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Spulcio dal taccuino fitto di note dopo qualche ora di colloquio: «Non credo più in Dio, ma
forse Dio crede ancora in me. Dunque, manteniamo un certo rapporto». «Se trovi qualcuno che ama
troppo gli altri, sappi che con ogni probabilità è un ateo». «Dio è laureato in filosofia più che in
ingegneria». «La scommessa di Pascal va rovesciata: conviene scommettere sull'inesistenza, non
sull’'esistenza di Dio». «A proposito di Pascal, se abitasse sul mio pianerottolo ci saluteremmo
ossequiosi ma ci frequenteremmo poco. Se ci fosse invece Tommaso d'Aquino, tutte le sere
giocheremmo a briscola assieme ma finiremmo con l'andare per avvocati. E magari lui mi
denuncerebbe alla Digos per cercare di incastrarmi». «Se fossi Dio e avessi un Figlio lo manderei a
studiare all'università di Harvard e non a quella di Camerino». «Che la Chiesa sia cambiata me ne sono
accorto quando i cappuccini di Alessandria mi hanno accolto in convento con mia moglie (donne in
clausura!) e mi hanno chiesto che marca di whisky preferivo».
Anche questa volta, Umberto Eco non ha deluso il suo interlocutore: il “signore dei segni”,
come lo chiamano, è il contrario del tetro, sussiegoso, spiritoso barone universitario standard. Questo
ex dirigente nazionale di Azione Cattolica, quest'uomo che sino all'università conobbe soltanto il
chiuso cattolicesimo preconciliare (dove spesso, per usare una sua espressione, «la santità si
accompagnava a una preoccupante mancanza di ormoni»), questo devoto da comunione
quotidiana, che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e
non a una cattedra da conquistare, da ormai un quarto di secolo sembra programmato e
aggiornato continuamente da un computer secondo il modulo del perfetto collaboratore de L'Espresso.
O, se volete, de L'Express, di Esquire, del New Yorker. O, magari, del nuovissimo FMR, il mensile di
Franco Maria Ricci.
La reazione dei critici “cattolici” ha stupito lo stesso Eco. «Se fossi ancora credente, sarei
stato ben più severo, ben più intollerante», mi dice l'autore nella sua casa milanese di via Melzi d'Eril,
sulla cui facciata campeggia una scritta, un reperto bellico (U.S., Uscita di Sicurezza, del rifugio
antiaereo si intende) che richiama curiosamente il titolo famoso di Ignazio Silone. La delusione di Eco
è giustificata: è successo infatti che quei cattolici che scambiano il dialogo con le dimissioni (o
che forse non hanno sufficiente acribia o non vogliono crearsi nemici tra la cultura "che conta") hanno
osannato II nome della rosa; come è giusto vista la bravura dell'autore. Ma nel contempo non hanno
spiegato al lettore disarmato che quelle pagine erano un'intenzionale - ed efficacissima - mina vagante
lanciata dal semiologo-scrittore sulla strada, oggi già così impervia, del continuare a credere.
Per fortuna - anche a conforto di Eco, scontento per la polemica mancata - non tutti dormono anche
nella vecchia Compagnia di Gesù. Ecco allora la Civiltà Cattolica uscire con una grossa
bacchetta e picchiare a dovere sulle nocche dello scrittore. Già il titolo dell'articolo è
esplicito: L'allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco. Le cinque, fitte pagine di padre Guido
Sommavilla s.j. finiscono senza troppi complimenti: «...un altro lampante falso storico, tra i tanti di
questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e
derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione,
dell'etica, della civiltà e della vita». Un finale forse un po' scomposto - almeno per i gusti di Eco e
miei - ma al quale il padre giunge dopo un circostanziato j'accuse così riassumibile, alla buona: lo
sforzo del libro sarebbe tutto teso a dimostrarci che non c'è nulla di vero né di serio, tranne la sua (di
Eco) personale verità e la sua ironia; egli (Eco) vorrebbe convincerci che non c'è alcuna differenza
tra Cristo e Giuda, tra santo e delinquente, mancando ogni termine sicuro di confronto.
Qui Pilato ancora una volta ghignerebbe il suo quid est veritas? Anzi, scrive padre Sommavilla
ritorcendo il boomerang: «Ma se la verità è che tutto è da ridere, è da ridere anche la teoria che
afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere è dunque anche l'idea centrale di questo libro. È dunque
ridicolo sostenere che tutto è ridicolo».
Va bene, va bene: i soliti giochi verbali da filosofo, privi di alcuna verifica; chi ci assicura che
l'ipotesi su Dio dell'Occam secondo Eco sia più reale di quella del Tommaso secondo i
tomisti? Veniamo al concreto, piuttosto: la scommessa per Dio e contro Dio nasce dal vissuto
esistenziale, mai da un teorico argomentare. Di recente, Eco ha parlato della sua «meditata apostasia».
Gli va dato atto che, a differenza di tanti ex cattolici non ha lasciato la Chiesa per rifugiarsi
nella sagrestia di un'altra chiesa, quella del “Partito” con la maiuscola, il comunista. È rimasto
un “cane sciolto” (anche questa è una sua autodefinizione), seppure sempre dentro gli steccati del
neoilluminismo. «Illuminista sì ma, prego, illuminista bizantino», mi ricorda, «il semplice illuminista
è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L'illuminista bizantino
sarebbe d'accordo, ma sospetta sempre che magari non è plausibile neppure quello scetticismo. Che
anche quella rete, quel labirinto (non una piramide!) che è l'universo dei segni in cui siamo immersi
abbia una nascosta spiegazione».
Ma non gli sembra ormai patetico l'illuminismo con il suo dogma di base, l'inesistenza
del peccato? Oggi, poi; quando c'è chi comincia a dire che l'ipotesi cristiana del peccato (a partire da
quello "originale") è la sola verità scientificamente dimostrabile, visto come sta andando la storia di
ciascuno e dell'umanità. «È vero», ammette, «siamo tutti sbagliati, ça ne colle pas come dice un mio
amico psicanalista francese: ma non so rispetto a che cosa. E poi sono convinto che alla fine, e anche
qui non so come, ce la caveremo». Il che, gli osservo, è la tesi cristiana: il mondo, nel suo complesso, è
già salvato, può finire male (inferno?) la storia personale di qualcuno ma non la globalità della storia,
che va verso il suo compimento.
«Se vuole», mi concede. «Ripeto: credo che ce la caveremo, ma non so come. Nel ritorno del Cristo,
nella Parusia io non credo». Ecco saltare fuori il nome decisivo. Come si arriva a una “meditata
apostasia”, per quali motivi uno che accettava il Cristo - e con tanto fervore come il giovane Eco -
decide poi di ritirare la sua speranza? Qui, il filosofo, il semiologo, lo scrittore, si lancia in
complesse dimostrazioni che - con ogni rispetto e ammirazione per le agudezas - non sfuggono al
sospetto di essere state elaborate post factum, per razionalizzare un rifiuto che ha l'aria di venire (come
ogni sentimento vero) più dal cuore che dalla ragione. Due in sostanza gli argomenti di Eco.
Primo: scegliendo di far nascere suo Figlio, nel bacino mediterraneo durante la Pax Romana, Dio
avrebbe fatto una precisa scelta “etnocentrica”, a favore di una razza, di un popolo, di una cultura;
avrebbe cioè valutato «il modello culturale occidentale come il migliore possibile». Facile
obiettare che, se l'Incarnazione aveva da essere, in qualche posto doveva pure realizzarsi. E che è
difficile considerare "occidentale" la cultura di Israele: è piuttosto sotto il suo impatto tipicamente
orientale che l'Occidente si trasforma sino a identificarsi con categorie che (seppure in varia maniera
ellenizzate), in realtà vengono dall'Oriente. Volendo continuare su questa strada, poi, un'occhiata
all'atlante ci mostrerebbe Israele come il posto-cerniera per eccellenza tra i tre continenti decisivi per
la storia umana: Asia, Europa, Africa.
La morte, gli ricordo, è la scommessa per eccellenza, aperta nella sua logica a due esiti
possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù, che sarà il carpentiere di Nazareth a
venirci incontro? «Guardi», mi dice, «se per caso Cristo-giudice c'è davvero e vuole imbastirmi un
processo gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono arrivato alla
conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che in questo modo potremmo giungere a patti
ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in
anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all'inferno,
dove almeno c'è gente per bene. Ma se un Dio c'è, è il Dio di San Tommaso e con questo si può
ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri».
Ben trovato, ma non è forse un po' troppo - come dire - antropomorfo per essere
convincente del tutto? Non è un proiettare nei cieli il “Vostro onore” del processo da telefilm o il
«non sono d'accordo con il compagno che ha parlato prima» del dibattito al comitato di quartiere? Pur
messo a forza dentro categorie aristoteliche, il Dio di Tommaso non ha perso del tutto il ricordo del
Dio di Paolo ai Corinti: «Sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò
l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove è mai il sottile ragionatore di
questo mondo?».
Ma qui dobbiamo fermarci. Anche se — prima di congedarmi per andare a cena con il suo amico
Luciano Berio, il musicista d'avanguardia - Eco ha trovato modo di dire tante altre cose, tutte
interessanti, che spiace non potere trascrivere. Chissà, pensiamo infilandoci nell'ascensore, se il
“bizantino” riuscirà un giorno a prevalere sull'illuminista? Su quella cultura dimezzata, cioè, che da
due secoli ci soffoca dicendo che ci libera non riuscendo a vedere che «l'ultimo passo della ragione
è riconoscere che c'è una infinità di cose che la superano».
(Jesus, n. 4
- 1982)
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