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giuSeppe di giaComo

DA NIETZSCHE AD ADORNO
Modernità di Wagner e il paradosso della redenzione

1. Nietzsche interprete di Wagner

Il dramma musicale wagneriano ha destato nel giovane Nietzsche la


speranza nella rinascita della vita spirituale tedesca. Nella Nascita della
tragedia questa rinascita gli appare nella figura del Siegfried wagneriano:

Immaginiamo una generazione che cresca con questa intrepidezza di sguar-


do, con questo eroico slancio verso l’immenso, immaginiamo l’ardito passo
di questi uccisori di draghi, la superba temerarietà con cui volgono le spalle a
tutte le dottrine di mollezza dell’ottimismo, per “vivere risolutamente” in tutto
e per tutto: non sarebbe forse necessario che l’uomo tragico di questa civiltà
desiderasse, nell’educare se stesso alla serietà e al coraggio, un’arte nuova,
l’arte della consolazione metafisica?1

Nietzsche punta ancora sulla “consolazione metafisica”, per poi cercare


in seguito, dopo il suo distacco da Wagner, un punto di vista che superi
quel bisogno di consolazione. Nel libro sulla tragedia e in Richard Wagner
a Bayreuth2, Nietzsche pensa comunque ancora alla “consolazione meta-
fisica” nel senso di una rianimazione del mito, lodando la forza creatrice
di miti dell’opera wagneriana. Nella Nascita della tragedia Nietzsche de-
finisce il mito come un’“immagine concentrata del mondo”3, attraverso cui
la vita viene immersa nella luce di una più elevata significatività: “Senza
mito però ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un
orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di
civiltà”4. L’immaginazione e il pensiero vengono protetti, mediante il mito,
dal pericolo del “vagare senza direzione”; non a caso, l’uomo privo di miti

1 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, p. 14.


2 Cfr. F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, in Scritti su Wagner, Adelphi, Mi-
lano 1979.
3 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 151.
4 Ibidem.
14 Prospettive su Wagner

del presente è per Nietzsche uno sradicato, che cerca stabilità nel possesso,
nella tecnica e nella scienza.
Se nella Seconda inattuale viene sottoposto a critica lo storicismo quale
ausilio per la vita, già nel libro sulla tragedia troviamo:

A che cosa accenna l’enorme bisogno storico della cultura moderna insod-
disfatta, l’affastellarsi di innumerevoli altre culture, la divorante volontà di co-
noscere, se non alla perdita del mito, alla perdita della patria mitica, del mitico
grembo materno?5

Nietzsche si rivolge al mito perché, da un lato, non può più credere in


senso religioso e, dall’altro, non ritiene la ragione capace di dare un orien-
tamento alla vita. L’uomo, nel suo avere per fine la conoscenza, vorrebbe
essere riconosciuto non solo da altri uomini ma anche da un cosmo colmo
di senso: pur facendo parte della natura, si è distanziato da essa tramite
la sua coscienza, e si aspetta che nella natura ci sia qualcosa di analogo a
questa sua stessa coscienza; ebbene, i miti sono tentativi di giungere a un
dialogo con la natura, dal momento che per la coscienza mitica i processi
naturali hanno in sé un significato.
È stato Hölderlin, tanto amato da Nietzsche, che in modo particolarmen-
te eloquente ha cercato una lingua attuale per quell’esperienza mitica che
per la grecità doveva essere stata un’esperienza quotidiana e immediata. La
perdita di questa immediatezza, secondo Hölderlin, fa svanire la possibilità
che il reale si manifesti nella sua essenza al nostro sguardo; per questo non
si “vede” più la terra, non si “ode” più il canto degli uccelli, e la lingua fra
gli uomini si è “disseccata”: Hölderlin chiama questo stato di cose la “not-
te degli dei”6. Da questo punto di vista, i miti sono creati sia per produrre
rapporti sensati in una società nella quale il senso è stato eroso, sia anche
per rispondere al grande silenzio della natura.
Anche Wagner e Nietzsche hanno percepito la loro epoca come un’e-
poca di crisi, in quanto povera di senso, e perciò hanno cercato di trovare
nuovi miti nella sfera dell’arte. In Wagner, l’arte prende il posto della re-
ligione, e se Nietzsche all’inizio si lascia influenzare da questa visione, in
seguito se ne distanzia in direzione di un’“arte di vivere”: dall’arte egli si
auspica che venga non una redenzione bensì un potenziamento della vita.
Così, quello che dividerà Nietzsche e Wagner, dopo un iniziale accordo, è

5 Ivi, p. 152.
6 Cfr. R. Safranski, Nietzsche. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 2018, pp.
83-4.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 15

il contrasto fra una produzione mitica che pretende una validità religiosa
(Wagner) e una dimensione estetica nella quale il mito sta al servizio della
vita (Nietzsche). Comunque, prima di arrivare alla rottura, Nietzsche si
sente legato a Wagner nel tentativo di istituire un nuovo mito a partire dallo
spirito della musica:

Musica e mito tragico sono in uguale maniera espressioni dell’attitudine


dionisiaca di un popolo e inseparabili una dall’altro. […] Qui il dionisiaco,
confrontato con l’apollineo, appare come la potenza artistica eterna e origina-
ria, che suscita in genere all’esistenza tutto il mondo dell’apparenza.7

Nel saggio Arte e rivoluzione8, Wagner fonda il suo progetto dei Nibe-
lunghi, nel quale mette in contrasto la cultura idealizzata dell’antica polis
greca con i rapporti culturali della moderna società borghese. Nella polis
greca, società e individuo, interessi pubblici e privati si conciliavano reci-
procamente, e per questo l’arte aveva un valore autenticamente pubblico;
insomma, essa era un evento attraverso il quale il popolo esplicitava il
senso e i principi della sua vita comunitaria. Tuttavia per l’arte moderna,
sostiene Wagner, non esiste più un tale pubblico; l’opinione pubblica è
diventata un mercato e l’arte è finita sotto la coercizione della commer-
cializzazione, sì che, al pari di altri prodotti, viene offerta e venduta come
merce sul mercato. Secondo Wagner questo è un processo scandaloso, per-
ché l’arte dovrebbe possedere una dignità fine a se stessa, mentre invece il
capitalismo l’avvilisce, degradandola a mero strumento di intrattenimento;
la corruzione della società ha corrotto anche l’arte e, senza una rivoluzione
della società, nemmeno l’arte potrà trovare la sua vera essenza, che con-
siste nel dispiegamento dell’energia creativa umana e, quindi, nella possi-
bilità di un uomo autenticamente libero. Così, secondo Wagner, se l’arte
greca si è sviluppata in armonia con la società, nel mondo contemporaneo
l’arte non può che svilupparsi in antitesi con la società stessa, cioè essere
rivoluzionaria, dove rivoluzione significa rigenerazione dell’umanità, una
rigenerazione che è soprattutto estetica, dal momento che il nuovo mondo,
che dovrà emergere dalla rivoluzione politica, deve essere tale da poter
accogliere la nuova arte, l’“opera d’arte dell’avvenire”.
L’anello del Nibelungo abbozza l’immagine di un uomo libero, narran-
do del tramonto degli dei che falliscono a causa della loro stessa volontà
di potenza; essi hanno corrotto il mondo fin dall’inizio, non riuscendo a

7 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 161.


8 Cfr. R. Wagner, Arte e rivoluzione, Guaraldi, Firenze 1973.
16 Prospettive su Wagner

conciliare fra loro i due principi fondamentali della vita, l’amore e il pote-
re; per questo essi aspirano a un nuovo inizio, che però è possibile soltanto
se il loro potere tramonta per dare luogo a un’umanità non più subordinata
al volere degli dei. Il Walhalla, la sede degli dei, va in fiamme quando
Brünnhilde restituisce l’anello, simbolo del potere, all’elemento dell’acqua
e perciò all’immanenza della natura, quando dunque sparisce dal mondo il
potere distaccato dall’amore. Nel regno dei Nibelunghi, dall’oro sottratto
da Alberich alle Figlie del Reno, viene forgiato un anello che conferisce
un grandissimo potere: è come se Wagner, in questo modo, avesse voluto
personificare lo spirito demoniaco dell’epoca industriale; e, se gli dei stessi
partecipano alla corruzione generale del mondo, allora il nuovo inizio si
darà senza dei. Il Ring aveva bisogno, secondo Wagner, di uno spazio –
quello appunto di Bayreuth – che dirigesse tutta l’attenzione sugli avveni-
menti della scena, catturando il pubblico e mettendolo in uno stato d’animo
solenne, dal momento che per lui il dramma musicale è una redenzione
della sofferenza dovuta al disagio nella civiltà. Da questo punto di vista,
Nietzsche vede l’arte fare ritorno, con Wagner, alla sua origine nell’antichi-
tà greca: essa diventa nuovamente quel sacrale evento sociale che celebra
l’importanza mitica della vita e il cui nome è il “dionisiaco” e questo per-
ché “il dionisiaco, con la sua gioia originaria percepita anche nel dolore, è
il grembo comune della musica e del mito tragico”9. Quello che Nietzsche
si aspetta, infatti, dal dramma musicale di Wagner, è la riunificazione dio-
nisiaca, quella comunione mediante l’arte che egli descrive sull’esempio
della tragedia greca:

Sotto l’incantesimo del dionisiaco […] si restringe il legame fra uomo e


uomo […] Ora […] ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo
prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maya fosse stato
strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità origi-
naria.10

Nietzsche vede dunque nel dramma musicale wagneriano una grande


rappresentazione universale dionisiaca, un medium che dischiude un ac-
cesso agli strati elementari della vita e, dal momento che è il mito che può
dire quello che è incomprensibile per il logos, allora sarà la musica a intrat-
tenere il rapporto più intimo con il mitico. Insomma, la musica rende pos-
sibile una profonda coesione sociale in una dimensione che prima veniva

9 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 159.


10 Ivi, pp. 25-26.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 17

chiamata “mitica”, e Nietzsche crede capace di quest’opera di unificazione


il dramma musicale wagneriano. La vita dionisiaca, afferma Nietzsche, è
tragica poiché si compie con la morte e il divenire, e l’armonia universale
si trova nella consapevolezza della necessità del tramonto e del sacrifico;
è una consapevolezza alla quale si è elevato “l’uno-originario, in quanto
eternamente soffre ed è pieno di contraddizioni”11 e al quale si mostra il
gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale. Lo spettatore
della tragedia o del dramma musicale si identifica con l’eroe tragico, per
esempio con Siegfried, ma lo guarda come immagine luminosa sullo sfon-
do oscuro della vita dionisiaca. Una tale immagine luminosa nella notte,
“in fondo alle cose della vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze,
indistruttibilmente potente e gioiosa”12. L’oscuro sottofondo della vita dio-
nisiaca risuona nella musica e, non a caso, sempre nella Nascita della tra-
gedia Nietzsche parla di “orgiasmo musicale”13: egli percepisce la musica,
tanto più quella wagneriana, in maniera così intensa da intendere l’agire
sul palcoscenico del dramma musicale e i miti ivi messi in scena non solo
come “immagine luminosa”, bensì anche come una sorta di schermo pro-
tettivo contro la violenza divorante della musica pura e assoluta:

La più luminosa chiarezza dell’immagine non ci bastava, poiché essa sem-


brava tanto rivelare quanto nascondere qualcosa; e mentre l’immagine con la
sua rivelazione simbolica sembrava incitare a strappare il velo, a scoprire lo
sfondo misterioso, d’altra parte proprio quella totale, irradiata visibilità teneva
l’occhio in sua balia, impedendogli di penetrare più a fondo.14

La coscienza dionisiaca, all’interno della quale si esercita l’arte, è una


santificazione della vita; tale coscienza, grazie al medium artistico, pene-
tra nella vita che sarà sempre ingiusta nei confronti del singolo, al quale
rimane soltanto la possibilità di una liberazione tramite la comunione col
processo vitale nel suo complesso: per Nietzsche, questa è la “consolazione
metafisica”15 che l’arte garantisce. Tale consolazione è di natura puramente
estetica, e non è un modo per trovare consolazione in un mondo ultrater-
reno con la promessa di un regno futuro di grande giustizia. Questa con-
solazione metafisica dunque, nella sua dimensione tragico-dionisiaca, se
da un lato è in aperto contrasto con la giustificazione metafisico-religiosa

11 Ivi, p. 35.
12 Ivi, p. 54.
13 Ivi, p. 139.
14 Ivi, p. 157.
15 Ivi, p. 54.
18 Prospettive su Wagner

del mondo, dall’altro si trova in contrasto anche con la dimensione mora-


le. La morale, pur rivolgendosi al singolo, è volta, sì, a un miglioramento
del mondo, ma manca di “saggezza dionisiaca”, ed è proprio per questo
che l’atteggiamento morale rifugge lo sguardo spietato della vita. A questo
sguardo, infatti, si mostra che ogni tentativo di far regnare qui e ora la giu-
stizia ha sempre l’effetto di generare ingiustizia altrove, sì che il processo
complessivo è un nesso di delitto e colpa, e la felicità che si può godere
nell’istante è davvero uno scandalo di fronte alla sofferenza del mondo.
Più in generale, per Nietzsche, l’atteggiamento morale significa un restrin-
gimento del campo che viene dischiuso dalla “saggezza” dionisiaca: in-
somma, la saggezza ha un valore non religioso né morale bensì estetico, ed
è per questo che “solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono
eternamente giustificati”16.
Secondo Nietzsche, il pubblico contemporaneo deve maturare prima di
accogliere l’arte nel modo serio che merita: bisogna avere uno stato d’a-
nimo tragico per dimostrarsi degni della serenità estetica, bisogna essere
privi di illusioni per amare la vita, anche scoprendo la sua mancanza di
senso, giacché l’attimo estetico è un momento di felicità che compensa di
ogni lotta e di ogni difficoltà. Questo momento di felicità è una “suprema
estasi” quale, per Nietzsche, è appunto il dramma musicale wagneriano, e
tuttavia l’inaugurazione del primo Festival di Bayreuth sarà per Nietzsche
una vera delusione. Si tratta di un’esperienza decisiva che porta Nietzsche
ad abbandonare le sue vedute “metafisico-artistiche”, ed egli descrive la
sua esperienza vissuta a Bayreuth nel 1876 come un’esperienza che lo ha
ridestato da un sogno. È vero che Wagner ha fatto perire gli dei sul palco-
scenico – questa rimane per Nietzsche una grande azione – e che inoltre
è rimasto fedele alla volontà di incantare tramite il mito, e anche in ciò
Nietzsche lo ha seguito; ma un po’ per volta risulta chiaro a quest’ultimo
che dopo la morte degli dei rimane soltanto un evento estetico, al quale si
può dare certamente un’apparenza di mitico, ma che non si può tuttavia
trasformare in un evento religioso.
Questo pensiero matura in Nietzsche già prima della delusione di
Bayreuth, quando fa esperienza di come il sacro evento artistico possa
precipitare nella banalità. Nietzsche inizia così a combattere il principio
centrale dell’intera impresa wagneriana, in base alla quale in una realtà
colma di sofferenza è la potenza dell’opera d’arte che pretende di porre
l’illusione consapevole al posto della realtà. Nietzsche inizialmente con-
divide l’idea di Wagner, espressa in Stato e religione (1864), secondo la

16 Ivi, p. 45.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 19

quale chi è incantato dall’arte viene coinvolto nel suo gioco a tal punto
che esperisce ormai la cosiddetta serietà della vita soltanto come un gio-
co: insomma, l’opera d’arte farebbe in modo che la realtà ci appaia come
illusione. Successivamente, però, egli rifiuta l’idea che si possa accedere a
una tale “illusione consapevole”, dal momento che sono ormai distanti quei
periodi nei quali il culto della tragedia viene soltanto esteticamente goduto,
e questo significa che dalla civiltà antica noi siamo separati per sempre.
Ormai, dunque, per Nietzsche è solo un sogno pensare a una rinascita del
mito e della tragedia nel segno di Wagner.
A ben vedere, l’ambiguità di Wagner, che non a caso presto Nietzsche
gli rimprovererà, sta nel fatto che Wagner, se da una parte collegandosi a
Schopenhauer formula le sue idee sulla redenzione tramite l’arte, dall’altra
si rende conto che è ormai il mercato a determinare il successo di un’opera
d’arte: ciò che arriva sul mercato deve avere un lato sensazionale che cat-
turi, e di qui l’inizio del grande periodo dell’estetica della merce. È questo
il presupposto che rende predominante, nell’epoca di Wagner, il desiderio
di conquistare il pubblico mediante la compiacenza e la provocazione, con
la conseguenza che l’arte finisce per valere per i suoi effetti commerciali
e, se ciò che conta sono tali effetti, Wagner non disdegna nulla di ciò che
rende possibile la sua ascesa: insomma egli è stato il fondatore moderno di
una religione dell’arte e, insieme, uno stratega della commercializzazione
della sua stessa arte. Nietzsche nota già molto presto questo tratto sensa-
zionalistico e ossessionato dall’efficacia commerciale di Wagner, anche se
quest’ultimo voleva ottenere l’effetto sacrale e redentore attraverso un’o-
pera d’arte totale, un’opera cioè di tipo mitico-religioso; ora, sempre per
Nietzsche, è proprio questa accezione di “mito” a essere regressiva, dal
momento che dà luogo a un “teatro totale” che si riduce a uno spettacolo in
grado di avvolgere interamente lo spettatore.
Possiamo ripercorrere queste diverse prese di posizione di Nietzsche nei
confronti di Wagner attraverso i suoi scritti. In Richard Wagner a Bayreuth
Nietzsche afferma che in nessun altro artista si può scorgere una tale eleva-
zione morale che viene espressa non solo dal mito ma anche dalla musica.
Nietzsche trova infatti nell’Anello del Nibelungo “la musica più morale che
[si] conosca”17 e, guardando indietro a Tannhäuser e all’Olandese volante,
si può sentire come l’uomo Wagner si sia trasformato. La tragedia vuole che
“il singolo sia consacrato a qualcosa di sovrapersonale; egli deve disimpa-
rare la terribile angoscia che la morte e il tempo causano all’individuo”18:

17 F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, cit., p. 86.


18 Ivi, p. 101.
20 Prospettive su Wagner

questo è il significato del sentire tragico e, in questo senso, la sola speranza


è che il sentimento tragico non muoia. Wagner condensa in unità ciò che
prima era separato e incompatibile, e lo fa scoprendo un rapporto fra due
cose che sembrano vivere estranee, come in sfere distinte: la musica e la
vita, e parimenti la musica e il dramma.
Noi abbiamo bisogno dell’arte proprio perché siamo diventati “veggenti
di fronte al reale”19, e la tragedia è la splendida saggezza che viene donata
alla vita. Ora, “il genio del dramma ditirambico getta via da sé l’ultimo
velo”20, sì che il suo modo di guardare al mondo acquista ulteriore pro-
fondità ed egli va fino in fondo: “qui vede che il dolore è nell’essenza
delle cose e […] accetta d’ora in poi con maggiore serenità la sua parte di
sofferenza”21. Tristano e Isolda è per Nietzsche “il vero opus metaphysi-
cum di tutta l’arte, un’opera da cui promana lo sguardo di un morente,
con la sua insaziabile, dolcissima nostalgia dei misteri della notte e della
morte”22; si tratta di un’opera lontana dalla vita, in quanto quest’ultima è
male, inganno e separazione, là dove il dramma è essere uno nella dualità.
L’elemento poetico in Wagner si mostra in ciò, che “egli pensa per fatti
visibili e sensibili, non per concetti”23, e questo significa che egli pensa
miticamente. Alla base del mito, infatti, non sta un pensiero, giacché è esso
stesso un pensare che esprime una concezione del mondo nella successio-
ne di fatti, azioni e dolori. L’Anello del Nibelungo è un enorme sistema di
pensiero senza la forma concettuale del pensiero stesso, e in esso Wagner,
come Eschilo, mostra la via verso un’arte futura. Secondo Nietzsche, di
Wagner musicista si potrebbe dire in generale che ha dato un linguaggio a
tutto ciò che nella natura non aveva ancora voluto parlare; la sua musica
è nel suo insieme un’immagine del mondo, così come questo è stato con-
cepito da Eraclito, cioè come “l’armonia che la lotta produce da sé, come
l’unità della giustizia e dell’inimicizia”24.
Come sostiene Nietzsche in questo scritto, l’instabile, il disperato, trova
la redenzione del suo tormento attraverso l’amore pietoso di una donna
che preferisce la morte all’infedeltà (motivo dell’Olandese volante); la
donna amante, rinunciando a ogni felicità propria, diventa, in un celeste
mutamento dell’amor in caritas, santa, e salva l’anima dell’amato (motivo

19 Ivi, p. 118.
20 Ivi, p. 128.
21 Ibidem.
22 Ivi, p. 129.
23 Ivi, p. 135.
24 Ivi, p. 144.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 21

del Tannhäuser); ciò che è più magnifico e più alto scende anelante sugli
uomini, non volendo che gli si chieda da dove venga e, quando la funesta
domanda viene fatta, ritorna per dolorosa necessità alla sua vita superiore
(motivo del Lohengrin); l’anima amante della donna e così anche il popolo
accolgono volentieri il nuovo genio, apportatore di felicità, benché i cultori
della tradizione lo respingano (motivo dei Maestri cantori); due innamo-
rati, non sapendosi amati, desiderano bere l’uno dall’altra la bevanda di
morte che libera la loro anima, conducendola a una breve felicità, come se
veramente fossero sfuggiti al giorno e all’illusione della vita stessa (motivo
del Tristano e Isolda). Nell’Anello del Nibelungo l’eroe tragico, Wotan, è
un dio assetato di potenza, e percorrendo tutte le vie per ottenere tale poten-
za si lega con patti e perde la libertà, finendo implicato nella stessa maledi-
zione che pesa sul suo destino. Egli sperimenta la sua mancanza di libertà
proprio nel fatto di non aver più alcun mezzo per impadronirsi dell’anello
d’oro, che è un pericolo per lui stesso finché è nelle mani dei suoi nemici.
Dal momento che è preso dal terrore del tramonto di tutti gli dei, questo
eroe si dispera all’idea di dover assistere impotente a questa fine, ed è per
questa ragione che ha bisogno dell’uomo libero e senza paura (Siegfried)
che, in lotta contro l’ordine divino, sia in grado di compiere per proprio
conto l’impresa negata al dio stesso. Proprio quando si risveglia una nuova
speranza, Wotan deve obbedire all’obbligo che lo lega: di propria mano
deve annientare chi ha dimostrato la compassione più pura verso la sua
sofferenza, ovvero Brünnhilde. Alla fine però è preso dalla repulsione per
questa potenza che porta in grembo il male, al punto che tale volontà si
spezza facendogli desiderare la fine. Solo a questo punto accade ciò che
aveva tanto desiderato: appare l’uomo libero e senza paura, la cui nascita
contraddice ogni tradizione. I suoi genitori devono espiare il legame con-
tro l’ordine della natura e del costume che li ha congiunti, e sono costretti
a perire mentre Siegfried vive. Wotan segue le sorti dell’eroe con occhio
amorevole e paterno, e la nausea abbandona la sua anima.
Nel Caso Wagner25, però, il giudizio di Nietzsche cambia. Voltare le
spalle a Wagner è stato per lui un destino, e forse nessuno ha avuto in ma-
niera più pericolosa la possibilità di crescere col wagnerismo, nessuno si
è con maggiore durezza difeso da esso, nessuno ha maggiormente gioito
dell’essersene liberato. Se il filosofo esige dentro di sé di diventare “senza
tempo”, allora la sua lotta più dura la deve sostenere con ciò per cui egli è
figlio del suo tempo: ora Nietzsche, come Wagner, è figlio di questo tempo,
cioè un décadent, solo che Nietzsche ha compreso ciò e se ne è difeso, tan-

25 Cfr. F. Nietzsche, Caso Wagner, in Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979.


22 Prospettive su Wagner

to che quello che lo ha più profondamente occupato è proprio il problema


della décadence, dove la morale nega la vita. Per superare ciò, Nietzsche
ha dovuto prendere posizione contro tutto ciò che di malato vi era in lui,
compreso Wagner, compreso Schopenhauer, facendo maturare in sé un di-
sincanto profondo per tutto ciò che appartiene al tempo di oggi. Insomma,
la più grande esperienza della sua vita è stata una guarigione, e Wagner
appartiene alla sua malattia. Se con questo scritto Nietzsche sostiene la
tesi che Wagner è dannoso, vuole anche sostenere a chi egli sia tuttavia
indispensabile, cioè appunto al filosofo. Il fatto è che Wagner riassume la
modernità e, per questo, Nietzsche è consapevole che si deve cominciare
con l’essere wagneriani.
Nietzsche afferma di aver udito per venti volte la Carmen di Georges
Bizet e ogni volta gli sembrava di essere più filosofo: è questa – dice –
una musica senza la menzogna del grande stile. In Bizet non c’è alcun
sentimentalismo “tipo Senta”, ma è l’amore come fatum, come fatalità,
cinico, innocente, crudele – e appunto in ciò natura. Inoltre per Nietzsche,
se il bisogno di “redenzione” è la forma d’espressione della décadence, di
fatto su nessun’altra cosa Wagner ha meditato così profondamente come
sulla redenzione: il suo dramma musicale è il dramma della redenzione,
e c’è sempre nelle sue opere qualcuno che vuole essere redento. Come
scrive sempre Nietzsche, Wagner ci ha insegnato che l’innocenza redime
(Tannhäuser), che anche l’ebreo errante viene redento, diventando seden-
tario quando si sposa (Olandese volante), o che vecchie donne corrotte
preferiscono essere redente da casti giovinetti (Kundry nel Parsifal), che
a belle ragazze piace soprattutto venire redente da un cavaliere (Maestri
cantori di Norimberga), e che anche signore sposate si fanno volentieri re-
dimere da un cavaliere (Isolda nel Tristano e Isolda). Del resto, sempre per
Nietzsche, la storia dell’Anello è una storia di redenzione, “solo che questa
volta è Wagner a venire redento”; per Nietzsche, insomma, Wagner non è
tanto un uomo quanto una malattia: “Egli ammala tutto ciò che tocca – egli
ha ammalato la musica”26.
In Nietzsche contra Wagner27, le obiezioni di Nietzsche contro la musi-
ca wagneriana sono obiezioni fisiologiche, non mascherabili con formule
estetiche, dal momento che per lui l’estetica è solo fisiologia applicata. Ora,
secondo Nietzsche, Wagner ha rovesciato il presupposto fisiologico della
musica esistita fino ad allora: quella “melodia infinita” che vuole rompere

26 Ivi, pp. 172, 174.


27 F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, in Scritti su Wagner, Adelphi, Milano
1979.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 23

ogni simmetria di tempo e di forza, arrivando a porre il caos al posto del


ritmo-cosmo. Nietzsche afferma di avere interpretato inizialmente la mu-
sica wagneriana come l’espressione di una potenza dionisiaca dell’anima,
credendo di udire in essa il terremoto con cui una primordiale forza di vita,
accumulata da un tempo immemorabile, trova finalmente sfogo. Ma, so-
stiene, esistono due specie di sofferenza per la vita, una in fase di crescita e
l’altra di declino: la prima è quella di coloro che, soffrendo di una sovrab-
bondanza di vita, vogliono un’arte dionisiaca, l’altra è quella di coloro che,
soffrendo di un impoverimento di vita, desiderano dall’arte e dalla filosofia
la quiete. Quest’ultima è la vendetta sulla vita stessa, la più voluttuosa
specie di ebrietà per tali esseri immiseriti: a questi ultimi corrispondono
sia Wagner che Schopenhauer, che negano la vita e con ciò si pongono agli
antipodi di Nietzsche. Allo stesso modo, per Flaubert l’uomo non è nulla
e l’opera è tutto: qui è il principio della décadence, la volontà della fine
tanto nell’arte quanto nella morale. Non solo, ma secondo Nietzsche, il
Parsifal è “una materia da operetta par excellence”28, giacché un Parsifal
inteso seriamente sarebbe l’espressione di un odio verso la sensualità e di
un cristianesimo mostruoso. Il fatto è che si è impadronito di Wagner, come
di Flaubert, un odio contro la vita, e il Parsifal è infatti un’opera di avve-
lenamento dei presupposti della vita stessa, rafforzata dalla predicazione
della castità, con la conseguenza che con quest’ultima opera Wagner si è
prostrato “dinanzi alla croce cristiana”29.

2. Wagner e la questione dell’attesa nella lettura di Adorno

Come scrive Theodor W. Adorno in Wagner, è lo stesso Wagner ad af-


fermare che le sue tendenze giovanili, la sessualità e l’ideale ascetico, sono
stati alla base della sua “ulteriore evoluzione artistica” grazie al loro rap-
porto con la morte. Non a caso, piacere e morte divengono sempre più
una cosa sola: come Brünnhilde, nel Siegfried, alla fine dell’Atto III, si
abbandona all’amato per il lebender Tod (“morte vivente”) nel momento in
cui si risveglia alla vita, così Isolda sente la sua morte come höchste Lust
(“suprema letizia”); del resto, proprio là dove il contrasto tra sessualità e
ascesi è presentato in forma immediatamente tematica, nel Tannhäuser,
tale contrasto si incrocia con la morte. Di fatto, c’è in Wagner una profon-
da ambiguità, che Adorno vede espressa nell’affermazione di Hans Sachs:

28 Ivi, p. 227.
29 Ivi, p. 229.
24 Prospettive su Wagner

“Non posso ricordare…e neppure dimenticare”; così nulla in lui è univoco,


dall’ambivalenza tra sessualità e ascesi fino alle figure ambigue di Kundry,
penitente e seduttrice, e di Siegfried, infedele e fedele.
È in questa prospettiva che, sempre per Adorno, Wagner revoca il tempo:
l’eternità nella sua musica, come mostra esemplarmente il Ring, è l’eternità
del “nulla-è-successo, quella di una invariante che smentisce tutta la storia
attraverso la natura muta”30. In questo senso le Figlie del Reno, che prima
perdono l’oro e poi lo recuperano, rappresentano la conclusione della mu-
sica di Wagner: nulla muta, ed è per questo che la sua musica non conosce
movimento. Di qui il prevalere del momento della totalità, che esclude
autentiche interazioni dialettiche, con la conseguente svalutazione del mo-
mento singolo, come mostra quella “melodia infinita” nella quale si risolve
ogni particolare. Tale revoca del tempo si manifesta nei lunghi racconti dei
personaggi che impongono l’arresto dell’azione, mentre tentano di presen-
tare il “sempre uguale” come “sempre nuovo” e il momento statico come
momento dinamico. Così – continua Adorno – il tempo si dà, per “incan-
tesimo”, come spazio, che è quanto dice Gurnemanz al giovane Parsifal,
nell’Atto I del Parsifal: “Vedi, figlio mio, qui il tempo si fa spazio”. Ora,
secondo Adorno, proprio la negazione del tempo e l’ideale ascetico, che in
modo esemplare caratterizzano il Parsifal, sono in funzione dell’oscuranti-
smo e, nell’esprimere il rancore contro la felicità dei sensi, contribuiscono
alla dissoluzione dell’apparenza estetica che, sola, può realizzare quella
“promessa” dell’arte – la “promessa di felicità” di stendhaliana memoria
–, nella quale si esprime la contraddizione del reale rispetto al possibile:
il risultato di una tale dissoluzione è la negazione di ogni possibilità e,
dunque, di ogni dimensione utopica. La tesi di Adorno è che il tentativo
di Wagner di superare il tempo per raggiungere l’Eternità, e di negare il
particolare-singolare per attingere la Totalità e l’Assolutezza, va letto, sì,
come il tentativo di sfuggire alle esigenze del mercato, ma è proprio in que-
sto modo che la sua opera si inserisce nella dimensione della merce ancora
più a fondo. Di fatto, la sonorità che cela la sua genesi, presentandosi come
assoluta, ha carattere di merce non meno della sonorità triviale, sebbene sia
stata prodotta al fine di evitare proprio questo carattere.
Il fatto è che le opere d’arte, secondo Adorno, devono la loro esisten-
za all’unità-distinzione tra elemento intelligibile ed elemento sensibile31.
Così, anche se la loro esistenza si presenta come autonoma, il loro medium

30 Th. W. Adorno, Wagner, in Wagner Mahler. Due studi, Einaudi, Torino 1966, p.
49.
31 Cfr. Ivi, p. 82.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 25

non è lo spirito puro (l’intelligibile), ma è quell’unità-distinzione, come


tale paradossale, di intelligibile e sensibile. È questo un punto fondamenta-
le, che sarà alla base della Teoria estetica32 scritta molti anni dopo il libro
su Wagner: la forma, cioè il lavoro sugli elementi sensibili, fa emergere
dal proprio interno contenuti (significati, appunto gli elementi intelligibi-
li) sempre nuovi e diversi. Ora per Wagner, le opere d’arte si presentano
come qualcosa di in-mediato, celando così il loro essere mediate, il loro
medium, che è appunto quell’unità-distinzione di elementi sensibili e in-
telligibili. Da questo punto di vista, continua Adorno nel suo Wagner, l’ar-
te che non ha più coscienza di quell’inganno, cioè dell’occultamento del
medium, e quindi del proprio principio, ha dissolto l’elemento sensibile
nel quale, solo, essa può realizzarsi. Di fatto, in Wagner – sostiene Ador-
no – tale coscienza è perduta, e di conseguenza la sua arte si risolve nella
pretesa del proprio “essere in sé”. Così la specificità dell’opera wagneriana
sembra essere quella di celare ogni traccia del lavoro sugli elementi sen-
sibili, e quindi di occultare quell’unità-distinzione di elemento sensibile
ed elemento intelligibile. Quella che Adorno definisce “la menzogna di
Wagner”33 è la pretesa che l’arte sia assolutamente “autonoma”, nel senso
di ab-soluta, sciolta cioè da ogni relazione con gli elementi sensibili, men-
tre è proprio questa relazione che è necessaria all’arte, sì che quest’ultima
è insieme “non-autonoma”, dal momento che negli elementi sensibili, che
costituiscono la sua “forma” in quanto “contenuto sedimentato”, si sono
storicamente sedimentate le tracce del mondo esterno; di qui quella para-
dossalità che è propria dell’arte: essere autonoma e insieme non-autonoma,
ovvero “fatto sociale”. Ma cosa avrebbe spinto Wagner a questa “menzo-
gna”? Evidentemente – come si diceva – la volontà di sfuggire al mercato,
e tuttavia – rileva Adorno – proprio in questo modo l’opera wagneriana
si inserisce nella merce ancora più a fondo. Insomma, se per Wagner solo
in quanto autonoma l’opera d’arte può sfuggire al mercato, per Adorno
invece questa pretesa di totale autonomia finisce col produrre, paradossal-
mente, una mercificazione dell’arte stessa. Di fatto, l’autonomia dell’arte è
voluta proprio dalla società borghese-capitalistica, poiché in questo modo
l’arte, vivendo in una sorta di iperuranio caratterizzato da una dimensione
esclusivamente ideale, non metterebbe in questione lo status quo sociale;
nello stesso tempo proprio questa dimensione idealistica, riducendo il va-
lore artistico a valore di scambio, produce un processo di reificazione che
fa dell’opera una merce.

32 Cfr. Th. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009.


33 Th. W. Adorno, Wagner, cit., p. 82.
26 Prospettive su Wagner

Tornando al Wagner, Adorno sostiene che la “menzogna di Wagner”,


cioè l’occultamento del lavoro della produzione nel prodotto compiuto e
insieme il risolversi della sua arte nella pretesa del proprio essere in sé,
fa tutt’uno con l’idea che l’opera d’arte sia apparenza pura. Ora, se tale
occultamento della produzione è la legge formale di Wagner, poiché l’ap-
parenza estetica non lascia più posare uno sguardo sulle forze e le con-
dizioni della sua produzione reale, allora il suo apparire ha la pretesa di
appartenere all’Essere. Il compimento dell’apparenza è nello stesso tempo
il compimento del carattere illusorio proprio dell’opera d’arte come realtà
sui generis, che si costituisce nel dominio dell’apparenza assoluta. Così le
opere di Wagner tendono all’inganno, alla “fantasmagoria”34: la dimensio-
ne temporale, che è il momento decisivo della produzione, viene trasfor-
mata dalla fantasmagoria in spettacolo illusorio dell’eternità. Per Adorno,
ogni paradossalità dell’arte nel capitalismo maturo – e la sua stessa esi-
stenza è paradossale in esso – si concentra nel fatto che essa, proprio grazie
alla sua reificazione e al compimento del suo carattere d’apparenza, può
essere partecipe della verità. Le opere tarde di Wagner si sono dimostrate
più compiutamente idonee alla spiegazione drammatica di tale fantasma-
goria; così, nel Parsifal, quando Parsifal dice: “Cammino appena, / Eppure
mi sembra già di essere lontano”, Gurnemanz risponde: “Tu vedi, figlio
mio, / tempo qui diventa spazio”; e Adorno così commenta: “I personaggi
stessi perdono la loro empirica collocazione temporale, appena si penetra
nell’inaccessibile regno delle essenze”35. Il fatto è che, continua Adorno, le
figure wagneriane si lasciano utilizzare a volontà come simboli solo perché
nella fantasmagoria la loro esistenza si dissolve come nebbia.
È proprio nella fantasmagoria che l’apparenza estetica viene raggiun-
ta dal carattere di merce e in quanto merce è illusoria: l’assoluta realtà
dell’irreale è solo quella del fenomeno, che non solo cerca di esorcizzare la
propria genesi ma, dominata dal valore di scambio, deve nello stesso tem-
po sottolineare deliberatamente il suo valore d’uso quale realtà artistica.
Come i beni di consumo, venuti alla ribalta all’epoca di Wagner, volgono
ancora alle masse di acquirenti unicamente il loro allettante lato fenome-
nico, e con ciò il loro fenomenico carattere, così le opere wagneriane nella
fantasmagoria tentano di far dimenticare il loro tendere alla merce. Adorno
è perentorio: “dove il sogno è al più alto grado presente, la merce è più che
mai vicina”36; e la fantasmagoria tende al sogno come “occultamento del

34 Ivi, p. 84.
35 Ivi, p. 86.
36 Ivi, p. 88.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 27

lavoro”, dal momento che quello che mette davanti agli occhi è “il prodotto
del suo lavoro, senza che il lavoro vi si possa identificare”37. Sotto la legge
del sogno la fantasmagoria sottostà alla sua particolare dialettica, come
mostra in modo esemplare il Tannhäuser. Non a caso, sottolinea Adorno,
dalle prime parole del protagonista l’inganno è chiamato sogno: “Troppo!
Troppo! Oh, se io non mi svegliassi alfine!”; la sua conversione ascetica è
fondata soltanto sull’ideale della libertà: “Ma io me ne debbo tornare su, al
mondo, alla terra, / Presso di te altro che schiavo non posso diventare, / ma
a libertà io aspiro; / Di libertà, di libertà, io ho sete” (Atto I).
Tannhäuser vuole portare l’immagine del piacere dal Venusberg sulla
terra: il suo commiato da Venere in nome della “libertà” è, sì, sempre per
Adorno, “uno degli autentici momenti politici dell’opera di Wagner”38, ma
proprio questo sarebbe ambiguo, dal momento che la fedeltà a Venere non
è quella al piacere bensì appunto alla sua fantasmagoria. Il suo tradimento
non sta nel recarsi dai cavalieri, ma nel cantare loro, estraneo al mondo e
prigioniero del sogno, l’inno di lode a Venere, quell’inno che per la secon-
da volta lo consegna in sacrificio a quel mondo da cui era sfuggito proprio
nella fantasmagoria, sì che la sua stessa evasione è apparente. Con il bando
del piacere, che la fantasmagoria ci mette davanti, “si associa fin dall’inizio
l’elemento del suo declino”39: si può dire che nell’illusione (il bando del
piacere) è insita la disillusione (il venir meno di questo stesso bando) e ciò
ha nell’opera di Wagner il suo “modello segreto”, quel Don Chisciotte che
Wagner amava tanto, con riferimento evidentemente al finale, dove Don
Chisciotte afferma in punto di morte che, se avesse ancora tempo, rinun-
cerebbe ai libri di cavalleria per altri libri – insomma, non si esce dai libri.
Ma, sostiene Adorno, l’idea estetica di Wagner non si accontenta dell’im-
missione del mondo nella fantasmagoria: quest’ultima deve ampliarsi nel
Gesamtkuntswerk o, come Wagner lo chiama, il “dramma dell’avvenire”,
che riunisce elementi poetici, musicali e mimici.
Wagner sarebbe costretto al motivo fantasmagorico dell’occultamento
nella discussione sull’unità del Gesamtkuntswerk, e proprio là dove egli
caratterizza “l’‘intenzione poetica’ da cui si deve originare ogni opera
d’arte”40: non a caso, lo stesso Wagner parla della necessità di occultare il
processo produttivo a vantaggio dell’intenzione dell’artista; con tale occul-
tamento l’“opera d’arte totale” aspira all’ideale del fenomeno assoluto, che

37 Ibidem.
38 Ivi, p. 89.
39 Ivi, p. 90.
40 Ivi, p. 93.
28 Prospettive su Wagner

la fantasmagoria gli fa balenare davanti. Abbiamo, insomma, a che fare con


un’idea della totalità: “il Ring cerca di cogliere il processo cosmico come
totalità”41, con il conseguente rifiuto di ciò che è isolato e frammentario,
a meno che questi frammenti non vengano riuniti dalla volontà del solo
artista, e pertanto “arbitrariamente”. Non a caso, l’organizzazione interna
si risolve in un principio additivo, completo ma esteriore, di diversi modi
di procedere, e si presenta come se fosse necessaria. Nell’impossibilità di
assegnare funzioni significanti ai singoli mezzi, il dramma musicale appare
come “la forma della falsa identità. Musica, scena, parola vengono integra-
te unicamente in quanto l’autore […] le tratta come se tutte convergessero.
Ma con ciò egli le violenta e sfigura la totalità”42. La conseguenza che da
ciò trae Adorno è che, quando non si coglie come alla fine del Crepuscolo
degli dei vi sia il “motivo della redenzione”, e quindi del superamento
del tempo, allora non si comprende il “compimento” musicale e poetico
dell’opera: questo è il prezzo che il dramma deve pagare nel momento
in cui rinuncia “alla logica puramente musicale della costruzione imma-
nente al tempo”43. Non solo, ma “l’istanza di universale umanità annulla
proprio l’opposto dell’incantesimo, il soggetto storico-realistico”44, con la
conseguenza che la dimensione fantasmagorica espunge ogni dimensione
politica dall’opera. L’idealismo di Wagner “pronuncia così sull’individuo
la condanna di morte” e, non a caso, in Wagner questa totalità onnicom-
prensiva si trasforma in mito; “questo spiega il fatto che non come mere
metafore Wagner ha citato i miti” e, del resto, “sotto il suo sguardo tutto
diviene mitologico”45.
Dal punto di vista di Adorno, l’idea centrale del Ring è che l’uomo si
emancipa dal cieco contesto naturale dal quale proviene lui stesso e ottiene
il potere sulla natura per soccombere a essa, sì che l’allegorismo del Ring
esprime l’unità fra il dominio sulla natura e la resa alla natura stessa. Più
in generale, continua Adorno, nel Ring e nel Tristano e Isolda, “l’ideale
ascetico è […] confuso con l’impulso sessuale. Soddisfazione dell’istinto
e negazione della volontà di vivere si fondono nell’ebrezza, nel lachender
Tod (‘morte ridente’) di Siegfried e Brünnhilde, nella notte d’amore, che
deve procurare l’oblio della vita”46. La nostalgia dell’individuazione può

41 Ivi, p. 96.
42 Ivi, p. 97.
43 Ivi, p. 105.
44 Ivi, p. 106.
45 Ivi, p. 110.
46 Ivi, p. 128.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 29

essere quietata nella pace della morte come nel piacere, ed è per questo
che il piacere in Wagner assume l’immagine di morte e distruzione; così
la morte è esaltata come höchste Lust (“suprema letizia”) e supremo bene.
Già in Schopenhauer si annunciano quel travestimento della morte come
redenzione e quel concetto di “redenzione universale” che in Wagner costi-
tuiranno l’ideologico vertice dell’opera intera. Sotto il nome di redenzione,
la negatività e la negazione del mondo borghese indistintamente vengono
fatte passare per positive, con la conseguenza che “lo sfacelo cosmico alla
fine del Ring” si presenta come “morte e trasfigurazione”; così, sostiene
Adorno, “i morti sono ingannati ancora una volta” nel nome di quella re-
denzione che in Wagner è l’ultima fantasmagoria: questa, in luogo della
trascendenza, “pone l’immagine ingannevole del soggetto sopravvissuto,
elevato, che s’affretta a sorgere nell’istante del suo annichilimento”47. Tut-
tavia, se la redenzione si rivela come il nulla, la fantasmagoria si risolve
come apparenza. Insomma, conclude Adorno, sul sistema e sul suo tramon-
to è pronunciato il giudizio nell’Atto II della Walkiria, che veramente ha
bisogno “del dio terroristico affinché l’opera non denunci l’obbedienza al
destino”48. Soltanto Sigmund, che muore senza speranza, non Siegfried, si
mantiene fedele al sogno di libertà: egli si rifiuta all’ideale eroico, e dunque
al raggiungimento del Walhalla, se l’assoluto vuole sottrargli quella fedeltà
dell’individuazione (e quindi l’unione con Siegliende) che Wagner e Scho-
penhauer aborrono.
Tra i punti centrali del Wagner di Adorno c’è senza dubbio il rapporto
tra “apparenza” e “fantasmagoria”, che in questo scritto sono strettamente
connessi in relazione all’opera di Wagner. Il giudizio negativo che Adorno
esprime sulla nozione di “fantasmagoria”, in quanto occultamento della
produzione nel prodotto – e quindi del divenire nell’essere, e dell’incom-
piutezza e frammentarietà nella totalità –, si estende alla nozione di “appa-
renza”, che fa tutt’uno con l’opera d’arte nella sua pretesa di appartenere
all’Essere. Successivamente però, e in particolare nella Teoria estetica, la
nozione di apparenza acquista per Adorno un valore positivo, diventando
la condizione stessa di quell’opera d’arte che è definita “moderna”. L’arte
è apparenza di ciò che è sempre al di là dell’apparire, di ciò che non ap-
pare: di qui, appunto, la rivalutazione in Adorno del tema dell’apparenza.
Il fatto è che Adorno vede nell’opera d’arte un doppio movimento: da una
parte essa riconcilia in modo ideale, trasfigurato, ciò che nella realtà sociale
resta diviso e irriconciliato, dall’altra però la stessa opera denuncia come

47 Ivi, p. 131.
48 Ivi, p. 134.
30 Prospettive su Wagner

finzione tale conciliazione; è proprio questa, allora, la “funzione critica”


che deve caratterizzare le vere opere d’arte, la cui forma è così negazione
determinata di ciò che da loro stesse viene di volta in volta affermato: di
qui il loro dire e disdire allo stesso tempo. Secondo Adorno, l’opera non
rappresenta più il mondo frammentario e disgregato, ma la disgregazione
è penetrata nella sua stessa forma, sì che quest’ultima non si offre più a
noi come rappresentazione bensì come “testimonianza”, come sempre per
Adorno emerge chiaramente nella musica di Schönberg e soprattutto di
Webern. La conseguenza di ciò è non soltanto l’irrinunciabile dimensione
etica dell’arte moderna che, proprio perché emerge dagli elementi formali
dell’opera, è strettamente connessa a quella estetica, ma anche l’esigenza
adorniana di “salvare l’apparenza”, dal momento che la legittimazione del-
la verità dell’arte dipende proprio da quella salvezza.
Non a caso, nella Teoria estetica il salvataggio dell’apparenza è posto in
opposizione alla tesi idealista secondo la quale l’arte sarebbe manifestazio-
ne dell’Assoluto: per Adorno, infatti, le opere d’arte moderne non soltanto
non sono epifanie, ma non hanno in sé alcun assoluto, giacché il fine di
queste opere è proprio quello di liberarci da tale fiducia. Più in generale,
la nozione di “verità artistica”, sempre nella Teoria estetica, è la seguente:
ciò che l’arte porta all’apparenza non è la luce della redenzione – dove una
tale redenzione implicherebbe la pretesa di dare un significato definitivo
all’apparenza stessa –, ma è la realtà alla luce della redenzione – vale a dire
la realtà vista alla luce non di un significato dato una volta per tutte, bensì
di una indefinita molteplicità di significati possibili. Il contenuto di veri-
tà delle opere d’arte consiste allora nella capacità che esse hanno di fare
emergere la realtà nella sua dimensione più autentica, che è appunto quella
della “possibilità” e quindi dell’utopia. Da questo punto di vista, se Adorno
vuole salvare l’apparenza è perché ciò che teme è che proprio l’apparenza
– vale a dire la forma, che è ciò che nell’arte rivela la finzione, l’immagi-
nario, il possibile non realizzato – sia liquidata in nome di una positività
che trascinerebbe nella sua caduta la promessa utopica contenuta nell’arte.
Così, senza rinunciare all’apparenza, che è la garanzia dell’esigenza
utopica non-realizzata, opere come quelle di Beckett smontano dall’interno
le categorie tradizionali dell’arte. Nel non-senso beckettiano Adorno vede
la verità filosofica dell’epoca e, insieme, il risultato della modernità artisti-
ca, cioè dell’arte stessa: quello che non è rappresentabile in forma sensibile
in queste opere moderne che negano l’apparenza sensibile senza poterne
però fare a meno è – secondo Adorno – lo “spirito”, vale a dire il “più”
(mehr), in quanto contenuto di verità dell’opera stessa. Crisi e salvataggio
dell’apparenza sono allora strettamente coimplicati nell’estetica adorniana:
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 31

in questa prospettiva, l’introduzione dello spirito, del “più”, in arte, sempre


meno compatibile con la mera apparenza, fa sì che l’opera manifesti, nel-
l’“apparizione” esplosiva che infrange la sua stessa apparenza, un contenu-
to di verità, col rischio però di distruggere in questo modo quel fondamento
irrinunciabile della forma artistica che è appunto l’apparenza. Ebbene, è
in questo quadro che Adorno si interroga sulla possibilità che l’arte ha di
sopravvivere a una tale esplosione dell’apparenza: la crisi di quest’ultima,
infatti, è dovuta proprio a quell’esigenza di verità dell’arte che non tol-
lera alcuna menzogna, alcuna illusione; ma se l’apparenza è legittima, è
precisamente perché essa fonda la differenza delle opere in relazione alla
realtà empirica e, insieme, la loro negatività costitutiva in relazione al re-
ale. Il fatto è che, contrariamente alla tradizione platonica, e come già per
Nietzsche, l’origine dell’apparenza non risiede secondo Adorno nei sensi
ma nello spirito al quale l’opera deve dare corpo; ciò vuol dire che l’ap-
parenza artistica manifesta un non-apparente, ed è questa la sua sola giu-
stificazione: “Anche nelle sue vette più alte l’arte è apparenza; ma questa
apparenza, la sua irresistibilità, essa la riceve dal senza apparenza”49.
Insomma, se Adorno nel Wagner critica sia la fantasmagoria che l’appa-
renza è perché pensa che Wagner si serva di queste due nozioni per afferma-
re la “totalità” e l’“identità” a scapito della frammentarietà e della differen-
za che caratterizzano proprio l’arte “moderna”, anche se in quest’ultima, è
bene precisarlo, è sempre implicita una totalità che fa tutt’uno con la forma
e senza la quale quella frammentarietà resterebbe incomprensibile. In que-
sto senso quella di Wagner sarebbe un’arte tradizionale – dove la compiu-
tezza esclude ogni possibile incompiutezza – che non avrebbe oggi nulla
da dirci. Quando nella Teoria estetica Adorno sostiene invece la necessità
di salvare l’apparenza lo fa contro quei movimenti dell’avanguardia che,
proprio nel rifiutare l’apparenza estetica, e quindi la forma, finiscono con
l’identificare l’arte con la vita e con la realtà.
Nella Dialettica negativa Adorno parla di “attesa vana” in quanto attesa
opposta a ogni nozione di riconciliazione e di salvezza: non vi è una ricon-
ciliazione finale, una salvezza ultima in cui sperare. E se è in questo modo
che Adorno interpreta En attendant Godot di Beckett, è proprio perché si
oppone risolutamente a ogni idea di riconciliazione o di salvezza, come a
ogni ipotesi di armonia ultima delle cose. È impossibile che la giustizia
sia resa alle vittime della barbarie: essi sono morti nell’assenza totale di
senso e non è possibile nutrire alcuna speranza che la loro morte possa
conoscere una qualche redenzione. In questa prospettiva, ogni idea di arte

49 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 362.


32 Prospettive su Wagner

come redenzione o come conforto deve essere abbandonata; è quanto mo-


stra appunto Beckett nella pièce En attendant Godot, nella quale troviamo
l’espressione fondamentale di un’attesa vana e la conseguente certezza che
l’assoluto non apparirà.
Questa attesa vana anche la musica deve essere in grado di esprimerla,
testimoniando il fatto che giustizia non sarà resa; ma il problema è proprio
quello di chiedersi, in una prospettiva contemporanea, in che cosa consista
la musica dell’attesa vana. Ora, in Wagner, una delle critiche che Adorno
rivolge a Wagner è proprio quella che nelle sue opere l’attesa è in qualche
modo truccata, dal momento che è interamente dettata dalla sua soluzione
ultima, dal suo risultato. Per questo Adorno contrappone di fatto Wagner a
Beckett, che per lui è l’autore moderno esemplare, capace di rappresentare
l’attesa vana in quanto tale. Adorno accusa Wagner di essere incapace di
trattare in questo modo l’attesa, a causa del suo tipico approccio teleolo-
gico e dell’hegelismo dialettico latente e, non a caso, afferma che “il Ring
del Wagner schopenhaueriano è più hegeliano di quanto Wagner abbia mai
colto”50. È vero che l’attesa più lunga di tutta la storia dell’opera lirica è
sicuramente quella di Tristano nell’Atto III del Tristano e Isolda, e tuttavia
l’obiezione mossa da Adorno è che comunque Isolda alla fine arriva effetti-
vamente. In definitiva, Adorno è contrario a qualsiasi asserzione assoluta e
quindi all’idea hegeliana di sintesi risolutiva; e se ogni riconciliazione con
questa negatività radicale è inconcepibile, allora ogni proposta conclusiva
deve essere evitata. Se l’attesa vana è veramente ciò che è in gioco, e se di
conseguenza non vi devono essere né risoluzione né salvezza, ogni opera
caratterizzata da una risoluzione conclusiva dovrebbe essere messa da par-
te, ed è proprio la forma ad avere il compito di rifiutare la figura risolutiva
di una sintesi immanente.
A questo punto ci si deve però chiedere – con Alain Badiou51 – se il fatto
che nella dinamica teatrale wagneriana questa attesa vana sembra che alla
fine venga esaudita, sia realmente la cosa più importante o se, al contrario,
Wagner non abbia avuto un’intuizione così straordinaria del valore intrinseco
dell’attesa vana, da trarne una poetica senza precedenti, un sistema musi-
cale che differisce costantemente le risoluzioni, creando così uno stato di
incertezza che ha lo scopo preciso di tradurre la vanità dell’attesa. Secondo
Badiou, infatti, l’attesa può essere un’attesa vana, un’attesa che non dipende
da ciò che si compie dopo l’attesa, e in questo senso è paradigmatico il finale
di Tristano e Isolda: che alla fine Isolda arrivi non determinerebbe assolu-

50 Ivi, p. 306.
51 A. Badiou, Cinque lezioni sul “caso” Wagner, Asterios, Trieste 2011.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 33

tamente il modo in cui l’opera caratterizza l’attesa, che è presentata come


attesa in sé. Di fatto, anche se Isolda sopraggiunge, il suo arrivo è in qualche
modo al di là di ogni attesa, dal momento che Tristano non può fare altro che
morire; tutto ciò che egli dice è: “Isolda!”, e dicendo questo muore. Più che
una fine dell’attesa è piuttosto una sorta di prosecuzione, una sua integrazio-
ne, sì che l’attesa si presenta come un’attesa che trova in se stessa la sua con-
clusione: è quanto mostra l’immagine di Tristano morente fra le braccia di
Kurwenald, che troviamo nella splendida regia di Jean-Pierre Ponnelle con
la direzione di Daniel Barenboim (1983). Come suggerisce sempre Badiou,
un’altra messa in scena importante, soprattutto in riferimento alle critiche
di Adorno, è quella di Heiner Müller, realizzata a Bayreuth (1995). Müller
sapeva che Adorno aveva opposto l’attesa di Wagner a quella di Beckett, e
tuttavia nella sua prospettiva l’attesa nel Tristano è identica all’attesa vana in
Beckett. Di conseguenza, Müller ha diretto questo Atto III esattamente come
avrebbe diretto Beckett: le scene rappresentano un paesaggio apocalittico,
invaso dalla polvere, e i personaggi sono coperti di cenere, come in una mes-
sa in scena di Beckett; anche il pastore, che suona col suo flauto un’aria triste
e malinconica, è un personaggio compiutamente beckettiano, dal momento
che è cieco, con gli occhiali neri, ed è seduto sulla nuda terra. Qui non tro-
viamo alcuna redenzione: ciò che viene presentato è un’attesa che ha perduto
ogni speranza e che intensifica l’assenza stessa e, da questo punto di vista,
si potrebbe dire che Wagner ha saputo rinunciare a quella totalità che pure
costituiva il suo obiettivo principale.
Nel saggio Attualità di Wagner52, scritto quasi trent’anni dopo il Wagner,
Adorno sostiene che la situazione complessiva di Wagner si è modificata,
giacché va riconosciuto che nella sua opera si intrecciano indubbiamente
tratti “progressivi” e tratti “regressivi”. Se infatti è vero che non ci si può
immaginare di eliminare dall’opera di Wagner “la dimensione ideologica,
ritrovandosi così tra le mani come residuo l’arte pura”53, tuttavia è anche
vero che la sensazione di lasciare la terraferma e di muoversi nell’“ignoto”
è proprio ciò che costituisce il fascino della sua musica, e tale fascino si può
cogliere solo con un ascolto che sia disposto anch’esso a muoversi nell’igno-
to. Adorno è convinto che è impossibile parlare di fenomeni artistici se non
si affronta la questione relativa alla loro concreta struttura tecnica, ovvero a
quella “forma” che, come sappiamo, per lui è sempre “contenuto sedimen-
tato”. Ora, in particolare nelle opere mature di Wagner, si dà grande rilievo

52 Cfr. Th. W. Adorno, Attualità di Wagner, in Immagini dialettiche, Einaudi, Torino


2004.
53 Ivi, p. 60.
34 Prospettive su Wagner

al principio di progressione, cioè alla ripetizione di brevi motivi – Leitmo-


tive – su un grado superiore, il che ha per lo più un effetto di intensificazio-
ne dinamica. Questo fa sì che l’ordito musicale sia pertanto elaborato più o
meno con la ripetizione di qualcosa di già dato, con la conseguenza che in
Wagner l’incessante mutare termina con l’“immutabile”, il che è già impli-
cito nel suo materiale. Ed è proprio per questa circolarità chiusa, insita nella
concezione della tetralogia della quale il termine Ring è indice preciso, che
appare precluso quell’elemento qualitativamente diverso e nuovo che pure
sul piano estetico sembrerebbe richiesto nei punti critici. Qui l’assoluto, la
redenzione dal mito, sia pure per mezzo di una catastrofe, è possibile solo
in quanto continua ripresa: il mito è la catastrofe in permanenza, ciò che lo
elimina lo compie e la morte, la fine della cattiva infinità, è al tempo stesso
la regressione assoluta. Insomma, se la debolezza estetica sta qui in stret-
ta relazione con il nucleo centrale della concezione – quella di un cerchio
chiuso in sé per necessità del destino, concezione che vieta l’adempimento
di ciò che al tempo stesso promette –, sarà allora chiaro perché i cosiddetti
errori estetici di Wagner nascano dalla metafisica della ripetizione. E tuttavia,
secondo Adorno, perché si possa parlare di attualità di Wagner, bisognereb-
be intervenire nei passaggi dichiaratamente nazionalistici, come il discorso
finale di Sachs, e bisognerebbe liberare i drammi musicali dalle “vergognose
caricature ebraiche” di Mime e di Beckmesser, per lo meno ponendo accenti
diversi nell’allestimento scenico.
Non solo, ma quello che è più importante è che si può rendere giustizia
all’opera di Wagner proprio con una prassi esecutiva che “lasci emergere
le crepe anziché nasconderle”54. Di fatto, proprio a proposito dell’attuale
dibattito sull’antisemitismo manifestato in tanti scritti teorici da Wagner,
bisognerebbe tenere presente il fatto che ciò che conta in un’opera d’arte,
come sottolinea Adorno, è il “contenuto di verità”. Così, afferma Adorno,
per trovare un tale contenuto di verità, si dovrebbe parlare di una “musica
oscura, a dispetto di qualsiasi colore, che fa riferimento alle sventure del
mondo, dandone rappresentazione”55. Del resto

perfino gli aspetti barbarici dell’opera wagneriana esprimono questo: la cultura


che lì viene frantumata, come l’incudine della fucina di Mime, che viene manda-
ta in pezzi da Siegfried, non è cultura, e lo spirito del mondo si comporta vera-
mente come il dispiegamento di una negatività totale messo in opera da Wagner.56

54 Ibidem.
55 Ibidem.
56 Ivi, pp. 75-76.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 35

Insomma, secondo Adorno, la musica di Wagner attende ciò che potrà


farla diventare se stessa: “questa è la sua vera attualità”57.

3. Parsifal e il problema della Redenzione

Il concetto di compassione, che sta alla base del Parsifal, è presente


nella riflessione che Wagner faceva da anni sul concetto di redenzione. E
mentre Parsifal è colui che apre la strada a una tale redenzione, il desiderio
di morte spinge Amfortas a ritrovare l’originaria purezza attraverso la sof-
ferenza. Alla compassione Parsifal perviene attraverso il bacio di Kundry,
al quale seguirà una lunga ‘via crucis’ di redenzione e con questo bacio
Parsifal si fa carico dei dolori dell’umanità: è appunto questo il momento
della compassione. Se Nietzsche accusa Wagner, creatore dell’Anello del
Nibelungo, e quindi del mito antiteologico della fine degli dei, di essersi
“prostrato ai piedi della croce”, di fatto Wagner comprende il cristianesimo
in modo filosofico, facendo riferimento al teatro greco antico, dove a essere
dominante è proprio il momento della compassione come partecipazione
ai dolori dell’umanità. La fede di Wagner, infatti, è una fede filosofica, una
religione della rinuncia e della partecipazione che trae i suoi temi princi-
pali da Schopenhauer e della quale Wagner riconosce i tratti fondamenta-
li nel cristianesimo, in un cristianesimo che, come vedremo, si presenta
come un cristianesimo senza trascendenza. Se il bacio di Siegfried sveglia
Brünnhilde a un “giorno radioso”, il bacio di Kundry dà a Parsifal una
“chiaroveggenza universale” per ciò che è oscuro, per l’“illusione” alla
quale solo sfugge colui che rinuncia, colui che si libera dalla “volontà”,
dal cieco istinto e dall’impulso, condizioni queste per un’autentica parte-
cipazione.
L’opera con la quale il Parsifal ha i più stretti legami è il Tristano e Isol-
da: c’è in entrambe le opere una dialettica tragica, nella quale il cammino
della liberazione conduce a una perdita; è quanto capita a Kundry che, per
ottenere l’assoluzione, vorrebbe essere abbracciata da Parsifal, ma se que-
sti accetta l’abbraccio, soccombendole, come ha fatto Amfortas, lei cadrà
più profondamente nella dannazione alla quale vuole sfuggire. Nell’Atto I
Parsifal, trovandosi nel “dominio sacro” ai piedi della fortezza del Graal,
sente un primo slancio di pietà dopo avere ucciso il cigno, e se questa scena
del cigno è secondaria per l’azione esteriore, è invece capitale per l’azione
interiore. Alla vista delle sofferenze di Amfortas nel corso della cerimonia

57 Ivi, p. 76.
36 Prospettive su Wagner

nel castello del Graal, Parsifal si commuove e tuttavia tale commozione


non si manifesta ancora come riconoscimento della sofferenza del mondo.
Nell’Atto II, Parsifal, “il puro innocente”, sente in se stesso la sofferenza
che Amfortas sente e ha sentito, e percepisce che il cerchio della miseria
non può essere spezzato che con la pietà e la rinuncia, con l’avversione
per la “volontà” e l’impulso cieco. Nell’Atto III, il battesimo di Kundry,
la guarigione di Amfortas e la redenzione del Graal, non sono altro che il
compimento di ciò che era annunciato alla fine del secondo atto, quando
Parsifal recupera la lancia. Così la pietà, sentimento inespresso nel primo
atto, si trasforma nel secondo atto in riconoscimento e chiaroveggenza uni-
versale, e nel terzo atto diventa un “atto redentore” esteriorizzato. Di fatto,
Parsifal è un eroe passivo: l’atto decisivo è un rifiuto, e l’azione, nella
quale egli entra per caso, non è altro che il punto di partenza e l’aspetto
esteriore del percorso che intraprenderà verso la conoscenza. Insomma,
la passività dell’eroe ha delle conseguenze nella dimensione drammatica,
come dimostra il fatto che, proprio perché Parsifal non agisce e dato che va
alla ricerca reagendo e non decidendo, allora gli antecedenti del dramma
devono essere esposti con l’aiuto di racconti epici, ed è per questo che il
ruolo più lungo nell’opera spetta al narratore Gurnemanz.
Nel Parsifal il problema di fondo è quello relativo all’esistenza di qual-
cosa al di là del cristianesimo. Secondo Badiou, ciò che esisterà al di là del
cristianesimo sarà in realtà una piena e compiuta realizzazione del cristia-
nesimo stesso, che salverà il cristianesimo nello stesso momento in cui lo
cancellerà. Questo significa che il cristianesimo ha cessato di essere una
dottrina della salvezza e che si potrà trovare qualcosa al di là del cristiane-
simo solo attraverso la sua de-cristianizzazione e la sua de-idealizzazione.
In questo senso, il cristianesimo ritorna, ma lo fa riaffermando se stesso
sul piano della “redenzione per il Redentore”, come se dovesse ritornare
al contempo diverso da se stesso e fondato su se stesso. Per questo Badiou
sostiene che il vecchio cristianesimo è moribondo, tanto nella figura del
vecchio Titurel, che nel finale muore, quanto in quella del figlio Amfortas:
ora, se il vecchio cristianesimo è moribondo, è perché si è preoccupato
troppo di sopravvivere, e Parsifal, che vuol mettere fine a questo cristia-
nesimo moribondo, dovrà suggerire un approccio nuovo, vale a dire una
riaffermazione del cristianesimo, o anche la redenzione del Redentore. La
soluzione incarnata in Parsifal si presenta come la connessione di compas-
sione e abnegazione, e questa connessione è la sola in grado di assicurare la
possibilità di una “redenzione”. Così il nuovo cristianesimo, basato sull’i-
dea di una tale abnegazione, può finalmente rappresentare la redenzione
del Redentore.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 37

Se l’intero Parsifal è stato letto come trasposizione della filosofia di


Schopenhauer, tuttavia è opportuno mettere in evidenza alcune distinzioni,
che emergono dal confronto tra le figure di Amfortas e di Parsifal. Inde-
bolito dalla sua ferita nel fisico e nella volontà, è Amfortas la figura più
vicina al sistema di pensiero schopenhaueriano, seppure con differenze,
dal momento che si tratta della vita come dolore, dalla quale si può uscire
solo negando la volontà. Amfortas trova in Parsifal un “Redentore”, ovve-
ro una figura altra da sé che lo scioglie dalla volontà cieca dell’esistenza.
Colui che era il “puro folle” (puro idiota) potrà “sciogliere”, “redimere”
Amfortas dalla volontà, in quanto avrà appreso la compassione attraverso il
rifiuto dell’eros costituito dalla seduzione delle Fanciulle-fiore e, ancor più,
dal bacio di Kundry nell’Atto II. Soltanto attraverso questo tipo di compas-
sione Parsifal acquisirà la conoscenza che sarà innanzitutto conoscenza di
sé. In questo senso, la seduzione è unicamente il passaggio a un altro tipo
di conoscenza, la compassione per lo stato di Amfortas; Parsifal acquisisce
la conoscenza e passa così ad “agire”, con la conseguenza che non è più
assimilabile alla pessimistica concezione schopenhaueriana della rinuncia.
Non tutto il Parsifal è quindi immerso in una dimensione schopenhaueria-
na, anche perché la redenzione (Erlösung) che Parsifal offre ad Amfortas
non è più quella che intendeva Schopenhauer, cioè una totale rinuncia alla
volontà di vivere, ma è la compassione e la partecipazione in senso cri-
stiano: Amfortas non è tanto sciolto dall’impulso cieco che lo costringe
all’esistenza, ma è liberato dal peccato della lussuria e così ricondotto alla
purezza che gli consente di contemplare il Graal. Insomma, all’opposto
della volontà come impulso cieco, che sta alla base del Mondo di Schopen-
hauer, c’è nel Parsifal una volontà cosciente: l’affermazione della volontà
nell’agire, per cui la “redenzione” operata da Parsifal su Amfortas è un atto
della volontà consapevole.
Anche Kundry chiede di essere redenta, ossia salvata, e gettando lo sguar-
do sulle sue vite passate, rivela di essere in cerca da tempi eterni del Salva-
tore, indicando esplicitamente Parsifal come tale: “Da Eoni io attendo te / il
Salvatore – oh! – sì tardo!” (Atto II). Il fatto che la missione salvifica ricom-
prenda anche Kundry, sembra dire che essa non sia indirizzata unicamente ad
Amfortas, verso cui Parsifal nutre compassione, ma si inscriva in un disegno
di più ampia portata. Di fatto, se Parsifal offre in modo esplicito redenzione
anche a Kundry, questo vuol dire che tale redenzione si manifesta in una
prospettiva non circoscritta soltanto a lei: “Redenzione, o empia, offro anche
a te”. E tuttavia ciò non significa che Parsifal ritenga se stesso un Redentore,
piuttosto egli indica a Kundry il modo di giungere alla salvezza quando, alla
fine dell’Atto II, si congeda da lei con le parole “tu sai / dove puoi ritrovar-
38 Prospettive su Wagner

mi”: redimersi vuol dire allora intraprendere il cammino verso il Graal, un


cammino di perfezionamento che Parsifal stesso intraprende mettendosi in
cerca di Amfortas, il quale necessita a sua volta di redenzione.
Comunque la redenzione offerta a Kundry è anche uno scioglimento da
vite precedenti nelle quali la donna ha commesso altri atti sacrileghi, vite
di cui lei sente il peso e da cui non riesce a liberarsi. Nel corso del Parsifal
infatti la donna passa da una vita all’altra sprofondando nel sonno e risve-
gliandosi in nuove situazioni e in diversi luoghi:

Ella ha di certo vissuto vite diverse, ma Wagner non le dipana lungo l’asse
del tempo, in senso diacronico, bensì le concentra nello spazio occupato nel
dramma dal personaggio come in modo sincronico: è un’altra manifestazione
del concetto del tempo che si fa spazio.58

Alcune vite di Kundry riemergono dentro altre, come accade nel mo-
mento in cui lei, nel rinnovato tentativo di seduzione nei confronti di Par-
sifal, rammemora di avere irriso Cristo lungo la Via Crucis e di essere stata
colpita dal suo sguardo. Benché Parsifal indichi la possibilità di salvezza
nella rinuncia alla brama amorosa da parte della donna, questa è in cerca
del Salvatore; tuttavia, neppure il battesimo è l’autentico momento di sal-
vezza per Kundry: di fatto lei scoppia in quel momento a piangere, mani-
festando la coscienza di una colpa non ancora rimessa, coscienza che le era
preclusa nella sua vita di seduttrice reincarnata e impedita al pianto, anche
quando le cadde tra le braccia Amfortas: “Allora io rido, rido, / piangere
non posso, / soltanto gridare, urlare, / scatenarmi, impazzire, / in sempre
rinnovata notte di follia, / da qui col pentimento mi sono appena destata”
(Atto II); così il suo pianto, anche se non è comunque una redenzione, an-
nulla per sempre la maledizione del riso forzato.
Come è stato messo in evidenza da Hans Küng59, esiste un legame tra il
Parsifal e il Ring. Il Ring descrive un mondo pagano che, seguendo la sua
logica intrinseca, deve estinguersi in una catastrofe universale, anche se vi
sono dei sopravvissuti a questa catastrofe: la folla anonima degli uomini che
assiste silenziosa alla distruzione degli dei. Tuttavia il mondo del Ring non
può sapere come questa umanità, cioè la forza del Nuovo, si verrà organiz-
zando: questo è il compito del Parsifal, che è dunque il seguito logico del
Ring; ciò che infatti si realizza con il rifiuto di Kundry da parte di Parsifal è la
sua apertura a una nuova comunità, dal momento che Parsifal sembra indi-

58 G. Satragni, Il Parsifal di Wagner, EDT, Torino 2017, p. 157.


59 Cfr. H. Küng, Musica e religione, Queriniana, Brescia 2012.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 39

care l’emergere di una nuova collettività. Se infatti il Tristano mette in opera


la redenzione nella veste del suicidio come fuga estatica dall’ordine sociale
e i Maestri cantori l’integrazione rassegnata nell’ordine sociale esistente, al-
lora il Parsifal si conclude con l’invenzione di una nuova forma del sociale:
“Con l’ordine di Parsifal ‘scoprite il Graal!’, noi passiamo dalla comunità
del Graal in quanto ordine chiuso nel quale, al tempo previsto del rituale, il
Graal è svelato solo al cerchio degli iniziati, a un nuovo ordine, nel quale il
Graal deve rimanere sempre scoperto: ‘Mai più dovrà rimanere nascosto’”60,
e questo significa che forse il vero Graal è il popolo e la sua sofferenza.
Le ultime parole del Parsifal, “redenzione per il Redentore”, significano
allora che vi deve essere una redenzione dello stesso Redentore, quindi
una infinita riapertura di ciò che si è rinchiuso su se stesso. Dal momento
che il Redentore dovrebbe essere colui che dà il senso finale e conclusivo,
allora la sua redenzione implica una riapertura: quel senso non è finale o
conclusivo ma deve essere sempre riaperto e, con ciò stesso, sempre e di
nuovo atteso. Tuttavia, se la redenzione non si chiude ma è sempre aperta,
allora possiamo dire che il vero Redentore è colui che ci libera dal bisogno
della redenzione, cioè da un senso conclusivo e assoluto. L’uomo, dunque,
non è redento dalla sua finitezza, ma è proprio in questa sua finitezza che
deve continuare a cercare e ad attendere un senso che lui sa che non arri-
verà mai come senso assoluto, ma solo come senso sempre contingente e
come tale sempre da ricostituire. Così, nell’edizione di Romeo Castellucci
(2011), alla fine tutti i personaggi sono in cammino verso qualcosa che non
raggiungeranno mai: quella finitezza non deve essere redenta!
Si può dire che Wagner trasformi la questione della redenzione in un’e-
sperienza universale: ognuno di noi è tenuto a salvare il Salvatore dal male
che tuttavia invade il mondo pur dopo l’avvenuta redenzione, giacché la
redenzione – tenendo conto che, come s’è detto, la concezione che Wa-
gner ha del tempo è sferica e non lineare –, dopo che è avvenuta, diviene
un processo che si rinnova fino alla fine dei tempi. Di qui il significato
di quelle ultime parole del Parsifal: il Redentore è stato salvato (reden-
to) – come chiedeva la sua invocazione – dalle mani peccaminose, ma il
processo della redenzione da Lui avviato coinvolge anche Lui. È evidente
che per il Wagner del Parsifal il Cristo crocifisso “è più un problema che
una soluzione”61: come in Dostoevskij, qui si tratta dell’assoluto contrario
di un cristianesimo che implica la trascendenza, vale a dire un cristianesi-
mo senza trascendenza, ovvero un cristianesimo tragico. Non vi è garan-

60 S. Žižek, Variations Wagner, Nous, Caen 2010, p. 154.


61 A. Badiou, Cinque lezioni sul “caso” Wagner, cit., p. 262.
40 Prospettive su Wagner

zia di redenzione per mezzo dell’amore, giacché è Dio stesso che ha fatto
una scommessa, simile a quella fatta da Pascal: morendo sulla croce ha
compiuto un gesto arrischiato, senza alcuna garanzia del risultato finale,
esponendo se stesso all’estrema contingenza dell’esistenza. A ben vedere,
dunque, il problema posto dal Parsifal non è quello della rigenerazione del
cristianesimo, dal momento che la questione del cristianesimo è sospesa
alla possibilità della sua infinità: questa dipendenza nei confronti dell’infi-
nito indica semplicemente che vi è una connessione tra l’infinito e la com-
passione, giacché è quest’ultima a essere lo strumento che rende possibile
un accesso all’infinito. La compassione è necessaria per “dischiudere” ciò
che è chiuso, ed è proprio questo il motivo per cui, nella sua dichiarazione
conclusiva, Parsifal parla della “forma suprema della compassione”.
La crucialità del tema della redenzione nel Parsifal la troviamo nella
parte finale della Recherche di Marcel Proust. In alcuni abbozzi del perio-
do 1910-1462 della Recherche troviamo un’evocazione del Parsifal inserita
nel racconto dell’ultima matinée nel palazzo dei Guermantes, dove viene
offerto agli ospiti – sempre in questi abbozzi – un concerto appunto wa-
gneriano. Il Narratore, arrivato in ritardo, non potendo entrare nella sala del
concerto, mentre aspetta nella biblioteca attigua che l’esecuzione musicale
abbia termine, riconosce da una frase musicale l’Incantesimo del Venerdì
Santo. La scelta del Parsifal non è affatto priva di significato: se il tema
di quest’opera wagneriana è l’itinerario verso la salvezza, c’è però anche
un legame ben più forte tra il destino di Parsifal e quello del Narratore
della Recherche63. Parsifal, nella prima parte della sua vita, è incapace di
decifrare i misteri ai quali assiste (il rito del Graal celebrato da Amfortas)
e di comprendere a fondo l’altrui dolore (rappresentato dalla malattia dello
stesso Amfortas). Questa sua situazione simboleggia con efficacia la giovi-
nezza del Narratore prigioniero dei propri desideri egoistici, insensibile alle
sofferenze della nonna e di Albertine. Non mancano, nella Recherche, le
seducenti fanciulle in fiore, amiche di Albertine, esplicitamente apparenta-
te alle Fanciulle-fiore che tentano Parsifal nel giardino del mago Klingsor.
È stato forse l’insieme di tutti questi elementi a suggerire a Proust, nel
1910-11, il progetto di inserire l’esplicita menzione del Parsifal nel Tempo
ritrovato: l’itinerario di Parsifal si offriva al romanziere come una perfetta
raffigurazione allegorica della maturazione di Marcel. Anche Marcel, sino

62 M. Bongiovanni Bertini, Proust e la teoria del romanzo, Bollati Boringhieri, To-


rino 1996, p. 252.
63 G. Macchia, Il silenzio su Parsifal in Proust e dintorni, Mondadori, Milano 1989,
pp. 75-85.
G. Di Giacomo - Da Nietzsche ad Adorno 41

alla rivelazione finale che fa di lui un artista, è chiuso nella cecità dell’egoi-
smo e della brama di vivere; chinarsi amorosamente sul passato per ridargli
vita sarà il suo modo di liberarsi dalla schiavitù del desiderio.
Tuttavia, dalla versione finale del Tempo ritrovato, il riferimento al Par-
sifal è stato cancellato e sostituito dalla Sonata di Vinteuil. A questo punto
dobbiamo chiederci le ragioni di questa sostituzione: il fatto è che, se nel
corso di tutta la Recherche il narratore ambisce a scrivere un’opera con la
quale possa vincere il tempo e dunque raggiungere l’Eternità, e perciò il
Senso assoluto (la redenzione finale), proprio nelle ultime pagine si rende
conto che questa opera non può che essere scritta “nel tempo”, e non a
caso queste due ultime parole (“nel tempo”) chiudono le quasi quattromila
pagine della Recherche. Il riferimento al Venerdì Santo dell’Atto III del
Parsifal era stato evidentemente fatto da Proust quando questi era convin-
to che l’opera potesse effettivamente vincere il tempo, raggiungendo così
il Senso assoluto, ovvero la Redenzione definitiva; del resto Proust – in
questo vicino a Nietzsche – interpretava le ultime battute “Redenzione al
redentore” dell’opera wagneriana come appunto una Redenzione definiti-
va. Ma, se noi interpretiamo il Redentore a cui fa riferimento il Parsifal
come colui che ci redime, ovvero ci libera, dal bisogno della Redenzione,
allora qui abbiamo a che fare non con una Redenzione (ovvero un Senso)
assoluta, bensì con una redenzione (ovvero un senso) che si offre di volta in
volta, appunto “nel tempo”. Ora, se Proust avesse così interpretato quella
battuta finale, avrebbe potuto mantenere il riferimento al Parsifal perché in
entrambi i casi la redenzione si dà sempre e solo nel tempo.
Insomma, se Parsifal sembra evidenziare l’idea dell’arte come reden-
zione, con la quale aveva già polemizzato con astio Nietzsche, a un’analisi
più attenta della celebre battuta di chiusura dell’opera di Wagner – “re-
denzione al Redentore” – può essere messo in evidenza come si potreb-
be trattare di una visione della redenzione paradossalmente assimilabile
proprio alla filosofia di Nietzsche, nonché al pensiero di Dostoevskij; in
altre parole, è il Parsifal stesso che ci metterebbe in condizione di liberarci
dall’idea di una Redenzione trascendente, perché la battuta “redenzione
al Redentore” significa – a mio parere – proprio redimere l’uomo dalla
necessità della Redenzione stessa. Per queste ragioni – come s’è detto –,
Proust avrebbe potuto mantenere nell’edizione definitiva della Recherche
il riferimento wagneriano, perché, diversamente da quanto hanno pensato
tanto lui quanto Nietzsche stesso, tale riferimento esprime lucidamente la
consapevolezza che l’Assoluto non può non coniugarsi con il finito, così
come nelle ultime righe della Recherche Proust evidenzia come l’extratem-
porale, e cioè l’Eterno, non può darsi che nel tempo.

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