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La voce della critica

Seneca e gli schiavi

W. Richter, Seneca e gli schiavi, in Seneca, Letture critiche, a cura di A. Traina,


Mursia, Milano, 20002 pp.96s.

Il padrone, secondo Seneca, non deve soltanto considerare il suo schiavo come un uomo
che ha la sua stessa origine, ovvero come un essere nobile od un possibile benefattore, ma
trarre da ciò delle conseguenze e trattarlo in maniera corrispondente. Egli non deve
semplicemente stabilire che lo schiavo è un uomo, ma creare la premessa perché egli possa
esserlo anche oggettivamente, malgrado il suo stato giuridico. Anzi, egli deve porsi nella
condizione dello schiavo – perché tutti gli uomini sono in un certo modo privi della libertà – e
derivare da ciò la legge del suo comportamento, non attraverso un atto di pensiero logico,
ma per aver sperimentato un’eguale sofferenza. Per un tale atteggiamento che nasce dalla
situazione spirituale altrui, cioè dalla consapevolezza del comportamento richiesto verso
coloro che sono in umili condizioni e risultano danneggiati dalla sorte, Seneca stesso utilizza
il concetto di humanitas. In un altro passo di classica pregnanza, egli loda proprio il suo
amico Lucilio per due virtù: adversus minores humanitatem, adversus maiores reverentiam.
Qui cogliamo l’elemento con cui Seneca, per la prima volta, ha arricchito il dibattito relativo
al problema degli schiavi. Con lui entra in discussione ciò che è propriamente umano, in
quanto impulso attivo; entra in una discussione che da tempo si era arenata, in un certo
modo, sul piano dei principi.Ma contemporaneamente si muta anche il destinatario del
messaggio. Infatti tutto ciò che la saggezza greca ebbe a dire sulla schiavitù era innanzitutto
rivolto proprio agli oppressi, che dovevano riacquistare la consapevolezza del loro valore
umano nel messaggio di salvezza. La sua humanitas era la virtù del saggio politico, non
quella del buon pardrone di casa.Ma nella prassi agiva in tutti i campi della vita, anche in
quello della vita privata. E se lo storico del diritto, al tempo del tramonto della repubblica non
può non riconoscere una effettiva mitigazione della sorte degli schiavi sul piano giuridico,ma
solo su quello di fatto, questo deriva soltanto dall’humanitas verso i peregrini, elevata a
principio a partire dal II secolo a.C. È interessante notare come lo stesso Cicerone, che nel
De officiis non dice quasi nulla di umano sul trattamento degli schiavi, personalmente
avesse un cuore tenero verso qualche suo schiavo, anzi fosse sinceramente affezionato a
loro e giustificasse questo comportamento davanti ai suoi amici. […] Seneca aggiunge alla
filosofia stoica l’humanitas pratica dei Romani nei riguardi dei non-liberi; e d’altra parte dà a
questa tendenza ad esercitare la sensibilità umana nella vita quotidiana un contenuto
filosofico e un’espressione letteraria […] la scoperta fatta dai Greci dell'uomo nello schiavo si
era da tempo diffusa in forma sotterranea nel diritto relativo alla schiavitù, che a Roma era
particolarmente rigido; con l’intervento filosofico-letterario di Seneca questa diffusione
diventa cosciente e con ciò dallo stadio dell’abitudine e dell’utilità pratica entra in quello di
una valida esigenza morale. Si andrebbe sicuramente troppo in là se dicessimo che Seneca
ha introdotto una nuova epoca di etica sociale. Chiunque non sia prevenuto sente con
simpatia come il suo appello sia pervaso da grande calore umano e da sincera volontà. Ma
io credo che l’ulteriore sviluppo nella società e nel diritto romano si sarebbe verificato anche
senza le affermazioni di Seneca in maniera sostanzialmente non diversa da quanto appare
nella realtà.

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