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Eva Valvo
Stranieri e romani
I Facta et dicta memorabilia sono una raccolta di circa mille esempi, divisi in
nove libri e strutturati secondo due categorizzazioni fondamentali: l’enumerazione
di vizi e virtù (corrispondente ai singoli capitoli dell’opera) e la distinzione tra
fatti stranieri e romani all’interno di ogni rubrica. La specificità degli exempla
externa ha ricevuto finora limitata attenzione da parte degli studiosi, anche se la
distinzione fondamentale tra exempla externa ed exempla Romana è stata consi-
derata nel contesto più ampio della struttura e composizione dell’opera.2 Bloo-
mer sostiene in maniera convincente che la bipartizione del materiale domestico e
straniero da parte di Valerio sia mutuata da Cicerone, il quale teorizza proprio
quella gerarchia di tipi di exempla adottata nei Facta et dicta memorabilia: “Use-
rei esempi domestici, se tu non li avessi letti; userei esempi stranieri, latini se ne
trovassi qualcuno o greci se fosse opportuno” (Cic. Orat. 132: Uterer exemplis
domesticis, nisi ea legisses, uterer alienis, vel Latinis, si ulla reperirem, vel Graecis,
si deceret).3 Skidmore ritiene che l’uso di esempi stranieri sia legato, oltre che a
motivi di varietà e intrattenimento, anche alla tecnica retorica degli “argomenti
ineguali” (argumenta imparia): ovvero, quanto più gli exempla sono barbari e
inaspettati, tanto più risultano efficaci.4 Anche Weileder riflette sulla distinzione
tra esempi romani e stranieri, osservando come i primi siano considerati da Vale-
rio più efficaci e più importanti dei secondi, che spesso sarebbero usati solo per
dare maggiore risalto alla grandezza di Roma attraverso il confronto.5
È utile prendere in considerazione la distribuzione degli exempla, cercando
di ravvisare le ragioni di un’eventuale assenza di exempla externa in determinati
capitoli o, al contrario, di una loro sovrabbondanza. Nel libro 8, ad esempio, i
primi sei capitoli non contengono alcun esempio relativo a popoli stranieri e ciò è
recenti sono anche alcune edizioni e traduzioni: Valère Maxime, Faits et dits mémora-
bles, a cura di R. Combès, 2 voll., Paris 1995–97; Valerii Maximi Facta et Dicta Memo-
rabilia, a cura di J. Briscoe, 2 voll., Stuttgart – Leipzig 1998; Valerius Maximus,
Memorable Doings and Sayings, a cura di D. R. Shackleton Bailey, 2 voll., Cambridge
(Mass.) – London 2000.
2 Si segnalano due brevi articoli che trattano specificamente degli stranieri nell’opera:
S. Montero, “Mujeres extranjeras en la obra de Valerio Máximo”, in: Extranjeras en el
mundo romano, a cura di G. Bravo Castañeda, R. González Salinero, Madrid 2004,
pp. 45–56; P. Desideri, “Greci, barbari, cartaginesi in Valerio Massimo”, in: Costru-
zione e uso del passato storico nella cultura antica, atti del convegno internazionale di
studi (Firenze, 10–20 settembre 2003), a cura di P. Desideri, S. Roda, A. M. Biraschi,
Alessandria 2007, pp. 305–312.
3 Bloomer (cf. fn. 1), p. 5.
4 Skidmore (cf. fn. 1), pp. 87ss.
5 Weileder (cf. fn. 1), pp. 74–76.
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 39
Motivi e metodi
7 T. F. Carney, “The Picture of Marius in Valerius Maximus”, RhM 150 (1962): 289–337
(290); discusso in: Maslakov (cf. fn. 1), p. 484ss.; Bloomer (cf. fn. 1), pp. 150ss.
8 Bloomer (cf. fn. 1), pp. 157–158.
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 41
Annibale, l’arcinemico
9 Factorum et dictorum memorabilium libri novem: cum Iulii Paridis et Ianuarii Nepo-
tiani Epitomis Valerii Maximi, a cura di K. F. Kempf, Leipzig 1888.
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10 M. Coudry, “La deuxième guerre punique chez Valère Maxime: un événement fonda-
teur de l’histoire de Rome”, in: David (cf. fn. 1), pp. 45–53.
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 43
tempo stesso come trauma nazionale e come occasione per mostrare la virtù
romana, non solo dei grandi condottieri, ma anche del Senato e del popolo nel
suo insieme.
La prima serie di exempla che esamineremo in questo articolo raccoglie quelli che
rappresentano Annibale come un uomo predestinato ad essere l’acerrimo nemico
di Roma, come un personaggio grande seppur negativo, spesso sostenuto dalla
volontà degli dei. In questo contesto si collocano anche gli unici due exempla
relativi ad Amilcare, in un caso significativamente in relazione ad un episodio di
infanzia di Annibale.
Il primo exemplum, contenuto in 1.7.ext.1, apre la sezione straniera sui sogni
ed è presente già in Livio (21.22) e Cicerone (De divin. 1.24.49).11 È utile consi-
derare anche le due fonti dirette, che possono servire a mettere in luce le pecu-
liarità del testo di Valerio: Annibale ha la visione di una figura divina che lo guida
ad invadere l’Italia. Nel sogno è presente il topos del divieto divino di guardare
indietro, esplicitamente formulato da Livio e Cicerone e solo implicitamente
inteso da Valerio: Annibale dapprima resiste, ma poi cede al desiderio di “guarda-
re le cose proibite” (vetita scrutandi) e scorge un enorme serpente (ma in Cicero-
ne si tratta di una bestia enorme avviluppata da serpi) che distrugge ogni cosa;
Livio e Valerio hanno anche il particolare del fragore della tempesta. Il giovane
spiega che l’immagine rappresenta la distruzione dell’Italia (in tutti e tre gli auto-
ri la formula è vastitas Italiae) o forse, come suggerisce D’Arco, la desolazione
dell’Italia, intendendo l’impervio passaggio delle Alpi.12 La guida intima infine al
cartaginese di tacere e lasciare che il fato compia il suo corso, stendendo implici-
tamente un velo di oscuro timore sul futuro di Cartagine.
Come è consuetudine di Valerio, il suo exemplum risulta decontestualizzato
e sfrondato di ogni preciso riferimento storico e geografico. Tipica è anche
l’aggiunta di una frase di transizione con commento autoriale, che descrive
Annibale come ostile a Roma non solo da sveglio, ma anche nel sonno, e definis-
ce il suo sogno al tempo stesso odioso a Roma e di presagio sicuro. Nonostante
11 L’episodio, narrato anche da Silio Italico in epoca successiva a Valerio, è assai studiato.
Tra le ricerche più recenti, si vedano: I. D’Arco, “Il sogno premonitore di Annibale e
il pericolo delle Alpi”, Quaderni di storia 28 n. 55 (2002): 145–162 (con bibliografia
relativa); E. Foulon, “Mercure Alètès apparaît en songe à Hannibal”, in: Hommages à
Carl Deroux, a cura di P. Defosse, Bruxelles 2003, IV, pp. 366–377.
12 D’Arco (cf. fn. 11), p. 158.
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l’accenno alla certezza del presagio (“sogno di sicura profezia”, certae praedic-
tionis somnium), tuttavia, nella formulazione di Valerio sembra insinuarsi un
dubbio sull’attendibilità della vicenda: mentre Livio attribuisce l’episodio al
sentito dire (fama est) e Cicerone a fonti storiche precedenti (“Questo si trova
nella storia greca di Sileno, che è seguito da Celio”, Hoc item in Sileni, quem
Coelius sequitur, Graeca historia est), Valerio ne mette in evidenza l’utilità per i
fini di Annibale (“infatti recepì una visione conveniente al suo proposito e ai
suoi desideri e credette…”, hausit enim proposito et votis suis convenientem ima-
ginem existimauitque…). Sarebbe dunque lo stesso Annibale a volersi proporre
come inviato degli dei e Valerio sembra lasciare al lettore la facoltà di valutare la
veridicità del fatto. È interessante inoltre notare che, rispetto alla versione livia-
na cui Valerio rimane generalmente fedele, sia omesso il dato della paura di
Annibale, che avrebbe inizialmente seguito la guida con timore (pavidum): sem-
bra quasi che Valerio non voglia mostrare questo lato debole del generale carta-
ginese, ma anzi voglia darne un’immagine tanto più temibile quanto più teme-
raria.
Secondo D’Arco, il racconto del sogno nelle fonti romane risulta incongru-
ente e poco intelligibile: all’infrazione del divieto divino non segue una punizio-
ne ma un incoraggiamento, mentre il senso della visione resta ambiguo (se fosse
prefigurazione della vittoria di Annibale, non si vede perché questi dovrebbe
preoccuparsene). La tesi della studiosa è che il sogno sia derivato da una tradizio-
ne filo-annibalica, dove esso serviva a rappresentare le difficoltà che aspettavano
il generale nel passaggio delle Alpi. La storiografia romana, dunque, si sarebbe
appropriata di questa tradizione, adattandola ai propri fini: “da strumento di esal-
tazione del talento strategico di Annibale lo fa diventare strumento di ridimen-
sionamento del successo del duce cartaginese e d’esaltazione del popolo romano.
Così il successo del superamento delle Alpi viene fatto apparire come momenta-
neo e illusorio: la chiusa del sogno lascia intuire la sconfitta finale di Annibale e
quindi la vittoria dei Romani.” 13
La sezione dei Facta et dicta sui sogni contiene anche un exemplum su Amil-
care (1.7.ext.8), narrato anch’esso da Cicerone subito dopo l’episodio su Anni-
bale che abbiamo appena visto (De divin. 1.24.50): mentre assedia Siracusa, Amil-
care sogna una voce che gli annuncia che il giorno successivo sarà a cena in quella
città. Credendo in una vittoria annunciata, il cartaginese si prepara alla battaglia,
ma in realtà il suo esercito soccombe e lui stesso viene fatto prigioniero. L’exem-
plum è fortemente ironico: il sogno premonitore è sì veritiero, ma viene interpre-
tato erroneamente. Rispetto a Cicerone, Valerio amplia retoricamente l’episodio,
sottolineando l’ingiustificata baldanza del cartaginese (“gioioso, dunque, prepa-
rava l’esercito alla battaglia, come se gli dei gli avessero promesso la vittoria”, lae-
tus igitur perinde ac divinitus promissa victoria exercitum pugnae conparabat) e
inasprendo la beffa con la vergogna delle catene: Amilcare è condotto nella città
“legato” (vinctum), mentre la più neutra formulazione ciceroniana lo vuole
“vivo” (vivum). Mentre Cicerone sentenzia asciutto che in questo modo “i fatti
hanno confermato il sogno” (ita res somnium comprobavit), Valerio infierisce sul
nemico beffato: “così, ingannato più dalla speranza che dal sogno, cenò a Siracu-
sa da prigioniero e non, come aveva dato per scontato nell’animo suo, da vincito-
re” (ita magis spe quam somnio deceptus cenavit Syracusis captivus, non, ut animo
praesumpserat, victor).
Considerata la contiguità degli exempla di Annibale e Amilcare nel testo
ciceroniano, viene da chiedersi perché Valerio abbia frapposto sei altri exempla
tra i due episodi. Volgendo uno sguardo più ampio all’intera rubrica De somniis
come singola unità compositiva, notiamo che la stragrande maggioranza dei sogni
riportati è presagio di morte (1.7.2,3,4,6,7,8; 1.7.ext.2,3,4,9,10) e sottolinea l’ine-
luttabilità del destino e l’impossibilità di opporsi alla volontà degli dei. Per la
parte relativa a Roma le eccezioni sono l’exemplum di apertura (1.7.1), in cui gli
dei salvano la vita di Augusto a Filippi inviando un sogno premonitore al suo
medico Artorio, e l’exemplum 1.7.5, in cui Mario appare in sogno a Cicerone pre-
annunciandogli la fine dell’esilio. Tra gli exempla externa compare la categoria dei
sogni che preannunciano la nascita di uomini potenti (Ciro in 1.7.ext.5, Dionigi
di Siracusa in 1.7.ext.6–7). Restano il sogno di Annibale, in apertura della sezione
straniera, che potrebbe essere considerato la controparte negativa dell’episodio di
Augusto, e quello di Amilcare a Siracusa, che segue i due exempla relativi al tiran-
no siciliano e potrebbe legarsi idealmente al sogno di Cicerone: l’exemplum è
interessante perché è l’unico caso di errata interpretazione del presagio, con i
risvolti ironici che abbiamo appena visto.
Bloomer osserva anche che il capitolo sui sogni, insieme al successivo sui
miracoli (De miraculis, 1.8), contiene una maggioranza di esempi stranieri, rile-
vando che “the Roman continue to be oriented toward civic matters, whereas the
foreign examples attest heaven’s favor or warning to famous individuals”.14 Tale
contrasto tra virtù nazionale e individuale ha l’evidente funzione di porre la gran-
dezza di Roma al di sopra di ogni altra, poiché gli eroi romani non sono soltanto
grandi personaggi in sé e per sé, ma sono parte di un’entità superiore che non ha
uguali.
Il prossimo exemplum è tratto da un contesto ben diverso, la sezione De
fiducia sui in 3.7.ext.6, ma anch’esso ha un parallelo ciceroniano in De divin.
2.24.52: Annibale, esule presso il re Prusia di Bitinia, cerca di convincerlo a com-
battere, ma il re non osa agire contro le indicazioni degli aruspici. Mentre gli
exempla 1.7.ext.1 ed ext.8, come buona parte di quelli contenuti nella sezione De
somniis (1.7.4-5-6; 1.7.ext.1, 3, 7, 8, 9, 10), sono ispirati al primo libro del De divi-
natione, che Cicerone mette in bocca al fratello Quinto a sostegno dell’attendibi-
lità della divinazione, nel caso di 3.7.ext.6 il parallelo è con il secondo libro del-
l’opera, in cui lo stesso Cicerone-personaggio confuta le argomentazioni di
Quinto, sostenendo la tesi opposta. Piuttosto che ad evidenziare e criticare le
incongruenze interne all’opera di Valerio, questo caso è utile a concentrare l’at-
tenzione sugli usi e sugli scopi dell’exemplum: se a contesti diversi corrispondo-
no scopi diversi, l’uso dell’exemplum dovrà adattarsi ad ogni singolo caso. Per
questo Valerio utilizza con disinvoltura fonti discordanti, mettendo in luce aspet-
ti divergenti di un personaggio o di un evento, perché l’exemplum per sua natura
deve essere flessibile e deve potersi adeguare a fini differenti.
Se dunque nella sezione De somniis l’interesse era per l’ineluttabilità del vole-
re divino e la necessità di prestare attenzione ai presagi, nella sezione 3.7 il punto
è invece la fiducia in se stessi, cui è del tutto funzionale lo sprezzo di Annibale per
l’arte degli aruspici: “preferisci forse credere ad un pezzetto di carne di vitello
piuttosto che ad un vecchio generale?” (vitulinae carunculae quam imperatori
veteri mavis credere?). La frase di Annibale al re Prusia è riportata da Valerio con
le stesse parole di Cicerone, da cui differisce solo per l’ordo verborum. Il com-
mento autoriale di Valerio è inoltre largamente positivo: “Se consideri le parole,
fu breve e conciso, se giudichi il significato, fu eloquente ed espressivo” (Si verba
numeres, breviter et abscise, si sensum aestimes, copiose et valenter). Nel seguito
però Valerio sviluppa l’exemplum in tutt’altra direzione rispetto al modello
ciceroniano: mentre il secondo ritorna su fatti romani, il primo trova un pretesto
per elencare le grandi imprese di Annibale, dalla conquista di Spagna, Gallia e
Liguria al passaggio delle Alpi, dalle vittorie sul Trasimeno e a Canne alla presa
di Capua e alla divisione dell’Italia. La grandezza militare del condottiero carta-
ginese è sigillata ancora una volta dal giudizio divino, come mostra la frase di
chiusura: “a giudizio dello stesso Marte, lo spirito di Annibale avrebbe oscurato
ogni focolare, ogni altare della Bitinia” (omnis foculos, omnis aras Bithyniae
Marte ipso iudice pectus Hannibalis praegravasset).
Gli ultimi due exempla che esamineremo in questo paragrafo sono due episo-
di contigui della sezione De ira aut odio, il primo relativo ad Amilcare e il secon-
do ad Annibale. La vanteria di Amilcare in 9.3.ext.2, che andava dicendo di alle-
vare quattro piccoli cuccioli di leone per la rovina di Roma, si lega agilmente
all’episodio di Annibale bambino in 9.3.ext.3, che solennemente giura eterno
odio contro il popolo romano, rimarcando come il generale cartaginese fosse
quasi predestinato al ruolo di acerrimo nemico di Roma. Per Coudry, inoltre, il
giuramento di Amilcare è strettamente legato al terrificante sogno di Annibale in
1.7.ext.1, che ne costituirebbe “comme un prolongement et une illustration”, nel
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 47
La rubrica 9.2 sulla crudeltà, collocata nell’ambito del libro dedicato a varie tipo-
logie di vizi, è significativamente sbilanciata, con una netta prevalenza degli esem-
pi stranieri (11) rispetto a quelli romani (4). È lo stesso Valerio ad esplicitare il
motivo della scelta, nel passaggio da una sezione all’altra, dove dichiara di volere
procedere al racconto di fatti ugualmente dolorosi, ma non disonorevoli per
Roma. Se gli exempla Romana iniziavano con la crudeltà di Silla (9.2.1) e di Mario
(9.2.2), ad aprire la serie di exempla externa sono i cartaginesi come soggetto col-
lettivo, con le crudeli torture inflitte ad Attilio Regolo e ai soldati romani
(9.2.ext.1), e Annibale come personaggio individuale (9.2.ext.2). Non sarà un caso
che, nel ritratto in chiaroscuro di Silla, il generale cartaginese sia evocato come
figura metaforica della crudeltà, in contrapposizione a Scipione: “L. Silla, che
nessuno può lodare né biasimare a sufficienza, poiché si presentò al popolo
romano come uno Scipione nell’ottenere le vittorie, come un Annibale nell’usar-
le…” (L. Sulla, quem neque laudare neque vituperare quisquam satis digne
potest, quia, dum quaerit uictorias, Scipionem [se] populo Romano, dum exercet,
Hannibalem repraesentavit…). In 9.2.ext.2 Valerio racconta diversi esempi di
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 51
disumanità di Annibale, non senza osservare che la sua virtus consiste essenzial-
mente di crudeltà (saevitia): fa attraversare il fiume Vergello al suo esercito pas-
sando su un ponte di cadaveri di soldati romani, abbandona i prigionieri stremati
dal viaggio dopo aver loro tagliato i piedi e costringe i più resistenti a combattere
e uccidersi tra congiunti.
Anche la serie di exempla esaminata in questo gruppo si colloca nel contesto del
nono libro. L’exemplum 9.1.ext.1 apre la sezione straniera della rubrica De luxu-
ria et libidine, dove l’apparentamento della sfrenatezza dei sensi con l’amore per
il lusso è motivato dall’origine comune dei due vizi. Nella sezione romana il lusso
è presentato come conseguenza del venir meno del metus hostilis, in particolare
della tensione tenuta viva dal temibile nemico punico: 16 “La fine della seconda
guerra punica e la sconfitta di Filippo il Macedone diedero alla nostra città una
vita più tranquilla e dissoluta” (9.1.3: Urbi autem nostrae secundi Punici belli finis
et Philippus Macedoniae rex devictus licentioris vitae fiduciam dedit); “Discorso
dimentico di Pirro, immemore di Annibale e reso inerte dall’abbondanza dei tri-
buti d’oltremare!” (9.1.4: Sermonem oblitum Pyrri, inmemorem Hannibalis iam-
que transmarinorum stipendiorum abundantia oscitantem!). A fare da contrap-
punto alla mollezza dei romani ormai sicuri del proprio impero, c’è il lusso che
soggiogò e snervò Annibale a Capua, consegnandolo alla vittoria di Roma. Così
si apre l’exemplum 9.1.ext.1: “Ma la mollezza campana fu estremamente utile alla
nostra città: infatti, avvinto con le sue lusinghe Annibale, che non era mai stato
sconfitto con le armi, lo consegnò alla vittoria dei soldati romani” (At Campana
luxuria perquam utilis nostrae civitati fuit: invictum enim armis Hannibalem
inlecebris suis conplexa vincendum Romano militi tradidit). Sono gli ozi di
Capua, rappresentati negli aspetti tradizionali del cibo e del vino abbondante, dei
profumi e dei piaceri del sonno e del sesso (come già in Liv. 23.18), a fiaccare il
generale cartaginese finora mai sconfitto sul campo di battaglia. L’esempio del
nemico sconfitto dai propri stessi vizi, prima che dalle armi, sembra un monito
implicito ai romani perché non si lascino conquistare dal lusso e dalla mollezza,
ma restino saldamente ancorati al mos maiorum.
16 Sul motivo topico del metus punicus, si vedano: G. Bonamente, “Il metus Punicus e la
decadenza di Roma in Sallustio, Agostino ed Orosio”, Giornale italiano di filologia 27
(1975): 137–169; H. Bellen, “Metus Gallicus – Metus Punicus. Zum Furchtmotiv in
der römischen Republik”, Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen
Klasse. Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz (1985 n. 3): 3–46.
52 Eva Valvo
romani (Cesare rende onori funebri a Pompeo in 5.1.9 e Marco Antonio li rende
a Bruto in 5.1.10).17
Considerazioni conclusive
Abstract
Hannibal is the most frequently quoted foreign character in the Facta et Dicta
Memorabilia, a collection of exempla by early imperial author Valerius Maximus
(1st century A.D.). This article considers the representation of the Carthaginian
leader in the work, by collating and examining a series of eleven exempla where
Hannibal appears as the main character. The analysis starts with a general evalua-
tion of the foreign examples in the work, which are used not only for the sake of
variety and entertainment, but also as a means of comparison with the (always
superior) Roman virtue. The research groups the Hannibal examples together
according to subject matter, while paying special attention to Valerius’ use of his
sources and the context of each example (i.e. the thematic chapter). The character
that emerges from this survey is consistent with the traditional picture of Hanni-
bal in Roman historiography, where he is depicted as a cruel, heinous and trea-
cherous warrior. Among the recurring features that Valerius ascribes to Hanni-
bal, his inborn and ineluctable hate for Rome singles him out as an individual
driven by a personal and private feeling. On the other hand, a further main trait is
that of cruelty and deceit, which makes him a symbol of the whole Carthaginian
people. Among other characteristics, pride, arrogance and luxury show Hannibal
in his over-confidence and lack of self-control: the famous Capua episode serves
18 Si veda ad esempio: A. Rossi, “Parallel Lives: Hannibal and Scipio in Livy’s Third
Decade”, TAPA 134 (2004): 359–381 (e relativa bibliografia).
La rappresentazione di Annibale in Valerio Massimo 55
also as a warning for the Romans to abide by the mos maiorum even when their
power and victory seems unquestionable. There is one seemingly positive exam-
ple, where Hannibal is praised for his respect for the Roman enemies, whom he
honoured with the rites of burial: even in this case, though, he is paradoxically
praised for a typically Roman virtue, and all his evil traits are reiterated, so that
the whole point is put in doubt and the final picture of Hannibal that emerges is
the usual wicked, ferocious, arrogant, and deceitful Carthaginian.