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UMBERTO ECO

QUANDO MESSORI INTERVISTÒ


ECO: «DIO? È UN FILOSOFO
NON UN INGEGNERE»
22/02/2016 Vittorio Messori intervistò Umberto Eco nel 1982 per le pagine del
mensile Jesus. Con il grande studioso, che da giovane, fu dirigente nazionale
di Azione Cattolica, parla del successo de Il nome della Rosa il celebre
romanzo "teologico": ogni verità si confonde con il suo opposto, la virtù
equivale al vizio, Dio si dissolve nel Caos.

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Spulcio dal taccuino fitto di note dopo qualche ora di colloquio: «Non credo più in Dio, ma
forse Dio crede ancora in me. Dunque, manteniamo un certo rapporto». «Se trovi qualcuno che ama
troppo gli altri, sappi che con ogni probabilità è un ateo». «Dio è laureato in filosofia più che in
ingegneria». «La scommessa di Pascal va rovesciata: conviene scommettere sull'inesistenza, non
sull’'esistenza di Dio». «A proposito di Pascal, se abitasse sul mio pianerottolo ci saluteremmo
ossequiosi ma ci frequenteremmo poco. Se ci fosse invece Tommaso d'Aquino, tutte le sere
giocheremmo a briscola assieme ma finiremmo con l'andare per avvocati. E magari lui mi
denuncerebbe alla Digos per cercare di incastrarmi». «Se fossi Dio e avessi un Figlio lo manderei a
studiare all'università di Harvard e non a quella di Camerino». «Che la Chiesa sia cambiata me ne sono
accorto quando i cappuccini di Alessandria mi hanno accolto in convento con mia moglie (donne in
clausura!) e mi hanno chiesto che marca di whisky preferivo».

Anche questa volta, Umberto Eco non ha deluso il suo interlocutore: il “signore dei segni”,
come lo chiamano, è il contrario del tetro, sussiegoso, spiritoso barone universitario standard. Questo
ex dirigente nazionale di Azione Cattolica, quest'uomo che sino all'università conobbe soltanto il
chiuso cattolicesimo preconciliare (dove spesso, per usare una sua espressione, «la santità si
accompagnava a una preoccupante mancanza di ormoni»), questo devoto da comunione
quotidiana, che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e
non a una cattedra da conquistare, da ormai un quarto di secolo sembra programmato e
aggiornato continuamente da un computer secondo il modulo del perfetto collaboratore de L'Espresso.
O, se volete, de L'Express, di Esquire, del New Yorker. O, magari, del nuovissimo FMR, il mensile di
Franco Maria Ricci.

Intelligentissimo, coltissimo, furbissimo (nel senso ammirato del termine) sa a perfezione


che l'eroe intellettuale radical dell'Occidente postindustriale deve occuparsi con estrema serietà del
“frivolo”, dell'”effi-mero”. Dunque, ricco apparato critico e filologico applicato a fumetti, disco-
music, juke-box, discipline universitarie un po' stravaganti, mode culturali “emergenti” e comunque
“nuove”. Il criterio di scelta deve infatti ispirarsi alle leggi della “crono latria”, come l'ultimo, un po'
incattivito Maritain chiamava il culto del “giovane”, del “nuovo”, dell'inedito. In tutto poi, la
sterminata erudizione deve mascherarsi dietro una verve un po' distratta, ironica: il vecchio surtout
pas trop de zèle ammonisca e guidi, sì che il tono della commedia non scivoli mai nel dramma sempre
inelegante. Magari nel dramma per eccellenza: il prendere troppo sul serio se stessi, il proprio mistero,
le domande ultime, quelle che affiorano dentro nel buio solitario della notte, quando il cicaleccio del
seminar, del dibattito è sospeso sino al mattino.

Se poi quelle domande continuano a inquietare - se,


come è il caso di Eco, si ha ben altra sensibilità, ben
altro spessore umano di un Moravia, altro eroe di
questa cultura ma afflitto da lugubre superficialità,
occupato solo dalla sua senile monomania erotica -
allora le si esorcizzi montando una gran macchina di
parole per dire che quelle domande sono
insignificanti, anzi, che forse non esistono proprio.
Il che è avvenuto con II nome della rosa. Che è
libro mirabile nel senso etimologico della parola.
Umberto Eco nel 1982 in una foto scattata in occasione
Consumatore smodato, quasi maniacale, quale sono, dell'intervista di Vittorio Messori per Jesus
di libri e giornali, quello è il chilo di carta che
salverei assieme a pochi altri, estraendolo dal container di roba stampata subita in questi ultimi tempi.
Libro tanto più “velenoso” (sarà lo stesso autore a suggerirmi l'aggettivo) quanto più
abile, colto, bello. Romanzo che rinnova il programma che fu già di Sartre («Di ciò di cui non si può
teorizzare, si deve narrare»), ma con diversa levità divertita della saggistica travestita da narrativa de
La nausea o de II muro o de II diavolo e il buon Dio. L'eccellente riuscita de II nome della rosa è
proprio nella felicità narrativa che permette anche alle casalinghe di arrivare alla fine
divertendosi, appassionandosi alla trama, assorbendone gli umori maliziosi senza neppure
accorgersene. In questo senso, perfetto strumento di “cultura di massa”.

La reazione dei critici “cattolici” ha stupito lo stesso Eco. «Se fossi ancora credente, sarei
stato ben più severo, ben più intollerante», mi dice l'autore nella sua casa milanese di via Melzi d'Eril,
sulla cui facciata campeggia una scritta, un reperto bellico (U.S., Uscita di Sicurezza, del rifugio
antiaereo si intende) che richiama curiosamente il titolo famoso di Ignazio Silone. La delusione di Eco
è giustificata: è successo infatti che quei cattolici che scambiano il dialogo con le dimissioni (o
che forse non hanno sufficiente acribia o non vogliono crearsi nemici tra la cultura "che conta") hanno
osannato II nome della rosa; come è giusto vista la bravura dell'autore. Ma nel contempo non hanno
spiegato al lettore disarmato che quelle pagine erano un'intenzionale - ed efficacissima - mina vagante
lanciata dal semiologo-scrittore sulla strada, oggi già così impervia, del continuare a credere.

Per fortuna - anche a conforto di Eco, scontento per la polemica mancata - non tutti dormono anche
nella vecchia Compagnia di Gesù. Ecco allora la Civiltà Cattolica uscire con una grossa
bacchetta e picchiare a dovere sulle nocche dello scrittore. Già il titolo dell'articolo è
esplicito: L'allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco. Le cinque, fitte pagine di padre Guido
Sommavilla s.j. finiscono senza troppi complimenti: «...un altro lampante falso storico, tra i tanti di
questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e
derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione,
dell'etica, della civiltà e della vita». Un finale forse un po' scomposto - almeno per i gusti di Eco e
miei - ma al quale il padre giunge dopo un circostanziato j'accuse così riassumibile, alla buona: lo
sforzo del libro sarebbe tutto teso a dimostrarci che non c'è nulla di vero né di serio, tranne la sua (di
Eco) personale verità e la sua ironia; egli (Eco) vorrebbe convincerci che non c'è alcuna differenza
tra Cristo e Giuda, tra santo e delinquente, mancando ogni termine sicuro di confronto.
Qui Pilato ancora una volta ghignerebbe il suo quid est veritas? Anzi, scrive padre Sommavilla
ritorcendo il boomerang: «Ma se la verità è che tutto è da ridere, è da ridere anche la teoria che
afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere è dunque anche l'idea centrale di questo libro. È dunque
ridicolo sostenere che tutto è ridicolo».

L'accusato - cui ricordo il cahier, - fa la sola cosa che


gli è consentita: ride. «Ho l'impressione che il buon
padre abbia visto giusto», mi dice, «ha ben
individuato la boccetta di veleno del libro, anche se
poi ha forse pestato un po' troppo il pedale.
Dimenticando oltretutto di dire che tutto ciò
che io metto in bocca a fra Guglielmo, il mio
protagonista, non è che un collage di
citazioni da quel grande pensatore
Umberto Eco nella sua abitazione (1982) in una foto scattata francescano che fu Occam; e che il mondo della
in occasione dell'intervista di Vittorio Messori spiritualità medievale, nel libro, è vissuto (mi pare)
molto dal di dentro e senza riderci su». Spiega: «L'assoluta onnipotenza di Dio: ecco la tesi centrale de
II nome della rosa. Qui è, paradossalmente, la radice dell'ateismo: un Dio che può giungere sino a
violare il principio di non-contraddizione, a far sì che ciò che è avvenuto non sia mai avvenuto, finisce
coll'esplodere nel Caos, nel panteismo; nel nichilismo appunto. A differenza di Tommaso
d'Aquino, Occam toglie a Dio ogni limite: con questo si dissolve non solo la scolastica, ma la
possibilità stessa di un Dio conoscibile, razionale».

Va bene, va bene: i soliti giochi verbali da filosofo, privi di alcuna verifica; chi ci assicura che
l'ipotesi su Dio dell'Occam secondo Eco sia più reale di quella del Tommaso secondo i
tomisti? Veniamo al concreto, piuttosto: la scommessa per Dio e contro Dio nasce dal vissuto
esistenziale, mai da un teorico argomentare. Di recente, Eco ha parlato della sua «meditata apostasia».
Gli va dato atto che, a differenza di tanti ex cattolici non ha lasciato la Chiesa per rifugiarsi
nella sagrestia di un'altra chiesa, quella del “Partito” con la maiuscola, il comunista. È rimasto
un “cane sciolto” (anche questa è una sua autodefinizione), seppure sempre dentro gli steccati del
neoilluminismo. «Illuminista sì ma, prego, illuminista bizantino», mi ricorda, «il semplice illuminista
è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L'illuminista bizantino
sarebbe d'accordo, ma sospetta sempre che magari non è plausibile neppure quello scetticismo. Che
anche quella rete, quel labirinto (non una piramide!) che è l'universo dei segni in cui siamo immersi
abbia una nascosta spiegazione».

Ma non gli sembra ormai patetico l'illuminismo con il suo dogma di base, l'inesistenza
del peccato? Oggi, poi; quando c'è chi comincia a dire che l'ipotesi cristiana del peccato (a partire da
quello "originale") è la sola verità scientificamente dimostrabile, visto come sta andando la storia di
ciascuno e dell'umanità. «È vero», ammette, «siamo tutti sbagliati, ça ne colle pas come dice un mio
amico psicanalista francese: ma non so rispetto a che cosa. E poi sono convinto che alla fine, e anche
qui non so come, ce la caveremo». Il che, gli osservo, è la tesi cristiana: il mondo, nel suo complesso, è
già salvato, può finire male (inferno?) la storia personale di qualcuno ma non la globalità della storia,
che va verso il suo compimento.

«Se vuole», mi concede. «Ripeto: credo che ce la caveremo, ma non so come. Nel ritorno del Cristo,
nella Parusia io non credo». Ecco saltare fuori il nome decisivo. Come si arriva a una “meditata
apostasia”, per quali motivi uno che accettava il Cristo - e con tanto fervore come il giovane Eco -
decide poi di ritirare la sua speranza? Qui, il filosofo, il semiologo, lo scrittore, si lancia in
complesse dimostrazioni che - con ogni rispetto e ammirazione per le agudezas - non sfuggono al
sospetto di essere state elaborate post factum, per razionalizzare un rifiuto che ha l'aria di venire (come
ogni sentimento vero) più dal cuore che dalla ragione. Due in sostanza gli argomenti di Eco.
Primo: scegliendo di far nascere suo Figlio, nel bacino mediterraneo durante la Pax Romana, Dio
avrebbe fatto una precisa scelta “etnocentrica”, a favore di una razza, di un popolo, di una cultura;
avrebbe cioè valutato «il modello culturale occidentale come il migliore possibile». Facile
obiettare che, se l'Incarnazione aveva da essere, in qualche posto doveva pure realizzarsi. E che è
difficile considerare "occidentale" la cultura di Israele: è piuttosto sotto il suo impatto tipicamente
orientale che l'Occidente si trasforma sino a identificarsi con categorie che (seppure in varia maniera
ellenizzate), in realtà vengono dall'Oriente. Volendo continuare su questa strada, poi, un'occhiata
all'atlante ci mostrerebbe Israele come il posto-cerniera per eccellenza tra i tre continenti decisivi per
la storia umana: Asia, Europa, Africa.

Passiamo all'argomento due che è il vecchio


tema del ritardo della Redenzione. Perché, si
chiede Eco, se il male del mondo è così grave, il
Liberatore arriva dopo tanti millenni di storia? Se
tante generazioni sono nate e morte senza
redenzione, «non vuoi forse dire che il peccato agli
occhi di Dio non è poi così grave, che Gesù è colui
che doveva redimere dalla varicella?». Anche qui,
non sarebbe difficile rinviare a quell'altro argomento
cristiano della “pedagogia” divina. Per la fede, il
Messia non è un agente dei Nocs o dei Gis, il
paracadutista di un commando che fa una
repentina apparizione: entrare nella storia
significa rispettarne anche i ritmi,
assumerne la lunga pazienza.

Ma è chiaro che su questa strada il dibattito sarebbe


presto bloccato, con scambio fittamente elegante di
reciproci sofismi. Professor Eco, «il cuore ha le
sue ragioni che la ragione non conosce». Dove
sono le radici vere della “apostasia”, meditata o no
che sia? Questo filosofo (che per fortuna non è un
ideologo) è pronto a concedermi che qualunque
Umberto Eco (1982)
“prova o “ragionamento” serve solo a convincersi di
ciò di cui si è già convinti. «Perdere la fede», dice, «è l'interruzione di un circuito elettrico. È
vero: l'aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia; ma non basta neppure quello biografico.
Altri che hanno avuto le mie vicende, la fede l'hanno conservata». Scoprendosi - a tratti - nella sua
umanità mi parla della «tragicità della scommessa sull'inesistenza di Dio». «Chi punta in questo modo
deve produrre molto più amore del credente, per giustificare la sua vita e la sua morte». La morte,
appunto; il suo dramma, lo scrittore lo vive nella carne, da quando suo padre morì
inaspettatamente: «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso sempre. Io non cerco,
freudianamente, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo».
Eco, dov'è suo padre, dove sono gli altri morti, dove saremo noi? Che c'è dietro quelle porte
bronzee? «C'è il caos», dice con voce sicura, almeno in apparenza. «Oppure c'è il deserto piatto».

La morte, gli ricordo, è la scommessa per eccellenza, aperta nella sua logica a due esiti
possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù, che sarà il carpentiere di Nazareth a
venirci incontro? «Guardi», mi dice, «se per caso Cristo-giudice c'è davvero e vuole imbastirmi un
processo gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono arrivato alla
conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che in questo modo potremmo giungere a patti
ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in
anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all'inferno,
dove almeno c'è gente per bene. Ma se un Dio c'è, è il Dio di San Tommaso e con questo si può
ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri».

Ben trovato, ma non è forse un po' troppo - come dire - antropomorfo per essere
convincente del tutto? Non è un proiettare nei cieli il “Vostro onore” del processo da telefilm o il
«non sono d'accordo con il compagno che ha parlato prima» del dibattito al comitato di quartiere? Pur
messo a forza dentro categorie aristoteliche, il Dio di Tommaso non ha perso del tutto il ricordo del
Dio di Paolo ai Corinti: «Sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò
l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove è mai il sottile ragionatore di
questo mondo?».

Ma qui dobbiamo fermarci. Anche se — prima di congedarmi per andare a cena con il suo amico
Luciano Berio, il musicista d'avanguardia - Eco ha trovato modo di dire tante altre cose, tutte
interessanti, che spiace non potere trascrivere. Chissà, pensiamo infilandoci nell'ascensore, se il
“bizantino” riuscirà un giorno a prevalere sull'illuminista? Su quella cultura dimezzata, cioè, che da
due secoli ci soffoca dicendo che ci libera non riuscendo a vedere che «l'ultimo passo della ragione
è riconoscere che c'è una infinità di cose che la superano».

                                                                                                                                                                     (Jesus, n. 4
- 1982)

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