieri
dello schematismo del codice 1930, cioè a dire perché non si riteneva di poter apprestare,

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Con tali puntualizzazioni il tema della cauzione, per quanto attiene


alla materia della libertà personale, veniva in qualche modo liquidato, e
globalmente estromesso dagli orizzonti della riforma.
E infatti, quando si darà corso all’attuazione della ‘‘seconda delega’’,
il Progetto preliminare, datato 1988, più non menziona quel tema, e al-
trettanto avviene in sede di Relazione ministeriale, pur mentre si conferi-
sce tutta la necessaria evidenza, in primo luogo, al ‘‘principio di adegua-
tezza’’ delle misure cautelari (consacrato nell’art. 275 del testo norma-
tivo) — e in particolare alla custodia cautelare in carcere, da doversi con-
siderare ‘‘davvero un’extrema ratio’’ — oltre che, a guisa di completa-
mento di quel principio, al ‘‘principio di proporzionalità’’ (20).

3. La breve vita dell’art. 43 l. 5 agosto 1988, n. 330 (ovvero la cau-


zione ‘‘rigenerata’’). — Piuttosto singolare sarà la vicenda concernente,
per quanto attiene al nostro argomento, la l. 5 agosto 1988, n. 330
(Nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nel
processo penale).
Portando a nuovi sviluppi la politica delle misure alternative alla car-
cerazione preventiva — vale a dire la linea direttrice delle leggi 12 agosto
1982, n. 532 e 28 luglio 1984, n. 398 — l’art. 43 della nuova legge con-
tiene una sostanziale modifica dell’allora — e ancora per poco — vigente
art. 282 cod. 1930.
E ciò proprio nel senso della trasformazione — si era parlato dell’au-
spicio di un mutamento genetico (v. retro, 2. b) — della cauzione, dal mi-
nor rango di mero rafforzamento dei vincoli derivanti dalla concessione
della libertà provvisoria, a quello di misura autonoma, anche da sola suffi-
ciente ‘‘a tutelare le esigenze cautelari’’ indicate dall’art. 253, e in deroga
alle sue previsioni.
Varata nemmeno due mesi prima del decreto presidenziale delegato
di approvazione del nuovo Codice di procedura penale (d.P.R. 22 settem-

con quel salto di qualità di cui non era mancato qualche auspicio, per l’appunto il passaggio
della cauzione-obbligo (obbligo accessorio rispetto ad altri) alla cauzione-onere, ‘‘vale a dire
come situazione giuridica alternativa ad altra misura più grave’’ (leggasi: la custodia caute-
lare in carcere). Già alla luce dell’art. 288 c.p.p. 1930 CARNELUTTI, Lezioni sul processo pe-
nale, vol. II, 1947, p. 152, parlava, al di là dell’‘‘erronea locuzione’’ della norma, di onere
dell’imputato detenuto.
(20) Relazione, cit., p. 72.
Nella stessa Relazione, quanto ai ‘‘poteri cautelari sull’estradando’’ (rectius: sull’estra-
dabile) si metteranno così in evidenza (p. 154) i ‘‘criteri di fondo’’ dai quali il Progetto ha
tratto ispirazione: da un lato ‘‘l’abbandono dell’idea che la custodia in carcere dell’estra-
dando sia un elemento indispensabile del procedimento di estradizione e, dall’altro, che non
v’è ragione perché all’estradando, in tema di misure di coercizione, non sia riservato lo
stesso trattamento dell’imputato avanti ad un giudice italiano; salvo poi a prevedere, come
ulteriore presupposto legittimante tali misure, il pericolo di fuga in considerazione della par-
ticolare situazione in cui tale soggetto viene a trovarsi’’. (V. ora gli artt. 714 ss. c.p.p.).

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bre 1988, n. 47), quella nuova misura avrà però vita breve. Infatti, la
legge dell’agosto 1988, che pur anticipava — rispetto al codice imminente
— i criteri generali di fondo per le misure cautelari (adeguatezza e pro-
porzionalità), altrettanto non era in grado di fare quanto alla cauzione,
che per l’appunto il legislatore dei tempi nuovi, a partire dal 24 ottobre
1989, aveva destinato all’ostracismo.
Ma quella scelta non trovò unanimi i pareri della dottrina, che si
trovò anzi ad esprimere assai più di una riserva critica (21).

4. Per una comparazione in prospettiva de iure condendo. — Arri-


vati però a questo stadio dell’evoluzione normativa, viene dato di chie-
dersi se non sia giunto il momento di pensare ad una rimeditazione del
problema in una prospettiva de iure condendo.

(21) La scomparsa della cauzione, già nel Progetto 1978, dal novero delle cautele so-
stitutive della detenzione preventiva, era apparsa a CHIAVARIO, Processo e garanzie della per-
sona, 3a ed., vol. II, 1984, p. 351, nota (92), come ‘‘una soluzione estrema che, forse, può
diventare, nella sua radicalità, controproducente, impedendo di usare anche nei casi oppor-
tunamente manovrabili con riferimento al criterio delle condizioni economiche del soggetto
un mezzo non del tutto inutile’’ (l’A. non mancava neanche di fare riferimento alla giurispru-
denza della Corte europea) mentre CONSO (Cauzione = privilegio?, in La Stampa del 6 aprile
1980, p. 1) prudentemente, ed anche in coerenza con posizioni assunte per il passato, conti-
nuava a propugnare la ‘‘sopravvivenza’’ della cauzione.
Anche diversi anni dopo, quando il codice nuovo era ormai giunto al traguardo, ci fu
chi ebbe a lamentare i ‘‘termini fin troppo drastici’’ coi quali anche il Progetto di attuazione
della seconda delega aveva estromesso la cauzione (così GREVI, in AA.VV., La libertà perso-
nale dell’imputato verso il nuovo processo penale, a cura dello stesso, 1989, p. 279; e ciò in
coerenza col più remoto, ma diretto, auspicio di veder congegnata la cauzione come misura
adottabile anche ab origine: v. voce Libertà personale dell’imputato, in Enc. del dir., vol.
XXIV, 1974, p. 403).
A chi si dovesse proporre di saggiare l’utilità di un ripristino della cauzione può risul-
tare di qualche interesse l’esame della pur remota casistica che, a titolo esemplificativo, qui
passiamo a riferire, con le approssimazioni consentite dalla stampa quotidiana. Si tratta di
casi di cauzione imposta, nella vigenza del codice 1930, in sede di concessione della libertà
provvisoria:
— Milano, 29 dicembre 1967: G.R., anni 33, arrestato il 13 novembre perché coin-
volto ‘‘nel grosso affare dei vaglia falsificati’’; cauzione: lire 2.000.000;
— Milano, 21 febbraio 1970: B.J., cittadino polacco, arrestato il 22 gennaio per un
omicidio e un tentato omicidio compiuti in una birreria di Stoccarda nel febbraio 1949; cau-
zione: lire 5.000.000;
— Genova, 3 settembre 1972: L.D., geometra, ‘‘ufficialmente nullatenente’’, arrestato
sei settimane prima in qualità di capo di una organizzazione di contrabbandieri internazio-
nali di sigarette; cauzione: lire 70.000.000;
— Milano, 15 febbraio 1975: S.D., anni 39, amministratore di una società di combu-
stibili accusato di frode erariale per violazioni, poste in essere nell’ambito di sei aziende,
delle norme doganali e tributarie; cauzione: lire 3.000.000.000;
— Roma, 3 giugno 1977: V.C., ex presidente della ESSO, arrestato il 22 maggio (e de-
tenuto nell’infermeria del carcere) a titolo di appropriazione indebita e falso in bilancio; cau-
zione: lire 100.000.000.

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A ben vedere, si tratterebbe di percorrere lo stesso itinerario di speci-


ficazione e di concretizzazione che ha visto la disciplina europea passare,
dal testo dell’art. 5, § 3, della Convenzione, alla Risoluzione 65(11) ed
alla Raccomandazione R(80)11, così puntando all’obiettivo di una nuova
disciplina di diritto interno.
E ciò, ovviamente, in ideale continuità con il compito di ‘‘adegua-
mento’’ a quella Convenzione, che due leggi-delega avevano imposto al le-
gislatore delegato e, sotto altro profilo, non senza tener conto della pure
già menzionata giurisprudenza di Strasburgo.
Oltretutto, per un processo penale al quale i preamboli delle stesse
leggi-delega avevano fatto carico di incorporare ‘‘i caratteri del sistema ac-
cusatorio’’, sia pure secundum quid (si vuol dire: secondo i predisposti e
numerosi principi e criteri direttivi), può essere anche meno facile pren-
dere le distanze dalla cauzione, che è parte vitale delle tradizioni proces-
suali dei Paesi anglosassoni, fonti primigenie e laboratori permanenti del
‘‘sistema accusatorio’’.
Ricordiamo, in primo luogo, l’VIII emendamento della Costituzione
degli Stati Uniti (22), che esordisce vietando di ‘‘esigere cauzioni esorbi-
tanti’’: una regola di proporzionalità (cfr. il nostro art. 275, comma 2,
c.p.p.), che dà per implicito l’accreditamento istituzionale della cauzione,
pur senza significare che ogni imputato abbia diritto alla libertà contro
cauzione (23).
Ricordiamo inoltre la disciplina vigente nel Regno Unito, dove la
concessione — operata anche da parte della polizia — del rilascio dietro
cauzione viene fatta discendere direttamente dal principio della presun-
zione di innocenza (24).

(22) L.W. LEVY, Origins of the Bill of Rights, 2001, p. 231, ne fa risalire l’origine al-
l’English Bill of Rights del 1689.
(23) Si veda la sentenza Carlson v. Landon, 342 U.S. 524, 545 (1952), menzionata
da FELLMAN, alla cui trattazione dell’argomento — in AA.VV., La libertà personale (a cura
di ELIA e CHIAVARIO), 1977, p. 156 ss. — qui si fa rinvio. Scrive, in particolare, questo A.:
‘‘Una delle ragioni della cauzione è che, essendo l’imputato innocente fino alla effettiva con-
danna per un reato [cfr. art. 27, comma 2o, Cost.; art. 6, § 2, Conv. cit.] al pari di tutti gli
innocenti, non deve stare in prigione’’. V., inoltre, BASSIOUNI, Lineamenti del processo pe-
nale, in AA.VV., Il processo penale negli Stati Uniti d’America (a cura di AMODIO e BAS-
SIOUNI), 1988, p. 62 ss.
La previsione del bail trova un riconoscimento costituzionale anche nell’art. 40 della
Costituzione irlandese: v. art. 40.4.3o, mentre sub 7o si stabilisce che, in forza di legge, il bail
possa essere rifiutato dalla Corte alla persona accusata di gravi reati ‘‘where it is reasonably
considered necessary prevent the commission of a serious offence by that person’’. Sul re-
gime processuale dell’istituto v. MCAULEY e O’DOWD, Ireland, in Criminal Procedure
Systems in the European Community (ed. Van Den Wyngaert), 1993/94, p. 201.
(24) A.T.H. SMITH, England and Wales, ibid., p. 82. Per un più frequente ricorso alla
liberazione dietro cauzione si era espresso un report di un gruppo di lavoro dell’Home of Of-
fice, dal titolo Bail Procedures in Magistrate Courts, HMSO, 1974.

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Il Bail Act del marzo 1976 in qualche misura sancisce il right to bail,
vale a dire, almeno in linea generale, il diritto dell’accusato di restare in li-
bertà, salvo una motivata decisione della Corte la quale accerti che, se la-
sciato libero, l’accusato, o non comparirebbe in giudizio, o commette-
rebbe un reato o intralcerebbe l’attività giudiziaria (25).
La disciplina che i vari altri sistemi processuali offrono in ordine al
nostro tema si presenta come notevolmente differenziata, e chi, qualche
tempo addietro, ha compiuto una certa ricognizione al riguardo, ha rite-
nuto di poter attestare che la maggioranza dei sistemi riconosce la cau-
zione, o come misura cautelare del tutto indipendente e separata (26), o
come ‘‘sostitutiva’’ della custodia in carcere (27).
Volendo procedere ad una comparazione utile in una prospettiva
d’ordine interno de iure condendo, sembra opportuno far capo, prestando
però tutta la necessaria attenzione ai relativi contesti, alle discipline della
cauzione approntate nei Paesi facenti parte dell’ambito della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo.
A tale riguardo sembrano particolarmente interessanti gli assetti nor-
mativi, e le pratiche di attuazione concreta, offerti dalla Francia e dal Por-
togallo.
Nella vicina repubblica la cauzione fa parte della disciplina composita
del ‘‘controle judiciaire’’ introdotta nel 1970, e poi emendata da una legge
del 15 giugno 2000, a seguito della quale è stabilito (art. 138, n. 11,
C.P.P.) che il giudice istruttore fissa l’ammontare, e i termini di versa-

(25) SPENCER, La procédure pénale anglaise, 1998, p. 49 ss. Per più ampi sviluppi v.
ASHWORTH, The Criminal Process, 2nd Ed., 1998, p. 207 ss.; CORRE, Bail in Criminal Pro-
ceedings, 1990; DELEUZE, in Procédures pénales d’Europe (ed. Delmas-Marty), Le système
anglais, 1995, p. 165 (trad. it.: Procedure penali d’Europa, 2a ed., a cura di CHIAVARIO,
2001, p. 273); DEVLIN, Criminal Courts and Procedure, 2nd Ed., 1967, p. 66 ss.; STREET, Le
garanzie della libertà personale nel Regno Unito, in AA.VV., La libertà personale, cit., p.
119 ss.
ASHWORTH, op. cit., p. 216, ricorda la tipologia dei reati gravi, e dei relativi autori, in
ordine ai quali gli artt. 25 e 26 del Criminal Justice and Public Order Act del 1994 escludono
la liberazione dietro cauzione. In due casi sottoposti al giudizio della Corte europea dei di-
ritti dell’uomo (Grande Camera 8 febbraio 2000, Caballero; sez. III, 19 giugno 2001,
S.B.C.), nei quali l’istanza di bail era stata respinta sulla base del predetto art. 25 (reati ses-
suali), il Governo britannico ha espressamente riconosciuto la violazione dell’art. 5, commi
3 e 5, della cit. Convenzione europea (v. Dir. pen. e proc., 2000, p. 642; 2001, p. 1175).
(26) Nello stesso ordine di idee ricordiamo ancora, quanto al nostro ordinamento, la
breve stagione dell’art. 282 c.p.p. 1930, dopo la riforma attuata con la l. n. 330 del 1988.
(27) L’A. al quale si deve tale ricognizione — PLACHTA, Transfer of Prisoners under
International Instruments and Domestic Legislation, 1993, p. 47 — distingue i vari Paesi in
tre gruppi (ma gli accorpamenti sono meritevoli di un qualche aggiornamento), al primo di
questi ascrivendone alcuni (Unione Sovietica, Cecoslovacchia e Svezia) che mettono al
bando la cauzione come ‘‘misura antidemocratica’’; accorpandone altri (tra i quali Romania
e Ungheria) nei quali si sarebbe realizzato, in forme diverse, un compromesso tra le opposte
esigenze, e poi dando atto del quod plerumque accidit, come riferito nel testo.

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mento, in una o più rate, ‘‘in particolare tenuto conto delle risorse econo-
miche e dei carichi di famiglia’’ dell’interessato (28).
In Portogallo, dove il 22 gennaio 1987 è stato promulgato un nuovo
Código de Processo Penal, proprio per effetto (v. Lei no 43/86, del 26 set-
tembre e Decreto-Lei n. 78/87, del 17 febbraio), della speciale attenzione
dedicata alle regole del Consiglio d’Europa, si è decretata la eliminazione
della categoria dei ‘‘crimes incaucionaveis’’, affidando al giudice le singole
determinazioni nei casi concreti: determinazioni da operarsi alla stregua
degli artt. 197, 205 ss. (29).
Procedendo, poi, nell’avvio di qualche spunto ricostruttivo, sembra
che si possano ragionevolmente prospettare alcuni dati ulteriori, memori
delle riserve critiche della nostra dottrina di contro al progettato ostraci-
smo dell’antica misura, ed anche degli insegnamenti derivabili dai vari iti-
nerari percorsi a Strasburgo.
In un sistema che, come il nostro attuale (30), ha visto il delinearsi,
ex novo, di una gamma molteplice di misure coercitive ‘‘fino alla custodia
in carcere’’ (v. art. 285), la quale (art. 275, comma 3) ‘‘può essere dispo-
sta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata’’, la cauzione può
verosimilmente trovare un suo spazio: senz’altro limitato, ma assai più
consistente di quello praticabile ai tempi nei quali si faceva ancora sentire
l’alternativa drastica del tipo ‘‘to bail or to jail’’ (31). Uno spazio, dunque,
ragionevolmente al riparo dal rischio di potenzialità odiosamente discri-
minatorie, tenuto anche conto della possibilità di graduare adeguatamente

(28) Cfr. l’ampia analisi critica compiuta da BOUQUET, Cautionnement pénal et poli-
tique criminelle: une relation à géométrie variable, in Arch. de polit. crim., 2001, p. 53 ss.
Quanto al Belgio, dove la cauzione è prevista (art. 35 al. 5 l. 20 luglio 1990: v. in Pro-
cedure penali d’Europa, cit., p. 91) come ‘‘sostitutivo della detenzione cautelare’’, si dà
conto (VAN DEN WYNGAERT, Belgium, in Criminal Procedure Systems, cit., p. 25) di una
scarsa pratica dell’istituto, ed anche di una istintiva riluttanza per le sue potenzialità discri-
minatorie. Anche in Danimarca il release on bail viene indicato come di applicazione estre-
mamente scarsa (GREVE, ibid., p. 65), restando però aperta la questione se tale pratica si ar-
monizzi o meno con il testo della citata Convenzione europea. Quanto all’Olanda, dove il
‘‘conditional release’’ è di uso piuttosto frequente, è però rara la richiesta del ‘‘payment of
bail’’ a guisa di condizione (SWART, ibid., p. 302).
(29) Per i casi di impossibilità, o anche solo di ‘‘graves dificuldades ou inconvenien-
tes’’ nel prestare la cauzione, d’ufficio o su richiesta il giudice (art. 197) può sostituirla con
qualche altra misura coercitiva, eccettuati la prisão preventiva e la nuova misura degli arresti
domiciliari, in aggiunta alle altre misure imposte in precedenza. Nella determinazione del-
l’ammontare si devono tenere presenti gli scopi della misura adottata, la gravità del reato og-
getto d’addebito, il danno causato e la condizione socio-economica del soggetto.
(30) Quanto alle discipline previgenti cfr. REINA, Cauzione e libertà personale, in
Arch. pen., 1966, I, p. 525; MITTONE, Scarcerazione automatica ed oneri patrimoniali, in
questa Rivista, 1971, p. 621.
(31) G. ALESSI, Il processo penale - Profilo storico, 2001, p. 89, ne parla come ‘‘di al-
ternativa di lunghissima durata’’.

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l’ammontare della cauzione (32), e di graduare anche i tempi delle rela-


tive corresponsioni.
Contribuendo a diminuire il numero delle carcerazioni cautelari, una
nuova disciplina della cauzione contribuirebbe, al contempo, ad alleviare
un profilo della patologia che continua ad affliggere il nostro sistema car-
cerario. Si vuol dire della persistente, e pregiudizievole, promiscuità tra
imputati e condannati, ad onta della solenne — e per noi impegnativa (l.
25 ottobre 1977 n. 881) — previsione dell’art. 10, § 2, lett. a) del Patto
internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU, secondo cui, salvo casi
eccezionali, gli accusati devono essere tenuti separati dai condannati, e
sottoposti a un regime distinto, appropriato alla loro condizione di per-
sone non condannate. È noto che sulla stessa linea si collocheranno poi,
con significativa insistenza e successivi approfondimenti, le varie ‘‘regole
minime per il trattamento dei detenuti’’ elaborate nell’ambito del Consi-
glio d’Europa (33).
Le obiettive difficoltà di vario ordine, che, nel corso di ormai nume-
rosi decenni, sono state frapposte all’applicazione di quei principi, e di
quelle ‘‘regole’’, possono pure offrire un argomento a favore del ripristino
della cauzione. Quest’ultimo, inoltre, verosimilmente potrebbe contri-
buire ad un certo abbattimento del contenzioso in tema di impugnazioni
dei provvedimenti coercitivi, oltre che — ed anche con risparmio di ri-
sorse pubbliche di carattere economico — in tema di riparazione dell’in-
giusta custodia cautelare. Ne potrebbe anche derivare un risparmio di ri-
sorse umane, in termini di personale di polizia richiesto per i controlli ine-
renti all’esecuzione dell’altra misura alternativa rappresentata dagli arresti
domiciliari.

(32) In quest’ordine di idee v. già CONSO, Libertà provvisoria con o senza cauzione
(1966), in Costituzione e processo penale, 1969, p. 213.
(33) Le ‘‘regole minime’’ approvate, in sede ONU, con la Risoluzione 30 agosto
1955 (v. § 85.1), subiranno poi un adattamento, trasfuso nelle ‘‘Regole minime per il tratta-
mento dei detenuti’’, approvate con la Risoluzione (73)5 del Consiglio d’Europa (v. §§ 7 b e
85.1), e successivamente nella loro versione aggiornata, oggetto della Raccomandazione
(87)3 (v. §§ 11.1, 91 ss.). Per tutti questi testi si fa rinvio a COMUCCI e PRESUTTI (a cura di),
Le regole penitenziarie europee, 1989.
Nel senso che il problema di ‘‘ridurre al minimo il rischio di ingiustizia, che la custodia
preventiva comporta’’, riguardasse ‘‘in prima linea, i modi con i quali essa viene attuata’’, si
era espresso CARNELUTTI, Principi del processo penale, 1960, p. 182. Va anche aggiunto che
il testo, datato 4 novembre 1997, dell’art. 130-ter, varato dalla nota « Commissione bicame-
rale per le riforme istituzionali », prevedeva quanto segue: ‘‘La legge assicura che la custodia
cautelare venga disposta in appositi istituti’’.
Si tenga presente che, da tempo, in Inghilterra si è pensato di istituire un sistema di
bail hostels, nell’intento di procurare una residenza fissa per coloro ai quali la libertà dietro
cauzione sarebbe rifiutata per la mancanza di una residenza permanente: su tale istituzione
v., anche, prima di quello richiamato a nota (24), il Report of the Advisory Council of the
Treatment of Offenders, dal titolo Preventive Detention (HMSO, 1963), pp. 15-16. Si ve-
dano, peraltro, le puntualizzazioni critiche di recente operate da ASHWORTH, op. cit., p. 234.

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Si può anche aggiungere che tale auspicabile ripristino potrebbe por-


tare a costituire — come già avveniva ex art. 294, comma 2o, c.p.p. 1930
— qualche utile accantonamento al quale, in caso di condanna, attingere
per il ricupero di somme dovute allo Stato o ai privati danneggiati dal
reato.
Un ultimo profilo pare qui opportuno menzionare.
Sembra piuttosto ingiustificato ed iniquo, non foss’altro in prospet-
tiva comunitaria, che mentre un cittadino italiano, arrestato all’estero a
fini di estradizione, può eventualmente beneficiare della cauzione, in quei
Paesi che tale misura consentono anche nell’ambito dei rapporti interna-
zionali (34), altrettanto non possa avvenire per il cittadino straniero, ma-
gari di provenienza ‘‘comunitaria’’, al quale — nonostante i buoni propo-
siti di carattere non discriminatorio palesati dal nostro legislatore (35) —
quella misura non può invece essere applicata, essendone il nostro arse-
nale normativo del tutto sprovvisto (36).
È ovvio che, anche nella prospettiva di un possibile ripristino del si-
stema della cauzione, come sempre s’imponga l’esigenza di ponderare, in
misura adeguata, i diversi interessi in gioco.
MARIO PISANI

(34) A titolo d’esempio ricordiamo la disciplina del Portogallo (art. 14, d.l. 16 agosto
1975, n. 437: ‘‘In qualsiasi momento deve essere concessa all’estradando la libertà provviso-
ria su cauzione, fino a quando la decisione finale non sia passata in giudicato, nei casi e nei
modi previsti dalla legge processuale penale comune’’; v. anche art. 29) e la disciplina della
Spagna (art. 8, § 3, l. 21 marzo 1985, n. 4, in base al quale la cauzione figura essere una
delle misure che, da sola o con altre, ed al fine di evitare la fuga, il giudice, anche ‘‘con ri-
guardo alle circostanze del caso’’, potrà in concreto adottare).
(35) Si fa rinvio al passo (p. 154) della Relazione ministeriale richiamata a nota (20).
(36) Ad oggi va intanto segnalata la possibilità — prevista nella disciplina della re-
sponsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società ed enti equiparati (d.lgs. 8 giu-
gno 2001, n. 231) — che il giudice, accogliendo la richiesta di sospensione delle previste mi-
sure cautelari interdittive (artt. 9, comma 2, e 45, comma 1), determini una cauzione, alle
condizioni e nelle forme previste dall’art. 49.

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SU ALCUNI PROBLEMI GENERALI
DI DIRITTO PENALE (*)

SOMMARIO: 1. Premessa: Marcello Gallo, grande Maestro della Scuola penalistica torinese.
— 2. L’offesa dell’interesse protetto quale idea centrale per la costruzione di un di-
ritto penale liberal-democratico. — 3. Codice penale unico o sottosistemi penali. —
4. Il diritto penale minimo: obbiettivo fondamentale della legislazione penale. — 5. Il
problema della riforma del sistema delle pene. — 6. Dogmatica, organizzazione siste-
matica degli istituti penali, rigore e relatività della argomentazione giuridica nell’inse-
gnamento di Marcello Gallo.

1. Premessa: Marcello Gallo, grande Maestro della Scuola penali-


stica torinese. — Negli anni cinquanta e sessanta, quando ero studente
nella Facoltà di Giurisprudenza della Università di Torino, e quando ho
successivamente iniziato a coltivare i miei studi affrontando la carriera
universitaria, Marcello Gallo, ancora giovanissimo, era già considerato
Maestro indiscusso di diritto penale. Erano tempi in cui Maestri della no-
stra disciplina erano giuristi della caratura di Delitala, di Petrocelli, di
Bettiol, di Vassalli, di Nuvolone. Marcello Gallo, molto più giovane di
loro, era già allora elaboratore di grandi idee, e grande trascinatore di gio-
vani coscienze. In altre parole, appunto, già grande Maestro.
Ricordo i miei anni da studente. A Torino insegnavano allora alcuni
professori di grande spessore scientifico e di grande cultura, che hanno
contribuito in maniera determinante alla formazione di generazioni di giu-
risti torinesi: ricordo fra gli altri Allara, Greco, mio padre Giuseppe
Grosso, Bobbio, Bodda, Pierandrei. Gallo esercitava tuttavia, per molti di
noi, un fascino particolare. Le sue lezioni, ispirate ad un rigorosissimo
formalismo giuridico, si snodavano con un linguaggio essenziale e tecnica-
mente impeccabile (ogni frase esprimeva praticamente un concetto), ri-
spondevano ad una razionalità senza sbavature, costituivano una geome-
tria perfetta, erano ricchi di contenuti pregnanti ed espressione di un me-
todo che colpiva per la sua coerenza complessiva. Talvolta sembrava di
assistere ad esercitazioni di alta logica matematica. Sullo sfondo si sen-
tiva, pregante, l’impronta kelseniana; si trattava tuttavia di un Kelsen che
Gallo sapeva reinterpretare, ed adattare alla scienza penalistica, con una

(*) Questo scritto è destinato ad essere inserito in un volume di scritti degli allievi del
prof. Marcello Gallo in onore del loro Maestro.

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originalità ed una ricchezza di spunti che soltanto un grande giurista


avrebbe potuto fare.
Ricordo pure gli anni in cui, diventato suo allievo ed assistente, cre-
scevo e praticamente vivevo del suo insegnamento, per il quale gli pre-
sterò sempre grandissima riconoscenza. Il rapporto con Marcello Gallo
costituiva in quegli anni uno stimolo di ricchezza penalistica inesauribile.
Sempre gentilissimo ed impeccabile con tutti, allievi e studenti, sempre di-
sponibile, era talvolta difficile riuscire ad avere con lui lunghi colloqui (ri-
cordo le ripetute attese davanti al suo studio nel vecchio, familiare, Isti-
tuto Giuridico torinese di Via Po). Ma quando si riusciva a coglierlo in un
momento in cui la fretta non lo incalzava, erano sufficienti due ore di con-
versazione per acquisire una tale massa di spunti, di idee e di suggeri-
menti ricchi di intelligenza e di originalità, da riuscire a trasformare lo
studio in corso innescandovi quei profili che ne avrebbero costituito le ca-
ratteristiche più salienti. Ma sovente bastava riuscire ad accompagnarlo
per un tratto di strada dopo una lezione, e rivolgergli la domanda giusta
nel momento giusto, per avere la risposta, prontissima ed intelligente, ad
un problema sul quale stavi magari meditando da giorni senza risultati
convincenti. Anche sotto questo profilo Marcello Gallo era, appunto, un
grande Maestro. Lo tradiva soltanto, ma era aspetto simpaticamente con-
naturato alla sua personalità, un certo disordine nel disbrigo delle incom-
benze materiali quotidiane, quali ad esempio aprire la posta. Sul suo ta-
volo giacevano centinaia di lettere nemmeno aperte, alcune vecchie di
mesi se non di anni, e che mai sarebbero state lette nonostante i timidi ac-
cenni dei suoi allievi alla loro esistenza. Mi sono spesso domandato, pen-
sando agli ignari estensori di quelle missive che mai ebbero una risposta,
quanto abbia inciso questo peculiare profilo di innocente trascuratezza su
quelle trame relazionali che connotano normalmente, ed arricchiscono, la
vita di ciascuno di noi.
Appartengono d’altronde a quegli anni i contributi di maggior pregio
di Marcello Gallo alla scienza penalistica: gli studi sulla colpevolezza, sul
dolo, sulla colpa, sulla concezione realistica del reato, sui reati di pericolo,
sulla aberratio, sul concorso di persone nel reato (un volume stampato in
edizione provvisoria, e mai successivamente pubblicato, oggi pratica-
mente introvabile, che costituisce uno dei contributi più limpidi e rigorosi
alla ricostruzione di questo complesso istituto) (1). Nonché quei volu-

(1) Fra i molti scritti del Maestro ricordo: La teoria dell’azione finalistica nella più
recente dottrina tedesca, Milano, 1950; Il concetto unitario di colpevolezza, Milano, 1951; Il
dolo. Oggetto e accertamento, Milano, 1953; Lineamenti di una teoria sul concorso di per-
sone nel reato, Milano, 1957; voce Dolo (diritto penale), in Enc. dir., XIII, 1967, p. 750 ss.;
voce Colpa penale, ivi, VII, 1960, p. 624 ss.; voce Aberratio, ivi, I, 158, p. 58 ss.; I reati di
pericolo, in Foro pen., 1969, p. 1 ss.; voce Capacità penale, in Noviss. dig. it., II, 1958, p.
880 ss.

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metti di Appunti di diritto penale presi a lezione dagli studenti più volon-
terosi (legge penale, elemento oggettivo del reato, forme di manifesta-
zione del reato) (2) che, trascritti e stampati a cura degli studenti con la
supervisione del Professore, hanno circolato per anni fra i cultori della
materia come prezioso supporto per le loro ricerche; e che soltanto ora, a
distanza, forse, di troppi anni dal clima culturale e scientifico nel quale
sono maturati, ma tuttora smaglianti per stile e linearità di pensiero, il
Maestro si è finalmente deciso a dare ufficialmente alle stampe con alcune
modificazioni (3). Con i suoi scritti, e con la tradizione dell’insegnamento
orale, Marcello Gallo è stato per anni crocevia ineliminabile per chi si ac-
cingeva ad affrontare gli studi di diritto penale. Alcune delle sue intuizioni
e delle sue idee, nonostante le critiche cui talvolta sono state sottoposte,
appartengono ormai alla storia del diritto penale, e non potranno essere
cancellate.
Per un torinese quale io sono, c’è un solo grande rimpianto: che il no-
stro Maestro, non so per quali arcane suggestioni od ambizioni, ancora
nel pieno della sua evoluzione scientifica e didattica abbia voluto lasciare
l’Università di Torino e farsi chiamare a La Sapienza di Roma. Nono-
stante questo lungo distacco dalla sua Università di origine, nella quale
egli stesso aveva iniziato gli studi di diritto penale sotto la guida di Fran-
cesco Antolisei, egli verrà comunque ricordato come autorevolissimo ca-
poscuola della scuola penalistica torinese.

2. L’offesa dell’interesse protetto quale idea centrale per la costru-


zione di un diritto penale liberal-democratico. — Fra le idee fondamentali
del pensiero giuridico di Marcello Gallo c’è la costruzione del reato come
offesa dell’interesse protetto (4). Risvolto necessario di questa imposta-
zione è che il fatto tipico che nella sua realizzazione concreta non deter-
mina la lesione o la messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma
penale incriminatrice non può risultare punibile, e pertanto costituire ille-
cito penale. In questa costruzione, che si riallaccia alla tradizione liberale
che individuava nella offesa del bene giuridico uno dei cardini della puni-
bilità (5), Gallo ha realizzato una opzione politico-criminale chiarissima,

(2) La legge penale, Torino, 1967; L’elemento oggettivo del reato, Torino, 1967; Le
forme del reato, Torino, 1967.
(3) Appunti di diritto penale, I, La legge penale, Torino, 1999; Appunti di diritto pe-
nale, II, Il reato, I, La fattispecie oggettiva, Torino, 2000; Appunti di diritto penale, II, Il
reato, II, L’elemento psicologico, Torino, 2001.
(4) GALLO, voce Dolo, cit., p. 781 ss.; ID., L’elemento oggettivo del reato, Torino,
1967, p. 16 ss.; per uno sviluppo della impostazione di M. Gallo, v. NEPPI MODONA, Il reato
impossibile, Milano, 1965.
(5) Sul bene giuridico quale elemento centrale della impostazione liberale del diritto
penale v. MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 2001, p. 429 ss.; FIANDACA-
MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2001, p. 4 ss.; ANGIONI, Contenuto e fun-

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di netta opposizione a quel diritto penale della volontà, o caratterizzato da


reati senza offesa, o di mera creazione politica, che avevano contraddi-
stinto momenti storici ed esperienze giuridiche assai poco attenti ai diritti
dei cittadini (6). In questa prospettiva, ricordo che uno dei concetti più ri-
salenti del mio apprendimento del diritto penale è stato che scopo della
sanzione penale non era la punizione dell’autore del fatto previsto dalla
legge come reato, ma la protezione degli interessi di maggior rilievo so-
ciale nel quadro di quella efficacia preventivo-generale forte che soltanto
la pena era in grado di assicurare. Ciò che contava, in altre parole, non
era punire la ribellione al volere dello Stato espresso dalla norma penale
incriminatrice, ma proteggere il bene che attraverso quella norma lo Stato
intendeva appunto tutelare (7).
Gallo, lo ho già accennato, era tuttavia esponente rigorosissimo della
scuola tecnico-giuridica (8). Dalla sua impostazione esulava pertanto ogni
impronta giusnaturalistica. Perché un fatto tipico privo di offesa potesse
essere considerato non punibile, occorreva trovare pertanto la norma di
diritto positivo in grado di radicare questo assunto. Ed allora, con la sua
raffinatissima abilità nell’estrarre principi di diritto positivo dalle pieghe
formali delle norme giuridiche, egli ha intelligentemente elaborato una
nuova interpretazione dell’art. 49 comma 2 c.p., nella parte in cui preve-
deva l’istituto del reato impossibile per inidoneità della azione. Facendo
leva sulla diversità di dizione dell’art. 49 comma 2 c.p., che parlava di
‘inidoneità della azione’ a realizzare l’evento dannoso o pericoloso, e del-
l’art. 56 c.p. che parlava invece di ‘inidoneità degli atti’ a determinare il
compimento della azione o la realizzazione dell’evento, e rilevando che se
il reato impossibile per inidoneità della azione avesse integrato (secondo
l’interpretazione dominante) una forma di tentativo impossibile la con-
travvenzione impossibile sarebbe stata sottoposta ad un trattamento giuri-
dico più pesante di quello riservato al tentativo di contravvenzione, egli
ha sostenuto che la formula dell’art. 49 comma 2 c.p. doveva per neces-
sità avere un significato diverso da quello ipotizzato fino ad allora. ‘Azio-

zioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 42; MUSCO, Bene giuridico e tutela del-
l’onore, Milano, 1974, p. 59 ss.; PULITANÒ, voce Politica criminale, in Enc. dir., XXXIV,
1985, p. 89; STRATENWERT, Il diritto penale nella crisi della società industriale, in Materiali
per una storia della cultura giuridica, 1994, p. 254 ss.
(6) Su questo orientamento v. ANGIONI, op. cit., p. 20 ss. e 46 ss.; BRICOLA, voce Teo-
ria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, 1973, p. 28 ss.; BARATTA, Positivismo giuri-
dico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 61 ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte
generale, Padova, 200 1, p. 104.
(7) In questo senso M. Gallo si ricollegava strettamente alla impostazione illumini-
stica sullo scopo del diritto penale. Sul punto v., da ultimo, GROSSO-NEPPI MODONA-VIO-
LANTE, Giustizia penale e poteri dello Stato, Milano, 2002, pp. 147 s., 206 ss.
(8) Sulla scuola tecnico-giuridica v., da ultimo, GROSSO-NEPPI MODONA-VIOLANTE,
Giustizia penale, cit., p. 171 ss.

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ne’ nella dizione dell’art. 49 comma 2 c.p., egli ha allora sostenuto, signi-
ficava il fatto oggettivo del reato, che per risultare punibile doveva essere
appunto idoneo a determinare l’evento giuridico ad evitare il quale era
stata prevista la norma penale incriminatrice. Se il fatto a posteriori risul-
tava essere stato inidoneo a realizzare l’offesa, scattava di conseguenza il
principio di non punibilità previsto dalla disposizione menzionata (9).
In questo modo, facendo salvi i principi del giuspositivismo, e tra-
sformando l’art. 49 comma 2 c.p. da disposizione tutto sommato margi-
nale a norma centrale del sistema di punibilità elaborato dal codice pe-
nale, Marcello Gallo ha intelligentemente realizzato l’obbiettivo fonda-
mentale, da un punto di vista ideologico e da un punto di vista pratico, di
considerare penalmente irrilevanti agli effetti della applicazione della pena
fatti che, pur riproducendo gli estremi descritti da una norma penale in-
criminatrice, sono privi di offensività, o determinano una offensività tal-
mente marginale da non meritare di essere puniti. Confesso che ho sem-
pre giudicato lo specifico ragionamento interpretativo posto a fondamento
della c.d. concezione realistica del reato più un espediente argomentativo
per non abdicare ai principi del giuspositivismo che una argomentazione
giuridica davvero convincente. A mio avviso, che il fatto tipico non offen-
sivo, o scarsamente offensivo, non debba essere punito nel quadro di un
diritto penale di impostazione illuministico-liberale è di solare evidenza.
Ho sempre ritenuto che questa soluzione avrebbe potuto essere comun-
que desunta, indipendentemente dalla individuazione di una norma di di-
ritto positivo che la riconoscesse espressamente, dalle premesse generali
concernenti lo scopo del diritto penale: se lo scopo del diritto penale è in-
dividuabile non tanto nella necessità logica o morale di punire gli autori di
una infrazione, quanto nella esigenza pratica di assicurare una protezione
forte a determinati interessi umani, è evidente che ove la offesa di tali in-
teressi non si è verificata, o si è verificata in una dimensione scarsamente
significativa, viene meno lo stesso presupposto logico che giustifica la ap-
plicazione della pena. Punire significherebbe infatti contraddire la stessa
ragione di esistenza del diritto penale.
La menzionata costruzione di Marcello Gallo, ribadita da autorevoli
studiosi anche di altre scuole penalistiche (basti pensare, per tutti, a Giu-
liano Vassalli (10) e Carlo Fiore (11), e, con specifico riferimento alle
prospettive di natura costituzionale, a Franco Bricola (12)), ed utilizzata
da numerose sentenze di giudici di merito e di legittimità per dare razio-

(9) GALLO, voce Dolo, cit., p. 786; ID., Le forme del reato, cit., p 59 ss.
(10) VASSALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti Pioletti, Milano,
1982, p. 617 ss.
(11) FIORE, Il reato impossibile, Napoli, 1959; ID., Il principio di offensività, in Ind.
pen., 1994, p. 280 ss.
(12) BRICOLA, Teoria generale del reato, cit., p. 72 ss.

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nalità al sistema penale sul terreno della sua applicazione concreta (13), è
stata criticata da una parte della dottrina (14). Si è osservato che, in caso
di irrilevanza penale di fatti dotati di scarsa offensività, la concezione rea-
listica del reato contrasterebbe con il principio di legalità e di certezza del
diritto, rendendo il giudice arbitro della responsabilità o della irresponsa-
bilità penale dell’agente; si è soggiunto che essa costituirebbe d’altronde
inutile superfetazione giuridica con riferimento ai casi di totale mancanza
di offesa, trattandosi di casi riconducibili a pochi esempi di scuola pro-
spettabili esclusivamente nel settore dei delitti contro la fede pubblica
(falso innocuo, falso grossolano), e pressoché mai rinvenibili nella realtà.
Piuttosto, si è sostenuto, il principio di offensività dovrebbe essere inteso
come mero criterio di politica criminale, o come criterio interpretativo
delle norme penali: in altre parole, come spinta per il legislatore a co-
struire fattispecie penali modulate in modo da assicurare che alla loro rea-
lizzazione corrisponda sempre la lesione o la messa in pericolo dell’inte-
resse protetto, o come pungolo per l’interprete ad intendere, se possibile,
le norme penali in modo che sia assicurata la loro applicazione a sole si-
tuazioni caratterizzate dalla offesa di tale interesse.
Non ho mai condiviso queste critiche. La asserita libera applicazione
del diritto penale riguarderebbe, invero, fette di reità marginale (i casi, ap-
punto, di lesività minima del fatto, come tale inidonea a dare luogo a di-
screzionalità significativa); tale circoscritta discrezionalità giudiziale ope-
rerebbe d’altronde in favor rei, e non potrebbe pertanto comunque forzare
la garanzia sottesa ai principi di legalità e di certezza del diritto, che come
tutti i principi di garanzia previsti dal sistema penale trovano il loro limite
naturale nella conseguenza di disfavore. Per altro verso, la enunciazione
del principio di irrilevanza dei fatti tipici inoffensivi costituisce logico co-
rollario della concezione illuministica del diritto penale, che individua la
funzione del diritto penale nella tutela dei beni giuridici; per cui, se dav-
vero si vuole dare corpo ad un sistema penale ispirato ai principi dell’illu-
minismo è giocoforza affermare che se non si è verificata offesa di nessun
interesse non può logicamente essere applicata una sanzione penale. E
tale enunciazione, al di là del suo eventuale scarso rilievo pratico, avrebbe
comunque un rilevantissimo significato di principio (15).

(13) Sul punto v., da ultimo, la giurisprudenza citata da Trib. Roma 2 maggio 2000,
in Cass. pen., 2001, p. 2535 ss. con nota di GROSSO, Proscioglimento per furto di cose di va-
lore particolarmente esiguo: inoffensività o irrilevanza penale del fatto?
(14) Fra gli altri cfr. STELLA, La teoria del bene giuridico e i c.d. fatti inoffensivi con-
formi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3 ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività del
reato nella costituzione, in Scritti Mortati, Milano, 1977, p. 477 ss.; PALAZZO, Meriti e limiti
dell’offensività come principio di ricodificazione, in Prospettive di riforma del codice penale
e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 73; FIANDACA, L’offensività è un principio codifica-
bile?, in Foro it., 2001, V, c. 1 ss.
(15) Per una difesa della c.d. concezione realistica del reato v. comunque, amplius,
NEPPI MODONA, Reato impossibile, in Dig. disc. pen., XI, 1996, p. 259 ss.

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L’insegnamento di Marcello Gallo non ha comunque operato invano.


Ho già ricordato le numerose decisioni giudiziali che lo hanno utilizzato
per una soluzione razionale di casi concreti. Esso è stato d’altronde ripe-
tutamente recepito a livello di progetti di una nuova legislazione penale.
In questa prospettiva è significativo che la Commissione bicamerale, nel-
l’enunciare i cardini del sistema penale, abbia indicato fra i principi di ri-
levanza costituzionale che ‘‘non è punibile chi ha commesso un fatto pre-
visto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta
offensività’’ (16). E non è privo di significato che la Commissione Grosso
di riforma del codice penale, nonostante le resistenze di una parte della
stessa, e sia pure sotto la rubrica a mio avviso equivoca di ‘‘applicazione
della legge penale’’, nell’art. 2 comma 2 (anziché nell’art. 1, come sarebbe
stato più logico), ha comunque chiaramente stabilito che ‘‘le norme incri-
minatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del
bene giuridico’’ (17). Si tratta di due interventi che dimostrano la perdu-
rante validità di quanto il Maestro con la sua consueta lucidità aveva indi-
cato, oltre quaranta anni fa, come uno dei capisaldi di un moderno si-
stema penale.
Oggi, nel quadro di un ulteriore affinamento del discorso concer-
nente la opportunità di sottrarre alla condanna penale autori di fatti che,
pur integrando gli elementi enunciati da una norma penale, hanno dato
luogo ad offese di valore marginale dell’interesse protetto, è emerso un
nuovo modo di prospettare il nodo della loro non punibilità. Si è osser-
vato che, enunciato il principio di inoffensività per sancire la irrilevanza
penale dei fatti tipici che non hanno determinato la offesa dell’interesse
protetto, de iure condendo il problema della non punibilità dei fatti carat-
terizzati da una offensività marginale potrebbe trovare una soluzione nella
differente prospettiva della c.d. irrilevanza penale del fatto (18).

(16) Sul testo della Commissione bicamerale v. FIANDACA, La giustizia penale in bi-
camerale, in Foro it., 1997, V, c. 161 ss.; PALAZZO, Le proposte della Commissione bicame-
rale (diritto penale sostanziale), in Dir. pen. proc., 1998, p. 37 ss.; DONINI, L’art. 129 del
progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, in Crit. dir., 1998, p. 95
ss.
(17) ‘‘Per il testo e la Relazione al ‘‘Progetto preliminare di riforma del codice pena-
le’’, della Commissione v. questa Rivista, 2001, p. 574 ss.
(18) Sul tema della irrilevanza penale del fatto cfr. BARTOLI, L’irrilevanza penale del-
fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la ipertrofia c.d. ‘‘ver-
ticale’’ del diritto penale, in questa Rivista, 2000, p. 1473 ss.; DIOTALLEVI, L’irrilevanza pe-
nale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale: un grande avvenire dietro le
spalle, in Cass. pen., 1998, p. 2806 ss.; S. FIORE, Osservazioni in tema di clausole di irrile-
vanza penale e trattamento della criminalità bagatellare. A proposito di una recente propo-
sta legislativa, in Crit. dir., 1998, p. 274 ss.; PIGHI, L’‘‘irrilevanza penale del fatto nel diritto
penale minorile’’, in Studium juris, 1999, p. 71 ss. In particolare con riferimento all’istituto
della particolare tenuità del fatto nel sotto-sistema del giudice di pace, v. SGUBBI, L’irrile-
vanza penale del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Verso una giustizia

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L’ipotesi di non punibilità (o di non procedibilità) a causa della irrile-


vanza del fatto è in realtà già presente nel nostro sistema penale, sia pure
entro limiti particolari. Con riferimento alla giustizia minorile, l’art. 27
comma 1 del d.P.R. 22 settembre 1998, n. 448 dispone che ‘‘durante le
indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del
comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non
luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del
procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne’’. Dopo che
nel 1998 il Parlamento si è concretamente prospettato la possibilità di
estendere l’istituto all’intero diritto penale, ipotizzando di dare rilievo alla
irrilevanza del fatto dapprima sotto la veste di una condizione di non pro-
cedibilità (disegno di legge 4625/C), e successivamente come causa di
non punibilità generale (testo unificato delle proposte di legge n. 411,
4265-bis/C e abbinate: c.d. testo unificato Carotti), la legge-delega 24 no-
vembre 1999, n. 468 ha previsto, sia pure con riferimento ai soli reati ba-
gatellari assegnati alla competenza del giudice di pace, ‘‘la introduzione di
un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare te-
nuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso
del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di fa-
miglia, di salute della persona sottoposta ad indagini’’ (art. 26, attuato
dall’art. 34 del d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Questi testi hanno una valenza particolare e circoscritta, e subordi-
nano la non punibilità, o la non procedibilità, a requisiti ulteriori (varia-
mente individuati) rispetto alla esiguità del danno o del pericolo rispetto
all’interesse tutelato. Essi rispondono comunque alla comune esigenza di
liberare la applicazione della pena da rigidezze eccessive nei casi di reità
assolutamente marginale, consentendo al pubblico ministero, e/o al giu-
dice di pervenire a soluzioni morbide quando la situazione di fatto legit-
tima posizioni di giustificata rinuncia alla applicazione della pena.
Prendendo spunto da queste esigenze, considerato che nel corso del
dibattito seguito alla pubblicazione del testo 12 settembre 2000 vi erano
stati numerosi interventi favorevoli alla introduzione del principio della ir-
rilevanza penale del fatto, il Progetto di riforma elaborato dalla Commis-
sione Grosso nella sua formulazione definitiva del 26 maggio 2001, nel
capitolo dedicato alla commisurazione della pena, ha previsto la introdu-
zione di una circostanza generale di ‘‘non punibilità per particolare te-
nuità del fatto’’, stabilendo che ‘‘il fatto non è punibile quando ricorrono
le seguenti condizioni: a) il fatto è di particolare tenuità per la minima
entità del danno o del pericolo nonché per la minima colpevolezza dell’a-
gente; b) il comportamento è stato occasionale; c) non sussistono esi-

penale ‘‘conciliativa’’, a cura di Picotti, Milano, 2002, p. 159 ss.; BARTOLI, Le definizioni al-
ternative del procedimento, in Dir. pen. proc., 2001, p. 173 ss.

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genze di prevenzione generale e speciale tali da richiedere una qualsiasi


misura nei confronti dell’autore del reato’’ (19).
Probabilmente si tratta, oggi, della strada che, con qualche arrangia-
mento, deve essere seguita. Nella assenza di strumenti normativi che rico-
noscevano espressamente il nuovo principio, la intuizione di Gallo di con-
siderare comunque il fatto c.d. irrilevante nella prospettiva della carenza
di offesa è stata tuttavia di grande rilievo: offrendo alla magistratura, con
anticipazione di anni rispetto ad un processo legislativo tuttora non com-
piuto, un prezioso strumento giuridico alla stregua del quale potere risol-
vere, quando lo si giudicava opportuno, in modo razionale situazioni che
avrebbero altrimenti rischiato di condurre a condanne non giustificate
dalla tenuità della offesa cagionata.

3. Codice penale unico o sottosistemi penali. — Nel dibattito sulla


riforma del sistema penale sviluppatosi nell’ultimo decennio sono emerse
due tendenze di fondo. Da una parte c’è stato chi ha sostenuto la neces-
sità di ritornare ad una costruzione in cui il codice assume una posizione
di centralità nel sistema penale, come corpo legislativo destinato in linea
di principio a comprendere tutti i reati, con corrispondente eliminazione,
o comunque fortissima riduzione della legislazione penale speciale (20).
Gli obbiettivi di una impostazione culturale di questo tipo, che ha trovato
tendenziale attuazione nel Progetto di riforma della Commissione Pa-
gliaro (21), ed ampio consenso nei lavori della Commissione bicamerale,
che ha ritenuto di enunciare addirittura il principio costituzionale della ri-
serva di codice (22), sono evidenti. Da un lato, soprattutto nella forma-li-
mite della enunciazione del principio costituzionale della riserva di codice,
essa tende a porsi come presupposto per la eliminazione della legislazione
penale speciale, con una conseguente inevitabile forte riduzione dell’am-

(19) Relazione alle modifiche al progetto preliminare di riforma della parte generale
del codice penale approvate dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale
nella seduta del 26 agosto 2001, in questa Rivista, 2001, p. 658.
(20) Per questa impostazione, pur con angolazioni diversificate, v. FERRAJOLI, Diritto
e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma, 1998; ID., Per un programma di diritto pe-
nale minimo, in La riforma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela,
a cura di Pepino, Milano, 1993, p. 60 ss.; ID., Sul diritto penale minimo, in Foro it., 2000, V,
c. 125 ss.; BARATTA, Principi di diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come
oggetti e limiti della legge penale, in Dei delitti e delle pene, 1985, p. 443 ss.; HASSEMER,
Spunti per una discussione sul tema ‘‘Bene giuridico’’ e riforma della parte speciale, in Bene
giuridico e riforma della parte speciale, a cura di Stile, Napoli, 1985, p. 367 ss. In posizione
critica su questi orientamenti riduzionistici, v. MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘‘minimo’’
e nuove forme di criminalità, in questa Rivista, 1999, p. 802 ss.
(21) Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in
Doc. giust., 1992, p. 304 ss.
(22) V. art. 129, ult. comma: ‘‘nuove norme penali sono ammesse solo se modificano
il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia’’.

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bito della reità, non essendo pensabile che le numerose norme penali pre-
viste oggi da tale legislazione possano entrare a fare parte del codice pe-
nale. Dall’altro essa assicurerebbe pressoché altrettanto automaticamente
l’omogeneità dei principi generali applicabili alle fattispecie penali, non
essendo accettabile che all’interno di un corpo penale unico si realizzino,
o si realizzino addirittura in maniera massiccia, regole diverse di imputa-
zione penale (23).
Dall’altra vi sono studiosi che teorizzano il sistema opposto, o per ne-
cessità pratica, o per vera e propria impostazione di politica crimi-
nale (24). Si sostiene, in altre parole, che l’idea di un unico codice onni-
comprensivo, o comunque comprensivo della centralità delle fattispecie di
reato avrebbe fatto il suo tempo, e dovrebbe essere sostituito da una orga-
nizzazione normativa più articolata, costituita da un insieme di sottosi-
stemi penali ciascuno destinato a regolare settori omogenei di materia pe-
nale. Questa idea si è sviluppata soprattutto fra i civilisti (25), costretti ad
occuparsi di una materia vasta ed eterogenea, e comunque svincolati dalla
necessità di fare i conti con una corposa disciplina di tipo generale concer-
nente i presupposti della responsabilità. Essa è stata tuttavia mutuata da
alcuni penalisti (26), sia pure di minoranza, che la hanno difesa, come di-
cevo, o su di un terreno meramente pratico, sostenendo che non essen-
dovi oggi le condizioni culturali e politiche per operazioni di ricodifica-
zione di grande respiro, mentre esiste invece la necessità di mettere mano
alla riforma del sistema vigente, l’unica strada sarebbe quella di operare
per settori omogenei di disciplina, o, ed è questo il profilo che più mi
preoccupa, teorizzando la necessità di costruire sottosistemi penali in ra-
gione delle necessità particolari dei diversi settori della materia, o quanto-
meno di taluni di essi (27).

(23) Cfr. PALAZZO, Le riforme costituzionali, cit., p. 38.


(24) FIANDACA, La parte speciale tra codificazione e legislazione speciale, in Prospet-
tive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 237 ss.; ID., Pro-
blemi e prospettive attuali di una nuova codificazione penale, in Foro it., 1994, V, c. 1 ss.;
ID., In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in Dir. pen. proc.,
2001, p. 137 ss.; con diversità di accenti, v. altresì DONINI, Selettività e paradigmi della teo-
ria del reato, in questa Rivista, 1997, p. 387 ss.; ID., La riforma della legislazione penale
complementare: il suo significato ‘‘costituente’’ per la riforma del codice (riflessioni a mar-
gine di una ricerca), in Ind. pen., 2000, p. 700 ss.
(25) IRTI, L’età della decodifcazione, Milano, I ed., 1979 (IV ed. 1999); ID., Leggi
speciali (dal mono-sistema al polisistema), in Riv. it. dir. civ., 1979, I, p. 141 ss.
(26) V. autori citati alla nota 24. Per una ampia analisi del fenomeno della decodifi-
cazione del sistema penale, v. per tutti l’ampia indagine di PALIERO, Minima non curat prae-
tor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p.
121 ss.
(27) Il pensiero corre immediatamente alla disciplina penale della criminalità orga-
nizzata, con il rischio che le necessità contingenti di lotta a questa grave forma di criminalità
induca sia alla disapplicazione dei principi generali di garanzia in materia penale, sia ad una

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Né il principio della riserva di codice, né la costruzione del sistema


penale per sottosistemi mi trova consenziente.
Il principio di riserva di codice risponde alla indiscutibile esigenza di
sfoltire la legislazione penale speciale, ricca di fattispecie penali la mag-
gior parte delle quali dovrebbero essere depenalizzate, e molte delle quali,
dimenticate dagli stessi operatori giuridici, non risultano neppure appli-
cate. Contrasta peraltro con la realtà di una disciplina penale che non può
essere contenuta tutta in una legge fondamentale: esistono infatti materie
la cui regolamentazione è talmente connessa con quella extrapenale da
non potere essere ragionevolmente separata da quella di riferimento (es.,
diritto penale urbanistico, ambientale; settori del diritto penale della eco-
nomia); esistono materie sulla cui disciplina non sussiste ancora una opi-
nione consolidata (es., reati in materia di bioetica), tale da consentire il
loro inserimento in una legge che, chiamandosi ‘‘codice’’, presuppone in-
vece discipline consolidate o sulle quali convergano comunque ampi con-
sensi; indispensabili esigenze di flessibilità di alcune parti della legisla-
zione penale impediscono d’altronde che esse siano inserite in un corpo
legislativo, quale è un codice penale, che per le sue caratteristiche presup-
pone invece la maggior rigidezza possibile, e non dovrebbe essere cam-
biato ogniqualvolta emergono istanze contingenti di politica criminale.
La legislazione penale per sottosistemi aprirebbe, a sua volta, la
strada a rischi non indifferenti. Il rischio maggiore sarebbe di perdere di
vista la unità che deve connotare, sul terreno dei principi generali di ga-
ranzia e di responsabilità, il sistema penale, e di realizzare nei fatti una
spinta verso la creazione di diverse ‘‘parti generali’’ ciascuna rapportata
alle specifiche esigenze di ciascun settore considerato (28). Di parti gene-
rali differenziate si è già parlato con riferimento ai reati della criminalità
organizzata, sia per quanto attiene alla previsione dei principi generali di
diritto penale sostanziale, sia (soprattutto) per quanto riguarda la norma-
tiva processuale (29). Con l’abbandono di un codice penale unitario, e la
creazione di tanti sottosistemi penali, tale specifica tendenza rischierebbe
peraltro di aggravarsi, con un rilevante pericolo di attenuare le garanzie
fondamentali dello stato di diritto. E ad essa rischierebbe di affiancarsi
analoga tendenza centrifuga con riferimento a ciascun sottosistema pe-
nale, con la conseguenza di una quasi inevitabile perdita della nozione

accentuata differenziazione dei principi processuali penali, attraverso modelli di doppio bi-
nario e di regole speciali derogatorie in materia di formazione della prova: v. le due note suc-
cessive.
(28) Cfr. INSOLERA, Il diritto penale complementare, in Ind. pen., 1992, p. 10.
(29) Si vedano i contributi raccolti in Quest. giust., 2002, n. 3, Parte II, Le peculia-
rità del processo per fatti di mafia, ed in particolare, INSOLERA, Il reato di associazione ma-
fiosa: rapporti tra norme sostanziali e norme processuali; FASSONE, La valutazione della
prova nei processi mafia; cfr. altresì, FIANDACA, Modelli di processo e scopi della giustizia
penale, in Foro it., 1992, I, c. 2023 ss.

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unitaria di sistema penale e l’introduzione di diseguaglianze di tratta-


mento non so fino a che punto compatibili con il principio previsto dal-
l’art. 3 Cost., tanto più trattandosi di diseguaglianze destinate a coinvol-
gere soprattutto principi generali di garanzia.
Di fronte a queste tendenze contrapposte, con la maggioranza della
dottrina penalistica italiana (30) sono dell’avviso che occorra assumere
una posizione di razionalità ed equilibrio: insistere sull’idea della centra-
lità del codice penale, ma riconoscere che settori anche rilevanti di disci-
plina penale possono trovare la loro collocazione all’interno della legisla-
zione penale speciale. Nel codice penale dovranno trovare la loro sistema-
zione i principi generali della materia penale ed i reati sulla cui previsione
c’è ormai consuetudine consolidata, o comunque forte consenso, riser-
vando alla normativa di legislazione penale speciale i reati che, per le loro
connessioni con le materie extrapenali di riferimento, o per la loro speci-
fica natura, non è opportuno inserire nel codice penale. Tale modello mi
sembra quello più idoneo a realizzare il giusto contemperamento fra le
esigenze contrapposte, entrambe presenti nella legislazione penale, di uni-
ficazione e di disarticolazione, ed a dare luogo ad un sistema penale ispi-
rato a criteri di garanzia e razionalità.
Punti fermi di un orientamento di questo tipo dovrebbero essere la ri-
gorosa difesa di una parte generale del codice che connoti, con la enuncia-
zione di principi generali di garanzia e di responsabilità, tutto ciò che si
intende mantenere nell’ambito del sistema penale; la possibile previsione
di norme penali di legislazione speciale che prevedano reati e pene co-
munque sottoposte ai principi comuni in tema di garanzia e responsabi-
lità; la forte riduzione (anche questo profilo è di fondamentale impor-
tanza) della attuale legislazione penale speciale, con il superamento del si-
stema vigente, caratterizzato da una congerie numerosissima di reati e di
pene disseminati nelle più svariate leggi speciali (secondo i risultati di una
ricerca compiuta dalla Università di Modena sulla legislazione penale spe-

(30) Cfr., seppur con diversità di accenti, FIORE, Prospettive della riforma penale. Il
ruolo della legislazione speciale, in Dem. dir., 1977, p. 685 ss.; ID., Decodificazione e siste-
matica dei beni giuridici, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, p. 73 ss.; PA-
LAZZO, A proposito di codice penale e leggi speciali, in Quest. giust., 1991, p. 310 ss.; ID.,
Certezza del diritto e codificazione penale, in Pol. dir., 1993, 365 ss.; PEDRAZZI, voce Diritto
penale, in Dig. disc. pen., IV, 1990, p. 74 ss.; MILITELLO, Il diritto penale nel tempo della ri-
codificazione. Progetti e nuovi codici penali in Francia, Italia, Spagna, Inghilterra, in questa
Rivista, 1995, p. 815 ss.; MANTOVANI, Il principio di offensività nello schema di delega legi-
slativa per un nuovo codice penale, in questa Rivista, 1997, p. 336; FLORA, Manuale per lo
studio della parte speciale del diritto penale, I, Padova, 1998, p. 51 ss.; FIORELLA, La parte
speciale tra codificazione e legislazione complementare, in Prospettive di riforma del codice
penale e valori costituzionali, Milano, 1996, p. 265 ss.; PADOVANI-STORTONI, Diritto penale e
fattispecie criminose. Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Bologna, 2002, p.
27 ss.

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ciale, si tratterebbe di migliaia di reati (31)): questa, sì, una assurdità, la


cui eliminazione dovrebbe costituire la prossima tappa del processo di de-
penalizzazione che sta aprendosi faticosamente una strada nella difficile
realtà del processo di modernizzazione del sistema penale.
Questo orientamento è stato chiaramente espresso nel Progetto preli-
minare di riforma della parte generale del codice penale elaborato dalla
Commissione Grosso, ed approvato il 26 maggio 2001. Proprio per indi-
care il doppio obbiettivo di realizzare la centralità del codice penale e la
omogeneità dei principi generali di tale disciplina, non disgiunta dalla pos-
sibilità di previsioni di reati e pene in settori di legislazione speciale, e per
eliminare la numerosa e disordinata congerie di illeciti penali disseminati
nel complesso della legislazione penale speciale, sono state scritte norme
del tipo seguente: ‘‘le disposizioni della parte generale di questo codice si
applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo deroga
espressa’’ (art. 2 comma 3), ‘‘le disposizioni del presente codice non pos-
sono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiara-
zione espressa con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate
o modificate’’ (art. 3 comma 1), ‘‘nuove norme penali sono ammesse sol-
tanto se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi discipli-
nanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono’’ (art. 3 comma
2) (32).
Il significato di questa disciplina, che per la sua natura di legislazione
ordinaria ha comunque la efficacia di mero appello al legislatore futuro, è
stato illustrato nella Relazione, nella quale si è precisato che ‘‘la Commis-
sione ritiene importante che il codice penale torni ad essere al centro del
sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabi-
liti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali’’; ‘‘ritiene per-
ciò necessario cercare di opporsi al proliferare di leggi penali speciali, di-
somogenee rispetto ai principi generali ed inadeguate sul terreno della tec-
nica incriminatrice’’; ‘‘in questa prospettiva ha tenuto ad enunciare alcune
norme di principio dirette a salvaguardare, per quanto possibile, omoge-
neità nelle regole generali sulla responsabilità penale’’; la Commissione è
comunque ‘‘convinta che vi siano materie che non sia opportuno, o addi-
rittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori:
la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente
condiviso, la dipendenza dalla disciplina di riferimento, ecc.’’; ‘‘ritiene tut-
tavia auspicabile che sia nella riforma per settori, sia nella disciplina di
materie per loro natura estranee ad un processo di codificazione, trovino
applicazione i principi generali enunciati: lo impongono, infatti, oltre che

(31) La riforma della legislazione penale complementare. Uno studio di diritto com-
parato, a cura di Donini, Padova, 2000.
(32) In questa Rivista, 2001, p. 661 e la relazione sul punto a p. 582.

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una evidente esigenza di omogeneità, ben più insopprimibili esigenze di


rispetto di garanzie’’ (33).
Alla Commissione Grosso è mancata comunque, per difetto di de-
lega, una possibilità che potrebbe risolvere normativamente il problema
della applicazione a tutti i reati, ovunque essi siano previsti, dei principi
generali enunciati in materia di responsabilità penale. Prevedere che i
principi generali di diritto penale assumano, nella gerarchia delle fonti del
diritto penale, una posizione di preminenza rispetto alla disciplina di parte
speciale o di legislazione penale speciale, in grado così di evitare che attra-
verso norme in deroga essi risultino in tutto o in parte vanificati nei con-
fronti di determinati settori della disciplina penalistica; un livello di disci-
plina che, ponendosi a metà strada fra principi costituzionali e legisla-
zione ordinaria, risulterebbe comunque cogente per chi intendesse inno-
vare con lo strumento, appunto, della legislazione ordinaria settori spe-
ciali della materia penalistica.

4. Il diritto penale minimo: obbiettivo fondamentale della legisla-


zione penale. — Rifiutare la enunciazione del principio di riserva di co-
dice perché introdurrebbe nel sistema penale, in materia di fonti del di-
ritto, un profilo di rigidità inaccettabile, non significa tuttavia sicuramente
rinunciare, sul piano degli obbiettivi di politica criminale, all’idea di rea-
lizzare un diritto penale minimo (34). Naturalmente bisogna essere molto
precisi su ciò che si deve intendere con tale intendimento programmatico,
perché occorre essere attenti ad evitare che l’idea del diritto penale mi-
nimo si confonda con il proposito di chi dichiara che l’eccessiva penaliz-
zazione giustifichi la decriminalizzazione di reati importanti quali il falso
in bilancio, le bancarotte, le grandi frodi fiscali, e magari, chissà, alcuni
fenomeni di corruttela (35) (recenti interventi legislativi, e le giustifica-
zioni che sono state talvolta enunciate in loro difesa, hanno rivelato che

(33) Relazione, cit., questa Rivista, 2001, pp. 580-581.


(34) Sulla esigenza a tornare ad un sistema penale ispirato al principio del diritto pe-
nale inteso come extrema ratio di tutela v., fra i molti, PEDRAZZI, voce Diritto penale, cit., p.
68 ss.; BRICOLA, Carattere sussidiario del diritto penale e oggetto della tutela, in Studi Deli-
tala, Milano, 1984, I, p. 107 ss.; PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale: profili
politico-criminali, in Studi Nuvolone, Milano, 1991, p. 395 ss.; MARINUCCI, L’abbandono del
codice Rocco: tra rassegnazione e utopia, in Diritto penale in trasformazione, a cura di Ma-
rinucci e Dolcini, Milano, 1985, p. 338 ss.; ID., Profili di una riforma del diritto penale, in
Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, p. 25 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Diritto pe-
nale, Parte generale, 2002, p. 8; ROMANO, ‘‘Meritevolezza di pena’’, ‘‘bisogno di pena’’ e
teoria del reato, in questa Rivista, 1992, p. 39 ss.; PALAZZO, Introduzione ai principi del di-
ritto penale, Torino, 1999, p. 129 ss.; DONINI, Ragioni e limiti della fondazione del diritto
penale sulla carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana, in Foro it., 2001,
V, c. 43 ss.; MUSCO, Funzioni e limiti del sistema penale, in Studium juris, 1997, p. 116 ss.
(35) Su questa specifica impostazione v. i lavori di Ferrajoli citati alla nota 20. Cfr. le
osservazioni critiche di MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale ‘‘minimo’’, cit., p. 811 ss.

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questo pericolo, in un periodo dominato dallo strapotere di forze politiche


di centro-destra più attente alla protezione di interessi particolari piutto-
sto che alle esigenze dell’interesse generale, è tutt’altro che una astra-
zione (36)).
Nella prospettiva indicata ritengo che parlare di diritto penale mi-
nimo costituisca un programma di rifondazione dell’intero sistema penale
in funzione della esclusione dall’area del diritto penale degli interessi ba-
gatellari o la cui protezione penale risponde a mere esigenze di politica del
contingente, e del mantenimento all’interno di tale area di tutti i beni e di-
ritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, compresi quei diritti nuovi,
collettivi e diffusi, che a partire dalla metà degli anni sessanta sono pro-
gressivamente emersi alla attenzione degli studiosi e dei pratici del diritto
penale a fianco dei beni giuridici tradizionali. E sono d’accordo sulla valu-
tazione secondo cui questo programma riformatore fondato sulla prospet-
tiva illuministica di una corretta catalogazione dei beni giuridici merite-
voli di protezione penale non ha trovato fino ad ora realizzazione, essendo
al contrario proseguita la crisi inflattiva del diritto penale; una crisi mani-
festatasi con una serie di interventi di tipo congiunturale, caratterizzati
dall’emergenzialismo e dalla politica del contingente, se non addirittura
dalla subalternità alle più diverse spinte corporative e sollecitazioni dema-
gogiche (37).
Come già sostengono da anni i penalisti più sensibili a questo tema, il
problema del diritto penale minimo, e pertanto della depenalizzazione, è
null’altro se non il problema di una riforma complessiva razionale della
parte speciale del codice penale e della legislazione penale speciale (38).
In questa direzione oggi come allora bisogna insistere e lavorare, pur nella
consapevolezza che le tendenze di segno contrario continueranno a domi-
nare nelle idee di molti di coloro ai quali sono affidate le sorti del rinnova-
mento legislativo del nostro Paese. Oggi con una preoccupazione in più.
Che una malintesa concezione dell’idea neoliberistica, e soprattutto la già

(36) GROSSO, Il sistema penale nel primo anno e mezzo del Governo Berlusconi, di
prossima pubblicazione in un volume su La giustizia nel primo anno e mezzo del Governo
Berlusconi, a cura di L. Pepino, ed. La Terza; v. altresì PALIERO, Premessa alla sesta edi-
zione, Codice penale e normativa complementare, Milano, 2002, p. XV.
(37) Si tratta di un quadro di insieme dell’attuale sistema penale sul quale vi è ampia
convergenza in dottrina: v. FERRAJOLI, Per un programma di diritto penale minimo, in La ri-
forma del diritto penale. Garanzie ed effettività delle tecniche di tutela, a cura di Pepino, Mi-
lano, 1993, p. 57 ss.; FIANDACA, Concezioni e modelli di diritto penale tra legislazione, prassi
giudiziaria e dottrina, ivi, p. 19 ss.; INSOLERA, Progetti di riforma del codice Rocco: il volto
attuale del sistema penale, in Introduzione al sistema penale, I, Torino, 2000, p. 31 ss.; PA-
VARINI, Lotta alla criminalità organizzata e ‘‘negazione’’ della pena, in Crit. dir., 2000, p.
130 ss.; PEPINO, Spunti in tema di politica criminale e politica giudiziaria, in Dei delitti e
delle pene, 1993, p. 81 ss.
(38) MUSCO, A proposito del diritto penale ‘‘comunque ridotto’’, in La riforma del di-
ritto penale, cit., p. 170 ss.

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menzionata attenzione privilegiata al soddisfacimento di interessi partico-


lari, rischino di alterare taluni equilibri tradizionali di tutela giuridica, ed i
nuovi equilibri che si era cercato di realizzare a partire dall’era riforma-
trice degli anni sessanta-settanta (39).
Le preoccupazioni in ordine ad una evoluzione razionale del sistema
penale diventano d’altronde, sotto una angolatura del tutto diversa, viep-
più rilevanti ove si consideri che da alcune parti si denuncia, a livello
scientifico, il fallimento del modello neoilluministico di elaborazione del
sistema penale fondato sui valori dei beni giuridici, e si rifiuta conseguen-
temente che la linea spartiacque fra il dominio del diritto penale e quello
dell’illecito amministrativo possa essere tracciata facendo riferimento alla
importanza degli interessi in gioco.
In questa prospettiva si è ad esempio osservato che il modello, ap-
punto neoilluministico, espresso dalla disciplina con la quale nel 1983 si
sono dettati i criteri per distinguere gli illeciti penali e quelli amministra-
tivi, non ha funzionato (40). E si è rilevato che le ragioni di tale mancato
funzionamento devono essere individuate nel fallimento della funzionalità
della categoria del bene giuridico come criterio selettivo delle incrimina-
zioni, e nella forza insuperabile delle esigenze pratiche (41).
Sotto questo secondo profilo sono state evidenziate diverse ragioni
per aprire a forme di criminalizzazione disancorate da una rigida conside-
razione della importanza degli interessi in gioco: ad esempio, si è rilevato
che l’affermarsi di una ‘società del rischio’ conduce quasi inevitabilmente
a reagire ‘‘tecnologicamente’’ con la utilizzazione dello strumento pena
anche nei confronti di situazioni marginali, o comunque prodromiche alla
lesione dei beni; si è osservato che l’esigenza politico-pratica di dare co-
munque risposta alle aspettative della gente, preoccupata fuori misura,
anche per effetto delle deformazioni mass-mediatiche, dalla ritenuta peri-
colosità di determinate situazioni (es., fenomeni quali la mucca pazza,
l’inquinamento elettromagnetico, la già ricordata sicurezza nelle strade,

(39) Riforma della normativa penale urbanistica, in materia ambientale, economia


pubblica ecc.: su di esse v. da ultimo GROSSO-NEPPI MODONA-VIOLANTE, Giustizia penale,
cit., p. 196.
(40) La circolare è pubblicata in G.U. n. 22 del 23 gennaio 1984, Suppl. ord. Sul
tema, v. PADOVANI, La distribuzione di sanzioni penali e sanzioni amministrative secondo
l’esperienza italiana, in questa Rivista, 1984, p. 952 ss.; LATTANZI, Sanzioni penali o san-
zioni amministrative: criteri di scelta e canoni modali in una circolare della Presidenza del
Consiglio, in Foro it., 1985, V, 25 I ss.; PALAZZO, I criteri di riparto tra sanzioni penali e
sanzioni amministrative, in Ind. pen., 1986, p. 35 ss.; DOLCINI, Sanzione penale e sanzione
amministrativa: problemi di scienza della legislazione, in questa Rivista, 1984, p. 589 ss.
(41) PALIERO, Relazione inedita ad un Convegno tenutosi nel 2001 presso la Univer-
sità di Teramo; cfr. altresì PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri
di criminalizzazione, in questa Rivista, 1992, p. 453 ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale,
Parte generale, Milano, 2000, p. 229.

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ecc.), conduce a sua volta a punire in modo esemplare anche situazioni in


cui l’esemplarità è tutt’altro che giustificata (42).
Secondo atteggiamenti emersi anche nella elaborazione dottrinale eu-
ropea, gli sbocchi possibili del fallimento della utilizzazione della catego-
ria della importanza oggettiva dei beni giuridici per selezionare i fatti me-
ritevoli di essere considerati come reato, sono stati individuati nella alter-
nativa di fondo fra il c.d. metodo della ‘‘separazione’’ e quello della c.d.
‘‘trasformazione’’. Secondo la prima impostazione, la razionalizzazione
del sistema dovrebbe passare attraverso il drastico allontanamento dall’a-
rea del penalmente rilevante di ampi settori di disciplina di attività a ri-
schio, quali il diritto penale della economia, il diritto penale urbanistico, il
diritto penale dell’ambiente, ecc.: sostenendo che in tali settori il diritto
penale non deve comunque entrare, ed i problemi di tutela devono essere
risolti con strumenti giuridici di natura diversa, abbandonando così defi-
nitivamente le spinte ad una loro criminalizzazione quale strumento rite-
nuto forte, ma in realtà apparente ed inadatto, di protezione giuri-
dica (43). Secondo il modello della c.d. ‘‘trasformazione’’, l’obbiettivo di
politica criminale dovrebbe diventare la creazione di un’area indistinta di
‘diritto sanzionatorio’ che contenga ciò che oggi è penale e ciò che oggi è
illecito amministrativo nel quadro di una categoria unitaria (44). Potrebbe
tutt’al più permanere, si è osservato, come una sorta di ‘riserva indiana’,
qualcosa del vecchio diritto penale con riferimento a fenomeni che toc-
cano direttamente la sicurezza della popolazione o la grande crimina-
lità (45).
Devo confessare che entrambi gli sbocchi scientifici prospettati mi
rendono inquieto. Si tratta sostanzialmente dell’abbandono del mondo dei
valori nel quadro di una regolamentazione giuridica di tipo tecnocratica,
con soluzioni che non so fino a che punto siano utili sotto il profilo della
loro efficacia, e fino a che punto rischino di reintrodurre invece forti vena-

(42) PALIERO, op. ult. cit. Sulla legislazione penale simbolica v. FIANDACA, Concezioni
e modelli, cit., p. 20; AMELUNG, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW,
1980, p. 19 ss.; HASSEMER, Symbolisches Strafrecht und Rechtsgüterschutz, in NStZ, 1989,
p. 553 ss.
(43) PALIERO, op. ult. cit.; ID., L’autunno del patriarca. Rinnovamento e trasmuta-
zione del diritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1220 ss.; MAZZACUVA, Il fu-
turo del diritto penale, in Crit. dir., 2000, p. 122 ss. Si veda nella dottrina tedesca, ALBRE-
CHT, Formalisierung versus Flexibilisierung: Strafrecht quo vadis?, in Von Guten, das noch
stets das Böse schafft, Frankfurt, 1993, p. 265; ID., Erosione del diritto penale dello Stato di
diritto, in Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, a cura di Borrè e Palom-
barini, Milano, 1998, p. 105 ss. NAUCKE, Schwerpunktverlagerungen im Strafrecht, in KritV,
1993, p. 125 ss.; PREUß, Strafgesetzgebung und Rechtsstaat, ivi, p. 183 ss.
(44) Cfr. LÜDERSSEN, Zurück zum guten, alten, liberalen, anständigen Kernstraf-
recht?, in Von Guten, das noch stets das Böse schafft, cit., p. 268 ss.; HASSEMER, Kennzei-
chnen und Krisen des modernen Strafrechts, in ZRP, 1992, p. 378 ss.
(45) PALIERO, op. ult. cit.

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ture classiste nella disciplina del diritto penale. Di fronte a tali nuovi
orientamenti di politica criminale, nel solco della tradizione illuministica
occorre pertanto, a mio avviso, riaffermare con forza la necessità di conti-
nuare a porre a fondamento di ogni serio tentativo di riforma organica del
sistema penale quei valori fondati sulla importanza dei beni giuridici che
la migliore dottrina italiana degli anni sessanta/settanta ha elaborato con
indimenticabile impegno ed entusiasmo, attenta alla considerazione pri-
maria dei valori desumibili dalla Costituzione. Penso ovviamente, su que-
st’ultimo profilo, specificamente a Franco Bricola (46). Ma sul piano ge-
nerale penso ancora una volta a Marcello Gallo, ed alla efficacia delle sue
parole quando, delineando lo scopo del diritto penale, disegnava un razio-
nale sistema di reati e pene dosati sui valori della società civile in una ot-
tica di efficace prevenzione generale contro le aggressione ai beni giuridici
di maggiore rilievo (47).

5. Il problema della riforma del sistema delle pene. — Il problema


della trasformazione del diritto penale oggi non è tuttavia più, semplice-
mente, problema di riduzione dell’area delle fattispecie penali. È anche, e
forse ancora maggiormente, problema di consapevolezza critica del ruolo
della pena carceraria. In una concezione moderna del diritto penale il car-
cere, inteso come extrema ratio di sanzione, deve essere utilizzato entro
confini i più ridotti possibili, soltanto nei casi in cui appare assolutamente
necessario per garantire una efficace prevenzione generale ed una ade-
guata difesa della società, quali i reati della criminalità organizzata, le ag-
gressioni alla vita, alla incolumità delle persone ed alla loro sicurezza, gli
attentati alla sicurezza dello Stato, i più gravi reati classici, quali i delitti
contro la pubblica amministrazione, la amministrazione della giustizia,
ecc. Ma quando il carcere non appare indispensabile, esso deve essere so-
stituito da sanzioni penali di tipo diverso (interdittive e pecuniarie).
Secondo un parere ampiamente condiviso dagli studiosi di diritto pe-
nale (48), il sistema delle pene attualmente in vigore non è più accettabile.

(46) BRICOLA, voce Teoria generale del reato, cit., p. 68 ss.


(47) GALLO, L’elemento oggettivo, cit., p. 17.
(48) DOLCINI, Principi costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio,
in questa Rivista, 1999, p. 25 ss.; PALAZZO, Scienza penale e produzione legislativa: para-
dossi e contraddizioni di un rapporto problematico, in questa Rivista, 1997, p. 729 ss. MARI-
NUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2000,
p. 160 ss.; NEPPI MODONA, Crisi della certezza della pena e riforma del sistema sanzionato-
rio, in Il sistema sanzionatorio penale e le alternative di tutela, cit., p. 51 ss.; PALAZZO, Cer-
tezza del diritto e codificazione penale, in Pol. dir., 1993, p. 384 ss.; GIUNTA, L’effettività
della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in L’effettività della san-
zione penale, Milano, 1988, p. 11 ss.; PAVARINI, Introduzione al sistema sanzionatorio, in
Introduzione al sistema penale, I, Torino, 2000, p. 359 ss.; PITTARO, L’effettività della san-
zione penale: un’introduzione, ivi, p. 3 ss.; ORLANDI, Effettività della sanzione penale e prin-

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Non è più accettabile in astratto, a causa della impostazione carcerocen-


trica che lo caratterizza, nonché in ragione della eccessiva pesantezza
delle pene previste dal codice penale. Non è accettabile in concreto, a
causa della casualità che caratterizza comunque la loro applicazione e la
loro esecuzione in conseguenza dell’eccessivo potere discrezionale con-
cesso ai giudici nella commisurazione della pena (di regola i giudici ten-
dono ad applicare i minimi edittali di pena, ma non mancano sentenze di
segno diverso), nonché del disordinato sovrapporsi di leggi che hanno in-
trodotto istituti processuali e penitenziari che prevedono sconti e sostitu-
zioni della detenzione con pene alternative al di fuori da qualsiasi serio
progetto politico-criminale. Basti pensare che, mentre le carceri sono
zeppe di tossicodipendenti ed extracomunitari, che non hanno sovente po-
tuto usufruire di una efficace difesa tecnica, la grande inchiesta di tangen-
topoli ha condotto a scontare la pena detentiva a seguito di condanna de-
finitiva due soli condannati. Come è stato esattamente osservato, il si-
stema sanzionatorio vigente è, in altre parole, ‘‘deficitario sotto ogni
aspetto: ineffettivo e, là dove efficace, vessatorio’’ (49).
Di qui la necessità di una opera di profondo rinnovamento, in grado
di restituire certezza e razionalità al sistema sanzionatorio. I capisaldi di
questa riforma dovrebbero essere individuati: a) nella necessità di ridurre
la inutile gravità delle pene detentive previste dal codice penale vigente;
b) nella opportunità di abbandonare la concezione detentivo-centrica del
sistema vigente, e di affiancare alla pena detentiva un ampio ventaglio di
pene diverse di tipo interdittivo e pecuniario, previste dal codice penale
fra le pene principali; c) nella consapevolezza che il carcere deve essere
usato come extrema ratio di punizione, soltanto nei casi in cui esso appaia
assolutamente indispensabile per assicurare le condizioni di sicurezza dei
cittadini, e che possa essere opportunamente sostituito già nella fase del
giudizio di cognizione da sanzioni diverse nei casi in cui la sua previsione
non appaia indispensabile; d) nella necessità di restituire certezza alla
pena assicurando che le nuove sanzioni, detentive e non detentive, siano
irrogate dal giudice di cognizione, e una volta applicate siano effettiva-
mente eseguite, sia pure con i temperamenti (per la pena detentiva) do-
vuti alla necessità di rispettare la prospettiva della funzione rieducativa
della pena prevista dalla Costituzione (50).
Un sistema penale caratterizzato da cautela nel ricorso alla reclu-
sione, e da una elevata utilizzazione di pene principali di natura diversa,
risponde d’altronde da un lato a quella esigenza di ‘‘pena giusta’’ della
quale parla la Carta dei diritti elaborata dai Paesi della Comunità Euro-

cipi processuali, ivi, p. 37 ss.; PRESUTTI, L’effettività della pena nel contesto della fase esecu-
tiva, ivi, p. 57 ss.
(49) Relazione della Commissione Grosso, cit., p. 578.
(50) Relazione della Commissione Grosso, cit., p. 578 ss. e 615 ss.

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pea, e nel contempo non dà luogo, se si rispettano determinate condizioni,


ad un sistema penale più debole dell’attuale. È sicuramente un sistema più
umano, in quanto rinuncia ad utilizzare inutilmente il carcere là dove non
è necessario, ma può esplicare una più consistente efficacia preventiva ove
la pena minacciata diventi pena certa in sede di esecuzione, e siano previ-
ste condizioni (risarcimento del danno, restituzione del maltolto, presta-
zioni positive, ecc.) alla applicazione di istituti quali la sospensione condi-
zionale della pena, o alla ammissione al patteggiamento. Allo scopo di
rendere davvero efficace un sistema di pene così configurato, si potrebbe
seriamente pensare ad eliminare la sospensione condizionale delle pene
nei confronti delle sanzioni diverse dal carcere, e a cancellare l’istituto
delle circostanze attenuanti generiche, che a causa del meccanismo di cal-
colo delle circostanze eterogenee del reato hanno costituito per anni pre-
supposto per esercizi di discrezionalità giudiziale del tutto fuori mi-
sura (51).
Ove si accolga questa nuova prospettiva in tema di scelta della tipolo-
gia della sanzione penale, lo stesso problema di fondo della opzione tra
penalizzazione e non penalizzazione potrebbe subire qualche contrac-
colpo rispetto alla impostazione tradizionale, in quanto molte volte acca-
drà che la sanzione penale abbia lo stesso contenuto (versamento di de-
naro, interdizione di attività, prestazione lavorativa) della sanzione ammi-
nistrativa. Ciò non significa che l’obbiettivo di fondo debba tuttavia cam-
biare. La ricerca di un diritto penale minimo dovrà continuare ad essere
comunque perseguita, nella convinzione che determinate manifestazioni
di illecito non possono non essere considerate come penali, non fosse al-
tro che per il valore emblematico di questa scelta, ma che essa dovrà risul-
tare comunque circoscritta alle offese di beni individuali e collettivi di ri-
lievo. Una volta individuata l’area del ‘‘penalmente rilevante’’, la sanzione
potrà tuttavia non essere necessariamente individuata in un carcere, in sé
diseducativo, e molte volte preda di un sistema di benefici diretti a ridurre
in concreto la sua esecuzione nel nome di principi di prevenzione speciale.
Né, una volta realizzato questo progetto, si potrà sostenere fondata-
mente che la linea spartiacque fra illecito penale ed illecito amministrativo
si è sfrangiata, e si è definitivamente imboccata la strada per la unifica-
zione del sistema degli illeciti e delle sanzioni nel quadro di una realtà in-
distinta di illecito e di sanzione giuridica (52). Rimarrà sempre ferma,

(51) In dottrina v. DOLCINI, Riforma della parte generale del codice penale e rifonda-
zione del sistema sanzionatorio penale, in questa Rivista, 2001, p. 823 ss.; CIANI-IADECOLA-
IZZO-VIGLIETTA, Osservazioni sulla relazione della Commissione ministeriale per la riforma
del codice penale istituita con d.m. 1o ottobre 1998 e presieduta dal prof. C.F. Grosso, in
Riv. pen., 2000, p. 118 ss.
(52) Sulle impostazioni ‘‘unitarie’’ dell’illecito penale e amministrativo, al fine di in-
dividuare una base comune di garanzie, SINISCALCO, Depenalizzazione e garanzie, Bologna,

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quale caratteristica della scelta penale, la stigmate che connota comunque


la valenza penale di una infrazione; rimarrà, soprattutto, la peculiarità
dell’organo, la magistratura, ed il tipo di processo, appunto il processo pe-
nale, al quale la applicazione dei reati continuerà ad essere affidata.

6. Dogmatica, organizzazione sistematica degli istituti penali e ri-


gore della argomentazione giuridica nell’insegnamento di Marcello Gallo.
— Marcello Gallo, come ho già rilevato, esponente raffinatissimo della
scuola tecnico-giuridica, è stato Maestro nella ricostruzione degli istituti
giuridico-penali. Ricordo la logica impeccabile attraverso la quale, utiliz-
zando sia gli strumenti della ragione, sia il contenuto della disciplina di di-
ritto positivo, ha motivato la sua adesione alla impostazione ‘dualistica’
degli elementi del reato, arricchendola della individuazione degli elementi
negativi del fatto (53). Ricordo il rigore e la trasparenza che hanno carat-
terizzato la sua costruzione del dolo, centrata sul superamento della defi-
nizione di cui all’art. 43 c.p., o comunque sulla interpretazione in chiave
di evento giuridico della nozione di ‘‘evento dannoso o pericoloso’’, e per
altro verso prevalentemente impostata sulla disciplina dell’errore, che del
dolo costituisce il risvolto negativo (54). Ricordo la lucidità con la quale
ha ricostruito in chiave estensiva il contenuto della norma che prevede la
rilevanza dell’errore sulla legge diversa da quella penale (55), o le sue le-
zioni indimenticabili sul concorso apparente di norme penali coesi-
stenti (56) o sull’errore sulle cause di giustificazione (57). Ricordo la lim-
pida ricostruzione dell’istituto del concorso di persone nel reato, centrata
sul concetto di contributo tipico o atipico alla realizzazione della of-
fesa (58), e la chiarezza con la quale spiegava la duplice funzione, di disci-
plina ed incriminatrice ex novo, degli artt. 110 ss. c.p. (59). Della conce-
zione realistica del reato, e delle ragioni ideologiche e giuridiche che
hanno costituito il fondamento di questa sua scelta di fondo, ho già d’al-
tronde parlato a lungo (60).
Da Marcello Gallo decine di allievi hanno appreso i fondamenti, e poi
le raffinatezze, dell’argomentazione giuridica e della costruzione e siste-
mazione dei diversi istituti nel grande affresco del sistema penale. Mar-
cello Gallo ha tuttavia anche insegnato la relatività delle impostazioni

1995, p. 143 ss.; ROSSI VANNINI, Illecito depenalizzato amministrativo. Ambito di applica-
zione, Milano, 1990, p. 173 ss. alle cui indicazioni bibliografiche si rinvia.
(53) GALLO, L’elemento oggettivo, cit., p. 102 ss.
(54) GALLO, voce Dolo, cit., p. 753.
(55) GALLO, voce Dolo, cit., p. 760 ss.
(56) GALLO, Le forme del reato, cit., p. 76.
(57) GALLO, voce Dolo, cit., p. 770 ss.
(58) GALLO, Lineamenti, cit.; ID., Le forme del reato, cit., p. 92.
(59) GALLO, Lineamenti, cit., p. 66; ID., Le forme del reato, cit., p. 94.
(60) Retro, § 2.

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dogmatiche e sistematiche; o quantomeno io, dal suo insegnamento com-


plessivo, ho sviluppato l’idea di questa relatività. La dogmatica, la archi-
tettura del sistema penale, non può costituire l’obbiettivo del penalista. Se
ciò fosse, il ruolo dello studioso di diritto penale risulterebbe terribil-
mente impoverito. La dogmatica, la sistematica, sono strumenti di cono-
scenza, attraverso i quali si cerca di organizzare, a scopo didattico o co-
munque espositivo, la materia penale, e la scelta di uno piuttosto che di
un altro modello ha una importanza tutto sommato marginale (61). Ciò
che invece sicuramente conta, è determinare i contenuti (o i contenuti
possibili) della materia, individuare gli obbiettivi di politica criminale da
perseguire. Nella convinzione, sempre, che ogni opinione è opinabile, e
che il discorso interpretativo, o sistematico, o politico criminale, non co-
stituisce mai un assoluto, e tantomeno un totem destinato a non mutare
nel tempo, ma deve seguire ed essere in grado di adattarsi ai percorsi della
evoluzione del sapere penalistico ed ai percorsi del sapere e del modo di
ragionare proprio di ciascuno di noi.
È ovvio che, per usare una metafora che è stata di recente utilizzata
in uno scritto inutilmente polemico nella forma oltre che nella so-
stanza (62), nella costruzione del sistema penale la sistemazione delle
stanze della casa, o dei mobili della stessa, deve avere una sua razionalità.
La realtà è che esistono diverse razionalità possibili, e che volere imporre
a tutti i costi la propria non ha senso, pure se quella criticata presenta,
ammesso che lo presenti davvero, qualche profilo di anomalia o di con-
traddizione. Anche se Marcello Gallo nelle sue elaborazioni sistematiche è
stato quasi sempre perfetto, egli mi ha tuttavia insegnato che eventuali
profili di imperfezione possono, in determinati casi, costituire manifesta-
zione positiva di adattamento alla problematicità delle situazioni, espri-
mere la volontà di non imporre, data tale problematicità, soluzioni preco-
stituite, essere in realtà espressione di perspicacia piuttosto che di errore
od ignoranza. Anche di questo insegnamento sulla relatività dei ragiona-
menti giuridici e delle costruzioni dogmatiche, e pertanto, più in generale,
sulla tolleranza e sulla intelligenza che deve connotare le analisi dei giuri-
sti, gli sono profondamente grato.
CARLO FEDERICO GROSSO

(61) V. GROSSO, L’errore sulle scriminanti, Milano, 1961, capitolo I, passim; MARI-
NUCCI,Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa Rivista, 1983, p.
1198 ss.
(62) MOCCIA, Euforie tecnicistiche nel ‘‘laboratorio della riforma del codice penale’’,
in questa Rivista, 2002, p. 453 ss.

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SUI PRINCIPI GENERALI
DEL DlRITTO INTERNAZIONALE PENALE (*)

SOMMARIO: 1. L’esigenza della ‘‘Parte generale’’ del diritto internazionale penale. — 2. La


genesi e lo sviluppo della Parte generale. — 3. Il principio di legalità. — 4. I soggetti
responsabili dei crimini internazionali. — 5. Gli elementi costitutivi del crimine inter-
nazionale. — 6. Le forme di manifestazione del crimine internazionale. — 7. Le
cause di esclusione della responsabilità. — 8. Le sanzioni. — 9. La ‘‘penetrazione’’
del diritto internazionale penale nei diritti penali interni e viceversa.

1. L’esigenza della ‘‘Parte generale’’ del diritto internazionale pe-


nale. — Un diritto internazionale penale integrale non può non essere co-
stituito, come il diritto penale interno: 1) non solo da una Parte speciale,
comprendente le singole figure di crimini internazionali, 2) ma anche da
una Parte generale, comprendente il complesso di principi fondamentali e
di regole comuni, validi per la generalità o per categorie dei crimini inter-
nazionali.
Sia la Parte generale del diritto penale interno sia la Parte generale
del diritto internazionale sono, entrambe, il frutto di un più tardivo svi-
luppo rispetto alle rispettive Parti speciali. Anche se per ragioni diverse.
La prima, perché costituì il frutto del progressivo sforzo di astrazione teo-
rica e di concettualizzazione dei connotati comuni ai singoli reati, nonché
dell’affermazione di fondamentali principi politico-razionali (di legalità, di
proporzione-retribuzione, di colpevolezza, di imputabilità, ecc.). La se-
conda, perché fu sentita come necessaria: a) non in rapporto al c.d. si-
stema di esecuzione indiretta del diritto internazionale penale, poiché la
punizione dei crimini internazionali è, qui, rimessa al diritto penale, so-
stanziale e processuale, interno sulla base di un obbligo internazionale de-
rivante allo Stato da una sottoscritta convenzione. Sistema, su cui si è ba-
sato, pressoché costantemente, il diritto internazionale penale; b) ma sol-
tanto in rapporto al c.d. sistema di esecuzione diretta del diritto interna-
zionale penale, comprendente non solo l’organo giudicante, ma anche
tutte le attività di giustizia penale (indagini, procedimento, decisione, san-

(*) Il presente scritto costituisce il testo della relazione alla Conferenza nazionale per
i professori italiani di diritto e procedura penale e diritto internazionale, tenutasi a Siracusa
il 7-9 dicembre 2001, presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali su ‘‘Di-
ritto penale internazionale: una nuova disciplina’’.

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zioni, esecuzione delle stesse); nonché al c.d. sistema di esecuzione par-


ziale, che comprende l’organo giudicante, ma che deve affidarsi alla coo-
perazione degli Stati per l’arresto e la consegna delle persone accusate,
per l’assistenza giudiziale, per l’esecuzione della sentenza. Sistemi, che
hanno trovato episodica attuazione storica, il primo, nei soli Tribunali mi-
litari internazionali di Norimberga e per l’Estremo oriente, e, il secondo,
nei Tribunali penali internazionali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda; ma
che hanno nondimeno contribuito ad evidenziare l’esigenza anche di una
Parte generale del diritto internazionale penale, che offrisse alle istituende
corti internazionali, temporanee o permanenti, quella serie di principi ge-
nerali in tema di responsabilità e di pena, recepiti ormai dai più evoluti si-
stemi di giustizia penale nel mondo.

2. La genesi e lo sviluppo della Parte generale. — Sulla base delle


suddette premesse è comprensibile come le convenzioni internazionali e le
consuetudini abbiano dato uno scarso contributo allo sviluppo della Parte
generale e come questo sia stato tardivo, sporadico, saltuario.
La sua genesi storica viene fatta risalire, almeno convenzionalmente,
agli Statuti dei Tribunali militari internazionali di Norimberga (1945) e
dell’Estremo oriente (1946), che contengono un primo nucleo di Parte ge-
nerale, costituito da un ristretto numero di disposizioni in materia di re-
sponsabilità individuale, di obbedienza agli ordini superiori, di responsa-
bilità da comando, di irrilevanza delle immunità dei Capi di Stato.
Tali circoscritte disposizioni trovano riscontro anche negli Statuti dei
Tribunali per la ex Jugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994), i quali però
ricorrono, per l’individuazione degli elementi di responsabilità penale e
delle cause di esclusione della stessa, ai principi generali ricavabili dai
maggiori sistemi penali del mondo. Sicché la giurisprudenza di tali tribu-
nali ha fornito un ulteriore contributo allo sviluppo della Parte generale.
Anche se con una potenziale tensione col principio di legalità, sia perché
tali principi giurisprudenziali costituiscono un posterius rispetto ai crimini
commessi, sia per le eccepite divergenze esistenti tra i diversi sistemi pe-
nali nazionali circa i suddetti elementi.
È, in verità, una costante storica che, in rapporto alla punizione dei
crimini internazionali, si ripropone la perenne contrapposizione dialettica
tra legalità formale e giustizia sostanziale, che trova una triplice possibile
soluzione:
1) la soluzione della prevalenza della legalità formale, con le sue
connaturate garanzie di certezza ed uguaglianza giuridica, che può, allo
stato attuale, essere adeguatamente assicurata, anche per quanto riguarda
i principi di Parte generale, mediante la rimessione della punizione dei cri-
mini internazionali ai singoli Stati sulla base delle rispettive legislazioni
penali. Ma a tutto scapito dell’esigenza della giustizia sostanziale, poiché

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la punizione di tali crimini dipende dall’incontrollata volontà degli Stati di


adempiere, fra l’altro, gli obblighi internazionali convenzionalmente as-
sunti, dall’efficace funzionamento della loro giustizia, dalla loro volontà e
capacità di cooperazione, la quale, per la frammentarietà e scoordina-
menti, è tra i punti più deboli della lotta contro la criminalità non solo in-
ternazionale, ma anche transnazionale e interna, specie se organizzata.
Come, del resto, sta a dimostrare il fallimentare bilancio in materia di cri-
mini internazionali, commessi dopo il secondo conflitto mondiale e rima-
sti impuniti;
2) la soluzione della prevalenza della giustizia sostanziale a scapito
della legalità formale, che ha trovato il proprio riscontro storico, in mi-
sura maggiore o minore, in tutti i casi in cui i crimini internazionali sono
stati giudicati e puniti da tribunali internazionali, stante la mancanza di
precisi punti di riferimento precodificati. Anche se nell’alternativa tra
l’imperiosa e irrinunciabile istanza di giustizia sostanziale e il rigoroso ri-
spetto della legalità formale (che comporterebbe la non punibilità dei re-
sponsabili della ‘‘delinquenza di Stato’’, perpetrata sotto l’usbergo della
sua legittimità formale), pressoché universalmente viene riconosciuto che
in nome della prima può essere ammesso un qualche sacrificio della se-
conda, tanto più se soprattutto formale ed apparente. Così si ritenne già
rispetto alle condanne pronunciate dai Tribunali di Norimberga e dell’E-
stremo oriente, perché fondate sui supremi ‘‘principi di umanità’’, già
consacrati negli stessi ordinamenti interni e che non potevano non portare
a disconoscere efficacia alle scriminanti ad essi contrastanti, create dagli
stessi detentori del potere a giustificazione dei propri crimini. E così è
stato poi ribadito dal Patto sui diritti civili e politici delle N.U. (1966) e
dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo (1950),
che essi pure considerano il principio di irretroattività non preclusivo
della punibilità dei fatti che erano criminali ‘‘secondo i principi generali di
diritto riconosciuti dalle nazioni civili’’. Ma un ulteriore passo in termini
di legalizzazione può dirsi, a fortiori, operato in materia dai principi giuri-
sprudenziali, elaborati dai Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda,
ove il sacrificio della legalità può risultare minimale, se, come è verosi-
mile, sugli elementi-base di individuazione delle responsabilità e delle
cause di esclusione della stessa, ricavati dai sistemi di diritto penale dei
vari paesi civili, esistono identità sostanziali e differenze marginali e se tali
Tribunali si sono preoccupati di enucleare i denominatori comuni e di
adottare, nel caso di differenze insuperabili, la disciplina più favorevole al
reo. Più specifico in materia è lo Statuto della Corte penale internazionale
che, nel fissare la gerarchia della normativa applicabile (art. 21), dopo
avere indicato, in primo luogo, lo stesso Statuto e, in secondo luogo ed
ove occorra, i trattati applicabili e i principi e le regole di diritto interna-
zionale, non ha potuto prescindere dal richiamarsi, in mancanza: a) ai

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principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa in-
terna dei sistemi giuridici del mondo, compresa, ove occorra (e il ri-
chiamo appare significativo ai fini della legalità), la normativa interna de-
gli Stati che avrebbero avuto giurisdizione sul crimine; sempre che tali
principi non siano in contrasto con lo Statuto, con il diritto internazionale
e con le norme e i criteri internazionalmente riconosciuti; b) ai principi di
diritto e alle norme giuridiche risultanti dalle interpretazioni fornite nelle
proprie precedenti decisioni;
3) la soluzione, della conciliazione della giustizia sostanziale con la
legalità formale, realizzabile soltanto con la integrale codificazione del di-
ritto internazionale, nelle sue Parti speciale e generale, in un testo scritto.
Si tratta della soluzione ottimale, perché offre una risposta: a) al pro-
blema primario del diritto internazionale penale, che è sempre stato
quello dell’osservanza del principio di legalità, stante l’inadeguatezza
delle sue fonti a soddisfare i requisiti della legalità: per quanto riguarda
non solo e primariamente i principi generali e la consuetudine, ma anche
le convenzioni, che raramente descrivono le condotte vietate e, tanto
meno, disciplinano gli istituti di Parte generale; b) alle istanze della dot-
trina contemporanea che, nel suo insieme, ritiene che anche rispetto al di-
ritto internazionale penale il principio di legalità debba essere affermato,
tanto più nei casi di applicazione del medesimo da parte di organi di giu-
stizia internazionale, poiché tale diritto, senza la descrizione dei vari cri-
mini e la previsione degli istituti della Parte generale, risponde solo margi-
nalmente al principio di legalità. Di qui l’auspicio, come unico rimedio,
della codificazione del diritto internazionale in un testo scritto, che è stata
la sempre delusa aspirazione a partire dal primo dopoguerra, poiché i vari
tentativi in questo senso andarono falliti per la sfiducia nella giurisdizione
internazionale, il ritorno negli anni cinquanta del secolo scorso alla vio-
lenza come strumento della politica (guerra di Corea, repressione della ri-
voluzione ungherese, crisi di Suez) e l’infausto collegamento dei progetti
di codice all’insuperabile problema della definizione di ‘‘aggressione’’.

3. Il principio di legalità. — Un più recente e promettente sviluppo


della codificazione della Parte speciale e della Parte generale si è avuto
con lo Statuto della Corte penale internazionale (1998), che ha provve-
duto, in funzione della esigenza di legalità:
1) ad elencare e a definire, in termini più o meno determinati, i cri-
mini internazionali, ossia le condotte di genocidio (art. 6), dei crimini
contro l’umanità (art. 7) e dei crimini di guerra, rinviando però l’esercizio
della giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione ad un futuro ac-
cordo sulla definizione della stessa (art. 5/2). Si tratta di un indubbio
passo in avanti nella tassativizzazione dei crimini internazionali (come, ad
es., per i crimini contro l’umanità, avendo tale Statuto modificato la defi-

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nizione contenuta negli Statuti dei Tribunali di Norimberga, dell’Estremo


oriente, per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, rendendola più specifica e ri-
stretta). Anche se non è andato esente da critiche, sia per certe persistenti
lacune (es.: del genocidio, circoscritto ai soli gruppi etnici, religiosi e na-
zionali e non esteso ai gruppi sociali e politici), sia per certe sovrapposi-
zioni (così tra genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra);
2) a sancire i principi: a) del nullum crimen sine lege con il conse-
guente divieto dell’analogia in malam partem. In termini però non asso-
luti, essendo fatta salva la qualificazione di condotte, non previste dallo
Statuto, come crimini secondo il diritto internazionale (art. 22); b) del
nulla poena sine lege (art. 23); c) dell’irretroattività delle norme incrimi-
natrici dello Statuto ai comportamenti precedenti all’entrata in vigore dello
stesso e della retroattività, in caso di modificazioni del diritto applicabile
prima della sentenza definitiva, del diritto più favorevole (art. 24). Su
quest’ultimo punto lo Statuto sembrerebbe discostarsi per l’assolutezza
dell’affermazione del principio di irretroattività, non solo — come già ac-
cennato — dalle prese di posizione dei Tribunali di Norimberga e dell’E-
stremo oriente, che fondarono le sentenze di condanna sulla violazione
dei supremi ‘‘principi di umanità’’. Ma anche dal Patto sui diritti civili e
politici (art. 15) e dalla Convenzione europea (art. 7), che, pur acco-
gliendo il principio di irretroattività, ne hanno affermato nel contempo —
come già detto — la non vincolatività per i fatti che, al momento della
loro commissione, erano criminali ‘‘secondo i principi generali del diritto
riconosciuti dalle nazioni civili’’, e salvo, poi, il problema dell’individua-
zione di detti fatti criminosi sulla base di tali generiche previsioni.
Il sovrapporsi poi alle Costituzioni nazionali del Patto, della Conven-
zione, dello Statuto suddetti, negli Stati Parte in cui questi siano entrati in
vigore, può porre dei delicati problemi di tensione e di coordinamento in
rapporto all’efficacia del diritto penale nel tempo. Così, in particolare, per
l’ordinamento italiano, rispetto al quale sembra possa affermarsi: a) che
le deroghe sopramenzionate al principio di irretroattività, previste dal
Patto e dalla Convenzione, concernono il diritto penale interno, mentre il
principio di irretroattività, nei termini sanciti dallo Statuto, riguarda la
giurisdizione della Corte penale internazionale, complementare alle giuri-
sdizioni nazionali (art. 1); b) che la tensione, in cui tali deroghe possono
porsi col principio di irretroattività, sancito dall’art. 25/2 Cost., non sem-
bra possa risolversi nel senso della prevalenza ad oltranza ed in termini
assoluti della legalità formale, poiché dette deroghe solo apparentemente
violano il suddetto principio costituzionale nella sua autentica ratio garan-
tista, in quanto esse, lungi dall’essere sopraffattorie od arbitrarie, costitui-
scono una riaffermazione di un essenziale ed inderogabile principio di giu-
stizia sostanziale, in cui anche il principio di irretroattività va inquadrato
e di cui è esso stesso espressione; c) che, pertanto, tali deroghe non pos-

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sono ritenersi incostituzionali, perché costituiscono un limite implicito al


principio dall’art. 25/2 Cost. o, ancor più, se costituzionalizzate attra-
verso la clausola di adeguamento dell’art. 10/1 Cost., allorché si possa af-
fermare che esse sono già assurte a principio di diritto internazionale ge-
neralmente riconosciuto;
3) a codificare un’ulteriore serie di principi e di istituti di Parte ge-
nerale, con l’intento di offrire la disciplina non di tutti i requisiti della re-
sponsabilità penale, ma soprattutto di quelli ritenuti di primaria impor-
tanza o maggiormente bisognosi di chiarimenti. Anche se non senza certe
mescolanze e sovrapposizioni tra discipline mutuate da sistemi penali na-
zionali diversi, che non sempre contribuiscono alla linearità e coerenza
del sistema dello Statuto.

4. I soggetti responsabili dei crimini internazionali. — Il diritto in-


ternazionale classico non conosceva — come è noto — alcuna responsabi-
lità degli individui, per la loro ritenuta incapacità di essere soggetti di tale
diritto. Solo il diritto penale statuale, convertendo in precetti i singoli do-
veri giuridici facenti capo allo Stato, poteva attuare le norme del diritto
internazionale. È a partire dalla prima guerra mondiale che si è andata af-
fermando, soprattutto all’estero, la tendenza a concepire, entro certi li-
miti, il singolo individuo come soggetto di diritti e di doveri di diritto in-
ternazionale e che le più gravi trasgressioni a determinate norme primarie
di tale diritto fossero da considerare crimini internazionali, punibili già se-
condo lo stesso diritto internazionale nei confronti degli individui autori.
Anche se i primi tentativi, all’indomani del primo conflitto mondiale, di
punire gli individui autori di certi fatti da ritenersi crimini internazionali
(Trattati di Versailles, di Washington del 1922 e di Ginevra del 1937) ri-
masero senza esito.
Una volta affermatasi la responsabilità penale internazionale per gli
individui quale principio generale del diritto, interno e internazionale, si
è riproposto il problema della responsabilità anche degli Stati. La sola re-
sponsabilità individuale emerse dalle Carte di Norimberga (art. 6) e di
Tokyo; fu affermata dai Tribunali internazionali di Norimberga e per l’E-
stremo oriente; fu ribadita dall’Assemblea generale dell’ONU nella ‘‘Af-
fermazione dei principi di Norimberga’’ (1946), e fu consolidata dagli
Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia (artt. 7, 23) e per il Ruanda (artt.
6, 22) e della Corte penale internazionale (art. 25). In seguito al moltipli-
carsi di crimini internazionali, specie contro l’umanità, commessi da au-
tori-non statali (gruppi paramilitari, bande di civili armati), come nella ex
Jugoslavia, nel Ruanda (degli Hutu contro i Tutsi) e in Liberia, gli Statuti
dei Tribunali e della Corte suddetti hanno esteso anche a tali autori quella
responsabilità penale, che fino al secondo conflitto mondiale e alla Carta
di Norimberga (art. 6) era circoscritta ai soli autori-statali (delle forze ar-
mate, di polizia, della burocrazia civile).

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Poiché i crimini possono essere ascrivibili allo Stato, perché prodotto


di un’‘‘azione di Stato’’, di una ‘‘politica a favore dello Stato’’, attuata su
commissione, o di omesso impedimento da parte dello Stato, si è posto il
problema di una responsabilità penale dello Stato, fondata, secondo i so-
stenitori, sulla possibilità e dovere di un popolo di impedire i crimini e
sulla funzione stigmatizzante e deterrente per i centri di potere decisio-
nale. Ma contro di essa si è eccepito il principio della responsabilità pe-
nale personale, stante le difficoltà di stabilire quando il crimine trascenda
i singoli autori e concorrenti e i centri di potere decisionale per diventare
ascrivibile all’intero Stato e, quindi, a tutti i cittadini, abbiano o meno essi
condiviso, consentito, partecipato alla decisione o commissione; di preve-
dere una responsabilità dello Stato che non sia anche collettiva; e di indi-
viduare sanzioni che non colpiscano le persone non partecipanti all’azione
criminosa. D’altro canto, nessuna delle tante convenzioni esistenti pre-
vede una responsabilità penale dello Stato. Essa è stata proposta soltanto
nel Progetto di codice sulla responsabilità dello Stato (art. 19) del 1976,
mentre il Progetto di codice dei crimini contro la pace e la sicurezza del-
l’umanità (1996) e lo Statuto della Corte penale internazionale (art. 25/4)
hanno evitato lo spinoso problema, limitandosi, specificamente quest’ul-
timo, ad affermare che la sancita responsabilità individuale ‘‘non pregiu-
dica... la responsabilità degli Stati secondo il diritto internazionale’’.

5. Gli elementi costitutivi del crimine internazionale. — Circa tali


elementi gli Statuti dei Tribunali di Norimberga e dell’Estremo oriente,
per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, e della Corte penale internazionale
sono pressoché silenti.
A) Ciò per quanto riguarda, innanzitutto, l’elemento oggettivo del
crimine internazionale, che i suddetti Tribunali ricavano dai principi ge-
nerali di diritto penale, reperiti nei maggiori sistemi penali del mondo
(quale, ad es., il rapporto di causalità). E nelle elaborazioni dottrinali si
distingue tra: 1) i crimini internazionali di azione, che anche nel diritto
internazionale penale, come nei diritti penali interni, sono i più numerosi;
2) i crimini internazionali di omissione, il cui ambito è sensibilmente au-
mentato con l’aumento degli obblighi internazionali di facere (es.: di non
tollerare sul proprio territorio attività organizzative per effettuare atti di
terrorismo in territorio straniero, come stabilisce anche il Progetto di co-
dice dei crimini internazionali del 1951; 3) i crimini internazionali sem-
plici, costituiti cioè da un’unica azione od omissione dovuta ad un solo or-
gano; 4) i crimini internazionali complessi, allorché siano il risultato
della condotta di diversi organi, l’attività dei quali è suscettibile di dare
luogo al fatto vietato dalla norma internazionale.
Lo Statuto della Corte penale internazionale (art. 9) prevede che
l’Assemblea degli Stati Parte approverà i ‘‘Requisiti oggettivi dei crimini’’,

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elaborati da una Commissione preparatoria e che costituiranno norme ag-


giuntive di natura generale, applicabili ai crimini di competenza della
Corte (artt. 6, 7, 8).
Circa l’omissione, lo Statuto della Corte penale internazionale ne
esclude la punibilità, con la sola eccezione per i comandanti militari o altri
superiori per l’omesso adeguato controllo o l’omessa adozione delle mi-
sure, necessari ad impedire la commissione di crimini da parte dei subor-
dinati (art. 28). Esso ha ritenuto di non fare proprio il principio generale,
contenuto nel Progetto di Statuto, per il quale la ‘‘Condotta... può consi-
stere sia in un’azione, sia in un’omissione’’, salvo poi precisare che la re-
sponsabilità per omissione è ammessa solo ‘‘se la persona aveva l’obbligo
giuridico di evitare l’evento’’. Rifiuto, dovuto sia alle riscontrate difficoltà
di un accordo circa le circostanze in cui la mera omissione avrebbe do-
vuto essere punita; sia all’insorta controversia tra i sostenitori di un’e-
spressa regolamentazione dell’obbligo di agire e i sostenitori dell’inade-
guatezza di una tale regolamentazione a coprire tutti i casi di omissioni
meritevoli di punizione, perseguibili invece sulla base — come affermato
già dal Tribunale di Norimberga e dal Progetto di Codice dei crimini con-
tro la pace e la sicurezza dell’umanità (1954) — di una ‘‘responsabilità
per commissione mediante omissione’’, avendo ogni individuo l’obbligo di
uniformarsi alle regole del diritto internazionale e potendo, pertanto, es-
sere ritenuto responsabile per avere omesso di uniformarsi ad esse. Gli
Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, pur non preve-
dendo anch’essi una responsabilità per omissione, appaiono estendere la
responsabilità dei comandanti militari anche al mancato impedimento dei
crimini dei subordinati attraverso il concorso mediante omissione nel cri-
mine non impedito.
B) Per quanto concerne l’elemento soggettivo, se per certi autori, e
particolarmente per quelli che ammettono la responsabilità degli Stati, era
ritenuto sufficiente il semplice nesso causale tra la condotta e il risultato
illecito (e, quindi, una mera responsabilità oggettiva), per la dottrina con-
temporanea si ritiene, analogamente alla posizione assunta dal Tribunale
di Norimberga, che anche la repressione penale internazionale sia insepa-
rabile dal principio della colpevolezza. Circa poi la distinzione classica tra
responsabilità dolosa e responsabilità colposa, che nei diritti penali in-
terni sono, rispettivamente, regolare ed eccezionale, si è pure ritenuto, vi-
ceversa, che in materia di crimini internazionali anche i fatti posti in es-
sere per colpa (es.: fare scatenare una guerra di aggressione per impru-
denza) debbano essere perseguiti, salva la minore pena. E a maggiore ra-
gione vanno assimilati, come nei diriti interni, il dolo intenzionale e il
dolo eventuale. Al contrario, lo Statuto della Corte, disciplinando espres-
samente l’elemento soggettivo (art. 30), pur se con una terminologia per
la verità equivoca e psicologicamente di dubbia correttezza o, comunque,

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discontantisi da quella dei codici penali europei (da noi qui seguita), ap-
pare: a) innanzitutto limitarlo al solo dolo, con conseguente esclusione
della responsabilità colposa (quanto meno per colpa); b) ricomprendervi
anche il dolo eventuale; c) implicitamente escludere la responsabilità per
il mero dolo eventuale, allorché singoli crimini richiedano un dolo inten-
zionale o, addirittura, di premeditazione (es.: nei crimini di sterminio, di
stupri etnici, di deportazioni, di riduzione in schiavitù, di attacchi delibe-
rati contro la popolazione civile); oppure la responsabilità per il mero
dolo generico, allorché singoli crimini richiedano un dolo specifico (es.:
negli atti di genocidio). Anche se, circa la colpa, con qualche implicita ec-
cezione, quale quella in materia di responsabilità del comandante militare
per il mancato controllo sulle forze militari sotto il suo comando, quando
‘‘avrebbe dovuto sapere che esse commettevano o stavano commettendo
crimini di competenza della Corte’’ (art. 28).
Nel disciplinare l’errore lo Statuto (art. 32) limita l’efficacia scusante:
a) dell’errore di fatto, nei soli casi in cui esclude l’elemento psicologico
del crimine, ossia il dolo, in quanto — va precisato — il soggetto per ef-
fetto di un tale errore, ‘‘essenziale’’, vuole un fatto diverso da quello pre-
visto come crimine (errore sul fatto); b) dell’errore di diritto, quando però
esso non si limita ad un errore sulla illiceità del fatto, ma esclude l’ele-
mento soggettivo, cioè il dolo, traducendosi anch’esso in un errore sul
fatto. Impuniti restano, pertanto, i crimini commessi per errore colposo,
essendo essi punibili — come sembra — solo a titolo doloso.

6. Le forme di manifestazione del crimine internazionale. — Circa


tali forme, lo Statuto della Corte prevede non le circostanze e, quindi, il
crimine circostanziato, ma soltanto il tentativo e il concorso di persone,
coll’intento — anche se non sempre conseguito — di colmare le lacune o
le definizioni imprecise degli Statuti dei precedenti Tribunali e dei prece-
denti Progetti di Codici.
A) Prima dello Statuto della Corte il tentativo non era previsto, e
quindi punito, come categoria generale né dagli Statuti dei Tribunali di
Norimberga e dell’Estremo oriente, né dagli Statuti dei Tribunali per la ex
Jugoslavia e per il Ruanda, i quali tuttavia ne prevedevano la punizione li-
mitatamente ai fatti di progettazione e preparazione di specifici crimini
(quali quelli di genocidio) e quali particolari ipotesi degli stessi.
Lo Statuto della Corte, per ragioni di prevenzione, ha ritenuto (art.
25 f): a) di prevedere il tentativo punibile come categoria generale, supe-
rando la controversia circa la punibilità rispetto ad alcuni o a tutti i cri-
mini; b) di definirlo secondo il criterio classico dell’‘‘inizio dell’esecuzio-
ne’’, arricchito però dall’ulteriore requisito della realizzazione degli atti
‘‘essenziali’’ ai fini di tale inizio. Sicché al mai adeguatamente risolto pro-
blema della linea di demarcazione tra atti preparatori ed atti esecutivi, si

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aggiunge quello della definizione dell’atto ‘‘essenziale’’. Per evitare i noti


opposti eccessi di non punibilità o di punibilità (es.: di chi acquista le
armi per compiere il crimine di genocidio) della tesi della coincidenza del-
l’inizio di esecuzione con la condotta tipica, l’ambito del tentativo puni-
bile sembra essere, teleologicamente, identificato con la concreta messa in
pericolo del bene protetto, che può estendersi anche ad atti pretipici, quali
quelli dell’‘‘accingersi a compiere il crimine’’ (es.: ad accedere con gli au-
tomezzi di trasporto al luogo di concentramento delle persone da depor-
tare); c) di far consistere l’elemento soggettivo del tentativo nel dolo di
consumazione, che appare comprendere non solo il dolo intenzionale, ma
anche il dolo eventuale, essendo tutto ciò desumibile dal principio gene-
rale dell’art. 30 sull’elemento soggettivo del crimine in generale, nulla di-
cendo l’art. 25 f in senso contrario; d) di accogliere in linea di principio,
non prevedendo per il tentativo una pena autonoma, il criterio della puni-
bilità identica a quella del crimine consumato (salva la possibilità di una
pena in concreto minore ai sensi dell’art. 78). Il che è conforme ad una
concezione soggettivistica del tentativo, propria di un diritto penale della
volontà, in contrasto con la concezione oggettivistica, propria di un diritto
penale dell’offesa, che appare quella accolta dalla Statuto, avendo esso de-
scritto il tentativo con la formula non soggettivistica degli ‘‘atti aventi per
scopo la commissione di un reato’’, ma oggettivistica degli ‘‘atti di inizio
dell’esecuzione’’; e) di prevedere, altresì, la causa di non punibilità, costi-
tuita dall’abbandono del proposito criminoso — fino ad allora non consi-
derato dagli Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, né
dai Progetti di Codici del 1954, 1998, 1996 — nelle due forme della desi-
stenza dalla continuazione, possibile, dell’azione, e del recesso, cioè del-
l’impedimento del perfezionamento del crimine; f) di subordinare, altresì,
tale non punibilità all’abbandono del proposito criminoso non solo ‘‘vo-
lontariamente’’, come in genere si limitano a richiedere i diritti penali na-
zionali, ma altresì ‘‘completamente’’, sembrando tale non chiaro ulteriore
elemento esigere un abbandono non soltanto momentaneo o limitato allo
specifico crimine concreto, ma definitivo e integrale (cosa che non si
avrebbe, ad es., nel caso di chi desiste da atti di genocidio di un gruppo
etnico per realizzarne altri rispetto ad altro gruppo).
Lo Statuto della Corte non ha, invece, previsto il c.d. crimine impos-
sibile per inidoneità della condotta o inesistenza dell’oggetto della stessa,
che può essere fatto rientrare nel tentativo punibile solo sulla base di una
concezione meramente soggettivistica dello stesso, ma non anche sulla
base di una concezione oggettivistica, quale quella che sembra accolta da
detto Statuto e per la quale il crimine impossibile è un non crimine per
mancanza di offensività, anche al livello della sola messa in pericolo, del
bene protetto.
C) Lo Statuto della Corte prevede e disciplina il concorso di persone

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nel crimine internazionale, consumato o quanto meno tentato (art. 25/3),


già oggetto di considerazione negli Statuti dei Tribunali per la ex Jugosla-
via e per il Ruanda, rispetto al quale: a) ha respinto il complicatorio prin-
cipio della responsabilità diffierenziata in rapporto a predeterminate tipo-
logie di soggetti concorrenti. Ed opportunamente, stante le note critiche
circa la difficoltà o impossibilità di tassativizzare tutte le forme di con-
corso e di cogliere, sulla base di tali astratte e aprioristiche tipologie, il
reale grado di responsabilità in concreto dei concorrenti (es.: l’esecutore
del crimine può essere meno responsabile del superiore che ha dato l’or-
dine o del mandante); b) ha adottato il semplificatorio principio della
pari responsabilità, già seguito dagli Statuti dei Tribunali di Norimberga,
dell’Estrerno Oriente, per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, e in base al
quale per aversi concorso è necessario e sufficiente un contributo causale
o agevolatore alla realizzazione del reato; c) per una certa incoerenza, an-
ziché limitarsi a definire come concorso nel crimine le azioni causali (cioè
condiciones sine quibus non) o agevolatrici (cioè che hanno reso più pro-
babile, più facile o più grave la realizzazione del medesimo) nella fase
ideativa, preparatoria od esecutiva, procede — non essendosi ancora libe-
rato dall’esigenza della tipizzazione, propria della teoria della responsabi-
lità differenziata — ad un’elencazione casistica e asistematica di tipologie
di condotta concorsuali (talora sovrapponentisi), causali o agevolatrici
(coesecuzione, autoria mediata, ordine, sollecitazione, incoraggiamento,
aiuto, assistenza, messa a disposizione dei mezzi); d) mediante poi una
‘‘clausola di chiusura’’ (art. 25/3 d), considera concorso punibile un qual-
siasi altro contributo alla realizzazione del crimine, consumato o tentato,
trattandosi di una previsione o superflua, essendo difficile immaginare al-
tre ipotesi non rientranti nelle ampie previsioni dell’aiuto e assistenza, o
che, altrimenti, vanifica lo sforzo suddetto di tipizzazione delle sopraelen-
cate tipologie, che finiscono così per presentare un carattere non tassati-
vizzante, ma solo esemplificativo.
Lo Statuto, infine, prevede, rispetto al solo crimine di genocidio e si-
milmente alla Convenzione sul genocidio (1948) e agli Statuti dei Tribu-
nali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, la punizione, in funzione di pre-
venzione, del fatto in sé dell’incitamento direttamente (in modo non equi-
voco) e pubblicamente (in luogo pubblico o con mezzi pubblici di diffu-
sione) a commetterlo, anche se non seguito dalla realizzazione, neppure al
livello di tentativo, del medesimo.

7. Le cause di esclusione della responsabilità. — A) Circa le scrimi-


nanti, aperto è il problema se, almeno le principali, siano già recepite dal
diritto internazionale penale, in quanto ricavabili dai principi generali del
diritto o in quanto costituenti dei ‘‘limiti taciti’’ dell’illecito penale, in-
terno o internazionale. Così, innanzitutto, per la legittima difesa, in

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quanto ogni diritto, personale o reale, implica la facoltà dell’autodifesa,


poiché ogni ordinamento giuridico non può, ad un tempo e senza contrad-
dire se stesso, riconoscere un diritto ed imporre al titolare di subirne la le-
sione. Per porre fine ad ogni dubbio, lo Statuto della Corte penale interna-
zionale ha provveduto all’espressa previsione delle tre scriminanti, che
possono principalmente interessare il diritto internazionale, con esclu-
sione di altre, quale il consenso dell’avente diritto, verosimilmente per la
pressoché inapplicabilità, appartenendo i crimini internazionali alla ma-
crocriminalità ed essendo i beni giuridici offesi in genere non disponibili.
E cioè:
1) la legittima difesa e il soccorso difensivo (art. 32/1 c), lo stato di
necessità (anche determinato dall’altrui minaccia) e il soccorso di neces-
sità (art. 31/1 d). Mutuate, esse, dai diritti interni, ma di possibilità appli-
cative: a) pressoché nulle, rispetto ai crimini di genocidio e contro l’uma-
nità per la mancanza sia di un proporzionale controbilanciamento negli
interessi salvaguardati, sia di una situazione necessitante non provocata;
b) al più marginali, rispetto ai fatti costituenti altrimenti crimini di
guerra, se posti in essere come reazione difensiva necessitata dall’altrui in-
giusta aggressione (pur con le difficoltà di accertare l’ingiustizia dell’ag-
gressione e la sua imminenza, come nel caso di minaccia di aggressione);
2) l’ordine gerarchico di un governo o di un superiore, militare o ci-
vile. Di fronte alle opposte soluzioni dell’efficacia scusante, purché non si
tratti di ordini manifestamente criminosi (così in genere per i diritti in-
terni), e del disconoscimento assoluto di una tale efficacia, stante la gra-
vità dei crimini internazionali e salvo, al più, un’attenuazione facoltativa
di pena (così per gli Statuti dei Tribunali di Norimberga, per l’Estremo
oriente, per la ex Jugoslavia e per il Ruanda), lo Statuto della Corte penale
internazionale da un lato ha affermato il principio della non esclusione e
nemmeno della attenuazione della responsabilità, ma dall’altro ha previsto
le eccezioni della vincolatività dell’ordine e della ignoranza della sua ille-
gittimità, sempre che però non si tratti di ordini manifestamente illegit-
timi. E tali sono sempre presunti il genocidio e ogni crimine contro l’uma-
nità (art. 33).
B) Circa le cause di esclusione dell’imputabilità, lo Statuto prevede:
a) la malattia o la deficienza mentale, escludenti la capacità di intendere
il carattere criminoso o la natura della condotta o di conformare la pro-
pria condotta ai dettami della legge (art. 31/1 a); b) lo stato di intossica-
zione, escludente la suddetta capacità, sempre che il soggetto non si sia
volontariamente intossicato in circostanze implicanti la consapevolezza
del rischio di commissione di crimini di competenza della Corte (art.
31/1 b). Quanto, poi, all’età minore degli anni 18 al momento della com-
missione del fatto, essa dallo Statuto è considerata come causa di esclu-
sione della giurisdizione della Corte (art. 26).

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C) Ai fini di un’effettiva repressione dei crimini internazionali e con-


tro gli ‘‘esili dorati’’ dei capi di Stato responsabili di mostruosi eccidi, fon-
damentale è il principio, già incluso negli Statuti dei Tribunali di Norim-
berga, per la ex Jugoslavia, per il Ruanda, e tra i Principi di Norimberga
ed oggetto della Convenzione del 1974 (sino ad oggi non entrata in vi-
gore), ma ribadito dal suddetto Statuto della Corte, dell’assoluta irrile-
vanza delle qualifche soggettive ufficiali (in particolare: di Capo dello
Stato, di governo, di membro di un governo o di un parlamento, di rap-
presentante o agente di uno Stato). Rispetto a tali soggetti la Corte non è
vincolata né dalle immunità né dalle regole speciali processuali, vigenti
negli Stati o nel diritto internazionale (art. 27).

8. Le sanzioni. — Circa le sanzioni penali per i crimini internazio-


nali, il principio del nullum crimen sine lege:
1) trova adeguato soddisfacimento nel tradizionale sistema di ese-
cuzione indiretta del diritto internazionale penale, cioè da parte dei singoli
Stati, nell’ambito del quale il problema della previsione delle pene per i
singoli crimini, per la verità, non si è neppure posto, essendo le pene ad
essi applicabili quelle applicabili dai diritti interni. Come attesta l’assenza
di disposizione sanzionatoria nelle molteplici convenzioni;
2) resta, in misura maggiore o minore, disatteso nell’innovativo si-
stema di esecuzione diretta del diritto internazionale penale, cioè da parte
di organi internazionali di giustizia, nel cui ambito il problema della previ-
sione delle pene per i crimini internazionali si è andato imponendo, non
tovando però risposte esaurienti.
Mentre gli Statuti dei Tribunali di Norimberga e per l’Estremo
Oriente si limitano ad affermare l’applicabilità della pena di morte e di al-
tre pene ritenute giuste, gli Statuti dei tribunali per la ex Jugoslavia e per
il Ruanda, costretti ad affrontare il problema, hanno previsto non pene
specifiche per i singoli crimini, ma un meccanismo per una scelta uni-
forme delle pene (la limitazione di esse alla reclusione e la loro commisu-
razione secondo la prassi generale relativa alle pene inflitte dai tribunali
nazionali della ex Jugoslavia e del Ruanda). Anche se esso non è del tutto
idoneo a soddisfare il principio di legalità, dovendo i tribunali internazio-
nali riferirsi a diritti interni che, di regola, non fanno riferimento ai cri-
mini internazionali.
Un ulteriore sviluppo verso un più integrale soddisfacimento di tale
principio si è avuto con lo Statuto della Corte, il quale, pur non preve-
dendo le pene per ciascun singolo crimine, tuttavia ha adottato un più
dettagliato sistema sanzionatorio, mediante la previsione: a) dell’erga-
stolo, se giustificato dall’estrema gravità del crimine e dalla situazione
personale del condannato; b) della reclusione, per un periodo massimo
non superiore a 30 anni; c) l’eventuale aggiunta di un’ammenda; d) la

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confsca dei profitti, beni ed averi ricavati direttamente o indirettamente


dal crimine, fatti salvi i diritti dei terzi in buona fede (art. 77); e) dei cri-
teri della commisurazione in concreto della pena, individuati innanzitutto
nella gravità del crimine e nella situazione personale del condannato;
f) della detrazione dalla pena della reclusione del tempo trascorso, su or-
dine della Corte, in detenzione, nonché di ogni altro periodo trascorso in
detenzione per condotte collegate al crimine; g) della determinazione, in
caso di concorso di reati, da parte della Corte sia della pena per ciascun
reato, sia della pena cumulativa, con specificazione della durata, che non
può essere inferiore a quella più alta applicata per un singolo crimine, né
superare i 30 anni di reclusione o l’ergastolo (art. 78); h) della facoltativa
riduzione, da parte della sola Corte e non dello Stato incaricato dell’esecu-
zione della pena, della pena inflitta dopo l’espiazione di un determinato
periodo e verificatesi certe previste condizioni (art. 110).
L’imprescrittibilità dei crimini internazionali, gia dichiarata dalla
Convenzione sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’uma-
nità (1968) e dall’omonima Convenzione europea (1974), è stata ribadita
dallo Statuto della Corte (art. 29). Restano da affrontare da parte del di-
ritto internazionale penale il problema dell’esecuzione delle pene, poiché
anche tale Statuto, avendo adottato il sistema dell’esecuzione diretta par-
ziale del diritto internazionale penale, affida l’esecuzione delle sentenze
della Corte agli Stati dichiaratisi disponibili (art. 103). Come pure i pro-
blemi della probation, parole, grazia e altre alternative alla reclusione.
Nel caso, infine, di un’eventuale previsione della responsabilità pe-
nale degli Stati, si ripropone la questione delle sanzioni, che sorge nel di-
ritto interno in caso di responsabilità delle persone giuridiche: la previ-
sione, stante l’inapplicabilità di pene detentive, di adeguate misure di sicu-
rezza (occupazione totale o parziale del territorio, ammende, confische,
demolizione di industrie belliche e di arsenali militari, controllo sulle atti-
vità industriali e di ricerche, interdizioni relative alle forze armate e agli
armamenti, sottoposizioni a controllo politico, ecc.).

9. La ‘‘penetrazione’’ del diritto internazionale penale nei diritti pe-


nali interni e viceversa. — Nei rapporti tra diritto internazionale penale e
diritto penale interno appare accentuarsi il duplice fenomeno:
1) dell’‘‘internizzazione del diritto internazionale penale’’ attra-
verso, come abbiamo visto, l’integrazione di questo coi principi generali
(legalità, consapevolezza) e con gli istituti di Parte generale, ricavabili dai
maggiori sistemi penali del mondo;
2) dell’‘‘internazionalizzazione del diritto penale interno’’ attra-
verso la ‘‘penetrazione’’ in questo del diritto internazionale penale me-
diante lo strumento delle convenzioni e delle leggi di adeguamento ad
esso. Penetrazione operante: a) non tanto per quanto riguarda principi

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ed istituti di Parte generale, perché le Convenzioni in genere non conten-


gono disposizioni in merito, rimettendosi al diritto penale interno; perché
il diritto penale è, in materia, di regola autosufficiente; perché, in breve, è
il diritto internazionale penale, anche convenzionale, ad essere debitore
verso i diritti penali interni e non il contrario; b) quanto e soprattutto per
quanto concerne la Parte speciale del diritto internazionale penale, e cioè i
crimini internazionali, avendo le Convenzioni concorso in misura determi-
nante ad arricchire di tali crimini i diritti penali interni (Convenzioni sul
genocidio, terrorismo, schiavitù, pirateria, ecc.).
Il problema della penetrazione si pone, in particolare, per i crimini
internazionali, previsti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Al
quale proposito sembra doversi rilevare: a) che una volta entrato in vi-
gore lo Statuto, verificatesi le condizioni richieste (art. 126), ed entrata in
funzione detta Corte, la giurisdizione di questa è ‘‘complementare alle
giurisdizioni penali nazionali’’ (art. 1), fatta eccezione però nei casi in cui
il procedimento innanzi ad altra giurisdizione miri a sottrarre la persona
interessata alla sua responsabilità penale per crimini di competenza della
Corte (art. 20); b) che, pertanto, la sancita priorità delle giurisdizioni na-
zionali, per essere operante, presuppone che i diritti penali degli Stati
Parte prevedano i crimini codificati dallo Statuto; c) che la presenza di
tali crimini nei diritti penali interni ne presuppone la penetrazione me-
diante leggi penali di coordinamento, che, oltre alle corrispondenti fatti-
specie criminose, prevedano anche le rispettive sanzioni: in nome del nul-
lum crimen, nulla poena sine lege; d) che la ricezione dei crimini interna-
zionali negli ordinamenti interni appare costituire un obbligo per gli Stati
Parte, assieme e prima ancora dell’obbligo di collaborazione con la Corte.
FERRANDO MANTOVANI
Professore ordinario di diritto penale
nell’Università di Firenze

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LA COSTRUZIONE GIURIDICA DELLA SCIENZA:
SICUREZZA E SALUTE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO (*)

SOMMARIO: 1 Sicurezza sul lavoro e salute: la valutazione del rischio. — 2. La valutazione


del rischio come funzione pubblica. — 3. Il modello americano di valutazione del ri-
schio. — 4. L’attività regolamentatoria delle agenzie e i suoi controlli da parte dell’au-
torità giudiziaria ordinaria. — 5. Le carenze del sistema giuridico italiano. — 6. L’in-
costituzionalità del d.lgs. n. 626/1994, mod. nel 1996 e il rischio di condanne penali
ingiuste. — 7. Uno sguardo d’insieme: l’arretratezza del diritto amministrativo e del
diritto civile italiani.

1. Sicurezza sul lavoro e salute: la valutazione del rischio. — La si-


curezza e la salute negli ambienti di lavoro costituiscono due dei grandi
temi con i quali deve misurarsi la nuova razionalità richiesta dall’avvento
della moderna società del rischio (1). L’impetuoso sviluppo della tecnolo-
gia degli ultimi decenni ha infatti determinato dei cambiamenti nel si-
stema produttivo che hanno subito accelerazioni ‘‘esponenziali, improv-
vise, ampie e sempre più numerose’’ (2); e queste accelerazioni hanno co-
stituito la sorgente di nuovi pericoli, legati all’attività lavorativa, che im-
pongono un ripensamento degli schemi tradizionali di sicurezza del la-
voro, nell’ambito di una nuova visione dell’economia di mercato, mag-
giormente attenta alle esigenze di protezione dei lavoratori.
Pietra angolare di questo ripensamento è una politica della sicurezza
e della salute capace di fronteggiare i nuovi pericoli; e lo strumento che
rende possibili i nuovi programmi di sicurezza e di protezione della salute
è la valutazione del rischio.
In che cosa consiste tale valutazione?
In tutto il mondo, la valutazione del rischio costituisce una procedura
nella quale sono distinguibili tre fasi, la fase dell’identificazione del ri-
schio, la fase della sua stima, e la fase delle decisioni: ‘‘al primo stadio
viene identificata una minaccia per la salute e la sicurezza dell’uomo...; al
secondo stadio, scienziati... stimano il rischio di morte o di danno colle-

(*) Questo saggio è pubblicato in Governo dell’impresa e mercato delle regole -


Scritti giuridici per Guido Rossi, II, Milano, 2002, p. 1281 ss.
(1) Vd. STELLA, Giustizia e modernità, p. 3 ss.
(2) WARD-DUBOS, Only One Earth: The Care and Maintenance of a Small Planet,
New York, 1972, trad. it. Una sola terra, Milano, 1972, p. 11.

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gato a determinati livelli di esposizione a quel pericolo. Al terzo stadio,


scienziati, economisti, medici, ma anche sociologi e responsabili di deci-
sioni politiche valutano quale livello di esposizione al rischio, se ne esiste
uno, è accettabile per la società. Quando questa analisi del rischio è con-
clusa, chi è preposto a stabilire norme e leggi dà il via al processo di ge-
stione del rischio, assicurandosi che la reale esposizione al rischio sia con-
forme ai livelli di accettabilità già fissati dagli esperti’’ (3).
Ciascuno di questi tre stadi è carico di valori. Chi valuta il rischio
‘‘deve formulare giudizi di valore su quali dati raccogliere, su come identi-
ficare un numero infinito di fatti in un modello operativo; su come de-
durre in presenza di elementi sconosciuti; su come scegliere test statistici
da usare; su come selezionare la quantità di campioni; su come determi-
nare i criteri di effetto non osservato; su come prendere decisioni... sulla
quantità di test da fare; su quale modello usare...’’ (4).
La decisione finale sull’accettabilità del rischio, frutto di una serie di
giudizi di valore, è particolarmente complessa e controversa. Negli Stati
Uniti la scelta delle regole tecniche da adottare, a seguito di quella deci-
sione, è un tema sul quale si scontrano frontalmente due scuole di pen-
siero, quella dei sostenitori del principio maximin (maximum minimo-
rum) (5) e quella degli utilitaristi bayesiani (6). Per i primi, nella deci-
sione si deve tener conto, soprattutto, della gravità in sé delle conse-
guenze; se la probabilità è piccola, ma le conseguenze sono gravi, se ne
deve tener conto o per escludere la possibilità stessa dell’esercizio di una
determinata attività industriale, o per far scendere il rischio al di sotto dei
livelli di significatività. Per i secondi, nella decisione si deve tener conto
esclusivamente del grado di probabilità, cioè di un giudizio statistico
astratto del verificarsi di un certo evento: se le regole della tecnica dicono
che la probabilità è bassa, di essa non si deve tener conto.
Sembra peraltro ormai prevalente l’orientamento secondo il quale:
‘‘il... giudizio di accettabilità non deriva solo dal potere di previsione-spie-
gazione, ma anche dai tipi di confronto usati. I pericoli si possono con-
frontare sulla base delle probabilità, delle conseguenze, dei vantaggi, del-
l’equità di distribuzione, del grado di volontarietà delle scelte, del livello
di consenso ottenuto, e così via’’ (7).

2. La valutazione del rischio come funzione pubblica. — Chi deve

(3) SHRADER-FRECHETTE, Risk and Rationality. Philosophical Foundations for Popu-


list Reforms, 1991, trad. it. Valutare il rischio, Milano, 1993, p. 90.
(4) SHRADER-FRECHETTE, op. cit., p. 92 ss.
(5) Si tratta di uno dei principi che sta alla base del pensiero di RAWLS, A Theory of
Justice, Cambridge Mass., 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1982, p. 130 ss.
(6) HARSANY, Can the Maximin Principle Serve as a Basis for Morality? A Critique of
John Rawls’s Theory, in The American Political Science Review, 1975, p. 594 ss.
(7) SHRADER-FRECHETTE, op. loc. citt.

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provvedere alla valutazione del rischio degli ambienti di lavoro? A chi


spetta la elaborazione della nuova razionalità, della nuova politica della si-
curezza sul lavoro che dovrebbe nascere dallo sviluppo tecnologico-scien-
tifico?
Un punto sembra fuori discussione: non è pensabile che, in un Paese
democratico, retto da una Costituzione come la nostra, beni così impor-
tanti come l’integrità fisica e la salute dei lavoratori, messi a rischio pro-
prio dallo sviluppo tecnologico che caratterizza l’attività d’impresa degli
ultimi decenni, siano affidati alle valutazioni, ai programmi e ai controlli
elaborati dalla singola società, dalla singola impresa.
Gli studiosi di valutazione del rischio non hanno, al riguardo, come
abbiamo visto, dubbi di sorta: la valutazione sul livello di esposizione al
rischio accettabile, una valutazione carica di valori, spetta ai responsabili
di decisioni politiche; il processo di gestione del rischio, d’altra parte,
spetta a chi è preposto a stabilire norme e leggi (8).
Nessun dubbio neppure per i giuristi che, in Italia e in altri Paesi eu-
ropei, si sono occupati del tema dei rapporti tra tecnica e diritto.
Così, per il tedesco Schünemann ‘‘lasciar formulare le regole della
tecnica penalmente rilevanti ai tecnici privati avrebbe come conseguenza
l’assegnare alla capra il compito del giardiniere, ossia attribuire al deten-
tore del potenziale pericoloso la potestà decisionale sulla misura di rischio
consentito’’. La verità — precisa lo studioso — è che ‘‘la minimizzazione
del rischio o la sua riduzione al di sotto di una certa soglia di rilevanza,
può essere prefissata solo in virtù di una valutazione, e perciò non dalla
tecnica, ma dal diritto’’; in altre parole, la tecnica esprime solo un giudizio
di ‘‘idoneità delle regole precauzionali a ridurre il pericolo, mentre la con-
seguente valutazione è parte dell’imperativo giuridico che deve essere for-
mulato esclusivamente dal legislatore...: ciò che la popolazione deve accet-
tare in quanto rischio residuo, relativamente ad un ben determinato am-
bito tecnico, non può né essere definito attraverso una misurazione stati-
stica astratta, né essere affidato alla responsabilità decisionale dei fruitori
della tecnica, ma deve essere stabilito tramite legge statale... per ogni sin-
golo settore tecnico, sulla base di una ponderazione complessiva, nella
quale bisogna gettare sui piatti della bilancia il peso dei danni minacciati,
la misura del pericolo, i costi delle misure di sicurezza per il controllo
della fonte di pericolo e le necessità sociali... Così la valutazione comples-
siva può portare al risultato che una messa in pericolo nuova e incalcola-
bile negli effetti, la cui rimozione non è possibile per motivi tecnici, non
deve essere necessariamente sopportata dalla comunità, anche se la possi-
bilità di realizzazione è statisticamente esigua’’.
Diventa perciò chiaro, conclude Schünemann, che la determinazione

(8) Vd. retro, nota 3.

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del rischio socialmente accettabile ‘‘richiede una decisione che deve essere
assunta sulla base di una valutazione normativa, per la quale le regole tec-
niche assumono lo status di materiale di lavoro’’; e ciò spiega come vi sia
oggi, nel dibattito costituzionalistico, un largo consenso ‘‘sul fatto che il
rinvio a regolamentazioni private... è costituzionalmente illegittimo, poi-
ché esso lede, in virtù del mutamento delle competenze, il principio costi-
tuzionale di democrazia’’ (9).
Sulla stessa lunghezza d’onda, in Italia, si sostiene che le regole tecni-
che diventano precetti giuridici solo se sono riconosciute da una legge:
‘‘non è raro — osserva Guariniello — sentire insinuare che le regole tecni-
che assurgerebbero al rango della legge. Bisogna stare in guardia verso
pretese tanto drastiche... In realtà le regole tecniche non costituiscono di
per sé precetti giuridici. Lo diventano, a patto che siano richiamate da una
fonte del diritto. E allora si procurano l’efficacia tipica della fonte che le
recepisce: e dunque, volta a volta, forza di legge o di regolamento. Para-
digmatiche sono le norme CEI, regole di buona tecnica, elaborate dal Co-
mitato Elettrotecnico Italiano, su incarico del Consiglio nazionale delle
Ricerche. Sono, in effetti, norme con valore di legge, avendo ricevuto ri-
conoscimento giuridico da una legge del 1968, in cui si dispone che appa-
recchiature ed impianti elettrici ed elettronici vengano costruiti a regola
d’arte, e in cui espressamente si considerano a regola d’arte quelle appa-
recchiature e quegli impianti realizzati, appunto, secondo le norme del
Comitato Elettrotecnico Italiano’’ (10).
L’esempio è proprio calzante: una legge o un regolamento dello Stato
individua le regole tecniche, ne dà una valutazione nell’interesse della col-
lettività, e le indica come punti di riferimento cogenti per il privato. È sal-
vato così il principio di democrazia e il principio della riserva di legge, ed
è soddisfatta l’esigenza di una valutazione dell’interesse collettivo.
Queste precisazioni di Guariniello trovano un’eco nelle preoccupa-
zioni manifestate da un altro studioso italiano della sicurezza sul lavoro:
per Culotta, la valutazione del rischio non può essere considerata un com-
pito del singolo datore di lavoro, giacché questa è ‘‘un’incombenza che
presuppone il possesso di capacità tecnico-professionali da lui inesigibi-
li’’ (11).
Il quadro si completa se si considerano i principi enunciati dalla Co-
stituzione italiana.
Da questi principi emerge in modo chiarissimo l’incostituzionalità di

(9) SCHÜNEMANN, Die Regeln der Technik im Strafrecht, in Festschrift für Karl Lack-
ner, Berlin-New York, 1987, pp. 367-397.
(10) GUARINIELLO, Se il lavoro uccide, Einaudi, Torino, 1985, p. 176.
(11) CULOTTA, La disciplina prevenzionale italiana dopo il d.lgs. n. 626/1994 e suc-
cessive modificazioni, ed. 2000-2001, p. 12.

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ogni norma che attribuisca funzioni pubbliche, come la valutazione del ri-
schio per la sicurezza sul lavoro, ad un privato.
Infatti, per l’art. 41, comma 2 e 3 della Costituzione, l’iniziativa eco-
nomica privata ‘‘non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in
modo da recare danno alla sicurezza... La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività pubblica e privata possa essere indi-
rizzata e coordinata a fini sociali’’.
È dunque la legge, cioè il Parlamento, che deve provvedere alla tutela
di quei beni che, come la sicurezza sul lavoro, hanno un rilievo costituzio-
nale assoluto; e va da sé che il Parlamento non può e non deve arretrare di
fronte a questo fondamentale compito istituzionale ‘‘di controllo’’ e, so-
prattutto, non può e non deve arretrare delegando questo suo compito al
soggetto meno adatto, cioè al privato: ‘‘il rapporto tra iniziativa econo-
mica privata e una ‘utilità sociale’, tra iniziativa economica privata e ‘fini
sociali’ è mediato attraverso la legge, che è espressa dalle assemblee elet-
tive, diretta emanazione della sovranità popolare. È disattesa l’idea che le
decisioni sul se intervenire, in nome dell’utilità sociale, sull’iniziativa eco-
nomica privata, e sul come, sul quando, sul dove intervenire, possano es-
sere direttamente prese dal potere esecutivo o dal potere giudiziario, fuori
da quelle sedi entro le quali si esprime la partecipazione politica dei citta-
dini, senza un confronto con le forze politiche e con le forze sociali, senza
un dibattito di fronte all’opinione pubblica; è disattesa l’idea che, fuori di
questo confronto e di questo dibattito, si possano determinare i pro-
grammi e i controlli che il comma 3 ritiene necessari per indirizzare e
coordinare l’attività economica a fini sociali’’ (12).
In altre parole, solo leggi dello Stato possono prevedere dei ‘‘controlli
dell’iniziativa economica, soprattutto per quanto attiene alla sicurezza
dentro e fuori le sedi aziendali e alla tutela del lavoro in quanto prestato
nelle imprese’’ (13).

3. Il modello americano di valutazione del rischio. — L’individua-


zione delle modalità di intervento dello Stato, volte a fronteggiare i rischi
legati all’attività d’impresa, spettava alle dottrine del diritto pubblico e del
diritto amministrativo.
Proprio agli inizi degli ultimi decenni, tuttavia, il diritto amministra-
tivo appariva assai poco attrezzato per elaborare la nuova razionalità del-
l’azione pubblica amministrativa, di fronte ai pericoli legali allo sviluppo
tecnologico.
Trent’anni fa, Sabino Cassese ci offriva una fotografia agghiacciante

(12) Cfr. GALGANO-RODOTÀ, Rapporti economici, tomo II, (artt. 41-44), in Commen-
tario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 250.
(13) BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 2001, p. 405.

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del diritto amministrativo italiano. Il diritto amministrativo — scriveva lo


studioso — ‘‘ha poco più di un secolo... ed appare già moribondo. Esso è
soggetto ad una tumultuosa legislazione che lo modifica continuamente,
eppure è un corpo immobile... È, a volta a volta, concepito come stru-
mento di dominio di classe o come mezzo di difesa dei cittadini, come ga-
ranzia contro l’invadenza della politica e in funzione servente delle scelte
politiche; come palladio delle libertà e come mezzo di oppressione’’. Quel
che è peggio, aggiungeva Cassese, è che ‘‘gran parte degli studiosi di oggi
non sono interessati a comprendere queste contraddizioni, ...di un loro
impegno riformatore non si può neppure parlare: mentre l’amministra-
zione dello Stato, avendo rinunciato ad essere innovatrice in nome della
‘neutralità’ non riesce neppure ad essere imparziale, non si traggono dagli
scritti dei giuristi indicazioni di modificazioni che vadano oltre un mo-
dello mitologico in cui l’amministrazione è soltanto autorità e il cittadino
sempre solo e bisognoso di garanzie’’.
E Cassese, mentre constatava che sbocciano numerosi ‘‘fiori di ghiac-
cio’’ che ‘‘nascono così rigogliosi nelle teste dei sapienti del diritto’’,
traeva dalla consapevolezza della molteplicità delle culture la via per ‘‘dis-
sociare la nostra vita spirituale dalla decadenza della singola cultura toc-
cataci’’ (14).
Da quando Cassese scriveva queste cose, il quadro generale è mutato:
‘‘il potere amministrativo ha registrato, sul finire del ventesimo secolo, ra-
pidi e intensi cambiamenti’’, il primo dei quali va ‘‘nella direzione della
moltiplicazione dei corpi amministrativi’’, il secondo va ‘‘in direzione op-
posta’’, il terzo nella direzione della perdita di unità del potere esecutivo,
giacché ‘‘enti pubblici, autorità indipendenti, agenzie vengono a comporre
un universo amministrativo disperso, non più ordinato secondo la figura
della piramide, con il governo al suo vertice’’ (15).
A questi mutamenti radicali sono rimasti però sostanzialmente estra-
nei i temi della sicurezza sul lavoro e della salute dei cittadini. Si è creata
così una situazione caratterizzata dall’"erompere delle autorità amministra-
tive indipendenti’’ (16), che ha investito i settori più disparati (moneta,
banca, concorrenza, borsa, assicurazioni, energia elettrica, telecomunica-
zioni, televisioni, stampa, dati personali, e via discorrendo), ma non il set-
tore della sicurezza sul lavoro e della salute dei cittadini.
Eppure, anche per questi ambiti, come diceva Cassese, era possibile

(14) CASSESE, Prefazione a Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna,


1971, p. 5 ss.
(15) CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Milano, 2000, p. 9 ss.
(16) PREDIERI, L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, 1997;
vd., altresì, CASSESE-FRANCHINI, I garanti delle regole, le autorità indipendenti, Bologna,
1996, p. 217 ss.

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trarre dalla consapevolezza della molteplicità delle culture la via per sfug-
gire alla decadenza della ‘‘cultura toccataci’’.
È ben noto, ad esempio, come funziona il sistema amministrativo
americano: ad agenzie amministrative federali, quali l’agenzia per la pro-
tezione ambientale (Environmental Protection Agency, EPA), e le autorità
per la salute e la sicurezza sul lavoro (Occupational Safety and Health
Administration, OSHA e National Institute for Occupational Safety and
Health, NIOSH), il Congresso ha demandato il compito di controllare il
rischio per la sicurezza del lavoro e per la salute.
Queste agenzie sono dotate di ampie risorse finanziarie, che consen-
tono loro di utilizzare, nella procedura di valutazione del rischio, una va-
sta gamma di competenze specialistiche: l’EPA ha quasi 18.000 dipen-
denti, dei quali 4.500 sono scienziati, più di 2.000 sono ingegneri e tec-
nici, e 1.000 sono giuristi; l’OSHA ha circa 2.400 dipendenti, tra ispet-
tori, investigatori, medici, ingegneri e altri tecnici nei 200 uffici sparsi in
tutto il Paese (17).
Il lavoro di questi scienziati, ingegneri, tecnici, giuristi consiste nell’e-
laborazione di linee-guida per la tutela della salute e della sicurezza, alle
quali poi le singole imprese devono dare realizzazione, sotto il controllo
delle stesse agenzie che hanno anche il compito di emanare ‘‘ingiunzioni’’.
Vale la pena di segnalare il carattere molto dettagliato e capillare con
cui i rischi vengono individuati dalle agenzie, nonché l’importanza da esse
attribuita alla stima dei rischi e il peso assegnato alla giustificazione delle
decisioni regolamentatorie adottate.
Proprio simili caratteristiche dell’attività regolamentatoria dimo-
strano con quanta decisione e quanta chiarezza il modello americano ha
ripudiato l’idea di far svolgere alla ‘‘capra’’ i compiti del ‘‘giardiniere’’: le
singole imprese sono messe in grado di conoscere, nei dettagli e sotto tutti
i profili rilevanti, la valutazione pubblica del rischio e di dar vita ai pro-
grammi interni di protezione, secondo le indicazioni vincolanti delle linee-
guida.

4. L’attività regolamentatoria delle agenzie e il suo controllo da


parte dell’autorità giudiziaria ordinaria. — Sicurezza sul lavoro significa
sicurezza per l’integrità fisica e la salute dei lavoratori.
Lo sforzo massimo, compiuto dalle agenzie federali americane, con-
cerne proprio la sicurezza sul lavoro, la salute dei lavoratori e quella dei
cittadini.
Peraltro, la ‘‘politica’’ della scienza, che trova espressione nell’attività

(17) I dati relativi all’EPA si possono trarre dal sito Internet (www.epa.gov). Analo-
gamente, i dati relativi alla struttura di OSHA, NIOSH si possono leggere nei siti relativi (ri-
spettivamente, www.osha.gov; www.cdc.gov/niosh/homepage).

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regolamentatoria, è andata incontro ad un numero sempre crescente di


censure di carattere scientifico e politico: segno evidente, anche questo, di
quanto arduo sia il compito di valutare il rischio.
In effetti, vi sono molte ragioni che lo rendono estremamente diffi-
cile: una ragione è che ‘‘le probabilità che il rischio si verifichi non riflet-
tono la frequenza reale degli eventi (...), perciò gli esperti sono costretti a
basarsi su possibilità di rischio soggettive o percepite, invece che sulla fre-
quenza in un periodo sufficientemente lungo’’; il secondo motivo è che ‘‘le
stime di rischio reale sono sempre molto approssimate e imprecise (...) e
generalmente variano da due a sei ordini di grandezza’’; altri motivi an-
cora sono costituiti dalla circostanza che ‘‘alcuni dei principali aspetti dei
pericoli, sia reali che percepiti, non sono quantificabili’’, dal fatto che lo
stesso concetto di rischio ‘‘è un concetto teorico (...) , non riconducibile a
previsione o conferma esatta, e carico di presupposti ‘molti dei quali sono
controversi’ ’’, ed infine dal fatto che ‘‘gli esperti, quando usano dati
esclusivamente statistici, nello stimare le probabilità possono fare tanti er-
rori quanti ne possono fare i profani’’ (18).
Ciò che colpisce maggiormente è che ‘‘tutte le stime e le valutazioni
del rischio sono viziate da incertezze intrinseche e che incertezze e diver-
genze di sei ordini di grandezza non sono insolite’’ (19).
Proprio le incertezze emergenti nella misurazione del pericolo spie-
gano perché i casi di decisioni erronee da parte dell’EPA e dell’OSHA co-
stituiscano ormai un elenco lunghissimo, che viene illustrato con atten-
zione sempre crescente dai commentatori.
Ma è a questo punto che si appalesa la forza e la funzionalità del mo-
dello americano: l’attività regolamentatoria delle agenzie amministrative si
inserisce infatti in un sistema di controlli ad opera dell’autorità giudizia-
ria ordinaria, in virtù della legge sulle ‘‘procedure amministrative’’ del
1946, che riconosce alle corti il potere di annullare le decisioni ammini-

(18) SHRADER-FRECHETTE, op. cit., p. 118 ss.


(19) Sembra calzante l’esempio del radon: ‘‘fino a poco tempo fa, all’esposizione a
una figlia del radon veniva imputato il cancro ai polmoni dei lavoratori delle miniere di ura-
nio. Adesso sappiamo che ci sono figlie del radon nell’aria, all’interno degli edifici, nei mate-
riali da costruzione, nell’acqua, nel suolo, nel gas naturale di uso domestico. Sebbene non
sia stata calcolata sistematicamente la concentrazione di radon presente nelle case, i dati di-
sponibili dimostrano che in alcune di esse la concentrazione è superiore ai livelli registrati
nelle miniere. Questo significa, per esempio, che il rischio di un tumore ai polmoni, per
esposizione nel corso della vita dall’età di un anno, è circa (9,1) (10-3), considerando la vita
media di settant’anni, o 70 WLM (livello operativo mensile). Vale a dire che tale rischio, de-
rivante dall’esposizione al radon per un vita intera, è di quasi 1 su 100. Malgrado queste ci-
fre, lo stato attuale delle conoscenze scientifiche non permette di specificare i valori tipici
delle dosi presenti in una casa o in una miniera; esistono incertezze fondamentali sui fattori
di dosimetria del radon’’ (SHRADER-FRECHETTE, op. cit., p. 229; vd. STELLA, op. cit., pp. 442-
443).

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strative non basate su prove certe, nonché le decisioni amministrative ar-


bitrarie e capricciose.
Proprio la storia degli interventi dell’autorità giudiziaria ordinaria
sulla valutazione del rischio compiuta dalle agenzie dimostra quanto sia
difficile governare le questioni tecniche e scientifiche nelle moderne de-
mocrazie complesse.
Nei primi tempi della regolamentazione federale, le corti fissarono il
principio del ‘‘processo decisionale argomentato’’. Per superare il con-
trollo giudiziario, l’amministrazione doveva attenersi a criteri di chiarezza
e coerenza: ‘‘i presupposti devono essere messi in chiaro, le incongruenze
devono essere spiegate, le metodologie devono essere rese note, le prove
in contrario devono essere confutate, i riferimenti a dati devono essere ba-
sati solidamente, le congetture devono essere escluse e le conclusioni de-
vono essere argomentate, in maniera che i giudici possano comprender-
le’’ (20).
La seconda fase di controllo dell’attività regolamentatoria, che ebbe
inizio nei primi anni ’80, andò più in là e si aprì con la ricerca di limiti
significativi alle valutazioni del rischio compiute dalle agenzie. Fu in que-
sto periodo che emerse l’orientamento secondo il quale doveva essere an-
nullata l’attività regolamentatoria non basata su rischi significativi (21),

(20) JASANOFF, Science at the Bar: Law, Science and Technology in America, 1995,
trad. it. La scienza davanti ai giudici, Milano, 2001, p. 135.
(21) È di questo periodo la decisione relativa al tentativo della FDA di proibire i con-
tenitori per bevande prodotti con polimeri di acrilonitrile: nessuna agenzia poteva ritenersi
tenuta a regolamentare un rischio di misura insignificante come quello che quantità piccolis-
sime di acrilonitrile potessero passare dalle pareti del contenitore alla bevanda; dello stesso
periodo la decisione della Corte Suprema sul benzene, forse il caso più importante di politica
della scienza degli anni ’80: l’OSHA aveva stabilito che l’esposizione al benzene, negli am-
bienti di lavoro, doveva scendere da 10 ppm a 1 ppm, sulla base del rilievo che le cono-
scenze scientifiche disponibili non consentivano di stabilire un livello sicuro di esposizione
ad una sostanza notoriamente cancerogena come il benzene; la Corte Suprema rilevò che
l’OSHA aveva omesso un passo cruciale nell’analisi posta a fondamento della regolamenta-
zione, giacché non aveva dimostrato che il rischio fosse ‘‘significativo’’ e che lo standard
proposto avrebbe portato un miglioramento misurabile nella salute dei lavoratori; ancora
dello stesso periodo fu la decisione con cui la Corte d’appello federale per il Quinto Circuito
respinse la proposta dell’agenzia Consumer Products Safety Commission di vietare l’uso di
un materiale isolante, la schiuma di formaldeide, comunemente impiegato nell’edilizia abita-
tiva: la Corte concluse che la Commissione non aveva addotto prove consistenti a sostegno
della propria proposta.
Infine, è di questo periodo la sentenza con cui la Corte Suprema, nel 1987, dichiarò
che il metodo delle estrapolazioni lineari ‘‘che si basa sui risultati di esposizione a livelli
molto alti dei contaminanti pericolosi dimostrerà un qualche rischio a qualunque livello e ciò
per le leggi matematiche e non per qualche conoscenza particolare. In effetti, il rischio, ad
un certo punto della linea estrapolata, può non aver nessun rapporto con la realtà. Non c’è
nessun motivo particolare di pensare che la linea effettiva di incidenza del danno sia rappre-
sentata da una linea retta... Perciò statuiamo — conclude la Corte — che la valutazione del-

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nonché l’attività regolamentatoria basata sull’estrapolazione lineare dalle


alte alle basse dosi e sull’estrapolazione da animale ad uomo (22).

5. Le carenze del sistema giuridico italiano. — Non occorrono altre


considerazioni per capire che il diritto amministrativo italiano doveva
muoversi proprio nella direzione indicata dagli Stati Uniti, con l’istitu-
zione di agenzie pubbliche investite, in ordine alla sicurezza sul lavoro e
alla salute, di compiti simili a quelli attribuiti all’EPA, all’OSHA, al
NIOSH.
Ma ciò non è avvenuto.
In tal modo, le imprese italiane si trovano nell’impossibilità di capire
quale sia la ‘‘politica della scienza’’, frutto delle valutazioni pubbliche;
meno che mai sono in grado di capire quale sia la valutazione politica e
pubblica dei principali aspetti problematici della valutazione del rischio
per la tutela della sicurezza sul lavoro e della salute.
È qui, nella mancanza di una politica della scienza ‘‘organica e pub-
blica’’, nella mancanza di dettagliate linee-guida, nella mancanza di prese
di posizione, ad opera di agenzie pubbliche, sull’incertezza scientifica, che
sta la distanza che separa gli standard di valutazione del rischio propri di
una democrazia avanzata, come quella degli Stati Uniti, dagli standard an-
cora oggi adottati dalla democrazia italiana.
La mancanza di una attività regolamentatoria organica — coerente
con le scelte politiche di fondo — trae ovviamente con sé un grave, ulte-
riore inconveniente: il mancato intervento dell’autorità giudiziaria ordina-
ria per il controllo dell’attività di regolamentazione, e quindi la verifica
della corrispondenza delle ‘‘politiche amministrative’’ ai valori democratici.
Al vuoto dato dall’assenza di una ‘‘politica regolamentatoria della
scienza e della tecnologia’’ si è così sommato il vuoto costituito dall’as-
senza di una cultura giuridica in grado di sfociare in una ‘‘costruzione giu-
ridica’’ della scienza e della tecnologia.
Gli effetti perversi di questa situazione sono sotto gli occhi di tutti:
non essendo stata elaborata (attraverso il controllo della magistratura or-

l’amministrazione deve essere basata solo sul rischio per la salute’’ (per queste notizie, cfr.
JASANOFF, op. cit., p. 144 ss.; STELLA, op. cit., p. 423 ss.).
(22) È del 1997 la sentenza sul caso Joiner, che prende posizione su un altro pilastro
della politica regolamentatoria, l’estrapolazione da animale ad uomo (l’efficacia causale del-
l’esposizione ai PCB non poteva essere asserita sulla base delle prove addotte dall’attore, re-
lative a dei topi che in tenera età avevano ricevuto alte dosi di PCB iniettate direttamente
nello stomaco, mentre l’attore, un adulto, aveva subìto solo esposizioni a tracce di PCB); è
del 2000 la sentenza della Corte d’appello del distretto di Columbia che affronta il tema dei
limiti-soglia del cloroformio (la regolamentazione dell’EPA viene definita arbitraria e capric-
ciosa perché utilizza il metodo delle estrapolazioni lineari, in presenza di evidenze scientifi-
che che indicano l’esistenza di una soglia, al di sotto della quale non vi è rischio da esposi-
zione a cloroformio). Su queste sentenze, cfr. STELLA, op. cit., p. 427 ss.

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dinaria sull’attività delle agenzie), la cultura della ‘‘costruzione giuridica’’


della scienza e della tecnologia non ha neppure potuto diffondersi tra i cit-
tadini.
Sono venuti così a mancare, in Italia, i presupposti di una cultura ci-
vica diffusa (23) nei riguardi dei rischi legati allo sviluppo tecnologico, e
quindi dei rischi per la sicurezza e la salute che oggi incombono sui lavo-
ratori: ecco perché i cittadini reagiscono con sempre maggiore allarme, e
spesso in modo incontrollato, di fronte a notizie di incidenti sul lavoro o
di danno alla salute dei lavoratori. Agli occhi dell’opinione pubblica, inci-
denti e danni appartengono al lato più oscuro della tecnologia, che nes-
suno vuole o può controllare e che, per questo, richiedono di essere ‘‘ven-
dicati’’ con la consueta arma del diritto penale.
La verità è che le ‘‘regole’’ non sono emerse proprio là dove dove-
vano emergere e ciò ha determinato un vuoto pauroso nella percezione so-
ciale del problema. Di fronte all’assenza di regole, sono cresciute aspetta-
tive sociali di giustizia che potevano solo in parte trovare accoglimento;
parallelamente, si sono deteriorati i rapporti tra i cittadini e il sistema in-
dustriale, che raramente è stato in grado di orientarsi autonomamente se-
condo la nuova ‘‘razionalità’’, richiesta dallo sviluppo tecnologico.

6. L’incostituzionalità del d.lgs. n. 626/1994, mod. nel 1996, e il ri-


schio di condanne penali ingiuste. — In Italia, il nostro Parlamento non è
neppure stato sfiorato dall’idea che il fenomeno dell’ ‘‘erompere’’ delle
agenzie pubbliche indipendenti dovesse coinvolgere anche la valutazione
del rischio per la sicurezza e per la salute.
Anzi, è stato salutato come l’alba di una nuova era il d.lgs. n.
626/1994, modificato nel 1996, il quale definisce funzione indelegabile
dei singoli, ‘‘privati’’ datori di lavoro la valutazione del rischio e la conse-
guente programmazione della sicurezza, nonché la scelta delle persone in-
caricate del servizio di sicurezza e prevenzione.
Altro che funzioni pubbliche, assolte da organi pubblici su delega del
Parlamento! Altro che controllo della magistratura ordinaria sull’attività
regolamentatoria delle agenzie pubbliche!
Si può proprio dire che l’Italia ha scelto la soluzione peggiore: non
solo ha fatto diventare ‘‘giardiniere la capra’’, ma l’ha fatto assegnando
alla capra compiti da essa inesigibili. Cosa ne sa la singola impresa e il suo
datore di lavoro dei problemi legati alle tre fasi della valutazione del ri-
schio? Cosa può sapere delle opzioni di défault, dell’estrapolazione li-
neare o di quella da animale ad uomo, delle valutazioni del rischio che

(23) Sull’importanza della cultura civica negli ambiti considerati, cfr. JASANOFF, op.
cit., p. 44.

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possono variare di sei ordini di grandezza tra gli esperti, di tutti gli aspetti
problematici connessi con l’incertezza scientifica?
Cosa ne sa dei dilemmi posti dal principio ‘‘maximin’’ e della distin-
zione tra rischio reale e rischio percepito?
Ma questi, per il nostro legislatore, sono dettagli trascurabili: quel
che conta è che l’opinione pubblica sia in qualche modo anestetizzata; e
cosa importa che questo scopo sia raggiunto riesumando ‘‘il relitto storico
dell’arresto di un singolo reo’’ (24)? Cosa importa che in questo modo si
diventi complici dell’irresponsabilità generalizzata (25)?
Ma c’è di più. La statuizione dell’obbligo, a carico delle singole im-
prese, di provvedere alla valutazione del rischio senza il corredo di appro-
priate linee guida può tradursi, nei fatti, sotto il profilo della responsabi-
lità penale, in un autentico scempio dei sommi principi, anche costituzio-
nali, posti a presidio della democrazia in tutti i Paesi del mondo occiden-
tale.
Ed infatti, una volta verificatosi un incidente sul lavoro o un danno
alla salute dei lavoratori, gli organi cui spetta la promozione dell’azione
penale possono essere indotti ad appagare le attese di giustizia dei parenti
delle vittime e dell’opinione pubblica proprio utilizzando il grimaldello
della valutazione del rischio: sarà così chiamato a rispondere di omicidio
o di lesioni colpose o di disastro colposo il datore di lavoro che doveva va-
lutare il rischio. Quasi scontato l’esito del processo penale: ex post la va-
lutazione del rischio sarà, come già dimostra la prassi giurisprudenziale,
ritenuta insufficiente dal giudice per definizione, o — per aggiungere le
beffe ai danni — insufficiente rispetto agli standard delle linee-guida delle
agenzie amministrative americane, definite lo ‘‘stato dell’arte’’ (26).
Può prendere vita così, alla giornata, una inammissibile opera di fles-
sibilizzazione del diritto penale. L’accusa e il giudice non hanno infatti gli
strumenti per sostenere che il datore di lavoro ha causato, con la valuta-
zione del rischio insufficiente, l’evento lesivo: la mancanza di linee-guida
appropriate non consente di individuare la valutazione ‘‘sufficiente’’ e
quindi di stabilire se una valutazione sufficiente avrebbe scongiurato il ve-
rificarsi dell’evento lesivo. Bisogna dunque piegare il diritto penale a ma-
lintese funzioni di prevenzione, cancellando il requisito della causalità in-
dividuale o facendolo diventare un fantasma non bisognoso di prove (27).
Fortunatamente, contro l’ormai diffusa opera di flessibilizzazione del
diritto penale d’evento, si sono levate voci autorevoli: il superamento del

(24) Questa espressione è usata da BECK, Gegengifte - Die organisierte Unverantwort-


lichkeit, Frankfurt am Main, 1988, p. 10 ss., per sottolineare l’impotenza del diritto penale
di fronte ai grandi pericoli della società del rischio.
(25) Cfr. ancora BECK, op. loc. citt.
(26) Così, Trib. Milano, sez. IV, 13 ottobre 1999, in questa Rivista, 2001, p. 1048 ss.
(27) Sui tentativi di flessibilizzazione del diritto penale, cfr. STELLA, op. cit., p. 157 ss.

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modello classico di responsabilità penale — ha recentemente osservato la


Corte Suprema di Cassazione, sulla scia dei rilievi contenuti nella Rela-
zione all’ultimo progetto di riforma del codice penale — ‘‘allarga la sfera
di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che
non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conse-
guenza della condotta’’. Di fronte a questa opera di flessibilizzazione, ‘‘il
principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della
responsabilità penale, che conformano il sistema penale anche a livello di
enunciato costituzionale, impongono di salvaguardare la funzione selet-
tiva del nesso di causalità’’ (28).
Il rischio di condanne penali ingiuste resta però elevato, e ciò dimo-
stra quanto alto sia il prezzo che bisogna pagare per le scelte operate dal
nostro legislatore.
Sotto il profilo che qui interessa, ciò che va sottolineato è l’ovvia in-
capacità dei segnalati attentati ai principi di legalità (tassatività-determi-
natezza) e di personalità della responsabilità penale di orientare l’attività
industriale delle imprese. La punizione, infatti, resta in ogni caso muta
sulle strategie di prevenzione da imporre alle singole industrie, il che con-
ferma che la politica della scienza cui il sistema produttivo deve ispirarsi
non può che passare attraverso il filtro di una costruzione giuridica pub-
blica (elaborata con attività amministrativa regolamentatoria e con il con-
trollo giudiziario di questa attività).
È peraltro prevedibile un’obbiezione: il d.lgs. n. 626 è stato emanato
in attuazione della direttiva comunitaria 12 giugno 1989, n. 391, la quale
— all’art. 3 — prevede che sulle imprese, sul datore di lavoro, incomba
l’obbligo di valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
È vero: la direttiva comunitaria contiene questa infelice statuizione,
ed anzi precisa che ‘‘i datori di lavoro sono tenuti ad informarsi circa i
progressi tecnici e le conoscenze scientifiche... in modo da garantire un
miglior livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori’’.
Il Consiglio delle Comunità Europee, nell’approvare la direttiva,
aveva certamente le idee poco chiare sui modelli di intervento degli Stati
che possono garantire davvero la sicurezza e la salute dei lavoratori. È an-
che vero, però, che la previsione dell’obbligo a carico del datore di lavoro
non è incompatibile con il modello delle agenzie regolamentatorie; anzi,
se si vuole trovare il modo di rendere esigibile l’obbligo per i datori di la-
voro di informarsi circa i progressi tecnici e le conoscenze scientifiche,
non v’è altra via da seguire se non quella della predisposizione di linee
guida minuziose, come sono le linee-guida delle agenzie federali ameri-
cane. In altre parole, si può dire che rientri nella ratio e nello spirito della

(28) Cass., sez. IV pen., 28 settembre 2000; Cass., sez. IV pen., 28 novembre 2000;
Cass., sez. IV pen., 29 novembre 2000, in questa Rivista, 2001, p. 277 ss.

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direttiva comunitaria la istituzione di agenzie cui venga assegnato il com-


pito, da esercitarsi sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, della ‘‘co-
struzione giuridica’’ della scienza e della tecnica: non per niente il Consi-
glio delle Comunità Europee precisa, nelle premesse della direttiva, che
‘‘spetta agli Stati membri promuovere, sul proprio territorio, il migliora-
mento della sicurezza e della salute dei lavoratori’’.
Questi sono i motivi per i quali non occorre neppure scomodare i
principi costituzionali (soprattutto il principio della riserva di legge), per
dare spazio, nel nostro ordinamento, ad agenzie amministrative indipen-
denti dotate di poteri analoghi a quelli delle agenzie americane: è questa
una soluzione che si può ben dire suggerita — sia pure fra le righe —
dalla stessa direttiva comunitaria.
Ciò non toglie, ovviamente, che la stessa direttiva comunitaria debba
essere perfezionata, proprio nella direzione dell’esplicita previsione del-
l’obbligo, a carico degli Stati membri, dell’istituzione delle agenzie regola-
mentatorie o, addirittura, della previsione dell’istituzione di una agenzia
europea.
Alcuni segnali stanno ad indicare che l’Europa si sta già muovendo in
questa direzione. La Corte di giustizia, con la sentenza del 15 novembre
2000 (C-49/00) ha infatti censurato l’Italia per aver omesso di definire,
con il d.lgs. n. 626/1994, la capacità e le attitudini di cui devono essere in
possesso le persone responsabili dell’attività di protezione e di preven-
zione (29). È, come ben si capisce, un primo passo verso il pieno ed espli-
cito riconoscimento del principio per cui gli Stati membri devono farsi ca-
rico del compito di fissare gli standard, compresi quelli relativi alla valuta-
zione del rischio, necessari per una vera protezione della sicurezza e della
salute dei lavoratori.

7. Uno sguardo d’insieme: l’arretratezza del diritto amministrativo


e del diritto civile italiani. — Le considerazioni fin qui svolte avrebbero
bisogno di essere inserite in un quadro più ampio, al quale posso qui sol-
tanto accennare.
Le sfide nate dallo sviluppo tecnologico e scientifico degli ultimi de-
cenni hanno trovato un’eco inadeguata non solo nel diritto amministra-
tivo, ma anche nei restanti settori del nostro sistema giuridico.
Si trattava di rompere i vecchi schemi, di superare la visione tradizio-
nale che concepisce i rapporti tra diritto e tecnologia come uno scambio
‘‘a distanza’’ tra ambiti contraddistinti da metodologie e finalità sostan-
zialmente incommensurabili e non comunicanti (30): il crescente manife-

(29) Su questa sentenza, vd. TURCO, Zero in sicurezza dei luoghi di lavoro. Italia
bocciata per la l. n. 626, in Diritto e giustizia, 22 dicembre 2001, p. 46 ss.
(30) TALLACCHINI, Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, prefazione a JASA-
NOFF, op. cit., p. 3 ss.

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starsi di aree della tecnologia in cui prevedibilità e capacità esplicative dei


fenomeni risultano via via sempre più ridotte, in un clima crescente di in-
certezza scientifica, faceva infatti capire l’insufficienza dell’approccio teo-
rico tradizionale.
C’era dunque bisogno di una razionalità nuova, che vedesse impe-
gnato il diritto nel compito di definire, in via normativa, il sapere tecnolo-
gico e scientifico.
In altri Paesi a democrazia complessa, come gli Stati Uniti, le regole
giuridiche volte a disciplinare tecnica e scienze sono state, negli ultimi
trent’anni, via via definite e ridefinite innanzitutto dal diritto civile.
L’imponente sviluppo della responsabilità civile in quel Paese ha,
come tutti sanno, dato vita ad una cultura giuridica nuova, contraddi-
stinta — proprio sul terreno della evoluzione scientifica e tecnologica del
sistema produttivo — dall’adesione ad un nuovo complesso di valori, che
riguarda i diritti e le responsabilità degli individui e dell’industria, ed il
modo di ripartire la responsabilità patrimoniale e morale per i danni deri-
vanti dalla tecnologia (31).
Il modo tradizionale, e ormai largamente obsoleto, di concepire i rap-
porti tra l’ambito giuridico e quello scientifico-tecnologico è stato così so-
stituito dalla costruzione giuridica della scienza e della tecnologia: le Corti
— di fronte al proliferare di azioni civili, anche di massa, soprattutto per
responsabilità da prodotti difettosi o per esposizione alle sostanze tossiche
emesse dalle industrie — hanno dato corpo all’idea che al diritto spetti il
compito di definire le regole cui sottoporre lo sviluppo tecnologico, e con
esso il sistema produttivo.
L’esigenza dell’elaborazione di questa razionalità non ha toccato in-
vece, se non assai parzialmente, il nostro diritto civile: il sistema della re-
sponsabilità civile, in Italia, ha conosciuto sì una espansione, ma un’e-
spansione tutto sommato modesta e relativa (32), tanto da far dire che un
confronto con i dati concernenti il regime dei Torts in America ‘‘lascia
l’interprete europeo senza parole’’ (33).
In questo modo, nell’ambito di una realtà sociale in cui, giorno dopo
giorno, è cresciuta la consapevolezza dei pericoli connessi allo sviluppo
tecnologico del sistema produttivo, è mancata una risposta pubblica, ad
opera dei tribunali civili, capace di far capire le regole alla stregua delle

(31) JASANOFF, op. cit., p. 202 ss.


(32) PONZANELLI, La responsabilità civile, Bologna, 1992, p. 39; cfr., anche, ALPA, Il
diritto dei consumatori, 4a ed., Bari, 1999, per il quale ‘‘a differenza di quanto avvenuto in
altri Paesi dell’UE, la giurisprudenza in materia di responsabilità del fabbricante... non è
stata copiosa, anzi le pronunce si contano in numero davvero esiguo’’ (p. 386 ss.). Quanto ai
danni da sostanze tossiche, non risultano sentenze significative della giurisprudenza civile;
cfr., STELLA, op. cit., pp. 38 ss., 157 ss.
(33) PONZANELLI, op. loc. citt.

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quali deve essere valutata l’incertezza scientifica e con il rispetto delle


quali deve svilupparsi il sistema industriale. L’inquietudine sociale si è
così caricata di aspettative di giustizia che hanno finito per trovare uno
sbocco improprio nel processo penale.
In breve, il diritto e il processo civile si sono astenuti dal creare i pre-
supposti per la diffusione di una cultura giuridica capace ad un tempo di
incidere, in qualche misura, attraverso le sanzioni, sui complessi meccani-
smi dell’economia di mercato e, al tempo stesso, di ristabilire la coesione
sociale.
Ecco perché si può dire che il diritto civile condivide con il diritto
amministrativo la responsabilità della situazione attuale. Una responsabi-
lità non da poco, se si considera quanto bisogno abbia delle nuove regole
l’economia del nostro Paese.
I grandi ammonimenti di Guido Rossi lo hanno fatto capire da
tempo: secondo ‘‘la pronta intuizione di Max Weber’’, la disciplina del ca-
pitalismo ‘‘è più appannaggio del diritto elaborato dai giudici (il judge-
made law) che non di quello dettato dai legislatori’’ (34) e, d’altro lato, le
agenzie amministrative debbono costituire ‘‘la struttura portante di una
democrazia liberale, le cui istituzioni siano basate sul principio del ’velo di
ignoranza’, dal quale gli individui devono partire per fissare ogni regola
del futuro ordine (sociale) che non tenda a favorire interessi già consoli-
dati. Questo è l’insegnamento fondamentale e la più recente e organica
teoria della giustizia, dovuta a John Rawls’’ (35).
FEDERICO STELLA

(34) ROSSI, Il fenomeno dei gruppi e il diritto societario: un nodo da risolvere, in Riv.
soc., 1995, p. 1152.
(35) ROSSI, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, p. 9.

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STORIE D’UNA ILLUSTRE FORMULA:
IL ‘‘LIBERO CONVINCIMENTO’’
NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI (*)

SOMMARIO: 1. Trent’anni. — 2. Formula magica. — 3. Clonazioni e maquillage. Nozze fau-


ste e tradite. — 4. Un paragrafo di Carrara. — 5. Occasioni mancate, ‘‘buchi’’? Op-
pure ‘‘giardino proibito’’? ‘‘Costituzionalizzato’’, il convincimento libero? —
6. L’ ‘‘apriti Sesamo’’ rigettato. — 7. Regole sul convincimento del giudice: un agget-
tivo. — 8. Norme varie, ancora sulla valutazione delle prove penali. — 9. Querelle
sull’art. 500, comma 2. — 10. Osservazioni finali con il parere di due filosofi.

1. Trent’anni. — Sono la misura d’una generazione che passa, che


si rinnova: un periodo, questo, che ha trasformato sul fondo l’idea stessa
di sistema penale; che ha inciso molto sul ‘‘convincimento libero’’ e su
cui, molto, il ‘‘convincimento libero’’ ha inciso.
Anzi, se cerchiamo d’osservare dall’alto e d’acchito, due sono le
punte salienti, tra loro connesse: un codice — nientemeno — venne rove-
sciato in nome di quella formula. Nella sua storia italiana, fu un colpo, un
acme vistoso, travolgente. Ma non lo capiremmo abbastanza, se non con-
siderassimo l’altro dato: nel suo centenario, millenario iter, il vecchio as-
sioma, incontrò infatti — e fu un alimentarsi a vicenda — qualcosa di ul-
teriore, di ancor più forte. Per l’appunto questa, solo questa dimensione
riesce a spiegare l’intera vicenda.
Proverei dunque a ripetere che è cambiato il rapporto giudice-legge:
si sono salutate, coltivate, praticate, più generali, penetranti libertà, pri-
mati della funzione giudiziaria, anche nel senso di fronteggiare, avversare

(*) Sono gli appunti per una relazione svolta al convegno — in memoria di Antonino
Galati — dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, su Il libero convincimento
del giudice penale: vecchie e nuove esperienze, Siracusa, 6-8 dicembre 2002.
In cima ad essi, avevo trascritto tre massime: ‘‘Our valour is to chase what flies’’(SHA-
KESPEARE, Cymbeline, III.3, 42).
‘‘Ciò prova la sua colpevolezza, disse la Regina. Ciò non prova niente del genere, disse
Alice’’ (CARROLL, Alice’s adventures, 1862, trad. it., Milano, Garzanti, 1975, p. 124).
‘‘Where’s satisfaction?’’ (SHAKESPEARE, Otello, III.3, 296).
Successivamente è stato tradotto un ottimo volume, di cui ho qui tenuto conto: M.R.
DAMASKA, Il diritto delle prove alla deriva, Bologna, Il Mulino, 2003.
I numeri di articoli senza ulteriori specificazioni si riferiscono al testo vigente del co-
dice di procedura penale.

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prodotti del potere legislativo. E proprio questa vicissitudine, non di oggi,


taglia le gambe a una giustificazione dell’ultima ora: suggerire che ruoli
eccezionali, compiti straordinari si comprendano e incombano inevitabili
sulle funzioni giudiziarie, a causa di certi prodotti odiosi dell’attuale po-
tere legislativo. Ciò non corrisponde alla verità, proprio perché identica fu
la tendenza del 1992, identico il trait-d’union, la linea globale a partire
dagli anni ‘‘sessanta’’, compresa — insisto — la reazione alla riforma del
1987-89.
Comunque, non v’è spazio per incertezze almeno su uno dei referti:
le tre cosiddette ‘‘sentenze Ferri’’ del 1992 — assieme alla numero 111
dell’anno successivo — e il conseguente decennio, lacerato, infernale
(come tante volte abbiamo discusso e, tutti, diagnosticato) furono pro-
dotte da quell’idea. Menziono pure la sentenza del 1993, sull’art. 507:
non solo perché scorre sugli stessi percorsi — pure lessicali — delle tre
più spesso ricordate, ma anche perché — specialmente essa — spinse as-
siomi di libertà nello stadio dell’ammissione della prova.
Ripeterei, ma lo vedremo più in dettaglio fra breve: fu in nome di
quel principio e dei nuovi corsi complessivi che venne chiesta e ottenuta
la testa d’un codice varato dal potere parlamentare unanime. Il libero con-
vincimento — con certi suoi derivati — scese allora come l’ ‘‘apriti Sesa-
mo’’ della novella persiana: e le porte — nel 1992 — si spalancarono.

2. Formula magica. — Quello del convincimento libero è un as-


sioma potente, magico in varie accezioni del vocabolo. Di penetrante, in-
dicibile intensità, indecomponibile già in sé è l’atto evocato, il con-vin-
cersi, judicare in facto, ‘‘de-cidere’’. In esso — quale che sia il sistema
processuale — il giudice si trova pur sempre di fronte a se stesso, nella di-
mensione che il termine più antico — dell’illuminismo francese — evo-
cava tramite il superlativo di intus: ‘‘intime conviction’’.
Forse, però, bisogna averli provati, quei momenti, per intendere che
le espressioni appaiono — lo capisco — ma non sono vuote o enfatiche: fu
davvero in dolo specifico (intenzionale) ex art. 323 c.p., l’accusato? Fu
davvero un ‘‘mandante’’ — in idonee forme ex art. 110 c.p. — o solo un
malizioso spettatore di crimini altrui? Fu, quello, davvero un pactum sce-
leris, sinallagma, accordo paritetico? Oppure la dazione di danaro venne
strappata dal pubblico ufficiale? Criminale, in un caso, Tizio che sto giu-
dicando. Addirittura vittima, nell’altro.
Calamitante, seducente è pure la soluzione indicata dalle due celebri
parole: l’uomo, lasciato libero, solo — dalla legge — per la terza fase del
procedimento probatorio. E prodigiosa è la locuzione, questa volta, però,
nel senso di stregonesca: con riguardo sia al periodo trascorso dalla fine
dell’Ottocento, sia — per l’appunto — ai tre decenni ultimi. È cangiante,
caleidoscopica ancor oggi, e svelta, infida, pronta a trovare proseliti o a

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mutarli: qualcuno, che pur l’aveva bollata con parole di fuoco, poi ha av-
vertito il richiamo di quella potente libertà, guardandola con occhi am-
miccanti, diversi. E viceversa.
Essa torna proteiforme, con il dono dell’ubiquità: supponevi d’averla
lasciata al posto giusto, ma te la ritrovi — per sortilegio — in tutt’altro
spazio concettuale, in tutt’altre aree e categorie della procedura penale. È
sgusciata via, magari per infilarsi dentro al capitolo dell’accusare: se il
giudice non è libero nelle prove, inappagato diviene l’esercizio dell’azione.
E così via, via. Via ancora, come quella volta che sbucò in scena — pale-
semente una ‘‘intrusa’’ (1) — per contrastare ‘‘strumenti di valutazione
delle attitudini professionali del magistrato’’. Era il 1978: verifiche del ge-
nere — dedussero — vìolano anche il principio del libero convinci-
mento (2).
Eravamo tutti sicuri che il codice del 1987-89 l’avesse ristretta ben
bene. La disciplina delle prove fu, infatti, tra le migliori, compresa la cate-
goria della inutilizzabilità, che pure ad alcuni spiacque, anche se ancora
non ne ho potuto intendere la ragione. Quelle superiorità tornarono in-
vece imperterrite. La successiva giurisprudenza preferì ancora, praticò,
sovrappose ‘‘libertà inalienabili’’ dove — ad esempio — le norme fissano
una radicale invalidità, o in caso di perquisizione disposta solo in base ad
‘‘anonimi’’; o per partorire (congiunta con l’art. 189: disposizione colta,
elegante in sé; ma, in pratica, più pericolosa che altro) una categoria
strana e storta già nelle espressioni usate: ‘‘mero accertamento di fatti,
[non già] atto processuale formale [e, così, per l’appunto] liberamente uti-
lizzabile e valutabile’’; o per sfuggire a un divieto, scambiando fra loro
norma speciale (art. 238) e norma generale (art. 234); o per scrollar via
un vizio ex art. 191, nella fase preliminare. Dove — proprio lì — sta
scritto: ‘‘inutilizzabile in ogni stato del procedimento’’, ritrovammo sosti-
tuita — pure quella volta — una libertà. Il campionario — si sa — po-
trebbe essere assai più esteso (3).
Consideriamo, ora, una ulteriore, recente vicenda: quella in cui un
tribunale scoprì che una certa disciplina probatoria ‘‘porta a incidere sulla
possibilità del giudice di conoscere i fatti’’, ‘‘sacrifica[ndo] il potere del

(1) La parola è tolta da F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il


suo controllo in cassazione, Milano, Giuffrè, 1997, p. 70.
(2) Questione esaminata dalla Corte costituzionale, sent. n. 74 del 1978.
(3) Gli esempi son tratti dalle seguenti pronunce, o riferiti nelle medesime: Cass., 26
settembre 1997, Sirica, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 642; Id., 10 giugno 1994, Levak,
in Rep. giur. civ., 1995, voce Prova penale, n. 126; Id., 12 giugno 1996, Curinga, in Dir.
pen. e processo, 1997, p. 836; Id., 4 dicembre 1996, Eviani, in Rep. giur. civ., 1997, voce
Prova penale, n. 16; Id., 24 settembre 1997, Dragone, in Arch. nuova proc. pen., 1998, p.
295; Trib. Bari, Giudice per le indagini preliminari, ord. 6 dicembre 1995, Abbate, in Giur.
cost., 1996, p. 3839.

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giudice’’. Fu la stessa occasione (4) in cui un altro provvedimento andò a


mischiare zone concettuali, categorie, parole, per spremere convincimento
libero persino dall’art. 97 Cost. Dedusse, così, che la formazione dibatti-
mentale della prova, in contraddittorio, integra un ‘‘rilevante spreco di at-
tività amministrativa’’: una trovata che fa il paio con l’altra — non meno
sorprendente — d’affrancarsi da regole probatorie, invocando sveltezza e
libertà in base alla ‘‘ragionevole durata del processo’’ (5).
Sto registrando e quella di coltivare ironie è l’ultima fra le intenzioni.
Si resta però increduli e — bisogna confessarlo — si avvertono quasi
punte di vergogna: già per il linguaggio in sé, per gli argomenti, quali che
potessero essere — in questa o in quell’altra vicenda — i problemi e le
esatte conclusioni. Sbandamenti occasionali su cui è ingeneroso soffer-
marsi? Cernita maliziosa dai repertori? Men che mai. Sono linee radicate,
e non solo idee, ma concretezza di provvedimenti, di processi, di sanzioni.
Forse si pensava d’arricchirlo, riempirlo, quell’asserito principio;
venne invece sfigurato, trasformato, svuotato, privato di senso. Lo si è
reso — come dirò in conclusione — ormai inservibile.

3. Clonazioni e maquillage. Nozze fauste e tradite. — In questi


trent’anni, la storica invocazione ha mostrato pure attitudini a una spe-
ciale prolificità. Comparve, sì, anche in prima persona, come stavo esem-
plificando. Ma fu pure sottoposta a cosmesi ammodernanti: quasi con pu-
dori per sue sopravvenute sembianze non presentabili: pas sortable, di-
cono i francesi.
Si sparsero allora figli mentito nomine, eppure riconoscibili — sotto
— come da essa clonati. Tornò in circolazione, insomma, con le vesti di
principio di conservazione; di non dispersione del sapere; d’irrinunciabili,
superiori scopi; di principio della difesa sociale; di indefettibilità del po-
tere punitivo; di funzione conoscitiva del processo e simili.
Sto citando alla lettera: sono le decine e decine di provvedimenti as-
sommatisi fra il 1990 e il 2000. Lo ricordiamo tutti, e pure ricordiamo —
dalle frequentazioni storiche — altro: non ostante le sottoposizioni a lif-
ting, è pari pari — questa — la versione autoritaria, anti-garantista, ‘‘pote-
stativa’’ (6) del libero convincimento. Quella che vinse, sopravvisse, a
partire dagli anni della Scuola positiva: pessima (spiacque scoprirlo e
dirlo, ma va fatto) per la procedura penale, compresi i nomi, altrimenti il-
lustri, di un Garofalo o di un Ferri. Ogni idea diversa venne vissuta come

(4) Ordinanze riferite da Corte cost., sent. n. 361 del 1998.


(5) Trib. Ravenna (Sez. di Faenza), ord. 29 gennaio 2003 (inedita).
(6) Dice bene, così, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale,
Bari, Laterza, 1989: si vedano, qui, le pagine finali e i rinvii ivi.

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diffidenza per il potere, l’Autorità (7) e non v’è spazio per incertezze di
diagnosi: questa è la sostanza, l’eredità, il contenuto che si è voluto assu-
mere dal positivismo e dal periodo fascista.
L’intento non è quello di completezza, o di digressioni sciorinate. Ma
è indispensabile — per specifiche opinioni da proporre al dibattito e tor-
nando più addietro — non dimenticare anche una vicenda che possiamo
etichettare, per brevità: delle nozze fauste e tradite.
Pochi princìpi o istituti vantano un albero genealogico, un pedigree
come il nostro: da ‘‘foresta incantata’’ fu scritto (8). Il riferimento va a
una doppia vicenda. Primo: la rivoluzione copernicana che sostituì l’as-
setto epistemologico medioevale, ormai disfattosi. Ci si sbarazzò di relitti
finali, sfigurati, scompaginati: la poltiglia cui si erano ormai ridotte — alla
fine del Seicento — le prove legali. Risultava diverso, a quel tempo, il
concetto di norma: si trattava piuttosto della dottrina e quel sistema —
dopo quattro secoli — non rispondeva ormai più ad alcun ordo cogno-
scendi (9). Ma la storia — quella anteriore, delle prove legali — sarebbe
istruttiva: non riducibile alle reazioni frettolose, come sdegnate, di parec-
chi. Non è qui possibile neppure sfiorarla.
Secondo: il connubio magnifico, giustificativo, nel quale il libero con-
vincimento fu portato e portatore del metodo procedurale più avanzato —
sino ad oggi, per l’Europa continentale — in termini d’‘‘accusatorio’’: col-
legialità, giurie, garanzie e quant’altro. L’unione, entusiasmante, parve —
ai più alti pensatori dell’Ottocento — come indistruttibile. Fu, invece, la
vicenda d’un matrimonio tradito.
Ancora lei, la pretesa regola, si mostrò in effetti camaleontica, prepo-
tente, bizzarra, se non fantasiosa come gli accoppiamenti infedeli di Zeus:
cigno o, altra volta, toro, pioggia; aquila o serpente. Dalla fine del secolo
scorso essa, per l’appunto, divenne contrassegno antitetico alle garanzie,
al modello, alla sostanza originaria e, più di recente, ci ha fatto assistere a
uno strano, impietoso destino: proprio la massima che tutta Europa aveva
salutato come ferrea componente dell’ ‘‘accusatorio’’, duecento anni
dopo, è stata quella con cui, in sostanza, si pretese d’affossare il primo
tentativo italiano d’un codice all’insegna dell’accusatorio stesso.

4. Un paragrafo di Carrara. — Pur in questa corsa azzardata, e

(7) G. DI CHIARA, Ad faciendam fidem: i contributi narrativi nel processo penale tra
ars rethorica, esperienza forense ciceroniana e diritto probatorio vigente, ora in Iura, 1997
[ma 2002], p. 80 s.
(8) F.M. IACOVIELLO, La motivazione, cit., p. 64.
(9) Ciò è ben spiegato in due saggi troppo poco citati: quello di G. ALESSI PALAZZOLO
(Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli, Jovene, 1979.
pp. 16, 106 etc.) e quello di I. ROSONI (Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria
della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano, Giuffrè, 1995, spec. pp. 14 s.,
313 s.).

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sempre in vista delle particolari questioni odierne, un vertice non può es-
sere accantonato: la pagina di Carrara che segna — per il libero convinci-
mento — il finale dell’originaria curva virtuosa.
Con la brevità e la semplicità dei grandi, Carrara, ossia il culmine
della concezione liberale, fissa qualcosa di definitivo. È il paragrafo 886
del Programma, Parte Terza, Del giudizio criminale: il conoscere del pro-
cesso penale non può che nascere dalla gnoseologia comune, ma tutto in-
tero (l’autore sta espressamente trattando del convincimento e del vaglio
probatorio) ha una faccia in più: la giuridicità. La conclusione — pur va-
riamente ripetuta poi da tutti — è però meno ovvia e davvero condivisa di
quanto potrebbe apparire.
Salto — infatti — ai giorni presenti, per trasporre in termini d’attua-
lità. Questa assai semplice affermazione contrasta chi concepisce, esalta il
momento finale dell’iter probatorio, come libero: il sistema non potrebbe
far altro — arrivanti a quel punto — che una sorta di mero, nudo ‘‘rinvio
recettizio’’ alla gnoseologia comune, senza altro. Ci scontriamo tuttavia
con un dato: le decine d’illustri, brillanti studi su tecniche (extra-giudi-
ziali) di razionalità nella critica delle prove danno la sensazione di spazi,
coltivazioni rimaste avulse, isolate, oltre che spesso antagonistiche fra loro.
Ma v’è altro e — poiché il punto è delicato, pressante — diviene do-
verosa qualche precisazione. Innanzi tutto, non essere ostili o chiedere
una disciplina per ogni fase del procedimento probatorio, non equivale a
sposare un concetto di epistemologia giudiziale che se ne vada bizzarra-
mente e bizzosamente per i fatti suoi, disinteressandosi del conoscere co-
mune o scientifico. Per contro, ammettendo, esaltando sopraggiunte li-
bertà finali, intangibili, non vorrei che facessimo come Saturno, il Crono
della Teogonia, il quale — al momento conclusivo — finì per rimangiarsi,
lui stesso, i propri figli, ossia, fuor di metafora: all’indietro, la legalità
delle fasi anteriori.
L’altra linea si oppone, invece, all’idea che ‘‘la legalità del decidere
[investa solo] i primi due momenti [ammissione e formazione della prova,
e si fermi davanti] al terzo’’. ‘‘Se così davvero fosse, ci troveremmo di
fronte a un dato paradossale: il processo sarebbe legale — e quindi garan-
tito — fino al momento della formazione del materiale probatorio; sa-
rebbe libero [invece] — e quindi privo di garanzie — nella fase rovente
della valutazione’’. Dunque, le ‘‘operazioni [valutative] non avvengono in
uno spazio giuridicamente amorfo, presidiato dal libero convincimen-
to’’ (10).
Insomma, l’idea di un’area preclusa a ‘‘regole di valutazione probato-
ria non convince’’, né ‘‘vi è traccia nel sistema di questa smisurata fiducia

(10) F.M. IACOVIELLO, La motivazione, cit. p. 69; ID., voce Motivazione della sen-
tenza penale, in Enc. del diritto, Aggiornamento, vol. IV, Milano, Giuffrè, 2000, p. 766.

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della legge nelle capacità conoscitive dei giudici professionali’’; anzi, la


‘‘legge [stessa] non si ferma sulla soglia della camera di consiglio, ma vi
entra assieme ai giudici’’: anche lì ‘‘il giudice non è libero’’ (11). Altri in-
sistono che pure quella terza fase resta ‘‘presidiata da regole giuridiche’’;
‘‘regole logiche affiancate a canoni (decisori e valutativi) normativamente
espressi’’ (12).
I quesiti cadono così sul rapporto con l’idea del contraddittorio nella
formazione della prova, anche come funzione gnoseologica. Fu una parola
nuova già del 1987-89, cui aderire toto spiritu, ancor più a fronte del so-
pravvenuto emendamento costituzionale.
Ma — all’interrogativo se questo valore si ponga come esclusivo, o
persino preclusivo rispetto a regole sul convincersi, judicare in facto — ri-
sponderei: non necessariamente, mentre la sintesi offerta da uno fra gli
autori pur più favorevoli al libero convincimento, fa un passo chiaro: la
‘‘decisione giusta’’ dipende da vari requisiti, ciascuno dei quali non è al-
ternativo rispetto ai residui. In particolare, la correttezza del procedere
non integra una qualità sostitutiva rispetto a quella che riguarda, poi, il
giudizio, anche nel senso di critica delle prove. ‘‘La giustizia della deci-
sione non può coincidere con la [sola] giustizia della procedura. È ovvio,
infatti, che ad un processo giusto possa far seguito una decisione ingiusta,
[...] se il giudice valuta in modo errato l’esito delle prove’’ (13).
Certo, il modello della proporzionalità inversa (identifichiamolo
così), dove le regole sull’ammissione-formazione potrebbero tendere a
cento, ma quelle sul valutare dovrebbero tendere a zero (14), è di bella ar-
chitettura e con notorie ascendenze ottocentesche. Ma capitano situazioni,
materie, casi, fasi storiche (15) in cui possiamo ritrovarci una conoscenza

(11) Così è rafforzato, il pensiero del medesimo autore, nell’egregio saggio di qual-
che anno successivo (F.M. IACOVIELLO, voce Motivazione, cit. pp. 763, 766). A questo spa-
zio corrisponde poi — specularmente — la ‘‘struttura legale di motivazione’’ (ivi, p. 767), le
cui specificità — a loro volta — costituiscono una (ulteriore) via per risalire alla disciplina
normativa sul valutare la prova penale.
(12) G. DI CHIARA, Ad faciendam fidem, cit., p. 95.
(13) M. TARUFFO, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 205, 224-225, 292.
(14) Qualcuno è tiepido pure rispetto a questo ‘‘parallelismo all’incontrario’’: quanto
maggiore sia la fiducia nelle capacità euristiche del convincimento giudiziale, tanto minori
saranno gli sbarramenti e limiti posti, anche a livello di ammissione ed assunzione delle
prove. Così A. MAMBRIANI, Giusto processo e non dispersione delle prove, Piacenza, La Tri-
buna, 2002, p. 183.
(15) ‘‘Non c’è nulla di sconcertante in tutto questo [...] Ben vi possono essere regole
[normative] che disciplinano l’argomentazione giudiziale’’: F.M. IACOVIELLO, voce Motiva-
zione, cit. p. 763.
L’attenzione — da un lato — non cade sul solo tema dei ‘‘pentiti’’, o del nesso di cau-
salità nelle materie esaminate da F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, Giuffrè, ed. 2002
e da S. JASANOFF, La scienza davanti ai giudici, trad. it., Milano, Giuffrè, 2001. Dall’altro

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nata con metodo probatorio leale, con ogni riguardo per le garanzie dibat-
timentali, eppure malferma, infida o, comunque, bisognosa di prescrizioni
per il momento in cui quel giudice (ripeterei: pur avendo dato fondo ai va-
lori del ‘‘contradicere’’, inteso pure come mezzo di buona gnoseologia)
entra nell’area del valutare-decidere.
Su percorsi del genere — per il rapporto tra formazione e valutazione
delle prove penali — preme tuttavia una aperta postilla: ammettere quelle
regole, non significa affatto preferirle — magari nelle forme di blandi o in-
concludenti criteri valutativi — in luogo di netti divieti probatori là dove
occorrono. Insomma, come la disciplina sull’acquisizione della prova non
rende inutili garanzie per la fase successiva, così queste non possono es-
sere avanzate quale alibi surrettizio per rammollire, superare, abbando-
nare il primo fronte, d’importanza ancor maggiore.

5. Occasioni mancate, ‘‘buchi’’? Oppure ‘‘giardino proibito’’? ‘‘Co-


stituzionalizzato’’, il convincimento libero? — Nessuno scivolerà in anti-
tesi personali; egualmente la discussione odierna s’imbatte in idee opposte
fra loro. Stella (ma non solo lui) denunzia un vuoto, una ‘‘occasione per-
duta’’ nel 1988. Ferrua (ma non solo lui), da tempo insiste — al contrario
— su spazi interdetti, con uno steccato a cingere quella libertà della fun-
zione giudiziaria nel campo del valutare le prove: guai al legislatore che
volesse varcarlo. È opinione forte.
Il terreno viene acceso pure da proposte di codificazione che — pro-
prio su questa materia — vanno e vengono a ondate, sino a un discutibile
testo, volto (in mezzo al consueto magma e ad alcuni altri contenuti insi-
pienti o nocivi) a fissare il canone dell’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’ e
una disciplina ulteriore sulla chiamata di correo (16).

lato va a possibili interventi parziali della legge, così da restare ovviamente nella dimensione
espressa da una efficace similitudine generale: una ‘‘disciplina legale [che] copre soltanto
un’area limitata’’ (pp. 331, 319, 323), ossia — nell’ambito di ‘‘criteri conoscitivi propri della
razionalità generale’’ — ‘‘alcune ‘zone’ in cui operano [...] regole giuridiche che in vario
modo [...] si sovrappongono e si sostituiscono a tali criteri’’.
Ancor più in sintesi: è come ‘‘una ‘pelle di leopardo’ in cui le macchie equivalgono alle
aree di disciplina giuridica, [...] mentre il fondo equivale alla parte non regolata giuridica-
mente e quindi rimessa solo ai criteri della razionalità’’ (M. TARUFFO, La prova dei fatti giuri-
dici, Milano, Giuffrè, 1992, p. 333). Per i regimi di common law, in termini analoghi: M.R.
DAMASKA, Il diritto delle prove, p. 34. A ‘‘un genus che tenta di intrecciare regole legali e re-
gole logiche’’, allude F.M. IACOVIELLO (voce Motivazione, cit. p. 764), il quale tuttavia — e
forse eccessivamente — par quasi rovesciare le proporzioni: ‘‘interstizi di libertà’’; ‘‘passaggi
del ragionamento probatorio [in cui] scattano momenti di libertà del giudice’’ (p. 772).
(16) È il c.d. progetto PITTELLI (Modifiche al codice di procedura penale e al codice
penale in attuazione dei principi del giusto processo; testo unificato del disegno di legge
C/1225, Anedda e vari altri): art. 13, 15, 24, 25, 26, destinati a riformare, rispettivamente,
gli artt. 187 (art. 187-bis), 190-bis, 192 (compreso il comma 3 sui c.d. riscontri), 530
comma 1, 533 comma 1, 546 comma 1, lettera ‘‘e’’.

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Al fine di orientarsi, può tornar utile qualche osservazione comples-


siva e, per così dire, pregiudiziale. Che cosa vieterebbe? Che cosa, esatta-
mente, sarebbe proibito? Che cosa apprendiamo poi dalle disposizioni
(già) in vigore?
Appunto questi sono i confini preliminari del discorso, a partire da
un rilievo: norme, regole sulla valutazione delle prove non sono escluse di
per sé (come tipologia) dalla Costituzione, la quale non sancisce il princi-
pio del libero convincimento. Va caldeggiata precisione al riguardo: ta-
luno, infatti, ogni tanto véntila il contrario, senza darsi carico, però, di in-
dicarci quale mai sarebbe la norma che detta simile preclusione. Ma, se
amiamo un ragionamento non confuso, criteri tendenziali, storici (17), co-
siddetti princìpi generali e simili son dimensioni diverse dal dettato speci-
fico di un testo costituzionale.
Ad ogni modo, la fonte non potrà stare nell’art. 101, comma 2 Cost.,
invocato invece, non di rado, da ordinanze di rimessione alla Con-
sulta (18), seppure fra una congerie sparsa di indicazioni, numeri, articoli
fra loro agglomerati.
Parrebbe addirittura banale: se, per convincimento libero, s’intende
un divieto di disposizioni calate sul medesimo (di questo stiamo dispu-
tando), ciò non potrà certo discendere dal canone costituzionale che
esclude sì, in radice, ogni diversa dipendenza (soggezione), eppure fissa
esattamente il contrario di quanto si vorrebbe. Come una libertà dalla
legge — per la critica delle prove penali — possa essere postulata da pa-
role in cui sta scritto che il giudice (non ad altro, ma) alla legge deve es-
sere soggetto, si pose da anni, per me come un mistero.
Tale sarebbe rimasto, se non ci avessero fatto conoscere certe spiega-
zioni, ossia indirizzi che — neutralizzata, amputata, nelle teorie e nei fatti,
una metà dell’articolo che stiamo considerando — fanno così campeggiare
solo il residuo: esso si gonfia, allora, verso una generale ‘‘non soggezione -
libertà’’ della funzione giudiziaria, che, a quel punto, finisce a boomerang
per comprendere la legge stessa.
I percorsi storici del diritto ci hanno fatto conoscere tante metamor-
fosi interpretative d’una norma. Nihil novi: eppure questa — dell’art. 101

(17) In varie occasioni la Corte costituzionale si è riferita al ‘‘libero convincimento’’


come a un carattere della legislazione ordinaria (del 1930; fra varie, ad esempio: sent. n. 5
del 1965; sent. n. 190 del 1971, § 4 in diritto; sent. n. 163 del 1976; sent. n. 23 del 1979, la
quale cita, come fonte del principio stesso, l’art. 308 c.p.p. abr.; sent. n. 247 del 1983), o
come ad una dominante, diffusa linea evolutiva dei sistemi processuali contemporanei.
Spicca — in quest’ultimo senso — la sent. n. 248 del 1974.
(18) L’art. 101 comma 2 (tuttavia en passant, con espressione dubitativa, e con ri-
guardo a una fra le ipotesi ora coperte dagli artt. 197-bis comma 6 e 192 comma 3) è richia-
mato da P. MOROSINI, in Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della
prova (a cura di P. TONINI), Padova, Cedam, 2001: una regola legale di valutazione che, in
tal caso, ‘‘sembra in contrasto con l’art. 101, comma 2, Cost.’’.

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comma 2 Cost. — rappresenta un picco. Lo si è già sottolineato: è il pro-


blema dei trent’anni ultimi e, proprio per ciò, ormai in parecchie occa-
sioni m’è sembrato necessario tornare sul nodo spinosissimo.
Del resto, la conformità — con l’art. 101, comma 2, Cost. — di di-
sposizioni ordinarie poste a limitare il convincimento del giudice fu riba-
dita a più riprese dai Giudici della Consulta (19), mentre per il periodo
più recente — pur di burrasche e tensioni proprio sulle categorie dell’in-
dipendenza e delle libertà probatorie — indicherei subito tre sentenze:
quella resa in materia di reati tributari, circa la dizione normativa ‘‘in mi-
sura rilevante’’. La Corte, nell’occasione, qualificò come salvifiche certe
regole di convincimento (20), affermate — nel caso specifico — da giuri-
sprudenza della Corte di cassazione. Ma ben avrebbe potuto stabilirle una
legge. Alla stessa conclusione si pervenne infatti — pochi anni dopo — in
una vicenda che ci riguarda più da vicino: disciplina normativa — questa
— sui cosiddetti riscontri ex art. 500 (nella versione dovuta alla riforma
parlamentare del giugno 1992) (21). Nella sentenza n. 361 del 1998, poi,

(19) Proprio discutendo sul ‘‘libero convincimento’’ e sull’art. 101, comma 2, i Giu-
dici della Consulta specificarono: viene ‘‘garanti[ta] la libertà e l’indipendenza del giudice,
nel senso di vincolare la sua attività alla legge e solo alla legge, in modo che egli sia chia-
mato ad applicarla senza interferenze od interventi al di fuori di essa, che possano incidere
sulla formazione del suo libero convincimento’’. Ma la Carta fondamentale non esclude
norme, in proposito, volte ‘‘a regolare l’attività degli organi giurisdizionali, dettando disposi-
zioni che il giudice è tenuto ad applicare’’ (sent. n. 8 del 1962).
L’art. 101, comma 2, ‘‘legando il giudice alla legge, vuole assoggettarlo, non solo al
vincolo di una norma che specificamente contempli la fattispecie da decidere, ma altresì alle
valutazioni che la legge dà dei rapporti, degli atti e dei fatti, e al rispetto degli effetti che ne
desume; in tal caso, è sempre alla legge che il giudice si collega [e] la pronunzia giudiziaria si
mantiene sotto l’impero della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo con-
vincimento’’ in un certo modo (sent. n. 50 del 1970).
Prospettazioni d’illegittimità vennero accolte nei soli casi di un convincimento vinco-
lato a provvedimenti della pubblica amministrazione: in particolare ciò venne espresso dalle
sent. n. 88 del 1982 e n. 247 del 1983 cit. Conta poi, più in generale, la giurisprudenza sui
‘‘vincoli pro judicato’’: la Consulta escluse violazioni del libero convincimento e dell’art.
101, comma 2. Accolse, invece, le deduzioni — assai diverse — ex art. 24, comma 2, rimuo-
vendo effetti ‘‘erga omnes’’, per lesione del diritto di difesa rispetto a chi non aveva potuto
partecipare all’accertamento. Fra varie, soprattutto spiccarono — in tal senso — la sent. n.
55 del 1971 e la sent. n. 5 del 1965.
(20) È la sent. n. 247 del 1989 (redatta dal prof. Dell’Andro) sull’art. 4, n. 7 della l.
n. 516 del 1982 e su regole per valutare l’entità di evasioni fiscali. Erano allora conosciute
come ‘‘criterio assoluto’’, ‘‘criterio percentuale’’, ‘‘criterio proporzionale’’.
(21) Il riferimento (alla sent. 241 del 1994) non equivale, ovviamente, a condividere
simpatie che sottostavano alla pronunzia stessa e alla soluzione normativa ivi controllata. In-
fatti l’art. 500 — nella sua redazione legislativa intermedia (per l’appunto del d.l. 8 giugno
1992, n. 306) — degradava la forza dell’anteriore divieto in morbidi criteri di valutazione.
‘‘In cauda’’ rinnegava poi se stesso: il giudice poteva affermare l’equivalenza probatoria fra
dichiarazioni attuali e pregresse, anche in base a un sindacato di non genuinità di quelle di-
battimentali, desunta dai soli modi di esse. Dunque, ed in fondo, ritrovavamo il vecchio cri-

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regole di valutazione vennero persino auspicate e suggerite al potere legi-


slativo (22).
Serve tuttavia — anche qui — una esplicita chiosa: l’unica lettura che
appare genuina (il ‘‘libero convincimento’’ non è stabilito dall’art. 101,
comma 2, Cost.) lascia naturalmente ferma la pretesa che i contenuti della
legge (la quale per definizione ‘‘assoggetta’’ il giudice, anche in materia di
procedura e di decisione in facto) abbia poi le carte in regola con altri pre-
cetti del nostro testo fondamentale. Qui stiamo invece esaminando una ti-
pologia di disposizioni sulle prove e negando che essa sia preclusa dal
principio di indipendenza del giudice.

6. L’ ‘‘apriti Sesamo’’ rigettato. — I percorsi a livello costituzionale


patirono tuttavia — si sa — speciali travagli, tanto che, sui vari snodi, i re-
soconti potrebbero essere più estesi. Guadagniamo tempo, però, conside-
rando che — oggi — di ogni più vario impulso ad opporre convincimento
libero alla disciplina ordinaria, si è infine sbarazzata la stessa Consulta
con i provvedimenti del 2002 (23).
Decine di nuove ordinanze si erano riversate dopo il 2 novembre
1998, anche a fronte della riforma costituzionale del novembre 1999,
spinta — addirittura essa — verso letture analoghe a quelle del 1992-93.
Aveva dunque colto nel segno chi diagnosticava un ‘‘tramonto del princi-
pio di non dispersione dei mezzi di prova’’, eppure captava il ‘‘pericolo
che [quello] del libero convincimento, inteso come prova libera anche dal
rispetto della legge, [potesse mantenere ulteriori] radici nella giurispru-
denza’’ (24).
Ricomparvero, infatti, quelle specie di passe-par-tout: ‘‘paralisi’’, ‘‘ve-
rità materiale’’, ‘‘inaccettabile sacrificio del libero convincimento’’ e quan-

terio della credibilità che il giudice poteva assegnare all’atto della fase preliminare. Primeg-
giava e tornava, così, un ‘‘cultura valutativa’’, ‘‘al limite della percezione soggettiva’’: lo illu-
stravano e l’ammettevano coloro che avevano avversato la ben diversa nettezza della solu-
zione originaria (E. FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organiz-
zata, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Bari, Laterza, 1993,
pp. 273, 250, 234 s.).
(22) Pur non potendo qui seguire e riferire l’intera serie, segnalazione speciale merita
una pronunzia poco nota (sent. n. 120 del 1975), sui rapporti fra ‘‘libero convincimento’’ e
procedura di formazione della prova. Alludo alla figlia della capostipite in materia d’intercet-
tazioni telefoniche (sent. n. 34 del 1973), celebre per aver aperto la via alla futura categoria
sanzionatoria della inutilizzabilità. Dal canto suo, l’affermazione breve e recisa del 1975 re-
spinse assunti pur reiterati dalla magistratura: quelli ‘‘secondo cui dovrebbe prevalere il
principio del libero convincimento del giudice, anche con riferimento a prove assunte senza
l’osservanza delle disposizioni che le disciplinano’’.
(23) Si tratta della sent. n. 32 del 2002 e di quattro ordinanze: n. 36 del 2002; n.
293 del 2002; n. 365 del 2002; n. 431 del 2002.
(24) A. BEVERE, La chiamata di correo, ed. 2001, Milano, Giuffrè, p. 195.

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t’altro (25). Ma le formule prodigiose dell’ ‘‘apriti Sesamo’’ hanno la-


sciato sbarrati — questa volta — i portoni della Consulta: lo stesso lin-
guaggio, i riferimenti intrecciati all’art. 111; all’art. 25, comma 2 (riletto
come fonte del ‘‘principio di difesa sociale’’); all’art. 101, comma 2; al-
l’art. 112 Cost. etc., insomma: le stesse prospettazioni che la Corte aveva
non solo tollerato, ma — lei stessa — alimentato, non hanno più ricevuto
buona accoglienza, forse con qualche sconcerto di chi si era abituato or-
mai alla forza penetrante di quelle medesime ‘‘parole d’ordine’’.
Le decisioni del 2002 poggiano — non lo dimentichiamo — sul
nuovo testo dell’art. 111 Cost., ma sembrano — più in generale — quasi
stanche d’invocazioni, salti; paiono estraniarsi da concetti, riferimenti di-
latati, slabbrati. Quale che sia stato il peso effettivo della riforma costitu-
zionale, ora la Corte suona tranchant; dichiara conclusa una lacerante pa-
rentesi e liquida — per il momento — le pur svariate prospettazioni di li-
bertà: profili ‘‘del tutto generici’’.
La sintesi parrebbe chiara: il principio del ‘‘convincimento libero’’
non è stabilito dal nostro testo fondamentale e i Giudici della Consulta
mandano attualmente all’archivio varie scorrerie fra categorie ruotate pro-
prio intorno a quella stessa libertà.
Ma s’intende bene: pur con questa premessa, i discorsi sono tutt’altro
che risolti. Si spalancano soltanto verso ciò che è possibile. Non altro. Ep-
pure il nostro dibattito doveva cercare almeno qualche pulizia prelimi-
nare: alla porta d’ingresso dei problemi non è il caso di lasciar nebbie, va-
ghezze, allusioni a pretesi divieti costituzionali per interventi del potere le-
gislativo sulla valutazione delle prove penali.

7. Regole sul convincimento del giudice: un aggettivo. — Diamo


ora qualche spazio a ricognizioni interpretative sulla disciplina vigente,
benché il loro interesse risulti molto inferiore rispetto ai referti e alle vi-
cende sin qui indicate, così forti che — per vero — potrebbero concludere
da sole la mia conversazione.
Consideriamo comunque l’assetto del 1987-89 che — ad esser
schietti — può ancora riservare sorprese, e cominciamo da un aggettivo
divenuto più importante di quanto supponessimo: il comma 2 dell’art.
530 (assieme ad altri contenuti) pretende una prova d’accusa ‘‘sufficien-
te’’ e — già con questa parola — non lascia il giudice libero. Pone un pa-
rametro distinto dall’altro (la ‘‘contraddittorietà’’), cosicché il primo stan-
dard (della sufficienza) è autonomo, per così dire assoluto e — certo — lo
si può far crescere molto in determinatezza, spessore, livello, secondo le

(25) Così, ad esempio, varie ordinanze di rimessione, riferite dai provvedimenti della
Corte n. 261 del 2001; n. 262 del 2001; n. 429 del 2001, oltre che da quelli — poc’anzi ri-
cordati (nt. 23) — del 2002.

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proposte — ad esempio — di Federico Stella. Non trascurerei, però, di


fargli intanto dire ciò che già contiene: quella parola, infatti, chiude spazio
a soluzioni, idee, in termini di mera ‘‘preponderanza’’ dell’accusa (26).
Poiché il punto potrebbe farsi spinoso, valgano un’osservazione gene-
rale ed una specifica. Perniciosa, fonte di storture è — innanzi tutto — l’e-
quazione di base: ‘‘accusatorio-processo penale quale mera composizione
di un conflitto’’. Essa dà la stura al dilagare delle ‘‘negozialità’’ che —
sebbene di moda e con tanti proseliti — contrastano con la perdurante no-
stra organizzazione istituzionale e recano diseguaglianze, ingiustizie,
prassi potestative del sistema penale: parlar di ‘‘negozio’’ — la tautologia
è facile — significa parlare di poteri e di supremazie.
Peggiore considererei, comunque, proprio la versione epistemologica
della figura stessa (composizione d’un conflitto), nel senso che stavamo
considerando: un convincimento probatorio di responsabilità, affermato
sol che l’assunto del pubblico ministero abbia una prevalenza ‘‘purches-
sia’’ su quello della difesa (così come 20/100 sono maggiori di 15/100).
Tale strada (ecco il perché della digressione) risulta già oggi sbarrata dalla
regola della ‘‘prova in sé insufficiente’’ e letture del genere — se restano
ancora lontane dall’ ‘‘oltre il ragionevole dubbio’’ (27) — non sono poco:
proprio per questo va assegnato peso all’aggettivo dell’art. 530, comma 2,
tutt’altro che insignificante rispetto alle dottrine della libertà di convinci-
mento; tutt’altro che pleonastico, amorfo, nelle sue potenzialità prescrit-
tive.

8. Norme varie, ancora sulla valutazione delle prove penali. — Pas-


siamo a qualche ulteriore flash: serve a poco, ad esempio, ripetere svelti
che anche il codice riformato accoglie ‘‘in pieno’’ lo storico principio di li-
bertà, quasi a voler ghermire tale parola (28). Così si dice troppo e troppo
poco; è ormai chiaro, infatti, che — dentro a quella figura — può star di

(26) Riferimenti, oltre che nel ricordato volume di Federico Stella, in S. JASANOFF, La
scienza davanti ai giudici, cit., pp. 83, 101. Una divergenza e critica (‘‘gravi fraintendimen-
ti’’) è segnalata da F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 165, nei confronti di F.M. IACO-
VIELLO, La motivazione, cit., p. 218 s., nonché voce Motivazione, cit., pp. 762, 778, 780.
(27) È un criterio, questo, ‘‘assai più elevato di quello della [mera] prevalenza di
conferma logica di un’ipotesi rispetto alle altre’’ (M. TARUFFO, Sui confini, cit., p. 232).
(28) In tale linea suonarono certe immediate massime giurisprudenziali: con la nuova
norma ‘‘deve ritenersi che si sia inteso ribadire in pieno il principio del libero convincimen-
to’’ (Cass. 15 ottobre 1990, Batani, in Commentario breve al nuoco codice di proc. pen.
Complemento giurisprudenziale, ed. 2002, Padova, Cedam, sub art. 192, II e varie altre).
Per conseguenza: l’art. 192, comma 3 ‘‘non rappresenta un limite al principio della li-
bera valutazione della prova’’ (Cass. 28 aprile 1997, Matrone, ivi). Unanime, in senso con-
trario, la dottrina: ‘‘limite al libero convincimento del giudice’’ (D. SIRACUSANO, in Dir. proc.
pen., vol. I, ed. 2001, Milano, Giuffrè, p. 346); ‘‘condizione necessaria del giustificato con-
vincimento’’ del giudice (L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 130).

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tutto, e coglie poi nel segno chi ci sottolinea: son divenute ‘‘clausol[e] di
stile in tutte le [odierne] legislazioni processuali’’ (29).
Sarà allora meglio passare ad altro, compresa qualche minuzia. An-
che se ci stanno intorno tempi e climi stemperati con l’acquarello del ‘‘di-
ritto flou’’, ‘‘senza fattispecie’’ (30), egualmente proporrei un rilievo a chi
conserva apprezzamento per l’esegesi testuale e per ciò che ci insegna
l’art. 12 delle ‘‘preleggi’’: quel ‘‘senso delle parole’’ che evoca radici
straordinarie nell’etica del linguaggio (31). Ovvio: il legislatore del 1987-
89 conosceva quanto noi la clausola del libero convincimento. Non è per-
ciò senza senso che l’abbia riservata e affermata nei soli artt. 485 e 486
(ora 420-bis comma 2 e 420-ter comma 2): esclusivamente lì, in colloca-
zione contrapposta alla disciplina generale, incontriamo l’ammissione di
un ‘‘liberamente valutata’’.
Dal canto suo, dice assai meno di quanto si ripeta, l’art. 192, comma
1: quel ‘‘dar conto’’ sarebbe l’unico contrappeso che — come tale — di-
mostrerebbe proprio il regime del convincimento libero. Ma la norma non
lo implica univocamente, perché la garanzia del motivare resta e vale, a
maggior ragione, pure a fronte di regole legali sul convincimento del giu-
dice.
Apprendiamo di più dai vari casi in cui l’ordinamento interviene per
l’atto del valutare le prove, non lasciando libero il giudice. Anche se ab-
bozzeremo qui solo esemplificazioni, l’inventario sarebbe non breve: poi-
ché è in gioco un metodo conoscitivo giudiziale, esso assume rilievo tutte
le volte in cui un provvedimento va per l’appunto adottato in base alle
prove disponibili. Considerando poi la sequela, l’iter procedurale comples-
sivo, per certo non interessano solo le norme per la sentenza, cosicché si
rimarca opportunamente che problemi e disposizioni sul valutare le cono-
scenze giudiziali si pongono ben prima (32).
Né si cada nella torsione di chiudere i discorsi, asserendo che tutta la
differenza starebbe nel mutare dell’oggetto del decidere: infatti il legisla-
tore potrebbe limitarsi a fissare o presupporre — senz’altra specificazione
— tale disparità della materia (adottare la sentenza; disporre il dibatti-
mento; intercettare; accertare i cosiddetti fatti secondari come la condotta
illecita dell’art. 500, commi 4 e 5). Ma, oltre a ciò, può stabilire regole
nuove, per quel (già) differente oggetto. Insomma può cambiare, non solo

(29) M. TARUFFO, La prova, p. 371.


(30) Per le dimostrazioni e i rinvii, valgano quelli offerti in Nuovi modelli e connes-
sioni: processo — teoria dello stato — epistemologia [1998], in Studi in ricordo di GianDo-
menico Pisapia, vol. II, Milano, Giuffrè, 2000, p. 479 s.
(31) Rileva un pensiero di Scarpelli, qui trascritto nella nt. 53.
(32) Esattamente lo ricorda A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano,
Giuffrè, ed. 2001, p. 170. M. TARUFFO (Sui confini, cit., p. 329) considera e sottolinea pure i
casi di valutazioni probatorie che ‘‘riguarda[no] la previsione di un evento futuro’’, categoria
che ha larga incidenza anche nel settore del processo penale.

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quest’ultimo, ma pure la disciplina per il convincersi, decidere (nei vari


casi e momenti), provvedere.
Forse lasciano una certa meraviglia — dicevo — gli esiti d’una rico-
gnizione che pur trascuri i casi più noti (art. 192, comma 2; art. 192
commi 3 e 4; art. 193 parte finale; art. 238-bis; art. 197-bis comma 6). Mi
riferisco — così — alle ipotesi in cui si offre al giudice una conoscenza
(prova), ed è come se il sistema fissasse: ecco, ma non ti lascio libero, nel
senso che stabilisco — rispetto alla medesima — requisiti, regole di valu-
tazione.
Parecchie norme cadono — per così dire — sullo standard, sui livelli
del convincimento stesso (33). Un esempio ci può venire dall’art. 425,
commi 1 e 3 (a contrariis: dall’art. 429), con maggior percepibilità del ca-
rattere che stiamo esaminando, se rammentiamo (34) il mutare delle re-
gole stesse: dal 1988, al 1993, al 1999. Seppure ai bordi dei fenomeno,
non sono estranei al tema, pure gli artt. 408 e 125 att. (per le ipotesi ‘‘in
facto’’): in essi passò differenza allorché venne letto — come parametro di
valutazione — ‘‘manifesta infondatezza’’, invece d’ ‘‘infondatezza’’ (Corte
costituzionale, sentenza n. 88 del 1991).
Interesse andrebbe, poi, ai cosiddetti fatti processuali. Esempi: ‘‘se ha
motivo di dubitare’’ (art. 200, comma 2; segreto professionale); ‘‘se vi è
fondata ragione di ritenere’’ (art. 214, comma 2; ricognizioni), sino al
caso — fattosi più scottante e già menzionato — dell’art. 500, comma 4:
‘‘se vi sono elementi concreti per ritenere’’. È una dizione ondivaga, unta,
e molto dipenderà, quindi, da una parola del nuovo testo costituzionale:
‘‘provata’’ (art. 111, comma 5, parte finale), che tautologia non è; avanza
pretese (35). Anzi, la discutibilità del nuovo testo fa ancor meglio inten-
dere il fenomeno, con interrogativi stringenti per la prassi applicativa: ol-
tre al variare del thema decisorio (condotta illecita quale imputazione, —
ad esempio in caso di processo simultaneo — oppure quale mero ‘‘fatto
secondario’’ ex art. 187, comma 2), cambia pure il regime normativo del
convincimento? Altre particolari disposizioni che possono servirci, stanno

(33) In rapporto e in aggiunta — come già detto — alla posizione di specifici, vari
oggetti del decidere. A volte, lo si denomina il ‘‘quantum di prova’’ richiesto: P. TONINI, La
prova penale, ed. 2000, p. 219 (pericolo di fuga etc.).
Anche qui non s’intende bene perché tale disciplina resterebbe estranea al tema della
valutazione probatoria e del libero convincimento. Esattamente, invece, F.M. IACOVIELLO
(voce Motivazione, cit. pp. 766 e 794) la include e considera sia le differenti tappe dell’iter,
sia — per l’appunto — la tipologia di norme relative al c.d. quantum di prova: ‘‘non è pensa-
bile che i legiferatori abbiano voluto riservare al ‘libero convincimento’ di ogni giudice di fis-
sare il proprio standard’’.
(34) Le varie soluzioni sono ripercorse criticamente dal recente saggio di M. DA-
NIELE, La regola di giudizio in udienza preliminare, in Riv. dir. proc., 2002, p. 560.
(35) Così M.L. BUSETTO, La provata condotta illecita fra Costituzione e codice, Bolo-
gna, 2002 (ed. c.d. provvisoria), spec. Introduzione e paragrafi I.3, II.2 e 8.

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nell’area delle misure cautelari; l’art. 274 lettera ‘‘a’’ pone una regola le-
gale negativa di valutazione (36): tu, giudice, non puoi convincerti (s’in-
tende, nel senso giuridico, processuale del termine) in base all’esercizio
del cosiddetto diritto al silenzio, o a mancate ammissioni di responsabilità
(confessione). Dal canto suo, l’art. 292, lettera ‘‘c’’ si può — volendo —
ben qualificare come un regime legale ‘in positivo’: nel tuo valutare, devi
‘‘ten[er] conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato’’.
Dimensioni non dissimili — seppure meno penetranti — ritroviamo
anche a proposito dei provvedimenti coercitivi (in senso lato) per l’acqui-
sizione d’una prova; nelle perquisizioni: ‘‘fondato motivo di ritenere’’ (art.
247, comma 1); nelle intercettazioni: ‘‘gravi indizi’’ (art. 267, comma 1),
a fronte d’una soglia più bassa per indagare sulla criminalità organizzata:
‘‘sufficienti indizi’’ (d.l. n. 152 del 1991). Altri campi stanno, invece,
pressoché al lato opposto, fissando il criterio della ‘‘prova evidente’’: art.
129, comma 2 e — per il giudizio immediato — art. 453, comma 1.
Non di rado, poi, il sistema del 1988 consegna — a chi giudica —
una prova la quale — poniamo — risulterebbe addirittura irrefutabile (se-
condo il ‘‘sapere ordinario’’), circa un fatto criminoso addebitato a due
autori. Stiamo dunque considerando un elemento identico, comune a due
imputati. Tuttavia — in nome di valori diversi, ossia con piena ragionevo-
lezza — si stabilisce: tu non puoi affermare il tuo convincimento — altri-
menti e in effetti non controvertibile su quel fatto — per entrambi i sog-
getti. Ciò vale nell’ipotesi dell’art. 403, oltre che in quelle dell’art. 63, del-
l’art. 238, comma 4 e, ora, dell’art. 493, comma 3 (c.d. prova consentita o
negoziata). I giuristi — si sa — sono avvezzi a disquisire; eppure la con-
clusione è manifesta: pure qui una legge interviene, si sovrappone, limita
o esclude libertà di convincimento.
La serie potrebbe proseguire con le varie disposizioni (qualcuna è
nuova rispetto al codice abrogato) degli artt. 529-531, oltre all’art. 526,
comma 1-bis (37), mentre all’attenzione che merita l’aggettivo ‘‘sufficien-
te’’ dell’art. 530, comma 2, già ho fatto cenno. Ruoli espansivi, sovrani,
andrebbero sottolineati a parte, là dove è la Costituzione stessa a dettar
disciplina, come nell’art. 27, comma 2, il quale va assunto pure come re-
gola probatoria sul valutare, convincersi, decidere (38).

9. Querelle sull’art. 500, comma 2. — L’elenco, pur provvisorio e


ampio, penso vada esteso all’art. 500 (ora) comma 2, anche se ricordiamo

(36) Tutte queste partizioni e catalogazioni (compresa quella delle ‘‘prove legali’’)
variarono, non rimasero ferme nel corso della storia e non lo sono, oggi, presso i vari autori.
Qualcosa del genere riscontreremo, fra breve, a proposito dell’art. 500, comma 2.
(37) Si veda il rinvio della nt. 39.
(38) G. ILLUMINATI, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli,
1978, cap. III e IV.

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impegnativi, fitti interventi in direzione opposta: ossia per negare che, ivi,
s’incontri una regola sulla valutazione della prova (39).
Ma si resta perplessi (40), a fronte di un testo che — soppesato al mi-
croscopio quattro volte, dibattuto in ogni sua parte — mantiene l’e-
spresso, testuale esordio: le dichiarazioni contestate al testimone ‘‘pos-
sono essere valutate’’. S’aggiunga ora (pur ad abundantiam, e di per sé
non risolutiva) la procedura dell’art. 499, comma 6: chi giudica, non solo
ascolta le dichiarazioni pregresse del testimone scruta le sue reazioni, ma
può (ed è assai ragionevole) voler mettere gli occhi, verificare il preciso
testo delle carte anteriori. Il presidente ‘‘ordin[a], se occorre, l’esibizione
del verbale’’.
Sono catalogazioni — lo rammentavo — che oscillarono nel corso
della storia (41), ma coglie nel segno una odierna diagnosi: ‘‘si tratta, in
realtà, di [quelle norme che] che predetermina[no] in astratto il valore di
una prova, di cui pure riconosciamo la legittimità’’ (42); appartengono

(39) Nel senso di una regola d’esclusione (e non già di valutazione), più volte è inter-
venuto P. FERRUA, Giusto processo: l’attuazione si misura con le incertezze della giurisdi-
zione, in Diritto e giustizia, 2001 (fasc. 26), p. 33; ID., La Corte costituzionale promuove la
‘regola d’oro’ del processo accusatorio, in Dir. pen. e processo, 2002, pp. 402, 404; ID., L’at-
tuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della prova. Intro-
duzione, ivi, 2001, p. 587.
Per contro P. FERRUA (in Giusto processo. Nuove norme, cit. p. 525, nonché L’attua-
zione del giusto processo. Introduzione, cit. p. 587) qualifica un’altra norma ‘‘difficile’’, l’art.
526, comma 1-bis: ‘‘non già [come] una regola di esclusione probatoria, ma [come un] crite-
rio legale di valutazione’’ che si risolve in un divieto al giudice.
(40) Quale caso emblematico di deroga alla ‘‘libera valutazione della prova’’, M.R.
DAMASKA (Il diritto delle prove, p. 31 s.) indica proprio le regole di ‘‘ammissibilità parziale’’:
in particolare quelle in cui ‘‘la legge prevede che un elemento possa essere utilizzato per sta-
bilire la credibilità di un testimone ma non ai fini della decisione di merito’’ (precisamente
come nel ‘‘nostro’’ art. 500, comma 2), nonché i casi in cui si ‘‘utilizz[a] un’informazione
solo con riferimento ad una delle diverse accuse collegate che derivano da un medesimo
evento’’ (ivi, p. 53).
(41) Si veda la nota 36. Sintetizza M. TARUFFO (La prova, cit., p. 321): ‘‘regola di
prova legale [è quella che] opera nel senso di escludere o limitare la valutazione discrezio-
nale del soggetto’’ che giudica. Ma, sottolinea A. NAPPI (Guida, cit., p. 173), ‘‘può essere dif-
ficile [da stabilire una differenza] fra regole d’esclusione e criteri di valutazione’’.
(42) A. NAPPI (Guida, cit., p. 174), il quale tuttavia conclude — per l’art. 500,
comma 2 — nel senso d’una regola d’esclusione (contrapposta a quelle di valutazione).
Non mancano ulteriori tipi d’inquadramento: ‘‘un giudizio di rilevanza legalmente pre-
determinato’’ (G. ILLUMINATI, in Prolegomeni a un commentario breve al nuovo codice di
procedura penale, Padova, Cedam, 1990, p. 418); ‘‘discussa e discutibile [...] regola di valu-
tazione negativa’’ (A. MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 184, nt. 172); quel comma ‘‘ri-
duce da ‘pieno’ a ’indiretto’ l’uso di talune dichiarazioni’’. Esso, che pur ‘‘limit[a] l’utilizza-
bilità in sede decisoria, [... in realtà] provvede a vincolare, ai fini della ricostruzione fattuale,
la valutazione del giudice concernente l’(in)affidabilità del dichiarante e dell’atto investiga-
tivo compiuto in sede di indagini preliminari’’ (G. UBERTIS, Argomenti di procedura penale,
Milano, Giuffrè, 2002, pp. 85 e 138).
Nel lessico dei lavori preparatori (Relaz. al prog. preliminare, sub art. 493, ora art.

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alle ‘‘regole d’uso’’ (43), o ‘‘regole d’ammissibilità relativa’’. La disposi-


zione non lascia libero il convincimento: limita colui che conosce e si av-
vale di un dato (44).
Ma perché stupirsi? L’ordinamento può certo intervenire, e ben fece,
dettando quel comma, essenziale per giustificare la struttura della fase
preliminare e del sistema complessivo. Viene fissato un valore probatorio
parziale, per certe conoscenze. Così, sbagliarono nei corollari, nell’asser-
zione di princìpi costituzionali lesi, di proprie prerogative violate e nelle
conclusioni. Non mi pare, invece, nelle premesse — ossia nell’interpretare
la disposizione ordinaria — quei magistrati che mossero dalla constata-
zione d’una disciplina diretta, appunto, a diminuire a libertà di ‘‘valuta-
zione — convincimento’’.
L’art. 500 è — d’accordo — fattispecie importante, ma non esaurisce
certo gli orizzonti dei nostri interessi e possiamo lasciarlo ormai fra le per-
duranti dispute, per cogliere piuttosto fenomeni complessivi, ribadendo
quanto interessa e si è cercato d’esemplificare sin qui, ossia le norme (at-
tuali o future) che presentino questi caratteri: offrono al giudice una co-
noscenza giudiziale (prova) altrimenti non invalida (45); tuttavia inter-
vengono per governare la fase successiva (il valutarla), nel senso che — in
mancanza della disposizione stessa, ossia in un regime libero — l’esito (il
convincimento affermato dal giudice) potrebbe essere diverso, antitetico.
Certo, pur nei termini or ora precisati (46), saranno praticabili distin-
zioni fra le tipologie di regole, tutte comprese nella terza fase del procedi-

500) si distingue questo tipo di conoscenze dibattimentali (dell’attuale art. 500, ora comma
2), contrapponendolo ai casi in cui viene invece riconosciuta una ‘‘efficacia probatoria pie-
na’’.
(43) Nella mappa disegnata da F.M. IACOVIELLO (voce Motivazione, cit. pp. 764,
799), che pure non menziona tale norma, l’art. 500, comma 2 direi rientri nella classe defi-
nita dall’autore: delle ‘‘regole legali d’uso’’, la quale — per definizione — confina e risulta
diversa da quelle della inutilizzabilità e della patologia delle prove. Per l’opinione sostanzial-
mente analoga di Damaska: nt. 40.
(44) Ammette che possa ‘‘persino essere una prodezza psicologica’’, M.R. DAMASKA,
Il diritto delle prove, p. 53.
(45) Insomma, è lo spazio in cui è terminato il compito delle regole di formazione
(con le relative patologie e invalidità): F.M. IACOVIELLO, voce Motivazione, cit. p. 765, che
— per l’appunto — contrappone, all’area della invalidità (inutilizzabilità o nullità), la fase
successiva, nella quale — dunque, per le prove pur legittimamente acquisite — le norme giu-
ridiche non si arrestano, ma incidono sulla ‘‘organizzazione logica del materiale probatorio
[appunto] già [legittimamente] formato’’. Con questa disciplina, la legge ‘‘stabili[sce] come
il giudice può maneggiare il materiale probatorio’’.
(46) Poiché sono partizioni concettuali ri-disegnabili, naturalmente qualcuno potrà
preferire indirizzi, percorsi, composizioni diverse, che — estromettessi i casi vari sin qui
considerati, per questa o quella via del catalogare — portino così l’area residua, quadrando i
conti, alle ‘‘usuali’’ libertà.
Ad esempio, un indirizzo antitetico rispetto al censimento proposto in queste pagine,
parrebbe quello di G. UBERTIS, Argomenti, cit., p. 139: ‘‘va segnalato come [nel codice in vi-

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mento probatorio; si dovranno misurare altre differenze (47). E la materia


— anche in vista di eventuali riforme — andrà ulteriormente studiata: ad
esempio, con riguardo al regime della successione delle norme nel tempo,
o a quello dei controlli e delle sanzioni (in senso lato).
Darei poi per scontato che — fin dai tempi di Filangieri (48) — ci si
riferisce a regole che pongono limiti, garanzie, al convincimento sulla re-
sponsabilità della persona (49). Nessuno mi risulta ipotizzare l’obiettivo
— assai diverso — di previsioni che impongano la condanna o decisioni
sfavorevoli, in presenza di un certo dato conoscitivo (50).
Infine dovremmo proprio aprire analisi fruttuose, imprescindibili, in
tutt’uno con il diritto penale sostanziale. Alludo a soluzioni che il sistema
persegua e fissi, o tramite norme sulle prove e sulla loro valutazione, op-
pure lavorando su elementi e struttura delle fattispecie incriminatrici (51).

gore] non risultino esistenti norme direttamente regolatrici della valutazione probatoria
complessiva’’.
(47) Infatti — in uno spazio così esteso — si possono tracciare varie distinzioni in-
terne. Ad esempio, fra ‘‘regole legali di uso’’ e ‘‘regole di decisione’’: F.M. IACOVIELLO, voce
Motivazione, cit. p. 764.
(48) Ulteriori precisazioni vengono ora da L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 127.
(49) Per lo più erano denominate ‘‘prove legali negative’’. Ma — già ho insistito — le
terminologie risultarono oscillanti.
(50) Per l’analoga tendenza dei sistemi di common law in materia di ‘‘corrobora-
tion’’, M.R. DAMASKA (Il diritto delle prove, p. 32, nt. 28) esplicita: tali regole di valutazione
‘‘non esigono mai che i fatti siano dati per provati, nonostante il diverso convincimento del
giudice’’; ci si riferisce, dunque, a disposizioni di garanzia per l’imputato.
(51) Immaginiamo qualche tipologia approssimativa: individuo l’evasione fiscale, po-
nendo regole sul valutare (accertamento), o anche sui mezzi di prova da esperire o, invece,
punisco (direttamente) chi evada una imposta superiore a un certo quantum (specificato), o
chi sia còlto mentre esce nel nero della notte, da una abitazione, con un revolver fumante in
mano, o chi sia scoperto con tasso alcolico, nel sangue, superiore a una percentuale dettata
dalla norma stessa.
Così non riesco a intendere perché mai sarebbe consentito che il legislatore fissi un ele-
mento della fattispecie sostanziale e gli sarebbe vietato escludere — poniamo — che l’eb-
brezza sia provata tramite mere testimonianze ‘‘de visu’’. Ecco un esempio tratto da norme
sammarinesi: ‘‘chiunque guida veicoli in stato di alterazione psico-fisica [etc.] è punito [...].
Si considera in stato di ebbrezza la persona con un tasso alcoolico presente nel sangue pari o
superiore a 0,80 mg/ml. — Le alterazioni psico-fisiche predette potranno comunque essere
dedotte da elementi obiettivi’’.
La fissazione dei mezzi conoscitivi da utilizzare in rapporto a certe materie venne co-
stantemente ricondotto al novero delle prove legali, categoria — rammentiamolo ancora una
volta — dal contorno sfuggente e oscillato nel tempo.
Gli esempi anteriori sono affastellati e volutamente sgangherati, per far intendere
quale delicato e ampio terreno di riflessione congiunta — diritto sostanziale e processuale —
servirebbe, anche per i corollari e per le diversità che l’uno o l’altro percorso (diretti a un
identico o analogo obiettivo) determinano. Ma l’unità di diritto e processo (non solo nell’a-
rea della prova), prosegue a sfuggire, in Italia: è una miope trascuratezza dei nostri studi,
con la malcelata stortura di priorità ‘‘scientifiche’’, autonomie, e persino con avvilenti con-
tese, pretese e proteste accademiche.

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A fronte di tutto ciò, scopo della carrellata voleva porsi nell’aprire la


discussione verso aree non sempre considerate, anche sgombrando la via
— si è detto — da premesse discutibili, o ingiustificate, o non condivise.
Sintetizzerei ancora nel senso che garanzie legali in materia di valutazione
delle prove non sono proibite da alcunché e potrebbero, in taluni casi o
aspetti, risultare opportune, mentre, d’interventi simili, il codice è già oggi
assai più denso di quanto si dica.
Quali regole? Con quali percorsi? Con quale rapporto fra processo e
diritto sostanziale? Con quali tipi di controllo o, anche, regimi d’invali-
dità? Con quale relazione fra i settori della formazione e della valutazione
delle prove penali? Sono spazi ancor tutti da sondare, tuttavia — a titolo
personale — sulla base d’una riflessione: pur senza fiducie eccessive, non
sarei d’accordo che intervenire in via normativa nell’area del convinci-
mento giudiziale e dettare ‘‘criteri legali di valutazione’’, equivalga, in ter-
mini ineluttabili, a sprecare energia, perder tempo, o muovere da ‘‘mal-
sano garantismo’’ (52), oppure combinar disastri.
Certo — lo ripeterono in tanti, nel corso dei secoli — nessuno riu-
scirà mai a fornirci il decimetro per misurare lo spazio che corre fra ‘‘evi-
denza probatoria’’ e ‘‘sufficienti indizi’’. Ma l’incidenza, anche pratica, di
scelte simili non pare possa essere negata in generale, sempre che il magi-
strato concepisca i propri ruoli come quelli di chi segue le leggi e non di
chi ‘‘salta fra esse’’ (53).
Ancora una volta, e ad esempio, la parola dell’art. 530, comma 2

(52) P. FERRUA, Garanzie formali e garanzie sostanziali nel processo penale, in Que-
stione giustizia, 2001, p. 1120.
(53) L’immagine risale a un saggio antesignano — presentato proprio all’inizio dei
nostri ‘‘trent’anni’’ — da U. SCARPELLI (Il metodo giuridico, in Riv. dir. proc., 1971, p. 553):
costruito con eleganza sulla metafora di ‘‘Humpty Dumpty’’ e, all’opposto, di ‘‘Alice’’, esso
merita riletture, compreso l’ ‘‘asterisco’’ iniziale e una pagina conclusiva. ‘‘In questo scritto
il personaggio di Humpty Dumpty simboleggia [posizioni] accomunate dalla convinzione
che ai segni di un linguaggio, ed in ispecie ai segni del linguaggio giuridico, si possa far signi-
ficare un po’ quel che si vuole’’. ‘‘Si manifesta qui una scarsa simpatia per i giuristi e soprat-
tutto per i giudici humptydumptiani che credono di poter fare una rivoluzione cambiando il
metodo dei giudici. Voglio sottolineare che (se è concesso servirsi in materia delle logore e
troppo larghe etichette di ‘destra’ e ‘sinistra’) il mio attacco non viene da destra, ma da sini-
stra’’.
E ‘‘questa Alice [...] non è detto che meriti, o meriti sempre, la taccia di reazionaria,
come non è detto che Humpty Dumpty sia sempre un progressista’’ (p. 571). ‘‘Non intendo
affatto confondermi con il moderatismo giuridico che invoca contro i giuristi e i giudici
humptydumptiani il principio di legalità, e poi lascia la legge morta quando è in contrasto
con forti interessi costituiti ed istituzioni potenti. [Tuttavia] un atteggiamento di fedeltà dei
giuristi, e dei giudici in ispecie, verso la legge posta è una condizione, ovviamente non suffi-
ciente, ma necessaria, perché la legge possa servire [al suo] scopo’’. ‘‘Il problema centrale
[...] resta quello della legislazione, delle ragioni della sua crisi, delle forze politiche e delle
strutture costituzionali che possano riaffermarne il primato’’ (p. 553 s.). Ovviamente sono
pagine da leggere nella loro interezza’’.

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(‘‘sufficiente’’) può restar vuota, inutile; ma è capace addirittura di chiu-


dere un mondo, come prospettavo. E l’esito d’un processo potrebbe risul-
tare ben diverso se — in un ipotetico art. 500 comma 4 — noi leggessimo:
‘‘quando la prova d’un reato è evidente’’, o invece: ‘‘se il giudice ravvisi
un qualche indizio di condotte illecite’’. Se, poi, non sembrano consentite
grandi illusioni su un’eventuale affermazione normativa dell’ ‘‘oltre il ra-
gionevole dubbio’’ (54), perché potremmo ritrovarcela — di lì a breve —
sfatta, sfibrata, accantonata come vacuo orpello, essa tuttavia — altrove
— ha costituito l’architrave per blocchi di robusta giurisprudenza.

10. Osservazioni finali con il parere di due filosofi. — Non conclu-


sioni, ma il tentativo d’un ultimo pensiero: da un lato — si accetti la
schiettezza — proviamo la sensazione di problemi grossi, troppo chiusi,
soffocati, gravati — qui da noi — dal clima scottante, avvelenato, che
ruota intorno al potere della magistratura nei suoi rapporti con quello le-
gislativo. È, questa, certamente una vicenda tra le più serie, che però —
mi parrebbe palese nella prospettiva mondiale — finisce col dare, ai toni
del nostro discutere sulla valutazione della prova penale, qualche sapore
di provincialismo (55).
D’altro lato, se ora m’interrogo, al termine di una lunga, ormai tren-
tennale convivenza — diciam così — con questo tema, splendido nel suo
fondere dimensioni storiche, giuridiche, epistemologiche, avverto di ade-
rire sempre più a due ‘‘prese di distanza’’ energiche, persino impietose.
Alessandro Giuliani, maestro pure sul nostro argomento, tenne a
Trento, nel 1988, una conferenza (56) nella quale classificò duramente la
formula magica del convincimento libero, come — oggi — ‘‘un caso limite

(54) La regola è, a volte, già prospettata come operante: P. FERRUA, Un giardino


proibito per il legislatore: la valutazione detle prove, in Questione giustizia, 1998, pp. 589 e
62; ID., L’attuazione del giusto processo. Introduzione, p. 591, nonché, per una ulteriore
opinione (‘‘formula, bella e suggestiva, [che] non risolve ogni problema’’): ID., Garanzie for-
mali, cit., p. 1120.
(55) Terreni, aree culturali in cui predomina ‘‘un principio [...] venerato’’, diagno-
stica ancor oggi M.R. DAMASKA (Il diritto delle prove, p. 38). Si respira un ‘‘clima ostile’’, un
‘‘atteggiamento antinomico’’ e — nei giudici — una ‘‘irritazione per le interferenze del po-
tere legislativo nella loro libertà di apprezzamento del materiale probatorio’’ (p. 37 e nt. 38).
Insiste poi, Damaska, screditando la falsa opinione secondo cui i sistemi di common
law sarebbero una roccaforte della libera valtazione (a fianco del diverso settore delle regole
sul procedimento di formazione delle conoscenze). Indica, anzi, l’ ‘‘ambizione del diritto an-
gloamericano di influenzare il ragionamento che il giudice del fatto svolge sulle prove’’ e an-
nota: è un ‘‘nucleo animatore’’ essenziale; ‘‘trascurar[lo] significa ridurre le proprie possibi-
lità di comprendere ciò che è realmente peculiare del diritto delle prove di common law’’
(ivi, p. 33 s.).
(56) Già la ricordai, come inedita (in Commento al nuovo codice di proc. pen., coor-
dinato da M. Chiavario, Torino, Utet, 1990, sub art. 192; p. 415). Ora si legge nella Rac-
colta di scritti in memoria di Agostino Curti Gialdino, tomo II, Napoli, ESI, 1990, p. 332.

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di nozione irrimediabilmente confusa della scienza giuridica’’. Giudizio


non dissimile venne — l’anno dopo — da Luigi Ferrajoli, caposaldo forte,
egregio, controcorrente, sul significato attuale, perdurante del valore della
legge e delle garanzie per il sistema penale: quella del convincimento li-
bero si trasformò in ‘‘una delle pagine politicamente più amare ed intellet-
tualmente più deprimenti della storia delle istituzioni penali’’. Si è risolto
— tale postulato — in ‘‘un grossolano principio potestativo idoneo a legit-
timare l’arbitrio’’, ossia in una ‘‘petizione di principio che rimanda alla
potestà del giudice’’ (57).
Penso — su questa stessa linea — che il ‘‘convincimento libero’’ del
giudice, quanto di benefico doveva partorire, già lo diede negli anni tra
Voltaire e Carrara. Da allora, è stato solo un calvario, una tribolazione di
storpiature, equivoci, concetti e categorie manipolate, ambiguità di lin-
guaggio, compresi i ‘‘trent’anni’’ e il decennio ultimo. Non foss’altro, per
normali necessità d’igiene lessicale sarebbe tempo d’abbandonarlo, nel
senso di parlarne, ammirati, come — ammirati — parliamo di Leopardi o
del Rinascimento.
Ma a questo passo non assisteremo, perché l’appello protettivo a
‘‘storiche libertà’’ molto piace a molti: gli si può anche infilar dentro —
volta per volta — quel che si preferisce, come gli eterogenei esempi qui
portati all’inizio della conversazione crederei mostrino a sufficienza.
MASSIMO NOBILI

Diagnosi identica venne ripetuta alcuni anni dopo: A. GIULIANI, Prova e convincimento: pro-
fili logici e storici, in Quaderni del CSM (n. 98), 1997, p. 235.
(57) L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., pp. 118-119.

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GIUSTO PROCESSO, PROCÈS ÉQUITABLE E FAIR TRIAL:
LA RISCOPERTA DEL GIUSNATURALISMO PROCESSUALE
IN EUROPA (*)

SOMMARIO: 1. Il giusto processo incorporato nella Costituzione italiana come diritto inviola-
bile dell’uomo. — 2. L’erronea dicotomia tra garanzie oggettive e garanzie soggettive
quale conseguenza di uno snaturamento dei valori del giusto processo. — 3. La via
italiana al giusto processo. L’attribuzione di un rango costituzionale al diritto delle
prove elaborato nel 1989. — 4. Il procès équitable nel preambolo del codice di proce-
dura penale francese: una normativa meramente programmatica e lacunosa. — 5. Il
fair trial del sistema inglese dopo lo Human Rights Act 1998. — 6. Il giusto processo
come valore comune della cultura europea e il problema dell’armonizzazione dei di-
versi sistemi.

1. Il giusto processo incorporato nella Costituzione italiana come


diritto inviolabile dell’uomo. — Non era certo difficile prevedere che l’in-
serimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della nostra Costi-
tuzione (1) aprisse la strada a polemiche e a interpretazioni distorsive in
chiave reattiva rispetto a un novum percepito dalla magistratura come
strumento volto a ridimensionare i suoi poteri nell’accertamento dei reati.
Pensata e messa a punto, persino nella sua concreta articolazione, come
risposta di segno contrario alla giurisprudenza costituzionale che dal 1992
aveva progressivamente demolito i pilastri del rito accusatorio sul terreno
delle prove penali, la normativa sul giusto processo finiva per apparire
come un corpo estraneo al sistema processuale a chi ne riteneva definiti-
vamente acquisita la mutata fisionomia risultante dalle declaratorie di in-
costituzionalità e dagli interventi legislativi.
Più inatteso è invece l’atteggiamento manifestato, all’interno della
cultura giuridica, da qualche studioso che si è spinto fino a rinnegare il si-
gnificato stesso dell’espressione ‘‘giusto processo’’, quasi si trattasse di un
ingannevole gioco di parole escogitato dal Parlamento per rivestire in
modo paludato un concetto del tutto privo di valenza semantica. Si è in-
fatti sostenuto che l’aggettivo ‘‘giusto’’ aggiunge poco al sostantivo ‘‘pro-
cesso’’ perché ‘‘ogni modello di processo è, per chi lo adotta, immancabil-

(*) Testo della relazione svolta al Convegno sul tema ‘‘Da un processo ‘ingiusto’ a un
giusto processo?’’, tenutosi a Spoleto nei giorni 11-12 aprile 2002.
(1) V. legge cost. 23 novembre 1999, n. 2.

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mente giusto’’ (2). E, su un piano diverso, si sono espresse riserve sul te-
nore letterale dell’art. 111, comma 1, Cost., nel quale si afferma che ‘‘la
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge’’,
perché la giurisdizione sarebbe ‘‘tecnicamente neutra’’, dovendo essa
‘‘prescindere sul piano finalistico dal tipo, dalla natura e dalla qualità del
risultato sostanziale ottenibile nel giudizio’’ (3).
Queste visuali, tanto riduttive da immiserire la portata veramente
storica della riforma attuata con il nuovo testo dell’art. 111 Cost., si pos-
sono spiegare solo alla luce di una lettura della norma del tutto avulsa dal
retroterra culturale e storico cui è invece saldamente ancorata. Giusto
processo è nozione che riflette nel nostro sistema concetti di conio seco-
lare come fair trial e due process of law, il primo elaborato ben prima del-
l’età moderna dalla cultura inglese (4), il secondo testualmente recepito
nel V Emendamento della Costituzione Americana del 1791 (5). Sia pure
attraverso la mediazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
il cui art. 6 garantisce all’individuo il diritto ad un fair and public trial, la
formula ora racchiusa nell’art. 111 Cost., che appare stonata alle orecchie
di chi ha familiarità solo con i vocaboli della legge positiva, riecheggia un
modo espressivo tipico dell’età anteriore alle codificazioni.
Sottratto alla suggestione banalizzante del vocabolario positivista (6),
l’aggettivo ‘‘giusto’’ che compare nella nuova norma costituzionale a ca-
ratterizzare il sostantivo ‘‘processo’’ rivela un’adesione a valori etico-poli-
tici che si collocano al di sopra della legge scritta, ricavati dalla natura e
dalla ragione secondo i moduli del giusnaturalismo. Si tratta dunque di
una formula tutt’altro che neutra o retorica (7) dal momento che essa rac-
chiude l’esercizio della iurisdictio entro un preciso orizzonte di principi
senza il rispetto dei quali viene meno il minimum necessario a definire
‘‘processo’’ la sequenza delle attività dirette ad accertare un fatto penal-
mente rilevante.
Del resto, il lessico giusnaturalista non era del tutto ignoto alla nostra

(2) FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, in
Questione giustizia, 2000, p. 50.
(3) V., in relazione al processo civile, COMOGLIO, Il ‘‘giusto processo’’ civile nella di-
mensione comparatistica, in Riv. dir. proc., 2002, p. 739.
(4) Sulle origini del concetto di fair trial nella common law inglese v. MOCCIA, Il si-
stema di giustizia inglese. Profili storici e organizzativi, Rimini, 1984.
(5) Cfr. VIGORITI, Garanzie costituzionali del processo civile. Due process of law e
art. 24 Cost., Milano, 1970, p. 30, nota 12.
(6) Improprio e fuorviante è il rilievo, più volte avanzato anche nelle cronache gior-
nalistiche, secondo cui ‘‘definire giusto il processo che si costituzionalizza ha un senso in
quanto si reputi ingiusto quello sinora praticato’’: v. FERRUA, op. cit., p. 51.
(7) V. invece in questo senso, GREVI, Garanzie soggettive e garanzie oggettive nel
processo penale secondo il progetto di revisione costituzionale, in questa Rivista, 1998, p.
728.

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Costituzione, ancor prima della riforma del 1999. Nell’art. 25 la previ-


sione del giudice naturale, quale garanzia fondamentale dell’individuo,
vale a denotare una pluralità di valori, dall’imparzialità alla terzietà, desu-
mibili da un terreno superiore a quello della disciplina codicistica. Analo-
gamente, l’inviolabilità della libertà personale e del diritto di difesa, rico-
nosciuta dagli artt. 13 e 24 Cost., attesta uno status di queste situazioni
soggettive che affonda le radici in una sede extralegislativa.
Le implicazioni che discendono dal riconoscere nel giusto processo
dell’art. 111 Cost. il frutto di una riscoperta del giusnaturalismo proces-
suale (8) possono agevolmente essere delineate in un contesto che sappia
coniugare l’eredità storica dello ius naturale con le acquisizioni del mo-
derno costituzionalismo.
Nella formula recepita dalla nuova norma costituzionale c’è, anzi-
tutto, il contrassegno di un principio di rango supremo, dotato di un
grado di resistenza tale da non poter essere ribaltato non solo mediante
legge ordinaria, come ogni altra norma costituzionale, ma anche in forza
del procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art. 138
Cost. (9). Il giusto processo è infatti uno dei diritti inviolabili dell’uomo
che la Costituzione riconosce e garantisce nell’art. 2. Lo conferma, se ce
ne fosse bisogno, il cordone ombelicale che lo lega alle clausole delle
Carte internazionali in tema di human rights, secondo quanto attesta lo
stesso tenore letterale dell’art. 111 Cost. Di qui il carattere della immuta-
bilità, secondo la dottrina giusnaturalistica che si ispira alla regola iura
naturalia sunt immutabilia (10).
Su un piano diverso, ma non meno denso di importanti conseguenze,
la nuova norma costituzionale appare dotata di una forza espansiva ca-
pace di irradiarsi su una pluralità di piani. Imparzialità e terzietà del giu-
dice, contraddittorio tra le parti e parità tra le stesse, diritto alla prova e
ragionevole durata del processo sono proiezioni di un unico valore fonda-
mentale racchiuso entro la formula del giusto processo. E persino altre ga-
ranzie processuali, come la presunzione d’innocenza, il diritto di difesa e
il principio del giudice naturale, già riconosciute dalla nostra Costituzione
negli artt. 27, 24 e 25 e rimaste al di fuori del corpus dell’art. 111 Cost.,
risultano ora riconducibili a questa matrice normativa.

(8) Di giusnaturalismo processuale ha parlato, tra i primi, DENTI, Valori costituzio-


nali e cultura processuale, in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici con-
temporanei. Studi di diritto comparato diretti da Cappelletti, vol. II, a cura di Pizzorusso e
Varano, Milano, 1985, pp. 811-829.
(9) In questo senso v. COMOGLIO, op. cit., p. 738.
(10) Esemplare, al riguardo, è il pensiero di CARRARA, Programma del corso di diritto
criminale. Parte generale, Lucca, 1871, § 812: ‘‘forza è che vi siano principi inalterabili a
cui debba subordinarsi l’atto del giudicare’’. E, nel senso che la scienza criminale definisce i
poteri del legislatore e quelli del magistrato ‘‘per lo scopo precipuo che il giudizio con l’es-
sere giusto estrinsecamente riesca tale intrinsecamente’’, v. op. cit., §§ 787, 788 e 789.

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Si potrebbe quindi parlare di una concezione monistica, penetrata


nella nostra Costituzione sulla scia delle Carte internazionali dei di-
ritti (11), per tenerla distinta dalla fuorviante visuale atomistica patroci-
nata da alcuni interpreti delle nuove norme. Non manca infatti chi consi-
dera il giusto processo come una garanzia autonoma rispetto, ad esempio,
alla ragionevole durata prevista dal comma 2 dell’art. 111. Di qui la in-
concepibile prospettiva di un eventuale conflitto tra l’uno e l’altro princi-
pio con la necessità di un bilanciamento degli interessi (12).
Probabilmente chi privilegia il punto di vista dell’atomizzazione si la-
scia trascinare dall’idea che una nozione improntata ad un lessico così
lontano culturalmente dal vocabolario della legge positiva contiene una
frangia di indeterminatezza tale da rendere possibile qualsiasi interpreta-
zione riduttiva. Ma la vaghezza dell’attributo ‘‘giusto’’ è oggi superata
dalla positivizzazione che la natural justice ha conosciuto non solo nel-
l’art. 111 della nostra Costituzione, ma anche nell’art. 6 della Conven-
zione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 14 del Patto internazionale
dell’ONU sui diritti civili e politici, fonti nelle quali le garanzie del fair
trial sono enumerate in modo preciso e inequivocabile (13).
Vi è infine una terza peculiarità del giusto processo che scaturisce
dalla sua natura non programmatica, ma al contrario marcatamente pre-
cettiva. La formula ‘‘regolato dalla legge’’ che compare nel comma 1 del-
l’art. 111, ed è ribadita in tutti gli altri capoversi nei quali è disciplinata la
materia, designa l’obiettivo dell’effettività. Il dovere dell’attuazione con-
creta è così cogente per il legislatore ordinario che in alcune aree, come
quella del diritto delle prove penali, la norma costituzionale si sovrappone
alle disposizioni codicistiche, così da realizzare una sorta di concretizza-
zione costituzionale delle garanzie sul diritto alla prova (art. 111, commi
3, 4 e 5, Cost.) (14).
Immutabilità, forza espansiva ed effettività sono dunque i tre profili
che qualificano il giusto processo come espressione di uno ius naturale al-
lineato alle fonti internazionali sui diritti dell’uomo.

(11) È proprio nell’ambito di una visuale che abbraccia i diversi profili garantistici ri-
conosciuti all’imputato che si parla di natural justice: v. STEIN e SHAND, I valori giuridici
della civiltà occidentale, Milano, 1981, p. 114 ss.
(12) Cfr. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di ‘‘giusto
processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e garanzia del contradditto-
rio), in Pol. dir., 2000, p. 437; MARZADURI, Commento alla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2,
in Leg. pen., 2000, p. 773, nonché, nell’ambito di una impostazione più problematica, NAPPI,
La ragionevole durata del giusto processo, in Cass. pen., 2002, p. 1542.
(13) Sulla possibilità di superare l’indeterminatezza dei diritti naturali v. HAMBUR-
GER, Natural Rights, Natural Law and American Costitution, in New Yale Law Journal,
1993, p. 907.
(14) Il legislatore ordinario ha poi provveduto a ridisciplinare i problemi attinenti
alla prova penale nella l. 1o marzo 2001, n. 63.

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2. L’erronea dicotomia tra garanzie oggettive e garanzie soggettive


quale conseguenza di uno snaturamento dei valori del giusto processo. —
Ridotto il giusto processo ad una sorta di proclamazione eminentemente
retorica e segmentato il suo contenuto in piccole aree perimetrate da stec-
cati, era naturale che ne derivassero conseguenze assai negative sul piano
della corretta ricostruzione della sua portata. Di ciò si trova traccia nella
elaborazione di una fuorviante dicotomia nell’ambito dei diritti ricono-
sciuti dall’art. 111 Cost., che sarebbero da ricondurre ora al genus delle
garanzie oggettive, ora alla categoria delle garanzie soggettive.
La premessa da cui prende avvio questo orientamento interpretativo
è quella della radicale diversità di prospettiva tra la nuova norma costitu-
zionale e il suo archetipo rinvenibile nell’art. 6 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo. Mentre il fair trial garantito in sede europea sarebbe
concepito come diritto del singolo, il nostro giusto processo rifletterebbe
‘‘un’esigenza oggettiva di attuazione della Costituzione’’ (15).
Di qui due corollari destinati a far intendere la valenza pratica del di-
stinguo. Il contraddittorio assumerebbe un duplice significato nella norma
costituzionale: alla garanzia oggettiva prevista dal comma 4 dell’art. 111
Cost., da intendersi come prescrizione di un ineludibile metodo di accer-
tamento nella formazione della prova, farebbe riscontro una garanzia sog-
gettiva, ricavabile dal comma 3 della stessa norma, da riconoscere come
diritto dell’imputato di far acquisire le prove a discarico e di controesami-
nare le persone che rendono dichiarazioni a carico (16).
Analogo rilievo è stato fatto in tema di durata ragionevole del pro-
cesso. Questo principio è stato collocato in un terreno così marcatamente
estraneo alle garanzie dell’imputato da indurre ad affermare che, quale
‘‘garanzia oggettiva’’, esso può fungere da limite all’espandersi delle ga-
ranzie difensive, subordinandone l’attuazione ad interessi di efficienza del
sistema processuale (17).
Il risultato di questa sorprendente trasfigurazione del giusto processo
è palese. Il diritto di difesa, in alcuni suoi aspetti, e la tutela contro i tempi
irragionevoli dell’attività procedimentale vengono trasformati in potestà
dello Stato e dei suoi organi, capaci di contrapporsi alle situazioni sogget-
tive riconosciute all’imputato all’interno della stessa Carta costituzionale.
Riemerge così, in una forma nuova e quanto mai insidiosa per la coper-

(15) CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 12. V., invece, nel
senso che il nuovo art. 111 Cost. privilegia le garanzie quali strumenti di tutela dell’imputato
a fronte dell’interesse riconducibile alla correttezza dell’accertamento processuale, GREVI,
op. cit., p. 430.
(16) V. TONINI, Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, in
Dir. pen. proc., 2000, p. 1390.
(17) GREVI, op. cit., p. 436; MARZADURI, op. cit., p. 771, secondo cui solo nell’art. 6
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la ragionevole durata del processo sarebbe
concepita come diritto dell’individuo.

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tura che se ne vorrebbe ricavare dall’art. 111 Cost., quella antitesi tra ga-
rantismo e difesa sociale cui da sempre viene attribuito un ruolo centrale
nella disciplina del processo penale.
In questo errore c’è il segno dell’eredità deformante proveniente dalla
vecchia cultura inquisitoria. Nel momento in cui il nostro ordinamento re-
cepisce nell’architettura della giurisdizione le garanzie dell’imputato come
diritti dell’uomo è davvero un atto di resistenza ai nuovi valori ridefinire
gli istituti processuali nella chiave di un’oggettività-efficienza del sistema
finalizzata a salvaguardare le posizioni di primato della parte pubblica.
Già lo stesso concetto di ‘‘garanzia oggettiva’’ si rivela intrinseca-
mente contraddittorio alla luce della tradizione culturale della civiltà occi-
dentale (18). Nel processo le garanzie sono limiti posti all’esercizio dei
poteri della autorità e non possono che far capo all’individuo il quale ri-
vendica la sua tutela di fronte all’apparato giudiziario. È bensì vero che in
alcune sentenze la Corte costituzionale ha fatto uso di questa formula, ma
con finalità del tutto antitetiche a quelle di chi oggi la recupera per farne
uno strumento contra reum. Si ricorderà che in relazione al diritto di di-
fesa, al quale i terroristi delle Brigate Rosse rinunciavano ostentatamente
per disconoscere il potere stesso dello Stato di giudicarli, la Corte aveva
correttamente elaborato la nozione di una garanzia necessaria a consa-
crare la correttezza dell’accertamento processuale, come tale oggettiva e
irrinunciabile perché dettata dall’interesse a mantenere il giudizio entro le
forme canoniche del rito (19). Questa opzione in favore della indefettibile
presenza del difensore si traduce però, sia pure attraverso la forma della
supplenza dello Stato, nella sola indisponibilità della difesa tecnica che è
garantita al fine di rafforzare la tutela dell’imputato e non certo per inde-
bolirla o limitarla. Al contrario, la garanzia oggettiva che si prospetta in
tema di ragionevole durata del processo è chiaramente contra reum per-
ché mira a far prevalere l’esigenza della collettività a definire celermente i
giudizi anche al prezzo di una riduzione delle garanzie difensive.
A ben vedere, quindi, nel processo penale è la sola garanzia dell’as-
sistenza tecnica a delinearsi tuttora come diritto indisponibile. Ogni altra
tutela riconducibile alla matrice del giusto processo è invece caratterizzata
dal profilo della disponibilità da parte dell’imputato. Così è, anzitutto, per
il diritto alla prova, nelle due forme del potere di richiedere l’ammissione
di elementi a discarico e di condurre il controesame delle persone chia-
mate a rendere dichiarazioni contra reum. Il contraddittorio è rinunciabile
per espressa previsione costituzionale che consente la formazione della
prova senza controesame del difensore quando vi sia il consenso dell’im-
putato (art. 111, comma 5, Cost.).

(18) Basterà ricordare la definizione del processo come ‘‘rito inalterabile costituito
come freno dei giudicanti’’, elaborata da CARRARA, op. cit., §§ 804 e 814.
(19) V. Corte cost., 10 ottobre 1979, n. 125, in Giur. cost., 1979, p. 852.

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Anche la durata del processo può legittimamente divenire oggetto di


scelte del solo imputato dal momento che, mediante il giudizio abbre-
viato, le forme e i tempi dell’accertamento sul merito dell’imputazione
possono conoscere cospicue potature cui la pubblica accusa non è abili-
tata a contrapporre alcuna volontà contraria (20). Persino la garanzia del
giudice naturale e quella dell’imparzialità sono disponibili. Con la richie-
sta di giudizio abbreviato l’imputato può giungere ad attribuire la compe-
tenza funzionale al Gup sottraendosi alla iurisdictio del tribunale o della
Corte d’assise, organo con partecipazione popolare competente per i reati
più gravi. E tanto la ricusazione del giudice, quanto la rimessione del pro-
cedimento, sono da sempre riservate all’insindacabile scelta delle parti.
Continuando a ragionare con gli schemi del processo inquisitorio, do-
minato da un interesse superiore a quello dell’imputato, non ci si è accorti
di quanto sia cambiato il nostro sistema con l’adozione del rito accusato-
rio. Movendosi nel solco di questa esperienza, il giusto processo ha
espunto con ancora maggior forza dal nostro sistema le fuorvianti sugge-
stioni desumibili dalla nozione di garanzia oggettiva.

3. La via italiana al giusto processo. L’attribuzione di un rango co-


stituzionale al diritto delle prove elaborato nel 1989. — La riscoperta del
giusnaturalismo processuale nel nostro ordinamento può essere proficua-
mente intesa nelle sue vicende evolutive alla luce delle riforme parallele
attuate nel sistema francese e in quello inglese. Italia, Francia e Inghilterra
hanno infatti recepito nello stesso periodo i contenuti degli human rights
desunti dalla Convenzione europea, peraltro con modalità e forme diverse
imposte dalle rispettive tradizioni nazionali e dalle peculiarità del tessuto
normativo su cui i nuovi principi si sono innestati.
La storia della procedura penale italiana degli ultimi anni è ben nota
e va qui richiamata solo al fine di misurare l’apporto innovativo derivante
dalla normativa sul giusto processo. Rispetto ad un quadro costituzionale
come quello consacrato nel 1948, che plasmava già in modo assai incisivo
un livello di tutela processuale imperniato su presunzione di non colpevo-
lezza, diritto di difesa, libertà personale e giudice naturale, il codice del
1989 ha apportato una sola grande novità, traendo ispirazione dalla Con-
venzione europea e dall’esperienza comparativa: la disciplina del modus
probandi. Il diritto alla prova (artt. 190 e 495 c.p.p.), il potere di elabo-
rare gli enunciati dichiarativi nell’esame e nel controesame (art. 498
c.p.p.), l’inutilizzabilità dei dati probatori illegittimi e delle risultanze di-
chiarative extradibattimentali (artt. 191 e 526 c.p.p.) hanno dato vita ad

(20) Diversa è invece la disciplina del patteggiamento in cui la contrazione delle atti-
vità processuali è subordinata al consenso del pubblico ministero, richiesto perché l’accordo
verte su una decisione di merito.

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un corpus normativo del tutto inedito nelle codificazioni dell’Europa con-


tinentale.
Sono altrettanto note le reazioni della magistratura che hanno con-
dotto la Corte costituzionale a far rivivere lo spirito inquisitorio insito nel
principio della ricerca della verità materiale, ridefinito, per attenuare l’im-
patto della svolta restauratrice, come ‘‘principio di non dispersione della
prova’’ (21). Ribaltato così l’impianto del modello accusatorio restituendo
agli atti investigativi del pubblico ministero l’attitudine a condizionare il
convincimento del giudice nella fase dibattimentale, non restava che una
sola strada per ripristinare le garanzie difensive nella formazione della
prova già riconosciute dal codice del 1989: l’attribuzione di un rango co-
stituzionale a quel difendersi provando originariamente previsto dal mo-
dello accusatorio.
È questo il vero significato della riforma sul giusto processo attuata
mediante la legge costituzionale n. 2/1999. Il nuovo art. 111 non si carat-
terizza per una forte carica di novità rispetto ad una disciplina proces-
suale rimasta sempre refrattaria ai valori del contraddittorio nel regime
delle prove penali. Al contrario, il Parlamento ha realizzato una sorta di
incorporation rafforzativa di garanzie già codificate nel 1989 e poi ripu-
diate dalla svolta involutiva dei primi anni Novanta, per accrescerne il
grado di resistenza e renderle insensibili alle tentazioni di future revisioni
legislative o giurisprudenziali.
Basta riflettere sui contenuti dell’art. 111 Cost. per convincersi che,
sia pur riecheggiando le formule espressive della Convenzione europea, vi
è racchiuso tutto il diritto delle prove penali elaborato dal codice del
1989: dall’assunzione degli elementi a discarico al controesame del dichia-
rante a carico, fino all’inutilizzabilità degli enunciati probatori non filtrati
dal contraddittorio (22). Certo, la riconducibilità di queste garanzie all’u-
nica matrice del giusto processo, inteso come espressione di uno human
right, attribuisce alle regole in passato codificate un valore supremo che il
legislatore del 1989 non aveva avuto la forza di far emergere, ma il signifi-
cato complessivo è, val la pena di ribadirlo, quello di un ritorno a valori
già conosciuti (23) che sono riconquistati dopo una sofferta sperimenta-
zione.

(21) Come è noto, il principio è stato affermato dalle sentenze n. 254/1992 e n.


255/1992 della Corte costituzionale.
(22) La norma costituzionale ha disciplinato, come è noto, anche il bilanciamento tra
l’interesse al controesame e il diritto al silenzio, tematica sulla quale la l. n. 63/2001 è inter-
venuta con una dettagliata normativa imperniata sugli artt. 64, 197, 197-bis e 210 c.p.p.
(23) Il rilievo vale anche per il principio di imparzialità del giudice, ora esplicita-
mente affermato nell’art. 111 Cost., ma a tal punto compenetrato nell’originaria struttura
del codice del 1989 da indurre la Corte costituzionale a estenderne la portata mediante una
serie di declaratorie di illegittimità dell’art. 34 c.p.p. che hanno consacrato la ineludibilità
del principio in ogni momento della dinamica processuale: v. fra le sentenze più recenti,

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La stessa Corte costituzionale sembra aver inteso perfettamente il


messaggio insito nella riscoperta del giusnaturalismo processuale me-
diante il superamento del principio di non dispersione della prova, ormai
decisamente contrastante con il nuovo quadro costituzionale (24). È dive-
nuto così concreto quel carattere della immutabilità che denota i conte-
nuti dello ius naturale.

4. Il procès équitable nel preambolo del codice di procedura penale


francese: una normativa meramente programmatica e lacunosa. — Il per-
corso seguito dal sistema francese per approdare al giusto processo è forse
meno travagliato di quello sperimentato nel nostro Paese, ma i risultati
conseguiti sono certamente più modesti rispetto alla pienezza di contenuti
garantistici esibita dall’art. 111 della nostra Costituzione. Il peso della tra-
dizione ha frenato l’aspirazione di una parte della cultura riformista ad in-
cidere in misura più penetrante sulla struttura del modello processuale in-
quisitorio imperniato, fin dal code d’instruction criminelle del 1808, sul
principio dell’iniziativa d’ufficio nell’acquisizione delle prove e sulla fi-
gura del giudice istruttore.
Sulla scia di un intenso dibattito culminato nei lavori della Commis-
sione Justice pénale et droits de l’homme (25), il Parlamento francese ha
varato nel giugno 2000 un’importante riforma volta ad irrobustire la pre-
sunzione di innocenza e i diritti delle vittime (loi n. 2000-516). Il catalogo
delle garanzie stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è
stato inserito nel codice di procedura penale introducendo nuove disposi-
zioni di principio che esprimono la tavola dei valori cui è improntata la
legge processuale, ampiamente modificata dallo stesso provvedimento le-
gislativo nelle specifiche aree investite dai nuovi principi.
Fatta eccezione per la clausola che attribuisce all’autorità giudiziaria
il dovere di informare la vittima del reato dei diritti che le spettano, assi-
curandone l’effettività della tutela, tutte le altre disposizioni configurano
garanzie in favore dell’imputato.
Processo équitable et contradictoire, vale a dire giusto e attuato nel
rispetto del diritto di difesa, ‘‘equilibrio’’ dei diritti riconosciuti alle
parti (26) e uguaglianza di trattamento tra persone imputate dei medesimi
reati, presunzione d’innocenza, adeguatezza e proporzionalità delle mi-

Corte cost., 24 aprile 1996, n. 131, in Giur. cost., 1996, p. 1139; Corte cost., 20 maggio
1996, n. 155, ivi, 1996, p. 1464; Corte cost., 17 giugno 1999, n. 241, ivi, 1999, p. 2132.
(24) Cfr. sul punto, in particolare, Corte cost., n 440/2000 e n. 32/2002.
(25) Il progetto di riforma elaborato dalla Commissione è raccolto nel volume La
fase preparatoria del processo penale nel progetto Delmas-Marty, a cura di PISANI e GALAN-
TINI, Bologna, 1994.
(26) Non a caso si parla di équilibre e non di parità tra le parti, come nell’art. 111
della nostra Costituzione. Come è noto, la giurisprudenza della Corte europea ha ricavato

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sure restrittive della libertà personale, ragionevole durata del processo:


sono questi i valori corrispondenti alla tutela assicurata all’imputato dal-
l’art. 111 e in altre norme della nostra Costituzione.
Su un piano diverso si collocano invece due clausole: da un lato,
quella che prevede la separazione tra funzioni di accusa e di giudizio, in-
serita al fine di aprire una breccia verso il superamento del cumulo di
ruoli tuttora attribuito al giudice istruttore; dall’altro, quella desunta dalla
Convenzione europea che garantisce il diritto a far esaminare la sentenza
di condanna da un altro giudice, principio che ha condotto a prevedere
nel code de procédure pénale l’appello contro le decisioni della Corte d’as-
sise, introdotto in Italia fin dal 1955, ma sconosciuto in Francia prima
della legge del 2000 in omaggio al principio dell’insindacabilità del ver-
detto dei giurati (27).
L’apparente parallelismo tra la riforma francese e quella italiana
trova però una prima smentita nella forma prescelta dal legislatore d’ol-
tralpe per dar vita al nuovo quadro garantistico. Mentre la tutela rac-
chiusa nel giusto processo del nostro ordinamento è collocata sul piano
dei supremi principi di rango costituzionale, il procès équitable dei fran-
cesi ha la sua fonte in un article préliminaire posto in testa al codice di
procedura penale e riveste quindi la forza riconosciuta alla legge ordinaria.
Non varrebbe rilevare, in contrario, che alla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo spetta nell’ordinamento francese, a norma dell’art. 55
della Costituzione, un’efficacia superiore a quella della legge ordinaria,
quale trattato ratificato dal Parlamento. Proprio l’ambiguità che deriva
dalla ricerca di un ulteriore status giuridico del giusto processo, al di là
della sua vigenza nella normativa pattizia europea, fa pensare ad un’ope-
razione volta a degradare i principi garantistici già affermati dalla lex su-
perior, per enunciarli al livello delle disposizioni del codice che è certa-
mente lex inferior. In altri termini, è difficile sottrarsi all’impressione che
il legislatore francese abbia voluto creare con l’article préliminaire una
sorta di normativa-cuscinetto situata tra le disposizioni europee di rango
superiore e quelle del codice processuale appartenenti ad un livello gerar-
chico in sottordine. Con l’intento, verosimilmente, di far apparire alli-
neato agli human rights un sistema depurato solo in parte dalle incrosta-
zioni inquisitorie e presentato nella sua veste internazionalmente più luc-
cicante nelle disposizioni introduttive.
È del resto la stessa dottrina francese ad attribuire al nuovo pream-
bolo del code de procédure pénale un valore emblematico (déclaratoire) e

dal fair trial il concetto di uguaglianza delle armi che sembra più pregnante di quello rece-
pito nell’article préliminaire francese.
(27) V. sul punto PISANI, Il nuovo article préliminaire del codice di procedura penale
francese, in Riv. dir. proc., 2000, p. 1008.

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quindi non normativo (28). Si tratta insomma di norme meramente pro-


grammatiche, destinate ad avere una valenza simbolica e pedagogica, frui-
bile soprattutto come bussola per interpretare specifiche disposizioni del
codice in cui i principi trovano concreta attuazione (29).
Al di là del piano formale che denuncia un itinerario tortuoso verso il
giusnaturalismo processuale (30), è il corpus delle disposizioni in cui è
racchiuso il procès équitable a rivelare limiti e lacune.
La mancanza di qualsiasi riferimento al principio dell’imparzialità del
giudice attesta, unitamente alla flessibile clausola in cui si afferma la sepa-
razione delle funzioni di accusa e di giudizio, che l’article préliminaire
non ha inteso incidere sul vecchio impianto con riforme di struttura così
da abolire il ruolo di giudice-investigatore proprio del juge d’instruction,
manifestamente incompatibile con il rito accusatorio (31).
È inoltre macroscopica, nel raffronto con il nostro art. 111 Cost.,
l’assenza di principi attinenti al diritto delle prove penali. Per questa parte
la Convenzione europea è stata del tutto ignorata. Riconoscere il diritto al
controesame e alla acquisizione delle prove a discarico, con la correlativa
regola di esclusione delle dichiarazioni assunte senza contraddittorio,
avrebbe significato per il legislatore francese colpire al cuore la struttura
del rito inquisitorio rinnegando due secoli di tradizione processuale.
Si può quindi concludere riconoscendo alla cultura francese il merito
di aver patrocinato il recupero di un garantismo la cui forza innovativa è
peraltro attenuata dal valore programmatico dei principi e dalle lacune su
punti cruciali del modello processuale.

5. Il fair trial del sistema inglese dopo lo Human Rights Act 1998.
— Si poteva pensare che l’ordinamento inglese, considerato come il luogo
di nascita del giusto processo, non dovesse porre alcun problema con ri-

(28) V. PRADEL, Présentation du code français de procédure pénale, in Il codice di


procedura penale francese, a cura di MAFFEI, Piacenza, 2002, p. 10.
(29) Per un’ampia analisi sul punto v. AIMONETTO, Le recenti riforme della procedura
penale francese, Torino, 2002, p. 70 ss.
(30) Il congegno del preambolo collegato alle norme convenzionali supra legem si è
già dimostrato inadeguato a garantire l’immutabilità propria dei principi dello ius naturale.
La legge attuativa del procès équitable (loi n. 2000/516) aveva garantito il diritto al silenzio
anche all’indagato sottoposto alla garde à vue. Con la successiva loi n. 2002/86 si è peraltro
stabilito che l’avviso relativo ai diritti dell’indagato debba essere formulato in modo da pre-
vedere il silenzio quale ultima opzione dell’indagato. Ciò al fine di evitare che il diritto di
non rispondere alle domande poste dagli inquirenti possa essere percepito dalle persone sot-
toposte alla garde à vue come un’incitazione a tacere.
(31) In questo senso si è espressa M. Delmas-Marty in una comunicazione diretta al
prof. Mario Pisani nella quale precisa riferendosi alla l. n. 2000/516, che ‘‘... le rapport de
notre commission a incontestablement inspiré en partie le législateur, mais il n’a pas eu
l’audace (ou selon nous le réalisme) de la réforme de structure’’: v. PISANI, Il nuovo article
préliminaire, cit., p. 999, nota 16.

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guardo all’impatto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il cui


art. 6, dedicato alle garanzie del fair trial, riflette infatti pressoché intera-
mente le forme di tutela dell’imputato radicate nel common law in-
glese (32).
La giurisprudenza della Corte europea, con il suo enorme sviluppo
sul piano della concretizzazione dei diritti scaturita dalla fittissima casi-
stica, ha però smentito questa benevola presunzione. Nel passaggio dal li-
vello dei principi al terreno della loro specifica articolazione, anche il si-
stema inglese ha quindi esibito vuoti di tutela e normative inadeguate ri-
spetto al grado di protezione richiesto dai giudici di Strasburgo.
Basterà qui ricordare la sentenza pronunciata contro il Regno Unito a
proposito del potere della giuria di ricavare argomenti contra reum (ad-
verse inferences) dal silenzio mantenuto dall’indagato in sede di interroga-
torio di polizia. Nel caso Murray v. United Kingdom la Corte europea ha
ravvisato una violazione del fair trial garantito dall’art. 6 della Conven-
zione poiché ad un indagato sottoposto ad interrogatorio in stato di arre-
sto la polizia aveva negato il diritto all’assistenza del difensore prima di
decidere se rispondere alle domande o tacere (33). Una analoga viola-
zione è stata poi ritenuta sussistente dai giudici di Strasburgo nel caso
Condom and Condom v. United Kingdom essendosi accertato che, nelle
istruzioni ai giurati, il magistrato aveva omesso di segnalare quanto alle-
gato dagli indagati per rifiutarsi di rendere dichiarazioni alla polizia: con-
sigliati dai loro difensori, essi avevano affermato di non essere in grado di
rispondere versando in quel momento in una crisi di astinenza da stupefa-
centi (34).
La consapevolezza di poter talvolta scoprire norme, o prassi disso-
nanti rispetto alla normativa europea ha dunque spinto il Parlamento in-
glese ad approvare lo statute denominato Human Rights Act 1998, en-
trato in vigore il 2 ottobre del 2000. Il proposito è stato quello di rendere
effettiva la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo, senza però
intaccare il principio della sovranità del Parlamento (35). Da qui la crea-
zione di una forma di recezione degli human rights che si rivela del tutto
diversa da quelle adottate in Italia e in Francia. Il legislatore inglese non
ha riscritto in testi normativi le garanzie enumerate dalla Convenzione eu-
ropea, ritenendole già desumibili dalla fonte pattizia e comunque incorpo-

(32) Di ciò non si è mai dubitato, sia per i contenuti specifici della fairness, sia per la
rilevanza attribuita ai temi della prova, tradizionalmente negletti nella tradizione continen-
tale postcodicistica.
(33) V. al riguardo, JENNINGS, ASHWORTH e EMMERSON, Silence and Safety: the Im-
pact of Human Rights Law, in Criminal Law Review, 2000, 887 ss.
(34) EMMERSON e ASHWORTH, Human Rights and Criminal Justice, 2001, pp. 457-
458.
(35) EMMERSON e ASHWORTH, op. cit., p. 115.

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rate nel patrimonio culturale del Paese (36). Ha invece messo a punto un
congegno che mira a garantire la concreta operatività del fair trial anche
là dove le singole disposizioni del sistema si discostino dalla stessa.
L’Act del 1998 stabilisce, in primo luogo, che le norme europee pre-
valgono su quelle interne che hanno il loro fondamento nel common law,
vale a dire in quel complesso di principi e regole che appartengono alla
tradizione giuridica inglese, o nell’equity, cioè nel corpus normativo stori-
camente sorto dalla prassi della Chancery’s Court per colmare le lacune
del common law. Per quanto attiene però al diritto di fonte legislativa
(primary legislation), non è riconosciuta ai conventional rights la stessa
prevalenza: ai giudici è fatto obbligo di interpretare e applicare le norme
interne adeguandole alle disposizioni pattizie. E, per ricostruire i conte-
nuti di queste ultime, i magistrati inglesi debbono tener conto della giuri-
sprudenza della Corte e di tutti gli atti non giurisdizionali provenienti
dalla stessa, così come dei pareri espressi dalla Commissione e dalle deli-
berazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Il punto nevralgico del nuovo sistema emerge dalla disciplina dettata
per i casi in cui in sede processuale si rilevi un conflitto tra una disposi-
zione legislativa e una clausola convenzionale. Qui l’Act del 1998 predi-
spone un meccanismo imperniato sulla declaratoria di incompatibilità
della norma interna rispetto alla Convenzione con il conseguente potere
del giudice di segnalare il ‘‘vizio’’ al Parlamento che viene così sollecitato
a modificare la norma incompatibile. A norma della section 10 è poi an-
che un Ministro della Corona a poter assumere l’iniziativa di un remedial
order che attiva perentoriamente il potere legislativo, quando sia già stata
pronunciata una decisione in materia dalla Corte europea contro il Regno
Unito (37).
È evidente l’affinità tra la declaration of incompatibility e la declara-
toria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità che con-
sente ai nostri giudici di demandare alla Corte costituzionale il giudizio
sulla legge ordinaria. Nel modello inglese risulta però ben chiaro che il
congegno volto a rimuovere il contrasto con un conventional right si svi-
luppa su un piano che non scalfisce il primato riconosciuto al Parlamento,
così da escludere i giudici dal sindacato sulla legittimità delle leggi.
Posta a confronto con l’incorporazione costituzionale del giusto pro-
cesso attuata in Italia e con la scelta minimalista di collocare il procès
équitable in un preambolo codicistico come si è fatto in Francia, la via in-
glese alla riaffermazione del fair trial appare come quella più lontana dalle

(36) Il Regno Unito è stato infatti tra i primi paesi a sottoscrivere la Convenzione eu-
ropea nel 1951 e a ratificarla nel 1953. Il ritardo della Francia nell’aderire al trattato (1973)
dimostra assai bene quanto sia stato diverso l’approccio alla normativa europea nei due
Paesi.
(37) EMMERSON e ASHWORTH, op. cit., p. 135 ss.

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declamazioni programmatiche e tutta rivolta all’obiettivo della piena effet-


tività delle garanzie nella concreta operatività dell’iter processuale.

6. Il giusto processo come valore comune della cultura europea e il


problema dell’armonizzazione dei diversi sistemi. — Chiariti i limiti di
convergenza dei diversi ordinamenti nei percorsi che hanno condotto alla
riscoperta del giusnaturalismo processuale, diventa facile prendere posi-
zione di fronte alla prospettiva coltivata da chi crede si possa approdare
ad un modello processuale penale comune a tutti i Paesi del vecchio conti-
nente (38).
Le perplessità e le riserve su questo futuribile sono dettate, più che
suggerite, dai risultati dell’analisi fin qui svolta che ha messo in luce la
portata diversificante o frenante delle vicende storiche e delle sedimenta-
zioni culturali proprie di ciascuno dei Paesi in cui si è imposto il valore
del giusto processo. Sembra quindi evidente che la globalizzazione proce-
durale, come meta ideale di un’evoluzione riformistica, finisca già fin
d’ora per rivelarsi come una patina che nasconde le peculiarità dei singoli
ordinamenti.
Il pericolo di una fuorviante semplificazione è oggi percepibile nel-
l’enfasi deformante di formule quali ‘‘prova europea’’, ‘‘procuratore euro-
peo’’, ‘‘mandato d’arresto europeo’’. Il mantello dell’Europa evoca scenari
tanto allettanti quanto astratti, dietro i quali si nascondono spesso realtà
ben meno rassicuranti di quelle intuibili a prima vista sotto la suggestione
della parola che inizia con la ‘‘e’’ (39). Così, ad esempio, battezzando
come ‘‘prova europea’’ quella acquisibile a norma dell’art. 33 del Corpus
juris (40) — il complesso delle disposizioni che dovrebbero rendere uni-
formi le indagini e i processi secondo una procedura sovranazionale per i
reati che offendono gli interessi della Comunità europea — si finisce per
ammettere che i risultati di una identification svolta davanti alla polizia
inglese possano essere utilizzati dal giudice italiano come quelli di una ri-
cognizione fatta davanti al giudice delle indagini preliminari, nonostante
l’art. 361 c.p.p. escluda l’efficacia probatoria delle individuazioni persino
quando siano compiute davanti al pubblico ministero.
L’armonizzazione dei diversi sistemi non deve dunque trasformarsi in

(38) DELMAS-MARTY, La place d’un droit pénal commun dans la construction euro-
péenne, Relazione presentata al Convegno tenutosi a Spoleto l’11 e 12 aprile 2002 sul tema
‘‘Da un processo ‘ingiusto’ a un giusto processo?’’.
(39) A proposito dei rischi che derivano dalle suggestioni di un diritto globalizzato
che impedisce di percepire le differenti discipline esistenti nei diversi ordinamenti v. TWI-
NING, Una disciplina cosmopolita? Alcune conseguenze della ‘‘globalizzazione’’ dell’educa-
zione giuridica, in Soc. dir., 2001, p. 17.
(40) TONINI, Il progetto di un pubblico ministero europeo nel Corpus iuris, in La giu-
stizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Atti del convegno di studio ‘‘Enrico
de Nicola’’, 8-10 ottobre 1999, Milano, 2000, p. 117.

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una forzata omologazione che comporta arretramenti sul piano delle ga-
ranzie. Bisogna inoltre tenere conto che, al di là delle divergenti discipline
che affiorano in singoli settori dei differenti ordinamenti, sono ancora al-
cune strutture di fondo ad impedire l’approdo ad un modello processuale
unico. Il nostro processo continua a rimanere condizionato dall’irrisolto
problema dello status ordinamentale del pubblico ministero, la cui statura
dominante nella fase delle indagini dipende anche da una sostanziale equi-
parazione del suo ufficio a quello del magistrato giudicante, assetto che
non ha equivalenti in altri ordinamenti dell’area europea. D’altra parte in
Inghilterra, dove non a caso tutta l’attenzione per le garanzie si è sempre
concentrata sulla fase del trial, cioè sul dibattimento, manca una sistema-
tica disciplina della fase anteriore al giudizio e conseguentemente l’obiet-
tivo delle riforme degli ultimi venti anni è stato quello di trovare migliori
equilibri tra poteri della polizia, l’unico vero organo investigativo, e diritto
di difesa dell’indagato. Infine, per quanto riguarda la Francia, il nodo cru-
ciale contro cui si scontrano le istanze di rinnovamento è quello del persi-
stente vuoto sul fronte del diritto delle prove, conseguenza della inossida-
bile vitalità del principio che fa gravare sul giudice la ricerca della verità
materiale, regola sulla quale è stato storicamente edificato il rito inquisito-
rio.
A voler tentare una armonizzazione in Europa, si potrebbe pensare di
muovere proprio verso una law of evidence comune a tutti i sistemi, non
dimenticando che in epoca anteriore alle codificazioni è stato il diritto
delle prove elaborato dalla pratica medievale, sia pure con l’affermazione
di valori e prassi ora ripudiati, a cementare l’unità del processo.
Sarebbe questa una meta ben allineata al giusnaturalismo processuale
se è vero che la materia delle prove è permeata da principi logici in gran
parte extralegislativi, dedotti da quella ragione che costituisce uno dei pi-
lastri dello ius naturale.
ENNIO AMODIO

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IL LABORATORIO DEL GIURISTA:
UNA DISCUSSIONE SU STRUMENTI E SCOPI

SOMMARIO: I. Di che cosa si occupa la scienza giuridica? — 1. Euforie tecnicistiche? La


questione della avalutatività della scienza (giuridica). — 2. Sul linguaggio della
scienza giuridica. Un approccio ‘‘non positivistico’’. — 3. Autonomia reciproca e in-
terrelazioni fra scienza giuridica e produzione del diritto. - 3.1. L’autonomia della
scienza giuridica dalla ‘‘sistematica’’ del codice. - 3.2. Partizioni sistematiche e pre-
tese ‘‘ontologiche’’. - 3.3. La dogmatica nel codice e i problemi ermeneutici. — II. Di
che cosa parla la teoria del bene giuridico? — 1. I possibili approcci: dal problema di
tutela alle soluzioni normative, o viceversa. — 2. Davvero superata la concezione
‘‘metodologica’’ del bene giuridico? — 3. Il problema di tutela come vincolo di realtà.
— 4. Il discorso sui beni giuridici: quali interessi di conoscenza?

Le riflessioni che qui propongo toccano problemi concernenti il senso


e i modi di operare della scienza del diritto penale, che stanno sullo
sfondo di discussioni recenti, nelle quali ho avuto occasione di prendere
posizione, e posizioni da me espresse sono state sottoposte a critica. Que-
sto intervento intende essere la prosecuzione di un dialogo già avviato su
più fronti, relativo ai fondamenti stessi del lavoro di giuristi ‘‘teorici’’.

I. Di che cosa si occupa la scienza giuridica?


1. Euforie tecnicistiche? La questione della avalutatività della
scienza (giuridica). — Nel mio quotidiano lavoro di giurista, ho sempre
ritenuto di seguire modelli molto distanti da quello (l’indirizzo c.d. tec-
nico-giuridico di Arturo Rocco) cui sono stato accostato, con mia sor-
presa, in un recente intervento polemico (1). Proprio perché non mi rico-
nosco, soggettivamente, in quell’accostamento, e condivido alcune pre-
messe essenziali dell’appassionato intervento contro il temuto revival di
‘‘euforie tecnicistiche’’, credo utile cercar di capire da che cosa dipenda il
difetto di comunicazione (2) fra il mio articolo sul ‘‘laboratorio della ri-
forma’’ e lettori attenti come Moccia ed altri esponenti della scuola napo-

(1) S. MOCCIA, Euforie tecnicistiche nel laboratorio della riforma del codice penale,
in questa Rivista, 2002, p. 453 s., in polemica con le tesi da me svolte nell’articolo Nel labo-
ratorio della riforma del codice penale, in questa Rivista, 2002, p. 3 s.
(2) Non uso l’espressione ‘‘fraintendimento’’ per rispetto del mio interlocutore: la
continuazione del dialogo rende preferibile non porre il problema se il difetto di comunica-

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letana (3). Dirò dunque su che cosa sono d’accordo, su che cosa mi sem-
bra vi sia dissenso, e cercherò di annodare alcuni fili di una discussione
che possa essere utilmente proseguita attorno al laboratorio del giurista,
ai suoi strumenti, ai suoi fini.
Concordo (ovviamente, vorrei dire) con l’affermazione che il diritto è
formalizzazione di scelte politiche, e che la scienza giuridica ha a che fare
non solo con i mezzi, ma con i fini e i valori in gioco nelle scelte relative al
diritto penale. Concordo con la frase, che Moccia cita, di un comune
amico e maestro, Franco Bricola: ‘‘Altro è che la teoria generale del reato
debba essere condotta in termini rigorosamente positivi, altro è che in ciò
si esaurisca il compito del giurista in genere e del penalista in specie’’ (4).
Sono concetti che anch’io ho avuto occasione di enunciare (5) e che ho
inteso assumere (altri dirà se ci sono riuscito) a filo conduttore del mio la-
voro. L’impegno per la riforma penale, e le mie riflessioni sul laboratorio
della riforma, poggiano proprio sulla dichiarata premessa che le ragioni,
delle quali la scienza giuridica è portatrice, siano essenziali per una poli-
tica del diritto che aspiri ad essere razionale, nella scelta dei fini oltre che
dei mezzi, e non già imposizione di una voluntas quale che sia.
Su un punto chiave non mi è chiaro quale sia la posizione di Moccia.
Nel riassumere la posizione di Arturo Rocco, egli scrive che il compito
della scienza giuridica sarebbe limitato alla ‘‘elaborazione tecnico-giuri-
dica del diritto positivo vigente’’ (fin qui la citazione fra virgolette) (6), in
nome di un carattere neutro ed avalutativo della scienza del diritto penale
(frase di Moccia, corsivo mio). Azzardo l’ipotesi che nel mio articolo sia
stata letta una concezione o aspirazione ad una scienza del diritto penale
di carattere neutro ed avalutativo, e che su questo punto (sull’idea o

zione sia imputabile a poca chiarezza da parte mia, ovvero a errori di lettura, o a entrambe le
cose.
(3) A. CAVALIERE, Riflessioni sulla sistematica del reato e sulla rilevanza delle scu-
santi nel progetto preliminare di riforma della parte generale, in AA.VV., Le riforma della
parte generale del codice penale. La posizione della dottrina sul progetto Grosso, 2003 (Atti
del Convegno presso l’ISISC di Siracusa del 3-5 novembre 2000 La riforma), p. 251 s.
(4) F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig. it., XIX, 1974, p. 12.
(5) PULITANÒ, Quale scienza del diritto penale?, in questa Rivista, 1993, p. 1209 s.
Forse soltanto terminologica è la differenza fra la mia posizione e quella enunciata da
Moccia su che cosa ‘‘s’intende normalmente per dogmatica’’ (o dovrebbe ‘‘correttamente’’
intendersi) (le parole fra virgolette sono di S. MOCCIA, op. cit., p. 456). Alune espressioni
usate da Moccia sembrano postulare una distinzione da operare ‘‘correttamente’’ fra i con-
cetti di dogmatica (che si occupa del diritto positivo) e di teoria generale (che sarebbe elabo-
razione e sistematizzazione di un ordine concettuale trascendente il dato interpretativo). La
definizione di ‘‘dogmatica’’ che Moccia propone corrisponde a ciò che io definirei ‘‘dogma-
tica del diritto positivo’’; in questo senso è più ristretta, tutta interna all’orizzonte culturale
positivistico.
(6) Da A. ROCCO, Il problema e il metodo della scienze del diritto penale, in Opere
complete, III, 1933, p. 294.

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ideale di una scienza wertfrei) vi siano riserve, in nome di una concezione


del lavoro del giurista che ha che fare anche con la dimensione dei valori.
Sperando di non essere frainteso, debbo dire che la aspirazione ad
una conoscenza non dipendente da premesse ‘‘di valore’’ (wertfrei in que-
sto specifico senso) mi sembra irrinunciabile per un lavoro che intenda es-
sere scientifico, nel senso comunemente assegnato a questo concetto.
Sono pienamente consapevole delle difficoltà che si incontrano, quando si
prenda sul serio l’ideale di scientificità ‘‘avalutativa’’ in un contesto (come
quello del lavoro dei giuristi) tutto impregnato di riferimenti a valori (7).
Condivido la messa in guardia contro la ‘‘vocazione illiberale’’ di una ‘‘op-
zione dommatico-tecnicistica’’ la quale si opponga alla introduzione di ar-
gomenti di tipo assiologico (8). E tuttavia, anche dentro un orizzonte
‘‘pregno di valori’’ e di riferimenti a valori, ritengo scientificamente irri-
nunciabile cercar di distinguere i problemi di conoscenza, le cui soluzioni
siano da misurare secondo il metro della verità o falsità, dai problemi di
politica del diritto, le cui risposte consistano in un arco di scelte misura-
bili secondo criteri (anche) di valore.
In questi termini, potrei ammettere l’addebito di avere proposto ‘‘in
forme parzialmente nuove un revival della separazione tra politica crimi-
nale e dommatica’’ (9). Preferisco dire distinzione, invece che separa-
zione, per evitare gli aspetti di ambiguità di quest’ultimo termine. Per di-
stinzioni procede la scienza (10). La distinzione fra la politica e la scienza
del diritto è (questa la mia ferma persuasione) irrinunciabile sia per la po-
litica che per la scienza, ed è parallela a quella fra il diritto e altre sfere
‘‘normative’’, come la morale o, per l’appunto la politica: distinzione non
come mancanza di connessioni, ma al contrario come premessa perché il
problema delle connessioni possa essere tematizzato (11).
Proprio l’apertura ‘‘politica’’ dell’orizzonte del giurista, nel rivendi-
care campi d’interesse che vanno oltre gli interessi di mera, avalutativa co-
noscenza, esige che problemi di conoscenza, pur non esaurenti l’intero
orizzonte, restino al centro dell’impresa ‘‘scientifica’’, e che le soluzioni

(7) Cfr. in proposito le puntuali considerazioni di M. DONINI, Teoria del reato, 1996,
p. 13 s.
(8) S. MOCCIA, op. cit., p. 459.
(9) A. CAVALIERE, op. cit., p. 290.
(10) Per restare nel nostro campo, ‘‘operazione non di separazione, ma di distinzione
delle varie parti’’ è l’analisi del reato, ha osservato B. Petrocelli in un importante, forse non
sufficientemente studiato articolo di quattro decenni fa (Riesame degli elementi del reato, in
questa Rivista, 1963, p. 337 s.; la citazione è da p. 341).
(11) L’autonomia del diritto dalla morale non significa opposizione, ma ‘‘possibilità
logica di instaurare una relazione tra diritto e morale’’: BARATTA, Positivismo giuridico e
scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 102. Cfr. anche HART, Il positivismo e la separa-
zione tra diritto e morale, in Contributi all’analisi del diritto, Milano, 1964, p. 107 s.; SCAR-
PELLI, Cos’è il positivismo, cit., in particolare, p. 130 s.

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siano sottoposte ai criteri di accettazione propri della scienza (in termini


di verità o falsità) (12). Questo, non altro, è ciò che intendo per Wert-
freiheit dell’impresa scientifica: non già chiusura ai problemi di relazione
con fini e valori, ma aspirazione a produrre apporti di conoscenza che in
tanto possono pretendere validità scientifica, in quanto possano essere mi-
surati secondo criteri di accettazione o rifiuto di carattere ‘‘obiettivo’’,
non dipendenti da scelte soggettive di valore.
Così inteso, il carattere ‘‘obiettivo’’ e ‘‘avalutativo’’ della scienza giu-
ridica è, ad un tempo, una aspirazione problematica, ed un vincolo di sot-
toposizione a criteri di razionalità (‘‘di verità’’) intersoggettivamente va-
lidi, diversi e più stringenti di quelli (anch’essi, beninteso, di razionalità;
ma non di verità) pertinenti alla sfera delle valutazioni di politica del di-
ritto.
2. Sul linguaggio della scienza giuridica. Un approccio ‘‘non positi-
vistico’’. — Nell’immagine prevalente che i giuristi hanno del proprio la-
voro, la scienza giuridica è, essenzialmente, interpretazione ed elabora-
zione ‘‘dogmatica’’ dell’ordinamento oggetto di studio. Anche Moccia
scrive che ‘‘la dogmatica dovrebbe essere, rettamente, intesa come quella
disciplina che si occupa del diritto positivo e considera le norme veri e
propri dogmi, in quanto oggetto privilegiato e dato di origine dell’elabora-
zione concettuale’’ (13).
L’elaborazione ‘‘dogmatica’’ del ‘‘diritto positivo’’, che ben si inqua-
dra entro l’orizzonte culturale del positivismo giuridico, non esaurisce il
lavoro della scienza giuridica, così come di fatto è praticato, anche, e in
modo egregio, da Moccia. Il campo di problemi, del quale la migliore
scienza giuridica penale si occupa, non è delimitato dall’orizzonte di que-
sto o quell’ordinamento positivo, ma è l’intero campo dei problemi con-
nessi alla formazione, comprensione, applicazione di ordinamenti penali.
Credo necessario distinguere, in una riflessione sul lavoro del giuri-
sta, aspetti diversi che spesso vengono accomunati sotto l’etichetta, non
bella (14) né univoca, della c.d. dogmatica. Da un lato, i concetti propri
del linguaggio tecnico-giuridico; dall’altro lato, le proposizioni nelle quali

(12) Accetto perciò l’idea che la ‘‘dogmatica’’ sia ‘‘riserva dei giuristi’’, se intesa
come sinonimo di scienza giuridica; non mi riconosco invece nella tesi (pure a me attribuita
da A. CAVALIERE, loco cit.) che la politica criminale sarebbe dominio del legislatore, se si
pensa ad un dominio esclusivo.
(13) S. MOCCIA, op. cit., p. 456.
(14) Il termine ‘‘dogmatica’’ evoca modelli rigidi, astratti, di deduzione formale da
principi assunti come ‘‘dogmi’’. Così non è, nemmeno per la ‘‘dogmatica’’ di un dato ordina-
mento positivo: né i suoi concetti, né il suo oggetto (le norme di legge) si esauriscono in
‘‘punti fermi e indiscutibili’’. Le leggi vanno interpretate; i concetti e le norme sono soggetti
a mutamento. L’approccio della scienza moderna è giusto il contrario di un modello ‘‘dog-
matico’’. Per questa ragione, mi piacerebbe poter evitare l’uso del termine: lo uso quando
occorra tenere conto dell’uso fattone da altri.

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i concetti siano utilizzati per parlare del mondo dell’esperienza, o per


enunciare principi normativi.
Gli strumenti linguistici (i concetti) di cui la scienza giuridica ha bi-
sogno debbono servire a inquadrare e discutere in modo chiaro, completo
e rigoroso i problemi, dei quali i singoli ordinamenti positivi costituiscono
contingenti tentativi di soluzione, e le soluzioni che siano o possano essere
prospettate, in particolare mediante le norme dell’ordinamento positivo
oggetto di studio. A tal fine occorre distinguere il linguaggio della scienza
giuridica da quello delle norme che ne costituiscono l’oggetto di studio.
Per la scienza giuridica, il linguaggio del legislatore è oggetto d’interpreta-
zione; per svolgere il proprio lavoro, anche quello d’interpretazione, la
scienza giuridica adopera un linguaggio (metalinguaggio, rispetto al lin-
guaggio oggetto) che essa in parte recepisce dal linguaggio comune, e in
parte si costruisce come linguaggio tecnico, non diversamente dalle altre
scienze.
Là dove, come spesso accade, termini tecnici della teoria giuridica
vengono recepiti in norme di diritto positivo, si pone per essi un problema
di interpretazione del significato ad essi attribuito in quello specifico con-
testo normativo. Di ciò deve ovviamente occuparsi una ‘‘dogmatica del di-
ritto positivo’’. Dal punto di vista logico, peraltro, una teoria giuridica
che aspiri ad essere ‘‘generale’’ è autonoma nella costruzione del proprio
linguaggio teorico: non è cioè vincolata ad adottare terminologie e modelli
legati a contingenti discipline legislative, né a seguire pedissequamente
eventuali concezioni ‘‘dogmatiche’’ dei legislatori; anzi, ha bisogno di
strumenti concettuali che abbiano un fondamento e un significato non di-
pendenti da contingenti dati normativi, e che proprio perciò consentano
di parlare, nel metalinguaggio della scienza, dei dati normativi (il linguag-
gio del legislatore) così come degli altri aspetti della realtà rilevanti per il
‘‘problema penale’’. Insofern liegt die Straftatlehre vor dem Gesetz, po-
tremmo dire con W. Hassemer (15): la teoria del reato, con il suo appa-
rato concettuale, viene prima, cioè è indipendente da singoli ordinamenti
positivi.
Il carattere (relativamente) convenzionale dei modelli ‘‘dogmatici’’ è
stato da tempo evidenziato anche nella dottrina penalistica (16) ed è or-
mai riconosciuto anche dalla manualistica penale (17). I concetti della
teoria generale non hanno la funzione di rispecchiare pretese ‘‘essenze’’;

(15) W. HASSEMER, Einfuhrung in die Grundlagen des Strafrechts, 1a ed., 1981, p.


190.
(16) B. PETROCELLI, op. cit., p. 338, a proposito della tripartizione degli elementi del
reato: ‘‘La tripartizione (come del resto ogni partizione analitica) ha un valore del tutto con-
venzionale, e la sua funzione ha carattere meramente strumentale... ausilio, non fonte della
interpretazione’’.
(17) Così si esprimono per es., a proposito dei modelli di analisi del reato, G. FIAN-

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regole d’uso del linguaggio teorico possono essere poste con definizioni
stipulative, e si sottraggono ad una valutazione in termini di ‘‘verità’’ o
falsità. Problemi di verità si pongono invece per le proposizioni in cui i
concetti ‘‘teorici’’ siano utilizzati (18), vuoi per l’interpretazione di norme
o di ordinamenti positivi (19), vuoi in affermazioni relative al mondo dei
fatti.
Peraltro, anche i concetti ‘‘convenzionali’’ della teoria, per poter pre-
tendere validità culturale o scientifica, debbono giustificarsi di fronte a
criteri razionali di accettazione. Requisito necessario per l’accettabilità
teorica del modello concettuale (la rete dei concetti e le proposizioni ‘‘teo-
riche’’ che la definiscono) è la coerenza logica. Condizione della sua uti-
lità pratica è la capacità di contribuire ad un discorso significativo sull’og-
getto per il quale il modello concettuale viene proposto: un problema non
di verità, ma di orthotes ton onomaton (20), di correttezza o adeguatezza
dei termini del linguaggio rispetto alle esigenze legate al loro uso. Una
correttezza, dunque, ‘‘strumentale’’.
In quanto ‘‘strumenti’’ del lavoro scientifico, i concetti della teoria,
pur restando ‘‘convenzionali’, incorporano un sapere attorno alle que-
stioni cui si riferisce (alla cui stregua va valutata) l’adeguatezza ‘‘strumen-
tale’’ del modello teorico. Sotto questo aspetto, il linguaggio della scienza
giuridica è esso stesso un prodotto, oltre che strumento, di un patrimonio
culturale storicamente formato, fatto di esperienze, riflessioni e tentativi
di soluzione di problemi normativi, in un orizzonte più ampio di quello di
singoli ordinamenti positivi. E più ampio, anche, di quello del diritto, se
vale per il linguaggio quanto è stato osservato circa le parti principali
della teoria generale del reato: non ‘‘scoperte’’ della dottrina, ma affina-
menti di esperienze che si sono rivelate corrette bei der Auseinanderset-
zung uber Konflikte, nell’approccio a comportamenti devianti (21).
Secondo la corrente vulgata ‘‘teleologica’’ (22), i concetti della ‘‘dog-
matica’’ andrebbero ricostruiti in raccordo con gli scopi di tutela del di-

DACA-E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 4a ed. 2001, p. 150; e anche C. FIORE, Diritto
penale, Parte generale, I, 1993, p. 116.
(18) È questo il modello di scienza proposto e divulgato in particolare da K. POPPER,
Congetture e confutazioni, trad. italiana 1972; si veda in particolare il saggio introduttivo su
‘‘Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza’’.
(19) È quindi ovviamente inammissibile e da evitare che una costruzione di concetti
convenzionali, appartenenti al metalinguaggio della dogmatica, precostituisca l’interpreta-
zione di materiali normativi: opportuno, su questo punto, il monito di C. FIORE, Ciò che è
vivo e ciò che è morto nella dottrina finalistica. Il caso italiano, in questa Rivista, 380 ss.
(20) Traggo la terminologia, e anche la sostanza del concetto, dal Cratilo di Platone.
(21) W. NAUCKE, Grundlinien einer rechtsstaatlich - praktischen allgemeinen Strafta-
tlehre, 1979 (la citazione è da p. 21).
(22) È la ben nota lezione di K. ROXIN, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem, 1973,
che al di là delle critiche su singoli punti può ritenersi divenuta la base dell’approccio forse
attualmente prevalente ai problemi della sistematica penalistica.

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ritto penale (23) e con funzioni significative sul piano della politica crimi-
nale. Credo opportuno distinguere il teleologismo degli istituti (e dei prin-
cipi) da quello dei concetti. Per principi intendo proposizioni di carattere
normativo, che dicano qualcosa sul dover essere; anche quando si tratta di
principi elaborati in sede ‘‘dogmatica’’ (poniamo, il principio d’offensività
o il principio di colpevolezza) il loro telos ha a che fare con la dimensione
politica. È ai principi che guarda l’esigenza di costruire una dogmatica
consapevole dei nessi con la politica del diritto penale, teleologicamente
orientata, di segno garantista.
Principi normativi possono essere enunciati anche in forma di defini-
zioni di concetti o istituti: per es., definizioni contenutistiche di dolo o di
colpa o di altri presupposti della responsabilità penale. Ma la scienza giu-
ridica fa uso (non può fare a meno) anche di concetti che non incorpo-
rano principi normativi, pur essendo utilizzabili e utilizzati per la loro for-
mulazione; concetti per così dire costruiti dalla scienza come pezzi ele-
mentari del linguaggio giuridico. Il telos di siffatti concetti ‘‘teorici’’ (non
implicanti indicazioni normative) può essere ragionevolmente identificato
per l’appunto nella costruzione di un linguaggio scientifico adeguato,
adatto ad una buona formulazione ed analisi dei problemi di conoscenza e
di elaborazione teorica propri delle scienze penalistiche.
I modelli analitici della teoria del reato debbono servire all’inquadra-
mento e alla discussione dei problemi rilevanti per il diritto penale, e alla
sistemazione concettuale delle soluzioni normative (storicamente date o
teoricamente concepibili; buone o meno buone). Fra modelli concettuali
ugualmente coerenti, potrà essere ragionevolmente preferito in sede scien-
tifica quello che consenta un discorso più chiaro e completo, con il mas-
simo di semplicità compatibile con la complessità della materia.
Anche concetti puramente formali possono essere teleologicamente
adeguati alle finalità del discorso scientifico; tendenzialmente, anzi, più
adeguati di concetti sovraccaricati di contenuti sostanziali, ovvero forgiati
secondo il teleologismo valutativo che caratterizza i principi.
Al più alto livello di astrazione, la regola d’uso dei concetti fonda-
mentali della teoria generale è opportunamente data da definizioni for-
mali. Valga come esempio la definizione di reato come fatto sanzionato
con pena (24): è una proposizione ‘‘analitica’’, una tautologia che non
dice nulla sui caratteri del reato, e che tuttavia consente di utilizzare in
modo non ambiguo il concetto di reato, inteso come puramente formale,
nelle proposizioni relative ai diversi elementi o requisiti del reato (id est
fatto punibile) in questo o quell’ordinamento, od eventualmente in un
tipo ideale di ordinamento.

(23) In questo senso, per es., FIANDACA-MUSCO, p. 155.


(24) Più distesamente: un tipo di fatto la cui realizzazione sia vietata dalla legge,
sotto minaccia di una pena.

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Carattere formale, tautologico, hanno anche le formule che pongono


in rapporto una pluralità di concetti, concorrendo alla costruzione di un
dato modello teorico nel metalinguaggio della scienza. Un contenuto in-
formativo concreto lo hanno invece proposizioni che, anche quando for-
mulate come definizioni (per es.: reato come offesa a un bene giuridico, o
le correnti definizioni del dolo e della colpa), intendano dare non già la re-
gola d’uso del concetto, ma informazioni su principi normativi. È per pro-
posizioni di questo tipo che si pongono problemi di verità o falsità, vuoi
in relazione al sapere scientifico sui fatti, vuoi in relazione al sistema nor-
mativo di riferimento o a tipi ideali elaborati dalla ‘‘dogmatica’’.
L’impianto concettuale deve rispondere ad esigenze che non sono sol-
tanto di elaborazione teorica, ma anche di comunicazione. Occorre un
linguaggio che possa essere utilizzato e compreso da una comunità scien-
tifica che lo riconosca come proprio. Il giurista che si ponga problemi re-
lativi al linguaggio farà bene, dunque, a non sbizzarrirsi in definizioni sti-
pulative ad libitum, ma terrà conto della tradizione culturale di cui il lin-
guaggio anche giuridico è espressione. Nel solco di questa, resta aperto
l’obiettivo dell’affinamento (anche) di un linguaggio scientifico chiaro,
completo, coerente, e quanto più possibile condiviso, che possa funzio-
nare senza fraintendimenti come idoneo strumento di comunicazione in-
tersoggettiva: specchio e strumento di un modo condiviso di individuare e
di discutere le questioni giuridiche relative ai delitti e alle pene.
Nella misura in cui i concetti teorici hanno carattere convenzionale,
possono coesistere sistemi concettuali diversi: linguaggi diversi che sap-
piano parlare di un medesimo oggetto, e che possano essere tradotti l’uno
nell’altro. Se si ha chiaro questo punto, diviene possibile un’opera di puli-
zia che sgomberi il campo della scienza giuridica da tanti ‘‘falsi proble-
mi’’, quali sono di regola quelli che vanno alla ricerca di pretese ‘‘essenze
dogmatiche’’ o addirittura di ‘‘concetti ontologici’’. Molte questioni pos-
sono essere utilmente reinterpretate (e sdrammatizzate) come questioni
relative alla costruzione di un linguaggio scientifico (25), di una rete o si-
stema di concetti idonei a rappresentare e impostare i problemi realmente
di sostanza, quelli cioè attinenti alla costruzione o ricognizione di principi
normativi o di proposizioni della scienza giuridica relative al mondo dei
fatti e delle norme.
Nella ‘‘dogmatica’’ giuridica possono dunque essere giocati ‘‘giochi
linguistici’’ diversi, cioè possono essere costruiti linguaggi e modelli teo-
rici diversi; nessuna partizione analitica ‘‘non arbitraria’’ e logicamente
coerente può essere logicamente scartata. Ciò non significa, beninteso,

(25) Ha scritto POPPER, op. cit., p. 55, che per la conoscenza scientifica ‘‘i problemi
legati al significato o alla definizione delle parole sono privi di importanza’’; problemi di ve-
rità si pongono per le teorie scientifiche, non per le parole. ‘‘Le parole sono importanti sol-
tanto come strumenti per la formulazione delle teorie’’.

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che qualsiasi modello possa andar bene. Un modello teorico opera una se-
lezione e sistemazione delle partizioni ritenute significative. Se trascura
partizioni significative, non è un modello completo. Se dà rilievo a distin-
zioni poco significative, o enfatizza distinzioni meno significative di altre,
scade nel futile, poco funzionale, e forse fuorviante (26).
Tutto questo fa parte dell’idea di scienza giuridica cui ho sempre cer-
cato di orientare il mio lavoro. Ho l’impressione che non sia, a tutt’oggi,
un’idea generalmente condivisa. Sono sempre in agguato, per un verso, la
riduzione positivistica della scienza giuridica a interpretazione e dogma-
tica del diritto positivo, e per altro verso una sorta di platonismo che ipo-
statizza ‘‘verità dogmatiche’’. Il passaggio dalla scolastica metafisica alla
scienza moderna, per la cultura giuridica non è ancora del tutto compiuto.
3. Autonomia reciproca e interrelazioni fra scienza giuridica e pro-
duzione del diritto.
3.1. L’autonomia della scienza giuridica dalla ‘‘sistematica’’ del co-
dice. — Entro l’orizzonte, tecnico e politico insieme, di un impegno scien-
tifico ‘‘nel laboratorio’’ della auspicata riforma, ho inserito la tesi (che a
Moccia non è piaciuta) della reciproca autonomia del legislatore e della
scienza giuridica. La ho intesa come non escludente la possibilità e legitti-
mità di interazioni: autonomia, non separazione. E l’affermazione di au-
tonomia della scienza implica ovviamente l’affermazione di una piena au-
tonomia critica su tutti i punti del lavoro legislativo, nel suo farsi e nei
suoi risultati.
Il discorso sulla autonomia reciproca è stato invece interpretato come
un voler mettere in discussione il diritto della scienza di intervenire nella
fase de lege ferenda, ai fine di sostenere le scelte normative ritenute mi-
gliori e di prevenire eventuali errori del legislatore (27). Tutto al contra-
rio, era mia intenzione, scrivendo l’articolo sul laboratorio della riforma,
continuare un dialogo che ritenevo e ritengo indispensabile, se si vuole ar-
rivare a un disegno di riforma supportato da ragioni valide e capaci di
consenso e ben tradotte anche sul piano tecnico. Quando Moccia scrive
essere ‘‘nella natura delle cose l’interazione tra scienza del diritto e legi-
slazione, pur nel rispetto assoluto dei ruoli’’ (28), addita la medesima esi-
genza che credevo di avere additato, anche sottolineando l’importanza dei
problemi di comunicazione, e l’esigenza di un controllo di idoneità del

(26) La teoria generale del reato può adempiere al suo compito, solo se non viene ca-
ricata di troppe particolarità: W. NAUCKE, op. cit., p. 35.
(27) S. MOCCIA, op. cit., p. 457. A. CAVALIERE, op. cit., p. 297, mi attribuisce un in-
sensato ‘‘invito ad aspettare l’entrata in vigore del codice per poi criticarne le scelte sistema-
tiche, ed eventualmente proporre una propria sistematica’’.
(28) S. MOCCIA, op. cit., p. 460.

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messaggio legislativo (condito o condendo) dalla parte del destinata-


rio (29).
Evidentemente non sono riuscito a rendere chiaro che il mio discorso
intendeva porre l’accento non su questioni (opinabili e tutto sommato se-
condarie) concernenti singoli punti d’un progetto di codice, ma su più im-
portanti questioni di principio, concernenti l’autonomia, gli strumenti
concettuali e il modo di lavorare della scienza giuridica (30). Il punto cri-
tico, su cui mi sembra vi sia un reale disaccordo teorico (o forse soltanto
un diverso linguaggio?), attiene all’individuazione degli apporti di cono-
scenza che la scienza giuridica può produrre, e conseguentemente tra-
smettere al legislatore come pretese di verità.
Debbo, a questo proposito, fare ammenda di un’espressione che
avevo utilizzato, a scopo polemico, nel mio precedente articolo, e che si è
rivelata fonte di equivoci: l’espressione ‘‘concezione dogmatica vera’’. Fa-
cevo affidamento che il senso di tale espressione risultasse chiarito dalle
premesse convenzionalistiche del mio approccio: esclusione, dunque, di
una attribuzione di ‘‘verità’’ ai concetti della dogmatica (31) o a proposi-
zioni ‘‘analitiche’’ concernenti la struttura concettuale di una teoria.
Il linguaggio usato da Moccia (che forse sarebbe adoperato dalla
maggioranza dei giuristi) sembra prendere sul serio l’idea che possano es-
serci opzioni legislative ‘‘dogmaticamente sbagliate’’. Esempio addotto,
l’esigenza di un Tatbestand soggettivo accanto al Tatbestand oggettivo,
che sarebbe disattesa da una eventuale opzione per forme di responsabi-
lità oggettiva (32).
In un linguaggio attento a distinguere i problemi ‘‘scientifici’’ (di ve-
rità) da quelli di politica del diritto, non definirei ‘‘dogmaticamente sba-
gliata’’ un’eventuale opzione per la responsabilità oggetttiva. La valuterei
inaccettabile sul piano politico e costituzionale, per ragioni che non sono
‘‘di verità’, bensì di valore. In pieno accordo con Moccia e con l’intera
cultura penalistica, di fronte ad un revival di responsabilità oggettiva con-
tinuerei la battaglia per la difesa e la piena valorizzazione del principio di
colpevolezza (il ‘‘progetto Grosso’’ è stato, mi pare, un momento signifi-

(29) D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., in particolare p. 8 s., p. 19 s.


L’importanza dell’aspetto di comunicazione, e quindi della relazione del testo con i
suoi ricettori, è al centro della riflessione sui problemi dell’interpretazione non solo nel con-
testo giuridico. Per una recente rivisitazione di questo aspetto, e per riferimenti ulteriori, cfr.
F. OST, Ancora sull’interpretazione, in Ars interpretandi, Ragionevolezza e interpetazione,
2002, p. 145 s.
(30) Ciò che i miei critici hanno interpretato come un divieto di criticare, rivolto alla
scienza, nelle mie intenzioni avrebbe voluto trasmettere una valutazione di irrilevanza, per
l’ermeneutica e per la scienza giuridica, di questioni di topografia d’un codice (o d’un pro-
getto di codice) cui essi annettono invece grande importanza.
(31) O della teoria generale: nel mio linguaggio, sostanzialmente sinonimi.
(32) S. MOCCIA, op. cit., p. 456.

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cativo sotto questo aspetto). Più in generale: quando sono in gioco scelte
di contenuti normativi, il giurista può legittimamente aspirare a che le
proprie concezioni di politica del diritto (e, a maggior ragione, di difesa di
principi costituzionali) siano prese in considerazione dal legislatore. Su
questo piano, principi tradizionalmente etichettati come ‘‘dogmatici’’
(come il principio di colpevolezza) svolgono una funzione che è, in tutto e
per tutto, ‘‘politica’’.
Introducendo il tema della autonomia reciproca del legislatore e della
scienza giuridica, non pensavo a questioni di contenuti normativi, sì in-
vece (forse non sono stato abbastanza chiaro) all’apparato concettuale e
alla ‘‘sistematica’’ (delle costruzioni teoriche, o di un codice esistente o in
fieri). Sul versante della scienza giuridica, il mio intento era (è) innanzi
tutto di sottolineare l’autonomia intellettuale anche dal legislatore; auto-
nomia nel linguaggio, nella costruzione di sistemi concettuali, nella posi-
zione di problemi (33). Sotto altro aspetto, parlando di autonomia del le-
gislatore, ho inteso (anche qui, forse, avrei dovuto essere più chiaro)
prendere posizione contro l’idea che la sistematica del legislatore (la ‘‘col-
locazione dei mobili’’ nelle stanze del codice) debba preferenzialmente
coincidere con una particolare sistematica elaborata dalla scienza giuri-
dica per finalità sue proprie (34).
La polemica attorno alla ‘‘collocazione dei mobili’’ è stata ripresa in
diversi interventi della scuola napoletana sul progetto Grosso (35). Ven-

(33) È in questo senso che avevo richiamato (op. cit., p. 16) l’esempio dell’errore sul
precetto, che Moccia ha criticato scrivendo (p. 461) che se il tema fosse stato trattato nella
sede più idonea (cioè nel contesto della disciplina della colpevolezza, e non in quello in cui
lo ha collocato il codice Rocco) ‘‘probabilmente si sarebbe risparmiato tempo ed iniquità’’.
Non mi sembra che la storia del problema dia supporto a tale critica. Com’è noto, il princi-
pio d’irrilevanza dell’error juris è stato recepito nel codice Zanardelli e poi nel codice Rocco,
nei medesimi termini e con collocazione diversa. Nel codice Zanardelli era collocato (art.
44) in apertura della disciplina dell’imputabilità, cioè nel contesto che oggi riteniamo appro-
priato per la disciplina dell’errore di qualsiasi tipo; il profilo di iniquità (punizione anche in
caso di errore incolpevole) non era diverso che sotto la successiva vigenza del codice Rocco,
che, nel recepire il medesimo principio vi ha assegnato una diversa collocazione codicistica e
un più marcato carattere ideologico. Quando poi, pur nella vigenza del codice Rocco, un
nuovo orizzonte costituzionale e culturale ha portato al riesame della questione dell’errore
sul precetto, la collocazione codicistica ‘‘sbagliata’’ di un principio ritenuto non più accetta-
bile non è stata d’ostacolo al superamento del principio, con le difficoltà e nei tempi di un
delicato processo di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Mi sia consentito tornare a
citare, come esempio di una riflessione non subalterna al sistema codicistico, il mio vecchio
libro su L’errore di diritto nella teoria del reato, 1976.
Ai fini della riscrittura di un codice, concordo ovviamente sull’opportunità (per una
migliore ‘‘leggibilità’’ del messaggio) di collocare la disciplina dell’errore sul precetto nel ca-
pitolo della colpevolezza, come è stato fatto nel progetto Grosso.
(34) Sotto altri aspetti, lo stesso legislatore incontra vincoli, sui quali ho cercato di
avviare qualche (non semplice) riflessione: D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 10 s.
(35) A. STILE, in AA.VV., Le riforma della parte generale del codice penale. La posi-

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gono fatte valere esigenze di chiarezza, di ordine, di coerenza sistematica


del messaggio legislativo, che anch’io avevo posto in rilievo (36). La strut-
tura del codice (la sua ‘‘estetica’’) ha certo a che fare con la qualità del
messaggio. Non qualsiasi sistemazione va bene; ma quali sono i criteri per
accettare o meno un dato ordine sistematico, nel codice e nella dogma-
tica?
In questa discussione si intrecciano profili diversi, e di importanza di-
versa. Quello della ‘‘collocazione dei mobili’’ lo riterrei il meno interes-
sante, se non per il sovraccarico di significati che i miei interlocutori con-
tinuano ad attribuirvi. Emblematica la discussione suscitata dalla colloca-
zione, nel progetto Grosso, della norma sulla non imputabilità nel conte-
sto in cui sono disciplinate le misure per i non imputabili, invece che nel
capitolo della colpevolezza. Si è parlato, in proposito, di ‘‘scelta di estro-
mettere la considerazione dell’imputabilità dal titolo relativo al rea-
to’’ (37), e si torna a parlare di ‘‘strana esclusione della imputabilità del
reato’’ (38), quasi che la collocazione codicistica d’una norma possa avere
un significato, per così dire, di determinazione sostanziale dei nessi siste-
matici. Approfittando di una discussione su un punto che ritengo opina-
bile e di scarso rilievo, ho inteso non già difendere nel merito la colloca-
zione del progetto Grosso rispetto a quella preferita dai miei interlocu-
tori (39), ma richiamare l’attenzione sul profilo teorico, cioè sulla distin-
zione di principio fra i nessi sistematici che legano i diversi istituti, e la to-
pografia del codice. Una ipotetica ‘‘esclusione della imputabilità dal rea-
to’’ potrebbe essere realizzata solo da un sistema che eliminasse la distin-
zione fra soggetti imputabili e non imputabili; una disciplina che man-
tenga la distinzione, dovunque collocata nei testi di legge, riafferma e

zione della dottrina sul progetto Grosso, 2003, p. XX s. (Atti del Convegno presso l’ISISC di
Siracusa del 3-5 novembre 2000); A. CAVALIERE, op. cit., p. 252 s.; S. MOCCIA, op. cit., p.
461.
(36) D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 15.
(37) S. MOCCIA, nell’intervento ora pubblicato in La riforma, cit., p. 467.
(38) A. STILE, op. cit., p. XXII.
(39) La avrei preferita anch’io, essenzialmente perché più in linea con una ‘‘estetica
del codice’’ largamente condivisa. Sulle ragioni della diversa scelta ‘‘topografica’’ del pro-
getto Grosso, mi sono espresso in Problemi di riforma della disciplina dell’imputabilità, in
AA.VV., Imputabilità e misure di sicurezza, 2002, p. 216: ‘‘Nel progetto, le disposizioni che
definiscono i casi di non imputabilità e di capacità ridotta sono collocate nella parte relativa
alle sanzioni, a ridosso della disciplina del trattamento conseguente. Ciò consente una pre-
sentazione più compatta della disciplina del trattamento, a costo di allontanare la definizione
della (non) imputabilità dalla disciplina degli altri presupposti del giudizio di colpevolezza.
Scelta discutibile, certo, il cui significato è però limitato, per così dire, all’estetica del codice,
e non ha ovviamente alcuna rilevanza né per i contenuti della disciplina, né per l’elabora-
zione ‘dogmatica’. Dovunque sia collocata nel codice la norma sull’imputabilità, starà alla
scienza giuridica svolgere il suo compito di elaborazione concettuale e sistematica, e rilevare
il nesso fra imputabilità e colpevolezza, così come è stato possibile di fronte al sistema del
codice Rocco, che colloca l’imputabilità nel titolo del reo’’.

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rende riconoscibile il nesso sistematico che fa dell’imputabilità un presup-


posto del reato, collegato all’idea di colpevolezza. Il compito della scienza
giuridica è di rilevare i nessi sistematici fra i diversi istituti, senza confon-
dere la struttura razionale del sistema con la topografia dei testi normativi.
Credevo di proporre un messaggio di autonomia e di valorizzazione
del lavoro del giurista, contro ogni sopravvalutazione impropria di aspetti
puramente esteriori del testo legislativo. La reazione che il mio approccio
ha suscitato mi induce ad insistere nella provocazione, anche a costo di la-
sciare in secondo piano l’importanza che pure è da riconoscere ad una
buona topografia codicistica (40).
Beninteso, concordo pienamente sull’esigenza pratica di una articola-
zione del codice che risulti adeguata rispetto alla funzione di trasmissione
chiara e coerente del messaggio normativo. La distribuzione delle materie
è ‘‘razionale’’ in quanto rifletta, e consenta di riconoscere, i nessi che le-
gano i diversi istituti. Ciò vale, da un lato, per i modelli teorici della dot-
trina, e per l’esposizione a fini didattici che ne costituisce il banco di
prova forse più importante (41); dall’altro lato, vale per l’ordine esposi-
tivo in un codice, che pure ha valenza per così dire didattica, di adeguata
trasmissione dei messaggi normativi. Ferma peraltro l’esigenza di un or-
dine razionale, non è detto che un modello soddisfacente non possa espri-
mersi in stili legittimamente diversi, e magari opportunamente diversifi-
cati secondo i destinatari. Una sistematica più sofisticata potrà essere pre-
ferita in studi teorici specialistici; per la didattica potranno essere preferiti
modelli più semplici; per la redazione di un nuovo codice opportuni punti
d’orientamento potranno essere trovati, poniamo, nella tradizione o nella
maggiore vicinanza alla cultura degli operatori. In ogni caso, in coerenza
con l’approccio ‘‘convenzionalista e strumentale’’ alla costruzione dei con-
cetti della teoria generale, così come è ammessa in via di principio la pos-
sibilità che risultino accettabili e sostanzialmente equivalenti una pluralità
di modelli teorici, così anche la partizione delle materie nel codice è que-
stione di orthotes, di adeguatezza strumentale, non di verità.
3.2. Partizioni sistematiche e pretese ‘‘ontologiche’’. — Nel di-

(40) Come esempi di discorso francamente futile attorno alla sistematica del codice,
valuto quelli che rimproverano al progetto Grosso di avere collocato la colpevolezza prima
dell’antigiuridicità (A. CAVALIERE, op. cit., p. 252), non diversamente, peraltro, non solo dal
codice Rocco, ma anche dal progetto Pagliaro, da un codice spesso additato a modello, lo
StGB tedesco, e da altri che al modello si sono ispirati, come il codice portoghese; oppure
l’asserito ‘‘errore sistematico’’ di avere anteposto la disciplina dell’errore sulla legge penale a
quella dell’errore sul fatto o sulle scriminanti. Discorsi del genere possono tutt’al più riguar-
dare l’estetica del codice, ma sono certamente privi di qualsiasi rilevanza sul piano ermeneu-
tico, ed anche su quello sistematico, se per sistematica intendiamo le relazioni logiche e nor-
mative fra gli istituti, e non la mera sequenza delle norme di un testo legislativo.
(41) G. MARINUCCI, Il reato come azione, p. 132, adesivamente citato da C. FIORE,
Ciò che è vivo, cit., 389.

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scorso dei miei interlocutori mi par di cogliere una concezione che asse-
gna significati più stringenti (‘‘ontologici’’?) alle categorie ‘‘dogmati-
che’’ (42), e ritiene opportuno che il legislatore recepisca la sistematica
‘‘scientificamente corretta’’. In questo senso ho inteso l’affermazione che
sarebbe opportuno, in sede di riforma, ‘‘prendere in considerazione l’idea
che dolo e colpa costituiscono elementi essenziali della tipicità’’, e che ciò
sarebbe una scelta non solo ‘‘dogmaticamente più sofisticata’’, bensì ‘‘una
precisa opzione conforme alla natura delle cose ed orientata nel senso
delle garanzie individuali’’ (43).
Delle costruzioni dogmatiche che pretendano di avere una validità
‘‘ontologica’’, questa tesi è un esempio particolarmente significativo sul
piano storico e su quello teorico, per il suo radicamento nella teoria finali-
stica. La ripulsa dell’ontologismo della teoria finalistica non necessaria-
mente significa ripulsa delle asserite implicazioni, ma reinterpreta il di-
scorso relativo alla ‘‘collocazione dogmatica’’ di dolo e colpa come costru-
zione di un modello teorico. La possibilità di costruire concettualmente il
modello dei finalisti in modo coerente, sulla base di appropriate defini-
zioni stipulative, lo mette al riparo da ogni possibilità di falsificazione, al-
l’interno del gioco linguistico di cui fa parte, e al stesso tempo lo rende
estraneo ad un giuoco linguistico diverso (poniamo, quello della teoria tri-
partita classica).
Nel riportare il dolo e la colpa entro il capitolo del ‘‘fatto tipico’’, la
teoria finalistica pone in rilievo aspetti di grande interesse. Dietro le for-
mule, è dato cogliere concreti apporti di conoscenza. Tutti i punti in cui si
articola il contenuto essenziale della teoria rivisitata (44) possono essere
condivisi, salvo che nella pretesa che non sia proponibile (o non sia utile)

(42) Mi sembra di cogliere un approccio di questo tipo, e comunque diverso da


quello qui sostenuto, nell’acuta rivisitazione della teoria finalistica nello studio di C. FIORE,
op. cit. Lo colgo nel linguaggio (vedi l’espressione ‘‘concetto dommatico’’, che sembra sot-
tendere una aspirazione ‘‘di verità’’), e nella proposizione finale che, nel riconoscere che la
dommatica ‘‘evolve con l’ideologia e la cultura del suo tempo’’, definisce queste come ‘‘strut-
ture logiche del reale’’. Mi sembra che questo sia l’approccio comune ai miei interlocutori
della scuola napoletana.
(43) Da quella scelta deriverebbe per es. la conseguenza che dolo e colpa debbono
essere indefettibilmente accertati anche in relazione al fatto del non imputabile: S. MOCCIA,
op. cit., p. 467 s. Cfr. anche A. STILE, op. cit., p. XXIII. Su questo punto specifico, di fronte
ai dubbi sollevati circa l’interpretazione del progetto Grosso, mi limito a notare che la disci-
plina prevista ricollega esplicitamente le eventuali misure alla commissione di delitti dei
quali è indicata la natura, anche sotto il profilo soggettivo (artt. 97 e 98), e che i principi
ispiratori del progetto additano univocamente il significato essenziale attribuito ai presuppo-
sti soggettivi dell’assoggettabilità a misure coercitive. Il luogo in cui sia collocata la disposi-
zione sulla non imputabilità mi sembra del tutto irrilevante nella ricognizione del contesto
ermeneutico.
(44) Faccio riferimento all’esposizione di C. FIORE, op. cit., p. 380 ss.

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un concetto di fatto tipico che non comprenda fin dal principio (45) l’ele-
mento psicologico della condotta incriminata.
La pretesa ontologica, che attraversa tutte le versioni della teoria fi-
nalistica, non riesco a interpretarla se non come negazione della rilevanza
(teorica? normativa?) di distinzioni analitiche logicamente possibili.
Certo, la mera possibilità logica di una distinzione non basta ad attribuirvi
un interesse conoscitivo; vi possono essere distinzioni futili, o scarsa-
mente significative. La classica partizione analitica fra il fatto ‘‘materiale’’,
da un lato, e dolo o colpa dall’altro, è una distinzione non conforme alla
natura delle cose, o comunque futile? Certamente no. È una distinzione
logicamente possibile, nel senso che è possibile distinguere, nel fatto del-
l’uomo, un aspetto ‘‘materiale’’ dal quale dipende l’incidenza del fatto nel
mondo reale (in termini, poniamo, di offesa o messa in pericolo di un dato
bene o interesse) e ulteriori aspetti che, a parità di incidenza materiale, as-
sumono rilievo per il significato sociale del fatto stesso e in definitiva per
la questione del ‘‘rimprovero’’ del fatto a un dato soggetto.
La partizione analitica fra i presupposti obiettivi dell’offesa e i pre-
supposti del rimprovero è una distinzione tendenzialmente irrinunciabile
per una analisi ordinata e completa dei problemi della teoria del reato.
Anche i finalisti la fanno, dentro la casella del fatto tipico (46). E la fanno
gli ordinamenti giuridici positivi, che, quando dettano norme su dolo e
colpa, lo fanno nella ‘‘parte generale’’ del codice, separatamente dalle
norme incriminatrici che descrivono i diversi tipi di reato.
Sgombrato il campo dalla pregiudiziale ‘‘ontologica’’, l’alternativa dei
finalisti è solo un diverso ‘‘gioco linguistico’’, che può aiutare ad illumi-
nare alcuni aspetti della struttura del reato, pagando un prezzo: scosta-
mento da modelli consolidati, rischio di appannamento della dimensione
oggettiva dell’offesa tipica, e rischio di rendere meno nitida la peculiare ri-

(45) Il corsivo è di C. FIORE, op. cit., p. 385.


(46) Esemplare in questo senso G.V. DE FRANCESCO, Il modello analitico fra dottrina
e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento psi-
cologico del reato, in questa Rivista, 1991, p. 127: ‘‘una ‘prudente’ soggettivizzazione, at-
tenta alle radici storiche del pensiero penale liberale, si preoccuperà di distinguere netta-
mente — come insegna l’esperienza tedesca — un Tatbestand oggettivo, comprensivo delle
componenti esteriori del fatto, ed un Tatbestand soggettivo, includente il coefficiente psico-
logico rilevante già a livello di tipicità, avendo inoltre cura di rimarcare vigorosamente que-
st’ordine di precedenza logica nella ricostruzione del fatto di reato’’.
Proprio per la cura nel distinguere, la teoria finalistica può essere difesa dalla critica
cui vanno incontro le teorie olistiche o intuizionistiche, anche se, in un certo senso, usa argo-
menti che vanno nella stessa direzione, in nome dell’esigenza di non disperdere la valuta-
zione dell’insieme (il reato commesso) come un tutto unitario. Esigenza, certo, condivisibile,
ma che può essere soddisfatta soltanto in esito a distinzioni analitiche, fra le quali anche la
distinzione fra tipicità oggettiva e tipicità soggettiva, a un qualche livello dell’analisi (che,
secondo l’ordine di precedenza logica indicato da De Francesco, non potrà essere il livello
inziale, come invece vorrebbe C. FIORE, loco cit. a nota 17.).

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levanza del dolo e della colpa quali presupposti non dell’offesa, bensì del
rimprovero personale. Rispetto alle esigenze di comunicazione, nel mondo
dei giuristi teorici e soprattutto degli operatori del diritto, il modello clas-
sico può essere ragionevolmente ritenuto più funzionale, in quanto pone
in più netto rilievo, in modo lineare, distinzioni fondamentali per il pro-
blema penale e per gli istituti di diritto positivo.
D’altra parte, proprio l’approccio convenzionalistico e strumentale
apre la strada alla possibile accettazione di qualsiasi sistema concettuale
che sia logicamente coerente, e allo stesso tempo considera ‘‘discutibile’’
qualsiasi sistema, alla luce di criteri e di esigenze diversi dalla verità (op-
portunità, chiarezza, e simili). Riconosce dunque piena legittimità alla si-
stematica preferita dai finalisti a proposito della collocazione (nella teoria
e nel codice) di dolo, colpa, imputabilità; e può anche lasciare aperto il
problema, se non vi siano ragioni per preferire (in taluni contesti) quella
collocazione. Viene invece negata la pregiudiziale ‘‘ontologica’’, cioè la
pretesa che esista un’unica sistematica ‘‘vera’’, ugualmente vincolante per
la teoria e per il legislatore (47). La ragion sistematica può esprimersi in
forme diverse; e le ragioni della struttura concettuale della teoria possono
non coincidere con le ragioni della sistematica di un codice.
Quanto alla giusta preoccupazione per le garanzie, la ricerca di una
‘‘dogmatica garantista’’, che attraversa l’appassionato studio di G.V. De
Francesco, ha lucidamente messo in luce (48) il problema sostanziale:
contrastare ‘‘i maggiori varchi nell’apparato delle garanzie sostanziali’’,
che ‘‘appartengono alla sfera dell’imputazione soggettiva’’. Da ciò l’esi-
genza di orientare i criteri dell’imputazione soggettiva ‘‘verso una più sta-
bile e marcata formalizzazione empirico-descrittiva’’: un obiettivo che
l’autore citato non crede possa essere ‘‘efficacemente perseguito all’in-
terno della colpevolezza’’. Come però ricorda anche un attento difensore
della teoria finalistica, costruzioni puramente concettuali non possono
servire a precostituire l’interpretazione del materiale normativo (49). Le
categorie dommatiche hanno a che fare con l’involucro ideologico (50), la
sostanza normativa sta tutta nella ‘‘stabile e marcata formalizzazione em-
pirico-descrittiva’’ dei criteri dell’imputazione soggettiva. Dal punto di vi-
sta teorico, una tale formalizzazione è perfettamente coerente con il mo-
dello analitico tradizionale, non meno che con il modello della teoria fina-
listica.

(47) B. PETROCELLI, op. cit., p. 344, sottolinea la ‘‘inopportunità metodologica, se


non la inammissibilità logica, di ogni esclusivismo nel sostenere, o combattere, la colloca-
zione dei dati nell’una o nell’altra delle categorie (dell’analisi del reato, NDR). Le quali, val
la pena di ripetere, sono costruite come ausilio non come base dell’interpretazione’’.
(48) G.V. DE FRANCESCO, op. cit., p. 128.
(49) C. FIORE, op. cit.
(50) G.V. DE FRANCESCO, op. cit., p. 123.

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Non solo sul piano teorico, ma anche per quanto riguarda la possibi-
lità di mordere sui principi, difendendo le garanzie, l’ontologismo dei con-
cetti è una tigre di carta (51). Il problema delle garanzie è problema di
principi normativi, e, in misura praticamente determinante, di cultura de-
gli operatori. È un obiettivo che può e deve essere perseguito, dal legisla-
tore e dagli interpreti della legge, quali che siano i modelli concettuali uti-
lizzati.
3.3. La dogmatica nel codice e i problemi ermeneutici. — Ancora a
proposito dei rapporti fra teoria giuridica e ‘‘dogmatica del codice’’, nelle
discussioni attorno al progetto Grosso è stato fatto un elenco di concetti,
usati nel progetto ma non nel codice vigente, di chiara matrice dogmatica:
pericolo concreto, posizioni di garanzia, colpevolezza, esimenti; potrei ag-
giungere altri, come prevenzione speciale. L’aspirazione ad una ‘‘legge-
rezza dommatica’’ del progetto sarebbe smentita dalla sua concreta artico-
lazione (52).
Potrei commentare che l’uso di un linguaggio di matrice ‘‘dogmatica’’
non è incompatibile con l’aspirazione ad una ‘‘struttura dogmatica’’ soft,
là dove, come nella maggior parte dei casi sopra richiamati, il concetto
tecnico è introdotto come mera denominazione di un istituto, con un lin-
guaggio già entrato nell’uso dottrinale, in un significato puramente for-
male. Un esempio: il concetto di posizione di garanzia è introdotto sempli-
cemente per designare i presupposti della responsabilità commissiva me-
diante omissione, la disciplina concreta sta nella tipizzazione delle singole
posizioni di garanzia. Chi non sia abituato al linguaggio della dottrina po-
trebbe sentirsi, in prima battuta, un po’ spaesato, ma, una volta compreso
il significato formale o classificatorio del concetto di posizione di garan-
zia, sarà in grado di maneggiarlo senza alcuna complicazione esegetica o
‘‘dogmatica’’, mentre problemi (e non pochi) prevedibilmente sorgereb-
bero in relazione alla disciplina delle posizioni di garanzia tipizzate. Con-
siderazioni analoghe valgono anche per formule dogmatiche (per es., peri-
colo concreto) sui cui contenuti v’è discussione, che nel progetto sono
state collegate a statuizioni normative determinate: è la statuizione nor-
mativa, e non il concetto dogmatico, che rappresenta il contenuto reale
del progetto, e che sollecita una valutazione da un punto di vista di poli-
tica del diritto, già nella fase di elaborazione di uno sperato codice fu-
turo (53).

(51) Anche qui riprendo una felice metafora di C. FIORE, op. cit.
(52) In questo senso A. CAVALIERE, op. cit., p. 292. L’introduzione di concetti dom-
matici è stata considerata un pregio, e non un difetto, ‘‘nella misura in cui tali concetti risul-
tino funzionali ad esigenze politico-criminali, in particolare di chiarezza sistematica’’: ivi, p.
293.
(53) Vi sono peraltro anche casi in cui il concetto di matrice dogmatica incorpora il
contenuto essenziale della disciplina, e funziona quindi come principio normativo: è il caso,

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Mi sentirei di riassumere queste considerazioni nel modo seguente:


nel progetto Grosso un linguaggio dogmaticamente hard, ma usato in fun-
zione puramente classificatoria, sottende di solito (o si illude di poter sot-
tendere) contenuti normativi non influenzati da concezioni ‘‘dogmatiche’’
particolari. In questo senso, il prodotto normativo non sarebbe incompati-
bile con l’aspirazione ad una dogmatica soft.
Può esser difesa, questa tesi, anche relativamente ai punti su cui, nel
dibattito dottrinale, si è parlato di ‘‘tentativi di imposizioni dommati-
che’’ (54)? Il banco di prova è la collocazione del dolo e della colpa, a
proposito della quale si è sostenuto che ‘‘il progetto vincola l’interprete ad
una scelta dommatica — assolutamente univoca, qualunque sia stata l’at-
tenzione che si è inteso concedere al problema — nel senso della inclu-
sione di dolo e colpa nella colpevolezza’’ (55). Ho già avuto modo di
esporre la mia replica, che è anche un chiarimento delle intenzioni dei re-
dattori del progetto (56): collocando il dolo e la colpa nel capitolo della
colpevolezza, non abbiamo inteso esprimere una preferenza, e men che
meno un’opzione vincolante per un particolare modello ‘‘dogmatico’’; do-
vendo scegliere una forma espositiva, abbiamo optato per il modello tradi-
zionale, più familiare alla prassi.
Ho anche osservato che le dispute ‘‘dogmatiche’’ sulla collocazione
del dolo e della colpa non hanno alcun riflesso nella cultura e nella prassi
forense. E mi domando che cosa significhi in concreto, per l’interprete o
applicatore della legge, sentirsi vincolato a una scelta dogmatica nel senso
della inclusione di dolo e colpa nella colpevolezza, e non nella tipi-
cità (57). L’applicatore della legge penale non solo non ha bisogno, ma
non può far dipendere l’interpretazione della legge da opzioni ‘‘dogmati-
che’’ che non coinvolgano i contenuti normativi. E tuttavia, di fronte alla
ricezione del progetto come tutt’altro che soft quanto ad implicazioni er-
meneutiche della sua ‘‘dogmatica’’, è doveroso prendere atto di un pro-
blema aperto: nella presente situazione spirituale della cultura penalistica,
schemi formali e formule classificatorie vengono, tendenzialmente, caricati
di significati sostanziali rilevanti ai fini dell’interpretazione.

per es., della prevenzione speciale come criterio finalistico della scelta e della commisura-
zione delle sanzioni. Dal punto di vista dell’interprete, sarebbero questi i casi ‘‘difficili’’. Sul
riferimento alla prevenzione speciale, cfr. gli importanti rilievi di S. MOCCIA, in La riforma,
cit., p. 473 s.
(54) La formula è di A. CAVALIERE, op. cit., p. 292.
(55) A. CAVALIERE, op. cit., p. 257.
(56) D. PULITANÒ, Nel laboratorio, cit., p. 18.
(57) Rileggiamo ancora B. PETROCELLI, op. cit., p. 340: ‘‘Di fronte alle esasperazioni
di certa dottrina l’esperienza ci presenta il normale, e, staremmo per dire, indifferente fluire
della vita pratica del diritto; il quale subisce, e deve indubbiamente subire, nel corso del
tempo, scosse più o meno profonde, ma per virtù di ben altre cause che non il tambureggiare
di effimeri acquazzoni dommatici’’.

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L’attenzione al linguaggio (ed alla concreta ricezione dei messaggi)


resta un problema cruciale per una futura riforma (58), anche sotto il pro-
filo del rapporto con modelli ‘‘dogmatici’’ condivisi o confliggenti. Non si
tratta di ‘‘democrazia scientifica’’, come curiosamente si è detto (59). La
scienza non è ‘‘democratica’’, nel senso che in essa non hanno legittimità
pretese di kratos, di potere di chicchessia, né di pochi eletti né del mag-
gior numero. Il discorso della scienza dovrebbe essere, per definizione,
herrschaftsfrei. Ma anche privo di potere, se non per la sua capacità di
produrre conoscenze e ‘‘ragioni’’.
L’istanza di democraticità vale per il momento ‘‘politico’’; vale
quindi, ovviamente, in sede di elaborazione di un codice, sul versante po-
litico della voluntas. Non tocca i problemi che interpellano la scienza giu-
ridica, sui quali si è incentrata la discussione.
Le discussioni, i dissensi, ed anche i fraintendimenti emersi a propo-
sito del laboratorio della riforma, rimandano a problemi più di fondo rela-
tivi al laboratorio del giurista: quali concezioni abbiamo del nostro lavoro,
nel campo di tensione fra la necessaria autonomia del lavoro scientifico ed
il vincolo di soggezione alla legge, in un orizzonte culturale che non sia
quello del vecchio ed autoritario tecnicismo giuridico?
Ritorcendo (al solo scopo di provocazione al dibattito) la critica che
mi è stata mossa, colgo un residuo dello spirito d’un rigido positivismo
tecnicistico proprio nella posizione che ammetta teoricamente, sia pure
per opporvisi, la possibilità di ‘‘imposizioni dommatiche’’ del legislatore,
attribuendo significati ‘‘impositivi’’ a qualsiasi sfumatura o articolazione
del testo. Secondo la mia concezione della scienza giuridica, l’autonomia
della impresa conoscitiva esclude la stessa possibilità teorica di imposi-
zioni dommatiche, ovvero della imposizione di modelli teorici; per la com-
prensione dei testi normativi, so di essere libero di utilizzare qualsiasi ap-
parato concettuale possa servire ad illuminare i problemi e le soluzioni.
I vincoli con cui la scienza, proprio come impresa conoscitiva auto-
noma, è chiamata a fare i conti, sono quelli che il legislatore ha la compe-
tenza di imporre: vale a dire, scelte di politica del diritto incorporate in
schemi normativi. La maggioranza, forse, dei giuristi, parlerebbe anche
qui, in molti casi, di scelte dogmatiche del legislatore (poniamo, in rela-
zione al principio di colpevolezza). Preferisco un linguaggio che distingua

(58) Non ho difficoltà ad ammettere che il progetto che ho contribuito ad elaborare


non è immune da cadute d’attenzione, anche per la fretta con cui è stato messo a punto il te-
sto finale. Un esempio di scelta terminologica non felice è per es. l’avere parlato, nell’art. 28,
di colpevolezza per il reato commesso invece che di colpevolezza per il fatto. In ciò con-
cordo con la critica di CAVALIERE, op. cit., p. 261 s., anche se ritengo che un interprete avve-
duto dovrebbe interpretare la formula nel senso più ragionevole (reato = fatto), correggendo
l’evidente imprecisione linguistica.
(59) A. CAVALIERE, op. cit., p. 295.

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più nettamente il profilo teorico da quello politico o normativo; ma l’im-


portante è intendersi sulla sostanza. Nei testi normativi interessa — come
propriamente ‘‘normativo’’ — ciò che ha reale rilevanza ermeneutica ri-
spetto alla soluzione di problemi di comprensione dei contenuti precettivi
e di applicazione del diritto.
È possibile enucleare aspetti del messaggio legislativo che abbiano ri-
levanza esclusivamente per la pragmatica della comunicazione (forma del
messaggio), ma non per l’ermeneutica? Negare una tale possibilità mi par-
rebbe una estremizzazione dell’approccio positivistico. Se l’interpreta-
zione della legge è un’impresa razionale, il problema mi sembra possa es-
sere così riformulato: secondo quali criteri può essere costruito un oriz-
zonte ermeneutico ‘‘fedele alla legge’’, in un contesto disincantato rispetto
alle ideologie tradizionali sulla produzione legislativa e sul rapporto fra la
legge e i suoi interpreti?
Sullo sfondo della discussione attorno agli strumenti del giurista, rie-
merge come decisivo il problema dei fini: di conoscenza del diritto posto,
di elaborazione critica, di politica del diritto, in un intreccio che chiede di
essere razionalmente esplicato. Il discorso qui avviato sollecita ulteriori
sviluppi. Confido che possano continuare in forma di dialogo, tanto più
necessario quanto più ci si inoltri in problemi difficili e ‘‘di sostanza’’.

II. Di che cosa parla la teoria del bene giuridico?


1. I possibili approcci: dal problema di tutela alle soluzioni norma-
tive, o viceversa. — Ambiguità e problemi d’inquadramento concettuale,
variamente intrecciati con problemi d’interpretazione, sono emersi nei
primi tentativi di riflessione sistematica che hanno accompagnato la ri-
forma del diritto penale societario. Rispetto alla disciplina previgente, il
d.lgs. n. 61 del 2002 ha segnato una svolta quanto a beni giuridici tutelati,
o è dato rinvenire, malgrado la diversità delle soluzioni, una linea di conti-
nuità?
Con riferimento, in particolare, alle norme in cui è stata smembrata
la disciplina delle false comunicazioni sociali, le voci più numerose par-
lano di mutamento di prospettive: dalla tutela della trasparenza dell’infor-
mazione, ridotta ad ‘‘ospite accidentale nell’economia dell’art. 2622’’,
verso una ‘‘lesività di tipo privatistico’’, incentrata su elementi di danno
patrimoniale (60). Altri, fra cui il sottoscritto, hanno parlato di continuità
nella direzione della tutela, e di mutamenti (certo, assai consistenti) in
chiave di restrizione delle soglie di tutela, escludendo che i beni tutelati

(60) A. ALESSANDRI, False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, in
AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di A. ALESSANDRI, 2002, p. 186 s.; C.
SANTORIELLO, Il nuovo diritto penale delle società, 2003, p. 34 s., e ivi ulteriori indicazioni.

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dal nuovo ‘‘penale societario’’ siano nuovi rispetto al diritto previ-


gente (61).
Poiché le differenze di inquadramento non sono correlate a differenti
interpretazioni delle nuove norme (62), la loro spiegazione va cercata al-
trove: non nel contingente oggetto della discussione, ma nell’apparato
concettuale utilizzato.
Ha scritto Alessandri che la questione ‘‘coinvolge argomenti di note-
vole spessore, rinviando alla tematica generale del bene giuridico ed ai
suoi rapporti con le tecniche di tutela, con i modelli di fattispecie’’ (63).
Sono d’accordo, e credo sia utile affrontarla in tutto il suo spessore teo-
rico.
Di ‘‘beni giuridici’’ quali oggetti di tutela penale si può discutere (e di
fatto la scienza giuridica discute) da angoli visuali diversi. L’approccio
consueto agli interpreti e applicatori del diritto prende le mosse da una di-
sposizione o un complesso di disposizioni, per individuare la direzione di
tutela e i modi in cui la tutela si articola. Questo percorso argomentativo
va per così dire a ritroso, dalle soluzioni normative al problema di tutela
cui esse hanno inteso dare risposta. L’oggetto di tutela, che in tal modo
può essere individuato, sembra costituirsi e prendere contorni all’interno
del sistema di tutela, assunto come dato di partenza.
È però possibile un percorso inverso: dal problema di tutela alla solu-
zione data dal legislatore penale. Il problema ha a che fare con esigenze di
protezione di beni o interessi preesistenti e indipendenti dal diritto penale.
Nel diritto penale positivo troviamo le risposte che il legislatore ha dato, e
che cerchiamo di comprendere e ricostruire (anche) alla luce del bene o
interesse (del problema di tutela) con cui intendono porsi in relazione. È
questo l’approccio che nei miei lavori (sul penale societario, e non solo in
essi) ho cercato e cerco di sviluppare.
Alle diversità di approccio corrispondono concetti diversi di bene
giuridico. Partendo da un dato assetto normativo, possono essere elabo-
rate concezioni del bene giuridico immanenti al sistema; partendo dai
problemi, si apre la possibilità di proporre anche concezioni trascendenti
il sistema del diritto positivo, elaborando teorie degli oggetti di tutela che
intendano adempiere ad una funzione ‘‘critica’’, di controllo delle scelte
legislative (64).

(61) D. PULITANÒ, La riforma del diritto penale societario, fra dictum del legislatore e
ragioni del diritto, in questa Rivista, 2002, p. 934 s.; ID., False comunicazioni sociali, in
AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 141 s.
(62) Le diversità nella soluzione di taluni problemi esegetici, che pure emergono nei
citati lavori miei e di Alessandri (a proposito, per es., delle soglie quantitative), non sono in
relazione necessaria con le diversità di inquadramento concettuale.
(63) A. ALESSANDRI, op. cit., p. 188.
(64) Per questa impostazione cfr. W. HASSEMER, Theorie und Soziologie des Verbre-
chens, Frankfurt/M., 1973, p. 19 s.

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Non solo nella storia delle teorie del bene giuridico, ma anche nel
concreto argomentare della scienza giuridica, si intrecciano entrambi gli
approcci (dal problema di tutela alle soluzioni normative, o viceversa
dalle soluzioni al bene giuridico) e vengono fatti giocare concetti diversi,
in un vario combinarsi della funzione intrasistematica e di funzioni ‘‘criti-
che’’ in qualche misura trascendenti il sistema. Termini identici vengono,
in concreto, adoperati con accezioni differenti, e su di essi vengono co-
struite ‘‘teorie dei beni giuridici’’ che parlano di cose diverse. Dietro appa-
renti contrapposizioni, spesso vi sono differenti linguaggi e modelli con-
cettuali.
2. Davvero superata la concezione ‘‘metodologica’’ del bene giuri-
dico? — Com’è noto, teorie concernenti gli oggetti di tutela penale na-
scono nel clima della filosofia giuridica dell’illuminismo liberale, come
teorie critiche volte a restringere l’area di legittima utilizzazione del diritto
penale (reato come violazione di diritti soggettivi) (65). L’idea del reato
come offesa ad un ‘‘bene’’ (66), nata come alternativa a tale concezione,
si è sviluppata in una storia, ampiamente esplorata, nella quale si intrec-
ciano dimensione critica e dimensione intrasistematica, in varie combina-
zioni.
La dimensione ‘‘critica’’ resta presente, nel pensiero penalistico del
secolo XIX, nel lavoro di giuristi impegnati per la riforma del sistema pe-
nale. Particolarmente significativa l’opera di v. Liszt, il quale mantiene e
sviluppa l’idea che il contenuto materiale (antisociale) dell’illecito ‘‘è indi-
pendente dalla sua corretta valutazione da parte del legislatore (è ‘meta-
giuridico’). La norma giuridica lo trova, non lo crea’’ (67). L’attenzione
agli interessi in gioco nel diritto penale resta (come nella filosofia dell’illu-
minismo) elemento portante di un programma di rinnovamento della teo-
ria e della prassi penalistica.
Concezioni rigidamente intrasistematiche si affermano nel clima del
positivismo giuridico fra ’800 e ’900. ‘‘Bene giuridico’’ può essere ‘‘tutto
ciò alla cui conservazione il diritto positivo ha interesse, secondo il suo
punto di vista’’, e che perciò il diritto, con le sue norme, cerca di difen-
dere da indesiderate offese e messe in pericolo (68). È la posizione della
norma che fa di qualcosa un ‘‘bene giuridico’’. Tutta interna a questo oriz-

(65) In questa sede vengono richiamati solo alcuni passaggi di una storia piuttosto
complessa. Per un quadro approfondito sulla storia delle teorie del bene giuridico, cfr. K.
AMELUNG, Rechtsguterschutz und Schutz der Gesellaschaft, 1972; W. HASSEMER, op. cit.
Sulla concezione illuministica, puntuali riferimenti in E. DOLCINI e G. MARINUCCI, Corso di
diritto penale, 2001, p. 432 s.
(66) Com’è noto, la paternità del concetto viene fatta risalire al giurista tedesco
Birnbaum, in un articolo pubblicato nel 1834 in Archiv des Criminalrechts.
(67) F.V. LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, ed. 1927, p. 174.
(68) K. BINDING, Die Normen und ihre Ubertretung, 1872, p. 193.

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zonte è la concezione dell’oggetto del reato che ha dominato nella scienza


penalistica italiana a partire dall’opera di Arturo Rocco (69).
Attraverso sviluppi che possiamo definire di completa formalizza-
zione, la teoria del bene giuridico è stata svuotata dell’originaria valenza
critica. Il bene giuridico non sarebbe altro, secondo una molto citata defi-
nizione, che ‘‘lo scopo di tutela riconosciuto dal legislatore nelle singole
norme, nella formula più abbreviata’’ (70). Ma neanche abbreviata, nelle
proposizioni con cui l’autore del più diffuso trattato italiano di diritto pe-
nale, il Manzini, indica gli oggetti di tutela corrispondenti alle singole fi-
gure di reato: proposizioni che spesso non sono altro che una parafrasi
dell’intero testo di ciascuna norma penale.
Da tempo, la concezione ‘‘metodologica’’ del bene giuridico non ha
sostenitori dichiarati nella dottrina penalistica italiana. Una koinè dottri-
nale che ha preso salde radici può essere oggi ravvisata nella teoria dei
beni giuridici costituzionali, nelle sue varie versioni più o meno restrittive,
ma comunque caratterizzate dall’aggancio diretto o indiretto a un filtro
costituzionale per l’individuazione e selezione degli oggetti legittimi di tu-
tela penale (71). È una concezione che si presenta, allo stesso tempo,
come immanente al sistema giuridico complessivo e come trascendente il
sistema della legge ordinaria. Profilo intrasistematico e profilo critico sem-
brano avere trovato una ragionevole composizione.
Lo stato della questione è, mi pare, più complesso, e non immune dal
persistere di modi di pensare e parlare propri di concezioni delle quali
viene, a parole, proclamato il superamento. Mentre la teoria generale del
reato viene ormai costruita sulla base del paradigma ‘‘critico’’ dei beni
giuridici di rilevanza costituzionale, un approccio consueto nell’analisi
delle singole figure di reato assume (72) come punto di partenza il c.d.
‘‘oggetto giuridico’’ di ciascuna figura, e, secondo un’idea che ha avuto
(ha?) largo seguito, per ciascuna figura di reato sarebbe dato un oggetto
‘‘specifico’’, determinato dalla particolare configurazione concreta del
tipo di reato, entro l’oggetto o bene giuridico ‘‘di categoria’’ (73).
Non saprei dire se e quanto l’idea di oggettività giuridiche specifiche,
fantasmatico riflesso o Doppelganger di ciascuna fattispecie, sia o non sia

(69) Arturo ROCCO, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, 1910, in
Opere complete, III, 1933.
(70) R. HONIG, Die Einwilligung des Verletzten, 1919, p. 94.
(71) È d’obbligo il riferimento a F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Nss. Dig.
it., 1974, p. 7 s., nel cui solco si è mossa la dottrina successiva. Nella manualistica recente,
v. per tutti DOLCINI-MARINUCCI, Corso di diritto penale, 2001; FIANDACA-MUSCO, Diritto pe-
nale, Parte generale, 2001, p. 4 s.
(72) Lo ha rilevato, in chiave critica, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte
speciale, I, 14a ed., 2002, p. 18.
(73) G.D. PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, 1948.

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ancora presa sul serio (74); né intendo mettere in discussione la legitti-


mità di un approccio intrasistematico e l’utilità di un discorso esegetico
che segua in tutte le sue pieghe il dictum del legislatore, esplicando i con-
tenuti normativi e anche, dietro ai contenuti, gli aspetti simbolici e ideolo-
gici. Ritengo, peraltro, che l’idea di ‘‘oggettività specifiche’’ articolate in
aderenza alle singole disposizioni legislative, diverse da reato a reato, sia
una superfetazione concettuale, priva d’utilità e potenziale fonte di confu-
sione, nel senso messo in luce da una non recente, caustica osservazione
di Schünemann: la erronea localizzazione di problemi di politica criminale
nel concetto di bene giuridico produce mostri dogmatici (75). L’idea delle
oggettività specifiche è, per l’appunto, uno spostare sul concetto di bene
giuridico l’insieme dei problemi cui il legislatore dà risposta con l’articola-
zione delle fattispecie: problemi che attengono alle modalità di tutela di
beni preesistenti ed indipendenti da norme penali, punti di riferimento (di
regola) comuni per una pluralità di figure di reato. Dall’articolazione
delle fattispecie dipendono non i beni giuridici tutelati, bensì le modalità
di tutela.
Anche indipendentemente dall’ideologia delle oggettività specifiche,
l’approccio ‘‘a partire dalle soluzioni normative’’ rischia di lasciare in om-
bra aspetti che per una concezione ‘‘critica’’ dei beni giuridici sono d’im-
portanza essenziale. Lascio fra parentesi, in questo discorso, la dimen-
sione costituzionale, che pure costituisce il filtro decisivo per la accetta-
zione di oggetti d’una tutela penale legittima. Su tale profilo v’è consenso
di principio, e non da esso dipendono le diversità d’approccio e d’inqua-
dramento concettuale esemplificate dalle discussioni sulla riforma penale
societaria. Mi interessano, invece, altri aspetti, nei quali la dimensione cri-
tica della teoria del bene giuridico trova una base, per così dire, fattuale.
È su questo piano che ho cercato di svolgere la mia analisi del penale so-
cietario, adottando un linguaggio forse dissonante da moduli consueti.
Vorrei cercare, qui, di chiarire e sottoporre alla discussione il modello teo-
rico e concettuale di cui quell’analisi è espressione.

(74) All’oggetto sostanziale specifico del reato — che, ‘‘diverso da reato a reato’’,
‘‘esprime la funzione della singola norma incriminatrice’’ — è ancora dedicato un breve pa-
ragrafo in un importante manuale (A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, 7a ed., 2000, p.
222). La terminologia è ancora usata, per es., da A. ALESSANDRI, op. cit., p. 23. Il modulo ar-
gomentativo mi sembra emerga in giurisprudenza, per es., in Cass., Sez. Un., 26 giugno
2002, in Cass. pen., 2002, p. 3372, dove, a proposito della distinzione fra reato circostan-
ziato e titolo autonomo di reato, leggiamo che ‘‘per individuare l’interesse tutelato dalla fat-
tispecie penale [...] è necessario prima esaminare la struttura della stessa fattispecie, distin-
guendo i suoi elementi essenziali da quelli accidentali; sicché si potrà registrare un muta-
mento del bene tutelato solo quando e perché è stato accertato un mutamento degli essentia-
lia delicti’’ (Sez. Un., cit., p. 3374 s.).
(75) B. SCHÜNEMANN, Methodologische Prolegomena zur Rechtsfindung im besonde-
ren Teil des Strafrechts, in Fest. Bockelmann, 1979, p. 131.

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3. Il problema di tutela come vincolo di realtà. — Il mio discorso


non presuppone alcuna definizione ‘‘contenutistica’’ di che cosa sia un
bene giuridico. Mi sia consentito, in proposito, prendere le distanze dalle
pur bene intenzionate formule che, nella letteratura penalistica, sembrano
avanzare una tale pretesa: ‘‘bene giuridico’’ come ‘‘unità di funzio-
ne’’ (76), ‘‘fatto permeato di valore’’ (77), e simili. A formule del genere
mi pare applicabile la tagliente osservazione di Wittgenstein: ‘‘Ricorda
che a volte richiediamo definizioni, non per il loro contenuto, ma per la
forma della definizione. La nostra è una richiesta architettonica; la defini-
zione è come un finto cornicione che non sorregge nulla’’ (78).
Definizioni del ‘‘bene giuridico’’ che, come quelle citate, si incen-
trano su particolari aspetti contenutistici o strutturali, non sembrano
avere concreta utilità (79). Non sono autentiche ‘‘definizioni’’, nel senso
che non descrivono né servono a porre le regole d’uso del concetto di
bene giuridico. Tutt’al più, possono essere considerate espressione reto-
rica, tanto suggestiva quanto generica, di particolari concezioni teoriche o
politiche su che cosa possa o debba essere oggetto di tutela penale.
La scienza giuridica non ha bisogno di pseudodefinizioni di pura re-
torica. Ha a che fare con beni o interessi concreti, storicamente determi-
nati, riconoscibili e (bene o male) valutati come ‘‘interessi’’ da un qualche
punto di vista significativo. Nell’analisi di ordinamenti positivi, ha il com-
pito di comprendere ed ordinare concettualmente gli oggetti di tutela
(cioè gli ‘‘interessi’’) che il legislatore abbia di fatto individuato e selezio-
nato con le sue scelte di penalizzazione. Sul piano ‘‘critico’’ o di politica
del diritto, ha bisogno di criteri che possano essere razionalmente appli-
cati, per convalidare o invalidare opzioni di tutela. Per tutte queste esi-
genze, le formule accademiche non servono: esse riflettono, mi pare, il fal-
limento (l’impossibilità) della ricerca di requisiti ‘‘sostanziali’’ del bene
giuridico, fuori dell’aggancio a criteri normativi.
Meglio, allora, rinunciare ad inutili definizioni ‘‘sostanziali’’ del bene
giuridico. Il problema degli interessi tutelati o tutelabili penalmente si
pone in un orizzonte fattuale (in prima battuta) aperto, entro cui poter di-
scutere di qualsiasi ‘‘interesse’’ possa essere presentato come tale da punti
di vista non irrealistici, indipendentemente da opzioni di valore. Il che
non significa affatto rinuncia alla dimensione critica della teoria del bene
giuridico, cioè alla selezione e al controllo e degli interessi legittimamente
tutelabili con strumenti penali. I criteri di selezione necessari a tal fine
non possono però essere utilmente anticipati in sede di definizione (regola
d’uso) della formula dottrinaria ‘‘bene giuridico’’, ma dipendono da un

(76) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, 2001, p. 5.


(77) DOLCINI-MARINUCCI, Corso, cit., p. 434.
(78) L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, trad. italiana, Torino, 1999, p. 113.
(79) Una valutazione scettica anche in FIANDACA-MUSCO, loco cit.

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orizzonte normativo, sia esso quello di un dato ordinamento giuridico


(teoria dei beni giuridici costituzionali) o quello di una data opzione poli-
tica.
Una teoria ‘‘comprensiva’’ deve potere ugualmente parlare sia di ‘‘in-
teressi’’ da rifiutare, sia degli interessi che possano o debbano essere ac-
colti come meritevoli e bisognosi di tutela. L’orizzonte della teoria è più
ampio di quello di singoli sistemi normativi, che ne sono un possibile (non
l’unico) oggetto.
Per una riflessione a tutto campo sui problemi di tutela, cui il diritto
penale si candidi come risposta possibile legittima effettiva, è preferibile
partire, per l’appunto, dai problemi e non dalle soluzioni. In questa pro-
spettiva anche un approccio intrasistematico, volto all’analisi di sistemi
giuridici positivi, non può non prendere atto che il legislatore penale non
‘‘crea’’ gli interessi cui appresta tutela, ma effettua scelte in relazione a in-
teressi non da lui dipendenti, come era ben chiaro ai padri della moderna
scienza penale. La selezione di interessi da tutelare e di fatti da incrimi-
nare, che ogni scelta normativa implica (a meno che non sia espressione
di puro e casuale arbitrio), avviene all’interno di un contesto di fatti e va-
lori già altrimenti pre-determinati.
Vero è che, nel plasmare lo stesso contesto sociale, un ruolo determi-
nante spetta alle istituzioni del diritto. Rispetto alla singola norma penale,
tuttavia, l’intero assetto istituzionale e legale dei rapporti sociali viene in
considerazione come dato oggettivo, come fatto sociale, indipendente
dalle tecniche adottate o adottabili per la sua (eventuale) tutela coattiva. Il
diritto ‘‘crea’’ istituzioni (ritenute) funzionali a un dato sistema sociale; il
legislatore penale ‘‘crea’’ figure di reato, in tal modo proteggendo l’assetto
di rapporti (sociali e giuridici) che l’ordinamento giuridico concorre a co-
stituire, e che costituisce la premessa del problema penale.
Questa impostazione concettuale non presuppone né implica opzioni
di valore circa gli interessi da tutelare. La legge penale può, di volta in
volta, apprestare sanzione giuridica per offese a beni e interessi universal-
mente riconosciuti, o dare soluzione autoritativa a questioni socialmente
controverse. La selezione degli interessi, che il legislatore scelga di tute-
lare, può essere liberale o autoritaria, corrispondere a matrici politiche di-
verse, essere valutata come più o meno corretta. In ogni caso, quali che
siano le scelte del legislatore, è possibile individuare le situazioni su cui il
diritto possa incidere, e gli interessi che il legislatore ha inteso tutelare o
promuovere, nella loro pregiuridica sostanza ‘‘di fatto’’, di dato sociale e
culturale (80).
Già il semplice rilevare che il legislatore non crea gli interessi cui in-

(80) Persino dietro le leggi repressive più infami — poniamo, le c.d. leggi razziali, o
le norme poste a tutela autoritaria di un regime politico — è dato ravvisare gli ‘‘interessi’’

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tende apprestare tutela (e quindi che gli oggetti di tutela non dipendono
dalle opzioni legislative di tutela) (81) ha un contenuto ‘‘critico’’ rispetto
a dogmi e opinioni di un positivismo giuridico ingenuo, e non è senza con-
seguenze sul modo di impostare i problemi, anche di interpretazione del
diritto positivo, relativi ai ‘‘beni giuridici’’. Un discorso coerente su ‘‘beni
giuridici’’ non può non tenere conto della distinzione concettuale e nor-
mativa fra l’oggetto della tutela e la valutazione giuridica di tale oggetto.
Deve saper parlare dell’oggetto della tutela quale ‘‘interesse di fatto’’, in-
dipendente dalla sua tutela legale, e saper esaminare sul piano fattuale se
e come avvenga l’incontro (eventuale) fra il problema di tutela e le scelte
del diritto positivo.
L’interprete del diritto positivo, per cogliere la sostanza delle dire-
zioni offensive dei reati tipizzati, potrà trovare un utile, spesso decisivo
punto di riferimento nelle classificazioni o etichette che esprimono l’ideo-
logia del legislatore; ma potrà anche trovarsi nella necessità di guardare
oltre le etichette. L’interesse offeso da un dato tipo di fatto dipende dal
contenuto della fattispecie; la classificazione legislativa (l’etichetta ideolo-
gica) può essere un dato rilevante sul piano ermeneutico, ma ciò che è in
ultima analisi decisivo è l’impatto del reato, così come tipizzato dal legi-
slatore, su questo o quest’altro interesse.
Classificazioni puramente ideologiche sono non rare nel codice
Rocco, né estranee alla prassi legislativa recente. L’intreccio e, insieme, la
distinzione fra le classificazioni formali del legislatore e la concreta dire-
zione lesiva può essere colto in modo esemplare nella riforma dei delitti
sessuali, di cui alla l. n. 66 del 1996. La traslazione e rietichettatura di
quei delitti, nel capo dei delitti contro la persona, ha rappresentato la cifra
ideologica di una riforma che, in sede politica e nella comunicazione me-
diatica, è stata presentata come superamento di una morale sessuale ar-
caica, e come affermazione che è in gioco la tutela della persona, non di
una astratta moralità pubblica. Sul piano della retorica della comunica-
zione, l’operazione ha avuto successo: un forte impatto simbolico. Sul
piano della coerenza concettuale, sono stati oggetto di rilievi critici la ri-
nuncia a un esplicito riferimento alla libertà sessuale, e un accostamento
non felice a reati di natura molto diversa (82). Quanto ai contenuti nor-
mativi, la ricollocazione delle fattispecie è del tutto neutra: i contenuti

che il legislatore ha inteso tutelare; interessi che, per quanto inaccettabili, la scienza ha il
compito di rilevare, anche come premessa per le successive valutazioni critiche.
(81) Conforme, con un’argomentazione incentrata sul vincolo alla Costituzione, BRI-
COLA, voce Teoria generale, cit., p. 17. Nella letteratura manualistica, sottolinea che la
‘‘preesistenza ontologica’’ del bene rispetto alla norma è presupposto della funzione critico-
garantista F. MANTOVANI, Diritto penale, 2001, p. 209.
(82) T. PADOVANI, in Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della
legge contro la pedofilia, a cura di A. CADOPPI, 1999, p. 21.

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delle vecchie e delle nuove fattispecie ci dicono che si tratta di delitti con-
tro la persona, sia prima che dopo la riforma: il riferimento alla moralità
pubblica, opportunamente eliminato, era già da tempo un mero residuo
verbale dell’ideologia del legislatore del 1930, privo di qualsiasi ragione-
vole significato per l’interpretazione ed applicazione delle vecchie norme;
la libertà sessuale, ieri (e non più oggi) evocata in una autonoma parti-
zione codicistica, è sempre l’interesse della persona (il profilo di libertà
personale) specificamente tutelato.
Prendendo spunto dalla trasmigrazione dei delitti sessuali da un titolo
all’altro del codice, un acuto commentatore ha osservato che ‘‘come l’eti-
chetta non cambia il contenuto del vaso, così il contenuto offensivo di una
fattispecie non può essere determinato da questa o quella collocazione to-
pografica, se ad essa non corrisponde poi un assetto teleologico effettiva-
mente corrispondente alla classificazione’’ (83). Pochi anni prima lo
stesso autore aveva scritto, in una introduzione alla parte speciale, che ‘‘la
tecnica di organizzazione della parte speciale... è un medium che si identi-
fica fatalmente con il messaggio, nel senso che l’organizzazione delle fatti-
specie risulta sempre, di per sé, espressiva di un contenuto destinato a ri-
percuotersi sugli specifici contenuti delle singole disposizioni’’ (84). L’e-
sperienza concreta della riforma dei delitti sessuali, nel confermare la
forza dei messaggi simbolici, ha evidenziato come il rapporto fra organiz-
zazione formale e contenuti normativi possa essere molto meno univoco
di quanto non dicano il ‘‘fatalmente’’ e il ‘‘sempre’’ della frase citata. Per
cogliere quel rapporto in modo realistico, e non ideologico, serve un
punto di vista esterno alle classificazioni legislative.
Certo, la classificazione legislativa è un dato che il giurista interprete
non può espungere dalla sua riflessione. In alcuni casi, la classificazione
legislativa ha un autonomo rilievo formale, come premessa della applica-
zione di disposizioni comuni a un dato gruppo di reati. In ogni caso si
pone il problema della rilevanza a fini esegetici, posto che la classifica-
zione legislativa dovrebbe essere un elemento di ricostruzione della vo-
lontà del legislatore; interpretazioni che vadano oltre la tutela del bene ad-
ditato dal legislatore dovrebbero essere scartate, nell’ottica di una nor-
male interpretazione teleologica. Ma non sempre il telos delle concrete
scelte normative è adeguatamente espresso nelle etichette o partizioni co-
dicistiche; l’interpretazione razionale può legittimamente fare perno su al-
tre e più sostanziali ragioni.
Dal punto di vista della teoria dell’interpretazione, abbiamo qui un
buon esempio della possibilità di distinguere nel messaggio legislativo gli

(83) T. PADOVANI, op. cit., p. 22.


(84) T. PADOVANI e L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, 1991, p. 59
(capitolo scritto da T. Padovani).

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aspetti rilevanti sul piano ermeneutico, da altri che tale rilevanza non ab-
biano.
In sede di riflessione sull’apparato concettuale della scienza giuridica,
il punto da mettere in rilievo è che, se gli interessi che possono costituire
un problema di tutela sono indipendenti dalle scelte del legislatore, anche
la scienza giuridica, nel rilevare e discutere ‘‘interessi’’, è indipendente dal
legislatore. Il vincolo alla legge concerne il contenuto normativo delle
scelte di tutela, e soltanto esso. Nella ricognizione di dati di fatto, come
gli interessi in gioco in situazioni tipizzate o tipizzabili dalla legge, la
scienza giuridica non è soggetta a vincoli normativi, sì invece a vincoli di
realtà. Sotto questo profilo, ha la medesima autonomia intellettuale e i
medesimi vincoli di qualsiasi impresa conoscitiva che aspiri alla dignità di
scienza.
4. Il discorso sui beni giuridici: quali interessi di conoscenza? — In
tutti gli studi sulla parte speciale cui ho avuto occasione di dedicarmi nel
recente periodo mi è parso che un approccio ‘‘a partire dai problemi di tu-
tela’’ apra la strada ad un esame più completo della materia, e ad un di-
scorso più interessante sotto il profilo della acquisizione di conoscenze (in
un senso che cercherò di precisare) rispetto al discorso che pure può es-
sere svolto partendo dalle soluzioni legislative di un dato momento.
Un discorso ‘‘a partire dalle soluzioni normative’’ nasce entro un
orizzonte più ristretto, centrato sulla soluzione che il legislatore abbia im-
posto. Tende a ridurre il bene giuridico a riflesso speculare della struttura
delle singole fattispecie, nell’ottica della concezione ‘‘metodologica’’. Le
proposizioni in cui articola le sue conclusioni offrono un contributo di ca-
rattere esegetico (85); ci informano sulle scelte contenutistiche del legisla-
tore, in un linguaggio tendenzialmente coerente con l’ideologia del legisla-
tore. Può non esser poco, ma non esaurisce l’apporto di conoscenze che la
scienza giuridica può dare attorno ai problermi di tutela che il legislatore
abbia (bene o meno bene) risolto in uno fra diversi modi possibili.
Partendo dai problemi, è possibile formulare un maggior arco di do-
mande, e formularle in modo più aperto, sollecitando risposte di conte-
nuto informativo maggiore. Le soluzioni legislative vengono messe in rap-
porto con interessi o beni giuridici, la cui sostanza ‘‘fattuale’’ è (e viene ri-
conosciuta) preesistente e condizionante rispetto alle soluzioni possibili.
Le proposizioni in cui il discorso sui e dai problemi articola le sue conclu-
sioni, non si esauriscono in contributi esegetici, ma offrono inoltre contri-
buti conoscitivi che, assumendo il diritto posto come oggetto di cono-
scenza in un contesto più ampio, ci dicono non semplicemente qualcosa
sul sistema normativo dato, ma anche qualcosa sui rapporti fra il sistema

(85) Anche su questo piano, è un contributo incompleto, che non esaurisce il di-
scorso sul sistema entro cui inquadrare le singole scelte normative.

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normativo e problemi di disciplina di interessi che il legisltore non crea,


ma dai quali viene per così dire interpellato.
In questa chiave di lettura l’ambiguità da cui siamo partiti, riscon-
trata nei primi commenti sulla riforma penale societaria, può essere espli-
cata (forse) come apparente, dovuta all’uso di modelli concettuali diversi
a fronte di problemi parzialmente diversi. La diversità dei linguaggi non
esclude affatto un possibile accordo sulla soluzione di problemi esegetici.
Credo che il vantaggio dell’approccio ‘‘dai problemi’’ stia in una maggiore
libertà del discorso, e in una maggiore ampiezza degli interessi di cono-
scenza che possono venire tematizzati. Mi sembra inoltre che sia questo
l’approccio coerente con una teoria dei beni giuridici realmente emanci-
pata dalle angustie di una concezione metodologica e dal mito delle ogget-
tività giuridiche specifiche, e che prenda invece sul serio l’idea che il legi-
slatore penale non crea (non può creare) gli interessi che prende in consi-
derazione. Proprio partendo da interessi individuati nella loro sostanza
fattuale, risulta possibile porre infine il problema decisivo della legittimità
della scelta di tutela, nei termini della teoria dei beni giuridici di rilevanza
costituzionale.
Esemplificando, e in estrema sintesi: quando i commentatori eviden-
ziano nel ‘‘nuovo’’ art. 2622 uno slittamento verso una lesività di tipo pri-
vatistico-patrimoniale, dicono cosa che, sul piano esegetico, è senz’altro
corretta, ma non dà risposta ad altri problemi di carattere non stretta-
mente esegetico, epperò rilevanti per una migliore comprensione del no-
vum legislativo. La soluzione legislativa, così come accertata sul piano
esegetico, non chiude, ma al contrario apre un ulteriore piano di pro-
blemi: come essa si inserisca nel campo di problemi che le istituzioni so-
cietarie pongono, e per i quali può venire in discussione lo strumento pe-
nale; se gli interessi patrimoniali, cui la nuova legge dà diretto rilievo tra-
mite nuovi elementi di fattispecie, siano divenuti oggetto di una tutela
nuova e più ampia, o no; se e che cosa resti, nel novellato sistema, della
tutela della trasparenza dell’informazione societaria, e così via, senza altro
limite alla formulazione dei problemi che quello della loro rilevanza cono-
scitiva.
Rispondendo a questi ulteriori problemi, che presuppongono già ri-
solto il problema esegetico in senso stretto, la questione dei beni giuridici
potrà legittimamente (e utilmente) essere tematizzata in termini diversi.
L’esegeta può accontentarsi di dire, nei termini di una concezione meto-
dologica del bene giuridico, che la nuova fattispecie dell’art. 2622 è carat-
terizzata da una lesività di tipo privatistico-patrimoniale. Chi abbia inte-
resse a una più completa comprensione del senso della riforma, potrà os-
servare che, inserendo nella fattispecie il danno patrimoniale, la nuova
norma non ha irrobustito o esteso la tutela di interessi patrimoniali, ma al
contrario la ha ristretta, sia tagliando fuori dalla fattispecie gli interessi

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patrimoniali di tutti coloro che, pur facendo parte del pubblico dei desti-
natari della comunicazione sociale, non rientrino nelle categorie dei soci o
dei creditori, sia soprattutto condizionando ad un evento di danno, diffi-
cilmente afferrabile, una tutela che nel diritto previgente era anticipata
alla lesione della trasparenza informativa: un interesse che ieri era tutelato
a tutto campo, quale interesse strumentale (anche) agli interessi patrimo-
niali in gioco nel traffico giuridico di e con soggetti aventi forma societa-
ria, ed oggi trova un moncherino di tutela autonoma in figure contravven-
zionali fortemente ristrette.
L’affermazione che, nel sistema previgente, non veniva riconosciuto
‘‘alcuno spazio alla considerazione dei beni finali come rilevanti all’in-
terno della fattispecie’’ (86), è senz’altro una proposizione ‘‘vera’’, entro
un discorso di tipo esegetico. Ma non può valere come obiezione contro
un discorso che intenda approfondire il problema dei nessi obiettivi, e an-
che teleologici, fra il problema dell’informazione societaria e la tutela di
interessi patrimoniali.
Parlando di rilevanza di interessi ‘‘finali’’ di tipo patrimoniale, sullo
sfondo del sistema di tutela dell’informazione societaria, non ho inteso
dire che quegli interessi fosero formalmente ‘‘rilevanti all’interno della fat-
tispecie’’ del vecchio art. 2621 (o lo siano nel nuovo), ma che il senso
obiettivo (e, credo, anche nelle intenzioni di un legislatore ragionevole) di
una tutela dell’informazione societaria è (anche, non soltanto) strumen-
tale ad interessi patrimoniali del pubblico dei destinatari dell’informa-
zione. Su questa premessa, che mi pare difficilmente contestabile sul
piano fattuale della individuazione dei problemi di tutela, è corretto non
solo dire che la tutela di interessi patrimoniali, apprestata dal nuovo di-
ritto penale societario, non concerne interessi ‘‘nuovi’’ rispetto alla disci-
plina previgente (87), ma anche che essa è divenuta molto più ristretta di
quella apprestata (in modo indiretto ma più efficacemente ‘‘anticipato’’)
dal vecchio sistema costruito sulla tutela a tutto campo della trasparenza
informativa. Gli interessi patrimoniali, che ad una lettura interna e forma-
listica delle nuove norme potrebbero dirsi di nuova emersione (e tali li di-
rebbe una concezione ‘‘metodologica’’ del bene giuridico), ad una lettura
‘‘a partire dai problemi di tutela’’ appaiono meno tutelati (88).
Condivido dunque (e credo che i miei scritti lo mostrino chiara-

(86) A. ALESSANDRI, op. cit., p. 188.


(87) Come ho scritto ne La riforma, cit., p. 940.
(88) Vale la pena osservare che questo discorso, apparentemente ‘‘valutativo’’,
avanza una pretesa di verità avalutativa, nel senso che sono questioni di verità, e non di va-
lore, i nessi della materia societaria con dati problemi di tutela e reti di interessi; criteri di
verità, e non di valore, possono fondare l’accettazione o il rifiuto di proposizioni relative a
tali nessi, quale che sia la concezione di ‘‘bene giuridico’’ incorporata nel linguaggio adope-
rato. Affermando che la riforma penale societaria non introduce la considerazione di inte-
ressi che prima non fossero tutelati, ed anzi comporta una restrizione ed indebolimento della

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mente) il giudizio di chi vede nella riforma penale societaria una ‘‘rottura
profonda con i precedenti indirizzi politico-criminali in materia di infor-
mazione societaria’’ (89). Ritengo che anche questo giudizio possa trovare
una migliore espressione entro un discorso attento a mettere a fuoco le
connessioni (sia di continuità che di discontinuità) fra le risposte legisla-
tive vecchie e nuove, e gli interessi obiettivamente in gioco nel diritto so-
cietario. È proprio la continuità del campo d’interessi in gioco a far risal-
tare la profonda discontinuità (fino alla ‘‘rottura’’) nei modi di tutela (90).
Seguendo la logica interna dell’approccio ‘‘a partire dai problemi’’,
siamo arrivati a parlare di campi o di reti d’interessi, e ad attribuire un ri-
lievo centrale ai nessi fra beni strumentali e finali. Questo punto è stato
chiaramente colto da Alessandri, il quale commenta che l’impostazione in
esame, ‘‘condotta alle estreme conseguenze, potrebbe portare un colpo
non piccolo all’accettazione, già controversa, di beni intermedi o strumen-
tali: tutto sarebbe trasferito ai modi con i quali apprestare tutela ai beni
finali’’ (91).
Questa osservazione coglie un problema normativo di grande impor-
tanza: fin dove si può spingere legittimamente il diritto penale, nell’antici-
pare la tutela in nome di interessi strumentali? La questione rinvia al pro-
filo costituzionale della teoria del bene giuridico, e non rientra nell’og-
getto di questo articolo. In una riflessione sui concetti della teoria giuri-
dica, mi sembra importante distinguere il problema di conoscenza ‘‘scien-
tifica’’ dell’assetto complessivo d’interessi, cui il diritto penale è o po-
trebbe essere collegato, dal problema normativo, quale sia la rilevanza at-
tribuibile ad interessi strumentali. L’analisi dei problemi — e dei sistemi
normativi di possibile soluzione — ha il compito di cogliere le reti d’inte-
ressi in gioco, nella loro realtà indipendente e condizionante rispetto all’e-
ventuale intervento penale: la scienza ha innanzi tutto (in ordine logico) il
compito di cogliere gli eventuali nessi strumentali, ed anche (è un profilo
spesso trascurato) eventuali rapporti di tensione con ‘‘controinteres-

tutela, affermo qualcosa che ha una pretesa di verità (e si sottopone quindi al vaglio di una
possibile falsificazione), dentro l’orizzonte in cui valgono criteri di controllo obiettivo, scien-
tifico. Fuori di quell’orizzonte (ma non del campo d’interessi del giurista) stanno invece le
ulteriori questioni di valore, e non più di verità wertfrei, concernenti il giudizio politico sulle
soluzioni apprestate dall’ordinamento.
(89) L. FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in AA.VV., I
nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. GIARDA e S. SEMINARA, 2002, p. 317.
(90) Anche per questo, ritengo frutto d’un equivoco l’aver letto una ‘‘rassicurante
immagine’’ (così L. FOFFANI, loco ult. cit.) nella mia sottolineatura di una ‘‘fondamentale
continuità di disciplina delle false comunicazioni sociali’’ in studi dedicati ai problemi di di-
ritto intertemporale. Sul significato, anche esegetico, della tesi della continuità, e sulle sue
implicazioni anche di legittimità costituzionale, rinvio a D. PULITANÒ, Legalità discontinua?,
in questa Rivista, 2002, p. 1270 s.
(91) A. ALESSANDRI, loco ult. cit.

Rivista Italiana di Dir e Proc Penale - fasc. saggio 1/2003 - Copyright Giuffre’ 2003
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si’’ (92). Dopo di che sarà possibile discutere razionalmente, alla luce dei
pertinenti criteri, il problema normativo dell’ambito e dei limiti di legitti-
mità di un eventuale intervento penale sulla rete d’interessi in gioco (93).
DOMENICO PULITANÒ

(92) Anche su questo punto, concordo con una chiara indicazione di SCHUNEMANN,
op. cit., p. 129: la prospettiva teleologica non può essere ridotta alla sola considerazione
della tutela dei beni giuridici, ma esige una elaborazione sistematica anche degli Strafein-
schränkungsinteressen.
(93) In questa sede mi limito a notare che risponde ad un’ottica garantista il valutare
la ‘‘anticipazione’’ con riferimento all’interesse che costituisce l’oggetto ultimo, e quindi
possa essere identificato come reale fondamento della tutela: rispetto a quell’interesse, è
‘‘anticipato’’ l’intervento penale che prescinda dalla sua concreta lesione, attestandosi su un
momento (ritenuto) prodromico. Proprio chi difenda la possibile legittimità ed opportunità
di tecniche di anticipazione della tutela, deve preoccuparsi del rischio che, dando nome e
parvenza di autonomia ad ‘‘interessi strumentali’’ quali che siano, venga oscurato il dato so-
stanziale dell’allargamento dell’area d’intervento penale, con i problemi a ciò connessi. La
costruibilità concettuale di interessi ‘‘strumentali’’ può invece essere utile se e in quanto
valga a mettere in luce la complessa struttura dei sistemi di tutela in discussione, le loro ra-
gioni e le eventuali controindicazioni.

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SUSSIDIARIETÀ PENALE
E SUSSIDIARIETÀ COMUNITARIA (*)

SOMMARIO: 0. La questione. — 1. Premessa. Un punto di vista strettamente penalistico. —


2. La distinzione culturale e tecnica fra proporzione e sussidiarietà. — 3. Il problema
della ‘‘forza di legge’’, ovvero della ‘‘giustiziabilità’’ del principio di sussidiarietà. —
4. Il dubbio sulla funzione limitativa od espansiva della sussidiarietà comunitaria ri-
spetto all’intervento penale. — 5. Tre possibili modelli di intervento penale ‘‘euro-
peo’’. L’armonizzazione mediante codici-modello di carattere generale, progetti di set-
tore a tutela di beni in senso lato economici come quello sugli ‘‘Eurodelitti’’, ovvero
normazioni a tutela di interessi strettamente comunitari, come il Corpus juris e il più
recente Libro verde della Commissione europea. — 6. Sussidiarietà penale e sussidia-
rietà comunitaria rispetto al modello integrativo (Corpus juris, Libro verde) e a quello
sostitutivo (‘‘Europa-Delikte’’) della competenza penale nazionale. — 7. Sussidiarietà
penale e antigiuridicità generale. — 8. La Costituzione europea e il processo penale
come basi epistemologiche e momenti istituzionali e decisori del diritto: vero banco di
prova della politica penale comunitaria.

0. La questione. — Tanto nel diritto penale quanto nel diritto co-


munitario esistono i principi di proporzione e di sussidiarietà. Le do-
mande alle quali vorrei rispondere, al riguardo, sono innanzi tutto le se-
guenti. Questi due principi hanno, nei due distinti campi, contenuti com-
parabili? Hanno un’analoga ‘‘forza di legge’’? (cioè: hanno lo stesso grado
di ‘‘giustiziabilità’’?). E in ogni modo, come possono interagire fra di
loro? Ancora: l’elaborazione europea dei principi di proporzione e di sus-
sidiarietà può contribuire a un arricchimento dei corrispondenti principi
penalistici tradizionali? E viceversa, questi ultimi possono produrre una
trasformazione o una mutazione dei corrispondenti principi europei?
Le preoccupazioni che ispirano questi interrogativi discendono dalla
sensazione diffusa che la dimensione europea della penalità possa pro-
durre un aumento di incriminazioni, una crescita del penale e una diminu-
zione delle garanzie (1). Non si tratterebbe solo del fatto che nuovi beni e

(*) Il presente lavoro riproduce il testo dell’intervento presentato al Convegno ‘‘Am-


bito e prospettive di uno spazio giuridico-penale europeo’’, Napoli, 29-30 marzo 2001. L’ag-
giornamento bibliografico è stato curato fino all’agosto 2002.
(1) Cfr. per tutti, da ultimo, P-A. ALBRECHT, BRAUN, FRANKENBERG, K. GÜNTHER,
NAUCKE, SIMITIS, 11 Thesen zur Entwicklung rechtstaatlicher Grundlagen europäischen Straf-
rechts, in KritV, 2001, p. 279 ss., e segnatamente il contributo di P.A. ALBRECHT-BRAUM,
Kontingentes ‘‘Europäisches Strafrecht’’ in actio: Schwerpunkte, Konturen, Defizite, ivi, pp.

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interessi ricevono dall’Europa un input a una tutela punitiva in senso lato,


lasciando — come è avvenuto fino a oggi — ai singoli Stati la scelta se
adottare sanzioni criminali o amministrative e salvo controllare, al limite,
il rispetto dell’obbligo di fedeltà comunitaria all’introduzione di norma-
tive interne che assicurino una tutela almeno parimenti efficace rispetto a
quella garantita a corrispondenti beni di rilevanza non comunitaria. Si
tratterebbe, invece, di politiche ab origine penali-criminali che si aggiun-
gerebbero semplicemente a quelle nazionali: un nuovo binario ad alta ve-
locità (e con forti e talora preoccupanti implicazioni processuali) che an-
drebbe ad affiancarsi a, o a intersecarsi con quelli a due velocità dei codici
e delle leggi speciali dei singoli Paesi dell’Unione.
È infatti difficile affermare oggi l’esistenza di un diritto penale euro-
peo in senso stretto, o formale, ma certamente esiste una politica crimi-
nale europea (2), che implementa sul piano sostanziale il diritto penale

312 ss., 347 s.; VOGEL, Estado y tendencias de la armonización del Derecho penal material
en la Unión Europea, in Revista penal, 2002, p. 128. In un più ampio contesto di globalizza-
zione, v. anche il saggio di SILVA SÁNCHEZ, La expansión del Derecho penal. Aspectos de la
política criminal en las sociedades postindustriales, Civitas, Madrid, 1999.
(2) Sul tema rinvio da ultimo agli atti del Convegno, ‘‘Il diritto penale nella prospet-
tiva europea - Quali politiche criminali per quale Europa?’’ (Bologna, 28 febbraio 2 marzo
2002), in corso di pubblicazione. In precedenza, oltre le pregevoli e anticipatorie riflessioni
dottrinali contenute, per es., nelle raccolte di saggi a cura di DELMAS-MARTY (ed.), What
Kind of Criminal Policy for Europe?, Kluwer Law International, The Hague-London-Boston,
1996; ID. (dir.), Quelle politique pénale pour l’Europe?, Economica, Paris, 1993; in SIEBER
(Hrsg.), Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, C. Heymanns, Köln-Berlin-
Bonn-München, 1993, e in GRASSO, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica crimi-
nale degli Stati membri: nascita di una ‘‘politica criminale europea’’?, in Indice pen., 1993,
p. 65 ss., ricordo che la realtà travolgente delle iniziative europee, dopo Schengen e Maastri-
cht (cfr. LABAYLE, L’application du titre VI du Traité sur l’Union européenne et la matière
pénale, in Rev. sc. crim. dr. pén. comp., 1995, p. 35 ss. e più in generale i vari contributi rac-
colti nello stesso numero della rivista; SICURELLA, Il titolo VI del Trattato di Maastricht e il
diritto penale, in questa Rivista, 1997, p. 1307 ss.), e quindi dopo Amsterdam, Tampere,
Nizza, in tema di Europol, Eurojust e Pubblico Ministero europeo (cfr. SALAZAR, L’Unione
europea e la lotta alla criminalità organizzata da Maastricht ad Amsterdam, in Doc. giust.,
1999, p. 391 ss.; CALVANESE-DE AMICIS, Le nuove frontiere della cooperazione giudiziaria
penale nell’Unione europea, ibidem, 2000, p. 1303 ss., e tutto il n. 6/2000 di Doc. giust.),
attraverso azioni comuni e decisioni-quadro in vari settori della criminalità organizzata e
non (stupefacenti, xenofobia, riciclaggio, pornografia infantile e sfruttamento di minori, in-
formatica, ambiente ecc.: per un quadro aggiornato di queste tendenze ‘‘di parte speciale’’,
VOGEL, Estado y tendencias, cit., p. 122 ss.), sino alla Proposta di direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio relativa alla tutela penale degli interessi finanziari della Comunità,
presentata dalla Commissione in data 23 maggio 2001 (COM (2001) 272), e poi al Libro
verde della Commissione europea delll’11 dicembre 2001 sulla tutela penale degli interessi
finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea (v. infra nota 4 e § 5), e alla
recente decisione-quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto eu-
ropeo, attesta un trend che appare inarrestabile verso la attuazione normativa di una politica
criminale (efficace rappresentazione in DELMAS-MARTY, La place d’un droit pénal commun
dans la construction européenne, in La sanction du droit. Mélanges Couvrat, PUF, Paris,

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degli Stati-membri e spinge verso la formalizzazione di un primo nucleo


ristretto di norme penali e processuali penali comunitarie.
Stando così le cose, è evidente l’urgenza di ripensare alcuni criteri e
principi delimitativi, e ‘‘fondanti’’, come quelli che ci occupano. Ma prima
di tentare nuove elaborazioni, occorrerà — ed è quanto mi accingo a fare
— compiere una rassegna di ciò che già trova riconoscimento nella cul-
tura giuridica europea, anche se non ha mai avuto, sino a oggi, specifiche
applicazioni penalistiche per il semplice fatto che mancava una compe-
tenza penale, in senso stretto, della CE.

1. Un punto di vista strettamente penalistico. — Occorre affrontare


la questione sopra posta effettuando un’iniziale delimitazione del campo
di indagine. Per diritto penale europeo (o comunitario), tra i vari signifi-
cati possibili o attualmente in uso (3), intendo nel presente contributo un
diritto penale che oggi non esiste ed è ancora in via di formazione, cioè la
possibilità che, di fronte al realizzarsi di un’effettiva Unione Europea nella
direzione di una Confederazione di Stati, si giunga alla codificazione o al-
l’introduzione legislativa di un certo numero di ‘‘reati federali’’, siano essi
compresi in un vero codice, oppure in fonti normative diverse, ma dal
contenuto identico, unitario e vincolante per tutti gli Stati dell’Unione,
con una corrispondente unificazione o armonizzazione processuale e san-
zionatoria (4). La definizione implica che vi sia una convergenza sulla sta-

2001, p. 229 ss.; MILITELLO, Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto
al crimine organizzato, in MILITELLO-PAOLI-ARNOLD (curatori), Il crimine organizzato come
fenomeno transnazionale. Forme di manifestazione, prevenzione, repressione in Italia, Ger-
mania, Spagna, Giuffré-Iuscrim, Freiburg i. Br., 2000, p. 22 ss.; SATZGER, Auf dem Weg zu
einem Europäischen Strafrecht, in Zeitschr. für Rechtspolitik, 2001, p. 549 ss.; TERRADILLOS
BASOCO, Política y Derecho penal en Europa, in Rev. pen., 1999, p. 61 ss.), che necessaria-
mente precede e accompagna la formalizzazione degli strumenti giuridici europei per ren-
derla operante. Per un inquadramento giuridico dell’attuale valore normativo e della cogenza
degli atti d’impulso comunitari (direttive, decisioni-quadro, azioni comuni) verso la crimina-
lizzazione di determinate condotte e la tutela penale di certi interessi, cfr., da un punto di vi-
sta dell’ordinamento tedesco, HUGGER, Strafrechtliche Anweisungen der Europäischen Ge-
meinschaft, Nomos, Baden-Baden, 1999, passim. Con particolare attenzione ai limiti costitu-
zionali (nell’ordinamento tedesco) dell’attuale normativa e politica criminale comunitaria,
cfr. SATZGER, Die Europäisierung des Strafrechts, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-Mün-
chen, 2001, pp. 152 ss., 187 ss. Una specifica attenzione, invece, ai doveri comunitari dello
Stato di attuare una tutela penale esecutiva di normative comunitarie, nel recente studio di
SOTIS, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in questa
Rivista, 2002, p. 171 ss.
(3) Cfr. BERNARDI, I tre volti del ‘‘diritto penale comunitario’’, in PICOTTI (a cura di),
Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 1999, p. 43 ss.;
PRADEL-CORSTENS, Droit pénal européen, Dalloz, Paris, 1999, p. 2 ss.; SATZGER, Die Euro-
päisierung des Strafrechts, cit., pp. 58 ss., 143 s.
(4) È ciò che oggi progetta di attuare, previa una modifica del Trattato CE (con l’in-
troduzione di un art. 280-bis) la Commissione europea nel ‘‘Libro verde’’ licenziato l’11 di-

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tuizione di sanzioni formalmente penali-criminali in tutti i Paesi dell’U-


nione in ordine a quei reati in prospettiva ‘‘federali’’, ma implica anche —
secondo la posizione che ritengo doverosa, benché smitizzata rispetto a
certe taumaturgiche credenze nelle potenzialità del parlamentarismo (poi-
ché decide normalmente chi ha la maggioranza, e quindi il governo) (5)
— una riforma del Trattato CE e dell’Unione, in vista dell’estensione delle
competenze legislative del Parlamento europeo in materia penale, e pre-
via, quindi, una maggiore democratizzazione dei processi decisori. Non
peraltro nel senso forte di una riserva assoluta, che alcuni intendono sotto
il brocardo nullum crimen, nulla poena sine lege parlamentaria (6), ma
quanto meno nel senso dell’estensione, in materia penale, dei meccanismi
di ‘‘co-decisione’’ del Parlamento europeo (non di mera consultazione) già
presenti nel Trattato CE rispetto a singole questioni o materie.
Non mi riferisco pertanto al c.d. diritto penale-amministrativo in
senso lato, locuzione italianizzata e molto evocativa di un’espressione te-

cembre 2001. Non si tratta, peraltro, di un’estensione delle competenze legislative del Parla-
mento europeo, ma della Commissione. Lo scopo dell’unificazione è sostanzialmente con-
centrato sugli interessi finanziari della Comunità, e si ipotizzano, in via esemplificativa, for-
mulazioni unitarie di fattispecie in materia di frode, corruzione, riciclaggio di capitali, frode
in materia di aggiudicazione di appalti, associazione a delinquere, abuso di ufficio, rivela-
zione di un segreto d’ufficio, con ulteriori unificazioni sanzionatorie, anche in ordine ai re-
gimi di prescrizione. L’art. 280-bis del Trattato proposto dalla Commissione, invero, non
contiene un’elencazione tassativa delle competenze penali, con riferimento ai reati, lasciando
al Consiglio il potere (su proposta della Commissione e previo parere conforme del Parla-
mento europeo) di emanare un regolamento che fissi gli elementi costitutivi delle infrazioni
penali per frode e per qualsiasi attività illegale lesiva degli interessi comunitari della Comu-
nità, nonché le pene previste per ciascuna di esse, oltre alle regole di procedura concernenti
il Procuratore europeo e l’ammissibilità delle prove.
(5) Più radicalmente (e problematicamente), nel senso che la garanzia della legalità
democratica, tanto nei diritti nazionali come in quello comunitario, non si fonda tanto sull’o-
rigine parlamentare della norma, quanto sul controllo giurisdizionale sulla sua legittimità,
PALAZZO, La legalidad penal en la Europa de Amsterdam, in Rev. pen., 1999, p. 40.
(6) Nel più recente dibattito penalistico, è un’idea largamente ribadita nella lettera-
tura tedesca: ricordo, per es., LÜDERSSEN, Europäisierung des Strafrechts und gubernative
Rechtssetzung (2002), p. 1 ss. (dattiloscritto); PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena zu ei-
nem künftigen Corpus juris Criminalis für Europa, in ZStW, 2001, spec. p. 789 ss.; PERRON,
Strafrechtsvereinheitlichung in Europa, in DÖRR-DREHER (Hrsg.), Europa als Rechtsgemein-
schaft, Nomos, Baden-Baden, 1997, p. 141 s.; v. anche SILVA SÁNCHEZ, Los principios inspi-
radores de las propuestas de un Derecho penal europeo. Una aproximación crítica (Bologna,
febbraio 2002, dattiloscritto), p. 20 ss.; con riferimento più generale a una formazione più
democratica (‘‘dal basso’’) di un possibile diritto penale europeo, HASSEMER, ‘‘Corpus juris’’:
Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, in KritV, 1999, p. 133 ss.; ID., Ein Straf-
recht für Europa, conferenza tenuta a Würzburg, giugno 2002 (dattiloscritto), p. 8 ss.; TER-
RADILLOS BASOCO, Política y Derecho penal, cit., p. 72 s., con altri richiami. Ampia e siste-
matica trattazione in SATZGER, Die Europäisierung, cit., spec. p. 110 ss., e qui, p. 129, il rin-
vio a specifiche indagini comparate europee, dalle quali emerge in generale l’accoglimento
(salvo che in alcune tendenze di matrice tedesca) di meccanismi di delegazione legislativa a
organi governativi.

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desca di diverso sapore, che preferirei scomporre in diritto punitivo am-


ministrativo (illecito amministrativo) in senso stretto (7), e diritto penale
in senso stretto (illecito penale), vista l’ambiguità storica del concetto di
Verwaltungsstrafrecht e quindi di diritto penale-amministrativo, ondeg-
giante fra un’istanza (‘‘qualitativa’’) per la ricollocazione delle contrav-
venzioni (Übertretungen) fra le trasgressioni di polizia amministrativa o
fra gli illeciti criminali (8), e una spinta (‘‘quantitativa’’) a stemperare i
confini fra penale-criminale e diritto punitivo proveniente dalla decrimina-
lizzazione (oltre al diritto punitivo originariamente amministrativo), in vi-
sta della ricerca di principi di garanzia e di disciplina comuni a Ordnungs-
widrigkeiten (illeciti amministrativi) e Straftaten (reati) (9).
Se è vero infatti che i principi comunitari di proporzione e di sussi-
diarietà si applicano anche alle sanzioni amministrative della CE, e se è
vero che l’entità e il peso economico di certe sanzioni amministrative ren-
dono urgente l’elaborazione di criteri delimitativi dello stesso potere puni-
tivo amministrativo riguardante comportamenti meramente trasgressivi e

(7) MANTOVANI, Diritto penale, PG4, Cedam, Padova, 2001, p. 1001 ss., che peraltro
impiega anche la locuzione diritto penale-amministrativo come sinonimo, quale in effetti è
diventato.
(8) Riferimenti ampi in ROCCO, Sul così detto diritto penale amministrativo, in Riv.
dir. pubbl., 1909, p. 385 ss., poi in ID., L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale,
Bocca, Milano-Torino-Roma, 1913, p. 356 ss.; MATTES, Untersuchungen zur Lehre der Ord-
nungswidrigkeiten, Bd. II, Geltendes Recht und Kritik, Duncker & Humblot, Berlin, 1982,
p. 254 ss.; CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Cedam, Padova, 1988, p. 498 ss.; PA-
DOVANI, Il binomio irriducibile. La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni, fra storia
e politica criminale, in MARINUCCI-DOLCINI, Diritto penale in trasformazione, Giuffrè, Mi-
lano, 1985, pp. 445-449. Nel senso di una possibile rivitalizzazione del modello contravven-
zionale di illecito (lo si chiami anche ‘‘delitto’’, nominando vari delitti come ‘‘crimini’’, non
importa), profondamente rinnovato e ridotto nel numero (e quindi sempre nel senso del
mantenimento di una bipartizione delle figure di reato) si consenta di rinviare a DONINI, La
riforma della legislazione penale compelementare: il suo valore costituente per la riforma del
codice, in ID. (a cura di), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di di-
ritto comparato, Cedam, Padova, 2000, p. 3 ss.; ID., Per un codice penale di mille incrimina-
zioni, in Dir. pen. e proc., 2000, p. 1652 ss., con altri richiami.
(9) Sulle origini concettuali, storiche e ideologiche di quest’uso della categoria del di-
ritto ‘‘penale-amministativo’’ (esempi d’uso, fra i tanti, oltre che in Mantovani, cit., in FIAN-
DACA-MUSCO, Diritto penale, PG , Zanichelli, Bologna, 2001, p. 831 ss.; M. ROMANO, Com-
4

mentario sistematico del codice penale, vol. I2, Giuffrè, Milano, 1995, Art. 39/13), in vista
della ricerca di principi comuni, tanto più a fronte di vaste aree di diritto punitivo ammini-
strativo decriminalizzato, rinvio soprattutto (in chiave ora descrittiva, ora prescrittiva) a BA-
RATTA, Contro il metodo della giurisprudenza concettuale nello studio del diritto penale co-
munitario, in Prospettive per un diritto penale europeo, Cedam, Padova, 1968, p. 21 ss., al-
l’indagine comparata di PALIERO, Il ‘‘diritto penale-amministrativo’’: profili comparatistici,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1980, p. 1254 ss.; e quindi sempre a ID., ‘‘Materia penale’’ e illecito
amministrativo secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: una questione ‘‘classica’’ e
una svolta radicale, in questa Rivista, 1985, p. 894 ss., spec. p. 920 ss.; ID., voce Depenaliz-
zazione, in DDP, vol. III, Utet, Torino, 1989, spec. p. 437 ss.; ID., voce Ordnungswidrigkei-
ten, ivi, vol. IX, Utet, Torino, 1995, spec. p. 130.

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solo formalmente irregolari, nondimeno il campo del mio discorso abbrac-


cerà essenzialmente l’area penale-criminale in senso stretto. Mi riferirò,
perciò, a categorie e temi che saranno declinati in una dimensione non ne-
cessariamente comune al diritto punitivo amministrativo (o eventual-
mente al diritto civile di impronta punitiva) e a quello penale (10).
È questa un’actio finium regundorum preliminare del mio discorso
che intende ricollegare proporzione e sussidiarietà al principio di offensi-
vità: poiché il principio di offensività è un prodotto della cultura penali-
stica in senso stretto, ma non ha trovato nessuna elaborazione nel diritto
punitivo amministrativo, mi pare del tutto legittima la delimitazione del-
l’angolo visuale che ho ritenuto di operare, senza escludere, come detto,
l’esigenza di delineare criteri per eliminare le distorsioni di interpretazioni
formalistiche di illeciti amministrativi di obiettiva serietà sanzionatoria:
un’esigenza oggi sempre più avvertita, nella pratica, soprattutto nell’am-
bito delle sanzioni amministrative applicate all’impresa (siano esse ine-
renti a illeciti primari dell’ente, o a illeciti accessori a fatti di reato indivi-
duali).
Il principio di offensività, operando in chiave deontologica nella sua
dimensione costituzionale (e quindi a prescindere dalla sua dimensione
ermeneutica applicata al diritto ordinario già vigente), non lascia che a de-
cidere del carattere penale di un illecito sia esclusivamente il tipo di san-
zione minacciata, ma si interroga previamente sull’intrinseca legittimità
della sanzione criminale rispetto a un certo tipo di illecito: salva poi la
possibilità di verificare e decidere la sufficienza o l’adeguatezza di san-
zioni punitive o preventive non criminali (11). Finché esiste una diffe-
renza fra penale ed amministrativo, la distinzione concreta tra essi potrà
essere di carattere quantitativo, politico, economico e istituzionale, e
come tale dipendere da fattori anche molto contingenti: ma in ogni caso
solo certi tipi di illecito potranno essere penali in senso stretto, esistendo
un filtro previo il quale discende da premesse valutative assiologiche e te-
leologiche, collegate a momenti di serietà lesiva, di personalizzazione san-
zionatoria e di biasimo sociale che sono propri solo dell’illecito penale per
caratteristiche intrinseche al tipo di condotta, di evento, di coefficiente di
colpevolezza, e quindi di funzione sociale dello ‘‘stigma’’ penalistico.

(10) Sul tema specifico, assai più attuale in considerazione delle competenze della
CE a introdurre sanzioni amministrative comunitarie, di una parte generale europea del di-
ritto punitivo amministrativo, v. le opportune riflessioni di VOGEL, Wege zu europäisch-ein-
heitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, in JZ, 1995, pp. 332 s., 338. Am-
plius, MAUGERI, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo co-
munitario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, pp. 527 ss., 929 ss.
(11) Si consenta di rinviare, con particolare riguardo alle dimensioni europee del
principio di offensività, a DONINI, Prospettive europee del principio di offensività, in corso di
pubblicazione negli atti del convegno ‘‘Verso un codice penale modello per l’Europa. La
parte generale’’ tenutosi a Convegno Parma, nei giorni 29-30 settembre 2000.

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Si comprende peraltro che, se all’identità dei precetti corrispondes-


sero in concreto sanzioni formalmente diversificate, ora punitivo-(penali)
amministrative, ora penali-criminali, per quanto si possa discutere sulla
relatività delle differenze fra di esse o persino su una truffa delle etichette,
il discorso dovrebbe essere molto diverso, vale a dire quello della possibi-
lità di un’unificazione di principi e categorie del diritto punitivo, verso un
diritto punitivo ‘‘generale’’, dal quale distaccare singoli istituti o sanzioni
per tipologie di fatti o di autori particolari, da considerare criminali (12).
Non affronto ora questo tema, che la giurisprudenza delle Corti europee
ha più volte evocato. Dò per acclarato che in presenza di una truffa delle
etichette le garanzie penalistiche si debbano applicare agli illeciti ammini-
strativi. Né intendo contestare che, nella giurisprudenza europea (Corte
europea dei diritti dell’uomo) e in quella comunitaria (Corte di giustizia
della CE), si siano opportunamente elaborati principi penalistici, esten-
dendo il loro statuto originariamente penale al campo delle sanzioni am-
ministrative (13), così come in ambito comunitario si sono individuati cri-
teri per identificare il carattere ‘‘punitivo’’ di sanzioni di competenza della
CE (14).

(12) Sulla prospettiva di un simile diritto punitivo generale, entro il quale inserire
previsioni punitive civili, amministrative o criminali differenziate, v. DONINI, Selettività e pa-
radigmi della teoria del reato, in questa Rivista, 1997, pp. 338 ss., 353 ss., 383 ss.; ID., voce
Teoria del reato, in DDP, vol. XIV, Utet, Torino, 1999, p. 252, ma già prima (nel rapporto
col diritto amministrativo) i lavori di PALIERO, op. cit., alla nota 9. A favore dell’espansione
di un progetto di diritto punitivo-amministrativo e penale tendenzialmente omologabili (c.d.
modello tedesco e modello europeo della ‘‘materia penale’’ della Corte di Strasburgo), pen-
sato per il settore economico, e attuato in una ‘‘parte generale’’ di diritto penale-punitivo co-
munitario unificato, da ultimo, PALIERO, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia
per la ‘‘Parte generale’’ di un codice penale dell’Unione europea, in questa Rivista, 2000,
spec. p. 475 ss.
(13) Sul punto cfr. rispettivamente BERNARDI, Art. 7. Nessuna pena senza legge, in
BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tu-
tela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova, 2001, pp. 256 ss., 271
ss., nonché il rapporto del Groupe de recherches, Droit de l’homme et logiques juridiques su
La matière pénale au sens de la Convention européenne des droits de l’homme, flou du droit
pénal, in Rev. sc. crim. dr. pen. comp., 1987, p. 819 ss.; MAUGERI, Il regolamento, cit.; PISA-
NESCHI, Le sanzioni amministrative comunitarie, Cedam, Padova, 1998, passim; CARNEVALI-
RODRÍGUEZ, Derecho penal y Derecho sancionador de la Unión Europea, Editorial Comares,
Granada, 2001, p. 186 ss.
(14) Cfr. HEITZER, Punitive Sanktionen im Europäischen Gemeinschaftsrecht, Mül-
ler, Heidelberg, 1997, p. 34 ss. È peculiare della cultura europea un certo relativismo stri-
sciante rispetto alle distinzioni sostanziali fra diritto penale e diritto amministrativo, in or-
dine alla struttura degli illeciti. Almeno tradizionalmente e sino al più recente affermarsi di
singole direttive o indicazioni più specificamente orientate alla criminalizzazione. In ogni
modo, se il peso delle sanzioni rende ‘‘sostanzialmente penale’’ un illecito, non è ancora ma-
turata una riflessione comune circa l’identità sostanziale di ciò che non può, comunque, es-
sere reato, e ancor meno di ciò che, in positivo, si ritiene debba esserlo.
Lo stesso riconoscimento del principio di proporzione, in fondo, obbedisce alla medesima

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Non dò affatto per scontato, invece, e tenderei anzi a contrastare, che


si debbano ricercare solo principi comuni e di identica declinazione per il
settore penale-criminale e per quello amministrativo. Quando il diritto pe-
nale economico, che è stato a lungo un fattore dinamico e moderno, ma
anche inquinante rispetto al diritto penale comune — penso alla storia
della legislazione penale complementare, italiana e non (15) —, avrà ritro-
vato un assetto di maggiore razionalità, questa indicazione di base potrà
emergere nuovamente in tutta la sua chiarezza costruttiva e teleolo-
gica (16).

prospettiva relativistica: tutto dipende dalla sanzione minacciata, non dalla conformazione
dell’illecito in sé.
I tempi sono quindi maturi per interrogarsi sui contenuti della ‘‘cultura penale europe-
a’’ al riguardo: sulla presenza o l’assenza di una cultura penale europea relativa ai limiti co-
stituzionali — e non ai semplici limiti politici — alle scelte di criminalizzazione quanto a
beni giuridici, tecniche di tutela e sistemi sanzionatori adottabili.
La subordinazione del diritto penale alla politica, anziché della politica penale ai prin-
cipi d’offensività e di extrema ratio, traspare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia
delle Comunità europee nell’indirizzo che facendo leva sull’art. 5 (ora art. 10) del Trattato di
Roma, impone agli Stati l’obbligo di fedeltà comunitaria.
Come è noto, la Corte, muovendo da quella norma, ha individuato uno strumento ca-
pace di incidere in modo profondo nella politica economica e sanzionatoria degli Stati mem-
bri, affinché predispongano sistemi di tutela efficaci a tutela dei beni e degli interessi comu-
nitari. Gli Stati, cioè, hanno un’obbligazione di mezzi, che è quella di predisporre per la tu-
tela degli interessi e dei beni comunitari, strumenti e sanzioni di efficacia pari a quelli posti a
tutela degli interessi ‘‘interni’’ o nazionali.
Si tratta di una logica puramente efficientista e strumentale, dove lo stesso diritto pe-
nale, al pari degli altri rami dell’ordinamento, è concepito come un mezzo neutro rispetto ai
fini e ai valori. Ciò che interessa è che i beni comunitari meritevoli di tutela siano effettiva-
mente protetti: non importa se con il diritto penale, anziché con quello amministrativo. Se lo
strumento penale è più efficace, nulla osta al suo impiego quando esso è utilizzato per beni
nazionali di valore corrispondente, e anzi tutto depone a favore di una sua estensione comu-
nitaria.
Questa ideologia strumentale, d’altro canto, ha anche un positivo rovescio della meda-
glia: il diritto penale non è affatto privilegiato come lo strumento più efficace per antonoma-
sia. Può ben essere che la tutela amministrativa sia assai utile in termini di effettività e di
resa pratica, tanto da sconsigliare l’impiego di apparati sanzionatori più gravosi. La cultura
pragmatista dell’obbligo di fedeltà comunitaria, in altri termini, appare agnostica rispetto al
tema della penalità, e può svolgere un ruolo inflativo o deflativo a seconda degli assetti san-
zionatori dei singoli Stati e della tenuta dei rispettivi ‘‘sistemi punitivi’’ (in senso lato), e pre-
cettivi nel loro complesso, e spinge verso una verifica in termini economici e di efficienza di
quei sistemi. Essa risponde, quindi, a un’esigenza di analisi sperimentale dei sistemi sanzio-
natori.
(15) Per una panoramica comparata europea si consenta di rinviare a DONINI (a cura
di), La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Cedam,
Padova, 2000.
(16) Muovo dunque da una premessa che assume la correttezza di diversificare i pa-
radigmi ‘‘generali’’ del reato, non più incentrandoli su fattispecie di delitti naturali quali mo-
delli tendenzialmente esclusivi, ma non al prezzo di un ribaltamento dell’orizzonte a favore
di paradigmi presi a prestito dal diritto penale dell’economia in senso lato (in Italia sareb-

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2. La distinzione culturale e tecnica fra proporzione e sussidiarietà.


— Il principio di sussidiarietà comunitaria si trova consacrato, come è
noto, all’art. 5 del Trattato CE, nella numerazione della versione consoli-
data dopo Amsterdam, ed è stato introdotto formalmente nel 1992 (allora
come art. 3 b) in quella fonte primaria novellata dal Trattato di Maastri-
cht, non solo come ‘‘principio’’ (che in quanto tale vigeva già da moltis-
simo tempo, ed era riconoscibile anche nel Preambolo del Trattato di
Roma, istitutivo della Comunità economica europea, del 1957 (17), e
viene richiamato, esattamente come principio, all’art. 2, comma 2, del
Trattato dell’Unione), ma anche e soprattutto come ‘‘regola’’, sull’eserci-
zio ripartito delle competenze fra Comunità e singoli Stati (18).
Si tratta adesso di una regola generale, dopo che questa precisazione
della sussidiarietà aveva conosciuto una prima formulazione, limitata alla
materia ambientale, nell’art. 130 r, comma 4, nell’Atto Unico Europeo del
1986 (19), ed era stata quindi recepita in direttive, regolamenti, e nella
stessa giurisprudenza della Corte di giustizia CE (20).
L’art. 3 b, ora art. 5, del Trattato CE (21), dopo aver statuito, al

bero le leggi complementari...) ed estesi a tutto il resto (v. anche infra, nota 71). Il vento di
Law and Economics, si capisce, non sarà contenibile in compartimenti stagni. La stessa ana-
lisi economica del diritto peraltro (per es. l’impiego sistematico di una logica costi-benefici
nella costruzione e nell’applicazione delle incriminazioni e delle relative sanzioni), pur svec-
chiando l’idealismo retribuzionista di tante e insensibili idiosincrasie all’empiria e alla misu-
razione delle conseguenze, non pare estensibile a tutti i territori del diritto criminale classico.
(17) Il cui undicesimo ‘‘considerando’’ letteralmente afferma: ‘‘Decisi a portare
avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui
le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della
sussidiarietà’’. Sulla storia del principio, fra gli altri, ISENSEE, Subsidiaritätsprinzip und Ver-
fassungsrecht, 1968, Duncker & Humblot, Berlin, pp. 14 ss., 48 ss.; PIEPER, Subsidiarität,
Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 1994, pp. 30-60; CLERGERIE, Le principe de subsi-
diarité, Ellipses, Paris, 1997, p. 7 ss.; MILLON-DELSOL, L’État subsidiaire, PUF, Paris, 1992,
passim; CASS, The Word that Saves Maastricht? The Principle of Subsidiarity and the Divi-
sion of Powers within the European Community, in Comm. Market Law Rev., 1992, spec. p.
1110 ss.; CHICARRO LÁZARO, El Principio de Subsidiariedad en la Unión Europea, ARAN-
ZARDI, NAVARRA, 2001, P. 44 SS.
(18) CFR. IN PARTICOLARE, PER LA DISTINZIONE FRA LA SUSSIDIARIETÀ COME PRINCIPIO E COME
REGOLA, SCHILLING, A New Dimension of Subsidiarity: Subsidiarity as a Rule and a Principle,
in Yearbook of European Law, 1994, pp. 203 ss., 213 ss.
(19) Prescrive l’art. 130 r, comma 4, cit., dell’Atto Unico europeo: ‘‘La Comunità
agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al paragrafo 1 possono es-
sere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri.
Fatte salve talune misure di carattere comunitario, gli Stati membri assicurano il funziona-
mento e l’esecuzione delle altre misure’’.
(20) Riferimenti su tali consolidazioni in WATHELET, La subsidiarité au sein de l’U-
nion européenne: le processus décisionnel, in VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la subsidiarité,
Bruylant, Bruxelles, 2000, spec. p. 138 ss.; CHICHARRO LÁZARO, El Principio, cit., p. 197 ss.
(21) Per un puntuale commento, oltre alle opere che saranno successivamente richia-
mate sul principio di sussidiarietà, faccio rinvio a Ch. CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.),

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comma 1, il principio di attribuzione specifica (peraltro non tassativa)


delle competenze della Comunità (‘‘La Comunità agisce nei limiti delle
competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati
dal presente Trattato’’), e al comma 2, quello di sussidiarietà (‘‘Nei settori
che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene, se-
condo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli
obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realiz-
zati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o de-
gli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comu-
nitario’’), contiene l’espresso accoglimento, al comma 3, del principio di
proporzione (‘‘L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessa-
rio per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato’’).
L’idea della sussidiarietà comunitaria come principio, genericamente,
esprime l’esigenza che l’intervento pubblico rimanga il più possibile vi-
cino ai cittadini che ne sono i destinatari, sì che, nell’ambito di una ripar-
tizione verticale e orizzontale di competenze, le decisioni che riguardano i
cittadini debbano essere preferibilmente e prioritariamente assunte da or-
ganismi in prossimità democratica rispetto ai destinatari. Solo in caso di
impossibilità o inadeguatezza dell’operato di tali organi e istituzioni, è le-
gittimo il ricorso a centri decisionali più distanti (22).
Già così espressa, emerge subito l’inerenza della sussidiarietà poli-
tico-federale e comunitaria a problematiche della democrazia rappresenta-

Kommentar EUV/EGV2, Luchterhand, Neuwied, Kriftel, 2002, Art. 5/1 ss.; BOGDANDY-NET-
TESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF (Hrsg.) Das Recht der Europäischen Union, Beck,
München, 1991 e ss. (aggiorn. 1994), Rdn. 19 ss.; ZULEEG, Art. 3 b, in von der GROEBEN-
THIESING-EHLERMANN (Hrsg.), Kommentar zum EU/EG Vertrag5, Nomos, Baden-Baden,
1997, Bd. I, 1/208 ss., 1/224 ss., LENAERT-YPERSELE, Le principe de subsidiarité et son con-
texte: étude de l’article 3 b du Traité CE, in Cahiers de droit européen, 1994, p. 3 ss., nonché
a WATHELET, La subsidiarité au sein de l’Union Européenne, cit., in VERDUSSEN (dir.), L’Eu-
rope de la subsidiarité, cit., spec. pp. 137 ss., 152 ss., e alle trattazioni di BARUFFI, Art. 5, in
POCAR, Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione europea, Cedam, Pa-
dova, 2001, p. 99 ss.; TOTH, A Legal Anaylsis of Subsidiarity (p. 37 ss.), di STEINER, Subsi-
diarity under the Maastricht Treaty (p. 49 ss.) e di EMILIOU, Subsidiarity: Panacea or Fig
Leaf? (p. 65 ss.), in O’KEEFFE-TWOMEY (Ed.), Legal Issues of the Maastricht Treaty, Wiley
Chancery Law, Baffins Lane, Chichester (West Sussex), 1994, via via con ulteriori richiami.
(22) Su tale idea, in diritto pubblico prima ancora che in quello comunitario, esiste
una letteratura sterminata. Rinvio soltanto, limitandomi a monografie più recenti di diritto
europeo, a CHICHARRO LÁZARO, El Principio, cit., p. 33 ss.; VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la
subsidiarité, cit.; RONGE, Legitimität durch Subsidiarität, Nomos, Baden-Baden, 1998; D’A-
GNOLO, La sussidiarietà nell’Unione europea, Cedam, Padova, 1998; CALLIESS, Subsidiari-
täts- und Solidaritätsprinzip in der Europäischen Union, 2 Aufl., Nomos, Baden-Baden,
1999, p. 25 ss.; SCHIMA, Das Subsidiaritätsprinzip im Europäischen Gemeinschaftsrecht,
Springer, Wien, 1994; LECHELER, Das Subsidiaritätsprinzip, Strukturprinzip einer europäi-
scher Union, Duncker & Humblot, Berlin, 1993, p. 43 ss.; PIEPER, Subsidiarität, cit., p. 62
ss.; CLERGERIE, Le principe de subsidiarité, cit., p. 7 ss.; MILLON-DELSOL, L’État subsidiaire,
cit.

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tiva e all’esistenza di una pluralità di fonti di produzione delle norme e


delle decisioni, decentrate rispetto allo Stato. Da ciò consegue una prima
distanza della sussidiarietà comunitaria (o politico-federale in genere) ri-
spetto alla cultura penalistica consolidata: il diritto penale è da sempre
una branca dell’ordinamento caratterizzata da decisioni politiche autorita-
tive, spesso indifferenti a qualsiasi ‘‘vicinanza’’ ai destinatari. L’ottica
panpubblicistica della penalità ha spesso dimenticato la vittima per incen-
trarsi sulla persecuzione dell’autore, il quale era tenuto semplicemente a
‘‘subire’’ l’intervento punitivo; d’altro canto, proprio l’autore, il ‘‘reo’’,
aveva bisogno di una ‘‘magna charta’’ che lo garantisse da fonti di produ-
zione subordinate alle scelte parlamentari.
Il monopolio statale delle fonti di rilevanza penale (il principio di
stretta legalità statuale) afferma perciò comprensibilmente ed esattamente
una pubblicizzazione estrema della produzione penalistica, una riserva
tendenzialmente assoluta di legge ai livelli centralizzati delle statuizioni
parlamentari.
La sussidiarietà penale, dal canto suo, esprimendo l’idea dell’extrema
ratio dell’intervento punitivo criminale, in termini sia di costruzione del-
l’illecito e sia di tipologia della pena (23), costituisce un limite costituzio-

(23) Particolarmente significativi gli sviluppi lisztiani dell’idea, peraltro già illumini-
stica e con ascendenze (sotto altri criteri, come quello della ‘‘necessità’’, per es.) anche ante-
riori: richiami puntuali a v. Liszt in ROXIN, Franz von Liszt und die kriminalpolitische Kon-
zeption des Alternativentwurfs (ZStW, 1969), in ID., Strafrechtliche Grundlagenprobleme,
De Gruyter, Berlin-New York, 1973, p. 40 ss. Cfr. poi, quali espressioni o recuperi partico-
larmente significativi dell’idea, BRICOLA, Carattere sussidiario del diritto penale e oggetto
della tutela, in Studi in memoria di G. Delitala, vol. I, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 107 ss.,
117 s., 133; ID., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in DE ACUTIS-PA-
LOMBARINI (a cura di), Funzioni e limiti del diritto penale, Cedam, Padova, 1984, pp. 3 ss.,
19 ss.; ID., voce Teoria generale del reato, in NNDI, vol. XIX, 1973, (estratto, Utet, Torino,
1974), p. 15 ss.; DOLCINI, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza
della legislazione (già in RIDPP, 1984), in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Diritto penale in
trasformazione, cit., p. 388 ss.; MARINUCCI, Politica criminale e riforma del diritto penale, in
Jus, 1974, p. 477 s.; M. ROMANO, Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice
penale italiano, in ROMANO-STELLA (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale
dei reati, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 155, 169 s.; ANGIONI, Contenuto e funzioni del con-
cetto di bene giuridico, Giuffrè, Milano, 1983, p. 215 ss.; GÜNTHER, Strafrechtswidrigkeit
und Strafunrechtsausschluß, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 1983, p. 192 ss.;
ARTH. KAUFMANN, Subsidiaritätsprinzip und Strafrecht, in Fest. Henkel, De Gruyter, Berlin-
New York, 1974, p. 89 ss.; ROXIN, Sinn und Grenzen staatlicher Strafe (Jur. Schul., 1966,
poi) in ID., Strafrechtliche Grundlagenprobleme, cit., p. 14 ss.; H. MAYER, Strafrechtsreform
für heute und morgen, Duncker & Humblot, Berlin, 1962, p. 57 ss., e più in generale i con-
tributi all’Alternativ-Entwurf tedesco: cfr. per tutti la trattazione di MOCCIA, Politica crimi-
nale e riforma del sistema penale. L’Alternativ-Entwurf e l’esempio della Repubblica fede-
rale tedesca, Jovene, Napoli, 1984, p. 6 ss., con ricchissimi rinvii; cfr. anche, nella letteratura
svizzera, NIGGLI, Ultima Ratio? Über Rechtsgüter und das Verhältnis von Straf- und Zivil-
recht bezüglich der sogennanten ‘‘subsidiären oder sekundären Natur’’ des Strafrechts, in Rev.
pén. suisse, 1993, p. 236 ss. Nella più recente letteratura italiana, fra gli altri, PALIERO, Il

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nale (di difficile giustiziabilità, come vedremo) all’intervento legislativo in

principio di effettività nel diritto penale: profili politico-criminali, in Studi Nuvolone, vol. I,
Giuffrè, Milano, 1991, p. 395 ss., spec. p. 415 s.; MOCCIA, Il diritto penale tra essere e va-
lore, ESI, Napoli, 1992, p. 112 ss.; EUSEBI, Brevi note sul rapporto fra anticipazione della tu-
tela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in Riv. trim. dir. pen.
econ., 1995, p. 743 ss.; DONINI, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato
il 4 novembre 1997. Un contributo alla progressione ‘‘legale’’, prima che ‘‘giurisprudenzia-
le’’ dei principi di offensività e di sussidiarietà, in Crit. dir., 1998, p. 95 ss.; FORTI, L’immane
concretezza, Cortina ed., Milano, 2000, p. 149 ss.; ID., La riforma del codice penale nella
spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte speciale, in questa Rivi-
sta, 2002, spec. p. 68 ss.; STELLA, Giustizia e modernità, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 353 ss.,
387 ss., 460. Ricordo comunque che proprio Roxin, che può vantarsi di essere stato tra i
primi, nell’ambito dei professori che sostenevano il Progetto Alternativo, che hanno rinno-
vato l’esigenza della sussidiarietà penale, ritenga oggi che quel principio sia più una direttiva
politica che un dovere cogente (in termini ROXIN, Strafrecht, AT3, Beck, München, 1997,
§ 2/41). Chi volesse peraltro individuare nel dibattito italiano attuale i promotori più avan-
zati della sussidiarietà, dovrebbe decodificare il concetto e reinquadrarlo nell’etichetta del
diritto penale minimo (con varie e rilevanti differenze e sfumature, ricordo fra gli altri le po-
sizioni di Ferrajoli, Baratta, Moccia, Pavarini, ecc. Sull’argomento v. anche da ultimo gli Atti
del Convegno di Abano del 2000, organizzato da Magistratura Democratica: CURI-PALOMBA-
RINI (a cura di), Diritto penale minimo, Donzelli, 2002), ovvero nella critica al diritto penale
del comportamento, che rappresenta un po’ un aggiornamento delle posizioni favorevoli a
un diritto penale dell’evento proprie degli anni Settanta, attraverso una (ennesima?) risco-
perta della vittima tutelabile mediante strumenti extrapenali (da ultimo STELLA, Giustizia e
modernità, cit., passim), salvo valutare, rispetto a tutte queste posizioni, l’effettiva adegua-
tezza dei sistemi punitivi o di controllo o di prevenzione alternativi a quello penale. Nella let-
teratura spagnola, parimenti, è il ‘‘principio de intervención minima’’ (per es. MUÑOZ
CONDE, Introducción al Derecho penal, Bosch, 1975, p. 59 ss.; MARTOS NUÑEZ, El principio
de intervención minima, in Anuario der. pen. y ciencias pen., 1987, p. 99 ss.; PORTILLA CON-
TRERAS, Principio de intervención minima y bienes jurídicos colectivos, in Cuad. de pol.
crim., 1989, p. 723 ss.; SILVA SÁNCHEZ, Aproximación al Derecho penal contemporáneo, Bo-
sch, 1992, p. 246 ss.; AGUADO CORREA, El principio de proportionalidad en Derecho penal,
Edersa, Madrid, 1999, p. 214 ss.; MUÑOZ CONDE-GARCÍA ARAN, Derecho penal, PG4, Tirant
lo Blanc, Valencia, 2000, pp. 79 ss., 103, via via con altri richiami) che attrae su di sé l’ere-
dità dell’extrema ratio, insieme alla critica al diritto penale del rischio (da ultimo, SILVA SÁN-
CHEZ, La expansión del Derecho penal, cit.). Oltralpe, per cogliere nell’ambiente culturale
tedesco contemporaneo istanze significative di ancoraggio del diritto penale al principio di
ultima ratio, occorre rivolgersi (al di là delle imbalsamazioni manualistiche e dogmatiche
della categoria e del principio, e di talune letture del rapporto tra Strafwürdigkeit e Strafbe-
dürftigkeit) soprattutto al dibattito sul diritto penale ‘‘simbolico’’ (ampio quadro in VOß,
Symbolische Gesetzgebung, Gremer, Ebelsbach, 1989, e spec., sulla sussidiarietà, p. 154 ss.;
efficace sintesi, da ultimo, in HASSEMER, Das Symbolische am symbolischen Strafrecht, in
Fest. Roxin, De Gruyter, Berlin-New York, 2001, p. 1001 ss.), oppure su una concezione
‘‘personale del bene giuridico’’ (sempre HASSEMER, Grundlinien einer personalen
Rechtsgutslehre, in Jenseits des Funktionalismus. Arth. Kaufmann zum 65. Geburtstag, Mül-
ler, Heidelberg, 1989, p. 85 ss.) o sulla ‘‘dannosità sociale’’ del reato (una sintesi in AME-
LUNG, Rechtsgutverletzung und Sozialschädlichkeit, in JUNG-MÜLLER-DIETZ-NEUMANN, Recht
und Moral, Nomos, Baden-Baden, 1991, p. 269 ss.), oppure sullo sviluppo di un ‘‘diritto pu-
nitivo dell’intervento’’ (HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in
ZRP, 1992, p. 378 ss.; ID., Produktverantwortung im modernen Strafrecht, Müller, Heidel-
berg, 1994, p. 3 ss.) e in generale al dibattito che da anni ormai conduce la Frankfurter

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materia, non però nel senso dell’attribuzione di competenze normative pe-


nali a organi inferiori, ma nel senso esclusivo della negazione — in caso di
mancato rispetto dell’extrema ratio — della legittimità di qualsiasi compe-
tenza penale-criminale. Si tratta di un limite prevalentemente inteso, fino
a oggi, in chiave negativa: lo Stato non deve provare in positivo la neces-
sità della pena e l’inadeguatezza di altri strumenti rispetto a ogni singola
incriminazione. Basta che non emerga la manifesta sufficienza delle altre
misure disponibili, salvo discutere come poter attuare misurazioni e verifi-
che in questo campo. È solo nelle versioni più moderne e avanzate di una
sussidiarietà pragmaticamente orientata all’efficienza e alle verifiche empi-
riche che si assiste all’emergere di istanze rivolte a chiedere la dimostra-
zione positiva e previa del rispetto della sussidiarietà (24), e si estende al-
tresì (peraltro, lisztianamente) la sussidiarietà oltre la fase legislativa ri-
guardante illeciti e sanzioni, valutandone la portata anche nel momento
applicativo della sanzione (di una degradazione sanzionatoria) o nel qua-
dro della non punibilità (25).
Più omogenee, invece, sono le letture del criterio di proporzione, che

Schule (con particolare riferimento al diritto penale europeo, v. già quanto riconosciuto da
PIETH, Internationale Harmonisierung von Strafrecht als Antwort auf transnationale Wirt-
schaftskriminalität, in ZStW, 109, 1997, p. 771 ss.) in posizione critica rispetto alla legisla-
zione penale ed europeo-comunitaria: ricordo a mero titolo di esempio (da una serie amplis-
sima di interventi e pubblicazioni) sul diritto penale europeo, P.-A. ALBRECHT-BRAUN-FRAN-
KENBERG-K. GÜNTHER-NAUCKE-SIMITIS, 11 Thesen zur Entwicklung rechtstaatlicher Grundla-
gen europäischen Strafrechts, cit., p. 279 ss. (e amplius tutto il n. 3/2001 della rivista
KritV); LÜDERSSEN, Europäisierung des Strafrechts, cit. (ante, nota 4); PRITTWITZ, Na-
chgeholte Prolegomena zu einem künftigen Corpus Juris Criminalis für Europa, cit.; HASSE-
MER, ‘‘Corpus juris’’: Auf dem Weg zu einem europäischen Strafrecht?, cit., p. 133 ss.; ID.,
Ein Strafrecht für Europa, dattiloscritto cit. (ante, nota 4); e più in generale, LÜDERSSEN, Die
Krise des öffentlichen Strafanspruchs, in ID., Abschaffen des Strafens?, Suhrkamp, Frankfurt
a.M., 1995, p. 22 ss., spec. p. 50 ss., e qui lo sviluppo (in chiave di sostanziale ‘‘sussidiarietà
penale’’) di una concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale; P.A. ALBRECHT-
HASSEMER-VOß, Rechtsgüterschutz durch Entkriminalisierung, Nomos, Baden-Baden, 1992;
LÜDERSSEN-NESTLER-TREMEL-E. WEIGEND (Hrsg.), Modernes Strafrecht und ultima-ratio-
Prinzip, P. Lang, Frankfurt a.M., Bern-New York-Paris, 1990; PRITTWITZ, Subsidiär, frag-
mentarisch, ultima ratio? Gedanken zu Grund und Grenzen von Strafrechtsbeschränkun-
gspostulaten, in Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt (Hrsg.), Vom unmöglichen
Zustand des Strafrechts, P. Lang, Frankfurt a.M., 1995, p. 387 ss.; P.A. ALBRECHT, Formali-
sierung versus Flexibilisierung: Strafrecht quo vadis?, in BÖLLINGER-LAUTMANN (Hrsg.), Vom
Guten, das noch stets das Böse verschafft. Kriminalwissenschaftliche Essays zu Ehren H. Jä-
ger, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1993, p. 255 ss.
(24) Per una lettura orientata in questo senso, cfr. per es. DRIENDL, Zur Notwendig-
keit und Möglichkeit einer Strafgesetzgebungswissenschaft in der Gegenwart, Mohr, Tübin-
gen, 1983, p. 39 ss., e passim; quindi, secondo una ricostruzione particolare dei rapporti fra
i principi di laicità, sussidiarietà, necessità, nel quadro dell’effettività, PALIERO, Il principio di
effettività nel diritto penale, cit., p. 395 ss.
(25) Sul piano delle sanzioni v. per es. i riferimenti contenuti nei lavori di MOCCIA,
DOLCINI-MARINUCCI, op. cit., a nota 22, e da ultimo NEPPI MODONA, Il sistema sanzionatorio:
considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, in questa Rivista, 1995, p. 321

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è stato ampiamente elaborato in generale (vale a dire non solo con riferi-
mento alla materia penale) dalle varie Corti di giustizia (soprattutto costi-
tuzionale) dei singoli Stati e della stessa CE, da dove è poi confluito nelle
attuali fonti legislative CE (26).
Quanto detto, in ogni modo, non significa che anche in diritto penale
l’idea della sussidiarietà non presenti aspetti di continuità importanti con

s.; EUSEBI, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa?, in questa Rivi-
sta, 2002, p. 105 ss. Quanto alla (non) punibilità, GARCÍA PÉREZ, La punibilidad en el Dere-
cho penal, Aranzadi, Pamplona, 1997, p. 336 ss.; DONINI, Non punibilità e idea negoziale,
in Indice pen., 2001, pp. 1038 ss., 1044; ID., Le tecniche di degradazione fra sussidiarietà e
non punibilità, in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno di Teramo, 7-9 giugno
2001, su ‘‘Politica criminale e riforma della parte speciale tra ‘codificazione’ e ‘decodifica-
zione’ ’’. L’idea dell’ultima ratio, peraltro, è sempre stata sottintesa vagamente al movimento
di depenalizzazione e di sviluppo di pene alternative a quelle detentive, anche se non fre-
quentemente sviluppata in chiave generale come principio avente una sua specifica, auto-
noma e costante dimensione rispetto al momento applicativo e commisurativo della san-
zione, anche per mancanza di sapere empirico (e di strumenti processuali per raggiungerlo)
conforme all’attuazione dell’idea, al di là del suo significato di orientamento tendenziale.
(26) Per richiami essenziali, a cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, cfr., dal
punto di vista costituzionalistico in generale, CLÉRICO, Die Struktur der Verhältnissmässig-
keit, Mohr, Tübingen, 1999; MORRONE, Il giudice della ragionevolezza, Giuffrè, Milano,
2001, passim, con ampi rinvii, e pp. 192 ss., 219 ss. per riferimenti penalistici (considerato
che la proporzione del dibattito di lingua tedesca, e soprattutto la proporzione penalistica,
rimane in buona misura ricompresa, come sua parte, nel giudizio di ragionevolezza); nella
letteratura comunitaria, EMMERICH-FRITSCHE, Der Grundsatz der Verhältnismässigkeit als Di-
rektive und Schranke der EG-Rechtsetzung, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, p. 136 ss. e
passim; EMILIOU, The Principle of Proportionality in European Law. A Comparative Study,
London, 1996, p. 126 ss. e passim; KISCHEL, Die Kontrolle der Verhältnismäßigkeit durch
den Europäischen Gerichtshof, in Europarecht, 2000, p. 380 ss.; MAUGERI, Il regolamento n.
2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario, in Riv. trim. dir. pen.
econ., 1999, p. 952 ss.; LUGATO, Principio di proporzionalità e invalidità di atti comunitari
nella giurisprudenza della Corte di giustizia della CE, in Dir. com. e degli scambi intern.,
1991, p. 67 ss.; con specifico riguardo alla previsione del principio di proporzione nelle leggi
comunitarie, BERNARDI, I principi e criteri direttivi in tema di sanzioni nelle recenti leggi co-
munitarie, in Annali Univ. Ferrara, vol. XIV, 2000, p. 98 ss.; nel dibattito strettamente pe-
nalistico, ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, cit., p. 163 ss.; BEL-
FIORE, Giurisprudenza costituzionale e materia penale. Il diverso contributo delle Corti costi-
tuzionali italiana e tedesca, Giappichelli, Torino, 2000 (ed. provv.), pp. 9 ss., 41 ss.; PA-
LAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi
penali, in RIDPP, 1998, p. 350 ss. (e spec. p. 370 s. su offensività ed extrema ratio); GUAZ-
ZALOCA-INSOLERA-SFRAPPINI-TASSI, Controllo di ragionevolezza e sistema penale, in DDDP,
1998, n. 1, p. 29 ss.; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte costituzio-
nale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di propor-
zione e di tassatività, in RIDPP, 1999, parte I, spec. p. 468 ss.; AGUADO CORREA, El princi-
pio de proporcionalidad, cit.; LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte,
Mohr, Tübingen, 1996, pp. 21 ss., 52 ss. Cfr. altresì WEIGEND, Der Grundsatz der Verhältni-
smäßigkeit als Grenze staatlicher Strafgewalt, in Fest. Hirsch, De Gruyter, Berlin-New York,
1999, p. 917 ss., e pure lo studio comparato di KUTSCHER-RESS (Hrsg.), Der Grundsatz der
Verhältnissmässigkeit in europäischen Rechtsordnungen, Müller, Heidelberg, 1985, e qui
anche i contributi di Teitiger, Ermacora e Ubertazzi.

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la sua declinazione pubblicistica corrente: in diritto penale come in diritto


pubblico in generale, gli strumenti giuridici più autoritativi e pubblicistici
devono cedere il passo a linee di intervento più privatistiche e soprattutto
meno invasive dell’autodeterminazione e dei diritti dei singoli in chiave
neutralizzante (aspetto negativo della sussidiarietà); resta peraltro vero
che l’ ‘‘autotutela’’ privata e le sanzioni positive, ovvero meno conflittuali
o centralizzate, mantengono il primato anche e soprattutto al fine di esal-
tare l’intervento sociale e solidaristico dello Stato (tipico degli interventi
finalizzati a rimuovere le cause e le opportunità del delitto), al posto di
quello escludente e stigmatizzante (27) (aspetto positivo della sussidia-
rietà).
Vediamo però più da vicino le articolazioni europee e comunitarie
della sussidiarietà.
Volendo fissare un primo punto fuori discussione al riguardo, è pos-
sibile affermare che l’intervento comunitario deve sempre rispettare un
criterio di proporzione (intesa come non eccedenza dei mezzi rispetto al
raggiungimento degli obiettivi), tanto nelle materie di sua competenza
esclusiva quanto in quelle dove la sua competenza è concorrente con
quella nazionale. In quest’ultimo caso, peraltro (cioè nelle ipotesi di com-
petenza non esclusiva), oltre al limite della proporzione, la normativa co-
munitaria incontra anche un’ulteriore demarcazione, rappresentata dall’e-
sigenza che solo l’intervento a livello comunitario possa conferire agli in-
teressi da proteggere un’adeguata tutela, che sarebbe insufficiente se la-
sciata ai singoli Stati.
La sussidiarietà, al contrario della proporzione, si applica ai soli casi
di competenza concorrente.
Peccato che non sia affatto stabilito, nelle fonti comunitarie, quali
sono le materie di competenza esclusiva, perché se è pacifico che vi rien-
trino singoli settori come la politica del mercato agricolo, la pesca o il
commercio estero, non esiste una regola di elencazione tassativa: un pro-
blema serio, una volta che si volesse veramente rendere ‘‘giustiziabile’’ il
principio di sussidiarietà, affinché ne venga accertata la possibile viola-
zione davanti alla Corte di giustizia della CE (28).

(27) Opportuni rilievi, in tal senso, in ARTH. KAUFMANN, Subsidiaritätsprinzip und


Strafrecht, cit., pp. 98 s., 103 ss.; ID., Tendenzen im Rechtsdenken der Gegenwart, Mohr,
Tübingen, 1976, p. 40 s.
(28) V. sin da ora, sul punto, CATTABRIGA, Il Protocollo sull’applicazione dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità, in Il dir. dell’Unione eur., 1998, p. 362 ss.; Ch. CAL-
LIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.), Kommentar EUV/EGV , cit., Art. 5/60 ss.; BOGDANDY-
2

NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das Recht der Europäischen Union, cit., Rdn.
11 ss.; ZULEEG, Art. 3 b, cit., 1/214 ss., 1/230; CHICHARRO LÁZARO, El Principio de Subsidia-
riedad, cit., p. 125 ss. Nel senso che sarebbero di competenza esclusiva tutte le materie tra-
sferite dagli Stati alla Comunità nei trattati istitutivi originari (eliminazione delle barriere
nella circolazione di beni, persone, servizi e capitali, politica commerciale comune, regole

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È noto che molti commentatori si sono sentiti in dovere di distin-


guere anche sul piano dei contenuti (oltre che su quello del campo di ap-
plicazione) fra proporzione e sussidiarietà e anzi di negare la loro identità,
posto che i due principi presentano affinità che, almeno alla luce di certe
chiavi di lettura, li rendono confondibili (29).
L’idea di proporzione, in effetti, si articola, secondo la giurispru-
denza della Corte di giustizia CE (in questo allineata con la Corte costitu-
zionale tedesca) nei tre requisiti dell’idoneità dei mezzi al raggiungimento
dei fini, della necessità della misure adottate (divieto di interventi supe-
riori allo stretto necessario) e della conformità o adeguatezza del rapporto
costi-benefici (30).
Meglio sviluppata, essa contiene almeno quattro direttive, o criteri a
essa riconducibili: 1) un collegamento oggettivo e ragionevole fra il
mezzo scelto e lo scopo perseguito, una volta che lo scopo sia comunque
legittimo; 2) l’adeguatezza del mezzo adottato per il raggiungimento dello
scopo perseguito, valutabile ex ante, ma poi verificabile anche ex post;
3) l’esigenza che i costi da sostenere, quanto meno, non siano manifesta-
mente superiori ai benefici che l’intervento (comunitario) si prefigge;
4) l’insussistenza o l’impraticabilità di misure meno gravose, ciò che defi-
nisce la necessità dell’intervento legislativo (31).
Ognuno vede come ‘‘dentro’’ questi sotto-criteri circolino punti di vi-
sta molto diversi, orientati ora a valori assiologici, ora a possibili misura-
zioni di efficienza o praticabilità. Già nell’idea di proporzione, in ogni
modo, è possibile convogliare istanze culturali e tecniche differenti, per-
fino conflittuali, di matrice più idealistica ovvero pragmatista.
A mio modo di vedere, tuttavia, proporzione e sussidiarietà, tanto in

sulla concorrenza, organizzazione comunitaria dei mercati agricoli, conservazione delle ri-
sorse ittiche e organizzazione comunitaria del mercato del pesce, politica dei trasporti), men-
tre di competenza concorrente sarebbero, in generale, le attribuzioni successivamente ripar-
tite con l’Atto Unico Europeo e il Trattato di Maastricht, TOTH, Legal Analysis of Subsidia-
rity, cit., p. 40 s. Tale interpretazione, si noti, collima pienamente con quanto ha sostenuto la
stessa Comunicazione della Commissione europea al Consiglio e al Parlamento europei del
27 ottobre 1992 (in Bull. EC, 10-1992, p. 116 ss.), dedicata appunto alla sussidiarietà, dove
la Commissione interpreta le aree di competenza esclusiva, inserendovi quelle sopra indi-
cate, riconducibili agli artt. 18, 133, 33 e 71 del Trattato CE (op. cit., p. 127).
(29) Cfr. D’AGNOLO, La sussidiarietà nell’Unione europea, Cedam, Padova, 1998, p.
82 e nota 111; ZULEEG, Art. 3 b, cit., 1/231 (Rdnr. 29).
(30) È la tripartizione della proporzione diffusa nella giurisprudenza della CGCE e
nella letteratura costituzionalistica tedesca. Richiami in KISCHEL, Die Kontrolle der Verhält-
nissmäßigkeit, cit., p. 383 ss.; BERMANN, Taking Subsidiarity Seriously: Federalism in the
Community and the United States, in Col. Law Rev., 1994, p. 386 s.; EMMERICH-FRITSCHE,
Der Grundsatz der Verhältnismässigkeit, cit.; CLÉRICO, Die Struktur der Verhältnissmässig-
keit, cit. La riprendo nel testo con qualche modifica.
(31) Analogamente, riprendendo i criteri adottatti dalla Corte costituzionale tedesca
in tema di Verhältnissmäßigkeit, BELFIORE, Giurisprudenza costituzionale, cit., p. 18 s.

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diritto penale quanto in diritto comunitario, si caratterizzano per una dif-


ferente cultura scientifica alla quale si richiamano, e questo dato spiega la
ben diversa portata tecnica e pratica dei due principi.
Il criterio della proporzione è fondamentalmente legato alla logica del
rapporto tra mezzi e fini, di adeguatezza e conformità dei primi ai se-
condi. Di tale criterio, pertanto, è possibile — e anzi in genere prevalente
— una declinazione secondo la c.d. razionalità rispetto ai valori e agli
scopi, che presenta valenze di tipo assiologico e teleologico, e quindi in
chiave sia retributiva e sia utilitaristica (32), ma si adatta in entrambi i
casi a previsioni le quali tengono conto di una quantità di sapere empirico
circoscritta.
Per verificare se un determinato mezzo (per es. una sanzione penale)
è idoneo(a) allo scopo della tutela che intende apprestare, ci si accon-
tenta, di solito, di valutazioni molto approssimative: vere sperimentazioni
empiriche non sono richieste o imposte. Lo stesso vale per l’indagine sul-
l’impraticabilità di strumenti meno gravosi, o di sanzioni meno severe.
Il criterio della sussidiarietà, invece, se intende mantenere una vera
autonomia rispetto a quello della proporzione, ne rappresenta uno svi-
luppo che, in definitiva, si distacca da quest’ultimo criterio, essendo in-
vece legato a quello che oggi si definisce l’orientamento alle conseguenze
della tutela giuridica (33). Non per nulla, del resto, esso entra in conside-
razione, in ambito comunitario, solo in aggiunta a quello di proporzione,
nei casi di competenza concorrente, rappresentando un parametro di ulte-
riore selezione.
La sussidiarietà implica un’apertura più ampia concernente l’effettiva
verifica delle diverse possibilità di ‘‘realizzazione degli obiettivi’’, non la
semplice ‘‘necessità’’ (o idoneità astratta) dell’azione ‘‘per’’ quel raggiun-
gimento (per riprendere la terminologia dei commi 2 e 3 dell’art. 5 cit.).
Si profila dunque un’alternativa: o la sussidiarietà è criterio auto-
nomo rispetto alla proporzione, e quindi deve implicare il ricorso — anti-
cipato o a posteriori — ad analisi empiriche sull’efficacia e l’effettività
della tutela, oppure esso tende a restare assorbito nel criterio di propor-
zione.
La risposta ci viene dallo stesso Trattato CE, dopo Maastricht. L’art.
5 del Trattato CE, infatti, mantiene una sicura distinzione fra i predetti
criteri, e quindi una loro delimitazione concettuale presenta una legitti-
mazione non solo politica, ma giuridica in senso stretto.

(32) Opportuna distinzione fra concezioni retributive e utilitaristiche della propor-


zione in PALAZZO, Introduzione ai princìpi del diritto penale, Giappichelli, Torino, 1999, p.
66 ss.
(33) Sulla differenza culturale fra l’orientamento ai valori e agli scopi e l’orienta-
mento alle conseguenze, si permetta di rinviare a quanto osservato in DONINI, Metodo demo-
cratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, in questa Rivista, 2001,
pp. 43-47. V. anche VOß, Symbolische Gesetzgebung, cit., p. 14 ss.

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In effetti, proprio la discussione europea riguardante l’attuazione


della sussidiarietà e i possibili, successivi ‘‘controlli’’ giurisdizionali su tale
attuazione (v. il § seg.), ha fatto emergere una serie di metodologie di ve-
rifica che assegnano alla sussidiarietà valenze molto vicine a una cultura
ricca di sapere empirico, fondata sulla misurazione delle conseguenze del-
l’operato legislativo (34).
Il Consiglio europeo, nella decisione di Edimburgo (12 dicembre
1992) (35), si è preoccupato di articolare le fasi di attuazione concreta
della sussidiarietà, e ne ha affermato, ancorché la non diretta efficacia, la
giustiziabilità da parte della Corte di giustizia CE. A tal fine, ha chiarito il
Consiglio che per poter verificare il rispetto della sussidiarietà è innanzi
tutto necessario che il progetto dell’intervento comunitario indichi l’obiet-
tivo che ci si intende prefiggere — si ipotizzi, solo per cogliere subito la ri-
levanza di una simile indicazione, che debba avvenire lo stesso rispetto al-
l’introduzione di ogni norma incriminatrice già da parte dei legislatori na-
zionali... —; il Consiglio, inoltre, deve essere certo che l’azione a livello
comunitario produrrebbe evidenti vantaggi, per le sue dimensioni o i suoi
effetti, rispetto all’azione a livello degli Stati membri. Ma non basta. Sog-
giunge il Consiglio che ‘‘i motivi per concludere che un obiettivo comuni-
tario non può essere sufficientemente realizzato dagli Stati membri ma
può essere meglio realizzato a livello comunitario devono essere compro-
vati da indicatori qualitativi o, se possibile, quantitativi’’ (36).
La stessa Commissione europea, nella Comunicazione al Consiglio e
al Parlamento europei del 27 ottobre 1992 (37), aveva ancor più precisa-
mente stabilito l’esigenza di sottoporre le proprie iniziative legislative a un
‘‘test di efficienza comparativa’’ fra la realizzabilità degli scopi comunitari
a livello dei singoli Stati membri. Solo dopo aver verificato l’insufficienza
degli strumenti di cui quelli (forse anche solo ciascuno di essi) dispon-
gono, occorre effettuare il confronto con la maggiore (e proporzionata)
efficienza di un intervento comunitario.
Queste determinazioni sono state successivamente confermate e con-
solidate dall’Accordo interistituzionale di Lussemburgo dell’ottobre 1993

(34) Nel senso che le indagini empiriche sono un elemento fondamentale per l’attua-
zione della sussidiarietà e del ‘‘principio de intervención minima’’, a differenza del principio
di proporzione, essendo i primi due ‘‘principios de naturaleza empirica frente a la natura-
leza eminentemente normativa del principio de proporcionalidad’’, AGUADO CORREA, El
principio, cit., p. 240, e qui altri richiami.
(35) Consultabile per es. in TIZZANO, Codice dell’Unione europea3, Cedam, Padova,
2002, p. 419 ss.
(36) È il punto v) del § 2 del documento redatto a Edimburgo, corsivi aggiunti.
(37) In Bull. C.E., 10-1992, p. 122 ss. Sulla concreta recezione del principio di sussi-
diarietà da parte della Commissione europea, negli anni successivi, v. l’ampia disamina di
WATHELET, La subsidiarité, cit., in VERDUSSEN (dir.), L’Europe de la subsidiarité, cit., pp.
158-185.

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e dal 7o Protocollo del Trattato di Amsterdam (2 ottobre 1997), che è


stato inserito nel Trattato CE (38), e hanno trovato forme di concretizza-
zione molto articolate da parte della Commissione europea nel suo con-
creto operare (39), anche se la situazione normativa attuale appare ancora
insufficientemente determinata e si profila la richiesta di una sua modifica
nel prossimo futuro, come emerge dalla 23a Dichiarazione (inserita a se-
guito di un’iniziativa italo-tedesca) sul futuro dell’Unione presentata nel
corso dei lavori del Trattato di Nizza e in vista della redazione di una co-
stituzione europea (40).
In letteratura, per es., si precisa che la sussidiarietà richiede assai più
di un generico test di efficienza, perché occorre effettuare due verifiche
cumulative, una negativa e una positiva (41). In primo luogo, si accerta
l’insufficienza del ricorso alle legislazioni nazionali per il raggiungimento
degli scopi prefissati, così effettuando una valutazione comparativa di effi-
cienza. Solo dopo questa valutazione, che dovrebbe tener conto di dati
anche quantitativi concernenti il passato, il successivo test positivo ri-
guarda la prognosi di una migliore capacità d’intervento della legislazione
comunitaria: ciò che appare richiedere verifiche mirate e specifiche, e non
può ritenersi implicito nel livello europeo della legislazione, altrimenti
tutta la valutazione della sussidiarietà si ridurrebbe a una finzione.
Ora, una volta che la sussidiarietà, da mero principio, si specifica in
regole di competenza così pregnanti, che ne assicurano l’effettiva capacità
di diventare un parametro di coercizione giuridica, si pone subito il pro-
blema del controllo giurisdizionale sulla loro osservanza.
Discende di qui il fatto che questa stessa cultura si sia trovata in con-
flitto, a sua volta, con la tradizionale resistenza (soprattutto in Europa,

(38) I due documenti possono parimenti consultarsi in TIZZANO, Codice dell’Unione


europea3, cit., rispettivamente alle pp. 422 s. e 124-126. Sul Protocollo adottato ad Amster-
dam, comunque, cfr. la diffusa analisi di CATTABRIGA, Il Protocollo sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e di proporzionalità, in Il diritto dell’Unione europea, n. 2-3/1998,
p. 361 ss., e qui (p. 373 ss.), anche l’indicazione delle modifiche che il Protocollo ha appor-
tato ai documenti precedenti, che compendia e in parte corregge.
(39) Sul punto v. sempre WATHELET, op. loc. ult. cit.
(40) Cfr. il testo della Dichiarazione sul futuro dell’Unione, adottata alla Conferenza
dei rappresentanti degli Stati membri a Nizza, in TIZZANO, Codice dell’Unione europea3, cit.,
p. 788 s., dove si precisa l’obiettivo di fissare ‘‘le modalità per stabilire, e mantenere, una
più precisa delimitazione delle competenze tra l’Unione europea e gli Stati membri, che ri-
specchi il principio di sussidiarietà’’, in vista di una nuova Conferenza da convocare per
l’anno 2004. Sul punto cfr. anche le osservazioni di CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT, Kom-
mentar, cit., Art. 5/72, e più ampiamente DASHWOOD, The Constitution of the European
Union after Nice: Law-making Procedures, in Eur. Law Rev., 2001, p. 215 ss.
(41) Fra gli altri, Ch. CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.), Kommentar
EUV/EGV2, cit., Art. 5/35 ss.; BOGDANDY-NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das
Recht der Europäischen Union, cit., Rdn. 31 ss.; LENAERTS-YPERSELE, Le principe, cit., p. 45
ss. (n. 53 ss.). Cfr. anche, nella letteratura penalistica, SATZGER, Die Europäisierung, cit., pp.
442 ss., 448.

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già all’interno dei singoli ordinamenti statali) a dotare le Corti di giustizia


o le Corti costituzionali di strumenti conoscitivi riguardanti la misurabilità
o l’effettività di un’analisi costi-benefici, o delle conseguenze e delle insuf-
ficienze dell’introduzione di una certa normativa, per non parlare delle re-
sistenze a indagini concernenti l’analisi economica del diritto che tali pro-
spettive, in qualche misura, comportano (42).

3. Il problema della ‘‘forza di legge’’, ovvero della ‘‘giustiziabilità’’


del principio di sussidiarietà. — È stato molto discusso, a livello di dot-
trina e di giurisprudenza europee, il problema della giustiziabilità del
principio di sussidiarietà comunitaria (43), astrattamente riconosciuto dal
Consiglio europeo e concretamente applicato, in poche decisioni, dalla
Corte di giustizia CE (44).
Il livello del dibattito ricorda da vicino quello che concerne la distin-
zione fra principi di politica criminale o di indirizzo politico da un lato, e
principi dimostrativi dall’altro (45).
La forza di legge della sussidiarietà, secondo alcuni, sarebbe condi-
zionata dall’elevato tasso di discrezionalità politica della valutazione ri-
guardante la sufficienza o meno delle normative nazionali (46). Un limite

(42) V. al riguardo SATZGER, Die Europäisierung, cit., p. 426 ss.


(43) Ampiamente, sull’effettiva giustiziabilità del principio, con gli opportuni ri-
chiami, D’AGNOLO, La sussidiarietà, cit., p. 153 ss.; CHICHARRO LÁZARO, El Principio, cit., p.
161 ss.; SCHIMA, Die Beurteilung des Subsidiaritätsprinzips durch den Gerichtshof der Euro-
päischen Gemeinschaften, in ÖJZ, 1997, p. 761 ss. CALLIESS, Subsidiaritäts- und Solidarität-
sprinzip2, cit., p. 298 ss.; LENAERTS-YPERSELE, Le principe, cit., p. 72 ss. (n. 84 ss.); BOG-
DANDY-NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das Recht der Europäischen Union, cit.,
Rdn. 41, via via con altri richiami. Cfr. anche SATZGER, Europäisierung, cit., p. 439 ss. In
senso contrario alla giustiziabilità, peraltro, TOTH, Is Subsidiarity Justiciable?, in Eur. Law
Rev., 1994, p. 268 ss.; LIENBACHER, Art. 5 EGV, in SCHWARZE (Hrsg.), EU-Kommentar, No-
mos, Baden-Baden, 2000, Rdn. 25 ss.
(44) Sulle sentenze della Corte di giustizia che hanno applicato il principio di sussi-
diarietà, cfr. oltre a D’AGNOLO, op. loc. cit., WATHELET, La subsidiarité, cit., p. 189 ss.; Ch.
CALLIESS, Subsidiaritäts- und Solidaritätsprinzip2, cit., p. 351 ss.; CHICHARRO LÁZARO, op.
cit., p. 197 ss.
(45) Per una tematizzazione di questa problematica dal punto di vista penalistico, si
consenta di rinviare a DONINI, voce Teoria del reato, cit., § 6 (p. 234 s.); ID., Teoria del
reato. Una introduzione, Cedam, Padova, 1996, p. 25 ss.
(46) Cfr. per es. TOTH, Is Subsidiarity justiciable?, cit., p. 268 ss.; ID., Legal Analysis
of Subsidiarity, cit., pp. 47-48; BERMANN, Taking Subsidiarity Seriously, cit., pp. 366 ss., 390
ss., e la conclusione (a p. 456), secondo la quale ‘‘subsidiarity is immensly difficult to opera-
tionalize’’; STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integrazione europea: un’in-
cognita e molte aspettative, in XXVIa Tavola Rotonda di diritto comunitario ‘‘Il principio di
sussidiarietà nel diritto comunitario’’, Milano, 12 novembre 1993, in Jus, 1994, spec. pp.
373-375; CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’ordinamento co-
munitario e dell’ordinamento nazionale, in Quaderni cost., 1993, p. 14 s.; GRIMM, Effektivi-
tät und Effektivierung des Subsidiaritätsprinzips, in KritV, 1994, pp. 6 ss., 9; BLANKE, Nor-
mativer Gehalt und Justitiabilität des Subsidiaritätsprinzips nach Art. 3 b EGV, in HRBEK

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di political question che renderebbe impossibile un controllo giuridico


sulla sussidiarietà, diverso dal sindacato sulle violazioni macroscopiche,
quelle che consistono in un errore manifesto o in sviamento di potere.
Come si vede, è esattamente il tema che riguarda i principi d’indi-
rizzo politico, o meramente argomentativi nell’ambito del sindacato di co-
stituzionalità interno agli Stati. Anche rispetto alle Corti costituzionali na-
zionali si suole indicare un limite estremo di sindacabilità delle scelte legi-
slative fissato dal divieto di giudizi di fatto relativi alle indagini sull’effica-
cia delle leggi: vi sarebbe una sorta d’incompetenza funzionale di un giu-
dice delle leggi e dei valori a compiere verifiche di questo tipo.
L’art. 33 del Trattato Ceca, per es., disciplina espressamente un’even-
tualità come quella ipotizzata, stabilendo che ‘‘l’esame della Corte non
può vertere sulla valutazione dello stato risultante da fatti o circostanze
economiche in considerazione del quale sono state prese dette decisioni o
raccomandazioni, salvo che sia mossa accusa all’Alta Autorità d’aver com-
messo uno sviamento di potere o di avere misconosciuto in modo patente
le disposizioni del Trattato oppure ogni norma giuridica concernente la
sua applicazione’’.
Il dibattito europeo al riguardo sembra, in effetti, più avanzato di
quello nazionale sul controllo riguardante la sussidiarietà penale o
extrema ratio. In questo senso è già possibile cominciare a rispondere a
un’altra delle domande che ci eravamo posti all’inizio: la cultura europea
può effettivamente arricchire di contributi significativi il dibattito sull’im-
plementazione del principio di sussidiarietà penale.
In ambito comunitario, per es., sono state proposte, e non solo ipotiz-
zate, l’istituzione di organi di controllo ad hoc sulla sussidiarietà in fun-
zione preventiva o successiva, ovvero l’istituzione di ricorsi speciali alla
CGCE (47). In tutti questi casi si è evidenziato come un tale ampliamento
dei poteri della Corte di giustizia (o la loro attribuzione ad un altro or-
gano specifico) comporterebbe una sicura, maggiore ‘‘politicizzazione’’
del sindacato relativo, che molti temono arguendo da ciò il rischio del
crollo della credibilità di quelle istituzioni (48).
Senonché, il rischio della politicizzazione del giudizio è esattamente
ciò che si può evitare affinando i parametri di verifica della sussidiarietà e
gli strumenti processuali per rendere operativa tale verifica.

(Hrsg.), Das Subsidiaritätsprinzip in der Europäischen Union - Bedeutung und Wirkung für
ausgewählte Politikbereiche, Nomos, Baden-Baden, 1995, p. 95 ss.; ZULEEG, Justitiabilität
des Subsidiaritätsprinzips, in NÖRR-OPPERMANN (Hrsg.), Subsidiarität: Idee und Wirklich-
keit. Zur Reichweite eines Rechtsprinzips in Deutschland und Europa, Nomos, Baden-Ba-
den, 1997, p. 27 ss.
(47) V. ancora D’AGNOLO, op. cit., pp. 178-181; nonché CATTABRIGA, Il Protocollo
sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, cit., p. 361 ss.
(48) In termini, per es., EMILIOU, Subsidiarity: Panacea or Fig Leaf?, in O’KEEFFE-
TWOMEY (Ed.), Legal Issues of the Maastricht Treaty, cit., p. 78.

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Per esempio, già attualmente, come è noto, la Corte può effettuare e


conferire perizie nello svolgimento ordinario dei suoi compiti, come del
resto avviene nella Corte costituzionale tedesca e, tradizionalmente, nella
Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha il potere di indagare i legislative
facts (49). Questa possibilità, in effetti, appare decisiva e, a mio avviso,
positiva affinché vi sia un maggiore ingresso di sapere empirico nei giudizi
di legittimità: affinché questi ultimi non riguardino solo i valori e i fini,
ma anche dati di realtà analizzabili con strumenti non esclusivamente giu-
ridico-idealistici orientati all’autopoiesi di un sistema di valori.
È quindi corretto affermare che, una volta tanto, un principio che in
qualche misura è potenzialmente anche di rilevanza penalistica, ha trovato
approfondimenti operativi più qualificanti in aree culturali non penali in
senso stretto. L’incontro fra quei dibattiti e le tematiche penali, pertanto,
promette di portare queste ultime a livelli di concretizzazione superiori.
Si tratta, in ogni caso, di problemi molto aperti: finché il principio di
sussidiarietà non si vedrà assicurato un meccanismo di controllo giurisdi-
zionale (e poi anche una prassi di controllo) più penetrante, è ovvio che
potrà essere violato facilmente dalla Comunità. E in questo caso, la sua
violazione non sarà, come subito dirò, nel senso del disimpegno comuni-
tario a favore degli Stati: la violazione di una sussidiarietà non giustizia-
bile significa esattamente una sovraesposizione delle competenze comuni-
tarie, e quindi un’espansione del loro intervento contro le istanze della
sussidiarietà penale.

4. Il dubbio sulla funzione limitativa od espansiva della sussidia-


rietà comunitaria rispetto all’intervento penale. — L’affermazione appena
compiuta risponde a un’obiezione da tempo già formulata. La sussidia-
rietà dovrebbe operare per limitare in concreto i poteri (comunque esi-
stenti) della Comunità a favore dei compiti primari degli Stati, o se vo-
gliamo per legittimarli solo quando la self-regulation dell’economia degli
Stati non realizzi più i risultati della fiducia liberista in una provvidenziale
autodisciplina dei mercati.
L’art. 3 b, ora art. 5, del Trattato CE, pertanto, non conferisce alla
Comunità nessuna nuova competenza, almeno ad una lettura statica: più
che un criterio d’attribuzione di competenze, esso dovrebbe funzionare
come un criterio di disciplina dell’esercizio di competenze già chiaramente
stabilite, purché concorrenti (50). Senonché, così intesa, la sussidiarietà

(49) Un’utile rassegna comparata in GROPPI, I poteri istruttori della Corte costituzio-
nale nel giudizio sulle leggi, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 56-68.
(50) Si tratta di un principio variamente ribadito (fra i molti ZULEEG, Art. 3, cit.,
1/225 (Rdnr. 18); STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integrazione europea:
un’incognita e molte aspettative, in Jus, 1994, spec. p. 367 ss.; RONGE, Legitimität durch
Subsidiarität, cit., p. 172 s., con altri richiami), ed espressamente contenuto nei documenti

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comunitaria rischia di apparire come uno strumento neutro, ‘‘che può


condurre ad un’estensione come ad una riduzione del ruolo della Comu-
nità europea’’ (51), e ciò perché le stesse competenze della CE sono dila-
tabili (e si sono dilatate nel tempo) in modo molto flessibile.
Muovendo da analoghe preoccupazioni, si è parlato di ‘‘ambiguità’’ o
di ‘‘ambivalenza’’ del principio di sussidiarietà, connesse a un suo possi-
bile uso estensivo, anziché restrittivo, delle competenze comunitarie (52).
In effetti, l’assente tassatività nel delineare le competenze concorrenti
della Comunità e gli ampi criteri di merito nel valutare la necessità di un
intervento comunitario complementare a quello degli Stati, rendono
molto flessibile la gestione operativa del principio e problematico, nello
stesso tempo, il suo controllo giurisdizionale.
È l’ambiguità nella stessa attribuzione delle competenze assegnate
alla Comunità, coi suoi ‘‘poteri impliciti’’ (c.d. ‘‘implied powers’’ ex art.
308, già art. 235, TR CE), con le sue potenzialità espansive legate alla
realizzazione degli scopi politici che le sono riconosciuti in vista del ravvi-
cinamento delle legislazioni (ex art. 94 ss., già art. 100 ss., TR CE), con
l’ampio mandato all’adozione di misure antifrode (art. 280, già art. 209 a,
TR CE), con la supremazia automatica della legislazione europea regola-
mentare sul diritto degli Stati membri: è questa ambiguità d’origine che si
riflette sulla stessa sussidiarietà che dovrebbe ‘‘regolare’’ e ‘‘limitare’’ l’e-
sercizio di competenze predefinite (53).
Paradossalmente, in effetti, la massima applicazione della sussidia-

comunitari sulla sussidiarietà, da ultimo nel 7o Protocollo del Trattato di Amsterdam, che è
stato allegato al Trattato CE, al punto 3: ‘‘Il principio di sussidiarietà non rimette in que-
stione le competenze conferite alla Comunità dal Trattato, come interpretato dalla Corte di
giustizia. I criteri di cui all’art. 3 B, comma 2, del Trattato, riguardano settori che non sono
di esclusiva competenza della Comunità. Il principio di sussidiarietà dà un orientamento sul
modo in cui tali competenze debbono essere esercitate a livello comunitario. La sussidiarietà
è un concetto dinamico e dovrebbe essere applicata alla luce degli obiettivi stabiliti nel Trat-
tato. Essa consente che l’azione della Comunità, entro i limiti delle sue competenze, sia am-
pliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente, ristretta e sospesa laddove essa
non sia più giustificata’’. Cfr. STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel futuro dell’integra-
zione europea: un’incognita e molte aspettative, in Jus, 1994, spec. p. 367 ss.
(51) In tal senso, per es., DONY, L’ambigua sussidiarietà nell’Unione europea, in
Pen. e dir., 1994, p. 408 s.
(52) Oltre a DONY, op. ult. cit., cfr. per es. CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i
suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento nazionale, in Qua-
derni cost., 1993, p. 7 ss.; BERNARDI, ‘‘Europeizzazione’’ del diritto penale commerciale?, in
RTDPE, 1996, p. 36 s.
(53) Cfr. DASHWOOD, The Limits of European Community Powers, in Eur. Lew Rev.,
1996, p. 113 ss.; Ch. CALLIESS, in CALLIESS-RUFFERT (Hrsg.), Kommentar EUV-EGV2, cit.,
Art. 5/8 ss.; BOGDANDY-NETTESHEIM, Art. 3 b EGV, in GRABITZ-HILF, Das Recht der Europäi-
schen Union, cit., Rdn. 3 ss.; LENAERTS-YPERSELE, Le principe, cit., p. 13 ss. (n. 15 ss.);
SATZGER, Die Europäisierung, cit., p. 419 ss.

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rietà penale (extrema ratio) in ambito nazionale, potrebbe condurre, anzi-


ché a un’astensione comunitaria, a un intervento ‘‘sussidiario’’ europeo.
Ciò che appare tutelabile in forma solo amministrativa o in una
forma penale attenuata o poco profilata all’interno dei singoli Paesi, po-
trebbe sembrare privo di adeguata protezione nell’ottica comunitaria, se
appena si considera che l’intervento CE può giustificarsi anche solo per
l’insufficienza della tutela apprestata da singoli Stati. La realizzazione na-
zionale dell’extrema ratio penale, in questa dimensione ‘‘comparata’’, po-
trebbe non valere nulla.
È evidente, perciò, che il nostro tema appare suscettibile di imporre
una revisione dello stesso concetto di sussidiarietà penalistico, pensato e
costruito anch’esso, in chiave eminentemente nazionalistica. Nel mo-
mento in cui il diritto penale dello Stato, che concepisca se stesso come
sussidiario, si colloca in una dimensione europea, potrebbe mutare lo
stesso modo di intendere l’extrema ratio nazionale, se lo stato si sente
molto europeista, oppure conservare una sua più spiccata autonomia e ca-
pacità di resistenza, nella misura in cui le politiche criminali nazionali si
pongano in possibile conflitto con quelle dello Stato federale (54).
Un collaudo immediato di questa problematica si può tentarlo, in
prima approssimazione, esaminando le tre principali modellistiche di in-
tervento penale europeo oggi sul tappeto.

5. Tre possibili modelli di intervento penale ‘‘europeo’’. L’armoniz-


zazione mediante codici-modello di carattere generale, oppure attraverso
progetti di settore a tutela di beni in senso lato economici come quello su-
gli ‘‘Eurodelitti’’, ovvero con normazioni a tutela di interessi strettamente
comunitari, come il Corpus juris e il più recente Libro verde della Com-
missione europea. — Attualmente, sono possibili tre modelli di costru-
zione di un diritto penale europeo, superate le fasi dell’assimilazione e
quelle, sempre percorribili, dei singoli accordi internazionali su determi-
nate discipline.
Differenzio tali modelli in primo luogo per il loro contenuto. Solo in

(54) Sul rapporto fra sussidiarietà penale e comunitaria, in particolare, variamente e


spesso fugacemente emerso nella letteratura recentissima (per es. HUGGER, Strafrechtliche
Anweisungen, cit., p. 81 ss.; PICOTTI, Potestà penale dell’Unione europea nella lotta contro
le frodi comunitarie e possibile ‘‘base giuridica’’ del Corpus juris. In margine al nuovo art.
280 del Trattato CE, in GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode ecc., cit., spec. p. 374
ss.; ID., Prozessuale und materielle Aspekte des Legalitätsprinzips im Corpus Juris, in HUBER
(Hrsg.), Das Corpus Juris, cit., p. 302; PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena, cit., p. 797 s.;
P.-A. ALBRECHT-BRAUN-FRANKENBERG-K. GÜNTHER-NAUCKE-SIMITIS, 11 Thesen zur Entwic-
klung rechtstaatlicher Grundlagen europäischen Strafrechts, in KritV, 2001, p. 279 ss., e fra
gli altri il contributo di KAIAFA-GBANDI, Bemerkungen zur Entwicklung rechtsstaatlicher
Grundlagen Europäischen Strafrechts, p. 292 s.), la trattazione più approfondita trovasi in
SATZGER, Die Europäisierung, cit., p. 439 ss.

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un secondo momento si pone l’esigenza di valutarli in rapporto alle tecni-


che di realizzazione nell’Europa giuridica che, ciascuno secondo la pro-
pria natura e funzione, tende a utilizzare in conseguenza del suo conte-
nuto.
Il primo, il meno invadente e invasivo dei possibili progetti d’inter-
vento, è rappresentato da un codice penale modello, ovvero da un’armo-
nizzazione di carattere ‘‘generale’’. Si tratta di una prospettiva ipotizzata
già dal Consiglio d’Europa nel 1971 (55), e poi più di recente ripresa a li-
vello dottrinale (56), attenta a esigenze di costruzione scientifica, di me-
diazione culturale ‘‘democratica’’ fra diverse culture, ma un po’ distante
dalle urgenze quotidiane della politica europea, che riguarda determinati
interessi e piani di intervento. La prospettiva dei modelli generali è, essen-
zialmente, di armonizzazione culturale. Non nasce sotto la spinta pres-
sante di un obiettivo politico individuato.
È noto come la funzione del Model Penal Code americano non sia
stata l’unificazione di sistemi giuridici disarticolati in 50 stati, e purtutta-
via tutti di common law e tutti di lingua inglese, ma la loro razionalizza-
zione e riforma, rese necessarie dall’accumulo disordinato e ingovernabile
di duecento anni di giurisprudenza. Un codice penale modello per l’Eu-
ropa, invece, avrebbe lo scopo di unificare sistemi tendenzialmente coe-
renti e secolarmente consolidati ciascuno al proprio interno, i quali non
avvertono nessuna necessità di spogliarsi di un’identità così faticosamente
raggiunta secondo i percorsi linguistico-concettuali delle scienze della cul-
tura (57). Sarebbe necessaria un’opera molto lunga e paziente di compa-
razione a tappeto e quindi un approccio di tipo ‘‘induttivo’’, dal basso dei
singoli sistemi, per rendere accettabile in generale un prodotto di tale am-
bizione. Tutto il contrario delle attuali istanze presenti nella politica delle
istituzioni della CE.

(55) Model Penal Code for Europe. Memorandum prepared at the request of the legal
affairs of the Council of Europe (Nr. AS/Jur[22]45).
(56) Nella sostanza già PAGLIARO, Limiti all’unificazione del diritto penale europeo,
in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 204 s.; v. quindi CADOPPI, Verso un diritto penale unico
europeo?, in PICOTTI (a cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea,
Giuffrè, Milano, 1999, p. 31 ss., spec. p. 39 s. (e già ID., Towards a European Criminal
Code?, in European Journal of Crime, Crim. Law and Crim. Justice, 1996, I, pp. 2 ss., 15
ss.); BERNARDI, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in Annali
dell’Università di Ferrara - Scienze giuridiche, Saggi III, 1996, pp. 57 ss., 130 ss. e passim;
SIEBER, Memorandum für ein Europäisches Modellstrafgesetzbuch, in JZ, 1997, p. 376 ss.
Cfr. anche sul punto v. gli opportuni rilievi di WEIGEND, Strafrecht durch internationale Ve-
reinbarungen - Verlust an nationaler Strafrechtskultur?, in ZStW, 105 (1993), p. 783 ss., e
di DANNECKER, Strafrecht in der Europäischen Gemeinschaft, in Juristenzeitung, 1996, p.
879 s. Un’ampia difesa della strategia armonizzatrice mediante codici-modello in BERNARDI,
Strategie per l’armonizzazione dei sistemi penali europei, relazione svolta al Convegno ‘‘Il
diritto penale nella prospettiva europea - Quali politiche criminali per quale Europa?’’ (Bolo-
gna, 28 febbraio-2 marzo 2002), p. 41 ss. (del dattiloscritto).
(57) WEIGEND, op. cit., p. 791 s.

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Quel modello, peraltro, attenderebbe una più o meno lenta opera di


omologazione e armonizzazione in forza di accordi internazionali ad hoc,
salvo contare su spontanee adesioni da parte dei singoli ordinamenti na-
zionali. Si tratta di una prospettiva, in ogni modo, che per definizione non
pone problemi di sussidiarietà comunitaria: essa non prospetta reati fede-
rali o soluzioni autoritative, ma solo adesioni spontanee.
Le altre due e uniche modellistiche oggi effettivamente più sperimen-
tate a livello (per ora) costruttivo sono in effetti più circoscritte e setto-
riali: esse riguardano soprattutto un numero limitato di beni comunitari,
ovvero di interessi finanziari o di soggetti attivi (diritto penale dell’im-
presa) e qualche singolo principio o norma di carattere generale.
Come tali, esse si pongono in una vicinanza assai più diretta con gli
obiettivi attuali delle istituzioni comunitarie, e quindi è giusto, a mio av-
viso, collocarle in un movimento assai più orientato verso risultati di
breve-medio periodo, e pertanto sono suscettibili di essere lette in una
chiave di possibile unificazione normativa che è più facile, se circoscritta,
dell’armonizzazione. Fra l’altro, mediante l’introduzione di piccole ri-
forme settoriali è possibile assistere, come è stato detto (Delmas-Marty),
all’ingresso nella normativa europea di un ‘‘cavallo di Troia’’ verso la con-
quista di una competenza penale comunitaria più generalizzata, e quindi
si tratta di progettazioni per nulla marginali, ma di singolare importanza.
Non costituiscono un codice-modello in senso generale né la seconda
edizione del Corpus juris (2000) (58), né il Libro verde predisposto dalla

(58) Cfr. il testo relativo, accompagnato dai relativi commenti e studi comparati di
fattibilità, in DELMAS-MARTY/VERVAELE (ed.), The Implementation of the Corpus Juris in the
Member States, vol. I, Intersentia, Antwerpen, Groningen-Oxford, 2000, p. 187 ss. (tomo
poi seguito da altri tre). Oltre ai rapporti presenti in tale volume, tra i contributi più rilevanti
allo studio dell’iniziativa, peraltro pubblicati ancora a fronte della prima edizione del Corpus
juris, cfr. HUBER (Hrsg.), Das Corpus Juris als Grundlage eines Europäischen Strafrechts,
Europäisches Colloquim, Trier, 4-6 marzo 1999, Iuscrim, Freiburg i. Br., 2000; PICOTTI (a
cura di), Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione europea, Atti del Convegno di
Trento, 3-4 ottobre 1997, cit.; GRASSO (a cura di), La lotta contro la frode agli interessi fi-
nanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione, Giuffrè, Milano, 2000; ID.
(a cura di), Prospettive di un diritto penale europeo, Atti del Seminario di Catania, 26 mag-
gio 1997, Giuffrè, Milano, 1998, nonché il n. 3/1999 della Revista penal. Cfr. altresì
AA.VV., Le Corpus juris au regard du droit belge, Bruylant-Maklu, Bruxelles, 2000; PALIERO,
La fabbrica del Golem, cit., p. 480 ss.; PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena, cit.; AA.VV.,
Europäisches Strafrecht 2000, Zweites Symposium des ‘‘Strafverteidiger’’, Frankfurt/M, 20
ottobre 2000, in StV, 2000, p. 62 ss.; AA.VV., Diritto penale europeo, a cura di Martone,
Cedam, Padova, 2001; P.-A. ALBRECHT-BRAUN-FRANKENBERG-K. GÜNTHER-NAUCKE-SIMITIS,
11 Thesen, cit., p. 279 ss.; SAMMARCO, Interessi comunitari e tecniche di tutela penale, Giuf-
frè, Milano, 2002, p. 352 ss. Al Corpus juris 2000 è stato dedicato il Seminario di Trento del
24 novembre 2000, i cui atti sono in corso di pubblicazione. Tra i contributi relativi già ap-
parsi autonomamente cfr. BERNARDI, Corpus juris e formazione di un diritto penale europeo,
in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, p. 283 ss., e qui, alla nota 20, altri richiami. La ‘‘filiazione

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Commissione europea nel dicembre 2001 (59), né, per ora, il progetto
privato di ‘‘delitti europei’’ (‘‘Europa-Delikte’’) di recente elaborato da un
gruppo di penalisti sotto la direzione di Klaus Tiedemann (60): i primi
due, infatti, si prefiggono l’introduzione (oltre a un apparato di norme
processuali) di poche incriminazioni a tutela di interessi strettamente co-
munitari, e quindi un sistema settoriale molto circoscritto e immediata-
mente operativo in tutto il territorio dell’Unione con identico contenuto,
non come modello per distinte e libere codificazioni entro gli Stati mem-
bri; il terzo progetto, invece, sembra coltivare l’aspirazione a che le norme
previste (34 incriminazioni di diritto penale economico in senso lato, oltre
a un corredo di disposizioni generali) si calino integralmente negli Stati
membri, per sostituire le discipline originarie (normalmente esistenti) e in
ogni caso ha per oggetto un ventaglio di disposizioni sempre molto par-
ziale, oltre a nascere da una mediazione culturale fra poche, elitarie cul-
ture di tradizione dogmatica (soprattutto quelle tedesca, spagnola e ita-
liana) (61).
Il Corpus juris, dunque, per quanto si sforzi di enucleare anche prin-
cipi europei e alcune definizioni di parte generale (mens rea, errore, re-
sponsabilità penale individuale, tentativo, responsabilità di capi e prepo-
sti, nonché delle persone giuridiche), oltre a norme sulle sanzioni e sulle
discipline processuali, non costituisce un codice-modello per la ristrettis-
sima cerchia delle fattispecie contemplate (otto incriminazioni: artt. 1-8) e
per il fatto che si colloca nell’ottica esclusiva (‘‘raison d’être’’) di una tu-
tela degli interessi finanziari dell’Unione (62): un progetto dal raggio d’a-
zione così circoscritto non può costituire un paradigma generale per una
legislazione europea, ma un microsistema penale europeo, che aspira a

naturale’’ (più o meno riconosciuta) del Corpus juris trovasi oggi materializzata nel Libro
verde della Commissione europea del dicembre 2001.
(59) V. ante, nota 4.
(60) Il testo (58 articoli, dei quali 22 solo di parte generale) degli ‘‘Eurodelitti’’, ela-
borati da una commissione privata di studiosi di varie nazionalità europee, coordinati da
Klaus Tiedemann, si può ora leggere in TIEDEMANN (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der eu-
ropäischen Union, Freiburg-Symposium, C. Heymanns, Köln-Berlin-Bonn-München, 2002,
p. 449 ss., preceduto da ampie relazioni introduttive, generali e sulle varie materie regolate
(per l’Italia, cfr. i contributi di Palazzo e Foffani). Oltre all’introduzione di Tiedemann in
questo volume, cfr. anche ID., ‘‘Europa-Delikte’’ - Vorschläge zur Harmonisierung des Wirt-
schaftsstrafrechts in der EU, in Fest. Spinellis, Sakkoulas Verlag, 2001, p. 1097 ss. (estratto,
s.l.).
(61) Nel senso che non possa parlarsi di codici penali modello con riferimento a pro-
getti di settore, MILITELLO, Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto al
crimine organizzato, in MILITELLO-PAOLI-ARNOLD (curatori), Il crimine organizzato come fe-
nomeno transnazionale, cit., p. 17, nota 46.
(62) Così, espressamente, la sintesi introduttiva curata da DELMAS-MARTY, in DEL-
MAS-MARTY/VERVAELE (eds.), The Implementation of the Corpus Juris in the Member States,
vol. I, cit., p. 62.

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imporsi dall’esterno degli Stati membri, individuando canali di realizza-


zione paralleli e sovraordinati (per es. direttive), piuttosto che voler orien-
tare lo spontaneo armonizzarsi delle legislazioni: cosa che, peraltro, po-
trebbe di fatto anche condizionare, in assenza di una normativa unificata.
Questo microsistema si caratterizza inoltre per svolgere una funzione
integrativa dei sistemi penali nazionali. Essi non vengono intaccati nella
loro autonomia e completezza interna, ma affiancati da un sistema ordina-
mentale parallelo. L’unico effetto sostitutivo si avrebbe là dove gli Stati
abbiano attuato già discipline penali delle medesime offese a beni comuni-
tari e si tratti di normative divergenti: non un modello, quindi, ma un pro-
getto mirato di legislazione penale unificata.
La linea d’intervento è ancora più concreta, sotto il profilo operativo,
nel Libro verde predisposto dalla Commissione europea, che si prefigge
(peraltro proseguendo un indirizzo già chiaramente contenuto nell’idea
della Procura europea abbozzata nel Corpus juris) obiettivi di unificazione
procedimentale a livello di indagini prima ancora che un obiettivo di uni-
ficazione di diritto sostanziale.
Anche qui (come nel Corpus juris) compaiono fattispecie di valenza
prevalentemente comunitaria, quali la frode agli interessi comunitari, la
corruzione di funzionari CE o lesiva di interessi finanziari delle Comunità
europee, il riciclaggio di capitali (fattispecie quasi naturalmente transna-
zionale), la frode in materia di aggiudicazione di appalti (che sanzione-
rebbe anche l’accordo o il tentativo di accordo) che metta in pericolo inte-
ressi finanziari CE, l’associazione a delinquere (vista peraltro in relazione
anche a reati-scopo di tipo comune), l’abuso di ufficio lesivo degli inte-
ressi finanziari comunitari, la rivelazione di un segreto d’ufficio pregiudi-
zievole per gli interessi finanziari comunitari. Si prospettano poi realisti-
camente ulteriori unificazioni sanzionatorie, anche in ordine ai regimi di
prescrizione, chiedendo anche qui al Parlamento europeo e agli Stati
membri di rispondere ai quesiti che contemporaneamente sono formulati
sui singoli punti.
Pure in questo caso, come per il Corpus juris, la dimensione penale-
sostanziale del progetto appare orientata a un’unificazione normativa cir-
coscritta a poche fattispecie di pregnante interesse europeo o comunitario.
Rimane quindi un’iniziativa molto selezionata, chirurgicamente intesa a
creare un nucleo di disposizioni (salvo discuterne il singolo contenuto, si
capisce: cfr. per es. l’incriminazione del tentativo di accordo in materia di
aggiudicazione di appalti), e relativi mezzi processuali (di notevole incisi-
vità sui diritti di difesa). Pare quindi che possa parlarsi di una linea di in-
tervento integrativo dei sistemi nazionali, mentre l’impatto più forte a me
sembra quello di tipo processuale, dove (come già per le corrispondenti
discipline del Corpus juris) si profilano enormi questioni sulle differenze
di garanzie esistenti in materia di raccolta delle prove e loro utilizzabilità

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e sulla possibilità per il procuratore europeo di ‘‘scegliersi’’ l’autorità giu-


diziaria più idonea, in fase sia procedimentale (per es. cautelare) e sia giu-
risdizionale (competenza territoriale interscambiabile), e con essa anche
un diritto sostanziale di parte generale in funzione di ‘‘jolly’’, anzichè di
garanzia: questioni tali da rendere la materia, attualmente, un vero campo
minato (63).
È ancora diverso, al riguardo, il più ampio progetto di ‘‘Eurodelitti’’,
piuttosto influenzato dall’esperienza legislativa e culturale germanica, per-
ché da un lato si tratta di un progetto di solo diritto penale sostanziale, e
perché, dall’altro lato, avrebbe l’ambizione di costruire un corpus omoge-
neo ed essenziale di reati d’impresa o economici in senso lato, corredati
di una loro parte generale, tale da costituire o un possibile modello per un
codice penale europeo d’impresa, oppure l’embrione di un modello più
vasto e ambizioso (64), da attuarsi con direttive, decisioni-quadro, o altri
strumenti (65). Qui, come è evidente, non siamo più in presenza di un
corpo di norme che si aggiungono a quelle nazionali, ma ci troviamo di
fronte a un codice penale europeo dell’impresa che intende ‘‘occupare’’ le
discipline nazionali.
Nel progetto degli Eurodelitti, perciò, la funzione della normativa
proposta è, in misura prevalente, quella di sostituire i corrispondenti di-
ritti nazionali in vista della tutela di beni giuridici comuni.
La diversità del contenuto di queste due modellistiche ne determina
anche il diverso impatto sul piano degli strumenti tecnici di realizzazione
e di collaudo, rispetto ai principi di sussidiarietà penale e comunitaria. In
particolare, per quanto riguarda gli strumenti tecnici, è palese che nelle
ipotesi del Corpus juris e del Libro verde, trattandosi di un’impegnativa
tutela di beni comunitari, i progetti hanno un significato debole in chiave
di mera armonizzazione, e un significato forte solo nell’ottica dell’unifica-
zione normativa, e quindi sul presupposto di una riconosciuta competenza
penale europea, previa l’introduzione delle doverose modifiche del Trat-
tato e se necessario delle stesse Costituzioni nazionali.
Nel caso degli Eurodelitti, invece, l’intervento appare da un lato più
ampio ed incisivo, ma dall’altro più generico. È più ampio e incisivo, per-

(63) Si cfr. in particolare i §§ da 6 a 8 (pp. 43-77 del dattiloscritto) del Libro verde.
(64) Cfr. TIEDEMANN, Grunderfordernisse einer Regelung des Allgemeinen Teils, in
ID., (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der europäischen Union, cit., p. 5.
(65) Sulle tecniche di attuazione di un modello come gli ‘‘Eurodelitti’’ i proponenti
sono molto aperti (cfr. TIEDEMANN, Vorwort a ID. (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht in der euro-
päischen Union, cit., pp. IX-X) e si affidano sostanzialmente a strumenti ‘‘collaborativi’’ del
terzo pilastro: cfr., nel citato volume curato da Tiedemann, i contributi redatti da SATZGER,
Rechtspolitische Möglichkeiten zur Realisierung der Tatbestandsvorschläge, cit., spec. p. 86
s., e PRADEL, Wege zur Schaffung eines einheitlichen Europäischen Rechtsraums, ivi, p. 55
ss. Sull’argomento v. ora anche i rilievi di BERNARDI, Strategie per l’armonizzazione, cit., p.
31 ss. (dattiloscritto).

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ché invade e soppianta il diritto penale economico di tutti gli Stati. È più
generico, se si considera che gli Eurodelitti non si misurano (per ora?)
con collaudi di fattibilità nei vari sistemi nazionali degli Stati membri, né
sorgono da un’opera di comparazione ‘‘dal basso’’ e di maggior valore de-
mocratico, né si preoccupano degli indispensabili raccordi processuali e
ordinamentali. Si tratta, perciò, di un progetto obiettivamente lontano da
una realistica recezione a breve termine. Nessuno potrebbe seriamente
pensare, oggi, di introdurlo così com’è nel diritto degli Stati membri. Ciò
considerato, esso può solo aspirare, in un prosieguo eventuale della sua
elaborazione, a diventare un codice modello del diritto penale economico
europeo, con eventuali, ulteriori estensioni per materia (66).

6. Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria rispetto al mo-


dello integrativo (Corpus juris, ‘‘Libro verde’’) e a quello sostitutivo (‘‘Eu-
ropa-Delikte’’), della competenza penale nazionale. — Vediamo ora come
si atteggia il principio di sussidiarietà comunitaria, in relazione al princi-
pio di extrema ratio, nei progetti ora delineati.
Il principio di sussidiarietà comunitaria, come già anticipato, pre-
senta, anche rispetto al diritto penale, una capacità espansiva. Occorre
ora precisare, peraltro, che tale espansione non riguarda l’esistenza di un
diritto penale europeo di carattere generale, complessivo, ma esclusiva-
mente singoli settori.
Infatti, ragionando secondo una prospettiva di medio termine, finché
vige il criterio della definizione delle competenze delle Comunità e dell’U-
nione come esclusive o concorrenti, la stessa previsione di una futura
competenza penale non potrebbe che avere carattere limitato a materie
specifiche, e comunque funzione integrativa, e non sostitutiva delle com-
petenze nazionali.
Anche l’esistenza di ‘‘reati federali’’ o di ‘‘regole comuni’’ in materia
penale, dovrebbe rispettare quel criterio, salvo ipotizzare ‘‘beni giuridici
solo comunitari’’ da destinare in quanto tali — ma essi soltanto — alla
competenza comunitaria. Peraltro, l’idea stessa che un bene possa essere
solo comunitario e non d’interesse o rilevanza generale, universale o na-

(66) Non rappresenta, invece, un modello a sé quello che faccia leva sulla predisposi-
zione di accordi specifici per singole materie (o gruppi di norme) di volta in volta elaborate,
da attuare mediante accordi internazionali sottoscritti da tutti i paesi dell’UE. A favore di un
tale modus procedendi RIZ, Unificazione europea e presidi penalistici, in RTDPE, 2000, p.
197 ss. Questo strumento tecnico, di per sé, è utilizzabile rispetto a tutti e tre i paradigmi so-
pra delineati, ma non rappresenta un modello autonomo per il fatto che riguarda solo gli
strumenti operativi per realizzare progetti dal contenuto più variabile, e comunque ipotesi di
intervento circoscritte, da delibare di volta in volta. Una politica dei piccoli passi certo reali-
stica e percorribile da subito, che tuttavia rappresenta la rinuncia a inquadramenti più gene-
rali tali da coinvolgere maggiormente i sistemi interni, oppure tali da affiancare ai sistemi in-
terni, altri sistemi paralleli di diritto penale europeo.

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zionale, presenta limiti e difficoltà ideologici e culturali tali da dover es-


sere sottoposta a rigorosi collaudi e soprattutto a delimitazioni imprescin-
dibili. Come ipotizzare, infatti, che un bene comunitario non sia inevita-
bilmente correlato, nel ‘‘sociale’’ e nel tessuto ‘‘criminale’’, a beni non co-
munitari, e come distinguere, a quel punto, le rispettive competenze?
Salva comunque l’eccezione indicata, alla materia penale si appliche-
rebbe il principio di sussidiarietà comunitaria esattamente perché la com-
petenza europea al riguardo non potrebbe essere esclusiva ma, appunto,
concorrente.
Un diritto penale europeo (nel significato già visto: ante, § 1), po-
trebbe pertanto solo aggiungersi alle norme nazionali che appaiono insuf-
ficienti: affiancarle, se non esistono, oppure integrarle (anche ‘‘sostituen-
dole’’ materialmente) se già esistono; non potrebbe invece ricostruirle ab
origine se non nella specifica funzione comunitaria della sussidiarietà: per-
ché solo se unitaria e così costruita, ad es., la disciplina della bancarotta
societaria o del falso in bilancio appare adeguata alla tutela della concor-
renza, della trasparenza, della circolazione dei beni, dei servizi, ecc. in
prospettiva transnazionale.
Assunta questa premessa, si comprende come la politica criminale
che traspira dagli attuali progetti di penalizzazione europea conduca ne-
cessariamente a un’espansione (piccola o grande che sia) del diritto pe-
nale (nazionale), piuttosto che a una sua vera sostituzione, salvo che nei
casi dove gli Stati membri abbiano già adottato soluzioni penali ‘‘europei-
sticamente conformi’’.
È proprio in nome della sussidiarietà comunitaria, in effetti, che si
tende oggi a richiedere la nascita di un diritto penale europeo. Tutto ciò,
peraltro, opererebbe nelle materie non riservate all’Unione, fino a quando,
appunto, non si decidesse di attribuirle una qualche competenza penale
esclusiva.
Ciò significa anche che il principio di sussidiarietà comunitaria e il
principio di sussidiarietà penale (o di extrema ratio), possono benissimo
collidere, tanto più se vengono letti insieme al dovere di fedeltà comunita-
ria sopra ricordato. La scarsa tutela approntata in qualche singolo Stato
membro potrebbe giustificare un intervento sussidiario centralizzato ca-
pace di introdurre una normativa penale che, in altri Stati membri, risulta
del tutto ingiustificata rispetto al criterio penalistico di ultima ratio, per la
sufficienza della tutela civile e amministrativa. Il problema che a questo
punto si potrà porre, è se la normativa europea comune si debba applicare
anche in sede nazionale sempre, oppure solo ‘‘sussidiariamente’’, ap-
punto, quando i soggetti attivi e passivi, ovvero l’area territoriale del com-
messo reato, siano concretamente ‘‘transnazionali’’.
Volgiamo adesso lo sguardo ai due modelli più significativi d’inter-
vento penale europeo sopra ricordati: quelli del Corpus juris e del Libro
verde, da un lato, e quello degli Eurodelitti dall’altro.

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A me pare che il tema della sussidiarietà penale si atteggi in misura


differenziata rispetto ai due diversi approcci ora individuati.
Nel caso di una competenza penale europea di tipo misto, integrativa
di quella nazionale, ma orientata specificamente alla tutela di beni comu-
nitari (è tendenzialmente il modello del Corpus juris e del Libro verde, a
prescindere per il momento dagli aspetti processuali), il significato espan-
sivo delle incriminazioni è evidente, ma le linee di un’estensione europea
sembrano destinate — almeno nel corso di una prima applicazione — a
muoversi lungo una direttrice di mediazione fra le tradizioni nazionali
senza modificarne la struttura di base e l’identità interna. È un tipo di in-
tervento settoriale e mirato, come già detto. La sua stessa incidenza ri-
spetto al diritto penale interno inteso come ‘‘sistema’’ nazionale, appare
ridotta, nel senso che è possibile considerare la normativa europea come
un sistema parallelo autonomo, alla stregua dei c.d. sottosistemi della legi-
slazione penale complementare. Anche le norme ‘‘di parte generale’’, nella
misura in cui possano divergere in parte da quelle nazionali, potranno es-
sere considerate come discipline speciali per materia. Si pensi alla classica
parte generale del diritto penale finanziario italiano della legge del 1929.
Nell’ipotesi, invece, di una competenza penale europea più spiccata-
mente di tipo sostitutivo rispetto a quella nazionale (‘‘Europa-Delikte’’),
per il fatto che essa riguarda tendenzialmente beni giuridici non ‘‘euro-
pei’’, ma solo ‘‘di estensione europea’’, le potenzialità espansive della so-
stituzione sono notevoli e capaci di travolgere le identità nazionali, anche
se quel movimento è o appare circoscritto al diritto penale dell’economia
in senso lato o dell’impresa, e non è chiaro se prospetti un’armonizza-
zione interstatale basata su una competenza centrale europea in materia
penale, oppure su una ricezione da parte degli Stati del ‘‘modello’’ euro-
peo, attuata in forza di trattati internazionali o di strumenti di coopera-
zione intergovernativa propri del terzo pilastro.
In ogni modo, aggiungere singoli elementi differenziati nel quadro di
un microsistema parallelo di beni comunitari, è cosa diversa dall’intro-
durre dall’Europa corpi estranei o normazioni di natura codicistica co-
mune all’interno di sistemi nazionali unitari.
L’impatto del principio d’offensività, e di quello di sussidiarietà pe-
nale, nelle due ipotesi, è destinato a differenziarsi parecchio.
Nel caso del Corpus juris e del Libro verde (un microsistema tenden-
zialmente integrativo dei modelli nazionali), l’operazione non pare desti-
nata a scardinare le identità penalistiche dei sistemi interni e, nella misura
in cui riguarda solo beni comunitari in rapporto a condotte corrispondenti
alle incriminazioni nazionali, risulta rispettosa della sussidiarietà penale
(quanto meno ceteris paribus) e probabilmente anche della sussidiarietà
comunitaria (restando quei beni, altrimenti, privi di tutela adeguata, e

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trattandosi di interessi effettivamente sovranazionali) (67): salvo esigere


comunque, e non presumere, la positiva verifica dei test di efficienza com-
parativa che il principio di sussidiarietà comunitaria abbiamo visto impli-
care.
Nel caso degli ‘‘Europa-Delikte’’, invece, il rischio di una collisione
con entrambi i principi è molto più attuale, perché è tutto da dimostrare
che solo una disciplina penale uniforme e unificata in tema di reati ali-
mentari e della denominazione dell’origine geografica dei prodotti, in
tema di sicurezza del lavoro o di contraffazione di marchi sia necessaria
quando i relativi fatti sono commessi solo in ambito ‘‘intrastatale’’ (68).
Solo l’effettiva, concreta, transnazionalità dell’operare degli illeciti (plura-
lità di territori nazionali interessati oppure diversa nazionalità tra autore
e soggetto passivo), appare richiedere discipline comunitarie (69), anche
se non necessariamente penali, laddove la realizzazione in un solo territo-
rio nazionale di reati che offendono soggetti passivi di quella medesima
nazionalità da parte di autori connazionali non appare giustificare un in-
tervento unificante, purché siano rispettati alcuni standard minimi di tu-
tela che scongiurino la creazione di paradisi penali o punitivi comunque
eleggibili giocando sulle identità nazionali, soprattutto di enti collettivi.
È vero dunque che rispetto a certe tipologie di reati a soggetto pas-
sivo indeterminato e di naturale estensione sovranazionale non è possibile
distinguere fra le realizzazioni astratte e quelle concrete (eventualmente di
estensione solo nazionale). Ma in altri casi la situazione è differente.
A tal proposito, una disciplina europea armonizzata della responsabi-
lità penale o ‘‘da reato’’ delle persone giuridiche potrebbe persino fungere
da freno a una spinta irrazionale verso un’estensione di molteplici, singole

(67) In tale senso, espressamente, GRASSO, Prospettive di un diritto penale europeo,


in AA.VV., Diritto penale europeo, a cura di Bartone, cit., p. 3. Contra, in ordine all’idea di
extrema ratio, PRITTWITZ, Nachgeholte Prolegomena, cit., p. 798, peraltro con specifico rife-
rimento alla responsabilità penale degli enti prevista dal Corpus juris; più radicale il rigetto
di tutto il metodo del Corpus juris da parte di HASSEMER, Ein Strafrecht für Europa, cit., pp.
8-10 (del dattiloscritto): ‘‘Zu tun ist das Gegenteil dessen, was bisher getan worden ist und
immer weiter getan wird’’: una discussione aperta sul diritto penale europeo così come sta
avvenendo riguardo alla formazione di una Costituzione europea, e quindi un vasto, artico-
lato dibattito fra soggetti competenti dei vari Paesi (non da parte di elitarie commissioni) e
una primaria attenzione ai profili del processo e delle garanzie processuali, prima che alle
fattispecie incriminatrici, comunque da orientare alla Costituzione e alle garanzie.
(68) ‘‘Durchaus zweifelhaft’’ appare la disciplina degli Eurodelitti, sotto il profilo
della sussidiarietà comunitaria, a SATZGER, Rechtspolitische Möglichkeiten, cit., p. 77.
(69) L’elemento della transnazionalità è espressamente richiesto dal 7o Protocollo al
Trattato di Amsterdam, inserito nel Trattato CE come ‘‘Protocollo sull’applicazione dei prin-
cipi di sussidiarietà e di proporzionalità’’, il quale stabilisce che affinché l’azione comunita-
ria sia giustificata, il problema disciplinato deve (fra l’altro) presentare ‘‘aspetti transazionali
che non possono essere disciplinati in maniera soddisfacente mediante l’azione degli Stati
membri’’ (cfr. TIZZANO, Codice dell’Unione europea3, cit., p. 124).

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incriminazioni comunitarie, al di là delle situazioni di concreta transazio-


nalità del fenomeno criminale.
Questo non significa affatto che alcune nuove incriminazioni, come
quelle predisposte nel Progetto degli Eurodelitti, non potrebbero rappre-
sentare un progresso rispetto a taluni ordinamenti interni anche sotto il
profilo dell’offensività o dell’extrema ratio. Si tratta di un collaudo da ve-
rificare caso per caso, secondo la logica empirica e orientata alle conse-
guenze del principio di sussidiarietà comunitaria e penale.
Esattamente per queste ragioni a me pare che un progetto come
quello degli Eurodelitti, anche se così circoscritto, possa e debba essere
letto soprattutto nel quadro dei progetti di armonizzazione, anziché di
unificazione, e quindi ‘‘riportato’’ al paradigma dei codici penali modello
di settore: ciò che in effetti ha suggerito lo stesso Tiedemann (70).
Qualcosa, peraltro, va anche detto delle parti generali di questi pro-
getti di sistemi di normativa penale europea di tipo sostitutivo.
Un codice penale dell’impresa, infatti, deve integrare la modellistica
di un codice generale, non costituirne il paradigma.
Il valore paradigmatico di un tale progetto, che si propone per la sua
valenza duplice — di essere un modello per i reati d’impresa, ma anche
per i reati comuni —, ribalterebbe i paradigmi tradizionali soprattutto se
veramente la parte generale che lo accompagna rispecchiasse la parte spe-
ciale proposta (71). Si dovrebbe in tal caso affermare che si tratta di un

(70) TIEDEMANN, Vorwort, in ID. (Hrsg.), Wirtschaftsstrafrecht, cit., p. XI; e ID.,


Grunderfordernisse, cit., ibidem, p. 5. V. anche sul punto le considerazioni di BERNARDI,
Strategie per l’armonizzazione dei sistemi penali europei, dattiloscritto, cit., p. 37 ss.
(71) Ciò che afferma, in effetti, sempre TIEDEMANN, Vorwort, cit., p. IX; ID., Grun-
derfordernisse, cit., pp. 11, 19. Nell’impostazione di Tiedemann, in effetti, mi pare che si rin-
venga l’idea di una ‘‘parte generale’’ nel significato ancora tradizionale: nel senso che egli da
sempre (TIEDEMANN, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht, Mohr, Tübingen, 1969,
passim) ribadisce l’esigenza di pensare le regole di parte generale tenendo conto delle pecu-
liarità del diritto penale complementare, o comunque di fattispecie costruite secondo certe
tecniche e a tutela di certi beni propri tradizionalmente della legislazione speciale. E questa
sua indicazione lungimirante ha poi guidato sentieri di ricerca esemplari e coerenti, nella
successiva produzione di Tiedemann, in controtendenza rispetto al conformismo dogmatico
tedesco concentrato sui soliti delitti naturali come paradigma prevalente delle costruzioni si-
stematiche generalizzanti. Tuttavia, il concetto stesso di parte generale rimane anche in Tie-
demann una categoria classica, nel senso che essa dovrebbe restare ‘‘unitaria’’, uno stru-
mento così generale e astratto da applicarsi sia al diritto penale classico e sia al diritto post-
moderno. È su questo passaggio che mi trovo in disaccordo: a mio avviso, come ho chiarito
in altre occasioni (specialmente in Teoria del reato, voce, cit.), occorre differenziare i para-
digmi, prospettando, accanto a regole generali in senso classico, regole specifiche esse stesse
‘‘generali’’ solo rispetto a gruppi ben individuati e caratterizzati di materie. È questa, esatta-
mente, la logica dei sottosistemi, o comunque della differenziazione del sistema. Il tema è di
grande interesse anche politico, per il rischio che si costruiscano parti generali troppo orien-
tate a soluzioni pensate per poche ipotesi, tali da perdere quell’alone di garanzia apolitica di
razionalità filosofica o di uguaglianza che le parti generali classiche miravano ad assicurare

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microsistema penale europeo autonomo il quale, partendo dai reati di im-


presa, anziché dai c.d. delitti naturali, assume i primi come paradigma,
ma è così abile da sapersi adattare anche al diritto penale classico (e an-
che per questo non prevede la responsabilità penale degli enti) ribaltando
una tradizione millenaria: una tradizione che, si noti bene, ha limiti evi-
denti, e tuttavia non può essere sostituita, ma piuttosto affiancata da mo-
delli differenziati.
In realtà, è accaduto questo: le parti generali prospettate rispecchiano
orientamenti presenti nelle parti generali dei codici penali degli (o di
buona parte degli) Stati dei redattori dei progetti (e ciò vale anche per il
Corpus juris), anche se quelle sintesi sono poi state ‘‘applicate’’ a un nu-
mero circoscritto di reati economici. Non c’è stato, in realtà, nessun ribal-
tamento, ma neppure è stato raggiunto, a mio avviso, l’obiettivo di co-
struire una parte generale di settore, una parte generale veramente ad
hoc. Ciò che peraltro indebolisce la forza d’attrazione e la valutazione
complessiva dell’impianto.
Piuttosto, occorre rilevare — approssimandoci alle valutazioni con-
clusive di questa analisi — che il diverso contenuto di una proposta di
tipo più ‘‘sostitutivo’’ rispetto alle normative nazionali (come gli Eurode-
litti), a fronte di un progetto di tipo più ‘‘integrativo’’ e ‘‘parallelo’’ (come
il Corpus juris o il Libro verde 2001), condiziona davvero la scelta degli
strumenti tecnici di attuazione. Quando un progetto si affida alla rece-
zione spontanea degli Stati membri, oppure a forme più morbide di coo-
perazione europea, teme di meno la prova della sussidiarietà comunitaria.
Se gli Stati si adegueranno, non avranno di che dolersi. Se non lo faranno,
contestando (nei rispettivi Parlamenti nazionali) per es. una decisione-
quadro sotto il profilo della sussidiarietà comunitaria, la prova del man-
cato rispetto della sussidiarietà da parte della decisione comunitaria potrà
essere assai più controversa di quanto ciò già non accada nel caso di un
regolamento: atteso che le decisioni-quadro, come le direttive, vincolano
solo quanto al risultato, ma non rispetto alla forma e ai mezzi (art. 34,
comma 2, lett. b), TUE), oltre a non avere efficacia diretta.
È vero che l’art. 5 del Trattato CE non rimane circoscritto solo ai re-

(a difesa di tali costruzioni classiche, da ultimo, WEIGEND, Zur Frage eines ‘‘internationalen’’
Allgemeinen Teils, in Fest. Roxin, cit., spec. p. 1380 ss.; diversa posizione in VOGEL, Wege
zu europäisch-einheitlichen Regelungen im Allgemeinen Teil des Strafrechts, cit., p. 331 ss.).
Penso peraltro che le parti generali siano da sempre state riempite di scelte politiche diffe-
renziate: ciò è accaduto ogni qual volta all’interno di una categoria (tentativo, concorso di
persone, causalità, errore, ecc.) si sono confrontate diverse letture che, nella prassi, hanno
trovato tutte applicazione: magari alcune a certi tipi di reati e di autori e altre ad altri tipi di
reati e autori. Ciò sia detto non per legittimare l’esistente, ma per evidenziare da un lato l’ap-
parente imparzialità di varie soluzioni generali e la loro inevitabile manipolabilità in con-
creto, e dall’altro la stessa opportunità di soluzioni più chiare ed esplicite nel loro orienta-
mento politico.

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golamenti e alle direttive, atteso che la Corte di giustizia delle Comunità


europee, oltre a esercitare un controllo di legittimità sugli atti adottati
congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, sugli atti del
Consiglio, della Commissione e della BCE che non siano raccomandazioni
o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo destinati a produrre ef-
fetti giuridici nei confronti dei terzi (art. 230, già art. 173, del Trattato
CE), è altresì competente a pronunciarsi in via pregiudiziale, ai sensi del-
l’art. 35 (già art. K.7) del Trattato sull’Unione europea, sulla validità o
l’interpretazione delle decisioni-quadro e delle decisioni, sull’interpreta-
zione delle convenzioni stabilite ai sensi del titolo VI (sulla cooperazione
di polizia e giudiziaria in materia penale) del Trattato dell’Unione e sulla
validità e sull’interpretazione delle misure di applicazione delle predette
convenzioni. È vero ancora che sempre la CGCE è competente (art. 35,
comma 6, ex art. K.7, TUE) a riesaminare la legittimità delle decisioni-
quadro e delle decisioni nei ricorsi proposti da uno Stato membro o dalla
Commissione per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, viola-
zione del trattato sull’Unione (che all’art. 2, ex art. B, ultimo comma, ri-
chiama il principio di sussidiarietà e lo stesso art. 5 del Trattato CE).
Nondimeno, è palese che quanto più l’azione comunitaria si basa su
procedure di cooperazione intergovernativa, anziché su atti di tipo regola-
mentare o su direttive dettagliate, le possibilità di un controllo giurisdizio-
nale effettivo sulla sussidiarietà, in una materia come quella penale comu-
nitaria, appaiono più affievolite di quanto già non risultino comunque. Da
un lato abbiamo infatti norme nazionali che con relativa libertà mirano a
raggiungere scopi prefissati: basta che le norme nazionali non ci siano
(per scelta anticomunitaria), e sarà tutto da vedere se si possa giungere a
una procedura di infrazione ex art. 226 ss. Trattato CE (72), e in tal caso
sarà più facilmente contestabile la genericità di un vincolo all’introdu-
zione di norme penali ritenute non rispettose della sussidiarietà; dall’altro,
invece, avremmo vere norme comunitarie, che dovrebbero rispettare pre-
viamente quel requisito di legittimità per così dire ‘‘costituzionale’’.
Questo spiega anche la diversa sensibilità, rispetto al tema della sus-
sidiarietà, emergente nella disciplina del Corpus juris, la cui ‘‘naturale’’
forma tecnica di attuazione appare, riletta oggi attraverso la proposta di
introduzione di un art. 280-bis nel Trattato CE contenuta nel Libro verde
della Commissione del dicembre 2001, quella di un atto regolamentare
del Consiglio, previo il doveroso riconoscimento di una competenza pe-
nale della CE, con il coinvolgimento vincolante del Parlamento europeo
nelle forme dell’attuale art. 251 del Trattato CE.

(72) Sulla questione dell’esperibilità di tali procedure di infrazione nei confronti de-
gli strumenti del terzo pilastro, cfr. BERNARDI, Strategie per l’armonizzazione, cit., p. 33 ss.
(del dattiloscritto).

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Il Corpus juris, infatti, nella seconda edizione (Firenze, 2000) con-


templa un art. 35 intitolato alla complementarità della legislazione nazio-
nale rispetto a quella comunitaria proposta.
Nel commento introduttivo si spiega che se la rubrica dell’art. 35 è
‘‘Complementary of national law with regard to the Corpus juris’’ e il te-
sto della norma prevede che le regole ‘‘generali’’ (sostanziali e proces-
suali) di quel codice (art. da 9 a 34) siano integrate (‘‘supplemented’’)
dalle norme nazionali, se necessario, e quelle di diritto penale sostanziale
(art. da 9 a 16) siano integrabili solo se in senso favorevole all’accusato
(comma 2) (73), ciò significa soltanto che trattandosi di una disciplina eu-
ropea ‘‘generale’’ molto parziale, è ovvio che essa deve essere integrata
dai diritti nazionali. Tuttavia, resta fermo che è il diritto europeo a essere
sussidiario a quello nazionale (74). La sussidiarietà comunitaria è qui con-
cretamente impiegata, come già anticipato, in funzione estensiva della pu-
nibilità, introducendosi norme nuove che vengono ad aggiungersi a quelle
nazionali. Poiché tuttavia un sistema penale europeo nasce sui pilastri dei
sistemi nazionali, senza i quali non è neppure pensabile, esso continua a
mutuare da essi le discipline integrative di cui ancora è carente: l’unifica-
zione settoriale può essere apparentemente facile, ma rimane sempre tri-
butaria di troppe e diverse regole nazionali.
La disciplina dell’art. 35 presenta problemi applicativi notevoli, an-
che se minori rispetto alla versione del 1997, da altri già segnalati (75) e
sui quali non intendo ora soffermarmi. È comunque degna di nota l’as-
senza di una disposizione del genere in un progetto come quello sugli Eu-
rodelitti, che per questo deve essere letto come più orientato a obiettivi di
armonizzazione, anziché di unificazione (76).
L’opzione per discipline di parte generale unificanti davvero minime,
peraltro, sembra probabilmente la scelta più consona al principio di sussi-

(73) Cfr. il testo dell’art. 35 in DELMAS-MARTY/VERVAELE, The Implementation, vol.


I, cit., p. 210 s.
(74) Cfr. DELMAS-MARTY, Synthesis, in DELMAS-MARTY/VERVAELE, The Implementa-
tion, vol. I, cit., p. 101.
(75) In particolare, FRONZA, Tra unificazione e complementarietà: appunti sull’art.
35 del Corpus juris, comunicazione al Convegno di Trento, 24 novembre 2000, su ‘‘Il Cor-
pus juris 2000: nuova formulazione e prospettive di attuazione’’, con gli opportuni richiami
al dibattito sulla precedente versione del 1997.
(76) Una valutazione parzialmente differente in BERNARDI, Strategie per l’armonizza-
zione, cit., p. 39 s. (del dattiloscritto), secondo il quale proprio una norma come l’art. 35 del
Corpus juris illustrerebbe come tale progetto si collochi pur sempre nel quadro delle inizia-
tive per l’armonizzazione. Certo, è vero che esso non intende ‘‘unificare’’ le parti generali dei
codici penali europei, ma la parte speciale del Corpus juris e quella processuale sarebbero,
nei limiti della rispettiva competenza, esempi di autentica unificazione settoriale. Anche lo
strumento della direttiva, originariamente indicato dai progettisti, appare ora ‘‘superato’’
dalla proposta del nuovo art. 280-bis del Trattato CE contenuta nel Libro verde, che prevede
il regolamento.

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diarietà comunitaria, e quella meno attaccabile anche in termini di pro-


porzione, fino alla sperimentazione dell’ineffettività di un’unificazione mi-
rata di parte speciale; ma soprattutto sembra oggi, alle istituzioni comuni-
tarie, la soluzione meno complicata a fronte della teorica possibilità (sug-
gerita già dalla disciplina processuale del Corpus juris, e ripresa oggi dal
Libro verde della Commissione) che il Procuratore europeo si scelga l’or-
dinamento nazionale più consono (77). Ciò che peraltro presenta altri e
seri problemi, a cominciare dal rispetto dei principi del giudice ‘‘natura-
le’’, e della conoscibilità della legge penale (di parte generale degli altri or-
dinamenti nazionali eleggibili a piacere ex post dalla pubblica accusa), e
costituisce anche a livello europeo una testimonianza del permanente ‘‘do-
minio’’ del processo sul diritto penale, per la possibilità che questioni di
sussidiarietà della normativa comunitaria siano così aggirate ed eluse me-
diante meccanismi processuali.
Abbiamo visto che la sussidiarietà comunitaria presenta già oggi — là
dove è giustiziabile — potenzialità tecniche di grande rilevanza, che po-
trebbero essere di notevole ausilio per implementare e concretizzare lo
stesso principio di sussidiarietà penale, o di extrema ratio, posto che tale
principio è tuttora ‘‘addomesticato’’, sul piano operativo, dalle difficoltà
di misurazione preventiva dell’efficacia delle leggi e dei provvedimenti
extrapenali (78), e dai limiti politici di controllo delle Corti costituzionali,
vincolate al rispetto della discrezionalità parlamentare oltre il limite del-
l’irragionevolezza, o della manifesta sproporzione (79): il controllo delle
Corti al di sotto di quel limite è dunque visto come un attacco allo stesso

(77) Anche nel Libro verde dell’11 dicembre 2001 manca una disciplina di raccordo
fra regole europee comuni e discipline nazionali generali, ciò che peraltro dipende dalla
scelta operata dalla Commissione, di rinunciare a una formulazione di norme di parte gene-
rale (salvo che in materia sanzionatoria e di prescrizione), in vista del rinvio diretto e inte-
grale alle diverse discipline nazionali, delle quali terrà conto la Procura europea nella stessa
scelta dell’autorità giudiziaria da adire.
(78) Ricordo ancora i rilievi di ANGIONI, Contenuto e funzioni, cit., pp. 220-223, che
proprio per tali ragioni riteneva più operativo il principio di proporzione rispetto a quello di
sussidiarietà (ivi, p. 223).
(79) Di recente, su tali aspetti, nella comparazione fra Corte costituzionale italiana e
tedesca, BELFIORE, Giurisprudenza costituzionale e materia penale, cit., p. 41 ss. Nell’ambito
di tale ordine di idee mi sono espresso, ancora, in DONINI, L’art. 129 del progetto di revi-
sione costituzionale, cit., p. 105 s. Devo peraltro precisare che le riserve verso un allarga-
mento dei poteri di intervento della Corte in un senso più ‘‘politico’’ discendeva e discende
dall’assenza di criteri per rendere ‘‘operativo’’ il principio di ultima ratio, esattamente come
avviene per tutti i principi che sono di (prevalente) indirizzo politico. Tuttavia — e qui ri-
siede il nucleo del problema — noi siamo chiamati a cercare quei criteri (altrimenti ‘‘prescri-
viamo’’ una politica criminale della quale non sappiamo valutare la razionalità o indichiamo
parametri troppo soggettivi per valutarla), e l’esempio europeo della sussidiarietà comunita-
ria, a mio avviso, costituisce un terreno importante di discussione e di verifica nel senso indi-
cato.

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principio democratico della separazione dei poteri (80), ma da ciò di-


scende anche la sensazione di un eccesso di margini soggettivi di scelte
politiche, e soprattutto l’effetto pratico che all’assenza di elaborazione di
criteri di una politica criminale razionale da parte della dottrina, segue il
suo triste destino di criticare sempre ex post l’irrazionalità di scelte legi-
slative che la dottrina stessa non sa proporre e costruire (o rendere con-
trollabili) ex ante.
È dunque giunto il tempo, a mio avviso, che la scienza penale si
renda compartecipe non delle scelte legislative che non condivide, eviden-
temente, ma della costruzione e della progettazione operativa delle linee
di una politica criminale razionale, maggiormente sottoposta a verifiche
oggettive, anziché limitarsi a posteriori a censurare sul piano ermeneutico
quelle scelte che tuttavia non conoscevano a priori nessun definito e di-
scusso vincolo di razionalità, per l’assenza di modelli e di parametri di ri-
ferimento ex ante, oltre la genericità di qualche principio ‘‘di indirizzo po-
litico’’.
Solo così i principi di politica criminale ‘‘di rango costituzionale’’ po-
tranno diventare anch’essi, almeno in qualche misura, principi dimostra-
tivi, come tali utilizzabili in un giudizio di costituzionalità.

7. Sussidiarietà penale e antigiuridicità generale. — Discutere della


sussidiarietà comunitaria, come si è visto, può fare molto bene al penali-
sta, e abituarlo a una cultura non semplicemente più ‘‘efficientista’’ (ciò
che reca con sé anche molti effetti negativi), ma più orientata alle conse-
guenze, meno idealista o autopoietica. A un’autopoiesi acritica appartiene
la scontata disponibilità a creare incriminazioni europee là dove già esi-
stano corrispondenti norme nazionali: la sussidiarietà penale, qui, non
sembrerebbe avere più bisogno di prove, perché la semplice esistenza di
incriminazioni nazionali ‘‘parallele’’ dimostrerebbe ad abundatiam la ne-
cessità dello strumento penalistico sotto il profilo dell’extrema ratio. Se-
nonché, è proprio l’originaria violazione della sussidiarietà penale a livello
nazionale che rischia di compromettere anche la prova e il rispetto della
sussidiarietà comunitaria. Per tale ragione, a me pare indispensabile che la
nascita di un ‘‘nuovo sistema penale’’, come quello europeo, non avvenga
affatto dando per acquisito l’esistente come il migliore dei mondi possi-
bili, ma al contrario interrogandosi di nuovo e dalle fondamenta sul ri-
spetto delle basi di legittimazione del diritto criminale, ma anche degli ob-
blighi di tutela giuridica dei beni fondamentali.

(80) Per es. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza, cit., p. 370; FIANDACA, La legalità
penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale, in Foro it., 2000, V, c. 142; GUAZ-
ZALOCA-INSOLERA-SFRAPPINI-TASSI, Controllo di ragionevolezza, cit., p. 46 s., via via con altri
richiami. Istruttivo, al riguardo, anche il dibattito sull’art. 129 del Progetto di revisione co-
stituzionale della Bicamerale.

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Il penalista sa molto bene che un sistema di incriminazioni si prepara


al meglio costruendo prima il diritto extrapenale, la cui violazione realizza
quell’ ‘‘antigiuridicità’’ all’interno della quale occorre selezionare le forme
di aggressione più gravi e pericolose che vanno tipizzate secondo i prin-
cipi di extrema ratio, riserva di legge e sufficiente determinatezza.
Mentre l’analisi del reato, condotta dal giudice e insegnata nell’uni-
versità, procede dal fatto tipico e solo in seguito si interroga sull’esistenza
o meno di norme dell’intero ordinamento che legittimino il comporta-
mento conforme al tipo, la costruzione legislativa delle incriminazioni do-
vrebbe obbedire a un modus operandi inverso: prima occorre individuare
una previa e possibilmente consolidata antigiuridicità ‘‘generale’’ (civile o
amministrativa) dei fatti che si ritiene di incriminare, e soltanto in seguito
si può ritagliare dal novero di quei comportamenti vietati (supponendo, si
capisce, che non siano per l’appunto scriminati in concreto da una qual-
che causa di giustificazione) quelli che necessitano di una sanzione penale
la quale venga in sussidio rispetto agli strumenti preventivi e repressivi
extrapenali, rivelatisi insufficienti (81).
Sistematica penale e scienza della legislazione, pertanto, dovrebbero
seguire procedimenti diversi, anche se comunicanti. Accade invece che la
concreta legislazione penale proceda dai fatti tipici già esistenti (le incri-
minazioni nazionali ‘‘simili’’) e li estenda per analogia: per es. se esiste già
un certo reato di appropriazione indebita, è logico ampliarlo (più raffi-
nato) alle infedeltà patrimoniali nell’impresa, se esiste un reato di corru-
zione dei pubblici ufficiali, è naturale estenderlo alle forme di corruzione
privata, ecc. Gli stessi modelli meno diffusi, ma in apparenza più ‘‘com-
prensivi’’ di una tutela allargata, come le ipotesi dei reati associativi, di-
ventano così prodotti di esportazione. Ovviamente, poi, se esiste una certa

(81) È l’aspetto politico-criminale più bello e lungimirante contenuto nelle vecchie


concezioni ulteriormente sanzionatorie del diritto penale. L’espressione ‘‘classica’’ più intel-
ligente di quelle teorie, nella nostra letteratura, a me pare sempre quella di GRISPIGNI, Il ca-
rattere sanzionatorio del diritto criminale, in questa Rivista, 1920, I, p. 225 ss. Quella con-
temporanea che più ne esprime il contenuto liberale (anche se vale, a mio avviso, come indi-
cazione di politica del diritto e di scienza della legislazione, non come teoria del diritto vi-
gente), si può trovare in LÜDERSSEN, Die Krise des staatlichen Strafanspruchs (1992), in ID.,
Abschaffen des Strafens?, cit., p. 50 ss. Infatti, nella misura in cui il delitto tentato e i reati di
pericolo astratto non siano già illeciti extrapenali sanzionati, è chiaro che le concezioni ulte-
riormente sanzionatorie soffrono un limite insuperato nella spiegazione del diritto vigente
(rinvio sul punto a DONINI, voce Teoria del reato, cit., p. 244). Tuttavia, l’incriminazione di
quelle forme anticipate non significa che i comportamenti siano ‘‘giustificati’’ per gli altri
rami dell’ordinamento: anche un reato di pericolo astratto è ‘‘inosservante’’ sul piano civile
rispetto alla norma-precetto che l’ordinamento, in diritto civile, va normalmente a munire di
sanzione configurando un illecito solo in presenza del danno, oppure della sottrazione, o del
pericolo attuale di essa che consente quell’impedibilità la quale peraltro non rappresenta, a
mio avviso, una specifica ‘‘sanzione’’ (e tanto meno una sanzione civile o amministrativa).

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ipotesi di frode nazionale, pare logico assimilarla (almeno per legge, se


non in via interpretativa) alle frodi comunitarie.
Questa progrediente ‘‘analogia costruttiva’’, caratteristica della pena-
lità, procede dunque per accrescimento. È un esito inevitabile del diritto
penale del fatto e del divieto di interpretazione analogica, come ho cercato
di dimostrare in altre occasioni. Senonché, in tal modo, le stesse inflazioni
penali nazionali sembrano destinate a invadere l’Europa penale unita. Una
grande operazione di analogia politico-criminale ci sovrasta, dunque, gra-
zie alle operose mani di molti tecnici d’avanguardia.
Perfino il processo di ‘‘mera armonizzazione’’ dei reati soprattutto
(ma non soltanto) economici già presenti nei diversi sistemi e a tutela di
beni non strettamente comunitari, ma solo ‘‘di estensione europea’’ (v.
ante, § 6), subisce la tentazione di estendere, in nome dell’efficienza sim-
bolica, le tecniche di tutela più anticipate (tentativo di accordo, conspi-
racy, colpa grave come sostitutivo del dolo eventuale nei reati di impresa,
attrazione della culpa iuris nel precetto penale e dunque delle regole nor-
mative extrapenali ignorate nel giudizio di colpevolezza, ecc.) (82). È la
logica del ‘‘maximum standard’’ ben noto alla comparazione comunita-
ria (83): applicata al penale, essa significa che promette maggior tutela
l’incriminazione più ampia e per questo (sic) avanzata.
Poiché in un movimento di questo tipo si realizzerebbe l’ideale oppo-
sto a quello di extrema ratio, esiste il rischio — per rispondere a un’altra
delle domande formulate all’inizio di questo intervento (ante, § 0) — che
la violazione tradizionale (o la mancata ‘‘verifica’’) della sussidiarietà pe-
nale si trasformi in un annacquamento della verifica della sussidiarietà co-
munitaria.
La cultura penalistica, perciò, può arricchirsi di quella comunitaria in
tema di sussidiarietà, ma quest’ultima rischia a sua volta di rimanere im-
brigliata nel predominio della politica della prevenzione ‘‘mediante’’ le
norme penali, anziché mediante strumenti dotati di sapere e di verifiche
empirici, prigioniera della paura che ispira questa politica tradizionale e
tanto ricca di consenso ‘‘democratico’’ quanto povera di informazioni de-
mocraticamente controllabili.
L’incontro fra queste diverse culture, perciò, è foriero di trends con-
trastanti, tutti possibili, e mi pare importante segnalare l’urgenza che pro-
prio la scienza, ma soprattutto la prassi legislativa penale si riappropri de-

(82) Un interessante, ma anche preoccupante, quadro dell’incombere di tali logiche,


a livello di una possibile parte generale del diritto ‘‘punitivo’’ europeo, in PALIERO, La fab-
brica del Golem, cit.
(83) Richiami essenziali in TORIELLO, I principi generali del diritto comunitario. Il
ruolo della comparazione, Giuffrè, Milano, 2000, spec. p. 119 ss., SOMMA, L’uso giurispru-
denziale della comparazione nel diritto interno e comunitario, Giuffrè, Milano, 2001, spec.
p. 208 ss.

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gli strumenti tecnici — test qualitativi e quantitativi, come si è visto —


che consentano ai principi costituzionali della penalità di diventare final-
mente operativi e meno declamatori.

8. La Costituzione europea e il processo penale come basi episte-


mologiche e momenti istituzionali e decisori del diritto: vero banco di
prova della politica penale comunitaria. — Attualmente, gli ordinamenti
nazionali conoscono un nuovo tipo di ‘‘antigiuridicità generale’’ della
quale sono permeati: ed è quell’antigiuridicità specificamente comunitaria
(civile, commerciale, giuslavoristica, amministrativa, tributaria, ecc.) che
riempie di sé i sistemi nazionali in virtù dell’ingresso di un profluvio inar-
restabile di normative europee, la cui politica è decisa a Bruxelles e a Stra-
sburgo.
Quando gli illeciti sono normativamente intessuti di una rete di mol-
teplici antigiuridicità, è poi inevitabile che l’individuazione delle forme
più gravi di violazione ai precetti che compongono le loro norme prima-
rie, affinché ne venga selezionata la sanzione penale, risulti una tipicità
composita: nazionale e comunitaria. Quando l’antigiuridicità è europea,
come può il fatto tipico restare solo nazionale?
Orbene, questo dato, che è di scienza della legislazione, prospetta
scenari di una nuova sistematica de lege ferenda. I nuovi ‘‘tipi’’ del diritto
penale europeo stanno nascendo sulle basi di una larga estensione di pre-
cetti, i quali vanno a configurare illeciti extrapenali già oggi comunitari, o
di origine comunitaria (84).
Dato che si assiste alla nascita di un sistema, il penalista avverte su-
bito l’esigenza di stabilirne le coordinate fondamentali: i principi costitu-
zionali. Il tema della sussidiarietà, del quale ci siamo occupati, costituisce
un’occasione preziosa per discutere l’argomento, ormai ineludibile, di una
Costituzione penale per l’Europa, prima di definire i dettagli di questa o
di quella incriminazione. È ovvio, infatti, che se ci sarà mai qualcosa di
‘‘scientifico’’ nel diritto penale europeo, esso sarà tale solo se si saranno
discussi democraticamente (almeno fra gli esperti e gli operatori: ciò che
non è affatto avvenuto) i fondamenti epistemologici della disciplina, ai
quali appartengono, innanzi tutto, i suoi principi costituzionali. Senza di
essi, infatti, ogni politica criminale europea sarebbe possibile.
Per l’importanza poi che l’argomento riveste rispetto al diritto penale
in action, l’altro tema del quale la sussidiarietà comunitaria ci ha indicato
l’urgenza, è rappresentato dal processo penale, dalle riforme processuali

(84) In tal senso si parla già di diritto penale europeo in senso lato. Per una precisa
analisi dell’influenza del diritto comunitario e dell’esigenza di interpretazioni conformi al di-
ritto europeo, sul terreno del diritto penale alimentare, della concorrenza e delle frodi, dal
punto di vista dell’esperienza tedesca, cfr. HECKER, Strafbare Produktwerbung im Lichte des
Gemeinschaftsrechts, Mohr Siebeck, Tübingen, 2001, p. 344 ss. e passim.

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comunitarie. Non arriverei forse a sostenere, come ritenuto di recente da


Hassemer, che il diritto processuale sia soprattutto (e più del diritto pe-
nale) un diritto costituzionale applicato, che intorno a esso sia più facile
una mediazione attraverso il metodo comparato di quanto non avvenga
col diritto penale sostanziale, o che di esso si debba solo o soprattutto di-
scutere, piuttosto che dei reati che si penserebbe di introdurre a livello co-
munitario (85). È certa invece la possibilità di un nuovo dominio del pro-
cesso sui diritti e sulle garanzie, è attuale l’incombere del rischio di un ec-
cesso di strumenti preventivi preprocessuali o procedimentali o di nuove
manipolazioni dei diritti nazionali attraverso flessibili competenze e agili
scambi di sistemi probatori (v. sempre quanto già accennato a proposito
del Libro verde del dicembre 2001). Di tutt’altro tipo di ‘‘sussidiarietà’’,
infatti, dovremmo discutere, se gli strumenti procedurali consentissero di
aggirare il rispetto dei principi di garanzia sostanziale, perché se ne pos-
sono scegliere a talento almeno nell’ambito di 15 tipi diversi, e presto fra
molti di più nel futuro di un’Unione allargata.
MASSIMO DONINI
Università di Modena
e Reggio Emilia

(85) HASSEMER, Ein Strafrecht für Europa, cit., pp. 9-10 (del dattiloscritto).

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PARTECIPAZIONE ALL’ORGANIZZAZIONE CRIMINALE
E STANDARDS INTERNAZIONALI D’INCRIMINAZIONE
LA PROPOSTA DEL PROGETTO COMUNE EUROPEO
DI CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA (*)

SOMMARIO: 1. Organizzazioni criminali transnazionali ed esigenze di incriminazione metana-


zionale. — 2. Lo standard di incriminazione su scala mondiale: la Convenzione ONU
di Palermo sul crimine organizzato transnazionale. — 3. Quale standard di incrimina-
zione a livello europeo? - 3.1. L’azione comune dell’Unione europea del 1998. -
3.1.1. Il retroterra sostanziale della misura: le manifestazioni in ambito europeo della
criminalità organizzata transnazionale. - 3.1.2. L’esigenza di armonizzare le differen-
ziate normative degli Stati membri. - 3.1.3. La ragionevolezza politico-criminale della
misura ed il suo carattere compromissorio sul piano delle scelte di contenuto giuri-
dico. - 3.2. Le altre indicazioni di matrice accademica: corpus iuris ed eurodelitti eco-
nomici. — 4. La proposta del Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità
organizzata. - 4.1. La punibilità della partecipazione ad un’organizzazione criminale.
- 4.2. Le ragioni a fondamento delle scelte prospettate. - 4.3. Le principali osserva-
zioni alla proposta e le ragioni della sua formulazione finale. — 5. Le prospettive di
adozione a livello europeo della proposta.

1. Organizzazioni criminali transnazionali ed esigenze di incrimina-


zione metanazionale.
Considerare la criminalità transnazionale come tema nevralgico per il
diritto penale moderno è ormai scelta comune non solo a numerose ricer-
che, ma anche all’azione politica delle principali organizzazioni interna-
zionali (1). Una situazione in movimento che richiede una messa a fuoco
dei principali ambiti in cui cominciano ad emergere nuclei di diritto pe-
nale non limitati alla tradizionale dimensione nazionale, quale risposta al-

(*) Testo, rivisto e completato dei riferimenti, della relazione presentata al convegno
‘‘Criminalità transnazionale tra esperienze europee e risposte penali globali’’ (Centro F. Car-
rara, Lucca 24-25 maggio 2002).
(1) Esempi di recenti iniziative globali in GODSON-WILLIAMS, Strenghtening Coopera-
tion against Transnational Crime: A new security Imperative, in Combating Transnational
Crime. Concepts, Activities and Responses, Williams-Vlassis (eds.), London 2001, p. 332.
Per le iniziative delle Nazioni Unite sul terreno, specifico ma di grande importanza, del ter-
rorismo, cfr. CORELL, Possibilities and Limitation of International Sanctions Against Terro-
rism, in Countering Terrorism through International Cooperation, Schmid et al. (eds.), Mi-
lano 2001, p. 245 s.

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l’esigenza di adeguarsi alla più ampia scala di grandezza connessa ad al-


cuni fra i più seri fenomeni criminali contemporanei.
In particolare, le possibili scelte incriminatrici a livello metanazionale
in relazione alle organizzazioni criminali configurano un terreno privile-
giato tanto di verifica, quanto di proposta per un minimo di tutela co-
mune al diritto penale moderno (2). Innegabile è ormai l’allargamento
dell’azione della criminalità contemporanea al di là delle barriere formate
da lingue, culture, religioni, popoli, che sono tradizionalmente segnate dai
confini nazionali. Un processo nel quale un ruolo predominante hanno as-
sunto le organizzazioni criminali, che sono meglio attrezzate per gestire la
complessità dei traffici illeciti su scala internazionale (3). D’altra parte, le
scelte di politica criminale in materia di reati associativi rappresentano da
tempo un settore cruciale per verificare il rapporto autorità-libertà nei si-
stemi penali nazionali: una problematica che, se proiettata in una dimen-
sione sovranazionale, può solo accrescersi di significato.
Analoghi motivi di interesse hanno indotto a scegliere proprio l’orga-

(2) Ne rappresenta un indice significativo la scelta compiuta dall’Association Inter-


national de droit pénal per il suo più recente Congresso (Budapest, 5-11 settembre 1999),
per la prima volta dedicato ad un tema unitario, considerato nei suoi profili di diritto sostan-
ziale, processuale ed internazionale: ‘‘les systèmes pénaux à l’épreuve du crime organisé’’ e
nella ancor più incisiva versione tedesca ‘‘Die organisierte Kriminalität als Prüfstein des
Strafrechtssystems’’. Ad apertura del primo rapporto generale si segnala il rilievo della que-
stione: ‘‘La lotta contro il fenomeno, difficilmente definibile, della criminalità organizzata,
può cambiare il diritto penale in una misura che non ha precedenti nella nostra storia. (...)
Siamo forse di fronte ad uno spartiacque storico’’ (così WEIGEND, Generalbericht, in Lande-
sgruppe Österreich der AIDP, Vorbereitung des XVI internationalen Strafrechtskongresses,
Wien, 1999, pp. 180, 181). Si spiega così il dato che la riflessione sui caratteri del ‘‘diritto
penale moderno’’ ha assunto proprio l’intervento in tema di criminalità organizzata come
esempio privilegiato: HASSEMER, Kennzeichen und Krisen des modernen Strafrechts, in Zeit-
schrift für Rechtspolitik, 1992, p. 381. In Italia, ad esempio, FIANDACA-MUSCO, Perdita di le-
gittimazione del diritto penale?, in questa Rivista, 1994, p. 28 s.; MOCCIA, Aspetti involutivi
del sistema penale, in CANESTRARI (cur.), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, To-
rino, 1998, p. 268. In Spagna, cfr. SILVA SÁNCHEZ, La expansión del Derecho penal, Madrid,
1999, pp. 22, 70, il quale collega esattamente la tematica della criminalità organizzata alla
globalizzazione delle istanze di tutela attualmente affidate al diritto penale. I rapporti fra cri-
minalità transnazionale e organizzazioni criminali non sono d’altra parte confinati alla di-
scussione accademica: sulla conseguente esigenza di una ‘‘nuova dimensione della coopera-
zione giudiziaria’’ e sugli impegnativi compiti che da essa derivano a livello di Ministero
della Giustizia cfr. la presentazione di G. LATTANZI al fascicolo tematico dei Documenti giu-
stizia, n. 6, 2000, p. 1037 s.
(3) Sul fenomeno, le sue cause strutturali e le sue conseguenze sugli assetti interna-
zionali vi è una crescente attenzione di studio: cfr. in specie WILLIAMS, Transnational Crimi-
nal Organisations and International Security (1994), in Transnational Crime, Passas (ed.),
Aldershot, 1999, p. 31 s.; WANDA DE LEMOS, La transnationalisation du champ pénal: réfle-
xions sur les mutations du crime et du contrôle, in Droit et société, 1997, p. 61 s.; MUELLER,
Transnational Crime: Defintions and Concepts, in Combating Transnational Crime, cit. nt.
1, p. 13 s.; FIJNAUT, Transnational Crime and the Role of the United Nations in its Contain-
ment through international Cooperation, in Eur. J. Crime Cr. L. Cr. J., 2000, p. 119.

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nizzazione criminale fra i modelli di incriminazione sovranazionale, che


sono stati proposti a conclusione del ‘‘Progetto comune europeo di contra-
sto alla criminalità organizzata’’. Si tratta di una recente esperienza di ri-
cerca comparata, in cui dopo una prima analisi delle esperienze norma-
tive, teoriche ed applicative maturate in Italia, Germania e Spagna sul
tema del crimine organizzato, in una prospettiva politico-criminale è stato
messo a punto e discusso un nucleo comune a livello europeo di norme
penali in materia (4).
Il presente contributo non intende peraltro limitarsi alla proposta in
tema di organizzazione criminale formulata nel contesto della ricerca ri-
cordata. Piuttosto si cercherà di collocarla in un quadro più ampio, che
per un verso tenga conto delle altre soluzioni adottate o prospettate in
sede internazionale e per altro verso illustri la variegata situazione norma-
tiva esistente nei sistemi nazionali. Solo alla luce di tali coordinate po-
tranno poi mettersi a fuoco contenuti e motivazioni dello standard propo-
sto a livello europeo in materia di punibilità dell’organizzazione criminale.
Un cenno conclusivo dovrà infine dedicarsi alle modalità per recepire gli
standard di incriminazione in materia in atti normativi validi ed efficaci,
alla luce della base giuridica che ormai può vantare un futuro diritto pe-
nale comune in Europa.

2. Lo standard di incriminazione su scala mondiale: la Convenzione


ONU di Palermo sul crimine organizzato transnazionale.
Una prima alternativa per adottare a livello europeo uno standard di
incriminazione dell’organizzazione criminale potrebbe consistere nel rece-
pire in sede di Unione europea l’apposita previsione contenuta nella Con-
venzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale, che è
stata aperta alla firma delle parti contraenti a Palermo nel dicembre
2000 (5).

(4) I lavori sono stati raccolti in tre volumi e pubblicati dal Max-Planck-Institut für
internationales und ausländisches Strafrecht: Il crimine organizzato come fenomeno tran-
snazionale. Forme di manifestazione, prevenzione in Italia, Germania e Spagna, MILITELLO-
PAOLI-ARNOLD (a cura di), Milano-Freiburg, 2000 (in Italia il volume è distribuito da Giuf-
frè); Organisierte Kriminalität als grenzüberschreitendes Phänomen. Erscheinigungsformen,
Prävention und Repression in Italien, Deutschland und Spanien, MILITELLO-ARNOLD-PAOLI
(Hrsg.), Freiburg, 2000; Towards a European Criminal Law Against Organised Crime. Pro-
posals and Summaries of the Joint European Project to Counter Organised Crime, MILI-
TELLO-HUBER (eds.), Freiburg, 2001. Informazioni sulla struttura, i contenuti e le proposte
conclusive del progetto sono reperibili in www.iuscrim.mpg.de/forsch/beide/falcone1.html.
Cfr. anche RUGA RIVA, in questa Rivista, 1999, p. 1435 s., MEHRENS, in ZStW, 2000, p. 461
s. e da ultimo PAPA, Repressione del crimine organizzato: incertezze italiane e prospettive
transnazionali, in Dir. pen. proc., 2002, p. 797 s.
(5) L’Unione Europea, tramite il proprio Commissario alla Giustizia ed agli Affari in-
terni, Antonio Vitorino, ha aderito alla Convenzione nel primo gruppo delle parti contraenti,

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Si tratta della risposta più recente all’esigenza di contrastare il feno-


meno in questione mediante un’azione coordinata a livello non solo sovra-
nazionale, ma tendenzialmente globale. Invero, le Nazioni Unite hanno
fatto ricorso ad una tecnica già collaudata nella propria attività relativa
alla prevenzione del crimine: l’adozione di standard normativi comuni ai
vari ordinamenti (6). Più che in passato, però, rispetto alla criminalità or-
ganizzata l’indicazione di comuni parametri di riferimento è servita a for-
nire una base giuridica in grado di superare le oscurità nella rappresenta-
zione del problema. Una situazione di incertezza teorica che non è stata
intaccata dalla crescita delle risposte normative da parte dei sistemi penali
nazionali (7) e che anzi ha indebolito la credibilità dei riferimenti ivi con-
tenuti alla nozione di crimine organizzato (8). Da qui l’importanza di
un’opera in sede sovranazionale che si preoccupa di fissare elementi co-
muni ai vari sistemi penali su un terreno di tale rilievo.

che hanno formalizzato la propria adesione ad apertura della Conferenza di Palermo (12 di-
cembre 2000). A distanza di un anno e mezzo il numero dei Paesi firmatari della Conven-
zione ha raggiunto i tre quarti degli Stati membri delle Nazioni Unite (maggio 2002, 141 -
fonte: United Nations Centre for International Crime Prevention). Per un primo orienta-
mento sui tratti qualificanti del testo cfr. H.J. ALBRECHT, The UN Transnational Crime Con-
vention - An Introduction, in The Containment of Transnational Organized Crime, H.J. AL-
BRECHT-FIJNAUT, Freiburg, 2002, p. 1 s.
(6) Sin dal primo congresso del 1955 vennero fissate le regole standard minime per il
trattamento dei prigionieri. Per una completa panoramica su tali iniziative cfr. il Compen-
dium of U.N. Standards and Norms in Crime Prevention and Criminal Justice, in www.un-
cjin.org/standards/compendium.
(7) Per un quadro di sintesi della normativa speciale in Italia, INSOLERA, Diritto pe-
nale e criminalità organizzata, Bologna, 1996, p. 25 s. ed i richiami a p. 199 s. Più di re-
cente G. DE FRANCESCO, Prospettive de lege ferenda in materia di criminalità organizzata:
un’introduzione, in La criminalità organizzata tra esperienze normative e prospettive di col-
laborazione internazionale, Id. (cur.), 2001, p. 12 s. Un’ampia indagine comparata sulle
normative in tema di criminalità organizzata nei principali sistemi penali può trovarsi in
Rechtliche Initiativen gegen organisierte Kriminalität, GROPP-HUBER (Hrsg.), Freiburg,
2001. Per la Francia cfr. anche MAYAUD, Le crime organisé, in Le nouveau code pénal en-
jeux et perspectives, Paris, 1994, p. 60 s.; BERNARDI, La disciplina prevista dal nuovo codice
francese in tema di criminalità organizzata, in questa Rivista, 2000, p. 988 s.
(8) È diffuso il rilievo che il richiamo alla ‘‘criminalità organizzata’’ sia stato una
sorta di salvacondotto utilizzato dai legislatori nazionali per ricorrere a misure restrittive
delle libertà personali: cfr. in tal senso la sintesi della ricerca comparata già ricordata
(GROPP, Rechtsvergleichende Beobachtungen, in Rechtliche Initiativen, cit., nt. 7, p. 943). In
termini ancor più radicali, i riferimenti del Trattato UE di Amsterdam alla nozione di ‘‘crimi-
nalità organizzata’’ sono stati criticati in quanto si tratterebbe di una ‘‘definizione priva di
contenuti empirici’’, che ‘‘si sottrae ad una interpretazione razionale e dai contenuti determi-
nabili’’ (così P.A. ALBRECHT et alii, 11 Thesen zur entwicklung rechtsstaatlicher Grundlagen
europäischen Strafrechts, in Kritische Vierteljahreschrift für Gesetzgebung und Rechtswis-
senschaft (di seguito KritV), 2000, p. 283 s.). Peraltro le ‘‘critiche fondamentalistiche’’ nei
confronti dell’impegno europeo in campo penale rischiano di trascurare le caratteristiche at-
tuali del fenomeno criminale, come rileva anche chi sengala le difficoltà di questa ‘‘nuova
frontiera’’: SCHÜNEMANN, Ein Gespenst geht um in Europa - Brüsseler ‘‘Strafrechtspflege’’ in-
tra muros, in GA, 2002, p. 513.

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Il punto di arrivo dei lunghi lavori preparatori condotti in ambito Na-


zioni Unite per definire la partecipazione ad un’organizzazione criminale
è un incrocio fra due diverse prospettive di soluzione al problema: per un
verso, la fissazione dei termini di rilevanza dell’organizzazione criminale;
per altro verso, la specificazione delle condotte che gli stati aderenti de-
vono incriminare.
Quanto al primo profilo, la Convenzione di Palermo definisce il
gruppo criminale organizzato accostando elementi di tipo naturalistico e
di tipo normativo, a loro volta bisognosi di ulteriore precisazione (9). Fra
i primi, si indica la partecipazione di almeno tre persone e l’esistenza di
un’attività prolungata nel tempo e concordata fra i soggetti che fanno
parte del gruppo; all’altra categoria appartengono invece i due riferimenti
all’esistenza di un ‘‘gruppo strutturato’’ ed a un ‘‘reato grave’’. Per mag-
giore certezza, il testo definisce ulteriormente i contenuti di questi due
concetti, anche se i riferimenti adottati risultano in un caso troppo rigidi e
nell’altro non sufficientemente determinati.
La nozione di ‘‘reato grave’’ come oggetto dell’attività del gruppo è
riferita ad un parametro fisso: si richiede che il reato sia punito con una
pena detentiva massima non inferiore a quattro anni. In questo modo
però la norma finisce per comprendere gruppi di soggetti che compiono
attività criminali molto differenziate a seconda dei paesi in cui operano.
Infatti la scelta di un livello sanzionatorio rigido come riferimento per la
nozione di reato grave trascura le profonde differenze esistenti tra i vari
sistemi giuridici degli oltre 190 Stati membri delle Nazioni Unite in rela-
zione alle scale sanzionatorie che ciascuno ordinamento adotta in materia
penale.
Il dato risalta già da un confronto ristretto ad una area giuridica deli-
mitata ed sistemi penali consimili. Per esempio, il livello massimo di pena
detentiva è in Germania la metà di quello cui si può arrivare in Francia: ri-
spettivamente 15 e 30 anni, mentre in Italia questa durata può essere rag-
giunta in caso di cumulo di pene o anche di sequestro di persona a scopo
di estorsione; ed ancora diverso è in Portogallo, dove non si possono su-
perare i 25 anni, ed in Spagna, che fissa un limite di 20 anni, salvo singole
previsioni espresse. Non stupisce allora che ad identiche condotte illecite i
sistemi penali nazionali attribuiscano disvalori anche molto differenziati:
per esemplificare con un reato che può costituire una manifestazione della
criminalità organizzata, l’estorsione viene punita in Germania (par. 253
c.p.) con una pena detentiva massima che è pari al minimo di quella pre-

(9) Art. 2: ‘‘Ai fini della presente Convenzione: ‘Gruppo criminale organizzato’ in-
dica un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più per-
sone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti
dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio
finanziario o un altro vantaggio materiale’’.

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vista in Italia (cinque anni) dove può arrivare nel massimo al doppio della
prima (dieci anni: art. 629 c.p.); in Francia l’art. 312-1 c.p. prevede un
massimo di sette anni di emprisonnement, la pena prevista per la catego-
ria intermedia dei delitti il cui massimo è fissato in generale in dieci anni
(art. 131-4 1o c.p.); invece in Portogallo, nei casi non aggravati il massimo
non supera i tre anni (art. 317 c.p.), mentre in Spagna la pena va da un
minimo di un anno ad un massimo di cinque (art. 243 c.p.). Ovviamente,
le discrasie aumentano a dismisura non appena il confronto si estende a
sistemi giuridici appartenenti ad aree giuridiche più lontane: solo per ri-
chiamare un esempio in tema di estorsione, in Bolivia la si considera un
delitto meno grave e si commina una reclusione da uno a tre anni (art.
333 c.p.), pur in un sistema penale che prevede la pena di morte (art. 26
c.p.).
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma tanto basta a comprovare
che il riferimento della Convenzione di Palermo ad una pena detentiva di
quattro anni per il ‘‘reato grave’’, assunto a scopo dell’organizzazione cri-
minale, lascia fuori situazioni come quelle richiamate per l’estorsione in
Belgio ed in Bolivia. Di fronte allora ad una situazione sanzionatoria an-
cora fortemente frammentata a livello mondiale, sarebbe stato preferibile
affidare ai singoli stati, in sede di ratifica, la specificazione della nozione
di reato grave e limitarsi ad indicare in sede sovranazionale una lista di
singoli reati da considerare necessariamente come tali.
La formula adottata in relazione all’altro elemento normativo richia-
mato dalla norma, la definizione di ‘‘gruppo strutturato’’, risulta invece
non altrettanto determinata, in quanto si esclude solo l’ipotesi estrema
che il gruppo sia ‘‘casualmente formato per la commissione immediata di
un reato’’. Si potrebbe allora pensare che si sia con ciò inteso limitare la
portata del riferimento alle situazioni in cui il gruppo presenti una qual-
che stabilità dei componenti e nei rispettivi ruoli criminali. Ma ciò viene
espressamente escluso: la norma specifica che ‘‘non è necessario che il
gruppo abbia ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità dei
partecipanti o una struttura sviluppata’’ (art. 2, lett. c). Si tratta di un im-
portante punto distintivo rispetto ai requisiti richiesti in altri recenti docu-
menti internazionali in materia: ad esempio, la prima risoluzione del già
inizialmente richiamato Congresso dell’Association International de Droit
Pénal di Budapest del settembre 1999 richiede l’esistenza di una ‘‘orga-
nizzazione altamente strutturata’’. Un requisito che però restringe immo-
tivamente la fenomenologia contemporanea del crimine organizzato (10).
L’adozione di un rigido modello organizzativo è solo una possibilità, stori-

(10) Criticamente in proposito, durante la fase dei lavori preparatori, ad es. MARI-
NUCCI,General Part, in Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, XVIth Internatio-
nal Congress of Penal Law - Introduction to Debate, Milano, 1999, p. 7.

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camente concretizzatasi in determinati contesti socio-geografici. Sarebbe


però erroneo escludere la compresenza di aggregazioni mutevoli di sog-
getti in relazione alla tipologia di interessi criminali perseguiti, alla mobi-
lità dei gruppi sociali o etnici di riferimento, all’obiettivo di ostacolare una
facile ricostruzione dall’esterno da parte degli organi inquirenti.
La Convenzione di Palermo ha correttamente evitato di trascurare
anche queste forme di criminalità, sebbene la formula adottata sia tal-
mente ampia, da disperdere la necessaria distinzione fra il semplice con-
corso di persone (complicity) in un singolo reato e la specifica pericolosità
di un’organizzazione nel cui programma rientra una pluralità indetermi-
nata di reati. Per cogliere quest’ultima sarebbe stato preferibile aggiungere
al requisito negativo già ricordato, un requisito positivo riferito all’ele-
mento dell’organizzazione, come l’esistenza di una divisione dei compiti
fra almeno tre persone ai fini della realizzazione di una pluralità di reati.
Una simile struttura operativa indica una razionalizzazione del lavoro cri-
minale che aumenta la portata delle attività commesse dal gruppo, giusti-
ficando così l’autonoma punibilità della partecipazione all’organizzazione
criminale.
La scelta diversa e meno determinata compiuta dalla Convenzione sul
punto si deve probabilmente all’influenza che in essa ha avuto la tradi-
zione dei sistemi penali di common law. Qui la figura della conspiracy ab-
braccia tanto le forme di mero accordo volto a compiere un reato, quanto
la realizzazione di uno o più reati da parte di un gruppo organizzato. Una
duplicità riprodotta perfettamente nella definizione delle condotte incri-
minate dal testo della Convenzione a titolo di partecipazione all’organiz-
zazione criminale (11).
La prima di tali condotte è connessa all’accordo anche con una sola
altra persona per commettere un reato grave al fine di ottenere diretta-
mente o indirettamente un vantaggio economico o di altro tipo materiale.
Netta è qui la derivazione dalla matrice anglosassone della conspiracy, che
comprende l’accordo fra due o più persone volto alla commissione di un
fatto illecito oppure di un fatto lecito mediante mezzi illeciti. In tal modo,
però, la Convenzione non mette a fuoco la specifica pericolosità dell’orga-
nizzazione criminale, intesa come quid pluris rispetto alla mera complicità
nel singolo reato. Né basta a superare l’ostacolo il riferimento al fine di
profitto che deve costituire lo scopo necessario dell’azione concordata. La
volontà di acquisire illecitamente vantaggi materiali è infatti presente in
un numero estremamente ampio di reati: si tratta di una condizione neces-
saria, ma non ancora sufficiente a caratterizzare e legittimare l’incrimina-
zione su scala mondiale della partecipazione ad un gruppo criminale orga-
nizzato.

(11) Il rilievo è condiviso da PAPA, Repressione del crimine organizzato, cit. nota 4,
p. 799.

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Il riferimento al mero accordo finalizzato al compimento di partico-


lari reati rende inoltre problematico il rapporto fra la previsione incrimi-
natrice in questione della Convenzione e la tradizione penale liberale che
legittima la punibilità non delle mere intese antigiuridiche, ma solo di
quelle che si siano tradotte in atti concreti di esecuzione della condotta
dannosa o pericolosa. Non a caso, la stessa Convenzione ha previsto che
gli stati parte possano richiedere per la punibilità il compimento di un
atto materiale in esecuzione dell’accordo illecito. La soluzione adottata
per un verso rispetta le specificità nazionali in relazione ad un punto cru-
ciale per verificare le ragioni ed i limiti dell’intervento penale. D’altra
parte, un rinvio del genere rischia di disperdere ancora una volta l’unitaria
portata della condotta punita nei vari ordinamenti, vanificando così lo
sperato effetto di incrementare la cooperazione internazionale contro il
crimine organizzato che fonda l’intera Convenzione. Per di più, negli ordi-
namenti nazionali che nel recepire quest’ultima richiederanno che l’ac-
cordo illecito si traduca in un atto materiale di esecuzione, i confini fra
tale condotta di partecipazione ad un’organizzazione criminale ed il mero
concorso di persone nel reato torneranno a confondersi. Un effetto indesi-
derato che si può peraltro produrre in un ambito ancora più vasto: le con-
dotte di ‘‘organizzare, dirigere, facilitare, incoraggiare, favorire o consi-
gliare’’ sono riferite non direttamente all’organizzazione criminale, ma
alla commissione di un reato grave che rientri nell’attività di un tale
gruppo (art. 5, 1 b). È facile notare che il più delle volte la responsabilità
per il sostegno a tali condotte si fonda prima che su una norma speciale
dedicata alla partecipazione ad un’organizzazione criminale, già in rela-
zione alle norme di parte generale sul concorso di persone nel reato.
Ben più riuscita appare invece la descrizione dell’altra condotta, che
si sforza di determinare al meglio i caratteri soggettivi ed oggettivi che
giustificano l’autonoma incriminazione di un’organizzazione crimi-
nale (12). Sul piano soggettivo si richiede che il soggetto abbia cono-
scenza dell’attività illecita del gruppo criminale o quantomeno delle rela-
tive finalità illecite; sul piano oggettivo occorre che egli partecipi o diret-
tamente all’attività criminale del gruppo o anche solo ad altre attività,
purché volte a raggiungere le finalità illecite del gruppo criminale. La for-
mulazione della norma sul punto non è peraltro esente da imperfezioni
tecniche, in quanto ad esempio in relazione alle condotte di partecipa-
zione ad attività non direttamente illecite si ripete quanto già espresso ini-

(12) Art. 5, comma 1, a), ii: ‘‘La condotta di una persona che, consapevole dello
scopo e generale attività criminosa di un gruppo criminale organizzato o della sua intenzione
di commettere i reati in questione, partecipa attivamente: a) alle attività criminali del
gruppo criminale organizzato; b) ad altre attività del gruppo criminale organizzato consape-
vole che la sua partecipazione contribuirà al raggiungimento del suddetto scopo criminoso’’.

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zialmente in relazione all’elemento soggettivo, cioè la necessaria consape-


volezza nel soggetto dello scopo criminale dell’organizzazione.
Le difficoltà nella formulazione della norma non devono comunque
stupire. Definire un’incriminazione che si propone come modello poten-
zialmente valido in ogni sistema penale non è certo compito facile. Deli-
cata è la scelta di quale debba essere lo standard da assumere fra le di-
verse soluzioni esistenti nel campo, anche per rispettare le possibili diver-
sità nella manifestazione del fenomeno criminale in relazione ai vari con-
testi sociali e geografici. Chi allora non trascuri né il dato che i problemi
di armonizzazione in materia penale crescono all’aumentare dei Paesi
coinvolti dall’iniziativa, né i limiti strutturali del tradizionale strumento
convenzionale, la cui effettiva operatività dipende come è noto dal rag-
giungimento delle ratifiche necessarie all’entrata in vigore ed al relativo
recepimento negli ordinamenti interni, non ha difficoltà a riconoscere i
vantaggi di una prospettiva più selettiva quanto ad ordinamenti coinvolti
e più incisiva quanto a strumenti normativi utilizzabili. Uno dei contesti
internazionali in cui sembrano maggiori tali chances è l’area giuridica eu-
ropea, all’interno della quale l’impegno di contrasto alla criminalità orga-
nizzata ha già segnato tappe significative ed appare ulteriormente proiet-
tato ad importanti sviluppi (13).

3. Quale standard di incriminazione a livello europeo?


3.1. L’azione comune dell’Unione europea del 1998. — Nell’am-
bito dell’Unione europea proprio la problematica dell’incriminazione del-
l’organizzazione criminale, affrontata su scala globale dalla Convenzione
ONU di Palermo, non rappresenta certo una novità. Sono ormai numerosi
gli sforzi compiuti a livello regionale europeo per approntare una risposta
comune alla criminalità transnazionale, che non si limiti al pur sempre
tradizionale terreno formale della cooperazione giudiziaria penale, ma
che, nell’ambito di una strategia di contrasto integrata fra diversi piani di
intervento, comprenda anche forme sostanziali di armonizzazione norma-
tiva dei sistemi penali degli Stati membri (14).

(13) Una ricostruzione generale in VITORINO, Towards a European Judicial Area, in


The Rule of Law in the Global Illage: Issue of Sovereignity and Universality, Schmid-Greig
(eds.), Milano, 2001, p. 31 s. I progressi realizzati in quest’ambito dall’Unione europea risal-
tano a confronto delle altre iniziative intraprese a livello regionale per contrastare la crimina-
lità organizzata: ad esempio l’impegno in proposito della Comunità di sviluppo del Sud-
Africa (SADC) (cfr. MPAPA MADUNA, Commun Solutions to Common Crime Problems: Sou-
thern Africa Initiatives, ivi, p. 69 s.) ha raggiunto ancora scarsi risultati sul fronte dell’armo-
nizzazione delle norme penali relative al crimine organizzato (GASTROW, Organised Crime in
the SADC Region, Pretoria, 2001, p. 67 s.).
(14) Sebbene non manchino segnalazioni anticipatrici del processo in questione —
ad es. BORRICAND, La criminalité organisée transfrontière: aspects juridiques, in La crimina-

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In un tale contesto generale, rilievo primario spetta ad un’iniziativa


che rappresenta il diretto antecedente della norma contenuta nella Con-
venzione ONU di Palermo in materia: il riferimento è all’azione comune
adottata alla fine del 1998 dal Consiglio dell’Unione europea relativa alla
punibilità della partecipazione a un’organizzazione criminale negli Stati
membri dell’Unione europea (15). Questa ed altre analoghe inizia-
tive (16) hanno segnato una svolta importante rispetto all’originario atteg-
giamento — una sorta di ‘‘nazionalismo penalistico’’ — che ha condotto
ad escludere la competenza penale dalle attribuzioni conferite al nuovo
edificio europeo al tempo della sua progettazione e fino ai primi anni no-
vanta. La novità costituite dapprima dall’apertura operata a Maastricht ri-
spetto alla cooperazione sul terreno della Giustizia e degli affari interni e
poi dai decisi progressi segnati in materia nella versione di Amsterdam dei
Trattati hanno consentito di concretizzare l’impegno dell’Unione europea
nei confronti dello specifico tema della punibilità dell’organizzazione cri-
minale. Prima di affrontare i relativi contenuti sembra opportuno segna-
lare l’importanza che la problematica ha assunto in ambito europeo, ri-
chiamando tanto la sua dimensione empirica, quanto la sua differenziata
rilevanza normativa nei sistemi penali degli Stati membri.

lité organisée, Leclerc (dir.), Paris, 1996, p. 164 s. — la svolta in proposito a livello europeo
si deve alla versione di Amsterdam dei Trattati ed alla contestuale adozione del ‘‘Piano d’a-
zione contro la criminalità organizzata’’, adottato dal Consiglio dell’Unione europea nel giu-
gno del 1997 e pubblicato in GUCE C 251 del 15 agosto 1997. Sull’importanza di tale qua-
dro normativo per l’emersione di un diritto comune europeo in tema di criminalità organiz-
zata ho richiamato l’attenzione in Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il con-
trasto alla criminalità organizzata, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale,
cit. nt. 4, p. 15 s. Posizioni più scettiche però non mancano: cfr. ad es. FIJNAUT, Transnatio-
nal Organized Crime and Institutional Reform in the European Union: the Case of Judicial
Cooperation, in Combating Transnational Crime, cit. nt. 1, p. 276 s., la cui valutazione è pe-
raltro riferita ad una ricostruzione degli sviluppi in materia fino alla metà del 1998 (oltre che
fondata su una sottovalutazione dell’importanza della cooperazione internazionale in mate-
ria penale per contrastare il crimine organizzato: p. 280). Ma, oltre alle azioni comuni qui di
seguito richiamate, l’impegno politico europeo sul tema è stato ribadito in ulteriori prese di
posizione: il piano di azione del Consiglio di Vienna del dicembre 1998; le conclusioni del
Consiglio di Tampère dell’ottobre 1999, dedicato proprio ai temi della Giustizia; il memo-
randum dell’Unione europea sulla strategia contro il crimine organizzato, pubblicato il 3
maggio 2000.
(15) La citata azione comune, adottata il 21 dicembre 1998 dal Consiglio sulla base
dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, è pubblicata in GUCE L 351 del 29 dicembre
1998.
(16) Il riferimento è sopratutto alle azioni comuni (sempre adottate dal Consiglio
sulla base dell’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea) in tema di contrasto dei profitti ille-
citi e di estensione della punibilità alla corruzione nel settore privato: rispettivamente del 3
dicembre 1998, sul riciclaggio di denaro e sull’individuazione, il rintracciamento, il congela-
mento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato; e del 22 dicembre
1998 sulla corruzione nel settore privato (in GUCE L 333 del 9 dicembre 1998 e L 357 del
31 dicembre 1998).

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3.1.1. Quanto al primo indicatore, la tendenza ad assumere dimen-


sioni transnazionali delle attività criminali svolte in forma organizzata, e
dunque l’inadeguatezza di risposte nazionali al di fuori di ogni coordina-
mento, è comprovata da rilevazioni pluriennali sulle manifestazioni del fe-
nomeno nei vari ordinamenti degli Stati membri dell’Unione. In partico-
lare, l’ultimo rapporto sullo stato della criminalità organizzata in ambito
europeo — relativo al 2000 e pubblicato a cura dell’Europol (17) — con-
ferma il passaggio delle organizzazioni criminali contemporanee dal radi-
camento esclusivo in contesti geografici ben delimitati, alla progressiva
estensione dei propri interessi ed attività sfruttando al meglio le opportu-
nità dei mercati illeciti e le disparità di regime giuridico, in ciò favorito
dall’abbattimento delle frontiere e dei connessi controlli doganali fra i
Paesi aderenti al Trattato di Schengen. Le tipologie criminose riscontrate
sono ben delineate: per i gruppi di origine interna all’unione, vengono se-
gnalati soprattutto traffico di stupefacenti, immigrazione illegale, traffico
di esseri umani, contrabbando di sostanze alcoliche e di tabacco. In conte-
sti più specifici, vengono segnalati inoltre attività estorsive, traffico di
auto rubate e sfruttamento della prostituzione. La presenza di gruppi cri-
minali non indigeni è pure accertata, con l’indicazione di alcuni caratteri
specifici delle varie realtà criminali: così i gruppi albanesi sono più omo-
genei quanto a composizione e si strutturano gerarchicamente, come
fanno anche i gruppi ad origine turca. I primi hanno comunque acquisito
posizioni dominanti sulla scena criminale di diversi Stati membri, forse
anche a causa del frequente ricorso alla violenza. Le organizzazioni russe
sono invece attirate dagli stati dell’Unione europea per ragioni finanziarie
(investimenti e riciclaggio) e per trovarvi rifugio, anche se poi le loro atti-
vità si estendono alle varie tipologie già menzionate (traffico di stupefa-
centi e di esseri umani, immigrazione illegale, reati violenti).
Anche in singoli ordinamenti nazionali le organizzazioni criminali
sempre meno si configurano come raggruppamenti di soggetti indigeni: in
Germania, ad esempio, le statistiche di polizia rilevano tanto una domi-
nante caratterizzazione internazionale nei procedimenti di criminalità or-
ganizzata, quanto la crescente eterogeneità nella composizione nazionale
dei gruppi di soggetti indagati per questo genere di fatti (18). In tali
gruppi si riscontra inoltre la presenza di una quota elevata di soggetti di

(17) Europol (ed.), 2000 European Union organised crime situation report, Luxem-
bourg (Office for Official Pubblications of the European Communities), 2001, in specie p.
10 s. (oltre alla qui citata versione pubblica, del rapporto esiste anche un’edizione riservata
contenente maggiori dati e valutazioni). Su tale struttura di avanzata cooperazione di polizia
cfr. GAUTIER, La genèse d’Europol (aspects juridiques), in La criminalité organisée, cit. nt.
14, p. 241 s.; OBERLEITNER, Shengen und Europol, Wien, 1998, p. 54 s., p. 92 s.; MEYER, Or-
ganisierte Kriminalität, in Festschrift für Kaiser, H.-J. Albrecht et al. (Hrsg.), Berlin, 1999,
p. 642 s.
(18) La polizia criminale tedesca rileva dal 1992 che i gruppi a composizione nazio-

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origine straniera (19), fra cui in particolare vengono segnalate come com-
ponenti più significative quelle italiana, kossovo-albanese e turca, confer-
mando così i corrispondenti dati provenienti dall’Europol (20).
3.1.2. A fronte di una accertata presenza di manifestazioni transna-
zionali nell’attuale realtà criminale europea, la considerazione legale del
fenomeno nei sistemi penali degli Stati membri appare ancora fortemente
differenziata. La molteplicità delle singole risposte nazionali può ordinarsi
secondo un triplice livello di formalizzazione legale (21): a) la soluzione
che non prevede un’incriminazione autonoma; b) la previsione di una fi-
gura di reato autonoma, ma genericamente rivolta all’associazione per de-
linquere; c) l’introduzione di una figura di reato non solo autonoma, ma
anche specificamente mirata alle caratteristiche delle organizzazioni crimi-
nali. Per comprendere meglio la rispettiva adeguatezza all’esigenza di con-
trastare il fenomeno in questione è utile considerare distintamente caratte-
ristiche e diffusione delle indicate tipologie normative.
a) La prima soluzione è adottata da un numero limitato di Paesi
membri dell’Europa del Nord, come la Finlandia, la Danimarca e la Sve-
zia, i cui codici penali non incriminano autonomamente la partecipazione
all’organizzazione criminale in quanto tale. La rilevanza penale della con-
dotta dei soggetti dipende dalla commissione di un diverso reato, almeno
nella forma tentata, e dalla possibilità di applicare le regole sul concorso
di persone. Rispetto alla realizzazione individuale, la partecipazione ad un
gruppo organizzato può rilevare al più come circostanza che aggrava la
pena prevista per il reato commesso. Il fatto di reato rimane dunque fon-
damentalmente identico nei suoi caratteri costitutivi, ma la provenienza

nale eterogenea non solo rappresentano la netta maggioranza, ma segnalano anche una de-
cisa crescita: da meno del 60% nel 1992 hanno raggiunto nel 1998 il 77,2% sul totale: cfr.
BUNDESKRIMINALAMT (Hrsg.), Lagebild Organisierte Kriminalität 1998 Bundesrepublik
Deutschland. Kurzfassung, Wiesbaden 1999, p. 8 s.
(19) Sempre secondo i dati della polizia criminale tedesca, nel 1998 la quota di stra-
nieri indagati in Germania per fatti di criminalità organizzata è stata del 62,7% sul totale:
cfr. BUNDESKRIMINALAMT, ivi, p. 8 s.
(20) Così sulla base di considerazioni attinenti al grado di organizzazione, professio-
nalità, insediamento dei singoli gruppi, BUNDESKRIMINALAMT, ivi, p. 35.
(21) Invece, per una più semplice bipartizione delle soluzione positive adottate nei
Paesi-membri, a seconda che la incriminazione autonoma della conspiracy sia o meno di-
stinta dalla definizione del concorso di persone nel reato, cfr. il rapporto di sintesi della se-
conda edizione del corpus juris: DELMAS-MARTY, Necessity, legitimity and feasibility of the
corpus juris, in The implementation of the corpus juris in the Member States, Delmas-Marty-
Vervaele (eds.), Antwerp, 2000, p. 69. Il testo si fonda sul rapporto comparato di SICU-
RELLA, Criminal Law Special Part: Articles 1-8 Corpus Juris (draft of 1997), ivi, p. 232 s.
Non sembra peraltro che tale lettura sia chiarificatrice perché per un verso porta ad accomu-
nare sistemi in cui esiste un’incriminazione autonoma (come la Francia) con quelli che ne
sono invece del tutto privi (come la Danimarca) e per altro verso non differenzia fra l’incri-
minazione generale dell’associazione (come in Germania ed in Portogallo) ed una figura spe-
ciale che definisca particolare modalità di realizzazione (come in Italia l’art. 416-bis c.p.).

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da una pluralità di soggetti può interessare il piano della commisurazione


della relativa pena (22).
b) La seconda soluzione, che incrimina autonomamente l’associa-
zione in relazione al carattere antigiuridico delle finalità perseguite o dei
mezzi impiegati, è quella attualmente più diffusa nei sistemi penali euro-
pei, al di là della rispettiva appartenenza a differenti famiglie giuridiche.
Essa vanta una risalente tradizione: nell’area latina la matrice delle figure
di reato in proposito è stata l’association de malfaiteurs, da tempo pre-
sente nel sistema penale francese e contemplata dall’art. 450-1 del codice
vigente (23). Essa è ampiamente presente anche in altri ordinamenti, con
denominazione varia, ma contenuti strutturali analoghi: oltre al nostro
art. 416 c.p., ne rappresentano esempi le norme previste dall’art. 515 c.p.
spagnolo (24), nell’art. 299 c.p. portoghese (25); nell’art. 140 c.p. olan-
dese (26), come anche nei codici penali belga, lussemburghese e

(22) Così in particolare in Finlandia (cap. 6, sez. 2, c.p.; ed in specie, per i reati in
materia di stupefacenti, cap. 50); in Danimarca (par. 80, comma 2, c.p. per la possibile rile-
vanza in sede di commisurazione della pena); in Svezia (dove peraltro è prevista un’incrimi-
nazione autonoma, ma relativa ai casi in cui il gruppo di soggetti assuma carattere di banda
armata o natura paramilitare: cap. 18, sez. 4, c.p.).
(23) ‘‘1) Constitue une association de malfaiteurs tout groupement formé ou entente
établie en vue de la préparation, caractérisée par un ou plusieurs faits matériels, d’un ou
plusieurs crimes ou d’un ou plusieurs délits punis de dix ans d’emprisonnement. 2) La par-
ticipation à une association de malfaiteurs est punie de dix ans d’emprisonnement et de
1 000 000 F d’amende’’. Sulla maggiore ampiezza rispetto al precedente art. 265 del c.p. del
1810 cfr. BORRICAND, La criminalité organisée transfrontière, cit., nt. 14, p. 158.
(24) ‘‘Sono punibili le associazioni illecite, considerandosi tali: 1) Quelle che hanno
come obiettivo la commissione di qualche delitto o, dopo essere state costituite, ne promuo-
vono la commissione. 2) Le bande armate, le organizzazioni o i gruppi terroristici.
3) Quelle che, pur avendo come obiettivo una finalità lecita, impiegano per il suo raggiungi-
mento mezzi violenti o di alterazione o controllo della personalità. 4) Le organizzazioni di
tipo paramilitare. 5) Quelle che promuovono la discriminazione, l’odio o la violenza contro
persone, gruppi o associazioni in ragione della loro ideologia, religione o convinzioni, del-
l’appartenenza dei loro membri o di alcuni di essi ad un’etnia, razza o nazione, del loro
sesso, tendenze sessuali, situazione familiare, infermità o menomazione o incitano a ciò’’.
(25) ‘‘Associaziane criminosa: 1) Chiunque promuove o fonda un gruppo, organiz-
zazione o associazione la cui finalità è attività sia diretta alla commissione di delitti è punito
con la pena della reclusione da 1 a 5 anni. 2) È punito con la stessa pena chi fa parte di tali
gruppi, organizzazioni o associazioni o chi li appoggia, in particolare fornendo armi, muni-
zioni o strumenti del delitto, protezioni o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del
reclutamento di nuovi elementi. 3) Chiunque capeggia o dirige i gruppi, organizzazioni o as-
sociazioni di cui ai numeri precedenti è punito con la pena della reclusione da 2 a 8 anni.
4) Le pene stabilite possono essere specialmente attenuate o può essere esclusa la punibilità
se l’agente impedisce o si sforza seriamente di impedire il perdurare di gruppi, organizza-
zioni o associazioni, o comunica all’autorità la loro esistenza in modo che questa possa evi-
tare la commissione di delitti’’.
(26) Alla luce delle modifiche apportate con l. 4 aprile 1999, il testo è del seguente
tenore: ‘‘1) La partecipazione in un’organizzazione che ha ad oggetto la commissione di
reati sarà punita con un periodo di detenzione non superiore a sei anni o con un’ammenda di

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greco (27). Anche nell’area tedesca si riscontra la simile struttura della


Kriminelle Vereinigung di cui al par. 129 c.p. tedesco (28). D’altra parte,
nella tradizione di common law è radicata la già richiamata figura della
conspiracy (29), la cui ampiezza comprende anche situazioni riconducibili
al paradigma francese dell’association de malfaiteurs.
Nella maggior parte dei casi, l’associazione è punita in quanto volta
ad un programma genericamente vietato dalla legge penale, senza richie-
dere particolari requisiti in relazione alle modalità di realizzazione o alle
strutture collettive che devono supportare la realizzazione illecita. Solo in
alcuni casi si attribuisce rilevanza penale anche alle modalità antigiuridi-
che con cui si tende a fini leciti, ma sempre senza specificare i metodi che
caratterizzano l’azione della criminalità organizzata (30). D’altra parte,
nell’assoluta prevalenza dei sistemi penali che da secoli prevedono la fi-
gura generale dell’associazione criminosa, il peso della tradizione non ha
impedito la recente introduzione di specifiche incriminazioni autonome o
comunque di particolari aggravamenti sanzionatori per situazioni avver-
tite come particolarmente pericolose e variamente collegate alle organiz-
zazioni criminali, quali terrorismo, traffico di stupefacenti e riciclag-
gio (31). Qui la considerazione delle specifiche modalità di aggressione ai

quarta categoria (Fior. ol. 100.000). 2) La partecipazione alla continuazione delle attività di
una persona giuridica che sia vietata dall’autorità giudiziaria e per quelle materie che sono
state interdette sarà punita con un periodo di detenzione non superiore ad un anno o con
un’ammenda di terza categoria (Fior. ol. 10.000). 3) Nei confronti dei fondatori e dei diret-
tori il periodo di detenzione può essere aumentato di un terzo o può essere applicata un’am-
menda di categoria più elevata’’.
(27) In particolare: l’art. 322 c.p. belga, che incrimina l’associazione formata al fine
di attentare a persone o a beni, al pari dell’art. 322 c.p. lussemburghese; gli artt. 187 e 188
c.p. greco incriminano l’accordo e costituzione di una banda finalizzata alla commissione di
reati e, rispettivamente, la partecipazione ad una società illecita.
(28) ‘‘1) Chiunque fonda un’associazione i cui scopi o la cui attività siano diretti a
commettere reati, o partecipa ad una tale associazione come membro, la propaganda o la so-
stiene, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria. (...) 3) È
punibile il tentativo di fondare un’associazione del tipo descritto al comma 1. 4) Se l’agente
fa parte dei dirigenti o dei mandanti, oppure sussiste un caso particolarmente grave, si deve
infliggere la pena detentiva da sei mesi a sei anni. 5) Per i partecipanti la cui colpevolezza
sia minima e la cui cooperazione sia di importanza subordinata il giudice può rinunciare alla
pena prevista dai commi 1 e 3’’.
(29) La figura punisce ogni accordo tra due o più persone diretto alla commissione
di un atto illecito o al raggiungimento di un fine lecito tramite mezzi illeciti, Si tratta di un
reato di common law che in Inghilterra ha ricevuto una formalizzazione normativa nel Cri-
minal Law Act 1977 (GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993, pp. 92 s.,
127 s., 149 s.), mentre nel sistema statunitense le fattispecie in questione sono numerosis-
sime (oltre cento ne segnala PAPA, La ‘‘conspiracy’’ nel diritto penale statunitense, Firenze,
1989, p. 20 s.).
(30) Esempi di questa versione sono le già richiamate figure dell’associazione illecita
punita in Spagna e della conspiracy nella tradizione di common law.
(31) Ad es. in Francia ‘‘gruppo dedito al traffico di stupefacenti’’ (artt. 222-34; 222-

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beni giuridici di volta in volta in gioco fa recuperare profili di determina-


tezza alle rispettive previsioni e le rende più aderenti alla pericolosità delle
sue articolate forme di manifestazione. Un recupero che d’altra parte non
supplisce alla mancanza nella maggioranza degli ordinamenti di un gene-
rale quadro di riferimento normativo in grado di fissare le caratteristiche
costitutive delle organizzazioni criminali (32). Situazione che a sua volta,
lungi dal costituire il trionfo di una corretta accezione della frammenta-
rietà del diritto penale, costituisce piuttosto la premessa per l’incessante
intervento del legislatore in relazione alle varie forme di manifestazione
della criminalità organizzata, le quali vengono avvertite come contingenti
emergenze anche a causa della mancanza di un quadro di riferimento nor-
mativo adeguato.
c) L’espressa considerazione del crimine organizzato come specifica
figura di reato associativo è invece la soluzione più recente ed adottata da
un numero ancora limitato di sistemi penali europei. Le relative previsioni
si configurano come norme speciali rispetto all’incriminazione generale
dell’associazione illecita. L’emersione di questo terzo modello risale ai
primi anni ottanta quando in Italia è stata introdotta l’associazione di tipo
mafioso (art. 416-bis c.p.). Qui lo sforzo di tipizzare gli elementi caratte-
rizzanti il comportamento mafioso si accompagna ad un ampliamento del
programma criminoso, che comprende anche le modalità illecite di inter-
vento nell’attività economica ‘‘legale’’. L’esperienza applicativa italiana in-

35, comma 2, c.p. franc.; sui relativi rapporti con l’incriminazione dell’association de mal-
faiteurs cfr. MAYAUD, Le crime organisé, cit. nt. 7, p. 64; più problematica invece la conside-
razione dei reati di terrorismo fra i reati di criminalità organizzata: cfr. BERNARDI, op. cit., nt.
7, p. 1000 s.; ZIESCHANG, Frankreich, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 394); in Germa-
nia l’incriminazione dell’associazione terroristica (par. 129a c.p. ted.) e della banda dedita al
traffico di stupefacenti (parr. 30, 30a, legge stup. ted.); in Gran Bretagna, l’incriminazione
delle organizzazioni terroristiche (di recente modificata con il Terrorism Act 2000: cfr. HU-
BER, England, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 251 s.); in Spagna le incriminazioni
delle bande armate, delle organizzazioni o gruppi di terrorismo, della partecipazione ad or-
ganizzazioni finalizzate o al riciclaggio o al traffico di stupefacenti (rispettivamente artt.
571, 302, 369, comma 6, c.p. spagn., sui quali PIFARRÉ, La criminalità organizzata in Spa-
gna, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, cit. nt. 4, pp. 134 s., 154 s.,
149 s.); in Grecia, l’incriminazione della costituzione di associazioni finalizzate a particolari
reati gravi, come attentati alla sicurezza area traffico di stupefacenti, omicidio lesioni gravi
mediante armi o esplosivi etc. (l. n. 1916/1990 sulla ‘‘tutela della società contro il crimine
organizzato’’, abrogata però dalla l. n. 2172/1993: cfr. KAREKLAS, Griechland, in Stra-
frechtsentwicklung in Europa - 4.1, Eser-Huber (Hrsg.), Freiburg, 1993, p. 564 s.; LIADI,
Griechland, in op. cit. - 5.2, Eser-Huber (Hrsg.), ivi, 1999, p. 988).
(32) Ad es. in Francia il nuovo codice penale ha avvertito il collegamento fra crimi-
nalità organizzata e traffico di stupefacenti (v. le incriminazioni richiamate alla nota prece-
dente), ma non quello con la corruzione, benché in dottrina sia ormai segnalato il dato che
questa non è più una vicenda che si esaurisce fra due persone, ma che ha assunto il carattere
di un ‘‘sistema organizzato’’: così DUCOULOUX-FAVARD, Fausses factures et corruption, Dal-
loz, 1996, chronique 353.

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dica che la norma ha apportato un incremento di efficacia rispetto al fun-


zionamento complessivo del sistema di contrasto (33). Un risultato che ha
finito per prevalere sulle stesse incertezze in merito ai confini teorici della
nozione di criminalità organizzata: proprio questo modello specifico di in-
criminazione ha incontrato il favore in ordinamenti che hanno di recente
affrontato l’esigenza politico-criminale di approntare risposte normative
più mirate alle caratteristiche del fenomeno (34).
3.1.3. Il quadro d’insieme fin qui delineato consente di rilevare una
discrasia di fondo: a fronte dell’accertata presenza di forme di criminalità
organizzata transnazionale, la rilevanza normativa di esse negli ordina-
menti europei si presenta ancora molto variegata. Proprio lo sforzo di su-
perare una tale situazione è a fondamento della già richiamata azione co-
mune adottata dal Consiglio dell’Unione europea per armonizzare la puni-
bilità della partecipazione ad un’organizzazione criminale fra i diversi si-
stemi penali degli Stati membri. Lo scopo politico-criminale della misura
è affatto condivisibile: consentire nell’area giuridica europea un contrasto
più efficace alla criminalità organizzata armonizzando uno degli strumenti
di contrasto più conforme alle caratteristiche del fenomeno.
Se però si considerano i contenuti, è facile notare che lo sforzo di me-
diare fra le tradizioni giuridiche dei paesi continentali e quelle dei sistemi
di common law ha condotto ad una soluzione di compromesso. Essa è si-
curamente importante sul piano dei valori politici affermati, in quanto
concretizza l’impegno contro la criminalità organizzata come terreno di
elezione di un diritto penale comune europeo, ma appare anche ampia-
mente perfettibile sul piano giuridico tanto in relazione alla determina-
tezza dell’incriminazione, quanto alla stessa offensività dei fatti punibili.
Viene infatti ben presto superato e vanificato lo sforzo, compiuto al-
l’art. 1 dell’azione comune (35), di tipizzare i confini della nozione di or-
ganizzazione criminale in termini che si avvicinano al terzo dei modelli

(33) Cfr. l’incisivo giudizio di INGROIA, Associazione per delinquere e criminalità or-
ganizzata. L’esperienza italiana, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale,
cit. nt. 4, p. 239. Il dato è riconosciuto anche all’estero: ad es. DEBACQ, La lutte contre la cri-
minalité organisée de type mafieux en Italie: développements récents, bilan et perspectives,
in La criminalité organisée, cit. nt. 14, p. 211.
(34) Così ad esempio l’organizzazione criminale è ora punita anche in Austria (par.
278a c.p.), in Belgio (art. 324-bis e 324-ter c.p.) ed in Lussemburgo (art. 324-bis e 324-ter
c.p.).
(35) Il riferimento della norma richiamata nel testo è ad un’associazione strutturata,
esistente da tempo e composta da almeno tre persone che agiscono in modo concertato —
dunque secondo una ripartizione del lavoro — per realizzare un programma criminoso quali-
ficato. I reati che vi rientrano devono essere di una gravità predeterminata in generale e rife-
rita alla sanzione massima minacciata (non deve essere inferiore a quattro anni di pena de-
tentiva); inoltre, le relative condotte possono essere sorrette anche da un fine di profitto o di
indebita influenza dell’operato dell’autorità pubblica. L’analitica definizione di organizza-
zione criminale contenuta nell’azione comune europea non è peraltro esente da profili poco

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prima indicati, vale a dire quello più profilato rispetto alla specifica peri-
colosità del fenomeno. La successiva previsione dell’azione comune euro-
pea impegna gli Stati membri ad incriminare penalmente condotte, la cui
tipicità fuoriesce dai confini della suddetta nozione di organizzazione, per
fondarsi sui principi generali del concorso di persone in relazione tanto al-
l’organizzazione criminale quanto alle sue attività (art. 2, comma 1, lett.
a) (36).
Si segna così un arretramento al primo dei modelli di rilevanza nor-
mativa del crimine organizzato, che è però sostanzialmente inidoneo a
fondare la specifica meritevolezza di pena delle rispettive forme di manife-
stazione. Né tanto basta: il riferimento alle condotte concorsuali appena
richiamate è affiancato subito dopo dalla possibilità che gli Stati membri
puniscano anche il mero accordo criminoso fra due soggetti non seguito
dall’effettiva realizzazione del reato (art. 2, comma 1, lett. b) (37). Si fini-
sce dunque lontanissimi dalla specifica pericolosità che può legittimare
l’incriminazione dell’organizzazione criminale: una simile previsione è
sorretta solo dalla volontà di non lasciare fuori nessuna possibile forma di
condotta illecita attualmente conosciuta in qualcuno degli Stati membri (il
riferimento è al sistema inglese ed all’ampiezza dei confini che in essa ha
assunto la figura della conspiracy).
Se a tutto ciò si aggiunge che la nozione di organizzazione criminale
viene descritta nell’azione comune con riferimento tanto alla nozione di

convincenti, che affiorano non appena si considera che l’indicazione normativa in questione
si rivolge ad ordinamenti dai caratteri differenziati. Oltre a quanto osservato in precedenza
in relazione all’identico riferimento ai reati scopo dell’organizzazione rilevante ai sensi della
Convenzione ONU (vale a dire, l’incongruenza di un riferimento fisso ad un livello sanziona-
torio per accomunare ordinamenti che conoscono scale sanzionatorie molto differenziate),
non va trascurato che la specificazione nel testo europeo del fine di profitti materiali o di in-
fluenze illecite è operata non come elemento necessario, ma in via solo esemplificativa. Una
scelta che però rende quel riferimento finalistico sostanzialmente superfluo rispetto al fine di
garantire una caratterizzazione realmente selettiva del fenomeno che si intende regolare.
(36) L’art. 2 prevede l’impegno di ciascuno Stato membro a rendere punibili con
sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive almeno una di due condotte connesse
alle organizzazioni criminali, la prima delle quali viene così descritta: ‘‘La condotta di una
persona che, intenzionalmente ed essendo a conoscenza dello scopo e dell’attività criminale
generale dell’organizzazione di commettere i reati in questione, partecipi attivamente:
— alle attività di un’organizzazione criminale rientranti nell’art. 1 anche quando tale
persona non partecipa all’esecuzione materiale dei reati in questione e, fatti salvi i principi
generali del diritto penale dello Stato membro interessato, anche quando i reati in questione
non siano effettivamente commessi;
— alle altre attività dell’organizzazione, essendo inoltre a conoscenza del fatto che la
sua partecipazione contribuisce alla realizzazione delle attività criminali dell’organizzazione
rientranti nell’art. 1.
(37) La seconda condotta di cui l’art. 2 prevede la possibile adozione da parte degli
Stati membri riguarda ‘‘un accordo con una o più persone per porre in essere un’attività la
quale, se attuata, comporterebbe la commissione dei reati che rientrano nell’art. 1, anche se
la persona in questione non partecipa all’esecuzione materiale dell’attività’’.

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associazione strutturata, quanto allo scopo di commettere reati puniti con


sanzioni detentive non inferiori a quattro anni, requisiti entrambi che qui
sono già stati considerati criticamente in relazione alla corrispondente
previsione della Convenzione ONU di Palermo, non stupisce che lo stesso
Consiglio dell’Unione europea abbia formalmente adottato una posizione
comune in merito alla compatibilità fra l’azione comune del 1998 sull’or-
ganizzazione criminale e la corrispondente previsione della Convenzione
ONU (38).
Non è certo in discussione l’importanza dell’adesione dell’Unione eu-
ropea per contribuire a quell’effetto di ‘‘convalida normativa sovranazio-
nale’’ all’azione di contrasto alla criminalità transnazionale, che è forse
l’obiettivo più impegnativo della Convenzione di Palermo. Ciò peraltro
non cancella l’esigenza di raggiungere una maggiore determinatezza della
norma cardine in materia quando il relativo standard vada definito per
un’area più ristretta quanto agli ordinamenti coinvolti. È vero peraltro che
l’adesione alla Convenzione ONU esprime una sorta di resa di fronte alla
constatazione che l’efficacia delle azioni comuni è sostanzialmente spun-
tata dalla mancata precisione nella versione di Maastricht delle conse-
guenze del mancato recepimento negli ordinamenti degli Stati membri. Si-
gnificativo è il dato che sistemi penali privi di un’autonoma incrimina-
zione dell’organizzazione criminale non abbiano esitato a dichiarare che
l’azione comune UE in materia non li obbliga a modificare la propria legi-
slazione, che già ne rispetterebbe i requisiti attraverso la disciplina gene-
rale sul concorso di persone (39). È vero peraltro che altre possibili strade
sono percorribili, specie grazie ai più incisivi strumenti che nella versione
di Amsterdam dei Trattati sono ora a disposizione per i processi di armo-
nizzazione nello specifico settore della giustizia penale. Prima però di son-
dare tali potenzialità è opportuno considerare le indicazioni che sul ter-
reno qui considerato provengono da ulteriori, recenti proposte di matrice
accademica.
3.2. Le altre indicazioni di matrice accademica: corpus iuris ed eu-
rodelitti economici. — L’impegno specifico per pervenire a standard nor-
mativi comuni nell’ambito europeo proprio in relazione all’incriminazione
in questione è stato del resto mantenuto anche in recenti e qualificate ini-
ziative accademiche. In queste, il reato associativo è stato riferito a speci-
fiche tipologie criminose: in un caso, relative ad offese agli interessi finan-

(38) Già durante i lavori preparatori della Convenzione delle Nazioni Unite l’Unione
europea aveva espresso il proprio favore all’iniziativa: Posizione comune del 29 marzo 1999
definita dal Consiglio in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione europea, sulla proposta
convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata, in GUCE L 87 del 31
marzo 1999, p. 1.
(39) Si tratta di una dichiarazione ufficiale del Ministero della giustizia danese, ripor-
tata in CORNILS-GREVE, Dänemark, in Rechtliche Initiativen, cit. nt. 7, p. 29.

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ziari dell’Unione europea, nell’altro, attinenti al più ampio settore econo-


mico, in cui il diritto penale comune si colloca in un processo di armoniz-
zazione già avanzato in sede extrapenale (40). Va osservato prelimiar-
mente che la scelta di avvicinare la descrizione del reato associativo a par-
ticolari reati-scopo trascura la generale pericolosità delle organizzazioni
criminali, come apparati capaci di differenziare la propria attività illecita
sia nel tempo, sia nello spazio. Né una tale rinuncia è compensata dal riu-
scire a definire in termini davvero stringenti la nozione di organizzazione
criminale nei settori criminali specificamente ad oggetto delle suddette
iniziative.
Certo, nel passaggio fra le due versioni del ‘‘Corpus juris a tutela de-
gli interessi finanziari dell’Unione europea’’ si rileva una maggiore carat-
terizzazione del profilo organizzativo che deve sorreggere l’associazione
illecita, superando così l’indeterminato modello francese dell’association
des malfaiteurs. In particolare, il requisito organizzativo nella prima for-
mulazione era riferito anche a solo due persone ed ad un unico reato of-
fensivo degli interessi finanziari della Comunità (41). Entrambi gli ele-
menti sono stati formulati in modo più restrittivo nella versione più re-
cente del corpus juris, secondo la quale occorre che l’accordo sia fra al-
meno tre persone, si rivolga alla realizzazione di una pluralità di reati con-
tro gli interessi indicati e sopratutto che l’organizzazione sia stabile ed
adeguata. Se si considera peraltro che il testo in questione ha un ambito
ristretto al settore delle eurofrodi e dunque si riferisce ad una materia che
presenta il vantaggio di un significativo livello di omogeneità delle offese
considerate, era lecito attendersi uno sforzo maggiore per tipizzare i re-
quisiti strutturali delle organizzazioni criminali, in modo ben più preciso
di quanto era riuscita a fare l’azione comune in materia, che è invece stata
assunta quasi integralmente nella proposta in esame. Anche a non soffer-
marsi sulle incertezze terminologiche che vi si riscontrano (42), l’unico si-
gnificativo elemento differenziale fra i due testi al di là della già menzio-

(40) Si tratta rispettivamente del noto corpus juris in tema di ‘‘eurofrodi’’, già giunto
alla seconda versione, e del più recente ed ampio progetto di ‘‘eurodelitti’’ in materia econo-
mica condotto da un gruppo di ricerca su iniziativa tedesca; cfr. rispettivamente The imple-
mentation of the corpus juris in the Member States, cit. nt. 20; e Wirtschaftsstrafrecht in der
Europäischen Union, TIEDEMANN (Hrsg.), Köln e al., 2002.
(41) L’insufficienza della previsione originaria rispetto alla caratterizzazione dell’or-
ganizzazione criminale era stata segnalata ad es. da OTTO, Anmerkungen zu den Tatbestän-
den des Besonderen Teils des corpus juris, in Das corpus juris als Grundlage eines Europäi-
schen Strafrechts, Huber (Hrsg.), Freiburg, 2000, p. 162.
(42) La versione inglese del corpus juris nuova edizione riferisce all’organizzazione
l’attributo di ‘‘operational’’, che può intendersi come organizzazione capace di operare an-
che con un apparato mimino di persone e mezzi. Se così intesa però la norma europea ri-
mane nell’ambito della vecchia associazione per delinquere di stampo francese, che non
esprime una pericolosità ulteriore in virtù della complessità della rete criminale creata o
delle sue particolari modalità operative. Invece proprio tale specificità è la ragione d’essere

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nata restrizione dei reati scopo alle sole eurofrodi, vale a dire il requisito
dell’adeguatezza organizzativa, andrebbe chiarito rispetto al relativo ter-
mine di riferimento: una cosa è valutare se l’organizzazione debba essere
adeguata a costituire una presenza stabile, altra invece la valutazione di
adeguatezza rispetto alla capacità di porre in essere particolari tipologie
criminose.
Anche nel recentissimo progetto di ‘‘eurodelitti economici’’ è conte-
nuta una previsione che aspira ad individuare requisiti comuni di una no-
zione di ‘‘associazione criminale’’ a livello europeo. Benché la norma sia
ristretta al pur importante settore dell’immigrazione illegale e della tratta
di esseri umani (art. 28), e così trascuri le possibili manifestazioni della
criminalità organizzata in altre materie pur considerate dallo stesso pro-
getto (sfruttamento di lavoratori, traffico di rifiuti tossici o di specie ani-
mali protette: artt. 23, 41, 43), non manca uno sforzo di specificare i ca-
ratteri strutturali della nozione accolta. In particolare, finalmente si indica
espressamente il requisito organizzativo, ancorché in modo inadeguato ri-
spetto al suo ruolo di ragione stessa dell’incriminazione in questione.
Invece che definire direttamente la organizzazione criminale for-
nendo indicazioni sui termini in cui la struttura organizzativa vada intesa
a livello europeo, la proposta normativa ricorre alla vecchia terminologia
di matrice tedesca di ‘‘associazione criminale’’ e la riferisce ad una ‘‘deci-
sione comune organizzata’’. Al di là di questa innovativa qualificazione,
l’elemento della decisione comune è descritto in termini ampiamente ri-
presi dai precedenti documenti internazionali: deve intercorrere fra al-
meno tre persone, avere carattere duraturo ed essere rivolta alla commis-
sione o dei reati di immigrazione illegale e tratta di esseri umani, previsti
dallo stesso art. 28 del progetto citato, o di altri reati puniti con una pena
detentiva, il cui livello non viene però precisato. Proprio l’incertezza sul
punto è una spia significativa di un contrasto irrisolto in sede di stesura
della proposta: se infatti l’apertura ad altri reati esprime la consapevo-
lezza dell’esigenza di una definizione non limitata allo specifico settore
oggetto della norma, d’altra parte la mancata determinazione del livello di
pena che determina la rilevanza dei reati scopo riflette la difficoltà di fis-
sare un livello unitario in presenza di una situazione sanzionatoria ancora
estremamente diversificata in seno ai sistemi penali europei. Solo una di-
versa tecnica di rinvio ai reati scopo, non vincolata a nessun livello
astratto di pena comune, può però evitare l’inconveniente in questione,
ma non si è riusciti a mettere a punto una soluzione innovativa in propo-
sito.
Neppure il contributo esplicativo della proposta in esame ne riesce a

politico-criminale di una distinta e più dettagliata incriminazione dell’organizzazione crimi-


nale.

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superare le incertezze di contenuto: per un verso, si afferma la piena equi-


parazione fra il testo della stessa e la definizione di organizzazione crimi-
nale di cui all’azione comune europea del 1998, cosicché sfugge il motivo
della diversa formulazione a cui si è ritenuto di dovere fare ricorso nel
contesto dell’art. 28; d’altra parte, non si spiega il riferimento dell’orga-
nizzazione alla decisione comune, che a sorpresa viene sostituito con
quello dell’esistenza di una struttura piramidale gerarchica (43).

4. La proposta del Progetto comune europeo di contrasto alla crimina-


lità organizzata.
Almeno nell’ambito dell’Unione europea, l’obiettivo di definire una
norma minima che superi la variegata situazione esistente fra i sistemi pe-
nali degli Stati membri può tentare di superare gli inconvenienti eviden-
ziati nei testi internazionali fin qui considerati se l’incriminazione della
partecipazione ad un’organizzazione criminale viene formulata nei termini
che seguono.
4.1. La punibilità della partecipazione ad un’organizzazione
criminale. — 1) La partecipazione ad un’organizzazione criminale
è punita nei sistemi penali degli Stati membri dell’Unione europea.
2) Partecipa ad un’organizzazione criminale chi apporta un
contributo non occasionale alla realizzazione dei reati oggetto delle
attività dell’organizzazione o al mantenimento delle sue strutture
operative, quando sia consapevole di rafforzare così la capacità a
delinquere dell’organizzazione, cioè di rendere più probabile o più
rapido il conseguimento del programma criminoso ovvero di incre-
mentarne il grado di realizzazione.
3) Per organizzazione criminale si intende una collettività di
soggetti, che presenti un nucleo minimo di tre persone, sia artico-
lata secondo una divisione dei compiti ed operi quantomeno anche
all’interno di uno o più degli Stati membri attraverso il compimento
di reati qualificabili come gravi. I singoli ordinamenti degli Stati
membri provvedono a determinare la gravità dei reati che, per livelli
sanzionatori, frequenza di realizzazione o portata degli effetti dan-
nosi o pericolosi, rileva ai fini della presente norma minima co-
mune. In ogni caso, vanno considerati tali i reati che prevedono le
condotte di omicidio doloso, sequestro di persona, traffico di stupe-
facenti, riciclaggio, corruzione, traffico di esseri umani. Ove le atti-
vità criminose dell’organizzazione si estendono a più Stati membri,

(43) ARROYO, Illegale Einwanderung und Menschenhandel, in Wirtschaftsstrafrecht,


cit. nt. 40, pp. 210-211, che peraltro richiama in modo impreciso la disciplina positiva ita-
liana in materia di concorso di persone nel reato.

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è competente il sistema penale in cui l’organizzazione ha iniziato


ad operare. Nel caso in cui ciò non si riesca ad accertare, è compe-
tente il sistema penale in cui per la prima volta è stata esercitata
l’azione penale nei confronti dell’organizzazione criminale.
4) Le pene per la sola partecipazione all’organizzazione crimi-
nale non possono superare la metà delle pene previste per il reato
più grave che rientra nel programma criminoso dell’organizzazione.
Le pene sono aumentate della metà per chi partecipa ad un’orga-
nizzazione criminale che svolga le propria attività in più Stati mem-
bri o che adotti l’intimidazione diffusa come metodo sistematico.
5) Per coloro che costituiscono l’organizzazione o ne dirigono
le attività criminali la pena non può essere inferiore al triplo della
pena prevista per la semplice partecipazione. In organizzazioni alta-
mente strutturate e gerarchicamente condotte i capi rispondono dei
reati commessi dai membri dell’organizzazione, salvo che il reato
da questi commesso costituisca una conseguenza imprevedibile ri-
spetto all’attività criminosa che è oggetto dell’organizzazione.
6) In caso di persone giuridiche, la responsabilità per la parte-
cipazione ad un’organizzazione può fondarsi sulla trasformazione
dell’attività istituzionale in copertura per realizzare il programma di
azione di un’organizzazione criminosa. In tal caso le relative san-
zioni, a contenuto pecuniario, interdittivo, estintivo, potranno col-
pire anche la persona giuridica, compatibilmente con i principi giu-
ridici degli ordinamenti degli Stati membri.
7) I partecipanti all’organizzazione che si sforzano seriamente
di impedirne le attività criminose o che comunicano all’autorità no-
tizie rilevanti sulla costituzione, l’esistenza o le attività del gruppo
criminale hanno diritto ad un’attenuante speciale di pena non infe-
riore alla metà della sanzione prevista per la partecipazione all’or-
ganizzazione. La punibilità può altresì essere esclusa quando l’ap-
porto conoscitivo fornito dal collaboratore sia risultato determi-
nante per impedire la prosecuzione delle attività criminali del
gruppo o per smantellarne l’organizzazione criminale.
4.2. Le ragioni a fondamento delle scelte prospettate. — Sub 1) Il
principio affermato ad apertura della proposta sancisce la punibilità della
partecipazione all’organizzazione criminale in tutti gli Stati membri del-
l’Unione europea. Si ribadisce così la scelta che si è visto essere già pro-
pria di numerosi documenti sovranazionali, segnatamente della prece-
dente azione comune dell’Unione europea. A differenza delle incertezze
evidenziate in quest’ultima, la soluzione ora proposta, fra le tre alternative
che in materia ancora permangono fra i vari sistemi penali europei (supra,
par. 3.1.2), adotta quella che sembra rappresentare l’obiettivo politico-cri-

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minale più adeguato alle caratteristiche della criminalità contemporanea,


anche se impone di specificare con cura l’ambito di applicabilità del reato.
Sub 2) La descrizione è operata nei due commi successivi. In primo
luogo si indicano i requisiti oggettivi e soggettivi della condotta di parteci-
pazione: il contributo del singolo deve avere carattere non occasionale e
può essere diretto tanto al compimento di un reato compreso nel pro-
gramma criminoso dell’organizzazione, quanto al funzionamento dell’ap-
parato di questa, anche solo rispetto ad una delle sue articolazioni logisti-
che ed operative. Il soggetto deve inoltre rappresentarsi il carattere stru-
mentale del proprio contributo rispetto alla vita dell’organizzazione: a tal
fine, si richiede la consapevolezza nel singolo che la propria condotta con-
tribuisca ad incrementare le probabilità di realizzazione del programma
criminoso o i relativi effetti.
Sub 3) In relazione poi ai requisiti dell’organizzazione criminale, la
proposta rappresenta una miscela fra elementi già espressi in altri testi in
discussione a livello internazionale ed innovazioni. In specie, queste ul-
time sono volte per un verso ad incrementare la connotazione della propo-
sta specificamente orientata al fenomeno considerato e per altro verso ad
evitare l’errore di appiattire esperienze differenziate. Così, al comma 3,
accanto al requisito della divisione dei compiti fra i soggetti appartenenti
all’organizzazione si richiede un nucleo minimo di tre persone e soprat-
tutto non si affida la qualificazione di gravità dei reati, che costituiscono
lo scopo dell’organizzazione, ad un’astratta misura unitaria ed indipen-
dente dalla specificità dei vari ordinamenti. A quest’ultimo proposito,
sembra preferibile ricorrere piuttosto alla tecnica degli elementi norma-
tivi, che consente di rinviare ai singoli sistemi penali degli Stati membri la
specificazione dettagliata dei reati qualificabili come ‘‘gravi’’ ai sensi della
norma minima comune. Per bilanciare tale rispetto delle diversità fra i
vari ordinamenti con il mantenimento di un nucleo di disvalore comune,
la norma propone alcuni indici, che devono orientare le fonti di produ-
zione dei singoli sistemi penali al momento in cui recepiscono la norma
comune. Riferire gli indici scelti al conseguimento del programma dell’or-
ganizzazione ribadisce l’opportunità di punire, al di là dei singoli reati, an-
che l’apparato messo in piedi e mantenuto proprio al fine di realiz-
zarli (44).
Sub 4) Più generali sono le indicazioni avanzate sul piano delle san-
zioni penali, contenute nel comma 4 e 5. In primo luogo, appare ragione-
vole collocare la pena applicabile alla singola condotta di partecipazione
ad un livello non superiore a quella dei reati oggetto del programma del-
l’organizzazione. Questa è punita per il suo potenziale di pericolo rispetto

(44) In merito alla specificazione di una serie comune di reati gravi ed alla norma
sulla competenza, v. infra, par. 4.3.2.

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alla commissione di una serie di reati; solo una contraddizione di valuta-


zione potrebbe indurre a fissare una pena per il reato di pericolo ad un li-
vello più elevato di quella riservata alla sua realizzazione nella corrispon-
dente lesione. Il limite di proporzione non è contraddetto dalla ratio che
fonda la punibilità dell’organizzazione e che consiste proprio nelle più ele-
vate potenzialità criminose di un gruppo costituito e strutturato proprio
per realizzare fini illeciti. Rispetto alla più elevata ‘‘capacità a delinquere’’
del soggetto collettivo, la singola condotta di mera partecipazione apporta
infatti un contributo individuale alla realizzazione dell’intera strategia;
essa non può dunque essere sanzionata con livelli sanzionatori fissati in
base alla meritevolezza di pena dell’organizzazione nel suo complesso. La
pena prevista per il reato più grave compreso nell’indeterminato pro-
gramma criminoso dell’organizzazione segna dunque il limite della pena
per il singolo partecipe. Si tratta peraltro di un tetto massimo, che ogni
singolo ordinamento degli Stati membri può diminuire, per accordarlo ai
livelli sanzionatori interni (45). Si noterà che la proposta non vincola gli
ordinamenti nazionali a prevedere una determinata pena per la partecipa-
zione ad un’organizzazione criminale. Il self restraint in proposito è sor-
retto dalle stesse considerazioni che hanno indotto a negare la determina-
zione dei reati-scopo attraverso il riferimento ad un livello astratto di
pena: la varietà di livelli sanzionatori attualmente esistenti nei vari sistemi
penali degli Stati membri determinerebbe inevitabili discrasie sanzionato-
rie. In mancanza di un più generale processo di armonizzazione dei livelli
penali nazionali, una determinazione rigida a livello europeo della san-
zione penale da recepire nei singoli sistemi penali implicherebbe un disva-
lore non omogeneo, ma condizionato dal contesto sanzionatorio comples-
sivo in cui va ad inserirsi. Problema questo che invero appare sottovalu-
tato dalla recentissima tendenza a determinare rigidamente anche il ver-
sante sanzionatorio degli standard normativi europei: in materia ad esem-
pio di falsificazione dell’euro, per alcune delle condotte di cui si richiede
l’incriminazione ai singoli Stati è stata anche indicata la connessa san-
zione detentiva (non inferiore a otto anni); ed una tecnica analoga è pro-
spettata nella delicata materia del terrorismo (46).
Sub 5) La particolare capacità criminosa dell’organizzazione giusti-
fica poi la pena più elevata prevista per i capi ed i fondatori dell’organiz-
zazione, che il comma 5 della proposta fissa fino a tre volte della pena da

(45) Per l’aggravamento di pena in caso di organizzazioni criminali transnazionali o


che adottano il metodo dell’intimidazione diffusa, v. infra, par. 4.3.2.
(46) Rispettivamente art. 6 decisione-quadro del Consiglio, del 29 maggio 2000, re-
lativa al rafforzamento della tutela per mezzo di sanzioni penali e altre sanzioni contro la fal-
sificazione di monete in relazione all’introduzione dell’euro, in GUCE L 140 del 14 giugno
2000; art. 5, Proposta di decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo
(COM/2001/521).

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prevedere per la condotta di mera partecipazione. Tale differenziazione di


posizioni corrisponde al generale principio di personalità della responsabi-
lità penale, valido anche in caso di soggetti collettivi, sia pure con oppor-
tuni adattamenti dei relativi criteri di imputazione. Proprio all’esigenza di
farsi carico della complessa articolazione interna delle organizzazioni più
pericolose, con la conseguente impermeabilità alle indagini degli organi
inquirenti e in sede giudiziaria (47), tenta di dare risposta la parte succes-
siva dello stesso comma 5, che muove da una proposta approvata dal già
ricordato congresso dell’A.I.D.P. dedicato al tema della criminalità orga-
nizzata. È ormai riconosciuta la difficoltà di applicare all’interno delle or-
ganizzazioni complesse e gerarchicamente ordinate le categorie tradizio-
nali del concorso di persone, che impongono di ricostruire le catene cau-
sali e soggettive fino ai vertici dell’organizzazione. Per superare l’ostacolo,
in quella sede internazionale è stata raccomandata l’adozione del nuovo
‘‘principio della responsabilità dell’organizzazione’’, secondo cui i capi ri-
spondono per i reati commessi dai membri dell’organizzazione stessa.
Tuttavia, non convince la formula con cui si è concluso il vivo dibattito
sviluppato a Budapest sul punto: i limiti al principio di imputazione fissati
in quell’occasione appaiono o inutili riaffermazioni di criteri tradizionali
(come quello dell’ordine impartito dal capo al sottoposto) o dogmatica-
mente infondati (come quello che rimprovera al capo l’omesso impedi-
mento del reato realizzato del membro dell’organizzazione, che presup-
pone a carico dei vertici dell’organizzazione obblighi di controllo a tutela
dell’ordinamento giuridico legale). La diversa soluzione qui proposta in-
tende invece collegare il reato commesso dal membro dell’organizzazione
alla responsabilità dei rispettivi capi attraverso il riferimento alla prevedi-
bilità rispetto al programma criminoso dell’associazione. Oltre a rispettare
la personalità della responsabilità penale, si riesce così a collegare il crite-
rio di imputazione proposto alla ratio politico-criminale che fonda la pu-
nibilità dell’organizzazione criminale.
Sub 6) Nel comma 6 si dà atto che la forma della persona giuridica
può servire a realizzare le attività del crimine organizzato. Per contrastare
tali abusi si accetta fondamentalmente l’idea di una forma di responsabi-
lità diretta della persona giuridica, nel solco di altre fonti internazionali e
segnatamente europee (48). Per precisarne i contenuti, si specifica che

(47) Per tale caratteristica cfr. ad es. FIJNAUT, Organisierte Kriminalität: eine wirkli-
che Bedrohung für die europäischer Union?, in Festschrift für Kaiser, cit. nt. 17, p. 512.
Sulle conseguenze in materia processuale ORLANDI, Strumenti processuali e contrasto alla
criminalità organizzata in Italia, in Il crimine organizzato, cit. nt. 4, p. 423 s.
(48) Per limitarsi ad alcuni esempi, cfr. l’art.4 della già citata (supra nt. 15) azione
comune dell’U.E. in tema di partecipazione all’associazione criminale; gli art. 8 e 9 della de-
cisione quadro del Consiglio del 29 maggio 2000, relativa al rafforzamento della tutela per
mezzo di sanzioni penali e altre sanzioni contro la falsificazione di monete in relazione all’in-

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tale responsabilità può sorgere quando la persona giuridica si riduca ad


un mero paravento per la realizzazione del programma criminoso, cosic-
ché tale forma giuridica non può vincere la necessità di contrastare il fe-
nomeno reale sottostante. Peraltro, visto la diversa tradizione dei paesi eu-
ropei in materia si preferisce nuovamente delegare al singolo ordinamento
la specificazione della natura delle sanzioni applicabili, sia pure all’interno
di una tavola predeterminata a livello europeo quantomeno a livello di ge-
neri.
Sub 7) Nel comma 7 si prevedono infine benefici a favore dei sog-
getti che si distaccano dall’organizzazione criminale e cooperano a sman-
tellarla. Secondo un principio di proporzione applicato al premio, i van-
taggi di trattamento promessi aumentano in proporzione all’aiuto assicu-
rato all’autorità pubblica. La materia va peraltro coordinata con la propo-
sta, elaborata in seno allo stesso Progetto Comune Europeo, sul tema ge-
nerale dei collaboratori di giustizia (49). L’espressa indicazione di norme
premiali nel contesto dell’organizzazione criminale segnala l’impossibilità
di considerare il solo profilo dell’efficacia di simili benefici, che induce a
fare dipendere l’esistenza di tali previsioni dalla loro applicazione: ciò è
ad esempio avvenuto in Germania, dove proprio la mancata applicazione
delle norme temporanee a favore dei collaboratori ha di recente motivato
la scelta di non prorogarle ulteriormente (50). Va invece rilevato che, in
relazione alle organizzazioni criminali, le norme premiali si rivolgono a
stimolare comportamenti antitetici all’offesa, che altrimenti permane fin-
ché il soggetto continua a partecipare al gruppo. Previsioni del genere ap-
paiono dunque in linea con un diritto penale tanto classicamente orientato
alla tutela dei beni giuridici, quanto arricchito dell’apporto moderno del-
l’idea preventiva (51); come tali, si tratta di strumenti che sembra oppor-
tuno non solo mantenere nell’arsenale di contrasto al crimine organizzato,
ma anche uniformare nel contesto europeo.
4.3. Le principali osservazioni alla proposta e le ragioni della sua
formulazione finale. — Nei confronti della proposta normativa sopra illu-

toduzione dell’euro; gli art. 2, 8 e 9 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002
sulla lotta contro il Terrorismo; gli art. 4 e 5 della decisione quadro del Consiglio del 21 di-
cembre 2000 nella lotta alla tratta degli esseri umani.
(49) HUBER, Government Witnesses and Undercover Agents, in Towards a European
Criminal Law, cit. nt. 4, pp. 9-10, e per il relativo rapporto esplicativo p. 109 s.
(50) Cfr. in proposito MEHRENS, Die Kronzeugenregelung für organisiert begangene
Straftaten gemaß Art. 5 KronzG, in Organisierte Kriminalität als transnationales Phänomen,
cit. nt. 4, pp. 306, 313 s.; e da ultimo, RUGA RIVA, Il premio per la collaborazione proces-
suale, Milano, 2002, p. 129 s.
(51) Per tale compatibilità di principio cfr. già PADOVANI, Il traffico delle indulgenze.
‘‘Premio’’ e ‘‘corrispettivo’’ nella dinamica della punibilità, in questa Rivista, 1986, p. 405
s.; PULITANÒ, Tecniche premiali fra diritto e processo penale, ivi, p. 1039 s.

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strata sono state avanzate numerose osservazioni (52). Al di là dei punti


di vista rispettivamente espressi, tutte denotano sensibilità politico-crimi-
nale e meritano di essere seriamente considerate; gli stessi rilievi critici
mossi alla proposta iniziale hanno permesso di fondarne meglio le scelte
compiute o anche di arricchirla con spunti ulteriori. Le varie prese di po-
sizione possono distinguersi in due gruppi principali, a seconda della ri-
spettiva natura essenzialmente politico-criminale o piuttosto dogmatico-ri-
costruttiva: le prime ruotano sulla fondamentale legittimità e/o opportu-
nità di una norma europea volta ad assicurare un nucleo comune fra gli
Stati membri in tema di associazione criminale; le altre si sono invece ri-
volte ai problemi dogmatici sollevati dalle singole soluzioni adottate nella
proposta iniziale e non mancano di formulazioni alternative e/o integratici
di grande interesse.
Non è peraltro possibile considerare più da vicino i principali argo-
menti riconducibili ai due gruppi indicati, senza avere preliminarmente
sgombrato il campo dai dubbi in merito alla natura stessa della proposta
formulata, se cioè essa rappresenti un modello solo orientativo per i sin-
goli ordinamenti o abbia piuttosto natura vincolante per le rispettive
scelte di incriminazione (Arnold, Eser). Alla base giuridica delle proposte
di armonizzazione sul terreno in esame sarà dedicata una specifica atten-
zione (infra, par. 5); tuttavia per superare le incertezze surricordate è op-
portuno chiarire anticipatamente che lo strumento per adottare a livello
europeo la proposta avanzata è quello della decisione-quadro. Essa non ha
effetti diretti sui cittadini, ma richiede pur sempre un atto giuridico di re-
cepimento da parte dei singoli ordinamenti degli Stati membri. Questi a
loro volta sono vincolati dalle decisioni quadro europee solo in relazione
al fine da raggiungere e non invece quanto alle modalità per ottenere i ri-
sultati predeterminati a livello sovranazionale. Nel passaggio ulteriore del
recepimento nazionale la previsione comune europea potrà certo essere
adattata alle caratteristiche interne del singolo sistema penale, purché non
si disperda la fondamentale unitarietà di disvalore del fatto punito e dei
criteri di imputazione previsti.

(52) In particolare, osservazioni scritte alla proposta originaria sono state formulate
in occasione del III workshop del Progetto comune europeo — che si è svolto a Madrid nei
giorni 15-17 giugno 2000 a cura dell’Instituto Europeo de España — da Ardizzone (Univer-
sità di Palermo); Arnold (Max-Planck-Institut, Freiburg); Ingroia (Procura della Repubblica,
Palermo), Kinzig (Max-Planck-Institut, Freiburg); Perez del Valle (Tribunal Supremo de
España, Madrid); successive prese di posizione sono state avanzata da Ducouloux-Favard
(Université de Paris IX) e da Kareklás (Università di Salonicco). Ai rispettivi autori, agli al-
tri intervenuti al dibattito di Madrid che hanno preso posizione sul tema dell’organizzazione
criminale (Aliquò, Procura Generale della Repubblica, Palermo; Eser, Max-Planck-Institut,
Freiburg), ed ad altri colleghi che sono intervenuti sulla proposta in altri incontri di studio
(Silva Sánchez, Università ‘‘Pompeu Fabre’’ di Barcellona, Papa e Grasso, rispettivamente
Università di Firenze e Catania) rivolgo un sentito ringraziamento per gli apporti tanto infor-
mativi, quanto critici, che sono stati forniti alla definizione della proposta.

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Come è stato espressamente riconosciuto dai commentatori (in parti-


colare, dallo stesso Arnold), la proposta è stata formulata in modo da cer-
care un equilibrio fra i profili da mantenere in comune a livello europeo e
gli spazi da lasciare aperti al fine di consentire una successiva integrazione
da parte dei singoli ordinamenti senza appiattirne acriticamente tutti gli
aspetti sostanziali e processuali. Il che, oltre che legittimo, appare anche
opportuno per agevolare l’accoglimento di una norma comune in materia
penale da parte dei vari Stati membri. Il tentativo di pervenire ad un equi-
librio fra elementi comuni e spazi riservati all’intervento del legislatore
nazionale consente infatti di non restare incagliati nel tradizionale atteg-
giamento di preclusione alle limitazioni di sovranità in ambito penale.
D’altra parte, sembra opportuno aggiungere che la soluzione proposta
evita di trasformare la consapevolezza delle difficoltà di armonizzazione
normativa nelle materie qui considerate in una resa rispetto alla fattibilità
di un’impegno in proposito (53).
4.3.1. Quanto alle osservazioni di natura politico-criminale in me-
rito alla ragionevolezza della proposta qui avanzata, accanto alle nume-
rose prese di posizione favorevoli espresse da magistrati (Ingroia) e stu-
diosi (Ardizzone, Perez del Valle, Ducouloux-Favard), si sono registrate
pure riserve (Arnold) o posizioni di più radicale rifiuto (Kinzig).
In merito alle critiche sollevate, va in primo luogo osservato che esse
in parte non intendono comunque negare la fondamentale possibilità di
introdurre un modello europeo di ‘‘partecipazione ad un’organizzazione
criminale’’ (così conclude Arnold) o quantomeno di forme di coopera-
zione giudiziaria internazionale e regole comuni sul piano delle misure
processuali (Kinzig, che ad esempio saluta favorevolmente le decisioni di
Tampere in tema di Eurojust, la rete di assistenza giudiziaria in Europa).
Di conseguenza, anche chi ha criticato la scelta di proporre una norma co-
mune europea in materia di organizzazione criminale non può discono-
scere la fondamentale esigenza di altre forme di risposta comune europea
ai problemi posti dalla criminalità contemporanea, evidentemente proprio
in virtù del carattere transnazionale che ne caratterizza molte manifesta-
zioni.
D’altra parte, quelle critiche muovono da un assunto che non si rivela
fondato. In particolare, è stata criticata una supposta volontà di generaliz-
zare la soluzione italiana dell’art. 416-bis c.p., nonostante che ciò non sa-
rebbe consentito dalle forti diversità fra le forme della criminalità organiz-

(53) L’esatto rilievo delle specificità che ad un attento esame comparato presenta cia-
scun sistema penale (nei confronti delle proposte sovranazionali di standards normativi in
tema di criminalità organizzata PAPA, op. cit., nt. 4, p. 800 richiama l’attenzione sul dato che
‘‘ogni ordinamento è una realtà ... a suo modo unica’’) non deve far trascurare l’impegno di
armonizzazione normativa in materia scolpito nelle norme dei Trattati europei (su cui infra
par. 5).

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zata in Italia e nelle altre realtà nazionali europee, in particolare tedesca e


spagnola, che sono state analizzate nella prima fase del Progetto Comune
Europeo (Arnold, Kinzig).
Riconoscere alcune diversità nella consistenza o nelle manifestazioni
attuali del fenomeno in questione fra i diversi sistemi europei non cancella
l’esigenza di fondo dell’armonizzazione normativa europea, ma solo se-
gnala la difficoltà di trovare un equilibrio fra quell’obiettivo e le peculia-
rità nazionali (54). La stessa esperienza italiana è stata utile solo per indi-
viduare un modello di incriminazione più aderente alle caratteristiche
delle organizzazioni criminali, senza pensare ad una trasposizione inte-
grale di quella specifica formulazione. In proposito, basta confrontare la
descrizione della condotta della citata norma italiana e quella invece qui
proposta a livello europeo, per constatare che quest’ultima non prevede
come requisito costituivo il c.d. metodo mafioso, che invece è essenziale
nel contesto dell’art. 416-bis c.p.it.: si è con ciò inteso evitare una genera-
lizzazione indebita della specificità italiana nel momento in cui ci si
proietta in una più articolata dimensione europea.
Né d’altra parte le differenze in materia impediscono di individuare
uno o più elementi strutturali comuni, che costituiscano la base per una
formulazione unitaria a livello europeo. Il richiamo in proposito al princi-
pio della stretta necessarietà dell’intervento penale (ancora Kinzig) non
convince, se usato per negare una proposta come quella qui considerata.
Quel rilievo trascura il dato che nella maggioranza dei Paesi europei l’as-
sociazione criminosa è già punita, ma con norme ampie ed inadeguate a
cogliere la specifica pericolosità delle organizzazioni criminali; la proposta
descrive invece in modo più determinato la figura dell’organizzazione cri-
minale ed in tal senso configura una fattispecie speciale rispetto alle più
generiche incriminazioni modellate sull’association de malfaiteurs. In tali
casi, la norma minima europea non comporta quella restrizione delle li-
bertà individuali e collettive a cui allude il monito al principio di necessa-
rietà dell’intervento penale, contribuendo al contrario ad una più precisa
tipizzazione delle condotte punibili. E l’inefficacia della attuale formula-
zione di una norma nazionale (per la Germania, Arnold, Kinzig) non
prova ancora nulla sull’opportunità di provvedere un affinamento della
previsione legale, cercando di meglio cogliere le note caratteristiche delle

(54) Sul punto, nel senso esatto, v. l’intervento di Ingroia al workshop di Madrid. A
conclusioni analoghe giungevo anche in Agli albori, cit. nt. 14, pp. 16 s., 21 s. (incompleto è
dunque il richiamo operato da Kinzig a Madrid al mio riconoscimento delle diversità in ma-
teria esistenti fra i diversi Paesi europei). Anche Perez del Valle, nel suo intervento presen-
tato nella stessa occasione a Madrid, ha efficacemente confutato i tentativi di negare una ri-
levanza europea del fenomeno della criminalità organizzata a partire dall’origine nordameri-
cana della relativa terminologia (come invece sostenuto ad es. da P.A. ALBRECHT-BRAUM, De-
fizite europäischer Strafrechtsentwicklung, in KritV, 1998, p. 465 s.).

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organizzazioni criminali. Al contrario, proprio uno sforzo di selettività


della condotta criminosa può conferire maggiore efficacia allo strumento
penale in materia: un noto canone di scienza della legislazione penale im-
pone che le incriminazioni si conformino ai caratteri empirico-criminolo-
gici dei fenomeni che intendono contrastare.
Ribadita dunque la fondatezza della conclusione condivisa dalla mag-
gioranza delle prese di posizione sulla proposta qui formulata, vale a dire
legittimità ed opportunità di una norma comune in tema di organizza-
zione criminale, rimangono da esaminare l’adeguatezza allo scopo poli-
tico-criminale e la correttezza dogmatica delle soluzioni indicate nel testo
di partenza. Anche a questo proposito sono state avanzate osservazioni
degne della massima attenzione, che vengono di seguito esaminate critica-
mente.
4.3.2. La maggioranza dei rilievi di questo genere si è concentrata
sulla delicata questione della nozione di organizzazione criminale e della
relativa condotta di partecipazione. Si possono in primo luogo prendere in
considerazione le osservazioni rivolte ai requisiti minimi previsti in propo-
sito rispettivamente nel comma 2 e 3 della proposta. Ad esempio, si è rile-
vata l’inopportunità di fissare un numero minimo di tre componenti per
l’esistenza di un’organizzazione criminale, in quanto sarebbe sufficiente la
presenza anche solo di due persone (Doucoloux-Favard); altri hanno in-
vece criticato il carattere non occasionale della partecipazione all’organiz-
zazione, in quanto basterebbe piuttosto richiedere che il contributo si sia
realizzato ‘‘nel quadro dell’organizzazione criminale’’ (Perez del Valle), o
comunque che il soggetto sia entrato ‘‘a far parte’’ dell’associazione, an-
corché lo stesso non abbia compiuto attività volte alla realizzazione del
programma criminoso dell’associazione (Ingroia, che richiama in propo-
sito le posizioni della giurisprudenza italiana). Sempre rispetto allo stesso
requisito si è richiamata l’attenzione sul destino dei contributi occasionali,
che nell’attuale formulazione proposta resterebbero fuori dalla portata
della norma, benché nella recente esperienza italiana siano perseguiti
come forme di concorso esterno al reato associativo (Ardizzone). Da ul-
timo, sono state avanzate riserve nei confronti del requisito organizzativo
della divisione dei compiti, affermandosi che esso non esprime la specifica
pericolosità dell’organizzazione e rappresenta dunque un appesantimento
probatorio non necesssario (Papa, Grasso).
I rilievi richiamati denunciano tutti una restrizione eccessiva della
portata dell’incriminazione, in quanto i requisiti proposti sarebbero
troppo rigorosi o comunque difficili da provare. Va in proposito osservato
che nella formulazione della proposta si è mirato a raggiungere un suffi-
ciente livello di determinatezza nella descrizione delle condotte punibili a
titolo di organizzazione criminale. Si è inteso così contrastare le tradizio-
nali obiezioni alla formulazione generale dell’associazione per delinquere

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ed alla sua difficile compatibilità con i principi garantistici di un diritto


penale liberale. Al contempo, si è cercato di tradurre sul piano della de-
scrizione delle condotte punibili il presupposto politico-criminale della
norma, vale a dire la maggiore pericolosità dell’esistenza di strutture orga-
nizzative rivolte ad un numero indeterminato di illeciti e caratterizzate
dall’intercambiabilità dei singoli partecipanti. Si spiega così la necessità di
riservare la nozione di organizzazione illecita ad un nucleo sufficiente-
mente concentrato di comportamenti, in grado di esprimere chiaramente
quella particolare pericolosità, che rappresenta il ‘‘disvalore aggiunto’’ ri-
spetto alla realizzazione di un singolo illecito plurisoggettivo.
Da qui la scelta di richiedere un minimo di tre partecipanti al nucleo
organizzativo, che sarebbe invece insufficientemente caratterizzato ove li-
mitato a solo due persone. Può apparire difficile cogliere una differenza
nella pericolosità fra le rispettive aggregazioni, a parità di altri requisiti
(quali la divisione interna dei compiti). L’ostacolo si supera se si ipotizza
una situazione estrema: nel caso in cui uno dei partecipi sia anche solo
temporaneamente impedito ad agire, le prevalenza delle strutture organiz-
zative esistenti possono restare in funzione, grazie all’apporto personale
degli altri due soggetti; se invece ci si accontentasse di solo due associati
per affermare la sussistenza dell’organizzazione criminale, nel caso sud-
detto si determinerebbe un’inammissabile confusione fra la realizzazione
monosoggettiva e quella associativa di un programma di reati.
Ciò comporta inevitabilmente una restrizione della portata della pu-
nibilità ai sensi dell’incriminazione criminale, almeno rispetto alla formu-
lazione generale pensata sul risalente ed ormai inadeguato modello del-
l’association des malfaiteurs. Si conferma così che la logica che sorregge
la proposta non è l’estensione a senso unico della punibilità rispetto alla
situazione esistente, per di più in contrasto al principio di necessità del-
l’intervento penale; si è invece cercato di non trascurare l’esigenza di una
delimitazione tassativa dell’incriminazione. L’importante è che la norma
non sia formulata in modo da lasciarsi sfuggire proprio quelle organizza-
zioni criminali che esprimono la ricordata pericolosità qualificata attra-
verso strutture operative volte alla realizzazione di un programma crimi-
noso.
Proprio per contrastare un rischio del genere si è preferito non preve-
dere il requisito della stabilità come attributo dell’organizzazione, conte-
nuto invece nella corrispondente norma del corpus juris. Nonostante il fa-
vore che un tale inserimento ha incontrato in alcune osservazioni alla pro-
posta qui in esame (Ingroia, Perez del Valle, da ultimo Grasso), appare
preferibile confermare la scelta compiuta nella proposta originale, che del
resto è nel solco di altri, già richiamati, recenti documenti sovranazio-
nali (55). Il riferimento ad una ‘‘organizzazione stabile’’ potrebbe infatti

(55) Come la già citata Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale si

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indurre ad escludere dalla portata dell’incriminazione le aggregazioni in


cui vi sia una qualche mobilità nell’organizzazione interna in relazione o
alle persone che ricoprono determinati ruoli, anche solo operativi, o al
modificarsi dei settori illeciti occupati. Ciò risulta tanto più importante
quanto più si considera che il modello organizzativo rigido è solo una
delle forme adottate dalla criminalità contemporanea, che conosce anche
aggregazioni fra gruppi di soggetti solo temporanee e mutevoli negli in-
trecci reciproci. Anche rispetto a manifestazioni del genere il tradizionale
modello del concorso di persone appare inadequato, in quanto si tratta di
reti criminose caratterizzate da facile sostituibilità nei rispettivi ruoli e
dalla conseguenti difficoltà di accertamento. Per farsi carico di ciò, si è
preferito limitare il requisito organizzativo all’articolazione dei compiti fra
almeno tre soggetti, completandolo del riferimento alla possibilità di ope-
rare anche su scala transnazionale. La divisione di compiti, lungi dal rap-
presentare un elemento scarsamente caratterizzante la specifica pericolo-
sità del fatto incriminato, assume dunque la funzione di esplicitare l’ele-
mento organizzativo, che rimane il fulcro della meritevolezza di pena ben-
ché si sia preferito non intenderlo in termini eccessivamente rigidi e for-
malistici.
Da salutare con favore è invece il suggerimento a completare l’inno-
vativo meccanismo pensato per definire i reati che rientrano nel pro-
gramma criminoso: per maggiore certezza si è proposto di specificare un
nucleo esemplificativo di reati gravi, riconosciuti come tali dai vari Stati
membri ai fini dell’applicabilità della norma europea (Aliquò). Seguendo
tale indicazione, il comma 3 della proposta è stato integrato con l’indica-
zione dei seguenti reati: omicidio doloso, sequestro di persona, traffico di
stupefacenti, riciclaggio, corruzione, traffico di esseri umani. Le previsioni
delle rispettive condotte da parte dei singoli Stati membri costituiscono al-
trettanti riferimenti per concretizzare in modo uniforme il programma cri-
minoso che rileva per la norma minima europea sull’organizzazione crimi-
nale. La nuova formulazione garantisce un equilibrio soddisfacente fra la
necessità di considerare le differenti valutazioni sui singoli illeciti operate
dai sistemi penali nazionali — necessità trascurata da un riferimento ad
una soglia di pena prefissata, secondo quanto previsto invece nelle altre
iniziative internazionali prima esaminate — e l’esigenza di ancorare il rife-
rimento all’elemento normativo della gravità definita dai singoli sistemi
penali ad un nucleo di significato omogeneo, che in effetti non era ade-
guatamente considerata dalla soluzione che era stata inizialmente qui pro-
posta. La formulazione finale evita peraltro di fissare un catalogo tassa-

riferisce ad un ‘‘gruppo strutturato di tre persone o più’’, senza richiedere il carattere della
‘‘stabilità’’ (art. 2, lett. a)); al contrario, si specifica che la nozione di ‘‘gruppo strutturato’’
non necessita né di ruoli predefiniti dei suoi partecipanti, né di una continuità degli stessi, né
infine di una struttura sviluppata (art. 2, lett. c).

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tivo dei reati oggetto del programma dell’organizzazione criminosa, in


quanto si finirebbe nuovamente per appiattire indebitamente le differenti
valutazioni dei singoli ordinamenti; questi possono invece integrare l’e-
lenco comune dei reati gravi, indicando ulteriori illeciti che sono avvertiti
come gravi nel contesto di un determinato Stato-membro, sempre ai fini
di determinare il programma criminoso dell’organizzazione criminale defi-
nita dalla norma minima europea.
Per inciso, va segnalato che la fruttuosità del dibattito sviluppato
sulla proposta originaria ha interessato anche il suo profilo processuale: la
determinazione della competenza nei casi di associazioni che operano in
stati diversi. Riconoscendo le difficoltà applicative (segnalate da Perez del
Valle) connesse al criterio originariamente prospettato in via esclusiva,
che attribuisce la competenza all’ordinamento dello Stato-membro in cui
l’organizzazione ha iniziato ad operare, lo si è completato con una for-
mula che semplifica i rapporti fra autorità giudiziarie. Si è aggiunto infatti
che nei casi in cui non si riesca a determinare il luogo di inizio delle atti-
vità, la competenza spetta al sistema in cui per la prima volta è stata eser-
citata l’azione penale nei confronti dell’organizzazione che operi in diversi
Stati membri.
Riprendendo l’esame dei profili di diritto sostanziale, la restante deli-
mitazione di responsabilità personale del singolo partecipe è stata invece
affidata alla descrizione dei requisiti oggettivi e soggettivi della relativa
condotta. In proposito, va in primo luogo segnalato che il requisito del
contributo non occasionale serve a dare pregnanza proprio a quel con-
cetto di ‘‘essere parte’’ dell’organizzazione criminale (suggerito da In-
groia), che altrimenti risentirebbe di una eccessiva indeterminatezza. An-
che l’agire ‘‘nel quadro dell’organizzazione criminale’’ (preferito invece da
Perez del Valle) appare essere più il risultato finale di una valutazione, che
la descrizione dei requisiti in base ai quali formulare il giudizio in que-
stione. La scelta preferibile rimane quella di richiedere che l’apporto del
singolo possa concernere tanto la struttura organizzativa, quanto l’attività
criminosa.
Anche la c.d. ‘‘neutralità’’ di certi comportamenti non programmati-
camente rivolti a fini criminosi (richiamata ancora da Perez del Valle) si
colora di illiceità alla luce dell’espresso riferimento operato nella proposta
alla consapevolezza del soggetto di incrementare attraverso il proprio ap-
porto la capacità a delinquere dell’organizzazione. Senza un tale momento
soggettivo la condotta individuale sarebbe ancora incapace di esprimere,
in un numero elevato di situazioni, la partecipazione all’organizzazione
criminale. Proprio nei casi in cui i comportamenti materiali del singolo
rientrano in classi di situazioni socialmente accettate, l’illiceità di tali con-
dotte può derivare solo dalla consapevolezza nel soggetto del loro carat-
tere strumentale, anche solo in termini di apporto agevolatorio, rispetto

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alle attività di un ente collettivo, le cui finalità sono espressamente contra-


rie ai valori tutelati dall’ordinamento.
D’altra parte, non è detto che le situazioni non ricomprese nei commi
due e tre della norma proposta debbano rientrare tutte nell’ambito della
liceità. Prima di tale conclusione occorre verificare se ricorrano gli estremi
per configurare l’applicabilità delle disposizioni sul concorso di persone
nel reato previste dai sistemi penali nazionali, la cui armonizzazione non
era stata assunta fra gli obiettivi del Progetto comune europeo nel convin-
cimento che una tale impresa è di alto valore teorico e di grande impor-
tanza pratica, ma ancora manca della base giuridica sufficiente per la sua
concretizzazione normativa. La soluzione accolta rappresenta peraltro un
ulteriore margine di adeguamento della proposta comune alle specificità
nazionali, che consente di filtrare la soluzione europea alla luce delle solu-
zioni normative di parte generale adottate nei singoli ordinamenti: ad
esempio, la contestata problematica italiana del concorso esterno all’asso-
ciazione per delinquere di stampo mafioso non è affatto detto che sia au-
tomaticamente importata in un diverso sistema penale (come invece teme
Kinzig).
Per connessione, si può richiamare un altro punto in cui si è scelto di
individuare soluzioni aggiornate a livello europeo, senza trascurare le dif-
ferenti tradizioni dogmatiche presenti nei sistemi penali nazionali. Si
tratta della responsabilità delle persone giuridiche, prevista nella proposta
europea almeno per i casi in cui vi sia una scissione palese fra forma giuri-
dica ed attività concretamente esercitata, ma senza vincolare ad una parti-
colare qualificazione della natura di tale responsabilità, che rimane affi-
data ai singoli ordinamenti nazionali, al pari del catalogo delle sanzioni
applicabili in tali casi. L’indicazione (Ducouloux-Favard) a favore di un’e-
stensione generalizzata delle soluzioni adottate in proposito dal nuovo co-
dice penale francese rischia di fare saltare su questo punto cruciale l’equi-
librio fra norma sovranazionale e differenti soluzioni dei singoli sistemi
penali (la contrarietà ad es. del sistema greco ad una responsabilità penale
delle persone giuridiche è stata osservata da Kareklás).
Più delicato è il problema (posto acutamente dalla stessa Docouloux-
Favard) se ed a quali condizioni una persona giuridica possa partecipare
ad un’organizzazione criminale anche se non si sia trasformata in vero e
proprio paravento per questo. In via di principio, non si può escludere che
anche la persona giuridica ponga in essere i comportamenti indicati al
comma 2 della proposta; tuttavia occorre verificare con cautela che non si
tratti di atti estranei alla volontà sociale, riconducibile piuttosto ad inizia-
tive di singoli amministratori. Anche qui peraltro esistono ampi spazi per
un’ulteriore integrazione con i singoli ordinamenti nazionali, che in pro-
posito possono specificare i requisiti più adeguati ai principi di responsa-
bilità rispettivamente adottati in tema di persone giuridiche.

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Quanto ai profili sanzionatori, mentre va riaffermata la scelta impli-


cita di non prevedere a livello comune misure di sicurezza, in quanto
troppo condizionate dalle specificità dei sistemi nazionali (per uno spunto
in senso diverso invece Perez del Valle), è apparso fondato un diverso sug-
gerimento. Si è infatti opportunamente segnalata l’esigenza di prendere in
considerazione la qualità dell’organizzazione criminale, in relazione ad al-
cuni indici rivelatori della sua speciale pericolosità. In particolare, si è ri-
chiesto di integrare il comma 4 della proposta di norma minima europea
con un aumento di pena, pari almeno alla metà dell’ipotesi base, quando
le attività criminose dell’organizzazione si estendano a più Stati membri o
quando l’organizzazione adotti come metodo sistematico quello dell’inti-
midazione diffusa (Ingroia). Il suggerimento è stato accolto nella formula-
zione definitiva della proposta perché non solo ne coglie bene la logica di
fondo, ma per di più la sviluppa con coerenza e sensibilità politico-crimi-
nale: evitando di generalizzare comportamenti che sono specifici di una
realtà particolare (come il metodo dell’intimidazione sistematica, tipico
della mafia), va d’altra parte contrastata una loro possibile diffusione an-
che in nuovi territori, che sfrutti l’abbattimento delle frontiere all’interno
dell’Unione europea e la più generale tendenza a proiettare su scala inter-
nazionale le attività criminali. Senza farne allora un requisito costitutivo
della nozione base di organizzazione criminale, l’estensione delle sue atti-
vità illecite in diversi ordinamenti esprime certo un maggiore disvalore ol-
tre ad un’accresciuta difficoltà di accertamento, di cui si può fare carico la
norma minima europea in materia.
Infine, una graduazione analoga, ancorché riferita invece alle agevo-
lazioni per le collaborazioni con gli organi inquirenti, è prevista espressa-
mente a chiusura della proposta sulla partecipazione ad un’organizzazione
criminale. In effetti, la già citata proposta Huber, dedicata nello stesso
Progetto comune europeo alla collaborazione processuale, segue una solu-
zione diversa, che affida ai singoli ordinamenti nazionali la determina-
zione dei vantaggi che scaturiscono da tali contributi. I rischi di incoe-
renze che derivano da tale soluzione meno rigida solo in parte sono con-
trastati dall’espressa previsione contenuta nella stessa proposta, secondo
la quale i vantaggi assicurati dal sistema penale di uno Stato membro pos-
sono essere fatti valere anche negli altri ordinamenti degli Stati membri.
Infatti, se la collaborazione viene prestata in relazione ad un’organizza-
zione che estende le sue attività in diversi Stati membri, il valore che ad
essa verrà attribuita dipenderà solo dalla circostanza che il membro del-
l’organizzazione si trovi nell’uno o nell’altro dei rispettivi ordinamenti. Il
possibile divario può disincentivare le collaborazioni nei sistemi penali
meno favorevoli alla concessione di benefici, in attesa che i soggetti inte-
ressati per scelta (spostamenti autonomi se ancora in condizioni di li-
bertà) o per i meccanismi della cooperazione giudiziaria (estradizioni di

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coloro che siano già assoggettati a procedimento penale) si spostino in or-


dinamenti che premiano in misura maggiore la collaborazione in que-
stione. Invece, la formula qui proposta non solo assicura un trattamento
uniforme che elimina alla radice le incoerenze indicate, ma per di più pre-
vede una gradualità delle agevolazioni collegate ai diversi apporti. La di-
minuzione o l’esclusione della pena dipende dall’efficacia della collabora-
zione rispetto all’impedimento delle attività criminali delle organizzazioni.
Un’impostazione non solo in linea con un diritto penale rivolto alla tutela
dei beni giuridici, ma anche pienamente compatibile con le altre detta-
gliate previsioni contenute nella proposta Huber in materia di collabora-
tori di giustizia. La scelta di mantenere l’ultimo comma della proposta in
esame va intesa dunque come spunto affidato per un più ampio dibattito
sui risultati e sugli altri contributi prodotti nel contesto del Progetto co-
mune europeo.
Il futuro dibattito sulle responsabilità negli enti collettivi non potrà
mancare infine di approfondire la questione relativa alla responsabilità dei
capi per i reati commessi nell’ambito della attività criminosa dell’organiz-
zazione. La proposta contenuta nel comma 5 del testo per il suo carattere
innovativo rispetto agli schemi tradizionali modellati sulla responsabilità
concorsuale non poteva restare esente da prese di posizioni critiche: in
particolare, è stata rilevata tanto la problematica compatibilità fra il crite-
rio di imputazione proposto ed il principio di colpevolezza quanto la sua
sostanziale inutilità, essendo già contemplato nel testo un aggravamento
di pena per i capi e gli organizzatori (rispettivamente Silva Sánchez e
Grasso).
L’esigenza politico-criminale da cui muove la proposta non può però
essere cancellata con un colpo di penna: non solo essa è stata riconosciuta
nel già ricordato convegno dell’A.I.D.P. dedicato alla criminalità organiz-
zata (supra, par. 4.2., sub 5), ma si riscontra in vicende giurisprudenziali
che hanno segnato l’esperienza recente di singoli ordinamenti nazionali,
come quello tedesco (56) ed italiano (57). Ed un modello di imputazione
analogo è stato ora posto a carico dei comandanti militari e dei superiori

(56) Su tali orientamenti recenti in relazione agli omicidi sul muro di Berlino
(BGHSt, vol. 40, p. 218; conf. BGH, 5 StR 42/97 del 30 aprile 1997) e la loro applicabilità
sul terreno della criminalità organizzata, cfr. soprattutto ROXIN, Probleme von Täterschaft
und Teilnahme bei der organiserten Kriminalität, in Festschrift für Grünwald, Samson et al.
(Hrsg.), Baden-Baden, 1999, p. 549 s.; v. anche AMBOS, Tatherrschaft durch Willens-
herrschaft kraft organisatorischer Machtapparate, in Goltdammer’s Arkiv, 1998, p. 226 s. e
per i riferimenti ulteriori CRAMER-HEINE, in SCHÖNKE-SCHRÖDER, Strafgesetzbuch-Kommen-
tar, München, 2001, p. 498, sub par. 25 ann. 25-25a.
(57) Sul terreno della criminalità mafiosa la decisione di riferimento è quella del c.d.
maxi-processo di Palermo: Cass. 30 gennaio 1992, in Foro it., 1993, II, c. 39, con nota di
FIANDACA. Sul punto in particolare CRUPI, Consenso tacito e partecipazione ai delitti scopo,
con particolare riferimento all’associazione mafiosa, Marsala, 1999.

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gerarchici per i fatti criminosi commessi dai sottoposti e rientranti nella


competenza della Corte penale internazionale (art. 28 del relativo Sta-
tuto). Certo, il punto è emblematico del contrasto fra categorie dogmati-
che ancorate a principi elaborati su un modello ‘‘bipolare’’ di reato, in cui
tanto l’autore quanto la vittima sono individui isolati, ed una politica cri-
minale sempre più chiamata a contrastare attività illecite che si svilup-
pano in contesti di gruppo (58). In uno scenario del genere si può qui solo
richiamare l’esigenza generale di aggiornare il tradizionale quadro di ga-
ranzie per adeguarle alle caratteristiche strutturali della criminalità dei
gruppi: proprio questo è il senso della scelta compiuta in relazione al ter-
reno specifico in esame, di limitare il novero dei reati di cui rispondono i
capi a quelli che non sono imprevedibili rispetto al programma criminoso
dell’organizzazione. Se questa viene incriminata in quanto rappresenta
una ‘‘criminale macchina da guerra’’, e sempreché sia organizzata in ter-
mini rigoramente gerarchici, colui che tira le file dell’attività collettiva
non può restere esente dalla responsabilità per i reati che rappresentano la
concretizzazione del programma criminoso.
Il surricordato rilievo, secondo cui basterebbe in proposito la più ele-
vata sanzione prevista per la sola posizione di capi, trascura che quell’ag-
gravante serve a differenziare la pena all’interno del contesto organizza-
tivo anche indipendentemente dalla concreta commissione di un reato, ma
perde tale capacità selettiva via via che crescono i reati commessi rien-
tranti nel programma dell’organizzazione. Evitare un simile appiattimento
è imposto però dallo stesso principio di personalità della sanzione penale,
dal quale si ricava anche l’esigenza di differenziare le responsabilità dei
vari membri dell’organizzazione. Né ciò contrasta con il principio di col-
pevolezza, in quanto il capo contribuisce con l’intera sua attività a porre
una o più condizioni per la realizzazione dei reati che rientrano nel pro-
gramma criminoso dell’organizzazione. Anche sul versante soggettivo, la
direzione dell’attività comporta un rappresentarsi ed un volere raggiun-
gere tutti i risultati del programma criminale.
Un mancato rispetto del principio di colpevolezza non può fondarsi
neppure sul rilievo secondo cui la proposta finirebbe per punire a titolo di
dolo una responsabilità solo colposa del capo (così in particolare Silva
Sánchez): il riferimento, contenuto nella proposta, all’imprevedibilità del
reato non vale infatti per porre la colpa a fondamento implicito della re-
sponsabilità dei capi, ma come limite negativo di quest’ultima. Come già
indicato, la natura dolosa della responsabilità in questione va rintracciata
nel dato che il capo guida l’attività dell’intera organizzazione, almeno nei

(58) Un contrasto che svela tutta l’insufficienza del compromesso liberale fra garan-
zie dell’autore del reato e tutela della potenziale vittime: in proposito sia consentito rinviare
a MILITELLO, Dogmatica penale e politica criminale in prospettiva europea, in questa Rivi-
sta, 2001, p. 416 s.

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limiti in cui questa sia strutturata sul modello verticistico; invece, l’esclu-
sione dei fatti imprevedibili serve solo ad agevolare la prova del rapporto
fra il vertice dell’organizzazione criminosa e le singole azioni criminose e
ciò si giustifica proprio per la notoria impenetrabilità delle articolazioni
interne alle organizzazioni in questione. Del resto, se davvero si trattasse
di una responsabilità strutturalmente colposa, la conclusione non do-
vrebbe essere quella di rifiutare il suddetto schema di imputazione per i
capi, ma di prevedere un’eventuale diminuzione della relativa pena ri-
spetto alla corrispondente forma dolosa degli esecutori materiali. L’evi-
dente contraddizione di valutazione che in tal modo si finirebbe per rea-
lizzare, sanzionando in misura maggiore le pedine dell’attività criminale e
attenuando la responsabilità di chi tiene le fila del complesso apparato che
ne consente l’esplicazione, consiglia però di ribadire la formulazione qui
proposta.

5. Le prospettive di adozione a livello europeo.


Rimane da accennare conclusivamente alla traducibilità di questa
come delle altre proposte avanzate nell’ambito del Progetto comune euro-
peo. Per coglierne il quadro giuridico in cui esse si possono collocare oc-
corre ricordare che con la revisione di Amsterdam, l’azione dell’Unione
europea nella ‘‘cooperazione giudiziaria in materia penale’’ ha assunto
contenuti che prefigurano un diritto penale comune in Europa, del tutto
impensabile ancora pochi anni fa. Al fine di garantire ai cittadini europei
uno ‘‘spazio di libertà, giustizia e sicurezza’’ (art. 29, comma 2 e 3o alinea
TUE) ed in relazione a settori cruciali come ‘‘criminalità organizzata, ter-
rorismo e traffico illecito di stupefacenti’’, l’Unione deve progressiva-
mente adottare misure che definiscano ‘‘norme minime in tema di ele-
menti costitutivi dei reati e delle sanzioni’’ (art. 31, lett. e) TUE).
L’obiettivo di pervenire ad un primo nucleo di norme penali comuni
è stato collocato in un orizzonte programmatico meglio definito sotto
molteplici aspetti. Sul piano degli strumenti, il ‘‘ravvicinamento delle di-
sposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri’’, va realizzato
mediante l’adozione di decisioni-quadro (art. 34, comma 2, lett. b) TUE).
La loro caratteristica innovativa sta negli effetti vincolanti rispetto ai risul-
tati da conseguire, e ciò a differenza del precedente strumento impiegato
in materia, quelle azioni comuni che l’esperienza ha dimostrato potevano
restare prive di conseguenze negli ordinamenti degli Stati membri (59).
Sul piano istituzionale, poi l’opera in questione viene attratta nei meccani-
smi della Comunità europea (il c.d. primo pilastro), anticipandola dal suo
terreno di elezione originariamente definito a Maastricht (il c.d. terzo pi-

(59) Significativa la vicenda richiamata supra nel testo intorno alla nota 39.

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lastro). Inoltre, il programma delineato è anche temporalmente definito,


in quanto le ‘‘misure per prevenire e combattere la criminalità a norma
dell’art. 31, lett. e) TUE’’, vanno adottate del Consiglio, ‘‘entro un pe-
riodo di cinque anni dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam’’
(art. 61, comma 1, lett. a) TCE) (60).
La base giuridica è solo però una parte delle condizioni necessarie
per la realizzazione di quel significativo passo verso un diritto penale eu-
ropeo segnato da una recezione a livello istituzionale delle proposte del
Progetto comune europeo. La parte restante del percorso è interamente af-
fidata alla sensibilità nei confronti di quell’obiettivo ed alla ragionevolezza
politico-criminale che prevaranno nelle scelte per attuarlo. Qui i segnali si
fanno contrastanti: alla crescita di attenzione connessa a fatti quali l’ado-
zione dell’euro e per altro verso all’escalation della minaccia terroristica,
corrisponde un ritorno di ‘‘nazionalismo penalistico’’ in ampi strati delle
classi politiche di numerose nazioni europee. In particolare, nell’ultimo
periodo l’atteggiamento dell’Italia nei confronti dell’Europa appare forte-
mente contraddittorio: al tradimento del ruolo prioritario guadagnato sul
campo della cooperazione giudiziaria internazionale e segnatamente euro-
pea (basti ricordare ad esempio, le posizioni assunte sul tema del mandato
di cattura europeo), si è affiancato da ultimo un recupero di sensibilità e
di protagonismo per il ruolo dell’Europa nei rapporti internazionali.
A ben vedere, le due reazioni sono entrambe riconducibili ad una ac-
cezione, a mio avviso erronea, della sussidiarietà che legittima l’intervento
europeo: a questo si fa appello solo per ricavarne un vantaggio immediato
nella sfera locale, mentre lo stesso viene dipinto come un vincolo gravoso
da scrollarsi quando l’impegno europeo per perseguire un bene di più am-
pia portata incide su un qualche interesse locale. Le proposte del Progetto
comune europeo sono invece frutto di una opposta concezione: esse par-
tono dalle migliori prassi a livello locale sul terreno del contrasto del cri-
mine organizzato per proiettarle su scala europea, avendo cura di pro-
porre standard normativi che non trascurino la variegata situazione esi-
stente in Europa tanto rispetto al fenomeno quanto agli assetti normativi
di riferimento.
Anche se dunque il momento non è dei migliori per pensare ad una
diretta traduzione normativa delle proposte del Progetto comune europeo,
il bilancio su di esso va commisurato rispetto alle condizioni di partenza
ed agli obiettivi iniziali: realizzare le condizioni per un dialogo fruttuoso
fra soggetti istituzionali differenti in una prospettiva non limitata ad una
specifica realtà locale, ma attenta alle potenzialità di un diritto penale eu-

(60) Per una più ampia illustrazione delle differenze fra azioni comuni e decisioni
quadro nella materia in questione e più in generale del salto di qualità consentito dal Trat-
tato di Amsterdam all’azione di contrasto alla criminalità organizzata in ambito europeo, sia
consentito rinviare a MILITELLO, op. cit., nt. 14, pp. 32 s., 38 s.

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ropeo. Se così è, la valutazione positiva con cui chiudevo l’esperienza con-


dotta nei tre anni di realizzazione del Progetto si accresce ulteriormente
nel decennale della strage di Giovanni Falcone: il suo nome è scolpito an-
che nel programma dell’Unione europea che ha sostenuto finanziarmente
il Progetto, al ricordo del suo impegno è dedicato il presente contributo.
VINCENZO MILITELLO
Università di Palermo

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NOTE CRITICHE
IN TEMA DI RICORSO STRAORDINARIO
PER ERRORE DI FATTO

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Errore di fatto e giudicato. — 3. Errori del giudice e vizi dei
provvedimenti della cassazione. — 4. Limiti alla rilevabilità dell’errore di fatto. —
5. Un’interpretazione ‘‘costituzionale’’ dell’errore di fatto.

1. Premessa. — L’introduzione, ad opera della l. n. 128 del 2001,


del ricorso straordinario per errore di fatto, un nuovo mezzo di impugna-
zione proponibile contro i provvedimenti della Corte di cassazione, ha su-
scitato, com’era prevedibile, un certo dibattito in dottrina ed ha generato
un numero già consistente di pronunce della Corte di cassazione. Sintetiz-
zando a grandi linee le conclusioni raggiunte, si ritiene, per lo più, che il
ricorso ex art. 625-bis c.p.p. sia un rimedio straordinario proponibile con-
tro sentenze già passate in giudicato; che il vizio che esso mira ad elimi-
nare sia costituito da un difetto percettivo, una ‘‘svista’’, dei giudici di le-
gittimità; che, per poter essere rilevato, il vizio debba cadere su atti in-
terni al giudizio di legittimità ed aver carattere decisivo; che la ragion
d’essere del nuovo mezzo d’impugnazione vada ravvisata nell’esigenza di
apprestare un rimedio — un’extrema ratio — contro ipotesi di ingiustizia
della sentenza, che, a causa dell’irrevocabilità del giudicato, non potreb-
bero essere altrimenti censurate.
Ciascuna di queste conclusioni, che appaiono in vario modo finaliz-
zate a contenere entro limiti circoscritti l’impatto del nuovo mezzo di im-
pugnazione, verranno discusse nei paragrafi seguenti. Dalla considera-
zione che, oltre ad essere teoricamente insoddisfacenti, esse risultano in
effetti inidonee allo scopo che si prefiggono — ridurre l’ambito di applica-
zione dell’art. 625-bis c.p.p. — si prenderà spunto per proporre una di-
versa interpretazione, più restrittiva, del nuovo istituto.

2. Errore di fatto e giudicato. — Secondo un’interpretazione del


tutto pacifica (1), il ricorso di cui all’art. 625-bis c.p.p. deroga al principio

(1) In dottrina, in tal senso, vedi P. BRUNO, Innovazioni e modifiche al giudizio di


cassazione, in Le nuove norme sulla tutela della sicurezza dei cittadini, a cura di G. Span-
gher, Milano, 2001, p. 142; CANZIO-SILVESTRI, Commento alla l. n. 128 del 2001, in Codice

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dell’irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione e si colloca, ac-


canto alla revisione, tra i rimedi volti a rimuovere gli effetti del giudicato.
Tale collocazione sistematica appare imposta dalla lettera della legge: la
rubrica dell’art. 625-bis c.p.p. denomina ‘‘straordinario’’ il ricorso per er-
rore di fatto; l’aggettivo, pure assente dall’ordito codicistico, richiama una
consolidata nozione dottrinale: ‘‘sono ordinari i mezzi d’impugnazione
che (...) impediscono che il provvedimento diventi irrevocabile (...); sono
straordinari i mezzi di impugnazione che — eccezionalmente — si pos-
sono indirizzare contro una decisione già divenuta irrevocabile’’ (2).
Questa linea ricostruttiva, tuttavia, si imbatte in non pochi ostacoli. Il
primo è costituito da un’antinomia rinvenibile tra la norma che disciplina
l’errore di fatto e l’art. 648 c.p.p. Al comma 1, tale disposizione continua
a stabilire l’irrevocabilità delle sentenze pronunciate in giudizio ‘‘contro le
quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione’’. Poiché oggi
contro le sentenze della cassazione è ammesso il ricorso per errore di
fatto, in pendenza dei relativi termini, alla stregua di tale norma, esse non
potrebbero essere considerate definitive. Il conflitto, peraltro, riguarda
non solo l’art. 625-bis c.p.p. ma anche il comma 2 dello stesso art. 648
c.p.p., a norma del quale ‘‘se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza
è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza
che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso’’. Si tratta, con tutta proba-
bilità, di un difetto di coordinamento, una ‘‘svista’’, che, ironicamente, ha
colpito il legislatore proprio mentre si accingeva a disciplinare le ‘‘sviste’’
dei giudici di legittimità. Simili eventi, naturalmente, non vanno sopravva-
lutati: nella maggior parte dei casi, le antinomie possono tranquillamente
essere risolte in via interpretativa, facendo prevalere la norma coerente
con il sistema. Nel nostro caso, si tratta di indagare sulle regole che pre-
siedono al formarsi della cosa giudicata. È qui che, però, nasce il secondo
ostacolo.

di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, Torino, 2001, pp. 3544-3545; G.


CONTI, Le nuove norme sul giudizio di cassazione, in Processo penale: nuove norme sulla si-
curezza dei cittadini, a cura di P. Gaeta, Padova, 2001, pp. 208-209; G. IADECOLA, Il giudi-
zio in cassazione, in Dir. pen. proc., 2001, p. 952; V. SANTORO, Cassazione: sezione ad hoc
per i ricorsi inammissibili, in Guida dir., 2001, n. 16, p. 54; P. TONINI, Manuale di proce-
dura penale, Milano, 2002, p. 746. In giurisprudenza, vedi Cass., sez. I, c.c. 13 novembre
2001, Salerno, in Dir. pen. proc., 2002, pp. 862-863. Più articolata la posizione di F. COR-
DERO, Procedura penale, Milano, 2001, p. 1142, secondo il quale l’impugnazione ha natura
ibrida: ‘‘straordinaria perché investe una res iudicata, ma soggetta a termine perentorio’’, e
di M. GIALUZ, Appunti sul concetto di ‘‘errore di fatto’’ nel nuovo ricorso straordinario per
cassazione, in Cass. pen., 2002, p. 2326, il quale, pur constatando che ‘‘l’art. 625-bis c.p.p.
prevede un’impugnazione straordinaria, collocata a valle del giudicato’’ osserva che essa, ‘‘a
ben pensarci, assomiglia di più a una continuazione del precedente processo di cassazione
che a un nuovo giudizio’’.
(2) Così A. GALATI, Le impugnazioni in generale, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-
ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, II, Milano, 2001, p. 436.

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In via generale, una sentenza passa in giudicato in seguito all’ ‘‘esau-


rimento’’ dei mezzi di impugnazione, ossia quando è stato emesso un
provvedimento contro il quale non è concesso alcun ulteriore rimedio, op-
pure quando sono ormai scaduti i termini per proporlo: finché può ancora
essere annullata o riformata, una sentenza non può essere considerata de-
finitiva (3). Tale principio subisce, in realtà, una pluralità di deroghe, in
considerazione del fatto che esistono alcuni mezzi di impugnazione pro-
ponibili anche a grandissima distanza di tempo dalla sentenza. La dottrina
ha perciò riformulato il principio, collocando il momento del passaggio in
giudicato non all’esito dell’infruttuoso esperimento dell’ultimo rimedio
astrattamente concepibile, bensì nella fase anteriore dell’esaurimento dei
mezzi di impugnazione qualificabili come ‘‘ordinari’’ (4).
Gli elementi strutturali dei mezzi ordinari di impugnazione sono due:

(3) Vedi C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2002, p. 371.
(4) Il concetto odierno di mezzi ordinari di impugnazione costituisce l’esito di un di-
battito assai vivace che ha impegnato i maestri del diritto processuale civile. Lessico e con-
cetti sono di matrice francese: il codice di procedura civile prevedeva ‘‘des voies extraordi-
naires pour attaquer les jugements’’, che, secondo la dottrina d’oltralpe, a differenza dei
mezzi ordinari, non impedivano il passaggio in giudicato della sentenza. La distinzione fu ac-
colta nell’ordinamento italiano dall’art. 465 c.p.c. 1865, che classificava tra i mezzi ordinari
l’opposizione e l’appello e tra quelli straordinari la revocazione, l’opposizione di terzo e il ri-
corso per cassazione. L’inclusione di quest’ultimo, però, costituiva un tratto originale: nel-
l’ordinamento francese, per ragioni legate alla storia dell’istituto, il ricorso per cassazione
era disciplinato da leggi speciali. La dottrina italiana cominciò quindi a porsi degli interroga-
tivi sull’effettiva esistenza di tratti comuni alle due classi di impugnazioni e sulla loro ido-
neità a determinare il momento del passaggio in giudicato della sentenza. Si fronteggiavano
tre posizioni. Secondo Calamandrei, la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari si identi-
ficava con quella tra mezzi di gravame e azioni di impugnativa (P. CALAMANDREI, La cassa-
zione civile, II, Torino, 1920, p. 217); poiché non comportano la prosecuzione del processo
bensì l’instaurazione di un procedimento diverso per petitum e causa petendi, le azioni di
impugnativa, e perciò i mezzi di impugnazione straordinari, non possono impedire il passag-
gio in giudicato della sentenza (ivi, pp. 200-207). L’adesione, seppure su basi diverse, al si-
stema francese veniva integrata con la classificazione del ricorso per cassazione tra le azioni
di impugnativa: conseguentemente, anche in pendenza dei termini per proporre il ricorso, la
sentenza doveva comunque considerarsi definitiva (ivi, pp. 234-244). Secondo Mortara, in-
vece, le differenze strutturali tra appello e ricorso per cassazione dovevano considerarsi mi-
nime: quest’ultimo, nei fatti, costituiva un terzo grado di giurisdizione ed era pertanto ragio-
nevole includerlo nella categoria dei rimedi ordinari (L. MORTARA, Commentario del codice e
delle leggi di procedura civile, IV, Milano, s.d., pp. 203-204). Questo Autore, pur conser-
vando alla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari un valore teorico, la riteneva irrile-
vante ai fini della determinazione del passaggio in giudicato della sentenza: in particolare,
dal carattere di condizione risolutiva da attribuirsi a un’eventuale riforma in appello doveva
trarsene la conseguenza della piena efficacia della sentenza di primo grado (ivi, p. 215). La
posizione di Chiovenda era ancora più radicale: la distinzione tra mezzi straordinari e ordi-
nari non solo non poteva essere usata per determinare il momento del passaggio in giudicato
della sentenza, ma non aveva alcun fondamento razionale. A suo giudizio, l’effetto di accer-
tamento del diritto non poteva che conseguire a una sentenza definitiva, ‘‘perché la certezza
non può essere provvisoria’’ (G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Na-
poli, 1936, p. 525). Tale definitività doveva essere accertata in base a tre criteri: larghezza

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a) sono concessi per denunciare vizi immediatamente conoscibili dagli


atti del processo; b) sono sottoposti, di conseguenza, a termini perentori i
quali decorrono dal momento in cui le parti vengono a conoscenza della
decisione. Finché la sentenza è soggetta a questo tipo di impugnazioni,
che danno vita a successivi gradi di giudizio cronologicamente collegati
l’uno all’altro, essa non può considerarsi definitiva. I mezzi straordinari di
impugnazione, viceversa, si distinguono in quanto: a) sono concessi per
far valere fatti sopravvenuti alla sentenza o tardivamente scoperti;
b) sono proponibili, di conseguenza, in ogni tempo o, tutt’al più, entro
termini che cominciano a decorrere non già dalla decisione, bensì dalla
conoscenza del vizio (5).
Cospirano, nel sancire l’inidoneità dei mezzi straordinari ad impedire
il passaggio in giudicato della sentenza, un argomento pratico e uno teo-
rico: in primo luogo, essendo incerto l’an e il quando dell’impugnazione,
si evita il rischio di rimandare sine die la soluzione definitiva della contro-
versia; in secondo luogo, essendo finalizzata a consentire l’esame di fatti
diversi da quelli presi in considerazione nella sentenza passata in giudi-
cato, l’impugnazione straordinaria, in un certo senso, non prosegue il pre-
cedente giudizio ma ne apre uno nuovo (6). Esauriti i mezzi di impugna-
zione ordinari, perciò, la sentenza può considerarsi definitiva (7).

nelle condizioni di ammissibilità dell’impugnazione, brevità del termine per proporla, cer-
tezza del dies a quo. L’opinione che lentamente si è imposta in dottrina è poi risultata essere
quella di Chiovenda; sulle posizioni di Calamandrei, però, vedi F. CARNELUTTI, Diritto e pro-
cesso, Napoli, 1958, pp. 276-277. Da notare la discontinuità semantica nell’uso odierno
delle categorie ‘‘mezzi ordinari’’ e ‘‘mezzi straordinari’’: i criteri distintivi generalmente ac-
colti sono quelli impiegati da Chiovenda proprio per smentire la validità della classificazione
(cfr. A. CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973, nt. 68, p. 37). Per un’accu-
rata ricostruzione del dibattito d’inizio secolo, vedi C. CONSOLO, La revocazione delle deci-
sioni della cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989, nt. 9, pp. 192-198.
(5) Per la distinzione tra impugnazioni ordinarie e straordinarie qui accolta, vedi C.
BALBI, La decadenza nel processo civile di cognizione, Milano, 1983, pp. 318-319; M. CHIA-
VARIO, Processo e garanzie della persona, I, Milano, 1982, pp. 206-207; C. MANDRIOLI, op.
cit., pp. 385 e 390; A. GALATI, op. cit., p. 436; G. LEONE, Sistema delle impugnazioni penali,
Napoli, 1935, pp. 48-49; O. LUPACCHINI, Profili sistematici delle impugnazioni penali, in Le
impugnazioni penali, trattato diretto da A. Gaito, Torino, 1998, pp. 131-132; G. TRAN-
CHINA, Impugnazione (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 750.
(6) A proposito della revisione, vedi F. CARFORA, Cosa giudicata (materia penale), in
Dig. it., VIII, parte 4a, Torino, 1898-1900, p. 281, secondo il quale tale rimedio non impedi-
sce il formarsi della cosa giudicata in quanto ‘‘presuppone uno stato di fatto diverso da
quello che formava la base del pronunziato’’. Nel medesimo senso, di recente, Cass., sez.
un., ud. 26 febbraio 1988, Macinanti, in Cass. pen., 1988, p. 2036.
(7) A volte si rinviene, in dottrina, l’affermazione secondo la quale si definiscono
‘‘straordinari’’ i mezzi di impugnazione che possono essere proposti avverso le sentenze già
passate in giudicato (così, ad esempio, G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, I,
Milano, 1965, p. 50). Si tratta, in un certo senso, di un’inversione logica: è il passaggio in
giudicato che si individua grazie alla struttura del mezzo d’impugnazione, non viceversa (in
tal senso, vedi M. CHIAVARIO, op. cit., p. 206). Può darsi che si tratti semplicemente di un’e-

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La ricostruzione sistematica sopra ricordata rappresentava fedel-


mente, prima dell’introduzione dell’art. 625-bis c.p.p., quanto emergeva
dal diritto positivo. Le sentenze della Corte di cassazione che chiudevano
il processo venivano considerate definitive non già per una speciale ido-
neità intrinseca, ma, più semplicemente, perché contro di esse non erano
ammessi mezzi ordinari di impugnazione (8). L’unico rimedio avverso le
sentenze definitive era costituito dalla revisione, la quale ha la struttura ti-
pica dei mezzi di impugnazione straordinari: i fatti che incrinano la cer-
tezza giuridica stabilita con il giudicato (9) o sono sopravvenuti o erano
ignoti all’epoca del processo (10); conseguentemente, a norma dell’art.
629 c.p.p., la revisione è ammessa in ogni tempo.

spressione sintetica; non va escluso, però, che essa riveli l’adesione ad un orientamento che,
seppure non espressamente, svaluta ogni differenza di tipo strutturale tra mezzi di impugna-
zione ordinari e straordinari, i quali andrebbero distinti solo in base all’avvenuto passaggio
in giudicato della sentenza, aliunde determinato. Ci riferiamo, in particolare, alla teoria del-
l’invalidità proposta da G. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955. Per
spiegare la peculiare efficacia che nel diritto processuale spiegano gli atti viziati, secondo tale
concezione, bisogna presupporre, accanto alle fattispecie valide, ossia perfette ed efficaci in
via definitiva, altrettante fattispecie ‘‘ad effetti precari’’, ossia imperfette ma efficaci fino ad
annullamento o sanatoria (ivi, pp. 47-50). Tra gli elementi necessari delle fattispecie proces-
suali andrebbero ricompresi, perciò, non solo quelli sufficienti a produrre gli effetti per i
quali l’atto è predisposto, ma anche quegli elementi la cui assenza costituisce un motivo di
annullamento (ivi, p. 60). Ogni tipo di reazione dell’ordinamento alle imperfezioni degli atti
costituirebbe una autonoma specie di invalidità (ivi, pp. 56-57). Tra le varie specie d’invali-
dità, occorrerebbe riconoscerne una contraddistinta dall’insanabilità dell’imperfezione, ac-
compagnata tuttavia dalla produzione di effetti, seppure in forma precaria. Nelle imperfe-
zioni sottoposte a tale trattamento, per le quali il giudicato non opera come sanatoria e che
corrispondono alle ‘‘imperfezioni deducibili mediante le c.d. impugnazioni straordinarie’’, gli
effetti ‘‘si producono sia pure in modo precario, nel senso che il vizio rimane latente, pronto
a travolgere il giudicato non appena si realizzino le condizioni richieste al riguardo’’ (ivi, p.
96). È evidente che, secondo tale concezione, non potrebbe determinarsi il passaggio in giu-
dicato della sentenza in base al carattere ordinario o straordinario del mezzo d’impugna-
zione, ma, al contrario, sarebbe la struttura del mezzo di impugnazione ad esser condizio-
nata dal giudicato. Per una critica di tale concezione, vedi F. CORDERO, Le situazioni sogget-
tive nel processo penale, Milano, 1956, pp. 46-52.
(8) Cfr. G. MESSUTI, Commento a Corte cost. n. 17 del 1986, in Le nuove leggi civili
commentate, 1986, p. 589: ‘‘la nozione di ‘straordinarietà’ dei mezzi di impugnazione è le-
gata ai ‘motivi’ che consentono di impugnare una decisione già passata in giudicato e non al
tipo — d’appello, di cassazione — di decisione che si impugna’’.
(9) Nella ricostruzione proposta da A. CRISTIANI, La revisione del giudicato nel si-
stema del processo penale italiano, Milano, 1970, pp. 103-104, concepire la revisione come
rimedio all’errore giudiziario è tecnicamente inesatto, perché prima della revisione stessa
non è possibile parlare di errore, e sistematicamente inappropriato, in quanto non riesce a si-
pegare l’esistenza di limti alla revisione; questa, invece, costituisce uno specifico rimedio per
il caso in cui sorga una diversa certezza giuridica contraddittoria con quella affermata con il
giudicato: solo in questo caso ‘‘il sentimento di sicurezza del diritto che ha bisogno dell’in-
tangibilità del giudicato non viene offeso in quanto dall’antinomia la certezza del giudicato è
stata già posta in crisi’’ (ivi, p. 99).
(10) Sul novum come tratto distintivo della revisione, vedi A. ROCCO, Trattato della

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Alla luce di quanto detto finora, appare evidente che, con l’introdu-
zione dell’art. 625-bis c.p.p., il rapporto tra sentenze della Corte di cassa-
zione e giudicato diventa problematico. I caratteri strutturali del ricorso
per errore di fatto sono quelli tipici dei mezzi di impugnazione ordinari: il
vizio che legittima il ricorso, come meglio apparirà nei paragrafi succes-
sivi, emerge dal contrasto tra sentenza e atti del processo; l’impugnazione
è proponibile entro termini perentori, sebbene più lunghi del consueto, i
quali decorrono dal deposito del provvedimento. Proprio per le medesime
caratteristiche, d’altra parte, la revocazione civile per errore di fatto previ-
sta dall’art. 395, n. 4, c.p.c., che ha costituito il modello al quale si è ispi-
rato il legislatore, nella dottrina processualcivilistica viene pacificamente
considerata alla stregua di un mezzo di impugnazione ordinario (11). Non
a caso, quando, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 17

casa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, in Opere giuridiche, II, Roma,
1932, pp. 267-268; in senso conforme G. DEAN, La revisione, Padova, 1999, pp. 7-8; A. GA-
LATI, op. cit., p. 538; G. GUARNERI, Regiudicata (diritto processuale penale), in Nss. Dig. it.,
XV, Torino, 1976, p. 234; G. SPANGHER, Revisione, in Dig. Disc. pen., XII, Torino, 1997, p.
143. Anche la recente pronuncia dei giudici di legittimità che ha esteso il concetto di nuove
prove di cui all’art. 630, lett. c), c.p.p. alle prove acquisite nel processo ma non valutate dal
giudice (Cass., sez. un., ud. 26 settembre 2001, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 1952), non
scalfisce il principio. L’argomento clou del ragionamento della Corte risiede nell’osserva-
zione che le prove acquisite, ma non valutate dal giudice, non sono state oggetto di giudizio
e, dunque, nel giudizio di revisione costituiscono elementi nuovi (ivi, pp. 1977-1978). L’ar-
gomento logico viene poi rafforzato da un sostegno testuale: l’art. 637, comma 3, c.p.p. vieta
il proscioglimento solo sulla base di una ‘‘diversa valutazione delle prove assunte nel prece-
dente giudizio’’; dunque, se nel giudizio di revisione si valutano per la prima volta prove mai
valutate, non si ha una diversa valutazione delle medesime prove (ivi, p. 1976). L’argomento
regge e le sue finalità sono senz’altro commendevoli. Non è chiaro, però, perché, di fronte
all’omessa valutazione di prove, che costituisce di sicuro un’irregolarità processuale ai sensi
dell’art. 546, lett. e), c.p.p., che potrebbe agevolmente essere considerata una vera e propria
causa d’invalidità della sentenza ai sensi degli artt. 125, comma 3, c.p.p. e 606, lett. c),
c.p.p. e che è conosciuta dalle parti grazie alla semplice lettura della motivazione della sen-
tenza, la Corte di cassazione preclude la strada del controllo di legittimità, che sarebbe la sua
sede fisiologica (vedi, ex plurimis, Cass., ud. 20 novembre 1998, Forlani, in Arch. n. proc.
pen., 1999, p. 49; Cass., sez. III, ud. 9 febbraio 1998, Martiniello, in Cass. pen., 1999, p.
1157), per includere poi tra i motivi di revisione quello che appare come un vero e proprio
vizio della sentenza impugnata. Tra l’altro, la pronuncia in esame stride con l’orientamento
maggioritario della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il giudice ha il potere di
scegliere le prove da porre a fondamento della sua decisione e, conseguentemente, non ha
l’obbligo di motivare su tutte le prove (vedi Cass., sez. II, ud. 10 novembre 2000, Gianfreda,
in Cass. pen., 2002, p. 732; Cass., sez. V, c.c. 17 aprile 2000, Garasto, in Rep. Foro it.,
2000, p. 1561; Cass., sez. I, 11 novembre 1998, Maniscalco, in Giust. pen., 1999, III, c.
597; Cass., sez. VI, ud. 24 ottobre 1997, Todini, in Cass. pen., 1999, pp. 190-191; Cass.,
sez. fer., c.c. 20 agosto 1991, Iermanò, ivi, 1992, p. 969).
(11) Vedi, tra gli altri, CERINO CANOVA-TOMBARI FABBRINI, voce Revocazione, I) Di-
ritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, XVII, Roma, 1991, p. 7; G. CHIOVENDA, op.
cit., p. 525; G. DE STEFANO, La revocazione, Milano, 1957, pp. 4-5; C. MANDRIOLI, op. cit.,
pp. 515 -516.

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del 1986, la revocazione per errore di fatto diventò proponibile anche


contro i provvedimenti della Corte di cassazione (12), si aprì, nell’ambito
della dottrina, un serrato dibattito sull’individuazione del momento del
passaggio in giudicato delle sentenze della Corte soggette a revoca-
zione (13).
L’aggettivo ‘‘straordinario’’ che compare nella rubrica dell’art. 625-
bis c.p.p., perciò, non ha un mero valore ricognitivo: il legislatore, eviden-
temente, si è fatto carico delle controversie sorte in ambito processualcivi-
listico ed ha adottato la soluzione già rivelatasi efficace in quella sede, im-
ponendo ex lege il passaggio in giudicato delle sentenze di cassazione du-
rante la pendenza dei termini per proporre il ricorso ex art. 625-bis c.p.p.
Il legislatore, naturalmente, non è tenuto a conformarsi ai risultati
raggiunti dalla dottrina: quando una nuova norma rompe con le strutture
concettuali correnti, all’interprete non resta che proporre una diversa ri-
costruzione del sistema. Nel nostro caso, occorrerebbe prendere atto del
fatto che la distinzione tra carattere ordinario e straordinario del mezzo di
impugnazione, per quanto consolidata da una tradizione pluriseco-

(12) Corte cost., sent. n. 17 del 1986, in Foro it., I, 1, c. 313.


(13) Secondo molti tra i primi commentatori, poiché la revocazione per errore di
fatto aveva natura di impugnazione ‘‘ordinaria’’ e poiché l’art. 324 c.p.c. espressamente im-
pedisce l’attribuzione della qualità di cosa giudicata formale alla sentenza ancora soggetta a
revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c., se ne doveva concludere che anche il passaggio in giudi-
cato delle sentenze della Corte di cassazione era subordinato alla mancata proposizione del
rimedio; in tal senso, vedi F. CARPI, Le sentenze della Corte di cassazione e la cosa giudi-
cata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 20; E. FAZZALARI, Revocazione (diritto processuale
civile), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 294; G. MESSUTI, op. cit., p. 588 e, sia pure con
molte riserve, A. PROTO PISANI, La Corte costituzionale estende la revocazione per errore di
fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. alle sentenze della cassazione, in Foro it., 1986, I, 1, c. 313. As-
sai articolata la posizione contraria di Consolo, il quale, per impedire che il processo civile
annoverasse quattro gradi di giudizio, proponeva una revisione dogmatica dei concetti di
mezzo ordinario e straordinario di impugnazione. Secondo questo Autore, accanto agli ele-
menti obiettivi costituiti dal termine perentorio e dalla decorrenza del dies a quo, ai fini del-
l’attribuzione di un carattere ordinario o straordinario al rimedio, doveva tenersi conto an-
che del terzo requisito individuato da Chiovenda e cioè la larghezza della legge nell’ammet-
tere il mezzo: ‘‘deve ancora e sempre soccorrere, a tale fine, per quanto valutativa anziché
automatica ne sia la matrice, il (complementare) punto di vista della intrinseca ‘normalità’ o
fisiologicità anche della successiva istanza nel sistema normativo complessivo delle impugna-
zioni, in difetto del quale riconoscimento (implicito o meno) è d’uopo consentire all’imme-
diata formazione della cosa giudicata’’ (C. CONSOLO, op. cit., p. 139). Il legislatore inter-
venne poi espressamente a stabilire, con l’art. 391-bis c.p.c. che ‘‘la pendenza del termine
per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giu-
dicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto’’. Tale disposizione, tut-
tavia, non è valsa a sopire del tutto le polemiche. Si veda, in particolare, A. ATTARDI, Le
nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, pp. 137-138, secondo il quale le deci-
sioni di merito della Corte di cassazione, che possono emettersi in caso di ricorso per viola-
zione o falsa applicazione di legge, non passano comunque in giudicato, ai sensi dell’art. 324
c.p.c., finché sono soggette a revocazione.

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lare (14), non ha più capacità esplicativa delle regole che presiedono al
formarsi della cosa giudicata, e provare a individuarne di nuove. Non si
può tuttavia non rilevare, a questo punto, l’esistenza di un ulteriore osta-
colo: far dipendere il passaggio in giudicato dei provvedimenti giurisdizio-
nali esclusivamente dalle determinazioni del legislatore ordinario, o co-
munque attribuire ad esso la facoltà di modificare le regole di formazione
del giudicato, sembra entrare in collisione con l’art. 27, comma 2, Cost.
La Costituzione, affermando che ‘‘l’imputato non è considerato col-
pevole sino alla condanna definitiva’’, impone che nella materia penale
non possa essere data esecuzione ad una sentenza di condanna prima che
essa sia passata in giudicato (15). Si tratta perciò di stabilire se il riferi-
mento alla ‘‘definitività’’ della condanna vada inteso in senso formale ai
provvedimenti che di volta in volta il legislatore considera passati in giudi-
cato o se la norma costituzionale implichi un’autonoma nozione sostan-
ziale di sentenza definitiva. Il problema, in termini generali, è formulabile
nel modo seguente: può ammettersi che una norma costituzionale ricolle-
ghi determinati effetti a presupposti indeterminati, liberamente modifica-
bili dal legislatore ordinario? (16). Depone a favore della interpretazione

(14) Storicamente, la stessa espressione ‘‘passaggio in giudicato’’ sorge in relazione


alla scadenza dei termini per proporre impugnazione. Nel diritto romano antico, data la nor-
male inappellabilità delle sentenze, vi era una perfetta coincidenza tra il concetto di senten-
tia e di quello di res iudicata. Con il sorgere dell’appellatio, la capacità della sentenza di
‘‘definire’’ la controversia una volta per tutte venne meno (P. CALAMANDREI, La cassazione
civile, I, Milano-Torino-Roma, 1920, pp. 67-68). Nel diritto comune, la dottrina pose l’at-
tenzione sui rapporti tra i due termini, attribuendo la qualifica di res iudicata alla sentenza
corroborata dalla scadenza del termine di dieci giorni per proporre l’appello o dall’espressa
accettazione del soccombente. Solo in presenza di tali fatti, spiegava la Summa trecensis, del
secolo XII, ‘‘sententia transit in nomen rei iudicatae’’, vedi G. PUGLIESE, Giudicato civile
(storia), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, p. 765-766.
(15) Vedi R.A. FROSALI, La giustizia penale, in Commentario sistematico alla Costi-
tuzione italiana, diretto da Calamandrei e Levi, I, Firenze, 1950, p. 235; G. ILLUMINATI, La
presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 52; G. LOZZI, Favor rei e processo
penale, Milano, 1965, p. 9; V. MELE, L’effetto sospensivo delle impugnazioni penali, Napoli,
1968, pp. 97-101; in senso critico, per ragioni legate all’efficienza del sistema giudiziario,
vedi E. FASSONE, Il processo che non c’è, in Quest. giust., 1994, p. 534.
(16) L’argomento è stato vivacemente discusso in relazione alla nozione costituzio-
nale di ‘‘sentenza’’. L’art. 111, comma 7, Cost. stabilisce che ‘‘contro le sentenze’’ è sempre
ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge. In una pluralità di occasioni si era
sollevato il problema se fossero soggetti al controllo di legittimità anche provvedimenti
sprovvisti della veste formale della sentenza. Nella sentenza capostipite dell’orientamento
oggi pressoché unanime, la Corte ha osservato che l’interpretazione formale ‘‘porrebbe nelle
mani del legislatore ordinario il mezzo per rendere non impugnabili provvedimenti aventi
contenuto decisorio’’ (così Cass., sez. un. civ., ud. 30 luglio 1953, Laredo de Mendoza c.
Barberis, in Foro it., 1953, I, c. 1251). Si è perciò affermato che l’art. 111, comma 7, Cost.
implica una nozione sostanziale di sentenza che comprende tutti i provvedimenti di natura
decisoria che incidono su diritti soggettivi e che non siano altrimenti impugnabili; in argo-
mento vedi A. CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Studi in

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‘‘sostanziale’’ il fatto che, se il legislatore fosse libero di qualificare come


‘‘definitiva’’ qualunque sentenza del giudice, prescindendo da ogni para-
metro obiettivo, la garanzia costituzionale di cui all’art. 27, comma 2,
Cost. sarebbe meramente apparente: basterebbe disporre ex lege il passag-
gio in giudicato di una sentenza emessa in una qualunque fase procedi-
mentale, ad esempio in appello, per salvare dall’illegittimità costituzionale
la norma che ne disponesse l’esecuzione provvisoria (17). L’art. 27,
comma 2, Cost., insomma, presuppone un’autonoma nozione di condanna
‘‘definitiva’’. Essa, poichè non esistono condanne interlocutorie o comun-
que anteriori alla sentenza di primo grado, non può non identificarsi con
la nozione consolidata in dottrina: la condanna è definitiva se non è sog-
getta a rimedi dalle caratteristiche strutturali proprie dei mezzi ordinari di
impugnazione (18).

onore di E.T. Liebman, III, Milano, 1979, pp. 1860-1861, secondo il quale ‘‘la descrizione
della fattispecie normativa costituisce una scelta necessaria di ogni disposizione’’, nonché C.
MANDRIOLI, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 della Costituzione, Mi-
lano, 1967, pp. 45-46, secondo il quale la ratio dell’art. 111, comma 7, Cost. consiste nell’e-
sigere che provvedimenti idonei a incidere su diritti soggettivi in modo incontrovertibile non
passino in giudicato senza il preventivo controllo di legalità affidato alla Corte di cassazione.
(17) Secondo V. GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed
efficienza del processo, in Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni,
Milano, 2000, pp. 20-21, l’ostacolo all’esecuzione provvisoria delle sentenze ‘‘rappresentato,
all’interno dell’art. 27, comma 2, Cost., dal riferimento alla ‘condanna definitiva’ non po-
trebbe essere aggirato da una legge che, in ipotesi, qualificasse formalmente come definitiva
le sentenze (anche di condanna) idonee a definire un grado di giudizio, sebbene ancora im-
pugnabili. Una legge del genere, infatti, risulterebbe senza dubbio illegittima, almeno finché
nel nostro testo costituzionale sarà contenuta la previsione di un mezzo di impugnazione
(qual è il ricorso per cassazione nel disposto dell’art. 111, comma 2, Cost.) come rimedio in-
defettibile contro tutte le sentenze’’. L’art. 111 Cost., dunque, impone almeno il rimedio or-
dinario del controllo di legittimità, mentre l’art. 27 Cost. impedisce passaggio in giudicato ed
esecuzione provvisoria della sentenza soggetta ai rimedi ordinari positivamente previsti. Il le-
gislatore potrebbe perciò abrogare tutti i mezzi di impugnazione previsti, ad eccezione del ri-
corso per cassazione, limitando con ciò anche l’ambito di applicabilità dell’art. 27, ma non
potrebbe conservare ulteriori mezzi di impugnazione ordinari e tuttavia impedire che ad essi
si applichi l’art. 27. Le due disposizioni, insomma, hanno ciascuna una propria sfera di effi-
cacia.
(18) A. CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, cit., p. 1895,
colloca tra i ‘‘principi della nostra civiltà giuridica’’ quello in forza del quale l’autorità della
sentenza presuppone la consumazione dei gravami ordinari; nel medesimo senso M. CHIAVA-
RIO, op. cit., II, p. 195 e M. COLAMUSSI, La sentenza tra definitività e irrevocabilità, in Pre-
sunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, cit., p. 208, che collegano la
definitività della sentenza di cui all’art. 27, comma 2, Cost. all’esperimento degli ordinari
mezzi di impugnazione. Sostanzialmente in termini P. FERRUA, Presunzione di non colpevo-
lezza e definitività della condanna penale, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, pp.
119-122, secondo il quale il precetto costituzionale dell’ineseguibilità della sentenza non de-
finitiva implica una nozione di sentenza definitiva costituzionalmente vincolante. Affermano
l’equivalenza tra sentenza impugnabile e sentenza non definitiva, G. LOZZI, Favor rei e pro-
cesso penale, cit., p. 9 ed E. ZAPPALÀ, Il controllo di legittimità e la presunzione di non col-

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Se può dunque legittimamente dubitarsi che le sentenze della Corte


di cassazione, durante la pendenza dei termini per la proposizione del ri-
corso per errore di fatto, possano essere considerate definitive, si profila
un contrasto tra l’art. 27, comma 2, Cost. e l’art. 625-bis, comma 2, c.p.p.
nella parte in cui quest’ultimo stabilisce che, salvi i casi di eccezionale
gravità, ‘‘la presentazione del ricorso non sospende gli effetti del provve-
dimento’’.

3. Errori del giudice e vizi dei provvedimenti della cassazione. —


Secondo una recente sentenza delle sezioni unite della Corte di cassa-
zione, si ha errore di fatto quando un difetto nella percezione di un docu-
mento contenuto nel fascicolo ha inciso sul processo di formazione della
volontà del giudice, conducendo a una decisione diversa da quella che al-
trimenti sarebbe stata adottata (19). Nell’ambito del processo penale, in
genere, quando si parla di errori contenuti nella sentenza si intende affer-
mare la difformità tra la decisione ed un parametro esterno di riferimento,
costituito o dalle norme processuali o dalle norme sostanziali o dalla ve-
rità storica. In questi casi, i termini della comparazione, essendo costituiti
da fatti materiali, sono suscettibili di un accertamento che — per quanto a
volte assai complesso — ha natura obiettiva. L’errore di cui all’art. 625-
bis c.p.p., invece, stando alla definizione della Corte, avrebbe una strut-
tura diversa. Esso presuppone una duplice difformità: a) tra un docu-

pevolezza, in Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, cit., p. 157.


Contra G. MICALI, La presunzione d’innocenza dell’imputato e l’art. 27, comma 2, della Co-
stituzione, in Cass. pen., 1990, p. 734 ss., il quale, da un’analisi accurata dei resoconti dei
lavori dell’Assemblea Costituente, ricava la convinzione che i costituenti intendessero con
‘‘condanna definitiva’’ la sentenza di condanna di primo grado. L’interpretazione della vo-
lontà del legislatore storico, com’è noto, non vincola l’interprete, anche perché spesso, fin
dalla loro approvazione, le disposizioni normative sono intese in senso differente dalle varie
forze politiche. È proprio questa, peraltro, l’impressione che si ricava dalla lettura degli
stessi resoconti citati dall’Autore. In una prima fase del dibattito, di fronte alla proposta di
costituzionalizzare la presunzione d’innocenza fino a che l’imputato ‘‘con atto dell’autorità
giudiziaria non sia stato dichiarato colpevole’’, i parlamentari, per escludere che avessero ri-
levanza l’imputazione o la sentenza istruttoria, si trovarono d’accordo sull’esigenza di fare
riferimento alla ‘‘sentenza definitiva’’, intendendo effettivamente, con tale espressione, la
sentenza di primo grado. In seguito, l’on. Mancini suggerì il termine ‘‘condanna’’ in luogo di
‘‘sentenza definitiva’’ per chiarire che la presunzione di innocenza veniva meno solo a se-
guito della sentenza irrevocabile. La proposta fu accolta, ma l’aggettivo ‘‘definitiva’’ fu con-
servato. Nell’ambito della Commissione dei 75, l’on. Matteo Rescigno propose di modificare
la formula approvata ‘‘condanna definitiva’’ con ‘‘sentenza, anche non definitiva, di condan-
na’’, in quanto la presunzione d’innocenza doveva cadere a seguito della prima sentenza di
condanna. La proposta fu respinta. A nome della Commissione, l’on. Tupini rispose all’on.
Rescigno che il concetto che egli voleva affermare ‘‘noi crediamo che sia espresso meglio
dalla nostra proposta’’ (ivi, p. 739). Sembra evidente, perciò, che, per evitare uno scontro
tra i vari schieramenti, si evitò di esplicitare espressamente il significato della formula.
(19) Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, in Dir. pen. proc., 2002, p. 988.

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mento processuale e la percezione che di esso ha avuto il giudice; b) tra la


decisione effettivamente adottata e la decisione che avrebbe adottato il
giudice se si fosse rappresentato correttamente quel documento. Qui, i
termini della comparazione sono costituiti da atti psichici, ossia da eventi,
di cui uno reale e uno ipotetico, accaduti nella mente del giudice.
La definizione della Corte è doppiamente tralatizia: essa ricalca la no-
zione di errore di fatto revocatorio accolto da parte della dottrina del pro-
cesso civile (20). Questa, a sua volta, mutua tale nozione dal diritto civile:
l’errore che ai sensi dell’art. 1427 c.c. integra un vizio della volontà, che
legittima all’azione di annullamento del contratto, è costituito da una falsa
rappresentazione della realtà che conduce il contraente a emettere una di-
chiarazione negoziale diversa da quella che altrimenti avrebbe emesso.
Anche qui, dunque, gli aspetti rilevanti sono due: falsa rappresentazione e
contrasto tra volontà effettiva e volontà ipotetica (21).
L’introduzione nell’impianto codicistico di un autonomo rilievo al-
l’errore di cui all’art. 1427 c.c. avrebbe una portata a dir poco rivoluzio-
naria: l’applicabilità della teoria dei vizi della volontà ai provvedimenti del
giudice, già fortemente contestata nell’ambito del processo civile (22),

(20) Ferma restando l’esigenza che la decisione sia stata condizionata in modo deter-
minante dall’errore (vedi, per tutti, F. ROTA, Revocazione nel diritto processuale civile, in
Dig. Disc. priv., Sez. civ., XVII, Torino, 1998, p. 480), nella dottrina processualcivilistica vi
chi è mette in risalto l’aspetto ‘‘soggettivo’’ dell’errore di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., ravvi-
sandone il tratto specifico nel ‘‘difetto percettivo’’ del giudice (in tal senso, A. ATTARDI, La
revocazione, Padova, 1959, pp. 193-196; F. CAMPISI, Cassazione per vizi di motivazione e re-
vocazione per errore di fatto, in Giust. civ., 1994, I, p. 2575; F. MIANI CANEVARI, Revoca-
zione delle sentenze di cassazione, in AA.VV., La cassazione civile, II, Torino, 1998, pp.
1699-1700; L. PAOLINI, nota a Cass. civ., sez. II, ud. 2 maggio 1996, in N. giur. civ. comm.,
1997, p. 27) e chi ne mette in risalto l’aspetto ‘‘oggettivo’’, costituito dalla difformità di rap-
presentazioni emergenti dalla sentenza e dagli atti (in tal senso, V. ANDRIOLI, Commento al
codice di procedura civile, II, Napoli, 1957, p. 630; G. DE STEFANO, op. cit., pp. 189-190; F.
ROTA, op. cit., p. 481; VALITUTTI-DE STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, I, Pa-
dova, 1996, p. 237).
(21) Vedi A. TRABUCCHI, Errore (diritto civile), in N. Dig. it., V, Torino, 1938, p.
482, secondo il quale ‘‘l’errore, come vizio, non toglie la volontà del dichiarante; non c’è
contrasto tra la volontà manifestata ed una volontà vera, ma semmai tra la volontà reale
quale appare anche dalla manifestazione ed una volontà ipotetica, quale si avrebbe se il sog-
getto non fosse stato in errore’’. Secondo BIGLIAZZI GERI-BRECCIA e altri, Diritto civile, I, To-
rino, 1997, p. 648: l’errore è una falsa conoscenza della realtà che ‘‘altera il normale corso
psicologico che conduce all’interna determinazione del soggetto’’.
(22) Vedi A. ATTARDI, La revocazione, cit., pp. 41-42, il quale sottolinea che, es-
sendo la sentenza un atto a contenuto vincolato, ‘‘ciò che conta logicamente (...) è la sua
conformità o contrarietà alla legge (...). L’atto che sia intrinsecamente conforme alla legge
sarà valido anche se l’agente l’abbia compiuto con la convinzione di porre in essere un atto
invalido o sotto la violenza morale esercitata nei suoi confronti’’; ancora più recisamente, V.
DENTI, Note sui vizi della volontà negli atti processuali, Pavia, 1959, p. 50, afferma che
‘‘solo il peso della tradizione pandettistica e la preminente considerazione che, nell’elabora-
zione della teoria dell’atto giuridico, ha avuto l’atto negoziale, fanno sì che si parli ancor

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viene in genere pacificamente esclusa in quello penale. Il negozio giuri-


dico è espressione dell’autonomia dei privati, che consente a ciascuno,
nell’ambito dei limiti esterni imposti dalla legge, di elevare la propria vo-
lontà a norma giuridica riflessivamente vincolante. Il precetto che scaturi-
sce dal provvedimento del giudice, al contrario, non è l’effetto di una li-
bera volizione del giudice, ma costituisce attuazione della volontà legisla-
tiva (23). Tali differenze spiegano la diversità della disciplina: nel mo-
mento in cui il privato esercita i suoi poteri di autonomia, occorrono stru-
menti che, nei limiti della tutela dell’affidamento, consentano di annullare
il vincolo al quale ci si è autoassoggettati, quando la volontà si è formata
per effetto di un errore, della violenza o dell’inganno altrui (24); nel caso
dei provvedimenti giurisdizionali, invece, poiché la regola non è posta dal
giudice, bensì dalla legge, sono concessi dei rimedi solo quando consta
una difformità tra provvedimento e legge, non tra provvedimento e vo-
lontà del giudice. Sul piano tecnico, ciò comporta che, in sede di giudizio
di impugnazione, sia che il provvedimento del giudice risulti valido sia
che risulti invalido, l’esistenza di un vizio della volontà è comunque irrile-
vante (25).
Per chiarire l’inapplicabilità della nozione civilistica di errore ai prov-
vedimenti giurisdizionali, immaginiamo tre situazioni che rientrano nella
definizione di errore di fatto proposta dalla Corte: a) il presidente della
Corte dà atto nel verbale, ai sensi dell’art. 614 c.p.p., della regolarità degli
avvisi, non rappresentandosi che manca la notificazione ad uno dei difen-
sori; b) la Corte di cassazione, ritenendo erroneamente di dover decidere
su un ricorso contro un provvedimento emesso nella sede dibattimentale,
violando l’art. 611 c.p.p. procede secondo le forme proprie della pubblica
udienza; c) la Corte di cassazione, ritenendo erroneamente che sia stato
presentato fuori termine, dichiara inammissibile un ricorso, senza accor-

oggi, rispetto all’atto giurisdizionale, di un problema della ‘volontà’ in senso soggettivo, ar-
gomentando dai riferimenti al ‘dolo’ o all’ ‘errore’ contenuti in norme le quali hanno di mira
non l’invalidazione dell’atto, ma la giustizia della decisione: quindi non un vizio dell’attività
processuale, ma un vizio ‘sostanziale’ del dictum giudiziale’’.
(23) Vedi, in tal senso, P. MIRTO, Teoria degli atti processuali penali, in Giust. pen.,
1923, II, c. 338; B. PETROCELLI, I vizi della volontà nel processo penale, in Corte d’appello,
1929, p. 134; G. CONSO, I fatti giuridici processuali, Milano, 1955, p. 64.
(24) Vedi, per tutti, V. PIETROBON, voce Errore, I) Diritto civile, in Enc. giur. Trec-
cani, XIII, Roma, 1989, p. 1.
(25) Con chiarezza, E. FLORIAN, Nuovi appunti sugli atti giuridici processuali penali
(i vizi della volontà), in Riv. dir. proc. pen., 1920, I, p. 9 individua un duplice postulato:
‘‘che i vizi di volontà, i quali infettino gli atti processuali, sono sempre denunciabili e ripara-
bili fino a che almeno lo consenta la struttura tecnica del processo e che i vizi non mai assur-
gano a motivi che di per sé annullino od esautorino l’atto’’; in senso conforme, vedi F. COR-
DERO, Procedura, cit., pp. 322-323, per il quale i vizi della volontà non ‘‘invalidano i provve-
dimenti: rispetto agli inoppugnabili, non interessa cosa sia avvenuto; gli impugnati cadono
quando, decomposti dalla consueta analisi, risultino invalidi o ingiusti’’.

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gersi peraltro che il difensore che l’ha presentato non è iscritto nell’albo
speciale come richiede l’art. 613 c.p.p. In tutti e tre i casi, abbiamo un’er-
rata rappresentazione di un fatto processuale, dovuta a un difetto percet-
tivo, e un contrasto tra decisione effettiva e decisione ipotetica. La diffe-
renza sta nel fatto che, a prescindere dalle rappresentazioni mentali del
giudice, nel primo caso siamo di fronte a una vera e propria invalidità ex
art. 179 c.p.p.; nel secondo caso, siamo di fronte a una mera irregolarità;
nel terzo caso, siamo di fronte a un provvedimento perfettamente valido.
Sarebbe veramente paradossale se, nel secondo e nel terzo caso, la tutela
della correttezza del procedimento di formazione della volontà del giudice
dovesse condurre all’annullamento di decisioni che sotto ogni altro profilo
risultano valide e giuste.
Per evitare simili incongruenze, la Corte interpreta il secondo dei re-
quisiti dell’errore di fatto attribuendogli un significato più compatibile
con la struttura del processo. Non importa che il difetto percettivo abbia
condotto a una decisione diversa da quella che altrimenti sarebbe stata
adottata: si ha errore di fatto solo quando il difetto percettivo abbia con-
dotto a una decisione invalida o ingiusta (26). L’ambito di applicazione
dell’art. 625-bis c.p.p., così individuato, corrisponde peraltro all’idea del
nuovo istituto che si è diffusa nella prassi: tutti i ricorsi finora presentati
riguardano situazioni in cui la ‘‘svista’’ del giudice ha determinato una
delle ipotesi già codificate di invalidità (27). Secondo la Corte, in defini-

(26) Una recente conferma di quanto si va dicendo si ricava da Cass., sez. V, c.c. 23
ottobre 2002, n. 39407 del 22 novembre 2002, Sgarbi, di cui vedi un breve riassunto in D. e
G., 14 dicembre 2002, n. 44, p. 69. Il ricorrente, in relazione al rigetto del ricorso presen-
tato ex art. 606, lett. c), c.p.p. per violazione del principio di immutabilità del giudice, la-
mentava il fatto che, per un difetto percettivo, i giudici di legittimità avessero ritenuto che la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale fosse stata completa, anziché parziale, come ef-
fettivamente era stata. Investita del ricorso straordinario, la Corte osserva che ‘‘il ricorso non
si preoccupa minimamente (...) di indicare quale potesse essere la rilevanza di una tale im-
precisione con riferimento al rigetto del motivo attinente alla violazione del principio d’im-
mutabilità del giudice. Ritiene questa Corte, in definitiva, che la questione di un errore per-
cettivo (...) in ordine all’estensione della rinnovazione del dibattimento non ha alcuna inci-
denza sulla soluzione giuridica adottata dalla sentenza impugnata’’. Se il difetto percettivo
non ha condotto ad alcuna patologia della sentenza, che risulti tale alla luce della nosografia
consolidata, secondo la Corte, si resta perciò al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art.
625-bis c.p.p.
(27) In Cass., sez. I, c.c. 7 settembre 2001, Schiavone, in Arch. n. proc. pen., 2002,
p. 52, si discute dell’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso; in Cass., sez. VI,
c.c. 30 ottobre 2001, Botteselle, in Arch. n. proc. pen., 2002, p. 37, dell’omessa pronuncia
su un motivo di ricorso; in Cass., sez. I, c.c. 13 novembre 2001, Salerno, cit., p. 861, del-
l’uso di una prova inutilizzabile; in Cass., sez. VI, c.c. 6 dicembre 2001, Galletta, in Giur. it.,
2002, p. 2376 e Cass., sez. IV, c.c. 27 giugno 2002, Abanto, inedita, dell’omessa notifica-
zione al difensore dell’avviso dell’udienza; in Cass., sez. III, c.c. 13 dicembre 2001, Reg-
giani, in Giur. it., 2002, p. 2736, della falsa applicazione di norme penali; Cass., sez. VI, 20
febbraio 2002, Negri, ivi, p. 2353, dell’errore nell’individuazione del giudice competente; in

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tiva, la nozione di errore di fatto abbraccia tutti gli errores in procedendo


e gli errores in iudicando che normalmente affliggono le sentenze, purché
siano attribuibili a un difetto percettivo dei giudici di legittimità (28).
A questo punto, non può non rilevarsi che la nozione di errore di
fatto, quale risulta dalla precedente ricostruzione, torna a incidere sul
tema del passaggio in giudicato della sentenza soggetta al ricorso ex art.
625-bis c.p.p. Com’è noto, il formarsi della res iudicata, sia essa conside-
rata alla stregua della maggiore tra le cause di sanatoria (29) o inclusa
nella categoria degli atti normativi (30), estingue ogni ulteriore discorso
sulla regolarità del procedimento (31): in tanto si può parlare di invalidità
della sentenza in quanto esiste ancora la possibilità che il vizio sia rile-
vato (32). Ovvio, perciò, il corollario. Se l’errore di fatto risulta dalla
combinazione di un difetto di percezione e di un vizio della sentenza im-
pugnata, occorre postulare che il processo, nel momento in cui la Corte è
chiamata a giudicare ex art. 625-bis, sia ancora pendente: si può difatti far
riferimento all’invalidità o all’ingiustizia del provvedimento della cassa-
zione soggetto a ricorso ‘‘straordinario’’ solo se esso non sia già passato in
giudicato. La contraddizione nella quale cade la Corte può esprimersi di-
cendo che se vi è giudicato non vi può essere errore di fatto; se vi è errore
di fatto non può esservi giudicato.

4. Limiti alla rilevabilità dell’errore di fatto. — Per contenere l’am-


bito di operatività dell’art. 625-bis c.p.p., in dottrina e in giurisprudenza
sono state individuate due condizioni di ammissibilità del ricorso che pure
non figurano nella disposizione codicistica: il difetto percettivo deve ca-
dere sugli atti interni al giudizio di legittimità e deve essere stato ‘‘decisi-
vo’’, ossia deve aver avuto un’efficacia causale determinante nella produ-
zione del vizio. Esaminiamole partitamente.

Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Chiatellino, inedita, della mancata dichiarazione di pre-
scrizione del reato; in Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Degraft, inedita e Cass., sez. V,
c.c. 23 ottobre 2002, Sgarbi, cit. della mancata rilevazione di una nullità; Cass., sez. un., c.c.
27 marzo 2002, Basile, cit., dell’illogicità della motivazione; Cass., sez. un., c.c. 27 marzo
2002, De Lorenzo, in Cass. pen., 2002, n. 870, di un errore di diritto e della mancanza di
motivazione relativa a due capi d’imputazione.
(28) Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 990.
(29) Così, G. CONSO, op. cit., p. 95.
(30) F. CORDERO, Riflessioni in tema di nullità assolute, in questa Rivista, 1958, p.
255.
(31) Così, V. DENTI, Nullità, cit., p. 469.
(32) Con riferimento al sistema delle impugnazioni previgente, vedi G. CONSO, Il re-
gime dei vizi della sentenza di cassazione, in Giur. it., 1955, IV, c. 133, il quale escludeva
che, fatta eccezione per i casi di inesistenza, i provvedimenti della Corte di cassazione con i
quali si chiude il processo potessero essere affetti da alcun di vizio. Tutt’al più, si diceva, la
figura della nullità può riscontrarsi in relazione agli atti compiuti prima della sentenza e fino
a che essa non viene pronunciata.

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a) Atti interni al giudizio di legittimità. — Quando si parla di ‘‘atti


interni al giudizio di legittimità’’, per discutere dell’opportunità di circo-
scrivere l’area dell’errore di fatto entro tale limite, occorre preventiva-
mente sciogliere una fondamentale ambiguità: non è chiaro, difatti, se,
con l’indicazione di tale requisito, si mira a individuare un limite all’am-
bito oggettivo del controllo oppure alle tipologie di vizio qualificabili
come errore di fatto; non è chiaro, insomma, se con tale espressione ci si
riferisce all’insieme dei documenti processuali esaminati in tale sede op-
pure agli atti processuali materiali che ivi si svolgono (33).
Se inteso in senso documentale, il limite degli atti interni nasce da
un’erronea ricezione di un concetto maturato nell’ambito del processo ci-
vile. La sentenza della Corte costituzionale del 1986, che dichiarò illegit-
timo l’art. 395, n. 4, c.p.c. nella parte in cui non consentiva la revocazione
per errore di fatto dei provvedimenti della cassazione, aveva una portata
piuttosto ridotta (34). Il caso di specie riguardava un vizio processuale ve-
rificatosi nella fase di merito, correttamente denunciato con un apposito
motivo di ricorso per cassazione, ma erroneamente respinto a causa di
una ‘‘svista’’ nella lettura degli atti (35). La Corte stabilì espressamente
che l’autorità della declaratoria di illegittimità costituzionale non si esten-
deva a fattispecie diverse da quella aveva costituito oggetto del giudizio,
ossia dai casi di errore di fatto compiuto dalla Corte in sede di controllo
sugli errores in procedendo. Cinque anni dopo, la Corte costituzionale
estese gli effetti della precedente pronuncia, dichiarando nuovamente l’il-
legittimità dell’art. 395, n. 4, c.p.c. nella parte in cui non consentiva la re-
vocazione degli errori di fatto compiuti dalla Corte di cassazione nell’e-

(33) Per questa distinzione, vedi G. SABATINI, Trattato dei procedimenti incidentali
nel processo penale, Torino, 1953, pp. 627-628. Esemplare, nel senso del fraintendimento,
la risposta della cassazione a chi aveva sostenuto che l’errore di fatto dovesse necessaria-
mente colpire gli atti del giudizio di legittimità, in quanto solo in tali ipotesi ‘‘la Corte di cas-
sazione è anche giudice del fatto, come avviene nel caso dell’applicazione delle norme pro-
cessuali’’ (così, C. RIVIEZZO, op. cit., pp. 85-86): ‘‘È stato sostenuto, da una parte della dot-
trina, che l’operatività del ricorso straordinario è limitata alle decisioni relative alle questioni
processuali, per le quali la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, sicché l’erronea sup-
posizione, per essere rilevante, dovrebbe inerire ad un error in procedendo dovuto a un di-
fetto di percezione degli atti che formano oggetto di esame nel giudizio di legittimità (...).
Una simile interpretazione restrittiva dell’ambito applicativo dell’errore di fatto non è giusti-
ficata dall’effettiva portata dell’art. 625-bis c.p.p. Infatti non è controvertibile che la sen-
tenza impugnata, sottoposta al sindacato della Corte, costituisce l’oggetto del giudizio di cas-
sazione e che l’errore percettivo può anche cadere su un dato fattuale, nei precisi termini,
ovviamente, accertati dal giudice di merito’’ (così Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile,
cit., p. 900).
(34) Corte cost., sent. n. 17 del 1986, cit.
(35) Per l’ordinanza di rimessione, vedi Cass., sez. un. civ., ord. 8 febbraio 1983, n.
101, in Foro it., 1983, I, c. 1931.

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same di uno qualunque dei motivi di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c. (36).
Nel caso sottoposto al suo giudizio, difatti, la Corte di cassazione, consi-
derando erroneamente tardivo un ricorso presentato ai sensi dell’art. 360,
nn. 3 e 5, c.p.c., lo aveva dichiarato inammissibile. Il giudice delle leggi ri-
levò che il ragionamento svolto nella sentenza del 1986 per il difetto per-
cettivo ‘‘in cui la Corte di cassazione incorra nel controllo degli atti del
processo a quo, (...) non può non valere anche (anzi, a fortiori) per l’ana-
logo errore in cui quella Corte incorra nella lettura di atti interni al suo
stesso giudizio’’ (37). La distinzione tra errore di fatto che cade su atti del
processo a quo oppure su atti interni è perciò dovuta ai due passaggi da-
vanti alla Corte costituzionale, ma non vale a discriminare l’errore di fatto
ammissibile da quello inammissibile. Le sezioni unite civili della Corte di
cassazione, difatti, hanno poi operato una reductio ad unum classificando
tutti gli atti sui quali poteva cadere l’errore di fatto come ‘‘interni’’, se-
condo un’accezione che però abbracciava entrambe le categorie: sono in-
terni tutti gli atti che la cassazione deve esaminare direttamente ‘‘purché
nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio’’; ap-
partengono al giudizio di cassazione gli atti ‘‘che devono essere letti dalla
Corte per decidere’’ (38).
Come limite oggettivo, perciò, il requisito degli atti interni risulta me-
ramente apparente: non conta l’individuazione della fase processuale nella
quale è stato formato il documento, ma solo l’individuazione del giudice
che è caduto nel difetto percettivo. Come chiarisce l’art. 625-bis c.p.p.,
laddove esige che l’errore sia ‘‘contenuto nei provvedimenti pronunciati
dalla Corte di cassazione’’, il ricorso non può essere presentato affinché la
Corte rimedi agli errori di fatto compiuti dal giudice di merito ma solo a
quelli compiuti dalla Corte di cassazione stessa. Il difetto percettivo della
Corte, però, potrebbe cadere su uno qualsiasi dei documenti che costitui-
scono oggetto del suo giudizio: documenti del procedimento di cassazione
e documenti dei gradi di merito che la Corte deve esaminare in quanto ri-
levanti per decidere sui motivi di ricorso (39).

(36) Corte cost., sent. n. 36 del 1991, in Foro it., 1991, I, c. 1033.
(37) Ivi, c. 1035.
(38) Cass., sez. un. civ., sent. 20 marzo 1992, n. 3519, Giordano c. ENI, in Foro it.,
1993, I, c. 837.
(39) È astrattamente concepibile un errore di fatto che cade su un atto del processo a
quo in due casi: quando la Corte fonda la sua decisione di rigetto del ricorso ignorando o
travisando un atto del giudizio di merito sottoposto alla sua cognizione, oppure, eccezional-
mente, quando la Corte, in sede di controllo di legittimità, incorre nel medesimo difetto per-
cettivo in cui era già caduto il giudice di merito. In senso contrario, vedi M. GIALUZ, Appunti
sul concetto di ‘‘errore di fatto’’ nel nuovo ricorso straordinario per cassazione, in Cass.
pen., 2002, p. 2324, per il quale l’art. 625-bis c.p.p. farebbe riferimento ai soli vizi in cui sia
incorsa la cassazione, e non il giudice di merito. In effetti, la norma esige inequivocabilmente
che l’errore sia compiuto dai giudici di legittimità, ma non si vede perché l’errore compiuto

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Nel secondo significato, in base al quale il termine ‘‘atto’’ definisce in


senso tecnico il compimento di una condotta processualmente rilevante, il
limite degli atti interni è funzionale ad un’interpretazione restrittiva in
base alla quale possono rilevare quali errori di fatto solo gli errores in pro-
cedendo intervenuti nel segmento del processo racchiuso tra il ricorso ex
art. 606 c.p.p. e la sentenza definitiva. In tal senso va intesa, nonostante
l’espressione non limpidissima, la connessione stabilita dalla Corte costi-
tuzionale tra errore nella ‘‘lettura di atti interni’’ ed ‘‘erronea declaratoria
di inammissibilità del ricorso’’ (40): qui l’espressione designa sintetica-
mente il vizio di attività dovuto a un difetto percettivo dei giudici di cassa-
zione.
Tale opzione interpretativa muove da un’esegesi testuale della dispo-
sizione di cui all’art. 625-bis c.p.p. che si svolge secondo le seguenti ca-
denze: 1) l’espressione ‘‘errore di fatto’’ esclude alla radice la possibilità
di includere nell’ambito di applicazione della fattispecie gli errori di di-
ritto; 2) per poter compiere un errore ‘‘di fatto’’ i giudici di legittimità de-
vono avere il potere di conoscere il fatto; 3) è giurisprudenza consolidata
la Corte non abbia poteri istruttori relativi all’accertamento della quaestio
facti; dunque l’art. 625-bis c.p.p. non può contemplare nemmeno gli erro-
res in iudicando in facto; 4) è del tutto pacifico, invece, che nel controllo
sull’osservanza delle norme processuali, la Corte sia giudice anche del
fatto. Di conseguenza, l’errore di fatto non può che coincidere con l’error
in procedendo compiuto dalla Corte (41).
L’orientamento appena descritto, che mira responsabilmente a conte-

anche dai giudici di legittimità, che per avventura dovessero incorrere nella medesima svista
dei giudici di merito, debba considerarsi irrilevante. Si tratta, ovviamente, di ipotesi del tutto
marginali, che però hanno un precedente illustre nella vicenda che condusse all’estensione
della revocazione civile per errore di fatto ai provvedimenti della cassazione. La controversia
nasceva da un procedimento per lo scioglimento del matrimonio, all’interno del quale l’u-
dienza di conciliazione è imposta a pena di nullità degli atti successivi, a meno che le parti
non risultino ingiustificatamente assenti. Nel caso di specie, il Tribunale civile di Torino,
constatata l’ingiustificata assenza di uno dei coniugi, aveva proseguito il procedimento. In
realtà, il coniuge assente aveva tempestivamente inviato al Tribunale la prova del suo legit-
timo impedimento, ma evidentemente il giudice non se n’era avveduto. Sfortuna volle che,
proposto il ricorso per cassazione, i giudici di legittimità verificassero la tempestività dell’in-
vio, non già dal timbro posto sulla busta che conteneva il certificato medico, che effettiva-
mente era stato consegnato in termini, bensì da quello posto su una busta che conteneva un
atto del tutto diverso, consegnato in data successiva. Dopo il nuovo ricorso, i giudici di cas-
sazione, accertata l’irrimediabilità dell’errore, sollevarono la questione di legittimità davanti
alla Corte costituzionale. Qui abbiamo un vizio verificatosi nel giudizio di merito, non rile-
vato per una duplice svista: dello stesso giudice di merito, in prima battuta, e dei giudici di
legittimità, in sede di controllo. Per una ricostruzione della vicenda, vedi l’ordinanza di ri-
messione, Cass., sez. un. civ., ord. 8 febbraio 1983, n. 101, cit.
(40) Corte cost., ord. n. 395 del 2000, in Cons. Stato, 2000, II, pp. 1345-1346.
(41) Vedi, in tal senso, G. FUMU, Commento all’art. 6 l. n. 128/2001, in L.P., 2002,
p. 428 e C. RIVIEZZO, op. cit., pp. 85-86.

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nere l’area dell’errore di fatto nello stesso ambito dei suoi ‘‘precedenti’’
giurisprudenziali (42), presta il fianco ad alcuni rilievi. In primo luogo, ha
lo svantaggio di dover ridefinire il concetto di ‘‘errore di fatto’’, riducen-
dolo nell’ambito del difetto percettivo che si verifica nel corso di un’atti-
vità istruttoria, mentre in genere esso indica una falsa rappresentazione
della realtà, sempre dovuta a un difetto percettivo, senza alcuna specifica-
zione in ordine al tipo di attività che si sta svolgendo. In secondo luogo, la
Corte ha poteri istruttori non solo in relazione al compimento delle pro-
prie attività processuali, ma anche in sede di controllo sugli eventuali erro-
res in procedendo denunciati nei motivi di ricorso (43). La tesi finisce per-
ciò per autoconfutarsi: l’errore di fatto dovrebbe coerentemente compren-
dere non solo i vizi processuali che hanno colpito gli atti interni al giudi-
zio di legittimità, ma anche quelli verificatisi nelle fasi di merito e non ri-
levati dalla Corte.
b) Errore decisivo. — Abbiamo in precedenza osservato che, nell’in-
terpretazione dei giudici di legittimità, ai fini della sussistenza dell’errore
di fatto è necessario che il difetto percettivo abbia condotto ad un vizio
della sentenza (44). Prendendo in prestito una formula comunemente im-
piegata dagli studiosi del processo civile in materia di revocazione (45), la
Corte di cassazione ha espresso tale concetto enunciando il principio della
necessaria ‘‘decisività’’ dell’errore di fatto (46). Questa affermazione la-
scia perplessi. In linea generale, si qualifica come non decisivo un error in
iudicando, quando non ha inciso sulla giustizia della sentenza. La matrice
storica è costituita dalla figura dell’error causalis: sfugge all’annullamento
la sentenza fondata su una pluralità di motivi, se, dimostrata l’erroneità di
uno, essa si giustifica comunque sulla base degli altri (47).

(42) Così G. FUMU, op. cit., p. 428 e C. RIVIEZZO, op. cit., p. 85. Per l’individuazione
dei casi giurisprudenziali che hanno condotto all’approvazione dell’art. 625-bis c.p.p., vedi
infra, § V.
(43) Cfr. A. LORENZETTO PESERICO, Errores in procedendo e giudizio di fatto in cas-
sazione, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 653 ss.
(44) Vedi supra, § 3.
(45) Vedi, per tutti, CERINO CANOVA-TOMBARI FABBRINI, op. cit., p. 4.
(46) Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 900.
(47) Sull’origine storica della nozione di error causalis, vedi P. CALAMANDREI, La teo-
ria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Studi sul processo civile, I, Pa-
dova, 1930, pp. 135-142. Nel codice attuale, tale figura è riproposta nell’art. 619, comma 1,
c.p.p., in base al quale gli errori di diritto che non abbiano avuto un’influenza decisiva sul
dispositivo possono essere rettificati dalla Corte di cassazione (vedi Cass., sez. VI, ud. 24
gennaio 1995, Ronchi, in Riv. pen., 1995, p. 1322) e nell’art. 606, lett. d), c.p.p., che pre-
vede quale motivo di ricorso in cassazione la mancata ammissione ex art. 495, comma 2,
c.p.p. di una prova decisiva (vedi Cass., sez. VI, ud. 26 giugno 1997, Abatini, in Cass. pen.,
1998, p. 2030). La giurisprudenza estende il medesimo criterio all’ipotesi di illogicità della
motivazione ex art. 606, lett. e), c.p.p. (vedi Cass., sez. II, c.c. 14 novembre 1997, Meriani,
in Cass. pen., 1999, p. 183) e all’ipotesi di acquisizione di prove inutilizzabili ex art. 606,

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È evidente che il caso di cui all’art. 625-bis c.p.p. è eterogeneo: l’in-


dagine sulla decisività presuppone l’avvenuto accertamento di un vizio
che, in astratto, potrebbe autonomamente determinare l’annullamento
della sentenza impugnata, ma che, in concreto, risulta ininfluente. Nell’er-
rore di fatto, invece, poiché il difetto percettivo, di per sé, è del tutto irri-
levante, l’accertamento dell’invalidità o dell’ingiustizia della sentenza —
che figurano quali elementi sine quibus non della fattispecie — non mira
a verificare l’efficacia causale del difetto percettivo bensì la stessa sussi-
stenza del vizio.
Il principio di decisività, d’altra parte, non può nemmeno essere im-
piegato, stavolta nella sua accezione consolidata, per valutare se, una
volta accertato l’errore di fatto, esso abbia effettivamente influito sulla
giustizia della decisione. Se il difetto percettivo ha determinato l’invalidità
della sentenza, non vi è spazio nel nostro sistema per un’ulteriore valuta-
zione in termini di decisività. Poniamo che i giudici di legittimità, cre-
dendo erroneamente che gli avvisi della data dell’udienza di cui all’art.
610, comma 5, c.p.p. siano stati correttamente notificati, abbiano proce-

lett. c), c.p.p. (vedi, Cass., sez. un., ud. 25 febbraio-7 aprile 1998, Gerina, in Gazz. giur.,
1998, n. 16, pp. 52-53). La valutazione sulla ‘‘tenuta’’ della sentenza pur in presenza del vi-
zio viene perciò effettuata in due casi di error in iudicando (artt. 619, comma 1, c.p.p. e
606, lett. e), c.p.p.) e in due casi di errori relativi al procedimento istruttorio (artt. 606, lett.
c) e d), c.p.p.). In dottrina, si tende a escludere la piena assimilabilità delle quattro ipotesi
sulla base di due argomenti che convergono, nonostante premesse contrastanti. Per chi ri-
conduce i vizi relativi al procedimento istruttorio nell’alveo degli errores in procedendo, la
dottrina dell’error causalis è incongrua sotto il profilo teorico, in quanto la giustizia della
sentenza (rectius, il convincimento del giudice superiore in ordine alla giustizia della sen-
tenza) non vale a sanare le invalidità processuali; si propone, perciò, di distinguere la decisi-
vità-error causalis, propria del controllo sull’error in iudicando, dalla decisività propria del
controllo sul materiale istruttorio usato per la decisione, attribuendo a quest’ultima un carat-
tere più astratto: la Corte deve verificare non se la sentenza, nonostante il vizio, sia comun-
que fondata, ma se, per caso, quella prova non acquisita o illegittimamente acquisita sia su-
perflua o irrilevante rispetto al fatto accertato; in tal senso, vedi A. BARGI, Il ricorso per cas-
sazione, in Le impugnazioni penali, cit., II, pp. 500-502; P. DELL’ANNO, Presupposti e limiti
del sindacato della Corte di cassazione sul vizio della motivazione, in Giust. pen., 1993, III,
p. 702, nonché, volendo, A. CAPONE, Diritto alla prova e obbligo di motivazione, in Ind.
pen., 2002, pp. 43-44. Per chi, invece, riconduce i vizi relativi al procedimento istruttorio
nell’alveo degli errores in iudicando, la dottrina dell’error causalis è in concreto inapplicabile
perché condurrebbe ad attribuire alla Corte di cassazione poteri che non le competono. Se
difatti i giudici di legittimità dovessero valutare, ex art. 606, lett. d), c.p.p., l’efficacia dimo-
strativa di una prova contraria non acquisita o, ex art. 606, lett. c), c.p.p., l’efficacia dimo-
strativa delle prove validamente acquisite che figurano in motivazione, escludendo mental-
mente quelle viziate, di fatto sarebbero chiamati a effettuare un nuovo giudizio storico ex ac-
tis senza istruzione, senza oralità e senza contraddittorio; in tal senso, vedi F. CORDERO, Tre
studi sulle prove penali, Milano, 1963, nt. 25, pp. 188-189; P. FERRUA, Oralità del giudizio e
letture di deposizioni testimoniali, Milano, 1981, pp. 442-443; A. SCELLA, Prove penali e
inutilizzabilità, Torino, 2000, p. 203; contra G. LEONE, Trattato di diritto processuale pe-
nale, II, Napoli, 1961, nt. 194, p. 242.

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duto in assenza della difesa; qui non resta che annullare la decisione e fis-
sare una nuova udienza: la (ritenuta) giustizia sostanziale della sentenza
non può ‘‘sanare’’ le nullità del procedimento. Se invece il difetto percet-
tivo ha determinato l’ingiustizia della sentenza, a fortiori ogni ulteriore in-
dagine è superflua: la decisività è in re ipsa (48).

5. Un’interpretazione ‘‘costituzionale’’ dell’errore di fatto. — Non


sono rare, tra gli studiosi del processo penale, opinioni critiche nei con-
fronti del cosiddetto dogma del giudicato (49). Mentre la giurisprudenza,
storicamente, è da sempre assestata su posizioni conservatrici (50),
spicca, di recente, una pronuncia delle sezioni unite, in materia di revi-
sione, che sembra considerare l’irrevocabilità della pronuncia definitiva
come un formalismo che deve necessariamente cedere di fronte a ogni so-
spetto di ingiustizia della sentenza (51). Non stupisce, perciò, che alcuni

(48) Una conferma del ragionamento fin qui svolto viene dal caso discusso dalle se-
zioni unite, nel quale il ricorrente lamentava l’omessa considerazione di uno dei motivi di ri-
corso. L’errore di fatto qui risulta dal difetto percettivo (la Corte non si è avveduta di una
delle censure) che ha determinato il vizio di omessa pronuncia. I giudici di legittimità, in os-
sequio al principio di decisività, hanno stabilito che se i motivi del ricorso non considerato
risultano infondati, il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. non va accolto (Cass., sez.
un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., p. 900). Com’è stato correttamente evidenziato, in que-
sto modo si confondono giudizio rescindente e rescissorio, mentre il principio di decisività
non ha alcuna ragione d’essere applicato. A norma dell’art. 625-bis c.p.p., la Corte può adot-
tare i provvedimenti necessari per correggere l’errore di fatto. Nel caso in cui, a causa di un
difetto percettivo, sia stato trascurato un motivo di ricorso, ma questo risulti comunque in-
fondato, la Corte, unificando iudicium rescindens e rescissorium, dovrà accogliere il ricorso
straordinario ex art. 625-bis c.p.p. e contestualmente rigettare, con idonea motivazione, il ri-
corso originariamente proposto ex art. 606 c.p.p. (in tal senso, vedi M. GIALUZ, Omesso
esame di una censura da parte della cassazione e ricorso straordinario per errore di fatto, in
Dir. pen. proc., 2002, pp. 995-996).
(49) Vedi, ad esempio, F. CARNELUTTI, Contro il giudicato penale, in Riv. dir. proc.,
1951, I, p. 289 ss., e, in certa qual misura, V. GIANTURCO, Il ricorso per cassazione nell’inte-
resse della legge e l’error iuris del giudicato penale, Milano, 1958, p. 49. Altri Autori, pur
prendendo polemicamente posizione contro il giudicato, in realtà sostennero l’ampliamento
del casi di revisione, sempre sul presupposto di un contrasto tra differenti accertamenti giu-
diziali; in tal senso, vedi B. PETROCELLI, op. cit., p. 178; G. LEONE, Il mito del giudicato, in
questa Rivista, 1956, pp. 178-182. Più recentemente, favorevoli all’introduzione di casi di
impugnabilità delle sentenze di cassazione, A. GAITO, In tema di ‘‘irrevocabilità’’ ed ‘‘esecu-
tività’’ della sentenza, in Il giusto proc., 1990, n. 5, p. 96 e A. GIARDA, Ancora sull’intangi-
bilità assoluta delle sentenze della Corte di cassazione, in questa Rivista, 1995, p. 925.
(50) Vedi infra, nt. 57-59.
(51) Si veda Cass., sez. un., ud. 26 settembre 2001, Pisano, cit., p. 1967: ‘‘Mutuando
dalla più autorevole dottrina, si è così affermato che la base giustificativa della res iudicata
non è di ordine teorico ma di natura eminentemente pratica. Da tale peculiare carattere sca-
turisce che l’ordinamento, con precise scelte di politica legislativa, ben può sacrificare il va-
lore del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori. E,
rispetto alla regola dell’intangibilità del giudicato, uno dei valori fondamentali, cui la legge
attribuisce priorità, è costituito proprio dalla necessità dell’eliminazione dell’errore giudizia-

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autori abbiano interpretato l’introduzione del ricorso straordinario per er-


rore di fatto come un’ulteriore tappa di un inarrestabile movimento volto
a consentire, senza più limiti di tempo, la rilevazione di ogni forma di in-
giustizia della sentenza (52).
Questo orientamento trova un sostegno nella pronuncia della Corte
costituzionale che estese la revocazione civile per errore di fatto ai provve-
dimenti della cassazione. In quell’occasione, i giudici delle leggi, con una

rio, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio
del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pra-
tica — quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti — per
impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situa-
zioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario (...). Non man-
candosi di rimarcare come in tale medesima prospettiva si sia collocata la giurisprudenza di
legittimità che identifica la precipua funzione della revisione nella necessità di sacrificare il
rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale’’. Da notare
che l’ ‘‘autorevole dottrina’’ citata è il noto intervento di F. CARNELUTTI, Contro il giudicato
penale, cit., p. 290, nel quale l’Autore sostenne la necessità di abolire, coerentemente con la
sua concezione ‘‘medicinale’’ della pena, ogni forma di giudicato in materia penale, sia di as-
soluzione che di condanna. Per l’idea che la revisione sia ‘‘il rimedio che la legge appresta
contro il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della
giustizia reale’’, vedi, invece, A. DE MARSICO, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, pp.
328-329.
(52) Secondo CANZIO-SILVESTRI, op. cit., p. 3543, l’art. 625-bis c.p.p. costituisce
‘‘uno specifico strumento processuale diretto a porre riparo agli errori del giudice di legitti-
mità, in vista delle esigenze di giustizia sostanziale e del diritto ad ottenere un effettivo con-
trollo di legittimità sulla decisione impugnata, demandato alla Corte di cassazione dall’art.
111 Cost., nonché per evitare irreparabili compromissioni del diritto di difesa ex art. 24
Cost.’’. Anche secondo, G. INZERILLO, Riflessioni ‘‘a prima lettura’’ sul ricorso straordinario
per errore di fatto, in Ind. pen., 2000, pp. 85-88, le esigenze di ‘‘giustizia sostanziale’’ hanno
costituito ‘‘l’humus della riforma’’. Sulla scorta di tali considerazioni, propongono la censu-
rabilità ex art. 625-bis c.p.p. del c.d. travisamento del fatto, G. INZERILLO, ibidem; A.A.
SAMMARCO, Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Milano,
2001, pp. 318-321 e V. SANTORO, Cassazione: sezione ad hoc per i ricorsi inammissibili, in
Guida dir., 2001, n. 16, p. 57. B. D’ALASCIO, Rimedi possibili all’errore ‘‘percettivo’’ della
Corte di cassazione, in Giur. it., 2001, nt. n. 26, p. 2359 e F. FEDERICO, Il ricorso straordina-
rio per errore di fatto tra oscillazioni giurisprudenziali e aspirazioni al giusto processo, ivi,
2002, p. 2371 ritengono invece opportuno ricomprendere nell’ambito dell’errore di fatto an-
che l’error iuris. Di tali opinioni non suscita riserve, naturalmente, la proposta di trovare dei
rimedi per i summenzionati vizi, che appare ispirata alle più sane esigenze equitative, bensì
l’assenza di un’adeguata riflessione sul modo di contemperare le esigenze di giustizia con la
necessità di giungere ad una definizione della controversia, il che costituisce la ratio essendi
della funzione giurisdizionale (vedi A. ROCCO, op. cit., p. 206; E. ALLORIO, Nuove riflessioni
critiche in tema di giurisdizione e giudicato, in Sulla dottrina della giurisdizione e del giudi-
cato, Milano, 1957, p. 67). In questa prospettiva, vedi M. GIALUZ, Ancora sul concetto di
‘‘errore di fatto’’ come vizio dei provvedimenti della cassazione, in Cass. pen., 2002, n. 870,
secondo il quale solo l’errore revocatorio, che ha rango costituzionale ex artt. 3 e 24 Cost., e
che ‘‘non comporta la necessità di rimettere in discussione la valutazione compiuta dal giu-
dice — di per sé censurabile all’infinito’’, può consentire una deroga al principio di incensu-
rabilità delle decisioni della cassazione, di cui parimenti ravvisa un fondamento costituzio-
nale negli artt. 24, comma 1, e 111, comma 7, Cost.

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motivazione invero assai sbrigativa, argomentarono che ‘‘il diritto di di-


fesa in ogni stato e grado del procedimento, garantito dall’art. 24, comma
2, Cost., sarebbe gravemente offeso se l’errore di fatto (...) non fosse su-
scettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal giudice cui spetta il
potere-dovere di nomofilachia’’ (53). L’argomento, apparentemente li-
neare, ha due limiti. In primo luogo, è riproponibile ad infinitum: vi sarà
sempre un ultimo grado i cui vizi risulteranno incensurabili; in secondo
luogo, esso non riesce a spiegare gli eventuali limiti posti all’esperibilità
del mezzo di impugnazione: nessun vizio della sentenza, che sia dovuto a
svista o a errore di giudizio, è meno lesivo se viene commesso dai giudici
di legittimità anziché dai giudici di merito (54). Portando il ragionamento
della Corte alle sue estreme conseguenze, dovrebbe escludersi in radice,
per contrasto con il diritto di difesa, la stessa legittimità costituzionale
dell’irrevocabilità delle sentenze (55).
Prima ancora di discutere l’assunto, va messo in rilievo che l’introdu-
zione nel processo penale del ricorso straordinario di cui all’art. 625-bis
c.p.p. ha una matrice concettuale e storica differente.
La prima volta che l’errore di fatto si è affacciato sulla scena della
giurisprudenza costituzionale, la controversia proveniva proprio da un
processo penale. La Corte di cassazione aveva rigettato un ricorso, senza
che l’avviso del giorno fissato per l’udienza fosse stato notificato al difen-
sore e senza che la nullità fosse stata rilevata d’ufficio. Il condannato
aveva proposto l’incidente di esecuzione e il giudice aveva rimesso la que-
stione alla Corte costituzionale, denunciando il contrasto tra l’art. 552
c.p.p. 1930, che sanciva l’irrevocabilità delle sentenze della cassazione, e
l’art. 24, comma 2, Cost., che afferma l’inviolabilità del diritto di difesa. I
giudici delle leggi, pur rilevando che il legislatore ben avrebbe potuto pre-

(53) Corte cost., sent. n. 17 del 1986, cit., c. 320.


(54) Vedi, in tal senso, C. CONSOLO, op. cit., pp. 132-133, il quale constata una con-
traddizione tra l’argomento impiegato e la ristrettezza dei risultati. Se davvero è l’art. 24
Cost. ad imporre il diritto al gravame contro le sentenze rese in sede di legittimità, non si
vede perché ‘‘escludere la doverosità costituzionale di un rimedio anche per gli altri vizi (o
talora meri sintomi di ingiustizia) rilevanti in revocazione (...). Né si comprende come lo
stesso art. 24 Cost. risulti — nella lata lettura che ne viene proposta (o forse presupposta,
ancorché inedita) — rispettato in una impressionante serie di altri casi e così fors’anche per
effetto dell’attuale irrilevanza delle invalidità in cui si fosse incorsi durante il giudizio di cas-
sazione od al momento della sua decisione, per gravissime che siano’’. Nel medesimo senso,
ma a proposito della revisione, vedi A. CRISTIANI, op. cit., p. 104, secondo il quale, ‘‘se vera-
mente l’errore fosse la base concettuale dell’istituto (e non, come ovviamente è, una delle ra-
gioni di politica legislativa che la ispirano) i limiti della revisione non potrebbero essere nep-
pure concepiti dal punto di vista logico’’.
(55) V. DENTI, Valori costituzionali e cultura processuale, in Riv. dir. proc., 1984, p.
461, coglie, sia pure in senso adesivo, la portata larvatamente ‘‘eversiva’’ (l’espressione è di
C. CONSOLO, op. cit., p. 185) della decisione, interpretandola come un tentativo di ispira-
zione giusnaturalistica di superare il muro del giudicato.

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vedere per casi simili opportuni rimedi, osservarono che ‘‘di certo non
può dirsi imposto dall’art. 24 che eventuali nullità verificatesi per viola-
zione del diritto di difesa debbano poter esser fatte valere in qualsiasi mo-
mento, senza limiti di tempo, e pur dopo il formarsi del giudicato’’. L’art.
24 Cost., difatti, assicura l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e
grado del procedimento, ‘‘nell’interno, cioè, del rapporto processuale, ma
senza oltrepassare l’arco complessivo delle varie fasi in cui esso è positiva-
mente articolato’’ (56).
Il medesimo orientamento è stato ribadito dalla Corte costituzionale
in altre occasioni, nelle quali ha affermato che ‘‘la scelta legislativa di ren-
dere improponibile in un determinato grado del procedimento eccezioni
di nullità, che si assumono violate in fasi precedenti ed esaurite, non può
dirsi irrazionale, ma appare, al contrario, ispirata dall’intento di evitare la
perpetuazione dei giudizi al fine di garantire la definizione del procedi-
mento stesso’’ (57) e che l’inoppugnabilità delle decisioni della Corte di
cassazione è ‘‘pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo di le-
gittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall’art. 111’’ (58).
Di recente la Corte è ritornata ancora sul tema, negando che il formarsi
del giudicato possa comportare una lesione del diritto di difesa ed anzi af-
fermando che l’ ‘‘esigenza di definitività e certezza costituisce un valore
costituzionalmente protetto, in quanto ricollegabile sia al diritto alla tutela
giurisdizionale (...) sia al principio della ragionevole durata del proces-
so’’ (59).
L’affermarsi, nell’ambito del processo penale, di un nuovo mezzo di
impugnazione contro le sentenze della Corte di cassazione non segna per-
ciò il prevalere di generiche esigenze di giustizia a danno dell’irrevocabi-
lità della sentenza, ma si colloca all’interno di una differente prospettiva
teorica. La nozione di errore di fatto, nella giurisprudenza penale degli ul-
timi dieci anni, sorge col fine di individuare, nel variegato ambito dei di-
fetti della sentenza che trovavano un rimedio attraverso la correzione de-
gli errori materiali ex art. 130 c.p.p., un gruppo di patologie dalle caratte-
ristiche peculiari. In particolare, ci si poneva il problema dell’irrimediabi-
lità di situazioni nelle quali, per effetto di una svista dei giudici di cassa-
zione nella lettura di qualche documento processuale, era stata erronea-
mente dichiarata l’inammissibilità del ricorso (60), non era stata rilevata

(56) Corte cost., sent. n. 136 del 1972, in Giur cost., 1972, p. 1388.
(57) Corte cost., sent. n. 21 del 1982, in Giur. cost., 1982, p. 210.
(58) Corte cost., sent. n. 294 del 1995, in Giur. cost., 1995, p. 2301.
(59) Corte cost., ord. n. 501 del 2000, in Cass. pen., 2001, p. 799.
(60) Cass., sez. III, c.c. 13 febbraio 1996, Conte, in Cass. pen., 1997, p. 2744. Vedi
anche Cass., sez. V, c.c. 15 dicembre 1999, Cervetti, in Cass. pen., 2001, p. 895: ‘‘Quando
la Corte di cassazione (...) decide in modo non conforme a giustizia, come nella ipotesi di
declaratoria di inammissibilità del ricorso sul presupposto, errato in punto di fatto, della pre-

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l’invalidità della notifica dell’avviso del giorno d’udienza (61) o era stata
omessa la pronuncia su uno o più dei motivi di ricorso presentati (62).
Con l’espressione ‘‘errore di fatto’’ non si indicava perciò la totalità dei
casi che nel processo civile giustificano la revocazione, ma solo un in-
sieme più ristretto. Il loro tratto comune era ravvisabile nella circostanza
che i ricorrenti erano stati privati della possibilità di far valere le loro ra-
gioni davanti ai giudici di legittimità o comunque queste non erano state
prese in considerazione.
Quando la Corte costituzionale, nella vicenda che poi ha condotto al-
l’introduzione dell’art. 625-bis c.p.p., è stata nuovamente chiamata a pro-
nunciarsi in merito all’inoppugnabilità dei provvedimenti della Corte di
cassazione, la questione proveniva da un processo nel quale i giudici di le-
gittimità avevano dichiarato inammissibile il ricorso sull’erroneo presup-
posto che mancasse lo specifico mandato al difensore (63). L’ordinanza di
rimessione aveva proposto gli stessi argomenti che erano stati posti a fon-
damento della sentenza n. 17 del 1986 (64). La decisione della Consulta,
invece, pur concordando sul fatto che il caso sottoposto al suo esame inci-
deva negativamente sui valori costituzionali, ha implicitamente messo da
parte quel suo precedente. Dopo un rapido e formale omaggio agli artt. 3
e 24 Cost., i giudici delle leggi hanno osservato che l’art. 111, comma 7,
Cost., così come imponeva il controllo di legalità sulle sentenze e sui
provvedimenti in materia di libertà personale, specularmente assicurava
‘‘il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema,
cioè il diritto al processo in cassazione’’ (65). In questa prospettiva, era
evidente che i casi come quelli sottoposti al suo esame minavano l’effetti-

sentazione dell’impugnazione da parte di difensore dell’imputato non munito di specifico


mandato o della mancata presentazione dei motivi o dell’omessa notifica dell’istanza di ri-
messione, il provvedimento viziato, non altrimenti eliminabile, può essere sostituito con
quello legittimo attraverso la procedura di correzione degli errori materiali’’.
(61) Vedi Cass., sez. VI, c.c. 24 settembre 1998, Gidaroi, ivi, 2000, p. 398, per la
quale il principio di definitività delle sentenze della cassazione esclude la censurabilità degli
errori di fatto, e Cass., sez. VI, 22 maggio 1995, Russo, ivi, 1996, pp. 125-126, che invece
accoglie il ricorso, argomentando dall’esigenza costituzionale che l’ordinamento processuale
risponda ai principi di ‘‘corretta finalizzazione ad una decisione di merito, resa secondo giu-
stizia, nel rispetto dei diritti di partecipazione delle parti’’ la necessità di fare spazio anche
alla correzione degli errori di fatto.
(62) Vedi Cass., sez. un., c.c. 9 ottobre 1996, Armati, ivi, 1997, p. 683, che respinge
l’istanza di correzione della sentenza, in quanto l’ ‘‘errore di fatto’’ non poteva essere assimi-
lato all’errore materiale.
(63) Cass., sez. IV, ord. 5 maggio 1999, Cervati, in Foro it., 1999, II, c. 499, con
nota di G. DI CHIARA.
(64) In particolare si segnalava la lesione dell’art. 24 Cost., in quanto l’errore del giu-
dice negava all’imputato una pronuncia alla quale aveva diritto, e dell’art. 3 Cost., per dispa-
rità di trattamento tra la censurabilità dell’errore nei gradi di merito, e la sua incensurabilità
nel grado di legittimità, Cass., sez. IV, ord. 5 maggio 1999, Cervati, cit., cc. 501-502.
(65) Corte cost., ord. n. 395 del 2000, in Cons. Stato, 2000, II, p. 1347.

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vità di tale diritto. La Corte costituzionale si è perciò ben guardata dall’a-


vallare la tesi secondo la quale ex artt. 3 e 24 Cost. ogni errore censura-
bile nelle fasi di merito deve ipso facto essere censurabile anche quando è
compiuto dai giudici di legittimità; ha invece affermato che sono costitu-
zionalmente imposti dei rimedi per il caso che venga indebitamente com-
promesso il diritto al controllo di legittimità (66).
Si può dire, in definitiva, che l’elaborazione giurisprudenziale sull’art.
130 c.p.p., avallata dalla Corte costituzionale, ha condotto a considerare
l’errore di fatto idoneo ad incrinare il c.d. principio di inoppugnabilità
delle sentenze della Corte di cassazione in considerazione di due aspetti:
a) come nella revisione (67), non si tratta di sottoporre a un giudice su-
periore un nuova valutazione dei medesimi fatti, bensì di comporre un
conflitto tra la certezza giuridica creata con la pronuncia di legittimità ed
un’opposta certezza, che, nella revisione, proviene ab extra; qui ab intra;
b) il vizio pregiudica il diritto dell’imputato ad ottenere un effettivo con-
trollo di legittimità.
Rispetto alla vicenda fin qui ripercorsa, non può non rilevarsi che
l’interpretazione maggioritaria della disposizione di cui all’art. 625-bis
c.p.p. amplia in modo esorbitante l’area delle patologie riconducibili alla
nozione di errore di fatto. La matrice dell’errore risiede sempre in un con-
trasto tra la rappresentazione di un medesimo fatto emergente ex actis e
quella emergente dalla sentenza. Gli effetti dell’errore, però, come ab-
biamo visto (68), non sono limitati ai vizi che impediscono il corretto
svolgimento del controllo di legittimità, ma vengono estesi a tutte le ipo-
tesi di invalidità o ingiustizia della sentenza (69).
In una delle prime sentenze in materia di errore di fatto, la Corte di

(66) Ibidem. È interessante notare come già nel 1972, nel commentare la sentenza
della Corte costituzionale n. 136, M. CHIAVARIO, Inoppugnabilità delle sentenze di cassa-
zione ed art. 24 Cost., in Giur. cost., 1972, p. 1381, prospettava le linee guida della riforma
che oggi è stata realizzata, proponendo l’introduzione di uno speciale rimedio contro il giu-
dicato per i casi che, ai sensi del punto n. 70 dei criteri direttivi della riforma del codice di
procedura penale allora in discussione, figuravano come lesione della ‘‘necessità delle con-
clusioni della difesa nel dibattimento davanti alla Corte di cassazione’’.
(67) Vedi, ancora, A. CRISTIANI, op. cit., p. 99.
(68) Vedi supra, § 3.
(69) Cass., sez, un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., pp. 989-900. Da notare che la
Corte esclude espressamente dal novero degli errori di fatto soltanto l’error iuris, ma sembra
intendere, con tale formula, unicamente l’errore che è originato da un’erronea interpreta-
zione di una norma. Se rileva ex art. 625-bis c.p.p. l’errore su un dato fattuale, per come è
stato accertato dal giudice di merito (ibidem), rientrano nella fattispecie anche ipotesi che,
se verificatesi nei gradi precedenti, giustificherebbero un ricorso ex art. 606, lett. b), c.p.p.;
ad esempio la mancata dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo, remissione
della querela, prescrizione. Né potrebbero escludersi l’applicazione in sede di legittimità di
norme più favorevoli, ex art. 619, comma 3, c.p.p., o un annullamento senza rinvio perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato, che siano dovuti a una svista nella lettura della
motivazione. Finora, l’ipotesi di un difetto percettivo che cade sulla motivazione della sen-

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cassazione aveva enunciato la necessità di evitare che il ricorso straordina-


rio si trasformasse in un ‘‘generalizzato quarto grado di giudizio’’ (70). Se
si considerano la difficoltà teorica di espungere il ricorso ex art. 625-bis
c.p.p. dal novero della serie ordinaria delle impugnazioni e la latitudine
applicativa della fattispecie (che, almeno in sede di controllo di ammissi-
bilità, impone di verificare se sussiste il vizio denunciato e se è rintraccia-
bile nel fascicolo l’atto che in ipotesi contrasterebbe con la decisione), il
rischio non può dirsi scongiurato.
Si può dunque suggerire un’interpretazione ‘‘restrittiva’’ dell’art.
625-bis c.p.p. che, seguendo le indicazioni dell’ord. n. 395 del 2000 della
Corte costituzionale, limiti l’ambito di operatività della nuova norma sol-
tanto ai casi effettivamente idonei a pregiudicare il diritto al controllo di
legittimità. In questa prospettiva, l’espressione ‘‘errore di fatto’’ potrebbe
costituire un semplice rinvio alle ipotesi che in giurisprudenza già erano
state ricondotte a tale figura.
L’area delle patologie dei provvedimenti della Corte di cassazione,
che, in caso di contrasto tra decisione e atti, potrebbe legittimare il ricorso
straordinario, giova ribadirlo, sarebbe così ristretta fondamentalmente a
tre ipotesi: erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso, invalidità
della notificazione degli avvisi del giorno d’udienza e omessa pronuncia
su un motivo di ricorso. Nel primo caso, al ricorrente viene negato in ra-
dice il controllo di legittimità; nel secondo caso, il controllo di legittimità
si svolge ma senza la partecipazione del difensore; nel terzo caso, poiché
manca una decisione sulle richieste del ricorrente, il controllo di legitti-
mità, di fatto, non si è svolto (71).
È significativo che, finora, i pochi casi nei quali la Corte di cassazione

tenza, e che perciò potrebbe perfino giustificare un ricorso straordinario perché la Corte, nel
controllo ex art. 606, lett. e), c.p.p., non si è avveduta di un’illogicità della sentenza, non ha
trovato riscontro giurisprudenziale. Se la nozione di errore di fatto è quella propugnata dalle
sezioni unite, però, non vi sarebbe ragione di escluderla. In tal senso, peraltro, seppure non
del tutto esplicitamente, vedi CANZIO-SILVESTRI, op. cit., p. 3544, i quali considerano oggetto
del difetto percettivo tutti gli atti del processo, la motivazione della sentenza e, quando alla
Corte sono consentite decisioni di merito, i fatti storici oggetto di valutazione.
(70) Cass., sez. I, c.c. 13 novembre 2001, Salerno, cit., p. 863.
(71) Qualche rilievo sull’omessa pronuncia. Fermo restando che tra mancanza di mo-
tivazione e omessa pronuncia sussiste una chiara differenza concettuale (‘‘la motivazione
manca quando una decisione c’è; quando una decisione non c’è, la motivazione non manca
per la buona ragione che si deve motivare ciò che si decide, non quello che non si decide’’,
F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Mi-
lano, 1997, p. 287; nel medesimo senso E. AMODIO, Motivazione della sentenza penale, in
Enc. dir., XVII, Milano, 1977, p. 222), ai fini dell’eventuale riconoscimento dell’autonomia
del vizio di omessa pronuncia, occorre preventivamente chiarire se debba ravvisarsi la figura
del giudicato implicito anche nei provvedimenti della Corte di cassazione che rendono defi-
nitiva una condanna. Nel processo penale, in genere, ricorre la figura del giudicato implicito
in quanto l’efficacia vincolante della decisione si estende ‘‘oltre che ai fatti dei quali è stata
specificatamente accertata la presenza o la mancanza, a tutti quegli altri, la cui esistenza o

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ha accolto il ricorso straordinario, o lo ha quantomeno dichiarato ammis-


sibile salvo poi dichiararlo infondato nel merito, riguardano proprio
quelle ipotesi (72).
Dott. ARTURO CAPONE

inesistenza fungono da postulato rispetto alla conclusione in essa recepita’’ (così F. COR-
DERO, Contributo allo studio dell’amnistia nel processo, Milano, 1957, p. 125). Se tale figura
dovesse applicarsi anche al giudizio di legittimità, l’omessa pronuncia non sarebbe mai con-
figurabile (fatta eccezione per i casi in cui ad essere omessa fosse la decisione su un’intero
capo d’imputazione, vedi E. AMODIO, Considerazioni sui ‘‘vizi del dispositivo’’ della sen-
tenza dibattimentale, in questa Rivista, 1967, p. 396; F. CORDERO, Procedura penale, Mi-
lano, 2001, p. 999): il difetto della sentenza emergerebbe necessariamente quale vizio della
motivazione (‘‘non vi è ‘pronuncia’ implicita, che per ciò stesso non appaia anche immotiva-
ta’’, così B. LASAGNO, Premessa per uno studio sull’omissione di pronuncia nel processo ci-
vile, in Riv. dir. proc., 1990, p. 449). La distinzione tra mezzi di gravame e azioni di impu-
gnativa, in forza della quale, nei rimedi del secondo tipo, l’oggetto della decisione ‘‘verte sul-
l’esistenza del diritto d’impugnativa’’ (così P. CALAMANDREI, Vizi della sentenza e mezzi di
gravame, in Studi sul processo civile, cit., p. 194) non appare risolutiva. Poiché l’art. 129,
comma 1, c.p.p. consente alla Corte di rilevare, a prescindere dal motivo di ricorso presen-
tato, qualunque causa di non punibilità, potrebbe anche ritenersi che ogni pronuncia della
Corte su un singolo motivo di ricorso non esclude che i giudici di legittimità si siano prospet-
tati ognuna delle questioni che potrebbero condurre ad un proscioglimento. Il giudicato im-
plicito, però, ha una valenza più forte: non si tratta di verificare se il giudice poteva porsi
una certa questione, bensì quali sono le questioni che costituiscono il necessario e logico
presupposto di una decisione. Nelle decisioni pronunciate nei gradi di merito, effettivamente
‘‘ogni pronuncia di condanna postula la soluzione di tutte le questioni rilevanti ai fini dell’ac-
certamento del dovere di punire in ordine a un determinato fatto’’ (così, F. CORDERO, Contri-
buto, cit., p. 127). In sede di legittimità, tuttavia, la situazione appare diversa: la decisione
negativa in ordine alla fondatezza di un certo motivo di ricorso non postula necessariamente
lo scioglimento in senso negativo di tutte le questioni che in astratto potrebbero condurre al-
l’annullamento della decisione impugnata. Il rigetto di un ricorso in quanto l’asserito vizio
della motivazione non sussiste, ad esempio, non implica logicamente alcunché in ordine al-
l’eventuale sussistenza di errori di diritto. In senso favorevole all’inclusione dell’omessa pro-
nuncia nella nozione di errore di fatto, vedi Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit.,
che, corregge l’orientamento espresso in Cass., sez. VI, c.c. 30 ottobre 2001, Botteselle, cit.;
in senso prevalentemente adesivo, vedi M. GIALUZ, Omesso esame di censura, cit., pp. 993-
994. Per un approfondimento del dibattito in sede civilistica, che però si svolge su binari di-
versi, adde, G. CRISTOFOLINI, Omissione di pronuncia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, I, p. 96;
F. CARNELUTTI, Effetti della casszione per omessa pronunzia, in Riv. dir. proc. civ., 1938, II,
p. 68; C. CALVOSA, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in Scritti giuridici in onore di
F. Carnelutti, II, Padova, 1950, p. 515.
(72) Il ricorso straordinario è stato accolto in un caso nel quale la cassazione aveva
dichiarato inammissibile il ricorso sul falso presupposto che non fossero stati depositati i
motivi (Cass., sez. I, c.c. 7 settembre 2001, Schiavone, cit.) e in un caso nel quale era stata
omessa la notificazione al difensore dell’avviso dell’udienza (Cass., sez. VI, c.c. 6 dicembre
2001, Galletta, cit.); Cass., sez. un., c.c. 27 marzo 2002, Basile, cit., esclude che nel caso
sottoposto al suo giudizio vi sia stata un’omissione di pronuncia, ma la ritiene censurabile ai
sensi dell’art. 625-bis c.p.p.

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SCELTE DEL PUBBLICO MINISTERO NELLA TRATTAZIONE
DELLE NOTIZIE DI REATO E ART. 112 COST.:
UN TENTATIVO DI RAZIONALIZZAZIONE (*)

SOMMARIO: 1. L’art. 112 Cost.: un principio da razionalizzare. — 2. Il ventaglio dei possibili


rimedi: dalla depenalizzazione ai criteri di priorità. — 3. I criteri di priorità dalla
prassi all’art. 227 d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. — 4. Il cuore del problema: i rap-
porti con il principio di obbligatorietà dell’azione penale. — 5. Il significato imme-
diato dell’art. 112 Cost. La discrezionalità vincolata. — 6. L’obbligo di svolgere le in-
dagini quale corollario del principio di obbligatorietà: critica ai tentativi di legittimare
i criteri di priorità con l’estensione dell’art. 97, comma 1, Cost. alla fase preliminare.
— 7. Discrezionalità del pubblico ministero e tempi di svolgimento delle indagini pre-
liminari: i criteri di priorità come strumento di razionalizzazione. — 8. (Segue): tratti
essenziali di un sistema di priorità compatibile con l’art. 112 Cost. — 9. Una possibile
soluzione: il principio di offensività quale criterio regolatore della scala di priorità. —
10. Scelte di politica criminale ed indipendenza esterna del pubblico ministero: la
crisi del modello costituzionale. — 11. Le ipotesi di collegamento incompatibili con
l’indipendenza esterna del pubblico ministero: il ministro della giustizia e il Consiglio
superiore della magistratura. — 12. Un modello intermedio: direttive del Parlamento
e attività integrativa delle procure.

1. L’art. 112 Cost.: un principio da razionalizzare. — Punto di par-


tenza dell’indagine è un dato empirico da più parti messo in evidenza: la
meccanica trattazione di tutte le notitiae criminis, frutto della logica sot-
tesa all’obbligatorietà dell’azione penale, appare sempre più, alla luce
dello scarto esistente tra mezzi e fini, come un obiettivo fuori portata.
Non sembra necessario dilungarsi a sottolineare come, di fronte al nu-
mero delle notizie di reato che vengono acquisite, sia diventato inevitabile
per gli uffici del pubblico ministero compiere delle scelte, al fine di stabi-
lire quali ipotesi di reato richiedano maggiore impegno investigativo,
quali, al contrario, possano considerarsi di importanza secondaria e quali,
infine, siano da accantonare in una sorta di archivio di fatto (1).
La gestione delle notizie di reato, in particolare sotto il profilo dei

(*) Il presente saggio prende spunto da una borsa di studio bandita nell’ambito del
progetto di ricerca sul tema ‘‘La ragionevole durata del processo’’, cofinanziato dal Mini-
stero dell’Università e della Ricerca.
(1) V., fra i tanti che mettono in risalto l’impossibilità per gli uffici requirenti di eva-
dere il carico di lavoro costituito dalle notizie di reato pervenute, V. ZAGREBELSKY, Stabilire
le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in AA.VV., Il pubblico ministero

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tempi e dei modi di svolgimento delle indagini, rappresenta uno dei mo-
menti in cui la rigidità della regola di condotta prevista dall’art. 112 Cost.
risulta maggiormente mitigata, se non del tutto svuotata di significato,
dall’aprirsi di ampi spazi valutativi.
La consapevolezza che l’obbligatorietà dell’azione penale sia inevita-
bilmente destinata a convivere con scelte discrezionali è da tempo radi-
cata (2). Il fenomeno può dirsi, quindi, tutt’altro che recente; sembra indi-
scutibile, però, che il modello processuale disegnato dal codice del 1988
abbia contribuito ad enfatizzarne le dimensioni.
Sul piano generale, le cause possono individuarsi nella mutata im-
pronta che caratterizza i contenuti della fase preliminare: necessari ven-
gono qualificati non più tutti gli atti funzionali all’accertamento della ve-
rità (art. 299 c.p.p. abr.), ma — in termini più circoscritti — solo quelli
indispensabili per sciogliere l’alternativa tra azione penale ed archivia-
zione (artt. 326 e 358 c.p.p.) (3). Significative spinte verso i lidi della di-
screzionalità si colgono, poi, sotto altri profili: spostamento in avanti del-
l’esercizio dell’azione penale con il risultato di rendere problematico ed
incerto l’ancoraggio dell’art. 112 Cost. agli stadi iniziali dell’iter procedi-
mentale (4), introduzione di un registro dei fatti non costituenti notizia di
reato (5), maggiore ampiezza della regola decisoria che presiede alla ri-
chiesta di archiviazione (6), struttura delle indagini preliminari come « se-
rie variabile nei componenti intermedi » (7) sottratta al costante controllo
giurisdizionale, possibilità per il pubblico ministero di scegliere la forma
secondo cui promuovere l’azione con forti ricadute — nel caso dei riti
premiali — sul terreno sostanziale (8).
Gli aggiustamenti di natura correttiva e le modifiche legislative, che

oggi (Atti del convegno di studi ‘‘Enrico de Nicola’’, Saint Vincent 3-4 giugno 1993), Mi-
lano, 1994, p. 102 s.
(2) Sul punto si vedano le considerazioni più che mai attuali di V. ZAGREBELSKY, In-
dipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in Pubblico ministe-
ro e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, a cura di G. Conso, Bologna, 1979,
p. 9 s.
(3) Nel combinato disposto di tali norme, G.P. VOENA, voce Investigazioni ed inda-
gini preliminari, in Dig. disc. pen., vol. VII, 1993, p. 265, coglie « uno storico intento » del
legislatore. V. anche G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari, in Profili del nuovo codice di
procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, 3a ed., Padova, 1993, pp. 304-305.
(4) V., più ampiamente, M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il princi-
pio e la realtà, in Il pubblico ministero oggi, cit., p. 76.
(5) Si tratta del c.d. modello 45, introdotto dal d.m. 30 settembre 1989, n. 334, in
attuazione di quanto previsto dall’art. 206 disp. att. c.p.p.
(6) V. F. CORDERO, Procedura penale, 6a ed., Milano, 2001, p. 420.
(7) Così F. CORDERO, op. cit., p. 795.
(8) Sugli interrogativi che, in relazione all’art. 112 Cost., pongono le scelte del pub-
blico ministero circa l’accesso ai riti premiali v. E. MARZADURI, Sul principio di obbligato-
rietà dell’azione penale, in Il Ponte, 1998, n. 2-3, p. 93 s.

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si sono affastellati nel corso degli anni con lo scopo — fra gli altri — di ri-
condurre la posizione del pubblico ministero su binari più coerenti con il
precetto dell’art. 112 Cost., hanno solo lambito il cuore del problema; l’a-
gire del pubblico ministero, infatti, continua ad essere contrassegnato da
molteplici ambiti di discrezionalità riguardanti il se, il quando e il come
del procedere (9).
In simile contesto, l’esigenza di un ripensamento delle problematiche
connesse al carattere dell’azione penale e, di riflesso, alla posizione istitu-
zionale del pubblico ministero si è fatta per forza di cose più pressante; al
riguardo, il punto cruciale, facilmente intuibile, è quello di individuare la
direttrice lungo la quale muoversi: insistere sul binomio indipendenza del
pubblico ministero-obbligatorietà dell’azione penale ovvero aderire, con
un brusco cambio di rotta, a quello, diametralmente opposto, dipendenza-
opportunità?
A favore della prima opzione sembrano militare — a parte i possibili
rischi, indotti da un sistema ad azione facoltativa, di interferenze politiche
nell’attività del pubblico ministero (10) — considerazioni che poggiano
sul ruolo accessorio dell’art. 112 Cost. rispetto ad altri principi cardine
dell’impianto disegnato dalla Costituzione; rimosso un tassello indispensa-
bile, quale l’obbligatorietà dell’azione penale, del mosaico costituzionale,
il quadro complessivo dei valori ne uscirebbe alterato (11).
Sembra sufficiente ricordare come risulterebbe una garanzia monca
la soggezione del giudice soltanto alla legge, poiché il precetto dell’art.
112 Cost., dettando con riferimento al pubblico ministero un canone di
legalità del procedere, completa il disposto dell’art. 101, comma 2,
Cost. (12); in sintesi, l’art. 112 Cost., coprendo il momento dell’azione, e

(9) Rileva M. NOBILI, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, in Scenari e


trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, p. 185, come « proseguiamo a protestare
e a presentare [l’azione penale e gli atti del pubblico ministero] come una incarnazione vi-
vente del principio di legalità-obbligatorietà, mentre molte cause hanno allontanato la prassi
da un assetto del genere ».
(10) Sottolinea M. CHIAVARIO, Notarelle a prima lettura sul progetto della Commis-
sione bicamerale in tema di azione penale, in Leg. pen., 1998, p. 131, come i timori, suscitati
da una modifica radicale dell’art. 112 Cost., di una gestione arbitraria dell’azione penale
siano, nel contesto italiano, più che comprensibili, alla luce di « una serie di remote e recenti
iniziative prevaricatrici » che potrebbero trovare facile copertura nel principio di opportu-
nità. Per una riaffermazione del significato sotteso all’art. 112 Cost., v. V. GREVI, Pubblico
ministero e azione penale: riforme costituzionali o per legge ordinaria?, in Dir. pen. proc.,
1997, p. 495.
(11) V. Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, in Cass. pen., 1991, II, p. 207, secondo
la quale « [...] il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso
di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l’as-
setto complessivo ».
(12) V. L. DAGA, voce Pubblico ministero (diritto costituzionale), in Enc. giur., vol.
XXV, Roma, 1991, p. 3.

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l’art. 101, comma 2, Cost., garantendo quello decisorio, rappresentano le


due facce del principio di legalità, deputato così ad informare l’intero arco
procedimentale. Appaiono immediate, pertanto, le ricadute, sul secondo
versante, delle scelte operate sul primo: che senso avrebbe predicare un
dovere di decidere secondo la legge su materie portate all’attenzione del
giudice in base anche a valutazioni estranee alla legge?
Sembra, pertanto, che le prese di posizione a favore del principio di
opportunità e le iniziative legislative volte ad introdurlo (13), intraprese
anche sulla scorta di direttive impartite da organi internazionali (14), non
possano prescindere da un ripensamento complessivo della disciplina co-
stituzionale del processo.
La riaffermazione del principio di obbligatorietà, tuttavia, non può
essere sganciata, alla luce dell’ineffettività che lo affligge, dalla messa in
atto di misure finalizzate a restituirgli una reale portata applicativa. Ac-
cantonate le tentazioni dei modelli improntati al canone dell’opportunità,
è indispensabile intraprendere un percorso indirizzato, oltre che a circo-
scrivere l’area del penalmente rilevante, a razionalizzare la regola di con-
dotta prevista dall’art. 112 Cost., attraverso un’opera di valorizzazione
degli ‘‘spazi di manovra’’ consentiti dalla formula costituzionale (15).
L’auspicata linea di intervento trova significative conferme nel pano-
rama europeo, dove, in un contesto di tendenziale convergenza delle di-
verse impostazioni di fondo, si registrano, da un lato, la ricerca di una

(13) Nel 1997, in seguito all’istituzione della Commissione bicamerale per le riforme
istituzionali, sono stati avanzati diversi progetti di legge accomunati dal disegno di intro-
durre il principio di opportunità dell’azione penale, al quale si affiancava la dipendenza del
pubblico ministero dal potere politico. Per un’analisi di tali progetti, v. V. BORRACCETTI,
L’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, p. 144 s.; E. BRUTI LIBERATI, Il di-
battito sul pubblico ministero: le proposte di riforma costituzionale in una prospettiva com-
parata, ibidem, p. 132 s.; V. GREVI, op. cit., p. 493.
(14) In particolare, la Raccomandazione n. 18 del 1987 sulla ‘‘Semplificazione della
giustizia penale’’ adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa auspicava l’intro-
duzione nei sistemi processuali dei Paesi membri del principio di opportunità ovvero la
messa a punto di misure tendenti alla medesima finalità (v. A. GIARDA, Riforma della proce-
dura e riforme del processo penale, in questa Rivista, 1989, p. 1399). Al riguardo, va detto
che, in una recente Raccomandazione ‘‘Sul ruolo del pubblico ministero nel sistema della
giustizia penale’’ (n. 19 del 2000), lo stesso organismo internazionale ha manifestato mag-
giore consapevolezza dei rischi connessi al carattere facoltativo dell’azione penale, indicando
alcune garanzie finalizzate ad assicurare trasparenza ed imparzialità delle scelte discrezionali
compiute dagli uffici requirenti (v. N. ZANON-F. BIONDI, Diritto costituzionale dell’ordine
giudiziario, Milano, 2002, p. 170 s.). A livello internazionale, va ricordata anche la Risolu-
zione relativa al processo penale stilata al termine del XV Congresso dell’Associazione inter-
nazionale di diritto penale (Rio de Janeiro, 4-10 settembre 1994), nella quale si prende posi-
zione a favore del principio di legalità dell’azione penale (Rev. intern. dr. pén., 1995, p. 39).
(15) In questo senso, M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio
e la realtà, cit., pp. 84-85; E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), in Enc.
giur., vol. IV, Roma, 1996, p. 20.

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maggiore legalità da parte dei sistemi ad azione facoltativa e, dall’altro,


l’abbandono — nei Paesi che ad essa si ispirano — di una concezione ri-
gida dell’obbligatorietà, mitigata dal ricorso a strumenti correttivi (16).

2. Il ventaglio dei possibili rimedi: dalla depenalizzazione ai criteri


di priorità. — Premesso che l’attuale stato di crisi del sistema giudiziario
sembra imporre interventi sinergici, in una prospettiva di ampio respiro,
gli itinerari configurabili nella direzione indicata possono essere ricondotti
a tre diverse matrici ed inquadrati in un rapporto di successione logica.
Il primo concerne il versante del diritto sostanziale e, sul presupposto
che oggi l’obbligo di esercitare l’azione penale si staglia su una miriade di
fattispecie incriminatici, conduce a delimitare, attraverso una vasta opera
di depenalizzazione, l’universo dei fatti da perseguire (17). In quest’ot-
tica, l’obiettivo tendenziale dovrebbe essere quello di una drastica diminu-
zione del numero dei reati, da raggiungersi arretrando in modo sensibile
la soglia dell’intervento penale a vantaggio di quello amministrativo, con
il risultato di ribaltare l’attuale rapporto quantitativo tra delitti e contrav-
venzioni (18).
Un altro possibile percorso si snoda lungo canali interni alla singola
regiudicanda ed abbraccia una rosa di soluzioni riconducibili all’alveo
della ‘‘deprocessualizzazione’’, nel senso che si caratterizzano per l’in-
tento deflativo del processo (19). Su questa lunghezza d’onda, possono
isolarsi misure di varia natura: estensione della punibilità a querela di
parte, ricorso a schemi di tipo conciliativo, introduzione di casi di archi-
viazione condizionata alla inoffensività del fatto ovvero alla condotta ripa-
ratoria posta in essere dall’autore del reato. Pur diversi sotto il profilo
delle basi concettuali su cui poggiano, tali meccanismi presentano un co-
mune denominatore, che consiste nell’esonerare, sussistendo determinati
presupposti, il pubblico ministero dal dovere di promuovere l’azione pe-
nale.
Tali modelli di intervento, che ricalcano istituti contemplati da alcuni

(16) Al riguardo, v. l’ampia panoramica tratteggiata da L. LUPÀRIA, Obbligatorietà e


discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, in Giur. it., 2002, p.
1751 s.
(17) V. R.E. KOSTORIS, Criteri di selezione e moduli deflativi nelle prospettive di ri-
forma, in AA.VV., Il giudice unico nel processo penale (Atti del convegno dell’Associazione
studiosi del processo penale, Como 24-26 settembre 1999), Milano, 2001, p. 42, secondo il
quale « la depenalizzazione dei reati minori [...] andrebbe [...] considerata sotto il profilo lo-
gico e operativo, un prius necessario rispetto ad altri interventi deflattivi o razionalizzatori ».
(18) V., più ampiamente, M. DONINI, Per un codice penale di mille incriminazioni:
progetto di depenalizzazione in un quadro del ‘‘sistema’’, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1656.
(19) Sul concetto di ‘‘deprocessualizzazione’’, v. M.G. AIMONETTO, L’archiviazione
‘‘semplice’’ e la ‘‘nuova’’ archiviazione ‘‘condizionata’’ nell’ordinamento francese: rifles-
sioni e spunti per ipotesi di ‘‘deprocessualizzazione’’, in Leg. pen., 2000, p. 100.

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sistemi stranieri (20) e che risultano in parte già attuati nell’ambito del
nostro panorama processuale (21), perseguono lo scopo di una depenaliz-
zazione non in astratto, ma in concreto. Il fine ultimo non è quello di argi-
nare l’ipertrofia ‘‘orizzontale’’ del diritto penale, vale a dire l’esponenziale
moltiplicarsi delle incriminazioni (22); diversamente, si mira ad allargare,
fermi restando i confini dell’universo penalistico, le maglie dell’art. 112
Cost., in modo da giustificare il non esercizio dell’azione penale in pre-
senza di fattori che possono apprezzarsi quali indici della oggettiva super-
fluità del processo (23).
Un simile disegno può essere messo in atto, tuttavia, solo a condi-
zione che il principio cristallizzato dall’art. 112 Cost. venga concepito in
termini flessibili (24), così che il processo possa ritenersi inutile in situa-

(20) Si allude, in particolare, al sistema tedesco che, per i reati di minore impor-
tanza, prevede la possibilità per il pubblico ministero di non procedere qualora la colpevo-
lezza dell’autore sia esigua e manchi l’interesse pubblico all’applicazione della pena (§ 153
StPO) e quella di archiviare il procedimento, con la necessaria autorizzazione del giudice e il
consenso dell’imputato, se l’interesse dello Stato alla repressione del reato possa essere sod-
disfatto mediante l’imposizione di prescrizioni e la gravità della colpevolezza non sia di osta-
colo (§ 153a StPO) (v., ampiamente, G. CORDERO, Oltre il ‘‘patteggiamento’’ per i reati ba-
gatellari? La limitata discrezionalità dell’azione penale operante nell’ordinamento federale
tedesco e il ‘‘nostro’’ art. 112 Cost., in Leg. pen., 1986, p. 665 s.; R. BARTOLI, L’irrilevanza
penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro l’ipertrofia
c.d. ‘‘verticale’’ del diritto penale, in questa Rivista, 2000, p. 1478 s.). Vanno ricordate, inol-
tre, le ipotesi di archiviazione condizionata di recente introdotte nell’ordinamento francese
(v. M.G. AIMONETTO, op. cit., p. 101 s.); in quest’ultimo caso, è importante ricordare, tutta-
via, che si tratta di modifiche inserite in un contesto improntato al principio di opportunità
dell’azione penale. Per un’analisi d’insieme della tendenza, che si registra nei Paesi europei
ispirati al canone dell’obbligatorietà, volta a mitigare la rigidità di tale regola di condotta, v.
L. LUPÀRIA, op. cit., p. 1754.
(21) L’unica ipotesi di ‘‘deprocessualizzazione’’ in senso proprio presente nel sistema
italiano è rappresentata dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in materia di procedimento
davanti al giudice di pace; tale norma, infatti, consente al pubblico ministero di chiedere l’ar-
chiviazione nei casi di particolare tenuità del fatto (v. C. CESARI, La particolare tenuità del
fatto, in Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di G. Giostra-G. Illuminati, To-
rino, 2001, p. 325 s.). Altre forme di definizione anticipata del procedimento, praticabili nel
rito davanti al giudice di pace, nonché l’istituto dell’irrilevanza del fatto nel processo mino-
rile operano solo dopo l’instaurazione della fase processuale in senso stretto.
(22) Sul fenomeno dell’ipertrofia ‘‘orizzontale’’ del diritto penale e le relative cause,
v. C.E. PALIERO, ‘‘Minima non curat praetor’’. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizza-
zione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 12 s.
(23) Come è noto, l’elaborazione di tale regola di giudizio si deve a Corte cost., 15
febbraio 1991, n. 88, cit., secondo la quale « il limite implicito alla stessa obbligatorietà, ra-
zionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggetti-
vamente superfluo ».
(24) R.E. KOSTORIS, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione e ‘‘irri-
levanza del fatto’’, in AA.VV., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costitu-
zionale e riforme, Milano, 1996, p. 212, sottolinea come disconoscere che una concezione ri-

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zioni ulteriori rispetto a quelle classiche dell’infondatezza della notitia cri-


minis e dei suoi equivalenti previsti dall’art. 411 c.p.p. (25).
Del resto, sebbene non lo dica in termini espressi, la norma costitu-
zionale sottintende che l’obbligo di esercitare l’azione penale sussiste solo
quando ne ricorrano i presupposti (26). Sulla base di tale premessa, può
ritenersi compatibile con l’art. 112 Cost. una disciplina che circoscriva i
casi di promovimento dell’azione penale, ampliando, in termini simme-
trici, quelli di archiviazione. In questo senso, la portata del principio di
obbligatorietà sembra ridursi in un vincolo di tecnica legislativa, che im-
pone di definire i presupposti dell’archiviazione in modo da risultare og-
gettivi, tassativi e determinati (27).
Infine, un terzo indirizzo, si ispira ad una logica di organizzazione del
lavoro delle procure, al fine di consentire un più razionale e trasparente
impiego delle limitate risorse disponibili. L’angolo prospettico è sensibil-
mente diverso rispetto a quello delle linee riformatrici prima tratteggiate;
il motivo ispiratore, infatti, non è l’ampliamento delle ipotesi in cui il pub-
blico ministero debba ritenersi dispensato dall’esercitare l’azione, ma
quello di far emergere e regolamentare, al fine di armonizzarla con il det-
tato dell’art. 112 Cost., la discrezionalità di cui gode nella gestione delle
notizie di reato il pubblico ministero, in modo da rendere le iniziative di
quest’ultimo prevedibili e controllabili.
Le coordinate principali di tale impostazione sono, da un lato, il fatto
che le ridotte capacità di smaltimento del carico di lavoro da parte degli
uffici requirenti rendono indispensabile amministrare, sotto il profilo dei
tempi di svolgimento delle relative indagini, le notizie di reato acquisite;
dall’altro l’esigenza che ciò avvenga secondo criteri al tempo stesso ogget-
tivi e prefissati (28). In caso contrario, verrebbe a crearsi un’area di di-
screzionalità del tutto incontrollata, con la conseguenza che scelte di par-
ticolare rilievo finirebbero per rispondere — a meno di non voler seguire
il criterio, di fatto inapplicabile, della mera successione cronologica —
alle inclinazioni personali di ciascun pubblico ministero, se non all’asso-
luta casualità (29).

gida del principio di obbligatorietà sia oggi irrealistica rappresenti una « [...] pura ipocrisia,
o, se si preferisce, una ‘‘bugia convenzionale’’ ».
(25) Per alcuni spunti in questo senso, v. M. CHIAVARIO, op. ult. cit., pp. 88-89; L.
LUPÀRIA, op. cit.
(26) V., più ampiamente, G. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e que-
stioni interpretative, 2a ed., Torino, 1994, p. 8.
(27) Sottolinea come tale vincolo rappresenti un corollario del principio di obbligato-
rietà dell’azione penale G. GIOSTRA, op. cit., p. 11.
(28) Per tale impostazione, v. V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’esercizio ob-
bligatorio dell’azione penale, cit., p. 104 s.
(29) In termini analoghi, il rischio è prospettato da L. BRESCIANI, Commento al d.lgs.
19 febbraio 1998, n. 51, Art. 227, in Leg. pen., 1998, p. 479.

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Sono queste le premesse che fanno da sfondo all’idea di stabilire dei


criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, vale a dire di program-
mare il lavoro degli uffici requirenti secondo una tavola di ‘‘precedenze’’
che razionalizzi, improntandola a parametri obiettivi e ispirati a canoni di
ragionevolezza, la gestione delle notizie di reato.
Sotto il profilo della compatibilità con il dettato dell’art. 112 Cost.,
tuttavia, il tema dei criteri di priorità presenta, rispetto a quelli in prece-
denza delineati, implicazioni ben maggiori, sollevando numerosi interro-
gativi e complesse problematiche, che trovano riscontro in un diffuso
scetticismo, se non in una critica radicale, ai quali spesso corrispondono
giudizi positivi sulle ipotesi di depenalizzazione e di ‘‘deprocessualizzazio-
ne’’.
Gli eventuali momenti di attrito con l’art. 112 Cost. sono riconduci-
bili a quesiti elementari: può ritenersi in sintonia con il principio di obbli-
gatorietà e con i corollari che da questo discendono la fissazione di un or-
dine di priorità delle notizie di reato? Più precisamente, ammesso che il
precetto dell’art. 112 Cost. non vada inteso in termini rigidi, ne è consen-
tita una lettura elastica fino al punto da consentire la previsione di una ge-
rarchia dei procedimenti, sia pure limitata all’aspetto delle cadenze tem-
porali secondo cui trattarli?
È a questi interrogativi, dalle molteplici connessioni con altri temi,
che occorre fornire un risposta per stabilire se la ‘‘politica’’ dei criteri di
priorità possa rappresentare uno strumento di razionalizzazione del prin-
cipio di obbligatorietà ovvero non costituisca altro che un tentativo di ma-
scherare le crepe di un sistema ormai surrettiziamente modellato sul ca-
rattere facoltativo dell’azione penale.

3. I criteri di priorità dalla prassi all’art. 227 d.lgs. 19 febbraio


1998, n. 51. — Tentativi mancati ovvero semplici propositi di riforma, da
un lato, ed alcune soluzioni concretamente operative, dall’altro, segnano
la storia dei criteri di priorità.
Quanto ai primi, va ricordato come il tema delle priorità nell’eserci-
zio dell’azione penale — già al centro di una direttiva del Consiglio supe-
riore della magistratura datata 1977 (30) — sia stato preso in esame, con
esiti deludenti, nel corso dei lavori, prima, della Commissione ministeriale
per la riforma dell’ordinamento giudiziario nominata dal ministro della
giustizia nel 1993 (31) e, poi, della Commissione bicamerale istituita

(30) La direttiva, pubblicata nel Notiziario C.s.m., 1977, n. 18, p. 5, sollecitava gli
uffici requirenti ad una programmazione « nello svolgimento del lavoro penale in modo da
consentire in primo luogo la trattazione dei processi più gravi ».
(31) Come emerge dalla relazione sullo stato dei lavori al 6 maggio 1994 presentata
al ministro (Doc. giust., 1994, c. 1087 s.), la Commissione è giunta a conclusioni molto va-
ghe, che possono essere così sintetizzate: compatibilità dei criteri di priorità con l’art. 112

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quattro anni più tardi (32); per arrivare, infine, alla mozione sulla giusti-
zia votata dal Senato il 5 dicembre 2001, che ha individuato, tra le indi-
spensabili riforme che il governo è chiamato ad attuare, anche l’introdu-
zione, ferma restando l’obbligatorietà dell’azione penale, di criteri di prio-
rità nel suo esercizio (33).
A rivestire particolare interesse sono naturalmente le ipotesi in cui un
sistema di priorità nella trattazione degli affari penali è stato tradotto in
pratica. Passare brevemente in rassegna quest’ultime consente di mettere
in risalto come l’idea di organizzare il lavoro giudiziario secondo una
scala di priorità dei procedimenti sia nata, con l’avallo del Consiglio supe-
riore della magistratura (34), sul terreno della prassi per essere poi rece-

Cost., a condizione che riguardino scelte di orientamento generale e non singole notizie di
reato; possibilità di attribuire al Parlamento un compito di indirizzo dell’operato degli uffici
requirenti.
(32) In seno alla Commissione bicamerale, il confronto sul principio di obbligatorietà
dell’azione penale e sulla necessità di predisporre soluzioni finalizzate a razionalizzarlo è
stato molto approfondito, ma i risultati sul piano propositivo si sono rivelati nel complesso
deludenti. In particolare, l’intervento sull’art. 112 Cost. si era inizialmente sostanziato, se-
condo quanto previsto dalla c.d. ‘‘terza bozza Boato’’, nella semplice inserzione di una clau-
sola di rinvio alla legge ordinaria, alla quale veniva rimessa l’individuazione delle misure
volte a rendere effettivo il principio di obbligatorietà. Premesso che tale clausola, nel rinviare
in modo incondizionato al legislatore ordinario, risultava « [...] idone[a] a legittimare anche
il più totale svuotamento dello stesso principio di obbligatorietà teoricamente confermato »
(così M. CHIAVARIO, Notarelle a prima lettura sul progetto della Commissione bicamerale in
tema di azione penale, cit., p. 133, nota 8) e, nella migliore delle ipotesi, del tutto pleona-
stico, va detto che sembrava una « illazione francamente azzardata » (L. BRESCIANI, op. cit.,
p. 481) ricavare dalla formula adottata un implicito richiamo ai criteri di priorità. In ogni
caso, i possibili dubbi sul punto sono stati fugati dal testo dell’art. 132 del progetto di revi-
sione costituzionale approvato in via definitiva dalla Commissione, norma che si limitava a
prevedere che « il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale e a tal fine av-
via le indagini quando ha notizia di un reato » (per un commento, v. V. GREVI, Garanzie
soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione costituzio-
nale, in questa Rivista, 1998, p. 748 s.).
(33) In Cass. pen., 2001, p. 3625 s. A tale mozione, si ispira il disegno di legge n.
1257 recante « Delega al Governo in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione
penale », di iniziativa del sen. Cossiga e attualmente pendente al Senato, in base al quale
spetterebbe al Parlamento il compito di approvare la proposta sulle priorità da seguire for-
mulata, anche alla luce di quelle indicate da ciascun procuratore generale presso la corte
d’appello, dal ministro della giustizia.
(34) Consiglio superiore della magistratura, Sezione disciplinare, 20 giugno 1997,
Vannucci, in Cass. pen., 1998, p. 1489 s., con nota di D. CARCANO, Stabilire i criteri di prio-
rità nella trattazione dei procedimenti è un dovere dei capi degli uffici. Il caso, oggetto della
pronuncia, merita di essere riportato. Un magistrato del pubblico ministero, al momento di
essere trasferito ad un ufficio giudicante, aveva lasciato un arretrato di circa 7.000 fascicoli,
relativi a procedimenti introitati negli anni precedenti; il motivo era da rinvenire, a quanto
risulta dalla ricostruzione operata dalla Sezione disciplinare, nella scelta, compiuta dal sosti-
tuto procuratore stesso, di privilegiare la trattazione di procedimenti relativi a reati di mag-
giore gravità e/o allarme sociale, rispetto a quelli riguardanti fatti di minore gravità e/o al-
larme sociale e destinati, quasi sempre, a prescriversi nel corso del giudizio di primo grado.

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pita, sia pure in via transitoria ovvero con finalità settoriali, da disposi-
zioni di legge; ma soprattutto appare necessario al fine di verificare, in un
successivo momento dell’indagine, se il disegno di vincolare la discrezio-
nalità del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato a cri-
teri oggettivi sia stato trasposto sul piano normativo secondo schemi che,
alla luce dell’art. 112 Cost., possano essere assunti come paradigmi per
interveti futuri.
È noto come l’iniziativa che, per prima, ha manifestato all’esterno
l’intento di far fronte all’impossibilità di trattare tempestivamente tutte le
notizie di reato attraverso un sistema organizzativo del lavoro incentrato
sulla fissazione di un ordine di priorità sia stata assunta nel 1990 dal Pro-
curatore della Repubblica presso l’allora Pretura di Torino (35).
Sulla scia della c.d. circolare Zagrebelsky, si collocano analoghe di-
rettive formalizzate in appositi provvedimenti a carattere interno dai diri-
genti di altri uffici giudiziari (36) e, soprattutto, le due norme di legge che

In sostanza, alla luce dell’assenza di direttive impartite dal capo dell’ufficio, il sostituto pub-
blico ministero aveva deciso, autonomamente, di procedere ad una selezione, secondo criteri
oggettivi e non arbitrari, delle notizie di reato acquisite. Ebbene, a parere della Sezione disci-
plinare, tale comportamento non consente di formulare un giudizio di rimproverabilità, visto
che, nell’impossibilità oggettiva di esaurire in modo tempestivo la trattazione di tutte la noti-
zie di reato, « è compito del Procuratore della Repubblica, e in difetto del sostituto procura-
tore, elaborare criteri di priorità che, escluso il mero riferimento al caso o alla successione
cronologica della sopravvenienza, non possono non derivare dalla gravità e/o offensività so-
ciale dei reati ».
(35) Si tratta della c.d. circolare Zagrebelsky, il cui testo è riportato in Cass. pen.,
1991, p. 362 s., in base alla quale i procedimenti venivano suddivisi, secondo un ordine de-
crescente di priorità, in tre categorie: quelli nei quali siano state adottate misure cautelari
personali o reali; quelli relativi a reati da ritenere gravi, in base alla personalità dell’indagato,
alla lesione subita dall’interesse penalmente protetto, alla reiterazione della condotta, al
danno (patrimoniale e non) cagionato e non risarcito o altrimenti rimosso; quelli residui.
Tale circolare, adottata sulla base dei poteri conferiti dall’art. 70, comma 3, ord. giud. al
capo dell’ufficio, era stata preceduta da quella a firma congiunta del Presidente e del Procu-
ratore generale presso la Corte d’appello di Torino (in Cass. pen., 1989, p. 1616 s.), con la
quale si manifestava il convincimento che occorresse « un filtro scrupoloso delle priorità da
assegnare ai singoli processi [...] ».
(36) Alcune di tali circolari, che solo in alcuni casi sono state rese pubbliche, sono
menzionate da G. ICHINO, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest.
giust., 1997, p. 297, nota 20. Un rilievo particolare merita la circolare in data 27 maggio
1999, contenente disposizioni di servizio sull’assetto organizzativo dell’ufficio, del Procura-
tore della Repubblica presso il Tribunale di Torino; tale provvedimento si caratterizza sotto
tre profili: il carattere organico del sistema di ‘‘precedenze’’, che si articola in due categorie
di reati (quelli con priorità 1 e quelli con priorità 2), e di trattazione delle notizie di reato;
l’indicazione analitica dei reati appartenenti a ciascuna categoria; la suddivisione dei sostituti
procuratori in gruppi di lavoro, destinati ad occuparsi di procedimenti omogenei dal punto
di vista dell’interesse protetto dalle norme che si assumono violate (v. I. MANNUCCI PACINI,
L’organizzazione della Procura della Repubblica di Torino: criteri di priorità o esercizio di-
screzionale dell’azione penale?, in Quest. giust., 2000, p. 175 s., cui segue il testo della cir-
colare sopra richiamata).

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hanno previsto l’adozione di criteri di priorità quale modello organizza-


tivo in base al quale orientare l’attività degli uffici giudiziari.
La prima, in ordine di tempo, è stata quella dettata dall’art. 227
d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, che ha tratto origine dal disposto della
legge delega per l’istituzione del giudice unico di primo grado (art. 1,
comma 2, l. 16 luglio 1997, n. 254), con il quale si autorizzava il governo
a prevedere una disciplina transitoria per assicurare il rapido smaltimento
dei procedimenti in corso. L’importanza della norma, tuttavia, va oltre la
prospettiva di introdurre, sul piano processuale, un meccanismo accelera-
torio allo scopo di deflazionare il carico di lavoro e di non appesantire, già
in partenza, la nuova struttura degli uffici giudiziari (37). La riforma del
giudice unico, infatti, sembra aver fornito al legislatore la chance di pre-
determinare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, al fine di
guidare le scelte operative dei capi degli uffici secondo una logica suscetti-
bile di sopravvivere ai contingenti bisogni del momento (38).
In particolare, la disposizione de qua ha stabilito che, nella tratta-
zione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche a
prescindere dal criterio relativo al tempus commissi delicti ovvero alla
data delle iscrizioni, vengano considerati: la gravità del reato; la sua con-
creta offensività; il pregiudizio che possa derivare dal ritardo per la forma-
zione della prova e per l’accertamento dei fatti; l’interesse della persona
offesa (comma 1); in base al comma 2, poi, gli uffici sono tenuti a comu-
nicare al Consiglio superiore della magistratura i criteri di priorità adot-
tati (39).
In parte più ampia e in parte più circoscritta è la portata dell’altra
norma che, a distanza di qualche anno, ha previsto un modulo organizza-
tivo per la trattazione degli affari penali: l’art. 132-bis disp. att.
c.p.p. (40), in base al quale, nel formare i ruoli di udienza, deve essere as-

(37) Che questa sia l’intentio primaria della previsione emerge dalla Relazione al
d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, in Gazz. uff. 20 marzo 1998, suppl. ord., n. 2. A conferma di
tale impostazione, milita la natura di norma transitoria dell’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, la
cui efficacia nel tempo è limitata ai procedimenti pendenti alla data di efficacia del decreto
stesso, che è quella del 2 giugno 1999.
(38) In questo senso, v. L. BRESCIANI, op. cit., p. 475; I. PATRONE, Le priorità nel pro-
cesso penale: una scelta difficile, in Quest. giust., 1998, pp. 579-580, secondo il quale dei
criteri di priorità, fissati in base all’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998, non potrà non tenersi
conto anche per il carico di lavoro che si verrà a creare ex novo negli uffici ormai riuniti.
(39) Apprezzabile negli intenti, vale a dire evitare che i criteri di priorità assumano
una dimensione eccessivamente localistica, tale previsione va accolta con qualche riserva,
poiché costituisce un ulteriore segno del ruolo di ‘‘garante’’, al fine di una corretta ammini-
strazione dell’attività giurisdizionale, che nel silenzio della legge il Consiglio superiore della
magistratura ha ormai assunto (L. BRESCIANI, op. cit., p. 483, nota 39).
(40) Inserito dal d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modificazioni nella l.
19 gennaio 2001, n. 4.

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sicurata priorità assoluta ai procedimenti che presentino ragioni di ur-


genza con riguardo allo scadere dei termini di custodia cautelare.
L’aspetto più significativo consiste nel fatto che l’art. 132-bis disp.
att. c.p.p. ha tracciato una corsia preferenziale non transitoria, ma perma-
nente; di qui, la maggiore ampiezza applicativa rispetto all’art. 227 d.lgs.
51 del 1998. Per converso, però, il disposto dell’art. 132-bis disp. att.
c.p.p. non ha come destinatari i dirigenti degli uffici del pubblico mini-
stero, spiegando la sua efficacia nella sola fase processuale in senso
stretto, con la conseguenza che ne rimane esclusa quella precedente delle
indagini preliminari. Per questo motivo, la norma pone meno problemi di
compatibilità con l’art. 112 Cost., visto che il criterio cronologico viene
disatteso solo dopo l’esercizio dell’azione penale e in questa sede riveste
un interesse limitato (41).

4. Il cuore del problema: i rapporti con il principio di obbligatorietà


dell’azione penale. — L’idea di arginare gli spazi rimessi alle scelte discre-
zionali del pubblico ministero mediante la fissazione di una scala di prio-
rità deve essere necessariamente misurata sul disposto dell’art. 112 Cost.,
per chiarire se un tale disegno possa coesistere con il principio di obbliga-
torietà ovvero ne determini momenti di insanabile rottura.
In via preliminare, è necessario distinguere due profili del precetto
costituzionale, che opera su un doppio versante, delineato dall’alternativa
doveri-prerogative del pubblico ministero (42). Uno è quello circoscritto
dal significato immediato della formula costituzionale, vale a dire che il
pubblico ministero è titolare dell’azione penale e che quest’ultima ha ca-
rattere obbligatorio; l’altro è relativo al significato logico-sistematico che,
nel quadro delle garanzie costituzionali, va attribuito all’art. 112 Cost., e

(41) Va messa in evidenza, tuttavia, l’irrazionalità che sembra caratterizzare la


norma in questione; quest’ultima, infatti, anziché farsi carico, in termini generali, dell’esi-
genza di limitare la durata del pregiudizio che il ricorso alla custodia in carcere determina
per l’imputato, si muove in un’ottica distorta, sensibile soltanto ad impedire che le finalità
sottese all’applicazione della misura cautelare vengano eluse. Inoltre, sembrano evidenti le
irragionevoli disparità di trattamento che, in base al criterio organizzativo previsto dall’art.
132-bis disp. att. c.p.p., possono discendere sotto due distinti profili: in primo luogo, ri-
guardo agli imputati non sottoposti a custodia cautelare e poi riguardo a quelli in vinculis,
ma per i quali i termini di durata della misura non siano prossimi a scadere; in questi casi, il
processo deve essere considerato, per quanto riguarda l’ordine di trattazione, secondario,
sulla base di circostanze del tutto accidentali, affidate al caso e imprevedibili. Appare prefe-
ribile, anche se non esente da critiche, la ratio che anima l’art. 15, comma 1, del Regola-
mento di esecuzione del decreto relativo alla competenza penale del giudice di pace (d.m. 6
aprile 2001, n. 204), in base al quale nella formazione del ruolo delle udienze davanti al ma-
gistrato onorario si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, nonché
dell’interesse della persona offesa e delle possibilità di conciliazione tra le parti.
(42) La bivalenza del principio costituzionale è colta da M. NOBILI, Il pubblico mini-
stero: vecchie e recenti tendenze, in Scenari e trasformazioni del processo penale, cit., p. 155.

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cioè quello di presidio a tutela dell’indipendenza esterna del pubblico mi-


nistero.
Le implicazioni tra criteri di priorità e art. 112 Cost. abbracciano en-
trambi gli aspetti evidenziati, ai quali corrispondono altrettante problema-
tiche: se la regola di condotta imposta a livello costituzionale, che quali-
fica come un obbligo l’esercizio dell’azione penale, lasci margini per stabi-
lire un ordine di priorità dei procedimenti e se tale strada possa essere
percorsa senza minare l’autonomia del pubblico ministero rispetto ad altri
poteri. In sintesi, occorre chiedersi se sia consentito adottare criteri di
priorità nella trattazione delle notizie di reato e chi, nel caso, sia legitti-
mato a farlo.

5. Il significato immediato dell’art. 112 Cost. La discrezionalità


vincolata. — Esaminare i rapporti tra criteri di priorità ed art. 112 Cost.
alla luce del precetto immediato che discende dalla norma costituzionale
impone, in primo luogo, di cogliere l’incidenza del principio di obbligato-
rietà sulle determinazioni del pubblico ministero.
L’esercizio dell’azione penale appartiene al novero dei poteri vinco-
lati, di quei poteri, cioè, che — in presenza di determinati presupposti —
consentono un solo esito decisorio, non essendo consentita alcuna scelta
alternativa.
Tale assunto, tuttavia, impone delle precisazioni, dovute al fatto che
è possibile distinguere, nell’attività del pubblico ministero, un momento
valutativo ed uno volitivo. Il dato emerge, con chiarezza, dall’art. 326
c.p.p., secondo il quale il pubblico ministero svolge le indagini necessarie
per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Il termine
« determinazione » postula una precedente attività di giudizio, di valuta-
zione che per sua natura è discrezionale (43). In particolare, il pubblico
ministero è chiamato a stabilire se, sulla base degli elementi raccolti nel
corso delle indagini, sussistano quei presupposti che fanno scattare l’ob-
bligo di agire.
In relazione a tale momento valutativo, è possibile parlare di obbliga-
torietà solo in termini molto relativi. Infatti, respinta la tesi secondo cui
l’art. 112 Cost. rende ineludibile l’iniziativa penale per qualsiasi notitia
criminis (44), deve accogliersi l’assunto in base al quale l’art. 112 Cost.
impone sì al pubblico ministero di valutare gli elementi raccolti al fine di
scegliere tra azione penale e richiesta di archiviazione, ma non predeter-
mina l’esito di tale attività di giudizio, che, pertanto, è rimesso al vaglio

(43) Cfr. A.A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, p. 9.


(44) V. G. GIOSTRA, op. cit., p. 8; v. anche G. CONSO, Il provvedimento di archivia-
zione, in questa Rivista, 1950, p. 358, nota 90.

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discrezionale dell’organo d’accusa (45). Il limite che discende dal princi-


pio di obbligatorietà opera su un fronte più ristretto e si identifica nel bi-
sogno che la discrezionalità del pubblico ministero abbia carattere ‘‘vinco-
lato’’ e non ‘‘libero’’ (46); cioè, che sia ancorata ad un parametro ogget-
tivo e sufficientemente determinato, la cui applicazione nel caso concreto
sia passibile di controllo (47).
In quest’ottica, va chiarito un possibile equivoco. Sebbene il giudizio
circa la sussistenza dei presupposti che fanno sorgere l’obbligo di instau-
rare il processo dipenda dall’apprezzamento discrezionale del pubblico
ministero, il promovimento dell’azione penale non cessa di configurarsi
come situazione giuridica di dovere. Si tratta, infatti, di una condotta vin-
colata, della quale alcuni elementi vengono descritti ed altri, invece, sono
identificati mediante il riferimento al risultato di una valutazione rimessa
allo stesso soggetto che deve agire (48).
In particolare, attraverso il vaglio sulla fondatezza della notizia di
reato, si realizza un fenomeno di eterointegrazione della fattispecie, nella
quale « l’elemento estraneo è dato dall’attività raziocinante del destinata-
rio del precetto » (49). Ne consegue che, una volta completata la fattispe-
cie normativa nel senso di ritenere realizzate le condizioni per promuo-
vere l’azione penale, scatta il relativo dovere.
Alla luce del quadro delineato, l’incidenza dell’art. 112 Cost. deve es-
sere individuata con riguardo al passaggio dal momento valutativo, che

(45) V. F. CORDERO, op. cit., p. 419, secondo il quale « [...] a indagini concluse, biso-
gna calcolare le chances dell’eventuale accusa. [In questo senso] la discrezionalità è fisiolo-
gica ». V. anche G. GIOSTRA, op. cit., p. 7 s. e 23 s.
(46) Per la distinzione tra discrezionalità ‘‘libera’’ e discrezionalità ‘‘vincolata’’, sia
pure con riferimento ai poteri del giudice, v. E. DOLCINI, voce Potere discrezionale del giu-
dice (diritto penale), in Enc. dir., vol. XXXIV, 1985, p. 747 s. V., anche, R. SATURNINO,
voce Discrezionalità, in Enc. giur., vol. XI, 1983, p. 2 s.
(47) A queste conclusioni è giunta Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, cit., la quale,
nell’affrontare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 125 disp. att. c.p.p., ha sot-
tolineato l’esigenza imprescindibile che la regola di giudizio prevista per l’archiviazione sia
configurata in modo tale da segnare il discrimine tra l’oggettiva superfluità e la mera inop-
portunità del processo e da assicurare efficacia al successivo controllo giurisdizionale. Entro
tali limiti, pertanto, non contrasta con l’art. 112 Cost. la circostanza che al pubblico mini-
stero siano lasciati spazi di discrezionalità valutativa circa il grado di attitudine degli ele-
menti acquisiti a costituire adeguata piattaforma dell’accusa in giudizio. Sul punto, v. V.
GREVI, Archiviazione per ‘‘inidoneità probatoria’’ ed obbligatorietà dell’azione penale, in
questa Rivista, 1990, pp. 1295-1298; v., inoltre, G. PIZIALI, L’archiviazione nella giurispru-
denza costituzionale, in Ind. pen., 1993, p. 407.
(48) Sulle fattispecie di dovere a formazione progressiva, v. F. CORDERO, Le situa-
zioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 169; A. CRISTIANI, La discrezionalità
dell’atto nel processo penale, Milano, 1985, p. 50 s.
(49) F. CORDERO, op. ult. cit., p. 169. Sul fenomeno dell’eterointegrazione norma-
tiva, si vedano le osservazioni critiche di F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale,
Milano, 1965, p. 46 s.

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presenta inevitabili margini di discrezionalità, a quello volitivo; più preci-


samente, ritenuta fondata la notizia di reato, il pubblico ministero non
può omettere l’esercizio dell’azione penale, non essendogli consentita
un’alternativa di condotte, tra le quali optare in base ad una scelta discre-
zionale (50). In altri termini, il nesso di consequenzialità tra fondatezza
della notitia criminis ed esercizio dell’azione penale non può essere spez-
zato sulla base di considerazioni metalegali, ispirate a criteri di opportu-
nità (51).

6. L’obbligo di svolgere le indagini quale corollario del principio di


obbligatorietà: critica ai tentativi di legittimare i criteri di priorità con l’e-
stensione dell’art. 97, comma 1, Cost. alla fase preliminare. — L’analisi
relativa all’incidenza dell’art. 112 Cost. sulle determinazioni dell’organo
d’accusa deve essere approfondita, calando il principio costituzionale nel
contesto del sistema processuale; l’obbligatorietà dell’azione penale, in-
fatti, non è un canone insensibile rispetto all’architettura del processo, nel
senso che quest’ultimo, pur mantenendo fermo il dovere di agire del pub-
blico ministero, può presentare una struttura e dei meccanismi profonda-

(50) Al contrario, « la discrezionalità [...] implica giudizio e volontà insieme » (M.S.


GIANNINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1967, p. 49), nel senso che la soluzione
da adottare nel caso concreto non discende in modo automatico dall’esito dell’attività valuta-
tiva, dal momento che quest’ultimo lascia impregiudicata la facoltà di scegliere tra più op-
zioni; di qui, la conseguenza che nell’esercizio del potere discrezionale c’è sempre una com-
ponente di opportunità, « perché ad ess[o] presiede l’interrogativo: che cosa è opportuno
fare? » (M.S. GIANNINI, op. cit., pp. 46-49). Ne deriva che, in queste ipotesi, tra l’atto del va-
lutare e quello del volere non è configurabile alcun nesso di consequenzialità, visto che il
primo non ‘‘contiene’’, secondo lo schema di un rigido automatismo, le determinazioni da
assumere (V.G. BARONE, voce Discrezionalità (diritto amministrativo), in Enc. giur., vol. XI,
1987, p. 8, secondo il quale « [...] è lecito ritenere che l’amministrazione, compiuta la rico-
gnizione dei dati e prospettata la decisione, valuti le conseguenze — volute o no — che il suo
atto produrrebbe nella realtà del momento. E ciò [...] sino al limite di un vero e proprio ap-
prezzamento politico. Da questa previsione potrebbe scaturire l’orientamento a ricercare al-
tre soluzioni, più compatibili con la situazione contingente »).
(51) Che questa sia, in un certo senso, l’essenza dell’art. 112 Cost. emerge se si
guarda ai Paesi in cui vige l’opposto principio di opportunità ed, in particolare, all’Inghil-
terra. I public prosecutors inglesi, infatti, nel sottoporre a verifica la decisione presa dagli or-
gani di polizia di formulare l’accusa, devono seguire due parametri. Il primo consiste nell’e-
vidential test, vale a dire nel valutare se gli elementi acquisiti nella fase pre-trial siano tali da
consentire una prognosi di condanna; in caso di esito positivo, entra in gioco il secondo pa-
rametro, denominato public interest test, in base al quale il prosecutor esamina le ragioni di
opportunità a favore e contro l’instaurazione del processo e, qualora le seconde dovessero
essere ritenute prevalenti, ha la facoltà di optare per il dismissal, nonostante la sufficienza
degli elementi di prova ad ottenere una condanna. Al riguardo, v. A. ASHWORTH, The ‘‘pu-
blic interest’’ element in prosecutions, in Crim. law rev., 1987, p. 593 s.; A. ASHWORTH-J.
FIONDA, The new code for crown prosecutors: 1. Prosecution, accountability and the public
interest, ivi, 1994, p. 894 s.

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mente diversi fra loro, tali da produrre effetti riflessi sulla portata dell’art.
112 Cost. (52).
Lo testimonia il fatto che, già all’indomani dell’entrata in vigore del
codice del 1988, lo spostamento in avanti, al termine della fase prelimi-
nare, dell’esercizio dell’azione penale sia stato avvertito come una scelta
foriera di ricadute sul piano del principio di obbligatorietà. È apparso su-
bito chiaro, infatti, come il mutato assetto processuale imponesse di far
retroagire — per evitarne possibili aggiramenti — l’efficacia precettiva
dell’art. 112 Cost. ai momenti iniziali dell’iter procedimentale; di qui,
l’ancoraggio del principio di obbligatorietà allo svolgimento delle inda-
gini, elevato al rango di corollario dell’art. 112 Cost. e configurato — in
presenza di una notizia di reato — come dovere del pubblico ministero. In
caso contrario, consentendo all’organo d’accusa di omettere l’accerta-
mento sulla fondatezza della notizia di reato in base a criteri di opportu-
nità, scelte collocate a monte delle indagini sarebbero andate a pregiudi-
care l’an dell’iniziativa penale, con il risultato di vedere frustrato lo spirito
dell’art. 112 Cost. (53).
Tale assunto si risolve in un ostacolo al tentativo di individuare in
una contrazione dell’arco di procedimento coperto dall’art. 112 Cost. le
basi concettuali su cui costruire un sistema di priorità delle notizie di
reato.
Le isolate prese di posizione in senso contrario constano di pochi
passaggi: poiché l’alternativa tra azione penale ed archiviazione deve es-
sere sciolta solo al termine delle indagini preliminari, il precetto dell’ob-
bligatorietà non potrebbe essere riferito alla fase investigativa, che, per-
tanto, non sarebbe governata dall’art. 112 Cost; ad orientare, di conse-
guenza, l’attività del pubblico ministero nel corso di tale spazio procedi-
mentale dovrebbe essere l’art. 97, comma 1, Cost., secondo una logica
volta ad accentuare l’applicazione di principi propri del campo ammini-
strativo a quello giudiziario (54).
Ragionando in questi termini, quindi, a reggere la fase delle indagini

(52) Cfr. M. CHIAVARIO, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà,


cit., pp. 75-76.
(53) V. Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 88, cit.; in dottrina, v. F. CAPRIOLI, L’archi-
viazione, Napoli, 1993, p. 534; E. MARZADURI, Sul principio di obbligatorietà dell’azione pe-
nale, cit., p. 89; F. MENCARELLI, Procedimento probatorio e archiviazione, Napoli, 1993, p.
105; A.A. SAMMARCO, op. cit., p. 7 s.
(54) In questo senso, B. CARAVITA, Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione
del pubblico ministero: profili costituzionali, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale
(Atti del Convegno svoltosi a Perugia, 20-21 aprile 1990), a cura di A. Gaito, Napoli, 1991,
pp. 299-305; N. ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova, 1996, p. 20. Sostiene
che l’operatività dell’art. 112 Cost. sia limitata al momento conclusivo delle indagini prelimi-
nari anche I. FRIONI, Le diverse forme di manifestazione della discrezionalità nell’esercizio
dell’azione penale, in questa Rivista, 2002, p. 545 s.

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preliminari sarebbero i principi organizzatori che la Costituzione sinte-


tizza sotto il nome di imparzialità e buon andamento. In questo modo, si
consentirebbe al pubblico ministero di orientarsi, in relazione alle notizie
di reato acquisite, secondo i canoni della discrezionalità, scongiurando,
però, al tempo stesso, il rischio che siano ragioni di convenienza, o addi-
rittura l’arbitrio, a guidare la condotta dell’organo d’accusa. Dal canone
dell’imparzialità, infatti, deriverebbe che la funzione di cui è titolare il
pubblico ministero non possa essere né distorta verso fini particolari, né
asservita a quest’ultimi, né attuata straripando dai suoi limiti natu-
rali (55). In quest’ottica, il carattere discrezionale delle scelte compiute
del pubblico ministero, dovendo queste ispirarsi ai principi fissati dall’art.
97, comma 1, Cost., non pregiudicherebbe la garanzia dell’obiettività, che
deve circondare il comportamento del pubblico ministero come di qual-
siasi altro pubblico ufficiale.
Sembrano sufficienti poche battute per confutare simile imposta-
zione. Se — come detto — svolgimento delle indagini ed esercizio dell’a-
zione penale vanno ambedue ricondotti nell’orbita dell’art. 112 Cost. e
definiti in termini di dovere, ne discende la contrarietà al sistema costitu-
zionale di operazioni selettive delle notizie di reato. In nome dell’impar-
zialità e del buon andamento, infatti, sarebbero legittimate scelte suscetti-
bili di investire non i tempi del procedere, ma direttamente l’an dell’ini-
ziativa penale, con l’effetto di relegare la decisione sull’avvio o meno delle
indagini, sollecitata dall’acquisizione di una notitia criminis, nel novero
dei poteri discrezionali e di sottrarla, in quanto tale, all’automatismo —
prima evidenziato — tra il momento valutativo e quello volitivo; in altri
termini, si darebbe luogo a forme di selezione riguardanti il ‘‘cosa’’ perse-
guire (56).
Il cammino a ritroso del principio di obbligatorietà, dunque, conduce
alla notizia di reato, presupposto necessario e sufficiente a qualificare la
posizione del pubblico ministero, rispetto all’an del procedimento, in ter-
mini di dovere. Al riguardo, l’impianto codicistico si presenta, nei suoi

(55) Tale orientamento sembra ispirarsi alla posizione espressa da G. FOSCHINI, Il pu-
blico ministero in un processo penale a struttura giurisdizionale, in Justitia, 1967, p. 138,
secondo il quale « [...] imparzialità significa che l’ufficiale, nell’espletamento della propria
funzione pubblica, non deve inserire in essa interessi particolari della sua o di altra persona,
dovendosi attenere solo all’interesse pubblico per il quale la funzione è preveduta e gli è affi-
data ». Sulla stessa linea, v. anche O. DOMINIONI, Per un collegamento fra Ministro della giu-
stizia e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. 80.
(56) L’impossibilità di affidare le determinazioni del pubblico ministero in materia di
svolgimento delle indagini al governo dei principi di buon andamento ed imparzialità trova
solide conferme nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha circoscritto la portata
dell’art. 97, comma 1, Cost. ai soli aspetti organizzativi della funzione giudiziaria. V. Corte
cost., 30 maggio 2001, n. 201, in Giur. cost., 2001, p. 654; Id., 15 giugno 1995, n. 281, ivi,
1995, p. 2815; Id., 30 marzo 1992, n. 140, ivi, 1992, p. 1155.

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tratti essenziali, lineare: mentre per la richiesta ex art. 416 c.p.p. è neces-
sario che la notizia di reato risulti fondata, per l’avvio delle indagini, al
contrario, è sufficiente il fatto della sua acquisizione. Il pubblico mini-
stero, pertanto, è tenuto ad iscrivere nell’apposito registro ogni notizia di
reato — cioè a prescindere dal suo grado di fondatezza — che gli sia per-
venuta o abbia acquisito di propria iniziativa (art. 335, comma 1, c.p.p.);
in seguito, scatta l’obbligo di svolgere le indagini ritenute necessarie (artt.
326 e 358 c.p.p.).
Anche su questo terreno, tuttavia, alla perentorietà dell’art. 112 Cost.
non corrispondono rigidi automatismi, per la presenza di spazi valutativi
destinati ad essere riempiti dal pubblico ministero. Il problema è noto:
consentendo al pubblico ministero di stabilire se le informative pervenute
o acquisite presentino i requisiti minimi della notizia di reato, l’art. 109
disp. att. c.p.p. si colloca nel sistema come crocevia di opposti destini:
iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p., da cui discende l’ob-
bligo di svolgere le indagini, ovvero in quello dei fatti che non costitui-
scono reato, che certifica la decisione di non procedere ad alcuna attività
investigativa in senso stretto (57).
È inevitabile che tale impostazione risenta del vuoto definitorio rela-
tivo alla consistenza e al contenuto della notitia criminis, dove « per ‘‘con-
sistenza’’ [si intende] il livello di corrispondenza a dati effettuali verificati
(‘‘notizia’’) e per ‘‘contenuto’’ il grado di conformità ad una fattispecie ti-
pica (‘‘reato’’) » (58); il che rende oltremodo labile ed incerto il confine
tra iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. e trasmissione all’archivio
senza controllo giurisdizionale (59). Anche in questo caso, soccorre lo
schema dell’eterointegrazione della fattispecie, che consente di qualificare
la posizione del pubblico ministero in termini pur sempre di dovere; in as-
senza, però, di parametri e di controlli normativamente previsti, i vincoli
risultano poco stringenti.
In via interpretativa, non si può far altro che individuare, più che dei
criteri di giudizio, delle linee programmatiche, riassumibili nella formula
secondo cui l’obbligo di iscrizione viene meno solo dinanzi « ad una non-

(57) Per un’ampia rassegna delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali in materia di


‘‘cestinazione’’ della notizia di reato, nonché per l’analisi delle relative problematiche, v. A.
MARANDOLA, I registri del pubblico ministero. Tra notizia di reato ed effetti procedimentali,
Padova, 2001, p. 357 s.
(58) T. PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel processo penale. Riflessioni antisto-
riche sulle dimensioni della legalità penale, in Ind. pen., 1999, p. 531.
(59) Come sottolineato, in relazione ad altri momenti valutativi, da P. FERRUA, Potere
istruttorio del pubblico ministero e nuovo garantismo: un inquietante convergenza degli
estremi, in Studi sul processo penale, III - Declino del contraddittorio e garantismo reattivo,
Torino, 1997, p. 68, anche in questo caso può dirsi che « [...] regnano i chiaroscuri, le
‘‘mezze verità’’, che il regime della bivalenza semplifica e converte in bianco o nero, in vero
o falso ».

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notizia ovvero ad una notizia di non-reato » (60). In base al primo requi-


sito, devono considerarsi estranee al precetto dell’art. 112 Cost. quelle in-
formative che non contengano la descrizione, anche embrionale, delle
componenti oggettive (condotta, nesso eziologico, evento) di un fatto in
astratto verificabile. Sembra fuorviante, sul punto, il riferimento a canoni
quali la congettura, il sospetto, l’indizio che rappresentano variazioni
quantitative lungo la scala della persuasività (61), che presuppone una co-
noscenza già acquisita; al contrario, agli albori del procedimento, non può
che sussistere una mera ipotesi di lavoro (62), misurabile secondo il para-
metro della verificabilità, che rinvia al giudizio di verosimiglianza del
fatto (63). Pertanto, non sussiste una « notizia » ai fini dell’art. 335 c.p.p.
quando il fatto che si afferma storicamente avvenuto sia indeterminato o
incompleto ovvero improbabile (64). Per non-reato, invece, si intende
l’accadimento atipico, vale a dire non riconducibile ad alcuna previsione
incriminatrice astratta (65). Tale valutazione consiste in un giudizio di
conformità o meno del fatto al tipo normativo, il cui esito presenta carat-
tere provvisorio e modificabile, nel senso che denota soltanto l’apparente
rilevanza o irrilevanza penale dell’accadimento (66).
Una volta ritenuta sussistente una notitia criminis, l’art. 112 Cost.
torna a sviluppare la sua forza imperativa, con la conseguenza che non
può essere frapposto alcun diaframma rispetto all’iscrizione nel registro
ex art. 335 c.p.p.

(60) G. GIOSTRA, I limiti dell’archiviazione ‘‘in via amministrativa’’, in Dir. pen.


proc., 1999, p. 749.
(61) Sul punto, v. G. UBERTIS, voce Prova (in generale), in Dig. disc. pen., vol. X,
1995, p. 316.
(62) L’ipoteticità è intesa quale elemento caratterizzante della notizia di reato da G.
ARICÒ, voce Notizia di reato, in Enc. giur., vol. XXVIII, 1978, p. 760.
(63) Sul giudizio di verosimiglianza come « impiego di leggi logiche e scientifiche
non probabilistiche od eccezionalmente di massime d’esperienza applicate all’aspetto storico
dell’enunciato fattuale », v. G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza
del fatto nel processo penale, Milano, 1992, p. 19.
(64) L’aggettivo è utilizzato nell’accezione di F. CORDERO, Procedura penale, cit., p.
564: « Ogni tanto vengono fuori ipotesi non verificabili: spazio, tempo, termodinamica, chi-
mica, biologia, et coetera, definiscono la sfera del naturalmente possibile; il ‘‘probabile’’ giu-
diziario è sprangato negli stessi limiti ».
(65) Deve ritenersi, di conseguenza, che l’iscrizione nel registro previsto dall’art. 335
c.p.p. non possa essere omessa sulla base di valutazioni relative alla minima o scarsa offensi-
vità del fatto (per la tesi contraria, v. M. MADDALENA, Azione penale, funzioni e struttura del
pubblico ministero, in AA.VV., Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. 161). Il giudizio
di offensività, infatti, postula che sussista un fatto tipico e che, pertanto, sia integrato quel
presupposto, cioè che una notitia criminis sia stata acquisita, dal quale scaturisce l’obbligo
di procedere ad iscrizione.
(66) Sul profilo dinamico-operativo del concetto di tipicità e sulla natura interlocuto-
ria del relativo giudizio, v. A. GARGANI, Dal corpus delicti al tatbestand. Le origini della tipi-
cità penale, Milano, p. 37 s.

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7. Discrezionalità del pubblico ministero e tempi di svolgimento


delle indagini preliminari: i criteri di priorità come strumento di raziona-
lizzazione. — L’aver esteso la portata dell’art. 112 Cost. alla fase prelimi-
nare, nella consapevolezza che quest’ultima offre il campo a numerose va-
lutazioni discrezionali che corrispondono all’aprirsi di altrettanti problemi
tecnici, definitori e prognostici (67), ha condotto a qualificare la posi-
zione del pubblico ministero con riguardo alle modalità di svolgimento
delle indagini.
In relazione al quomodo di quest’ultime, il principio di obbligatorietà
è stato tradotto in una serie di vincoli per il pubblico ministero.
Da un lato, una volta riconosciuto che le scelte relative all’orienta-
mento da imprimere alle indagini, agli atti a cui dare precedenza rispetto
ad altri, all’entità delle risorse da impegnare non possono essere predeter-
minate secondo modelli legali di condotta, si è sottolineato come le op-
zioni investigative, tra le quali il pubblico ministero è chiamato scegliere,
incontrino un limite finale nell’esigenza di affrontare e risolvere tutti gli
interrogativi che la notizia di reato solleva (68). In quest’ottica, l’accerta-
mento relativo alla fondatezza o meno della notitia criminis, elevato al
rango di scopo ultimo che le indagini preliminari devono perseguire, di-
venta il parametro normativo alla cui stregua il pubblico ministero è te-
nuto ad agire. Di conseguenza, essendo vincolato nel fine, il percorso che
va dall’apertura del procedimento fino alle determinazioni sull’esercizio
dell’azione penale, pur caratterizzandosi per gli ampi spazi valutativi di
cui il pubblico ministero dispone, non può essere segnato da scelte di
mera opportunità. È l’obiettivo finale a fungere da freno, sottraendo alla
logica della mera convenienza le opzioni compiute dal pubblico ministero
di fronte alle alternative che l’evolversi delle indagini impone di sciogliere.
Al vincolo evidenziato, ne è stato saldato un altro, che provvede a
riempire di contenuti il primo: quello di compiere l’attività di giudizio
circa la sussistenza dei presupposti per esercitare l’azione penale in modo
‘‘consapevole’’, cioè dopo aver eseguito tutti quegli atti di indagine che
consentono di acquisire, con riguardo al caso concreto, gli elementi neces-
sari per decidere le sorti del procedimento; di qui, l’enucleazione del prin-
cipio di doverosa completezza delle indagini preliminari (69).
In sintesi, per far coesistere art. 112 Cost. e discrezionalità investiga-

(67) Cfr. F.S. BORRELLI, Il ruolo del pubblico ministero nel nuovo processo penale, in
Il pubblico ministero oggi, cit., pp. 30-31; G. ICHINO, op. cit., p. 293 s.; V. ZAGREBELSKY, In-
dipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, cit., p. 9 s.
(68) V. E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), cit., p. 9.
(69) Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, in Cass. pen., 2001, p. 2603 s.; Id., 23 di-
cembre 1994, n. 442, in Giur. cost., 1994, p. 3865; Id., 10 giugno 1994, n. 239, ibidem, p.
1968; Id., 10 febbraio 1993, n. 48, ivi, 1993, p. 350; Id., 12 giugno 1992, n. 270, ivi, 1992,
p. 2069; Id., 25 maggio 1992, n. 222, ibidem, p. 1778; Id., 9 marzo 1992, n. 92, ibidem, p.
904; Id., 15 febbraio 1991, n. 88, cit. In dottrina, v. F. CAPRIOLI, op. cit., p. 535; V. GREVI,

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tiva, si è andato delineando uno scenario che vede il pubblico ministero


obbligato a verificare la fondatezza della notizia di reato attraverso lo
svolgimento di indagini complete. Tale impostazione, tuttavia, perde la
propria coerenza nel momento in cui cade un presupposto che — sebbene
inespresso — ne costituisce asse portante: l’assenza di discrezionalità con
riguardo ai tempi di avvio delle indagini. Sotto questo profilo, però, la
realtà dei fatti è ben diversa e — come già sottolineato — gli uffici del
pubblico ministero compiono scelte che finiscono con il condizionare l’ef-
fettività dell’art. 112 Cost. Doveroso svolgimento delle indagini ed esi-
genza di completezza delle stesse, infatti, perdono buona parte della loro
forza cogente se il pubblico ministero è libero di stabilire i tempi di tratta-
zione delle notizie di reato acquisite.
È in questo contesto che deve essere calata la fissazione di criteri di
priorità, con l’obiettivo di colmare tale lacuna, così da orientare e vinco-
lare le scelte del pubblico ministero (70). Riaffiora, però, e deve essere ri-
solto il quesito di fondo: l’art. 112 Cost. tollera, per quanto concerne i
tempi che devono scandire l’attivarsi del pubblico ministero, valutazioni
discrezionali, in modo da stabilire una gerarchia tra i procedimenti relativi
alle notizie di reato acquisite dall’ufficio, ovvero simili opzioni sono radi-
calmente precluse?
Sulla base del significato in precedenza attribuito al principio di ob-
bligatorietà, non risulta difficile individuare la soglia minima, oltre la
quale il contrasto con l’art. 112 Cost. diverrebbe inevitabile: le scelte di
priorità del pubblico ministero nella trattazione di procedimenti non pos-
sono rispondere a ragioni di convenienza o a criteri metalegali. Una volta
ribadito, quindi, che manipolazioni selettive rimesse al mero arbitrio del-
l’organo d’accusa urterebbero con la legalità del procedere, affiorano in-
terrogativi ben più complessi. In particolare, è ugualmente incompatibile

op. ult. cit., p. 1299; E. MARZADURI, Sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, cit.,
p. 88.
(70) In quest’ottica, v. V.L. BRESCIANI, op. cit., p. 482 s.; C. CASTELLI, Esigenze di de-
flazione e risposte possibili tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest.
giust., 1990, p. 101 s.; M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 95 s.; G. CONSO, Introduzione alla ri-
forma, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. XVI; F. CORDERO, op. ult. cit., p. 419;
A. GAITO, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una di-
scussione, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., pp. 17 e 24; V. GREVI, Ga-
ranzie soggettive e garanzie oggettive nel processo penale secondo il progetto di revisione co-
stituzionale, cit., p. 752; ID., Pubblico ministero e azione penale: riforme costituzionali o per
legge ordinaria?, cit., p. 495; G. ICHINO, op. cit., p. 296 s.; E. MARZADURI, Commento al
d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, Premessa, in Leg. pen., 1998, p. 379; G. NEPPI MODONA,
Principio di legalità e processo penale, in Il pubblico ministero oggi, cit., pp. 123-124; I. PA-
TRONE, op. cit., p. 578 s.; V. ZAGREBELSKY, Flusso delle notizie di reato, organizzazione delle
risorse, obbligatorietà dell’azione penale, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro
dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, Quaderni del C.S.M., n. 56, 1991, p. 161
s.; ID., Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, cit., p. 101 s.

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con l’art. 112 Cost. una filosofia del lavoro investigativo ispirata a para-
metri elaborati in un ambito di discrezionalità vincolata, che risponda,
cioè, a canoni oggettivi e controllabili?
Posizioni di netta chiusura, incertezze e perplessità sono state manife-
state da più voci, tutte sul presupposto che scelte degli uffici d’accusa
circa l’ordine secondo il quale trattare le notizie di reato si porrebbero in
contrasto con il quadro dei valori costituzionali (71).
Ad essere violato sarebbe, in primis, il principio di obbligatorietà in-
teso quale canone di condotta del pubblico ministero; è stato evidenziato,
infatti, come introdurre un sistema di priorità, in base al quale certi proce-
dimenti vanno trattati prima di altri, e stabilire, di conseguenza, quali ti-
pologie di reato, individuate in astratto, debbano correre sulle corsie pre-
ferenziali e quali sulla strada comune, darebbe luogo ad una forma surret-
tizia di opportunità (72). In particolare, si ritiene che, poiché la legalità
del procedere determina il dovere di perseguire le condotte violatrici della
legge penale, tra la previsione di un fatto-reato e l’attivarsi del pubblico
ministero non possano inserirsi scelte di priorità, in quanto così facendo,
si verrebbe ad interrompere, per i procedimenti destinati ad essere poster-
gati, l’automatismo, imposto dall’art. 112 Cost., tra notitia criminis ed
iniziativa dell’organo d’accusa (73).
Tale chiave di lettura si basa su una impostazione che non coglie la
prospettiva secondo la quale sono destinati ad operare i criteri di priorità.
Questi, infatti, non configurano un meccanismo diretto a consentire, per
una parte delle notizie di reato acquisite, l’esonero del pubblico ministero
dagli obblighi che l’art. 112 Cost. gli impone; al contrario, la decisione di
trattare le notizie di reato secondo una scala di priorità e quindi di attri-

(71) Rilievi critici vengono mossi sotto più profili, tutti riconducibili al precetto del-
l’art. 112 Cost.: rispetto del principio di legalità in campo processuale, indipendenza del
pubblico ministero da altri poteri, uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; in questo
senso, v. V. BORRACCETTI, op. cit., pp. 147-148; M. CICALA, Il pubblico ministero e l’azione
penale, in Doc. giust., 1997, c. 1524; G. D’ELIA, I principi costituzionali di stretta legalità,
obbligatorietà dell’azione penale ed uguaglianza a proposito dei ‘‘criteri di priorità’’ nell’e-
sercizio dell’azione penale, in Giur. cost., 1998, p. 1878 s.; M. DEVOTO, Obbligatorietà - di-
screzionalità dell’azione penale. Ruolo del pubblico ministero, in Cass. pen., 1996, p. 2049
s.; P. FERRUA, Primi appunti critici sul giudice unico in materia penale, in Crit. dir., 1998, p.
27; M. NOBILI, Nuovi modelli e connessioni: processo - teoria dello stato - epistemologia, in
Ind. pen., 1999., p. 33; U. NANNUCCI, Flusso delle notizie di reato, organizzazione delle ri-
sorse, obbligatorietà dell’azione penale, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro
dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, cit., p. 183 s.; F. PINTO, Obbligatorietà
dell’azione penale e organizzazione delle Preture circondariali, in Quest. giust., 1991, p. 427
s.; A. ROSSI, Per una concezione ‘‘realistica’’ dell’obbligatorietà dell’azione penale, ivi,
1997, pp. 315-316. Si vedano., inoltre, le osservazione avanzate in chiave problematica da F.
CAPRIOLI, op. cit., p. 597 s.; E. MARZADURI, voce Azione (diritto processuale penale), cit., p.
21.
(72) U. NANNUCCI, op. cit., p. 184.
(73) G. D’ELIA, op. cit., p. 1884.

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buire la precedenza ad alcune rispetto ad altre si colloca in un frangente


successivo a quello in cui emergono i presupposti del dovere di agire.
Quest’ultimo, come già detto, sorge non appena una notitia criminis sia
stata acquisita e si specifica nell’iscrizione nell’apposito registro e nell’ac-
certamento della sua fondatezza. Ebbene, sotto questo profilo, la scelta di
accordare carattere prioritario a determinate tipologie di procedimenti
non contrasta con l’art. 112 Cost., poiché non comporta, di riflesso, che
per le notizie di reato ritenute secondarie venga spezzato il nesso di conse-
quenzialità tra acquisizione e obbligo di condurre le indagini. Anche per
esse, infatti, resta fermo in capo al pubblico ministero il dovere di com-
piere i necessari accertamenti.
In questo senso, nel novero delle fisiologiche e molteplici scelte a ca-
rattere discrezionale, delle quali è costellato il concreto svilupparsi delle
indagini, vanno a collocarsi anche quelle relative ai tempi di trattazione
delle notizie di reato; il sistema, però, non entra in frizione con l’art. 112
Cost., poiché le valutazioni rimesse al pubblico ministero si caratterizzano
per essere finalisticamente vincolate, nel senso che la meta da raggiungere
resta sempre quella di un vaglio completo circa il grado di fondatezza del-
l’ipotesi di reato. Pertanto, può ritenersi ammissibile che, fermo il carat-
tere doveroso delle indagini, vengano messe in atto determinate scelte di
priorità, al fine di dare impulso ad alcuni procedimenti con precedenza ri-
spetto ad altri, il cui sviluppo viene, di conseguenza, rallentato (74).

8. (Segue): tratti essenziali di un sistema di priorità compatibile


con l’art. 112 Cost. — Affermando che l’art. 112 Cost., da una parte, non
consente giudizi arbitrari relativi alla singola notizia di reato e, dall’altra,
non implica un rigoroso rispetto del criterio cronologico per la sua tratta-
zione, si provvede soltanto ad individuare, rispettivamente, il limite verso
il basso e quello vero l’alto tracciati dal principio di obbligatorietà, con il
risultato di delimitare l’area all’interno della quale operano le scelte di-
screzionali del pubblico ministero.
L’accento va posto, quindi, su un ulteriore e decisivo profilo. Il prin-
cipio di obbligatorietà, se, da un lato, non sbarra la strada a valutazioni
discrezionali del pubblico ministero circa la conduzione delle indagini,
dall’altro, impone che esse siano vincolate a parametri oggettivi. Di con-
seguenza, è soprattutto su questo terreno che va vagliata l’ortodossia co-
stituzionale dei criteri di priorità, che devono essere costruiti in modo da

(74) Al riguardo, v. V. GREVI, Riflessioni e suggestioni in margine all’esperienza nor-


damericana del plea bargaining, in Il processo penale negli Stati Uniti d’America, a cura di
E. Amodio-M.C. Bassiouni, Milano, 1998, p. 302, il quale riconosce l’esistenza, in capo al
pubblico ministero, di una discrezionalità di tipo funzionale per quanto riguarda lo svolgi-
mento delle indagini.

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risultare, oltre che generali ed astratti, ragionevoli, vale a dire caratteriz-


zati da razionalità sistematica.
Tale esigenza conduce a rifiutare una commistione tra parametri so-
stanzialistici, cioè costruiti sul fatto-reato, e parametri di matrice proces-
suale, calibrati sulle vicende del procedimento. Il ricorso a quest’ultimi,
infatti, presta il fianco ad alcune osservazioni. In primo luogo, se i criteri
di priorità dovessero essere modulati su singoli episodi dell’iter procedi-
mentale, difficilmente potrebbero consentire di fissare ab origine un si-
stema di precedenze in ordine allo svolgimento delle indagini preliminari;
inoltre, essi finirebbero per far dipendere il posto che, nella scala di prio-
rità, ciascuna notizia di reato viene ad occupare da situazioni del tutto ca-
suali, imprevedibili e, quindi, discriminatorie.
Su un piano distinto, poi, una scala di priorità che voglia essere ido-
nea ad orientare le scelte operative deve essere elaborata secondo canoni
di sufficiente determinatezza, non potendo limitarsi a prevedere delle
sommarie linee di tendenza. Al riguardo, non sembra si possa prescindere
né da una specifica indicazione di tipologie di reati, né dall’utilizzo di
clausole generali di chiusura; tuttavia, nel prevedere le guidelines, il rap-
porto tra la tecnica analitica e quella sintetica deve essere di regola ad ec-
cezione e non viceversa. In caso contrario, risulterebbero troppo elastici i
vincoli posti alle valutazioni discrezionali del pubblico ministero.
Alla luce di tali premesse, va rifiutata l’impostazione seguita dall’art.
227 d.lgs. n. 51 del 1998, dalla quale discende un sistema di priorità che
risulta sia privo della necessaria ragionevolezza, sia troppo generico.
In primo luogo, infatti, gli indici di priorità adottati « sono abba-
stanza eterogenei da poter essere applicati con gli esiti più dispa-
rati » (75). In particolare, la scelta di affiancare, a quelle basate sui ri-
svolti oggettivi della vicenda criminosa (gravità del fatto e sua concreta
offensività), valutazioni che fanno leva su esigenze processuali (pregiudi-
zio per la formazione della prova e interesse della persona offesa) sembra
introdurre, nel sistema, scorie di arbitrarietà: la successione, in base alla
quale trattare i procedimenti, viene a dipendere da fattori accidentali.
Inoltre, le direttive fissate dal legislatore, poiché non consistono nel-
l’indicazione di precise categorie o tipologie di reati, non hanno alcuna at-
titudine orientativa e fanno sì che le scelte vengano, in concreto, rimesse
ai dirigenti degli uffici, con il pericolo di lasciare spazio alle loro prefe-
renze individuali. Il deficit di determinatezza delle linee-guida si accentua,
poi, a causa del fatto che la norma non chiarisce se ci sia e, nel caso, quale
debba essere l’ordine gerarchico di importanza tra i quattro parametri in-
dicati. In sostanza, si tratta di parametri inidonei a circoscrivere entro

(75) P. FERRUA, op. ult. cit., p. 27.

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confini accettabili la successiva attività di integrazione demandata al li-


vello operativo.
Ragionevolezza ed impronta analitica dei criteri, tuttavia, non sono
sufficienti a fugare ogni dubbio. Gli stessi sostenitori della necessità di
adottare una scala di priorità non nascondono il fatto che, in via implicita,
i procedimenti secondari vengano accantonati sul binario scontato della
prescrizione o, nella migliore delle ipotesi, siano trattati in modo intempe-
stivo e inadeguato (76). Si escludono, tuttavia, profili di contrasto con
l’art. 112 Cost., argomentando che le conseguenze derivanti dalla prece-
denza assegnata a talune notitiae criminis in ordine allo svolgimento delle
indagini relative alle altre « non derivano dai criteri di priorità seguiti, ma
dall’oggettiva impossibilità di trattazione [da parte dell’ufficio] di tutte le
notizie di reato. Un’impossibilità che permane, qualunque sia il criterio di
priorità adottato » (77).
È stato obiettato che tale argomentazione avrebbe valore solo sul
piano quantitativo, ma non anche su quello qualitativo. In particolare, se,
da un lato, è vero che la mole di lavoro smaltita da ciascun ufficio del
pubblico ministero prescinde dalle guidelines seguite, dall’altro, non po-
trebbe non riconoscersi che « la variazione dei criteri di priorità [com-
porti], [...], una variazione dell’ordine di priorità, sicché adottando uno o
altro criterio varierà la posizione del primo incluso come — per quel che
più importa — del primo escluso » (78). Di conseguenza, dare precedenza
ad alcuni procedimenti, a discapito di altri, significherebbe, in fin dei
conti, selezionare quali notizie di reato trattare e quali, invece, non pren-
dere in considerazione.
Va riconosciuto che tali osservazioni critiche poggiano su un fondo di
verità: l’attuale insufficienza delle risorse materiali e umane di cui gli uf-
fici requirenti dispongono fa sì che occuparsi in via prioritaria di determi-
nate notizie di reato significhi, di riflesso, trascurare le altre; esse, tutta-
via, non possono ritenersi ostative rispetto all’introduzione di un sistema
di priorità, poiché — una volta chiarita la vocazione di quest’ultimo —
sembrano muoversi sul piano della inopportunità politica, piuttosto che
su quello del contrasto con l’art. 112 Cost.
L’attitudine genetica dei criteri di priorità non è di tipo selettivo. Non
si tratta di uno strumento funzionale ad esonerare per alcune ipotesi di
reato il pubblico ministero dall’obbligo di attivarsi, ma di misura dagli
scopi ben diversi: ordinare la trattazione delle notitiae criminis (79); che
alcune di queste possano finire con l’essere accantonate non è conse-

(76) V. G. CONSO, op. ult. cit., p. XVI; V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 105.
(77) V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 105. In senso analogo, v. M. CHIAVARIO, op. ult.
cit., p. 95; G. NEPPI MODONA, op. ult. cit., p. 124.
(78) G. D’ELIA, op. cit., p. 1883.
(79) V., più in dettaglio, supra, § 2.

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guenza diretta dei criteri di priorità seguiti, ma effetto indotto da una


causa ultronea, quale l’incolmabile divario tra il numero dei procedimenti,
da un parte, e l’entità dei mezzi, dall’altra.
Sulla portata dell’art. 112 Cost., i criteri di priorità incidono in mi-
sura circoscritta, comportando deviazioni, in ordine ai tempi dell’agire del
pubblico ministero, dal criterio della sopravvenienza cronologica delle no-
tizie di reato. L’inderogabile rispetto di quest’ultimo, però, non è espresso
né imposto quale suo corollario dalla formula costituzionale, che — intesa
razionalmente e non secondo tesi ispirate agli schemi di un esasperato
meccanicismo — consente, al contrario, di fissare un sistema di priorità
basato su indici diversi da quello cronologico. In questo senso, quindi,
vanno esclusi profili di illegittimità.
Potrebbe allora contestarsi: se i criteri di priorità non sono pensati
per svolgere funzioni di filtro e, pertanto, lascerebbero intatto il carico di
lavoro, come può sostenersi la loro utilità pratica ed auspicarne l’introdu-
zione? Il rimedio proposto sarebbe, in sostanza, se non in contrasto con
l’art. 112 Cost., comunque superfluo.
Convertire in vincolata la discrezionalità libera della quale attual-
mente gode il pubblico ministero nel fissare l’ordine dei procedimenti: è
questo lo spirito dei criteri di priorità. La concreta incidenza sullo status
quo si misura in questi termini: raccordare le opzioni individuali, dietro le
quali si può anche annidare l’arbitrio, a programmi che rispondano a cri-
teri oggettivi e predeterminati; su un piano distinto, poi, conferire legitti-
mazione democratica agli indirizzi di politica criminale, oggi affidati a
soggetti politicamente irresponsabili (80).

9. Una possibile soluzione: il principio di offensività quale criterio


regolatore della scala di priorità. — Una volta scartati parametri di
stampo processuale, a fondare il sistema di priorità devono essere consi-
derazioni incentrate sulle componenti oggettive dei fatti-reato. Al ri-
guardo, è quasi superfluo sottolineare come le notitiae criminis acquisite
dagli uffici requirenti riguardino fattispecie di reato tra loro molto diverse
sul piano dell’interesse tutelato, delle modalità di offesa a quest’ultimo,
della pena prevista; in sintesi, si tratta di vicende criminose che presen-
tano un grado di offensività estremamente variegato. Da questo ovvio ri-
lievo, è possibile muovere per costruire una gerarchia dei procedimenti
compatibile con l’art. 112 Cost.
In particolare, sul presupposto che ciascun reato si sostanzia nell’of-
fesa di un bene giuridico (81), sembra possibile configurare un sistema di

(80) V. infra, §§ 9 s.
(81) In tale esigenza (nullum crimen sine iniuria), si traduce il principio di offensi-
vità o di necessaria lesività, il quale, pertanto, implica l’idea di un diritto penale pensato

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priorità che risponda a canoni obiettivi e razionali. Assunto quale criterio-


guida delle valutazioni discrezionali circa i tempi delle indagini, il parame-
tro dell’offensività consente di orientare le scelte del pubblico ministero
secondo una ben precisa scala di valori; in quest’ottica, l’ordine di priorità
viene ad essere stabilito in base al ‘‘peso specifico’’ dei reati da accertare,
con il risultato di collocare al vertice di una ipotetica piramide organizza-
tiva i fatti più offensivi e ai livelli inferiori, secondo una scala a carattere
decrescente, quelli via via meno offensivi.
Di conseguenza, perno centrale del sistema viene ad essere il giudizio
di offensività, che costituisce la sintesi della relazione sussistente tra il
bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice e il fatto, descritto
dalla stessa norma, che lo aggredisce (82). Al riguardo, è necessario se-
guire una prospettiva diacronica, dal momento che il principio di offensi-
vità esercita la propria influenza sia in astratto, cioè in relazione alla strut-
tura della fattispecie di reato, sia in concreto, vale a dire sotto l’aspetto
della riconducibilità delle singole condotte alla norma incriminatrice.
Con riguardo al primo piano d’indagine, il giudizio sul disvalore del
reato implica una ricognizione della fattispecie penale nella sua astrat-
tezza, a prescindere dalla variabilità del concreto atteggiarsi dei singoli
comportamenti in essa sussumibili. Sotto tale profilo, è possibile indivi-
duare, in relazione a figure di reato che tutelano un medesimo interesse,
un diverso grado di offensività, nel senso che quest’ultima parte da una
soglia minima per raggiungere, attraverso gradini intermedi, le più gravi
forme di aggressione del bene giuridico protetto.
Alla luce di questa premessa, emerge come quello di offensività sia
un concetto ‘‘ordinatorio’’, che rispecchia, cioè, un ‘‘ordine quantitativo e
scalare ancorato a valutazioni di più-meno’’ (83). In particolare, la tutela
di un bene giuridico può essere perseguita con differente intensità, limi-
tandola ai fatti che ne determinano una lesione attuata con forme molto

come strumento di tutela dei beni giuridici e, di riflesso, una concezione ‘‘realistica’’ del
reato (F. MANTOVANI, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in
onore di C. Mortati, vol. IV, Milano, 1977, p. 447). È noto come, nella prospettiva origina-
ria, il principio di offensività si inserisse nel disegno, le cui fondamenta teoriche sono in se-
guito cadute, di ancorare alla Carta costituzionale i beni oggetto di tutela penale (F. BRI-
COLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., vol. XIV, 1973, p. 7 s.). Sui diversi
destini che hanno segnato la teoria del bene giuridico costituzionalmente orientato e il prin-
cipio di offensività, v. V. MANES, Il principio di offensività. Tra codificazione e previsione co-
stituzionale, in AA.VV., Meritevolezza di pena e logiche deflattive, a cura di G. De France-
sco e E. Venafro, Torino, 2002, p. 145 s.
(82) C. FIORE, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, p. 276. Al riguardo, deve
seguirsi una prospettiva che tenga conto delle principali componenti graduabili del reato; in
particolare, il giudizio di offensività si compendia nella formula: grado di disvalore dell’a-
zione, grado di disvalore dell’evento, intensità della colpevolezza (C.E. PALIERO, op. cit., p.
714).
(83) C.E. PALIERO, op. cit., p. 707, con diffusi rinvii alla dottrina tedesca.

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aggressive ovvero estendendola anche a quelli che lo attentano in misura


minore, fino ad arrivare alle condotte che ne determinano la semplice
messa in pericolo, la quale, a sua volta, può essere più (pericolo concreto)
o meno (pericolo astratto) prossima (84).
Alla modulazione, secondo gradi diversi, dell’offensività fa riscontro
quella della pena edittale, con riguardo alla quale il legislatore risulta sot-
toposto ad un doppio vincolo: da un lato, la pena prevista in astratto per
ciascun reato deve essere ad esso proporzionata e, dall’altro, fatti illeciti,
che esprimono un diverso livello di offensività, devono essere sanzionati
con pene edittali graduate in modo corrispondente (85). Pertanto, il
quantum della comminatoria edittale può fungere da criterio ordinatore,
poiché esso rappresenta « da un lato, la ‘‘gerarchia’’ materiale dei valori
penalmente protetti e, dall’altro, la ‘‘gerarchia’’ delle forme di tutela di
uno stesso interesse, in rapporto alle diverse modalità di aggres-
sione » (86).
Sotto il secondo profilo di indagine, quello dell’offensività in con-
creto, va messo in evidenza come il reato non abbia un solo modo d’es-
sere che lo caratterizzi; ferma restando, infatti, la qualità della lesione giu-
ridica, varia, per ogni condotta riconducibile alla fattispecie incrimina-
trice, l’entità dell’offesa al bene tutelato (87).
Emerge, in questo senso, l’importanza della dimensione quantitativa
del reato, in base alla quale è possibile ordinare dall’alto verso il basso e
viceversa, secondo valutazioni di maggiore o minore offensività, le con-
dotte riconducibili ad una stessa fattispecie criminosa. L’ottica ‘‘graduali-
stica’’, in particolare, assume rilievo con riferimento a tutte quelle fatti-

(84) C. FIORE, op. cit., p. 280.


(85) V. Corte cost., 18 luglio 1989, n. 409, in Giur. cost., 1989, p. 1906; Id., 16 feb-
braio 1989, n. 49, ibidem, p. 241; Id., 20 giugno 1984, n. 173, ivi, 1984, p. 1129; Id., 27
maggio 1982, n. 103, ivi, 1982, p. 1013; Id., 24 maggio 1979, n. 26, ivi, 1979, p. 288; Id., 9
luglio 1974, n. 218, ivi, 1974, p. 1753.
(86) T. PADOVANI-L. STORTONI, Diritto penale e fattispecie criminose, 3a ed., Bolo-
gna, 2002, p. 117 s. Sul punto, va riconosciuto che alla linearità concettuale di tali principi
non sempre è facile far corrispondere una applicazione pratica altrettanto agevole, dal mo-
mento che « la tecnica adottata dal codice Rocco, basato su una fantasmagoria di limiti
estremamente variegati e mutevoli [...] rend[e] difficoltosa e problematica l’istituzione di
raffronti significativi » (T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e
le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in questa Rivista, 1992, p.
438).
(87) In questi termini, F. MORO, Unità e pluralità di reati, Padova, 1951, pp. 2-3.
Tale prospettiva affonda le proprie radici nella concezione ‘‘gradualistica’’ di reato, che si
contrappone a quella ‘‘classificatoria’’; mentre in base alla seconda, la fattispecie incrimina-
trice ha la sola funzione di distinguere l’illecito dal penalmente consentito e presenta, quindi,
una struttura non soggetta a modulazioni di ordine quantitativo, la prima, al contrario, fa
proprio un concetto ‘‘graduale’’ di reato, sul presupposto che vi è una serie di fattori capaci
di incidere sulla misura di illiceità del fatto (v. C.E. PALIERO, op. cit., p. 707, con diffusi rin-
vii alla dottrina tedesca).

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specie incriminatrici che si prestano ad essere integrate da condotte di in-


tensità molto eterogenea sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico;
quelle figure di reato, vale a dire, che presentano ipotesi di realizzazione
gravi, medie ed esigue (88).
La valorizzazione di parametri modulati sull’offensività dei fatti-reato
consente di articolare il sistema di priorità su due livelli.
Preliminarmente, deve essere riconsiderato il disposto dell’art. 97,
comma 1, Cost. Privi di rilevanza con riguardo all’esercizio della funzione
d’accusa (89), i concetti scopo di buon andamento ed imparzialità assu-
mono un ruolo primario sotto il profilo organizzativo e devono essere as-
sunti come canoni guida dell’assetto degli uffici, in modo da soddisfare
una serie di esigenze, in particolare quelle di coordinamento ed efficienza,
alle quali va riconosciuta dignità costituzionale (90).
In quest’ottica, il modello da privilegiare è quello per gruppi specia-
lizzati, ciascuno dei quali sia deputato ad occuparsi dei procedimenti rela-
tivi ad uno specifico settore (91); pertanto, sulla scorta di tale modulo, le
notitiae criminis acquisite sono suddivise in base alla materia cui afferi-
scono e ad ognuna delle unità di lavoro viene assegnata una categoria di
procedimenti (92).
Una volta compiuto questo iniziale scaglionamento delle notizie di

(88) In relazione a quest’ultime ipotesi, si configura la categoria del reato bagatellare


improprio che si contrappone a quella del reato bagatellare proprio, il quale è contraddi-
stinto dal marchio della tenuità ab origine, cioè alla luce della sua astratta configurazione e
non per le specifiche peculiarità del caso concreto; al riguardo, v. C.E. PALIERO, op. cit., p.
123. Su questa scia, inoltre, si colloca la complessa problematica relativa alla possibilità di
configurare fatti conformi al tipo, ma inoffensivi; in materia, v. F. STELLA, La teoria del bene
giuridico e i fatti c.d. inoffensivi conformi al tipo, in questa Rivista, 1973, p. 3 s.; G. VAS-
SALLI, Considerazioni sul principio di offensività, in Scritti in memoria di U. Pioletti, Milano,
1982, p. 617 s.
(89) V. supra, § 6.
(90) Così M. NOBILI, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale, in Pubblico
ministero e accusa penale, cit., p. 130. V., anche, V. ZAGREBELSKY, La designazione per la
trattazione degli affari nell’ambito degli uffici del pubblico ministero, in Dir. pen. proc.,
1995, p. 771 s.
(91) La prassi di suddividere i magistrati del pubblico ministero in gruppi di lavoro è
ormai, soprattutto nelle Procure di più vaste dimensioni, consolidata e costituisce espres-
sione dei poteri organizzativi attribuiti al titolare dell’ufficio (art. 70, comma 3, ord. giud.).
L’importanza del fenomeno è testimoniata dal fatto che il d.lgs. n. 51 del 1998 ha introdotto
all’art. 7-ter ord. giud. una previsione che attribuisce al Consiglio superiore della magistra-
tura il potere di determinare i criteri generali per l’organizzazione degli uffici del pubblico
ministero e per l’eventuale ripartizione di essi in gruppi di lavoro (comma 3); appare evi-
dente la volontà di assoggettare i poteri organizzativi dei titolari degli uffici al rispetto di ca-
noni obiettivi e trasparenti. Sulle problematiche relative ai poteri del Consiglio superiore
della magistratura in materia di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, v. L. BRE-
SCIANI, voce Assegnazione degli affari penali, in Dig. disc. pen., vol. X, 1995, p. 642 s.
(92) Segue un’impostazione analoga la circolare in data 27 maggio 1999 del Procura-
tore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, cit.

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reato, è possibile individuare, all’interno delle singole categorie, un primo


livello di priorità, regolato dal grado di offensività che in astratto contrad-
distingue le condotte incriminate; in linea con le valutazioni già compiute
dal legislatore, delle quali è significativo indice anche il quantum di pena
edittale previsto, l’ordine di priorità deve muovere dai fatti in astratto rite-
nuti più offensivi per arrivare, attraverso gradini intermedi, a quelli consi-
derati meno offensivi del bene tutelato.
All’interno delle sotto-categorie, individuate alla luce del criterio di
carattere primario sopraindicato, è possibile, in seconda battuta, ordinare
le notizie di reato in base alla concreta offensività dei fatti che ne sono og-
getto, anche in questo caso, naturalmente, secondo una scala che va dal-
l’alto verso il basso. A completare il quadro, provvede, infine, il canone
della sopravvenienza cronologica, poiché deve ritenersi che, con riguardo
ai fatti caratterizzati — prima facie — da un analogo grado di offensività,
torni a risultare decisivo il fattore tempo, nel senso che l’ordine di tratta-
zione deve essere fissato in base alla data in cui le notizie di reato sono
state iscritte; pertanto, a rivestire carattere prioritario saranno le notitiae
criminis meno recenti dal punto di vista della loro acquisizione e poi, a
scalare secondo il criterio cronologico, tutte le altre.

10. Scelte di politica criminale ed indipendenza esterna del pub-


blico ministero: la crisi del modello costituzionale. — L’aggancio dei cri-
teri, sulla cui scorta elaborare un sistema di priorità nella trattazione delle
notizie di reato, al parametro dell’offensività consente di armonizzare le
scelte relative ai tempi delle indagini preliminari con l’art. 112 Cost., in-
teso quale regola che vincola la condotta processuale del pubblico mini-
stero. Restano da sciogliere, tuttavia, ulteriori nodi.
Il tema delle priorità, in base alle quali perseguire i vari fenomeni di
rilevanza penale ed utilizzare le risorse umane e materiali, affonda le pro-
prie radici nel terreno delle politica criminale, portando alla luce il pro-
blema della legittimazione democratica di chi è chiamato ad effettuare tali
scelte (93).
Nella prospettiva del legislatore costituente, una volta affermata l’in-
dipendenza esterna del pubblico ministero ed esclusa qualsiasi forma di
collegamento con organi politici, il deficit democratico, del quale — di
conseguenza — avrebbero sofferto le determinazioni relative all’esercizio
dell’azione penale, era destinato a stemperarsi nel principio di obbligato-
rietà; si riteneva che, in un sistema fondato sul carattere obbligatorio del-
l’azione penale, svanisse il problema della responsabilità politica del pub-

(93) V. G. DI FEDERICO, Obbligatorietà dell’azione penale, coordinamento delle atti-


vità del pubblico ministero e loro rispondenza alle aspettative della comunità, in AA.VV.,
Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit., p. 200.

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blico ministero, essendo quest’ultimo tenuto a perseguire tutti i reati. Il


principio di obbligatorietà, pertanto, costituiva la ratio compensandi del-
l’indipendenza esterna, bilanciando la mancanza di controlli extra-proces-
suali in ordine all’esercizio dell’azione penale (94).
Oggi, la coerenza di tale impostazione concettuale vacilla di fronte ad
un dato già messo in risalto: sono diffusi ed ineliminabili i margini valuta-
tivi che, incidendo soprattutto sui momenti prodromici rispetto all’eserci-
zio dell’azione penale, condizionano l’agire del pubblico ministero; que-
st’ultimo è l’artefice di scelte che, per quanto vincolate a parametri ogget-
tivi e controllabili, presentano carattere discrezionale.
Il fenomeno, unitamente ad altre concause, ha condotto all’altera-
zione del fisiologico rapporto tra la politica criminale, della quale è princi-
pale responsabile il Parlamento, e quella giudiziaria, attuata dagli organi
d’accusa (95). L’atteggiarsi della seconda a semplice mezzo in vista dei
fini perseguiti con la prima è stato sempre più sconfessato e, di conse-
guenza, sono state erose le fondamenta di quell’impianto teorico, del
quale l’art. 112 Cost. è asse portante, che considera il processo quale stru-
mento diretto a realizzare, alla stregua di una meccanica cinghia di tra-
smissione, il sistema di valori stabilito dal legislatore; il c.d. dogma della
strumentalità, secondo il quale il processo svolge un ruolo servente, una
mera funzione dichiarativa delle scelte legislative, è risultato smentito
dalla realtà dei fatti (96).
In questo scenario, è stata l’azione penale la componente che è ve-
nuta ad assumere, in modo particolare, un peso e un ruolo centrali; con i
rischi annessi: che le opzioni di politica criminale siano rimesse, con una
sorta di delega in bianco, agli orientamenti personali dei singoli pubblici
ministeri, vale a dire di soggetti irresponsabili sul piano politico (97).
Già avvertita sotto il profilo della discrezionalità riguardante il ri-
corso ai riti speciali (98), l’esigenza di conferire legittimazione democra-

(94) G. DE LUCA, Controlli extra-processuali ed endo-processuali nell’attività inqui-


rente del pubblico ministero, in AA.VV., Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, cit.,
p. 217.
(95) Sulla distinzione tra politica criminale e politica giudiziaria e sulla individua-
zione dei rispettivi ambiti, v. L. PEPINO, Il pubblico ministero: magistrato, funzionario o su-
perpoliziotto?, in Quest. giust., 1997, p. 543 s., che riconduce alla prima le scelte di priorità.
(96) V., più ampiamente, M. NOBILI, Nuovi modelli e commissioni: processo - teoria
dello stato - epistemologia, cit., p. 31 s.; T. PADOVANI, Il crepuscolo della legalità nel pro-
cesso penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni della legalità penale, cit., p. 529.
(97) V. M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 95; V. ZAGREBELSKY, Stabilire le priorità nell’e-
sercizio obbligatorio dell’azione penale, cit., p. 114.
(98) In relazione all’istituto del c.d. patteggiamento, è stato messo in luce come « i
criteri per il consenso del pubblico ministero all’iniziativa dell’imputato non sono definibili
in base a parametri puramente processuali, cui ben si adatti il sindacato giurisdizionale; ma
esprimono anche linee di politica criminale, per le quali quel vaglio riesce sostanzialmente
inadeguato: sicché presto o tardi finirà per profilarsi l’esigenza di un diverso controllo, me-

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tica alle scelte del pubblico ministero diventa imprescindibile quando si


vuole elaborare una scala di priorità dei reati da perseguire. Infatti, per
quanto possa ispirarsi a criteri oggettivi e determinati, un sistema di ‘‘pre-
cedenze’’ in ordine allo svolgimento delle indagini preliminari comporta
che tra le diverse figure di reato venga fissata una gerarchia sotto il profilo
dei tempi del procedere e, quindi, che vengano compiute ben precise valu-
tazioni di politica criminale; si pone, quindi, il problema di individuare il
soggetto istituzionale che, in quanto munito della necessaria rappresenta-
tività democratica, possa considerarsi legittimato a stabilire l’indirizzo ge-
nerale dei programmi d’azione che gli uffici requirenti devono seguire.
Il fine va perseguito, tuttavia, con l’intento di raggiungere un punto
di equilibrio rispetto all’art. 112 Cost., inteso quale baluardo dell’indipen-
denza esterna del pubblico ministero. Il tentativo di raccordare i criteri di
priorità a guidelines impartite da organi rappresentativi della comunità
non può tradursi in forme di collegamento che comportino interferenze
esterne, non consentite dall’art. 112 Cost., nell’operato del pubblico mini-
stero. Pertanto, filo conduttore di un eventuale nuovo assetto deve essere
la ricerca di uno schema che assicuri, al tempo stesso, la legittimazione
democratica delle scelte compiute dal pubblico ministero e salvaguardi
l’indipendenza esterna di quest’ultimo (99). È sulla scorta di tale postu-
lato che, come si vedrà, tra le soluzioni in astratto ipotizzabili alcune de-
vono essere necessariamente scartate a vantaggio di altre.

11. Le ipotesi di collegamento incompatibili con l’indipendenza


esterna del pubblico ministero: il ministro della giustizia e il Consiglio su-
periore della magistratura. — Il meccanismo, attraverso il quale altri Paesi
tutelano il valore democratico della responsabilità in relazione alle scelte
che il pubblico ministero è chiamato a compiere nel delicato settore delle
politiche penali, consiste nel prevedere forme di collegamento, per il tra-
mite del ministro di giustizia, tra il titolare del potere d’accusa e il go-
verno (100).
Sebbene trovi significativi punti di appiglio in una concezione restrit-

diato in forma più o meno sottile dal potere politico » (P. FERRUA, Il nuovo processo penale e
la riforma del diritto penale sostanziale, in Studi sul processo penale, II - Anamorfosi del
processo accusatorio, Torino, 1992, pp. 22-23).
(99) Tra i primi a sottolineare la possibilità di individuare un bilanciamento tra gli
opposti valori, v. M. NOBILI, La recente polemica sul pubblico ministero: un pericoloso ‘‘aut-
aut’’, in Pol. dir., 1983, p. 379.; v., inoltre, G. DI FEDERICO, Il pubblico ministero: indipen-
denza, responsabilità, carriera ‘‘separata’’, in Ind. pen., 1995, p. 402, secondo il quale tra-
sparenza delle scelte che governano le priorità nell’esercizio dell’azione penale ed autonomia
del pubblico ministero sono ingredienti essenziali anche per garantire l’eguale trattamento
del cittadino di fronte alla legge.
(100) Per uno sguardo alle soluzioni accolte in alcuni Paesi stranieri, v. G. DI FEDE-
RICO, op. ult. cit., p. 402 s.; ID., L’indipendenza del pubblico ministero e il principio demo-

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tiva dell’art. 112 Cost. in passato prospettata (101), l’ipotesi di conferire


al potere esecutivo il compito di adottare criteri di priorità non sembra
compatibile con una lettura sistematica della disciplina costituzionale, da
cui deriva l’intangibilità dell’indipendenza esterna del pubblico ministero
anche sotto il profilo funzionale, vale a dire con riguardo all’esplicarsi
della funzione d’accusa all’interno del processo.
Come già accennato, la chiave di volta è nell’esigenza di configurare
l’art. 112 Cost. e l’art. 101, comma 2, Cost. come segmenti di un conti-
nuum processuale ispirato al principio di legalità. In quest’ottica, l’obbli-
gatorietà dell’azione penale impone di tutelare, nei confronti del governo,
l’autonomia del pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni (102);
infatti, ‘‘se il pubblico ministero fosse dipendente da altri poteri, anche
l’attività giurisdizionale del giudice finirebbe indirettamente per dipendere
da scelte estranee alla magistratura’’ (103).
Ad ulteriore conferma, si aggiunga che le competenze del ministro
guardasigilli sono limitate dalla Carta costituzionale alla facoltà di pro-
muovere l’azione disciplinare (art. 107, comma 2, Cost.) e all’organizza-
zione dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.). La rigidità dei vin-
coli ‘‘per materia’’ così delineati non sembra concedere alcuno spiraglio
per legittimare interventi del potere esecutivo nell’esercizio delle funzioni
demandate al pubblico ministero (104).
Né vale obiettare che il ministro, come tutti i pubblici ufficiali, sa-
rebbe tenuto al rispetto del canone dell’imparzialità, con la conseguenza
che i suoi poteri di intervento non potrebbero essere distorti per fini parti-

cratico della responsabilità in Italia: l’analisi di un caso deviante in prospettiva comparata,


in questa Rivista, 1998, p. 232 s.
(101) La tesi evocata nel testo nega una totale equiparazione, sotto il profilo delle ga-
ranzie costituzionali, tra giudice e pubblico ministero. Più in dettaglio, tutelata per entrambi
l’indipendenza di statuto dagli artt. 104, 105, 107, comma 1, Cost., quella funzionale sa-
rebbe assicurata solo al primo dall’art. 101, comma 2, Cost.; per il secondo, al contrario, la
Costituzione, con il disposto dell’art. 107, comma 4, Cost., si limiterebbe ad operare un rin-
vio alla legislazione ordinaria. In definitiva, tale indirizzo poggia sul rifiuto di concepire il
principio di obbligatorietà dell’azione penale come contraltare di quello che vuole il giudice
soggetto soltanto alla legge. V., più ampiamente, O. DOMINIONI, op. cit., p. 75 s.
(102) V. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2000, p.
582.
(103) V. GREVI, L’organizzazione del pubblico ministero, in Studi parmensi, vol.
XXVIII, 1980, p. 82. Secondo tale linea ricostruttiva, quindi, il significato del rinvio, previ-
sto dall’art. 107, comma 4, Cost., alle garanzie dettate dalla legge sull’ordinamento giudizia-
rio deve essere circoscritto al versante dell’indipendenza interna, nel senso che il legislatore
ordinario è facoltizzato ad introdurre solo per gli uffici del pubblico ministero (e non anche
per quelli giudicanti) vincoli gerarchici tra titolare e addetti (in questo senso, v. E. SPAGNA
MUSSO, Problemi costituzionali del pubblico ministero, in questa Rivista, 1963, p. 424).
(104) Estremamente significativa, al riguardo, la posizione di netta chiusura espressa
da Corte cost., 8 settembre 1995, n. 420, in Giur. cost., 1995, p. 3175.

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colari, dovendo esplicarsi mediante direttive a carattere generale (105).


Quello degli strumenti per mezzo dei quali raccordare la funzione d’ac-
cusa ad indirizzi espressi dal ministro è un passaggio logicamente succes-
sivo, presupponendo che siano ammissibili, sulla base dell’impianto costi-
tuzionale, interferenze del governo. Al contrario, essendo preclusa —
come visto — la stessa possibilità per il ministro della giustizia di influen-
zare le scelte del pubblico ministro, la problematica delle eventuali forme
risulta superflua di fronte ad un assetto istituzionale che comunque non
può essere scardinato.
Dalle premesse discende una conclusione obbligata: il canale di rac-
cordo tra le scelte di politica criminale compiute dal pubblico ministero e
gli interessi della comunità non può essere individuato nel ministro della
giustizia (106).
Altra ipotesi che potrebbe essere avanzata è quella di riconoscere al
Consiglio superiore della magistratura la prerogativa di stabilire i criteri di
priorità nello svolgimento delle indagini, in modo da tracciare uniformi li-
nee di azione per gli uffici del pubblico ministero (107).
Sembrano molteplici gli ostacoli che si frappongono alla concreta
praticabilità anche di simile disegno. In primo luogo, se lo scopo che si
vuole perseguire è quello di ricondurre le scelte in materia di criteri di
priorità ad un organo dotato di legittimazione democratica e politica-

(105) L’argomento è sostenuto da G. FOSCHINI, op. cit., p. 138; v. anche O. DOMI-


NIONI, op. cit., p. 80.
(106) In direzione opposta sembra andare il disegno di legge delega pendente al Se-
nato e in precedenza citato alla nota 34. Le direttive alle quali si intende vincolare l’attività
legislativa delegata delineano un modello che rischia di favorire indebite invasioni di campo
da parte del ministro, con conseguente rottura dell’assetto costituzionale. Infatti, sebbene uf-
ficializzati in un provvedimento del Parlamento, i criteri di priorità sembrano inevitabil-
mente condannati a risentire del ruolo propositivo del ministro che, fungendo da raccordo
rispetto alle indicazioni degli uffici requirenti, finirebbe per esercitare un’influenza prepon-
derante. A ciò si aggiunga che al ministro della giustizia sarebbe affidata una relazione an-
nuale davanti al Parlamento avente ad oggetto non solo lo stato della giustizia, ma anche l’e-
sercizio dell’azione penale, l’uso dei mezzi di indagine e — perfino — delle misure restrittive
della libertà personale. Per un commento più diffuso, v. D. VICOLI, L’esperienza dei criteri di
priorità nell’esercizio dell’azione penale: realtà e prospettive, in corso di pubblicazione.
(107) Alcuni spunti in questo senso in M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 95. Il progetto
di attribuire al Consiglio superiore della magistratura un generale potere di indirizzo in ma-
teria di politica giudiziaria andrebbe ad inserirsi in un più generale contesto di rapporti isti-
tuzionali, che si caratterizza per la crescente tendenza di tale organo ad ampliare la propria
sfera di intervento. Nel corso degli anni, infatti, accanto a quelle previste dall’art. 105 Cost.,
sono andate delineandosi altre funzioni del Consiglio, definite atipiche in quanto non espres-
samente contemplate dalla Costituzione, le quali si sostanziano in attività di indirizzo poli-
tico ovvero strumentali rispetto all’esercizio della giurisdizione (v. G. NEPPI MODONA, L’indi-
pendenza della magistratura ordinaria, in AA.VV., Stato della Costituzione, a cura di G.
Neppi Modona, nuova ed., Milano, 1998, pp. 444-445). Recenti e particolarmente significa-
tivi sintomi di questa linea evolutiva sono i già citati art. 7-ter ord. giud. e art. 227, comma 2,
d.lgs. n. 51 del 1998.

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mente responsabile, l’idea di individuare quest’ultimo nel Consiglio supe-


riore si rivela incongruente rispetto agli obiettivi di partenza. Alla luce de-
gli attuali meccanismi di elezione dei suoi componenti (108), infatti, il
Consiglio non esprime la sovranità popolare, visto che i membri di no-
mina parlamentare sono in netta minoranza e, quindi, difficilmente capaci
di far sentire il loro peso in modo significativo (109). Pertanto, non sem-
bra auspicabile affidare ad un organo, che principalmente deve svolgere
funzioni di garanzia dell’autonomia esterna della magistratura, compiti
tali da concretizzarsi nella definizione di indirizzi generali per la cura de-
gli interessi della comunità (110).
In secondo luogo, le attribuzioni del Consiglio superiore trovano un
limite insuperabile nel fatto che riguardano soggetti, i quali godono, a loro
volta, di indipendenza funzionale costituzionalmente garantita; ciò com-
porta che il Consiglio non possa essere investito dei tipici poteri spettanti
all’organo verticistico di una struttura gerarchicamente ordinata, vale a
dire dei poteri di vincolare mediante direttive l’esercizio, da parte dei sog-
getti subordinati, delle loro funzioni (111).
Gli artt. 101, comma 2 e 112 Cost. proteggono, rispettivamente, giu-
dici e magistrati del pubblico ministero da qualsiasi forma di interferenza
esterna, anche se riconducibile, in ipotesi, all’organo di autogo-
verno (112); quest’ultimo, pertanto, non sembra facoltizzato a dettare li-
nee di politica criminale e, quindi, criteri di priorità nella trattazione delle
notizie di reato. In particolare, alla luce dei poteri riguardanti lo status dei
magistrati, l’inserimento di direttive adottate dal Consiglio superiore nel
momento di raccordo tra legislazione penale e scelte operative degli uffici
requirenti potrebbe minacciare l’autonomia e l’indipendenza di quest’ul-
timi sotto il profilo funzionale (113).
Pertanto, sebbene in continua espansione, le attribuzioni consiliari
devono, comunque, restare confinate in un ambito di natura amministra-
tiva, dal quale esulano l’indirizzo da imprimere alla politica criminale e lo
svolgimento dell’attività giudiziaria in senso stretto.

(108) Per un quadro sintetico, v. A. TORRENTE, voce Consiglio superiore della magi-
stratura, in Enc. dir., vol. IX, 1961, p. 329 s. Sebbene prive di riflessi sotto il profilo della le-
gittimazione democratica dell’organo, vanno tenute presenti le recenti modifiche apportate
dalla l. 28 marzo 2002, n. 44.
(109) Cfr. N. ZANON, op. cit., pp. 246-247.
(110) V. V. ONIDA, La posizione costituzionale del C.s.m. e i rapporti con gli altri
poteri, in AA.VV., Magistratura, C.s.m. e principi costituzionali, a cura di B. Caravita,
Roma-Bari, 1994, pp. 18-19.
(111) V. V. ONIDA, op. cit., p. 20.
(112) Cfr. V. ZAGREBELSKY, Magistratura, la gerarchia da smantellare, in Relazioni
sociali, 1972, p. 23; N. ZANON, op. cit., p. 244.
(113) V. S. BARTOLE, In tema di autorizzazione a procedere per vilipendio dell’ordine
giudiziario, in Giur. cost., 1973, p. 1422.

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L’assunto rinvia alla dicotomia fra gli organi che esercitano funzioni
giurisdizionali e quelli che svolgono funzioni di amministrazione della giu-
risdizione, cioè attività a carattere burocratico ancillari rispetto alle
prime (114). Ebbene, nel secondo gruppo di soggetti, si colloca il Consi-
glio superiore; tratto saliente, infatti, del modello costituzionale di orga-
nizzazione è proprio quello di aver affidato, al fine di rafforzare l’indipen-
denza dei magistrati, tali attività amministrative, che sono in rapporto di
strumentalità rispetto all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ad un organo
distinto ed autonomo dal potere esecutivo (115). Solo entro tali confini,
pertanto, può parlarsi di un potere di indirizzo del Consiglio supe-
riore (116).

12. Un modello intermedio: direttive del Parlamento e attività inte-


grativa delle procure. — Ritenute impraticabili le strade che conducono a
configurare un potere di indirizzo in capo al ministro della giustizia ov-
vero al Consiglio superiore della magistratura, resta da prendere in esame
l’ipotesi di attribuire al Parlamento il compito di fissare linee-guida capaci
di orientare l’attività degli uffici requirenti (117).
È innegabile che, nell’ottica di conferire legittimazione democratica
alle scelte di politica criminale compiute dal pubblico ministero, la pro-
spettiva di assegnare al Parlamento il potere di impartire direttive in mate-
ria di criteri di priorità presenta un indubbio pregio.
Mentre il collegamento con il ministro della giustizia si ispira ad una
concezione del pubblico ministero quale rappresentante del potere esecu-
tivo, quello con il Parlamento, al contrario, poggia sull’idea secondo la
quale all’organo che rappresenta in modo diretto i cittadini spettano po-
teri di controllo democratico su tutte le attività di rilievo pubblico e,
quindi, anche sull’esercizio della funzione requirente (118).

(114) V. A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1990, p.


83 s.
(115) In questo senso, A. PIZZORUSSO, Il Consiglio superiore della magistratura nella
forma di governo vigente in Italia, in Quest. giust., 1984, pp. 288-289.
(116) Sottolinea A. PIZZORUSSO, op. ult. cit., p. 300, che ‘‘se [...] è certamente ipotiz-
zabile un indirizzo di politica criminale degli uffici requirenti, [...], nulla questo indirizzo ha
a che fare con l’indirizzo in materia di amministrazione della giurisdizione fissato dal Consi-
glio’’. V. anche U. NANNUCCI, op. cit., pp. 184-185.
(117) È questa la tesi prospettata da V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., pp. 115-116; v.,
anche, M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 95; G. NEPPI MODONA, Principio di legalità e processo
penale, cit., pp. 123-124.
(118) Per questa impostazione, v. A. MANZELLA, I controlli parlamentari, I, Milano,
1970, p. 63; ID., Il parlamento, 2a ed., Bologna, 1991, p. 357, che, alla stregua di una conce-
zione del Parlamento come organo di garanzia dell’efficienza dei pubblici poteri, ritiene che
non vi sarebbe attività nella quale il Parlamento non possa ingerirsi, sia in funzione di con-
trollo che per attivare meccanismi di responsabilità politica. Contra M. MAZZIOTTI DI CELSO,
voce Parlamento (diritto costituzionale), A) Principi generali e funzioni, in Enc. dir., vol.

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Sotto altri profili, tuttavia, vi sono alcuni punti controversi che oc-
corre affrontare. Il primo nodo da sciogliere riguarda la tipologia di atto
parlamentare con il quale sarebbe possibile dettare guidelines agli uffici
requirenti. È stato evidenziato, infatti, come il rapporto tra magistratura e
Parlamento sia di tipo astratto, nel senso che quest’ultimo può esprimersi
nei confronti della funzione giudiziaria solo attraverso la legge, che — in
quanto tale — deve possedere i requisiti della generalità e dell’astrattezza;
sarebbe, infatti, un’inammissibile interferenza nella sfera di attribuzioni
del potere giudiziario una legge-provvedimento, diretta ad incidere su un
singolo caso (119).
Sulla base di questa premessa, non sembra percorribile la strada della
risoluzione o dell’ordine del giorno (120).
Del resto, è la natura stessa di tali atti a porsi come ostacolo rispetto
alla possibilità di una loro adozione come ‘‘contenitori’’ di direttive per gli
uffici requirenti. Insieme alla mozione, infatti, la risoluzione e l’ordine del
giorno sono strumenti di indirizzo politico, che servono a provocare un
voto delle Camere, il cui destinatario è il governo (121); si tratta, in sin-
tesi, di atti che, pur potendo essere adottati per gli scopi specifici più di-
versi, sono accomunati dalla caratteristica di inserirsi nel rapporto tra po-
tere esecutivo e Parlamento, al quale spetta di controllare che l’attività del
governo sia conforme al programma esposto al momento della fiducia.
Tale connotazione degli atti di indirizzo politico emerge in modo chiaro
anche dalla loro struttura formale, che si articola in due parti; la prima è
costituita dalla premessa motivata, nella quale si illustra il tema discusso,

XXXI, 1981, p. 757, ad avviso del quale non esiste una funzione generale di garanzia del
Parlamento, dal momento che quest’ultimo non è in una posizione di neutralità e non si rin-
vengono disposizioni che gli attribuiscano tale ruolo. Per una sintesi delle problematiche in
materia e delle diverse tesi, v. S. SICARI, voce Controllo e indirizzo parlamentare, in Dig.
disc. pubbl., vol. IV, 1989, p. 103 s.
(119) In questo senso, B. CARAVITA, Tra crisi e riforme. Riflessioni sul sistema costi-
tuzionale, Torino, 1993, p. 157; ID., Obbligatorietà dell’azione penale e collocazione del
pubblico ministero: profili costituzionali, cit., p. 301, secondo il quale, nei rapporti tra magi-
stratura e Parlamento, il termine legge è assunto nel suo significato idealtipico, vale a dire
non solo di atto che promana dall’iter legislativo, bensì anche come atto generale ed astratto
che produce norme nel senso più classico della parola.
(120) In senso contrario, v., in particolare, V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., pp. 115-
116, secondo il quale la risoluzione e l’ordine del giorno avrebbero il vantaggio di risultare
adeguati al livello di incidenza sui comportamenti dei magistrati, livello che è quello dei do-
veri d’ufficio valutabili non sul piano delle conseguenze processuali, ma da parte del Consi-
glio superiore su quello della deontologia e della capacità professionale.
(121) Al riguardo, v. A. MANZELLA, op. ult. cit., p. 295 s.; M.L. MAZZONI HONORATI,
Lezioni di diritto parlamentare, 3a ed. aggiornata, Torino, 1999, p. 363 s., ad avviso della
quale può dirsi, in via di prima approssimazione, che la mozione apre il dibattito su un certo
argomento, la risoluzione lo conclude e l’ordine del giorno manifesta la volontà parlamen-
tare su un tema accessorio rispetto a quello in esame.

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e la seconda dal dispositivo, con il quale si impegna o si invita il governo


ad adottare determinati provvedimenti (122).
In particolare, poi, l’ordine del giorno si contraddistingue per il carat-
tere dell’accessorietà, visto che si innesta sempre nell’ambito di un proce-
dimento principale, nella maggior parte dei casi legislativo, impegnando il
governo ad attribuire un particolare significato alle norme approvate ov-
vero ad adottare un certo provvedimento (123). Ne consegue che l’ordine
del giorno, sebbene fornisca indicazioni sul come applicare o interpretare
la legge, è vincolante solo nei confronti del governo e non anche di terzi,
quali ad esempio i giudici e i cittadini (124).
Una volta esclusa la possibilità per il Parlamento di impartire diret-
tive agli uffici del pubblico ministero mediante atti diversi dalla legge, si
apre un ulteriore problema; è necessario chiedersi, infatti, se sia concepi-
bile un provvedimento legislativo di indirizzo in materia di politica crimi-
nale, il quale vada a sovrapporsi al tessuto normativo, sostanziale e pro-
cessuale, già esistente.
È stato osservato, infatti, che sarebbe in contrasto con l’art. 25,
comma 2, Cost. una legge che prescrivesse agli uffici giudiziari di seguire
determinate linee di azione, stabilendo dei criteri di priorità nell’avvio
delle indagini; in questo senso, il percorso da intraprendere per fissare gli
indirizzi di politica criminale sarebbe quello di intervenire sul sistema nor-
mativo in vigore, in modo da modificarlo e aggiornarlo (125). In caso
contrario, infatti, sarebbe troppo palese l’antinomia tra l’ampiezza della
legislazione penale e una serie di direttive, provenienti dallo stesso Parla-
mento, volte a rimodellare l’area dei fatti da perseguire (126).
A ben vedere, i rilevi critici sopra riportati toccano due distinte que-
stioni. Da un lato, si ritiene che l’adozione di criteri di priorità da parte
del Parlamento comporterebbe, in contrasto con il principio di legalità,
una sostanziale disapplicazione di alcune norme incriminatrici; dall’altro,
le direttive sui ‘‘tempi’’ di svolgimento delle indagini sono considerate tali
da determinare una indebita interferenza nella sfera di attribuzioni pro-
prie del pubblico ministero.
Sul primo aspetto, il ragionamento è inficiato da un equivoco sulla
natura dei criteri di priorità. Quest’ultimi, infatti, non potendo tradursi in

(122) V., più ampiamente, M.L. MAZZONI HONORATI, op. cit., p. 365 s.
(123) In questo senso, A. MANZELLA, op. ult. cit., p. 300.
(124) V. M. CIAURRO, voce Ordine del giorno, in Enc. giur., vol. XXX, 1980, p.
1034.
(125) È di questo avviso B. CARAVITA, op. ult. cit., p. 307.
(126) Così A. ROSSI, op. cit., p. 315; in chiave problematica, si esprime anche F. CA-
PRIOLI, op. cit., cit., p. 597, secondo il quale non si comprende quale posto occuperebbero
nella gerarchia delle fonti le guidelines di politica criminale, posto che la loro osservanza de-
terminerebbe la disapplicazione della legge penale. V. anche le critiche e le perplessità avan-
zate da V. BORRACCETTI, op. cit., p. 147 e da M. DEVOTO, op. cit., p. 2051.

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preventive rinunce ad accertare determinati illeciti (127), devono limitarsi


a stabilire quali reati vadano perseguiti in via prioritaria rispetto ad altri;
ciò non significa, di riflesso, che alcune condotte criminose cessino di es-
sere tali ovvero che determinate norme incriminatrici siano abrogate.
Il pericolo, poi, di vedere alterato il corretto atteggiarsi dei rapporti
tra Parlamento e pubblico ministero rinvia a problematiche riguardanti la
tecnica di previsione dei criteri di priorità e, in particolare, il loro livello
di specificità. Al riguardo, si può ipotizzare una scala di ipotesi graduabili
in base al maggiore o minore tasso di analiticità delle direttive impartite
mediante legge. Il Parlamento può limitarsi, dopo un’opera ricognitiva de-
gli interessi protetti dalla legislazione penale, a stabilire una sorta di gerar-
chia degli stessi ovvero può spingersi oltre, fino a specificare, in dettaglio,
l’ordine di priorità dei reati che presentano un medesimo oggetto di tutela.
Con ogni probabilità, nel secondo caso, risulterebbe lesa l’autonomia
operativa che, all’interno dell’area penalmente rilevante, deve essere rico-
nosciuta al pubblico ministero, il quale incontrerebbe, nell’esercizio delle
sue funzioni, dei vincoli troppo rigidi. Simili ostacoli, però, sembrano su-
perabili, sposando l’altra opzione, vale a dire quella che limita il ruolo del
Parlamento alla stesura di una ‘‘mappa’’ dei diversi interessi, in modo da
fornire, a cadenza annuale, le coordinate generali del sistema di priorità;
in un secondo momento, poi, saranno i singoli uffici requirenti a stabilire,
secondo il parametro dell’offensività in astratto e in concreto, criteri di
priorità specifici e dettagliati.
In quest’ottica, il giudizio demandato al Parlamento sulla ‘‘dignità’’
dei diversi interessi dovrebbe poggiare, in primo luogo, su valutazioni as-
siologiche che, ispirate al criterio di proporzione, consentano di stabilire
un rapporto comparativo fra i beni tutelati (128); ed inoltre, su elementi
di natura empirico-prasseologica, che consentano di apprezzare in termini
reali la dimensione e rilevanza sociale dei beni protetti e dell’offesa ad essi
arrecata (129).

(127) In questi termini, M. CHIAVARIO, op. ult. cit., p. 97. In altro scritto (Notarelle a
prima lettura sul progetto della Commissione bicamerale in tema di azione penale, cit., p.
133, nota 10), lo stesso Autore ribadisce come, attraverso l’introduzione di criteri di prio-
rità, ‘‘nessuno [...] ha mai pensato che in tal modo si potesse giungere a promettere, magari
per pubblici proclami, che certi fatti — considerati come reati dalla legge penale — non sa-
rebbero perseguiti, per un certo periodo di tempo, sull’intero territorio nazionale ovvero in
questa o quella circoscrizione’’.
(128) Sul carattere comparativo del giudizio di proporzione e sui diversi momenti in
cui si articola, v. F. PALAZZO, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di cri-
minalizzazione, in questa Rivista, 1992, pp. 454-456. V. anche M. DONINI, L’art. 129 del
progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997. Un contributo alla pro-
gressione ‘‘legale’’ prima che ‘‘giurisprudenziale’’, dei principi di offensività e di sussidia-
rietà, in Crit. dir., 1998, p. 106.
(129) Sull’importanza di tale criterio nell’ambito del processo di selezione dei beni
giuridici, v. F. PALAZZO, op. cit., p. 466 s.

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Ultimo tema da trattare è quello dei rapporti interni agli uffici del
pubblico ministero (130). Nell’ambito del modello proposto, infatti, le
guidelines parlamentari hanno come principali destinatari i capi degli uf-
fici, ai quali va attribuito il compito di tradurle in direttive di dettaglio che
siano vincolanti per i magistrati addetti.
È noto come il disposto dell’art. 70, commi 3 e 4, ord. giud., nel testo
modificato dall’art. 20 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, sia stato letto,
con riguardo ai rapporti tra titolare dell’ufficio e suoi sostituti nella fase
delle indagini preliminari, secondo cadenze interpretative dagli esiti anti-
tetici, che hanno condotto ad affermare ora la supremazia gerarchica del
primo (131), ora la piena autonomia dei secondi (132).
In nessun caso, tuttavia, viene messo in discussione che al procura-
tore capo siano attribuite funzioni direttive ed organizzative, essendo il di-
stinto problema della loro ampiezza a costituire l’oggetto di divergenti ve-
dute (133). Infatti, anche chi tende a valorizzare l’autonomia del pubblico
ministero nella fase delle indagini, riconosce al capo dell’ufficio un ruolo
di sovraordinazione rispetto ai magistrati addetti; e di qui, la possibilità
per il primo di adottare direttive interne e il dovere per i secondi di rispet-
tarle.
In questo senso, il disposto dell’art. 70, comma 3, ord. giud., secondo
cui il titolare dirige l’ufficio e ne organizza l’attività, non può essere inteso
in chiave riduttiva, limitandone la portata agli aspetti meramente burocra-
tici, con esclusione dei profili che attengono all’esercizio delle funzioni

(130) In questa sede, non è possibile affrontare le molteplici problematiche che sol-
leva, sul terreno dell’art. 112 Cost., il tema dell’indipendenza interna del pubblico ministero;
si rinvia, per una trattazione più diffusa, a P.M. BELLONE, voce Pubblico ministero (diritto
processuale penale), in Noviss. Dig. it., Aggiornamento, 1993, p. 201; M. CHIAVARIO, Rifles-
sioni sul principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, in Studi in onore di C.
Mortati, vol. IV, cit., p. 128; M. NOBILI, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale,
cit., p. 126 s.; G. NEPPI MODONA, Art. 112, in Commentario della Costituzione, a cura di G.
Branca, Bologna, 1987, p. 77; M. SCAPARONE, voce Pubblico ministero (dir. proc. pen.), in
Enc. giur., vol. XXXVII, 1998, p. 1107.
(131) Così L. CARLI, Personalizzazione delle funzioni di p.m., in Procure circonda-
riali. Organizzazione del lavoro dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, cit., p.
29 s.
(132) Di questo avviso sono A.A. DALIA, Il problema del coordinamento, dei collega-
menti e dei controlli nell’esercizio della funzione d’accusa, in AA.VV., Accusa penale e
ruolo del pubblico ministero, cit., p. 101 s.; A. PIGNATELLI, Rapporti tra Procuratori della Re-
pubblica e sostituti alla luce della nuova formulazione dell’art. 70 dell’ordinamento giudi-
ziario, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro dei magistrati e rapporto con la
polizia giudiziaria, cit., p. 139.
(133) Esclusa per tabulas la possibilità di configurare un rapporto gerarchico con ri-
guardo allo svolgimento dell’udienza, un’altra questione controversa riguarda gli effetti della
designazione, operata dal capo dell’ufficio, sotto il profilo della stabilità dell’incarico confe-
rito al sostituto.

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giudiziarie (134). Al riguardo, sebbene non sia agevole tracciare una netta
linea di confine tra il potere direttivo e quello di organizzazione, è possi-
bile individuare due distinti settori di competenza.
Innanzitutto, il capo dell’ufficio svolge funzioni di natura ammini-
strativa, che sono strumentali rispetto all’esercizio di quelle giudizia-
rie (135); spetta, infatti, al titolare il compito di predisporre i mezzi mate-
riali e le attività burocratiche connesse allo svolgimento del servizio che
l’ufficio presta (136). Inoltre, il titolare è investito del ruolo di coordina-
tore, al fine di assicurare che i membri dell’ufficio seguano linee di indi-
rizzo uniformi; pertanto, deve essere riconosciuto al dirigente della pro-
cura il potere di dettare disposizioni a carattere generale, riguardanti lo
svolgimento delle funzioni d’accusa (137).
Di conseguenza, nella fase preliminare, l’autonomia dei singoli magi-
strati risulta diminuita, dal momento che essa incontra il limite rappresen-
tato dall’obiettivo di garantire l’uniformità dei comportamenti (138); di
riflesso, quindi, non può dirsi realizzata una piena personalizzazione
delle funzioni requirenti, poiché il titolare dell’ufficio è investito di poteri

(134) In questo senso, V. ZAGREBELSKY, Sull’assetto interno agli uffici del pubblico
ministero, in Cass. pen., 1993, p. 719.
(135) V. A. PIZZORUSSO, voce Organi giudiziari, in Enc. dir., vol. XXXI, 1981, pp.
92-93.
(136) Così L. CARLI, op. cit., p. 34, che riconduce tali funzioni al concetto di organiz-
zazione; al contrario, A. PIGNATELLI, op. cit., p. 139, le riconduce al potere direttivo. Va sot-
tolineato come, limitatamente a tale aspetto, sussista un rapporto gerarchico tra i capi degli
uffici e il Consiglio superiore della magistratura, il quale può annullare i provvedimenti dei
primi e dare ad essi direttive vincolanti in base ai principi dell’organizzazione amministrativa
(A. PIZZORUSSO, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in
Italia, cit., p. 298).
(137) V. L. CARLI, op. cit., p. 34; A. PIGNATELLI, op. cit., pp. 141-142, il quale sotto-
linea che le direttive adottate dal capo dell’ufficio non devono avere carattere particolare,
con la conseguenza che non può ritenersi consentito ordinare un singolo atto d’indagine, in
modo che sorga il dovere di compierlo nel sostituto designato.
(138) Pone l’accento sulla necessità di scongiurare il rischio che, all’interno dell’uffi-
cio, vengano seguiti indirizzi contraddittori V. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., pp. 719-720; ID.,
Modifiche all’ordinamento giudiziario e nuovo ruolo del pubblico ministero e del giudice, in
Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione (Atti del Convegno dell’Associa-
zione degli studiosi del processo penale, Ostuni 8-10 settembre 1989), Milano, 1991, p. 124.
In giurisprudenza, Sez. un., 23 ottobre 1992, Cordova, in Cass. pen., 1993, p. 526, ricono-
sce al procuratore capo poteri di coordinamento dell’attività dei sostituti e di conferimento
di un impulso unitario alla conduzione dei processi; v. anche Sez. un. civ., 15 marzo 2001,
Pititto, in Dir. giust., 2001, n. 24, p. 24. Anche il Consiglio superiore ha evidenziato tale esi-
genza, ritenendo « sconsigliabile un’eccessiva ‘‘personalizzazione’’ del magistrato incaricato
di seguire il procedimento » e mettendo in luce la « necessità di assicurare, specie nella fase
delle indagini preliminari, unitarietà o, almeno, uniformità di indirizzo » (Parere del Consi-
glio superiore della magistratura sul progetto preliminare delle norme di attuazione del co-
dice di procedura penale, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice dalla
legge delega ai decreti delegati, vol. VI, t. I, Padova, 1990, p. 106).

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che, se non possono dirsi gerarchici, comunque esprimono un ruolo di so-


vraordinazione rispetto ai magistrati addetti (139).
Tali premesse sembrano costituire basi sufficientemente solide per ri-
conoscere al capo della procura il potere di fissare, mediante apposite di-
rettive, criteri di priorità circa la trattazione dei procedimenti. L’esigenza
di garantire, infatti, che l’attività complessiva dell’ufficio risulti coerente e
non contraddittoria si manifesta, in primo luogo, sul piano delle scelte ri-
guardanti l’ordine di priorità secondo il quale dare impulso alle indagini; è
necessario, quindi, che la discrezionalità dei singoli magistrati del pub-
blico ministero venga circoscritta, in modo da uniformarne i compor-
tamenti. La cura nell’evitare contraddizioni e difetti di coordinamento
im-plica, pertanto, una previa fissazione degli indirizzi generali da se-
guire, frutto — possibilmente — del confronto dialettico interno all’uf-
ficio.
Le brevi riflessioni conclusive sono tese a ribadire, con lo sguardo ri-
volto ai possibili interventi futuri, lo spirito che deve animare l’idea dei
criteri di priorità; vale a dire non quello di una selezione delle notizie di
reato per le quali avviare le indagini, ma — secondo una diversa logica —
di una più razionale trattazione delle stesse.
Il dato, più che risolversi in un argomento ostativo all’introduzione
dei criteri di priorità, rivela la natura complementare di questi ultimi ri-
spetto agli strumenti propriamente deflativi. Per ridurre il divario tra do-
manda ed offerta di giustizia, le strade della depenalizzazione e della ‘‘de-
processualizzazione’’ vanno necessariamente intraprese. Tuttavia, è
troppo ottimistico ritenere di eliminare alla radice, in questo modo, la di-
screzionalità del pubblico ministero nella gestione delle notizie di reato.
Per quanto possa ridursi il carico di lavoro, comunque residueranno spazi
valutativi suscettibili di essere riempiti dal pubblico ministero con scelte
sganciate da parametri oggettivi e razionali, che per di più sottendono op-
zioni di politica criminale.
Ecco, allora, che — in un contesto di interventi sinergici — anche la
politica dei criteri di priorità merita diritto di cittadinanza. In questo
senso, il varo di una scala di priorità in ordine ai tempi delle indagini non
deve essere considerato come una misura anomala, a carattere transitorio
e contingente, da attuare in circostanze ‘‘emergenziali’’ (140); al contra-

(139) V. V. ZAGREBELSKY, Sull’assetto interno degli uffici del pubblico ministero, cit.,
p. 721.
(140) Il riferimento è, in particolare, ai possibili punti di aggancio con la controversa
teoria (v. A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, 2a ed., Padova,
1990, p. 56 s.) sulla sospensione temporanea, in situazioni d’emergenza, dei principi costitu-
zionali.

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rio, esso risponde ad esigenze inevitabilmente destinate a manifestarsi e a


permanere anche nell’ambito di un sistema in cui il rapporto numero degli
affari penali-mezzi per farvi fronte dovesse risultare più equilibrato.
DANIELE VICOLI
Assegnista di ricerca
in procedura penale
Università degli studi
di Bologna

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AL DI LÀ DELLE DICOTOMIE:
IBRIDISMO E FLESSIBILITÀ DEL METODO DI RICOSTRUZIONE
DEL FATTO NELLA GIUSTIZIA PENALE INTERNAZIONALE (*)

SOMMARIO: 1. Introduzione — 2. Purezze e rigidità della giustizia penale italiana — 3. Il di-


spositivo ibridizzante dell’equità. - 3.1. La componente etica... - 3.2. ... e quella epi-
stemologica. — 4. Insiemi ‘‘flous’’ nel metodo di accertamento del fatto. — 5. ‘‘Scrit-
tura’’ e ‘‘oralità’’ sulla bilancia dell’equità. - 5.1. Excursus: la Corte europea dei diritti
dell’uomo. - 5.2. La Corte penale internazionale. - 5.3. Il Tribunale per la ex Yugosla-
via. — 6. La riabilitazione della dimensione pragmatica ed ‘‘antropica’’ del diritto.

1. Introduzione.— L’analisi del tessuto ‘‘legislativo’’ e giurispruden-


ziale della giustizia penale internazionale ne mette in risalto due tratti sa-
lienti: il rifiuto di un approccio binario ai temi processuali, a cominciare
dalla presa di distanza nei confronti della dicotomia tradizionale accusato-
rio/inquisitorio, e l’adozione di un atteggiamento pragmatico alle que-
stioni giuridiche che si manifesta, in particolar modo, nell’attenzione co-
stantemente rivolta alla sostanza delle dinamiche valoriali coinvolte e alla
specificità del contesto in cui questa forma di giustizia opera. Questo ri-
fiuto del pensiero dicotomico e del formalismo poggia su una costante che
ispira l’architettura delle norme e che anima la logica della giurisdizione:
la flessibilità.
Certo, l’ibridismo di stili processuali differenti e una qualche dose di
pragmatismo possono considerarsi come caratteristiche inevitabili per or-
ganismi internazionali che, per vedere la luce e per legittimarsi, devono
poter contare su un riconoscimento multilaterale. Geometrie concettuali e
purezze lessicali sono infatti incompatibili con istituti che devono poter
essere compresi da prospettive giuridiche e culturali non coincidenti e che
sono animate da attori appartenenti a tradizioni diverse. Inoltre, se si
pone mente all’andamento dei lavori della Preparatory Commission incari-
cata di redigere le Rules of Procedure and Evidence della Corte penale in-

(*) Lo scritto è destinato alla pubblicazione nel volume che raccoglierà i risultati di
una ricerca interuniversitaria finanziata dal MIUR e intitolata ‘‘Verso un diritto penale co-
mune in materia di repressione di crimini internazionali’’ (Coordinatore scientifico: Prof.
Antonio Cassese; Responsabile scientifico: Prof. Mario Chiavario). L’autore rivolge un parti-
colare ringraziamento ad A. CARCANO, R. GALLMETZER e P. MASSIDDA, ‘‘Juristes Adjoints aux
Chambres’’, per la loro accoglienza al TPIY e per la loro preziosa collaborazione.

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ternazionale (CPI), lavori spesso caratterizzati da animate contrapposi-


zioni ‘‘campanilistiche’’ lungo la polarizzazione ‘‘common law — civil
law’’, la logica della sintesi di tradizioni giuridiche differenti sembrerebbe
essere il risultato di un necessario, e a volte forzato, compromesso, piutto-
sto che l’effetto della scelta ragionata a favore di un’impalcatura proces-
suale funzionale alle esigenze della giustizia penale internazionale. Tutta-
via — senza voler sottovalutare quella realtà, peraltro condizionata dall’e-
levata sensibilità politica di quel contesto, non sempre bilanciata da una
pari sensibilità processualistica e comparatistica (1) — il diritto penale in-
ternazionale ‘‘vivente’’, pur con tutti i limiti di un’esperienza ancora ‘‘bal-
buziente’’, è lì a testimoniare che ibridismo (e pragmatismo) non possono
essere ridotti a meri « political imperatives », frutto di « convenience, or
at least compliance » (2).
In più occasioni, infatti, i giudici dei tribunali ad hoc per la ex Yugo-
slavia e per il Ruanda hanno giustificato determinate scelte procedurali fa-
cendo appello proprio al carattere ibrido, sui generis, della struttura giuri-
dica dei tribunali penali internazionali (3). Da questo carattere essi hanno
tratto la conclusione, come risulta dalla seguente opinione di un giudice
del Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia (TPIY), che la
questione se « the Tribunal has an inquisitorial or accusatorial system is,
in the end, an improductive and unnecessary debate, since in interpreting
a provision that reflects a feature of a particular system, it would be incor-
rect to import that feature wholesale into the Tribunal without first testing
whether this would promote the object and purpose of a fair and expedi-
tious trial in the international setting of the Tribunal » (4). Questa morfo-
logia processuale ‘‘impura’’, quindi, lungi dall’essere percepita come un

(1) Cfr., sul punto, H. BRADY, The System of Evidence in the Statute of the Interna-
tional Criminal Court, in Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, F.
LATTANZI and W. A. SCHABAS eds., I, L’Aquila, Il Sirente, 1999, p. 286 e V. FANCHIOTTI,
Completata la stesura delle Rules of Procedure and Evidence, in Dir. pen. e proc., 2000, p.
1402, che sottolinea come l’inadeguata preparazione processualistica e comparatistica di
molti delegati abbia accreditato una versione assai semplicistica e fuorviante della contrap-
posizione dei due modelli processuali.
(2) Così, invece, seppur in forma dubitativa, M. FINDLAY, Synthesis in Trial Procedu-
res? The Experience of International Criminal Tribunals, in International and Comparative
Law Quarterly, 2001, p. 52, il quale aggiunge che « what now seems to be a triumph for
synthesis may be more reliant on the political moment of internationalisation rather than on
any real and significant developments towards a new, fused procedural tradition » (p. 53).
(3) V., ad esempio, il seguente passo tratto da Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), De-
cision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective measures for Victims and Witnes-
ses, 10 agosto 1995, § 22, in cui si chiarisce che « another unique characteristic of the In-
ternational Tribunal is its utilization of both common law and civil law aspects. Although
the Statute adopts a largely common law approach to its proceedings, it deviates in several
respects from the purely adversarial model. [...] As such, the International Tribunal constitu-
tes an innovative amalgam of these two systems ».
(4) P. L. ROBINSON, Ensuring Fair and Expeditious Trials at the International Crimi-

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fardello ingombrante imposto da pressioni politiche esterne, è rivendicata


dai giudici come una peculiarità della giustizia penale internazionale (che
combina le due anime, penale ed internazionale) e come una risorsa fe-
conda per amministrare in modo ‘‘fair’’ ed efficiente quel tipo particolare
di giurisdizione.

Per chiarire ulteriormente tale favor per ibridazioni funzionali alle specificità
istituzionali della giustizia penale internazionale, può essere utile ricordare un
passo dell’opinione separata espressa dall’ex presidente del TPIY, Antonio Cassese,
nel caso Erdemovic. Prendendo spunto dalla questione se i giudici del Tribunale
fossero tenuti ad applicare le regole della common law in tema di guilty plea, Cas-
sese puntualizza alcune caratteristiche generali della procedura penale internazio-
nale. Questa non deriverebbe da un « corpus de droit uniforme », ma sarebbe il ri-
sultato, in larga misura, « de la fusion de deux systèmes juridiques différents, celui
des pays relevant de la common law et celui des pays de droit romain ». Ne deriva
che la procedura in questione, da un lato, non privilegia « la philosophie sous-ten-
dant l’un des deux systèmes pénaux internes au détriment de l’autre » e, dall’altro,
evita di promuovere la semplice « juxtaposition d’éléments appartenant aux deux
systèmes ». Essa opera, piuttosto, « la combinaison et la fusion, généralement de
façon assez satisfaisante, entre le système contradictoire ou accusatoire [...] et un
certain nombre de caractéristiques importantes du système inquisitoire ». Tale
« combinaison ou cet amalgame », si prosegue, « est unique et génère une logique
juridique qui est sensiblement différente de celle de chacun des deux systèmes pé-
naux internes » (5).

Il riferimento alla specificità della ‘‘logica giuridica’’ che governa la


giustizia penale internazionale ci introduce all’altra componente di questa
tipologia giurisdizionale: il pragmatismo e la flessibilità. Anche in questo
caso, tale caratteristica è rivendicata esplicitamente dai giudici del Tribu-
nale per la ex-Yugoslavia come uno strumento fondamentale per assicu-
rare un processo equo ed efficiente. Come ha avuto modo di affermare la
Chambre d’appel nel caso Aleksovski, per motivare il rifiuto di applicare
le regole nazionali in tema di hearsay evidence, « le Règlement a pour ob-
jet de favoriser un procès équitable et rapide et les Chambres de première
instance doivent avoir suffisamment de souplesse pour atteindre ce
but » (6). Lo stesso punto di vista è stato ribadito con fermezza dalla me-
desima Corte nel caso Kordic, dove si precisa che « the Rules must be in-
terpreted with some degree of flexibility », richiamandosi all’opinione se-
parata del giudice Hunt secondo la quale il fine primario è « to achieve ju-

nal Tribunal for the Former Yugoslavia, in European Journal of International Law, 2000, p.
579, che considera il sistema del TPIY come un sistema « sui generis » (p. 588).
(5) Procureur v. Erdemovic (IT-96-22-A), Opinion individuelle et dissidente du juge
Cassese, 7 ottobre 1997, IA4.
(6) Prosecutor v. Aleksovski (IT-95-14/1-AR73), Arrêt relatif à l’appel du Procureur
concernant l’admissibilité d’éléments de preuve, 16 febbraio 1999, § 19.

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stice, not to delay it, and not to permit mere technicalities to intrude
where there has been no material prejudice caused by a non-com-
pliance » (7).

Il favore per un approccio sintetico e pragmatico alle questioni giuridiche è


da anni promosso da un’altra importante giurisdizione internazionale (la Corte eu-
ropea dei diritti dell’uomo) che ha fornito, case by case, contributi preziosi — e in
gran misura ancora da metabolizzare da parte di certe comunità giuridiche nazio-
nali — per la configurazione di una tipologia di processo penale ispirata, da un
lato, ad un atteggiamento intransigente nel far rispettare la sostanza di tutti i va-
lori coinvolti nell’attività giursdizionale e, dall’altro, ad un atteggiamento inflessi-
bile nel condannare formalismi e purezze che per omaggiare certi valori, magari di
dettaglio, finiscono per offendere il nucleo di altri non meno rilevanti. Infatti, a
partire dalle nozioni ibride di ‘‘materia penale’’ e di ‘‘legge’’ (loi-law), passando
per interpretazioni non massimalistiche dell’oralità e del contraddittorio o pro-
muovendo concezioni atecniche di figure cruciali come il ‘‘testimone’’ (8), la
Corte si è sempre sottratta al fascino delle geometrie concettuali che pure le argo-

(7) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.6), Decision on Appeal Regar-


ding the Admission into Evidence of Seven Affidavits and One Formal Statement, 18 settem-
bre 2000, § 32 e Prosecutor v. Kuprepkic et alii (IT-95-16-AR73.3), Decision on Appeal by
Dragan Papic Against Ruling to Proceed by Deposition, Separate Opinion of Judge Hunt, 15
luglio 1999, § 18. Alla luce di questi principi, la Corte, mostrando un’evidente ed apprezza-
bile sensibilità al tema dell’abuso del processo, decide, nel caso Kordic, di negare alle parti il
diritto insindacabile d’interrogare il teste autore di un affidavit, ai sensi dell’allora vigente R.
94ter, rilevando come « an alternative interpretation would mean that a Trial Chamber is al-
ways obliged to accede to such an application despite the fact that it could be wholly wi-
thout merit and frivolous » (§ 38).
(8) Sulla nozione sui generis di ‘‘materia penale’’, v. La matière pénale au sens de la
Convention européenne des droits de l’homme, flou du droit pénal, (ad opera del ‘‘Groupe
de recherche Droits de l’homme et logiques juridiques’’), coord. da M. DELMAS-MARTY, in
Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 1987, p. 819 s. e M. CHIAVARIO, Pro-
cesso e garanzie della persona, vol. I, Milano, Giuffrè, II ed., 1982, p. 20 s., che, fin dalla
prima edizione del 1976 (p. 25 s.), evidenziava la necessità di individuare criteri di tipo ma-
teriale per definire tale concetto, onde evitare che per questo aspetto « il ‘diritto ad un giusto
processo’ finisca per ridursi ad una vuota formula » (p. 27). Sulla nozione ibrida di ‘‘legge’’
(comprendente diritto legislativo e giurisprudenziale), cfr. A. BERNARDI, ‘‘Nessuna pena
senza legge’’, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, a cura di S. BARTOLE - B. CONFORTI - G. RAIMONDI, Padova, Ce-
dam, 2001, p. 249 s. e le osservazioni che abbiamo fatto sulla fecondità di una tale conce-
zione allargata della legalità, per elaborare dei rimedi al problema della retroattività delle
sentenze penali in malam partem, nel saggio Penser l’impensable: le principe de la non-ré-
troactivité du jugement pénal in malam partem. La perspective italienne, in Revue de droit
de l’ULB, 2002, n. 26, p. 59 s. (ora anche in Diritto e questioni pubbliche, 2003, n. 3, sul sito
www.dirittoequestionipubbliche.org). Relativamente al tema del contraddittorio e alla no-
zione di testimone, si rinvia a M. VOGLIOTTI, La logica floue della Corte europea dei diritti
dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle ‘‘testimo-
nianze anonime’’, in Giur. it., 1998, c. 851 s., a cui si può aggiungere una recente sentenza
della Corte europea, Lucà c. Italia, 27 febbraio 2001, che ha rifiutato l’argomento formali-
stico, mirante ad eludere i principi fissati dalla Corte in tema di letture di verbali di testimo-

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mentazioni delle parti non hanno mancato di prospettare. Non a caso, è proprio
traendo spunto dall’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea e dagli ef-
fetti di armonizzazione da essa indotti nella trama normativa delle procedure na-
zionali che il promotore di un’importante ricerca comparatistica ha voluto scor-
gere il delinearsi, tra i paesi membri del Consiglio d’Europa, dei « tratti principali
di un modello che, lasciando da parte l’antitesi storica tra accusatorio e inquisito-
rio, potrebbe trovare la sua qualificazione mediante il solo aggettivo impiegato al
riguardo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: ‘‘contraddittorio’’ » (9).

L’emergere in Europa di questa piattaforma processuale comune in-


torno al valore etico ed epistemologico del contraddittorio (10), l’ibridi-
smo e il pragmatismo della nascente giustizia penale internazionale ed il
trend — da più parti segnalato come frutto della sinergia di fattori etero-
genei — verso una convergenza delle due tradizioni processuali occiden-
tali (11), sembrerebbero suggerire l’idea che processo ‘‘giusto’’ (o équita-
ble o fair) sia sinonimo di processo ibrido e flessibile. Tale modo di conce-
pire il processo, improntato a pragmatismo e aperto al ‘‘métissage’’ giuri-
dico (12), potrebbe fornire utili suggerimenti per ripensare i sistemi pro-

nianze sul presupposto che, nel caso in esame, non si trattasse di deposizioni di un testimone
in senso tecnico, ma di deposizioni di un coimputato (§ 41).
(9) M. DELMAS-MARTY, Verso una prossima tappa, in Procedure penali d’Europa, a
cura di M. DELMAS-MARTY, II ed. it. coord. da M. CHIAVARIO, Padova, Cedam, 2001, p. 697
(Procédures pénales d’Europe, Paris, PUF, 1995).
(10) Su questa duplice valenza del principio del contraddittorio v., specialmente, L.
FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, pp. 629-
632, P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale II.
Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, GIAPPICHELLI, 1992, p. 47 s. e G. UBERTIS, La
ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G.
UBERTIS, Milano, Giuffrè, 1992, spec. pp. 13 e 15.
(11) Cfr., sul punto, gli atti della Conferenza internazionale tenutasi a Siracusa dal
16 al 20 dicembre 1997 in occasione del 25o anniversario dell’Institut Supérieur Internatio-
nal de Sciences Criminelles, pubblicati col titolo significativo Les systèmes comparés de ju-
stice pénale: de la diversité au rapprochement, in Nouvelles études pénales, 1998, Toulouse,
Erès, 1998.
(12) Uno dei limiti dell’attuale giustizia penale internazionale è di aver coinvolto, nel
processo di ibridizzazione delle forme di giustizia, i soli modelli occidentali. Questo vizio et-
nocentrico ha impedito, alla comunità giuridica internazionale, di confrontarsi proficua-
mente con altre tradizioni giuridiche che, non solo per tipologie delittuose minori (quelle
‘‘gestite’’ in alcuni ordinamenti nazionali dalle diverse forme di mediazione), ma anche per
crimini di massa come quelli di competenza della giustizia penale internazionale, sembrereb-
bero fornire soluzioni più adeguate rispetto a quelle proprie alla forma di giustizia espressa
dalla modernità occidentale. Cfr., ad esempio, l’esperienza delle commissioni ‘‘verità e ricon-
ciliazione’’ o il recupero, in Ruanda, di una forma tradizionale di giurisdizione, il ‘‘gacaca’’,
per fornire al genocidio del 1994 una risposta giuridica più ‘‘giusta’’ ed efficiente di quella
che potrebbe fornire il modello occidentale di giustizia seguendo il quale, ai ritmi dei primi
anni di svolgimento dei processi, ci sarebbe voluto più di un secolo per giudicare tutti i dete-
nuti delle carceri ruandesi (v. amplius, M. VOGLIOTTI, Quale giustizia per il genocidio? La
soluzione ‘‘gacaca’’ in Ruanda, di prossima pubblicazione in La legisl. pen, 2003, n. 2). Una

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cessuali nazionali che, in questo volgere di millennio, mostrano sempre


più evidenti segni di affanno ad amministrare la giustizia in modo ‘‘giu-
sto’’ ed efficiente.

2. Purezze e rigidità della giustizia penale italiana. — La sensibiliz-


zazione nei confronti dello ‘‘stile’’ della giustizia penale internazionale ri-
sulta ancora più urgente in un contesto come quello italiano che appare
ancora largamente condizionato da un approccio formalistico e ‘‘puro’’ ai
temi del processo e alla questione delle garanzie (13). Sintomi di questa
cultura processuale incline all’« armonia sistematica » (14) e riluttante ad
assumere un atteggiamento non dogmatico, sfumato, nei confronti delle
garanzie, sono la codificazione del 1988 (da taluno provocatoriamente de-
finita « metafisica » (15)) e il pendolarismo normativo che ha ritmato l’e-
sistenza del codice. La prima codificazione repubblicana è infatti matu-
rata in un clima culturale che, fatte le debite ed importanti eccezioni, è
stato condizionato da un approccio ideologico e da apriorismi modelli-
stici (16) i quali — calati all’interno di una comunità scientifica sprovvista
di adeguate conoscenze del sistema adversary nella sua globalità ed effetti-
vità (17) e priva di dimestichezza con il metodo comparatistico (18) —

riflessione simile si presta ad essere fatta anche a proposito dell’esperienza italiana di ‘‘Tan-
gentopoli’’. Probabilmente, se ci fosse stata una maturazione culturale e giuridica adeguata,
si sarebbe potuta elaborare una soluzione a questo fenomeno di massa più soddisfacente
(cioè meno lacerante il tessuto sociale ed istituzionale, meno diseguale, più rapida ed in
grado di evitare la sindrome del capro espiatorio) rispetto al processo penale classico, conce-
pito per rispondere a fatti criminosi individuali. Ma a volerlo proseguire, questo discorso che
si interroga sui fondamenti di giustizia della giurisdizione penale internazionale e sui limiti
del processo penale classico ci porterebbe troppo lontano dal tema di questo lavoro. Cfr., co-
munque, sul paradigma nascente della ‘‘giustizia ricostruttiva’’ (restorative justice), L. WAL-
GRAVE, La justice restaurative: à la recherche d’une théorie et d’un programme, in Crimino-
logie, 1999, p. 7 s. e A. GARAPON, La justice reconstructive, in A. GARAPON - F. GROS - T.
PECH, Et ce sera justice. Punir en démocratie, Paris, Odile Jacob, 2001, p. 245 s.
(13) Cfr., a questo proposito, E. AMODIO, Il processo penale tra disgregazione e recu-
pero del sistema, in Jud. pen., 2003, p. 16, che si augura uno « stemperamento del rigido
formalismo che caratterizza attualmente i nostri studi ». Sulla difficoltà della cultura proces-
sualistica italiana a distinguere ‘‘valori’’ e ‘‘miti’’, v. M. CHIAVARIO, Cinque anni dopo
(1993), in Procedura penale. Un codice tra ‘‘storia’’ e cronaca, II ed., Torino, Giappichelli,
1996, pp. 165-166.
(14) E. FASSONE, Garanzia e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in
Quest. giust., 1991, p. 125.
(15) Ibidem.
(16) Su questo ‘‘clima’’ v. E. AMODIO, Il modello accusatorio statunitense e il nuovo
processo penale italiano: miti e realtà della giustizia americana, in Il processo penale negli
Stati Uniti d’America, a cura di E. AMODIO e M. C. BASSIOUNI, Milano, Giuffrè, 1988, p.
VII s.
(17) Durante la lunga e travagliata fase di gestazione del codice, i rari studi ‘‘pionie-
ristici’’ del sistema di common law non riuscirono a far breccia in una comunità processual-
penalistica ‘‘figlia della sua epoca’’, e cioè ancora condizionata dalla chiusura prodotta dal

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hanno finito per compromettere l’esito della riforma ispirata ai « caratteri


del sistema accusatorio » (art. 2 della legge delega 16 agosto 1987, n. 81).
Quest’ultima, lungi dall’essere stata preparata da un’indagine attenta e ap-
profondita dei pesi e dei contrappesi presenti negli ordinamenti impron-
tati al modello adversary, è stata guidata in larga misura da ragioni « poli-
tico-filosofiche » (19).
Il modello accusatorio veicolava, infatti, nell’immaginario del proces-
sualpenalista italiano, un tipo di processo conforme ai valori democratici
e liberali della Costituzione repubblicana, che avrebbe permesso di chiu-
dere una stagione processuale inquinata dalle radici autoritarie del codice
Rocco. Del resto, a riprova dell’importanza del fattore ideologico nel con-
cepimento della riforma, si può riportare la seguente affermazione di uno
dei padri del codice, che ricorda come « la logica che ha ispirato la scelta
del modello è stata quella della reazione ad un passato da cancel-
lare » (20). La superiorità in termini di civiltà giuridica (21) che il sistema

processo di statalizzazione del diritto, inaugurato, come si sa, dalle codificazioni ottocente-
sche e dai nazionalismi romantici. In Italia, poi, questa chiusura — allentata dal fervore ri-
formista di fine XIX e inizio XX secolo, non supportato, però, da adeguato metodo compa-
ratistico e spesso mosso da intenti apologetici all’origine di fraintendimenti del dato legisla-
tivo straniero — si fa soffocante con la Scuola positiva e il fascismo (v., in proposito, E.
AMODIO, La procedura penale comparata tra istanze di riforma e chiusure ideologiche
(1870-1989), in questa Rivista, 1999, p. 1338 s.). Tra quelle prime aperture va segnalato,
innanzitutto, il lavoro di M. SCAPARONE, Common law e processo penale, Milano, Giuffrè,
1974, a cui hanno fatto seguito — sempre nella fase ante riforma — contributi più recenti
come quelli di V. FANCHIOTTI, Origini e sviluppo della giustizia contrattata nell’ordinamento
statunitense, in questa Rivista, 1984, p. 56 s. e, del medesimo autore, Lineamenti del pro-
cesso penale statunitense, Torino, Giappichelli, 1987, di R. GAMBINI MUSSO, Il plea bargai-
ning fra common law e civil law, Milano, Giuffrè, 1985, di G. CORDERO, La testimonianza
in diritto inglese, in questa Rivista, 1985, p. 193 s. e di M. PAPA, Contributo allo studio delle
rules of evidence nel processo penale statunitense, in Ind. pen., 1987, p. 299 s.
(18) Cfr., a riguardo, E. GRANDE, Imitazione e diritto: ipotesi sulla circolazione dei
modelli, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 85-86 e E. AMODIO, Processo penale, in Giuristi e
legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto,
Atti dell’incontro di studio tenutosi a Firenze dal 26 al 28 settembre 1996, a cura di P.
GROSSI, Milano, Giuffrè, 1997, p. 374, che sottolinea come la comparazione abbia « rivestito
un ruolo marginale nella messa a punto del modello ». Dal canto suo, M. CHIAVARIO, Cinque
anni dopo, cit., p. 165, nota che « mentre l’antitesi ‘accusatorio-inquisitorio’ ha concentrato
sin troppi entusiasmi (spesso superficiali) non sono stati molti i tentativi di fondare, su valu-
tazioni davvero attente delle realtà normative ed esperienziali di altri paesi, puntuali innova-
zioni. La cultura processualpenalistica (quella accademica non meno di quella degli opera-
tori) sembra, nel complesso, ancora assai lontana dalla capacità di guardare con discerni-
mento — e senza troppa dipendenza dagli stereotipi — a quanto accade altrove ».
(19) Così, E. GRANDE, Imitazione, cit., p. 47 s.
(20) E. AMODIO, Processo penale, cit., p. 375.
(21) Questa superiorità ideologica del sistema accusatorio si rinviene, del resto, in un
po’ tutta la comunità processualistica internazionale e ha condizionato i lavori preparatori
della Corte penale internazionale. V., a proposito di questa ‘‘mauvaise presse’’ del sistema
inquisitorio, G. BITTI, Les tribulations de la justice pénale internationale au 20ème siècle: la

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accusatorio poteva vantare agli occhi di giuristi che non potevano non es-
sere condizionati dall’abbinamento fascismo-rito inquisitorio, ha finito per
generare « eccessi di zelo ideologico » che si sono tradotti nella creazione
di norme « con una funzione di mero ripudio degli istituti del vecchio si-
stema o con portata precipuamente demolitoria di concetti ritenuti ideolo-
gicamente inquinanti » (22). In definitiva, quindi, ciò che circola nel caso
italiano non sembrano essere « né le regole né le categorie concettuali del
sistema di riferimento, quanto piuttosto un messaggio di tipo politico-filo-
sofico associato al modello stesso ed autonomo rispetto alla realtà giuri-
dica di riferimento » (23).
La circolazione del ‘‘mito’’ accusatorio piuttosto che del suo ‘‘logos’’
non poteva che determinare una scrematura del modello per espungervi
quelle componenti che non apparivano in linea con la sua immagine agio-
grafica e con certe sensibilità e abitudini inveterate nella mentalità civi-
lian. Così, mentre si è disposti a recepire istituti e principi ‘‘virtuosi’’, che
appaiono l’espressione di una cultura giuridica liberale, egualitaria e tra-
sparente, come la passività del giudice di fronte all’autonomia probatoria

création d’une Cour criminelle internationale permanente: affrontement ou conciliation des


dogmes en procédure?, in Les systèmes comparés, cit., p. 426, che sottolinea come vi sia,
collegato alla procedura inquisitoria, « comme un ‘sentiment de culpabilité’ si bien que l’on
préfère laisser le champ libre aux défenseurs, bien plus actifs, de la procédure accusatoire,
qui ne demandent pas mieux ».
(22) Così, ancora E. AMODIO, ibidem, pp. 375-376, che porta come esempi l’« horror
hereditatis rispetto al giudice istruttore », alla radice della definizione di una « figura di Gip
totalmente asettica » e l’ostracismo lessicale nei confronti del concetto di ‘‘verità’’, in quanto
rappresentava « l’emblema del rito inquisitorio ». A questi esempi si potrebbe aggiungere,
nella legge delega del 1974, l’atteggiamento di ‘‘astio’’ nei confronti della fase istruttoria (in-
dicata generalmente dai partecipanti ad un forum dedicato al nuovo processo penale e pro-
mosso, nel 1976, dalla rivista Democrazia e diritto, p. 59 s., come una delle cause principali
della crisi della giustizia penale dell’epoca) e di sopravvalutazione delle potenzialità del di-
battimento, atteggiamento che aveva condizionato non poco la previsione di un irrealistico
termine perentorio di soli trenta giorni per lo svolgimento delle indagini preliminari relative
a qualsiasi imputazione (a questo proposito, M. CHIAVARIO notava, in occasione di quel fo-
rum, p. 83, che la tenuta del nuovo sistema era subordinata alla previsione di forme di ‘‘pro-
cesso sommario’’ alternative al dibattimento, forme che vedranno poi la luce nella seconda
legge delega). Ad avviso di E. AMODIO, da questi « eccessi di zelo ideologico » e di « pulizia
linguistica dettati da furori ideologici » sono « scaturite reazioni che non hanno tardato a
manifestarsi » e che hanno creato « problemi nell’interpretazione » del nuovo dettato norma-
tivo. Uno di questi problemi esegetici si è manifestato, ad esempio, proponendo il ‘‘principio
dispositivo’’ come uno dei pilastri del nuovo edificio probatorio (v., in proposito, M. CHIA-
VARIO, Cinque anni dopo, cit., p. 161).
A riprova dell’importanza che ha avuto il fattore ideologico nel concepimento della ri-
forma, si può citare — per quanto riguarda la figura del giudice istruttore — il caso francese.
Qui, in assenza di quell’eredità scomoda, la proposta di abolire la figura del juge d’instruc-
tion — avanzata dalla Commission justice pénale et droits de l’homme (La mise en état des
affaires pénales. Rapports, Paris, La Documentation Française, 1991) — non ha ricevuto il
necessario sostegno da parte della comunità giuridica francese.
(23) E. GRANDE, Imitazione, cit., p. 86.

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di parti uguali, la cesura — segnata da uno zelo lessicale che caratterizza


un po’ tutto il linguaggio del codice — tra una fase procedurale preordi-
nata alla ricerca degli elementi di prova e una fase processuale di forma-
zione della prova, i principi dell’oralità e del contraddittorio « per la
prova » (24), l’esame incrociato in dibattimento e un sistema rigido di ru-
les of exclusions, non si è disposti a rinunciare o a temperare istituti colle-
gati alla tradizione inquisitoria come la motivazione e il giudice professio-
nale, il diritto al silenzio dell’imputato-testimone (25), la normalità del-
l’appello (la cui natura ‘‘cartolare’’ non poteva che stridere con l’assetto
orale impresso al giudizio di primo grado) (26) e la presunzione d’inno-
cenza fino alla condanna definitiva (27).
Il risultato di questa sovrapposizione dei due modelli (28), decantati
da quelle che apparivano, da un lato, incrostazioni autoritarie e oscuranti-
stiche e, dall’altro, eccessi ‘‘mercantilistici’’ e pragmatici, è stato un corpo
processuale bicefalo destinato, perciò, ad un’esistenza caratterizzata da
una radicale instabilità. Le oscillazioni normative che hanno segnato la
vita del nuovo codice possono essere in gran parte interpretate come la
conseguenza di questo ‘‘vizio’’ ideologico che lo ha tenuto a battesimo.
Così, dopo nemmeno quattro anni di vita, le rigide regole di esclusione

(24) V., per questa locuzione, D. SIRACUSANO, Vecchi schemi e nuovi modelli per
l’attuazione di un processo di parti, in La legisl. pen., 1989, p. 84.
(25) Sull’incoerenza tra la tutela del diritto al silenzio dell’imputato testimone e la
salvaguardia del contraddittorio, v., specialmente, P. TONINI, Il diritto a confrontarsi con
l’accusatore, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 1506 s. e V. GREVI, Il diritto al silenzio dell’impu-
tato sul fatto proprio e sul fatto altrui, in questa Rivista, 1998, p. 1129 s.
(26) Cfr., tra i primi che hanno messo in chiara luce questa anomalia, G. NEPPI MO-
DONA, Processo accusatorio e tradizioni giuridiche continentali, in Il nuovo codice di proce-
dura penale visto dall’estero, Atti del Seminario di Torino (4-5 maggio 1990), a cura di M.
CHIAVARIO, Milano, Giuffrè, 1991, p. 263 s. e, in particolare, pp. 269-270 e E. FASSONE,
L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Quest. giust., 1991, p. 623 s.
(27) Analoga impostazione è stata adottata in occasione di un’altra riforma conno-
tata da forti tinte ideologico-politiche (la c.d. introduzione dei principi del ‘‘giusto processo’’
nell’art. 111 della Costituzione, da parte dell’art. 1 l. cost. 23.11.1999, n. 2, su cui v., in par-
ticolare, M. CHIAVARIO, Giusto processo. II Processo penale, in Enciclopedia giuridica Trec-
cani, 2002, Agg. X, p. 1 s. ed E. MARZADURI, La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contin-
genti e ricerca di un modello costituzionale del processo penale, in La legisl. pen., 2000, p.
755 s.). Come sottolinea opportunamente V. GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello
costituzionale di ‘‘giusto processo’’ penale (tra ‘‘ragionevole durata’’, diritti dell’imputato e
garanzia del contraddittorio), in Pol. del dir., 2000, p. 434, tale trapianto normativo — effet-
tuato senza una chiara consapevolezza della complessa opera di bilanciamento delle garanzie
previste nell’art. 6 della Convenzione ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo —
ha prodotto un « cumulo di previsioni garantistiche tra loro giustapposte » e provenienti da
« tradizioni giuridiche e culturali diverse, le une più o meno artificiosamente collocate ac-
canto alle altre nel medesimo contesto, ma in assenza di qualunque rapporto preordinato di
concatenazione e di contemperamento ».
(28) Di questo si è infatti sostanzialmente trattato, non di una loro ibridizzazione
come nel caso della giustizia penale internazionale.

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probatoria di ispirazione accusatoria hanno finito per saltare entrando in


contatto con una diversa forma mentis degli operatori processuali e, so-
prattutto, con un sistema istituzionale sostanzialmente estraneo a quelle
regole. Infatti, diversamente dall’ordinamento d’origine, il sistema italiano
era, tra le altre cose, privo della giuria e dotato della garanzia della moti-
vazione, non consentiva di ‘‘immunizzare’’ il testimone dell’accusa e di
derubricare l’imputazione (charge bargaining) a causa dell’obbligatorietà
dell’azione penale, impediva di trasformare in teste l’imputato che deci-
desse di non avvalersi della facoltà di non rispondere, finendo così per sa-
crificare il diritto al contraddittorio sugli altari di una concezione massi-
malistica del diritto al silenzio che si giustificava all’interno dell’originario
impianto inquisitorio, ma che avrebbe richiesto una revisione in seguito
all’adozione del metodo probatorio adversary (29). A partire dalla ‘‘rivo-
luzione’’ del 1992 (30), si è poi susseguita tutta una serie di interventi
della Corte costituzionale e del legislatore che, invece di limare le garanzie
dei due modelli per assicurare un ragionevole bilanciamento della com-
plessità dei valori in tensione nella giurisdizione e di attribuire agli attori
del processo dei margini di manovra per specificare nel caso concreto
quell’opera di bilanciamento in astratto che il legislatore avrebbe dovuto
compiere, hanno spinto il pendolo del processo ora verso l’una, ora verso
l’altra delle due anime, impedendo al sistema di raggiungere progressiva-
mente un accettabile equilibrio ed una ragionevole stabilità anche e so-
prattutto attraverso le sue dinamiche interne (31).
Diversamente da questo modus operandi, l’esperienza della giustizia
penale internazionale (allargata alla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo) invita il giurista municipale, da un lato, a rifuggire
da impostazioni concettualistiche che muovono da modellistiche astratte
invece che da problemi concreti e dalle peculiarità istituzionali e culturali
di un dato ordinamento e, dall’altro lato — come testimonia l’evoluzione
del sistema processuale del Tribunale per la ex-Yugoslavia — lascia inten-
dere che le regole del processo necessitano di un certo ‘‘gioco’’ che per-

(29) Come sottolinea E. GRANDE, Imitazione, cit., p. 111, « svuotato del suo signifi-
cato originario, il diritto delle prove anglo-americano circola nel sistema italiano a livello
simbolico ». La complessa architettura delle rules on evidence del sistema americano è, in-
fatti, da un lato, strettamente collegata alla presenza della giuria e all’assenza di motivazione
della decisione sul fatto e, dall’altro, è la conseguenza del monopolio assegnato alle parti
sulla raccolta e sulla produzione delle prove.
(30) Per una particolare sottolineatura di questa svolta, v. P. FERRUA, Studi sul pro-
cesso penale II, cit.
(31) Nel saggio Faut-il récupérer aidos pour délier Sisyphe? A propos du temps clos
et instable de la justice pénale italienne, in L’accélération du temps juridique, sotto la dir. di
Ph. GÉRARD - F. OST - M. VAN DE KERCHOVE, Bruxelles, Bruylant, 2000, p. 661 s., si è analiz-
zata questa ‘‘sindrome di Sisifo’’ del processo penale italiano attraverso la vicenda emblema-
tica rappresentata dalle oscillazioni normative dell’art. 513 del c.p.p., cercando di coglierne
le ragioni e di prospettare vie d’uscita.

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metta ai suoi attori di adattarle alle peculiarità delle diverse vicende del
mondo della vita. Il processo, infatti, più di ogni altro campo del diritto, è
soggetto al learning by doing, alla necessità — se vuole essere ‘‘giusto’’ —
di mostrarsi sensibile alle sfumature dei casi, sia per evitare di semplifi-
care eccessivamente la complessità valoriale delle questioni che deve risol-
vere sia per poter reagire a condotte abusive messe in opera tramite usi
formalistici delle regole (32).
Come chiariva già Aristotele nell’Etica Nicomachea, il ‘‘giusto lega-
le’’ è differente dal ‘‘giusto giudiziale’’. Il primo attiene al generale e la
sua giustizia non è inficiata da tipologie di casi che — nella loro concre-
tezza — sembrano negarla. La legge si attiene « a ciò che è per lo più » ed
eventuali carenze evidenziate da particolari episodi della vita non la ren-
dono « per niente meno retta: l’errore non è infatti nella legge né nel legi-
slatore, ma nella natura del fatto » (Et. Nic., 1137 b 15). Alterazioni degli
equilibri processuali non possono che manifestarsi, perciò, quando la
legge abbandona il suo campo naturale di giustizia per occuparsi diretta-
mente dell’ambito di giustizia che non gli appartiene. Ciò avviene quando
il legislatore, nella speranza di ridurre l’attività giurisdizionale a mera tec-
nica, si munisce di un apparato normativo il più dettagliato possibile, os-
sessionato dalla volontà di risolvere a priori tutte le questioni che il pro-
cesso pone. Quest’hybris del legislatore, che si occupa più del ‘‘caso’’ che
della legge e ambirebbe ad essere sia giudice che legislatore, lo obbliga a
riscrivere continuamente le norme per tentare di anticipare o per rincor-
rere i multiformi casi della vita, finendo così per rendere ‘‘ingiusti’’ sia il
‘‘giusto legale’’ sia il ‘‘giusto giudiziale’’ (33). Quest’ultimo necessita di
un margine di apprezzamento locale, appositamente ritagliato dalla legge,
per evitare di generare strappi alle regole (spesso causa, a loro volta, di ul-
teriori lacerazioni normative o di tensioni istituzionali) o ingiustizie do-
vute a decisioni che, a causa della rigidità delle regole, sono indotte a pri-
vilegiare certi interessi o valori a discapito di altri egualmente importanti.

3. Il dispositivo ibridizzante dell’equità. — L’analisi del corpo nor-


mativo della giustizia penale internazionale sembra suggerire che l’ideale
regolativo intorno al quale i diversi stili procedurali si ibridizzano sia con-
densato nel dispositivo etico ed epistemologico dell’equità (34).

(32) V., sul tema dell’abuso del processo, le considerazioni e i rinvii bibliografici ef-
fettuati nel nostro Le metamorfosi dell’incriminazione. Verso un nuovo paradigma per il
campo penale?, in Politica del diritto, 2001, pp. 660-661.
(33) Contro quest’hybris degli attori della giustizia, che li spinge a fuoriuscire dai
loro limiti generando laceranti squilibri istituzionali, si è sottolineata la necessità di recupe-
rare — prendendo spunto da un passo del Protagora di Platone — la virtù opposta dell’ai-
dos, che evoca un’area semantica prossima a quella espressa da termini come ‘‘rispetto’’,
‘‘pudore’’, ‘‘self-restraint’’. V., in proposito, il nostro saggio Faut-il récupérer aidos, cit.
(34) Si è preferito rendere i concetti di ‘‘équité’’ e di ‘‘fairness’’ con il ‘‘venerando

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Sono infatti molteplici, e contrappuntano snodi processuali cruciali, le epifa-


nie di questo concetto nelle regole della Corte penale internazionale e dei Tribu-
nali ad hoc. La centralità di tale principio nell’economia del processo penale inter-
nazionale è inoltre affermata senza mezzi termini in un obiter dictum pronunciato
dal TPIY nel caso Sikirica, a detta del quale « l’obligation primordiale d’une Cham-
bre » è « de veiller à ce que le procès soit équitable » (35).
Per quanto riguarda la CPI, l’art. 64.2 dello Statuto affida, innanzitutto, ai
giudici il compito di vegliare « à ce que le procès soit conduit de façon équitable ».
In seguito, l’art. 67.1 assicura all’accusato la garanzia generale che « sa cause soit
entendue [...] équitablement » e l’art. 68, dedicato alla protezione e alla partecipa-
zione al processo delle vittime e dei testimoni, aggiunge che le misure di prote-
zione « ne doivent être ni préjudiciables ni contraires [...] aux exigences d’un pro-
cès équitable » (§ 1) e che la non divulgazione di elementi di prova che rischiano
di « mettre gravement en danger un témoin ou les membres de sa famille » non
deve essere contraria « aux exigences d’un procès équitable » (§ 5). Infine, l’art.
69.4 precisa che la Corte, prima di ammettere un elemento di prova, deve tener
conto « de la possibilité qu’il nuise à l’équité du procès ou à une évaluation équi-
table de la déposition d’un témoin ». In modo analogo, lo Statuto del TPIY af-
ferma, nel suo art. 20.1, che il Tribunale « veille à ce que le procès soit équitable »
e, nel capoverso della norma seguente, si ritrova il principio secondo il quale l’ac-
cusato ha il diritto « à ce que sa cause soit entendue équitablement ». Quanto al
regime della prova, si deve leggere la R 89 del Regolamento di procedura e prova.
La lettera B) di questa norma rinvia il giudice, in caso di lacune, al principio del-
l’equità e la lettera D) affida alla Camera il potere di escludere « tout élément de
preuve dont la valeur probante est largement inférieure à l’exigence d’un procès
équitable ».
A questi sistemi si deve aggiungere almeno quello della Corte europea dei di-
ritti dell’uomo che, pur non essendo una giurisdizione penale, ha fornito, come si
è già ricordato, un contributo fondamentale per l’elaborazione di un modello inte-
grato di processo penale (36). Com’è noto, nella giurisprudenza di questa Corte, il
principio del ‘‘procès équitable’’ (o di ‘‘fair trial’’, nella versione inglese), scolpito
nella rubrica dell’art. 6 della Convenzione europea, funge da filtro finale attra-
verso cui tutte le sfumature giuridico-fattuali del caso sono testate per saggiarne la
conformità con la Convenzione. Nella prospettiva della Corte, la somma delle va-
rie garanzie contemplate nell’art. 6 e in altre norme della Carta non esaurisce mai

concetto’’ di ‘‘equità’’ (così G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, p. 205)
in luogo dell’aggettivo ‘‘giusto’’ con cui tradizionalmente viene reso, nel lessico processuali-
stico italiano, il concetto espresso da quei termini. Nelle traduzioni ufficiali della Conven-
zione europea, il termine ‘‘équité’’ è tradotto, comunque, con ‘‘equità’’.
(35) Procureur v. Sikirica et alii (IT-95-8-T) Décision relative à la requête de l’accu-
sation aux fins de verser au dossier des comptes rendus en application de l’article 92bis du
Règlement, 23.5.2001, § 4.
(36) Analogo risalto al concetto di équité-fairness è espresso dall’art. 14 c. 1 del
Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e, re-
centemente, dall’art. 47 c. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata
il 7 dicembre 2000: « Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitable-
ment ».

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la ricchezza normativa di questo concetto olista, la cui funzione precipua non con-
siste tanto nel riassumere una serie di valori etico-giuridici quanto nell’esprimere
un certo atteggiamento nei confronti dei valori.

Come accennato, l’equità si compone di una radice etica e di una ra-


dice epistemologica. In quanto concetto etico, l’equità esprime l’esigenza
morale della convivenza della complessità dei valori che si affrontano
nella giurisdizione. In quanto concetto epistemologico, essa suggerisce lo
strumento logico che consente il bilanciamento di quei valori.
3.1. La componente etica... — Nella prima accezione, dunque, l’e-
quità indica una postura etica in favore del contemperamento dei valori.
Essa rifiuta moduli processuali strutturati secondo una scala assiologica
organizzata a partire da un centro di interessi privilegiato. In questa con-
dizione di ‘‘perdita del centro’’ (sia esso rappresentato dal focus ‘‘imputa-
to’’ o da quello opposto della ‘‘difesa sociale’’) il processo ispirato all’e-
quità si mostra coerente con il pluralismo e la complessità delle nostre de-
mocrazie contemporanee. In una società come la nostra in cui l’individuo
non deve più solo e tanto difendersi dal Leviatano dello Stato moderno
(del resto in costante declino), quanto piuttosto da offese provenienti da
poteri diffusi nella società civile nazionale ed internazionale, le regole del
processo devono essere congeniate in modo tale da fornire une protezione
adeguata a tutti gli interessi coinvolti. L’impostazione tradizionale fondata
sulla coppia concettuale ‘‘cittadino vs Stato’’ — intorno alla quale si è for-
mato l’immaginario giuridico moderno e si è concepito lo strumento pro-
cessuale ora in favore dell’uno, ora in favore dell’altro dei due poli —
deve essere abbandonato a vantaggio di una concezione pluralistica che
sappia offrire una tutela adeguata a tutti i centri d’interesse rilevanti. Non
si tratta più di chiedersi se privilegiare a priori questo o quell’interesse, re-
stando prigionieri di una logica ‘‘binaria’’ non più in linea con l’attuale
complessità, ma di sforzarsi di far convivere ragionevolmente questo e
quell’interesse.
Tale impostazione poliprospettica nei confronti dei valori pone fine
alla ‘‘solitudine’’ processuale dell’imputato e popola la scena del processo
di altri attori protagonisti, intorno a un giudice corifeo delle istanze di
‘‘giustizia’’ della comunità, filtrate — beninteso — dai principi costituzio-
nali e dalle regole del discorso ‘‘razionale’’ istituzionalizzate nel pro-
cesso (37). Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

(37) A questo proposito si può segnalare il diverso atteggiamento che ha ispirato i re-
dattori della riforma dell’art. 111 della Costituzione italiana. Come sottolinea V. GREVI,
Spunti problematici, cit., p. 431, questa riforma è caratterizzata da « un certo squilibrio
nella costruzione delle garanzie relative al ‘giusto processo’, in quanto esse risultano enun-
ciate secondo un’ottica prioritariamente attenta alla posizione dell’imputato: cioè, in so-
stanza, secondo un’ottica di garanzie soggettive anziché di garanzia oggettiva ». In una pro-

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e del Tribunale per la ex Yugoslavia lo spettro di interessi che fa capo al-


l’accusato è sempre temperato da fasci d’interessi appartenenti ad altre fi-
gure processuali come la vittima, il testimone e l’organo dell’accusa (38).

Così, ad esempio, la Corte europea, nel pronunciarsi sulla compatibilità delle


testimonianze anonime con il principio del procès équitable, ha stabilito che que-
sto principio impone che « dans les cas appropriés, les intérêts de la défense soient
mis en balance avec ceux des témoins ou des victimes appelés à déposer » (39). E
il TPIY, sempre sullo stesso tema, le fa eco chiarendo che « the interest in the abi-
lity of the defendant to establish facts must be weighed against the interest in the
anonymity of the witness. The balancing of these interests is inherent in the no-
tion of a ‘‘fair trial’’. A fair trial means not only fair treatment to the defendant
but also to the prosecution and to the witnesses » (40). Analoga sensibilità nei
confronti della tutela di interessi facenti capo a soggetti diversi dall’imputato è
condivisa dall’art. 22 dello Statuto del TPIY e dall’art. 68 dello Statuto della CPI
che fissa un’articolata serie di misure per assicurare la partecipazione al processo
e la protezione alle vittime e ai testimoni.

3.2. ... e quella epistemologica. — Questa esigenza etica di ‘‘mitez-


za’’ (41) necessita, per essere implementata, di una logica della giurisdi-
zione che rievoca quel concetto aristotelico di ‘‘epieikeia’’, tradizional-
mente tradotto, appunto, con il termine di ‘‘equità’’. Siffatto dispositivo,
che a partire dalle codificazioni ha subito un vero e proprio ostracismo
giuridico, esprime il favore per una logica della gradazione che permetta
alle regole di adattarsi ai chiaroscuri degli eventi e al giudice e alle parti di
gestire in modo soddisfacente la complessità degli interessi coinvolti nel
caso concreto. Infatti, « di ciò che è indeterminato, è indeterminata anche
la regola, come il regolo di piombo usato nelle costruzioni di Lesbo: il re-
golo si adatta, infatti, alla forma della pietra, non sta rigido » (Et. Nic.
1137 30). La logica fuzzy o floue rifiuta l’impostazione binaria per cui un

spettiva per certi versi analoga, M. CHIAVARIO, Giusto processo, cit., p. 2, mette in guardia
dal rischio di semplificare la natura prismatica e problematica del concetto di ‘‘giusto pro-
cesso’’, riducendolo al contenuto della revisione dell’art. 111 della Costituzione.
(38) Inoltre, tramite l’istituto dell’amicus curiae, anche esponenti della società civile
possono far sentire la loro voce nel processo penale internazionale.
(39) CEDH, Doorson c. Pays-Bas, 26 marzo 1996, § 70.
(40) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Prosecutor’s Motion Reque-
sting Protective measures for Victims and Witnesses, cit., § 55. Circa la questione del con-
temperamento dei diritti della difesa con l’interesse alla protezione dei testimoni nel quadro
del TPIY v. A. C. LAKATOS, Evaluating the Rules of Procedure and Evidence for the Interna-
tional Tribunal in the Former Yugoslavia: Balancing Witnesses’ Needs Against Defendants’
Rights, in Hastings Law Journal, 1995, n. 46, p. 918 s. e A. M. LA ROSA, Réflexions sur l’ap-
port du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie au droit à un procès équitable, in
Revue générale de droit international public, 1997, p. 962 s.
(41) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 11 s.

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determinato accadimento o appartiene o non appartiene all’alveo seman-


tico della norma, nel presupposto di poter determinare a priori il luogo di
passaggio della frontiera giuridica. Essa consiste, invece, nell’ammettere
che « entre l’appartenance (principe d’identité) et la non-appartenance
(principe du tiers exclu), il y a place pour des situations intermédiaires
correspondant à des degrés d’appartenance. Dépassant le principe de non-
contradiction lié au raisonnement binaire, la logique floue admet l’appar-
tenance partielle, enveloppant ainsi la logique formelle qui réappara¢t
aux deux extrémités de l’échelle de gradation (appartenance nulle ou to-
tale) » (42).
In base a questa logica di tipo ‘‘non-monotonico’’, la frontiera che se-
para ciò che sta ‘‘dentro’’ il diritto da ciò che ne è escluso (ciò che è con-
forme o difforme, per esempio, rispetto al principio del ‘‘procès équita-
ble’’) non può essere tracciata definitivamente a livello della redazione
delle regole. Essa non è fissa, ma mobile e si definisce nel contesto dialo-
gico del processo solo dopo che si siano evidenziate tutte le sfumature del
caso e si sia dipanata la complessità valoriale della questione che attende
una risposta giuridica. Il diritto, per quanto lo si voglia levigare semanti-
camente, possiede comunque un’area d’indeterminatezza che può essere
in parte colmata solo calando le pretese normative delle regole in una si-
tuazione determinata che ne orienta la soluzione.
Nell’iconografia della giustizia, questo tipo di logica — che è sottesa
a principi come ‘‘ragionevolezza’’ o ‘‘proporzionalità’’, diventati ormai fa-
miliari ai giuristi (43) — privilegia, evidentemente, l’allegoria della bilan-
cia. E, non a caso, molteplici sono i passaggi delle decisioni del TPIY che si
rifanno esplicitamente alla tecnica del bilanciamento degli interessi. Oltre
alla decisione Tadic sull’ammissibilità della testimonianza anonima sopra
ricordata, contrappuntata di continui riferimenti a tale tecnica, si possono
aggiungere i seguenti passi tratti da due decisioni rese nei casi Aleksovski
e Kordic.
Nel primo caso, la Corte doveva pronunciarsi sull’ammissibilità del
verbale di una testimonianza resa in un altro processo. I giudici, dopo
aver riconosciuto che l’ammissione della prova indiretta avrebbe impedito
d’interrogare il testimone, hanno comunque concluso che « cet inconvé-
nient est tempéré dans la présente affaire par le contre-interrogatoire pra-
tiqué dans l’affaire Blaskic et le désavantage que pourrait encore subir

(42) M. DELMAS-MARTY, Vers une autre logique: à propos de la jurisprudence de la


Cour européenne des droits de l’homme, in Dalloz, 1988, chron., p. 223. Su questa logica di
tipo ‘‘non-monotonico’’ e per ulteriori rinvii bibliografici, cfr. M. VOGLIOTTI, La logica floue,
cit.
(43) Il primo, com’è noto, è proprio del lessico della Corte costituzionale italiana,
mentre il secondo appartiene, tra gli altri, a quello della Corte europea dei diritti dell’uomo e
della Corte costituzionale tedesca.

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l’accusé est contrebalancé par celui que subirait l’Accusation si était exclu
le témoignage qu’elle entendait présenter » (44). Ugualmente, nell’altra
decisione, la Camera d’appello — chiamata a pronunciarsi sul ricorso in-
tentato contro l’ammissione di alcuni affidavits ai sensi della R. 94ter, in
seguito abrogata — ha precisato che, per interpretare la regola in que-
stione al fine di attribuirle un ‘‘effetto utile’’, bisogna che una « satisfac-
tory balance is struck between protection of the rights of the accused pre-
served by the safeguards in the prevision and the need to ensure that trial
proceedings are properly and expeditiously conducted » (45).

Questo approccio alle questioni processuali ci riporta direttamente alla tradi-


zione retorica antica e medievale. Prima della rottura epistemologica operata, sul
Continente, dalla modernità (46), la decisione idealtipica non era concepita come
il risultato cogente di un sillogismo, ma il prodotto — più o meno accettabile —
della dialettica processuale e dell’intreccio essenziale del fatto e del diritto. Al cen-
tro dell’attività giurisdizionale non c’era la norma, ma il caso. È in questa ‘‘came-
ra’’ di ibridizzazione che il diritto si metabolizza entrando in contatto con l’accadi-
mento concreto. Nel broccardo ‘‘ex facto oritur ius’’ è contenuta, in nuce, l’idea
per cui il diritto non preesiste completamente al fatto, ma si definisce attraverso il
filtro della questione problematica ricostruita dalle parti e dal giudice. È partendo
dalle « specific circumstances » (47) del caso, evidenziate dalla dialettica proces-
suale in tutte le loro sfumature rilevanti, che il giudice è messo nelle condizioni di
‘‘dire il diritto’’ appropriato a quel determinato contesto, e cioè il diritto ‘‘giusto’’.
Tale concezione dell’attività di ius dicere, che non segue il consueto anda-
mento verticale a cui il penalista è abituato, è evidente nella giurisprudenza del
TPIY. Una significativa manifestazione di questo approccio si ha sul terreno delle
fonti, il quale sembra ricordare la struttura reticolare dell’epoca del Diritto co-
mune (48). Il Tribunale, nell’opera di reperimento del diritto, non percorre la pi-

(44) Prosecutor v. Aleksovski, (IT-95-14/1-AR73), Arrêt relatif à l’appel du Procu-


reur concernant l’admissibilité d’éléments de preuve, cit., § 27. La Corte aggiunge che nel
processo a quo « le témoin a été longuement contre-interrogé dans le cadre de l’affaire Bla-
skic et les conseils de la Défense ont dans les deux affaires un intérêt commun ».
(45) Prosecutor v. Kordic & Cerkez, (IT-95-14/2-AR73.6), Decision on Appeal Re-
garding the Admission into Evidence of Seven Affidavits and One Formal Statement, cit.,
§ 28.
(46) Circa i fattori epistemologici e politico-sociali che sono alla base della forma-
zione del paradigma giuridico moderno v. M. VILLEY, La formation de la pensée juridique
moderne, Paris, Editions Montchretien, IV ed., 1975 e A. CAVANNA, Storia del diritto mo-
derno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1982, p. 193 s.
(47) Così Prosecutor v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Prosecutor’s Motion Re-
questing Protective measures for Victims and Witnesses, cit., § 76. Ma tutta la giurispru-
denza del TPIY è contrassegnata da quest’attenzione costante alle peculiarità del contesto de-
cisionale.
(48) V., in proposito, G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disp. prel. cod. civ.
(1969), in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, Giuffrè, 1981, p. 446 s., che
sottolinea come il rapporto formalmente gerarchico tra lex ed interpretatio finisse, in pratica,
per ribaltarsi a favore dell’interprete (dottore o giudice) a causa del carattere casistico e, per

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ramide delle fonti, ma segue un percorso, non lineare, attraverso un arcipelago di


‘‘auctoritates’’ e ‘‘rationes’’ il cui ordo non è dato da un preciso sistema gerarchico
definito a priori, ma è il risultato — sempre provvisorio — di una laboriosa inda-
gine ricostruttiva tesa ad individuare, hic et nunc, la soluzione giuridica più ade-
guata ai valori e agli scopi della giustizia penale internazionale. Così, ad esempio,
nel caso Tadic, le ‘‘quaestiones’’ relative all’ammissibilità della testimonianza ano-
nima (49) e della hearsay evidence (50) sono risolte attraverso la tessitura di una
complessa trama argomentativa i cui nodi sono rappresentati, di volta in volta,
dalle norme dello Statuto e del Regolamento di procedura e prova del Tribu-
nale (51), dai sistemi processuali dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo, dall’art.
14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dall’art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e dall’interpretazione fornitane dalla Corte europea,
dalla Convenzione americana dei diritti dell’uomo, dall’art. 31 della Convenzione
di Vienna, dai Rapporti del Segretario generale dell’ONU, dal riferimento alle tra-
dizioni di common law e di civil law, dalla legislazione di certi Stati (ad es., per
quanto riguarda la prova indiretta, le United States Federal Rules of Evidence e la
legge sulla prova della Malesia), dalla giurisprudenza di alcune giurisdizioni nazio-
nali (ad es., circa la questione dell’anonimato, sono citate decisioni della Corte Su-
prema di Victoria, in Australia e della Corte d’appello inglese) e dalle pagine della
dottrina. Quest’opera ‘‘rapsodica’’ di cucitura di porzioni della rete giuridica che
esprime l’epos normativo della comunità internazionale mette il Tribunale nelle
condizioni, da un lato, di effettuare una performance ‘‘equa’’ nel caso concreto e,
dall’altro, di far evolvere senza scossoni l’opus processuale la cui integrità ‘‘narra-
tiva’’, controllata dalle parti e dalla comunità scientifica internazionale, deve po-

quanto riguarda il Corpus giustinianeo, vetusto delle leges. Queste — e in particolare le fonti
romane — assolvevano principalmente la funzione di legittimare le costruzioni giuridiche dei
giuristi ispirate da quel concetto chiave che era l’aequitas. La centralità di questo concetto
nel mondo giuridico medievale e il suo significato di ‘‘rerum convenientia’’ (‘‘accordo’’, ‘‘ar-
monia delle cose’’) non possono che stimolare interessanti analogie con l’attuale riscoperta
dell’equità. Tali analogie, che qui non si possono sviluppare per ovvie ragioni, incontrano,
tuttavia, un limite fondamentale. Nel diritto contemporaneo, infatti, la ‘‘convenientia’’ non è
più un ‘‘oggetto’’ presupposto nella natura delle cose (‘‘in rebus consistit’’), ma deve essere
un ‘‘progetto’’ a cui tutti gli attori del diritto devono tendere. Sul significato di lex, interpre-
tatio ed aequitas v. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, Laterza, 1995, p. 135 s.
(49) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Prosecutor’s Motion Reque-
sting Protective measures for Victims and Witnesses, cit.
(50) Prosecution v. Tadic (IT-94-1-T), Décision concernant la requête de la défense
sur les éléments de preuve indirects, 5 agosto 1996.
(51) Tra queste due fonti vi è, formalmente, una gerarchia, ma — data la normatività
lacunosa e vaga dello Statuto — la soluzione giuridica non è il risultato di un processo li-
neare, dall’alto verso il basso, bensì l’effetto di un ‘‘aggrovigliamento’’ di livelli gerarchici e
di fonti eterogenee, pilotato verso l’obiettivo del ‘‘giusto processo’’ (condizione procedurale
per una ‘‘giusta decisione’’) dalle ‘‘rationes’’ dei giudici e degli altri attori processuali che
operano nel contesto argomentativo e fattuale del processo. Sul concetto di ‘‘gerarchie ag-
grovigliate’’ (fenomeno paradossale per cui « quelli che si presume siano livelli gerarchici
ben precisi e netti, inaspettatamente s’intrecciano in un modo che viola i principi gerar-
chici »), per illustrare le dinamiche relazionali proprie di ogni sistema complesso, v. D. R.
HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Milano, Adelphi, 1990, p.
749 (Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid, New York, Basic Books, 1979).

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tersi riscontrare in occasione di ogni nuova performance affinché la legittimità e


l’autorevolezza della Corte restino salde (52). La bussola che orienta costante-
mente il giudice-tessitore è, ancora una volta, il principio del ‘‘procès équitable’’
(o ‘‘fair’’ o ‘‘giusto’’) (53).
Nel sistema dei Tribunali ad hoc, la logica dell’equità trova un’ulteriore mani-
festazione nel potere conferito ai giudici di modificare il Regolamento di proce-
dura e prova. Tale competenza, che — riecheggiando istituti come l’editto pretorio
dell’antica Roma e gli arrêts de règlements dei Parlements francesi dell’Ancien ré-
gime — ci riporta nuovamente all’epoca precedente le codificazioni, ha rappresen-
tato uno strumento di fondamentale importanza per il buon funzionamento del
Tribunale, permettendogli di adattare le regole del processo alle esigenze emerse
dalla prassi (54).
Anche questo aspetto della giustizia penale internazionale potrebbe fornire
suggerimenti utili al giurista municipale. Comunque, pur nell’ipotesi in cui si rite-
nesse preclusa, ai sistemi processuali nazionali, un’esperienza simile — in forme e
modi tutti da immaginare (55) — le comunità giuridiche interne (e il pensiero non
può che andare, di nuovo, a quella italiana) dovrebbero trarre, da questo modo di
concepire il rapporto tra il giudice e le regole del processo, un’ulteriore conferma
dell’opportunità di superare l’equazione moderna ‘‘diritto = legge’’, incomin-

(52) Per l’utilizzo della metafora letteraria della ‘‘rapsodia’’ (dal greco rhaptein ‘‘cu-
cire’’ e oide ‘‘canto’’) per rappresentare la produzione del diritto nelle società contempora-
nee, v. M. VOGLIOTTI, La ‘‘rhapsodie’’: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser
l’écriture juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, in Revue
interdisciplinaire d’études juridiques, 2001, p. 141 s. e ID., De l’auteur au ‘‘rhapsode’’ ou le
retour de l’oralité dans le droit contemporain, ibidem, 2003, p. 115 s. In generale, sul para-
digma della ‘‘rete’’ per rappresentare la struttura del diritto nel mondo contemporaneo, v. F.
OST e M. VAN DE KERCHOVE, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du
droit, Bruxelles, Fusl, 2002.
(53) Nel sistema statunitense, l’ideale regolativo che — attraverso il metabolismo
delle corti (e specialmente della Corte Suprema) — rappresenta il principio di unità nella
rete delle multiformi fonti processuali è la ‘‘due process clause’’ (v., per una presentazione di
questo sistema processuale ‘‘rapsodico’’ o, come afferma l’autore, di ‘‘empiria ragionata’’, E.
AMODIO, Il modello accusatorio statunitense, cit., p. XXVI s.).
(54) Un convinto apprezzamento per questa reviviscenza del ‘‘giudice legislatore’’ è
stato espresso dal Procuratore del Tribunale per la ex Yugoslavia, Carla del Ponte, in occa-
sione di una conferenza tenuta a Bruxelles lo scorso anno. È noto, invece, che i giudici della
Corte penale internazionale non posseggono questo potere normativo, potendosi limitare a
proporre, a maggioranz assoluta, degli emendamenti o a stabilire, « dans les cas urgents où
la situation particulière portée devant la Cour n’est pas prévue par le Règlement », delle re-
gole provvisorie in attesa di una loro conferma o smentita ad opera dell’Assemblea degli
Stati parte (art. 51 commi 2 e 3 dello Statuto).
(55) In quest’ottica M. CHIAVARIO, Cinque anni dopo, cit., pp. 163-164, dopo aver
stigmatizzato la « lunghezza e la complessità della legge-delega » e la « tecnica deviata e de-
viante » di redazione del codice e di gestione della « riforma della riforma » (caratterizzata
da « un gran numero di regole dettagliatissime, senza una chiara percezione della gerarchia
da stabilire tra vari livelli di prescrizioni »), si mostra favorevole « ad una reviviscenza del
‘diritto pretorio’ nel suo significato originario, come temporaneo programma d’azione di sin-
goli uffici o gruppi di uffici, per i problemi di dettaglio (e, beninteso, sempre in modo da non
ledere il principio di eguaglianza) ».

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ciando col modificare la tecnica di redazione delle norme di rito. Dopo il dibattito
sul ‘‘diritto penale minimo’’, che ha impegnato in questi ultimi anni la comunità
penalistica, la scienza processualistica dovrebbe porre, tra le priorità della sua
agenda, il tema della ‘‘legge processuale minima’’. Con tale locuzione intendiamo
un corpo legislativo essenziale e duttile, privo dei soffocamenti dovuti a regole in-
tricate, dettagliate e rigide (e perciò fatalmente volatili), che spesso diventano
fonti d’incertezza e d’ineguaglianze, di lentezza e di abusi degli strumenti proces-
suali. All’ipertrofia legislativa si dovrebbe sostituire un’architettura normativa che
sappia prudentemente dosare i ‘‘pieni’’ e i ‘‘vuoti’’, rinunciando all’irrealizzabile e
dannoso obiettivo di attribuire al legislatore il compito di risolvere ex ante, in con-
dizione di monopolio giuridico, tutte le questioni processuali. Il processo deve es-
sere concepito come un corpo vivo in costante divenire, la cui evoluzione va affi-
data, in parte, a dinamiche interne, guidate dal ‘‘canovaccio’’ normativo fissato dal
legislatore, dalla fedeltà sincera ai valori dell’equo processo da parte di tutti gli at-
tori della giustizia, da un’effettiva e leale dialettica processuale e dalle sedimenta-
zioni giurisprudenziali lasciate nei passati giudizi sotto l’attenta vigilanza della co-
munità scientifica, del legislatore, della Corte costituzionale e della Corte europea
dei diritti dell’uomo.
È ovvio che questo programma richiede, da un lato, un mutamento della
mentalità e dell’educazione giuridica che non può che richiedere tempi lunghi e,
dall’altro, opportuni interventi ordinamentali ed istituzionali, a cominciare — per
quanto riguarda l’Italia — da una riforma delle Sezioni Unite che ne accresca l’au-
torevolezza, grazie, soprattutto, ad un sistema di selezione dei giudici ispirato a
comprovata professionalità, prestigio ed indipendenza e aperto a soggetti esterni
alla magistratura come auspicato, del resto, dall’ineffettivo terzo comma dell’art.
106 della Costituzione. Pur consapevoli delle difficoltà e dei rischi di un simile
orientamento, ci sembra, tuttavia, che in una società sempre più complessa ed in
rapida evoluzione come la nostra non sia più differibile un profondo ripensamento
delle categorie concettuali ereditate dalla modernità, il cui distacco — sia sul ver-
sante ‘‘descrittivo’’ sia sul versante ‘‘prescrittivo’’ — dalla realtà del diritto (dalla
law in action) ha assunto una portata scientificamente non più tollerabile (56).

(56) Per quanto riguarda la giustizia penale internazionale, un chiaro apprezzamento


per questa logica dell’equità è espresso da H. BRADY, The System of Evidence, cit., p. 285,
secondo cui « the ICC’s judges must have sufficient discretion to interpret the rules to deter-
mine fairly the matters before them, in a manner consonant with the spirit of the ICC statute
and general principles of law ». Una diversa valutazione è condivisa, invece, da non pochi
processualpenalisti che, muovendo da premesse diverse, hanno avanzato forti riserve nei
confronti di questo approccio flessibile, case by case, ai temi del processo. V., ad esempio,
per quanto riguarda la letteratura italiana, V. FANCHIOTTI, Completata la stesura, cit., p.
1403 e 1405, G. ILLUMINATI, Il processo davanti alla Corte penale internazionale: linee gene-
rali, in Crimini internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Internazionali alle Com-
missioni Verità e Riconciliazione, a cura di G. ILLUMINATI, L. STORTONI e M. VIRGILIO, To-
rino 2000, pp. 120-121 e 130 e M. CAIANIELLO, Il processo penale nella giustizia internazio-
nale: casi giurisprudenziali dall’esperienza dei tribunali ad hoc, ibidem, p. 158, secondo il
quale « l’impressione che si ricava dall’analisi dei sistemi processuali vigenti nei Tribunali in-
ternazionali ad hoc è che essi diano vita ad un ordinamento fondato per la maggior parte
sulla saggezza delle persone chiamate ad attuarlo, piuttosto che non sul rispetto delle forme;
queste, al contrario, sembrano sentite come un intralcio malsopportato, in quanto contrap-

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4. Insiemi ‘‘flous’’ nel metodo di accertamento del fatto. — Il dispo-


sitivo etico ed epistemologico dell’equità non poteva che innervare la
componente più cruciale di ogni modulo processuale e cioè il metodo di
accertamento del fatto. La configurazione di questo metodo è di fonda-
mentale importanza, in quanto il ‘‘fatto’’ posto alla base della decisione
del giudice è il risultato delle caratteristiche di quello. Nella prospettiva
del processo, infatti, l’esistenza del fatto dipende dalle prove che possono
essere introdotte in conformità con le regole del diritto. Il fatto non è un
dato che si impone al processo, ma un ‘‘factum’’ posto dalle sue regole.
Ora, le regole probatorie non sono dei semplici veicoli che permettono a
dei fatti esterni al campo del diritto di farvi irruzione. Non essendo neu-
tre, quelle regole contribuiscono a costituire i fatti. Questi dipendono,
quindi, in parte, dal modello probatorio adottato. E dietro ciascun mo-
dello probatorio vi è una certa concezione del Diritto, della Ragione e
della Scienza, un certo sistema di valori e determinati presupposti antro-
pologici che intervengono, in modo particolare, a definire la figura del
giudice. È evidente, quindi, che la scelta del metodo probatorio è una que-
stione delicata che rivela, in fondo, l’idea di giustizia che si intende pro-
muovere in seno ad una data comunità (57).
Ora, si è visto che il dispositivo etico ed epistemologico dell’equità ri-
chiede, per operare in modo corretto, che le norme siano dotate di un
certo margine di apprezzamento per consentire agli attori del processo di
affinare il rito sulla base dell’esperienza e di adattare la decisione alle spe-
cifiche caratteristiche del contesto. Di tale esigenza si fanno carico le re-
gole probatorie dei Tribunali ad hoc e della Corte penale internazionale
che lasciano ampi spazi al potere discrezionale delle corti. Di questo po-
tere, come si vedrà, i giudici del TPIY hanno fatto finora un uso accorto e
responsabile, sforzandosi, case by case (rispondendo a sollecitazioni delle
parti) e attraverso modifiche del Regolamento, di definire tutta una serie
di criteri a cui attenersi per l’ammissione e la valutazione della prova.
La flessibilità caratterizza, innanzitutto, l’art. 69.4 dello Statuto della
Corte penale internazionale, in cui sono fissati i principi cardine per l’am-
missione della prova. Questa è sottoposta, infatti, ad un ‘‘balancing test’’
che consiste, da un lato, nel valutare la « pertinence » e la « valeur pro-

posto al fine da raggiungere, ossia al perseguimento della giustizia ». Analoga prospettiva


critica è condivisa da Y. NOUVEL, La preuve devant le Tribunal pénal international pour l’ex-
Yougoslavie, in Revue général de droit international public, 1997, p. 942, per il quale la « li-
berté du juge d’apprécier les éléments de preuve et d’ordonner leur communication opère au
détriment des droits de l’accusé ».
(57) Sui rapporti tra ‘‘fatto’’ e ‘‘diritto’’, nella prospettiva epistemologica di un co-
struttivismo moderato, ci siamo soffermati più diffusamente nel saggio La bande de Möbius:
un modèle pour penser les rapports entre le fait et le droit, in Revue interdisciplinaire d’étu-
des juridiques, 1997, p. 103 s. In una prospettiva simile, v. già G. UBERTIS, Fatto e valore nel
sistema probatorio penale, Milano, Giuffrè, 1979.

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bante » dell’elemento di prova e, dall’altro, nel prendere in considerazione


« la possibilité qu’il nuise à l’équité du procès ou à une évaluation équita-
ble de la déposition d’un témoin ».

La « pertinence » (‘‘rilevanza’’) è un concetto relazionale. Essa fa riferimento


al nesso — basato su massime d’esperienza — tra l’elemento di prova e i fatti indi-
cati nell’atto d’imputazione. Una prova sarà dichiarata irrilevante, dunque, (i) se
dal ‘‘segno’’ di cui si chiede l’ammissione non è possibile abdurre i fatti sui quali si
fonda il thema probandum oppure (ii) se il ‘‘segno’’ conduce a fatti che non ap-
partengono all’alveo dell’imputazione. La « valeur probante » (‘‘valore probato-
rio’’) è un concetto probabilistico. Esso esprime la forza del nesso che collega l’e-
lemento di prova ai fatti dell’imputazione, la capacità della ‘‘traccia’’ di dare con-
sistenza ai fatti, di ridurre l’alone d’indeterminatezza in cui si presenta l’ipotesi
fattuale. Infine, il riferimento all’equità esprime, essenzialmente, la necessità che il
giudice, facendo leva sulle due anime di questo concetto, assicuri un equilibrio
soddisfacente (équitable — fair — giusto) alla totalità degli interessi ritenuti rile-
vanti nel caso di specie. Questi possono essere, ad esempio, il diritto dell’imputato
ad interrogare i testimoni a dibattimento di fronte al giudice che dovrà decidere
sull’imputazione, il diritto dell’imputato e della collettività alla pubblicità dell’e-
scussione probatoria, il diritto del testimone e della vittima ad essere protetti, l’in-
teresse alla preservazione e alla non dispersione della prova per effetto di eventi
esterni che possano far perdere utili contributi conoscitivi, l’interesse dell’accu-
sato, della vittima e della società a che il processo sia ragionevolmente rapido, l’in-
teresse della collettività internazionale al contenimento dei costi della procedura,
l’interesse a che l’elemento di prova non sia ottenuto attraverso mezzi illeciti o co-
munque in violazione dei diritti fondamentali della persona. Relativamente a que-
st’ultimo vincolo assiologico, il comma 7 del medesimo art. 69 dello Statuto stabi-
lisce, lasciando come al solito un opportuno margine di apprezzamento per le va-
lutazioni cliniche, che gli elementi di prova ottenuti in violazione dello Statuto o
dei diritti dell’uomo internazionalmente riconosciuti non sono ammissibili se a)
« la violation met sérieusement en question la crédibilité des éléments de preuve »
o se b) « l’admission de ces éléments de preuve est de nature à compromettre la
procédure et à porter gravement atteinte à son intégrité ».
La presenza di giudici professionali e l’obbligo della motivazione vengono ge-
neralmente indicati come i fattori che giustificano la scelta, di marca inquisitoria,
di non adottare il complesso e dettagliato sistema di exclusionary rules tipico del
modello adversary (58). Tuttavia, questa spiegazione dà conto solo in parte delle
ragioni di tale scelta in quanto l’attribuzione alle parti, invece che ad un giudice,
del compito di presentare il materiale probatorio — secondo i crismi del sistema

(58) Cfr., ad esempio, F. TERRIER, The Procedure before the Trial Chamber, in The
Statute of the International Criminal Court: a Commentary, vol. II, ed. by A. Cassese, P.
GAETA, J.R.W.D. Jones, Oxford University Press, 2002, p. 1290 e H. BRADY, The System of
Evidence, cit., p. 279-280, secondo cui « the ICC need not be ‘straight-jacketed’ by the ple-
thora of strict rules of evidence familiar to common law lawyers. These are unnecessary
since there is no jury to protect from evidence that it may find hard to evaluate properly or to
ignore. In addition, the Court should concentrate on hearing the case at hand rather than di-
vesting its time by ruling on numerous motions on the admissibility of evidence ».

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accusatorio — è fattore in grado di giustificare di per sé l’esigenza di fissare regole


che garantiscano la ‘‘qualità’’ delle prove ammesse, specialmente se si tratti di
hearsay evidence. Pertanto, sembra fondato sostenere che l’ampio margine di ap-
prezzamento previsto nello Statuto debba interpretarsi, soprattutto, come il segno
della volontà di mantenere la Corte nel solco della tradizione dei tribunali penali
internazionali (59), in linea con il favore per moduli processuali duttili, che la-
scino alle dinamiche giurisdizionali ragionevoli margini di apprezzamento per cali-
brare le regole alla luce dei particolari contesti problematici suscitati dai casi. Cri-
teri a maglie larghe stabiliti ex ante non significano affatto, quindi, sostegno per
filtri probatori disinvolti, ma esprimono, invece, la scelta di affidare a fonti, modi
e tempi diversi la definizione di quei filtri, traendo profitto dall’euristica dell’espe-
rienza. A questo proposito, la gestazione dello Statuto da parte del Preparatory
Committee rivela chiaramente l’intenzione di lasciare al Regolamento il compito di
fissare « secondary and subsidiary rules » e di garantire alla Corte « the flexibility
to adopt rules according to its practice and requirements » (60). Finendo, così, per
soddisfare gli auspici formulati da autorevoli esponenti dei tribunali ad hoc a non
‘‘legare le mani’’ ai giudici (61). In tal modo hanno agito, nelle loro differenti spe-
cificità istituzionali, il Tribunale per la ex Yugoslavia e le corti statunitensi, perché
non bisogna dimenticare che le regole di esclusione previste dalle Federal Rules of
Evidence del sistema americano sono il frutto della prudente tessitura delle corti
— ispirata da un altro concetto olista, la ‘‘due process clause’’ sancita nel V e XIV
emendamento alla Costituzione — e non l’effetto di un atto normativo istantaneo
imposto dall’esterno.
Ancora una volta, quindi, si è optato per un sistema tagliato su misura, il cui
risultato è un « amalgam of both common law and civil law concepts » (62). Del
resto, sotto questo aspetto, i due sistemi sono, in fondo, più vicini di quanto i ri-
tratti ufficiali sembrino suggerire. Come sottolinea il TPIY, il principio fondamen-
tale in entrambi i sistemi è che « all relevant evidence which has probative value is
admissible if such evidence is not affected by an exclusionary virus » (63). Questo

(59) L’art. 19 della Carta del Tribunale di Norimberga stabiliva il principio secondo
cui « The Tribunal shall not be bound by technical rules of evidence. It shall adopt and ap-
ply to the greatest possible extent expeditious and non-technical procedure, and shall admit
any evidence which it deems to be of probative value ». Analoga previsione era contenuta
nella Carta del Tribunale di Tokyo. V, per maggiori dettagli, R. MAY-M. WIERDA, Trends in
International Criminal Evidence: Nuremberg, Tokyo, The Hague and Arusha, in Columbia
Journal of Transnational Law, 1999, n. 37, p. 729 s.
(60) Report of the Preparatory Committee on the Establishment of an International
Criminal Court, Vol. I, U.N. GAOR, 50th Sess., Supp. n. 22, U.N. Doc. A/51/22 (1996),
p. 60.
(61) In questi termini l’allora presidente del TPIY, McDonald, come ricorda, in senso
critico, tuttavia, V. FANCHIOTTI, Completata la stesura, cit., p. 1403, nota 2.
(62) D.K. PIRAGOFF, Article 69. Evidence, § 4, in Commentary on the Rome Statute
of the International Criminal Court, O. Triffterer ed., Baden-Baden, Nomos Verlagsgesell-
schaft, 1999, p. 904.
(63) Prosecutor v. Delalic, Mucic, Delic and Landzo (‘‘Celebici’’) (IT-96-21-T), De-
cision on the Prosecution’s Oral Requests for the Admission of Exhibit 155 into Evidence
and for an Order to Compel the Accused, Zradavko Mucic, to Provide a Handwriting Sam-
ple, 19 gennaio 1998, § 30.

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principio è tradotto nei sistemi adversary attraverso un complesso di regole di


esclusione che soffrono, tuttavia, di numerose eccezioni, giustificate dall’affidabi-
lità in concreto di certe prove ritenute in astratto inaffidabili. E ciò sempre in virtù
di quell’irriducibile diversità di piani che distingue il ‘‘giusto legale’’ dal ‘‘giusto
giudiziale’’. Nei sistemi non adversary, invece, « relevancy and probative value are
generally considered together with the weight of the evidence, and not primarily in
regard to admissibility ». Tuttavia, « types of evidence that are ruled inadmissible
in a common law system are often accorded little or no weight in a civil law
system. To a large degree, in the end, the two systems are often not that dissimilar
in the types of evidence that are finally considered, but rather differ in the manner
and the timing of how unreliable evidence is disregarded or weeded-out » (64). A
tal proposito, il comma 4 dell’art. 69 dello Statuto, se sembra permettere alla
Corte l’ammissione di elementi di prova affetti da qualche ‘‘impurità’’, con riserva
di conferir loro il peso probatorio che essa riterrà opportuno in seguito all’escus-
sione dibattimentale, sembra altresì suggerire — laddove fa riferimento all’equità
del processo — che considerazioni di ordine qualitativo dovrebbero essere apprez-
zate dai giudici già in fase di ammissione della prova e non solo in sede di valuta-
zione di essa.
A quest’ultimo orientamento ha finito per accedere il Tribunale per la ex Yu-
goslavia. Dopo una fase di chiusura, infatti, la Chambre d’appel ha stabilito che
l’affidabilità (fiabilité-reliability) debba essere considerata una condizione di am-
missibilità della prova. Prima di allora, nel caso Celebici, la Camera di prima
istanza aveva ritenuto « neither necessary nor desirable to add to the provisions of
Sub-rule 89 (C) a condition of admissibility which is not expressly prescribed by
that provision » (65). La norma in questione, infatti, con una formula analoga a
quella dell’art. 69.4 dello Statuto della CPI, si limita ad attribuire alla Camera il
potere di « recevoir tout élément de preuve pertinent qu’elle estime valeur pro-
bante » (R. 89 lett. C). Aggiungendo, nella lettera successiva, che il Tribunale può
escludere « tout élément de preuve dont la valeur probante est largement infé-
rieure à l’exigence d’un procès équitable ». In occasione di un’altra decisione resa
nello stesso caso Celebici, la Camera di prima istanza precisava che, sebbene un
elemento di prova possa essere escluso se ritenuto dai giudici non affidabile, l’affi-
dabilità di quest’elemento non deve essere dimostrata prima dell’ammissione dello
stesso. Sarebbe sufficiente dimostrarne la rilevanza ed il valore probatorio (66).
Come accennato, nel caso Kordic, la Camera d’appello ha deciso, invece, di
considerare l’affidabilità della prova come una condizione d’ammissibilità della
stessa. La Camera di primo grado aveva ammesso la dichiarazione scritta di un te-
stimone deceduto che non era stato interrogato dalla difesa e che non aveva pre-
stato giuramento, ritenendo che l’assenza del contro-interrogatorio e del giura-
mento influivano sul valore da accordare alla dichiarazione, ma non sulla sua am-
missibilità. La Corte d’appello, fondandosi sulla decisione resa dalla medesima in

(64) D.K. PIRAGOFF, ibidem.


(65) Prosecutor v. Delalic, Mucic, Delic and Landzo (‘Celebici‘’) (IT-96-21-T), Deci-
sion on the Prosecution’s Oral Requests, cit., § 32.
(66) Prosecutor v. Delalic, Mucic, Delic and Landzo (‘‘Celebici’’) (IT-96-21-T), De-
cision on the Motion of the Prosecution for the Admissibility of Evidence, 19 gennaio 1998,
§ 19.

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Aleksovski, ha escluso quella prova in quanto « the reliability of a statement is re-


levant to its admissibility, and not just to its weight ». Secondo i giudici, infatti,
« a piece of evidence may be so lacking in terms of the indicia of reliability that is
not ‘‘probative’’ and is therefore inadmissible » (67). I giudici hanno notato che,
nel caso in esame, la dichiarazione in questione non conteneva sufficienti indizi di
affidabilità e non appariva corroborata da nessun altro elemento di prova. Inoltre,
la dichiarazione era stata raccolta in modo irrituale e sottoposta ad un numero tale
di traduzioni, effettuate in un contesto informale, che ne aumentavano la probabi-
lità d’inesattezze.

Oltre a questa regola generale che fissa criteri flessibili per l’ammis-
sione della prova, nei testi normativi della CPI e del TPIY vi è un’ampia
costellazione di concetti flous e di regole a maglie aperte che permettono
al giudice di contemperare, nel contesto specifico della decisione, la com-
plessità dei valori in conflitto.

Per limitarsi alla Corte penale internazionale (68) si può citare, ad esempio,
l’art. 56 dello Statuto che, nel prevedere un meccanismo simile al nostro ‘‘inci-
dente probatorio’’, evita di fissare una procedura formale, affidando costante-
mente al giudice il compito di specificare di volta in volta i valori ed i principi
espressi dalla norma. Secondo il comma 1 lett. b, la Camera preliminare può, su
domanda del procuratore, « prendre toutes mesures propres à assurer l’efficacité et
l’intégrité de la procédure et, en particulier, à protéger les droits de la défense ». A
questo proposito, il capoverso del medesimo articolo indica, a titolo puramente
esemplificativo, alcune misure a disposizione dei giudici. Tra queste, anche la pre-
senza del difensore alla procedura è rimessa all’autorizzazione della Camera preli-
minare la quale, in particolari situazioni (si pensi al caso dell’esame anticipato di
un teste la cui identità, per ragioni di protezione, sia celata pro tempore alla difesa
o alla necessità di esaminare o verificare un elemento di prova a carico inaudita
altera parte) potrebbe ritenere ‘‘equo’’ estrometterlo dalla partecipazione all’e-
scussione o alla verifica dell’elemento di prova. Un’altra manifestazione del prag-
matismo che regola il metodo probatorio della CPI è il potere della Camera — ti-
pico dello stile inquisitorio — di domandare « la présentation de tous les éléments
de preuve qu’elle estime nécessaires à la manifestation de la vérité » (art. 69.3).
Sempre alla giurisprudenza della Corte si è affidato, sostanzialmente, il compito di
disciplinare la hearsay evidence e sia lo Statuto sia il Regolamento hanno finito
per non pronunciarsi esplicitamente sulla questione della testimonianza anonima,

(67) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.5), Decision on Appeal Re-


garding Statement of a Deceased Witness, 21 luglio 2000, § 24.
(68) Nel Regolamento di procedura e prova del TPIY sono molteplici i concetti sfu-
mati che regolano la materia probatoria. Si possono ricordare, ad esempio, oltre al rinvio al-
l’équité, i richiami all’« intérêt de la justice » (R. 71, 71-bis, 85, 89 lett. F), all’« intérêt géné-
ral » (R. 92-bis lett. Aii a), agli « indices suffisants de fiabilité » (R. 92-bis lett. Cii), alla
« bonne administration de la justice » (R. 95), all’ipotesi in cui « leur [verbali di testimo-
nianze] valeur probante est largement inférieure à leur effet préjudiciable » (R. 92-bis lett.
Aii b) o la presenza di locuzioni aperte come « s’il convient » (R. 92-bis lett. E) o « si elle le
juge bon » (R. 90 lett. Hiii).

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malgrado le recenti prese di posizione a riguardo a livello nazionale ed internazio-


nale (69).

5. ‘‘Scrittura’’ e ‘‘oralità’’ sulla bilancia dell’equità. — Finora si è


cercato di tratteggiare — in termini generali, ma pur sempre con un’atten-
zione particolare rivolta al campo probatorio — lo ‘‘stile’’ che caratterizza
la giustizia penale internazionale. In questo paragrafo si intende presen-
tare il modo in cui essa ha tentato di articolare il metodo di ricostruzione
del fatto. Quest’analisi sarà condotta tramite lo strumento euristico rap-
presentato da un’altra dicotomia tradizionale del lessico processualista:
quella tra oralità e scrittura. Essa illumina il metodo di ricostruzione del
fatto da una prospettiva diversa, ma complementare, rispetto alla coppia
accusatorio/inquisitorio con la quale concorre a delineare l’impronta fon-
damentale del modello probatorio.
La dicotomia accusatorio/inquisitorio guarda al metodo di ricostru-
zione del fatto dal punto di vista del protagonista di esso. Nel primo polo,
il protagonista sono le parti che — sotto la vigilanza di un giudice-arbitro,
garante della correttezza della contesa — hanno il compito di ricercare e
di richiedere l’ammissione degli elementi di prova ritenuti rilevanti per la
risoluzione del thema probandum. Nel secondo, il protagonista è il giu-
dice a cui è affidato il compito di ricercare le prove e, nella versione ‘‘pu-
ra’’ (di cui era rimasta traccia, ad esempio, nella figura italiana del pretore
precedente la riforma del 1988), di decidere nel merito dell’imputazione.
Nella dicotomia oralità/scrittura, invece, l’accento è posto sulla forma
del metodo probatorio. Nella prima tipologia, gli elementi di prova sono
presentati in forma orale davanti ad un giudice per essere trasformati,
nella dialettica dibattimentale, in prova idonea a sostenere una pronuncia
di condanna o di assoluzione. L’assenza del medium della scrittura tra il
giudice e la prova fa sì che, nella tassonomia dei processualisti, l’oralità
sia sempre associata all’immediatezza. Nell’altra tipologia, le prove sono
fissate in forma scritta da un giudice inquisitore che decide il merito del-

(69) A livello internazionale cfr., in modo particolare, la Raccomandazione No. R


(97) 13, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 settembre 1997 in
tema di Intimidation of Witnesses and the Rights of the Defence, la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo (per la quale v. il nostro La logica floue, cit., a cui si deve
aggiungere la recente sentenza Visser v. The Netherlands, 14 febbraio 2002) e le decisioni
Tadic e Blaskic del TPIY (su cui v. M. LEIGH, The Yugoslav Tribunal: Use of Unnamed Wit-
nesses Against Accused, in American Journal of International Law, 1996, p. 235 s. e J. DE
HEMPTINNE, La déposition de témoins sous anonymat devant le Tribunal pénal international
pour la ex-Yougoslavie, in Journal des Tribunaux, 1998, n. 5870, p. 65 s.). Per quanto ri-
guarda gli ordinamenti statali, oltre alla legislazione olandese, varata anche per conformarsi
alle pronunce della Corte europea, si segnala, da ultimo, la legge relativa all’« anonymat des
témoins » adottata dal Parlamento belga l’8 aprile 2002 (per un commento della riforma in
questione v. M. A. BEERNAERT-D. VANDERMEERSCH, La loi du 8 avril 2002 relative à l’ano-
nymat des témoins, in Revue de droit pénal et de criminologie, 2002, p. 715 s.

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l’imputazione o, nella forma attenuata del c.d. processo ‘‘misto’’ inaugu-


rato nel 1808 dal napoleonico Code d’instruction criminelle, da un giudice
istruttore che sottopone il fascicolo contenente le prove al vaglio delle
parti e del giudice dibattimentale.
La forma scritta è intimamente collegata al modello inquisitorio in
quanto, nella versione pura, la scrittura rappresenta il risultato dell’inda-
gine condotta da un giudice che deciderà nel merito. Nella versione mista,
la scrittura è il risultato dell’indagine condotta dal giudice istruttore che lo
trasmette, nella forma di un fascicolo, al giudice competente a decidere
nel merito. In entrambi i casi, la garanzia della correttezza dell’impiego
del metodo di ricostruzione del fatto è data dall’imparzialità del soggetto
agente, il quale è messo nelle condizioni di confrontarsi ‘‘immediatamen-
te’’ e ‘‘oralmente’’ con la fonte di prova.
La forma orale è, invece, intimamente collegata al modello accusato-
rio in quanto il metodo di ricostruzione del fatto è gestito dalle parti e il
giudice interviene nel processo probatorio solo in seconda battuta,
quando esse avranno ultimato la fase preparatoria di raccolta del mate-
riale informativo che verrà affidato al crivello del contraddittorio proces-
suale. Ne consegue, come si è già avuto modo di notare nel paragrafo pre-
cedente, che il sospetto che avvolge la hearsay evidence negli ordinamenti
ispirati al sistema accusatorio non è tanto connesso alla presenza di un
giudice non professionale come la giuria, ritenuta più esposta ad errori co-
gnitivi ed esentata dall’obbligo di motivazione, quanto piuttosto al fatto
che l’inchiesta è condotta da parti che perseguono interessi particolari,
senza quelle garanzie d’imparzialità assicurate dal giudice inquisitore o
istruttore (70).
Nella giustizia penale internazionale, le dicotomie accusatorio/inqui-
sitorio e oralità/scrittura sono sottoposte ad un processo d’ibridizzazione
guidato, nei termini che si sono visti, dal dispositivo dell’equità. È emble-
matica, in proposito, la vicenda normativa del Tribunale per la ex Yugo-
slavia che, fortemente connotato, nel suo assetto originario, dai caratteri
dell’oralità e del sistema accusatorio, ha subito una serie progressiva di
temperamenti per rispondere direttamente alle sollecitazioni della prassi.
La complessità e l’ampiezza geografica e temporale dei crimini di massa
oggetto della giurisdizione internazionale, più simile a « documenting an
episode or even an era of national or ethnic conflict rather than proving a
single discrete incident » (71), e l’esigenza di accelerare i lenti tempi pro-
cessuali dei primi anni d’esperienza del Tribunale hanno indotto i giudici

(70) Cfr., in proposito, D. DANCE, The Best Evidence Principle, in Iowa Law Review,
n. 73, 1988, p. 229 s.
(71) P.M. WALD, To ‘‘Establish Incredible Events by Credible Evidence’’: The Use of
Affidavit Testimony in Yugoslavia War Crimes Tribunal Proceedings, in Harvard Internatio-
nal Law Journal, 2001, p. 537.

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a riequilibrare il metodo di ricostruzione del fatto, diminuendo il tasso di


accusatorietà e di oralità nel sistema. Il concreto funzionamento della
macchina processuale internazionale ha mostrato che una ricostruzione
‘‘equa’’ ed efficiente dei fatti necessita di un contemperamento delle due
tradizionali coppie concettuali. Diversamente, lo sbilanciamento a favore
di una delle due coppie, in questo caso quella accusatoria/orale, finisce fa-
talmente per determinare il sacrificio di interessi che un processo, per
dirsi effettivamente ‘‘giusto’’, non può accettare. Così, per quanto ri-
guarda il polo adversary, il Tribunale ha ridotto il protagonismo delle
parti creando la figura di un pre-trial judge a cui è affidato il compito di
coordinare la fase delle indagini, documentandole con un fascicolo da tra-
smettere alla Camera di prima istanza (72). Ai nostri fini è interessante
notare la funzione che tale giudice svolge in ambito probatorio, tramite
interventi sulla lista dei testimoni richiesti dalle parti e sui tempi della pre-
sentazione delle prove, potendo ridurne il numero e la durata (73).
Per quanto riguarda, invece, i temperamenti che ha subito l’oralità
nel sistema del Tribunale per la ex Yugoslavia si rinvia alle pagine che se-
guono. Prima di presentare quest’evoluzione normativa, tuttavia, si richia-
meranno i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo in materia e si analizzerà l’abbozzo del dosaggio di scrit-
tura e oralità effettuato nei testi relativi alla Corte penale internazionale.
5.1. Excursus: la Corte europea dei diritti dell’uomo. — Ai sensi dell’art.
6.3d della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ogni accusato ha il diritto di
« interroger ou faire interroger les témoins à charge ». Secondo la Corte europea
tale disposizione richiede che « les éléments de preuve doivent en principe être
produits devant l’accusé en audience publique, en vue d’un débat contradictoire ».
Una giurisprudenza ben consolidata precisa, tuttavia, che « ce principe ne va pas
sans exceptions », a condizione che vi sia un adeguato rispetto dei diritti della di-
fesa (« sous réserve des droits de la défense »). Come regola generale, « les para-
graphes 1 et 3 d) de l’article 6 commandent d’accorder à l’accusé une occasion

(72) Un’analoga figura di ‘‘giudice per le indagini preliminari’’ (Pre-Trial Chamber) è


prevista dallo Statuto della CPI (art. 39), che le attribuisce, tuttavia, maggiori poteri di con-
trollo non soltanto sulla fase pre-trial ma anche sull’esercizio dell’azione penale da parte del
prosecutor (art. 15.3).
(73) Questa nuova figura di giudice è stata introdotta nel Regolamento di procedura
e prova, insieme con le R. 73-bis e ter che fissano i poteri probatori del giudice, in occasione
della diciottesima sessione plenaria tenutasi nel luglio 1998 (cfr. la R. 65-ter). Per un’analisi
di queste novelle e per le loro modifiche successive, v. G. BOAS, Creating Laws of Evidence
for International Criminal Law: The ICTY and the Principle of Flexibility, in Criminal Law
Forum, 2001, p. 86 s. Per quanto riguarda la CPI, oltre ai poteri probatori della Camera pre-
liminare (v., specialmente, l’art. 56.3a dello Statuto che consente alla Camera preliminare di
adottare motu proprio le misure che ritenga « nécessaires pour préserver des éléments de
preuve qu’elle juge essentiels pour la défense au cours du procès »), vi è il già ricordato art.
69.3 che attribuisce al giudice il potere di richiedere la presentazione di tutti gli elementi di
prova necessari alla ricerca della verità.

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adéquate et suffisante de contester un témoignage à charge et d’en interroger l’au-


teur, au moment de la déposition ou plus tard ». In particolare, si stabilisce che i
diritti della difesa si devono ritenere violati in modo incompatibile con le garanzie
del « procès équitable » quando « une condamnation se fonde, uniquement ou
dans une mesure déterminante, sur les dépositions d’un témoin que ni au stade de
l’instruction ni pendant les débats l’accusé n’a eu la possibilité d’interroger ou
faire interroger » (74).
Questi principi sono il risultato di una lunga sedimentazione inaugurata, nel
1986, con il caso Unterpertinger (75). Nella fattispecie, si trattava di decidere se
violasse l’art. 6 della Convenzione una sentenza di condanna basata sulle dichiara-
zioni ante iudicium di due persone che, in seguito, si erano rifiutate di testimo-
niare a dibattimento in quanto prossimi congiunti del ricorrente. A quest’ultimo
non era stata accordata, in nessuna fase della procedura, la possibilità di confron-
tarsi con i testi a carico. La Corte ritenne che i principi dell’equo processo non
fossero stati rispettati in quanto le dichiarazioni in questione, pur non essendo
state il solo elemento di prova fornito ai giudici, giocarono un ruolo essenziale nel
giudizio di condanna. Analogamente, nel caso Barberà, Messegué e Jabardo, si è
concluso per la violazione dell’art. 6 della Convenzione in quanto la condanna era
fondata sulla dichiarazione d’« importance cruciale » (§ 86) di un teste mai sotto-
posto né all’interrogatorio degli imputati né ad un’audizione da parte del giudice
istruttore (76). Nel caso Delta, invece, l’anomalia della procedura è stata riscon-
trata nella decisione di condanna basata esclusivamente su verbali di polizia e
sulla testimonianza indiretta del poliziotto che aveva fermato il ricorrente (ma
senza aver assistito all’aggressione) e raccolto, nell’immediatezza del fatto, le di-
chiarazioni della vittima di una rapina e di una sua amica presente al momento
della consumazione del reato (77). Più recentemente, nella decisione Van Meche-
len, si è censurata una pronuncia di colpevolezza fondata, « en mesure détermi-
nante », su testimonianze anonime di agenti di polizia senza che il ricorrente o il
suo difensore avessero avuto la possibilità d’interrogare i testimoni in loro pre-
senza (questi avevano deposto davanti al giudice istruttore in sede separata e col-
legata con la postazione della difesa tramite connessione sonora) (78). Analoga
soluzione è stata adottata in relazione ad una pronuncia di condanna di un giudice

(74) CEDH, Deuxième Section, A.M. c. Italie, 14 dicembre 1999, § 25. Nel caso di
specie, la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 6 in quanto le giurisdizioni italiane si
erano basate « exclusivement » sulle dichiarazioni assunte per rogatoria, ai sensi dell’art.
512-bis c.p.p., da persone residenti negli Stati Uniti, senza che l’imputato fosse stato messo
nelle condizioni di confrontarsi, in nessuna fase della procedura, con i suoi accusatori.
(75) CEDH, Unterpertinger c. Autriche, 24 novembre 1986. V., per una presentazione
della giurisprudenza della Corte, M. CHIAVARIO, Art. 6, cit., p. 238 s., G. UBERTIS, Principi di
procedura penale europea, Milano, Cortina, 2000, p. 35 s. e A. TAMIETTI, Il diritto di interro-
gare i testimoni tra Convenzione europea e Costituzione italiana, in Dir. pen. e proc., 2001,
p. 509 s.
(76) CEDH, Barberà, Messegué e Jabardo c. Espagne, 6 dicembre 1988.
(77) CEDH, Delta c. France, 19 dicembre 1990.
(78) CEDH, Van Mechelen et autres c. Pays Bas, 23 aprile 1997. Proprio il diverso
peso probatorio delle testimonianze anonime — insieme con la diversa qualificazione sogget-
tiva dei dichiaranti (agenti di polizia / quivis de populo) — ha indotto la Corte europea a di-
stanziarsi dalla decisione Doorson c. Pays Bas, 26 marzo 1996, dove il giudice nazionale

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italiano fondata sulla dichiarazione di un coimputato che si era avvalso, in dibatti-


mento, della facoltà di non rispondere. La Corte, facendo leva sulla sua defini-
zione atecnica del termine ‘‘testimone’’, ha concluso che le dichiarazioni a carico
di un coimputato devono essere trattate, ai fini dell’art. 6 della Convenzione, allo
stesso modo delle dichiarazioni di un testimone stricto sensu e che, pertanto, una
condanna basata « exclusivement » sulle dichiarazioni fatte durante la fase delle
indagini da persona che né l’imputato né il suo difensore abbiano mai potuto in-
terrogare viola i principi del giusto processo (79).
Diversamente, nel caso Isgrò, la Corte europea respinse un ricorso in cui si
eccepiva la violazione dell’art. 6.3d della Convenzione ad opera di una condanna
fondata su dichiarazioni rese durante le indagini davanti al giudice istruttore,
senza la presenza del difensore. La Corte ancora la sua decisione sui seguenti
punti: i) il testimone è stato interrogato da un giudice imparziale; ii) l’imputato ha
potuto confrontarsi direttamente con il teste, in presenza del giudice istruttore, e
porgli domande; iii) il teste si era reso irreperibile, malgrado le autorità italiane
avessero cercato, in modi non criticabili, di assicurarne la presenza in dibatti-
mento; iv) non solo il difensore, ma anche la parte antagonista (il pubblico mini-
stero) non aveva potuto partecipare al confronto con il teste; v) l’oggetto del con-
fronto non rendeva indispensabile la presenza del difensore dell’imputato grazie,
tra l’altro, alla possibilità, per quest’ultimo, di formulare personalmente domande
e commenti; vi) la condanna non era basata esclusivamente sulle dichiarazioni in
questione, ma anche su altre testimonianze (80). Una medesima valutazione glo-
bale delle diverse sfumature della procedura interna salva un’altra decisione nella
quale è ancora protagonista la prova scritta. Il ricorrente denunciava di essere
stato condannato per minacce, percosse e lesioni sulla base di verbali di polizia.
La testimone (moglie dell’imputato e vittima del reato ascrittogli) si era avvalsa,
infatti, del suo diritto a non presentarsi in dibattimento a confermare la denuncia.
La Corte rigetta il ricorso per queste ragioni: i) il ricorrente poteva interrogare a
dibattimento, diversamente da quel che fece, l’agente di polizia a cui la moglie
aveva narrato i fatti il giorno stesso dell’incidente; ii) la testimonianza indiretta
della polizia era corroborata da altri elementi di prova, tra i quali due certificati
medici attestanti le lesioni denunciate; iii) il ricorrente aveva avuto la possibilità di
contestare il racconto della testimone e di presentare il suo, di cui diede diverse
versioni discordanti idonee a minarne la credibilità; iv) il ricorrente non aveva ri-
chiesto la citazione di altri testimoni; v) le dichiarazioni scritte della teste non co-
stituivano i soli elementi di prova (81).

non aveva fondato « son constat de culpabilité uniquement, ou dans une mesure détermi-
nante, sur les témoignages de Y.15 et Y.16 ».
(79) CEDH, Première Section, Lucà c. Italie, 27 febbraio 2001, § 43. Sempre in tema
di utilizzo dichiarazioni di coimputati che si avvalgono, a dibattimento, della facoltà di non
rispondere, vanno segnalate due decisioni di segno contrario rispetto alla sentenza Lucà, mo-
tivate dalla circostanza che, in queste fattispecie, la condanna era fondata su altre prove (in-
tercettazioni telefoniche ed altre dichiarazioni fatte da testi che gli imputati avevano potuto
interrogare in udienza). Si tratta delle decisioni d’inammissibilità relative ai casi Vella c. Ita-
lie, 30 novembre 2000 (ricorso n. 48388/99) e P.m. c. Italie, 8 marzo 2001 (ricorso n.
43625/1998).
(80) CEDH, Isgrò c. Italie, 19 febbraio 1991.
(81) CEDH, Asch c. Autriche, 26 aprile 1991. Cfr., per un ulteriore esempio di rigetto

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Come si può notare, questi principi lasciano al giudice, in conformità con la


logica dell’equità, un certo margine di manovra per permettere un bilanciamento,
caso per caso, delle ragioni della scrittura e dell’oralità. Una tale flessibilità
manca, invece, nella recente revisione dell’art. 111 della Costituzione italiana, la
cui stretta parentela con l’art. 6 della Convenzione europea è di tutta evidenza.
Qui, al di là delle eccezioni tassativamente previste, le dichiarazioni non filtrate,
nella loro genesi, dal contraddittorio sono irrimediabilmente espunte dal paniere
decisorio, impedendosi quel « bilanciamento di ‘‘peso’’ » (82) che consentirebbe a
prove collaterali di essere valutate a sostegno della piattaforma probatoria, pur
non essendo riuscite a superare il rigido test delle eccezioni (« consenso dell’impu-
tato », « accertata impossibilità di natura oggettiva » o « provata condotta ille-
cita », secondo il quinto comma dell’art. 111).
5.2. La Corte penale internazionale. — Relativamente alle ultime
evoluzioni del ‘‘jus honorarium’’ del TPIY, di cui si è fatto cenno, (le più
importanti delle quali, occorre sottolineare, sono successive alla redazione
del Regolamento di procedura e prova della Corte penale internazionale),
il modello probatorio della CPI è maggiormente orientato verso l’oralità.
Quando la Corte comincerà a elaborare la propria giurisprudenza, questo
punto di equilibrio — del resto appena abbozzato nei testi normativi —
potrà essere concretamente testato. Da quell’istante, l’attività quotidiana
della Corte finirà per essere il miglior giudice della bontà di questo com-
promesso. Per il momento, è sufficiente percorrere le poche regole dedi-
cate a questo tema nello Statuto e nel Regolamento.

La regola di principio, tipica del sistema accusatorio, è enunciata nell’art.


69.2 dello Statuto: « les témoins sont entendus en personne lors d’une au-
dience » (83). Questa norma mira a conferire la più grande efficacia al diritto del-
l’imputato di interrogare e di controinterrogare i testimoni previsto, in analogia

del ricorso, la sentenza Artner c. Autriche, 28 agosto 1992, nella quale, oltre al criterio della
presenza di altri elementi di prova a sostegno della condanna, la Corte ha fatto riferimento
alla circostanza che l’assenza per tre anni dell’imputato aveva reso impossibile il confronto
con il teste e che, successivamente, lo stesso teste si era reso irreperibile, malgrado gli sforzi
delle autorità nazionali volti ad assicurarne la presenza in udienza.
(82) Così M. CHIAVARIO, Giusto processo, cit., p. 18, che sottolinea, inoltre, come —
paradossalmente — l’assenza, nella norma costituzionale, del criterio del bilanciamento del
peso probatorio potrebbe esporre l’Italia ad una censura da parte della Corte europea, qua-
lora una sentenza di condanna sia fondata in misura unica o prevalente su una dichiarazione
accusatoria di un teste sottoposto a « provata condotta illecita » non confermata a dibatti-
mento (p. 19). Lo stesso può dirsi, aggiungiamo noi, a proposito dell’eccezione dell’« accer-
tata impossibilità di natura oggettiva ».
(83) Seguendo l’esperienza del TPIY il Regolamento della CPI consente che la deposi-
zione orale sia presentata « par liaison audio ou vidéo, pour autant que la technique utili-
sée » permetta alle parti e al giudice « d’interroger le témoin pendant qu’il dépose » (R.
67.1). La stessa norma impone che la postazione remota si presti ad « une déposition fran-
che et sincère ainsi qu’au respect de la sécurité, du bien être physique et psychologique, de
la dignité et de la vie privée du témoin » (§ 3).

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con l’art. 6 della Conv. eur., dall’art. 67.1 e) dello Statuto e mette la Corte nelle
migliori condizioni per valutare l’attendibilità della deposizione, permettendole,
qualora lo ritenesse opportuno, di porre domande direttamente al teste.
A questo principio segue, tuttavia, nello stesso paragrafo, une serie di ecce-
zioni formulate, come d’abitudine, in termini vaghi. Infatti, a condizione di rispet-
tare le disposizioni dello Statuto e del Regolamento e che le misure in oggetto non
siano « ni préjudiciables ni contraires aux droits de la défense », la Corte può
« également autoriser un témoin à présenter une déposition orale ou un enregi-
strement vidéo ou audio, et à présenter des documents ou des transcriptions écri-
tes ». Com’è stato notato (84), la presenza di questi limiti al principio dell’oralità
riflette l’evoluzione che i tribunali ad hoc hanno subito in direzione di un sistema
probatorio più temperato. L’ampiezza che questi limiti assumeranno concreta-
mente nella giurisprudenza della CPI dipenderà anche, in buona misura, dalle sol-
lecitazioni rivolte alla Corte per assicurare un processo ragionevolmente rapido ed
economico.
Per quanto riguarda lo Statuto, un’eccezione al principio secondo il quale il
testimone deve essere sentito davanti alla Corte che dovrà giudicare nel merito è
rappresentato dall’art. 56 (la R. 114 del Regolamento vi aggiunge soltanto delle
precisazioni marginali). Questa norma, la cui souplesse è già stata sottoli-
neata (85), permette al Procuratore (o alla Camera preliminare, nell’interesse della
difesa) di raccogliere, durante le indagini, una testimonianza o una deposizione
nel caso in cui si ritenga che questa possibilità « ne se présentera plus par la
suite » (§ 1 a). Questa procedura, simile al nostro ‘‘incidente probatorio’’, rappre-
senta un limite all’oralità nella misura in cui impedisce alla Camera di assistere,
senza mediazioni, alla deposizione del teste. Tale deroga trova giustificazione nella
necessità di preservare certe prove dal rischio di sparizione (il classico esempio è
rappresentato dal caso di un testimone il cui stato d’infermità potrebbe impedirgli
di testimoniare a dibattimento).
Nell’evitare di sottoporre questo istituto a condizioni di ammissibilità troppo
esigenti, i redattori dello Statuto hanno mostrato di trarre ancora una volta pro-
fitto dall’esperienza del Tribunale per la ex Yugoslavia, che aveva rivelato l’oppor-
tunità di incentivare il ricorso a questa particolare forma di dibattimento antici-
pato. Il Tribunale, infatti, sempre nell’ottica di valorizzare la prova scritta senza
apportare lesioni intollerabili all’equità del procedimento, avrebbe poi provve-
duto, nel novembre 1999, ad emendare la R. 71 A) del Regolamento per far fronte
alle necessità indicate dalla prassi. In seguito alla suddetta modifica, l’accesso a
questa procedura non è più subordinata alla stretta condizione, prevista nel testo
originario, della presenza di « circonstances exceptionnelles », essendo sufficiente,
ormai, che « l’intérêt de la justice le commande ».

(84) G. BOAS, Developments in the Law of Procedure and Evidence at the Internatio-
nal Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and the International Criminal Court, in
Criminal Law Forum, 2001, pp. 181-182.
(85) Si è gia ricordato il potere discrezionale dei giudici in ordine all’ammissione o
meno del difensore dell’imputato (§ 2 d). Altre variabili floues sono previste, come l’affida-
mento all’apprezzamento case by case dei giudici circa la redazione del verbale e il potere
della Camera preliminare di attribuire alle deposizioni il valore probatorio che ritenga op-
portuno (§ 4).

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Nel Regolamento, la norma che si incarica di precisare i limiti all’oralità indi-


cati nel paragrafo 2 dell’art. 69 è la R. 68, intitolata « Témoignages préalablement
enregistrés ». Secondo tale regola, la Camera di prima istanza può autorizzare la
presentazione di « témoignages déjà enregistrés sur support audio et vidéo, ainsi
que de transcriptions ou d’autres preuves écrites de ces témoignages », alla condi-
zione che l’accusa e la difesa abbiano avuto la possibilità d’interrogare il testimone
durante la registrazione. Nel caso in cui il testimone compaia personalmente da-
vanti alla Camera, è prevista, come condizione supplementare, che il testimone in
questione « ne s’oppose pas à la présentation de son témoignage enregistré ». In
quest’ipotesi, non è più necessario che le parti abbiano avuto la possibilità d’inter-
rogare il teste durante la registrazione della deposizione, essendo sufficiente che
quelle e « la Chambre elle-même aient eu la possibilité de l’interroger au cours de
la procédure ».
Confrontata con i contenuti flous dell’art. 69 e con l’evoluzione del sistema
probatorio del Tribunale per la ex Yugoslavia, questa norma « limits the use of do-
cumented or transcribed statements considerably » (86). Come si è visto, infatti,
essa sottopone l’ammissibilità dei verbali di testimonianze alla condizione che le
parti abbiano avuto la possibilità di interrogare il dichiarante durante le indagini.
A parte questa disposizione e l’ipotesi prevista all’art. 56 dello Statuto, la prova
scritta sembrerebbe avere cittadinanza soltanto in caso di consenso delle parti. Ed
anche in siffatta evenienza l’ingresso della prova scritta può essere impedito dal
potere discrezionale della Corte. Secondo la R. 69 (« Accords en matière de
preuve »), infatti, l’accordo di accusa e difesa finalizzato a fissare, come pacifici,
alcuni fatti oggetto di prova può essere vanificato qualora la Camera ritenga che
« l’intérêt de la justice » — e, in particolare, quello delle vittime — consigli che i
testimoni siano sentiti personalmente per esporre i fatti « de façon plus complète ».
Queste disposizioni sembrano escludere una serie di altre prove indirette la
cui ammissibilità, in certe condizioni, potrebbe incrementare il tasso di ‘‘equità’’
del sistema, come lo dimostra la giurisprudenza della Corte europea e l’esperienza
dei tribunali ad hoc. Per esempio, il Regolamento tace sull’ammissibilità di testi-
monianze registrate nel caso di morte imprevedibile del dichiarante prima di po-
terlo ascoltare in dibattimento o in altre ipotesi d’impossibilità sopravvenuta di
sentire il teste oralmente davanti alla Camera (ad esempio, per grave infermità o
per irreperibilità). Inoltre, la necessità che le parti abbiano potuto interrogare il te-
stimone durante le indagini sembrerebbe impedire comunque l’ammissione di ver-
bali di testimonianze raccolte in altri processi in cui la cross-examination è stata
condotta da altri difensori e da altri rappresentanti dell’ufficio del Procuratore.
Allo stesso modo, nessun riferimento è fatto alla possibilità di ammettere la prova
per affidavit che, nell’ambito di fenomeni di massa come i crimini contro l’uma-
nità, può rivelarsi necessaria per accelerare il corso della giustizia e per contenere i
costi della procedura (87). Come l’ha mostrato il Tribunale per la ex Yugoslavia,
introducendo nel Regolamento la R. 94ter e, in seguito, la R. 92bis, l’utilizzo di di-

(86) A. ORIE, Accusatorial v. Inquisitorial Approach in International Criminal Pro-


ceedings Prior to the Establishment of the ICC and in the Proceedings Before the ICC, in The
Statute of the International Criminal Court, cit., p. 1486.
(87) V., in questo senso, F. TERRIER, Procedure before the Trial Chamber, in The Sta-
tute of the International Criminal Court, cit., p. 1306.

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chiarazioni certificate sotto giuramento può essere utile, per esempio, per corro-
borare testimonianze rese di persona o per provare fatti collaterali. L’importante,
come ci insegna la Corte europea dei diritti dell’uomo, è che queste dichiarazioni
scritte, non sottoposte al vaglio del contraddittorio, non siano utilizzate per fon-
dare, da sole o in misura determinante, una sentenza di condanna. Lo stesso atteg-
giamento si rinviene nel silenzio riservato alle deposizioni dei periti. In conformità
con i sistemi di common law, il perito è considerato alla stregua di un testimone e,
in via di principio, deve essere sentito oralmente a dibattimento come un qualsiasi
testimone. Eppure, la natura tecnica e presuntivamente disinteressata di questa
fonte di prova potrebbe legittimare certi temperamenti al principio dell’oralità,
come suggersice, ancora una volta, il diritto pretorio del TPIY (R. 94bis).
Come accennato in apertura di questo paragrafo, sarà, presumibilmente, la
fonte giurisprudenziale — sollecitata dalle questioni problematiche poste dai casi
— che si incaricherà di porre rimedio ad eventuali squilibri messi in luce dalla
prassi, grazie alla flessibilità dell’assetto normativo dello Statuto.
5.3. Il Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia. —
Come si è già avuto modo di ricordare, il sistema originario del TPIY era
profondamente influenzato dallo stile adversary. Certo, non era assente
qualche ‘‘contaminazione’’ tipica della tradizione inquisitoria, come la
flessibilità delle regole sull’ammissibilità della prova e l’affidamento al
giudice della facoltà di disporre ex officio, in certi casi, la produzione di
prove (88). Tuttavia, la mancata previsione di un giudice istruttore (o
delle indagini preliminari) e la riduzione della prova scritta a un ruolo
marginale facevano del modello processuale dei tribunali ad hoc un si-
stema nel quale l’anima accusatoria era chiaramente predominante. Pro-
gressivamente, e con un’accelerazione significativa nel corso di questi ul-
timi anni, il TPIY si è orientato verso un sistema in cui la scrittura gioca un
ruolo più importante di quanto lo sia nelle regole della CPI e, come nota il
giudice Wald, nel sistema americano (89). Questa metamorfosi del TPIY è
il risultato della sinergia di fattori interni, connessi alla logica dell’equità,
e di fattori esterni, collegati a pressioni ‘‘politiche’’ per una giustizia più
rapida e meno dispendiosa.
Per quanto riguarda i primi, la prassi del Tribunale ha rivelato piutto-
sto rapidamente la necessità di ammorbidire la rigidità dell’imperativo
dell’oralità, al fine di consentire ai giudici di tener conto di altri impor-
tanti interessi che una concezione massimalistica di quest’ultima finiva

(88) A. CASSESE, Le giurisdizioni penali internazionali, in La giustizia penale ita-


liana nella prospettiva internazionale, Atti del convegno di studio svoltosi a Courmayeur (8-
10 ottobre 1999), Milano, Giuffrè, 2000, p. 147, nota che l’attribuzione al giudice di questo
ruolo parzialmente attivo nel campo probatorio sia stata « per la maggioranza dei giudici del
Tribunale una grossa deviazione dai loro principi e schemi giuridici, che è stata accettata a
malincuore ».
(89) P.M. WALD, To ‘‘Establish Incredible Events by Credible Evidence’’, cit., p. 537.

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per sacrificare in misura non tollerabile (90). A questo proposito, è signi-


ficativo che due recenti modifiche al Regolamento facciano riferimento ad
un principio olista analogo a quello dell’equità, « intérêt de la justice »,
per giustificare, in certi casi, il ricorso alla fonte scritta in luogo di quella
orale (R. 71 A e R. 89 F), quasi a voler significare che è la stessa esigenza
di giustizia ad imporre un opportuno riequilibrio delle due forme del me-
todo probatorio. Quanto ai secondi fattori, la lentezza di molti processi
celebrati davanti al TPIY non poteva che suscitare le critiche della comu-
nità internazionale. Di conseguenza, nella prospettiva di migliorare l’effi-
cienza del sistema, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha affidato
ad un Gruppo di esperti il compito di suggerire consigli e di proporre ri-
forme procedurali per accelerare il ritmo delle udienze (91). Tra le diverse
raccomandazioni, il Rapporto — trasmesso al Segretario Generale il 22
novembre 1999 — consiglia di ridurre il numero dei testimoni e la lun-
ghezza della loro deposizione al minimo necessario per assicurare un con-
traddittorio effettivo. In quest’ottica, gli esperti raccomandano, in partico-
lare, di fare ricorso a dichiarazioni scritte al posto di deposizioni orali in
tutti i casi in cui l’equità della procedura non rischia di essere compro-
messa.
Nel sistema del 1994, la sola eccezione espressamente prevista al
principio secondo il quale « les Chambres entendent les témoins directe-
ment » (R. 90 A) era rappresentata dalla R. 71 che, nella sua versione ori-
ginaria, subordinava la possibilità di raccogliere una prova « en vue du
procès » alla presenza di « circonstances exceptionnelles » (§ A). Tutta-
via, la presenza del dispositivo flou della R. 89 C), « la Chambre peut re-
cevoir tout élément de preuve pertinent qu’elle estime avoir valeur pro-
bante », ha presto dischiuso ai giudici una via per ammettere prove indi-
rette. A questo proposito, il Tribunale si è pronunciato a più riprese in fa-
vore dell’ammissibilità dell’hearsay evidence (cioè in relazione alla prova
di « statements made out of court » (92)), specialmente nei casi Ta-

(90) Come sottolinea A. ORIE, Accusatorial v. Inquisitorial Approach, cit., p. 1442,


« practice has shown (especially in the United States and in the ICTY) that the characteristic
elements of the adversarial model tend to paralyse the administration of justice in serious
and complex cases ».
(91) Report of the Expert Group to Conduct a Review of the Effective Operation and
Functioning of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and the Inter-
national Criminal Tribunal for Rwanda, U.N. Doc. A/54/634 (1999). Cfr., per un’analisi di
questo documento, D.A. MUNDIS, Improving the Operation and Functioning of the Interna-
tional Criminal Tribunals, in American Journal of International Law, 2000, p. 759 s.
(92) Prosecutor v. Galic (IT-98-29-AR73.2), Decision on Interlocutory Appeal Con-
cerning Rule 92-bis(C), cit., in cui si precisa che la prova indiretta può essere « oral, as
where a witness relates what someone else had told him out of court, or written, as when
(for exemple) an official report written by someone who is not called as a witness is tendered
in evidence » (§ 27).

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dic (93), Blaskic (94), Aleksovski (95) e Kordic (96). La posizione della
Corte è ben riassunta nella decisione della Camera d’appello relativa al
caso Aleksovski.

I giudici cominciano col ricordare che « il est bien établi dans la pratique du
Tribunal que la preuve indirecte est recevable ». L’ammissibilità di questa prova
viene ricollegata alla R. 89 C), che offre alle Camere « toute latitude pour admet-
tre une preuve indirecte pertinente ». Per far ciò, la Corte deve essere convinta che
la prova indiretta sia « crédible en ce sens qu’elle est volontaire, véridique et digne
de foi ». Per stabilire la credibilità della deposizione resa fuori udienza si prenderà
in considerazione « à la fois le contenu de la déclaration et les circonstances dans
lesquelles elle a été faite; ou comme l’a dit le juge Stephen, la valeur probante
d’une telle déclaration dépend du contexte et du caractère du moyen de preuve en
question ». Ora, per il Tribunale, « le fait que la preuve est indirecte ne la prive
pas nécessairement de sa force probante mais on admet que l’importance ou la
valeur probante qui s’y attache sera habituellement moindre que celle accordée à
la déposition sous serment d’un témoin qui peut être contre-interrogé, bien que
cela dépende encore des circonstances extrêmement variables qui entourent ce té-
moignage » (§ 15).
Nel caso di specie, l’accusa riteneva che la Camera avesse commesso un er-
rore nel non domandare alla difesa le ragioni per le quali non avesse citato a com-
parire il testimone in persona e nel decidere che il diritto dell’accusa a contro-in-
terrogare il teste fosse rispettato nella misura in cui essa aveva potuto interrogarlo
nell’ambito di un altro processo (caso Blaskic). A sostegno della prima doglianza,
l’appellante richiamava le regole, a volte estremamente precise, che — in certi
paesi — definiscono le circostanze nelle quali le giurisdizioni interne possono fare
ricorso alla prova indiretta.
La Camera d’appello rigettò il ricorso ribadendo, innanzitutto, che il Tribu-
nale « n’est pas lié par les règles de preuve nationales » e che, in assenza di ecce-
zioni sollevate dall’appellante durante il processo di primo grado, la Camera non è
tenuta ad informarsi presso l’accusato sulle ragioni della decisione di non citare il
testimone a comparire. Ugualmente, per quanto riguarda la seconda doglianza, la
Corte d’appello nota che i fatti all’origine dell’imputazione dei due accusati (Ale-
ksovski e Blaskic) « se sont produits dans la même région, la vallée de Lasva, et
que les deux actions (qui découlent du même acte d’accusation) ont beaucoup de
points en commun sur le plan des faits et du droit ». Ora, prosegue la Corte, l’ap-
pellante « n’a pas tenté de démontrer l’existence d’une technique de contre-inter-
rogatoire qui serait judicieuse et importante dans l’affaire Aleksovski et ne le se-
rait pas dans l’affaire Blaskic » (§ 20). Come si può notare, la presenza di una se-

(93) Procureur c. Tadic (IT-94-1), Décision concernant la requête de la défense sur


les éléments de preuve indirects, cit.
(94) Prosecutor v. Blaskic (IT-95-14-T), Decision on Standing Objection of the De-
fence to the Admission of Hearsay with no Inquiry as to its Reliability, cit.
(95) Prosecutor v. Aleksovski (IT-95-14/1-AR73), Arrêt relatif à l’appel du Procu-
reur concernant l’admissibilité d’éléments de preuve, cit.
(96) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-T), Decision on the Prosecution Ap-
plication to Admit the Tulica Report and Dossier into Evidence, 29 luglio 1999.

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rie di circostanze che farebbero presumere l’inutilità di citare il testimone a dibat-


timento finisce per ribaltare l’onere della prova: spetta a chi richiede la prova di-
retta di dimostrarne l’utilità e di convincere i giudici che l’ammissione della prova
indiretta lederebbe l’equità della procedura.
Lo stesso ragionamento è seguito dal Tribunale nel caso Kordic, dove il Pro-
curatore chiedeva l’ammissione, tra l’altro, di verbali di testimonianze raccolte nel
processo Blaskic. I testimoni in questione erano stati contro-interrogati in occa-
sione di quest’ultimo processo e la difesa di Blaskic aveva un ‘‘common interest’’
con la difesa dell’accusato. Tuttavia, diversamente dal caso Aleksovski, la Camera
— nel decidere circa l’ammissione di questi verbali — vi aggiunge un significativo
temperamento. Si stabilisce, infatti, che « this ruling will not preclude the applica-
tion by the Defence to cross-examine the witnesses on the ground that there are
significant relevant matters not covered by cross-examination in Blaskic which
ought to be raised in this case » (§ 28). La Camera, in altri termini, riconosce,
alla parte contro la quale le dichiarazioni scritte sono ammesse, il diritto di inter-
rogare direttamente il testimone all’origine delle dichiarazioni, qualora vi siano
circostanze che non sono state oggetto di un contro-interrogatorio nel processo a
quo e che, perciò, potrebbero svolgere un ruolo importante nel processo ad quem.

Parallelamente a questa produzione giurisprudenziale, i giudici si


sono avvalsi più volte del loro potere di modificare il Regolamento per
estendere il campo di ammissibilità della prova scritta. Nel settembre
2000, la Camera d’appello, dopo aver riaffermato la presenza di una « ge-
neral preference for live, in-court testimony before the International Tri-
bunal » (§ 23), riconosceva l’esistenza, nel Regolamento di procedura e
prova, di quattro eccezioni al principio della deposizione diretta del testi-
mone: le Regole 71, 71bis, 94bis e 94ter (97). I giudici notavano, tuttavia,
che soltanto quest’ultima norma poteva ritenersi una vera e propria ecce-
zione al diritto di contro-interrogare il testimone a carico: le altre regole
« envisage a right of cross-examination in some form » (nota 43). Questa
deroga sarebbe giustificata in quanto, nella R. 94ter, « the evidence is in-
tended to add to live testimony and not substitute for it » (§ 38). In effetti
questa norma, introdotta il 17 dicembre 1998 e soppressa il 13 dicembre
2000, permetteva ad una parte di citare un testimone e di sottoporre, ad
adiuvandum, delle dichiarazioni certificate o sotto giuramento (affidavits)
di altri testimoni « pour corroborer son témoignage » su un fatto contro-
verso. L’ammissibilità di queste dichiarazioni era subordinata alla circo-
stanza che esse fossero state raccolte « avant la déposition du témoin cité
à comparaître » e alla condizione che la Camera non accogliesse l’obie-
zione della controparte proposta « dans les sept jours de la déposition du
témoin à travers lequel les déclarations sous serment sont soumises ».
Come sottolinea il Tribunale, lo scopo di questa regola era il « desire to

(97) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.6), Decision on Appeal Re-


garding the Admission into Evidence of Seven Affidavits, cit.

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contribute to the expedition of cases before the International Tribunal, by


providing a mechanism whereby affidavit evidence could be brought be-
fore a Trial Chamber in certain circumstances, avoiding the need to call
every witness relied upon in relation to a fact in dispute especially when
the testimony is cumulative ». Anche in questo caso, come d’abitudine, la
Corte introduce un temperamento, premurandosi di precisare che questo
« desire for expedition is however constrained by the need to protect the
rights of an accused » (§ 25).
Diversamente dalla R. 94ter, nelle altre presunte eccezioni al princi-
pio dell’oralità il diritto alla cross-examination è, in un modo o nell’altro,
salvaguardato. La R. 71bis prevede la possibilità, « dans l’intérêt de la ju-
stice », di raccogliere una testimonianza tramite videoconferenza. Gli in-
convenienti che possono presentarsi attraverso questa forma ‘‘mediatizza-
ta’’ di esame sono bilanciati dal dovere di rispettare una certa procedura e
dalla direttiva giurisprudenziale di considerare questa testimonianza meno
probante di una deposizione resa in dibattimento nelle forme canoni-
che (98). Per quanto riguarda la R. 71, di cui si è gia avuto modo di far
menzione, essa permette alle parti di cristallizzare una prova orale du-
rante le indagini in vista di un futuro utilizzo in dibattimento. In questo
caso, la sola deroga al principio dell’oralità è rappresentata dall’impossibi-
lità, da parte della Camera, di assistere personalmente alla cross-examina-
tion. Questa limitazione, tuttavia, è temperata dall’obbligo di registrare la
testimonianza, di trasmettere tutte le obiezioni sollevate dalle parti alla
Camera in vista di una sua decisione in merito e dal principio secondo cui
il peso probatorio di questa forma di testimonianza può essere attenuato.
L’eliminazione, in occasione della ventunesima Sessione Plenaria (15-17
novembre 1999), della condizione delle « circonstances exceptionnelles »
ha permesso al Tribunale, già nella prima decisione immediatamente suc-
cessiva alla novella, di ammettere le deposizioni di ventitrè testimoni. I
giudici, dopo aver ricordato che la R. 71 è stata modificata per rendere la
« deposition evidence more widely available as a tool for expediting pro-
ceedings, so long as there is no reason why that would be contrary to ju-
stice in the particular case » (99), hanno fondato la decisione di ammissi-
bilità delle dichiarazioni in questione sulle seguenti ragioni: i) le deposi-
zioni non riguardavano fatti idonei a provare direttamente la responsabi-
lità dell’accusato relativamente ai crimini ascrittigli o, alternativamente,

(98) Prima dell’introduzione di questa regola, il Tribunale, nel caso Tadic, aveva am-
messo questa forma di testimonianza, specificando le modalità procedurali della deposizione
e il suo valore probatorio (Prosecutor v. Tadic (IT-94-1-T), Decision on the Defence Motions
to Summon and Protect Defence Witnesses, and on the Giving of Evidence by Video-Link,
25 giugno 1996).
(99) Prosecutor v. Naletilic & Martinovic (IT-98-34-PT), Decision on Prosecutor’s
Motion to Take Depositions for Use at Trial (Rule 71), 10 novembre 2000, p. 4.

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erano prove di natura ripetitiva; ii) la norma in questione non richiede che
i testimoni di cui è ammessa la deposizione scritta nelle forme dell’inci-
dente probatorio non siano in grado di raggiungere il Tribunale; iii) la na-
tura sussidiaria delle testimonianze riduce gli svantaggi derivanti dall’im-
possibilità di osservare direttamente il comportamento dei testi o di porre
domande; iv) come per altre forme di prova indiretta, anche in questo
caso la Corte potrà conferire alle prove scritte un peso probatorio minore
rispetto alle prove assunte oralmente. Infine, per quanto riguarda la R.
94bis, la possibilità di evitare la cross-examination del ‘‘testimone esper-
to’’ è subordinata alla condizione che la controparte accetti il rapporto del
perito e che la Camera non vi scorga motivi per citare il teste a deporre in
persona.
Questo processo di rafforzamento della prova scritta ha subito une
decisa accelerazione ad opera delle modifiche al Regolamento intervenute
durante la ventitreesima Sessione Plenaria (13 dicembre 2000). Il fine di-
chiarato delle modifiche apportate in quell’occasione, come risulta dal
Rapporto annuale del Tribunale, era di « speed up trials and the pre-trial
process and to minimize delays » (100), in conformità con i desiderata
espressi nel citato Rapporto del Gruppo di esperti, rimesso l’anno prece-
dente. Probabilmente, un altro fattore che ha spinto i giudici a temperare
ulteriormente il principio dell’oralità è stata la volontà di reagire a due de-
cisioni della Camera d’appello (101). La prima, già esaminata supra al
§ 4, aveva annullato la decisione della Camera di prima istanza con cui si
era ammessa la dichiarazione di un testimone morto, nei confronti del
quale la difesa non aveva mai potuto esercitare il suo diritto al contraddit-
torio (102). La seconda aveva fornito un’interpretazione particolarmente
restrittiva di alcune condizioni di ammissibilità della prova per affidavit
previste nella R. 94ter (103).
In seguito a queste modifiche, il principio dell’oralità ha perso la su-
premazia che possedeva nel sistema originario. Infatti, la lettera A) della
R. 90, che stabiliva il principio di massima secondo cui i giudici « enten-
dent les témoins directement », è stato cancellato. Parallelamente, la R. 89
è stata arricchita di una nuova disposizione (la lettera F) che sembra met-
tere su un piano di eguale dignità la logica dell’oralità e la logica della
scrittura: « la Chambre peut recevoir la déposition d’un témoin orale-
ment, ou par écrit si l’intérêt de la justice le commande ».
La norma che tenta di trovare un equilibrio soddisfacente tra le due

(100) Annual Report for 2000, U.N. Doc. A/55/273, S/2000/777, § 288.
(101) Così, G. BOAS, Creating Laws, cit., p. 76.
(102) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.5), Decision on Appeal Re-
garding Statement of a Deceased Witness, 21 luglio 2000, cit.
(103) Prosecutor v. Kordic & Cerkez (IT-95-14/2-AR73.6), Decision on Appeal Re-
garding the Admission into Evidence of Seven Affidavits and One Formal Statement, cit.

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logiche è la R. 92bis (« Proof of Facts Other than by Oral Evidence »), che
va a sostituire la R. 94ter.

Secondo la lettera A) di questa lunga disposizione, la Camera può ammettere,


in tutto o in parte, « une déclaration écrite, au lieu et place d’un témoignage oral »
a patto che essa sia idonea a « démontrer un point autre que les actes et le com-
portement de l’accusé tels qu’allégués dans l’acte d’accusation ». Quanto ai fattori
che giustificano il versamento nel fascicolo del giudice di una tale dichiarazione, la
norma ne fornisce una lista puramente esemplificativa nella quale sono contem-
plati, ad esempio, i casi in cui detti elementi di prova sono « cumulatifs », si riferi-
scono al « contexte historique, politique ou militaire pertinent » o all’« effet des
crimes sur la victime » o ancora consistono in un’« analyse générale ou statistique
de la composition ethnique de la population dans les lieux mentionnés dans l’acte
d’accusation ». Quanto, invece, ai fattori che si oppongono all’ingresso della
prova scritta, la norma fa riferimento alla presenza di un interesse generale che
impone di presentare oralmente le fonti di prova, all’opposizione della parte av-
versa, mirante a mostrare l’inaffidabilità di queste dichiarazioni o che il loro va-
lore probatorio è largamente inferiore al loro effetto pregiudizievole o, infine, che
esiste « tout autre facteur qui justifie la comparution du témoin pour contre-inter-
rogatoire ».
La lettera B) prevede che le dichiarazioni in questione debbano possedere
certe caratteristiche procedurali e formali la cui assenza, nelle ipotesi di cui alla
lettera C), non è di ostacolo alla loro ammissione. Dette ipotesi si riferiscono ai
casi in cui le dichiarazioni provengano « d’une personne décédée par la suite,
d’une personne qui ne peut plus être retrouvée malgré les efforts raisonnables où
d’une personne qui n’est pas en mesure de témoigner oralement en raison de son
état de santé physique ou mentale ». Tuttavia, l’ammissibilità di queste prove
scritte è subordinata al fatto che la Camera « en décide ainsi sur la base des preu-
ves les plus concluantes » e se il contesto in cui è resa la deposizione ed è stata re-
gistrata presenta « des indices suffisants de fiabilité ». Infine, la lettera D) am-
mette il versamento, nel fascicolo del giudice, del verbale di una testimonianza
resa in un altro processo alla condizione, già prevista nella lettera A), che tenda a
« prouver un point autre que les actes et le comportement de l’accusé ». L’ultima
disposizione fissa i termini per la notifica della domanda di ammissione della
prova indiretta e per l’opposizione. Inoltre, essa attribuisce alla Camera il potere
discrezionale di decidere se conviene versare la dichiarazione nel dossier o, al con-
trario, se risulta opportuno ordinare l’audizione del testimone affinché possa es-
sere sottoposto al contraddittorio dibattimentale.

La norma in questione ha già prodotto una giurisprudenza rilevante


che ha provveduto a chiarirne certi aspetti cruciali.
Nella prima decisione che ha applicato la nuova regola (104), il Tri-
bunale — chiamato a pronunciarsi sull’ammissibilità di verbali di sei testi-
monianze rese in altri procedimenti — si è premurato di precisare le con-

(104) Prosecutor v. Sikirica et alii (IT-95-8-T) Décision relative à la requête de l’ac-


cusation aux fins de verser au dossier, cit.

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dizioni di esercizio del potere discrezionale previsto nella lettera E) della


R. 92bis. A tal fine, due criteri sono stati proposti per decidere se assu-
mere i verbali o disporre la comparizione in udienza dei testimoni per as-
sicurare il contraddittorio ‘‘per la prova’’. Innanzitutto, si deve verificare
se « les comptes rendus tendent à prouver un élément crucial à charge » e,
in caso di risposta negativa, se « le contre-interrogatoire du témoin effec-
tué dans le cadre des autres affaires a dûment traité des questions utiles à
la Défense en l’espèce » (§ 4). Nel caso di specie, alla Corte è bastato
fare riferimento al primo criterio per impedire l’ingresso della prova
scritta richiesta (la testimonianza di un importante uomo politico musul-
mano relativa al contesto nel quale i Serbi avrebbero assunto il controllo
di Prijedor). Per escludere detta prova i giudici hanno sottolineato che,
sebbene essa non si riferisca « aux actes ou aux comportements des accu-
sés, concerne l’espèce si fondamentalement et si directement qu’il con-
vient d’autoriser les trois accusés à le contre-interroger » (§ 35).
Nelle decisioni successive, il Tribunale si è preoccupato di definire il
significato della locuzione « actes et comportement de l’accusé », la cui in-
terpretazione è stata considerata a giusto titolo, da uno dei primi com-
mentatori della nuova regola, come « pivotal to the fair and effective ap-
plication of the Rule » (105).
Nel caso Milosevic, ai giudici è stato chiesto di pronunciarsi sulla
questione cruciale se gli atti degli inferiori gerarchici o dei concorrenti nel
reato rientrassero nell’espressione « actes et comportement de l’ac-
cusé » (106). Il Tribunale ha osservato che questa frase « is a plain
expression and should be given its ordinary meaning: deeds and beha-
viour of the accused. It should not be extended by fanciful interpreta-
tion ». La lettera della norma, priva di riferimenti alla condotta dei subor-
dinati o dei concorrenti, non impedirebbe, quindi, l’ammissione dei ver-
bali. La circostanza che la prova indiretta tenda a provare il comporta-
mento di queste persone è rilevante, secondo la Corte, « to whether cross-
examination should be allowed and not to whether a statement should be
admitted » (§ 22). Nella fattispecie, i giudici, facendo riferimento al
primo dei due criteri enucleati nel caso Sikirica, hanno ritenuto che le
prove scritte richieste dall’accusa tendevano a provare « a ‘critical ele-
ment’ of the Prosecution’s case » (§ 24). Per questa ragione, sempre ri-
chiamandosi all’ideale regolativo dell’equità, si è concluso che « the requi-

(105) G. BOAS, Creating Laws, cit., p. 82.


(106) Prosecutor v. Milosevic (IT-02-54-T), Decision on Prosecution’s request to
have written statements admitted under rule 92bis, 21 marzo 2002. Sul tema dell’ammissibi-
lità della prova scritta per provare la condotta dei subordinati gerarchici v. anche Prosecutor
v. Brdanin & Talic (IT-99-36-T), Public Version of the Confidential Decision on the Admis-
sion of Rule 92 bis Statements Dated 1 May 2002, 23 maggio 2002.

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rements of a fair trial demand that the accused be given the right to cross-
examine the witnesses » (§ 25) (107).
Nel caso Galic (108), la Camera d’appello ha avuto modo di confer-
mare questa interpretazione, aggiungendovi, peraltro, un’ulteriore restri-
zione. Secondo i giudici, infatti, « where the evidence is so pivotal to the
prosecution case, and where the person whose acts and conduct the writ-
ten statement describes is so proximate to the accused, the Trial Chamber
may decide that it would not be fair to the accused to permit the evidence
to be given in written form » (§ 13). Nel caso in cui, quindi, la persona
(non necessariamente inferiore gerarchico o correo) i cui atti sono oggetto
della prova scritta è ‘‘così prossima’’ all’imputato, potrebbe conseguirne
non solo la necessità di citare l’autore della dichiarazione, ma anche il più
radicale effetto di vietarsi l’ammissione dei verbali. Come esempio di que-
st’ipotesi, la Corte cita il caso in cui la prova scritta descriva gli atti di una
persona diversa dall’accusato che si sono verificati in presenza di questo.
La decisione Galic affronta anche altre questioni interpretative. Qui
di seguito verranno presentate le due più rilevanti.
La prima concerne la lettera C) della R. 92bis. Il Procuratore, nella
sua opposizione all’appello dell’imputato, proponeva, nell’ipotesi in cui il
Tribunale ritenesse di non poter ammettere le dichiarazioni scritte fa-
cendo leva sulla lettera A), di seguire il percorso tracciato dalla lettera C).
Si trattava, infatti, di due testimonianze i cui autori erano deceduti. L’ar-
gomento dell’accusa tendeva a mostrare che, per i casi particolari previsti
in questa disposizione (morte, infermità o irreperibilità del teste), non vi
fosse la necessità che la prova scritta portasse su un « point autre que les
actes et le comportement de l’accusé », come richiede, invece, la regola
generale della lettera A). Oltre all’argomento della littera legis (la disposi-
zione in questione non contiene, diversamente dalle lettere A) e D), que-
sto limite), l’accusa si richiamava alla ratio della norma. Se, nelle ipotesi
delle lettere A) e D), l’ammissibilità della prova scritta è finalizzata essen-
zialmente ad accelerare la procedura (i testimoni di cui si chiede l’ammis-
sione delle dichiarazioni potrebbero deporre in dibattimento), nelle ipo-
tesi previste alla lettera C), in cui le persone non possono essere citate a
deporre oralmente davanti alla Corte, lo scopo è quello di ammettere la
‘‘miglior prova’’ disponibile, e cioè la hearsay evidence, la sola, in questo
caso, disponibile. La Camera d’appello non ha accolto, tuttavia, questo ar-

(107) Nella sua opinione separata, il giudice Robinson sostiene che quando le dichia-
razioni scritte « expose the accused to liability in relation to a critical element of the Prose-
cution’s case » — come nel caso di dichiarazioni che coinvolgono la responsabilità degli infe-
riori gerarchici — « cross-examination is not at the discretion of the Trial Chamber; it is a ri-
ght of the accused » (§ 10).
(108) Prosecutor v. Galic (IT-98-29-AR73.2), Decision on Interlocutory Appeal Con-
cerning Rule 92bis(C), cit.

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gomento. La lettera C), infatti, « does not provide a separate and self-con-
tained method of producing evidence in written form in lieu of oral testi-
mony ». Questa disposizione, « both in form and in substance », si limite-
rebbe ad escludere la necessità dei requisiti formali « required by Rule
92bis(B) for written statements to become admissible under Rule 92-
bis(A) » (§ 24).
La seconda concerne i rapporti tra la R. 92bis e la R. 89 C) alla
quale, come si è visto, il Tribunale ha collegato l’ammissibilità della hear-
say evidence. Sempre con l’intenzione di contrastare l’appello della difesa,
l’accusa cercava, infatti, di eludere le strettoie della R. 92-bis attraverso la
via più comoda rappresentata dalla disposizione generale in tema di
prova. Anche in questo caso, tuttavia, i giudici hanno rifiutato di aderire
alla strategia argomentativa della Procura, precisando che la R. 92-bis è
una species del genus contenuto nella R. 89 C) e che, di conseguenza, se
vi sono tipologie probatorie che rientrano nell’alveo della prima regola,
l’applicazione della norma generale non può ritenersi ammessa.
Per la Corte, la lex specialis si applica alle dichiarazioni scritte che
sono preparate espressamente per essere impiegate in vista di un pro-
cesso. Queste prove indirette sono, infatti, di un « very special type, with
very serious issues raised as to its reliability » (§ 28). I documenti ad esse
pertinenti non sono redatti « in the ordinary course by persons who have
no interest other than to record as accurately as possible matters relating
to the business with which they are concerned ». La normale esclusione
che colpisce questo tipo di hearsay evidence nei sistemi di common law,
sottolinea la Corte, « also rested upon the recognised potential in relation
to such documents for fabrication and misrepresentation by their makers
and of such documents being carefully devised by lawyers or others to en-
sure that they contained only the most favourable version of the facts sta-
ted » (§ 29). La conclusione del ragionamento è quindi che « a party can-
not be permitted to tender a written statement given by a prospective wit-
ness to an investigator of the OTP under Rule 89(C) in order to avoid the
stringency of Rule 92bis ». Il fine di quest’ultima disposizione è infatti « to
restrict the admissibility of this very special type of hearsay to that which
falls within its terms ».
Come si può notare già da questa breve presentazione della giurispru-
denza del TPIY, i giudici mostrano grande accortezza nel contemperare,
sulla bilancia dell’equità, i valori sottesi al principio dell’oralità con quelli
tutelati dal principio della scrittura.

6. La riabilitazione della dimensione pragmatica ed ‘‘antropica’’


del diritto. — Come si è visto, la logica dell’equità, alla base del metodo di
ricostruzione del fatto nella giustizia penale internazionale, determina un
mutamento della cornice concettuale e problematica del giurista. Questi è

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indotto a focalizzare la sua attenzione non più tanto sulla qualità formale
di regole fissate a priori (guidato dall’ideale regolativo della ‘‘legge perfet-
ta’’, in grado di risolvere completamente in astratto i casi della vita),
quanto piuttosto sulla qualità delle persone (giudici, rappresentanti del-
l’accusa e della difesa) che utilizzano le regole, sulla qualità della dialet-
tica processuale e sulla qualità della giustificazione dell’applicazione delle
regole. Buona parte del successo della futura Corte penale internazionale
dipenderà, allora, dall’articolazione di almeno questi tre fattori: i) il pro-
filo professionale ed etico delle persone che saranno chiamate a rivestire i
ruoli del giudice e dell’accusa al fine di assicurare autorevolezza ed impar-
zialità alla Corte (109); ii) la cura con la quale i giudici sapranno definire
criteri chiari ed equilibrati per guidare il loro potere discrezionale, la de-
terminazione con cui cercheranno di rispettarli e l’attenzione che preste-
ranno nel rispondere agli argomenti delle parti e nel motivare in modo
trasparente le loro decisioni (110); iii) l’effettività e la lealtà della dialet-
tica processuale, in modo da evitare che le forme del diritto si trasfor-
mino, da risorsa essenziale all’equità del processo, in strumenti per vanifi-
carla.
In altre parole, queste caratteristiche della giustizia penale internazio-
nale — la cui importanza per ripensare la struttura delle procedure penali
nazionali non si è mancato di sottolineare — suggeriscono al giurista di
non concentrare la propria attenzione soltanto sulla qualità delle regole
del diritto, ma anche sulla qualità degli uomini del diritto e sul contesto in
cui essi operano, al fine di riequilibrare un rapporto tradizionalmente sbi-
lanciato sul versante semantico-sintattico del fenomeno giuridico. Un’epi-
stemologia giuridica più fragile — che ha rinunciato all’hybris moderna di
un diritto fondato su se stesso, senza bisogno della virtù (111) degli attori
giuridici per funzionare (anzi un diritto concepito proprio sulla diffidenza

(109) V., in questo senso, A. CASSESE, The Statute of the International Criminal
Court: Some Preliminary Reflections, in European Journal of International Law, 1999, p.
171, secondo il quale « the election of persons of great competence and integrity may ensure
that the ICC will become an efficient body, capable of administering international criminal
justice in such manner as to attract the trust and respect of states, while fully realizing the
demands of justice ».
(110) Dell’importanza di questo fattore per il buon funzionamento del processo si è
mostrato consapevole il Tribunale per la ex Yugoslavia. Per un chiaro indizio di questa sensi-
bilità, v. il seguente passo della decisione Tadic sull’hearsay evidence (cit. alla nota 50): « la
Chambre de première instance convient qu’il est important que les parties connaissent les
critères qu’elle appliquera pour décider de l’admissibilité d’éléments de preuve indirectes. De
plus, à l’occasion de ce premier procès, une analyse du Règlement permettra de poursuivre
l’objectif qui consiste en tous cas à assurer la transparence de la procédure » (§ 14).
(111) È risaputo che per gli Antichi l’attività di dire il diritto, propria del giudice,
presupponesse « moins la maîtrise d’une science que la possession d’une vertu: la prudence
(‘phronesis’) » (B. FRYDMAN-G. HAARSCHER, Philosophie du droit, II ed., Paris, Dalloz, 2002,
p. 72).

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verso i suoi uomini ed in particolare verso il giudice) — deve essere neces-


sariamente compensata da un livello più elevato di professionalità, di
esperienza e di virtù dei giudici e degli altri attori processuali (112).
Della rilevanza della dimensione ‘‘antropica’’ nel diritto contempora-
neo (che pone al centro del dibattito giuridico temi come l’educa-
zione (113), la selezione e la deontologia (114) dei differenti attori giuri-
dici) hanno dato chiara testimonianza i redattori dello Statuto della Corte
penale internazionale, il cui art. 36 attribuisce un’importanza cruciale ai

(112) Queste tematiche sono state maggiormente approfondite nel saggio La ‘‘rhap-
sodie’’: fécondité d’une métaphore littéraire, cit., p. 168 s.
(113) La ‘‘paideia’’ del giurista dovrebbe farsi il più possibile interdisciplinare e tesa
a valorizzare la dimensione teorico-argomentativa, socio-economica e storico-comparatistica
del diritto. Per quanto riguarda specificamente il giudice, essa dovrebbe mirare, in partico-
lare, a valorizzare e a rafforzare quella virtù tipica dell’ars iudicandi che è la ‘‘phronesis’’
(prudenza), la cui formazione dipende, da un lato, dall’esperienza del mondo della vita e
delle professioni giuridiche e, dall’altro, dalla frequentazione delle ‘‘humanitates’’ (lettera-
tura, arte, filosofia) la cui presenza, nella ‘‘Bildung’’ del giurista, è andata via via scemando,
specie dopo l’accesso liberalizzato alla Facoltà di Giurisprudenza.
(114) Nel contesto giuridico nordamericano, da sempre attento alla dimensione prag-
matica del diritto, il tema della legal ethics è da anni al centro dell’esperienza giuridica, co-
m’è reso evidente dall’abbondante letteratura giuridica in materia. A questo proposito, parti-
colarmente significativa è stata l’approvazione, nel 1983, delle ‘‘Model Rules of Professional
Conduct’’, da parte dell’American Bar Association. Esse hanno segnato il punto d’arrivo di
una trasformazione ideologica e culturale che ha condotto all’abbandono della logica del
laissez faire attraverso la quale si era concepito tradizionalmente il processo adversary. La
nuova filosofia della legal ethics americana tende a ricercare un equilibrio tra la tradizionale
lealtà nei confronti degli interessi del cliente e il dovere di leale collaborazione con la parte
avversa e con il giudice, al fine di contribuire alla realizzazione di obiettivi di giustizia e ve-
rità. Questo ruolo di ‘‘officer of the court’’, apparentemente penalizzante la figura della di-
fesa, ha, al contrario, migliorato l’immagine e rafforzato il prestigio e l’autorevolezza della
classe forense, contribuendo a porre l’ordinamento giuridico americano nelle condizioni di
affrontare, e probabilmente di risolvere, molti problemi di funzionamento del suo sistema di
giustizia (in questi termini, A. DONDI, Introduzione, in Avvocatura e giustizia negli Stati
Uniti, antologia a cura del medesimo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 38). Su questa problema-
tica v., nella letteratura americana, G.C. HAZARD Jr.-W.W. HODES, The Law of Lawyering,
III ed., Gaithersburg, Aspen Publishers, 2000. Nella letteratura processualpenalistica italiana
si segnala, rara avis, il lavoro di L.P. COMOGLIO-V. ZAGREBELSKY, Modello accusatorio e
deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in questa Rivi-
sta, 1993, p. 435 s. Del resto, quest’assenza di sensibilità per il tema della deontologia giudi-
ziaria — scalfita, invero, negli ultimissimi anni (cfr., in particolare, il convegno ‘‘Etica e
deontologia giudiziari’’, tenutosi a Roma il 14 e 15 gennaio 1999 presso l’Accademia dei
Lincei e relativamente al quale si può leggere l’intervento di L. FERRAJOLI, L’etica della giuri-
sdizione penale (Contributi per una definizione della deontologia dei magistrati), in Quest.
giust., 1999, p. 483 s. e il convegno Abuso del processo e deontologia dei soggetti proces-
suali, organizzato dall’Unione delle Camere penali a Modena il 5 e 6 aprile 2002) — è dif-
fusa anche al di fuori del campo penale (A. DONDI, Spunti in tema di ‘‘Legal ethics’’ come
etica della difesa in giudizio, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1995, p. 260, denunciava, a
proposito dell’elaborazione teorica e di ricerche pratiche in Italia in tema di legal ethics, l’e-
sistenza di « un grande e pervasivo vacuum »).

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criteri per selezionare i giudici della Corte. Nel terzo paragrafo di questa
disposizione si fa riferimento, innanzitutto, al fatto che i giudici siano
« choisis parmi des personnes jouissant d’une haute considération mo-
rale, connues pour leur impartialité et leur intégrité », che posseggano,
inoltre, una « compétence reconnue » nei campi del diritto penale e della
procedura penale o del diritto internazionale e che essi abbiano, infine,
un’« expérience nécessaire du procès pénal, que ce soit en qualité de juge,
de procureur ou d’avocat » o « une grande expérience dans une profession
juridique qui présente un intérêt pour le travail judiciaire de la Cour ».
MASSIMO VOGLIOTTI
Professore a contratto
di Teoria generale del diritto
nell’Università del Piemonte Orientale
e professore
all’Académie européenne de
Théorie du droit di Bruxelles

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IN ONORE DI EUGENIO RAUL ZAFFARONI

COLPEVOLEZZA E VULNERABILITÀ (1)

1. Se seguissi le regole tradizionali dovrei cominciare ringraziando


per questo onore straordinario che mi si concede. Tuttavia preferisco in-
vertire l’ordine che solitamente si segue in queste occasioni. Non vorrei
che l’emozione interferisse con il mio discorso e, quindi, con le dovute
scuse e con la vostra autorizzazione, preferisco riservare le parole di rin-
graziamento per le conclusioni e iniziare immediatamente ad affrontare la
problematica oggetto di questa lezione.

2. Avrei potuto scegliere un tema meno ambizioso, ma ho preferito


affrontare quello della colpevolezza perché ritengo che sia l’aspetto più
delicato e significativo del diritto penale, il più specificatamente penale di
tutta la teoria del reato e che, per tale ragione, dà conto della dimensione
della crisi che attraversa il nostro sapere oramai da tempo, crisi che sem-
bra sempre più accentuarsi.

3. Secondo un’esposizione convenzionale delle questioni legate alla


colpevolezza nella dottrina penalistica, quest’ultima si sviluppò nel corso
del XX secolo partendo dalla nozione psicologica offerta dal positivismo
normativizzato, per passare poi a quella egemonizzata dal neokantismo, e
poi ancora a quella con contenuto privo del dolo, nel finalismo welzeliano
e, infine, a quella assoluta del funzionalismo tedesco. In una certa misura
possono essere segnalati passaggi analoghi nel pensiero penalistico ita-
liano e in altre dogmatiche giuridiche europee (2).

(1) Lectio doctoralis tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa
da parte della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Macerata, il 3 aprile 2003 (tradu-
zione di Ezequiel Malarino e Massimo Pavarini rivista dall’autore).
(2) Il naturalismo positivista normativizzato può notarsi, ad esempio, in GRISPIGNI,
Filippo Derecho Penal Italiano, trad. spagnola di Isidoro De Benedetti, Buenos Aires, 1949;
FLORIAN, Eugenio, Parte generale del diritto penale, Milano, 1934; nel diritto olandese, G.A.
VAN HAMEL, Inleiding tot de studie van het Nederlansche Strafrecht, Haarlem, 1927; il nor-

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4. Tuttavia credo che questo percorso, che segue canoni convenzio-


nali, finisca per nascondere il vero problema che solleva la colpevolezza e
che quindi, per una sua adeguata comprensione, necessiti ampliare il qua-
dro di riferimento fino al punto di comprendere la vecchia nozione positi-
vista di pericolosità. Sono dell’opinione, infatti, che nella definizione tra-
dizionale della nozione di colpevolezza malauguratamente si nasconda
un’ampia diversità di opzioni forzatamente omogeneizzate da una comune
denominazione e, pertanto, sia necessario fare ricorso ad un diverso con-
cetto che possa colmare questa lacuna, ovvero sia in grado di rispondere
attraverso una teoria del diritto penale che il linguaggio non abbia ancora
occultato, omogeneizzando l’eterogeneo e l’incompatibile.

5. Ogni teoria del diritto penale e, quindi, in quanto parte di questa,


ogni teoria del reato, è tributaria di una teoria della pena (3), sia che que-
sta conservi il suo nome o lo cambi con un altro che temperi il suo carat-
tere punitivo (conseguenza giuridica del reato, misura di sicurezza,
ecc.) (4). Proprio il riferimento alla teoria della pena è ciò che conferisce
unità concettuale e sistematica ad una teoria del diritto penale.

6. Qualunque teoria del diritto penale deve stabilire il legame del


delitto con la sua conseguenza (la pena). Attraverso questo legame de-
litto-pena la teoria indica l’entità della conseguenza (pena) e ciò è a fon-
damento di quanto viene nominato sentencing, Strafzumessung e, più lati-
namente, commisurazione o individualizzazione giudiziale della pena.
Una qualche connessione tra delitto e pena bisogna comunque trovarla; è
una necessità a cui si deve provvedere; come ho detto, taluni autori la co-
struiscono facendo riferimento alla nozione di pericolosità, altri utiliz-
zando nozioni di colpevolezza eterogenee e tra loro incompatibili. Mi si
consenta di nominare questo legame tra delitto e pena come connessione
punitiva.

7. Nessuna teoria del diritto penale può prescindere dall’esplicitare


una determinata connessione punitiva, in quanto nessuna teoria del diritto
penale può pretendere che il contenuto antigiuridico di un illecito indichi
di per sé la quantità di pena. Una simile pretesa comporterebbe l’adesione

mativismo in BETTIOL, Giuseppe, Diritto penale, Padova, 1982; il finalismo in autori come
Latagliata, Santamaría, ecc.
(3) A questo proposito ogni classificazione finisce per rinviare a quella originaria di
BAUER, Antón, Die Wahrnungstheorie nebst einer Darstellung und Beurtheilung aller Straf-
rechtstheorien, Göttingen, 1830.
(4) Sull’occultamento nella riflessione positivista della natura repressiva della rispo-
sta penale, già metteva in guardia BINDING, Karl, Die Normen und ihre Übertretung, II, Leip-
zig, 1914, p. 464.

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ad una nozione retributiva estrema che a sua volta presupporrebbe o una


altrettanto estrema disumanità o l’eguaglianza assoluta ed immutabile di
tutti gli esseri umani. Pertanto tutte le teorie non possono che avvalersi di
una qualche connessione punitiva in una delle versioni che ho in prece-
denza indicato.

8. Nella costruzione della teoria dell’illecito penale si utilizzano


concetti che il diritto penale ricompone, ma che provengono, in gran
parte, da altri settore giuridici, in particolare dal diritto privato, tanto che
la distinzione primaria tra antigiuridicità e colpevolezza viene ripresa
dalla dogmatica giusprivatistica di Jhering (5). L’antigiuridicità come con-
cetto generale fornisce alcune coordinate comuni che non mutano nono-
stante le accese discussioni nel campo della teoria dell’illecito.

9. Tuttavia quando il diritto penale deve indicare la connessione pu-


nitiva è prevalentemente vincolato all’idea di pena da cui parte. La con-
nessione punitiva è una costruzione esclusivamente penale in cui manca
l’ausilio di altri settori giuridici. Nella teoria dell’illecito il diritto penale è
accompagnato da Virgilio, ma quando questi scompare, il diritto penale
rimane orfano nell’elaborare la connessione punitiva e Beatrice non arriva
in soccorso, e a volte sembra che inverta il cammino della Commedia ed
entri nell’inferno.

10. La connessione punitiva può basarsi sulla stessa teoria del reato
oppure si può ridurre la teoria del reato al puro illecito e costruire la con-
nessione nella teoria della pena (6). All’inizio del secolo scorso si optava
per questa seconda via: la pericolosità positivista era la connessione puni-
tiva costruita sulla teoria della pena. Von Liszt ridusse il reato a mero ille-
cito, mentre la connessione punitiva era la pericolosità nella teoria della
pena (7). Nel chiamare colpevolezza l’elemento soggettivo del reato, Von
Liszt provocò una grande confusione semantica.

11. La c.d. teoria psicologica della colpevolezza non evoca nulla


della colpa. Quest’ultima tanto in italiano, quanto in tedesco evoca un de-

(5) Cfr. JHERING, Rudolf von, L’esprit du Droit Romain dans les diverses fases de son
devéloppement, Paris, 1877; PASINI, Dino, Ensayo sobre Jhering, Buenos Aires, 1962; WOLF,
Erik, Grosse Rechtsdenker der deutschen Geistesgechichte, Tübingen, 1951, p. 616.
(6) FERRI, Enrico, Principii di diritto criminale, Torino, 1928.
(7) Com’è noto, von Lizt sintetizzò questa posizione nel 1882 nel celebre programma
di Marburgo, pubblicato originariamente nella ZStW, 1883, p. 1 ss.; cfr., Der Zweckgedanke
im Strafrecht, trad. italiana di Alessandro CALVI, La teoria dello scopo nel diritto penale, Mi-
lano, 1962.

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bito, qualcosa che si deve pagare (8) oppure qualcosa di valorativo, men-
tre Von Liszt pretendeva utilizzare un concetto descrittivo di colpevolezza
(nel senso: c’è o non c’è nesso psichico). Un ‘‘tassello di strano legno’’
(come fu definita dal suo allievo Lilienthal (9), la cui posizione fu poi se-
guita in Italia da Antolisei) (10) era la nozione di imputabilità, basata
sulla normale motivazione (11); nozione che fu ben presto criticata (12).

12. La vera nozione di colpevolezza viene introdotta nel diritto pe-


nale con Frank (13) e con le teorie normative (14), che implicano un cam-
biamento radicale nella costruzione della connessione punitiva, che co-
mincia a costruirsi all’interno della teoria del reato. Si abbandona il positi-
vismo e si segue nuovamente la via classica, costruendo la colpevolezza
secondo il modello formale dell’etica tradizionale (Aristotele, San Tom-
maso, Kant, Hegel).

13. Tuttavia la connessione punitiva basata sul poter agire altri-


menti, sul Können come rimprovero fondato sull’esigibilità di un’altra
condotta (Freudenthal) (15) e limitato strettamente alla condotta tipica e
antigiuridica (colpevolezza per l’atto in senso proprio) porta a soluzioni
opposte rispetto a quelle della vecchia pericolosità. Fra l’altro i delin-
quenti recidivi e quelli abituali risulterebbero meno colpevoli (nel senso di
meno rimproverabili) di quelli primari.

(8) Cfr. BETTIOL, Giuseppe, El problema penal, trad. in castigliano, Buenos Aires,
1996; dello stesso, Sobre las ideas de culpabilidad en un derecho penal moderno, in Proble-
mas actuales de las ciencias penales y de la filosofía del derecho, Buenos Aires, 1970, p.
639.
(9) LILIENTHAL, Karl, Zurechnungsfähigkeit, in Vergleichende Darstellung des Deut-
schen uns Ausländisches Strafrechts, Berlin, 1908, p. 1.
(10) ANTOLISEI, Franceso, Manuale di diritto penale, Parte generale, (aggiornato da
Luigi Conti), Milano, 1969, p. 481, riconduce il problema dell’imputabilità alla categoria
della punibilità, esattamente come Lilienthal.
(11) LISZT, Franz von, Lehrbuch des Deutschen Strafrechts, Berlin, 1891, p. 165.
(12) CATHREIN, Viktor, Principios fundamentales del Derecho Penal, Estudio filosó-
fico-jurídico, trad. di José M.S. de Tejada, Barcelona, 1911, p. 102.
(13) FRANK, Reinhart von, Über den Aufbau des Schuldbegriffs, Giessen, 1907, Son-
derabdruck aus der Festschrift der Juristischen Fakultät der Universität zur Dritten Jahrhun-
dertfeier der Alma Mater Ludoviciana, trad. in castigliano di Sebastián SOLER, Estructura del
concepto de culpabilidad, Santiago de Chile, 1966.
(14) Non si può negare che la c.d. teoria normativa altro non fu che una riproposi-
zione di qualche cosa di più antico, perché già vi erano chiari accenti valorativi negli hege-
liani (per esempio, vedi KÖSTLIN, Christian Reinhold, Neue Revisión der Grundbegriffe des
Criminalrechts, Tübingen, 1845, p. 131), in CARMIGNANI (cfr. SCARANO, Luigi, La non esigi-
bilità nel diritto penale, Napoli, 1948, p. 11), in BINDING (sul punto, Otto, HARRO, Grund-
kurz Strafrecht, Allgemeine Strafrechtslehre, Berlin, 1996, p. 186), in MERKEL, Adolf, (Dere-
cho Penal, trad. di P. Dorado Montero, Madrid, s.d.).
(15) FREUDENTHAL, Berthold, Schuld und Vorwurf im geltenden Strafrecht, Tübingen,
1922.

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14. Pertanto progressivamente si cercò di costruire una teoria puni-


tiva a partire della teoria del reato, servendosi degli schemi formali dell’e-
tica tradizionale (16), ma che fosse tuttavia l’equivalente funzionale della
vecchia pericolosità (17). Questa connessione punitiva, quindi, doveva
rimproverare qualcosa di più del solo illecito; essa era chiamata a scredi-
tare normativamente l’intera esistenza del soggetto, il suo stile di vita (Le-
bensführungsschuld) ovvero direttamente la personalità dell’agente (Mez-
ger, Sauer) (18), mentre non mi sembrano significative le varianti minori
di queste tesi (19).

15. In questo modo si sancisce la colpevolezza per il tipo d’au-


tore (20), fondata sull’autorità dell’etica tradizionale, pur tradendola nella
sua essenza, poiché nell’etica non vige il divieto di analogia, come non vi-
geva nemmeno nel diritto tedesco degli anni trenta. La colpevolezza per il
tipo d’autore viola il principio di legalità, nel rimproverare atti atipici an-
teriori ed estranei all’illecito. Essa pretende che un funzionario statale giu-
dichi e rimproveri il modo d’essere di un cittadino e non solo la sua con-
dotta illecita. Con ciò si perviene a costruire una connessione punitiva a
partire del reato sotto forma di pericolosità spiritualizzata: si sostituisce lo
stato pericoloso con lo stato del peccato penale (21).

16. La colpevolezza dell’autore fu più utile al potere punitivo ri-


spetto alla vecchia pericolosità positivista (quest’ultima, infatti, preten-
deva almeno la verificabilità empirica), mentre la colpevolezza per il tipo
d’autore, in quanto eminentemente normativa, si reggeva presuntivamente
e alla fin fine si fondava solo sulle valutazioni di colui che giudicava o su
quelle del gruppo dominante senza altra pretesa di legittimazione. Se la
pericolosità pretendeva essere un dato empiricamente verificabile, lo stato
del peccato penale era solo il risultato di una attribuzione valorativa.

(16) Si basa fondamentalmente su Aristotele, LOENIG, Richard, Die Zurechnungs-


lehre des Aristoteles, Berlin, 1903.
(17) A partire della fine della seconda guerra mondiale non sembrava esservi altra
strada per fondare la responsabilità che quella di concepire la società come insieme di per-
sone responsabili (cfr., GRIFFEL, Antón, Prävention und Schuldstrafe. Zum Problem der Wil-
lensfreiheit, in ZStW, 1986, p. 31).
(18) MEZGER, Edmund, Strafrecht, Ein Lehrbuch, 1949. Mezger ebbe grande in-
fluenza in America Latina attraverso le traduzioni di MUÑOZ, J.A. Rodríguez, Tratado de De-
recho Penal, Madrid, 1946 e di FINZI, Conrado, Derecho Penal, Libro de Estudio, Parte Ge-
neral, Buenos Aires, 1958; SAUER, Guillermo, Derecho Penal, Parte General, trad. di J. Del
Rosal e J. Cerezo Mir, Barcelona, 1956.
(19) Così Bockelmann si riferiva alla ‘‘scelta di vita’’ (BOCKELMANN, Paul, Studien zur
Täterstrafrecht, Berlin, 1940).
(20) Su questo punto vedi, altresì, ENGISCH, Karl, Zur Idee der Täterschuld, in ZStW,
1942, p. 170.
(21) Così espressamente ALLEGRA, Giuliano, Dell’abitualità criminale, Milano, 1928.

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17. Non mancò il tentativo di costruire una doppia connessione pu-


nitiva, ovvero di collocare una colpevolezza dell’atto nel reato ed una col-
pevolezza dell’autore nella pena, come ‘‘colpevolezza di commisurazione
penale’’ (Strafzumessungsschuld) (Bockelmann) (22). In realtà la vera
connessione punitiva si collocava nella pena, poiché la colpevolezza del-
l’atto si limitava ad essere un semplice presupposto della prima.

18. Con l’eticizzazione del diritto penale (Welzel) (23) il rimpro-


vero penale finiva alla fin fine per fondarsi sull’incapacità di porre un
freno alla pulsione primaria verso l’azione criminosa, ma con ciò si ri-
schiava di pervenire ad una soluzione simile a quella a cui perveniva la
nozione di colpevolezza per l’atto: doveva considerarsi meno rimprovera-
bile colui che necessitava di maggiore sforzo per controllare la pulsione
criminale (ancora una volta i delinquenti recidivi ed abituali avrebbero
dovuto essere meno colpevoli, anche se non si pervenne mai a sostenere
questa soluzione estrema ma coerente).

19. Nella versione moderata del funzionalismo la colpevolezza del-


l’atto assume il carattere di limite estremo della punibilità, come finzione
necessaria nel cui ambito opera la prevenzione speciale positiva (Ro-
xin) (24). La colpevolezza dell’atto si proietta sulla pena come invalicabile
limite, mentre nella teoria della pena opera la prevenzione speciale in ra-
gione degli spazi resi agibili dalla nozione stessa di colpevolezza (25).

20. Nell’impostazione che combina il funzionalismo col normativi-


smo di Marburg e con un’abbondante dose di hegelismo (Jakobs) (26)
viene chiamata colpevolezza il giudizio che si fonda sul reato, ma che non
considera l’agente concreto, salvo che si tratti di un infermo di mente ri-
spetto a cui si esclude la colpevolezza poiché l’azione delittuosa di un folle
non offende la fiducia sistemica. La connessione punitiva viene stabilita
nella necessità di rinormalizzazione (reintegrazione della fiducia siste-

(22) BOCKELMANN, Paul, op. cit.


(23) WELZEL, Hans, Das Deutsche Strafrecht, Berlin, 1969; pure in, Das neue Bild
des Strafrechtssystem, Berlin, 1957.
(24) ROXIN, Claus, Strafrecht, Allg. Teil, Band I, Grundlagen, Der Aufbau der Verbre-
chenslehre, München, 1997.
(25) Alle tesi di Roxin si è obbiettato che eliminava i confini tra colpevolezza e puni-
bilità (così STRATENWERTH, Günther, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzip, 1977;
esiste la traduzione in spagnolo, El futuro del principio de culpabilidad, Madrid, 1980; al-
tresì MSchr.Krim., 1972, p. 196).
(26) JAKOBS, Günther, Strafrecht, Allg. Teil, Die Grundlagen und die Zurechnungs-
lehre, Lehrbuch, Berlin, 1983.

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mica) (27), causata dal reato, secondo il principio della prevenzione gene-
rale positiva (28).

21. La disuguaglianza dei criteri in base a cui si è costruita nel


tempo la connessione punitiva, la sua differente collocazione e i riferi-
menti concettuali tra loro incompatibili volta per volta utilizzati, ci avver-
tono del pericolo di una vera e propria dissoluzione del discorso penale.
Benché l’insieme di questi criteri e riferimenti teorici non conservi sempre
validità nella dottrina penalistica contemporanea la rassegna dei diversi
tentativi di dare un fondamento alla colpevolezza rende evidente la ricerca
frenetica di un concetto che stenta però a configurarsi.

22. Dalla prevenzione speciale positiva — con la sua pretesa di ri-


duzione di tutte le pene a misure trattamentali —, fino alla prevenzione
generale positiva funzionalista (che nella sostanza si avvicina in modo pe-
ricoloso alla ragion di stato), passando per il neokantismo sudoccidentale
e per l’ontologismo eticizzante, con sostanziali concessioni alla preven-
zione generale negativa più o meno espresse; così come tutte queste fina-
lità della pena si sono mostrate non condivisibili e tra loro escludentisi, al-
trettanto lo sono stati i tentativi di dare un fondamento alla connessione
punitiva.

23. In un certo modo queste concezioni incompatibili della pena e


della connessione punitiva rendono evidente l’insuccesso della dottrina
giuridico-penale, che mostra ben presto la corda quando deve elaborare
concetti senza l’ausilio degli altri settori giuridici. A questo stato di soffe-
renza si aggiunga che da tre decenni la sociologia, con successo, si ado-
pera nel dare scacco alla scienza dogmatica, mostrando che il suo uni-
verso di dovere essere divorzia oramai dall’essere oltre ogni tollerabile li-
mite (29).

24. La critica più forte della sociologia si radica nello svelare l’inne-
gabile selettività con cui il dovere essere penale si realizza nella realtà del
potere punitivo e del sistema penale (30). Ciò obbliga la dottrina penale
ad assumere un livello di sincerità mai in precedenza tollerato, che consi-

(27) Idem, p. 631.


(28) Contro questa normativizzazione estrema, vedi, tra i tanti, KÜPPER, Georg,
Grenzen der normativieren Strafrechtsdogmatik, Berlin, 1990, p. 197.
(29) Essenziale a questo proposito è l’articolo BARATTA, Alessandro, Criminologia e
dogmatica penale. Passato e futuro del modello integrato di scienza penalistica, in La que-
stione criminale, anno V, n. 2, maggio-agosto 1979.
(30) Tra i primi lavori occorre ricordare l’opera di SACK, Fritz, Selektion und Krimi-
nalität, in Kritische Justiz, 1971, p. 384.

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ste nell’accettare il fenomeno della selettività e nell’ammettere che questa


fa parte della fisiologia del potere punitivo, il cui unico oggetto finisce per
essere la rinormalizzazione (vale a dire, rassicurare l’opinione pubblica e
restituire a questa fiducia nello stato) (31).

25. Questa constatazione provoca uno decadimento etico della dot-


trina giuridico-penale. Persino le impostazioni tradizionali che elabora-
vano la connessione punitiva attraverso la colpevolezza per la condotta ri-
mangono orfane di eticità materiale, limitandosi a riprendere solamente la
forma dell’etica tradizionale: il rimprovero perde infatti di legittimità etica
quando lo si formula solo nei confronti di pochi, selezionati tra i più vul-
nerabili.

26. Seguendo questo percorso il diritto penale arretra nella gerar-


chia scientifica, col rischio di diventare una tecnologia della decisione dei
casi, basata su una teoria della conoscenza che chiude la porta a qualsiasi
dato della realtà per terribile che sia, ovvero su una costruzione dedotta
da un funzionalismo accettato come dogma, ma carente di qualsiasi etica,
basato su qualcosa di molto vicino alla ragion di stato. Esiste il rischio che
dopo due secoli si ritorni alla schifosa scienza disprezzata da Carrara (32).

27. Il destino di un sapere i cui dati di realtà sono ‘‘smascherati’’


empiricamente come non virtuosi dalla sociologia più tradizionale (come
ci ha insegnato Baratta già venticinque anni fa) (33), non è assolutamente
promettente. L’alternativa tra il rifiutare questi dati o accettare che tutto
ciò serve ad un potere che solamente è utile al prestigio di chi lo detiene, è
inammissibile. Lo sconcerto che ciò provoca nei concetti penali una volta
che si superi la soglia della teoria dell’illecito, è tale che non sono mancati
autori che hanno proposto l’ esaurimento della teoria del reato nella sola
teoria dell’illecito (34).

28. Questa è la ragione per cui ho pensato che sia necessario ten-
tare la ricostruzione della teoria del diritto penale a partire da un’altra
prospettiva. Vista l’enorme eterogeneità di criteri, fino a questo momento
non siamo stati in grado di affermare quale debba essere il senso della

(31) Forse questa affermazione non sembra completamente esatta, poiché sembra es-
sere stata anticipata da Bodino nel secolo XVI. Sto attualmente analizzando il discorso giuri-
dico di quest’ultimo.
(32) Opuscoli di diritto criminale del prof. comm. Francesco Carrara, Prato, 1885.
(33) BARATTA, Alessandro, op. e loc. cit.; riporta la medesima argomentazione nella
monografia, Criminologia critica e critica del diritto penale, Bologna, 1982.
(34) BUSTOS RAMÍREZ, Juan, Manual de Derecho Penal. Parte General, Barcelona,
1996.

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pena, ma sappiamo che ogni volta che il diritto penale ha apportato qual-
cosa di utile all’umanità lo ha fatto percorrendo la strada capace di limi-
tare il potere punitivo. Occorre partire da questa constatazione per rifon-
dare il diritto penale su base sicura. La legittimità del diritto penale come
scienza o sapere si fonda sulla sua capacità di limitare il potere puni-
tivo (35).

29. Partendo da ciò, ovvero della necessità della funzione di limite


del diritto penale, per proteggere lo stato costituzionale di diritto, credo
che la cosa più razionale sia di rielaborare questo aspetto, partendo da
una teoria agnostica della pena. Il senso metaforico dell’espressione agno-
stica serve ad prendere le distanze dall’idolatria in cui sono incorse le teo-
rie legittimanti il potere punitivo, che affermano la sua onnipotenza e la
convertono in un idolo adorato da stuoli di fanatici.

30. Il diritto penale basato su un concetto agnostico di pena può


elaborare la sua teoria del reato con percorsi parzialmente differenti da
quelli seguiti dalle teorie legittimanti il potere punitivo, ma senza distac-
carsi sostanzialmente dagli elementi fondamentali. La prova del fuoco di
una simile teoria — come di tutte le teorie — consiste nella costruzione
della connessione punitiva. Per tale ragione riteniamo che occorra soste-
nere il concetto di colpevolezza senza abbandonare le forme dell’etica tra-
dizionale, poiché ogni abbandono di queste porta con sé il rischio di di-
struggere il concetto stesso di persona (36).

31. Non si deve rifiutare questo concetto di colpevolezza della con-


dotta, argomentando che l’autodeterminazione non è verificabile (37). A
parte il fatto che neppure il determinismo lo è, è sicuro che noi intera-
giamo socialmente come se fossimo autodeterminati e che ogni persona,
in differenti circostanze concrete (costellazione situazionale), opera delle
scelte all’interno del catalogo delle condotte possibili (38). E altresì dimo-
strato che l’antropologia giuridica, costituzionale e gius-umanista si fonda
sulla fede nella autodeterminazione umana (i concetti di ‘‘persona’’ e di
‘‘sovranità popolare’’ sarebbero altrimenti inspiegabili).

(35) Questa posizione è già stata espressa in En busca de las penas perdidas, Buenos
Aires, 1990; la sviluppiamo, anche in ZAFFARONI-ALAGIA-SLOKAR, Derecho Penal. Parte Ge-
neral, Buenos Aires, 2000; 2a ed., 2002.
(36) In questo senso si può leggere la lunga polemica di Giuseppe Bettiol contro il
positivismo, specialmente in Scritti giuridici, Padova, 1966-1987.
(37) Su tale argomenti si basarono autori di tutti i tempi; cfr., ENGISCH, Karl, Unter-
suchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin, 1930; GROPP, Walter,
Strafrecht, Allg. Teil, Berlin, 1997, p. 231.
(38) Cfr. BLEJER, José, Psicología de la conducta, Buenos Aires, 1963.

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32. Non c’è dubbio che nel quadro della colpevolezza della con-
dotta occorrerà altresì prendere in considerazione la personalità dell’a-
gente, ma in senso assolutamente diverso, poiché si tratta di rimproverar-
gli ciò che ha fatto in funzione del catalogo di condotte possibili che egli
poteva tenere, condizionato dalla sua personalità (nella colpevolezza del-
l’autore all’agente si rimprovera la personalità malvagia e l’azione crimi-
nosa finisce per essere solo un sintomo della stessa). Nella colpevolezza
dell’atto gli si rimprovera l’illecito in funzione della sua personalità e delle
circostanze in cui si è trovato ad agire; in quella dell’autore gli si rimpro-
vera ciò che è in funzione dell’ingiusto.

33. Tuttavia una colpevolezza dell’atto, persino conducendo a con-


clusioni diverse ed opposte alla colpevolezza dell’autore, non legittima l’e-
sercizio del potere punitivo e neanche ha un contenuto etico, perché la so-
glia della legittimazione etica è impedita al sistema penale dalla sua stessa
selettività. Tuttavia occorre fare ricorso a questa nozione di colpevolezza
dell’atto come ad un limite alla irrazionalità che deve essere ridotta: è in-
tollerabile che si pretenda di legittimare il potere punitivo al di là dei li-
miti segnati dalla colpevolezza dell’atto.

34. Dato che la colpevolezza dell’atto è un limite, essa non può in-
dicare in tutti i casi la quantità della reazione punitiva senza prendere in
considerazione il dato della selettività. Non è etico, né razionale da parte
della dottrina invitare le agenzie giuridiche a trascurare il difetto etico più
noto della colpevolezza, su cui da più di due secoli si richiama l’atten-
zione, con i correttivi che sono sfociati nella teoria della c.d. corresponsa-
bilità colpevole (39) e che provengono da Marat (40) e dal bravo giudice
Magnaud (41), ma che non sono sufficienti per incorporare l’elemento
della selettività.

35. La corresponsabilità colpevole (Mit-Schuld) è insufficiente per-

(39) Anche se si tratta di un concetto molto più antico, si è ritenuto che esso fosse
stato elaborato per la prima volta dal diritto penale dei paesi socialisti, in particolare dalla
Repubblica Democratica Tedesca. Al riguardo si veda, NOLL, Peter, Schuld und Praevention
unter dem Gesichtspunkt der Rationalisierung des Strafrechts, in Fest. f. Hellmuth Mayer,
Berlin, 1966; ORSCHEKOWSKI, Walter, La culpabilidad en el derecho penal socialista (trad. di
J. Bustos Ramirez e S. Politoff), in Revista de Ciencias Penales, Sgo. De Chile, 1972, p. 3.
(40) MARAT, Jean Paul, Plan de législation criminelle, con commenti ed introduzione
di Daniel Hamiche, Paris, 1974; esiste una traduzione in spagnolo, Principios de legislación
penal, Madrid, 1891 ed una nuova edizione critica con commenti ed introduzione di Manuel
de Rivacoba y Rivacoba, Buenos Aires, 2000.
(41) LEYRET, Henry, Les jugements du Président Magnaud réunis et commentés, Pa-
ris, 1904; esiste una traduzione in spagnolo di D. DÍEZ ENRÍQUEZ, Las sentencias del Magi-
strado Magnaud reunidas y comentadas por Henry Leyret, Madrid, 1909.

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ché: a) in primo luogo può evocare il pregiudizio secondo cui la povertà è


la causa di tutti i reati (42); b) in secondo luogo, se si inverte questo pre-
giudizio, si finisce con il consentire più potere punitivo per le classi domi-
nanti e meno per quelle subalterne, il che condurrebbe ad un diritto pe-
nale classista a due velocità; c) in terzo luogo, sia ricco o povero il sog-
getto selezionato dal sistema penale, sempre sarà stato selezionato con
sufficiente grado di arbitrarietà, per cui non si riesce a giustificare il li-
vello di selettività strutturale del potere punitivo.

36. In un diritto penale basato su un concetto agnostico della pena,


dobbiamo pretendere che le agenzie giuridiche impieghino il loro potere
giuridico di contenimento, neutralizzando fin dove possibile la selettività
strutturale del potere punitivo, cosa che non si ottiene certo con la mera
colpevolezza dell’atto, che come abbiamo visto non prende in considera-
zione il problema della selettività. La colpevolezza dell’atto non è altro
che il limite invalicabile al potere punitivo in uno stato di diritto, che mai
può avere l’arroganza di pretendere di punire i suoi cittadini per quello
che sono, se non a costo di degenerare in forme teocratiche.

37. Tuttavia la dialettica tra stato di diritto e stato di polizia (43)


non finisce con la sola esclusione della colpevolezza per il tipo d’autore: le
resistenze dello stato di polizia, una volta rifiutata una connessione puni-
tiva basata sulla personalità, si trincerano nella colpevolezza dell’atto. Lo
stato di polizia procede come in una guerra: una volta che ha perso una
posizione retrocede e si trincera in posizione più arretrata, fintanto che lo
stato di diritto esigerà che in qualche modo si prenda in considerazione la
selettività strutturale del potere punitivo.

38. Si apre in questo modo un nuovo momento di tensione, ovvero


dialettico, tra la colpevolezza dell’atto e l’esigenza di prendere in conside-
razione la selettività nel processo di criminalizzazione. La colpevolezza
penale nello stato di diritto non può essere la semplice colpevolezza del-
l’atto, bensì deve sorgere dalla sintesi tra questa (come limite massimo del
rimprovero) e un altro concetto di colpevolezza che incorpori il dato reale
della selettività. Solamente così diventa etica e razionale la distribuzione
del potere giuridico di limitazione del potere punitivo, tenendo conto che
il potere di contenere la penalità è comunque un potere scarso che deve
pertanto essere distribuito con equità.

(42) Il pregiudizio è stato condiviso anche dalla criminologia marxista degli inizi del
XX secolo; così BONGER, Willelm, Criminality and Economic Condition, New York, 1916
(reed. 1967).
(43) Questa idea è stata espressa alcune decade fa con sufficiente chiarezza dall’am-
ministrativista MERKL, Adolf, Teoría General del Derecho Administrativo, México, 1980.

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39. Da alcuni decenni è conosciuta la marcata tendenza delle scelte


criminalizzanti in favore di alcuni stereotipi (44) che porta poi a privile-
giare la sola criminalità predatoria e di strada, posta in essere da persone
delle classi subalterne, incapaci di mettere in atto azioni delittuose più so-
fisticate o comunque più difficilmente intercettabili dal sistema pe-
nale (45). Ciò dimostra che la maggioranza dei soggetti criminalizzati non
lo sono tanto in ragione della gravità dell’illecito commesso, quanto piut-
tosto per le modalità grossolane con cui hanno posto in esser l’azione de-
littuosa, che li espone più facilmente alla persecuzione penale.

40. È chiaro, dunque, che le fattispecie penali descrivono condotte,


sapendo, tuttavia, che i tipi di atto lasciano uno spazio di arbitrarietà ri-
spetto alla selezione delle persone. Il discorso penale si costruisce sul-
l’atto, ma l’esercizio del potere punitivo si costruisce sull’autore (46).
L’inflazione delle leggi penali nella realtà operativa del sistema penale
consente di estendere le pratiche di un sistema di potere che si fonda su
una selettività d’autore.

41. Per quanto fin qui detto, il sistema penale presenta diversi livelli
di pericolosità per i cittadini a seconda del loro status sociale e delle loro
caratteristiche personali. Si può facilmente accertare come alcune mino-
ranze siano sovrarappresentate nella popolazione carceraria, come quella
costituita dagli immigrati, ovvero — in alcuni casi — da minoranze ses-
suali; ma ovunque nel modo, la popolazione carcerizzata è composta da
giovani maschi, disoccupati, che provengono dai quartieri marginali, ecc.
La pericolosità del sistema penale si differenzia in ragione della vulnerabi-
lità delle persone, come se si trattasse di un’epidemia.

42. Tuttavia nei paesi periferici, come i latinoamericani, a causa


della crescente polarizzazione della ricchezza (47), la maggioranza della
popolazione si trova in uno stato di vulnerabilità di fronte al potere puni-

(44) Al riguardo è classico il contributo di CHAPMAN, Dennis, Lo stereotipo del crimi-


nale, Torino, 1971.
(45) L’idea che la delinquenza provenga solamente dalle classi subalterne era già
stata demistificata dal contributo di SUTHERLAND, Edwin H., White-Collar Crime, New York,
1949; anche SUTHERLAND, Edwin H.-CRESSEY, Donald R., Criminology, New York, 1978.
(46) La teorizzazione del tipo d’autore del nazismo effettuata tra gli altri da Klee (ci-
tato da MEZGER, Edmund, in Die Straftat als Ganzes, in ZStW, 57, 1938, p. 678) non sa-
rebbe stato altro che un espediente per sottrarre al potere punitivo coloro che, pur essendo
del gruppo dominante, rischiavano di essere criminalizzati per un errore della polizia.
(47) Su questo profilo, cfr. il conosciuto libro di STIGLITZ, Joseph E., El malestar en
la globalización, 2002; anche se appare forse esagerato, il paragone tra potere ‘‘globale’’ ed
apartheid è suggestivo: così FALK, Richard, Predatory Globalization. A critique, Polity Press,
Cambridge, 1999.

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tivo. Nonostante ed al di là di tutto ciò, la criminalizzazione seleziona


sempre pochi, cioè, sebbene il campo della selezione si ampli, la selettività
del sistema penale, anche se aumenta quantitativamente, è sempre comun-
que bassa in relazione al campo della marginalizzazione sociale.

43. Ciò dipende dal fatto che non è il mero status o stato di vulne-
rabilità a determinare la criminalizzazione. Non si seleziona una persona
per il suo puro stato ‘‘virtuale’’ di vulnerabilità, ma per il fatto che essa si
trova in una situazione ‘‘concreta’’ di vulnerabilità. Partendo da un certo
stato ‘‘potenziale’’ di vulnerabilità, occorre che vi sia anche uno ‘‘sforzo’’
personale del candidato alla criminalizzazione per raggiungere la situa-
zione di vulnerabilità concreta, in cui si materializza la pericolosità del po-
tere punitivo. La persona deve fare qualcosa per pervenire a quella situa-
zione concreta ed è quello che io chiamo sforzo personale per raggiungere
la situazione concreta di vulnerabilità.

44. A nessuno può essere rimproverato lo stato di vulnerabilità, ma


solamente lo ‘‘sforzo personale’’ per raggiungere la situazione di vulnera-
bilità in concreto. E questo sforzo può essere di intensità molto diversa.
a) Sono eccezionali i casi di coloro che partendo da uno livello basso di
vulnerabilità, si adoperano con sforzi straordinari per raggiungere la situa-
zione concreta di vulnerabilità. Non sempre, ma molte volte, questi sforzi
straordinari obbediscono alla perdita di coperture (immunità), all’ esito di
lotte di potere.

45. b) Sono altresì eccezionali i casi di persone che, partendo da un


alto livello di vulnerabilità potenziale, e sebbene sia loro possibile perve-
nire ad una situazione di vulnerabilità concreta con poca fatica, realizzano
tuttavia uno sforzo enorme per pervenirvi. In generale si tratta di casi
prossimi alla patologia e che realizzano fatti aberranti.

46. c) La maggioranza dei criminalizzati, tuttavia, non mette in


campo grandi sforzi per raggiungere la situazione concreta di vulnerabi-
lità, poiché parte già da uno stato abbastanza elevato e basta poco perché
si concretizzino le condizioni che consentono al potere punitivo di selezio-
narli. Ed infatti la cosa più semplice per il potere punitivo è selezionare
appunto coloro che in qualche modo ostentano caratteri stereotipicizzati.
È uno sforzo a volte insignificante quello che questa maggioranza di cri-
minalizzati fa perché il potere punitivo possa concretizzare la sua perico-
losità nei loro confronti.

47. Occorre poi avvertire che ci sono momenti storici in cui la sele-
zione criminalizzante si altera per altre ragioni: come ad esempio per ne-

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cessità politiche, come accade nei regime autoritari, ovvero quando la se-
lezione criminalizzante finisce per selezionare minoranze etniche, sessuali,
ecc., come accade nelle numerose emergenze che inventa il potere puni-
tivo per eliminare gli ostacoli al suo esercizio. Ma i criteri della selettività
non cambino ugualmente di molto, poiché si tratta solamente di una mo-
difica negli stereotipi criminali, ovvero di un complemento degli originari.

48. L’amministrazione del potere giuridico di limitazione del potere


punitivo in conformità al grado di sforzo personale per raggiungere la si-
tuazione concreta di vulnerabilità, sempre nel quadro massimo della col-
pevolezza dell’atto, è razionale ed anche possibile. Siccome il potere giuri-
dico di contenimento è limitato, è ragionevole che esso si distribuisca pre-
feribilmente nei confronti di coloro che hanno fatto poco per essere rag-
giunti dal potere punitivo e che sono coloro che sono partiti da un alto
stato di vulnerabilità che ha fatto sì che, con un piccolo sforzo, si concre-
tizzasse il pericolo di criminalizzazione.

49. Per contro è anche ragionevole che non si riversi questo limitato
potere giuridico di contenimento nei confronti di coloro che si sono impe-
gnati in uno sforzo considerevole per raggiungere la situazione concreta di
vulnerabilità. Si tratta di una logica analoga a quella che potrebbe utiliz-
zarsi nel salvataggio di naufraghi: tacendo di ogni diversa ragione umani-
taria, sembra ragionevole che nell’opera di salvataggio si lascino alla fine
coloro che si sono resi responsabili nell’affondamento della nave.

50. Tenendo conto che lo sforzo giuridico collide costantemente


con le forze dello stato di polizia è ragionevole che il diritto penale rim-
proveri lo sforzo personale per raggiungere la situazione concreta di vul-
nerabilità, perché quella è la misura del contributo della persona contro lo
scopo del diritto penale di contenere il potere punitivo. Lo sforzo per la
vulnerabilità è il contributo personale del soggetto alle pretese legittimanti
del potere punitivo e, quindi, contrario allo sforzo di riduzione del potere
punitivo e di pacificazione del diritto penale.

51. D’altra parte si può dimostrare come le agenzie giuridiche di-


spongano di maggiori capacità di contenimento quando lo sforzo perso-
nale per raggiungere la situazione concreta di vulnerabilità è stato minore
e viceversa. Tale relazione inversa tra sforzo personale per pervenire alla
situazione di vulnerabilità e potere di pacificazione e di riduzione non può
essere negata adducendo esempi di pressione politica o di corruzione, poi-
ché questi esempi dimostrano solo che il soggetto non ha perso il suo
basso livello di vulnerabilità originario. Ci riferiamo a ipotesi in cui le
agenzie giuridiche operano senza questo tipo di interferenze.

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52. La colpevolezza per la vulnerabilità non è un correttivo della


colpevolezza per l’atto ma il suo rovescio dialettico, da cui scaturirà la
colpevolezza penale come sintesi. Poiché la colpevolezza per la vulnerabi-
lità opera come antitesi riduttrice, mai potrà la colpevolezza penale, risul-
tante dalla sintesi, superare il grado indicato per il rimprovero della colpe-
volezza per l’atto.

53. Può obiettarsi che la colpevolezza per la vulnerabilità è colpevo-


lezza per il tipo d’autore anche se non vi sono ragioni per sostenerlo, poi-
ché si tratta pur sempre di elementi del fatto. Tuttavia anche ammettendo
ad argumentandum che lo sia, non ne pavento alcun pericolo: nella peg-
giore delle ipotesi potrebbe consistere solamente in un grado di colpevo-
lezza equivalente a quella dell’atto. Non sarebbe priva di alcuna garanzia
costituzionale, né gius-umanista una colpevolezza dell’autore che servisse
solamente per ridurre o mantenere uguale la quantità di potere punitivo
consentita, secondo quanto indicato, dalla colpevolezza per l’atto.

54. Occorre chiedersi se vi siano ipotesi in cui, accertata la colpevo-


lezza per l’atto, la colpevolezza per la vulnerabilità risulti tanto bassa da
determinare il venire meno di ogni colpevolezza penale. Possiamo pensare
che questo si verifichi in casi molto eccezionali, in particolare in quelli in
cui si interpone un agente provocatore (48) e l’illecito non smette di es-
sere tale in quanto non si tratta di un delitto di consumazione impossibile.

55. In sintesi si può affermare che la colpevolezza per la vulnerabi-


lità non è un’alternativa alla colpevolezza come rimprovero formale etico,
ma un passo che supera quest’ultima che, come ogni processo dialettico,
la presuppone e la mantiene nella sua sintesi.

56. Affermata la colpevolezza formalmente etica come colpevolezza


per il fatto, nel rispetto del principio di autodeterminazione, la colpevo-
lezza per lo sforzo del soggetto per realizzare la situazione concreta di
vulnerabilità a quella prima si oppone, contrastando la sua originaria
mancanza di attenzione rispetto alla selettività e, nella misura adeguata, si
sintetizza dando origine ad una colpevolezza normativa penale che può ri-
durre il rimprovero per l’atto, ma mai ampliarlo.

57. La colpevolezza penale risultante da questa sintesi tradurrebbe


lo sforzo (etico e legittimo) del sapere giuridico penale per ridurre (fino a
dove possibile) il risultato della colpevolezza formale, ma non material-

(48) Su tale concetto, DE MAGLIE, Cristina, L’agente provocatore. Un’indagine dom-


matica e politico-criminale, Milano, 1991.

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mente etica. Il diritto penale, come esercizio del potere giuridico volto a
ridurre il potere punitivo, non legittima questo ultimo, ma lo limita e lo
filtra in modo razionale. Io penso che la elaborazione dogmatica di una
nozione di connessione punitiva attraverso la via della colpevolezza pe-
nale dialettica sia uno strumento significativo per il raggiungimento di
questo obiettivo di contenimento del potere punitivo da parte del diritto
penale.

58. Se la connessione punitiva impone l’elaborazione di un vincolo


personalizzato tra l’illecito e il suo autore che operi come principale indi-
catore del livello massimo di potere punitivo che può essere consentito nei
confronti di quest’ultimo, capisco che la risposta più completa la fornisce
un concetto che rispetta la colpevolezza per l’atto e che contemporanea-
mente si fa carico del dato più delegittimante dell’esercizio del potere pu-
nitivo, vale a dire la selettività per la vulnerabilità sociale e personale.

59. La connessione punitiva, in una prospettiva penale basata sul


concetto agnostico di pena, risulta dalla sintesi di un giudizio di rimpro-
vero basato sul principio di autodeterminazione della persona al momento
del fatto (formulato in conformità di elementi formali offerti dall’etica tra-
dizionale) (49) con il giudizio di rimprovero per lo sforzo dell’agente per
raggiungere la situazione di vulnerabilità in cui il sistema penale ha con-
cretizzato la sua pericolosità. Il vuoto di eticità che provoca la vulnerabi-
lità nella colpevolezza per l’atto si colma nel gioco dialettico con la colpe-
volezza per la vulnerabilità, che si sintetizzano nella colpevolezza penale,
indicatrice della quantità di potere punitivo che può essere esercitato.

60. Credo che un sapere difficilmente meriti il nome di scienza se


manca di contenuto etico, in particolare quando si tratta di un sapere
strettamente collegato al potere, come nel caso di quello giuridico penale.
Le deviazioni del discorso penale separato dall’etica riempiono di orrori la
storia dell’umanità negli ultimi ottocento anni. Tuttavia, quando evo-
chiamo nostri predecessori, non ricordiamo Torquemada, ma Beccaria o
Filangieri, Feuerbach o Lardizàbal; mai si ricordano coloro che legittima-
rono con discorsi aberranti l’esercizio di genocidi legali, ma al contrario
quelli che volevano ridurre questo esercizio.

61. L’eticizzazione del diritto penale, richiamata insistentemente da


Welzel o da Bettiol (50), era il grido di allerta contro la ragion di

(49) Questo sforzo va riconosciuto a KÖHLER, Michael, Strafrecht, Allg. Teil, Berlin,
1997, p. 348.
(50) In proposito THOREL, Gianpaolo, Contributo ad un’etica della colpevolezza, in
Studi sulla colpevolezza, a cura di L. Mazza, Torino, 1990, p. 149.

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Stato (51) o contro un preteso naturalismo che annullava la persona. I


cammini di eticizzazione del diritto penale non sono oggi più percorribili,
dopo la delegittimazione sociologica del potere punitivo, ma il richiamo
etico è ancora assolutamente valido. In tal senso non propongo una no-
zione di colpevolezza che costituisca una soluzione di continuità con
quella tradizione eticizzante, ma una sua reimpostazione orientata per li-
mitare il potere punitivo. Non sarebbe nient’altro che il naturale corolla-
rio del richiamo originario del diritto penale, in un momento di fortissime
pulsioni inquisitorie.

62. In questo modo mi sia consentito giungere alla conclusione di


questa lezione. È il momento di esprimere il mio più sincero ringrazia-
mento all’Università di Macerata per questo onore, ai colleghi italiani che
hanno promosso questa iniziativa, ai colleghi che sono venuti da altre uni-
versità di Italia, a tutti coloro che hanno inviato cordiali messaggi, ai col-
leghi argentini che sono presenti. Comprendo perfettamente l’onore e la
responsabilità di ricevere un Dottorato honoris causa, che in linea con la
tradizione universitaria, implica un impegno di incorporazione da parte di
chi lo riceve. Devo dire che, senza nessuna falsa modestia, non credo di
meritarlo. Tuttavia penso che in tale mondo niente sorge dal nulla. Noi
siamo il risultato di tutti quelli che ci hanno insegnato e e che ci hanno
formato. E in questo senso la memoria mi porta un turbine di figure lon-
tane nel tempo e nello spazio, molte delle quali già non ci sono più.

63. Come un film, mi ricordo delle lontane lezioni di criminologia


di Alfonso Quiroz Cuaròn e dei corsi di diritto penale di Celestino Porte
Petit in Messico, fino ai dialoghi, che non è possibile contare, con espo-
nenti della diaspora repubblicana spagnola, in particolare con Manuel de
Rivacoba e Rivacoba e con Francisco Blasco Férnandez de Moreda, delle
conferenze e delle conversazioni con l’indimenticabile Giuseppe Bettiol,
della potente influenza delle opere e del pensiero di Hans Welzel, di Hans
Heinrich Jescheck e di Heinz Mattes a Friburgo che mi hanno guidato nel-
l’immergermi nella letteratura tedesca, delle lunghe conversazioni con
Louk Hulsman, dei consigli di Antonio Berinstain, dell’apertura al pen-
siero critico con le nostre criminologhe Rosa del Olmo e Lola Anyar de
Castro, dei consigli sempre prudenti di Isidoro De Benedetti, del mio caro
traduttore Girolamo Seminara laureato in questa Università, del sostegno
argomentativo ricevuto da Nilo Batista e senza dubbio della formidabile

(51) Sulla ragion di stato, cfr.: SETTALA, Ludovico, La razón de estado, México,
1988; MEINECKE, Friedrich, La idea de la razón de estado en la edad moderna, Madrid,
1983; FOUCAULT, Michel, El origen de la tecnología del poder y la razón de estado, in Revista
Siempre, México, 1982.

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cultura, chiarezza di pensiero e generosità, che non potrei omettere se non


incorrendo in un peccato di lesa ingratitudine: del carissimo Alessandro
Baratta.

64. Tuttavia non ho imparato solo da questi. Mi hanno insegnato


molto gli studenti, i colleghi più giovani come Alejandro Slokar e Alejan-
dro Alagia e i colleghi della magistratura di tanti anni, con le loro capa-
cità, con i loro errori, con la loro umanità e, a volte, anche con la loro cru-
deltà, e molto di più mi hanno insegnato le conversazioni con i detenuti e
con i loro familiari, con le vittime dei reati e con gli organi di polizia. E in-
fine mi sia permesso di evocare altresì in questo momento la Professo-
ressa Elba Dora Cattaneo, la mia vecchia zia, figlia dell’emigrazione di
questa terra, che dedicò la sua vita ad insegnare la lingua gentile nel mio
paese e a cui devo il mio affetto per la letteratura e la cultura italiana. Mi-
gliaia di compatrioti dovranno ad ella, come a tanti eroi e eroine anonime,
il fatto di saper parlare e di saper leggere l’italiano in Argentina. È per
tutti questi e in nome loro che accetto e ringrazio, perché essi lo meritano.
Moltissime grazie.
Eugenio Raul Zaffaroni

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‘‘LAUDATIO’’ PER LA LAUREA AD HONOREM
DEL PROF. EUGENIO RAUL ZAFFARONI (*)

1. Eugenio Raul Zaffaroni è nato a Buenos Aires il 7 gennaio 1940,


con doppia nazionalità, italiana ed argentina.
È professore ordinario di Diritto penale e Criminologia nella Facoltà
di Diritto dell’Università di Buenos Aires — centro di studi importante in
Argentina ed in America Latina — dove da più di un decennio occupa la
direzione del Dipartimento di Diritto penale e di Criminologia. È vicepre-
sidente della Societé Internationale de Droit Penal e Presidente dell’Asso-
ciazione Argentina dei Professori di Diritto Penale.
È stato borsista presso il Max Plank Institut fuer Auslaendishes und
Internationales Strafrecht e presso la O.S.A. (Organizzazione degli Stati
americani) in Messico.
Nel suo lungo percorso di ricercatore e docente in università ed isti-
tuti stranieri, ha coperto il ruolo di Professore straordinario presso l’Isti-
tuto basco di Criminologia in Spagna, e ha svolto corsi di lezioni presso
numerose università straniere, tra cui ricordiamo l’Università di Sala-
manca (Spagna), l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, di Padova
e di Firenze.
Ricorrente la sua presenza in Europa, invitato come relatore e mode-
ratore a numerosi seminari e convegni.
La sua attività di docente si è svolta nell’intera America Latina, [ad
esempio presso l’Universidad Nacional Autonóma e l’Universidad Vera-
cruzana in Messico, l’Universidad Autonóma de Santo Domingo (Repub-
blica Domenicana), l’Universidad San Martin de Porres (Perù) e l’Univer-
sità Candido Mendes (Brasile)].
È stato Direttore Generale dell’Istituto latino-americano di Preven-
zione del Delitto delle Nazioni Unite (ILANUD, San José in Costa Rica) e
consulente scientifico di molte organizzazioni accademiche straniere
come, per limitarsi all’Italia, l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze
Criminali in Siracusa.
Tra le opere monografiche basti ricordare il Manual de Derecho Pe-

(*) Testo della Laudatio letta dal prof. Gaetano Insolera in occasione del conferi-
mento della laurea honoris causa al prof. Eugenio Raul Zaffaroni da parte della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università degli studi di Macerata il 3 aprile 2003.

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nal. Parte General (edito in Argentina, Messico e Perù e di cui si conosce


anche un’edizione adattata al diritto penale brasiliano); il monumentale
Tratado de Derecho Penal. Parte General di cinque tomi, riedito di re-
cente in Messico; Criminologia: aproximación desde un margen; En busca
de las penas perdidas (di cui si conoscono anche traduzioni in portoghese
ed in italiano) e Estructuras judiciales tradotto anche in portoghese. La
sua opera più recente e scientificamente innovatrice è Derecho Penal,
Parte General, edito nel 2000 sia in Argentina che in Messico, già in se-
conda edizione nel 2002.
A questo si unisce poi un’altrettanto formidabile produzione di arti-
coli, brevi saggi, prefazioni, presentazioni, introduzioni storiche e tradu-
zioni che sono state nel tempo pubblicate in riviste, libri e giornali. Nei
suoi lavori, alla profonda e sistematica conoscenza dei problemi giuridico-
penali si è sempre accompagnata la vasta conoscenza di tematiche filosofi-
che e di teoria politica. Lo stile, la lingua sono efficaci e densi di imma-
gini. Rappresentano bene un pensiero che rifiuta le angustie del tecnici-
smo. È attualmente membro del consiglio di redazione di molte riviste in-
ternazionali e straniere (ricordiamo Dei delitti e delle pene, L’Indice pe-
nale, e la Revue Penitentiaire et de Droit Penal).
I suoi meriti sono stati riconosciuti da numerose università e centri di
ricerca scientifica. Ha ricevuto premi internazionali ed è stato insignito
del titolo di Doctor Honoris Causa dall’Università di Rio de Janeiro nel
1993; è Professore Onorario dell’Università di San Martin de Porres di
Lima; della Facoltà di Diritto di Osascro, San Paolo; della Facoltà di Di-
ritto dell’Università San Augustin de Arequipa in Perù. Ha ottenuto la Di-
stinzione per Merito Criminologico dalla Società Brasiliana di Criminolo-
gia nel 1978, e il premio della Sezione Criminologica dell’American So-
ciological Association nel 1986; ha ricevuto la medaglia al merito Juan
Antonio Tavara Andrate della Camera dei deputati del Perù nel 1990; la
Distinzione Accademica Straordinaria della Facoltà di Diritto dell’Univer-
sità Nazionale di Cordoba, Argentina, nel 1993; l’onorificenza Tobia Bar-
reto dell’Istituto brasialiano degli Studi Giuridici, Recife, Pernambuco ed
il Diploma di Onore al Merito dell’Accademia Sergipana di Letras, Brasile
(questi due ultimi nell’anno 2000). È di questi giorni il conferimento della
laurea ad honorem da parte dell’Università di La Paz.

2. In Raul Zaffaroni l’impegno scientifico si è sempre associato a


quello nella vita pubblica.
Ha fatto parte del potere giudiziario per circa vent’anni, ritirandosi
come Giudice della Camera Nazionale di Appello Penale di Buenos Aires.
È stato eletto alla Convenzione Nazionale Costituente (e ha ricoperto il
ruolo di Vicepresidente della Commissione di redazione dell’Assemblea
Nazionale Costituente della Provincia di Santa Fe) nel 1994; è stato eletto

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alla Convenzione Costituente della città di Buenos Aires, coprendo poi il


ruolo di Presidente della Commissione nel 1996. Dal 1997 al 2000 è stato
deputato della Città di Buenos Aires. In seguito è stato membro dell’ ‘‘Isti-
tuto nazionale di lotta contro la discriminazione, la xenofobia ed il razzi-
smo’’ (INADI).
È autore dei progetti di riforma dei codici penali dell’Argentina
(1991), dell’Equador (1969 e 1992) e del Costa Rica (1991). Ha svolto
incarichi e consulenze per il Ministero della Giustizia del Canada, la Corte
Interamericana dei Diritti Umani, il Ministero della Giustizia del Perù,
l’Assemblea legislativa del Costa Rica e la Commissione Interamericana
dei Diritti Umani.

3. Sia nell’attività scientifica e di docente — sui suoi manuali si


sono formati gran parte degli studenti sudamericani negli ultimi decenni
— sia in quella politica, Raul Zaffaroni costituisce un punto di riferi-
mento non solo in Argentina, ma in tutta l’America Latina. Anche questo
aspetto contribuisce a connotare la singolarità e l’importanza di questo
studioso.
A ciò ha indubbiamente contribuito in modo decisivo l’attenzione do-
lente che Zaffaroni ha dedicato alla situazione di quello che egli definisce
il ‘‘margine’’ del mondo: una realtà originale e sincretica prodotta dall’e-
sperienza comune di cinquecento anni di pratiche di incredibile violenza.
E vedremo come il ‘‘margine’’ costituirà un punto di osservazione privile-
giato per affrontare la penalità, che, per Zaffaroni, delegittimata e sot-
tratta alle finzioni ed alle metafore dei discorsi giuridico-penali, altro non
esprime se non violenza.
L’esperienza del ‘‘margine’’ conforma anche la fisionomia deontolo-
gica del penalista latinoamericano: ‘‘Essere giudice o professore universi-
tario in America Latina significa essere scampato a moltissimi rischi: es-
sere nato (cioè, non essere stato abortito), essere stato alimentato adegua-
tamente, non aver avuto o aver superato le malattie infantili che causano
handicaps, aver potuto alfabetizzarsi e, per di più, aver avuto accesso ai
livelli d’istruzione medio e superiore, essere sfuggito alle minacce alla vita
adulta rappresentate dalle calamità naturali, dalla violenza politica e da
quella non politica, non essere ‘desaparecido’, ecc., ed un’altra infinità di
fattori il cui complesso costituisce quel miracolo che pone chi lo ha vis-
suto in una situazione estremamente privilegiata’’. La consapevolezza di
questo miracolo crea un imperativo di coscienza su cui ricostruire il di-
scorso penalistico.

4. Ma non si può intendere bene la personalità dello studioso a cui


questa Università ha deciso di conferire la laurea honoris causa, senza ri-
cordarne la profonda conoscenza dell’elaborazione dogmatica europea.

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Anche su di essa si è formato Raul Zaffaroni, e con essa si confronta


in modo ininterrotto il suo lavoro, come dimostra l’impianto dei trattati,
e, in particolare, il recentissimo Diritto penale, parte generale, che costi-
tuisce lo sviluppo più attuale di quel grande impegno. Opera quest’ultima
dedicata a Giuseppe Bettiol indicato anche in una recente intervista come
uno dei maestri che lo spinsero a dedicarsi al diritto penale.
Ed è questo un legame significativo, che influenza in modo evidente
l’evoluzione del pensiero di Zaffaroni.
È infatti da una solida cultura dogmatica e dall’incontro con un di-
ritto penale dei principi mai disgiunto dalla riflessione filosofica, come
quello di Bettiol, che Zaffaroni approfondisce la conoscenza ed il dialogo
con la criminologia e la filosofia del diritto penale contemporaneo — e il
pensiero non può che andare ad un altro interlocutore, sempre ricordato
da Zaffaroni, ad Alessandro Baratta — con la capacità di coglierne e sin-
tetizzarne gli spunti più stimolanti, per elaborare il suo originale pro-
gramma di ridefinizione del diritto penale.

5. Il realismo penale marginale. È questa la prospettiva a cui ap-


proda Raul Zaffaroni.
Realismo, da intendersi come rifiuto di quelle ipotesi che, di fronte
alla delegittimazione del diritto penale, ne ripropongono la legittimazione,
magari anche in termini riduttivi e ‘‘razionali’’, ma pur sempre sulla base
di finzioni, di metafore.
Ciò ha conseguenze in varie direzioni: sul piano filosofico, realismo è
conoscenza del significato delle cose, non loro creazione. Su quello più
strettamente giuridico attribuzione alle categorie di un ruolo strumentale,
che ne esclude la reificazione.
Ancora, percezione del male come parte reale dell’esistente e non
come imperfezione di un disegno sociale razionalisticamente volto al bene.
Infine realistica è la prospettiva orientata comunque alla preserva-
zione della vita umana ed alla riduzione della violenza.
Per Zaffaroni salvare vite umane è l’imperativo etico con cui devono
misurarsi, come detto, realisticamente, i discorsi attorno al diritto penale.
E non vi può essere distinzione tra discorso criminologico, politico-
criminale e strettamente dogmatico, posto che essi sono orientati da una
comune finalità politica. Questo è reso evidente quando il potere giudizia-
rio si burocratizza perdendo ogni considerazione etica. Diviene il ‘‘buon
torturatore’’ che non fa che obbedire alla legge.
Sul significato del concetto di ‘‘margine’’ già ci siamo soffermati. De-
nota il ‘‘miracolo’’, il ‘‘privilegio’’ di cui gode il penalista del margine nel
conoscere la realtà del suo oggetto di studio.
Ma l’analisi realista marginale serve anche al ‘‘centro’’ del mondo,
perché mostra più chiaramente come opera la rete dei poteri, svelando dal

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luogo in cui maggiore è il livello di violenza, i caratteri strutturali di ogni


sistema penale.

6. La complessità dei riferimenti culturali e delle esperienze di vita


e di impegno personale oltre che di studio e di confronto, che si espri-
mono da un lato nel solido impianto dogmatico — i ferri del mestiere del
penalista — dall’altro nell’approfondimento delle teoriche critiche con-
temporanee delegittimanti, consente a Zaffaroni di impegnarsi nell’im-
presa di costruire una dogmatica capace di rilegittimare il diritto penale.
Un’opera che ha come interlocutore il potere giudiziario posto che è
attraverso il diritto penale che esso potrà limitare la violenza delle scelte,
a cui non partecipa, della politica.
Da vero ‘‘realista’’ Zaffaroni, muove dalla protagonista del sapere di
cui si occupa, dalla pena. Nell’impresa, il riferimento ad un altro maestro.
Dell’ontologismo di Hans Welzel egli valorizza la capacità di opporsi ad
una onnipotenza del legislatore, alla sua capacità di ‘‘inventare’’ la realtà,
il mondo.
A proposito della pena ciò porta ad un’unica conclusione. La sua
struttura ontologica, una volta esclusa la capacità di dirimere conflitti pro-
pria delle altre sanzioni giuridiche ‘‘razionali’’, consiste solo in sofferenza,
una sofferenza ‘‘orfana di razionalità’’, che ‘‘cerca da diversi secoli a que-
sta parte un senso, ma non lo trova, semplicemente perché non lo ha, ec-
cetto che come esplicazione di potere’’.
Il sapere penalistico deve quindi essere funzionale alla ricerca della
decisione socialmente meno violenta. Solo in questo modo può riacquisire
legittimità e conferirne alla agenzia giudiziaria.
È un diritto penale inteso solo in funzione di contraddizione rispetto
all’esercizio della forza espresso nei fatti dal potere politico. E questo an-
che alla luce del rapporto intimo che intercorre tra guerra e sistema pe-
nale.
Secondo Zaffaroni, svelata la fittizietà del loro antagonismo secondo
la metafora hobbesiana, entrambi sono oggi accomunati da una delegitti-
mazione che si vuole contrastare con il diritto.
Un parallelismo che si traduce in quello tra diritto penale e diritto
umanitario, diritto dei prigionieri della politica e di quelli della guerra:
‘‘mancando all’agenzia giudiziaria il potere necessario per abolire il si-
stema penale e sostituirlo con meccanismi di soluzione dei conflitti (come
manca alla Croce Rossa Internazionale il potere necessario per soppri-
mere i conflitti bellici), il suo obiettivo immediato deve essere quello di
agire sulla base di un discorso che stabilisce i limiti massimi di irraziona-
lità tollerabile nella selezione criminalizzante del sistema penale’’.
Ed è attorno ai criteri di individuazione di questi limiti che Zaffaroni
ricostruisce una articolata dogmatica giuridico-penale. Un saggio esem-

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plare lo darà con la sua lectio doctoralis, dedicata al tema centrale della
colpevolezza.
In questo modo, nel suo discorso, si riconnettono i diversi percorsi di
una originale esperienza di ricercatore e di intellettuale. La sua capacità di
ricostruire le discipline penalistiche collocandole nel contesto dei reali
rapporti di forza, svelando la natura di questi ultimi, costituisce un esem-
pio ed una sollecitazione forte per tutti i penalisti, del ‘‘margine’’ e del
‘‘centro’’, contro la intramontabile tentazione di rappresentarsi quali at-
tori inconsapevoli o neutrali della violenza punitiva.
Un merito questo che, anche da solo, darebbe motivo alla laurea ad
honorem conferitagli dalla Università di Macerata.
GAETANO INSOLERA
Straordinario di Diritto penale
nell’Università degli Studi
di Macerata

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LA TEORIA FINALISTICA OGGI

FINALISMO, RESPONSABILITÀ OBIETTIVA,


OGGETTO E STRUTTURA DEL DOLO (*)

SOMMARIO: I. Politica del diritto penale e ‘‘capacità di rendimento’’ del finalismo. — II. Il fi-
nalismo di fronte ai delitti qualificati dall’evento. — III. Il finalismo di fronte al pro-
blema dell’oggetto e della struttura del dolo.

I. Politica del diritto penale e ‘‘capacità di rendimento’’ del finali-


smo. — Per molti anni la teoria finalistica dell’azione è stato un ‘‘tema
giuridico di moda’’ (1). A quella moda non mi sono sottratto, scrivendo
più di trent’anni fa sul ‘‘reato come azione’’ (2). A quel tempo ci si inter-
rogava sull’ontologismo, la metodologia degli studi dei finalisti, ma so-
prattutto sulla compatibilità di questo o quel teorema del finalismo con
una specifica legislazione nazionale. Fu questo l’oggetto precipuo delle
mie investigazioni critiche, così come dei lavori di studiosi di altri paesi:
ricordo solo quelli di Gimbernat Ordeig, la cui eco risuonò ben oltre i Pi-
renei (3). Non di rado il fascino esercitato dagli scritti di Hans Welzel
condusse una parte della dottrina a leggere con le lenti del finalismo que-
sta o quella legislazione nazionale, a volte manipolandola, pur di armoniz-
zarla con i dogmi di quella seducente scuola penalistica. La dommatica
elaborata dal finalismo veniva così usata come strumento occulto di poli-
tica del diritto penale.
Col passare degli anni si è affievolito, anche se non è cessato, questo
uso della dommatica del finalismo — magari nelle versioni soggettivisti-

(*) Testo della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al convegno su ‘‘Signifi-
cato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, organizzato dal Diparti-
mento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Università ‘‘Federico II’’ -
Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pénal.
(1) M. GALLO, La teoria dell’azione ‘‘finalistica’’ nella più recente dottrina tedesca,
in Studi Urbinati, 1948-49; 1949-50, p. 213.
(2) MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’. Critica di un dogma, 1971.
(3) GIMBERNAT ORDEIG, Delitos cualificados por el resultado y causalidad, 1966, p.
111 ss.; ID., Finalität und Vorsatz, in NJW, 1966, p. 533 ss.; cfr. la replica di WELZEL, Das
Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 65.

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che (4) criticate da Stratenwerth (5) e da Hirsch (6) — come leva per ma-
nipolare in modo occulto le legislazioni penali nazionali. Oggi, però, si
tratta di tracciare un bilancio del finalismo, anche per saggiare non più
occultamente, ma a viso aperto la sua fecondità come modello de lege fe-
renda di un diritto penale desiderabile.
Non deve meravigliare che il finalismo venga esaminato da questo an-
golo visuale: per appurare cioè se contenga una provvista di soluzioni per
giuste scelte di politica della legislazione penale. L’aspirazione di fondo
del finalismo, come ha sottolineato con vigore Hirsch, in effetti è proprio
questa: tracciare ‘‘il cammino verso esiti dotati di validità generale’’,
‘‘verso una scienza penalistica a carattere internazionale, non rinchiusa
entro i confini degli ordinamenti giuridici nazionali’’: una scienza penali-
stica capace di ‘‘pervenire ad esiti idonei, per la loro validità generale, ad
essere trasferiti in altri sistemi giuridici’’ (7).
Breve: il finalismo ha l’aspirazione a proporsi come un insieme di
enunciati capaci di fornire un modello per le legislazioni nazionali biso-
gnose di riforme. È questo il punto di vista dal quale svolgerò le mie os-
servazioni. Mi proverò perciò a saggiare se quel modello è in grado di
dare risposte a due problemi capitali di ogni pensabile riforma del diritto
penale italiano: la responsabilità oggettiva — con particolare riguardo ai
delitti qualificati dall’evento — e la struttura e l’oggetto del dolo.

II. Il finalismo di fronte ai delitti qualificati dall’evento. — 1. Ho


scelto come primo banco di prova della fecondità del modello offerto dal
finalismo i delitti qualificati dall’evento, perché da sempre la loro sorte è
controversa, non solo in Italia. Nella dottrina del nostro Paese, rispec-
chiata nei due più recenti progetti di riforma del codice penale, sono radi-
calmente divaricati gli orientamenti sul ‘‘che fare’’ di questi imbarazzanti
‘‘residui di inciviltà’’, relitti di epoche passate. Ma non meno controversa
è la sorte dei delitti qualificati dall’evento in Paesi, come la Germania, che
nel dopoguerra, nel 1953, ne hanno sì modificato la struttura, apportando
un correttivo — la causazione dell’evento più grave ‘‘almeno per colpa’’
— che allora (anche con la generale riforma del codice penale) sembrava

(4) Si allude, notoriamente, agli esponenti della ‘‘Bonner Schule’’, inaugurata da Ar-
min Kaufmann e sviluppata sino alle estreme conseguenze da Zielinski: un chiaro rendiconto
di questa versione del finalismo è stato fornito da MILONOPOULOS, Über das Verhältnis von
Handlungs-und Erfolgsunwert im Strafrecht. Eine Entwicklung der personalen Unrechts-
lehre, 1981, p. 30 ss.
(5) STRATENWERTH, Zur Relevanz der Erfolgsunwertes im Strafrecht, in Festschrift für
Friederich Schaffstein, 1975, p. 177 ss.
(6) HIRSCH, Die Streit um Handlungs-und Unrechtslehre, inbesondere im Spiegel der
Zeitschrift fur di gesamte Strafrechtswissenschaft, in ZStW, 1982, p. 240 ss.; ID., Grundla-
gen, Entwicklungen und Missdeutung des ‘‘Finalismus’’, 2002, p. 4 ss. (del dattiloscritto).
(7) HIRSCH, Grundlagen, cit., p. 12.

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appagante, ma che oggi appare a molti un correttivo insufficiente, anzi in


contrasto con il principio costituzionale di colpevolezza. Un contrasto da
eliminare da parte del legislatore, ovvero già da parte del giudice, in attesa
dell’auspicata riforma legislativa: il legislatore dovrebbe richiedere espres-
samente per tutti i delitti qualificati dall’evento, e non solo per singole
ipotesi, la causazione ‘‘per colpa grave’’ (Leichtfertigkeit) dell’evento qua-
lificante; e il giudice dovrebbe arrivare alle stesse conclusioni de iure con-
dito, interpretando in conformità della Costituzione i delitti qualificati
dall’evento che ancora non richiedano quel grado più elevato di colpa (8).
2. Ora passiamo perciò a chiederci: quale è stata, in Germania, la
‘‘capacità di rendimento’’ del finalismo di fronte ai problemi sollevati dai
delitti qualificati dell’evento — prima della riforma del 1953, dopo quella
riforma, e nell’attuale dibattito sul superamento dei limiti di quella ri-
forma? e quali insegnamenti — quali modelli di soluzione — ne può per-
ciò trarre il riformatore di una legislazione penale, come quella italiana,
ancora ricca di quei ‘‘residui di inciviltà’’?
Prima di rispondere a questo interrogativo, è necessario un duplice
caveat. Più volte Welzel ha lamentato ‘‘fraintendimenti inestirpabili’’ (9)
da parte di questo o quel suo critico, ed anche Hirsch ci ha messo in guar-
dia, già nel titolo del suo recentissimo contributo, dai rischi di ‘‘Misdeu-
tungen’’ del finalismo. Welzel ha anche detto, ripetutamente, che quel che
vi era di ‘‘imperfetto’’ nella sua teoria lo si doveva al fatto che ‘‘solo
Athena è saltata perfetta dal cervello di Giove’’ (10). Non credo, però, di
incorrere in fraintendimenti se affermo che i concetti di azione e di colpe-
volezza rispecchiano, secondo la teoria finalistica, dati pregiuridici i cui
contorni sono stati via via precisati, ma non fino al punto da deturparne
l’originaria fisionomia; d’altra parte, come Athena dalla testa di Giove,
anche il finalismo sarà pure saltato perfetto, a un certo punto, dalla testa
dei suoi sostenitori — almeno i più ortodossi.
Sgombrato il campo da improbabili fraintendimenti e da altrettanto
improbabili nuovi rivolgimenti ontologici della teoria finalistica, passo ad
enunciare le mie tesi:
— i concetti ontologici di azione e di colpevolezza elaborati dal fina-
lismo sono totalmente incapaci di spiegare la storia passata, presente e fu-
tura dei delitti qualificati dall’evento;
— prima della riforma del 1953 la presenza di quei delitti non ve-
niva minimamente sottoposta a quei test ontologici: veniva acriticamente

(8) Cfr. per tutti ROXIN, Strafrecht, A.T., 3a ed., 1997, p. 275 ss.
(9) WELZEL, Ein unausrottbares Missverständnis? Zur Interpretation der finalen
Handlungslehre, in NJW, 1968, p. 425 ss.
(10) Da ultimo in WELZEL, Das neue Bild des Strafrechtssystem, 4a ed., 1961, p. XI.

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spiegata e inquadrata con l’aiuto di un concetto — la causalità adeguata


— preso in prestito da altre sistematiche del reato;
— d’altra parte, il motore che ha alimentato la riforma del 1953 e le
auspicate nuove riforme dei delitti qualificati dall’evento è un concetto di
colpevolezza — e di proporzione tra gravità della pena e grado della col-
pevolezza — nel cui seno campeggiano (tra l’altro) il dolo e la colpa (sem-
plice o grave): un concetto in aperto contrasto con il concetto di colpevo-
lezza da sempre patrocinato dai finalisti, che da sempre è ‘‘svuotato’’ del
dolo e della colpa;
— se perciò è accaduto che esponenti del finalismo, in tempi diversi,
hanno caldeggiato quegli incessanti movimenti di riforma per armonizzare
i delitti qualificati dall’evento con il principio di colpevolezza — sub spe-
cie di colpa semplice e colpa grave —, ciò è potuto accadere solo a prezzo
di una non dichiarata rinuncia al concetto finalistico di colpevolezza;
— sorprendentemente, i delitti qualificati dall’evento — da sempre
crocevia di una serie di teoremi fondamentali del diritto penale — sem-
brano perciò rivelare in tema di colpevolezza non già la capacità di rendi-
mento, bensì la fragilità teoretica del finalismo: non un modello per auspi-
cabili riforme, bensì una costruzione che deve demolire pilastri del pro-
prio edificio, prendendo in prestito altrove i materiali concettuali per af-
frontare e risolvere problemi cruciali di politica del diritto penale.
3. Una dimostrazione accurata delle tesi molto radicali poc’anzi
enunciate è assolutamente indispensabile, ma può essere fornita senza dif-
ficoltà, lasciando la parola ai massimi esponenti del finalismo.
a) Prima della riforma del 1953 la presenza dei delitti aggravati dal-
l’evento nell’ordinamento tedesco era manifestamente incompatibile con
il concetto finalistico di azione. Quel concetto pregiuridico era forse in
grado di spiegare la presenza dei reati colposi di evento: la ‘‘caccia alla fi-
nalità nella colpa’’, riferita all’evento, poteva ritenersi conclusa con suc-
cesso, sia pure a prezzo di molti salti mortali (11). Quella caccia era in-
vece impossibile nei delitti qualificati dall’evento: per definizione, l’e-
vento qualificante giaceva al di fuori del dolo e della colpa. Si trattava di
reati senza azione, nel senso della teoria finalistica: ‘‘in essi — scriveva
Welzel nella seconda edizione del suo manuale edita nel 1949 — un
evento più grave, che giace al di fuori dell’azione considerata nel suo
complesso (ausserhalb des Handlungszusammenhangs), viene utilizzato
per aggravare la pena’’ (12). Welzel avrebbe dovuto protestare contro una
legislazione che vietava e sanzionava ciò che non poteva meritare il nome
di azione. Restò invece sul ‘‘cieco’’ terreno del rapporto di causalità (un
terreno sul quale non dovrebbero allignare le figure di reato!), acco-

(11) Cfr. MARINUCCI, Il reato come ‘‘azione’’, cit., p. 100 ss.


(12) WELZEL, Das deutsche Strafrecht in seinen Grundzügen, 2a ed., 1949, p. 28.

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gliendo per i soli delitti aggravati dall’evento, come aveva suggerito von
Kries, la teoria della causalità adeguata, che limitava già sul terreno della
fattispecie ‘‘gli sviluppi causali rilevanti’’, ed escludendo solo per quei de-
litti ‘‘gli sviluppi causali del tutto straordinari’’ (13). Non diversamente
Maurach scriveva nel 1948 che nei delitti aggravati dall’evento si poteva
apportare alla teoria della condicio sine qua non il correttivo offerto dalla
‘‘teoria dell’adeguatezza’’: ‘‘Causa è solo la condizione che è generalmente
idonea a provocare l’evento; vanno esclusi i decorsi che secondo l’espe-
rienza sono atipici’’ (14).
b) Con la riforma del 1953, che introducendo il § 53 ricalcava la
proposta avanzata dalla maggioranza dei progetti di riforma del codice pe-
nale tedesco, e che fu ribadita con la riforma del codice penale del 1969-
1975 (l’attuale § 18), l’imputazione dell’evento qualificante, e l’inflizione
della relativa pena più grave, fu subordinata alla sussistenza ‘‘almeno
della colpa’’, desumendo apertamente questo limite dal principio di colpe-
volezza, tra i cui contenuti la colpa compariva allora in modo pressoché
incontrastato. Contrasti e obiezioni potevano venire solo dal campo del fi-
nalismo: l’apposizione del limite della colpa, motivato e fondato sul prin-
cipio di colpevolezza, sarebbe dovuta apparire ai massimi sostenitori del
finalismo come una contraditio in adiecto (15). Così non fu. Maurach sot-
tolineava nel 1969 che, con quella riforma, era diventato finalmente possi-
bile eliminare una regolamentazione ‘‘sgradevole e anacronistica’’, intro-
ducendo finalmente con il limite della colpa ‘‘il correttivo della colpevolez-
za’’ (16). Scrivendo nel 1972 un saggio in onore di Maurach, Hirsch riba-
diva che non poteva essere in discussione il ritorno all’antica sgradevole

(13) WELZEL, op. ult. cit., pp. 28-29.


(14) MAURACH, Grundriss des Strafrechts, A.T., 1948, p. 50.
(15) Come è notorio, dall’inizio ad oggi la vicenda dommatica del finalismo è caratte-
rizzata dall’elaborazione di un concetto di colpevolezza ‘‘svuotato’’ del dolo e della colpa,
che vengono trasferiti sul terreno della ‘‘fattispecie’’. Esemplari le prese di posizione ‘‘codifi-
cate’’ da Welzel e Stratenwerth nei rispettivi manuali, ininterrottamente dalla prima all’ul-
tima edizione: WELZEL dalla prima edizione del 1940 (Der Allgemeine Teil des deutschen
Strafrechts in seinen Grundzügen, 1940, pp. 65-66) sino all’ultima (Das Deutsche Straf-
recht, 11a ed., 1969, p. 138 ss., dove ribadisce la perenne difesa del finalismo dalla ripetuta
accusa di ‘‘Entleerung des Schuldbegriffs’’ conseguente alla estromissione del dolo e della
colpa dal concetto di colpevolezza); STRATENWERTH, dalla prima edizione del manuale rela-
tiva al diritto penale tedesco (Strafrecht, A.T., 1970, pp. 72 ss., 85 ss.) alla quarta edizione
(Strafrecht, A.T., 2000, pp. 94 ss. e 118 ss.), e quasi negli stessi termini nel manuale elabo-
rato per l’interprete del diritto penale svizzero (Schweizerische Strafrecht, A.T., I: Die Straf-
tat, 1982, p. 142 ss.). Per un quadro riassuntivo della (originaria) sistematica finalistica cfr.,
per tutti, JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, A.T., 5a ed., 1996, p. 209 ss. e
SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, A.T., 1970, p. 136 ss.
(16) MAURACH, Deutsches Strafrecht, B.T., 5a ed., 1969, p. 93. Già nel manuale del
1948 Maurach aveva, del resto, apertamente sottolineato che nei delitti qualificati dall’e-
vento veniva meno ‘‘il correttivo della colpevolezza’’ (Schuldkorretiv), identificando proprio
nella colpa e nel dolo i connotati di quel correttivo: ‘‘la colpa non ha bisogno di riferirsi al-

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ed anacronistica regolamentazione dei delitti qualificati dall’evento: quella


regolamentazione era in ‘‘eclatante contrasto con il principio di colpevo-
lezza’’ (17). Andava quindi confermata la riforma introdotta nel 1953; e
di fronte alla richiesta di dare maggior rilievo al principio di colpevolezza,
Hirsch sottolineava — con argomenti presi in prestito dagli avversari del
finalismo — che ‘‘una graduazione della colpevolezza (Schuldstufung) al-
l’interno della colpa già viene effettuata dalla legge quando richiede la
Leichtfertigkeit, quindi la colpa grave’’ (18); esprimeva solo il dubbio che
‘‘il principio di colpevolezza abbia bisogno, in futuro, di richiedere in via
generale la colpa grave’’ (19).
c) Quel dubbio di Hirsch sembra oggi affievolirsi, di fronte ad ipo-
tesi di delitti aggravati dall’evento — come le lesioni dell’integrità fisica
seguite da morte (§ 227) (20). La legge seguita a richiedere la colpa sem-
plice, benché il quadro edittale sia stato ampliato e inasprito in modo esa-
gerato per i ‘‘casi minori’’ (Abs. 1): in precedenza la pena spaziava da tre
mesi a cinque anni di pena detentiva; ora quello spazio va da un anno a
dieci anni di pena detentiva. Hirsch ricorda che nel progetto del 1962 —
‘‘per ragioni proprie dello Schuldprinzip’’ (21) — si proponeva di inqua-
drare tra i Vergehen la fattispecie delle lesioni seguite (per colpa) da
morte. Oggi si è compiuto il percorso opposto: si è mantenuto l’inquadra-
mento tra i Verbrechen e si è inasprita a dismisura la sanzione ricollegata
al verificarsi dell’evento morte, senza modificare il grado della colpa ri-
chiesto per imputare quell’evento: si tratta — sottolinea Hirsch — di una
soluzione in aperto contrasto con ‘‘il principio di colpevolezza, che è pur
sempre ancorato alla Costituzione’’ (22). Due le vie d’uscita: una (impro-
babile) drastica riduzione della pena, oppure, come già suggeriscono in
via interpretativa alcuni commentatori, richiedere il connotato della colpa
grave, già richiesta dal legislatore per altre ipotesi di delitti qualificati dal-
l’evento — come la rapina seguita da morte (§ 251) — proprio al fine di
eliminare i dubbi di legittimità costituzionale, per il contrasto dell’elevata
minaccia di pena con l’esigenza di proporzione con la colpevolezza
(Schuldangemessenheit) (23).
d) Riassumendo: prima della riforma del 1953 i delitti qualificati
dall’evento apparivano ai finalisti — a uno sguardo retrospettivo — ‘‘in

l’evento più grave, e il dolo non può (riferirvisi), perché altrimenti subentrerebbe l’ancor più
grave fattispecie dolosa’’ (p. 50).
(17) HIRSCH, Zur Problematik des erfolgsqualifizierten Delikts (Reinarth Maurach
zum 70. Geburtstag in Verehrung gewidmet), in GA, 1972, p. 65.
(18) HIRSCH, op. ult. cit., p. 73.
(19) HIRSCH, ibidem.
(20) HIRSCH, Leipziger Kommentar, 2001, sub § 227, Rn. 14.
(21) HIRSCH, ibidem.
(22) HIRSCH, ibidem.
(23) HIRSCH, ibidem.

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eclatante contrasto con il principio di colpevolezza’’; quel contrasto sem-


brava superato dalla riforma del ’53 e del ’69 con l’inclusione del requi-
sito della ‘‘colpa’’; oggi ‘‘quel’’ principio — che ha rango costituzionale, e
proprio per dissipare insistenti dubbi di illegittimità costituzionale — re-
clama la ‘‘colpa grave’’, per le sempre più numerose ipotesi di delitti qua-
lificati dall’evento sanzionati con pene detentive così elevate, da rendere
la colpa semplice un grado di colpa inadeguato a soddisfare le esigenze
del ‘‘principio di colpevolezza’’.
e) Se ora ci si torna a chiedere quale sia il principio di colpevolezza
— quale sia la colpevolezza in senso ‘‘materiale’’ utilizzata dai finalisti po-
sti di fronte alla pietra di paragone dei delitti qualificati dall’evento — la
risposta suona invariata: è un principio che i finalisti ritengono anche an-
corato alla Costituzione, ma che è in aperta contraddizione con il princi-
pio di colpevolezza da loro costantemente postulato. Quel principio non è
rimasto ‘‘svuotato’’, ma anzi è stato nuovamente ‘‘riempito’’ dal dolo e
dalla colpa; se del caso riempito dalla ‘‘colpa grave’’, come ‘‘grado più ele-
vato di colpevolezza all’interno della colpa’’, quando lo richieda — per
non violare il principio costituzionale di proporzione tra pena e colpevo-
lezza — la necessaria adeguatezza del grado della colpevolezza alla misura
della pena minacciata. Come modello di una pensabile e desiderabile ri-
forma delle legislazioni penali nazionali, il finalismo non è perciò in grado
di offrire niente di più di quanto sia in grado di offrire la tradizionale teo-
ria della colpevolezza.
f) Resta in ogni caso indiscussa e feconda di suggerimenti la mae-
stria dommatica e soprattutto politico-criminale di studiosi come Welzel,
ieri, Hirsch, oggi.
Durante i lavori preparatori del progetto di riforma del 1962, Welzel
fu cauto: ritenne che richiedere la colpa, come nel § 56, avrebbe creato
delle difficoltà applicative, e suggeriva di ripiegare sull’idea di adegua-
tezza (24). Hirsch, come si è visto, ha invece ritenuto insufficiente il li-
mite dell’adeguatezza e necessaria la colpa proprio per evitare il passato
eclatante contrasto con il principio di colpevolezza (‘‘il limite dell’adegua-
tezza è stato accantonato [dal progetto del 1962 e dall’Alternativ-Ent-
wurf] perché mitiga soltanto la decurtazione del momento della colpevo-
lezza’’) (25), ma ha poi denunciato lo svuotamento nella prassi della
colpa semplice: non diversamente da quanto accade nel nostro Paese gra-
zie alla manipolazione del concetto di ‘‘colpa per inosservanza di leggi’’,
nella giurisprudenza tedesca ‘‘normalmente la colpa (nei delitti qualificati
dall’evento) viene fatta discendere dal solo fatto della commissione del

(24) Niederschriften über die Sitzungen des Grossen Strafrechtskommission, 2 Bd.,


A.T., 14 bis 25 Sitzung, 1958, p. 258.
(25) HIRSCH, Zur Problematik, cit., p. 65.

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reato-base doloso’’ (26). Di qui la proposta rivolta al legislatore, per ri-


spettare il principio costituzionale di colpevolezza, di sostituire la colpa
semplice con la colpa grave, almeno per i casi di delitti qualificati dall’e-
vento sanzionati con pene molto severe (27), come è già richiesto nella ra-
pina seguita da morte: la morte della vittima di un’azione di rapina com-
messa con violenza — spiega la dottrina — dovrà apparire ‘‘non solo og-
gettivamente e soggettivamente prevedibile, ma evidente, agli occhi sia di
un osservatore esterno sia del singolo agente’’ (28); e la giurisprudenza ne
trae le debite conseguenze: le conseguenze letali di una rapina commessa
con violenza saltavano con evidenza agli occhi di chicchessia, nel caso em-
blematico della morte per soffocamento di una donna ottantenne incate-
nata e imbavagliata per lungo tempo e, al contempo, sottoposta ad atti di
violenza particolarmente pesanti, o nel caso della morte per infarto di un
rapinato, le cui malferme condizioni fisiche erano chiaramente riconosci-
bili, sottoposto a pesantissime minacce (29).
g) Di questi insegnamenti dei finalisti, in veste di politici del diritto
penale, potrebbero trarre beneficio quegli studiosi italiani che ritengono
ontologicamente impossibile introdurre nella futura disciplina dei delitti
qualificati dall’evento il limite della colpa, per non parlare della colpa
grave: sarebbe impensabile la ‘‘combinazione’’ del dolo (riferito al reato-
base) e della colpa (riferita all’evento qualificante). Vale allora almeno la
pena di rammentare gli insegnamenti di Welzel. Ha sempre sottolineato,
parlando dell’attuale struttura dei delitti qualificati dall’evento nella legi-
slazione tedesca, che ‘‘il § 56 (l’odierno § 18) è la combinazione di un
delitto doloso (in relazione all’evento base) con un delitto colposo (in re-
lazione all’evento qualificante)’’ (30); del resto parlano di quella ‘‘combi-
nazione’’ penalisti tedeschi di ogni scuola ed epoca (31), così come ne
parlano i penalisti austriaci e portoghesi, illustrando le analoghe combina-
zioni operate dalle rispettive legislazioni (32).

(26) HIRSCH, Zur Problematik, cit., p. 73; ID., Leipziger Kommentar, loc. cit.; nella
letteratura italiana ben presto sottolineò il limite solo apparente della formula del codice te-
desco ‘‘almeno per colpa’’ DOLCINI, L’imputazione dell’evento aggravante: un contributo di
diritto comparato, in questa Rivista, 1979, p. 755 ss.
(27) HIRSCH, Leipziger Kommentar, loc. cit.
(28) GÜNTHER, sub § 151, Rn. 18, SK, 2001; HERDEGEN, Leipziger Kommentar,
2001, sub § 251, Rn. 8.
(29) Cfr. GÜNTHER, ibidem.
(30) In questi termini WELZEL si esprimeva quasi subito dopo la riforma del 1953
(Das Deutsche Strafrecht, 7a ed., 1960, p. 65), sino all’ultima edizione del manuale del 1969
(Das Deutsche Strafrecht, cit., p. 72).
(31) Per tutti cfr. JESCHECK-WEIGEND, Lehrbuch, cit., p. 262; ROXIN, Strafrecht, A.T.,
3a ed., 1996, p. 275 ss.; SCHMIDHÄUSER, Strafrecht, cit., p. 354 ss., e per la letteratura d’inizio
secolo passato (riferendosi anche alle codificazioni preunitarie) BINDING, Die Normen und
ihre Übertretung, Bd. IV, 1919 (rist. 1965), pp. 271 ss. e 281 ss.; ID., Lehrbuch des gemei-
nen deutschen Strafrechts, Besonderer Teil, Bd. I, 1902 (rist. 1969), p. 16 ss.
(32) § 7 del codice penale austriaco: cfr., per tutti, BURGSTALLER, Wiener Kommen-

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Sono preziosi insegnamenti che tuttavia si muovono sempre — ripe-


tiamo — dentro l’orizzonte disegnato dalla teoria tradizionale della colpe-
volezza, e sempre come scelte politico-criminali, che non si lasciano per-
ciò dedurre da qualsivoglia vincolo ontologico pregiuridico. Quando per-
ciò Hirsch afferma che molti enunciati del finalismo sono stati fatti propri
anche da quanti non si sentono ‘‘finalisti’’, finisce anche col dire — per re-
stare al banco di prova dei delitti qualificati dall’evento — che vi sono stu-
diosi più realisti del re: ‘‘svuotano’’ in tutto o in parte la colpevolezza del
dolo e della colpa proprio mentre i finalisti tornano a riempirla di quei
connotati. Così si precludono la strada per riforme della legislazione na-
zionale in grado di estirpare del tutto i resti del versari in re illicita: quella
‘‘ingiustificabile barbaria’’, che si credeva bollata per sempre da Löffler,
ma che ancora governa la prassi giurisprudenziale italiana della colpa per
inosservanza di leggi, così come guida oltre ai giudici tedeschi anche
quelli austriaci quando applicano il limite della colpa semplice nei delitti
qualificati dall’evento, rivelatosi alla fin fine come un limite inguaribil-
mente illusorio: ‘‘chi commette la fattispecie-base eo ipso agisce obiettiva-
mente contro il dovere di diligenza in relazione all’evento qualifican-
te’’ (33).
h) L’ultimo e forse il più importante insegnamento politico-crimi-
nale che i giuristi italiani possono trarre dagli sviluppi del pensiero finali-
stico è l’insistita sottolineatura del rango costituzionale del principio di
colpevolezza, che anche per i finalisti è tornato a riempirsi del dolo e della
colpa, accanto agli altri tradizionali presupposti della ‘‘rimproverabilità’’
del fatto antigiuridico. Quel riempimento, come si sa, è stato per i finalisti
un epilogo involontario stimolato dai problemi della responsabilità ogget-
tiva annidata nei delitti qualificati dell’evento, perché la Corte Costituzio-
nale tedesca si era limitata a riconoscere a quel principio rango costituzio-
nale, senza fornire indicazioni contenutistiche su quel che fondi la ‘‘re-
sponsabilità personale’’ dell’agente (34). Ben più felicemente ricco e lim-

tar zum Strafgesetzbuch, 1979, p. 8 ss.; art. 18 c.p. portoghese: cfr., per tutti, MAIA GONÇAL-
VES, Código penal português, 1992, p. 102.
(33) Così BURGSTALLER, Spezielle Fragen der Erfolgszurechnung und der objektiven
Sorgfaltwidrigkeit, in Festschrift fur Pallin, 1989, pp. 55-56 e nota 17 (per le citazioni di let-
teratura e giurisprudenza), il quale propone modeste limitazioni all’orientamento dominante
per ‘‘casi eccezionali’’ (la violazione del dovere di diligenza andrebbe negata quando le pecu-
liarità concrete del fatto-base ‘‘non presentano la pericolosità tipicamente richiesta in rela-
zione all’evento qualificante’’ (p. 57).
(34) Lo ha sottolineato proprio WELZEL, annotando che la Corte nel 1967 ha solo
‘‘desunto dall’art. 20 GG. il principio costituzionale della responsabilità personale come pre-
supposto della punizione’’: Das Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 138. Più esattamente,
il Bundesverfassungsgericht ha fondato sull’art. 2 (non 20) GG l’affermazione che ‘‘il princi-
pio nulla poena sine culpa ha il rango di principio costituzionale’’, astenendosi dal dare un
volto alla culpa: ha solo detto, con una formulazione in bianco, che ‘‘con la pena viene

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pido è il contenuto del principio costituzionale di colpevolezza nell’ordi-


namento italiano, sotto il profilo in esame. La Corte Costituzionale, al co-
spetto delle ipotesi di responsabilità obiettiva, ha inizialmente affermato
che il principio di colpevolezza, desumibile dall’art. 27 Cost., impone che
siano ‘‘ ‘coperti’ almeno dalla colpa gli elementi più significativi della fat-
tispecie’’ (35), lasciando però un alone di incertezza su quali fossero que-
gli ‘‘elementi più significativi’’; un’incertezza diradata, come si sa, da una
successiva storica sentenza: ha messo al bando il versari in re illicita sta-
tuendo che ‘‘dal comma 1 dell’art. 27 Cost. risulta indispensabile, ai fini
dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra
soggetto agente e fatto’’, e ha finalmente precisato nitidamente i contorni
del ‘‘fatto’’: ‘‘soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come
le condizioni estrinseche di punibilità) si sottraggono alla regola della
rimproverabilità ex art. 27, comma 1, Cost.’’ (36). Con successive deci-
sioni la Corte Costituzionale ha ribadito quegli insegnamenti, spazzando
così ogni possibile dubbio eventualmente residuato in capo a interpreti o a
legislatori riottosi: ha confermato l’estromissione dalla cornice costituzio-
nale di ogni forma di responsabilità penale per versari in re illicita (37) e
ha nuovamente insegnato: ‘‘perché la responsabilità penale sia autentica-
mente personale, come prescrive l’art. 27 comma 1 Cost., è necessario che
tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disva-
lore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano cioè
investiti dal dolo o dalla colpa)’’, ‘‘essendo la colpa sufficiente ad inte-
grare il collegamento subiettivo fra l’autore del fatto e il dato significativo
addebitato’’ (38).
Lo studioso italiano gode perciò di un enorme vantaggio rispetto ai
giuristi di altri Paesi: deve lavorare con un principio di colpevolezza di
rango costituzionale contenutisticamente non opinabile né controverti-
bile, contrassegnato, tra l’altro, dal necessario collegamento tra soggetto e
fatto ‘‘almeno nella forma e nel grado della colpa’’. Quel vincolante impe-
rativo costituzionale non è però penetrato nella legislazione ordinaria, tut-
tora ricchissima dei residui d’inciviltà del versari in re illicita: l’apposi-
zione del limite della colpa resta perciò affidato alla fedeltà alla Costitu-

mosso un rimprovero all’agente’’, il che presuppone la sua ‘‘rimproverabilità, quindi la col-


pevolezza penalistica’’: Bundesverfassungsgericht, 25 ottobre 1966, in NJW, 1967, p. 195 ss.
(35) Corte Cost., 23-24 marzo 1988, n. 364, in questa Rivista, 1988, p. 686 ss., in
particolare pp. 708-9, con nota di PULITANÒ, Una sentenza storica che restaura il principio
di colpevolezza, con la sottolineatura dell’ambiguità della formula ‘‘elementi più significativi
della fattispecie’’ (p. 699 ss).
(36) Corte Cost., 30 novembre-13 dicembre 1988, n. 1085, in questa Rivista, 1990,
p. 289 ss., in particolare p. 297, con nota di VENEZIANI, Furto d’uso e principio di colpevo-
lezza.
(37) Corte Cost., 10 gennaio 1991, n. 2, in Giur. cost., 1991, p. 14 ss.
(38) Corte Cost., 29 aprile 1991, n. 179, in Giur. cost., 1991, p. 1469 ss.

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zione degli interpreti, nella forma della interpretazione conforme alla Co-
stituzione delle ipotesi di responsabilità obiettiva, a cominciare dai delitti
aggravati dall’evento (39). Peraltro, l’apposizione del limite della mera
colpa rischia di tradursi — in tutti gli ordinamenti — in un’operazione co-
smetica, destinata solo a camuffare la sopravvivenza della responsabilità
obiettiva. In Italia gli sforzi degli interpreti rischiano di cadere nell’insidia
tesa dalle manipolazioni giurisprudenziali della colpa per inosservanza di
leggi — proverbiale camuffamento della responsabilità obiettiva. In altri
ordinamenti, che pur hanno esplicitamente introdotto il limite della colpa
nei delitti qualificati dall’evento, l’esperienza ha mostrato, come si sa, che
quel limite è illusorio. La via d’uscita — dappertutto — è l’innalzamento
legislativo del grado della colpa, come colpa grave, non solo per salva-
guardare il necessario rapporto tra misura della pena e grado della colpe-
volezza, ma ancor prima per conquistare davvero il territorio del delitti
qualificati dall’evento al nulla poena sine culpa (40).
Sotto questo profilo, va ascritto a gran merito dei finalisti tedeschi
aver fecondato il dibattito politico-criminale in quest’ultima direzione, an-
che pagando lo scotto di un’involontaria palinodia, con la ‘‘restituzione’’
del dolo e della colpa (in ogni grado) alla colpevolezza come principio di
rango costituzionale — un principio ben più cogente e vincolante, anche
agli occhi dei finalisti tedeschi, di ogni contraria apodittica visione ‘‘onto-
logica’’.

III. Il finalismo di fronte al problema dell’oggetto e della struttura


del dolo. — 1. Il secondo banco di prova della fecondità del finalismo
come modello per desiderabili riforme è, come ho anticipato, l’oggetto e la
struttura del dolo. Esaminerò schematicamente tre ordini di problemi:
a) le proposte del finalismo in ordine ai rapporti tra dolo ed erronea
supposizione della presenza di una causa di giustificazione;
b) i rapporti tra dolo e colpa, anche alla luce delle critiche dei finali-
sti alla teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento;
c) il finalismo e le moderne tendenze normativistiche nella ricostru-
zione della struttura del dolo.
2. Il finalismo ha notoriamente fatto leva sulla critica dell’inquadra-
mento delle cause di giustificazione tra gli elementi negativi del fatto, per
motivare l’insostenibilità degli orientamenti che, in Germania, propone-
vano di escludere il dolo quando il fatto è commesso nell’erronea supposi-

(39) Cfr., per l’esemplificazione degli esiti di quest’interpretazione costituzional-


mente orientata, MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, 3a ed., 2001, p. 467 ss.
(40) Va segnalato che per ‘‘colpa grave’’ si intendono, nella letteratura tedesca sulla
Leichtfertigkeit, cose molto diverse, che qui non si possono neppure accennare: per un riepi-
logo critico cfr., per tutti, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 944 ss.

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zione della presenza di una causa di giustificazione prevista dall’or-


dinamento. La giustamente celebrata monografia di Hirsch (41),
che a suo tempo ho utilizzato con massimo profitto (42), ha demoli-
to in modo pressoché definitivo l’inquadramento e l’inserzione delle
cause di giustificazione tra gli elementi negativi del fatto. Senonché,
l’esclusione del dolo, in caso di erronea supposizione della presenza di
una causa di giustificazione, non sta e cade con quell’inquadramento. I
giuristi tedeschi, muovendosi entro uno spazio privo di norme ad hoc,
sono stati costretti a gareggiare con l’arma della ‘‘giurisprudenza dei con-
cetti’’, che al solito serve a ‘‘produrre norme’’ quando il legislatore tace.
Ben diversa la situazione italiana. L’esistenza di una norma ad hoc, come
notava Delitala, rendeva inutile il ricorso alla teorica degli elementi nega-
tivi del fatto per spiegare la non configurabilità del dolo, quando si com-
metta il fatto nell’erronea supposizione della presenza di una causa di giu-
stificazione, e l’eventuale configurabilità della responsabilità per colpa,
quando quell’erronea supposizione sia dovuta a colpa. Il dolo non può in-
fatti configurarsi. L’oggetto del dolo — il contenuto della rappresenta-
zione e della volizione richiesto per la sua sussistenza — è necessaria-
mente un fatto che, secondo la valutazione dell’ordinamento, è antigiuri-
dico; non può perciò configurarsi il dolo quando si agisce nell’erronea
supposizione della presenza di una causa di giustificazione, perché il con-
tenuto della rappresentazione e della volizione è un fatto che — secondo
la valutazione dell’ordinamento — è non già antigiuridico, bensì lecito.
Può residuare una responsabilità per colpa, se quell’erronea supposizione
poteva essere evitata con la dovuta diligenza (43). A una condizione insu-
perabile: quel fatto deve essere punito dalla legge anche se commesso per
colpa. Ed è proprio l’assenza, in molti casi, di crimina culposa a motivare
— a ben vedere — l’avversione dei finalisti per l’esclusione della respon-
sabilità dolosa quando si commette il fatto nell’erronea supposizione della
presenza di una causa di giustificazione. Si tratta infatti di inconfondibili
preoccupazioni politico-criminali — condivise con giuristi delle più di-
verse scuole — per le ‘‘gravi lacune punitive’’ lamentate da Welzel du-
rante la gestazione del nuovo codice penale tedesco (44), e le ‘‘fatali con-
seguenze sociali e giuridiche’’ segnalate in seguito ripetutamente da Hir-
sch, e dovute proprio alle ‘‘lacune di punibilità’’ nei tanti e troppi casi in
cui ‘‘la colpa non è penalizzata’’ (45).

(41) HIRSCH, Die Lehre von den negativen Tatbestandsmerkmalen, 1960.


(42) MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in questa
Rivista, 1983, pp. 1195 ss. e 1242 ss.
(43) Cfr., per la letteratura italiana, MARINUCCI, op. ult. cit., p. 1248.
(44) WELZEL, Diskussionbemerkungen zum thema ‘‘die Irrtumsregelung im Ent-
wurf’’, in ZStW, 1964, p. 619.
(45) HIRSCH, Der Streit um Handlungs-und Unrechtslehre, cit., pp. 260 e 265 e
nota 64.

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Si può condividere o meno questo timore di esigenze punitive inappa-


gate (46). Nella dottrina italiana nessuno sembra condividerle, e nessuno
auspica perciò una riforma della legislazione nazionale nella direzione in-
dicata dai finalisti — il cui auspicio scaturisce, ripeto, solo da preoccupa-
zioni schiettamente politico-criminali, che vanno perciò discusse sul ter-
reno loro proprio: resta invece fuori della porta, per gli stessi finalisti,
ogni istanza ‘‘ontologica’’.
3. Quali i rapporti tra dolo e colpa all’interno del finalismo? Una
volta restituiti alla colpevolezza, dolo e colpa andrebbero visti come li ha
sempre visti la teoria tradizionale: come gradi diversi di colpevo-
lezza (47). Hirsch ha però visto nella teoria dell’imputazione obiettiva ela-
borata da Roxin — e a mio avviso a ragione, come ho sostenuto in altra
occasione — un’inquadramento dommatico, sotto un nuovo nome, dei
rapporti tra colpa ed evento, con un corollario che Hirsch non condivide,
e che invece mi è parso molto fecondo: i criteri necessari per imputare un
evento cagionato da un’azione colposa costituiscono un presupposto an-
che per fondare la responsabilità dolosa. Per descrivere questo rapporto
di presupposizione, ho usato altrove la formula riassuntiva: non c’e dolo
senza colpa. Altrove ho anche mostrato quanto risalente sia questo punto
di vista (48). Hirsch lo avversa, con l’argomento che l’illecito doloso è di-
stinto dall’illecito colposo (49). Il test non è il caso ormai logorato dal-
l’uso del nipote e dello zio, bensì innanzitutto l’enorme fenomenologia
delle attività industriali rischiose, con il loro corteo di lesioni gravi e gra-
vissime. L’imprenditore, che svolga un’attività del genere, è senz’altro a
conoscenza dei pericoli che crea per l’altrui integrità fisica: dovrebbe per-
ciò rispondere del delitto di lesioni dolose commesso con dolo eventuale
(secondo la nozione di dolo eventuale accolta anche dai finalisti), se avrà
agito e continuato ad agire accettando, rassegnato o indifferente, il proba-
bile verificarsi delle lesioni provocate all’operaio Tizio o Caio o Sempro-
nio: se avrà detto a se stesso — come l’homunculus di Frank —: ‘‘si verifi-
chi o non si verifichi la lesione di Tizio o Caio o Sempronio, io continuo a
svolgere la mia attività rischiosa, costi quel che costi’’. Cambia però la ri-
sposta, a seconda che il nostro imprenditore abbia o non abbia agito con
la diligenza dovuta? a seconda che abbia adottato o trascurato di adottare

(46) Per un quadro di diritto comparato dei risvolti politico-criminali sottostanti alle
diverse discipline dell’erronea supposizione di una causa di giustificazione cfr. MARINUCCI,
Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1996, p.
424 ss.
(47) Tuttora fondamentale BELING, Unschuld, Schuld und Schuldstufen, 1910 (ri-
stampa 1971); per un quadro aggiornato cfr., per tutti, ROXIN, Strafrecht, cit., p. 994 ss.
(48) MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa, in questa Rivista, 1991, p. 4 ss.
(49) HIRSCH, Grundlagen, Entwicklungen und Missdeutung des ‘‘Finalismus’’, cit.,
p. 11.

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le misure di sicurezza da lui esigibili? In altri termini: cambia la risposta,


e quindi si può o non si può rimproverare all’imprenditore di aver cagio-
nato con dolo eventuale quelle lesioni personali, a seconda che abbia o
non abbia agito per colpa?
È incontestabile che, se il nostro imprenditore ha agito con la dili-
genza dovuta, non gli si potrà certo rimproverare di aver causato per
colpa quelle lesioni. Sarebbe d’altra parte paradossale, e contrario a ogni
elementare senso di giustizia, assolvere il nostro diligente imprenditore
dall’accusa di lesioni colpose, e al contempo condannarlo per lesioni do-
lose. Così come sarebbe paradossale assolvere dall’accusa di omicidio col-
poso il chirurgo che abbia operato d’urgenza un paziente in condizioni di-
sperate, che gli è morto sotto i ferri, benché l’operazione sia stata effet-
tuata nel pieno rispetto delle regole dell’arte medico-chirurgica, e al con-
tempo condannarlo per omicidio doloso commesso con dolo eventuale,
avendo il nostro chirurgo senz’altro detto a se stesso: ‘‘pur di non rinun-
ciare alla sia pur minima possibilità di salvare la vita di questo malato, io
comunque lo opero, anche a costo di anticiparne la morte sul tavolo ope-
ratorio, nel corso dell’intervento’’. Questi paradossi si dissolvono se —
muovendosi all’interno della tradizionale concezione della colpevolezza —
si scorge tra dolo e colpa una Schulddifferenz, che vede nella colpa non
solo un aliud rispetto al dolo, ma anche un minus nell’ordine dei criteri
che, in base alla legge, fondano e graduano la colpevolezza (50). È un rap-
porto scalare — da più a meno colpevole — che ha un immancabile corol-
lario: non potrà essere mosso il rimprovero più grave, quello per dolo, se
rispetto allo stesso evento non si può muovere il rimprovero meno grave,
quello per colpa — non vi può essere colpevolezza dolosa se rispetto a
uno stesso evento non vi è colpevolezza colposa. Dicendo che dolo e
colpa si trovano in rapporto ‘‘aliud-aliud’’, si dà risalto alle incontestate
differenze strutturali sottolineate anche da Hirsch; soggiungendo però che
tra il dolo e colpa corre anche un rapporto ‘‘plus-minus’’, ci si muove e si
dà rilievo al rapporto graduale che corre tra dolo e colpa, all’interno del
principio di colpevolezza riempito anche del dolo e della colpa. Le giuste
soluzioni che se ne possono ricavare, riescono però comprensibili — an-
che sotto il profilo or ora esaminato, dopo quello relativo ai delitti qualifi-
cati dall’evento — solo muovendo da un concetto di colpevolezza affatto
diverso da quello postulato dai finalisti.
Solo se si muove da quel concetto di colpevolezza diventa d’altra
parte comprensibile la differenza di pena minacciata da tutti i legislatori
per lo stesso fatto, a seconda che venga commesso con dolo o per colpa: è

(50) Nella letteratura tedesca contemporanea cfr., per tutti, il quadro riassuntivo
tracciato da F.C. SCHROEDER, Leipziger Kommentar, 14 Lieferung, 1994, § 15, Rn. 9 e RO-
XIN, Strafrecht, p. 994 ss.

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il risvolto — in termini di proporzione tra grado della colpevolezza e mi-


sura della pena — del rapporto da più a meno, della Schulddifferenz, che
corre tra dolo e colpa come gradi diversi di colpevolezza. È senz’altro pos-
sibile sostenere, come in passato, che il dolo sia un grado di colpevolezza
meno grave della colpa, ma — come ha sottolineato una volta per tutte
Engisch — sarebbe tesi insostenibile: de lege lata, perché ignorerebbe la
maggior pena che l’ordinamento ricollega a un medesimo fatto se com-
messo con dolo, rispetto alla pena, assai più lieve, minacciata a chi lo
commetta per colpa; ma sarebbe insostenibile anche de lege ferenda: la
minor riprovevolezza che attira la colpa spiega appieno la universale ten-
denza a ‘‘penalizzare’’ solo in pochissimi casi le offese colpose ai beni giu-
ridici, anche i più importanti (51).
4. Un rapido sguardo alla struttura del dolo consente di sottolineare
un cospicuo merito del finalismo. L’accentuazione del duplice contenuto
psicologico che caratterizza il dolo — come cosciente e volontaria realiz-
zazione del fatto —, argina le tendenze (favorite dallo stesso legislatore te-
desco, che parla solo del momento conoscitivo sotto il profilo dell’errore
sul fatto) ad amputarlo del momento volitivo, impoverendolo e renden-
dolo indistinguibile dalla colpa cosciente. Il finalismo ha eretto anche un
argine contro le tendenze — crescenti nella letteratura tedesca — a obiet-
tivizzare il dolo, togliendo consistenza anche al momento conoscitivo.
Welzel ha fatto qualche concessione, nelle ultime edizioni del suo Ma-
nuale, agli orientamenti, influenzati da questa o quella scuola psicologica,
che in relazione a questo o a quell’elemento del fatto si accontentano di
una ‘‘rappresentazione ai margini della coscienza’’ (52). Hirsch, molto
tempo prima che facessero irruzione quegli orientamenti, aveva invece ri-
badito ‘‘che non è necessaria una rappresentazione attuale durante la
commissione del fatto’’, essendo tuttavia necessario e ‘‘bastando che la
rappresentazione esista al momento dell’inizio della commissione del fat-
to’’, essendo il dolo ‘‘risoluzione di commettere il fatto’’ (53). D’altra
parte, come ha notato Vest, queste recenti teorie si prestano benissimo ad
un uso ‘‘probatorio’’, per accreditare una struttura del dolo privata della
conoscenza ‘‘attuale’’ (54).
Viene così in risalto il risvolto più importante di una concezione del
dolo, come quella giustamente difesa dai finalisti: i problemi probatori de-
cidono della stessa sopravvivenza del dolo, come forma di colpevolezza

(51) ENGISCH, Untersuchungen über Vorsatz und Fahlrässigkeit, 1930 (rist. 1964), p.
50 ss.
(52) Cfr. WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 65.
(53) HIRSCH, Die Lehre von den negativen Tatbestandsmerkmalen, cit., p. 271 e
nota 13.
(54) VEST, Vorsatzbeweis und materielles Strafrecht, 1986, p. 93 ss., in particolare
p. 98.

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distinta dalla colpa. La letteratura tedesca contemporanea — penso a un


lavoro di Hassemer — richiama l’attenzione su questo problema capi-
tale (55); non posso però non ricordare che, nella letteratura italiana, è
stato un problema tematizzato con acume da Marcello Gallo sin dal
1952 (56), analizzando non solo la struttura e l’oggetto, ma anche l’accer-
tamento del dolo. La successiva ricerca di Bricola (57) e le recenti inda-
gini di Prosdocimi (58) e Eusebi (59) hanno ulteriormente e riccamente
approfondito il profilo dell’accertamento del dolo.
I problemi probatori sono, d’altra parte, all’ordine del giorno in tutti i
Paesi (60), anche in quelli apparentemente più lontani culturalmente. In
Italia la giurisprudenza tende a distruggere lo spartiacque tra dolo e colpa,
ritenendo provata l’effettiva previsione da parte del singolo agente, sulla
base di ciò che è normalmente prevedibile, scambiando cosi la prova del
dolo con la prova delle mera colpa (61). Una degenerazione analoga era
avvenuta in Inghilterra, e per porvi riparo è intervenuto il legislatore nel
1967, enunciando una regola probatoria che vieta di inferire l’effettiva
previsione di un evento sulla base di ciò che poteva prevedere un uomo ra-
gionevole come probabile conseguenza di una data azione, e che impone
inoltre di tener conto di tutte le circostanze del caso concreto per accer-
tare l’effettiva previsione dell’evento da parte del singolo agente (62). In-
cessanti sono state le successive decisioni giurisprudenziali, imperniate
tutte sullo stretto nesso tra struttura e prova del dolo, e tutte finalizzate a
vincere le indomabili resistenze della prassi a fare sul serio con le peculia-
rità del dolo, come cosciente e volontaria realizzazione del fatto (63).
L’ammonimento di Welzel: ‘‘se si rinuncia nel dolo alla conoscenza
attuale delle circostanze del fatto, si distrugge la linea divisoria tra dolo e

(55) HASSEMER, Kennzeichen des Vorsatzes, in Armin Kaufmann - GS, 1989, p. 289
ss.
(56) M. GALLO, Il dolo. Oggetto e accertamento, 1952.
(57) BRICOLA, Dolus in re ipsa, 1960. Sull’importanza di questo lavoro nell’appro-
fondimento dei temi dell’accertamento del dolo cfr. MARINUCCI, Ricordo di Franco Bricola,
in questa Rivista, 1995, p. 1025 ss.
(58) PROSDOCIMI, Dolus eventualis: il dolo nella struttura delle fattispecie penali,
1993.
(59) EUSEBI, Il dolo come volontà, 1993.
(60) Per un quadro delle tendenze a modellare il diritto penale in ‘‘funzione probato-
ria’’ cfr. VEST, Zur Beweisfunktion des materielles Strafrechts in Bereich des objektiven und
subjektiven Tabestandes, in ZStW, 1991, p. 584 ss. Per un principio di discussione di questa
tematica nella letteratura italiana cfr. MARINUCCI, Il diritto penale messo in discussione, in
questa Rivista, 2002, p. 1040 ss.
(61) Cfr. MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza,
cit., p. 430 ss.
(62) Per un quadro dettagliato e aggiornato cfr. VINCIGUERRA, Diritto penale inglese
comparato. I principi, 2a ed., 2002, p. 288 ss.
(63) VINCIGUERRA, op. loc. cit.

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colpa, convertendo il dolo in una mera finzione’’ (64), rischia di restare


lettera morta senza una netta svolta nella politica del diritto penale. Va
perciò inaugurato, o va comunque sperimentato nella legislazione di tutti i
Paesi qui rappresentati la felice tendenza del mondo anglosassone euro-
peo a non arretrare di fronte al problema di una traduzione delle regole
probatorie in norme scritte chiare e vincolanti (65). Sotto questo profilo,
la lezione del finalismo sulle insopprimibili peculiarità del dolo non an-
drebbe perduta, e troverebbe realizzazione — almeno su questo tema —
la sua aspirazione a tracciare il cammino verso una scienza penalistica che
superi i confini delle singole nazioni.
GIORGIO MARINUCCI

(64) WELZEL, Das Deutsche Strafrecht, 11a ed., 1969, p. 65.


(65) Per una proposta del genere cfr. MARINUCCI, op. ult. cit., p. 431 ss.

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CIÒ CHE È VIVO E CIÒ CHE È MORTO
NELLA DOTTRINA FINALISTICA.
IL CASO ITALIANO (*)

Quando i penalisti della mia generazione muovevano i primi passi


nello studio del diritto penale, le proposizioni che H. Welzel era andato
sviluppando, già a partire dal 1935, erano, anche in Italia, al centro del di-
battito scientifico (1). E tuttavia, a distanza di oltre trent’anni da quelle
appassionate discussioni, è tutt’altro che agevole fare un inventario dell’e-
redità del finalismo welzeliano nella dottrina italiana. Mentre, in Germa-
nia, i dissensi di quegli anni si sono via via composti e stemperati nel qua-
dro di una evoluzione complessiva della dottrina del reato, se si guarda
alla dottrina italiana, nel suo insieme, si ha l’impressione che l’onda lunga
della finale Handlungslehre non sia stata mai interamente assorbita. Se-
condo me, ciò è avvenuto principalmente perché — se mi è consentito di
restare nella metafora — il normale deflusso ne è stato ostacolato dall’ap-
posizione di argini, a difesa di qualcosa che non era assolutamente minac-
ciato. Fin dall’inizio, infatti, furono avanzate nei confronti della dottrina
finalistica essenzialmente obiezioni di principio e riserve ideologiche, tut-
tora affioranti nella dottrina, sulla base di singolari quanto durevoli frain-
tendimenti.
Personalmente, due circostanze mi fornirono una parziale immuniz-
zazione contro questo particolare tipo di pregiudizio: la prima fu costi-
tuita dalla stretta consuetudine di rapporti con Dario Santamaria, nei
primi anni della mia formazione; la seconda dipendeva dal fatto di aver
scelto quale oggetto di ricerca il concetto della soziale Adäquanz, su cui
scrissi, nella seconda metà degli anni ’60, una monografia, e non solo.
Questo indirizzo di ricerca comportava, com’è naturale, uno speciale inte-
resse per tutto ciò che Welzel aveva scritto a proposito dell’azione in
quanto processo significativo della vita sociale; e mi diede perciò l’occa-

(*) Testo riveduto e annotato della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al
convegno su ‘‘Significato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, orga-
nizzato dal Dipartimento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Univer-
sità ‘‘Federico II’’ - Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pènal.
(1) Com’è attestato dal contributo di G. DANNERT, Die finale Handlungslehre Wel-
zels im Spiegel der italienischen Strafrechtsdogmatik, Gottingen, 1963.

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sione di confrontarmi non tanto con le incerte premesse filosofiche della


sua dottrina, ma piuttosto con ciò che Welzel aveva veramente detto sul
bene giuridico e sui rapporti fra disvalore dell’evento e disvalore dell’a-
zione, nella struttura dell’illecito penale.
Ma, in verità, anche quando mi è accaduto di allargare il mio oriz-
zonte di riflessione, sono rimasto dell’idea che il concetto finalistico di
azione (perché di questo si tratta) ha ben poco a che vedere con l’irrazio-
nalismo, il teleologismo o il diritto penale del Tätertyp: tanto per menzio-
nare alcune delle posizioni teoriche a cui le proposizioni di Welzel sono
state variamente e confusamente apparentate: almeno in parte come con-
seguenza del credito attribuito a una lettura datata e alquanto emozionale
di Thomas Würtenberger (2). Quanto ai rapporti del pensiero di Welzel
con il giusnaturalismo, credo sia sufficiente rileggere il grandioso affresco
storico-critico costituito da ‘‘Naturrecht und materiale Gerechtigkeit’’ per
rendersi conto che Welzel non può propriamente essere definito un giu-
snaturalista. A meno che non si voglia connotare come ‘‘giusnaturalista’’
l’auspicio che il diritto torni ad occuparsi dei suoi contenuti e cessi di es-
sere forma per qualsiasi esperienza: così da essere qualcosa di più che la
manifestazione di una contingente posizione di forza; ma tale, invece, da
presentarsi al singolo ‘‘non solamente come costrizione, ma anche con la
pretesa di obbligarlo in coscienza’’ (3).
Sta di fatto che una parte significativa della dottrina italiana si tiene
ferma, ancora oggi, ad una sorta di ‘‘esorcizzazione’’ delle supposte ascen-
denze ideologiche della dottrina finalistica (4), o si limita a registrare

(2) Cfr. Die geistige Situation der deutschen Strafrechtswissenschaft, Karlsruhe


1959; trad. it.: La situazione spirituale della scienza penalistica in Germania, Milano, 1965,
in particolare p. 75 ss. Gli assunti di Würtenberger furono ripresi e fatti propri, in Italia, da
A. BARATTA, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, Milano, 1966, p. 88 ss. Il
punto di vista di Baratta, cha già in precedenza si era espresso contro quella che egli defini-
sce ‘‘concezione finalistica della colpevolezza’’ (cfr. Antinomie giuridiche e conflitti di co-
scienza, Milano, 1963, p. 125 ss.), influenzò durevolmente una parte della dottrina italiana,
avvalorando l’idea che nella concezione finalistica si annidassero tendenze ‘‘illiberali’’: un’i-
dea che lascia affiorare ripetutamente, in quegli anni, fra gli altri, anche G. MARINUCCI, Il
reato come ‘‘azione’’. Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 65).
(3) Naturrecht und materiale Gerechtigkeit; 4a ed., Gottingen, 1962; trad. it.: Diritto
naturale e giustizia materiale, Milano, 1965, p. 381. Naturalmente, il valore specifico del
contributo di Welzel alla rilettura critica delle correnti giusnaturalistiche non può essere
còlto prescindendo dal fatto che la sua prima edizione è del 1951. Esso si inquadra dunque
nella temperie culturale del dibattito sul c.d. ‘‘diritto ingiusto’’, innescato dal celebre scritto
di G. RADBRUCH del 1946 (Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, in Süddeutsche
Juristenzeitung, 5, 1946); su cui vedi, di recente, lo splendido contributo di G. VASSALLI,
Formula di Radbruch e diritto penale, Milano, 2001.
(4) Nella più recente edizione del suo manuale, il MANTOVANI, riprendendo risalenti
osservazioni di Antolisei, mostra di ritenere che la dottrina finalistica non solo sia ‘‘ancora-
ta’’ all’idea della Vergeltung, ma che essa, attraverso ‘‘una progressiva soggettivizzazione’’
dell’illecito penale, presenti il ‘‘latente pericolo di una riesumazione — attraverso un con-

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l’‘‘insuccesso’’ della dottrina finalistica nella configurazione di un con-


cetto di azione valido per tutte le tipologie dei fatti penalmente rile-
vanti (5); rinunziando sostanzialmente a investigarne le implicazioni giuri-
dico-sistematiche, in cui risiede, viceversa, la sua persistente validità.
Non si dovrebbe mai dimenticare, invece, che la dottrina finalistica
nasce e si sviluppa proprio all’insegna di una revisione della sistematica
del reato, che era avviata già da oltre un decennio quando Welzel portò
contro di essa l’affondo definitivo, riaffermando con forza l’assunto che
l’illecito non dipende solo dall’evento conforme al Tatbestand, ma anche,
a pari titolo, dal disvalore di atto che contrassegna la condotta dell’autore.
Ma la direzione in cui si muoverà la dottrina finalistica è tutt’altra da
quella che aveva caratterizzato, più o meno negli stessi anni, l’attacco
della Kieler-Richtung contro il concetto ‘‘liberale’’ del bene giuridico. Al
contrario, e in contrapposizione anche a quegli indirizzi teorici che tende-
vano a dissolvere il concetto del bene giuridico nello scopo della legge,
Welzel restituisce al bene giuridico la funzione originaria con cui esso era
entrato nella dottrina del diritto penale, per designarvi l’oggetto della tu-
tela normativa, contro cui si dirige la condotta incriminata (6). Questa
presa di posizione, già da sola, fa giustizia di fantasiosi apparentamenti e
di supposte tendenze ‘‘illiberali’’ che avrebbero contrassegnato la dottrina
finalistica.
Ciò che conferì alla dottrina di Welzel un carattere eversivo delle
concezioni dominanti fu piuttosto il fatto che essa utilizzò per questa ope-
razione ‘‘eversiva’’ un topos tradizionale della sistematica classica: il con-
cetto di azione, configurato come ‘‘pietra angolare’’ del sistema.
Si delinea, a questo punto, anche il singolare paradosso che contras-
segna la vicenda storica della dottrina finalistica. Essa, infatti, polarizzò
l’interesse degli studiosi e restò per circa trent’anni al centro del dibattito
scientifico, principalmente in ragione di un enunciato a cui, almeno nella
sua forma originaria, lo stesso Welzel, nei fatti, gradualmente rinun-
ciò (7): vale a dire la proposta di un nuovo Oberbegriff, un nuovo con-
cetto ‘‘unitario’’ e ‘‘sovraordinato’’ di azione, capace di abbracciare sia la
condotta dolosa che la condotta colposa e omissiva. Si riconosce oggi ge-
neralmente che la dottrina dell’azione finalistica, nella misura in cui vo-
leva essere una risposta alla domanda: ‘‘che cosa si deve intendere per

cetto ontologico di condotta che assorba tutti gli aspetti del reato — della concezione unita-
ria-intuitiva del reato e di una sua strumentalizzazione autoritaria’’ (Diritto penale, p. gen.,
4a ed., Padova, 2001, p. 130 s.). Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, 15a ed. agg. e
integr. da L. Conti, Milano, 2000, p. 329 ss.
(5) Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, p. gen., 4a ed., Bologna, 2001, p.
190 s.
(6) Cfr. Studien zum System des Strafrechts, ZStW, 58 Bd., 1939; ora in Abhandlun-
gen zum Strafrecht und zur Rechtsphilosophie, Berlin, 1975, p. 135 ss.
(7) Cfr. Das deutsche Strafrecht, 11a ed., Berlin, 1969, pp. 127 ss., 202 ss.

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‘azione’ nella costruzione del concetto di reato?’’ non ha conseguito l’o-


biettivo di fornire un concetto che esprimesse, senza residui, le qualità ge-
nerali che conferiscono a un processo della realtà il carattere di ‘‘azione’’
rilevante per il diritto penale. E tuttavia — in ciò consiste l’apparente pa-
radosso — gli effetti che la concezione finalistica dell’azione aveva frat-
tanto spiegato sulla sistematica del reato restarono largamente indenni
dalle conseguenze di questo fallimento teoretico. In altre parole, l’asserita
inidoneità del concetto finalistico di azione a fungere da ‘‘pietra angolare’’
del sistema non ha influito in modo determinante sulla validità delle pro-
poste dommatiche che storicamente vi sono connesse e che si presentano
ormai come acquisizioni irreversibili della teoria del reato. L’introduzione
dell’elemento psicologico nel Tatbestand dei delitti dolosi, la separazione
fra dolo e coscienza dell’illiceità, e la correlativa connotazione in senso
normativo della colpevolezza (con le conseguenze che ne derivano nel
trattamento dell’errore e nella dottrina del concorso di persone) non solo
vengono generalmente ascritti fra i meriti della dottrina finalistica, ma
corrispondono agli indirizzi oggi assolutamente dominanti nella dottrina
tedesca (8). Nell’immaginario collettivo di una parte consistente dei pena-
listi italiani la dottrina finalistica appare, invece, ancor oggi, come una
sorta di ‘‘teoria ontologica’’ del reato (9); o viene ricordata essenzial-
mente per l’asserito contributo ‘‘involontario’’ dato alla dissoluzione del
concetto ‘‘unitario’’ di azione (10).
In realtà, nel pensiero di Welzel, l’assunto che la finalità costituisce la
struttura categoriale dell’azione umana e che, di conseguenza, essa è ‘‘co-
stitutiva’’ anche per il diritto penale (11) non ha altra implicazione se non
quella di ribadire che i divieti e i comandi del legislatore penale si riferi-
scono non a meri processi causali, ma immancabilmente ad azioni umane,
cariche anche del significato che la volontà finalistica vi imprime. Ciò ha
importanti conseguenze, com’è noto, sull’organizzazione del concetto
dommatico del reato, poiché, essendo l’elemento psicologico, fin dall’ini-
zio, un dato essenziale, costitutivo del tipo di fatto, da ciò deriva, come
conseguenza, l’attribuzione del dolo al fatto tipico. Ma è soltanto dalla de-
terminazione selettiva del legislatore — vale a dire sulla base di un pre-
supposto schiettamente e rigorosamente normativo — che discende la ri-
levanza del singolo tipo di fatto (commissivo doloso, colposo, omissivo),
qual’è configurato nella fattispecie legale del reato! Sul punto, Welzel non
potrebbe essere più chiaro:
‘‘Dalla moltitudine di azioni possibili in un dato momento storico, il

(8) Per tutti, H.H. JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, allg. T., 4a ed., 1988, pp. 214
ss., 521 ss.; C. ROXIN, Strafrecht, allg. T., Bd. 1, München 1992, pp. 112, 143, 169.
(9) Vd. sopra, nt. 4.
(10) FIANDACA-MUSCO, op. loc. cit.
(11) WELZEL, Deutsches Strafrecht, cit., p. 37.

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legislatore sceglie, e proibisce, in primo luogo, quelle in cui la volontà di


realizzazione (‘dolo’) è indirizzata alla realizzazione di una situazione o di
un accadimento socialmente indesiderato (= ‘evento’), sia che si tratti
dello scopo, del mezzo o di una conseguenza collaterale dell’azione. Que-
sto ‘modello’ di comportamento giuridicamente riprovato corrisponde al
gruppo più rilevante delle fattispecie penali: i reati dolosi di azione.
In un ambito ben delimitato, l’ordinamento giuridico si occupa di
azioni finalistiche non tanto in vista del loro scopo, ma con riguardo al
fatto che l’agente, nel pilotare verso il risultato la propria azione, confida
che non sopravverranno conseguenze socialmente indesiderate o non
pensa affatto a questa possibilità. L’ordinamento giuridico si attende che
l’agente, nella scelta e nell’utilizzazione dei mezzi di azione eserciti una
determinata misura di controllo finalistico, in particolare la ‘diligenza ne-
cessaria nelle relazioni’, così da evitare conseguenze collaterali non volute,
socialmente indesiderate. L’ordinamento punisce perciò l’intrapresa di
azioni nella cui realizzazione venga meno la diligenza necessaria nelle re-
lazioni per evitare conseguenze socialmente indesiderate; di regola la con-
dotta è sanzionata penalmente solo quando la conseguenza indesiderata si
verifica realmente. Sono questi i delitti colposi di azione.
In un ambito molto ristretto, l’ordinamento giuridico comanda di in-
traprendere azioni per la salvaguardia di situazioni socialmente desiderate
(= ‘bene giuridico’) e sanziona penalmente l’omissione di queste azioni. A
queste ipotesi corrispondono le fattispecie dei delitti omissivi’’ (12).
Si tratta, come si vede, di premesse assai esplicite ai fini di una ‘‘co-
struzione separata’’ dei tipi di reato: a cui Welzel di fatto procede, nell’e-
sposizione sistematica della parte generale, all’interno del suo ma-
nuale (13). L’importanza di questa scelta metodologica — di cui gli stu-
diosi più attenti non hanno mancato di dare atto (14) — ci sembra tutta-
via che non sia stato sufficientemente sottolineata: il che non ha certo gio-
vato all’esatta comprensione della dottrina finalistica. L’elaborazione se-
parata delle diverse tipologie delittuose conferma, infatti, se mai ve ne
fosse bisogno, che l’ ‘‘ontologismo’’ welzeliano è in definitiva una ‘‘tigre
di carta ’’, dal momento che la rivendicazione della ‘‘irriducibilità’’ delle
strutture del reale non implica in nessun modo il superamento o l’integra-
zione del dato normativo. L’obiettivo dichiarato, del resto, è quello di ri-

(12) Deutsches Strafrecht, cit., p. 37 s.


(13) Ma le premesse erano già interamente enunciate negli Studien, cit., p. 172 ss. e
in Fahrlässigkeit und Verkehrsdelikte, Karlsruhe, 1961.
(14) G. MARINUCCI, Il reato come azione, cit., p. 128 ss., da’ esplicitamente atto alla
dottrina finalistica del contributo decisivo recato alla comprensione della necessità di scio-
gliere il ‘‘matrimonio forzoso’’ fra illecito doloso e colposo e fra illecito commissivo ed omis-
sivo. Sul punto vd. già M. GALLO, La teoria dell’azione ‘‘finalistica’’ nella più recente dot-
trina tedesca, Milano, 1950 (rist. 1967), p. 17 ss.

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badire l’insufficienza dommatica del concetto ‘‘causale’’ dell’azione, che


la dottrina classica del reato aveva collocato come pietra angolare del si-
stema, separando artificiosamente la condotta dal suo contenuto psicolo-
gico e riducendo l’idea dell’attacco al bene giuridico a un mero dato natu-
ralistico. L’appello alle strutture ‘‘ontologiche’’ risponde dunque essen-
zialmente all’esigenza di supportare l’assunto relativo alla funzione costi-
tutiva dell’elemento psicologico nel configurarsi del tipo, con quel che ne
consegue sul piano della struttura del reato: vale a dire la collocazione del
dolo nel Tatbestand e il definitivo superamento della concezione ‘‘psicolo-
gica’’ della colpevolezza (15).
Nei miei corsi istituzionali, ricorro abitualmente ad un’estrema sem-
plificazione delle proposte dommatiche della dottrina finalistica, riducen-
dole alla concatenazione di tre semplici proposizioni, che esprimono in
definitiva un elementare sillogismo:
1) Nel configurare una fattispecie di reato, il legislatore si riferisce
alla condotta e all’evento che ne deriva, in quanto fenomeni carichi di si-
gnificato e di rilevanza sociale;
2) il valore di un determinato comportamento, in quanto fenomeno
socialmente rilevante, non può essere compiutamente còlto senza riferirsi,
oltre che all’aspetto oggettivo-materiale della condotta, anche al signifi-
cato che la volontà vi ha impresso (16);
3) se la categoria del ‘‘fatto tipico’’ ha la funzione di esplicitare
tutto ciò che contrassegna l’oggetto dell’incriminazione, esso non può
compiutamente esprimere la ‘‘materia’’ del divieto o del comando penale
senza far riferimento, fin dal principio, anche all’elemento psicologico
della condotta incriminata (17).

(15) Che non a caso, come si dirà, corrispondono alle svolte dommatiche a cui op-
pongono una tenace resistenza settori consistenti della dottrina italiana. Sull’infondatezza
delle preoccupazioni di tipo ‘‘garantistico’’, talora addotte per convalidare l’opportunità di
un ritorno alla sistematica belinghiana, si vedano le finissime osservazioni di V. DE FRANCE-
SCO, Il ‘‘modello analitico’’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella col-
locazione sistematica dell’elemento psicologico del reato, in RIDP, 1991, p. 126 ss.
(16) Per convalidare quest’assunto, WELZEL si è servito, fra l’altro, di un esempio a
mio parere assai efficace. Fra A e B, entrambi sanitari, scoppia una lite in camera operatoria;
A da’ di mano a un affilatissimo bisturi e con questo vibra un colpo a B. Accidentalmente, il
bisturi va ad incidere un pericoloso favo, che affliggeva B e che, in tal modo, guarisce. È evi-
dente che, nonostante l’identità del processo causale, delle conseguenze oggettive, dei mezzi
di esecuzione, del contesto di azione, della qualità dei soggetti coinvolti, il fatto di A non
realizza una condotta assimilabile ad un intervento chirurgico, ma un fatto ben diverso: e
cioè un tentativo di lesioni o di omicidio. Il reale significato sociale della condotta e la sua ri-
levanza per un determinato tipo di fatto deriva qui interamente dal contenuto della volontà
di A. Questo significa dire che la volontà è ‘‘un fattore che coscientemente forma la realtà
oggettiva’’. Deutsches Strafrecht, 7a ed., 1962, p. 38 s.
(17) La costruzione ‘‘separata’’ dei tipi di reato, del resto, ha un senso solo all’in-
terno di un concetto dommatico del reato che includa nel Tatbestand l’elemento psicologico.

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È un fatto che, in una parte sicuramente maggioritaria della dottrina


italiana, questa elementare concatenazione di argomenti — forse proprio
perché apparentemente così elementare — non sembra riscuotere lo
stesso successo che riscuote presso i miei sprovveduti studenti.
Se ci si interroga sulle radici storiche di questa perdurante diffidenza
nei confronti della dottrina finalistica, è difficile, per altro, sottrarsi del
tutto al sospetto di una ben individuabile matrice ideologica. Intanto, non
può essere senza significato che, al suo irrompere sulla scena del dibattito
penalistico italiano, nell’immediato dopoguerra, il concetto dell’azione fi-
nalistica abbia interessato — e in qualche caso conquistato — soprattutto
la ‘‘giovane’’ dottrina, mentre, con rare eccezioni, la dottrina meno gio-
vane assunse un atteggiamento decisamente critico (18) o le oppose un
sostanziale fine di non ricevere.
La ragione di questo atteggiamento va ricercata, a mio parere, nelle

È infatti del tutto evidente che, dal punto di vista oggettivo-materiale, non c’è nessuna diffe-
renza fra un omicidio doloso e un omicidio colposo. La differenza sta interamente nel fatto
che nell’omicidio doloso l’agente innesca, orienta e governa consapevolmente i decorsi cau-
sali, mentre nell’omicidio colposo essi sfuggono al suo (doveroso) controllo. Per questo dolo
e colpa restano categorie irriducibilmente alternative. La tesi opposta, ripresa di recente con
particolare finezza argomentativa da G. MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa - Morte della
‘‘imputazione oggettiva’’ e trasfigurazione nella colpevolezza, in questa Rivista, 1991, p. 3
ss., sembra prescindere del tutto dal fatto che l’inclusione dell’elemento psicologico nel Tat-
bestand non ha mai oscurato la distinzione fra Tatbestand oggettivo e Tatbestand sogget-
tivo. Questo significa che nel caso in cui il rischio creato dall’autore è un rischio socialmente
adeguato, o se si preferisce, un rischio permesso — che è quanto dire non giuridicamente di-
sapprovato — l’esclusione della punibilità dipenderà direttamente da questo dato, rilevante
sul piano dell’imputazione oggettiva, e non già dall’assenza di colpa! Il chirurgo che, per sba-
razzarsi di un rivale, intenzionalmente omette di suturare un vaso, ben sapendo che ciò con-
durrà ad una emorragia, forma la realtà oggettiva, nella misura in cui orienta i decorsi cau-
sali verso il risultato voluto; se involontariamente omette di effettuare la sutura, risponderà
dell’evento a titolo di colpa, se avrà violato una regola di diligenza oggettiva. È certo che
quello stesso chirurgo, se avrà effettuato l’intervento (necessario) a perfetta regola d’arte,
non risponderà di omicidio doloso (quali che fossero le sue riposte intenzioni); ma questo
non perché ‘‘la morte è stata lo sviluppo lesivo di un rischio operatorio non colposo’’ (così
MARINUCCI, op. ult. cit., p. 29), bensì perché la sua azione non ha creato alcun rischio giuri-
dicamente disapprovato: il che è quanto dire che la condotta non è idonea ad assumere al-
cuna rilevanza penale, già dal punto di vista del Tatbestand oggettivo.
(18) Cfr. F. GRISPIGNI, La nuova sistematica del reato nella più recente dottrina tede-
sca, in SP, 1950, p. 1 ss. In seguito, B. PETROCELLI, Riesame degli elementi del reato, in que-
sta Rivista, 1963, p. 337 ss. Un posto a sé merita la posizione di M. GALLO, La teoria, cit.,
passim. Il GALLO, che divide sicuramente con D. SANTAMARIA (Prospettive del concetto fina-
listico di azione, Napoli, 1955) il merito di aver introdotto e divulgato in Italia la dottrina fi-
nalistica, mostra apertamente di condividere gli esiti principali del pensiero di Welzel — in
primo luogo la separazione delle fattispecie dolose da quelle colpose, ma anche gli spunti per
la ricostruzione del concetto di colpevolezza — ma prende esplicitamente le distanze dalle
‘‘premesse ideologico-filosofiche da cui la teoria muove’’ e sottolinea di essere pervenuto alle
medesime conclusioni su alcuni punti centrali senza allontanarsi ‘‘dal metodo tecnico-giuri-
dico’’ (op. cit., p. 36 s.).

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inquietudini suscitate dall’appello di Welzel alle ‘‘strutture ontologiche


della realtà’’ e al carattere ‘‘vincolante’’ che esse assumerebbero per la co-
struzione dei concetti giuridico-penali. Il tema è stato già sfiorato in pre-
cedenza, ma sarà il caso di approfondire il discorso. Si tratta, infatti, di un
punto decisivo — anche se di controversa interpretazione — perché la
stessa affermazione dell’irriducibilità della struttura ‘‘finalistica’’ dell’a-
zione penalmente rilevante non era che un’espressione di questa regola
generale.
Non vi è dubbio che, in talune fasi della evoluzione del pensiero di
Welzel, il suo ‘‘ontologismo’’ si connoti alla stregua di una legge struttu-
rale dell’essere e alluda in qualche modo a una sorta di diritto naturale so-
vraordinato (19). Ma è altrettanto certo che, quando si tratta di rendere
visibile, nella sua concretezza, il vincolo che la realtà ‘‘ontologica’’ dell’es-
sere impone alla costruzione giuridica, le sachlogische Strukturen ci si
mostrano subito come qualcosa di molto più ‘‘terreno’’, che concerne so-
prattutto il valore dell’azione in quanto fenomeno di rilevanza so-
ciale (20). Correlativamente, il vincolo del legislatore e dell’interprete alle
strutture ontologiche si ‘‘riduce’’ all’affermazione che, quando il legisla-
tore si è riferito a un dato della realtà e lo ha assunto in una fattispecie,
non può mutarne a suo piacimento l’essenza. Il dato ontico, nella teoria
dell’azione come in quella della colpevolezza, non si sostituisce ai concetti
del diritto, né si sovrappone ad essi; semplicemente pone un limite alla
loro costruzione. È il diritto, in altre parole, che stabilisce quali dati della
realtà vuole mettere in relazione a conseguenze giuridiche, ma non può
mutare a suo piacimento le entità a cui si è riferito, quando le tipizza in
una fattispecie. Trovo personalmente assai significativo l’esempio a cui
Welzel ricorre per chiarire questo concetto: ‘‘Il legislatore — egli scrive —
non è in nessun modo vincolato a stabilire che le conseguenze del compi-
mento di un’azione antigiuridica siano anche legate al fatto che l’autore
abbia agito colpevolmente. Ma, se lo fa e dunque decide di collegare la
pena alla colpevolezza, allora è vincolato al contenuto e al valore pratico
dell’idea di colpevolezza’’ (21).
La reale dimensione dell’ ‘‘ontologismo’’ welzeliano si coglie in modo
molto chiaro nelle pagine degli Studien dedicate al concetto ‘‘funzionale’’
del bene giuridico, che costituisce una necessaria premessa al concetto
della soziale Adäquanz.
La dottrina tradizionale — scrive Welzel — colloca il bene giuridico
fuori della sua sfera di vitalità, in un mondo ‘‘afunzionale’’ e senza vita,

(19) Cfr. Um die finale Handlungslehre, 1949, p. 7; Aktuelle Strafrechtsprobleme im


Rahmen der finalen Handlungslehre, 1953, p. 5.
(20) Su questa duplicità di significato dell’ontologismo di Welzel, cfr già C. ROXIN,
Zur Kritik der finalen Handlungslehre, ZStW, 74, 1962, p. 515 ss.
(21) Naturrecht und Rechtspositivismus (1953), ora in: Abhandl., cit., p. 284.

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come nelle vetrine di un museo: ‘‘il delinquente è colui che infrange la


protezione e afferra quegli oggetti con ruvida mano’’ (22). Ogni azione, in
altre parole, che presentasse un’efficienza per la modificazione di una si-
tuazione protetta, costituiva per ciò solo, dal punto di vista della dottrina
tradizionale, un’aggressione al bene e assumeva il carattere della tipicità.
La natura sociale dell’oggetto protetto comporta invece il superamento
del feticcio della sua intangibilità e implica al tempo stesso un nuovo cri-
terio per valutare l’idoneità dell’azione come base del fatto tipico: essa, in-
fatti, non può essere stabilita semplicemente con riguardo alla sua effi-
cienza causale, ma dipende dal suo significato come processo della vita
sociale. ‘‘Azione (anche come azione finalistica) — sono parole di Welzel
— resta pur sempre un’astrazione, come causazione, finché non venga in-
tesa come fenomeno socialmente significativo, come azione nell’ambito
della vita sociale’’ (23). Per quanto attiene ai beni giuridici, essi assu-
mono rilievo non in sé, ma in quanto sono ‘‘in funzione’’, cioè in quanto
determinano e subiscono effetti, positivi e negativi, nell’ambito della vita
sociale. Tutta la vita sociale consiste nel mettere in gioco e consumare
beni giuridici, ‘‘così come in definitiva il vivere stesso è in definitiva un
consumare la vita’’. Diventa allora chiaro come in una definizione del
reato solo come lesione di un bene giuridico, ‘‘proprio ciò che è decisivo
resta non detto’’. Se l’ordinamento penale volesse davvero vietare come il-
lecito obiettivo qualsiasi lesione di beni giuridici, allora ‘‘qualsiasi vita so-
ciale si fermerebbe e avremmo quel mondo-museo buono solo da guarda-
re’’. In realtà l’ordinamento non proibisce qualsiasi pregiudizio di un bene
giuridico, ma accorda protezione solo contro aggressioni configurate in un
certo modo, che superino la misura dei pregiudizi inevitabili, nel quadro
di un’ordinata vita sociale. ‘‘Si da’ protezione di beni giuridici solo in vista
di pregiudizi di beni giuridici, che siano prodotti in un certo modo!’’ (24).
Il riferimento alle strutture logiche della realtà, configurate nella di-
mensione di un limite invalicabile nella costruzione del tipo dell’illecito,
apre prospettive che erano assolutamente impensabili nella caratteristica
dimensione ‘‘avalutativa’’ della dottrina causale dell’azione. Sotto questo
punto di vista, il concetto dell’adeguatezza sociale costituisce un esempio
assai significativo.
Non è difficile comprendere, allora, che il fine di non ricevere, oppo-
sto alla dottrina finalistica dalla cultura penalistica italiana più o meno
consapevolmente legata agli orientamenti del tecnicismo giuridico era es-
senzialmente ispirato dal timore che il riferimento alle strutture logiche
della realtà aprisse una pericolosa breccia nell’asettica struttura che essa

(22) Studien, cit., p. 140.


(23) Studien, cit., p. 141.
(24) Studien, cit., p. 140 s.

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aveva eretto per proteggere il diritto positivo da ogni influenza contami-


nante di altre scienze, che non fossero le scienze giuridiche: in primo
luogo la filosofia e la sociologia. Altrettanto significativo, all’opposto, è il
fatto che, in quegli stessi anni, i postulati dalla dottrina finalistica abbiano
costituito un essenziale punto di riferimento nell’impegno contro il forma-
lismo allora imperante nella giurisprudenza della Cassazione.
Quella stagione è lontana; e tuttavia resto personalmente dell’idea
che la sostanziale ‘‘conventio ad escludendum’’ nei confronti della dot-
trina finalistica abbia esercitato durevoli effetti sull’evoluzione della dom-
matica del reato nella dottrina italiana. Questo atteggiamento di chiusura
ha sicuramente contribuito a perpetuare — a tacer d’altro — l’utilizza-
zione, più o meno consapevole, del concetto causale di azione nella dot-
trina del concorso di persone, con la conseguente rinunzia alla distinzione
fra autorìa e partecipazione e alla figura dell’autore mediato (25). Quanto
alla colpevolezza — in assenza dell’esplicito riconoscimento di una ‘‘dop-
pia collocazione’’ del dolo e della colpa — essa rimane in qualche modo a
mezza strada fra la concezione psicologica e quella normativa; quanto
meno nella misura in cui non appare sufficientemente chiarito il senso
dell’evoluzione dommatica per cui dolo e colpa cessano di essere conside-
rati ‘‘forme’’ della colpevolezza, per diventare ‘‘oggetto’’ del giudizio di
rimproverabilità (26). Questo limite, fra l’altro, risulta particolarmente
evidente a livello della manualistica, e dunque proprio nella sede che è
stata giustamente definita ‘‘il vero banco di prova della sistematica giuri-
dica’’ (27): vale a dire l’esposizione a fini didattici (28).

(25) Non c’è dubbio che la concezione del concorso di persone più diffusa nella dot-
trina italiana sia imperniata su un concetto tipicamente causale dell’azione (che pure a pa-
role tutti dichiarano superato); con l’effetto di incoraggiare la tendenza giurisprudenziale ad
accreditare una nozione del concorso che, notoriamente, va addirittura oltre il limite del ri-
goroso criterio condizionalistico che lo stesso legislatore si era ben guardato dal superare,
perfino in rapporto alla ‘‘eccezionale’’ figura di responsabilità oggettiva, delineata nell’art.
116 del c.p. per il caso dell’evento non voluto da taluno dei concorrenti. Eppure, l’art. 110
del c.p. — là dove stabilisce che ‘‘Quando più persone concorrono in un reato, ciascuna di
esse soggiace alla pena per questo stabilita’’ — se da un lato manifesta, in un modo che non
potrebbe essere più esplicito, la scelta di appiattimento delle condotte di concorso dal punto
di vista sanzionatorio, non per questo obbliga l’interprete a identificare la nozione di ‘‘rea-
to’’ con un fatto tipico spoglio di ogni contenuto psicologico (come ha, a suo tempo, magi-
stralmente dimostrato A.R. LATAGLIATA, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli,
1964).
(26) Una prima conseguenza è l’uso del termine ‘‘colpevolezza’’, da parte della dot-
trina, con significati tutt’altro che uniformi; il che non contribuisce certo ad un coerente
orientamento della prassi. In tema di concorso di persone, ad esempio, non è difficile preve-
dere l’emergere di non lievi problemi interpretativi, se dovesse tradursi in norma la proposta
della Commissione Grosso (1999), secondo cui ‘‘Ciascun concorrente risponde nei limiti
della sua colpevolezza’’ (art. 45, comma 2 del progetto di articolato).
(27) Così MARINUCCI, Il reato, cit., p. 132, che evoca sul punto G. RADBRUCH, Zur
Systematik der Verbrechenslehre, in Festg. f. R. Frank, Tübingen, 1930, p. 159.
(28) A proposito della collocazione dell’elemento psicologico, ad esempio, T. PADO-

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La collocazione dell’elemento psicologico nel fatto tipico è stata per


altro apertamente contestata, in anni recenti, con l’etichetta del ‘‘ritorno a
Beling’’, sulla base di un’asserita irrinunciabilità della dicotomia ogget-
tivo-soggettivo, nel quadro di un diritto penale ‘‘garantista’’; e riesumando
il presunto carattere ‘‘illiberale’’ di qualsiasi tendenza alla c.d. ‘‘soggetti-
vizzazione’’ dell’illecito penale (29). Riaffiorano, come si vede — in verità
del tutto inopinatamente, stando agli esiti finali, almeno in Germania, di
una disputa dottrinale ormai cinquantennale (30) — le obiezioni più risa-
lenti che contrassegnarono la contestazione del finalismo al suo irrompere
in Italia, nei primi anni del dopoguerra.
Ma quelle obiezioni hanno ancora un senso, nel quadro politico-costi-
tuzionale in cui oggi ci muoviamo? Nell’ambito di un diritto penale del
fatto, assistito dal crescente rigore del principio di tassatività e determina-
tezza della incriminazione e saldamente ancorato all’idea della tutela del
bene?
In una cornice dommatica in cui la distinzione dell’oggetto della va-
lutazione dalla valutazione dell’oggetto non costituisce più un obiettivo da
raggiungere, ma costituisce un dato ormai acquisito, la valenza garanti-
stica del fatto — com’è stato lucidamente osservato — può risultare solo
accresciuta, e non certo diminuita, una volta che esso sia ‘‘irrobustito’’
dall’attribuzione del coefficiente psicologico dell’azione. Questo non po-
trebbe che rimarcarne ‘‘il profilo empirico-descrittivo a svantaggio di

VANI, che pure alla colpevolezza ha dedicato studi di sicuro spessore (cfr. Appunti sull’evolu-
zione del concetto di colpevolezza, in questa Rivista, 1973, p. 554 ss.; Teoria della colpevo-
lezza e scopi della pena, ivi, 1987, p. 798 ss.), nel suo Diritto penale, 6a ed., Milano, 2002,
p. 171, scrive testualmente: ‘‘Anche il mantenimento del nesso psichico nell’orbita della col-
pevolezza meriterebbe una riconsiderazione... ma, in questa sede, si è preferito aderire alla
prospettiva più tradizionale’’ (corsivo ns.). Una sostanziale ambiguità contrassegna anche
l’esposizione del tema in MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 293 ss. e in FIANDACA-MUSCO,
Diritto penale, cit., p. 275 ss., nonostante l’ampiezza della trattazione e la ricchezza dei rife-
rimenti storico-dommatici. Anche in MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Mi-
lano, 2002, p. 642 ss., non ci pare sia data adeguata visibilità alle motivazioni, sulla cui base
il dolo viene collocato una volta per tutte nella colpevolezza.
(29) Per quest’assunto, G. MARINUCCI, Antigiuridicità, in Dig. disc. pen., I, Torino,
1987, p. 175 ss.
(30) Per la convergenza della dottrina di lingua tedesca, praticamente senza ecce-
zioni, sull’idea di una ‘‘doppia collocazione’’ del dolo, cfr. già JESCHECK, Lehrbuch, cit., p.
218. C. ROXIN, Kriminalpoliltik und Strafrechtssystem, 2a ed., Berlin, 1973, trad. it., Napoli,
1986, p. 71, osserva lucidamente che la vecchia questione, se il dolo ‘‘appartenga’’ al Tatbe-
stand o alla colpevolezza, costituisce in realtà ‘‘un falso problema’’. Il dolo, infatti, ‘‘è essen-
ziale per la tipicità perché senza di esso la descrizione legale del reato non si può realizzare
nella forma richiesta dallo stato di diritto; esso però è ugualmente rilevante dal punto di vi-
sta della colpevolezza, in quanto deve delimitare la forma più grave di colpevolezza da
quella più lieve (la colpa), perciò dev’essere configurato, per quanto riguarda il contenuto,
secondo i principi valutativi propri di questa categoria del reato’’.

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quello normativo-valutativo’’ e con ciò agevolare il recupero della prassi


ad un maggior garantismo in sede di imputazione soggettiva (31).
Una coerente concezione normativa della colpevolezza riveste, inol-
tre, preziose implicazioni dal punto di vista di una dommatica orientata
dalle opzioni politico-criminali del legislatore e quindi, in primo luogo,
dalle finalità della pena.
Indicazioni assai significative in questa direzione sono venute, fra
l’altro, alcuni anni fa, da una fondamentale sentenza della nostra Corte
costituzionale (32), chiamata a risolvere lo spinoso e antico problema del-
l’ignoranza inevitabile della legge penale. L’intera sentenza è chiaramente
fondata su una consapevole presa d’atto della ‘‘doppia funzione’’ dell’ele-
mento psicologico del reato: una volta come elemento costitutivo della
conformità al tipo (in cui si esaurisce la sua funzione empirico-descrit-
tiva); una seconda volta come elemento di delimitazione dell’oggetto del
rimprovero, che può dirigersi solo nei confronti di chi ha realizzato dolo-
samente o colposamente un fatto antigiuridico.
La Corte era chiamata a decidere se l’art. 5 del vigente c.p., che con-
teneva il principio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, fosse
o meno in contrasto con il principio di ‘‘personalità’’ della responsabilità
penale, sancito nell’art. 27, comma 1, della Costituzione. La sentenza è
pervenuta a una conclusione affermativa, ponendo in rapporto il comma 1
dell’art. 27 con il comma 3 della stessa disposizione, ove si stabilisce, fra
l’altro, che le pene ‘‘devono tendere alla rieducazione del condannato’’.
La Corte ha osservato che, comunque si intenda la funzione rieducativa,
‘‘essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più si-
gnificativi della fattispecie tipica’’. Non avrebbe senso — precisa espressa-
mente la Corte — la ‘‘rieducazione’’ di chi, non essendo almeno ‘‘in col-
pa’’ (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere rieducato.
Il collegamento fra colpevolezza e prevenzione è dunque del tutto
esplicito, così come esplicita è l’adesione della Corte all’idea che il nucleo
del concetto di colpevolezza consista nella ‘‘rimproverabilità’’ e che il
primo, necessario presupposto per la formulazione del rimprovero sia co-
stituito dalla tipicità del fatto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il pro-
filo degli elementi ‘‘subiettivi’’ di esso, identificati nel dolo e nella colpa.
Né la Corte manca di sottolineare la insostituibilità della funzione di ga-
ranzia che la dottrina contemporanea assegna alla colpevolezza, in quanto
‘‘limite al potere statuale di punire’’.
Non c’è dubbio che, nel punto in cui la Corte distingue nettamente
l’elemento psicologico del reato (quale ‘‘primo, necessario ‘presupposto’
della punibilità’’), dalla ‘‘valutazione e rimproverabilità’’ del fatto stesso,

(31) DE FRANCESCO, Il ‘‘modello analitico’’, cit., p. 126.


(32) Ci riferiamo alla sentenza del 24 marzo 1988, n. 364.

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essa espliciti l’esigenza del riconoscimento, nel singolo autore, della possi-
bilità di orientare le proprie scelte secondo le pretese dell’ordinamento,
come ulteriore inderogabile presupposto del ‘‘rimprovero’’ di colpevo-
lezza. Le opzioni della Corte in tema di teoria generale sono in verità del
tutto manifeste; e, del resto, si evincono dallo stesso tenore della deci-
sione, che espressamente valorizza non già l’elemento (di carattere psico-
logico) della conoscenza o mancata conoscenza della legge, bensì il dato,
squisitamente normativo, della sua conoscibilità (33). Si può quindi par-
lare di costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, in una forma
che recepisce un’accezione di questo requisito della responsabilità penale
in termini caratteristicamente normativi.
Di straordinario rilievo è il collegamento che la Corte stabilisce tra la
funzione preventiva della pena e la categoria della colpevolezza: sia in
rapporto alle finalità rieducative della pena, che in rapporto alla ‘‘fun-
zione di orientamento culturale e di determinazione psicologica operata
dalle leggi penali’’. Né potrebbe essere più esplicito il riconoscimento, che
ne consegue, del ruolo ‘‘garantistico’’ del principio di colpevolezza. Nel
sottolineare che la categoria della colpevolezza deve essere ‘‘arricchita’’ di
un ‘‘ulteriore requisito minimo d’imputazione’’ costituito dalla ‘‘effettiva
possibilità di conoscere la legge penale’’, la Corte precisa, espressamente,
che è proprio tale possibilità di conoscenza della legge penale a fondare
‘‘la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione’’. L’irroga-
zione di una pena che prescinda dall’insieme, così integrato, dei requisiti
della colpevolezza costituirebbe, pertanto, una inammissibile strumenta-
lizzazione della persona umana, in vista delle esigenze, potenzialmente il-
limitate, della prevenzione generale o speciale.
Dunque, poiché c’è un art. 27 della Costituzione, conformato in un
certo modo, noi oggi sappiamo che cos’è per noi storicamente la colpevo-
lezza. La struttura del reale, in questo caso, si è fissata in un dato norma-
tivo!
Questa memorabile sentenza costituisce un chiaro esempio di rico-
struzione del sistema, teleologicamente orientata dai principi costituzio-
nali, in cui sono stati usati, con grande consapevolezza, strumenti resi di-
sponibili da una lunga e raffinata elaborazione della dottrina del reato.
Tanto più appaiono inquietanti, allora, specie se in rapporto con attività
di riforma legislativa, atteggiamenti di consapevole svalutazione della
dommatica, che anche di recente è stata da qualcuno paragonata alla col-
locazione ‘‘dei mobili in una stanza’’! (34).
La dommatica, naturalmente, è ben altro. Quando non si trasformi in

(33) Non è certo per un caso che la questione dei limiti di rilevanza dell’errore sulla
legge penale appare risolta negli stessi termini, nel quadro di una coerente concezione nor-
mativa della colpevolezza, da D. SANTAMARIA, Colpevolezza, in Enc. dir., VII, 1960, p. 664.
(34) Da ultimo, D. PULITANÒ, Nel laboratorio della riforma del codice penale, in que-

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arbitraria costruzione di concetti, destinati a precostituire l’interpreta-


zione del materiale normativo con un caratteristico procedimento di In-
versionsmethode, la dommatica costituisce uno strumento indispensabile
per la conoscenza e l’applicazione del diritto. Per quanto attiene, in parti-
colare, alla teoria generale del reato, non vi è dubbio che essa fornisca —
dal punto di vista didattico, ma non solo — uno schema irrinunciabile per
l’esposizione della parte generale e che rappresenti, a tutti i livelli, uno
strumento di comunicazione, senza di cui sarebbe estremamente ardua,
per non dire impensabile, la conoscenza e la sistemazione del materiale
normativo. Naturalmente, quanto più il linguaggio della dommatica è
chiaro, rigoroso e coerente, tanto più essa è utile alla prassi e appare ido-
nea a influire sulle scelte del legislatore.
Il concetto dommatico del reato, perciò, dovrebbe sempre cercare di
riflettere, nel rispetto delle regole dell’interpretazione, le graduazioni di
valore e la differente rilevanza dei vari momenti dell’illecito, da cui di-
pende l’antecedenza logico-giuridica delle questioni che il giudice e l’inter-
prete sono chiamati a risolvere.
Per chiarire il concetto, ci si può servire di un esempio semplice e in-
controverso: non è certo possibile dubitare del fatto che nessun giudice
potrebbe procedere all’accertamento dell’imputabilità, senza aver prima
accertato di trovarsi di fronte a un fatto tipico e antigiuridico, perché ciò
esporrebbe potenzialmente l’imputato a una misura di sicurezza, in viola-
zione dell’art. 202 del c.p. Dal punto di vista della dommatica del reato,
ciò implica una determinata posizione della categoria della colpevolezza:
in particolare, una collocazione che segnali la necessità — all’interno del
caratteristico procedimento del Verbrechensaufbau — del previo accerta-
mento della tipicità e dell’antigiuridicità. Questo è solo un esempio: l’as-
sunto di fondo è che la dommatica del reato non ha altra funzione se non
quella di rendere immediatamente disponibili le regole indispensabili all’e-
laborazione del materiale normativo e alla sua concreta utilizzazione: ri-
ducendo la distanza fra l’astrattezza della fattispecie legale e la concre-
tezza del singolo episodio costituisce per questa via uno strumento di sele-
zione dei casi concreti, in base alla loro differente rilevanza giuridico-pe-
nale e una guida insostituibile alla decisione e motivazione delle soluzioni
adottate.
Dal punto di vista politico-criminale, una dommatica coerente con-
corre a garantire la certezza e l’uniformità di applicazione del diritto, nel
rispetto dei principi costituzionali.
Inoltre, come ci ha insegnato Claus Roxin, i concetti e le categorie
della dommatica devono essere anche capaci di rappresentare le scelte di

sta Rivista, 2001, p. 17. Per una puntuale replica, si veda S. MOCCIA, Euforie tecnicistiche
nel ‘‘laboratorio della riforma del codice penale’’, ivi, 2002, p. 453 ss.

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valore e le opzioni della politica criminale; senza per questo rinunciare


alle esigenze di certezza, connesse con la prevedibilità delle soluzioni, che
deriva dalla logicità concettuale del sistema, tradizionalmente garantita
proprio dal carattere ‘‘formale’’ della teoria generale del reato (35).
Si tratta di una indicazione che larghi settori della dottrina italiana di
oggi — soprattutto i più giovani — hanno iscritto nel loro percorso di ri-
cerca e di studio.
È una indicazione che non sarebbe potuta venire da Welzel, che in
quanto coerente retribuzionista, teneva la politica criminale fuori della
porta — o dovrei dire della stanza? — della dommatica. Ma la dommatica
evolve con l’ideologia e la cultura del suo tempo, che sono, per l’appunto,
‘‘strutture logiche del reale’’. Si tratta, certo, di un’evoluzione incessante;
ma di tanto in tanto vi sono svolte da cui non si torna indietro: e una di
queste svolte è certamente quella che Hans Welzel ha impresso al nostro
concetto dell’azione tipica.
CARLO FIORE
Ordinario di Diritto penale
nell’Università degli Studi
di Napoli Federico II

(35) C. ROXIN, Politica criminale, cit., Prefazione all’edizione italiana, p. 32.

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LA CONCEZIONE FINALISTICA DELL’AZIONE
E LA TEORIA DEL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO (*)

SOMMARIO: 1. La ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ ed il concorso di persone nel reato. Teorie
sul concorso a partire dal concetto di ‘‘autore’’ e a partire dal concetto di ‘‘reato’’. —
2. La ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ e la figura dell’autore mediato quale riafferma-
zione della centralità dell’autore. — 3. Incongruenza dell’autore mediato nel sistema
penale italiano. — 4. La teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale e la sua cri-
tica. L’impraticabilità del dogma causale. — 5. Il criterio di strumentalità quale ca-
none di ricostruzione del ‘‘reato nel quale si concorre’’. — 6. Strumentalità e dolo di
concorso. Conclusione.

1. La dottrina finalistica dell’azione irrompe nella teoria del con-


corso di persone con il fondamentale concetto di ‘‘signoria finalistica sul
fatto’’ (1).
L’espressione ‘‘signoria sul fatto’’ non è un conio originale: essa risale
in effetti a Hegler che la utilizzò per la prima volta in un saggio del 1915,
dedicato agli elementi del reato, per designare tuttavia soltanto la pre-
senza, nell’autore del reato, di tutti i presupposti della colpevolezza (2).
In uno scritto di quasi quindici anni successivo lo stesso Hegler, analiz-
zando l’essenza della reità mediata, la ricondurrà alla ‘‘prevalenza’’ o, per
l’appunto, alla ‘‘signoria sul fatto’’ esercitata dall’autore mediato sull’ese-
cutore incolpevole (o semplicemente colposo) del fatto obiettivamente an-
tigiuridico (3). In questo senso, già peraltro proiettato verso l’area concor-
suale, il concetto di ‘‘signoria sul fatto’’ si riduce in pratica — secondo il
rilievo di Eb. Schmidt (4) — ad una ‘‘metafora’’, in quanto si limita a tra-

(*) Testo della relazione svolta a Napoli il 25 ottobre 2002 al convegno su ‘‘Signifi-
cato e prospettive del finalismo nell’esperienza giuspenalistica’’, organizzato dal Diparti-
mento di Scienze Penalistiche, Criminologiche e Penitenziarie dell’Università ‘‘Federico II’’ -
Fac. di Giurisprudenza e dall’Association Internationale de Droit Pénal. Sono stati aggiunti i
riferimenti bibliografici essenziali.
(1) Cfr. MORSELLI, Un breve bilancio fine-secolo sul finalismo e le sue prospettive di
sviluppo, in Riv. it., p. 1321.
(2) Cfr. HEGLER, Die Merkmale des Verbrechens, in Z.Str.W., 1915 (XXXYI), pp. 19
s. e 184 s.
(3) Cfr. HEGLER, Zum Wesen der mittelbaren Täterschaft, in Die Reichsgerichtspra-
xis im deutschen Rechtsleben, V, 1929, p. 307 s.
(4) Cfr. Eb. SCHMIDT, Die mittelbare Täterschaft, in Frank-Festg., II, 1930, p. 121.

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durre espressivamente la constatazione che, dei due soggetti, l’uno ha de-


terminato l’altro ad una realizzazione incolpevole del fatto (5).
Il passaggio da una nozione meramente descrittiva di ‘‘signoria sul
fatto’’ ad una nozione di carattere dogmatico sarà compiuta da Welzel,
che, sin dagli Studien del 1939, concepirà la ‘‘signoria finalistica sul fatto
(doloso)’’ come elemento fondante del concetto di ‘‘autore’’: signore del
fatto è colui che lo realizza in funzione di uno scopo sulla base della sua
risoluzione di volontà (6).
L’ ‘‘autore’’ viene così svincolato dal riferimento necessario all’esecu-
zione della fattispecie — indefettibile nelle teorie formali-obiettive — e si
spalancano le porte alla figura dell’autore mediato, cui viene fornito un
fondamento dogmatico di matrice ontologica. ‘‘L’autore — scrive Welzel
— non ha bisogno di eseguire il fatto in ogni fase di propria mano; egli
può servirsi non soltanto di strumenti meccanici, ma anche impiegare per
i propri scopi la condotta di un altro, nel mentre mantiene presso di sé la
signoria sulla realizzazione del fatto’’ (7). Nel contempo, il possesso della
signoria finalistica sul fatto rappresenta il criterio distintivo tra l’autore e
le figure concorsuali dell’istigatore e del complice.
Come appare evidente, la ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ presuppone
una teoria del concorso costruita a partire dal concetto di ‘‘reità’’ (intesa
come qualità d’autore), intorno al quale e in funzione del quale si dispon-
gono poi le figure concorsuali satellitari. Un simile approccio è dunque
impegnato nell’elaborare categorie disposte lungo la dimensione del
‘‘principale’’ e dell’ ‘‘accessorio’’ e destinate a dar conto del ruolo e delle
connessioni stabilite, in forma si potrebbe dire ‘gerarchica’, tra i soggetti
della partecipazione criminosa. Al centro della teoria si colloca l’autore,
mentre istigatori e complici ‘accedono’ alla sua condotta, nel senso che da
essa traggono rilevanza secondo il canone della c.d. tipicità indiretta (8).
Il concorso (in realtà meglio definito, in questa prospettiva, come ‘‘parte-
cipazione’’) appare la risultante di una qualificazione secondaria dipen-
dente da una qualificazione principale, in base al dogma dell’accessorietà.
La partecipazione criminosa appare nei termini di una costellazione go-
vernata da un sole (l’autore) nella quale il dogma dell’accessorietà svolge,
rispetto ai concorrenti, il ruolo di una sorta di legge di gravitazione. La
tecnica normativa cui un tale modo di intendere la partecipazione si ri-
volge è paradigmaticamente espressa dalla descrizione di figure concor-

(5) Sugli sviluppi del concetto di ‘‘signoria sul fatto’’ v., per tutti, l’ampia analisi di
ROXIN, Täterschaft und Tatherreschaft, Berlin/New York, 20007, p. 60 s.
(6) Cfr. WELZEL, Studien zum System des Strafrechts, in Z.Str.V., 1939 (LVIII), p.
537 s.
(7) Cfr. WELZEL, Das deutsche Strafecht, Berlin 196911, p. 101.
(8) Cfr. LATAGLIATA, I principi deI concorso di persone nel reato, Napoli 19642, p.
149 s.

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suali la cui tipicità si esprime in forma accessoria rispetto al fatto di altri,


e cioè dell’autore (ad es., § 26 StGB: ‘‘quale istigatore è punito allo stesso
modo dell’autore chi ha determinato dolosamente un altro alla commis-
sione di un fatto antigiuridico’’).
Questo approccio non è peraltro l’unico concepibile: la teoria del
concorso può essere costruita a partire non già dall’autore del reato, ma
dal concetto di reato nel quale si concorre, utilizzando, in luogo delle ca-
tegorie del ‘‘principale’’ e dell’ ‘‘accessorio’’, quelle di ‘‘insieme’’ e delle
sue ‘‘parti componenti’’. Centro della ricostruzione concettuale è allora il
‘‘medesimo reato’’ commesso da più agenti che alla sua realizzazione re-
cano un contributo concorsuale.
Il fenomeno evocato normativamente dall’art. 110 c.p., di ‘‘più perso-
ne’’ che concorrono ‘‘nel medesimo reato’’ si iscrive — come hanno dimo-
strato le classiche analisi di Renato Dell’Andro e di Marcello Gallo — in
una dimensione tipica nuova, diversa e distinta da quella monosoggettiva
entro la quale si delinea l’orizzonte dell’autore (9). Ogni sistema penale
che punta, nel definire il concorso, sulla relazione comune con il reato nel
quale si concorre, impone un approccio metodologico di questa natura.
Così, a proposito del sistema norvegese (che ha in qualche modo ispi-
rato la soluzione normativa italiana del 1930), Andenaes nota lucida-
mente che ‘‘la responsabilità del singolo partecipe non si pone in una rela-
zione di accessorietà con la responsabilità dell’autore principale. È puni-
bile solo sulla base della propria relazione con il precetto penale’’ (10).
Naturalmente, costruendo la teoria del concorso a partire dal reato
nel quale si concorre, scompare la figura dell’autore, non certo la fattispe-
cie monosoggettiva di riferimento che delinea il ‘‘reato’’: essa interviene
nella ricomposizione della nuova fattispecie plurisoggettiva eventuale
come suo requisito costitutivo indefettibile. Almeno uno (ma non necessa-
riamente uno soltanto dei concorrenti o un concorrente da solo) deve aver
realizzato un reato, secondo quello che Latagliata ha efficacemente defi-
nito principio di esecutività del concorso (11).
Ciascuno di questi due approcci metodologici porta, per così dire, la
sua croce. Muovendo dall’autore al cui fatto altri partecipa e dal conse-
guente vincolo di accessorietà, la croce è rappresentata — com’è ovvio —
dal concetto stesso di ‘‘autore’’. In una dimensione strettamente monosog-
gettiva, è chiaro che l’autore non può concepirsi, in un sistema penale
fondato sul principio di legalità, se non in termini formali-obiettivi: è tale
chi abbia eseguito la fattispecie tipica in tutti i suoi requisiti costitu-

(9) Cfr. DELL’ANDRO, La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano 1956;


M. GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano 1957.
(10) Cfr. ANDENAES, Introduzione al codice penale norvegese, in Il codice penale nor-
vegese, Padova 1998, p. 10.
(11) Cfr. LATAGLIATA, op. cit., p. 11 s.

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tivi (12). Ma proiettandosi in una dimensione concorsuale, non è meno


chiaro che la teoria formale-obiettiva non può, di per sé, dar conto del
ruolo centrale che il concetto di autore implica e presuppone. Può mai de-
finirsi ‘‘autore’’ chi abbia agito in istato di coazione psichica, o in esecu-
zione di un ordine criminoso ‘vincolante’, o sprovvisto del dolo del fatto
commesso? La centralità del ruolo evoca l’esigenza di una definizione di
‘‘reità’’ poggiata su un quid alii rispetto alla mera realizzazione della fatti-
specie obiettiva: la ‘‘signoria sul fatto’’, per l’appunto, che Welzel costrui-
sce in termini di dominio finalistico esercitato da un soggetto sull’attività
dell’esecutore.
Muovendo nella prospettiva del reato al quale si concorre, e quindi
della nuova fattispecie plurisoggettiva eventuale, la croce è rappresentata
invece dal criterio di collegamento tra le condotte suscettibili di integrare
la nuova dimensione tipica. Qual è la ragione sufficiente che giustifica e
legittima il procedimento di sussunzione di un coacervo di comportamenti
individuali nella nuova fattispecie plurisoggettiva, rendendole ‘‘concorsua-
li’’? Si tratta, in buona sostanza, di ‘‘collazionare’’ il reato e di stabilire la
sua identità rispetto a tutti i (supposti) concorrenti.
I percorsi dogmatici delle due impostazioni appaiono, e sono in ef-
fetti, assai diversi, e confondere l’uno con l’altro può determinare, e ha
determinato in realtà, equivoci e fraintendimenti. Tenerli distinti, e sfor-
zarsi di comprendere le loro ragioni senza apriorismi concettuali defor-
manti, costituisce la premessa metodologicamente più corretta per verifi-
care poi quanto dell’una possa giovare all’altra nella comprensione del fe-
nomeno concorsuale. Alla fin fine i problemi di fondo coincidono e postu-
lano soluzioni che, se non possono essere comuni nell’assetto dogmatico,
possono tuttavia risultare assai meno distanti di quanto la relativa diffor-
mità dei punti di vista iniziali non lasci supporre.

2. La ‘‘signoria sul fatto’’ svincola l’autore — come si è poc’anzi ac-


cennato — dal necessario riferimento alla esecuzione, di mano propria,
della fattispecie, e spalanca le porte alla figura dell’autore mediato, alla
quale fornisce per l’appunto un fondamento dogmatico. ‘‘L’autore —
scrive Welzel — non ha bisogno di eseguire il fatto in ogni fase di propria
mano; egli puo servirsi non soltanto di strumenti meccanici, ma anche im-
piegare per i propri scopi la condotta di un altro, nel mentre mantiene
presso di sé la signoria sulla realizzazione del fatto’’ (13).
In origine, l’autore mediato era evocato quale figura ‘‘tappabuchi’’
per colmare le lacune indotte dal dogma dell’accessorietà nelle sue diverse
versioni: per colpire l’istigatore del non imputabile nel caso dell’accesso-

(12) Cfr. BETTIOL, Diritto penale, Parte generale, Padova 1982, p. 549.
(13) Cfr. WELZEL, op. loc. ult. cit.

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rietà c.d. estrema o l’istigatore dell’agente non doloso nel caso dell’acces-
sorietà c.d. limitata, o l’istigatore di chi agisce in presenza di una causa di
giustificazione della quale non possa beneficiare (per averne, ad es., deter-
minato dolosamente i presupposti), nel caso dell’accessorietà c.d. minima.
Il ruolo di ‘‘autore equivalente’’ finiva tuttavia col dipendere essenzial-
mente da un’esigenza politico-criminale (evitare assurde lacuna nella pu-
nibilità), tanto forte quanto era debole il suo fondamento dogmatico (al
punto che Hoegel definì pittorescamente l’autore mediato ‘‘un omuncolo
distillato dagli alambicchi della dottrina penalistica’’) (14).
Nella prospettiva welzeliana, l’autore mediato acquista piena dignità
di autore, in quanto portatore esclusivo della ‘‘signoria finalistica sul fat-
to’’ idonea a fondarne la qualità: così nel caso di utilizzazione di un sog-
getto agente non liberamente, per coazione o per difetto della capacità di
volere (minori; infermi di mente) o per la condizione determinata da un
ordine criminoso vincolante; o nel caso di un soggetto esecutore privo del
dolo necessario ad integrare la volontà finalistica del fatto; o, ancora, nel
caso dello strumento agente in difetto della qualifica personale richiesta
per l’integrazione della fattispecie, qualifica presente invece nell’istiga-
tore; o, infine, nel caso dello strumento agente lecitamente, e cioè in pre-
senza di una scriminante riferibile soltanto all’agente, ma non al suo de-
terminatore. In tutte queste ipotesi l’identificazione dell’autore si basa sul
riconoscimento, in capo al soggetto che non realizza personalmente la fat-
tispecie ma si avvale della condotta di un terzo, del dominio finalistico sul
fatto: lui, e lui soltanto, è in condizione di orientare la direzione dei fattori
causali messi in campo verso lo scopo volontariamente perseguito (15).
Per vero, la dottrina successiva avanzerà serie riserve circa la con-
gruità della ‘‘signoria finalistica sul fatto’’ a fornire un valido fondamento
dogmatico a tutte le ipotesi di reità mediata inserite nel suo solco. Come
osserva Roxin, l’oggetto della ‘‘signoria’’ esercitata nelle diverse ipotesi ri-
sulta tanto diversa da imporre una risistemazione analitica. Altro è il do-
minio esercitato sull’azione del necessitato, altro quello sulla volontà del-
l’esecutore indotto in errore, o determinato da un vincolo coattivo (co-
stringimento, ordine, apparato organizzato di potere), altro ancora il do-
minio ‘‘sociale’’ sul fatto proprio del determinatore qualificato rispetto al-
l’agente sprovvisto della qualifica. In questa prospettiva, la ‘‘signoria sul
fatto’’ viene concepita come un concetto ‘‘aperto’’, e cioè formato sulla
base di un procedimento descrittivo, adattato al mutevole significato delle

(14) Cfr. HOEGEL, Akzessorische Natur der Teilnahme, mittelbare Täterschaft, Even-
tualvorsatz, in Z.Str.W., 1916 (XXXVII), p. 651 s.
(15) WELZEL precisa tuttavia (Studien, cit., p. 543) che quando la qualità d’autore
implica anche presupposti soggettivi (ad es. pubblico ufficiale) o momenti subiettivi (ad es.
dolo specifico), la signoria sul fatto non si esprime semplicemente in termini finalistici, ma
anche sociali (‘‘signoria sul fatto nel suo pieno disvalore eticosociale’’).

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diverse situazioni empiriche mediante un ‘‘principio regolativo’’ che ri-


mette al giudice la possibilità, entro limiti definiti ma non rigidi, di una
valutazione del caso singolo (16).
Non sarebbe il caso di ripercorrere qui il complesso cammino della
‘‘signoria del fatto’’ nella dottrina tedesca, né di esaminare le critiche ad
essa rivolte sul piano delle singole ipotesi attratte nell’orbita del con-
cetto (17). Occorre piuttosto interrogarsi sul significato funzionale da
essa assunto nel sistema in cui è sorta e si è sviluppata. Da questo punto
di vista, sembra emergere con chiarezza che la ‘‘signoria sul fatto’’, for-
nendo la base dogmatica della reità mediata, oggi espressamente ricono-
sciuta dal § 25.1 StGB, svolge una funzione in primo luogo ed essenzial-
mente di carattere disciplinare. Nelle ipotesi in cui la responsabilità po-
trebbe essere dedotta ed affermata secondo il dogma dell’accessorietà, at-
tribuendo comunque al determinatore un ruolo concorsuale, postulare la
qualità d’autore nel soggetto in possesso della signoria sul fatto equivale a
riaffermarne la centralità, e ad attribuirgli il trattamento punitivo conse-
guente, cioè il massimo della rilevanza penale, corrispondente alla sua po-
sizione nella realizzazione del fatto. Nel contempo, il ruolo dell’esecutore
soggetto all’altrui signoria viene ridimensionato non soltanto per l’ipotesi
ch’egli risulti comunque non punibile (ciò che anche il dogma dell’acces-
sorieta avrebbe ovviamente potuto assicurare), ma soprattutto per l’ipo-
tesi in cui egli risulti pur sempre punibile: come nell’esempio dell’esecu-
tore di un furto privo del dolo specifico di appropriazione, richiesto dal
diritto tedesco, che agisca per ordine di un padrone che con tale dolo in-
tima la sottrazione. Al padrone non esecutore, ma dotato della signoria fi-
nalistica sul fatto, compete la qualifica di autore, mentre l’esecutore vede
ridotto il suo ruolo a quello di complice (18).
Senza dubbio, la figura dell’autore mediato basato sulla signoria del
fatto è suscettibile anche di svolgere (o meglio, aspira a svolgere), in ta-
luni casi, una funzione di natura incriminatrice: tale da attribuire cioè rile-
vanza penale a condotte diversamente sottratte ad un inquadramento con-
corsuale secondo il dogma dell’accessorietà. Così, nel caso di strumento
non qualificato utilizzato da un intraneo, la reità mediata del secondo non
corrisponde ad alcuna ipotetica qualificazione concorsuale, proprio per-
ché l’estraneo non può mai essere autore di una fattispecie di reato pro-
prio. In questi casi, tuttavia, sembra chiaro come la qualità di autore non
possa dipendere esclusivamente dalla signoria sul fatto, che, di per sé, non

(16) Cfr. ROXIN, op. cit., partic. p. 122 s.


(17) Cfr., per tutti, rispetto al pensiero welzeliano, HIRSCH, Die Entwicklung der
Strafrechtodogmatik nach Welzel, in Der Rechtswissenschaftlichen Fakultät zur 600 Jahr-
Feier der Universität zu Köln-Festschr., 1988, p. 420 s.; più in generale v. ROXIN, op. cit., p.
546 s.
(18) Cfr. WELZEL, Das deutsche Strafrecht, cit., p. 104.

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è in grado di supplire ad un eventuale difetto di tipicità. Nei reati propri


c.d. esclusivi (o di mano propria) la dislocazione dei ruoli nell’esecuzione
resta essenziale ed infrangibile: un estraneo non potrà mai commettere in-
cesto, quantunque ad istigarlo con piena signoria sul fatto sia un intraneo;
né quest’ultimo potrà divenire autore dell’incesto che, in quanto tale, im-
plica l’attività personale e diretta del soggetto qualificato a commetterlo.
Nei reati propri non di mano propria, la ‘‘ricomposizione’’ della tipicità in
capo all’intraneo finisce col dipendere assai più dalla sua qualifica che
non dalla signoria finalistica sul fatto (19).

3. Il concetto di ‘‘signoria sul fatto’’, vitale nei sistemi concorsuali


incentrati sull’asse metodologico ‘‘principale/accessorio’’, non sembra in-
vece trovare spazio in un ordinamento quale quello italiano. Esso si basa
non sulla centralità della figura dell’autore, né su specifiche fattispecie
concorsuali accessorie rispetto a tale figura, ma concepisce il concorso a
partire da una fattispecie generale che ipotizza la realizzazione di un reato
ad opera di più agenti, senza vincolare la rilevanza delle condotte di parte-
cipazione ad una tipicità originaria, dipendente da una fattispecie mono-
soggettiva di parte speciale, che può mancare, al limite, in ciascuno dei
concorrenti. Il ‘‘peso’’ di tali condotte è attribuito in termini disciplinari
consentanei alla logica del concorso, e non dipendenti da una qualità
(quella di autore) sostenuta dal supporto di un dominio sul fatto. In ter-
mini di dogmatica ricostruttiva, il concetto di signoria sul fatto risulta
quindi del tutto inutilizzabile, ed anzi, intrinsecamente distonico.
Basta considerare il complesso reticolo disciplinare delineato dagli
artt. 111, 112, 114, nonché 116 e 117 c.p., per rendersi conto di come
l’attribuzione di significato ai ruoli concorsuali non dipenda né punto né
poco dal previo riconoscimento della qualità di autore. Organizzatori e
promotori dell’attività criminosa, determinatori di persone soggette alla
propria autorità, direzione o vigilanza, determinatori di un non imputa-
bile, di un minore, e così via dicendo, assumono una maggiore responsa-
bilità in funzione del carattere ‘‘preminente’’ del loro contributo concor-
suale, ma ciò non implica in alcun modo la loro identificazione come ‘‘au-
tori’’ del reato.
Certamente, in numerose ipotesi disciplinate dalle disposizioni po-
c’anzi richiamate si potrebbe riconoscere la sussistenza di una ‘‘signoria
sul fatto’’, peraltro di volta in volta caratterizzata da una specifica conno-
tazione tipica idonea a puntualizzare il ‘‘mezzo’’ con cui essa si esprime e
si realizza. In questo senso, il concetto di ‘‘signoria sul fatto’’, inutile sul
piano della dogmatica ricostruttiva, potrebbe assumere un significato su

(19) Come, in qualche modo, riconosce lo stesso WELZEL (Studien, cit., p. 543)
quando, in questi casi, postula una signoria sul fatto anche in termini ‘‘sociali’’.

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quello della dogmatica esplicativa. Inidoneo a dare fondamento e a trac-


ciare limiti alla figura di ‘‘autore’’, estranea al sistema concorsuale ita-
liano, tale concetto risulta tuttavia proficuo per illuminare il senso dell’at-
tribuzione di una maggiore responsabilità, posta per l’appunto a carico di
chi assume nel contesto della partecipazione criminosa un ruolo in varia
guisa dominante: ma dominante — è bene precisarlo — non necessaria-
mente rispetto alla esecuzione del fatto (monosoggettivo), bensì nel conte-
sto del fatto concorsuale (plurisoggettivo).
Per converso, la disciplina del c.p. italiano è sensibile anche alla qua-
lificazione di minore responsabilità nei confronti di chi, nella vicenda con-
corsuale, assume un ruolo strumentalmente subordinato (art. 114 comma
3 c.p.), o tiene una condotta di ‘‘minima importanza’’ nell’esecuzione o
nella preparazione del reato (art. 114 comma 1 c.p.), ha voluto un reato
meno grave rispetto a quello commesso da taluno dei concorrenti (art.
116 comma 2 c.p.), o non possiede la qualifica personale necessaria ad in-
tegrare il reato proprio di cui pure è tenuto a rispondere (art. 117 c.p.).
Ancora una volta il ‘‘peso’’ della condotta di partecipazione è sottratto
alla bilancia dell’autore e si esprime soltanto nell’ambito del significato
concorsuale assunto dalla condotta: senza dubbio, ed in termini rovesciati
rispetto a quelli riferiti alle ipotesi aggravate, anche in funzione di un defi-
cit connesso alla signoria sul fatto, ma sul fatto concorsuale e plurisogget-
tivo, non necessariamente sull’esecuzione monosoggettiva.
La figura dell’ ‘‘autore mediato’’ non può dunque aver diritto di citta-
dinanza nel sistema penale italiano: assumendola, si finirebbe con l’attri-
buirle non già il ruolo centrale che è chiamata a riaffermare nel sistema te-
desco, ma, paradossalmente, una funzione ‘‘minorante’’. Se dovessimo ri-
conoscere, ad es., che il determinatore di un non imputabile è ‘‘autore me-
diato’’ della fattispecie monosoggettiva, finiremmo col sottrarlo all’orbita
concorsuale, riportandolo in quello della reità individuale: con buona pace
dell’aggravante prevista dall’art. 111 comma lo c.p.
Alla conclusione non è di ostacolo la previsione, nel c.p. italiano, di
una serie di fattispecie tradizionalmente definite di ‘‘reità mediata’’: gli
artt. 46, 48, 51 commi 2-4, 54 comma 3, 86 c.p. Dal punto di vista feno-
menico, si tratta senza dubbio di figure affini a quelle che compongono la
costellazione della reità mediata: l’esercizio di una violenza ‘‘irresistibile’’
o di una minaccia ‘‘cogente’’, l’induzione in errore, l’emanazione di un or-
dine insindacabile o la determinazione di uno stato di incapacità di inten-
dere o di volere, per far commettere un reato.
In realtà, tali fattispecie non hanno molto a che vedere con la figura
dell’autore mediato. La loro funzione non è certo quella di fondare la re-
sponsabilità del determinatore ‘‘qualificato’’, che già deriva de plano dal-
l’applicazione delle disposizioni concorsuali, né tanto meno quella di sot-
trarlo alla relativa disciplina, isolandolo in una dimensione di reità indivi-

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duale che costituirebbe un assurdo e inesplicabile privilegio, in quanto im-


plicherebbe l’esclusione, ad es., delle aggravanti stabilite dagli artt. 111 e
112 c.p. proprio in situazioni in cui il suo ruolo dominante si esprime con
particolare intensità.
Le c.d. fattispecie di reità mediate servono invece a definire i limiti
della non punibilità del soggetto determinato quando la condotta di deter-
minazione si sia espressa in modi che incidono sulla volontà o sulla rap-
presentazione del determinato. Così, ad es., nell’art. 86 c.p. la non impu-
tabilità del determinato coincide con qualsiasi forma di incapacità di in-
tendere o di volere in lui indotta, a prescindere dai limiti desumibili dalle
disposizioni in materia. L’art. 51 commi 2 e 4 c.p. definisce la rilevanza
scusante dell’ordine per il subordinato chiamato ad eseguirlo. L’art. 54
comma 3 c.p. prescrive la soglia di intensità della minaccia costrittiva, e
così via dicendo. Si tratta in definitiva di ipotesi speciali di concorso nel
reato, nelle quali il senso normativo della specialità gravita sulla defini-
zione della posizione del determinato ai fini della sua responsabilità (20).

4 L’alternativa alla costruzione dogmatica del concorso a partire dal


concetto di ‘‘autore’’ è rappresentata — come si diceva — dalla teoria
della fattispecie plurisoggettiva eventuale, che ravvisa nell’art. 110 c.p.
una nuova e diversa fattispecie tipica, rispetto a quella monosoggettiva,
che in essa compare, si potrebbe dire, come elemento normativo. Il con-
corso è costruito in effetti a partire dal concetto di ‘‘reato’’, ed esso po-
stula ovviamente il riferimento ad una fattispecie di parte speciale. In que-
sto senso, la teoria non è costretta ad addensarsi intorno al polo vincolato
dell’autore ed alle sue strettoie concettuali, non è tenuta a misurarsi con il
dogma dell’accessorietà, con le sue ‘‘lacune’’ politico-criminali e con le
aporie emergenti nel caso dell’esecuzione frazionata. Essa presenta tutta-
via una sorta di ‘‘vaporosità’’ e rischia, per così dire, la dispersione aerea
nel tautologismo.
Già Bettiol incalzava la teoria della fattispecie plurisoggettiva esor-
tando i suoi sostenitori ad ‘‘essere logici fino in fondo e non fermarsi a
mezza strada... bisogna ammettere che qualsiasi atto di partecipazione sia
punibile di per sé stesso e sia perfetto nello stesso momento in cui si
estrinseca, perché il voler attendere il compimento di una ulteriore azione
da parte di un altro soggetto concorrente significa riconoscere la dipen-
denza della punibilità dall’azione del partecipe... dall’inizio dell’esecu-
zione del reato da parte di un altro soggetto’’ (21). Il vincolo alla figura
dell’autore potrebbe dunque essere spezzato soltanto riconoscendo —
horribile dictu — la punibilità del tentativo di concorso.

(20) Per maggiori precisazioni e sviluppi sia consentito rinviare a PADOVANI, Le ipo-
tesi speciali di concorso nel reato, Milano 1973, p. 48 s.
(21) Cfr. BETTIOL, op. cit., p. 595. Corsivo aggiunto.

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Più recentemente, un lucido studioso della dogmatica concorsuale


contestava la stessa prospettabilità della fattispecie plurisoggettiva even-
tuale. ‘‘Sul piano astratto — scrive Sergio Seminara — la fattispecie pluri-
soggettiva eventuale non esiste o, meglio, esiste come una mera possibilità
riconosciuta dall’art. 110 c.p., la quale si traduce in realtà solo dinanzi ad
un concreto, specifico — e soprattutto già qualificato in termini di punibi-
lità — episodio concorsuale’’ (22). In pratica, la presunta alternativa nella
ricostruzione del concorso di persone finirebbe semplicemente con lo sca-
valcare il problema della determinazione del parametro normativo di rife-
rimento, senza risolverlo, traducendosi in una vera e propria petizione di
principio. Per affermare la tipicità plurisoggettiva eventuale si dovrebbe
dare per scontato il concorso, navigando senza bussola tra una nozione
estensiva di autore basata sulla causalità e il vincolo di accessorietà alla
condotta di autore assunto in termini restrittivi.
Le critiche sono tutt’altro che peregrine: esse evidenziano anzi diffi-
coltà reali della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale; ma tradi-
scono anche una certa incomprensione della sua struttura concettuale.
Occorre ricordare che la teoria della fattispecie plurisoggettiva even-
tuale muove dal concetto di ‘‘reato’’ nel quale si concorre: il reato è il ba-
ricentro del concorso. Si tratta di quello che Latagliata, sagace interprete
di Welzel nel contesto normativo italiano, definisce ‘‘principio di esecuti-
vità’’ (23). Ma che significa ‘‘reato’’ nel contesto concorsuale? In termini
positivi, si può parlare di ‘‘reato’’ in ambito concorsuale in presenza, in
primo luogo, di una conformità al tipo di parte speciale che può peraltro
riferirsi sia ad una delle condotte concorsuali, sia ad alcune, sia al loro in-
sieme (24). La fattispecie plurisoggettiva ingloba quella monosoggettiva e
la trasforma in un proprio elemento normativo. Alla conformità al tipo
deve abbinarsi tuttavia senza dubbio anche il dolo del fatto, la cui neces-
sità emerge da un’esigenza logico-sistematica: il concorso in un fatto
obiettivamente tipico è irrilevante per chiunque vi abbia preso parte se il
dolo di tale fatto non è presente in alcuno (25). Del resto, che tale esi-
genza assuma carattere indefettibile emerge sia dall’art. 116 c.p. (il reato
commesso deve essere diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti:
ciò significa che se il reato diverso non è voluto da nessuno, non è possi-
bile fondare in rapporto ad esso alcuna responsabilità a titolo di dolo), sia
dall’art. 117 c.p. (il mutamento del titolo del reato per taluno dei concor-
renti può verificarsi soltanto se almeno uno dei concorrenti sia in dolo ri-

(22) Cfr. SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persona nel reato, Milano
1987, p. 293. Corsivo aggiunto.
(23) Cfr. LATAGLIATA, op. loc. ult. cit.
(24) Cfr. DELL’ANDRO, op. cit., p. 80 s.; M. GALLO, op. cit., pp. 20 s. e 27 s.
(25) Cfr. DELL’ANDRO, op. cit., p. 102 s.

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spetto al reato proprio (26), per cui la responsabilità dei concorrenti in-
consapevoli della qualifica e delle altre condizioni suscettibili di determi-
nare il mutamento del titolo, implica che almeno un concorrente possieda
il dolo su tale elemento modificativo). Sembra chiaro che, se il dolo di al-
meno un concorrente viene richiesto per estendere la responsabilità agli
altri, tanto più esso deve risultare necessario per fondare il concorso.
In termini negativi, ai fini della determinazione del concetto di ‘‘rea-
to’’ nel quale si concorre, non risulta punto necessario né che la condotta
tipica sia realizzata da uno soltanto dei compartecipi, né che il dolo sia
presente nell’esecutore, o in uno degli autori della condotta frazionata
piuttosto che in uno qualsiasi dei concorrenti. Se si presuppone di rico-
struire il concorso (e cioè un fenomeno tipicamente plurisoggettivo) a
partire dal concetto di reato, è ovvio che il reato possa e debba essere ri-
composto anche utilizzando elementi frazionari. I requisiti ritenuti indi-
spensabili per integrare la nozione nel contesto della fattispecie plurisog-
gettiva eventuale possono rinvenirsi, in linea di principio, presso qualsiasi
concorrente. Ciò che si ricerca non sono infatti i caratteri dell’accessorio
rispetto al principale (partecipe/autore), ma i termini dell’insieme rispetto
alle sue parti (reato/concorrenti).

5. A questo punto si profila peraltro il problema centrale della teo-


ria della fattispecie plurisoggettiva eventuale. Se è vero che il concetto di
reato si ricostituisce in termini (anche) frazionari, qual è il criterio di col-
legamento che consente di riconoscere un’unità di insieme, rispetto alle
sue parti? Che cosa autorizza la ricomposizione di sparse membra in una
dimensione unitaria?
Dal punto di vista obiettivo, si può senza dubbio scartare l’idea di po-
ter far capo alla causalità. Il ricorso ad una tale categoria non solo espone
la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale all’accusa di presen-
tarsi come un travestimento della concezione estensiva d’autore, che per
l’appunto sull’idea della causalità basava la tesi dell’indistinguibilità fra
autore e concorrente e la concezione delle disposizioni sul concorso come
norme restrittive della punibilità.
In realtà, la causalità è del tutto inidonea a rappresentare la ragione
sufficiente della sussunzione unitaria e unificata delle condotte di con-
corso nel quadro della nuova tipicità plurisoggettiva (27). In primo luogo,
risulta problematica l’identificazione dei termini del (supposto) nesso cau-
sale: si tratta di far capo all’altrui condotta o all’evento, o non piuttosto
ad entrambi? e nell’esecuzione frazionata, chi cagione che cosa? Per non

(26) Cfr. LATAGLIATA, op. cit., p. 217 s.


(27) Per la critica della causalità quale criterio di fondazione della fattispecie concor-
suale v., per tutti, G.A. DE FRANCESCO, Il concorso di persone nel reato, in Introduzione al
sistema penale, II, Torino 2001, p. 328 s.

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dire che, in tutte le forme concorsuali basate sulla comunicazione (istiga-


zione, determinazione, consiglio) la causalità dovrebbe esprimersi in ter-
mini di causalità ‘‘psichica’’: una categoria quanto meno infida, destinata
a tradursi in apriorismi concettuali indimostrabili. Che tipo di processo
eziologico dovrebbe attivare l’istigazione per assumere un ruolo ‘‘causa-
le’’? La causalità ‘‘psichica’’ è in realtà figlia di una psicologia indetermi-
nistica che ha fatto il suo tempo, se mai ne ha avuto uno, e che sopravvive
soltanto nelle pagine di qualche manuale penalistico o di qualche sentenza
proclive a motivare ricorrendo a tópoi concettuali frusti e bislacchi.
D’altra parte, quali sarebbero le leggi scientifiche di copertura desti-
nate a fornire la spiegazione del nesso tra una condotta comunicativa e la
psiche, o, peggio ancora, l’evento eventualmente provocato? E la diffi-
coltà non si attenua quando la condotta assuma connotati di natura mate-
riale: che cosa significa l’affermazione secondo cui fornire un’arma all’ese-
cutore ‘‘causa’’ la condotta omicida, o la morte, o il reato di omicidio? In
base a quale legge scientifica? Nessuna, evidentemente. Si tratterebbe
semmai di una sorta di causalità ‘‘storica’’, basata sulla constatazione che
l’arma utilizzata dall’omicida gli è stata fornita da un altro e che, senza
quest’arma, l’omicidio non avrebbe avuto luogo: non in quel modo, non
in quella forma concretamente determinata. Ma la causalità ‘‘storica’’ non
fornisce spiegazioni; al contrario, le presuppone: quali particolari storici
della vicenda criminosa assumono dignità causale? Anche l’amuleto con-
segnato all’omicida? Anche l’arma che si inceppa al primo colpo e co-
stringa l’omicida a ricorrere ad un altro mezzo?
Una recente, acuta riflessione ha tuttavia recato un contributo estre-
mamente significativo nel ridefinire i termini del problema e della sua so-
luzione. Come scrive G.A. De Francesco, ‘‘se è pur vero che la vicenda
concorsuale può essere ricondotta ad un’autonoma ‘fattispecie’, ad un
vero e proprio ’modello’ alternativo rispetto al reato monosoggettivo, non
è men vero, tuttavia, che un simile modello risulta necessariamente debi-
tore della concretezza, della ‘fattualità’ storica dell’accadimento cui il con-
corso si riferisce. La fattispecie ‘nasce’, si configura nella dinamica con-
creta con cui i contributi vengono a manifestarsi: essa si sviluppa, in altri
termini, attraverso il comporsi e l’intersecarsi tra loro delle condotte che
abbiano di fatto esplicato... un ruolo ed una funzione ‘strumentalmente
connessi alla perpetuazione dell’illecito. Ne deriva, in ultima analisi, che
la ‘tipicità’ del contributo non potrà rappresentare un dato ancora da ac-
certare e da verificare attraverso un’ulteriore indagine ispirata alla ricerca
della sua efficienza ‘causale’; la rilevanza del contributo di partecipazione
dovrà essere, al contrario, desunta dal modo stesso con il quale un simile
contributo è venuto ad inserirsi nell’ordito complessivo della vicenda de-
littuosa, alla stregua dell’unico parametro di valutazione effettivamente
disponibile, rappresentato appunto dal suo carattere obiettivamente ‘stru-

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mentale’ rispetto allo svolgersi e al dipanarsi della condotta confluita nella


fase esecutiva dell’illecito realizzato in concorso’’ (28).
Il criterio di tipicità delle condotte concorsuali sembra dunque emer-
gere dal nesso di congruenza strumentale, impostando l’analisi non se-
condo le categorie della causa e dell’effetto, bensì secondo quelle del
mezzo e dello scopo, e per concludersi in termini positivi deve accertare
che le condotte siano correlate teleologicamente in una dimensioni unita-
ria. Questo pare essere il senso del concorrere nel ‘‘medesimo’’ reato da
parte di più concorrenti (art. 110 c.p.): il reato è il ‘‘medesimo’’ quando, e
solo se, corrisponde ad un insieme strumentalmente interconnesso in fun-
zione del reato rispetto al quale il concorso si assume.
Un tale approccio metodologico può trarre respiro e consistenza dalla
categoria della ‘‘signoria sul fatto’’ non per riprodurla meccanicamente in
un contesto che le sarebbe estraneo in quanto categoria unilaterale/sog-
gettiva, utilizzata per fondare la reità individuale oltre lo schema dell’ese-
cuzione formale-obiettiva, ma per riscoprirne le virtualità euristiche sot-
tese alla sua dimensione onnilaterale/obiettiva. Non si tratta cioè di stabi-
lire se taluno abbia la ‘‘signoria sul fatto’’, ma se sussiste una finalità
obiettiva rispetto alla quale i singoli contributi siano mezzi ad essa funzio-
nali. In effetti, il concetto di ‘‘signoria sul fatto’’ appare eminentemente
orientato all’idea di un nesso di strumentalità: strumentalità rispetto alla
condotta dell’autore; che, nella prospettiva della teoria della fattispecie
plurisoggettiva eventuale, diviene, per ciò dire, strumentalità ‘‘a struttura
variabile’’, ‘‘diffusa’’, capace di riconnettere i singoli comporta menti della
vicenda concorsuale, o di escluderli da essa.
In questo senso, strumentale può risultare la condotta di per sé tipica
rispetto a quella originariamente atipica. L’istigazione e la determinazione
sono condotte concorsuali se ed in quanto il reato da altri commesso cor-
risponda a quello al quale esse funzionalmente miravano. La pretesa di di-
stinguere a seconda che l’istigato risulti, o meno, omnimodo facturus,
perde ogni consistenza: la conseguenza funzionale della condotta istigato-
ria rispetto al reato commesso è comunque sufficiente a determinare il
ruolo concorsuale del suo autore, che con essa ha assunto la condotta del-
l’istigato a strumento della propria volontà. Potrà discutersi se l’istigato,
che in ipotesi prescinda da ogni vincolo di strumentalità con la condotta
istigatoria, sia a sua volta concorrente con l’istigatore. Ma l’unilateralità
del concorso rappresenta un esito tutt’altro che patologico o distonico
della vicenda concorsuale, come tra breve si avrà occasione di puntualiz-
zare.
Strumentale può essere poi la condotta originariamente atipica ri-
spetto a quella tipica secondo la fattispecie di parte speciale, come nel

(28) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, op. cit., p. 335.

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caso dell’agevolazione o della complicità c.d. accessoria. In questo ambito


può essere, per così dire, ‘‘rivisitata’’ la questione del complice inutile o
del complice maldestro, due noti problemi del dogma causale applicati
alla vicenda concorsuale, in quanto la loro efficienza causale risulta singo-
larmente precaria. In una prospettiva di strumentalità della condotta con-
corsuale, il punto focale sembra essere rappresentato dalla sua colloca-
zione in concreto nella vicenda concorsuale. Se l’arma fornita per eseguire
l’omicidio si rivela inutilizzabile prima che il futuro omicida intraprenda
alcun atto di esecuzione, e questo segua pertanto scartando l’arma e con
altri mezzi, è chiaro che la condotta del complice risulta svincolata da un
nesso di strumentalità rispetto al reato; mentre, se l’inidoneità dell’arma si
rivela nel corso dell’esecuzione, che viene perfezionata ricorrendo ad uno
strumento diverso, il nesso di strumentalità persiste, quanto meno, nella
fase iniziale dell’esecuzione e la ‘deviazione’ intervenuta nel processo ese-
cutivo appare in linea di principio irrilevante quanto lo è, in una esecu-
zione monosoggettiva, un’aberrazione di natura esclusivamente causale.
L’idea della strumentalità si ricollega in effetti non già all’efficienza (cau-
sale) dello strumento, ma all’attualità (teleologica) della sua utilizzazione
nel corso dell’esecuzione della fattispecie monosoggettiva che secondo il
già richiamato principio di esecutività costituisce il baricentro della tipi-
cità plurisoggettiva eventuale.
La strumentalità potrà infine risultare corrispettiva, essenzialmente
nell’ipotesi dell’esecuzione frazionata, che si caratterizza per un (necessa-
rio) nesso di funzionalità reciproca fra le diverse condotte assunte come
concorsuali. Tale rapporto ‘‘oltre ad interessare le condotte di coopera-
zione atipica, si presta ad essere riferito anche ai comportamenti parzial-
mente tipici, attribuendo ad essi un significato concorsuale soltanto lad-
dove questi possano coordinarsi tra loro secondo una logica di concreta
funzionalità rispetto all’integrazione ‘congiunta’, per così dire, degli ele-
menti di una fattispecie imputabile a più soggetti’’ (29).

6. Il vincolo di strumentalità, pur rappresentando un criterio neces-


sario a riconoscere la dimensione obiettiva della tipicità plurisoggettiva,
non appare tuttavia sufficiente a determinarne l’integrazione. Un’esecu-
zione frazionata in cui nessuno dei supposti concorrenti sia consapevole
che la propria condotta si avvale, obiettivamente, della situazione deter-
minata dall’altro, resta, per così dire, ‘‘muta’’ sul piano concorsuale, per-
ché incapace di cogliere il nesso teleologico della connessione rispetto a
ciascuna condotta, ma, per l’appunto, solo ed esclusivamente all’insieme
di esse.
L’integrazione della fattispecie plurisoggettiva eventuale esige dun-

(29) Cfr. G.A. DE FRANCESCO, op. cit., p. 338.

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que anche il dolo di concorso, e cioè la coscienza e volontà di aderire con


il proprio comportamento ad una vicenda strumentalmente unitaria. Tut-
tavia, occorre rilevare come, parlando di integrazione della fattispecie plu-
risoggettiva, sul piano soggettivo, ci si debba riferire necessariamente a
ciascun singolo concorrente. La fattispecie plurisoggettiva non è una fatti-
specie ‘‘collettiva’’, ma ‘‘personale’’: come nota giustamente A. Pagliaro
‘‘non si può guardare a una sola fattispecie plurisoggettiva indifferenziata
per tutti i compartecipi’’ (30). In realtà, rispetto a ciascuno di essi, l’inte-
grazione del tipo plurisoggettivo si personalizza in funzione dell’atteggia-
mento psichico che gli è proprio. Il rilievo giustifica la conclusione per cui
il concorso può presentarsi in termini anche esclusivamente unilaterali: il
guardiano infedele che lascia aperta la porta della villa per agevolare la
commissione del furto di cui ha appreso il progetto concorre senza dubbio
con il ladro favorito, ma non questi con lui, se l’occasione strumental-
mente facilitatrice non gli appare come il risultato di una condotta teleolo-
gicamente volta a spianargli la strada verso il bottino.
In ultima analisi, per quanto distanti possano risultare, sul piano dog-
matico, la concezione del concorso basata su un rapporto fra l’autore
(identificato in rapporto alla signoria sul fatto da lui esercitata) ed i com-
plici accessori, e quella fondata sull’idea di una tipicità plurisoggettiva
eventuale incentrata sul reato nel quale si concorre, esse finiscono col ri-
trovare importanti tratti di cammino comuni. La signoria sul fatto con-
tiene in sé l’idea di una strumentalità idonea a giustificare l’acquisizione
della qualità di autore a prescindere dal dato formale-obiettivo contrasse-
gnato dall’esecuzione della fattispecie. Questa stessa strumentalità di-
viene, in un contesto costretto a misurarsi con il problema della delinea-
zione dell’ ‘‘insieme’’, rispetto alle sue ‘‘parti’’, criterio idoneo a definire i
termini di ricomposizione del reato nel quale si concorre.
TULLIO PADOVANI
Ordinario di diritto penale
nella Scuola Superiore di Studi Universitari
e di Perfezionamento ‘‘S. Anna’’
di Pisa

(30) Cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale - Parte generale, Milano 20007, p. 538.

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NOTE DI DIRITTO STRANIERO
E COMPARATO

LA DETENZIONE
DI MATERIALE PORNOGRAFICO MINORILE

SCELTE DI CRIMINALIZZAZIONE E QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE


NELL’ESPERIENZA STATUNITENSE

‘‘Non spetta al magistrato punire con le leggi...


le cose che ritiene essere peccati’’
(J. LOCKE, Epistola de Tolerantia, trad. it., Bari, 1994, p. 35)
‘‘Nothing in Ferber can be said to justify
the regulation of child pornography other than the protection
of the actual children used in its production’’
(Free Speech Coalition v. Reno)

SOMMARIO: 0. g. World. - 0.1. Reati senza vittima. - 0.2. Finalità dell’indagine. — 1. Il qua-
dro legislativo e le sue origini. - 1.1. Lunario. - 1.1.1. Anatomia. - 1.1.1.1. Critiche. -
1.1.2. Spunti in tema di oscenità. - 1.2. Osceno e materiale pornografico minorile: una
distinzione non fuzzy. - 1.3. Child Protection Act of 1984. — 2. Interventi statali. -
2.1. Il § 263.15 della legge penale dello Stato di New York. - 2.2. New York v. Ferber:
il fatto. - 2.3. (Segue): le perplessità della Corte d’appello. - 2.4. (Segue): le motiva-
zioni della Corte Suprema Federale. - 2.4.1. ‘‘De minimis’’. - 2.4.2. I limiti. -
2.4.2.1. Legalità penale e diritto vivente. - 2.5. Suggestioni. — 3. La detenzione di ma-
teriale pornografico minorile. Casi e questioni. - 3.1. La premessa: Stanley v. Georgia. -
3.2. Osborne v. Ohio: crollano le mura. - 3.2.1. Indeterminatezza e supplenza giudizia-
ria. - 3.2.2. Massachusset v. Oaks. - 3.2.3. Justice Brennan, dissenting (I). - 3.2.4. Ju-
stice Brennan, dissenting (II). — 4. Ipertrofie applicative: United States v. Knox. -
4.1. United States v. Dost (Dost’s test). - 4.2. Le interpretazioni. - 4.2.1. L’oggettivi-
smo di United States v. Villard. - 4.2.2. Idee criminali. — 5. Le evoluzioni etiche della
dannosità sociale. - 5.1. La resistenza dei principi. — 6. L’incostituzionalità della fatti-
specie che punisce la detenzione di materiale pornografico nell’ordinamento penale ca-
nadese.

0. g. World. — Lo sfruttamento sessuale di minori costituisce un passaggio cruciale


nel dibattito sulla ‘‘modernizzazione’’ del diritto penale (1).
Tristemente assunto agli onori della cronaca, ha catalizzato l’attenzione della società in-
tera costringendo il legislatore ad una frettolosa scelta di campo. Quest’ultimo, infatti, nel

(1) C.E. PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della persona umana (a
cura di) L. FIORAVANTI, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri,
Milano, 2001, p. 401 ss.; W. HASSEMER, Das Symbolische am symbolischen Strafrecht, FS C.
Roxin, Berlin, 2001, p. 401 ss.

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tentativo di arginare un fenomeno di indubbia gravità ha varato, nel breve spazio di un’e-
state, una complessa trama normativa con la quale ha inteso assicurare un’adeguata tutela
ad un interesse — l’integrità psico-fisica dei minori — da tutti ormai percepito come bene di
primaria rilevanza.
Nel panorama europeo la scelta del legislatore italiano non appare affatto eccentrica al-
lineandosi ad un percorso evolutivo diffuso e sempre più consolidato. Senza alcuna pretesa
di completezza basti qui ricordare l’intervento del legislatore tedesco che, in tempi recenti,
ha novellato il suo codice penale apportando rilevanti modifiche a preesistenti fattispecie
allo scopo di renderle applicabili al triste fenomeno delle violenze sessuali sui minori. Conte-
stualmente, con un’azione in territorio sconosciuto, ha anche ampliato il catalogo delle con-
dotte rilevanti introducendo incriminazioni di nuovo conio tra le quali spicca quella relativa
alla detenzione di materiale pornografico riguardante minori degli anni quattordici (§ 184
Abs. 5 in relazione ai §§ 176 e 184c StGB) (2). Nella stessa direzione si sono mossi i legisla-
tori di Austria, Spagna, Portogallo e Francia che, al momento di por mano alla riforma delle
proprie legislazioni penali, hanno ritenuto opportuno introdurre specifiche incriminazioni le
cui comminatorie edittali minacciano pene severe per chiunque si renderà responsabile di
abusi sessuali contro minori, della produzione o della diffusione di pornografia minorile e,
seppur con alcune eccezioni, per chi detenga detto materiale (3). Di recente, analoghe inizia-
tive sono state intraprese anche dal legislatore inglese il quale ha dedicato all’argomento due
importanti interpolazioni al quadro cristallizzato nel Protection of Children Act del 1968 e
nel Criminal Justice Act del 1988 (4).
Il rilievo assunto da questa materia è testimoniato anche dalla pluralità di atti che a li-
vello internazionale si sono occupati dello sfruttamento sessuale di minori. Grazie alla predi-
sposizione di svariate ‘‘norme modello’’, Unione Europea, Consiglio d’Europa, Nazioni
Unite ed alcune organizzazioni non governative hanno dato un forte impulso all’introdu-
zione di una rigida disciplina di fonte statuale con il dichiarato intento di colmare ogni possi-
bile vuoto di tutela e di gettare le fondamenta per la costruzione di una ramificata ragnatela
di reati capace di confrontarsi in modo adeguato con la ‘‘transnazionalità’’ tipica di questo
fenomeno criminoso (5).
Nel quadro comparato un ruolo di primo piano spetta però agli Stati Uniti d’America,
dove, nell’estate del 1997, quando ancora il tema non agitava i sonni del legislatore nazio-
nale, era già tempo di bilanci. La ventennale esperienza maturata a partire dal Protection of
Children Against Sexual Exploitation Act, si offre agli occhi dell’interprete come un punto di
osservazione privilegiato e non solo per la lunga consuetudine dimostrata (6). Le ragioni di

(2) Per ulteriori indicazioni, anche bibliografiche, K. LAUBENTHAL, Sexualstraftaten.


Die delikte gegen die sexuelle Selbstbestimmung, Berlin, 2000, 100 ss.; 213 ss.
(3) Un quadro comparatistico aggiornato è offerto da J.M. TAMARIT SUMALLA, La Pro-
tección Penal del Menor frente al Abuso y Exploitación Sexual. Análisis de la reformas pe-
nales de 1999 en materia de abusos sexuales, prostitución y pornografía de menores, Na-
varro, 2000, p. 10 ss.
(4) C. MANCHESTER, Criminal Justice and Public Order Act 1994, in Crim. L. Rev.,
1995, p. 123 ss.; P. ALLDRIGE, The Sexual Offender Act (Cospirancy and Incitement), ivi,
1997, p. 30 ss.
(5) M. VIRGILIO, Libertà sessuale e ‘‘nuove schiavitù’’ (a cura di) L. FIORAVANTI, La
tutela, p. 315 ss. Last but not least Art. 2 Parr. 1 e 2 della Decisione quadro del Consiglio
dell’Unione Europea del 13 giugno 2002, n. 2002/584/GAI, in GUCE 18 luglio 2002, n.
L 190, i cui possibili effetti sulla dinamica del processo di criminalizzazione sono analizzati,
criticamente, da V. CAIANIELLO-G. VASSALLI, Parere sulla proposta di decisione-quadro sul
mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2002, p. 463 s. Contra E. SELVAGGI-O. VILLANI,
Questioni reali e non sul mandato di arresto europeo, ivi, p. 453 ss.
(6) Le disposizioni di riferimento sono ora contenute nel Title 18 Chapter 110 dell’U-
nited States Code (USC) alle Sections 2251 (Sexual exploitation of children); 2252 (Certain
activities relating to material involving sexual exploitation of minors); 2252 A (Certain acti-

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questo interesse sono infatti di ben altro lignaggio, coinvolgendo l’approfondimento di alcuni
snodi del processo di criminalizzazione in astratto ed in concreto, e, con specifico riferi-
mento alla detenzione di materiale pornografico minorile, la soluzione di delicatissime que-
stioni di legittimità costituzionale: tema affrontato e risolto a più riprese dalle Corti Supreme
federali e statali.

0.1. Reati senza vittima. — L’osservatore continentale che abbia un minimo di fami-
liarità con la legislazione penale statunitense non può che rimanere sorpreso dall’ampiezza
della discussione che ha coinvolto questi temi e dalla sua resistenza all’usura del tempo, so-
prattutto se tiene nella dovuta considerazione la peculiare tendenza di questo ordinamento, a
tutt’oggi ancora vitale, di reprimere penalmente il vizio, di utilizzare la sanzione penale nei
confronti di comportamenti ritenuti immorali (7). Infatti, se si è disposti ad ammettere che
lo Stato possa infliggere una pena privativa della libertà personale anche per casi di sodomia
consumati tra le mura domestiche tra adulti consenzienti (8), non si intravede alcuna plausi-
bile ragione per dubitare dell’analogo trattamento da riservare a chi fruisce di materiale
pedo-pornografico (9).
L’insistenza con la quale si dibattono i problemi di costituzionalità di queste incrimina-
zioni se da un lato stupisce, dall’altro dimostra che anche all’interno di un sistema ormai vo-
tato ad un utilitaristico efficientismo (10) non si possono sottrarre spazi alla verifica di com-
patibilità di tali incriminazioni con i sovraordinati principi di libertà e di garanzia del citta-
dino in nome di contingenze politiche o di, veri o presunti, bisogni di tutela (11).

0.2. Finalità dell’indagine. — L’introduzione della legge contro lo sfruttamento ses-


suale di minori come nuova forma di riduzione in schiavitù ha da subito suscitato la viva at-

vities relating to material constituing or containing child pornography); 2256 (Definition of


the chapter). La complessa articolazione di queste disposizione ne impedisce l’integrale ri-
produzione. Le stesse sono comunque facilmente reperibili al sito http://uscode.house.gov.
(7) Per un quadro generale A. CADOPPI, voce Moralità pubblica e buon costume (de-
litti contro) (diritto anglo-americano), in Dig., disc. pen., VIII, 1997, p. 187 ss.; M. PAPA,
Considerazioni sui rapporti tra previsioni legali e prassi applicative nel diritto penale statu-
nitense (a proposito del reato di mail fraud), in questa Rivista, 1997, p. 1259 s., nt. 8 ss.
Una ‘‘prammatica’’ messa a fuoco della ragioni di ciò in W.J. STUNTZ, Race, Class and
Drugs, in Colum. L. Rev., 1998, p. 1795 ss. V. anche B.E. HARCOURT, The Collapse of the
Harm Principle, in Jour. of Crim. L. and Criminology, 1999, p. 109 ss. e, in precedenza, J.C.
COFFEE jr., From Tort to Crime: Reflections on the Criminalization of Fiduciary Duties and
the Problematic Line between Law and Ethics, in 19 Am. Crim. L. Rev., 1981, p. 117 ss.
(8) Bowers v. Hardwick, 478 U.S. 186 (1986). La sentenza può leggersi anche in Foro
it., 1986, IV, c. 379 ss., con nota di S. MANZIN MAESTRELLI.
(9) L’incapacità del minore di autodeterminarsi in maniera consapevole è il motivo
che giustifica il venir meno di ogni perplessità sull’intervento del diritto penale. Cfr. A. CA-
DOPPI, Art. 1, p. 489. In precedenza G. FIANDACA, Problematica, p. 205 ss. Nella letteratura
di lingua inglese J. FEINBERG, The Moral Limits of Criminal Law. Harm to Self, Oxford,
1986, p. 325 ss.
(10) J.C. COFFEE jr., Does ‘‘Unlawful’’ Mean ‘‘Criminal’’?: Reflections on Disappea-
ring Tort/Crime Distinction in American Law, in 71 B.U. L. Rev., 1991, p. 197 ss.; D.M.
KAHAN, Is Chevron relevant to Federal Criminal Law?, in 110 Harv. L. Rev., 1996, p. 485
per il quale le Corti hanno dato vita ad un complesso di dottrine informali la cui elasticità
presenta il concreto rischio di creare effetti di ‘‘overdeterrence’’.
(11) M. ROMANO, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla
revisione del titolo XII del codice penale), in questa Rivista, 1989, p. 55 evidenzia che anche
nell’ambito della tutela di beni primari l’efficienza non può andare disgiunta ‘‘dalla misura di
conformità a giustizia dell’intervento punitivo, e quindi anche dai tipi, dai modi e dai limiti
stessa della pena statuale’’. Più generale l’ampia ricostruzione di C.E. PALIERO, Il principio di
effettività del diritto penale, in questa Rivista, 1990, p. 431 ss., ma spec. p. 447 ss., p. 467
ss., p. 475 ss.

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tenzione della dottrina italiana: la novità e la delicatezza della materia, oltre alle innovative
scelte di politica criminale, non potevano certo passare inosservate.
Le diffuse aspettative di una pronta soluzione penalistica del ‘‘problema pedofilia’’, as-
sociate alle molte asperità sistematiche e linguistiche dell’articolato, hanno contribuito ad
economizzare lo sforzo ermeneutico indirizzandolo sulle questioni dotate di maggior impatto
applicativo, quali, ad esempio, l’individuazione della nozione di sfruttamento; la soluzione
da offrire all’astratta coesistenza della l. n. 269\1998 con la disciplina della Legge Merlin
(concorso apparente di norme vs concorrenza dei reati); l’esatta individuazione della no-
zione ‘‘cardine’’ di ‘‘materiale pornografico’’; la tenuta di alcuni degli elementi essenziali
delle nuove incriminazioni nell’impatto con i profili tecnologici che caratterizzano questa
forma di criminalità.
I pur importanti risultati ottenuti non possono, però, far dimenticare che in questo
modo si sono lasciati sullo sfondo i nodi più rilevanti di questa normativa — riconducibili al
problema dei limiti costituzionali dell’intervento penale — che, specie in materia di deten-
zione di materiale pornografico, rappresentano il più grave tra i deficit che affliggono le
nuove fattispecie (12).
A ben guardare l’accennata contrapposizione appare artificiosa e, soprattutto, contro-
producente. Infatti, se davvero si vogliono formulare ponderate soluzioni applicative, ci si
deve immergere in un’ottica teleologica la quale, a sua volta, non può che rimanere forte-
mente influenza dai valori costituzionali coinvolti in questa materia (13). L’ideale obbiettivo
del presente contributo è di riuscire a dimostrare questo assunto attraverso la ricostruzione
dei principali passaggi del dibattito riguardante i profili di costituzionalità della normativa in
materia di pornografia minorile (14).
Da un diverso angolo prospettico, il variegato panorama giurisprudenziale statunitense
segnala l’importanza della ‘‘motivazione dissenziente’’ come indispensabile strumento di
problematizzazione di decisioni che, per la loro complessità e delicatezza, impegnano i giu-
dici nella ‘‘ri-costruzione’’ della portata di fondamentali principi di garanzia e di libertà dei
cittadini anche attraverso difficili bilanciamenti tra interessi contrapposti. Di queste ‘‘virtù’’
le vicende che hanno interessato i giudizi di costituzionalità delle leggi contro la pornografia
minorile ne danno ampia prova: il costante e autorevole impiego di tale tecnica ha infatti
consentito di tenere sempre desta l’attenzione degli interpreti evitando, così, che la tutela of-
ferta all’interesse dei minori debordasse irragionevolmente fino al punto di conculcare i li-

(12) A. MANNA, Profili problematici della nuova legge in tema di pedofilia, in Ind.
pen., 1999, p. 51. Contra, però, B. ROMANO, Difetti normativi e margini interpretativi in
tema di pedofilia (a cura di) L. FIORAVANTI, La tutela penale della persona, Milano, 2001, p.
247 ss. Auspica una verifica dei fondamenti, anche costituzionali, che sorreggono questo in-
tervento del diritto penale L. MONACO, Art. 600-quater (a cura di) A. CRESPI-F. STELLA-G.
ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, Padova, 19993. Un ampio quadro è trac-
ciato da A. CADOPPI, Art. 1, in Commentari delle norme contro la violenza sessuale e della
legge contro la pedofilia, Padova, 20023, p. 471 ss., ma spec. p. 488 ss.
(13) Importanti precisazioni in G. FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del
buon costume, Padova, 1984, p. 140 ss. In un’ottica più ampia si veda anche la significativa
problematizzazione operata da F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2001, p. 3 ss. Poi-
ché, a volte, le apparenze ingannano, va detto che non mancano autori che lamentano la
scarsissima considerazione riservata ai problemi di compatibilità delle leggi ‘‘antipornografia
minorile’’ rispetto al First Amendment: A. ADLER, The Perverse Law of Child Pornography,
in Colum. L. Rev., 2001, p. 210, nt. 5. Tuttavia, anche se numericamente scarsi e poco signi-
ficativi, l’esistenza di questi contributi è dimostrazione di una sensibilità costituzionale al-
trove sconosciuta.
(14) Il modello ‘‘diffuso’’ di controllo della costituzionalità delle leggi proprio del si-
stema giuridico statunitense — A. CERRI, Lezioni di giustizia costituzionale, Milano, 1996, 6
ss. —, rende molto variegato il quadro delle opinioni e, quindi, arricchisce di stimoli l’inda-
gine del comparatista.

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miti garantistici imposti dalla Costituzione all’esercizio del potere punitivo da parte dello
Stato (15).

1. Il quadro legislativo e le sue origini. — Negli USA la strategia per contrastare ogni
forma di sfruttamento di minori a scopo pornografico si è sviluppata lungo due direttive di
intervento. Conformemente al quadro dei poteri designato dalla Costituzione, esiste una legi-
slazione federale e una assai più varia, di fonte statuale (16).
a) Cenni sulla ripartizione di competenze tra federal criminal law e leggi penali statali.
- Come è noto l’art. 1 Sec. 8 della United States Constitution assegna al potere legislativo fe-
derale la potestà di regolamentare i rapporti con le nazioni straniere, le questioni di interesse
interstatale ed ogni materia relativa al territorio federale (ad esempio Discrict of Colum-
bia) (17). Sotto il profilo penalistico questa scelta determina un’ampia riserva di compe-
tenza in favore dei singoli stati ai quali, come riconosciuto dalla stessa Corte Suprema, è af-
fidato in via primaria il compito di legiferare in materia penale, anche in omaggio al princi-
pio secondo cui spettano al Congresso soltanto i poteri ad esso espressamente riconosciuti
dalla Costituzione (18).
Nella realtà quotidiana questa apparentemente rigida separazione ha subito delle atte-
nuazioni che, per una molteplicità di ragioni che non possono essere qui analizzate, hanno
finito per alimentare marcate forme di interferenza tra le due sfere di sovranità di cui si com-
pone la potestà punitiva. Nel tentativo di venire a capo di queste difficoltà la giurisprudenza
si è avvalsa di alcuni rimedi: i casi ‘‘sovrapposizione’’ vengono risolti dalla ‘‘double jeo-
pardy theory’’ (19), mentre le ipotesi di ‘‘sconfinamento per appropriazione’’ (20) sono state
fronteggiate con la creazione giurisprudenziale di un griglia di principi il cui rispetto mette al
riparo le norme federali da eventuali eccezioni di legittimità costituzionale (21).
b) Riflessi sulla disciplina della pornografia minorile. - Sulla base della Grundnorm

(15) Al riguardo le stimolanti riflessioni di F. STELLA, Giustizia e modernità, p. 32 ss.;


L. MENGONI, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuri-
dica, Milano, 1997, p. 115 ss. Per un’ampia trattazione del groviglio di problemi sollevati da
questo tipo di decisioni e dei sestanti utilizzati dai giudici per razionalizzare tale complessità
R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, 1993, p.
139 ss. Infra, § 5.1). La resistenza dei principi.
(16) Per ricostruzione dei profili del sistema giuridico americano v. U. MATTEI, Com-
mon Law. Il diritto anglo-americano, Torino, 1992, p. 143 ss. e, con riferimento al diritto
penale, p. 350 ss. Per un approfondimento dei problemi della legalità penale v. E. GRANDE,
Accordo criminoso e conspiracy, Padova, 1993, p. 28 ss.
(17) W.R. LE FAVE-A.W. SCOTT jr., Substantive Criminal Law, St. Paul, Minn, 1986,
§ 2.7, p. 164 ss.; N. ABRAMS-S. SUN BEALE, Federal Criminal Law, St. Paul, Minn., 19932, p.
16 ss. Sulle evoluzioni dell’interpretazione data dalla Supreme Court alla ‘‘commercial clau-
se’’ M. PAPA, Considerazioni, p. 1267 ss. e nt. 34.
(18) Cfr. United States v. Lopez, 514 U.S. 549, 564 (1995). Il carattere originario
della competenza dei singoli Stati è testimoniato anche dal diverso sistema di fonti che ivi re-
gola la legislazione penale. Mentre a livello federale la definizione dei crimes spetta in via
esclusiva al potere legislativo, in quanto i delitti ‘‘possono essere creati soltanto dallo statu-
to’’ [così United States v. Bass, 404 U.S. 336, 348 (1971) e Liparota v. United States, 471
U.S. 419, 424 (1985)], a livello statale, con il riferimento ai cc.dd. common law crime, si
ammette un potere definitorio, seppur circoscritto, in capo al singolo giudice. E.A. FAR-
NSWORTH, Introduzione al sistema giuridico degli Stati Uniti d’America, Milano, 1979, p.
171. Per un realistico ridimensionamento della vecchia dottrina ‘‘there are and can be no fe-
deral common crimes’’ D.M. KAHAN, Is Chevron, p. 467 ss.
(19) W.J. STUNTZ, The Pathological Politics of Criminal Law, in Mich. L. Rev., 2001,
p. 507 ss.
(20) Le ipotesi, cioè, in cui la legislazione federale viene impiegata per reprimere con-
dotte illecite di rilevanza locale o ipotesi delittuose che, per le loro costanti criminologiche,
non possono essere efficacemente controllate da parte dell’agenzie di controllo statuali. Cfr.
W.R. LE FAVE-A.W. SCOTT jr., Substantive Criminal Law, § 2.8, p. 173.
(21) W.R. LE FAVE-A.W. SCOTT jr., Substantive Criminal Law, § 2.8, p. 175 ss.

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che regola i rapporti tra i due poli dell’ordinamento, il tema della pornografia interessa mar-
ginalmente le istituzioni federali, poiché la loro competenza è limitata alle sole ipotesi che
soddisfino la Commerce Clause nexus. Tuttavia, l’ampiezza con la quale il potere legislativo
ha interpretato questo limite (22) ha consentito una quasi totale sovrapposizione tra la di-
sciplina di fonte federale e quella di origine statale (23).
Prima di delineare gli sviluppi del quadro legislativo sia consentita un’ultima precisa-
zione. Secondo un’opinione abbastanza diffusa, l’ordinamento penale federale assicurerebbe
al cittadino una maggiore garanzia poiché lo standard di legalità imposto alle leggi penali fe-
derali, anche sotto il profilo della necessaria determinatezza, sarebbe più stringente a causa
dell’inesistenza di poteri creativi in capo al giudice che, al contrario, sono tipici dei common
law crimes. Breve: ‘‘nell’interpretazione degli statuti [federali] vi sono meno spazi per la fles-
sibilità’’ rispetto ai cc.dd. crimini di diritto comune (24).
A tacer d’altro questa ipotesi si rivela fin troppo benevola nei confronti di una legisla-
zione non selettiva che, a dispetto dei limiti imposti dalla c.d. Vagueness Doctrine (25), re-
golamenta ‘‘un enorme numero di comportamenti dai più atroci ai più banali’’ (26). La vi-
cenda che ha interessato l’interpretazione della ‘‘lascivious exibition’’ (18 USC Sec. 2256 n.
2 lett. e)) ben dimostra quanto sia nel vero l’opinione di coloro che bollano quell’opinione
come constatazione così parziale da avvicinarsi ad una bugia (27). Si può dunque conclu-
dere che nessuno dei sistemi penali che coesistono all’interno dell’ordinamento statunitense
possiede un valore aggiunto, almeno in termini di legalità, che lo fa preferire all’altro.
1.1. Lunario. — Come si diceva in precedenza, la legislazione penale federale vanta
una lunga consuetudine nella repressione della pornografia minorile (28). L’anno di nascita
di questo interesse è il 1977 quando, con l’entrata in vigore del Protection of Children
Against Sexual Exploitation Act, si è cercato di porre un freno a quella che, già allora, veniva
considerata, oltre che un’ignobile forma di approfittamento dell’immaturità di soggetti indi-
fesi, una fiorente industria multimilionaria (29). Vengono così sottoposti ai rigori della legge
penale tutti quei comportamenti che, nella peculiare ottica della Commerce Clause, appaiono
collegati ad attività di produzione o di diffusione di materiale pornografico minorile.
La struttura dell’Act si articola su due capisaldi: la fattispecie che punisce le condotte di
impiego di minori nella realizzazione di materiale pedo-pornografico destinato ad essere spe-
dito o trasportato verso Stati diversi da quello di produzione (Sec. 2251 § 18 U.S.C. 1979)
e quella che reprime il trasporto, la consapevole recezione o la spedizione ‘‘in interstate
commerce’’ di detto materiale (Sec. 2252 (a) Supp. II, 1978) (30).
Nella complessiva strategia di contrasto al fenomeno, un passaggio di rilievo è rappre-
sentato dai coevi interventi operati sul White Slave Traffic Act (c.d. Mann Act) del 1910. In-
fatti, parallelamente all’introduzione delle incriminazioni di cui si è detto, il legislatore ha
provveduto ad estendere l’ambito applicativo di tale normativa stabilendo che debbono con-
siderarsi ricompresi nelle attività vietate dalla legge contro il traffico di esseri umani anche

(22) United States v. Robinson, 137 F.3d 652 (1th Circ. 1998); United States v. Bau-
sch, 140 F.3d 739 (8th Circ. 1998).
(23) Ragioni di sintesi ed unità dell’indagine consigliano di limitare l’attenzione alla
disciplina federale, fatte salve le ipotesi in cui una deroga appaia indispensabile.
(24) United States v. Mc Goff, 831 F.2d, 1071, 1077 (D.C. Circ. 1987).
(25) Papacristou v. Jacksonville, 405 U.S. 156 (1972); Chicago v. Morales, 527 U.S.
41 (1999). W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 559 ss.
(26) W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 509.
(27) D.M. KAHAN, Is Chevron, p. 471. In precedenza ID., Lenity and Federal Common
Law Crimes, in Sup. CT. Rev., 1994, p. 345 ss.
(28) L’interesse dei singoli Stati è cronologicamente antecedente ma così sporadico da
non presentare alcuna seria consistenza. Cfr. T.J. WEISS, Note, The Child Protection Act of
1984: Child Pornography and the First Amendment, in 9 Seton Hall Leg. J., 1985, p. 327 ss.
(29) Su fattori che hanno contribuito a suscitare l’attenzione del legislatore per questi
fatti L.S. SMITH, Private Possession of Child Pornography: Narrowing At-Home Privacy Ri-
ghts, in Annual Survey of American Law, 1991, p. 1012 s.
(30) Si leggono in L.S. SMITH, Private Possession, p. 1013, nt. 27 e 28.

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tutte le condotte di trasporto interstatale di giovani allo scopo di avviarli alla prostituzione o
al compimento di una vasta gamma di atti di natura sessuale, tra quali rientra anche la pro-
duzione di materiale pornografico (31).
A fronte di tale ‘‘articolato’’ intervento, la dottrina non ha mancato di sottolineare che
la diffusione della pornografia minorile doveva considerarsi penalmente illecita già prima
del 1977, trattandosi di materiale che rientrava a pieno titolo nella sfera applicativa dell’al-
lora vigente statuto penale della produzione e diffusione di rappresentazioni oscene (32).
Questa precisazione mette bene in evidenza il carattere ‘‘interstiziale’’ del tema, la cui
indubbia forza evocativa è destinata a convivere con una pletora di comportamenti già valu-
tati come meritevoli e bisognosi di tutela. Si tratta, infatti, di un problema che può essere in
larga parte risolto facendo applicazione di alcune delle fattispecie poste a presidio della per-
sona (riduzione in schiavitù, sequestro di persona, violenza sessuale, violenza privata), a tu-
tela della moralità pubblica (33) se non del patrimonio (ricettazione) (34).
Se è vero che tale opzione non si apprezza in termini di mera deterrenza, si può marcare
questa preferenza come l’ennesima ‘‘trappola’’ simbolica del diritto penale moderno? No,
poiché è plausibile ritenere che la stessa esprima un’autonomo significato sul piano ‘‘rappre-
sentativo-comunicativo’’ (35). In altre parole: in una prospettiva ancorata alla valorizza-
zione della funzione ‘‘integratrice’’ della prevenzione generale, questa scelta, riducendo al
minimo l’incidenza di possibili interferenze distorsive, manifesta un proprio ‘‘valore aggiun-
to’’ individuabile nella sua capacità di favorire la piena funzionalità del meccanismo di sta-
bilizzazione controfattuale dell’interesse violato (36). Breve: facilita la creazione di con-
senso (37).
Per quanto apprezzabile nel suo profilo ‘‘ideale’’, questa aspirazione è stata oggetto di
severe critiche da parte di coloro che ne hanno rimarcato il carattere simbolico; la facile
strumentalizzazione alla quale si presta in termini di soddisfacimento di bassi interessi po-

(31) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 449. Sottolinea la valenza ‘‘metaforica’’ del-
l’equiparazione tra schiavitù e le sue ‘‘nuove forme’’ (ad esempio: prostituzione e pornogra-
fia minorile) criticandone l’allineamento all’interno di una medesima regolamentazione nor-
mativa R. POSNER, Overcoming Law, Cambridge et alii, 1997, pp. 212, 498 ss.
(32) D.D. BURKE, The Criminalization of Virtual Child Pornography: A Costitutional
Question, in Harv. J. on Leg., 1997, p. 449, nt. 62. Con riferimento alla detenzione di mate-
riale pornografico la medesima soluzione è sostenuta da United States v. Bevacqua, 864
F.2d. 19 (3th Circ. 1988); United States v. Merchand, 803 F.2d 174 (5th Circ. 1986); United
States v. Andersson, 803 F.2d 903 (7th Circ. 1986).
(33) Al riguardo le lucide argomentazioni di Ashcroft v. Free Speech Coalition, 535
U.S. 3 ss. (al momento di licenziare le bozze del lavoro, questa importante pronuncia non ri-
sulta essere stata inclusa in alcun repertorio ufficiale. Il testo, in versione provvisoria, è co-
munque reperibile in www.supremecourtus.gov. Sito consultato il 25 agosto 2002).
(34) Nell’ordinamento francese si ammette, ad esempio, che la semplice detenzione di
materiale pedo-pornografico possa essere punita a titolo di ricettazione. M. VÉRON, Droit pé-
nal spécial, Paris, 20008, p. 185 ove rif. Nella dottrina italiana il tema è sviluppato da B. RO-
MANO, Difetti normativi, p. 267.
(35) Nella dottrina francese S. LÉGER, Les infraction de nature sexuelle commises à
l’enconte de mineurs, in Arch. de pol. crim., 1999, p. 13.
(36) Nel contesto europeo, senza alcuna pretesa di completezza bibliografica, è d’ob-
bligo il rinvio a G. JAKOBS, Strafrecht. AT., Berlin et alii, 19912, p. 35 ss. Questa prospettiva
di indagine è sviluppata anche da D. KAHAN, The Secret Ambition of Deterrente, in 113
Harv. L. Rev., 1999, p. 413 ss.; ID., Social influence, Social Meaning and Deterrence, in 83
Va. L. Rev., 1997, p. 349 ss.; ID., What Do Alternative Sanctions Mean?, in 63 U. Chi. L.
Rev., 1996, p. 591 ss. Per una valutazione critica, da ultimo, G. DE VERO, L’incerto percorso
e le prospettive di approdo dell’idea di prevenzione generale positiva, in questa Rivista,
2002, p. 437 ss.
(37) Cfr. C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in questa Rivista, 1992, p.
851 ss.

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litici (38); gli effetti negativi prodotti sul contenimento del numero e della qualità delle con-
dotte penalmente rilevanti (39).
Al già ampio reticolo predisposto a livello federale si affianca una cospicua serie di in-
terventi di fonte statuale ai quali è rimesso il compito di regolamentare, se del caso, ogni at-
tività connessa alla pornografia minorile, purché priva della predetta finalità intersta-
tale (40). Il risultato ottenuto è stato quello di mettere in moto un processo di criminalizza-
zione a sfere concentriche la cui estensione copre un’amplissima gamma di condotte, al cui
interno le debolezze dell’una sono spesso supplite dalla decisione dell’altra. Breve: un catch
all system.
1.1.1. Anatomia. — L’originaria formulazione della Sec. 2251 (a) conteneva una legge
mista alternativa che puniva ogni forma di impiego di minori nella produzione di materiale
contenente la rappresentazione di ‘‘condotte sessuali esplicite’’ da parte di questi, a condi-
zione che il soggetto attivo avesse la consapevolezza che detto materiale fosse destinato ad
essere impiegato nel commercio interstatale; la successiva Sec. 2252 (a) sanzionava, invece,
l’intero fascio di condotte situate ‘‘a valle’’ della realizzazione, con l’eccezione della semplice
detenzione, qualificando come penalmente illecito qualunque consapevole atto di distribu-
zione o commercializzazione in ‘‘in interstate o foreign commerce’’.
Con riferimento a quest’ultima previsione era opinione del Congresso che ad essa do-
vesse essere attribuita la finalità di ‘‘distruggere l’industria’’ del materiale pornografico mi-
norile, poiché con una facile equazione, si riteneva che agendo sull’offerta in senso restrit-
tivo si sarebbe poi contratta anche la domanda e che, di conseguenza, si sarebbero drastica-
mente diminuite le occasioni di aggressione diretta ai minori. Nell’ottica delle autorità fede-
rali la ‘‘meritevolezza’’ di condotte riconducibili, lato sensu, a forme di attività commerciali
si legittimava in quanto strumentale al perseguimento dell’obbiettivo primario di evitare che
il minore potesse essere coinvolto in situazioni idonee a comprometterne il sano sviluppo
psico-fisico (41).
La Sec. 2252 (a), a differenza dell’ipotesi attualmente vigente, conteneva significative li-
mitazioni alla rilevanza penale delle condotte di trasporto e spedizione, specificando:
a) che la produzione del materiale ‘‘illecito’’ doveva coinvolgere un minore degli anni
sedici;
b) che l’oggetto materiale della rappresentazione doveva ritrarre tali soggetti nel com-
pimento di una condotta sessuale (‘‘sexually explicit’’);
c) che lo stesso doveva essere osceno (‘‘obscene material’’).
I lavori preparatori segnalano che il legislatore del tempo, in ciò supportato dall’opi-
nione del Department of Justice (DoJ), era portato a ritenere che la Sec. 2252 (a) potesse es-
sere viziata da incostituzionalità qualora non si fosse introdotto questo riferimento limita-
tivo. Pertanto, pur avendo già ristretto la nozione di materiale pornografico alle sole ipotesi
di rappresentazione di condotte sessuali esplicite, si ritenne opportuno imporre ai giudici
l’accertamento dell’oscenità di detto materiale. Il dubbio nasceva da una attenta considera-
zione dell’ambito di tutela offerta dal primo emendamento alla libertà di espressione dei cit-
tadini, diritto che, almeno da un punto di vista astratto, poteva adattarsi anche alla porno-
grafia minorile (42);

(38) L’argomento è approfondito, in altro contesto, da A.M. COUGHLIN, Of White Sla-


ves and Domestic Hostages, in Buff. Crim. L. Rev., 1997, p. 109 ss. con conclusioni estensi-
bili anche alla strategia di intervento contro la pornografia minorile; W.J. STUNTZ, The Pa-
thological, p. 532 s. anche per interessanti precisazioni sul ruolo dei media.
(39) W. HASSEMER, Einführung in die Grundlagen des Strafrecht, München, 19902, p.
326 s.
(40) Per un quadro d’insieme, seppur datato, L.S. SMITH, Private Possession, p. 1017
s.; e T.J. WEISS, Note, The Child Protection Act of 1984, p. 331 ss.
(41) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1018.
(42) Una ricostruzione esaustiva dei lavori preparatori in G. LOKEN, The Federal Bat-

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d) che, da un punto di vista soggettivo, era indispensabile la sussistenza di una speci-


fica volizione soggettiva caratterizzata in termini commerciali (‘‘purpose of sale’’) (43).
1.1.1.1. Critiche. — Calate nel caleidoscopio della dimensione applicativa, nessuna di
queste scelte era stata ritenuta soddisfacente (44). Le critiche più accese, sulla scorta di un
autorevole parere dell’Attorney General, si concentrarono, però, sulla necessità di accertare
la presenza di un fine di profitto e sull’obscenity clause.
Lamentando l’esistenza di un intollerabile discrasia con il quadro empirico di riferi-
mento, la critica al purpose of sale mirava anche ad alleggerire l’onere della prova in capo ai
Prosecutors. Analogo era l’obbiettivo perseguito con riferimento al requisito dell’osceno;
parzialmente diversi, però, i motivi di insoddisfazione: si riteneva, infatti, che l’articolato
standard di giudizio elaborato dalla Corte Suprema in materia di tutela del buon costume
mal si adattasse alle peculiarità della pornografia minorile e, soprattutto, che la sua comples-
sità ostacolasse in misura irragionevole l’attività di law enforcement. Breve: due inutili ‘‘far-
delli’’ sulle spalle delle agenzie di controllo (45).
La consistenza di tali critiche verrà scandagliata in seguito. Ora, interessa sottolineare
il ruolo giocato dall’ ‘‘immane concretezza’’ (46) dei fatti nelle vicende che hanno interes-
sato le evoluzioni di questo frammento della legislazione penale. Le principali critiche all’o-
riginario assetto della materia riposano, infatti, sui risultati di specifiche rilevazioni empiri-
che attinenti o alla descrizione ed alla quantificazione del fenomeno criminale nei suoi con-
tenuti (47) o alla documentata ineffettività dell’attività di repressione (48).

tle against Child Sexual Exploitation: Proposals for Reforma, in Harv. Women’s L.J., 1986,
p. 110 ss.
(43) La fattispecie relativa alle ipotesi di sfruttamento — comprendente l’impiego,
l’induzione, l’adescamento e la costrizione — non conteneva alcun riferimento agli elementi
sub c) e d) poiché la diretta incidenza delle ipotesi delittuose sulla sfera personale del minore
impediva di considerare le stesse espressione di un diritto di libertà la cui compressione, per
considerarsi legittima, richiedeva un bilanciamento con l’interesse penalmente protetto. L.S.
SMITH, Private Possession, p. 1017, nt. 56.
(44) Per un quadro delle critiche mosse contro questa soluzione L.S. SMITH, Private
Possession, p. 1015 ss. anche per le indispensabili indicazioni bibliografiche.
(45) Per un quadro L.S. SMITH, Private Possession, p. 1014 s.
(46) G. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale,
Milano, 2000, p. 10 ss.
(47) Per vero questo aspetto rappresenta uno dei punti più problematici della ricerca
empirica in tema di abuso di minori a fini sessuali. Cfr. G. KAISER, Kriminologie, Heildel-
berg, 19973, p. 793 s. Limitandosi alla realtà nordamericana: tra l’iperbolica descrizione
della ‘‘pedofilia’’ come holding industriale con un ‘‘fatturato che supera i 5 bilioni di dollari’’
— L.J. LEDERER, Poor Children Targets of Sex Exploitation, in Nat’l Catholic Rep., Nov. 22,
1996, p. 11 — e la denuncia di chi ritiene che il fenomeno della pornografia minorile a
scopo commerciale sia un’invenzione frutto di un ‘‘moral panic’’ ingiustificato dalla realtà dei
fatti, ma socialmente diffuso perché artificialmente indotto — Free Speech Coalition,
www.freespeechcoalition.com/industry/truth/childporn.htlm (consultato il 13 dicembre
2001) — vi è in comune una, seppur opposta, visione ‘‘ideologica’’ che inquina alla radice la
credibilità di entrambe. Il deficit che si viene così a creare facilita campagne di law and order
e la perdita di ogni capacità critica del legislatore rispetto alla pressante domanda di tutela
proveniente dall’opinione pubblica. Nell’ambito della pornografia minorile ciò può compor-
tare uno scivolamento della tutela penale verso comportamenti privi di un reale profilo di
dannosità sociale. Sul punto, in una letteratura sterminata, Z. BAUMANN, Social Issues of
Law and Order, in British Journal of Criminology, 2000, p. 215 ss.; R. REINER, Media Made
Criminality: The Representation of Crime in the Mass Media, in The Oxford Handbook of
Criminology, Oxford, 19972, p. 189 ss.; A. ADLER, The Perverse Law, p. 214 ss. anche per
ulteriori riferimenti. Nella dottrina italiana ma, con accenti meno critici, P. MARTUCCI, La
pornografia minorile e i net crimes. Pedofilia e sfruttamento sessuale dei minori come ultime
frontiere della devianza (a cura di) ID., Infanzia e abuso sessuale, Milano, 2000, p. 108 ss.;
A. COLUCCI-E. CALVANESE-L. LORENZI, Bisogni formativi e ruolo dei mass media in un’inda-

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Va detto, però, che questa inusuale attenzione ai risultati della verifica empirica, già si-
gnificativa nell’ottica della ricostruzione dei formanti delle scelte di criminalizzazione, è
stata facilitata dall’esistenza di vere ‘‘autostrade informative’’ stabilmente strutturate all’in-
terno del procedimento legislativo, capaci di mettere immediatamente in comunicazione le
ovattate stanze parlamentari con la tumultuosa realtà dei fenomeni di devianza: hearings,
commissioni di inchiesta, pareri espressi da istituzioni pubbliche o private, sono gli stru-
menti che hanno consentito di adeguare ‘‘prontamente’’ il quadro legislativo ai ‘‘mutati’’ bi-
sogni di tutela o alle rinnovate esigenze di effettività della disciplina normativa.
Sebbene non si possano escludere, anche in ragione dei deficit metodologici che tuttora
affliggono i rapporti tra criminologia e scienza della legislazione penale (49), distorsioni
nella raccolta dei dati, parzialità nella scelta degli stessi e, quindi, nella fondatezza del pro-
cedimento attraverso il quale si sono formate le riferite opinioni critiche, l’esistenza di stabili
canali di comunicazioni tra ‘‘fatti’’ e ‘‘norme’’ costituisce un punto di merito per il legisla-
tore americano, la cui importanza si apprezza in modo particolare in tutti i casi nei quali lo
stesso si vede costretto ad intervenire su campi di materia ‘‘nuovi’’ situati al confine tra
comportamenti moralmente riprovevoli e aggressioni dotate di reale spessore offensivo di in-
teressi altrui (50).
1.1.2. Spunti in tema di oscenità. — Nonostante le vibranti critiche alle quali era an-
data incontro, l’inclusione di un riferimento all’osceno costituiva un passaggio obbligato:
nell’ottica del sistema, infatti, l’oscenità rappresentava il limite cogente alle possibilità di
comprimere la libertà di manifestazione del pensiero garantita dal First Amendment della
Costituzione degli Stati Uniti d’America (51).
Questa conclusione era il frutto di una lenta evoluzione della giurisprudenza della Corte
Suprema degli Stati Uniti la quale, sin dai primi anni ’40, aveva a poco a poco eroso l’assolu-
tezza del First Amendment ritenendo costituzionalmente legittimo che limitate classi di
espressioni, tra le quali rientravano anche quelle oscene o lascive (‘‘obscene and lewd spee-
ches’’), rimassero sfornite di tutela. Con prammatico distacco: poiché le stesse non possie-
dono alcun valore sociale non vi è interesse alla loro diffusione (52).
Il primo passo in questa direzione è compiuto dalla Supreme Court in Chaplinski v.
New Hampshire (53). Nella decisione si sosteneva, dopo aver reso il dovuto omaggio all’alto
valore della libertà di manifestazione del pensiero (54), che tale diritto non può considerarsi
assoluto ed intangibile quanto meno perché sussistono classi di opinioni il cui contenuto è

gine sugli insegnanti della città di Milano a proposito di percezione sociale dell’abuso ses-
suale, ivi, p. 29 ss. Un quadro generale dello stato delle ricerche sulla ‘‘fear of crime’’ in T.
BANDINI et alii, Criminologia, Milano, 1991, p. 624 ss. e, con specifico riferimento al diritto
penale ‘‘moderno, W. HASSEMER, Das Symbolische, p. 1005 ss.; G. FORTI, La riforma del co-
dice penale nella spirale dell’insicurezza: i difficili equilibri tra parte generale e parte spe-
ciale, in questa Rivista, 2002, p. 40 s.
(48) R.J. CLINTON, Note. Child Protection Act of 1984 - Enforceable Legislation to pre-
vent Sexual Abuse of Children, in Okl. City U.L. Rev., 1985, p. 121 ss.; L.S. SMITH, Private
Possession, p. 1015.
(49) L. MONACO, Su teoria e prassi dei rapporti tra diritto penale e criminologia, in St.
Urb., 1984, p. 64 ss. Nella letteratura giuridica di lingua inglese il fenomeno è riscontrato e
ampiamente analizzato, seppur in un diverso contesto, da G.E. LYNCH, Rico: The Crime of
being a Criminal. Part I & II, in Col. L. Rev., 1987, pp. 663, 664 s.
(50) L. ZENDER, Regulating Sexual Offences within the Home (a cura di) I. LOVE-
LAND, Frontiers of Criminality, London, 1995.
(51) Come è noto tale disposizione garantisce la libertà di parola (‘‘Congress shall
make no law... abriding the freedom of speech’’), di stampa e la laicità dello Stato. Cfr. U.
MATTEI, Common law, p. 144 ss., ma spec. p. 149.
(52) Una ricostruzione fortemente critica di questi sviluppi e dei risultati conseguiti è
sviluppata da A. ADLER, Post-Modern Art and the Death of Obscenity Law, in 99 Yale L.J.,
1990, p. 1359 ss.
(53) 315 U.S. 568 (1942).
(54) loc. ult. cit., 570.

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privo di ogni reale contributo alla circolazione delle idee. Pertanto, trattandosi di espressioni
prive di un adeguato valore sociale, il legislatore può legittimamente vietarne la circolazione
in tutti i casi in cui sussista un predominante (‘‘outweighted’’) interesse statuale a mantenere
l’ordine e la moralità pubblica. In altri termini: l’interesse soggettivo alla distribuzione o alla
fruizione di materiale osceno, pur rappresentando una forma di manifestazione del pensiero,
è destinato a soccombere, secondo uno schema di composizione tra beni contrapposti (‘‘due
process of law’’), quando vi si oppongano esigenze di salvaguardia di altri interessi generali
di pari rango.
Nella stessa direzione si muove la pronuncia resa nel caso Roth v. United States (55):
pur concordando nei risultati, la sentenza segna però un importante passo in avanti nella
chiarificazione dei rapporti tra diritti di libertà e disciplina penale dell’osceno.
Per mano del giudice Brennan, le argomentazioni della Corte si dipanano limpidamente
a partire da una premessa: la protezione offerta alla libertà di manifestazione del pensiero si
propone di facilitare lo scambio di opinioni allo scopo di contribuire alla realizzazione di una
matura democratizzazione della vita politica e sociale. Poiché nel caso di espressioni lascive
od oscene può seriamente dubitarsi del contributo da esse offerto al raggiungimento di tale
obbiettivo, si deve escludere che l’oscenità possa venir ricompresa nell’area costituzional-
mente protetta dal First Amendment (56). L’intervento statuale volto a reprimere questo ge-
nere di comunicazioni deve considerarsi ammissibile senza condizioni, non esistendo alcun
limite di natura costituzionale che si opponga a ciò.
Le argomentazioni per principi affascinano, ma ai fini di una equilibrata applicazione
della normativa, l’operatore del diritto ha bisogno di certezza: ciò che manca alla soluzione
così approntata. La Corte, infatti, dopo aver disancorato la materia dal classico potere di bi-
lanciamento tra interessi si trova ad operare con un concetto quasi completamente privo di
confini, la cui area applicativa copre l’intera gamma dei comportamenti attinenti alla sfera
sessuale (57).
Allo scopo di porre rimedio a questa grave situazione di incertezza, la Corte separa il
piano oggettivo della rappresentazione da quello valutativo tipico dell’oscenità, selezio-
nando, per quest’ultimo, il parametro di giudizio da impiegare.
Per evitare scompensi applicativi la maggioranza ritenne infatti opportuno rimarcare la
profonda differenza che intercorre tra sessualità e oscenità, anche dal punto di vista del ri-
spettivo valore sociale, limitando la seconda alle sole ipotesi nelle quali la rappresentazione
della sfera sessuale umana abbia l’unico scopo di sollecitare la morbosità (‘‘which deals
with sex in a manner appealing to prurient interest’’). In quest’ottica dovevano considerarsi
oscene (rectius: estranee alla sfera di tutela della disposizione costituzionale) tutte quelle
rappresentazioni che nella loro interezza appaiono richiamarsi, alla luce degli standards va-
lutativi socialmente dominanti, ad un ‘‘prurient interest’’ (58).
Seppur apprezzabile nelle sue finalità, il tentativo di razionalizzare e consolidare per
questa via la ricostruzione dei problematici rapporti tra libertà di manifestazione del pen-
siero e diffusione di comunicazioni oscene non poteva dirsi completamente riuscito, tanto da
costringere la Corte Suprema a ritornare sull’argomento per precisare che il test sull’oscenità
costruito in Roth doveva essere completato richiedendo che l’oggetto o la rappresentazione
fosse ‘‘utterly without redeming social value’’ (59).

(55) 354 U.S. 1499 (1957).


(56) loc. ult. cit., 1507.
(57) I rischi connessi all’ampiezza del test sono bene evidenziati nell’opinione dissen-
ziente dei giudici Douglas e Black a parere dei quali ‘‘by these standards punishment is in-
flicted for thought provoked, not for overt acts nor antisocial conducts’’ senza considerare,
poi, che con il suo ‘‘test of obscenity the Court... gives the censor free range over a vast do-
main’’. Roth v. United States, 1520.
(58) Roth v. United States, 1508.
(59) Memoirs v. Massachusset, 383 U.S. 413 (1966).

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Anche questa ulteriore precisazione non sembrava però in grado di indicare con esat-
tezza la linea di confine tra libera manifestazione del pensiero ed il compimento di una con-
dotta penalmente rilevante, tanto da suggerire alla Corte la necessità di ripensare funditus
l’argomento.
In Miller v. California (60) la Corte sviluppa un modello di valutazione incentrato su
tre parametri di riferimento. Il test deve considerarsi soddisfatto qualora:
a) secondo il giudizio di una persona media, l’opera considerata nel suo insieme fa
appello ad interessi libidinosi (‘‘prurient interest’’);
b) se l’opera rappresenta o descrive, in modo platealmente offensivo (‘‘patentley offen-
sive way’’), condotte sessuali così come definite da una legge statale;
c) se l’opera, considerata nel suo complesso, non possiede alcun serio valore lettera-
rio, artistico, politico o scientifico.
A seguito di questi chiarimenti la nozione di osceno viene circoscritta a quelle rappre-
sentazioni che esprimono, in modo offensivo ai ‘‘community standards’’ (61), un contenuto
erotico e provocante al solo scopo di eccitare il loro fruitore (62).
A prima vista, la complessa articolazione del Miller’s test sembra giustificare il diffuso
giudizio negativo sulla sua utilità in tema di pornografia minorile. Se però si vuol tentare di
offrire una lettura meno superficiale di questa problematica occorre anche ricordare che la
Corte Suprema, in parallelo alle decisioni in precedenza esaminate, aveva sviluppato, in re-
lazione al problema della tutela dei minori, la c.d. ‘‘varabile obscenity clause’’ al fine di con-
sentire interventi regolativi da parte legislatore anche al di fuori dei rigorosi requisiti previsti
in tema di osceno. Su questa base la Corte aveva giudicato costituzionalmente legittima la
proibizione riguardante la vendita a minori di determinati materiali quando gli stessi, in ra-
gione delle peculiari caratteristiche dell’acquirente, apparivano idonei a violarne il senti-
mento di pudore, indipendentemente dal fatto che detto materiale non fosse considerato
osceno secondo il giudizio di un adulto (63). Se correttamente applicato questo orienta-
mento avrebbe potuto giovare anche all’interprete delle norme in materia di pornografia mi-
norile, consentendogli di allargare le maglie del Miller’ test, senza però annullare completa-
mente le esigenze di razionalità della tutela connesse alla ‘‘obscenity clause’’. Ma così non è
stato!
La mancata espressa considerazione di questo profilo porta a dubitare delle buona fede
degli oppositori i quali hanno abilmente dissimulato una innovativa soluzione di politica-
criminale mascherandola sotto un profilo tecnico e apparentemente ‘‘neutrale’’ (64).
1.2. Osceno e materiale pornografico minorile: una distinzione non fuzzy. — L’acco-
stamento che caratterizzava in origine il Protection of Children Act, merita un’ulteriore con-
siderazione.
L’accorpamento all’interno di una unica disposizione della obscenity clause e del ri-
chiamo alla presenza di una sexually explicit conduct sta a dimostrare, nonostante l’appa-
rente salto logico a cui era chiamato l’interprete, che trattasi di elementi tra loro non sovrap-
ponibili, tali essendo il piano dell’accertamento in fatto richiesto dalla seconda e quello del
giudizio valutativo imposto dalla prima. Ai fini del giudizio di rilevanza penale era dunque

(60) 413 U.S. 22 (1973).


(61) Note, Anti-Pornography Laws and First Amendment Values, in Harv. L. Rev.,
1984, p. 40 ss., ma spec. p. 46; L.S. SMITH, Private Possession, p. 1017. Altro passo signifi-
cato di Miller v. California, 420 s.; ‘‘the requirement that state law, as written or construed,
must specially define the sexual conducts as to which depiction was proscribed’’.
(62) L’illegittimità costituzionale di questa definizione per violazione del principio di
chiarezza e per la sua eccessiva ampiezza è bene argomentata dall’opinione dissenziente dei
giudici Brennan, Marshall e Steward in Paris Adult Theatre v. Slaton, 413 U.S. 37, (1973).
(63) Ginsberg v. New York, 390 U.S. 629, 639 s. (1968); FCC v. Pacifica Foundation,
438 U.S. 726 (1978); Sable Comunication v. FCC, 492 U.S. 115 (1989); Action for Children
Television v. FCC, 58 F.3d 654 (D.C. Circ. 1995).
(64) Spunti in New York v. Ferber, 458 U.S. 747, 764 (1982).

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necessario accertare se il fatto presentava i caratteri prescritti dall’espressione semantica uti-


lizzata ex lege e, successivamente, di valutarne il carattere osceno.
Trattandosi di elementi di natura eterogenea (65), il legislatore, in un’ottica de lege fe-
renda, dovrebbe evitare improprie commistioni tra i due. Auspicio che, anche alla luce delle
evoluzioni della legislazione statunitense, sembra di difficile realizzazione, ma che mantiene
pur sempre un suo valore ‘‘ideale’’ non ristretto alla logica della pura classificazione sistema-
tica. Distinguere il piano valutativo da quello descrittivo significa, infatti, marcare la di-
stanza tra i criteri teleologici che presiedono alla loro tipizzazione: mentre nel caso dell’o-
sceno si utilizzano criteri elastici ed ‘‘autoritari’’, orientati ad una sfera di tutela superindivi-
duale, nella definizione della nozione di materiale pornografico minorile il fuoco dell’atten-
zione va riservato ai profili di offesa all’integrità del minore, all’incidenza che determinate
pratiche possono avere sul suo corretto sviluppo psico-fisico (66).
Significativi di questa impostazione sono due passaggi delle opinioni concorrenti re-
datte dai giudici Marshall, Brennan e O’Connor nella decisione New York v. Ferber: ‘‘un
bambino dodicenne ritratto mentre si sta masturbando soffre un danno psicologico indipen-
dentemente dal fatto che secondo un giudizio sociale detta rappresentazione sia considerata
‘edificante’ o ‘di cattivo gusto’; ‘l’apprezzamento del destinatario della immagine è semplice-
mente irrilevante nell’ottica di tutela del minore’ ’’ (67).
Se questo è vero, non si può considerare inopportuna (68) la proposta di restringere la
sfera delle rappresentazioni pornografiche alla c.d. härte Pornografie (69), poiché solo in re-
lazione a questo nucleo di comportamenti è possibile formulare una corretta prognosi di of-
fensività per il bene giuridico (70).
Sotto il profilo politico-criminale, questa opinione evidenzia anche che l’esatta defini-
zione della nozione di ‘‘materiale pornografico’’ rientra tra i compiti non delegabili da parte
del legislatore. Lo esigono il rispetto del principio di legalità ed il canone di extrema ratio
della sanzione penale specie in un settore come quello in discorso indicato, da parte della
dottrina, come campo di elezione della discrezionalità creativa dell’interprete (71).
Con sano realismo occorre però riconoscere che sul mantenimento di questa distinzione
premono forti bisogni di tutela che divengono ancora più pressanti in presenza di letture re-
strittive dell’estremo de quo tanto da spingere il legislatore verso una commistione tra le due
tipologie di giudizio (72). Sebbene non condivisibile, questa evoluzione non stupisce, né può

(65) G. FIANDACA, Problematiche, p. 182 ss.


(66) La necessità di operare questa distinzione è riconosciuta, nell’ambito di una cri-
tica femminista allo stato della legislazione penale ed alle sue tendenze evolutive, anche da
C. MACKINNON, Femminism Unmodified: Discourse on Life and Law, 1987, p. 146 ss. In
questa direzione, ma con ben altre motivazioni, L. PICOTTI, Pornografia minorile: evoluzione
della disciplina penale e beni giuridici tutelati (a cura di) L. FIORAVANTI, La tutela penale
della persona, p. 295 ss.; C.F. GROSSO, Funzione della norma penale e comportamento ses-
suale (a cura di) G. GULOTTA-S. PIZZICATI, Sessualità, diritto e processo, Milano, 2002, p. 33.
(67) New York v. Ferber, 1135, 1137.
(68) B. ROMANO, La tutela penale, p. 157 ss.
(69) Per tale nozione cfr. H. LAUFHÜTTE, § 184, Leipziger Kommentar zum Strafgeset-
zbuch, Berlin, 199511, Rdn. 13 ss. Nella dottrina italiana ancorano la tutela penale alla realiz-
zazione di atti sessuali L. MONACO, Art. 600-ter, in Commentario breve; A. CADOPPI, Com-
mento all’art. 3 (art. 600-ter, comma 1 e 2), in Commentari, p. 547 ss.
(70) Per ulteriori sviluppi infra, § 2.4.2) I limiti.
(71) E. LUNA, Trasparent Policy, in 85 Iowa L. Rev., 2000, p. 1107 ss.; ID., Principled
Enforcement of Penal Code, in 4 Buff. Crim. L. Rev., 2000, p. 515 ss. Sottolinea la necessità
di mantenere ben saldo il monopolio del legislatore in presenza di ‘‘trade-off’’ tra differenti
valori L.D. BILIONS, Process, the Costitution, and Substantive Criminal Law, in 96 Mich. L.
Rev., 1998, p. 1269 ss.
(72) Cfr. Sec. 2256 n. 2 lett. e) 18 USC. V. anche art. 74 dello Schema di legge delega
al Governo per l’emanazione di un nuovo codice penale (a cura di) M. PISANI, Per un nuovo

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essere tacciata di ‘‘inconsistenza’’ a patto, però, di tenere bene a mente che si tratta di un’ec-
cezione motivata da un vero o presunto horror vacui, la cui gestione applicativa non do-
vrebbe essere affidata a schemi di giudizio di tipo valutativo di natura generalizzante che
prescindono dall’incidenza offensiva dell’atto sul bene giuridico della persona.

1.3. Child Protection Act of 1984. — Dalla sinergia tra bisogni di tutela e l’acquisita
consapevolezza dell’importanza dell’interesse tutelato si origina il successivo provvedimento
legislativo in materia. Il Child Protection Act del 1984 nasce infatti in risposta alle richieste
da più parti avanzate di incidere in senso migliorativo sulla disciplina del 1977 al fine di ga-
rantire un’efficace sfera di protezione ad un interesse che la stessa Corte Suprema ha defi-
nito di ‘‘surpassing importance’’ (73).
Vengono così eliminati il requisito della finalità commerciale e, soprattutto, qualsiasi ri-
ferimento all’osceno (74).
Osservata nell’ottica del diritto nazionale, l’eliminazione del fine di profitto offre l’occa-
sione per una breve digressione in considerazione della rilevanza assunta da questo pro-
blema nelle discussioni sulle prospettive e sui limiti della tutela penalistica della persona.
Si è già messo in evidenza che per convincere il legislatore dell’opportunità di omettere
qualsiasi riferimento al ‘‘purpose of sale’’, la dottrina statunitense ha battuto il tasto della
discrasia con il dato empirico. Come è noto, analogo problema affligge la disciplina interna
specie con riferimento al delitto di cui all’art. 600-ter, comma 1, c.p. (75): a differenza di
quanto avviene negli USA, le motivazioni addotte dalla dottrina per censurare possibili in-
terpretazioni ‘‘economicistiche’’ attingono ad un piano ‘‘ideale’’. Si osserva infatti, seppur in
relazione ad un diverso problema, che ‘‘lo scopo di lucro, in sé stesso non è una ragione di
illiceità: il fine di profitto economico da solo non può bastare a trasformare un fatto che
fosse penalmente lecito, in fatto penalmente illecito’’ poiché ‘‘la ragione dell’illiceità penale
del fatto stà... nella manipolazione della persona’’ (76).
Tale chiusura appare del tutto condivisibile nella misura in cui il fatto base di cui si di-
scute rappresenti, per così dire, un’indubitabile forma di aggressione nei confronti della per-
sona (ad esempio, ibridazione umana, sfruttamento della prostituzione e della pornografia
minorile ecc.). Rimane invece da valutare l’opportunità di ricorrere alla finalità soggettiva
come elemento selettivo delle condotte penalmente rilevanti ogni qualvolta il fatto base
possa essere considerato espressione anche di un diritto di libertà (ad esempio, surrogazione
procreativa, detenzione di materiale pornografico minorile ecc.) (77).

codice penale, Milano, 1993, p. 76. Analoga posizione è assunta da M.L. RASSAT, Droit pé-
nal spécial, Paris, 20013, p. 588.
(73) New York v. Ferber, 1123.
(74) Senza anticipare quanto verrà detto infra, § 5, si deve ricordare che le disposi-
zioni in commento hanno subito un’ulteriore modifica con gli importanti emendamenti ap-
portati dal Congresso nel 1996.
(75) Sul punto sia consentito rinviare a G. MARRA, La nozione di ‘‘sfruttamento’’ nel
delitto di pornografia minorile e la terza via delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2001, anche
per ulteriori riferimenti.
(76) A. PAGLIARO, Relazione di sintesi, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Mi-
lano, 1993, p. 517.
(77) Esigenza a tal punto sentita da aver suggerito al legislatore USA una parziale in-
versione di rotta rispetto alle scelte del Child Protection Act del 1984: il Congresso ha infatti
di recente introdotto, sotto forma di defense, un elemento quantitativo capace di garantire
un minimo contemperamento tra questi due aspetti. Cfr. Sec. 2252 (4), lett. c), n. 1 e Sec.
2252 (a) (5), lett. d), n. 1. Sul punto D.T. COX, Litigating Child Pornography and Obscenity
in the Internet Age, in Jour. of Tech. Law & Policy, www.journal.law.uff.edu (consultato il
30 aprile 2002), p. 4 ss. il quale non manca di sottolineare l’opportunismo dimostrato dal
Congresso nell’affrontare la questione. V. anche quanto osservato in New York v. Ferber,
777 s. Sulla defense v., in generale, W.R. LE FAVE-A.W. SCOTT jr., Criminal Law, § 1.8, p.
71 ss. Analoga sensibilità sembra ‘‘ispirare’’ la decisione di Cass. Sez. Un., 31 maggio 2000,
in Cass. pen., 2000, p. 2983 ss.

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Nel contesto della novella del 1984, si segnala anche l’innalzamento dell’età del minore
fino ai 18 anni, soluzione che finisce per accomunare l’ordinamento federale statunitense
alle scelte operate da quello italiano nel fatidico agosto del 1998 (78).
Non meno significativo è l’intervento sulla controversa definizione di materiale porno-
grafico. Il Congresso, infatti, venendo incontro agli sviluppi impressi dalle interpretazioni
delle Corti ha proceduto a sostituire il termine ‘‘lascivious’’ con il sinonimo ‘‘lewd’’ rite-
nendo quest’ultimo maggiormente pregante sotto il profilo della ricostruzione della dimen-
sione offensiva del fattto.
Come emerge dalla lettura dei lavori preparatori, l’intenzione del legislatore storico era
quella di sottolineare la differenza tra la disciplina della pornografia minorile e quella ri-
guardante il controllo della diffusione di materiale osceno. La ‘‘lascivia’’ appariva, infatti
troppo compromessa con la tradizione e, quindi, incapace di marcare significativamente la
distinzione tra vecchia e nuova prospettiva di tutela (79). Tuttavia, pur tacendo l’eccessiva
ampiezza semantica che caratterizza entrambi (80), la giurisprudenza statunitense aveva in
più di un’occasione rimarcato la valenza sinonimica delle due espressioni, ritenendole in
tutto e per tutto sovrapponibili (81).
Alleggerita dai suoi punti più controversi, la normativa dettata dal legislatore federale a
tutela dell’infanzia risulta di immediato gradimento degli interpreti i quali non tardano a re-
cuperare il tempo perduto nella speranza di annullare il gap venutosi a creare tra cifra
oscura e criminalità registrata (82).

2. Interventi statali. — Le non trascurabili difficoltà applicative a cui era andato in-
contro il sistema penale federale avevano indotto i singoli stati della federazione a distaccarsi
da questo modello prima ancora della modifica introdotta nel 1984.
A livello statale si era subito fatta strada l’idea che l’ ‘‘obscenity clause’’ rappresentasse
un’intralcio alle attività di enforcement senza apportare alcun apprezzabile contributo in ter-
mini di garanzia (83).
Accanto a questo argomento di matrice schiettamente utilitaristica, l’assalto da più parti
condotto alla clausola di oscenità si giovava di motivazioni ben più ‘‘nobili’’, legate ad una
migliore comprensione di quella che, nella terminologia in uso nella scienza penalistica euro-
pea, è definita come ‘‘meritevolezza di pena’’.
In quest’ottica, sono particolarmente significative le vicende della legge penale dello

(78) Quest’opzione, nonostante le critiche alle quali è andata incontro, ha fino ad oggi
brillantemente resistito ad alcune eccezioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione
alla sua ‘‘overbreath’’. United States v. X - Citment Video, 115 S.Ct 464, 468 (1994). V. an-
che R.R. STRANG, She Was just Seventeen... and the Way She Looked Was beyond [her
Years]: Child Pornography and Overbreath, in 90 Col. L. Rev., 1990, p. 1779 ss.
(79) D.D. BURKE, The Criminalization of Virtual Child Pornography: a Costitutional
Question, in Har. J. of. Leg., 1997, p. 454.
(80) Contra United States v. Numbers, 740 F.2d 286 (4th Circ. 1984) che ritiene il ter-
mine ‘‘lewd’’, a differenza del suo predecessore, sufficientemente determinato (‘‘generally
well recognized meaning’’); X - Citiment Video, 472 la quale, pur riconoscendo l’ampiezza
dell’aggettivo ha respinto la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla sua ecces-
siva indeterminatezza.
(81) United States v. Reedy, 845 F.2d 239, 241 (10th Circ. 1988); United States v.
Wiegand, 812 F.2d 1239, 1243-44 (9th Circ. 1987); United States v. Long, 831 F. Supp.
582, 587 (W.D. Ky. 1993).
(82) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1021, nt. 102. In un altro contesto analoghe
considerazioni sono sviluppate da G.E. LYNCH, Rico, p. 713 ss. Occorre ricordare che questo
intervento contiene anche importanti adeguamenti alla severità del carico sanzionatorio e
l’introduzione di efficaci strumenti di tutela ablativi di natura civilistica. Cfr. D.D. BURKE,
The Criminalization, p. 450, nt. 73.
(83) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1017 ss.

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Stato di New York ove, a cavallo della settima ed ottava decade del crepuscolo del secolo ap-
pena trascorso, fu introdotta una fattispecie incriminatrice che proibiva di produrre, ven-
dere, spedire, distribuire ecc. materiale pornografico riguardante minori degli anni sedici, in-
dipendentemente dal fatto se tale materiale fosse o meno osceno: la prova della non oscenità
della rappresentazione non era infatti considerata una valida defense (84).

2.1. Il § 263.15 della legge penale dello Stato di New York. — Il paragrafo in com-
mento stabiliva che doveva essere considerato responsabile della promozione di fatti di por-
nografia minorile chiunque ‘‘conoscendone il carattere ed il contenuto, produce, dirige o
promuove qualunque attività che includa una condotta sessuale da parte di un minore degli
anni sedici’’. La disposizione stabiliva altresì che ai fini di questa legge nella nozione di pro-
mozione erano da ricondurre le condotte di ‘‘procurare, produrre... vendere, inviare... trasfe-
rire... pubblicare’’ ecc. detto materiale.
Ben conscio delle difficoltà connesse ad un’esatta delimitazione dei confini della no-
zione di materiale pornografico, il legislatore non aveva mancato di cimentarsi nell’opera di
definizione di questo elemento essenziale del reato. Il § 263.00 precisava, infatti, che la no-
zione di pornografia si estendeva fino a ricomprendere tutti i ‘‘rapporti sessuali, reali o simu-
lati, i rapporti sessuali deviati... [la] masturbazione... o ogni altra esibizione lasciva dei geni-
tali’’.
La legge statale conteneva anche un’altra disposizione con la quale si puniva, come fe-
lony di classe D, la distribuzione di materiale osceno: l’ampiezza di questa previsione e l’an-
cora nebulosa distinzione concettuale tra pornografia minorile ed osceno costituivano le ra-
gioni che avevano portato taluno ad ipotizzare la possibilità di sussumere la distribuzione di
materiale pedo-ponografico anche nell’ipotesi di reato in commento e, di conseguenza, ad in-
terrogarsi sulla legittimità della scelta di valutare il medesimo fatto in modo così diverso, so-
prattutto in relazione all’accertamento degli elementi essenziali dell’illecito. Al di là dei me-
riti specifici di questa ipotesi di lavoro, non è dubbio che la stessa segnalava la presenza di
una possibile incongruenza di sistema i cui effetti, come si vedrà di qui a poco, non giova-
vano ad un’esatta ricostruzione dei limiti e del fondamento costituzionale di queste incrimi-
nazioni.
Indipendentemente dalla chiave di lettura adottata, il salto di qualità intervenuto con
l’abbandono del soffocante involucro imposto dall’ ‘‘obscenity clause’’ era destinato a far di-
scutere: su questo profilo si appuntarono, infatti, le prime veementi critiche alla legge in
commento, tanto forti da richiedere un celere intervento da parte della Corte Suprema degli
Stati Uniti.

2.2. New York v. Ferber: il fatto. — Il fatto oggetto della vicenda processuale è il se-
guente. Il titolare di un esercizio commerciale specializzato nella vendita di materiale porno-
grafico vende a due agenti sotto copertura delle cassette contenti immagini di minori intenti
a pratiche di autoerotismo. Tratto a giudizio, lo stesso viene ritenuto colpevole di aver vio-
lato il § 263.15 della legge dello Stato di New York concernente il controllo della diffusione
della pornografia minorile.
L’attacco alla costituzionalità della norma, per violazione del primo emendamento della
Costituzione degli Stati Uniti d’America, inizia immediatamente dopo la chiusura del proce-
dimento di primo grado mediante la proposizione di una mozione processuale per invalidare
il giudizio. L’istanza, respinta sia dal primo giudice sia dall’Appellate Division, incontra il fa-
vore della New York Court of Appeal che, ravvisando un insanabile contrasto tra la fattispe-
cie incriminatrice e la garanzia costituzionale del primo emendamento, annulla la sentenza
di condanna.

2.3. (Segue): le perplessità della Corte d’appello. — Nella sua motivazione la Corte

(84) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1018.

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d’appello osserva che il § 263.15 riguarda ‘‘materiale tradizionalmente inerente la sfera di


protezione assicurata al cittadino dal primo emendamento nei confronti delle interferenze
governative’’ ma, al contempo, ricorda anche che l’interesse statuale alla protezione di mi-
nori ha un’indubbia importanza per lo sviluppo della società ed un altrettanto evidente fon-
damento costituzionale (85). Tuttavia, così continua la Corte, lo statuto dello Stato di New
York è affetto da due ‘‘fatali mancanze’’ (‘‘fatal defects’’), che rendono ingiustificata la re-
strizione imposta all’esercizio del diritto costituzionalmente garantito.
Il § 263.15 deve infatti considerarsi ‘‘underinclusive’’ in quanto discrimina, irragione-
volmente il trattamento sanzionatorio riservato a situazioni connotate dalla medesima dan-
nosità per la salvaguardia dei minori, senza operare alcuna distinzione in ragione dell’even-
tuale contesto lecito nel quale viene inserita l’immagine.
In particolare si osserva che l’irrilevanza penale della distribuzione di films violenti (86)
e, più in generale, la liceità di altre tipologie di attività comunque connotate da concreti pro-
fili di pericolosità per il sano e corretto sviluppo della personalità dei minori, dimostrerebbe
l’esistenza di un ingiustificato interessamento del legislatore penale per forme di manifesta-
zione del pensiero. Irragionevolezza che appare destinata ad acuirsi se si considera che la le-
gislazione statuale illo tempore vigente non prevedeva alcuna esclusione per opere di valore
scientifico, letterario o artistico.
Questo passaggio dell’apparato motivazionale trova origine in una decisa presa di posi-
zione: non vi sarebbe alcuna ragione cogente che giustifichi l’esigenza di una regolamenta-
zione differenziata della pornografia minorile rispetto alla tradizionale area dell’osceno. Il ri-
ferimento all’obscenity clause costituisce, infatti, l’unica e legittima linea di discrimine tra la
libertà di manifestazione del pensiero e forme di espressione non protette dal primo emenda-
mento. Non casualmente, sottolinea la Corte, il § 263.10 contiene un espresso riferimento
alla nozione di oscenità, come elemento costitutivo del reato.

2.4. (Segue): le motivazioni della Corte Suprema Federale. — La restrittiva conclu-


sione della Court of Appeals non poteva certo soddisfare. Al di là delle fini questioni di di-
ritto e delle esigenze di razionalità sistematica, occorreva infatti stabilire ‘‘se lo Stato di New
York fosse legittimato, nel rispetto di quanto riconosciuto dal primo emendamento, a proi-
bire la diffusione di materiale contenente le rappresentazioni di minori intenti a compiere at-
tività sessuale, al fine di prevenire l’abuso dei minori a fini commerciali’’ (87).
Il writ of certiorari presentato dalle autorità statali, costringeva, dunque, ad un serrato
esame della questione sotto il profilo costituzionale.
La Corte, dopo aver ricostruito la propria precedente giurisprudenza in materia di
osceno, ammette che l’obscenity clause rappresenta un buon punto d’accordo tra l’interesse
dello Stato di impedire la libera diffusione di materiale osceno e l’esigenza di evitare inde-
bite intromissioni governative nelle libere scelte dei cittadini. Allo stesso tempo, però, ricono-
sce che nell’ambito della pornografia minorile questo ragionamento non ha pregio.
Le ragioni che portano a ritenere che gli Stati hanno la più ampia libertà d’azione (‘‘lee-
way’’) nella regolamentazione della pornografia minorile sono le seguenti:
1) l’interesse dello Stato alla tutela del minore è una circostanza di palmare evidenza,
così come non può essere contestato che l’obbligo alla ‘‘salvaguardia psicologica e fisica’’ di
questi abbia natura cogente. Pertanto è agevole concludere che l’ ‘‘obbiettivo di prevenire lo
sfruttamento sessuale dei minori è un interesse statale di incomparabile importanza’’ (‘‘sur-
passing importance’’). Primus inter pares.

(85) New York Court of Appeals, 52 NY 2d 674; 422 NE 2d 523 (1981).


(86) R.V. ERIKSON, Mass media, Crime, Law, Justice, in British journal of crimino-
logy, 1991, p. 219 ss.
(87) State’s petition for certiorari, 454 U.S. 1052, 70 L. Ed 2d 587, 102 S.Ct 595
(1981).

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Data la delicatezza dell’argomento è significativo che la Corte cerchi di ancorare la rile-


vanza di questo interesse sul piano della sua funzionalità sociale, accreditando così l’idea
che il triste fenomeno della pornografia minorile possiede una marcata incidenza sull’inte-
grità del bene giuridico. Detto altrimenti: ‘‘l’impiego di minori nella produzione di materiale
pornografico è dannosa per la salute fisica, emozionale, mentale’’ degli stessi (88).
2) La libera circolazione di questo materiale amplifica il danno primario conseguente
all’abuso vero e proprio, causando, così, ad ogni singola visione, un approfondimento del-
l’offesa prodotta dal reato presupposto (89).
L’esistenza di questo danno secondario non viene presunta ma argomentata sulla base
di credibili acquisizioni scientifiche (90). Nel formulare questa conclusione la Corte si giova,
infatti, dei risultati di alcuni studi realizzati da alcuni professori di varie università statuni-
tensi le cui conclusioni contribuiscono a rendere più solida e concreta la possibilità che, in
ragione del valore dei beni in gioco, sia il diritto penale a dover intervenire per porre un
freno a queste pratiche.
3) Accanto a queste due prime considerazioni, la Corte sviluppa un lineare ragiona-
mento politico-criminale che porta i supremi giudici federali a ritenere che la pornografia
minorile andrebbe comunque vietata anche a prescindere dall’esistenza di questo danno se-
condario. Si dice infatti che in questo settore l’esistenza di un libero mercato non può essere
nemmeno astrattamente concepita in quanto in esso va individuata una delle possibili cause
degli abusi commessi a danno dei minori. Vietando la circolazione di questi ‘‘beni’’ se ne
comprimerebbe la domanda e ciò avrebbe il benefico effetto di azzerare, almeno in un’ottica
di lungo periodo, l’offerta, riducendo, in scala proporzionale, il numero degli abusi diretta-
mente perpetrati sui minori.
In questo inciso, che riprende alcuni passaggi dei lavori preparatori al Protection of
Children against Sexual Exploitation Act, la Corte adombra una lettura della ratio delle in-
criminazioni incardinata su di un’inedita prospettiva di tutela: controllare il generico rischio
di una futura vittimizzazione dei minori dovuta alla libera fruizione di materiale pornogra-
fico. Alla prospettiva ex post (impedire il consolidamento della lesione inferta al singolo mi-
nore sfruttato) si affianca un’ottica ex ante connessa ai negativi effetti eziologici della libera
disponibilità di questo materiale.
Questa affermazione non si giova, però, di alcuna qualificata ‘‘referenza’’ empirica: la
probabilità che un nesso di questo genere esista è sostenuta sulla base di un semplice ragio-
namento presuntivo, la cui astrattezza rischia di sbiadire quel nesso di strumentalità tra
condotta ed offesa che giustifica una corretta prognosi di pericolosità del fatto e, soprattutto,
le peculiarità della disciplina in materia di pornografica minorile (91).

(88) New York v. Ferber, 1123.


(89) Interpretazione diffusa anche nel contesto europeo. Cfr. F.C. SCHRÖDER, Porno-
graphieverbot als Darstellerschutz, in ZRP, 1990, p. 299; ID., Das 27. Strafrechtsänderun-
gsgesetz - Kinderpornographie, in NJW, 1993, p. 2581; T. PADOVANI, Commento all’art. 1 l.
3 agosto 1998, n. 269, in Leg. pen., 1999, p. 53 il quale parla dell’art. 600-quater come
reato di scopo; C.E. PALAZZO, Tendenze e prospettive, p. 414. Nello stesso senso, a propo-
sito della Sec. 160 del Criminal Justice Act inglese, C. MANCHESTER, Criminal Justice, p. 123.
Per una vibrante critica H. JÄGER, Irrationale Kriminalpolitik, in FS Schüler-Spingorum,
1992, p. 232 s.
(90) New York v. Ferber, 1124. Per una limpida discussione degli interrogativi solle-
vati da tale stile argomentativo G. CALABRESI, Il dono dello spirito maligno, Milano, 1996, p.
28 s.
(91) Per una critica Ashcroft v. Free Speech Coalition, 11 ss. e D.D. BURKE, Criminali-
zation, p. 468 anche per ulteriori riferimenti. In termini più generali, nella dottrina europea,
si vedano le opinioni di analogo tenore espresse da W. WOHLERS, Die Deliktstypen des Prä-
ventionsstrafrecht - zur Dogmatik ‘‘moderner’’ Gefährungsdelikte, Berlin, 2000, pp. 310,
328 ss.; F. STELLA, Giustizia e modernità, p. 387 ss. Contra, invece, F. MANTOVANI, Diritto
penale, Padova, 20014, p. 223 e, seppur all’interno di una critica serrata ai c.d. reati di pos-
sesso, C. NESTLER, Rechtsgtersschutz und Strafbarkeit des Besitz von Schußwaffen und Be-

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2.4.1. ‘‘De minimis’’. — L’esclusione in radice della possibilità di ricondurre la distri-


buzione di materiale pornografico minorile all’area protetta dal primo emendamento sarebbe
stato motivo sufficiente per certificare l’inesistenza di vizi di legittimità costituzionale e, so-
prattutto, per escludere l’applicabilità della due process of law clause come parametro di ri-
ferimento per il giudizio di costituzionalità della norma.
Ciò nonostante la Corte ha spinto il suo esame ancora più a fondo, rivolgendo la propria
attenzione al valore sociale da attribuire all’eventuale riconoscimento del diritto di produrre
o commercializzare materiale pornografico minorile. Con poche e stringate parole la Corte
Suprema afferma che tale valore è certamente modesto, per non dire mininale (‘‘the value...
is excedlingy modest, if not the minimis’’), tanto da rendere ancor più inconferente il ri-
chiamo alla garanzia costituzionale. L’impalpabile rilevanza sociale delle condotte di distri-
buzione e produzione di detto materiale, saldandosi con i gravi danni provocati da queste
pratiche ai minori ripresi e sfruttati sessualmente, consente di escludere, senza alcuna possi-
bilità di appello, che le stesse possano vantare una protezione costituzionale come ipotesi di
libera manifestazione del pensiero.
Per corroborare ulteriormente queste sue conclusioni la Corte ricorda che le stesse tro-
vano una decisiva conferma nella sua pregressa giurisprudenza che, a partire dal 1976, ha
costantemente affermato che ‘‘se una determinata espressione del pensiero sia o meno pro-
tetta dal primo emendamento è questione che dipende interamente dal suo contenuto’’ (92).
In conclusione: se queste sono le ragioni che giustificano l’intervento del legislatore pe-
nale, l’eccentricità del riferimento restrittivo all’obscenity clause diviene di palmare evidenza.
2.4.2. I limiti. — Altro passo importante della sentenza New York v. Ferber: le osser-
vazioni dedicate al problema definitorio.
La premessa da cui si dipana l’argomentazione è la seguente: bandita dalla sfera di pro-
tezione del primo emendamento, la ‘‘classe’’ pornografia minorile necessita di una ponderata
opera di selezione da parte del legislatore; diversamente i poteri ‘‘censori’’ del giudice ri-
schiano di espandersi in modo abnorme, facendo così venir meno quelle peculiarità che, agli
occhi dei supremi giudici federali, giustificano il pesante intervento del diritto penale.
A questo proposito l’estensore della decisione afferma che la pornografia minorile non
può essere una categoria senza limiti buona per tutte le occasioni e che tali limiti debbono
essere ‘‘adeguatamente individuati’’ dalla legislazione statale già sul piano astratto. La ratio
di questa sottolineatura può così riassumersi: sebbene concettualmente distinta dall’osce-
nità, la nozione di pornografia condivide con essa la medesima esigenza di chiarezza, rap-
presentando entrambe il punto di discrimine tra lecito ed illecito (93).
Il punto saliente è, però, un altro. A parere della Corte il faro che deve condurre il legi-
slatore nella sua opera definitoria va individuato nella dimensione offensiva delle condotte di
sfruttamento sessuale: la ‘‘natura del danno... richiede infatti che l’illecito risulti incentrato
sull’esplicita rappresentazione di condotte sessuali da parte di minori’’ (94).
È interessante sottolineare che in nota a questa riflessione la Corte si sofferma, in senso
critico, sulla varietà delle indicazioni provenienti dalle singole legislazioni statali a proposito
del limite di età. Al di là delle indicazioni quantitative — alcuni Stati individuano infatti

täubungsmitteln (hrsg), Institut für Kriminalwissenschaften Frankfurt a. M., Von unmögli-


chen Zustand des Strafrecht, Frankfurt a.M., 1995, p. 76, nt. 61.
(92) Per una critica radicale a questo approccio J. RUBENFELD, The First Amendment’s
pur pose, in 53 Stand. L. Rev., 2001, p. 767 ss.; ID., A Replay to Posner, ivi, 2000, p. 753
ss., ma spec. p. 755 ss. Concordano, invece, con il metodo di giudizio utilizzato dalla Corte,
C. SUNSTEIN, Democray and the problem of Free Speech, Chicago, 1993, p. 25 ss.; R. PO-
SNER, Speech market, in Frontiers of Legal Theory, 2001, p. 62 ss.; ID., Pragmatism versus
Purposivism in First Amendment Analisis, in Sta. L. Rev., 2002, p. 737 ss.
(93) New York v. Ferber, 1126.
(94) New York v. Ferber, 1127.

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questo limite in diciotto anni, altri si accontentano di sedici o diciassette — vi sono una se-
rie di Stati che equiparano a questi soggetti anche coloro che ‘‘appaiono essere in età prepu-
bescente’’, dimostrando così l’esistenza di una precisa volontà di ampliare la sfera della tu-
tela penale anche a condotte che appaiono ben lontane dal cagionare quel danno sociale di
rilevante entità posto a base dell’intera argomentazione della Corte.
Concludendo: poiché la legislazione newyorkese risponde ad entrambe le condizioni
dettate dai supremi giudici federali, sfugge a possibili eccezioni di legittimità sebbene le in-
trinseche ambiguità del riferimento alla ‘‘lascivious exibition’’ creino un preoccupante cono
d’ombra al cui interno l’interprete è libero di agire con la massima libertà.
Nonostante l’acribia dimostrata nel vagliare questo profilo, alcuni autori hanno lamen-
tato l’assenza di una definizione ‘‘giurisprudenziale’’ di che cosa debba intendersi per por-
nografia minorile. A parere di questi scrittori, la passività dimostrata dai giudici in Ferber
non è soltanto il sintomo di una profonda difficoltà ‘‘concettuale’’ (95) ma anche la princi-
pale causa dell’incontrollata espansione alla quale è andata incontro la disciplina riguar-
dante la pornografia minorile (96).
Sotto un diverso profilo l’atteggiamento della Supreme Court potrebbe però essere letto
come un tentativo di sottolineare l’importanza di un intervento diretto da parte del legisla-
tore nella definizione dell’estremo de quo. In altre parole: questo silenzio andrebbe interpre-
tato nel senso di ritenere che l’immediata incidenza di tale operazione sull’espansione o
sulla contrazione dell’area dell’illecito impone al giudice di astenersi da interventi diretti ad
individuare questo confine in assenza di ogni mediazione da parte del potere legislativo. Re-
sta però il fatto che questo ‘‘vuoto’’ costituisce un’autentica novità nel panorama nordame-
ricano, il cui significato non può essere spiegato con uno sbrigativo ricorso ad un possibile
‘‘retropensiero’’ della Corte! (97).
2.4.2.1. Legalità penale e diritto vivente. — La sentenza si conclude, in risposta alle
osservazioni formulate dalla Court of Appeal, con un ‘‘monito’’ all’interprete: una norma
non può essere considerata costituzionalmente illegittima per il solo fatto di dar luogo, in al-
cuni casi, a soluzioni interpretative in contrasto con la Costituzione. Richiamando Broadrick
v. Oklahoma (98), si afferma che è compito del giudice accertare se, nel singolo caso, la rap-
presentazione di atti sessuali tra o con minori rifletta un motivo scientifico, letterario, arti-
stico o un qualsiasi altro interesse che giustifichi l’esenzione da responsabilità dell’autore
della condotta incriminata.
In Broadrick, i giudici hanno dettato il principio di diritto secondo cui non è consentito
al cittadino sollevare una questione di legittimità di uno Statue sulla base della possibile in-
costituzionalità di talune sue interpretazioni, quando le stesse non siano direttamente rile-

(95) R.H. FALLON jr., Making Sense of Overbreath, in 100 Yale L.J., 1991, p. 896.
(96) A. ADLER, Inverting the First Amendment, in 149 U. Pa. L. Rev., 2001, p. 936 ss.
Chiaro sintomo dell’attenzione riservata a questa materia dai prosecutors sono l’elenco delle
‘‘priorità’’ e gli ‘‘ordini di spesa’’ elaborati Department of Justice. Cfr. rispettivamente, Me-
morandum from E.H. Holder, Jr. Deputy Attorney General U.S. Department of Justice, to all
U.S. Attorney Re: Prosecutions Under the Federal Obscenity Statues,
www.usdoj.gov/04foia/readingroom/obscen.htm (consultato il 5 maggio 2002); House Sub-
commitee Criticizes DoJ Not Prosecuting Internet Obscenity, in Tech. L.J., http://techla-
wjournal.com/crime/20000524.htm (consultato il 5 maggio 2002). Sotto il profilo della cri-
minalizzazione in concreto v. anche L. SCOTT TILLETT, FBI Turning internet on Photografers,
http:/www.nwfusion.com/news/2000/0203fbi.net.htlm. Citato anche in A. ALDER, Inverting,
p. 933, nt. 56. Sul ruolo della discrezionalità riconosciuta alle agenzie di controllo cfr., an-
che per le essenziali indicazioni bibliografiche, W. STUNZ, The Pathological, 509 ss. Nella
dottrina italiana M. PAPA, Considerazioni, p. 1293 ss. e, più in generale, G. FORTI, L’immane
concretezza, 50 ss.
(97) Cfr., quanto al bilanciamento di interessi, Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) e le
ampie osservazioni sviluppate da R. DWORKIN, Il dominio della vita, p. 139 ss. anche per ul-
teriori riferimenti. Quanto all’osceno supra, § 1.1.2) Spunti in tema di oscenità.
(98) Broadrick v. Oklaoma, 413 U.S. 601, 1973.

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vanti per il giudizio nel quale la questione viene proposta. L’elementare principio di conser-
vazione degli atti aventi forza di legge, associato alla natura personale dei diritti costituzio-
nali sono i motivi che, a parere della Corte, rendono opportuno limitare l’overbreath scruti-
nity. Non meno significative del carattere di extrema ratio di tale eccezione, sono quelle pro-
nunce che hanno riconosciuto in capo al giudice il dovere di ‘‘interpretare’’ lo statuto in
senso conforme alla Costituzione e soltanto nel caso in cui ciò non sia possibile di affermare
l’invalidità costituzionale della norma sotto il profilo in parola (99).
Secondo la Corte, il § 263.15 rappresenta ‘‘un caso di scuola’’ di questo indirizzo. Pur
riconoscendo che la formula linguistica utilizzata dal legislatore potrebbe prestarsi ad
un’ampia e, probabilmente ingiustificata, applicazione, non è attraverso un suo annulla-
mento per contrarietà alla Costituzione che deve essere affrontato il problema. Infatti, le cir-
costanze che potrebbero rendere lecita la diffusione di materiale astrattamente riconducibile
alla nozione di ‘‘lascivious exibition’’ (finalità di scienza, artistiche ecc.) sono del tutto mar-
ginali ed una loro esclusione dall’area del penalmente rilevante può avvenire ‘‘mediante
un’analisi caso per caso’’ (100).
La posizione della Corte è innovativa e allo stesso tempo assai rigorosa (101): la Costi-
tuzione non contiene alcun ostacolo che possa inibire allo Stato di intervenire con la san-
zione penale allo scopo di prevenire la diffusione di materiale pedo-pornografico, alla sola
condizione che le immagini ‘‘incriminate’’ rappresentino atti sessuali realmente intercorsi tra
minori o siano compiuti su minori.

2.5. Suggestioni. — Agli occhi del comparatista non sfuggono le forti suggestioni che
emergono dalla motivazione di questa sentenza. Innanzitutto, il vigoroso richiamo alle pecu-
liarità psicologiche dei soggetti coinvolti in queste vicende come ratio giustificatrice della
singolarità delle architetture politico-criminali della disciplina di settore (102); poi, la cor-
posa sottolineatura dell’esigenza di un preciso intervento legislativo nella definizione di
quello che, con una certa sicurezza, può essere definito il problema centrale delle fattispecie
incriminatrici relative allo sfruttamento di minori a fini pornografici. È su queste premesse
che la Corte Suprema istituisce quel nesso di condizionamento biunivoco tra definizione
della ‘‘sexually explicit conduct’’ e la natura del bene giuridico tuelato; tra il tipo di offesa
inferta al soggetto passivo da tali aberranti pratiche e letture restrittive dell’actus reus del
reato.
Questa prospettiva di tutela ha trovato per lungo tempo una vasta risonanza nelle inter-
pretazioni in tema di elemento soggettivo. Sulla scia di United States v. X - Citment Vi-
deo (103) la giurisprudenza, respinte le lusinghe ‘‘preventive’’ della recklessness (104), ha
in più occasioni arrichito l’oggetto della mens rea fino a ricomprendervi la consapevole rap-
presentazione dell’età della persona offesa e la consapevolezza della natura ‘‘sexually expli-
cit’’ delle condotte riprese o riprodotte (105). Senza poter ricostruire nei dettagli queste vi-

(99) Vedile citate in New York v. Ferber, 1130, nt. 24.


(100) New York v. Ferber, 1133.
(101) Secondo alcuni troppo audace e troppo restrittiva. Infatti ‘‘un approccio più
conservativo avrebbe consentito di garantire l’interesse dello Stato ad un’ampia protezione
dei bambini ma, allo stesso tempo, avrebbe evitato di arrecare danno alla libertà di manife-
stazione del pensiero’’. New York v. Ferber, 1137 (Justice White concurring).
(102) In un contesto fortemente ideologizzato valorizza questo profilo anche C. MAC-
KINNON, Only Words, 1993, p. 36. Per una critica a questo approccio R. POSNER, Overco-
ming Law, p. 357 ss.
(103) 115 S.Ct. 464 (1994). La decisione è discussa da P.A. BURKE, Note. United Sta-
tes v. X - Citment Video, Inc.: Strechting the Limits of Statuory Interpretation?, in 56 L.A L.
Rev., 1995, p. 937.
(104) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 453, nt. 90.
(105) United States v. Brown, 25 F.3d 307, 309 (6th Circ. 1994); United States v. Co-
lavito, 19 F.3d 69, 71 (2d Circ. 1994); United States v. Gendron, 18 F.3d 955, 960 (1st Circ.
1994); United States v. Prytz, 822 F. Supp. 311, 321 (D.S.C. 1993). In alcuni casi si è preci-
sato che non è necessaria la specifica conoscenza dell’illegalità del materiale essendo suffi-

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cende, il consolidarsi di questo orientamento contribuisce a rafforzare la descrizione della


portata offensiva delle incriminazioni nei termini appena sopra indicati (106) e, per quanto
riguarda la detenzione di materiale pornografico, ad allontanare l’ ‘‘artificiosità’’ del reato di
scopo.
Il passaggio costituisce anche un stimolo per riflettere sull’opportunità o meno di incen-
trare l’impianto sanzionatorio sui ‘‘minori degli anni diciotto’’ specie se, per ragioni di te-
nuta general-preventiva del ‘‘microsistema’’, si volesse insistere sull’opportunità di affidarsi
a definizioni ampie della nozione di pornografia minorile. Infatti, se è ragionevole ritenere
che vi sia un rapporto di implicazione necessaria tra età del soggetto passivo ed estensione
delle condotte dannose per il suo sviluppo psico-fisico (107), l’esigenza di mantenere questo
settore della legislazione penale entro i binari di una reale e razionale offensività potrebbe
essere soddisfatta, come dimostra il dato comparatistico, anche con un intervento legislativo
nella direzione di un abbassamento dell’ ‘‘età soglia’’ (108).

3. La detenzione di materiale pornografico minorile. ‘‘Casi’’ e questioni. — Accertata


l’inesistenza di profili di illegittimità costituzionale nella decisione di sottrarre la disciplina
della pornografia minorile alla tematica dell’osceno, il legislatore statunitense ha spinto an-
cora più a fondo l’acceleratore della prevenzione-generale facendo penetrare il diritto penale
nei luoghi di privata dimora — che, come ognuno sa, sono il ‘‘santuario’’ della privacy di
ogni cittadino americano — sottoponendo a pena anche il semplice possesso a fini personali
di materiale pornografico concernente minori (109).
I motivi che hanno condotto a questa drastica soluzione sono già noti: ora interessa ri-
costruire il vivace dibattito giurisprudenziale che ha interessato, a tutti i livelli, questo reato.

3.1. La premessa. Stanley v. Georgia. — L’idea di trasformare la detenzione di mate-


riale pornografico minorile in un’autonoma offence, per quanto giustificata sotto il profilo
politico-criminale, si poneva in immediata rotta di collisione con un’importante sentenza
della Corte Suprema degli Stati Uniti con la quale si era dichiarato costituzionalmente illegit-
timo il paragrafo della legge penale dello Stato della Georgia che puniva il possesso ai fini
privati di materiale pornografico. Sebbene riguardante una questione parzialmente diversa
— le rappresentazioni pornografiche oggetto di questa disposizione erano quelle ritraenti
soggetti adulti e consenzienti — gli argomenti sviluppati in questa sede potevano benissimo
adattarsi anche al caso della pornografia minorile (110).
Conviene quindi soffermarsi sulle motivazioni utilizzate dalla Corte Suprema Federale
per giustificare la sua decisione.
Di fronte al tentativo operato dalla Stato della Georgia di penetrare con lo strumento
penale nella sfera di autonomia più intima dei cittadini condizionandone le scelte riguardanti

ciente una rappresentazione generica della sua natura e delle sue caratteristiche. United Sta-
tes v. Scmeltzer, 20 F.3d 610, 611 (5th Circ. 1994); United States v. Cochran, 17 F.3d 56, 59
(3d Circ. 1994); United States v. Long, 831 F. Supp. 582, 585-586 (W.D. Ky. 1993).
(106) Nella dottrina italiana originali spunti di riflessione sono svolti da F. BRICOLA,
Limite esegetico, elementi normativi e dolo nel delitto di pubblicazione e spettacoli osceni,
in Scritti di diritto penale, vol. II, t. I, Milano, 1997, p. 1879 ss., ma spec. p. 1890 ss.
(107) New York v. Ferber, 1127.
(108) Ashcroft v. Free Speech Coalition, 8 ss. e la ‘‘canadese’’ Regina v. Sharpe,
www.canlii.org/bc/can/bcca/1999, 1 ss. Nella dottrina italiana A. CADOPPI, Art. 3, pp. 555,
566 ss. e, volendo, G. MARRA, La nozione, p. 438.
(109) L’incriminazione è stata introdotta con il Child Protection Restoration and Pe-
nalties Enactment Act of 1990. D.T. COX, Litigating Child Pornography, p. 4. Al di fuori del
dibattito statunitense una stimolante lettura dei rapporti tra diritto penale, scelte di crimina-
lizzazione e rispetto della sfera privata del cittadino è offerta da G. JAKOBS, Kriminalisierung
im Vorfeld einer Rechtsgutverletzung, in ZStW, 1985, p. 753 ss.
(110) L.S. SMITH, Private Possession, p. 1022 ss.

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la fruizione di immagini o rappresentazioni, al dichiarato scopo di prevenire la diffusione di


pratiche ritenute potenzialmente dannose per l’integrità di alcuni beni giuridici, la Supreme
Court oppone un severo diniego: poiché non è consentito allo Stato di sottoporre al proprio
controllo la mente dei suoi cittadini, l’incriminazione in discorso non può essere considerata
costituzionalmente legittima in quanto il risultato ultimo dell’intervento sarebbe proprio
quello di censurare le idee ed i pensieri.
Con un passaggio certamente suggestivo la Corte osserva che ‘‘se il primo emendamento
ha un senso, allora lo Stato non può vantare alcun diritto ad imporre ad un singolo uomo,
solo nella propria privata dimora, la scelta di quali libri leggere e a quali films assiste-
re’’ (111).
D’altra parte, la Corte si dimostra ben disposta a considerare in termini meno drastici le
giustificazioni addotte dallo Stato della Georgia. Si riconosce infatti che lo scopo di tale in-
tervento non è soltanto quello di controllare paternalisticamente la men’s mind dei propri
cittadini: giusto o sbagliato che sia, le autorità di questo Stato si proponevano di conseguire
un risultato ulteriore, maggiormente pregnante sotto il profilo del disvalore sociale e, perciò,
meno impresentabile da un punto di vista politico-criminale (112).
Il ‘‘sillogismo georgiano’’ è piuttosto lineare nel suo sviluppo logico ed affonda le sue
radici nei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di osceno e
nelle acquisizioni di parte della ricerca empirica (113). Si afferma infatti che se la pornogra-
fia non trova tutela nel primo emendamento; se la diffusione del materiale pornografico crea
le condizioni per un possibile aumento dei numeri statistici dei crimini contro la libertà ses-
suale e se l’ordinamento giuridico usualmente utilizza i reati di possesso per bandire o al-
meno per rendere più difficoltosa la diffusione di oggetti pericolosi per il welfare dei propri
cittadini, allora non c’è motivo perché lo Stato non possa ‘‘proteggere la mente dei propri
cittadini così come protegge il loro corpo’’ (114).
Tuttavia, così sostiene la Corte, la linearità logica delle scelte politico-criminali non
sempre si accorda con l’area del giuridicamente praticabile: pertanto, qualunque sia la moti-
vazione che si intende fornire a sostegno della necessità di criminalizzare la detenzione di
materiale pornografico, si tratta pur sempre di una conclusione incompatibile con il quadro
costituzionale.
‘‘Poiché la Costituzione protegge il diritto di ciascun cittadino di ricevere ed elaborare le
informazioni che lo stesso ritiene indispensabili ai fini della costruzione della sua persona-
lità individuale, non può certo giustificarsi la punizione del semplice possesso di materiale
osceno’’ nei termini in cui ha cercato di farlo lo Stato della Georgia, specie se si considera
che la dannosità sociale di questa pratica ha basi empiriche troppo fragili e ben poco univo-
che (115).

(111) Stanley v. Georgia, 394 US 557 (1969) p. 550. In questo passaggio è forte l’eco
del pensiero di J.S. MILL, Sulla libertà, Milano, 1990, p. 35 ss. Una riflessione sui rapporti
tra ‘‘liberalism and democracy’’ in R.A. POSNER, Overcoming law, p. 21 ss.
(112) L’attuale definizione della ‘‘sexually explicit conduct’’ (Section 2256, n. 2) ri-
sulta così formulata: ‘‘ ‘sexually explicit conduct’ means actual or simulated (a) sexual in-
tercorse, including genital-genital, oral-genital, anal-genital or anal-genital, whether between
persons of the same or opposite sex; (b) bestiality; (c) masturbation; (d) sadistic or
masochistic abuse, or (e) lascivious exbition of the genital or pubic area of any person’’.
(113) G. KAISER, Kriminologie, p. 793 ss. sottolinea che sebbene allo stato non sia
possibile stabilire alcun legame tra consumo di materiale pornografico ed aumento dei reati
contro la libertà sessuale è plausibile l’idea di chi ritiene che la diffusione della c.d. härte
pornografie rappresenti, almeno in astratto, un pericolo per questi beni e debba perciò essere
repressa. Più sensibile alle esigenze del controllo penale C.R. SUNSTEIN, Neutrality in Costi-
tutional Law (with special reference to Pornography, Abortion, and Surrogacy), in Colum. L.
Rev., 1992, p. 22 ss.
(114) Stanley v. Georgia, 546.
(115) Stanley v. Georgia, 548, nt. 7. Per corroborare questa sua conclusione la Corte

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Se a ciò si aggiunge che nel caso di specie il diritto alla libera manifestazione del pen-
siero assume connotati particolari — in quanto esercitato all’interno di uno spazio sociale
che, salve rarissime eccezioni, è immune da intrusioni governative — le motivazioni che
hanno spinto la Corte Suprema degli Stati Uniti a dichiarare l’incostituzionalità della norma
diventano immediatamente intellegibili.
Sull’epitaffio della norma dello Stato della Georgia la Corte Suprema, richiamando la
celebre Olmstead v. United States (116), iscrive queste precise parole: ‘‘è incontrovertibile
che la Costituzione protegge il diritto di ciascuno di ricevere informazioni o idee da parte di
altri... indipendentemente dal loro valore sociale. Tale libertà costituisce un caposaldo della
nostra società libera. Altrettanto fondamentale, ad eccezione di alcune limitate ipotesi, è il
diritto di essere lasciato libero da qualunque intrusione governativa nella propria privacy’’.
Al diritto penale non può, dunque, esser consentito di limitare diritti che trovano la loro
fonte in norme di rango sovraordinato.
3.2. Osborne v. Ohio: crollano le mura. — L’ipoteca introdotta da Stanley v. Georgia
sull’incostituzionalità di fattispecie che proibiscono la detenzione di materiale pornografico
era piuttosto gravosa. Ovvio, quindi, che di fronte a norme come quella del § 2907.323 (A)
(3) del codice penale dello Stato dell’Ohio (117) le obiezioni dei suoi detrattori si basassero
quasi integralmente su questo precedente.
Con un sottile distinguo, fondato sulle conclusioni di New York v. Ferber, la Corte
sgombra subito il campo dal pesante fardello riuscendo così ad impostare la discussione in
piena libertà.
L’argomento sviluppato dall’opinione di maggioranza aggira l’ostacolo frapposto da
Stanley v. Georgia osservando che il valore ‘‘eccessivamente modesto’’ dell’interesse a poter
liberamente visionare materiale pornografico minorile preclude la possibilità di richiamare
l’operatività della clausola di salvaguardia contenuta nel primo emendamento.
Questo distingiuishing sarebbe stato vano se la motivazione avesse ricostruito la ratio
politico-criminale della norma utilizzando quella prospettiva paternalistica stigmatizzata in
Stanley: non è quindi casuale che la Corte, richiamando alcuni passaggi sviluppati in Ferber,
si impegni in un’autonoma ricostruzione dell’interesse tutelato utilizzando come chiave di
lettura l’esigenza di prevenire futuri abusi in danno dei minori.
Si osserva, infatti, che attraverso il divieto di possedere materiale pedo-pornografico lo
Stato si propone di ‘‘essiccare il mercato’’ (‘‘dry up the market’’) e di ‘‘distruggere il [turpe]
mondo della pornografia minorile’’ al fine di garantire la salvaguardia dell’integrità psicofi-
sica dei minori coinvolti in queste degradanti pratiche (118), non senza far notare che ‘‘l’in-

riporta un passaggio dell’opinione dissenziente redatta da Justice Herbert in una sentenza


della Supreme Court of Ohio. ‘‘Non posso consentire sul fatto che il mero possesso di mate-
riale osceno da parte di un adulto possa costituire un crimine. Il diritto di ciascun individuo
di leggere, credere o non credere e di pensare senza alcuna supervisione da parte del Go-
verno costituisce una delle nostre libertà basilari, pertanto imporre ad un soggetto adulto
quali libri debba leggere all’interno della sua dimora costituisce una palese violazione di que-
sto fondamentale diritto soggettivo’’. La stessa Corte per sottrarre tale normativa a questo
tipo di censure ha interpretato lo statuto nel senso di richiedere la prova che il possesso
fosse finalizzato ad una successiva messa in circolazione del materiale.
(116) Olmsted v. United States, 277 U.S. 438, 478, 72 L.Ed 944 (Brandeis dissentig)
‘‘I padri fondatori della nostra Costituzione hanno inteso assicurare le condizioni affinché
tutti potessero realizzare la propria felicità... vollero proteggere gli americani nel loro credo,
nei loro pensieri, nelle loro emozioni e nelle loro sensazioni. Essi conferirono a ciascuno,
contro l’interesse del governo, il diritto di essere lasciato solo — ‘‘right to be left alone’’ —:
il più ampio dei diritti e quello più caro ad ogni uomo civilizzato.
(117) La fattispecie in parola puniva la detenzione di materiale pedo-pornografico an-
che se motivata da ‘‘finalità’’ personali.
(118) Osborne v. Ohio, 495 U.S., 98 (1990), 109.

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trinseca ragionevolezza di questa scelta mette al riparo lo Stato dell’Ohio da ogni possibile
eccezione di illegittimità costituzionale (119).
3.2.1. Indeterminatezza e supplenza giudiziaria. — L’ultima sezione della parte mo-
tiva è dedicata all’approfondimento dell’esatta definizione di ciò che deve essere considerato
pornografico, poiché, secondo il ricorrente, la soluzione accolta dalla legge penale dell’Ohio
ignora i principi stabiliti in New York v. Ferber e, quindi, deve ritenersi costituzionalmente
illegittima (120).
A differenza della soluzione newyorkese l’allora vigente § 2907.323 (A) (3) dimo-
strava, infatti, una scarsa propensione a selezionare l’estremo de quo in ragione del grado di
invasività degli atti sul bene giuridico tutelato, limitandosi a stabilire che ‘‘non è consentito
ad alcuna persona... di possedere o visionare qualunque materiale o spettacolo che mostri
un minore, il quale non sia il proprio figlio o nipote, che si trovi in stato di nudità’’.
Secondo il ricorrente questa scelta si presta ad essere censurata anche per aver ignorato
il c.d. divieto di ‘‘overbreath’’ (121).
Nel suo ricorso Osborne sottolinea che l’eccessiva ampiezza della nozione finirebbe per
criminalizzare un gamma estremamente ampia di condotte, tra le quali rientrerebbero anche
espressioni costituzionalmente garantite, in palese contrasto con alcuni capisaldi della giuri-
sprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di legalità e ragionevolezza della
norma penale.
A parere della Corte nessuna delle censure mosse dal ricorrente è fondata. Si ricorda,
infatti, che in più occasioni la giurisprudenza della Supreme Court ha avuto modo di rimar-
care che l’ ‘‘indeterminatezza marginale’’ che oscura la descrizione del fatto di reato non può
essere motivo di incostituzionalità della norma se essa seleziona in modo sufficientemente
chiaro un’ampia gamma di condotte da sottoporre a pena (122). Ma, soprattutto, si osserva
che la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema dell’Ohio, intesa ad includere nella
sfera del penalmente rilevante soltanto le rappresentazioni licenziose di un minore, è perfet-
tamente in grado di annullare il preteso vizio di indeterminatezza.
Secondo la Corte statale, la proibizione legale di detenere o visionare ‘‘materiale raffigu-
rante un soggetto minorenne in stato di nudità’’ deve ritenersi limitata ai soli casi in cui
detta rappresentazione ‘‘costituisca una esibizione lasciva o nei casi in cui sia realizzata me-
diante una focalizzazione dell’immagine (‘‘grafic focus’’) sui genitali’’ dello stesso.
Impegnata a districare il groviglio di questioni riguardanti il rispetto del canone di lega-
lità dei reati, la Corte non sembra avvedersi dei mutamenti che tali conclusioni producono
sulla qualità della dimensione offensiva dei reati. Non è dubbio, infatti, che questa decisione
rappresenta una soluzione di continuità con gli originari insegnamenti impartiti in Ferber,
destinata a produrre una vera ‘‘rivoluzione’’ nel teleologismo della fattispecie.
La svolta non rappresenta, però, un fulmine a ciel sereno, in quanto tali evoluzioni

(119) È interessante osservare che secondo la Corte la penalizzazione del possesso di


materiale pornografico minorile avrebbe anche il triplice vantaggio: a) di facilitare la prova
dei comportamenti più gravi; b) di rendere maggiormente effettiva la tutela nei confronti
delle condotte di produzione e distribuzione; c) di rallentare la distribuzione e, quindi, di
impedire che il danno primario all’integrità psico-fisica dei minori si ampli ad ogni visione.
Cfr. Osborne v. Ohio, 110 ss. Nulla questio per quanto riguarda i punti sub b) e c): il primo,
invece, dimostra che anche questa materia non sfugge alla imperante processualizzazione del
diritto sostanziale. W.J. STUNTZ, The Uneasy Relationship between Criminal Procedure and
Criminal Justice, in 107 Yale L.J., 1997, p. 3 ss.
(120) New York v. Ferber, 1226 ss. (con ulteriori rinvii) ove si sostiene che la disponi-
bilità di materiale avente ad oggetto minori in stato di nudità non esula dalla sfera di garan-
zia del First Amendment.
(121) Per un esame della c.d. ‘‘overbreath doctrine’’ R.H. FALLON jr., Making Sense,
p. 853 ss.
(122) Osborne v. Ohio, 111.

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erano state preparate da una decisione intermedia nella quale, per la prima volta, si intac-
cava il punto centrale della decisione Ferber relativo ai limiti della definizione di materiale
pornografico (123). Per vero, il rilievo di Massachusset v. Oaks (124) si apprezza più sul
piano del metodo che su quello della decisione di merito: tuttavia, l’enucleazione di una di-
versa prospettiva di indagine non poteva rimanere senza significato per la soluzione del pro-
blema. Non è un caso, quindi, che la motivazione richiami più volte questo precedente.
3.2.2. Massachusset v. Oaks. — La norma sottoposta al vaglio della Corte Suprema
descriveva le condotte illecite incentrando la sua attenzione sulla ‘‘state of nudity’’ del sog-
getto passivo infradiciottenne. La lower court, chiamata a pronunciarsi sul caso, aveva con-
dannato il ricorrente a una severa pena detentiva per aver realizzato una serie di foto aventi
ad oggetto una ragazza quattordicenne con il corpo parzialmente nudo. La condanna fu suc-
cessivamente annullata perché, a parere della Corte Suprema del Massachusset:
a) l’immagine costituiva una mera rappresentazione del pensiero che, in quanto tale,
meritava piena tutela sul piano costituzionale;
b) la descrizione legale dei possibili oggetti della rappresentazione illecita era eccessi-
vamente ampia.
Nonostante il chiaro aut aut all’eccessiva disinvoltura con la quale il legislatore dello
Stato del Massachusset aveva affrontato la questione, la Corte Suprema Federale imbocca
una strada ben diversa giungendo, seppur a maggioranza, ad un’innovativa conclusione: la
scelta di ampliare la definizione della pornografia minorile anche a rappresentazioni della
semplice nudità non è contraria alla Costituzione in quanto non rappresenta un profilo valu-
tabile alla luce del divieto di ‘‘substancial overbreath’’ (125).
Nell’ottica di questo studio maggior significato assume l’opinione concorrente redatta
dal giudice Scalia per il quale la decisione della maggioranza, oltre che erronea sul piano del-
l’interpretazione della ‘‘overbreath doctrine’’ (126), non affronta in modo corretto il vero
nodo dell’intera problematica: l’ampia portata della definizione di materiale pornografico. A
parere del giudicante, alla luce dei principi stabiliti in Broadrick e Ferber, l’estensione della
norma definitoria non può essere considerata eccessiva in quanto ‘‘gli scopi legittimi da essa
perseguiti eccedono quelli illegittimi che attraverso la stessa possono essere conseguiti’’.
Conclusione tanto più valida se si considera che la norma in commento contiene una cospi-
cua serie di ipotesi di non punibilità per tutti i casi di c.d. ‘‘bona fides purpose’’ (127).
L’ampiezza del riferimento, trovando una sua correzione già sul piano astratto, non in-
tacca il diritto del cittadino di poter usufruire degli spazi di libertà riconosciutigli dal First
Amendment. La censura mossa contro lo statuto del Massachusset non può dunque trovare
accoglimento, anche perché i lamentati ed ipotetici ‘‘eccessi’’ applicativi esulano, nel caso di
specie, dalla competenza decisionale della Corte Suprema.
In conclusione: l’opinione del giudice Scalia, con la sua visione quantitativa del pro-
blema, apre la via per l’allontanamento della normativa contro la pornografia minorile dalla
dimensione del danno concreto ai minori e, quindi, anche al positivo giudizio di costituzio-
nalità del riferimento al ‘‘graphic focus on nudity’’.
3.2.3. Justice Brennan, dissenting (I). — In relazione a questo punto si sviluppa l’opi-
nione dissenziente sottoscritta in Osborne dai giudici Brennan, Marschall e Stevens i quali,
dopo aver ricordato una copiosa serie di precedenti ove si esclude che la ‘‘semplice nudità’’
possa rappresentare un motivo sufficiente per negare la protezione del primo emendamento,
fanno osservare la profonda differenza tra la definizione newyorkese e quella del

(123) A. ADLER, Inverting, p. 950 s.


(124) 491 U.S. 576, 588 (1989).
(125) Per un significativo commento della sentenza, seppur inserito in un quadro di
indagine più ampio, H. FALLON jr., Making Sense, p. 853 ss., ma spec. p. 855.
(126) Massachusset v. Oaks, 503.
(127) Massachusset v. Oaks, 505.

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§ 2907.323 (A) (3) dello Stato dell’Ohio, per poi concludere a favore dell’esistenza di un
profilo di indeterminatezza costituzionalmente apprezzabile in relazione a quest’ultima.
A parere dei dissenzienti questa severa conclusione non può essere smentita richia-
mando l’interpretazione adottata sul punto dalla Corte Suprema dell’Ohio in quanto an-
ch’essa presenta evidenti profili di indeterminatezza. Le precisazioni fornite dall’Alta Corte
non riescono infatti a selezionare un elemento di relativa certezza sul quale ancorare gli svi-
luppi dell’attività interpretativa.
Due, in particolare, sono i profili sui quali si polarizza la critica dei dissenzienti: a) il
‘‘grafic focus test’’; b) l’eccessiva valorizzazione della ‘‘lewd exibition’’.
Le critiche mosse nei confronti di questi due capisaldi della ridefinizione giurispruden-
ziale dell’espressione nudity possono essere così sintetizzate:
a) il ‘‘grafic focus test’’ è ‘‘intollerabilmente ampio’’ perché nella costruzione della
Corte statale la verifica è incentrata sulla nudità e non sull’esibizione di ‘‘organi genitali’’ o
altre zone erogene. Infatti, almeno in linea astratta, la focalizzazione grafica del nudo può
adattarsi alle riprese di ‘‘alcune bagnati’’ comodamente distese ‘‘in topless, su di una spiag-
gia del mediterraneo’’ e, allo stesso tempo, alle riproduzioni fotografiche o filmiche delle più
aberranti pratiche sessuali commesse con o su minori (128), finendo così per rendere penal-
mente illecita una vasta gamma di immagini senza che tra di esse sia possibile individuare al-
cun profilo di comparazione. L’estrema latitudine che intrinsecamente caratterizza la defini-
zione legislativa finisce per rendere ancora più intollerabile l’ampiezza di questo elemento di
fattispecie;
b) il riferimento alla ‘‘lewd exibition of nudity’’ pecca invece di eccessiva astrattezza
rendendo di fatto impossibile la selezione di un significato di immediato riscontro applica-
tivo. Breve: la lasciva esibizione della nudità può essere ragionevolmente paragonata ad un
‘‘territorio inesplorato’’ (129), ove l’interprete si muove senza disporre di idonei punti di ri-
ferimento.
Secondo i redattori dell’opinione dissenziente, questi ampi spazi di discrezionalità rap-
presentano un palese vizio di costituzionalità della norma poiché consentono ‘‘alla polizia, ai
prosecutors ed alle giurie, di determinarsi e di decidere esclusivamente in base alle loro per-
sonali predilezioni’’ (130).
Non meno significativi sono i passaggi dedicati alla mancanza di un accettabile criterio
di valutazione della lewdness. Ci si chiede, infatti, se essa debba essere determinata utiliz-
zando come parametro di riferimento la valutazione di un uomo medio oppure di un pedo-
filo medio; se vada interpretata tenendo conto degli standards validi per una specifica comu-
nità locale ovvero secondo una media nazionale. Poiché nessuno di questi sembra essere un
metro di giudizio realmente praticabile e, soprattutto, ragionevole, la conclusione che si trae
porta a ritenere che l’esatta ricostruzione del carattere lascivo di un’esibizione è affidata uni-
camente ‘‘alla prospettiva di giudizio e alle idiosincrasie dell’osservato’’, in palese violazione
della legalità del reato e della certezza del diritto (131).
3.2.4. Justice Brennan, dissenting (II). — Stringente è altresì la critica mossa alla co-
stituzionalità della scelta di criminalizzare il possesso privato di materiale pornografico mi-
norile.
A parere dei tre giudici la facilità con la quale la maggioranza della Corte ha evitato il
confronto con le conclusioni raggiunte nel caso Stanley v. Georgia è completamente fuor di

(128) Osborne v. Ohio, 123 (Justice Brennan dissenting).


(129) Osborne v. Ohio, 125.
(130) Osborne v. Ohio, 127. A questo proposito si confronti anche United States v.
Arvin, 636 F. Supp 828, 832 (S.D. Cal. 1986) per la quale, trattandosi di questione di mero
fatto, la giuria può decidere anche senza far ricorso ad expert witness. Su problemi probatori
cfr. D.T. COX, Litigating Child Pornography, p. 27 ss. Si veda anche United States v. Moore,
215 F.3d 681, 686 (7th Circ. 2000) commentata in A. ADLER, Inverting, p. 940, nt. 86.
(131) Osborne v. Ohio, 127.

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luogo: non si vede infatti per quale ragione si debba distinguere, sotto il profilo costituzio-
nale, la detenzione di materiale pornografico dal possesso di immagini dello stesso tenore
aventi però ad oggetto minori.
Per prima cosa, si fa osservare che il richiamo a New York v. Ferber non è pertinente; la
conclusione qui raggiunta lascia del tutto impregiudicata la questione del possesso (132). In-
fatti, il riconoscimento della potestà statuale di regolamentare anche attraverso la sanzione
penale la produzione e la distribuzione della pornografia minorile non è significativa per
quanto riguarda il diverso problema della detenzione (133).
Con un’apertura alle esigenze di extrema ratio della sanzione penale si osserva che
mentre New York v. Ferber istituisce una parificazione, seppur sui generis, tra pornografia
minorile ed osceno, la decisione resa in Stanley v. Georgia lascia aperta la questione relativa
all’individuazione dei limiti entro cui può essere consentita la regolamentazione della frui-
zione di questo materiale. Infatti, ‘‘l’esistenza di un potere di intervento da parte dello Stato
sulla libera diffusione di determinati materiali non esclude che non vi sia alcuna barriera
costituzionale all’esercizio concreto di tale potere’’ (134).
Approfondendo ancora lo spunto connesso alla natura sussidiaria dello strumento pe-
nale, si contesta il fondamento dell’affermazione secondo cui soltanto attraverso la crimina-
lizzazione della detenzione sarebbe possibile distruggere alla radice il turpe mercato che
ruota attorno alla realizzazione di immagini pedo-pornografiche.
Secondo i tre giudici, lo Stato, al fine di porre un freno al presunto dilagare dell’abuso
sessuale di minori, potrebbe sempre ‘‘impiegare altre armi per combattere questo serissimo
problema sociale’’ evitando così di intrufolarsi sotto il tetto di privati cittadini per poi even-
tualmente colpirli con una più o meno severa pena detentiva. A parere di Brennan, Mar-
schall e Stevens non è infatti sufficientemente dimostrato che la sola punizione della produ-
zione e della distribuzione sia un rimedio inefficace rispetto al fine, così come, sul piano em-
pirico, non è del tutto certo che la criminalizzazione della detenzione sia la chiave di volta
per costruire un’efficace strategia repressiva tesa a spezzare il circolo vizioso che si instaura
tra la domanda, l’offerta e l’abuso sessuale di minori (135). Comunque, anche a voler rite-
nere infondate queste preoccupazioni, non si vede alcuna valida ragione per giustificare una
così palese violazione del diritto di ciascuno di leggere o visionare ciò che meglio
crede (136).

4. Ipertrofie applicative. United States v. Knox. — Acquisita la legittimità costituzio-

(132) Osborne v. Ohio, 128.


(133) Sotto un profilo più generale va detto che la Corte Suprema aveva in più occa-
sioni stabilito il principio di diritto secondo cui una comunicazione che trovi il suo presup-
posto nella commissione di un fatto illecito non può essere, di per sé, criminalizzata. Gibo-
ney v. Empire Storage & Ice Co., 336 U.S. 490 (1949); New York Times Co. v. United Sta-
tes, 403 U.S. 713 (1971); Landmark Communications Inc. v. Virginia, 435 U.S. 829
(1971). Il principio espresso in Giboney è stato ripreso anche in New York v. Ferber, 1125 s.
Per una discussione di questo profilo nella costruzione dello statuto penale della pornografia
minorile S.Z. BROWN, Supreme Court Rewiev: First Amendment, non Obscene Child Porno-
graphy an its Categorial Exclusion from Costitutional Protection, in Jour. Crim. L. & Crim.,
1982, p. 1348 ss.; F. SCHAUER, Codifyng the First Amendment: New York v. Ferber, in Sup.
CT Rev., 1982, p. 285 ss., ma spec. p. 300. Altra parte della dottrina fa notare la fragilità di
questo passaggio anche alla luce della successiva evoluzione della giurisprudenza A. ADLER,
Inverting, p. 978 ss., nt. 254, 277.
(134) Osborne v. Ohio, 129 s., richiamando Smith v. California, 361 U.S. 147, 155
(1959).
(135) Osborne v. Ohio, 130 e nt. 17 per i riferimenti alle legislazioni statuali prive, al-
meno al momento della pronuncia, di una fattispecie incriminatrice in tema di detenzione di
materiale pornografico.
(136) Osborne v. Ohio, 128 ss.

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nale della disposizione in commento, nonostante i forti dubbi espressi nell’opinione dissen-
ziente, la pronuncia ha offerto l’abbrivio per un’ulteriore evoluzione della giurisprudenza
delle corti inferiori. In particolare nella sentenza United States v. Knox (137), il terzo cir-
cuito ha impresso una forte spinta verso l’applicazione della normativa a situazioni ben lon-
tane da quella reale dannosità per il minore che ha costituito la chiave di volta della prima
fase della discussione sulla costituzionalità delle disposizioni che reprimono la pornografia
minorile. Superando le preclusioni introdotte in Ferber e in molte altre sentenze riguardanti
la sfera di protezione del primo emendamento, la Corte ha stabilito che il riferimento alla
‘‘lascivious exibition of genitals’’ si applica anche a tutte le rappresentazioni aventi ad og-
getto queste parti del corpo sebbene coperte (138).
L’innovativa soluzione, prontamente definita come un ‘‘uragano politico’’, ha innescato
una reazione a catena il cui principale effetto è stato quello di rinfocolare le polemiche sul-
l’intollerabile incertezza che ancora avvolge la questione (139).
L’ampiezza del riferimento è stata censurata, prima ancora che da parte dei commenta-
tori, dal Procuratore generale degli Stati Uniti il quale ha sottoscritto una ‘‘brief’’ alla Corte
Suprema, dove il caso era approdato in sede di gravame, ove si sostiene che l’interpretazione
adottata dai giudici del terzo circuito è eccessivamente ampia e contraria alle indicazioni for-
nite dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in Ferber, auspicandone, quindi, una celere ‘‘corre-
zione’’ ed indicando nella ‘‘discernibility’’ il limite massimo di tensione della nozione in
commento (140).
Sotto un altro profilo, quello della criminalizzazione in concreto, la pronuncia ha of-
ferto l’occasione per estendere grandemente lo spazio della vigilanza delle agenzie di con-
trollo. Lo dimostrano tra l’altro molte pagine di cronaca locale ove, a partire dal 1994, ven-
gono a più riprese segnalati discutibili interventi delle autorità di polizia e di vari Prosecu-
tors. Basti infatti considerare che in nome della ‘‘lotta senza quartiere’’ alla pornografia mi-
norile sono stati processati fotografi per aver realizzato libri di immagini ‘‘d’autore’’, sia
detto senza ironia, ritraenti minori in stato di nudità; arrestati commercianti per aver dete-
nuto, ai fini di commercio, nientemeno che il film, tratto dall’omonimo romanzo, ‘‘Il tam-
buro di latta’’ già vincitore di un premio Award, anziane signore per aver fotografato i nipoti
mentre facevano il bagno, giornalisti per aver svolto indagini, dall’interno, sul mondo della
pedofilia minorile (141): per non parlare poi dei sequestri di cataloghi commerciali, di ritagli
di giornali riguardanti campagne pubblicitarie e dei conseguenti processi celebrati perché
tali immagini, in ragione delle ‘‘sinister minds’’ dei loro detentori, erano considerate di ‘‘por-
nographic significance’’ (142).

(137) United States v. Knox, 977 F. 2d 815, 820-23 (3d Circ. 1992).
(138) Il passaggio è significativo. Fino a questo momento, infatti, la giurisprudenza si
era consolidata attorno alla massima secondo cui la ‘‘semplice nudità non si pone al di fuori
della sfera di protezione accordata dal primo emendamento in quanto detta modalità appare
neutra sotto il profilo della sollecitazione dell’istinto sessuale’’. Cfr., tra le tante, Shad v.
Bourog of Mount Ephraim, 452 U.S. 61, 66 (1981).
(139) A. ADLER, Perverse Law, p. 213 ss. la paragona ad una ‘‘discussione talmudica’’.
(140) La Corte Suprema, valutando positivamente l’opinione del Governo (114, S.Ct.
375 (1993)), ha imposto all’United States Court of Appeals un nuovo esame della questione
alla luce delle argomentazioni sviluppate dal Procuratore generale. La revisione non ha co-
munque modificato in nulla la decisione. Cfr. United States v. Knox, www.l.lfin-
daw.com/3rd/9034.htlm (consultato il 30 aprile 2002), 1 ss. dalla quale sono tratte le ulte-
riori citazioni.
(141) A. ADLER, Perverse law, p. 240 s. Ad onor del vero va detto che alcuni di questi
eccessi hanno trovato la ferma opposizione della giurisprudenza. Il sequestro del film ‘‘The
Tiny Drum’’, ad esempio, è stato invalidato da un giudice federale in State v. Blockbuster Vi-
deos, Inc. (decisione citata in A. ADLER, Inverting, p. 969, nt. 217).
(142) Queste iniziative si sono diffuse a macchia di leopardo in tutta l’area di com-
mon law. Cfr. ADLER, Inverting, p. 944, nt. 105. Si spiega così la ragione che ha indotto gli
studiosi hollywoodiani a rinunciare ad un remake del classico Lolita.

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In termini più generali questo effetto della decisione Knox si uniforma ad una tendenza
che da sempre caratterizza la legislazione penale americana specie in tema di tutela della
moralità e del buon costume o, se si preferisce, del ‘‘vizio’’ tout court. Recentemente de-
scritta come una delle principali cause patogene della malattia che affligge il sistema penale
statunitense (143), essa si salda molto bene con la vocazione ad offrire ampi spazi di mano-
vra alla pubblica accusa idonei a preservarne intatta la capacità di rispondere con sollecitu-
dine a specifici inputs di criminalizzazione (144).
La decisione offre poi l’occasione di focalizzare l’indagine su alcuni importanti tentativi
volti alla formalizzazione di criteri di giudizio in grado di indirizzare o, se si preferisce, re-
stringere, la discrezionalità degli interpreti nell’interpretazione della ‘‘lewd exibition of geni-
tals’’.

4.1. United States v. Dost (Dost’s Test). — Nonostante l’apprezzabile intervento defi-
nitorio realizzato dal Congresso nella Sec. 2256 n. 2 lett. a), b), c), d), il potere legislativo
non ha desistito dall’utilizzare una clausola di chiusura (‘‘lewd exibition’’) affetta da un’in-
trinseca ambiguità che se non ponderata sul piano applicativo rischia di mutare il genotipo
della tutela isolato in Ferber. Non è quindi casuale che di fronte all’indeterminatezza di que-
sto capoverso, parte della giurisprudenza, per il timore che tale deficit potesse invalidare la
costituzionalità della legge, ha tentato di sintetizzare degli anticorpi in grado di arrestare la
costante rarefazione cui è andata incontro nell’impatto con la prassi.
Riprendendo lo schema elaborato in Miller v. California, una lower Court dello Stato
della California, ha stilato una complessa ceck list in base alla quale sarebbe possibile giudi-
care correttamente la rilevanza di rappresentazioni concernenti minori ai fini dell’applica-
zione delle norme in materia di pornografia minorile.
Il test, rapidamente diffusosi in tutti i circuiti federali, si compone di una varietà di ele-
menti; alcuni di natura descrittiva, altri di matrice valutativa; alcuni plasmati sulle peculia-
rità del soggetto passivo, altri, invece, costruiti attorno alla finalità soggettiva che muove
l’autore della condotta.
In Dost, la Corte afferma che per rispondere alla domanda se una rappresentazione
concernente minori costituisca una ‘‘lascivious exibition’’ è necessario verificare:
a) se il centro della rappresentazione riguarda i genitali o l’area del pube;
b) se la rappresentazione è sessualmente suggestiva oppure contenga luoghi o pose ge-
neralmente associate ad attività sessuali;
c) se, tenuto conto dell’età del soggetto, l’immagine riproduca un bambino in pose in-
naturali o in atteggiamenti inappropriati;
d) se il bambino è totalmente o parzialmente vestito, oppure nudo;
e) se la rappresentazione suggerisce una ‘‘sexual coyness’’ o l’intenzione di partecipare
ad un’attività sessuale;
f) se la rappresentazione è intesa o appare finalizzata a suscitare una reazione ses-
suale nel fruitore (145).
Anche in considerazione del fatto che, come sottolineato dalla Corte, quest’elencazione
non può ritenersi esaustiva di tutti i criteri idonei a giudicare la lascivia della rappresenta-
zione, i risultati raggiunti in termini di certezza e di ispessimento della dimensione offensiva

(143) W.J. STUNTZ, The Pathological, 573 ss.


(144) E. LUNA, Principled Enforcement, p. 518. Per una vibrante critica all’assioma se-
condo cui ad una maggiore estensione del diritto penale corrisponde una proporzionale ridu-
zione dei danni ‘‘criminali’’ W.J. STUNTZ, The uneasy Relationship, p. 3 ss.; A. ADLER, Per-
verse law, p. 213.
(145) United States v. Dost, 636 F. Supp. 828, 832 (S.D. Cal. 1986), aff’d sub nom.
United States v. Wiegand, 812 F.2d 1239 (9th Circ. 1987). In relazione a questo caso la
Corte Suprema Federale ha negato il certiorari, 484 U.S. 856, 108 S.Ct. 164 (1987). Sulle
tecniche di ‘‘non decisione’’ del giudice di common law cfr. U. MATTEI, Common law, p. 195
ss. e, da ultima, V. BARSOTTI, L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della
Corte Suprema degli Stati Uniti, Torino, 1999, pp. 1 ss., 61 ss., 255 ss.

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delle forme di aggressione del bene giuridico sono, a parere di parte della dottrina, del tutto
insoddisfacenti.
Un primo fattore di critica si lega all’opinione di coloro i quali fanno notare che l’insi-
stenza dell’azione legislativa sulla pornografia minorile, specie al di fuori dei casi di macro-
scopica aggressione del bene giuridico del minore, favorirebbe la crescita e la diffusione di
una rappresentazione dell’infanzia come possibile oggetto del desiderio sessuale (146). Si os-
serva infatti che tale distorto effetto di catalizzazione non potrebbe essere eliminato nem-
meno attraverso i buoni risultati della concreta attività di enforcement, poiché l’alta cifra
oscura associata a tali illeciti (147) e l’artificialità dei criteri di giudizio diffusi in giurispru-
denza dopo Knox, minano in radice la funzione ‘‘espressiva’’ della legge penale (148).
La seconda obiezione si incentra, invece, sulla rilevanza disgiunta degli indici di valuta-
zione: ammettendo che un’esibizione o un’immagine possa essere considerata lasciva sol-
tanto in presenza di alcuni degli elementi sopra indicati, si lascia uno spazio troppo ampio
alla libera discrezionalità dell’interprete (149). Si corre, così, il rischio di sottostimare l’im-
portanza dei criteri lato sensu oggettivi — gli unici realmente espressivi di momenti di effet-
tivo danno per l’integrità dei minori — favorendo il consolidarsi di valutazioni incardinate
sulla presenza di incerti e sfumati profili soggettivi che, per loro stessa natura, producono
uno slittamento del modello criminoso verso una palese forma di Täterstrafrecht (150).
Considerate le premesse che fanno da sfondo all’intervento sanzionatorio, la conclu-
sione non dovrebbe stupire. Negli USA, ma il giudizio può essere generalizzato, la regola-
mentazione penale della pornografia minorile è sostenuta da un forte giudizio di disvalore
morale e sociale, aggregato, però, non tanto attorno ad una seppur generica descrizione di
un fatto ritenuto intollerabile perché lesivo, ma ad una pletora di comportamenti tutti acco-
munati da un minimo comune denominatore: la riprovevole finalità sessuale che motiva il
soggetto attivo (151). Se ciò è vero, non è fuor di luogo ritenere che la rappresentazione del
tipo di autore costituisce il ‘‘gradiente’’ ultimo di tutti i percorsi emeneutici ed il principale
fattore di condizionamento dei processi di criminalizzazione in concreto.
Per focalizzare al meglio l’intervenuta mutazione nel paradigma di tutela è sufficiente
tratteggiare il quadro interpretativo emerso con riferimento alla lett. e) del Dost’s test.

4.2. Le interpretazioni. — La soluzione ipotizzata in Dost dà ampio rilievo ad ele-

(146) A. ADLER, Perverse law, p. 255 ss.; argomento sviluppato, seppur in un diversa
prospettiva, anche da F. MANTOVANI, Criminalità sommergente e cecità politico criminale, in
questa Rivista, 1999, p. 1201 ss. La letteratura statunitense sugli effetti involontari della re-
golazione è vasta. Tra i tanti W.J. STUNTZ, Self-Defeating Crimes, in 86 Va. L. Rev., 2000, p.
1871 ss. e in termini più generali R.H. MC ADAMS, Development and Regulation of Norms,
in 96 Mich. L. Rev.; R.H. PILDES, The Unintended Cultural Consequence of Public Policy: A
Comment on Symposium, ivi, p. 936 ss.; C. SUSTEIN, Congress, Costitutional Moments, and
the Cost-Benefit State, in Stand. L. Rev., 1996, p. 247 ss.
(147) U. EISENBERG, Kriminologie, München, 20005, § 45, Rdn. 59.
(148) D. KAHAN, The Secret Ambition, p. 413 ss.; ID., Social influence, in Va. L. Rev.,
1997, p. 349 ss.; W.J. STUNTZ, The Pathological, p. 520 ss.
(149) Esemplare, al riguardo, la posizione assunta dalla prassi in State v. Vander Logt,
No. 96-2015-CR, 1998 WL 315960 (Wis. Ct. App. June 17, 1998).
(150) Al riguardo A. ADLER, Inverting, p. 953 ss. In senso contrario United States v.
Matthews, 209 F.3d 338 (4th Circ. 2000) la quale ha stabilito che anche ‘‘well-intended uses
of images of child pornography are unprotected’’. V. anche A. GARAPON-D. SALAS, La Re-
pubblica penale, Macerata, 1997, p. 62.
(151) Cfr. H. JÄEGER, Irrationale, p. 22 s. il quale, con riferimento ai lavori preparatori
della 27 legge di riforma del codice penale tedesco, sfociati nell’introduzione del § 184 Abs.
5, ha osservato che ‘‘l’indignazione — pessima consigliera della politica criminale — ha mo-
nopolizzato l’intera discussione’’ e, così facendo, ha finito per spingere il diritto penale verso
la tutela di comportamenti solo ‘‘moralmente riprovevoli’’. In termini più ampi, significative
precisazioni sul funzionamento del meccanismo della criminalizzazione astratta sono svolte
da C.E. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, p. 851 ss., ma spec. p. 866 ss.

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menti ‘‘esoterici’’ quali l’intenzione di sollecitare l’istinto sessuale del destinatario della rap-
presentazione o lo scopo di invogliare taluno al compimento di atti sessuali (152). Questi
elementi, per poter essere correttamente applicati, necessitano almeno di un’esatta ‘‘misura
di riferimento’’ poiché da essa dipende la soluzione del singolo caso e, quindi, l’estensione
della ‘‘lascivious exibition’’. Misura che, nonostante gli iniziali proclami, United States v.
Dost ben si guarda dal fornire.
Il silenzio serbato sul punto ha consentito alla successiva giurisprudenza di muoversi
nella più assoluta libertà alla ricerca dell’indispensabile criterio di giudizio che in alcuni casi
è stato individuato nella natura stessa dell’immagine, in altri, invece, nelle intenzioni del suo
detentore.
4.2.1. L’oggettivismo di United States v. Villard. — Nel primo caso si è sostenuto che
è all’oggettivo significato dell’immagine che occorre riferirsi per giudicare della rilevanza dei
casi dubbi (153), rimanendo del tutto irrilevanti le reazioni o le sensazioni del soggetto che
ha realizzato quell’immagine o la detiene. Infatti ‘‘non può ritenersi pornografica una foto
innocente soltanto perché il pedofilo ricava dalla stessa una qualche gratificazione sessuale.
Occorre guardare la fotografia piuttosto che alle reazioni del suo fruitore’’ (154), poiché ‘‘le
fantasie private debbono considerarsi estranee all’ambito applicativo della disciplina penale
della pornografia minorile’’ (155).
In questa direzione appare significativa la decisione resa da una Corte del 5o Circuito
che giunge ad escludere che possa qualificarsi come ‘‘lascivious exibition’’ una rappresenta-
zione fotografica che si limiti a riprendere il corpo nudo di una ragazza, anche qualora la
stessa venga riprodotta in una pubblicazione lussuriosa (‘‘raunchy’’). Breve: nemmeno il
contesto in cui è utilizzata è in grado di modificarne il significato oggettivo (156).
4.2.2. Idee criminali. — All’estremo opposto si colloca un folto gruppo di decisioni
per le quali il test andrebbe svolto sulla base di un criterio meramente soggettivo, qual’è
quello connesso alla verifica della finalità del fruitore dell’immagine. Secondo questa impo-
stazione devono considerarsi penalmente rilevanti tutte le immagini che, secondo l’inten-
zione dello spettatore, hanno lo scopo di suscitarne la concupiscenza (157). Con formula el-
littica si afferma che la valutazione dell’effetto prodotto dall’immagine sul fruitore costitui-

(152) Nella dottrina italiana, tra i tanti, G. MARINUCCI, Fatto e scriminanti: note dom-
matiche e politico criminali (a cura di) G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Diritto penale in trasfor-
mazione, Milano, 1985, p. 196; F. BRICOLA, Rapporti tra dommatica e politica criminale, in
questa Rivista, 1988, p. 18 ss. e Corte cost., 8 giungo 1981, n. 96, in Giur. cost., 1981, p.
806 ss., con nota di P.G. GRASSO, Controllo sulla rispondenza alla realtà empirica delle pre-
visioni legali di reato.
(153) L’oggettivismo di questo orientamento non dipende da una caratterizzazione in
sé dell’oggetto dell’interpretazione, ma dalla circostanza che l’ineliminabile valutazione sog-
gettiva, che è tipica di ogni attività ermeneutica, viene svolta sulla base di parametri di giudi-
zio standardizzati secondo valutazioni sociali medie. A. ADLER, Inverting, p. 958, nt. 165.
Sul punto la sintesi di F. DENOZZA, La struttura dell’interpretazione, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1995, p. 1 ss. anche per gli ampi riferimenti alla riflessione maturata nell’area di com-
mon law.
(154) United States v. Villard, 885 F. 2d 117 (3d Circ. 1989). Significativa è anche la
sentenza United States v. Amirault, 173 F.3d 28 (1st Circ. 1999): la foto di una bambina
nuda sulla spiaggia non può essere considerata un’esibizione lasciva dei genitali. In questo
caso l’assunto accusatorio era di ritenere detta immagine sessualmente suggestiva in quanto
la spiaggia è un luogo spesso associato alla ‘‘luna di miele’’. V. anche United States v. Lam-
born, 798 N.E. 2d 350 (Ill. 1999).
(155) United States v. Wiegand, 812 F2d 1239, 1245 (9th Circ. 1987).
(156) Faloona v. Hustler Magazione Inc., 607 F. Supp 1341, 1344 & n. 10 (N.D. Tex.
1985) aff’d 799 F.2d 1000 (5th Circ. 1986). Per una critica A. ADLER, Perverse law, p. 263,
nt. 295.
(157) United Sates v. Wiegand, 812 F.2d at 1244.

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sce l’elemento da cui desumerne le intenzioni: se taluno viene trovato in possesso di alcune
immagini di bambine ritratte mentre si stanno facendo una doccia, la sua condotta deve con-
siderarsi penalmente riprovata se si accerta che dette immagini sono state dallo stesso utiliz-
zate per finalità di tipo sessuale (nel caso la videocassetta veniva regolarmente visionata dal-
l’imputato prima di avere rapporti sessuali con la sua usuale partner) (158).
‘‘Poiché il carattere lascivo [di una rappresentazione — n.d.t. -] dovrebbe essere esami-
nato nel contesto di una valutazione compiuta dal pedofilo, questa Corte ritiene di interpre-
tare le immagini che ritraggono giovani ragazze mentre si trovano a scuola... o in una pi-
scina, nello stesso modo in cui vengono considerate dal pedofilo. Tali immagini sono da
questo ricondotte all’idea di bambino e, quindi, associate all’oggetto del suo desiderio. Per-
tanto, si deve concludere che ogni immagine che si soffermi sulle zone erogene di bambini o
bambine ritratti in quei luoghi [indipendentemente dal fatto che i minori siano vestiti —
n.d.t. —] consente al pedofilo di fantasticare sulla possibilità di avere incontri sessuali con
gli stessi (159).
Questo passaggio ben evidenzia che il fulcro dell’intero modello decisionale è il ‘‘perver-
so’’ fruitore dell’immagine in quanto è dalle sue precipue intenzioni che dipende la qualifica-
zione del materiale come pornografico o meno. Secondo questo standard, qualsiasi imma-
gine può divenire pornografica per il semplice fatto che un pedofilo la considera sessual-
mente stimolante (160). Breve: è la mera cogitatio a segnare il profilo di offensività sociale
del fatto (161).
‘‘La nostra interpretazione del termine lascivo si raccorda con la ratio dello statue e con
l’intenzione del Congresso di eliminare i gravissimi danni inferti a bambini e adolescenti
quando gli stessi vengano utilizzati in riprese fotografiche a fini pornografici’’ (162). ‘‘Il
danno che il Congresso ha inteso prevenire’’, così continua la Corte, ‘‘è quello prodotto con
la realizzazione di materiale visivo che abbia ad oggetto l’area genitale del minore e che, da
un punto di vista soggettivo, sia sorretta dall’intento di produrre un’immagine che susciti la
lascivia del pedofilo’’ (163).
Questa marcata subiettivizzazione non sembra riconducibile a quello che, con termino-
logia ‘‘europea’’, può essere definito processo di personalizzazione dell’illecito penale: a ri-
levare è, infatti, il principio di tutela dei beni giuridici inteso in un’accezione positiva dove
domina incontrastato il paradigma del ‘‘nemico’’ (164). Ove a venire in gioco sia una disci-

(158) State v. Dixon, No. 01C01-9802-CC-00085, 1998 WL 712344 (Tenn. Crim.


App. Oct. 13, 1998). In precedenza United States v. Cross, 928 F.2d 1030, 1042-43 (11th
Circ. 1991); Arvin, 900 F.2d 1389; Mr.A., 756 F. Supp. 329; United States v. McCormick,
675 F. Supp. 223, 224 (M.D. Pa. 1987).
(159) United States v. Knox, 32 F.3d 733, 747 (3d Circ. 1994). Ancora più chiara la
posizione in Dost: ‘‘nel contesto dello statuto... la lascivia non è una caratteristica del bam-
bino oggetto della rappresentazione ma un connotato dell’esibizione allestita dal fotografo
ad uso e consumo di sé stesso o di altri che la pensano allo stesso modo (‘like minded pedo-
phile’)... per soddisfarne le brame’’. United States v. Wiegand, 1244 s.
(160) ‘‘The author deviant’s thought’’: D.T. COX, Litigating Child Pornography and
Obscenity in the Internet Age, in Jour. of Tech. Law & Policy, www.journal.law.uff.edu
(consultato il 30 aprile 2002), p. 10; A. ADLER, Perverse law, p. 263; United States v. Ami-
rault, 34. Nella dottrina di lingua francese M.L. RASSAT, Droit pénal, p. 588.
(161) C.E. PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovazione o trasmutazione del di-
ritto penale dei codici?, in questa Rivista, 1994, p. 1224 e, volendo, G. MARRA, La nozione,
p. 435 ss. In questi riferimenti ben si coglie l’ampiezza e la sostanziale malleabilità della no-
zione di dannosità sociale come ratio giustificatrice dell’intervento penale. Sul punto, nell’ot-
tica di una svalutazione del ricorso alla nozione di bene giuridico, l’ampia indagine di K.
AMELUNG, Rechtsgüterschutz und Schutz der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1972, passim; e,
in diverso contesto ‘‘culturale’’ B.E. HARCOURT, The Collapse, p. 111 ss.
(162) United States v. Knox, 13.
(163) United States v. Knox, 16.
(164) G. JAKOBS, Das Selbstverständnis der Strafrechtswissenschaft von den Herau-

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plina penale così orientata, eventuali eccezioni al principio ‘‘de interni non curat praetor’’
non appaiono né stravaganti, né discutibili (165).
Le gravi difficoltà applicative connesse all’impiego di questo schema di giudizio (166);
la paradossalità delle conclusioni che induce a formulare (167); le forti riserve da più parti
espresse sotto il profilo della determinatezza e del rispetto della ‘‘neutralità’’ (168) dell’inter-
vento giuridico-penale; l’inammissibile strumentalizzazione a cui si presta in termini proces-
suali (169), dispensano da ulteriori commenti.

5. Le evoluzioni etiche della dannosità sociale. — L’indagine sin qui condotta dimo-
stra il grado di circospezione con il quale il legislatore ha inteso affrontare i molti problemi
che hanno caratterizzato la sua azione in tema di pornografia minorile. Per una molteplicità
di ragioni, l’ortodossia costituzionale professata dal Congresso ante 1996 era però destinata
a subire un netta inversione di tendenza.
Con il dilagare delle tecnologie informatiche diventa a tutti chiaro che una decisa batta-
glia contro il fenomeno della pornografia minorile non può permettersi di trascurare questo
profilo: non soltanto perché Internet rappresenta una tecnica di comunicazione interperso-
nale particolarmente appetibile per tutti coloro che intendono distribuire, pubblicizzare o
semplicemente prendere visione di materiale pedo-pornografico (170), ma anche perché le
peculiarità del mondo virtuale mettono a dura prova la tenuta di apparati normativi architet-
tati in tempi nei quali l’utilizzo di queste tecnologie poteva apparire un attributo del futuro
più remoto (171).

sforderung der gegenwart (hrsg), A. ESER et alii, Die deutsche Strafrechtswissenschaft von
der Jahrtausendwende, München, 2000, p. 51 s.
(165) G. JAKOBS, Kriminalisierung, p. 755 ss. Sulla ‘‘coerenza dell’idea dello scopo’’,
per tutti, L. MONACO, Prospettive dell’idea dello ‘‘scopo’’ nella teoria della pena, Napoli,
1984, passim pp. 76 ss., 99 ss. Sui perversi effetti processuali di tale soluzione riflette A. CA-
DOPPI, Art. 1, in Commentario, p. 501. e, più in generale, anche G. FIANDACA, Problematica,
p. 113 ss.
(166) Il profilo della ‘‘scissione tra intento ed effetto’’ è indagato da A. ADLER, What’s
Left?: Hate Speech, Pornography, and the Problem for Artistic Expression, in 84 Cal. L.
Rev., 1996, p. 1499 ss., ma spec. p. 1560 ss.
(167) Si potrebbero infatti includere tra le rappresentazioni pedo-pornografiche anche
tutte quelle immagini che ritraggono luoghi (come scuole, campetti da gioco, giostre ecc.)
normalmente frequentati da bambini — A. ADLER, Perverse law, p. 258 — o punire taluno
per aver detenuto materiale pornografico qualora lo si trovi in possesso di collezioni, più o
meno ampie, di cartoni animati. Va detto, però, che la decisione Knox fa sua la preoccupa-
zione, da più parti espressa durante i lavori preparatori del Child Pornography Prevention
Act del 1996, che la diffusione di immagini che ritraggono bambini in pose ritenute sessual-
mente significative siano utilizzate dal pedofilo per eccitarsi e, peggio ancora, possano rap-
presentare un fattore eziologico per la commissione di fatti di violenza sessuale vera e pro-
pria. Lo slogan è ‘‘pornography is the theory and rape is the practice’’ A. ADLER, Perverse
law, p. 216, nt. 32 anche per gli indispensabili riferimenti; C. SUNSTEIN, Neutrality in Costi-
tutional Law (with special reference to Pornography, Abortion and Surrogcy), in Colum. L.
Rev., 1992, p. 24 s.
(168) C. SUNSTEIN, Neutrality, p. 1 ss., ma spec. p. 18 ss. Nella dottrina italiana si
veda B. MAGRO, Etica e tutela della vita umana: riflessioni sul principio di laicità nel diritto
penale, in questa Rivista, 1994, p. 1397.
(169) Sul punto, con riferimento ad un caso di ‘‘profilassi del reato mediante provoca-
zione’’ (‘‘entrapment’’) Jacobson v. United States, 503 U.S. 540, 551 s. (1992). Sull’istituto,
in generale, C. DE MAGLIE, L’agente provocatore, Milano, 1991, p. 155 ss. e, con riferimento
all’art. 14 l.n. 268\1998, C. PARODI, Il ruolo della polizia giudiziaria nel contrasto alla por-
nografia minorile, in Dir. pen. proc., 1999, p. 1442, ma spec. p. 1446.
(170) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 440.
(171) Problema sentito anche dal legislatore italiano. Per l’approfondimento cfr. L. PI-

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L’avvento dell’informatica modifica, dunque, l’agenda delle priorità anche nel settore
della pornografia minorile. Nell’opinione del DoJ e di alcune qualificate voci della dottrina
statunitense inizia ben presto a farsi strada l’idea che la nuova frontiera della criminalità
contro i minori è rappresentata dalla creazione di immagini pornografiche virtuali ottenute
dalla combinazione artificiale tra spezzoni di diverse immagini di vita reale se non autogene-
rate con appositi programmi software [‘‘morphing’’] (172): da qui, le ripetute richieste di un
pronto adeguamento della legislazione alla sfida lanciata dalla modernità tecnologica (173).
L’annus mirabilis è il 1996: con l’introduzione di alcuni emendamenti al Chapter 10 del
§ 18 USC [Children Pornogrphy Prevention Act (CPPA)], il Congresso affronta a tutto
tondo il problema della produzione, della diffusione e della visione di materiale pornografico
minorile per via telematica.
Nell’economia di questo studio, l’innovazione più significativa è rappresentata dall’e-
splicita parificazione del morphing alle rappresentazioni pornografiche che abbiano ad og-
getto minori in carne ed ossa.
La marcia di avvicinamento tra legislazione penale e nuove tecnologie parte però da più
lontano e trova le sue scaturigini nel Child Protection and Obscenity Enforcement Act del
1988 che, con previsione innovativa, vietava di utilizzare il computer per trasportare, distri-
buire, o ricevere pornografia minorile (174).
Tuttavia, di fronte al massiccio impiego dell’informatica che è tipico di questa forma di
criminalità, la modifica del 1988 era poco più che una goccia nell’oceano.
Omissio medio: il CPPA si concentra sulla ‘‘fonte’’ della rappresentazione pedo-pono-
grafica parificando alle ipotesi di immagini prodotte mediante lo sfruttamento reale di un
minore degli anni diciotto quelle dove le rappresentazioni visive (film, foto, video ecc.) ‘‘ap-
paiano realizzate’’ con la partecipazione di tali soggetti [§ 2256 (8) (B)], anche se artificial-
mente ‘‘create, modificate o adattate’’ [Sec. 2256 (8) (c)], o che siano ‘‘spacciate’’ dal loro
distributore in modo tale da suscitare l’impressione che esse ‘‘rappresentino il compimento
di condotte sessuali da parte di un minore [§2256 (8) (D)] (175).
L’intervento del 1996 non rappresenta però un mero aggiornamento della precedente
disciplina: le modifiche apportate alle Sec. 2252 (a) e 2256, portando a compimento un per-
corso iniziato in Osborne, ufficializzano la presenza di una prospettiva di tutela che emar-
gina il riferimento alla concreta dannosità fino al punto di caratterizzare la fruizione di mate-
riale pornografico minorile come male in sé, facendo così assumere al legislatore le sem-
bianze di un occhiuto censore della moralità dei cittadini (176).
Il solco che separa la rinnovata dimensione dell’offensività dal quadro originario è così
marcata da aver costretto gli interpreti ad interrogarsi se, nel quadro costituzionale dato, si
possa giustificare la presenza di un’incriminazione che ha trasformato la pornografia mino-

COTTI, Art. 3, in Commentari, p. 586 ss.; A. CADOPPI, Art. 4, ivi, p. 632 ss. anche per i neces-
sari richiami.
(172) Prima dell’approvazione del CPPA le Corti avevano attribuito alla pornografia
‘‘simulata’’ un valore probatorio ai fini della ricostruzione dell’elemento soggettivo del de-
litto di detenzione. Cfr. United States v. Layne, 43 F.3d 127 (5th Circ. 1995) cert. denied 115
S.Ct. 1722 (1995).
(173) Nella dottrina italiana questa esigenza è sottolineata da C.F. GROSSO, Funzione,
p. 32.
(174) Una ricostruzione dei profili essenziali si legge in D.D. BURKE, The Criminaliza-
tion, pp. 440 s., 461 ss. Per un quadro delle soluzioni apportate dal legislatore inglese C.
MANCHESTER, Criminal justice, p. 124 ss. V. anche U. SIEBER, Kinderpornographie, Jugen-
dschutz und Providerverantwortlichkeit im Internet, Bonn, 1999, passim.
(175) Sul reale significato innovativo di queste disposizioni cfr. Ashcroft v. Free
Speech Coalition (Renquist C.J., dissenting), 3 ss.
(176) Discutono questo passaggio D.D. BURKE, The Criminalization, p. 461 ss.; A.
ADLER, Inverting, p. 996 ss. via via con ulteriori riferimenti. Esigenza limpidamente ricono-
sciuta anche nell’atto di ‘‘appello’’ dal Ministero della giustizia avverso la sentenza Free
Speech Coalition v. Reno. Cfr. Ashcroft v. Free Speech Coalition, 1 ss.

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rile in un’ ‘‘idea immaginativa’’ che, per quanto ripugnante, rimane pur sempre un’i-
dea (177). Quale ragione cogente può consentire in questi casi la soppressione della ‘‘free-
dom of speech’’ per mezzo del diritto penale?

5.1. La resistenza dei principi. — L’involuzione eticizzante prodottasi con le modifi-


che apportate dal CPPA ha minato i fragili equilibri costituzionali disegnati dalla giurispru-
denza della Corte Suprema, innescando una bomba ad orologeria pronta a far esplodere l’en-
nesima ‘‘battaglia costitituzionale’’ sulla disciplina penale della pornografia minorile.
Dopo alcuni timidi e poco convincenti tentativi di salvare la norma in questione da de-
claratorie di incostituzionalità (178), nel panorama giurisprudenziale nordamericano è inter-
venuta la recente sentenza della United States Court of Appeal che, nel caso Free Speech
Coalition v. Reno, ha annullato un condanna basata sulla disciplina introdotta nel 1996 rite-
nendola costituzionalmente illegittima per contrasto con il primo emendamento (179).
Questi, in sintesi, i motivi della decisione. L’attenuazione dei profili di reale dannosità
sociale associata alle condotte di realizzazione e di detenzione di rappresentazioni pornogra-
fiche minorili generate con il ricorso alla tecnologia del morphing, fa perdere all’interesse
statuale la caratteristica di ‘‘inderogabilità’’ che aveva giustificato la posizione ‘‘permissivi-
sta’’ della Corte Suprema a partire da New York v. Ferber. Trattandosi di un comune inte-
resse regolativo, torna a riproporsi la questione della compatibilità dell’incriminazione con il
diritto alla libera manifestazione del pensiero. Poiché, così afferma la Corte, le modifiche in-
trodotte con il CPPA hanno trasformato la pornografia minorile in un mera manifestazione
del pensiero o, per meglio dire in una ‘‘idea malvagia’’, la disposizione risulta affetta da un
palese violazione del First Amendment (180).
Per gli stessi motivi la Corte Suprema degli Stati Uniti ha apposto un sigillo di definità
alle statuizioni della Corte federale stabilendo che l’artificializzazione della prospettiva di tu-
tela indotta dalle modifiche apportate dal CPPA non trova alcun sostegno né in Miller né in
Ferber: pertanto, in assenza di una copertura costituzionale, l’intervento del diritto penale
deve considerarsi una palese violazione di quel diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero che costituisce la base dell’intero sistema dei diritti e delle libertà costituzional-
mente garantite (181).
Il consolidarsi al più alto livello di questo orientamento segna anche una netta cesura
con alcune delle opinioni emerse nel dibattito in argomento. Secondo alcuni autori, anche

(177) D.D. BURKE, The Criminalization, p. 460. Sottolinea l’allontanamento dell’im-


pianto normativo dall’originario proposito di ‘‘tutelare i minori contro forme di abuso ses-
suale’’ A. ADLER, Inverting, p. 231 ss. United States v. Schwimmer, 279 U.S. 644, 654
(1929) (Holmes J., dissenting) ‘‘if there is any principle of the Constitution that more imper-
ativly calls for attachment than any other it is the principle of free thought - not free thought
for those who agree with us but freedom for the thought we hate’’.
(178) United States v. Hilton, 167 F.3d 61,65 (1st Circ. 1999); United States v. Ache-
son, 195 F.3d 645, 648 (11th Circ. 1999).
(179) Free Speech Coalition v. Reno, 198 F.3d 1083 (9th Circ. 1999). Nello stesso
senso la più recente Acsroft v. Free Speech Coalition, 121 S.Ct. 876 (2001).
(180) Free Speech Coalition v. Reno, 1086. Ivi l’opinione secondo cui la norma in
commento ‘‘crimalizza un riprovevole impulso mentale’’. Parallelamente, le Corti hanno in
più occasioni dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune incriminazioni del Telecom-
munications Act del 1996 poste a presidio del corretto sviluppo dei minori ritenendole ec-
cessivamente ampie (‘‘overbreath’’), generiche e lesive del diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero — Corte Federale del distretto orientale della Pennsylvania 11 giungo
1996, in Dir. inf., 1996, p. 604; Corte Suprema degli Stati Uniti d’America 22 giungo 1997,
ivi, 1998, p. 64 ss. — pur all’interno di un generale apprezzamento per l’intenzione del legi-
slatore.
(181) Ashcroft v. Free Speech Coalition, 1 ss. La sentenza non manca di sottolineare
che l’eccessiva ampiezza (‘‘overbroad’’) della normativa costituisce un ulteriore punto di fri-
zione con il quadro dei limiti disegnati dalla Costituzione all’intervento del potere legislativo.

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volendo ammettere che la pornografia minorile rappresenti una forma di manifestazione del
pensiero, non sarebbe comunque possibile ascriverla alla sfera di garanzia del First Amen-
dment in quanto sia la distribuzione sia la detenzione di materiale pedo-pornografico presen-
tano profili di interconnessione, se non di immediata finalizzazione, con la commissione di
fatti penalmente illeciti (sub species: abusi sessuali).

Le argomentazioni poste a sostegno di questo ‘‘estremo’’ tentativo di sottrarre l’inter-


vento penale da censure di legittimità costituzionale si articolano su più piani. Il perimetro
entro cui si muove questa costruzione è rappresentato dal riferimento alla consolidata giuri-
sprudenza della Corte Suprema che, a partire da Brandeburg v. Ohio, ha negato protezione
costituzionale a tutte quelle condotte che pur rappresentando in astratto una forma di mani-
festazione del pensiero hanno lo scopo di istigare o favorire il compimento di attività antiso-
ciali (182). Nell’area interna, invece, si cerca di esaltare il legame tra diffusione di materiale
pornografico minorile e commissione di atti di abuso sessuale, richiamandosi alla volontà
del legislatore storico. Si afferma, infatti, che il Congresso ha arricchito l’originaria ratio di
tutela (interesse dello Stato a prevenire i danni direttamente causati dalla partecipazione del
minore in questo genere di attività) con il riferimento all’esigenza di prevenire i ‘‘danni con-
sequenziali’’ che possono essere prodotti dalla diffusione delle rappresentazioni pedo-porno-
grafiche. Breve: poiché è ragionevole ritenere che la diffusione e la detenzione costituisco-
no un fattore di eccitazione del pedofilo e, quindi, rappresentano la causa principale dei fu-
turi abusi commessi nei confronti dei minori, si può concludere dicendo che la detenzione
di materiale pornografico minorile può essere legittimamente sanzionata (183).
Pur volendo passare sotto silenzio l’indebita ricollocazione sistematica operata da que-
sta interpretazione (184), la sua artificialità desta sconcerto. Ragionando in questi termini si
obliterano, infatti, la considerazione della dignità della persona umana oggetto dell’abuso ed
i profili di lesività della condotta perpetrata nei suoi confronti in nome di interessi generali
riconducibili all’ ‘‘ordine pubblico sostanziale’’. In altre parole: il singolo minore come stru-
mento per raggiungere uno scopo di stabilizzazione dell’ordine sociale. Il severo colpo in-
ferto dalla sentenza in commento a questa contagiosa (185) ‘‘spirale’’ efficientista non può
che essere salutato con favore (186).

6. L’incostituzionalità della fattispecie che punisce la detenzione di materiale porno-


grafico nell’ordinamento penale canadese. — Il già interessante quadro che emerge dalla ri-
costruzione del panorama giurisprudenziale statunitense può essere arricchito con l’esame di
una recente sentenza della British Columbia’s Court of Appeal che ha dichiarato costituzio-

(182) Brandeburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969) (per curiam): ‘‘la garanzia costituzio-
nale della libertà di parola non consente allo Stato di vietare l’uso della forza... ad eccezione
dei casi in cui ciò sia diretto ad incitare la prossima realizzazione di azioni illecite’’. Nello
stesso senso Chaplinsky v. New Hampshire, 572.
(183) J.R. POTUTO, Stanley + Ferber = The Costitutional Crime of At - Home Child
Pornography Possession, in 76 Ky. L.J., 1987-1988, p. 25 ss. citata in D.D. BURKE, The Cri-
minalization, p. 461 alla quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti.
(184) S. LYND, Brandeburg v. Ohio: A Speech test for All Season?, in 43 U. Chig. L.
Rev., 1975, p. 151 ss. ove si sottolinea che lo scopo dell’intervento consiste nell’assicurare
allo Stato il potere di controllare comportamenti che alterano la pubblica tranquillità o l’or-
dine pubblico. Osservazione ripresa anche in Herceg v. Hustler Magazine, 814 F.2d 1017,
1023 (5th Circ. 1987).
(185) A. ADLER, Inverting, p. 926 ss. Nella dottrina italiana riflette su questo punto L.
MONACO, Art. 600-quater, in Commentario breve.
(186) A. ADLER, Perverse Law, p. 244. Infatti ‘‘se si ritiene che per giustificare l’inter-
vento governativo è sufficiente evidenziare la presenza di un effettivo condizionamento so-
ciale [causato dalla comunicazione a terzi di proprie opinioni] si porrebbe fine alla nostra li-
bertà di manifestazione del pensiero’’ Am. Boosellers Ass’n v. Hundnut, 771 F.2d 323, 300
(7th Circ. 1985).

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nalmente illegittima la norma contenuta nel § 163 del codice penale canadese, in quanto ti-
rannica, eccessivamente ampia, anche sotto il profilo dell’età dei possibili soggetti passivi, ir-
ragionevole e sproporzionata (187).
Per il nesso di derivazione che li lega alle osservazioni già sviluppate dalla Corte Su-
prema degli Stati Uniti di America, gli argomenti fondanti la decisione non rappresentano
una novità: significativa è invece la ‘‘decisione’’ con la quale la Court of Appeal of British Co-
lumbia ha affrontato e risolto la questione senza lasciarsi condizionare da quella domanda di
pena che, nella materia che qui interessa, ha ampiamente superato i limiti di guardia.
In rapida sintesi: dall’argomento storico (‘‘nessuna legge canadese... ha mai punito pe-
nalmente il mero possesso di qualunque tipo materiale espressivo di idee o pensieri’’) la
Corte trae lo spunto per evidenziare l’alto valore di libertà di questa scelta politico-criminale:
‘‘ci sono’’ infatti ‘‘valide ragioni per ritenere che il divieto [di intromettersi nelle idee, nei
pensieri e nelle espressioni di un uomo contenute nei suoi libri o nelle sue carte] rappresenti
un fondamentale valore costituzionale’’ che non può essere compresso dall’intervento del di-
ritto penale. ‘‘Questo è stato il secolo della Gestapo e del KGB, di organizzazioni statuali
che hanno incoraggiato i figli a denunciare i loro genitori... a bruciare libri in nome di un ar-
cano concetto di un bene comune’’, sovvertendo così il sistema delle garanzie e delle libertà
fondamentali. Se si vuole evitare di ricadere in questi eccessi, si dovrà riconoscere che ‘‘la
nostra etica politica ci impedisce di considerare il mero possesso come un crimine, anche nei
casi in cui si ritenga che il possessore potrà commettere, in futuro, un crimine proprio in ra-
gione della disponibilità di questi oggetti’’. ‘‘In una società democratica di uomini liberi’’
così conclude la Corte ‘‘al legislatore non è consentito di criminalizzare il semplice possesso
di espressive materials’’.
Da questa inequivoca premessa, Justice A. Soutin sviluppa gli specifici motivi di cen-
sura nei confronti del § 163 del codice penale canadese: irragionevolezza (‘‘una previsione
legislativa che criminalizza il possesso privato di oggetti o materiali ma consente che con-
dotte analoghe possono essere tenute liberamente in pubblico è priva di ogni ragionevolez-
za’’); inoffensività (‘‘la criminalizzazione della mera disponibilità di expressive materials ri-
chiede la più assoluta certezza della sua necessità’’ — dimostrazione che nel caso di specie
il legislatore si è ben guardato dal fornire —) (188). Breve: non tutto ciò che appare ragione-
vole nel mondo della logica può essere ritenuto tale dall’ordinamento giuridico-penale. Per
tutti questi motivi, considerata anche l’ampiezza della formulazione del tipo legale, la
norma deve essere dichiarata incostituzionale (189).
La ferma posizione assunta dalla Corte canadese nei confronti degli eccessi punitivi del
legislatore contribuisce a riaffermare l’esatto disvalore delle condotte che si situano a monte
della semplice fruizione. Nessun dubbio che la pornografia minorile rappresenti una pratica
‘‘dannosa’’ per questi ultimi prima ancora che per ‘‘il corpo sociale’’ e che, di conseguenza,
meriti di essere regolamentata anche attraverso l’impiego della sanzione penale. Tuttavia,
una cosa è reclamare l’intervento del diritto penale nei confronti di ipotesi di produzione,

(187) Cfr. Regina v. Sharpe, 1 ss. Merita di essere ricordato che la giurisprudenza ca-
nadese si caratterizza per una maggiore tolleranza nei confronti degli interventi del legisla-
tore penale nel contesto dei cc.dd. hate speeches. M. ROSENFELD, Pragmatism, Pluralism and
Legal Interpretation: Posners’s and Rorty’s justice without metaphysics meets Hate Speech,
in Card. L. Rev., 1996, p. 140 ss.
(188) La necessità che il legislatore fornisca, ogni oltre ragionevole dubbio, la prova
della dannosità dei comportamenti che intende criminalizzare è esclusa dalla United States
Supreme Court in Paris Adult Theatre v. Slaton, 450 ss. V. anche Ginsberg v. New York, 642
s.; Noble State Bank v. Haskell, 219 U.S. 104, 110.
(189) Un commento dei principali passaggi di questa pronuncia in H. STEWART, A Ju-
dicious Response to Overbreath. R. v. Sharpe, in Crim. Law Quarterly, 2000, p. 159 ss. Sul
punto sia consentito rinviare, anche per la traduzione delle motivazioni di questa sentenza, a
G. MARRA, Gli occhiali di J.S. Mill. I limiti costituzionali alla costruzione dello statuto
penale della pornografia minorile in due sentenze di common law (in corso di prepara-
zione).

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commercializzazione o di scambio, anche gratuito, di materiale pedo-pornografico; tutt’altra,


invece, è quella di ostinarsi ad invocarne l’intervento nei confronti di condotte che non pos-
siedono una concreta offensività per il bene giuridico e che, nella migliore delle ipotesi, ap-
paiono legate a questo solo da flebili presunzioni logiche.

GABRIELE MARRA
Assegnista di ricerca
Università di Urbino

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LA NUOVA DISCIPLINA SULL’INDAGINE DIFENSIVA.
L’ESPERIENZA INGLESE.

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Matrici della l. 7 dicembre 2000, n. 397.


— 3. Le novità. - 3.1. I soggetti. - 3.2. I tempi. — 4. Le singole attività di indagine. -
4.1. Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione. - 4.2. L’accesso ai
luoghi pubblici o privati - 4.3. L’esame delle cose sequestrate o oggetto di ispezione -
4.4. L’assunzione di prova dichiarativa. — 5. L’attività di documentazione. — 6. Uti-
lizzabilità degli atti di indagine difensiva. — 7. Parità tra accusa e difesa nella fase del
pre-trial. - 7.1 Advance information. - 7.2 Disclosure. — 8. Considerazioni conclusive.

1. Considerazioni introduttive. — La recente legislazione sul processo penale si è rive-


lata sovrabbondante e non omogenea, tanto da caratterizzare l’intera disciplina ad esso rela-
tiva come precaria e casistica (1). L’opera di aggiustamento e di continuo adattamento at-
tuata mediante novelle, pronunce della Corte costituzionale e provvedimenti d’emergenza
che ha caratterizzato la disciplina del processo penale sin dagli anni immediatamente succes-
sivi all’entrata in vigore del nuovo codice, trova però la massima espressione nella fase delle
indagini preliminari.
Le indagini preliminari hanno rappresentato senza dubbio l’aspetto maggiormente inno-
vativo del vigente codice di procedura penale, in quanto si prestavano ad essere lo strumento
più idoneo per perseguire l’obiettivo fondamentale della riforma attuata sulla base della
legge delega 16 febbraio 1987, n. 81: realizzare un processo accusatorio, basato cioè sulla
contrapposizione paritaria tra accusa e difesa, nel quale la prova si formasse nel dibatti-
mento davanti ad un giudice imparziale, non influenzato cioè dai risultati delle acquisizioni
probatorie da lui stesso nonché da altri organi compiute nelle fasi processuali precedenti.
Con il tempo, tuttavia, la fase dedicata all’attività investigativa si è rivelata lo strumento
più idoneo per ‘manipolare’ e dunque vanificare tutti quei princìpi tipici del sistema proces-
suale adversary, primi fra tutti oralità e contraddittorio, che proprio attraverso di essa si
erano voluti fissare.
È pur vero che l’art. 7 della legge delega del 1987 ha ‘autorizzato’ una sorta di meccani-
smo di autorevisione, con il quale si è riconosciuta al governo la facoltà di emanare entro tre
anni dall’entrata in vigore del nuovo codice decreti aventi valore di legge ordinaria, conte-
nenti disposizioni integrative e correttive. È chiaro perciò come sin dalla sua elaborazione si

(1) A mero titolo esemplificativo, oltre alla legge in commento: d.lgs. 28 agosto 2000,
n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace a norma dell’art. 14 della
l. 24 novembre 1999, n, 468); l. 13 febbraio 2001, n. 45 (Modifica della disciplina della pro-
tezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché di-
sposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza); l. 1o marzo 2001, n. 63 (Mo-
difiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valuta-
zione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost.); l. 6
marzo 2001, n. 660 (Disposizioni in materia di difesa d’ufficio); l. 26 marzo 2001, n. 128
(Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini); l. 29 marzo 2001, n.
134 (Modifiche alla l. 30 luglio 1990, n. 217 recante istituzione del patrocinio a spese dello
Stato per i non abbienti).

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fosse consapevoli del fatto che solo l’esperienza, la concreta applicazione e la dinamica effet-
tiva del processo, avrebbe potuto dare la conferma della ‘bontà’ degli istituti in esso discipli-
nati. Così, dal 1991 in poi, anche per adeguare il testo normativo alle decisioni della Corte
costituzionale (2), il legislatore ha provveduto ad emanare una serie di provvedimenti che
hanno più o meno direttamente inciso sull’assetto originario del codice del 1988, ed in parti-
colar modo sulla fase strettamente procedimentale del processo penale (3).
Ma è con la legislazione degli ultimi due anni che si è giunti ad un vero e proprio ‘ribal-
tamento’ degli equilibri tra le singole fasi processuali e dei ruoli dei soggetti che vi prendono
parte e, paradossalmente (4), proprio nel medesimo arco di tempo in cui hanno trovato in-
gresso nel nostro ordinamento, con la modifica dell’art. 111 Cost., i principi sul giusto pro-
cesso (5).
La precisa definizione dei poteri del difensore in ordine alla ricerca della prova nella
fase delle indagini preliminari è, di fatto, divenuta indispensabile dopo l’emanazione della l.
16 dicembre 1999, n. 479, stante la forte caratterizzazione in senso ‘processuale’ da questa
attribuita agli atti di indagine, nonché la enorme rilevanza che il diritto alla prova quale
aspetto del più ampio diritto di difesa veniva, conseguentemente, ad assumere (6).
In virtù delle nuove disposizioni, miranti a rendere effettivo quell’aspetto fondamentale
del processo adversary rappresentato dalla egalité des armes, auspicata dal legislatore dele-
gante del 1987 (7) e trasfusa nel nuovo dettato dell’art. 111 Cost., i poteri dei difensori nella
fase delle indagini preliminari non risultano più compressi entro i limiti di un tanto generico,
quanto angusto jus postulandi nei confronti dell’organo dell’accusa in funzione dello svolgi-
mento di indagini a favore dell’indagato (art. 358 c.p.p.), né tantomeno limitati ad un mero
controllo di legalità delle attività investigative svolte dalla medesima accusa, ma possono
spingersi sino al compimento di autonome attività d’indagine, dando così attuazione a quel-
l’aspetto fondamentale del diritto di difesa rappresentato dal ‘‘diritto di difendersi provan-

(2) C. cost., 31 gennaio 1992, n. 24 (Giur. cost., 1992, 114); C. cost. 3 giugno 1992,
nn. 254 (Giur. it., 1993, I, 1, p. 533) e 255 (Giur. it., 1993, I, 1, p. 1858).
(3) Cfr. il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356 (Modifi-
che urgenti al nuovo c.p.p. e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa); l. 8, ago-
sto 1996, n. 332 (Modififche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei
procedimenti di misure cautelari e di diritto di difesa); l. 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica
delle disposizioni del codice di procedura in tema di valutazione delle prove).
(4) In proposito, la natura spesso caotica degli interventi legislativi in materia di pro-
cesso penale è sottolineata da P. FERRUA. L’Autore, infatti, osserva come il nostro codice si
sia ‘‘ridotto ad un puzzle di norme eterogenee, ispirate a logiche contraddittorie...’’, Garan-
zie formali e garanzie sostanziali nel processo penale, in Questione giustizia, n. 6/2001, p.
1116.
(5) Per una chiara analisi dei principi ispiratori delle recenti novelle (l. n. 479/1999,
l. n. 397/2000, l. n. 63/2001) e del carattere ‘antitetico’ dei loro risvolti pratici, cfr. G.
LOZZI, La realtà del processo penale ovvero il ‘‘modello perduto’’, in Questione giustizia, n.
6/2001, pp. 1098-1113.
(6) In particolare:
— l’art. 415-bis c.p.p. consente all’indagato, previo avviso del pubblico ministero
della conclusione delle indagini, ‘‘di presentare memorie, produrre documenti, depositare
documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il
compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero
chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio’’;
— l’art. 421-bis c.p.p. (Ordinanza per l’integrazione delle indagini) e l’art. 422 (Atti-
vità di integrazione probatoria del giudice) ampliano sensibilmente i poteri di integrazione
probatoria del giudice dell’udienza preliminare,
— l’art. 438 ha subordinato l’instaurazione del giudizio abbreviato (a richiesta del
solo imputato) ad un’integrazione probatoria;
— infine, l’art. 442 comma 1-bis c.p.p. consente al giudice, ai fini della decisione del
giudizio abbreviato, di utilizzare gli atti delle indagini preliminari.
(7) Legge 16 febbraio 1987, n. 81, direttiva n. 3.

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do’’ (8) sancito dalla Convenzione europea (art. 6) e tutelato, nel nostro ordinamento, dagli
artt. 24 e 111 Cost.
Tuttavia, la l. 7 dicembre 2000, n. 397 pur avendo il pregio di colmare un vuoto norma-
tivo durato più di dieci anni dovuto all’assenza di un’analitica disciplina sui poteri investiga-
tivi dei difensori, a fronte di una tutt’altro che lacunosa disciplina delle attività d’indagine
del pubblico ministero, si inserisce proprio in quella accennata tendenza ‘deflattiva’ rispetto
alla fase dibattimentale che ha caratterizzato la legislazione processualpenalistica degli ultimi
anni, concorrendo ad accrescere, non solo quantitativamente, l’importanza degli atti e degli
elementi ‘acquisiti’ nel corso delle indagini, a discapito della fase dominata dall’oralità e dal
contraddittorio delle parti nella formazione della prova e continuando quella generale ten-
denza involutiva di ‘‘anamorfosi del processo accusatorio’’ (9). Ne discende pertanto un pro-
blema di compatibilità della nuova normativa sulle indagini difensive con i principi costitu-
zionali sul ‘giusto processo’: da un lato, l’art. 111 Cost., come modificato dalla l. n.
63/2001, costituzionalizzando il principio del contraddittorio nel momento di formazione
della prova, ha espressamente attribuito al dibattimento il carattere di luogo privilegiato per
l’assunzione della prova; dall’altro, la circostanza che le dichiarazioni contenute nel fascicolo
del difensore siano utilizzate dalle parti ai fini di cui agli artt. 500, 512 e 513 (art. 391 de-
cies, comma 1 c.p.p.) ha ulteriormente ampliato la possibilità che elementi raccolti nella fase
delle indagini trovino ingresso nel dibattimento attraverso il sistema delle letture (10).
Il testo delle nuove disposizioni sulle indagini difensive, entrato in vigore il 3 gennaio
2001, è il risultato di un iter parlamentare che si è protratto per più di tre anni. Esso trova le
premesse in due distinte iniziative: una parlamentare (la proposta di l. 14 maggio 1996, n.
850) ed una governativa (il disegno di l. 27 novembre 1996, n. 2774) le quali, a loro volta,
derivano da una proposta elaborata dalle Camere penali ed esposta in un convegno tenutosi
nel 1993 a Siracusa, all’indomani, cioè, di quelle sentenze della Corte costituzionale e di
quei decreti governativi che ampliarono enormemente i poteri dei pubblici ministeri in or-
dine all’acquisizione della prova nel corso della fase delle indagini preliminari e che resero
drasticamente evidente l’impossibilità di raggiungere la tanto auspicata parità tra accusa e
difesa, ‘‘formula tanto vigorosa retoricamente quanto equivoca concettualmente’’, se non la
si intende come ‘‘idoneità dei poteri difensivi a controbilanciare quelli dell’accusa’’ (11).
In attesa di una definitiva sistemazione legislativa all’annosa questione dei poteri di ri-
cerca della prova del difensore nella fase d’indagine, il Consiglio nazionale forense aveva pe-
raltro provveduto, nel 1997, a predisporre una regolamentazione deontologica del ‘diritto di
difendersi provando’ con lo scopo di guidare il difensore nell’attività di ricerca della prova, e
che ha, in sostanza, supplito alla carenza di una dettagliata ed esaustiva disciplina codici-
stica (12).

(8) G. VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in questa Rivista, 1968, p.
12.
(9) P. FERRUA, Studi sul processo penale, III, Giappichelli, Torino, 1997.
(10) Come si vedrà più avanti, l’ingresso in dibattimento di prove assunte durante la
fase delle indagini è stato ulteriormente ampliato dalla l. n. 397/2000 attraverso il riconosci-
mento in capo al difensore della facoltà di richiedere l’incidente probatorio anche al di fuori
delle ipotesi previste dall’art. 392 comma 1 c.p.p.
Per un ampio ed approfondito panorama delle problematiche afferenti ai rapporti tra
giusto processo e indagini difensive, cfr. P. FERRUA, Garanzie formali e garanzie sostanziali,
op. cit.; G. GIOSTRA, Analisi e prospettive di un modello probatorio incompiuto, in Que-
stione giustizia, 6/2001, pp. 1129-1144; M. NOBILI, Giusto processo e indagini difensive:
verso una nuova procedura penale?, in Diritto penale e processo, 1/2001; G. LOZZI, op. cit.
(11) P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit. p. 104.
(12) ‘‘La normativa deontologica ha supplito fino ad oggi alla carenza delle norme
processuali e anzi ha concorso concretamente a precisarne i contenuti, poiché si deve pro-
prio all’elaborazione deontologica la dettagliata articolazione delle indagini difensive’’. Così

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2. Matrici della l. 7 dicembre 2000, n. 397. — La necessità di un’indagine svolta dal


difensore era avvertita anche (e soprattutto) nel sistema processuale del codice Rocco, nel
quale, da un lato, si attribuivano ampi poteri ex officio al pubblico ministero e al giudice
istruttore, i soli investiti del potere di ricerca e di raccolta della prova, dall’altro, si taceva
sulla possibilità per il difensore dell’imputato e delle altre parti private di svolgere autonoma
attività investigativa.
La giurisprudenza del Consiglio nazionale forense era, peraltro, costantemente orientata
nel senso di ritenere che ‘‘il colloquio puro e semplice del professionista con il testimone’’
integrava un illecito disciplinare perché ‘‘il contatto con il testimone crea(va) una condizione
obiettiva dalla quale (potevano) derivare suggestioni e turbamenti dell’animo dei testimoni
che ne (facevano) venir meno la libertà e l’obiettività necessaria. Il dovere di correttezza e di
lealtà del ministero professionale (imponevano) che l’avvocato si astenesse dal creare tali
condizioni, le quali (potevano) costituire per un professionista meno scrupoloso una tenta-
zione per più deplorevoli comportamenti’’.
La necessità di un’articolata disciplina dei poteri d’indagine del difensore, che non si ri-
solvesse, cioè, in una mera enunciazione di principio circa l’esistenza di un generico potere
di ricercare le prove, ma che contenesse piuttosto una specifica tipizzazione delle singole at-
tività e delle modalità di utilizzazione dei risultati di esse, fu avvertita pertanto sin dalla re-
dazione del nuovo codice di procedura penale.
Il legislatore sistemò così, per la prima volta, in un’apposita disposizione, l’art. 33 delle
norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del progetto preliminare del nuovo co-
dice di procedura penale, ‘‘le facoltà dei difensori per l’esercizio di diritto alla prova’’. Con
tale previsione veniva attribuita ai difensori la legittimazione, al fine di esercitare il diritto
alla prova ex art. 190 c.p.p., a svolgere investigazioni e ad intervistare le persone informate
dei fatti che, avvertite della facoltà di rifiutare il colloquio, potevano rilasciare dichiarazioni
scritte. A tali fini i difensori potevano servirsi di sostituti, consulenti tecnici ed investigatori
autorizzati (13).
Tuttavia, nonostante la sua analiticità, la norma presentava alcune lacune, ravvisate dal
Consiglio Superiore della Magistratura nell’assenza di una disciplina concernente le modalità
di documentazione delle dichiarazioni raccolte dai potenziali testimoni, la loro utilizzabilità
processuale nonché le modalità di convocazione del testimone (14). Considerazioni che in-
dussero il Governo ad eliminare i commi 2, 3, 4 e 5.
La disciplina delle indagini difensive venne successivamente trasfusa nell’art. 38 delle
norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e, con

R. DANOVI, Dopo la rivoluzione delle indagini difensive solo piccoli ritocchi ai codici deon-
tologici, in Guida al diritto, 2/2001, p. 10.
(13) Il testo della norma era il seguente: 1. ‘‘Al fine di esercitare il diritto alla prova
prevista dall’art. 190 c.p.p., i difensori, anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici,
hanno facoltà di: a) svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a
favore del proprio assistito; b) conferire con le persone che possano dare informazioni e
farsi rilasciare da esse dichiarazioni scritte.
2. Le persone indicate nel comma 1, lett. b), sono avvertite della facoltà di rifiutare il
colloquio.
3. Se l’interpellato lo richiede, al colloquio è presente una persona di sua fiducia, che
sottoscrive l’eventuale dichiarazione scritta.
4. La facoltà prevista dal comma 1 lett. b), non può più essere esercitata dopo che la
persona è stata ammessa come testimone nell’incidente probatorio, nell’udienza preliminare,
o nel dibattimento.
5. L’attività prevista dal comma 1 lett. a) può essere svolta su incarico del difensore,
da investigatori privati autorizzati’’.
(14) Il C.S.M. suggerì che la convocazione sarebbe dovuta avvenire per iscritto, con
l’avviso che non vi era l’obbligo giuridico di comparire e con l’indicazione della persona per
conto della quale veniva richiesta e dell’oggetto della stessa.

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l’aggiunta di un secondo comma, fu introdotta una esplicita menzione per gli investigatori
privati. Tuttavia, la portata della norma, rispetto all’analoga previsione del progetto prelimi-
nare, risultava assai ristretta poiché si limitava, in sostanza, a sancire in capo ai difensori la
titolarità delle indagini con la possibilità di conferire con le persone informate sui fatti.
Fonte di equivoci fu poi anche l’inciso iniziale dell’art. 38: ‘‘Al fine di esercitare il di-
ritto alla prova prevista dall’art. 190 del codice (...)’’, che secondo alcuni legittimava un’in-
terpretazione restrittiva dei poteri della difesa nel senso che il rapporto paritario accusa-di-
fesa dovesse circoscriversi alla fase del giudizio. In realtà ratio della disposizione era quella
secondo cui l’indagine difensiva fosse finalizzata al giudizio, sede naturale della formazione
della prova, come peraltro la stessa relazione al codice di procedura penale enuncia (‘‘Le di-
sposizioni... del libro III’’ — e, quindi, anche quella dell’art. 190, richiamata espressamente
dall’art. 38 — ‘‘si osservano nella fase interiore al dibattimento’’).
Il silenzio dell’originario art. 38 circa le modalità dell’impiego processuale di quanto ac-
quisito dal difensore, condusse la giurisprudenza di merito (15), tra il 1990 ed il 1991 e poi,
dal 1992, anche la giurisprudenza di legittimità, ad escludere un possibile utilizzo della do-
cumentazione raccolta dal difensore nel corso del procedimento, se non a fini esclusiva-
mente interni alla difesa. In altri termini, gli atti di indagine difensiva potevano servire ‘‘a
sollecitare il rappresentante dell’accusa all’acquisizione di elementi di prova oppure per ri-
chiedere l’intervento del g.i.p. per l’espletamento dell’incidente probatorio, ma non potevano
essere portati alla diretta cognizione del giudice, come è confermato dall’art. 348 e dall’art.
358’’ (16), che prevede l’obbligo del pubblico ministero di svolgere altresì accertamenti su
fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini ‘‘e che dunque comporta
che gli elementi di prova da utilizzare nella fase delle indagini preliminari, anche ai fini cau-
telari, debbano essere assunti dal pubblico ministero’’ (17), dal momento che quest’ultimo,
durante le indagini preliminari, ‘‘non è parte, bensì l’unico organo preposto, nell’interesse
generale, alla raccolta ed al vaglio dei dati positivi e negativi afferenti fatti di possibile rile-
vanza penale’’. Ne deriva che tutti i dati utili devono essere canalizzati sul pubblico mini-
stero nella fase anteriore all’esercizio dell’azione penale (18). Le ragioni giuridiche alla base
delle argomentazioni della Suprema Corte riguardano il carattere sostanzialmente ‘‘infor-
male ed extra-procedimentale’’ delle ricerche effettuate dalla difesa; la prova, viceversa, ‘‘per
risultare idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti non può prescindere da forme volte a
garantire genuinità ed affidabilità sicura’’ (19).
Stante la sua estrema genericità, l’art. 38 disp. att. finì con il porre problemi più ampi di
quelli ai quali aveva cercato di fornire una risposta, in quanto ben poco apportava alla già
scarna disciplina delle attività difensive, non prevedendo nulla, come già accennato, in or-
dine alle modalità di svolgimento delle attività investigative, né tantomeno in ordine alla pos-
sibilità di documentazione degli atti compiuti.
È quindi intervenuta la l. n. 332/1995, il cui art. 22 ha inserito all’art. 38 due ulteriori
commi, riguardanti in primo luogo il diritto del difensore dell’indagato di presentare diretta-
mente al giudice, senza cioè un potere di filtro del pubblico ministero (come affermava, in-
vece, la Corte di cassazione), la documentazione delle investigazioni svolte (comma 2 bis); in
secondo luogo il potere/dovere di inserire tale documentazione nel fascicolo degli atti di in-
dagine (comma 2-ter).

(15) Cfr. Ass. Milano, 31 ottobre 1991, Bruzzini, in Crit. dir., 1993, n. 1-2, 49;
G.i.p. Trib. Bologna, 8 maggio 1990, Cerri, in Cass. pen., 1990, II, 352; Trib. Lecce, 29 set-
tembre 1993, Santolla, in Cass. pen., 1994, p. 452.
(16) Cass. Sez. I, 31 gennaio 1994, Vincenti, in Giust. pen., 1994, III, p. 223.
(17) Cass. Sez. I, 16 marzo 1994, Cagnazzo, in Arch. n. proc. pen., 1994, p. 364.
(18) Cass. Sez. fer. 18 agosto 1992, Burrafato, in questa Rivista, 1993, p. 1169.
(19) Cass. Sez. VI, 1o marzo 1993, Minzolini, in Cass. pen., 1995, 974, con nota di
G. JESU.; in senso conforme, Cass. Sez. II, 16 marzo 1995, Marras, in Arch. n. proc. pen.,
1996, p. 150.

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Tuttavia, l’introduzione dei commi 2-bis e 2-ter non è stata sufficiente ad evitare una di-
sciplina scarna e lacunosa dell’indagine difensiva, in particolare sui modi ed i limiti di im-
piego della documentazione presentata dal difensore, precisazione tanto più necessaria
quanto più si tenga conto del fatto che ‘‘il legislatore, legittimando l’inserimento della docu-
mentazione a discarico nel fascicolo degli atti di indagine, ha posto le premesse affinché un
utilizzo processuale realmente vi fosse’’ (20).

3. Le novità. — L’importanza che si è inteso attribuire alla nuova disciplina dell’atti-


vità di indagine del difensore si evince chiaramente da un aspetto di carattere, per così dire,
formale e sistematico: poiché non avrebbe avuto senso prevedere una dettagliata disciplina e
continuare a ‘relegarla’ nelle disposizioni di attuazione, che pur avendo valore di legge ordi-
naria, costituiscono delle norme di carattere ‘ausiliario’, strumentale del sistema delineato
nel codice, l’art. 38 disp. att. c.p.p. è stato abrogato, e le nuove disposizioni, sono state inse-
rite all’interno del corpus codicistico in un apposito titolo del libro V, in nove articoli, dal
391-bis al 391-decies, i quali delineano l’oggetto, i tempi, la documentazione e l’utilizzabilità
dell’attività investigativa compiuta dal difensore delle parti private (21).

3.1. I soggetti. — La l. n. 397/2000 attribuisce il potere di svolgere attività d’indagine


a soggetti cui in precedenza tale potere era precluso. In virtù delle nuove disposizioni sog-
getti legittimati a compiere attività d’indagine sono, oltre al difensore dell’indagato/impu-
tato, il difensore delle altre parti private (persona offesa, parte civile, persona civilmente re-
sponsabile per il pagamento della multa o dell’ammenda), il sostituto, investigatori privati
autorizzati e, quando si rivelino necessarie particolari competenze tecniche, il consulente
tecnico, salve le incompatibilità di cui all’art. 197, comma 1, lett. c) e d), come modificato
dalla legge de qua (22).
In verità, la circostanza che la nuova normativa non contenga alcun esplicito riferi-
mento alla persona offesa sembrerebbe fornire valido supporto a quell’orientamento dottri-
nale che esclude dall’ambito di operatività della disciplina sull’investigazione difensiva la
persona offesa dal reato (23), in quanto non titolare di un diritto alla prova. Si è però corret-
tamente osservato che ‘‘così opinandosi, si trascura per un verso, che il diritto dell’offeso di

(20) Così G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, 4a ed., Giappichelli, Torino 2001.
(21) L’introduzione della nuova disciplina sull’investigazione difensiva ha, peraltro,
coerentemente eliminato l’incongruenza derivante dal fatto che l’art. 2 della l. 30 luglio
1991, n. 217, istitutiva del gratuito patrocinio dei non abbienti, avesse escluso dal proprio
àmbito di operatività ‘‘i soggetti che svolgono investigazioni per individuare elementi di
prova di cui all’art. 38 disposizioni di attuazione c.p.p.’’: la l. 29 marzo 2001, n. 134 (art.
11) ha infatti modificato l’art. 4 e l’art. 12 della l. n. 217/1990, includendo gli investigatori
privati autorizzati tra i soggetti il cui compenso rientra nella disciplina del patrocinio a spese
dello Stato.
(22) In virtù delle nuove disposizioni, infatti, le ipotesi di incompatibilità con l’uffi-
cio di testimone sono state estese al ‘‘difensore che abbia svolto attività di investigazione di-
fensiva e (a) coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle infor-
mazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter’’ (art. 3 l. n. 397/2000). Ne discende che non po-
tranno deporre solamente quei difensori che abbiano svolto attività investigativa e quanti ab-
biano formato la relativa documentazione (consulenti tecnici ed investigatori privati autoriz-
zati i quali non hanno proceduto alla documentazione delle dichiarazioni o delle informa-
zioni ottenute dalle persone in grado di fornire notizie utili, pur potendovi assistere).
Per un approfondita analisi dei profili soggettivi della legge in commento, cfr. G. SPAN-
GHER, I profili soggettivi, in AA.VV., Le indagini difensive, Ipsoa, Milano 2001.
(23) G. SANTALUCIA, Persona offesa e attività di investigazione, in Giust. pen., 2001,
III, p. 449 ss.; A.A. ARRU, L’attività investigativa difensiva preventiva, in AA.VV., Processo
penale: il nuovo ruolo del difensore, a cura di L. Filippi, Padova, 2001, p. 319 ss.. Prima
della l. n. 397/2000, G. BISCARDI, Investigazioni difensive tra attualità e prospettive future,
in Diritto penale e processo, 1998, p. 1435.

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indicare elementi di prova ai sensi dell’art. 90 c.p.p. non può ridursi ad un flatus vocis e, per
altro verso, che tanto la formula adottata dall’art. 38 comma 1 disp. att. c.p.p., quanto
quella analoga dell’art. 327-bis c.p.p. appaiono riferite non già all’esercizio immediato, bensì
alle finalità di attuazione del medesimo diritto, tale da non potersi trarre in dubbio che la
persona offesa sia ben in grado di perseguire quegli scopi vuoi in fase preliminare, vuoi dopo
aver acquisito la qualità di parte civile’’ (24).
Non vi è dunque motivo, a nostro avviso, di dubitare della possibilità per il difensore
della persona offesa di espletare direttamente proprie attività d’indagine. A sostegno della
tesi estensiva vi sono, infatti, oltre all’ampia formulazione adottata dal legislatore, ‘consi-
stenti’ riscontri normativi che presuppongono in capo alla futura parte civile non la sola fun-
zione di stimolo o di controllo dell’attività del pubblico ministero, ma veri e propri poteri
autonomi d’indagine e di accesso ai risultati investigativi dell’organo pubblico di accusa (25).

3.2. I tempi. — L’incipit dell’abrogato art. 38 disp. att. (‘‘Al fine di esercitare il diritto
alla prova previsto dall’art. 190 del codice...’’) induceva a pensare, come accennato, che il
diritto di difendersi provando potesse essere validamente esercitato solo a processo instau-
rato. La l. n. 397/2000 (art. 7) ha eliminato questo dubbio introducendo l’art. 327-bis, il
quale stabilisce che le indagini possono svolgersi ‘‘sin dal momento dell’incarico professio-
nale... in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il
giudizio di revisione’’, ampliando notevolmente lo spazio temporale disponibile alla difesa
per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito.
Una delle novità più significative concerne la possibilità per il difensore che abbia rice-
vuto apposito mandato, rilasciato con sottoscrizione autenticata (ai sensi dell’art. 39 disp.
att.c.p.p.) e contenente la nomina e l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce, di svolgere atti-
vità investigativa preventiva, ‘‘per l’eventualità che si instauri un procedimento penale’’ (art.
391-nonies c.p.p.). Trattasi di un utile strumento per valutare le strategie difensive più ido-
nee da attuare nel caso concreto (26).
In virtù del richiamo all’art. 327-bis, comma 3, il diritto di svolgere indagini preventive
deve intendersi esteso anche al difensore della persona offesa, nonché ai sostituti, ai consu-
lenti tecnici ed agli investigatori privati. Nessuna sanzione di carattere processuale è prevista
nell’ipotesi in cui il difensore ometta l’indicazione dei fatti nel mandato. Il legislatore ha, tut-
tavia, previsto un limite di carattere oggettivo concernente gli atti che richiedono l’autorizza-
zione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, e dunque le ipotesi previste dall’art. 391-bis,
comma 7 (colloquio, ricezione di dichiarazioni e assunzione di informazioni da persona dete-
nuta) e dall’art. 391-septies, comma 1 (accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico qua-
lora non vi sia il consenso di chi ne ha la disponibilità).

(24) G. RUGGIERO, Le investigazioni difensive della persona offesa dal reato, in Di-
ritto penale e processo, n. 8/2002, p. 931.
(25) L’art. 335 c.p.p. consente alla persona offesa ed al suo difensore di ottenere la
comunicazione delle iscrizioni nel registro delle notitiae criminis; l’art. 410 c.p.p. consente
alla persona offesa di opporsi alla richiesta di archiviazione e le impone, a pena di inammis-
sibilità dello stesso atto di opposizione, di indicare elementi di prova; l’art. 414 c.p.p. con-
sente alla persona offesa di sollecitare la riapertura delle indagini; il nuovo art. 391-bis
comma 10 c.p.p. attribuisce alla persona offesa il potere di richiedere l’incidente probatorio.
(26) Nel nuovo istituto vede un pericolo non solo per la genuinità delle fonti investi-
gative, ma per la stessa instaurabilità del procedimento, M. MADDALENA, Per la difesa libera
di investigare facoltà e diritti, nessun dovere, in Diritto e giustizia, 40/2000, p. 8 ss. L’Au-
tore sottolinea, infatti, come possa rivelarsi altamente probabile la circostanza che il difen-
sore di un potenziale indagato, contattando eventuali ‘fonti’ di una notitia criminis sfavore-
voli al proprio assistito prima ancora che quella giunga all’autorità giudiziaria o alla polizia
giudiziaria, possa favorire ‘‘opere di pressione, intimidazione, corruzione, lusinga... dirette a
scoraggiare la comunicazione della notitia a chi di competenza. Anche perché da nessuna
parte è scritto ... che il difensore ha la facoltà o il diritto, e men che meno il dovere, di tacere
al suo committente l’esito della commissione’’.

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Coerente con la scelta di una disciplina delle investigazioni difensive non poteva non es-
sere la previsione, accanto ad un’indagine preventiva, di un’indagine integrativa, successiva
cioè all’emissione del decreto che dispone il giudizio, ad ulteriore conferma dell’intenzione
del legislatore di ricondurre ad un sostanziale equilibrio i rapporti tra i poteri del pubblico
ministero e del difensore. L’art. 430 comma 2, c.p.p., però, impone l’immediato deposito
della relativa documentazione nella segreteria del pubblico ministero, quasi ad imporre una
discovery coatta, compromettendo in tal modo importanti esigenze legate alle strategie difen-
sive. Menomazione in parte compensata dall’assenza di un’esplicita sanzione in caso di inos-
servanza dell’obbligo di deposito.

4. Le singole attività di indagine.

4.1. Richiesta di documentazione alla Pubblica Amministrazione. — Al fine di indivi-


duare elementi di prova a favore del proprio assistito, il difensore, ai sensi dell’art. 391-qua-
ter c.p.p., può richiedere documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarne
copia. In caso di rifiuto della pubblica amministrazione si applicano gli artt. 367 e 368
c.p.c.: il difensore dovrà richiedere al pubblico ministero di disporre il sequestro della docu-
mentazione, costringendo in tal modo il difensore dell’imputato ad una discovery antici-
pata (27). Occorre, inoltre, considerare la possibilità che l’organo dell’accusa possa discre-
zionalmente decidere se disporre o meno il sequestro.
Il pubblico ministero trasmette la sua richiesta ed il suo parere (negativo) al giudice per
le indagini preliminari. Non si comprende, tuttavia, perché il difensore non possa rivolgersi
direttamente egli stesso al giudice senza il filtro del pubblico ministero, analogamente a
quanto accade nell’ipotesi prevista dall’art. 204 c.p.p. (28).

4.2. L’accesso ai luoghi pubblici o privati. — Gli artt. 391-sexies e 391-septies riguar-
dano, il primo, la possibilità per il difensore di effettuare un accesso al fine di prendere vi-
sione dello stato dei luoghi e delle cose ovvero per procedere alla loro descrizione o per ese-
guire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi; il secondo disciplina l’ac-
cesso a luoghi privati o non aperti al pubblico. In tal caso sussiste, tuttavia, un limite: è ne-
cessario il consenso di chi ne ha la disponibilità, in mancanza del quale il difensore può chie-
dere al giudice l’autorizzazione (con decreto motivato) all’accesso. Inoltre, la persona pre-
sente deve essere avvertita della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché questa
sia prontamente reperibile e idonea a norma dell’art. 120 c.p.p. Non è inoltre consentito l’ac-
cesso ai luoghi d’abitazione ed alle loro pertinenze, salvo che sia necessario accertare le
tracce e gli altri effetti materiali del reato.

(27) Contro il rifiuto della pubblica amministrazione di rilasciare copia di docu-


menti, il difensore può, tuttavia, attivare, in alternativa al procedimento disciplinato dagli
artt. 367 e 368 c.p.p., un controllo in sede amministrativa, mediante la proposizione del ri-
corso al tribunale amministrativo regionale entro trenta giorni dal rifiuto o, se la pubblica
amministrazione non risponde, dalla presentazione della richiesta. Il giudice amministrativo
decide entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difen-
sori che ne abbiano fatto richiesta (art. 251, n. 241/1990). Il procedimento amministrativo
consente al difensore che eventualmente decida di avviarlo di non dover rivelare al pubblico
ministero la propria strategia difensiva.
(28) L’art. 391-quater c.p.p. va integrato con quanto previsto dalla l. 7 agosto 1990,
n. 241 (art. 22), la quale conferisce il diritto di accedere ai documenti amministrativi a
chiunque abbia interesse a tutelare situazioni giuridicamente rilevanti. Pertanto, sussiste il
divieto di esaminare i documenti coperti dal segreto di stato ai sensi dell’art. 12 l. 24 ottobre
1977, n. 801 o da altri segreti o divieti di divulgazione previsti dall’ordinamento (art. 24); la
richiesta di esaminare o estrarre copia di documenti della pubblica amministrazione devono
essere motivati (art. 25, commi 2 e 3); l’accesso si esercita mediante l’esame e l’estrazione di
copia dei documenti (art. 25 comma 1).

Rivista Italiana di Dir e Proc Penale - fasc. saggio 1/2003 - Copyright Giuffre’ 2003
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4.3. L’esame delle cose sequestrate od oggetto di ispezione. — La l. n. 397/2000 (art.


10) ha modificato l’art. 366 c.p.p. nel senso di prevedere per il difensore e per il consulente
tecnico (art. 233, comma 1-bis c.p.p.) il diritto di esaminare le cose sequestrate nel luogo in
cui esse si trovano (29) e, se si tratta di documenti, di estrarne copia. Il pubblico ministero
può tra l’altro con decreto motivato disporre per gravi motivi che l’esercizio della suddetta
facoltà venga ritardato, senza pregiudizio di ogni altra attività del difensore, per non oltre
trenta giorni. Contro tale decreto il difensore e la persona sottoposta alle indagini possono
proporre opposizione al giudice per le indagini preliminari, che provvede ai sensi dell’art.
127 c.p.p. Prima dell’esercizio dell’azione penale l’autorizzazione è concessa dal pubblico
ministero.

4.4. L’assunzione della prova dichiarativa. — Il ‘cuore’ della nuova legge sulle inda-
gini difensive concerne senza dubbio l’assunzione della prova dichiarativa. Essa si articola in
tre momenti: a) il colloquio con la persona informata dei fatti; b) la richiesta di dichiara-
zioni scritte; c) l’assunzione di informazioni.
a) Il colloquio informale. Il difensore, il sostituto, gli investigatori autorizzati o il con-
sulente tecnico possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini
delle indagini, salve le incompatibilità con l’ufficio di testimone previste dalle lettere c) e d)
dell’art. 197 c.p.p. Al difensore è pertanto vietato acquisire notizie non documentate, di rice-
vere dichiarazioni e di assumere informazioni dal responsabile civile e dalla persona civil-
mente obbligata per la pena pecuniaria (lett. c)); da coloro che, nel medesimo procedimento
svolgono o abbiano svolto la funzione del giudice, di pubblico ministero, di loro ausiliario;
dal difensore che abbia svolto attività d’investigazione difensiva; da coloro che abbiano for-
mato la documentazione delle dichiarazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p. (lett. d)).
La disposizione in esame ha peraltro risolto un dubbio interpretativo relativo alla possi-
bilità per il difensore di deporre su quanto appreso nella sua attività, e dunque quale teste de
relato. Mentre la Corte costituzionale si manifestava a favore di un’interpretazione estensiva
dell’art. 38 disp. att. c.p.p. (30), l’art. 56 del codice deontologico forense con maggior rigore
stabilisce che ‘‘per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su
circostanze apprese nell’esercizio della propria attività (...). Qualora l’avvocato intenda pre-
sentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo’’.
Il comma 9 dell’art. 391-bis impone al difensore o al sostituto di interrompere l’assun-
zione di informazioni da parte della persona non imputata, ovvero della persona non sotto-
posta ad indagini, qualora essa renda dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo
carico. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha
rese (in analogia a quanto previsto a carico del testimone dall’art. 198 comma 2 c.p.p). La
norma riproduce, sostanzialmente, l’art. 63 c.p.p.
L’attività in oggetto è funzionale rispetto alla successiva eventuale richiesta di dichiara-
zioni scritte o di informazioni documentate, svolge dunque una funzione di orientamento del
difensore in ordine alle strategie difensive da adottare.
b) Dichiarazioni scritte e c) informazioni documentate. Il comma 2 dell’art. 391-bis
prevede il potere del difensore e del sostituto di chiedere alle persone sentite, al termine del
colloquio, il rilascio di una dichiarazione scritta ovvero di rendere informazioni documen-
tate (31).

(29) Con un’importante differenza: mentre il difensore ha la facoltà di esaminare i


documenti sequestrati e di estrarne copia, il consulente tecnico, può procedere al compi-
mento delle summenzionate operazioni solo previa autorizzazione del giudice, su richiesta
del difensore. Per l’eventuale profilo di illegittimità costituzionale, cfr. N. GHEDINI, Prova do-
cumentale: un sospetto di incostituzionalità, in Guida al diritto, 1/2001, p. 54 s.
(30) Cfr. Corte cost. 3 luglio 1997, in Cass. pen., 1997, 3285.
(31) Il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati devono fornire alcuni
avvertimenti alle persone informate dei fatti, in particolare: della propria qualità e dello

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La violazione degli obblighi inerenti agli avvertimenti, al divieto di richiedere notizie


alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero sulle domande for-
mulate o sulle risposte date, nonché all’obbligo di avviso e alla presenza del difensore della
persona sottoposta alle indagini o imputata nello stesso procedimento, in un procedimento
connesso o per un reato collegato comporta la inutilizzabilità delle dichiarazioni raccolte. La
violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare, ed è comunicata dal giudice che
procede all’organo titolare del potere disciplinare.
La formulazione del comma 2 dell’art. 391-bis c.p.p. evoca quella dell’art. 362 c.p.p.,
che disciplina l’assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero nella fase delle
indagini preliminari. L’art. 362 c.p.p. si riferisce, tuttavia, alla sola assunzione d’informa-
zioni dalle persone in grado di riferire circostanze utili ai fini delle indagini, che non siano
indagate o imputate nel medesimo procedimento, in un procedimento connesso, o per un
reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lett. b)
c.p.p. Questo spiega l’applicazione, all’assunzione di informazioni da parte del pubblico mi-
nistero, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 362 c.p.p., degli artt. 197, 198, 199, 200,
201, 202, 203 c.p.p. Un analogo richiamo sarebbe stato superfluo con riguardo all’assun-
zione di informazioni da parte del difensore, sia perché la persona ‘‘informata’’ può avvalersi
della facoltà di non rispondere, sia perché il difensore può assumere informazioni, nonché ri-
cevere dichiarazioni, oltre che da coloro che hanno la capacità di testimoniare, anche dagli
indagati o dagli imputati nel medesimo procedimento, in un procedimento connesso, o per
un reato collegato, anche se abbiano chiamato in reità o in correità il suo assistito.
Anche le persone offese dal reato possono essere contattate e sentite.
Come già accennato, il difensore ha il potere di ricevere dichiarazioni o assumere infor-
mazioni da persona detenuta; a tal fine il difensore deve munirsi di specifica autorizzazione
del giudice che procede nei confronti della stessa, sentiti il suo difensore ed il pubblico mini-
stero. Prima dell’esercizio dell’azione penale, l’autorizzazione è data dal giudice per le inda-
gini preliminari. Durante l’esecuzione della pena, provvede il magistrato di sorveglianza (art.
391-bis, comma 7 c.p.p.).
Nulla la legge dice riguardo l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal detenuto senza
che il difensore si fosse previamente munito della necessaria autorizzazione. Pertanto, sem-
bra doversi ammettere la loro piena utilizzabilità (32).
Il comma 10 dell’art. 391-bis c.p.p. disciplina le conseguenze dell’esercizio da parte
della persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa della fa-

scopo del colloquio, anche se non è imposto l’obbligo di rivelare il nome del proprio assi-
stito, né di esibire la nomina; se intendono semplicemente conferire ovvero ricevere dichiara-
zioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le modalità e la forma di documenta-
zione; dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso proce-
dimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato; della facoltà di non rispon-
dere o di non rendere la dichiarazione; del divieto di rivelare domande eventualmente for-
mulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date, divieto che si ri-
collega ad analogo divieto posto a carico del difensore dal comma 4 del medesimo art. 391-
bis c.p.p. (specularmente, l’art. 9 della l. 397/2000, modificando l’art. 362 c.p.p., fa divieto
al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria di assumere informazioni da persone già sen-
tite dal difensore o dal suo sostituto).
(32) La l. n. 397/2000 ha altresì introdotto importanti modifiche al diritto penale so-
stanziale, ed in particolare al titolo del codice penale dedicato ai delitti contro l’amministra-
zione della giustizia. È stato integrato l’art. 371-bis (False informazioni al pubblico mini-
stero), con l’aggiunta del comma 2-bis; è stato introdotto l’art. 371-ter (False informazioni al
difensore), (per i cui eventuali profili di illegittimità costituzionale, V. PATALANO, Nasce il
reato di false dichiarazioni al difensore, in Guida al diritto, 1/2001, pp. 51-54.), nonché
l’art. 379-bis (Rivelazione di segreti inerenti a un procedimento). Le innovazioni ‘sostanziali’
apportate dalla disciplina sulle investigazioni difensive sono secondo l’Autore citato, sin-
tomo di uno stato ‘patologico’ del codice penale del 1930, ‘‘fortemente datato, costretto a
convivere con un codice di rito sempre più accusatorio’’ (V. PATALANO, op. cit., p. 51).

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coltà di non rispondere, o di non rendere la dichiarazione. In tal caso il difensore può chie-
dere al pubblico ministero di disporne l’audizione, cui dovrà procedersi entro sette giorni
dalla richiesta medesima. La norma non si applica, a differenza di quella contenuta nel suc-
cessivo comma 11, nei confronti delle persone sottoposte ad indagini o imputate nello stesso
procedimento, in procedimento connesso, o per reati collegati. L’eventuale violazione del-
l’obbligo da parte del pubblico ministero di disporre l’audizione, non è sanzionata se non nei
limiti dell’art. 124 c.p.p., né è prevista l’impugnabilità del diniego.
In alternativa all’audizione, il difensore potrà chiedere che si proceda con incidente pro-
batorio all’assunzione della testimonianza, o all’esame della persona che abbia esercitato la
facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione, anche al di fuori delle ipotesi
previste dall’art. 392 comma 1 c.p.p.: non è pertanto necessario che sussista fondato motivo
di ritenere che il teste non possa essere esaminato in dibattimento, per infermità o altro
grave impedimento o che sia esposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di
altra utilità affinché non deponga o deponga il falso, né è necessario che l’esame del coinda-
gato verta su fatti concernenti la responsabilità di altri.
Si è osservato, in proposito, come il consentire al difensore di chiedere l’incidente pro-
batorio senza limiti per l’assunzione di testimonianze, ‘‘oltre a creare giustificate preoccupa-
zioni per l’economia processuale, induc(a) a ravvisare un vizio di legittimità costituzionale in
relazione all’art. 3 Cost. e, quindi, al principio di eguaglianza inteso come principio di ragio-
nevolezza, dal momento che situazioni omogenee comportano regolamentazioni legislative
omogenee e non vi è alcuna ragione per consentire al difensore la richiesta di incidenti pro-
batori in casi in cui è vietata al p.m.’’ (33).
Non sono previste norme che attribuiscano al pubblico ministero il potere di dichiarare
l’inammissibilità della richiesta o di rigettarla. Si noti, inoltre, che la legge non indica al di-
fensore un termine entro il quale richiedere al pubblico ministero l’audizione della persona
che si sia avvalsa della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione. Non vi è,
tuttavia, bisogno della richiesta al pubblico ministero nelle ipotesi di persone sottoposte ad
indagini o imputate nello stesso procedimento e nei confronti delle persone sottoposte ad in-
dagini o imputate in un diverso procedimento nelle ipotesi previste dall’art. 210.
Il riferimento all’esame previsto dal comma 11 riguarda le persone sottoposte alle inda-
gini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato col-
legato. Per contro, al pubblico ministero non può essere chiesta l’audizione di dette persone,
ai sensi del comma 10.

5. L’attività di documentazione. — Si è visto come il testo originario dell’art. 38 disp.


att. c.p.p. tacesse circa il diritto del difensore di documentare le informazioni raccolte e
come ciò abbia portato al consolidarsi della giurisprudenza favorevole ad una necessaria ca-
nalizzazione degli atti della difesa sul pubblico ministero.
L’art. 391-ter c.p.p. prevede una duplice facoltà per il difensore, a seconda che questi ri-
ceva dalla persona sentita una dichiarazione scritta oppure intenda documentare egli stesso
le dichiarazioni. Nel primo caso, il difensore o un suo sostituto si limiterà ad autenticare la
dichiarazione sottoscritta dal dichiarante, nonché a redigere una relazione, che dovrà essere
allegata alla dichiarazione, nella quale vanno riportati la data in cui il difensore ha ricevuto
la dichiarazione, le generalità del difensore e del dichiarante, l’attestazione di aver rivolto gli
avvertimenti di cui all’art. 391-bis comma 3 c.p.p., i fatti oggetto della dichiarazion.
Qualora, invece, il difensore intenda procedere egli stesso alla raccolta delle dichiara-
zioni, la loro documentazione consisterà nella verbalizzazione, per la realizzazione della
quale il difensore o il sostituto possono avvalersi di persone di loro fiducia (34).

(33) G. LOZZI, op. cit., p. 1104.


(34) Nella loro attività di documentazione il difensore ed il suo sostituto devono ri-
spettare le norme contenute nel titolo III del Libro II del codice di rito concernenti la docu-

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La documentazione utilizzabile per le contestazioni nell’esame testimoniale e per le let-


ture è inserita nel fascicolo del difensore (art. 391-octies c.p.p.). Durante la fase delle inda-
gini preliminari il fascicolo del difensore è conservato presso l’ufficio del giudice per le inda-
gini preliminari. Della documentazione in esso inserita, il pubblico ministero può, tuttavia,
prendere visione ed estrarre copia prima che venga adottata una decisione su richiesta delle
altre parti o con il loro intervento. Dopo la chiusura delle indagini preliminari, il fascicolo
del difensore è inserito in quello del pubblico ministero. L’ultimo comma dell’art. 391-octies
c.p.p., attribuisce al difensore la facoltà di presentare, in ogni caso, al pubblico ministero gli
elementi di prova a favore del proprio assistito.
Un’ulteriore facoltà di documentazione è espressamente attribuita al difensore, al sosti-
tuto, all’investigatore privato autorizzato nonché al consulente tecnico in occasione dell’ac-
cesso ai luoghi (art. 391-sexies c.p.p.). Questi soggetti possono redigere un verbale, sotto-
scritto dalle persone intervenute, nel quale vanno riportati la data ed il luogo dell’accesso, le
generalità del difensore (o del sostituto o dell’investigatore autorizzato o del consulente tec-
nico) e quelle delle persone intervenute, la descrizione dello stato dei luoghi e delle cose,
nonché l’indicazione degli eventuali rilievi tecnici, grafici planimetrici, fotografici o audiovi-
sivi eseguiti, che andranno a formare parte integrante dell’atto e che dovranno esservi alle-
gati.
Si pone a questo punto il quesito se sia rilevabile un vizio di legittimità costituzionale
per violazione dell’art. 3 Cost. della norma in esame, poiché, come già notato, nell’ipotesi di
documentazione di dichiarazioni o informazioni il difensore ha il dovere di redigere il ver-
bale, mentre tale obbligo non sussiste nell’ipotesi di accesso ai luoghi.
Quanto alla qualifica di pubblico ufficiale che il difensore indagante, allorché docu-
menti i risultati della sua indagine, assumerebbe secondo parte della dottrina (35), è a nostro
avviso da condividere l’orientamento negativo e, ciò, sulla base di due ordini di rilievi.
Il primo, di carattere costituzionale, concerne l’ipotesi che se il difensore assumesse la
qualifica di pubblico ufficiale ne discenderebbe un contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. dal
momento che ad essere pregiudicata sarebbe quella ‘‘libertà nello svolgimento della difesa al
fine di ottenere il provvedimento giurisdizionale più favorevole al suo assistito’’ (36).
Il secondo, di carattere sistematico, discende, da un lato, dal raffronto di quelle norme
che manifestano la volontà del legislatore di mantenere ben distinti i diritti ed i poteri del
difensore e del pubblico ministero (37), dall’altro, dall’analisi di quelle norme che consen-

mentazione degli atti art. 134 (modalità di documentazione), 135 (redazione del verbale),
136 (contenuto del verbale), 137 (sottoscrizione del verbale), 138 (trascrizione del verbale
redatto con il mezzo della stenotipia), 139 (riproduzione fonografica o audiovisiva), 142
(nullità dei verbali).
(35) G. IADEGOLA, Le nuove indagini investigative da parte del difensore, in Giur.
mer., 2001, p. 560; M. MADDALENA, Per la difesa libera di investigare facoltà e diritti, nes-
sun dovere, op. cit., p. 8; MAGI, Commento sistematico alla l. 7 dicembre 2000, n. 397, Na-
poli, 2001, p. 69 s. Contra, A. BARAZZETTA, Le nuove indagini difensive dal punto di vista
del giudice, in AA.VV, Le indagini difensive. Legge 7 dicembre 2000, n. 397, Milano, 2001,
p. 94: G. FRIGO, L’indagine difensiva da fonti dichiarative, in AA.VV. Processo penale: il
nuovo ruolo del difensore, a cura di L. Filippi, Padova, 2001, p. 19 ss.; P. VENTRA, Falsa do-
cumentazione di indagini difensive, in Diritto penale e processo, n. 7/2002, pp. 895-902.
(36) P. VENTURA, Falsa documentazione di indagini difensive, op. cit., p. 898. L’Au-
tore, tra l’altro, richiama le parole di O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale, Milano,
1985, 152, secondo cui ‘‘il diritto di difesa costituisce la proiezione nel processo di quegli at-
tributi di libera autodeterminazione, autonomia e autoresponsabilità che assistono l’indivi-
duo in ogni settore della vita sociale’’.
(37) A mero titolo esemplificativo: artt. 246 comma 1 (Ispezione di luoghi o di cose)
e 250 comma 3 c.p.p. (Perquisizioni locali) c.p.p. ed art. 391-septies c.p.p. (Accesso ai luo-
ghi privati o non aperti al pubblico); art. 248 c.p.p. (Richiesta di consegna) ed art. 391-qua-
ter c.p.p. (Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione), art. 373 c.p.p. (Do-

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tono al difensore di esercitare i suoi poteri di indagine difensiva in maniera subordinata alla
volontà del pubblico ministero (38).

6. Utilizzabilità degli atti d’indagine difensiva. — Un’effettiva attuazione del principio


dispositivo non sarebbe stata raggiunta qualora si fosse mantenuta quella disparità tra ac-
cusa e difesa in ordine all’utilizzazione delle risultanze probatorie emerse nel corso della fase
investigativa.
Occorre preliminarmente distinguere a seconda che si faccia riferimento alla fase stret-
tamente procedimentale oppure dibattimentale del processo penale.
A) L’art. 391-octies c.p.p. fa riferimento all’ipotesi in cui il giudice, nel corso delle in-
dagini preliminari o dell’udienza preliminare, debba adottare una decisione con l’intervento
della parte privata. In tale ipotesi, il difensore può presentare direttamente al giudice gli ele-
menti di prova a favore del proprio assistito (39). Il difensore può presentare i citati ele-
menti difensivi direttamente al giudice nel corso delle indagini preliminari affinché ne tenga
conto anche nel caso in cui debba adottare una decisione per la quale non è previsto l’inter-
vento della parte assistita.
Si tratterà, nel primo caso, di decisioni concernenti la proroga del termine delle indagini
preliminari, l’adozione di misure cautelari, l’autorizzazione all’esecuzione di intercettazioni
telefoniche, nonché tutte quelle pronunce da adottarsi nei procedimenti speciali che si fon-
dano sui risultati probatori delle indagini preliminari, in particolare nel giudizio abbreviato e
nel patteggiamento che si instaurino nell’udienza preliminare o del patteggiamento previsto
dall’art. 447 c.p.p. ‘‘Con il limite, però, per cui tutto ciò che è nel fascicolo prima dell’in-
staurazione del rito sarà utilizzabile, mentre nello svolgimento del rito la produzione di ulte-
riori atti potrà avvenire solo se consentito dalle norme che disciplinano il procedimento spe-
ciale eventualmente in esame’’ (40).
Qualora invece si tratti di procedimento per decreto oppure di procedimenti che ven-
gono instaurati in fasi successive alle indagini ed all’udienza preliminare (come il giudizio
abbreviato o il patteggiamento a seguito di opposizione a decreto penale di condanna o a se-
guito della notifica del decreto di giudizio immediato, oppure come il giudizio abbreviato e il
patteggiamento che si instaurano in sede dibattimentale nel procedimento a citazione diretta
e nel giudizio direttissimo) il fondamento normativo per l’utilizzabilità degli atti contenuti
nel fascicolo del difensore non può ravvisarsi nell’art. 391-octies comma 1 c.p.p. (41). Il
comma 3 prevede, infatti, che dopo la chiusura delle indagini il fascicolo del difensore è in-

cumentazione degli atti), ed artt. 391-bis comma 1 c.p.p. (Colloquio, ricezione di dichiara-
zioni e assunzione di informazioni da parte del difensore) e 391-septies c.p.p. (Accesso ai
luoghi privati o non aperti al pubblico).
(38) Art. 233 comma 1-bis c.p.p. (Consulenza tecnica fuori dei casi di perizia), art.
366 comma 2 c.p.p. (Deposito degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori), art. 391-
quinquies comma 1 c.p.p. (Potere di segretazione del pubblico ministero).
(39) Il disegno di legge del governo (art. 38-septies) aveva introdotto un ‘‘meccani-
smo di verifica dei risultati investigativi della difesa’’ che attribuiva al giudice il potere di di-
sporre l’audizione delle persone le cui dichiarazioni erano state assunte dalle parti private, al
fine di consentire al giudice di verificare la genuinità e l’attendibilità del materiale prodotto
dal difensore. Recepito dalla Camera dei deputati, tale meccanismo, esperibile anche d’uffi-
cio, è stato eliminato dalla Commissione giustizia. Gli elementi di prova addotti dalla difesa,
‘‘concorrono con quelli del pubblico ministero, certamente non soggetti a nessun controllo,
alle decisioni da assumere nel corso delle indagini preliminari’’ (Relazione della seconda
Commissione giustizia dell’on. Follieri sul D.D.L. n. 3979-A).
(40) G. PIZIALI, Profili temporali dell’attività investigativa e regime di utilizzabilità,
in AA.VV. Le indagini difensive, Ipsoa, 2001, 227.
(41) Si noti, peraltro, che per il procedimento per decreto l’art. 459 c.p.p. prevede
unicamente la trasmissione da parte del pubblico ministero del proprio fascicolo, e per l’ab-
breviato l’art. 442 comma 1-bis c.p.p. prevede che ai fini della decisione il giudice utilizzi gli

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serito in quello del pubblico ministero; pertanto è solo in virtù di questa ‘riunione’ degli atti
d’indagine difensiva a quelli del pubblico ministero che i primi divengono utilizzabili dal giu-
dice.
B) Per quanto riguarda l’ingresso in dibattimento degli atti compiuti dal difensore a fa-
vore del proprio assistito, va segnalata in primo luogo la modifica apportata dall’art. 15 della
l. n. 397/2000 all’art. 431 c.p.p. in virtù della quale, oggi, anche i verbali degli atti irripeti-
bili compiuti dal difensore possono trasmigrare nel fascicolo per il dibattimento ed acquisire
così valore istruttorio attraverso il sistema delle letture ex art. 5 11 c.p.p.
Gli atti d’indagine difensiva possono poi confluire nel fascicolo per il dibattimento an-
che in virtù del ‘patteggiamento’ introdotto dalla l. n. 479/1999 negli artt. 431 comma 2 e
493 comma 3 c.p.p.
Indubbiamente, però, il punctum dolens della disciplina sulle indagini difensive è sem-
pre stato il problema dell’utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dal difensore ai fini degli
artt. 500, 512 e 513. La l. n. 397/2000 ha espressamente stabilito che le dichiarazioni inse-
rite nel fascicolo del pubblico ministero sono utilizzabili a fini contestativi (42).
Il rinvio all’art. 500 (come modificato dall’art. 16 della legge 1o marzo 2001, n. 63) sta
a significare che le parti possono utilizzare anche le dichiarazioni assunte dalla difesa al fine
di valutare la credibilità del teste; ma qualora vi siano elementi concreti per ritenere che il te-
stimone è stato sottoposto a violenza o minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra uti-
lità, affinché non deponga o deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del
pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibat-
timento, previa valutazione del giudice su richiesta della parte che può fornire gli elementi
concreti che facciano ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta
o promessa di denaro o di altra utilità. Infine, il comma 7 del nuovo art. 500 prevede che, in
assenza delle suddette condizioni perturbatrici, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del
pubblico ministero siano acquisite al fascicolo del dibattimento su accordo delle parti.
Per quanto riguarda il regime di utilizzabilità degli atti ad irripetibilità sopravvenuta, il
legislatore, modificando l’art. 512 (art. 18, l. n. 397/2000) ha esteso la possibilità di dare
lettura anche agli atti formati dal difensore durante le indagini. Va, tuttavia, rilevato che la
nuova disciplina sul punto non è priva di incongruenze: da un lato, l’art. 391-decies stabili-
sce l’applicabilità dell’art. 512 alle sole dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore, dal-
l’altro, l’art. 512 consente la lettura di ogni atto la cui irripetibilità sia sopravvenuta; da un
lato, l’art. 512 elenca i soggetti che debbono aver formato l’atto affinché ne sia consentita la
lettura, non menzionando gli ausiliari del difensore, dall’altro, l’art. 391-decies fa riferi-
mento, più genericamente, all’utilizzabilità delle dichiarazioni contenute nel fascicolo della
difesa.
Infine, l’art. 513 c.p.p., come modificato dalla l. 1o marzo 2001, n. 63, trova oggi appli-
cazione nei confronti dei soggetti di cui all’art. 210 comma 1 c.p.p. (coimputati del mede-
simo reato e imputati di reato connesso a norma dell’art. 12 lett. a) c.p.p.), e non nei con-
fronti degli imputati di reato connesso a norma dell’art. 12 lett. c) e degli imputati di reato
collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., i quali, laddove decidano di rendere
dichiarazioni erga alios, acquisiranno la qualifica di testimoni e per l’utilizzazione dibatti-
mentale delle loro dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari troveranno applica-
zione gli artt. 500 e 512 c.p.p., ovvero le regole dettate per l’esame testimoniale.

atti contenuti nel fascicolo di cui all’art. 416 comma 2, la documentazione di cui all’art. 419
comma 3 e le prove assunte all’udienza senza nulla dire dei fascicoli difensivi.
(42) Vigente l’art. 38 disp. att. coord. c.p.p., timidi riconoscimenti della possibile ri-
levanza a fini contestativi degli atti di indagine difensiva erano stati affermati dalla stessa
giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass., sez. III, sentenza 26 settembre 1997, n. 2812, Luf-
tjia, in Dir. pen. proc., 1998, p. 994; Cass. sez. VI, sentenza 2 dicembre 1997, Vacca, in
Cass. pen., 1998, p. 2090, con nota di JESU; Cass. Sez. IV, 18 gennaio 2001, Arcopinto, ine-
dita.

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7. Parità tra accusa e difesa nella fase del pre-trial (43). — Il sempre maggiore avvici-
namento dei vari sistemi giuridici che l’apertura verso l’Europa comporta rende ormai inelu-
dibile l’esigenza di affrontare studi basati sulla comparazione, in totale coerenza peraltro con
la storia, specie europea, degli ultimi cinquant’anni, caratterizzata da una continua tensione
dei singoli Stati verso la ricerca di principi comuni e valori universali attraverso la sottoscri-
zione e la ratifica di convenzioni internazionali (44).
La funzione del diritto comparato non va però, a nostro avviso, confinata entro i limiti
di una forzata omogeneizzazione culturale dei sistemi giuridici. Invero, esso pone ‘‘a raf-
fronto due o più sistemi giuridici, o certe loro parti, per coglierne le differenze e/o le somi-
glianze’’ (45).
Tuttavia, indipendentemente dalle finalità e dal metodo (uniformante l’uno,teso ad evi-
denziare le differenze l’altro) che si intende applicare all’analisi comparata di istituti e si-
stemi giuridici, è entro una superiore e generale nozione di conoscenza che la funzione del
diritto comparato deve correttamente collocarsi. Il diritto comparato, infatti, ha a disposi-
zione un maggior numero di ‘modelli’, di punti di riferimento a seconda di quanti siano i si-
stemi giuridici presi in considerazione dall’interprete in un dato momento, rispetto alla
scienza del diritto che si limiti a studiare lo specifico ordinamento giuridico nazionale, natu-
ralmente limitata nell’oggetto.
Devono, pertanto, ritenersi superate le critiche mosse da una parte della dottrina ita-
liana circa la possibilità, o meglio, l’utilità di richiami al diritto comparato e dell’applica-
zione degli strumenti concettuali da questo offerti alla fase delle indagini preliminari, a causa
di una (presunta) impossibilità di porre a confronto sistemi normativi ‘‘così diversi’’ (46).
Inoltre, si è soliti vedere una delle principali differenze tra i sistemi continentali e quelli
di Common Law nella preminenza, nei primi, del diritto legislativo (o codificato) rispetto a
quello di origine giurisprudenziale. In realtà, oggi nei Paesi di Common Law si tende sempre
di più ad unificare, a razionalizzare ed a semplificare il diritto ed a sentire sempre più il biso-
gno di portare il diritto giurisprudenziale ad un ordine sistematico; per contro, nei Paesi di
Civil Law si afferma sempre più l’evoluzione del diritto ad opera dei giudici. È un dato di
fatto che spesso i codici vigenti nei paesi continentali (è noto come il nostro codice di proce-
dura penale sia particolarmente rappresentativo di questa tendenza) perdono, con il passare
del tempo, di attualità, con la conseguenza di rendere necessari continui aggiustamenti da
parte della giurisprudenza.

(43) Nel presente lavoro, con il termine pre-trial si fa riferimento, forse non senza
una certa approssimazione, a quella parte del processo penale inglese concernente l’insieme
delle attività preparatorie (indagini della polizia, committal proceedings, preparatory hea-
rings, ecc.) del giudizio (trial), e solo in parte sovrapponibile alla nostra fase delle indagini
preliminari. La scelta, dettata oltre che da esigenze di semplificazione espositiva, delle quali
non si sarebbe potuto tener conto in uno studio di più ampio respiro, è stata operata sulla
base di esigenze per cosl dire ‘strutturali’, inerenti cioè alla impossibilità di ravvisare una
scansione delle singole fasi processuali all’interno del processo penale inglese analoga e cor-
rispondente a quella operata comunemente per il nostro processo penale (indagini prelimi-
nari, udienza preliminare, dibattimento) stante altresì, come vedremo tra breve, il differente
modus procedendi in relazione alle varie fattispecie criminose.
(44) Chiarificatrice e attualissima la definizione che del diritto comparato diede Sa-
leilles cento anni or sono al Congresso internazionale di diritto comparato che si tenne a Pa-
rigi nel 1900: tale scienza si propone di ‘‘estrapolare dall’insieme delle istituzioni particolari
un fondo comune o, per lo meno, dei punti di avvicinamento capaci di far comparire, sotto
l’apparente diversità delle forme, l’unità sostanziale della vita giuridica universale’’. (Con-
ception et objet de la science du droit comparé, Bulletin de la societé de législation compa-
rée, 1900, p. 383).
(45) G. GORLA, Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, pp. 1-14.
(46) G. RICCIO, La fase delle indagini preliminari, in ‘Il giudizio di primo grado’, Jo-
vene, Napoli 1991, p. 259 ss.

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L’interesse per la realtà processuale penale inglese ha radici lontane e giustificazioni sto-
rico-ideologiche precise.
Si è giustamente osservato che ‘‘l’atto di nascita del processo penale moderno, segnato
dal traumatico rigetto della procedura inquisitoria dell’ancien régime in omaggio agli ideali
di libertà ed eguaglianza imposti dalla Rivoluzione francese, contiene in sé la prima manife-
stazione di un bisogno comparativo’’ (47). A costituire il ‘‘perno ideologico’’ di tutta la ri-
cerca comparativa svolta dagli esponenti della cultura liberale nell’ottocento in Europa, fu
proprio il rito accusatorio inglese, orale e dominato dall’istituto della giuria, assunto dai phi-
losophes e dagli uomini della Rivoluzione come modello per quell’attività di depurazione del
processo penale da elementi inquisitori.
In Inghilterra non esiste un corpus di norme che disciplini analiticamente i poteri e le
singole attività del difensore nella fase del pre-trial. Tuttavia, se da un lato per tutta la durata
delle indagini è negato alla difesa il diritto di accesso al fascicolo contenente gli atti della po-
lizia (titolare esclusiva delle indagini), dall’altro, al fine di assicurare un fair trial, è previsto
un diritto della difesa alla comunicazione delle prove da parte dell’accusa prima dell’udienza
dibattimentale, data, com’è ovvio, la disparità nella disponibilità di strumenti e poteri coerci-
tivi tra la polizia ed il Crown Prosecution Service da un lato e l’indagato/imputato dall’al-
tro (48). È naturale, pertanto, che, nel processo penale inglese, il rapporto difesa-prova si in-
stauri in un momento successivo rispetto a quanto accade oggi nella nostra fase delle inda-
gini preliminari.
Come accennato, in Inghilterra la polizia è titolare esclusiva della fase investigativa. Per-
tanto essa, e non il pubblico ministero, detiene il potere di ricerca della prova, mentre il
Crown Prosecution Service può soltanto proseguire o bloccare i procedimenti avviati dalla
polizia. A seguito delle indagini da lei stessa compiute, la polizia sceglierà poi tra archivia-
zione o incriminazione, sulla base del principio di opportunità dell’azione penale (49).

(47) E. AMODIO, La procedura penale comparata tra istanze di riforma e chiusure


ideologiche (1870-1989), in questa Rivista, 1999, p. 1339. Per ulteriori interessanti appro-
fondimenti sul tema, cfr. A. CADOPPI, Cento anni di diritto comparato in Italia, in L’indice
penale, n. 3/2000, pp. 1317-1359.
(48) Ne consegue che al prosecutor non è riconosciuto il diritto ad avere conoscenza
delle attività d’indagine svolte dalla polizia. Certamente, però, al fine di svolgere indagini più
efficaci, si rende necessario un rapporto di stretta collaborazione tra polizia e pubblica ac-
cusa sotto forma di richiesta all’accusa di suggerimenti e pareri relativi ad attività rilevanti ai
fini delle indagini.
(49) Due sono le modalità per dare avvio alle indagini da parte della polizia. La
prima, prevista per le fattispecie criminose più gravi (indictable offences), prevede il potere
della polizia di procedere all’arresto di un soggetto senza un mandato (warrant) qualora sus-
sistano fondati motivi (reasonable grounds) di ritenere che questi abbia commesso, stia com-
mettendo o stia per commettere un’arrestable offence. Condotto presso la stazione di polizia,
l’arrestato viene sottoposto ad interrogatorio e se i sospetti persistono, è incriminato formal-
mente (by way of charge). La seconda, prevista per le fattispecie meno gravi (summary of-
fences e either-way offences), ed a cui possono ricorrere (a differenza della precedente) an-
che soggetti privati, concerne l’ipotesi in cui la persona non venga trattenuta dalla polizia;
questa, in tal caso, informa l’autorità giudiziaria del reato commesso (to lay an information)
la quale, qualora la denuncia (alligation) appaia fondata, emetterà un mandato di compari-
zione (summons). Questo dovrà contenere: a) il nome e l’indirizzo dell’accusato; b) l’indi-
rizzo della Corte dinanzi alla quale dovrà comparire; c) il giorno e l’ora in cui dovrà compa-
rire; d) i contenuti della denuncia in ordine ai quali dovrà rispondere; e) il nome e l’indi-
rizzo del denunciante. Il summons, al contrario, non verrà emanato: a) se il reato non è pre-
visto dalla legge; b) se la denuncia è stata presentata fuori dai termini; c) se non ha ottenuto
il consenso a proseguire; d) se il magistrato dichiara la propria incompetenza.
Inoltre, qualora il giudice sia competente in ordine al reato per cui si procede e qua-
lora, alternativamente, la denuncia sia scritta e sotto giuramento (on oath), l’accusato sia un
minore o il suo indirizzo non possa essere identificato al fine di notificargli la citazione, o,

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Gli strumenti processuali con i quali si attua il reciproco scambio di informazioni tra ac-
cusa e difesa differiscono a seconda del tipo di reato (fattispecie gravi, lievi, intermedie o di
natura mista) per cui si procede ed a seconda del materiale probatorio oggetto di disclosure
(elementi che il prosecutor intende o non intende produrre).

7.1. Advance information. — Come da noi, anche in Inghilterra l’imputato svolge un


ruolo molto importante nella scelta del rito (mode of trial). Qualora sia accusato di aver
commesso una fattispecie triable either-way può, infatti, decidere se comparire dinanzi alla
Crown Court o proseguire dinanzi alla Magistrates’ Court. È naturale che tale scelta sarà più
strategicamente corretta laddove sia data all’imputato la possibilità di conoscere gli elementi
di prova alla base dell’impianto accusatorio. Le Magistrates’ Courts (Advance information)
Rules, introdotte nel 1985, prevedono in capo all’accusa, su richiesta della difesa, il do-
vere (50) di fornire copia delle dichiarazioni rese da testimoni dell’accusa ovvero un rias-
sunto delle questioni e dei fatti (51) su cui il rappresentante dell’accusa intende incentrare la
sua attività istruttoria (52). Per quanto riguarda i termini entro i quali richiedere la advance
information, la difesa deve effettuare la richiesta prima che si dia avvio alla procedura per la
scelta del rito e deve essere soddisfatta as soon as practicable.
Qualora, tuttavia, la difesa reputi non sufficiente le informazioni fornite dall’accusa,
può adire il giudice procedente, il quale, tuttavia, non possiede il potere di ordinare al Pub-
blico Ministero di fornire alla difesa ulteriori informazioni, ma può ricorrere al suo potere di
aggiornare l’udienza, qualora anch’egli ritenga la advance information incompleta (Magi-
strates’ Court Act 1980, s. 10).

7.2. Disclosure (53). — Ha ad oggetto elementi di prova che l’accusa non intende pro-
durre e trova applicazione nell’ipotesi di un summary trial (54) in cui l’imputato si dichiari
non colpevole ed in relazione ad un procedimento di competenza della Crown Court (indic-
table offence).
L’attività di disclosure è oggi disciplinata dal Criminal Procedure and Investigation Act
(CPIA), entrato in vigore il 1o aprile 1997. Attraverso questa sistemazione di carattere statu-
tory che si è data alla materia dapprima disciplinata dalla common law, si è operato un vero
e proprio capovolgimento dei doveri e delle facoltà facenti capo ai due antagonisti del pro-
cesso penale: prima del 1997, infatti, l’accusa aveva il dovere di rivelare alla difesa ogni in-
formazione in suo possesso, mentre la difesa, dal canto suo, aveva soltanto l’obbligo di rive-

infine, qualora il reato denunciato sia punibile con la pena detentiva, invece di pronunciare
un summons pronuncia un mandato di arresto (warrant).
(50) In un solo caso l’accusa può non accogliere la richiesta della difesa: quando vi
sia pericolo di intimidazione dei testimoni o di altre interferenze con il regolare corso della
giustizia (Rule 5. Si veda anche R. v. Bromley Magistrates’ Court, ex p. Smith).
(51) La prassi in realtà evidenzia una certa discrezionalità da ufficio ad ufficio del
Crown Prosecution Service nel fornire il materiale oggetto della richiesta di advance infor-
mation: fotocopie di dichiarazioni scritte a mano o di appunti della polizia, riassunti della
causa inviati dalla polizia al Crown Prosecution Service, ecc.
(52) Rule 4.
(53) In generale, sulla disciplina, cfr. J. ANDREWS, M. HIRST, Andrews & Hirst on cri-
minal evidence, III ed., Sweet and Maxwell, London 1997; I. BING, Criminal procedure and
sentencing in the Magistrate’ court, Sweet and Maxwell, London 1994; C. ELLIOT, F. QUINN,
English legal system, II ed. Longman, London 1998; A. KEANE, The modern law of evidence,
IV ed. Butterworths, London 1996; J. SPRACK, The Criminal Procedure and lnvestigation Act
1996: (1) The Duty of Disclosure, Crim. L. Rev., p. 308 ss.; ID., Emmins on criminal proce-
dure, VII ed., Blackstone Press Limited, London 1997.
(54) Per quanto concerne la rivelazione da parte dell’accusa di materiale che essa in-
tende produrre nei procedimenti aventi ad oggetto summary offences, la disciplina è analoga
a quella contenuta nelle Magistrates’ Court (Advance Information) Rules 1985 e commen-
tata nel par. 7.1.

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lare all’accusa che avrebbe chiesto l’audizione di un teste o provato l’esistenza di un alibi a
favore del proprio assistito. Oggi, invece, il CPIA attribuisce all’accusa un potere discrezio-
nale su cosa rivelare alla difesa, mentre questa ha un dovere di disclosure molto più ampio.
L’attività di disclosure si articola in tre momenti: la primary prosecution disclosure, la
redazione di un defence statement, la secondary prosecution disclosure.
Il Code of Practice, contenente norme di attuazione del CPIA (Parte II), enumera gli atti
raccolti dagli agenti ed ufficiali di polizia rilevanti ai fini della disclosure (duty to retain ma-
terial): a) denunce di reato; b) dichiarazioni rese da testimoni; c) le prime dichiarazioni
rese da un testimone, qualora questi renda, in un secondo momento, dichiarazioni contra-
stanti; d) verbali e trascrizioni di interrogatori; e) relazioni peritali; f) ogni elemento che
ponga in dubbio la credibilità di una confessione o di un testimone.
Qualora dalle indagini siano emersi degli elementi cd. sensitive (55) questi devono es-
sere riportati in una lista separata.
Il criterio sulla base del quale il pubblico ministero giunge a rivelare alla difesa il mate-
riale in suo possesso è di natura soggettiva in quanto la disclosure avverrà soltanto se l’ac-
cusa riterrà opportuno (in the prosecutor’s opinion) rivelare quegli elementi undisclosed che
possano indebolire (undermine) l’impianto accusatorio (56).
Prima del CPIA, i criteri ai quali doveva ispirarsi la disclosure dell’accusa venivano indi-
viduati dalla common law a) nella circostanza che il materiale in possesso dell’accusa fosse
relevant or possibly relevant to an issue in the case; b) to raise or possibly raise in a new is-
sue whose existence is not apparent from the evidence the prosecution proposes to use; c) to
hold out a real (as opposed to a fanciful) prospect of providing a lead of evidence which goes
to a) or b) (57).
Con il termine undermine introdotto dal CPIA si è inteso circoscrivere il materiale og-
getto di possibile disclosure. È quanto emerge dalle parole del Ministro degli Interni, David
McLean, secondo il quale le disposizioni in tema di disclosure contenute nel CPIA sono det-
tate al fine di assicurare ‘‘that the prosecutor discloses at the first stage material that, gene-
rally speaking, has an adverse effect on the strength of the prosecution case. It is not confi-
ned to material raising a fundamental question about the prosecution... The disclosure
scheme is aimed at undisclosed material that might help the accused, notwithstanding the
fact that there is enough evidence to provide a realistic prospect of conviction’’ (58).
Una volta compiuta la primary prosecution disclosure, spetta alla difesa fornire per
iscritto all’accusa ed alla Corte un defence statement contenente, in termini generali, l’espo-
sizione della propria linea difensiva nonché le questioni sulle quali l’accusato concorda con il
pubblico ministero e perché (CPIA, par. 5). Tuttavia, qualora la dichiarazione della difesa
faccia riferimento ad un alibi, devono esserne forniti tutti i particolari, inclusi, ad es., il
nome e l’indirizzo del teste (59).

(55) ‘‘Sensitive material is material which the investigator believes it is not in the pu-
blic interest to disclose’’. Esso include, ad esempio, materiale riguardante la sicurezza nazio-
nale, notizie apprese dai servizi segreti o attinenti alle tecniche adoperate dalla polizia nel
corso delle indagini nonché deposizioni testimoniali rese da un minore.
(56) ‘‘Material need not to be disclosed just because it may be helpful to a possible
line of defence, or because it relates to the credibility of a minor prosecution witness. It must
be capable, if believed, of undermining or weakning a significant part of the prosecution
case. It need not (and ordinarily will not) be so dramatic as to put the validity of the entire
prosecution case in question, but it must at least work against it.’’ J.A. ANDREWS, M. HIRST,
Andrews and Hirst on criminal evidence, op. cit. Al contrario di quanto avviene, come ve-
dremo, nel caso della secondary disclosure: qui, infatti, sarà oggetto di disclosure quel mate-
riale ‘‘which... might be resonably expected to assist the accused’s defence as disclosed by
the defence statement’’.
(57) R. v. Keane, (1994) 1 W.L.R., p. 746.
(58) HANSARD, House of Commons standing Committee B, 14 May 1996, col. 34.
(59) Questa disposizione sostituisce quella contenuta nel paragrafo 11 del Criminal

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Il dovere che il CPIA impone al difensore di rivelare, prima del giudizio, gli elementi di
prova raccolti, rappresenta una delle novità fondamentali introdotte dal CPIA. Si obiettava,
infatti, che imporre alla difesa l’obbligo di effettuare la disclosure contrastasse con due prin-
cipi fondamentali del processo penale: quello che riserva all’accusa l’onere della prova, e
quello concernente il diritto dell’imputato di non rendere dichiarazioni contra se.
L’obbligo di presentare — entro quattordici giorni dal compimento della primary prose-
cution disclosure — il defence statement pone il difensore in una condizione difficile in or-
dine alla scelta della più corretta linea difensiva. Egli deve, infatti, valutare i vantaggi e gli
svantaggi di un dettagliato e circostanziato defence statement. Una dichiarazione estrema-
mente dettagliata può determinare la rivelazione di ulteriore materiale d’accusa mentre una
disclosure che sia di fatto una non-discolsure può condurre verso indizi sfavorevoli nei con-
fronti dell’imputato (60).
Occorre rilevare che il dovere della difesa di scoprire gli elementi di prova raccolti è di
natura diversa da quello previsto in capo al prosecutor: questi deve rivelare unused material
(elementi di prova, cioè, che egli non intende introdurre nel processo). Per contro, la difesa
ha il dovere di ‘scoprire’ tutto quanto intenderà fare oggetto di valutazione da parte della
giuria in dibattimento e non è obbligata a rivelare ciò di cui non intende servirsi.
Una volta presentata la dichiarazione difensiva, l’accusa ha il dovere di rivelare all’im-
putato ciò che potrebbe ragionevolmente aiutare la difesa così come delineata nel defence
statement (cd. secondary prosecution disclosure), ossia any prosecution material which...
might be resonably expected to assist the accused’s defence as disclosed by the defence sta-
tement’’ (61). Permane il limite del pubblico interesse nonché quello concernente elementi
di prova raccolti mediante intercettazioni telefoniche (Interception of Communications Act
1985).
Tipico elemento coperto dalla public interest immunity è l’identità di un informa-
tore (62). Il fondamento di questa regola è evidente e consiste nell’esigenza di evitare ritor-
sioni nei confronti degli informatori, e che la rivelazione della loro identità possa creare diffi-
coltà alla polizia nel reperire utili risorse investigative (anche se si ammette l’eccezione a tale
regola nell’ipotesi in cui il nome dell’informatore debba essere rivelato per dimostrare l’inno-
cenza dell’imputato).
Il Code of Practice fornisce un elenco (non tassativo) di elementi esclusi dalla disclosure
in quanto coperti dalla public interest immunity. Essi includono: informazioni attinenti alla
sicurezza nazionale, confidenziali, relative all’identità o all’attività di cd. agenti informatori,
o informazioni che rivelano tecniche di sorveglianza ed, in genere, le tecniche di indagine
adottate dalla polizia, o provenienti da un minore.
Nell’ipotesi in cui l’accusa ritenga di non dover rivelare gli elementi probatori in suo
possesso sulla base del ‘pubblico interesse’, la difesa può, tuttavia, richiedere al giudice di
imporre al prosecutor di rivelare ogni elemento probatorio. Ciò può accadere soltanto dopo
che la difesa abbia fornito una dichiarazione difensiva. Risulterà sicuramente molto difficile
per la difesa provocare questa ‘discovery’ da parte dell’organo requirente, poiché vi è il pro-
blema di individuare il materiale probatorio non rivelato dall’accusa. La difesa dovrà confi-

Justice Act 1967, abolita peraltro dal paragrafo 74 del CPIA. Tuttavia, la definizione dell’a-
libi quale prova del fatto è sostanzialmente la medesima in entrambi i testi normativi (‘‘evi-
dence tending to show that by reason of the presence of the accused at a particular place or
in a particular area at a particular time he was not, or was unlikely to have been, at the
place where the offence is alleged to have been committed at the time of its alleged commis-
sion’’).
(60) In riferimento ai rapporti tra disclosure e possibilità di scelta di strategie difen-
sive incentrate sul silenzio, cfr. L. MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative
al silenzio, Giappichelli, Torino 2000.
(61) Il criterio è di natura oggettiva.
(62) V. Marks v. Beyfus (1890) 25 QBD 494.

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dare, pertanto, nella buona fede e nell’efficienza dell’investigante che è incaricato di sotto-
porre all’attenzione dell’accusa il materiale alla base della secondary disclosure: questi infatti
presumibilmente si sarà fatto un’idea in ordine alla colpevolezza dell’imputato che condizio-
nerà la scelta del materiale utile alla difesa. Senza considerare che il disclosure officer non ha
né l’esperienza né la ‘prospettiva’ della difesa idonee all’individuazione di elementi probatori
utili in dibattimento.
Altra ipotesi in cui il giudice può imporre all’accusa di effettuare la disclosure sussiste
quando ritiene che vi sia ragionevole motivo (reasonable grounds) per credere che il mate-
riale in possesso dell’accusa possa rivelarsi utile alla linea difensiva, così come espressa nel
defence statement.
Il pubblico ministero conserva un dovere di continua verifica dell’eventuale esistenza di
elementi che possono sostenere l’accusa od aiutare la difesa. Nel secondo caso egli deve rive-
larne il contenuto all’imputato as soon as reasonably practicable. Questo dovere di continua
verifica, entra in gioco, ad esempio, se un testimone dell’accusa rende dichiarazioni contrad-
dittorie rispetto a quelle in precedenza rese dinanzi agli organi di polizia. Se la difesa ignora
l’esistenza della precedente dichiarazione, il pubblico ministero deve rivelarla, consentendo
così di utilizzarla nella cross-examination per valutare la credibilità del teste (63).

8. Considerazioni conclusive. — È naturale che soltanto la concreta prassi applicativa


e giurisprudenziale potranno rivelare la effettiva funzionalità nell’ambito del nostro sistema
processuale penale dei nuovi mezzi investigativi offerti al difensore; da subito va, però, sot-
tolineato come la nuova disciplina sulle indagini difensive, nella sua innovatività, si configuri
come un importantissimo ed ormai necessario, strumento di difesa e per la difesa, specie,
dopo lo spostamento del baricentro del processo penale dal dibattimento alle fasi ad esso an-
tecedenti. La l. 7 dicembre 2000, n. 397, infatti, ‘‘segna il definitivo passaggio da una ‘difesa
di posizione’ a una ‘difesa di movimento’ ’’ (64).
L’attribuzione al difensore di ampi poteri di ricerca della prova ‘‘in ogni stato e grado
del procedimento’’ non basta, tuttavia, a rendere tipicamente accusatorio il nostro processo
penale: l’agognata egalité des armes fa da contrappeso ad un ennesimo ampliamento delle
ipotesi in cui atti di indagine unilateralmente ‘individuati’ vengono tout court posti a fonda-
mento della decisione del giudice.
Un processo penale è accusatorio quando mantiene netta la distinzione tra le singole
fasi processuali. Esso, pertanto, deve essere caratterizzato da dinamicità, in virtù di un’onto-
logica esigenza di dialogo tra le singole fasi processuali e dunque di agili meccanismi proces-
suali. Altra cosa è la fluidità, condizione patologica dell’iter procedimentale, generante, di
contro, ‘confusione’ dei confini delle fasi processuali. Il processo è fatto di ritmi e cadenze
ben precise. Quanto più i risultati delle attività d’indagine entrano nel ‘giudizio’, tanto più i
confini tra le fasi processuali saranno fluidi ed incerti (65).

(63) Il paragrafo 11 del CPIA disciplina, infine, alcuni degli errori che possono es-
sere commessi dall’imputato e che possono condurre all’inammissibilità delle sue richieste di
‘esibizione’ degli elementi raccolti: a) omissione o tardiva presentazione del defence state-
ment; b) esporre una linea difensiva contraddittoria; c) in dibattimento una linea difensiva
in contrasto con quella espressa nel defence statement; d) chiedere al dibattimento l’ammis-
sione di un teste d’alibi senza averne previamente fornito i particolari.
(64) Così G. PAOLOZZI, Fase prodromica della difesa ed efficacia persuasiva degli
elementi di prova, in AA.VV., Indagini difensive, Ipsoa, Milano 2001, p. 15.
(65) Nella tendenza, forse ormai irreversibile, verso l’ampliamento degli atti di inda-
gine suscettibili di essere posti a fondamento della decisione da parte del giudice, si pone la
recente ordinanza della Corte costituzionale n. 3681/2002, (in Guida al diritto, 33/2002, p.
79 ss.), con la quale la Consulta ha dichiarato manifestamente infondata la questione di le-
gittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e
111 Cost., dal G.i.p. del Tribunale di Ancona. In assenza del pericolo di ‘‘irrimediabile di-

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In altri termini, se la tutela delineata dalla disciplina sulle indagini difensive rientra in
una pseudogaranzia è solo la prassi applicativa che potrà rivelarlo (66).
Anche per il processo penale inglese, la considerazione delle caratteristiche della fase
dedicata allo svolgimento di attività investigative ha mostrato come la fase delle indagini
possa rivelarsi utile strumento, a sua volta, di indagine del grado di accusatorietà del sistema
processuale; ed in particolare, di verifica della sussistenza di elementi di erosione che, ten-
denzialmente, allontanano il processo penale inglese dal modello accusatorio cd. puro e, nel
contempo, riducono il divario culturale e concettuale tra quel sistema processualpenalistico
e quello nostrano.
Le pur ampie garanzie riconosciute dal CPIA alla difesa in ordine alla comunicazione da
parte dell’organo dell’accusa degli elementi probatori raccolti nel corso della fase investiga-
tiva non possono dirsi pienamente attuative della parità tra accusa e difesa, intesa come so-
stanziale eguaglianza circa la possibilità di accesso a materiale utile alle indagini e, dunque,
al dibattimento: il difensore non ha, infatti, poteri di ricerca della prova. Si è visto poi
quanto ampi siano gli spazi di discrezionalità lasciati al prosecutor in relazione alle decisioni
sul se e sul cosa rivelare alla difesa nella primary prosecution disclosure e quanti atti rien-
trino nell’ambito della public interest immunity, ed esclusi pertanto dall’attività di disclosure.

Dott.ssa SILVIA SANDANO

spersione della prova’’, stabilisce la Corte, non è consentito richiedere l’incidente probatorio
tra la conclusione delle indagini preliminari e l’inizio dell’udienza preliminare; di contro, ove
suddetto pericolo fosse ravvisabile ‘‘non potrebbe non essere assicurata alle parti, anche in
tale fase, la facoltà di richiedere l’assunzione della prova in via di incidente’’.
(66) Una distinzione tra garanzie formali in senso positivo o ‘sostanziali’ e garanzie
formali o pseudogaranzie è delineata da P. FERRUA. Le prime sono, secondo l’Autore, le ga-
ranzie predeterminate dal legislatore e perciò, appunto, legali, connaturate, cioè, ad un pro-
cesso ‘‘regolato dalla legge’’ (art. 111, comma 1 Cost.); le seconde sono, invece, quelle ga-
ranzie che ‘‘in un modo o nell’altro, riescono inadeguate alla loro ideale funzione: o perché
non danno effettiva tutela ai valori sovraordinati o perché li tutelano in modo iperbolico o
unilaterale’’; cfr. op. cit., p. 1115.

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RASSEGNE

a) Giurisprudenza della Corte costituzionale (*)

CODICE PENALE
Parte generale

ART. 2
Successione di leggi penali
(Ord. 24 giugno 2002, n. 273, in G.U., I serie speciale,
3 luglio 2002, n. 26 - manifesta infondatezza)

La Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi su due distinte questioni di legittimità


costituzionale: sollevando la prima, quella principale, nel corso di un procedimento di esecu-
zione avente ad oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale (definitiva) di
condanna per vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 c.p.), e la
conseguente rideterminazione della pena sulla base dell’intervenuta abrogazione dell’art.
341 c.p., disposta dall’art. 18 della l. 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la de-
penalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), il giudice a quo
parte dal presupposto interpretativo, che poi si rivelerà errato, in base al quale l’abrogazione
dell’art. 341 c.p. avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e
non un’abolitio criminis. Pertanto tutti i comportamenti previsti dall’art. 341 c.p., dopo la
sua abrogazione, dovrebbero essere ricondotti alla più generale fattispecie dell’ingiuria (art.
594 c.p.), eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 10, c.p. Conseguentemente, non
risulterebbero applicabili gli artt. 2, comma 2, c.p. e 673 c.p.p. — combinato disposto la cui
operatività consentirebbe, vertendosi appunto in un caso di abolitio criminis, la revoca par-
ziale della condanna, limitatamente cioè alla pena applicata per il reato di oltraggio — bensì
l’art. 2, comma 3, c.p., il quale prevede la retroattività della legge successiva più favorevole,
salvo il limite del giudicato eventualmente già formatosi. Nel caso di specie la disciplina sa-
rebbe stata più favorevole in quanto l’ingiuria è procedibile a querela, anziché d’ufficio come
l’oltraggio, e prevede poi una pena pecuniaria alternativa a quella detentiva, anziché, come
l’oltraggio, unicamente detentiva. Tuttavia, nel caso sottoposto all’attenzione del remittente,
troverebbe applicazione il limite del giudicato e la richiesta di revoca andrebbe respinta. Il
remittente, a questo punto, dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto de-
gli artt. 2, comma 3, c.p. e 673 c.p.p., nella parte in cui non consentirebbe la modifica del
giudicato (cioè la sua revoca), in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di successione
di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo, almeno nei casi in cui l’inter-
vento legislativo verrebbe a porre in discussione l’an della sanzione, mediante la modifica
del regime di procedibilità del reato, ovvero il quantum o la species della pena, prevedendo
la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva.
Il limite del giudicato posto dal comma 3 dell’art. 2 c.p., argomenta il remittente, nasce

(*) A cura della prof.ssa Marilisa D’AMICO

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da una esigenza di economia processuale, cioè evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravve-
nire di modifiche normative; un fondamento questo meno ‘‘alto’’ ed importante rispetto a
quello a base della regola della retroattività della norma favorevole; un fondamento che lo
stesso legislatore non ha ritenuto sufficiente per limitare l’applicazione della norma favore-
vole in caso di abolitio criminis (art. 2, comma 2, c.p.). Ecco che, allora, il giudice remit-
tente mette in discussione la ragionevolezza di una diversa disciplina tra l’abolitio criminis e
la mera modifica della disciplina legislativa, almeno nei casi in cui quest’ultima ponga in di-
scussione, come nel caso del reato di oltraggio, non solo il quantum della sanzione ma lo
stesso an, mediante la previsione di una condizione di procedibilità prima non richiesta.
Inoltre, aggiunge il remittente, la disciplina censurata finirebbe per scontrasi con il principio
di uguaglianza in quanto legittimerebbe effetti sanzionatori diversi per fatti identici com-
messi da due soggetti nel medesimo tempo, solo a ragione del diverso momento in cui inter-
viene il giudicato (momento del tutto accidentale dovuto ad elementi del tutto casuali). L’ac-
coglimento della citata questione di costituzionalità, conclude il remittente, consentirebbe di
applicare l’art. 673 c.p.p. ogniqualvolta la successiva legge più favorevole escludesse la puni-
bilità del fatto per qualsiasi ragione (anche attinente al regime di procedibilità) ovvero l’ap-
plicazione di una pena detentiva.
Con la seconda questione il giudice a quo osserva che, se in tutti i giudizi di cognizione
in corso per effetto dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 c.p. dovrà trovare applicazione
la più mite disciplina di cui all’art. 594 c.p. (ingiuria), ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p., al
contrario, nei procedimenti di esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate in giudi-
cato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 341 c.p. comporterebbe l’ap-
plicazione, in luogo della disciplina di cui all’art. 2 c.p., dell’art. 30 della l. 11 marzo 1953,
n. 87, il quale — diversamente dal caso del sopravvenire di un atto legislativo abrogativo, il
quale, come visto, comporta la necessità, in ordine alle conseguenze, di distinguere tra aboli-
tio criminis e mera successione nel tempo di leggi penali — non consentirebbe distinzione al-
cuna, poiché si imporrebbe sempre e comunque l’efficacia retroattiva della pronuncia di in-
costituzionalità senza alcun limite di carattere processuale. Ciò premesso, l’art. 341 c.p., an-
che se abrogato, sarebbe illegittimo laddove configurerebbe l’oltraggio a un pubblico uffi-
ciale come autonomo reato, anziché quale aggravante del reato di ingiuria e laddove preve-
derebbe una pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva e un regime di procedibilità
procedibilità a querela di parte.
In questo modo il giudice, ottenuta la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 341 c.p.,
non applicherebbe più l’art. 2, comma 3, c.p., ma l’art. 30 della l. n. 87 del 1953 e, quindi,
sul piano processuale, l’art. 673 c.p.p., con la conseguente revoca, nel giudizio principale,
della sentenza di condanna.
La Corte, dichiarando l’infondatezza di entrambe le questioni, corregge il presupposto
interpretativo accolto dal giudice in forza del quale l’abrogazione dell’art. 341 c.p., ad opera
dell’art. 18 della l. n. 205 del 1999, avrebbe configurato una successione nel tempo di leggi
penali anziché una vera e propria abolitio criminis. I giudici costituzionali ricordano come,
dopo l’ordinanza di rimessione, le sezioni unite della Corte di cassazione, in una pronuncia
del 17 luglio 2001, hanno risolto nei termini sopra riferiti il citato contrasto interpretativo,
ponendo alla base della loro scelta due argomenti centrali.
Il primo si concretizza nell’assenza di una disciplina transitoria nel d.lgs. n. 205 del
1999. Infatti l’art. 19 della citata legge, prevedendo nuovi termini per la proposizione della
querela, non riguarda l’abrogato reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ma altri reati che, in
precedenza, anch’essi perseguibili d’ufficio erano divenuti perseguibili a querela.
Il secondo argomento fatto proprio dalle sezioni unite fa leva invece sulla limitatezza dei
poteri del giudice dell’esecuzione in sede di revoca ex art. 673 c.p.p. della sentenza di con-
danna. Infatti a questo non sarebbe consentito né accertare il fatto in modo difforme da
quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato, né modificare l’originaria imputazione e,
quindi, estendere il suo giudizio a istituti, che potrebbero operare come esimenti solo nell’in-
giuria, quali la ritorsione o la provocazione.

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Per la Corte costituzionale questa preclusione, qualora fosse accolta la tesi della succes-
sione di leggi penali nel tempo, avrebbe come corollario la violazione dell’art. 24 Cost. (di-
ritto di difesa) in quanto al condannato per oltraggio non sarebbe stata offerta, nel corso del
giudizio di cognizione, l’opportunità di provare l’esistenza delle eventuali esimenti proprie
del delitto di ingiuria; una prova che, come visto, non potrebbe certo essere recuperata di
fronte al giudice dell’esecuzione, il quale, come detto, sarebbe sfornito di pieni poteri valuta-
tivi.
La soluzione dell’abolitio criminis non lascerebbe comunque senza tutela i pubblici uffi-
ciali che fossero stati offesi da pregressi fatti di oltraggio, poiché, in relazione a tali fatti, essi
dovrebbero unicamente rinunciare alla pretesa punitiva dello Stato, ma non si vedrebbero
sottratto il diritto di ottenere il risarcimento del danno; nel caso di condanna passata in giu-
dicato, l’abolitio criminis comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecu-
zione ai sensi dell’art. 673 c.p.p. solo relativamente ai suoi capi penali non anche a quelli ci-
vili; pertanto se vi è stata costituzione di parte civile e condanna al risarcimento dei danni,
quest’ultima resta ferma; se invece tale costituzione non ci fosse stata, permarrebbe per il
pubblico ufficiale la possibilità di esercitare l’azione nella sede civile, fino al termine di pre-
scrizione, in quanto la formula assolutoria per l’ipotesi di sopravvenuta abrogazione della
norma incriminatrice (‘‘il fatto non è previsto dalla legge come reato’’) non è fra quelle alle
quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile.

CODICE PENALE
Parte speciale

ART. 262
Rivelazione di notizie
di cui sia stata vietata la divulgazione
(Sent. 28 giugno 2002, n. 295, in G.U., I serie speciale,
3 luglio 2002, n. 26 - non fondatezza)

Il dubbio di costituzionalità riguarda l’art. 262 c.p. che punisce chiunque rivela notizie
delle quali l’Autorità ha vietato la divulgazione. Ad avviso del remittente la norma, qualifica-
bile come ‘‘norma penale in bianco’’, lascerebbe l’individuazione concreta delle notizie che
non possono essere divulgate (c.d. notizie riservate) ad atti amministrativi emessi in virtù di
poteri non direttamente conferiti dalla legge, i cui limiti resterebbero pertanto assai incerti e
labili. Per di più la circostanza che l’art. 262 c.p. non indichi i motivi per i quali la divulga-
zione delle notizie può essere vietata, rimettendoli così anch’essi in toto all’apprezzamento
dell’autorità amministrativa, impedirebbe al giudice di valutare se il divieto di divulgazione
sia stato legittimamente imposto. Il giudice a quo, prima di giungere a siffatta conclusione,
affronta e risolve due problemi che hanno visto dividersi al proprio interno la giurispru-
denza. La comprensione del primo di questi necessita una breve illustrazione dell’evoluzione
storica e giuridica della nozione di segreto di Stato. L’art. 256 c.p., introducendo la distin-
zione tra ‘‘notizie segrete’’ (segreto di Stato in senso stretto) e ‘‘notizie riservate’’ (notizie di
cui lo Stato ha vietato la divulgazione), aveva finito per ancorare la legittimità di queste alla
tutela di due categorie di interessi: a) quello alla sicurezza dello Stato (c.d. segreto militare);
b) quello politico, interno o internazionale dello Stato (c.d. segreto politico). L’entrata in vi-
gore della l. 24 ottobre 1977, n. 801, ha fornito, nell’art. 12, una nuova nozione di segreto
di Stato, e quindi di ‘‘notizie segrete’’, espressamente destinata a sostituire la definizione di
cui all’art. 256 c.p. con riferimento al segreto politico (cfr. art. 18 l. n. 801 del 1977). Il legi-
slatore del 1977, riformulando la nozione di ‘‘segreto di Stato’’, accoglieva infatti una conce-
zione oggettiva del segreto di Stato, facendo proprie le indicazioni che erano provenute dalla
Corte costituzionale (sent. 86 del 1977) e individuando nuovi e diversi interessi tutelabili dal
regime di ‘‘segretezza’’. È proprio con riferimento al rapporto tra la citata legge e la nozione

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di ‘‘notizie riservate’’ che si sono posti i problemi più delicati; quelli attorno ai quali lo
stesso remittente, prima di sollevare il dubbio di costituzionalità, si è trovato a dover pren-
dere una precisa posizione interpretativa. È doveroso premettere che gli elementi che con-
correvano, prima della riforma del 1977, a differenziare la ‘‘notizia riservata’’ da quella ‘‘se-
greta’’ erano rinvenibili nel fatto che la notizia riservata era conosciuta o conoscibile da un
numero indeterminato di persone in un determinato ambito e dalla circostanza che la non di-
vulgabilità della notizia era conseguenza di un provvedimento dell’Autorità amministrativa
competente. Questi elementi non sono venuti meno tuttavia, dopo la riforma, ci si è chiesti
quale fosse stata la sorte delle c.d. notizie riservate.
Un primo orientamento ha ritenuto che la nuova legge avrebbe implicitamente abrogato
la nozione di ‘‘notizie riservate’’. Diversi i motivi portati a sostegno di questa tesi: la disci-
plina introdotto dalla l. n. 801 del 1977 ha ridisegnato l’area di tutto il segreto penalmente
rilevante in modo da dar vita ad un sistema chiuso ed esclusivamente concentrato sulla tu-
tela degli interessi definitiva dall’art. 12. Nel contempo l’art. 15 cit. legge avrebbe eliminato
il riferimento alle ‘‘notizie riservate’’ circoscrivendo il dovere di astenersi dal testimoniare ed
il divieto di esame testimoniale a quanto coperto dal segreto di Stato. Invece per un secondo
e maggioritario orientamento — quello a cui aderisce il giudice remittente — la disciplina
delle ‘‘notizie riservate’’ dovrebbe considerarsi sopravvissuta alla riforma del 1977 fonda-
mentalmente in base al rilievo che la l. n. 801 del 1977 si interessa unicamente del concetto
di segreto di Stato, disinteressandosi di un concetto diverso quale quello di ‘‘notizie riserva-
te’’ (Cass., 30 gennaio 1989, Negrino, in Giust. pen., II, 1986, p. 642; Cass., 4 luglio 1985,
Acunzo, in Giur. it., II, 1986, p. 436; Cass., 23 aprile 1982, Biasci, in Cass. pen., 1983, p.
1554). Quest’ultimo sarebbe un quid minus rispetto a quello di ‘‘notizia segreta’’. Infatti se
la seconda non può essere divulgata in ragione di interessi superiori dello Stato, la prima è
un’informazione che può essere divulgata solo a certe condizioni e a determinate persona
per ragioni di ‘‘alta amministrazione’’. Tuttavia è proprio la mancanza di qualsiasi riferi-
mento alla nozione di ‘‘notizia riservata’’ da parte della l. n. 801 del 1977, ed in particolare
la mancanza di indicazioni di quali ‘‘interessi’’ sarebbero appunto ‘‘riservabili’’, che rende-
rebbe l’art. 262 c.p. incompatibile con il principio di determinatezza-tassatività.
La Corte risolve il dubbio di costituzionalità su un piano squisitamente interpretativo.
Implicitamente accogliendo la tesi della sopravvivenza del concetto di ‘‘notizie riservate’’ al-
l’entrata in vigore della l. n. 801 del 1977, essa non concorda con il remittente, la cui pre-
messa interpretativa pertanto sarebbe erronea, quando questo afferma che sarebbe impossi-
bile riferire alla categoria delle ‘‘notizie riservate’’ protette dall’art. 262 c.p. le indicazioni (in
tema di interessi tutelabili) rinvenibili nella l. n. 801 del 1977 a proposito di segreto di
Stato. Infatti i giudici costituzionali aderiscono a quel filone giurisprudenziale della Cassa-
zione penale (sez. I, 29 gennaio 2002, n. 3348) per il quale la l. n. 801 del 1977, una volta
individuati nell’idoneità delle notizie segrete di incidere sugli specifici interessi statuali indi-
viduati dall’art. 12 e dall’idoneità della loro diffusione di creare un concreto pregiudizio agli
stessi interessi, ritiene che tali requisiti di ‘‘pertinenza’’ e di ‘‘idoneità offensiva’’ devono sus-
sistere anche per la categoria delle notizie ‘‘riservate’’, stante l’omogenietà sostanziale di
queste con le notizie segrete. Infatti le ragioni, cioè le categorie di interessi, che giustifiche-
rebbero il segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 l. n. 801 del 1977, ora, dopo la riforma del
1977, legittimerebbero anche l’apposizione del divieto di divulgazione. Diversamente ragio-
nando si finirebbe per consentire un’impropria, estensiva ed arbitraria utilizzazione della ca-
tegoria del segreto da parte della pubblica amministrazione, alimentando in siffatto modo
proprio le censure di indeterminatezza che vengono mosse all’art. 262 c.p. La Corte con-
clude auspicando comunque un intervento del legislatore diretto a porre mano ad una revi-
sione complessiva della materia del segreto dando così seguito a quanto contenuto nell’art.
18 della l. n. 801 del 1977 che assegnava carattere di ‘‘transitorietà’’ al regime delineato dal
titolo I del libro II del codice penale. (Sul tema v. P. PISA-L. SCOPINARO, Segreto di Stato e
notizie riservate: un’interpretazione costituzionalmente corretta in attesa della riforma del
codice penale, in Giur. cost., n. 3/2002, p. 2130).

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ART. 405
Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico
(Sent. 9 luglio 2002, n. 327, in G.U., I serie speciale,
17 luglio 2002, n. 28 - illegittimità costituzionale)

La Corte costituzionale, intervenuta per sindacare la legittimità dell’art. 405 c.p. (Tur-
bamento di funzioni religiose del culto cattolico), lo dichiara illegittimo nella parte in cui
prevede pene più gravi anziché quelle ‘‘diminuite’’ stabilite dall’art. 406 c.p. per gli stessi
fatti commessi contro gli altri culti. L’organo remittente — ponendo in relazione il suddetto
articolo, nella parte in cui punisce chi impedisce o turba l’esercizio di funzioni religiose del
culto cattolico, con l’art. 406 c.p., il quale prevede invece una pena diminuita quando il me-
desimo fatto venga posto in essere contro un culto ammesso nello Stato (cioè un culto acat-
tolico) — ritiene che l’art. 405 c.p. violi l’art. 3 Cost., nella parte in cui questo consacra la
pari dignità ed uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge ‘‘senza distinzione di religio-
ne’’, nonché l’art. 8 Cost. laddove si afferma l’uguale libertà di tutte le confessioni religiose
davanti alla legge. Anziché prevedere una pena analoga a quella prevista per i culti ammessi,
l’art. 405 c.p. privilegerebbe dal punto di vista sanzionatorio il culto cattolico in quanto tur-
bamenti delle proprie funzioni o cerimonie verrebbero punite più gravemente rispetto ad
analoghe condotte quando queste venissero portate contro cerimonie o funzioni acattoliche.
La Corte opera la citata unificazione del trattamento sanzionatorio in quanto imposta
dal principio fondamentale di laicità dello Stato: un’unificazione sanzionatoria attuata attra-
verso una tecnica (quella dell’innesto delle pene ‘‘diminuite’’ di cui all’art. 406 c.p. in altra
fattispecie criminosa) che i giudici costituzionali avevano, a suo tempo, operato con la sen-
tenza n. 327 del 1997 quando ad essere oggetto di giudizio di costituzionalità era stata la
sanzione contenuta nell’art. 404 c.p. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di
cose), il quale, analogamente all’art. 405 c.p., prevedeva una tutela penale rafforzata per il
culto cattolico.
Nell’odierna pronuncia la Corte, una volta operata l’equiparazione edittale, lascia co-
munque impregiudicato non solo il problema se l’art. 406 c.p. costituisca un’attenuante di
un reato base (quello di cui all’art. 405 c.p.) oppure una figura autonoma di reato ma anche
quello della qualificazione da riservare al comma 2 dell’art. 405 c.p. (‘‘se concorrono fatti di
violenza o di minaccia, si applica la pena da uno a tre anni’’). Tuttavia ammonisce che, qua-
lunque sia l’interpretazione che la giurisprudenza penale vorrà accordare, l’equiparazione
della tutela penale dei culti ‘‘va soddisfatta in relazione a tutte le previsioni dell’art. 405
c.p.’’.
Circa il primo problema posto dalla Corte sembra più logico ritenere l’art. 406 c.p.
come una figura autonoma di reato (la relazione al codice la qualificava invece come circo-
stanza attenuante) in quanto, dopo l’avvenuta equiparazione, verrebbe a mancare l’ipotesi
base alla quale dovrebbe accedere.
La diminuzione di pena prevista dall’art. 406 c.p. dovrebbe determinare, applicandosi il
principio ricavabile dall’art. 65 c.p., che la pena sia diminuita in misura non eccedente un
terzo. Ciò farebbe sì che la cornice edittale del reato di cui all’art. 405 c.p., nell’ipotesi non
aggravata del reato di cui al comma 1, sia da quindici giorni (in applicazione dell’art. 23,
comma 1, c.p.) ad anni uno e mesi quattro di reclusione, mentre, per l’ipotesi aggravata di
cui al comma 2 dell’art. 405 c.p., la pena, autonomamente determinata, sia quella della re-
clusione da otto mesi a due anni.

ART. 688
Ubriachezza
(Sent. 17 luglio 2002, n. 354, in G.U., I serie speciale,
24 luglio 2002, n. 29 - illegittimità costituzionale)

In questa pronuncia viene in rilievo la legittimità costituzionale dell’art. 668, comma 2,

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c.p. Questa previsione — che, prima della depenalizzazione del 1999 che è intervenuta sul
comma 1 del citato articolo, era da inquadrarsi come forma aggravata del reato di ‘‘ubria-
chezza’’ (di cui al comma 1), nella quale l’aver riportato una precedente ‘‘condanna per de-
litto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale’’ costituiva circostanza aggravante
del reato base — ora ha assunto una sua autonoma fisionomia nella quale la precedente con-
danna è diventata elemento costitutivo del reato (o condizione obiettiva di punibilità). Per il
remittente non avrebbe senso ritenere che lo stato di ubriachezza, sotto l’aspetto punitivo,
rilevi soltanto per una certa categoria di soggetti in quanto la possibilità che un agente che si
trovi in stato di ubriachezza commetta un reato più grave sarebbe identica tanto nel caso in
cui egli sia incensurato quanto in quello in cui egli sia pregiudicato. Violati risulterebbero il
principio di uguaglianza e, sotto un profilo logico-giuridico, anche i princìpi di legalità ed of-
fensività e materialità della legge penale.
La Corte accoglie la questione dichiarando l’illegittimità dell’art. 688, comma 2, c.p. Se
il fine perseguito dalla depenalizzazione è stato quello di rendere più lieve la posizione della
persona colta in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico (tale
condotta oggi viene punita a titolo di illecito amministrativo), tuttavia tale operazione ha
comportato un peggioramento per chi, avendo in passato riportato condanne per delitti non
colposi contro la vita e l’incolumità individuale, venga colto in stato di manifesta ubria-
chezza. Se prima della riforma il giudice avrebbe potuto bilanciare l’aggravante di cui all’art.
688, comma 2 c.p. con eventuali circostanze attenuanti, e quindi applicare la pena di cui al
reato base prevista al comma 1 (nei casi più lievi, l’ammenda), oggi invece ‘‘la possibilità di
commisurare la pena all’effettivo disvalore del fatto è fortemente limitata’’.
Infatti, essendo la previsione di cui al comma 2 dell’art. 688 c.p. un reato autonomo,
non è più possibile alcun bilanciamento con circostanze attenuanti, le quali, se presenti, pos-
sono determinare solo un abbattimento del minimo edittale, ma mai impedire al giudice di
applicare comunque la pena dell’arresto.
Non solo: risulterebbe messo in crisi anche il principio di offensività in quanto la con-
travvenzione di cui all’art. 688, comma 2, c.p., dando rilievo ad un precedente penale che è
privo di una correlazione con lo stato di ubriachezza, finisce col punire non tanto l’ubria-
chezza in sé quanto una qualità personale del soggetto. In questo modo la citata contravven-
zione assumerebbe i tratti di una sorta di ‘‘reato d’autore’’ in aperta violazione del principio
di offensività.
Si badi come quest’ultimo, nella presente pronuncia, non viene enucleato dal solo art.
25, comma 2, Cost. (come avveniva in passato) bensì da quest’ultimo letto sistematicamente
con ‘‘l’insieme dei valori connessi alla dignità umana’’. Un particolare combinato disposto,
quello testé accennato, che vieta, secondo la Corte, che ‘‘la qualità di un condannato per un
determinato delitto possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non co-
stituisce illecito penale’’. Infine — conclude la Corte — la norma censurata, avendo trasfor-
mato in elementi costitutivi del reato di ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una
condanna irrevocabile, vanificherebbe la finalità rieducativa che l’art. 27, comma 3, Cost. as-
segna alla pena.

LEGISLAZIONE SPECIALE

ART. 15
L. 8 febbraio 1948, n. 47
(Disposizioni sulla stampa)
Reato di pubblicazioni
a contenuto impressionante o raccapricciante
(Ord. 5 aprile 2002, n. 92, in G.U., I serie speciale,
10 aprile 2002, n. 15 - manifesta infondatezza)

La Consulta risolve la censura di incostituzionalità dell’art. 15 della l. n. 47 del 1948

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(Disposizioni sulla stampa), nella parte in cui esso, estendendo la norma penale di cui all’art.
528 c.p. (Pubblicazioni e spettacoli osceni) agli stampati che descrivono od illustrano, con
particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche sol-
tanto immaginari, richiama come oggetto di tutela giuridica il turbamento del ‘‘comune sen-
timento della morale’’. Tale locuzione indeterminata e generica non solo avrebbe reso per il
remittente la citata norma incriminatrice incompatibile con l’art. 25, comma 2, Cost., ma il
suo richiamo avrebbe comportato una lesione dell’art. 21, comma 6, Cost., il quale vieta la
pubblicazione a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al ‘‘buon co-
stume’’.
La norma oggetto, vietando anche le pubblicazioni contrarie alla ‘‘morale comune’’ at-
traverso appunto il richiamo del bene giuridico ‘‘comune sentimento della morale’’, avrebbe
oltrepassato il limite costituzionale, rendendo la zona dell’illecito più ampia rispetto a quella
delimitata dalla norma costituzionale, essendo indubbio per il remittente che il concetto di
‘‘morale comune’’ è più esteso di quello di ‘‘buon costume’’ (nella fattispecie l’imputato era
accusato di avere affisso manifesti raffiguranti un feto umano ricoperto di sostanza ematica e
la testa di un feto sorretto da una pinza chirurgica). La lamentata indeterminatezza della lo-
cuzione ‘‘comune sentimento della morale’’ è argomentata in base al fatto che l’accerta-
mento del reato, cioè l’esistenza, mediante la diffusione di pubblicazioni a contenuto racca-
pricciante o impressionante, del turbamento dell’oggetto giuridico tutelato, finirebbe per di-
pendere dai parametri culturali proprio del giudicante. Non solo: l’indeterminatezza della lo-
cuzione incriminata non potrebbe essere colmata in via interpretativa. Mancherebbe un indi-
rizzo giurisprudenziale sufficientemente consolidato, senza dimenticare l’esiguità delle pro-
nunce esistenti (sul punto cfr. Cass. pen., 21 dicembre 1999, Bordonaro Bixio, in Riv. pen.,
2000, p. 338 ss.; Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 1982, Valentini, ivi, 1983, p. 637 ss.; Trib.
Roma, 3 febbraio 1995, Minerbi, in Dir. inf. e informatica, 1996, p. 43 ss.; Trib. Milano, 10
ottobre 1995, Pennachioli, ibidem, 47 ss.).
La Corte, nel decidere per l’infondatezza della questione, non può che richiamare la
sentenza n. 293 del 2000 (in Giur. cost., 2000, p. 2239, con nota di A. ODDI, La riesuma-
zione dei boni mores, p. 2245 ss.), la quale aveva deciso un analogo dubbio sollevato dalla
Corte di cassazione. Nonostante, quella volta, maggiore attenzione fosse stata accordata
dalla Cassazione all’argomento dell’indeterminatezza della fattispecie, la Consulta in quella
pronuncia aveva analizzato preliminarmente la presunta violazione della libertà di manifesta-
zione del pensiero. È proprio l’art. 21, comma 6 — avevano sottolineato i giudici costituzio-
nali — a demandare alla legge la predisposizioni di meccanismi e strumenti adeguati a preve-
nire e a reprimere le violazioni del precetto costituzionale; tuttavia allora, e neppure oggi
mediante l’ord. n. 92 del 2002, la Consulta si è espressa direttamente sui rapporti che sussi-
sterebbero tra il concetto di ‘‘morale comune’’ e ‘‘buon costume’’, omettendo una risposta
puntuale a quella che era stata la censura del remittente. Tuttavia una soluzione a questo in-
terrogativo sembrerebbe indirettamente arrivare nel momento in cui la Corte nel 2000 aveva
affrontato il nodo strettamente penalistico della questione di costituzionalità, cioè la viola-
zione dell’art. 25, comma 2, Cost. Con riguardo alla locuzione ‘‘comune sentimento della
morale’’ i giudici avevano ritenuto che tale espressione rappresentasse non solo ‘‘ciò che è
comune alle diverse moralità del nostro tempo ma anche alla pluralità delle concezioni eti-
che che convivono nella società contemporanea’’. Più in particolare tale ‘‘contenuto mini-
mo’’, patrimonio comune di una pluralità di morali ed etiche, non sarebbe altro che il valore
del ‘‘rispetto della persona umana’’, valore che animerebbe l’art. 2 Cost. e alla luce del quale
andrebbe letta la norma incriminatrice.
Non è mancato chi in dottrina abbia sottolineato come nella sentenza n. 293 del 2000 i
giudici costituzionali abbiano finito per riconoscere al limite costituzionale del ‘‘buon costu-
me’’ un significato ampio del tutto identico a quello dell’omologa nozione civilistica (coinci-
dente con il concetto di ‘‘morale pubblica’’). In questo modo non solo si sarebbe contrad-
detta la prevalente dottrina, assestata su posizioni dirette a ritenere che al limite del ‘‘buon
costume’’ debba essere ascritta una portata semantica più ristretta rispetto alla sua nozione

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civile, cioè sostanzialmente coincidente con quella ricavabile dalle norme penalistiche che
presidiano il ‘‘pudore’’ e la ‘‘pubblica decenza’’. Tornando al problema dell’indeterminatezza
del precetto penale, dalla sentenza del 2000 sembra emergere come il rinvio operato dal legi-
slatore a concetti elastici trovi la propria giustificazione e il relativo limite nella tutela della
dignità umana. Se da un lato, infatti, il riferimento ad un concetto aperto permetterebbe al
giudice di merito di adeguare la propria valutazione della condotta punibile all’evoluzione
della società, dall’altro la ratio della norma, consistente nella tutela della dignità umana,
sembrerebbe escludere, affermano i giudici, il rischio di dilatazioni arbitrarie della fattispecie.
La sentenza del 2000, come d’altronde la presente ordinanza, si pone in linea con quella
giurisprudenza ormai consolidata della Corte in tema di giudizio sulla determinatezza, la
quale, con argomentazioni spesso anche differenti, ha sempre escluso la violazione dell’art.
25, comma 2, ritenendo che il più delle volte i dubbi sulla determinatezza della fattispecie
potessero essere risolti su un piano puramente interpretativo, scaricando così sulla magistra-
tura il compito di dare concretizzazione ad enunciati elastici e generici (da ultimo, per un fi-
lone diretto a valorizzare il principio di offensività, cfr. sentt. Corte cost., n. 263 del 2000, n.
519 del 2000, n. 531 del 2000, n. 39 del 2001).
Nel caso concreto la Corte opera un rinvio alla ratio della norma, cioè al bene giuridico
ivi tutelato, cosicché, attraverso un rimando al medesimo, sarebbe possibile ancorare la fatti-
specie alla tutela dei principi fondamentali così da escludere il pericolo di interpretazioni ar-
bitrarie da parte della giurisprudenza Tuttavia non si può sottolineare come il rinvio alla ‘‘tu-
tela della dignità umana’’, quale bene giuridico protetto dall’art. 15 l. n. 47 del 1948, non sia
stato espressamente valorizzato dal legislatore al momento della formulazione della norma
ma sia il risultato finale di un’operazione ‘‘creatrice’’ della Corte. Ora, se si considera l’as-
senza di una giurisprudenza consolidata sull’art. 15, appare evidente la tendenza della Corte
a far valere la propria pronuncia come unico parametro per la futura attività ermeneutica dei
giudici.

ART. 171-ter
L. 22 aprile 1941, n. 633
(Protezione del diritto d’autore
e di altri diritti connessi al suo esercizio)
Vendita e noleggio di videocassette e simili
senza contrassegno SIAE.
(Sent. 23 maggio 2002, n. 209, in G.U., I serie speciale,
29 maggio 2002, n. 21 - manifesta inammissibilità)

La Corte è chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 171-ter, comma 1,


lett. c), della l. 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti con-
nessi al suo esercizio), nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte con la l. 18
agosto 2000, n. 248 (Nuove norme di tutela del diritto di autore), cioè quella risultante dal
testo originario come modificato dal d.lgs. 16 novembre 1994, n. 685.
Il citato articolo, con riguardo a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della
l. n. 248 del 2000, prevede la punizione di chiunque abbia venduto o noleggiato ‘‘videocas-
sette, musicassette od altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere cine-
matografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento, non contrassegnati dalla
SIAE ai sensi della l. n. 633 del 1941 e del relativo regolamento di esecuzione’’, adottato con
r.d. 18 maggio 1942, n. 1369 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione della l. 22
aprile 1941, n. 633, per la protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo
esercizio). Nonostante l’apparente chiarezza del dettato legislativo, si contrappongono due
orientamenti circa la corretta interpretazione da accordare a questa norma. Il primo, netta-
mente maggioritario al punto da assumere probabilmente i contorni del ‘‘diritto vivente’’, ri-
tiene che il regolamento deputato ad integrare il precetto si debba rinvenire proprio nel r.d.
18 maggio 1942, n. 1369 che ha dato esecuzione alla l. n. 633 del 1941 (Cass., 16 maggio

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1997, Nannucci, in Riv. dir. ind., 1998, II, p. 369; Cass., 4 marzo 1997, Favilli, in Dir. au-
tore, 1998, p. 108; Cass., 10 febbraio 1998, Sambataro, in Riv. pen., 1998, p. 464; Cass.
pen., sez. III, 26 marzo 1999, Fiorentino, in Foro it., 1999, II, c. 716). Pertanto l’art. 171-ter
non presenterebbe profili di indeterminatezza nell’individuazione della condotta punibile in
quanto proprio l’art. 12 contenuto nel citato regio decreto indicherebbe le modalità di appo-
sizione del contrassegno SIAE. Un diverso orientamento — quello al quale il remittente mo-
stra di aderire compiendo poi però l’errore di sollevare il dubbio di costituzionalità sull’altra
interpretazione affinché la Corte possa disattenderla — ritiene che l’art. 171-ter rappresenti
una ‘‘norma penale in bianco’’ la cui condotta punibile risulterebbe incompleta dal momento
che difetterebbe una disciplina regolamentare ad hoc che fissi le modalità di apposizione del
contrassegno SIAE. Tale disciplina non sarebbe rinvenibile nel r.d. n. 1369 del 1944, il cui
art. 12 sarebbe riferibile alle sole opere letterarie (cfr. Cass., 28 aprile 1998, Melucci, in Dir.
autore, 1998, p. 529; Cass., 16 giugno 1998, Stinga, in Riv. dir. ind., 1998, II, p. 370; Trib.
Torino, 8 novembre 1997, ivi, 1998, II, p. 370; Trib. Milano, 20 giugno 1996, in Annali it.
dir. autore, 1997, p. 756).
La Corte dichiara inammissibile la questione perché formulata in maniera contradditto-
ria. Il giudice a quo, infatti, mostrando di aderire alla tesi che ritiene inapplicabile l’art. 171-
ter in quanto (attualmente) privo del relativo regolamento di esecuzione, avrebbe dovuto
trarre le dovute conseguenza dichiarando l’irrilevanza penale della condotta ascritta all’im-
putato. Il contrasto interpretativo denunciato dal giudice — e tale da creare problemi di
compatibilità con l’art. 25, comma 2, Cost. della norma denunciata qualora fosse stato ac-
colto l’orientamento che nega la possibilità di integrazione del precetto mediante l’applica-
zione del r.d. n. 1369 del 1944 — è stato risolto dalla sentenza della Corte di cassazione,
sez. un., 19 febbraio 2000, n. 2, nel senso che i fatti previsti dall’art. 171-ter, comma 1, lett.
c), della l. n. 633 del 1941, introdotto dall’art. 17 d.lgs. n. 685 del 1994, costituiscono tut-
tora reato, a nulla rilevando che l’emanazione del regolamento di esecuzione non sia avve-
nuta, dovendosi intendere il riferimento al regolamento contenuto nel citato articolo come
fatto al regolamento approvato con r.d. 18 maggio 1942, n. 1369. La ragione principale
viene rinvenuta nel fatto che il d.lgs. n. 685 del 1994, che ha introdotto l’art. 171-ter nella
legge sul diritto d’autore, ha inteso riaffermare il valore centrale di quest’ultima tant’è che le
innovazioni legislative ivi apportate sono avvenute attraverso la tecnica dell’interpolazione:
pertanto il rinvio al regolamento d’esecuzione non potrebbe essere che rivolto proprio al re-
golamento del 1941.
Non convince pienamente il modo in cui la Corte di cassazione ha cercato di superato
l’obiezione in forza della quale l’art. 12 del regolamento di esecuzione del 1941 si riferirebbe
unicamente alle ‘‘opere letterarie cartacee’’ e risulterebbe pertanto inapplicabile alle opere
dell’ingegno descritte nell’art. 171-ter. Per i giudici di legittimità il comma 3 dell’art. 12 con-
terrebbe una ‘‘statuizione a previsione aperta’’ nella parte in cui stabilisce che ‘‘le categorie
di opere che devono essere oggetto di contrassegno in applicazione delle disposizioni della l.
[n. 633 del 1941]... nonché le modalità del contrassegno medesimo... possono essere stabi-
lite anche da accordi economici collettivi tra le associazioni sindacali interessate’’.

ARTT. 30-31
L. 13 settembre 1982, n. 646
Omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali
in materia di prevenzione antimafia
(Ord. 24 aprile 2002, n. 143, in G.U., I serie speciale,
2 maggio 2002, ed. str. - manifesta infondatezza; manifesta inammissibilità)

La Corte costituzionale è chiamata a sindacare la legittimità di tre distinte questioni di


legittimità costituzionale. La prima riguarda l’art. 30 della l. 13 settembre 1982, n. 646 (Di-
sposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle
ll. 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istitu-

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zione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), in riferimento all’art. 3
della Costituzione. Il comma 1 del citato articolo fa obbligo alle persone ‘‘già sottoposte, con
provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della l. 31 maggio 1965, n.
575’’ di comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tribu-
taria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del pa-
trimonio concernenti elementi di valore non inferiore a venti milioni di lire e altresì di comu-
nicare entro il 31 gennaio di ciascun anno le variazioni intervenute nell’anno precedente,
sempre se al di sopra della soglia di valore anzidetta. Dalla lettura del citato comma si desu-
merebbe che l’obbligo di comunicazione è imposto a soggetti sottoposti con provvedimento
‘‘definitivo’’ alla misura preventiva. Tuttavia i commi 2 e 3, stabilendo rispettivamente che il
suddetto termine di dieci anni decorre ‘‘dalla data del decreto’’ applicativo della misura di
prevenzione e che ‘‘gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di preven-
zione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione’’, farebbero intendere che il
medesimo obbligo di comunicazione decorra già dalla data dell’emanazione del decreto o dal
momento della sua esecuzione e, comunque, anteriormente alla definitività del provvedi-
mento, creando così ‘‘incertezza del diritto, con conseguente impossibilità di assicurare ai
soggetti destinatari parità di trattamento dinanzi alla legge’’.
La seconda questione investe invece l’art. 31 della stessa l. n. 646 del 1982, in riferi-
mento all’art. 27 Cost., mentre la terza riguarda ancora dell’art. 31 della citata legge, avendo
tuttavia riguardo agli artt. 3, 35, 41 e 42 Cost.
Con riferimento alla violazione dell’art. 27 Cost., si lamenta la sproporzione in eccesso
nonché l’inefficacia del minimo edittale; ciò discenderebbe dal fatto che l’applicazione delle
pene stabilite dalla disposizione non assicurerebbe la conoscenza delle reali variazioni dei
patrimoni dei mafiosi in quanto tali mutamenti patrimoniali verrebbero effettuati avvalen-
dosi di terze persone (c.d. prestanomi).
Con riferimento alla terza questione, il rimettente denuncia sempre l’art. 31 in quanto
prevede, quale ulteriore conseguenza della condanna per il reato di omessa comunicazione
delle variazioni patrimoniali, ‘‘la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del
corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati’’; nel sistema penale la confisca è una mi-
sura di sicurezza che si fonda sulla pericolosità della disponibilità di alcune cose, che sono
servite o che sono state destinate a commettere il reato o che di questo sono il prodotto o il
profitto, e pertanto essa mira a prevenire la commissione di ulteriori reati. Tale ratio nel caso
in questione mancherebbe. Nella disposizione in questione la misura della confisca — appli-
candosi senza distinzione alcuna anche a beni pervenuti per successione ereditaria o per do-
nazione, o relativamente ai quali il condannato abbia, in ipotesi, acceso un mutuo bancario,
pagando le relative rate con i proventi del proprio lavoro — apparirebbe sproporzionata ri-
spetto alla finalità legislativa di controllo dei movimenti patrimoniali dei soggetti mafiosi (di
qui la violazione del principio di uguaglianza e del canone di coerenza e razionalità della
legge), nonché in contrasto con gli artt. 35, 41 e 42 Cost., essendo prevista l’ablazione di
beni e utilità anche quando siano il prodotto del lavoro e del risparmio e dunque quando
l’acquisto della proprietà derivi da attività consentite e protette dal diritto.
La Corte, rispondendo alle prime due censure, non può non richiamarsi all’ordinanza n.
442 del 2001, successiva alle ordinanze di rinvio ora in esame: allora la Corte aveva sottoli-
neato come la prima questione avesse sollevato un mero dubbio di carattere interpretativo
che sarebbe spettato al giudice dissolvere mentre la seconda questione si era risolta in consi-
derazioni critiche circa l’opportunità della norma, non traducibili in censure di costituziona-
lità apprezzabili, specie poi a fronte dell’ampia discrezionalità del legislatore nella determi-
nazione dei reati e delle relative sanzioni. La Corte invece affronta per la prima volta la terza
questione dichiarandola tuttavia manifestamente inammissibile. In primo luogo, ed in via
preliminare, i giudici costituzionali sottolineano come la questione sollevata abbia natura de-
rivata nel senso che il problema di costituzionalità si porrebbe solo dopo l’affermazione di
responsabilità del soggetto per il reato di cui all’art. 30 della l. n. 646 del 1982; un’afferma-
zione che tuttavia mancherebbe. Ciò nonostante il remittente viene invitato a non scartare

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quel filone interpretativo della norma in oggetto che esclude la sussistenza del reato, sotto
il profilo dell’elemento soggettivo, quando le operazioni siano costituite da atti legalmente
soggetti a forme di pubblicità che rendano di per sé impossibile l’occultamento di essi.

ART. 2
D.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490
(T.U. delle disposizioni legislative
in materia di beni culturali e ambientali)
Reati di contraffazione, commercio
e autenticazione di opere d’arte
(Sent. 10 maggio 2002, n. 173, in G.U., I serie speciale,
15 maggio 2002, n. 19 - infondatezza)

La Corte costituzionale è chiamata a valutare la legittimità dell’art. 2, comma 6, del


d.lgs. 29 ottobre 199, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali), il quale ricomprende, tra le altre, sia disposizioni di cui alla l. n. 1089
del 1939 che quelle di cui alla l. n. 1062 del 1970; leggi che sono state espressamente abro-
gate dall’art. 166 del T.U., mentre le disposizioni penali (artt. 3-7) contenute nella l. n. 1062
del 1971 sono state trasfuse nell’art. 127 del nuovo corpo normativo. Tuttavia l’ambito di
applicazione di quest’ultima norma, a differenza di quanto avveniva nella vigenza della legge
originaria, trova un limite espresso nel disposto dell’art. 2, comma, 6 cit. T.U., il quale stabi-
lisce che ‘‘non sono soggette alla disciplina di questo titolo, a norma del comma 1, lett. a), le
opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni’’.
Una tale modifica della portata della l. n. 1062 del 1971, non richiesta da alcuna esi-
genza di coordinamento tra le disposizioni in essa contenute e quelle di cui alla l. n. 1089 del
1939, avrebbe dovuto essere autorizzata dalla l. delega n. 352 del 1997, la quale invece si
era limitata a stabilire che il Governo, nel riunire e coordinare le disposizioni legislative in
materia di beni culturali e ambientali, avrebbe dovuto ‘‘apportare esclusivamente le modifi-
cazioni necessario per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il
riordino e la semplificazione dei procedimenti’’ (art. 1).
La Corte, dichiarando infondata la questione, ha modo di sottolineare come in realtà le
norme relative alla contraffazione contenute nella l. n. 1062 del 1971 (artt. 3 e 4) — e oggi,
come detto, trasfuse nell’art. 127 del T.U. — continuano ad applicarsi anche alle opere ‘‘di
autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquant’anni’’ nonostante la presenza
nel T.U. della formulazione contenuta nell’art. 2, comma 6.
La citata esclusione infatti non sarebbe altro che la trasfusione nel T.U. dell’esclusione
contenuta a suo tempo nella l. n. 1089 del 1939, la quale tuttavia non dettava alcuna disci-
plina penale ma prevedeva la suddetta esclusione per le opere di autori viventi o comunque
di recente esecuzione in quanto non voleva estendere ad esse una disciplina vincolistica,
quale quella contenuta nella l. n. 1089 del 1939, che avrebbe finito per impedirne o ostaco-
larne la commercializzazione e l’utilizzazione economica (con il rischio poi di esprimere giu-
dizi affrettati sul valore delle opere, giudizi che avrebbero potuto essere modificati dal tra-
scorrere del tempo).
Diversamente la l. n. 1062 del 1971 ha sanzionato la condotta di chi contraffà e la limi-
tazione contenuta oggi nel T.U. dell’art. 2, comma 6, non può, per il motivo sopra eviden-
ziato, estendersi a norme incriminatrici (precedentemente contenute nella l. n. 1062 del
1970) che nulla avevano a che fare con la legge per la quale tale limitazione era sorta.
Questa lettura del dato normativo, suggerita dalla diversa sfera di applicazione delle due
ll. nn. 1089 del 1939 e 1062 del 1971, trova conferma nel fatto che la seconda, con l’entrata
in vigore del T.U., risulta completamente abrogata salvo l’art. 9, comma 2, della medesima,
il quale prevede che il giudice debba assumere come testimone l’autore a cui è attribuita l’o-
pera d’arte contraffatta. Un obbligo che non avrebbe senso se le fattispecie incriminatrici

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contenute nell’art. 127 T.U. non si riferissero anche alle opere di autori viventi o di recente
esecuzione.
Sebbene per la Corte si imponga un’interpretazione storico-sistematica dell’art. 2,
comma 6, tesa a non estendere la citata esclusione anche alle norme incriminatrici della l. n.
1062 del 1971 contenute oggi nell’art. 127 del T.U., è palese come il denunciato difetto di
coordinamento in cui è caduto il legislatore delegato possa incidere, e non poco, sulla chia-
rezza della norma penale, minando il principio di determinatezza: le prescrizioni contenute
in un precetto penale dovrebbero essere per il cittadino di immediata evidenza e comprensi-
bilità. Obiettivi che, nel caso in questione, sono possibili solo attraverso una complessa rico-
struzione delle normative che sono state trasfuse nel T.U.

ANDREA GIANNOTTI
Dottorando di ricerca
in Storia e dottrina delle istituzioni
nella Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università dell’Insubria

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

B. WIRMER-DONOS, Die Strafrechtstheorie Karl Christian Friedrich Krauses als theoretische


Grundlage des spanischen Korrektionalismus. Rechtspolitisches Reformpotential und
paradigmatische Bedeutung einer vergessenen Strafrechtstheorie, Peter Lang, Frankfurt
a. M., 2001, pp. 232 (Frankfurter Kriminalwissenschaftliche Studien, Nr. 71).

Questa tesi di dottorato ripropone al dibattito scientifico i legami che uniscono tre temi
del XIX secolo ingiustamente trascurati: il filosofo tedesco Karl Christian Friedrich Krause
(1781-1832), la sua teoria penalistica e la sua connessione con il « correccionalismo » spa-
gnolo.
Krause elaborò una filosofia idealista; egli però voleva applicarla alla vita, tanto che la
chiamò « scienza dell’arte di vivere ». Le sue opere mirano quindi a costruire una teoria della
società che possa essere tradotta in pratica e proprio questo suo desiderio lo portò a vedere
nella massoneria la struttura adatta a costituire il germe di quella « lega dell’umanità » da cui
sarebbe potuto scaturire lo Stato mondiale. L’invasione napoleonica della Germania e, sul
piano personale, il suo conflitto con la massoneria gli imposero numerosi cambiamenti di
università e ostacolarono la diffusione del suo pensiero sociale e penale, che ebbe ben poca
fortuna in Germania.
Uno strumento fondamentale per realizzare la società solidaristica teorizzata da Krause
era la pedagogia, che doveva plasmare individui capaci di una convivenza armonica. Di qui
nasceva anche la sua visione del diritto penale come strumento per migliorare il deviante al
fine di reinserirlo nella società e, quindi, la sua visione della pena come strumento di corre-
zione, e non di afflizione o di retribuzione. Il suo pensiero sul diritto penale e sulla funzione
della pena fa parte di un più vasto sistema filosofico e va perciò ricostruito componendo in
unità i frammenti sparsi nelle sue opere filosofiche. La sua opera più ricca di spunti penali-
stici è quella dedicata alla filosofia del diritto, che però venne pubblicata postuma dal suo
unico seguace in campo penalistico, Karl David August Röder (1806-1879). Tuttavia anche
quest’ultimo non ebbe in Germania miglior fortuna del maestro.
A questa sfortuna in patria fa da contrappunto un vasto e duraturo successo in Spagna
(tema di cui si occupa la ricerca dell’Autrice: ma il successo del pensiero krausiano riguarda
l’intera penisola iberica e anche le sue colonie sudamericane). Il rifiuto tedesco e il successo
spagnolo di Krause e di Röder si spiega con la diversa situazione politica e culturale delle
due aree geografiche.
In Germania la teoria solidaristica di Krause venne interpretata come un’ultima difesa
del despotismo illuminato, cioè come la fase conclusiva del pensiero illuministico. Ormai ne-
gli Stati tedeschi si facevano strada le teorie liberali del diritto penale, che miravano soprat-
tutto a tutelare l’individuo dall’arbitrio del sovrano. Il diritto penale doveva, secondo
Krause, riconciliare il deviante con la morale e riportarlo nel seno della società, mentre per i
liberali il diritto andava separato dalla morale. Anche la teoria dell’umanizzazione dell’ese-
cuzione penale, propugnata da Röder, venne di fatto ignorata dai suoi contemporanei tede-
schi.
In Spagna, la forza del regime assolutistico e clericale ritardò la penetrazione delle idee
illuministiche già diffuse nel resto d’Europa, cosicché in queste ultime gli intellettuali spa-
gnoli videro soprattutto lo strumento per il riscatto dall’arretratezza culturale. La visione ar-

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monica di Krause, il fondamento su Dio del suo intero edificio filosofico e il suo pedagogi-
smo sociale lo rendevano particolarmente adatto ai fini perseguiti dai liberali spagnoli.
Quindi lo sfasamento culturale fra Spagna e Germania si trasformò in un fattore di successo
per la filosofia sociale (e quindi anche penale) di Krause e di Röder.
Il pensiero di Krause divenne in Spagna la bandiera del riformismo sociale, tanto che
questo movimento prese il nome di « krausismo », si affermò in tutta la penisola iberica e, di
lì, passò alle colonie spagnole e portoghesi dell’America latina. Gli scritti sul krausismo nel
mondo ibero-americano possono riempire intere biblioteche.
L’opera qui esaminata si concentra sulla recezione in Spagna del pensiero penalistico di
Krause e di Röder. All’origine dell’affermazione spagnola di Krause è la traduzione d’una
sua opera massonica da parte di Julián Sanz del Río (1814-1869): è di qui che prende inizio
quel « racionalismo armónico » che costituisce la filosofia del liberalismo spagnolo. La filo-
sofia krausista ebbe modo di tradursi in pratica durante la Prima Repubblica (1868-1874),
come si vedrà fra poco. Il krausismo spagnolo non era una recezione rigorosamente orto-
dossa del pensiero krausiano, ma piuttosto un diffuso atteggiamento che ad esso si ispirava,
restando aperto a ogni influsso straniero che servisse ad ammodernare la Spagna. Per questo
il krausismo fu la via attraverso cui anche il positivismo entrò nella penisola iberica, che co-
nobbe così un « krausopositivismo », il quale a sua volta influenzò il « socialismo umanista »
e l’anarchismo spagnolo.
Anche la recezione del pensiero penalistico krausista non si presentò come un movi-
mento unitario, ortodossamente discendente da una dottrina-guida. Il « correzionalismo spa-
gnolo » indica anzi una serie di dottrine diverse, che hanno in comune una concezione della
pena intesa come ricupero sociale del deviante. L’importanza di questo movimento è da ve-
dere soprattutto nella sua capacità di tradurre in pratica le idee teoriche sviluppate a partire
da Krause. La denominazione del movimento spagnolo deriva direttamente da un’opera di
Röder: in una nota della traduzione spagnola del 1871 si legge che il termine tedesco « Bes-
serungstheorie » viene tradotto con « teoría correccional » perché in essa « la pena se consi-
dera como condición para el mejoramento del delincuente » (p. 64, nota 7).
Il libro di Bettina Wirmer-Donos si sofferma dettagliatamente su due grandi temi: dap-
prima il correzionalismo spagnolo e i suoi rappresentanti più significativi (pp. 61-112); poi,
la recezione in Spagna delle idee di reato, di pena, di imputazione e dell’intera dottrina pena-
listica di Krause (pp. 113-215). Qui è possibile accennarne soltanto per sommi capi.
Francisco Giner de los Ríos (1839-1915), una delle figure centrali del liberalismo spa-
gnolo, fu un fedele seguace di Röder, di cui tradusse l’opera principale. A lui si deve la crea-
zione della « Institución Libre de Enseñanza », realizzazione delle idee pedagogiche di
Krause e centro di cultura esistente ancora ai giorni nostri. Nel penalista Pedro Dorado
Montero (1861-1915) — rappresentante del socialismo « armonico » o « humanista » - il
pensiero fondato su Dio, tipico di Krause, viene fuso con la visione positivistica, generando
il « krausopositivismo »: la pena si fonda così su un concetto trascendente di ragione, aperta
però al razionalismo e all’empirismo sociologico tipici del positivismo. L’apertura di Dorado
Montero al positivismo si può far risalire agli anni trascorsi a Bologna (1884-1887), nei
quali entrò in contatto con il pensiero di Lombroso, Ferri e Garofalo.
Il correzionalismo spagnolo si biforcò in una corrente krausista (con gli autori appena
visti) e in una corrente eclettica, nella quale emerge la figura della penalista e ispettrice car-
ceraria Concepción Arenal (1820-1893). La sua vasta opera si fonda più su studi empirici
sul delinquente (fondati sulla sua attività di ispettrice carceraria) che su studi teorici (pre-
sentati in numerosi congressi europei, pur non essendo la loro autrice mai uscita dalla Spa-
gna). Concepción Arenal cerca di andare oltre ai modelli krausisti, peraltro a lei ben noti, e
va considerata « una precorritrice della Défense sociale » (p. 70).
Da queste teorie spagnole scaturirono notevoli interventi legislativi. All’attività concreta
di miglioramento della vita carceraria, propria di Concepción Arenal, va aggiunto il « Labo-
ratorio de criminología » di Giner de los Ríos. Divenuto poi « Escuela de criminología » e
destinato a formare un personale penitenziario atto a promuovere la redenzione morale del

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detenuto, questo istituto venne chiuso sotto la dittatura di Primo de Rivera. Venne poi ria-
perto e giunse con alterna fortuna sino ai giorni nostri con il nome di « Escuela de estudios
penitenciarios ». In queste attività si fondono le componenti penalistica e pedagogica del
pensiero krausista.
Le teorie krausiste influirono sulla realtà giudiziaria e penitenziaria spagnola anche at-
traverso la legislazione penale. In Spagna l’« esecuzione progressiva » venne introdotta col
decreto del 3 giugno 1901 e la libertà condizionale con la legge del 1914, mentre con il de-
creto del 18 maggio 1903 il sistema tutelare sostituì la tradizionale organizzazione carceraria
fondata sul modello militare. Le teorie di Dorado Montero sul « diritto come protettore del
deviante » si tradussero nella creazione dei tribunali per i minori (Tribunales para niños,
legge del 2 agosto 1918) e nell’attribuzione allo Stato d’un forte potere di intervento sulla li-
bertà dei giovani e sui diritti dei genitori, al fine di tutelare la società da un’educazione po-
tenzialmente pericolosa. Per Dorado il diritto penale era infatti una parte del diritto ammini-
strativo (p. 106). Queste norme restarono in vigore sino alla fine del franchismo e vennero
sostituite da un nuovo diritto minorile nel 1974 e nel 1992, riportando quest’area nell’am-
bito del diritto penale generale.
L’apogeo dell’influsso krausista sul diritto positivo spagnolo si ebbe con ogni probabi-
lità con la rilevante figura di studioso e politico Luis Jiménez de Asúa (1889-1970). Come
deputato del partito socialista (PSOE) partecipò alla stesura della Costituzione del 1931 e
alla riforma del diritto penale, fermo al 1870. Le idee krausiane della riabilitazione trova-
rono un’applicazione pratica nella legge sui vagabondi, da lui propugnata (Ley de vagos y
maleantes del 1928; poi Ley de rehabilitación social). Essa contiene una serie di misure per
la riabilitazione e il reinserimento sociale degli emarginati, fondate sull’idea krausiana della
« pena indeterminada » in funzione della pericolosità sociale del singolo. Si è ormai all’inizio
del XX secolo e quindi alle idee krausiste si sommano gli influssi della Défense sociale e
della scuola nordamericana. Queste norme restarono in vigore fino alla riforma del 1995.
La voce del krausismo torna a riecheggiare, dopo la fine del regime di Franco, anche
nella costituzione spagnola del 1978, il cui articolo 25, comma 2, sancisce la funzione « cor-
rezionalista » della pena con queste parole iniziali: « Le pene detentive e le misure di sicu-
rezza sono dirette alla rieducazione e al reinserimento sociale e non possono consistere in la-
vori forzati ». (Mario G. Losano).

ALESSANDRI A. (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società. D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61,
Milano, Ipsoa, 2002, pp. XIV-645.

L’opera si apre con una Prefazione di C. Pedrazzi che in pochi paragrafi disegna con
singolare nitidezza alcuni dei punti più critici della riforma e si chiude con un « tranquillo
pronostico »: per la dottrina e la giurisprudenza il nuovo diritto penale societario « rappre-
senterà una sfida decisamente severa » (e non occorre sottolineare, in questa sede, con
quanta puntualità quel pronostico sia stato rispettato).
Proseguendo idealmente su questa linea argomentativa, il Curatore, nella prima sezione
dedicata ad una valutazione complessiva della riforma, rileva come l’impegno a « superare le
angustie » di una « prima lettura » e la natura collettanea dell’opera abbiano portato ad esiti
interpretativi anche fortemente differenziati, in parte frustrando quel compito di « chiari-
mento » e « sistemazione » che la dottrina, « a torto o a ragione, usualmente si attribuisce ».
Tali esiti divergenti sarebbero « il segno caratteristico della nuova disciplina » e, andando
ben oltre la normale differenziazione delle soluzioni interpretative generata da una novità le-
gislativa, sarebbero favoriti dagli ambigui dati testuali, « che legittimano sovente una vasta
gamma di soluzioni ». La prima sezione prosegue analizzando « le linee generali della ri-
forma »: non sembra che le impegnative « parole d’ordine » della riforma — sussidiarietà,
extrema ratio, certezza del diritto, offensività, certezza delle pene — abbiano trovato com-
piuta applicazione e, in ogni caso, non è ben chiaro quali scelte di politica criminale ne con-
siglino un’attuazione differenziata nell’ambito del diritto penale societario. Il risultato è un

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arretramento della soglia del penalmente rilevante immotivata e capricciosa ed una ristruttu-
razione delle oggettività giuridiche in chiave patrimoniale che priva la materia della propria
individualità sistematica, convogliando un messaggio di sostanziale disuguaglianza rispetto
al trattamento riservato alla criminalità « comune ».
La seconda sezione è dedicata alla trattazione delle « questioni generali »: in questa
parte dell’opera trovano collocazione un capitolo che si occupa della « estensione delle quali-
fiche soggettive »; ben due capitoli volti all’analisi della « responsabilità delle persone giuri-
diche » (il secondo dei quali è interamente dedicato ai modelli di organizzazione, gestione e
controllo, vero cuore della disciplina del D.Lgs. 231/2001, ed alle specifiche problematiche
che la costruzione di tali modelli in relazione a reati tipicamente di vertice come quelli socie-
tari potrà presentare); un capitolo dedicato alla confisca; uno dedicato alle delicate questioni
di diritto intertemporale sollevate dalla riforma ed uno relativo alle questioni processuali.
Esaurita la trattazione delle questioni generali, l’opera prosegue analizzando le singole
fattispecie introdotte o novellate dalla riforma con le sezioni riservate, rispettivamente: alle
falsità (il commento degli articoli 2621 e 2622 c.c. è affidato a due diversi Autori, rendendo
immediatamente evidente quella divergenza di esiti interpretativi preannunciata dal Curatore
nelle pagine introduttive); agli aspetti economici ed alle questioni contabili del falso in bilan-
cio (questa sezione offre una lettura delle tanto discusse soglie di rilevanza da parte di uno
studioso di economia aziendale, che ne sottolinea la fondamentale irrazionalità e la totale in-
congruenza con le regole ed i principi che reggono la formazione dei bilanci); alla tutela pe-
nale del capitale sociale e delle riserve obbligatorie per legge; alle infedeltà; alla tutela del re-
golare funzionamento degli organi; alla tutela penale del mercato; alle modifiche alla legge
fallimentare.
La decima ed ultima sezione, dedicata alle considerazioni comparatistiche, costituisce
uno degli aspetti più originali dell’opera; nessuna delle opere di commento alla riforma de-
dica tanto spazio all’analisi del trattamento riservato dagli altri ordinamenti ai reati societari
(oltre alle iniziative dell’Unione Europea, vengono prese in considerazione le soluzioni adot-
tate negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania ed in Spagna): essa si inseri-
sce armoniosamente nel piano generale dell’opera e rappresenta l’ideale completamento dei
numerosi — ma necessariamente sintetici — riferimenti comparatistici che costellano le pa-
gine che la precedono, denunciando la totale distonia dell’intervento del legislatore italiano
rispetto ai moderni strumenti di lotta alla criminalità economica.
Chiude l’opera un’appendice normativa contenente, a conferma della particolare atten-
zione prestata alle questioni comparatistiche, anche il testo integrale del Sarbanes - Oxley
Act 2002. (Matteo Saccavini).

GAETANO CONTENTO, Scritti (1964-2000), a cura di Giuseppe Spagnolo, Bari-Roma, Laterza,


2002, pp. XIII-617.

Gli Scritti sono una raccolta di opere del professor Contento, presentata nel primo anni-
versario della Sua scomparsa. È una sintesi critica, una selezione, piuttosto che una riprodu-
zione integrale, delle opere cosiddette minori, cioè non monografiche. Oltre a scritti già pub-
blicati, la maggior parte, vedono le stampe due inediti di particolare pregio, rispettivamente
del 1978-1980, in materia di concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi, e del
2000, in tema di proposte de lege ferenda sulla disciplina del concorso di persone nel reato.
Una nota bio-bibliografica e la presentazione del curatore aprono il volume (*), che pro-
pone un’articolazione in tre parti così intitolate: Il volto umano del diritto penale, In difesa
della legalità, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Gli Scritti compendiano tratti essenziali della proposta penalistica di Gaetano Contento:

(*) I titoli citati in nota sono quelli del volume, con relativa pagina di riferimento; tra
parentesi è indicato l’anno dello scritto.

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una proposta, unitaria come il filo conduttore della raccolta, che ne attraversa le partizioni
senza alcuna sostanziale cesura. La persona è il fulcro dell’esperienza giuridica, e la permea
così intimamente che il diritto penale assume un volto, un volto ... umano. Di qui l’intitola-
zione della prima parte, che svela anzitutto le radici culturali dell’Autore, ed i Suoi più pro-
fondi convincimenti.
Nel richiamo ad un’imprescindibile connotazione personalistica del diritto emergono
anzitutto gli insegnamenti di Aldo Moro e di Renato Dell’Andro, Maestri indimenticati: la
persona e l’uomo di Moro, e di Dell’Andro, sono senz’altro presenti nei molti soggetti che
popolano l’opera di Contento, e che in essa sono tutti protagonisti, ciascuno a proprio titolo,
dell’esperienza giuridica.
Chi sono questi soggetti? Il detenuto, e gli operatori penitenziari, ma anche lo stesso le-
gislatore, i giudici, e tutta intera la comunità sociale.
Il riferimento ai soggetti, un riferimento che lascia il segno, nella memoria di chi legge,
ricorre dunque a denotare un particolare legame che avvince l’uomo al diritto. È così che la
vita umana e la vita del diritto appaiono binari che devono correre paralleli, e svolgersi all’u-
nisono. Questo riesce a spiegare anzitutto il rifiuto delle sovrastrutture concettuali, che ine-
vitabilmente allontanano il mirino della giustizia penale dall’uomo, e dall’uomo colto in-
sieme al suo evolversi nella storia: per l’Autore — siamo nelle prime pagine della raccolta —
« la evoluzione della pena carceraria va di pari passo con la evoluzione della libertà del-
l’uomo » (1). Al contempo, l’adesione alla concretezza storica della vicenda umana non smi-
nuisce gli slanci ideali propri della stessa vicenda umana, che si trovano espressi anche nelle
norme, e specialmente nelle norme costituzionali. Ebbene, le indicazioni della Carta fonda-
mentale confermano una concezione del diritto penale a misura dell’uomo, il cui cardine è la
colpevolezza intesa non come (mero) elemento costitutivo del reato, ma piuttosto come
« postulato della stessa idea della giustizia penale » (2) che si ritiene « debba essere posto a
fondamento della responsabilità penale alla stregua, ad esempio, dei principi di legalità, di
determinatezza, di necessaria lesività del fatto » (3).
In armonia con questa particolare idea di colpevolezza la centralità della persona umana
si declina inizialmente nella proposta di un’alternativa al carcere, proposta che si dispiega
nel superare il « monopolio » di questa sanzione, perché assolutamente inadeguata nel caso
delle pene detentive di breve durata. In sua sostituzione possono risultare più efficaci altre
pene, in quanto incidenti su beni della vita ugualmente importanti per il singolo rispetto al
bene della libertà in senso stretto che viene colpito dalla permanenza in carcere. Quali beni
ugualmente importanti « esistono una quantità di situazioni soggettive a cui l’uomo, nella
vita di oggi, tiene per lo meno quanto alla libertà, poiché sono esse che danno un significato
e un valore pratico alla stessa libertà » (4). Le potenzialità di questa diversa filosofia della
pena sono presto svelate: « qualunque sospensione dell’esercizio di facoltà che nella vita di
oggi sono concesse agli individui, protratta nel tempo, può essere lo stimolo e la garanzia mi-
gliore del recupero dell’individuo, se quella attività gli è cara, se il godimento di quel bene
gli è caro » (5).
Concretamente emerge il primato della funzione rieducativa della sanzione penale: l’e-
spiazione della pena non può perciò ridursi a mera retribuzione-riparazione del mal fatto o
minaccia di un castigo che distolga dal delinquere, altrimenti si renderebbe la pena una ven-
detta (6), o un cieco strumento di deterrenza. L’Autore richiama l’umana comprensione del

(1) Osservazioni sui limiti naturali e funzionali della pena carceraria nella civiltà
moderna (1964), 8.
(2) La responsabilità senza colpevolezza nell’applicazione giurisprudenziale (1988),
245.
(3) La responsabilità senza colpevolezza, cit., 244.
(4) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 15.
(5) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 16.
(6) Cfr. Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro (1998), 34.

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fratello che ha sbagliato e scrive, rievocando l’insegnamento di Renato Dell’Andro, che « il


soggetto che è caduto nell’illecito ha bisogno di essere aiutato a riprendere forza » (7).
Tra i soggetti appare così il « detenuto che ha espiato la sua pena e che tenta di inserirsi
nuovamente nella società (8). Costui subisce un giudizio pesantemente negativo dalla società
stessa, proprio per il (mal) funzionamento della pena, che deve pertanto essere riformata se-
guendo « ciò che la pena deve essere secondo la interpretazione del nostro ordinamento giu-
ridico » (9): rieducazione, e « rieducazione spirituale » (10) alla quale « partecipino non solo
gli operatori penitenziari ma tutti i soggetti, a cominciare dallo stesso legislatore, e dai giu-
dici, per finire con tutta intera la comunità sociale » (11).
La pena ... secondo l’interpretazione del nostro ordinamento giuridico: la proposta del
Professore pone in prima linea i problemi dell’interpretazione e ricostruzione del sistema pe-
nale anche attraverso percorsi di ricerca che danno il senso di un profondo impegno in di-
fesa della legalità.
Lo studio dei limiti della norma, con specifico riferimento alle fattispecie non punibili
per l’operare delle norme esimenti, è il primo saggio, cronologicamente ed anche nella suc-
cessione degli Scritti, che segnala l’attenzione per i problemi dell’interpretazione come
chiave risolutiva anche del rispetto del principio di legalità.
La riflessione sul tema delle fattispecie non punibili parte da precisazioni metodologiche
che attengono alla considerazione unitaria dell’ordinamento, « che non è dunque costituito
soltanto da una serie di norme caoticamente giustapposte, ma è strutturato, a sua volta, da
un tessuto connettivo che vale ad ordinare le singole norme secondo un più vasto disegno fi-
nalistico (12); sicché « al fine di determinare l’effettiva sfera di efficacia di ogni norma, non
si può prescindere dall’interpretare, insieme con essa, l’intero ordinamento del quale fa
parte » (13). L’Autore sottolinea perciò come le norme penali agiscano e reagiscano, cioè in-
terferiscano, direttamente tra loro, senza bisogno di mediazioni concettualistiche: è anche la
sovranità della legge ad escludere le sovrastrutture concettuali, perché « nessuna forza può
limitare il dominio di una norma se non, appunto, una volontà giuridica della stessa natura,
cioè una norma » (14). Di qui la ricostruzione del problema della non punibilità, che affonda
le proprie radici — ricorda l’A. — nella teoria generale del diritto, in termini di ordinaria
connessione tra più norme che assumono ad antecedente del rapporto di causalità interno
alle medesime norme uno stesso fatto.
I limiti della norma, dunque, derivano essenzialmente dalla sua appartenenza ad un si-
stema, il quale sistema di norme per altro verso non può non porre limiti normativi al potere
discrezionale del giudice (15). Profilo assai problematico dell’interpretazione è infatti la di-
screzionalità dei giudici nella commisurazione della pena, la quale discrezionalità appare tal-
volta incontrollabile nella prassi giurisprudenziale, specie in tema di « motivazione impli-
cita ». In questa situazione, e cioè quando « il potere discrezionale del giudice è puro po-
tere » (16), « il problema è [...] gravissimo e investe, in radice, il giudizio di valore comples-
sivo che, sul piano politico, può e deve esprimersi sullo stesso sistema penale » (17).
L’esigenza di criteri per l’esercizio del potere di commisurazione della pena non può

(7) Il primato della persona umana nel pensiero e nell’opera di Renato Dell’Andro
(1988), 25.
(8) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 9.
(9) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 5.
(10) Il primato della persona umana, cit., 25.
(11) Il primato della persona umana, cit., 29.
(12) Limiti della norma e fattispecie non punibili (1965), 46.
(13) Limiti della norma, cit., 47.
(14) Limiti della norma, cit., 55.
(15) Note sulla discrezionalità del giudice penale, con particolare riguardo al giudi-
zio di comparazione fra le circostanze (1978), 90.
(16) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 90.
(17) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 90.

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dirsi soddisfatta isolando le indicazioni contenute nell’art. 133 c.p., norma che di per sé sola
fornisce gli oggetti di valutazione senza alcun vincolo per la formulazione del giudizio, e
senza nemmeno la possibilità di rinvenire indirizzi sufficientemente univoci ai quali infor-
mare la valutazione.
Il superamento dell’impasse è nell’interpretazione, ancora una volta, di tutto l’ordina-
mento, giacché « il sistema, nelle sue varie espressioni normative, offre, di regola — o, co-
munque, può offrire in numerosi casi — un « criterio » di valutazione « qualificativo » di de-
terminati elementi, cui dunque, può e deve essere rapportato e riferito il « tipo » di valuta-
zione che il giudice è chiamato a compiere, nell’esercizio del suo potere discrezionale ex art.
133 c.p. » (18).
Ad analoghe esigenze di limitazione della discrezionalità giudiziale è ispirata la proposta
di scorgere dei vincoli oggettivi per la formulazione del giudizio di comparazione tra circo-
stanze. Detti vincoli rinvengono da una quantificazione del « grado, per così dire, « intrin-
seco » di intensità della circostanza » (19), da valutarsi configurando le possibili alternative
sulle quali parametrare quella concretamente verificatasi, di guisa che la circostanza assuma
« un valore oggettivo » (20).
Nella riflessione sul Concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi si coglie
ancora una volta il sentiero della ricognizione ed interpretazione dell’intero sistema come
metodo di risoluzione dei singoli problemi del diritto penale. In particolare, la valutazione
che l’ordinamento riserva a taluni contributi causali rispetto alla realizzazione dei singoli atti
di partecipazione è ritenuta contrastante con l’ipotesi della rilevanza dei medesimi contributi
a titolo di concorso nel reato associativo, perché quest’ultima ipotesi opererebbe in dispregio
della selezione effettuata dal legislatore mercé la tipizzazione di talune forme di apporto
(quali favoreggiamento, assistenza, propaganda, etc.). Questa posizione — avverte l’A. —
non trova consensi nella prassi applicativa: l’intento della magistratura di supplire alle la-
cune e alle carenze dell’organo legislativo, impiegando con grande ampiezza la figura del
concorso esterno, ha prodotto sul piano operativo i risultati attesi, nei termini in cui « il cit-
tadino è sicuramente incentivato ad astenersi, nel dubbio, da qualsiasi tipo di attività che,
anche in modo non chiaramente definito, possa essere valutata anche solo lontanamente im-
parentata con fatti illeciti veri e propri » (21). Interrogandosi sul se una tal opzione « valga il
prezzo (...), che si è costretti a dover pagare », Contento è « dell’avviso che non si possa e
non si debba rinunciare alla chiarezza, e, nei limiti del possibile, alla certezza del diritto, né
al postulato della riserva assoluta di legge in materia penale, e, quindi, all’esigenza di deter-
minatezza della fattispecie » (22).
La riserva assoluta di legge è dunque un postulato... e come tale principio guida anche
nei rapporti tra Magistratura, giurisprudenza penale e potere politico. Si tratta di rapporti
difficili, addirittura critici, nella cui fenomenologia la magistratura, affrancandosi da un’in-
terpretazione passiva delle norme ed operando in nome di una concretizzazione dei valori
costituzionali, finisce col travolgere proprio la riserva assoluta di legge ogniqualvolta si sur-
roga al legislatore per « colmare », ermeneuticamente, le lacune (effettive o ritenute tali) del
sistema » (23). La critica è dunque indirizzata a quella giurisprudenza che dimentica « il vin-
colo obiettivo imposto all’attività ermeneutica dal principio di tassatività dell’illecito pe-
nale » (24), accordando prevalenza ad altri obiettivi, quegli « altri » valori costituzio-
nali » (25) ai quali risulta finalizzato l’uso della coercizione penale, e sempre in un’ottica di

(18) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 96.


(19) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 103.
(20) Note sulla discrezionalità del giudice penale, cit., 103.
(21) Il concorso di persone nei reati associativi e plurisoggettivi (1978-1980), 121.
(22) Il concorso di persone nei reati associativi, cit., 121.
(23) Magistratura, giurisprudenza penale e potere politico (1981), 126.
(24) Magistratura, cit., 135.
(25) Magistratura, cit., 126.

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prevenzione generale. Il perseguimento di scopi di tutela alimentato dal perseguimento di


scopi di deterrenza risulta cioè una combinazione che mette a repentaglio la stretta legalità
ed insieme con essa la colpevolezza.
La riflessione sulla legalità coinvolge così il principio di colpevolezza, l’altro costituente
di quel « binomio irriducibile » [l’espressione è nostra] che connota il sistema penale dal
volto umano. Il « principio di colpevolezza » — scrive Contento — è, ormai, questione che
non interessa più, soltanto, la sistematica del reato, o la teoria generale dell’illecito penale,
ma investe il grado di « civiltà » del sistema. (...) Un sistema che consenta l’uso di sanzioni
penali nei confronti di persone di cui non possa affermarsi la colpevolezza personale è evi-
dentemente un sistema « incivile » (26).
Tornando ai rapporti tra i poteri dello Stato, è fondamentale l’interrogativo sul senso
dell’« indipendenza dei poteri ». Per l’A. è indipendenza del potere del giudice rispetto a
quello della pubblica amministrazione ed anche, analogamente, indipendenza del potere
della pubblica amministrazione rispetto a quello del giudice; non la si può intendere però
come « indifferenza » reciproca (27), cioè libertà di ciascun potere di valutare autonoma-
mente un oggetto di comune interesse. Nel dissenso tra poteri emergerebbe una contraddi-
zione logica dell’ordinamento, che su un medesimo oggetto assumerebbe posizioni contra-
stanti nell’esplicazione di funzioni unitariamente riconducibili allo Stato. Non risolutiva ap-
pare la logica del contingente, cioè l’accordare preferenza e prevalenza ad uno o all’altro in
funzione di accidentali esigenze politiche, fondanti l’ampliamento di un potere piuttosto che
dell’altro. Occorre individuare una soluzione generale fondata su principi generali, all’uopo
scorta concretamente nella dipendenza della giurisdizione dall’amministrazione che agisca
secondo legittimità.
Per l’occasione, all’ampliamento incidentale di un potere sull’altro Contento replica che
« il potere è pur sempre potere, e non dispiace certo a nessuno di ottenerne o rivendicarne
sempre una somma più vasta. Bisogna però stare attenti anche alle conseguenze negative, e
certo non volute, che, in tal modo, possono determinarsi » (28). E a riportare il discorso nel
tema della difesa della legalità si precisa che dalla contesa tra giurisdizione ed amministra-
zione « risulterebbe vanificato lo stesso prodotto della funzione legislativa » (29) che risulte-
rebbe privato della sua funzione.
In ogni caso, occorre alimentare, talvolta recuperare, il rapporto di fiducia tra giudice e
cittadino: « è l’uomo della strada, infatti, che deve essere in grado di capire, di discutere, di
apprezzare — o, se del caso, di censurare — il modo di comportamento dei giudici: perché
solo da lui può provenire quel consenso che è il più sicuro e più confortante riscontro non
solo della legittimità del loro operato, quanto della concorde e convinta adesione della pub-
blica opinione alle loro scelte di azione, alle loro battaglie ideali, al loro impegno ci-
vile » (30). Non c’è spazio, nella proposta di Contento, per una giustizia « machiavellica »,
che pieghi ad utilità repressive il rispetto dei principi, ed attui uno stravolgimento dei prin-
cipi stessi, e di precise norme di legge, violate in nome della legge al punto da trasformare la
giustizia in uno strumento di paura per il quivis de populo: il giudice rischia di diventare un
poliziotto piuttosto che essere il controllore, terzo, dell’operato delle forze di polizia. L’altis-
sima funzione della magistratura, quale interprete istituzionale della legge, necessita di « un
giudice che sappia essere imparziale, fedele alle norme, umile: soprattutto umile, che è ormai
una qualità o una virtù in rapida estinzione e, comunque, in declino. Un giudice che non
creda di essere in grado di risolvere, solo con l’esercizio del potere, i mali e i problemi della
società; un giudice in cui, soprattutto, la luce e la scintilla della umanità non si spenga mai,

(26) La responsabilità senza colpevolezza, cit., 245.


(27) Il sindacato del giudice penale sui « nulla osta » amministrativi (1982), 158.
(28) Il sindacato del giudice penale sui « nulla osta », cit., 160.
(29) Il sindacato del giudice penale sui « nulla osta », cit., 177.
(30) La violazione della legge in nome della legge: riflessioni sulla caduta della lega-
lità nel nostro processo penale (1986), 201-202.

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in ogni momento del suo duro lavoro; un giudice che viva e condivida l’esperienza delle vit-
time, e la tragedia inenarrabile delle famiglie colpite dal delitto, ma sappia essere, nello
stesso tempo, immune dalla tentazione di identificarsi con quel Sommo (ed unico!) giudice
che, solo, non ha mai bisogno di prove, perché tutto conosce. Non è utopia: di questi giudici,
anzi, anche oggi per fortuna ve ne sono tanti che infondono, con il loro stesso semplice « es-
serci », nell’istituzione, fiducia e speranza in un possibile mutamento » (31).
In Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale Contento si (pre)occupa « di
come sia possibile (e, anzi, si deve precisare, « se » sia possibile) conciliare il rispetto del
« principio di legalità » in materia penale con la « creatività » dell’interpretazione giurispru-
denziale » (32). L’Autore riprende il perseguimento da parte della magistratura di propri in-
dirizzi di politica criminale, autonomamente promossi come meritevoli di un’operazione vi-
caria del potere legislativo da parte degl’intepreti, che si traduce nell’interpretazione additiva
delle fattispecie criminose, con occasionali ampliamenti dell’area del penalmente rilevante. Il
controllo sulla legittimità costituzionale, rispetto al principio di legalità, di tali operazioni è
rimesso all’eventuale promozione di un pronunciamento della Consulta da parte del giudice
di merito, sicché « il principio di legalità è inesorabilmente destinato a soccombere — al-
meno de iure condito — poiché non esiste alcun mezzo idoneo ad ottenerne coattivamente il
rispetto » (33) ... « a meno che, naturalmente, non si giunga a formare (cosa estremamente
improbabile!) una diversa « cultura » della giurisdizione penale » (34).
Per il rispetto del principio di legalità sotto il profilo della « legalità della contesta-
zione », un’innovativa proposta è quella « di affidare il controllo della sua osservanza, in al-
ternativa alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ad un particolare ed ancor più rappre-
sentativo consesso giudicante (eventualmente integrato da esponenti della cultura giuridica)
che il cittadino dovrebbe essere facultato ad investire senza dover attendere la mediazione
dei giudizi intermedi, affinché la questione di « legalità » della incriminazione possa essere
decisa, una volta per sempre, sin dal sorgere del processo, e nel momento stesso in cui la
contestazione venga formulata, prima ancora che siano compiuti gli accertamenti istruttori
rivolti alla sussistenza concreta del fatto e della possibilità di attribuirne la commissione al-
l’imputato » (35).
Il discorso prosegue, come si è già notato, in un continuum, e nella terza parte della rac-
colta si concretizza gran parte della proposta di Contento, per una verifica applicativa dei
principi generali, già emersi, nel settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, nel quale particolarmente si fronteggiano i due opposti interessi del potere
politico-amministrativo, attento alle sue prerogative, e quello giudiziario, teso ad esercitare
un controllo sugli atti e sulle attività del primo.
Per la composizione del conflitto il primo ingrediente è uno strumento di equilibrio
« terzo » rispetto alle parti, individuato nella supremazia della legge. La difesa della legalità
si propone anche come l’antidoto ai problemi di interferenza tra i poteri dello Stato; e in par-
ticolare il difficile rapporto tra magistratura penale ed amministrazione pubblica, tanto più
nello specifico settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione,
trova soluzione nel « »necessario rispetto » del principio di legalità » (36). In questa dire-
zione si rende indispensabile l’operare di precisi vincoli normativi alla giurisprudenza penale
nella sindacabilità di atti ed attività della PA, specialmente di quelli discrezionali, per i quali
il rischio di una vera e propria supplenza giurisdizionale si manifesta, questa volta, nei con-
fronti di scelte di amministrazione.

(31) La violazione della legge in nome della legge, cit., 223.


(32) Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale (1988), 227.
(33) Principio di legalità, cit., 230-231.
(34) Principio di legalità, cit., 235.
(35) Principio di legalità, cit., 235-236.
(36) Il sindacato del giudice penale sugli atti e sulle attività della pubblica ammini-
strazione (1986), 390.

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L’ammonimento è sempre quello della ricerca di un punto di equilibrio, per non « in-
camminarsi verso strade senza ritorno » (37).
In tutta la raccolta si può constatare che la fedeltà al sistema, il pervicace impegno per
la difesa della legalità, non sono cieco ossequio della legge: « solo proprio gli ingenui peren-
nemente illusi possono aspettarsi che basti ritoccare una norma, ridefinire un concetto,
esprimere con più chiarezza qualcosa che magari è già chiara (ma che evidentemente non si
vuole intendere) per ottenere dei risultati » (38); che la scienza penale, in generale la scienza
giuridica (il cui « postulato fondamentale » è « la possibilità di una interpretazione fedele ed
obiettiva del sistema » (39)), può e perciò deve elaborare strumenti e soluzioni tecnicamente
appropriate ed adeguate agli obiettivi che il legislatore intende perseguire (40).
Di più, i limiti della lettera delle norme rispetto al risultato della loro interpretazione
sono espressi in modo evidente in un chiaro invito « riassuntivo » ad « essere fedeli interpreti
della legge, ossequienti al principio di tipicità, convinti della impossibilità di affermare l’ille-
cito penale senza il riscontro della necessaria lesività del fatto, legati ad una ricostruzione del
reato di tipo sostanziale e ricca di contenuti significativi » (41).
Per concludere, la posizione sempre centrale, primaria, dei soggetti che popolano le
opere di questa raccolta, sembra denotare una proposta complessiva che riesce davvero a ca-
ratterizzare un diritto penale teso « alla promozione ed al perfezionamento dell’Uomo » (42)
anche attraverso una pena alla quale è irrinunciabile « una finalità di conservazione o di pro-
gresso nella vita della comunità » (43). (Gianluca Denora).

FROSINI B., Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, Giuffrè,
2002, pp. 184.

Fra i « temi della modernità », ai quali si ispira la collana diretta da Stella in cui si inse-
risce il lavoro di Frosini, quello del diverso atteggiarsi delle prove statistiche nel processo ci-
vile ed in quello penale occupa un ruolo di sicuro rilievo. La prospettiva è quella delineata
da Stella nell’opera (Giustizia e modernità, 2001, rist. 2002) che ha inaugurato la collana:
l’inadeguatezza del processo penale ad assecondare aspirazioni di giustizia (in primis, delle
vittime dei processi produttivi) che debbono fare i conti con la regola di giudizio dell’« oltre
il ragionevole dubbio »; la necessità di sperimentare le chances del processo civile, in cui
opera la diversa regola della « preponderanza dell’evidenza », o del « più probabile che no ».
Per mettere a punto i problemi suscitati dal ricorso a valutazioni probabilistiche ed al-
l’inferenza statistica nel processo penale (compito che esula dalle attitudini e dalla mentalità
stessa del giurista classico) ecco allora emergere la necessità — anche questa tutta « mo-
derna » — di una prospettiva interdisciplinare, in grado di assicurare alla conformazione ed
all’applicazione di essenziali istituti giuridici il necessario supporto scientifico.
L’autore di questo pregevole libro, in effetti, non è un giurista, ma uno studioso di stati-
stica teoretica. Ma solo in una visione cocciutamente restia a riconoscere l’unitarietà del sa-
pere potrebbe rimanere nell’ombra il dato per cui lo studio delle inferenze statistiche nel
processo ha trovato impulso decisivo, specialmente nei paesi di lingua inglese, proprio nel
contributo degli studiosi della probabilità: è in quel contesto che è maturato — come osserva
Stella nella prefazione — il passaggio dal dominio della bayesiana concezione « quantita-

(37) La riforma « minima » della concussione e della corruzione (1995), 496.


(38) Alcune considerazioni sui rapporti tra diritto penale e processo (1995), 352.
(39) Magistratura, cit., 127; Il sindacato del giudice penale sui « nulla osta », cit.,
158.
(40) Cfr. Il sindacato del giudice penale sugli atti, cit., 413; Giudice penale e pub-
blica amministrazione dopo la riforma (1991), 426.
(41) Magistratura, cit., 137-138.
(42) Il primato della persona umana, cit., 30.
(43) Osservazioni sui limiti naturali, cit., 13.

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tiva » nella valutazione delle prove all’emersione di una concezione « qualitativa » della pro-
babilità, intesa come grado di conferma dell’ipotesi sul fatto.
Innanzitutto, un consiglio al lettore, almeno a quello non avvezzo a metodi e concetti
propri delle scienze statistiche: iniziare la lettura dell’opera dal fondo, e cioè dalla breve
« appendice » in cui l’autore offre, in forma il più possibile semplificata, alcune nozioni di lo-
gica, matematica e statistica utili per la comprensione degli argomenti trattati e dell’usuale
linguaggio degli statistici.
Frosini è ben consapevole della strumentalità delle conoscenze statistiche rispetto all’ap-
plicazione del diritto, e fin dal capitolo introduttivo chiarisce quali saranno le direttrici del
lavoro, che risulterà costantemente segnato dal confronto fra processo penale e processo ci-
vile sotto il profilo della rilevanza probatoria delle prove statistiche in relazione alla diversità
dei valori in gioco nei due tipi di processo (da una parte valori di somma importanza, come
l’onorabilità e la libertà personale, dall’altra interessi di minore portata, perlopiù di indole
patrimoniale).
Il capitolo successivo — relativo a « significato e valutazione delle probabilità » — con-
tiene alcune considerazioni generali sulle teorie delle probabilità, ed in particolare delinea il
carattere ineliminabilmente soggettivo — dipendendo in maniera consistente dall’esperienza,
dalle scelte di metodo e dalle stesse finalità del valutatore — che le determinazioni di proba-
bilità presentano quando è in gioco la vita umana o il benessere di uno o più individui: « la
gran maggioranza dei problemi operativi, che gli individui, le imprese, le organizzazioni pub-
bliche, devono affrontare e risolvere, si basano su valutazioni di probabilità squisitamente
soggettive, o perché si riferiscono a eventi unici (quando non è configurabile un esperimento
casuale che può essere ripetuto — almeno in linea di principio — sotto condizioni omoge-
nee), o perché non esistono informazioni sulla realizzazione dell’esperimento teoricamente
configurato ». Il carattere soggettivo delle valutazione probabilistiche assume un significato
particolare allorché esse si situino all’interno di un campo — appunto, il processo penale —
in cui operano importanti condizionamenti di valore, come la presunzione di innocenza e la
regola del « ragionevole dubbio » ai fini del giudizio di responsabilità. Anticipando il leit mo-
tiv dei capitoli successivi, Frosini mette subito in chiaro che tale regola va interpretata in
senso più qualitativo che quantitativo: « una probabilità anche molto elevata di colpevolezza,
che però ammetta zone d’ombra, ovvero che non consenta di escludere ogni verosimile ipo-
tesi di non colpevolezza, non può essere assimilata al conseguimento della pratica certezza,
nella quale si estrinseca il suddetto criterio. Da ciò discende, quindi, che le valutazioni pro-
babilistiche trovano il loro terreno di elezione soprattutto — anche se non esclusivamente —
nel processo civile, dove tipicamente vale la regola del ‘più probabile che no’ ».
Nel terzo capitolo, relativo a « valori in gioco e probabilità nel processo civile e nel pro-
cesso penale », si entra decisamente nel cuore della problematica delle valutazioni probabili-
stiche in ambito processuale, di cui vengono esaminati concetti e metodologie, con costante
riferimento a casi-guida ora fittizi, ora reali (si vedano, ad esempio, le stimolanti pagine sul
caso Dreyfus). Particolare interesse presenta la trattazione della nota formula di Bayes, e
cioè dello strumento principe per eseguire un’inferenza su base statistica dagli effetti (noti)
alle cause (ignote): pur riconoscendo all’impostazione bayesiana ampie possibilità applica-
tive, Frosini ne evidenzia nel contempo alcuni limiti di affidabilità, legati al carattere inevita-
bilmente soggettivo delle probabilità iniziali o a priori. Ne risulta che se « dal punto di vista
delle ‘indagini’ (...) lo schema bayesiano costituisce un quadro razionale di riferimento, che
almeno approssimativamente viene di fatto applicato, sembra alquanto problematica la sua
applicazione nel dibattimento processuale », attesa la sostanziale improponibilità dell’ipotesi
che accusa e difesa convengano sull’accettazione di un nucleo comune di probabilità a priori.
Una conclusione — quella dell’inutilizzabilità dell’approccio bayesiano ai fini della deci-
sione — che conferma, dall’interno della scienza statistica, il giudizio a suo tempo espresso
da Taruffo, e recentemente ripreso da Stella, sul fallimento in ambito giudiziale delle dot-
trine bayesiane e delle altre concezioni quantitative della probabilità.
L’ultima parte del lavoro, che tratta « criteri della prova e regole di giudizio », si sof-

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ferma sulla regola dell’« oltre il ragionevole dubbio », di cui viene inizialmente riferita l’in-
terpretazione comune, secondo cui è richiesta una « probabilità molto elevata » di colpevo-
lezza per arrivare ad una sentenza di condanna: probabilità che viene a volte situata (ap-
pena) al di sopra del 95%, a volte a livelli ancora superiori e tendenti al 100%.
Non mancano però autori, come L.H.Tribe, secondo i quali le sanzioni penali non do-
vrebbero essere comunque applicate « in presenza di un dubbio espressamente riconosciuto
e quantitativamente misurabile ». Frosini condivide in linea di principio questa opinione (at-
tesa l’incertezza quasi sempre presente nelle valutazioni soggettive di probabilità), ma non
può fare a meno di porsi il problema dell’uso che in giudizio si dovrebbe fare di quelle
« nude statistiche », strettamente attinenti ai fatti dedotti in processo, che rivelino una pro-
babilità di colpevolezza molto elevata (il riferimento è al caso Chedzey, in cui una probabi-
lità di 0,9996 non fu considerata sufficiente per ritenere l’imputato penalmente responsabile
di una telefonata che, secondo un dispositivo di rilevazione che aveva manifestato 5 errori su
12.700 individuazioni di chiamate a numeri noti, risultava effettuata dall’apparecchio in uso
all’imputato).
Successivamente, il significato del principio del ragionevole dubbio viene verificato dap-
prima in rapporto al complesso tema del calcolo della probabilità di errore, che riveste parti-
colare interesse a proposito dell’attribuzione all’imputato di un profilo DNA; poi con riferi-
mento all’impatto delle indagini epidemiologiche allorché da esse emerga che ad una data
esposizione — ad esempio, a prodotti chimici — si associ un aumento del rischio di con-
trarre malattie professionali (in particolare tumori): secondo Frosini — ed anche in questo
caso la sua conclusione è pienamente condivisibile — la difficoltà, se non l’impossibilità, di
trasferire informazioni concernenti leggi statistiche al caso individuale in un campo caratte-
rizzato da eziologia multifattoriale, comporta l’irraggiungibilità del livello di « pratica cer-
tezza » dell’attribuzione causale necessario ai fini della condanna penale. (Luigi Fornari).

GIARDA A., SEMINARA S. (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, CE-
DAM, 2002, pp. VII-835.

La trattazione prende le mosse da un primo capitolo dedicato alle disposizioni generali:


art. 2639 c.c. (estensione delle qualifiche soggettive), ove si valuta con favore — pur ricono-
scendo alcune potenziali difficoltà applicative della norma — la scelta legislativa che « [...]
ricongiunge due istanze diverse, traducendo in legalità formale quell’esigenza di ‘giustizia so-
stanziale’ [...] sottesa all’orientamento giurisprudenziale »; art. 2640 (circostanza atte-
nuante); art. 2641 (confisca nei reati societari), norma, quest’ultima, che introduce nel no-
stro ordinamento un’ennesima manifestazione del sempre più spinto polimorfismo dell’isti-
tuto della confisca, ormai non più pienamente riconducibile al modello codicistico, e cui è ri-
servata una trattazione particolarmente esaustiva. Completano il primo capitolo un contri-
buto relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ed un’analisi, in pro-
spettiva penalistica, circa il fenomeno dei gruppi di società, che ha iniziato a trovare un rico-
noscimento in alcune delle fattispecie novellate o neointrodotte: nonostante tale contributo
sia antecedente al recente varo della riforma del diritto societario, esso conserva la sua attua-
lità.
Il secondo capitolo tratta delle falsità: la nuova disciplina delle false comunicazioni so-
ciali di cui agli articoli 2621 e 2622 è fatta oggetto di una trattazione unitaria, il cui livello di
approfondimento analitico si allinea con quello che contraddistingue l’opera nel suo com-
plesso. Dopo aver sinteticamente ripercorso il cammino che ha portato, partendo dal gra-
duale svuotamento giurisprudenziale dei requisiti della previgente incriminazione di false co-
municazioni sociali e passando per il progetto Mirone, all’approvazione prima della Legge
Delega n. 366/2001 e poi del Decreto Legislativo n. 61/2002, la trattazione si dedica all’ana-
lisi del nucleo comune alle incriminazioni descritte dalle due norme: tra i vari elementi che
ne caratterizzano la formulazione e che contribuiscono ad una radicale riduzione dell’area
del penalmente rilevante, si individua nell’introduzione delle soglie di rilevanza « l’aspetto

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più controverso ed ‘originale’ dell’intera disciplina dei nuovi reati societari » che « ha dato e
darà luogo a numerosi problemi interpretativi ». Si prosegue affrontando il tema dei riflessi
che l’introduzione di un evento di danno e di un’ipotesi di perseguibilità a querela sembrano
spiegare nell’economia delle ipotesi criminose previste dall’articolo 2621, in termini di « pa-
trimonializzazione e « privatizzazione » della fattispecie, tali da spiegare un effetto espansivo
anche nella ricostruzione dell’oggettività giuridica della fattispecie contravvenzionale: « il
centro di gravità della nuova figura delittuosa viene a dislocarsi dalla trasparenza dell’infor-
mazione societaria (bene giuridico sovraindividuale ed indisponibile) all’interesse dei soci e
dei creditori [...] ». La disamina tocca poi i temi dei rapporti tra l’ipotesi contravvenzionale e
quelle delittuose (con il problema degli effetti di una mancata presentazione o di una remis-
sione della querela), dei profili di diritto intertemporale e si conclude con alcuni cenni di di-
ritto comparato (il timore è che l’evanescente efficacia delle soluzioni nazionali nel « con-
trollo penale della legalità della gestione delle società commerciali » crei le condizioni per
« un deprecabile fenomeno di ‘forum shopping’ penalistico »).
I capitoli successivi trattano, rispettivamente: della tutela del capitale sociale; della tu-
tela del corretto funzionamento degli organi sociali (ivi compresa l’analisi delle importanti
innovazioni in tema di infedeltà patrimoniale); della tutela del mercato; degli illeciti ammini-
strativi; delle « ulteriori innovazioni » (trovano qui collocazione l’analisi della nuova fattispe-
cie di bancarotta fraudolenta impropria e della circostanza aggravante dell’art. 622 c.p. in
cui è confluito il vecchio art. 2622 c.c). Il settimo ed ultimo capitolo è dedicato — con
un’ampiezza del tutto particolare e caratterizzante rispetto ad altre opere di commento alla
riforma — alle questioni di diritto processuale penale societario, in considerazione delle pre-
gnanti implicazioni di carattere procedurale « anche da un punto di vista formale e teorico »
sottese alla riforma, tali da « suggerire, se non addirittura da imporre, una rivisitazione dei
più importanti istituti processuali [da essa] coinvolti o condizionati ». (Matteo Saccavini).

GIUNTA F. (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commer-
ciali. Commentario del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Torino, Giappichelli, 2002, pp.
XX-340.

Fin dal titolo quest’opera si propone come un commentario, il genere letterario — come
ricorda il Curatore nella presentazione — che « più specificamente mira a cogliere la dimen-
sione applicativa del diritto ». Un’opera che si presenta dunque di stampo schiettamente — e
dichiaratamente — esegetico; rivolta più ai pratici che agli studiosi del diritto, essa mira ad
« essere di aiuto nella prima lettura della vigente normativa ».
La struttura del commentario, in effetti, seguendo l’ordine degli articoli del decreto legi-
slativo, ne riproduce l’opacità tassonomico-classificatoria, rinunciando, ma solo in appa-
renza, ad una lettura sistematica e d’insieme. Già nella Presentazione del Curatore vengono
puntualmente indicati gli aspetti caratterizzanti della riforma, che spaziano « dal potenzia-
mento della funzione selettiva del dolo all’incentivazione delle condotte riparatorie, dalla mi-
tezza delle pene alla differenziazione del regime di procedibilità ». Il valore dei principi ispi-
ratori della riforma appare « indiscusso » ma « è la loro concreta attuazione che è parsa
inopportuna sotto il profilo politico-criminale »: così « la scelta di sovraccaricare le fattispe-
cie incriminatrici di elementi costitutivi non sempre necessari [...] ha finito per produrre
norme talvolta incoerenti e di complessa interpretazione »; allo stesso modo le modificazioni
che hanno toccato le oggettività giuridiche dei riformulati reati societari « sono andate oltre
l’obiettivo di una adeguata concretizzazione dei beni meritevoli di protezione »; la mitezza
delle pene, infine, pur rappresentando il Leitmotiv di numerosi interventi dottrinali e legisla-
tivi, quando si concretizza nella previsione « per talune fenomenologie criminose tutt’altro
che bagattellari, del minimo edittale nella misura del minimo legale [...], rischia di simboleg-
giare una flessione dell’attenzione del diritto penale nei confronti della criminalità econo-
mica ».
L’organicità dell’opera non è però limitata alle brevi battute introduttive: la si può co-

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gliere in trasparenza dalla lettura dei singoli commenti che sovente non si appiattiscono sulla
mera esegesi testuale, ma assumono un notevole respiro argomentativo e presentano, per
così dire, allo stato diffuso quei riferimenti sistematici cui il piano dell’opera non permette di
dedicare un’autonoma trattazione. Menzione particolare meritano, a parere di chi scrive, i
commenti dedicati agli articoli 2634 e 2635 c.c (infedeltà patrimoniale ed infedeltà patrimo-
niale in seguito a dazione o promessa di utilità) ed all’articolo 3 del decreto legislativo (re-
sponsabilità amministrativa della società) oltre, naturalmente, ai commenti dedicati agli im-
belli eredi della vecchia fattispecie di false comunicazioni sociali.
Nel complesso l’opera in esame si presta ad un duplice utilizzo: essa è innanzitutto
un’opera di consultazione; ed in quest’ottica risulta di grande utilità la presenza di un indice
analitico e di indicazioni bibliografiche specifiche, di seguito al commento di ogni singola di-
sposizione, che, pur soggette, inevitabilmente, ad una rapida obsolescenza, rappresentano un
utile strumento per chi, per necessità professionali o per interesse, desideri approfondire un
determinato argomento. (Matteo Saccavini).

LANZI A., CADOPPI A. (a cura di), I nuovi reati societari (Commentario al decreto legislativo
11 aprile 2002, n. 61), Padova, CEDAM, 2002, pp. XV-323.

« La radicale e completa riforma dei reati societari [...] consente, anzi sprona, alla ste-
sura di un Commentario analitico, articolo per articolo, della nuova disciplina ». Sono queste
le parole con cui si apre la succinta Presentazione all’opera che qui si commenta e che me-
glio si prestano a descriverne la natura e gli obiettivi: « [...] dar vita ad una collettanea sinte-
tica, ma anche esaustiva [...] » che possa « [...]essere utile e di agevole consultazione per
tutti gli operatori del diritto [...] ». Per espressa volontà degli autori non hanno trovato in-
gresso nell’opera « le polemiche, anche aspre, che, provenienti da più parti, hanno caratteriz-
zato — fin dall’apparire della Legge Delega 366/2001 — molti degli scritti che si sono occu-
pati della riforma ». Al perseguimento di questo proposito, concorrente con il dovuto ri-
spetto, da parte dei Curatori, per gli autonomi e personali giudizi di ciascun Autore, risulta
tutt’altro che disfunzionale la natura collettanea e, per così dire, destrutturata del Commen-
tario, in cui l’analisi di ogni singolo articolo rappresenta una piccola opera a sé stante, corre-
data dei propri riferimenti sistematici. Un esempio tra i molti possibili: dal commento agli
articoli 2621 e 2622 c.c — e pur in presenza di numerosi spunti critici — traspare una ten-
denziale adesione al processo di « individualizzazione » e « patrimonializzazione » che, ri-
spetto alla previgente fattispecie, ha investito l’oggettività giuridica di queste due incrimina-
zioni, mentre diverso sembra il giudizio di chi ha curato il commento dei due articoli succes-
sivi (nonostante la questione sia in quella sede solamente sfiorata in via incidentale ed i toni
siano lungi dall’essere polemici).
Oltre allo scontato richiamo ai commenti agli articoli 2621 e 2622 c.c., veri monopoliz-
zatori dei commenti che hanno accompagnato, spesso in chiave critica, il varo della riforma,
due contributi meritano di essere segnalati. Il commento all’articolo 3 del d.lgs. 61/2002 (re-
sponsabilità amministrativa delle società) nel quale una breve analisi del sistema introdotto
nel nostro ordinamento con il d.lgs. 231/2001 è seguita da una disamina degli aspetti diffe-
renziali che l’art. 25-ter presenta rispetto ai criteri generali di cui al decreto (tra gli altri: non
integrale riproposizione dei criteri di imputazione oggettiva di cui all’art. 5 c. 1 del d.lgs
231/2001; mancato richiamo ai modelli di organizzazione e gestione; assenza di sanzioni in-
terdittive). Il commento all’art. 4 del d.lgs. 61/2002 tratta della modifica dell’art. 223, cpv.
n. 1, l. fall. e della difficoltosa coordinazione della nuova disposizione con il superstite e suc-
cessivo n. 2 dello stesso articolo.
Nell’opera non è inclusa un’autonoma sezione dedicata alle indicazioni bibliografiche.
La carenza è solo apparente: ogni commento è corredato da una nutrita serie di note di rife-
rimento, più che sufficienti per fornire indicazioni a chi desideri approfondire gli argomenti
trattati. (Matteo Saccavini).

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MUSCO E., I nuovi reati societari, Milano, Giuffrè, 2002, pp. X-252.

In quest’opera l’Autore propone un primo commento organico della recente riforma dei
reati societari che ha visto la luce con il d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61.
Il primo capitolo fornisce un’analisi di più ampio respiro circa le scelte di politica crimi-
nale dalle quali la riforma prende le mosse e funge da introduzione ai capitoli successivi, de-
dicati ad una puntuale analisi esegetica delle singole fattispecie neointrodotte.
In questo primo capitolo introduttivo l’Autore, premesso che la riforma, in attuazione
della delega contenuta nell’art. 11 della legge n. 366 del 3 ottobre 2001, trova il suo impulso
primario nell’esigenza di « razionalizzare la materia penale societaria, da un lato ridimensio-
nando il numero dei reati [...] e dall’altro provvedendo finalmente a colmare vuoti e nuovi
bisogni di tutela », rileva come essa, a suo dire, sottolinei « con forza » la coerenza delle
nuove fattispecie ai principi del diritto costituzionale: determinatezza e tassatività dell’ille-
cito, sussidiarietà e frammentarietà-offensività, intesa, quest’ultima, come accorta valuta-
zione dei beni giuridici penalmente rilevanti e come selezione delle sole condotte realmente
lesive di tali beni. È su quest’ultimo piano, quello della frammentarietà-offensività, che si
colgono i profili di maggior novità della riforma, con l’abbandono del modello della pluriof-
fensività, che aveva dato vita, in questa materia, ad « ingiustificate estensioni dell’area di ri-
levanza penale »: si assiste ad una « drastica riduzione » dell’area di intervento penale, ri-
volta ora alla tutela di interessi ben definiti (patrimonio, integrità del capitale sociale e rego-
lare funzionamento degli organi sociali) che, tuttavia, l’Autore giudica essere non sempre
corrispondenti agli effettivi bisogni di tutela. Un altro aspetto innovativo messo in evidenza è
quello relativo alla formulazione delle fattispecie incriminatrici: abbandonando la c.d. tec-
nica del rinvio si è tentato di disegnare i precetti penalistici secondo modelli di tipizzazione
che, pur fondati sull’irrinunciabile riferimento alla normativa civilistica, approdino a formu-
lazioni il più possibile autonome e coerenti. Sempre in questa sezione dell’opera trovano col-
locazione alcuni cenni sul dibattito politico-criminale che ha accompagnato ed è seguito al-
l’approvazione della nuova normativa, corredati da alcuni riferimenti ai lavori delle Commis-
sioni e sottocommissioni che si sono, a vario titolo, occupate della riforma: di particolare in-
teresse il paragrafo dedicato alla previsione di soglie quantitative di rilevanza penale per le
false comunicazioni sociali, la cui introduzione, a giudizio dell’Autore, « è da accogliere po-
sitivamente, in quanto indica al giudice una via sicura di valutazione », pur nella consapevo-
lezza che nell’operato del legislatore delegato — « come può intuirsi da un attento esame
cronologico delle varie proposte in tema di soglie quantitative » — abbia prevalso « la prefe-
renza per soluzioni normative dirette ad eliminare lo spazio valutativo attribuito al giudice,
anche a costo [...] della possibile creazione di aree di impunità ». L’introduzione di dette so-
glie sarebbe « fortemente criticabile », piuttosto, per via della « insanabile genericità della
legge delega », che mal si concilia con il principio di riserva assoluta di legge. Il capitolo si
chiude con i paragrafi dedicati, rispettivamente, alla tipizzazione normativa dei soggetti di
fatto; alla previsione di una forma speciale di confisca; ed all’estensione anche ai nuovi reati
societari della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Come anticipato, i re-
stanti capitoli si dedicano all’analisi delle singole fattispecie: nell’esegesi l’Autore segue
un’impostazione analitica, illustrando, per ogni incriminazione, i soggetti attivi; il bene giuri-
dico tutelato; i fatti punibili; l’elemento soggettivo. Questo schema base viene adattato, con
l’eventuale aggiunta di ulteriori elementi, alle particolarità della disposizione che si com-
menta. L’organizzazione della trattazione non segue la numerazione del codice, ma riordina
la materia per aree tematiche; i capitoli successivi al primo sono rispettivamente dedicati:
alle ipotesi di falsità; alla tutela penale del capitale sociale; alla tutela penale del patrimonio
sociale; alla tutela penale del regolare funzionamento della società; alla tutela penale contro
le frodi; alla tutela penale delle funzioni di vigilanza; agli illeciti dei liquidatori; ed, infine,
agli illeciti amministrativi.
Alle due ipotesi di false comunicazioni sociali è dedicato, com’è prevedibile, un ampio
spazio: in considerazione della profonda affinità tra le due fattispecie l’Autore ha optato per

Rivista Italiana di Dir e Proc Penale - fasc. saggio 1/2003 - Copyright Giuffre’ 2003
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una trattazione congiunta delle stesse. Le carenze della previgente fattispecie di falso in bi-
lancio, da individuarsi nella « assoluta indeterminatezza dei contenuti normativi », tale da
aprire amplissimi spazi alla dilatazione giurisprudenziale del campo di applicazione della
norma, hanno aperto la strada, a giudizio dell’Autore, alla presente « forte reazione legisla-
tiva », in cui « l’attesa di porre un freno agli abusi applicativi di una fattispecie penale
prende il sopravvento sulle esigenze di repressione »: è in quest’ottica di maggiore tipizza-
zione — fino all’eccesso — dei confini del penalmente rilevante che si spiega gran parte delle
novità introdotte nelle due fattispecie gemelle. L’ultimo paragrafo della sezione dell’opera ri-
servata alle due fattispecie di false comunicazioni sociali è dedicato alle questioni di diritto
intertemporale.
Chiudono l’opera un’appendice normativa, in cui è riportata integralmente la Relazione
ministeriale al d.lgs. 61/2002 ed un’ampia bibliografia. (Matteo Saccavini).

PRELATI G., Il magistrato di sorveglianza, Giuffrè, Milano, 2002, p. I-XI, 1-295.

Facendo seguito al precedente volume concernente le competenze del tribunale di sorve-


glianza (PRELATI G., Il tribunale di sorveglianza, Giuffrè, Milano, 2001, p. I-XX, 1-288),
l’Autore analizza le attribuzioni variegate e molteplici dell’organo monocratico, completando
in tal modo il quadro descrittivo delle funzioni della magistratura di sorveglianza.
L’opera vuole rappresentare — per espressa ammissione dell’Autore — una guida di fa-
cile consultazione per il « lettore-operatore », che voglia orientarsi in una materia così com-
plessa e magmatica quale è l’esecuzione penale. Per questo la trattazione dei compiti e delle
attribuzioni del magistrato di sorveglianza viene anticipata da un breve excursus, nel quale
sono delineate succintamente le origini di questo organo, la sua competenza territoriale e
funzionale ed i modelli procedimentali. Senza dimenticare, nel contempo, qualche cenno an-
che all’ufficio di sorveglianza, il quale costituisce un « complesso organizzato di sfere di
competenze, persone fisiche, beni materiali e mezzi », una « sorta di apparato logistico del
magistrato di sorveglianza » indispensabile per l’espletamento delle sue attività. L’istituzione
di tale ufficio ad opera della l. 26 luglio 1975, n. 354 sottolinea l’importanza che il legisla-
tore dell’epoca riconosceva al ruolo della magistratura di sorveglianza, al punto da dotarla di
un simile apparato organizzativo e strutturale.
Segue poi l’analisi schematica e sintetica delle funzioni svolte dal magistrato di sorve-
glianza, a cominciare dalla trattazione delle prerogative di controllo e di vigilanza sulla ese-
cuzione delle pene detentive: prerogative, che fanno di questo giudice il garante di confor-
mità alla legge dell’attività penitenziaria, in generale, ed in particolare del programma di
trattamento sia nel momento della sua redazione che in quello della sua esecuzione. In que-
sta prospettiva assumono particolare rilievo i reclami, che ai sensi dell’art.35 ord.penit. i de-
tenuti e gli internati possono indirizzare — in forma scritta ovvero orale — al magistrato di
sorveglianza per ottenere una tutela delle loro posizioni soggettive.
Adeguato spazio è riservato anche agli elementi del trattamento e tra questi, in specie,
al lavoro nelle sue diverse espressioni, al trattamento sanitario, ai regimi differenziati, ai per-
messi, per passare poi all’esame delle misure e delle modalità alternative di esecuzione della
pena detentiva viste nel loro sviluppo dinamico, nonché delle sanzioni sostitutive e delle mi-
sure di sicurezza.
In chiusura non mancano brevi cenni al tema delle impugnazioni avverso i provvedi-
menti emessi dal magistrato di sorveglianza: un certo sconfinamento nelle competenze del
tribunale di sorveglianza potrebbe forse giustificarsi considerando che l’ottica da cui muove
l’Autore è quella del magistrato di sorveglianza. Perciò i relativi provvedimenti vengono
presi in considerazione non solo nel momento genetico ma anche nelle loro vicende succes-
sive. Il volume è arricchito da un’ampia ed utile appendice contenente il formulario delle ri-
chieste provenienti dalle cancellerie, dalle istanze presentate dalla difesa e dai diretti interes-
sati, ed infine dei provvedimenti emessi dal giudice. La presenza di questo ricco formulario
evidenzia il carattere essenzialmente pratico che contraddistingue l’opera (non a caso defi-

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nita « manuale pratico »), come conferma anche la circostanza che nel corso della tratta-
zione compaia sempre il riferimento a tale formulario, nonché al numero del registro dell’uf-
ficio di sorveglianza, nel quale vengono iscritti i procedimenti ed i diversi provvedimenti. Il
volume vuole, infatti, rappresentare uno strumento di agevole approccio ad una disciplina
assai complessa, ed allo scopo si propone di fornire le prime essenziali informazioni. (Laura
Cesaris).

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GIURISPRUDENZA

b) Giurisprudenza costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE — (10 luglio) 18 luglio 2002 n. 118 (ord)


Pres. Ruperto — Red. Neppi Modona — Pres. Cons. Ministri

Indagini preliminari — Incidente probatorio — Preclusione della possibilità di ri-


chiedere ed effettuare l’incidente probatorio nella fase delle indagini prelimi-
nari allorquando i relativi termini siano già scaduti — Violazione del diritto
alla prova e, quindi, del diritto di difesa nonché del principio della parità
delle parti — Manifesta infondatezza. (Cost. artt. 3, 24, 111; cod. proc. pen.
artt. 392 e 393).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli


artt. 392, 393 c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte
in cui non prevede che la richiesta di incidente probatorio possa essere presentata
nella fase delle indagini preliminari anche quando i relativi termini sino già sca-
duti.
Infatti, la prova che si vorrebbe assumere con incidente probatorio non è tra
quelle suscettibili di essere esposte al rischio di irrimediabile dispersione e consen-
tirne l’assunzione anche dopo la scadenza dei termini predetti comporterebbe una
profonda alterazione tra la fase delle indagini preliminari ed il giudizio nonchè
un’irragionevole dilazione delle indagini stesse e, quindi, dei tempi del procedi-
mento (1).

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 del codice di
procedura penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dal Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Ancona con ordinanza del 2 agosto
2001, iscritta al n. 933 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2002 il Giudice relatore Guido
Neppi Modona. Ritenuto che con ordinanza del 2 agosto 2001 il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Ancona ha sollevato, in riferimento agli artt.
3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt.
392 e 393 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che
la richiesta di incidente probatorio possa essere presentata nella fase delle indagini
preliminari anche quando i relativi termini sono già scaduti;

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che il rimettente premette che aveva accolto una richiesta di incidente pro-
batorio presentata da persone sottoposte alle indagini sul presupposto che si trat-
tava di perizia che, se disposta nel dibattimento, ne avrebbe potuto determinare
una sospensione superiore a sessanta giorni, e che nel corso dell’udienza fissata
per l’espletamento dell’incidente probatorio il pubblico ministero, dopo aver chie-
sto la proroga del termine delle indagini preliminari, aveva comunicato che il ter-
mine era già scaduto da tempo;
che il giudice a quo rileva che il provvedimento di ammissione dell’incidente
probatorio dovrebbe essere revocato, in quanto a norma degli artt. 392, comma 1,
e 393, comma 1, cod. proc. pen. l’incidente può essere chiesto solo « nel corso »
ed « entro i termini » delle indagini preliminari;
che ad avviso del rimettente la situazione in esame non rientra nella sfera di
operatività della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 1994, che ha esteso
alla fase dell’udienza preliminare la possibilità di chiedere ed eseguire l’incidente
probatorio, ma nel caso di specie sussisterebbero le medesime ragioni che avevano
allora indotto la Corte ad accogliere la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 392 e 393 cod. proc. pen.;
che il giudice a quo ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto i termini di
decadenza stabiliti dalla disciplina censurata sarebbero « privi di ogni ragionevole
giustificazione e lesivi del diritto alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di-
fesa »;
che, in particolare, dopo l’intervento della Corte costituzionale sarebbe irra-
gionevole che l’incidente probatorio possa essere chiesto sia in pendenza dei ter-
mini per le indagini preliminari, sia dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ma non
nella fase intermedia;
che la disciplina censurata sarebbe in contrasto anche con l’art. 111, terzo
comma, Cost., nella parte in cui prevede che la persona accusata di un reato di-
sponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa, in
quanto l’indagato, ove venga « tardivamente a conoscenza delle indagini, è co-
stretto ad attendere la richiesta di rinvio a giudizio prima di poter avanzare quella
di incidente probatorio »;
che sarebbero inoltre violati gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., sotto il
profilo della disparità di trattamento e della lesione del principio di parità tra le
parti, in quanto, mentre il pubblico ministero, conoscendo lo sviluppo delle inda-
gini preliminari, può presentare in ogni momento richiesta di incidente probato-
rio, per la persona sottoposta alle indagini il termine per la richiesta verrebbe a di-
pendere dal momento della conoscenza della pendenza del procedimento, con il
rischio di perdere la possibilità di ricorrere a un mezzo istruttorio « indispensabile
per l’acquisizione al processo di elementi — in tesi — necessari all’accertamento
dei fatti e per garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova, che sarebbe al-
trimenti irrimediabilmente perduta » (sentenza n. 77 del 1994);
che tale preclusione non potrebbe ritenersi compensata dalle facoltà ricono-
sciute all’indagato dall’art. 415-bis cod. proc. pen., dal momento che tale norma
non prevede alcun obbligo del pubblico ministero di compiere le indagini even-
tualmente richieste dall’imputato e di acquisire prove utilizzabili in dibattimento;
che la possibilità di chiedere l’incidente probatorio in udienza preliminare
non eliminerebbe l’interesse dell’indagato a presentare anticipatamente la relativa
richiesta per dimostrare subito la propria innocenza;

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che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappre-


sentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione
sia dichiarata infondata;
che l’Avvocatura rileva, in particolare, che, anche a seguito degli interventi
della Corte costituzionale, il sistema offre già rimedi adeguati per i casi di assoluta
« urgenza », dal momento che l’incidente probatorio può essere espletato anche
nella fase dell’udienza preliminare e nel predibattimento ex artt. 467 o 554 cod.
proc. pen.;
che con successiva memoria l’Avvocatura insiste sul rilievo che, « se la fun-
zione dell’incidente probatorio è quella dell’acquisizione cautelare e anticipata
della prova [...], non v’è ragione nel caso all’esame [...] per temere una lesione del
diritto dell’imputato a far acquisire al processo le prove ritenute opportune, atteso
che tutte le prove sono previste dal legislatore come normalmente acquisibili di-
nanzi al giudice del dibattimento ».
Considerato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale degli artt.
392 e 393 cod. proc. pen. in quanto prevedono che l’incidente probatorio non
possa essere chiesto, e quindi ammesso, dopo la scadenza dei termini delle inda-
gini preliminari;
che la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111
Cost., in quanto determinerebbe la violazione del diritto alla prova e, quindi, del
diritto di difesa e del principio della parità tra le parti;
che in particolare, dopo che questa Corte con la sentenza n. 77 del 1994 ha
reso possibile chiedere l’incidente probatorio, anche nel corso dell’udienza preli-
minare, ad avviso del rimettente sarebbe del tutto privo di ragionevolezza che la
richiesta di incidente non possa essere presentata nella fase intermedia tra la sca-
denza del termine delle indagini preliminari e l’inizio dell’udienza preliminare;
che, in relazione ad una questione analoga a quella oggetto del presente giu-
dizio, la Corte ha avuto occasione di precisare nell’ordinanza n. 118 del 2001 che
la ratio dell’estensione operata dalla sentenza n. 77 del 1994 va ricercata nell’esi-
genza di « garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova, che sarebbe altri-
menti irrimediabilmente perduta » ove la necessità di assicurare una prova indiffe-
ribile sorga « per la prima volta dopo la richiesta di rinvio a giudizio », e che per-
tanto è il pericolo della perdita irrimediabile della prova a imporne l’assunzione
anticipata;
che, di conseguenza, da un lato, ove tale esigenza si presenti tra la conclu-
sione delle indagini e l’inizio dell’udienza preliminare, « non potrebbe non essere
assicurata alle parti, anche in tale fase, la facoltà di richiedere l’assunzione della
prova in via di incidente; dall’altro sarebbe palesemente incongruo differire la vo-
catio in ius per l’assunzione di una prova per la quale non sia ravvisabile alcun pe-
ricolo nel ritardo »;
che il caso oggi all’esame della Corte si riferisce ad una perizia che dovrebbe
essere assunta ex art. 392, comma 2, cod. proc. pen., in quanto, se disposta nel di-
battimento, ne determinerebbe presumibilmente una sospensione superiore a ses-
santa giorni;
che la prova che il rimettente vorrebbe assumere con incidente probatorio
non è tra quelle suscettibili di essere esposte al rischio di irrimediabile dispersione,
mentre è in considerazione di tale rischio che questa Corte ha ravvisato l’esigenza

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di « garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova », a sua volta espressione
del diritto di difesa;
che consentire l’assunzione mediante incidente probatorio, di prove non
esposte al rischio di irrimediabile dispersione anche dopo la scadenza del termine
per le indagini preliminari comporterebbe una profonda alterazione dei rapporti
tra tale fase e il giudizio e una irragionevole dilatazione della durata delle indagini
e, quindi, dei tempi del procedimento;
che, in assenza del pericolo di perdita irrimediabile della prova, anche le
censure prospettate dal rimettente in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost. si rivelano
prive di fondamento;
che la questione va pertanto dichiarata manifestamente infondata in riferi-
mento a tutti i parametri evocati dal rimettente.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, se-
condo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzio-
nale.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infonda-


tezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 del codice
di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costitu-
zione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ancona, con l’ordi-
nanza in epigrafe.

——————
(1) L’ambito di operatività dell’art. 392 c.p.p.

1. La Corte costituzionale in questa ordinanza, riprendendo le argomenta-


zioni enunciate nella ordinanza n. 118 del 2001 (1), precisa che la ratio della
estensione operata dalla sentenza n. 77 del 1994 (che ha dichiarato la illegittimità
degli artt. 392 e 393 c.p.p. nella parte in cui non consentivano che l’incidente pro-
batorio potesse essere richiesto ed eseguito anche nella fase della udienza prelimi-
nare), deve ricercarsi, come espressamente detto nella motivazione della predetta
sentenza, nella esigenza di « garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova,
che sarebbe altrimenti irrimediabilmente perduta » e che, pertanto, è il pericolo
della perdita irrimediabile della prova a imporne l’assunzione anticipata.
Di conseguenza, secondo la Corte costituzionale, posto che la perizia richiesta
ed assunta ai sensi dell’art. 392 comma 2o c.p.p. in quanto, se disposta nel dibatti-
mento, determinerebbe una sospensione del dibattimento stesso superiore a ses-
santa giorni, non è una prova suscettibile di irrimediabile dispersione e posto che
« è esclusivamente in considerazione di tale rischio » che la Corte nella sentenza
77/1994 « ha ravvisato l’esigenza di garantire l’effettività del diritto delle parti alla
prova », appare manifestamente infondato il dubbio di illegittimità costituzionale
degli artt. 392 e 393 c.p.p., nella parte in cui non prevedono che la richiesta di in-
cidente probatorio possa essere presentata nella fase delle indagini preliminari an-
che quando siano scaduti i relativi termini. Identiche considerazioni erano state

(1) Ordinanza 9 maggio 2001 n. 118, in Giur. Cost., 2001, p. 959, con nota di RENON, Limiti cro-
nologici dell’incidente probatorio e diritto alla prova.

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espresse nella ordinanza 118/2001, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità


per difetto di motivazione della questione di legittimità costituzionale degli artt.
392 e 393 c.p.p., nella parte in cui non prevedono l’assunzione della perizia per i
reati indicati dall’art. 550 fino alla citazione diretta a giudizio. In quest’ultima or-
dinanza si asserisce, altresì, che « sarebbe palesemente incongruo differire la voca-
tio in ius per l’assunzione di una prova per la quale non sia ravvisabile alcun peri-
colo nel ritardo ».
In dottrina si è ritenuto che l’ordinanza 118/2001, richiamandosi espressa-
mente alla sentenza 77/1994, ne ha dato « una sorta di interpretazione autentica...
il che potrebbe portare a ritenere che, nel corso dell’udienza preliminare, per pro-
cedere con incidente all’assunzione di una perizia sia necessaria la sussistenza
delle condizioni di indifferibilità indicate nella lettera f) dell’art. 392 comma 1o
c.p.p. », con conseguente esclusione, quindi, dell’applicabilità dell’art. 392 comma
2o c.p.p. nell’udienza preliminare e, quindi, dell’assunzione di una perizia che, se
fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione supe-
riore a sessanta giorni(2). Alla stessa conclusione si è giunti con riferimento all’or-
dinanza 368/2002 qui annotata, rilevando che dall’assunto dell’ordinanza pre-
detta « paiono ricavarsi significative precisazioni circa l’effettiva fisionomia del-
l’incidente probatorio introdotto nel sistema processuale penale a seguito della più
volte richiamata sentenza 77/1994. In primo luogo, si dovrà escludere anche nel-
l’udienza preliminare la possibilità di disporre una perizia nei casi descritti nel-
l’art. 392, comma 2, del Cpp, non rinvenendosi l’esigenza di garantire l’effettività
del diritto delle parti alla prova rispetto al pericolo di un concreto e irrimediabile
pregiudizio » (3).
Queste conclusioni sembrano del tutto inaccettabili. Sia le ordinanze della
Corte costituzionale sia gli autori sopra citati dimenticano che la sentenza
77/1994 è una sentenza additiva la quale ha certamente reso l’art. 392 comma 2o
c.p.p. applicabile nell’udienza preliminare. Ciò emerge inequivocabilmente dal te-
nore del dispositivo della sentenza 77/1994, che ha dichiarato « l’illegittimità co-
stituzionale degli artt. 392 e 393 nella parte in cui non consentono che, nei casi
previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio possa essere richie-
sto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare ». Il riferimento a tutti i
casi previsti nell’art. 392 c.p.p. e, quindi, anche a quello delineato nell’art. 392
comma 2o c.p.p., rende inequivocabilmente ammissibile l’incidente probatorio
nella udienza preliminare per l’assunzione di una perizia che se espletata in dibat-
timento determinerebbe una sospensione superiore ai sessanta giorni. Non si com-
prende come una ordinanza di manifesta inammissibilità per difetto di motiva-
zione sulla rilevanza, qual è l’ordinanza 118/2001, ed una ordinanza di manifesta
infondatezza, qual è l’ordinanza 368/2002, possano modificare il dato normativo
così come risulta da una sentenza additiva di parziale declaratoria di illegittimità
costituzionale. Inoltre, dalla motivazione della sentenza 77/1994 emerge senza
possibilità di dubbio che la Corte costituzionale ha ricompreso tra le prove non
rinviabili, di cui consentire l’assunzione nell’udienza preliminare, anche quella
prevista nell’art. 392 comma 2o. Infatti, è pur vero che in questa sentenza si sotto-
linea l’esigenza di garantire « l’effettività del diritto delle parti alla prova, che sa-
rebbe altrimenti irrimediabilmente perduta » e che questo rischio di dispersione
non è ravvisabile in ordine alla prova menzionata nell’art. 392 comma 2o c.p.p.

(2) RENON, Limiti, cit., p. 969.


(3) MARZADURI, Subordinata l’acquisizione anticipata a circostanze di effettiva indifferibilità, in
Guida al diritto, n. 33, 31/8/2002, p. 82. Sull’argomento v., altresì, CASELLI LAPESCHI, L’incidente proba-
torio nell’udienza preliminare: un’opinione critica sull’« apertura » della Corte costituzionale, in Leg.
Pen., 1995, p. 104 s.; GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, 1996, p. 219-220.

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Ma è altrettanto vero che in detta pronunzia la Corte costituzionale, al fine di rite-


nere fondata la questione proposta e giungere alla declaratoria di illegittimità co-
stituzionale realizzata con sentenza additiva, ha asserito testualmente in motiva-
zione: « l’istituto dell’incidente probatorio è preordinato a consentire alle parti
principali l’assunzione delle prove non rinviabili al dibattimento (art. 2, n. 40
della legge delega n. 81 del 1987), e cioè di quelle che — secondo l’elencazione
dell’art. 392 c.p.p. — si prevede che non siano differibili al dibattimento per le
condizioni della persona da esaminare o perché soggette a perdita di genuinità
(lettere da a ad e), o perché il loro oggetto è inevitabilmente esposto a modifica-
zione (lettera f), o perché ricorrono particolari ragioni di urgenza (lettera g) o, in-
fine, perché il loro rinvio pregiudicherebbe la concentrazione del dibattimento
(comma 2) » (4). Non v’ è dubbio, quindi, che la Corte costituzionale abbia voluto
giustificare l’applicabilità dell’art. 392 comma 2o c.p.p. nella udienza preliminare
ritenendo anche questa ipotesi riconducibile alla categoria delle prove non rinvia-
bili. A ben vedere, come giustamente è stato osservato, si tratterebbe di una « non
rinviabilità funzionale » completamente diversa dalla non rinviabilità che caratte-
rizza le situazioni previste nel comma 1o dell’art. 392 c.p.p., il che giustifica una
critica certamente valida alle argomentazioni poste a fondamento della declarato-
ria di illegittimità costituzionale che ha reso l’art. 392 comma 2o riferibile alla
udienza preliminare, ma non può certo mutare l’ambito di operatività della sud-
detta declaratoria (5).
L’applicabilità dell’art. 392 comma 2o c.p.p. nell’udienza preliminare rende
non del tutto persuasive le argomentazioni enunciate nelle ordinanze 118/2001 e
368/2002 della Corte costituzionale. In primo luogo, non può escludersi l’inci-
dente probatorio nell’ipotesi dell’art. 392 comma 2o c.p.p. nella fase delle indagini
preliminari anche quando siano scaduti i relativi termini nonché, per i reati indi-
cati dall’art. 550 c.p.p., fino alla citazione diretta a giudizio sulla base dell’assenza
del rischio della dispersione della prova, posto che tale rischio non è mai ravvisa-
bile nella situazione prevista dall’art. 392 comma 2o c.p.p. e, cionondimeno, tale
disposizione è applicabile nell’udienza preliminare. Il problema di legittimità co-
stituzionale va, quindi, visto non con riferimento al diritto alla prova ed al rischio
che tale diritto possa essere vanificato da una dispersione della prova stessa, ma
con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Orbene, in quest’ordine di idee il fatto che l’incidente probatorio di cui al-
l’art. 392 comma 2o c.p.p. sia consentito nell’udienza preliminare ma non nella
fase delle indagini preliminari una volta scaduti i termini, non sembra in alcun
modo contrastare con il principio di ragionevolezza per quanto concerne i proce-
dimenti nei quali è prevista l’udienza preliminare. Infatti, l’indagato, il quale si sia
reso conto soltanto dopo l’avviso notificato ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p. della
necessità di una perizia complessa e si veda respingere la relativa richiesta per es-

(4) Corte Cost., 10 marzo 1994 n. 77, in Cass. pen., 1994, p. 1788 s., con nota di A. MACCHIA, In-
cidente probatorio e udienza preliminare: un matrimonio con qualche ombra.
(5) A. MACCHIA, Incidente probatorio, cit., p. 1792, osserva che l’effettivo intendimento della
Corte costituzionale era quello di « consentire la celebrazione dell’incidente probatorio nel corso dell’u-
dienza preliminare, non soltanto nei casi previsti dal comma 1 dell’art. 392, ma anche in quello previsto
dal comma 2, vale a dire quando viene richiesta una perizia il cui espletamento si presume comporti un
termine superiore ai sessanta giorni » e soggiunge che tale « effettivo intendimento lo si desume con cer-
tezza oltre che dall’univoco tenore del dispositivo della sentenza, anche dal fatto che, nel disattendere
l’eccezione di aberratio sollevata dall’Avvocatura, la sentenza ha espressamente riconosciuto che le perizie
richieste nei giudizi a quibus presentavano un oggetto tale da far presumere una durata eccedente i ses-
santa giorni, cosicché il mancato richiamo del requisito previsto dall’art. 392 comma 2 non poteva certo
costituire motivo di irrilevanza delle questioni ». Peraltro, il MACCHIA, Incidente, cit., p. 1792, osserva che
« se tale è stata dunque la chiara volontà della Corte, quanto mai discutibili sono invece...i presupposti ar-
gomentativi che sostengono il decisum ».

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sere decorsi i termini delle indagini preliminari potrà reiterare la richiesta stessa
nella udienza preliminare. Il dubbio di legittimità appare invece non manifesta-
mente infondato con riferimento ai processi penali con citazione diretta a giudizio.
È conforme al principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza il
fatto che un indagato, il quale soltanto alla fine delle indagini preliminari sia stato
messo in condizioni di valutare la necessità di una perizia complessa, non possa
più effettuare tale richiesta prima del dibattimento a causa della mancanza dell’u-
dienza preliminare (6)? La risposta non è così agevole come mostra di credere la
Corte costituzionale. Infatti, non può dirsi, come asserito nella ordinanza
118/2001, che « sarebbe palesemente incongruo differire la vocatio in ius per l’as-
sunzione di una prova per la quale non sia ravvisabile alcun pericolo nel ritardo ».
A ben vedere, sono frequenti le situazioni in cui soltanto una perizia complessa
può mettere in condizioni l’imputato di capire se la scelta del patteggiamento o del
giudizio abbreviato sia o no da effettuarsi.
Orbene, posto che la scelta dei riti deflativi del dibattimento costituisce una
importante estrinsecazione del diritto di difesa, non pare del tutto ragionevole la
disparità di trattamento che si verifica, allorquando la notifica dell’avviso ex art.
415 bis c.p.p. venga effettuata in prossimità della scadenza del termine delle inda-
gini preliminari, a seconda che il processo sia un processo a citazione diretta op-
pure no. Infatti, nel primo caso, non sarà più consentito effettuare la richiesta di
una perizia complessa e, conseguentemente, effettuare una scelta meditata in or-
dine ai riti deflativi del dibattimento mentre, nel secondo caso, la richiesta pre-
detta risulterà possibile nella udienza preliminare. Potrà dubitarsi che tale dispa-
rità comporti una violazione dell’art. 3 Cost. ma non può certo dirsi, come ha
detto la Corte costituzionale nella ordinanza 118/2001, che sarebbe « palesemente
incongruo » un differimento per assumere una prova rispetto alla quale non sussi-
sta un rischio di dispersione. La congruità consisterebbe nella possibilità, già ri-
cordata, di compiere scelte meditate sulla instaurazione del rito processuale.

2. Le due ordinanze delle Corte costituzionale, con il ribadire più volte (tesi
non del tutto esatta per la ragioni sopra esposte), che nell’udienza preliminare è
consentita unicamente l’assunzione di prove che, ove differite, sarebbero irrime-
diabilmente perdute, suscitano con questa considerazione il problema se le modifi-
che apportate con la l. 7 agosto 1997 n. 267 all’art. 392 c.p.p. possano trovare at-
tuazione nell’udienza preliminare. Il nuovo testo dell’art. 392 c) e d) c.p.p., così
come modificato, consente, a differenza del testo precedente, l’incidente probato-
rio per l’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la re-
sponsabilità di altri e per l’esame delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. ancor-
ché non sussista alcun pericolo di dispersione o di inquinamento della prova. Na-
sce il problema se tale esame possa, quindi, effettuarsi pur non sussistendo il peri-
colo predetto nella udienza preliminare, il che sarebbe da escludersi sulla base
delle argomentazioni enunciate nelle ordinanze della Corte costituzionale qui ri-
chiamate.
Nella prassi giudiziaria detto problema viene risolto in maniera positiva.
Anzi, a dire il vero, normalmente non viene neppure posto. Infatti, è molto fre-

(6) Né potrebbe sostenersi la possibilità di effettuare l’incidente probatorio per l’assunzione di una
perizia complessa ai sensi del combinato disposto degli artt. 554 e 467 c.p.p., posto che l’art. 467 c.p.p.,
con il precisare che le prove assumibili nella fase predibattimentale possono essere soltanto quelle non
rinviabili si riferisce, valutata tale locuzione nel contesto della norma, che ha come rubrica « atti ur-
genti », ad « atti ‘naturalmente’ non rinviabili, così da escludere quelli che — come la perizia di lunga du-
rata — presentano connotazioni di rinviabilità meramente funzionale » (così A. MACCHIA, Incidente, cit.,
p. 1793).

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quente nella udienza preliminare l’incidente probatorio nelle situazioni previste


dalle lettere c) e d) dell’art. 392 comma 1o c.p.p. pur non sussistendo alcun rischio
di inquinamento o dispersione della prova, in quanto si dà per scontato che la sen-
tenza 77/1994 abbia reso possibile l’applicazione dell’art. 392 comma 1o c.p.p. in
tutti i casi ivi contemplati e, quindi, anche nelle situazioni introdotte con le modi-
fiche apportate nel 1997. Tesi assolutamente insostenibile poiché è pur vero che la
Corte costituzionale, come già ricordato, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
degli artt. 392 e 393 c.p.p. nella parte in cui non consentono in tutti i casi previsti
dall’art. 392 c.p.p. che l’incidente probatorio possa effettuarsi nell’udienza preli-
minare, ma è ovvio che la Corte costituzionale si riferiva a tutte le ipotesi di inci-
dente probatorio previste al momento dell’emanazione della pronuncia. Non è se-
riamente sostenibile che, in virtù di una parziale declaratoria di illegittimità costi-
tuzionale che rende una determinata norma applicabile in una fase processuale,
possa detta norma trovare attuazione anche in riferimento a situazioni previste in
seguito a modifiche legislative successive alla declaratoria di illegittimità. Equivar-
rebbe ad asserire che la Corte costituzionale, quando con sentenza additiva rende
applicabile una norma in una fase processuale firma una cambiale in bianco, de-
terminando l’applicazione della norma stessa anche con riferimento a situazioni
che non sussistevano al momento della declaratoria di illegittimità costituzionale.
La sentenza 77/1994 giustifica la declaratoria di illegittimità costituzionale sulla
base della nozione di non rinviabilità della prova, intesa in una duplice accezione e
cioè o come non rinviabilità determinata dal pericolo che la prova possa essere ir-
rimediabilmente perduta (art. 392 comma 1o c.p.p.) oppure come « non rinviabi-
lità funzionale » in quanto il suo differimento comporterebbe un gravissimo danno
al principio di continuità del dibattimento, fondamentale in un processo che do-
vrebbe essere accusatorio (art. 392 comma 2o c.p.p.). Questa duplice accezione di
rinviabilità non è riferibile alle ipotesi previste nelle lettere c) e d) dell’art. 392
comma 1o c.p.p. allorquando non vi sia rischio di inquinamento o di dispersione
della prova. La sentenza 77/1994 non giustifica né può giustificare l’incidente
probatorio nelle nuove situazioni introdotte con la l. 7 agosto 1997 n. 267.
Né può dirsi, come è stato detto in una pronuncia giurisdizionale inedita (7),
che il legislatore del 1997 « è intervenuto ampliando i casi in cui si può richiedere
l’esame dell’indagato (o coimputato in reato connesso) quando già la Corte costi-
tuzionale aveva stabilito che esso potesse effettuarsi anche in udienza preliminare,
per cui qualora avesse inteso limitarne l’esperibilità alle indagini preliminari sa-
rebbe intervenuto con espressa disposizione ». Ci sembra una applicazione erro-
nea del brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit essendo facile replicare che
l’art. 392 c.p.p. anche dopo la modifica si riferisce esclusivamente alle indagini
preliminari e che, proprio in virtù di detto brocardo, se il legislatore avesse inteso
consentire l’incidente probatorio anche in relazione ai nuovi casi previsti dalla l. 7
agosto 1997 lo avrebbe espressamente stabilito. Bisogna riconoscere che entrambe
le argomentazioni basate sul mero dato letterale sono deboli. In realtà, il problema
deve porsi in altri termini: premesso che l’art. 392 c.p.p. prevede espressamente
l’incidente probatorio con riferimento alla sola fase delle indagini preliminari e
che la sua riferibilità all’udienza preliminare in virtù della sentenza additiva
77/1994 è limitata ai casi previsti nel 1994, può sulla base di una applicazione
analogica applicarsi l’art. 392 c.p.p. nell’udienza preliminare con riferimento alle
nuove ipotesi di incidente probatorio introdotte nel 1997? La risposta non può
che essere negativa stante il carattere eccezionale dell’art. 392 c.p.p., trattandosi
di disposizione, che comporta una deroga al principio generale della immedia-

(7) Tribunale di Torino, G. U. P., ordinanza 4 luglio 2002, inedita.

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tezza. V’è di più: l’incidente probatorio comporta, altresì, una menomazione del
principio del contraddittorio nella formazione della prova. Infatti, se contradditto-
rio come connotazione della giurisdizione significa contraddittorio espletato da
tutte le parti del processo penale davanti ad un giudice chiamato a decidere, il
quale assiste, al fine di un corretto esercizio della giurisdizione, all’assunzione
della prova, non può non emergere il carattere eccezionale dell’incidente probato-
rio. La ratio dell’ampliamento degli incidenti probatori, stante l’impossibilità di
giungere rapidamente alla fase dibattimentale, sede naturale della assunzione della
prova, è quella per cui, nella scelta tra il sacrificio del contraddittorio nel mo-
mento di formazione della prova mediante la lettura dei verbali delle indagini pre-
liminari ed il sacrificio dell’immediatezza mediante l’assunzione della prova da un
giudice diverso da quello che deve decidere (come avviene nel caso di incidenti
probatori), si è ritenuto più accettabile sacrificare l’immediatezza. Tale scelta può
anche essere ritenuta ragionevole a condizione che ci si renda conto che in assenza
della immediatezza il contraddittorio risulta menomato. La presenza del giudice
terzo chiamato a decidere appare indispensabile per una corretta attuazione del
contraddittorio inteso come « statuto epistemologico » della giurisdizione (8). Il
contraddittorio nell’assunzione della prova è fondamentale per le prove narrative
quali sono quelle previste nelle lettere c) e d) dell’art. 392 c.p.p. Infatti, per le
prove narrative non hanno rilievo soltanto le dichiarazioni ma anche le modalità
delle dichiarazioni stesse. Un « sì » pronunciato con sicurezza senza alcuna esita-
zione viene valutato dal giudice in modo diverso rispetto ad un « sì » pronunciato
dopo una lunga pausa e con evidente imbarazzo. Il giudice del dibattimento che
legge le trascrizioni delle dichiarazioni rese nell’incidente probatorio è nell’impos-
sibilità di valutare sia l’imbarazzo sia l’esitazione. Ne segue che il giudice chia-
mato a decidere sulla base di prove assunte negli incidenti probatori e, quindi, im-
possibilitato a valutare le modalità delle dichiarazioni, viene privato di un contrad-
dittorio pieno indispensabile per un corretto esercizio della funzione giurisdizio-
nale.
Dalle considerazioni sopra enunciate discende l’impossibilità di una applica-
zione analogica dell’art. 392 c.p.p. e conseguentemente la non riferibilità all’u-
dienza preliminare delle modifiche introdotte successivamente alla declaratoria di
parziale illegittimità costituzionale dell’art. 392 c.p.p.
GILBERTO LOZZI

(8) GIOSTRA, Analisi e prospettive di un modello probatorio incompiuto, in Questione Giustizia,


2001, p. 1130, afferma che il principio del contraddittorio nel momento di formazione della prova previ-
sto nel primo periodo del 4o comma dell’art. 111 Cost. « va considerato il diapason della giurisdizione pe-
nale » costituendone « il suo statuto epistemologico ».

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CORTE COSTITUZIONALE — 16 maggio 2002, n. 203


Pres. Ruperto — Rel. Neppi Modona

Giudizio immediato - Necessità che la richiesta del p.m. sia preceduta dall’avviso
di conclusione delle indagini - Esclusione - Questione di legittimità costituzio-
nale - Manifesta infondatezza (C.p.p., art. 453; Cost., artt. 3, 24, comma 2).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.


453 c.p.p., con riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non
prevede che la richiesta di giudizio immediato avanzata dal p.m. ai sensi dell’art.
453 c.p.p. sia preceduta dalla notificazione dell’avviso di chiusura delle indagini
di cui all’art. 415-bis c.p.p. La Corte costituzionale ha in particolare escluso la
violazione del diritto di difesa in quanto al soggetto destinatario della richiesta di
giudizio immediato sono riconosciute tutte le garanzie difensive solitamente eser-
citabili nella fase investigativa, seppure con le particolari forme previste dagli artt.
453 ss. c.p.p.; parimenti è stato negato che una tale diversità delle forme di eserci-
zio del diritto di difesa contrasti con l’art. 3 Cost., atteso che le caratteristiche dei
singoli procedimenti speciali giustificano ragionevoli differenze rispetto allo svolgi-
mento del procedimento ordinario (1).

(Omissis). — La Corte così motiva:


‘‘Nel giudizio di legittimità dell’art. 453 c.p.p., promosso, nell’àmbito di un
procedimento penale, con ordinanza del Tribunale di La Spezia in data 8 giugno
2001, iscritta al n. 694 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella G.U. della
Repubblica n. 38, 1a serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il giudice relatore Guido
Neppi Modona.
Ritenuto che il Tribunale di La Spezia, su eccezione della difesa, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., questione di legittimità costituzio-
nale dell’art. 453 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la richiesta di giudizio
immediato debba essere preceduta dall’avviso di conclusione delle indagini preli-
minari ex art. 415-bis c.p.p.;
che il tribunale, premesso che procede per i reati di usura e di estorsione a
seguito di decreto di giudizio immediato, rileva che l’avviso di conclusione delle
indagini preliminari è previsto soltanto quando il pubblico ministero esercita l’a-
zione penale con richiesta di rinvio a giudizio o con citazione diretta, come emerge
dai richiami rispettivamente operati dall’art. 415-bis all’art. 405 e dall’art. 550 al-
l’art. 415-bis c.p.p., mentre analogo richiamo non è contenuto nella disposizione
censurata;
che, ad avviso del tribunale, la mancata previsione dell’avviso di conclusione
delle indagini prima della richiesta di giudizio immediato determina un’indebita
compressione del diritto di difesa e un’ingiustificata disparità di trattamento del-
l’imputato nei cui confronti si procede con giudizio immediato rispetto all’impu-
tato tratto a giudizio con citazione diretta — prevista per reati di minore gravità
— o a seguito di udienza preliminare;
che all’imputato nei cui confronti è disposto il giudizio immediato risulta in-

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fatti inibito ‘di presentare memorie, produrre documenti, depositare documenta-


zione relativa alle investigazioni difensive, chiedere al p.m. il compimento di atti
d’indagine nonché compiere ogni altra attività difensiva che l’art. 415-bis prevede
al fine di consentirgli, laddove è possibile, di non essere tratto a giudizio rappre-
sentando la propria posizione e fornendo ogni elemento a discarico’;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappre-
sentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione
sia dichiarata manifestamente infondata, in base al rilievo che la disciplina censu-
rata non pregiudica l’esercizio del diritto di difesa in vista della pronuncia di me-
rito;
che, inoltre, l’istituto di cui all’art. 415-bis c.p.p. sarebbe incompatibile con
la struttura del giudizio immediato, ‘caratterizzato dalla possibilità connessa a spe-
cifiche contingenze processuali di natura probatoria verificate dal giudice, di acce-
lerare oltre modo i tempi del processo’, in quanto ne determinerebbe un’inevita-
bile dilatazione temporale;
che, infine, ad avviso dell’Avvocatura il procedimento disciplinato dagli artt.
453 ss. c.p.p. è già sufficientemente garantito dalla necessità del previo interroga-
torio dell’imputato, e quindi gli adempimenti processuali previsti dall’art. 415-bis
si risolverebbero in un’inutile duplicazione di tutela.
Considerato che il rimettente dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma
2, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 453 c.p.p., in quanto l’omessa
previsione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari prima della pre-
sentazione della richiesta del pubblico ministero di giudizio immediato preclude-
rebbe all’imputato di compiere le attività difensive menzionate dall’art. 415-bis
c.p.p. e determinerebbe così un’ingiustificata e deteriore disparità di trattamento
rispetto all’imputato rinviato a giudizio a seguito di udienza preliminare o con ci-
tazione diretta;
che il confronto tra le opportunità di esercizio del diritto di difesa conse-
guenti all’avviso di conclusione delle indagini preliminari e quelle offerte dalla di-
sciplina del giudizio immediato deve essere condotto tenendo presenti gli specifici
presupposti e la peculiare struttura del rito alternativo regolato dagli artt. 453 ss.
c.p.p.;
che, in primo luogo, presupposto del giudizio immediato è l’evidenza della
prova, la cui sussistenza, sottoposta al controllo del giudice per le indagini preli-
minari a norma dell’art. 455 c.p.p., rende superflua la celebrazione dell’udienza
preliminare (v. ordinanze n. 276 del 1995 e n. 482 del 1992);
che, inoltre, il pubblico ministero può presentare richiesta di giudizio imme-
diato solo se la persona sottoposta alle indagini sia stata interrogata sui fatti da cui
emerge l’evidenza della prova, ovvero se — a seguito di invito a presentarsi
emesso a norma dell’art. 375, comma 3, secondo periodo, c.p.p. e contenente, ol-
tre la sommaria enunciazione del fatto risultante dalle indagini compiute, l’indica-
zione degli elementi e delle fonti da cui risulta l’evidenza della prova e l’avverti-
mento che potrà essere presentata richiesta di giudizio immediato — la persona
indagata non sia comparsa, sempre che non abbia addotto un legittimo impedi-
mento o non sia irreperibile;
che, ai fini della contestazione del fatto, tali garanzie sono sostanzialmente
analoghe a quelle contenute nell’avviso della conclusione delle indagini prelimi-

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nari, l’unica differenza essendo riscontrabile nel deposito della documentazione


delle indagini espletate, previsto dall’art. 415-bis, comma 2, c.p.p., al quale peral-
tro fa riscontro, ove si ponga mente alla specificità del giudizio immediato, la con-
testazione verbale degli elementi e delle fonti su cui si basa l’evidenza della prova,
richiamata dagli artt. 453 e 375, comma 3, c.p.p.;
che, a seguito dell’interrogatorio svolto con l’osservanza di tali forme, la per-
sona sottoposta alle indagini, al fine di contestare l’evidenza della prova e, quindi,
di evitare di essere tratta a giudizio, è posta in condizione di esercitare le più op-
portune iniziative defensionali previste in via generale nel corso delle indagini pre-
liminari, dalla presentazione di memorie e richieste scritte al pubblico ministero
alle attività di sollecitazione probatoria e alle investigazioni difensive;
che l’art. 415-bis, comma 3, c.p.p., elencando le attività difensive di cui deve
essere fatta menzione nell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, non
riconosce alla persona sottoposta alle indagini poteri di iniziativa diversi e ulteriori
rispetto a quelli esercitabili nel corso delle indagini preliminari prima che il pub-
blico ministero abbia presentato richiesta di giudizio immediato;
che sotto il profilo dell’esercizio del diritto di difesa, con particolare riferi-
mento alle attività volte ad evitare il rinvio a giudizio, nella disciplina censurata
non è pertanto riscontrabile alcuna violazione dell’art. 24 Cost.;
che, per quanto concerne le censure che attengono alla disparità di tratta-
mento, tenuto conto della struttura del processo penale, caratterizzato dalla pre-
senza di una pluralità di riti alternativi che mirano, attraverso la semplificazione
dei meccanismi e l’abbreviazione dei tempi del procedimento, a pervenire ad una
più rapida conclusione della vicenda processuale, è ragionevole che le forme di
esercizio del diritto di difesa siano modulate in funzione delle caratteristiche dei
singoli procedimenti speciali (v., ex plurimis, sentenze n. 344 del 1991 e n. 16 del
1970, nonché ordinanze n. 326 del 1999 e n. 432 del 1998);
che, in particolare, in tema di giudizio immediato la brevità del termine, giu-
stificata dall’evidenza della prova, entro cui il pubblico ministero deve presentare,
ex art. 454, comma 1, c.p.p., la relativa richiesta, comporta la necessità di antici-
pare le attività difensive volte ad evitare il rinvio a giudizio prima della conclu-
sione delle indagini, e cioè a partire dal momento in cui, grazie all’interrogatorio,
alla persona sottoposta alle indagini sono stati contestati i fatti dai quali emerge
l’evidenza della prova;
che l’estensione al giudizio immediato delle modalità di esercizio del diritto
di difesa previste dall’art. 415-bis c.p.p. si porrebbe in antinomia con i presuppo-
sti che giustificano la costruzione di questo rito secondo criteri di massima celerità
e semplificazione, senza il filtro dell’udienza preliminare, analogamente agli altri
procedimenti speciali — giudizio direttissimo e decreto penale di condanna — nei
quali, per ragioni diverse, non è previsto l’avviso di conclusione delle indagini;
che la questione deve pertanto essere dichiarata manifestamente infondata
anche in riferimento all’art. 3 Cost.
Visti gli artt. 26, comma 2, della l. 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

P.Q.M. — La Corte costituzionale dichiara la manifesta infondatezza della


questione di legittimità costituzionale dell’art. 453 c.p.p., sollevata, in riferimento

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agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost., dal Tribunale di La Spezia, con l’ordinanza in
epigrafe’’. (Omissis).

——————
(1) Avviso di chiusura delle indagini preliminari e giudizio immediato: la Corte
costituzionale riduce gli ambiti del ‘‘giusto processo’’.

1. Pur se formalmente ineccepibile quanto alle conclusioni raggiunte, l’ordi-


nanza in commento poggia su un apparato motivazionale che suscita più di una
perplessità. La questione era se la disciplina per la quale l’instaurazione del giudi-
zio immediato su richiesta del pubblico ministero ex art. 453 c.p.p. non deve es-
sere preceduta dalla notificazione dell’avviso di chiusura delle indagini di cui al-
l’art. 415-bis c.p.p. (1) sia conforme al dettato costituzionale, con particolare rife-
rimento ai principi stabiliti dagli artt. 3 e 24. La risposta affermativa fornita dal
giudice delle leggi per mezzo di una declaratoria di manifesta infondatezza è il ri-
sultato di una ricognizione non solo esegeticamente corretta, ma quasi ‘‘obbliga-
ta’’ sul piano del diritto positivo: le motivazioni addotte, che riprendono sequenze
utilizzate per risolvere analoghi incidenti di costituzionalità (2), appaiono però
non pienamente condivisibili e in parte sovrabbondanti, a suggellare un verdetto
dall’esito quasi scontato. Resta infatti il dubbio che una piena valorizzazione delle
istanze garantistiche sottese all’istituto dell’avviso di conclusione delle indagini,
insieme ad un suo consapevole collegamento funzionale con la coeva disposizione
costituzionale tesa ad assicurare all’accusato (rectius: indagato) (3) il diritto a es-
sere informato dei motivi dell’accusa e a disporre del tempo e delle condizioni per
preparare la difesa, avrebbe potuto condurre a conclusioni in parte diverse. Non
era probabilmente questa la sede per una simile verifica, atteso che tra le norme
dedotte nell’incidente di costituzionalità non figurava l’art. 111 Cost.: in altra oc-
casione si era dubitato che il decreto di giudizio immediato emesso in seguito ad
opposizione a decreto penale di condanna senza la preventiva notifica dell’avviso
ex art. 415-bis c.p.p. assicurasse quell’informazione tempestiva sulla natura e i
motivi dell’accusa costituzionalmente richiesta, ma la Suprema Corte aveva rite-

(1) La disposizione è stata inserita nell’originario corpus normativo del codice dall’art. 17, comma
2, della l. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge ‘‘Carotti’’).
(2) Si vuole alludere in particolare ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati con riferimento
alla precedente normativa laddove consentiva l’instaurazione del procedimento per decreto senza la pre-
ventiva notificazione dell’invito a comparire per rendere l’interrogatorio, confutati nel senso della confor-
mità alla legge suprema da Corte cost., ord. 16 luglio 1999, n. 326, in Leg. pen., 1999, p. 974; Corte
cost., ord. 23 dicembre 1998, n. 432, in Cass. pen., 1999, p. 1100. Cfr. pure infra, nota n. 4.
(3) In verità l’art. 111, comma 3, Cost. utilizza la locuzione ‘‘persona accusata di un reato’’, che
sembrerebbe evocare la figura di un soggetto nei cui confronti sia stata già formalizzata un’imputazione:
sennonché non si è mancato di sottolineare come un’interpretazione del genere vanificherebbe in radice la
funzione della norma, onde il destinatario di essa andrebbe più correttamente rinvenuto in ogni soggetto
cui l’autorità competente attribuisca comunque la commissione di un fatto costituente reato. In tal senso
si vedano, tra i tanti: CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 145; CONTI, Giusto pro-
cesso (dir. proc. pen.), in Enc. dir., aggiornamento V, Milano, 2001, p. 631; CORDERO, Procedura penale,
Milano, 2001, pp. 1268-1269; FERRUA, Il ‘‘giusto processo’’ in Costituzione, in Dir. e giust., n. 1, 2000, p.
79; GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale, in Cass. pen., 1999, p. 3319;
LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2002, p. 341; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e
alternative al silenzio, Torino, 2000, p. 101; MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999,
n. 2, in Leg. pen., 2000, pp. 776-777; TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2000, p. 46. In
senso contrario CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto pro-
cesso’’, in Giust. pen., 2000, III, p. 678.

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nuto la questione irrilevante in quanto assorbita dalla dichiaranda assoluzione in


via preliminare del ricorrente (4). Ciò non esime tuttavia l’interprete, una volta
espresse le valutazioni sui singoli dicta provenienti dal palazzo della Consulta, dal
verificare la conformità dei vari istituti codicistici alle direttive costituzionali che
prevedono l’attuazione di un processo — e per quel che più conta nel caso di spe-
cie, di un procedimento (5) — ispirato per quanto possibile a istanze di giustizia.
2. A una semplice lettura del dato normativo risulta che la modalità di eser-
cizio dell’azione penale disciplinata dal titolo IV del libro sui procedimenti speciali
si discosta dall’iter ordinario consistente nella richiesta di rinvio a giudizio formu-
lata dal pubblico ministero ex art. 416 c.p.p. e depositata nella cancelleria del giu-
dice per le indagini preliminari: quest’ultima, infatti, deve essere preceduta dalla
notificazione dell’avviso di chiusura delle indagini stabilita dall’art. 415-bis c.p.p.,
la cui omissione viene sanzionata con un’ipotesi speciale di nullità (a regime inter-
medio) (6) dell’atto imputativo dall’art. 416 c.p.p., così come interpolato dall’art.
17, comma 3, della l. n. 479/1999. Analoga la situazione che si verifica con i reati
per i quali si procede con citazione diretta a giudizio: l’art. 550 c.p.p. prevede
espressamente l’applicazione dell’art. 415-bis c.p.p. e il successivo comma 2 del-
l’art. 552 c.p.p. sanziona con la nullità il decreto di citazione a giudizio che non
sia stato preceduto dall’invio dell’avviso de quo. Orbene, la circostanza che il legi-
slatore abbia corredato di un’ipotesi speciale di nullità il solo modo ordinario di
esercizio dell’azione penale non preceduto dall’invio dell’avviso di cui all’art. 415-
bis c.p.p., unitamente al silenzio serbato circa l’applicabilità o meno dell’istituto
alle ulteriori ipotesi di elevazione dell’imputazione (diversamente da quanto avve-
nuto per il procedimento con citazione diretta innanzi all’organo monocratico),
porterebbe prima facie ad escludere la ricorrenza dell’obbligo di inviare l’avviso in
casi diversi da quelli espressamente disciplinati.
In tal senso, oltre a considerazioni generali di ordine sistematico fondate sulla
specialità dei vari percorsi processuali di elevazione dell’imputazione milita la pe-
culiarità delle scansioni temporali caratterizzanti la fase investigativa dei c.d. pro-
cedimenti speciali, che ha condotto a correlare l’adempimento dell’obbligo di cui
all’art. 415-bis c.p.p. esclusivamente alla scadenza del termine previsto dal comma
2 dell’art. 405 c.p.p. per la formulazione dell’ordinaria richiesta di rinvio a giudi-
zio. Ad escludere la ricorrenza dell’obbligo di notifica imposto dall’art. 415-bis

(4) È quanto accaduto nel caso esaminato da Cass., sez. I, 17 settembre 2001, Farabi, in Dir. pen.
e proc., 2002, p. 600.
(5) Per questa puntualizzazione si vedano in particolare CONTI, Giusto processo (dir. proc. pen.),
cit., p. 631; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 99 ss.; TONINI,
Manuale di procedura penale, cit., 46.
(6) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, in Ind.
pen., 2000, p. 510, nota n. 13; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle
indagini preliminari, in Arch. nuova proc. pen., 2002, p. 130; BONINI, sub art. 17 l. 16 dicembre 1999, n.
479, in Leg. pen., 2000, p. 362; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione, in Guida al
dir., n. 1, 2000, p. XLVI; ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il
nuovo processo penale davanti al giudice unico, Milano, 2000, p. 118; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase
investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, in AA.VV., Il
processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, p. 273; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 291; MARANDOLA, Due significative no-
vità per il processo penale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori
del giudice dell’udienza preliminare, in Studium iuris, 2001, pp. 1134-1135; NUZZO, L’avviso di conclu-
sione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, in Cass. pen., 2001, p.
683; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esi-
genze di completezza della fase procedimentale, in AA.VV., Nuovi scenari del processo penale alla luce
del giudice unico, a cura di S. Nosengo, Milano, 2002, p. 57, nota n. 5; SCALFATI, La riforma dell’udienza
preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, in Cass. pen., 2000, p. 2818.

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c.p.p. non si potrebbe, però, invocare una presunta mancanza di sanzione per le
omissioni verificatesi nei casi non specificamente presi in considerazione dalla
speciale comminatoria di nullità, atteso che questi rientrerebbero pur sempre nel
generale disposto della lett. c) dell’art. 178 c.p.p., baluardo di tutte le violazioni
(commissive e omissive, a prescindere da una previsione ad hoc) del diritto all’in-
tervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato.
Inconferente risulterebbe, pertanto, un rigido riferimento al principio di tas-
satività delle nullità degli atti processuali penali sulla scorta della considerazione
per cui, essendo l’omissione dell’invio dell’avviso di chiusura delle indagini com-
minata a pena di nullità per il solo caso di rinvio a giudizio ex art. 416 c.p.p. e di
citazione diretta a giudizio ai sensi del combinato disposto degli artt. 550 e 552,
comma 2, c.p.p., le restanti forme di esercizio dell’azione penale elencate dal
comma 1 dell’art. 405 c.p.p. rimarrebbero inevitabilmente al di fuori dell’alveo di
operatività della nullità in discorso: in tal caso scatterebbe, come si è detto, la nul-
lità di ordine generale di cui all’art. 178, lett. c), c.p.p., che serve appunto a san-
zionare la violazione di norme che il legislatore non ha dotato di una specifica san-
zione sub specie nullitatis. Se tutto quanto precede è vero, l’apposita previsione di
nullità speciale negli artt. 416 e 552, comma 2, c.p.p. carica di un significato pre-
gnante il silenzio serbato dal legislatore sull’applicabilità dell’art. 415-bis c.p.p.
nelle restanti ipotesi: infatti, poiché anche in mancanza di una comminatoria spe-
ciale il vizio per l’omissione dell’invio dell’avviso sarebbe comunque potuto di-
scendere dalle previsioni generali in tema di nullità, l’averlo previsto specificata-
mente può far supporre la volontà di escludere l’applicazione dell’istituto nei casi
diversi da quelli in cui la sua omissione determina la sanzione speciale, antepo-
nendo così alla fattispecie generale (inevitabilmente applicabile a tutte le ipotesi di
elevazione dell’imputazione) quella speciale.
Insomma, affermare o meno l’esistenza dell’obbligo di inviare l’avviso di
chiusura delle indagini a ogni fattispecie imputativa costituisce antecedente logico-
giuridico rispetto all’individuazione di un’eventuale sanzione per la sua omissione,
che scatterebbe solo sul presupposto dell’effettiva operatività dell’istituto: chiara
l’inversione logica riscontrabile laddove si volesse dedurre l’insussistenza dell’ob-
bligo in questione da una presunta mancanza di sanzione processuale per la sua
violazione, nel caso di specie neppure professabile, stante il generale disposto del-
l’art. 178, lett. c), c.p.p.
Se la volontà del legislatore è stata veramente quella di escludere l’applica-
zione dell’art. 415-bis c.p.p. alle modalità di esercizio dell’azione penale diverse
da quella ordinaria, bisogna verificare se il sacrificio di una disposizione di evi-
dente portata garantistica come quella contenuta nella norma in parola appaia cio-
nonostante rispettoso del principio di uguaglianza e del diritto di difesa: parametri
non a caso invocati dal giudice rimettente per sollevare l’incidente di costituziona-
lità di cui si sta discorrendo, anche se non minori perplessità suscita il raffronto
con quanto disposto dall’art. 111 Cost.
Nella pronuncia che si commenta la Corte costituzionale ha in primo luogo
affermato che le garanzie scaturenti dalla ‘‘sommaria enunciazione del fatto per il
quale si procede’’ di cui all’art. 415-bis c.p.p. sarebbero ‘‘ai fini della contesta-
zione del fatto (...) sostanzialmente analoghe’’ a quelle previste dall’art. 453 c.p.p.
per l’attivazione del giudizio immediato, e cioè la sussistenza dell’evidenza della
prova e il previo interrogatorio sui fatti dai quali essa emerge: asserzione sulla
quale, come si vedrà, si può anche convenire. A suscitare maggiore perplessità è,
invece, la successiva precisazione per la quale ‘‘l’unica differenza’’ a livello di ga-
ranzie difensive tra quanto stabilisce l’art. 415-bis c.p.p. e quanto consente l’iter
procedurale sotteso all’instaurazione del giudizio immediato sarebbe costituita dal

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deposito, previsto nella prima ipotesi, della documentazione delle indagini esple-
tate cui equivarrebbe la contestazione verbale degli elementi e fonti di prova con-
tenuta nell’invito a comparire ex art. 375, comma 3, ultima parte, c.p.p.: una volta
espletato l’interrogatorio, poi, l’indagato sarebbe in grado di esercitare tutte le ini-
ziative defensionali previste nelle indagini preliminari per contrastare l’evidenza
della prova ed evitare così di essere tratto a giudizio. Il tutto sotto il rassicurante
leitmotiv per il quale il confronto tra la serie dei diritti garantiti in via ordinaria e
quelli riconosciuti nei riti speciali non può non tenere conto degli specifici presup-
posti e della peculiare struttura di questi ultimi in generale, nonché, nel partico-
lare caso in esame, del giudizio immediato.
L’autorevolezza della fonte di provenienza suggerisce di sottoporre ogni sin-
gola affermazione dei giudici costituzionali ad un attento e approfondito esame, a
cominciare dall’asserita equipollenza tra la contestazione del fatto che ha luogo in
occasione dell’inoltro dell’invito a rendere l’interrogatorio e quella contenuta nel-
l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
3. Quando la persona sottoposta alle indagini è chiamata a rendere l’interro-
gatorio, il pubblico ministero provvede a notificarle l’invito a presentarsi con i
contenuti previsti dall’art. 375 c.p.p., il cui comma 3 impone la ‘‘sommaria enun-
ciazione del fatto’’: presentatasi per l’espletamento dell’incombente, la persona è
dunque già in possesso di una conoscenza embrionale dell’oggetto del dialogo con
l’inquirente tale da consentirle una ragionata scelta circa l’esercizio o meno del di-
ritto al silenzio garantito dalla lett. b), comma 3, dell’art. 64, c.p.p. Il collega-
mento diacronico tra l’insieme di avvertimenti previsti dal comma 3 dell’art. 64 e
le attività che il successivo art. 65 configura come prodromiche all’effettivo esple-
tamento dell’atto induce a concludere che, ove l’interrogando opti per il diritto al
silenzio, non troveranno luogo né la successiva contestazione del fatto ‘‘in forma
chiara e precisa’’ né la rivelazione delle fonti e degli elementi di prova: insomma
‘‘la dichiarazione dell’indagato di non voler rispondere preclude i momenti succes-
sivi’’ (7), anche per (continuare a) preservare il segreto interno delle indagini, che
non ha motivo di essere sacrificato laddove non vi siano da valorizzare contrappo-
ste esigenze di tutela della difesa (8). Secondo la disciplina generale, quindi, se

(7) DOMINIONI, sub artt. 64-65, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da
E. Amodio-O. Dominioni, I, Milano, 1989, p. 404; FELICIONI, Brevi osservazioni sull’esame dibattimen-
tale dell’imputato: l’operatività del diritto al silenzio, in Cass. pen., 1992, pp. 7-8; TRIGGIANI, Interrogato-
rio ‘‘nel merito’’: obbligo o facoltà per il giudice di porre direttamente domande all’indagato?, in Cass.
pen., 1997, p. 443; Cass., sez. II, 10 gennaio 2001, Ursino, ivi, 2002, p. 1763. Invece secondo MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 160, una consapevole scelta tra ius ta-
cendi e dichiarazione non può avvenire senza la preventiva contestazione dell’addebito, onde all’avverti-
mento di cui all’art. 64, comma 3, lett. b) c.p.p. dovrebbe comunque seguire la contestazione e la comuni-
cazione degli elementi a carico, qualunque sia la volontà dell’indagato di partecipare all’atto. In quest’ul-
timo senso anche MAZZA, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e di efficacia
probatoria, in questa Rivista, 1994, p. 843, per il quale la contestazione dell’addebito andrebbe fatta an-
che nel caso in cui l’interrogato ‘‘abbia impropriamente risposto all’avvertimento della facoltà di non ri-
spondere affermando la sua intenzione di avvalersi in toto della medesima’’; RUGGIERI, La giurisdizione di
garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996, pp. 170, 173; VARRASO, Interrogatorio in vinculis del-
l’imputato: tra istanze di difesa, esigenze di garanzia, ragioni di accertamento, in questa Rivista, 1999, p.
1392.
(8) Sul bilanciamento tra queste due antitetiche esigenze TONINI, Segreto, IV) Segreto investiga-
tivo, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1989, p. 1. Per una recente risottolineatura del carattere necessario del
segreto investigativo quale ‘‘contenuto nucleare del segreto processuale’’ GIOSTRA, Segreto, X) Segreto
processuale - Dir. proc. pen., in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1998, p. 4. Sulla base di queste considerazioni
è necessario, pertanto, evitare che attraverso la pubblicità data a un atto investigativo di scarso valore per
la difesa come il verbale di interrogatorio chiusosi con l’affermazione dello ius tacendi, possa venire inopi-
natamente meno il segreto delle indagini: ciò che avverrebbe se nel verbale di tale atto, depositato nella
cancelleria del p.m. procedente ex art. 366 c.p.p., dovesse rimanere traccia della parziale discovery effet-

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l’interrogatorio dovesse esaurirsi nella declinazione delle informazioni utili a iden-


tificare l’indagato, le uniche notizie di cui quest’ultimo resterebbe in possesso sul
procedimento a suo carico sarebbero quelle integranti la sommaria enunciazione
del fatto di cui all’invito a presentarsi. Per quel che concerne più da vicino il giudi-
zio immediato, il secondo periodo del comma 3 dell’art. 375, c.p.p. stabilisce che,
ai fini della richiesta di tale rito speciale, l’invito a comparire deve contenere ‘‘l’in-
dicazione degli elementi e delle fonti di prova’’ unitamente all’avvertimento che
potrà essere presentata richiesta di giudizio immediato. Pertanto, se le strategie
dell’accusa dovessero propendere per l’instaurazione di questo procedimento, l’in-
dicazione degli elementi e delle fonti di prova — anziché effettuata verbalmente
durante l’interrogatorio di merito — andrebbe anticipata scriptis nell’invito a com-
parire: corredo necessario al fine di preservare al p.m. la possibilità di accedere al
giudizio speciale anche nel caso in cui l’indagato reperibile ometta di comparire
all’interrogatorio senza addurre un legittimo impedimento. Sulla base di questo
ordito normativo si può verificare l’affermazione della Corte costituzionale circa la
presunta equipollenza a fini contestativi tra l’addebito contenuto nell’avviso di
chiusura delle indagini e quello nell’invito a presentarsi ex art. 375, comma 3,
c.p.p. Il primo si sostanzia in una ‘‘sommaria enunciazione del fatto per il quale si
procede, delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del
fatto’’, mentre il secondo nella ‘‘sommaria enunciazione del fatto quale risulta
dalle indagini fino a quel momento compiute’’: a dispetto della littera legis e a pre-
scindere dal momento in cui l’invito a presentarsi viene concretamente inoltrato,
devono ritenersi comprese in quest’ultima locuzione sia l’indicazione della data e
del luogo del fatto che delle norme asseritamente violate (9), atteso che da un lato
informazioni del genere costituiscono contenuto obbligatorio già dell’informa-
zione di garanzia (atto che per finalità e modalità cronologiche appare ben lontano
dalla soglia della contestazione) (10), dall’altro deve escludersi che il richiamo alla
sommarietà ‘‘possa consentire al p.m. di operare un riferimento al fatto in termini
inidonei a farne conoscere tutti gli aspetti giuridicamente rilevanti’’ (11), impe-
dendo così alla difesa di impostare la propria strategia in modo mirato.
Prima (e a prescindere) del concreto svolgimento dell’interrogatorio, per-
tanto, l’informazione sull’oggetto delle indagini fornita all’indagato raggiunto, ri-
spettivamente, da avviso di chiusura delle indagini e invito a presentarsi per essere
interrogato, può ritenersi, a fini contestativi, praticamente analoga (12): sul punto
non può pertanto che convenirsi con la Corte laddove teorizza l’equivalenza — ai
fini della conoscenza del fatto per cui si procede e della sua attribuibilità a un de-

tuata ai sensi dell’art. 65 c.p.p. In generale, sull’eterogeneità degli interessi che stanno alla base della tu-
tela del segreto, si veda già PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale, Milano, 1960, p. 143 ss.
(9) BONINI, sub art. 17, cit., p. 358; RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini prelimi-
nari, cit., p. 170.
(10) Secondo TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 349, con la contestazione dell’adde-
bito ex art. 415-bis c.p.p. l’indagato, ‘‘che poteva anche aver ricevuto soltanto un’informazione di garan-
zia, ha una migliore cognizione del fatto che gli è addebitato’’.
(11) MARZADURI, sub art. 2 l. 16 luglio 1997, n. 234, in Leg. pen., 1997, p. 760.
(12) Sulla base di questa considerazione BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in defla-
zione, cit., p. XLIV (ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 116), ritiene
ultroneo l’invio dell’invito a comparire con i contenuti stabiliti dall’art. 375, comma 3, c.p.p. per il caso di
interrogatorio richiesto dopo l’invio dell’avviso di chiusura delle indagini, considerando sufficiente ‘‘un
semplice avviso di fissazione dell’interrogatorio’’. Partendo dalle medesime premesse VERDOLIVA, L’avviso
all’indagato della conclusione delle indagini, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura pe-
nale, a cura di L. Kalb, I, Milano, 2000, p. 103, esclude la sussistenza della nullità ex art. 416 c.p.p. per
essere l’invito a presentarsi sprovvisto della parte informativa, poiché in tale fase esso assumerebbe solo
‘‘la funzione di fissazione dell’atto richiesto’’.

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terminato soggetto — tra le garanzie rispettivamente contenute nei due atti, con
conseguente inesistenza dei profili di illegittimità costituzionale prospettati.
4. Qualche dissenso suscita, invece, l’ulteriore affermazione della Corte se-
condo la quale ‘‘l’unica differenza’’ riscontrabile attiene al deposito degli atti d’in-
dagine previsto dalla prima e non dalla seconda disposizione: nulla di particolar-
mente grave di cui dolersi secondo i giudici costituzionali, atteso che a tale depo-
sito ‘‘fa riscontro, ove si ponga mente alla specificità del giudizio immediato, la
contestazione verbale degli elementi e delle fonti su cui si basa l’evidenza della
prova, richiamata dagli artt. 453 e 375 comma 3 c.p.p.’’. L’affermazione non può
essere condivisa: intendendo l’aggettivo ‘‘verbale’’ come riferito alla parola quale
modalità di comunicazione contrapposta ai gesti (indipendentemente dalla forma
orale o scritta che essa in concreto assume), integrerebbe senz’altro una contesta-
zione verbale la parafrasi degli elementi e fonti di prova che deve contenere l’in-
vito a comparire nel caso in cui il pubblico ministero intenda avanzare richiesta di
giudizio immediato, così come stabilito dall’ultima parte dell’art. 375, comma 3,
c.p.p.: tuttavia una cosa è comunicare verbis all’indagato un complesso di infor-
mazioni sintetiche sugli elementi e fonti di prova, altro renderlo pienamente
edotto del contenuto degli stessi mediante il deposito degli atti ex art. 415-bis
c.p.p.
A questo punto per ottenere una conoscenza più dettagliata e analitica sulla
piattaforma probatoria di quella fornita dall’ultima parte dell’art. 375, comma 3,
c.p.p., il soggetto destinatario dell’avviso potrebbe acconsentire ad essere interro-
gato: tuttavia, a prescindere dal carattere più o meno difensionale o investigativo
che si è inclini ad attribuirgli, è alquanto improbabile che l’interrogatorio avvenga
secondo le sequenze more geometrico puntigliosamente enucleate dalla legge. Esso
si atteggia piuttosto come un atto fluido, gestito monopolisticamente dall’autorità
procedente sulla base di elementi investigativi fatti filtrare all’indagato in una pro-
spettiva fisiologicamente tesa a convalidare l’ipotesi accusatoria (13), di tal che
‘‘ogni negazione smentita dai dati occulti in mano all’interrogante costitui(sce) in-
dizio’’ (14) valido a screditare l’interrogato e la sua versione dei fatti: a quest’ul-
timo proposito la giurisprudenza ha avuto modo di confermare prassi che si disco-
stano variamente dalla sequenza delineata dalla legge, avallando da un lato ‘‘una
preventiva descrizione soltanto sommaria ed alquanto ‘‘abbottonata’’ dei presunti
elementi a carico’’ (15); consentendo dall’altro che la contestazione dell’addebito
avvenga in vari momenti comunque successivi a quello in cui l’indagato si sia di-
chiarato disposto a parlare (16).

(13) Sulla tendenza dell’accusa a rimanere ancorata alla propria ipotesi ricostruttiva, che ‘‘funge
da punto prospettico di fuga al quale vengono piegati i fatti, che altrimenti porterebbero ad itinerari inve-
stigativi differenti’’ si veda, con suggestivi riferimenti ai meccanismi psicologici e scientifici tesi a giustifi-
care un simile modus operandi GIOSTRA, Quale contraddittorio dopo la sentenza n. 361/1998 della Corte
costituzionale?, in Quest. giust., 1999, p. 203.
(14) In tal senso, seppure con riferimento a un certo stile inquisitoriale degli interrogatori cele-
brati nei confronti dei sospetti untori nella Milano del 1630, CORDERO, Procedura penale, cit., p. 247.
(15) Così, criticamente, MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit.,
p. 159; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari,
cit., p. 129. Sintomatica di questa tendenza è la prassi, avallata dalla giurisprudenza della Suprema Corte,
di ritenere valido l’interrogatorio condotto dal giudice delegato ex art. 294, comma 5, c.p.p. senza il fasci-
colo delle indagini, purché vi sia stata una chiara contestazione dell’addebito effettuabile sulla base del
contenuto dell’ordinanza custodiale: Cass., sez. VI, 16 ottobre 1998, Fraddosio, in Cass. pen., 2000, p.
707; Cass., sez. V, 22 maggio 1997, Miozzo, ivi, 1999, p. 926.
(16) La prassi fornisce molteplici esempi, come quelli contenuti in Cass., sez. VI, 22 gennaio
1992, Frati, in Giur. it., 1993, II, c. 69; Cass., sez. fer., 14 settembre 1993, Maiolo, in Cass. pen., 1994,
p. 2496; Cass., sez. I, 29 settembre 1994, Profilo, in Ced Cass., 199866. Nettamente contraria la dottrina,

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Rispetto all’interrogatorio espletato ex art. 415-bis c.p.p., che è istituzional-


mente situato al termine delle indagini, quello finalizzato all’instaurazione del giu-
dizio immediato può trovare luogo in qualsiasi fase anteriore alla conclusione del-
l’indagine (17): ciò comporta che il momento dal quale la difesa è messa in condi-
zione di esercitare le proprie garanzie difensive viene in un caso prestabilito ex
lege, nell’altro dipende da una scelta discrezionale dell’accusa, sulla quale influi-
scono logiche di parte interne alla stessa funzionalità di ogni singola indagine.
Infine, l’interrogatorio espletato ex art. 453 c.p.p. verte non sull’intero tema
che costituirà la regiudicanda processuale, ma sui ‘‘fatti dai quali emerge l’evi-
denza della prova’’: locuzione criptica che parrebbe indicare quegli avvenimenti
storici oggetto dell’indagine la cui esistenza appare dimostrata da elementi di
prova tali da legittimare la celebrazione del giudizio senza passare per il filtro del-
l’udienza preliminare (18). Il dialogo con l’interrogante potrebbe quindi limitarsi a
investire quelle sole circostanze fattuali utili alla richiesta del rito al fine di sag-
giarne il grado di concludenza probatoria imposto dalla legge, senza che si renda
necessaria un’ostensione di tutto il materiale probatorio in riferimento a ogni se-
quenza fattuale oggetto dell’indagine (19): a meno di non voler appiattire la spe-
cies di interrogatorio prevista dall’art. 453 c.p.p. sul più ampio genus dell’atto
quale tipica manifestazione dell’attività investigativa, obliterando così le peculia-
rità che il legislatore sembra avergli voluto attribuire (20).
Se così stanno le cose, non si può condividere quanto sostenuto dall’ordi-
nanza in commento, secondo la quale la conoscenza verbale (cioè ‘‘espressa a pa-
role’’) degli atti investigativi che avviene in occasione dell’invito a rendere l’inter-
rogatorio costituirebbe un surrogato del deposito degli stessi che avviene ai sensi
del comma 2 dell’art. 415-bis c.p.p., determinato dalla ‘‘specificità del giudizio im-

che teorizza una rigorosa e inderogabile applicazione del procedimento individuato dagli artt. 64-65
c.p.p.: AIMONETTO, nota di commento a Cass., sez. VI, 22 gennaio 1992, Frati, cit., p. 70; DOMINIONI, sub
artt. 64-65, cit., pp. 406-407; LORUSSO, Interrogatorio della persona sottoposta alle indagini preliminari e
comunicazione delle fonti di prova, in Cass. pen., 1995, p. 3422; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’in-
dagato e alternative al silenzio, cit., p. 158; RANCATI, Imputato e ‘‘indagato’’, in Protagonisti e compri-
mari del processo penale, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiava-
rio-E. Marzaduri, Torino, 1995, p. 167.
(17) Finanche nelle sue primissime battute, allorquando venga eseguito il fermo o l’arresto e l’in-
terrogatorio effettuato in tale occasione viene considerato idoneo a supportare la richiesta di giudizio im-
mediato da parte del p.m.: si veda, al proposito, la giurisprudenza riportata infra, nota n. 20.
(18) In questo senso, tra i tanti, variamente: CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1043; DALIA,
Giudizio immediato, in AA.VV., I procedimenti speciali, a cura di A. Dalia, Napoli, 1989, p. 236; GAITO,
Riti alternativi, II) Giudizio immediato, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1989, p. 2; IACOVIELLO, Evidenza
della prova e decidibilità allo stato degli atti nella conversione del giudizio immediato in abbreviato, in
Cass. pen., 1992, pp. 691-692; ILLUMINATI, Il giudizio immediato, in AA.VV., I riti differenziati nel nuovo
processo penale, Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Salerno, 30 set-
tembre-2 ottobre 1988), Milano, 1990, pp. 150-152; MARAFIOTI, Evidenza della prova ed interrogatorio
dell’imputato nel giudizio immediato su richiesta del p.m., in AA.VV., I giudizi semplificati, coordinato
da A. Gaito, Padova, 1989, pp. 273-274; PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in AA.VV.,
I giudizi semplificati, cit., p. 221; VALENTINI REUTER, Il diritto di difesa a fronte del decreto che dispone il
giudizio immediato, in Giur. it., 1993, II, c. 327 ss. In giurisprudenza: Cass., sez III, 2 febbraio 2001, Pe-
droza, in Cass. pen., 2002, p. 1762; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, ivi, 1998, p. 3103; Cass., sez.
I, 15 aprile 1993, Ceraso, ivi, 1994, p. 2141.
(19) Con l’ulteriore conseguenza, sottolineata da LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 486,
per la quale sul pubblico ministero non graverebbe, oltre all’obbligo di contestare i fatti comportanti l’evi-
denza della prova, anche quello di enunciare all’interrogato gli esatti termini della valutazione di evidenza
ad essi sottesa.
(20) Un sentore di questo fenomeno è riscontrabile nell’asserita e ormai pacifica equipollenza del-
l’interrogatorio eseguito dal giudice in sede precautelare con quello espletato dal p.m. ai fini di una valida
richiesta di giudizio immediato: Cass., sez. III, 2 dicembre 1999, Fusco, in Cass. pen., 2001, p. 1278;
Cass., sez. IV, 16 ottobre 1997, Hristowski, ivi, 1999, p. 1861; Cass., sez. VI, 11 febbraio 1994, Dionani,
ivi, 1996, p. 850; Cass., sez. VI, 30 settembre 1993, Palma, ivi, 1995, p. 324; Cass., sez. V, 3 marzo
1992, Giannoccaro, in Giur. it., 1994, II, c. 224.

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mediato’’: le differenti modalità attraverso le quali il soggetto sottoposto alle inda-


gini viene a conoscenza degli elementi e fonti di prova non possono essere ritenute
equivalenti, né l’effettivo espletamento dell’interrogatorio sembra in grado di col-
mare l’iniziale deficit determinato da quella conoscenza degli elementi di prova
soltanto sintetica fornita dall’invito a comparire, in luogo di quella integrale ga-
rantita dal deposito ex art. 415-bis c.p.p.
5. A quest’ultimo proposito appare ancor meno condivisibile l’affermazione
— evidentemente tesa a convalidare ex post le precedenti — secondo la quale ‘‘a
seguito dell’interrogatorio’’ (quindi parrebbe solo dopo il suo effettivo espleta-
mento), la persona sottoposta alle indagini al fine ‘‘di evitare di essere tratta a giu-
dizio, è posta in condizione di esercitare le più opportune iniziative defensionali
previste in via generale nel corso delle indagini preliminari, dalla presentazione di
memorie e richieste scritte al pubblico ministero alle attività di sollecitazione pro-
batoria e alle investigazioni difensive’’: essa postula un’identità di condizione tra
l’indagato raggiunto dalla notifica dell’avviso di chiusura delle indagini e quello
che si sia sottoposto a interrogatorio ex artt. 375, comma 3 e 453 c.p.p. — en-
trambi asseritamente in grado di evitare in egual modo di essere rinviati a giudizio
— che appare invece smentita sia da quanto sopra sostenuto che da una serie di
ulteriori e decisive considerazioni.
Innanzitutto, se le cose stessero veramente come affermato dai giudici di pa-
lazzo della Consulta, nel caso in cui il pubblico ministero avesse già espletato l’in-
terrogatorio investigativo non sarebbe tenuto all’invio dell’avviso di chiusura delle
indagini: ma una simile conclusione è smentita dall’art. 415-bis c.p.p., il quale non
subordina l’obbligo di notificare l’avviso da esso disciplinato al compimento o
meno di specifici atti d’indagine come l’interrogatorio, e fa ritenere di conse-
guenza ‘‘del tutto irrilevante’’ (21) un’eventuale pregressa conoscenza della pen-
denza di un procedimento a suo carico da parte dell’indagato. Ciò porterebbe a
configurare l’interrogatorio eseguito nell’ambito del sub-procedimento innestato
dall’art. 415-bis c.p.p. come atto che non conosce equipollenti, con conseguente
inaccettabilità della ‘‘equiparazione a quello del p.m. ex art. 375, comma 3, c.p.p.
di altri interrogatori svolti nel corso delle indagini preliminari anche del giudice di
fase’’ (22): insomma, attesa ‘‘la diversa finalità dell’atto e la sua differente colloca-
zione sistematica’’ (23) a uscirne modificata parrebbe essere la stessa ‘‘fisionomia
dell’istituto’’ (24).
Così ragionando, poi, non si tiene conto del fatto che in un caso l’eventuale
interrogatorio è preceduto da un’integrale conoscenza degli atti d’indagine, nell’al-
tro da un’indicazione scritta necessariamente sintetica degli elementi e fonti di
prova, eventualmente suscettibile di essere integrata nel momento stesso in cui si
svolge l’atto: circostanza che non può non riverberarsi sia sull’atteggiamento psi-
cologico dell’interrogato che sulla propensione dell’autorità procedente a credere

(21) SPANGHER, sub artt. 17-18, in AA.VV., Il processo penale dopo la ‘‘legge Carotti’’, in Dir.
pen. e proc., 2000, p. 186.
(22) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
509, nota n. 13; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione, cit., p. XLII; ID., Chiusura
delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 111; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investi-
gativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 282, nota n.
99; MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, in Leg. pen., 2000, p. 248; NUZZO, L’avviso di
conclusione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 680; SPAN-
GHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit.,
p. 75.
(23) SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187.
(24) GIORDANO, Indagini: dimezzato il pubblico ministero, in Guida al dir., n. 1, 2000, p. XXXIV.

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a quanto riferitole, in ossequio al tralatizio cliché di chiara ascendenza inquisitoria


per il quale a un atto meno garantito corrispondono dichiarazioni più spontanee e
veritiere (25).
Inoltre — e si è così giunti al fulcro della questione — la comunicazione ver-
bale (questa volta da intendersi nel senso di ‘‘orale’’) degli elementi d’indagine e
delle fonti che avviene nel corso dell’interrogatorio non può in alcun modo equi-
pararsi alla discovery imposta dall’art. 415-bis c.p.p. per ragioni così evidenti che
appare perfino superfluo ribadire (26): insomma per quanto questa costituisca
‘‘l’unica differenza’’ tra le due sequenze procedurali in esame, non può essere svi-
lita e ridotta al rango di mera diversità attinente le modalità di attuazione di un di-
ritto comunque riconosciuto ed esercitabile in uguale misura.
Alla notifica dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. segue, infatti, il deposito
di tutto il materiale cartaceo costituente il risultato delle indagini (27) e la conse-
guente possibilità per la parte di prenderne visione ed estrarne copia, consenten-
dole uno studio approfondito e meditato; nel caso di interrogatorio ex art. 453
c.p.p., invece, la pur auspicabile comunicazione completa ed esaustiva dei dati di
fatto e dei risultati delle investigazioni è affidata alla comunicazione verbale del-
l’autorità procedente che non assicura — stante l’assenza di espresse sanzioni in
proposito — l’an, il quantum né il quomodo dell’effettivo espletamento dell’in-
combente. Di conseguenza le iniziative difensive intraprese dopo l’interrogatorio
sorgono quasi ‘‘al buio’’ (28), sulla base cioè degli scarni riferimenti probatori im-
posti dall’ultima parte dell’art. 375, comma 3, c.p.p. ovvero di quegli altri even-
tualmente emersi nel corso dell’atto, quelle successive alla ricezione della notifica
dell’avviso di chiusura delle indagini sulla scorta di una preventiva e piena cono-
scenza delle investigazioni: ciò che non può non determinare un differente grado
di consapevolezza e profondità della valutazione sulla strategia difensiva da av-
viare.
Infine, che il soggetto interrogato ex art. 453 c.p.p. possa presentare memorie

(25) MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 157, il quale de-
nuncia la propensione a rendere l’interrogatorio ‘‘il più possibile veicolo di ammissioni o, almeno, di ulte-
riori spunti investigativi da parte dell’interrogato’’. Degenerazione patologica di tale situazione è rappre-
sentata dal possibile uso degli strumenti cautelari per ottenere confessioni e delazioni, denunciato per
esempio da GREVI, Diritto al silenzio ed esigenze cautelari nella disciplina della libertà personale dell’im-
putato, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari,
Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale (Catania, 30 settembre-2 ottobre
1993), Milano, 1995, p. 19 ss.; LOZZI, Conclusioni, ivi, pp. 209-219; ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali
in tema di libertà personale e di ricerca della prova, ivi, p. 64 ss.
(26) Esemplificativa al proposito è la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 293, comma 3,
c.p.p. nella parte in cui non prevede(va) la facoltà per il difensore di estrarre copia degli atti presentati
con la richiesta del pubblico ministero di applicazione di una misura cautelare, al fine di rendere attuabile
un’adeguata e informata assistenza e difesa del soggetto in vinculis all’interrogatorio espletato ex art. 294
c.p.p.: Corte cost., sent. 24 giugno 1997, n. 192, in Cass. pen., 1997, p. 2983 accolta favorevolmente, tra
gli altri, da DI CHIARA, Deposito degli atti e ‘‘diritto alla copia’’: prodromi del contraddittorio e garanzie
difensive in una recente declaratoria di incostituzionalità, in Giur. cost., 1997, p. 1883; GIARDA, Un’altra
tessera di garantismo per la libertà personale dell’imputato, in questa Rivista, 1998, p. 1022; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 178.
(27) Per questa precisazione si vedano: CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedi-
menti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 276; KOSTORIS, Udienza pre-
liminare e giudizio abbreviato, snodi problematici della riforma, in AA.VV., Nuovi scenari del processo
penale alla luce del giudice unico, cit., p. 41; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative
al silenzio, cit., p. 265; MARANDOLA, Due significative novità per il processo penale: l’avviso della chiu-
sura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giudice dell’udienza preliminare, cit., p.
1131; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 81-82. In giurispru-
denza Trib. Catanzaro, ord. 21 agosto 2000, in Giust. pen., 2001, III, p. 60, con nota adesiva di MURONE,
Note in tema di omesso deposito di atti di indagine ex art. 415-bis c.p.p.
(28) L’efficace immagine si deve a MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al
silenzio, cit., p. 160.

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e richieste scritte al pubblico ministero, sollecitare acquisizioni probatorie e svol-


gere investigazioni difensive è constatazione tanto incontestabile quanto inconfe-
rente ai fini di cui si tratta. Invero sono attività che rientrano nelle prerogative
esercitabili dalla difesa nel corso delle indagini preliminari garantite da un venta-
glio di disposizioni codicistiche la cui applicabilità non è stata mai revocata in
dubbio: l’art. 367 c.p.p. facoltizza i difensori a presentare memorie e richieste
scritte al pubblico ministero anche per sollecitare accertamenti su fatti e circo-
stanze a favore della persona sottoposta alle indagini ai sensi dell’art. 358 c.p.p.,
mentre il titolo VI-bis del libro quinto conferisce al difensore una serie di poteri
per compiere direttamente indagini a favore del proprio assistito. Il clou dell’inno-
vazione normativa non va pertanto cercato in un ampliamento dei poteri ricono-
sciuti alla parte privata nella fase delle indagini — che continua ad essere ‘‘una
fase sostanzialmente riservata, nel senso che gli spazi di partecipazione difensiva
sono pur sempre quelli originariamente individuati’’ (29) —, quanto in un inedito
accrescimento qualitativo dell’intervento difensivo, attualmente operabile cognita
causa: infatti ben diverso sarà il grado di consapevolezza e profondità delle inizia-
tive poste in essere dall’indagato che è a conoscenza dell’intero fascicolo rispetto a
quello in possesso delle sole informazioni fatte trapelare da chi lo ha convocato e
ha condotto l’interrogatorio, con tutte le conseguenze in punto di affidabilità delle
istanze avanzate nonché della loro capacità di indirizzare efficacemente l’esito
delle indagini a favore della propria ipotesi ricostruttiva.
6. È ormai chiaro che la valutazione delle conseguenze derivanti dall’omessa
previsione dell’obbligo di notifica dell’avviso di chiusura delle indagini nel giudi-
zio immediato viene a dipendere dall’effettiva capacità che si è inclini a ricono-
scere a questo istituto di influire efficacemente sulle sorti delle indagini prelimi-
nari, evitando al soggetto sottopostovi di essere rinviato a giudizio.
Accanto a qualche voce critica che vede nell’avviso disciplinato dall’art. 415-
bis c.p.p. un adempimento ingiustificato (30), farraginoso (31), potenzialmente
dannoso per la difesa (32), frutto di ‘‘un garantismo vieux style’’ (33), se ne è per-
lopiù accolta con favore l’introduzione in considerazione del fatto che: assicura
alla persona sottoposta alle indagini di ‘‘difendersi apportando il materiale proba-
torio a discarico nel proposito di evitare che il pubblico ministero si determini a
formulare l’imputazione’’ (34), con la conseguenza di evitare ‘‘inutili udienze pre-
liminari che venivano disposte per l’inesistenza di un contraddittorio anticipa-

(29) In tal senso DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva
anticipazione della ‘‘soglia di giudizio’’, in AA.VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale,
cit., p. 7. Non è neppure mancato chi ha visto nella vigente disciplina i segnali di ‘‘una parziale retroces-
sione di tutela’’ sull’interrogatorio investigativo, reso ormai obbligatorio solo in presenza di una congrua
richiesta dell’indagato: così BONINI, sub art. 17, cit., p. 359.
(30) SALVI, Luci ed ombre di un convulso fine di legislatura, in Leg. pen., 2001, p. 491.
(31) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248; NUZZO, L’avviso di conclu-
sione delle indagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 687.
(32) DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva anticipa-
zione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 9, per il quale l’eventuale inerzia difensiva rischia di ‘‘fortificare
(...) la pretesa punitiva rivolta al giudice’’.
(33) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 881.
(34) AMODIO, Lineamenti della riforma, in AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive, Milano,
2000, p. 26. Nello stesso senso, con varietà di sfumature: BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova
udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p. 504; BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso
della conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 129; BONINI, sub art. 17, cit., 353; BRICCHETTI,
Udienza preliminare protagonista in deflazione, cit., p. XLII; ID., Chiusura delle indagini preliminari e
udienza preliminare, cit., p. 108; CASARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, in
AA.VV., Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 79; GIORDANO, Indagini: dimezzato il pubblico mini-
stero, cit., p. XXXIV; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 264;

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to’’ (35); aumenta ‘‘le chances offerte all’indagato di intervenire nella formazione
del materiale investigativo’’ (36), contribuendo altresì all’auspicata completezza
degli atti d’indagine attraverso la prospettazione di una versione alternativa a
quella colpevolista implicita nel presupposto dell’accusa di non dovere formulare
richiesta di archiviazione (37). Puntuali le smentite sull’effettiva capacità di rag-
giungere gli obiettivi preconizzati: sotto il primo angolo visuale l’accusatore par-
rebbe ‘‘già ‘orientato’ piuttosto che ‘da orientare’ ’’ (38) e ‘‘il cammino della di-
fesa è in salita’’ (39), onde si è individuata quale sede maggiormente garantita per
la difesa quella dell’udienza preliminare, con i vasti poteri di istruzione probatoria
esercitabili in tale sede e una regola di giudizio che consente ormai un ampio ri-
corso al non luogo a procedere (40); dall’altro si è posto in dubbio che il pubblico
ministero sia in un simile frangente il soggetto maggiormente indicato cui indiriz-
zare i risultati delle indagini difensive e le istanze probatorie (41). A quest’ultimo
proposito — senza addentrarsi troppo in una problematica in cui a entrare in di-
scussione sono la stessa natura e le finalità dell’organo dell’accusa (42) — appare
lecito supporre che quello che procede all’interrogatorio chiesto da una difesa che
ha ormai piena conoscenza degli atti sia un pubblico ministero ‘‘che deve abban-
donare impostazioni esclusivamente accusatorie’’ (43), anche per non incappare
in quella valutazione di incompletezza delle indagini che legittimerebbe, da parte
del giudice dell’udienza preliminare, l’emanazione dell’ordinanza ex art. 421-bis
c.p.p. (44) (nonché nella possibile avocazione dell’organo superiore); quando non

MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedimenti alternativi, in Dir. pen. e
proc., 2002, p. 608; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., p. 87.
(35) GIARDA, Il ‘‘decennium bug’’ della procedura penale, in AA.VV., Il nuovo processo penale
davanti al giudice unico, cit., p. 12.
(36) CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di con-
clusione delle indagini preliminari, cit., p. 267.
(37) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
504; BONINI, sub art. 17, cit., p. 354; CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti con-
tro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 270; CASARTELLI, Nuove garanzie di-
fensive nelle indagini preliminari, cit., pp. 79-80; DI BITONTO, Il pubblico ministero nelle indagini prelimi-
nari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Cass. pen., 2000, pp. 2862-2863; PIATTOLI, L’avviso di con-
clusione delle indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase
procedimentale, cit., pp. 58-61; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 351.
(38) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248.
(39) DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’effettiva anticipa-
zione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 8.
(40) MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 249; SALVI, Luci ed ombre di un
convulso fine di legislatura, cit., p. 491.
(41) In tal senso, con varietà di motivazioni: BONINI, sub art. 17, cit., pp. 354, 359; CAPRIOLI,
Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini
preliminari, cit., pp. 271, 283; DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indagini e l’ef-
fettiva anticipazione della ‘‘soglia di giudizio’’, cit., p. 9; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e
alternative al silenzio, cit., pp. 269, 282; NUZZO, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari ov-
vero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., pp. 680, 687; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle
indagini preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale,
cit., pp. 59, 63; SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 186. In senso contrario VERDOLIVA, L’avviso all’inda-
gato della conclusione delle indagini, cit., pp. 83, 105.
(42) Per un excursus si veda, da ultimo, NOBILI, Recenti orientamenti in tema di pubblico mini-
stero ed esercizio dell’azione penale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 173 ss.
(43) MARZADURI, sub art. 2, cit., p. 760. Da questo angolo visuale non si è mancato di intravedere
in quello disciplinato dall’art. 415-bis c.p.p. un istituto in grado di rivitalizzare in qualche modo l’evane-
scente disposto dell’art. 358 c.p.p.: AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 27; BONINI, sub art. 17, cit.,
pp. 354, 359; CASARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 79; MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 269.
(44) Sarebbe questo, secondo TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 351, il possibile esito
di quella sorta di ‘‘ultimatum’’ che la difesa lancia all’accusa nel momento in cui avanza ex art. 415-bis
c.p.p. le proprie richieste probatorie e queste dovessero rimanere inascoltate; DI BITONTO, Il pubblico mi-
nistero nelle indagini preliminari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit., p. 2864; MARAFIOTI, Scelte au-

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l’attivazione dei poteri istruttori di cui all’art. 422 c.p.p., concepiti in funzione
della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (45). Considerazioni del
genere non possono non valere, a fortiori, laddove la pubblica accusa decida di in-
staurare il giudizio immediato sulla base di una valutazione che, seppure non pre-
ceduta dall’invio dell’avviso di chiusura delle indagini, è pur sempre sottoposta al
vaglio giurisdizionale: la condizione di evidenza probatoria prevista dall’art. 453
c.p.p. lascia supporre che ‘‘sarà lo stesso p.m. a poter costruire lo stato di evi-
denza quale risultato di una indagine preliminare (...) tipica, tendenzialmente
esaustiva (...) dove solo la scrupolosa ricerca degli eventuali elementi a discarico
vale a scongiurare il pericolo di puntigliose discussioni e contestazioni difensi-
ve’’ (46).
Insomma, nell’approccio alle richieste formulate ex art. 415-bis c.p.p. l’or-
gano dell’accusa dovrà tenere nella massima considerazione le possibili integra-
zioni al proprio fascicolo attuabili in sede di udienza preliminare, ispirandosi ‘‘ad
una particolare ‘qualificata’ probable cause’’ (47): obiettivo cui appare funzionale
una — per quanto non obbligata (48) — scrupolosa e approfondita presa di con-
tatto con le allegazioni fattuali e le istanze probatorie avanzate dalla difesa (sem-
pre che questa abbia deciso di esercitare i poteri attribuitile dall’art. 415-bis
c.p.p.) (49).
Al di là delle ‘‘poche certezze (e) molti interrogativi’’ (50) che la disposizione
contenuta nell’art. 415-bis c.p.p. per più versi suscita, essa appare comunque in
grado di mettere in crisi il precedente assioma per il quale ‘‘chi non sa di essere in-

todifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 281; SCALFATI, La riforma dell’udienza prelimi-
nare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., pp. 2820, 2828.
(45) AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 28; NUZZO, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 681.
(46) GAITO, Riti alternativi, II) Giudizio immediato, cit., p. 2.
(47) MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 278; GIORDANO,
Indagini: dimezzato il pubblico ministero, cit., p. XXXIV, per il quale il significato ultimo dell’art. 415-
bis c.p.p. è quello di ‘‘spingere il p.m. verso una maggiore completezza delle indagini’’.
(48) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
503; BONINI, sub art. 17, cit., pp. 359, 361; BRICCHETTI, Udienza preliminare protagonista in deflazione,
cit., p. XLIV; ID., Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 108; CAPRIOLI, Nuovi
epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari, cit., p. 283; CORDERO, Procedura penale, cit., p. 880; KOSTORIS, Udienza preliminare e giudizio ab-
breviato, snodi problematici della riforma, cit., p. 41; MANNUCCI, Brevi considerazioni sulle modifiche ap-
portate al procedimento penale dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, in Cass. pen., 2000, p. 1502; MAN-
ZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 247; MARANDOLA, Due significative novità per il
processo penale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giu-
dice dell’udienza preliminare, cit., pp. 1131-1132; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preli-
minari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 62;
SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., pp. 349-350. Contra,
con varietà di motivazioni e conclusioni: AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., pp. 27-28; BARBUTO,
Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 132; CASAR-
TELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 84; E. VALENTINI, Il diritto al contrad-
dittorio nel procedimento per decreto penale a confronto con le recenti modifiche normative, in Cass.
pen., 2000, p. 2005; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., p. 105.
(49) A questo proposito si è giustamente sottolineato: a) che in tal modo si verrebbe a configu-
rare in capo alla difesa una ‘‘indebita spinta a ‘‘cooperare’’ alla completezza delle indagini’’ (MARAFIOTI,
Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 275) per di più con un soggetto il cui
operato non appare scevro da logiche di parte e strategie tese a rimodellare eventualmente in chiave accu-
satoria elementi di prova potenzialmente pro reo; b) che comunque, vista la tardività dell’avviso, ‘‘la pista
investigativa favorevole all’indagato potrebbe risultare non più utilmente praticabile’’ (CAPRIOLI, Nuovi
epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari, cit., pp. 281-282).
(50) SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 186.

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dagato non pensa a difendersi’’ (51): il progressivo avanzamento di tutela della


persona assoggettata a procedimento, culminato con l’istituto disciplinato dall’art.
415-bis c.p.p. (52), rivela come sia quello di evitare per quanto possibile che un
soggetto si trovi sottoposto a processo penale il valore fondante e l’obiettivo pre-
minente avuto di mira dal legislatore (53). Che poi tale situazione sia stata gene-
rata dalla cattiva coscienza di chi è ben consapevole che gli elementi di prova si
formano ormai nel corso delle indagini preliminari e non (più) nel dibattimento
appartiene al novero delle certezze: quel che conta è la previsione concreta di un
coinvolgimento fattivo dell’indagato in un momento anteriore all’adozione di un
provvedimento, come quello di rinvio a giudizio, che ‘‘ne compromette grave-
mente la posizione giuridica e sociale’’ (54).
Il diritto del cittadino a essere posto in grado ‘‘di esplicare previamente la sua
difesa nella più riservata fase istruttoria e di tentare così di evitare il dibattimen-
to’’ (55) trova fondamento nell’enunciazione del diritto di difesa consacrato nel-
l’art. 24 Cost. e si raccorda funzionalmente con quello diretto a garantire alla
parte una tempestiva informazione dell’addebito e disporre del tempo e delle con-
dizioni necessarie per difendersi (art. 111 Cost.) (56), consentendole così di ‘‘in-
tervenire consapevolmente prima della chiusura di ogni fase che possa comportare
la perdita di chances difensive’’ (57): ne consegue che l’originario diritto all’assi-
stenza difensiva contenuto nell’art. 24 Cost., pur rimasto estraneo all’opera di re-
visione costituzionale, dovrà ‘‘essere apprezzat(o) in una prospettiva di effettività,
stante il riferimento generale al ‘giusto processo’ ’’ (58). Un’attuazione a livello di
legislazione ordinaria di un tale coacervo di direttive costituzionali è stata rinve-
nuta proprio nell’istituto disciplinato dall’art. 415-bis c.p.p. (59), in ossequio alla

(51) CORSO, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?, in


Ind. pen., 1999, p. 1078.
(52) Per un sintetico ed efficace excursus si veda CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa:
procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., pp. 266-267.
(53) Significativo al proposito — pur se riguardante la cronologicamente anteriore e meno trau-
matica assunzione della qualifica di indagato — è il pudore linguistico adoperato dal legislatore nell’evi-
tare la riproposizione del termine ‘‘indiziato’’ con i ‘‘costi umani ed economici che l’acquisizione formale
dello status di indiziato ha comportato in rapporto agli effetti perversi che nella pratica sono talora conse-
guiti all’istituto della comunicazione giudiziaria’’: KOSTORIS, sub art. 61, in Commento al nuovo codice di
procedura penale, coordinato da M. Chiavario, I, Torino, 1989, p. 315; RIVELLO, Persona sottoposta alle
indagini, in Dig. pen., IX, Torino, 1995, pp. 554, 556; ZAPPALÀ, Le garanzie giurisdizionali in tema di li-
bertà personale e di ricerca della prova, cit., pp. 54-55.
(54) CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di con-
clusione delle indagini preliminari, cit., p. 269; D’ANDRIA, sub art. 555, in Commento al nuovo codice di
procedura penale, coordinato da M. Chiavario, aggiornamento IV, Torino, 1998, pp. 137, 140; MARZA-
DURI, sub art. 2, cit., p. 758. A imporsi, insomma, è l’interesse fondamentale di un soggetto a non assu-
mere arbitrariamente la qualifica di imputato che, al di là dell’eco provocata dai mezzi di comunicazione
— evenienza di non così significativa ricorrenza statistica — costituisce comunque uno status cui conse-
guono effetti negativi per chiunque lo rivesta: preoccupazioni del genere sono state tenute in grande con-
siderazione dal legislatore, che ha cercato di individuare con la maggior precisione possibile gli atti idonei
a far acquistare la veste di imputato, evitando così incertezze e ambiguità in una materia tanto delicata.
Sembra non farsi carico di simili preoccupazioni CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari
nella prospettiva del ‘‘giusto processo’’, cit., p. 688, allorquando afferma che ove il p.m. non dovesse dare
seguito alle istanze difensive avanzate ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p. ‘‘il danno essenziale che ne verrebbe
sarebbe solo quello di una non tempestiva liberazione dall’addebito’’.
(55) VASSALLI, Intorno al diritto di difesa giudiziaria nella fase istruttoria dei procedimenti penali,
in Giust. pen., 1953, III, p. 317, il quale seguita affermando che tale diritto prevale sulle esigenze di spe-
ditezza processuale o altre analoghe esigenze di ordine pubblico.
(56) Ritiene che la previsione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. risulta, in seguito all’inter-
polazione dell’art. 111 Cost., ‘‘arricchita, completata e specificata’’ SPANGHER, Il ‘‘giusto processo’’ pe-
nale, in Studium iuris, 2000, p. 257.
(57) MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 782.
(58) MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 775.
(59) CASARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 81; MANNUCCI, Brevi

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generale tendenza interpretativa a leggere la produzione legislativa, soprattutto


successiva alla legge di riforma costituzionale, il più possibile in attuazione delle
garanzie del giusto processo: affinché queste non restino vuote declamazioni di
principio è quindi necessario configurare i vari istituti processuali in modo tale
che ‘‘attraverso il percorso segnato dalle predette garanzie, si possa di regola rag-
giungere l’obiettivo di un ‘processo giusto’ ’’ (60).
7. Alla luce di tutte le osservazioni finora svolte si può riconsiderare critica-
mente la conclusione rassegnata dalla Corte costituzionale nell’ordinanza che si
commenta. In realtà il problema dell’ambito di estensione dell’art. 415-bis c.p.p.,
prima ancora che in giurisprudenza, era stato avvertito in dottrina, in seno alla
quale si era fatta immediatamente rilevare l’inapplicabilità dell’istituto alle moda-
lità di esercizio dell’azione penale diverse da quella ordinaria: al proposito scarsa-
mente praticabile è parsa la possibilità di intendere il richiamo all’art. 405, comma
2, c.p.p. come comprensivo di tutte le forme di esercizio dell’azione penale elen-
cate al comma 1, stante la chiara cesura operata dal legislatore tra i primi due
commi della disposizione, il secondo dei quali chiaramente volto a disciplinare la
sola ipotesi ordinaria di rinvio a giudizio, con termini di durata delle indagini non
rinvenibili negli atti introduttivi dei procedimenti speciali (61).
Ciononostante, la constatazione per la quale l’art. 415-bis c.p.p. è collocato
nel titolo relativo alla chiusura delle indagini preliminari e la sua applicazione sa-
rebbe teoricamente configurabile ogni qualvolta non si proceda ad archivia-
zione (62), ha fatto permanere i dubbi circa l’applicabilità o meno dell’istituto ai
procedimenti speciali con esso astrattamente compatibili (63), perché preceduti
da una — per quanto variamente disciplinata e del tutto peculiare — fase di inda-
gine: le incertezze maggiori si sono incentrate, oltre che sulla richiesta di decreto

considerazioni sulle modifiche apportate al procedimento penale dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit.,
p. 1501; MARAFIOTI, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 265; MARZADURI,
Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 782; NUZZO, L’avviso di conclusione delle in-
dagini preliminari ovvero una garanzia incompiuta per l’inquisito, cit., p. 677; TONINI, Manuale di proce-
dura penale, cit., p. 351; VERDOLIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 71,
74, 87. Ritiene al contrario che l’intera disciplina delle indagini preliminari sia perlopiù indifferente ai
principi del giusto processo, i quali ‘‘hanno specifica rilevanza nei confronti del giudizio in senso stretto’’
CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto processo’’, cit., p.
679.
(60) Così GREVI, Ancora e sempre alla ricerca del ‘‘processo giusto’’, in Leg. pen., 2001, p. 478, il
quale non manca tuttavia di individuare proprio nel provvedimento normativo che ha introdotto l’art.
415-bis c.p.p. il segnale di ‘‘un indirizzo legislativo piuttosto schizofrenico rispetto alla pressoché contem-
poranea riforma dell’art. 111 Cost.’’ (op. ult. cit., p. 476); KOSTORIS, Udienza preliminare e giudizio ab-
breviato, snodi problematici della riforma, cit., p. 51.
(61) Auspicavano il diffondersi di una simile interpretazione, pur senza nascondersene le difficoltà
ermeneutiche MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedimenti alternativi,
cit., p. 610; E. VALENTINI, Il diritto al contraddittorio nel procedimento per decreto penale a confronto con
le recenti modifiche normative, cit., p. 2006. Secondo PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari, tra tutela del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56,
nota n. 3, invece, il richiamo al comma 2 dell’art. 405 c.p.p. sarebbe giustificato dal solo scopo di indivi-
duare il termine entro cui procedere alla notifica dell’avviso, che andrebbe quindi eseguita in tutti i casi in
cui il procedimento non debba essere archiviato.
(62) Per queste puntualizzazioni SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 187.
(63) Da questo angolo visuale a rimanere fuori è, senza dubbio, il giudizio direttissimo nel quale le
varie situazioni di evidenza probatoria legislativamente prefissate escludono la necessità di una fase inve-
stigativa che si dipani secondo le cadenze ordinarie: nel caso di arresto e di confessione, infatti, un ipote-
tico invio dell’avviso da un lato non aggiungerebbe garanzie ulteriori rispetto alla conoscenza dell’adde-
bito e delle fonti d’accusa, dall’altro risulterebbe inutile in quanto inidoneo a scongiurare l’esercizio del-
l’azione penale (per un’applicazione giurisprudenziale Trib. Cremona, 22 maggio 2000, Jamel, in Cass.
pen., 2001, p. 674). Quanto al giudizio abbreviato e al patteggiamento, essi si instaurano in seguito alla
normale celebrazione dell’udienza preliminare preceduta dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio
ex art. 416 c.p.p.

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penale di condanna (64), proprio sul giudizio immediato instaurato a richiesta del
pubblico ministero. In effetti le istanze di massima celerità e semplificazione in ge-
nere sottese ai procedimenti speciali e solitamente invocate per giustificare le varie
deviazioni dall’iter ordinario sembrano non attagliarsi pienamente all’ipotesi del
giudizio immediato. Qui il rispetto del più breve termine di 90 giorni decorrente
dall’iscrizione della notizia di reato attiene allo svolgimento e al completamento
delle indagini, mentre la presentazione della richiesta con la trasmissione del fasci-
colo può avvenire in un momento successivo non presidiato da termini peren-
tori (65): il possibile innesto del procedimento di notificazione dell’avviso di chiu-
sura delle indagini non sembra pertanto snaturare la ratio del rito, in quanto non
andrebbe a intaccare i termini speciali inderogabilmente previsti per raccogliere
elementi probatori evidenti né il principio secondo cui per la loro acquisizione
sono sufficienti indagini preliminari più brevi del consueto (66). Per di più esso
non sembra comportare un tale appesantimento procedurale né significativi ag-
gravi per l’autorità procedente, già tenuta all’inoltro dell’invito a comparire ex
artt. 375, comma 3 e 453, comma 1, c.p.p., caratterizzato da un contenuto prati-
camente equivalente a fini contestativi all’avviso di chiusura delle indagini: alla
stesura di esso dovrebbe semplicemente far seguito la mera attività materiale di
messa a disposizione del fascicolo investigativo nella segreteria, con l’avverti-
mento della facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.
Insomma, se la speditezza del rito può venire a dipendere dalla maggiore o

(64) La Corte di cassazione, in epoca successiva all’introduzione dei principi del giusto processo
nell’art. 111 Cost., ha perentoriamente escluso che la notificazione dell’avviso di chiusura delle indagini
debba precedere la richiesta di emissione del decreto penale e che la sua eventuale omissione possa deter-
minare la nullità del procedimento monitorio: Cass., sez. I, 10 maggio 2001, Aliprandi, in Arch. nuova
proc. pen., 2001, p. 540; Cass., sez. I, 17 settembre 2001, Farabi, cit.; Cass., sez. I, 21 dicembre 2000,
Villa, in Cass. pen., 2002, 1737; Cass., sez. I, 5 ottobre 2000, Giuliano, in Giur. it., 2002, c. 139. Nello
stesso senso, in dottrina: BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti spe-
ciali, cit., p. 511; BRICCHETTI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., p. 110; CA-
SARTELLI, Nuove garanzie difensive nelle indagini preliminari, cit., p. 80, nota n. 20; GAZZANIGA, Princi-
pio di tassatività delle nullità e omesso invito dell’imputato a presentarsi prima della citazione a giudizio
a seguito di opposizione a decreto penale, in Cass. pen., 2000, p. 2664; IAI, Non dovuto l’avviso di con-
clusione delle indagini nel procedimento per decreto penale, in Giur. it., 2002, c. 139; MANZIONE, Quale
processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 248; MARANDOLA, Due significative novità per il processo pe-
nale: l’avviso della chiusura delle indagini preliminari ed i ‘‘nuovi’’ poteri probatori del giudice dell’u-
dienza preliminare, cit., p. 1134; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela
del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56, nota n. 3; SPANGHER,
sub artt. 17-18, cit., p. 188. Di diverso avviso altra parte della dottrina, per la quale una volta ricono-
sciuto all’indagato ‘‘il diritto di introdurre nel procedimento gli elementi necessari per scongiurare un pos-
sibile esercizio avventato dell’azione penale ai suoi danni, non si vede perché il principio non dovrebbe
valere (...) con riferimento alla richiesta di decreto penale di condanna’’: CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della
fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p.
274 e, nello stesso senso BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle inda-
gini preliminari, cit., p. 133; BONINI, sub art. 17, cit., pp. 364-365; MARAFIOTI, Scelte autodifensive del-
l’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 270; MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini prelimi-
nari nei procedimenti alternativi, cit., pp. 609-610; SCALFATI, Le nuove prospettive del decreto penale, in
AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 534.
(65) BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p.
511, nota n. 14; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, cit., p. 3104; Cass., sez. III, 26 settembre 1995,
Pellegrino, in Cass. pen., 1997, p. 112, con nota critica di MARANDOLA, In tema di richiesta ‘‘tardiva’’ di
giudizio immediato da parte del pubblico ministero; cfr. pure DEAN, Sul rispetto del termine per l’instau-
razione del giudizio immediato, in Giur. it., 1992, II, c. 523; LORUSSO, Un singolare obiter dictum della
Corte di cassazione in tema di giudizio immediato, in Cass. pen., 1996, pp. 170-171. Allo stesso modo la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che la qualifica di imputato conseguente all’esercizio dell’a-
zione penale si acquista indipendentemente dal deposito e dalla notificazione degli atti di cui all’art. 405
c.p.p., essendo sufficiente che questi siano venuti a esistenza: Cass., sez. VI, 19 ottobre 1990, Sica, in
Cass. pen., 1991, II, p. 93; Cass. sez. VI, 22 marzo 1994, Sepe, in Riv. pen., 1995, p. 514.
(66) Insomma, quello che efficacemente è stato definito il carattere ‘‘cronologico’’ dell’evidenza
sottesa al giudizio immediato: così ILLUMINATI, Il giudizio immediato, cit., p. 151.

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minore diligenza del p.m. nel presentare la relativa richiesta e del giudice nell’ac-
coglierla o meno (67), e in assenza di ‘‘priorità nella fissazione dell’udienza ri-
spetto ai giudizi ordinari’’ (68), non sembra azzardato prospettare che un’even-
tuale decelerazione del procedimento possa essere provocata dall’introduzione
della fase di garanzia difensiva innestata dall’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. in
un momento anteriore a quello di presentazione della domanda di giudizio: in
un’ottica non esasperatamente tesa all’efficienza (69), potrebbe sostenersi che la
dilatazione temporale così inevitabilmente cagionata andrebbe in alcuni casi a es-
sere compensata dal risparmio di energie processuali provocato dai possibili esiti
archiviativi (70). Neppure l’esigenza di modulare le forme di esercizio del diritto
di difesa in funzione della specialità del procedimento paiono del tutto persua-
sive (71): se non si rinvengono altri valori costituzionali degni di tutela in un’ot-
tica di bilanciamento di interessi contrapposti, essa finisce per risolversi in una pe-
tizione di principio, incapace di spiegare il reale motivo per cui il diritto a evitare
un possibile esercizio arbitrario dell’azione penale venga disconosciuto nel giudi-
zio immediato solo in ragione della sua specialità (72). Se la compressione del di-
ritto di difesa non trova riscontro in altri valori costituzionalmente protetti, la di-
sparità di trattamento con il soggetto rinviato a giudizio in via ordinaria non trova
più giustificazione: al proposito non sembra neppure che possa invocarsi la mode-
stia delle conseguenze sanzionatorie del rito speciale in discorso, al quale non
sono collegati aspetti di premialità o benefici di sorta (73). L’imputato nei cui
confronti sia stata avanzata richiesta di giudizio immediato viene così ingiustifica-
tamente privato del diritto di non acquisire mai tale status vedendo chiuso il pro-
cedimento a suo carico nella fase delle indagini: con tutti i vantaggi che si possono
intuire quanto a costi sostenuti per l’assistenza difensiva e lunghezza dei tempi in
cui un soggetto — che, giova ribadirlo, è per la legge suprema presunto innocente

(67) Visto il carattere ordinatorio del termine previsto dall’art. 455 c.p.p. per la decisione del giu-
dice in ordine alla richiesta di giudizio immediato.
(68) Di tal che la celebrazione del giudizio immediato può svolgersi ben al di là dei novanta giorni:
ILLUMINATI, Il giudizio immediato, cit., p. 155.
(69) Esclude che il riferimento al tempo necessario per predisporre la difesa debba necessaria-
mente ‘‘porsi in una logica di contrapposizione rispetto al principio di efficienza del sistema processuale’’
MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, cit., p. 781. Denuncia invece il rischio
che un cumulo eccessivo di previsioni garantistiche possa allungare a dismisura il tempo dei processi e
l’efficienza complessiva del sistema GREVI, Processo penale, ‘‘giusto processo’’ e revisione costituzionale,
cit., pp. 3323-3324; secondo MANZIONE, Quale processo dopo la ‘‘legge Carotti’’?, cit., p. 249, l’art. 415-
bis c.p.p. si pone in contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata dei procedimenti.
(70) AMODIO, Lineamenti della riforma, cit., p. 26; CARLI, L’avviso di conclusione delle indagini
preliminari nella prospettiva del ‘‘giusto processo’’, cit. p. 680; DI BITONTO, Il pubblico ministero nelle in-
dagini preliminari dopo la l. 16 dicembre 1999, n. 479, cit., pp. 2862-2863; GIARDA, Il ‘‘decennium bug’’
della procedura penale, cit., p. 12.
(71) In senso opposto, invece, oltre agli Autori citati nella nota n. 64, si vedano, proprio con riferi-
mento al verdetto emesso dalla Corte con l’ordinanza che si commenta: BRICCHETTI, La Corte costituzio-
nale esclude l’obbligo per la natura del procedimento speciale, in Guida al dir., n. 23, 2002, pp. 46-47;
NUZZO, La Corte costituzionale esclude l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedi-
menti speciali, in Cass. pen., 2002, p. 3740.
(72) Avanza serie riserve sulla ‘‘opportunità della soluzione normativa’’ CAPRIOLI, Nuovi epiloghi
della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit.,
p. 274. Nello stesso senso: BARBUTO, Brevi osservazioni sull’istituto dell’avviso della conclusione delle in-
dagini preliminari, cit., p. 133; MENNUNI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedi-
menti alternativi, cit., pp. 609-610; PIATTOLI, L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, tra tutela
del diritto di difesa ed esigenze di completezza della fase procedimentale, cit., p. 56, nota n. 3; VERDO-
LIVA, L’avviso all’indagato della conclusione delle indagini, cit., pp. 76-80.
(73) A dire il vero dalla normativa emerge che a fronte di procedimenti per reati puniti con pene
istituzionalmente contenute nei limiti di cui all’art. 550 c.p.p. azionati con citazione diretta da parte del
p.m. trovi luogo l’avviso di chiusura delle indagini, mentre lo stesso deve escludersi per i procedimenti
transitati a dibattimento con rito immediato, ove non vigono limiti quanto alle sanzioni astrattamente ap-
plicabili: tuttavia il rilievo non è parso decisivo a SPANGHER, sub artt. 17-18, cit., p. 188.

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— rimane sottoposto agli organi della giustizia penale. Simili considerazioni non
possono che acuirsi di fronte a un dettato costituzionale diretto a far sì che l’inda-
gato disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa:
per quanto il contenuto di una tale guide line appaia sprovvisto di determinatezza
e precettività tali da rendere automaticamente censurabili le disposizioni codicisti-
che coinvolte (74), sarebbe opportuno sfruttare la genericità della garanzia costi-
tuzionale per rimeditarne gli spazi applicativi.
Dott. LUCA IAFISCO

(74) Al punto che se ne è autorevolmente proposta un’interpretazione tale per cui essa si limite-
rebbe a fornire un requisito soddisfatto dalla presenza di un termine a comparire durante il quale eserci-
tare le prerogative della difesa, secondo il combinato disposto degli artt. 429, comma 3 e 466 c.p.p.: COR-
DERO, Procedura penale, cit., p. 1269. A questo proposito non appare inutile ricordare come proprio il di-
ritto di disporre del tempo e delle condizioni per la difesa abbia ispirato la modifica dei termini previsti
dagli artt. 456, 458 c.p.p. per la scelta dei riti speciali nel giudizio immediato, come fatto rilevare da:
BRICCHETTI, Termini più ampi per accedere al giudizio abbreviato, in Guida al dir., n. 13, 2001, p. 63;
DANIELE, Nuovi termini per la notificazione del decreto di giudizio immediato e per la conversione del
rito, in AA.VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. Kostoris, Torino,
2002, p. 266; SPANGHER, Giudizio immediato: tempi più adeguati per le scelte dei riti speciali, in AA.VV.,
Giusto processo e prove penali, Milano, 2001, p. 177.

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c) Giudizi di Cassazione

CORTE DI CASSAZIONE — SEZIONE UNITE


C.c. 26 giugno 2002 (dep. 20 settembre 2002), n. 31421
Pres. Vessia — Rel. Milo — P.M. Siniscalchi
Conti ricorrente

Giudice - Ricusazione - Dichiarazione - Presentazione - Effetti - Sospensione dei


termini di custodia cautelare - Esclusione - Limiti (C.p.p. art. 37).

La presentazione della dichiarazione di ricusazione del giudice non deter-


mina automaticamente né la sospensione dell’attività processuale né la sospen-
sione dei termini di durata della custodia cautelare, salvo che intervenga nel mo-
mento immediatamente precedente la deliberazione della sentenza (1).

(Omissis). — FATTO. — Il tribunale di Catania, decidendo in sede di appello


ex art. 310 c.p.p., con ordinanza 29 giugno 2001, confermava quella emessa, il
precedente giorno 9 dal GUP dello stesso Tribunale che, a seguito di dichiarazione
di ricusazione proposta dall’imputato Conti Aldo, in stato di custodia cautelare
per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, aveva sospeso il procedi-
mento e i termini cautelari fino all’udienza di rinvio fissata per il 2 luglio 2001, e
ciò in attesa della decisione sulla ricusazione.
Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato,
deducendo: a) inosservanza di norme processuali (artt. 310 comma 2, 127,
comma 1-5 c.p.p.) e violazione del diritto di difesa, per non essere stato dato av-
viso dell’udienza camerale dinanzi al Tribunale a uno dei due difensori dai quali
era assistito; b) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con rife-
rimento all’art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p., che era stato interpretato non cor-
rettamente nel ritenere compreso, tra i casi di sospensione dei termini cautelari,
quello della dichiarazione di ricusazione, che non determina affatto la sospensione
del procedimento nel quale si innesta.
Con memoria difensiva 26 febbraio 2002, il ricorrente ha insistito sulle ra-
gioni dell’impugnazione proposta.
La IV sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza 14 marzo 2002,
rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione prospettata
con il secondo motivo di ricorso, ha rimesso la decisione, ai sensi dell’art. 618
c.p.p., alle Sezioni unite.
Il Primo Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fis-
sando per la trattazione l’odierna udienza camerale.

(Omissis). — DIRITTO. — 1. Il primo motivo di ricorso, avente carattere


preliminare, al di là della rinuncia ad esso da parte del diensore del ricorrente (cfr.
verbale udienza 14 marzo 2002 dinanzi alla IV Sez.), è destituito di fondamento:
il mancato avviso al secondo difensore dell’imputato per l’udienza camerale svol-
tasi dinanzi al Tribunale di Catania integra, per pacifica giurisprudenza, una nul-

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lità a regime intermedio (cfr. Sez un., 27 giugno 2001, Di Sarno), la quale, però,
non essendo stata tempestivamente eccepita nei temini di cui agli artt. 180 e 182
c.p.p. (all’udienza camerale, infatti, il difensore regolarmente avvisato e presente
nulla dedusse in ordine al mancato avviso al secondo difensore), non può essere
dedotta in questa sede.
2. Può, quindi, passarsi all’esame della questione portata all’attenzione delle
Sezioni unite e che può essere così sintetizzata: se la dichiarazione di ricusazione
del giudice, da parte dell’imputato che versi in stato di custodia cautelare, legittimi
o non, ex art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p., la sopensione dei relativi termini.
3. La disciplina contenuta nell’art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p. prevede
che il dibattimento e l’udienza preliminare sospesi o rinviati per impedimento del-
l’imputato o del suo difensore ovvero su richiesta dei medesimi, sempre che la so-
spensioneo il rinvio non siano disposti per esigenze istruttorie o difensive (conces-
sione di termini per la difesa), sospendono i termini di durata massima della cu-
stodia cautelare.
Una peculiare lettura della norma in esame (riproduttiva, in sostanza, di
quella di cui all’art. 272 comma 7 c.p.p. ’30) ha indotto larga parte della giuri-
sprudenza di legittimità a ricomprendere nell’area delle cause di sospensione an-
che la dichiarazione di ricusazione, sulla base della considerazione che detta
norma, nella parte in cui fa riferimento ad una ‘‘richiesta’’ dell’imputato o del suo
difensore idonea a comportare il rinvio del processo, richiamerebbe implicita-
mente anche la dichiarazione di ricusazione, che sarebbe, per ciò, assoggettata alla
stesa disciplina, vale a dire sospensione del processo e sospensione dei termini di
durata massima della custodia cautelare.
4. Il dibattito giurisprudenziale, nel qual si inscrive tale orientamento mag-
gioritario, si è sviluppato sotto il segno della continuità, nel senso che le soluzioni
ermeneutiche adottate, nel vigore del codice di rito del 1930 e incostanza dell’as-
setto normativo attuale, sono sovrapponibili.
4.a. Nella vigenza del codice del 1930, la giurisprudenza segue inizialmente una
linea rigorosa e restrittiva nell’individuare il campo di operatività dell’art. 272
comma 7, sottolineando che ‘‘il termine di carcerazione preventiva resta sospeso
quando la sospensione o il rinvio del dibattimento, a richiesta dell’imputato o
della difesa, siano disposti nell’esclusivo intresse dell’imputato o della difesa, ma
non già quando detti provvedimenti di sospensione o di rinvio del dibattimento,
anche se sollecitati dalla parte, siano disposti per sostanziali esigenze di giustizia’’,
intendendosi per tali non soltanto l’espletamento di incombenti istruttori ritenuti
necessari, ma anche questioni pregiudiziali ‘‘attinenti all’esistenza del reato ... o
alla validità della norma, come la pregiudiziale costituzionale’’; in sostanza, si
esalta il profilo teleologico della richesta avanzata dall’imputato, per stabilire se
questa tenda al conseguimento delle finalità primarie dell’ordinamento o piuttosto
a soddisfare interessi circoscritti alla sfera personale dell’imputato, nel quale ul-
timo caso soltanto possono derivare al predetto effetti pregiudizievoli (cfr., in par-
ticolare, Cass. Sez. I 6 dicembre 1976, Fonti e, in termini analoghi, Sez. I 5 giugno
1986, Matrone; Sez. I 15 dicembre 1986, Musto; Sez. I 19 maggio 1986, Licciar-
dello).
Tale interpretazione, però, viene ben presto contrastata e gli argomenti da

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essa utilizzati vengono progressivamente ridimensionati e sviliti nella loro valenza,


per privilegiare, al di là di qualunque aspetto finalistico ed in base, invece, ad un
criterio di mero automatismo, il dato oggettivo della richiesta di rinvio o sospen-
sione del dibattimento formulata, in via immediata o mediata, dall’imputato quale
causa della sospensione anche dei termini di custodia cautelare (cfr. Cass., Sez. I,
20 giugno 1988, Iandolo; Sez. VI 5 marzo 1991, Della Stella).
4.b. Con la sentenza 6 luglio 1990, Mancini, le Sezioni unite intervengono
sulla questione e, riprendendo la linea interpretativa seguita dalla richiamata sen-
tenza ‘‘Fonti’’, sottolineano l’esigenza di evitare una interpretazione rigidamente
letterale ed in malam partem dell’art. 272 comma 7 c.p.p. ’30. In quest’ottica, in-
dividuano quale limite all’operatività di tale norma la necessità di non comprimere
‘‘diritto fondamentali e costituzionalmente garantiti’’: nella specie, veniva in consi-
derazione la sospensione del processo per effetto di una questione di costituziona-
lità sollevata dall’imputato e ritenuta dal giudice non manifestamente infondata (il
caso, anche se non attiene all’istituto della ricusazione, assume rilievo per la meto-
dologia interpretativa introdotta, che è ancorata ad un nitido principio di portata
generale). Precisano che la richiesta dell’imputato, dalla quale indirettamente de-
riva la sospensione del dibattimento, costituisce solo un impulso per l’esercizio da
parte del giudice di poteri ed attività che potrebbe e dovrebbe compiere d’ufficio,
con la conseguenza che viene ad interrompersi il legame di stretta interdipendenza
fra l’iniziativa dell’imputato e la sospensione del giudizio, ricollegabile quest’ul-
tima alla stessa legge processuale; che l’esigenza della verifica di costituzionalità
— preordinata alla tutela di evidenti interessi pubblici che assorbono e superano
quello personale dell’imputato — non può subire condizionamenti di sorta quale
quello della protrazione dello stato di custodia. In conclusione, la sentenza esclude
la sospensione dei termini di custodia cautelare sulla base di un duplice ordine di
ragioni sostanziali e processuali: a) la sussistenza di un ‘‘rilevante interesse pub-
blico’’; b) il filtro del giudice che tale sussistenza e rilevanza accerta, con l’ordi-
nanza dichiarativa della non manifesta infondatezza della questione di costituzio-
nalità.
4.c. Le decisioni adottate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito,
nella maggior parte, abbandonano la rotta seguita dalla sentenza ‘‘Mancini’’ delle
Sez. un., e, dopo avere sottolineato che la ratio dell’art. 304 comma 1 c.p.p. è
quella di evitare scarcerazioni dovute a comportamenti direttamente o indiretta-
mente ostruzionistici dell’imputato o del suo difensore e, quindi, non connessi a
reali ed effettive ragioni processuali, sostengono, con riferimento specifico alla di-
chiarazione di ricusazione, che la sospensione del processo a seguito di questa
comporta la sospensione dei termini di custodia cautelare. L’iter argomentativo su
cui si fonda tale affermazione può essere così sintetizzato: a) la dichiarazione di
ricusazione implica ‘‘automaticamente e necessariamente la sospensione o il rinvio
del dibattimento fino a quando il giudice della ricusazione non abbia deciso’’;
b) la dichiarazione di ricusazione, pur non essendo direttamente preordinata ad
ottenere il rinvio, determina comunque un rinvio o una sospensione del processo e
può essere, quindi, ‘‘equiparata’’, assimilata ad una qualsiasi istanza di rinvio e de-
termina la sospensione dei termini custodiali (cfr. Cass. Sez. I 18 ottobre 1991,
Cirillo; Sez. I 2 giugno 1992, Battaglia, che ribadisce il principio anche con riferi-
mento alla pregiudiziale costituzionale nell’ambito del procedimento di ricusa-

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zione; Sez. I 19 giugno 1997, Cannatella; Sez. I 20 giugno 1997, La Monica; Sez.
VI 11 gennaio 1999, Ferraro).
Altre decisioni, meno numerose, rifacendosi all’ispirazione di fondo della sen-
tenza ‘‘Mancini’’ delle Sez. un., negano ogni automatismo tra dichiarazione di ri-
cusazione, sospensione del procedimento e sospensione dei termini cautelari ed
esaltano il principio secondo cui la linea di demarcazione tra sospensione o non
dei termini di custodia cautelare non è l’istanza di parte, bensì la ragione vera sot-
tesa al rinvio del processo, se disposto cioè per meri interessi personali dell’impu-
tato che non assurgono a dignità di diritti di difesa ovvero per esigenze che travali-
cano la sfera personale e si identificano con interessi pubblici, primariamente e di-
rettamente tutelati dall’ordinamento, a prescindere dall’istanza dell’imputato. Non
mancano tali decisioni di richiamare la specifica disciplina che governa l’istituto
della ricusazione, per inferirne che l’attivazione della relativa procedura inciden-
tale non comporta l’automatica sospensione del processo principale (cfr. Sez. I 17
gennaio 1997, Battaggia; Sez. I 27 luglio 1992, Greco; Sez. 29 maggio 1992 Di
Grigoli).
5. Le Sezioni unite condividono, in linea di massima, quest’ultimo orienta-
mento minoritario, che abbisogna, però, di essere meglio puntualizzato, in stretta
aderenza al dato normativo vigente, sia in ordine alle ragioni che lo giustificano,
sia in ordine alla non assolutezza del principio affermato.
Occorre procedere con ordine e individuare, innanzi tutto, la natura e la ratio
dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. e, poi, verificare se la stasi del processo sia
una conseguenza necessaria della dichiarazione di ricusazione.
5.a. Sul primo punto, osserva la Corte che la sospensione dei termini custo-
diali connessa a fatto riferibile all’imputato o al suo difensore trova l’antecedente
storico del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 (‘‘provvedimenti urgenti sulla giustizia pena-
le’’), convertito nella l. 7 giugno 1074, n. 220, il quale aveva aggiunto all’unica
ipotesi, precedentemente conosciuta, di sospensione dei termini di custodia pre-
ventiva (quella cioè della sottoposizione dell’imputato ad osservazione psichia-
trica) l’ulteriore previsione, conglobata nel comma 6) poi, divenuto 7) dell’art.
272 c.p.c. ’30), della operatività di detta sospensione ‘‘nella fase del giudizio, du-
rante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per legittinmo impedi-
mento dell’imputato, ovvero a richiesta sua o del suo difensore, sempre che la so-
spensione o il rinvio non siano stati disposti per esigenze istruttorie, ritenute indi-
spensabili con espressa indicazione nel provvedimento di sospensione o di rinvio’’.
Alla decretazione d’urgenza, in quel contesto storico, si pervenne per ovviare
all’imminente scadenza dei termini di custodia preventiva, previsti in via transito-
ria dall’art. 3 d.l. n. 192 del 1970, e quindi all’immediata scarcerazione di ‘‘peri-
colosi criminali’’.
Il contenuto dell’art. 272 comma 7 c.p.c. ’30 è stato, in sostanza, recepito ed
ulteriormente ampliato dall’art. 304 del vigente codice di rito, norma quest’ultima
che, pur non deputata a fronteggiare una situazione di emergenza, ribadisce, nella
sola prospettiva di garantire effettività all’istituto della custodia cautelare e quindi
al processo penale nel suo complesso, un tassativo sistema di deroghe alla disci-
plina di principio dei termini di durata della custodia cautelare. La dilatazione di
questa, già sottoposta a termini di durata massima, in virtù degli eventi tassativa-
mente previsti dall’art. 304, comma 1, lett. a) e b), c.p.p., non può che rappresen-

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tare l’eccezione, con la conseguenza che detta norma va interpretata in modo rigo-
rosamente restrittivo e non è suscettibile di applicazione analogica.
Negli stessi termini si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza n.
298 del 1994, che dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 304 comma 1 lett. a) e b) nella parte in cui non consentiva, all’epoca (si è
prima della riforma introdotta dalla l. n. 332 del 1995), di adottare l’ordinanza di
sospensione dei termini di custodia cautelare, per impedimento dei difensori, an-
che quando si procedeva con il rito abbreviato.
Per completezza espositiva, va precisato che la sospendibilità dei termini de
quibus, originariamente prevista per la sola fase del giudizio, è stata estesa, per ef-
fetto dell’art. 15 della l. n. 332 del 1995, che ha revisionato il comma 4 dell’art.
304 c.p.c., all’udienza preliminare, in caso di sua sospensione o rinvio per le ipo-
tesi previste dal comma 1 lett. a) e b) dello stesso art. 304; con il d.l. n. 82 del
2000, convertito nella l. n. 144 del 2000, è stata riproposta, in modo esplicito, la
stessa disciplina per il giudizio abbreviato.
La ratio della norma in esame, com’è stato rilevato da più parti, risiede certa-
mente nell’esigenza di scoraggiare l’imputato o il suo difensore dall’uso strumen-
tale di determinate situazioni tipiche per meri scopi tattici o dilatori e di evitare,
quindi, possibili, indebite scarcerazioni come conseguenza di detto comporta-
mento, in ordine al quale il giudice precedente non ha alcun potere di valutazione
preliminare, per verificarne la strumentalità o il fumus di serietà.
5.b. Il secondo punto da esaminare, di decisivo rilievo per la soluzione della
questione rimessa alle Sez. un., attiene alle interferenze tra la norma di cui si è
parlato e la disciplina della ricusazione, al rapporto tra procedimento principale e
procedimento incidentale sulla ricusa e, quindi, alla sussistenza o meno di auto-
matismo tra dichiarazione di ricusazione, stasi del processo e sospensione dei ter-
mini cautelari.
Devesi prendere atto che il vigente codice di rito ha disciplinato l’istituto
della ricusazione in maniera nettamente diversa rispetto al codice del 1930 e di
tanto non sembra avere preso coscienza, sul piano applicativo, l’orientamento giu-
risprudenziale maggioritario, connotato da opzioni che si rifanno a modelli supe-
rati, utilizzano la fossilizzazione di un’esegesi normativa propria del vecchio im-
pianto processuale, ma non più attuale, perché assolutamente inconciliabile con le
modulazioni sistematiche previste dal nuovo rito.
È opportuno, preliminarmente, sgomberare subito il campo dall’equivoco che
è alla base del denunciato contrasto giurisprudenziale: non sussiste, oggi, alcuna
conseguenzialità necessaria tra dichiarazione di ricusazione e sospensione proces-
suale, situazione questa che poteva avere una ragion d’essere, sia pure con qualche
strappo all’ortodossia esegetica, nel pregresso sistema.
5.c. Il legislatore del 1930, che aveva riproposto sostanzialmente il modello
accolto nel codice del 1913 ed ancor prima in quello del 1865, infatti, stabiliva
che il giudice competente per la ricusazione, riconosciuta ammissibile la dichiara-
zione del ricusante, dovesse ordinare che ne fosse dato avviso al giudice ricusato
(art. 69 comma 1), il quale, ‘‘avuta notizia della presentazione della dichiarazio-
ne’’, poteva compiere ‘‘soltanto atti urgenti di istruzione’’ (art. 69 comma 2).
Ciò raffigurava — secondo i più — un’ipotesi di sospensione processuale, sia
pure impropria, da cui derivava, quale conseguenza immediata, la sospensione

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prevista ex lege dall’art. 272 comma 7 dei termini di carcerazione preventiva. Per
il vero, anche nel rito abrogato la sospensione del processo e, quindi, la restrizione
dei poteri giurisdizionali del giudice ricusato non scattavano automaticamente,
quale effetto della dichiarazione di ricusazione, ma presupponevano sempre il ‘‘fil-
tro’’ di ammissibilità del giudice competente a decidere la ricusazione, così come
confermato autorevolmente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del
1983, nella quale si precisa che soltanto dal momento in cui è ricevuta la ‘‘noti-
zia’’ di cui all’art. 69 comma 2 ‘‘il processo principale resta di fatto sospeso’’.
Nondimeno, la soluzione prescelta dell’automatismo appariva unanimemente,
se non ineccepibile, compatibile comunque col sistema, in virtù della necessità di
evitare, come autorevole dottrina aveva denunciato, che il meccanismo si trasfor-
masse ‘‘in un autentico incentivo ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pre-
testuose ed ingiustificate’’; per altro una volta avuta notizia della presentazione
della dichiarazione, sia la sospensione processuale sia quella dei termini di custo-
dia erano effetti ineludibili ed obbligati, la cui anticipazione al momento della pre-
sentazione della dichiarazione, dunque, non aveva effetti disarticolanti la norma-
tiva sul punto.
Esclusivamente in tale assetto normativo, la tesi dell’automaticità poteva
avere una qualche dignità; ma l’essere stata essa riproposta, pur nella vigenza del
nuovo rito, dalla giurisprudenza largamente maggioritaria è frutto di una non cor-
retta operazione ermeneutica, che si risolve in un anacronistico assioma.
5.d. Come già accennato, nel nuovo impianto normtivo, i rapporti tra proce-
dimento principale ed incidentale sono radicalmente mutati.
Il lungo e vivace dibattito che ha preceduto tale impianto evidenziava i limiti
della disciplina previgente e sollecitava l’esigenza di evitare che la semplice am-
missibilità della dichiarazione potesse dare luogo all’automatica limitazione dei
poteri del giudice sospetto, stigmatizzando la scelta del legislatore ‘‘che ha co-
struito un meccanismo talmente assurdo da trasformarsi in un autentico incentivo
ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pretestuose ed ingiustificate’’; solleci-
tava, quindi, una ‘‘riforma radicale’’ che ottemperasse, anzitutto, alla necessità di
fare ‘‘scomparire l’automatismo della stasi processuale’’.
Il legislatore del 1988 ha accolto tale invito, stabilendo, quanto agli effetti
della dichiarazione di ricusazione, che la semplice presentazione di questa e anche
la delibazione preliminare sulla sua ammissibilità non comportano per il giudice
ricusato alcuna limitazione di poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali.
Non è più previsto l’obbligo di dichiarare l’ammissibilità e di dare avviso di ciò al
ricusato; a costui, ex art. 37 comma 2 c.p.p., è fatto soltanto divieto ‘‘di pronun-
ciare o di concorrere a pronunciar sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordi-
nanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione’’, con l’ovvio effetto che
esso divieto, concernendo esclusivamente il momento deliberativo, non determina
alcuna paralisi dell’attività processuale, che può e deve regolarmente proseguire.
Tanto si evince dalla relazione al codice, nella quale, a commento dell’art. 41
comma 2, si legge che la norma ‘‘serve ad evitare i gravi inconvenienti, non solo
per la celerità del processo, ma anche per l’accertamento dei fatti, cui ha dato
luogo il disposto di cui all’art. 69 comma 2 codice di rito del 1930... Infatti, è
stato stabilito che spetterà alla Corte (o al Tribunale) disporre, caso per caso, che
il giudice nei confronti del quale è stata proposta ricusazione si astenga dal prose-
guire l’attività processuale o si limiti al compimento di alcuni atti’’.

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Il giudice competente a decidere l’incidente, quindi, può, ex art. 41 comma 2,


sospendere in tutto o in parte i poteri giurisdizionali del ricusato, il che implica
non una sospensione ex lege, ma ope iudicis, rimessa cioè al prudente apprezza-
mento del giudice ‘‘caso per caso’’ e adottabile soltanto in presenza di una dichia-
razione di ricusazione con consistente grado di fondatezza, nonché di un concreto
pregiudizio che all’istante potrebbe derivare dal prosieguo del processo principale.
Il nuovo codice, proprio per scoraggiare intenti dilatori, ha, per un verso, po-
tenziato la funzione di filtro della dichiarazione di inammissibilità, adottabile, ol-
tre che per mancanza di legittimazione soggettiva e per inosservanza di forme e
termini, anche per manifesta infondatezza dei dedotti motivi (art. 41 comma 1) e,
per altro verso, ha interrotto ogni continuità con l’ordinamento previgente, sosti-
tuendo alla sospensione ex lege una sospensione, per dirla con autorevole dottrina,
‘‘virtuale’’, che, ove eventualmente disposta, non assume mai connotati di automa-
ticità con il logico risvolto che il nesso di conseguenzialità necessaria tra istanza di
ricusazione e sospensione processuale, affermato tralatiziamente in molte applica-
zioni giurisprudenziali, è il frutto di un’interpretazione anacronisticamente pigra e
non di una rigorosa esegesi del vigente quadro normativo.
L’esattezza di tale conclusione trova avallo nell’ordinanza n. 156 del 1993
della Corte cost., che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità dell’art. 41 c.p.p., sollevata dal Pretore di Forlì in relazione agli
artt. 3, 25, 97, 112 Cost., sottolinea l’erroneo presupposto dal quale muoveva il
giudice rimettente, quello cioè che ‘‘la presentazione della dichiarazione di ricusa-
zione comporterebbe l’automatica sospensione dell’attività processuale’’, rileva
che, ‘‘ai sensi del comma 2 dell’impugnato art. 41, tale sospensione è preclusa nei
casi... di inammissibilità della dichiarazione di ricusazione ed è — al di fuori di
questi — rimessa alla valutazione del giudice competente a decidere sul merito
della ricusazione, il quale può disporre la sospensione temporanea di ogni attività
processuale ovvero la limitazione di questa al compimento di soli atti urgenti’’;
conclude, sottolineando che ‘‘al giudice ricusato è solo preclusa la pronuncia della
sentenza’’. Attraverso tali sintetici ma incisivi argomenti, il Giudice delle leggi evi-
denzia che l’istituto della ricusazione, ricostruito secondo una corretta interpreta-
zione, è in grado, normalmente, di neutralizzare i possibili abusi e non offre il
fianco facili ed ingisutificate strumentalizzazioni da parte di chi ha interesse a ral-
lentare l’iter processuale.
La Consulta, inoltre, con la sentenza 23 gennaio 1997, n. 10, ha contribuito
ad irrobustire la funzione propria di garanzia dell’istituto della ricusazione, rimuo-
vendo ulteriori rischi di paralisi processuale, connessi alla presentazione di plu-
rime istanze-fotocopia finalizzate ad agevolare il decorso dei termini di prescri-
zione e, per quanto qui interessa, dei termini di custodia cautelare. Detta pronun-
cia ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 37 comma 2 c.p.c. ‘‘nella parte in cui, qua-
lora sia riproposta la dichiarazione di ricusazione, fondata sui medesimi motivi, fa
divieto al giudice di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza finché
non sia interventa l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione’’.
La dichiarazione di ricusazione, ove sia riproduzione di altra precedente, non pro-
duce alcun effetto, è tamquam non esset e i poteri del giudice procedente non in-
contrano più alcun limite, neppure quello del divieto di pronunciare sentenza.
Il sistema disegnato dal legislatore del 1988 e dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale spezza, pertanto, come si è detto, ogni legame tra istanza di ricusa-

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zione e sospensione del procedimento, rafforza la funzione di filtro svolta dal giu-
dice della ricusazione, al quale solo compete la scelta in ordine all’eventuale so-
spensione del processo principale e, quindi, la valutazione del fumus boni iuris
che assiste la dichiarazione presentata. Ne consegue che le dichiarazioni di ricusa-
zione pretestuose, dilatorie, strumentali, ostruzionistiche ed, in genere, ogni possi-
bile abuso trovano un forte deterrente nella stessa disciplina dettata in materia,
proiettata a salvaguardare, per quanto possibile, l’incolumità del processo nel suo
complesso.
Residua, per la verità, nel descritto sistema, un aspetto del tutto peculiare che
ripropone l’automatismo dichiarazione di ricusazione — sospensione del processo:
è il caso in cui la dichiarazione di ricusazione interviene, all’esito di ogni adempi-
mento istuttorio e processuale, nel momento immediatamente precedente la deli-
berazione finale, quando cioè al ricusato è inibito ex lege (art. 37 comma 2 c.p.p.),
in assoluto, adottare o concorrere ad adottare tale deliberazione, senza neppure
disporre di alcun potere di preventiva valutazione in ordine alla pretestuosità o
meno dell’istanza proposta.
È di palmare evidenza che, in tale ipotesi, diventa ineludibile ed automatica la
sospensione del processo, perché imposta dal dettato normativo e non certo ef-
fetto, come di norma accade, di una valutazione di merito del giudice di cui all’art.
40 c.p.p. Questo aspetto va risolto analizzando il ruolo che l’art. 304 c.p.p. svolge
nel contesto normativo che disciplina l’istituto della ricusazione.
6. È principio pacifico che alla richiesta esplicita e diretta, avanzata dall’im-
putato o dal suo difensore, di rinvio o di sospensione del dibattimento (o dell’u-
dienza preliminare), quale presupposto per la sospensione dei termini cautelari, è
equiparata anche l’ipotesi in cui la sospensione ed il rinvio derivino, come stretta
conseguenza, da un’istanza non direttamente ed immediatamente rivolta a tale
scopo, e ciò in linea con quella che è la precisata ratio dell’art. 304, commi 1 lett.
a) e 4, c.p.p., di tal che anche un’istanza apparentemente diretta alla tutela di ap-
prezzabili interessi dell’imputato e non a fini meramente dilatori o comunque in-
consistenti può, in tesi, determinare, secondo la citata norma, la sospensione dei
termini di cusodia cautelare (Sez. un., 6 luglio 1990, Mancini).
Naturalmente l’istanza dell’imputato che comporti comunque la sospensione
del processo, per produrre l’ulteriore conseguenza pregiudizievole sul decorso dei
termini cautelari, deve porsi, anche solo potenzialmente, come strumentale, dilato-
ria e abusiva.
È di indubbia esattezza il principio di fondo che ispira la sentenza ‘‘Mancini’’
delle Sezioni unite secondo cui il limite invalicabile di operatività della sospen-
sione di cui all’art. 304 è la tutela di diritti fondamentali e costituzionalmente ga-
rantiti: certamente rientra in tale categoria la pregiudiziale costituzionale, che in
quella sede veniva in rilievo; altrettanto può dirsi per l’imparzialità del giudice
come ‘‘canone oggettivo indeclinabile per la disciplina della funzione giurisdizio-
nale’’ ed elemento costitutivo del giusto processo, ipotesi qui considerata.
Il mero richiamo teorico ai detti diritti, nei quali è insito un rilevante interesse
pubblico che sovrasta quello particolare del soggetto interessato, non è, però, ar-
gomento sufficiente e decisivo per escludere, in assoluto, l’operatività della norma:
Come le stesse Sezioni unite hanno chiaramente lasciato intendere, infatti, la so-
spensione dei termini cautelari, in tali ipotesi, non opera sempre che il ‘‘diritto

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azionato’’ possa essere apprezzato preventivamente dal giudice, che ne accerta la


sussistenza e la concreta rilevanza e scongiura così il rischio, che il disposto del-
l’art. 304 comma 1 lett. a) vuole evitare, di possibili abusi o distorsioni nell’eserci-
zio di quel diritto (nella pregiudiziale costituzionale, il giudice procedente stabili-
sce la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione).
6.a. Ed allora, la soluzione concreta del problema va ricercata esclusiva-
mente nel dato normativo positivo e, in particolare, nell’art. 304 comma 1 lett. a)
c.p.c. e nel ruolo che questo spiega in relazione alla disciplina che regola la ricusa-
zione del giudice.
Presupposto di applicabilità della norma è l’istanza di rinvio o di sospensione
del procedimento avanzata dall’imputato o dal suo difensore.
La dichiarazione di ricusazione ordinariamente, per tutto quanto innanzi dif-
fusamente esposto, non implica il rinvio o la sospensione del processo e, conse-
guentemente, un eventuale provvedimento di sospensione dei termini cautelari
non avrebbe ragion d’essere, proprio perché l’attività processuale prosegue rego-
larmente. La sospensione del procedimento è soltanto eventuale e a disporla non
può che essere il giudice della ricusazione, ove ravvisi una qualche fondatezza
della relativa istanza ed un concreto pregiudizio per il ricusante (art. 41 comma 2
c.p.p.). Tale giudice, però, contrariamente a quanto pure si è sostenuto (cfr. sen-
tenza ‘‘Battaggia’’ Sez. I 17 gennaio 1997), non ha alcun poterre di sospendere
anche i termini di custodia cautelare, perché nessuna norma glielo attribusice e
perché, ove adottasse il provvedimento di sospensione del procedimento per il
consistente tasso di fondatezza dell’istanza di ricusazione, sarebbe veramente sin-
golare e fuori di ogni logica e della stessa ratio sottesa all’art. 304 sospendere an-
che i termini custodiali, pur in assenza di qualunque tattica dilatoria od opportu-
nistica.
È agevole, quindi, rilevare che, nell’evoluzione fisiologica del procedimento
incidentale di ricusazione, non opera — di norma — la previsione dell’art. 304
comma 1 lett. a), perché ne difetta il presupposto indefettibile, quello cioè della
sospensione del procedimento principale, quale conseguenza indiretta della pre-
sentazione della dichiarazione di ricusazione. Ed invero, la finalità perseguita dal
richiamato articolo è assicurata, sia pure con effetti parzialmente diversi, dalle re-
gole che disciplinano l’istituto della ricusazione, le quali mirano — come si è detto
— a non intralciare l’ordinario corso del processo e a scoraggiare, per quanto pos-
sibile, istanze dilatorie e pretestuose: sono presenti, all’interno dello stesso proce-
dimento incidentale, appositi meccanismi idonei a tutelare l’effettività del pro-
cesso e ad assolvere, per così dire, la funzione di anticorpi per neutralizzare l’anti-
gene dell’abuso processuale.
6.b. Peculiare, invece, è l’ipotesi in cui la dichiarazione di ricusazione inter-
viene quasi in coincidenza temporale della pronuncia della sentenza, quando cioè,
espletata ogni altra attività processuale, al giudice sospetto non resta altro da fare
che emettere la deliberazione finale. In questo caso, per il disposto dell’art. 37
comma 2 c.p.p., si verifica una immediata sospensione ex lege del processo, la
quale è coerente col sistema, improntato a garantire non soltanto la terzietà del
giudice, ma anche l’effettività della giurisdizione: difettando nel giudice proce-
dente, infatti, un qualunque potere delibativo preliminare circa la fondatezza o
meno dell’istanza, è insito nella stessa il ‘‘sospetto’’ di finalità dilatorie, il quale

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non trova, nella contestualità temporale, all’interno della regolamentazione dell’i-


stiuto, alcuna possibilità di essere contrastato. L’istanza cioè, pur formalmente di-
retta alla verifica della imparzialità del giudice e a conseguire quindi la garanzia,
di rilievo costituzionale, di un giusto processo, finisce, di fatto, per convertirsi in
una mera istanza di rinvio o di sospensione, perché questa è la conseguenza, im-
mediata e necessitata, pevista dal diritto positivo, sicché scatta l’operatività del-
l’art. 304 comma 1 lett. a), la cui ratio riemerge in tutta la sua attualità, proprio
perché il giudice, di fronte ad una simile situazione, non può evitare il pericolo,
sempre possibile, di strumentalizzazioni dell’istituto e non ha alcun potere di con-
temperare — attraverso un’immediata delibazione — le contrapposte esitenze di
non sacrificare la libertà personale dell’imputato oltre l’indispensabile e di non
consentire comunque che l’esercizio abusivo o distorto di un determinato diritto
vada a compromettere le esigenze di tutela della collettività, incidendo negativa-
mente e, a volte, rovinosamente sul decorso dei termini di custodia cautelare: ne-
cessitato è, pertanto, il provvedimento di sospensione di tali termini.
Questa conclusione non pò dirsi frutto di una spericolata ed audace opera-
zione ermeneutica, ma piuttosto di un realistico e non miope apprezzamento del
dato normativo, costituito dal combinato disposto degli art. 304, commi 1 lett. a)
e 4, e 37 comma 2 c.p.p.
Né, per ciò, può fondatamente sostenersi che vengono mortificati diritti costi-
tuzionalmente protetti, quali quello della libertà personale o quello all’imparzialità
del giudice, perché tali diritti, senza essere misconosciuti, devono bilanciarsi col
bene costituzionale della efficienza del processo, che è aspetto del principio di in-
defettibilità della giurisdizione, nonché col canone fondamentale della razionalità
delle norme processuali. Nella ponderazione codicistica, tenutosi conto che il pos-
sibile abuso processuale può determinare la paralisi del procedimento, si è inteso
razionalmente privilegiare, nell’ipotesi particolare in esame, la effettività del pro-
cesso penale nel suo complesso e, quindi, l’effettività dell’istituto della custodia
cautelare, posto a garanzia del processo e della collettività. Trattasi di scelta di-
screzionale del legislatore nell’individuazione delle scansioni processuali, per il
raggiungimento di un equilibrio tra opposte esigenze, che non comprometta la no-
zione stessa del processo e che, nel contempo, assicuri la verifica della terzietà del
giudice e la restrizione della libertà personale entro limiti costituzionalmente cor-
retti.
Né, così opinando, v’è interpretazione in malam partem dell’art. 304 comma
1 lett. a) o estensione analogica della sua portata: nell’espressione testuale ‘‘su ri-
chiesta dell’imputato o del suo difensore’’, non può non ricomprendersi la partico-
lare ipotesi di cui si discute, che implica, come precisato, la sospensione del pro-
cesso, quale conseguenza indiretta ed ineludibile, dell’istanza tipica.
6.c. La tesi interpretativa qui seguita trova indiretto avvallo nel d.l. n. 553
del 23 ottobre 1996 (c.d. decreto salvaprocessi), convertito nella l. n. 652 del
1996, che ha, tra l’altro, disciplinato gli effetti delle nuove situazioni d’incompati-
bilità, determinatesi a seguito delle sentenze n. 131 e n. 155 del 1996 della Corte
cost., sui dibattimenti in corso alla data del 23 ottobre 1996. Proprio per limitare
l’incidenza che le richiamate pronunce di illegittimità costituzionale dell’art. 34
comma 2 c.p.p. potevano avere sul processo, detto decreto stabilsice che —
quando venga accolta la dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice
per la sussistenza di talune delle situazioni d’incompatibilità previste da tale di-

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sposizione in procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del d.l., è già
stata dichiarata l’apertura del dibattimento — i termini della custodia cautelare,
previsti dall’art. 303 comma 1, restano sospesi ‘‘dalla data del provvedimento che
accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione a quella in cui il dibatti-
mento davanti al nuovo giudice perviene allo stato in cui si trovava allorché è in-
tervenuta la dichiarazione di astensione o di ricusazione’’, con le ulteriori precisa-
zioni che detta sospensione non può comunque superare il termine di 90 o di 60
giorni, a seconda che trattasi rispettivamente di procedimento per taluno dei de-
litti indicati nell’art. 51, comma 3-bis o di procedimento per altri reati, e che la de-
correnza parte dall’entrata in vigore del d.l., se il provvedimento di accoglimento è
stato già emesso.
Tale normativa, pur circoscritta alla sola fase del giudizio e alle peculiari si-
tuazioni d’incompatibilità stabilite dall’art. 34 comma 2, conferma, per un verso,
che normalmente la procedura di ricusazione non incide sui termini custodiali, al-
trimenti non si spiegherebbe la previsione della sospensione ex lege dei detti ter-
mini con decorrenza che muove dall’intervenuto accoglimento della astensione o
della ricusazione ovvero dall’entrate in vigore del d.l.; per altro verso, chiarisce la
costante preoccupazione del legislatore di raggiungere, nella prospettiva di evitare,
anche nel particolare contesto venutosi a determinare per effetto delle numerose
declaratorie d’incostituzionalità dell’art. 34 comma 2 c.p.p., irragionevoli distor-
sioni del sistema, un punto di equilibrio nella ponderazione di opposti interessi co-
stituzionalmente protetti, contemperando le esigenze di funzionalità del processo
e di difesa sociale con le garanzie sancite dall’art. 13 della Costituzione.
È agevole constatare che si è esattamente sulla stessa linea ispiratrice, innanzi
illustrata, del sistema codicistico.
7. Alla luce delle argomentazioni svolte, vanno enunciati, ex art. 173
comma 3 disp. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:
— la presentazione, da parte dell’imputato (o di chi agisce nel suo interesse),
della dichiarazione di ricusazione del giudice non comporta ordinariamente, se-
condo l’assetto normativo del vigente codice di rito, la sospensione del procedi-
mento e, conseguentemente il giudice ricusato, ove l’imputato versi in stato di cu-
stodia cautelare, non può sospendere, ex art. 304, commi 1 lett. a) e 4, c.p.p., il
decorso dei relativi termini;
— la sospensione dell’attività processuale può essere eventualmente disposta,
ex art. 41 comma 3 c.p.p., soltanto dal giudice della ricusazione, che non ha, però,
alcun potere di sospendere anche i termini cautelari;
— nella sola ipotesi in cui la dichiarazione di ricusazione intervenga nel mo-
mento immediatamente precedente la pronuncia della sentenza, si verifica ineludi-
bilmente, ex art. 37 comma 2 c.p.p., la sopensione del procedimento, quale effetto
indiretto della richiesta dell’imputato, con conseguente legittima adozione da
parte del giudice sospetto del provvedimento di sospensione anche dei termini
cautelari.
8. L’ordinanza impugnata, per quello che è dato evincere dal relativo resto,
non sembra essere in linea con i richiamati principi, perché ha fatto leva su quel-
l’indirizzo giurisprudenziale, in questa sede non condiviso, secondo cui la dichia-
razione di ricusazione del giudice è atto dal quale consegue comunque la sospen-
sione dei termini di custodia cautelare.

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Il gravato provvedimento va, pertanto, annullato con rinvio, per nuovo


esame, allo stesso Tribunale di Catania, che dovrà conformarsi ai principi di di-
ritto sopra enunciati ed offrire gli opportuni chiarimenti in fatto, che giustifichino
la decisione che andrà ad adottare: dovrà, in particolare, tenere conto che, sol-
tanto se la dichiarazione di ricusazione sia intervenuta immediatamente prima
della pronuncia della sentenza (risulta essere stato praticato il rito abbreviato), il
provvedimento di sospensione dei termini cautelari potrà ritenersi legittimo (con
la precisaziono che i relativi effetti non potranno andare oltre il momento in cui è
intervenuta la decisione sulla ricusazione); che, in caso contrario, la procedura in-
cidentale di ricusazione non potrà in alcun modo legittimare la sospensione, da
parte del giudice procedente, dell’attività processuale e dei termini custodiali.
Non comportando la presente decisione la rimessione in libertà del ricorrente,
la cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att.
c.p.p.
P.Q.M. — Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia, pr nuovo esame, al Tribu-
nale di Catania. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94,
comma 1-ter disp. att. c.p.p. (Omissis).

——————
(1) Procedura di ricusazione e durata della custodia cautelare.

SOMMARIO: 1. Premessa — 2. Dichiarazione di ricusazione del giudice e sospensione dei termini di


custodia cautelare negli argomenti della giurisprudenza. — 3. Dichiarazione di ricusazione e
sospensione dei termini di prescrizione. — 4. La soluzione delle Sezioni unite alla luce del
parametro costituzionale della durata ragionevole del processo penale. — 5. Considerazioni
conclusive.

1. Premessa. — Proprio nei giorni in cui torna di scottante attualità il tema


dell’imparzialità del giudice, sull’onda delle recenti e discusse iniziative parlamen-
tari (1), giunge al vaglio delle Sezioni unite un’interessante questione collegata al-
l’istituto della ricusazione. Più precisamente, la sentenza annotata si occupa del-
l’influenza che la richiesta di ricusazione può avere sulla durata della custodia
cautelare e, di riflesso, sui tempi della prescrizione. Si tratta allora di capire se la
sospensione del processo che potrebbe conseguire a tale istanza possa o meno
rientrare nella previsione di cui all’art. 304, comma 1, c.p.p., laddove la norma
prevede il congelamento dei termini di custodia cautelare nei casi di sospensione
del dibattimento riconducibili ad una richiesta dell’imputato o del suo difensore.
Indirettamente poi, la risposta al quesito riveste un ruolo significativo nella tratta-
zione di un tema attiguo qual è la sospensione del corso della prescrizione: è evi-
dente il collegamento tra le due questioni, in quanto l’art. 159 c.p. richiama
espressamente la sospensione del processo penale e dei termini di custodia caute-
lare tra le ipotesi di congelamento del termine ultimo per la dichiarazione di col-
pevolezza. Diciamo subito che l’opinione della Suprema Corte è nel senso di
escludere che dall’istanza di ricusazione del giudice possa derivare automatica-
mente la sospensione dell’attività processuale o dei termini di custodia cautelare, a

(1) Ci si riferisce, evidentemente, alla l. 7 novembre 2002, n. 248 che introduce il ‘‘legittimo so-
spetto’’ tra le possibili cause di rimessione del processo.

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meno che essa non intervenga nel momento immediatamente precedente la deliba-
zione della sentenza finale. Si tratta certamente di una decisione che non si pone
affatto in linea con l’orientamento sinora maggioritario in materia ed anzi riabilita
l’indirizzo giurisprudenziale minoritario, sulla base di nuove e interessanti consi-
derazioni che meritano di essere condivise.
La sentenza prende le mosse dalla normativa previgente al codice attuale. An-
che allora, l’art. 272 c.p.p. abr. (2), il cui contenuto si è nella sostanza riversato
nell’odierna formulazione dell’art. 304 c.p.p., si prestava ad una duplice ed oppo-
sta interpretazione laddove prevedeva la sospensione dei termini di custodia cau-
telare per il caso di rinvio del dibattimento richiesto dall’imputato o dal suo difen-
sore (3). In alcune pronunce si privilegiava un criterio di mero automatismo tra ri-
chiesta di rinvio del dibattimento e sospensione dei termini massimi di custodia
cautelare; in altre, per verità più sparute, si faceva strada l’idea che — ai fini del-
l’applicabilità dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p.— la richiesta di rinvio com-
portasse un vaglio ‘‘teleologico’’ del giudice, volto a stabilire se un eventuale acco-
glimento dell’istanza avrebbe tutelato valori costituzionalmente rilevanti o piutto-
sto meri interessi personali del richiedente. Solo in questa seconda ipotesi sarebbe
scattato il meccanismo sospensivo previsto dalla norma in esame. Dopo il 1989 il
panorama giurisprudenziale in materia appare pressoché immutato: con riferi-
mento specifico alla dichiarazione di ricusazione, l’orientamento dominante ri-
mane nel senso di considerarla una causa indiretta (4) ma necessaria (5) di so-
spensione del processo e pertanto automaticamente rilevante ai fini dell’art. 304,
comma 1, lett. a) c.p.p. Restano alquanto isolate le pronunce che valorizzano la
necessità di un vaglio giurisdizionale sulla richiesta di rinvio dell’imputato, al fine
di individuare la ragione vera dell’istanza (6); va da sé che solamente in presenza
di tattiche ostruzionistiche o dilatorie messe in atto dall’imputato sarebbe scattato
il meccanismo sospensivo dei termini di custodia cautelare.
Segue questa via la sentenza che si commenta, la quale non solo riabilita l’ac-
cennato orientamento minoritario ma ne chiarisce al contempo il significato e ne
delimita il campo applicativo. Più precisamente, due sono le questioni di cui si oc-
cupa la Suprema Corte per avallare le sue conclusioni. In prima battuta, i giudici
di legittimità individuano la natura e la ratio dell’art. 304 c.p.p., quale norma pre-
disposta dal legislatore per garantire effettività all’istituto della custodia cautelare:
sua funzione precipua è scoraggiare l’imputato o il difensore dall’uso strumentale
di certe richieste — quali, ad esempio, le istanze di rinvio del dibattimento — per

(2) Per alcune riflessioni in tema di sospensione dei termini di custodia cautelare, con riferimento
alla normativa previgente, si veda V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano,
1976, p. 208 ss.; P. FERRUA, in AA.VV., La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale,
Padova, 1985, p. 301; A. GIARDA, Commento all’art. 272, comma 7, c.p.p., nel testo modificato dall’art. 3
della l. n. 398 del 1984, in Leg. pen., 1985, p. 87.
(3) Si tratta del fulcro della questione affrontata dai giudici di legittimità poiché le opinioni diver-
genti delle sezioni semplici, dalle quali origina la pronuncia in esame, riguardano la possibilità o meno di
far rientrare l’istanza di ricusazione tra le cause di rinvio o sospensione del dibattimento riconducibili ad
un richiesta dell’imputato o del suo difensore, idonee a sospendere i termini cautelari ai sensi dell’art.
304, comma 1, lett. a) c.p.p.
(4) È principio pacifico, in dottrina ed in giurisprudenza, che alla richiesta esplicita e diretta di
rinvio o sospensione del dibattimento vada equiparata l’ipotesi in cui l’istanza non sia direttamente rivolta
a tale scopo ma lo implichi, quale diretta conseguenza.
(5) Per un’ampia panoramica giurisprudenziale sul tema si veda infra, § 2, note n. 17, 18, 19.
(6) In questo senso si vedano Cass., sez. I, 10 febbraio 1997, Battaggia, in Giust. pen., 1997, III,
p. 321 con nota di E. ZAFFALON, Termini di custodia e procedimento incidentale di ricusazione, nonché in
Cass. pen., 1998, p. 196; Cass., sez. I, 27 luglio 1992, p.m. in proc. Greco, ivi, 1993, p. 2890; Cass., sez.
I, 6 luglio 1992, p.m. in proc. Di Grigoli, in Ced, n. 191027. Si tratta di pronunce che si richiamano al-
l’interpretazione di fondo di Cass., sez. un., 23 ottobre 1990, Mancini, in Cass. pen., 1991, p. 219, la
quale, a sua volta, ripropone la linea di pensiero di Cass., sez. I, 6 dicembre 1976, Fonti, ivi, 1978, p.
461, in riferimento all’art. 272 c.p.p. abr.

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scopi tattici o dilatori. Va da sé che fine ultimo della norma in esame è evidente-
mente quello di scongiurare lo spettro di scarcerazioni indebite, imposte dalla sca-
denza dei termini massimi di custodia cautelare. Alla luce di questa ratio va dun-
que letta la previsione del meccanismo sospensivo di cui all’art. 304 c.p.p., per il
caso di rinvio del dibattimento richiesto dell’imputato (7).
Successivamente la Suprema Corte entra nel vivo della questione sottoposta
al suo esame, vale a dire se la dichiarazione di ricusazione rientri o meno nel rag-
gio d’azione di tale norma. Si tratta allora di verificare se tale istanza imponga ne-
cessariamente quella sospensione o rinvio del dibattimento riconducibile a una vo-
lontà dell’imputato, che è annoverata tra le cause di sospensione dei termini mas-
simi di custodia cautelare. Solamente una risposta negativa, infatti, consentirebbe
di sottrarre alla sfera di operatività dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. la propo-
sizione di un’istanza di ricusazione. Fatte queste premesse, ecco la conclusione
alla quale giungono i supremi giudici.
Diversamente dal pregresso sistema processuale (8), la normativa attuale im-
pone di escludere la sussistenza di una consequenzialità necessaria tra dichiara-
zione di ricusazione e sospensione del processo (9), in quanto sono mutati i rap-
porti tra il procedimento principale e quello incidentale di ricusa. Lo si evince fa-
cilmente dalla circostanza che la mera presentazione dell’istanza di ricusazione e
la delibazione di ammissibilità del giudice chiamato a pronunciarsi su di essa, di
norma non comportano alcuna limitazione di poteri per il giudice ricusato, al
quale è precluso solamente di pronunciare sentenza finché non sia intervenuta
l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di ricusazione. Ciò si-
gnifica che l’attività processuale prosegue regolarmente fino alla soglia della deci-
sione finale e non risulta affatto paralizzata per effetto della mera istanza di ricu-
sazione. Alla sospensione ex lege del processo (10), prevista dal codice abrogato,
si è, in effetti, sostituita una sospensione per atto giudiziale, che non assume mai
connotati di cieca automaticità, in quanto l’organo competente a decidere sulla ri-
cusazione potrebbe — ma senza esserne obbligato — sospendere in tutto o in
parte i poteri del ricusato, caso per caso, in base al suo prudente apprezza-
mento (11). In altri termini, il sistema delineato dal legislatore del 1988 spezza il
preesistente automatismo tra istanza di ricusazione e sospensione del procedi-
mento e rafforza la funzione di filtro svolta dal giudice della ricusazione, unico or-
gano competente a disporre, eventualmente, la sospensione del processo princi-

(7) In tal modo le Sezioni unite implicitamente avallano quella giurisprudenza risalente che valo-
rizzava la necessità di un vaglio teleologico del giudice sulla richiesta di rinvio dell’imputato. Tale inter-
pretazione dell’art. 304, comma 1, lett. a), infatti, lascia intendere che il giudice potrà decidere sulla so-
spensione dei termini custodiali solamente al termine di un’indagine volta ad individuare la ragione vera
dell’istanza di rinvio.
(8) In verità, anche sotto la vigenza del codice abrogato, la questione non era del tutto pacifica: da
più parti si evidenziava come la sospensione del processo e quindi la restrizione dei poteri del giudice ri-
cusato non scattasse automaticamente, quale effetto della dichiarazione di ricusazione, ma presupponesse
sempre il filtro di ammissibilità del giudice competente a decidere sulla ricusazione. Tale orientamento
trovava inoltre autorevole conferma da parte della Corte costituzionale nella sentenza 16 maggio 1983 n.
138. Per alcune significative riflessioni sul tema si legga M. CHIAVARIO, La sospensione del processo pe-
nale, Milano, 1967, p. 54 ss.
(9) Tra i tanti, esclude categoricamente la presunta consequenzialità necessaria tra richiesta di ri-
cusazione e sospensione processuale T. TREVISSON LUPACCHINI, La ricusazione del giudice nel processo pe-
nale, Milano, 1996, p. 242.
(10) Come autorevole dottrina aveva denunciato, era forte il rischio che tale meccanismo si tra-
sformasse in un autentico incentivo ad avanzare istanze di ricusazione, sia pure pretestuose ed ingiustifi-
cate. Così G. CONSO, Ricusazione istituto da rivedere, in Arch. nuova proc. pen., 1975, p. 92.
(11) È evidente come in tal modo l’istituto della ricusazione, correttamente interpretato, sia in
grado di neutralizzare possibili abusi e non si presti ad ingiustificate strumentalizzazioni da parte di chi ha
interesse a rallentare l’iter procedimentale. Così si legge anche in Corte cost., 8 aprile 1993, n. 156, chia-
mata a scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 41 c.p.p.

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pale. Ragionevole appare allora la conclusione delle Sezioni unite laddove esclu-
dono dal raggio d’azione dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p. l’istanza di ricusa-
zione: l’applicabilità di tale norma — è opportuno ribadirlo — richiede a monte
un provvedimento di sospensione o di rinvio del dibattimento e, normalmente, la
mera dichiarazione di ricusazione non integra tale presupposto, in quanto la so-
spensione del procedimento che da essa può derivarne non è necessitata ma solo
eventuale. A conferma di tale conclusione, la Suprema Corte aggiunge un ulteriore
rilievo che discende dalla ratio dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p.
Solamente al giudice chiamato a vagliare la richiesta di ricusazione la legge ri-
conosce il potere di disporre la sospensione del processo, una volta escluso qualsi-
voglia intento ostruzionistico o dilatorio del richiedente. È dunque tale organo
che, in astratto, al termine della sua indagine sulla ‘‘bontà’’ dell’istanza di ricusa-
zione, potrebbe o meno disporre il congelamento dei termini di custodia cautelare,
ma logica e buon senso portano ad escludere una tale possibilità. Sarebbe, infatti,
irragionevole che la legge consentisse a tale giudice di pregiudicare la posizione
dell’imputato con la sospensione dei termini di custodia cautelare proprio dopo
aver accertato la fondatezza dell’istanza di ricusazione e disposto la sospensione
del processo. Diversamente opinando, si finirebbe per legittimare l’operato di un
giudice che sospende il decorso dei termini di custodia cautelare pur in assenza di
qualsivoglia tattica dilatoria dell’imputato, in palese contrasto con le finalità pro-
prie dell’art. 304 c.p.p. In sintesi, la decisione del giudice di sospendere il pro-
cesso consegue ad un suo vaglio preliminare sulla fondatezza dell’istanza di ricu-
sazione che ne esclude necessariamente la pretestuosità e rende superfluo o addi-
rittura vessatorio far scattare il meccanismo di congelamento dei termini di custo-
dia cautelare. Si tratta dunque di una conclusione che perfettamente si combina
con la nuova disciplina del procedimento incidentale di ricusa, la quale attual-
mente già prevede, al suo interno, appositi meccanismi idonei ad assicurare l’effet-
tività del processo in corso (12). La finalità perseguita dall’art. 304 c.p.p., infatti,
è assicurata dalle regole che disciplinano l’istituto della ricusazione, le quali mi-
rano a scoraggiare le istanze pretestuose e dilatorie poste in essere dall’impu-
tato (13).
Residua un’ipotesi affatto peculiare per la quale questa conclusione non si ad-
dice, mancandone gli stessi presupposti. Si tratta del caso in cui l’istanza di ricusa-
zione intervenga nel momento immediatamente precedente la pronuncia della sen-
tenza, all’esito di ogni adempimento istruttorio e processuale: inevitabilmente, in
questo caso, si verifica un’automatica sospensione del processo, in quanto è il det-
tato normativo che impedisce al giudice di pronunciare sentenza finché non sia in-

(12) A tale proposito, non va sottovalutato l’intervento della Corte costituzionale che con la sen-
tenza 23 gennaio 1997, n. 10, in Cass. pen., 1997, p. 1305, ha contribuito a ridurre i rischi di paralisi
processuale, eliminando il divieto per il giudice di pronunciare sentenza qualora la dichiarazione di ricusa-
zione sia riproduzione di un’altra precedente. Si vedano, in tal senso, i rilievi di V. GREVI, Un freno al-
l’uso distorto della richiesta di rimessione a tutela dell’efficienza del processo penale: la parziale illegitti-
mità dell’art. 47, comma 1, c.p.p. (con un corollario sulla correlativa illegittimità dell’art. 37, comma 2,
in tema di ricusazione), in Cass. pen., 1997, p. 1277.
(13) Tale conclusione trova indiretta conferma nel d.l. n. 553 del 1996 (conv. in l. n. 652 del
1996) il quale impone, nei procedimenti in corso, la sospensione dei termini di custodia cautelare per il
caso in cui sia stata formulata istanza di ricusazione sulla base delle nuove ipotesi di incompatibilità deri-
vanti dalle coeve sentenze 24 aprile 1996, n. 131 e 20 maggio 1996, n. 155 della Corte Costituzionale. La
previsione di una sospensione ad hoc dei termini custodiali lascia ragionevolmente desumere che normal-
mente la procedura di ricusazione non incida affatto sugli stessi. Sul punto si legga E. MARZADURI, La tor-
mentata genesi e gli aspetti salienti di una normativa bicefala, in Leg. pen., 1997, p. 283. In giurispru-
denza si veda: Cass., sez. I, 8 febbraio 1999, Barreca, in Cass. pen., 2000, p. 1022; Cass., sez. I, 10 set-
tembre 1997, p.g. in proc. Marcianò, in Ced, n. 208347; Cass., sez. VI, 4 maggio 1999, Romeo, in Ced, n.
214053 nonché, alquanto diversamente, Cass., sez. I, 21 agosto 1997, Giambalvo, in Cass. pen., 1999, p.
1566.

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tervenuta l’ordinanza che rigetta o dichiara inammissibile l’istanza di ricusazione.


L’interprete si trova dunque a fare i conti con una paralisi dell’attività processuale
che non è più ancorata alla valutazione discrezionale di un giudice, ma a specifi-
che e cogenti disposizioni legali. È evidente che, al verificarsi di una simile eve-
nienza, l’impianto argomentativo della Corte non può più reggere: l’insindacabile
sospensione del processo, che necessariamente ne deriva, dimostra che il sistema
non contiene già al suo interno gli strumenti idonei a contrastare una possibile
istanza pretestuosa (14). È dunque inevitabile ricorrere al meccanismo sospensivo
dell’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p., la cui ratio riemerge in tutta la sua attualità.
Si tratta, ad avviso dei giudici di legittimità, di una soluzione ragionevole ed af-
fatto lesiva di diritti costituzionalmente garantiti, segnatamente la libertà perso-
nale dell’imputato, in quanto frutto di una prudente opera di bilanciamento con
un bene altrettanto rilevante qual è quello dell’efficienza del processo. Ciò signi-
fica che, nel tentativo di raggiungere un equilibrio tra esigenze opposte, il rischio
di una paralisi del procedimento ricollegabile ad un mero abuso processuale del-
l’imputato consente ragionevolmente di privilegiare il valore dell’efficienza del
processo penale e dunque dell’istituto della custodia cautelare. Nè tale conclusione
si presta ad alimentare un’interpretazione analogica o in malam partem dell’art.
304, comma 1, lett. a) c.p.p. perché la peculiare ipotesi esaminata dalla Corte —
presupponendo un residuale automatismo tra dichiarazione di ricusazione e so-
spensione del processo — rientra senz’altro nel raggio d’azione della norma.
2. Dichiarazione di ricusazione del giudice e sospensione dei termini di cu-
stodia cautelare negli argomenti della giurisprudenza. — La conclusione alla quale
giunge la Suprema Corte circa l’ambito applicativo dell’art. 304 c.p.p. s’inserisce
in un panorama giurisprudenziale affatto uniforme in materia. In effetti, è sor-
prendente osservare come, in svariate pronunce dei giudici di legittimità (15), la
dichiarazione di ricusazione del giudice sia stata qualificata quale atto da cui legit-
timamente consegue la sospensione dei termini di custodia cautelare. Converrà
dunque dar conto del vivace dibattito che precede la decisione delle Sezioni unite,
per valutare se la bontà della soluzione prospettata possa, in qualche modo, essere
scalfita oppure uscirne vittoriosa. Le pronunce giurisprudenziali che si sono via
via susseguite in tema di ricusazione evidenziano un primo dato significativo. Il
c.d. ‘‘criterio dell’automaticità’’ tra istanza di ricusazione, sospensione del pro-
cesso e sospensione dei termini di custodia cautelare, accomuna più o meno espli-
citamente la maggior parte delle pronunce che negano la conclusione a cui è
giunta la Suprema Corte. Conviene allora sondarne la validità. Diciamo subito
che, come si è visto, già sotto la vigenza del codice abrogato (16), tale criterio
aveva occasionato diverse prese di posizione in giurisprudenza: è tuttavia indub-

(14) La quale si presenta come ipotesi affatto peregrina dal momento che il giudice procedente è
privo di un potere delibativo preliminare sulla fondatezza dell’istanza ed inoltre si verifica un’immediata
sospensione ex lege del processo (art. 37, comma 2, c.p.p.): si può anzi maliziosamente ritenere insito
nella richiesta stessa il sospetto di finalità meramente dilatorie o ostruzionistiche.
(15) Così, apoditticamente, Cass., sez. I, 10 gennaio 1992, Cirillo, in Cass. pen., 1993, p. 110. In
riferimento alla normativa previgente, si veda, ex multis, Cass., sez. VI, 27 maggio 1991, Della Stella, in
Ced, n. 187607.
(16) E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, Milano, 1989, p. 158, effettua una significa-
tiva comparazione tra la normativa attuale e quella previgente, la quale prescriveva una forte restrizione
di poteri del magistrato procedente — paragonabile ad un’ipotesi di sospensione del processo — perché
‘‘il giudice ricusato, avuto notizia della dichiarazione di ricusazione, poteva compiere solo atti urgenti di
istruzione’’. Nel nuovo codice, invece, la presentazione dell’istanza di ricusazione non comporta per il giu-
dice ricusato nessuna limitazione di poteri nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali; né tantomeno
la costituzione di un obbligo di astensione. L’unico divieto imposto dalla legge — per l’evidente motivo di
non pregiudicare in modo definitivo le ragioni del richiedente — è quello previsto dall’art. 37, comma 2,
c.p.p.

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bio che esso non abbia diritto di cittadinanza nell’attuale sistema processuale. La
mera preclusione per l’organo giudicante di pronunciare sentenza non può, infatti,
essere considerata quale ipotesi sospensiva di ogni attività processuale. Ciò nondi-
meno, si sono registrati, in giurisprudenza, frequenti tentativi di aggirare l’osta-
colo in questione. Più precisamente, i giudici di legittimità hanno in più occasioni
ipotizzato che proprio l’ampiezza dei poteri del giudice sospetto possa autoriz-
zarlo a sospendere i termini di custodia cautelare; tale organo sarebbe dunque le-
gittimato ad emanare qualsiasi tipo di provvedimento, purché diverso dalla sen-
tenza finale (17). Ipotesi certo suggestiva ma del tutto scevra dal dato normativo
che collega la sospensione dei termini di custodia cautelare ad una preventiva so-
spensione del processo riconducibile ad una richiesta dell’imputato (art. 304,
comma 1, lett. a) c.p.p.), la quale, nel procedimento di ricusazione, potrebbe es-
sere disposta solo eventualmente e per di più ad opera di un giudice diverso da
quello procedente.
Altre pronunce sono giunte ad una conclusione analoga basandosi però su un
diverso ordine di rilievi. Segnatamente, la Suprema Corte ha in più occasioni chia-
rito che la dichiarazione di ricusazione è atto da cui legittimamente consegue la
sospensione dei termini di custodia cautelare, in quanto al giudice procedente è
precluso ogni potere di valutazione preliminare circa la fondatezza dell’istanza di-
fensiva. Tale organo non potrebbe dunque evitare strumentalizzazioni dell’istituto
in esame, né tantomeno potrebbe bilanciare le opposte esigenze di non sacrificare
la libertà personale dell’imputato oltre il necessario e di impedire il decorso dei
termini cautelari, a fronte di istanze pretestuose. In tale contesto, dunque, l’unica
soluzione ragionevole imporrebbe di privilegiare l’interesse al mantenimento della
misura restrittiva (18).
Alla luce di quanto detto, appare comprensibile che la giurisprudenza abbia
tentato di forzare il testo della norma (19), senza però appoggiare le proprie con-
clusioni su un’esegesi accettabile del dato sistematico. Tutto ciò, ovviamente, al
fine di salvaguardare le ragioni dell’effettività del processo e della custodia caute-
lare, anche a discapito del diritto alla libertà personale dell’imputato.
Non sono mancate, per verità, alcune pronunce di segno opposto, che hanno
in qualche modo anticipato l’indirizzo fatto proprio, attualmente, dalle Sezioni
unite. Si fa strada l’idea (20) che non già la mera dichiarazione di ricusazione
bensì la ragione stessa sottesa a tale istanza rilevi ai fini qui considerati. In altri
termini, l’operatività della sospensione dei termini di custodia cautelare, in riferi-
mento ad una richiesta proveniente dall’imputato o dal suo difensore, dipende dal
contenuto della richiesta stessa, la quale merita di essere diversamente considerata
e trattata a seconda che poggi su motivi personali o, invece, su motivi ricollegabili
all’esigenza, di carattere obiettivo, di assicurare un processo giusto. Infatti, se dal-
l’accoglimento della richiesta conseguisse la stasi del procedimento, non si po-

(17) Così, Cass., sez. I, 5 marzo 1991, De Tommasi, in Giust. pen., 1991, III, p. 614 e Cass., sez.
I, 4 aprile 1997, Gentile, in Cass. pen., 1999, p. 1184.
(18) Così Cass., sez. I, 8 settembre 1997, Cannatella, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 647 ed
in Cass. pen., 1998, p. 2999 nonché Cass., sez. VI, 22 febbraio 1999, Ferraro, ivi, 2000, p. 452.
(19) Addirittura, in alcune pronunce, si è esplicitamente estesa la sospensione dei termini custo-
diali nei confronti del ricusante al coimputato non ricusante che non abbia chiesto di precedere nei suoi
confronti, previa separazione dei processi. Si veda, in tal senso, Cass., sez. I, 20 giugno 1997, La Monica,
in Giust. pen., 1998, III, p. 500.
(20) A conferma di questa ispirazione garantista e particolarmente attenta al valore della libertà
personale viene in considerazione il tipo di provvedimento — esplicito e passibile di impugnazione — che
la legge prevede per la sospensione dei termini custodiali. Ciò significa che l’eventuale provvedimento di
sospensione del processo pronunciato in assenza di un’istanza pretestuosa potrà essere impugnato ai sensi
dell’art. 310 c.p.p.

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trebbe legittimamente pregiudicare la posizione dell’imputato con la sospensione


dei termini di custodia cautelare (21).
Considerazioni analoghe sono state fatte, del resto, con riguardo alla sospen-
sione del processo penale conseguente al promovimento di un giudizio di costitu-
zionalità. A fronte di siffatta evenienza viene generalmente negata la sospensione
dei termini di custodia cautelare sulla base di un duplice ordine di considerazioni:
per un verso si evidenzia il rilevante interesse pubblico alla decisione sulla costitu-
zionalità della norma, per altro verso si valorizza la funzione di preventiva verifica
sulla non manifesta infondatezza della questione proposta, propria del giudice
procedente (22). Su questo la giurisprudenza è ormai concorde (23). Ora, adat-
tando tali rilievi al pur diverso procedimento incidentale di ricusazione, è possibile
ugualmente individuare un rilevante interesse pubblico, questa volta all’imparzia-
lità dell’organo giudicante e la sussistenza di un giudizio sulla pretestuosità dell’i-
stanza (che corrisponderebbe al vaglio sulla fondatezza della questione di costitu-
zionalità), rimesso al giudice chiamato a decidere sulla sospensione o meno del
processo. In entrambi i casi (rimessione degli atti alla Corte Costituzionale e
istanza di ricusazione) è del tutto irrilevante che l’iniziativa del provvedimento di
sospensione del processo provenga dalla parte, la quale svolge nient’altro che una
funzione di stimolo ad un controllo che il giudice ha il potere-dovere di esercitare
d’ufficio (24); si tratta di un provvedimento che non mira a favorire il richiedente,
bensì a conseguire interessi di carattere obbiettivo e dal quale non sarebbe ragio-
nevole far derivare effetti pregiudizievoli per l’imputato stesso.
3. Dichiarazione di ricusazione e sospensione dei termini di prescrizione. —
La soluzione offerta dalla Suprema Corte riabilita l’accennato orientamento mino-
ritario in tema di ricusazione e sospensione dei termini di custodia cautelare, re-
stringendo l’ambito delle ipotesi sospensive a quell’unico caso in cui l’istanza sia
presentata alle soglie della decisione finale. Così circoscritta la potenzialità so-
spensiva dell’istanza di ricusazione con riguardo ai termini massimi di custodia
cautelare, vien da chiedersi se alla stessa conclusione sia possibile giungere con ri-
guardo ai termini di prescrizione. Il che significa — é evidente — valutare se la di-
chiarazione di ricusazione sia o meno riconducibile alle fattispecie sospensive pre-
viste dall’art. 159 c.p., il quale — come si sa — richiama espressamente le ipotesi
di sospensione della custodia cautelare. Più precisamente, tre appaiono le possibili
vie da esplorare fra le maglie di tale norma, per stabilire se l’istanza di ricusazione
possa o meno rientrare nel suo ambito applicativo. In primo luogo sarà opportuno
verificare se l’istanza in parola possa o meno configurarsi quale questione deferita
ad altro giudizio; in caso di risposta negativa, converrà valutare se la stessa sia
idonea a provocare una sospensione obbligatoria del processo penale; infine si po-

(21) Così Cass., sez. I, 10 febbraio 1997, Battaggia, cit. sub nota 6.
(22) Si veda, in tal senso, Cass., sez. un., 23 ottobre 1990, Mancini, cit. sub nota 6.
(23) Così Cass., sez. I, 29 maggio 1992, p.m. in proc. Di Grigoli, cit. sub nota 6, secondo cui, poi-
ché la sospensione dei termini di custodia cautelare è diretta ad evitare che l’imputato possa beneficiare di
eventi da lui determinati a fini dilatori, tale meccanismo non scatta qualora il legame tra l’istanza dell’im-
putato ed il rinvio del dibattimento si interrompa. Ciò si verifica quando la causa che ha determinato la
sospensione del processo trova origine nell’esercizio di attività processuali che la legge rende obbligatorie,
indipendentemente dall’istanza dell’imputato, ponendosi questa solo come impulso all’espletamento di
un’attività doverosa del giudice. Ad analoga conclusione pervengono: Cass., sez. I, 27 luglio 1992, p.m. in
proc. Greco, cit. sub nota 6; Cass., sez. I, 19 novembre 1993, Mamone, in Ced, n. 196587; Cass., sez. un.,
3 luglio 1996, Vernengo, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 954; Contra: Cass., sez. I, 2 giugno 1992, p.m. in
proc. Battaglia, in Cass. pen., 1993, p. 2890. In riferimento alla normativa previgente si veda Cass., sez. I,
6 dicembre 1976, Fonti cit. sub nota 6 nonché Cass., sez. I, 29 dicembre 1971, O’Brien, in Cass. pen.,
1973, p. 152.
(24) Per il caso della ricusazione ci si riferisce evidentemente al potere-dovere di astensione del
giudice procedente.

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trà tentare di ricondurre l’istanza di ricusazione alle ipotesi in cui la sospensione


dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge
(art. 159, comma 1, c.p.). Va da sé che, solo con riferimento a queste ultime pre-
visioni, rileva la conclusione alla quale giungono le Sezioni unite nella sentenza
che si annota; per la restante ipotesi sarà sufficiente una considerazione generale
che prescinde dalla questione sino ad ora analizzata. Da questa conviene dunque
prendere le mosse. La configurabilità dell’istanza di ricusazione quale questione
deferita ad altro giudizio, secondo il disposto dell’art. 159, comma 1, c.p., va cer-
tamente esclusa: è di ostacolo l’indubbia difficoltà di considerare un procedimento
incidentale, qual è quello di ricusazione, un ‘‘altro giudizio’’ in senso proprio (25).
In effetti, bisogna ammettere che si tratta piuttosto di una sorta di diramazione del
procedimento principale, non certo di un giudizio autonomo (26).
Quanto alle altre possibili strade poc’anzi individuate, esse risultano forse più
agilmente percorribili ma — come si vedrà — non consentono di avallare una dif-
ferente conclusione. Per comprendere appieno il seguito del ragionamento con-
viene, sin d’ora, sgombrare il campo da un equivoco e fissare un punto fermo. È
indubbio che la dichiarazione di ricusazione viene in considerazione quale possi-
bile causa sospensiva dei termini di custodia cautelare connessa ad un provvedi-
mento di sospensione del processo riconducibile ad una richiesta dell’imputato,
secondo quanto prevede l’art. 304, comma 1, lett. a) c.p.p.. Sarà allora sufficiente
analizzare l’eventuale riconducibilità di tale istanza alle cause di sospensione del
processo, imposte da una particolare disposizione di legge, per ricollegarvi la so-
spensione dei termini di prescrizione. Ciò significa che le restanti vie, prospettate
per ricomprendere la dichiarazione di ricusazione nel raggio d’azione dell’art.159
c.p., si riducono in realtà ad una soltanto, quella che impone di verificare se la
suddetta istanza sia qualificabile come causa di sospensione del processo penale
imposta da una particolare disposizione di legge. In effetti, il rinvio alle cause di
sospensione di cui all’art. 304 c.p.p., contenuto nel testo dell’art. 159 c.p., ri-
guarda unicamente le ipotesi di sospensione dei termini cautelari naturalmente
prive di conseguenze sulla sospensione del procedimento. E non è certo questa l’i-
potesi cui dà luogo l’istanza di ricusazione.
Fatta questa precisazione, si comprende come, per uscire dall’impasse sia suf-
ficiente analizzare il dettato normativo di cui all’art. 159 c.p., dove esso prevede il
congelamento dei termini di prescrizione in presenza di una causa di sospensione
del processo imposta da una particolare disposizione di legge. Un primo dato
balza all’occhio: è lo stesso tenore letterale della norma che impone di escludere
dalla sua sfera di operatività le ipotesi facoltative di sospensione del pro-
cesso (27). Se ne deduce chiaramente che l’ipotesi, per così dire ‘‘ordinaria’’, di ri-
cusazione senz’altro esula dall’ambito applicativo di tale previsione, in quanto l’e-
ventuale sospensione del processo potrebbe essere disposta, con un atto discrezio-
nale, ad opera di un giudice diverso da quello che procede. In effetti, è possibile
individuare almeno due ipotesi di sospensione del procedimento penale, che diver-
samente si atteggiano rispetto all’art. 159 c.p. Vengono in primo luogo in conside-
razione le ipotesi di sospensione che senz’altro fuoriescono dall’ambito di tale
norma, perché disposte con atto discrezionale del giudice come accade, ad esem-

(25) Alla stessa conclusione, in riferimento però all’istanza di rimessione, giunge L. GIULIANI, Ri-
messione del processo e valori costituzionali, Torino, 2002, p. 292.
(26) Sul tema si legga M. CHIAVARIO, voce Sospensione del processo, in Enc. giur., XXX, Roma,
Treccani, 1993, p. 1; P. RIVELLO, voce Sospensione del processo in Dig. Disc. pen., Torino, vol. XIV,
1999, p. 473; G. UBERTIS, Sospensione del processo penale in Enc. dir., Aggiornamento, vol. I, Milano,
1997, p. 937.
(27) Per un’analisi dei concetti di sospensione obbligatoria e facoltativa si veda P. RIVELLO, op.
loc. cit.; G. UBERTIS, op. loc. cit.

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pio, nei casi di astensione e ricusazione del giudice procedente; vi sono poi ipotesi
che senz’altro rilevano ai fini dell’applicazione dell’art. 159 c.p. in quanto il giu-
dice è pressoché costretto a sospendere il processo come accade nei casi in cui si
discute dell’incapacità dell’imputato (28). Diversa conclusione s’impone invece
con riferimento a quell’ipotesi residuale, isolata dalla Suprema Corte nella sen-
tenza qui annotata: qualora, infatti, l’istanza di ricusazione sia proposta al termine
di ogni attività processuale, poco prima della pronuncia della sentenza finale, si
verifica senz’altro una sospensione ex lege del processo e di conseguenza i termini
di prescrizione andranno ragionevolmente congelati, secondo quanto dispone l’art.
159, comma 1, c.p.
I rilievi svolti dalle Sezioni unite inevitabilmente impongono di restringere a
quest’ultima ipotesi l’ambito di operatività dell’art. 159 c.p.: per il caso ordinario
di ricusazione, viceversa, il processo non si arresta e i termini prescrizionali prose-
guono il loro corso (29). Si tratta, del resto, di una soluzione alquanto ragione-
vole, ulteriormente confortata dal rilievo che non sarebbe giustificabile un pregiu-
dizio per l’imputato, quale la sospensione dei termini di prescrizione, nel contesto
di una situazione processuale — il procedimento incidentale di ricusazione — che
già al proprio interno consente l’attivazione di rimedi volti a prevenire eventuali
manovre pretestuose.
4. La soluzione delle Sezioni unite alla luce del parametro costituzionale-
della durata ragionevole del processo. — La conclusione prospettata dalla Su-
prema Corte appare senz’altro meritevole di plauso, anche alla luce degli effetti in-
diretti che ne derivano in tema di prescrizione. In effetti, riducendo le possibilità
di sospensione dei termini massimi per la dichiarazione di colpevolezza ed anzi li-
mitandole a quell’unica ipotesi residuale sopra vista, l’interpretazione delle Se-
zioni unite imprime un’accelerazione allo svolgimento del processo e si pone
quindi a baluardo della sua ragionevole durata. Così almeno ci sembra che debba
essere. Prima di avallare con certezza tale conclusione però bisogna fare i conti
con una possibile obbiezione. Vien da chiedersi, infatti, se una visione più mali-
ziosa ma certo più realistica della vicenda procedimentale possa o meno scalfire
l’assolutezza di tale considerazione in merito ai tempi del processo. Sotto quest’ot-
tica, in effetti, l’interpretazione delle Sezioni unite potrebbe contribuire a rallen-
tare piuttosto che ad accelerare i tempi del processo, una volta allontanato dal-
l’imputato lo spettro della sospensione del corso della prescrizione. In altri ter-
mini, tale soluzione potrebbe paradossalmente incentivare possibili ‘‘abusi’’ del di-
ritto di difesa, segnatamente la presentazione di istanze pretestuose di ricusazione,
al fine di far scadere il tempo massimo per la dichiarazione di colpevolezza (30).
Si tratta, a ben vedere, di un’evenienza non del tutto peregrina ma che certamente
non si presta a generare conseguenze devastanti, quanto meno con riferimento al

(28) Si tratta di una conclusione valida non solo nei processi a carico di imputati detenuti ma an-
che nei procedimenti relativi ad imputati in stato di libertà, alla luce della recente interpretazione delle Se-
zioni unite. Si veda in tal senso, Cass., sez. un., 28 novembre 2001, Cremonese, in Cass. pen., 2002, p.
1309 con nota di M.L. DI BITONTO, Le Sezioni unite reinterpretano il combinato disposto degli artt. 159
c.p. e 304 c.p.p.: l’astensione collettiva dei difensori dalle udienze penali sospende il corso della prescri-
zione.
(29) Diversa conclusione è stata prospettata in dottrina per il caso in cui venga presentata un’i-
stanza di rimessione del processo: se si condivide l’assunto che la sospensione del processo disposta dalla
Cassazione su richiesta dell’imputato sia idonea a sospendere i termini cautelari, appare ragionevole giu-
stificare anche la sospensione dei termini di prescrizione (così, prima dell’approvazione della l. 7 novem-
bre 2002, n. 248, L. GIULIANI, op. cit., p. 291).
(30) Si veda, a tale proposito, L. PECORI, ‘‘Impedimento dell’imputato o del difensore e sospen-
sione dei termini di prescrizione’’ in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc., ove, in effetti, si giunge a
queste conclusioni.

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procedimento incidentale di ricusazione. Come si è avuto modo di illustrare, (31)


infatti, il sistema attuale, così com’è delineato nel suo complesso, prevede già al
suo interno meccanismi idonei a contrastare possibili istanze pretestuose avanzate
dall’imputato: ci si riferisce evidentemente alla norma che prevede una sospen-
sione solo eventuale del processo (e consente — di norma — una regolare prose-
cuzione dell’attività processuale a seguito della presentazione della dichiarazione
di ricusazione) nonché al potere del giudice di pronunciare sentenza a fronte di
un’ennesima istanza fondata sui medesimi motivi (32). Ciò significa che, quan-
d’anche l’imputato sperimentasse l’uso di tattiche ostruzionistiche contando sul-
l’assenza del meccanismo sospensivo del corso della prescrizione, le sue manovre
difficilmente sarebbero in grado di sortire l’effetto desiderato.
5. Considerazioni conclusive. — L’iter argomentativo seguito dalle Sezioni
unite nella sentenza qui annotata risulta senz’altro condivisibile e perfettamente
compatibile con la nuova disciplina processuale in tema di ricusazione. Ne deriva
un’interpretazione normativamente corretta ed in linea con la maggior sensibilità
accusatoria del nuovo rito. Viceversa, la maggior parte delle pronunce precedenti,
poco sensibili alla metamorfosi subita dall’istituto della ricusazione, aveva finito
per forzare le maglie dell’interpretazione codicistica con un atteggiamento che af-
fermava in maniera pressoché unilaterale le ragioni dell’effettività della giurisdi-
zione. In effetti, è fin troppo evidente come sullo sfondo della diatriba giurispru-
denziale si scontrino per un verso la necessità di garantire l’istituto della custodia
cautelare e del processo penale nel suo complesso e per altro verso l’opposto di-
ritto alla libertà personale dell’imputato (33). Che si tratti di valori suscettibili di
entrare spesso in collisione è un fatto d’immediata percezione. Con riguardo al
procedimento incidentale di ricusazione, però, ci sembra senz’altro ragionevole
leggere la norma con la dovuta attenzione all’esigenza di garantire la libertà per-
sonale dell’imputato. Tanto più ove si consideri che tale conclusione è supportata
da un ulteriore rilievo, del tutto scevro dal dato testuale. È infatti evidente che
l’interpretazione delle Sezioni unite contribuisce ad eliminare il rischio che l’impu-
tato, per scongiurare il protrarsi della custodia cautelare dovuto al meccanismo
sospensivo dei relativi termini, si veda costretto a sacrificare il proprio diritto alla
verifica dell’imparzialità del giudice. Eventualità questa per nulla peregrina e ulte-
riormente favorita dalla minaccia della condanna (34) prevista dall’art. 44 c.p.p.
per il caso in cui la sua richiesta risulti inammissibile o venga rigettata. È infatti
indubbio come — in questo campo già tanto delicato — entri in gioco un altro
principio costituzionalmente garantito al fianco del primario valore della libertà
personale; ciò che consente di sacrificare ragionevolmente le ragioni dell’effettività
del processo e quindi della custodia cautelare. Merito delle Sezioni unite è di aver
rispettato la gerarchia dei valori in gioco, fornendo un’interpretazione che si ri-

(31) Cfr. supra § 1.


(32) È evidente il riferimento a Corte cost., 23 gennaio 1997, n. 10, cit. sub nota 12.
(33) In dottrina si è auspicato un intervento legislativo che preveda un’automatica sospensione dei
termini cautelari solo in situazioni ben definite, ad esempio quando l’istanza è presentata in prossimità
della decorrenza dei termini, non invece quando è proposta in momenti prossimi all’applicazione della mi-
sura perché in tal caso l’allungamento dei termini risulterebbe solo un’ingiustificabile lesione alla libertà
personale dell’imputato. In tal senso I. FRIONI, Istanza di ricusazione e sospensione dei termini di custo-
dia cautelare: l’ennesimo conflitto tra efficienze e garanzie auspica il risveglio del legislatore, in Cass.
pen., 1998, p. 3001.
(34) Benché questa sia divenuta da obbligatoria a facoltativa. Si è acutamente osservato in dot-
trina che tale trasformazione sta a significare che la funzione deterrente svolta dalla condanna non si ap-
punta più su una presunzione di strumentalità dell’istanza di ricusazione, insita nella pronuncia di inam-
missibilità o di rigetto, ma su una valutazione che il giudice della ricusazione deve esprimere caso per
caso. Così E. ZAPPALÀ, La ricusazione del giudice penale, cit., p. 166.

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solve in una semplice presa d’atto del mutamento di regole sottese all’istituto della
ricusazione.
Se, finora, la giurisprudenza maggioritaria si era mostrata inerte a fronte dei
profondi cambiamenti del procedimento incidentale, finalmente la Suprema Corte
ne dà conto e ne ricava l’interpretazione oggigiorno più rispettosa dei valori in
campo e tale da non compromettere il necessario bilanciamento fra garanzie indi-
viduali ed efficienza del processo.
Si tratta infatti di soluzione capace di fare i conti con l’abituale realtà delle
aule giudiziarie, che non impedisce di porre un freno alle pur frequenti manovre
pretestuose poste in essere dall’imputato: quand’anche egli reiterasse la richiesta
di ricusazione, accampando motivi diversi da quelli che avevano sorretto l’istanza
precedente, resterebbe comunque ferma la facoltà del giudice di sospendere i ter-
mini di custodia cautelare e di conseguenza il corso della prescrizione. Come si
vede dunque, è scongiurato il rischio che l’imputato possa artatamente ottenere la
scarcerazione o addirittura lucrare un proscioglimento per scadenza dei termini
massimi per la dichiarazione di colpevolezza.
LAURA PECORI
Dottoranda di ricerca
in Procedura penale
nell’Università di Ferrara

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CORTE DI CASSAZIONE — SEZIONI UNITE —


Ud. 10 luglio 2002 (dep. 11 settembre 2002), n. 30327
Pres. Marvulli — Rel. Lattanzi — P.M. Iadecola (concl. parz. diff.)
Guadalupi

Parte civile - Effetti della costituzione - Assoluzione dell’imputato in primo grado -


Condanna in grado d’appello su impugnazione del solo pubblico ministero -
Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile - Ammissibi-
lità (C.p.p. artt. 76, 538, 576).

Quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice d’appello deve decidere


sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno anche se la parte ci-
vile non ha proposto impugnazione avverso la sentenza di assoluzione di primo
grado (1).

(Omissis). — CONSIDERATO IN FATTO. — 1. Enrico Guadalupi e le parti civili


Lucia Attanasi e Maria Lucia, Fabio e Rita Calò hanno proposto ricorso per cassa-
zione contro la sentenza del 15 dicembre 2000 con la quale la Corte d’appello di
Lecce, riformando la decisione di primo grado, ha condannato Guadalupi, con le
attenuanti generiche, alla pena di quattro mesi di reclusione per omicidio colposo
e ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dalle parti civili.
Guadalupi era stato citato a giudizio davanti al pretore di Lecce, Sezione di-
staccata di Galatina, per rispondere dell’omicidio colposo di Antonio Calò, che era
deceduto in seguito a una violenta elettrocuzione mentre lavorava per conto del-
l’Enel su un traliccio di energia elettrica ad alta tensione. Guadalupi era il prepo-
sto capo-nucleo dell’Enel che insieme con Calò si era recato presso lo smistamento
Aradeo per un intervento sulla linea elettrica di Neviano. Dopo il ripristino della
linea di Neviano Calò era salito sul traliccio della linea di Cutrofiano, per riparare
un ponte dello scaricatore del portale che pendeva, e aveva subito l’infortunio.
Secondo l’imputazione, della morte doveva rispondere a titolo di omicidio
colposo Guadalupi perché ‘‘aveva omesso di sovraintendere e vigilare all’esecu-
zione in sicurezza del lavoro da svolgere nel rispetto delle procedure stabilite dal-
l’Enel... limitandosi a disattivare l’energia elettrica del traliccio Neviano, senza
controllare che l’impianto su cui intervenire corrispondesse a quello disattivato,
omettendo infine di verificare che tutte le misure e cautele previste da norme e re-
golamenti fossero rispettate’’.
Il pretore ha assolto Guadalupi ‘‘per non aver commesso il fatto’’, dando inte-
ramente credito alle sue dichiarazioni. Secondo il pretore Guadalupi, stando nella
cabina, aveva ridato tensione alla linea di Neviano; Calò era entrato e ‘‘dopo aver
riferito di non aver notato alcuna anomalia riferì invece di aver notato un ponte
dello scaricatore del portale che pendeva e che poteva ricausare un disservizio in
caso di vento forte’’. Guadalupi aveva capito che la segnalazione riguardava la li-
nea di Neviano, mentre Calò si era riferito alla linea di Cutrofiano, aveva detto a
Calò di preparare l’attrezzatura, poi, dopo aver sezionato e messo a terra la linea
di Neviano, era uscito dalla cabina per effettuare le dovute verifiche e aveva assi-
stito alla folgorazione che aveva colpito Calò mentre si trovava sul traliccio della
linea di Cutrofiano.

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2. In seguito all’impugnazione del pubblico ministero la Corte d’appello di


Lecce ha ritenuto Guadalupi responsabile di omicidio colposo e ha rigettato la do-
manda di risarcimento dei danni proposta dalle parti civili, rilevando che queste
‘‘pur potendo proporre appello ai soli effetti civili, non avevano ritenuto di farlo,
con la conseguenza che la pronuncia del giudice di primo grado nei loro confronti
aveva assunto valenza definitiva e, quindi, autorità di cosa giudicata ai sensi del-
l’art. 329 c.p.c.’’.
Alla pronuncia di condanna la Corte d’appello è pervenuta dopo aver rilevato
che il racconto dell’imputato non poteva essere recepito acriticamente. La Corte
ha prospettato il dubbio che i fatti potessero essersi svolti in modo completamente
diverso e ha ritenuto che in ogni caso il racconto dell’imputato non fosse intera-
mente credibile e che Guadalupi, dopo la riattivazione della linea di Neviano,
prima di compiere qualunque ulteriore attività avrebbe dovuto accertare la situa-
zione ed impartire le opportune disposizioni.
3. L’imputato con il primo motivo di ricorso ha sostenuto che la sentenza
impugnata ha trascurato gli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio di
primo grado, sui quali il pretore aveva fondato la decisione assolutoria, e ha privi-
legiato una metodologia ricostruttiva dei fatti erroneamente fondata — come è
stato dichiarato nella motivazione — su ‘‘canoni di mero stampo logico-statisti-
co’’: del tutto impropriamente la Corte d’appello avrebbe sottovalutato le dichia-
razioni dell’imputato, unica persona presente al momento dell’incidente, e, pur in
assenza di elementi probatori che potessero smentirle, aveva privilegiato ipotesi ri-
costruttive diverse.
Con il secondo motivo l’imputato ha denunciato l’inosservanza e l’erronea ap-
plicazione della legge (artt. 40, 41, 43 e 589 c.p. e artt. 4 e 391, 6 e 392 d.P.R. n.
547/1955): la sentenza impugnata avrebbe trascurato la circostanza che fu lo
stesso Calò a decidere autonomamente di intervenire sul traliccio e che effettuò
l’intervento senza avere prima verificato la disattivazione della linea, così che la
sua condotta, gravemente omissiva delle disposizioni di legge in tema di sicurezza
(art. 4, lett. c). d.P.R. n. 547/1955), si porrebbe in ogni caso come fattore inter-
ruttivo dell’eventuale nesso causale esistente fra la condotta dell’imputato e l’e-
vento mortale.
Le parti civili hanno impugnato il rigetto della domanda di risarcimento dei
danni considerando errata l’affermazione che il non aver proposto appello preclu-
deva, nonostante l’impugnazione del pubblico ministero, la decisione sull’azione
civile. Pur dando atto delle conclusioni cui erano giunte le Sezioni unite penali con
la sentenza del 25 novembre 1998, Loparco, le parti civili hanno osservato che
questa decisione aveva ‘‘solo in parte composto’’ le ‘‘acute divisioni’’ esistenti in
giurisprudenza sul punto e che, secondo le disposizioni degli artt. 76, comma 2 e
601, comma 4, c.p.p., sino a quando il processo penale non si conclude con sen-
tenza irrevocabile, la parte civile è parte processuale, anche se non ha proposto
gravame, e ha diritto ad ottenere dal giudice dell’impugnazione una pronuncia
sulle sue richieste.
4. La quarta Sezione penale ha rimesso i ricorsi alle Sezioni unite rilevando
che sulla questione proposta dal ricorso delle parti civili esisteva un contrasto giu-
risprudenziale, dato che successivamente alla citata sentenza delle Sezioni unite,
25 novembre 1998, Loparco, due diverse decisioni, 10 marzo 1999, Maellare, e 1o

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giugno 2000, Mariotti, avevano ritenuto che il giudice di secondo grado, quando
su appello del pubblico ministero condanna l’imputato assolto in primo grado, è
tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile, anche se questa non ha pro-
posto impugnazione.

RITENUTO IN DIRITTO. — 1. Entrambi i motivi dell’imputato, con prospetta-


zioni diverse, sono diretti a contestare i presupposti di fatto dai quali muove la
sentenza impugnata per pervenire all’affermazione di responsabilità e si risolvono
in gran parte nella riaffermazione dei fatti riferiti dall’imputato: sotto questo
aspetto propongono questioni insuscettibili di considerazione nel giudizio di cas-
sazione. È solo nella parte in cui deducono l’illogicità della motivazione che i mo-
tivi sono ammissibili.
Secondo l’imputato la motivazione sarebbe viziata perché la Corte d’appello
non ha dato credito alle sue dichiarazioni sullo svolgimento dei fatti e ha ritenuto
di poter ‘‘completamente trascurare gli elementi di prova raccolti, nel giudizio, per
ricostruire il fatto solo sulla scorta della logica astratta’’. Non è questo però il tipo
di accertamento svolto nella sentenza impugnata che ha tenuto conto degli ele-
menti acquisiti e ha però ritenuto, legittimamente, che la vicenda all’origine del-
l’infortunio non potesse essere ricostruita — come aveva fatto il giudice di primo
grado — recependo acriticamente le dichiarazioni dell’imputato.
La Corte d’appello ha ricordato che l’imputato aveva il compito di dirigere i
lavori, accertando la situazione, valutando le operazioni da compiere e impartendo
le opportune direttive, e ha ritenuto che tutto ciò egli non abbia fatto nel modo
dovuto. Dopo aver riscontrato delle illogicità nella narrazione della vicenda la
Corte d’appello è giunta alla conclusione che Calò non potesse essere salito sul
traliccio della linea di Cutrofiano di propria iniziativa, senza alcuna disposizione
da parte dell’imputato, data, eventualmente, nell’asserita convinzione che il lavoro
si dovesse fare sulla linea di Neviano anziché su quella di Cutrofiano. In ogni caso,
quindi, secondo la Corte d’appello l’imputato era venuto meno ai suoi doveri, che
gli imponevano di accertare la situazione prima di dare qualunque disposizione. Il
suo comportamento — si legge nella sentenza impugnata — risulta ‘‘ancor più ne-
gligente se si pensa che Guadalupi quando giunse allo smistamento di Aradeo per
effettuare l’intervento operativo per ripristinare la linea di Neviano che era andata
fuori servizio, verificò e constatò de visu lo stato dei luoghi e quindi poté rendersi
conto che sul traliccio di Neviano... non vi era alcun ponte che pendeva’’.
In conclusione il ricorso di Guadalupi deve essere rigettato dato che la moti-
vazione della sentenza impugnata non presenta le asserite illogicità e che le valuta-
zioni in punto di fatto operate dalla Corte d’appello si sottraggono al sindacato
della Corte di cassazione.
2. Il ricorso delle parti civili pone una questione che, come si è visto, conti-
nua a dare luogo a decisioni contrastanti, nonostante vi sia già stato un intervento
delle Sezioni unite. Si tratta di stabilire se il giudice d’appello, quando su impu-
gnazione del pubblico ministero riforma una sentenza di proscioglimento e con-
danna l’imputato, debba provvedere sulla domanda di risarcimento dei danni pro-
posta dalla parte civile anche nel caso in cui questa non abbia impugnato la deci-
sione di primo grado.
La questione è sorta in seguito a due sentenze della Corte costituzionale, del-

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l’inizio degli anni Settanta, che, incidendo sul c.p.p. del 1930, avevano ricono-
sciuto alla parte civile il diritto di proporre ricorso per cassazione contro le sen-
tenze di proscioglimento: la prima, del 22 gennaio 1970, n. 1, aveva dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p. 1930, in riferimento all’art. 111,
comma 2 Cost., nella parte in cui poneva limiti a che la parte civile potesse pro-
porre ricorso per cassazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i
suoi interessi civili; la seconda, del 17 febbraio 1972, n. 29, aveva dichiarato l’ille-
gittimità dell’art. 23 c.p.p. del 1930, in riferimento all’art. 111, comma 2, Cost.,
nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull’azione civile
anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento,
l’azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi civili, proseguiva in sede di
cassazione e di eventuale giudizio di rinvio.
Prima di queste sentenze nel caso di proscioglimento la parte civile non po-
teva proporre impugnazione ma poteva solo partecipare al giudizio di impugna-
zione eventualmente promosso dal pubblico ministero, e il giudice d’appello se
emetteva una pronuncia di condanna era tenuto, a norma dell’art. 489, comma 1,
c.p.p. del 1930, a condannare l’imputato alle restituzioni e al risarcimento dei
danni cagionati dal reato, a favore della parte civile che ne aveva fatto domanda e
ne aveva diritto. La partecipazione al giudizio di impugnazione e il dovere del giu-
dice d’appello di provvedere nel caso di condanna dell’imputato anche sulla do-
manda della parte civile si ricollegavano al principio di immanenza della parte ci-
vile, presente anche nei codici di rito anteriori a quello del 1930, che lo aveva
espressamente codificato nell’art. 92, comma 1. Se però il pubblico ministero non
proponeva impugnazione la parte civile non aveva alcun mezzo per rimettere in
discussione una sentenza di proscioglimento lesiva del suo diritto. È su questa si-
tuazione che hanno inciso le due sentenze della Corte costituzionale, riconoscendo
alla parte civile il diritto, garantito dall’art. 111, comma 2, Cost., di ricorrere per
cassazione e quindi dotandola di una tutela ulteriore. È interessante notare che
nella sentenza 22 gennaio 1970, n. 1 la Corte costituzionale aveva avuto cura di
avvertire che ‘‘il ricorso per cassazione della parte civile, quando è proposto con-
tro sentenza di primo grado, per lei inappellabile, produrrà effetto soltanto se con-
tro la stessa sentenza non segua un esame in appello, cui la parte civile ha titolo
per partecipare in forza del disposto dell’art. 92 c.p.p. e che abbia luogo a seguito
di gravame proposto dall’imputato o dal pubblico ministero’’.
3. Dopo queste due sentenze per molti anni la giurisprudenza non ha dubi-
tato che fosse rimasto fermo il principio di immanenza nel senso tradizionale e che
quindi il giudice d’appello, anche in mancanza dell’impugnazione della parte civile
contro la sentenza di proscioglimento, se condannava l’imputato era tenuto a
provvedere pure sulla domanda della parte civile (ved. Sez. IV, 7 novembre 1977,
La Spada, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, p. 602, n. 588). È con Sez. IV, 23 gen-
naio 1984, Seragiotto (in Cass. pen., 1986, p. 962, n. 729), che ha iniziato a farsi
strada in una parte della giurisprudenza l’idea che la parte civile che non propone
impugnazione contro la sentenza di proscioglimento deve considerarsi acquie-
scente, con la conseguenza che la sentenza ‘‘acquista efficacia di giudicato in rife-
rimento all’azione risarcitoria’’; idea che è stata successivamente sviluppata in
modo assai argomentato da Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario (in Cass. pen.,
1987, p. 1952, n. 1649), la quale è giunta alla conclusione che ‘‘la parte civile,

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qualora voglia ottenere una modifica in senso per lei vantaggioso della pronuncia
di primo grado, deve proporre rituale impugnazione... senza che a tal fine possa
avvalersi dell’eventuale gravame del pubblico ministero’’. È con questa sentenza
che al diritto di proporre ricorso per cassazione, riconosciuto dalla Corte costitu-
zionale, si è fatto corrispondere per la parte civile, ‘‘come altra faccia della stessa
medaglia, l’onere di impugnare la sentenza, qualora intenda ottenere una specifica
decisione di riforma del provvedimento gravato’’ (sentenza Di Sario, citata).
Il contrasto giurisprudenziale si è accentuato nel tempo e si è riprodotto dopo
l’entrata in vigore dell’attuale c.p.p. determinando l’intervento delle Sezioni unite
che con la sentenza 25 novembre 1998, Loparco (in Cass. pen., 1999, p. 2084, n.
987) hanno aderito al secondo indirizzo giurisprudenziale e hanno affermato il
principio che ‘‘alla parte civile costituita non può riconoscersi il risarcimento del
danno, se, assolto l’imputato nel giudizio di primo grado, vi sia condanna dello
stesso su appello del solo pubblico ministero’’.
Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza Loparco sono state messe in di-
scussione da due successive decisioni: Sez. V, 1o marzo 1999, Maellare (rv.
215559) e Sez. III, 1o giugno 2000, Mariotti (rv. 216996). La prima ha rilevato
che ‘‘non bisogna confondere il potere di impugnazione con l’onere di impugna-
zione diretta, che sussiste soltanto per altri provvedimenti pregiudizievoli che, di-
versi da quelli concernenti l’accertamento del fatto-reato, negano il diritto sostan-
ziale al risarcimento o limitano l’entità dei danni’’, e ha sostenuto, riprendendo un
orientamento tradizionale, che ‘‘l’impugnazione autonoma, in definitiva, è un ulte-
riore rimedio approntato dall’attuale ordinamento giuridico processuale, che si è
uniformato alla giurisprudenza della Corte costituzionale’’. La seconda, dopo
avere affermato che ‘‘non sussiste nel processo penale una piena indipendenza del-
l’azione civile rispetto a quella penale, per cui non può essere una tale pretesa au-
tonomia a legittimare il principio affermato dalle Sezioni unite’’, ha ricordato che,
oltre ai più volte richiamati artt. 76, comma 2 e 601, comma 4, c.p.p., altri articoli
del c.p.p. indicano un collegamento tra l’azione penale a l’azione civile anche nei
gradi di impugnazione, come gli artt. 574, comma 4 e 587, comma 3, c.p.p.; ha
osservato che la disposizione dell’art. 601, comma 4, c.p.p. non avrebbe senso se
la parte civile che non ha proposto impugnazione rimanesse vincolata dalla pro-
nuncia assolutoria; ha concluso che la parte civile, anche quando non ha proposto
impugnazione, deve essere citata, oltre che nel giudizio d’appello, in quello di cas-
sazione e in quello di rinvio e che ‘‘il giudice di rinvio deve pronunciarsi sulle sue
richieste’’.
Queste decisioni fanno dubitare delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza
Loparco e in particolare dell’idea che l’evoluzione normativa originata dalle due
pronunce della Corte costituzionale e passata attraverso il codice di rito del 1988
sia approdata a una compiuta autonomia dell’azione civile in seno al processo pe-
nale. A ben vedere infatti non ci sono disposizioni dalle quali possa espressamente
trarsi questa conclusione e gli argomenti che la sorreggono sono fortemente con-
trovertibili.
4. Una ricostruzione della disciplina non può non muovere dalla vicenda
normativa che l’ha riguardata.
Il sistema del codice di rito del 1930 — come si è visto — era basato sul prin-
cipio dell’immanenza della costituzione di parte civile e della completa subordina-

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zione dell’azione civile alle vicende del processo penale: la decisione sull’azione ci-
vile dipendeva totalmente da quella sull’azione penale; nel senso che in mancanza
della condanna non poteva esserci alcuna decisione sulla responsabilità civile,
mentre nel caso di condanna, anche se in grado d’appello su impugnazione del
pubblico ministero, il giudice, a norma degli artt. 92, comma 1 e 489, comma 1,
c.p.p. (corrispondenti agli attuali artt. 76, comma 2 e 538, comma 1, c.p.p.) era
tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile. A questo scopo era prevista
dall’art. 517, comma 2, c.p.p. 1930, corrispondente all’attuale art. 601, comma 4,
c.p.p., la citazione della parte civile nel giudizio d’appello.
Le sentenze della Corte costituzionale avevano integrato il sistema ricono-
scendo alla parte civile il potere di proporre ricorso per cassazione ai sensi del-
l’art. 111 Cost. nel caso in cui il pubblico ministero non avesse proposto impugna-
zione. Essendo per il resto rimasto immutato il sistema non c’erano dati normativi
che potessero giustificare la trasformazione, operata da una parte della giurispru-
denza, della tutela aggiuntiva, riconosciuta dalla Corte costituzionale in una tutela
esclusiva con le caratteristiche di un onere; trasformazione che ha fatto venir
meno gli effetti dell’immanenza della costituzione di parte civile e il correlativo
obbligo del giudice, nel caso di condanna, di pronunciare anche sull’azione civile.
Il legislatore del 1988 nel disciplinare il potere di impugnazione contro le sen-
tenze di proscioglimento, ormai incontestabilmente riconosciuto alla parte civile,
ha ritenuto che lo stesso non dovesse essere limitato al ricorso per cassazione, e ha
dato alla parte civile la possibilità di impugnare ‘‘con il mezzo previsto dal pub-
blico ministero’’ (art. 576 c.p.p.), senza per il resto apportare modificazioni so-
stanziali alla disciplina contenuta in materia nel codice del 1930.
È vero che il c.p.p. vigente ha per molti aspetti omologato la disciplina dell’a-
zione civile a quella del codice di rito civile ma nessuna significativa innovazione
ha apportato alle disposizioni sui rapporti tra azione penale e azione civile nei
gradi di impugnazione. Come è stato ricordato da Sez. III, 1o giugno 2000, Ma-
riotti, sono indicativi dello stretto collegamento tra le due azioni, oltre agli artt.
76, comma 2 e 601, comma 4, generalmente richiamati, anche gli artt. 574,
comma 4 e 587, comma 3, c.p.p.
Indipendentemente dall’impugnazione sui capi civili, infatti la prima disposi-
zione estende al capo civile gli effetti dell’impugnazione dell’imputato nei con-
fronti della decisione di condanna (con una disciplina che può considerarsi sim-
metrica a quella che comporta l’estensione alla domanda della parte civile degli ef-
fetti dell’impugnazione del pubblico ministero contro la decisione di prosciogli-
mento); la seconda disposizione stabilisce che l’impugnazione proposta dall’impu-
tato giova anche al responsabile civile.
Ne viene fuori un sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione
sulla responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità ci-
vile automaticamente, vale a dire anche in mancanza di impugnazione del capo
concernente l’azione civile, che nei casi indicati forma oggetto di una devoluzione
di diritto.
5. Non risultano decisivi per giustificare una disciplina diversa gli argomenti
di carattere sistematico valorizzati nella sentenza delle Sezioni unite del 25 no-
vembre 1998, Loparco. Secondo questa sentenza dal quadro normativo emerge-
rebbe il ‘‘principio di autonomia dell’azione civile rispetto a quella penale, pur en-

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trambe esercitate nello stesso processo e decise, sì con la stessa sentenza, ma in


capi diversi, ciascuno capace di assumere la condizione di giudicato anche in mo-
menti (procedimentali) differenti, in funzione della ed in relazione all’area attac-
cata con l’impugnazione’’. Posto un principio siffatto la sentenza ha affermato che
nel caso di proscioglimento la parte civile ha l’onere di proporre impugnazione
‘‘avverso il capo della sentenza a lei sfavorevole’’ e che il suo ‘‘comportamento ri-
nunciatario... comporta la formazione del giudicato in ordine al relativo rapporto,
con effetti sia sostanziali che processuali’’; poi ha aggiunto: ‘‘Se il capo o punto re-
lativo agli interessi civili non è stato impugnato, pare ovvio che il giudice non po-
trà andare oltre il devoluto. E l’art. 576 c.p.p. parla proprio di ‘‘capi’’ concernenti
il regolamento degli interessi civili.
Questa affermazione incontra alcune obiezioni. Innanzi tutto nel caso di pro-
scioglimento la sentenza non contiene alcun capo relativo all’azione civile, dal mo-
mento che, come si desume dall’art. 538, comma 1, c.p.p., quando pronuncia una
sentenza di proscioglimento il giudice non decide sulla domanda civile (fuori del
caso previsto dall’art. 578 c.p.p.). Del resto l’art. 576, comma 1, c.p.p. distingue,
ai fini dell’impugnazione della parte civile, i ‘‘capi della sentenza di condanna che
riguardano l’azione civile’’ dalla ‘‘sentenza di proscioglimento pronunciata nel giu-
dizio’’, indicando chiaramente che in questo secondo caso non è impugnato un
capo civile ma è impugnato, ‘‘ai soli effetti della responsabilità civile’’, il proscio-
glimento. Sicché è tutt’altro che arbitraria la conclusione che non occorre l’impu-
gnazione della parte civile quando il proscioglimento è impugnato dal pubblico
ministero, eventualmente su richiesta della parte civile a norma dell’art. 572 c.p.p.
Il fatto che nel caso di proscioglimento manchi una pronuncia sull’azione ci-
vile è chiaramente indicativo della posizione accessoria di questa e non è irrile-
vante l’argomento che si trae dall’art. 572 c.p.p., il quale, oltre che alla persona
offesa, riconosce alla parte civile in quanto tale, e quindi anche quando è costi-
tuita da un semplice danneggiato, il potere di sollecitare l’impugnazione del pub-
blico ministero. L’interesse riconosciuto al danneggiato infatti non può che essere
quello relativo ai riflessi della decisione penale sulla domanda risarcitoria.
Non vale richiamare, come hanno fatto alcune sentenze, l’art. 329 c.p.c. sul-
l’acquiescenza e rilevare che la parte civile può non avere interesse a coltivare la
propria domanda nel giudizio di impugnazione, perché il richiamo della disposi-
zione del c.p.c. di per sé è privo di giustificazione se prima non si stabilisce in base
alle norme del c.p.p. quali effetti discendono dalla mancanza dell’impugnazione
della parte civile, e d’altro canto l’art. 82 c.p.p. appresta per la parte civile che ab-
bia perduto interesse alla decisione lo specifico strumento della revoca della costi-
tuzione, che può essere espressa o tacita. Sicché anche sotto questo aspetto non
c’è ragione di fare ricorso all’art. 329 c.p.c.
D’altro canto non sembra conforme al sistema la formazione di un giudicato
sull’azione civile sulla base della sentenza di proscioglimento impugnata dal pub-
blico ministero e non anche dalla parte civile. Se, ad esempio, si formasse agli ef-
fetti civili un giudicato rispetto a un’assoluzione per non aver commesso il fatto o
perché il fatto non sussiste il diritto al risarcimento dovrebbe considerarsi definiti-
vamente escluso mentre non è così. Infatti se in seguito all’impugnazione del pub-
blico ministero l’imputato viene condannato la sentenza, a norma dell’art. 651
c.p.p., ha efficacia di giudicato e quindi può essere posta a base di una domanda
di risarcimento del danno. Se ciò è vero non si può dire che il proscioglimento in

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primo grado non impugnato dalla parte civile forma nei confronti di questa un
giudicato, e del resto se effettivamente si formasse un giudicato resterebbero assai
difficilmente spiegabili le disposizioni degli artt. 72, comma 2 e 601, comma 4,
c.p.p.
Al riguardo un’indicazione significativa si trae anche dall’art. 75, comma 3,
c.p.p., il quale opportunamente stabilisce che ‘‘Se l’azione civile è proposta in sede
civile contro l’imputato... dopo la sentenza penale di primo grado il processo civile
è sospeso fino alla pronuncia della sentenza non più soggetta a impugnazione’’;
perciò, ad esempio, nel caso di proscioglimento in primo grado con una formula
non preclusiva per la parte civile questa neppure revocando la costituzione po-
trebbe ottenere in sede civile una decisione se prima la sentenza non fosse dive-
nuta irrevocabile.
6. Poiché come si è visto non può affermarsi che sulla sentenza di proscio-
glimento di primo grado non impugnata dalla parte civile si formi agli effetti civili
il giudicato, ove si convenisse con l’orientamento giurisprudenziale che nega la
possibilità di decidere nel giudizio di impugnazione sulla domanda risarcitoria si
dovrebbe ritenere preclusa solo la condanna, solitamente generica, al risarcimento
del danno, ma resterebbero operanti gli effetti dell’accertamento della responsabi-
lità penale eventualmente compiuto nel giudizio di impugnazione conclusosi con
la condanna. Anche sotto questo aspetto allora deve ritenersi che non si sia realiz-
zata quell’autonomia dell’azione civile, rispetto all’azione penale, posta a base del-
l’orientamento giurisprudenziale preclusivo, e non può non rilevarsi che sotto l’a-
spetto sostanziale tra una condanna generica al risarcimento del danno e un accer-
tamento della responsabilità anche agli affetti civili la differenza di regola non è
particolarmente rilevante.
Di ciò si è reso conto un autore che, aderendo in parte alle conclusioni della
sentenza Loparco, ritiene preclusa la condanna dell’imputato al risarcimento dei
danni nei confronti della parte civile non appellante ma esclude che la decisione di
primo grado sul capo civile passi in giudicato. Dopo avere giustamente dubitato
‘‘che sia consentita l’adozione di due decisioni discordanti nell’ambito del mede-
simo processo’’, questo autore conclude che ‘‘la sentenza penale diviene irrevoca-
bile ai fini civili nel momento stesso in cui passa in giudicato agli effetti penali’’ e
sostiene che il principio di immanenza ha perduto il suo significato originario
forte per assumerne uno debole: la parte civile non appellante non potrebbe otte-
nere la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni ma potrebbe appoggiare
l’impugnazione del pubblico ministero, contrastare l’impugnazione dell’imputato e
‘‘dedurre una nullità che comporta la regressione del procedimento in primo
grado o nella fase delle indagini preliminari, così travolgendo la sentenza sfavore-
vole del giudice di prime cure’’.
È una strana situazione quella che si vorrebbe ricostruire, in cui la parte civile
per una sorta di ‘‘acquiescenza’’ o comunque di negligenza risulta ‘‘dimezzata’’: in
appello non può chiedere l’accoglimento della domanda ma può agire per ottenere
una decisione più vantaggiosa. Sta di fatto però che le diverse disposizioni prece-
dentemente ricordate non giustificano la tesi dell’‘‘indebolimento’’ del principio di
immanenza, nel senso prospettato.
In conclusione, dato che ‘‘la costituzione di parte civile produce i suoi effetti
in ogni stato e grado del processo’’ (art. 76, comma 2), che il giudice d’appello è

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tenuto a citare la parte civile (art. 601, comma 4) e che se l’appello è stato propo-
sto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento il giudice d’ap-
pello può pronunciare condanna ‘‘e adottare ogni altro provvedimento imposto o
consentito dalla legge’’ (art. 597, comma 2 lett. a) e b)), appare corretta l’afferma-
zione che, ‘‘quando pronuncia sentenza di condanna’’, il giudice d’appello deve
decidere ‘‘sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno’’, anche se
la parte civile non ha proposto impugnazione (artt. 538, comma 1 e 598 c.p.p.).
Pertanto in accoglimento del ricorso delle parti civili la sentenza impugnata
deve essere annullata nel capo relativo al rigetto della domanda di risarcimento
dei danni con rinvio, a norma dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in
grado d’appello.
Tenuto conto dell’esito dei ricorsi, Guadalupi deve essere condannato al pa-
gamento delle spese del procedimento e al rimborso delle spese processuali in fa-
vore delle parti civili, che, in mancanza della relativa nota, sono liquidate in com-
plessivi 2.500 euro.

P.Q.M. — La Corte di cassazione rigetta il ricorso dell’imputato, che con-


danna alle spese del procedimento ed al pagamento delle spese sostenute dalle
parti civili, liquidate in complessivi 2.500 euro. Annulla la sentenza impugnata li-
mitatamente al rigetto della domanda proposta dalle parti civili e rinvia al giudice
civile competente in grado d’appello. (Omissis).

——————
(1) Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della
parte civile.

1. La sentenza delle Sezioni unite che si annota è emblematica della crisi di


identità che affligge il nostro processo penale.
Dopo che le stesse Sezioni unite (1) sembrava avessero messo fine, con argo-
mentazioni giuridiche ineccepibili, ad un conflitto giurisprudenziale assolutamente
ingiustificato alla luce della vigente normativa in tema di impugnazioni della parte
civile, il contrasto è riesploso per ricomporsi (ci auguriamo in modo non defini-
tivo) con l’attuale sentenza. La stessa enuncia nella sostanza il principio di diritto
secondo cui nel nostro processo penale la regola fondamentale dell’effetto parzial-
mente devolutivo non vale per le impugnazioni della parte civile. Quest’ultima, in-
fatti, ove risulti soccombente in primo grado, potrebbe, a suo piacimento, impu-
gnare autonomamente la sentenza, oppure avvalersi dell’impugnazione del pub-
blico ministero (magari dopo averla sollecitata) la quale determinerebbe una devo-
luzione ‘‘di diritto’’ del capo della sentenza relativo all’azione civile.
Le implicazioni sui principi fondamentali delle impugnazioni penali (ma an-
che di quelle civili) ci sembrano così importanti che riteniamo opportuno ritornare
(sia pur sinteticamente) sull’argomento, anche a costo di ripetere quanto già
scritto oltre vent’anni addietro (2).

(1) V. la sentenza a Sezioni unite 26 novembre 1998, Loparco, in Cass. pen., 1999, n. 987, p.
2084.
(2) Ci sia consentito citare il nostro L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Milano,

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2. Dopo che la Corte costituzionale, con le sentenze n. 1 del 1970 e n. 29


del 1972, ha riconosciuto un autonomo potere di ricorrere in Cassazione alla parte
civile, anche avverso la sentenza di proscioglimento, e soprattutto, dopo che il vi-
gente codice di procedura penale le ha attribuito un potere di impugnazione della
stessa ampiezza di quello riconosciuto al pubblico ministero, l’eccezione all’effetto
parzialmente devolutivo dell’appello e del ricorso per cassazione non ha più ra-
gion d’essere, e non può essere sicuramente giustificata con le argomentazioni
della sentenza annotata la quale propugna una pretesa ‘‘devoluzione di diritto’’ del
capo concernente l’azione civile.
Or, non può contestarsi in linea di principio che la ‘‘devoluzione di diritto’’
cui fanno riferimento le Sezioni unite si inserisca come eccezione in un sistema
processuale fondato sulla regola generale secondo cui la cognizione del giudice
d’appello e della Corte di cassazione è limitata ai punti della decisione ai quali si
riferiscono i motivi proposti (v. art. 597, comma 1 c.p.p. per l’appello e art. 609,
comma 1 c.p.p. per il ricorso per cassazione). Ne discende, che la pretesa devolu-
zione di diritto dell’intero capo della sentenza relativo alla decisione sull’azione ci-
vile per essere sostenibile deve trovare (così come avviene per tutte le altre ecce-
zioni alla regola del tantum devolutum quantum appellatum) un preciso riferi-
mento normativo, dove si stabilisca espressamente, o un potere di decisione ex of-
ficio del giudice penale sulle questioni civili in caso di condanna, o l’effetto esten-
sivo dell’impugnazione del p.m.
Le norme che, secondo le Sezioni unite, spiegherebbero la pretesa ‘‘devolu-
zione di diritto’’ del capo concernente l’azione civile, sarebbero quelle contenute
negli artt. 76 comma 2, 601, comma 4, 574, comma 4 e 587, comma 3, c.p.p.,
nonché quelle degli artt. 597, comma 2, lett. a) e 538, comma 1, c.p.p.
Il richiamo a tali norme ci sembra non pertinente per i motivi che seguono.
3. L’argomento più forte utilizzato a sostegno della devoluzione di diritto è
sicuramente quello dell’immanenza della costituzione di parte civile che fa leva
sull’art. 76, comma 2, c.p.p., secondo cui ‘‘la costituzione di parte civile produce i
suoi effetti in ogni stato e grado del processo’’.
Trattasi di un principio che ha sempre caratterizzato l’esercizio dell’azione ci-
vile nel processo penale italiano fin dal primo codice del 1865, in deroga all’oppo-
sto principio, che si applica all’esercizio dell’azione civile in sede civile, secondo
cui la costituzione della parte (sia essa attrice o convenuta) va rinnovata per ogni
grado di giudizio.
Per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale era necessario, invece,
stabilire la regola dell’immanenza per uniformare la partecipazione della parte ci-
vile ai giudizi di impugnazione e di rinvio a quella delle altre parti.
Dal principio dell’immanenza si fanno derivare alcuni corollari, tra i quali:
a) il diritto della parte civile ad essere citata per il giudizio d’appello, anche
quando appellante sia soltanto l’imputato avverso una sentenza di proscioglimento
(art. 601, comma 4, c.p.p.); b) il diritto del difensore della parte civile di parteci-
pare, dopo averne ricevuto avviso, al procedimento avanti la Corte di cassazione,
anche se sollecitato dall’impugnazione delle altre parti (art. 610, comma 5, c.p.p.);
c) il diritto della parte civile e del suo difensore di intervenire nell’eventuale giudi-
zio di ‘‘rinvio’’ (art. 627, comma 2, c.p.p.), nonché nel giudizio di revisione (art.
636 c.p.p.).
Dal principio dell’immanenza deriva anche che la mancata comparizione

Giuffrè, 1981, pp. 128-171, anche per i necessari approfondimenti di ordine storico, sistematico e compa-
ratistico. Da ultimo, la problematica è stata ampiamente affrontata in dottrina da M. NOFRI, Sul principio
di immanenza della costituzione di parte civile, in questa Rivista, 2001, p. 112 ss.

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della parte civile nei gradi di giudizio successivi al primo non comporta revoca
della costituzione, per cui la stessa parte può, a suo piacimento, rimanere assente
da un grado del giudizio senza perdere la sua qualità e neppure il diritto di parte-
cipare agli ulteriori gradi del processo.
Al di fuori di tali effetti, il codice di procedura penale non ne fa scaturire altri
dall’immanenza della costituzione di parte civile, ed in particolare quello di esi-
mere la parte civile dall’onere di impugnare la sentenza che non abbia accolto in
tutto o in parte la sua domanda. In tal caso, la parte civile non impugnante conser-
verà il diritto di partecipare ai successivi gradi di giudizio sollecitati dalle impu-
gnazioni delle altre parti, ma al solo scopo di evitare una reformatio in peius della
sentenza in relazione ai suoi interessi e non anche con la prospettiva di ottenere
una reformatio in melius (3).
4. Ancor meno significativi sono gli argomenti a favore della devoluzione di
diritto, che si traggono dalle norme di cui agli artt. 574, comma 4 e 587, comma
3, c.p.p.
Secondo le Sezioni unite, dal contenuto delle due norme ‘‘ne viene fuori un
sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione sulla responsabilità penale
si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità civile automaticamente, vale a
dire anche in mancanza di impugnazione del capo concernente l’azione civile che
nei casi indicati forma oggetto di una devoluzione di diritto’’.
Ma è facile cogliere la differenza della situazione giuridica evocata dagli arti-
coli richiamati, rispetto a quella che ci riguarda: differenza che costituisce con-
ferma della tesi opposta a quella della devoluzione di diritto.
Invero, nell’art. 574, comma 4, c.p.p. l’effetto estensivo dell’impugnazione
proposta dall’imputato contro la pronuncia di condanna penale o di assoluzione
(sempre che la pronuncia dipenda dal capo o dal punto impugnato) al capo della
sentenza relativo alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle
spese processuali, si ricollega alla inscindibilità della responsabilità penale e civile
in capo alla stessa persona fisica dell’imputato. Di qui, la naturale e logica conse-
guenza che l’effetto devolutivo dell’impugnazione dell’imputato o del responsabile
civile avverso i capi penali della sentenza si estenda ai capi civili.
Ma l’argomento a contrario più significativo che si trae da tale norma è che,
malgrado l’inscindibilità delle due posizioni giuridiche in capo alla stessa persona,
il legislatore ha ritenuto doveroso prevedere espressamente l’eccezione al princi-
pio generale dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione.
Lo stesso discorso vale per l’art. 587, comma 3 e 4, c.p.p., dove, nonostante
la comunione di interessi civilistici tra l’imputato e il responsabile civile, il legisla-
tore ha ritenuto necessario prevedere espressamente l’eccezione al principio gene-
rale dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione stabilendo espressa-
mente un effetto estensivo dell’impugnazione.
Previsione espressa di effetto estensivo ai capi civili che, invece, manca per
l’impugnazione del pubblico ministero. E ciò riteniamo costituisca argomento ri-
solutivo per escludere la pretesa devoluzione di diritto.
Ma le Sezioni unite vanno oltre, invocando anche la norma di cui all’art. 572
c.p.p., la quale riconosce alla parte civile (oltre che alla persona offesa) il potere di
sollecitare l’impugnazione del pubblico ministero.

(3) Per un ulteriore approfondimento dei significati e dei limiti dell’immanenza, sotto il codice di
procedura abrogato, v. A. GIARDA, Sentenza assolutoria dell’imputato, potere di ricorso per Cassazione e
principio di immanenza della parte civile, in Scritti in memoria di G. Bellavista, vol. II, in Il Tommaso
Natale, 1978, p. 756.
Sotto il codice vigente, v. M. NOFRI, op. cit., p. 114 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo pro-
cesso penale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 178 s.

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Certo, la scelta del legislatore di conferire tale potere di sollecitazione (non


previsto dal codice di procedura penale abrogato) non solo alla persona offesa ma
anche alla parte civile, appare inspiegabile in un sistema processuale che privilegia
l’autonomia dell’azione civile e riconosce alla parte civile un potere di impugna-
zione analogo a quello del pubblico ministero (4). Ciò, però, non significa che
l’impugnazione del pubblico ministero, solo perché sollecitata dalla parte civile,
debba superare i confini dei capi penali della sentenza.
L’effetto voluto dalle Sezioni unite non può verificarsi per un complesso di
ragioni convergenti, che è bene ribadire anche per rimuovere alcune perplessità
sul ruolo stesso del pubblico ministero suscitate dalla sentenza annotata. Anzi-
tutto, il pubblico ministero nel processo penale non è titolare, né contitolare, di in-
teressi civili e, pertanto, la sua impugnazione non potrebbe mai estendersi ai ‘‘capi
civili’’ della sentenza per carenza di interesse. L’unica eccezione in materia è costi-
tuita dalla impugnazione del pubblico ministero che eserciti l’azione civile nell’in-
teresse di incapaci ai sensi dell’art. 77, comma 4, c.p.p. Solo in questo caso l’im-
pugnazione del pubblico ministero potrà devolvere al giudice dell’impugnazione la
cognizione del capo civile della sentenza.
In secondo luogo, non è previsto nel vigente codice di procedura penale un
effetto estensivo dell’impugnazione del pubblico ministero a vantaggio della parte
civile. L’effetto estensivo dell’impugnazione, nel nostro sistema processuale pe-
nale, è previsto dall’art. 587 c.p.p. soltanto a favore dell’imputato e del responsa-
bile civile, per cui non potrà trovare applicazione qualora dall’estensione degli ef-
fetti dell’impugnazione derivi uno svantaggio per l’imputato, anche se con riferi-
mento agli interessi civili.
Non potrà, pertanto, estendersi alla parte civile l’impugnazione proposta dal
pubblico ministero, come non potrà neppure estendersi ad altra parte civile l’im-
pugnazione proposta da una parte civile (5).
5. L’ultimo argomento utilizzato nella sentenza annotata è quello che si rifà
al comma 2 dell’art. 597, lett. a), c.p.p. che attribuisce al giudice d’appello che
pronuncia condanna il potere di ‘‘adottare ogni altro provvedimento imposto o
consentito dalla legge’’.
Ma, se non si vuol cadere in una evidente petizione di principio, occorre
prima stabilire se il provvedimento con il quale il giudice d’appello decide sull’a-
zione civile con una reformatio in melius rispetto alla sentenza di primo grado non
impugnata dalla parte civile rientri tra quelli ‘‘imposti o consentiti dalla legge’’.
A tal fine, occorre chiarire il significato della norma contenuta nell’art. 538,
comma 1 c.p.p., secondo cui ‘‘quando pronuncia sentenza di condanna il giudice
decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a
norma degli artt. 74 ss.’’, ed in particolare stabilire se tale norma, dettata per il
giudizio di primo grado (e applicabile al giudizio d’appello in virtù dell’art. 598
c.p.p.), sia condizionata dalla riproposizione della domanda civilistica, non solo
attraverso la presentazione delle conclusioni scritte, ma anche, nel caso di soccom-

(4) Sulla ridefinizione dei ruoli impersonati nel vigente codice di procedura penale, rispettiva-
mente, dalla persona offesa e dal danneggiato-parte civile, v., E. AMODIO, Persona offesa dal reato, in
Commentario del nuovo codice di procedura penale a cura di E. Amodio e O. Dominioni, vol. I, Milano,
Giuffrè, 1989, p. 536 ss.; G. DI CHIARA, Parte civile, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 237; A.
GHIARA, Commento all’art. 74 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da
M. Chiavario, vol. I, Torino, Utet, 1989, p. 363 ss.
(5) Cfr. la Relazione al Progetto preliminare, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo
codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, Padova, Cedam, 1990, vol. IV, p. 1279.
Sulla ratio dell’effetto estensivo dell’impugnazione dell’imputato v. G. SPANGHER, Impugnazioni penali, in
Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, Utet, 1992, p. 229; nonché, V. MELE, Commento all’art. 587 c.p.p., in
Commento coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Torino, Utet, 1991, p. 117.

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benza della parte civile nel giudizio di primo grado, attraverso l’impugnazione
dello specifico capo di sentenza.
Secondo le Sezioni unite, una volta che il giudice dell’impugnazione è stato
ritualmente investito della decisione sull’azione penale attraverso l’impugnazione
del pubblico ministero, la pronuncia sull’azione civile discenderebbe quale conse-
guenza naturale della condanna penale.
In sostanza, la condanna penale si sostituirebbe all’effetto devolutivo dell’ap-
pello che non è stato proposto, ricreando, nei giudizi di impugnazione (e nell’e-
ventuale giudizio di rinvio) le condizioni per una decisione del giudice penale sul-
l’azione civile.
Siffatto superamento dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, attraverso la
condanna penale, non è conforme al nostro sistema processuale penale.
Vero è che l’art. 538, comma 1, c.p.p. lega indissolubilmente la decisione sul-
l’azione civile alla condanna penale (fatta eccezione per le ipotesi di cui all’art.
578 c.p.p.), ma la condanna penale se è una condizione necessaria non è anche
sufficiente.
Invero, condizione della pronuncia sulle restituzioni e sul risarcimento del
danno è anche (e soprattutto) la domanda della parte civile, presentata e artico-
lata nei modi e nei termini di cui al combinato disposto degli artt. 74 e 523,
comma 2, c.p.p.: dalla presentazione di tale domanda sorge il potere-dovere del
giudice penale di decidere sull’azione civile con la sentenza di condanna dell’im-
putato.
Ma, se la domanda non viene accolta parzialmente o totalmente nel giudizio
di primo grado, la parte civile soccombente ha l’onere di riproporla con l’impu-
gnazione della sentenza.
Solo attraverso l’assolvimento di quest’onere della parte il giudice dell’impu-
gnazione viene investito della cognizione sull’azione civile, ristabilendosi nei giu-
dizi di impugnazione quella condizione della domanda che serve anche a segnare i
limiti della pronuncia civile del giudice penale.
Il predetto onere non può considerarsi assolto con la sola presentazione delle
conclusioni.
Nel giudizio di impugnazione la funzione delle conclusioni è soltanto quella
di riassumere, prima della decisione della causa, i contenuti della domanda: per-
tanto le conclusioni presuppongono l’attualità della domanda che, se non accolta
nel grado precedente del giudizio, va rinnovata con l’impugnazione della sentenza.
L’attualità della domanda della parte civile è tanto più necessaria se si consi-
dera che dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, a seguito del-
l’impugnazione proposta dal p.m., non scaturisce sempre e automaticamente la re-
sponsabilità civile dello stesso imputato e dell’eventuale responsabile civile, né
l’accertamento di un danno di natura civile.
Tutti questi delicati giudizi che si collocano al di fuori della condanna penale
non possono essere compiuti d’ufficio dal giudice penale, come pretenderebbe la
sentenza annotata.
6. La tesi sostenuta dalle Sezioni unite costituisce il retaggio di una giuri-
sprudenza che poteva giustificarsi solo prima della svolta decisiva impressa ai po-
teri di impugnazione della parte civile dalle sentenze costituzionali n. 1 del 1970 e
n. 29 del 1972 e dall’art. 576 del vigente codice di procedura penale. E si spiegava
unicamente per le limitazioni del potere di impugnazione della parte civile quali ri-
sultavano dalla stesura originaria dell’art.195 del codice di procedura penale abro-
gato: limitazioni che, a loro volta, dipendevano dal principio dell’accessorietà del-
l’azione civile.
L’operatività dell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione presup-

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pone, invero, che la parte nei cui confronti l’effetto opera abbia il potere-onere di
impugnare e, ciò malgrado, non se ne avvalga (6).
Allorché la legge non conferiva alla parte civile il potere-onere di impugnare
la sentenza di proscioglimento, non le si poteva addebitare alcun mancato assolvi-
mento dell’onere, e non si determinava per il giudice ad quem alcuna preclusione
a prendere in esame le questioni relative alla responsabilità civile, a meno che que-
st’esame fosse impedito dal tenore della pronuncia sui capi penali.
Non potendo operare l’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione con
riferimento agli interessi civili, il riesame del giudice dell’impugnazione, anche sul
solo gravame del pubblico ministero, poteva eccezionalmente estendersi dalla re-
sponsabilità penale a quella civile, determinandosi quello che la giurisprudenza
definiva come effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione del pubblico mini-
stero (7).
Unica condizione, a tal fine, era la partecipazione della parte civile al giudizio
di impugnazione e la presentazione delle conclusioni entro i limiti della domanda
presentata nel giudizio di primo grado.
Tutto ciò oggi non può avvenire, dopo il conferimento di pieni poteri di im-
pugnazione alla parte civile, la quale è libera di scegliere se coltivare o meno l’a-
zione in sede penale. Pertanto, ove la stessa, per negligenza o di proposito, non
impugni la sentenza penale che la vede soccombente, rimane del tutto priva di giu-
stificazione giuridica un’eventuale reformatio in melius della sentenza nei suoi
confronti, anche se l’impugnazione avverso la sentenza di primo grado sia stata
proposta dal pubblico ministero.
7. Le sanzioni per la parte civile non impugnante consisteranno, oltre che
nell’impossibilità di ottenere una reformatio in melius della sentenza, anche nell’i-
nammissibilità (ai sensi dell’art. 606, comma 3, c.p.p.) di un eventuale ricorso
omisso medio, avverso la decisione del giudice d’appello, per gli stessi motivi che
avrebbero potuto proporsi contro la decisione del primo giudice (8).
L’omessa proposizione dell’impugnazione non determinerà, invece, alcuna re-
voca tacita della costituzione di parte civile, e quindi l’estromissione di quest’ul-
tima dai gradi ulteriori del processo penale.
La partecipazione ai giudizi di impugnazione o di rinvio resta assicurata dal
principio di immanenza della costituzione e dalle norme, già viste, che in concreto
lo realizzano.
Con la conseguenza che la parte civile presente ai giudizi di impugnazione,
anche se non impugnante, potrà ottenere la condanna dell’imputato e dell’even-
tuale responsabile civile soccombenti al rimborso delle spese, nel caso in cui si ac-
certi un suo concreto interesse a partecipare al giudizio.
L’interesse della parte civile, anche se non impugnante, a partecipare ai gradi
successivi del giudizio penale, oltre che nei casi in cui il processo si sia concluso

(6) Sulla definizione dommatica del potere di impugnazione, v. G. TRANCHINA, La potestà di im-
pugnare nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1970, p. 3 ss.; M. MASSA, Contributo allo studio dell’ap-
pello nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1969, p. 7 ss.
(7) V., Cass., Sez. IV, 29 marzo 1977, Galllina, in Cass. pen. Mass. ann., 1978, n. 1381, p. 1348;
Id., sez. IV, 7 novembre 1977, ivi, 1979, n. 588, p. 602; Id., sez. IV, 8 febbraio 1980, Bulleri, in Giust.
pen., 1981, III, c. 225; in dottrina, v. E. FORTUNA, Azione penale e azione risarcitoria, Milano, Giuffrè,
1980, p. 556 ss.
(8) Così, sotto il codice abrogato, Cass., Sez. III 23 settembre 1986, Di Sarioin, in Foro it., 1988,
II, c. 306 ed ivi la nota critica di E. D’ANGELO, Ricorribilità per Cassazione della sentenza d’appello ad
opera della parte civile in assenza di un’impugnazione avverso la decisione di primo grado. Sotto il vi-
gente codice, v. Cass., Sez. IV, 3 febbraio 1994, P.M. in proc. De Palma, in Giur. it., 1994, II,
c. 798.

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in primo grado con la condanna penale e con la conseguente condanna dei respon-
sabili civili, può configurarsi anche se la sentenza è di assoluzione, e ciò per gli ef-
fetti vincolanti del giudicato penale nel giudizio civile.
L’interesse è evidente nell’ipotesi in cui la sentenza di assoluzione sia stata
impugnata dal pubblico ministero, perché, in tal caso, partecipando ai giudizi di
impugnazione, la parte civile potrà contribuire alla riforma di una sentenza preclu-
siva dell’azione civile in separata sede.
Ma un interesse vi può essere anche se ha impugnato il solo imputato (e que-
sto spiega perché va sempre ordinata la citazione della parte civile ai sensi dell’art.
601, comma 4, c.p.p.), sol che si consideri che l’imputato di solito ha interesse ad
impugnare solo le sentenze di proscioglimento con formula da cui residua la possi-
bilità di un’azione civile o disciplinare.

8. Ci si deve chiedere, a questo punto, se, nell’ipotesi in cui la parte civile


ometta di impugnare una sentenza di proscioglimento, si determini il suo imme-
diato passaggio in giudicato limitatamente agli interessi civili: lo stesso passaggio
in giudicato che si realizza per i capi penali allorché la sentenza penale venga im-
pugnata soltanto per gli interessi civili.
In quest’ultimo caso, infatti, poiché ai sensi dell’art. 573, comma 2, c.p.p.
‘‘l’impugnazione per i soli interessi civili non sospende l’esecuzione delle disposi-
zioni penali del provvedimento impugnato’’ è certo che la decisione sui ‘‘capi pe-
nali’’ della sentenza passi in giudicato prima di quella sui ‘‘capi civili’’.
Ci si domanda, allora, se tale formazione progressiva del giudicato possa rea-
lizzarsi in senso inverso, interessando prima i ‘‘capi civili’’ della sentenza, non di-
menticando che l’eventuale formazione del giudicato sul capo civile non si realizza
automaticamente a seguito dell’omessa impugnazione della parte civile, dovendo
tenersi conto anche dell’eventuale impugnazione dell’imputato e del responsabile
civile.
Qualora la sentenza non venga impugnata, né direttamente, né indiretta-
mente, per gli interessi civili, al fine di stabilire se si formi un giudicato, occorre
distinguere tra sentenze che decidono in modo esplicito sull’azione civile (e tali
sono le sentenze di condanna e quelle di proscioglimento nelle ipotesi di cui al-
l’art. 578 c.p.p.) e sentenze che si limitano a decidere sull’azione penale (tutte
quelle di proscioglimento eccettuati i casi di cui all’art. 578 c.p.p.).
Per la prima categoria di sentenze, non c’è dubbio che la decisione sull’azione
civile (sia essa di accoglimento o di rigetto della domanda proposta ex art. 185
c.p.), ove non sia impugnata dalle parti interessate al rapporto processuale civile,
passerà in cosa giudicata prima della decisione sui capi penali.
Per la seconda categoria di sentenze, invece, non potrà formarsi nessun giudi-
cato sul capo civile, proprio perché manca una decisione sull’azione civile e non è
giuridicamente possibile che si formi il giudicato su un non liquet. E anche ove si
volesse sostenere che è pur sempre possibile individuare nella sentenza penale di
proscioglimento una decisione ‘‘implicita’’ sull’azione civile, essa resterebbe priva
di autonomia rispetto alla decisione ‘‘esplicita’’ sull’azione penale.
Sarà, pertanto, con riferimento al giudicato penale che si determineranno gli
effetti vincolanti e le preclusioni di cui agli artt. 651, 652 e 654 c.p.p.
Di qui, l’interesse della parte civile, anche se non impugnante, a partecipare a
tutti i gradi del processo penale.

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Tale partecipazione, se non potrà servirle per ottenere una reformatio in me-
lius della decisione agli effetti della responsabilità civile, potrà giovarle per contri-
buire alla formazione di un giudicato penale che non la pregiudichi nel successivo
giudizio civile (9).
ANGELO PENNISI
Straordinario di Diritto processuale penale
nell’Università di Catania

(9) Come correntemente sostenuto nella sentenza a Sezioni unite 25 novembre 1998, Loparco, cit.

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CASSAZIONE PENALE — Sez. I — 25 giugno 2001


Pres. Morelli — Rel. Conzatti — P.M.(conf.)
Ricorrente Gennaro

Giudizio abbreviato - Richiesta semplice ex art. 438, comma 1, c.p.p. nel testo no-
vellato dalla l. n. 479 del 1999 - Pluralità di imputati - Ritenuta necessità di
trattazione unitaria del processo - Ritenuta necessità di integrazione probato-
ria - Ritenuta incompatibilità con le finalità di economia processuale proprie
del procedimento - Provvedimento di rigetto - Abnormità - Sussistenza.

In materia di giudizio abbreviato la riforma attuata dalla l. n. 479 del 1999


ha configurato, in caso di richiesta incondizionata da parte dell’imputato, un atto
dovuto del giudice (art. 438 comma 4 c.p.p.), modificando, al contempo l’ ‘‘aspet-
tativa’’ in un ‘‘diritto’’ dell’imputato alla instaurazione del rito medesimo. L’ordi-
nanza che elude un tale diritto processuale non soltanto è invalida, tale cioè da
determinare l’invalidità conseguente degli atti successivamente compiuti e la re-
gressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto
nullo (art. 185 c.p.p.) ma è abnorme, in quanto, determinando il passaggio di
fase, confligge con la struttura stessa del sistema di giudizio abbreviato, come mo-
dificato dalla legge n. 479 del 1999, ed è come tale immediatamente ricorribile in
cassazione (1).

(Omissis). All’udienza preliminare del 19 settembre 2000 avanti il G.I.P. del


Tribunale di Palermo, l’imputato Gennaro Claudio richiedeva procedersi con il
rito abbreviato.
Il giudice rigettava la richiesta considerando che: 1) nella prospettazione del-
l’accusa, la commissione dei reati era attribuita al Gennaro in concorso con altro
imputato (Filingeri Sebastiano) ed esigenze di trattazione unitaria imponevano che
il processo fosse trattato in un un’unica sede, poiché la tipologia della prova ri-
chiedeva che essa si formasse nello stesso contesto, trattandosi di fonti essenzial-
mente testimoniali (esame della parte offesa, esame di imputato di reato connesso,
riconoscimento formale di persona, eventuale esame degli imputati), e che venisse
valutata unitariamente, al fine di evitare decisioni contrastanti; 2) appariva neces-
saria una integrale e approfondita istruzione, incompatibile con le finalità di eco-
nomia processuale proprie del giudizio abbreviato; 3) l’art. 441, comma 5, c.p.p.
non imponeva al giudice una vera e propria istruzione ‘‘ex novo’’, ma solo la even-
tuale assunzione di ‘‘elementi necessari al fine della decisione’’.
A seguito di tale ordinanza, il pubblico ministero rinnovava in udienza la ri-
chiesta di rinvio a giudizio e il difensore del Gennaro chiedeva emettersi sentenza
di non luogo a procedere per non avere l’imputato commesso il fatto.
Il giudice disponeva quindi il rinvio a giudizio di entrambi gli imputati da-
vanti al Tribunale in composizione collegiale per l’udienza del 17 gennaio 2001,
indicando le fonti di prova e gli atti utilizzabili per il dibattimento.
Con ricorso depositato il 3 ottobre 2000, il difensore del Gennaro ricorreva
in cassazione per sentir dichiarare l’abnormità del provvedimento con il quale era
stata rigettata la richiesta di giudizio abbreviato, con le conseguenti statuizioni di
legge.

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Assume il ricorrente che l’ordinanza impugnata si pone in radicale contrasto


con le modifiche introdotte dalla l. n. 479 del 1999 nel sistema processuale del
giudizio abbreviato, in quanto il G.U.P. non può non accogliere la richiesta del-
l’imputato, che non sia condizionata dall’assunzione di nuovi elementi di prova. In
secondo luogo, neppure sotto il sistema previgente la richiesta di giudizio abbre-
viato poteva venire disattesa, adducendo esigenze di trattazione unitaria del pro-
cesso e il rischio di decisioni giudiziarie contrastanti, in quanto si procedeva con
rito diverso e l’eventuale affermazione di responsabilità dell’uno era indipendente
da quella degli altri imputati.
Sostiene ancora il ricorrente l’erroneità dell’interpretazione data dal giudice
al comma 5, dell’art. 441 c.p.p., in quanto da un lato le carenze dell’attività istrut-
toria non possono avere influenza negativa sulla scelta del rito, e dall’altro, agli
atti del processo esistevano tutte le fonti di prova richiamate nell’ordinanza, ec-
cetto il riconoscimento formale di persona. A tale ultimo proposito, afferma il ri-
corrente, agli atti si trovano due verbali di individuazione di persona (operata,
senza esito positivo, dalla parte offesa nell’immediatezza dei fatti, accaduti circa
otto anni fa), i quali rivestono valore probatorio, e comunque l’attività di indagine
prospettata dal G.U.P. sarebbe di facile attuazione, seppure inutile, stante la di-
stanza temporale dei fatti.
In senso favorevole all’accoglimento del ricorso si è pronunciato il Procura-
tore Generale della Cassazione, chiedendo, nella requisitoria scritta, l’annulla-
mento senza rinvio del provvedimento impugnato.
Nella requisitoria il P.G. osserva che l’art. 441, comma 5, c.p.p. non investe il
giudice della verifica della compatibilità del rito con la integrazione probatoria al-
l’occorrenza ritenuta necessaria per effetto della clausola limitativa di cui all’art.
438, comma 1 (le cui eccezioni sono perciò di stretta interpretazione), la verifica
di compatibilità prevista dal comma 5 dello stesso articolo è destinata ad operare
— si legge nella requisitoria — soltanto nel caso, ivi previsto, in cui la richiesta di
giudizio abbreviato sia stata subordinata ad integrazione probatoria, cosicché,
fuori di tali ipotesi, il giudice richiesto del rito abbreviato non può che darvi corso,
essendo ormai il giudizio abbreviato ‘‘incondizionato’’ divenuto oggetto di un ‘‘di-
ritto al rito’’ dell’imputato. Tale diritto sussiste quand’anche il giudice dovesse ri-
tenenere (art. 441, comma 5 c.p.p.) di non poter decidere allo stato degli atti, sì
da essere investito del potere di assumere ‘‘gli elementi necessari ai fini della deci-
sione’’.
Conclude il P.G. nel senso che il fatto che l’art. 438, comma 1, c.p.p. faccia
salva (oltre la previsione del comma 5, dello stesso articolo) anche la disposizione
di cui all’art. 441, comma 5 c.p.p., significa soltanto e proprio ciò che si ricava
dall’art. 438, comma 1: il diritto dell’imputato di chiedere che il processo sia defi-
nito allo stato degli atti e che trova un limite nella corrispondente definibilità del
processo medesimo, secondo la valutazione che, al riguardo, è abilitato a compiere
il giudice, il quale, in caso di rilevata impossibilità di decisione ‘‘rebus sic stanti-
bus’’, dovrà assumere gli ‘‘elementi’’ necessari (senza alcuna verifica di compatibi-
lità di essi con la ‘‘economicità’’ del rito).
Il motivo di ricorso è fondato.
Nella vigenza del precedente sistema processuale era stato posto in luce
l’‘‘inaccettabile paradosso’’ per cui il pubblico ministero poteva legittimamente
impedire l’istaurazione del giudizio abbreviato, allegando lacune probatorie da lui

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stesso determinate. In altri termini, la disciplina previgente, che precludeva la pos-


sibilità dell’integrazione probatoria nel giudizio abbreviato, confliggeva con prin-
cipi di valore costituzionale in quanto provocava sia una violazione del diritto di
difesa dell’imputato, sia un’alterazione dei caratteri propri della funzione giurisdi-
zionale (Corte Cost sent. n. 115 del 2001), in specie della preferenza accordata
dal legislatore al rito speciale per agevolare indirettamente il rito ordinario.
L’introduzione del ‘‘meccanismo di integrazione probatoria’’, avvenuto con la
legge di riforma 16 dicembre 1999, n. 479, ha per conseguenza la possibilità di
una richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’attività istruttoria, con la
quale l’imputato accetta il potere del giudice, inesistente nel caso di richiesta ‘‘pu-
ra’’, di valutare la necessità della prova dedotta ai fini della decisione e la sua com-
patibilità con le finalità di economia processuale proprie del giudizio abbreviato:
fattispecie del tutto diversa dall’attribuzione al G.U.P. di poteri integrativi, anche
‘‘ex officio’’ in caso di richiesta non condizionata (art. 441, comma 5, c.p.p.).
In alternativa, ove l’imputato non richieda alcuna integrazione probatoria (si
rammenta che la riforma prevede che una richiesta analoga può essere rivolta al-
l’organo dell’accusa dopo la ‘‘discovery’’ e prima della richiesta di citazione a giu-
dizio, ex art. 415 bis c.p.p., art. 17, comma 2, l. n. 479 del 1999), alla richiesta di
giudizio abbreviato consegue pertanto la sentenza e, automaticamente, in caso di
condanna, la riduzione della pena (art. 442 c.p.p.), così rafforzandosi l’efficacia
deflattiva attribuita al rito speciale.
La premessa appare necessaria al fine di sciogliere la questione dell’abnor-
mità o meno dell’ordinanza impugnata.
Si individua la natura abnorme di un atto processuale nella sua inesistenza
materiale o giuridica che lo rende inidoneo a passare in giudicato (S.U. n. 11 del
1997 rv 208221), oppure nel suo porsi al di fuori del sistema organico della legge
processuale, o ancora nell’essere causa determinante, pur senza essere estraneo al
sistema normativo, della stasi del processo e dell’impossibilità di proseguirlo (S.U.
n. 26 del 2000 rv 215094).
Deve escludersi che il rigetto della richiesta ‘‘pura’’ di giudizio abbreviato
comporti di per sè una stasi del processo, in quanto l’udienza preliminare prose-
gue comunque il suo ‘‘iter’’ fino al proscioglimento dell’imputato o al suo rinvio a
giudizio. Né potrebbe configurarsi, nel primo caso, un interesse dell’imputato a
dolersi del rigetto della richiesta di giudizio abbreviato, non sussistendo comun-
que, un interesse tutelato dell’imputato ad appellare la sentenza di prosciogli-
mento (nell’ambito dell’art. 443 c.p.p.).
Deve escludersi altresì nel caso in esame l’ipotesi dell’atto inesistente, in
quanto il provvedimento ‘‘de quo’’ è comunque riconducibile, nella forma, al no-
vero dei provvedimento di competenza del giudice nell’udienza preliminare.
L’ordinanza impugnata si pone tuttavia, per il suo contenuto, al di fuori del
sistema di rito abbreviato, così come modificato dalla l. n. 479 del 1999.
Secondo il ricorrente, l’orientamento prevalente della giurisprudenza, forma-
tosi nel sistema precedente alla riforma, per cui le ordinanze pronunciate ai sensi
dell’abrogato art. 440 c.p.p. non sono ricorribili in cassazione per abnormità, es-
sendo sempre possibile per l’imputato ottenere, all’esito del giudizio svoltosi nelle
forme ordinarie, la riduzione della pena di cui all’art. 444, comma 2, c.p.p., ap-
pare superato dalla riforma, in quanto esso presupponeva pur sempre l’esercizio
(arbitrario o meno) di un potere dell’organo decidente, potere che, nella nuova

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normativa, il giudice non ha più; inoltre, in costanza delle nuove norme, non sa-
rebbe neppure certa l’applicabilità del meccanismo di recupero della diminuente,
introdotto dalla Corte Costituzionale.
Vero è che, sotto il vigore del precedente sistema processuale, era stato rite-
nuto che, non essendo previsto alcun mezzo di impugnazione avverso l’ordinanza
del G.U.P. reiettiva della richiesta di giudizio abbreviato, in forza del principio di
tassatività delle impugnazioni (art. 568, comma 1, c.p.p.), ogni censura dovesse
essere fatta valere dall’interessato nella successiva fase del dibattimento con l’im-
pugnazione della sentenza di guisa che era inammissibile dedurre la ‘‘quaestio
nullitatis’’ con l’immediato ricorso in cassazione, esistendo nell’ordinamento il ri-
medio costituito dal sindacato del giudice di merito sulla legittimità dell’aspetta-
tiva dell’imputato al trattamento premiale caratteristico del rito abbreviato (Cass.
n. 7040 del 1999 rv 215029).
La modifica dell’‘‘aspettativa’’ in un ‘‘diritto’’ dell’imputato, operata dalla l,
n. 479 del 1999, comporta quindi non solo il mutamento del profilo sostanziale
del giudizio abbreviato, ma l’introduzione di un diritto ‘‘processuale’’ alla scelta
del rito, la cui violazione è insanabile in quanto il suo esercizio preclude l’emis-
sione del decreto che dispone il giudizio nelle forme ordinarie.
La norma per cui ‘‘sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la
quale dispone il giudizio abbreviato’’ (art. 438, comma 4, c.p.p.), configura, in
caso di richiesta ‘‘incondizionata’’, un atto dovuto del giudice che non prevede un
atto di valenza contraria, ma, al più, l’assunzione di ‘‘elementi necessari ai fini
della decisione’’.
Ed invero, seppure la questione non rientra nel ‘‘thema decidendum’’, non
può revocarsi in dubbio che il potere del giudice del dibattimento di applicare in
quella fase la diminuente fosse giustificato dalla necessità di un’istruttoria, come
tale ritenuta ‘‘ex ante’’, e di una valutazione di merito degli esisti della stessa ‘‘ex
post’’, circa la fondatezza del dissenso del pubblico ministero o circa l’ininfluenza
del dibattimento ai fini della definizione del processo allo stato degli atti (Corte
Cost. sent. n. 81 del 1991, n. 23 del 1992), attività non più configurabile a fronte
del diritto assoluto dell’imputato (che ha presentato la richiesta ‘‘pura’’) alla ridu-
zione di pena in caso di condanna.
L’elusione di un tale diritto, che la riforma riconosce all’imputato che sceglie
il rito abbreviato non subordinato a un’integrazione probatoria, configura la suc-
cessiva fase, la cui apertura dipende dall’ordinanza che respinge la richiesta e rin-
via l’imputato a giudizio, come estranea al sistema processuale voluto con la ri-
forma: in tal senso l’ordinanza che, in violazione del comma 4 dell’art. 438 c.p.p.,
non dispone il giudizio abbreviato, non è soltanto invalida, tale cioè da determi-
nare l’invalidità conseguente degli atti successivamente compiuti e la regressione
del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo (art. 185
c.p.p.), ma è abnorme, in quanto, determinando il passaggio di fase, confligge con
la struttura stessa del sistema di giudizio abbreviato, come modificato dalla l. n.
479 del 1999, ed è come tale immediatamente ricorribile in cassazione.
Osserva infine il Collegio che la ritenuta abnormità dell’ordinanza impugnata,
provvedimento che tuttavia non può dirsi giuridicamente inesistente (ragione per
cui l’impugnazione è sottoposta al rispetto dei termini ex art 585 c.p.p., nella spe-
cie, quindici giorni: S.U. n. 11 del 1997), esclude l’applicabilità delle disposizioni
in generale sulla deducibilità e sulla sanatoria delle nullità, in specie della regola

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che prevede la sanatoria allorché la parte interessata rinunci espressamente ad ec-


cepire la nullità ovvero accetti gli effetti dell’atto (art. 183 c.p.p.). È pertanto inin-
fluente ai fini della pronuncia il fatto che il difensore dell’imputato abbia assunto
le conclusioni al termine dell’udienza preliminare senza nulla eccepire circa l’ab-
normità o la nullità della precedente ordinanza di rigetto della richiesta di giudizio
abbreviato.
In definitiva, il ricorso è accolto e l’ordinanza impugnata viene annullata, con
trasmissione degli atti al Tribunale di Palermo, giudice per l’udienza preliminare,
per l’esame della richiesta e i provvedimenti di sua competenza.

P.Q.M. — La Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dispone tra-


smettersi gli atti al Tribunale di Palermo per il corso ulteriore.
Così deliberato in camera di consiglio, in Roma, il 25 giugno 2001. (Omissis).

——————
(1) Il giudizio abbreviato c.d. incondizionato e la patologia che affligge il provve-
dimento negatorio del giudice.

1. La sentenza in esame si pone sulla scia di un orientamento della Corte di


cassazione volto a valorizzare la rigorosa applicazione della disciplina relativa al
giudizio abbreviato, la quale, attualmente, costituisce il risultato di una profonda e
significativa modifica legislativa attuata dagli artt. 27-31 della l. 16 dicembre
1999, n. 479 (c.d. legge Carotti) (1). La presente pronuncia della Corte di cassa-
zione recepisce, altresì, le considerazioni svolte in numerose sentenze dalla Corte
Costituzionale (2), chiamata a pronunciarsi in relazione alla legittimità costituzio-
nale della disciplina relativa al rito abbreviato sin dall’esordio del nuovo codice di
procedura penale e che, successivamente alla novella del 1999, sono state attestate
nella corposa sentenza n. 115 del 2001 (3).
Nella fattispecie concreta il ricorrente denuncia il palese contrasto dell’ordi-
nanza emanata dal giudice dell’udienza preliminare, con il sistema vigente relativo
al giudizio abbreviato, sulla base del quale (specificatamente del combinato dispo-
sto dei commi 1 e 4 dell’art. 438 c.p.p.) il giudice medesimo non può non acco-
gliere la richiesta dell’imputato che non sia condizionata dall’assunzione di nuovi
elementi di prova. Viene anche rilevato come la motivazione dell’ordinanza de qua
sia fondata su delle argomentazioni insostenibili persino vigente l’originaria for-
mulazione dell’art. 438 c.p.p., in quanto, nonostante la previsione di un ambito di
discrezionalità del giudice nel rigettare la richiesta, questi non poteva comunque
porre a fondamento di tale decisione esigenze di trattazione unitaria del processo

(1) ‘‘Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocra-
tica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudi-
ziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti ai giudici di pace e di
esercizio della professione forense, in Gazz. Uff., 18 dicembre 1999, n. 296; ripubblicata, corredata di
note, in Gazz. Uff., 18 gennaio 2000, n. 13, Suppl. Ordinario n. 16.
(2) Si tratta, in particolare delle sentenze della Corte costituzionale nn. 66 e 183 del 1990; n. 81
del 1991; n. 23 del 1992; n. 318 del 1992; n. 56 del 1993 e n. 442 del 1994. Più ampiamente, infra, nel
testo e nelle relative note.
(3) In proposito si vedano le osservazioni di LOZZI, Giudizio abbreviato e contraddittorio: dubbi
non risolti di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 2002, p. 1087.

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ed il rischio di decisioni contrastanti, laddove nel reato concorressero più impu-


tati (4).
La Corte di cassazione ritiene fondato il ricorso dell’imputato anche sulla
base dei rilievi effettuati di Procuratore Generale della Cassazioe nella requisitoria
scritta, il quale, in linea con quanto eccepito dall’imputato, sostiene che la clau-
sola dell’art. 438 comma 1 c.p.p., che fa salva la disposizione dell’art. 441 comma
5 c.p.p., non consente al giudice di non accogliere la richiesta di giudizio abbre-
viata. Piuttosto, si precisa, in caso di impossibilità di decidere rebus sic stantibus,
il giudice dovrà assumere gli elementi necessari, senza alcuna verifica di compati-
bilità di essi con la economicità del rito.
La Corte di cassazione, pertanto, dopo aver posto in evidenza la distinzione
operata dalla novella legislativa circa il diverso atteggiarsi del potere ordinatorio
del giudice nei confronti di una richiesta al rito abbreviato c.d. ‘‘pura’’ (art. 438
comma 1 c.p.p.) ovvero ‘‘subordinata ad integrazione probatoria’’ (art. 438
comma 5 c.p.p.), afferma che nei confronti della prima ipotesi viene a configurarsi
un diritto dell’imputato alla disposizione del rito medesimo, riconoscendo, cioè, in
capo ad esso il ‘‘diritto processuale alla scelta del rito’’. Orbene, il provvedimento
negatorio del giudice integra una violazione del suddetto diritto tale da doversi ri-
tenere insanabile, in quanto, sostiene la Corte, l’esercizio di quel diritto da parte
dell’imputato ‘‘preclude l’emissione del decreto che dispone il giudizio nelle forme
ordinarie’’. In relazione specificatamente al tipo di patologia che colpisce l’ordi-
nanza del giudice, palesemente in contrasto con l’art. 438 comma 4 c.p.p., la
Corte accoglie la richiesta dell’imputato di declaratoria di abnormità del provvedi-
mento, che ‘‘esclude l’applicabilità delle disposizioni in generale sulla deducibilità
e sulla sanatoria delle nullità’’.
2. Occorre preliminarmente osservare che la portata applicativa dell’attuale
disciplina in materia di giudizio abbreviato può cogliersi, in maniera completa ed
esaustiva esclusivamente avendo riguardo al travagliato iter normativo subito dalla
disciplina medesima, ad opera principalmente degli interventi della Corte costitu-
zionale e da ultimo, della citata novella legislativa del 1999. Peraltro, l’emana-
zione di un’ordinanza di rigetto da parte del giudice dell’udienza preliminare in
ordine alla richiesta dell’imputato ex art. 438 comma 1 c.p.p., nel testo novellato,
palesemente esorbitante dalle previsioni normative medesime, non può spiegarsi
se non considerando che tale disposizione rappresenta una novità assoluta, di ca-
rattere totalmente differenziante l’originario impianto che attribuiva al giudice
dell’udienza preliminare il compimento di un giudizio di decidibilità allo stato de-
gli atti largamente discrezionale e non sindacabile. Novità che, d’altra parte e
come si vedrà tra breve, per taluni aspetti relativi al meccanismo di integrazione
probatoria comporta delle disfunzioni atte a dar adito ad equivoci e perplessità
che la Corte di cassazione non affronta direttamente, superandole sulla base di
considerazioni svolte di recente dalla Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi
sul punto.
Com’è noto, il giudizio abbreviato è stato prospettato dal legislatore dele-
gante con l’obiettivo ‘‘di evitare il passaggio del processo alla fase dibattimentale,
(...) secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si
ispirano al modello accusatorio’’ (5). In particolare proprio con la legge delega del

(4) Si segnala, in particolare, MARAFIOTI, Giudizio abbreviato comulativo e diritto dei coimputati
al contraddittorio, in Giur. it., 1990, II, pp. 25-28.
(5) Così la Relazione al nuovo codice di procedura penale, in Speciale documenti giustizia, II,
Roma, 1989, p. 230.

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1987 (6) l’udienza preliminare, fase emblema del nuovo modello processuale ad-
versary, veniva a configurarsi come un’udienza plurifunzionale (7) nella quale è
consentita, in determinati casi, la definizione del processo medesimo. Ed il giudi-
zio abbrevato è propriamente un rito ‘‘in virtù del quale il processo viene definito
nell’udienza preliminare’’ (8). La scelta strutturale originaria prevedeva l’instaura-
zione del rito speciale su richiesta del solo imputato il quale, tuttavia, doveva ac-
quisire il consenso del pubblico ministero quale presupposto indefettibile per po-
tersi discostare dall’ambito del processo ordinario. Efficacemente definito quale
‘‘patteggiamento sul rito’’ (9) (sì da evidenziarne le analogie e le diversità rispetto
all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. per
il quale generalmente si parla di ‘‘patteggiamento sul merito’’), data la inequivoca-
bile negoziazione delle parti relativamente al quomodo del procedimento, il giudi-
zio abbreviato fugava i dubbi di legittimità costituzionale relativamente all’art.
112 Cost., in quanto la giurisprudenza e la dottrina erano concordi nel ritenere
che la previsione del necessario consenso del pubblico ministero consentiva a tale
organo di restare dominus dell’esercizio dell’azione penale (e delle sue
forme) (10). In realtà, la più autorevole dottrina ebbe immediatamente a rilevare
come il pubblico ministero esercitasse in tal modo non solo un potere ampiamente
discrezionale ‘‘ma, addirittura, una vera e propria facoltà’’ (11), in quanto, dall’as-
senza di parametri e criteri posti dal legislatore sui quali l’organo accusatorio
avrebbe dovuto fondare il proprio dissenso, ne discendeva la non obbligatorietà di
una sua motivazione. Non solo, ma il dissenso immotivato veniva a risultare, in tal
modo, del tutto insindacabile. Peraltro, l’imputato che avesse ottenuto il consenso
al rito abbreviato da parte del pubblico ministero, poteva vedersi negare l’instau-
razione del rito medesimo da parte del giudice dell’udienza preliminare, qualora,
sulla base degli elementi probatori raccolti sino alla presentazione della richiesta,
questi ritenesse di non poter decidere. La vecchia normativa risultava fondata, in-
fatti su una rigorosa previsione di decidibilità allo stato degli atti: il rito abbreviato
era propriamente un giudizio ex actis (12), ancorché sussistesse l’eventualità di
una sua instaurazione successiva all’espletamento dell’attività di assunzione delle

(6) Circa l’ampliamento apportato ai riti speciali dalla legge delega del 1987, rispetto alla vecchia
delega del 1974 ed il relativo progetto del 1978 si veda CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale,
Padova, 2000, p. XVI-XVII, ove è posto in evidenza come i riti speciali fossero ridotti ‘‘al minimo nel si-
stema 1974-1978’’ e come ‘‘la scelta operata dalla delega del 1987’’ si ponesse ‘‘in direzione pressoché
antitetica rispetto alla delega del 1974. Non più il dibattimento sempre e in ogni modo, come nel progetto
del 1978, ma il dibattimento soltanto quando nessuna delle vie che ne prescindono si sia rivelata percorri-
bile’’. Ciò che in un certo senso comportava un contrasto con ‘‘gli slogans — allora molto di moda — di-
retti a presentare il nuovo processo come modellato sul dibattimento nordamericano’’ caratterizzato dalla
centralità di esso nell’intero sistema.
(7) Sulle diverse funzioni dell’udienza preliminare si veda, esaustivamente, sia anteriormente che a
seguito della riforma del 1999, LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 364 ss. In relazione
all’udienza preliminare considerata quale nuovo ‘‘baricentro’’ del processo, si veda SPANGHER, I procedi-
menti speciali tra razzionalizzazione e modifiche del sistema, in AA.VV., Il nuovo processo penale da-
vanti al giudice unico, Milano, 2000, p. 183. La centralità dell’udienza preliminare sin dalla emanazione
del nuovo codice di procedura penale è rilevata da LOZZI, Giudizi speciali e deflazione del dibattimento,
in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di CHIAVARIO, vol. IV, Torino, 1990.
(8) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2001, p. 410, il quale rileva come ‘‘certa-
mente il giudizio abbreviato comporta una metamorfosi dell’udienza preliminare, la quale da udienza ‘fil-
tro’, destinata ad accertare se sia o no necessario il dibattimento, diventa un’udienza in cui si accerta la
responsabilità o no dell’imputato’’.
(9) Si veda, in particolare, BALDUCCI, Giudizio abbrevviato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, p.
1, la quale precisa che la definizione appartiene all’On. Casini, intervento alla Camera dei Deputati, 26
giugno 1984; nonché ORLANDI, Procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale
cit., p. 543.
(10) In tal senso BALDUCCI, Giudizio abbreviato, cit., p. 2.
(11) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 415.
(12) In questo senso si veda BALDUCCI, Giudizio abbreviato, cit., p. 4, la quale rileva come il giudi-

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prove ammesse ex art. 422 c.p.p. il quale articolo, tuttavia e come è chiaro, non
configurava uno specifico meccanismo di integrazione probatoria proprio del rito
abbreviato medesimo. A seguito del provvedimento del giudice che disponeva il
rito abbreviato, invero, era impedita qualunque attività di integrazione probatoria.
Una normativa di tal genere non poteva non suscitare dubbi di legittimità co-
stituzionale, in primis con riferimento al principio di uguaglianza sostanziale san-
cito dall’art. 3 della Costituzione. Dalla mancanza di una motivazione del dissenso
del pubblico ministero, infatti, derivava la possibilità che situazioni analoghe pote-
vano conoscere un diverso trattamento non soltanto processuale ma anche sostan-
ziale, discendendo dalla celebrazione del rito abbreviato ed in caso di condanna
dell’imputato, la riduzione della pena edittale. Pertanto, la Corte costituzionale sin
dai primissimi anni di entrata in vigore del codice del 1988, che aveva introdotto
ex novo l’istituto del giudizio abbreviato, suscitando positivi entusiasmi sull’effet-
tivo conferimento di funzionalità e snellezza al processo penale, è intervenuta più
volte sulla relativa disciplina in maniera talmente incisiva che, come ha eviden-
ziato autorevole dottrina, ‘‘ne sconvolse l’impianto’’ (13).
Anzitutto, con la sentenza n. 81 del 1991 (14), la Corte costituzionale ha reso
obbligatoria la motivazione del dissenso da parte dell’organo accusatorio rile-
vando come non potesse consentirsi, in un processo di stampo accusatorio, fon-
dato sulla partecipazione paritaria dell’accusa e della difesa in ogni stato e grado
del procedimento (15), che il pubblico ministero ‘‘con un semplice atto di volontà
immotivato, e perciò incontrollabile si trovi in grado di privare’’ l’imputato ‘‘di un
rilevante vantaggio sostanziale’’. Al contempo ‘‘rimettendo ad una imperscrutabile
decisione della parte pubblica l’esperibilità del rito e la fruibilità dei benefici che
ne conseguono si rende possibile che imputati, in identiche condizioni sostanziali
e processuali, siano assoggettati ingiustificatamente, a differenti trattamenti san-
zionatori’’. In linea con precedenti pronunce, relative e al giudizio abbreviato
‘‘transitorio’’ (disciplinato dall’art. 247 delle norme di attuazione, di coordina-
mento e transitorie del c.p.p.) (16), e al giudizio abbreviato instaurato a seguito

zio abbreviato sia un giudizio ‘‘cartolare’’ e, cioè, ‘‘a prova contratta per il congelamento della situazione
probatoria’’.
(13) ORLANDI, Procedimenti speciali, cit., p. 344.
(14) Con la sentenza n. 81 del 15 febbraio 1991 (in Gazz. Uff., 20 febbraio 1991, n. 8), la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440,
442 c.p.p., nella parte in cui non era previsto l’obbligo per il pubblico ministero di esplicare le ragioni del
proprio dissenso nonché la sua sindacabilità da parte del giudice del dibattimento, al quale veniva ricono-
sciuto, di conseguenza, il potere di ridurre la pena ex art. 442 c.p.p. all’esito del dibattimento ed in base
ad un giudizio prognostico ex ante. A parere della Corte, infatti, il sindacato de quo, non poteva essere af-
fidato al giudice dell’udienza preliminare in quanto ciò avrebbe comportato l’adozione del rito abbreviato
‘‘contro le determinazioni del pubblico ministero’’ (sent. n. 81 del 1991, p. 1016), il quale, con il proprio
dissenso, aveva inequivocabilmente espresso la volontà che il processo fosse definito in sede dibattimen-
tale. Non sembra irrilevante il fatto che tale decisione abbia suscitato notevoli contrasti in dottrina. In
particolare si è rilevato come la Corte abbia, in tal modo, fatto ‘‘cadere il nesso inscindibile tra tratta-
mento premiale e la funzione deflattiva del rito, a favore del mero sconto di pena senza contropartita’’. Ne
risultava perciò ‘‘un giudizio ‘allungato’ anziché un giudizio abbreviato’’. Così BALDUCCI, Giudizio abbre-
viato cit., p. 4, la quale ha evidenziato, altresì che il giudizio ora per allora da parte del giudice del dibatti-
mento avrebbe necessariamente comportato la sua venuta a conoscenza del fascicolo del pubblico mini-
stero. Nello stesso senso GIOSTRA, Primi intenventi della Corte costituzionale in materia di giudizio abbre-
viato, in Giur. cost., 1990, p. 1286 ss.
(15) Sul punto è opportuno ricordare che l’art. 2 della legge delega per il nuovo codice di proce-
dura penale, nel menzionare i principi e i criteri cui il legislatore delegato doveva attenersi nell’elabora-
zione del codice, al fine di attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, al n. 3 cita:
‘‘partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento...’’.
(16) Si tratta, in particolare della sentenza del 18 gennaio 1990, n. 66 (in Giur. cost., 1990, p.
274) con la quale, proprio al ‘‘debutto’’ del nuovo codice di procedura penale, la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 247 disp. att., nella parte in cui non
prevedevano che il pubblico ministero avrebbe dovuto motivare il proprio dissenso, nonché laddove non

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del giudizio direttissimo (così come era previsto dall’art. 452 comma 2 (17), la
Corte costituzionale ha affermato che i requisiti e i criteri sulla base dei quali il
pubblico ministero avrebbe dovuto fondare il proprio dissenso non potevano che
concernere ragioni strettamente probatorie, venendo così, esplicitamente, a ‘‘rac-
cordare anche la scelta del p.m. alla definibilità del processo allo stato degli atti’’.
Con la sentenza n. 23 del 1992 (18), successivamente, la Corte veniva ad incidere
sul lato del giudizio discrezionale del giudice dell’udienza preliminare di non deci-
dibilità allo stato degli atti. Anche in tal caso si è considerato necessario e reso ob-
bligatorio il sindacato da parte del giudice del dibattimento, in quanto si è eviden-
ziato come, sottrarre a tale organo il ‘‘controllo diretto a verificare la sussistenza
del presupposto della decidibilità allo stato degli atti’’, avrebbe limitato ‘‘in modo
irragionevole il diritto di difesa dell’imputato, nell’ulteriore svolgimento del pro-
cesso, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale’’.
Già prima dell’intervento legislativo del 1999, pertanto, il sistema normativo
relativo al giudizio abbreviato risultava profondamente diverso rispetto alla sua
originaria conformazione. Tale intervento, inoltre, deve considerarsi una necessa-
ria risposta agli espressi moniti diretti al legislatore dalla stessa Corte costituzio-
nale che, sin dal 1992, pur dichiarandola inammissibile, non ha ritenuto infondata
la questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438,
439 e 440 c.p.p., laddove non prevedeva la possibilità di integrazioni probatorie
nei casi in cui il pubblico ministero motivasse il proprio dissenso adducendo l’im-
possibilità di definire il processo rebus sic stantibus. La Corte, ponendo in evi-
denza come la mancanza di una tale previsione comportasse ‘‘l’inaccettabile para-
dosso’’ per cui il pubblico ministero poteva legittimamente escludere l’instaura-
zione del rito abbreviato allegando lacune probatorie da lui stesso discrezional-
mente determinate e, affermando la necessità, ‘‘al fine di ricondurre l’istituto a
piena sintonia con i principi costituzionali’’, dell’introduzione di un meccanismo
di integrazione probatoria che consentisse di superare ‘‘il vincolo derivante dalle
scelte del pubblico ministero’’, concludeva con il rigetto della questione e con un

prevedevano che il giudice del dibattimento, all’esito dello stesso, avrebbe potuto applicare la riduzione di
pena prevista dall’art. 442 comma 2 c.p.p. In tale occasione la Corte ebbe a precisare l’individuazione dei
parametri su cui doveva basarsi la motivazione del dissenso da parte dell’organo dell’accusa: ‘‘al momento
non vi è altra interpretazione che quella di raccordare anche la scelta del pubblico ministero alla definibi-
lità del processo allo stato degli atti’’. Per ulteriori precisazioni si veda BALDUCCI, Giudizio abbreviato,
cit., p. 3, la quale evidenzia i dubbi già manifestati, proprio con riferimento all’art. 247 delle norme tran-
sitorie, dalla dottrina (NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 225; LAT-
TANZI, Giudizio abbreviato e patteggiamento, in Cass. pen., 1988, II, p. 2196) e dalla giurisprudenza (Tri-
bunale di Roma, ord. n. 646, 9 novembre 1989, in Gazz. Uff., I, serie speciale, n. 50, p. 1989). Si veda al-
tresì: GIAMBRUNO, Il giudizio abbreviato, Cedam, 1997, p. 78 ss.; FASSONE, Il giudizio abbreviato al primo
controllo della Corte costituzionale: oltre l’illegittimità della normativa transitoria difficili equilibri da rea-
lizzare, in Leg. pen., 1990, p. 191-295; TAORMINA, Quid iuris per il giudizio abbreviato tipico, dopo le
sentenze costituzionali n. 66 e 183 del 1990?, in Giust. pen., 1990, I, pp. 129-140.
(17) Con la sentenza del 12 aprile 1990, n. 183 la Corte costituzionale, sulla base delle medesime
osservazioni svolte nella sentenza n. 66 del 1990, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 452
comma 2 c.p.p. per il contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva il motivato dissenso da
parte dell’organo accusatorio alla richiesta di giudizio abbreviato ed il conseguente sindacato del giudice
dibattimentale. Sul punto si vedano: GIOSTRA, Primi interventi della Corte costituzionale in materia di
giudizio abbreviato, in Giur. cost., 1990, pp. 1286-1301; LIMA, Corte costituzionale e giudizio abbreviato:
una piccola (ma non tanto) controriforma del codice di procedura penale?, in Cass. pen., 1990, II, pp.
335-361; RIVELLO, Un articolato intervento della Corte costituzionale in tema di incompatibilità del giu-
dice, in Giur. cost., 1991, pp. 3498-3504; RIVELLO, L’incompatibilità a celebrare il giudizio abbreviato
per chi abbia disposto il giudizio immediato è conforme alle direttive della legge delega, in Giur. cost.,
1992, pp. 2019-2023.
(18) Con la sentenza n. 23 del 31 gennaio 1992 (in Gazz. Uff., 5 febbraio 1992, n. 6), la Corte co-
stituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e
442 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che il giudice, all’esito del dibattimento, ritenendo che il pro-
cesso poteva essere definito allo stato degli atti e, dunque, giudicando erronea l’ordinanza del giudice del-
l’udienza preliminare, potesse applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442 c.p.p.

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sollecito al legislatore di intervenire prontamente in materia al fine di effettuare


una pluralità di scelte (alla medesima Corte precluse a mezzo di una sentenza ad-
ditiva), ‘‘sulle modalità di prospettazione delle prove, sui poteri da conferire al
giudice, sull’eventuale delimitazione dei mezzi di prova esperibili’’(19). La rispo-
sta, certamente non tempestiva, del legislatore si inserisce, invero, nel solco di una
pluralità di incisivi richiami provenienti dalla Corte costituzionale (20), la quale,
altrimenti, sarebbe stata costretta ad effettuare, essa stessa, quella scelta discrezio-
nale e riservata al potere legislativo, onde poter ricondurre la disciplina del giudi-
zio abbreviato nell’alveo dei principi costituzionalmente garantiti.
La novella del 1999, tuttavia, non sembra porsi soltanto in linea con le pro-
nunce della Consulta, in quanto opera la scelta radicale di completa esclusione del
requisito, prima essenziale, del consenso del pubblico ministero alla richiesta del-
l’imputato. Orbene, se da un lato non può non concordarsi con la Corte di cassa-
zione che, nella presente sentenza, offre una interpretazione sistematica e aderente
al dettato della norma riconoscendo un vero e proprio diritto soggettivo dell’impu-
tato alla scelta nonché alla successiva e consequenziale instaurazione del rito, non
può, tuttavia, trascurarsi l’osservazione per la quale, se anteriormente alla riforma
si prospettavano gravi questioni circa l’imparzialità del pubblico ministero proprio
in relazione al suo potere (dapprima arbitrario e poi, comunque, largamente di-
screzionale) di prestare o meno il proprio consenso, a seguito della riforma sem-
brerebbe riproporsi il dubbio prospettato all’esordio del nuovo codice di proce-
dura penale circa la legittimità della normativa rispetto all’art. 112 del dettato co-
stituzionale, vale a dire rispetto all’obbligatorietà dell’azione penale e alla sua tito-
larità in capo all’organo dell’accusa.
Sul punto e per un verso, alla luce del descritto iter processuale subito dalla
normativa in questione, non è seriamente contestabile l’opportunità della modifica
attuata dalla legge n. 479 del 1999, nonché dell’interpretazione offertane dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 115 del 2001, ove sono superati tutti i dubbi
di legittimità costituzionale sollevati dai giudici remittenti. Per altro verso, non
può non riconoscersi che, nonostante le affermazioni della Consulta siano soste-
nute dall’apprezzabile intento di stabilizzare un equilibrio dell’intero sistema pro-
cessuale, provato da continue riforme, tale disciplina porta con sé il rischio, evi-
denziato dalla più autorevole dottrina, di ‘‘distorcere il significato e la funzione
delle indagini preliminari’’ (21). Infatti, la consapevolezza da parte dell’organo ac-

(19) Nella sentenza n. 92 del 9 marzo 1992, la Corte costituzionale ha precisato che la configura-
zione del rito abbreviato come giudizio ‘‘a prova contratta (...) non è affatto un connotato ineliminabile’’,
tanto più che ‘‘un modello di giudizio abbreviato che consente un’integrazione probatoria è positivamente
previsto, nello stesso codice, per il caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato
(art. 452 comma 2 c.p.p.)’’.
(20) Sul punto, infatti, la Corte costituzionale era intervenuta anche successivamente. Più precisa-
mente, con la sentenza del 23 dicembre 1994, n. 442, aveva dichiarato inammissibile la questione di legit-
timità costituzionale degli artt. 452 comma 2 c.p.p. e 247 comma 2. disp. att. in relazione agli artt. 3 e 25
comma 2 Cost., per la parte in cui tali disposizioni subordinavano la trasformazione del giudizio direttis-
simo in giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero, il quale risultava ‘‘arbitro di determinare
la decidibilità del processo allo stato degli atti e quindi di precostituire la condizione per negare il con-
senso alla trasformazione del rito’’. Anche in tal caso la Corte non aveva ritenuto infondata la questione
ma il giudizio di inammissibilità della stessa era dovuto all’impossibilità di emanare una sentenza additiva
nell’ambito di una scelta operativa di discrezionalità legislativa. Con la sentenza citata, peraltro, la Corte
sembrava dare un ‘‘ultimatum’’ al legislatore: ‘‘corre, tuttavia, l’obbligo di precisare che avendo la Corte
già sollecitato il legislatore ad intervenire (...) i giudici costituzionali sottolineano come, perdurando lo
stato di inerzia, non potranno esimersi — ove siano investiti da ulteriori questioni di costituzionalità ri-
guardanti lo specifico tema — dall’adottare le decisioni più appropriate ad evitare che permanga la più
volte constatata distonia con i principi costituzionali’’. Si veda sul punto LOZZI, Lezioni di procedura pe-
nale, cit., p. 418, il quale riporta tali affermazioni della Consulta sottolineandone il tono di vera e propria
‘‘minaccia’’.
(21) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 419. V’è da precisare che il valore di prova

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cusatorio dell’alta probabilità che nell’udienza preliminare venga accertata la re-


sponsabilità dell’imputato, dipendendo esclusivamente da questo l’instaurazione
del rito abbreviato, potrebbe comportare lo svolgimento di indagini preliminari
‘‘non soltanto più per le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale ma
in modo da fornire al giudice dell’udienza preliminare (...) elementi probatori ido-
nei’’ (22). Senza dubbio, come ritiene la stessa Corte di cassazione nella sentenza
in esame, la fattispecie prevista dall’art. 438 comma 1 c.p.p. nel testo novellato
rafforza ‘‘l’efficacia deflattiva attribuita al rito speciale’’ (rectius: l’efficacia ‘‘at-
trattiva’’ per l’imputato), ma ciò risponde ad una scelta di politica processuale
che, se da un lato mira ad obiettivi di effettiva e concreta economicità, dall’altro
non può non comportare uno stravolgimento del sistema originario prospettato
sulla base di indagini preliminari finalizzate al mero raggiungimento dell’idoneità
probatoria per sostenere l’accusa in giudizio (artt. 326 c.p.p. e 125 disp. att.) e
sulla centralità del dibattimento (23).
Al diritto dell’imputato relativo alla scelta del rito abbreviato c.d. incondizio-
nato corrisponde, nell’attuale modello e come rilevato dalla stessa Corte di cassa-
zione nella sentenza in commento, un ‘‘atto dovuto’’ del giudice dell’udienza preli-
minare, il quale ha l’obbligo di disporre la celebrazione del rito speciale a prescin-
dere da un’eventuale giudizio di non decidibilità allo stato degli atti. È opportuno
precisare che la modifica dell’art. 438 c.p.p. configura due moduli propriamente
alternativi per l’imputato al fine di richiedere ed ottenere il giudizio abbreviato. Il
primo, che viene in questione in questa sede, non lascia spazio a molti dubbi circa
il suo atteggiarsi quale richiesta semplice che attribuisce all’imputato un vero e
proprio diritto soggettivo a veder instaurare il processo nella forma richiesta. Dal
combinato disposto del comma 1 e 4 dell’articolo in parola il giudizio che viene ad
essere celebrato si presenta a prova contratta per esclusiva volontà dell’imputato.
Il giudice non può rifiutarne l’instaurazione sulla base di una valutazione di non
decidibilità allo stato degli atti. Al più, ai sensi del comma 5 dell’art. 441 c.p.p.,
qualora ritiene di non poter decidere ‘‘assume, anche d’ufficio, gli elementi neces-
sari ai fini della decisione’’. La seconda modalità di richiesta del rito abbreviato da
parte dell’imputato è configurata, invero, nel comma 5 dell’art. 438 c.p.p. ed è ge-
neralmente definita come ‘‘condizionata’’, cioè subordinata ad una integrazione

assunto dalle indagini preliminari, in base alle quali può essere accertata la responsabilità dell’imputato,
risulta conforme al dettato del comma 5 dell’art. 111 Cost., il quale consente alla legge di regolare ‘‘i casi
in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato’’.
(22) In questi termini ancora LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 419-421, ove considera
le prospettive di riforma del giudizio abbreviato anteriormente all’intervenuta novella del 1999. L’A. in
tale ambito prende in considerazione anche la proposta di riforma per la quale il giudizio abbreviato si sa-
rebbe dovuto porre come la regola mentre il dibattimento come l’eccezione, vale a dire che l’instaurazione
di quest’ultima fase sarebbe dovuta avvenire soltanto su espressa richiesta dell’imputato. Tale proposta,
come sottolinea l’A., oltre a prestare il fianco a critiche non facilmente superabili sarebbe comunque in-
congruente in un sistema come il nostro che nella fase dibattimentale attribuisce notevole valore probato-
rio agli atti delle indagini preliminari. Si veda, in termini più chiari e precisi, LOZZI, op. loc. ult. cit.
(23) Sembra opportuno un breve cenno sulla modificazione subita dall’intero sistema della fase
delle indagini preliminari, così come prospettato dal legislatore del 1989, avvenuto essenzialmente ad
opera della giurisprudenza della Corte costituzionale. All’entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale, infatti, al pubblico ministero competeva lo svolgimento di indagini al solo fine delle determina-
zioni inerenti l’esercizio dell’azione penale (artt. 326 c.p.p. e 125 disp. att.), da cui derivava come conse-
guenza logica la non necessarietà che le indagini stesse fossero complete. A partire dal 1992 con l’affer-
mazione da parte della Corte costituzionale del principio della ‘‘non dispersione delle prove’’ (non riscon-
trabile a livello di diritto positivo), insieme alle incisive modifiche subite da numerosi articoli del nuovo
codice di procedura penale, che attribuivano solo in casi eccezionali valore di prova agli elementi acquisiti
nella fase delle indagini preliminari (in specie gli artt. 500 e 513 c.p.p.), si è completamente scardinato il
modello retto sulla distinzione tra procedimento e processo. Il pubblico ministero, consapevole del fatto
che il materiale raccolto non sarà ‘‘disperso’’, compie delle indagini che necessariamente tendono alla
completezza. Ne è derivata una ‘‘tensione’’ tra diverse norme del codice, che ha posto la necessità di una
loro modificazione.

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probatoria su proposta dello stesso imputato. A fronte di tale istanza il giudice ha


riconosciuto il potere di valutare la necessità, ai fini della decisione, nonché la
compatibilità, con le finalità di economia processuale proprie del procedimento,
dell’integrazione probatoria prospettata dall’imputato, in uno alla correlativa fa-
coltà di rigettare la richiesta qualora non ritenga la sussistenza di tali condizioni.
La diversa posizione che deve assumere il giudice a fronte di una richiesta avan-
zata ai sensi del comma 1 dell’art. 438 c.p.p., ovvero effettuata ai sensi del comma
5 dell’art. 438 c.p.p., rappresenta un punto controverso che la Corte di cassa-
zione, peraltro, non discute. Il caso in esame, infatti, viene ineccepibilmente ri-
solto con la declaratoria di abnormità del provvedimento che rigetta l’istanza in-
condizionata dell’imputato mentre, relativamente alle distinzioni sussistenti ri-
spetto all’ipotesi di richiesta subordinata ad integrazione probatoria, la Corte si
pone in linea con quanto sostenuto dalla recente sentenza n. 115 del 2001 della
Corte costituzionale (24). Al riguardo preme rilevare che, se in linea di principio
le affermazioni della Consulta paiono condivisibili, d’altra parte, esse non risol-
vono del tutto i dubbi e le incongruenze della nuova disciplina rilevate, per contro,
da più parti della dottrina.
Più precisamente, una questione prospettata dalla giurisprudenza di merito
ha riguardo all’irragionevolezza della disciplina laddove consente che la finalità di
economia processuale giustifichi la reiezione della richiesta condizionata di giudi-
zio abbreviato ma non di quella incondizionata. Orbene, la Corte costituzionale
osserva, giustamente, che l’eliminazione della valutazione di ammissibilità (rec-
tius: di decidibilità allo stato degli atti) da parte del giudice, nonché del necessario
consenso del pubblico ministero, ha posto ‘‘rimedio agli aspetti contraddittori
della precedente disciplina’’ e non ritiene fondato il dubbio di legittimità costitu-
zionale denunciato dai giudici remittenti in quanto afferma che ‘‘ove si debbano
compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbre-
viato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito
esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla prece-
dente disciplina’’. Ne discende che ‘‘il giudizio abbreviato si traduce sempre e co-
munque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della
prova in dibattimento’’, a prescindere dal fatto che, ‘‘nelle situazioni in cui è og-
gettivamente necessario procedere anche ad una consistente integrazione probato-
ria’’, quest’ultima sia richiesta dall’imputato ovvero sia disposta d’ufficio dal giu-
dice.
Tali affermazioni, tuttavia, non consentono di superare l’irragionevolezza
della normativa laddove consente o meno al giudice di privare l’imputato di un
rito dai risvolti sostanziali per il solo fatto che l’imputato abbia effettuato la ri-
chiesta in maniera condizionata ovvero puramente e semplicemente. Nel primo
caso, infatti, il giudice è chiamato a compiere un giudizio di ammissibilità del rito
alla stregua di un parametro (contemplato nel comma 5 dell’art. 438 c.p.p.) non
soltanto incongruo (per quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale, che
riconosce come il rito abbreviato comporti pur sempre una economia processuale
rispetto al giudizio ordinario) ma, altresì, estremamente vago nella sua formula-
zione, comportando il rischio di una valutazione ‘‘arbitraria’’ dello stesso giudice,
disancorata da qualsiasi forma di controllo.
La questione si è posta, più di recente, all’attenzione della Corte costituzio-
nale. In particolare il Tribunale di Napoli ha sollevato una questione di legittimità

(24) Sentenza 7-9 maggio 2001, n. 115, in Cass. pen., 2001, p. 2603 ss., con nota di ZACCHÈ,
Nuovi poteri probatori nel giudizio abbreviato, ivi, p. 2610 ss. Con tale sentenza, la Corte costituzionale
affronta, per la prima volta dopo la novela del 1999, le tematiche relative al ‘‘nuovo’’ giudizio abbreviato,
risolvendole in larga parte.

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costituzionale degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, ‘‘nella parte in cui non prevedono che il giudice del dibattimento
possa applicare, all’esito del giudizio, la diminuzione di pena prevista dall’art. 442
c.p.p., ove ritenga ingiustificata o comunque erronea la decisione con cui il giudice
dell’udienza preliminare abbia rigettato la richiesta di giudizio abbreviato, subor-
dinata ad integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ritenendola
non necessaria ovvero non conciliabile con le finalità di economia processuale
proprie del rito alternativo’’. Com’è chiaro, il giudice remittente ha prospettato
alla Corte costituzionale la possibilità di rendere operativo, anche nel nuovo si-
stema, il rimedio prospettato dalla stessa Corte con la sentenza n. 23 del 1992, in
virtù del quale veniva riconosciuto al giudice del dibattimento il potere di appli-
care la riduzione di pena qualora il giudice dell’udienza preliminare avesse effet-
tuato un’erronea valutazione di non decidibilità allo stato degli atti.
Con la sentenza n. 54 del 2002, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissi-
bile la questione, considerando incongrua la soluzione prospettata dal giudice a
quo rispetto alla nuova disciplina del giudizio abbreviato, la quale non richiede
più una valutazione fondata sulla definibilità del processo allo stato degli atti,
bensì ancorata ad ‘‘un parametro molto più circoscritto’’ (25).
Sulla base di quanto già affermato con riferimento alle connotazioni di incon-
gruità e vaghezza del criterio stabilito nel comma 5 dell’art. 438 c.p.p., tali conclu-
sioni non appaiono condivisibili. L’assenza di una specifica disposizione legislativa
che consenta il controllo del provvedimento che nega, erroneamente o ingiustifica-
tamente, la concessione del rito abbreviato, infatti, impone di ritenere quanto
meno opportuna l’attribuzione al giudice del dibattimento del potere di effettuare
il controllo su di una decisione del giudice dell’udienza preliminare che, incidendo
sull’entità della pena deve poter essere sottoposta a verifica da parte di un organo
diverso da quello da cui promana.
3. La Corte di cassazione con la sentenza in esame annulla senza rinvio l’or-
dinanza impugnata, qualificandola come ‘‘abnorme’’. Sul punto occorre anzitutto
segnalare l’esistenza di un contrasto nella medesima giurisprudenza di legittimità
laddove altro orientamento, tuttavia minoritario, considera l’ordinanza che rigetta
la richiesta incondizionata di giudizio abbreviato da parte dell’imputato come me-
ramente illegittima (26). In tal senso, la Corte di cassazione non ritiene di poter
ravvisare la determinazione di un danno irreparabile per l’imputato, essendo pre-
vista la possibilità per lo stesso di rinnovare la richiesta. Tuttavia tale interpreta-
zione non appare convincente per diversi ordini di ragioni. Anzitutto perché grava
l’imputato dell’onere di reiterare una richiesta che ha prontamente avanzato in

(25) Così nella sentenza 27 febbraio-15 marzo 2002, n. 54, con la quale, come si è visto, la Corte
costituzionale ha ritenuto inammissibile, la questione di costituzionalità degli artt. 438, 441 e 442 c.p.p.
sotto i profili della irragionevolezza e della lesione del diritto di difesa, laddove non prevedono il potere
del giudice del dibattimento di sindacare il rigetto ingiustificato da parte del giudice per le indagini preli-
minari della richiesta dell’imputato di giudizio abbreviato subordinata a una integrazione probatoria. L’i-
nammissibilità dichiarata, tuttavia (per quanto rilevato dallo stesso giudice remittente nella decisione suc-
cessiva alla pronuncia della Corte costituzionale), si è resa doverosa per la prospettazione di una solu-
zione incongrua da parte del remittente, che riproponeva l’adozione, da parte della Corte, di una sentenza
addittiva (sulla falsariga del modulo procedimentale individuato dalla sentenza n. 23 del 1992), con la
quale attribuire al giudice, in esito al dibattimento, il potere di valutare se la prova, a suo tempo richiesta
dall’imputato era necessaria e, in caso positivo, di applicare, nell’eventualità di condanna, la riduzione di
pena ex art. 442 c.p.p. La Corte, in altri termini, nel ritenere tale richiesta inammissibile sottolinea la di-
versa valutazione che deve compiere, attualmente, il giudice a fronte della richiesta di rito abbreviato con-
dizionato rispetto al passato e evidenzia l’opportunità di un sindacato del giudice del dibattimento che,
tuttavia, non può più porsi in esito al dibattimento.
(26) Si veda, in particolare, Sez. I, 25 gennaio 2001, n. 1405, Sangani, in Giust. pen., 2002, III, p.
103.

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maniera formalmente e sostanzialmente legittima. Inoltre, di tal guisa, i tempi del


processo vengono ingiustamente allungati, mentre la Corte nulla afferma in rela-
zione all’ultimo momento utile per l’intervento della richiesta reiterata, prospet-
tando, di conseguenza, il rischio per l’imputato di perdere il proprio diritto al rito
abbreviato. Pregevole appare, pertanto, la sentenza in esame in questa sede, lad-
dove con la declaratoria di abnormità dell’ordinanza del giudice che rigetta l’i-
stanza incondizionata di giudizio abbreviato da parte dell’imputato, costringe il
giudice dell’udienza preliminare a riesaminare la richiesta già presentata ed a con-
formarsi alle previsioni della legge (27).
Com’è noto, la categoria giuridica dell’abnormità ha origine squisitamente
giurisprudenziale (28). Al fine di porre rimedio alla carenza di tutela nei confronti
degli atti c.d. extra vagantes, in vigenza del principio di tassatività oggettiva dei
mezzi di impugnazione, l’elaborazione giurisprudenziale del provvedimento giudi-
ziario abnorme consente, tramite il ricorso per cassazione, di ‘‘espungere dal pro-
cedimento quei provvedimenti che violano manifestamente, per ragioni di strut-
tura o di funzione, il principio di legalità processuale penale’’ (29). In base alla
previsione dell’art. 568 comma 1 c.p.p., infatti, i provvedimenti giurisdizionali av-
verso i quali è possibile proporre impugnazione sono delimitati ai casi espressa-
mente previsti dalla legge ed esclusivamente con il mezzo tassativamente indicato.
Nel caso in cui vengano in rilievo atti non riconducibili agli schemi normativi ti-
pici, pertanto, in base al principio di tassatività dei mezzi di gravame tali provve-
dimenti non sarebbero impugnabili. Né, all’uopo, potrebbe supplire la previsione
dell’art. 568 comma 2 c.p.p. (che attua il disposto dell’art. 111, comma 7 Cost.),
in quanto, al fine di accordare eccezionalmente il ricorso per cassazione, non con-
templa i provvedimenti diversi dalle sentenze ovvero quelli che non concernono la
libertà personale. Posta di fronte all’esigenza di apprestare tutela avverso ‘‘quei
provvedimenti talmente estranei agli schemi normativi da non poter essere previsti
dal legislatore’’, la giurisprudenza ha dovuto riconoscere la possibilità di adire la
Corte di cassazione per poter ottenere una declaratoria di abnormità degli stessi.
In altri termini, l’operazione ermeneutica della suprema Corte è volta a ‘‘recupe-
rare un mezzo di impugnazione — precisamente il ricorso per cassazione — nei
confronti di un atto che non sarebbe altrimenti impugnabile’’ (30).
Nell’accogliere il ricorso dell’imputato, proprio teso ad ottenere una pronun-
cia di abnormità del provvedimento impugnato, la Corte di cassazione effettua un
chiarimento sul punto, individuando tre specifiche ipotesi nelle quali un atto può
essere suscettibile di tale qualificazione. La prima viene ravvisata nell’‘‘inesistenza
materiale o giuridica che lo rende inidoneo a passare in giudicato. In base a tale
affermazione, peraltro non propriamente condivisibile (31), la categoria dell’inesi-

(27) Nello stesso senso: Sez. I, 20 dicembre 2000, Strangio, in Giust. pen., 2002, p. 103; Sez. I,
11 dicembre 2000, Litrico.
(28) Si veda, in proposito, CORDERO, Procedura penale, Milano, 2000, p. 1025, il quale parla di
‘‘invenzione terapeutica’’ della giurisprudenza che ha inizio negli anni Trenta: ‘‘le regole su cosa sia impu-
gnabile e come, valgono rispetto all’anomalo ‘normale’, ossia concernono provvedimenti imperfettamente
conformi ai modelli, ma esistono gli abnormi, ignoti al sistema legale, sfuggono alle relative previsioni, a
fortiori, esigono rimedio e l’unico possibile è impugnarli in cassazione’’.
(29) Così, TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 1999, p. 599, ove precisa le ragioni di
struttura con l’esempio dell’adozione di ‘‘ordinanza anziché sentenza di incompetenza’’ e le ragioni di
funzione, ‘‘cioè di caduta del provvedimento rispetto allo scopo del modello legale’’ L’A. sottolinea anzi-
tutto come l’abnormità vada riferita sia ai provvedimenti del giudice che del pubblico ministero e rileva
come la costruzione giurisprudenziale in parola, sia ‘‘potuta avvenire cogliendo la portata diretta dell’art.
111 Cost., secondo il quale ogni provvedimento, in quanto motivato, deve essere legale e cioè corrispon-
dente al modello della fattispecie processuale penale’’.
(30) In questi termini SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, Mi-
lano, 1999, p. 441.
(31) Nonostante l’inesistenza materiale o giuridica degli atti processuali possa per un certo verso

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stenza giuridica, pacificamente ritenuta la forma più grave di invalidità dell’atto


processuale penale e frutto di elaborazione della dottrina e della giurisprudenza
‘‘resa necessaria dal principio di tassatività delle nullità’’ (32), viene considerata
come l’ipotesi più eclatante di abnormità dei provvedimenti, a cui nessun mecca-
nismo può porre rimedio, generando essa un ‘‘vizio rilevabile non solo in ogni
stato e grado del procedimento, ivi compreso quello dell’esecuzione, ma anche ol-
tre, mediante una semplice azione di accertamento, in quanto la gravità del vizio è
tale da impedire la formazione del giudicato’’ (33). Orbene, nel caso di specie la
Corte di cassazione non ritiene potersi accordare tali conseguenze all’ordinanza
emanata in contrasto con il disposto dell’art. 438 comma 4 c.p.p. in quanto, so-
stiene, ‘‘il provvedimento de quo è comunque riconducibile, nella forma, al novero
dei provvedimenti di competenza del giudice nell’udienza preliminare’’.
Con riferimento alle altre due ipotesi di abnormità del provvedimento, la
Corte di cassazione distingue, sulla scorta della sua più recente giurisprudenza, tra
abnormità strutturale e funzionale. Nell’un caso l’abnormità del provvedimento si
ravvisa nel ‘‘suo porsi al di fuori del sistema organico della legge processuale’’,
nell’altro il provvedimento stesso risulta ‘‘causa determinante, pur senza essere
estraneo al sistema normativo, della stasi del processo e dell’impossibilità di pro-
seguirlo’’. Opportunamente, a nostro avviso, il supremo Collegio esclude ‘‘che il
rigetto della richiesta ‘pura’ di giudizio abbreviato comporti di per sé una stasi del
processo’’. Si rileva, infatti, che l’udienza preliminare non è per ciò stesso impe-
dita nel suo evolversi verso il proscioglimento o il rinvio a giudizio, mentre, nel
primo caso, l’imputato non avrebbe alcuna ragione di dolersi del rigetto della ri-
chiesta di giudizio abbreviato né potrebbe ravvisarsi in capo ad esso un interesse
che lo legittimi ad impugnare la sentenza di proscioglimento (rectius: di non luogo
a procedere). Pregevole appare, pertanto, la ritenuta abnormità dell’ordinanza im-
pugnata in base alla ragione per la quale essa viene a porsi ‘‘per il suo contenuto,
al di fuori del sistema di rito abbreviato, così come modificato dalla l. n. 479 del
1999’’. Dal complesso delle nuove disposizioni in materia, ed in particolare dal
combinato disposto dei comma 1 e 4 dell’art. 438 comma c.p.p., il provvedimento
del giudice che consegue ad una richiesta semplice dell’imputato si configura
come un atto dovuto, a nulla rilevando l’obiezione per la quale ‘‘l’ordinanza che
rigetti la richiesta semplice di giudizio abbreviato è provvedimento in astratto le-
gittimo ed in alcuni casi dovuto’’ (34). Il rispetto dei requisiti formali, oggetto di
controllo da parte del giudice dell’udienza preliminare investito della richiesta ex
art. 438 comma 1 c.p.p. e specificati dai commi 2 e 3 dell’articolo medesimo, esat-
tamente si ritiene derivare dalle disposizioni generali in materia di atti processuali
(più esattamente dal disposto dell’art. 121 comma 2 c.p.p. che obbliga il giudice a
provvedere sulle richieste ‘‘ritualmente formulate’’). Tuttavia, proprio in quanto
applicazione di un principio generale, il rigetto della richiesta per mancanza dei
presupposti di forma, in materia di giudizio abbreviato, deborda dallo specifico
obbligo che si è inteso configurare in capo al giudice di disporre il medesimo rito
in caso di richiesta incondizionata, così come risulta dal dato letterale del comma

considerarsi una eclatante ipotesi di abnormità, le distinzioni rispetto alle ipotesi precipue, individuate
dalla dottrina e dalla giurisprudenza, di abnormità dei provvedimenti giurisdizionali, non sembrano seria-
mente contestabili. Sia le situazioni alle quali le due costruzioni teoriche pongono rimedio, sia i termini
per poter far valere i vizi, sia le conseguenze che ne discendono si pongono su piani inconfutabilmente di-
stinti. La natura abnorme degli atti processuali, inoltre, sembra potersi esclusivamente riferire a quelli di
competenza giudiziaria.
(32) Così LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, p. 167.
(33) Si veda VOENA, Atti, in CONSO-GREVI, Compendio di procedura penale, cit., pp. 256-257.
(34) In tal senso si veda MASSARI, Illegittimo rifiuto di celebrare il giudizio abbreviato: quali ri-
medi?, in Cass. pen., 2001, p. 2804 ss.

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1 dell’art. 438 c.p.p. e dalla voluntas legis. A tale obbligo fa da pendant un diritto
dell’imputato, sul quale, ovviamente e secondo i principi di civiltà giuridica, grava
il rispetto dei requisiti minimi di forma richiesti dalla legge. Orbene, anche a vo-
lersi ammettere che una richiesta viziata formalmente non possa più essere ripro-
posta dall’imputato, tale sanzione deve trovare ragione tra i principi generali in
tema di inammissibilità, non potendosi in alcun modo concordare con una inter-
pretazione a contrario ex art. 438 comma 6 c.p.p. (35).
Pertanto, si ribadisce, l’abnormità dell’ordinanza che rigetta la richiesta in-
condizionata al rito abbreviato non può ritenersi tale in quanto causa di stallo del
processo, bensì in quanto del tutto al di fuori del sistema normativo attualmente
previsto in materia di giudizio abbreviato.
La garanzia dell’imputato di poter ricorrere per cassazione a fronte di un ri-
getto del giudice nei confronti della sua richiesta semplice di giudizio abbreviato,
non dovrebbe ritenersi, tuttavia, l’unico strumento di cui l’imputato stesso può
fruire. Egualmente a quanto rilevato in relazione al sindacato da parte del giudice
dibattimentale sul provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che rigetta
la richiesta di giudizio abbreviato subordinata alla richiesta di integrazione proba-
toria, deve ritenersi plausibile il riconoscimento di una possibile valutazione (che,
in tali casi si porrebbe come mero controllo), da parte dello stesso organo dibatti-
mentale, relativa ai casi come quello in esame, di rigetto di una richiesta semplice
di rito abbreviato.
Tali considerazioni ci sembrano rafforzate dalla ristrettezza dei termini ine-
renti la possibilità di adire il Supremo collegio a mezzo del ricorso immediato che
resta, pur sempre, lo strumento di maggiore garanzia per l’imputato e che, in ul-
tima analisi, deve ritenersi ammissibile, anche qualora, auspicabilmente, venga ri-
conosciuta l’ulteriore garanzia del sindacato del giudice dibattimentale.
Dott.ssa DANIELA ROCCHI

(35) Di tale avviso, invero, ORLANDI, Procedimenti speciali, in CONSO-GREVI, Compendio di proce-
dura penale, cit., p. 549 ss.

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CASSAZIONE PENALE — Sez. VI — 17 maggio-27 luglio 2002, n. 1593


Pres. G. Fulgenzi — Rel. S.F. Mannino —
P.M. (difforme) G. Viglietta
Imp. T. e F. Buti

Rapporti giurisdizionali con autorità straniere in materia penale - Estradizione -


Reato di conspiracy e reato associativo - Previsione del fatto come reato in en-
trambi gli ordinamenti - Necessità - Esclusione (art. II, § 2 Trattato di estra-
dizione Italia-USA).

Ai fini della concedibilità dell’estradizione per l’estero, deve ritenersi rispet-


tato, sia pur indirettamente, il principio della previsione bilaterale del fatto, anche
a prescindere dal raffronto diretto tra il reato di conspiracy ed il reato di associa-
zione per delinquere, qualora risultino punibili secondo le leggi di entrambe le
Parti contraenti i reati-fine oggetto del programma criminoso (1).

(Omissis). — IN FATTO e DIRITTO. — Avverso la sentenza della Corte d’appello


di Firenze 12 novembre 2001 n. 2 — con la quale è stata dichiarata la loro estra-
dabilità su richiesta del Governo degli Stati Uniti d’America per il reato di conspi-
racy per commettere frodi a mezzo del telegrafo — hanno proposto ricorso per
cassazione, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi. — (Omissis).
2. Inosservanza ed erronea applicazione (art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.
dell’art. 13, comma 2, c.p. e 705, comma 1, c.p.p.) perché la Corte d’appello non
ha tenuto conto del requisito della previsione bilaterale del fatto — che trova rife-
rimento nel Trattato di estradizione tra Italia e USA sottoscritto a Roma il 13 ot-
tobre 1983 ed entrato in vigore il 24 settembre 1984 — come condizione positiva
perche si possa procedere all’estradizione ed ha ritenuto che esistessero le condi-
zioni per accordare per il reato di cospirazione per commettere frodi a mezzo tele-
grafo e trasferimenti di beni ottenuti con la frode nonostante la differenza che
passa tra il reato di cospirazione e quello di associazione per delinquere prevista
dall’art. 416 c.p., che non è diretta a punire l’accordo anche fra due persone, di
cui almeno una svolga attività preparatoria dei reati-scopo, quanto piuttosto la
stabile permanenza di un apparato organizzativo criminoso; in particolare, i giu-
dici di merito hanno ritenuto che l’estradizione per il reato di conspiracy sia con-
cedibile a prescindere dalla corrispondenza a una qualsiasi forma di reato asso-
ciativo previsto dalla legge italiana quando tale reato sia finalizzato al compi-
mento di altri reati per cui è prevista l’estradizione, interpretando il comma 2 del-
l’art. 2 del Trattato nel senso che introdurrebbe una deroga al principio della dop-
pia incriminabilità, mentre la corretta interpretazione della norma è che l’estradi-
zione è subordinata in ogni caso alla condizione che il fatto previsto dall’ordina-
mento italiano come reato associativo sia punito anche negli USA a titolo di con-
spiracy e, viceversa, che il fatto sanzionato negli USA a titolo di conspiracy sia
previsto nell’ordinamento italiano come reato associativo. — (Omissis).
In merito al secondo motivo si osserva che il § 2, seconda parte, dell’art. II
del Trattato di estradizione Italia-USA stabilisce che ogni forma di associazione
per commettere reati di cui al § 1 del presente articolo, così come previsto dalle

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leggi italiane, e la ‘‘conspiracy’’ per commettere un reato di cui al § 1 del presente


articolo, così come previsto dalle leggi statunitensi, è altresì considerato reato che
dà luogo all’estradizione.
Il § 1 recita: un reato, comunque, denominato, dà luogo ad estradizione solo
se è punibile secondo le leggi di entrambe le parti contraenti con una pena restrit-
tiva della libertà per un periodo superiore a un anno o con una pena più severa.
Ora il testo del § 2, così come formulato, crea un preciso riferimento del
reato associativo ivi considerato, al reato comunque denominato, considerato al
§ 1, nel senso che l’estradabilità per il reato associativo e, quindi, per la conspi-
racy si commisura all’estradabilità del secondo, cioè del reato-fine dell’associa-
zione criminosa.
La formula escogitata ha la funzione di superare il raffronto diretto fra l’asso-
ciazione per delinquere e la conspiracy, che sono in effetti reati diversi (Cass., sez.
I, 17 novembre 1989, n. 2922, Grandia) benché non irriducibili a un ceppo co-
mune, in modo che anche per essi sia possibile rispettare il principio della previ-
sione bilaterale del fatto sia pur indirettamente, attraverso i reati che costituiscono
comunque il fine del rapporto associativo.
Condizione operativa della formula è, tuttavia, che l’estradizione riguardi il
reato associativo, da una parte, o la conspiracy, dall’altra, unitamente ai reati-fine
rispettivi; ché, se l’estradizione ha per oggetto solo il reato associativo o solo la
conspiracy, il raffronto diretto diviene inevitabile, con la conseguenza che l’estra-
dizione resta possibile solo allorché i fatti per cui si procede presentino i caratteri
fondamentali di entrambe le figure di reato, rispettivamente previste dal diritto
statunitense e da quello italiano.
Nella specie il fatto per cui i ricorrenti sono indagati in Italia si qualifica se-
condo il diritto italiano come associazione per delinquere, commessa in Firenze,
Milano, Roma e New York nel 1994 e fino al 1998, e pertanto rientra comunque
nella previsione bilaterale richiesta dall’art. 13, comma 2, c.p.
Pertanto il secondo motivo di ricorso risulta infondato. — (Omissis).

——————
(1) Conspiracy e associazione per delinquere alla luce dei principi della previsione
bilaterale del fatto e del ne bis in idem in materia di estradizione.

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive in merito all’oggetto della domanda di estradizione. — 2. La


struttura del reato di conspiracy. — 3. Il fondamento del principio della previsione bilaterale del
fatto. — 4. La soluzione della Suprema Corte sull’estradabilità del reato di conspiracy. — 5. La va-
lutazione sull’estradabilità del reato di conspiracy.

1. Considerazioni introduttive in merito all’oggetto della domanda di estra-


dizione. — La pronuncia in commento va ad inserirsi in quell’esiguo ma rilevante
filone giurisprudenziale che si è, in un recente passato, occupato di dirimere la
controversa questione delle condizioni e limiti di estradabilità, dall’Italia agli Stati
Uniti, del reato di conspiracy, così come previsto dalla legge statunitense (1).

(1) Se non andiamo errati, prima della sentenza in esame, la Suprema Corte si era pronunciata
sulla estradabilità del reato di conspiracy soltanto in altre tre occasioni, anche se, per la verità, in una di

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La complessità del tema, essenzialmente dovuta alla inadeguatezza di una di-


sciplina positiva a dir poco ermetica, suggerisce di procedere per gradi, muovendo
da una premessa di carattere generale, indispensabile a mettere a fuoco la strut-
tura del reato di conspiracy, a cui segua la trattazione dei profili problematici atti-
nenti alla interpretazione e corretta applicazione di quei principi di previsione bi-
laterale del fatto e del ne bis in idem, che, posti a garanzia dell’estradando, ne
condizionano l’estradabilità, assurgendo, rispettivamente e per così dire, ad ele-
mento positivo, il primo — in quanto deve esservi — ed elemento negativo il se-
condo — in quanto deve mancare (2) — affinché la domanda di estradizione ri-
sulti soddisfatta.
Limitando l’esame del fatto ai punti strettamente essenziali, la Corte d’ap-
pello di Firenze, pervenuta dal Governo degli Stati Uniti domanda di estradizione
di due cittadini italiani per una serie di reati contestati in cinquantuno capi di ac-
cusa, tra cui la conspiracy per commettere frodi a mezzo del telegrafo (wire fraud,
§ 1343, Title 18, U.S. Code) (3), trasferimento di beni rubati, ottenuti con la
frode o frutto di appropriazione indebita (stolen properties, § 2341, Title 18, U.S.
Code) e riciclaggio di strumenti monetari (laundering of money instruments,
§ 1956, Title 18, U.S. Code), ed i singoli reati-scopo, ha espunto, preliminar-
mente, quelle fattispecie non previste come reato dal nostro ordinamento. E ha,
così, escluso l’estradizione per i reati di trasferimento di beni rubati e riciclaggio
di strumenti monetari per difetto del requisito della doppia incriminazione che,
previsto espressamente dall’art. 13/2 c.p. quale condicio sine qua non della conse-
gna da parte dello Stato italiano di un individuo a qualsivoglia Stato richiedente,
viene ribadito dal Trattato di estradizione Italia-Stati Uniti del 13 ottobre
1983 (4), che all’art. 2, § 1, prima parte, afferma che ‘‘un reato, comunque deno-
minato, dà luogo ad estradizione solamente se è punibile secondo le leggi di en-
trambe le Parti contraenti con una pena restrittiva della libertà per un periodo su-
periore ad un anno o con una pena più severa’’.
Come è noto, i fatti di ricettazione (art. 648 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis
c.p.) ed impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter) sono
ipotizzabili, nel nostro ordinamento, soltanto a carico di colui che non abbia con-
corso nel delitto da cui provengono i beni oggetto delle condotte ivi specificate,
come chiaramente espresso dalla clausola di riserva con cui dette disposizioni
esordiscono, in ossequio al principio di ne bis in idem sostanziale, che vieta di ad-
dossare più volte lo stesso fatto al medesimo soggetto. Essendo agli estradandi

queste ancora sotto la vigenza del Trattato precedente (cfr. sez. I, 15 dicembre 1972, Coppola, in Giust.
pen., 1973, II, c. 408, che riconosceva espressamente la compatibilità tra il delitto di conspiracy e quello
di associazione per delinquere). Una è la sentenza Grandia (sez. I, 17 novembre 1989, Grandia, in Cass.
pen., 1991, p. 273, su cui v. supra, nota 37); l’altra la sentenza Aramini (sez. I, 14 settembre 1995, Ara-
mini, in Cass. pen., 1996, p. 3686, su cui v. supra, nota 56).
(2) Sebbene il principio del ne bis in idem non costituisca una norma di diritto internazionale ge-
neralmente riconosciuta ai sensi e per gli effetti dell’art. 10 Cost., esprimendo, anzi, il nostro ordinamento
positivo l’opzione per la soluzione opposta, come desumibile dall’art. 11 c.p. e pertanto non sia un princi-
pio riconosciuto come vincolante sul piano internazionale, ciò non significa che sia sconosciuto nei rap-
porti tra gli Stati, essendo, piuttosto, oggetto di espressa previsione da parte della stragrande maggioranza
delle Convenzioni internazionali. In particolare si veda l’art. 54 della Convenzione di applicazione del-
l’Accordo di Schengen, resa esecutiva in Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388, così come estensiva-
mente interpretato da una recentissima sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee dell’11
febbraio 2003, in Guida dir., 9, 2003, p. 100 e ss., con commento di E. SELVAGGI, La procedura giudizia-
ria che estingue l’azione penale esclude il nuovo giudizio di un altro Stato europeo, ivi, p. 106.
(3) Per un’approfondita analisi degli elementi costitutivi della fattispecie di wire fraud, poiché
coincidenti con quelli propri dell’incriminazione gemella denominata mail fraud, si veda, M. PAPA, Consi-
derazioni sui rapporti tra previsioni legali e prassi applicative nel diritto penale federale statunitense, in
questa Rivista, 1997, p. 1273.
(4) Ratificato con l. 26 maggio 1984, n. 225, pubblicata in Suppl. ord. Gazz. Uff., 16 giugno
1984, n. 165.

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contestato il reato continuato di truffa, per aver indotto, mediante artifici e rag-
giri, i soci ad investire in attività rappresentate come molto produttive, senza nel
contempo aver provveduto a versare le quote a loro spettanti, l’eventuale trasferi-
mento del male captum in conti esteri e la sua presunta ripulitura o l’occulta-
mento tramite investimenti in attività economiche o finanziarie non sono punibili,
rimanendo assorbiti nel disvalore espresso dalla fattispecie della truffa. Diversa-
mente nel sistema americano, ove si persegue l’intero percorso criminoso intra-
preso dall’autore di un delitto presupposto, il quale ponga in essere una serie di
fatti penalmente rilevanti in coerente e consequenziale successione, al fine di ga-
rantirsi la certezza di conseguire dal delitto principale il profitto che, derivante
dalla condotta truffaldina, necessita, tuttavia, per così dire, di un consolidamento
ottenuto mediante l’occultamento e la difficoltà di ricostruzione del circuito crimi-
nale.
Quanto, poi, ai singoli episodi di truffa, pur nella sostanziale equivalenza
della struttura delle fattispecie incriminatrici, ai sensi degli artt. 705/1 c.p.p. e VI
e VII del Trattato Italia-Stati Uniti (5) osta alla concessione dell’estradizione il di-
vieto del bis in idem, inteso nel duplice ampio significato di pendenza di un proce-
dimento penale per il medesimo fatto nei confronti della persona della quale è do-
mandata l’estradizione (c.d. litispendenza de eadem persona et re) — e questo è il
caso degli estradandi, iscritti nel registro delle notizie di reato ex art. 335 c.p.p.
per quegli stessi episodi di truffa — o di esistenza di un giudicato penale. Senza
che, tra l’altro, rilevi la distinzione introdotta dagli artt. VI e VII citati, nel senso
della previsione di un divieto o della concessione di una facoltà al Ministro di Gra-
zia e Giustizia, a seconda che ci si trovi dinanzi ad una sentenza definitiva o ad
un’ipotesi di mera litispendenza internazionale, per effetto di quanto disposto
dalla Corte costituzionale con sentenza 14 febbraio-3 marzo 1997, n. 58 (6).
Il giudice delle leggi, chiamato a decidere sulla legittimità costituzionale (7)
degli artt. 1 e 2 della l. 30 gennaio 1963, n. 300 (8), nella parte in cui consentono
di dare esecuzione agli artt. 8 e 9 della Convenzione europea dell’estradizione,
laddove il primo riconosce all’autorità politico-amministrativa un potere discrezio-
nale di concessione dell’estradizione se il procedimento penale per lo stesso fatto
oggetto della domanda di estradizione è tuttora in corso nello Stato richiesto anzi-
ché essere già pervenuto alla consacrazione del giudicato (9), ha concluso per la
infondatezza della questione alla luce della seguente ricostruzione dei rapporti tra

(5) Osserva F. MARTINES, Procedimenti penali in corso ed estradizione, in questa Rivista, 1997, p.
1419, come, sebbene la dottrina maggioritaria tenda a considerare la litispendenza un aspetto del ne bis
in idem estradizionale, perché ispirati entrambi dalla stessa esigenza di garanzia per l’estradando, essa
trovi fondamento non tanto nella tutela dell’individuo, che sta alla base del divieto di estradizione in caso
di sentenza passata in giudicato, quanto piuttosto nella necessità di non moltiplicare i giudizi, in ossequio
ad un principio di economia di procedimenti.
(6) Pubblicata in questa Rivista, 1997, p. 1403, e in Foro it., 1998, I, c. 641.
(7) L’attribuzione di un potere discrezionale al Ministro di Grazia e Giustizia di concessione del-
l’estradizione comporterebbe, secondo la Corte di cassazione, che d’ufficio ha sollevato la questione di-
nanzi alla Corte costituzionale, violazione: a) dell’art. 24/2 Cost., in quanto sarebbe precluso all’estradato
l’esercizio di difendersi partecipando al processo, che, d’altra parte, non potrebbe né venir meno, stante
l’irretrattabilità dell’azione penale, né essere sospeso, senza violare il diritto dell’imputato ad una sollecita
definizione del processo; b) degli artt. 25/1 e 112 Cost., perché la decisione discrezionale di estradizione
sottrarrebbe il processo al giudice interno precostituito e porterebbe all’abbandono del processo pendente
in Italia ed alla rimessione della formazione del giudicato alla giurisdizione dello Stato richiedente, sfo-
ciando, di conseguenza, nella ritrattazione dell’azione penale esercitata nel nostro Stato.
(8) Con tale legge si è data ratifica ed esecuzione alla Convenzione europea dell’estradizione, fir-
mata a Parigi il 13 dicembre 1957.
(9) Distingue, la Corte di cassazione, nell’ordinanza di rimessione, tra il ne bis in idem estradizio-
nale, con cui ci si riferisce al divieto, per lo Stato richiesto, di estradare un individuo una volta che l’auto-
rità giudiziaria nazionale abbia emanato nei suoi confronti una sentenza passata in giudicato sugli stessi
fatti per i quali viene richiesto; ed il ne bis in idem internazionale, con cui si intende il divieto, per lo

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norma interna e norma internazionale pattizia. L’art. 705/1 c.p.p., che determina
le condizioni alle quali la Corte d’appello pronuncia sentenza favorevole all’estra-
dizione, in esordio delimita il proprio ambito applicativo ai casi in cui ‘‘non esista
Convenzione o questa non disponga diversamente’’, ponendosi come norma ‘‘ce-
devole’’ rispetto a norme internazionali incompatibili. Non potrebbe, tuttavia, rite-
nersi — sostiene la Corte costituzionale — che ci si trovi in presenza di una Con-
venzione che dispone diversamente per il solo fatto della mancata coincidenza di
formulazione tra la norma pattizia e quella del codice. Mentre questa è diretta,
come detto, a disciplinare le condizioni alle quali, secondo l’ordinamento interno,
l’organo giudicante deve pronunciare sentenza favorevole alla consegna, tra cui,
per quel che qui interessa, l’assenza di un procedimento penale per lo stesso fatto
nei confronti dell’estradando; quella si fa carico di fissare le ipotesi in cui l’obbligo
internazionale di estradare viene meno, pur senza essere sostituito da un divieto.
In conclusione ed in sintesi, alla norma internazionale che attribuisce una fa-
coltà corrisponde una situazione di assenza di obbligo dello Stato richiesto nei
confronti dello Stato richiedente e, pertanto, nulla osta a che trovi piena applica-
zione la norma interna che richiede, ai fini dell’estradizione, l’assenza di una liti-
spendenza per lo stesso fatto. Una norma pattizia in contrasto con quella interna
sarebbe quella che sancisse l’obbligo per lo Stato richiesto di concedere l’estradi-
zione pur in pendenza di un procedimento penale e non quella che assegna un po-
tere discrezionale al Ministro. Quindi, non essendovi una norma convenzionale
contrastante, trova applicazione l’art. 705/1 c.p.p., che alla facoltà di rifiutare l’e-
stradizione sostituisce il divieto di concederla.
Ciò chiarito, a seguito dell’applicazione dei principi della doppia incrimina-
zione, da un lato, e del ne bis in idem estradizionale, dall’altro, la Corte d’appello
provvede ad un vistoso ridimensionamento della domanda di estradizione, tanto
da ridursi, al cospetto della Suprema Corte, alla sola ipotesi, contestata al capo
primo, della conspiracy finalizzata alla commissione di frodi per mezzo del tele-
grafo.
2. La struttura del reato di conspiracy. — Nei sistemi di common law il
reato di conspiracy viene definito come l’accordo tra due o più persone volto alla
commissione di un fatto genericamente illecito oppure di un fatto lecito per il tra-
mite di mezzi illeciti (10). Come è agevole constatare, sul piano oggettivo, ai fini
della punibilità dei conspirators, è richiesta soltanto la prova dell’intesa raggiunta

Stato richiesto, di sottoporre un individuo a procedimento penale, qualora sia già stato giudicato per gli
stessi fatti con sentenza definitiva in uno Stato estero.
Vale la pena osservare, inoltre, come non sia mancato in dottrina (cfr. E. AMODIO-O. DOMINIONI,
L’estradizione ed il problema del ne bis in idem, in Riv. dir. matr., 1968, p. 362; O. DOMINIONI, La com-
pétence en matière des délits contre la navigation aérienne, in Riv. intern. dr. pen., 1976, p. 153) chi ri-
tiene che il principio del ne bis in idem estradizionale non esprima lo stesso contenuto che gli è normal-
mente attribuito nel quadro dei rapporti tra procedimenti penali all’interno del medesimo Stato. Mentre
secondo la sua accezione usuale il ne bis in idem impedisce l’esercizio dell’azione penale sul fatto su cui
sia già intervenuta sentenza irrevocabile, in campo estradizionale la mancata concessione dell’estradizione
per effetto del giudicato non sarebbe comunque preclusiva all’instaurabilità, nello Stato richiedente, di un
procedimento penale su quel medesimo fatto oggetto del diniego. Diversamente G.A. DE FRANCESCO,
Estradizione, in NN. Dig it., App. III, Torino, 1982, p. 570, che critica la tesi ora esposta perché accorpa,
senza distinguere, le due diverse prospettive: a) della valutazione, su un piano puramente obiettivo, del
rapporto tra la vicenda processuale svoltasi nei due Stati, che porta ad escludere un’assimilazione tra i
due principi, non ravvisandosi un divieto di procedibilità a carico dello Stato richiedente; b) della inter-
pretazione del significato che il diniego di estradizione assume nello Stato detentore, che, bloccando di
fatto l’esecuzione dell’eventuale pronuncia giurisdizionale intervenuta nello Stato richiedente, riconosce
l’esistenza di una vera e propria ‘‘preclusione ad una moltiplicazione di pretese punitive sul medesimo fat-
to’’.
(10) Così, per tutti, R. PERKINS, On Criminal Law, New York, 1982, p. 681: ‘‘agreement between
two or more persons to do an unlawful act, or a lawful act by unlawful means’’.

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da almeno due soggetti (agreement), avente ad oggetto un fine comune, senza che,
tra l’altro, necessiti che le parti comunichino il loro consenso seguendo particolari
modalità di forma o che siano tutte imputabili o punibili (11). D’altro canto, tutta-
via, se si ha cura di precisare che determinati requisiti non debbono ricorrere af-
finché l’accordo possa ritenersi sussistente, non si mostra altrettanta premura nel-
l’individuare quali siano gli elementi in assenza dei quali l’incontro delle volontà
tra due soggetti assume valore da un punto di vista meramente naturalistico, ma
non anche da un punto di vista giuridico (12).
Circa l’oggetto dell’accordo, già dalla suddetta definizione del reato di conspi-
racy, può ricavarsi che esso può consistere tanto in un fatto illecito quanto in un
fatto lecito, sia pur perseguito facendo ricorso a mezzi illeciti. Il che rende la fatti-
specie in esame non solo del tutto indeterminata e perciò più facilmente ‘‘gestibi-
le’’ sotto il profilo processuale, non dovendo il prosecutor prodursi nell’acquisi-
zione di elementi idonei a provare un fatto materiale unitario ed omogeneo, ma
anche funzionale a colmare, quale fattispecie aperta, quei vuoti di tutela che né il
legislatore né la magistratura avevano avuto cura di ripianare. Anche se non è
mancato chi ha rilevato la palese discrasia sussistente tra la regola enunciata e la
regola applicata, tra il piano degli enunciati e quello operazionale, nel senso che
dall’analisi della applicazione giurisprudenziale risulta che l’oggetto dell’accordo
in concreto punito, salvo rare eccezioni (13), è sempre coinciso con un fatto già di
per sé costituente reato, in forza del common law o di un preesistente statute (14).
Quanto poi all’elemento soggettivo, va distinta la coscienza e volontà di ac-
cordarsi (intent to agree), che rappresenta la componente psichica (la c.d. mens
rea) dell’actus reus costituito dall’agreement, dalla coscienza e volontà di realiz-
zare l’illecito programmato (intent to archieve the unlawful purpose), che rende,
secondo l’opinione dominante, specifico il dolo del reato di conspiracy, in quanto
la finalità di portare a compimento il reato-scopo sta oltre il fatto materiale tipico
descritto dalla fattispecie (15). La circostanza, poi, che il soggetto conspirator
debba essere animato dal proposito di realizzare una particolare condotta illecita
induce ad escludere la configurabilità di detto reato rispetto ad illeciti soltanto col-
posi o a responsabilità oggettiva.
Quanto meno sotto il profilo della law in the books (16), la conspiracy costi-

(11) Circa il problema dell’unicità o pluralità di conspiracies, si ravvisa un solo grande agreement
sia in presenza di una ‘‘wheel’’ che di una ‘‘chain’’ conspiracy. Con la prima ci si riferisce a quella forma
di intesa in cui ciascuno dei partecipanti ha preso contatto con uno solo degli altri membri, il quale vice-
versa comunica con tutti; con la seconda quella species di accordo, ove ognuno ha rapporti con un solo
partecipe, il quale a sua volta si confronta con uno diverso, seguendo le maglie di una catena in cui manca
l’elemento collante comune. Cfr., sul punto, E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta
legalità nell’analisi comparata, Padova, 1993, p. 74.
(12) In questo senso, M. PAPA, Conspiracy, in Dig. disc. pen., III, Torino, 1989, p. 102, secondo il
quale ‘‘il significato del termine agreement si presenta, spesso, come una sorta di ‘buco nero’, i cui confini
risultano delimitati, sul piano concettuale, più che altro in negativo’’, essendo in positivo ‘‘disponibili, per
lo più, soltanto criteri di valutazione a posteriori, basati sulla casistica giurisprudenziale’’.
(13) In particolare, si fa riferimento alla conspiracy to defraud, tramite cui si è potuto perseguire
una serie di condotte fraudolente non contemplate da altre norme incriminatrici (segnatamente l’usura), o
comportamenti che, pur non cagionando perdite di denaro o di beni alla pubblica amministrazione, ne
pregiudicano comunque l’efficienza ed il buon funzionamento. Si veda in materia, A. GOLDSTEIN, Conspi-
racy to defraud the United States, in Yale Law Journal, 1959, p. 425.
(14) Cfr., per tutti, nel sistema inglese, G. HARRISON, Conspiracy as a Crime and as a Tort in
English Law, London, 1924, p. 22 e ss. e 77 e ss.
(15) In questi termini, M. PAPA, Conspiracy, cit., p. 106.
(16) Circa i divergenti risultati cui conducono, sotto molteplici profili, le due diverse e talora in-
conciliabili dimensioni in books, ovvero relativa alla previsione normativa astratta, ed in action, relativa
invece alla concreta applicazione giudiziaria, si veda l’originale contributo di A. CADOPPI, Il valore del pre-
cedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, passim. In
merito allo specifico argomento della inadeguatezza, nella prospettiva della concreta applicazione delle re-

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tuisce, innanzitutto, uno strumento di anticipazione della soglia della punibilità ri-
spetto al momento in cui si intendono realizzati gli estremi del delitto tentato: l’e-
lemento dell’accordo tra due o più soggetti permetterebbe di derogare alla richie-
sta di una condotta prossima alla realizzazione del reato-scopo ed a quella si sosti-
tuirebbe. Senza che, tra l’altro, suddetta anticipazione venga meno qualora al re-
quisito dell’accordo tra le parti si aggiunga quello dell’overt act, ovvero di un atto
posto in essere in esecuzione dell’accordo. Infatti l’overt act connota qualsiasi
atto, anche avente natura meramente preparatoria, dall’accertamento del quale,
tuttavia, sia possibile inferire l’esistenza di un concerto volto alla commissione di
un determinato fatto di reato. Non consterebbe, perciò, tanto in un requisito a ca-
rattere sostanziale, quanto in una richiesta di tipo processuale, essenziale ai fini
della costituzione di quella prova indiziaria necessaria alla dimostrazione della
sussistenza dell’intento di porre in essere quanto progettato. Diversamente nelle
ipotesi in cui si fa riferimento al c.d. substantial step (‘‘passo sostanziale’’), che,
introdotto dai compilatori del Model Penal Code quale criterio volto a stabilire l’i-
nizio dell’attività punibile a titolo di tentativo, ma pur sempre ricomprensivo di
condotte marcatamente prodromiche rispetto al momento consumativo (17), fini-
sce per risultare formula vuota, che le Corti hanno progressivamente provveduto a
riempire, facendo ricorso alle precedenti regole di common law, come testimo-
niato, tra le altre, dalla nota sentenza United States v. Manley (18).
In secondo luogo, la fattispecie in esame si presenta come un’efficace alterna-
tiva rispetto all’istituto del concorso di persone, perché consente, in virtù della
c.d. Pinkerton rule o doctrine (19) e quanto meno a livello di enunciazione della
regola, di addossare a ciascun cospiratore, per il solo fatto della partecipazione
alla conspiracy, la responsabilità penale, a titolo di concorso, per ogni fatto crimi-
noso realizzato, in esecuzione e durante la permanenza del programma concor-
dato, da ciascun altro cospiratore, con evidenti risvolti di agevolazione proces-
suale, stante la difficoltà del prosecutor di conseguire la prova dell’effettiva parte-
cipazione dei membri del sodalizio ai singoli episodi contestati. La ragione della
previsione di una sorta di responsabilità di posizione a carico dei conspirators
viene solitamente ravvisata nella rigorosa applicazione del principio di derivazione
civilistica, secondo cui chiunque entri a far parte di un gruppo di persone costitui-
tosi in società, ‘‘agisce, per così dire, in nome e per conto degli altri soci, realiz-

gole, dell’inquadramento dogmatico della conspiracy tra gli ‘‘anticipatory crimes’’ si rinvia all’accurato
studio di E. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy, cit., p. 98 e ss.
(17) Tra queste, a titolo esemplificativo, basti ricordare il mero appostamento, la perlustrazione
del luogo del reato o il pedinamento della vittima del programmato reato.
(18) United States v. Manley 632 F. 2d 987 (1980), ove si definisce il substantial step come
‘‘qualcosa di più di un mero atto preparatorio, anche se qualcosa di meno rispetto all’ultimo atto necessa-
rio affinché si giunga alla consumazione del reato’’, aggiungendo che ciò consente a chi è deputato al suo
accertamento di attribuire rilievo non solo a quanto ancora necessario ai fini della lesione del bene tute-
lato, ma anche a quello che sin lì ed a quel fine è già stato realizzato. ‘‘A substantial step must be some-
thing more than mere preparation, yet may be less than the last act necessary before the actual commis-
sion of the substantive crime, and thus the finder of fact may give weight to that which has already been
done as well as that which remains to be accomplished before commission of substantive crime’’.
(19) In United States v. Pinkerton, l’imputato era stato accusato di conspiracy per evadere le im-
poste, nonché di alcune singole evasioni fiscali, materialmente commesse dal fratello mentre il primo si
trovava in carcere. La rilevanza della regola che emerge dalla risoluzione del caso si deve al fatto che, nel
corso del processo, risultò ampiamente dimostrata la corresponsabilità dell’imputato a ciascun reato-
scopo contestatogli sotto il profilo oggettivo, del contributo causale da costui prestato, e sotto il profilo
soggettivo, della sussistenza del dolo, ma nonostante questo, la Corte Suprema, chiamata a decidere sul
ricorso presentato dal Pinkerton, affermò che, ai fini del giudizio di condanna, sarebbe stato sufficiente
provare l’esistenza della conspiracy e della sua strumentalità rispetto ai singoli fatti di reato oggetto del
programma criminoso. Aggiungendo, per la verità, l’ulteriore condizione, sebbene altrove non ribadita,
della ragionevole prevedibilità, al momento dell’accordo, della realizzazione dei reati-scopo quale conse-
guenza dell’accordo (‘‘reasonably forseeble at the moment of the agreement’’).

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zando in capo a questi gli effetti giuridici degli atti da lui commessi’’ (20). Non al-
trettanto si avrebbe applicando l’ordinaria disciplina del concorso di persone, pre-
vista dallo U.S. code alla sezione II del Titolo 18, che richiede, ai fini della punibi-
lità del concorrente, un contributo rilevante alla realizzazione del reato, descritto
facendo riferimento a condotte, quali l’aiutare e l’incoraggiare (‘‘aiding and abet-
ting’’), l’incitare (‘‘inciting’’), il consigliare (‘‘counceling’’), l’indurre (‘‘inducin-
g’’), che, comunque le si intendano, non paiono in alcun modo assimilabili all’a-
greement, elemento costitutivo della conspiracy. Come già detto, la responsabilità
del conspirator per il reato-scopo altro non è che una forma di responsabilità ‘‘ex
lege’’, che prescinde da qualsiasi forma di partecipazione diretta alla commissione
o anche alla sola organizzazione di esso, limitandosi la prova all’accertamento
della sussistenza di un’intesa plurisoggettiva diretta al perseguimento di un deter-
minato obiettivo. Il che significa, in altri termini, che si ammette la punibilità di
un tipo di ‘‘tentativo di concorso’’. E pure sotto il profilo soggettivo non pare che
la ragionevole prevedibilità del reato-scopo, richiesta dalla Pinkerton rule affinché
possa ritenersi che tra la condotta di conspiracy e l’evento intercorra non soltanto
un rapporto di causalità ma anche una concreta rimproverabilità dell’imputato —
che, tra l’altro, richiama alla mente criteri di accertamento più consoni alla colpa
che al dolo — sia equiparabile al dolo di concorso, per la cui sussistenza necessita,
all’evidenza, qualcosa di ben più penetrante della mera possibilità di prevedere
certe conseguenze come effetto di specifici comportamenti (21).
3. Il fondamento del principio della previsione bilaterale del fatto. — Deli-
neate, sia pur sommariamente, le linee portanti del reato di conspiracy, occorre
ora stabilire il fondamento e la portata applicativa del principio della previsione
bilaterale del fatto, per poi esaminare, alla luce di essi, la validità della soluzione
prospettata dalla Corte di cassazione sui rapporti intercorrenti tra conspiracy, così
come prevista dalla legge statunitense, e reato associativo, così come previsto dal
sistema italiano. Prescindendo, per i limiti del presente lavoro, dall’analisi del con-
creto atteggiarsi di esso nelle singole problematiche ipotesi di divergenza del no-
men iuris del reato o della pena e della sussistenza, in uno degli ordinamenti coin-
volti, di una causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza o della puni-
bilità o di estinzione di essa, nonché dell’assenza di una condizione di procedibi-
lità o di punibilità.
Il requisito della duplice previsione come reato, indicato altresì con i termini
‘‘doppia incriminazione’’ e ‘‘punibilità bilaterale’’, rappresenta, come è noto, uno
dei principi-cardine in materia di estradizione (22). Tuttavia, se è agevole regi-

(20) Così, M. PAPA, Conspiracy, cit., p. 97.


(21) Cfr., ancora, M. PAPA, Conspiracy, cit., p. 98-99, che conclude osservando come il destino
applicativo della conspiracy sia essenzialmente quello delle organizzazioni criminali più sofisticate e com-
plesse, poiché soltanto attraverso l’estensione della responsabilità dei membri al di là della loro effettiva
partecipazione ai singoli reati-scopo potrà pervenirsi allo smembramento della associazione, e più precisa-
mente, perseguendo, al loro interno, due classi di soggetti che, pur trovandosi, da un punto di vista del
contributo da costoro fornito alla vitalità della societas sceleris, agli estremi opposti, risultano tuttavia,
per ragioni differenti, determinanti ai fini della sua sopravvivenza. Ci si riferisce, innanzitutto e come è lo-
gico, ai c.d. ‘‘cervelli’’, ovvero a coloro che agiscono ‘‘dietro le quinte’’, senza mostrarsi, ritagliandosi il
decisivo ruolo di prendere decisioni e fissare regole. In secondo luogo, ai concorrenti di minima impor-
tanza, che, pur dando un apporto secondario se non addirittura irrilevante all’organizzazione, sono depo-
sitari di informazioni preziose su di essa e sulla responsabilità dei suoi membri e come tali potenziali e ir-
rinunciabili collaboratori processuali a fronte di promesse di immunity o di sconti di pena.
(22) Lo qualifica ‘‘principio di diritto internazionale universalmente riconosciuto’’ la Relazione
del Guardasigilli al progetto definitivo, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura
penale, V, 1, 1929, p. 50, riproducendo nella sua formulazione il testo dell’art. 641/2 del c.p.p. del 1913.
Per approfondimenti di carattere generale e di singole problematiche applicative di detto principio si veda,
oltre alla manualistica, anzitutto l’importante lavoro di P. PISA, Previsione bilaterale del fatto, Milano,

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strare un’unanimità di opinioni sul ruolo fondamentale che il principio de quo è


destinato a svolgere in materia estradizionale, tale convergenza di pareri pare dis-
solversi non appena si passi ad affrontare il complesso tema del suo fondamento o
ratio essendi, ovvero della ragione che induce gli Stati a renderlo oggetto di speci-
fica previsione nelle leggi interne, oltre che nella stragrande maggioranza delle
Convenzioni internazionali (23).
Non pare fuori luogo, in via preliminare, distinguere i piani di ricerca a se-
conda che si prenda in considerazione l’esigenza che il fatto costituisca reato se-
condo la legge dello Stato richiedente o alla stregua dell’ordinamento dello Stato
richiesto.
È fin troppo evidente come l’estradizione concessa allo Stato richiedente per
un fatto che colà non è previsto come reato non avrebbe significato, risolvendosi
in un inutile dispendio di risorse per l’impossibilità per i giudici di detto Stato di
procedere alla condanna dell’estradato. Invero, ragioni di ordine logico, unite ad
esigenze garantistiche di tutela dell’estradando riconducibili al rispetto del princi-
pio di legalità nell’ordinamento in cui il fatto commesso deve essere accertato,
stanno a fondamento della necessità di una qualificazione del fatto oggetto di
estradizione come penalmente rilevante alla stregua del sistema penale dello Stato
da cui proviene la domanda di estradizione (24).
Di maggiore complessità si presenta, invece, l’indagine relativa all’individua-
zione del fondamento del principio della doppia incriminazione avendo come rife-
rimento la legislazione dello Stato richiesto, anziché quella dello Stato richiedente.
A questo proposito, va subito sgombrato il campo dall’equivoco di ritenere,
in adesione ad una tendenza interpretativa fortemente radicata soprattutto nella
dottrina germanica, che debba ravvisarsi uno stretto collegamento tra previsione
bilaterale del fatto e principio di reciprocità, nel senso di cogliere nel primo una
peculiare manifestazione del secondo o, in altri termini, di renderlo strumento es-
senziale per assicurare quello ‘‘scambio di favori’’, che sarebbe alla base del con-
cetto stesso di estradizione. L’accostamento tra i due principi, infatti, troverebbe
la sua ragion d’essere nella convinzione che subordinare la concessione dell’estra-
dizione alla condizione che il fatto attribuito all’estradando costituisca reato anche
secondo la legislazione penale dello Stato richiesto significherebbe limitare la pos-
sibilità di estradizione solamente a quei fatti che, a loro volta, potrebbero essere
allegati a sostegno di future domande di estradizione presentate dallo stesso Stato
attualmente richiesto (25).
È agevole constatare, tuttavia, come il mancato riconoscimento del principio
della previsione bilaterale del fatto non precluda il rispetto del canone della reci-
procità o, in altri termini, come la salvaguardia della reciprocità possa essere assi-
curata anche a prescindere dalla subordinazione dell’estradizione alla clausola
della doppia incriminazione, riferendosi, in tal caso, a quella cerchia di reati ri-
spettivamente non contemplati dagli ordinamenti in questione. E ciò è facilmente

1973, passim; inoltre, M.R. MARCHETTI, Estradizione, in Dig disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 400; R. QUA-
DRI, Estradizione, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 25; V. DEL TUFO, Estradizione (dir. intern.), in Enc.
giur., XIII, Roma, 1989, 3; G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale. Estradizione - Roga-
torie - Effetti delle sentenze penali straniere, Milano, 1995, p. 53.
(23) Per un’elencazione delle Convenzioni internazionali che accolgono detto principio si veda
G.A. DE FRANCESCO, Il concetto di ‘‘fatto’’ nella previsione bilaterale e nel principio del ‘‘ne bis in idem’’
in materia di estradizione, in Ind. pen., 1981, p. 624, nota 3.
(24) In questo senso, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 147-148, secondo il quale, in difetto di
rilevanza penale del fatto nello Stato reclamante, l’estradizione eventualmente concessa sarebbe inutiliter
data.
(25) In questi termini, cfr. G. PECORELLA, I presupposti dell’estradizione. Aspetti sostanziali e pro-
cessuali, in Riv. dir. matr., 1968, p. 354, secondo il quale il principio di reciprocità, sul piano logico, in-
dica ‘‘una parità, o meglio, un’assoluta intercambiabilità tra situazioni facenti capo a soggetti diversi’’.

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riscontrabile muovendo dalla diversa prospettiva di una rinuncia convenzionale


espressa al principio della previsione bilaterale del fatto, anziché da quella con-
sueta di un riconoscimento pattizio di detto principio. Avremo modo di soffer-
marci, nel prosieguo di queste note, sulla delicata questione della derogabilità al
principio di doppia incriminazione; per il momento si assuma come ipotesi che tra
due Stati venga stipulato un trattato ove non sia espressamente fatto richiamo ad
esso oppure vi si faccia riferimento per escluderne l’applicabilità. Nonostante la
consegna dell’individuo prescinda, nel caso di specie, dalla garanzia della sottopo-
sizione a procedimento per fatti che risultino penalmente rilevanti anche alla stre-
gua dell’ordinamento del paese destinatario della domanda di estradizione, tutta-
via ciò di per sé non incide sulla portata applicativa del criterio della reciprocità,
che potrebbe trovare egualmente attuazione, non venendo meno quella situazione
di equilibrio nel computo dei diritti e dei doveri in capo alle parti contraenti, alla
cui realizzazione esso è tendenzialmente proteso. Non sarebbe di ostacolo all’equi-
valenza delle obbligazioni reciprocamente assunte neppure la diversa estensione
numerica delle fattispecie incriminatrici rispettivamente contemplate in via esclu-
siva dai due sistemi. Da un lato, infatti, uno Stato si impegna ad estradare per una
serie di reati che in futuro non potranno formare oggetto di eventuali domande di
estradizione perché estranei al proprio sistema penale; dall’altro, però, può fare af-
fidamento sulla consegna di soggetti per fatti non previsti come reato dall’altro
Stato, oltretutto, almeno in linea di principio, in un numero anche più cospicuo di
ipotesi. Il che autorizza a concludere per l’autonomia di un principio rispetto al-
l’altro e per la conseguente esclusione di un nesso di consequenzialità logica, non
assurgendo l’uno a presupposto o fondamento dell’altro, pur nella consapevolezza
della loro relazionabilità (26).
Circa la ricerca, poi, della ratio del principio della previsione bilaterale del
fatto, si segnalano tre distinti orientamenti.
1) Il primo orientamento tende a valorizzare una prospettiva, per così dire,
utilitaristica, che permeerebbe di sé l’estradizione in generale, oltre che il princi-
pio in esame. Essendo l’estradizione istituto volto a soddisfare le distinte ma non
incompatibili esigenze dello Stato richiedente, che ha interesse a perseguire quel
soggetto per quel fatto commesso nel suo territorio, e dello Stato richiesto, che ha
interesse a liberarsi di un soggetto potenzialmente pericoloso per la comunità da

(26) Cfr., P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 35 e ss., il quale si spinge oltre nell’indagine, po-
nendosi l’ulteriore quesito se la riconosciuta autonomia tra previsione bilaterale del fatto e reciprocità
trovi conferma anche nelle ipotesi di estradizioni extraconvenzionali. In assenza di un’esplicita disposi-
zione che richieda la garanzia di reciprocità indipendentemente dalla previsione bilaterale del fatto, la ri-
sposta al quesito dipende — ad avviso di detto autore — dalla posizione che si intende assumere in ordine
al pregiudiziale problema della portata applicativa dell’art. 13/2 c.p. Se, come alcuni sostengono, esso
deve essere interpretato restrittivamente, con esclusivo riferimento all’estradizione passiva, la reciprocità
verrebbe garantita soltanto da una spontanea adesione da parte dello Stato richiedente al criterio seguito
dallo Stato richiesto di estradare per fatti previsti come reato da entrambi gli ordinamenti, non essendovi
alcun vincolo di natura convenzionale che lo imponga.
Se, viceversa, si ritiene di estendere la sfera di operatività dell’art. 13/2 c.p. anche all’estradizione
attiva, difficilmente potrà verificarsi l’eventualità di una consegna, da una parte e dall’altra, per fatti non
preveduti come reato da entrambe le legislazioni, stante l’obbligo che lo Stato richiedente si dà di non
presentare domande di estradizione aventi ad oggetto fatti che alla stregua del suo ordinamento non inte-
grino gli estremi di una fattispecie criminosa. Senza che, peraltro, venga meno la possibilità per la contro-
parte — pur in presenza di una domanda rispettosa del principio della doppia incriminazione — di assu-
mere un atteggiamento di diniego, in quanto giuridicamente incoercibile per l’assenza di un obbligo di de-
rivazione pattizia. Nello stesso senso, v. D. CERRI, Previsione bilaterale del fatto in materia di estradi-
zione: orientamenti della giurisprudenza italiana, in Cass. pen., 1983, p. 199. Diversamente, pur condivi-
dendone la conclusione, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 53 e ss., secondo
il quale, affinché operi, la reciprocità presuppone un’identica configurabilità del fatto come reato in en-
trambe le legislazioni, non che il fatto sia previsto come reato, che è invece quanto necessario ai fini del
rispetto del principio della previsione bilaterale del fatto.

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esso rappresentata e che momentaneamente gli dà asilo, non potrebbe pervenirsi


ad una loro composizione se non rendendo la consegna dell’individuo funzionale
ad assicurare un’azione preventiva anche nei confronti dei membri della comunità
dello Stato di rifugio. Soltanto se la criminalità dell’estradando non lascia indiffe-
renti le autorità ed il sistema penale del paese chiamato alla consegna, l’estradi-
zione risulterà efficace strumento di attuazione di finalità di salvaguardia preven-
tiva degli interessi penalmente tutelati dall’ordinamento dello Stato richiesto, evi-
tando di trasformarsi in una procedura formale di unilaterale compiacenza di uno
Stato alle istanze repressive manifestate da un altro.
La tesi appena esposta è stata fatta oggetto di penetranti rilievi critici, tra cui
spiccano i due seguenti. Innanzitutto, si è osservato come la previsione bilaterale
del fatto rappresenti soltanto una delle possibili condizioni, in presenza delle quali
la collaborazione dello Stato richiesto si traduce nella protezione di autonomi inte-
ressi di quest’ultimo, che non è detto non venga realizzata anche prescindendo dal
rispetto di detto principio (27).
In secondo luogo, la fondatezza della opinione secondo cui non vi sarebbe ra-
gione di procedere alla consegna di un individuo che manca di ‘‘pericolosità’’
viene posta in dubbio dall’accidentalità della mancata commissione di un fatto pe-
nalmente sanzionato anche dall’ordinamento dello Stato di rifugio. A parte la di-
scutibile rilevanza del suddetto requisito ai fini dell’estradizione, sotto il duplice
profilo della mancata distinzione chiarificatrice con il prossimo ma dissimile con-
cetto di ‘‘capacità a delinquere’’ (28) e della assenza di disposizioni normative che
ne facciano richiesta, non pare possa comunque negarsi la sussistenza di una gene-
rica propensione al crimine, ricavabile in re ipsa dal fatto stesso della violazione
della legge penale dello Stato richiedente, ove evidentemente la sanzione minac-
ciata ha fallito nella sua capacità intimidatrice; e neanche escludersi, tenuto conto
del movente che ha spinto il soggetto a delinquere, una prognosi favorevole di re-
cidivismo per fatti stavolta sanzionati anche dall’ordinamento dello Stato richiesto.
2) Il secondo orientamento fa discendere il principio della doppia incrimina-
zione dal principio di sovranità, attribuendo alla scelta di subordinare la conces-
sione dell’estradizione alla incriminabilità secondo la legge dello Stato richiesto un
carattere eminentemente politico. Muovendo da un ‘‘postulato di completezza e
perfezione del proprio ordinamento penale’’, mediante la verifica della punibilità
del fatto in entrambi i sistemi si sottoporrebbe l’ordinamento penale straniero ad
un vero e proprio controllo di razionalità, che tende a valorizzare le scelte comuni
ed a disconoscere quelle divergenti, con l’inevitabile risultato di acuire la sfiducia
e lo scetticismo nei confronti di sistemi giuridici di paesi anche vicini per cultura
politica, tradizione ed opzioni ideologiche (29). Tesi, questa, a nostro avviso poco
convincente, non tanto perché, come è stato osservato, prenderebbe le mosse dal-
l’erroneo presupposto della prevalenza di un ordinamento sull’altro, anziché sulla
equivalenza tra essi, in contraddizione con l’essenza e la natura stessa del princi-
pio di doppia incriminazione (30): si tratterebbe, infatti, secondo detta tesi, non di
un problema di gerarchia tra sistemi, ma di fiducia ed apprezzamento del proprio
e sfiducia negli altri, qualora adottino soluzioni diverse per singole questioni, pur
nella tendenziale omogeneità, secondo una valutazione globale della loro strut-

(27) Ancora, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 151, che annovera tra gli interessi, potenzial-
mente suscettibili di trovare attuazione anche estradando un soggetto per un fatto non punibile nello
Stato al quale la domanda è rivolta, quello ‘‘di liberarsi di un ospite ‘scomodo’, di evitare complicazioni
internazionali, di soddisfare la richiesta di un paese alleato’’.
(28) Per una opportuna delimitazione dei confini delle due nozioni, v., per tutti, F. MANTOVANI,
Diritto penale, cit., p. 715.
(29) In questo senso, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 157.
(30) È di questo avviso, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 54.

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tura. Quanto, piuttosto, perché prova troppo, rendendo inconciliabile il fonda-


mento di un principio, destinato a continuare a svolgere l’essenziale funzione di
garanzia che gli è propria, con quell’istanza di armonizzazione e omogeneizza-
zione tra ordinamenti che non sembra oramai così lontana, almeno in certe aree,
dall’essere soddisfatta (31).
3) Il terzo orientamento ravvisa la ratio del principio in esame nel principio
del nullum crimen nulla poena sine lege, in base al quale nessuno può essere pu-
nito per un fatto che non sia previsto dalla legge nazionale come reato. Il richiamo
al principio di legalità non opera, peraltro, in una prospettiva unitaria. Secondo un
indirizzo minoritario — applicabile, tra l’altro, con riferimento al solo Stato ita-
liano — e non del tutto convincente, esso andrebbe limitato a quegli aspetti della
legalità, che sovrintendono alla fase cautelare della restrizione della libertà perso-
nale quale presupposto per la successiva consegna dell’estradando (32). Un sog-
getto, che non si sia reso responsabile di alcun fatto penalmente rilevante secondo
il sistema dello Stato di dimora, non potrebbe, secondo questa impostazione, su-
bire limitazioni della libertà personale se non violando il principio di legalità san-
cito in materia dall’art. 13/2 Cost. Con l’evidente e censurabile risultato di forzare
il testo della norma costituzionale invocata, la quale non contiene alcun riferi-
mento al requisito della previsione bilaterale del fatto, ma soltanto ad una duplice
riserva di legge e di giurisdizione, quali condizioni cui subordinare la restrizione
della libertà personale di un qualsiasi individuo.
Maggiore suggestione e forza persuasiva sembrano accompagnare quell’indi-
rizzo che, all’interno pur sempre dell’orientamento legalistico, mette in rapporto il
principio della doppia incriminazione con il principio di legalità, inteso, questa
volta, nel suo primario significato di garanzia del cittadino da incriminazioni non
conoscibili, perché non trasfuse in alcuna disposizione normativa, che funga da re-
gola di comportamento per i consociati (33).
A sostegno di tale impostazione si invoca l’argomento della coincidenza, sotto
il profilo sia della formulazione che delle ragioni sottostanti alla loro presenza nel

(31) Quanto ai rapporti tra Stati membri dell’Unione europea si veda il testo della decisione qua-
dro del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (pubbl. in G.U.C.E. 18 luglio 2002, n. L-190)
istitutiva del mandato di arresto europeo, con relativo commento di L. SALAZAR, Il mandato di arresto eu-
ropeo: un primo passo verso il mutuo riconoscimento delle decisioni penali, in Dir. pen. proc., 2002, p.
1044 e ss., secondo il quale il mandato di arresto europeo, se va considerato sul piano giuridico come
‘‘parte del programma di misure per l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni
giudiziarie’’, su quello politico ‘‘esso partecipa allo sforzo di far coincidere l’apparenza dei rapporti tra le
autorità giudiziarie degli Stati membri con la realtà dell’appartenenza di questi ultimi ad una Unione fon-
data sui ‘principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello
Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri’ (art. 6, § 1, Trattato UE), differenziando,
dunque, i rapporti estradizionali esistenti tra di essi rispetto a quelli in vigore con i paesi terzi’’.
(32) In questo senso, I.A. SHEARER, Extradition in International Law, Manchester, 1971, p. 137.
(33) Così, espressamente, G. CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, cit., p. 53; E.
SELVAGGI-G. DE DONATO, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi-E.
Lupo, Milano, 2000, I, p. 328; M.C. BASSIOUNI, International Extradition in American Practice and World
public Order, in BASSIOUNI-NANDA, A Treatise on International Criminal Law, II, Jurisdiction and Coope-
ration, Springfield, 1973, p. 359. Un accenno si rinviene anche in T. TREVES, La giurisdizione nel diritto
penale internazionale, Padova, 1973, p. 19, n. 40, ove si rileva che ‘‘nell’art. 13 c.p. la qualifica di reato
alla stregua dell’ordinamento straniero è presupposta (altrimenti lo Stato straniero non chiederebbe l’e-
stradizione), mentre la funzione di garanzia rivestita dal principio della doppia incriminazione è basata
sull’incriminazione da parte del diritto italiano’’; Del medesimo avviso, pur in assenza di un esplicito rife-
rimento al principio di legalità, sembrano, R. QUADRI, Estradizione, cit., p. 25, il quale afferma che come
‘‘l’esigenza alla quale risponde tale principio, esigenza il cui peso appare decisivo quali che siano gli in-
convenienti e le difficoltà cui l’adozione del principio stesso dà luogo, è evidente: la deroga all’asilo o
quanto meno alla minore gravità delle semplici misure di espulsione, esige una elementare garanzia che è
data dalla punibilità (in astratto o in concreto) del fatto nell’ordinamento dello Stato richiesto’’; M. RO-
MANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, p. 146, secondo cui la ratio del prin-
cipio de quo consiste ‘‘una ricerca di garanzia per il soggetto da estradare’’.

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nostro sistema penale tra l’art. 13/2 c.p., che, come è noto, subordina la conces-
sione dell’estradizione alla previsione del fatto come reato anche secondo l’ordina-
mento dello Stato richiesto e gli artt. 1 c.p. e 25/2 Cost., ove si stabilisce che la
materia penale sia regolata dal principio del nullum crimen nulla poena sine lege.
Inspiegabile, nella sua contraddittorietà, apparirebbe la scelta del legislatore che,
da un lato, mostri cura nel disciplinare la materia penale avendo particolare ri-
guardo alle esigenze di tutela del diritto della persona a non subire limitazioni di
libertà che non fossero riconducibili a violazione di norme preesistenti al fatto, dal
contenuto precettivo determinato e, dall’altro, ne ammetta la consegna ad altro
Stato, pur in assenza di una disposizione dell’ordinamento interno che giustifichi
una collaborazione internazionale alla protezione di interessi penalmente rilevanti.
La valutazione sull’estradabilità di un individuo, se non vuole tradursi in inutile e
sterile passaggio di carte, deve necessariamente fondarsi sul rispetto dei valori po-
sti a fondamento dello Stato chiamato a decidere (34). La mancata cooperazione
in presenza di un fatto, non riconducibile ad alcuna fattispecie incriminatrice san-
zionata dallo Stato di rifugio dell’estradando, andrebbe spiegata, secondo tale tesi,
non come riaffermazione della propria sovranità nazionale o come carenza di inte-
resse dovuta ad una prognosi favorevole di non pericolosità del soggetto ospitato,
bensì come estrema ed universale applicazione del principio di legalità in ambito
penalistico.
Invero non è mancato, chi, pur muovendo dal riconoscimento di una conti-
guità tra il postulato della duplice previsione del fatto come reato e le esigenze di
garanzia salvaguardate dal principio di legalità, limita la portata applicativa alle
atipiche ipotesi in cui l’estradando rivesta la qualifica giuridico-formale di citta-
dino dello Stato richiesto o comunque intrattenga con questo uno stabile collega-
mento di diversa natura (residenza, domicilio, dimora ecc). Non invocabile sa-
rebbe, viceversa, il canone della legalità nella situazione-tipo dell’estradando citta-
dino o residente nello Stato richiedente, che, dopo aver commesso un reato sul
territorio di quest’ultimo, ripari in altro Stato. Nella situazione descritta, la fun-
zione garantista del principio di legalità non sarebbe in discussione, ‘‘in quanto
l’estradando era perfettamente in grado di modellare la propria condotta adeguan-
dosi agli schemi di comportamento tracciati dal legislatore dello stato di cittadi-
nanza (e/o di residenza) dell’estradando stesso’’ (35).
A nostro avviso, a tacer d’altro, sarebbe illogico valutare la fondatezza del ri-
chiamo al principio di legalità alla luce di un criterio evanescente ed estemporaneo
quale quello della nazionalità o residenza dell’estradando. La delibazione circa l’e-
stradabilità di un soggetto che si sia reso autore di un fatto offensivo di beni giuri-
dicamente tutelati ha come riferimento il sistema di norme che lo Stato richiesto
ha inteso darsi, non certo il grado di ‘‘prossimità spaziale’’ dell’estradando — de-

(34) In questa direzione pare essersi orientata la stessa Corte cost. (sent., 15 aprile 1987, n. 128,
in Giur. cost., 1987, I, p. 898 e ss.) che, nel dichiarare l’illegittimità, per violazione degli artt. 27/1-3 e 31
Cost. della l. 9 ottobre 1974, n. 634 di esecuzione del Trattato di estradizione Italia e USA 18 gennaio
1973, nella parte in cui si consentiva l’estradizione dell’imputato ultraquattordicenne ed infradiciottenne
anche nei casi in cui l’ordinamento dello Stato richiedente non li considerava minori, ha riaffermato il
principio secondo cui l’ordinamento italiano non può prestare la propria collaborazione ad organi di un
altro Stato, se ciò comporta un contrasto con i principi stabiliti dalla nostra Costituzione; Corte cost., 21
giugno 1979, n. 54, in Foro it., 1979, I, c. 1943, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale, per viola-
zione degli artt. 3/1 e 27/4 Cost., del r.d. 30 giungno 1870, n. 5726 sull’estradizione tra Italia e Francia,
nella parte in cui consente l’estradizione per i reati sanzionati con la pena edittale della morte nell’ordina-
mento dello Stato richiedente, afferma, tra l’altro, che ‘‘ai fini di tale deliberazione (da parte della sezione
istruttoria presso la competente Corte d’appello) occorre accertare, in particolar modo, la compatibilita
dell’estradizione con i principi cui si informano, secondo Costituzione, reato e pena nell’ordinamento in-
terno’’.
(35) In questi termini, P. PISA, Previsione bilaterale, cit., p. 155, che conclude ritenendo che il ri-
chiamo al principio di legalità abbia ‘‘un valore episodico e sostanzialmente mistificatorio’’.

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sumibile, tra l’altro, da una molteplicità indeterminata di status (cittadino, resi-


dente, domiciliatario, dimorante, apolide residente e così via) — rispetto al territo-
rio ove costui si trovi al momento del giudizio di estradizione.
Il principio di legalità, inteso come espressione delle opzioni di politica crimi-
nale effettuate da un determinato ordinamento sulla penalizzazione di certi com-
portamenti, diventa, dunque, lo strumento per verificare l’opportunità di attivare
quelle istanze solidaristiche di difesa comune, che spingono gli Stati a collaborare
alla repressione di determinati fatti penalmente sanzionati, in quanto espressione
di disvalori comunemente sentiti dai rispettivi ordinamenti. Soltanto la previsione
di un fatto come reato alla luce della normativa interna allo Stato chiamato a deci-
dere sull’estradizione legittima la consegna ai fini della punizione, a prescindere
dalla conoscenza, determinata dalla contiguità con il luogo di delibazione, che il
singolo estradando abbia delle fattispecie incriminatrici da esso tipizzate.
Il fondamento della previsione bilaterale del fatto va, in ultima analisi, ravvi-
sato non tanto nella reciproca convenienza, nella sovranità o nel rispetto del basi-
lare principio della legalità formale in sé considerato, quanto piuttosto nel perse-
guimento, da parte degli Stati, di esigenze di comune difesa attraverso la coopera-
zione alla punizione di certi fatti, purché questi stessi siano stati previsti, in osse-
quio al principio di legalità, come reato da una legge dello Stato di cui si invoca la
collaborazione.
4. La soluzione della Suprema Corte sull’estradabilità del reato di conspi-
racy. — Come accennato (v. supra § 1), la Corte di cassazione si è trovata a dover
decidere su una domanda di estradizione sensibilmente filtrata dalla Corte d’ap-
pello e da questa ridotta, rispetto al suo contenuto originario, alla sola ipotesi
della conspiracy finalizzata alla commissione di una serie di episodi truffaldini.
Pertanto, se si fa eccezione per la preliminare ed imprescindibile valutazione sulla
sussistenza della c.d. probable cause, ovvero di quei gravi indizi di reità che forni-
scano una base ragionevole per ritenere che la persona richiesta abbia commesso il
reato per il quale viene domandata l’estradizione, imposta dagli artt. X, § 3, lett.
b) del Trattato Italia-USA e 705 c.p.p., la Suprema Corte si è limitata a pronun-
ciarsi su quale fosse la corretta interpretazione da darsi all’oscura locuzione utiliz-
zata dal legislatore pattizio all’art. II, § 2 del Trattato (36), laddove accosta ogni
forma associativa, prevista dall’ordinamento italiano, alla conspiracy, prevista dal-
l’ordinamento statunitense, considerandoli reati estradabili. La soluzione adottata
dalla Corte fa leva sul richiamo che il § 2 fa al § 1 a proposito dei reati oggetto
del programma criminoso o dell’agreement, a seconda che si tratti di associazione
per delinquere o di conspiracy. Rinviando, infatti, il § 2 al § 1 soltanto per i reati-
fine, il principio della previsione bilaterale del fatto avrebbe, per la Corte, portata
applicativa limitata ad essi, derivandone, perciò, l’automatica estradabilità del
reato-mezzo, laddove la domanda di estradizione concerna anche i primi e non
soltanto quest’ultimo. Sicché il giudice sarebbe esentato dal raffronto tra il reato
associativo e la conspiracy nelle ipotesi, come quella in esame, in cui la richiesta di
estradizione cumuli in sé il reato mezzo ed il o i reati-fine, essendo sufficiente che
questi ultimi siano previsti come reato anche dall’ordinamento dello Stato di rifu-
gio. Tale raffronto tornerebbe ad essere, invece, inevitabile, in presenza di una do-
manda di estradizione il cui oggetto sia rappresentato esclusivamente dalle due

(36) Il testo dell’art. II, § 2, del Trattato Italia-USA è il seguente: ‘‘Un reato dà luogo all’estradi-
zione anche se consiste nel tentativo di commettere o nel concorso nella commissione di un reato previsto
al § 1 del presente articolo. Ogni forma di associazione per commettere reati di cui al § 1 del presente ar-
ticolo, così come previsto dalle leggi italiane, e la ‘conspiracy’ per commettere un reato di cui al § 1 del
presente articolo, così come prevista dalle leggi statunitensi, è altresì considerato reato che dà luogo all’e-
stradizione’’.

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fattispecie lato sensu associative: in questo caso non ci si potrebbe esimere dall’ac-
certamento se esse presentino o meno caratteri fondamentali comuni (37).
La debolezza di questa interpretazione emerge, a nostro avviso, da un triplice
ordine di considerazioni. Innanzitutto, non si vede come la funzione di una norma
sia quella negativa di ‘‘superare il raffronto diretto tra l’associazione per delin-
quere e la conspiracy, che sono in effetti reati diversi’’ (38), anziché quella posi-
tiva di subordinare la concessione dell’estradizione alla ricorrenza di determinati
requisiti. Non appare, cioè, concepibile l’esistenza di una norma, che abbia come
obiettivo quello di esonerare l’interprete dall’improbo compito di mettere in rela-
zione due fattispecie, la cui non coincidente struttura non consentirebbe di perce-
pire con immediatezza se ed a quali condizioni l’una possa ritenersi punibile anche
alla stregua dell’ordinamento che contiene l’altra. In secondo luogo, il principio
della previsione bilaterale del fatto, una volta fatto oggetto di specifico riconosci-
mento dal legislatore pattizio, non potrebbe trovare applicazione, per così dire, ‘‘a
corrente alternata’’, dovendosi riferire a qualsiasi fattispecie autonoma di reato, a
prescindere dal rapporto di mezzo a fine che intercorra tra l’una e l’altra. Se la
conseguenza della consegna di un soggetto affinché venga giudicato nel luogo di
commissione del fatto è, in caso di condanna, l’irrogazione di una sanzione penale,
si impone la verifica circa la sua corrispondenza con una fattispecie di reato previ-
sta nell’ordinamento dello Stato richiesto, a meno che a tale principio non si dero-
ghi espressamente. Non sembra concepibile, in definitiva, che esso operi diretta-
mente per un reato ed indirettamente per un altro, solo perché a questo avvinto da
un nesso teleologico e che, pertanto, adempia alla funzione, che gli è propria, a re-
gime ‘‘ridotto’’ o ‘‘pieno’’, a seconda dell’oggetto della domanda di estradizione.
Maggiori coerenza e rigore logico avrebbero contrassegnato un’interpretazione
che fosse pervenuta alle estreme conseguenze di ritenere codificata una scelta di
politica-criminale volta a sancire, per esigenze di celerità nella repressione di fatti
espressivi di un particolare disvalore, un’equiparazione ex Tractatu delle fattispe-
cie dell’associazione per delinquere e della conspiracy, che impedisse all’interprete
qualsiasi concreta operazione di raffronto, a prescindere dalla estradabilità dei
reati oggetto del programma criminoso. In terzo luogo, non facendo la sentenza
cenno al fondamento del principio in esame, non è neppure in grado di indicare le
ragioni della sua derogabilità, nonché il modo in cui ogni eventuale eccezione
debba essere enunciata.
La ricostruzione del significato del § 2 dell’art. II del Trattato può essere ef-
fettuata seguendo la duplice direttrice: 1) dell’indagine storica, che consenta di far
luce sul momento e sulle ragioni dell’introduzione di suddetta disposizione; 2) del
fondamento del principio della previsione bilaterale del fatto, onde fare chiarezza
sull’ammissibilità o meno di deroghe o eccezioni.
1) Da un punto di vista storico, vale la pena di ripercorrere, sia pur per
sommi capi, il processo che ha condotto alla nuova formulazione dell’art. II, at-
tualmente in vigore (39). Attuandosi un auspicio invocato da più parti in più cir-
costanze, con il nuovo Trattato si è passati da un sistema di tipo qualitativo o, se-

(37) In senso analogo, v. sez. I, 17 novembre 1989, Grandia, cit., p. 273.


(38) Così la sentenza che si annota, a p. 6.
(39) Il testo dell’art. II del Trattato Italia-USA del 18 gennaio 1973, recepito con legge di esecu-
zione 9 ottobre 1974, n. 634, recitava così: ‘‘L’estradizione sarà anche concessa per il reato italiano di ‘as-
sociazione per delinquere’ se la richiesta fornisce anche gli elementi di ‘conspiracy’, come definita dalle
leggi degli Stati Uniti, al fine di commettere uno dei reati di cui al presente articolo. Il requisito che, se-
condo le leggi degli Stati Uniti, sia fornito l’elemento della ‘conspiracy’ verrà soddisfatto quando sarà pro-
dotta la documentazione dalla quale risultino sufficienti indizi che due o più persone si siano intese per
commettere uno qualsiasi dei reati di cui al presente articolo e quando una o più di tali persone abbiano
compiuto un qualsiasi atto al fine di conseguire lo scopo dell’intesa’’.

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condo altri, misto, che si fondava sulla combinazione tra il criterio enumerativo o
della ‘‘lista’’ dei reati e quello dell’indicazione di un minimo edittale di pena, ad
un sistema quantitativo o eliminativo, che fa leva esclusivamente sulla misura
della pena per individuare le fattispecie passibili di estradizione (40). L’elenca-
zione nominativa dei reati per i quali potesse farsi luogo all’estradizione se, da un
lato, aveva come effetto quello di relegare il principio della previsione bilaterale
del fatto ad un ruolo marginale, data l’adozione del criterio della lista (41), dall’al-
tro acuiva la difficoltà di accertamento, nel corso dell’iter estradizionale, della cor-
rispondenza del titolo e della natura di reati collocati in ordinamenti diversi. Ciò
indusse le parti contraenti a precisare, in una disposizione ad hoc, le condizioni in
presenza delle quali l’Italia, nella veste di Stato richiesto, avrebbe acconsentito al-
l’estradizione per il reato di associazione per delinquere, imponendo che la do-
manda di estradizione fornisse ‘‘anche gli elementi di conspiracy’’, onde superare
l’ostacolo rappresentato dall’astratta e irriducibile divergenza della loro struttura.
A riprova del fatto che, ben lungi dall’abdicare al principio della doppia incrimina-
zione, se ne riaffermava piuttosto l’irrinunciabilità, preoccupandosi, altresì, di in-
dicarne i presupposti di una concreta operatività in quelle ipotesi di più marcata
disomogeneità tra le fattispecie contemplate nelle legislazioni degli Stati contraenti.
Con l’adozione, nel nuovo Trattato, del sistema quantitativo, sono andati ten-
denzialmente ad attenuarsi molti degli inconvenienti che emersero durante l’appli-
cazione del precedente sotto il profilo dell’effettiva osservanza del principio della
doppia incriminazione. Il che convinse il legislatore pattizio a riprodurre il § 2
dell’art. II, sia pur con qualche leggera variante nel senso della semplificazione e
dell’adeguamento all’evoluzione delle nuove forme associative. Semplificazione,
perché non si ritenne di dover riproporre la medesima formula ‘‘anche gli elementi
della conspiracy’’, limitandosi a riconoscere che si trattava di fattispecie estrada-
bili, sempre comunque alla luce del presupposto, allora espressamente indicato e
successivamente omesso perché considerato inutile, della effettiva coincidenza tra
i loro elementi costitutivi. Adeguamento, perché, soltanto l’anno precedente alla
sottoscrizione del nuovo Trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti, si giunse
all’approvazione, in Italia, della l. n. 646 del 1982 (42), volta a reprimere quella
particolare forma di associazione per delinquere, che è l’associazione di stampo
mafioso (43).
Tenendo, altresì, presente che la norma convenzionale si apre estendendo l’e-
stradizione a fatti costitutivi di tentativo di reato e di concorso criminoso, così
come avveniva nell’analoga disposizione del precedente Trattato, l’art. II, § 2 su-
scita, nel suo complesso, un’impressione di superfluità e, fatta eccezione per l’e-
stensione dell’estradizione a forme associative diverse da quelle tradizionali, non
sembra perseguire altro scopo se non quello di ‘‘evitare equivoci interessati, deri-

(40) Sul punto, cfr., G. CATELANI-D. STRIANI, L’estradizione, Appendice di aggiornamento, Mi-
lano, 1987, p. 6.
(41) In questo senso, P. PISA, Commento all’art. II del Trattato di estradizione tra Italia e USA, in
Leg. pen., 1984, pp. 408-410, che riferisce come il criterio della lista sia stato sempre fatto oggetto di pe-
netranti rilievi critici sia per la sua incompletezza e rigidità, poiché, per quanto ampio e dettagliato po-
tesse essere l’elenco dei reati, la collaborazione rimaneva circoscritta alla lotta contro il crimine, senza, tra
l’altro, consentire quell’adattamento automatico di fronte all’introduzione di nuove fattispecie, che è in-
vece garantito dal criterio eliminativo; sia per la sua ambiguità ed indeterminatezza, in quanto, fondan-
dosi sulla menzione delle fattispecie criminose con un dato nomen iuris, offriva spazio ‘‘ad argomenta-
zioni difensive più o meno capziose da parte dell’estradando’’, laddove le figure criminose non venissero
intese nello stesso significato da entrambi gli ordinamenti.
(42) L’art. 1 della l. 13 settembre 1982, n. 646 ha fatto seguire all’art. 416 c.p., l’art. 416-bis c.p.,
che punisce, come è noto, chiunque faccia parte di un’associazione di tipo mafioso.
(43) Tanto è vero che il § 2 dell’art. II non fa più riferimento all’associazione per delinquere, ma
ad ‘‘ogni forma di associazione per commettere reati di cui al § 1 del presente articolo’’ (il corsivo è no-
stro).

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vanti dalla mancata riproduzione nel nuovo Trattato della clausola prevista dal
precedente’’ (44).
2) Dal punto di vista del fondamento del principio della previsione bilate-
rale del fatto, se, come sembra, esso debba ravvisarsi, come detto, nel soddisfaci-
mento di solidaristiche esigenze di difesa comune, che induce gli Stati a collabo-
rare in concorrenza di fatti offensivi di interessi tutelati da entrambi gli ordina-
menti mediante la previsione di specifiche fattispecie incriminatrici, non si vede
come se ne possa prescindere, solo perché il reato oggetto della domanda di estra-
dizione è, di regola, il presupposto per la commissione di altri ad esso collegati da
un nesso teleologico, quando la formulazione della norma non lascia intravedere
alcuna intenzione di derogarvi. La circostanza che il principio della previsione bi-
laterale del fatto sia considerato, con unanimità di vedute, requisito intrinseco,
connaturato dell’estradizione e che esso debba ritenersi sancito, in via implicita,
anche nei rari casi in cui le Convenzioni non lo enuncino espressamente, in virtù
di una presunzione valida finché non risulti una diversa volontà della legge (45),
fa propendere per la conclusione che il medesimo possa, almeno in linea teorica,
patire eccezioni soltanto se espressamente indicate. La fondatezza di tale asser-
zione sembra confermata dalla lettura dell’art. 3 della Convenzione del 27 settem-
bre 1996 (46), stabilita sulla base dell’art. k. 3 del Trattato sull’Unione europea,
relativa all’estradizione tra gli Stati membri della stessa (47), che, con estrema
chiarezza, da un lato, esclude che lo Stato richiesto possa opporre un rifiuto alla
domanda di estradizione rivoltagli da altro Stato membro, solo perché nel suo or-
dinamento non è previsto il reato associativo; dall’altro, delimita rigorosamente
l’estensione della deroga al principio della doppia incriminazione, comunque con-
templato all’art. 2, elencando, in modo tassativo, i reati oggetto del programma
criminoso, reati accomunati dalla particolare gravità e dalla struttura di per sé ten-
denzialmente associativa (48). Come è agevole constatare, questa norma, pur ri-
nunciando, nell’intento di reprimere fatti di disvalore tale da suscitare un allarme
sociale particolarmente intenso, al principio della previsione bilaterale del fatto,
non ne tradisce l’essenza per un duplice ordine di ragioni: a) innanzitutto, perché
lo fa in modo esplicito, avendo premura di circoscriverne i casi; b) in secondo
luogo, perché è dettata dalla necessità di colmare le lacune di quei sistemi che,
ignorando del tutto le fattispecie associative, pongono dinanzi alla rigida ed inelu-
dibile alternativa tra derogare alla doppia incriminazione o lasciare impuniti fatti

(44) Cfr., P. PISA, Commento all’art. II, cit., p. 411, che rileva come avesse significato, alla luce
del criterio della lista, l’espressa menzione al tentativo, vista l’autonomia riconosciuta alla fattispecie ten-
tata e come non lo abbia più oggi, essendo sufficiente, alla luce del criterio eliminativo, che il fatto rag-
giunga gli standard di gravità richiesti dal § 1; G. CATELANI-D. STRIANI, L’estradizione, cit., p. 9.
(45) Per tutti, R. QUADRI, Estradizione, cit., p. 25; M.R. MARCHETTI, Estradizione, cit., p. 400.
(46) Per comodità si riporta, per intero, il testo del § 1, che attiene alla materia che ci occupa:
‘‘Quando, secondo la legge dello Stato membro richiedente il fatto su cui si basa la domanda di estradi-
zione è configurato quale cospirazione o associazione per delinquere ed è punito con una pena privativa
della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi, l’estradizione non può essere rifiutata per il motivo
che la legge dello Stato membro richiesto non prevede che gli stessi fatti costituiscano reato, purché la co-
spirazione o l’associazione abbiano per fine la commissione di: a) uno o più reati di cui agli artt. 1 e 2
della Convenzione europea per la repressione del terrorismo, o b) qualsiasi altro reato punibile con pena o
misura di sicurezza privativa della libertà non inferiore, nel massimo, a dodici mesi, concernente il traffico
di stupefacenti e altre forme di criminalità organizzata o altri atti di violenza contro la vita, l’integrità fi-
sica o la libertà di una persona o che comporti un pericolo collettivo per le persone’’.
(47) Pubblicata sulla G.U.C.E., del 23 ottobre 1996, n. C-313.
(48) Opta per il superamento dei principi della doppia incriminazione e di specialità, nella pro-
spettiva, però, di passare da un sistema di estradizione ad uno di semplice consegna, dando, così, vita ad
uno spazio di giustizia comune, il Trattato Italia-Spagna del 28 novembre 2000 (pubbl. in Doc. giust.,
2000, p. 1405) che all’art. 1, § 2 recita ‘‘la qualificazione giuridica dei fatti e la misura della pena sono
determinati secondo l’ordinamento della parte richiedente’’. In tema si leggano le osservazioni di G. LAT-
TANZI, La nuova dimensione della cooperazione giudiziaria, in Doc. giust., 2000, p. 1041.

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offensivi di beni meritevoli di tutela qualificata. Scelta che esula dal caso esami-
nato dalla sentenza che si annota, ove si affronta il diverso problema del difetto di
corrispondenza tra due fattispecie disomogenee dal punto di vista strutturale, ma,
poiché coincidenti quanto alla ratio incriminatrice, comunque potenzialmente su-
scettibili di convergere, come tra breve osserveremo, in un’unica ed omogenea fat-
tispecie concreta passibile di estradizione (49).
5. La valutazione sull’estradabilità del reato di conspiracy. — Quanto si è
venuto sin qui osservando si pone come pregiudiziale rispetto all’ulteriore e con-
clusiva questione sulla valutazione dell’estradabilità del reato di conspiracy. Rico-
nosciuto che il principio di previsione bilaterale del fatto non tollera eccezioni, che
non risultino espressamente dal testo della norma; che la disposizione del § 2 non
è, in alcun modo, interpretabile come manifestazione dell’intento del legislatore
pattizio di introdurre una deroga; che la sensazione che dà, ad una lettura che
tenga conto anche della sua formulazione precedente, è quella di una sostanziale
inutilità, in quanto retaggio di un sistema di attuazione del principio della doppia
incriminazione oramai abbandonato, nondimeno conserva la funzione di indiriz-
zare l’interprete nel disagevole compito di verificare se risultino integrati i requi-
siti di entrambe le fattispecie.
A conclusioni opposte si perverrebbe se si optasse per la diversa soluzione,
astrattamente configurabile, dell’equiparazione ‘‘qui e per sempre’’ ex Tractatu
delle due fattispecie, proprio finalizzata all’accelerazione delle procedure di conse-
gna, che non subirebbero intralci dovuti a complicate indagini di raffronto tra
norme difficilmente comparabili. In realtà, aderendo a questa impostazione, non
ci si limiterebbe ad introdurre un’eccezione alle modalità di accertamento della
sussistenza della doppia incriminazione, ma si finirebbe per derogarvi implicita-
mente, assumendo come rispettato un principio nella sostanza disatteso.
È, difatti, indiscutibile che l’accertamento della doppia incriminazione non
possa prescindere, risultandone condizionato, dall’indagine sul tipo di rapporto
che intercorre tra le fattispecie appartenenti a ordinamenti diversi e messe a raf-
fronto.
A questo proposito sono emersi, in dottrina, due contrapposti orientamenti,
che pervengono a conclusioni divergenti quale conseguenza del diverso procedi-
mento seguito nell’individuazione dei connotati del ‘‘fatto’’, come risulta dalla for-
mulazione delle fattispecie legali dei due ordinamenti tra cui si instaura la vicenda
estradizionale.
Il primo orientamento, minoritario, che fa leva sulla struttura delle fattispecie,
considera adempiuto il requisito della previsione bilaterale del fatto all’esito di un
accertamento che si sviluppa attraverso le due successive fasi della verifica: a)

(49) Non pare, in proposito, improprio neppure richiamarsi all’art. 2 della decisione quadro sul
mandato di arresto europeo (su cui v. supra nota 28), nonostante ivi si elenchino una serie di fattispecie,
per le quali si ammette la consegna ‘‘indipendentemente dalla doppia incriminazione’’. La conclusione che
si tenda progressivamente, quanto meno in ambito europeo, a prescindere dalla previsione bilaterale del
fatto come reato quale requisito cardine dell’estradizione, sebbene suggerita dal disposto normativo, ri-
sulta affrettata e non corrispondente al vero. La realtà è che l’esperienza giuridica degli Stati membri del-
l’Unione europea sta ad evidenziare come si tratti di reati comuni a tutti gli ordinamenti, in quanto posti a
presidio dei beni di maggior rilievo, e che quindi la doppia incriminazione sia, per così dire, implicita
nella elencazione stessa. Ciò che la previsione normativa si limita a stabilire è, dunque, la non necessità di
una valutazione su di essa, nell’obiettivo di accelerare le procedure di consegna. A conferma dell’esattezza
di tale interpretazione si legga il § 4 del medesimo art. 2, che, per i reati non compresi nella lista, subor-
dina la consegna alla condizione che i fatti per i quali è stato emesso il mandato di arresto costituiscano
un reato secondo la legge dello Stato di esecuzione, riproponendo un obbligo di valutazione della sussi-
stenza della duplice punibilità, che trova la sua ragion d’essere proprio nella irriconducibilità della fatti-
specie alla lista predisposta dalle parti contraenti. Sul punto, v., di recente, E. SELVAGGI, Il mandato euro-
peo di arresto alla prova dei fatti, in Cass. pen., 2002, p. 2983.

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della natura del fatto oggetto di qualificazione (e già qualificato) alla stregua di
una fattispecie penale dell’ordinamento dello Stato richiedente; b) della corrispon-
denza di tale fatto ad una fattispecie dello Stato richiesto, ovvero, in altri termini,
qualora il fatto costituisca reato ‘‘nello Stato detentore in virtù di quei medesimi
elementi che integrano una fattispecie penale nello Stato che domanda l’estradi-
zione’’ (50). L’inconveniente che scaturirebbe da un’interpretazione eccessiva-
mente restrittiva del requisito della previsione bilaterale del fatto, intesa, cioè, a ri-
conoscerne la sussistenza soltanto in presenza di un’assoluta, e difficilmente rea-
lizzabile, identità delle fattispecie legali, verrebbe superato includendovi anche
quelle che, pur non coincidenti, si trovino in rapporto di specialità unilaterale, al-
lorché gli elementi specializzanti siano contenuti in quella appartenente alla legge
dello Stato che domanda l’estradizione. Non altrettanto potrebbe dirsi nell’ipotesi
in cui la fattispecie speciale sia quella prevista dalla legge dello Stato richiesto o si
tratti di norme in rapporto di specialità reciproca (51), che dovrebbe sottostare ad
una disciplina analoga a quella adottata nel caso della specialità dal punto di vista
dello Stato detentore.
Per vero, una soluzione del genere, desta, a nostro avviso, notevoli perplessità
oltre che da un punto di vista metodologico, da quello della ridotta praticabilità
del requisito in esame. La limitazione che ne deriverebbe in termini di consegna
dell’estradando non sarebbe giustificabile sulla base dell’argomentazione dell’irri-
levanza degli ulteriori elementi presenti nella fattispecie speciale appartenente al-
l’ordinamento dello Stato richiesto ai sensi della legislazione dello Stato richie-
dente, alla luce della quale soltanto il fatto andrebbe qualificato. Si finirebbe, in-
fatti, da un lato, per dimenticare che lo Stato richiesto è chiamato ad accertare se
quel fatto oggetto della domanda di estradizione risulti penalmente rilevante an-
che alla stregua della propria legislazione, non interessando soltanto la qualifica-
zione che di esso ne dia lo Stato detentore; dall’altro, per confondere il problema
dell’individuazione dell’unica norma effettivamente applicabile al caso di specie,
perché ritenuta prevalente, con il diverso problema della ricerca di quel nucleo di
fatto comune che sia simultaneamente riconducibile a due distinte fattispecie, di
cui se ne integrino gli estremi.
Il secondo orientamento, prevalente, fondandosi sul criterio del fatto concre-
tamente posto in essere dall’estradando, ritiene soddisfatto il requisito della dop-
pia incriminazione, allorché il fatto in questione realizzi non solo gli elementi ri-
chiesti dalla fattispecie dello Stato richiedente, ma anche i particolari connotati
cui è affidata la rilevanza penale di esso nello Stato richiesto (52). In sostanza, af-
finché il principio in esame venga rispettato, il fatto storico, dedotto a fondamento
della domanda di consegna, deve risultare riconducibile a due distinte fattispecie
incriminatrici, seppur appartenenti ad ordinamenti diversi, con un procedimento

(50) Cfr., G.A. DE FRANCESCO, Il concetto di ‘‘fatto’’, cit., p. 634.


(51) Si ha specialità unilaterale quando una norma, speciale, presenta tutti gli elementi di altra
norma, generale, con almeno un quid pluris, presentandosi le fattispecie come ‘‘cerchi concentrici’’. Ti-
pico esempio è dato, nel nostro sistema, dall’oltraggio a magistrato in udienza rispetto all’ingiuria.
Si ha specialità bilaterale o reciproca quando nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna è ad
un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi comuni, ele-
menti specifici e generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra, presentandosi le due fattispecie
come ‘‘cerchi intersecatisi’’. Tipici esempi sono, nel nostro sistema, l’aggiotaggio comune (art. 501 c.p.) e
la vecchia formulazione dell’aggiotaggio societario (art. 2628 c.c., oggi riformulato, a seguito del d.lgs n.
61 del 2002, all’art. 2637 c.c.) o anche la truffa (art. 640 c.p.) ed il millantato credito (art. 346 c.p.). Sul
punto, cfr., per tutti, F. MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, pp.
214 e ss. e 226 e ss.; ID., Diritto penale, cit., p. 487.
(52) In questo senso, I. CARACCIOLI, L’incriminazione da parte dello Stato straniero dei delitti
commessi all’estero ed il principio di stretta legalità, in questa Rivista, 1962, p. 1001; G. PECORELLA, I
presupposti dell’estradizione, cit., p. 354; T. TREVES, La giurisdizione, cit., p. 175; P. PISA, Previsione bi-
laterale, cit., p. 48.

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di sussunzione che, sebbene presenti analogie di fondo con la problematica del


concorso apparente di norme, in particolare sotto il profilo del presupposto da cui
muovere, conserva un sufficiente grado di autonomia, quanto agli obiettivi cui
tendere. Se, infatti, in entrambi i casi un medesimo fatto appare riconducibile
sotto il disposto di più norme, mentre l’obiettivo perseguito nel concorso appa-
rente di norme è quello di individuare quale tra esse sia la norma prevalente, in
tema di previsione bilaterale del fatto si ricercano, al contrario, le due norme che
siano in grado di incriminare un medesimo comportamento, esulando del tutto la
questione delle norme applicabili.
Va osservato, in proposito, che, se sul piano pratico ben utilizzabile è il crite-
rio del fatto concreto riconducibile sotto entrambe le norme di ordinamenti di-
versi, tale riconducibilità altro non è che il riflesso dei sottostanti tipi di rapporti
tra fattispecie, o, in altre parole, delle caratteristiche strutturali di esse. Pertanto,
non può che concludersi riconoscendo la sussistenza della doppia incriminazione:
a) nei casi, di chiara evidenza, ma di rara verificazione, di fattispecie in rap-
porto di identità strutturale;
b) nei casi di fattispecie in rapporto di specialità unilaterale, allorché il fatto
concreto corrisponda alla fattispecie speciale e, pertanto e a fortiori, anche alla
fattispecie generale;
c) nei casi di fattispecie in rapporto di specialità reciproca, allorché il fatto
concreto corrisponda all’ipotesi comune alle due fattispecie.
Va, viceversa, riconosciuta l’insussistenza della doppia incriminazione nei
casi di fattispecie in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità (53), per l’ovvia
ragione della mancata coincidenza o addirittura incompatibilità dei rispettivi ele-
menti costitutivi.
Se le osservazioni svolte sino a qui non sono destituite di fondamento, non ri-
mane che applicarle al caso che ci occupa.
Da una preliminare analisi della struttura delle fattispecie della associazione
per delinquere, prevista dalla legge italiana, e della conspiracy, prevista dalla legge
statunitense, si evince che si tratta di norme in rapporto di specialità reciproca,
perché, accanto al nucleo comune, costituito dall’accordo tra più persone finaliz-
zato alla commissione di una serie di delitti: a) la prima presenta gli elementi spe-
cializzanti del minimum di tre persone e del vincolo associativo permanente, come
testimoniato dalla preesistenza, rispetto alla perpetrazione dei singoli reati-scopo,
di una stabile e duratura organizzazione di persone e cose volta all’attuazione di
un qualsiasi programma criminoso (54); b) la seconda l’elemento specializzante
dell’overt act, non richiesto per la perfezione del reato associativo (55).

(53) Si parla di fattispecie in rapporto di eterogeneità, qualora esse non coincidano per alcun ele-
mento [si fa l’esempio della rissa (art. 588 c.p.) e della falsità in monete (art. 453 c.p.)]; di fattispecie in
rapporto di incompatibilità, laddove esse presentano elementi tra loro incompatibili e, quindi, si esclu-
dono a vicenda [si fa l’esempio dell’appropriazione indebita (art. 646 c.p.), che ha come presupposto il
possesso della res e del furto (art. 624 c.p.), in cui, viceversa, il possesso deve mancare]. Così, F. MANTO-
VANI, Diritto penale, cit., p. 488.
(54) La letteratura in materia è imponente. Si vedano, tra gli altri, G.A. DE FRANCESCO, Associa-
zione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 295 e ss.; ID.,
Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in questa Rivista, 1992, p. 107; G. DE
VERO, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988, p. 260, che considera l’apparato organizzato fi-
nalizzato prima che alla commissione dei reati oggetto del programma ‘‘alla conservazione ed al potenzia-
mento dell’associazione come tale’’; ID., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in questa Rivista,
1993, p. 106; G. INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 91; F. IACOVIELLO, L’organiz-
zazione criminogena prevista dall’art. 416 c.p., in Cass. pen., 1994, p. 579-580; ID., Ordine pubblico e as-
sociazione per delinquere, in Giust. pen., II, 1990, c. 60 e ss.; G. NEPPI MODONA, Criminalità organizzata
e reati associativi, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987; V. PATALANO, L’associazione per
delinquere, Napoli, 1971, p. 181.
(55) Nulla vieta, infatti, che si abbia specialità unilaterale, oltre che per specificazione, ove il quid

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Pertanto, nell’ipotesi in cui tre o più soggetti, avvalendosi di un apparato or-


ganizzativo avente carattere permanente, si accordino per la realizzazione di una
serie di fatti penalmente rilevanti, e ad essi comincino a dare esecuzione con atti
materialmente estrinsecantisi nel mondo esteriore — che provino la sussistenza
dell’intesa — trattasi di fatto che integra contestualmente tanto il reato di associa-
zione per delinquere quanto quello di conspiracy e che, quindi, come tale, in osse-
quio al principio della previsione bilaterale del fatto, è suscettibile di estradi-
zione (56).
Al § 2 dell’art. II del Trattato va, perciò, riconosciuta, quanto meno, una fun-
zione di orientamento dell’interprete sul modus procedendi nell’accertamento
della bilateralità del fatto, qualora vengano messe a confronto fattispecie in rap-
porto non di identità strutturale (57).
Non vanno, infine, neppure trascurati gli effetti conseguenti ad una assoluta
irriconducibilità del reato di conspiracy a quello associativo e viceversa, anche
sotto l’ulteriore profilo dell’inattivabilità del meccanismo del ne bis in idem inter-
nazionale, sub specie di litispendenza. Come desumibile dalla lettura della sen-
tenza in commento, gli estradandi per il reato di conspiracy sono stati indagati in
Italia, oltre che per i singoli reati-scopo, anche per il reato di associazione per de-
linquere, in quanto affiancati nella realizzazione del loro programma criminoso,
almeno secondo l’ipotesi accusatoria, da una terza persona, il cui ruolo sarebbe
emerso in un secondo momento, a seguito delle indagini svolte nel frattempo dal-
l’autorità inquirente. Ebbene, secondo l’impostazione della Suprema Corte, si do-

pluris è esso stesso una species del corrispondente elemento della fattispecie generale, anche per aggiunta,
ove, invece, il quid pluris costituisce un elemento aggiuntivo estraneo alla fattispecie generale.
Lo stesso dicasi per la specialità reciproca, che oltre a presentarsi nella forma della specialità per
coincidenza tra sottofattispecie, può caratterizzarsi per la coincidenza tra fattispecie ed elemento partico-
lare, ove l’una coincide per un’ipotesi particolare del corrispondente elemento costitutivo dell’altra e que-
sta è, a sua volta, specifica, perché richiede elementi in più (es., truffa ed emissione di assegni a vuoto,
oggi depenalizzata). Cfr., per tutti, F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 487-488.
(56) Nel senso del testo già, in passato, G. TURONE, L’estradizione dagli Stati Uniti in Italia: la do-
cumentazione a sostegno delle richieste, in L’estradizione e l’assistenza giudiziaria nei rapporti Italia-
Stati Uniti, Milano, 1986, p. 40, che, nell’indicare al giudice le modalità con cui formulare una richiesta
di estradizione agli Stati Uniti per il reato di associazione per delinquere, onde conseguire l’effetto deside-
rato della consegna, afferma testualmente: ‘‘... Così, quando viene richiesta l’estradizione di una persona
accusata di associazione per delinquere, la relazione del giudice italiano dovrà mettere in evidenza i mezzi
di prova atti a dimostrare la sussistenza degli elementi del reato di conspiracy, così come esso è definito
dalla legge degli Stati Uniti, altrimenti vi è il rischio che il giudice americano non ravvisi la doppia incri-
minabilità nei fatti addebitati all’estradando’’. Se, dunque, nel caso in cui l’Italia sia lo Stato richiedente, il
giudice italiano è tenuto a dimostrare non tanto e non solo che il fatto è ivi punibile, quanto e soprattutto
che esso risulta punibile negli Stati Uniti quale Stato richiesto, lo stesso dovrà valere, reciprocamente, se
la richiesta proviene dagli Stati Uniti, per il reato di conspiracy, rispetto alla punibilità di quel fatto, in Ita-
lia, come associazione per delinquere.
(57) In senso analogo, sez. I, 14 settembre 1995, Aramini, cit., p. 3686 che, capovolgendo la solu-
zione in precedenza adottata dalla sentenza Grandia, con chiarezza stabilisce quanto segue: ‘‘è vero che il
concetto anglosassone di conspiracy non coincide con la nostra fattispecie astratta di associazione per de-
linquere, d’altronde non prevista nella legislazione statunitense; ma per soddisfare il requisito della dop-
pia incriminabilità del fatto non è necessario che lo schema astratto della norma incriminatrice dell’ordi-
namento straniero trovi il suo esatto corrispondente in una norma del nostro ordinamento, ma è suffi-
ciente che lo stesso fatto sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla rilevando l’even-
tuale diversità del titolo e la difformità del trattamento sanzionatorio. Non si tratta, quindi, di stabilire se
esista in astratto equivalenza tra la conspiracy dell’ordinamento statunitense, ma di stabilire se il fatto
addebitato all’Aramini è punito dalla legislazione statunitense a titolo di conspiracy sia previsto come
reato dell’ordinamento interno. Non si pone in contrasto con l’art. 13, comma 2, c.p. e neppure con prin-
cipi costituzionalmente garantiti, l’art. II, comma 2, del Trattato, che prevede espressamente come reato
tale da dar luogo all’estradizione ogni forma di associazione per delinquere per commettere reati da una
parte e la conspiracy per commettere un reato dall’altra, dovendosi intendere l’estradizione in ogni caso
subordinata al requisito della doppia incriminabilità, e cioè alla condizione che un fatto previsto dal no-
stro ordinamento come reato associativo sia punito anche negli USA a titolo di conspiracy e viceversa’’ (i
corsivi sono nostri).

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vrebbe pervenire all’inaccettabile conclusione che questa circostanza non do-


vrebbe in alcun modo incidere — e così infatti avviene — sulla delibazione in me-
rito all’estradizione, portando alla conseguenza illogica della inapplicabilità del ne
bis in idem e della relativa consegna di un individuo affinché venga giudicato in
un paese perché ritenuto responsabile di essersi accordato con un suo sodale per
compiere una serie di reati, di cui abbia compiuto un qualsiasi atto manifesto, ed
in un altro, perché ritenuto responsabile di aver dato vita, con l’aiuto di due so-
dali, ad una organizzazione finalizzata a realizzare un numero indeterminato degli
stessi reati. L’insanabilità di un eventuale contrasto di giudicati, con la possibile
assoluzione in Italia per il reato associativo e la condanna negli Stati Uniti per il
reato di conspiracy e viceversa, non può che riconnettersi all’erronea interpreta-
zione della norma pattizia, intesa come fonte di un’operatività soltanto indiretta
— ovvero per il tramite dei reati-scopo — del principio della previsione bilaterale
del fatto ed ai limiti di una impostazione, che ritiene di poter prescindere da esso,
anche in difetto di un’espressa indicazione in tal senso, in presenza di fattispecie
che, dal punto di vista della struttura, si trovino in rapporto di specialità o di spe-
cialità reciproca. A riprova del fatto che, anche radicalizzando l’interpretazione
della Suprema Corte nel senso di un’assoluta impossibilità di procedere alla veri-
fica della corrispondenza tra le due fattispecie, quale conseguenza di una scelta
delle Parti contraenti di equipararle ex Tractatu ai fini estradizionali, si finirebbe,
da un lato, per derogare alla doppia incriminazione, consentendo la consegna seb-
bene quel fatto non sia concretamente sussumibile entro l’ambito applicativo di al-
cuna norma incriminatrice dell’ordinamento dello Stato richiesto; dall’altro, per
vanificare, altresì, il pur riconosciuto principio del ne bis in idem in materia di
estradizione, sub specie di litispendenza, a meno di non specificare che detta equi-
parazione valga anche per opporre un rifiuto alla consegna, nel caso in cui l’estra-
dando venga sottoposto, nello Stato di rifugio, ad indagine per un reato omologo
per voluntas legis.
Per queste ragioni, sarebbe, forse, auspicabile, per il futuro, un intervento
sulla questione delle sezioni unite, che metta fine ad un’incertezza interpretativa e
precisi, con adeguate argomentazioni, stante la particolare delicatezza del pro-
blema de quo, quale sia la soluzione che la giurisprudenza di legittimità reputa
maggiormente conforme ai principi su cui si fonda l’estradizione.
Dott. FILIPPO BELLAGAMBA

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CORTE DI CASSAZIONE — Sez. I — 29 maggio 2002-11 luglio 2002


Pres. D’Urso — Rel. Rossi
P.M.: inammissibilità ricorso — Ric. P.M. c. Volterrani

Omicidio preterintenzionale - Fattispecie - Intervento medicochirurgico effettuato


in assenza di consenso informato - Esclusione (c.p. art. 584).

Il medico è legittimato a sottoporre il paziente, affidato alle sue cure, al trat-


tamento terapeutico, che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello
stesso, anche in assenza di un esplicito consenso. Questa conclusione non trova,
però, la sua giustificazione soltanto nella irrilevanza della adesione di volontà del-
l’infermo, ma soprattutto in altre ragioni che attengono propriamente alla natura
intrinseca dell’attività sanitaria e al rilievo, anche costituzionale, a lei attribuito
dall’ordinamento (1).
Deve decisamente escludersi che il medico possa essere chiamato a rispon-
dere in sede penale dei presunti danni cagionati alla vita o all’integrità fisica e
psichica del soggetto sul quale ha operato a regola d’arte, unicamente per l ’as-
senza del consenso (2).

(Omissis). — 1. Il 23 ottobre 1995 Annibale Moroni veniva ricoverato nel-


l’ospedale di Aviglione per ernia ombelicale.
Il giorno seguente il dott. Pietro Volterrani lo sottoponeva a intervento chi-
rurgico, ma, pur avendo ottenuto il consenso del paziente solo alla riduzione del-
l’ernia e all’esplorazione della cavità addominale, avendo da tale ultima opera-
zione ricavato la certezza della presenza, già adombrata dall’esito di un’indagine
eseguita alcuni giorni prima in altro nosocomio, ma non comunicata né al Moroni
personalmente, né ai suoi familiari, di un tumore maligno, procedeva a ‘‘duodeno-
cefalopancreasectomia’’.
Per sopravvenuta complicanza di varia natura l’infermo, dopo aver subito al-
tri tre interventi chiurgici ad opera dello stesso Volterrani e un quarto in un ospe-
dale parigino, decedeva il 23 novembre 1995.
A seguito della denuncia presentata da Elisabetta Moroni, figlia del defunto, il
Volterrani era imputato del delitto di cui all’art. 584 c.p., per avere eseguito una
‘‘intervento altamente invasivo, demolitorio, mutilante e complesso’’, senza infor-
mare preventivamente il paziente, senza compiere ulteriori accertamenti confer-
mativi del sospetto carcinoma e in assenza ‘‘di qualsivoglia stato di necessità ov-
vero di urgenza di così intervenire’’.
In esito a giudizio abbreviato, con sentenza del 10 ottobre 1998 il giudice del-
l’udienza preliminare del Tribunale di Torino riteneva il Volterrani colpevole dei
reati di cui agli artt. 610 e 586 c.p., così mutata e sdoppiata l’accusa originaria, e
lo condannava alla pena di un anno e otto mesi di reclusione con le statuizioni
consequenziali anche in favore delle parti civili, moglie e figli della vittima.
Decidendo sulle impugnazioni spiegate dal pubblico ministero e dall’impu-
tato, la Corte d’appello di Torino con sentenza del 10 maggio 2000 ripristinava
l’originaria contestazione ed elevava la pena a due anni, undici mesi e venti giorni
di reclusione.
Il 15 febbraio 2001 la Corte suprema di cassazione, investita del ricorso dei

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difensori del Volterrani, ritenuto che l’appello proposto dal rappresentante della
pubblica accusa avverso la pronuncia di primo grado avesse prodotto la revivi-
scenza dell’imputazione più grave, la cui cognizione spettava, a norma dell’art. 5
lett. B c.p.p., alla Corte d’assise d’appello, annullava la decisione del giudice di se-
condo grado e trasmetteva gli atti all’organo competente.
Con sentenza del 3 ottobre 2001 la Corte d’assise d’appello di Torino ha as-
solto il Volterrani con ampia formula. La Corte di merito in base alle risultanze
processuali analiticamente illustrate considera accertato:
1) che il Moroni acconsentì agli interventi di riduzione dell’ernia e, sia pure
implicitamente, di laparotomia, ma non a quello più invasivo e demolitorio poi di
seguito eseguito;
2) che neppure i parenti del Moroni prestarono tale consenso nel corso del-
l’operazione, dovendosi considerare sicuramente non veritiera la versione difen-
siva della temporanea sospensione dell’intervento per informare quanto meno la
moglie e la figlia del paziente;
3) che la duodenocefalopancreasectomia non era stata preordinata fin dall’i-
nizio come erroneamente sostenuto dal primo giudice, essendo la concomitanza di
un tumore al pancreas solo ipotetica, una mera eventualità incompatibile con una
determinazione già raggiunta;
4) che il Moroni era affetto, come confermato dai successivi esami, non già
da ‘‘un carcinoide argentaffine e da tessuti metastatizzati’’, bensì da un vero e pro-
prio tumore maligno endocrino angioinvasivo, più esattamente da ‘‘un gastrino-
ma’’, che imponeva un intervento ablativo immediato e radicale al fine di evitare
all’infermo una sopravvivenza assai breve e dolorosa;
5) che il Volterrani non si era posto per suo fatto doloso o colposo in una
situazione di ‘‘non ritorno’’, tale da costringerlo a proseguire l’intervento con le
modalità più gravose, non essendo tale evenienza in alcun modo causalmente col-
legabile alla mancanza del consenso del paziente, né ad errori diagnostici o opera-
tivi, anche perché la grave emorragia seguita allo ‘‘scollamento del blocco duode-
nopancreatico’’ costituiva un evento raro, non rientrante ‘‘nell’ambito degli eventi
normalmente prevedibili’’, e tale per sua natura da rendere inevitabile il passaggio
dalla laparotomia alla duodenocefalopancreasectomia;
6) che conseguentemente non poteva porsi in dubbio, nella specie, la sussi-
stenza di ‘‘tutti gli estremi della causa di giustificazione del soccorso in stato di ne-
cessità’’, secondo la previsione dell’art. 54 c.p., essendo ‘‘in gioco la vita del pa-
ziente’’ e l’intervento eseguito proporzionato a tale estrema eventualità;
7) che, in ogni caso, doveva escludersi che l’imputato avesse agito con il
dolo richiesto dall’art. 584 c.p., incompatibile con una ‘‘condotta in cui siasi
estrinsecato un trattamento medico-chiurgico rivolto intenzionalmente al migliora-
mento delle condizioni di salute del paziente, compiuto ‘‘secondo le regole del-
l’arte e di sperimentata validità terapeutica’’;
8) che, infine, la tesi sposata dal giudice di primo grado urtava sia contro
l’obiezione, mossa anche dalla Corte di legittimità (sez. IV, 9 marzo 2001, n. 585,
Barise) all’opinione della compressione della libertà di autodeterminazione del
malato non consenziente (art. 610 c.p.), dell’impossibilità di considerare come
violento o minaccioso il comportamento del medico che compie il proprio dovere,
fuori di un espresso divieto oppostogli dall’interessato, sia contro la dimostrata
presenza di una causa di giustificazione, ‘‘la cui stessa supposizione erronea esclu-

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derebbe il dolo (ai sensi dell’art. 59 comma 4 c.p.) di qualsiasi reato configurabile
per il quale sia richiesto tale elemento soggettivo’’.
2. Ricorre per cassazione il procuratore generale della Repubblica di Torino.
Con il primo motivo il ricorrente deduce ‘‘erronea applicazione della legge pe-
nale’’ per avere il giudice di merito erroneamente escluso la configurabilità del de-
litto di cui all’art. 584 c.p. senza considerare ‘‘che l’atto medico arbitrario che ab-
bia cagionato aggressione all’integrità fisica, indipendentemente dalla motivazione
dell’agire (che sarà sempre il bene del paziente) [è] connotato da quanto penal-
mente parlando si definisce dolo’’ e ciò perché ‘‘dal punto di vista dell’elemento fi-
sico’’ l’intervento terapeutico determina una lesione, intesa come ‘‘alterazione
cruenta dello stato anteriore’’, da cui può derivare una malattia, che secondo l’art.
582 c.p. non significa ‘‘peggioramento della salute’’, ma offesa all’integrità fisica,
corporea o psichica, del soggetto passivo.
Il ricorrente fa precedere queste considerazioni da alcune riflessioni sul signi-
ficato e la funzione del consenso informato del paziente, senza ulteriori chiari-
menti sull’incidenza che, nella fattispecie, avrebbe avuto l’eventuale benestare del
Moroni all’asportazione del cancro.
Con il secondo motivo, articolato in tre punti, il pubblico ministero denuncia
la violazione dell’art. 54 c.p. e, in ogni caso, vizio di motivazione circa la sussi-
stenza della scriminante.
Partendo dalla premessa per cui dalla stessa esposizione in fatto della sen-
tenza impugnata emergerebbero con chiarezza la negligenza, l’imprudenza e l’im-
perizia del Volterrani, che non si rese conto dell’assoluta inutilità dell’intervento,
resa evidente dalla particolare natura del carcinoma, e che compiendolo ugual-
mente accorciò quantomeno di sette anni la vita del paziente, il ricorrente con-
clude nel senso che ‘‘la pretesa situazione di pericolo (fu conseguenza) della vo-
lontà colpevole dell’imputato ed era assolutamente evitabile’’.
Critica, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata laddove ritiene pro-
porzionata l’‘‘asportazione di mezzo apparato digerente’’ alla risoluzione dell’e-
morragia provocata dalla ‘‘manovra di Coker’’, anch’esssa arbitraria perché estra-
nea alla consentita laparotomia, fronteggiabile con ordinari interventi trasfusionali.
Il ricorrente, infine, riproducendo le osservazioni svolte sui profili di colpa
ravvisabili nella condotta dell’imputato, che compì un evidente errore nella scelta
dello strumento terapeutico adeguato al caso concreto, limitandosi, per giunta, ad
asportare una massa metastatica e trascurando il tumore primitivo non reperito,
censura la sentenza impugnata allorché esclude ogni responsabilità del medico, di-
menticandosi ‘‘di valutare... almeno l’errore colposo nella ritenuta sussistenza
della causa di giustificazione ovvero l’eccesso colposo nei limiti imposti dalla ne-
cessità’’. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
3. Il ricorso non merita accoglimento.
La materia del processo è indubbiamente spinosa e si presta a pratiche di
massaggio mentale. Ne sono evidente conferma l’ambiguità della formulazione
della stessa accusa, in bilico tra responsabilità per colpa o per dolo; le variegate
pronunce dei giudici di merito, che si sono occupati del caso; il tono solo apparen-
temente sicuro e perentorio dell’atto d’impugnazione.
È d’uopo allora cercare di mettere un pò d’ordine nel profluvio di enunciati di
cui grondano la sentenza e il ricorso.

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Per evitare inutili divagazioni e restare entro i confini del caso concreto oc-
corre prendere le mosse dal capo d’imputazione.
Il nucleo essenziale dell’accusa rivolta al Volterrani sta nell’addebito di avere
cagionato ‘‘con atti diretti a ledere... il decesso [art. 584 c.p.] di Annibale Moroni
sottoponendolo a intervento chiurugico di duodenocefalopancreasectomia senza il
suo consenso’’.
In una singolare contaminazione con altre figure criminose, nella contesta-
zione si delineano anche pesanti profili di colpa (chiaro segno questo del disagio
avvertito dall’inquirente nella esatta definizione dell’accusa), il che avrebbe con-
sentito al giudice anche di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa senza
tema di incappare nella nullità prevista dall’art. 522 c.p.p.
Conviene, dunque, sgombrare subito il campo da questa digressione accusa-
toria, che mina la linearità del discorso principale riguardante il concorso degli
elementi costitutivi del delitto di omicidio preterintenzionale.
Va rilevato in proposito che la Corte territoriale, attraverso un’analisi appro-
fondita e attenta delle risultanze processuali e, in particolare, dei pareri espressi
dalla moltitudine di esperti intervenuti a vario titolo nel processo, è pervenuta alla
conclusione, tutt’altro che irragionevole o campata in aria, che il chirurgo agì nel
frangente ‘‘lege artis’’, coerentemente escludendo, quindi, ogni connotazione d’im-
perizia, imprudenza, negligenza e inosservanza dei canoni propri della scienza me-
dica nell’operazione compiuta sul Moroni dal Volterrani, che fece esattamente ciò
che doveva e fronteggiò con iniziative frutto di scelte calibrate e accorte gli svi-
luppi drammatici della situazione, caratterizzata dall’incalzante e progressiva
emissione di gravi complicanze non tutte rientranti nell’ordine naturale delle cose e
conseguentemente di difficile, se non impossibile prevedibilità.
La motivazione adottata sul punto della Corte torinese è completa ed esente
da smagliature logiche di rilevanza tale da diradarne il tessuto e provocarne la la-
cerazione.
D’altro canto, le critiche mosse dal ricorrente a questa parte della sentenza
impugnata, benché formalmente prospettate come vizi di legittimità, si risolvono
effettivamente nella proposizione di una lettura diversa e alternativa dei dati sto-
rici analizzati e valutati dai giudici di merito, e, quindi, nella sollecitazione di un
giudizio di merito estraneo ai compiti istituzionali di questa Corte di legittimità.
Passando, perciò, senz’altro, al tema centrale del processo, quello, sicura-
mente scottante e di grande attualità, del rilievo del consenso del paziente all’ese-
cuzione sulla sua persona di interventi terapeutici importanti come quello subito
dal Moroni e produttivi, comunque, di una menomazione, anche solo temporanea,
dell’integrità fisica o psichica, non può che pervenirsi alla conclusione, solo appa-
rentemente dirompente e già adombrata nella giurisprudenza di questa Corte, se-
condo cui la volontà del soggetto interessato in ambito giuridico e penalistico in
particolare svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia eventalmente espressa in
forma negativa.
Conseguentemente, il fatto che il Volterrani abbia dilatato la sua azione tera-
pautica ben oltre i confini tracciati dall’adesione dell’infermo agli interventi mi-
nori non deve assolutamente considerarsi per ciò solo illecito e arbitrario.
In altri termini, un eventuale preventivo consenso del Moroni esteso all’esen-
zione della duodenocefalopancreasectomia, non avrebbe avuto, di per sé, effica-
cia liberatoria dalla conseguenza dell’esito infausto dell’operazione.

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La diffusa e crescente enfatizzazione in chiave giuridica di questa condizione,


che fino a poco tempo fa trovava l’unica disciplina organica nel codice di deonto-
logia medica, l’ha trasformata da strumento di ‘‘alleanza terapeutica’’ tra medico e
paziente, teso al soddisfacimento dell’interesse comune di ottenere dalla cura il
miglior risultato possibile, in fattore di elevata conflittualità giudiziaria, indotta
dalla sempre maggiore diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso
coloro che vi lavorano, cui si contrappone l’inquietante fenomeno della ‘‘medicina
difensiva’’, di cui è, tra l’altro, espressione comune l’ansiosa ricerca in tutti i noso-
comi, pubblici e privati, di adesioni ‘‘modulistiche’’ sottoscritte dai pazienti, nel-
l’erronea supposizione di una loro totale attitudine esimente.
In realtà, nel nostro attuale ordinamento giuridico la causa di giustificazione
o, se si preferisce, di esclusione dell’antigiuridicità di un fatto astrattamente sussu-
mibile nella previsione della norma incriminatrice, nota come ‘‘consenso dell’a-
vente diritto’’, è disciplinata dall’art. 50 c.p., che pone un limite inesplicabile alla
sua efficacia, precisando che deve trattarsi di diritti dei quali la persona può vali-
damente disporre.
In questa categoria la tradizione etica e giuridica della cultura occidentale col-
loca sicuramente i diritti personalissimi: alla vita, all’integrità personale, all’onore,
ecc.
Tralasciando di considerare il diritto alla vita — intesa questa non come sem-
plice stato biologico contrapposto alla morte, ma, piuttosto, come capacità dell’or-
ganismo umano di provvedere alla sua conservazione, sviluppo e riproduzione,
nonché di stabilire e mantenere relazioni coscienti e feconde con l’ambiente che lo
circonda e con gli altri uomini — il quale è evidentemente indisponibile, tanto che
l’art. 573 c.p. prevede la figura di ‘‘omicidio del consenziente’’, severamente pu-
nito; tralasciando, inoltre, altre posizioni soggettive che non hanno alcuna atti-
nenza con il caso in esame, occorre approfondire brevemente le problematiche su-
scitate dal concetto di diritto all’integrità personale, che ci interessa da vicino.
Uno spunto per la sua definizione è dato dall’art. 5 c.c. il quale usa, però, una
formula alquanto vaga e, parlando di ‘‘atti di disposizione del proprio corpo’’,
produttivi di una diminuzione permanente dell’integrità fisica, neppure piena-
mente aderente e adeguata al quesito.
La disposizione è, tuttavia, utile a chiarire che per il legislatore l’uomo non è
illimitatamente ‘‘dominus membrorum suorum’’, perché la sua validità ed effi-
cienza fisica e psichica sono considerate dal diritto di importanza fondamentale
per l’esplicazione delle funzioni sociali e familiari assegnategli e per il conteni-
mento dei costi gravanti sulla collettività costretta a sopperire alla deficienze di
questo o quello dei suoi membri.
Ne consegue, di leggieri, che deve considerarsi proibita qualsivoglia altera-
zione del corpo incidente in modo apprezzabile, temporaneamente o definitiva-
mente, sul valore dell’individuo, impedendogli di adempiere i suoi doveri e di eser-
citare i suoi diritti.
Una breccia in questo sistema, che potrebbe apparire fin troppo rigido e mor-
tificante per la libertà e l’autonomia dell’essere umano, sembra essere stata aperta
dalla Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina fatta a Orvieto il 4
aprile 1997.
Infatti, secondo gli artt. 3 e 8 dell’accordo internazionale, salva l’ipotesi del-
l’impossibilità di ottenere il consenso dell’interessato (che allora potrà essere co-

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munque sottoposto a ‘‘ogni trattamento necessario’’ alla sua salute), l’adesione


della volontà libera e informata del paziente è sempre necessaria.
La convenzione, che apre indubbiamente nuovi orizzonti alla trattazione del
problema, conferendo al consenso preventivo dell’infermo una valenza più pre-
gnante nell’ottica di una rivalutazione dell’individuo rispetto alla società e di un
ragionevole affrancamento del medesimo dagli obblighi che questa impone, è stata
ratificata in Italia con la recente legge n. 145 del 28 marzo 2001.
La legge dà ‘‘piena e intera esecuzione alla Convenzione’’ (art. 2), ma delega
(art. 3) il Governo ‘‘ad adottare ... uno o più decreti legislativi recanti ulteriori di-
sposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai prin-
cipi...’’ dalla stessa accolti.
Non essendo intervenuta nessuna modifica legislativa nel termine (sei mesi)
fissato dalla delega e dovendosi, altresì, escludere, per i riflessi penalistici della
nuova disciplina del consenso dell’avente diritto, l’immediata e diretta recezione
delle regole pattizie nell’ordinamento del nostro Paese, l’attuale quadro normativo
deve ritenersi sostanzialmente immutato.
Ciò significa che il medico è legittimato a sottoporre il paziente, affidato alle
sue cure, al trattamento terapeutico, che giudica necessario alla salvaguardia della
salute dello stesso, anche in assenza di un esplicito consenso.
Questa conclusione non trova, però, la sua giustificazione soltanto nella già
rimarcata irrilevanza dell’adesione di volontà dell’infermo, ma soprattutto in altre
ragioni che attengono propriamente alla natura intrinseca dell’attività sanitaria e
al rilievo, anche costituzionale, a lei attribuito dall’ordinamento.
Prima di affrontare tale argomento, appare opportuno, al fine di completare il
discorso sul consenso, soffermarsi sulla questione, per la verità estranea alla vi-
cenda in esame, ma intimamente connessa con la problematica già discussa e pro-
pedeutica alle osservazioni che seguiranno, della rilevanza della volontà del pa-
ziente quando si manifesti in forma inequivocabilmente negativa e si concreti in
un rifiuto del trattamento terapeutico prospettatogli.
Qui il conflitto tra interessi individuali e interessi sociali si fa ancora più
acuto e lacerante.
È assai arduo suggerire per la sua risoluzione regole di comportamento di ca-
rattere generale, dovendosi avere riguardo soprattutto alle circostanze del caso
concreto.
Non sembra seriamente discutibile, tuttavia, che in una società ispirata al ri-
spetto e alla tutela della persona umana, quale portatrice di un patrimonio cultu-
rale e spirituale prezioso per l’intera collettività, non possa darsi assoluta preva-
lenza al valore sociale dell’individuo.
Sono da condividersi, sul punto, le considerazioni svolte da questa stessa
Corte nella sentenza n. 731 del 27 marzo 2001, secondo cui il medico non può
‘‘manomettere’’ l’integrità fisica del paziente, quale si presenta attualmente,
quando questi abbia espresso il suo dissenso, perché ciò sarebbe, oltre tutto, in
contrasto anche con il principio personalistico espressamente accolto dall’art. 2
della Costituzione, ma chiaramente emergente da una serie di altre disposizioni
della legge fondamentale.
Quella del malato deve essere, tuttavia, una scelta consapevole ed esente da
condizionamenti, interni o esterni, di qualsivoglia natura che possano inficiare il
naturale processo di formazione della volontà.

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Il medico non può limitarsi, pertanto, a informare dettagliatamente il paziente


di ciò che ha, ciò che lo aspetta e ciò che si può fare secondo la sua scienza e co-
scienza; di fronte a un atteggiamento esplicito e deciso dell’interessato, ha, altresì,
l’onere di verificare il concorso delle condizioni di cui s’è detto e in presenza di
una determinazione autentica e genuina non può che fermarsi, ancorché l’omis-
sione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento
dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte.
Si tratta evidentemente di ipotesi estreme che nella pratica raramente è dato
di registrare, se non altro perché chi versa in pericolo di vita o di danno grave alla
persona, a causa dell’inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malat-
tia, difficilmente è in grado di manifestare liberamente il suo intendimento.
Ma se così non è, il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e pro-
fessionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta e abbia anche
verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere
di nulla, giacché di fronte a un comportamento nel quale si manifesta l’esercizio di
un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contra-
rio diviene doverosa, potendo, diversamente, configurarsi a suo carico persino gli
estremi di un reato (art. 610 c.p.).
In nessun caso, però, quelli del delitto (art. 584 c.p.) contestato al Volterrani,
a meno che il chirurgo per gratuità malvagità o per odio verso il malcapitato capi-
tatogli tra le mani non approfitti dell’occasione per sfogare i suoi istinti sadici,
percuotendo o ferendo il corpo del paziente e cagionandone, sia pure involontaria-
mente, la morte.
Ma fuori di quest’ipotesi chiaramente romanzesca e anche di quella più fre-
quente, ma ugualmente anomala, della configurabilità a carico dell’operatore di
una responsabilità a titolo di colpa, anch’essa rilevante sul piano penale, ma sotto
un diverso profilo, deve decisamente escludersi che il medico possa essere chia-
mato a rispondere dei presunti danni cagionati alla vita o all’integrità fisica e psi-
chica del soggetto sul quale ha operato a regola d’arte.
Qui occorre fare una ulteriore precisazione.
Quando il chirurgo esegue, ad esempio, un’appendicectomia, taglia un pezzo
dell’intestino cieco marcito, impedendo che l’infezione si propaghi pericolosa-
mente, e cagiona, quindi, una lesione da cui non deriva l’insorgenza, ma l’elimina-
zione della malattia. Pone in essere, cioè, una condotta estranea allo schema legale
dell’art. 582 c.p.
Per ottenere questo risultato positivo egli è costretto, però, anche a incidere
l’addome dell’infermo, provocando con piena coscienza e volontà una ferita dalla
quale certamente deriva una malattia, consistente nella lacerazione del tessuto cu-
taneo e sottocutaneo, che richiede un certo tempo per rimarginare e che può an-
che lasciare una cicatrice indelebile.
Ma è ovvio che si tratta di un’attività strumentale, priva di una propria auto-
nomia funzionale, un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell’obiettivo
principale dell’intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge.
Anch’essa s’inserisce, dunque, a pieno titolo, nell’esercizio dell’azione tera-
peutica in senso lato, che corrisponde all’alto interesse sociale di cui s’è detto, in-
teresse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute rico-
nosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall’art. 32 della Costituzione della
Repubblica e lo fa, autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo svi-

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luppo e il perfezionamento degli organismi, delle strutture e del personale occor-


rente.
Per ciò stesso, questa azione, ove correttamente svolta, è esente da connota-
zioni di antigiuridicità anche quando abbia un esito infausto.
Ma tale impronta le deriva anche da un’altra elementare constatazione.
Nel caso in esame, la Corte di merito, valorizzando le particolari circostanze
storiche che caratterizzano la vicenda, ma cadendo in una certa contraddizione
con l’assunto, peraltro corretto, della mancanza nella condotta del Volterrani degli
elementi costitutivi del delitto concretato, ha ritenuto applicabile all’imputato l’e-
simente prevista dall’art. 54 c.p., la quale postula che il fatto sia conforme ad una
figura astratta di reato.
In realtà, la pratica sanitaria e specialmente quella chirurgica, salvo ipotesi
dalle quali esula l’intento di tutela della salute propriamente intesa, è sempre ob-
bligata, per non dire forzata.
Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non
opera per passare il tempo o sperimentare le sua capacità: lo fa perché non ha
scelta, perché quello è l’unico giusto modo per salvare la vita del paziente o al-
meno migliorarne la qualità.
Sembra lecito, allora, prospettare l’esistenza di uno stato di necessità generale
e, per così dire, ‘‘istituzionalizzato’’, intrinseco, cioè, ontologicamente, all’attività
terapeutica.
Ne consegue che quando il giudice di merito riconosca, in concreto, il con-
corso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con
la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica
medica deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause
di liceità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell’imputato,
cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera.
Alla luce delle considerazioni esposte, la decisione gravata appare sostanzial-
mente esatta e la parziale correzione in diritto della motivazione che la sorregge
non è causa di annullamento (Omissis).

——————
(1-2) Intervento chirurgico con esito infausto: non ravvisabilità dell’omicidio
preterintenzionale nonostante l’assenza di un consenso informato.

La Corte di cassazione in tre recenti sentenze (Cass. Sez. IV, 11 luglio 2001,
FIRENZANI, in Cass. pen., 2002, p. 2041; Cass. Sez. IV, 9 marzo 2001, BARESE, in
Cass. pen., 2002, p. 517 e nella pronunzia qui annotata che è la più recente) ha
preso in considerazione il problema della ravvisabilità del reato di lesioni dolose e
conseguentemente dell’omicidio preterintenzionale con riferimento ad interventi
chirurgici, per i quali il paziente non aveva prestato consenso o lo aveva prestato
in modo incompleto.
Le tre sentenze su un punto, peraltro di estrema importanza, sono perfetta-
mente concordi: quello di ritenere che l’attività del medico trovi in se stessa fonda-
mento e giustificazione. In altri termini, la liceità non deriva dal consenso dell’a-
vente diritto ma discende dal fatto che l’attività medica tutela il bene della salute
costituzionalmente garantito. Si tratta di una forma di autolegittimazione. Del re-

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sto, si soggiunge, il consenso dell’avente diritto non può giustificare l’attività me-
dica, dal momento che tale consenso incontra limiti ben precisi individuati dal-
l’art. 5 c.c., il quale vieta atti di disposizione del proprio corpo cagionanti una di-
minuzione permanente della integrità fisica. A sostegno di questa tesi comune alle
tre sentenze, si osserva in dottrina che, anche interpretando l’art. 5 c.c. in rela-
zione all’art. 32 Cost. (che prevede la tutela della salute come fondamentale di-
ritto dell’individuo e interesse della collettività), in modo da ritenere consentita
una deroga al principio della limitata disponibilità del proprio corpo allorquando
venga messo in pericolo il diritto alla salute, ‘‘rimangono in ogni caso situazioni,
come quelle del trattamento sanitario obbligatorio ex lege, o del paziente incapace,
anche per causa transitoria, di intendere e di volere, e perciò di consentire... in cui
la cura viene egualmente praticata, al di fuori del consenso, lecitamente’’ (IADE-
COLA, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del consenso nell’at-
tività chirurgica, in Cass. pen., 2002, p. 2046). L’inidoneità del consenso dell’a-
vente diritto a giustificare la liceità penale della attività medica spiega e rende ac-
cettabile la tesi della autolegittimazione.
Sulla base di questa premessa comune le tre decisioni della Cassazione non
hanno, peraltro, conclusioni uniformi. Infatti, la sentenza 11 luglio 2001, FIREN-
ZANI, per giustificare una condanna per lesioni colpose ravvisate in un intervento
chirurgico senza il consenso del paziente, ritiene che l’intervento chirurgico ese-
guito in assenza del consenso integri il reato di lesioni, che risulteranno colpose se
per errore colposo il chirurgo ritenga il consenso sussistente mentre dovranno rite-
nersi dolose se il chirurgo sia consapevole dell’assenza del consenso.
Questa decisione si pone, quindi, nell’ordine di idee della sentenza Cass. Sez.
V, 21 aprile 1992, MASSIMO, in Cass. pen., 1993, p. 63, che ha ritenuto configura-
bile l’omicidio preterintenzionale nell’ipotesi di intervento chirurgico senza con-
senso informato e con esito infausto. Peraltro, la sentenza Massimo non partiva
dalla premessa sopra indicata e, quindi, non asseriva l’autolegittimazione della at-
tività medica.
La tesi sostenuta nelle due sentenze Massimo e Firenzani porta a ravvisare il
reato di lesioni dolose anche nell’ipotesi di intervento chirurgico con esito fausto
ma effettuato senza un completo consenso. Per giungere a tale conclusione è ne-
cessario sostenere (come, appunto, sostengono le pronunzie predette) che per la
configurabilità delle lesioni è sufficiente quella necessaria effrazione dell’integrità
fisica costituente il presupposto dell’intervento chirurgico e, pertanto, negare che
la nozione di malattia ricomprenda necessariamente una menomazione funzionale
dell’organismo. In altri termini, per individuare la malattia sarebbe sufficiente una
alterazione cruenta dello stato fisico del paziente senza che sia necessario un peg-
gioramento o un pregiudizio per la salute.
È, però, significativo notare come queste sentenze si riferiscano a situazioni
del tutto anomale, veri e propri casi limite, in cui la gravità della situazione non
era certo data dalla carenza del consenso. La sentenza Massimo riguardava l’inter-
vento su una paziente molto anziana, che non solo aveva reiteratamente precisato
che rifiutava un intervento chirurgico consentendo unicamente ad una resezione
endoscopica, ma che effettivamente non necessitava per l’asportazione del polipo
diagnosticato di un intervento chirurgico, essendo sufficiente la mera resezione
endoscopica. Il chirurgo, nonostante il dissenso esplicito più volte manifestato e
nonostante l’inutilità dell’intervento chirurgico, aveva effettuato un intervento de-
molitivo di amputazione di intestino retto, che aveva determinato la morte della
paziente. La sentenza Firenzani esamina, invece, il comportamento del chirurgo
che, dovendo intervenire sul ginocchio sinistro oggetto di precedenti accertamenti
determinati da forti dolori, aveva operato per errore il ginocchio destro. Le tesi so-

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stenute in queste due sentenze non possono non essere state influenzate dalla ma-
croscopica gravità delle situazioni prese in esame.
La sentenza Barresi e la sentenza Volterrani, portando alle logiche conse-
guenze la tesi della autolegittimazione, negano che l’attività medica esercitata in
assenza di consenso informato renda possibile, unicamente per l’assenza del con-
senso, la configurabilità delle lesioni dolose e, quindi, ove si verifichi l’evento
morte, quella dell’omicidio preterintenzionale. Infatti, appare non coerente soste-
nere l’autolegittimaziome dell’attività medica in quanto attività socialmente utile e
diretta a concretare un diritto sancito dalla Costituzione e, poi, ravvisarvi un de-
litto per l’assenza del consenso da parte del soggetto che beneficia di tale attività
(v. IADECOLA, Sugli effetti penali, cit., p. 2049).
Inoltre, la nozione di malattia, è stato giustamente osservato, ha da essere
quella fornita dalla scienza medica e, quindi, nel caso di intervento chirurgico, alla
alterazione anatomica deve seguire una alterazione funzionale ‘‘con pregiudizio ef-
fettivo della salute fisica o mentale’’ non certamente ravvisabile nell’ipotesi di in-
tervento chirurgico, che rechi beneficio al paziente migliorando le sue condizioni
di salute (IADECOLA, Sulla configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale
in caso di trattamento medico con esito infausto praticato al di fuori dell’urgenza
e senza consenso del paziente, in Cass. pen., 2002, p. 532). Ne segue che, nell’i-
potesi di intervento chirurgico con esito favorevole, l’impossibilità di ravvisare il
reato di lesioni discende dalla insussistenza dell’evento naturalistico ‘‘malattia’’.
Né è dato ravvisare l’elemento soggettivo del reato. Infatti, il chirurgo che
agisce per migliorare le condizioni fisiche del paziente non si rappresenta in modo
diretto l’evento naturalistico ‘‘malattia’’ nel senso sopra precisato, il che esclude la
ravvisabilità dell’elemento soggettivo in quanto il dolo del delitto di lesioni pur es-
sendo un dolo generico è giustamente ritenuto in giurisprudenza un dolo diretto,
vale a dire un dolo denotante ‘‘tensione aggressiva’’. Il soggetto agente, cioè, deve
rappresentarsi il pregiudizio per la salute del soggetto passivo del reato, il che cer-
tamente non si verifica nel caso di intervento chirurgico eseguito seguendo le ‘‘re-
gole dell’arte’’. Tale ‘‘tensione aggressiva’’, necessaria per la individuazione del
dolo, risulta ulteriormente accentuata per quanto concerne l’omicidio preterinten-
zionale. Infatti, l’art. 584 c.p., richiedendo che gli atti determinanti la morte deb-
bano essere ‘‘diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli artt. 581 e 582
c.p.’’, esige il requisito della univocità degli atti costituente una delle connotazioni
del delitto tentato previsto dall’art. 56 c.p. Ciò significa che, per l’integrazione del-
l’omicidio preterintenzionale, la condotta deve essere rivolta in maniera univoca
alla realizzazione di uno dei reati previsti dagli artt. 581 e 582 c.p. e tale connota-
zione deve riflettersi nella rappresentazione del soggetto agente per la ravvisabilità
del dolo. Il che esclude il dolo nel comportamento del chirurgo che, sia pure senza
consenso informato, effettui un intervento chirurgico diretto a migliorare le condi-
zioni fisiche del paziente.
La sentenza annotata, che è anche, come si è detto, la più recente delle pro-
nunzie sopra ricordate, appare particolarmente drastica nell’escludere la ravvisa-
bilità di un reato nel comportamento del medico che agisca ‘‘lege artis’’. Infatti,
nel caso di specie il giudice di merito aveva ritenuto sussistente la scriminante
dello stato di necessità prevista dall’art. 54 c.p. ma la Suprema corte ha ritenuto
di correggere in diritto la motivazione asserendo che quando il giudice di merito,
chiamato a giudicare la condotta di un chirurgo che abbia effettuato senza con-
senso informato un intervento con esisto infausto, ‘‘riconosca, in concreto, il con-
corso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con
la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica
deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di liceità

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codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell’imputato, cui sia


stato addebitato il fallimento della sua opera’’.
A questo punto, si pone il problema di quale sia la portata del consenso del
paziente posto che si ritiene, peraltro, che l’attività medica necessiti di tale con-
senso. Al riguardo, si osserva che il consenso del paziente ‘‘deve ritenersi integrare
un requisito di legittimità o di liceità dell’attività stessa, che la rende pienamente
conforme a legge: si potrebbe dire che la potestà di curare — che spetta al medico
ex se ‘per il fatto di essere tale’ — consista nella titolarità di una situazione giuri-
dica soggettiva che non ha la pienezza del diritto, o che per lo meno è un diritto
fievole, o condizionato, e che necessita, per la sua concreta legale espansione,
della acquisizione del consenso del malato, che sortisce allora l’effetto di rimuo-
vere un limite rispetto al suo esercizio’’ (IADECOLA, Sulla configurabilità, cit., p.
530). La funzione del consenso del paziente non serve, quindi, per quanto con-
cerne l’esistenza di un illecito penale a giustificare una attività medica, che si legit-
tima da sola in quanto socialmente vantaggiosa, ma ha unicamente il limitato ef-
fetto sopra indicato. Ciò comporta che l’attività medica effettuata senza consenso
informato e compiuta secondo le ‘‘regole dell’arte’’ non potrebbe mai integrare un
illecito penale in quanto, a nostro avviso, non sarebbe ravvisabile neppure il de-
litto di cui all’art. 610 c.p., che tutela la libertà morale del soggetto, per la diffi-
coltà di configurare un forma di violenza sia pure impropria nella condotta del
medico. Ci si trova di fronte ad una lacuna legislativa, per colmare la quale si sa-
rebbe dovuta introdurre quella fattispecie autonoma di reato proposta dalla Com-
missione Pagliaro nel 1992 per la punizione del trattamento sanitario praticato
senza il consenso (proposta che prevedeva la perseguibilità a querela e, nel con-
tempo, la esclusione della punibilità allorquando l’attività medica comportasse un
vantaggio e non risultasse nessun effettivo pregiudizio alla persona).
A sostegno delle conclusioni a cui giunge la sentenza annotata è dato rilevare
che la tesi sostenuta nella sentenza Massimo porta a ravvisare un vizio di legitti-
mità costituzionale. Come è noto la Corte costituzionale con la sentenza 25 luglio
1994, n. 341, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 341 comma 1 c.p.,
per contrasto con gli artt. 3 e 27 comma 3 Cost., nella parte in cui detta norma
prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei. Al fine di giustificare
siffatta declaratoria di illegittimità costituzionale, si è osservato nella motivazione
che, pur dovendosi riconfermare che appartiene alla discrezionalità del legislatore
la determinazione della qualità e della quantità della sanzione penale (in quanto
non compete certamente alla Corte ‘‘rimodulare le scelte punitive effettuate dal le-
gislatore né stabilire quantificazioni sanzionatorie’’), cionondimeno spetta certa-
mente alla Corte costituzionale valutare il rispetto del principio di eguaglianza di
cui all’art. 3 Cost., il quale esige che ‘‘la pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel con-
tempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individua-
li’’. Vale a dire la qualità e quantità della pena sono il risultato di un potere discre-
zionale riservato al legislatore, il cui esercizio può, però, essere censurato dalla
Corte costituzionale ove non ‘‘sia stato rispettato il limite della ragionevolezza’’.
Rileva, altresì, la Corte che la finalità rieducativa della pena prevista dall’art.
27 comma 2 Cost. implica un costante principio di proporzione ‘‘tra qualità e
quantità della sanzione, da una parte, e offesa dall’altra’’.
Con riferimento al caso di specie, la Corte osservava che è pur vero che la di-
sparità della sanzione tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria era dovuta alla
diversa qualità del soggetto passivo ma la plurioffensività del reato di oltraggio,
pur rendendo accettabile un trattamento sanzionatorio più grave di quello previsto
per l’ingiuria, non giustificava sotto il profilo della ragionevolezza e, quindi, del ri-
spetto del principio di eguaglianza, un minimo edittale di sei mesi di reclusione.

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Se questo tipo di argomentazioni viene rapportato a situazioni in cui il chirurgo


opera senza consenso informato e si ritenga il chirurgo responsabile di lesioni do-
lose e, in caso di morte del paziente, di omicidio preterintenzionale, non v’è dub-
bio che il vizio di legittimità costituzionale appaia molto più vistoso di quello rav-
visato dalla sentenza 341/1994 della Corte costituzionale. Si faccia il caso di una
appendicectomia, nel corso della quale il chirurgo accerti la presenza non prevista
né prevedibile di un tumore intestinale di natura benigna, che potrebbe asportarsi
senza alcun pericolo in un intervento successivo dopo aver richiesto ed ottenuto il
consenso del paziente. Se, in questa situazione, il chirurgo estirpi, ovviamente
senza consenso, con un intervento ineccepibile il tumore, si dovrebbe ravvisare nel
suo comportamento, ove si segua la tesi criticata, il reato di lesioni dolose e, nel
caso sopraggiunga la morte del paziente, per circostanze obbiettive ed imprevedi-
bili senza la minima colpa del chirurgo, si dovrebbe ravvisare un omicidio prete-
rintenzionale.
Ciò significa che il chirurgo che ha effettuato un intervento lege artis per mi-
gliorare le condizioni fisiche del paziente ed al solo fine di evitargli un secondo in-
tervento chirurgico, è passibile della pena prevista dall’art. 584 c.p., che ha come
minimo edittale dieci anni ed un massimo di anni diciotto: la stessa pena irroga-
bile al volgare teppista che con atti diretti a cagionare una lesione dolosa provochi
la morte di una persona. Un infortunio terapeutico, nel quale non sia ravvisabile
nessuna forma di imperizia, imprudenza o negligenza, per il solo fatto, come nel
caso Volterrani, di essere stato effettuato senza un consenso informato completo
(incompletezza diretta ad evitare al paziente lo stato di gravissima ansia, in cui lo
avrebbe gettato la notizia di essere affetto da una forma di cancro quale quello al
pancreas, che non lascia adito a speranze), viene punito con una pena fissata nel
minimo a dieci anni di reclusione alla stessa stregua del comportamento dell’indi-
viduo, che manifesta la sua passione sportiva accoltellando allo stadio il sosteni-
tore della squadra avversaria e ne provoca la morte. Le argomentazioni della
Corte costituzionale dirette a dimostrare la violazione degli artt. 3 e 27 comma 2
Cost. appaiono con riferimento a questa situazione ben più pregnanti e significa-
tive.
Orbene, dal momento che l’interprete, allorquando la norma consenta più in-
terpretazioni, ha l’obbligo di effettuare l’esegesi idonea a ricondurre la norma nel-
l’ambito dell’ortodossia costituzionale, deve ritenersi che nel comportamento del
chirurgo che agisce senza consenso informato non sia dato ravvisare il delitto di
lesioni dolose e conseguentemente quello di omicidio preterintenzionale.
GILBERTO LOZZI

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d) Giudizi di merito

CORTE D’APPELLO DI MILANO — 4 aprile 2002


Pres. e Rel. Pesce — P.M. (concl. diff.)
Imp. G.A. ed altri

Imputabilità - Minore età - Maturità - Vizio di mente - Pericolosità sociale - Mi-


sure di sicurezza (C.p. artt. 88, 89, 98, 224; d.P.R 22 settembre 1988, n. 448,
artt. 36, 37, comma 2).

I disturbi della personalità tali da comportare vizio parziale di mente necessi-


tano cure ed interventi psicoterapeutici che appaiono attuabili, per il minore so-
cialmente pericoloso, solo attraverso la misura del riformatorio giudiziario da ese-
guirsi nelle forme del collocamento in comunità. Pertanto, la sussistenza di pato-
logie rilevanti ai sensi dell’art. 89 c.p., comporta la conferma dell’applicazione
della suddetta misura già disposta in primo grado, anche quando il minore fosse
stato in tale sede ritenuto non imputabile ai sensi dell’art. 88 c.p. (1)

(Omissis). — FATTO e SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Suor Maria Laura, al


secolo Teresina Mainetti, era la Madre Superiora della Comunità religiosa dell’Im-
macolata in Chiavenna, appartenente alla Congregazione delle Figlie della Croce,
dette suore di S. Andrea. Prodigava da decenni appassionato impegno in campo
sociale. Era conosciuta soprattutto per l’abnegazione con cui offriva il suo soste-
gno ai giovani in difficoltà, e fu trovata morta ammazzata all’alba del 7 giugno del
2000.
L’avevano aggredita a colpi di pietra lungo una via periferica della sua citta-
dina, alle pendici del parco naturale delle Marmitte dei Giganti, ed accoltellata sel-
vaggiamente più e più volte. Era morta dissanguata tra le ore 22 e le 22.30 della
sera precedente.
Le indagini prontamente avviate, condotte attraverso deposizioni testimoniali,
rilievi anagrafici, intercettazioni e analisi di tabulati telefonici sterminati, perquisi-
zioni e quant’altro, consentirono di identificare ben presto in G.A., D.M. e P.V. le
autrici del feroce delitto: tre studentesse del luogo, tutte con problemi scolastici ed
appartenenti a famiglie difficili, in apparenza tuttavia normali, senza ragioni per
far del male ad alcuno, tanto meno per uccidere.
Poste di fronte alle risultanze investigative, la D.M. e la P.V. quest’ultima con
qualche resistenza iniziale, confessavano fornendo ciascuna la propria descrizione
dei fatti, l’una sostanzialmente compatibile con l’altra. La G.A. esordiva negando
ogni responsabilità e sostenendo d’aver solo assistito all’esecuzione senza parteci-
pare e senza sapere. In seguito ammetteva d’essere stata della partita.
Emersero motivazioni che destarono e destano sgomento: un sacrificio a Sa-
tana di cui in qualche modo professavano il culto, oppure una ‘‘pensata’’ per scon-
figgere la noia, semplicemente, oppure entrambe le ragioni.
Così esse furono tratte a giudizio per rispondere del reato di omicidio aggra-
vato dalla premeditazione e dai motivi abbietti e futili; nonchè degli altri reati di

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cui all’imputazione, pure confessati: per aver portato fuori dalla propria abita-
zione nell’occasione del delitto due coltelli, armi da punta e da taglio; per aver
fatto la stessa cosa tre giorni prima, sempre al fine di uccidere la religiosa alla
quale D.M. sotto il falso nome di Erica, aveva telefonicamente dato appuntamento
dicendosi bisognosa di aiuto: intento non potuto realizzare perché suor Maria
Laura, insospettita dalla inconsueta richiesta, aveva invitato un’amica, Elide
Luzzi, a transitare come per caso sul luogo dell’incontro, e questo aveva vanificato
il piano; per il danneggiamento di varie autovetture parcheggiate sulla pubblica
via in Chiavenna il 13 maggio 2000; per avere sottratto il giorno stesso un cane a
tale Silvano Scinetti che l’aveva lasciato all’interno della sua automobile; per il
tentativo effettuato di seviziare e sacrificare a Satana il povero animale che però
era riuscito a liberarsi ed a fuggire.
La G.A. e la D.M. erano altresì accusate d’aver trafugato, in concorso con
tale P.N. ed altra minore non identificata, una Bibbia dalla Chiesa di San Lorenzo
in Chiavenna il 14 ottobre 1998, e per avere successivamente dato fuoco a quel
volume, ancora in omaggio a Satana.
Il Pubblico ministero proseguiva nelle indagini e procedeva agli interrogatori
avvalendosi dell’assistenza della pedagogista dott.ssa Giovanna Cattaneo; dispo-
neva altresì consulenza psicologica e psichiatrica a mezzo del dott. Massimo Pi-
cozzi e della dott.ssa Roberta Perduca.
Successivamente il G.U.P., espletato l’esame delle imputate, accoglieva la ri-
chiesta che il processo si svolgesse con il rito abbreviato e, ritenendo necessario
un approfondimento di natura psichiatrica che più compiutamente definisse le
condizioni mentali delle imputate stesse all’epoca dei fatti, disponeva perizia no-
minando a tal fine il dott. Ugo Sabatello ed i professori Adolfo Francia e Simone
Vender.
La Difesa di ciascuna delle prevenute veniva affiancata da un consulente di
parte: il dott. Franco Martelli per P.V., la dott.ssa Valeria La Via per D.M., il dott.
Mario Mantero per G.A.
Al giudizio presenziavano le parti offese a sensi dell’art. 31 d.P.R. n. 448 del
1988 in relazione all’art. 90 c.p.p.
Con sentenza del 9 agosto 2001, il G.U.P. presso il Tribunale per i Mino-
renni, riconosciuta G.A. totalmente inferma di mente, la assolveva per tale ragione
da tutti i reati a lei ascritti, eccettuato quello di cui all’art. 424 c.p. in ordine al
quale la formula assolutoria era per insussistenza del fatto. Per la G.A. veniva
dunque dichiarata la cessazione della misura cautelare della custodia in carcere,
applicata la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario da eseguirsi nelle
forme del collocamento in comunità per un periodo non inferiore a tre anni, di-
sposta con separata ordinanza, secondo richiesta del Pubblico ministero, l’applica-
zione provvisoria della stessa misura che, successivamente, con sentenza del 12
ottobre 2001, il Tribunale per i Minorenni disponeva in via definitiva.
D.M. e P.V. erano giudicate affette da vizio parziale di mente: dichiarate dun-
que responsabili dei reati loro ascritti, escluso quanto alla D.M. come per la G.A.
quello di cui all’art. 424 c.p., e applicata la diminuente della minore età e l’altra di
cui all’art. 89 c.p., concesse le attenuanti generiche, espresso giudizio di preva-
lenza sulle contestate aggravanti, ritenuti i reati stessi unificati dal vincolo della
continuazione ed operata la riduzione per la scelta del rito abbreviato, venivano
condannate rispettivamente alla pena di anni 8, mesi 6 e giorni 20 di reclusione,

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ed a quella di anni 8 e mesi 6 di reclusione. Ad entrambe era inflitta la pena acces-


soria della interdizione triennale dai pubblici uffici ed applicata la misura di sicu-
rezza del riformatorio giudiziario da eseguirsi con le forme del collocamento in co-
munità per un periodo non inferiore a tre anni.
Proponevano appello il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
Minorenni, la D.M. e la P.V.
La Difesa della D.M. chiedeva che fossero riconosciuti per la propria assistita
il vizio totale di mente e l’inesistenza della ritenuta pericolosità sociale, con le con-
sequenziali pronunce, prevî ulteriori accertamenti peritali; che fosse esclusa l’ag-
gravante della premeditazione e riconosciuta invece l’attenuante di cui all’art. 114
c.p., cosicché la pena potesse essere, in via subordinata, diminuita e condotta ad
equità. Allo stesso fine instava perché le riduzioni di pena a sensi degli artt. 98,
62-bis, 89 e 114 c.p. si computassero nella massima estensione. Domanda di con-
tenimento al minimo veniva proposta anche con riguardo agli aggravi di pena a
mente dell’art. 81 c.p. nonché alla applicata misura di sicurezza. Contestava an-
cora che il G.U.P., pur non richiesto, avesse preso in esame il problema dell’even-
tuale messa alla prova ritenendo poi non concedibile il beneficio senza sentire le
Difese sul punto né il Pubblico ministero; quindi proponeva domanda nel senso
della concessione da parte della Corte d’appello.
Anche la Difesa della P.V. formulava richiesta che venisse a costei ricono-
sciuta l’incapacità totale di intendere e di volere con conseguente assoluzione, e
fosse esclusa l’applicazione di misure di sicurezza in considerazione dell’asserita
assenza di pericolosità sociale. Assumeva esser necessario procedere al riguardo
ad ulteriori approfondimenti peritali.
Chiedeva in subordine la rideterminazione della pena al minimo anche me-
diante applicazione dell’ulteriore attenuante di cui all’art. 114 c.p.
Il Procuratore della Repubblica focalizzava il gravame sull’assoluzione di
G.A. e, argomentando dalle motivazioni del crimine, ricollegantisi a suo avviso in
modo prevalente o esclusivo alla tematica demoniaca, chiedeva che la giovane
fosse riconosciuta pienamente capace di intendere e di volere e condannata, con la
concessione delle attenuanti generiche e della diminuente della minore età — da
ritenere peraltro equivalenti rispetto alle contestate aggravanti — alla pena richie-
sta in primo grado (anni 15 e mesi 4 di reclusione) ovvero a quella che sarebbe
stata proposta in udienza; con ripristino della misura cautelare in atto al momento
della decisione di primo grado.
Per la P.V. e la D.M. instava perché il giudizio del G.U.P. di prevalenza delle
attenuanti e della diminuente ex art. 98 c.p. rispetto alle aggravanti fosse disatteso
dalla Corte e si ritenesse invece l’equivalenza, con conseguente aggravamento
della pena e con differenziazione tra le imputate nella determinazione della stessa,
dovendo essere a suo parere riconosciuto il ruolo primario e di comando della
P.V. nella preparazione ed attuazione del delitto.
Pervenivano nelle more le relazioni dai vari Istituti di internamento delle pre-
venute: dall’I.P.M. di Nisida si dà atto del buon inserimento della D.M. nella strut-
tura carceraria, della sua partecipazione alle varie attività di lavoro e ricreative
proposte, persino della ripresa degli studi, del suo adattamento alle regole. L’im-
putata viene definita nella relazione intelligente e perspicace pur se rimangono
fermi elementi di conflittualità interna e di immaturità che potranno essere supe-
rati solo col tempo. Ha l’assistenza di un’educatrice e di un psicologo con cui va

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affrontando i vari problemi quale quello della sfiducia di base che l’accompagna
nella relazione con l’adulto. Ha iniziato un lento processo di revisione del suo pas-
sato cercando anche di assumere nei confronti di se stessa le proprie responsabi-
lità.
Dall’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo si descrive il percorso tratta-
mentale attuato per P.V. dalla fase iniziale connotata da blocchi paralizzanti e
paure ed estrema difficoltà di comunicazione; a quella successiva in cui fu possi-
bile avviare una relazione proficua con gli operatori e farla partecipare ad attività
formative e ricreative mentre si intraprendeva il trattamento psicoterapeutico ad
orientamento analitico; al periodo che immediatamente precedette la condanna di
primo grado, caratterizzato da una crescente apertura e mobilizzazione affettiva e
di costruzione di senso nella sua vita mentale, da un percorso lento, difficile, fati-
coso, ancora molto instabile e fragile, ma continuo e costante; alla fase attuale, in
cui prosegue il trattamento psicoterapico, si intensificano le attività educative, e si
è anche prevista l’iscrizione ad un liceo artistico romano per favorirne la ripresa
scolastica nella prospettiva di un percorso di recupero a lungo termine.
Dalla Comunità Irene di Arluno, ove recentemente la G.A. è stata trasferita,
giunge notizia della sua capacità di adattarsi alla nuova situazione e di relazionarsi
correttamente con operatori e compagne. L’imputata è descritta come estrema-
mente fragile, manifesta fortissimi sensi di colpa e contrasti interiori. Ha ripreso
gli studi con assiduità ed interesse. È sottoposta a trattamento psicoterapico e psi-
chiatrico, la ricostruzione di se s’intravede possibile. In precedenza, dall’I.P.M. to-
rinese Ferrante Aporti, ove era stata inizialmente ristretta, s’era data notizia di
gravi condizioni di disagio psicologico che dal gennaio 2001 avevano preso a ma-
nifestarsi in lei, con episodi di alterazione dello stato di coscienza frequenti e di
varia durata, i quali ne avevano consigliato il ricovero presso il reparto psichia-
trico dell’ospedale Mauriziano di Torino. La relazione 13 marzo 2002 della Comu-
nità Irene non riferisce di analoghi episodi successivi, mentre l’ultima, datata 28
marzo 2002, informa di una ripresa dei fenomeni allucinatori all’approssimarsi
della data del processo d’appello.
All’udienza partecipavano tutte le imputate che, a tal fine invitate, faticosa-
mente e in tono dimesso, rilasciavano brevi dichiarazioni.
Presenziavano ancora le parti offese assistite da legali.
Gli operatori dei vari Istituti confermavano le relazioni surriferite.
Il difensore di G.A. chiedeva la reiezione del gravame e, in subordine, la so-
spensione del processo per messa alla prova della sua assistita, con istanza altresì
di eventuale riaudizione dei periti o di rinnovamento degli esami. Chiedeva che in
caso di condanna la pena fosse contenuta in prossimità del minimo e venisse co-
munque disposto il collocamento della giovane in comunità.
Gli altri difensori concludevano come in epigrafe, riportandosi ai rispettivi
atti d’impugnazione e richiedendo che l’appello del Pubblico ministero presso il
Tribunale per i Minorenni, proposto nei confronti delle loro assistite, fosse dichia-
rato inammissibile.
Il Procuratore generale modificava in parte le conclusioni di cui all’atto d’im-
pugnazione instando, tra l’altro, per la dichiarazione di inammissibilità dell’ap-
pello, a sensi dell’art. 443, comma 3 c.p.p., con riferimento alle due imputate con-
dannate.

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MOTIVI DELLA DECISIONE. — Devono essere innanzi tutto disattese le richieste


svolte in via preliminare di rinnovazione dell’istruttoria, di riesame di consulenti e
periti, di espletamento d’ulteriori indagini.
Il materiale acquisito agli atti, probatorio o valutativo, è amplissimo se non
eccessivo, le informazioni fornite dagli operatori degli Istituti che hanno ospitato o
che ospitano le imputate sono esaurienti; si ritiene che ogni altra acquisizione non
solo non fornirebbe apporti decisivi ma contribuirebbe ad accrescere il polverone
che in qualche misura s’è determinato, pur se non ne risulta fortunatamente com-
promessa, ad avviso della Corte, la possibilità di pervenire ad un corretto giudizio
su ciascuna delle questioni in esame.
Va premesso al merito che l’impugnazione svolta dal Pubblico ministero
presso il Tribunale per i Minorenni nei confronti di P.V. e D.M. è inammissibile a
termini dell’art. 443 comma 3 c.p.p. per il quale, ove il processo in primo grado si
sia svolto con il rito abbreviato, il Pubblico ministero non può proporre appello
contro le sentenze di condanna.
L’eccezione è stata formulata dallo stesso rappresentante dell’accusa in se-
condo grado e ad essa hanno naturalmente aderito le Difese.
Ciò significa che è preclusa alla Corte la possibilità di reformatio in pejus
della sentenza del G.U.P. anche se la posizione delle due imputate dovrà essere
comunque esaminata per dare risposta alle numerose richieste difensive volte ad
ottenere l’assoluzione o in subordine l’attenuazione delle pene e delle misure di si-
curezza.
Il più dolente tra i numerosi punti in cui la vicenda dell’assassino di Chia-
venna si scompone concerne la capacità di intendere e di volere delle tre autrici
del crimine. Capacità esclusa completamente dal primo giudice per G.A. e ritenuta
grandemente scemata e tuttavia sussistente per le coimputate. Si discute inoltre in
merito alla contestata pericolosità sociale e dunque all’applicabilità delle misure di
sicurezza che il G.U.P. ha ritenuto necessario adottare nei confronti di tutte.
In ordine al problema della capacità si rilevano discordanze non lievi tra gli
esperti, quelli del Giudice, il quale con ampia motivazione li ha in buona misura
disattesi, quelli del Pubblico ministero e quelli nominati dai difensori; nondimeno
la Corte, non in virtù del mito del giudice perito dei periti, né adagiandosi sulla
teorica maggiore o minor dignità di questo o quell’elaborato, ma avvalendosi delle
competenze in campo psichiatrico e psicologico dei propri componenti laici, e va-
lutando con attenzione ogni utile elemento desumibile da tutte le valutazioni tec-
niche in atti, ritiene di poter convenientemente orientarsi nell’intrico.
Naturalmente il quesito sulla capacità si intreccia con quello sulla maturità,
trattandosi di processo minorile, e la trattazione è unitaria attenendo entrambi i
problemi allo sviluppo, più o meno carente nei minori, delle possibilità conoscitive
e volitive e di comprensione di valori e disvalori sociali; senza ignorare il carattere
relativo del concetto di imputabilita minorile ed il tipo di reato di cui si tratta, dal
disvalore immediatamente percepibile a livello elementare.
D.M.
È sostanzialmente univoco il giudizio dei periti e dei consulenti sul grave di-
sturbo di personalità della D.M. giovane peraltro adeguatamente dotata sotto l’a-
spetto intellettivo tanto da essere definita, nell’ultima relazione, intelligente e per-
spicace. Problemi relazionali presenti sin dalla prima infanzia, vicissitudini fami-
liari negative ed esperienze abbandoniche, marcata inadeguatezza di entrambe le

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figure genitoriali caratteristica molto frequente in questi casi e ritenuta eziologica-


mente rilevante — nonché un certo clima pervaso di fascinazione per l’occulto vis-
suto da sempre, inerendo a soggetto evidentemente privo di adeguate difese,
hanno comportato una crescita disarmonica e concorso a strutturare tratti para-
noidei cui vanno ricollegati i comportamenti trasgressivi verso se stessa (automuti-
lazione) e gli altri, attraverso un rinforzo del gruppo dei pari. La diagnosi, che so-
stanzialmente si condivide, è quella di importante disturbo di personalità di tipo
borderline con presenza di aspetti narcisistici e depressivi e fasi di disturbi psico-
tici transitori.
Si può allora, senza perplessità, concludere, con i periti ed i consulenti, che la
capacità di intendere dell’imputata era all’epoca della perpetrazione del crimine
grandemente diminuita; e che proprio in considerazione della descritta patologia,
è prevedibile che D.M. possa indursi o essere indotta, specie in ipotesi di costitu-
zione di altro gruppo similare, a nuovi atti di violenza verso l’esterno o a manife-
stazioni di grave autolesionismo. Sicché deve essere riconosciuta ed affermata la
rilevante pericolosità sociale di lei.
Molto s’è argomentato sul fatto che all’interno della struttura carceraria di
Nisida il comportamento della D.M. è corretto, quasi esemplare; si è anche ap-
presa la notizia, per qualche verso sconcertante, di una borsa di studio accordatale
dal Banco di Napoli evidentemente per meriti scolastici, ma tutto ciò non stupisce
affatto. La pericolosità deriva infatti dallo stato patologico che permane e per-
marrà a lungo, ed il carcere, fungendo da contenitore forte, costituisce la miglior
garanzia che le spinte criminali, solo assopite, non riesplodano.
Non concordano invece i professionisti che a livello psichiatrico si sono inte-
ressati del delitto di Chiavenna sull’esistenza della capacità di volere della D.M. al
momento del delitto. Se i consulenti del Pubblico ministero la giudicano grande-
mente scemata, al pari della volontà di intendere, i periti del G.U.P. l’escludono
del tutto poiché le dinamiche patologiche del gruppo avrebbero in tal misura com-
presso lo spazio di espressione della sua individualità da ottunderne ogni facoltà
sostituendo a lei ed alle amiche una sorta di mostro multicefalo proiettato in modo
incontrollabile verso l’obbiettivo di morte.
A parere della Corte il potere delle suddette dinamiche sulla volontà è stato
sopravvalutato dai periti. Il forte condizionamento operato dal gruppo appare
certo; ma se i comportamenti posti in essere dalle prevenute denotano l’esistenza
di psichismi complementari, di storie e patologie simili, di una innegabile ricerca
di condivisione e reciproco sostegno, in nessun caso ed in nessun momento è dato
constatare quel totale annullamento di personalità che si vorrebbe, quasi la fu-
sione magica di tre ‘‘umani’’ nel cerbero infernale che tutto divora. Non per i
tempi di frequentazione, posto che tra l’altro il gruppo era di formazione recente;
non per una ‘‘esclusività’’ che invero non esisteva, come dimostrano i fatti di cui
ai reati sub D) e G) in cui altri soggetti risultano aggregati ovvero manca una delle
tre, o come attesta l’episodio che vedremo della partecipazione di una quarta
amica ad un rito di iniziazione satanica; non per la specificità dei rapporti, dato
che ciascuna delle giovani viveva una propria vita senza particolari coinvolgimenti
delle altre; non infine per le aspirazioni d’un futuro anche prossimo, per il quale
non pare che D.M. ipotizzasse spazi particolari per la P.V. e per la G.A. così come
costoro non ne ipotizzavano per lei.
Questa formazione d’urto, creata con propositi non precisi al principio e

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quindi rapidamente delineati, purtroppo, nella direzione che tutti conosciamo,


ebbe indubbia rilevanza nello svolgersi degli eventi. Ma la dinamica di cui si tratta
è normalmente ravvisabile ove si formi un’aggregazione operativa, quale che sia il
proposito che la solleciti, nel bene e nel male; pur se in occasione dell’assassinio di
suor Maria Laura divenne d’evidenza drammatica proprio in forza delle accertate
patologie che inducevano oltre la norma le tre ragazze ad un legame tenace. È
quanto mai probabile che nessuna delle tre, da sola, avrebbe ucciso, ma anche
questo è motivo ricorrente ove vi sia concorso di più persone in attività criminose.
Si può indubbiamente affermare che nel nostro caso l’aggregazione fu più del
normale un moltiplicatore di energie e di determinazione criminale. Non è possi-
bile tuttavia moltiplicare l’inesistente né trasformarlo. La volontà e quasi urgente
necessità di mettere in atto comportamenti catartici volti a superare l’ansia deri-
vata dall’insoddisfazione e dal senso di esclusione fu volontà e necessità di cia-
scuna componente del gruppo, il quale, assommatele ne fu poi fatalmente l’ampli-
ficatore.
Sul punto ritiene pertanto la Corte di accedere alla valutazione dei consulenti
del Pubblico ministero giudicando grandemente scemata ma non assente la capa-
cità di volere della D.M.
P.V.
Si tratta di un soggetto intellettivamente normodotato sul quale hanno ampia-
mente influito in negativo le disfunzionalità familiari, la discontinuità dei riferi-
menti, la confusione dei ruoli. Gli effetti sulla sua personalità in evoluzione sono
stati senza dubbio destabilizzanti e ne danno ragione i sintomi presenti, umore de-
presso, chiusura autistica, indifferenza, atti antisociali, alcolismo, autolesionismo,
ideazione paranoide e suicidaria.
Colpisce in particolare l’aspetto dell’autolesionismo, che è presente anche per
la D.M. e la G.A. ma del quale si accenna in questo paragrafo perché il fenomeno
riguarda in particolare la P.V. Per costei la pratica in oggetto costituisce una reale
forma di scarico e tensione: le ferite provocate con tagli o le ustioni rispondono ad
un bisogno di autopunizione e allo stesso tempo di sollievo dalle dolorose tensioni
dell’angoscia e della depersonalizazione. Il sangue è visto anche nel suo aspetto
simbolico e per le ritenute virtù taumaturgiche. Le cicatrici sono segno perma-
nente, fisico del dolore e delle ferita ma anche della guarigione.
Il significato simbolico all’interno dello scambio relazionale e l’unico che
sembra interessare invece la D.M. come pure la G.A. la quale non risulta partico-
larmente attratta dalla pratica stessa aderendovi solo per sollecitazioni delle ami-
che.
La diagnosi unanime per P.V. è di Disturbo borderline di Personalità. Non
mancano aspetti narcisistici e depressivi. Non deficit cognitivo, dunque, piuttosto
grave immaturità emotiva e dinamica patologica interna che compromette grave-
mente, sotto la spinta di fattori emozionali, l’esame di realtà ed accomuna eventi
concreti e creazioni fantastiche; e la conclusione è quella di una capacità di inten-
dere fortemente diminuita.
Ritorna per questa imputata il problema della capacità di volere che però si
pone negli stessi termini veduti per D.M. e va parimenti risolto, richiamando natu-
ralmente quanto sopra esposto in merito alla dinamica di gruppo, e così ridimen-
sionandone la rilevanza ritenuta dal primo giudice.
In ordine alla pericolosità sociale della P.V. che ha trovato come l’altra in car-

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cere una sua ‘‘normalità’’, la Corte condivide il giudizio concorde dei periti del
G.U.P. e dei consulenti del Pubblico ministero che l’affermano senza tentenna-
menti.
La si può ritenere anzi più accentuata rispetto alla D.M. essendo la P.V. mag-
giormente portata ad intraprendere l’azione.
G.A.
È la più dotata delle tre sul piano intellettivo, ed è quella che più delle altre
ha dato da pensare agli esperti i quali alla fine hanno espresso pareri antitetici sia
pure sulla base di considerazioni che non sembrano essere invece in contrasto stri-
dente tra loro.
Anche per la G.A. si riscontrano quelle perturbate dinamiche familiari già ve-
dute, fino alla dissoluzione di un nucleo comunque gravemente carente nel fornire
elementi identificativi cui uniformarsi.
Analogo fu il percorso: dal fallimento familiare a quello scolastico, al senso di
vuoto e insicurezza e insoddisfazione, all’uscita verso un mondo esterno in cui non
fosse più necessario conformarsi alle aspettative altrui, soprattutto materne, alla
formazione di un gruppo, o sottogruppo, costruito in chiave liberatoria e trasgres-
siva, per il quale il richiamo del satanismo rappresentò, sia pure in termini di asso-
luta superficialità, un passaggio rilevante verso una scelta di malefizio banale ma
ideologicamente giustificata. Il tutto fatalmente appesantito dagli aspetti patolo-
gici di personalità che, assai simili a quelli delle amiche, furono l’essenziale col-
lante dello scellerato sodalizio.
I consulenti del Pubblico ministero concludono con una diagnosi di Disturbo
Dipendente di Personalità dopo avere evidenziato, analizzando il materiale clinico,
la presenza di una patologia narcisistica in un soggetto depresso.
Nondimeno, i diversi elementi deducibili da detto materiale, non ultimi i ri-
sultati dei test psicodiagnostici, li inducono a ritenere G.A. pienamente capace di
intendere e di volere al momento del delitto.
Effettivamente, attraverso tali elementi, la ragazza risulta d’un livello intellet-
tivo persino superiore alla media, e di buona capacità di adattamento sociale e abi-
lità nell’esprimere giudizi su situazioni concrete: ella rappresentava l’elemento
colto del trio. L’analisi del test di Rorschach mostra complessivamente un buon li-
vello di elaborazione dello stimolo, l’esame di realtà e la capacità di cogliere il
senso comune appaiono ben conservati.
Per contro i periti del G.U.P. concludono per un Disturbo Dissociativo Non
Altrimenti Specificato in fase di precario compenso, diagnosi in ordine alla quale
pare che molto abbiano influito le varie crisi dissociative sopravvenute nel corso
della detenzione della ragazza all’Istituto Ferrante Aporti di Torino; crisi che tut-
tavia non risulta si siano ripresentate in seguito salvo che nelle ultime settimane
precedenti l’udienza d’appello.
È vero che il comportamento della G.A. nella fase preparatoria ed in quella
esecutiva del delitto, fu caratterizzato da incertezze, resipiscenze, cambiamenti di
programmi, tentativi di restarne fuori, ma ciò accadeva in qualche misura anche
per le complici, la ‘‘tempesta del dubbio’’ è momento di crisi che non coglie solo i
malati di mente, e pare azzardato ipotizzare, anzi diagnosticare per questo uno
sdoppiamento di personalità. L’affermazione che durante le fasi del crimine la gio-
vane si realizzasse in due persone che non si riconoscevano ed anzi si negavano,
con un evidente distacco psicotico dal mondo reale, non trova riscontro ad avviso

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della Corte, oltre che nell’esame dei test somministrati, nei vari interrogatori resi,
in cui l’esame di realtà permane integro, ed in alcun elemento del processo che in
qualunque modo concerna il suo modo di essere e di atteggiarsi sino all’inizio
della sua detenzione. La G.A. fu anzi colei che meglio delle altre ragazze, e finché
le fu possibile, mantenne il controllo della situazione mostrando di avere un con-
tatto ben fermo con l’esterno reale.
Rimane la vicenda delle crisi di cui s’è parlato, incubi notturni, contatti fanta-
smatici con la vittima, immagini di sangue: manifestazioni tutte di alcuni mesi suc-
cessive all’arresto. Ma, come già chiarito, nessun elemento probante esiste di una
psicosi dissociativa di tipo schizofrenico presente al momento dell’assassinio. Cer-
tamente all’epoca della consulenza Picozzi-Perduca i meccanismi di difesa psico-
tici di negazione della realtà attraverso processi difensivi di tipo proiettivo e disso-
ciativo non erano rilevanti, come suffragato dai risultati testali. Quindi, ammesso
che la diagnosi dei periti del G.U.P. sia corretta, la patologia dissociativa della
G.A. può solo essere assimilabile allo sviluppo di quei sintomi che si verificano di
norma nel Disturbo Post-traumatico da Stress, la conseguenza del sovraffollarsi
alla memoria di eventi drammaticamente vissuti e dall’ansia delle varie attività
processuali che la vedevano protagonista nelle diverse fasi, unitamente alle forti
sollecitazioni emotive cui certamente era o si sentiva sottoposta all’interno dell’I-
stituto di pena torinese.
Tale assunto non è condiviso dal G.U.P. secondo il quale il disturbo psicotico
in oggetto non può essere ingenerato da un sia pur grave evento traumatico ma
trova le sue radici nella particolare vulnerabilità della giovane che non ha struttu-
rato quella necessaria forza dell’Io capace di affrontare gli eventi traumatici della
vita... Solo dando per acquisita una base fortentente compromessa, quale quella
della giovane... il trauma permette alla patologia psicotica già presente di scate-
narsi.
A sua volta la Corte non condivide siffatta impostazione in quanto, come già
esposto, da nessuno dei test e degli elementi di valutazione psichiatrica in atti è
possibile inferire la diagnosi di patologia psicotica in questione riferendola all’e-
poca del crimine. Lo stesso inquadramento delle crisi dissociative della ragazza
nella diagnosi di Disturbo Dissociativo N.A.S. rimanda ad una insufficiente strut-
turazione dell’Io di fronte a forti sollecitazioni emotive e pulsionali; l’intero
gruppo diagnostico del D.S.M.-IV, al quale si fa riferimento, comprende varie
forme dissociative di ciò che in passato era compreso nel termine più ampio di ne-
vrosi isterica. Le caratteristiche delle crisi, la loro episodicità ed insorgenza in con-
comitanza con importanti scadenze processuali, fanno pensare ad un deficitario
controllo dell’ansia e al ricorso alla dissociazione come specifico meccanismo di
difesa. Nemmeno le relazioni di aggiornamento che ne descrivono i comporta-
menti, il progressivo impegno attivo nell’iter psicoterapeutico, il buon adatta-
mento alle condizioni di vita comunitaria, consentono di trovare conferma dell’esi-
stenza di ‘‘tratti caratteristicamente schizotipici della personalità’’, della ‘‘modalità
delirante di negazione della realtà, attuate attraverso processi difensivi di tipo
proiettivo e dissociativo’’, della ‘‘anaffettività dello psicotico’’ e della presenza e
rilevanza di ‘‘sintomi negativi’’ che rimanderebbero, secondo i periti del G.U.P.,
alle manifestazioni dissociative dei disturbi psicotici del gruppo della Schizofrenia.
La deriva psicotica paventata dai periti del G.U.P. non appare quindi plausibile.
Vero è che il disturbo post traumatico da stress riguarda normalmente per-

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sone che siano vittime dei reati piuttosto che coloro che li commettono; ma in casi
atipici, ad esempio ove l’autore sia un minorenne, dunque un soggetto in fase evo-
lutiva, e per di più portatore di disturbi di personalità, può bene ammettersi che
comportamenti violenti e feroci, determinati da anomale forze scatenanti, siano a
loro volta produttivi di effetti psicologici dilaceranti, simili a quelli che possono
ingenerarsi, appunto, nelle vittime.
Soprattutto nel nostro caso in cui fu protagonista il sangue, tanto sangue, con
ciò che esso rappresentava anche simbolicamente per un soggetto certamente fra-
gile e predisposto al collasso psichico quale G.A.
Non ritiene peraltro la Corte che la capacità di intendere e di volere di G.A.
fosse all’epoca dell’omicidio pienamente integra, come i consulenti del Pubblico
ministero stimano, poiché i risultati dei test psicodiagnostici evidenziano comun-
que, accanto ai veduti indicatori di buon livello di elaborazione della realtà, una
spiccata vulnerabilità di fronte a situazioni intensamente emotive ed ansiogene.
Può essere allora condivisa la valutazione dei consulenti stessi di Disturbo Di-
pendente di Personalità e di patologia narcisistica in soggetto depresso; ma tale va-
lutazione, unitamente al riconosciuto bisogno di appartenenza al gruppo, alla ne-
cessità vitale di adeguarsi o di delegare o di compiacere l’altro, delineano il quadro
di una personalità comunque deficitaria, sia sotto l’aspetto della capacità di inten-
dere, sia soprattutto sotto quello della sua possibilità di mantenere integra la li-
bertà di autodeterminarsi, specie in particolari situazioni di fortissima pressione
psicologica dovuta a fattori esterni o interiori.
I comportamenti ambigui o contrastanti segnalati dai periti del G.U.P., se non
convincono ad una diagnosi di tipo dissociativo, inducono a ritenere, dato atto dei
deficit riscontrati dai consulenti del Pubblico ministero, l’esistenza di un Disturbo
di Personalità della G.A. assimilabile a quello delle sue complici.
E infatti l’impressione che si ricava alla prima lettura degli atti, che alla let-
tura finale diviene certezza, è quella di tre giovani che senza cercarsi si trovano e
s’aggregano, in un momento cruciale del loro percorso evolutivo, non per affinità
d’intelletti o per comuni interessi di vita o per corrispondenze affettive, ma per
profonda similarità di strutture di personalità malate.
Infine, come per le amiche, va confermato il giudizio di pericolosità sociale
della G.A., tenuto conto delle patologie suddette, in particolare del disturbo di-
pendente di personalità, specie per l’eventualità, tutt’altro che remota, per la già
considerata ‘‘attrazione dei simili’’, di ricostituzione di un gruppo di pari caratteri-
stiche.
Ricorre dunque per tutte le imputate l’ipotesi di cui all’art. 89 c.p.: la consa-
pevolezza della ‘‘illiceità’’ del loro agire fu certarnente sempre presente in cia-
scuna, e tuttavia, a causa dei considerati disturbi di personalità, in notevole mi-
sura offuscata, prima durante e dopo. E ancora: sempre presenti in ciascuna fu-
rono le risorse di volontà che avrebbero potuto fermare la macchina di morte
tanto pervicacemente allestita, risorse nondimeno affievolite nel tempo sempre di
più, man mano che prendeva corpo reale l’allucinante ideazione criminosa.
Le considerazioni che precedono non consentono di chiudere la vicenda così
come auspicato dalle Difese e rendono necessario affrontare tutti gli altri argo-
menti sottoposti dalle prevenute e dal Pubblico ministero all’attenzione di questo
giudice.
È infondato innanzi tutto l’assunto delle imputate in merito alla contestata

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sussistenza dell’aggravante della premeditazione, riconosciuta dal G.U.P. unita-


mente a quella dei motivi abbietti e futili; mentre decisamente non condivide la
Corte il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche e delle diminuenti
espresso in primo grado sull’aggravante stessa e su quella dei motivi abbietti o fu-
tili: tale secondo problema riguarda evidentemente in questa sede la sola G.A., nei
cui confronti si ripropone pari pari, non essendo possibile intervenire sul giudizio
di prevalenza espresso dal G.U.P. con riferimento alle coimputate.
Ancora su questo argomento occorre premettere che la norma di cui all’art.
69 c.p. stabilisce l’obbligo per il giudice di procedere al giudizio di comparazione
tenendo simultaneamente presenti tutte le aggravanti, da una parte, e dall’altra
tutte le circostanze attenuanti e quelle comunque inerenti alle persone dei colpe-
voli. Tuttavia, con sentenza n. 168 del 1994, la Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità dell’art. 69 stesso, comma 4, nella parte in cui prevede che nei con-
fronti del minore imputabile sia da applicare la disposizione del comma 1 di detta
norma in caso di concorso dell’attenuante di cui all’art. 98 c.p. e una o più circo-
stanze aggravanti che comportino la pena dell’ergastolo. Sembra opportuno sotto-
lineare altresì che analogo problema di costituzionalità è stato sollevato con ri-
guardo alla diminuente di cui all’art 89 c.p., che secondo alcuni dovrebbe rima-
nere estranea al giudizio di comparazione; ma detta questione è stata ritenuta
dalla Corte di cassazione, con sentenza n. 556 del 18 gennaio 1996, manifesta-
mente infondata.
La valutazione comparativa non considererà dunque la diminuente della mi-
nore età per la quale sarà provveduto ad apposita riduzione di pena. Ciò senza
pregiudizio alcuno per detta imputata, risolvendosi anzi certamente a suo vantag-
gio poiché, una volta affermatane la sia pur ridotta capacità di intendere e di vo-
lere, ed acclarata, come sarà fatto, la sussistenza delle aggravanti della premedita-
zione e dei motivi abbietti o futili, in alcun modo sarebbe possibile pervenire, a
parere della Corte, ad un giudizio di subvalenza delle aggravanti stesse, pur ope-
rando il bilanciamento, oltre che con le attenuanti generiche e la diminuente della
seminfermità, con l’altra diminuente, appunto, dell’età minore. Tanto più che la
G.A. era ormai diciassettenne in quel giugno 2000. Sicché della diminuente in pa-
rola ella non usufruirebbe affatto se il giudizio comparativo eterogeneo la contem-
plasse.
La trattazione che segue non ignorerà peraltro la D.M. e la P.V. sia per l’in-
scindibilità in fatto dei comportamenti, sia perché le richieste di riduzione di pena
comportano di necessità una valutazione complessiva anche sul piano giuridico.
Gli accertamenti compiuti nel processo consentono di affermare con sicu-
rezza che le imputate idearono l’assassinio, lo prepararono nei particolari, ne ten-
tarono una prima volta la perpetrazione senza riuscire nell’intento per l’imprevisto
apparire della signora Elide Luzzi sul luogo dell’incontro con suor Maria Laura,
finché la sera del 6 giugno il tragico proposito fu portato a compimento. Basta ri-
leggere le dichiarazioni delle tre giovani, delle quali in seguito si dirà, e quelle del-
l’amica S.M. che ebbe le confidenze della P.V., basta considerare come e quante
volte esse si prefigurarono l’evento, come sbrigliarono la fantasia dapprima imma-
ginando l’uccisione sacrificale di un animale o di un bambino o di un’amica o di
un prete, e altre simili leggiadrie; come vennero formando infine la propria deter-
minazione conclusiva dividendosi ruoli e compiti, come la vittima prescelta fu atti-
rata nella rete e quindi trucidata. Forse è vero che tutto iniziò quale lugubre

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scherzo, come le ragazze riferirono; poi l’istinto criminale e l’assenza di riferi-


menti morali, in uno con le patologie di cui esse erano e sono portatrici, trasfor-
marono quel cupo fantasticare in macabra realtà: voluta, studiata, sancita.
La premeditazione è tanto evidente che per uscirne si ricorre in sostanza al-
l’affermazione che il satanismo, che tanta parte ha avuto nella trattazione della no-
stra tragica storia, sia di per sé una patologia incontenibile la cui estrinsecazione
tipica è quella di uccidere, preferibilmente militanti religiosi sicché non vi sareb-
bero controspinte valide alle spinte criminogene: la pulsione criminale coincide-
rebbe con la malattia e la premeditazione sarebbe per ciò solo esclusa.
L’asserzione cela un sillogismo sofistico, di cui la premessa maggiore è non
vera, e la minore non certa.
Mille facce e varianti di espressione ha infatti il demonismo, questo è risa-
puto; l’omicidio, in una realtà purtroppo diffusa un po’ ovunque e certo anche in
quel di Chiavenna, è tuttavia assai raro; il sacrificio rituale può assumere le forme
più disparate, e se non vi è patologia piena rimane almeno in parte libera la vo-
lontà di ricerca dei modi di manifestazione della propria devozione al maligno.
Non è esatto allora che chiunque si offra a tale pratica aberrante sia irresistibil-
mente indotto a prefigurazioni cruente ed atteggiamenti distruttivi. La consequen-
zialità andrebbe semmai capovolta, l’incapacità assoluta potendo cioè portare al
comportamento criminale, inconscio o incontenibile coloro che aderiscono a date
forme di esoterismo.
Laddove, come nel caso, l’incapacità sia solo parziale, anche la previsione e
preparazione del crimine sono da ricondurre, sia pure in parte ridotta, alla sfera
del libero arbitrio e vanno dunque ad integrare la premeditazione in senso tecnico
penalistico; se cosi non fosse, tanto meno sarebbe riferibile a quell’ambito di li-
bertà la realizzazione del crimine stesso, allorché le spinte emotive raggiungono di
norma il punto massimo di incontrollabilità. Ed allora non sarebbe neppure neces-
sario, in sede competente, di dibattere in ordine al grado di incapacità delle tre im-
putate, su cui è stato in questo processo ampiamente controverso, poiché quella
parziale condurrebbe comunque alla conseguenza non solo della non premeditabi-
lità, ma addirittura della non punibilità, esattamente come l’incapacità totale.
Esito inaccettabile per la contraddizione che non lo consente.
Non è certa, poi, la seconda premessa del sofisma e cioè che le giovani real-
mente fossero o si sentissero possedute dalle cosiddette forze del male e votate ad
offrirne testimonianza. Il loro interesse per l’occulto in genere, quindi per il sata-
nismo, i tentativi di rinvigorire gli scarsi contenuti con rituali d’iniziazione o ceri-
monie evocatrici più o meno rispondenti ad ortodossie di setta, pur se delle sette
la piccola banda diffidava, appaiono evidenti, sono stati ammessi senza particolari
reticenze; i diari e gli scritti recuperati appaiono infarciti di astruserie sulle relative
farneticazioni, sbiaditi simulacri d’antiche cancrene dello spirito ove ogni valore di
vita traligna e si dissolve in blasfeme fantasie di morte.
Più arduo è appurare fino a qual punto le tre comprendessero i significati in-
timi di un fenomeno tremendamente duro, che sprofonda le radici nel buio dei
tempi e pone in campo i problemi teologici ed escatologici della lotta infinita tra il
bene ed il male avviata sotto l’albero della tentazione e su cui per secoli ben altri
cervelli si sono esercitati. È probabile che esse non ne avessero che approssimativa
consapevolezza, e sono credibili quando affermano che la motivazione satanica
non fu che un pretesto iniziale, che al diavolo in fondo non credevano, che ragione

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del loro agire fu la volontà di spaventare la gente di Chiavenna, non dunque di av-
venturarsi in una sorta di mefistofelica sfida all’Eterno né, in alternativa, di dimo-
strarne l’inesistenza o la natura imbelle, o la sua identità con il maligno. Che
spinta risolutiva, allora, fu solo quella di vincere la noia: leggi il vuoto interiore as-
soluto (cfr. interrogatorio P.V. 2 agosto e 23 settembre 2000).
È probabile che la motivazione satanica e quella meramente esistenziale coe-
sistessero, forse per questo le imputate ritennero che il sangue di suor Maria
Laura avrebbe tra l’altro contribuito a rinsaldare il loro rapporto di amicizia (v.
interrogatorio; D.M. 17 ottobre 2000).
La disquisizione potrebbe proseguire anche ai fini della valutazione dell’ag-
gravante dei motivi abbietti o futili, ma rischia d’essere accademica.
Poiché il legislatore ha ritenuto di adottare all’art. 61 n. 1 c.p. la congiun-
zione disgiuntiva tra i due motivi in oggetto, l’aggravante deve essere comunque
ritenuta sussistente in capo alle prevenute. Nelle quali, si ribadisce, certamente so-
pravviveva un sia pur ridotto spazio mentale di libera determinazione.
Se la ragione del loro operare fu l’obbedienza o il tributo a Satana, il motivo
non fu certo futile, ma fu indiscutibilmente abbietto: il male per il Male, l’abie-
zione per definizione. Se la ragione fu il vuoto dell’anima, il motivo fu, per defini-
zione, futile. Se i motivi concorsero, vi furono futilità e abiezione con colorazione
prevalente verso la prima o la seconda in rapporto all’incidenza maggiore o mi-
nore dell’uno o dell’altro, verosimilmente in modo differenziato fra le tre protago-
niste dell’ignobile rappresentazione, la spinta verso l’occultismo essendo a quanto
pare più accentuata nella P.V., meno convinta nelle altre.
Sulla scorta di tali considerazioni ritiene la Corte, come sopra anticipato, che
il giudizio di comparazione delle due pesantissime aggravanti non possa essere di
subvalenza rispetto alle attenuanti generiche, benevolmente concesse, ed alla dimi-
nuente della seminfermità mentale, ma al più di equivalenza. Premeditazione e
motivazione abietta o futile costituiscono due macigni poderosi che in condizioni
normali sono le premesse dell’ergastolo, che dunque non possono esser fatti sva-
nire d’incanto e dovranno conservare una parte rilevante del loro peso nella deter-
minazione della pena. E si badi: a queste imputate è stata risparmiata, poiché di
questo si tratta, l’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. che non sarebbe stata biz-
zarra cosa contestare ponendo mente alle raccapriccianti immagini fotografiche
dello strazio da loro compiuto sul povero corpo della religiosa, la cui unica ed
estrema difesa fu quella di abbandonarsi alla sua sorte raccogliendosi in un com-
movente atteggiamento di preghiera. Non fu sufficiente massacrarle il cranio a
colpi di pietra: quindici, forse venti pugnalate al volto, alla gola, al petto occorsero
ancora per placare la loro belluina sete di sangue.
Vero è che nel corso del processo le tre ragazze non mostrarono spirito oppo-
sitivo, se si eccettua il primo tentativo della G.A. di chiamarsi fuori, ma è lecito il
dubbio che tale scelta fosse originata da una valutazione di mera convenienza alla
collaborazione posto che i dati emersi dalle indagini le inchiodavano dalle battute
iniziali a responsabilità ben definite.
È quanto mai significativa a tale proposito la prima enunciazione della D.M.
in sede di interrogatorio reso al Pubblico ministero in data 28 giugno 2000:
‘‘spero che la giustizia tenga conto del mio atteggiamento di pronta ammissione’’.
Il giudizio di prevalenza contrasta con le stesse motivazioni del G.U.P. lad-
dove si tratta della personalità delle imputate, del grave disinvestimento di D.M. e

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P.V. in ambito scolastico, dell’uso smodato cui s’abbandonavano di sostanze supe-


ralcoliche, della protervia dimostrata nella progettazione dell’assassinio, della scal-
trezza adoprata nel preparare a suor Maria Laura la trappola mortale, della vile fe-
rocia espressa nell’esecuzione del crimine, delle varie astuzie — non diaboliche,
ma le uniche possibili — adottate dopo l’omicidio per eludere le investigazioni.
Troppo poco dunque, quasi nulla, oltre all’incensuratezza e ai riconosciuti disagi
familiari, peraltro nella società d’oggi tanto diffusi che quasi non se n’avverte più
la drammaticità se non addirittura l’anomalia, perché alle attenuanti generiche sia
riconosciuta particolare rilevanza. Il G.U.P., nel descrivere le cennate modalità
d’essere e di agire, si riferisce alle sole D.M., e P.V. avendo escluso di scena la
G.A. per la ritenuta incapacità totale, ma si tratta di descrizioni e giudizi che si at-
tagliano perfettamente anche a quest’ultima.
Non v’è dubbio invece che il vizio parziale di mente, per la già considerata ri-
levante compromissione delle facoltà cognitive e volitive, abbia ai nostri fini tut-
t’altra portata e pare equo che per esso, e quasi esclusivamente per esso, non si
faccia luogo agli aumenti di pena che altrimenti le due aggravanti comportereb-
bero e si esprima una valutazione di equivalenza, quale richiesta dal Pubblico mi-
nistero presso il Tribunale per i Minorenni.
Né si può condividere l’opinione che l’indulgente giudizio di prevalenza s’im-
ponga per adeguare la sanzione alla effettiva portata del crimine e alla personalità
delle imputate, innanzi tutto perché la gravità del reato è assoluta come la sua ef-
feratezza, inoltre perché la personalità delle autrici viene comunque considerata e
compiutamente messa in conto.
La delittuosa vicenda di Chiavenna suscitò in ciascuno, a suo tempo, anche
per la risonanza che ne ebbe dai mezzi d’informazione, un orrore che ancora non
e svanito, tuttavia occorre che coloro sui quali grava la responsabilità di giudicare
conservino sereno distacco, e di grande aiuto in questo, quasi di sollievo, è ap-
punto la convinzione che quel fatto atroce sia da attribuire a soggetti parzialmente
inconsapevoli, come ben comprese suor Maria Laura in quella sera maledetta; la
stessa convinzione per cui i giudizi già espressi ed ancora da esprimere sono pe-
santissimi ma non distruttivi, e che fa apparire congrua una sanzione che sarebbe
in caso contrario non comprensibile.
Ma sul versante della comparazione e dell’entità della pena occorre ancora
valutare la richiesta, che tutte formulano in via subordinata, di applicazione del-
l’attenuante di cui all’art. 114 c.p., in quanto ognuna di loro ritiene d’avere offerto
un contributo particolarmente lieve alla realizzazione del crimine: tre innocui rivo-
letti confluiti dunque a generare, chissà come, una paurosa forza d’impeto distrut-
tiva.
La pretesa è quasi imbarazzante, anche se si comprendono le esigenze della
Difesa, e non farebbe gioco spendere una sola parola essendo sufficiente il rinvio
alla ricostruzione dettagliata dei fatti desumibile dal rapporto dei carabinieri che
concluse la laboriosa e brillante operazione ‘‘Raggio di Luce’’, alle dichiarazioni
delle stesse imputate, nonché alla lettera del citato art. 114 c.p. che richiede il
concorso minimo, un apporto trascurabile, dunque la minima incidenza causale,
per la concessione dell’attenuante.
Nella fattispecie — a parte, come si dirà, che nessuna delle tre giovani fece
‘‘poco’’, ma fece anzi moltissimo per produrre la mostruosità che qui si giudica —
basterebbe riprendere la considerazione di quanto sia stata ritenuta rilevante dagli

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esperti la mera appartenenza al gruppo per rinvigorire in ciascuna componente il


proposito criminale.
La sola presenza di ciascuna alla fase ideativa ed alle successive fu apporto
essenziale all’esito delittuoso, ognuna nutrendosi della determinazione e delle
spinte percepite nelle altre, pur se quell’appartenenza non ne cancellava del tutto
personalità individuali e spazi di libertà, come s’è ampiamente veduto nelle pagine
che precedono.
In concreto, ritiene la Corte che l’attenuante in parola non sarebbe applica-
bile per alcuna delle imputate se anche fosse mancata la pur minima partecipa-
zione all’aggressione finale col cubetto di porfido ed i coltelli, e vi fosse stato in
quella circostanza mero contributo di presenza.
Nondimeno occorre più precisamente delineare le singole posizioni, se non al-
tro al fine di dare risposta alla richiesta di diversificazione delle pene, dal mo-
mento in cui la sciagurata idea per la prima volta affiorò alle loro menti, verso fine
maggio 2000, sino al fermo del 28 giugno.
P.V.
Si può sorvolare sugli atti di vandalismo, sulla sottrazione del cane dello Sci-
netti e sul tentativo di sacrificarlo essendovi state su dette circostanze confessioni
piene se pur distratte: sono fatti che sbiadiscono a fronte dell’omicidio ma sono ri-
velatori evidenti delle stesse spinte criminali oltre che delle patologie di cui s’è
parlato.
Pare che il primo pensiero dello scempio fosse proprio di questa imputata,
anche se sul punto è vano cercare di ricostruire esattamente i vari passaggi perché
le rivelazioni sue e quelle delle amiche sono alquanto imprecise e mutevoli nei di-
versi interrogatori. Ciò che rileva, e su cui non v’è dubbio, è che ella diede attivo
apporto all’ideazione, quindi alla formazione di un dettagliato piano attuativo. Fu
poi lei a recarsi per due volte, sabato 3 giugno ed il martedì successivo, all’appun-
tamento con suor Maria Laura, presentandosi come Erica, riuscendo a suscitare
compassione e simpatia mediante la spregevole messa in scena di un classico
dramma dei tempi nostri e non solo, quello della giovane in lacrime, stuprata e ab-
bandonata, in attesa di un figlio e disperatamente bisognosa d’aiuto. Nella prima
occasione il sopraggiungere di Elide Luzzi, messa sull’avviso da suor Maria Laura,
le rese impossibile il rispetto del copione; ma al secondo tentativo, non essendo
riuscito l’arciprete della parrocchia di San Lorenzo, don Ambrogio Balatti, cui
pure la religiosa aveva manifestato i suoi sospetti, ad intercettare le due donne per
le vie di Chiavenna, la tragedia poté avviarsi all’epilogo stabilito.
Il grosso coltello usato per l’assassinio l’aveva procurato lei, proveniva da
casa sua, fu lei a lavarlo dal sangue di suor Maria Laura ed a riporlo.
P.V. non colpì la vittima con il sampietrino di porfido, ma rimase in luogo ed
inferse almeno una pugnalata. Se pure ciò non fosse, poco cambierebbe, per
quanto sopra esposto, con riguardo alla sua penale responsabilità, ma la Corte è
convinta che quella pugnalata, almeno una, vi fu. Se infatti la D.M. ne ha riferito
con qualche indecisione, comunque dicendosi sicura d’aver veduto le mani insan-
guinate della coimputata, con certezza e precisione l’ha invece descritta la G.A. la
quale ha aggiunto che l’amica era fiera d’avere affondato la lama. Tali dichiara-
zioni coincidono con quelle dell’altra amica, S.M., cui la P.V. alcuni giorni dopo
tranquillamente rivelò ogni cosa sull’omicidio spiegando che tutte, dunque anche
lei, avevano colpito: la S.M. era estranea al delitto, tuttavia in passato aveva parte-

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cipato ad un giuramento di sangue, aveva anch’ella qualche interesse per l’occulto,


dava affidamento, poteva ben ricevere quelle confidenze. Nell’interrogatorio del
28 giugno 2000 la P.V. spiegò di aver detto quelle parole a S.M. perché ciò la di-
vertiva e la faceva sentire grande: rozzo espediente difensivo che se rispecchiasse
la verità renderebbe forse ancor più pesante il giudizio complessivo su di lei.
Dopo l’impresa l’imputata si ricompose in fretta e senza nulla dare a vedere
ebbe un passaggio da tale Andrea Agosti che in macchina l’accompagnò con le
amiche... al vicino luna-park.
In seguito mostrò ancora il suo scarso coinvolgimento emotivo, che appare
evidente dalle prime conversazioni telefoniche, fredde, quasi irridenti, che furono
intercettate; manifestò in seguito accenni d’ansia, si tinse i capelli di rosso quando
si rese conto che il cerchio cominciava a stringersi; e parlando con le complici an-
dava raccomandando che nessuna parlasse degli orari degli incontri e del passag-
gio avuto dall’Agosti (v. interrogatorio G.A. 14 luglio 2000) poiché le cose si met-
tevano male, il secondo identikit realizzato sulle descrizioni di Elide Luzzi era già
più somigliante del primo, si prospettava la necessità di un alibi.
Seguirono il fermo e le varie ammissioni dopo i primi tentennamenti e perfino
una proclamazione di rimorso sulla cui autenticità ritiene la Corte sia lecito
quanto meno dubitare.
In ogni caso è d’evidenza solare la sua partecipazione determinante all’intera
vicenda delittuosa; e palese risulta la crudeltà cieca della fase culminante del cri-
mine, e quella più sagace dimostrata nell’inscenare la squallida recita da cui una
persona votata al sacrificio e mossa esclusivamente da sentimenti di carità qual era
suor Maria Laura, non poteva non lasciarsi sedurre.
Non v’è spazio per riduzioni di pena, come si dirà.
D.M.
Partecipò attivamente a tutti i fatti di cui ai capi di imputazione. Si adattò an-
che alla sottrazione del cane pur se a malincuore, posto che per quell’animale pro-
vava pena. Affermò d’essere stata lei a farlo fuggire ma il particolare è rimasto in-
dimostrato e sul punto, del resto, non è stata proposta impugnazione.
Ebbe quindi parte all’ideazione dell’omicidio, pare attribuibile a lei la scelta
di una suora quale vittima. Predispose perfino un piano per iscritto con una elabo-
rata ripartizione di compiti. Effettuò le due telefonate a nome di Erica che indus-
sero suor Maria Laura agli incontri fatali. È singolare al proposito come ella
usasse in quell’occasione, col falso nome di Erica, il cognome vero D. scelta che
presenta aspetti contrastanti ma che perfettamente s’accordano con un quadro di
personalità connotato da non definibili linee di demarcazione: dall’arroganza al-
l’ingenuità, dal desiderio inconscio d’essere fermata per tempo alla volontà di ap-
porre quasi una firma al suo terribile gesto.
D.M. colpì per prima la vittima violentemente al capo con la pietra, l’accol-
tellò poi ripetutamente.
L’assalto proseguì tumultuoso e spietato, altro che atteggiamento di quasi de-
sistenza, di cui si parla nelle note difensive! Poi, quando tutto fu compiuto, per-
cepì incredula tra i rantoli le parole di perdono di suor Maria Laura, e non capì,
consumata com’era dalla sua rabbia letale.
Infine si riassettò, si lavò le mani, si rimise tranquilla. La serata proseguì più
o meno come per la P.V. il passaggio sulla vettura dell’amico Andrea una rapida
visita alle giostre. Quindi le telefonate, volgari, grevi, preoccupate ma tutt’altro

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che rivelatrici di drammi interiori, i capelli rossi che divennero neri, ed infine l’in-
teressato atteggiamento di collaborazione con gli inquirenti dal momento del
fermo.
I descritti comportamenti della D.M. paiono alla Corte di gravità pari a quelli
della P.V. fu meno determinata nella fase preparatoria, più ‘‘efficace’’ in quella
cruenta. Il Pubblico ministero appellante ha sostenuto che si ebbe ruolo di co-
mando della seconda nella conduzione dell’impresa, ma la Corte ritiene invece,
come quasi tutti i professionisti che hanno esaminato il caso, che tale ruolo non
esistesse affatto o venisse via via scambiato fra le amiche in corso di realizzazione
del progetto; apporti causali, intensità del dolo e gravità d’azione registrano diffe-
renze di scarsa sostanza. Tant’è che la D.M. interrogata il 17 ottobre 2000, di-
cendo di rendersi allora conto che il leader del gruppo era la P.V., aggiunse tutta-
via che la stessa era stata sempre ritenuta da lei e dalla G.A. la più debole fisica-
mente e psicologicamente.
È vero, come evidenziato dal Pubblico ministero, che la P.V. la quale aveva
avuto tra l’altro il compito di accompagnare suor Maria Laura sul luogo prescelto
per l’assassinio, non essendo riuscita subito a farsi seguire da lei, raggiunse le ami-
che dicendo che andassero loro ‘‘a prenderla’’; ma è arbitrario ravvisare in tale in-
vito l’ordine perentorio del capo. È più plausibile che si trattasse invece di una ri-
chiesta di mutamento di compiti o di semplice aiuto, posto che la manovra di irre-
timento, anche se ben congegnata, si dimostrava meno agevole del previsto.
Non vi è motivo pertanto di diversificare il trattamento sanzionatorio tra le
suddette imputate salvo, naturalmente, il maggior aumento computato dal G.U.P.
ex art. 81 c.p. per la D.M. non avendo l’altra partecipato al reato di cui sub G).
G.A.
Per i reati minori vale quanto detto a proposito delle coimputate.
La G.A. è stata quella che con evidenza ha cercato di misurare le proprie verità
volgendole ad alleggerire per quanto possibile la sua posizione in danno delle al-
tre, specie della P.V. indicata in modo interessato quale elemento trainante. Ma
certamente fu attiva in tutte le fasi del crimine, dall’ideazione alla progettazione
all’esecuzione. Aveva preso parte tempo prima ad un patto di sangue e per questo,
disse poi, non poteva tirarsi indietro, anche se in fondo, come pure affermò, a Sa-
tana non credeva più di tanto (cfr. interrogatori resi dalla stessa al Pubblico mini-
stero in date 4 luglio, 14 luglio e 8 agosto 2000). Si ritrovò all’agguato fallito del 3
giugno, poi a quello finale dando apporto determinante all’opera di convincimento
della vittima a seguire il gruppetto fino al luogo stabilito. Ed è impressionante il
racconto della D.M. sull’accanimento della G.A. contro la suora: la colpì in testa
con la grossa pietra, ripetutamente, ‘‘sbattendola’’ anche con violenza contro il
muro di recinzione costeggiante la via Poiatengo, una sassata fu tanto vigorosa che
quasi le disintegrò la faccia, secondo un’espressione usata dalla P.V. Quindi af-
fondò come le altre la lama. Le tre avevano pure un secondo coltello, più piccolo:
se fu usato non si sa, ma è dubbio irrilevante.
Anche la G.A. udì suor Maria Laura invocare per le sue carnefici il perdono
divino (interrogatorio al Pubblico ministero 5 luglio 2000) e ci rimase male, nien-
t’altro: solo delusione, dunque, perché il suo gesto insensato aveva prodotto qual-
cosa di troppo diverso da quanto si aspettava, perché la giovane e le sue complici
non potevano cogliere l’enormità di quelle parole, la distanza siderale che si frap-

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poneva tra la luminosità grandiosa di quella donna morente e la tenebra dei loro
cuori.
I comportamenti successivi della G.A. non differirono da quelli già descritti:
la macchina dell’Agosti, l’autoscontro, le telefonate, i capelli lunghi sulle spalle sa-
crificati a caschetto. Quindi il tentativo di professarsi innocente e la successiva
resa all’evidenza.
La sua posizione, complessivamente riguardata, induce ad una valutazione
sostanzialmente conforme a quella delle coimputate.
Trattamento sanzionatorio.
Per D.M. e P.V. ritenuta l’inammissibilità dell’appello del Pubblico ministero,
e non essendo stata riconosciuta l’attenuante della minima partecipazione al fatto,
la sentenza di primo grado deve essere confermata.
Ritengono le Difese che ingiustamente il G.U.P. abbia assunto quale pena
base quella di anni 24 di reclusione anziché quella minima di anni 21, ed abbia
applicato le diminuzioni di pena per le concesse attenuanti generiche e per la mi-
nore età in misura di gran lunga inferiore al massimo consentito.
Osserva la Corte, in primo luogo, che a sensi dell art. 133 c.p., nell’esercizio
del suo potere discrezionale, il giudice deve tener conto delle condizioni personali
del colpevole, peraltro nel nostro caso già ampiamente considerate, ma anche del-
l’oggettiva gravità del reato; e poiché è difficile sotto quest’ultimo profilo immagi-
nare un delitto piu grave, truce ed esecrabile di quello di cui si tratta, pare alla
Corte che nessuna delle imputate possa dolersi della pena base indicata; a meno
che non si voglia insistere sulla tesi obsoleta del ‘‘diritto al minimo’’ sempre e co-
munque.
Non esiste l’errore di calcolo rilevato dalla Difesa della P.V. nel computo de-
gli aggravi di pena operato dal G.U.P. a sensi dell’art. 81 c.p. Infatti l’aumento ap-
pare essere stato effettuato in ragione di un mese per ‘‘ciascuno’’ dei reati di cui ai
capi B) e C) e non già di un solo mese per i due reati unitariamente considerati.
L’aggravio complessivo per lei risulta quindi correttamente calcolato in mesi cin-
que di reclusione.
Per il resto, è vero che il primo giudice ha operato riduzioni di pena esigue ex
artt. 98 e 62-bis c.p., ma cio ha fatto non solo valutando l’età delle imputate e la
scarsa consistenza delle ragioni che l’inducevano alla concessione delle attenuanti
generiche, ma soprattutto per adeguare la sanzione alla gravità del reato e dunque,
correttamente, per pervenire alla pena considerata equa.
Infatti, prendendo le mosse da quello che la Corte ritiene giudizio erroneo di
prevalenza delle attenuanti, avrebbe inflitto altrimenti una pena finale assoluta-
mente incongrua, che sarebbe stata offensiva per la memoria di suor Maria Laura
e per il sacrosanto desiderio di giustizia dei parenti della vittima, della consorelle e
di quanti l’amarono.
Nel diluvio di carte processuali, tra i mille arzigogoli di norme e codicilli, con
la mente rivolta al caso interessante di tre giovani soggetti strani da passare al va-
glio della scienza, si finisce facilmente col perdere il senso della realtà.
La realtà è suor Maria Laura, la protagonista vera della storia, di cui troppo
poco forse ci si è preoccupati in questo processo. La realtà è il volto di lei sfigu-
rato, dilaniato per l’appagamento delle sue carnefici. Suor Maria Laura, che con le
parole estreme imploranti il perdono divino non intese raccomandare al mondo e
ai giudici clemenza e tenerezze ma al contrario, dischiodandosi dalla croce volle

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farne carico alle tre sventurate perché ne sperimentassero il tormento. E con esso,
si spera, la potenza salvifica.
La pena di otto anni e mezzo non può essere ulteriormente ridotta. È anzi an-
ch’essa eccessivamente mite. L’errore non è riparabile ma per la Corte, che in-
tende mantenere la propria libertà di giudizio, esso non è ragione di condiziona-
mento e dunque la G.A. sarà condannata alla pena che qui si ritiene giusta. Non
soddisfa, certamente, che si adottino per imputate meritevoli della stessa sanzione
sanzioni difformi: peraltro il sistema normativo del rito abbreviato non determina
in questo caso danni per alcuna di esse ma solo un beneficio, pur senza meriti, per
due di loro.
Pertanto ad A.G. sarà inflitta la pena di anni 12 e mesi 4 di reclusione, così
computata: pena base per l’omicidio, anni 24, come già ritenuto equo dal G.U.P.,
ridotti ad anni 18 per la diminuente della minore età: la riduzione è di un quarto
poiché l’imputata era ormai diciassettenne all’epoca; con aumento di mesi sei a
norma dell’art. 81 c.p. (un mese per ciascuno dei reati di cui ai capi B, C, E, e G,
un mese e 15 giorni per il reato di cui al capo D, 15 giorni per il reato di cui al
capo F), e con la riduzione di un terzo per la scelta del rito abbreviato.
Misure di sicurezza.
Si richiama quanto già esposto. Dunque, alla luce delle valutazioni complessi-
vamente svolte dai vari professionisti che hanno proceduto ai numerosi esami di
personalità delle prevenute, la Corte ribadisce senza alcuna incertezza la sussi-
stenza di grave pericolosità sociale in tutte; ed è assolutamente necessario che
esse, anche a tutela di sé, rimangano sotto appropriato controllo sino a quando il
giudizio suddetto non sia rimosso.
Verranno dunque confermate le disposizioni del primo giudice, e solo si prov-
vederà ad equiparare la posizione della G.A. a quella delle altre imputate, do-
vendo essere per lei ordinato il ripristino della misura cautelare della custodia in
carcere, come richiesto dal Pubblico ministero, con sospensione della misura prov-
visoria in atto.
Messa alla prova.
L’ipotesi di messa alla prova è stata nel presente grado avanzata dalla D.M. e
G.A. ma può essere considerata anche con riguardo alla P.V. condividendosi l’o-
rientamento per il quale il beneficio può essere valutato e concesso dal giudice an-
che senza sollecitazione di parte.
La Corte conferma il giudizio negativo espresso dal G.U.P.
Per definizione infatti i disturbi di personalità non conoscono una remissione
spontanea né a breve termine. La possibilità di trattamento esiste: il più promet-
tente è certamente la psicoterapia individuale mentre quella di gruppo può fornire
un complemento all’intero piano curativo, così come l’uso di farmaci che è consi-
gliabile per limitare le sintomatologie più gravi. Ma i sintomi strutturati nel carat-
tere sono quelli che richiedono una terapia di durata maggiore. Queste patologie,
a differenza delle comuni nevrosi, sono così solidamente ‘‘incastrate’’ nell’indivi-
duo che occorre un intervento prolungato per cambiare in senso evolutivo la strut-
tura stessa del funzionamento mentale. Inoltre nel caso di disturbo borderline di
personalità risulta difficile instaurare un rapporto psicoterapeutico caratterizzato
da una stabile alleanza di lavoro. Molto spesso in questi casi si assiste a brusche
interruzioni della terapia da parte del paziente.
Le tre ragazze, pur nella loro specificità, presentano tutte problemi di iden-

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tità, difficoltà a tollerare tensioni emotive e tendenza a cercare sollievo nell’agito.


Si può ipotizzare, per esperienza clinica, che in ambiente protetto il quale fornisca
opportuno contenimento e garantisca una buona attuazione di un piano terapeu-
tico, questo si svolga in un periodo di tempo che è ragionevole indicare in cin-
que/dieci anni.
In altri termini: non è possibile esprimere per dette giovani quel giudizio pro-
gnostico favorevole che la legge richiede, con riferimento a tempi compatibili col
dettato normativo; il progetto di messa alla prova non è percorribile qualunque sia
il profilo sotto il quale la loro vicenda e la loro condizione personale venga consi-
derata: valutando dunque il tipo di reato posto in essere, che è il più grave tra
quanti se ne possano concepire ed attuare; ponendo mente alle feroci modalità di
esecuzione, rivelatrici di totale mancanza di contenimenti etici e di umana pietà;
ripensando le motivazioni per le quali quella mite creatura di Dio lapidata e tra-
fitta altro non era che un simbolo di valori inaccessibili a loro e per questo misco-
nosciuti, da immolare al male o al nulla; avendo infine riguardo alle caratteristiche
di personalità emerse dalle lunghe indagini espletate. Tali caratteristiche, soprat-
tutto per il vizio mentale da cui le prevenute s’è detto essere affette, per la perico-
losità sociale riconosciuta, comportano necessariamente tempi di risalita apprezza-
bili solo in via di ipotesi, come sopra spiegato, ma comunque amplissimi, la crea-
zione dal niente delle premesse su cui avviare la costruzione. Sarà arduo ripulire
del tutto le macerie per poi gettare solide fondamenta, pur essendo sincera la spe-
ranza che l’impresa avrà compimento e la funzione di recupero sociale della pena,
prevalente su ogni altra quando si tratti di minori, verrà onorata.
Ma per queste giovani è oggi indispensabile che, sia pure per il tempo limitato
che s’è stabilito, il conto venga pagato e glielo presenti la società senza farisaici
compatimenti; e che la sanzione mostri anche il volto duro dell’afflizione, di tut-
t’altra valenza rispetto al bisogno di autopunizione che ora, dismessi i panni del
boia, sembrano dimostrare.
II carcere, dunque, non un’ovattata comunità, s’impone per loro, dove un
proficuo iter terapeutico risulta essere già stato avviato per la D.M. per la P.V. ed
altrettanto può avvenire per la G.A. dove siano più genuinamente coinvolte nella
fatica di interiorizzare, giorno dopo giorno, i valori della vita, del dolore, della tol-
leranza, della buona condivisione, del rispetto di sé e degli altri. Senza scomodare
per ora valori ancor più elevati.
Per loro non si configura solo un semplice, ‘‘normale’’ pentimento che già
apertamente professano ed alcuni ritengono sincero: esiste un problema di rigene-
razione strutturale che dovrà essere conquistata attraverso lungo travaglio, sotto il
peso di quella croce, con l’operosa generosità di quanti vorranno dare una mano
nonostante tutto, aiutandole a tacitare per sempre le mortifere voci di dentro ed a
far affiorare le risorse positive che pur devono esistere in qualche anfratto delle
loro coscienze.
Solo così lo spiraglio di luce che s’intravede lontana potrà alfine schiudersi, al
termine di un cammino da compiere con impegno totale ed assiduo onde non sia
disperso il viatico straordinario del perdono d’una piccola suora morta ammazzata.

P.Q.M. — La Corte d’appello di Milano, Sezione della Famiglia e dei Minori,


visto l’art. 443 comma 3 c.p.p., dichiara inammissibile l’appello proposto avverso

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la sentenza resa dal G.U.P. presso il Tribunale per i Minorenni di Milano il 9 ago-
sto 2001 nei confronti di D.M. e P.V.
Visto l’art. 605 c.p.p., conferma la sentenza stessa nei confronti di D.M. e
P.V. in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiara G.A. colpevole dei
reati a lei ascritti ai capi A), B), C), D), E), F) e G) e riconosciuta la diminuente
del vizio parziale di mente e concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti
le suddette attenuanti e diminuente alle aggravanti della premeditazione e dei mo-
tivi abbietti o futili, applicata la diminuente della minore età, unificati i reati sotto
il vincolo della continuazione, ed operata la riduzione per la scelta del rito abbre-
viato, la condanna alla pena di anni 12 e mesi 4 di reclusione.
Dispone per G.A. il ripristino della misura cautelare della custodia in carcere.
Conferma la misura di sicurezza applicata nei confronti della stessa sospen-
dendone l’esecuzione in corso.
Applica ad G.A. la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per il
periodo di tre anni.
Conferma la disposta confisca. (Omissis).

——————

(1) Minore infermo di mente e socialmente pericoloso: l’inadeguatezza dell’at-


tuale sistema di misure di sicurezza minorili.

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La disciplina codicistica. — 3. Le misure di sicurezza minorili dopo la ri-


forma introdotta dal d.P.R. n. 448 del 1988. — 4. (Segue): il trattamento riservato al minore in-
fermo di mente che sia socialmente pericoloso. — 5. La particolare evidenza delle aporie del dop-
pio binario nel sistema penale minorile e l’opportunità di una riforma nella prospettiva della solu-
zione vicariale.

1. La sentenza che si annota offre il destro per analizzare uno degli aspetti
più problematici del vigente sistema penale minorile: intendiamo riferirci al tratta-
mento sanzionatorio riservato al minore, non imputabile o semi imputabile a ca-
gione di un’infermità, del quale sia stata riconosciuta la pericolosità sociale.
L’individuazione delle misure di sicurezza minorili, già difficoltosa a causa
della carente chiarezza della disciplina originariamente disposta dal codice penale,
è divenuta maggiormente problematica a seguito della relativamente recente ri-
forma del processo penale minorile, che, volta appunto ad adeguare la disciplina
processuale minorile ai principi saldamente affermatisi in sede internazionale, ha
finito per coinvolgere anche i profili sostanziali, alterando gli equilibri interni alla
disciplina codicistica. Ciò spiega l’opportunità di un’analisi che, attraverso il preli-
minare riferimento a quest’ultima, dia conto delle misure di sicurezza minorili at-
tualmente vigenti al fine di verificare la correttezza delle soluzioni prospettate
dalla prassi — in cui si inscrive la presente sentenza — in ordine alla problematica
che più direttamente ci interessa.
2. Il sistema sanzionatorio di tipo dualistico introdotto dal codice Rocco, la
cui elaborazione fu promossa da esigenze di difesa sociale particolarmente avver-
tite dal regime del tempo impegnato a contrastare la dilagante criminalità che ca-

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ratterizzava la situazione italiana a cavallo tra il XIX ed il XX secolo (1), trova


operatività anche in relazione ai soggetti minorenni (2). Il gravissimo problema
della delinquenza minorile, particolarmente avvertito agli inizi del secolo scorso,
non determinò infatti la predisposizione di una distinta codificazione (3): la rispo-
sta sanzionatoria al reato commesso da soggetti in giovane età fu affidata, al pari
di quanto previsto per gli adulti, alla concorrenza di pene e misure di sicurezza ba-
sate sui diversi presupposti soggettivi dell’imputabilità e della pericolosità so-
ciale (4).
Nonostante l’omogeneità di disciplina tra sistema generale e sistema minorile
e la mancata predisposizione di un’autonoma codificazione, il legislatore del
tempo aveva differenziato la normativa in materia minorile attraverso specifiche
previsioni che tenevano conto delle particolari istanze che caratterizzano l’età evo-
lutiva: l’esigenza di specializzazione della disciplina trovò soddisfazione proprio in
relazione al sistema sanzionatorio e, ancor prima, nelle previsioni concernenti le
condizioni personali del reo, data l’interdipendenza funzionale che caratterizza
questi istituti (5).

(1) Cfr., per tutti, E. MUSCO, voce Misure di sicurezza, in Enc. dir., Aggiornamento, I, Milano,
1997, p. 763.
(2) Che le esigenze di prevenzione fossero particolarmente avvertite anche in ordine ai delinquenti
minorenni risulta in modo esplicito dai lavori preparatori del codice ROCCO: cfr. Relazione Ministeriale
sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura
penale, V, Roma, 1929, n. 203.
(3) Risale al 1912 il tentativo di redigere un Codice dei minorenni: l’elaborazione fu affidata ad
una commissione presieduta dal senatore Oronzo Quarta, dal quale prese il nome il relativo progetto che,
però, non ebbe seguito (cfr. G. PACE, Il discernimento dei fanciulli. Ricerche sulla imputabilità dei minori
nella cultura giuridica moderna, Torino, 2000, p. 156 ss.).
In realtà, l’esigenza di riservare ai minori autori di reato un trattamento giuridico differenziato ri-
spetto a quello previsto per gli adulti ha radici antichissime: già nel diritto romano era prevista la totale
impunità per i c.d. infantes, cioè per i minori di sette anni, mentre gli impuberes (così erano definiti i sog-
getti di età compresa tra i sette ed i quattordici anni se maschi, e tra i sette ed i dodici anni se femmine)
erano puniti solo se doli capaces, cioè se avevano agito con dolo, e se non si trattava di un reato omissivo;
i puberes (tali erano i ragazzi dai quattordici anni — dodici se femmine — in su), infine, erano considerati
doli capaces a pieno titolo, ma andavano incontro ad un trattamento punitivo meno severo fino al rag-
giungimento della maggiore età. Tale partizione dell’età, accolta dai giuristi medievali, influenzò le codifi-
cazioni preunitarie e, attraverso il codice Zanardelli, ha trovato ulteriore elaborazione nel codice vigente
(cfr. G. PACE, op. cit., p. 11 ss., al quale si rinvia per una attenta analisi storica sulla problematica dell’im-
putabilità minorile).
Non altrettanto radicata, invece, è la specializzazione dell’organo giudicante per i minori. L’Italia,
infatti, è stato il penultimo Paese (dopo la Svizzera) a provvedere all’istituzione del Tribunale per i mino-
renni, introdotto dal r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404: cfr. L. DE CATALDO NEUBURGER, Analisi storico-giuri-
dica del sistema del processo penale minorile, in Crit. pen., 1990, p. 13.
La differenziazione della risposta istituzionale al reato commesso dal minore, non potendo prescin-
dere sia da una preliminare determinazione dello stadio evolutivo a partire dal quale l’uomo è in grado di
comprendere l’illiceità del comportamento ed il significato della reazione sanzionatoria, sia dalla gradua-
zione dell’intervento in ragione delle caratteristiche di un soggetto psichicamente e fisicamente in forma-
zione, comporta non solo l’indispensabile avallo di altre scienze ai fini dell’individuazione dello stadio di
non imputabilità, ma anche il fondamentale confronto con tutte le altre istituzioni, inclusa la famiglia,
coinvolte nel processo educativo del minore. L’estrema variabilità, nel tempo e nello spazio, delle solu-
zioni adottate, è dovuta proprio a queste complesse intersezioni tra discipline differenti: cfr. M. BOU-
CHARD, voce Processo penale minorile, in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 137 ss., cui si rinvia per
una breve sintesi sull’evoluzione storica del processo penale minorile.
(4) Per una recentissima riproposizione del quadro delle sanzioni criminali e dei relativi presuppo-
sti personali, comprensivo ora di un ‘‘terzo’’ binario, v. G. DE VERO, Introduzione al diritto penale, To-
rino, 2002, p. 73 ss. e 243 ss.
(5) Particolarmente significative sono le indicazioni che emergono dalla lettura dei lavori prepara-
tori: ‘‘La soluzione offerta dal Progetto, del gravissimo problema della delinquenza minorile ... s’inquadra
nel programma del Governo fascista, mirante alla salvezza fisica e morale dei giovani virgulti della stirpe,
che ha culminato nella creazione dell’Opera Nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia
[...]. Nel Progetto la personalità del minore è obbietto di cure assidue, perché questi possa essere salvato
nei primi disorientamenti, e ricondotto sulla diritta via. Il potere discrezionale, concesso al giudice, di ri-
conoscere o meno l’esistenza delle condizioni dell’imputabilità nel periodo dai 14 anni ai 18; le facoltà

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Le norme in tema di imputabilità individuano con estrema linearità due cate-


gorie di individui in cui difetta la capacità di intendere e di volere: i soggetti che
non hanno un sufficiente sviluppo intellettuale e quelli affetti da gravi anomalie
psichiche; il contenuto sostanziale dell’imputabilità, pertanto, va ravvisato nella
maturità psichica e nella sanità mentale (6). Naturalmente è ben possibile che si
verifichino delle intersezioni tra le categorie concettuali che coinvolgono la perso-
nalità in età evolutiva e quelle che, indifferentemente, possono riguardare adulti e
minori: ci si riferisce all’eventualità in cui il minore sia affetto da alterazioni o de-
ficienze psichiche patologiche, tossiche o dovute a minorazione fisica.
Specularmente è ravvisabile, sul piano sanzionatorio, una distinzione delle
misure da applicare ai delinquenti socialmente pericolosi in ragione delle cause
che ne condizionano l’imputabilità (7). Trattandosi di soggetti pienamente impu-
tabili, cioè di soggetti maggiori di età — per i quali la maturità psichica si pre-
sume pienamente conseguita al compimento del diciottesimo anno — e sani di
mente, troveranno applicazione tutte le misure di sicurezza previste dal codice pe-
nale per i delinquenti pericolosi ed imputabili, ad eccezione chiaramente del rifor-
matorio giudiziario, che è appunto ‘‘misura di sicurezza speciale per i minori’’
(art. 223 c.p.) e che, per gli adulti, trova il suo corrispondente nell’assegnazione
ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro (art. 216 c.p.) (8). Laddove, in-
vece, pur in presenza del requisito della sanità mentale, manchi o difetti la matu-
rità psichica, potranno operare le misure del riformatorio giudiziario e della li-
bertà vigilata: queste ultime sono applicabili sia nei confronti dei minori non im-
putabili per ragioni di età o ritenuti tali ai sensi dell’art. 98 c.p., che di quelli
(semi)imputabili, trovando esecuzione, per questi ultimi, dopo la pena (artt. 224 e
225 comma 1) (9). L’esigenza di specializzazione della misura da applicare scatu-
risce, dunque, dalla diversa condizione di (im)maturità che caratterizza il minore
rispetto al soggetto adulto (10).

concessegli di astenersi dal giudizio o dalla condanna, di sospendere la esecuzione, e, in determinati casi,
di perdonare al minore degli anni 18, sono i cardini del sistema. Ma questo può intendersi in tutta la sua
portata, solo tenendo presente la disciplina delle misure di sicurezza, che possono essere inflitte al mi-
nore, ed il trattamento penitenziario, al quale egli deve essere sottoposto’’: Relazione, cit., n. 107.
La previsione di una soglia minima di età sotto la quale è sancita l’impunità, la differenziazione del
trattamento processuale e sanzionatorio tra adulto e minore, la specializzazione dell’organo giudicante,
costituiscono, ormai, le linee guida della normativa internazionale in materia minorile. Ci si riferisce, in
particolare, alla raccomandazione dell’assemblea dell’ONU concernente le Regole minime per l’ammini-
strazione della giustizia minorile approvata il 29 novembre 1985 (cosiddette ‘‘regole di Pechino’’) ed alla
Convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall’ONU il 20 novembre 1989 e ratificata e resa esecutiva
in Italia con la l. 27 maggio 1991, n. 176: cfr., per tutti, L. PEPINO, voce Imputato minorenne, in Dig.
disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, p. 287.
(6) Cfr., con particolare chiarezza, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, a cura
di L. Conti, 15a ed., Milano, 2000, p. 608.
(7) I lavori preparatori fanno esplicito richiamo al ‘‘principio della necessaria specializzazione
delle misure di sicurezza, in relazione alla speciale pericolosità delle persone’’: Relazione, cit., n. 222.
(8) Ciò risulta non solo in modo pressoché esplicito dalle disposizioni di cui agli artt. 223 comma
2, 226 comma 1, 231 comma 2 c.p., ma dagli stessi lavori preparatori del codice penale: cfr. Relazione,
cit., nn. 228 e 229.
(9) Il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata trovavano sempre applicazione qualora il minore
fosse stato condannato per delitto durante l’esecuzione di una misura di sicurezza precedentemente inflit-
tagli per difetto di imputabilità (art. 225 comma 2 c.p.). Inevitabile era poi l’operatività della misura del
riformatorio giudiziario in presenza delle forme di pericolosità specifica (art. 226 c.p.). A seguito dell’a-
bolizione dell’istituto della pericolosità presunta per effetto dell’art. 31 l. 10 ottobre 1986, n. 663, l’appli-
cazione di tali misure è comunque subordinata all’accertamento della pericolosità sociale del minore. Sul
particolare contenuto che l’accezione di pericolosità sociale minorile ha assunto a seguito del d.P.R. n.
448 del 1988, v. infra, nota 68.
(10) È da escludere che il minore infradiciottenne possa essere considerato imputabile ai sensi del-
l’art. 98 c.p. quando abbia un livello di maturità psichica assimilabile a quello presunto nel soggetto in
età adulta. Se così fosse, dovrebbe ritenersi, come pure è stato sostenuto, che il legislatore ha indicato nel
‘‘diciottenne normale’’ il parametro alla stregua del quale giustificare la reazione punitiva nei confronti

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Non altrettanto può dirsi in relazione all’eventualità in cui difetti il requisito


della sanità mentale (11). Abbiamo già avuto modo di precisare che alterazioni o
deficienze psichiche patologiche, tossiche o dovute a minorazione fisica, possono
riguardare indifferentemente tanto i soggetti in età adulta, quanto i minori (12).
Ora, se la diversa condizione di (im)maturità che caratterizza il minore rispetto al
soggetto adulto giustifica l’adozione di speciali misure che tengano conto delle
particolari esigenze di recupero di un soggetto la cui personalità è ancora in for-
mazione, la presenza di cause di tipo bio-patologico in grado di incidere tanto sul-
l’adulto quanto sul minore possono legittimare l’adozione di una stessa misura di
sicurezza; il problema, semmai, potrebbe porsi nella diversa fase della esecuzione
della sanzione, potendo la condizione minorile imporre la necessità della predispo-
sizione di particolari strutture che tengano conto delle istanze inevitabilmente
connesse all’età evolutiva.
Quanto detto spiega l’originaria esplicita inclusione del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario nel novero delle misure di sicurezza applicabili ai mi-
nori (13). Questa misura era prevista in modo indifferenziato per adulti e minori,
non imputabili ed in stato di infermità psichica, di intossicazione cronica da alcool
o da sostanze stupefacenti, o di sordomutismo, e ciò in vista della duplice fun-
zione cui essa avrebbe dovuto assolvere: la cura del soggetto e la tutela dei conso-
ciati rispetto alla pericolosità di quest’ultimo.
Viceversa, nessuna esplicita indicazione è possibile rintracciare nel codice pe-
nale in ordine alla misura da applicare al minore affetto da vizio parziale di mente
del quale sia stata riconosciuta la pericolosità sociale. Le considerazioni fin qui
svolte sembrerebbero incoraggiare, anche per siffatte ipotesi, l’applicazione della
misura del ricovero in una casa di cura e di custodia, apparentemente riservata
agli adulti. Né, trattandosi di minore infradiciottenne del quale sia stata ricono-
sciuta la (semi)imputabilità, potrebbero porsi problemi di concorrenza con la spe-
ciale misura del riformatorio giudiziario; lo stesso art. 219, al comma 4, esclude
l’applicabilità di qualsiasi altra misura di sicurezza detentiva ‘‘quando deve essere

del minore; sennonché, laddove il legislatore avesse ritenuto punibile solo il minore che ha acquisito quel
bagaglio di esperienze, conoscenze e capacità volitive di autocontrollo ravvisabili nel soggetto che ha com-
piuto i diciotto anni, avrebbe dovuto elevare di molto l’età imputabile, non essendo ipotizzabile un quat-
tordicenne con un livello maturativo di un diciottenne normale: cfr. A. C. MORO, Manuale di diritto mi-
norile, 2a ed., Bologna, 2000, p. 423. Nel senso qui criticato A. BARSOTTI-G. CALCAGNO-C. LOSANA-P.
VERCELLONE, Sull’imputabilità dei minori tra 14 e 18 anni, in questa Rivista, 1975, p. 1232 ss., secondo
cui il legislatore, presumendo la sussistenza della capacità di intendere e di volere nel diciottenne, ed indi-
cando i difetti di capacità rilevanti in ragione di cause diverse dall’incompiuto sviluppo della personalità
psichica, avrebbe fatto riferimento al livello medio di maturità del ragazzo di 18 anni. Ciò troverebbe con-
ferma e non smentita, come da taluno obiettato (per tutti A.C. MORO, op. cit., p. 423), nella obbligatoria
diminuzione di pena prevista dall’art. 98 c.p.: ai sensi di tale disposizione, infatti, il minore infradiciot-
tenne che ha la capacità di intendere e di volere è imputabile, ma (cioè: nonostante questo) la pena è di-
minuita.
(11) Poiché tanto le alterazioni tossiche quanto quelle dovute a minorazione fisica in tanto rile-
vano in quanto abbiano prodotto effetti analoghi a quelli previsti dalle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89
c.p., per comodità espositiva d’ora innanzi si farà riferimento al vizio totale o parziale di mente.
(12) Cfr. Cass., sez. I, 15 febbraio 1990, n. 2083, Agostinelli, inedita, secondo cui ‘‘immaturità e
infermità mentale sono concetti ontologicamente diversi e i due stati possono, in un minore d’età, coesi-
stere o meno’’; v. anche, fra le altre, Cass. sez. I, 17 marzo 1983, n. 2147, Greco, inedita.
(13) Più precisamente, il legislatore aveva preso esplicita posizione sull’applicabilità della misura
dell’ospedale psichiatrico giudiziario ai minori nel quarto comma dell’art. 222 c.p., specificando che essa
avrebbe dovuto operare anche nei confronti dei minori prosciolti per ragioni di età; ciò implicava chiara-
mente che tale misura di sicurezza dovesse applicarsi ai minori innanzitutto nel caso di proscioglimento
per vizio totale di mente ai sensi del primo comma dello stesso art. 222. Per l’attuale inapplicabilità ai mi-
nori della misura dell’ospedale psichiatrico giudiziario a seguito della declaratoria di incostituzionalità in-
tervenuta sull’art. 222 c.p., v. oltre.
La denominazione ‘‘ospedale psichiatrico giudiziario’’, in luogo dell’originario riferimento al ‘‘mani-
comio giudiziario’’, è stata introdotta dall’art. 62 dell’ord. penit. (l. 26 luglio 1975 n. 354), ma, nella so-
stanza, l’istituto è rimasto invariato.

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ordinato il ricovero in una casa di cura e di custodia’’ (14): ciò ad ulteriore prova
della specialità del riformatorio unicamente rispetto alla misura dell’assegnazione
a una colonia agricola o ad una casa di lavoro, dovendosi riconoscere, a parità di
sanità mentale, la peculiarità della condizione minorile rispetto al soggetto in età
adulta.
Del resto una conferma dell’interpretazione qui avanzata viene dalla disci-
plina dei casi di ‘‘trasformazione di misure di sicurezza’’: per quanto disposto dai
commi secondo e terzo dell’art. 212 c.p., laddove un’infermità psichica colpisca
una persona sottoposta a misura detentiva il giudice deve ordinarne il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia; cessata l’infer-
mità, e persistendo la pericolosità sociale, dovrà ordinarne l’assegnazione ad una
colonia agricola o ad una casa di lavoro ovvero ad un riformatorio giudiziario, se
non ritiene di dover applicare la libertà vigilata. È allora difficile credere che il so-
pravvenire di una infermità determinasse, per il soggetto in età adulta, la possibi-
lità di ricorrere al trattamento maggiormente adeguato alla condizione psichica in
cui versa (ospedale psichiatrico o casa di cura e di custodia); mentre, il minore —
a volersi escludere la sua ricoverabilità in casa di cura e di custodia — sarebbe do-
vuto andare incontro alla trasformazione incondizionata del riformatorio giudizia-
rio in ospedale psichiatrico giudiziario a prescindere dall’entità dell’infermità so-
pravvenuta, oppure, adottandosi un’interpretazione maggiormente rispettosa del
principio di tassatività, al permanere della originaria misura detentiva del riforma-
torio quando la condizione psichica in cui versa sia riconducibile alle previsioni di
cui al comma 1 dell’art. 219 e non dell’art. 222 c.p. Ove sussistessero ancora
dubbi, si tenga infine presente che l’art. 258 del regolamento per gli istituti di pre-
venzione e pena (r.d.l. 18 giugno 1931, n. 787), prevedendo l’assegnazione dei
minori infradiciottenni a sezioni speciali delle case di cura e di custodia, aveva
operato una sorta di interpretazione autentica dell’art. 219 c.p. cui, evidente-
mente, dovrebbe riconoscersi ‘‘forza di generale statuizione’’ (15).
Se l’interpretazione sistematica appena prospettata è esatta, in base all’origi-
naria disciplina codicistica le misure di sicurezza applicabili ai minori erano non
soltanto il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata, ma altresì il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario (16) e — nonostante l’assenza di un’esplicita in-
dicazione a riguardo — l’assegnazione a una casa di cura e di custodia (17).
3. La necessità di provvedere alla limitata specificità delle norme proces-
suali in materia minorile portò alla emanazione del d.P.R. 22 settembre 1988, n.
488, volto a disciplinare, appunto, il processo penale a carico di imputati mino-
renni (18). La nuova normativa, la cui finalità è quella di adeguare i principi gene-

(14) Come è possibile leggere negli stessi lavori preparatori del codice penale, ‘‘il fondamento
della disposizione sta... nella incompatibilità logica della misura di sicurezza con altra detentiva, attesi gli
scopi di cura ad essa inerenti’’: Relazione, cit., n. 230.
(15) I. BAVIERA, Diritto minorile, vol. II, 3a ed., Milano, 1976, p. 159.
(16) V. retro, nota 13.
(17) Sostiene di contro l’inapplicabilità ai minori di quest’ultima misura, R. RICCIOTTI, La giustizia
penale minorile, 2a ed., Padova, 2001, p. 191, secondo cui tale interpretazione negativa è imposta dal
principio di tassatività della legge penale.
(18) Il r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, che aveva provveduto all’istituzione del tribunale per i mino-
renni, costituì un intervento alquanto modesto anche in ragione del suo contenuto normativo composito
caratterizzato dalla presenza di disposizioni di natura ordinamentale, processuale penale, amministrativa
e civile (cfr. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV. Il processo penale minorile, a cura
di G. Giostra, Milano, 2001, p. 4, al quale si rinvia per un ampio ed analitico studio della normativa pro-
cessualpenalistica attualmente vigente nel settore minorile). Ancora una volta, però, la specificità minorile
non suggerì l’emanazione di una distinta codificazione: la l. 16 febbraio 1987, n. 81 (in G.U. 16 marzo
1987, n. 62, Supplemento ordinario) delegava il Governo ad emanare il nuovo codice di procedura penale
(art. 1 l.d.) e a ‘‘disciplinare il procedimento a carico di imputati minorenni al momento della commis-

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rali del rinnovato processo penale alle esigenze ‘‘imposte dalle particolari condi-
zioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educa-
zione’’ (19), pone a suo fondamento i principi generali elaborati in materia dalla
normativa internazionale (20). Il processo minorile viene così a caratterizzarsi in
senso specifico ed ordinato con grande attenzione alle esigenze della personalità in
età evolutiva (21).
In realtà, l’assetto normativo conseguente all’intervento legislativo del 1988 è
tutt’altro che chiaro. La nuova disciplina pone problemi di raccordo con la norma-
tiva preesistente non solo sul piano processuale, a causa dell’assenza di un’espli-
cita abrogazione della disposizioni previgenti, ma anche su quello sostanziale (22).
L’articolato, suddiviso in quattro parti, regola all’ultimo capo il procedimento

sione del reato secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni
imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua
educazione’’, nonché, in particolare, dall’attuazione degli specifici criteri puntualmente indicati nella de-
lega (art. 3 l.d.). Il d.P.R. n. 448 del 1988 disciplina appunto gli istituti e le attività processuali per i quali
è imprescindibile un’autonoma normativa nell’eventualità in cui sia coinvolto, in veste di imputato, un mi-
nore, rinviando, per quanto da esso non previsto, al nuovo codice di procedura penale: cfr. prima parte
del primo comma dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988. Come è possibile leggere nella relazione al progetto
definitivo del decreto di attuazione, l’art. 1 del d.P.R. n. 448 del 1988, lungi dall’essere una norma di
mero rinvio, vuole affermare che il processo minorile ha regole e valenze sue proprie, ma è e rimane un
processo con tutte le garanzie ordinarie: cfr. Relazione al testo definitivo delle disposizioni sul processo
penale a carico di imputati minorenni, in Gazz. Uff. n. 250, 24 ottobre 1988, p. 219.
Per un’attenta analisi dell’evoluzione storica del sistema penale minorile v. L. DE CATALDO NEUBUR-
GER, op. cit., p. 3 ss.
(19) Così, espressamente, art. 3 l. 16 febbraio 1987, n. 81.
(20) Nella relazione al testo definitivo del d.P.R. n. 448 del 1988, infatti, si fa esplicito richiamo
alle ‘‘Regole di Pechino’’ ed alla Raccomandazione 87/20 del Consiglio d’Europa concernente ‘‘Le rea-
zioni sociali alla delinquenza minorile’’, approvata dal Comitato dei Ministri nella seduta del 17 settembre
1987: ‘‘Queste solenni enunciazioni dei due alti consessi internazionali ribadiscono il diritto del mino-
renne a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano un rinforzo: ma anche pongono in guardia dai rischi
e dai pregiudizi che possono derivare al minorenne dal contatto con l’apparato della giustizia e dall’in-
gresso nel circuito penale; e sollecitano misure che riducano tali rischi, che favoriscano la chiusura antici-
pata del processo nei casi più lievi, che consentano una ‘uscita dal penale’ attraverso interventi precoci di
sostegno e di messa alla prova, che assicurino la specializzazione degli organi e degli operatori della giu-
stizia minorile a tutti i livelli’’: cfr. Relazione al testo definitivo, cit., p. 217.
(21) Cfr. Relazione al testo definitivo, cit., p. 218. Il processo penale minorile, dunque, pur man-
tenendo la sua autonomia, non si concretizza in un sistema genuinamente autarchico, ma sussidiario; al
principio di sussidiarietà fa da necessario completamento quello di adeguatezza applicativa. Una volta de-
limitato il quadro normativo del procedimento a carico di imputati minorenni, secondo quando disposto
dalla proposizione di esordio del primo comma dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, è necessario applicare la
normativa individuata ‘‘in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne’’: cfr.
seconda parte del comma 1 dell’art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988. Per un articolato esame delle problematiche
concernenti i principi di sussidiarietà ed adeguatezza applicativa v. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448
del 1988, in Il processo penale minorile, cit., p. 7 ss.
(22) La clausola di riserva utilizzata dal legislatore nell’art. 1 del d.P.R. n. 448 del 1988, rinviando
al codice di procedura penale per quanto da esso non previsto e non anche per quanto non previsto da al-
tre disposizioni, indurrebbe a ritenere implicitamente abrogate le norme processualpenalistiche in materia
minorile anteriori al suddetto decreto: cfr. G. GIOSTRA, sub art. 1 d.P.R. n. 448 del 1988, in Il processo
penale minorile, cit., p. 4, secondo cui l’opposta interpretazione, che ritiene in vigore le disposizioni del
r.d.l. n. 1404 del 1934 non incompatibili con il c.p.p. e con il d.P.R. n. 448 del 1988, avrebbe avuto ra-
gion d’essere laddove la ‘‘formula di salvezza’’ avesse prescritto, nel procedimento a carico di minorenni,
l’osservanza delle disposizioni del decreto medesimo e quelle del codice di procedura penale non ‘‘per
quanto da esse non previsto’’, ma ‘‘per quanto da esse o da altre disposizioni non previsto’’, con una clau-
sola già adottata per il rito pretorile ed oggi pedissequamente riprodotta per il procedimento innanzi al
tribunale in composizione monocratica (cfr. art. 549 c.p.p.). Del resto, lo stesso legislatore del 1934
aveva espressamente fatto salva la disciplina previgente stabilendo in modo esplicito quali dovessero es-
sere i limiti dell’efficacia derogativa della legge: secondo quanto previsto dall’art. 34 del r.d.l. n. 1404,
nelle materie regolate dal decreto in quanto non fosse disposto o modificato dal decreto medesimo, avreb-
bero dovuto continuare ad osservarsi le norme dei codici, delle leggi e dei regolamenti in vigore: evidente-
mente, una volta ridisciplinata la materia, l’assenza di questa esplicita previsione avrebbe determinato l’a-
brogazione della normativa previgente. Contra, G. SPANGHER, in Commento al codice di procedura pe-
nale, Leggi collegate. Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1994, p. 25, secondo cui,
in mancanza di disposizioni abrogative espresse e nella legge delega e nel d.P.R. n. 448 del 1988, la nor-

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per l’applicazione delle misure di sicurezza (23); sennonché la mancata previsione


di una disciplina delle modalità processuali per l’irrogazione di alcune delle misure
previste dalla normativa sostanziale sembrerebbe averne determinato, di fatto, l’a-
brogazione. La lettura dell’art. 36 del d.P.R. n. 448 del 1988 indurrebbe invero a
ritenere che le uniche misure di sicurezza attualmente applicabili ai minori siano
la libertà vigilata ed il riformatorio giudiziario (24); eppure, l’assenza di una previ-
sione analoga a quella disposta in termini tassativi per le misure cautelari (25) in-
duce ad escludere una tacita abrogazione delle altre misure che, dunque, devono
considerarsi, in via di principio, operative.
Si rende a tal punto necessaria una scansione della disciplina delle misure di
sicurezza attualmente vigente, al fine di verificarne l’operatività nel sistema penale
minorile con particolare riferimento alla questione messa in risalto dalla pronun-
cia in commento: l’individuazione della misura applicabile al minore autore di
reato e socialmente pericoloso la cui inimputabilità (totale o parziale) sia determi-
nata da cause di tipo bio-patologico.
Le prime riflessioni riguardano proprio gli istituti disciplinati dall’art. 36
d.P.R. n. 448 del 1988: il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata.
Secondo quanto previsto da tale disposizione, mentre il riformatorio giudizia-
rio è eseguito nelle forme del collocamento in comunità, la libertà vigilata è ese-
guita attraverso l’imposizione di prescrizioni o l’adozione del provvedimento della
permanenza in casa (26). L’assimilazione delle modalità applicative di tali misure
a quelle prescritte per i provvedimenti cautelari, sia pur determinata dall’esigenza
di armonizzare la disciplina esecutiva di istituti comunque incidenti sulla libertà
personale, si espone ad alcune riserve (27).
Le diverse finalità cui sono preposti i provvedimenti cautelari e le misure di
sicurezza richiedono una diversificazione dei presupposti e delle modalità esecu-
tive degli stessi (28). Si aggiunga che la formulazione dell’art. 36 si presta a pro-
blemi interpretativi circa l’effettivo significato da attribuire al rinvio in essa pre-
visto: deve esso intendersi limitato alla disciplina delle ‘‘forme’’ o esteso all’intera
regolamentazione contemplata nelle norme richiamate? La questione è di non
poco conto; si pensi all’individuazione della disciplina da applicare in caso di tra-
sgressione della misura prescritta: laddove si adotti un’interpretazione che limiti il
richiamo alle disposizioni in tema di provvedimenti cautelari alla sole modalità
esecutive degli stessi, troveranno applicazione gli art. 214 e 231 c.p.; accedendo,
invece, ad una lettura estensiva della formula di rinvio, dovrebbero ritenersi appli-
cabili anche le disposizioni di cui agli artt. 22, comma 4, 20, comma 3 e 21

mativa dettata dal r.d.l. n. 1404 del 1934 deve ritenersi in vigore nelle parti non incompatibili con il co-
dice di procedura ordinaria e con le disposizioni sul processo penale minorile.
(23) Il capo I concerne i principi fondamentali della materia e disciplina l’aspetto ‘‘statico’’ del
processo; il capo II è interamente dedicato ai provvedimenti in materia di libertà personale; nel capo III,
invece, è disciplinato l’aspetto ‘‘dinamico’’ del processo.
(24) Cfr. A.C. MORO, op. cit., p. 437.
(25) Ai sensi dell’art. 19 comma 1 d.P.R. n. 448 del 1988 ‘‘nei confronti dell’imputato minorenne
non possono essere applicate misure cautelari personali diverse da quelle previste’’ nel capo del decreto
ad esse relativo: cfr. C. PANSINI, Applicazione provvisoria di misure di sicurezza nel nuovo processo pe-
nale minorile (a proposito della sent. cost. n. 182 del 1991), in Giur. cost., 1991, p. 4134 s.
(26) Ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, ‘‘la misura di sicurezza della libertà vigilata appli-
cata nei confronti di minorenni è eseguita nelle forme previste dagli artt. 20 e 21. La misura di sicurezza
del riformatorio giudiziario è applicata soltanto in relazione ai delitti previsti dall’art. 23, comma 1, ed è
eseguita nelle forme dell’art. 22’’.
(27) Cfr. M.G. COPPETTA, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV., Il processo penale mino-
rile, a cura di G. Giostra, Milano, 2001, p. 436 s.
(28) Cfr. L. FORNARI, Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile?, in questa Ri-
vista, 1993, p. 634.

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comma 5 d.P.R. n. 448 del 1988, con l’inevitabile effetto ‘‘a cascata’’ che contrad-
distingue la trasgressione delle misure cautelari (29).

(29) F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento al codice di procedura penale,
leggi collegate I, Il processo minorile, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1994, p. 396. Per quanto ri-
guarda, in particolare, la trasgressione della misura del riformatorio giudiziario, sostengono l’operatività
del comma 4 dell’art. 22 d.P.R. n. 448 del 1988, e, dunque, l’applicazione della custodia cautelare, R.
RICCIOTTI, op. cit., p. 208 in nota; F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. 488 del 1988, in Commento, cit., p. 398
s., la quale ha precisato che ‘‘si può comunque ipotizzare che il minore collocato in comunità, il quale tra-
sgredisca gravemente e ripetutamente le prescrizioni, possa essere trasferito più volte nell’istituto peniten-
ziario, anche se per un periodo massimo di trenta giorni’’.
Questo orientamento trova conforto nella giurisprudenza di legittimità: v. Cass. 16 gennaio 1991, in
Cass. pen., 1992, p. 1507, secondo cui ‘‘in materia di misure di sicurezza, il rinvio operato dall’art. 36
d.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, per le modalità di esecuzione della misura di sicurezza riguardante i mi-
nori, all’art. 22 stesso decreto implica l’applicabilità della complessiva disciplina prevista in tale articolo,
anche per quanto riguarda la sanzione contemplata nel comma quarto, ma non trasforma la misura di si-
curezza in una misura cautelare, perché è stata attuata una trasposizione di forme e di modalità esecutive
e non una sovrapposizione e identificazione degli istituti, che rimangono ben differenziati per ciò che at-
tiene ai loro presupposti, alle rispettive finalità e alla disciplina propria che non riguarda le modalità ese-
cutive. Ne consegue che anche la restrizione prevista dal quarto comma del citato art. 22 costituisce un
inasprimento sanzionatorio della misura di sicurezza prevista per reprimere gravi e ripetute inosservanze
alla disciplina nel corso dell’esecuzione della misura o allontanamenti ingiustificati’’. La Corte Suprema,
però, esclude la sostituzione del collocamento in comunità con la custodia cautelare nei confronti dei mi-
nori infraquattordicenni, data la loro inimputabilità: Cass. 10 settembre 1997, n. 4847, D’Andrea, CED
Cass. 208350. Contra G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico al
cod. pen., vol. III, Milano, 1994, p. 470; F. PALOMBA, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Mi-
lano, 1991, p. 566; C. PANSINI, op. cit., p. 4134; S. DI NUOVO-G. GRASSO, Diritto e procedura penale mi-
norile, Milano, 1999, p. 461. Per questa opposta interpretazione, in caso di trasgressione delle prescri-
zioni inerenti al collocamento in comunità, deve trovare applicazione la disciplina generale di cui all’art.
214 c.p., che prevede un nuovo decorso della stessa misura di sicurezza. Tale conclusione sarebbe impo-
sta, oltre che dalla lettera dell’art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, dalla diversità ontologica dei due istituti
(misura di sicurezza l’una, misura cautelare l’altra): G. GRASSO, Commentario, cit., p. 470.
Non sono mancate interpretazioni volte a sostenere la contestuale operatività degli artt. 22, comma
4 d.P.R. n. 448 del 1988 e 214 c.p., per cui, in caso di trasgressione della misura del riformatorio giudi-
ziario, il minore dovrebbe essere sottoposto alla custodia in carcere per un nuovo mese, dovendo operare
ab initio il decorso della misura. In questo senso V. MUSACCHIO, Le misure di sicurezza nel nuovo pro-
cesso penale minorile, in Giust. pen., 1996, III, c. 57 s.; R. RICCIOTTI, op. cit., p. 209 s. Contra Cass., 16
gennaio 1991, cit., secondo cui ‘‘in materia di misure di sicurezza riguardanti minori, la nuova disciplina
introdotta dall’art. 36, comma secondo, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 488 sulla revisione delle moda-
lità esecutive della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, in coerenza con le finalità rieducative
e con le esigenze psicologiche dei minori, implica che non è più applicabile — in presenza della specifica
sanzione prevista dall’art. 22 comma quarto stesso decreto per il minore che si sottragga o contravvenga
alla misura di sicurezza e alla sua disciplina — la disposizione dell’art. 214 c.p., per una evidente incom-
patibilità sia con la disciplina di attuazione generale della misura sia con la specifica previsione normati-
va’’.
Invero, si è anche sostenuta l’inapplicabilità di entrambe le norme: all’impossibilità di una ‘‘progres-
sione sanzionatoria espressamente prevista per la sola violazione delle prescrizioni inerenti alle misure
cautelari’’, si aggiungerebbe, infatti, l’inutilità del ‘‘rimedio previsto dall’art. 214 c.p., vanificato dal fatto
che la ‘sanzione’ in esso prevista non sarebbe comunque coercibile’’: L. FORNARI, op. cit., p. 633.
Considerazioni analoghe a quelle svolte in tema di riformatorio giudiziario hanno indotto a soste-
nere l’operatività degli artt. 20, comma 3 e 21 comma 5 d.P.R. n. 448 del 1988 nel caso dell’inosservanza
degli obblighi relativi alla libertà vigilata. Secondo quest’indirizzo, ‘‘per un effetto a cascata, la misura
(meno afflittiva) della libertà vigilata potrà assumere addirittura forme detentive anche nel caso in cui si
sia inizialmente disposta la misura delle prescrizioni ex 20 disp. proc. min., sempre che il minore si dimo-
stri particolarmente restio all’inosservanza degli obblighi imposti e reiteri (anche nel corso della perma-
nenza in casa) le violazioni’’: F. PIRONTI, sub art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento, cit., p. 396 s.;
cfr. anche R. RICCIOTTI, op. cit., p. 215; contra G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 470; C. PANSINI, op.
cit., p. 4134; S. DI NUOVO-G. GRASSO, op. cit., p. 459. Più specificamente, si è obiettato che la vera que-
stione concerne l’applicabilità del comma 3 dell’art. 21 d.P.R. n. 448 del 1988, mentre nessun dubbio do-
vrebbe sussistere sull’operatività del comma 5 dell’art. 20 del medesimo decreto, ‘‘anche perché in questo
caso il giudice, applicando la misura della permanenza in casa, non ricorre che ad una delle due possibili
forme di esecuzione della stessa misura e cioè della libertà vigilata’’: G. GRASSO, in Commentario, cit., p.
473 s. Quanto alla prima delle disposizioni richiamate, invece, dovrebbe escludersene l’applicabilità, ri-
correndosi, per le ipotesi cui essa si riferisce, alla disciplina prevista dall’art. 231 c.p.. Ciò per due ordini
di ragioni: in primo luogo applicando l’art. 21 comma 5 anche alle trasgressioni della misura di sicurezza
della libertà vigilata si estenderebbe l’operatività del collocamento in comunità al di fuori delle ipotesi in-

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In proposito riteniamo maggiormente conforme alla lettera dell’art. 36 d.P.R.


n. 448 del 1988, oltre che al dettato della legge delega, l’interpretazione che, re-
stringendo il rinvio alle sole ‘‘forme’’ esecutive delle misure cautelari, sostiene la
vigenza delle norme codicistiche relativamente a tutti gli altri aspetti di disciplina
degli istituti di cui si discute (30) (31).
Si noti, inoltre, che la limitazione dell’operatività del riformatorio giudiziario
alle sole ipotesi in cui il minore abbia realizzato taluno dei delitti previsti nell’art.
23 comma 1 d.P.R. n. 448 del 1988, ha determinato l’assunzione di una funzione
residuale di questa misura a fronte del ruolo ordinario svolto, invece, dalla libertà
vigilata, applicabile a tutti i reati (32). Conseguentemente, laddove l’illecito com-
piuto dal minore rientri tra quelli che legittimano il ricorso alla custodia cautelare,
il giudice potrà optare per l’adozione dell’una piuttosto che dell’altra misura. In
proposito, in assenza di una indicazione legislativa esplicita in ordine ai criteri
guida nella scelta della sanzione da adottare, rilievo preponderante dovrà essere
dato alla finalità (ri)educativa del minore, preferendosi la libertà vigilata nel caso
in cui entrambe siano idonee a raggiungere lo scopo (33).
Nulla è cambiato, invece, quanto ai destinatari delle due misure, essendo en-
trambe applicabili sia agli infraquattordicenni che ai soggetti di età compresa tra i
quattordici ed i diciotto anni.
4. Come già anticipato, l’originaria disciplina codicistica aveva previsto in
modo esplicito il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario tra le misure desti-

dicate nell’art. 23 d.P.R. n. 448 del 1988; inoltre si giungerebbe all’‘‘inaccettabile conseguenza della sosti-
tuzione di una misura non-detentiva, quale la libertà vigilata, con altra detentiva, in palese contrasto con
il principio di legalità che permea l’intera disciplina delle misure di sicurezza’’: G. GRASSO, in Commenta-
rio, cit., p. 474.
(30) Per le interpretazioni conformi a quella da noi accolta, v. nota precedente, cui si rinvia per
una sia pur sintetica esposizione delle considerazioni utili a sostenerla.
(31) In realtà problemi interpretativi si pongono anche in relazione all’applicabilità dell’art. 232
c.p. che, con riferimento alla persona di età minore, prevede la sostituzione della libertà vigilata con il ri-
formatorio giudiziario in tre ipotesi: impossibilità di affidare il soggetto ‘‘ai genitori, o a coloro che ab-
biano l’obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale’’;
inopportunità di tale affidamento; manchevole manifestazione di ravvedimento. Sennonché, è stato rile-
vato che la sostituzione per difficoltà organizzative, come previsto dall’art. 232 c.p., commi 1 e 2, non solo
urta con la nuova fisionomia della libertà vigilata data la vasta gamma di modalità esecutive per essa pre-
vista, ma è anche inconciliabile con i limiti di operatività del riformatorio, applicabile solo per una ri-
stretta serie di delitti. Per gli stessi motivi dovrebbe escludersi l’operatività della sostituzione per mere ra-
gioni di opportunità, come prescritto dal comma 2 dell’art. 232 c.p.; né potrebbe essa considerarsi possi-
bile nel caso in cui il minore non dia prova di ravvedimento, come disposto dal comma 3 dell’articolo di
cui si discute, data la difficile conciliabilità di tale condizione soggettiva con i principi introdotti in mate-
ria di misure di sicurezza dalla più recente legislazione: G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 474 s.; cfr.
anche L. FORNARI, sub art. 232, in A. CRESPI-F. STELLA-G. ZUCCALÀ, Commentario breve al codice penale,
3a ed., Padova, 1999, p. 646. Del resto, laddove il mancato ravvedimento dovesse consistere in un’inos-
servanza delle prescrizioni comportamentali imposte al minore, troverebbe applicazione l’art. 231 c.p.: G.
GRASSO, in Commentario, cit., p. 475; contra, R. RICCIOTTI, op. cit., p. 202 e 215.
Minori incertezze sussistono, invece, sul superamento dell’art. 227 c.p. — peraltro scarsamente im-
piegato — per effetto dell’art. 36 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988: la creazione di stabilimenti o sezioni
speciali in ragione dell’intensità della pericolosità è strutturalmente incompatibile con la realtà comunita-
ria e con gli obiettivi che le sono propri: L. FORNARI, sub art. 227, in Commentario breve, cit., p. 640; G.
GRASSO, in Commentario, cit., p. 485; S. DI NUOVO-G. GRASSO, op. cit., p. 457; F. PIRONTI, sub art. 37
d.P.R. n. 448 del 1988, in Commento, cit., p. 400, in nota.
(32) Cfr. M.G. COPPETTA, sub art. 36, in Il processo penale minorile, cit., p. 437.
(33) M.G. COPPETTA, sub art. 36, in Il processo penale minorile, cit., p. 437. In realtà, un’indica-
zione implicita è rinvenibile nel rinvio operato dall’art. 37, comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988 alle condi-
zioni previste dall’art. 224 del codice penale fra cui figurano le ‘‘condizioni morali della famiglia in cui il
minore è vissuto’’: queste ultime, infatti, saranno elemento utile alla scelta della misura più confacente
alle necessità educative, consigliando di evitare l’affidamento del soggetto alla famiglia, quando risulti
inopportuno, e di preferire, dietro riscontri oggettivi, l’affidamento agli organismi della giustizia minorile:
V. MUSACCHIO, Il sistema delle misure di sicurezza minorili tra problematiche costituzionali, esigenze di
difesa sociale e necessità di rieducazione, in Giur. merito, 1996, p. 424.

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nate ai soggetti in età minore (34). Nonostante l’entrata in vigore del d.P.R. n.
448 del 1988 avesse messo in discussione l’eseguibilità di questa misura nei con-
fronti dei minori, non essendo essa prevista fra quelle per le quali la nuova norma-
tiva aveva disciplinato le modalità applicative, la dottrina prevalente, ritenendo
comunque operativo il comma 4 dell’art. 222 c.p., non mancò di sottolineare la
forte censurabilità dell’equiparazione in esso prevista tra adulti e minori (35); e
ciò a maggior ragione ove si consideri che l’art. 23 d.lgs. n. 272 del 1989, in attua-
zione delle nuove disposizioni sul processo penale minorile, aveva dato la possibi-
lità di disporre l’esecuzione delle misure cautelari della permanenza in casa e del
collocamento in comunità ‘‘in luogo di cura pubblico o privato’’ laddove il mino-
renne si trovasse in stato di infermità (36).
Nel 1998, i rilievi della dottrina trovarono eco nella giurisprudenza costitu-
zionale. Con la sentenza n. 324 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 222 commi 1 e 2, del Codice penale, ‘‘nella parte in cui prevede l’applica-
zione anche ai minori della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psi-
chiatrico giudiziario’’ non essendo prevista, per la sua esecuzione, alcuna modalità
che tenga conto delle specifiche esigenze dei minori (37); ha dichiarato altresì l’il-
legittimità costituzionale del comma 4 del medesimo articolo, che estendeva l’ap-
plicabilità della anzidetta misura anche al minore infermo di mente prosciolto a
cagione di età. Consapevole del vuoto normativo che tale pronuncia avrebbe com-
portato, la Consulta ha precisato che è compito del legislatore colmarlo ‘‘con pre-
visioni adeguate, anche in ordine all’apprestamento delle conseguenti misure orga-
nizzative e strutturali’’ (38).
In attesa di un intervento normativo in questa direzione si pone il problema
della ‘‘misura’’ da applicare al minore, socialmente pericoloso, in stato di infer-
mità psichica o in condizioni ad essa assimilate tali da comportare vizio totale di
mente e che sia stato prosciolto per tale causa; laddove il proscioglimento avvenga
invece per ragione d’età, potranno trovare applicazione le misure del riformatorio
giudiziario e della libertà vigilata da eseguirsi nelle forme per essi previste dal
d.P.R. n. 448 del 1988.
In realtà, già anteriormente alla pronuncia della Corte costituzionale, presso
i giudici di merito era invalsa la prassi di disporre, anche in caso di prosciogli-
mento per vizio di mente, le misure del riformatorio giudiziario o della libertà vi-
gilata, ritenute più idonee a rispondere alle particolari esigenze curative del mi-
nore (39). In linea con questo orientamento, a fronte della sopravvenuta declara-
toria di illegittimità della disposizione di cui all’art. 222 c.p., si è pronunciato il
Tribunale per i minorenni di Milano, avverso la cui decisione è stato presentato
l’appello che ha dato origine alla sentenza che qui si annota. Il giudice di primo
grado aveva assolto una minore ultraquattordicenne — accusata di aver com-
messo, in concorso con due coetanee, una serie di reati culminati nella consuma-
zione di un omicidio volontario — riconoscendola affetta da vizio totale di mente.
Accertatane la pericolosità sociale, le aveva poi applicato la misura di sicurezza
del riformatorio giudiziario, da eseguirsi nelle forme del collocamento in comunità
ex art. 22 d.P.R. n. 448 del 1988, ritenendo tale applicazione ‘‘conforme al prin-
cipio di legalità’’, ed in ciò confortato da una pronuncia della Corte di cassazione

(34) V. supra, par. 2.


(35) Cfr. G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 459.
(36) M.G. COPPETTA, sub art. 36, in Il processo penale minorile, cit., p. 448.
(37) Cfr. Corte cost. 24 luglio 1998 n. 324, in Giust. pen., 1999, I, c. 139.
(38) Cfr. Corte cost. 24 luglio 1998 n. 324, in Giust. pen., 1999, I, c. 143.
(39) Cfr. F. ZAVATARELLI, sub art. 224, in Codice penale commentato, a cura di E. DOLCINI-G.
MARINUCCI, vol. I, 1999, p. 1370; L. FORNARI, sub art. 222, in Commentario, cit., p. 630.

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che, nel 1999, aveva avuto modo di occuparsi della questione: sentenza cui il giu-
dice di merito rinvia (40).
Si rende a tal punto necessario un approfondimento, al fine di verificare gli
esatti termini in cui si è espressa la giurisprudenza di legittimità nel dichiarare ap-
plicabile la misura del riformatorio giudiziario anche al soggetto che, avendo com-
piuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto, sia stato riconosciuto non impu-
tabile per una delle cause indicate nel comma 1 dell’art. 222 c.p. Poiché ai sensi
del comma 3 dell’art. 224 c.p. tale misura trova applicazione nei confronti degli
infradiciottenni prosciolti ‘‘a norma dell’art. 98’’, cioè in quanto minori e non per
vizio di mente, si trattava di accertare se tale soluzione fosse compatibile con il
principio di legalità alla luce di quanto disposto dal comma 3 dell’art. 25 Cost. e
dall’art. 199 c.p.: applicando il riformatorio giudiziario ad un soggetto prosciolto
non già a cagione di età, ma per vizio totale di mente (sia pure trattandosi di un
minore), si profila infatti il rischio di applicare una misura di sicurezza al di fuori
dei casi previsti dalla legge.
La Suprema Corte ha concluso per l’esito positivo di tale accertamento, rite-
nendo che, benché l’infermità psichica di cui all’art. 88 c.p. e l’immaturità che
comporta l’esclusione dell’imputabilità ai sensi dell’art. 98 c.p. siano ‘‘cause onto-
logicamente diverse e tra di loro indipendenti’’, l’ampia formulazione dell’art. 98
c.p., cui il comma 3 dell’art. 224 rinvia, renderebbe tale disposizione ‘‘in sé idonea
a ricomprendere tutti i casi in cui il minore manchi della capacità di intendere e di
volere e quindi anche le ipotesi di vizio totale di mente’’ (41).
In realtà questa soluzione non sembra accettabile, né sotto il profilo della
compatibilità con il principio di legalità, né in ordine alle conseguenze pratiche cui
conduce.
Per quanto concerne l’asserita compatibilità con il principio di legalità, effetti-
vamente, venuta meno la norma di cui al comma 1 dell’art. 222, l’unica disposi-
zione cui potersi riferire per colmare la lacuna normativa creatasi è l’art. 224 c.p.
rubricato, appunto, ‘‘minore non imputabile’’. È pur vero, però, che quest’ultima
disposizione concerne i minori, socialmente pericolosi, non imputabili ai sensi de-
gli artt. 97 e 98, disposizioni, queste ultime, poste a conclusione del capo che, nel
primo libro del codice penale, è dedicato all’imputabilità. Ora, una lettura siste-
matica delle norme contenute in tale capo non può che condurre alla conclusione
che l’art. 98 concerne l’esclusione dell’imputabilità del minore in ragione della sua
immaturità intellettiva e volitiva, e non anche di una sua eventuale infermità (42):
dunque, benché l’art. 98 menzioni la capacità di intendere e di volere al pari degli
art. 85 ss., in realtà esso allude, più propriamente, alla maturità fisio-psichica del
minore (43). Ulteriore conferma di quanto detto viene proprio dall’ultimo capo-
verso dell’art. 224 c.p.: se il legislatore avesse voluto riconoscere all’art. 98 l’am-
pia formulazione oggi attribuitagli dalla Corte di cassazione, non ne avrebbe fatto
esplicito richiamo nella prima disposizione, in quanto sarebbe stato sufficiente il
riferimento al minore di anni diciotto ‘‘riconosciuto non imputabile’’, senza neces-
sità di precisare che detto riconoscimento debba avvenire ‘‘a norma dell’art.
98’’ (44).

(40) Cass. 19 maggio 1999, in Riv. pen., 1999, p. 866.


(41) Cass. 19 maggio 1999, cit. in nota 40.
(42) V. supra, par. 2.
(43) Cfr. M. ROMANO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico al codice penale, vol.
II, 2a ed., Milano, 1996, p. 74; BERTOLINO, sub art. 98, in Codice pen. commentato, a cura di E. DOLCINI-
G. MARINUCCI, vol. I, 1999, p. 855.
(44) Cfr. M. PORTIGLIATTI BARBOS-G. MARINI, La capacità di intendere e di volere nel sistema pe-
nale italiano, Milano, 1964, p. 83 s., secondo cui l’inciso ‘‘se egli sia riconosciuto non imputabile, a
norma dell’art. 98’’ ha ‘‘un valore indiziario ed interpretativo notevolissimo [...], la sua aggiunta al testo

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Se così è, si può affermare che il legislatore ha inteso dare un preciso conte-


nuto all’art. 98 e, conseguentemente, una precisa finalità all’art. 224 c.p.: non è
imputabile, ai sensi dell’art. 98, il minore che non ha raggiunto la maturità psi-
chica; tuttavia, e solo in questo caso, laddove se ne accerti la pericolosità sociale,
può esserne disposto il ricovero in un riformatorio giudiziario ai fini della sua rie-
ducazione. Quanto al minore incapace di intendere e di volere per cause patologi-
che tali da comportare vizio totale di mente, il proscioglimento dovrà avvenire ai
sensi dell’art. 88 c.p. (45).
Emerge così con chiarezza che il comma 4 dell’art. 222 c.p. aveva un senso
molto preciso nel contesto in cui era inserito: la ‘‘misura’’ da applicare al minore
affetto da vizio totale di mente, anche se prosciolto per cagione di età, avrebbe do-
vuto comunque consistere in un trattamento a carattere terapeutico (46). Ora, se
è indubbio che questo trattamento debba essere differenziato per i minori, è però
discutibile che esso possa essere adeguatamente promosso ricorrendo ad una mi-
sura a carattere certamente non terapeutico quale è il riformatorio giudiziario.
La decisione della Cassazione sopra richiamata, dunque, anche a volerla con-
siderare rispettosa della lettera dell’art. 224 (in virtù della dubbia ampia formula-
zione da Essa riconosciuta all’art. 98), non è comunque in linea con la ratio che a
tale norma deve essere attribuita, nel senso di limitare l’applicazione del riforma-
torio giudiziario ai minori non bisognosi di trattamento terapeutico. C’è da chie-
dersi fino a che punto il mero rispetto della lettera della legge possa allontanare
ogni dubbio di conflitto con il principio di legalità. Se è vero che l’interpretazione
analogica, vietata in diritto penale, comporta l’applicazione della norma al di là
del suo spazio semantico, è altrettanto vero che una corretta interpretazione della
norma penale presuppone il rispetto non solo della sua formulazione letterale, ma
anche della ratio ad essa sottesa: l’art. 14 delle disp. prel. c.c., infatti, stabilisce
che ‘‘le leggi penali [...] non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati’’
e l’individuazione di quei ‘‘casi’’ non può prescindere dalla considerazione delle fi-
nalità in vista delle quali la norma da applicare è stata emanata (47). Ne consegue

della disposizione significa [...] che il codice ha voluto delimitare, entro confini ben precisi, la sfera di
operatività dell’art. 98, sí da impedire che si facessero entrare, in questo, ipotesi proprie di altre norme’’.
(45) Cfr. M. ROMANO, op. cit., p. 77; M. BERTOLINO, sub art. 98, in Codice penale, cit., p. 855.
Si noti che il quarto comma dell’art. 228 del Progetto definitivo del codice Rocco, corrispondente al
quarto comma dell’attuale art. 222, faceva riferimento ai soli minori degli anni 14 che, trovandosi in una
delle condizioni indicate nel primo comma, avessero commesso un fatto di reato, senza accenno alcuno ai
minori infradiciottenni. Nella relazione che accompagnava tale Progetto, però, si precisava che nessun
dubbio doveva esservi sulla estensione della norma anche ai minori di età compresa tra i quattordici e i di-
ciotto anni ritenuti dal giudice non imputabili. L’attuale formulazione della disposizione, facendo esplicito
riferimento anche ai minori infradiciottenni, prosciolti per ragioni di età, lascia intendere che tali soggetti
possano essere prosciolti anche per ragioni diverse da quelle di cui all’art. 98. La lettera del comma 4 del-
l’art. 222, infatti, sembrerebbe condurre al seguente risultato ermeneutico: le disposizioni di questo arti-
colo si applicano... ai maggiori dei quattordici e minori dei diciotto anni, anche se prosciolti per ragioni di
età, ove si trovino in alcuna delle condizioni di cui agli art. 88, 95 e 96: cfr. M. PORTIGLIATTI BARBOS-G.
MARINI, op. cit., p. 82 s. Inoltre, l’inciso ‘‘prosciolti per ragione di età’’, assente nella formulazione del-
l’art. 228 del Progetto definitivo, depone a favore dell’interpretazione secondo cui i minori infraquattordi-
cenni non possono essere prosciolti per motivi diversi da quelli di cui all’art. 97 c.p. In proposito va ricor-
dato che l’art. 26 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 impone al giudice l’obbligo di pronunciare, anche
d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, sentenza di non luogo a procedere quando accerta che
l’imputato è minore degli anni quattordici.
(46) Giova qui ricordare che l’art. 212 c.p., in ragione della diversa finalità sottesa alle misure di
sicurezza di cui si discute, dispone ai commi secondo e terzo che ‘‘se la persona sottoposta ad una misura
di sicurezza detentiva è colpita da una infermità psichica, il giudice ne ordina il ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Quando sia cessata l’infermità, il giudice,
accertato che la persona è socialmente pericolosa, ordina che essa sia assegnata ad una colonia agricola o
ad una casa di lavoro, ovvero a un riformatorio giudiziario, se non crede di sottoporla a libertà vigilata’’.
(47) È indiscusso che il divieto di analogia, nonostante il silenzio del legislatore costituente, debba
ritenersi implicitamente costituzionalizzato, obbedendo esso alla medesima ratio di garanzia della libertà

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che fino a quando l’interprete, nell’esegesi della norma, annovera i casi cui essa si
riferisce nel rispetto sia della lettera della stessa sia della sua ratio, l’interpreta-
zione c.d. estensiva è legittima; ma quando la norma, pur nel rispetto del suo si-
gnificato semantico, viene applicata a casi non coerenti con le finalità ad essa sot-
tese, e quindi in definitiva estranei al suo ambito di operatività ridimensionato in
chiave teleologica, siamo al di là di ciò che il principio di stretta legalità con-
sente (48). Ed è proprio in quest’ultimo senso che ha operato la Cassazione, lad-
dove, invece, sarebbe stato opportuno, se non doveroso, il ricorso ad una interpre-
tazione di tipo restrittivo dell’art. 224 comma 3 c.p. (49).
Come già accennato, parimenti discutibili sono le conseguenze pratiche cui
conduce la soluzione prospettata dalla Suprema Corte. Laddove, infatti, il minore
infermo di mente al quale sia stato applicato il riformatorio giudiziario si sot-
traesse all’esecuzione della misura, ne dovrebbe seguire, coerentemente con
quanto affermato in altra sede dalla Corte di cassazione, l’applicazione della cu-
stodia cautelare in carcere (50): sicché si avrebbe il recupero, in sede esecutiva, di
una sorta di pena detentiva già ritenuta inapplicabile in sentenza a causa della to-
tale assenza di imputabilità (51). Quest’ultimo inconveniente, già deprecabile nel
caso in cui riguardi il minore ritenuto non imputabile ai sensi dell’art. 98 c.p., è
del tutto insostenibile quando interessi soggetti la cui pericolosità ha origine da
cause patologiche. Fra l’altro, essendo la comunità demandata a ricevere soggetti

del cittadino in generale sottesa al principio nullum crimen sine lege: cfr., fra gli altri, G. FIANDACA-E.
MUSCO, Diritto penale, parte generale, 4a ed., Bologna, 2001, p. 791; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte
generale, 4a ed., Padova, 2001, p. 94; G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, 3a ed., Milano,
2001, p. 167 ss. Riconosce natura materialmente costituzionale all’art. 14 disp. prel. c.c. e agli artt. 1 e
199 c.p. A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte generale, 7a ed., 2000, p. 90 s.
(48) La stessa ammissibilità di una interpretazione estensiva in diritto penale non è del tutto paci-
fica: non è un caso che il Progetto di riforma costituzionale (Progetto di legge costituzionale 4 novembre
1997), vietava espressamente non solo l’interpretazione analogica delle leggi penali, ma anche la loro in-
terpretazione estensiva (art. 129 comma 3): in argomento v. G. FIANDACA, La giustizia penale in bicame-
rale, in Foro it., 1997, V, c. 161 ss. Come è stato correttamente osservato, però, l’interpretazione esten-
siva ‘‘non è una species diversa di interpretazione. È una normalissima interpretazione, valutata dal punto
di vista del suo risultato. L’insieme dei casi cui la norma si applica risulta, a seguito del processo interpre-
tativo (che ovviamente comprende anche il momento teleologico), più ampio di quel che era sembrato a
prima vista. Ma si tratta pur sempre di casi che rimangono entro l’insieme delineato dalla proposizione
linguistica contenuta nella legge ... Il momento teleologico della interpretazione incontra tale limite logico.
Nel caso dell’analogia, tale limite viene superato’’ (A. PAGLIARO, Testo e interpretazione nel diritto penale,
in questa Rivista, 2000, p. 441). Il divieto di applicazione analogica delle disposizioni incriminatrici, dun-
que, appare pienamente giustificato poiché ‘‘mentre l’interpretazione estensiva suppone che il significato
della disposizione, se ben inteso, sia idoneo a disciplinare anche il caso concreto per il quale si ricerca la
regola, l’analogia presuppone tutto il contrario: cioè la riconosciuta inidoneità della disposizione — per
via del limite logico che le è proprio — a fornire una soluzione del problema corrispondente alla visuale
teleologica’’. Non potrebbe giustificarsi, invece, il divieto di interpretazione estensiva delle leggi penali,
poiché essa ‘‘non è una forma specifica di interpretazione, ma è un risultato dell’interpretazione stessa, in
dipendenza del fatto che il risultato di un corretto procedimento esegetico ha, in un caso particolare, una
portata più vasta di quello che si poteva pensare a una prima sommaria indagine (attraverso il momento
letterale della interpretazione). Negarne la validità significherebbe, in questi casi, vietare la interpreta-
zione corretta per privilegiare una interpretazione superficiale’’ (A. PAGLIARO, Testo e interpretazione,
cit., p. 441). Sui più recenti sviluppi della teoria dell’interpretazione cfr. G. FIANDACA, Ermeneutica e ap-
plicazione giudiziale del diritto penale, in questa Rivista, 2001, p. 353 ss.
(49) È bene precisare, coerentemente con quanto affermato nella nota precedente, che non ha
molta importanza la distinzione ricorrente in dottrina tra interpretazione ‘‘dichiarativa’’, ‘‘estensiva’’ e
‘‘restrittiva’’: in realtà l’unico risultato che conti per l’interpretazione ‘‘è il risultato corretto, cioè quello
cui si perviene attraverso l’appropriato svolgersi dei diversi momenti dell’interpretazione’’, a nulla rile-
vando il risultato esegetico diverso che sembrava profilarsi ad una prima impressione: cfr. A. PAGLIARO,
Principi di diritto penale, cit., p. 80 s.
(50) V. supra, nota 29.
(51) Cfr. D. BALDINO, Minori infermi di mente e socialmente pericolosi: dall’ospedale psichiatrico
al collocamento in comunità, in Giur. it., 2000, p. 1479, che, pur condividendo la pronuncia della Cassa-
zione sotto il profilo del rispetto del principio di legalità, è costretto ad ammetterne l’impraticabilità
quanto alle concrete conseguenze che ne derivano.

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destinatari di provvedimenti differenti, verrebbero a trovarsi nella stessa struttura


minori arrestati, fermati o accompagnati ai sensi degli artt. 18 e 18-bis d.P.R. n.
448 del 1988, minori in attesa di giudizio e sottoposti all’esecuzione di una misura
cautelare, minori sani di mente in esecuzione della misura del riformatorio giudi-
ziario, minori non sottoposti a processo penale con difficoltà di permanenza in fa-
miglia o nel proprio ambiente di vita (52): è difficile pensare che le strutture co-
munitarie siano in grado di gestire la compresenza di soggetti portatori di istanze
così diverse, cui verrebbero ad aggiungersi anche i minori con patologie talmente
gravi da escluderne l’imputabilità.
Con riferimento, in particolare, alla pronuncia che più direttamente ci ri-
guarda, il problema è stato solo apparentemente superato. Per un verso, la Corte
d’appello, riformando parzialmente la sentenza emessa in primo grado, ha rite-
nuto la minore imputabile, sia pure nel ‘‘quadro di una personalità comunque de-
ficitaria, sia sotto l’aspetto della capacità di intendere, sia soprattutto sotto quello
della sua possibilità di mantenere integra la libertà di autodeterminarsi, specie in
particolari situazioni di fortissima pressione psicologica dovuta a fattori esterni o
interiori’’. Per altro verso, riconosciuta la sussistenza del vizio parziale di mente e
confermato il giudizio di pericolosità sociale formulato in primo grado, così equi-
parandone la posizione a quella delle sue complici, la sentenza in esame, mentre
ha condannato la ragazza a pena detentiva, ha mantenuto la misura di sicurezza
del riformatorio giudiziario inflittagli in primo grado.
Sennonché, con riferimento ai soggetti semi imputabili a cagione di una infer-
mità psichica, o di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, o a
causa di sordomutismo, l’art. 219 c.p. prescrive l’assegnazione ad una casa di cura
e di custodia, anche se tale disposizione, diversamente da quanto previsto dall’art.
222 c.p., non fa alcun esplicito riferimento ai soggetti di minore età (53).
In proposito, analogamente a quanto avveniva con riferimento ai soggetti pro-
sciolti per una delle cause indicate nel comma 1 dell’art. 222 c.p., diversi tribunali
minorili avevano preferito applicare ai minori semi infermi e pericolosi la misura
del riformatorio giudiziario piuttosto che della casa di cura e cusodia (54). Tutta-
via, se è vero, come è stato rilevato, che l’art. 199 c.p., in omaggio al principio di
tassatività della legge penale, vieta l’applicazione delle misure di sicurezza fuori
dai casi previsti dalla legge — per cui in assenza di un’esplicita previsione l’art.
219 sembrerebbe inapplicabile ai minori — non va, però, trascurato che la misura
della cui operatività si discute è più rispondente, rispetto al riformatorio giudizia-
rio, all’effettivo stato di incapacità del minore (55).
La pronuncia che qui si commenta, dunque, oltre ad essere incompatibile con
la ratio sottesa alla disciplina delle misure di sicurezza minorili, produce, sul piano
delle conseguenze pratiche, effetti analoghi a quelli scaturenti dal ricovero in rifor-
matorio giudiziario dei minori affetti da vizio totale di mente, esponendosi così
agli stessi rilievi precedentemente mossi alla decisione emessa in primo grado e, di
rinvio, alla sentenza della Corte di cassazione che ha dato vita al discutibile prece-
dente giurisprudenziale parimenti qui criticato.
Vi è di più: come giustificare l’adozione di una medesima misura per il tratta-

(52) Cfr. A.C. MORO, op. cit., p. 482.


(53) Sulla possibilità di includere l’assegnazione ad una casa di cura e di custodia nel novero delle
misure di sicurezza applicabili ai minori, almeno nella prospettiva originaria del sistema penale minorile,
v. supra, par. 2.
(54) V. F. ZAVATARELLI, sub art. 219, in Codice penale commentato, cit., vol. I, 1999, p. 1337 e
giurisprudenza ivi citata.
(55) Cfr. D. SPIRITO, voce Riformatorio giudiziario, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, p. 882;
Cfr. M. PORTIGLIATTI BARBOS-G. MARINI, op. cit., p. 84. Ritiene insuperabile il limite imposto dal principio
di tassatività, R. RICCIOTTI, op. cit., p. 191.

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mento di soggetti le cui condizioni bio-patologiche sono diverse? Eppure la Corte


d’appello di Milano, riformando la sentenza impugnata e riconoscendo l’imputabi-
lità della minore, sebbene diminuita per vizio parziale di mente, non ha avuto nes-
suna esitazione nel confermare la misura inflitta in primo grado dove, invece, è
stata ritenuta affetta da vizio totale di mente.
In realtà, le considerazioni sopra svolte sull’operatività dell’art. 219 nel si-
stema penale minorile, andrebbero riviste a seguito della dichiarazione di incosti-
tuzionalità dei commi 1 e 4 dell’art. 222 c.p. con riguardo all’ospedale psichiatrico
giudiziario: la valenza e la portata della decisione dei giudici costituzionali, volta a
sottrarre i minorenni agli aspetti più degradanti del circuito lato sensu penitenzia-
rio, dovrebbe ritenersi pienamente estensibile anche alla situazione delle case di
cura e di custodia, non essendo concepibile l’applicazione di una siffatta misura in
modo indifferenziato tra adulti e minori senza alcuna flessibilità applicativa ed
esecutiva (56).
A questo punto, non resta che prendere atto della necessità di un intervento
legislativo che colmi l’attuale vuoto normativo in merito al trattamento da riser-
vare al minore (semi)infermo di mente e socialmente pericoloso, come del resto
immediatamente auspicava la Corte costituzionale nella sentenza del 1998 (57);
nell’attesa, però, è necessario sottrarsi alla tentazione di trovare ‘‘ad ogni costo’’ la
misura da applicare tra quelle attualmente vigenti: nessuna esigenza di difesa so-
ciale può giustificare l’applicazione di un istituto a prescindere dai presupposti che
ne legittimano l’applicazione e per il perseguimento di finalità diverse da quelle
che gli sono proprie. La presenza di condizioni di tipo bio-patologico, infatti, ri-
chiede un intervento a carattere spiccatamente terapeutico e non prevalentemente
custodialistico. Queste riflessioni assumono maggiore importanza quando ad es-
sere coinvolto è un soggetto la cui personalità è ancora in formazione, ed al quale
si deve guardare nell’ottica del recupero sociale, non della coercizione (58).
5. Quale che sia la misura da applicare al minore semi infermo e social-
mente pericoloso, rimane da affrontare una problematica non superabile alla luce
della disciplina codicistica: l’applicazione cumulativa di pena e misura di sicurezza
e l’esecuzione di quest’ultima dopo quella della pena. Le aporie che connotano il
sistema del doppio binario, dovute anche alla sua natura compromissoria (59), già
pregnanti quando si tratti di soggetti pienamente imputabili e socialmente perico-
losi, sono destinate ad acuirsi in occasione dell’individuazione del trattamento da
riservare ai semi imputabili, fino a toccare il culmine proprio nel sistema penale
minorile.
Valga in proposito, più di ogni richiamo ‘‘dottrinale’’, la semplice lettura del
dispositivo della sentenza annotata. Apprendiamo da essa che la misura del rifor-
matorio giudiziario — già in corso di applicazione sulla base della prima sentenza
di assoluzione — dovrà ora essere sospesa per trovare applicazione nei confronti
della minore condannata non prima di dodici anni e quattro mesi, durata della
pena detentiva inflitta (60): quale significato di sia pur minima ragionevolezza

(56) Cfr. F. ZAVATARELLI, sub art. 219, in Codice penale commentato, cit., p. 1337: si aggiunga
che sul piano operativo questa misura non ha mai dato luogo alla predisposizione di istituti psichiatrici
strutturalmente autonomi, concretizzandosi quale mera sezione-reparto degli ospedali psichiatrici giudi-
ziari e determinando, di fatto, un regime trattamentale indifferenziato rispetto alle diverse categorie di ri-
coverati.
(57) Cfr. Corte cost. 24 luglio 1998 n. 324, in Giust. pen., 1999, I, c. 143.
(58) Sulla persistenza del carattere coercitivo del riformatorio giudiziario nonostante l’intervento
del d.P.R. n. 448 del 1988, v. G. GRASSO, in Commentario, cit., p. 468.
(59) Per una efficace sintesi delle contraddizioni che caratterizzano il sistema del doppio binario v.
G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., p. 649 s.; da ultimo G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 87 ss.
(60) Si noti, peraltro, che per effetto della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 223 c.p.,

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può attribuirsi ad una tale sconsiderata, seppure in atto legittima, scansione cro-
nologica delle due distinte sanzioni applicate?
In realtà sarebbe stato opportuno (se non ineludibile) un intervento norma-
tivo in sede di disciplina sostanziale che, quanto meno per i minori, innovasse l’at-
tuale assetto sanzionatorio, dando così vita ad un ‘‘sistema penale minorile’’ real-
mente autonomo, non più sganciato dalla disciplina generale sul solo piano pro-
cessuale: la specificità della condizione minorile manifesta l’esigenza della specia-
lizzazione dell’intera disciplina che la riguarda, non di una sola parte di essa.
In proposito, nell’alternativa tra l’adozione di un sistema di tipo monistico,
cioè caratterizzato dalla previsione di un solo tipo di sanzione (61), ed il manteni-
mento del sistema di tipo dualistico attualmente vigente, la soluzione più idonea
sembra essere, ancora una volta, frutto di un ragionevole compromesso. Esiste un
modello sanzionatorio che, sebbene si atteggi come dualistico in sede di commina-
toria legale, assume, nella fase esecutiva, le caratteristiche proprie dei sistemi mo-
nistici: è il sistema vicariale che, pur prevedendo l’applicabilità congiunta di pena
e misura di sicurezza, di regola anticipa l’esecuzione di quest’ultima rispetto alla
pena, disponendo il computo della durata della misura in quello della pena (62).
Il modello vicariale, mantenendo lo schema classico del sistema del doppio
binario nella sola fase del giudizio di cognizione e realizzando, invece, un tratta-
mento tendenzialmente unitario in fase esecutiva, sembra rappresentare la ‘‘solu-
zione ottimale in grado di garantire gli esiti più razionali e rispettosi dei diritti di
(ri)educazione e libertà del soggetto’’, in quanto consente di sfruttare al massimo
‘‘la funzionalità special-preventiva comune alle due sanzioni, parimenti tese’’ al
miglioramento del reo ad esse assoggettato, soddisfacendo immediatamente,
‘‘senza attese superflue o addirittura dannose, le specifiche esigenze curative del
soggetto’’ (63). La più proficua attuazione in sede comparatistica di questo si-
stema, sembrerebbe essere quella realizzata dal codice penale spagnolo: l’ineludi-
bile priorità esecutiva della misura di sicurezza detentiva rispetto alla pena, la to-
tale deducibilità della prima dalla durata della seconda e la possibilità di sospen-
dere l’esecuzione della pena residua o di sostituire quest’ultima con altra misura
non detentiva laddove l’esecuzione della pena possa esporre a pericolo i risultati

il conseguimento della maggiore età determinerà la sostituzione della misura del riformatorio giudiziario
con la libertà vigilata ‘‘salvo che il giudice ritenga di ordinare l’assegnazione a una colonia agricola, o ad
una casa di lavoro’’; con l’assurda possibile conseguenza che trovi applicazione in capo alla giovane
adulta semi inferma quest’ultima misura di sicurezza, che mai avrebbe potuto avere esecuzione nei suoi
confronti ove avesse perpetrato il reato dopo il compimento del diciottesimo anno di età, data l’impossibi-
lità di applicare altra misure di sicurezza detentiva ‘‘quando deve essere ordinato il ricovero in una casa di
cura e di custodia’’ (art. 219 comma 4).
(61) Diverse sono le modalità di attuazione dei sistemi monistici: l’applicazione di un unico tipo di
sanzione può essere dovuto o alla effettiva previsione di un unico strumento sanzionatorio, o alla previ-
sione congiunta di pene e misure di sicurezza da irrogare, però, in via alternativa: cfr. G. GRASSO, in M.
ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 361. Quest’ultimo modello sanzionatorio è stato preferito nei
recenti progetti di riforma del codice penale: tanto il Progetto del 1992 (Progetto Pagliaro), quanto i Pro-
getti del 1995 (Progetto Riz) e del 2000 (Progetto Grosso), riservano la misura di sicurezza al solo sog-
getto totalmente non imputabile, prevedendo l’applicabilità esclusiva della pena non solo all’imputabile,
ma anche al semi imputabile.
(62) Cfr. G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 360 s.
(63) Cfr. L. FORNARI, Misure di sicurezza, cit., p. 596 ss., il quale critica le modalità con cui il si-
stema vicariale è stato recepito dal nuovo codice penale tedesco: invero non può negarsi che la possibilità
per il giudice di anticipare l’esecuzione della pena, la computabilità della durata della misura solo sino ai
due terzi della durata della pena inflitta e l’esclusione dalla vicarietà della custodia di sicurezza, limitano
fortemente le potenzialità di questo sistema.

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conseguiti attraverso l’esecuzione della misura di sicurezza (64), costituiscono i


capisaldi di un sistema autenticamente vicariale (65).
L’adozione di simili principi in occasione di un’auspicata riforma del sistema
sanzionatorio minorile consentirebbe di ‘‘collaudare’’ il modello vicariale anche
nel nostro ordinamento, in modo da estenderlo alla disciplina generale nell’even-
tualità, più che probabile, che esso dia risultati soddisfacenti (66).
Il sistema penale minorile si presta così a fungere da ‘‘piccolo laboratorio’’
per la sperimentazione di istituti che possono, con i dovuti adattamenti, essere ap-
plicati anche ai soggetti in età adulta (67). In prospettiva, la stessa accezione di
pericolosità sociale potrebbe, a livello di disciplina generale, essere modellata su
quella già adottata nel sistema minorile (68): non sembra irragionevole auspicare

(64) (Il) Codice penale spagnolo, Padova, 1997, p. 99. Si aggiunga che lo stesso codice vieta la
possibilità di applicare al reo semi imputabile una misura eccedente la durata della pena comminata per il
delitto e, al reo non imputabile, una misura eccedente la pena che sarebbe stata inflitta se ne fosse stata
accertata l’imputabilità: artt. 101-103 e 104 del medesimo codice.
(65) Sul punto cfr. G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 94 ss.
(66) Quanto qui prospettato ha trovato parziale riconoscimento — come rileva M. ROMANO, in M.
ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit., p. 373 ss. — in una pronuncia della Corte costituzionale (Corte
cost., 19 giugno 1975, n. 146, in Giur. cost., 1975, p. 1372) che, dichiarando l’illegittimità dell’art. 148
del codice penale ‘‘nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero nel manicomio giudi-
ziario del condannato caduto in stato di infermità psichica durante l’esecuzione di pena restrittiva della li-
bertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa’’ e ‘‘nella parte in cui prevede che il giudice or-
dini la sospensione della pena nel caso in cui il condannato sia ricoverato in una casa di cura e di custodia
ovvero in un manicomio comune’’, ha dato sostanziale applicazione al principio di vicarietà: come ha pre-
cisato la stessa Corte, ‘‘il periodo di ricovero va ora computato come espiazione della pena’’.
(67) Cfr. G. FIANDACA, La giustizia minorile come laboratorio sperimentale di innovazioni estensi-
bili al diritto penale comune, in Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002, p. 145 ss. Si pensi alla
sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, e, per
converso, alla recente introduzione dell’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del
fatto prevista dall’art. 34 del d.lgs. 274 del 2000 relativo alla competenza penale del giudice di pace; pe-
raltro, la normativa da ultimo citata prevede all’art. 35 l’istituto della estinzione del reato conseguente a
condotte riparatorie, che non poche affinità ha con la sospensione del processo e messa alla prova di cui
all’art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988. Tanto è vero che si pongono problemi di interferenza tra gli istituti pre-
visti dal d.P.R. n. 448 del 1988 e la disciplina di cui al d.lgs. 274 del 2000 quando il Tribunale per i mino-
renni giudichi di uno dei reati per i quali è prevista la competenza penale del giudice di pace. Per questa
problematica cfr. C. CESARI, sub artt. 27 e 28 d.P.R. n. 448 del 1988, in AA.VV., Il processo penale mino-
rile, a cura di G. Giostra, Milano, 2001, p. 249 s. e 293 s.
(68) La legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale aveva indicato la ‘‘ne-
cessità di un giudizio di effettiva pericolosità’’ tra i criteri da seguire per realizzare i caratteri del sistema
accusatorio nel processo penale (art. 2, n. 96, l. 16 febbraio 1987, n. 81). Il legislatore delegato, nel dare
attuazione ai principi generali del nuovo processo penale ‘‘con le modificazioni ed integrazioni imposte
dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazio-
ne’’ (così, espressamente, art. 3 l. 16 febbraio 1987, n. 81) ha riformulato in termini senz’altro più restrit-
tivi il concetto di pericolosità sociale minorile (G. GRASSO, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario, cit.,
p. 475): le misure di sicurezza sono applicate ‘‘se ricorrono le condizioni previste dall’art. 224 del codice
penale e quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussi-
ste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza personale o
diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizza-
ta’’ (art. 37 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988). Una duplice limitazione, dunque, concorre a caratterizzare
la nozione di pericolosità minorile in senso specifico: oltre alla precisazione dei presupposti oggettivi del
giudizio di pericolosità individuati in alcuni delitti di particolare gravità, si richiede una prognosi crimi-
nale intesa non più come ragionevole probabilità che il minore possa tornare a delinquere, ma come con-
creto pericolo della commissione dei gravissimi delitti indicati (cfr. C. PANSINI, op. cit., p. 4132); pericolo
da accertarsi sulla base di specifici elementi inerenti al reato commesso ed alla personalità del minore.
Si noti che l’art. 37 comma 2 d.P.R. n. 448 del 1988, subordinando l’applicazione delle misure di si-
curezza ad un presupposto diverso da quello richiesto in sede di disciplina sostanziale, si espone a seri
dubbi di compatibilità con l’art. 76 Cost., in quanto eccedente la delega legislativa. Sul punto cfr. C. PAN-
SINI, op. cit., p. 4130 ss. Contra, Corte cost., 29 aprile 1991, n. 182, in Cass. pen., 1991, p. 558, secondo
cui tale norma, ‘‘non soltanto non contraddice il quadro normativo descritto dal codice penale, ma si pone
in quella prospettiva evolutiva che, a seguito dell’ampia giurisprudenza di questa Corte in tema di perico-
losità presunta, aveva condotto all’emanazione dell’art. 31, l. 10 ottobre 1986, n. 663 con l’imposizione
dell’effettivo accertamento della pericolosità’’. Tali motivazioni non appaiono sufficienti a scongiurare

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anche per gli adulti un giudizio prognostico di ‘‘concreto pericolo’’ della commis-
sione di alcuni delitti di particolare gravità legislativamente predeterminati, quale
presupposto per la doverosa riduzione anche della pericolosità sociale a ineludibili
istanze di determinatezza e di proporzione (69).
GIUSEPPINA PANEBIANCO
Dottoranda in Discipline penalistiche
presso l’Università degli Studi
di Firenze

l’eccesso di delega secondo M. G. COPPETTA, sub art. 37 d.P.R. n. 448 del 1988, in Il processo penale mi-
norile, cit., p. 456.
(69) Cfr. G. DE VERO, Introduzione, cit., p. 239 s.

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CORTE D’ASSISE DI MILANO — Sez. I — 11 luglio 2002


(dep. 7 ottobre 2002), n. 14
Pres. ed Est. Cerqua
Imp. Cammarata e altro

Regola probatoria e di giudizio nel processo penale - Incompleta formulazione del-


l’art. 530, comma 2, c.p.p. - Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio - Vi-
genza nel nostro ordinamento.

Il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio deve costituire, al di là dell’in-


completa formulazione dell’art. 530, comma 2, c.p.p., la regola probatoria e di
giudizio nel processo penale, indispensabile per assicurare la protezione degli in-
nocenti ed il rispetto dei fondamenti costituzionali dello Stato. Essa infatti trova
riscontro positivo negli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, Cost., sì da costi-
tuire diritto vigente nel nostro paese. Alla luce di tali norme il giudice deve pro-
nunciare sentenza assolutoria di fronte a prove insufficienti (quando l’organo del-
l’accusa non ha dimostrato la colpevolezza dell’imputato al di là del ragionevole
dubbio) o contraddittorie (quando le prove della reità, pur se prevalenti, svelano
uno o più dubbi ragionevoli). Tale regola probatoria e di giudizio non dovrebbe
essere marginalizzata nella prassi, ché vi sono ragioni potenti che la supportano,
come si legge nella famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in re
Winship del 1970, stesa per mano del giudice Brennan (1).

II

CORTE D’ASSISE D’APPELLO DI MILANO — Sez. I — 24 aprile 2002


(dep. 21 giugno 2002), n. 23
Pres. Passerini — Rel. Ocello
Imp. Forzatti

Reato in genere - Nesso di causalità nei reati commissivi - Accertamento oltre ogni
ragionevole dubbio - Regola probatoria e di giudizio nel processo penale -
Principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio - Dubbio non irragionevole, arbi-
trario o irrealistico - Assoluzione per insussistenza del fatto.

Il nesso di causalità non può essere affermato in termini ipotetici, ma di ra-


gionevole tranquillizzante certezza. Il dubbio non irragionevole, arbitrario o irrea-
listico sulla sussistenza del nesso causale impone al giudice, in ossequio alla re-
gola probatoria e di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’assoluzione per
insussistenza del fatto (2).

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(Omissis). — FATTO e MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. Con decreto che di-


spone il giudizio emesso in data 6 novembre 2000, Teresa Virginia (CA) e Massi-
miliano (C.) venivano rinviati davanti a questa Corte per rispondere, in concorso,
del reato di omicidio volontario di Massimiliano (D.), che, secondo la tesi dell’ac-
cusa, spingevano fuori della finestra dell’appartamento dove abitava la (CA), sito
al sesto piano dello stabile ubicato a Milano, in viale Aretusa, n. 34, così facen-
dolo precipitare al suolo e provocandone l’immediato decesso, avvenuto il 7 luglio
1998. (Omissis).
2. Il 7 luglio 1998, alle ore 17,14, Massimiliano (D.) precipitava dalla fine-
stra della camera da letto dell’appartamento in locazione alla convivente Teresa
(CA), sito al sesto piano dello stabile di viale Aretusa, 34. Massimiliano (D.) dece-
deva poco dopo l’arrivo in ospedale, in conseguenza delle gravi lesioni subite.
Nell’immediatezza del fatto la Polizia riceveva le dichiarazioni di Massimi-
liano (C.), ancora presente in strada, e di Teresa (CA).
Veniva eseguita, su incarico del P.M., consulenza medico-legale sulle cause
della morte, che si confermava avvenuta per lesioni conseguenti alla precipita-
zione, come risulta dall’elaborato scritto acquisito dalla Corte, redatto dai dott.
(M.S.) e (M.C.), entrambi in servizio presso l’Istituto di medicina legale dell’Uni-
versità di Milano.
I consulenti accertavano che (D.), poco prima della morte, aveva assunto per
via nasale cocaina ed alcool etilico e che si trovava in stato di intossicazione pri-
mario da cocaina e, quanto all’alcool, in stato di ubriachezza manifesta, condizioni
che potevano aver causato sensazioni di vertigine, od anche aver ridotto le sue ca-
pacità di reazione a spinte di terzi.
I consulenti non si dichiaravano in grado di affermare se vi fosse stata collut-
tazione prima della precipitazione, perché le lesioni occorse a seguito di essa, te-
nuto conto anche degli impatti con parti sporgenti dell’edificio (balconi), erano di
tale entità da non consentire di distinguere eventuali altre cause.
Le misurazioni effettuate sul cadavere attestavano che Massimiliano (D.) era
alto m. 1,91 e pesava kg. 79.
Esaminato nel corso dell’udienza del 29 gennaio 2002, il dr. (M.S.) confer-
mava i risultati degli accertamenti medico-legali compiuti sul cadavere e, in parti-
colare, la compatibilità delle lesioni riscontrate con una precipitazione da elevata
altezza. La causa della morte era da riscontrarsi in lesività di tipo traumatico in
soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e di alcool.
Anche la dr.ssa (M.C.), esaminata nel corso dell’udienza del 17 aprile 2002,
confermava i risultati degli accertamenti di carattere chimico-tossicologico effet-
tuati sul cadavere e, in particolare, ribadiva che il predetto aveva assunto poco
prima della morte cocaina ed alcool.
Rispondendo ad alcune domande del difensore dell’imputato, la consulente
confermava che l’uso cronico di cocaina comporta nel soggetto l’insorgere di veri
e propri stati psicotici, stati deliranti simili a quelli dell’alcolizzato che rendono
l’individuo, anche per sopravvalutazione che egli ha delle proprie forze e capacità,
pericoloso per sé e per gli altri. Confermava del pari che questa sindrome si ac-
compagna a un’impostazione ansiosa dell’umore con tendenza... di spavento e di-

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fesa che spesso culmina in aggressioni verso i presunti persecutori o in azioni sui-
cidiarie. (Omissis).
4.1. (F.P.) abitava proprio sopra l’appartamento della (CA). Esaminata al-
l’udienza del 29 gennaio 2002, la teste, dopo aver riferito dei suoi rapporti con
l’imputata, che negli ultimi anni si erano deteriorati per una serie di ragioni, di-
chiarava che la donna, ex fantina, un tempo gran lavoratrice, era solita urlare ad
ogni ora del giorno. Aveva così avuto modo di sentire le liti tra la (CA) e il suo
convivente, che peraltro non conosceva, ma sapeva essere il suo ragazzo: lei non
lo voleva più, lo voleva sbattere fuori di casa...
Nel pomeriggio del 7 luglio 1998 la (F.P.), ritornata dal lavoro, era andata a
riposare; ad un certo punto era stata svegliata dal frastuono che proveniva dal
piano sottostante. Sentiva urlare la Teresa e un uomo; questi aveva detto che
avrebbe ammazzato quel cane di merda che era lì e la donna, di rimando, gli
aveva urlato: ‘‘Se non te ne vai da casa mia io t’ammazzo’’. Poi il silenzio.
Poco dopo la teste aveva avuto modo di percepire chiaramente i singhiozzi
della (CA), la quale, piangendo disperata, si rivolgeva al cane, di nome Piro, chia-
mandolo ripetutamente e dicendo: ‘‘Adesso vado in galera, adesso vado in gale-
ra’’. Poi ancora silenzio.
La teste proseguiva:
Sono andata in camera, ho alzato la tapparella... e vedo che la gente guarda
su. Che è successo? Allora io guardo giù e ho visto quel che ho visto, un signore a
terra...
Già in precedenza c’era stata una lite furibonda tra le stesse persone: paro-
lacce e vetri in frantumi, tanto che i condomini avevano chiesto l’intervento della
Polizia. La teste precisava infine di aver udito, quel pomeriggio, altre voci prove-
nire dall’appartamento sottostante: non aveva percepito le parole, ma si trattava
sicuramente delle voci di un’altra donna e di un altro uomo.
4.2. (Omissis).
5. A svolgere le indagini era stato il maresciallo (A.G.). Questi, esaminato
nel corso della medesima udienza, confermava, anzitutto, che Massimiliano (D.)
era precipitato dal sesto piano, e precisamente dalla finestra della camera da letto
dell’appartamento abitato dalla (CA), aveva spezzato un filo che univa due bal-
coni sottostanti ed era finito a terra, prono con la testa sul gradino della cartoleria
di (D.N.).
Il teste riferiva di aver ascoltato tutte le persone informate sui fatti e di aver
constatato che le finestre dell’edificio erano tutte aperte.
Sul posto era subito intervenuta una pattuglia del Commissariato della Polizia
di Stato San Siro. Nel corso delle indagini, il teste aveva accertato che l’apparta-
mento della Pavia era perfettamente corrispondente a quello sottostante della (CA).
Il maresciallo (A.G.) passava quindi alla descrizione della camera da letto del-
l’imputata:
... c’era un letto matrimoniale proprio in mezzo attaccato alla parete... sulla
destra. Proprio di fianco al letto c’era la finestra... dove il (D.) è precipitato. Preci-
sava che la finestra non era proprio di fronte alla porta, ma spostata sulla destra.
... vicino al letto c’erano due comodini, uno dalla parte destra e uno dalla
parte sinistra, e poi accanto, proprio sotto nell’angolo sinistro c’era una poltron-
cina che abbiamo constatato che era anche rotta... Abbiamo constatato che c’era

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anche una poltrona proprio... sotto alla finestra nel lato sinistro, non proprio
sotto, la finestra comprendeva tre ante, quindi quella centrale e le due antine....
Sulla sinistra, c’era un grosso armadio... quindi la porta non era proprio di fronte
alla finestra, perché c’era un pezzo di letto che sporgeva. Poi sentendo anche gli
operanti, che hanno fatto anche la relazione di servizio, al momento del fatto,
questo è stato constatato da loro, proprio di fronte al letto vi era un borsone... del
(D.)...
Il teste ricordava di essere però intervenuto nell’appartamento alcuni giorni
dopo il fatto e che la presenza del borsone in quel posto gli era stata riferita dagli
agenti che erano intervenuti subito dopo l’accaduto.
La tapparella della finestra, dalla quale era precipitato (D.), che era stata si-
gillata subito dopo, era completamente abbassata e aveva un’apertura di circa
venti centimetri. Nell’appartamento c’erano altre finestre aperte, come, ad esem-
pio, quella della cucina: tutte avevano le tapparelle alzate. L’unica persiana avvol-
gibile abbassata era dunque quella della finestra della camera da letto, che era
sfondata sulla parte sinistra, però non tutta, c’era... un trenta centimetri che usci-
vano dalle guide, sulla parte sinistra. E quindi... era sfondata in quel punto.
Il teste precisava che la finestra era a tre ante: la parte centrale era aperta e
anche quella di destra, mentre la parte di sinistra era chiusa. Precisava ancora che
dalla porta della camera da letto alla finestra la direzione non era rettilinea, anche
perché c’era un pezzo di letto... che cresceva. Poi... c’era un borsone proprio di
fronte al letto, un borsone da viaggio, e poi c’era la poltroncina proprio messa
sotto dove la tapparella era stata divelta, cioè dalla parte sinistra...
Il teste, rispondendo poi alle domande della difesa dell’imputato, dichiarava
che la tapparella era uscita dalle guide anche sotto il lato destro.
Riferiva infine che i due imputati erano legati da un rapporto di amicizia, che
il (C.), amico anche di Massimiliano (D.), si trovava quel pomeriggio nell’abita-
zione della (CA), pur abitando in un’altra via.
6. (Omissis).
8. Era poi la volta dell’agente (M.M.), il quale, esaminato del pari nel corso
della medesima udienza, riferiva di essere arrivato sul posto non più di dieci mi-
nuti dopo la chiamata al 113:
... arrivato sotto l’abitazione... della (CA), il corpo del signor (D.) era stato
già trasportato in ospedale. Quindi, salito in abitazione c’era la (CA) e l’altro, il
(C.)... erano tutti e due lì, hanno cominciato a... parlare. Dicendo più o meno
quello che era accaduto.
Nella camera da letto c’era una sedia con dei braccioli... abbastanza larga...
Quasi sotto la finestra. E poi c’era un borsone, un borsone tipo calciatore. Messo,
diciamo, tra il letto e un armadio a muro... Quindi al centro quasi della stanza...
Era collocato... un po’ più dietro dalla finestra, comunque quasi al centro del pa-
vimento. Quindi l’unico modo per passare era... saltare o comunque spostare il
borsone... Per passare, diciamo, tra il letto e l’armadio. Perché non vi era molto
spazio... O spostarlo o passare piano, insomma. Cioè, fare... essere un po’ più...
attenti.
Il teste ricordava di aver incontrato il (C.) in strada, quasi davanti al portone.
Aveva subito accompagnato gli agenti nell’appartamento, dove si trovava la (CA).
Per quanto riguarda la finestra della camera da letto, precisava, dopo che gli

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era stata letta l’annotazione di servizio, che in verità la finestra risultava essere
composta di tre ante di vetro; che... due... sul lato centrale o comunque destro
erano chiuse. E quella sulla sinistra era aperta.
Per quanto riguarda il borsone, il teste ricordava che esso si trovava tra il
letto e l’armadio, quasi al centro della stanza, nello spazio compreso tra la porta e
la finestra. Di questo era sicuro, a prescindere dall’esattezza del disegno della
stanza che aveva eseguito successivamente, nel quale peraltro non figurava la pol-
troncina, forse per dimenticanza. E dell’esistenza del borsone in quel posto si era
dato atto nella seconda relazione di servizio, quella redatta il 1o agosto 1998, nella
quale si precisava che si trovava a mezzo metro dalla finestra. (Omissis).
10. Dalla trascrizione della conversazione telefonica avvenuta alle ore 21,22
del 3 agosto 1998 e intercettata presso l’abitazione di (I.D.), la fidanzata dell’im-
putato all’epoca del fatto, la ragazza parla con un’amica del fatto, così come riferi-
tole dal (C.):
io c’ho solo il casino di ’sto problema de Massimo che si è lanciato dalla fine-
stra... Eh beh, tanto normale non era eh!
E che, uno che si lancia dal sesto piano non era tanto normale, a me poi... io
non c’ero quando è successo il fatto...
Massimo però l’ha visto eh! È sceso giù... dal sesto piano è sceso giù... è an-
dato giù a vederlo...
Ma non se ne so’ accorti! S’è lanciato, ha preso la rincorsa...
Ma guarda che nessuno s’aspettava che quello faceva un gesto del genere, eh!
La sera precedente hanno cenato a casa mia tutti tranquilli.
11. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale sono stati sentiti anche alcuni
parenti del defunto.
11.1. Il fratello Andrea Giuseppe (D.), esaminato il 17 aprile 2002, ricor-
dava una lite con il fratello avvenuta nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1997:
avevano entrambi ecceduto nel bere ed erano intervenuti i Carabinieri.
Il teste ricordava altresì che, oltre a Massimiliano, erano deceduti anche gli al-
tri due fratelli.
11.2. La madre (R.B.), confermava all’udienza del 6 maggio 2002 che le
erano morti tre figli, Rosolino, Stefano, e, tre mesi dopo, Massimiliano. Questi era
rimasto scosso dalla perdita del fratello ed era andato un po’... in depressione. Poi
aveva cercato di riprendersi, andando a lavorare con il padre, che faceva i mercati
di frutta e verdura, e poi, al ritorno, andava a scuola guida.
In passato aveva avuto problemi con la droga, che aveva superato benissimo,
dopo essere stato due anni in comunità. Era quindi ritornato a vivere con i geni-
tori, a Groppello Cairoli, all’età di vent’anni, e non aveva fatto più uso di sostanze
stupefacenti. Era morto a ventisette anni. Da minorenne aveva avuto qualche pro-
blema con la giustizia, mentre da maggiorenne aveva fatto uno scippo... a una ra-
gazza in discoteca. Non so, una roba del genere...
All’incirca venti giorni prima della morte aveva conosciuto in una discoteca
Teresa Virginia (CA). Quella sera non era rientrato a casa. Il pomeriggio del
giorno successivo era ritornato a casa con Teresa; ma poco dopo si era nuova-
mente allontanato, dicendo che andava con la ragazza in una discoteca lì vicino.
Non era andato a lavorare nei giorni successivi. Aveva fatto ritorno a casa un mer-

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coledì in compagnia di Teresa e, al termine del pomeriggio, era uscito. Erano an-
dati a Milano: ...e poi a mio figlio, diciamo, non l’ho più visto, se non per poco
tempo. Massimiliano, andato a vivere a Milano con la ragazza, era però solito te-
lefonare spesso ai genitori: l’ultima telefonata l’aveva effettuata il 5 luglio.
La madre escludeva che Massimiliano avesse manifestato propositi di suicidio.
Rispondendo alle domande del difensore dell’imputato, la teste ricordava che
in verità c’era stata una volta una discussione tra Massimiliano e suo padre; non
era tuttavia in grado di fornire particolari del fatto. Ricordava peraltro la lite che
era sorta con il fratello: era il compleanno di Andrea e avevano bevuto troppo.
Massimiliano si era poi fatto male cadendo a terra, dove c’erano bottiglie rotte.
Massimiliano non era solito eccedere nel bere, gli poteva capitare qualche
volta: allora, magari, si arrabbiava e sbatteva le porte.
11.3. Michele (D.), esaminato all’udienza del 6 maggio 2002, ricordava che
suo figlio Massimiliano aveva sempre vissuto con i genitori, tranne che negli ultimi
venti giorni di vita, durante i quali era andato a vivere a Milano con Teresa. Da
circa due anni lo aiutava nel lavoro di commerciante ambulante di frutta e ver-
dura. Da quando però aveva conosciuto la (CA) si era staccato dalla famiglia: sia
dal lavoro e anche di casa.
Nella tarda serata del 7 luglio era stato avvertito telefonicamente che suo fi-
glio era morto. Si era precipitato con la moglie all’Ospedale San Carlo e lì aveva
trovato la (CA) e altri due ragazzi, tra cui Massimo il Romano. Aveva loro chiesto
notizie:
Mi hanno detto che mio figlio era tranquillo, era stato in casa di questo Mas-
simo Romano, chiamiamolo così, ha mangiato tranquillamente... dico, ‘‘ma mio
figlio aveva bevuto...’’. ‘‘No, No signor (D.). Certamente non abbiamo fatto
niente, più che altro una spaghettata. Abbiamo bevuto un po’ d’acqua, tranquilla-
mente, siamo usciti, siamo andati in casa della Teresa. Dopo un po’ suo figlio,
non so, dice cha ha voluto fumarsi un’ultima sigaretta, qualcosa, ha fatto un lan-
cio e si è buttato’’.
Il teste aggiungeva:
Prima lui mi aveva detto che era lui solo in casa. Dopo mi ha detto che era
lui, la ragazza e mio figlio...
Qualche volta Massimiliano aveva manifestato l’intenzione di porre fine ai
suoi giorni, soprattutto dopo la morte del fratello Rosolino, avvenuta quattro anni
prima, che aveva lasciato la moglie giovane e un bambino in tenera età. Massimi-
liano era molto legato a Rosolino.
L’altro fratello, Stefano, era morto il 19 marzo di quello stesso anno. Dopo la
morte di Stefano, Massimiliano era caduto in depressione, ma era riuscito a ri-
prendersi: aveva preso la patente, era felice e progettava di andare in ferie e di ini-
ziare a lavorare poi con la vedova di Stefano.
Il teste confermava che in passato suo figlio Massimiliano aveva fatto uso di
eroina; poi era stato in comunità e ne era uscito completamente disintossicato. Da
allora non aveva più assunto droga.
Aveva avuto suo figlio problemi con la giustizia, quando era ancora mino-
renne; raggiunta la maggiore età, era stato detenuto per un furto e si diceva anche
con tentato stupro, o qualcosa del genere.
Massimiliano qualche volta si ubriacava, magari quando c’erano gli amici... o

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il sabato sera. Non era violento. Una volta però, il giorno del compleanno della
madre, io avevo fatto una piccola festicciola con gli amici. Ma non è che ci siamo
picchiati, è sempre perché io ci ho la voce grossa, magari una cosa capita male,
qualcosa del genere. Non so, adesso, sinceramente, come è nato il battibecco.
Sono cadute parecchie bottiglie per terra, gli scivolava a destra e a sinistra, lui è
caduto vicino al frigorifero e si è lacerato un po’, diciamo, con ferite di taglio di
bottiglie, di cocci di bottiglia.... Dopo io ho subito chiamato anche l’autolettiga e
dopo un po’ sono venuti i Carabinieri...
Rispondendo alle domande del difensore dell’imputato, il teste ricordava che
qualche volta erano sorti sul lavoro litigi con il figlio; una volta lo aveva sgridato
perché non era andato a lavorare. Ricevute alcune contestazioni, il teste non esclu-
deva di essere stato colpito violentemente in quell’occasione dal figlio, che sem-
brava fuori di sé: lo aveva colpito ripetutamente anche alla testa, lo aveva gettato a
terra: come aveva dichiarato ai Carabinieri il 27 settembre 1996. Diceva però il te-
ste di non ricordare di essere stato ricoverato il 21 settembre, e cioè il giorno del
fatto, presso l’Ospedale Policlinico San Matteo di Pavia.
Il teste conservava del pari pochissimi ricordi di un altro episodio di violenza,
accaduto l’anno successivo, del quale era stato ancora protagonista suo figlio Mas-
similiano: si trattava dell’episodio del quale aveva fatto cenno sua moglie.
Quando era sotto l’effetto dell’alcool Massimiliano non manifestava il propo-
sito di suicidarsi: se diceva qualche volta questa frase... soltanto che avrebbe pre-
ferito morire lui perché era senza figli e non aveva niente, diciamo, a chi distur-
bare, essendo gli altri fratelli erano sposati e avevano giustamente una famiglia:
perché... avrebbe preferito morire lui che il fratello che giustamente ha lasciato la
moglie e i figli.
Il 10 luglio 1998 aveva però dichiarato: ‘‘Conoscendo mio figlio, mi è impos-
sibile pensare che lo stesso si sia suicidato. A meno che mio figlio non fosse sotto
l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcool’’.
11.4. (Omissis).
14. All’odierna udienza la Corte, su accordo delle parti, ha acquisito la co-
municazione di notizia di reato redatta il 23 febbraio 1997 dal maresciallo (F.M.)
comandante della Stazione dei Carabinieri di Garlasco. In essa si riferisce di un in-
tervento effettuato quello stesso giorno presso l’abitazione della famiglia (D.), in
Groppello Cairoli, essendo stata segnalata una rissa con feriti, che era sorta per fu-
tili motivi nel corso di una festa di compleanno. I Carabinieri trovavano alcune
persone ferite, tra cui Massimiliano (D.), mentre suo fratello Andrea Giuseppe, al
pari del padre in evidente stato di ebbrezza, uscito di casa, tentava di rientrarvi
per colpire con un grosso sasso Massimiliano; questi, allora, preso in cucina un
coltello, aveva iniziato a rincorrerlo minacciosamente. Poco dopo Massimiliano
(D.) improvvisamente, con uno scatto repentino agguantava un coltello da cucina
e cercando di autolesionarsi bucandosi la pancia, dopo il primo colpo veniva im-
mediatamente fermato.
15. Teresa (CA) rendeva l’esame il 21 maggio 2002.
Aveva conosciuto non più di tre settimane prima Massimiliano (D.) in disco-
teca e se ne era subito innamorata. Era stata a casa dei suoi genitori e in quell’oc-
casione aveva avuto modo di assistere ad atti di violenza da parte sua: ha iniziato

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a spaccare le porte, voleva mettere le mani addosso ai suoi genitori. Aveva allora
deciso di portarlo a casa sua, a Milano. Si trovava in quel periodo in non buone
condizioni economiche. Alcuni giorni dopo l’inizio della convivenza, era riuscita a
trovare un lavoro per Massimiliano, ma questi non si era preoccupato minima-
mente di recarsi sul posto ove avrebbe dovuto incominciare a lavorare proprio la
mattina di quel 7 luglio:
Mi ricordo ancora che gli ho detto: ‘‘Massimo, mi fai una cortesia? Non sei
andato a lavorare, io non è che ho bisogno del tuo stipendio, ma almeno...’’, per-
ché poi c’era anche il suo cane a casa mia e io non me lo potevo permettere... e ho
detto: ‘‘Mi fai una cortesia? Prepara i bagagli, poi prendi la chiave e gliela lasci a
Massimo’’, che Massimo sarebbe il (C.), il ragazzo della (I.D.), che veniva a lavo-
rare con me sui pendolini... Gliele porti a lui, che non ti voglio vedere più — gli
ho detto — perché il mio problema è che non posso mantenere te, non ce la fac-
cio’’. Oltretutto che avevo anche la luce staccata, non avevo la luce in casa perché
non potevo pagare le bollette...
Era poi uscita per andare a lavorare alle scuderie a San Siro e poi a pulire i
treni. Ritornata a casa, non vi aveva trovato nessuno, ma c’era ancora la borsa di
Massimiliano. Poco dopo era arrivato Massimiliano (D.):
Gli faccio: ‘‘Massimo, ti avevo chiesto di prendere e di andartene via di casa,
ho visto che c’è quel borsone lì’’. Ha preso ed è andato dritto, non mi ha risposto,
si è messo in camera da letto, mi ricordo ancora, si è... tolto le scarpe... Si è messo
sul letto sdraiato senza rivolgermi la parola.
Era sopraggiunto, non molto tempo dopo, Massimiliano (C.), un suo caro
amico, contento di aver avuto la possibilità di comperare un paio di scarpe, il
quale li aveva invitati a cena a casa sua. Aveva accettato, precisando però: Alt,
vengo a mangiare, vengo a mangiare io a casa tua. Massimo non viene perché
prende la sua roba e se ne deve andare.
Massimiliano si era allora alzato di scatto dal letto e l’aveva afferrata strin-
gendole il collo. Il (C.) era subito intervenuto in suo aiuto e si era posto in mezzo,
tra la donna e il (D.). Questi, ad un certo punto, si è girato di colpo e... si è lan-
ciato, ha preso la rincorsa e si è lanciato.
La donna ricordava un episodio: ...due giorni prima che si ammazzava, il sa-
bato, mi ricordo ancora che aveva perso un capello che aveva dentro il documento
di identità, che è di suo fratello che era morto. Ad un certo punto quel sabato lì...
ha iniziato a dire: ‘‘È arrivata la mia ora, di raggiungere mio fratello, devo rag-
giungere mio fratello. Sì, perché ho perso il capello’’. Ad un certo punto fa: ‘‘Però
prima che io raggiungo mio fratello te non ci devi essere più, perché non ti deve
toccare nessuno’’. L’aveva quindi colpita violentemente scaraventandola a terra e,
poi, rialzatasi, l’aveva scagliata contro i vetri della finestra. Era intervenuta la Po-
lizia, chiamata dai vicini. Nell’appartamento erano presenti, in quell’occasione,
altre persone.
Negava la donna di aver detto quelle parole che aveva riferito di aver udito la
teste Fernanda Pavia e precisava che il suo cane si chiamava Murphy.
Non aveva mai visto Massimiliano assumere sostanze stupefacenti; ubriaco,
invece, lo era spesso. Ed anche quel pomeriggio era un po’ bello brillo, un po’
strano.
Passava quindi la donna a descrivere la camera da letto.

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16. Il 21 maggio 2002 rendeva l’esame anche Massimiliano (C.).


Quel giorno, non dovendo lavorare, era rimasto a casa, in via Capecelatro:
... in quel periodo io ho lavorato alla Gorla, però erano tre mesi e mi sono
scaduti, ero a tempo determinato. E mi arrangiavo e portavo il furgoncino per una
cooperativa di Melzo... E quel giorno non toccava a me il turno e son rimasto a
casa a dormire. La mia ragazza era andata al lavoro praticamente con la (CA) e
quella mattina all’ora di pranzo mi viene il (D.)... viene tutto arrabbiato per la si-
tuazione che avevano loro. Dato che era ora di pranzo io stavo a fa’ la pasta e gli
faccio: ‘‘Va beh, mangia qua’’. Ha mangiato, ha parlato, si è sfogato tutto quanto
e se ne è andato. Poi io sono rimasto a casa tranquillamente. A un certo orario ho
pensato: ‘‘Mo’ vado a piglià la mia ragazza’’, perché sapevo che la mia ragazza ri-
tornava a casa con lei... con la (CA)... Allora prendo, da via Capecelatro faccio la
strada, attraverso e vado verso l’abitazione... saranno seicento metri. Allora
suono... Mi apre la porta lei... la situazione in quel momento era calma, perché io
non ho sentito né grida da fuori... non ho sentito niente. Io sono entrato e ho no-
tato il (D.) sdraiato sul letto e la (CA) ha iniziato a parlare con lui come... ‘‘Te ne
devi annà’’ gli diceva: ‘‘Te ne devi annà’’... D’un tratto il (D.) si è alzato dal letto
e l’ha afferrata e io istintivamente mi sono messo in mezzo, perché l’ha presa nel
collo, l’ha fatta sbattere praticamente... c’è la porta della camera da letto che cor-
risponde con la porta della cucina, però qui ci sta un muro, che poi c’è la porta
del bagno, e l’ha fatta intruppà al muro.
... E io mi sono messo in mezzo. Allora mettendomi in mezzo la (CA) è en-
trata in cucina e io mi sono messo tra il montante della porta... per non permet-
tere i due che si litigavano, insomma che non si menavano più. ...E praticamente
si son detti svariate parole, che è inutile che dico e poi tutto a un tratto a me ha
lasciato la morsa, perché io ce lo avevo di spalle, difatti a me strappò... qualche
bottone, che la camicia l’hanno presa i carabinieri... però io non c’avevo segni,
perché io praticamente con (D.) non ho mai litigato, mai. Praticamente è successo
tutto in quel momento, io umanamente me so’ messo... per no farla picchià. E il
(D.) ha lasciato la presa, la presa che praticamente mi stava sopra e in quel mo-
mento lei gli diceva: ‘‘Te ne devi annà’’... e il (D.) si è girato, ha preso la rincorsa
e si è buttato. E io in quel momento mi son girato, incredulo.
Proseguiva dicendo:
... a me il (D.) non m’ha fatto mai niente, niente, assolutamente niente. Io...
non ho mai litigato con lui... io stavo con la mia ragazza, (I.D.). Praticamente
non riesco a capire il perché io dovrei avere preso ’sto ragazzo e buttato giù...
Il (C.) spiegava che quel giorno era andato dopo pranzo a casa della (CA)
perché la mia ragazza ritornando [dal lavoro] frequentemente saliva a casa sua
[della (CA)] e allora io ero andato su per pigliarmi la mia ragazza... non c’era per-
ché era scesa prima e non ci siamo incontrati...
Massimiliano (D.) non aveva bevuto vino durante il pasto: non c’era il vino in
quella casa, perché mancava il denaro per comprarlo. (D.) era molto alterato per
la situazione con la (CA).
L’imputato non era in grado di dire se il (D.) assumesse sostanze stupefa-
centi: poteva solo affermare che in sua presenza non l’aveva mai fatto. Egli dopo il
fatto si era precipitato per le scale ed era sceso in strada.
Passava poi a descrivere, per quel che ricordava, la camera da letto e ribadiva:
quando lui ha staccato le mani mi sono leggermente girato e ho visto mentre ca-

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scava, perché lui già aveva preso la rincorsa... Mi ha lasciato, c’è stato un attimo
che mi ha lasciato... Poi ha preso la rincorsa e s’è buttato. Nel frattempo mi son
girato e ho visto che cascava sotto.
Ed ancora: ...praticamente è come se si è buttato dalla piscina, uguale, si è
proprio tuffato... Si è proprio tuffato...
Massimiliano (D.) era un violento: più volte aveva picchiato la (CA), anche in
presenza di altre persone.
17. Nel corso delle indagini il P.M. aveva disposto consulenza tecnica sulla
dinamica dell’incidente, affidando l’incarico all’ing. (L.P.). (Omissis).
f) Nel corso del dibattimento venivano esaminati, alle udienze del 29 gen-
naio e del 17 aprile 2002, l’ing. (L.P.); l’ing. (G.C.), che aveva eseguito le prove
per conto dell’ing. (L.P.); l’arch. (G.V.), che aveva collaborato con il consulente
del P.M.; e l’appuntato dei Carabinieri (M.M.), che aveva assistito all’esperimento
dell’ing. (L.P.). Infine, all’udienza del 21 maggio 2002 veniva esaminato il prof.
(V.G.), consulente tecnico della difesa dell’imputato. Tutte le persone dianzi indi-
cate fornivano ampie spiegazioni sull’attività svolta e, i consulenti, sulle ragioni
del loro convincimento, in sostanza confermando quanto già avevano sostenuto
nelle relazioni scritte.
In conclusione, valutando le consulenze tecniche, anche alla luce dei chiari-
menti forniti in dibattimento, si può dire che non sia emersa una soluzione vera-
mente risolutiva: la forza impulsiva di Massimiliano (D.) avrebbe potuto non es-
sere stata sufficiente a provocare lo sfondamento della persiana avvolgibile e la
precipitazione, ma non è neppure da escludere in maniera assoluta che la precipi-
tazione sia avvenuta in conseguenza di una colluttazione nell’appartamento del-
l’imputata.
18.1. Gli elementi di carattere tecnico forniti dai consulenti confermano
dunque la compatibilità di ipotesi alternative: quella del suicidio e quella dell’omi-
cidio, in ipotesi anche preterintenzionale.
Le ulteriori risultanze processuali emerse nel corso dell’attività istruttoria,
non consentono di dirimere i dubbi sì da poter pervenire a fondate certezze: non
sono emersi cioè elementi sicuri che possano indirizzare verso un’azione omicidia-
ria né, al contrario, dai quali si possa desumere con certezza che Massimiliano
(D.) abbia volontariamente posto fine ai suoi giorni.
Tutte le fonti di prova, comprese quelle provenienti da coloro che abitavano
nello stesso stabile dell’imputata, che pure sono stati provvidi in informazioni,
non consentono di enucleare una ragione per uccidere il (D.). Né certo la prova
dell’uccisione può essere tratta semplicemente da quanto ha affermato di aver
udito quel pomeriggio la teste Pavia, la quale ha detto, tra l’altro, di aver sentito
più voci femminili provenire dall’appartamento sottostante.
Innegabile fondamento ha l’ipotesi della colluttazione, sorta per dividere i due
contendenti, e poi trascesa, nel corso della quale il (C.), più o meno intenzional-
mente, avrebbe potuto aver spinto l’antagonista fuori dalla finestra. Ipotesi, in ve-
rità, non priva di ragionevolezza, se si considera lo stato di alterazione del (D.),
che aveva assunto cocaina e bevande alcoliche, e se si tiene conto del dato certo
della mancanza di alcuni bottoni nella camicia del (C.). Ipotesi che potrebbe tro-
vare ulteriore sostegno nel fatto che la massa dei due uomini (di kg. 80 e 90) av-
vinghiati nella lotta è doppia rispetto a quella del singolo, con la conseguenza che,

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in tali condizioni, sarebbe stato assai agevole, in un primo tempo, lo sfondamento


della persiana avvolgibile e, poi, la precipitazione di Massimiliano (D.), perché
spinto, o forse perché solo raggiunto da un pugno che gli avrebbe potuto fargli
perdere l’equilibrio, tenuto anche conto delle sue condizioni psico-fisiche.
Tuttavia, si resta pur sempre sul piano della mera compatibilità, delle mere
ipotesi, senza elementi in fatto che indirizzino, al di là di ogni ragionevole dubbio,
verso tale soluzione.
E rimarrebbe pur sempre da provare la partecipazione della (CA) all’omici-
dio, che certo non può essere fondata sulle sole parole di (F.P.).
18.2. Non si può peraltro neppure escludere che Massimiliano (D.), sotto
l’effetto combinato di cocaina e di alcool, abbia volontariamente fatto un balzo
verso la finestra, tuffandosi, come ha dichiarato la (CA). La letteratura medico-le-
gale potrebbe forse fornire conforto a tale ipotesi: la stimolazione del sistema ner-
voso centrale, provocato dall’azione farmacologia della cocaina, comporta l’insor-
gere di una fase euforica alla quale fa seguito la fase dell’ebbrezza, caratterizzata
da ansia, iperestesia emotiva, illusioni, interpretazioni deliranti a contenuto perse-
cutorio e talora, soprattutto in caso di intossicazione cronica, da allucinazioni, alle
quali si accompagna la tendenza alle reazioni di spavento-difesa, che spesso culmi-
nano in aggressioni verso i presunti persecutori in azioni suicidiarie.
Vi sono stati, del resto, precedenti autolesionistici del (D.), come risulta dalla
comunicazione di notizia di reato redatta dal comandante della Stazione dei Cara-
binieri di Garlasco il 23 febbraio 1997, il cui contenuto è stato più sopra ricor-
dato.
Le dichiarazioni dei parenti e dell’amico non valgono a scalfire la significati-
vità di tale dato. C’è da ricordare, al riguardo, che lo stesso padre di Massimiliano
non ha escluso l’insorgenza nel figlio, allorché si trovava sotto l’effetto dell’alcool,
se non di veri e propri propositi suicidiari, quanto meno di desideri di morte, per
poter ritrovare il fratello defunto.
La testimonianza di Michele (D.) assume anzi un particolare valore ove si
consideri che quel giorno il figlio era sotto l’effetto congiunto di cocaina ed alcool,
e la si confronti con le dichiarazioni rese da Teresa (CA), che ha riferito dell’osses-
sione di Massimiliano (D.) di raggiungere il fratello morto. Si può aggiungere, al
riguardo, che non è certo pensabile che ci sia stato un accordo tra i due.
La mancanza di segni visibili di lotta sul corpo del (C.), riscontrata dal teste
Mantua, potrebbe corroborare la tesi del suicidio.
Infine, dalla telefonata intercettata risulta che (I.D.) parla dell’accaduto in
termini analoghi a quelli del (C.).
In conclusione, non sussistono univoci elementi di prova nel senso prospet-
tato dall’accusa; ma, anzi, vi sono elementi che possono far propendere per la ra-
gionevolezza della versione prospettata dagli imputati.
Donde l’assoluzione degli imputati, perché il fatto non sussiste.
19. Si rendono necessarie, al riguardo, alcune brevi considerazioni conclu-
sive.
Occorre dare spazio al dubbio, quando questo si presenta come ragionevole,
nell’ambito della motivazione di un provvedimento adottato al termine di un giu-
dizio, svolto certo per la ricerca della verità, ma senza comprimere i diritti fonda-
mentali del cittadino accusato.

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Come ha sostenuto recente dottrina, l’oltre il ragionevole dubbio deve costi-


tuire, al di là dell’incompleta formulazione dell’art. 530, comma 2, c.p.p., la regola
probatoria e di giudizio nel processo penale, indispensabile per assicurare la prote-
zione degli innocenti e il rispetto dei fondamenti costituzionali dello Stato. Regola
giuridica di decisione, alla cui stregua — ha scritto di recente un autorevole stu-
dioso — deve essere risolto il problema delle prove insufficienti e contraddittorie:
le prove sono insufficienti quando l’organo dell’accusa non ha dimostrato la colpe-
volezza dell’imputato al di là del ragionevole dubbio; e sono contraddittorie
quando le prove della reità, pur se prevalenti, svelano uno o più ragionevoli dubbi.
Non va dimenticato che la regola in questione trova il suo fondamento nel si-
stema costituzionale: in particolare, negli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, e, so-
prattutto, 27, Cost., sì da costituire diritto vigente nel nostro Paese. Ed è dunque
alla luce di tali norme che si deve fondare la pronuncia assolutoria.
La regola, pertanto, non dovrebbe essere marginalizzata nella prassi, ché vi
sono ragioni potenti che la supportano, come si legge nella famosa sentenza della
Corte Suprema degli Stati Uniti in re Winship del 1970, stesa per mano del giu-
dice Brennan. (Omissis).

II

(Omissis). — MOTIVAZIONE IN FATTO e IN DIRITTO. — (A) è stato giudicato e


condannato con sentenza della Corte d’assise di Monza emessa in data 20 giugno
2000 per i reati di cui agli artt. 575-577, comma 1, n. 3 e ult. comma, art. 62, n. 2
(omicidio volontario premeditato ai danni del coniuge); 81 cpv., 610, comma 2
(violenza privata ai danni della dott.ssa (B) anestesista presso l’Ospedale Nuovo
S. Gerardo di Monza) e artt. 12 e 14, l. n. 497/1974 (porto illegale di pistola); con
il riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche e della diminuente di
cui all’art. 89 c.p. sulle contestate attenuanti la pena applicata è stata di anni sei di
reclusione e lire 800.000 di multa, oltre le spese processuali, l’interdizione in per-
petuo dai pubblici uffici e la confisca dell’arma utilizzata.
Va ricordato che per il reato di illecita detenzione di arma da fuoco, origina-
riamente rubricato, il (A) è stato assolto con l’impugnata sentenza.

FATTO. — I fatti, che risalgono al 21 giugno 1998, si riassumono brevemente


a titolo introduttivo.
A seguito di una piastrinopenia (C), con manifestazioni esteriori di emorragia
superficiale a livello cutaneo, veniva ricoverata d’urgenza presso l’Ospedale San
Gerardo di Monza il 14 giugno 1998.
Peggiorate le sue condizioni dopo 5 giorni, il 19 giugno si manifestava un’e-
morragia intracranica; dalla TAC encefalica emergevano aree iniziali di sofferenza
cerebrale su base emorragica; quindi il 20 giugno 1998 la (C) precipitava, improv-
visamente in coma; dalle due TAC eseguite si evidenziavano numerosi focolai
emorragici a livello cerebrale: uno di grosse dimensioni in sede parleto-temporale
dx e un’emorragia subdurale; quindi veniva operata al cranio, con drenaggio del-
l’ematoma subdurale e del focolaio emorragico cerebrale maggiore.
Il quadro clinico era estremamente grave: sofferenza cerebrale con notevole

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edema del parenchima cerebrale tanto che non si poteva ricollocare — ad opera-
zione conclusa — il frammento di osso, asportato per procedere all’operazione
chirurgica.
Quindi la (C) veniva intubata e tenuta nel reparto di rianimazione del sud-
detto Ospedale e sottoposta a ventilazione forzata per forte compromissione della
funzione respiratoria autonoma.
Nel pomeriggio del 20 giugno il marito veniva messo al corrente dai medici
dell’Ospedale del grave quadro clinico post-operatorio e, quindi, delle condizioni
di salute disperate quanto alla ripresa di una vita normale della moglie all’esito
dell’intervento.
Il 21 giugno il (A) si presentava in Ospedale alle 6,30 chiedendo ulteriori no-
tizie sulle condizioni della moglie; gli venivano comunicate le condizioni staziona-
rie della paziente e l’esito della TAC effettuata per verificare la pressione endocra-
nica, che avevano escluso l’utilità di altri interventi chirurgici.
A questo punto il (A) estraeva dalla tasca una fede nuziale dicendo che inten-
deva metterla al dito della moglie; al rifiuto oppostogli dalla dott.ssa (B), il (A)
estraeva e puntava contro la dott.ssa una pistola, inducendola ad entrare nei locali
della rianimazione.
La dott.ssa (B) tentava di far desistere il (A), che intanto riponeva l’arma
sotto la giacca, mentre cercava di attirare l’attenzione degli infermieri presenti in
loco, ma il (A), deciso nel suo intento, entrava nella sala di rianimazione; quindi,
giunto al letto della moglie estraeva di nuovo l’arma, puntandola contro il torace
della paziente.
La dottoressa urlava per la paura e correva a chiamare al telefono la Polizia,
che sopraggiungeva ed allontanava il personale medico e paramedico.
L’Ispettore (D) entrava nel locale rianimazione a mani alzate mentre il (A)
con la minaccia della pistola vietava l’ingresso a chiunque.
L’ispettore invitava il (A) a deporre l’arma ma non riusciva nel suo intento;
ad un tratto il (A) staccava i tubi dell’apparecchio di ventilazione collegato al
corpo della paziente e successivamente consentiva l’ingresso presso la sala di ria-
nimazione di un proprio cugino infermiere presso la sala di quell’ospedale: signor
(E).
Successivamente (A) richiedeva l’intervento di un medico ed interveniva il
dott. (F), conosciuto dallo stesso (A), che accertava con elettrocardiogramma il
decesso della (C), sempre sotto arma puntata dal predetto.
Certo, ormai, della morte della moglie, il (A) a quel punto deponeva l’arma,
abbracciava il corpo della defunta e le metteva l’anello nuziale al dito e si conse-
gnava agli agenti.
L’imputato ha ammesso l’addebito in occasione dell’interrogatorio davanti al
GIP senza nascondere le sue intenzioni e quindi, le sue responsabilità.
Durante il dibattimento, in primo grado, il P.M. ha rinunciato al suo esame,
ed il (A), rispondendo ad una domanda del suo difensore faceva solo dichiarazioni
confermative, peraltro, di quanto già da lui dichiarato al GIP.
La sentenza della Corte d’assise, in primo grado, come si è detto valutate
tutte le risultanze dibattimentali, si concludeva con un giudizio di penale respon-
sabilità del (A) per i reati sopra indicati. (Omissis).
Sull’omicidio premeditato del coniuge, reato p.e p. dagli artt. 575-577,
comma 1, n. 3, ult. comma, 62, n. 1, c.p., questa Corte ha tenuto presente, in per-

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fetta aderenza alle norme dell’ordinamento vigente, il principio dell’intangibilità


della vita umana.
Il compito di questa Corte, in ordine all’imputazione, è — ed è rimasto — ne-
cessariamente limitato alla valutazione, secondo il diritto vigente, della sussistenza
o meno della responsabilità penale di (A), in ordine alla condotta da lui tenuta e
attribuita con l’imputazione, rispetto alla quale, come si è precisato prima, c’è già
stata una sentenza di condanna in primo grado, appellata con un’argomentata se-
rie di motivazioni.
La Corte ha incentrato l’analisi degli elementi posti alla sua valutazione, sul-
l’accertamento primario del nesso di causalità, tra la condotta del (A) e l’evento
morte della moglie, signora (C), che ha costituito uno dei punti fondamentali del-
l’appello stesso e che, come è intuitivo, è il punto centrale per stabilire se il conte-
stato omicidio volontario attribuito al (A), sussista o meno.
Secondo i principi del vigente diritto penale, infatti, la condotta è causa del-
l’evento quando senza di essa l’evento non si sarebbe verificato, non è causa del-
l’evento se l’evento si era già verificato prima di tale condotta ed indipendente-
mente da essa.
Va appena ribadita che anche l’anticipazione di un solo momento dell’evento
morte, per il nostro ordinamento equivale ad omicidio; quindi anche in presenza
di una prognosi negativa quoad vitam, accorciare il residuo di vita che rimane ad
ogni individuo, assolutamente non conoscibile ex ante per il diritto oggi vigente in
Italia, costituisce omicidio doloso o volontario.
Come si è detto il 21 giugno 1998 (A), intorno alle ore 6,40 del mattino, al-
l’interno della stanza del reparto di rianimazione dell’ospedale Nuovo San Ge-
rardo di Monza, ove era ricoverata la moglie — mentre impugnava un’arma, (poi
risultata scarica) per evitare a chiunque l’ingresso nella stanza stessa e per impe-
dire ogni opposizione a quanto si apprestava a fare — staccava i tubi di collega-
mento dell’impianto di ventilazione orotracheale cui era attaccata la moglie;
quindi attendeva la formale dichiarazione di morte della stessa, a seguito di rego-
lare accertamento medico.
La (C), quindi, all’accertamento elettrocardiografico — eseguito intorno alle
ore 8,05, dal dott. (F) dello stesso Ospedale — risultava deceduta per arresto car-
diocircolatorio da insufficienza acuta cardiorespiratoria.
Non si può negare, indubbiamente, che l’azione compiuta dal (A) e cioè l’in-
terruzione del contatto tra il tubo posto in posizione orotracheale e l’apparecchio
per la respirazione artificiale si sia presentata ‘‘astrattamente idonea’’ a provocare
una carenza di ossigeno e, di conseguenza la morte per arresto cardiocircolatorio
su base ipossica della signora (C).
Ma, sulla base della documentazione agli atti del processo, la Corte ha rite-
nuto necessaria una nuova ed approfondita valutazione della condizione della pa-
ziente (C) all’atto della compiuta ‘‘estubazione’’, al fine di accertare il presupposto
fondamentale per la sussistenza del reato di omicidio che è l’esistenza in vita della
persona offesa.
L’avvento e lo sviluppo della chirurgia dei trapianti (l. 2 dicembre 1975, n.
644) ha fornito una forte motivazione per la diagnosi di morte cerebrale, ritenuta
come la più appropriata, rispetto all’arresto dell’attività cardiorespiratoria, per la
finalità del prelievo di organi da cadavere.
Secondo la normativa vigente, dettata dalla l. 29 dicembre 1993, n. 578 e dal

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d.m. n. 582 del 22 agosto 1994, la dichiarazione di morte, con la conseguenza


della possibilità di interrompere legittimamente l’erogazione di prestazioni sanita-
rie, si può fare a seguito di un’accertata diagnosi di morte cerebrale.
Per ‘‘morte cerebrale’’ si intende la morte del paziente diagnosticata utiliz-
zando anziché criteri cardiologici, criteri cerebrali, in virtù della loro maggiore
sensibilità, che permette di anticipare la diagnosi di morte ad una fase in cui ‘‘il
processo di morte’’ pur coinvolgendo il paziente in quanto organismo, non ha an-
cora pienamente ed irreversibilmente coinvolto i singoli organi.
Ovviamente i criteri cerebrali non sono utilizzabili in tutti i pazienti, ma solo
in quelli il cui insulto cerebrale primitivo sia alla base della perdita della coscienza
(pazienti in coma profondo).
Il concetto di morte cerebrale dall’Associazione medica americana proposto
originariamente come sinonimo di cessazione della vita di una persona, è stato,
poi, recepito in tutto il mondo con alcune eccezioni (ad es. in Giappone).
Detta definizione, nella legislazione vigente, ha sicuramente l’importantissima
funzione di consentire dì interrompere legittimamente l’erogazione di prestazioni
sanitarie ad altissimo costo socio-economico, in soggetti deceduti o c.d. ‘‘cadaveri
a cuore battente’’.
L’assenza di attività elettrica cerebrale, contestualmente all’assenza di vitalità
del tronco cerebrale, testimonia la morte del paziente.
L’irreversibilità del processo di morte per il paziente ospedalizzato deve es-
sere testimoniata da una specifica Commissione che valuta il paziente stesso per
un periodo di osservazione stabilito dalla legge in cui, per tre volte almeno, si ef-
fettuano i prescritti rilievi con gli appositi strumenti, anche perché il paziente, du-
rante quel periodo, rappresenta anche un bene per la società, che va tutelato e
mantenuto in condizioni di perfusione ottimale, al fine di garantire, anche post
mortem, migliori condizioni possibili degli organi prelevatili.
Ovviamente, date le condizioni della signora (C), di cui si dirà ampiamente, il
problema della donazione di organi per lei non si sarebbe mai posto. (Omissis).
L’indice di Glasgow (la Glasgow Corna Scale è una scala che viene utilizzata
a livello internazionale per valutare le condizioni neurologiche del paziente), dava
il punteggio già molto basso di 6, quale indice di una grave sintomatologia neuro-
logica, subito dopo l’intervento e cioè nel pomeriggio del 20 giugno, ma, addirit-
tura, alle ore 23 dello stesso giorno, aveva raggiunto il livello minimo di 3 per
apertura occhi assente, retrazione al dolore minima e risposta verbale assente.
Va appena ricordato come la diagnosi di morte cerebrale si basi essenzial-
mente sull’esame neurologico che dimostri insensibilità e assenza di riflessi cere-
brali, per poter ritenere, senza timore di smentite, che l’accertata discesa inarre-
stabile dell’indice di Glasgow evidenziasse già alle ore 23 del giorno 20 giugno, un
progressivo scivolamento della paziente (C) verso l’evento morte.
Le testimonianze dei dottori (...), consulenti del P.M. e dei dottori (...), con-
sulenti della difesa ‘‘sono assai rilevanti, a parte le sopra riferite risultanze degli
accertamenti medici compiuti in ospedale, per la ricostruzione delle condizioni in
cui si è venuta a trovare la (C) dal momento successivo all’intervento chirurgico
fino a quello della c.d. estubazione’’.
In particolare, dalle dichiarazioni congiuntamente rese all’udienza del 3 no-
vembre 1999, dinanzi alla Corte d’assise in 1o grado dal dott. (...) e dalla dott.ssa
(...), è risultato che l’intervento di drenaggio dell’ematoma subdurale e, quindi del

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focolaio emorragico maggiore, non aveva risolto il problema del notevole edema
del parenchima cerebrale, che, come si è detto, continuava ad erniare attraverso
l’apertura chirurgica.
Il teste (I) ha indicato quello della (C) come ‘‘un caso difficilmente confronta-
bile con altri’’, tale da ‘‘porre a rischio la vita della paziente’’ e, comunque da
‘‘non consentire un recupero alla vita normale’’.
La dott.ssa (I) ha detto che in quelle condizioni sulla paziente, dopo l’inter-
vento, a titolo di complicazione necessaria, ‘‘si sarebbe, comunque, verificata, no-
nostante le cure appropriate, la comparsa di nuovi episodi emorragia intracere-
brali con ulteriori ed irreversibili danni, dato il quadro di estrema gravità’’.
Dalle risposte date dai medici alle domande poste in dibattimento, è risultato,
con chiarezza, come la gravissima pressione intracranica ‘‘comprimesse il tronco
cerebrale, responsabile dell’attività respiratoria e dell’attività cardiocircolatoria’’
cioè le due funzioni vitali essenziali.
Alla domanda, rivoltagli dalla difesa, sulla possibilità di ‘‘morte cerebrale’’
della (C) ‘‘in quelle condizioni’’, la dott.ssa (H) ha risposto che, poiché non erano
stati eseguiti e, quindi, non erano state riportate in cartella clinica, quegli accerta-
menti che si debbono fare da parte della Commissione medica per la dichiarazione
di morte cerebrale, ‘‘sulla base degli atti messi a disposizione dei medici interve-
nuti per l’accertamento autoptico, non aveva, elementi certi per affermare che la
morte si fosse verificata..., ma di sicuro la paziente non aveva un respiro auto-
nomo... e questo era un segno di grave compromissione dei centri nervosi...’’.
Quindi per difetto di una documentazione formale, ai fini di una definizione
di morte clinica e strumentale e non per le effettive condizioni patologiche la dot-
toressa, intervenuta in sede autoptica, non poteva affermare con la necessaria fer-
mezza l’avvenuta morte cerebrale della (C); il che non equivale ad esclusione della
stessa, sul piano naturalistico.
La dottoressa ha detto, poi, specificamente: ‘‘quando il centro del respiro non
funziona è uno dei segni che — se non trattati con ventilazione meccanica —
...porta verso la morte cerebrale’’; è uno dei segni che possono far fare una dia-
gnosi di morte cerebrale.
La paziente presentava anche un diametro diverso delle pupille (anisocoria)
ed anche questo è stato indicato come un segno di grossa compromissione cere-
brale, fino alla definitiva fissazione della pupilla che si verifica con la morte.
All’esame autoptico, eseguito mettendo il cervello sotto formalina per la ne-
cessità di fissare per la sezione il materiale stesso, che si presentava assai spappo-
lato, il dottor (I) ha detto che era stata accertata, ‘‘un’area sfacelativa emorragica
di cm. 7x6,5 in corrispondenza del lobo temporale destro che si affondava nel pa-
renchima per circa cm. 2,5.
Inoltre vi era una picchettatura emorragica in corrispondenza della sostanza
bianca del terzo anteriore lobo parietale dx ed altre, plurime aree emorragiche ai
margini dell’area sfacelativo-emorragica di cui si è detto. Ancora, nella cavità ven-
tricolare laterale sx, al terzo posteriore, si evidenziava presenza di materiale ema-
tico coagulato, mentre nella zona del cervelletto si notava un’emorragia sfumata
subaracnoidea in corrispondenza della faccia centrale del verme cerebellare’’.
Anche il cuore della (C) si era presentato danneggiato agli esami clinici effet-
tuati. (Omissis).
Pertanto accanto alla gravità del quadro neurologico, con l’irreversibile com-

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promissione delle funzioni principali del cervello, causa essa stessa — si ripete —
di ‘‘morte rapida’’ il dott. (I) ha indicato una causa aggiuntiva, addirittura di
‘‘morte improvvisa’’ dovuta al danno cardiologico.
Il teste, poi, ha evidenziato che, sempre a seguito dell’accertamento autop-
tico, anche i polmoni della (C) anche se aiutati con la ventilazione meccanica, che
ha il compito specifico di preservarli, si presentavano danneggiati, per edema pol-
monare e per focolai di broncopolmonite, confermati dall’esame istologico.
Tutti gli altri organi della (C) presentavano, poi, una sofferenza anossica ge-
neralizzata, che per il (K), ‘‘richiede un certo numero di ore per verificarsi’’ e,
quindi, ‘‘ragionevolmente, si era sviluppata nel periodo tra il sorgere dell’emorra-
gia e l’intervento e tra quest’ultimo e l’estubazione, non certo nel breve lasso di
tempo tra l’estubazione e l’accertamento della morte’’.
La sofferenza, di cui si è detto, è compatibile, anzi costituisce la spia di una
carenza di ossigeno nei tessuti, benché questi — va sottolineato — fossero sotto-
posti a ventilazione artificiale.
Secondo quanto riferito dal teste (I), poi, anche la broncopolmonite ‘‘in sog-
getti in stato di coma può avere un’evoluzione rapidissima verso la morte’’.
Infine anche le dichiarazioni del dott. (M), ricercatore nel dipartimento di
medicina dell’Università di Pavia, si sono mostrate illuminanti rispetto alla condi-
zione della signora (C) al momento dell’intervento di estubazione posto in essere
dal marito ing. (A).
Il dottor (M) ha evidenziato come, accanto ad un quadro prognostico estre-
mamente negativo quoad vitam rappresentato dalle straordinariamente gravi com-
promissioni neurologiche, che con la relativa compromissione funzionale del
tronco encefalico erano di per sé sole causa di morte vi era una serie di compli-
canze generali, sia a carico del cuore che dei polmoni che, a fronte di una trombo-
citopenia in stato di costante ed inarrestabile aggravamento, era un’ulteriore, indi-
scutibile causa di morte.
Alla specifica domanda della difesa ‘‘se poteva essersi verificata la morte cere-
brale’’ anche se non formalmente registrata il dottor (M) rispondeva, con certezza,
‘‘Sì, poteva esserci morte cerebrale’’ aggiungendo che, in particolare l’accertata
inondazione per emorragia dei ventricoli cerebrali ‘‘è una delle cause più frequenti
di ‘‘morte improvvisa’’, che si può verificare anche in soggetti che godono fino al
momento dell’emorragia, di buona salute’’.
‘‘In sostanza non è necessario avere una patologia grave come quella della si-
gnora (C) per decedere perché i soggetti affetti da emorragia dei ventricoli —
come la (C), che presentava anche tante altre patologie — non fanno nemmeno a
tempo a diventare così gravi, per un black-out delle funzioni vitali cerebrali quindi
per morte repentina’’.
Inoltre nella relazione autoptica si legge che la porpora trombocitopenica as-
sociata all’emorragia cerebrale è gravata da un’elevata mortalità e, in particolare,
che i casi di sopravvivenza nell’adulto, riportati in letteratura ([...]), sono del tutto
aneddoti comunque, si riferiscono a casi in cui la sintomatologia logica sia in fase
di remissione.
Come si è detto in precedenza, nel caso della (C) invece la piastrinopenia si
era via via aggravata.
Bisogna a questo punto richiamare la testimonianza del dott. (I) sul monito-
raggio cui era stata sottoposta la (C) dopo l’intervento chirurgico.

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Prima di tutto va detto che la (C) non era stata sottoposta ad un monitoraggio
continuo e completo di tutte le funzioni generali — che comprende anche inter-
venti a volte cruenti, come introduzioni di cateteri fissi, sonde esofagee ecc., che si
giustificano maggiormente nei casi in cui si prevede, con ragionevole certezza, l’u-
tilizzazione di organi per il trapianto — e, questo, non era, di certo, il caso della
(C).
Il dott. (L) ha dichiarato che l’ultimo monitoraggio per l’attività cerebrale era
stato eseguito alle ore 5,30 del mattino del giorno 21 giugno e cioè almeno un’ora
e dieci minuti prima che l’ing. (A) entrasse nel reparto rianimazione.
‘‘Detto monitoraggio veniva eseguito ad intervalli, per una prassi ospedaliera
che non richiede l’accertamento dei riflessi neurologici minuto per minuto...
Se il paziente va incontro a morte cerebrale, può entrare nella valutazione l’e-
ventuale prelievo di organi o meno, quindi vi è il mantenimento di alcune funzioni
di carattere cardiocircolatorio e respiratorio, meccanico cioè garantito da mac-
chine; per cui capita che un paziente, deceda ad esempio alle due di notte ma gra-
zie a queste apparecchiature viene portato avanti magari fino alle otto o alle nove
del mattino, quando potrà riunirsi la Commissione Medica per la valutazione della
morte cerebrale, secondo quelli che sono i dettami della legge e dei regolamenti’’.
Di fronte a quest’affermazione, al dottor (L) era stata posta un’ulteriore do-
manda: ‘‘se alle 5,35 del mattino, dopo l’ultimo accertamento delle 5,30 la (C)
avesse cessato le proprie funzioni vitali da un punto di vista di morte cerebrale,
non accertata ovviamente dalla Commissione..., come morte cardiaca, invece, la
(C) avrebbe potuto anche non subirla (apparentemente) perché sottoposta a que-
ste macchine?... nel senso che queste macchine avrebbero potuto ‘‘simulare’’ una
non avvenuta morte cardiaca, perché garantivano quelle funzioni?’’.
La risposta del dott. (L) è stata affermativa.
Alla successiva domanda sulla possibilità che (C), nell’intervallo di tempo tra
il rilevamento fatto alle 5,30 del mattino e il momento dell’estubazione, fosse an-
data incontro a morte neurologica il dott. (L) ha risposto: ‘‘non posso escluderlo’’.
Secondo la letteratura medica in materia, i casi di questo genere si possono
definire ‘‘decessi cerebrali in corpi tecnicamente ancora in vita’’ o ‘‘casi di mante-
nimento della vita cardiaca ad una persona già soggetta a morte cerebrale’’ ([...]).
Pertanto, secondo la Corte, sulla base del conclamato difetto assoluto per la
paziente dell’attitudine a rimanere ‘‘vitale’’ alla luce di tutte le acquisizioni docu-
mentali e testimoniali si è fatto riferimento fin qui, quale risposta si deve dare al
primo dei quesiti mossi con i motivi di appello, che si può, riassumere nell’interro-
gativo: si può escludere come irragionevole o irrealistica l’ipotesi che la signora
(C) fosse addirittura morta nel lasso di tempo tra l’ultimo monitoraggio ed il mo-
mento dell’estubazione, in presenza di plurime ed accertate cause addirittura di
morte naturale ‘‘repentina o improvvisa’’.
La risposta, è sicuramente no.
E tale conclusione non risulta arbitraria e basata su meri criteri possibilistici,
perché appare pienamente conforme alle indicazioni provenienti dagli stessi con-
sulenti tecnici escussi che non hanno potuto escludere, su base scientifica in ter-
mini di certezza che la signora (C) fosse morta prima della deconnessione con
l’apparecchio di ventilazione artificiale.
Il difetto di un monitoraggio ai fini di un formale accertamento della morte
neurologica prima dell’estubazione dovuto, come si è visto, ad una prassi ospeda-

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liera, non può nella situazione particolare fin qui descritta essere considerato un
difetto della prova principale dell’avvenuta morte per cause naturali della (C),
prima dell’intervento del coniuge.
L’accertamento, con valore giuridico, della morte effettuato dalla commis-
sione ospedaliera ha un’efficacia dichiarativa ed è di certo essenziale ai fini dell’e-
spianto di organi, come momento essenziale per poter procedere allo stesso.
Ma è di tutta evidenza che non può avere un’efficacia costitutiva della morte
stessa, perché rappresenterebbe una sovrapposizione o addirittura una sostitu-
zione al fatto naturalistico della cessazione della vita, lasciato alla discrezionalità
di un organo tecnico.
Del resto i consulenti hanno detto chiaramente che la morte secondo il con-
cetto naturalistico, può ben risalire ad un periodo anche di alcune ore prima del-
l’accertamento ufficiale.
In sostanza è normale, se non addirittura frequente, che la morte di un sog-
getto preesista alla dichiarazione della commissione tecnica all’uopo riunita, che
interviene alcune ore dopo, per comprensibili esigenze di carattere tecnico-orga-
nizzativo.
Ma — si ripete — ciò che ha importanza rilevante ai fini dell’espianto di or-
gani non può avere la stessa fondamentale rilevanza ai fini dell’accertamento del
reato di omicidio, dove ciò che conta è la certezza dell’esistenza in vita della per-
sona fino al momento della realizzazione della condotta omicidiaria.
Il punto decisivo che questa Corte ha dovuto accertare è se sia stato provato
— oltre ogni ragionevole dubbio — che la signora (C) fosse in vita al momento
dell’atto di estubazione compiuto dal marito (A) — presupposto indispensabile
per la sussistenza del delitto di omicidio volontario — e quindi, se la condotta at-
tribuita al (A) sia stata la causa determinante della morte.
Rispetto al suddetto accertamento, quindi, debbono essere ritenuti determi-
nanti e decisivi tutti quei rilievi di ordine medico-legale che sono stati acquisiti
con l’istruttoria dibattimentale in primo grado, che sono stati rivisitati nel giudizio
di appello nei termini che si è cercato di riportare fin qui.
Come è noto il nesso di causalità nei reati commissivi non può essere affer-
mato in termini ipotetici ma in termini di ragionevole tranquillizzante certezza.
Ora in presenza di plurime, gravi, incombenti ed accertate cause di ‘‘morte
improvvisa’’, in una situazione di organi quali il cervello ed il cuore addirittura,
devastati, ritenute dai Consulenti tecnici elementi causali dell’evento morte — già
di per sé esclusivi — come si può affermare che nel lasso di tempo di più di
un’ora, la signora (C) non sia morta per le preesistenti cause patologiche naturali,
ma che sia stato sicuramente l’intervento del marito a determinare la sua fine?
Invero, per quanto si è detto fin qui, la Corte ritiene che proprio alla luce di
un più meditato controllo delle risultanze dibattimentali, non si possa dire suffi-
cientemente provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il nesso di causalità tra la
condotta del (A) e l’evento morte della (C).
Pertanto, si impone una decisione di assoluzione del (A), in riforma dell’im-
pugnata sentenza del reato di uxoricidio premeditato, perché il fatto non sussiste.
Infine va precisato che, ai fini della suddetta dichiarazione è rimasto un dato
del tutto inconferente il fatto che egli intendesse porre fine all’esistenza della sven-
turata moglie, con l’eliminazione di una (ritenuta) ‘‘trappola’’, tesa dalla tecnolo-

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gia, alle sue emozioni e ai suoi affetti, per convinzioni personali di ordine etico e
culturale.
Come estranea alla valutazione è rimasta la sua intenzione di agire non certo
per un interesse personale, bensì per svolgere, con un gesto estremo di amore, un
compito — stando a quanto da lui stesso, più volte affermato — di interpretazione
e realizzazione della stessa volontà della moglie, espressa quando era ancora in
vita, al fine di evitare un inutile — secondo la sua visione delle cose — futuro ac-
canimento terapeutico, contrario al principio di una vita o di una morte portata
avanti con dignità.
Ed infatti, nel caso di difetto del rapporto di causalità tra azione ed evento, la
formula assolutoria perché il fatto non sussiste prevale su qualsiasi altra formula
diversa ed in particolare rende superflua ogni valutazione della condotta, poiché
siffatto esame comporterebbe un giudizio che, comunque, si risolverebbe in un
obiter dictum.
Si è, dunque, in presenza di un reato impossibile per inesistenza dell’oggetto
dell’azione criminosa e, in particolare, di un omicidio impossibile per insufficienza
della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso sop-
primere.
Non vi è ragione in questo caso di applicare la misura di sicurezza prevista
dall’art. 49, ult. comma, c.p., dato che la particolarità del caso e il movente del
fatto escludono la pericolosità del (A).
L’assoluzione dell’imputato, per difetto della prova della causazione della
morte di (C) rende non prospettabile l’ipotesi subordinata dell’omicidio del con-
senziente, dato che anche tale fattispecie presuppone la causazione dell’evento
mortale. (Omissis).

——————
(1-2) La Corte d’assise di fronte al ‘‘ragionevole dubbio’’.

1. Gli studi di Stella stanno dando frutti copiosi (1): il principio dell’ ‘‘oltre
ogni ragionevole dubbio’’ è riconosciuto come regola probatoria e di giudizio del
nostro ordinamento sia dalla giurisprudenza di legittimità che di merito. Tra le
pronunce della Cassazione, di grande rilevanza è la recente sentenza delle sezioni
unite, nella quale, in tema di causalità omissiva (tema geneticamente esposto al
‘‘ragionevole dubbio’’), i giudici scrivono che ‘‘[...] l’insufficienza, la contradditto-
rietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato
su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso
concreto [...], non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata
dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530, comma 2, c.p.p., secondo il
canone di garanzia in dubio pro reo’’ (2). Non dissimili le argomentazioni in un al-

(1) STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, 2a ed., Mi-
lano, 2002.
(2) Cass., sez. un., 10 luglio 2002 (dep. 11 settembre 2002), n. 30328, in Guida. dir., n. 38, p. 62
ss.; in Riv. pen., 2002, p. 885. Naturalmente il principio di diritto statuito dalle sezioni unite, pur riferito
nel caso sottoposto all’attenzione della Corte al nesso causale, è esplicitamente esteso ad ogni altro ele-
mento della fattispecie: ‘‘non possono non valere’’ per il rapporto causale, scrivono le sezioni unite, ‘‘gli
identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi

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tro precedente intervento della Corte, con riferimento all’accertamento del nesso
causale: ‘‘solo dimostrando che la legge di copertura assicura un coefficiente per-
centualistico vicino alla certezza, il giudice può dire di aver accertato il rapporto
di causalità con alto grado di probabilità o elevato grado di credibilità razionale o,
se si vuole, oltre ogni ragionevole dubbio’’ (3).
Tra le pronunce di merito, invece, basti per tutte ricordare la recente sentenza
del Tribunale di Venezia, sulla nota vicenda del Petrolchimico di Porto Mar-
ghera (4). Anche per i giudici veneziani ‘‘[...] la responsabilità deve essere provata
‘oltre ogni ragionevole dubbio’, regola di giudizio che ormai fa parte del nostro or-
dinamento’’.
Nel solco tracciato da questa giurisprudenza si inseriscono le due recentis-
sime sentenze della Corte d’assise e della Corte d’assise d’appello di Milano (5).
Mentre quest’ultima si rivela preziosa per la metodologia di analisi e valutazione
delle risultanze scientifiche emerse in dibattimento e per l’affermazione che il
nesso causale può essere ritenuto sussistente solo ‘‘in termini di ragionevole tran-
quillizzante certezza’’ e deve essere provato ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’, la
prima ha il pregio di enunciare in modo più compiuto la regola e le ‘‘potenti ragio-
ni’’ che la sorreggono: l’oltre ogni ragionevole dubbio, scrive la Corte d’assise,
‘‘deve costituire, al di là dell’incompleta formulazione dell’art. 530, comma 2,
c.p.p., la regola probatoria e di giudizio nel processo penale, indispensabile per as-
sicurare la protezione degli innocenti ed il rispetto dei fondamenti costituzionali
dello Stato’’. Essa infatti, proseguono i giudici milanesi, trova riscontro positivo
‘‘negli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, Cost., sì da costituire diritto vigente
nel nostro paese’’. Alla luce di tali norme il giudice deve pronunciare sentenza as-
solutoria di fronte a prove insufficienti (‘‘quando l’organo dell’accusa non ha di-
mostrato la colpevolezza dell’imputato al di là del ragionevole dubbio’’) o con-
traddittorie (‘‘quando le prove della reità, pur se prevalenti, svelano uno o più
dubbi ragionevoli’’). Tale regola dunque, conclude la Corte, ‘‘non dovrebbe essere
marginalizzata nella prassi, ché vi sono ragioni potenti che la supportano, come si
legge nella famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in re Winship
del 1970, stesa per mano del giudice Brennan’’.
Come si vede, l’estensore richiama a fondamento della motivazione non solo i
principi costituzionali, ma anche, le potenti ragioni che impongono la protezione
dell’innocente come fondamento granitico dell’amministrazione della giustizia pe-
nale in ogni paese democratico e che sono esposte nella celebre sentenza della
Corte Suprema statunitense in re Winship (6).
Vale dunque la pena, prima di seguire nello specifico le motivazioni dei due
collegi milanesi, ripercorrere brevemente i tratti salienti di questa pronuncia,
‘‘stella polare’’ della giurisprudenza penalistica nordamericana (7).
2. Quali sono allora le ‘‘potenti ragioni’’ per le quali il principio del ragione-
vole dubbio è immanente ad ogni sistema penale liberale? Seguiamo il giudice
Brennan.

costitutivi del fatto di reato’’ (corsivi nostri). Su tale pronuncia da ultimo STELLA, Etica e razionalità nella
recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della Suprema Corte di cassazione, in questa Rivista,
2002, p. 767 ss.
(3) Cass., sez IV, 25 settembre 2001 (dep. 13 febraio 2002), n. 1652, in questa Rivista, 2002, p.
737 ss., con nota di D’ALESSANDRO, La certezza del nesso causale: la lezione ‘‘antica’’ di Carrara e la le-
zione ‘‘moderna’’ della Corte di cassazione sull’ ‘‘oltre ogni ragionevole dubbio’’.
(4) Trib. Venezia, sez. I, 22 ottobre 2001 (dep. 29 maggio 2002), inedita.
(5) Quest’ultima è pubblicata anche in Guida dir., 2002, n. 40, p. 47 ss.
(6) 397 U.S. 358 (1970).
(7) Così STELLA, Giustizia e modernità, cit., p. 102 ss., anche per i riferimenti alla giurisprudenza
successiva.

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Innanzitutto l’imputato vede messi in gioco nel processo penale ‘‘interessi di


immensa portata’’: non solo la libertà personale, ma anche i diritti fondamentali al
buon nome, alla reputazione, all’onore, il diritto di partecipare alla vita della co-
munità, di coltivare la famiglia, di sfruttare le opportunità di lavoro (8). Ecco per-
ché una società che tutela questi valori ‘‘non può condannare un uomo per la
commissione di un crimine quando c’è un ragionevole dubbio sulla sua colpevo-
lezza’’.
Ma non solo: tale regola di giudizio ‘‘è indispensabile per esigere il rispetto e
la fiducia della comunità nella legge penale’’. Diventa essenziale infatti, scrive an-
cora la Corte Suprema, che in ‘‘una società di uomini liberi’’ la ‘‘forza morale del
diritto penale non venga sminuita da uno standard di prova che lascia alla società
il dubbio che gli innocenti vengano condannati’’ e che, correlativamente, ogni cit-
tadino, ‘‘nell’occuparsi dei suoi affari ordinari’’, possa ‘‘confidare’’ nel fatto che
non potrà essere giudicato responsabile di un reato se la prova della sua colpevo-
lezza non venga fornita ‘‘con estrema certezza’’.
D’altra parte l’imputato, che vede coinvolti nel processo interessi di immensa
portata, si trova in un’intrinseca situazione di svantaggio rispetto all’autorità sta-
tale che procede nei suoi confronti; spetta dunque all’accusa l’onere probatorio di
vincere la presunzione d’innocenza al di là del ragionevole dubbio: tale principio è
dunque regola non solo di giudizio, ma anche di prova.
Alla luce di questi principi, anche con riferimento alla disposizione sul giusto
processo (14o Emendamento), conclude Brennan, risulta assodato come il princi-
pio della prova al di là del ragionevole dubbio abbia ‘‘statura costituzionale’’: esso
è ‘‘il primo strumento per ridurre il rischio di condanne basate su errori di fatto’’ e
fornisce ‘‘sostanza concreta alla presunzione d’innocenza che costituisce il fonda-
mento granitico ‘assiomatico ed elementare’ dell’amministrazione della legge pe-
nale’’.
Affermazioni, queste ultime di grande rilevanza e, lo vedremo tra breve, non
certo confinabili, come riconosce anche la Corte ambrosiana, all’ordinamento sta-
tunitense.
Ma occorre ancora spendere qualche parola sulla seconda parte della sen-
tenza in re Winship, sull’opinione consenziente del giudice Harlan, che contribui-
sce a illuminare la sostanziale differenza tra le regole probatorie e di giudizio nel
processo civile e nel processo penale: solo una comparazione tra questi due rami
dell’ordinamento, tra la regola del ‘‘più probabile che no’’ e quella de ‘‘l’oltre il ra-
gionevole dubbio’’, permette infatti di comprendere fino in fondo la portata di
quest’ultima.
Un processo civile coinvolge interessi meramente patrimoniali: conseguente-
mente, scrive Harlan, ‘‘una sentenza errata a favore del convenuto non ci sembra
che sia più grave di una sentenza errata a favore dell’attore’’ e quindi la regola di
giudizio del ‘‘più probabile che no’’, della mera preponderanza della prova ‘‘sem-
bra particolarmente adatta’’ poiché ‘‘richiede semplicemente che il giudice sia
convinto che l’esistenza di un fatto sia più probabile della sua non esistenza’’.
Viceversa in un processo penale ‘‘noi non vediamo la disutilità sociale della
condanna di un uomo innocente come equivalente alla disutilità di assolvere il col-
pevole’’. Anzi ‘‘è molto peggio condannare un innocente che lasciar libero un col-
pevole’’: la disutilità sociale di una condanna di innocenti e i valori fondamentali
della persona accusata richiedono ‘‘uno standard probatorio più stringente’’ per il

(8) Nella giurisprudenza nordamericana sul ragionevole dubbio è costante il riferimento ad una
gamma molto ampia ed articolata di valori fondamentali pregiudicati da un processo penale: particolar-
mente significative, dopo la sentenza Winship, Albright v. Oliver, 510 U.S. 266 (1994), Victor v. Nebra-
ska, 511 U.S. 1 (1994), Spencer v. Kemna, 523 U.S. 1 (1998).

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processo penale. Ecco perché ‘‘la regola dell’oltre il ragionevole dubbio è radicata
nel profondo di una determinazione fondamentale di valore della nostra società’’.
Un’ultima precisazione. La giurisprudenza nordamericana sul punto è ormai
secolare: per rendersene conto è sufficiente leggere la sentenza Coffin del 1895
dove la Corte Suprema ripercorre l’antica genesi del principio (9). E non si è certo
fermata a Winship: dopo una serie ininterrotta si giunge ad un’interessantissima
pronuncia del 2000 in cui i giudici statunitensi riprendono il filo del ‘‘ragionevole
dubbio’’ per ribadire che tale standard di giudizio e probatorio deve investire ogni
elemento idoneo a incidere concretamente sulla determinazione della pena (10).
3. Un tale imponente apparato di principi non può certo essere ritenuto pa-
trimonio esclusivo degli Stati Uniti, come ben si rendono conto i giudici milanesi
che adducono esplicitamente le argomentazioni della sentenza americana a moti-
vazione delle proprie conclusioni.
Il quadro è ancora più ampio e viene messo compiutamente in luce da Stella:
la protezione dell’innocente è un principio radicato nella coscienza dell’uomo oc-
cidentale, costante nei lavori dei grandi maestri dell’Italia liberale dell’Ottocento,
da Carrara a Lucchini, da Carmignani a Stoppato, negli studi successivi di Carne-
lutti e Saraceno, nella dottrina italiana dagli anni sessanta, a tacere dei numerosi
contributi provenienti dai paesi europei (11).
Questo retroterra culturale non è evidentemente rimasto privo di effetti nel
nostro sistema normativo: è la stessa Costituzione, come afferma anche la Corte
d’assise, a rendere, con gli artt. 2, 3, comma 1, 25, comma 2, 27, diritto vigente
nel nostro paese la regola dell’oltre il ragionevole dubbio (12).
Proprio tali norme poi si pongono come correttivo alla ‘‘incompleta formula-
zione dell’art. 530, comma 2, c.p.p.’’ (13), il ‘‘buco nero’’ del nuovo codice di
procedura penale, che non enunciando esplicitamente la regola di giudizio finisce
per generare incertezze: la prova è insufficiente con riferimento al principio del-
l’oltre ragionevole dubbio o del più probabile che no? E ancora, sulla base di
quale dei due standard la prova deve essere considerata contraddittoria? (14).
Il rischio di tale lacuna è proprio quello denunciato dalla sentenza Camma-
rata: che la regola dell’oltre il ragionevole dubbio sia ‘‘marginalizzata nella prassi’’.
Rischio quest’ultimo non peregrino di fronte al periodico riaffiorare di un ma-
linteso libero convincimento del giudice, ossia la pretesa ‘‘che il giudice debba ri-
cercare la verità materiale, in funzione della repressione della criminalità, e dun-
que la pretesa che la ricerca della verità sia libera’’, fondata sulla mera opinione
del giudicante, sul suo imperscrutabile intuito (15). Il ragionevole dubbio si pone
dunque come barriera al libero convincimento del giudice ed argine contro le ‘‘in-
voluzioni autoritarie’’ dell’ordinamento penale: è l’accusa che deve dare la prova
oltre il ragionevole dubbio, mentre il giudice deve limitarsi a verificare se l’accusa
sia riuscita a rispettare tale standard probatorio.
Ancora la giurisprudenza nordamericana è di grande ausilio per specificare
cosa sia un dubbio ‘‘ragionevole’’: tale non è il dubbio ‘‘immaginario’’, la ‘‘possibi-
lità solo remota’’; né, dall’altra parte, deve essere un dubbio ‘‘argomentato’’, ‘‘ben
fondato’’, ‘‘grave’’. Per riprendere la definizione, citata da Stella, della sezione
1096 del codice penale della California, ‘‘il ragionevole dubbio è [...] quella situa-

(9) Coffin v. United States, 156 U.S. 432 (1895).


(10) Apprendi v. New Jersey, 530 U.S. 466 (2000).
(11) STELLA, op. ult. cit., p. 60 ss.
(12) STELLA, op. ult. cit., p. 154 ss. anche per i riferimenti a numerose fonti internazionali.
(13) Così la sentenza Cammarata in commento.
(14) STELLA, op. ult. cit., p. 85 ss.
(15) STELLA, op. ult. cit., p. 26 ss.

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zione che, dopo tutte le comparazioni e considerazioni delle prove, lascia le menti
dei giudici nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile
convinzione nella verità dell’accusa’’.
Non rimane allora che seguire le motivazioni delle due sentenze in commento
per toccare con mano i ragionevoli dubbi.
4. L’applicazione dei principi enunciati è esemplare nella pronuncia della
Corte d’assise d’appello: il caso, intriso di risvolti etici, è quello di un uomo che
stacca i tubi di ventilazione forzata applicati alla moglie ricoverata, con un quadro
clinico ormai disperato, in un reparto di rianimazione. Ma ecco il dubbio emerso
in dibattimento: ‘‘si può escludere come irragionevole o irrealistica’’, si chiedono i
giudici, l’ipotesi che la vittima fosse morta ‘‘nel lasso di tempo tra l’ultimo moni-
toraggio (circa un’ora prima della condotta n.d.r.) ed il momento della estubazio-
ne’’?
Certamente no: i consulenti tecnici infatti non hanno ‘‘potuto escludere su
base scientifica in termini di certezza che la signora fosse morta prima della de-
connessione con l’apparecchio di ventilazione artificiale’’ ed i giudici non possono
conseguentemente dire di nutrire una incrollabile convinzione nella verità dell’ac-
cusa, non possono affermare, per usare le parole della stessa Corte, che ‘‘sia stato
provato oltre ogni ragionevole dubbio che la signora fosse in vita al momento del-
l’atto di estubazione compiuto dal marito’’. Non risulta dunque dimostrato il
nesso causale tra la condotta dell’imputato e l’evento morte e si impone l’assolu-
zione perché il fatto non sussiste.
D’altra parte, come ribadisce la Corte, il rapporto di causalità deve essere af-
fermato non ‘‘in termini ipotetici’’, ma di ‘‘ragionevole tranquillizzante certezza’’.
Tuttavia, è bene ribadirlo, la conclusione non sarebbe stata diversa se il ‘‘dubbio’’
avesse avuto ad oggetto la prova di ogni altro elemento di fattispecie, come dimo-
stra proprio il caso oggetto dell’altra sentenza, la sentenza Cammarata della Corte
d’assise di Milano.
Teresa (CA) e Massimiliano (C.) vengono rinviati a giudizio per rispondere,
in concorso, del reato di omicidio volontario di Massimiliano (D.), compagno di
Teresa (CA). Il pubblico ministero ritiene che i due imputati abbiano spinto fuori
dalla finestra dell’appartamento di Teresa (CA), situato al sesto piano, Massimi-
liano (D) il quale, a causa delle lesioni riportate, decede immediatamente. La con-
sulenza medico-legale accerta che Massimiliano (D.) non riportava segni di collut-
tazione sul corpo, comunque difficilmente individuabili dopo la caduta, ma risul-
tava aver assunto poco prima della morte cocaina e alcool.
Gli imputati contestano l’impostazione accusatoria e sostengono che la vit-
tima si sarebbe suicidata lanciandosi dalla finestra e scardinando la tapparella
semi-chiusa.
Vediamo i fatti emersi in dibattimento. Teresa (CA) e Massimiliano (D.), con-
viventi da poco meno di un mese, litigano spesso, anche molto violentemente; la
mattina poi di quel giorno lei, stanca del suo comportamento, gli intima di andar
via da casa e lo avverte che al suo ritorno dal lavoro non l’avrebbe voluto vedere
lì. Nel tardo pomeriggio invece (D.) è ancora nell’appartamento, dove nel frat-
tempo giunge anche Massimiliano (C.) pensando di trovare la sua fidanzata che
abitualmente si recava in casa della (CA) dopo il lavoro: i due cominciano allora
a litigare (una vicina sente la frase pronunciata dalla (CA) ‘‘se non te ne vai da
casa mia io ti ammazzo’’), il (D.) la aggredisce stringendole il collo; interviene
quindi (C.) cercando di frapporsi tra i due. Da questo momento in poi sulla rico-
struzione del fatto storico cala il buio: Massimiliano (C.) e Teresa (CA) hanno
spinto, magari anche involontariamente, il compagno di quest’ultima fuori dalla fi-
nestra o sarebbe stato quest’ultimo, in preda ad una profonda crisi depressiva,
acuita dalle sostanze tossiche assunte, a suicidarsi?

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Un classico caso da ‘‘ragionevole dubbio’’, potremmo dire: tutta la vicenda si


svolge nel chiuso di un appartamento; gli unici testimoni significativi sono i vicini
di casa che nulla possono dire sull’ultimo e decisivo segmento oscuro della vi-
cenda; dall’esame degli amici e dei parenti di Massimiliano (D.) emerge una dram-
matica situazione personale dello stesso: ex eroinomane, un padre molto violento
con cui litiga spesso, due fratelli morti giovanissimi negli ultimi anni ed una conse-
guente profonda crisi depressiva che ha, almeno una volta, portato ad atti di auto-
lesionismo; l’esperimento giudiziale sulla tapparella non riesce a dare risultati uni-
voci: lo scardinamento di questa è compatibile sia con l’ipotesi di un ‘‘tuffo’’ sulla
tapparella semi-chiusa da parte del solo suicida, sia con la spinta, a seguito di col-
luttazione, da parte di un eventuale omicida.
Ecco la conclusione della Corte d’assise: ‘‘le risultanze processuali emerse nel
corso dell’attività istruttoria non consentono di dirimere i dubbi sì da poter perve-
nire a fondate certezze [...]’’. Si resta invece ‘‘sul piano della mera compatibilità,
delle mere ipotesi, senza elementi di fatto che indirizzino, al di là di ogni ragione-
vole dubbio’’, verso la conferma dell’ipotesi accusatoria.
FRANCESCO CENTONZE
Assegnista di diritto penale
presso l’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano

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RAPPORTI GIURISDIZIONALI
CON AUTORITÀ STRANIERE

COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE (*)

Rogatorie europee e ‘‘corti italiane’’.

1. Com’è ben noto, era stata la ratifica dell’Accordo italo-elvetico del 1998 ad inne-
scare la nostra nuova disciplina codicistica del 2001 in tema di rogatorie: si vuol dire la l. 5
ottobre 2001, n. 367 (1).
L’Accordo non era poi stato ratificato per parte elvetica, ed il Consiglio federale aveva
interposto una pausa d’attesa, ravvisando l’opportunità di subordinare la ratifica all’esito
delle ‘‘decisioni delle corti italiane’’ in ordine agli atti già trasmessi dalla Svizzera all’Ita-
lia (2).
Le decisioni delle Corti italiane sono da ultimo intervenute anche ai livelli più elevati, ed
è quindi ora possibile delineare un quadro di maggiore consistenza sul piano interpretativo.

2. Cominciamo dalla presa di posizione della Corte costituzionale.


Il tribunale di Roma era stato chiamato a giudicare in ordine ad un’imputazione di traf-
fico e ricettazione di reperti archeologici: imputazione fondata sull’esito di perquisizioni
compiute all’estero, ed in particolare sul sequestro di reperti rinvenuti nel corso di scavi
clandestini eseguiti in Italia, oltre che su documenti, però trasmessi, da parte della compe-
tente autorità tedesca, in copia che sarebbe stata ‘‘priva di certificazione di autenticità’’.
Sulla base di tale rilievo (ma anche altri erano i profili messi in discussione) il tribunale
si era espresso nel senso della inutilizzabilità dei documenti acquisiti; e ciò alla stregua del-
l’art. 696, comma 1, e dell’art. 729, comma 1, c.p.p., così come modificati dalla l. 5 ottobre
2001, n. 367.
A questa diagnosi rigoristica — ma già di per sé inaccettabile — il Tribunale (ord. 7 no-
vembre 2001) giustapponeva tout court la presa d’atto che, ‘‘nella prassi consolidata di tutti
gli Stati che aderiscono alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria — a venire in
gioco era l’art. 3, § 3 (3) —, quando non son formati dall’autorità che ha eseguito la rogato-
ria’’, gli atti conseguenti all’esecuzione ‘‘vengono sempre restituiti in fotocopia senza auten-
ticazione e con la sola attestazione da parte dell’autorità richiesta, contenuta nella nota di ac-
compagnamento, che la rogatoria viene restituita evasa (così garantendosi la corrispondenza
del materiale trasmesso alla domanda rogatoriale)’’.
Posta in quei termini, per l’appunto semplicemente giustapposti, veniva prospettata alla
Corte costituzionale una questione di legittimità, in riferimento agli artt. 3, 10 e 111 Cost.

(*) A cura di MARIO PISANI.


(1) Italia-Svizzera: la ratifica dell’ ‘‘Accordo aggiuntivo’’ alla Convenzione europea di assistenza
giudiziaria in materia penale, in questa Rivista, 2001, p. 1425 (con rinvii).
(2) Sull’Accordo italo-elvetico 14 dicembre 1998 di assistenza giudiziaria, in questa Rivista, 2002,
p. 1131. V. anche il punto 32 a) della Risoluzione 29 novembre 2001 del Parlamento europeo, ibid.,
2002, p. 1487.
(3) ‘‘La Partie requise pourra ne transmettre que des copies ou photocopies certifiées conformes
des dossiers ou documents demandés’’.

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In tal modo, peraltro — osserva la Corte nella sua ord. 4 luglio 2002, n. 315 (4) — ‘‘il
giudice rimettente prospetta essenzialmente un conflitto interpretativo tra gli enunciati te-
stuali delle disposizioni legislative censurate e l’asserita prassi internazionale consolidata,
ponendo così in realtà una questione di mera interpretazione, per risolvere la quale non può
rivolgersi alla Corte costituzionale, ma deve avvalersi di tutti gli strumenti ermeneutici appli-
cabili, tra i quali, trattandosi nella specie di un accordo internazionale, anche i principi della
convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati’’.
È il caso di ricordare che, nell’art. 31, § 3, di tale convenzione (ratificata dall’Italia con
l. 12 febbraio 1974 n. 12) si stabilisce che va tenuto conto, oltre che del contesto, anche
della susseguente pratica adottata nell’applicazione di ogni singolo trattato, che fissa l’ac-
cordo delle parti circa l’interpretazione del trattato medesimo.
D’altronde — aggiunge la Corte — ‘‘il giudice a quo non ha verificato, prima di solle-
vare la questione di legittimità costituzionale, se potessero adottarsi differenti interpretazioni
delle norme censurate, già emerse nella giurisprudenza di merito, le quali fossero in grado di
risolvere la proposta questione interpretativa’’.
Ne consegue un giudizio di ‘‘manifesta inammissibilità’’ della questione (5).

3. Con una più recente pronuncia in data 16 ottobre 2002, depositata l’8 novem-
bre (6), la sez. I della Cassazione (ric. P.G. in proc. Strangio e altri) ha preso posizione net-
tamente contraria rispetto ad un’asserita inutilizzabilità di atti assunti tramite rogatoria in
Germania, in base alla disciplina della Convenzione europea, in quanto trasmessi in Italia
senza ‘‘attestazioni di conformità’’.
La Cassazione ha fatto un richiamo — sia pure non strettamente pertinente — all’art.
31 della Convenzione di Vienna del 1986 (invero relativa al diritto dei trattati tra Stati e or-
ganizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali), alla stregua del quale ‘‘non
può prescindersi dalla prassi consolidata’’ sul piano interpretativo. Secondo tale criterio, per
il suo carattere di generalità applicabile anche allo specifico settore qui in esame, ‘‘salvo l’i-
potesi in cui lo stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo stato richiesto li tra-
smette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l’atto formale di trasmissione per conferire
loro garanzia di autenticità e conformità all’originale’’.
Viceversa — ha precisato la Corte — sarebbe in stridente contrasto con la direttiva di
base risultante dall’art. 1 della stessa Convenzione europea ‘‘una disposizione di contenuto
pesantemente formalistico come quella di prescrivere una specifica attestazione di confor-
mità su ogni copia o fotocopia di atto o documento trasmesso, così come completamente
avulsa dal sistema apparirebbe la sanzione di inutilizzabilità che si riferisse alla mancata os-
servanza di tali formalità’’.

4. Con una precedente decisione del 20 settembre 2002, depositata il 15 ottobre, la


stessa sez. I della Cassazione (ric. Monnier) (7) aveva affrontato un altro tema controverso
nelle recenti dispute interpretative attivate in tema di rogatorie internazionali: quello della
possibilità di trasmissioni dirette della rogatoria fra le autorità giudiziarie, senza il tramite
delle autorità esecutive centrali.
Il ricorrente, perseguito a titolo di associazione mafiosa, aveva impugnato un’ordinanza
emessa dal tribunale di Napoli, la quale ‘‘aveva confermato il sequestro probatorio di docu-
mentazione bancaria nonché dei depositi su conti correnti a lui intestati presso istituti ban-
cari svizzeri’’, per la cui esecuzione due procure della Repubblica avevano richiesto assi-
stenza all’autorità giudiziaria della Confederazione elvetica.
Nel respingere la tesi dell’asserita inutilizzabilità delle risultanze di tale rogatoria, per

(4) Nel Foro ital., 2002, I, c. 2563, l’ordinanza è pubblicata con osservazioni di DI CHIARA.
(5) Il giudizio di inammissibilità è stato poi ribadito nell’ord. 20-26 novembre 2002, n. 487.
(6) Per il testo della sentenza (n. 37774) v. Guida al dir., n. 46/2002, p. 62, e, ivi, p. 68, una nota
di richiami a firma di CALVANESE; Dir. e giustizia, n. 44/2002, p. 41, e ivi, p. 38, un commento di IZZO.
(7) Per il testo della sentenza (n. 34576) v. Guida al dir., cit., p. 59.

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via della trasmissione in forma diretta, anche quest’altra pronuncia ha fatto richiamo all’art.
31, § 3, lett. b) della Convenzione di Vienna del 1969, nel (già richiamato) imprescindibile
rilievo che esso in linea generale conferisce alle prassi e consuetudini interpretative.
E ciò dando risalto al fatto che, nella sua nuova configurazione (per effetto della l. n.
367/ 2001), l’art. 696 c.p.p. ‘‘ribadisce il principio di prevalenza delle convenzioni e del di-
ritto internazionale generale’’: convenzioni tra le quali assume per l’appunto particolare ri-
salto ed efficacia la ricordata Convenzione di Vienna.
A conferma di una prassi orientata nel senso della trasmissione diretta, la Corte ha fatto
inoltre complementare riferimento all’art. XVII dell’Accordo italo-elvetico del 1998 (anche
se non ancora ratificato dal Consiglio Federale elvetico) ed all’art. 53, comma 1, dell’Ac-
cordo di Schengen, ratificato dall’Italia con l. 30 settembre 1993, n. 388 (anche se la Confe-
derazione elvetica è estranea a quell’Accordo) (8).
La Cassazione aveva poi così concluso le sue argomentazioni sul punto: ‘‘Non può non
osservarsi, infine, con specifico riferimento al caso in esame, che lo stesso art. 15 della Con-
venzione europea [di assistenza giudiziaria] di Strasburgo prevede al comma 4 in ogni caso
la possibilità di comunicazione diretta fra le autorità giudiziarie quando trattasi di richiesta
di indagini preliminari e che le rogatorie internazionali in questione sono intervenute proprio
in tale fase’’.

Sulle convenzioni internazionali rese esecutive con regio decreto.


1. Si trattava di decidere sui rimedi esperibili in rapporto ad un sequestro penale ese-
guito nel Principato di Monaco a seguito di rogatoria. La Cassazione, sez. VI, 12 dicembre
2001, ric. Castellucci (in Cass. pen., 2002, p. 2859, n. 949, con nota di CALVANESE, Seque-
stro eseguito all’estero per rogatoria e riesame) si è però trovata a dover prender posizione,
in primo luogo, su un tema di carattere generale: se potesse ritenersi legittima una rogatoria
attuata sulla base di una convenzione in rapporto alla quale — ‘‘secondo la previsione dello
Statuto albertino’’ — l’ordine di esecuzione era stato adottato dal potere esecutivo (9).
Una ipotetica risposta di tipo negativo ad un tale quesito è stata ritenuta priva di pregio
dalla Corte, che ha quindi escluso un vizio di illegittimità per l’ordine di esecuzione in di-
scorso e, di riflesso — almeno secondo l’ottica della difesa — per la commissione rogatoria
operata su quella base.
La Corte si è così espressa: ‘‘... In virtù di un principio di continuità istituzionale al
quale si richiama la XVI disposizione transitoria e finale della Costituzione, è in realtà la
stessa carta a salvare la validità dei procedimenti di formazione delle leggi e degli atti aventi
forza di legge anteriori all’entrata in vigore (1o gennaio 1948) di essa. Il rapporto tra norme
della Costituzione regolanti aspetti formali (e tra esse quelle relative alla ratifica e ordine di
esecuzione di convenzioni internazionali) e leggi anteriori è un rapporto di illegittimità so-
pravvenuta, che non può avere effetto retroattivo; consegue che restano salvi gli atti legisla-
tivi e quelli aventi forza di legge emanati — secondo le forme dell’epoca — nel periodo an-
teriore all’entrata in vigore della Carta fondamentale (cfr. C. cost., sent. n. 73/68)’’.

(8) La Corte, tra l’altro, non ha invece preso in considerazione il Protocollo Italia-Svizzera del 1o
maggio 1869, nel suo prevedere la possibilità di una corrispondenza in forma diretta tra autorità giudizia-
rie ‘‘per tutto quello che riguarda la trasmissione di lettere rogatorie’’.
A tale Protocollo aveva invece dato rilievo il tribunale di Milano, sez. IV, con ordinanza 21 novem-
bre 2001, in questa Rivista, 2002, p. 383 (sotto il titolo: Italia-Svizzera: la ‘‘consegna diretta’’ in materia
di rogatorie).
(9) A proposito di ‘‘previsione dello Statuto albertino’’, v’è da dire che l’art. 5 era così formulato:
‘‘Al Re solo appartiene il potere esecutivo’’. Si aggiungeva poi che, come ‘‘Capo supremo dello Stato’’
egli, tra l’altro, ‘‘... fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere to-
sto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune’’. Solo
per i trattati che importassero un onere delle finanze o variazione di territorio dello Stato era previsto,
perché potessero avere effetto, l’ ‘‘assenso delle Camere’’. Sulla portata di queste disposizioni statutarie si
veda, da ultimo, l’ampio commento (che risulta dalla pubblicazione postuma) di Santi ROMANO, II diritto
pubblico italiano, 1988, p. 414 ss.

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Quest’ultimo richiamo alla giurisprudenza della Corte costituzionale, concernente il


tema dell’illegittimità sopravvenuta, non può far dimenticare la più specifica presa di posi-
zione assunta poi dalla stessa Corte, con la sentenza n. 54/1979, relativamente alla conven-
zione di estradizione 12 maggio 1870 tra Italia e Francia, del pari resa esecutiva mediante
regio decreto (r.d. 30 giugno 1870, n. 5726). La Corte aveva ritenuto tale provvedimento
equiparabile alla legge formale (10).

2. A venire in gioco, nel caso di specie, era la parte finale — dedicata ai temi di assi-
stenza giudiziaria (artt. 13 ss.) — della ‘‘Convenzione per l’estradizione dei malfattori’’ tra
Italia e Principato di Monaco, sottoscritta a Firenze il 26 marzo 1866, e resa esecutiva con
r.d. 20 maggio 1866, n. 2940 (11).
L’art. 13 disciplina le commissioni rogatorie in ordine alle deposizioni testimoniali e a
‘‘tout autre acte d’instruction judiciaire’’.

3 La (condivisibile) risposta della Cassazione può risultare anche più significativa, te-
nuto conto della serie di remote convenzioni od intese, solo in materia di estradizione o an-
che in materia di assistenza giudiziaria, che a suo tempo erano state rese esecutive semplice-
mente con regi decreti, e che per lungo tempo sono rimaste, e sono magari ancora, in vigore,
in toto o in parte.
Ne ricordiamo gli Stati stranieri contraenti, con le date dell’ordine di esecuzione: Gran
Bretagna (25 marzo 1873); Belgio (28 febbraio 1875); Costarica (23 aprile 1875); El Salva-
dor (5 gennaio 1873); Giappone (17 marzo 1938); ex Jugoslavia (13 dicembre 1923); Malta
(3 maggio 1863); Messico (31 ottobre 1899); Paraguay (11 maggio 1911); Perù (9 dicembre
1935) e Uruguay (17 aprile 1881) (12).

Sulla non applicabilità extraterritoriale dell’‘‘affidamento in prova’’.

1. Un condannato in Italia, di cittadinanza italiana, ma emigrato (dal 1990) e resi-


dente in Germania, dove ha un lavoro e vive con la famiglia, chiede in Italia l’affidamento in
prova al servizio sociale.
Il tribunale di sorveglianza di Caltanissetta riconosce la sussistenza delle condizioni sog-
gettive che consentirebbero la concessione del beneficio (l’ordine di carcerazione, risalente
al 21 novembre 1995, aveva per oggetto, risultante dall’unificazione di pene concorrenti, la
pena complessiva ‘‘pari a mesi 3 e giorni 20 di reclusione), ma deve prendere atto che, sia
l’amministrazione penitenziaria (13) che la giurisprudenza della Cassazione (14) escludono
l’applicabilità della misura al di fuori del territorio nazionale. E ciò in quanto destinatari
della misura possono essere solo i centri di servizio sociale, dipendenti dall’amministrazione
penitenziaria, non operanti all’estero e quindi del tutto privi di competenza operativa.

(10) In senso contrario v. D’ALESSIO, Decreti reali in materia di estradizione, in Giur. cost., 1979,
I, p. 415; Gius. FLORIDIA, L’adattamento del diritto interno alle convenzioni di estradizione. Limiti al sin-
dacato della Corte costituzionale, ibid., p. 1262. Sulla permanente ‘‘validità’’ delle convenzioni di estradi-
zione ed assistenza giudiziaria per le quali ‘‘al tempo della stipulazione non si riteneva che vi fosse biso-
gno di una lex executionis’’ v. invece ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, vol. IV, 1943, p. 285.
(11) Per il relativo testo v. PISANI e MOSCONI, Codice delle convenzioni di estradizione e di assi-
stenza giudiziaria in materia penale, 3a ed., 1996, p. 226 ss.
(12) Per i relativi testi v. il Codice, cit. alla nota precedente. In particolare, quanto alla conven-
zione con l’Uruguay v. MARZADURI, Autorità giudiziaria e autorità amministrativa nel procedimento di
estradizione passiva, in questa Rivista, 1983, p. 617.
(13) Il Tribunale richiamava la circolare del D.A.P. del 18 settembre 1998, prot. 561557.
(14) Il Tribunale richiamava Cass. sez. I, 29 gennaio 1997, ric. Vasta (in Cass. pen., 1998, p.
2131. n. 1237). V. anche sez. I, 3 febbraio 1988, ric. Virga, ibid., 1989, p. 286, n. 307, del pari esclu-
dente l’ammissibilità di un affidamento in prova presso un consolato italiano all’estero. In linea più gene-
rale, nel senso che la misura « non può svolgersi in una nazione diversa da quella in cui la pena dovrebbe
essere espiata », v. Cass., sez. I, 6 ottobre 1998, ric. Antonacci, ibid, 2000, p. 1421, n. 855; sez. I, 28
aprile 1999, ric. Di Taranto, ibid., 2001, p. 1605, n. 811; sez. I, 26 ottobre 1999, ric. Ceruti, ibid., 2000,
p. 3442, n. 1914.

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A questo punto il tribunale — v. ord. 18 marzo 2000, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, del
20 settembre — non pago del vigente assetto della ‘‘macchina amministrativa delle istituzio-
ni’’, ne chiede (ed invoca) il superamento, facendo appello agli artt. 3, 4, 16, comma 2, e 27,
comma 3o, Cost., e facendo inoltre rilevare che nella prospettiva dello ‘‘spazio giuridico eu-
ropeo’’, e della ‘‘ormai consolidata cittadinanza europea, davvero singolare e antistorico sa-
rebbe escludere un beneficio (...) sol perché i centri di servizio sociale non godono, allo
stato, di competenze normativamente stabilite che permettano loro di coordinarsi con i con-
solati italiani all’estero o con paritetici organismi che all’estero siano operanti’’.

2. La Corte costituzionale prende posizione sul problema con l’ordinanza 9-17 maggio
2001, n. 146, decidendo nel senso che ‘‘la questione appare manifestamente infondata sotto
tutti i profili’’.
a) Quanto ai profili strettamente d’ordine costituzionale, la Corte:
— qualifica come ‘‘di mero fatto’’ la ‘‘disuguaglianza fra cittadini condannati che vi-
vono e lavorano in Italia e cittadini condannati che vivono e lavorano all’estero’’: disugua-
glianza che ‘‘non discende dalla norma impugnata’’, la quale dunque non può ritenersi in
contrasto con l’art. 3, comma 1o, Cost.;
— qualifica alla stessa stregua, e a fronte dell’evocato art. 4 Cost., ‘‘l’ostacolo rispetto
all’esercizio del diritto al lavoro, discendente dalla necessità di dare esecuzione a una con-
danna penale e dalle modalità con cui tale esecuzione deve avvenire’’;
— esclude del tutto l’attinenza rispetto alle ‘‘conseguenze restrittive discendenti da una
condanna penale’’, del diritto di lasciare il territorio nazionale e di rientrarvi (art. 16, comma
2o, Cost.);
— esclude poi la violazione del ‘‘principio di rieducatività della pena’’ (art. 27, comma
3o, Cost.) ‘‘per il solo fatto che l’affidamento in prova al servizio sociale — come ogni altra
misura restrittiva di esecuzione penale — può avvenire solo sul territorio nazionale e può
perciò rivelarsi, in fatto, di più difficile esecuzione, pur essendo, in diritto, sempre possibile,
nei confronti di un condannato che vive e lavora all’estero’’.
b) Quanto poi ai profili inerenti allo ‘‘spazio giuridico europeo’’, analizzando la strut-
tura e la dinamica dell’affidamento in prova al servizio sociale la Corte fa giustamente rile-
vare, in primo luogo, che l’esecuzione di una misura restrittiva del genere ‘‘comporta l’eser-
cizio di poteri autoritativi per il controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte (art. 47,
commi 5, 6 e 9, della l. 26 luglio 1975, n. 354), sotto la vigilanza del magistrato di sorve-
glianza (art. 47, comma 10) e con informazione dell’autorità di pubblica sicurezza (art. 58
della stessa legge): poteri — tutti questi — ‘‘che non potrebbero essere esercitati al di fuori
del territorio nazionale in mancanza di accordi con le autorità di altro Stato’’.
La Corte rileva poi, in secondo luogo, che è certamente prevista, da appositi strumenti
convenzionali internazionali, resi esecutivi in Italia (la Convenzione sul trasferimento delle
persone condannate, del 1983; l’Accordo del 1987 relativo all’applicazione, tra gli Stati
membri delle comunità europee, della Convenzione medesima: Accordo ‘‘non ancora opera-
tivo nei confronti della Germania’’) la possibilità di espiare le pene nel territorio di Stati di-
versi da quello della condanna, e dunque diverso da quello dello Stato italiano.
Ben differente però — essa fa notare — è la situazione che in tali ipotesi ne consegue, e
che vede in campo, a seguito del trasferimento del condannato, l’attività autoritativa di altro
Stato, rispetto a quella che si pensasse di poter realizzare attraverso l’esecuzione, sempre sul
territorio di altro Stato (ma senza previ accordi), di una misura penale direttamente ad
opera delle autorità italiane (15).

(15) La sostanziale differenza di situazioni non era colta da chi (cfr. VANCHERI, Affidamento al ser-
vizio sociale: natura giuridica e possibilità di esecuzione dell’esperimento in località estera, in Ind. pen.,
1998, p. 1022) sul semplicistico ‘‘presupposto che anche l’affidato è in possesso’’ del particolare status
detentionis che è ‘‘caratteristico del detenuto’’, riteneva ammissibile l’affidamento al servizio sociale in
territorio estero, sulla base dell’art. 2 dell’Accordo cit. nel testo (v. in PISANI-MOSCONI, Codice delle con-

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La Corte, ad ogni modo, lascia opportunamente aperto l’orizzonte verso ‘‘auspicabili


sviluppi della normativa comunitaria e degli accordi di cooperazione con altri Stati per l’ese-
cuzione di misure penali’’.

3. Gli sviluppi ai quali fa riferimento l’auspicio della Corte verosimilmente muovono


dalla prospettiva aperta dalla Convenzione europea sulla sorveglianza delle persone condan-
nate o liberate con la condizionale (1964) (16).
Alla stregua di tale Convenzione uno Stato può trasferire ad altro Stato-parte il compito
di attuare, se del caso previo adeguamento alla propria legislazione, le misure di sorveglianza
prescritte al condannato straniero sub conditione, trasferimento cui consegue il carico di una
serie di adempimenti esecutivi o strumentali (tit. II, artt. 10-15). Tra i primi assume risalto
l’adempimento, da parte dello Stato richiesto, nel senso di ‘‘assicurare la collaborazione
delle autorità o degli organismi che nel proprio territorio sono responsabili della sorve-
glianza e dell’assistenza dei condannati’’.
Ma sono proprio — oltre all’esigenza di far salve le prerogative sovrane — l’importanza
e la pluralità di tali adempimenti ad esigere che le necessarie intese riguardanti il caso con-
creto trovino la loro base in un previo accordo internazionale.
E che poi — proprio in tema di sorveglianza, e di determinazione delle relative misure
— la convenzione in discorso lasci aperti alcuni importanti problemi d’ordine applicativo, è
reso palese dalla ritenuta necessità, per parte italiana, di darvi seguito mediante alcune pre-
cise norme di attuazione (v. gli artt. 8 e 9 della l. 3 luglio 1989, n. 257, contenente ‘‘Disposi-
zioni per l’attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sen-
tenze penali’’).
Se tutto ciò, ai vari livelli, è stato necessario prevedere per l’attuazione, ad opera dello
Stato-parte dell’accordo convenzionale, delle più semplici, e meno impegnative misure della
‘‘sorveglianza’’, lo sarà ancor di più nella prospettiva futuribile del dar corso, nel territorio
straniero, all’esecuzione di misure penali di particolare incidenza e complessità, quale indub-
biamente è quella dell’affidamento in prova ai servizi sociali.

L’istituzione di EUROJUST.

Con la decisione 2000/799/GAI, datata 14 dicembre 2000 (è riportata anche in questa


Rivista, 2001, p. 1076), il Consiglio dell’Unione europea aveva istituito una ‘‘unità provviso-
ria di cooperazione giudiziaria’’, ubicata a Bruxelles.
Di tale decisione l’art. 5 aveva previsto che ‘‘cessa di essere applicata alla data in cui ha
effetto l’atto che istituisce l’Eurojust, atto che dev’essere adottato prima della fine del 2001’’.
A tanto si è provveduto con la decisione 2002/187/GAI del Consiglio, in data 28 feb-
braio 2002, ‘‘che istituisce l’Eurojust per rafforzare la lotta contro le forme gravi di crimina-
lità’’ (in G.U.C.E. del 6 marzo, L 63).
Dopo un ampio preambolo (costituito da 18 ‘‘considerando’’), la decisione si sviluppa
nell’arco di 43 articoli, l’ultimo dei quali concerne, eccetto che per le ‘‘Disposizioni transito-
rie’’ dell’art. 41, la sua entrata in vigore — ‘‘a decorrere dal giorno della pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale’’ — e, dalla stessa data, la cessazione della predetta ‘‘unità provvisoria di
cooperazione giudiziaria’’.
L’art. 42 stabilisce che, ‘‘se necessario’’, gli Stati membri conformano le loro legisla-

venzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, 3a ed.. 1996, p. 706 ss.). E ciò salvo
poi pensare alla possibilità di un superamento delle pur prospettate e notevoli ‘‘incertezze e difficoltà’’
con il semplice ausilio di una circolare ministeriale.
(16) Sul tema v. PISANI, La ‘‘Convenzione europea per la sorveglianza delle persone condannate o
liberate con la condizionale e l’ordinamento italiano, in Ind. pen., 1992, p. 193. Ma v. anche, in più am-
pia prospettiva, la risoluzione n. 45/119 approvata il 14 dicembre 1990 dall’Assemblea generale dell’ONU
(se ne riferisce in Riv. dir. int. priv. e proc., 1992, p. 443), in tema di trasferimento della sorveglianza
(‘‘supervision’’).

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zioni nazionali ‘‘alla presente decisione quanto prima e in ogni caso entro il 6 settembre
2003’’.

Pena di morte, ergastolo ed estradizione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.

1. Il lettore italiano ricorda il tormentatissimo ‘‘caso Venezia’’, e la sentenza della


Corte costituzionale — n. 223 del 1996 — che l’aveva deciso, dichiarando la illegittimità co-
stituzionale dell’art. 698, comma 2, c.p.p. e della l. 16 maggio 1984, n. 225, per la parte in
cui dava esecuzione all’art. IX del Trattato di estradizione Italia - Stati Uniti del 1983 (‘‘Se il
reato per il quale viene chiesta l’estradizione è punibile con la pena di morte secondo le leggi
della Parte richiedente, e le leggi della Parte richiesta non prevedono, per il reato in que-
stione, tale pena, l’estradizione sarà rifiutata salvo che la Parte richiedente non si impegni,
con garanzie ritenute sufficienti dalla Parte richiesta, a non fare infliggere la pena di morte
oppure, se inflitta, a non farla eseguire’’).
Chi scrive, per brevità, si riporta alla critica, a tale decisione della Corte, ampiamente
argomentata a suo tempo (17), e non tanto a supporto postumo di tale critica, quanto piut-
tosto a più ampio raggio, richiama qui la sopravvenuta e recente giurisprudenza in materia
della Corte europea dei diritti dell’uomo.

2. Prendiamo in considerazione, in primo luogo, le decisioni di questa Corte in ordine


al caso Nivette c. Francia.
Nato nel 1942 e detenuto nel carcere di Strasburgo, il cittadino americano J.D. Nivette
era stato richiesto in estradizione dalle autorità americane per un addebito di omicidio a
danno della convivente.
A) Con sentenza 29 gennaio 1998 la Chambre d’accusation della Corte d’appello di
Colmar esprimeva parere favorevole all’estradizione, a condizione che le competenti autorità
statunitensi fornissero al governo francese la garanzia che la pena di morte non sarebbe stata
né richiesta né applicata nei confronti di quel detenuto. La Corte, a tale riguardo, faceva
espresso riferimento ai termini della dichiarazione scritta a firma del procuratore generale
della Contea di Sacramento, del seguente tenore: ‘‘In base alla legge della California (...)
compete a me il potere esclusivo di decidere l’incolpazione a carico di uno specifico accusato
e la tipologia di tale incolpazione’’. Ed ancora: ‘‘Questa dichiarazione scritta può essere con-
siderata come un impegno, da parte del mio dipartimento, a non richiedere la pena di morte
nei confronti di J.D. Nivette’’.
Il 12 maggio 1998 la Cassazione respingeva il ricorso contro quella decisione.
A richiesta del Governo francese, in data 7 settembre 1999 il procuratore della Contea
di Sacramento formulava, con dichiarazione giurata, una serie di precisazioni, come segue:
— ‘‘nella sua qualità di procuratore distrettuale, la legge lo autorizzava a vincolare, per
mezzo delle sue prese di posizione, lo Stato della California, e l’impegno così assunto vinco-
lava sia i suoi successori che lo Stato della California;
— la sua dichiarazione rappresentava l’impegno e la garanzia, da parte dello Stato della
California, che la pena di morte non sarebbe stata né richiesta né applicata nei confronti di J.
Nivette, a qualunque stadio delle indagini e del procedimento riguardante quest’ultimo;
— la sez. 190.2 del codice penale della California, per il caso di omicidio di primo
grado, subordinava la possibilità di pronunciare la pena di morte o una pena detentiva a vita
senza possibilità di liberazione condizionale, alla presenza di almeno una delle 21 circo-
stanze speciali ivi enunciate;
— le norme citate dello Stato della California rendevano giuridicamente impossibile

(17) PISANI, Pena di morte ed estradizione nel trattato Italia - USA: il caso Venezia, in Ind. pen.,
1996, p. 671.

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l’applicazione della pena di morte se una delle circostanze speciali non fosse stata contestata
dal prosecutor ed accertata come sussistente da parte del giudice di merito;
— egli era il solo competente alla contestazione di una circostanza speciale del genere;
nessuna circostanza speciale sarebbe stata contestata in questo procedimento; di conse-
guenza, nessun giudice avrebbe potuto applicare la pena di morte a J. Nivette;
— anche se i fatti fossero stati, in seguito, diversamente qualificati, egli rinunciava in
modo irrevocabile a richiedere la pena di morte; a lui spettava il potere, riconosciuto dalla
legge, di astenersi dal contestare una circostanza speciale anche qualora fosse sussistente ed
egli non l’avrebbe contestata, anche se fosse stata acclarata in seguito; di conseguenza, l’ap-
plicazione della pena di morte diventava impossibile’’.
Il 17 dicembre 1998 l’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi trasmetteva al governo fran-
cese delle dichiarazioni del governo federale che ribadivano l’impegno che la pena di morte
non sarebbe stata né richiesta né applicata.
Il 21 ottobre 1999 il primo ministro francese emetteva un decreto di estradizione, con-
tro il quale J. Nivette presentava ricorso al Consiglio di Stato.
Con decisione 6 novembre 2000 il Consiglio di Stato, oltre a riepilogare l’itinerario an-
tecedente, si esprimeva sottolineando:
‘‘— che per effetto della l. 9 ottobre 1981 la pena di morte è abolita in Francia;
— che a termini dell’art. 1 del Protocollo n. 6 alla Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo e delle libertà fondamentali, operante nell’ordinamento giuridico interno per effetto
della ratifica, (...) « la pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato ad una tale
pena né giustiziato »;
— che l’applicazione della pena di morte ad una persona estradata dal governo francese
sarebbe contraria a l’ordre public francese;
— che, per effetto di ciò, se uno dei fatti in ordine ai quali l’estradizione viene richiesta
alle autorità francesi è punito con la pena capitale dalla legge della Parte richiedente, questa
estradizione non può essere legalmente concessa per un tale fatto se non alla condizione che
la Parte richiedente dia delle garanzie sufficienti che la pena di morte non sarà applicata né
eseguita ’’(18).
Seguiva, poi, un’ulteriore specificazione, nel senso che, invece, ‘‘l’estradizione di una
persona che è incorsa nella pena, non riducibile, del carcere a vita non è contraria all’ordre
public francese né all’art. 3’’ della predetta Convenzione europea (19), e ad ogni modo, con-
clusivamente, la decisione escludeva il diritto di J. Nivette all’annullamento del decreto di
estradizione impugnato.
Premesse e richiamate tutte le predette argomentazioni e statuizioni, la Corte europea
dei diritti dell’uomo (sez. I, presid. Rozakis) con decisione del 14 dicembre 2000 respingeva
il ricorso (20).
B) Con altro ricorso datato 30 ottobre 1998 (n. 44190/98), J. Nivette lamentava che
un’eventuale sua estradizione agli Stati Uniti sarebbe stata contraria al già evocato art. 3
della Convenzione nel caso che egli dovesse venire condannato ad una pena detentiva a vita
non suscettibile di riduzioni.
Di contro a ciò, dal Governo francese veniva richiamata la medesima dichiarazione di
impegno, sottoscritta e giurata dal procuratore generale della Contea di Sacramento il 7 set-
tembre 1999, facendo rilevare la sua idoneità ed operatività anche per escludere una con-
danna perpetua senza possibilità di liberazione condizionale.

(18) Per una analoga presa di posizione del Consiglio di Stato francese — a fronte di un impegno
in tal senso assunto da parte dello Stato del Texas — v. la decisione del 15 ottobre 1993, richiamata a p.
683, nota (27), dello scritto qui richiamato a nota (17).
(19) ‘‘Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti’’.
(20) La decisione è riassunta in Cass. pen., 2002, p. 3241, con l’impropria datazione al 3 luglio
2001 (riferibile, invece, alla decisione della Corte di cui infra).

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L’impegno statunitense, inoltre, veniva ribadito da una nuova dichiarazione in tal senso,
sottoscritta dallo stesso procuratore generale in data 29 marzo 2001.
Con un’altra pronuncia, in data 3 luglio 2001, della stessa 1a Sezione, la Corte europea
(presid. Palm) prendeva atto, adesivamente, di tutto quanto sopra, attribuendo ‘‘una impor-
tanza particolare’’ al predetto e reiterato impegno del Governo della California, ed al fatto
che alla stregua della pure già richiamata sez. 190.2 del Codice penale di quello Stato, nel
caso di specie non può essere pronunciata condanna ad una pena perpetua e irriducibile,
salvo che sia richiesta l’applicazione di una ‘‘circostanza speciale’’ da parte del prosecutor:
‘‘cosa che quest’ultimo si è impegnato a non fare’’.
In tali condizioni — così concludeva, all’unanimità, questa seconda decisione — ‘‘la
Corte ritiene che le assicurazioni ottenute dal Governo francese sono tali da escludere il ri-
schio di una condanna del ricorrente ad una pena perpetua irriducibile. La sua estradizione
non è dunque tale da esporlo al consistente rischio (à un risque sérieux) di un trattamento o
di una pena vietati dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (21).

3. In ordine ad un’analoga tematica, sempre attinente ai rapporti Francia - Stati Uniti


d’America, pochi mesi dopo è intervenuta un’altra decisione della Corte di Strasburgo: v.
sez. III (presid. Loucaides) 16 ottobre 2001, Einhorn c. Francia.
A) Si trattava di un cittadino della Pennsylvania (in questo Stato la pena di morte era
stata reintrodotta con una legge del 13 settembre 1978), che era stato arrestato il 28 marzo
1979, a seguito della scoperta, nella sua abitazione, del corpo mummificato della convivente.
Pochi giorni dopo posto in libertà su cauzione, egli lasciava gli Stati Uniti.
Aperto un procedimento in contumacia nei suoi confronti, il 29 settembre il tribunale di
Filadelfia condannava Einhorn alla reclusione a vita per omicidio aggravato. Tale condanna
veniva mantenuta ferma, da parte delle giurisdizioni superiori, per effetto della continuata
latitanza del ricorrente.
Localizzato in Francia, su richiesta degli Stati Uniti egli veniva arrestato, nel giugno
1997, a fini di estradizione.
La richiesta veniva una prima volta disattesa, in base al parere contrario, in data 4 di-
cembre 1997, della corte d’appello di Bordeaux, atteso che l’incolpato era stato condannato
in absentia, rimanendo privo della garanzia di un nuovo giudizio.
Il 27 gennaio 1998 entrava in vigore una nuova legge della Pennsylvania che, a certe
condizioni, prevedeva la ‘‘purgazione’’ della contumacia.
Con una nota verbale del 2 luglio 1998, il Governo degli Stati Uniti presentava una
nuova domanda di estradizione, attestante che, a domanda dell’interessato, egli avrebbe po-
tuto beneficiare di un nuovo giudizio e, inoltre, che la pena di morte non sarebbe stata né ri-
chiesta, né applicata, né eseguita.
Con sentenza del 18 febbraio 1999, la Corte d’appello di Bordeaux esprimeva, questa
volta, un parere favorevole all’estradizione, accompagnato dalle riserve aventi lo stesso con-
tenuto dei predetti impegni statunitensi. La sentenza veniva confermata dalla Corte di cassa-
zione e, successivamente, con decreto del 24 luglio 2000 il primo ministro francese conce-
deva l’estradizione, condizionandola agli adempimenti (un nuovo procedimento; l’esclusione
della pena di morte) oggetto degli impegni come sopra riferiti.
Il 4 ottobre 2000 Einhorn impugnava il decreto davanti al Consiglio di Stato per diversi
motivi (attinenti anche alla sopravvenuta disciplina della pena di morte), che però venivano
tutti disattesi. In particolare la sentenza precisava che l’estradizione di una persona passibile

(21) II riferimento, con effetti preclusivi, al ‘‘risque sérieux’’ di sottoposizione alla pena di morte,
oltre che alla tortura e ad altre pene e trattamenti inumani o degradanti, è testualmente previsto nell’art.
19 § 2 della Carta di Nizza. Di tale paragrafo, la nota ufficiale esplicativa — v. BRAIBANT, La Charte des
droits fondamentaux de l’Union européenne, 2001, p. 149 ss. — scrive che esso ‘‘incorpora la giurispru-
denza della Corte europea dei diritti dell’uomo’’ relativa all’art. 3 della Convenzione.

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della pena, anche non suscettibile di riduzioni, della reclusione a vita, non è contraria nè al-
l’ordre public francese né all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il 19 luglio 2001 il ricorrente veniva estradato verso gli Stati Uniti.
B) Dopo un riepilogo di tutto questo itinerario e l’analisi particolareggiata di una serie
di dichiarazioni e documenti prodotti dalle parti nel corso del medesimo, la Corte di Stra-
sburgo passava ad esaminare i tre motivi del ricorso (n. 71555/01) del quale era stata inve-
stita.
Per ragioni di brevità ci limitiamo a riportare (da Cass. pen., 2002, p. 3246) una brevis-
sima sintesi dell’ampia decisione, ancora una volta adottata con voti unanimi: ‘‘La Corte ri-
tiene inammissibile il ricorso con riferimento all’art. 3 (della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo): gli Stati Uniti hanno dichiarato che il ripristino della pena capitale non si
estende a fatti commessi in precedenza; che in ogni caso non sarebbe stata richiesta dalla
pubblica accusa né sarebbe stata inflitta né eseguita. Con riferimento alla pena dell’erga-
stolo, la Corte osserva che, in base alla legge dello Stato della Pennsylvania, il governatore
può, sia pure sotto certe condizioni, commutare tale pena con altra compatibile con l’istituto
del release on parole: anche se questa possibilità incontra limiti, tuttavia non può conclu-
dersi che sarebbe impossibile ottenere tale beneficio. Da qui la manifesta infondatezza.
La Corte ha esaminato la questione anche sotto il profilo del giusto processo ecc.’’.

4. Ritornando ora alla decisione relativa al ‘‘caso Venezia’’ dal quale abbiamo preso le
mosse, ed alle sue conseguenze immediate (non risulta, d’altronde, che sia stata ancora av-
viata la rinegoziazione dei non pochi trattati di estradizione contenenti clausole simili a
quella dichiarata incostituzionale dalla nostra Corte), ci si è chiesti, da ultimo (SELVAGGI, in
Cass. pen., 2002, p. 3242): ‘‘se la ratio della decisione della Corte costituzionale è che non si
può cooperare laddove c’è la possibilità che venga inflitta la pena di morte, tale ostacolo var-
rebbe anche nel caso, ad esempio, della mutua assistenza?’’.
A dare attualità ad un tale quesito provvede un recente comunicato del ministero della
giustizia francese in data 27 novembre (v. Le Figaro del 28 novembre 2002, p. 10).
Gli Stati Uniti avevano chiesto assistenza giudiziaria alla Francia, a proposito del citta-
dino francese Zacarias Moussaoui ivi incarcerato a seguito delle indagini sugli attentati
dell’11 settembre.
La Cancelleria — questo il comunicato — precisa l’intendimento di rispondere adesiva-
mente alla richiesta d’assistenza, atteso che ‘‘il governo francese ha ottenuto dagli Stati Uniti
la garanzia che le informazioni trasmesse dalla Francia in ordine a Z. Moussaoui non sa-
ranno utilizzate (...) allo scopo di pronunciare o eseguire la pena di morte’’.
Non trattandosi di una ‘‘garanzia assoluta’’, essa, secondo l’oltranzistica e diffidente
‘‘giurisprudenza Venezia’’, alla luce del nostro ordinamento sarebbe, in ipotesi, del tutto
priva di ogni rilievo. Una conclusione nella quale, francamente, è difficile poter convenire.

‘‘Madri in fuga’’ nei rapporti Francia-Svizzera.

1. ‘‘È una novità che solleva più problemi di quanti non ne risolva. Il Tribunale fede-
rale ha appena reso pubblica la motivazione del suo ultimo arrêt nell’affaire delle ‘‘madri in
fuga’’, in ordine al quale due settimane or sono aveva dato luce verde per l’estradizione
verso la Francia di una cittadina franco-polacca, rifugiatasi in Svizzera con la figlia di 5 anni.
Una decisione che, inoltre, demanda all’Ufficio federale di giustizia l’incombenza di coordi-
nare questa estradizione con il ritorno della bambina in Francia, per evitare che la piccola
« non sia troppo a lungo privata del contatto con la madre, e non resti inutilmente in un
paese dal quale sono assenti i suoi due genitori, e col quale, in definitiva, ella non ha alcuna
relazione ».
Ed è a questo proposito che le cose si complicano. Perché, se l’Ufficio federale è diretta-
mente responsabile del ritorno in Francia della madre, attualmente in detenzione estradizio-
nale nella prigione femminile de Lonay (cantone di Vaud), la sorte della bambina è, d’altra

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parte, interamente subordinata a una decisione del giudice di pace cantonale. A lui, ed a lui
solo, spetta la scelta di far ritornare la bambina in Francia, come richiede suo padre. Da ciò
la contraddizione: le due procedure giudiziarie, quella della madre e quella della figlia, di per
sé indipendenti, sono ormai interconnesse per volontà del Tribunale federale’’.
Così (in parziale traduzione) nel resoconto sul caso apparso su Le Temps del 23 ottobre
2002 (a firma di E. Michel).

2. Ma vediamo di fornire qualche maggior ragguaglio almeno su una parte della pro-
blematica affrontata dalla sentenza (1 A.175/2002) del Tribunale federale, in data 8 ottobre
2002 (presid. Aemissegger, giudici Reeb e Féraud).
Precisiamo che la ‘‘madre in fuga’’ — nella sentenza indicata con la lettera A. — aveva
presentato ‘‘recours de droit administratif’’ contro la decisione 7 agosto 2002 dell’Ufficio fe-
derale di giustizia.
A) In tema di contumacia. — Il dispositivo della sentenza francese 13 marzo 2002, al-
legato alla domanda di estradizione, indica che il tribunale ‘‘de grande instance di Parigi
aveva deciso mediante jugement contradictoire à signifier’’. A tale riguardo — continua (e
così proseguiamo nella traduzione dal testo francese) il Tribunale federale (2.4) — l’amba-
sciata di Francia a Berna ha di nuovo precisato, il 19 luglio 2002, che una sentenza è qualifi-
cata come contradictoire à signifier quando è accertato che la persona perseguita ha senz’al-
tro ricevuto la citazione ma non si è poi presentata senza una giustificazione ritenuta valida.
In caso di dubbio sulla validità della citazione, si ha una sentenza par défaut, suscetti-
bile di opposizione. Al contrario, la sentenza contradictoire à signifier è suscettibile di ap-
pello. E un tale appello era stato appunto proposto dall’avvocato della (attuale) ricorrente
otto giorni dopo la sentenza (...). È dunque a torto che la ricorrente persiste a ritenere che
sarebbe stata giudicata par défaut.
Se così stanno le cose, non si potrebbe ad ogni modo ritenere che le esigenze che in par-
ticolare discendono dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non siano
state salvaguardate.
(2.5). È stato accertato che A. è stata regolarmente convocata all’udienza del Tribunale
di Parigi, che era stata assistita da un mandatario professionale che l’aveva messa in guardia
sulle conseguenze di un eventuale rifiuto di comparire e che, malgrado queste raccomanda-
zioni, ella ha scelto di abbandonare il Paese del suo domicilio. In tali condizioni, la ricor-
rente, che ha senz’altro rinunciato al diritto di essere giudicata in sua presenza, non può la-
mentare con successo, nella procedura estradizionale, una violazione della garanzia del ci-
tato art. 6 (cfr. ATF 127, I, 213) (...). Ad ogni modo, l’esame sul merito della procedura in-
terna, e in particolare la valutazione delle prove, è sottratta al controllo del Tribunale fede-
rale (...)’’.
B) Sulla doppia incriminabilità. — Prosegue il Tribunale federale, sub 4: ‘‘Secondo la
ricorrente, la condizione della doppia incriminabilità non sarebbe stata realizzata. In diritto
svizzero, l’esercizio del diritto di visita sarebbe tutelato solo dall’art. 292 c.p. — che prevede
una semplice contravvenzione — e non dall’art. 220 c.p. (...).
(4.2) In Francia, la ricorrente è stata condannata ad un anno di detenzione per rifiuto
di consegna di minore a persona avente il diritto di esigerla, delitto punito dagli artt. 227-5 e
227-29 del codice penale francese.
L’interessata avrebbe rifiutato di consegnare X. al padre B., codetentore dell’autorità
parentale, che aveva il diritto di esigerla secondo il diritto di visita e di ospitalità stabilito
dall’autorità competente (...). I fatti sono stati commessi a Parigi e sul territorio francese dal
27 ottobre 2001 al 7 gennaio 2002 (...).
(4.3) In diritto svizzero, l’art. 220 c.p. (sottrazione di minorenne) protegge soprattutto
l’esercizio dell’autorità parentale ma anche, in certa misura, la pace familiare e il benessere
del minore (...). Perché il delitto si compia, occorre si realizzino un atto o un’omissione che
impediscano al detentore dell’autorità parentale o al tutore di decidere sulla sorte del mi-
nore, vale a dire del luogo di residenza, di educazione e delle sue condizioni di vita (ATF

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101, III, 103). Commette questo delitto non solo il coniuge che porta con sé i figli le cure dei
quali sono state affidate all’altro coniuge, ma anche quello tra i coniugi che detiene l’autorità
parentale (ATF 125, IV, 14 e 95, IV, 67)’’.
Dopo altri richiami della giurisprudenza del Tribunale federale, e copiosi riferimenti alla
dottrina elvetica, di orientamento sostanzialmente concordante (riferimenti non certo con-
formi alla prassi e alla tradizione della nostra giurisprudenza), il Tribunale (4.4) ribadisce i
precedenti, secondo i quali l’impedimento del diritto di visita a mezzo di sottrazione o non
consegna a un genitore ricade sotto la previsione dell’art. 220 c.p.
E precisa ulteriormente (4.5): ‘‘La sentenza 13 marzo 2002, sulla quale si fonda la ri-
chiesta di estradizione, non ha per oggetto il trasferimento effettuato in Svizzera da parte
della ricorrente con la figlia, ma l’impedimento all’esercizio, in Francia, del diritto di visita
da parte del padre, codetentore dell’autorità parentale. Non si tratta dunque di sottrazione,
ma piuttosto di rifiuto di consegna, seconda ipotesi considerata dall’art. 220 c.p. (22). In
questo caso, si tratta di delitto continuato che, per essere consumato, deve protrarsi per una
certa durata; una inosservanza insignificante, ad esempio del diritto di visita, non è suffi-
ciente (ATF 110 IV, 25 consid. 1 c p. 37). Orbene, secondo i fatti posti a base della sentenza
13 marzo 2002, la ricorrente avrebbe, in modo sistematico e durante un periodo di più di
due mesi, impedito al padre di incontrare la figlia alle date stabilite.
Occorre dunque riconoscere che la condizione della doppia incriminabilità è realizzata
alla stregua dell’art. 220 c.p.’’.
C) Sulla irrilevanza dell’ordine pubblico del Paese richiedente l’estradizione. Continua
la sentenza (5): ‘‘A. chiama in gioco l’ordine pubblico (l’ordre public) svizzero. Le disfun-
zioni, nello Stato richiedente (la Francia), in ordine alle rimostranze delle madri per gli abusi
sessuali o i maltrattamenti dei loro figli, sarebbero un fatto notorio, che preoccupa le più alte
istanze internazionali.
Non è dato tuttavia di scorgere le ragioni per le quali gli interessi essenziali della Sviz-
zera, o il suo ordine pubblico a sensi dell’art. 1 a della Legge sull’assistenza internazionale in
materia penale potrebbero essere compromessi in caso di concessione dell’estradizione. La
Francia è parte contraente nei vari strumenti internazionali di protezione dei diritti del-
l’uomo, ed è sottoposta alle procedure di controllo istituite da tali strumenti. Non c’è dun-
que dubbio che, se delle disfunzioni dell’importanza di quelle denunciate dalla ricorrente do-
vessero verificarsi, lo Stato stesso dovrebbe adottare le misure necessarie per porvi rimedio.
Come ricorda l’Ufficio federale di giustizia nella sua decisione, la Svizzera non può rifiutare
l’estradizione a uno Stato al quale è vincolata da una convenzione, invocando l’ordine pub-
blico di quello Stato, a meno che non abbia formulato una riserva espressa a tale riguardo
(ATF 112 Ib 342 consid. 2 b p. 346 e giurisprudenza cit.). Non è questo il caso alla stregua
della Convenzione europea di estradizione’’.

3. Dopo aver affrontato altri passaggi — in primis quello qui richiamato in apertura,
in tema di coordinamento tra la procedura di estradizione e il ritorno della bambina in Fran-
cia — il Tribunale federale conclude con la reiezione del ricorso, e pronunce accessorie.

Una rogatoria senza gli allegati.

‘‘I magistrati di Mani pulite avevano buoni rapporti con Falcone. (...). Sulle rogatorie
però qualche problema c’era. Falcone era ormai diventato un funzionario alle dipendenze del
ministro Claudio Martelli e a lui era tenuto a riferire. Per questo il pool aveva ritenuto inop-

(22) Così il nuovo testo (conseguente alla l. federale 23 giugno 1989): ‘‘Chiunque sottrae o si ri-
fiuta di restituire un minorenne alla persona che esercita l’autorità parentale o la tutela, è punito, a que-
rela di parte, con la detenzione o con la multa’’.
Per un inquadramento complessivo della tematica nella prospettiva internazionale v. MOSCONI e RI-
NOLDI (a cura di), La sottrazione internazionale di minori da parte di un genitore, 1968.

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portuno inviargli anche gli allegati, che contenevano elementi riservati sulle indagini nei con-
fronti di Craxi e dei suoi uomini. Per sfiducia non in Falcone, ma nei suoi superiori e vicini
di stanza che infatti, di lì a poco, sarebbero finiti anch’essi sotto inchiesta’’. (G. BARBACETTO-
P. GOMEZ-M. TRAVAGLIO, Mani pulite - La vera storia, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 47).

Dalla Turchia: ultime notizie sul caso Öcalan.

Dopo che la Corte turca per la sicurezza dello Stato, con sentenza poi confermata dalla
Corte di cassazione, aveva condannato Öcalan alla pena di morte (23), nella sua pronuncia
del 30 novembre 1999 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva suggerito al governo
provvisorio turco di adottare le misure necessarie perché la pena di morte non venisse ese-
guita (24).
Una recente corrispondenza da Ankara (Öcalan non sarà giustiziato: per lui carcere a
vita, in Corriere della Sera del 4 ottobre 2002, p. 12) riferisce quanto segue:
‘‘Abdullah Apo Öcalan non sarà giustiziato. Il Tribunale per la sicurezza dello Stato
turco ha commutato ieri la condanna a morte in ergastolo. Una decisione che è un atto do-
vuto: la Turchia ha infatti abrogato la pena di morte il 4 agosto scorso, quando il Parlamento
approvò una serie di riforme della giustizia, su richiesta (e pressione) dell’Unione europea.
Tra queste, appunto, c’era la scomparsa della pena capitale.
La stessa corte ha anche sentenziato che Öcalan resterà in carcere a vita. Per lui non esi-
ste la possibilità di un’amnistia’’.

La cooperazione internazionale nel discorso della Corona.

‘‘My Lords and members of the House of Commons.


My Government’s main priorities are economic stability, investment and reform in pu-
blic services and a constructive foreign policy (...).
My Government will introduce a Bill to tackle anti-social behaviour that damages com-
munities.
A Bill will be brought forward to modernise the laws on sexual offences and to stren-
gthen the framework of penalties for sex offenders to protect the public.
A Bill will also be introduced to improve international co-operation in tackling crime,
including drugs trafficking, and to modernise the arrangements for international mutual assi-
stance to catch criminals (...).
My Lords and members of the House of Commons.
I pray that the blessing of Almighty Good may rest upon your counsels’’. (Da The
Queen’s Speech, in The Times del 14 novembre 2002, p. 42) (25).

(23) Interrogativi sul caso Öcalan, in questa Rivista, 1999, p. 742.


(24) Il caso Öcalan a Strasburgo: la (parziale) ammissibilità del ricorso, in questa Rivista, 2001,
p. 567, nota 26.
Con sentenza 1o ottobre 1999 il Tribunale di Roma aveva dichiarato il diritto di Öcalan — anche se
non più presente nel territorio italiano al momento della decisione — ad ottenere l’asilo politico in Italia,
ex art. 10, comma 3o, Cost.: v. in Riv. dir. int., 2000, p. 240, con nota di CANNIZZARO, Sui rapporti fra di-
ritto costituzionale all’asilo e divieto di estradizione per reati politici, ibid., p. 157.
(25) Dal resoconto sotto il titolo: Annuncio della regina ‘‘Giustizia più severa’’, in Corriere della
Sera del 14 novembre 2002, p. 15: ‘‘Nel tradizionale ‘discorso della Corona’ al Parlamento britannico, Eli-
sabetta II ha preannunciato un drastico giro di vite sulla giustizia nel Regno Unito: pene più severe per i
comportamenti antisociali (gli atti vandalici di chi deturpa o sporca le città), una legislazione maggior-
mente orientata alla salvaguardia delle vittime dei delitti e l’abolizione della norma secondo cui una per-
sona non può essere processata due volte per lo stesso reato.
Ci sarà un inasprimento delle pene contro i pedofili che operano via Internet e verrà migliorata la
cooperazione internazionale nella lotta alla criminalità (...)’’.

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Parigi e Berlino per un rilancio della cooperazione nell’Unione euopea.

‘‘Le ‘réveil’ du couple franco-allemand se poursuit. Après l’agriculture et l’Europe de la


défense, c’est la coopération des Quinze en matière de justice et de police que Berlin et Paris
veulent relancer, ensemble. Dominique de Villepin et Joschka Fischer, les deux ministres des
Affaires étrangères, ont adressé des propositions communes à la ‘Convention’ de Valéry Gi-
scard d’Estaing (...)’’.
Paris et Berlin suggèrent en particulier la création d’un véritable ‘‘parquet européen’’
qui aurait le droit de déclencher, voire de diriger des enquêtes dans des dossiers relevant du
droit communautaire. Europol, l’embryon policier installé à La Haye, serait doté de pouvoirs
supplémentaires, sauf pour les affaires concernant la ‘‘sécurité intérieure’’ des États.
Le droit pénal serait harmonisé par la fixation de critères communs et l’établissement
d’une liste de délits qui comprend, entre autres, le ‘‘terrorisme’’ et la ‘‘cybercriminalité’’. La
coopération judiciaire en matière civile serait, enfin, fondée sur le principe de la reconnais-
sance mutuelle.
L’ensemble est complété par la vision d’une politique d’asile et d’immigration efficace, y
compris par la création d’une « police européenne des frontières » pour laquelle « une
échéance sera fixée » sans que l’on dise quand’’. (Da Le Figaro del 28 novembre 2002, p. 5).

La ‘‘legge sulle rogatorie’’ nei discorsi dei Procuratori Generali (26).

‘‘... Tema che è diventato di moda è quello delle rogatorie, mentre fino all’emanazione
della l. 5 ottobre 2001, n. 367 si trattava di uno di quei classici argomenti, la cui disamina
era riservata agli addetti ai lavori. È mia radicata intenzione non quella di formulare un qual-
sivoglia giudizio sulla normativa in questione, bensì di suggerire, sommessamente, con sup-
porto della giurisprudenza una soluzione al più delicato dei problemi suscitati dalla l. n. 367
del 2001, vale a dire quello dell’inutilizzabilità degli atti sancita dall’art. 729 c.p.p.(...) il cui
comma 1, riformulato, dispone che ‘‘la violazione delle norme di cui all’art. 696, comma 1,
riguardanti l’acquisizione o la trasmissione di documenti o di altri mezzi di prova a seguito
di rogatoria all’estero comporta l’inutilizzabilità dei documenti o dei mezzi di prova acquisiti
o trasmessi’’.
La problematica ha investito i documenti che devono essere acquisiti o trasmessi dall’e-
stero in originale o, in subordine, in copie o fotocopie certificate conformi. In realtà tutto è
nato da un equivoco originato da una non felice traduzione del testo francese dell’art. 3,
comma 3, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria che esattamente recita nella
corretta traduzione: la parte richiesta potrà trasmettere solo copie o fotocopie, mentre nella
versione italiana risulta: la parte richiesta non potrà trasmettere che copie o fotocopie certifi-
cate conformi.
La differenza balza evidente: la norma della Convenzione, nell’esatta traduzione, è es-
senzialmente diretta a limitare l’obbligo di collaborazione assunto da ciascun Stato, con rife-
rimento, in particolare, all’esclusione di quello di trasmettere atti originali.
In ogni caso è stata sollevata eccezione di illegittimità costituzionale delle norme intro-
dotte dalla l. n. 367 del 2001, nella parte in cui vietano l’utilizzabilità di documenti tra-
smessi dallo Stato richiesto senza la specifica certificazione di autenticità.
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 315 del 2002 ha dichiarato manifestamente
inammissibile la questione di legittimità costituzionale, non avendo il remittente (Tribunale
di Roma) assolto l’onere di verificare la concreta possibilità di attribuire alla norma denun-
ciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legit-
timità costituzionale.
La Corte Suprema, poi, in una recente decisione (Cass., sez. I, 16 ottobre 2002, n.

(26) Si tratta delle relazioni svolte, il 18 gennaio 2003, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario
presso le Corti d’appello. Le relazioni concernono il periodo 1o luglio 2001-30 giugno 2002.

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7751, Luciano Pietro ed altri) ha precisato che, secondo un generale principio di interpreta-
zione dei trattati internazionali, che si ricava dall’art. 31, comma 3, del Trattato di Vienna
del 21 marzo 1986, la consuetudine internazionale è fonte primaria di diritto internazionale
e, quindi, nella materia in esame non può prescindersi dalla prassi consolidata secondo cui,
salvo l’ipotesi in cui lo Stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo Stato richiesto
li trasmette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l’atto formale di trasmissione per con-
ferire loro garanzia di autenticità e conformità all’originale.
Se l’applicazione della l. n. 367 del 2001 deve essere ancorata alle regole interpretative
indicate dalla giurisprudenza ed implicitamente dalla stessa Corte costituzionale, essa non
costituisce un ostacolo alla necessità — generalmente avvertita — di un processo più celere
anche quando deve farsi ricorso alle rogatorie’’.
(V. VERDEROSA, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2002 alla
Corte d’appello di Salerno, pp. 23, 25-27).

‘‘... Qualche breve e doverosa riflessione va fatta anzitutto sulla complicazione e l’appe-
santimento costituiti dall’accentuata formalizzazione introdotta dalla nuova legge in un
campo in cui le convenzioni internazionali come quella di Bruxelles del 2000 tendono verso
una progressiva semplificazione con l’evidente intento di favorire la cooperazione giudiziaria
internazionale. Se poi si considera che la nuova normativa ha prescritto requisiti che non
rappresentano un effettivo rafforzamento delle garanzie a tutela degli imputati ma si risol-
vono in adempimenti formalistici del tutto irrilevanti appare evidente come anche per questa
via si sia confermata la perniciosa tendenza disorganica della legislazione e si sia allontanata
l’opportunità di rendere più celeri le procedure giudiziarie, più efficace la lotta contro il cri-
mine organizzato’’.
(E. FORTUNA, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte
d’appello di Venezia 1o luglio 2001-30 giugno 2002, pp. 43-44).

‘‘... La l. 5 ottobre 2001, n. 367, nota come legge sulle rogatorie, che tanto clamore ha
suscitato, non è certo monumento di sapienza giuridica. Essa suscita più di un dubbio sul
piano interpretativo (ma questa non è una novità), ha suscitato perplessità a livello di legitti-
mità costituzionale tanto che è stata sollevata relativa eccezione dal Tribunale di Roma con
ordinanza del 7 novembre 2001, ed altre sono preannunciate fino a questo momento; e tut-
tavia la legge suddetta — che generalmente sancisce l’inutilizzabilità probatoria di docu-
menti e atti di autorità straniere che siano privi dell’attestazione di conformità all’originale
— non ha determinato, come da più parti si temeva, sconvolgimenti nel sistema o esiti pro-
cessuali clamorosi, fino a questo momento.
Occorre però aggiungere che questa legge — emanata nell’ambito della ratifica di un ac-
cordo tra Italia e Svizzera in materia di assistenza giudiziaria — rallenterà ancora di più il
già lento corso dei processi penali dove la questione si ponga’’.
(G. RUELLO, Procura Generale della Repubblica - Firenze, Relazione sull’amministra-
zione della giustizia nel periodo 1o luglio 2001-30 giugno 2002, pp. 12-13).

‘‘... Non si sono riscontrati nel nostro distretto casi di applicazione della modifica legi-
slativa ad opera della l. n. 367 del 2001 sulle prove acquisite all’estero. Ma tale riforma si è
rivelata fallimentare nell’applicazione giurisprudenziale, che non ha consentito di conseguire
gli effetti sperati, peraltro non da tutti, a causa del conflitto tra l’intenzione del legislatore di
spingersi oltre misura e gli spazi di intervento consentiti in materia dalla normativa costitu-
zionale ed internazionale, oltre che dal buon senso. Una formulazione più rigida della nuova
normativa (rispettosa delle intenzioni del legislatore) non l’avrebbe sottratta ai profili di in-
costituzionalità, ma la formulazione meno rigida attuale ha fatto sì che quasi nulla mutasse
nella concreta applicazione’’.
(M. MORELLO, Relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto della Corte
d’appello del Molise, p. 28).

‘‘... In ordine all’incidenza, sull’acquisizione di prove all’estero e sulla loro utilizzazione,

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della l. 5 ottobre 2001, n. 367, le relazioni [degli organi giudiziari del distretto] tacciono o si
limitano ad affermare, come quella del procuratore di Potenza, che ‘‘nessuna particolare pro-
blematica è dato di evidenziare’’. A tal proposito giova porre in rilievo, ora, che la Corte di
cassazione (sez. I, 20 settembre-15 ottobre 2002, n. 34576 e 16 ottobre-8 novembre 2002,
n. 37774) ha sciolto i principali nodi interpretativi posti dalla nuova normativa stabilendo
l’utilizzabililà dei documenti scambiati direttamente (anziché tramite ministero) tra autorità
giudiziarie aderenti alla convenzione europea di assistenza in materia penale nonché l’utiliz-
zabilità dei documenti trasmessi in copia giacché l’atto formale di trasmissione dell’autorità
straniera è sufficiente a garantire l’autenticità di tali copie nel senso che non è necessaria, su
ognuna di esse, l’attestazione di conformità all’originale’’.
(V. TUFANO, Relazione del Procuratore Generale per l’inaugurazione dell’anno giudizia-
rio 2003 alla Corte d’appello di Potenza, pp. 57-58).

‘‘... L’entrata in vigore della l. 5 ottobre 2001, n. 367, in materia di acquisizione di


prove all’estero non ha avuto apprezzabili effetti negativi, come da più parti paventato, se
non per l’aggravio di adempimenti e di costi, in qualche caso in cui gli uffici di Procura sono
stati costretti a rinnovare qualche rogatoria internazionale già compiuta. Solo nell’ambito di
un procedimento viene segnalato il pericolo di scarcerazione di alcuni indagati, poiché, no-
nostante i numerosi solleciti, gli atti richiesti a seguito delle nuove procedure non sono an-
cora pervenuti.
Tuttavia, la nuova formulazione dell’art. 729, comma 1, c.p.p., che prevede in via gene-
rale la drastica sanzione dell’inutilizzabilità dei risultati delle rogatorie per qualunque viola-
zione, anche meramente formale, delle convenzioni che riguardi non solo la trasmissione, ma
anche le modalità di acquisizione degli atti, rischia — tenuto conto delle notevoli diversità
tra le forme processuali dei diversi Stati — di aprire la strada a dispute senza fine sulle mo-
dalità in cui le rogatorie sono state eseguite nello Stato richiesto e sulle modalità di trasmis-
sione dei risultati. Una norma, che — da una parte — sembra non aggiungere ulteriori ga-
ranzie per i diritti dell’imputato, e — dall’altra — sembra obiettivamente costituire un grave
arretramento rispetto alle linee di tendenza nella costruzione di uno spazio giuridico euro-
peo. Ciò nonostante, va segnalata l’importanza di talune recenti interpretazioni giurispru-
denziali, peraltro avallate dagli studiosi che più approfonditamente hanno analizzato la disci-
plina, che, muovendo dal corretto inquadramento della nuova legge nel contesto della gerar-
chia delle fonti fra norme nazionali e sovranazionali, ha consentito di superare in via inter-
pretativa i principali inconvenienti applicativi che sarebbero derivati da una formalistica in-
terpretazione della nuova disciplina. Sembra, pertanto, auspicabile una piena valorizzazione
di tali nuove linee interpretative, anche in una prospettiva de iure condendo aperta all’aggiu-
stamento di taluni rigidi e formalistici meccanismi previsti dalla nuova normativa’’.
(S. CELESTI, Inaugurazione anno giudiziario 2003 - Relazione alla Corte d’appello di
Palermo, pp. 32-33).

‘‘... La l. [5 ottobre 2001, n. 367] non ha provocato sostanzialmente incidenza negativa


sui processi grazie alla tempestiva e diligente attivazione dei magistrati del P.M. i quali
hanno provveduto a rinnovare, in termini brevissimi, l’iter di acquisizione probatoria ovvero
grazie all’interpretazione normativa data dai giudici di questo distretto’’.
(R. DIBITONTO, Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 - Relazione alla Corte d’ap-
pello di Bari, p. 55).

‘‘... La nota legge sulle rogatorie non ha finora provocato gli effetti devastanti che erano
stati preconizzati al momento della sua entrata in vigore: e ciò in virtù di una (peraltro asso-
lutamente lineare e facile) interpretazione del tutto aderente al testo normativo (per di più
avallata dalla Corte di cassazione e, in certa misura, anche dalla Corte costituzionale, inve-
stita di una questione di legittimità fondata su una diversa ‘lettura’ del testo di legge), inter-

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pretazione che tuttavia — stranamente — non sembra essere ‘piaciuta’ ad alcuni degli stessi
legislatori’’.
(G.C. CASELLI, Relazione sullo stato della giustizia nel distretto Piemonte-Valle d’Aosta
- Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003, p. 13).

‘‘... Non risulta che la l. 5 ottobre 2001, n. 367 sull’acquisizione delle prove all’estero e
sulla loro utilizzazione abbia avuto un’apprezzabile incidenza nel distretto (anche conside-
rata la natura dei procedimenti esistenti nello stesso).
D’altra parte l’interpretazione prevalente dei giudici di merito (alla luce dei principi
della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati) ha evitato che si
producessero i possibili effetti negativi delle nuove norme (prescrizioni e scarcerazioni), so-
prattutto sui processi in corso, il che esclude la sussistenza di vizi di legittimità costituzio-
nale delle stesse (v. al riguardo ordinanza n. 315 del 2002 della Corte Costituzionale).
Tale indirizzo è stato recentemente condiviso dalla Suprema Corte che, con sentenza n.
37774 del 2002 (depositata l’8 novembre 2002), ha affermato che, salvo il caso in cui lo
Stato rogante richieda espressamente la trasmissione di atti o documenti in originale, è suffi-
ciente, come si desume dalle prassi consolidate in materia, l’atto formale di trasmissione del-
l’autorità straniera per garantire l’autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice
fotocopia’’.
(G. BRIGNOLI, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 alla Corte d’ap-
pello di Trieste, pp. 33-34).

L’Ufficio II del Ministero della Giustizia: l’attività nel 2002.

La Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione del-


l’anno giudiziario 2003 così presenta il quadro delle attività dell’Ufficio II:
‘‘Nel trascorso anno giudiziario 2002 l’Ufficio II della Direzione Generale della Giusti-
zia Penale del Ministero della Giustizia ha visto complessivamente accrescere il numero delle
procedure di cooperazione giudiziaria penale, segnatamente nel campo delle estradizioni
passive e delle istanze di trasferimento delle persone condannate.
A tale ultimo proposito si segnala che, dagli ultimi dati statistici in possesso della Dire-
zione, a fronte delle 85 istanze di trasferimento pervenute nell’anno 2001, ad oggi [19 no-
vembre 2002] se ne contano 345. Nonostante le gravi carenze di personale l’Ufficio II ha
fronteggiato la complessa situazione.
Momento importante è rappresentato, inoltre, dal recente Accordo aggiuntivo alla Con-
venzione sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983, stipulato con la Re-
pubblica d’Albania e firmato nell’aprile 2002 dai rispettivi ministri della giustizia, strumento
questo attraverso il quale viene affrontato su base normativa certa il problema del sovraffol-
lamento delle carceri (27).
Particolarmente rilevante è stata, inoltre, l’attività connessa alle rogatorie. A tale propo-
sito si evidenzia il forte impulso dato all’uso del sistema della videoconferenza internazionale
per facilitare e consentire il conseguimento di esigenze processuali e dibattimentali delle
AA.GG. italiane. Le videoconferenze internazionali sono state applicate, oltre che con gli
Stati Uniti, anche con la Germania e la Francia (28).
Massima e tempestiva collaborazione si è svolta con l’Ufficio del Procuratore del Tribu-
nale Penale Internazionale delle Nazioni Unite per i crimini nella ex Jugoslavia, con sede a
l’Aja.
Maggiore spessore ha assunto, nel corso degli ultimi anni, l’attività in materia di nego-
ziazione di trattati. È di questi giorni la felice conclusione del negoziato in materia di estradi-

(27) In tema di rapporti Italia-Albania, in questa Rivista, 2002, p. 1489.


(28) Ci sia consentito di rinviare a PISANI, Rogatorie internazionali e videoconferenze, in Riv. dir.
proc., 2002, p. 981.

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zione con il Canada. Così come è da segnalare la sempre maggiore partecipazione ai lavori
presso vari organismi sopranazionali quali le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Unione
Europea.
Inoltre, l’entrata in vigore della Convenzione di Schengen e il correlato accrescimento
degli spazi di collaborazione tra gli Stati dell’Unione Europea, nonché la prossima entrata in
vigore del mandato d’arresto europeo, fanno sì che la Direzione Generale della Giustizia Pe-
nale sia investita di un accresciuto numero di impegni in materia di mutua cooperazione a
cui viene dedicato un particolare impegno nella consapevolezza dell’importanza strategica
degli obiettivi’’.

Unione Europea: decisioni quadro del Consiglio e ‘‘riserva parlamentare’’.

1. Nell’ampio discorso svolto il 13 gennaio in occasione dell’inaugurazione dell’anno


giudiziario 2003 per la Corte d’appello di Milano, il ministro della giustizia on. Castelli ha ri-
tenuto opportuno specificare quanto segue:
‘‘... le decisioni quadro che vengono assunte in sede di Consiglio dei Ministri della Giu-
stizia e Affari Interni rischiano di mutare drasticamente il quadro legislativo nazionale,
avendo carattere cogente anche in materie che coinvolgono i diritti fondamentali del citta-
dino, quali la libertà personale o il possesso e la disponibilità dei propri beni, in assenza an-
cora di un preciso quadro di riferimento costituzionale europeo.
In questo modo vengono sovvertiti i normali processi di formazione delle leggi e si pon-
gono rilevanti problemi di natura costituzionale e giuridica.
In quest’ottica va letta la dichiarazione italiana annessa all’approvazione del mandato
d’arresto europeo, secondo cui « il Governo dovrà avviare le procedure di diritto interno per
rendere la decisione quadro stessa compatibile con i principi supremi dell’ordinamento costi-
tuzionale in tema di diritti fondamentali e per avvicinare il suo sistema giudiziario ed ordina-
mentale ai modelli europei » (29).
Personalmente, data la rilevanza dei temi e in ossequio al principio per me inderogabile
della sovranità popolare, sulle decisioni quadro più delicate ho inteso introdurre una prassi,
prevista anche a livello costituzionale da numerosi paesi europei, ma mai applicata prima
dall’Italia: si tratta dell’istituto della riserva parlamentare che rimanda la decisione ultima sul
provvedimento europeo al Parlamento nazionale e quindi ai rappresentanti del popolo.
Ad esempio, il nostro Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi in merito alle decisioni
quadro in materia di congelamento dei beni e di corruzione privata.
Stiamo attraversando anni e momenti delicati, in cui ogni decisione presa può contri-
buire ad influenzare per secoli (sic) il destino dei popoli europei e quindi anche del nostro.
In particolare il 2003, che vedrà nel secondo semestre il turno italiano di presidenza eu-
ropea, sarà per noi importantissimo e carico di gravoso impegno.
Dobbiamo essere assolutamente consapevoli che, sul piano interno e internazionale,
stiamo vivendo un momento storico particolare, certamente difficile, come tutti i periodi di
transizione e di cambiamento, ma anche importante per le prospettive future.
Il nostro Paese deve saper cogliere le opportunità e le sfide di questo momento’’.

2. A titolo esemplificativo ricordiamo: la decisione quadro 15 marzo 2001, ‘‘relativa


alla posizione della vittima nel procedimento penale’’ (30), e le più recenti decisioni quadro
di cui infra ‘‘sulla lotta contro il terrorismo’’; ‘‘sulla tratta degli esseri umani’’; sul ‘‘rafforza-
mento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e
del soggiorno illegali’’.

(29) La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, in questa Rivista, 2002, p. 1484. V. an-
che Incertezze sul ‘‘mandato d’arresto europeo’’, ibid., p. 1132.
(30) Sul tema ci permettiamo di richiamare un nostro contributo dal titolo: Vittime. Uno statuto
europeo, in Le Due Città (Riv. dell’Amministrazione Penit.), ottobre 2002, p. 27.

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Cooperazione ed estradizione nella lotta contro il terrorismo.

1. Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il
22 giugno 2002, è entrata in vigore (art. 13) la decisione quadro del Consiglio dell’Unione
‘‘sulla lotta contro il terrorismo’’ (2002/475/GAI).
Nel § 2 dell’art. 9 (Giurisdizione ed esercizio dell’azione penale) si prevede, in partico-
lare, quanto segue: ‘‘Se il reato rientra nella giurisdizione di più Stati membri, ciascuno dei
quali è legittimato ad esercitare l’azione penale in relazione ai medesimi fatti, gli Stati mem-
bri in questione collaborano per stabilire quale di essi perseguirà gli autori del reato al fine
di accentrare, se possibile, l’azione penale in un unico Stato membro. A tale scopo gli Stati
membri possono avvalersi di qualsiasi organo o struttura istituiti in seno all’Unione europea
per agevolare la cooperazione tra le rispettive autorità giudiziarie, nonché coordinare le loro
azioni’’. La norma — che evidentemente mira a prevenire un bis in idem internazionale — si
completa con l’indicazione, ‘‘per gradi successivi’’, di una serie di ‘‘elementi di collegamen-
to’’, da tenersi in conto a fini di cooperazione e coordinazione.
Mentre il § 1 dello stesso art. 9 impegna gli Stati membri — nei casi enunciati nelle lett.
da a) ad e) — ad adottare ‘‘le misure necessarie a stabilire la propria giurisdizione per i reati
di cui agli artt. da 1 a 4’’, il § 3 prevede un pari adempimento per il caso in cui lo Stato
membro ‘‘rifiuta di consegnare o di estradare verso un altro Stato membro o un Paese terzo
una persona sospettata di uno di tali reati o per esso condannata’’ (aut dedere aut iudicare).

2. Nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario 2003, in data 11 gennaio, il Procura-


tore Generale della Cassazione (dott. Favara), ha rappresentato quanto segue:
‘‘Taluni procuratori generali hanno segnalato l’inadeguatezza, sia sul piano sostanziale
che su quello processuale, degli strumenti normativi per un’efficace azione di contrasto al
terrorismo internazionale allorquando le associazioni non commettano attentati in Italia, ma
qui operino in funzione di supporto logistico alle bande che agiscono all’estero. Tale inade-
guatezza è da ritenere superata a seguito dell’adozione, da parte del governo, del d.l. 18 ot-
tobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni nella l. 15 dicembre 2001, n. 438, con il
quale è stato modificato l’art. 270-bis c.p. al fine di ricomprendervi anche l’ipotesi di costitu-
zione o partecipazione ad un’associazione terroristica avente lo scopo di commettere atti di
violenza contro Stati esteri e istituzioni o organismi internazionali ed è stato introdotto il
reato di assistenza agli associati (art. 270-ter c.p.). Sul versante processuale si è estesa ai de-
litti commessi per finalità di terrorismo interno o internazionale la disciplina derogatoria in
tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni già prevista per i reati di criminalità
organizzata; inoltre per gli stessi reati è stata introdotta la possibilità di intercettazioni pre-
ventive. Sulla stessa linea si collocano altri interventi, quali il d.l. 28 settembre 2001, n. 353,
convertito nella l. 27 novembre 2001, n. 415 (31).
Si tratta di misure opportune che si riveleranno certamente utili per una più efficace re-
pressione di tali delitti, che richiede un’intensa collaborazione di tutti gli Stati, anche di quelli
non direttamente interessati da azioni terroristiche.
In questo settore, come in quelli della criminalità organizzata ed economica, che non
trovano limiti nei confini nazionali non si può prescindere da tale collaborazione. Essa deve
potersi esplicare direttamente fra le autorità giudiziarie, senza formalismi ed appesantimenti
burocratici, soprattutto fra quei paesi dell’Europa occidentale che, dopo essersi data una
moneta unica, si avviano ad essere una sola entità politica e statuale’’. (32).

(31) V. anche il d.l. 12 ottobre 2001, n. 369, convertito nella l. 14 dicembre 2001, n. 431 (Misure
urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale) e la l. 14 febbraio
2003, n. 34.
(32) Sul tema v. anche L’Italia 1935, il terrorismo e la Corte penale internazionale, in questa Rivi-
sta, 2001, p. 336.

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Estradizione e tratta degli esseri umani.

1. Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il
19 luglio 2002 è entrata in vigore (art. 11) la decisione quadro del Consiglio dell’Unione eu-
ropea ‘‘Sulla lotta alla tratta degli esseri umani’’.
Nell’art. 6, § 3, si prevede quanto segue: ‘‘Lo Stato membro che, secondo il suo ordina-
mento giuridico, non concede l’estradizione dei propri cittadini, adotta le misure necessarie
a stabilire la propria giurisdizione sui reati di cui agli artt. 1 [Reati relativi alla tratta degli
esseri umani a fini di sfruttamento di manodopera o di sfruttamento sessuale] e 2 [Istiga-
zione, favoreggiamento, complicità e tentativo] ed, eventualmente, a perseguirli qualora
siano commessi da suoi cittadini al di fuori del suo territorio’’.
L’art. 10, § 1, fissa al 1o agosto 2004 il termine entro il quale è previsto che gli Stati
membri debbano adottare ‘‘le disposizioni necessarie per conformarsi’’ alla decisione quadro.

2. La Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione


dell’anno giudiziario 2003 segnala essere all’esame del Parlamento il disegno di l. n. 885/S
ex n. 1584/C recante ‘‘Misure contro la tratta di persone’’. Esso risulta approvato dalla Ca-
mera il 21 novembre 2001 e presentato al Senato il 23 novembre 2003 (se ne è concluso l’e-
same in Commissione Giustizia, sede referente):
‘‘Il disegno di legge prevede adeguate misure di contrasto alla grave forma di criminalità
configurata dal traffico di persone ed in particolare dalla tratta delle donne.
Propone di risolvere i problemi interpretativi e di tipicità derivanti dall’applicazione
della vigente normativa, nonché — recependo le indicazioni del Protocollo delle Nazioni
Unite sulla prevenzione, lotta e repressione della tratta di persone, di cui alla Conferenza di
Palermo del 12 dicembre 2000 (33) — di configurare la condotta diretta all’organizzazione e
all’attuazione del traffico di esseri umani come una specifica ed autonoma ipotesi di reato.
Inoltre, sempre anticipando gli obblighi assunti a livello internazionale di legiferare in tale
senso, viene assicurata alla persona (individuata come vittima del traffico) assistenza e pro-
tezione’’.
Da ultimo, nella Gazz. Uff. del 23 agosto, n. 195, troviamo il testo della l. 11 agosto
2003, n. 228.

Estradizione e immigrazione clandestina.

Per effetto della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, il 5 di-
cembre 2002 è entrata in vigore (art. 11) la decisione quadro (n. 2002/946/GAI) del Consi-
glio dell’Unione europea, in data 28 novembre 2002, ‘‘relativa al rafforzamento del quadro
penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno ille-
gali’’.
Nell’art. 5, § 1, si prevede quanto segue:
‘‘1.a) Ciascuno Stato membro che, in virtù della propria legislazione, non estrada i pro-
pri cittadini prende le misure necessarie a stabilire la propria competenza giurisdizionale per
gli illeciti di cui all’art. 1, § 1 (34), perpetrati da un suo cittadino al di fuori del proprio ter-
ritorio.
b) Ciascuno Stato membro che, ove uno dei propri cittadini sia sospettato di aver
commesso in un altro Stato membro illeciti di cui all’art. 1, § 1, non procede all’estradizione
di questa persona verso l’altro Stato membro unicamente a motivo della cittadinanza, sotto-

(33) V. in questa Rivista, 2001, p. 334.


(34) Si tratta degli ‘‘illeciti definiti negli artt. 1 e 2 della direttiva n. 2002/90/CE’’ del 28 novem-
bre 2002, volta — come ricorda il § 3 del preambolo della decisione quadro in discorso — ‘‘a definire il
favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali e, dall’altro [lato], le regole minime per
le sanzioni previste, la responsabilità delle persone giuridiche e la competenza giurisdizionale, oggetto
della presente decisione quadro’’.

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pone il caso al giudizio delle autorità nazionali competenti ai fini di un’eventuale azione pe-
nale. Per consentire l’esercizio dell’azione penale, i fascicoli, gli atti istruttori, il corpo e le
cose pertinenti al reato sono inoltrati secondo le modalità previste all’art. 6, § 2, della Con-
venzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957. Lo Stato membro richiedente è in-
formato in merito alle azioni penali avviate e ai loro risultati’’ (35).

La Francia e la Corte penale internazionale.

Mentre da noi segna ancora il passo, dopo lo stralcio — approvato dalle Camere nel
1999 — delle disposizioni riguardanti la delega al Governo per dare attuazione allo Statuto
della Corte (36), sembra il caso di segnalare i diversi passaggi, sul piano normativo, realiz-
zati in Francia.
1. Con l’articolo unico della l. n. 2000-282 del 30 marzo 2000 (JO, 31 marzo, n. 77)
era stata tout court autorizzata la ratifica del trattato (17 luglio 1998) recante lo statuto
della Corte.
2. Con l. n. 2002-268 del 26 febbraio 2002 (JO, 27 febbraio, n. 49) era stata concre-
tata la disciplina relativa alla ‘‘cooperazione’’ con la Corte.
A tanto si era provveduto inserendo direttamente nel libro IV del Code de procédure pé-
nale un (nuovo) tit. I, con la rubrica ‘‘De la coopération avec la Cour pénal internationale’’,
contenente, in particolare, la nuova disciplina dell’art. 627, seguita da una numerosa serie di
altri articoli, fino a 627-21 (37).
3. Col decreto presidenziale n. 2002-925 del 6 giugno 2002 (JO, 11 giugno, n. 314),
sulla base della disposta ratifica veniva dato corso alla pubblicazione (in lingua francese) del
testo integrale del trattato istitutivo (38).
Segue, nel contesto del Journal Officiel, una serie di ‘‘Dichiarazioni della Repubblica
Francese.
A una prima, e composita, ‘‘déclaration interpretative’’, articolata in sette punti, di varia
portata (attinenti all’utilizzo di metodi e mezzi di difesa e di guerra, non escluso l’eventuale
impiego dell’arma nucleare), fa seguito una dichiarazione di tono minore, con la quale si
prevede (art. 87, § 2, Stat.) che la richiesta di cooperazione e i relativi supporti siano redatti
in lingua francese, ed una terza dichiarazione secondo cui, in applicazione dell’art. 24 dello
Statuto, la Repubblica francese dichiara di non accettare la competenza della Corte in ordine
alla categoria dei crimini di guerra (art. 8 Stat.), allorquando si sostenga che il crimine è
stato commesso sul suo territorio ovvero da parte di cittadini francesi.

Sui detenuti stranieri ed il loro trasferimento.

1. Nei giorni 4-5 ottobre 2001 si è svolto a Mosca, anche con la partecipazione degli
Stati ‘‘osservatori’’ del Consiglio d’Europa, la 24a Conferenza dei ministri europei della giu-
stizia.

(35) Nel § 2 dell’articolo si precisa che ‘‘Ai fini del presente articolo, la nozione di ‘cittadino’ di
uno Stato membro va interpretata conformemente a eventuali dichiarazioni rese da tale Stato in forza del-
l’art. 6, § 1, lett. b) e c), della convenzione europea di estradizione, se del caso modificata da eventuali di-
chiarazioni rilasciate per quanto riguarda la convenzione relativa alla procedura semplificata di estradi-
zione tra gli Stati membri dell’Unione europea’’.
(36) La ‘‘Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno
giudiziario 2003’’ dava conto della Commissione — presieduta dal prof. Conforti — ‘‘istituita con il com-
pito di predisporre uno schema di disegno di legge che introduca le norme di adattamento dell’ordina-
mento interno necessarie per consentire (sic) il funzionamento della Corte penale internazionale’’. E ciò
‘‘ad integrazione e completamento di quanto previsto dalla l. di ratifica 12 luglio 1999, n. 232’’.
(37) Il nostro men leggiadro legislatore, per un vezzo duro a morire non si sarebbe sottratto all’in-
gombrante latinorum del -bis, -ter, -quater, e così via seguitando...
(38) Si osservi che, alla stregua dell’art. 128, il testo in lingua francese è, accanto ad altri cinque,
uno dei testi faisant foi dello Statuto.

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Tra i temi affrontati figurava quello della pena detentiva di lunga durata. Oltre che a se-
guito di diversi contributi degli Stati partecipanti alla conferenza, le discussioni si sono
svolte sulla base di un rapporto generale approntato dalla Federazione russa.
Da tale rapporto attingiamo — mediante traduzione dal testo francese pubblicato nel
Bullettin d’information pénologique del Consiglio d’Europa (nn. 23-24, dicembre 2002, p.
15) — la parte più strettamente attinente le tematiche di questa nostra rubrica.

2. ‘‘... Esecuzione delle pene inflitte agli stranieri e agli apolidi. — L’esecuzione delle
pene detentive (soprattutto delle pene di lunga durata) applicate agli stranieri e agli apolidi è
un problema serio per la maggior parte dei Paesi europei. Tale fenomeno rappresenta una
delle inevitabili conseguenze negative dell’internazionalizzazione delle attività umane.
Secondo le statistiche penali del Consiglio d’Europa per il 2000, la proporzione dei con-
dannati stranieri o apolidi supera il 20% in 8 Paesi membri (Svizzera: 62,6%; Lussemburgo:
59,1%; Grecia, 48,4%; Belgio: 40,4%; Austria: 30,1%; Italia: 28,5%; Francia: 21,6%; Sve-
zia: 21,3%).
Nella Federazione russa, i detenuti stranieri rappresentano una percentuale assai mode-
sta della popolazione penitenziaria, ma il loro numero è considerevole (14.200 all’incirca) e
cosa più grave, è in costante aumento. D’altra parte, si fa conto di 4.300 cittadini russi che
scontano la pena all’estero, disseminati in 54 Paesi.
L’Europa già dispone di norme applicabili agli stranieri (che figurano soprattutto nelle
Regole penitenziarie europee (39) e nella Raccomandazione no R (84) del Comitato dei mini-
stri concernente i detenuti stranieri).
Beninteso, il rispetto di queste norme deve andare di pari passo con le attività che mi-
rano al trasferimento dei detenuti stranieri (in virtù di trattati internazionali o con riserva di
reciprocità) verso gli Stati di cui sono cittadini o residenti abituali, e dove continueranno a
scontare la pena. Va tenuto presente che questi trasferimenti, che presentano soprattutto dei
vantaggi pratici (riduzione delle spese, liberazione di posti negli stabilimenti penitenziari)
consentono anche, ai detenuti stranieri, di beneficiare di condizioni più propizie al loro ricu-
pero sociale.
A questo riguardo, è auspicabile l’adozione di certe misure dirette ad aumentare il nu-
mero degli Stati partecipanti alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1983 sul trasferi-
mento delle persone condannate ed al suo protocollo addizionale del 1987 (40). Gli Stati in-
teressati non sono soltanto i membri del Consiglio d’Europa, ma pure (ed anche soprattutto)
gli altri. A nostro avviso, bisognerebbe fare in modo che questi strumenti siano universal-
mente accettati, indipendentemente dalla partecipazione degli Stati ad altri trattati similari,
bilaterali o multilaterali (ad es. le convenzioni dell’organizzazione degli Stati americani del
1993, e della Comunità degli Stati indipendenti del 1998). Noi pensiamo che il Consiglio
d’Europa dovrebbe rivestire un ruolo pilota in questo itinerario.
Giova notare che alcuni Stati, tra i quali la Russia, fanno parte di trattati che consen-
tono di trasferire i detenuti stranieri non solo verso i Paesi di cui sono cittadini, ma anche
verso quello dove essi hanno la loro residenza e il loro domicilio. Noi riteniamo auspicabile
una riflessione sulla possibilità di completare, su questo punto, la Convenzione sul trasferi-
mento delle persone condannate per mezzo di un altro Protocollo (41).
È il caso anche di ricordare qui i problemi legati alla liberazione condizionale anticipata

(39) Tra i principi fondamentali della medesima, figura — come da Allegato alla Racc. n.
R. (87) 3 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa — quello (art. 2) della doverosità della loro
applicazione senza discriminazioni, tra l’altro in relazione alla nazionalità dei detenuti: v. Le regole peni-
tenziarie europee (a cura di COMUCCI e PRESUTTI), 1989, p. 7.
(40) Se ne vedano i testi in Convenzioni sul trasferimento delle persone condannate, a cura di E.
ZANETTI, 1999, p. 5 ss.
(41) Per un più ampio inquadramento della tematica, e i relativi sviluppi v., anche per i rinvii, Sul
trasferimento all’estero delle persone condannate, in questa Rivista, 2000, p. 1628. V., inoltre, B. MA-
PELLI CAFFARENA, in AA.VV., La cooperación internacional frente a la criminalidad organizada, Universi-
dad de Sevilla, 2001, p. 151 (per una presentazione del volume v. in Riv. dir. proc., 2002, p. 279).

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dei detenuti stranieri ed al loro successivo trasferimento verso il Paese di cui sono cittadini o
verso quello dove essi hanno il loro domicilio. Con ogni evidenza, è necessario adottare di-
sposizioni giuridiche e legislative omogenee su scala internazionale. A questo riguardo, sa-
rebbe logico esaminare come è in pratica applicabile la Convenzione europea del 1964 per la
sorveglianza delle persone condannate o liberate sub conditione’’ (42).

Una legge generale sulla cooperazione giudiziaria internazionale (ovvero l’accantonamento


di un ‘‘progetto ambizioso’’) (43).

‘‘... in alcuni paesi dell’Europa occidentale sono entrate in vigore delle leggi che discipli-
nano in termini generali l’assistenza giudiziaria internazionale nella materia penale e che re-
golano, accanto all’estradizione e all’assistenza cosiddetta minore, anche i nuovi istituti del-
l’esecuzione delle sentenze penali straniere e del trasferimento dei procedimenti. Si tratta più
in particolare della legge austriaca del 4 luglio 1979 (entrata in vigore il 1o luglio 1980),
della legge svizzera del 20 marzo 1981 (entrata in vigore il 1o gennaio 1983) e della legge
della Repubblica federale di Germania del 23 dicembre 1982 (entrata in vigore il 1o luglio
1983).

2. Al fine di esaminare i problemi collegati all’attuazione, nell’ordinamento italiano,


delle Convenzioni del Consiglio d’Europa prima menzionate (alcune delle quali, come si è vi-
sto, sono già state firmate dal nostro Paese) e, più in generale, di valutare il complesso delle
problematiche relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale, è stata costituita, con
decreto ministeriale 8 luglio 1982, una Commissione ministeriale di studio.
Nel corso dei lavori della Commissione si è affermato per altro l’orientamento che l’at-
tuazione delle predette Convenzioni nell’ordinamento italiano richiedesse una riflessione più
generale sulla possibilità di introdurre nel nostro ordinamento gli istituti dell’esecuzione
delle sentenze penali straniere e del trasferimento di procedimenti penali, e che fosse neces-
saria l’elaborazione di una serie di principi generali e di un quadro processuale di riferi-
mento che costituissero l’intelaiatura indispensabile per l’applicazione delle Convenzioni del
Consiglio d’Europa nel nostro ordinamento. Si è rilevato, in particolare, che questa sembra
essere la strada seguita negli ordinamenti austriaco, tedesco e svizzero sulla base delle leggi
interne sull’assistenza giudiziaria in materia penale recentemente entrate in vigore.
D’altro canto la Commissione ha ritenuto opportuno dare la precedenza, nel proprio
esame, all’elaborazione delle disposizioni relative all’esecuzione delle sentenze penali stra-
niere — e più in generale agli effetti internazionali delle sentenze penali — accantonando
provvisoriamente l’istituto del trasferimento dei procedimenti penali, e ciò per un triplice or-
dine di ragioni.
Anzitutto l’elaborazione dei principi e delle disposizioni processuali in tema di esecu-
zione assume un carattere di urgenza prioritaria in relazione alla recente sottoscrizione da
parte italiana della Convezione europea sul trasferimento delle persone condannate e dell’ac-
cordo bilaterale con la Thailandia.
In secondo luogo, come si è visto esaminando il panorama internazionale, l’istituto del-
l’esecuzione delle sentenze penali straniere ha assunto un ruolo crescente in relazione alla
necessità di perseguire in modo coerente e razionale l’obiettivo della reinserzione sociale del
condannato.
In terzo luogo l’impiego in termini generali dell’istituto del trasferimento dei procedi-
menti penali è oggetto di notevoli critiche e perplessità da parte della dottrina penalistica
(basti pensare che la Convenzione europea del 1972, per altro non firmata dall’Italia, è stata

(42) Sul tema v. PISANI, La ‘‘Convenzione europea per la sorveglianza delle persone condannate o
liberate con la condizionale’’ e l’ordinamento italiano, in Ind. pen., 1992, p. 193.
(43) Sull’argomento v. Verso una ‘‘legge organica’’, in questa Rivista, 2000, p. 1627; Una lacuna
che permane, ibid., 2001, p. 1081.

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finora ratificata solo da Austria, Danimarca, Norvergia, Svezia e Turchia). L’introduzione di


un tale istituto nel sistema penale italiano richiederebbe, quindi, una più approfondita rifles-
sione, non ancora portata a compimento.
A questo punto si è posto per la Commissione il problema di scegliere se limitarsi a ela-
borare uno schema relativo all’esecuzione delle sentenze penali straniere ovvero se predi-
sporre un progetto di legge generale sull’assistenza giudiziaria che, accanto a questo nuovo
istituto, disciplinasse anche le forme tradizionali di cooperazione giudiziaria quali l’estradi-
zione e l’assistenza cosidetta ‘minore’, la cui disciplina, in verità in termini non del tutto ap-
paganti, si ritrova nei codici penali.
Nonostante che quest’ultimo modello fosse stato adottato, come si è visto, nelle leggi
elaborate da Paesi a noi vicini, la Commissione ha preferito seguire la prima strada: il pro-
getto ambizioso di una legge generale sull’assistenza avrebbe, infatti, richiesto un lungo la-
voro preparatorio, mentre l’attuazione nell’ordinamento italiano delle Convenzioni che si
sono prima indicate, o almeno di alcune di esse, appare particolarmente urgente.
La Commissione ha dunque elaborato il presente progetto che è dedicato alla tematica
degli effetti internazionali delle sentenze penali.

3. Per trovare un qualche precedente italiano di un’iniziativa di così ampio respiro nel
settore della cooperazione internazionale occorre risalire al secolo scorso, ed attingere al
programma ed ai lavori della Commissione ministeriale nominata, nel 1881, dal ministro de-
gli esteri Mancini, con l’intento piuttosto limitativo, peraltro, di approntare un disegno di
legge in tema di estradizione (ed anzi soltanto in tema di estradizione ‘passiva’). Presieduta
da Crispi, la Commissione redigeva un progetto di 33 articoli che, insieme ai lavori prepara-
tori, dava corpo a un volume di ‘atti’, pubblicato nel 1885.
Quel progetto, ampiamente discusso ed apprezzato dalla dottrina del tempo, presentava
anche quattro articoli — da 26 a 29 — che esulavano dalla tematica dell’estradizione. Essi,
infatti, contenevano una disciplina delle rogatorie (passive ed attive), oltre che dell’invio al-
l’estero, ‘per iscopo di prova giudiziaria in materia penale’, di condannati od imputati dete-
nuti.
Il progetto, ad ogni modo, non venne mai presentato alla discussione del Parlamento, e
l’impostazione, su basi unitarie, della materia in esame — e più in particolare dell’estradi-
zione — passerà piuttosto attraverso la disciplina dei codici: il codice penale del 1889 e, suc-
cessivamente, i codici di procedura penale del 1913 e del 1930’’.
(Atti parlamentari - Senato della Repubblica - X Legislatura, Disegno di l. n. 774, pre-
sentato dal Ministro di Grazia e Giustizia Vassalli, di concerto con altri ministri, e comuni-
cato alla Presidenza il 18 gennaio 1988, dal titolo: ‘‘Effetti delle sentenze penali straniere ed
esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane’’).

Estradizione e diritti dell’uomo in una sentenza del Supremo Tribunal Federal brasiliano.
1. Dal riordino di alcune carte affiora un’interessante sentenza del Supremo Tribunal
Federal brasiliano, datata Brasilia, 28 agosto 1996. Una data, dunque, non proprio vicinis-
sima, e che potrebbe anche far propendere per un accantonamento, se non fosse che l’impor-
tanza e la precisione dei principi di diritto affermati giustificano un qualche particolare indu-
gio. Si aggiunga, poi, a supporto dell’interesse che si vorrebbe suscitare nel lettore, la con-
temporaneità e, insieme, una qualche dissonanza, rispetto alla notissima sentenza della no-
stra Corte costituzionale (25-27 giugno 1996, n. 223) intervenuta nel ‘‘caso Venezia’’, ovve-
rossia sul trattato di estradizione Italia-Stati Uniti e sull’art. 698, comma 2, c.p.p. (44).
2. Il testo della decisione, rubricato ‘‘Ext 633-9 República Popular da China’’, si arti-
cola (per un totale di 74 pp.) in tre parti.

(44) Per un recente richiamo a questa tematica v. Pena di morte, ergastolo ed estradizione nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, 2003, p. 685.

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La prima parte presenta i principi di diritto posti a base della decisione; la seconda con-
tiene, a cura del relatore, il testo della richiesta di estradizione; nella terza il relatore dà am-
piamente conto (p. 14 ss.) della motivazione del suo ‘‘voto’’, al quale hanno fatto seguito le
adesioni unanimi del collegio, giudicante in sessione plenaria.

3. Nell’affrontare, in primo luogo, il problema della doppia incriminazione, il Tribu-


nale prende le mosse dai criteri di chiarezza e precisione che devono ispirare la ‘‘tipicità’’ pe-
nale, per passare a queste altre specificazioni: ‘‘La consentita possibilità di creare figure di ti-
picità flessibili non conferisce allo Stato il potere di costruire figure penali mediante l’uti-
lizzo, da parte del legislatore, di espressioni ambigue, vaghe, imprecise e indefinite. In realtà
il regime di indeterminatezza del tipo penal implica, in ultima analisi, un reale rovescia-
mento del postulato costituzionale della riserva di legge, da ciò risultando, come effetto im-
mediato, una gravissima compromissione del sistema delle libertà pubbliche.
La configurazione di una fattispecie penale, il cui contenuto descrittivo si riveli precario
e insufficiente, non consente l’osservanza del principio della doppia incriminazione, che
possa aprire la strada all’accoglimento della domanda di estradizione’’.
La successiva ‘‘massima’’ del Tribunale investe la tematica dei diritti dell’uomo (Extra-
dição e respeito aos direitos humanos).
‘‘La finalità della cooperazione internazionale nella repressione dei delitti comuni —
scrive il Tribunale — non esonera il Brasile e, nella specie, il suo Supremo Tribunale Fede-
rale, dal compito di vegliare sul rispetto dei diritti fondamentali del cittadino straniero che,
nel nostro Paese, affronta il procedimento di estradizione avviato su iniziativa di un qualsiasi
Stato straniero’’.
E così continua: ‘‘La posizione giuridica dell’estradabile non consente di per sé di ri-
durre costui ad uno stato di sottomissione incompatibile con l’essenziale dignità che gli com-
pete come persona umana e che gli conferisce la titolarità di diritti fondamentali inalienabili,
tra i quali spicca, per la sua insuperabile importanza, la garanzia del due process of law.
In materia di diritto estradizionale, il Tribunale non può e non deve manifestare indiffe-
renza davanti alle violazioni delle garanzie processuali fondamentali’’. Segue il richiamo al-
l’art. 4, sub II, della Costituzione, che proclama, tra i principi ispiratori delle relazioni inter-
nazionali del Brasile, la ‘‘prevalência dos direitos humanos’’.
Passando poi a meglio esplicitare l’importanza, nella materia dell’estradizione, del ca-
none del due process of law, il Tribunale così si esprime: ‘‘L’estradabile assume, nel processo
estradizionale, la condizione indispensabile di soggetto di diritto (45), la cui intangibilità va
preservata da parte dello Stato al quale è stata diretta la domanda di estradizione.
La possibilità di privazione, in un giudizio penale, del due process of law, nei molteplici
aspetti sotto i quali si sviluppa questo principio — (...) garanzia di un’ampia difesa, garanzia
del contraddittorio, uguaglianza delle parti davanti al giudice naturale e garanzia dell’impar-
zialità del giudicante — impedisce l’accoglimento della domanda di estradizione’’ (46).

4. Passando poi al tema della pena di morte ed all’impegno di commutazione in pena


detentiva — da qui il raffronto che si vuol suggerire con la vicenda del nostro ‘‘caso Vene-
zia’’ — il Tribunale così prosegue nel suo itinerario argomentativo: ‘‘L’ordinamento positivo
brasiliano, nelle ipotesi in cui si profila la possibilità di imposizione del supplicium extre-
mum, impedisce la consegna del soggetto allo Stato richiedente, a meno che questo previa-
mente assuma l’impegno formale di commutare la pena di morte in pena privativa della li-
bertà’’ (art. 91.III della l. n. 6815/80).

(45) Ci sia consentito di richiamare La storia dell’estradizione e la persona dell’estradabile, ora in


Temi e casi di procedura penale internazionale, 2001, p. 35.
(46) A supporto di questa presa di posizione, nel ‘‘voto’’ del relatore (p. 64 ss.) viene ampiamente
e testualmente richiamato uno studio di Ada PELLEGRINI GRINOVER, e, di riflesso, si fa cenno alla mono-
grafia di una nostra internazionalista (N. PARISI, Estradizione e diritti dell’uomo, Milano, 1993). E non si
tratta degli unici autori richiamati nel corpo della motivazione.

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Ed ancora, sul piano operativo: ‘‘Il capo della missione diplomatica è in grado di assu-
mere, a nome del suo Governo, l’impegno ufficiale di commutare la pena di morte in pena
privativa della libertà, non essendo necessario comprovare, a questo specifico effetto, che sia
stato formalmente autorizzato dal Ministero degli esteri del suo Paese. La Convenzione di
Vienna sulle relazioni diplomatiche autorizza la missione diplomatica a rappresentare lo
Stato accreditante davanti allo Stato accreditato (il Brasile, nella specie) (...). La nota diplo-
matica, che vale per il suo contenuto, fruisce della presunzione iuris tantum di autenticità e
veridicità. Si tratta di un documento formale, la cui efficacia giuridica deriva dalle condizioni
e dalle particolarità della sua trasmissione per via diplomatica’’. Tale presunzione di veridi-
cità — si precisa: ‘‘sempre fatta salva la possibilità di prova contraria — discende dal princi-
pio di buona fede, che regge, sul piano internazionale, le relazioni politiche tra gli Stati so-
vrani’’.
Sostanzialmente sulla base dei principi sovraesposti, ma anche di altre argomentazioni
collaterali, il Tribunale Federale si è espresso per il rifiuto della domanda di estradizione da
parte della Repubblica Popolare Cinese.

5. A questo punto potrebbero residuare, per il lettore, la curiosità di conoscere i detta-


gli della vicenda, in linea di fatto e sul piano processuale, che, in patria, aveva portato ad at-
tivare, con promessa di reciprocità, la domanda di estradizione del cittadino cinese Qian
Hong.
Basti qui dire — anche perché il tutto, per avere qualche pregio sul piano della perma-
nente attualità storica, andrebbe verificato e ragguagliato all’oggi (47) — che si trattava di
persona imputata in particolare sulla base dell’amplissima fattispecie di ‘‘comportamento di
frode’’ (estelionato o defraudamento, nell’accezione brasiliana dei termini) prevista nell’art.
152 del codice penale cinese, più recentemente (dal 1982) sanzionata, per i casi più gravi,
con la pena di morte; che la specificazione della portata di tale amplissima fattispecie conse-
guiva alle concrete determinazioni del Tribunale popolare supremo, al quale, nel 1981, il V
congresso dell’Assemblea popolare nazionale aveva conferito poteri di interpretazione auten-
tica; che l’interessato e la sua difesa avevano allegato (e anche comprovato) gravi ragioni di
persecuzione politica; che nell’istruttoria del Tribunale Federale erano stati acquisiti diversi
dati informativi e documentali circa l’inosservanza, nei processi penali cinesi, dei canoni del
due process of law; che, nel caso di specie, il capo della missione diplomatica e poi l’amba-
sciatore della Repubblica Popolare Cinese avevano reiterato l’impegno ad ‘‘applicare sol-
tanto la pena della privazione della libertà e non la pena di morte’’; che Amnesty Internatio-
nal, nel 1985, aveva però denunciato la violazione, da parte della Cina, di un tale tipo di im-
pegno a suo tempo assunto nei confronti della Thailandia (caso Wang Jianye e Shi Yanging).

Undici tesi in tema di modalità ed espansione della cooperazione internazionale.

Julian Schutte è direttore della Divisione Giuridica del Consiglio dell’Unione Europea.
In questa sua qualità, ma a titolo personale, ha svolto il rapporto introduttivo al Panel 6
della conferenza internazionale svoltasi a Siracusa presso l’I.S.I.S.C., nei giorni 28 novem-
bre-3 dicembre 2002.
A tale riguardo ha presentato le seguenti undici ‘‘tesi’’ (48):
‘‘1. Se, in un processo di integrazione regionale si vuole dar vita a funzioni di polizia e
giudiziarie ad un livello centralizzato federale, allora è necessario creare, al tempo stesso, un
sistema di Corte centrale federale come pure un meccanismo di responsabilità politica per
l’organizzazione di tali strutture di polizia e giudiziarie, sottoposto all’esercizio di un effet-
tivo controllo democratico sulle organizzazioni stesse. All’interno dell’Unione europea, nella

(47) Per altra vicenda v. Repubblica Popolare Cinese-Giappone: il dirottamento del dissidente, in
Ind. pen., 1990, p. 409.
(48) Traduzione a cura di Elena ZANETTI.

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sua forma attuale, mancano le strutture necessarie per l’attribuzione di responsabilità poli-
tica quanto all’avvio e al funzionamento di tali strutture organizzative federali.
2. Per quanto riguarda l’Unione europea, meglio funziona la cooperazione diretta tra
gli apparati della pubblica sicurezza degli Stati membri, minore è la necessità di istituire un
servizio federale europeo di polizia (Europol), dotato di poteri esecutivi.
3. Quanto meglio è regolata e funziona la cooperazione diretta tra autorità giudiziarie
degli Stati membri, tanto minore è la necessità di creare un servizio federale europeo del
pubblico ministero.
4. Non è realistico attendersi che Eurojust, istituito con il compito di agevolare il coor-
dinamento tra le autorità degli Stati membri competenti per l’esercizio dell’azione penale in
indagini complesse con ramificazioni internazionali, possa trasformarsi in un Servizio d’ac-
cusa europeo, in grado di svolgere autonomamente indagini e di esercitare l’azione penale di-
nanzi alle Corti degli Stati membri.
5. La cooperazione operativa di polizia, che comporta lo scambio di notizie riservate e
di altre informazioni, deve garantire:
— la protezione dei dati personali, riconoscendo direttamente alle persone interessate il
diritto di accedere ai dati, di ottenere la correzione degli errori, la cancellazione dagli archivi
dei dati superati, e il risarcimento dei danni in caso di uso improprio o illecito di tali dati;
— che i dati — personali e di altro tipo — siano utilizzati esclusivamente per gli scopi
per i quali sono stati raccolti e forniti (salvo l’esplicito consenso della parte che li ha forniti
al loro impiego per altri scopi), e che l’accesso ai dati sia limitato a coloro che ne hanno ne-
cessità nell’adempimento dei loro doveri d’ufficio;
— che il fatto di fornire e ricevere dati sia documentato, come pure l’uso fatto di tali
dati, e che tali annotazioni siano conservate per un ragionevole periodo di tempo;
— controllo sul trattamento dei dati operato dalla polizia da parte di un’autorità indi-
pendente di controllo.
6. Sono ancora tutte da dimostrare l’utilità e l’importanza pratica della creazione di
squadre investigative congiunte composte da membri delle forze dell’ordine di diversi Stati.
Attribuendo poteri operativi diretti a simili gruppi (informatori, infiltrazioni sotto copertura
nelle organizzazioni criminali, intercettazione di telecomunicazioni, perquisizioni, sequestri,
confische, ecc.), ci si possono attendere gravi complicazioni pratiche e organizzative, che
possono compromettere l’efficacia dell’azione di tali gruppi. In prima battuta, sarebbe op-
portuno fare esperienza con gruppi congiunti strategici, in grado di mettere a punto l’ap-
proccio strategico per le indagini da intraprendere contro le organizzazioni criminali che
operano a livello internazionale e stabilire i mezzi da impiegare a quel fine, lasciando, in-
vece, l’adozione di misure concrete in tale ambito ai servizi nazionali delle forze dell’ordine.
7. Si è spesso affermato che, mancando in Europa un’armonizzazione delle norme
concernenti l’incriminazione di taluni tipi di condotta e il livello di sanzioni ad esse applica-
bili, il crimine organizzato dirigerà le proprie attività verso i territori degli Stati con l’incri-
minazione meno ampia e il livello di sanzioni meno elevato. Questo assunto non è mai stato,
però, suffragato da dati basati su ricerche scientifiche serie. L’armonizzazione delle norme
sostanziali di diritto penale e delle relative sanzioni è, tuttavia, utile e necessaria allo scopo
di fronteggiare efficacemente la violazione di norme che sono eticamente neutre (norme che
attengono a prescrizioni tecniche e alla regolamentazione di un mercato comune, ecc.).
8. La nozione — recentemente introdotta — di ‘mutuo riconoscimento’ di decisioni
giudiziarie quale ‘pietra angolare’ dello sviluppo della cooperazione in materia penale tra gli
Stati membri dell’Unione europea porterà, in primo luogo, ad una riduzione del ruolo dell’e-
secutivo (dipartimenti governativi) nel funzionamento di tale cooperazione e, di conse-
guenza, una diminuzione della responsabilità politica per la qualità delle relazioni tra gli
Stati membri dell’Unione europea. Resta ancora da verificare se, come è nelle attese, in con-
seguenza dell’introduzione di strumenti basati sul ‘mutuo riconoscimento’ aumenteranno in

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modo consistente il volume e la celerità delle attività di cooperazione e se inizieranno a svi-


lupparsi le forme di cooperazione internazionale che sino ad ora sono state applicate spora-
dicamente (trasferimento dell’esecuzione delle sentenze e trasferimento dei procedimenti pe-
nali).
9. Recenti sviluppi e adattamenti delle regole e degli accordi nel campo della mutua
assistenza giudiziaria possono essere spiegati, in larga misura, come reazioni ai moderni svi-
luppi tecnologici, in particolare nel settore delle tecnologie informatiche. Questi adattamenti
e sviluppi non hanno, comunque, alterato l’essenza dei principi che sono alla base dei mec-
canismi di mutua assistenza giudiziaria in materia penale.
10. Si è spesso sostenuto che il requisito della ‘previsione bilaterale del fatto’ costitui-
sce un rilevante ostacolo ad un’efficace applicazione dell’estradizione tra gli Stati membri
dell’Unione europea. Questa asserzione non è, però, basata su alcuna ricerca coordinata
circa il modo in cui l’estradizione funziona in pratica. Non è noto il numero dei casi in cui
l’estradizione viene rifiutata per tale ragione, né quello dei casi in cui ci si è astenuti dal ri-
chiederla. Nell’Unione europea si è deciso di introdurre un ‘mandato di arresto europeo’ e di
non consentire di invocare più a lungo il ‘requisito della previsione bilaterale’ quando si dia
esecuzione a tali mandati emessi con riferimento ai reati compresi in un apposito elenco sti-
lato di comune accordo. Resta da verificare se, come effetto di tale decisione, aumenterà il
numero dei casi in cui delle persone saranno consegnate tra gli Stati membri dell’Unione.
11. Nelle discussioni interne all’Unione in merito alla possibile abolizione del requisito
della previsione bilaterale del fatto in presenza di nuovi strumenti di cooperazione in materia
penale tra gli Stati membri, è ampiamente ignorata l’essenza della distinzione tra coopera-
zione ‘primaria’ e ‘secondaria’. Secondo questa distinzione, la mutua assistenza giudiziaria e
l’estradizione sono forme di cooperazione secondaria, per mezzo delle quali lo Stato richie-
sto mette lo Stato richiedente in grado di realizzare pienamente la pretesa di esercitare la sua
giurisdizione penale. Il trasferimento dell’esecuzione delle sanzioni e il trasferimento dei pro-
cedimenti sono forme di cooperazione primaria, mediante le quali lo Stato richiesto assume,
in tutto o in parte, e dietro richiesta, la responsabilità del caso dallo Stato richiedente. Esiste
anche un orientamento che nega la rilevanza della distinzione tra cooperazione primaria e
secondaria, almeno per ciò che concerne il trasferimento dell’esecuzione delle sanzioni, e
considera il secondo alla stregua di una forma di assistenza secondaria’’.

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