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Claudio Cesa

La filosofia politica
di Schelling

Editori Laterza Bari 1969


Proprietà letteraria riservata
Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari, via Dante 51
Alla cara memoria
di Delio Cantimori
Introduzione

Nella abbondante letteratura su Schelling pochissimi sono


gli studi dedicati al suo pensiero morale, e ancor meno quelli
sulla sua filosofia politica. Se ci si limita ad una valutazione del
tutto estrinseca, delle circa 10 000 pagine delle opere e delle
lettere del filosofo solo una parte piuttosto modesta è dedicata
espressamente a quella problematica. Se poi si fa, come è non
solo inevitabile, ma anche legittimo, un paragone tra Schelling
e i pensatori suoi contemporanei, di quello straordinario periodo
della cultura tedesca che va dalla Aufklàrung alla rivoluzione
del 1848, e si pensa alle grandi opere morali, politiche e giu­
ridiche di Kant, di Fichte e di Hegel, e poi di Schleiermacher
e di F. Schlegel, di Górres e di A. Muller — per non parlare
del filone democratico e socialista: Marx ed Engels! — non
sembrerà ingiustificato che la storiografia abbia veduto in Schelling
un filosofo e un intellettuale puro, e lo abbia studiato come il
più illustre esponente della filosofia della natura, il continua­
tore e il critico dell’idealismo trascendentale di Fichte, il rin­
novatore dello spinozismo sotto la forma della filosofia dell’iden­
tità: uno dei più acuti studiosi ha parlato di « intermezzi » per
quegli scritti che hanno affrontato una tematica morale, e giu-
ridico-politica. Sono in molti ad aver scritto che soltanto dopo
la svolta teistica (all’ingrosso: 1809) Schelling si dedicò ai pro­
blemi morali, stimolato da quella consapevolezza della crisi del
pensiero europeo che è un tratto comune a quasi tutti i pensa­
tori dell’età della restaurazione.
Come conseguenza di questa impostazione la personalità del
filosofo è risultata impoverita, e spostata fuori dalle correnti
più impegnate della cultura della fine del XVIII, e dei primi
anni del XIX secolo; il che, tra l’altro, ha reso quasi incom­
prensibili alcuni dei suoi scritti, ed ha portato a lasciar cadere

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I

spunti e trattazioni che si trovano in altri. Non è soltanto dopo


il 1809 che Schelling volle portare il suo contributo alla grande
discussione sulla natura ed il destino dell’uomo, questo essere
che vive sì nella natura, ma anche nella società e nella storia:
anzi, è proprio nel periodo della sua precoce, ma faticosa e con­
torta formazione, e in quello nel quale egli brillò come il nuovo
astro filosofico della Germania, l’erede e il superatore di Kant
e di Fichte, che egli sentì, come suo ufficio, di studiare cosa te­
nesse insieme le società e ne promuovesse lo sviluppo, se fosse
o no legittimata, dalla stessa natura, la diseguaglianza tra gli
uomini, e come si potesse assicurare « un eguale sviluppo di tutte
le forze ». Due autori della sua gioventù, Herder e Schiller, gli
avevano dato spunti importanti sulla situazione dell’uomo in una
società che stava diventando « borghese », e che aspirava al be­
nessere fisico e ad un ordine « meccanico », che non negava la
religione, ma voleva renderla ragionevole ed utile, che era con­
vinta di esser tanto superiore alle epoche passate. Ed egli al­
l’inizio pensò, da buon razionalista quale era, che il modo mi­
gliore per uscire da quello stato così insoddisfacente fosse acce­
lerare i tempi, e utilizzare a fondo la funzione critica della ra­
gione: all’adesione al metodo « storico-critico », e, subito dopo,
alla « rivoluzione filosofica » di Kant e di Fichte, corrisponde
l’entusiasmo per la rivoluzione francese, di cui egli coglie non
tanto le precise dimensioni politiche quanto il significato storico­
universale: essa è una lotta contro il dispotismo « che opprime
gli spiriti », è volta, come la nuova cultura tedesca, a liberare
l’uomo dal « cieco tremore » di fronte all’autorità, sia terrena
che ultraterrena, ad aprire la strada ad una riconciliazione con la
natura.
Le grandi rivoluzioni, politiche e religiose, che hanno segnato
la storia d’Europa hanno spesso suscitato l’idea che esse prelu­
dessero ad una trasformazione totale dell’uomo, alla instaurazione
di una nuova dimensione culturale e morale del genere umano.
E non è un caso che proprio nello scritto di Schelling nel quale
si trovano i più radicali propositi politici si parli dell’esigenza
di elaborare una « fisica in grande », che sappia soddisfare « uno
spirito creatore come il nostro »; la vecchia fisica, tutta volta a
stabilire le leggi eterne del cosmo, presentava un ordine defini­
tivo, nel quale l’uomo non poteva che inserirsi: ma come poteva
considerarsi libero un uomo che fosse angustiato dall’incubo della
necessità naturale? Sono queste preoccupazioni — e non una pre-

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tesa tradizione di filosofia « sveva » — che spinsero Schelling
ad occuparsi di filosofia della natura.
Egli mise la « vita » e « l’organismo » al posto della tradi­
zionale concezione meccanica: ma quanto più approfondiva quei
temi, tanto più ne derivavano risultati che erano in contrasto
con l’aspirazione da cui era partito, di promuovere, per quella
via, la libertà di tutti gli uomini; o, almeno, la rettificavano
sensibilmente. Il movimento della vita si articola in generi e
individui, ciascuno dei quali ha un proprio « egoismo » che lo
stimola a farsi valere contro tutti gli altri. È una continua alter­
nanza di azione e reazione, nella quale ogni essere conquista quel
tanto di spazio vitale che è compatibile con la sua natura. E
quando si arriva alla più alta categoria degli esseri, la specie
umana, anche qui, in ciascuno degli individui che la compongono,
si nota lo stesso fenomeno: c’è chi (il « genio ») è dotato di
un « istinto superiore », e c’è chi non ha questo istinto, ed è
del tutto impossibile pretendere di comunicarglielo. Sarà un caso,
ma c’è una significativa coincidenza tra l’avanzamento degli studi
di filosofia della natura, e il raffreddarsi delle simpatie di Schel­
ling per gli ideali della rivoluzione francese.
È comune a gran parte del pensiero controrivoluzionario eu­
ropeo di richiamarsi al ritmo della natura, e alla naturale diversità
degli uomini, in opposizione alla pretesa di regolare con l’intel­
letto l’organizzazione della società. Dovettero passare molti anni,
però, perché Schelling si trasferisse senza riserve su queste po­
sizioni. E si capisce benissimo il perché: le convulsioni che, in
Francia, avevano accompagnato l’ultimo periodo del Direttorio,
e poi il colpo di Stato del 18 brumaio, avevano chiuso la rivo­
luzione: per chi, come Schelling, la guardava, come si è detto,
da una prospettiva « culturale », quelle vicende erano la prova
del fallimento di un tentativo di liberare gli uomini che era
partito da premesse teoriche sbagliate, e si era sviluppato in con­
seguenza. Si era abbattuto il dispotismo monarchico per met­
terne al suo posto un altro, quello della legge, o di una virtù
che doveva essere inculcata a tutti; e poi era tornato un dispo­
tismo personale. Tutto ciò indicava che un’altra era la strada
da battere — non la reazione, ma l’andare al di là di quei
princìpi teorici ed etici che avevano retto la rivoluzione francese,
l’affidarsi all’operare delle forze dell’individuo, un operare che at-
tinga da se stesso, dalla sua « analogia » con le immani forze
che plasmano la natura, il suo stimolo e la sua giustificazione.

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ì Ma presto questo attivismo naturalistico ebbe una correzione.
Era una vecchia idea schellinghiana quella che tra la natura e
l'uomo fosse necessaria la mediazione della cultura, anzi, della
« mitologia ». E il terreno naturale dal quale può nascere la
nuova mitologia è il popolo organizzato in Stato. È in questo
quadro, ormai, che l’individuo deve disporsi ad operare, senza
aspettare compenso che non sia l’azione stessa, sentendosi al­
l’unisono con un tutto cui egli dà il suo contributo ma che,
d’altra parte, ne arricchisce infinitamente le forze. L’edificazione
di uno Stato che renda possibile tutto questo è la « vera rivo­
luzione ». In maniera non molto dissimile da Fichte dopo il 1800,
Schelling sostiene che per introdurre l’epoca nuova del genere
umano non bisogna incominciare con la trasformazione delle strut­
ture esterne del vivere sociale, ma, al contrario, con un rinno­
vamento interiore dell’uomo. Il resto sarebbe venuto come con­
seguenza.
Su questo tema, del rinnovamento interiore, il filosofo con­
tinuò ad insistere anche dopo la svolta del 1809: ma ormai l’at­
tivismo aveva ceduto il campo al quietismo, perché l’assoluto
al quale l’uomo aspirava non era più un « ideale » presente nella
storia, remoto eppure visibile, come potevano essere l’umanità
o lo Stato, ma lo stesso Iddio.
È per questa ragione che ritengo di poter affermare che lo
Schelling che ha una dimensione « politica » non è il più tardo
filosofo della mitologia e della storia, ma colui che, accanto a
Fichte, e con maggior energia di lui, levò l’agire al di sopra dello
speculare. E non mancano, a sostenere questa interpretazione,
significative testimonianze di contemporanei. Basterà citarne due,
di un amico e discepolo, e di un avversario.
Il primo è E. Steffens, che udì le lezioni di Schelling a Jena,
e, più di quarant’anni dopo, assistette all’esordio berlinese del-
l’ormai anziano filosofo. Steffens, che si era impegnato attiva­
mente nella lotta contro Napoleone, si incontrò, proprio nel 1813,
col più autorevole dei « riformatori » prussiani, il barone von
Stein, e dovette sorbirsi, da parte di questi, una tirata contro
l’inattività degli intellettuali tedeschi, che si comportavano come
spettatori nel dramma della loro patria; Steffens rifiutò questo
giudizio, e fece notare che ad animare tanti patrioti era proprio
la cultura nuova; e aggiunse: « Se Schelling domina questa pro­
fonda tendenza nazionale è perché, come tutti i dominatori, egli
è uscito da lei ».

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Una ventina di anni dopo E. Heine, passando in rassegna
quale contributo le teorie filosofiche avrebbero potuto portare
ad una rivoluzione tedesca, scriveva: « Ma più terribili di tutti
sarebbero i filosofi della natura, che si identificherebbero anche
con l’opera di distruzione Il filosofo della natura sa en­
trare in contatto con le potenze primordiali, sa evocare le forze
demoniache del panteismo dei germani antichi [...]. Il cristia­
nesimo — questo è il suo più notevole merito — ha in certo
modo addolcito la brutale smania di combattere dei germani, ma
non riuscì a distruggerla, e se mai un giorno andrà in pezzi quel
talismano addomesticatore che è la croce, allora si udrà di nuovo
il frastuono della barbaiie degli antichi guerrieri [...] ». Questo
passo, come tante altre pagine di Heine, ha un tono di ironica
esagerazione che non va ignorato. Ma contiene pur sempre ca­
ratteristiche e sostanzialmente esatte indicazioni. Soltanto la
croce (cioè la religiosità teistico-cristiana di Schelling, e della
maggior parte dei suoi discepoli) aveva potuto addomesticare un
attivismo che era fine a se stesso. Esso non era specificamente
« nazionale », ma col suo appello a modelli tedeschi — la fede
piuttosto che le opere, Keplero piuttosto che Newton, la « reli­
gione » e la « mistica » piuttosto che il raisonnìren — aveva
gettato le basi per una contrapposizione radicale tra la cultura
« idealistica » e quella del razionalismo, e (molto al di là delle
stesse intenzioni di Schelling) tra la Germania e le altre nazioni
europee. Heine vide giusto anche su un altro punto: nell’addi-
tare, cioè, il carattere « distruttivo » di questo atteggiamento; il
che può sembrare strano se si pensa che, a partire almeno dal
1802, Schelling criticò i suoi predecessori per aver soltanto « ne­
gato », e si propose il compito di additare lo sbocco « positivo »
del travaglio dello spirito moderno. Ma si tenga presente che
l’appello all’impegno individuale, un impegno col quale il sin­
golo attinge direttamente l’assoluto, fa sparire tutte le strutture
ed i programmi intermedi. Il filosofo, personalmente, amava
l’ordine, ed era per soluzioni moderate, quando non conserva­
trici. Ma non lasciò dubbi sul suo disprezzo per i programmi
politici dell’epoca, e per gli uomini che li volevano realizzare,
fossero essi progressisti o reazionari. Egli vagheggiava qualche
cosa di radicalmente nuovo, e che fosse, insieme, un « ritorno »
a quei valori originari che si erano via via corrotti col trascorrere
delle epoche. La genericità stessa del proposito faceva sì che esso
fosse incompatibile con ogni forma « empirica »: di qui quella

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continua, tenace ostilità nei confronti dell’esistente — quel tratto
per cui i romantici furono prima contro i governi del dispotismo,
illuminato e no, e poi, pur sostenendo esteriormente l’ordine, ne­
garono ogni adesione interiore al sistema politico dell’Europa re­
staurata, contribuendo così a togliergli ogni credito tra le classi
colte, e tra le giovani generazioni.
In un famoso libro di quasi mezzo secolo fa, la Politische
Romantik, Cari Schmitt negò che si potesse parlare di un « ro­
manticismo politico », come corpo compatto e preciso di dottrine.
Non si vuol qui discutere la tesi centrale del libro, che del resto
trovò subito, in Germania, autorevoli contraddittori. C’è molto
di vero, però, nelle osservazioni con cui lo Schmitt concludeva
la prefazione alla seconda edizione (1925): ciò che accomuna i
romantici è l’essere espressione di una società che si è dissolta
in individui, per cui l’uomo, isolato, abbandonato a se stesso,
finisce per diventare il sacerdote del proprio io. Gli stessi valori
universali a cui si richiama (Dio, la natura, il mondo e, si può
aggiungere, il popolo e lo Stato) non riescono ad eliminare questo
senso di isolamento della individualità, che può manifestarsi con
l’abbandono quietistico, o con un attivismo sia individuale che
volto a costruire una società compatta, « organica », nella quale
inserirsi — proprio perché ne sente dolorosamente la mancanza.
Questo schema può trovare una conferma nella storia intel­
lettuale di Schelling vista dall’angolo visuale delle sue idee morali
e politiche. Nei capitoli che seguono si mostrerà il suo perpetuo
oscillare tra la rivendicazione esasperata dei diritti dell’individuo,
alla tutela dei quali si subordina il giudizio sulle istituzioni giu­
ridiche e politiche, e l’aspirazione a trovare un piano sopraindi­
viduale — la tradizione culturale, la natura, la mitologia, lo
Stato — dal quale il singolo possa essere sostenuto, senza però
sacrificare la radice ultima del suo essere, la sua vitalità.
Si è fatto cenno, finora, dei tratti comuni tra Schelling e i
romantici; ed è un fatto ben noto che nel primo romanticismo
le tendenze ispirate ad un individualismo estremo, anzi, anar­
chico, sono molto diffuse: sullo scorcio del XVIII secolo sia
F. Schlegel che Baader guardano con molta simpatia alla « anar­
chia ». Ma l’individualismo di Schelling è qualche cosa di diverso,
molto più radicato e meditato: esso non è proponibile a tutti
perché è in funzione di ciò che di grande può fare l’individuo
che affermi la sua libertà — ispirandosi sia alle proprie qualità
naturali che al commercio spirituale con le grandi opere e i grandi

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spiriti del passato. La « rivoluzione » è guardata con simpatia
in quanto suscita le forze, non in quanto le livella, perché esalta
a grandi cose, non perché garantisce a tutti una quieta esistenza.
Il famigerato « aristocraticismo » ha la sua base proprio in questo
motivo di fondo: perché chi sa creare o trasformare un mondo,
sia esso artista, filosofo, o conquistatore, deve sottomettersi agli
schemi mentali della « plebe », accettare le regole del « paradiso
delle mediocrità »? La situazione ideale sarebbe quella in cui il
« popolo » accettasse i valori che gli vengono offerti dalle per­
sonalità eccezionali. E Schelling si illuse, per qualche tempo, che
la rivoluzione, politica e filosofica, e gli stessi sconvolgimenti
che le guerre portavano in Germania, distruggessero la sicurezza
della mentalità borghese, razionalistica ed utilitaria, e preparas­
sero il terreno per il governo dei « filosofi », o almeno di coloro
che accettassero l’ispirazione delle « idee ». Quando si rese conto,
definitivamente, che ciò era impossibile, allora rivendicò il di­
ritto dell’intellettuale di disinteressarsi della politica e dello Stato,
e di esigere da quest’ultimo solo la possibilità di quell’o/zww
che consente di dedicarsi tutto ai valori dello spirito. Egli sentì
molto per tempo il pericolo del livellamento, non tanto sociale
quanto culturale; e avrebbe potuto senza dubbio sottoscrivere,
anche se attribuendo loro sfumature diverse, le parole di J. Burck­
hardt: « Saranno necessari grandi sforzi, e un grande spirito
di rinunzia e di ascetismo, per poter rimanere, anzitutto, indi­
pendenti, e per potersi così dedicare al proprio lavoro produttivo
e creativo ».
Si tratta, come si vede, di una problematica troppo ricca e
complessa perché ci si possa accontentare di ridurla allo schema
tradizionale, quello di uno Schelling che, prima su posizioni
« meccaniche », passò poi a quelle « organicistiche ». Anche se
il filosofo ha scritto una Nuova deduzione del diritto naturale,
è difficile che egli sia mai stato un giusnaturalista; ed anche se,
per primo o tra i primi, ha applicato allo Stato il termine di
« organismo », non ha mai dato un ampio e ragionato svolgi­
mento di questo principio. Il suo pensiero va colto, invece, in
tutta una serie di interventi e di giudizi che muovono da una
matrice culturale, o speculativa, per trarne conseguenze « poli­
tiche », sia in senso negativo, cioè di critica di schemi altrui, che
positivo, cioè indicando le proprie soluzioni. Questa esigenza,
di stabilire un legame tra « scienza » e atteggiamento pratico,
era stata, prima di Schelling, enunciata da Fichte: ma mentre

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:

questi era stato indotto, dal suo rigore sistematico, a dare risul­
tati teorici che prescindevano spesso da un collegamento e da
un confronto con la discussione « culturale », Schelling proprio
in questo campo dette il meglio di sé, assimilando e fondendo
in un discorso, non di rado teso e coerente, spunti che gli ve­
nivano da Schiller e da Herder, da Goethe e da Hòlderlin, da
Kant e da Hegel.
£ questo che mi ha indotto a tentare una storia intellettuale
di Schelling dall’angolo visuale della sua filosofia « politica ».
Per qualche decennio a Hegel si pensò come a un logico e a un
metafisico pieno di astruserie; poi l’interesse tornò a volgersi
al suo mondo morale, e la ricchezza di esso non è più ignorata
da nessuno. Non mi ritengo certo pari ai grandi studiosi che
hanno rinnovato la Hegel-Forschung, e del resto Schelling non è
Hegel; ma ritengo che valesse la pena di mostrare una dimensione
di Schelling che non è quella, più nota, del filosofo della natura,
del metafisico, del filosofo della religione. E sarei lieto se l’aver I
chiarito quale sia stato l’atteggiamento di Schelling rispetto ai l
grandi conflitti ideali del suo tempo aiutasse a coglier meglio
la sua personalità, e, di riflesso, anche gli altri aspetti del suo
pensiero.
Nel presentare al pubblico questo lavoro sento di dover rin­
graziare coloro che, con affettuoso interesse, ne hanno seguito
l’elaborazione: ringrazio in particolare mia moglie Elena che mi
ha aiutato, in più occasioni, a migliorare lo stile, e il prof. Mario
Delle Piane, che si è generosamente preoccupato di assicurarmi
tutto il tempo libero necessario per portare avanti la ricerca.

Siena, dicembre 1968.


Nota bibliografica

Per l’elenco delle opere di Schelling, e degli scritti su di lui e sul


suo pensiero, rimando alla Schelling-Bibliographie di G. Schneeberger,
Berna 1954, che non ha reso però del tutto superflua la precedente
bibliografia di J. Jost, F. W. J. von Schelling, Bibliographie der
Schriften von ihm und iiber ihn, Bonn 1927.
Per le opere uscite dopo il 1953 si veda la Bibliografia filosofica
italiana, e, soprattutto, il Répertoire bibliographique de la pbilosophie
di Lovanio. Un’ampia raccolta di titoli, però, in W. Kasper, Das
Absolute in der Geschichte, Magonza 1965, pp. x-xxvm. Per la bi­
bliografia giuridico-politica si veda A. Hollerbach, Der Rechtsgedanke
bei Schelling, Francoforte sul Meno 1957, pp. 341-50.
Le opere di Schelling sono citate secondo i Sàmtntliche Werke,
Stoccarda-Augusta 1856-61, ad esse ci si riferirà indicando il volume e
la pagina, senza altra indicazione. Per l’epistolario si citerà con Plitt lo
Aus Schellings Leben. In Briefen, ò voli., Lipsia 1869-70, e con
Fuhrmans, I, lo F. W. J. Schelling, Briefe und Dokutnente, Bd. I,
a cura di H. Fuhrmans, Bonn 1962.
Kant è citato secondo le Gesannnelte Schriften (G. S.) dcll’Ac-
cademia di Prussia; Hòlderlin secondo la Kleine-Stuttgarler-Atisgabc
dei Sànitliche Werke (S. W.); con la stessa sigla si indicheranno an­
che le opere di Fichte (Berlino 1845-46), di Herder (ediz. Suphan) e
di Hegel (fubilàurns-Atisgabe}. Per gli scritti e le lettere di Schelling,
Fichte e Hegel non compresi in queste raccolte si darà di volta in volta
l’indicazione precisa.

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I. Il mito e la società umana

1. Il peccato e la storia del genere umano.

Gli interpreti, anche i più autorevoli, del pensiero schellin-


ghiano hanno considerato i primi lavori a stampa del filosofo 1
come poco più che esercitazioni accademiche, dalle quali si po­
teva, al massimo, stabilire l’ampiezza della sua erudizione, e il
conto che egli faceva di autori come Lessing, Herder e Kant2.
È mancata finora una ricerca che mirasse a definire esattamente
la posizione che Schelling veniva assumendo, nell’ambito stret­
tamente teologico, su temi che erano centrali in una discussione
che si svolgeva tra teologi ed esegeti biblici: la possibilità di
applicazione del concetto di « mito » alla Sacra Scrittura, l’at­
tribuzione a Mose del I libro del Pentateuco, l’interpretazione del
racconto del peccato originale.

1 Si tratta della dissertazione del settembre 1792 Antiquissimi de prima


malorum humanorum origine philosophematis Genes. Ili explicandi tenta-
men criticum et philosophicum (S. W7., I, 1-40) e dell’articolo Ueber
Mythen, bistorische Sagen und Philosopheme dcr àltesten Welt, scritto nel­
l’inverno 1792-93 e pubblicato nel 1793 (I, 41-83).
2 È tipico, per es., che i due maggiori storici della filosofia moderna
della scuola idealistica, J. E. Erdmann e K. Fischer, accennassero rapida­
mente a questi scritti solo in quella parte della loro trattazione che era
dedicata alla vita ed alle opere del filosofo. L’esposizione del « pensiero »
di Schelling incomincia, per Erdmann, con la filosofia della natura, per
K. Fischer, invece, col primo scritto del periodo « fichtiano », cioè con la
Moglichkeit, che è del 1794 (lo stesso K. Fischer, però, afferma più avanti
che solo con la filosofia della natura « inizia l’autonomo svolgimento del
pensiero di Schelling »); una posizione analoga si ritrova nel noto manuale
del Windclband. Valutazioni per lo più generiche nelle opere del Rosenkranz,
del Noack c dello Haym.

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2. Cesa
Ma è mancato anche il tentativo di vedere il quadro più ge­
nerale, la piattaforma « ideologica », se si vuole, della quale que­
gli studi sono l’espressione3: discutere sul «mito» voleva dire,
per Schelling e per i suoi contemporanei, cercare i fili condut­
tori per una ricerca sulla più antica storia dell’umanità; e così,
interpretare la Genesi voleva dire anche studiare come l’uomo
fosse uscito dal paradiso terrestre e quale fosse stata l’origine
della vita associata e della civiltà; tutti questi problemi conflui­
vano poi, secondo il vicino esempio del secondo discorso di
Rousseau, in quello della natura dell’uomo e del carattere della
società, e del destino dell’uomo e del genere umano — di quello
che Herder chiamava, con un termine già carico di implicazioni
teologiche e speculative, la Bestiminung dell’uomo.
Queste discussioni sono l’esatto corrispettivo di quelle che,
in linguaggio « laico » e, anzi, spesso violentemente antireligioso,
si svolgevano contemporaneamente in Francia, e di cui i tedeschi
erano bene informati; ma mentre lì era preso di mira lo stesso
racconto biblico, criticato ora dal punto di vista della sua in­
verosimiglianza storica, ora da quello della sua non idoneità a
valere come spiegazione scientifica delle origini del mondo, o ad­
dirittura respinto perché pieno, dal punto di vista della morale
naturale, « d’absurdités et d’horreurs » in Germania gli sforzi
dei pensatori anche più avanzati ’ erano rivolti ad una reinter­
pretazione, ed anche ad un ridimensionamento, di esso: rein­
terpretazione, da chi continuava ad attribuire alla Bibbia il si­
gnificato di libro che, ispirato o no, doveva servire da principio
e modello per una vita cristiana, e, in genere, per una vita ci­
vile; ridimensionamento, da chi se ne serviva come semplice te­
stimonianza storica, anche se particolarmente autorevole e signi­
ficativa, da utilizzarsi accanto ad altre, e della quale andavano
ricostruite le fonti delle tradizioni caldaiche, egiziane o persiane.
Ma è sotto la diretta influenza di Rousseau che il riferimento
al racconto biblico diventa spesso un semplice pretesto: così,

3 Per la dissertazione si possono trovare però utili indicazioni in E.


Mùller, Holderlin, Stoccarda 1944, pp. 96-98.
* D. Mornet, Les origine: intellectuelles de la revolution franqaisc,
Parigi 1954 5, p. 106.
8 L’unica eccezione è Reimarus; non vale la pena, invece, di ricordare
alcuni « estremisti », come Bardht o Edelmann, la cui influenza fu assai
limitata, anzi, quasi nulla in ambiente accademico, dove cioè quelle discus­
sioni trovavano il naturale pubblico.

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per es., per Kant e per Schiller. E come il ginevrino aveva insi­
stito sulla distinzione tra ciò che era originario e ciò che era
artificiale nella natura individuale dell’uomo, per individuare i
tratti di un « état qui n’existe plus, qui n’a peut étre point existé,
qui probablement n’existera jamais, et dont il est pourtant néces­
saire d’avoir des notions justes, pour bien juger de notte état
présent » ® così molti pensatori tedeschi — basta fare il nome
di Herder — si soffermano sullo stato anteriore al peccato, per
ricercare lì il vero carattere della natura umana, opera di un
Dio buono e paterno, che si è servito, per istruire gli uomini,
dell’esempio e non del comando e della legge. Herder non solo
distingue, ma contrappone la libertà e l’amore che spirano dal
primo libro del Pentateuco, e la rigida legge (« tu devi, se no
morirai ») che Mosè pese alla base della sua opera di organiz­
zatore e capo del popolo 1. E, come è ben noto, questo schema
biblico finì per dilatarsi, e per avvicinarsi sensibilmente a posi­
zioni rousseauiane, con la contrapposizione tra il selvaggio o il
barbaro, che vivono semplicemente, in conformità alla natura,
e l’uomo di oggi, che trascorre la sua esistenza nelle città, sotto
il controllo di quelle « macchine » che sono gli Stati. Anche in
Germania, come in Francia, questa impostazione reca con sé
una serie di critiche, implicite o esplicite, contro la società del
proprio tempo. E, come in Francia, la critica diventa sempre
più gravida di conseguenze, anche sul piano politico, quando si
tende ad incarnare l’ideale di una vita libera non tanto nei pro­
genitori prima del peccato, o nei selvaggi americani, o nei « bar­
bari del Nord », ma invece nella Grecia classica. E non bastò
ad arginare il diffondersi di questa tendenza la pesante ironia
di Herder contro i Neugriecben, tanto più quanto l’immagine della
Grecia venne rievocata e diffusa tra le giovani generazioni dagli
inni e dagli scritti di Schiller.
Questi accenni mostrano come non sia ozioso porsi il pro­
blema della piattaforma « ideologica » dei primi scritti schellin-
ghiani: piattaforma che potrà esser meglio delineata mostrando le

Rousseau, Oeuvre! complète!, Parigi 1832, I, 152.


7 « Anche un bambino sa che presso tutti i popoli questi due periodi
cono stati sempre separati, e talvolta per lungo tempo; che in certo senso
l’epoca delle costumanze patriarcali, nella quale si viveva secondo antichis­
sime usanze, saghe, costumi c tradizioni era in certo senso in radicale con­
trasto con quella della legislazione formale, dei doveri civici, dei codici e
delle sanzioni pubbliche » (Herder, 5. W., VI, 327-28).

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vicinanze e le differenze tra le affermazioni di Schelling, degli
autori da lui espressamente richiamati, e dei suoi compagni di
i studio del collegio teologico di Tubinga. Converrà innanzi tutto
: dare un rapidissimo riassunto della dissertazione del 1792, prima
di passare all’analisi dei punti più interessanti di essa.
In tutti gli uomini — scrive Schelling — è radicata l’idea di
una primitiva felicità: e il domandarsi come questa sia andata
perduta, e donde abbia preso origine il male, è comune ai miti
! più antichi di tutti i popoli. La risposta alla domanda si può
trarre da un semplice chinarsi sulla natura umana, nella quale
è perpetuo il conflitto tra la tendenza a cercare la felicità (sensi­
bile) e quella ad andare al di là dei limiti dei sensi: a determi­
nare l’allontanamento dalla tutela della natura fu un desiderio
sproporzionato, la cui motivazione non era ignobile, perché era
il desiderio di sapere; ma dal contrasto tra la grandezza del de­
siderio e la infirmila: della natura umana, agitata dal dissidio tra
sensibilità e ragione, prende origine il predominio sregolato (cioè
avulso da ogni tutela e norma) delle passioni sensibili; nasce
l’egoismo {amor sui) ed è esso che spinge gli uomini alla divi­
sione del lavoro, alle lotte, alla costituzione della società, al ri­
conoscimento dell’autorità. Si è costituito così uno stato interme­
dio, nel quale la spontaneitas 8 umana agisce sotto lo stimolo dei
sensi, e non sotto la guida della ragione, è orientata non dalla
virtù, ma dalla prudenza: tutti i mali dello stato di civiltà sono
però serviti a disciplinare gli stimoli dei sensi, e a preparare
l’animo « ad supremum solius rationis dominium »; e se finora
ha dominato la sensibilità, si sta però preparando il dominio
della ragione, che è del resto il fine supremo del genere umano:
« E se mai ci fosse dato di giungere a questo fine, si avrà neces­
sariamente il dominio assoluto delle leggi del vero e del bene
poste in noi stessi; la virtù sarà coltivata per se stessa, il bene
sarà fatto perché è bene, il vero sarà amato perché è vero, e
il falso respinto perché falso: si tornerà, per dirla in una sola

* Credo che la spontaneità! di Schelling sia la traduzione letterale della


parola Spontaneitat adoperata da Kant nell’articolo (citato da Schelling) sul
male radicale, che poi divenne il I capitolo della Religione nei limiti della
semplice ragione (cfr. G. S., VI, pp. 24, 50 n., 143). Il concetto di sponta­
neità indica, in Kant, la necessità che ogni impulso, da qualsiasi parte pro­
venga, debba diventare una massima, per essere un motivo di azione. L’au­
tonomia può volgersi solo al bene, mentre la spontaneità può essere volta
indifferentemente al bene o al male.

20
parola, nella primitiva età dell’oro, sed sola duce et auspice ra­
tione ».
La prima cosa che balza agli occhi, in questa trattazione, è
la pratica eliminazione del motivo della disobbedienza al comando
divino, e quindi della « colpa » dell’uomo. Ma si tratta di un
atteggiamento che, nella cultura tedesca, stava diffondendosi or­
mai da parecchi decenni. Le furenti polemiche contro il « raziona­
lismo », etico e teologico, condotte dalla generazione della Goe-
thezeit non devono far dimenticare che a metter da parte il con­
cetto della caduta (ed a ridurre a poco o nulla, implicitamente,
il ruolo della « grazia ») erano stati proprio i cosiddetti neologi.
Quello che è forse il maggior esponente della corrente, Joh. Fr.
W. Jerusalem (1709-1789) aveva considerevolmente corretto l’in­
terpretazione corrente del racconto biblico, affermando che era
già costitutivo della natura dell’uomo il lavorare e il produrre
— non erano, cioè, conseguenze della maledizione seguita alla
caduta —, e che il peccato era nato dallo squilibrio tra sensibi­
lità e ragione: dallo scatenarsi della sensibilità erano poi nati
tutti i mali, che avevano indebolito il corpo; di qui la fatica del
lavoro, e il dolore del parto *.
Per chi, come Jerusalem e i suoi amici, veniva concludendo
la faticosa elaborazione dell’etica non confessionale della borghe­
sia tedesca nello Stato illuminato, l’attività umana era essenzial­
mente lavoro, e lavoro produttivo, ispirato dal sentimento del
dovere, regolato dalla legge, utile agli altri uomini. Per la ge­
nerazione seguente il concetto di attività umana subisce una ti­
pica trasformazione, assumendo anzitutto una carica polemica
che si rivolge contro l’edificio dello Stato della Aufklàrung, e
contro l’accomodamento della religione alle esigenze di esso; il
principale protagonista di questa polemica è Herder: le cui po­
sizioni andranno analizzate anche perché egli viene più volte ci­
tato da Schelling. Herder ammetteva la colpa dell’uomo: ma in­
sisteva — ed è qui che la sua differenza dagli Aufklarer è mani­
festa — sulla nobiltà 10 dei motivi che avevano indotto l’uomo
a peccare ,l. L’uomo, allevato in un giardino, con le mani monde

0 Su Jerusalem v. K. Aner, Die Theologie der Lessingzeit, Tubinga


1929, pp. 64-79 e 158 sgg.; i suoi scritti furono spesso citati in tono elo­
giativo anche da Herder, per cs. nei Briefe, das Stiidiuni der Theologie
betreffend (S. W., X, 35 e 41).
10 Cfr. H. A. Korff, Gcist der Goethezeit, I, Lipsia 19574, p. 35.
’* Herder, 5. \V., XIII, 434.

21
del sangue degli animali, non poteva essersi ancora imbarbarito:
« Ogni imbarbarimento delle stirpi umane è degenerazione, a cui
esse sono state trascinate dalla miseria, dal clima o dalla inca­
pacità, divenuta abitudine, di regolare le passioni: dove cessa
questo stimolo esterno, l’uomo conduce la sua vita terrena in
modo più mite, come dimostra la storia delle nazioni. Solo il san­
gue degli animali ha reso barbaro l’uomo: ed inoltre la caccia,
la guerra, e purtroppo anche certe angustie della società civile » ,s.
Così nelle Ideen (1784-1791). Nella Aelteste JJrkunde des Men-
schengeschlechts (1774-1776), dove la polemica contro il razio­
nalismo è molto più immediata e vivace, Herder non solo re­
spingeva ogni tendenza a considerare il racconto biblico una fa­
vola o una allegoria *3, ma riprendeva l’interpretazione tradizio­
nale: il discorso del serpente (veduto, allusivamente, come il
rappresentante dello spirito « critico » o del « buonsenso » dei
filosofi) ha lusingato la donna e di qui è nata l’incertezza, l’inca­
pacità di resistere alla tentazione, il peccato. A questo seguì il
rovesciarsi del rapporto tra l’uomo e la natura: prima gli ani-
mali erano amici dell’uomo, ora ne vengono uccisi; prima il
lavoro era gioia, ora è fatica senza fine: certo, da questo nac-
quero le scoperte e le invenzioni, ma Herder non vede in esse
alcun motivo di esaltazione della « potenza » dell’uomo: non
sono che rimedi ai mali della vita Sul piano non più « sto-
rico » ma teoretico il peccato è veduto come la prova della
animalità dell’uomo: ciò che distingueva l’uomo dalle fiere, nel
paradiso terrestre, era unicamente il fatto che queste ultime non
erano soggette ad alcuna proibizione; solo l’uomo lo era, e vio­
landola egli si è reso simile ad esse
Sul problema che ci interessa Kant si distacca nettamente
da Herder. Il punto di partenza, anzi, è esattamente opposto:
non una perfezione originaria, suscettibile di corruzione, ma uno
svolgimento delle disposizioni naturali mirante a sviluppare com­
pletamente la ragione (nel genere, se non nell’individuo) E
l’uscita dal paradiso non fu altro che il passaggio « dalla roz-

52 Jbid., XIII, 430-31.


13 Ibid., VII, 70-72.
“ Jbid., VII, 108.
15 Ibid., XI, 331.
,c Nello scritto Ideen zu einer allgemeinen Geschichle in weltbiirger-
licber Absicht (1784), G. S., Vili, 18-19.

22
zezza di una creatura meramente animale all’umanità, dalle dande
dell’istinto alla guida della ragione, in una parola, dalla tutela
della natura allo stato di libertà » Ma se questo ha rappre­
sentato senza dubbio un progresso per la specie, lo stesso non
può dirsi per l’individuo; dal punto di vista morale l’animalità,
abbandonata a se stessa, senza che ancora la ragione sia adeguata
al compito suo, porta alle passioni ed ai vizi.
Nel saggio del 1792 Kant insiste sulla « impurità » della
natura umana e, coerentemente, vede la caduta come un « met­
tere in dubbio il rigore del comando morale »; e dato che la
trattazione si svolge tutta sul piano dell’individuo, la possibilità
di salvezza è riportata alla presenza, nella nostra anima, della
« voce del comando » che continua a risuonare « con forza non
diminuita » 18 mentre viene ammesso, anche nel singolo indi­
viduo, un « progresso morale », che segue alla « rivoluzione nel
modo di pensare » ,0.
Da questa sommaria delineazione si può vedere come sia ge­
nerica, e fuorviante, l’indicazione di molti studiosi, che si sono
limitati a dire che nelle pagine di Schelling si riscontra l’influenza
di Herder e di Kant: senza rendersi conto che, sulla questione,
i due pensatori erano su posizioni quasi antitetiche; e che si
tratterebbe semmai di stabilire se e come Schelling abbia cercato
di mettere d’accordo indicazioni così diverse.
Ma prima di passare a questo, è il caso di ricordare un altro
testo, anteriore di pochi mesi alla dissertazione di Schelling, che
è dedicato allo stesso argomento: si tratta del saggio di Schiller
La prima società umana secondo la norma della legge mosaica 20.
Mentre ancora alcuni anni prima Schiller aveva dipinto con
vivaci colori, servendosi in parte anche di materiale rousseauiano,
il contrasto tra la barbarie primitiva e la storia dei popoli civiliz­
zati 2l, ora sembrava propendere per l’idealizzazione dello stato
di innocenza, un « paradiso » nel quale l’uomo viveva « da per­
fetto discepolo della natura ». Eppure, sosteneva Schiller, quella

17 Cfr. il Mtttmasslicher Anjattg der Menschengeschicbte (1786), G. S.,


Vili, 115.
’• G. S., VI, 45 (utilizzo la trad. di G. Durante, Torino 1945).
’• G. S., VI, 47-48.
20 Pubblicato nel fascicolo XI di « Thalia » nel 1791. Cito dalla trad.
it. di L. Mazzucchetti, F. Schiller, Scritti storici, Milano 1959, pp. 79-98.
21 Nella prolusione Che cos'è e a qual fine si studia la storia univer­
sale?, trad. cit., soprattutto le pp. 64-66.

23
che il « maestro di scuola » chiama caduta è « l’evento più fortu­
nato e meraviglioso della storia umana », « un passo decisivo
verso la perfezione » (qui è evidente la ripresa di motivi kan­
tiani). L’antinomia tra lo stato di felicità iniziale e quello suc­
cessivo viene risolta mostrando come da tutte le fatiche e da tutti
i pericoli a cui l’uomo dovette sobbarcarsi nacquero per lui nuove
acquisizioni e nuove gioie; ed egli « era ormai troppo nobile per
il paradiso, e non conosceva se stesso quando, in duri frangenti
e sotto il peso degli affanni, desiderava di ritornarci ».
Ci si trova qui su una piattaforma che, per quanto riguarda
l’ispirazione di fendo, è molto vicina a quella di Schelling (tanto
da far pensare che egli abbia letto il saggio schilleriano, anche
se non lo ha citato). Schelling, come si è visto, respinge l’idea
di una disobbedienza alla legge divina: questa spiegazione, egli
dice, è stata elaborata in ambiente sacerdotale 22, da cui l’anti­
chissimo autore del uvdog l’avrebbe ricavata. La radice del
« male » è da ricercarsi piuttosto nella consapevolezza (presente in
forma confusa nell’animo di ogni uomo) che è l’aumento del
sapere che ha prodotto l’infelicità: e anche l’idea di una felice
condizione primitiva è qualche cosa velut ex ipsa nostra infantia
nobis servatami basta sentirne parlare perché si trovi in essa
nescio quid amabile et verum. Ma il fondamento reale è la
presenza in noi di una doppia serie di motivi di azione: da una
parte l’aspirazione alla felicità, che però, essendo solo sensibile,
non riesce a soddisfare appieno nessun uomo, e dall’altra « la
voce imperiosa della ragione » che esige una illimitata obbe­
dienza. Lo stato di natura non rappresenta quindi per nulla una
compiuta realizzazione della natura umana; è piuttosto un’esi­
stenza parziale, caratterizzata dal non conoscere (inscitia) la pro­
pria autentica destinazione: di qui la protesta contro l’idea di
una perfezione attribuita ai primitivi, ai quali, secondo il filo­
sofo, si può tuttalpiù attribuire l’innocenza 23. È una infanzia del

32 « Diximus, haec philosophemata profecta esse a sacerdotibus [...],


quos omni tempore impietatem improbitatemque naturae humanae acerbis
querelis accusavisse constai, quos scimus etiam omnis hominum miseriae [...]
in violatione divinarum legum posuisse » (I, 16-17). In nota Schelling
richiama un luogo di Kant, che è poi quello con il quale si apre l’articolo
sul male: « Il mondo va di male in peggio: tale è il lamento che si alza
da ogni parte, così vecchio come la storia, così vecchio, infine, come la più
vecchia di tutte le leggende poetiche, la religione dei preti » (G. 5.» VI, 19).
23 I, 19, n. 4.

24
genere umano « ex qua egressi in humanae miseriae communionem
pervenimus, simulac, nostri conscii facti, quid bonum, quid
malum sit perspicientes, rationis auspicia sequi coepimus » 24.
Questa delineazione è sufficiente a mostrare come, per Schel­
ling, non si presenti neanche il problema di un « ritorno » né
di una « conciliazione » che ristabilisca in qualche modo l’unità
e l’armonia originaria delle facoltà dell’uomo. Quella dello stato
primitivo non è neanche una ipotesi, come poteva essere per
Rousseau 20 o per Kant, è semplicemente un mito, e ci si limita
a prendere atto del fatto che esso sembra essere profondamente
radicato nell’animo degli uomini. Ma non viene però neanche
escluso il motivo di un punto di arrivo definitivo (è questo il
« ritorno all’età dell’oro » con cui si conclude la dissertazione) e
che si avrà quando la ragione avrà finalmente potuto imporsi,
senza resistenze27. Il fondo teorico di questo atteggiamento è
da ricercarsi nella rigida opposizione tra sensibilità e razionalità,
che fa sì che ci sia un vero e proprio salto tra il medius quasi
cuiturae gradus 2‘ — cioè la storia della civiltà umana, con i

= ' I, 26.
24 « Enimvero si nobis ad illum statum redeundum foret, nunquam
ab eo discesissemus » (I, 31).
20 Non intendo negare ogni influenza di Rousseau nella redazione di
questo scritto; ché, anzi, proprio qui (e, per Schelling, ciò è quasi ecce­
zionale) il ginevrino c espressamente citato. Cfr. anche R. Fester, Rousseau
und die deutsche Geschichtsphilosophie, Stoccarda 1890, soprattutto le
pp. 161-64.
27 Occorre chiarire subito, a scanso di equivoci, che qui « ragione »
non ha nulla a che vedere con un principio immanente alla storia umana;
è invece la facoltà di giudicare sulla base di princìpi puri, al di fuori della
influenza di motivi determinanti empirici. Ciò è detto chiaramente, del
resto, dallo stesso Schelling verso la fine della dissertazione: « Universum
autem genus humanum in id quasi educatum, eumque ultimum esse historiae
humanac universae terminum, ut ad solum rationis imperium rcs hominum
omnes redeant, ut leges rationis purae et ab omni sensuum imperio alienae
rebus humanis universis exprimantur, ipsius nobis nostrae rationis vis in­
finita persuader » (I, 38-39). Sulla portata pratica della «ragione» di Kant
importanti osservazioni in C. Lacorte, Il primo Hegel, Firenze 1958,
pp. 186 sgg. — La « ragione » della quale parla Herder è invece il risultato
dello svolgimento delle nazioni, piuttosto che una forza che agisce e libera;
cfr. W. Lùtcert, Die Religion des deutseben Idealismus mtd ihr Ende, I,
Gutersloh 1923 3, p. 158; il Liitgcrt continua osservando che Herder non
ha idea del Reich Gottes, del quale parla invece Kant (c che diventerà poi
uno dei motti dei tubinghesi).
28 Schelling vuole palesemente evitare di dar l’idea che il progresso
del quale egli parla conduca senza scosse al dominio della ragione: e scrive

25
suoi vizi, i suoi travagli e le sue conquiste, condizione nella
quale ancora oggi ci si trova — e il punto di arrivo finale. È uno
schema kantiano radicalizzato e irrigidito, che elimina radical­
mente ogni possibilità di conciliazione tra il mondo dell’uomo
sensibile e la razionalità. Se si paragona questa posizione con
la mitizzazione di uno stato di armonia e di felicità, quella della
Grecia, data da Schiller col famoso inno Gli dei della Grecia, e da
Hólderlin con l’inno Alla libertà, ci si potrà render conto di
come il mito di una umanità bella, felice, e non travagliata non
significasse nulla per Schelling. Mentre invece, quando egli parla
del « grado intermedio di civiltà » esalta, con frasi piene di
pathos, il progresso che in certi campi, per es. quello artistico,
ha imitato, e infine ha superato, la stessa natura. Anche se, come
si è detto, non è posto un passaggio graduale tra questo e il
regno della ragione, (la cui realizzazione, peraltro, è rimandata
« a tempi più felici ») si dice espressamente che la storia dolorosa
degli uomini ha molto contribuito alla realizzazione dei « sommi
ini del genere umano ». Perché la violenza stessa di quei tra­
igli « ci costringe a cercare in noi stessi il sollievo di quei
mali, e a volgere la mente dalla sola considerazione di essi alla
ricerca di una più alta e felice perfezione ».
Qui trova la sua radice l’esaltazione della forza e della capa­
cità degli uomini; mentre Herder aveva spesso accennato ad una
guida provvidenziale, che aveva retto il genere umano fino dalle
sue origini, e che l’aveva condotto sulla sua strada =#, in Schelling

espressamente: « [...] quei mali ci fecero uscire dalla rozzezza naturale,


repressero gli impulsi selvaggi dei sensi, prepararono l’animo (non nel senso
che si fosse fatto migliore, ma in quello che era sempre più preparato al­
l’umanità) ad supremunì solius rationis dominiti™ » (I, 37).
29 Si potrebbero facilmente moltiplicare le citazioni; per es. S. W.,
VII, 120: « Forse che l’esito non dimostra che un padre che non poteva
sbagliare aveva tutto provveduto, meditato e preparato? ». La provvidenza
divina sembra però, nel pensiero di Herder, affiancarsi a quella che era la
destinazione del genere umano: la saggezza del Padre, insomma, ha creato
le condizioni per cui quello che doveva avvenire ha potuto accadere:
« Il suolo doveva essere coltivato, tutta la terra doveva essere abitata e
(questo è il più bel passo del processo progressivo) proprio per l’opera e
p-er la colpa dell’uomo» (VII, 117). Così nel 1776, nella Aeltestc Urkunde;
e nel 1782, nel Votn Geist der ebràiseben Poesie (anche questo libro è ci­
tato da Schelling) si afferma che la prima colpa dell’uomo si trasformò in
nuova direzione della condizione umana, e che la punizione di Dio diventò
una nuova benedizione, anche se più dura per chi la provava (S W
XI, 337).

26
non c’è alcun accenno in questo senso: si parla, una sola volta,
del « sapientissimum rerum humanarum consilium »; e si afferma
energicamente che a questa altezza si è giunti non « per la beni­
gnità non meritata di una qualche fortuna, ma in grazia delle
nostre forze ». Anche se si riprende l’espressione kantiana dei
« fini » del genere umano, questi sono più un obiettivo da realiz­
zare (e che in parte lo è stato) che una finalità in senso metafisico
che abbia guidato da lontano tutto il processo.
Lo « stadio intermedio di civiltà » è quello nel quale si
forma la società umana e l’organizzazione politica. Anche qui viene
ripresentato il dualismo — che si era visto prima — tra sensi­
bilità ed intelletto; con la spontaneitas applicata al mondo sensi­
bile, e che ha spinto gli uomini alla scienza ed alla società, il
motivo ispiratore delle azioni umane è la prudenza 30, e non una
virtus comune a tutti gli uomini, che li guidi dall’interno, e fa­
cendo a meno di leggi esteriori. La conseguenza è che si cono­
scono non schemi di relazioni universali tra gli uomini, ma solo
relazioni tra singoli, tra singoli e società, e tra società. Dal primo
tipo di rapporti prende origine e si radica la diseguaglianza tra
uomo e uomo (da cui nascono luxuria, invidia, dolus), dal se­
condo le forme di organizzazione all’interno degli Stati (forme
di governo, legislazione, tecniche politiche, e da ultimo hominum
in homines saeva tyrannis), dal terzo la pace e la guerra, le riva­
lità e le alleanze.
Questa elencazione è tutt’altro che originale: nell’interpre-
tare così il testo biblico Schelling ha senza dubbio attinto a piene
mani dai suoi modelli, da Herder e da Rousseau. È interessante
però rilevare che da Herder egli ricava sostanzialmente solo la
valutazione negativa delle forme giuridico-politiche di vita asso­
ciata, e non le premesse da cui questa critica prende le mosse.
Herder, cioè, vede nelle forme esterne che reggono la vita degli
uomini null’altro che « costose macchine statali » che non hanno
alcun carattere « naturale », e che proprio per questo decadono

30
« Enimvcro erat hic mcdius quasi culturae gradus, malis hominum
eo magis invalentibus, quo magis valere coeperat hominis spontaneitas, non
summo rationis arbitrio, sed sensuum maxime conditionibus constans, non
virtutis, sed prudentiae Icgibus gubernata » (I, 37). Prudentia è qui evi­
dentemente un termine tecnico, traduzione della Klugheit kantiana (per es.
G. S., IV, 416); ma il termine si ritrova anche nella Logik tind Metapbysik
di J. G. II. Feder, che fu uno dei primi libri filosofici che Schelling ebbe
tra le mani (Plitt, I, 25).

27
in forme negatrici della « umanità ». A queste egli oppone la
piccola comunità naturale, retta dall’amore tra tutti i suoi mem­
bri; egli opponeva questo amore, rivolto ad oggetti precisi e
determinati, e quindi sentito ed attivo, all’atteggiamento dello
« ozioso cosmopolita », il cui preteso amore per tutti gli uomini
non è altro che un « fantasma immaginario ». Schelling invece
è molto più schematico: per lui tutto ciò che impedisce l’unione
tra tutti gli uomini viene riportato all’egoismo ed alla « pru­
denza », a cui viene opposta invece la « filantropia »: l’amore,
cioè, che ha per confine solo la terra, e per oggetto l’intera fa­
miglia umana; la filantropia potrà affermarsi, naturalmente, solo
quando a dominare sarà la virtù, e non la prudenza, la sponta­
neità della ragione, e non quella della sensibilità. Il suo « amore
per gli uomini » non ha nulla di sentimentale; e anche in questo
egli segue il modello kantiano31.
Vale la pena di soffermarsi un momento su questo aspetto
per misurare su un punto fondamentale la differenza — che va
fin d’ora registrata, perché interessa un aspetto importante del
successivo processo intellettuale di Schelling — tra il nostro
autore e l’ambiente nel quale viveva: è ben noto, infatti, il
ruolo che « l’amore » ha assunto (sotto la diretta influenza di
Schiller) nelle formulazioni teoriche del gruppo tubinghese, e
proprio a proposito di una serie di problemi molto vicini a quelli
di cui egli si stava occupando. Sarebbe superfluo parlare qui di
Hegel ”; è il caso, invece, di accennare a Hólderlin: nel già
ricordato Inno alla libertà (1792) l’amore è posto come il tratto
più caratteristico dell’innocenza naturale; e lo « staffile della
legge » che, dopo la fine del paradiso, volle sostituire quei vin­
coli che l’amore aveva creato, non servì che a far sentire all’uomo
la miseria e la schiavitù; e si conclude con il ritorno dell’amore,
che è insieme un ritorno al « seno della madre », cioè alla na­
tura 33. Il motivo è ripreso e arricchito da Hólderlin in un altro

31 Con questo non intendo escludere che nella « filantropia » schellin-


ghiana ci siano anche dirette reminiscenze schilleriane: basta ricordare lo
« Ich liebe die Menschheit » del marchese di Posa nel dialogo con Fi­
lippo Il (Don Carlos, atto III, scena X).
32
V. Lacorte, Il primo Hegel cit., alla voce, nell’indice analitico.
33
Kehret nun zu Lieb’ und Treue wieder —
Ach! es zieht zu lang entbehrter Lust
Unbezwinglich mich die Liebe nieder —
Kinder! kehret an die Muttcrbrust!

28
scritto di poco posterrore: « Ci sono due ideali del nostro esi­
stere: uno stato di suprema semplicità, nel quale i nostri bisogni
sono in reciproca armonia con se stessi, con le nostre forze, e
con tutto ciò con cui noi siamo in rapporto — e ciò solo me­
diante l’organizzazione della natura, senza la nostra collabora­
zione —, ed uno stato di suprema cultura, dove si verifica la
stessa situazione con bisogni e forze infinitamente rafforzati e
moltiplicati — e mediante l'organizzazione che noi siamo in
grado di dare a noi stessi » 34. Ora, anche se è patrimonio co­
mune del gruppo tubinghese la delineazione dei punto di arrivo
come un ritorno c'e’J'armonia del punto di partenza, ciò che
distingue Schelling dagli altri suoi compagni di studio è la sepa­
razione, tutta kantiana, della razionalità da tutto il resto, ivi
compreso il processo per cui ci si è arrivati. « L’amore », come
continuo arricchimento della singola personalità, c armonizza­
zione di essa con le altre — secondo il concetto schilleriano —
non trova, di fatto, alcun posto 3S. Ed è quasi certamente dipen­
dente da questo un altro fatto: che Schelling, almeno in questi
anni, non si riferisce nemmeno una volta, come modello, alla
civiltà greca ed alle sue forme di organizzazione politica e reli­
giosa; egli giungerà anzi, nelle Lettere filosofiche, a respingere la
possibilità di applicare un?, schema etico greco agli uomini del­
l’età presente. In questo modo alla legge ed all’ordinamento poli­
tico particolare viene attribuito un significato del tutto negativo,
senza che però sia nemmeno accennata una condizione nella quale,
prima di arrivare al dominio della ragione, le istanze della vita

Ewig sei vergessen und vernichtet,


Was ich zùrnend vor den Gottern schwur;
Licbc hat den langen Zwist gcschichtet,
Herrschet wieder, Herrscher der Naturi (5. TF., I, 144).
34 È l’inizio del frammento dello Iperione pubblicato nel 1793 nella
« Neue Thalia » di Schiller (S. IF., Ili, 169); e più avanti: « La sempli­
cità c l’innocenza della prima età si spengono, ma per ritornare quando la
cultura sarà giunta a compimento, c la santa pace del paradiso tramonta
perché ciò che era soltanto dono della natura torni a rifiorire come pro­
prietà che il genere umano ha acquistato con il proprio impegno » (S. W.,
Ili, 187).
38 Cfr. anche E. Staiger, Der Gelsi der Liebe und das Schicksal,
Frauenfeld-Lipsia 1935, p. 27; è noto il detto di Schleiermacher (che si
riferiva, peraltro, a scritti successivi) che quella di Schelling era una « sag­
gezza senza amore ».

29
comunitaria, o del rapporto degli individui tra loro, trovino anche
solo un accenno di soluzione.

2. Tra Heyne e Herder.

Al « popolo », come nozione intermedia tra l’uomo e l’uma­


nità, Schelling venne avvicinato dalla sua analisi del concetto di
mito. Ai fini della presente ricerca non interessa tanto soffermarsi
sulle definizioni e sulle classificazioni che di quel concetto il
filosofo elaborò, quanto vedere il contesto nel quale il « mito »
è collocato, il terreno dal quale esso trae origine: che poi non
è altro che il problema del carattere delle società primitive, e
della loro civiltà. Come risulta dalle note di tutti gli scritti di
questo periodo, oltre che, naturalmente, dal contenuto delle trat­
tazioni, Schelling si è largamente ispirato alle posizioni della
cosiddetta «scuola mitica» di Gottinga36, il cui iniziatore è,
come è noto, C. G. Heyne 37.
È appena il caso di licordare quale era, nella cultura tedesca
del ’700, il ruolo della « Georgia Augusta »: università — come
è stato detto — « che partecipava del vincolo spirituale, ormai
allentato, della coscienza imperiale tedesca, ma contemporanea­
mente rendeva onore al re d’Inghilterra, che ne era rettore, e
così si sentiva aperta alle spalle tutta l’estensione di un impero
mondiale, quello inglese » 3*. E ciò valeva non solo per gli studi
di scienze politiche: Gottinga fu una dei canali principali attra­
verso cui si diffusero in Germania le idee e gli scritti del pre­
romanticismo inglese ”: basta ricordare, infatti, che fu proprio

36 II primo ad aver parlato, anche se rapidamente, della influenza di


Heyne è stato L. Noack, Schelling und die Philosophie der Romanlik,
Berlino 1859, I, 92. Ad aver richiamato l’attenzione di Schelling sul me­
todo e sui risultati della scuola di Gottinga era stato probabilmente lo stesso
Ephorus dello Stift, C. F. Schnurrer, illustre orientalista, che era stato a
Gottinga ed era in buone relazioni con gli studiosi di colà (cfr. W. Bòi-im,
Hòlderlin, I Bd., Halle a. S. 1928, p. 73).
37 Su Heyne e la « scuola mitica » è da vedere adesso l’importante stu-
dio di V. Verrà, Mito, rivelazione e filosofia in J. H. Herder e nel suo
tempo, Milano 1966, che si cita qui una volta per tutte.
38 W. Kaegi, Meditazioni storiche, a cura di D. Cantimori, Bari 1960,
p. 277, e C. Antoni, La lotta contro la ragione, Firenze 1942, pp. 109-12.
39 Cfr. F. Meinecke, Le origini dello storicismo, Firenze 1954,
pp. 202 sgg. e 231 sgg.

30
ad opera di un professore di Gottinga, J. D. Michaelis che venne
stampata in Germania la famosa opera del Lowth, De sacra poesi
hebraeorum, che tanta influenza ebbe su Herder, e che un figlio del
Michaelis tradusse in tedesco lo Essay on thè Originai Genius and
Writings of Hotner del Wood che avrebbe provocato, come si
disse, una « rivoluzione » nel modo di intendere l’antichità clas­
sica e contribuito a porre in termini nuovi la questione omerica.
Già all’indomani della prima edizione inglese del libro del
Wood, Heyne ne aveva redatto una recensione molto elogiativa,
dove si afferma che l’europeo moderno, che vuol giudicare tutto
col metro della civiltà contemporanea, farà bene ad astenersi dal
leggere un poeta come Omero; per capirlo la cosa più utile è
ispirarsi « ai libri di viaggio che descrivono i paesi abitati dai
selvaggi, e da quei popoli che vivono in un ordinamento sociale
e politico ancora primitivo ». Però per grande che sia stata, come
è testimoniato dallo Heeren “, l’influenza del libro del Wood su
Heyne, va pur detto che egli fu in grado di darne quella valu­
tazione, e di spingere altri a diffonderne le idee, proprio perche
era già arrivato per proprio conto a rappresentarsi un quadro non
convenzionale delle società primitive; il suo errore, era, semmai,
di paragonare le comunità elleniche dei tempi descritti da Omero
con le tribù canadesi e irochesi descritte dai viaggiatori suoi con­
temporanei. Come nei fanciulli, egli scriveva, così « in populis
barbaris et agrestibus » il primitivo linguaggio è inseparabile dai
movimenti del corpo e della bocca; danze e canti accompagnano
tutte le manifestazioni di vita di un popolo 4=, ed i componi­
menti dei primi poeti non servono, come adesso, « ad ingeniosam
aliquam voluptatem »43 ma alla reale necessità del popolo, dando
espressione (nelle forme possibili, in una comunità di uomini
dal linguaggio elementare, ed ignari di concetti astratti) a quelle
che sono le credenze comuni. Il terrore per le catastrofi e le
intemperie, la meraviglia per i fenomeni naturali, e per le imprese
degli uomini, doveva essere tanto più grande quanto più limitato,

40 Cfr. R. Volkmann, Gescbichtc tind Kritik der wolfschen Prolego-


ntena ztt Homer, Lipsia 1874, pp. 23 sgg.
41 A. L. Heeren, Cbr. H. Heyne, biograpbisch dargestellt, Gottinga
1813, pp. 210-12.
42 De efficaci ad disciplinam pttblicam privatamene vetustissimortim
poetarti/» doctrina (1764), in « Opuscula academica », I, Gottinga 1785,
p. 168.
43 Ivi, p. 178.

31
nel tempo e nello spazio, era l’ambito dell’esperienza vissuta;
accadde così che l’animo « ad comparationes et similitudines con-
fugit, figuras et allegorias adscivit, magnifica et splendida oratione
omnia exornavit, resque ipsas, quae si a mente composita et
sedata considerarentur, nihil adeo insoliti et inauditi haberent,
forte etiam tenues essent et obviae, in mythos et fabulas muta-
vit » 4\ E le lotte degli elementi, a cui gli uomini primitivi assi­
stettero, vennero trasfigurate in lotte degli dèi tra loro, la dipen­
denza degli uomini dai fenomeni naturali fece pensare ad un
continuo intervento degli dèi nelle cose umane, che era il pen­
siero più idoneo a stimolare la poètica vis. « Discernenda in his
omnibus est oratio mythica, quae in ornamenta poètica abiit, a
vetere aliquo facto, quod narratione gentilium seu popularium ad
hominum memoriam propagatum erat. » 45
Su uno dei problemi più dibattuti nei due secoli precedenti
— quello, cioè, del carattere dei primi uomini — Heyne non
aveva un atteggiamento preciso 4‘; la questione, in fondo, gli era
indifferente perché egli prendeva le mosse dalle piccole comunità
già costituite47; e quello che gli importava era insistere sul fatto
che le tradizioni ed i miti di ogni popolo si tramandano nella
sua storia successiva. È vero che la peculiarità della civiltà dei
greci è da ricercarsi nel fatto che essi « ad tantum litterarum
fastigium erecti » hanno conservato legami strettissimi col loro
passato; ma se nei greci questo è accaduto in forma particolar­
mente intensa, ciò vale per ogni popolo, perché non c’è epoca
che possa troncare del tutto con le vestigia delle credenze e dei
costumi pristini4*. Né questo processo avviene quasi fosse un
mero fatto biologico di ereditarietà: anzi, nel trapasso tra le
epoche primitive e quelle di più sviluppata civiltà, quando con

44 De caussis fabularum seu mytborum physicis (1764), ivi, p. 188.


43 De origine et caussis fabularum homericarum, in « Novi commen­
tarli soc. regiae scient. gottingensis », t. Vili (1778), pp. 45-48.
46
Nonnulla in vitae humanae initiis etc. (1765), in « Opuscula », cit.,
I, 208-9.
47 C’erano, su questo punto, precedenti illustri; anzitutto quello di
Grozio, De jure belli ac pacis, 1. II, c. 2, 2, n. 4-6. Anche Pufendorf
sostiene che « lo stato naturale non è mai esistito se non temperato o
parziale, vale a dire nel caso in cui alcuni uomini si siano riuniti tra loro
in uno stato civile o in uno stato analogo, ed abbiano continuato a mante­
nere lo stato di libertà naturale verso gli altri » (cito dalla antologia curata
da N. Bobbio, Princìpi di diritto naturale, Torino 1952, p. 68).
44 De caussis eie., in « Opuscula », cit., I, 205-6.

32
le stesse parole si intendono cose molto diverse da quelle della
antiquior mythologia, la religione del popolo non consiste che
nel conservare i costumi dei padri, quali che essi fossero: « In-
terea communis omnium, publica privataque fuit, religio, morem
patrium, qualiscumque tandem ille esset, servare; relictumque
philosophiae, ut de divina mente, universi caussa, quaereret;
vulgo satis habitum, eorum saltem rerum, quae ad se suasque
utilitates spectarent, caussas seu a deo patrio, seu omnino a diis,
notione parum explicita, repetere » 10.
Si giunge così all’affermazione della individualità di ogni
popolo, e di ogni tradizione mitica; è significativo che nello
scritto che Heyne redasse pochi anni prima della morte, e nel
quale si trovano ordinatamente esposti i risultati della sua più
che quarantennale meditazione sul problema del mito 50, egli si
levasse, con una durezza inusitata in un uomo così accademica­
mente urbano, contro le tendenze della nuova mitologia roman­
tica 51 a raccogliere in un tutto organico i miti di popoli diversi
per ribadire invece che la tradizione mitica di ogni popolo va stu­
diata separatamente, e che solo dopo che questo enorme lavoro
fosse sufficientemente avanzato si sarebbero potute tentare delle
comparazioni, stabilire gli strati più antichi, e parlare di eventuali
influenze M.
La mitologia romantica, quale si era già manifestata nei primi
anni del XIX secolo, voleva andar sotto la scorza dei miti
olimpici per enuclearne una dottrina religiosa, e cercare l’imma­
nenza del divino nei misteri, nelle iniziazioni, nelle credenze or­
fiche. Per Heyne queste forme « simboliche » non erano che la
degenerazione della vera religione antica, che non ha bisogno di
una dottrina esoterica, ma è tutta contenuta nei riti e nelle ceri-

40 Ivi, p. 206.
00 Sermonis mythici seu symbolici Interpretatio ad caussas et rationes
ductasque inde regtdas revocata, in « Commentationes s.r.s. gottingensis »,
t. XVI (1808), pp. 285 sgg.
51 Le indicazioni bibliografiche essenziali sulla storia del problema nel
voi. del Verrà, op. cit.; da tener presente anche l’antologia, curata da K.
Kerényi, Die Eròffnung des Zugangs zttm Mythos, Darmstadt 1967, pp. 10-
58. Più tardi anche Schelling prese posizione contro Heyne e la sua scuola
(per es. V, 409 e XI, 30 sgg.); il Noack, op. cit., II, 329 riferisce la voce
che Schelling non avesse pubblicato la sua Filosofia della mitologia per
timore delle critiche dei dotti di Gottinga.
flS Sermonis ctc., cit., pp. 287-89.

3. Cesa
monie M. Né diceva questo soltanto allora: in uno degli scritti
citati anche da Schelling egli affermava che atti di culto si hanno
presso popoli « qui de divina natura ne cogitasse quidem videntur;
sunt adeo athei, etsi cultum religiosum apud eos agnoscere licet ».
Quando i germani antichi, egli continua, avevano per dèi il sole
e la luna, come si può pensare che quei barbari « omnium rerum
ignari » pensassero a simboli della natura divina, o a cause fi­
siche del mondo? M.
Heyne si era sempre astenuto dall’estendere le sue conside­
razioni sul mito al Vecchio, e, a maggior ragione, al Nuovo
Testamento travagliato, nella prima gioventù, da una crisi
religiosa ne era uscito decidendo di non occuparsi più di que­
stioni dogmatiche o scritturali; ed aveva mantenuto il proponi­
mento con la stessa tenacia con cui, dopo la sua chiamata al­
l’università di Gottinga, aveva smesso di seguire la letteratura
contemporanea per dedicarsi tutto al mondo antico. Ma non è
irbitrario, credo, affermare che il suo silenzio sulla religione
ebraica — che poteva esteriormente essere inteso come il rico­
noscimento di una posizione privilegiata di essa rispetto alle
altre ** — in realtà non significasse affatto questo, perché il pa­
radigma al quale riferiva le religioni del mondo antico non era
affatto il monoteismo ebraico, ma una istanza razionalistica: aver

43 « Religiones vulgi non doctrina aliqua, sed ritibus aut caeremoniis


continebantur, in quorum caussas et origines vulgus aut omnino non in­
quini, aut quoties de iis quaeritur, narrationibus a patribus acceptas...
homines indocti memorant » (Scrmonis etc., cit., p. 304).
44 De caussis etc., in « Opuscula », cit., I, 200-1.
44 « Quamvis enim Heynius ipse nunquam de rebus theologicis com­
mentari voluerit [...] » (Memoria C. G. Heynii commendata etc., di A. H. L.
Heeren, Gottinga 1812, p. 16). A quanto ho potuto controllare, questo è
rigorosamente vero: per es. nelle Ad Apollodori Atheniensis bibliothecam
Notae, Gottinga 1783, anche quando lo stesso argomento — per es. Deu-
calione e il diluvio (I, 91 sgg.) o la mite vita degli arcadi (II, 656 c
668 sgg.) — avrebbe reso ovvio un riferimento al diluvio biblico o al pa­
radiso terrestre, Heyne se ne astenne scrupolosamente. Un accenno, però,
alla possibilità di applicare i suoi princìpi metodici agli « scrittori sacri »
nella sua prefazione allo Handbuch der Mythologie di M. G. Herrmann,
Berlino e Stettino 1800 2, I, p. xvi.
44 Che è poi la tesi sostenuta, con maggiore o minore intima convin­
zione, da molti autori; cfr. per es. Hobbes, Sul cittadino, trad. Bobbio,
Torino 1948, p. 341 e Vico, La scienza nuova seconda, Bari 1953 ’,
cpv. 313: « Perche le genti n’ebbero i soli ordinari aiuti della provve-
denza; gli ebrei n’ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio [...] ».

34
ie idee chiare de divina natura. Secondo lui a questo grado erano
arrivati, nel mondo antico, solo alcuni filosofi, e non sono mol­
tissimi neanche quelli che vi sono giunti nel mondo moderno:
a nessuno potrebbe venir in mente — egli scriveva — di con­
siderar davvero religione certi atti di culto dei popoli cattolici.
Il suo razionalismo era però fortemente improntato dal senso
della individualità dei popoli e delle epoche storiche; era per
questo che egli si staccava dalla concezione così diffusa nel XVIII
secolo che, nelle cerimonie dei popoli primitivi, voleva veder
adombrato una sorta di deismo; ma proprio in base allo stesso
principio veniva meno ogni possibilità di « rivivere » in qualche
modo le esperienze « religiose » del passato. Se non era stato
senza commozione che egli, liberandosi da una immagine con­
venzionale, aveva intravisto nel mondo classico i lineamenti della
mentalità primitiva, e la genesi « necessaria » del mito, ciò non
significava affatto che egli ammettesse, di quel mondo, qualche
cosa di più di una conoscenza storica.

Dopo quanto si è detto su Heyne può sembrare strano par­


lare di Herder; eppure è necessario farlo, sia perché — come si
è detto — i titoli dei suoi libri ricorrono spesso alle note degli
scritti schellinghiani, sia perché è un giudizio tante volte ripe­
tuto da esser quasi pacifico che sullo Schelling di questi anni, e in
particolare sullo scritto sui miti, l’influenza herderiana sia stata
determinante5T. Questo errore, del resto, è nato da un altro
errore: quello per il quale Herder, appunto, sarebbe stato il
primo ad applicare il metodo mitico alla interpretazione del
mondo antico in genere, e di quello ebraico in particolare, e che
i dotti di Gottinga si sarebbero ispirati a lui; quando semmai,
e non fosse che per ragioni cronologiche, potrebbe esser vero il
contrario 58.
Però il problema delle influenze reciproche è del tutto mar­

47 Per es.: R. Haym, Die romantische Schule, Berlino 1870, p. 557;


K. Fischer, Geschìchte d. neuern Philosophie, VI, Heidelberg 1872, p. 17;
K. Rosenkranz, Schelling, Danzica 1843, p. 17, e H. Zeltner, Schelling,
Stoccarda 1954, p. 218. Piuttosto confusa la trattazione in A. Allwohn,
Der Mythos bei Schelling, Charlottenburg 1927, pp. 13-18 e in F. Strich,
Die Mythologie in der deutschen Literatur von Klopstock bis Wagner,
Halle a. S. 1910, I, pp. 371 sgg.
58 Hartlich-Sachs, Der Ursprung des Mythosbegriffes in der niodernen
Bibelwissenschajt, Tubinga 1952, pp. 47 sgg. e appendice III (pp. 172-75).

55
r
ginale. Il fatto che discepoli di Heyne come Eichhorn o Gabler
citassero Herder con rispetto 59 e che Herder, per parte sua,
citasse Heyne, lodasse « la dottrina » e « il gusto » di Eichhorn,
e ne raccomandasse i libri ai giovani teologi, si spiega, più che
per le posizioni comuni, per il fatto che essi avevano in comune
gli avversari: da una parte le tendenze più nettamente anticri­
stiane, o addirittura atee, della Aufklàrung-, e dall’altra l’ortodos-
sismo legato all’interpretazione letterale o allegorica della Scrit­
tura. È stato detto che l’unica cosa che c’è in comune tra tutti
questi studiosi è « la volontà di comprendere storicamente, di
cogliere un testo o un documento nella sua particolarità e con-
dizionatezza storica, e partendo dallo spirito dell’epoca a cui esso
appartiene » 00. Ma non va dimenticato che se per gli altri questo
è praticamente tutto, per Herder è invece solo il mezzo per
qualche cosa che per lui è infinitamente più importante: la pos­
sibilità di rinnovamento se non dell’umanità, almeno del sin­
golo o della piccola comunità a contatto con le fonti auten­
tiche e vive dell’esperienza del passato.
Anche Herder, quando passa in rassegna le civiltà e i po­
poli, attribuisce a ciascuno di essi un posto ben individuato:
anch’egli sostiene (come Eichhorn e Gabler) che la Bibbia va
letta come un libro umano, scritto per gli uomini. Ma il senso
che egli ha della « tradizione » e dei « miti » che l’hanno tra­
smessa è ben diverso dalla freddezza razionale con la quale
Heyne descriveva la genesi della mitologia antica. Non è per
gusto arcadico che egli nega che la prima umanità sia vissuta
nello stupore e nel terrore, e che di lì abbia tratto le sue storie
di fatti miracolosi, di dèi e di eroi; e non è per ossequio al
cottsensus gentium che egli si appella al fatto che nelle leggende
di tutti i popoli si trovano accenni al paradiso terrestre 61 : ciò
avviene perché egli pensa ad una umanità una volta innocente,
e poi imbarbarita e corrotta, una volta quieta e felice, e poi

59 Del resto Io stesso Heyne accettò di curare, dopo la morte di


Herder, alcuni volumi delle opere di questi nell’ediz. Cotta, accompagnan­
doli con prefazioni piene di affetto e di ammirazione per il defunto.
co Hartlich-Sachs, op. cit., p. 49.
•* 5. W., XI, 249, ove, in polemica col Boulangcr, sostiene che rap­
presentano « evidentemente » un’eccezione quei popoli che hanno ricevuto
una religione nel terrore e nel timore (sulla polemica di Herder contro
Boulanger v. F. Venturi, L'antichità svelata e l’idea del progresso in
N. A. Boulanger, Bari 1947, pp. 144-47).

56
travagliata dalla fatica e dalla paura. Anche Heyne aveva pa­
ragonato la mentalità dei primitivi a quella dei fanciulli: ma
non voleva dir altro, con ciò, se non che non si può giudicare
il passato con la mentalità del moderno, cioè dell’adulto; per
Herder, invece, le immagini e i pensieri della fanciullezza del
genere umano hanno una immediatezza che li fa sentire veri,
anche oggi, da chi abbia un animo incorrotto. Per lui non è
stata, insomma, una necessità sociale o naturale ad aver spinto
gli uomini a sentire e ad esprimersi in quel modo, ma una ne­
cessità che è Dio stesso: così, a proposito delle particolarità
della lingua ebraica, egli scrive: « Un Dio, si potrebbe dire, l’ha
inventata per uomini-fanciulli, onde giocare insieme a loro a
fare i primi passi della logica » °2. E a proposito del « genio
della poesia »: « Lo si può chiamare umano e divino, perché
è entrambe le cose. Fu Dio che creò nell’uomo la fonte del
sentire, che dispose intorno a lui l’universo, con le sue cor­
renti vitali, che diresse queste correnti verso l’uomo, mesco­
landole con i sentimenti che muovevano dal petto di lui; fu
Dio, insomma, a dare all’uomo forza e linguaggio poetico, ed
è per questo che la genesi della poesia è divina. È però anche
umana per la misura, la peculiarità del sentire, ed il modo con
cui le si dà espressione: a gioire e a parlare sono infatti solo
organi umani » M.
È in questo senso che la tradizione di ogni popolo è reli­
giosa: e qui si vede che malgrado tutte le analogie esterne con
Heyne, che talvolta giungono a formulazioni quasi identiche,
la posizione herderiana ha un suo tratto ben preciso. È il so­
strato religioso che rende sacre le memorie degli antenati, non
sono le memorie e le tradizioni come tali che diventano reli­
gione “■*. Tanto più che, per Herder, la « sensibilità » delle rap­
presentazioni ebraiche non toglie affatto che in esse ci sia un
sostanziale nucleo di verità, anche in mezzo al rivestimento di
leggende orientali; c’è di più: se fosse lecito dar forma espli-

«2
5. 1K, XII, 28.
0.1
ìbid., XIT, 6. Sul rapporto tra l’opera del creatore e gli « organi »
umani v. il discorso più generale in XIII, 343 sgg.
ni Ibid., V, 484 sgg. e XIII, 390: « È innegabile che sia stata sol-
tanto la religione a portare ai popoli, dappertutto, la prima civiltà e la
prima scienza: queste, anzi, non erano, originariamente, che un genere di
tradizione religiosa. Ancora adesso quel poco di civiltà e di scienza che
hanno i popoli selvaggi è legato alla religione ».

37
cità e compiuta a molti accenni che ricorrono qua e là negli
scritti di Herder, si potrebbe dire che ogni tradizione religiosa,
quando è originaria, ha un suo nucleo di verità, almeno fin­
tanto che il « simbolo », cioè ciò che esprime con una parola
il pensiero, continua ad essere inteso dai credenti, o almeno
dai sacerdoti: perché è solo quando ciò non accade più che la
religione diventa superstizioneBa. In un modo che è caratte­ ;
ristico di tutto il suo pensiero Herder identifica così il « vitale »
ed il « vero »: e il susseguirsi delle tradizioni dei singoli po­
poli finisce per ricevere la sua legittimazione nella economia uni­
versale dell’« andar verso la ragione » cioè verso una educazione
non del popolo singolo, ma dell’intero genere umano.
Questo, come è noto, è un po’ il punto d’approdo di tutta
la filosofia herderiana della storia: ma quando scriveva le Ael-
teste Urkttnde o il Geist der ebràischen Poesie egli era tutto
preso dall’idea della particolare sacertà di una civiltà, di quella
che è la prima e la più ingenua, quella ebraico-orientale che,
idealizzata, diventa un po’ il paradigma di tutte le tradizioni.
E ci si accorge, considerando queste opere, che l’appello al di­
vino non è un modo di dire retorico: è solo perché espressioni
di una sorta di rivelazione originaria, non mediata da un pro­
cesso discorsivo, che i documenti della fanciullezza del genere
umano acquistano quel carattere di « eternità » che consente
loro di essere sempre vitali; e quando il « buon senso » o Io
« spirito critico » *7 falliranno sotto il peso delle loro contrad­
dizioni e delle loro insufficienze, ecco che sarà possibile appel­
larsi ancora ai monumenti del passato, al racconto biblico, e,
di esso, alla parte che va da Adamo a Mosè, dal primo inse­
gnamento che Dio dette all’uomo attraverso la sua stessa opera
all’insegnamento codificato in un corpo di prescrizioni e di san­
zioni, nonché di racconti « storici »
Ed è in questo contesto che compare, in Herder, la figura

es
5. W., XIII, 356 sgg. e 388 sgg.
** Ibid., V, 483 sgg. e 498.
° Ibid., VII, 83.
•• S. W., V, 562; e invece, poco più avanti: « La loro [dei greci 1
età seppe compiere tutto ciò, ma lo compì una volta sola: quando l’uma­
nità, con tutte le proprie energie, volle evocarlo una seconda volta, lo spi­
rito era ormai polvere, il germoglio restò cenere: la Grecia più non ri­
nacque » (cito qui dalla trad. di F. Venturi di Ancora una filosofia della
storia ere., Torino 1951).

38
del savio legislatore che opera la rigenerazione del popolo non
tanto imponendo ad esso determinate norme, quanto ristabi­
lendo il contatto con la sua tradizione. Mosè « raccolse verosi­
milmente le antiche storie e le antiche saghe del suo popolo,
e le premise, come un sacro documento degli antenati, anzi,
come base della sua legge [...] alla storia»69. Anche a propo­
sito dei profeti si osserva che essi si comportarono come chi
« esprime un pensiero nuovo servendosi di una antica e ben
nota forma espressiva »70. Ora, potrebbe sembrare che qui
Herder applichi ai legislatori e ai profeti il canone della Ak-
kommodationstheorie, o che egli riprenda una figura, quella del
savio legislatore, che era cara a gran parte della tradizione il­
luministica; in realtà il suo atteggiamento è completamente di­
verso; perché, come egli spiega altrove, è l’arca dell’alleanza
(simbolo del richiamo alla tradizione) che « custodì un tesoro
dei progenitori ed insieme il mezzo più efficace per l’incivili­
mento del popolo ».
Non c’è arte di legislatore, insomma, che possa supplire alla
mancanza di vitalità di una tradizione. Il caso classico, sul quale
ha giustamente richiamato l’attenzione il Meinecke, è quello del
tentativo dell’imperatore Giuliano: « Una religione infatti, in
tutta la pienezza e forza di questo termine, era indispensabil­
mente richiesta dal secolo in decadenza; e questo l’imperatore
come ogni altro lo vedeva benissimo [...] Ed egli s’attaccò al­
lora a tutto, dove poteva, alla più viva e antica delle religioni
a lui note [...] chiamò in aiuto il più possibile di filosofia [...]
pose il tutto sul carro trionfale più sfarzoso, trainato da due
bestie indomite, la potenza e il fanatismo, guidato dalla più
sottile arte di governo; ma invano! Logora e sovravvissuta,
questa religione s’accasciò, povero travestimento di un cada­
vere che in altri tempi aveva saputo operare miracoli » 71. Mosè

Cioè: alla vera e propria parte storica della Genesi, all’ingrosso dal
diluvio in poi (S. W., XI, 457). Quella del «legislatore» che sa racco­
gliere in un « popolo » nuclei dispersi ed oppressi è una figura che ricorre
nel pensiero politico di Herder: basta pensare al suo appassionarsi per
l’opera di Pietro il Grande e di Caterina II (sull’argomento è da vedere
il capitolo relativo in D. Groh, Rtissland tmd das Selbstverstàndnis Etiropus,
Ncuwied 1961).
70 5. W., XII, 197.
71 Ibid., V, 518 (trad. Venturi); cfr. Meinecke, Le origini dello sto­
ricismo, cit., p. 329.

39
e i profeti, si può concludere, riuscirono ad educare (cioè a rin­
novare) il popolo perché si richiamarono ad una tradizione vera,
e perciò vitale. Giuliano fallì perché volle imporre come tradi­
zione un complesso di credenze e di costumanze che erano ormai
morte.
Ma, vien fatto di chiedersi, riteneva Herder ancora possi­
bile riunire e « riformare » un popolo appoggiandosi alla tra­
dizione? Dai suoi scritti, e limitatamente alle grandi nazioni
« civili » dell’occidente, si può trarre solo una risposta nega­
tiva. Quando egli cerca che cosa resti del passato in una società,
come quella del suo tempo, tesa verso la creazione di una uma­
nità nuova, e pure segnata dalla « frivolezza » e dal « dispo­
tismo », non trova che la piccola comunità familiare, quella
che esisteva anche al tempo dei patriarchi, e che ora è ridotta
ai margini della società, condannata a non poter realizzare che
una minima parte della sua potenzialità educativaTS. E pure
questo nucleo può esercitare un ruolo importante: non si può
escludere, infatti, che al « dischiudersi di una grande scena
nuova » si debba arrivare attraverso « il corrompersi di tutto »,
e in questo caso i valori della tradizione dell’umanità saranno
conservati in queste isole « naturali », nelle quali famiglia e
religione costituiscono un tutto indissolubile

3. Mito e tradizione.

È stato giustamente osservato che mentre la scuola mitica


poteva fornire a Schelling precisi schemi di classificazione, ed
una definizione scientifica del mito, da Herder, il cui lato forte
non consisteva certo nella esatta elaborazione di concetti, egli
non poteva aver derivato niente di tutto questo 74. Ma c’è senza

73 Ibid., V, 571-73, e XIII, 384: «Die Natur erzieht Familien [...] ».


73 Ciò che rende salde le società naturali è la « simpatia organica »
che è imitazione reciproca, ed insieme sentire all’unisono: da questa fonte
comune si alimentano, senza la mediazione del pensiero, le passioni e i
sentimenti, che sono così un fatto collettivo della comunità familiare e
patriarcale. Di qui trac origine, come è noto, la polemica di Herder contro
« l’innaturale ingrandimento degli stati, la scomposta mescolanza di specie
umane e di nazioni sotto un solo scettro ». Dentro quella « fragile mac­
china » che è lo Stato non c’è « vita interiore ne simpatia » a tenere in­
sieme le parti.
74 Allwohn, Der Mythos cit., pp. 20-21.

40
dubbio un altro motivo, più profondo, che separa il giovane stu­
dioso da Herder: ed è che egli mostra di non accettare in nessun
modo quello che è il fondo di gran parte delle considerazioni
herderiane: il nucleo di verità permanente di certe storie mitiche
(come, per es., la storia mosaica) e la possibilità che esse parlino
ancora oggi a chi si dispone ad ascoltarlo.
Si può però dire che se non accetta il contenuto del pen­
siero herderiano, Schelling ne riprende la forma: la tradizione,
nella forma mitica, è elemento costitutivo di ogni civiltà, ne­
cessaria ad ogni popolo, e non solo ai primitivi. La prima ap­
plicazione pratica, gravida di conseguenze, di questo principio
è l’affermazione che si può parlare di storia mitica anche quando
esiste già una tradizione scritta: il che doveva aprire la strada
alla applicazione dei canoni mitici al Nuovo Testamento 7*. In
questa sede però non interessa seguire o approfondire questa
tematica: importa piuttosto rilevare che accanto al filone « dotto »
ci sono state probabilmente altre influenze che hanno indotto
Schelling a fermare la sua attenzione sull’importanza della tra­
dizione nella storia e nella vita dei popoli.
Queste influenze derivano dall’ambiente nel quale egli vi­
veva. È stato osservato, dal primo biografo di Schelling, ma
anche da altri studiosi70 che egli veniva da una famiglia i cui
membri, da secoli, ricoprivano cariche ecclesiastiche, e qualche
volta anche civili. Ed è anche noto che la borghesia tradizio­
nale del ducato resisteva da lungo tempo alla politica dispotica
del duca Carlo Eugenio. La resistenza si esercitava su due piani:
da una parte attraverso un rinnovo di religiosità ispirato da mo­
tivi pietistici, profetici e teosofici — rinnovo di religiosità che
aveva un esplicito significato di opposizione nei confronti delle
tendenze che gli organi centrali della Chiesa, sotto la spinta delle
autorità statali, cercavano di imporre a tutti i livelli, dall’uni­
versità alle parrocchie di campagna — e, su un altro piano,
nella richiesta del ristabilimento del « buon vecchio diritto »,
il che, teoricamente, significava la difesa dei diritti degli Stati

TA II primo ad aver messo in evidenza questa osservazione di Schelling


fu D. F. Strauss, Das Leben Testi, Tubinga 1835, I, 38-39; cfr. anche
Hartlich-Sachs, op. cit., pp. 57-58.
7pIITT> i> i Sgg . j Klaibf.r, Hòlderlìn, Hegel urici Schelling in
ihren schioàbischcn Jtigendjahrcn, Stoccarda 1877, pp. 106-9; R. Schneider,
Schelling*s und Hegel's schwdbische Geistesahnen, Wiirzburg 1938, p. 29.

41
r "—

(Stènde), di un ordinamento, cioè, vagamente rappresentativo,


mentre era, in pratica, lo sforzo di conservare i privilegi, che
spesso erano enormi abusi, del ceto impiegatizio (gli « scrivani »),
di poche famiglie di notabili e dello stesso medio e alto clero.
Si era venuta così alimentando una sorta di retorica anti-asso-
lutistica, che aveva i suoi punti di forza nella protesta contro
gli arbìtri e le spese, spesso pazzesche, del duca e della sua
corte, senza però sviluppare una carica non diciamo rivoluzio­
naria, ma neppure modestamente riformatrice. Contro lo svi­
luppo dello Stato assolutistico, contro gli stessi tentativi di di­
sporre un più razionale reclutamento dei funzionari (la fonda­
zione della Karlsschtde, di struttura militaresca, ma aperta in­
sieme allo studio delle scienze naturali) la borghesia del du­
cato si appellava alla « tradizione ».
Questo movimento di opposizione aveva ricevuto un forte
stimolo dalla rivoluzione francese, soprattutto dopo i primi ro­
vesci subiti dalle armate imperiali. E si venivano curiosamente
mescolando rivendicazioni dei diritti dell’uomo, e dei privilegi
degli Stànde del ducato; ci si entusiasmava per il contratto so­
ciale, ma insieme per il ristabilimento di un rapporto sostan­
zialmente feudale tra il principe e i corpi dello Stato territo­
riale ”. Anche nell’atteggiamento « giacobino » di molti degli
stessi studenti di Tubinga non manca mai il richiamo alla « li­
bertà tedesca »: l’esaltazione per « l’umanità » va di pari passo,
insomma, con la speranza di ristabilire forme di « libertà » tra­
dizionali, di tipico stampo corporativo 78. Né questo accadeva

Cfr., per es., nella raccolta Jacobinische Flugschriften aus dem deul-
schen Siiden, curata da H. Scheel, Berlino 1965, il n. 23 (Ueber das Pe-
titionsrecht etc., pp. 188 sgg.) ove, accanto a discorsi generali sulle costi­
tuzioni, e sulla necessità di aggiornarle in corrispondenza degli Zeitbe-
diirfnisse, ci si richiama a editti del XVI secolo e al « santo nome » degli
antichi duchi. Sull’argomento v. anche E. Hòlzle, Das alle Rechi und die
Revolution, Berlino-Monaco 1931, pp. 171-74 e J. Droz, L’Allemagne et
la revolution fran<;aise, Parigi 1949, pp. 111-30.
78 Questo stato d’animo, del resto, non era tipico del Wiirttemberg,
né solo di quegli anni; è stato osservato, per es., che anche nello Egrnont
di Goethe il personaggio principale difende « le libertà e i privilegi » de­
gli olandesi, e che di fronte a lui il duca di Alba sembra sostenere la causa
dello Stato illuminato-dispotico (Korff, Geist der Goethezeil, cit., I,
216 sgg.). Per quanto riguarda Schelling, non esistono testimonianze pre­
cise sul suo atteggiamento su questi problemi; è però significativo che egli,
nel 1802, a Jena, dichiarasse pubblicamente di approvare i duelli studen­
teschi (la testimonianza in: Ein Engliinder iiber deutschcs Geistesleben.

42
solo tra gli studenti. Quello che è il pubblicista più famoso
della Svevia, C. D. Schubart, congiunge pathos rivoluzionario
e senso della tradizione popolare, esalta la presa della Bastiglia,
ma mette in guardia i suoi connazionali contro la Freigeisterei
francese. Ma anche nei componimenti poetici di Hòlderlin ri­
corre non di rado il motivo di un rinnovamento « tedesco » ,0
nel quadro del ritorno dell’umanità « al seno della madre »;
e la direzione di questo rinnovamento è indicata dai ripetuti ri­
chiami alle virtù dei padri, alle glorie del passato, all’amicizia
sancita da leali strette di mano, nelle foreste, lontano dalle città
e dai tiranni80; è un ritorno, insomma, a quelle che dovrebbero
essere le virtù tradizionali del popolo tedesco: e la evocazione
di queste da parte del poeta ha un preciso significato pedago­
gico 81.
Ora, sarebbe evidentemente assurdo voler fare di Schelling
un « tradizionalista »: il suo kantismo, e la sua stessa accetta­
zione, proprio tra il 1792 e il 1794, del metodo « storico-cri­
tico » non potevano certamente disporlo a glorificare il passato
solo perché tale. Ma non è questo il punto: dall’ambiente egli
potè ricevere una precisa indicazione sulla necessità del ri­
chiamo alla tradizione per l’educazione e l’organizzazione del
popolo; quello, però, che per molti dei contemporanei voleva
essere una fede sincera nella virtù di forme di vita del passato,
diventa per lui uno strumento di pedagogia politica: e la figura
del legislatore, di colui, cioè, che deve maneggiare questo stru­
mento assume tratti ben dissimili da quelli herderiani.
Questo è un tratto presente in tutto lo scritto sui miti. Mentre
nelle pagine di Heyne, per non parlare di Herder, si sente la
commozione per la scoperta del significato storico della tradi­
zione orale di un popolo, Schelling — come del resto anche
Eichhorn — guarda il fenomeno con molta freddezza. La sua
prima preoccupazione è anzi quella di mettere bene in chiaro

Aufzeichnungen H. C. Robinson’s, Weimar 1871, p. 226), cioè una delle


più tipiche manifestazioni dello spirito corporativo delle V’erbindungen,
contro il quale, pochi anni prima, Fichte aveva levato la sua voce (e allora
Schelling aveva simpatizzato con lui: v. la lettera a Hegel del 21-VII-1795).
70 V. per es. la chiusa dcll’Zw/zo alla libertà, del 1792 (S. W.» I,
145); cfr. anche M. Delorme, Hòlderlin et la revolution fran^aise, Mo­
naco 1959, p. 26.
80 V. per es. le poesie Burg Tiibingen e Kanton Scbtvyz.
81 Cfr. anche E. Mùller, Hòlderlin cit., pp. 37-43.

43
I

che il mito non è storia, e che non si può prestar fede come a
documenti storici alle leggende e alle tradizioni della infanzia
dei popoli. Nelle prime pagine del saggio vengono svolte alcune
considerazioni, niente affatto originali (Schelling si ispira lar­
gamente, anche quando non li cita, a Heyne e a Herder) sul
carattere della trasmissione orale, e sul sorgere della tradizione.
Ma ciò che gli interessa mettere in chiaro è se ciò che della tra­
dizione passa nel documento scritto e poi giunge sino a noi sia
vero o no: e la conclusione è negativa, senza riserve ’2. Anche se
il saggio si chiude con un retorico « ’Exò$ ’Exàg èaxe » nei
confronti di coloro che non vogliono sentir parlare di mito se
non c’è contenuto poetico o favoloso, Schelling è ben lontano
dal ritenere che la « semplicità » della narrazione primitiva sia,
per ciò stesso, canone e criterio di verità.
Rispetto alla Magisterdissertation il tema stesso ha proposto
però a Schelling un gruppo di problemi sostanzialmente nuovi;
ora non si tratta, cioè, di seguire il processo per cui, nella storia
umana, la ragione si fa strada, fino ad approssimarsi ai suoi fini
supremi, bensì di vedere come essa prenda corpo e forma in
una determinata unità storica. Come è già apparso dalla dis­
sertazione, dove, specialmente nelle note, egli ha tracciato pa­
ralleli tra miti di popoli diversi, Schelling non ha una sensi­
bilità spiccata per l’individualità di ogni singolo popolo; ma
pur ammettendo la possibilità di una comune origine dei miti
dalla comune natura della ragione umana (come là si era detto)
— pur ammettendo, cioè, che il nocciolo teoretico sia identico
in tutti gli uomini, quali che siano i popoli cui appartengono —
resta il fatto che ora Schelling si deve occupare delle forme
specifiche, con cui, in un popolo, si forma e si trasmette un de­
terminato bagaglio di nozioni e di idee. E si sposta anche, di
conseguenza, lo schema cronologico del corso delle civiltà; nella
dissertazione la divisione del genere umano in popoli era stata
collocata nella fase successiva alla innocenza primitiva: qui in­
vece è proprio da questa fase che si prendono le mosse.
Il primo momento è quello che precede la scoperta della
scrittura: in questo periodo la trasmissione è orale, di padre
in figlio, e i figli accolgono con amore i racconti, li trasfigurano
e li ornano a loro volta di nuovi particolari; canti, danze, elogi
rendono più solenne e più intensa questa assimilazione: « Il

L 44 sgg.

44
popolo ode con entusiasmo quei canti, la melodia di essi risuona
a lungo nella sua anima, le immagini della poesia continuano a
risuonare nella sua bocca, e si mantengono anche nelle genera­
zioni successive » L’orgoglio nazionale (Nationalstolz} induce
il popolo a spingere sempre più indietro la storia dei progenitori,
fino a giungere a quello che vien ritenuto l’inizio del tempo
A interrompere questo idillio fantastico-poetico è l’introduzione
della scrittura; che non è però la causa, ma l’effetto di uno svi­
luppo della cultura: un popolo va verso la fine del « periodo
mitico » quando « gli avvenimenti della sua storia diventano
sempre più numerosi, quando il ruolo che esso ha tra gli altri
popoli incomincia a diventare più grande, più vistoso, più ricco
di influenza. In questo periodo da una parte l’attività del popolo
riceve sempre nuovi, sempre più numerosi argomenti a cui volgere
l’attenzione, dall’altra esso è ancora saldamente attaccato alla
storia dei suoi padri » 85.
È in questo periodo di trapasso che nasce la scrittura, ma
si verificano insieme le più gravi deformazioni storiche perché
il popolo che continua « a considerare sommo onore Tesser si­
mile agli antenati » sposta indietro nel tempo le nuove acquisi­
zioni ed i nuovi costumi, li incorpora nei miti della sua storia
più antica. Si interrompe, insomma, il tessuto tradizionale, e al
suo posto ne interviene uno nuovo: i difetti della trasmissione
scritta, gli equivoci, gli errori, le invenzioni di cui essa ribocca
sono da riportarsi a questo tentativo di ricostruire un vincolo
storico con un passato che è ormai tramontato. Alla « parola
viva » subentra quella « morta » della scrittura, il popolo viene
« spinto fuori dall’ambito ristretto della sua storia, del suo paese
e della sua stirpe »: ed è qui che in luogo della saga familiare
o tribale nasce il « mito » nella forma con cui è giunto fino a noi.
Con la genesi della scrittura si è operata anche una separa­
zione tra chi ne fa uso c gli altri: « i primi tentativi di questo

83 I, 48.
84 Vale la pena di rilevare che nel bel mezzo di queste pagine piene
di pathos esce fuori improvvisamente una osservazione, ricavata da Hcj’ne,
da cui si può vedere in che misura fossero vive, in Schelling, le istanze
metodologiche « storico-critiche »: egli nota, cioè, che l’elaborazione delle
leggende più antiche da parte del popolo è « un nuovo motivo di confu­
sione » — naturalmente ai fini dell’accertamento del nocciolo di esattezza
storica contenuto nella tradizione originale.
I, 49.

45
genere sono rari, e non sono destinati alla più gran parte del
popolo ». Questa indicazione è interessante perché è un accenno
alla distinzione tra il popolo e coloro che, forzando un po’ il
termine, potremmo chiamare gli « intellettuali », distinzione che
è il primo accenno di una problematica che poi avrà grandi svi­
luppi nel pensiero di Schelling. Infatti, quando si è giunti al
grado nel quale il mito non è più l’espressione di un rozzo e
ristretto gruppo, ma di una comunità che ha già lasciato le forme
patriarcali di esistenza, pur conservando una sorta di « mentalità
primitiva », a elaborare i miti sono dei « savi che pensano » "ft,
siano essi filosofi (sono questi che elaborano la « filosofia mitica »)
o poeti (mito poetico) — anche se è quasi sempre impossibile,
rileva Schelling, tracciare un confine netto tra le due forme di
mito. Certo, l’antichissimo linguaggio degli uomini non può ser­
virsi che di immagini sensibili per designare i concetti; del resto
la mentalità ancora bambina è incapace di definizioni rigorose
ed astratte fc7. E poi, « in un popolo di cui lo spirito, il carattere
p la lingua sono ancora assai poco sviluppati, sono soltanto degli
adividui isolati a sentire in alto grado il bisogno di filosofare.
>e idee che lentamente si formano in essi sono assai in anticipo
rispetto alla civiltà del resto del popolo, e rispetto, particolar­
mente, al linguaggio di esso. Quest’ultimo soprattutto sarà, per
coloro che nel popolo sono più savi, un vincolo pesante, dal
quale essi non potranno mai liberarsi se non in qualche caso, e
con la più grande fatica. Si può, inoltre, avanzare l’ipotesi che
essi non siano stati in grado di pensare idee elaborate sotto
tutti gli aspetti, e che infinite volte ad essi si offrivano non chiari
concetti, ma solo oscuri presentimenti della verità » 8S. Per fissare
questi (che sono detti anche Empfindungen, e Gefiihle der
Wahrheit) il pensatore non può che far ricorso alla forma imma­
ginativa e sensibile, cioè ad una sorta di racconto storico.
Ai fini della presente ricerca non è necessario dilungarsi ad
esporre le considerazioni schellinghiane sul mito filosofico, né se­
guire le varie classificazioni dei miti. La riduzione, poi, dei miti
dei diversi popoli alle condizioni geografiche e di ambiente, è

86 « denkende Weisen »; qui il « pensare » è posto come contrapposto,


e come integrativo, alle facoltà fantastiche del resto del popolo. I sapienti
sono insomma, coloro nei quali è più forte quello stimolo razionale che c
potenzialmente implicito in ogni uomo (cfr. I, 22).
87 I, 66.
88 I, 67.

46
evidentemente ispirata a Herder, anche se Schelling non ritiene
di doverlo citare. È necessario, invece, seguire le osservazioni
del filosofo sul tema della portata pratica dei miti. È già signi­
ficativo il fatto che compaia la distinzione tra ciò che è verità
scientifica e ciò che, di fatto, viene creduto: « Presso ogni popolo
la mitologia politeistica diventa, da ultimo, un mero oggetto
della fantasia. Resta ancora per un lungo periodo come qualcosa
che, ereditato dai padri, è passato nello spirito, nel carattere,
nei costumi e nelle leggi del popolo, e ciò quando già l’interpre­
tazione empirica della natura (empirische Naturerklàrung} fa
grandi progressi ». Separata dalla sua radice originaria, non più
strumento reale di conoscenza, il mito, espressione della tradi­
zione, ha ormai soltanto una portata etica. I poeti e gli artisti
possono, dal mito, trarre materiale per le loro libere elaborazioni:
ma per il popolo il ricordo delle vicende e delle tradizioni dei
padri non è « un mero pensiero poetico »; la voce del passato
è ascoltata « con venerazione e rispetto ». « Così gli insegna-
menti, gli ammonimenti e l’esempio dei padri producono la virtù
nazionale dei popoli; infatti, tra le stirpi non civilizzate, virtù è
soltanto ciò che viene santificato perché più volte accaduto, perché
è fissato dall’uso, perché è tradizionale » **.
È naturale quindi che i popoli, finché la tradizione è stata
la loro guida, rimangano quasi immobili nel grado di civiltà al
quale erano i loro padri.
!
E, non c’è da stupirsene, nulla è più difficile che staccare un po­
polo da quell’insegnamento vivente che è la tradizione, fargli sentire
!
come sacri altri costumi ed altre usanze, altre idee e altre conoscenze.
Ha naturalmente una straoidinaria importanza per tutto il corso della
civiltà di un popolo quale educazione esso abbia ricevuto alla scuola
della tradizione, quanto tempo vi sia rimasto, se vi sia stato strap-

*• Anche qui viene ripetuto un giudizio di Hcyne; può dare uno spunto
interessante l’ipotesi che questi lo avesse ripreso dal celebre cancelliere
dell’università di Gottinga, G. L. Mosheim, che aveva scritto, a proposito
delle religioni antiche: « Religionum deinde antistites nec praeceptis nec
factis populum ad vitam bene et honeste agendam exhortabantur, verum
omnem Dcorum cultum ritibus et institutis a maioribus acceptis unice con­
tineri, non obscurc significabant » (Institutiones historiae christìanae anti-
qnioris, Helmstadii 1737, p. 28). Mosheim, a sua volta, citava la prefazione
di Barbeyrac a Pufendorf, dove si trovano raccolti tutta una serie di passi
sull’argomento (Le Droit de la nature et des gens etc.» Amsterdam 1734 a,
t. I, pp. xxii-xxvn).

47
pato troppo presto con la violenza, o se, per un concorso sfortunato
di circostanze, vi sia stato trattenuto troppo a lungo. I primi legi­
slatori di un popolo, per far accettare le loro leggi quale mezzo
migliore potevano trovare che il richiamo al santo nome dei padri?
Se un legislatore riesce a convincere un popolo che gli antenati hanno
già creduto ciò che egli insegna, che hanno già accettato le costu­
!I
manze che egli propone, ebbene, egli ha già quasi raggiunto il suo
scopo. È per questo che i legislatori hanno sempre fatto rivestire,
ai loro insegnamenti e alle loro prescrizioni, i panni della storia, ed
il popolo li ha ricevuti con venerazione e con rispetto, quali saghe
ereditate dai padri. Essi [i legislatori] riattaccavano la loro morale
alle idee di un mondo soprasensibile, ma anche queste idee dovevano
essere rese visibili mediante la storia. E le nuove generazioni, nel
fiorire della loro giovinezza, ascoltavano dalla bocca dei genitori, ora
con stupore e religioso orrore, ora con gioia ed entusiasmo le notizie
degli antenati, delle punizioni degli spregiatori degli dèi, dei premi
ottenuti dai pii. E se, nella comunità popolare, qualcuno peccava,
non ci si appellava ad una legge fredda e morta, ma al vivente esem­
pio degli antenati, che presentava la punizione dei peccatori

A questo punto Schelling, in una nota, ha richiamato le « ec-


dlenti osservazioni » svolte da Heyne su questo argomento in
due dei suoi saggi. Ma, dalla lettura di questi, risulta che Schel­
ling ha derivato dal filologo di Gottinga molto materiale, ma non
l’idea fondamentale. Per Heyne l’importanza dei poeti come edu­
catori deriva esclusivamente dal fatto che un popolo non ancora
« civilizzato » esprime i suoi sentimenti con una attività che im­
pegna tutto il corpo e che trova la sua espressione nelle danze
c nei carmi: i poeti sono espressioni di questa mentalità, alla
quale devono piegarsi anche i savi91. Da questa impostazione
deriva che c’è una sorta di circolo chiuso tra il grado di civiltà
del popolo c la codificazione di esso in cantari, miti e più tardi
filosofemi. Tanto che, quando Heyne, dopo aver stabilito un pa­
rallelo tra le costumanze dei greci attestate da Omero e quelle
delle tribù americane del suo tempo, si domanda perché mai i
greci non restarono fermi a quel punto, non può far altro che
richiamarsi a quei digni sancto humanilatis nomine homines, stra-

90 I, 79-80.
01 « Tum omnis prisca philosophia ab initio carmine enuntiata est,
unde necessc fuit, ut multa in ipsam philosophiam ex signis notionum,
quibus uterentur, hoc est poetico sermone, se insinuarcnt » (Heyne, « Opusc.
acad. », cit., I, 173).

48
nieri o viaggiatori, che portarono tra i greci i risultati della ci­
viltà degli altri popoli. Certo, anch’essi dovettero adattarsi a ciò
che i popoli sentivano: e non c’è da scandalizzarsi « si priscos
sapientes multa, quae superstitionibus propriora sunt, aut consti-
tuisse aut retinuisse videmus [...] Nisi forte Mosem quoque ac­
cusare volumus, quod non perfectam aliquam reip (ublicae) for-
mam suis popularibus scripsit ». E bisogna ben guardarsi dal-
l’accusare uomini santissimi di aver voluto ingannare il popolo *2.
In Schelling l’andamento del discorso è molto diverso perché
egli ha consapevolezza che la unità civiltà-cultura è rotta da mo­
vimenti interni, non dalla importazione di idee o norme più
avanzate; in un luogo egli parla, per es. del « bisogno » da cui
furono presi i più sapienti del popolo di svelare i misteri della
natura 93. Ciò che interessa a Schelling, insomma, è il momento
nel quale i « sapienti » smettono di condividere le credenze co­
muni: anche se permane un condizionamento da parte dell’am­
biente 91 il « legislatore » sceglie l’abito storico ed il richiamo
alla tradizione perché egli conosce la mentalità popolare, e sa
che solo in questo modo le sue prescrizioni saranno accettate
senza resistenza; e questo vale anche per l’appello al mondo
soprasensibile, che ha la funzione pratica di dare una sanzione so­
vrumana alle costumanze ed alle leggi.
Si potrebbe ricordare, qui, che sia Lessing che Herder avevano
parlato di un processo di educazione che tiene conto del grado
di civiltà via via raggiunto dal genere umano: ma non bisogna
dimenticare che, per entrambi, l’educatore è Dio, il quale, me­
diante quella rivelazione che, in ultima istanza, è la storia, ha
via via progressivamente elevato e raffinato gli animi umani. In
Schelling, invece, non c’è niente di tutto questo: per lui, come
si è visto, artefici del processo di incivilimento sono i savi ed i

92 Ivi, 212-16.
93 I, 64.
91 Una lingua sensibile, cioè, è un ostacolo alla elaborazione di con­
cetti razionali; anche Platone fu « costretto » a dare una sbinliche Darstel-
lung della sua filosofia. Una analoga argomentazione, limitatamente però
agli orientali, aveva giù svolto H. E. G. Paulus, in un articolo che Schelling
cita con rispetto (I, 68, n. 2). Paulus sosteneva che nei fondatori orientali
di religioni tutto è storia, cioè mito, e non perché essi volessero ingannare
così i loro uditori più rozzi; in Oriente, infatti, anche i « pochi pensanti »
consideravano probante un’argomentazione nella quale la forma storica pren­
desse il posto della dimostrazione razionale (Cfr. « Memorabilien », fase. I,
Lipsia 1791, pp. 136-38).

4. Cesa 49
legislatori; sono essi che si travagliano nel tentativo di dar forma,
prima in loro stessi, poi negli altri, alle « intuizioni » e ai « pre­
sentimenti » di una verità più alta; sono essi che guidano con
mano sapiente il progresso del popolo, che non può restare im­
mobile nelle credenze del passato, ormai contrastanti con le in­
tervenute modificazioni politiche e con lo sviluppo della cultura.
Sono i legislatori, insomma, a compiere l’opera che in Lessing
e in Herder era della provvidenza divina.
Può essere utile, infine, per precisare ulteriormente la po­
sizione di Schelling, confrontare il suo scritto con quello, quasi
contemporaneo, di Hegel sulla Volksreligion **. Non vale la pena
di rilevare i molti motivi comuni, tanto più che essi sono spesso
patrimonio della cultura dell’ambiente. È il caso, invece, di ri­
levare una importante differenza. Hegel ha, rispetto a Schelling,
un concetto molto più elevato di quello che è « religione »: egli
scrive, per es., che « la religione non è che superstizione » se co­
manda azioni che potrebbero essere suggerite dal semplice buon
senso, o se serve, con lo spauracchio della punizione celeste, a
non far compiere determinate azioni ’6. In Schelling, invece,
questa differenza tra una « religione autentica » e la superstizione
non compare: e non perché, per lui, tutta la religione sia su­
perstizione, ma perché egli vede la religione solo nel suo abito
e nella sua funzione sociale, sia per quanto riguarda l’origine dei
miti, anche di quelli più « filosofici » (come quello del peccato
originale), che per l’uso dei medesimi.
Nella dissertazione era comparso un accenno al motivo della
« decadenza »: un popolo, quando « ha fatto abbastanza per il
suo tempo » dovrà allora uscir di scena 87 — la ripresa di uno
schema herderiano era evidente. Qui non si ripresenta il
motivo della decadenza, ma piuttosto quello di uno sviluppo non
sano, che si ha quando un popolo viene strappato con la violenza
dalla « scuola della tradizione » o, al contrario, quando vi rimane
troppo a lungo. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che Schelling abbia,

*s Theologische Jugendschriften, Tubinga 1907, pp. 3-29; in trad. it. in


appendice al volume del Lacorte, op. cil., pp. 319-50.
’c Ivi, p. 9.
•7 « Verum in illa omnium hucusque gentium communi sorte nihil
est, quod nos de rebus humanis universe desperare jubeat. Nam quaevis
gens confort ad summos humanitatis fines proferendos, sed, ne summo
totius ordini praeproperet, ubi suo tempore satis fecerit, ut discedat e scena,
in fatis est [...] » (I, 38).

50
con queste frasi, indirettamente accennato allo svolgimento della
rivoluzione francese (soprattutto alle vicende successive al 10 ago­
sto 1792), e dall’altra parte all’irrigidimento conservatore che
proprio in quei mesi si faceva sentire nel Wurttemberg, a Tu-
binga e nello stesso collegio teologico. Ma sia che egli abbia
pensato alle giornate rivoluzionarie di Parigi, o ai despoti illu­
minati, sia che abbia formulato una ipotesi generica, l’accenno
è interessante perché testimonia che per lui ogni rottura violenta
col passato (come del resto l’immobilità) è un fatto patologico.
E se si tiene presente che proprio in questi mesi è grande l’en­
tusiasmo del giovane e dei suoi compagni di studio per la rivo­
luzione francese (questo sarà documentato più avanti) sarà lecito
affermare che per Schelling (come per altri Stiftlern} l’ammira­
zione per la rivoluzione in Francia non significava affatto il de­
siderio di vederla riprodotta in Germania. Si approvava, cioè,
l’abbattimento delle istituzioni esistenti nella nazione vicina, si
salutava con soddisfazione il fallimento dei tentativi di riportarvi
con la forza l’antico regime, ci si sentiva, anche, spiritualmente
partecipi di quelle vicende, considerate un passo decisivo della
« umanità », ma, su un altro piano, esse venivano considerate
un exeniplum di uno sviluppo culturale non sano. Del resto, anche
negli anni immediatamente successivi, quando Schelling assumerà
posizioni politiche ben più radicali, la sua adesione alla rivolu­
zione resterà un fatto sentimentale; non ci sarà, insomma, nessun
tentativo di comprenderla sul piano teorico.

4. Conclusioni.

Dalla delineazione dei motivi, dei problemi e delle influenze


che si riscontrano nei primi scritti di Schelling si può anzitutto
trarre una conclusione: che non è lecito, come hanno fatto finora
gli studiosi della filosofia politica di Schelling, trascurare gli scritti
del 1792-93. In essi non esistono — è vero — diretti riferimenti
politici. Ma vi si trova esposta una concezione della storia umana
che non soltanto è stata sollecitata dalla cultura, e anche dalle
vicende, del tempo, ma che tenta anche, se pure molto generi­
camente, di dare una risposta a certi interrogativi di notevole
rilevanza.
La concezione provvidenziale della storia, e l’idea di una ar­
monia primitiva che vada ristabilita, sono entrambe teorie ben

51
"r

: note a Schelling, ma sono anche teorie che egli respinge. Contro


la prima egli obietta che gli uomini sono giunti « a tanta al­
: tezza » con le loro forze; contro la seconda egli mette in evi­
denza, appunto, la superiorità della cultura contemporanea, che
è ormai sulla strada della realizzazione dei « fini del genere
umano », ben più alti della innocenza primitiva. Ed ormai siamo
giunti al punto nel quale « etsi inter multiplices humanae vitae
labores saepe felices Edenis arbores desideremus, tamen, si vel
ad illam redire liceret Arcadiam, praelatis immensis vitae nostrae
laboribus, nunquam profecto reverteremur » La faticosa via
del genere umano è stata scelta prima sotto lo stimolo della sen­
sibilità e della passione, poi per libera e razionale elezione. Questo
motivo, del « tendere » verso la realizzazione dei fini della ra­
gione, che sono anche quelli del genere umano, fu elaborata da
Schelling seguendo indicazioni di Kant, e ben prima di leggere
gli scritti filosofici di Fichte; in questi ultimi egli potè trovare
quindi lo schema teoretico nuovo per inquadrare quella proble­
matica morale che egli aveva in un primo tempo presentato in
forma storica.
Nella dissertazione, ma anche nello scritto sui miti, si nota
talvolta la contrapposizione tra la forma razionale, cioè astratta,
con la quale si esprime oggi la filosofia, e la forma mitico-storica
con cui questa si esprimeva nel mondo antico. Ma questa resta
una notazione tecnica, una osservazione relativa alla forma del
filosofare: non viene allargata a contrapposizione di civiltà, di un
passato « storico » e « organico » contro un presente « astratto »
e « scisso ». C’è un solo accenno, in tutto il saggio sui miti, dal
quale si possa trarre l’impressione che Schelling contrapponga le
società antiche, rette da un principio vivente, a quelle (sottinteso'.
moderne) rette dalla morta parola delle leggi: e questo accenno
è di evidente derivazione herderiana Del resto, chi esalta la
cultura del presente non può perdersi nel rimpianto dell’armonia
del passato, tanto più quando questa è stata presentata come
inscitia.
Un fatto abbastanza singolare è l’indeterminatezza cronologica
e geografica del « mondo più antico », quello la cui cultura si
esprime nei miti; per Schelling i miti non sono tipici dell‘Oriente,
né delle epoche che ignorano la scrittura. Egli non afferma espli-

•• I, 32.
” I, 80.

52
citamente che tutta la storia dell’umanità abbia lo stesso anda­
mento di quella dei popoli antichi, sia scandita cioè dalla continua
tensione tra l’attaccamento alla tradizione e lo sforzo della ra­
gione di individuare ed esprimere il nuovo: eppure sia il System-
programm del 1796 che gli scritti più tardi testimoniano che la
mitologia non è per Schelling una forma espressiva delle « epoche
più antiche », ma uno strumento permanente di educazione del
popolo.
Potrebbe sembrare però che si delinei una contraddizione tra
lo schema « razionalistico » (si è vicini alla verità, e il contenuto
nuovo è ormai esprimibile in forma nuova, che per Schelling,
oltre che la filosofìa critica, è il « metodo storico-critico ») e
quello della educazione del popolo (che non può prescindere dalla
tradizione e dal mito). Non c’è peraltro alcun accenno che con­
senta di affermare che Schelling si accorga, adesso, di questa
« contraddizione »: perché — se è lecito tentare una spiega­
zione — per lui la ragione e la scienza sono appannaggio di co­
loro che « pensano », dei « savi », dei « legislatori », che sono
sì legati da mille vincoli alla cultura del loro popolo, ma insieme
operano per trasformarla, per portarla sempre più vicina all’al­
tezza della verità e della ragione 10°. Schelling non si prospetta
ancora l’ipotesi di un distacco radicale degli intellettuali dal « po­
polo », né di un fallimento dei loro sforzi: non appena se ne
accorgerà, il suo pensiero assumerà forme più radicali. È però
caratteristico il fatto che, già adesso, il « popolo » ha un ruolo
puramente passivo. Come si vede, quello che più tardi sarà cri­
ticato come « l’aristocraticismo » di Schelling, del quale si vor­
ranno vedere le radici nella teoria dell’intuizione, o nel prevalere
del momento estetico, ha una radice molto più remota, e di
stampo illuministico: anche se poi si trasformeranno radicalmente
le forme con cui esso si manifesterà.
L’indifferenza del giovane filosofo per il diritto, o, più pre-

’00 È stato notato, molto giustamente, che lo svolgimento della argo­


mentazione schei linghiana dimostra « che egli, nei miti filosofici, presuppone
un contenuto razionale, e corrispondente alle cognizioni filosofiche dell’età
moderna. Sotto questo rispetto, il suo concetto di mito è razionalistico, an­
che se prevale ovviamente la prospettiva storica, che è ben consapevole del
distacco tra passato c presente e che ricerca, senza altri presupposti, ncl-
l’anima dei popoli antichi, sia il contenuto che la forma peculiare delle
rappresentazioni. Nei primi scritti, il concetto schellinghiano di mito è
storico-razionalistico » (Allwohn, Der Mythos cit., p. 18).

55
òsamente, la sua rinunzia ad approfondire il carattere dei vincoli
e dei rapporti giuridici nelle comunità umane ha la sua radice
in questa concezione « culturale » della storia: sia nella disser­
tazione, ove ci si avvicina di più al tema, che nello scritto sui
miti, ove esso viene accennato di sfuggita, le leggi sono viste
come un provvisorio rimedio alla mancanza là della razionalità,
qui della tradizione — e il loro sbocco, del resto, è la tiran­
nide 101. Come si vedrà più tardi, Schelling non è mai giunto,
neanche quando avrà letto le teorie del diritto di Kant e di
Fichte, più in là di una rivendicazione dei diritti dell’individuo.
La sua negazione dello Stato (c’è stato chi ha parlato, non del
tutto a torto, di « anarchismo », per un certo momento del pen­
siero politico di Schelling) non lo porterà però mai ad escludere
la presenza del vincolo rappresentato dalla cultura e della edu­
cazione.

101 I, 36.
IL Tra rivoluzione e « Aufklarung »

1. Schelling dal 1793 al 1793.

Ai primi del 1795 Schelling scriveva a Hegel: « Vuoi sa­


pere come vanno le cose qui? — Dio mio! è venuta una siccità
che farà presto ricrescere l’antica zizzania. E chi sarà mai a far
pulizia? Noi ci aspettavamo tutto dalla filosofia e credevamo che
il colpo che essa aveva dato anche alle menti di Tubinga non
avrebbe cessato così presto di farsi sentire. E invece, purtroppo,
è andata proprio così! Qui lo spirito filosofico ha già raggiunto
il meriggio, e forse è destinato a muoversi ancora per un po’ di
tempo al punto più alto dell’orbita, per poi tramontare con moto
accelerato » ‘. È questa una testimonianza autobiografica che getta
luce sul mutamento spirituale che si verificò in Schelling nel
corso del 1794, e che segna uno stacco abbastanza netto rispetto
ai primi tre anni di università. La fiducia che da una parte la
filosofia critica, e dall’altra i nuovi metodi di ricerca storica si
imponessero da soli, per forza propria, che l’ortodossia, privata
ormai di ogni credito scientifico, si dissolvesse, che la marcia della

1 Briefe von und an Hegel, I, Amburgo 1952, p. 13. Il motivo è


ripreso in un luogo delle Lettere filosofiche: « Singole illusioni erano ca­
dute da se stesse. L’epoca sembrava solo aspettare che sparisse anche l’ul­
timo fondamento di tutte quelle illusioni. Aveva già distrutto singoli er­
rori, doveva ora cadere anche il punto estremo al quale tutte quelle illu­
sioni erano solidamente fissate. Sembrava che si aspettasse il disvelamento,
quando intervennero altri che, nel momento in cui la libertà umana doveva
compiere la sua ultima opera, idearono nuove illusioni per raffrenare ancora
prima dell’esecuzione l’ardita risoluzione. Le armi caddero dalla mano, e
l’ardita ragione, che aveva distrutte le illusioni del mondo obiettivo, ge­
mette fanciullescamente sulla sua debolezza » (I, pp. 339-40; cito, qui e
altrove, le Lettere filosofiche secondo la traduzione di G. Semerari, Fi­
renze 1958). 1. 14

55
- .
ragione fosse inarrestabile 3, tutto questo era stato smentito dai
fatti: i professori tubinghesi (basta ricordare Storr e Flatt) ave­
vano rapidamente elaborato un sistema di compromesso tra il
kantismo e l’ortodossia s; la morte di Carlo Eugenio (1793) aveva
visto salire al trono suo fratello, Luigi Eugenio, il quale, fervente
cattolico e devotissimo alla casa d’Austria, aveva respinto le ri­
chieste di una pace separata con i francesi — che, soprattutto
nella seconda metà del 1794, avevano cominciato a diventare
vivaci4 — ed aveva introdotto un sistema di governo che, pur
più debole e meno dispotico di quello del suo predecessore 8 non
veniva incontro né alle richieste degli Stànde né alle esigenze
degli intellettuali innovatori#.
La scoperta che l’ordine esistente era molto più solido di
quanto egli non avesse creduto si ripercosse anche nell’atteggia­
mento esteriore di Schelling. Il 1793 è l’anno nel quale sono
attestati alcuni suoi gesti di adesione alla rivoluzione francese
che fecero rumore nel piccolo mondo dello Stift. Dopo questa
data, egli si comportò in modo più cauto, e non si verifica-

2 Questo atteggiamento, come si è visto, è nettissimo nella disserta­


tone magistrale.
3 Nella lettera a Hegel già cit. Schelling così parlava dei teologi « kan­
tiani »: « [...] costoro hanno tirato fuori dal sistema kantiano (inteso su­
perficialmente, è ovvio) alcuni ingredienti con i quali, tamquam ex ma­
china, si possono cucinare, a proposito di quemcumque locum theologicum,
brodi così sostanziosi che la teologia, che cominciava già a intiSichire, ri-
comincerà presto a comparire in pubblico più forte e più sana che mai.
Tutti i possibili dogmi sono già collocati sotto l’etichetta di postulati della
ragion pratica, e, dove non bastano prove teoretico-storiche, lì la ragion
pratica (tubinghese) taglia il nodo ».
4 V. Pfister, Atti den Tagen des Herzogs L. E. v. Wiirttembcrg, in
« Wùrtt. Vierteljahrshefte fiir Landesgeschichte » (d’ora in poi cit. W.
Vjh.), 1894, p. 100.
5 « Le gouvernement est force au reste de respecter les droits des habi-
tants, et méme de céder souvent à leurs voeux et à leurs demandes qu’ils
prononcent avec plus de franchise et d’energie depuis le commencement de
la revolution fran<;aise et plus encore depuis le triomphe de la France sur
les dcspotes coalisés ». Così scriveva, nell’estate 1794, un agente francese,
in un rapporto inviato a Parigi (« W. Vjh. », 1900, p. 126).
• Poco dopo la morte del duca (15-V-1795) Schelling, in una lettera
a Hegel, definiva il governo di costui « un dispotismo morale », assai peg­
giore di quello politico. « Non ci sono dubbi che se fosse durato ancora un
po’ qualcuno avrebbe finito per desiderare che tornassero i tempi dell’oscu­
rantismo più crasso; perché il cerchio che quest’ultimo traccia è largo ri­
spetto a quello che avrebbe segnato intorno a noi quella equivoca Atifklìi-
rung » (Hegel, Briefe, I, 27).

56
reno più incidenti clamorosi: ma le note dei Repetenten attestano
che egli è ben lontano dallo spirito che avrebbe dovuto animare
un futuro ecclesiastico7: egli è colui che ispira atteggiamenti
eterodossi presso i compagni, e che non mostra alcuna assiduità
alle lezioni *. Da questi giudizi ’ si ricava che Schelling viveva sì
nello Stift, ma che il suo distacco dall’insegnamento e dalle cre­
denze ufficiali era ormai radicale: non si registrano manifestazioni
aperte di rottura, ma piuttosto una estraneità ed una indifferenza
totale. Il suo centro di interesse non è più la teologia, neanche
nel senso di una critica storico-teologica della ortodossia, ma la
filosofia di Kant e di Fichte: le sue prospettive di attività sono
ormai proiettate fuori del « paese degli scrivani e dei preti », il
Wurttemberg.
Questo ripiegamento in se stesso, insieme alla scelta di una
nuova strada, si deve essere verificato ai primi del 1794. Ancora
nel 1793, infatti, secondo la tradizione biografica, manifestò aper­
tamente il suo entusiasmo per la rivoluzione francese: insieme a
Hegel ed altri amici egli avrebbe piantato un albero della libertà;
avrebbe tradotto la Marsigliese, attirandosi, per questo, un rab­
buffo dal duca Carlo in persona; ed avrebbe fatto parte, infine,
di una sorta di società segreta che, verso la metà del 1793, si era
costituita nel collegio, sotto la copertura di un circolo di lettura.
È un po’ una moda, tra i biografi di Schelling, quella di di­
mostrarsi scettici su queste notizie, o di trascurarle tout-court. E
ciò è dovuto, molto probabilmente, al fatto che esse contrastano
con l’immagine di maniera di uno Schelling giovanilmente entu­
siasta per la rivoluzione, e poi allontanatosi da essa non appena

7 È a partire dal 1792 che si parla, nelle note dei Repetenten, dei suoi
« mores boni, sed ad legem non prorsus adstricti ». Per il semestre estivo
1793 si nota ancora che egli « si comporta bene nei confronti dei superiori ».
Da allora il suo comportamento nei confronti dei medesimi è definito « cor­
tese » o « quasi sempre cortese ». Per il semestre invernale 1794-95 si re­
gistra che il suo comportamento è « educato c irreprensibile, ma assoluta-
mente non conforme alle regole dello Slift » (Fuhrmans, I, 40-44).
8 Dalla fine del 1794 alla metà del 1795 il Concistoro (che vigilava sul
comportamento dei borsisti) intervenne due volte perché egli venisse rim­
proverato c punito per violazioni del regolamento e massicce assenze dalle
lezioni. La punizione consistette solo nella privazione del vino per due set­
timane, perché, si notava, « le ore che egli aveva sottratto alle lezioni — il
che non doveva fare senza autorizzazione — erano state assai bene impie­
gate » (evidentemente nei suoi studi privati) (Fuhrmans, I, 46-47).
9 Cfr. anche Hegel, Brieje, I, 31.

57
I

se ne vennero a conoscere le « infamie » 10: e contrastano in


quanto tutti gli episodi di cui si è parlato sono del 1793, e di
parecchi mesi posteriori alle stragi di settembre e alla decapita­
zione di Luigi XVI. Non si vuol negare, naturalmente, che quegli
eventi spinsero un largo settore dell’opinione « liberale » tedesca
a ritirare pubblicamente l’appoggio alla rivoluzione francese: ma
resta il fatto che Schelling (e i suoi amici) non ebbero affatto
questo tipo di reazioni. Ancora: non si può confondere in nessun
modo l’adesione alla rivoluzione con l’approvazione del terrorismo
o del governo giacobino — è ben noto, infatti, che tra gli intel­
lettuali tedeschi « democratici » erano molto diffuse tendenze
« girondine » che non implicavano affatto — anzi! — la con­
danna della rivoluzione, l’ostilità agli eserciti francesi, o il ripudio
dell’uso della violenza “. Per quanto riguarda Schelling, bisogna
arrivare alla metà del 1796 per trovare una frase di condanna per
il comportamento degli eserciti francesi nel Wiirttemberg, ed alla
metà del 1798 perché egli dichiari di non desiderare che i francesi
contribuiscano alla « rigenerazione » della sua patria. Ma di questo
si dirà più avanti.
Il primo episodio, quello dell’albero della libertà, è anche il
più noto, perché vi avrebbe partecipato anche Hegel. Intorno al
1839 un loro compagno di studi raccontò che « una domenica
mattina — era una chiara e bella giornata di primavera — Hegel,
Schelling ed altri amici si recarono su un prato non lontano da
Tubinga, ed ivi innalzarono un albero della libertà » ia. Molti

10 La tipica espressione in Plitt, I, 31.


11 Hólderlin, per es., in una lettera al fratello del luglio 1793, mani­
festa la sua preoccupazione per la sorte di Brissot: « È probabile che quel
buon patriota cada vittima dei suoi infami nemici » (S. W., VI, 97). Ma
pochi mesi dopo, in una lettera del 30 die. 1793, il poeta scriveva: « Tra
parentesi! In tutta la Franconia ho osservato (e potete immaginarvi con
quale sommo dolore...) che c’è un aperto malcontento contro il benefico go­
verno prussiano [...]. A Norimberga i fabbri hanno dato un’edizione te­
desca del Faubourg St. Antoine, hanno tassato frutta e carne, e hanno fatto
vagamente capire ai patrizi che potrebbero finire con l’impiccarli. A Co-
burgo, in occasione di un incendio, i cittadini hanno bastonato la milizia
territoriale» (ivi, p. 111).. Come si vede, l’odio per Marat e Robespierre
(attestato da altre lettere) non impediva che si guardasse con simpatia alle
sommosse popolari; va detto, peraltro, che nell’epistolario di Hólderlin non
ci sono altre testimonianze in questo senso.
12 La notizia fu raccolta, tra compagni di studio di Hegel e Schelling,
da A. Schwegler, nel 1839; una lunga citazione dall’articolo dello Schweglcr
fu poi pubblicata nello Hegels Leben dal Rosenkranz (Berlino 1844, pp. 28-

58
studiosi hanno messo in dubbio questa notizia: i quasi cinquanta
anni trascorsi tra l’evento e la sua testimonianza, altre impreci­
sioni del racconto, il fatto che un analogo episodio viene riferito
per il 1798, tutto questo ha fatto affermare che si sia inconsape­
volmente operato uno spostamento cronologico, attribuendo l’epi­
sodio ad un gruppo di studenti più tardi diventati famosi13, o
che si trattava, nei due casi, di una invenzione. In realtà l’unico
argomento serio, non per negare la verità della testimonianza, ma
almeno per accoglierla con qualche dubbio, è il fatto che non
esistono esplicite notizie con temporanee a suffragarla; non vuol
dir nulla, invece, argomentare che l’episodio sarebbe accaduto
più tardi, e quindi non avrebbe potuto accadere nel 1793: come
se alzare l’albero della libertà non fosse stato, in tutta Europa,
una tipica manifestazione di adesione alla rivoluzione! E resta il
fatto che a sostegno della tradizione ci sono non solo più tarde,
e autorevoli, narrazioni storiche, ma anche significativi accenni di
contemporaneil4.

29; v. ora la trad. it. di R. Bodei, Firenze 1966, pp. 50-51). Una serie
di importanti rettifiche nel saggio di D. Henrich, Leutwein iìber Hegel,
« Hegel-Studien », III (1965), pp. 39-77, dal quale risulta che la notizia
relativa all’albero della libertà non è di Leutwein, come si credeva, ma di
un altro condiscepolo di cui non fu fatto il nome.
13 V., tra i più importanti, Plitt, I, 31; K. Fischer, op. cit., 10;
Fuhrmans, I, 18, nota; Henrich, op. cit., 74. Il Klaiber, op. cit., non
ricorda neanche l’episodio.
14 Cfr. K. Klupfel, Geschichte und Beschreibung der Universilàt Tii-
bingen, Tubinga 1849, p. 268. La situazione delle testimonianze è abba­
stanza confusa: mi sforzerò di riportarle con il maggior ordine possibile.
a) Uno studioso di Hólderlin, A. Beck (Aus der Umwelt des jungen
Hólderlin, « Hólderlin-Jahrbuch », 1947, pp. 18-46) ha riportato l’annota­
zione di uno studente, Màrklin, nello Stammbuch di Killer (amicissimo,
quest’ultimo, di Hólderlin, con il quale fece un viaggio in Svizzera) nella
quale, dopo una invocazione a Saint-Just, si legge: « Caro Killer, ricordati
anche adesso del 14 luglio 1793, del giardino della tua casetta e di [...] ».
Qui lo scritto si interrompe. TI Beck ha avanzato l’ipotesi che si trattasse
proprio di un ricordo dell’episodio dell’albero della libertà; e questa ipo­
tesi è tutt’altro che da buttar via: da una lettera di Hólderlin (S. W., VI,
93) risulta che si guardava al 14 luglio 1793 (il primo anniversario della
presa della Bastiglia dopo la proclamazione della repubblica) con grande at­
tesa: i francesi avrebbero inteso solennizzarlo con storiche imprese; non
c inverosimile che i « repubblicani » dello Stift volessero sentirsi all’unisono
con i francesi con una cerimonia semiclandestina nel giardino di Killer.
Il che concorda con due particolari del racconto riferito da Schwegler: ’1
« prato non lontano da Tubinga » e la « domenica mattina » (il 14 lu­
glio 1793 ricorre infatti di domenica).

59
È lo stesso primo biografo (e figlio) del filosofo a dar notizia
dell’accusa, rivolta a Schelling, di aver tradotto la Marsigliese:
il duca si sarebbe rivolto a lui mostrandogli il foglio, con le
parole: « In Francia è stata messa in versi una bella canzoncina,
e la cantano i banditi di Marsiglia. Voi la conoscete »; e il gio­
vane avrebbe risposto con un versetto biblico: « Serenissimo,
tutti commettiamo ogni sorta di colpe » Lo stesso biografo
nega però che il padre abbia tradotto l’inno francese. Ma anche
se tra gli studenti di Tubinga si parlava di un certo Griesinger
come del traduttore ’6, la notizia non ha nulla di inverosimile:
Schelling era molto amico di A. Wetzel, che era stato suo com­
pagno di studi già a Maulbronn, ed è ben possibile che sia stato
questi, che tra il maggio e l’agosto 1792 era stato a Strasburgo,
e forse si era arruolato qualche settimana nell’esercito francese 17,
a portare a Tubinga il testo dell’inno, e a comunicarlo agli amici.
Poteva avere conseguenze molto più serie il sospetto, anzi,
I l’accusa che venne rivolta a Schelling di far parte di una società
segreta, quella che era stata fondata dallo stesso Wetzel sotto la
copertura di un circolo di lettura, destinato a sottoscrivere abbo-
lamenti a giornali francesi. Che Schelling abbia fatto parte del
ircolo di lettura, è quasi certo dalla lettera di giustificazione

b) Dopo la pubblicazione del I voi. del Plitt, il figlio di un antico


borsista di Tubinga, N. Kòstlin, scriveva così all’editore delle lettere:
« La danza intorno all’albero della libertà ci fu davvero, e venne severa­
mente punita; dalla bocca dei protagonisti si sarebbero potuti ricavare al­
cuni comicissimi particolari. La cosa si svolse però quando già i due filo­
sofi, Schelling e Hegel, avevano terminato gli studi » (Plitt, III, 252).
c) Il più recente storico dello Stift, M. Leube, riferisce che nella
seconda metà del 1793 Vephorus Schnurrer fu accusato di scarsa vigilanza
sul comportamento degli studenti: tra l’altro, si era lasciato piantare quasi
sotto il naso un albero della libertà (Das Tiibinger Stift in der Weltbewegung
zwischen 1790 tind 1813, « W. Vjh. », 1936, p. 170). Anche se il tono
della lettera di Schnurrer al duca Carlo — da cui la notizia è presa — è
di chi smentisce il fatto, essa è la prova che di ciò correva voce già
nel 1793.
15 Plitt, I, 31-32. Ho tradotto dal tedesco; il testo greco suona:
« IT&XAà yàp zrato/iev asavre? Jac. III, 2.
16 Sinclair, l’amico fedele di Hólderlin, raccomandava in una lettera del
29 ott. 1793 un magister Griesinger, « uno dei più ferventi patrioti » « il
traduttore della Marsigliese » (« Hòlderlin-Jahrbuch », 1947, p. 37). Su A.
Griesinger cfr. Schwàbische Lebensbilder, V, Stoccarda 1950, pp. 127 sgg.
17 Su A. Wetzel v. il profilo di G. Schmidgall, in Schwàbische Le­
bensbilder cit., pp. 140 sgg.; inoltre Fuhrmans, I, 17, nota.
“ Hegel gli scriveva infatti, il 24 die. 1794, da Berna: « Leggete an-

60
che il padre mandò al prorettore il 21 giugno 1793 risulta però
che il giovane gli avrebbe assicurato « di non aver fatto nulla che
tutti non potessero sapere »; ma le sue amicizie dovevano essere
abbastanza indicative se il padre poteva assicurare il prorettore
di aver ammonito il figlio ad « usare maggior cautela in tutto il
suo comportamento, e in particolare nella scelta dei suoi amici e
confidenti ». La cosa non dovette essere tanto insignificante se,
in favore di Schelling, fu necessario un intervento dello stesso
prorettore presso le superiori autorità 10.
Dalla metà del 1793, all’ingrosso, non si hanno altre notizie
su manifestazioni esterne dei sentimenti politici del giovane filo­
sofo. Alle dichiarazioni di fiducia nel vicino avvento della ragione
si sostituisce però, nei suoi scritti, una critica sempre più radicale,
prima in chiave storica, e poi filosofica: critica che si accompagna a
studi che sino ai primi del 1794 20 sono prevalentemente teolo­
gici, per diventare poi esclusivamente, o quasi, filosofici. Il pas­
saggio dalla critica storica della ortodossia alla redazione del
primo scritto « fichtiano », quello Sulla possibilità di una forma
della filosofia in generale, terminato ai primi del settembre 1794,
è un rivolgimento, nella vita intellettuale di Schelling, molto più
profondo di quanto di solito non si sia affermato; non è esatto,
infatti, vedere il kantismo come la componente quasi esclusiva
del pensiero del giovane filosofo fino all’incontro con Fichte:
non solo c’è anche lo studio approfondito, con risultati in parte
originali, della storia biblica (è attestato, per es., che Schelling
lavorò a lungo sui libri del Nuovo Testamento, scrivendo tutta
una serie di saggi), ma anche, dal punto di vista metodologico,
il ripudio del « dominio della filosofia » che vuole sostituire le
sue interpretazioni al metodo « storico-critico » al. E non si deve
pensare che, con questi accenni polemici, Schelling avesse di mira

cora giornali francesi? » (Bricfe, I, 12). Dalla stessa lettera risulta che
Schelling aveva letto, nella « Minerva » di Archcnholz, le Lettere storiche
di C. E. Oei.sner, uno dei maggiori tra i « girondini » tedeschi (su di lui
v. J. Droz. L'Alleni, et la Rév. franose, cit., pp. 63-78).
” Plitt, I, 32-34.
20 II primo biografo di Schelling colloca nelle primavera 1794 il vol­
gersi del giovane dalla teologia alla filosofia (Plitt, I, 52); nella lettera a
Hegel della Epifania 1795 Schelling dichiara di aver messo da parte gli
studi teologici « da circa un anno » (Briefe, I, 14).
21 È importante, per questo atteggiamento, l’abbozzo di prefazione ai
suoi saggi di critica neo-testamentaria che fu pubblicato dal Plitt, I, so­
prattutto le pp. 40-41.

61
solo Storr: era criticato, sia pure in forma impersonale e cortese,
e sulle orme di una recensione di Eichhorn ”, anche il metodo
della Religione di Kant; e queste critiche avrebbero potuto age­
volmente estendersi anche a molti luoghi della Critica di ogni ri­
velazione di Fichte: basta pensare a dove questi parla dei criteri
formali per stabilire la divinità di una rivelazione, e della sostan­
ziale applicazione che questi faceva della teoria dei postulati della
ragion pratica, contro la quale i tubinghesi erano così diffidenti23.
Non esistono precise dichiarazioni di Schelling che spieghino per­
ché egli abbia lasciato cadere questi suoi studi, e queste sue
istanze metodiche per volgersi tutto alla filosofia; l’accenno del
! Fuhrmans secondo cui egli, prima attratto dal Fichte pensatore
religioso e politico, sia stato così disposto ad accettarne gli sti­
;
moli filosofici, non mi pare molto convincente. Si è già visto
perché, rispetto alla religione; per quanto riguarda la politica, è
quasi impossibile che egli conoscesse gli scritti fichtiani prima

22 I dotti di Gottinga presero posizione più volte nei confronti del


oro di Kant sulla religione. Mentre le « Góttingische Anzeigen » si limi­
tarono ad un lungo riassunto dell’opera (1793, in quattro puntate, pp. 1529,
1611, 1825 e 1895 sgg.), la « Allgemeine Bibliothek der biblischen Literatur »
si occupò dell’argomento in due riprese, con due scritti attribuibili quasi
sicuramente a Eichhorn. Il primo sono i Briefe die biblische Exegese be-
treffend (1793, zweites Stiick) il secondo una recensione a due scritti del
Rosenmuller rivolti contro la errata interpretazione kantiana della Bibbia
(1794, erstes Stiick). In entrambi si mette in guardia contro il pericolo che
da Kant gli studiosi traggano stimolo per tornare ad una interpretazione
allegorica della Scrittura, abbandonando il metodo e i risultati della ese­
gesi moderna.
23 È abbastanza indicativo, a questo proposito, lo scambio di giudizi
tra Hegel e Schelling a proposito della Critica di ogni rivelazione di
Fichte. Hegel accusa Fichte di non essersi comportato molto diversamente
dai teologi di Tubinga: « una volta che si siano accettati i suoi princìpi,
non ci sarà più niente in grado di imbrigliare la logica teologica. Dal ca­
rattere sacro di Dio Fichte tira fuori ciò che Esso, in base alla sua natura
morale, dovrebbe fare etc., ed ha così rimesso in onore il vecchio sistema
di argomentazione usato nella dogmatica » (sull’argomento, v. le osserva­
zioni di C. Lacorte, op. rii., pp. 222 sgg.). Schelling risponde cercando di
minimizzare la cosa (Fichte si è espresso in quel modo per non aver
fastidi, o forse per menare per il naso i teologi) ed evita di entrare nel
merito. Può aver contribuito a questo la sua infatuazione per Fichte, molto
forte tra la fine del ’94 e i primi del ’95, o forse l’idea che, in luogo della
critica « metodologica », convenisse passare all’elaborazione di un nuovo
punto di partenza in filosofia. I passi cit. in Hegel, Briefe, I, 17 e 21.

62
della metà o della fine del 1794, quando il suo volgersi alla filo-
sofia era ormai un fatto compiuto 24.
Se non esistono testimonianze autobiografiche, si può trovare
però una risposta negli scritti di questo periodo. Schelling dovette
rendersi conto abbastanza presto che il metodo « storico-critico »
poteva essere idoneo a dissolvere, di fatto, tutto il racconto
storico, del Vecchio come del Nuovo Testamento; non dava però
risultati di fronte a idee come quella di Dio o dell’immortalità
dell’anima. Non erano pochi coloro che, pur disposti ad applicare
il metodo « mitico » a tutto il contenuto di tutte le religioni,
si fermavano però di fronte al sacrario di esse, di fronte a quelle
verità che erano della Vernunftreligion, che tutta la Aufklàrung
non atea aveva accettato, e che adesso sembravano sopravvivere
anche alla « rivoluzione » kantiana. Del resto, anche nei decenni
successivi, quando, secondo il giudizio corrente, l’idealismo « pan­
teistico » era al culmine del suo sviluppo e del suo successo, la
maggior parte degli intellettuali tedeschi restò, in fondo, su que­
ste posizioni, fino al 1830 ed oltre. Ora, l’ideale della « unità »

24 Fuhrmans, I, 26-27. Anche ammesso che nel giugno 1793, al


passaggio di Fichte per Tubinga, Schelling lo abbia conosciuto di persona,
è da escludersi che Fichte, in quell’occasione, rivelasse di essere l’autore
della Rivendicazione, o dei Contributi (allora in corso di stampa, o appena
usciti). Che il filosofo tenesse all’anonimato di questi ultimi, è dimostrato,
tra l’altro, da una sua lettera a Reinhold del nov. 1793; anche se sembra
che il segreto non fosse molto ben conservato, dato che, poco dopo, tutti
sapevano chi era l’autore (v. Fichtes Werke, Akad.-Ausg., Stoccarda 1964,
I, 1, pp. 187 sgg.). Per quanto riguarda la Rivendicazione, Fichte, ancora
nel marzo 1794, si lagnava che essa fosse fast niebt bekannt geivorden }
(Briefwechsel, Lipsia 1925, I, 343). Il Fuhrmans dà per sicuro che nel
maggio 1794, quando Fichte passò di nuovo per Tubinga, Schelling lo co­
noscesse per l’autore degli scritti sopra ricordati. La cosa è ben possibile,
ma non dimostrata. Anzi, la lettera di Schelling a Hegel del 6-1-1795,
parla della Rivendicazione con il tono di chi segnala una scoperta recente,
che si vuol comunicare ad un amico (« Tra parentesi, hai letto la Riven­
dicazione della libertà di pensiero dai prìncipi d’Europa^ Se no, fattela
venire da Jena. Là si trova. Chi non sarebbe in grado di individuarne l’au­
tore? », Briefe, I, 16). Di Fichte come autore dei Contributi si parla solo
in una lettera a Hegel del luglio 1795, da cui non è possibile però ricavare
alcun elemento circa la data nella quale Schelling ha conosciuto lo scritto.
Si potrebbe avanzare l’ipotesi che gli scritti politici fichtiani siano stati fatti
conoscere a Schelling da Hòlderlin, che dal nov. 1794 era a Jena: può
essere indicativo di ciò il cenno alla disponibilità della Rivendicazione nelle
librerie di quella città. È vero che nella lettera di Hòlderlin a Hegel del
26-1-1795 di Fichte si ricorda solo la Grundlage e la Destinazione del
dotto (Briefe, I, 19).

63
che, in forme diverse, è presente sia nella dissertazione del 1792
che nello scritto sui miti, non tollerava una divaricazione tra
« teoria » e « morale », tra critica della religione nelle sue forme
storiche, e accettazione di un nucleo extrastorico di essa. Non
serviva a niente liberare l’uomo dal « terrore del mondo obiet­
tivo » (per usare un’espressione schellinghiana) se poi restava I
fuori di lui Dio; non serviva a niente indicare l’unità, nel « regno
di Dio » della ragione, o nella comunità culturale del popolo,
se restava il dato irriducibile della individualità « personale »,
l’anima immortale Quale mezzo migliore, del resto, per rom­
pere l’alleanza tra kantismo e ortodossia, e per criticare certi
I risultati della morale kantiana, che l’attacco diretto contro la
nozione di un dio « personale », anzi, contro la « personalità »,
fosse di Dio o dell’anima dell’uomo? È a questo proposito che
si è parlato spesso di « spinozismo » — e c’è del resto una famosa
professione fatta da Schelling in questo senso —; ora, anche se
la questione del significato di questo appellarsi ad un pensatore
« maledetto » è ancora ben lontana dall’essere chiarita fino in
fondo, è facile stabilire che sono due i motivi « spinoziani » che
Schelling mette in evidenza: l’antiteismo e l’unità della ragione;
il che però, almeno adesso, non ha molto a che vedere con il
panteismo, perché l’unità a cui ci si richiama è prevalentemente
quella dell’io: è l’unità di una dottrina e di un atteggiamento
morale, di una dottrina che ha una propria evidenza, ma che
richiede una scelta, un atto di volontà da parte del soggetto per
essere accettata.
È questa tensione il tratto più caratteristico dell’atteggiamento
di Schelling tra il 1794 e il 1800; ed essa nasce dalla consapevo­
lezza della necessità di una critica radicale alla cultura contempora­
nea. È in questo senso che egli parla di «rivoluzione»: e, se si tiene
presente il significato che aveva, per tanti intellettuali tedeschi,
l’appello alla « rivoluzione teorica »26 è forse lecito affermare

ss Basta ricordare la famosa lettera a Hegel del 4 febbr. 1795.


s« Il motivo, che più tardi avrà una formulazione famosa negli An-
vali franco-tedeschi di Marx e: di Ruge (1844), dell’alleanza, cioè, tra l’cspe-
rienza politica dei francesi e <quella filosofica dei tedeschi, si trova già al­
l’epoca della rivoluzione francese; non furono pochi i tedeschi che pen­
sarono che essa avesse bisogno di una integrazione teorica, che doveva es­
sere rappresentata dalla filosofia kantiana, c che videro poi, sia nel Terrore
che nel dispotismo napoleonico, la conseguenza del difetto di una rivolu­
zione nel pensiero.

64
che, anche per Schelling, le resistenze del vecchio mondo, politico
e culturale, non stimolarono un impegno pratico, ma piuttosto un
impegno teorico. Perché, egli scriveva, « tutte le idee devono rea­
lizzarsi nell’ambito del sapere, prima di realizzarsi nella storia » s7.
La liberazione dell’uomo coincide con la edificazione, in lui, di
I una « unità del sapere, della fede e della volontà, l’ultima ere­
dità del genere umano, che esso esigerà ben presto, e a voce più
alta di quanto non abbia mai fatto ». Ora, l’edificazione di questa
unità non può essere che compito della « filosofia », e di una
filosofia che non si presti ad essere di nuovo piegata a compro­
messi con l’esistente, a mettersi al livello del « gran pubblico »
neanche nel senso di dover assumere un linguaggio « popolare ».
E, per evitare questo, è ritenuto indispensabile mettere in chiaro
le « premesse », quelle che, da Cartesio a Kant, sono state pre­
supposte, ma mai espressamente formulate28 : ed è questo, il
cogliere che tutto muove dal soggetto umano, la « seconda rivo­
luzione »; la prima fu la scoperta della oggettività, la seconda
quella della soggettività. Con questo rigore metodico si evite­
ranno sia i « sistemi di coalizione » che le dispute oziose, e l’unità
del mondo dei dotti sarà la premessa della rigenerazione del
genere umano:

I filosofi si sono spesso lagnati per il fatto che la loro scienza


ha esercitato così scarsa influenza sulla volontà dell’uomo e sui de­
stini di tutto il genere umano: ma hanno riflettuto sull’argomento
delle loro lagnanze? Si lamentano che non abbia influenza una scienza
che, come tale, non è mai esistita: che non ci si sia serviti di prin­
cìpi che sono stati considerati veri solo da una parte dell’umanità,
ed anche da questa in significati del tutto differenti. Chi seguirà le
indicazioni di una guida che egli stesso non osa ritenere l’unica vera,
chi vorrà sanare i mali dell’umanità con un medicamento che molti
guardano ancora con sospetto e che si trova in qualità del tutto dif­
ferenti a seconda di chi se ne serve? Prima di lanciare invocazioni
perché l’eterna verità venga, nella sua forma divina, dal cielo in
terra, cercate anzitutto nell’uomo i segni dai quali tutti debbono ri­
conoscerla. E tutto il resto vi sarà dato in soprappiù 3*.

La ripresa di una frase evangelica (Luca, XII, 31: è la con-

” L 159.
I. 102 sgg.
-9 I, 112.

65
5. Cesa
clusione del discorso sui gigli del campo e gli uccelli del cielo)
non deve trarre in inganno: Schelling non vuole intendere affatto
che si debba essere indifferenti rispetto ai risultati mondani della
ricerca speculativa; è vero semmai il contrario come risulta dal
contesto, il cui senso, in parole povere, è il seguente: i filosofi
devono trovare un principio scientificamente rigoroso, non solo,
ma tale da escludere la necessità di far riferimento ad un prin­
cipio extraumano; il resto, cioè la capacità di far presa sugli
uomini, e sui « destini di tutto il genere umano » sarà una con­
seguenza. Come è stato già più volte affermato, è un atteggia­
mento comune a tutta la generazione « kantiana » quello di rite­
nere che gli sconvolgimenti rivoluzionari avessero reso gli uo­
mini particolarmente ricettivi nei confronti della nuova filosofia 30:
quello che è tipico di Schelling — e che, in questa misura, non
era ancora presente neppure in Fichte 31 — è la consapevolezza
della necessità di un superamento del teismo e del moralismo
kantiano, della necessità di levarsi ad un’altezza che « fa venir
le vertigini alla maggior parte di coloro che si sono finora pro­
fessati kantiani ».
Da questa « altezza » era ormai con ironia e disprezzo che il
giovanissimo magister guardava all’ambiente universitario nel
quale viveva. I rapporti dei Repetenten parlano di lui come di
un « kantiano arrogante » che influisce sui compagni di studio
allontanandoli dal retto modo di interpretare i passi biblici. « Le
conseguenze necessarie di un tal modo di trattare i testi biblici
è che viene quasi sempre meno una esposizione precisa e compiuta
di quelle che sono le specifiche dottrine cristiane [...]. Essi
> [i Repetenten} indicherebbero il magister Schelling come colui
che ha dato il tono alla moda di allegorizzare, secondo il metodo
kantiano, su testi di contenuto positivo se egli non fosse divenuto

30 « Come fu un effetto della filosofìa kantiana che in Germania ci si


orientasse con relativa rapidità sulla rivoluzione, così, per contro, uno
sconvolgimento come quello, che mise in crisi tutti i princìpi considerati
validi, impose all’attenzione universale il tema dei fondamenti eterni del
diritto e della costituzione della società — e impose così anche agli uo­
mini pratici e ai politici di informarsi sulla filosofia kantiana, che si rite­
neva fosse l’istanza suprema chiamata a decidere su questi argomenti ».
I caratteri più tipici di questa filosofia « trovarono, nel gran dramma mo­
rale dell’epoca, sia Io stimolo ad essere studiati [...] che il terreno di ap­
plicazione ». Così Schelling (VI, 4) nella commemorazione di Kant.
31 Cfr. E. Kirsch, Die idealistische Philosophie und das Chrislenltim,
Gùtersloh 1926, soprattutto pp. 193 sgg.

66
già da tempo predicatore al castello, e sottratto così alla sorve­
glianza dei Repetenten-, ma sembra che ora abbia smesso di com­
portarsi a quel modo ». Così un rapporto del 1795 32, Fanno nel
quale Schelling preparò la sua dissertazione di laurea. A proposito
della quale egli, come scriveva a Hegel, aveva pensato di scegliere
come tema De praecipuis orthodoxorum antiquiorum adversus
haereticos armis che, egli commentava, « sarebbe diventata, senza
che ci mettessi nulla di mio, la più pungente delle satire »33.
Ne fu sconsigliato, e scelse allora di scrivere un lavoro De Mar­
cione paullinarum epistolarum emendatore-, qui egli contestava
l’affermazione degli apologisti e dei padri, da Origene a Tertul­
liano e Crisostomo, che Marcione avesse falsificato il testo delle
epistole paoline. A costoro, sia pure in forma corretta, viene
rimproverato di aver letto male i testi, e di aver avuto più inte­
resse alla controversia che ad analisi criticamente valide34. Fu
con questa ennesima puntata contro la teologia che Schelling
lasciò, nell’autunno 1795, lo Stift di Tubinga.

2. Giudizi politici dal 1796 al 1798.

Appena lasciata l’università, Schelling si trovò di fronte al


problema di trovare una occupazione: e in un paese nel quale,
come notava un contemporaneo, c’era un’eccedenza di intellettuali
rispetto alle possibilità di impiego 35 anche chi, come lui, era uscito
dallo Stift con una buona fama di studioso 36 dovette adattarsi

32 II passo cit. in M. Leube, Das Ttìbiager Slift (1770-1970), Stoc­


carda 1953, pp. 123-24.
33 Hegel, Briefe, I, 28.
34 Basterà un esempio: « Primo enim cogitandum est, Tertullianum in
libris, quos adversus Marcionem scripsit, non id egisse, ut loca ab eo
corrupta critica diligentia examinaret, sed ut ejus philosophiam e sacris
literis refutaret » (I, 133). Della rarissima dissertazione su Marcione c’è
ora una riproduzione fotostatica delle Editions Rodopi, Amsterdam 1968.
33 A. Pfister, Atts dea Tagen cit., p. 160; il giudizio è di uno
sperimentato uomo di Stato, J. C. Schwab. La crisi degli intellettuali ne­
gli ultimi decenni del XVIII secolo è stata efficacemente delineata da H.
Brunschwig, La crise de l’état prttssien à la fin du XVIII siècle et la
geaèse de la meatalité roniantique, Parigi 1947, soprattutto le pp. 180-81.
30 La « Bibliothek der biblischen Literatur », per es., non aveva lesi-
nato gli elogi sia allo scritto sui miti che alla dissertazione su Marcione;
cfr. V (1793), pp. 1063-64 e VII (1795), pp. 273-78.

67

a quel tipo di attività che avevano già accettato tanti suoi com­
pagni, tra cui Hegel e Hòlderlin: quella di precettore. Il padre
si era preoccupato già per tempo di trovargli un posto: egli
avrebbe dovuto sorvegliare gli studi di due giovani baroni, i
quali dovevano seguire corsi di diritto presso l’università di Lipsia,
ma anche visitare le principales cottrs de l’Allemagne ’7, e, forse,
anche paesi stranieri. In attesa di incominciare il viaggio, Schel­
ling raggiunse i suoi discepoli a Stoccarda, e qui si trattenne per
un periodo abbastanza lungo, dal novembre 1795 al marzo 1796.
In questa città egli scrisse la Nuova deduzione del diritto naturale,
e quasi certamente anche l’abbozzo pubblicato dal Rosenzweig
nel 1917 come <<_il più antico programma di sistema dell’idealismo
tedesco » 3“.
L’ambiente di Stoccarda, in quei mesi, era vivacemente po­
liticizzato: nel maggio 1795 era salito al trono il duca Federico
Eugenio, che, nel settembre dello stesso anno, aveva fatto sti­
pulare da un suo rappresentante, Corradino Abel, un armistizio
con i francesi che, dopo la sua ratifica, avrebbe dovuto, entro
un mese, trasformarsi in pace Contro questa politica si era
però subito levato il principe ereditario (il futuro duca, e poi re,
Federico) che si appoggiava alla corte di Vienna. Ma accanto a
questi contrasti di corte c’era un notevole movimento di opinione:
gli esponenti più autorevoli della cosiddetta Landschaft — cioè,
della camera corporativa che nel Wiirttemberg godeva di vasti
poteri — premevano per la pace, e trattavano direttamente con
i francesi; i diplomatici stranieri appoggiavano questa o quella
fazione, mentre, approfittando della relativa pace che si era sta-
bilita, si agitavano agenti francesi e personalità non ben definibili
che, facendo valere le loro relazioni con generali e diplomatici
;
37 Lettera a Hegel del genn. 1796 (Briefe, I, 35). Il francese è qui
= evidentemente adoperato per mettere in ridicolo le arie ancien regime della

i famiglia dei baroni von Riedesel.


33 Das àlteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, in « Sitzungs-
berichte dcr Heidelberger Akademie der Wissenschaften », V Abhandlung,
Heidelberg 1917.
3* Su tutte queste vicende v. K. Klupfel, Die Friedensverhandlungen
Wurtlembergs mit der franzosischen Republik, « Historische Zeitschrift »,
1881, pp. 385-429, nonché, naturalmente, il fondamentale lavoro di E.
Hòlzle, Das alte Recht cit. Dello stesso autore è da tener presente
la brillante sintesi Altwiirttemberg und die jranzòsische Revolution,
« W. Vjh. », 1929, pp. 273-86.

68
della repubblica, si sforzavano di farsi conferire mandati semi­
ufficiali dal duca o dagli Stànde.
Per la sua origine sociale — figlio di un rispettato prelato —
Schelling non dovette trovare difficoltà ad avere aperte le case
della borghesia di Stoccarda. È molto probabile che questo am­
biente, nel quale si dibatteva della pace e della guerra, della
con vocazione del Land lag e di riforme costituzionali, agisse da
stimolante sul suo interesse per le cose politiche, e che durante
questo soggiorno egli si sia fatta quella conoscenza di uomini
e di problemi del suo paese natale che è testimoniata dal suo
epistolario degli anni successivi.
Va subito detto che non esiste alcun elemento che permetta
di affermare che egli abbia svolto (o anche solo abbia avuto in­
tenzione di svolgere) qualche attività di tipo politico. Anche se
mordeva il freno all’idea di fare il precettore, e aspirava viva­
mente ad andare a Parigi40, il tipo di attività che egli si proponeva
era quello del libero scrittore, o, in termini più moderni, del
pubblicista su argomenti filosofici. Ma, con tutto questo, si può
ben dire che sia le sue relazioni di Stoccarda che i suoi scritti
di questo periodo e le sue lettere dei mesi successivi, testimoniano
che le sue idee politiche erano « repubblicane », o almeno « de­
mocratiche ».
Prima di tutto le sue relazioni: sono conservate due sue

40 A Giorgio Kerner Schelling scriveva: « Se potessi contare, per il


primo punto [il viaggio in Francia], sul patrocinio di Rfcinhard] mi con­
sidererei il più felice degli uomini ». « La prego di pensare a me, soprat­
tutto per il viaggio in F[rancia]. Se mi sapesse indicare qualche mezzo o
qualche via che mi consenta di mantenermi là per almeno un anno, me ne
scriva. Mi renderebbe un servizio che avrebbe influenza su tutta la mia
vita futura ». (Fuhrmans, I, 63 e 66). Sembra proprio, da queste lettere,
che per Schelling la Francia (o, eventualmente, Amburgo) potessero diven­
tare un’alternativa rispetto al precettorato. Da altre lettere si ricava invece
l’impressione che Schelling avrebbe rinunziato a quest’ultimo solo se gli
fossero state chieste cose che egli non avrebbe potuto fare « c che si pos­
sono indovinare abbastanza facilmente dalle richieste di informazioni che si
son fatte qui sul mio conto: se io sia democratico, razionalista, illumi­
nato etc. Comunque, sarò almeno fuori dal Wùrttemberg, e ben deciso a
stabilirmi in qualche luogo all’estero per conto mio, e, se possibile, a ser­
vire la buona causa con lavori a stampa. Penso soprattuto ad Amburgo »
(Hegel, Briefe, I, 35). Un discorso analogo in una lettera a Nicthammer
del 22-1-1796, ove però, nel caso di rinunzia al precettorato, egli parla
di recarsi a Gottinga o a Jena (Fuhrmans, I, 59-62). Su quello che signi­
ficava Amburgo in quegli anni, v. Droz, L’Allemagne cit., pp. .135-49.

69
lettere del marzo 1796, a Giorgio Kerner — ma dalla prima di
queste si deriva che lo scambio epistolare tra i due era già pre­
cedente. Kerner, che nel 1791 si era recato in Francia ed era
poi entrato al servizio della repubblica, si era recato, ai primi
del 1795, a Stoccarda in missione segreta; espulso, aveva poi
raggiunto Amburgo come segretario di Reinhard, un altro Stiftler
di Tubinga che copriva alte cariche diplomatiche della repubblica
(nel 1799 fu addirittuia nominato ministro degli esteri). A Kerner
Schelling si rivolgeva ora chiedendogli di aiutarlo ad andare in
Francia, o, se questo non fosse stato possibile, ad Amburgo, e
dandogli rapide notizie sulla situazione locale. Ma in queste let­
tere è ricordato due volte, e come persona con cui aveva una
certa familiarità, anche Guglielmo Kàmpf che, diplomatico di un
piccolo Stato tedesco, era stato, e sarebbe stato negli anni suc­
cessivi, uno dei più attivi intermediari di accordi con la Francia,
ma in vista di rivoluzionare il ducato 41.
Relazioni, come si vede, abbastanza indicative; ma esse acqui­
stano tutto il loro significato se si seguono i giudizi che, nei due
anni successivi, Schelling venne esprimendo sulla situazione poli­
tica. Per inquadrare questi giudizi, va fatta qui una osservazione
preliminare; chi abbia presente la Nuova deduzione, che è una
vera e propria radicaiizzazione di alcuni dei motivi dello scritto
più rivoluzionario di Fichte, i Contributi, o la palingenesi annun­
ziata nella chiusa del Systemprogramm, può osservare con stupore
che molti dei giudizi esposti da Schelling sotto lo stimolo di av­
venimenti ben determinati sono sì quelli di un odiatore dei « de­
spoti » e degli aristocratici, ma anche di chi si sarebbe accomodato,
in fondo, ad una monarchia costituzionale. Questa « contraddi­
zione » era però un tratto caratteristico dell’ambiente, nel quale,
come si è già detto, l’entusiasmo per i diritti dell’uomo andava
di pari passo con la rivendicazione dell’antica costituzione 4S; ma,
3 se si va oltre il problema della compatibilità reciproca di due
3 schemi ideologici, ci si accorgerà che la contraddizione, almeno

; 41 Nella prima delle due lettere a Kerner Schelling fa cenno alla prima
missione diplomatica di Kiimpf.
42 Cfr. Hòlzle, Das alte Rechi cit., pp. 75 e 95 sgg., nonché
Wintterlin, Die altwiirttembergische Verfassung am Ende des 18 Jahrhun-
derts, « W. Vjh. » 1914, soprattutto p. 199, ove si mette giustamente in
evidenza che certi motivi del pensiero di Rousseau (la simpatia per il pic­
colo Stato, e la riluttanza a mutamenti costituzionali) potevano accordarsi
benissimo con l’atteggiamento dei sostenitori dell’« antico diritto ».

70
negli uomini di quella che più tardi fu detta la Reformpartei, era
assai più apparente che reale; le loro dichiarazioni, come le loro
mosse politiche, corrispondevano ad un programma abbastanza
realistico: restringere in ogni occasione le prerogative ducali sul
terreno delle finanze, della politica estera, del controllo della buro­
crazia, dell’organizzazione militare; mantenere buone relazioni
con la Francia, e staccarsi dagli imperiali, salvando così il terri­
torio dai mali della guerra; e utilizzare, per raggiungere questi
obiettivi, sia la tradizione costituzionale che il timore ispirato dai
vicini eserciti francesi, sia cavillose distinzioni tra Francesco
d’Austria come imperatore o come re di Boemia, che la pressione,
soprattutto dei ceti rurali, per la pace. Non ci sono dubbi che
per una minoranza almeno di questi uomini questa politica doveva
sboccare, quando fosse stato possibile, in una « repubblica sveva ».
Non esistono elementi per affermare che Schelling si prospet­
tasse anche quest’ultima soluzione, anche se la cosa non sembre­
rebbe affatto inverosimile. È certo, comunque, che egli fosse con­
sapevole che la situazione era in movimento, e, in questa chiave,
anche certe sue considerazioni apparentemente « moderate » assu­
mono un significato diverso. Si aggiunga, ancora, che gran parte
dei suoi giudizi politici sono contenuti nelle lettere inviate al
padre: e in alcuni luoghi è abbastanza trasparente il tentativo di
utilizzare giudizi che anche questi poteva condividere per accennare
a certe tesi politiche di fondo, che erano poi quelle che stavano
più a cuore al giovane filosofo. C’è da osservare, infine, che nei
primi mesi di precettorato il senso della differenza di classe ri­
spetto ai suoi discepoli, ed agli ambienti che con questi doveva
frequentare43, contribuì a spingerlo a « sinistra »: le invettive
più violente contro la nobiltà sono proprio di questo periodo:
mano a mano che la sua vita a Lipsia si stabilizzava, e che i suoi
nuovi studi lo assorbivano di più, questo tratto tende a scom­
parire.

43 È ben noto che nelle famiglie della nobiltà, ma anche dell’alta bor­
ghesia, non si mancava di far pesare sui giovani intellettuali occupati come
precettori il fatto che essi erano, in fondo, dei senatori. Uno spirito sen­
sibile come Hólderlin non riuscì a sopportare questa vita. Schelling non
riferisce di particolari umiliazioni, anzi, mette in evidenza i segni di rispetto
che gli erano tributati: ma questo, molto probabilmente, per non addolo­
rare i genitori, ai quali era teneramente legato. C’è infatti una frase abba­
stanza rivelatrice: « il pane che si mangia alla tavola dei nobili è assai più
amaro di quello dei borghesi » (Plitt, I, 117). Per un accenno ai sospetti
politici indirettamente avanzati sul suo conto, ivi, 97.
71
Alla fine del marzo 1796 Schelling e i suoi due discepoli
lasciarono Stoccarda. Il viaggio verso Lipsia (attraverso Mann-
heim, Francoforte e Darmstadt) offrì al giovane tutta una serie
di immagini e di esperienze: sul Reno un paese devastato dalla
guerra, verso l’interno la Kleinstaaterei che continuava impertur­
bata nelle sue forme tradizionali di vita; e le reazioni di Schelling
sono, come si è già accennato, quelle di un avversario degli
imperiali, dei despoti e dei nobili; e si manifesta talvolta anche
una sorta di orgoglio borghese. Di un conte, parente dei suoi
alunni, egli osserva che « sembra aver assai trascurato la sua istru­
zione, e preferisce tacere quando non si parla di famiglie nobili,
di cani, di cavalli e simili ». Sono piene di ironico sarcasmo le
descrizioni di pranzi in famiglie aristocratiche44, mentre è con
stupore che egli riferisce le istruzioni che gli erano state date
da uno dei tutori dei suoi alunni, di soffocare in essi ogni germe
di orgoglio nobiliare e di aristocraticismo, e di farne uomini
istruiti e capaci4i. E Schelling commenta: « Costui conosce lo
spirito del nostro tempo, e sa benissimo quali doti deve avere la
nobiltà per conservare la sua posizione contro la pressione del
ceto borghese, che è costituito però da un numero infinitamente
maggiore di uomini capaci, istruiti, colti, pieni di intelligenza e
di talento ».
L’ambiente di Darmstadt, città « aristocratica » viene de­
scritto con un sarcasmo che giunge fino all’invettiva: « Si nota
qui quello che si può rilevare in tutti gli Stati retti da concezioni
aristocratiche: il disprezzo per tutte le scienze serie, un invinci­
bile orrore per ogni sorta di impegno, il rilassamento totale di
tutte le forze dello spirito »4*. La visita alla biblioteca del prin­
cipe di Dessau gli ispira ironiche considerazioni sulle letture dei
princìpi; ma si accusa la « ciurmaglia aristocratica » di tener lon­
tano dai grandi le opere degli scrittori migliori. Non manca però
; la puntata antimonarchica, là dove si afferma che spetta alla na­
zione, e non ai prìncipi occuparsi dell’istruzione « perché un suc-
, cessore bigotto può distruggere ciò che è stato edificato da un
prìncipe illuminato ». Questa apparente contraddizione non deve
stupire, perché anche nei pamphlets politici di Fichte si distingue

44 Plitt, I, 96-97 e 105-06.


<a « ma mi accorsi ben presto — aggiunge Schelling — che costui
viene dalla borghesia, c che era stato una volta professore a Gottinga »
(Plitt, I, 105 sgg.).
46 Plitt, I, 108 c 123.

72
?
|
sempre — secondo una tradizione corrente, del resto, in tutta la
pubblicistica europea — tra il principe e i suoi consiglieri e la
sua corte.
Che, nella guerra in corso, Schelling tenesse per i francesi, è
perfettamente ovvio. Il Reno viene detto « il confine futuro delle
due parti principali della nostra Europa », il che può far pensare
che egli fosse informato dei progetti di annessione alla Francia
della riva sinistra che erano portati avanti, dal 1794, dai repub­
blicani tedeschi cisrenani. Degli ufficiali austriaci incontrati nel I
viaggio si parla solo con disprezzo: sono « estremamente villani !
e insopportabili » « non parlano che di acquavite e di S. M. l’im­
peratore ». Per calmare le preoccupazioni dei genitori per il fra­
tello Gottlieb (che si era arruolato nell’esercito austriaco) egli
scrive: « Lasciate pure che vada in Italia. Non vi troverà molto da
fare, e forse, prima ancora che vi sia arrivato, i francesi avranno
dettato la pace a Roma, sul Campidoglio. La causa dei despoti
va rapidamente verso il tracollo »47.
Per interessanti che siano, tutte queste affermazioni non sono
però molto di più che manifestazioni di stati d’animo. Assai più
significative sono invece quelle che egli formulò tra il 1796 e il
1798 a proposito degli avvenimenti della sua « patria », il Wurt-
temberg (in questi anni, quando parla di « patria », Schelling non
intende mai la Germania). Qui egli si trovava di fronte ad una
situazione precisa, ed era informato su uomini e cose, né mancava
una certa partecipazione sentimentale. Sarà facile vedere che tutte
le sue valutazioni corrispondono abbastanza esattamente a quelle I
della Reformpartei, tanto che vien fatto di pensare che egli avesse
corrispondenti che lo tenevano informato, e che seguisse con atten­
zione i giornali e gli opuscoli che uscivano nel suo paese natale 4S.
Si è già detto delle esitazioni del duca Federico Eugenio a l

ratificare il trattato di armistizio. In conseguenza di questo, nella


primavera del 1796, i francesi ripresero le ostilità: Moreau forzò
il Reno, e sconfisse, alla fine di giugno, le truppe sveve. Il duca
dovette questa volta piegarsi davvero all’armistizio, che fu stipu­
lato a Baden-Baden il 17 luglio: esso prevedeva il libero passaggio

17 Plitt, I, 95, 102 e 119. Nel dicembre 1796, scrivendo sempre del
fratello, del quale mancavano notizie, osservava: « il meglio che gli potrebbe
esser capitato sarebbe di esser stato catturato dai francesi » (ivi, 185);
Gottlieb Schelling morì invece qualche anno dopo, durante l’assedio che le :
truppe austriache avevano posto a Genova.
” Cfr. per cs. Plitt, I, 182 e Fuhrmans, I, 86 c 90.
I
73
per le truppe francesi, il pagamento di una indennità di 4 milioni,
e la consegna di derrate alimentari, cavalli etc. Ancora ai primi
di luglio, Schelling si era augurato che si lasciasse via libera ai
repubblicani: « È l’unico mezzo per salvare la nostra patria ».
Ma alla notizia dell’armistizio, dei saccheggi delle truppe occu­
panti e delle pesanti contribuzioni imposte alle popolazioni egli
ha un’esplosione di collera sulla « vergogna » della sua patria, e
lancia pesanti accuse contro i prìncipi tedeschi che « congiurano
con i francesi contro il loro proprio popolo » « per salvare la
loro persona »4*. Sarebbe del tutto inesatto vedere qui una mani­
festazione di « nazionalismo » tedesco: nella stessa lettera si
mette in evidenza il « tono dispotico » con il quale il duca — e
non i francesi! — ha imposto le contribuzioni.
È vero piuttosto che, di fronte alle inevitabili durezze della
guerra, Schelling si sforza di coprire i francesi, gettando tutta la
responsabilità di ciò che accadeva sulla politica sbagliata della
casa regnante. Ma l’accenno alla « congiura » vuol dire quasi
certamente qualche cosa di più: nell’armistizio era chiaramente
pattuito che governo e istituzioni non sarebbero stati toccati: e
la frase schellinghiana si può considerare una protesta contro la
politica del direttorio volta a lasciar cadere la guerra liberatrice
dei popoli, e a trattare con i prìncipi, ottenendone in cambio i
mezzi per continuare la guerra, e per ovviare alla crisi finanziaria
che infuriava in Francia. Questo stato d’animo, del resto, era
molto diffuso nel Wùrttemberg, ove, in opuscoli anonimi, si rim­
piangeva che i francesi non fossero più quelli che, poco prima,
avevano promesso guerra ai castelli e pace alle capanne 50. Non
ci sono elementi precisi per mettere in luce quanto questa delu­
sione sia stata profonda, o quanto abbia influito sul successivo
atteggiamento politico di Schelling; è certo però che bisognerà
tener presente questa lettera per spiegare quella disposizione di
spirito che lo porterà ad affermare, due anni dopo, di voler sì la
« rigenerazione » della sua patria, ma senza il contributo francese.
Proprio per far fronte ai gravami imposti dall’armistizio, il
duca fu costretto a convocare il Landtag. E già prima che si arri­
vasse alle elezioni, si aprì nel Wùrttemberg una discussione che
ricalcava, su scala minore, quella che aveva accompagnato la con­
vocazione, in Francia, degli Stati generali. La corte voleva che

4* Plitt, I, 181-82.
80 H. Scheel, Siìddeutsche Jakobiner, Berlino 1962, pp. 293 sgg.

74
si trattasse solo dell’aumento e della ripartizione delle imposte,
mentre la borghesia chiedeva che si discutesse anche dell’ordina­
mento costituzionale ed amministrativo dello Stato, nonché di
politica estera: praticamente che il Landtag diventasse, di fatto,
un parlamento. Non appena si diffonde la notizia della convoca­
zione del Landtag, Schelling mostra grande interesse; si preoc­
cupa che i pamphlets trattino prevalentemente del dove attingere
i denari per le contribuzioni: « Beata gente — commenta — che
dimentica così facilmente tutti i problemi che prima si erano
sollevati ». È tanto preoccupato per le sorti della sua patria da
« essere incapace di lavoro scientifico. Oh, se si potesse metter
da parte libri e polemiche, e agire e intervenire! » 81. Di fronte
ai rinvii, si domanda se non si stia per ricadere nella antica son­
nolenza, per poi essere « un’altra volta macellati e tosati come
pecore ». « Spesso non sto più in me dalla voglia di venire a
casa e... ma certe cose non si possono mettere per iscritto. » 81
Un paio di mesi dopo tutta questa eccitazione si calma, non
appena gli giunge la notizia della nomina di Spittler a membro
del consiglio intimo, che, nel ducato, aveva all’incirca le funzioni
di ministero M.
Luigi Timoteo Spittler (1752-1810) era stato studente, e poi
Repetent, al collegio teologico di Tubinga; professore di storia
a Gottinga dal 1779, aveva, proprio alla vigilia di questi eventi,
svolto dalla cattedra un corso di politica nel quale sosteneva i
vantaggi di un sistema rappresentativo di tipo inglese. Nell’au­
tunno del 1796 aveva pubblicato a Gottinga un opuscolo, la
Nebeninstruktion che, come è stato osservato, non dava soltanto
indicazioni per il Landtag di prossima convocazione nel suo paese
natale, ma conteneva tutto un programma, ed una professione
di fede politica 84. E vale la pena di dar conto in poche righe di
questo testo per rendersi conto di quali erano le posizioni alle
quali, a quanto potrebbe sembrare, Schelling dava la sua ade-

Fuhrmans, I, 90.
S2
Plitt, I, 185.
83
Plitt, I, 190; cfr. Hòlzle, Das alte Recbt cit., p. 195.
84
J. Sciiweizer, L. T. Spittler. E'tn Lebensbild., diss. Tubinga 1907.
Il giudizio cit. è a p. 97. Sulle) idee politiche di Spittler è da vedere anche
il saggio di D. F. Strauss, ora in Gesammelte Schriften, II, Bonn 1876,
pp. 94-100; per una valutazione complessiva della personalità cfr. Hòlzle,
op. cit., pp. 79-83.

75
sione Spittler non ammetteva che la antica costituzione venisse
intaccata, neanche se questo avesse significato un ampliamento
delle prerogative degli Stànde: la separazione dei poteri doveva
venir rigidamente garantita. Egli era ben consapevole del nepo­
tismo, della corruzione, e degli altri mali del vecchio sistema, ma
si proponeva di ovviarvi con una serie di graduali riforme: esami
per il reclutamento dei funzionari, pubblicità degli atti dell’am­
ministrazione, controllo pubblico delle entrate e delle spese, sor­
teggio in luogo della cooptazione per la nomina dei dignitari di
rango più elevato. Molta attenzione egli dedicava anche ad una
riforma dell’istruzione, che egli voleva fosse riorganizzata e arti­
colata in modo da soddisfare le esigenze di tutte le classi sociali.
Si trattava, come si vede, di un programma moderato, e con
nessuna possibilità di realizzazione, perché non poteva essere
fatto proprio né dalla casa regnante, né dalle grandi famiglie bor­
ghesi, che erano le maggiori responsabili degli abusi, né, infine,
dagli esponenti della giovane generazione, che non sentivano,
come lui, il senso della continuità storica delle istituzioni della
piccola patria. Ma, per un momento, Spittler fu l’uomo di tutti:
rii Stànde gli offrirono il posto importante di « consulente », e il
uca quello di membro del consiglio intimo: egli scelse quest’ul-
imo perché gli dava modo di intervenire nell’apparato ammini­
strativo, e il 12 marzo 1797 entrò al servizio del governo ducale.
Se anche uno dei più « rivoluzionari » tra gli uomini politici
del Wurttemberg, C. F. Baz, guardava con rispetto a Spittler 5C,
non può stupire che Schelling facesse lo stesso; tanto più che,
probabilmente, dovevano esservi legami di amicizia personale, tra
suo padre e il nuovo consigliere intimo 4T. Resta naturalmente da
domandarsi se egli, al di là della fiducia nelle qualità dell’uomo,

33 L’opuscolo è nei 5. W. di Spittler (Stoccarda-Tubinga 1827-37),


Bd. XIII, pp. 168 sgg.; il titolo completo di esso è Nebeninstruklion von
der Stadi- und Amtsversammlung zu N. int Wirtenibergischen, ihrctn Land-
tagsdepiitierten ertheill.
36 V. lo scritto di Baz, Ueber das Petitionsrecht (1797), ristampato ora
parzialmente in Jakobinische Flugschriften cit., pp. 200-1.
37 Da un certo numero di luoghi dell’epistolario (Plitt, I, 212, 218,
219, 230, 233) risulta che Schelling padre aveva visitato almeno due volte
Spittler, e altre volte gli aveva scritto, perché il figlio ottenesse una cattedra
a Tubinga; i rapporti tra i due non dovevano essere stati solo formali: non
si può pensare che Spittler dicesse male del senato dell’università parlando
con uno sconosciuto.

76
ne approvasse anche il programma politico: su questo punto,
purtroppo, non è possibile dare alcuna risposta precisa.
Non è il caso di descrivere qui le vicende interne del Wùrt-
temberg tra il 1797 e il 1798, l’apparente concordia tra principe
e Landtag nei primi mesi del governo di Federico II, e i contrasti i
di fondo che poco a poco si manifestarono. In questo clima I
i
sempre più teso il programma di Spittler, di operare da media­
tore, doveva rivelarsi illusorio: già alla fine del 1797 uno dei
capi della Landschaft, E. F. Georgii, gli rimproverava di essere
un uomo senza carattere; ed un’eco di questo giudizio si trova
in una lettera di Schelling del maggio 1798 48. È significativo però
che subito dopo le righe nelle quali egli prende atto del falli­
mento della soluzione « riformista » si trovi affermato: « Tutti i
pronostici concordano nell’indicare che la nostra patria sta di
fronte alla rigenerazione. Dio voglia soltanto che questa avvenga
per opera nostra, e non per opera dei francesi ».
È già stato osservato che il termine « rigenerazione » ri­
prende una formula dei diplomatici francesi al congresso di Ra-
stadt (aperto nel novembre 1797), volgendola però contro la
Francia; ed è stato anche osservato che la « rigenerazione » equi­
valeva, per il vecchio sistema politico tedesco, ad una rivolu­
zione 4®. In una situazione internazionale che faceva prevedere
prossima la ripresa della guerra, i « rivoluzionari » svevi conta­
vano soltanto sull’intervento francese per risolvere a loro favore
il contrasto col duca °°. D’altra parte, risulta che accanto a costoro
si era creato nel Wiirttemberg un nuovo nucleo di rivoluzionari,
organizzati in una società segreta, e del quale facevano parte

58 « Tutte le notizie concordano nel dire che Spfittler] ha tenuto i


piedi in due scarpe, ed ha perso tutto il suo credito sia presso la corte che
presso il popolo. E direi che non è consigliabile appoggiare una fazione che
quasi certamente tra non molto sarà scomparsa » (Plttt, I, 222).
39 Cfr. Holzle, Das alte Recht cit., pp. 228 sgg. e R. Bodei, La funzione
della filosofia e degli intellettuali nel mondo storico hegeliano, « Studi ur­
binati », 1962, p. 212.
30 In una lettera di Kàmpf a Baz, dopo giudizi pieni di diffidenza per
i diplomatici, si scrive: « Jourdan [il generale] renderà forse superflua ogni
tattica diplomatica ». Un’altra lettera, a Baz (di un ignoto corrispondente)
sempre del genn. 1798: « voglia il ciclo che le cose incomincino ad andar
meglio. È probabile che già lunedì i francesi comincino ad avanzare ». Le
due lettere in Holzle, Allwurtteniberg cit., p. 282. Per il contesto diplo­
matico v. A. Sorel, L’Europe et la Revolution fran^aise, V, Parigi 1907,
pp. 272-82.

77
anche dei militari: questi diffidavano di una costituzione even-
tualmente imposta dai notabili degli Stànde con l’appoggio dei
francesi 6l. Si potrebbe essere indotti a pensare che Schelling, che
non poteva però saper nulla delle idee di questo gruppo, fosse
arrivato per conto proprio alle stesse loro conclusioni.
Si è tentato, fin qui, di seguire l’atteggiamento politico di
Schelling negli anni 1796-98 sulla base dei pochissimi testi che
ci sono pervenuti. Occorre, adesso, dare una valutazione d’in­
sieme. Si è già visto, a proposito dello scritto sui miti, quale era
la funzione che Schelling attribuiva ai « savi »; ebbene, proprio
nel 1796, la sua fiducia nella missione degli intellettuali e dei
filosofi viene ribadita più volte; ad essi spetta l’elaborazione dei
grandi temi etici, la critica del diritto, dello Stato, della reli­
gione: il « popolo » deve essere escluso da questo processo, ed
essere soltanto iniziato, grado a grado, ai risultati di esso. Si parla
espressamente di « misteri » che sono indispensabili per una
« educazione nazionale »6=. Sarebbe banale limitarsi ad osser­
vare che, incapace di apprezzare l’apporto delle « masse » al mo­
vimento rivoluzionario, Schelling era condannato ad accontentarsi
di un estremismo verbale meramente velleitario: il filosofo, e non
ci sono dubbi su questo punto, ha sempre pensato che la sua
missione fosse quella di elaborare le nuove idee, e diffonderle
nel ceto colto. Il resto sarebbe « venuto in soprappiù ». C’è
semmai da osservare un’altra cosa: che se il sommo obiettivo era
l’elaborazione e la diffusione di idee, in vista della formazione di
un nuovo concetto di « umanità », tutto finiva per essere subor­
dinato a questo; di qui la ripulsa energica, e senza riserve, non
solo di ogni forma di organizzazione statale (come nel Systempro-
gramm), ma anche di ogni limitazione, ad opera della legge, della
« libertà » dell’individuo (come nella Nuova deduzione). È in
questo contesto che si spiegano gli ondeggiamenti tra le dichiara­
zioni estremistiche, e la simpatia, invece, per un programma di
riformismo moderato come quello di Spittler: l’unica cosa che
conti è che lo Stato, o la comunità, non frappongano ostacoli al
lavoro di chi elabora le nuove idee filosofiche. AI di là delle ana­
logie (che ci sono, e andavano rilevate) tra certe affermazioni del
filosofo, e i programmi della Reformpartei, o le idee dei congiu-

CI
Cfr. Hòlzle, Das alte Rechi cit., pp. 235 sgg. e H. Scheel,
Siiddeulsche Jakobiner, cit., pp. 460 sgg.
62 Plitt, I, 89. Cfr. anche S. W., I, 280.

78
rati del 1798, resta il fatto che l’interesse di Schelling è volto
alle vicende politiche solo in quanto esse potevano o no creare le
condizioni per lo sviluppo di una « cultura » nuova; l’occupazione
:
della Germania meridionale da parte dei francesi, o invece la
neutralità e la pace, o la « rigenerazione » con le proprie forze,
sono tutti schemi che cercano di adattarsi all’evolversi della
situazione politica, per cercare in essa una conferma alla possi­
bilità di realizzare le proprie aspirazioni. I problemi di una vera
riforma dello Stato, e di una politica, riformista o rivoluzionaria,
ma realistica, gli rimasero del tutto indifferenti.
Ciò si può verificare, anche, con le impressioni suscitate in
lui da un suo viaggio in Prussia, nel maggio 1797. È ben noto
che lo Stato degli Hohenzollern, dopo la pace di Basilea, aveva
perduto molto del prestigio acquistato con le campagne di Slesia
e con la guerra dei sette anni, e che, dalla morte di Federico II,
aveva perduto anche gran parte della fama di Stato illuminato.
Ma è caratteristico che Schelling non si serva affatto della corrente
contrapposizione tra « Federico l’unico » ed il suo successore:
la sua critica, anzi, investe proprio il periodo che è comunemente
considerato quello della costruzione dello Stato prussiano (l’orga­
nizzazione burocratico-militare di Federico Guglielmo I, e il go­
verno di Federico II), tanto che egli può scrivere: « La Prussia,
a quanto sembra, ha avuto la fortuna che ad un monarca così
grande [Federico] ne sia seguito uno più piccolo, in modo che
la nazione ha potuto respirare, riflettere, e acquistare libertà di
giudizio ». Si accenna una volta agli « eroi della guerra dei sette
anni », ma l’espressione è probabilmente di amara ironia, perche
è inserita in un contesto nel quale si parla delle crudeltà e delle
durezze dell’addestramento militare03. Federico Guglielmo I è
un « vandalo », e Federico II chiedeva i rendiconti annuali ai
suoi ministri a Charlottenburg, vicino al carcere di Spandau (« è

C3
« Potsdam è una vera prigione per i soldati, perché non c’è alcun
modo di uscirne. Da tutte le parti vi si accede attraverso ponti che sono
sorvegliati [...]. Non che sia costruita male, ma vi è diffuso un tremendo
silenzio, tutta la città è deserta [...]. È un triste monumento di epoche
passate. Qui Federico Guglielmo I [...] formò il nerbo dell’esercito prus­
siano, gli croi della guerra dei sette anni. Ma con quali tremende crudeltà
fu conquistata questa fama! I reggimenti della guardia erano chiusi in an­
guste caserme, nessun soldato poteva uscire dalla città, e queste case mute
chissà quanti infelici hanno visto, tormentati fino alla disperazione » (Plitt,
I, 193-94).

79
I
curioso — commenta Schelling — che tutti i despoti vogliano
avere ben vicine le loro prigioni di Stato »); e la presenza del re
in quel luogo era motivo di terrore, anche per gli onesti84.
Non si tratta, è il caso di avvertire, di un antimilitarismo ele­
mentare: altrove Schelling aveva manifestato, infatti, rispetto per
la bravura militare si tratta piuttosto di una antipatia per la
natura stessa dello Stato prussiano, che egli considerava proba­ I
bilmente l’incarnazione stessa di quella « macchina » statale che
egli vedeva ora come la più grave minaccia alla « libertà ». E sì
che persino Fichte (e proprio nei Contributi) non si era limitato
a dichiarare la sua ammirazione per il gran Federico, che « educò
il popolo alla libertà » 68 ma, riprendendo lo schema rousseauiano
del popolo antico, povero e valoroso, aveva contrapposto ai corti­
giani dilapidatori e corrotti degli altri Stati tedeschi la nobiltà
prussiana che dai padri ereditava « solo la spada e un nome
intemerato », per la quale il coraggio era tutto, e che faceva
tranquillamente a meno di quelle arti che non le erano neces­
sarie: « e lo splendore dei tempi antichi, come un miracolo, si
ripete nella nostra epoca » 87. Anche se il suo ideale non era
certo uno Stato burocratico-militare, al senso politico di Fichte
non sfuggiva quel che di nuovo c’era nel patriottismo (egli dice
Nationalstolz, orgoglio nazionale: ma l’espressione è equivalente)
prussiano. Schelling mostra qui di essere più legato a quell’atteg­
giamento che era stato di tanti intellettuali tedeschi del secolo
XVIII, e anche di Lessing, e che era stato da poco riaffermato
con tanto vigore da Guglielmo di Humboldt ”. Per lui la « li-

Plitt, I, 199.
«s Plitt, I, 95 e 108. Si tenga presente, comunque, che l’ostilità agli
eserciti stanziali è un tratto comune a liberali e democratici tedeschi della
fine del XVIII sec. (ma anche dopo); cfr. F. Valjavec, Die Enlstehung
der politischen Slromungen in Detitschland, Monaco 1951, pp. 405-0.8.
Quanto questo stato d’animo fosse diffuso nel Wiirttemberg, è attestato da
tutto il libro dello Hòlzle. È appena il caso di ricordare, infine, lo scritto
di Kant sulla pace perpetua, ove il terzo degli « articoli preliminari » chiede
la soppressione del « miles perpctuus ».
66 5. W., VI, 99.
•T Secondo Fichte, naturalmente, questo tipo di nobiltà ha una fun-
zionc solo in guerra: « Fintanto che le guerre sono necessarie, chiunque
appartenga a quella nobiltà ha il diritto di chiedere arditamente i primi
posti; ma non vada oltre i suoi limiti, pretendendo attribuzioni che non
sono sue » (S. W., VI, 225-26).
*• V. sull’argomento le considerazioni di E. Cassirer, Freiheit und
Form, Berlino 1918-, pp. 486-87 c 502 sgg.; ma soprattutto le pagine del

80
berta » non consiste né nel portare avanti lente riforme nel quadro
di un sistema costituzionale, né nel sentirsi immedesimati con il
destino della propria comunità nazionale; il suo interesse è volto
invece a quella libertà che consiste nel non essere disturbati,
dalle esigenze della vita statale, nella propria attività di creazione
di cultura.
Da quanto si è esposto finora, è lecito concludere che il
giovane filosofo, quando si occupava di politica in senso stretto,
come quando affrontava questioni di politica culturale, non si
staccava sostanzialmente da quell’atteggiamento cosmopolitico e
intellettualistico che era tipico di quasi tutti gli intellettuali te­
deschi alla fine del ’700. Anche la tematica dell’educazione popo­
lare, che è documentabile nel suo pensiero a partire dal 1793,
non si salda in alcun modo alla realtà dei gruppi e delle classi
che costituivano il popolo tedesco. Egli parla della « tradizione »
da perfetto razionalista, senza sentirsi legato a nessuna delle forze
storiche esistenti in Germania: non l’impero, non la Prussia, non
la religione, e neanche la « Germania ». Tuttalpiù si può rilevare
una trepidazione per le sorti del suo paese natale, e una speranza
di rigenerazione di esso mediante una appropriata riforma della
vecchia costituzione, e la gestione del potere da parte di uomini
nuovi.
Ma pure in questi anni è accaduto, nella mente di Schelling,
qualche cosa di assai importante, il distacco dalla credenza che il
rinnovamento avverrà ad opera della Francia: si è già riportato
il giudizio del maggio 1798. E quasi contemporaneamente egli
aveva reagito con vivacità contro un xónot; degli intellettuali
tedeschi del suo tempo: quello, cioè, della vocazione filosofica
come un tratto distintivo della loro nazione. Schelling anzitutto
reagisce contro la mania di paragonare « la (propria) nazione con
popoli antichi e moderni, e a tutto suo svantaggio: il che ha
come risultato che essa non riesce a liberarsi dalla sua tendenza
ad imitare gli altri, e a diffidare nelle proprie forze ». « E — con­
tinua — non è proprio così singolare che i tedeschi, che da gran
tempo hanno fatto della loro patria un teatro messo a disposizione
delle altre nazioni, che vi rappresentano ciascuna la sua parte, si
siano riservati almeno il piacere di giudicare e di analizzare se­
condo princìpi, per trovare un compenso alla inattività a cui sono

Droz, che ha coniato la suggestiva definizione di « reazione umanista »


(op. cit., pp. 293 sgg.).

81
6. Cesa

condannati. » ” Se si pensa che non solo molti intellettuali di
« sinistra » avevano ritenuto che il contributo tedesco alla « rivo­
luzione » europea fosse la filosofia di Kant, ma che lo stesso Schil­
ler, nel 1797, contrapponeva alla miseria politica della Germania
la « grandezza morale, insita nella cultura e nel carattere della
nazione » 70 si potrà valutare il significato del sarcasmo schellin-
ghiano. Nel rifiuto del « paragone » egli accenna implicitamente
ad una peculiarità irriducibile del carattere nazionale, mentre il
parlare della « condanna all’inettitudine » fa pensare che egli, al­
meno per un momento, vagheggiasse uno Stato tedesco in grado
di disputare il proprio territorio alle potenze straniere. Ma, come
si è visto, l’orrore per la guerra, la diffidenza e il timore nei con­
fronti delle forze statali esistenti, il ripudio stesso di ogni orga­
nizzazione statale, « meccanica » e « dispotica », gli impedirono
allora — ma anche in seguito — di trarre dal sentimento della
umiliazione nazionale la visione di un « Teseo » che unisse e
rinnovasse il popolo 7I; egli continuò, nel bel mezzo degli scon­
volgimenti europei, a pensare alla educazione del popolo, alla
« libertà » dell’individuo, e alla armonia tra chi insegna e chi
riceve l’insegnamento come alle uniche forme di vita collettiva
e individuale che valesse la pena di analizzare e di sistemare col
:< pensiero ».

3. Schelling e Nicolai.

Questo atteggiamento è un po’ il punto di arrivo di Schelling


prima del suo incontro con il gruppo romantico. Come, a partire
dal 1793, erano cadute le speranze in una vittoria immediata
dei nuovi princìpi, così ora, dopo un anno di soggiorno a Lipsia,
per lui, tutto preso dai suoi studi di filosofia e di scienze naturali,
era passata in secondo piano anche la prospettiva, ancora affer­
mata ai primi del 1796, di una comunità tutta tesa al proprio
miglioramento, di un popolo rinnovato dai suoi sapienti, ma anche
di sapienti rinnovati a contatto del popolo.

69 I, 455.
70 Mi riferisco agli abbozzi per una poesia politica, ai quali è stato at­
tribuito il titolo Deutsche Grosse', cfr. Schiller, Werke, ediz. Insci,
Wiesbaden 1955, II, 532-36.
71 La figura di Teseo c evocata invece, sia pure con sfumature diverse,
sia da Holderlin che da Hegel.

82
Va notato che questa, del ritiro nell’eremo della speculazione,
non è soltanto una scelta individuale; è piuttosto un atteggia­
mento che trova riscontro in altri esponenti del movimento idea­
listico. Anche Fichte, andato a Jena, aveva rinunziato alla propa­
ganda pubblica per le idee rivoluzionarie (così, nel 1795, aveva
dato una prova di lealismo rinunziando a curare una seconda
edizione dei Beitràge 72 ) e si era tutto concentrato nella redazione
delle parti mancanti del suo sistema. Ma, più in generale, era una
nuova situazione che andava verificandosi: contro la scuola fich-
tiana, cioè, si levavano ormai non solo gli Obscuranten, ma anche
personalità e organi di stampa famosi per le battaglie razionali­
stiche condotte nei decenni precedenti; così, la « Gazzetta lette­
raria » di Jena, uno degli organi che più avevano contribuito alla
diffusione della filosofia critica, che in un primo tempo aveva
recensito con molto favore la Dottrina della scienza, era ormai
apertamente polemica; è appena il caso, data la loro notorietà,
di ricordare le critiche e le satire di Nicolai. Nel 1795 si diffondeva
la voce che Kant non era d’accordo con lo svolgimento che Fichte
aveva dato del suo pensiero, e nello stesso anno avveniva il primo
scontro tra Fichte e Reinhold, e iniziava tutta una serie di con­
troversie con razionalisti e kantiani minori73.
Se tutto questo ha contribuito a fissare i tratti sistematici, e
più ancora il senso culturale, del pensiero di Fichte e di quello
di Schelling, resta il fatto che per essi si rivelava illusoria anche
la possibilità di raccogliere l’eredità della filosofia critica e del
razionalismo, cioè del settore di opinione più largo e meglio orga­
nizzato (attraverso le librerie, e le riviste a cui erano abbonati
tutti i circoli di lettura di qualche importanza) che ci fosse in
Germania. Non si capisce il tono esasperato delle polemiche degli
idealisti se non si tiene presente che essi si vedevano tagliar fuori
dai canali che conducevano alla opinione borghese: essi si rende-
vano perfettamente conto — e lo scrivevano — che il raziona-
lismo « volgare » usava argomenti che avevano immediatamente
presa nella borghesia, c anche negli ambienti degli alti funzionari,
degli ecclesiastici, dei teologi influenti, e della stessa aristocrazia

72 Sulla questione sia di una possibile continuazione dello scritto, sia


della ristampa delle parti già pubblicate di esso, v. X. Léon, Fichte et son
tenips, voi. I, Parigi 19542, pp. 294, 297 e 308-10. Per la prudenza di
Fichte è significativo un passo di una sua lettera alla moglie da Jena
(20-V-1794).
73 Cfr. Leon, op. cit., I, 415 sgg. e 399 sgg.

83
colta. Si tratta di un conflitto sul quale gli storici della filosofia
non si sono quasi soffermati, che è probabilmente importante
almeno quanto quello che opponeva idealisti a ortodossi, e che
ha avuto quasi la stessa durata, trascinandosi fin verso la metà
del XIX secolo 74.
E questa polemica, come si diceva, £u decisiva per l’orien­
tamento stesso dell’idealismo : alle obiezioni — e se ne vedrà
qualche esempio più avanti, a proposito del contrasto Schelling-
Nicolai — che si richiamavano alla astrattezza speculativa della
loro dottrina, e alla incapacità di essa di costituire una adeguata
cornice teorica per la cultura dei ceti borghesi produttivi, gli
idealisti rispondono non già negando il fondamento di queste
critiche, ma rivendicando la sublimità morale del proprio at­
teggiamento (per es., la famosa « scelta », della quale parlano
sia Fichte che Schelling, tra « dogmatismo » e « idealismo »),
appellandosi ad una sorta di intuizione interiore (sia Fichte che
Schelling ripetono il detto spinoziano: Veritas est index sui et
falsiT* e insistono sulla non-insegnabilità del principio supremo
della loro dottrina, che può essere prodotto solo interiormente,
da una lotta dello spirito con se stesso) e rifiutandosi sdegnosa­
mente di tentare di tradurre in linguaggio accessibile ai non
iniziati i loro pensieri7S. Ma, con ciò stesso, limitavano note­
volmente il campo di azione della loro filosofia; non si può
fare a meno di rilevare il contrasto tra le istanze programma­
tiche di un pensiero che dichiarava solennemente di voler es­
sere una nuova concezione del mondo e della vita, e la ristret­
tezza dei mezzi per la sua diffusione (le riviste — tranne il
« Giornale filosofico » di Niethammer, piuttosto largo nella scelta
dei collaboratori — che non riescono a nascere, o muoiono ra­
pidamente, i libri che spesso non vanno oltre la prima edizione).

74 Ad attirare l’attenzione sulla continuità ed il peso del filone « ra­


zionalistico » e stato soprattutto Hans Rosenberg, di cui è da vedere
R. Hayrx und dìe Anfdnge des klassischen Liberalìsnius, Monaco-Berlino
1933, pp. 13 sgg., nonché gli altri suoi saggi, ivi citati.
75 Plitt, I, 55, nota e Léon, op. rii., I, 407, nota.
76 Vale la pena di riferire un curioso aneddoto, relativo all’insegna­
mento di Schelling a Jena (riferito da Clemente Brentano in una lettera a
Savigny): ad uno studente che gli aveva confessato di non capir nulla delle
sue lezioni, Schelling avrebbe risposto che la causa di ciò era che non era
stato capace di mettersi nello stato d’animo necessario, e che lui (Schelling)
non avrebbe mai potuto collocarvelo (cfr. Das tinstcrbliche Lcbcn. Un-
bekannle brieje di Clemens Brentano, Jena 1939, p. 281).

84
ì
I

L’insistenza della polemica antirazionalistica portò così ad un


accostamento prima a Schiller (con il tentativo di imbastire una I
collaborazione a « Die Horen »), poi al gruppo animato dagli
Schlegel, che aveva però altre ascendenze culturali, ed altri pro­
positi; Fichte ruppe ben presto anche con questo, e rimase pra­
ticamente solo a scrivere e riscrivere la Dottrina della scienza,
fino a quando la predicazione politica non tornò a dargli un
certo pubblico — ma su basi quanto diverse da quelle degli
anni di Jena! — mentre Schelling finì col condividere tutte le
traversie dei romantici, ma senza considerare se stesso, né esser
considerato da essi, uno del gruppo.
Non è pensabile che questo processo avvenisse, almeno per !
Schelling, che non aveva la ferrea sicurezza di Fichte nella propria
missione, senza incertezze e senza ondeggiamenti11. Per non
uscire dall’ambito cronologico di questo capitolo, mi limiterò a
dar conto del suo contrasto con Nicolai 78. Nell’undicesimo tomo
della sua Descrizione di un viaggio attraverso la Germania 78, il
famoso pubblicista, dopo aver lungamente criticato il modo con
il quale erano organizzati gli studi nel Wurttemberg, aveva pe-
santemente ironizzato sia sulle cognizioni arabistiche di Schelling
padre che sugli scritti filosofici del figlio80. Schelling si era
molto risentito di queste critiche (le sue lettere dell’epoca sono
piene di contumelie contro Nicolai) e aveva pensato di rispon-

77 Sullo stato d’animo di Schelling a Jena, acute osservazioni in E.


Staigf.r, Schellings Schwermut, « Studia philosophica », XIV, Basilea 1954,
p. 120; v. anche sulla relazione Staiger le osservazioni di K. Jaspers, ivi,
pp. 134-35.
78 L’argomento non c stato toccato da coloro che hanno studiato le
polemiche di Nicolai con i filosofi « classici » tedeschi. Mi riferisco soprat­
tutto a W. Strauss, F. Nicolai und die kritische Philosopbie, Stoccarda
1927, dove si parla quasi esclusivamente di Kant, e appena di Fichte. Delle
reazioni di Kant e di Fichte parla anche J. Minor, nel saggio dedicato a
Nicolai del volume Lessings Jugendfreunde, Berlino-Stoccarda, s.a., pp. 277-
323. Il nome di Schelling non è nemmeno ricordato nel noto libro di K.
Aner, Dcr Aufklàrer F. Nicolai, Giessen 1912.
79 Bescbreibting einer Reise dtirch Deutschland and die Schweiz im
Jabre 1781, Bd. XI, Berlino c Stettino 1796.
80 Su Schelling figlio sono da vedere soprattutto le pp. 120-25: si dice
che egli ha ricavato le sue idee dal « celeberrimo prof. Fichte di Jena », ma
che le ha portate ad una altezza c ad una profondità di cui lo stesso Fichte
non sarebbe stato capace. Il giudizio conclusivo è che le affermazioni di
Schelling sono « ora assai ovvie, ora assai comiche, ora tutte c due le cose
insieme ».

85
i
dere pubblicamente con un pamphlet, al quale lavorò a lungo,
leggendo e prendendo estratti dagli scritti del suo avversario,
e cercando anche di vedere se fosse possibile dimostrare che
questi ricavasse argomenti contro la nuova filosofia anche da
riviste reazionarie, come la famigerata « Eudamonia » ”. Le sue
lettere a Niethammer della seconda metà del ’96 e della prima
metà del *97 danno molte notizie sull’avanzamento dello scritto,
che però non venne mai pubblicato. Ma la cosa più curiosa, c
più indicativa dello stato d’animo con cui Schelling conduceva
questo lavoro, è che, se non muta il giudizio di fondo su Nicolai
— che è un chiacchierone, non capisce nulla di filosofia, e si
serve di argomenti banali e volgari — poco a poco si fa strada
una sorta di rispetto per lui e per la sua opera: un sentimento
che non fu in alcun modo provato dagli altri « grandi » (Fichte,
Goethe, Schiller) che ebbero a che fare col libraio berlinese.
Così, nella stessa lettera nella quale Schelling informa il padre
della comparsa del voi. XI della Reisebeschreibung, e delle cri­
tiche contro di loro ivi contenute, dice anche di aver cercato
di incontrare Nicolai « per dimostrargli, con un contatto per­
sonale, che egli sbaglia nel giudicarmi in quel modo », cioè,
come è detto subito dopo « un visionario filosofico pieno di
scurità » *3. L’accusa di Schwarmerei bruciava a Schelling, e si
apisce bene perché: era la tipica espressione usata per desi­
gnare i membri delle conventicole religiose, per lo più di ori­
gine pietista, e, in genere, gli avversari dei lumi. In una lettera
ai genitori di oltre un anno dopo c’è una dichiarazione di stima

BI Fuhrmans, I, 87. La « Eudamonia » era una rivista reazionaria che


attaccò anche Fichte, accusandolo di essere un veicolo delle idee rivoluzio­
narie. Con questa Nicolai non aveva assolutamente nulla a che fare. Anzi,
egli stesso era stato, poco prima, accusato di giacobinismo, e la sua rivista,
la famosa « Allgemeine Deutsche Bibliothek » era stata proibita per oltre
un anno negli Stati prussiani. Dal ’96 Nicolai è però severamente critico
nei confronti della rivoluzione francese, e ironizza sulle simpatie per essa
dei discepoli di Kant e di Fichte. Mette però in evidenza più volte che
sarebbe assurdo considerar pericolosi i filosofi, non fosse che perché « la
resistenza all’autorità è qualche cosa di empirico, ed è noto che questi
signori con l’empiricità non vogliono aver nulla a che fare » {Beschreibiing
cit., p. 231). Che Nicolai non potesse in alcun modo ammettere che i filo­
sofi venissero perseguitati per le loro idee, è dimostrato dalla posizione in
favore di Fichte che egli assunse dopo le dimissioni di questi da Jena
(W. Strauss, op. cit., pp. 65-68).
” Plitt, I, 115-16.

86
per Nicolai: « Dal confronto con gli altri intellettuali di Ber­
lino ho imparato a rispettarlo, perché è l’unico che abbia dav­
vero lavorato, anche se non ha pensato » 83.
Ma in una lettera a Niethammer di qualche mese prima (8
febbraio 1797) si trova una frase dalla quale l’atteggiamento di
Schelling nei confronti del suo avversario viene sufficientemente
illuminato: « Ho ricevuto ora lo Anhang di Nicolai al Mtisenal-
manach di Schiller M. In questo scritto egli finisce per confon­
dere tutto: la volgarità di Schiller e la filosofia formale, la filo­
sofia di Fichte e l’aristocraticismo morale-estetico-politico di
Goethe. Proprio per il fatto che ha ragione su un punto par­
ticolare, nel mettere in evidenza tutta l’insopportabilità di que­
st’ultimo [cioè, dell’aristocraticismo di Goethe], e proprio perché
è certo che contro il primo [Schiller] gli daranno ragione sia il po­
polo ignorante che il ceto medio ben educato e nemico delle esage­
razioni, sarebbe tanto più auspicabile che ci si imponesse per
qualche settimana un voturn patientiae [...] per scoprire le
sue nudità più riposte. Non si potrà mai farlo tacere se non si
scende al suo livello di scrivere e di dimostrare » 85. Oltre al
fatto, significativo, che qui Schelling mostra di rendersi ben conto
della necessità di un tipo di linguaggio particolare, diverso da
quello tecnico, per raggiungere il gran pubblico, c’è da rilevare
che egli dà ragione a Nicolai nella sua critica a Goethe. Ora, se
si scorre lo scritto di Nicolai, ci si renderà facilmente conto che
lo « aristocraticismo » contro il quale egli lancia i suoi strali è
proprio l’evocazione della « bella natura » e della « nobiltà mo­
rale » che era stata fatta, secondo Nicolai, nel Wilhelm Meister
e (da Schiller) nei Ràuber, l’appellarsi ad una intelligenza più
alta che — veniva sarcasticamente notato — non è certo quella
degli uomini comuni. Schiller e Goethe si sentono a loro agio
solo nel proprio mondo interiore: per il resto sono Fremdlinge
auf der weìlen Erde (è la parodia di un passo di Schiller); mentre
in altri paesi europei gli scrittori vivono a contatto col mondo
reale, immersi nella società civile, in Germania la conoscenza
del pubblico viene trascurata e disprezzata: gli scrittori e i

Plitt, I, 202.
*’ Lo scritto a cui si riferisce Schelling è lo Anhang zti Fr. Schillers t
Musen-almanach fiir clas Jahr 1797 di Friedrich Nicolai, Berlino-Stettino
1797, ed è la replica alle Xenie rivolte contro di lui nel periodico di
Schiller.
•4 Fuhrmans, I, 101-2.

87
i*

i filosofi, che si considerano dei geni e degli eletti, si acconten­


tano di capirsi a vicenda nell’ambito delle loro conventicole: gli
altri, per loro, non contano 8a. Il fatto che anche Schelling con­
siderasse « insopportabile » questo atteggiamento mostra che egli
non faceva solo questione di linguaggio, che riconosceva il fon­
damento di una parte almeno di queste accuse, e che rifiutava
ancora di considerarsi membro, senza riserve, del gruppo di
Jena e di Weimar.
Certo, si potrebbe notare che Schelling non ha una alterna­
tiva da proporre; il suo è soltanto un recalcitrare di fronte a
quello spauracchio — la camera di studio, o il circolo di intel­
lettuali, preso per il mondo reale — che Nicolai gli agitava
davanti. È significativo, del resto, che le sue riserve contro il
gruppo di Weimar cadranno pochi mesi dopo, quando, per in­
teressamento di Fichte e di Goethe, gli verrà offerta una cat­
tedra a Jena. Ma andava segnalato che egli abbia sentito meglio
di altri l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con la bor­
ghesia; e, forse, a pensare così, lo induceva la sua estrazione
sociale, i suoi legami di parentela e di relazioni con tanti di
quei gelehrte Pbilister che Nicolai affermava di voler difender
:ontro il disprezzo degli uomini « geniali ».
Vedere Schelling protestare contro l’aristocraticismo può fare
un curioso effetto a chi sa che egli stesso fu ripetutamente ac­
cusato, dagli storici liberali e socialisti (Noack, Haym, Lukàcs)
di usare un linguaggio esoterico, di servirsi dell’intuizione in­
tellettuale come di uno strumento riservato a pochi eletti, di
introdurre, insomma, un « aristocraticismo della gnoseologia »; a
chi sa che egli ha scritto, nella V delle Lezioni sul metodo dello
studio accademico che quando « ogni plebeo pretende di dar
giudizi » la filosofia non può che rispondere odi profanum volgus
et arceo *7. Non si può qui affrontare il tema del significato della
« intuizione intellettuale » negli scritti schellinghiani intorno al
1800. Si può però rilevare che le tendenze ad una separazione
dei dotti dalla plebe sono proprio una conseguenza del distacco,

86 Ahbang cit., pp. 62-63, 132-33, 169 e passim.


87 V, 261. Mi par quasi certo che, in queste lezioni del 1802, Schelling
prendesse posizione, anche senza ricordarlo mai, nei confronti degli attac­
chi che Nicolai, in un articolo della « Allg. D. Bibl. » del 1801 (LVI, 1)
era tornato a rivolgere contro gli idealisti. Furono proprio questi attacchi
che indussero Fichte a scrivere il pamphlet dello stesso anno (ora in S. W ,
Vili, 3-94).

88
I

che sembrava sempre più incolmabile, tra l’opinione borghese,


ancora dominata dal razionalismo, e i rappresentanti della nuova
filosofia. Distacco che non verte tanto su temi specifici, di carat­
tere teoretico o religioso, quanto sull’atteggiamento generale del­
l’uomo nei confronti della comunità, della cultura, dello Stato:
sulla « missione » dell’uomo, insomma.
Negli anni precedenti sembrava, invece, che ci fosse ancora
qualche cosa in comune.
Per esempio, nel primo articolo della Allgemeine Ueber-
sicht **, dove a Nicolai si accenna in tono dispregiativo, Schelling
si era levato contro l’incomprensibilità del linguaggio di tanti
kantiani, che facevano della nuova filosofia qualche cosa di ac­
cessibile solo agli iniziati89, e contro chi intendeva la filosofìa
come scienza di una sola facoltà, invece che di tutto l’uomo; e
aveva salutato con favore che non si contendesse più sulle « re­
gioni soprannaturali », e che le « vecchie superstizioni » stessero
cadendo in desuetudine. Motivi, questi, che si ritrovano tutti
anche negli scritti di Nicolai. Ancora: quando aveva parlato
dello Stift di Tubinga, Nicolai aveva messo in evidenza l’assur­
dità del vecchio regolamento, che costringeva tanti giovani ad
una vita claustrale, e del vecchio piano di studi, fondato tutto
sullo studio del latino, e su discipline avulse dalla realtà, e con­
cludeva domandandosi quale frutto si sarebbe potuto trarre da
giovani che ignoravano tutto delle scienze positive, la giurispru­
denza e la medicina, la matematica e la fisica. Ora, anche Schelling
e i suoi amici osteggiavano la cultura dell’ambiente, non desi­
deravano affatto diventare parroci, sentivano tutta la precarietà
della professione del precettore. Ma la libertà che essi rivendi­
cavano era rivolta in una direzione che Nicolai non solo non
ammetteva, ma contro la quale era assai polemico. Per lui, in­
fatti, non c’erano dubbi che la filosofia dei kantiani — e di
Fichte — non fosse affatto una liberazione dalla cultura statica
e astratta: anzi, aveva trovato proprio in essa la sua base mi­
gliore 90, in giovani che, dalla scuola, non avevano imparato nulla

•• Uscito nel I fase. 1797 del « Giornale filosofico » di Niethammer;


ora in S. W., I, 345-63.
80 Una filosofia — scrive Schelling — che voglia avere una propria !
coerenza deve avere una terminologia ben precisata: se non vuole però es­
sere una esercitazione scolastica, ma un patrimonio degli uomini, « deve
poter essere comprensibile in ogni lingua umana » (I, 350-51).
00 Bcschreibung cit., p. 233.

89
che li rendesse in grado di far qualcosa di utile a sé e agli altri.
Ma quali erano, invece, le attività che egli proponeva? Nei
romanzi di Nicolai i rappresentanti delle professioni « intellet­
tuali » (pastori e dignitari ecclesiastici, professori, letterati) sono
trattati quasi sempre con ostilità sarcastica, o, in qualche caso,
con sorridente compatimento. I personaggi positivi sono com­
mercianti, farmacisti, proprietari che migliorano la cultura delle
loro terre e le condizioni dei contadini; con favore sono visti
anche i militari che, anche per lui, sono un po’ il braccio seco­
lare della Aufklàrung Schelling e i suoi amici, invece, non
amavano i militari: e cosa pensassero dei commercianti, si può
vedere da ciò che Schelling scrisse al padre, a proposito di un
progetto di avviare un fratello alla mercatura ’3. Il loro ideale
era invece l’attività del « libero intellettuale »: l’insegnamento
universitario, anche quando era ambito, lo era per lo più come
ripiego, come ciò che assicurava una certa base finanziaria e
uno status sociale; dei grandi idealisti solo Hegel prese estre­
mamente sul serio il suo mestiere di professore. Rifiutando di
inserirsi come membri attivi, con una professione ben determi­
nata, nella società civile gli idealisti, per paradossale che la cosa
possa sembrare, proponevano un modello di « intellettuale » che,
in altre nazioni europee, era pur stato uno dei tipi umani della
cultura illuministica. Ed essi portavano, inoltre, una radicata in­
sofferenza sia verso l’ideale eudemonistico della Aufklàrung, che
verso la funzione che questa attribuiva allo Stato. Secondo Ni­
colai (che, la cosa va ricordata, era amico di molti di coloro
che avevano collaborato alla redazione del Landrecht prussiano)
ogni uomo che, nell’ambito della sua condizione sociale, eserci­
tasse le sue capacità e le sue energie, e giungesse al benessere,

** Basterà ricordare qui la descrizione del maggiore nel secondo libro


del Das Leben tind die Meinungen des Herrn Magisteri Sebaldus Nothanker
(1773-76). Ho presente la edizione di Lipsia, 1938, pp. 81-82.
•2 Schelling mostra qualche considerazione per i grandi commercianti,
forse per il fatto che costoro potevano, in città come Francoforte o Lipsia,
condurre un treno di vita quasi patrizio. Ma a chi, come il fratello, avrebbe
dovuto partire da zero, egli prospetta, come se fosse stata una vergogna,
« il doversi dar da fare per molto tempo con gli affarucci più volgari prima
di arrivare a farsi una posizione ». « Dal momento nel quale egli si dedica
a questo tipo di attività, non dovrà più pensare che al proprio interesse,
e al proprio guadagno» (Plitt, I, 189). Un analogo giudizio sul piccolo
commercio nei Beitràge di Fichte (5. W., VI, 149), mentre altrove si parla
con ammirazione e rispetto della «nobiltà del commercio» (VI, 190-91).

90
i
i
aveva realizzato la sua missione e insieme la sua felicità La i

cornice di questo tipo di esistenza è lo Stato illuminato, il quale, i


nell’esercizio delle sue funzioni, non crea un ordine, ma si ispira
lui stesso ad un ordine naturale, che non può essere spezzato
Poche cose muovevano l’indignazione di Nicolai più che certe
affermazioni di Fichte sull’alta funzione degli intellettuali nella
società, e sul diritto di ogni uomo di dichiarare sciolto un con­
tratto dal quale non si sentisse più vincolato; o, peggio, che la
funzione dello Stato fosse quella di rendersi superfluo 95.
Per gli intellettuali della giovane generazione, invece, si
trattava anzitutto di negare lo Stato, e di promuovere una co­
munità nella quale le funzioni dell’uomo non fossero quelle
« meccaniche » dell’industria e del mestiere, ma quelle del pen­
siero e dell’arte. Nicolai aveva spesso osservato che gli uomini
vivono diversamente da quanto essi stessi teorizzano, e non con­
siderava ciò un gran male, purché ad ispirare l’azione fosse il
buon senso; per i giovani intellettuali, discepoli di Kant e di
Fichte, l’incoerenza era invece il peccato più grave, e ciò proprio
perché essi non riconoscevano un canone esterno al quale com­
misurare la propria azione. La totalità di vita a cui essi aspira­
vano non consisteva nel provare le proprie capacità a contatto
dei problemi della vita quotidiana, ma nell’andare al di là di

93 Vale la pena di riportare la « morale » tratta dalla vita di uno dei


personaggi di Nicolai: « Durante il solitario inverno Mariane aveva avuto
modo di accorgersi di quanto siano vane le fantasie poetiche quando ven­
gono trasportate nella vita di tutti i giorni. La sua lieve inclinazione per
sentimenti romantici, le immaginazioni così volentieri coltivate fin dai suoi I !
giovani anni scomparvero ora che essa ebbe a che fare con le importanti
incombenze della vita reale. Un amore vero prese il posto delle dolci fan­
tasie sentimentali, e un benessere modesto, ma sicuro prese il posto delle
vaghe prospettive di una sublime e celestiale felicità. Invece di parlare di
far del bene si impegnò attivamente a farlo. Si consacrò interamente ai
suoi doveri, si occupò del podere, curò la casa ed allevò i suoi bambini [...].
Si rese conto che l’essere madre e padrona di casa dà una soddisfazione
quale non può dare nessuna fantasia giovanile, per alti che siano i suoi
voli » (Sebaldus Nothanker, ediz. cit., pp. 293-94).
94 Sulle basi morali del Landrecht prussiano, ispirato a Pufendorf e a
Wolff, sempre importante Das allgemeine Landrecht del Dilthey, ora nelle
G. S., XII, Gottinga I9602. Adesso è da vedere, però, l’importante lavoro
di R. Koselleck, Preluseti zwischen Reform nnd Revolution, Stoccarda
1967, soprattutto le pp. 23-51.
94 Beschreibung cit., pp. 223-25.

91

li questi ultimi, e nell’attingere direttamente alle fonti dell’es-


sere 96.
Non ci sono dubbi sul fatto che, almeno agli inizi, questo
i atteggiamento avesse un significato « rivoluzionario ». Ma la
rottura di tutti i vincoli con la società finì per recare una con­
tinua mobilità, una « disponibilità » a prender posizione sulla
base degli stimoli del giorno, che equivaleva, di fatto, ad esser
a rimorchio del movimento del proprio tempo proprio quando
si riteneva di guidarlo. La vita di tanti romantici, e dello stesso
Schelling, ne è una prova. E appunto per questo valeva la pena
di registrare che, ancora nel 1797, egli teneva in qualche conto
le critiche che alla nuova cultura rivolgeva Nicolai.

*® Sui rapporti tra Atifklàrung e idealismo sono sempre da tener pre­


senti certe acute osservazioni di E. Troeltsch; v. G. S., Tubinga 1925, voi. IV,
pp. 540 sgg.

I
;

I
*

!
III. Morale, diritto, educazione popolare

1. La formazione dell’etica schellinghiana: le « Lettere filoso-


fiche ».

Non sono state soltanto incertezze od oscillazioni di carat­


tere teoretico (ontologico o gnoseologico) ad aver determinato
quegli ondeggiamenti nella storia intellettuale di Schelling che
hanno reso, e rendono, così difficile la ricostruzione del suo pen­
siero. In lui, in quegli anni, c’è una sorta di irrequietezza non
solo esterna — non penserà forse egli per un momento, nel
1796, di lasciare la Germania, e di recarsi in Russia a cercar
fortuna presso la nuova zarina, moglie di Paolo I, che era ori­
ginaria del Wurttemberg? 1 — ma anche interiore, che si ma­
nifesta nella resistenza ad accettare definitivamente i quadri di
un sistema, e a muoversi dentro di essi. Quella incertezza, e
quelle oscillazioni, che si sono notate negli atteggiamenti poli­
tici si ritrovano anche nei documenti del suo pensiero: e la
perentorietà di tante delle sue affermazioni non deve trarre in
inganno, perché esse sono spesso corrette da altre, contempo­
ranee o immediatamente successive. Se è esatto parlare di una
sua incapacità a padroneggiare tutta la ricchezza del materiale
che veniva raccogliendo con i suoi studi e le sue riflessioni, va
anche rilevato che questa è fortemente condizionata proprio dal
suo non riuscire a fissare definitivamente la missione e la linea
della sua esistenza. Ben prima di incontrare i romantici Schelling
non vuol riconoscersi nella figura del professore di filosofia, in­
tento solo ad elaborare sistemi intellettualmente coerenti: egli
vagheggia una pienezza di vita e di essere che sia saggezza, e
insieme una scienza che non sacrifichi nulla della vita. Si ri-

1 Plitt, I, 185.

93
trova qui, nell’idea di esperimentare direttamente ciò che si teo­
rizza, l’influenza di Fichte; ma anche, nel contenuto specifico
dell’ideale di vita e di cultura, l’influenza di Schiller, e di Hól-
derlin; e le Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo furono,
quasi certamente, l’ultimo segno di quella collaborazione che
i due amici avevano auspicato nell’ambito di quella « lega di
spiriti liberi » che aveva come motto le formule ev xui .-tùv
e Reich Gottes 3.
Malgrado le delusioni provocate in lui dalle vicende poli­
tiche, malgrado la consapevolezza delle difficoltà e degli ostacoli
che incontrava la diffusione della nuova cultura, Schelling non
ha dubbi sul fatto che l’età moderna sia quella « idealistica »,
quella che segna il ritorno nell’« interiore », quella nella quale
si sta operando una confluenza delle diverse strade che l’uma­
nità ha finora seguito In lui manca un approfondimento del­
l’esperienza dolorosa di una scissione dell’uomo e della cultura;
i suoi stessi attacchi contro il cristianesimo non hanno mai cer­
cato un fondamento storico, del tipo delle ricerche hegeliane
sullo spirito dell’ebraismo e del cristianesimo, che miravano a
rendere definitivo un giudizio, fondandolo su tutta l’esperienza
storica dell’umanità. L’atteggiamento di Schelling è diverso:
egli respinge radicalmente l’ortodossia, e per lui « i concetti or­
todossi di Dio non significano più niente »4, ma ciò perché li
considera elementi di quella cultura dell’ambiente, ipocrita e
priva di coraggio intellettuale, che egli avversa. La sua cultura
teologica, era probabilmente superiore a quella di Hegel: ma
era quella di un esegetista. E quando egli si rese conto, come
si è visto, che l’avversario era quasi indifferente ai colpi che gli
erano menati con quelle armi, non esitò ad afferrare gli stru­
menti teorici che gli erano offerti dalle ultime filosofie. Non si
vuol dire che la sua adesione ad esse fosse poco seria e super-

2 V. sull’argomento la dissertazione (dattiloscritta) di R. Geis, Die


Tiibinger Freundeslosungen « *Ev »<ù .tóv » und « Reich Gotles», Monaco
1948, che è un’utile raccolta ed interpretazione dei passi sull’argomento.
Non ci sono dubbi che la prima di queste due formule sia stata suggerita
dallo scritto di Jacobi, Sulla dottrina dello Spinoza (trad. it., Bari 1914,
cfr. pp. 27, 53, 54, 71 etc.); la seconda, come l’altra, « unsichtbarc Kirche »,
I c invece di derivazione kantiana. V ’jiche Lacorte, Il primo Hegel cit.,
p. 198 e passim.
3 I, 158 e II, 72-73.
4 Hegel, Briefe, I, 22.

94
fidale; ma, come è stato convincentemente dimostrato dal Metz­
ger 5, fu solo nel 1797-98 che egli assimilò del tutto e rielaborò !
originalmente gli schemi teorici del criticismo e della dottrina
della scienza; negli anni precedenti il suo adoperare schemi
fichtiani e l’aspirare ad una filosofia coerente e rigorosa ha più
che altro il significato di una polemica contro i « sistemi di coa­
lizione », cioè di compromesso. Se l’espressione non si prestasse
ad equivoci, si potrebbe dire che la sua era una adesione « stru­
mentale »: ripetute volte egli si leva contro quelli che accettano
la « lettera » e non lo « spirito » della filosofia kantiana; giunge
ad affermare che « il merito più grande di chi studia filosofia non !
consiste nel mettere in ordine concetti astratti, e con essi tesser
dei sistemi. Il fine ultimo dello studioso è invece l’Essere puro e
assoluto; il suo merito più grande è nello svelare e nel rivelare
ciò che è impossibile illustrare, spiegare, ridurre a concetti — cioè
l’insolubile, l’immediato, il semplice » “. Questa citazione è presa
dallo scritto Sull’io che è dei primi mesi del 1795, ed è abba­
stanza indicativa dello spirito con il quale Schelling svolge la sua
ricerca: per lui le formule della filosofia contemporanea hanno
significato non perché sono risultato di elaborazioni dotte, da cui
prender le mosse per portare avanti la scienza, un passo dopo
l’altro, ma perché si riattaccano ad una tematica « permanente »
della cultura umana. Uno schema, questo, che egli aveva ripreso
da Jacobi ' e del quale si servirà ampiamente anche nelle Let­ ì
tere filosofiche. Nella prefazione allo scritto Sull’io egli parla di
una filosofia che sia fondata « sulla stessa essenza dell’uomo »
e il cui oggetto sia « l’immediato nell’uomo, ciò che è presente
solo a se stesso ».
Si è cioè alla ricerca di un’esperienza originaria, di una forma
immediata di contatto con l’essere: i condizionamenti teorici e
sociologici sono messi da parte di colpo, e si delinea una nuova
« innocenza » dell’uomo, che deriva dalla possibilità di stabilire
una identificazione non con la natura ma con l’essere. Nella pro­
spettiva di questa altezza tutte le forme correnti di concilia­
zione vengono meno: può così essere respinto il concetto di
felicità, e l’altro correlativo, di moralità: « Ciò che per l’io fi- I

6 W. Metzger, Die Epochen der scbellingschen Pbìlosophie, Heidel­


berg 1911, p. 46.
“ I, 186; v. anche I, 156. i
7 Stilla dottrina dello Spinoza cit., pp. 54 e 88-89.

95
I-

nito, limitato da un non-io, è una legge morale, è per l’io in­


finito legge di natura, data cioè insieme al suo essere », « L’io
infinito non conosce «tlcuna legge morale ed è determinato dalla
sua causalità soltanto come potenza assoluta, identica a se
stessa » *. Sarebbe però un errore, al quale non sempre gli in­
terpreti di Schelling sono sfuggiti, quello di fermarsi solo allo
schema generale presentato dal filosofo, e veder soltanto l’as­ I
soluto di cui il soggetto empirico non può essere che il feno­ I
meno; sarebbe affrettato, insomma, risolver tutto parlando di
« monismo » Tanto più che è proprio dopo aver definito questa
piattaforma, che ha la funzione di dare una adeguata cornice
ontologica al discorso, che Schelling si domanda come si possa
distinguere « l’esistenza condizionata e mutevole » dall’« es­
sere assoluto e immutevole », e come si possa intendere, in rap­
porto a quella assoluta, la libertà trascendentale dell’io empi­
rico ,0.
È evidente che il filosofo non ha ancora gli strumenti per
dare una risposta personale a questo problema: tanto che non
fa che parafrasare confusamente quanto, sull’argomento, aveva
scritto Fichte. Egli afferma, in parole povere, che il problema
della libertà dell’io empirico si pone soltanto per la sua analogia
con l’io assoluto, che il primo è diverso dal secondo solo per
la quantità e che gli oggetti hanno rapporto con l’io solo per
una « armonia prestabilita immanente » il cui fondamento è da
ricercarsi nell’io assoluto stesso Ora, a questo proposito, c’è
da osservare: a) che già nei mesi successivi, Schelling lascerà
cadere questa conclusione conciliatoria, e cercherà altre solu­
zioni b) che la riprenderà, invece, sia pur meglio elaborata e
costruita, nel Sistema dell’idealismo trascendentale. Non si tratta
quindi di qualche cosa da cui si possa passare oltre, ma di un nodo
problematico che va chiarito, non fosse che per collocare nella
giusta luce le Lettere filosofiche.

• I, 198; v. anche, ivi, la n. 2.


• È questo il limite di molte interpretazioni, per es. di quella, autore­
vole, di K. Fischer. Dando già per pacifica una piattaforma panteistica,
diventa davvero incomprensibile perché Schelling non si sia ritenuto pago
di essa. Ad aver veduto bene il movimento interno di questo scritto fu
invece il Metzger, che mise in evidenza l’ardore con cui Schelling difende
« la realtà del particolare e del finito » (op. cit., pp. 9 c 33 sgg.).
I, 235.
*’ I, 239-40.

96
Si è già visto che Schelling respinge le formule (leibniziane
c kantiane) che erano destinate a consentire una armonizzazione
tra l’infinito o il Tutto e il finito — mantenendo però la dif­
ferenza tra i due piani. Per lui, invece, è ad una identificazione
di essi che si deve arrivare. Ad una armonia che deriva dalla
combinazione di parti o dalla loro organizzazione per opera di
I un principio esterno, egli oppone un’armonia che è identità c
I che vorrebbe muovere da un principio interno. Ma egli si rende
conto molto presto che ricalcare posizioni spinoziane equivale a
mortificare il momento dell’azione, a rinunziare ad una filosofia
pratica nel senso più elementare del termine, cioè di orienta­
mento al fare *2. Schelling si trova ad aver operato tutta una
serie di negazioni, senza aver fatto alcuna affermazione: ha re­
spinto il causalismo e il finalismo, ha respinto l’armonizzazione
tra virtù e felicità, e l’armonia prestabilita; eppure teorizza una
« unità » che deve essere, secondo le sue intenzioni, più com­
piuta e più alta, soprattutto più coerente. Ma si rende conto
benissimo che questa è dell’io assoluto, non di quello empirico:
che quest’ultimo non può che oscillare permanentemente tra
l’intuizione e la fede, senza che questa posizione possa essere
espressa in termini concettuali
Che ci sia una corrispondenza tra il rifiuto dell’armonia me­
tafisica e morale e le tendenze politicamente più « estremistiche »
è cronologicamente evidente. Le Lettere filosofiche sono della
metà del 1795, il System-fragment della primavera 1796; dello
stesso periodo è lo scritto sul diritto naturale. Ma per spiegare
la « precarietà » di questa posizione schellinghiana — che fu
da lui messa da parte già alla fine del 1796, quando pose mano
alla redazione della Allgemeine Uebersicht — è il caso di ri­
cordare che essa, proprio perché non « sistematica » non poteva
sostenersi in un ambiente nel quale la forma scientifica era con­
siderata la pietra di paragone della « verità » di una filosofia:
ed anche Schelling era convinto di questo. I giudizi entusiasti
che sono stati dati sulle Lettere filosofiche 14 sono ben giustifi-

12 Già Jacobi, del resto, aveva messo in evidenza come dallo spinozismo
potesse derivare solo una spiegazione di ciò che si fa, e niente affatto una
direzione dell’attività ad opera della volontà (op. rii., pp. 92-95).
13 I, 216.
14 Basterà ricordare J. E. Erdmann, Versuch etc., Ili, 2, 80: « [...] das
Beste, was S. geschrieben hat, so lange er auf dem Standpunkt der Wis-
scnschaftslchrc stand, und das zum Bcsten gehòrt, was er je geschrieben

97
7. Cesa
I:

I
cati se si guarda al vigore dello stile ed al significato della presa
I di posizione etico-culturale. Ma la vera costruzione del « sistema »
schellinghiano incomincia dopo di esse, come del resto fu espres­
samente detto dallo stesso Schelling, nel ripresentare al pub­
blico, nel 1809, i suoi scritti giovanili ,s.

La pubblicazione delle Lettere filosofiche sul « Giornale fi­


losofico » di Niethammer provocò un indicativo commento da
parte di Hòlderlin: egli osservò che l’amico aveva fatto abiura
dei suoi precedenti princìpi È questo, credo, il vero signi-
cato dello scritto *7, e i princìpi precedenti non erano altro che
quelli della assolutezza e dell’unità dell’io. Non che Schelling
abbandoni la piattaforma idealistica: ad essere abbandonato è
il « monismo », mentre viene energicamente difesa la individua­
lità “ del singolo, e viene rifiutata qualsiasi identificazione tra
questo e l’assoluto. La polemica contro i kantiani è condotta
non solo mettendo in evidenza i loro compromessi e le loro con­
traddizioni, ma anche adombrando una significativa interpreta­
zione dell’opera di Kant: questi ha elaborato un metodo che,
come tale, vale per tutti i sistemi, per quelli idealistici come per
quelli dogmatici l’aver detto esplicitamente ciò che prima
« ogni filosofo che fosse guidato dall’idea regolativa di sistema
aveva applicato da se stesso, forse senza rendersene chiaramente
conto »20 è la grande novità del criticismo; ma è assurdo pen-

hat » e W. Metzger, cit., p. 21: « [...] die Philos. Briefe, nach unserm
Urteil die wertvollste allei Schriften S.s [...] ».
13 I, 345.
16 Lettera del 22 die. 1795: « Come saprai, Schelling ha fatto par-
zialmente abiura delle sue precedenti convinzioni » (5. W., VI, 207); circa
due mesi dopo è ripetuto un giudizio analogo (ivi, 220). Che queste valu-
razioni si riferiscano alla nuova via battuta da Schelling nelle Lettere filo­
sofiche è asserito (e mi pare incontrovertibile) dai più autorevoli studiosi
del poeta.
17 La presentazione che Schelling ne fece nel 1809, riducendolo ad una
polemica contro l’argomento morale per l’esistenza di Dio (I, 283, n. 1) è
comprensibile solo tenendo conto della svolta « teistica » del pensiero di
Schelling.
13 Per la precisione, il termine non è delle Lettere, dove si parla di
« Io », ma sarà il concetto centrale della Nuova deduzione, che per tanti
rispetti è una continuazione delle Lettere.
'• Ciò era stato suggerito già da Reinhold; cfr. A. Pupi, La formazione
della filosofia di K. L. Reinhold, Milano 1966, p. 73.
20 I, 305.

98
«

sare che basti una consapevolezza metodologica per fondare la


libertà umana; tanto più quando questa consapevolezza si esprime
traducendo in formule teoretiche quella problematica che, da
quando si può parlar di filosofia, ha tenuto occupati gli uomini.
Qui Schelling, riprendendo, del resto, spunti di Jacobi21, si
sforza di dar respiro storico alla distinzione tra idealismo e dog­
matismo che era stata presentata da Fichte: la disputa della fi­
losofia è nata da quando si pose il problema di « uscire dall’as­
soluto », il che, in linguaggio critico, si esprime con la domanda:
come si giunge a formulare giudizi sintetici? Non è altro che
<< il problema del passaggio dall’infinito al finito » che è « di
ogni filosofia, non soltanto di un solo particolare sistema » e
che era stato risolto, ben prima di Spinoza, con la formula a
nihilo nihil fit. Nel negare un Dio creante ex nihilo, tutti i si­
stemi sono stati concordi, salvo il « cieco dogmatismo »; solo
che il dogmatismo filosofico (Spinoza) e il criticismo, nel ne-
gare il passaggio dall’infinito al finito, sono giunti, ed era ine-
vitabile, ad identificare soggetto ed oggetto: nello spinozismo è
il soggetto che si risolve nell’oggetto, nel criticismo l’oggetto
nel soggetto sa.
La radice di questo punto di arrivo, sostanzialmente simile,
è da ricercarsi nel comune punto di partenza teoretico, il quale
« si dirige necessariamente a un incondizionato: esso ha pro­
dotto l’idea dell’incondizionato », solo che, non essendo in grado
di realizzarlo come ragionamento teorico, non può che « avan­
zare l’esigenza » di un’azione, che operi ciò che esso non ha po­
tuto 23. Si potrebbe essere tentati di vedere, in questa polemica
contro la teoresi, accusata sostanzialmente di aver posto all’uma-

21 Jacobi, op. cit., pp. 54, 64, 88 sgg.


22 I. 294, 313, 298, 327 sgg.
23 I, 299. Schelling continua: « Fin qui ci ha condotti anche la Critica
della ragione pura. Essa ha mostrato che quel contrasto nella filosofia teo­
retica non può essere deciso, essa non ha confutato il dommatismo, ma ha
respinto il suo problema innanzi al tribunale della ragione teoretica: e
questo sicuramente ha in comune non solo col compiuto sistema del criti­
cismo, ma pure col dommatismo conseguente ». Si è voluto riportare questo
passo non solo perché chiarisce quanto è detto nel testo, ma perché è uno
dei luoghi (tutt’altro che rari nelle Lettere filosofiche} in cui Schelling as­
sume una posizione divergente da Fichte. II « compiuto sistema del criti­
cismo » non è infatti altro che la dottrina della scienza; ed è noto che sul
tema se la « dottrina della scienza » fosse o no il compiuto sistema filoso­
fico avvenne la rottura, alcuni anni dopo, tra Schelling e Fichte.

99
nità problemi che essa non era poi in grado di risolvere, una
consapevole eco di tanti attacchi di Rousseau contro i filosofi-
sofisti: tanto più che già nella dissertazione magistrale, e poi di
nuovo nel 1797 ”, Schelling adopera lo schema della unità uomo-
natura rotta dalla « riflessione ». Ma, se si guarda bene, sarà
facile accorgersi che per lui la contrapposizione tra stato naturale
e cultura non assume mai il carattere radicale che è di Rousseau:
e ciò perché, anche quando più leva la voce contro l’intellettua­

II lismo, Schelling è fermamente convinto del significato liberatore


della cultura e della filosofia. L’uomo, per lui, non è un « es­
sere meramente vivente »: si volge, sì, agli oggetti, ma da questi
ritorna «necessariamente» in se stesso23. La riflessione, quindi,
che rompe l’unità originaria (e non interessa stabilire se essa
sia stata reale, o solo « mitica »: sull’argomento il pensiero di
Schelling ha molte oscillazioni) è essa stessa qualche cosa di
! necessario, e proprio nella sua forma filosofica. Si aggiunga il
carattere di cesura storica che Schelling attribuisce alla « rivo­
luzione » kantiana, soltanto in seguito alla quale ci si è posti
sulla strada dell’affermazione teorica della autonomia del sog­
getto, e che nelle Lettere c’è un solo accenno alla riunificazionc
dell’uomo con la natura: e si potrà concludere che la polemica
contro la ricerca teoretica è volta più a limitarne l’esclusivismo
che a contestarne davvero la funzione.
Schelling è qui combattuto tra due diverse concezioni della
filosofia: da una parte essa è « dottrina della scienza », cioè un
filosofare sulla filosofia, e, sotto questo rispetto, il criticismo è
davvero la dottrina della scienza ”, ed il suo grande merito è
quello di essere stato fermamente ragione teoretica, universale.
« La filosofia non deve essere un artificio che faccia ammirare
solo l’ingegno del suo autore. Essa deve mostrare il cammino
dello spirito umano, non soltanto il cammino di un solo indi­
viduo: questo cammino deve avanzare attraverso i domìni che
sono comuni a tutti i partiti » 3T. Ma così del dogmatismo si
24 II, 12-13.
25 I, 325. L’uomo, cioè, non è chiuso solo in se stesso, come gli Dei,
né volto solo agli oggetti, come le bestie — spiega Schelling —; tutto il
discorso è da confrontare con un luogo dei lavori preparatori dello Iperione,
dove, alle parole dispettose di Iperione, di aver trovato gli uomini più be­
stiali che divini, il saggio risponde che basterebbe che fossero umani
(5. W., Ili, 211).
26 I, 304.
27 I, 293.

100
i

è data solo una « confutazione negativa », non si è stati in grado


di costituirgli una alternativa. Né si può sperare di farlo traendo
i
I
conseguenze da affermazioni teoretiche che dovrebbero « co­
stringere la nostra libertà a decidere in un senso o nell’altro ».
Non sarebbe, questo, un ricadere nel « cieco dommatismo »? Ma
accanto alla legittimazione teoretica che la filosofia dà di se stessa
c’è quella che è la genesi reale di ogni sistema: e questa reca
sempre una impronta individuale, è un « saltare » 28 più o meno
consapevole al di là del terreno comune, è un prender posizione
in favore del soggetto o dell’oggetto. Tutti i sistemi si aprono
con dichiarazioni di princìpi; ma « con un inevitabile circolo, la
nostra speculazione teoretica assume in anticipo ciò che in se­
guito la nostra libertà, nel tumulto della lotta, riaffermerà ».
« Nessun filosofo dovrà immaginare di aver fatto tutto con la
semplice posizione dei più alti princìpi. Invero quei princìpi
?
come fondamento del suo sistema hanno valore solo subiettivo, I
cioè valgono per lui solo in quanto egli ha anticipato la sua de­ ?
cisione pratica » 29. Si potrebbe pensare che, per tutelare l’atto :
con cui l’individuo mette in gioco se stesso e il suo destino,
Schelling sia disposto ad approdare anche ad uno « scetticismo ». tf
Egli infatti si leva con energia contro l’idea che la filosofia « venga
imprigionata nei limiti di un sistema teoretico universalmente
valido », parla con rispetto dello scettico « che dichiara a priori
guerra ad ogni universale sistema », e, contro la critica fichtiana
del termine « filosofia » (che il filosofo di Rammenau conside­
rava, per la sua radice etimologica, inficiata di « dilettantismo »,
indicativa soltanto di una inclinazione verso un oggetto che non f
si possedeva pienamente) egli difende l’idea di un sapere che
«^rimarrà sempre soltanto progrediente » 30. Ma, anche qui, bi­
sogna precisare che per Schelling lo scetticismo è valido solo come
atteggiamento antidogmatico, e « fino a quando non si arrischia
nel campo della libertà umana ». Anch’esso, in fondo, è « teoria ».
Se non si tenesse presente che anche Schelling era stato « spi-
I
I, 298. Del « salto » aveva già parlato Jacobi, op. cit., p. 56. i
2* I, 312-13. Cfr. Fichte, 5. W., I, 126.
30 I, 306-07; e per Fichte cfr. I, 44. Che la nota sul termine filosofìa
sia rivolta contro Fichte, anche se il nome di questi non vien fatto, mi I

pare sicuro; quale, se non quella fichtiana, può essere la filosofia « che si
è proposta anzitutto di salvare la libertà del filosofare contro le pretese
del dommatismo » e che « presuppone la libertà dello spirito raggiunta con !
le proprie forze »? =

101
noziano » ”, che la critica che egli esercita nei confronti della
intuizione intellettuale investe posizioni che egli stesso aveva
sostenuto nello scritto Sull’io, e che il Lessing spinozista pre­
sentato da Jacobi è, sotto tanti aspetti, un modello e un esempio
per lui, non si capirebbe il tono con il quale viene esposto e cri­
ticato il « dogmatismo » di Spinoza. Anzitutto, quello spino­
ziano non è soltanto un atteggiamento teorico, « nel quale uno
spirito come il suo ben difficilmente avrebbe trovato riposo »3=,
ma un impegno totale: « egli viveva nel suo sistema ». Non c’è
però soltanto questo. Si è già detto che per Schelling il criti­
cismo rappresenta una cesura definitiva: va aggiunto che egli si
è consapevolmente messo su questa posizione « moderna », che
lo portava a vedere tutto il movimento intellettuale del passato
sotto il profilo, appunto pre-critico. Ma la storia da cui egli si
distanzia minaccia, se è lecita l’immagine, di schiacciarlo (ed è,
del resto, proprio quello che accadrà durante l’ultimo periodo
della sua speculazione): nel senso che il culto per l’oggetto e
per il mondo (in contrapposizione al soggetto e all’io) sono ve­
duti come l’espressione di una immane forza — che Schelling
pensa ancora di tenere a bada con i risultati dell’ultima rifles­
sione filosofica — che ha permeato di sé tutta la vita dell’uma­
nità. Si spiegano in questa prospettiva giudizi come quello sul
« fascino potente » del dogmatismo, che non « procede da astra­
zioni, ma da un esistere », o come l’altro, che nel principio mo-
tale del dogmatismo « s’incontrano i più sacri pensieri dell’an-
tichità, e i prodotti dell’umano delirare » 33. In questa prospet­
tiva, infine, si spiega anche l’affermazione che in tutti noi esiste
un « potere misterioso, di ritirarci dal mutamento del tempo nella
nostra interiorità, e qui contemplare l’eterno sotto la forma dei-
l’immutabilità ». fi di questo atteggiamento eterno che la fi-

31 Lettera a Hegel del 4 febbr. 1795: « Nel frattempo io sono di­


ventato spinoziano! Non meravigliarti, ti spiegherò subito in che senso.

Per Spinoza il mondo (l’oggetto, senza altra qualificazione, in opposizione al
soggetto) era tutto; per me tutto è l’io È dall’incondizionato che la
filosofia deve partire. L’unico problema è se questo incondizionato sia l’io

o il non-io. Risolto questo, è risolto tutto » (Briefe, I, 22).
1
32 I, 305. Jacobi aveva sostenuto che per Spinoza il prirntim era la
8 conoscenza; ma aveva dato evidenza anche alla posizione opposta, mettendo
I in bocca a Lessing l’affermazione che Spinoza « era lontano dal porre il

! pensiero avanti tutto », e allo stesso Spinoza quella che « in tutte le cose
l’azione precede la riflessione » (op. cit., pp. 57 e 99).
I
i
33 I, 290 e 316-17.
i-
102
losofia spinoziana rappresenta la più alta « esperienza » indivi-
duale.
Il dogmatismo, in generale, ha in sé una contraddizione:
vuole eliminare il soggetto, ma per far questo deve contare su
una attività del soggetto stesso. Ebbene, Spinoza ha annullato
l’idea di una causalità indipendente del soggetto, nel senso che
ha identificato quest’ultima con la causalità infinita, da cui è
diversa soltanto per i limiti. Ma nel suo atteggiamento c’è quel
tratto che è proprio di tutti i misticismi, e che si esprime nella
formula dell'amore dell’infinito, quell’amore che fa sopravvivere
il soggetto anche quando ci si è illusi di distruggerlo; « egli
non stava nell’intuizione dell’assoluto, ma viceversa era per lui
sparito nell’intuizione di se stesso tutto ciò che si chiama og­
gettivo »; « questa necessità di pensare ancora se stesso dap­
pertutto, che venne in aiuto di tutti gli Schwàrmer, venne in
aiuto anche di Spinoza. Quando si intuiva come trapassato nel­
l’assoluto oggetto, nondimeno intuiva ancora se stesso, non po­
teva pensarsi come annullato senza pensarsi nel contempo come
ancora esistente »31. Questo equivale a negare la possibilità di
una effettiva realizzazione, teorica e pratica, del dogmatismo: a
negare, insomma, che esso costituisca un sistema integrale che
spieghi ciò che compiono coloro che lo accettano, e, d’altra parte,
consenta la traduzione in atto di ciò che è contenuto nelle sue
premesse teoriche. Ma si noti che Schelling parla di « illusione »
in un senso molto vicino a quello che le attribuiva Kant quando
accennava, nella Ragion pura, alla « illusione naturale e inevi­
tabile » Il dogmatismo, nella forma mistica o spinoziana, è
stato ed è una delle due possibilità sempre aperte davanti ad
I
ogni uomo3C. Schelling non ha nostalgia per esso: egli opta !
espressamente per una accettazione consapevole e virile della
destinazione umana. Ma è significativo che egli veda in questa
« illusione » l’esigenza di « una condizione assoluta nella quale
noi, a noi stessi soltanto presenti, autosufficienti, non bisognosi
_di alcun mondo oggettivo, e appunto per questo affrancati dai
suoi limiti, viviamo una più alta vita » 37. La grandezza e la no­ t

biltà del miraggio, insomma, hanno liberato l’uomo dalla voi-

I, 319-20.
35 Kant, G. S., Ili, 237.
’• I, 306.
37 I, 321.

103
i

ìl

garità di quella morale che promette la felicità come premio della


virtù: se si vogliono dare dei nomi a questa contrapposizione
teorica, Schelling oppone una concezione religiosa dell’esistenza
alla morale eudemonistica della Aufklàrung, ed anche ad una
interpretazione volgare della morale kantiana ”.
Nei confronti dei « cosiddetti seguaci della filosofia critica »
Schelling conduce una polemica piena di sarcasmo. La loro unica
differenza dai dogmatici volgari consiste nel fatto che essi ac­
cettano per fede « ciò che il dogmatismo presume di sapere » *’;
attribuiscono al « bisogno » e all’esigenza morale la capacità di
condurre all’idea di Dio, come se un bisogno « per impellente
che sia» potesse mai «render possibile l’impossibile »; pren­
dono la finitezza della ragione per debolezza della ragione, creando
così al dogmatismo la possibilità di trovar confermata, presso
i suoi stessi (pretesi) avversari, la sua affermazione fondamen­
tale; infine, come si è già accennato, istituiscono tra moralità e
felicità un rapporto che è in contrasto con tutto quello che si
sa del perfezionamento morale dell’uomo; questi, infatti, mano
a mano che si innalza moralmente verso la libertà cessa di aver
bisogno della felicità; la promessa di questa non è che un « as­
segnato col quale, o uomo empirico, ti si comperano per il mo­
mento i tuoi godimenti sensibili, ma che ti sarà pagato quanto
tu non avrai più bisogno di pagamento » 40.
Su quest’ultimo punto occorre fermarsi un momento: la po­
lemica contro la felicità compcnsatrice è un motivo che Schelling
aveva già svolto nello scritto Sull’io (qui la critica contro Kant
era stata diretta41); e, sull’argomento, Schelling sembra ribadire
le sue precedenti posizioni. Quello che è mutato, è il contesto:
infatti là l’avvicinamento felicità-virtù era stato respinto perché
« empirico » (come è ben noto, per Kant è tutt’altro che certo
che la felicità accompagni sempre la virtù; egli raccomanda di

*• Del resto lo stesso Kant, dopo aver messo in guardia contro il


« misticismo » aveva però osservato che esso « comporta nondimeno ancora
la purezza e la sublimità della legge morale [...] mentre invece l’empirismo
estirpa sino alla radice la moralità nelle intenzioni» (G. S., V, 71).
39 I, 303. « Fede » è qui da intendersi nel senso della « fede morale »
di cui parla Kant. Per es., nella Ragion pura-. « Io crederò immancabilmente
nell’esistenza di Dio e in una vita futura [...]. Certo, nessuno potrà mai
vantarsi di sapere che c’è un Dio c una vita futura» (G. 5., Ili, 536).
40 I, 322.
41 V. tutto il § 14, ma soprattutto la n. 1 di p. 197.

104
I
volere non la felicità, ma Tesser degni di essa: che la felicità me­ :
ritata venga, dipende dal « caso »), qui per la ragione opposta:
che cioè l’idea della realizzabilità, quando che sia, del sommo
bene porti ad uno stato di equilibrio, di non contrasto, di non
limitazione, che può sopprimere ogni molla dell‘agire42.
Dalle osservazioni che Schelling ha svolto sul dogmatismo e
criticismo risulta chiaramente che egli respinge sul piano mo­
rale come su quello teoretico l’idea di una possibile, definitiva
identificazione tra il soggetto e l’oggetto, l’uomo e l’assoluto o -
il mondo. Rimane ora da vedere quale è la piattaforma che
egli propone; è stato osservato, molto giustamente, che l’atto
ì
libero con il quale incomincia ogni filosofare non è per lui un
momento della filosofia, ma qualche cosa precedente ad essa42.
Non si tratta però della intuizione intellettuale (come sarà, per
es., nel Sistema dell’idealismo trascendentale) né della « espe­
rienza immediata »: entrambe le formule sono respinte da
Schelling proprio perché, al limite, esse fanno sparire ogni me­
diazione, ogni movimento, ogni limitazione. Credo che non si
vada lontano dalla verità togliendo al « prima » ogni significato
di assolutezza, e ricordando che il filosofo ha più volte affer­
mato che sono pochi quelli che sono in grado di giungere a quel
tipo di libertà. Il « prima >> non esclude affatto un confronto
anteriore con posizioni teoriche e pratiche: è un atto che è fon­
damento di un « sistema individuale » ma che non viene dal
nulla: esso, anzi, è possibile proprio quando si siano provate
e vagliate le diverse possibilità, quando si siano battute diverse
strade. Quando Schelling afferma che « noi ci svegliamo dall’in­
tuizione intellettuale come da uno stato di morte »44 egli dà
un riferimento molto preciso al suo precedente cammino filo­
sofico. Poiché, come egli stesso ha avvertito, la filosofia non è
la trovata geniale di un singolo, ma espone lo svolgersi del­
l’umanità, si può intendere che il « risveglio » suo e degli altri

42 I, 326-27 e 332-33.
43 R. Kròner, Voti Kant bis Hegel, Tubinga 1961 3, I, 545. L’espo­
sizione de! Króncr così ricca di osservazioni puntuali e di penetrazione spe­
culativa, c però viziata da! fatto che egli considera in blocco gli scritti
schellinghiani dal 1794 al 1797. Gli sfugge, in questo modo, la curva rap­
presentata dalle Lettere filosofiche, che tentano una strada diversa da quella
deiridenti Reazione con l’assoluto. Accetto la formula che egli propone, e che
si appoggia a precise affermazioni di Schelling, pur interpretandola in senso
diverso dal suo.
44 I, 325.
105 i

i
I
l
« spiriti liberi » sia stato reso possibile dalla sistemazione teo­
rica del criticismo, e dalla interpretazione di questo sulla base
di una esperienza, vitale e riflessiva, particolarmente intensa. In­
terpretazione, questa, che è suggerita dalla stessa struttura delle
Lettere filosofiche, dove solo poche pagine della nona Lettera sono
dedicate ad un rapido tentativo di delineare una posizione
propria, mentre tutto il resto è polemica.
Era necessario precisare tutto questo per togliere ogni ca­
rattere miracolistico o intuizionistico alla scelta che il filosofo
propone. Parafrasando una famosa frase di Feuerbach — ripresa
poi da Marx — sulla opposizione tra la sobria filosofia e la spe­
culazione ebbra, verrebbe voglia di dire che Schelling non fu
mai più « sobrio » come nelle Lettere filosofiche. Egli afferma
che la ricerca filosofica non deve proporsi di andare al di là « del­
l’uomo ». Bisogna che essa accetti la limitatezza come un dato
originario e insuperabile, e respinga non solo l’idea di un pros­
simo raggiungimento del fine ultimo, ma anche quella di una
sia pur remota raggiungibilità di esso. Non si tratta più di ri­
durre l’oggetto a vantaggio del soggetto (« quanta più sogget­
tività, quanto meno oggettività»), perché «se il mio mondo
non avesse più alcun limite, ogni causalità oggettiva come tale
sarebbe annullata per me. Io sarei assoluto. Ma il criticismo
cadrebbe nella Schtuàrmerei se si rappresentasse questo ultimo
scopo anche come solo raggiungibile » 4S. E la conclusione suona:
« Sforzati di essere immutabilmente te stesso, sforzati verso l’in­
condizionata libertà e l’illimitata attività ». Abbandonato il mito
dell’assoluto, all’uomo si dischiude una vita di travagli e di at­
tività, ma anche di « godimento e di esplorazione della na­
tura »46, la quale non dovrebbe più essere il limite da respingere
progressivamente indietro, per una sempre più larga affermazione
della soggettività. È stata rifiutata, anche, l’idea di una felicità,
e Schelling ha chiuso l’ottava Lettera citando con calore un giu­
dizio attribuito da Jacobi a Lessing, che l’idea di un essere in­
finito sia legata ad una « rappresentazione d’infinita noia, dalla
quale gli viene angoscia e dolore », e un’altra frase « blasfema »:
« per nulla al mondo io vorrei essere beato »47. E — aveva com-

45 I, 335.
46 I, 341.
47 I, 326; cfr. Jacobi, op. cit., p. 66: « Lcssing non poteva tollerare
l’idea di un essere personale assolutamente infinito, nel godimento immute-

106
-
:
-
mentato Schelling — se uno non la pensa così, non si vede qual
frutto possa trarre dalla filosofia. E si vedrà subito come, pren­ :
dendo posizione sul problema del « destino », Schelling esponga
le linee di un’etica per la quale l’uomo, respingendo l’idea di
una forza cieca che lo sovrasta, si liberi anche dal « terrore del
mondo oggettivo ».
Eppure anche qui, che è il punto più alto della morale
esposta nelle Lettere, è presente l’idea, di evidente derivazione
fichtiana, di una « destinazione » dell’uomo — e si parla di uno
scopo ultimo, anche se non mai raggiungibile, come « l’idea
pratica » di cui l’ente morale ha bisogno Schelling era troppo
avvolto dalla tradizione finalistica — basta ricordare Leibniz,
Kant, lo stesso Fichte — perché potesse liberarsene del tutto.
È già quasi straordinario che in uno slancio di ribellione contro
i « sistemi » che vedevano l’uomo solo come momento di un
discorso più vasto, egli abbia ridotto il motivo della destina­
zione ad una sorta di cuspide della sua Weltanschauung mo­
rale, a qualche cosa che è presente nello sfondo, ma che non c
essenziale per la costituzione del discorso.

Le considerazioni sul destino, sulla tragedia greca e sull’este­


tico, che aprono e chiudono le Lettere filosofiche — e questo
fatto deve pure avere un significato — sono state quasi sempre
trascurate dagli storici della filosofia; hanno avuto maggiore at­
tenzione per esse gli studiosi che avevano esperienza di storia
letteraria, o della cultura, e che si resero subito conto che questa
tematica riprendeva motivi largamente diffusi neH’ambientc,
trattati in riviste che Schelling quasi certamente aveva presenti,
sostenuti da scrittori, come Schiller, che egli ammirava, o come i
Hòlderlin, con cui egli aveva rapporti di stretta amicizia. È evi­
dente, però, che anche la valutazione di questi spunti è legata
alla interpretazione più generale che si dà del corpo centrale
delle Lettere e del movimento intellettuale del pensatore. È
quindi necessario, sulla base della interpretazione che abbiamo
suggerito delle Lettere filosofiche, tentare un inquadramento sto­
rico di quegli accenni, per trarre le conclusioni sulla piattaforma
morale che Schelling ha delineato in questo scritto.
Fu W. Bòhm a notare, nella sua monografia su Hòlderlin, I
:
vole della sua somma perfezione. Egli connetteva con esso tale una idea di
noia infinita, che gli era di angoscia c di affanno ».
I, 335 c cfr. Fichte, VI, 299.
107
I

che nel fascicolo del marzo 1795 delle « Horen » di Schiller c’è
un saggio di Herder, Das eigene Scbicksal, e che nel fascicolo
I di agosto si trovano, sull’argomento, altri due saggi, uno di Ja-
cobi {Zufàllige Ergiessungen eines einsamen Denkers) e l’altro
di C. H. Gros {Sull’idea del destino presso gli antichi)49. Questi
possono aver sollecitato l’interesse di Schelling per il tema: ma
anche là dove si possono stabilire degli accostamenti, per es.
con un paio di luoghi del saggio del Gros 50 si tratta di qualche
cosa di piuttosto generico, e di idee, inoltre, che hanno la loro
radice negli scritti di Schiller, da cui Schelling può averle diret­
tamente derivate 5I.
Vicinanze molto più tipiche, invece, si possono indicare negli
scritti di Hòlderlin dello stesso periodo. Il poeta vide Schelling
a Tubinga nell’agosto 1795, fece con lui il viaggio verso Nùr-
tingen, e Io rivide poi alla fine di novembre a Stoccarda 33 ; in
questo periodo, oltre alla elegia Alla natura egli redasse quello
scritto che è noto col titolo di Hyperions ]ugend, e probabil­
mente alcuni frammenti {Erniocrate e Cefalo, Sul concetto della
punizione, Sulla legge della libertà) Nel primo di questi fram­
menti si trova un motivo che si è già indicato nelle Lettere
schellinghiane: la polemica, cioè, contro l’idea che « la scienza
avrebbe potuto esser portata a compimento, o sarebbe già com­
piuta, in un tempo determinato »; questo atteggiamento è detto
«di quietismo scientifico»34; viene rivendicato invece, per
l’uomo, un « progredire infinito ». Gli studiosi del pensiero di
Hòlderlin hanno indicato, negli scritti di questo periodo, una
presa di coscienza del poeta che lo portò ad abbandonare l’ade-

4’ Bòhm, Hòlderlin cit., I, 158-59.


50 L’affermazione che l’idea di destino può dare all’anima una virile
fermezza, ma implica anche il pericolo di distruggere il rispetto per la legge,
e l’efficacia che questa può avere sul volere umano (« Die Horen », Tubinga
1795, VII, 78) da cfr. con I, 338. Più strette le analogie tra le considera­
zioni sul destino di Edipo, punito per una colpa che non ha consapevol­
mente commesso {ivi, pp. 82-83), c I, 337.
Si tratta, oltre che della fonte più ovvia, cioè della Educazione este­
tica dell’uomo, del saggio Sul patetico, su cui ha richiamato l’attenzione lo
stesso Bohm {Hòlderlin als Verfasser des « Aclteslen Systemprogrammi d.
d.n Idealismus », in « D. Vierteljahrsschrift f. Literaturwissenschaft und
Geistesge^chichte », 1926, p. 377).
52
W. Michel, Das Leben F. Hòlderlins, Brema 1940, p. 153.
63
S. W., IV, 220-25.
54
S. W., IV, 222. Hanno parlato del significato antifichtiano di que­
sta dichiarazione il Michel, p. 155 e il Mùller, Hòlderlin cit., p. 128.

108
I

sione che egli aveva dato alle idee fichtiane alcuni mesi prima;
in particolare, nell’elegia Alla natura si è notato il rimpianto per
« l’impoverimento spirituale » provocato in lui dall’adesione alle
tesi idealistiche. L’indifferenza di Fichte per l’autonomia della
natura, la riduzione di questa a fenomeno o illusione, viene
vista come ciò che sopprime quella pienezza di vita nella quale
il pellegrino, itinerante sulla terra, poteva trovare riposo: « Ora
è morto quel mondo giovanile che mi educava e mi quietava;
e questo petto, che una volta recava in sé un cielo, è ora morto
e povero come un campo di stoppie [...] Il più caro amore :
dovrà eternamente stentare, ciò che noi amiamo è soltanto
un’ombra; quando morirono i sogni dorati della gioventù, morì
per me l’amica natura »
Lo stesso motivo sta alla base del frammento La gioventù
di Iperione 4<i, dove però si trova indicata già la via per uscire
da questo stato di tensione: è l’accettazione del limite della
finitezza, la consapevolezza che secondo il mito platonico, l’amore,
cioè il sentimento della vita, è figlio dell’abbondanza e della
povertà e che noi sentiamo ed abbiamo coscienza solo perché
incontriamo una resistenza, un limite. La povertà e il bisogno
che rechiamo dentro di noi ci fanno sentire che abbiamo bi­
sogno dell’aiuto della natura: « e quando ti si fa incontro, come
bellezza, ciò che tu rechi in te come verità, accoglilo con animo
grato, perché tu hai bisogno dell’aiuto della natura ». Si de­
linea così una nuova sintesi, una nuova « armonia »: motivo,
questo, che, se è il più evidente, non è probabilmente il più
interessante dello scritto. Perché la presenza della natura, che
toglie la « solitudine » dall’uomo, dà a questi (si potrebbe dire)
lo stimolo ad accettare la propria finitezza, non solo con calma,
ma anche con orgoglio: « Che cosa ci rimarrebbe da fare se la
<
natura si desse per vinta e lo spirito festeggiasse la sua defini ­
tiva vittoria? ». « La natura non vuole che si fugga dalle sue
44 5. W., I, 199-200.
46 Basterà una citazione dalle prime righe: « Negli anni della maggiore
età, quando l’uomo si è strappato dall’istinto felice e lo spirito ha inco­
minciato a regnare, egli non è, di solito, molto incline a sacrificare alle
Grazie. Alla scuola del destino e dei sapienti io ero diventato più serio
c più libero, ma severo oltremisura, tirannico, in senso pieno, verso la na­
tura — anche se di ciò non può essere accusata la scuola a cui appartenevo.
La radicale incredulità con la quale io accoglievo tutto, non consentiva che i
si sviluppasse in mo l’amore. Lo spirito puro e libero, io pensavo, non può
conciliarsi coi sensi e col loro mondo» (S. ÌV7., Ili, 210).

109
I

tempeste, e si cerchi rifugio nel regno dei pensieri, contenti di


poter dimenticare la realtà nei quieto regno del possibile ». E
ritorna spesso l’invito « non dimenticare te stesso! ». Il richiamo
alla infinità del compito può far pensare che ci si muova ancora
nell’ambito della morale kant-fichtiana: ma non deve sfuggire
che la prospettiva è tutt’altra: là il tendere infinito è in fun­
zione del perfezionamento dell’uomo, qui è manifestazione della
vitalità dell’uomo stesso. E il « metti in opera ciò che pensi! »
significa accettare la lotta col destino, affrontare i colpi della
natura, ma anche, quando essa si avvicina in pace « togliersi di
fronte a lei il cupo elmo, come Ettore quando abbracciò il suo
bambino ». Questa disponibilità dell’uomo, l’ambiguità, si po­
trebbe dire, della sua stessa posizione, hanno senso solo se si
tiene presente che qui Hòlderlin si è sottratto ad un sistema
« scientifico » e presenta in cambio una saggezza che è nata da
esperienza di vita iT.
Ebbene, non è molto simile l’atteggiamento di Schelling?
Nelle Lettere egli presenta una Weltanschauung, non un « si­
stema »; respinge l’idea di una beatitudine, e parla, riprendendo
Lessing, della infinita, angosciosa « noia » di un essere infinito;
?
parla del « godimento della natura » che si apre all’uomo quando
egli abbia abbandonato il miraggio dell’assoluto. Si possono in­
dicare anche altre analogie: per es. la rivendicazione, nelle Let­
tere, della « personalità » quale si manifesta attraverso l’auto-
I scienza; posizione che è anche di Hòlderlin, che contrappone la
coscienza, avvicinata al << sentimento della vita », alla « calma
! senza passione degli Dei »; mentre, nello scritto Sull’io, Schelling
! aveva domandato con sarcasmo: « Vi sentite davvero liberi nel­
l’autocoscienza? » ”. Per concludere, credo si possa affermare
che le comuni esperienze intellettuali, precisate probabilmente
anche con i contatti personali dell’agosto 1795, e dei mesi suc­
cessivi portarono i due giovani su una piattaforma che, se segna
un impoverimento dal punto di vista sistematico, è però segnata

57 « Così mi ha insegnato — e io la rispetto — la scuola della mia


vita » (S. W., Ili, 217). Buone osservazioni, sul rapporto Hólderlin-Fichte,
oltre che nelle opere già cit., anche nel saggio di E. Cassirer, Hòlderlin
und der deutsche Idealismus, ora nella silloge Hòlderlin, curata da A.
Kelletat, Tubinga 1961 (soprattutto pp. 88 sgg.). Non mi pare del tutto
convincente, però, ciò che vi vien detto sul rapporto Schelling-Hóldcrlin.
5* I passi schellinghiani rispettivamente in I, 327 e I, 180-81; cfr.,
Hòlderlin, S. W., Ili, 213.

110
da una forte consapevolezza della necessità di salvare la libertà
dell’uomo, inteso come essere aperto alla natura e quindi cor­
poreo (Schelling dice « vivente »), finito, ma consapevole di
avere nella propria povertà tutte le ricchezze necessarie ad una
vita piena, disposto ad accettare le gioie e i dolori non come
mezzi di un astratto perfezionamento morale, ma come movi­
mento dialettico dello stesso essere finito. La sintesi non è cer­
cata nella ragione o nella umanità in generale, ma nell’individuo
stesso. È lui che non deve « perdersi », e questo, tra l’altro,
può aiutarci a spiegare l’individualismo estremo (« anarchico »
ha detto qualche studioso) della Nuova deduzione del diritto
naturale. Certo, sarebbe del tutto inesatto parlare di una iden­
tità di atteggiamenti: ci sono divergenze che non sono marginali;
non si può escludere, per es., che Schelling pensasse proprio
a Hòlderlin quando, pur riconoscendo che il « tragico » ha una
propria funzione in sede estetica, suggerisce che la « religione
del destino » non sia compatibile con un lieto impegno ter­
reno; ma si tratta di divergenze all’interno di una posizione.
La prima delle Lettere si apre prospettando la situazione
i
« tragica »: l’affrontare una forza assoluta e il soccombere com­
I battendo; se questo è il momento più alto della « autoafferma­
zione dell’uomo » c’è però anche un’altra situazione, « este­
tica »: il « riposo nelle braccia del mondo ». Questo, per l’uomo,
è « il momento più alto della vita ». « Si abbandona al mondo
giovanile solo per calmare la sua sete di vita e di esistenza.
Esistere, esistere! gli grida una voce interiore; egli vuole preci­
pitare nelle braccia del mondo piuttosto che in quelle della
morte. » 59 La lotta senza speranza contro il fato, si ribadisce
nella decima Lettera, non può « diventare sistema dell’agire, perche
un tale sistema presuppone una stirpe di titani, e senza quel
presupposto avrebbe come esito la più grande rovina dell’uma­
nità. Una volta che la nostra stirpe fosse destinata ad essere
tormentata dai terrori di un mondo invisibile, non sarebbe più
facile tremare vilmente di fronte alla strapotenza di quel mondo,
e al minimo pensiero di libertà, piuttosto che cadere combat­
tendo »? 60. C’è stato chi ha voluto vedere in questo rifiuto del

59
5. W., I, 284-85; l’espressione jugendliche Welt fa pensare senza
esitazione a Hòlderlin; ma ci sono anche altre vicinanze, linguistiche e sti­
listiche.
80 I, 338.

111
W-
« titanismo » la prova che Schelling fosse « un tipico epigono »
che ignorava il significato delle lotte del predecessore, cioè di
Fichte 61. Credo risulti ormai, da quanto si è visto, che questo
giudizio non è accettabile. Ma c’è dell’altro: ed è che qui Schel­
ling si stacca sì da Fichte, ma sotto la diretta sollecitazione di
Schiller. La rigida consequenzialità che Fichte aveva introdotto
nei suoi scritti lo aveva ben presto fatto sospettare dai tubin-
ghesi di « dogmatismo » l’adesione successiva (di Schelling e I
di Hólderlin, ma non di Hegel) alle sue teorie non poteva avere I
eliminato un distacco che era soprattutto un fatto di cultura, e
che da alcuni mesi aveva trovato una espressione teorica proprio
nelle Lettere sulla educazione estetica dell’uomo 63. Nel pensiero
morale di Fichte, Schiller vedeva infatti il pericolo di una muti­
lazione dell’umano: « solo in un completo rinnegamento della
sensibilità si crede di trovar riparo contro i traviamenti di essa,
e lo scherno, che spesso punisce in modo salutare l’esaltato
(Scbwàrmer) oltraggia con la stessa mancanza di riguardo il
sentimento più nobile ». « [...] la tensione di singole forze spi­
rituali può bensì produrre uomini straordinari, ma solo l’armonica
temperanza di tutte può produrre uomini felici e perfetti. » 04 E
in tutta la tredicesima Lettera il poeta insisteva sulla necessità non
di una subordinazione dell’istinto materiale a quello formale, ma di
una loro reciproca limitazione, destinata a produrre armonia » #i.

“ L’espressione è di E. Staiger, Der Geist der Liebe cit., p. 34.


•’ V. la lettera di Hólderlin a Hegel da Jena, del 26-1-1795: « Avevo
cominciato a nutrire forti sospetti che [Fichte] fosse un dogmatico; se
mi è lecito esprimermi in forma dubitativa, ho l’impressione che egli si
sia trovato davvero al bivio, o che ci sia ancora — egli vorrebbe andar
oltre il fatto di coscienza, nella teoria. Ciò è testimoniato da molte delle
sue affermazioni, e questo è trascendente, senza dubbio e con piena evi­
denza, non meno del voler andare al di là dell’esistenza del mondo da
parte dei metafisici precedenti » (Hegel, Briefe, I, 19).
63 Che qui Schiller prendesse posizione contro le fichtiane lezioni sulla
destinazione del dotto è stato dimostrato in modo esauriente da X. Leon,
Fichte et son temps, cit., I, 348 sgg.
6S Cito da F. Schiller, Scritti estetici, trad. di C. Baseggio, Torino
1959, pp. 217 e 225.
ei « Pienezza delle sensazioni dev’essere la sua fonte gloriosa; la sen-
sibilila stessa deve affermare con forza vittoriosa i propri diritti c resistere
alla violenza che volentieri le farebbe Io spirito con la sua attività usur­
patrice. In una parola: la personalità deve tenere nei suoi debiti confini
l’istinto della materia, e la recettività ovvero la natura l’istinto della for­
ma » (ivi, p. 254).

112
La reazione di Fichte mostrava che egli aveva colto bene la
carica polemica delle considerazioni schilleriane: la debole risposta
che egli dava, che cioè una educazione estetica fosse possibile solo
quando gli uomini fossero già liberi, non faceva altro che proiet­
tare nel futuro quelle esigenze di pienezza di vita che Schiller
considerava essenziali per sfuggire allo sviluppo parziale dell’uomo,
che era tipico della civiltà moderna.
Tra Fichte e Schiller, Schelling era senza dubbio più vicino
al secondo; è da lui, tra l’altro, che riprende la distinzione tra
atteggiamento morale e atteggiamento estetico, che è adombrata
nella sua affermazione che l’eroe della tragedia greca non è un
modello proponibile alla scelta morale dell’uomo moderno88 ;
come è da lui che ha tratto l’interesse per l’estetico — anche
se questo tema, affrontato solo marginalmente, non è da solo suffi­
ciente per parlare di una sua opposizione a Fichte ®7.
Ma al di là di tutte le influenze e di tutti gli stimoli resta il
problema del perché Schelling abbia respinto, pur parlandone con
tanta ammirazione, una concezione « tragica » dell’esistenza e il
concetto di « destino ». Credo che non si vada lontani dal vero
affermando che questo è da attribuirsi ad un consapevole atteg­
giamento moderno e « borghese ». Era con partecipazione, ma
anche con freddezza che il filosofo osservava gli avvenimenti che
si svolgevano intorno a lui, ed anche quelli della storia passata:
non vedeva in essi simboli pieni di mistero di un movimento
fatale. Anche là dove il popolo poteva aver bisogno di miti o di
misteri, il sapiente non doveva essere angustiato dal timore di
un « mondo invisibile ». Come lo spinozismo o un certo misti­
cismo erano giudicati più alti del razionalismo e del criticismo
volgare, così l’idea del morire lottando contro un fato implacabile
sembrava più nobile del volere tranquillizzare l’uomo proponen­
dogli l’immagine di un Dio morale. Più nobile, ma non più idonea
ad un’epoca nella quale l’umanità « dopo aver portato per lungo

06 Cfr. le ultime pagine dello scritto Siti patetico in Scritti estetici,


cit., pp. 125 sgg.
67 Non mi pare determinante l’affermazione dello Haym, Die romani.
Schttle cit., p. 569, che Schelling « valuti le diverse Weltanschatitingen an­
che secondo il loro valore estetico (che era quanto di più lontano da Fichte
si potesse immaginare) ». Schelling infatti si limita, sulle orme di Schiller,
a indicare la capacità delle concezioni del mondo a creare lo spazio per
situazioni « estetiche », ma non confonde mai valutazione estetica e valuta­
zione morale.

8. Cesa 113
tempo tutti i vincoli della superstizione, potrebbe finalmente tro­
vare in se stessa ciò che cercava nel mondo oggettivo, al fine di
tornare con questo, dal suo sconfinato vagare in un mondo estra­
neo, nel suo proprio mondo; dal non esser se stessa al diventarlo,
dalla Schw'àrmerei della ragione alla libertà del volere » “’. Non
è un caso che nel Sistema dell'idealismo trascendentale, quando
! delineerà rapidamente una partizione della storia del mondo, egli
chiamerà età del destino o età tragica quella precedente alla
espansione della repubblica romana Una età che non ha prati­
camente alcun senso, se non di opposizione dialettica rispetto alla
terza, quella della « provvidenza », nel quadro della storia univer­
sale. La stessa frase sulla « umanità più nobile che sia mai fiorita,
e il cui ritorno sulla terra non c che un eterno desiderio », tende
a riportare a qualche cosa di simile al mito dell’età dell’oro quella
idealizzazione della grecità che aveva nutrito la fantasia poetica
di Hòlderlin e la riflessione politica del giovane Hegel.

2. La « Nuova deduzione del diritto naturale ».

La Nuova deduzione, redatta subito dopo le Lettere filoso­


fiche'0, è probabilmente, tra gli scritti schellinghiani di questo
periodo, quello di meno facile interpretazione. Anche il destino
esterno dello scritto — uscito in due puntate, a distanza di un
anno l’una dall’altra, quasi inosservato dai contemporanei7l, non
accolto da Schelling nell’edizione delle opere del 1809, privo
quasi di influenza sulla « scuola schellinghiana » — ha fatto sì

88 I, 339.
•• III, 604.
70 II 23 marzo 1796 Schelling scriveva a Niethammer di avere inten­
zione di inviargli, per il « Giornale filosofico », degli « aforismi » da lui
redatti in occasione delle lezioni di diritto naturale impartite ai due giovani
di cui era precettore, e che, a suo avviso, contenevano « una deduzione del
diritto naturale più soddisfacente, voglio sperare, di quelle finora cor­
renti »; anzi, li avrebbe già acclusi alla lettera se ne avesse già steso la bella
copia (Fuhrmans, I, 67). L’invio di un primo gruppo di pagine dovette
seguire quasi subito, se già in data 8 maggio Schelling poteva scrivere al­
l’amico di avergli inviato « il resto degli aforismi sul diritto naturale »
(ivi, 77).
71 Salvo che dal solito Nicolai, che ne riprodusse i §§ 1-15, con un
titolo sarcastico, nell’appendice (pp. 335-42) del suo libro Leben urici
Meinungen Sempronius Gundibert’s eines deutschen Pbilosophen, Berlino-
Stettino 1798.

114
che esso fosse preso in considerazione quando ormai si era con­
solidato lo schema di uno Schelling « monista », misticheggiante
e filosofo della natura. Gli studiosi del secolo scorso lo liquida­
rono così molto rapidamente 72 ; ed anche nel nuovo clima di ri­
cerche schellinghiane del nostro secolo, non si può dire che di
esso sia stato colto il vero significato
Il brusco passaggio alle posizioni organicistiche degli anni di
Lipsia, quando si afferma che l’organismo universale è la radice
di tutte le cose, che il principio individuale è il « negativo » 74,
e quando si assume l’amore come categoria unificatrice79 ha
portato a confondere due piani che, nel pensiero schellinghiano,
almeno fino al 1800, sono ben distinti: quello della concezione
generale della natura, e quello del comportamento dell’uomo. Si
è avuta così, qualche volta, una sorta di deduzione a priori della
filosofia politica di Schelling, dalla sua filosofia della natura: e
ci si è stupiti che nel Sistema dell1idealismo trascendentale il filo­
sofo avesse potuto assumere un atteggiamento « individualisti­
co » 7*.
È qui il caso di notare che per Schelling — ma l’osservazione
si può estendere anche ad altri pensatori del periodo — la più
tarda contrapposizione tra l’individualismo astratto, della tradi­
zione franco-inglese, e il senso della comunità organica e storica,
non è che la trasposizione su un piano di distinzione di culture
di quello che era stato un movimento interno della stessa cultura

72 Basterà citarne alcuni: Rosenkranz, op. cit., pp. 29-31: « Schelling si


è ampiamente ispirato a Kant; Noack, op. cit., I, 157-65, è molto preciso, ma
parla di inesattezze e di contraddizioni; Haym, op. cit., p. 570, osserva che il
filosofo, « una natura poetica e non giuridica, non ebbe fortuna su questo
terreno. La sua N.D. è di una secchezza formalistica che contrasta manifesta­
mente con lo slancio e la freschezza degli altri suoi lavori giovanili. Egli
non è stato mai meno nuovo e meno originale »; K. Fischer, cit., pp. 410-11,
ripete il giudizio di scarsa originalità, notando anche che lo scritto tradisce
più degli altri la tendenza a schematizzare che era propria di Schelling.
73 II Metzger, Die Epochen, p. 3, parla di un « lavoro puramente
scolastico »; lo Hollerbach, che pure ci ha dato, del nostro testo, lo studio
più ampio ed approfondito che si abbia, quando viene a dare un giudizio
di insieme conclude che « è ancora tutto XVIII secolo ».
74 Le citazioni si potrebbero moltiplicare; v. per es. (dalla Welseele
del 1798) II, 500, 503 etc.
73 II, 362 e 376.
78 Un esempio tipico di questi equivoci sono le pagine di O. Spann,
in Handbtich der Pbilosophie, Abt. IV, Staat and Gescbicbte, Monaco-
Berlino 1934, pp. 36-37.

115
!
tedesca. Nell’ultimo decennio del ’700 l’individualismo dei filosofi
tedeschi era stato infinitamente più radicale di quello dei rivolu­
Ij zionari francesi: è diffìcile applicare con maggior fondamento che
all’uomo di Fichte (del 1793)” o all’individuo di Schelling (del
1796) la qualificazione di « atomistico ».
C’è anzitutto il problema del contesto storico-culturale nel
quale collocare lo scritto. Non è stato possibile finora individuare
i manuali o gli studi di diritto naturale che Schelling potè aver
avuto tra le mani. Dalle ricerche che sono state fatte è risultato
però, abbastanza chiaramente, non solo che il tema di una nuova
fondazione del diritto naturale era estremamente sentito, ma anche
che la distinzione tra morale e diritto, o l’insistenza sulla « forma »
erano motivi svolti abbondantemente nella letteratura filosofico-
giuridica del tempo, anche in riviste, come quella di Niethammer,
che Schelling aveva certamente presenti78. Non credo, però, che
queste indicazioni, per utili che siano, possano dare più che una
cornice esterna: Schelling può avere scorso quegli scritti, ma non
li ha certamente meditati e neppure ne ha tratto elementi impor­
tanti. E, più in generale, bisogna aver chiaro che, malgrado il
titolo dello scritto 7’, non è affatto il « diritto » o il « diritto na­
turale » nel senso stretto del termine quello che più sta a cuore
al filosofo. Egli si preoccupa, piuttosto, di individuare una sfera
nella quale la volontà dell’individuo sia liberata dalla soggezione
ad un volere universale, per affermare il suo dominio sulla natura
e la sua indipendenza dagli altri uomini. Che questa sfera sia indi­
viduata come diritto, è perché l’accento batte sul « diritto del­
l’individuo » verso e contro altri enti, più che perché si ricerchi

77 Hegel, nella Differenz cit., è stato probabilmente il primo ad accusare


di «atomismo» il pensiero politico di Fichte; cfr. S. \V., I, 114.
75 Una ricerca accurata in Hollerbach, op. cit., pp. 117-21; cfr. anche
A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Padova 1962, pp. 289-302.
7’ Non si sa se questo sia di Schelling, o sia stato attribuito agli
« aforismi » da Niethammer — il quale, però, non avrebbe inventato niente,
come si può vedere dal passo della lettera di Schelling cit. alla n. 70. È
forse il caso di avvertire che Naturrecht, più che « diritto naturale » nel
senso stretto del termine, vuol dire « diritto in generale » da cui si deri­
vano i « diritti originari ». Di diritto naturale in senso più specifico Schelling
parla in due diversi significati: al § 140, come « diritto sul mondo feno­
menico, sulle cose, sugli oggetti in generale », e al § 161, ove corrisponde,
all’ingrosso, a quel diritto che, secondo Hobbcs, l’uomo ha nello « stato
naturale », quando, come dice Schelling, l’altro non va trattato come uomo,
ma come un « mero essere naturale ».

116
un sistema di diritti. Il diritto, nel senso che si è detto, non è,
poi, che l’espressione deWessere, che a sua volta è concetto corre­
lativo di libertà (« aspira perciò a diventare un essere in sé, un
essere assolutamente libero [...] »); la rivendicazione della libertà
assoluta non è suscettibile di trasformarsi in sistema giuridico:
il superamento del diritto, al quale si accenna alla fine dello scritto,
è la ovvia conseguenza di questa impostazione.
Più determinante fu senza dubbio l’influenza di Fichte; si
mostreranno più avanti i luoghi nei quali Schelling si è ispirato
ai suoi scritti (ma va ricordato che la Grundlage des Naturrechts
vide la luce quando già lo scritto schellinghiano era stato composto
e parzialmente pubblicato). Occorre, però, tener presente che,
dal punto di vista dell’impostazione generale, ci sono notevoli
differenze; sarebbe quasi certamente una forzatura voler vedere
nello scritto di Schelling intenzioni polemiche: ma si confrontino
le lezioni Sulla destinazione del dotto (1794) con le posizioni
schellinghiane. Fichte afferma espressamente la missione sociale
dell’uomo, e sacrifica alla funzione che l’uomo deve svolgere nella
società quell’esigenza di rifarsi alla natura che mirava a costruire
un soggetto umano armonico e libero; ancora: l’eteronomia dalla
quale l’uomo deve guardarsi non è, secondo Fichte, la volontà
o l’arbitrio di altri, ma, secondo la tradizione kantiana, la parte
passionale o naturale di lui stesso; Fichte, infine, prende le mosse
dalla « ragione » e presenta uno svolgimento teleologico (« io
sono un anello necessario dell’immensa catena che procede verso
l’eternità »). In Schelling non c’è traccia della società: si potrebbe
anzi dire che si polemizza indirettamente contro di essa là dove
si accenna al superamento della Sittlichkeit\ la parte fisica di noi
non è vista come ciò che va « modificato » o « educato » (funzioni
per le quali, diceva Fichte, viene richiesta una certa « abilità »)
ma come la « vita » che è lo « schema della libertà » 80. Non ci
si appella, infine, alla « ragione » ma alla « volontà »; e l’armonia
tra i diversi soggetti, o le diverse forme dell’esistere, viene proiet­
tata in un futuro remoto, e non ha una funzione sistematica ap­
prezzabile.
Come nelle Lettere filosofiche si era levato contro la Anschati-
ting, così qui il filosofo prende posizione contro l’assolutezza di
una eticità che leva spazio alla libera volontà del singolo. E
viene contestata la possibilità che qualcuno si arroghi il diritto
>0
Fichte, S. W., VI, 306, 311, 322, 324 sgg.

117
di porre limiti all’individuo in nome di un principio più
alto, sia quello dell’universale morale che quello della legalità
sociale e statale. Non si può perdere di vista che questa polemica
colpisce Kant, ma anche Rousseau; è rivolta contro il diritto tra­
dizionale, anche quello « critico », che riconosce la funzione coat­
tiva dello Stato”; ma anche, implicitamente, contro le forme
statali uscite dalla rivoluzione francese. Se pur si ritrovano, qua
e là, accenni rousseauiani o « giacobini », il senso generale del
discorso è quello del ripudio di ogni forma di organizzazione che
possa comprimere la « individualità del volere ». Fichte aveva
escluso la convenienza di usare mezzi di coercizione o di pressione
fisica ’2: ma Schelling va più in là, perché respinge anche il pie­
garsi alla « volontà generale », e fonda la convivenza umana su
una « infinita serie di contratti » e di « libere decisioni » ”. Si
può cogliere, qui, quella « reazione umanistica » della quale ha
parlato il Droz, e che si manifesta, in Schelling, senza la minima
concessione ad alcun tipo di « storicismo » ’4. Il tono generale
dello scritto, e quello che si sa sui giudizi politici del filosofo in
questi anni, permette peraltro di escludere che si tratti di un
ripudio della « rivoluzione »: se ne riaffermano, anzi, alcuni dei
princìpi, e tanto più energicamente in quanto il discorso non è
in esplicita chiave politica.

Alcuni studiosi hanno già osservato che il « sii » del § 3 della


Nuova deduzione riprende un analogo appello, che aveva concluso
la nona delle Lettere filosofiche. E il riferimento va tenuto presente
perché aiuta a delimitare l’ambito della « libertà assoluta » e della
« incondizionatezza » da cui il filosofo prende le mosse: da una
lettura dei primi paragrafi isolati dal contesto dello svolgimento
intellettuale del filosofo si potrebbe infatti concludere che il punto-
di partenza sia l’essere « assoluto », quello che non è limitato da

” V. per es. Reinhold, Briefe iiber die kanfische Philosophie, p. 464


(cito dall’ed. Reclam, s.d. — ma 1924 — Lipsia). Sul pensiero politico di
Reinhold v. ora Pupi, op. cit., pp. 392-454.
82 S. W., VI, 332.
•’ § 85, nota.
84 Non mi pare che, dai testi, si possa trarre alcun elemento in sostegno
della tesi di A. Negri, op. cit., p. 301, che vuol vedere in questo scritto « gli
effetti dell’influenza della nuova impostazione storicistica che andava affer­
mandosi ». Lo Hollerbach, op. cit., p. 117, ha affermato, giustamente, il
contrario.

118
niente. Ma le Lettere avevano avvertito che il porre una simile
condizione come realizzata avrebbe significato un cadere nella
Scbwàrmerei, e, tenendo presente questa indicazione, è più facile
cogliere i momenti nei quali si articola l’esposizione. Il punto di I

partenza è proprio quella affermazione della impossibilità di


giungere per via teoretica all’assoluto che era stata esposta nelle
Lettere-, è per via della attività pratica che si può arrivare alla
« realizzazione » dell’incondizionato. Come si è già visto, non si
può però pensare che questo obiettivo sia mai raggiungibile: e la
forma con cui esso si presenta è dunque quella della esigenza, o
del << comando », di « essere identico con se stesso », di diventare
un << essere in sé » M. Il comando non viene fatto risalire ad una
qualche fonte esterna al soggetto anche perché esso è l’espressione
stessa dell’essere.
E ci si imbatte qui in un problema che ha un certo interesse:
quello del significato della imperatività schellinghiana. Essa non
si propone tanto di costruire un sistema morale, quanto di esporre
le condizioni per le quali si possa parlare di un uomo libero, che
sia esistente come libero. Essere ed esser libero sostanzialmente
coincidono, perché è essere solo ciò che ha in sé il fondamento
del suo esistere. Si ha quindi l’impressione di trovarsi in un
circolo vizioso, nel senso che l’imperativo, o l’esigenza, può essere
riferita soltanto a ciò che già è. La difficoltà è avvertita dal filo­
sofo che, per schivarla, parla di un « essere assoluto » che si
<< rivela in ogni esistenza » La libertà consiste allora nella
consapevolezza di questo legame, il che, in termini pratici, vuol
dire anche trarne le conseguenze, cioè volere per sé, nella propria
sfera empirica, tutta la libertà dell’assoluto. Posto che quello
dell’assoluto è l’unico essere, volere l’assoluto significa anche
volere l’essere — o (in forma negativa) non voler restare nella
condizione di fenomeno o di oggetto. Ricompare qui quella tipica
concezione della libertà come tensione verso l’assoluto, tensione
che dà la linea di condotta da seguire nella vita « empirica »,

•• È la ripetizione di un motivo fichtiano; cfr. per es.: « Il più alto


impulso dell’uomo [...] è quello verso l’identità, la piena coerenza con se
stesso» (VI, 304). In Schelling però, più che in Fichte, l’impulso ad «es­
sere » è simile a ciò che altri scrittori di diritto naturale chiamavano Trieb
der Selbstbehauptung.
•• § 2. Il termine « rivelare » non è scelto a caso; poco più avanti
(5 8) si parlerà della «causalità della libertà che deve rivelarsi nella cau­
salità fisica », e si citerà Jacobi.

119
11

pur senza accomodarsi a compromessi con la empiricità volgare.


i È in grazia di questo rapporto tra essere e libertà che quest’ul-
tima giunge a determinarsi come « vita ». Il mondo della natura
è sì « proprietà morale » dell’uomo, che gli impone leggi; ma la
« causalità della libertà » deve farsi causalità fisica, la quale « nel
suo principio » deve « unire in sé autonomia ed eteronomia » RT.
« Questa causalità — continua il filosofo — si chiama vita. La
vita è l’autonomia del fenomeno, è lo schema della libertà, in
quanto si rivela nella natura. Io divento perciò necessariamente
essere vivente. » Si noti che il rapporto non è tra io e corporeità
(come per Fichte) ma tra io e vita: nel primo caso, pur essendo
ovviamente fuori discussione la presenza di un corpo, il vero rap­
porto è quello che si stabilisce tra gli spiriti; nel secondo si ha,
di getto, la presenza di un essere « vivente », sintesi di autonomia
e di necessità, di « in sé » e di fenomeno. Di qui vengono tratte
immediatamente alcune importanti conseguenze: la prima è che
il potere illimitato sulla natura, a cui si era già accennato nel § 7,
ha senso solo se si ha la « forza » (Macht) per soggiogarla: come
essere sensibile io posso esser costretto a « riconoscere il predo­
minio della natura sulla mia forza fisica » — nello stesso modo
(la differenza è segnata solo dall’uso di due verbi diversi: kònnen
e diirfen) con il quale io devo riconoscere una « resistenza » alla
mia forza morale in presenza di altri soggetti morali. In un caso
come nell’altro io « non posso andare avanti »: ovvero, la mia
libertà «cessa di essere illimitata» (§ 14). Sarebbe facile far
corrispondere, quasi a ciascuna di queste affermazioni, una frase
fichtiana, ma quello che è diverso è il senso: Fichte, si è già
detto, tende a vedere i rapporti umani sotto il segno di quella
armonia che si esprime nella « sociabilità », Schelling vede in­
vece soltanto un essere vivente, o, come dirà subito dopo, (§ 22)
un « individuo morale » costretto dalla stessa « esigenza della
ragione pratica » ad essere in contrasto col mondo esterno, ma
anche con gli altri uomini. È la volontà, ripeto, non la ragione-

,7 SS 7-9. Di solito si afferma che è per effetto della lettura della


Critica del giudizio che Schelling ha assunto un atteggiamento meno nega­
tivo nei confronti della natura. Vorrei però ricordare che, nella Destinazione
del dotto, Fichte aveva fatto un accenno alla possibilità di spiegare la coe­
renza del molteplice mediante leggi « organiche » e non « meccaniche », ed
aveva parlato di una possibile mediazione tra le leggi necessarie della na­
tura e la libertà (VI, 304-05).

120
volezza che è il fondamento della umanità **; e la situazione che
si verifica è espressa molto bene da quello che sembrerebbe a
prima vista un bisticcio verbale: la libertà è limitata proprio
perché ciascuno dei soggetti morali ha una eguale libertà illi­
mitata; « io comincio a contrapporre la mia libertà alla libertà
di tutti quanti gli altri ».
Vale la pena di fermarsi su questi paragrafi iniziali, che im­
postano la trattazione; il « contrasto » o la « contrapposizione »
della mia volontà alle altre non introduce alcun rapporto di
tipo dialettico: vuol piuttosto tutelare, o difendere, il diritto
dell’individuo. La tensione dialettica semmai è altrove, nell’am­
bito dell’individuo stesso, e si manifesta nel fatto che si è in­
dividui perché ci si muove nel quadro della empiricità, ma che
insieme si « è costretti » a rimanere in questo ambito finché
non abbia trovato soddisfazione l’esigenza della incondizionatezza:
non è soltanto, l’empiricità, una condizione di cui bisogna pren­
dere atto, e che si possa superare con il perfezionamento mo­
rale: anche quando, più avanti, si introduce la categoria dello
<< in generale » 89 e poi l’« eticità » e la « volontà generale »,
anche quando, insomma, si mostra la strada per la quale l’in­
dividuo può abbandonare la sua empiricità, resta sempre come
dato irriducibile la volontà singola, che è condizione (anche
per quanto riguarda la forma) della volontà generale. Le con­
seguenze sono che le varie forme di superamento della volontà
individuale non possono mai dare un risultato definitivo: la
eticità, infatti, sarà a sua volta superata dal diritto, né questo
potrà mai autorizzare chicchessia a costringere, fisicamente o mo­
ralmente, un soggetto morale. Sono questi i binari sui quali si
svolgerà ormai la trattazione.
Non è questa la sede per tentare un commento puntuale dello
scritto schellinghiano; basterà indicarne i motivi fondamentali.
Il primo è quello della « eticità ». Si è già detto della contrap­
posizione dei soggetti morali. La resistenza che l’io incontra, la
consapevolezza, generata da questa, che esistono altri individui
simili a lui, inducono il soggetto a rendersi conto che tutti, pur
nella diversità empirica, tendono verso la realizzazione dello
stesso fine: la libertà o la individualità « in generale ». Questo
spinge a superare il contrasto, in base al principio che « si deve

•• I, 250, n. 1.
89 È ciò che si potrebbe chiamare, forse, il carattere « formale ».

121
s
! limitare la tendenza di ogni singolo verso la individualità em­
'i pirica, in modo che la tendenza empirica di tutti gli altri possa
coesistere con la sua » (§ 29). Si tratta, insomma, come è detto
poco prima, di « non ridurre gli altri a illimitata passività »
(§ 26). Fichte, nelle Lezioni, parlava di «coordinazione», di
una Vereinigung che è il progressivo avvicinarsi all’unità e al­
l’accordo di tutti gli individui90 ; qui si parla invece di un coe­
sistere; e dal contesto appare che si tratta di una determina­
zione puramente negativa, tanto che sembra di trovare qui una
eco di quell’articolo delle costituzioni francesi nel quale la li­
bertà è definita il potere spettante all’uomo di fare tutto ciò
che non nuoce ai diritti degli altri ’1. La possibilità di questa
interpretazione è confermata dal fatto che questa « coesistenza
dei voleri empirici » si esprime nella « volontà generale », la
quale, nell’etica, è posta « come legge solo per garantire attra­
verso la volontà generale quella individuale ». Questa frase non
è che la parafrasi della definizione che dello stesso concetto aveva
dato Rousseau: « une forme d’association [...] par laquelle
phacun, s’unissant à tous, n’obeisse pourtant qu’à lui méme, et
reste aussi libre qu’auparavant » 92; mentre, subito dopo, com­
pare anche la « volontà empirica di tutti » con la quale (sempre
in sede di etica) la volontà empirica dell’individuo deve con­
cordare 93.
90 5. W., VI, 308 e 310.
91 La dizione è la stessa, salvo variazioni insignificanti, nelle costitu­
zioni del 1791, 1793 e 1795.
92 Oeuvres complète!, cit., V, 36. Il collegamento tra volontà gene­
rale e leggi si trova già nelle costituzioni francesi; v. per es. l’atto costi­
tuzionale del 24 giugno 1793, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cit-
tadino, art. 4: « La legge è l’espressione della volontà generale ».
93 Sul tema dei rapporti Schelling-Rousseau, per questo ordine di que­
stioni, non c’è neanche l’abbozzo di una ricerca; non tocca affatto questo
tema il Fester, op. cit.-, accenna appena alla derivazione del concetto di « vo­
lontà generale » G. Jager, Schellings politische Anschauungen, Berlino 1939,
p. 41, n. 8; l’accenno della Jager è rettificato, ma non discusso da Holler-»
bach, op. cit., p. 118. Che la « volontà generale» di Schelling sia più simile
alla « volontà di tutti » che non a quella « generale » è stato affermato dal
Metzger, Gesellschaft, Recht und Staat in dcr Ethik des dentschen Idea-
lismus, Heidelberg 1917, p. 241, n. 2, e dallo Hollerbach, p. 118. Mi
pare però che, interpretando in questo modo, si perda di vista la peculia­
rità della posizione schellinghiana, che è volta a contestare non solo agli
altri in genere il diritto di intervenire sulla mia volontà, ma anche resi­
stenza di un principio generale « materiale », accettato da tutti, e da cui
tutti prendano le mosse per determinare la loro attività.

122
Se Schelling ha assunto, come mi sembra quasi certo, questi
termini di riferimento, è perché essi gli consentono di delineare
un tipo, o un momento, del comportamento morale umano.
L’eticità, appunto, è «quella parte della morale che esige la ge­
neralità del volere secondo la materia » (§ 52), che ricerca, cioè,
quello che tutti gli uomini debbono volere, e che provvede,
mediante il comando, o l’appello al dovere, a « sopprimere »
le volontà individuali. Dall’etica, dialetticamente, scaturisce
« un’altra scienza », cioè il diritto. Ma prima di passare a questo,
bisogna spiegare perché Schelling non accetti l’eticità: essa con­
sente all’individuo di conservare la sua volontà (§ 41), ma, in
quanto eticità, è interessata a ciò che l’individuo vuole, non a lui
che vuole. In altri scritti dell’epoca Schelling si leva, ripren­
dendo un motivo corrente nella cultura dell’ambiente, contro
lo Stato che tratta l’uomo come la ruota di una macchina; anche
se egli, là, ha di mira principalmente lo Stato dispotico, da
questi §§ appare che la sua polemica antistatale può rivolgersi
anche contro quello Stato che si appella alla libertà. Vuol pur
dire qualche cosa che egli non parli di contratto sociale; e che
non ci sia una aperta polemica contro questa formula, è do­
vuto, con molta probabilità, al fatto che egli non voleva esser
confuso con gli scrittori della controrivoluzione, con i quali
non aveva, di fatto, nulla in comune. Ma egli non può consi­
derare definitiva una soluzione di tipo contrattualistico, perché
essa, degli individui, prende in considerazione solo ciò che è
comune, non ciò che è peculiare, individuale. Si potrebbe esser
tentati, ricordando l’interesse, sempre vivo in Schelling, per il
« mito » e la sua importanza nell’organizzazione della comunità
umana, di vedere alla base di questo atteggiamento una polemica,
anche se non esplicita, contro « l’atomismo » contrattualistico,
ed il richiamo al legame vivente dell’individuo con la natura
e con la storia. Ma il testo non consente questa interpreta­
zione. È vero piuttosto che il filosofo è interessato ad applicare
l’esigenza della libertà « illimitata », a spazzar via tutte le re­
more all’espansione dell’individuo. È soltanto dopo l’elimina­
zione di tutto ciò che limita la libertà che si dovrà procedere
all’opera di ricostruzione; e qui il mito, nel suo momento este­ ;
tico, tornerà ad avere un ruolo importante, arricchendo la li­
bertà di quegli elementi « sensibili » che le costruzioni kantiana
e fichtiana avevano lasciato in disparte. Per giungere a questo
esito non si può però muovere da una « generalità » perché

123
in questo caso sarebbe già dato lo schema nel quale gli indi­
vidui si muovono e si affermano — dalla disciplina della vo­
lontà non può nascere, insomma, la libertà.
È per questo che la eticità, che si è espressa nella volontà
generale, trapassa nel diritto. Per operare il passaggio e per
illustrare la nuova situazione, il filosofo si è servito particolar­
mente della distinzione tra materia e forma, che egli ha senza
dubbio derivato dall’etica kantiana. Occorre però non soffer­
marsi troppo su questo aspetto, che può indurre a credere che
U| ci si trovi di fronte ad una esercitazione scolastica; le formule
kantiane, infatti, vengono adoperate in un modo molto diverso
dal modello. Anzitutto, l’andamento del discorso tende ad iden­
tificare materia e forma (il difetto della eticità, si ricorderà,
era proprio quello di insistere sulla materia); la « forma della
libertà », poi, si definisce nella opposizione non all’empiricità
che ogni soggetto reca in sé (i « motivi determinanti empirici »
di cui parlava Kant), ma alla limitazione che al soggetto può
essere imposta da un universale di qualsiasi tipo; anche quando
si tratti di un universale che sia stato accettato e fatto proprio
dal soggetto, e anche quando si tratti di un impegno che vin­
cola il comportamento di esso oltre il momento nel quale è
stato contratto 04. È escluso, insomma, che la libertà possa farsi
gendarme di se stessa. Non si deve pensare che si apra così la
strada ad una sorta di immoralismo: la questione, in questi ter­
mini, non è nemmeno proposta, perché l’ambito nel quale ci si
■ I
muove è quello del diritto, e non della morale ’5.
Rispetto alla categoricità del comando etico sembra che al
diritto sia riservata una sfera subordinata, quella « problema­
tica », del diirfen 9C, e si ha l’impressione di trovarsi di fronte

94
Cfr. la nota al § 85. È la radicalizzazione di una tesi che era già
stata esposta da Fichte, VI, 160.
95 Va però rilevato che un « «sistema » morale schellinghiano non esi­
ste; è tipico, per es., che nel Sistema dell’id. trasc., ove volle esporre un
sistema compiuto in tutte le sue parti, il filosofo lavorò sincretisticamente
con materiale eterogeneo. £ significativo che nel bel libro di un veterano
della Schellingforschung (H. Zeltner, Schelling, Stoccarda 1954) che de­
linca il pensiero del filosofo seguendo via via lo svolgimento di certi temi
fondamentali, ci siano capitoli su diritto e Stato, Dio, la storia e la libertà,
ma nessuno sulla morale.
9e Nella eccellente traduzione del Semerari, che qui si utilizza, al § 65
e in qualche altro luogo diirfen è reso con « esser permesso ». La tradu­
zione, linguisticamente, è del tutto corretta. Ma avrei preferito il più gene-

124
ad una ripetizione di motivi fichtiani: ma Schelling non pensa
adatto che il diritto possa essere subordinato alla « legge etica »,
e che esso consista nella semplice possibilità di fare o di non
fare ciò di cui la legge etica tace. Per Fichte il principio del
dovere si esprimeva con la formula « Nessuno può, nessuno ha
il diritto di impedirmi di compierlo » 97 : per Schelling, come si
vedrà subito, questa è invece proprio la definizione del « di­
ritto ». Esso, insomma, non è facoltà di fare nell’ambito del­
l’etica, ma un fare contro l’etica, cioè contro una norma gene­
rale (§ 79).
Nel diritto così inteso materia e forma si identificano: « Af­
fermando la materia del mio volere, ne affermo anche la forma,
e viceversa; e quando viene soppressa la materia del mio vo­
lere come tale, ne viene soppressa anche la forma » (§ 84). È,
questa, una precisazione importante, perché implica l’esclusione
che, da parte di un legislatore, o, in genere, della volontà ge­
nerale, sia lecito intervenire contro la materia, salvando però
la forma: che sia possibile, insomma, proibire o colpire la ma­
teria dell’azione senza ledere, anzi salvando, la volontà che la
ha compiuta. Per Schelling sarebbe assurdo il famoso detto di
Rousseau, sul « diritto del corpo sociale » a « costringere ad
esser liberi » 98. Anche Fichte aveva detto che non si può co-
;
rico « potere », o, meglio ancora, « aver facoltà »; perché il « permesso »
rischia di richiamare la formula dello Erlaubtseyn che era abbastanza dif­
fusa tra i filosofi del diritto del tempo per indicare la sfera del diritto, o
anche la concezione fichtiana, nella quale il diirfen è davvero « Tesser per­
messo » (« Alles, was das Gesetz nicht verbietet, diirfen wir tun. Was wir
tun diirfen, dazu haben wir, weil dicses Diirfen gesetzlich ist, ein Recht »
(VI, 60). In parole povere: secondo Fichte c’è una sfera del dovere (Pflicht)
nella quale io non posso che agire secondo la legge, ed una sfera del
« potere » nella quale, nell’ambito di ciò che non è proibito, io posso fare
o non fare, e ho il diritto di fare o di non fare. Qui « diritto » è ad un
livello inferiore rispetto a « dovere », come la legalità sta più in basso della
moralità. Per Schelling, invece, legalità non corrisponde a diritto; e que­
st’ultimo ha una radice più profonda della moralità perché si identifica
con la « forma » della illimitata attività del soggetto. Ha avuto ragione il
Berolzheimer (System der Rechts- und Wirtschaftsphilosophie, II voi.,
Monaco 1905, p. 225) di parlare del diritto come Grenzmacht, beschrànkende
Norm; non ha precisato, però, nei confronti di che cosa il limite si fa
valere. Buone osservazioni, invece, in Hollerbach, od. cit., pp. 104-05.
97 « nichts darf, niemand hat ein Recht, mich daran zu hindern »
(VI, 61).
98 « [...] quiconque refuserà d’obeir à la volonté générale, y sera
contraint par tout le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le
forcera à otre libre » (Oeuvres complètes, cit., V, 40).
125
I
•I

stringere alcun essere ragionevole ad essere virtuoso contro la


sua volontà: ma questo vale nella « moralità », non nella « le­
; galità »; è vero che la buona fede e la fedeltà ai patti non pos­
-i sono essere imposte, ma, per Fichte, ci devono essere istitu­
zioni che garantiscano la « sicurezza », e che blocchino tutti i
tentativi della volontà di farsi valere ai danni di altri, o senza
tener conto degli altri **. In Schelling questa soluzione non si
propone: egli si domanda, infatti, come il soggetto possa esser
: tutelato dalle aggressioni degli altri, non come si possa impe­
dire a lui di nuocere loro. Si potrebbe pensare che, pur nella
diversità dei punti di partenza, si tratti in fondo dello stesso

I
problema, di limitare o di respingere una volontà che voglia af­
fermarsi come esclusiva, e che sia irrilevante che essa sia mia
o di un altro. Ma non è così, perché, di fatto, Fichte arriva ad
ammettere una sorta di coazione in tutela della sicurezza, cioè
della vita sociale, Schelling solo la reazione individuale ad una
coazione esterna.
Il suo ripudio della « generalità », oltre che dall’impianto
dello scritto, è motivata anche dalla impossibilità teorica di un
autentico contrasto: una volontà generale che volesse soppri­
mere « secondo la forma e la materia » quella individuale, non
sarebbe più tale; non ha essa, a suo fondamento, l’individuale?
(§ 106). Ma non si creda che il filosofo si fermi qui: anzi, è
di qui che egli muove per ribadire che l’unica minaccia può
partire solo da un’altra volontà individuale: « Può una volontà
individuale — egli si domanda — essere esecutrice del diritto
che sulla materia del mio volere spetta alla volontà generale?
Questo problema però ci spinge da sé al problema più gene­
rale: è possibile, in generale, che a una volontà individuale spetti
un diritto contro una volontà individuale? » (§§ 108-109). E
non serve domandarsi quale delle due volontà sia legale: « Una
volontà individuale legale non può mai sopprimere quella ma­
terialmente illegale, perché essa non la può sopprimere senza
diventare essa stessa illegale secondo la forma, e appunto perciò
anche secondo la materia. Una volontà individuale non può mai
dar esecuzione al diritto della volontà generale sulla materia
della volontà individuale» (§ 121). La «illegalità», insomma,

•• 5. W., VI, 309 e III, 140 sgg. Più tardi, in un luogo dei Discorsi
alla nazione tedesca (VII, 436) c’è quasi una parafrasi del passo di Rousseau
che si è ora citato.

126
non va ricercata se non nel fatto che si vuole intervenire su una
volontà diversa dalla propria.
Da quanto si è venuto dicendo fin qui, Schelling deriva i
diritti di libertà e di eguaglianza; a questi fa seguire una serie
di considerazioni sul rapporto uomo-natura che da una parte
possono contribuire a fondare qualche cosa di simile al diritto
di proprietà, ma dall’altra aprono anche la strada alla procla­
mazione del diritto di resistenza, con cui si conclude lo scritto.
Ho parlato di diritto di proprietà, anche se Schelling non
fa uso di questa espressione 100. La natura, egli afferma, è la
sfera nella quale « non ha più luogo alcuna volontà », dove « non
può più opporsi alla mia volontà alcun altro volere ». Il tono
stesso del discorso implica che si può giungere qui solo dopo
aver affermato i diritti precedenti, quello di libertà, che legit­
tima il fare autonomo (Selbsttàtigkeit) e quello di eguaglianza,
che esclude che un altro abbia più diritti di me. Ma questi
diritti diventano effettivi solo se li esercito — e su cosa li posso
esercitare se non, appunto, su ciò che non ha volontà, e che è,
anzi, solo uno strumento con cui affermo la mia libertà? Il
mondo della natura (che qui è il mondo dei « fenomeni », delle
« cose », degli « oggetti ») è l’ultimo passo per realizzare l’in­
dividualità del volere, nel senso che questo diventa individuale
davvero solo se esce dal contrasto materia-forma, e si oggettiva
in qualche cosa che è suo, e che nessuno gli può togliere. La
_<< proprietà » si esercita, in fondo, solo su quell’insieme di fe­
nomeni che recano l’impronta del soggetto, sulla corporeità 101.
La « passività » della natura fa sì che essa abbia tratti deter­
minati solo per quel tanto che è stata elaborata dal soggetto;
essa, così, non solo è « mia », ma è sottratta « ad ogni volontà
estranea ». Qui è chiarissima la dipendenza di Schelling da una
pagina dei Contributi di Fichte, dedicata appunto al diritto di
proprietà: è qui che si trova affermato che la prima proprietà
dell’uomo è il suo corpo, e che si esclude il diritto di un altro
uomo a servirsi delle cose su cui abbiamo applicato le nostre
forze, a cui abbiamo dato la nostra « forma » 103.

100 Salvo che in apertura dello scritto, al § 7, ove egli aveva scritto:
« Il mondo intero c la mia proprietà morale ».
101 Sull’argomento è da cfr. il frammento francofortcse di Hegel (Nohl,
378-82) tradotto in gran parte da E. De Negri nella sua silloge I princìpi
di Hegel, Firenze 1949, pp. 18-24.
102 5. W., VI, 118-19.

127
Il richiamo alla sfera di azione sensibile del soggetto con­
sente a Schelling di giungere a quelle conclusioni giuridico-poli-
tiche a cui mirava tutto lo scritto. Quella coesistenza esterna
dei soggetti che era sembrata possibile quando si parlava di
libertà e di eguaglianza si rivela insufficiente quando ci si trova
di fronte all’essere « vivente ». Nei confronti di questo sono
possibili due tipi di condizionamento, quello morale e quello
fisico; è facile, per un discepolo di Kant e di Fichte, affermare
che la coazione morale è una contraddizione in termini. Tanto
più importante è quindi l’argomentazione successiva: « In ognuno i
che ti costringa fisicamente, tu devi presupporre una tendenza
a costringerti moralmente» (§ 148). Nel famoso articolo Was
ist Aufklàrung?, Kant, facendo l’elogio dello Stato fridericiano,
aveva distinto tra la libertà della ragione e l’obbligo di obbe­
dire alla legge (« Discutete quanto volete e sull’argomento che
volete, ma obbedite! »). Un simile compromesso per Schelling
è inaccettabile: la libertà nell’ambito del raisonniren è un non
senso quando c’è coazione fisica, quando cioè qualcuno possa
impedire di « affermare l’individualità del volere ».
Contro la coazione, non c’è che la coazione. Si ricorderà che
Schelling aveva escluso la possibilità per chicchessia di inter­
venire legittimamente sulla volontà altrui; ed anche qui (§ 153)
viene ribadito il « diritto » di agire immoralmente, purché non
si leda la volontà di un altro *03. Quando però qualcuno vuole
intervenire sulla mia volontà, egli non minaccia solo la materia
del mio volere, ma anche la forma di esso; nega la mia uma­
nità, ma per ciò stesso anche la sua, perché la « forma » del
volere è ciò che è tipico di tutti gli uomini. Costui, per me,
non è un soggetto, ma un oggetto (§ 158), un mero fenomeno,
un essere di natura. « Dunque ogni diritto diventa necessaria-
mente per me diritto naturale, cioè un diritto che io affermo
secondo le sole leggi della natura, e nella lotta contro di esso
ogni essere è per me un mero essere naturale ». « Il diritto na­
turale, nei suoi riflessi (in quando diventa il diritto di coa­
zione) necessariamente si distrugge, cioè sopprime ogni diritto.

103 « Mentre agisco solo immoralmente, io agisco soltanto contro la


volontà generale, non contro la individuale. Io agisco ancora sempre così
come ogni individuo, come tale, potrebbe agire» (§ 153). È evidente che
qui non si legittima, in sé, l’azione immorale; si osserva solo che, con essa,
non viene lesa la forma dell’individualità, cioè l’umanità, la quale ultima,
invece, viene lesa dalla coazione.

128
Infatti l’estremo mezzo a cui si affida la conservazione del diritto
_è la superiore forza fisica » (§§ 161-162).
È estremamente probabile che in questa conclusione ci sia
una eco di quella grande discussione che tra la fine del 1792
e i primi del 1793 aveva diviso la Convenzione, e che aveva
avuto ampie risonanze nella opinione europea: mi riferisco al
dibattito sul trattamento da riservare a Luigi XVI. Se si leg­
gono certe affermazioni di Saint-Just e di Robespierre, riprese
I poi da Fichte l04, è difficile sottrarsi all’impressione che Schelling
i le abbia avute presenti, direttamente o indirettamente. Il succo
del discorso è che chiunque voglia imporsi agli altri con la forza,
dà a questi il diritto di sopprimerlo con la forza. E se si pensa
al periodo nel quale il filosofo scriveva queste affermazioni, sarà
lecito affermare che in esse non c’è soltanto una intenzione an­
timonarchica; non sono noti suoi giudizi sui giacobini, ma se
si ricorda che cosa ne pensavano i suoi amici 105 è lecito avanzare
l’ipotesi che, non meno di essi, egli valutasse negativamente il
governo del partito robespierrista, e che, contro la pretesa, da
parte di chiunque, di imporre agli altri la volontà generale, egli
legittimasse l’uso della forza, in tutela della « conservazione del
diritto » dell’individuo 106. Ma la analogia con i testi del 1792-
1793 è troppo precisa perché non si possa pensare che, anche
se è fondata quest’ultima ipotesi, il filosofo non facesse che esten­
dere alle vicende di Termidoro un criterio di valutazione che
aveva avuto la sua origine qualche tempo prima.

104 « et moi, je dis que le roi doit ótre jugé en ennemi, que nous
avons moins à le. jugcr qu’à le combattre, et que, n’étant plus rien dans le
contrai qui unit les Francis, Ics formes de la procedure ne soni point dans
la loi civile, mais dans la loi du droit dcs gens » (Sz\int-Just, Oeuvres
conipiètes, Parigi 1908, I, 365). Cfr. anche M. Robespierre, La rivoluzione
giacobina, Milano 1953, p. 88 e Fichte, S. W., VI, 115 n. e 274.
105 Hegel scriveva a Schelling il 24-XI1-1794: « Questo processo [a
Carrier] c molto importante, ed ha svelato tutta la vergogna dei robespier-
roti » (Briefe, I, 12); e Hólderlin, al fratello, il 21-VIII-1794: « Che Ro­
bespierre abbia perduto la testa, mi sembra giusto, e foriero, forse, di con­
seguenze positive. Che si abbia l’avvento dei due angeli, l’umanità e la
pace: e la causa dell’umanità si affermerà senza dubbio. Amen. » (5. W.,
VI, 144).
,oc Che l’individualismo estremo (nel caso, quello di Fichte) mettesse
in pericolo tutti i governi, quelli monarchici, ma anche quello della Con­
venzione, era stato notato dalla rivista reazionaria « Eudàmonia »; la cita­
zione in M. Buhr, Revolution und Philosopbie, Berlino 1965, p. 62 e la
nota relativa a p. 145.

129
9. Cesa
I

È noto che tra gli intellettuali tedeschi era molto diffusa


l’idea che le convulsioni della Rivoluzione fossero imputabili
al fatto che in Francia non si era sufficientemente diffuso quel
moralismo che aveva trovato la sua espressione nella seconda
Critica di Kant; anche Schelling, nell’ultimo § della Nuova de­
duzione, auspicando un’altra scienza, che superi il diritto, e che
risolva « il problema di rendere la forza fisica dell’individuo
identica a quella morale del diritto, ossia il problema di una condi­
zione (Zustand) nella quale dalla parte del diritto si trovi sempre
anche la potenza fisica », dice qualche cosa di molto simile. Da
tutto il contesto è chiaro, però, che egli non pensa affatto al
criticismo come allo strumento idoneo a risolvere i problemi da
lui sollevati.

3. L’educazione popolare.

Non ci sono dubbi sul fatto che Schelling attribuisse alla sua
riduzione della filosofia a morale, e alla sua ricerca sul diritto,
una portata « politica » infinitamente superiore a quella che esse
potevano avere. Né, in questo, egli si comportava diversamente
da Fichte. Ma in lui è caratteristico l’escludere recisamente il
« popolo » non solo dalla elaborazione, ma anche dall’apprendi­
mento diretto dei princìpi che egli veniva esponendo 107. Non che
egli pensasse, ancora, di legittimare una qualche ineguaglianza:
nella società che egli vagheggia il popolo non dovrà più « tremare
ciecamente davanti ai sapienti ed ai preti »; ci sarà « un eguale
sviluppo di tutte le forze, del singolo come di tutti gli individui.
Nessuna forza sarà più oppressa ». Ma nel periodo che prepara
l’avvento di questa era, la critica filosofica (e l’elaborazione dei
princìpi) e la diffusione dei risultati tra il « popolo », restano
due cose che vanno nettamente distinte. Al radicalismo delle
critiche e dei princìpi fa riscontro il senso geloso della distin­
zione tra chi ha la forza e la capacità di « pensare », e chi non
l’ha. Sarebbe fuorviarne parlare qui di spirito di casta: non si
I può affermare, cioè, che la estrazione e la tradizione familiare
1
i 107 Cfr., soprattutto, il Poscritto alla Nuova deduzione, ove si afferma
che « una volta che si sia certi dei princìpi, e su di essi si sia deciso tra
i filosofi », i medesimi princìpi andranno portati « in una forma del tutto
iI diversa », anche innanzi al popolo (I, 280).
1:
130

’l
L
inducessero il filosofo a considerare la borghesia come l’unica
protagonista della storia, o almeno come l’unico interlocutore
degno; basta leggere le invettive contro gli intellettuali suoi con­
temporanei, a cui viene negato proprio ciò che è necessario per
cogliere il significato della nuova filosofia, e le contumelie piene
di disprezzo per i professori e i teologi del suo paese natale per
rendersi conto che non era certo dagli esponenti ufficiali della
cultura che egli si aspettava di essere inteso ed aiutato.
Si potrebbe essere tentati di stabilire una analogia tra il suo
atteggiamento e quello di alcuni intellettuali, riformatori mode­
rati, che pensavano ad una riorganizzazione degli Stati tedeschi
mediante un reclutamento della classe dirigente sulla base del
« merito »; era una rivendicazione, questa, largamente diffusa in
tutta la borghesia illuminata, e si è già visto come anche Schelling
fosse ben consapevole che la capacità e la preparazione tecnica
erano virtù borghesi, e non nobiliari o patrizie. Ma una simile
interpretazione sarebbe in realtà un impoverimento troppo grave
del significato delle riflessioni del giovane filosofo: egli non aveva
certo la sapienza giuridica e amministrativa di uno Spittler o di
uno Hàberlin, ma neanche era ortodosso in religione né attaccato
alla tradizione « tedesca » in politica: ciò che qualifica un uomo
al governo non è certo, per lui, un titolo accademico, o la pratica
degli affari, ma l’essere un « filosofo ». Anche qui, però, bisogna
guardarsi dal riportare tutto ad una reminiscenza platonica: perché
ciò che interessa a Schelling non è tanto chi debba governare,
quanto il modo con cui si edifichi un nuovo edificio sociale, nel
quale tutti gli uomini trovino la possibilità, ma anche lo stimolo,
a sviluppare tutte le loro forze. A lui sta a cuore, appunto, il
periodo di transizione tra l’antico, che si regge ormai per forza
di inerzia, senza nessuna base interiore, e il nuovo, l’epoca futura.
Si è già visto, a proposito degli scritti del 1792-93, quanta
importanza venisse attribuita al mito per la cultura di un popolo;
nelle Lettere filosofiche si era poi veduto un mito, quello del
peccato originale, come espressione di un atteggiamento fonda­
mentale della mente umana, quello stesso atteggiamento che dà
forza permanente al dogmatismo. E lo stesso motivo, come ve­
dremo, ritornerà anche in scritti successivi. Conformemente a
tutto l’atteggiamento spirituale che abbiamo fin qui delineato,
Schelling non pensa tanto ad esaltarsi all’idea dell’unità e del­
l’armonia di certi momenti della storia del passato, quanto ad
avanzare l’esigenza che, nella edificazione di una nuova etica e

131
di una nuova cultura, si riproponga lo stesso rapporto, tra sa­
pienti e popolo, che si era avuto nel passato: con la ovvia diffe­
renza che se prima si avevano « oscure intuizioni » del vero, ora
si è prossimi al suo pieno disvelamento — che quindi anche la
mitologia e la « religione » diventeranno, in certo modo, defini­
tive; non saranno, cioè, soltanto il documento di una elaborazione
concettuale troppo povera per esprimersi in linguaggio teoretico.
Questa posizione non si articola, però, in forma univoca: essa
è fortemente segnata dalle modificazioni del processo teorico ge­
nerale del filosofo. Quando, nella prima metà del 1796, egli scri­
veva il cosiddetto Programma di sistema, il suo atteggiamento
è quello che si è descritto trattando delle Lettere filosofiche-, la
finitezza umana, non inserita in uno schema teleologico, ha un
significato di definitività: il senso della vita dell’uomo è proprio
quello di non potersi mai adagiare in nulla di statico e di asso­
luto: il suo essere è un divenire permanente, scandito dalle sue
scelte. La religione « sensibile », che deve essere comune al dotto
e all’indotto, è la manifestazione di questo stato. Più tardi, invece,
ricompare la distinzione tra religione e scienza: la religione è
ormai solo un mezzo di pedagogia popolare. Nel 1800, infine, si
ha il tentativo, estremamente tormentato e contorto, di inserire
l’uomo « eterno frammento » in uno schema provvidenziale. È
ancora alla mitologia che si fa appello per spiegare il « ritorno
dalla scienza alla poesia » 108. Ma la realizzazione di questa « nuova
mitologia » non è più veduta come un compito attuale, al quale
si debba dare immediata soluzione: essa è « un problema la cui
soluzione si deve attendere solo dai futuri destini del mondo e
dal corso ulteriore della storia ». È qui rotto ogni legame, in­
somma, tra la ricerca filosofica e l’immediata traduzione di essa
in una attività politico-culturale che restituisca all’umanità uno
schema armonico di vita.
In una lettera a Kerner del 13 febbraio 1796 Schelling pro­
metteva di inviare all’agente repubblicano il progetto particola­
reggiato di un istituto di educazione 109. Non penso che si tratti
del piano per una riforma scolastica nel senso comune del ter­
mine, anche se risulta, da accenni nelle lettere, che il filosofo
i non era privo di interesse per questioni pedagogiche in senso
stretto 1I0; è quasi certo, infatti, come risulta dall’uso del termine
10»
ITI, 629.
10»
Fuhrmans, I, 64.
110
Plitt, I, 128.

132
negli scritti contemporanei, che « educazione » (Erziehung) è da
lui intesa nel senso lessinghiano, ma fortemente, se è lecita
l’espressione, « laicizzato »,. In luogo, cioè, di uno svolgimento
predisposto da Dio, e guidato da questi con opportuni inter-
venti1X1 qui si pensa ad una educazione operata dalla ragione,
cioè « da quegli spiriti che recano in sé il mondo intellettuale »:
i filosofi, uniti in quella « lega degli spiriti liberi » evocata alla
fine delle Lettere filosofiche “s. A scanso di equivoci, dico subito
di non ritenere affatto che il cosiddetto Systemprogramm 1,3 sia
il Pian der Erziehungsanslalt di cui Schelling scriveva a Kerner:
ritengo però che esso vada interpretato come uno schema, o un
progetto, di pedagogia politico-culturale 11‘, piuttosto che come
un « programma di sistema ». E il fatto che Schelling, negli anni
successivi, abbia dato svolgimento a gran parte dei temi in esso
accennati, non è un argomento contro questa interpretazione: ci
sono infatti — e anche quando egli si volse ormai alla filosofia
religiosa — troppi elementi che dimostrano come fosse mutata
la prospettiva teorica, ed anche l’animo e le speranze, ma fosse
rimasta l’ambizione (non importa qui vedere quanto giustificata)
ad essere guida e maestro della cultura del tempo.
Se si guarda, infatti, al modo con cui è articolato il fram­
mento, si potrà constatare che esso consta di due parti: una è
relativa alla lotta che gli spiriti liberi devono condurre contro
le strutture, gli uomini e la cultura del passato: è quella che
potremmo definire la parte « critica », che, come si è già detto,
è di spettanza dei filosofi. La seconda parte riguarda, invece, il
progetto di ricostruzione dell’unità sociale, e dell’armonia finale;

1.1 Cfr., per es., il § 7 della Erziehnng, dove Lessing parla della
« spinta » con la quale Iddio rimette sulla giusta via gli uomini, altrimenti
incapaci di liberarsi dai loro errori.
1.2 I, 341.
1.3 II titolo gli fu dato da F. Rosenzweig, che lo scoprì tra le carte di
Hegel e lo pubblicò nel 1917. Lo scritto è stato poi più volte ristampato,
ed ha avuto la sorte curiosa di essere accolto anche tra gli scritti di Hegel
(nei Dokumcnte dello Hoffmeistcr) c nelle opere di Hbldcrlin. Qui si cita
secondo il testo del Fuhrmans (pp. 69-71) che tiene conto di tre varianti
suggerite da L. Strauss, che ricontrollò sul manoscritto. Una traduzione
italiana, con bibliografia, in A. Massolo, La storia della filosofia come
problema, Firenze 1967, pp. 249-54.
11 * Un accenno, ma solo un accenno, alla politisch-padagogische Ten-
denz del Programma nella dissertazione, rimasta purtroppo dattiloscritta,
di J. Kampffmeyer, Schelling ttnd Deutschland (Heidelberg 1939), p. 114.

133
perché Schelling non ritiene che il discorso filosofico, col suo lin­
guaggio tecnico, sia il risultato definitivo: esso (e anche l’esigenza
di « scientificità ») hanno un significato « critico », servono, cioè,
a dimostrare l’insostenibilità di posizioni che avevano dalla loro
il prestigio della tradizione intellettuale: questo è il significato
della filosofia per Schelling, almeno negli anni che stiamo stu­
diando. Ma la critica serve a distruggere, non a edificare: per
edificare è necessaria una idea, o una ragione, che abbiano acqui­
sito forma sensibile. I filosofi, gli spiriti « che recano in sé il
mondo intellettuale » hanno una funzione simile a quella dei « sa­
I pienti » e dei « legislatori » degli scritti del 1792-93. Essi sono
gli intellettuali a cui è demandato il compito di liberare dal pas­
sato e di preparare Favvenire: le forme e i tempi di questo pro­
cesso variano notevolmente, nella prospettiva del filosofo: ma
l’idea fondamentale rimane invariata.
Il problema con cui si apre il Programma — e che dà il tono
a tutta la trattazione successiva — è quello del mondo nel quale
l’io, o « l’essere morale », è chiamato ad operare: qui « mondo »
è immediatamente collegato ai « campi della fisica » — e non
ci sono dubbi che si tratti del mondo esterno. Però (ed è qui
la grande differenza rispetto ai tentativi di deduzione della na­
tura fatti da Fichte) non appena si è ricordato questo mondo
I esso assume una sua dimensione, non è visto soltanto come il
i correlato fisico dell’attività dello spirito. Di qui l’esigenza di una
nuova « fisica », di una « fisica in grande », la cui elaborazione
è però rimandata ad epoche future.

I Dalla natura io passo all’opera dell’uomo. Davanti a tutto l’idea


dell’umanità — voglio far vedere che non si dà una idea dello Stato,
perché lo Stato è qualche cosa di meccanico, e non ci può essere idea
di una macchina. Idea si può dire solo ciò che è oggetto della li­
bertà. Noi dobbiamo quindi andar oltre lo Stato! — Ogni Stato,
infatti, deve trattare uomini liberi come ruota di un meccanismo;

non ha il diritto di farlo, e deve quindi cessare di esistere. Potete
vedere, senza bisogno di altri chiarimenti, che in questo quadro tutte
le idee del tipo di quella della pace perpetua e simili non possono
essere che subordinate ad una idea più alta. Nel contempo io voglio
qui esporre i princìpi per una storia dell’umanità, e mettere a nudo
tutte quelle miserabili costruzioni umane che sono lo Stato, la co­
stituzione, il governo, la legislazione. E verrà infine la volta delle
idee di un mondo morale, della divinità e dell’immortalità. — Sarà
con la ragione stessa che si sovvertirà ogni superstizione, e si perse-

134
giureranno i preti, che di recente si son messi ipocritamente a fare
i razionalisti. Assoluta libertà di tutti gli spiriti che recano in sé
il mondo intellettuale, e che non hanno bisogno di cercare fuori di
sé né Dio né l’immortalità.

È abbastanza ovvio il richiamo a Schiller per la critica eser-


citata contro lo Stato meccanico 115'. Verrebbe fatto di pensare
anche al saggio « per determinare i limiti della attività dello
Stato » che G. di Humboldt scrisse nel 1792, e di cui un capitolo
fu pubblicato sulla « Neue Thalia » dello stesso anno 116. E ci
sono effettivamente delle vicinanze, ma troppo generiche perché
sia lecito sostenere che Schelling avesse presente le pagine di
Humboldt quando redigeva il Programma, tanto più che assai
più notevoli delle analogie sono le differenze. Humboldt, per es.,
riconosce lo Stato come soggetto di diritto internazionale, e non
gli contesta la facoltà di far tutto il necessario per difendere se
stesso 117 ; mentre, nella sua furia iconoclastica, Schelling guarda
con scarso interesse persino l’idea kantiana di una pace perpe­
tua Ancora una volta, le affermazioni più vicine a Schelling
si trovano in Hólderlin "* — ma è stato notato, giustamente,
che Hólderlin, (come del resto anche Schiller) ammette la con­
servazione dello Stato come involucro esterno, mentre Schelling
ne propone un superamento radicale 120 : poche righe sotto, infatti,
egli ribadisce il giudizio parlando con sarcasmo anche di « costi-

,,a Cfr. per es. Saggi estetici cit., pp. 220 sgg.
110 È il cap. Ili; nell’ediz. dell'Accademia di Prussia, I, 111 sgg.
L’idea che lo Stato, « sistema di costrizione », dovesse avere solo « un fine
negativo », quello di assicurare, cioè, la libertà « esterna » di tutti, era so­
stenuta, del resto, anche dai membri di una associazione, la « Lega degli
uomini liberi », che si era costituita a Jena nel 1794 sotto l’influenza di
Fichte; cfr. W. Flitner, A. L. Htdsen and das Bund der freien Màmier,
Diss. Jena, Naumburg a. S. 1913, pp. 8-12.
W. von Humboldt, Ges. Schriften cit., I, 129 e 136 sgg.
118
Non credo ci siano dubbi sul fatto che Schelling, quando parla
delle « idee del tipo della pace perpetua », pensasse proprio all’opuscolo
kantiano, pubblicato nel 1795.
1,9 Per es., nello Ipersone. « In nome del ciclo! non sa quale colpa
commette colui che vuol fare dello Stato una scuola di eticità. A rendere
lo Stato un inferno è stato il fatto che l’uomo ha voluto farne il suo
cielo» (5. W., HI, 33).
120 Cfr. L. Strauss, Hòlderlins Anteil an Schellings friihen System-
programmi, « Deutsche Viertcljahrsschrift fiir Literaturwissenschaft und Gei-
stesgcschichte », 1927, p. 716, nonché Geis, diss. cit., pp. 150-51.

135
tuzione, governo, legislazione ». Si può ben dire che qui il giovane
pensatore condanna anche le ipotesi « riformistiche »: tutto ciò
che serve a mantenere in piedi uno Stato, anche non necessaria­
mente dispotico, cade sotto la medesima condanna. Per quanto
riguarda il clero, la « persecuzione » può far pensare ad una in­
diretta approvazione dei metodi francesi: ma il giudizio di fondo
non è che la ripetizione di quelle critiche contro la contaminazione
: di kantismo e ortodossia che Schelling aveva già rivolto contro
: i professori di Tubinga. Qui il filosofo estende al piano politico
quello stesso radicalismo alieno da compromessi che si era già
visto nelle Lettere filosofiche: come allora si era affermato che
la ragione doveva temere di più i falsi amici che i nemici di­
I chiarati, così adesso si va oltre ogni prospettiva di riforma per
, i
III investire lo stesso quadro delle istituzioni politico-religiose. E
se si tiene presente che questo (come si è già detto) è proprio
il periodo nel quale Schelling è in contatto con agenti francesi,
e cerca di andare in Francia, sarà lecito affermare che la « rivo-
uzione », per lui, è più uno scatenarsi di forze che non una lotta
>olitica e sociale svolgentesi in un contesto determinato, volta
sì ad abbattere, ma anche ad edificare Stati, governi e costitu­
zioni. Quello di Schelling non è molto diverso dall’atteggiamento
consapevolmente « antipolitico » — anche se, e non è una con­
I traddizione, politicamente impegnato — che si riscontra nell’Ipe-
riotie di Hólderlin, ove si criticano le società segrete, si respin­
gono le tecniche machiavelliche per la conquista del potere, si
rifugge dallo « sporcarsi le mani con un materiale impuro » 121.
Schelling, assai probabilmente, non pensava, quando scriveva
i il Programma, alla Francia, ma alla Germania; il periodo seguente
dello scritto, quello nel quale si parla delle necessità della « forza
estetica » sia per il poeta che per il filosofo, è stato al centro
di una discussione vivace fra chi voleva vedere in esso una prova
della non-paternità schellinghiana dello scritto, e chi, invece, la
ribadiva, pur ammettendo una influenza decisiva di Hólderlin:

121 Nell’agosto 1793, scrivendo al fratello, Hólderlin parlava di Machia­


velli come del « terribile maestro dei despoti » (VI, 98). Sarebbe interes­
sante stabilire se si tratti della mera ripetizione di un giudizio corrente,
in ambiente protestante, fin dal XVI secolo, o se ci sia una sfumatura per
cui « despota » sarebbe non solamente il principe, ma anche un « vergo­
gnoso tiranno» come Marat (VI, 97). In questo caso il ripudio del «ma­
chiavellismo » andrebbe veduto come ripudio generalizzato della violenza
nella politica.

136

=1
ma non si è messo in evidenza, mi pare, che, al di là della stessa
impostazione generale del problema 12s, Schelling continua la sua
polemica preferita contro i Buchstabenphilosophen-, e non esclu­
derei affatto che l’accenno finale a coloro che « non capiscono
affatto l’idea, e che sono tanto sinceri da confessare che per essi
è oscuro tutto ciò che va al di là di tabelle e di elenchi » sia
proprio una puntata contro il suo nemico Nicolai, la cui Reise-
beschreibung, come è noto, è assai ricca di statistiche e di cifre.
La « filosofia estetica », la «poesia », « l’arte poetica » non
sono viste come fine in se stesse, ma come « maestre dell’uma­
nità ». Le indicazioni schellinghiane battono sempre sullo stesso
tasto, sull’esigenza, cioè, di un tipo di intellettuali toto genere
diversi da quelli del passato; la « forza » e il « senso estetico »
costituiscono la garanzia contro quel perdersi dell’uomo nella spe­
culazione, che, d’ora in avanti, prenderà il posto di quel perdersi
nell’intuizione che :i era paventato nelle Lettere filosofiche.
« L’atto più alto della ragione, quello in cui essa abbraccia tutte
le idee, è un atto estetico, e verità e bontà si affratellano solo
nella bellezza ». L’arte è il ponte verso la sensibilità, cioè verso
una conciliazione dell’uomo con il mondo. L’uomo estetico (se
è lecita questa espressione) è colui che si è sottratto al timore
del Dio morale, e del fato, ma che ha, anche, rinunziato a im­
porre al « mondo » una sua « legge » — come aveva fatto Kant
nella Ragione pratica-, atteggiamento, quest’ultimo, che, con la
tensione e lo sforzo continuo che richiede, non può che risolversi
in un nuovo tormento dell’umanità, e far rinascere le « chimere »
della minacciosa « oggettività » 123

Per la quale, come per l’indicazione dei precedenti e delle fonti,


rimando a Rosenzweig, Das aelteste Systemprogramm cit., pp. 22-25, al
quale mi pare non ci sia da aggiungere che i risultati della discussione tra
W. Bohm e L. Strauss, che ha stabilito definitivamente l’influenza di
Hólderlin.
123 Nella Einleitung alle Idee per una filosofia della natura (1797)

Schellingo scriverà: « ZLa mera speculazione


t ’
è’ dunque una malattia dello
spirito dell’uomo, ed inoltre la più pericolosa, che uccide l’embrione della
sua esistenza c sradica Tessere [...]. Contro la filosofia che non considera
la speculazione come mezzo, ma come fine, ogni arma è buona. Ché essa
tormenta la ragione umana con chimere, contro le quali non è possibile
lotta alcuna, perché esse stanno al di là della ragione. Essa rende perma­
nente la separazione dell’uomo dal mondo, considerando quest’ultimo come
una cosa in sé che né intuizione né immaginazione, né intelletto né ragione
riescono a raggiungere » (II, 14, nota; cito dalla trad. di G. Preti, Schelling,
L’empirismo filosofico, Firenze 1967, p. 4, n. 1). Nello Ipersone di Hólderlin

137
Sentiamo ripetere tanto spesso che la gran massa deve avere una
religione sensibile. Ne ha bisogno non solo la gran massa, ma an­
che il filosofo. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo della
immaginazione e dell’arte, ecco quello che ci vuole.
Anzitutto parlerò qui di una idea che, a quanto so, non è an­
cora venuta in mente a nessuno: noi dobbiamo avere una nuova mi­
tologia, ma questa mitologia deve essere al servizio dell’idea, deve
diventare una mitologia della ragione.
Le idee, prima che noi le rendiamo estetiche, cioè mitologiche,
non hanno alcun interesse per il popolo; e, viceversa, il filosofo si
vergogna della mitologia, prima che questa diventi razionale. Così,
1 invece, illuminati e non-illuminati finiranno col tendersi la mano; la
mitologia deve diventar filosofica per rendere razionale il popolo, e
la filosofia deve diventar mitologica per rendere sensibili i filosofi.
Ed allora ci sarà tra noi eterna unità. Non più lo sguardo pieno di
disprezzo, non più il cieco tremare del popolo davanti ai suoi savi
e ai suoi sacerdoti. Allora soltanto ci aspetta un eguale sviluppo di
tutte le forze, del singolo come di tutti gli individui. Allora dominerà
ima universale libertà ed eguaglianza degli spiriti! — Uno spirito su­
periore, inviato dal cielo, deve istituire questa nuova religione tra
ioì, e sarà l’ultima grande opera del genere umano.

Bisogna anzitutto osservare che ilI « popolo » di cui qui si


parla non ha1 nessuna precisa localizzazione storica o geografica;
e la genericità non è casuale. Schelling si appella più volte alla
I « umanità »; il suo cosmopolitismo, o, per usare un termine che
anch’egli adopera, la sua « filantropia », sono immutati. Si tro­
vano riproposte, poi, in modo trasparente, le tre famose parole
della rivoluzione francese: si parla espressamente di eguaglianza
e di libertà, e la fraternità è adombrata nel « tendersi la mano ».
Ma l’idea fondamentale, quella della ricostruzione dell’unità fra
dotti e non dotti, è di chiara derivazione schilleriana: basta guar­
dare la sesta delle Lettere sull’educazione estetica per trovar pro­
posta la problematica — di origine rousseauiana — dei mali pro­
dotti nell’umanità moderna dalla divisione del lavoro e delle
funzioni, che distrugge l’armonia delle facoltà ed estrania reci­
procamente lo spirito e il « regno dei sensi ». C’è semmai da
notare che qu£ Schelling sembra andar oltre le cautele del poe-

si trova affermato che l’intelletto (cioè, in generale, la filosofia) protegge


I l’uomo dall’ingiustizia e dall’errore, « ma l’essere sicuri dall’ingiustizia e
dall’errore non è il grado più alto dell’eccellenza umana » (5. W., Ili, 87).

i 138
ta I2‘: non vuole attendere un futuro perfezionamento dell’uma­
nità, un « placarsi della lotta delle forze elementari » per veder
realizzata la nuova armonia. Al contrario, egli insiste sul fatto
che sarà proprio l’armonia delle forze umane a creare la nuova
« eterna unità »: si trova cioè confermata la funzione rivoluzio­
naria, e insieme restauratrice, della « ragione ». Ma è da notare
che questo atteggiamento di Schelling ha il suo fondamento anche
nella convinzione (ben più astratta di quella di Schiller) della
assoluta passività del « popolo ». Se si osserva il movimento del
Programma, si noterà infatti che il soggetto attivo è sempre « il
filosofo »: è lui che, reduce dallo stato innaturale della mera
speculazione (nel quale, però, come è detto espressamente in altri
scritti, era necessario che si passasse) porta la ragione al popolo.
Né si può dire che dal popolo egli ricavi la sensibilità, perché,
come si è visto, il volgersi verso l’estetico, contro il vuoto ver­
balismo della filosofia delle scuole, è stato opera sua; è lui, in­
somma, che si è separato dagli LJnaufgeklàrten, ed è lui che
torna a ricongiungersi con essi. Va segnalato che negli scritti
successivi si avrà lo stesso andamento, nel quale, però, in luogo
del « popolo », si troverà la « natura », senza che il senso gene­
rale del discorso sia modificato 126.
Il Rosenzweig ha notato, molto giustamente, che qui la mito­
logia compare in una veste assai diversa da quella che aveva
nello scritto Sui miti-, là essa era il surrogato di una ancora in­
sufficiente elaborazione concettuale, qui invece si presenta come
il punto d’arrivo del cammino dell’umanità. Egli si stupiva però
che questa posizione fosse accompagnata, in scritti contemporanei,
dall’appello a « misteri » che sarebbero necessari sia per una
iniziazione graduale dei giovani, sia per scoraggiare cervelli troppo
meccanici, sia per celarsi (come è detto nella chiusa delle Lettere
filosofiche) agli occhi di « occulti nemici e spie ». Egli tende a
vedere in questo un « primo, lieve accento di quella tendenza

124 Schiller aveva scritto, infatti, che non essendosi ancora realizzata
« quella forma di umanità che è stata riconosciuta come condizione neces­
saria di un miglioramento morale dello Stato » deve essere considerato
« intemoestivo » ogni tentativo di trasformare lo Stato (Saggi estetici cit.»
p. 226).
128 G. Sem. erari, Interpretazione di Schelling, I, Napoli 1958, p. 7 ha
scritto, giustamente: « Il senso, la passione, l’immaginazione non si confi­
nano nell’età primordiale del genere umano, ma sono uno stato permanente
dell’uomo, un aspetto della metafisica della mente ».

139
esoterica » che sboccherà poi nel considerare la mitologia uno
strumento per comunicare il « vero » in forma di « misteri » 126.
Ritengo che un passo delle Abhandlungen l2T, che il Rosenzweig
non ha tenuto presente, possa servire a chiarire, su questo punto
importante, la posizione di Schelling.
Ho già parlato della funzione critica che Schelling assegna
alla filosofia, e i cui risultati egli delinea nella prima pagina del
Programma} nel resto dello scritto la filosofia è diventata « sen­
sibile » e, come mitologia o religione, è divenuta patrimonio di
tutto il popolo. Ebbene, questa stessa posizione è ribadita in un
luogo delle Abhandlungen. ^ui si afferma che la filosofia deve
far sì « che gli atti vengano chiusi più in fretta che sia possibile
onde in futuro tutti i cervelli capaci si dedichino a scienze che
agiscano direttamente sulla vita. Essa deve quindi preoccuparsi
di passare lei stessa nella vita (mediante l’educazione e la cultura),
cosicché in futuro non sia più necessario né di insegnarla né di
apprenderla». Ma il filosofo teme che questa risoluzione sia
troppo radicale perché si salvi il principio (quel « certo grado
eh libertà spirituale ») da cui si è partiti; egli teme, insomma,
che questo possa essere inteso come un invito a ridurre la filosofia
ad una sorta di buon senso pratico. E accanto a questa preoccu­
pazione di politica culturale si fa strada un altro concetto: an-
ch’esso ha la sua radice nelle polemiche di quegli anni, ma ten­
derà poi ad assolutizzarsi, e a diventare la legittimazione teorica
di una nuova radicale diseguaglianza tra gli uomini, quella tra
chi ha genio, e chi non lo ha. Qui, insistendo proprio sul carattere
pratico della filosofia (e sulla base di possibili influenze fichtiane)
si afferma che la libertà spirituale non è appannaggio di chic­
chessia: ed allora, onde « gli uomini senza spirito » non si sot­
traggano all’influenza della filosofia (ma Schelling dice qualche
cosa di più: Gewalt, potere) occorre che questa abbia « già nei
suoi primi princìpi [...] qualche cosa di sacro {sacri quid). Essa
deve cominciare con un postulato che coincida con le esigenze
pratiche universalmente valide: aver consapevolezza di se stesso,
e distruggere in sé ogni empirismo considerato come principio;
è più esatto dire, però, che essa contiene in sé il primo fonda­
mento di quei postulati ».
Proprio mentre la filosofia si risolve nella vita, il suo « prin-

126 Cfr. Rosenzweig, cit.» pp. 27-29.


,aT I, 417-18.

140
cipio » deve circondarsi di un alone di sacertà: che si riflette
su coloro che ne custodiscono il fuoco sacro « con mani
pure » ,2“.

Nei gloriosi Stati del mondo antico i primi fondatori di essi, cioè
i primi sapienti, avevano cercato, ricorrendo ai misteri, di celare la
verità agli occhi dei profani, cioè degli indegni. E quando, nel corso
dei tempi, la civiltà progredì, e ci fu chi voleva uscire dalle strettoie
di quelle prime istituzioni, essi (i sapienti) fondarono scuole filoso­
fiche, non perché la filosofia venisse affidata alla memoria, ma per
educare con essa la gioventù. Ed anche in queste scuole si affermò
per lungo tempo la differenza tra filosofia esoterica ed essoterica.
E quando in Grecia la filosofia, ad opera dei sofisti, decadde fino a
diventare professione e mestiere, allora anche lo Stato decadde dalla
sua primitiva altezza, e la filosofia, ridotta all’arte miserabile di con­
vincere e di ingannare con sofismi, venne a morte.

È inutile riportare altri passi nei quali il filosofo ripete so­


stanzialmente lo stesso motivo 129. Si può osservare, in conclu­
sione, che se ci sono senza dubbio le oscillazioni vedute dal
Rosenzweig e da altri studiosi, esse possono essere riportate alla
genericità del concetto di popolo: che ora si presenta (in pro­
spettiva più o meno remota, e comunque non attuale) come un
terreno che potrà essere interamente lavorato dall’idea, ora ripro­
duce la distinzione tra liberi e non liberi, degni e non degni,
pensanti e non pensanti, etc. Non sarebbe inesatto dire, anche,
che le due posizioni coesistono nella mente del filosofo, l’una,
quella dell’eguaglianza, come fine ultimo, che non si realizzerà
mai totalmente, l’altra come sistema di rapporti più vicino nel
tempo. Ma resta sempre vero che ciò che a Schelling interessa
davvero è il ruolo dei filosofi, e l’educazione di altri che possano
diventare come loro; anche se tutto immerso a operare nel mondo,
l’uomo, per essere libero, deve essersi, una volta, liberato da
esso: il suo impegno mondano è un « ritorno », non uno stato
elementare e naturale.

138 Va rilevato che invece Fichte (nei Contributi) si era levato contro
chi parlava di verità essoteriche ed esoteriche (VI, 76).
120 V. per es. la lettera a Obereit del 12 marzo 1796 (Plitt, I,
88-89) e la Antikritik, di cui il testo completo in G. Dammkòhler, Schel-
lings Briejtoecbsel mit Niethaninier vor seiner Berlifting nacb Jena, Lipsia
1913, pp. 72-76.

141
Si è già detto, a suo luogo, che ciò che caratterizza la posi­
zione di Schelling nella seconda metà del 1795 e nella prima
metà del 1796 è un tratto antimetafisico, ed anche antifinali­
stico ”°. Non solo si rifugge da ogni soluzione definitiva, che
non lasci più spazio al libero agire umano: ma, parallelamente,
non si fa parola di alcun piano provvidenziale nel quale i mo­
menti del cammino umano trovino la loro legittimazione; non
fa eccezione neanche l’accenno, che conclude il Programma,
« all’ultima grande opera dell’umanità »: sappiamo, infatti, che
lì non si promette la quiete, ma « l’eguale sviluppo di tutte le
forze ». Ma, negli anni successivi, compare una sorta di gerarchia
ontologica: c’è la « sintesi originaria » e l’evoluzione successiva,
manifestazione e rivelazione di essa: nella « storia dello spv-
rito umano » bisogna adesso trovare l’orma della « ragione
assoluta ». Non
1 sfuggirà che, sostituito al quadro antropologico
quello ontologico, anche la prospettiva dalla quale si guardano
le forme dell’agire umano si trasforma: la stessa filosofia tende
a esser guida non più nel mondo terreno, e quindi nelle scienze
e nelle attività volte ad esso, ma in quel mondo che è l’essere;
prima essa tendeva a sopprimersi, ora, al contrario, la sua posi­
zione si consolida sempre di più. Non è senza resistenza da parte
di Schelling che avviene questo processo: ma che esso ci sia, è
indubbio.
In uno scritto del 1798, Ueber Offenbarung und Volksunter-
richt (che è poi la recensione ad un libro di Niethammer)131
Schelling torna ad affrontare il tema della religione. Non si può
attribuire allo scritto grande importanza, dato anche il suo carat­
tere occasionale — in buona parte non è altro che un rendiconto
dell’opera di cui parla —; ma esso è significativo perché vi si
coglie la confluenza dei motivi che si sono già incontrati negli
scritti di Schelling fin qui considerati: nella nuova prospettiva,
però, cui si è accennato. Sarebbe superfluo trattenersi sulle pagine

I dedicate alla polemica contro i teologi kantiani, nei confronti dei

130 Una indicazione in questo senso egli poteva aver ricavato dai Con­
tributi di Fichte (5. W., VI, 67 nota).
131 I, 474-82; Schelling dovette rimettere più volte le mani in questo
scritto, come risulta dal suo epistolario con Niethammer (Fuhrmans, I,
124, 138, 143); nell’ultima lettera, che accompagnava la redazione defini­
tiva, Schelling informava l’amico di aver trasformato la recensione in un
I'
piccolo saggio, nel quale « tutto ciò che non è troppo eterodosso può es­
sere attribuito a Lei, e quello che invece è davvero eretico a me ».

142
I
quali si esaltano, perché « infinitamente più nobili », i teologi dei
secoli passati. Vale la pena di fermarsi, invece, sulle considera­
zioni dedicate alla « religione » ed alla « educazione popolare ».
Il filosofo si sdegna con coloro che affermano che la rivelazione
può andar bene solo per il popolo: « Cosa vi dà il diritto — egli
esclama — di porvi ad un livello più alto dei vostri fratelli?
Non hanno frequentato scuole superiori, non sanno le lingue
orientali, non hanno imparato a mente un compendio filosofico:
ed è forse per questo che li volete trattar da bambini, voi che
non avete neanche la forza di trovar la strada per voi stessi? »
« Sotto il rispetto religioso, ogni società è perfettamente eguali­
taria. Per quanto ciò possa umiliare l’orgoglio dei preti, in essa
non c’è posto né per maestri né per scolari ». Alla base di questo
egualitarismo della società religiosa (che riecheggia un accenno del
Programma] c’è ora una trattazione fichtiana 13=: ma basta con­
frontare i testi per rendersi conto della differenza radicale che
c’è tra le due diverse argomentazioni. Fichte ammette che per il
popolo sia necessaria una esposizione sensibile (sinnliche Darstel-
lung) che assume la forma di simbolo; e ad essa deve adattarsi
il maestro, anche se la pensi diversamente, perché questo è l’unico
modo che egli ha di sentirsi all’unisono con gli altri. Il che non
toglie che il simbolo non debba essere progressivamente modi­
ficato; questo processo, destinato ad andare all’infinito, è anzi
l’essenza stessa del protestantesimo, e consiste nell’avvicinarsi
sempre più al concetto « che c’è in generale qualche cosa di so­
prasensibile, sublimemente alto su tutto ciò che è natura ».
Schelling, e non può stupire, la pensa molto diversamente:
anzitutto per lui l’eguaglianza non deriva dallo sforzo di chi sa
di adattarsi all’animo degli altri; è un fatto costitutivo della
comunità religiosa. Nella quale, e qui compare un concetto im­
portante, l’insegnamento può essere soltanto « storico »: « Le
idee con le quali la comunità [Versammhmg, che è il termine
corrispondente a religiosa acquista forza morale ven­
gono presupposte come presenti (fin da tempi remoti) nell’urna-

133 È lo stesso Schelling che rimanda a un luogo della Sittenlchre,


uscita proprio allora (1798). Per confrontare, però, le posizioni dei due fi­
losofi occorre tener presenti i due gruppi di pagine nei quali Fichte parla
della « chiesa » (S. W.. IV, 241-53 c 348-53). Che Schelling si richiami a
Fichte pur dicendo cose molto diverse da lui è tutt’altro che eccezionale;
ed è qui che ha il suo fondamento la più tarda accusa di Fichte a Schelling,
di non aver mai davvero compreso il suo pensiero.

143
I

nità; ed è una particolare fortuna, anche per il popolo più civi­


lizzato, se c’è un documento religioso degli antenati nel quale
quelle idee si trovino storicamente esposte ». Laddove, cioè,
Fichte aveva concentrato tutta la sua attenzione sul contenuto del
« simbolo », attribuendone la « scorza » (cioè, appunto, la forma
« sensibile ») al « caso », Schelling insiste sul significato della
tradizione. Rivelazione e tradizione, per lui, tendono ad identi­
ficarsi: si vede qui la ripresa di motivi che erano già presenti

nello scritto Sui miti, ripresa che è tanto più significativa se si
pensa che Fichte aveva lodato il protestantesimo proprio per
la sua capacità di modificare il simbolo; mentre Schelling — e
nella stessa pagina in cui loda Fichte! — considerava somma
fortuna di un popolo l’aver conservato eine religiose Urkunde
aus der Vorwelt.
Va rilevato, inoltre, che qui interviene una importante dif­
ferenza, non solo rispetto al Programma, ma anche al passo delle
Abhandlungen che si è sopra citato: l’unità, cioè, viene adesso
attribuita ad una forza extraumana, quella della ragion assoluta:
la storia della religione è una rivelazione continua, o una esposi­
zione simbolica, di idee che gli antichi avevano intuitivamente
colto come espressione dell’assoluto — come, del resto, tutta la
storia del genere umano non è altro che il continuo svolgimento
dell’universale piano morale, che — come è inevitabile ammet­
tere — è predestinato dalla ragione.
Dall’analisi che si è condotta dei luoghi sulla religione e la
mitologia nei tre testi che si sono presi in esame, si possono
trarre alcune conclusioni. Tra il 1796 e il 1798 le idee di Schelling
si modificano: dapprima la filosofia si risolve nella mitologia; in
un secondo momento da questa risoluzione sono esclusi i « prin­
cìpi », e coloro che ne sono i portatori — ma si tratta sempre
di un artificio « umano », nel senso che i « misteri », o la filo­
sofia esoterica, sono opera dei sapienti e dei filosofi; nel terzo
momento, infine, viene meno ogni artificio o proposito: è la
ragione assoluta, nel suo svolgimento, che si incarna di volta
in volta nelle forme sempre più elaborate del mondo « reale ».
Il ritorno alla « natura », del quale il filosofo ha parlato poco
prima, tende a diventare ormai un ritorno alla ragione extra­
storica. Ma, con ciò stesso, viene a passare in secondo piano anche
il problema dei rapporti tra intellettuali e popolo che, come si

I
i
è visto, aveva tenuto desto per tanti anni l’interesse di Schelling.

144
IV. Natura e libertà

1. L'organismo naturale e Vindividuo umano.

Dal punto di vista degli argomenti trattati, gli scritti che


Schelling redasse durante il suo soggiorno a Lipsia (aprile 1796 -
agosto 1798), e nei primi anni di Jena — gli scritti, cioè, dedi­
cati a « illustrare l’idealismo della dottrina della scienza » 1 e alla
filosofia della natura3 — rappresentano una svolta rispetto a
quelli di cui ci si è fin qui occupati. A prima vista potrebbe
sembrare che la « natura » alla quale Schelling si accostò prima
come teorico della conoscenza, poi come « filosofo della natura »,
abbia riempito tutto Io spazio che, negli anni precedenti, era
stato occupato dalla storia e dall’uomo.
Molto spesso, e già i contemporanei non mancarono di farlo,
si è ironizzato sulla filosofia della natura di Schelling. Si è osser­
vato, non senza ragione, che egli in fisiologia, in chimica, in
medicina, non era altro che un dilettante; un dilettante, si può
aggiungere, che traeva tutte le sue cognizioni dai libri, senza
cimentarsi con l’osservazione sistematica dei fenomeni, e con gli
esperimenti, come faceva, invece, quell’altro dilettante che era

’ Secondo il titolo che egli dette più tardi ad una serie di articoli pub­
blicati sul « Giornale filosofico »: Abhandlnngen zur Erlauterung des Idea­
lista ns der Wissenschaftslehre.
2 Basterà ricordare qui i più imoortanti: Idee» zu einer Philosophic
der Nattir als Einleitung iti das Studiiim dieser Wtssenschaft (1797), (ora
in traduzione italiana, a cura di G. Preti, nella raccolta di scritti schellin-
ghiani intitolata L’empirismo filosofico cit.); Idee» zti einer Philosophie
der Nadir (1797); Voti der Weltscele (1798); Erster Etiltvurf eines Systems
der Nadirphilosophie (1799). Ai fini della presente ricerca non ha interesse
seguire nei particolari le diverse tappe della filosofia della natura, né i
problemi metodologici che essa implica.

145
10. Cesa
W. Goethe. Schelling non era, evidentemente, uno scienziato:
e non andò mai al di là della enunciazione di interpretazioni3
della natura, o della critica, spesso acutissima, dei fondamenti
teorici che gli scienziati davano delle loro analisi. Se a Schelling
è stato riconosciuto il merito di non essersi accontentato di una
rivalutazione « estetica » della natura, come aveva fatto F. Schiller,
e di avere imposto alla filosofia un confronto con le tendenze
più moderne e più vive della scienza contemporanea non si è
visto però, credo, con sufficiente chiarezza il collegamento — che
Schelling non perse mai di vista — tra la concezione della natura
e la concezione dell’uomo. E sì che non sono rari i luoghi nei
quali il filosofo ha dichiarato che soltanto una fisica diversa da
quella corrente poteva soddisfare « uno spirito creatore quale è
il nostro » s, o che, per converso, soltanto l’uomo « libero » po­
teva distinguersi dalla natura, e riconoscere a questa la sua realtà.
C’è una frase (dalla Weltseele) che illustra in maniera quasi em­
blematica la sua posizione: « l’uomo libero soltanto sa che esiste
un mondo a lui esterno; per chi non è libero esso non è altro
che un sogno, dal quale non si sveglia mai » 6. La libertà del­
l’uomo, dunque, come condizione di un rapporto non mistificato
col mondo: qui Schelling seppe esporre molto chiaramente le
: ragioni del suo interesse per la natura. E si noterà che il discorso
non è molto dissimile da quello che egli aveva svolto nella chiusa
delle Lettere filosofiche, quando aveva affermato che « il nostro
spirito si sente più libero quando ritorna dal piano della specu­
lazione al godimento e all’esplorazione della natura » 7; qui la
« speculazione », là il « sogno » ’: in entrambi i casi uno stato
innaturale, che può essere destino inevitabile, però, per chi non
sappia volerne uscire.
Già Kant aveva trattato ampiamente della « illusione inevi-

3 L’espressione è di J. Hoffmeister, il quale osservò, molto giusta­


mente, che quella di Schelling (e di Herder) è una Naturdeutung, non una
Nattirerkenntnis', cfr. Goethe und der deutsche Idealisnius, Lipsia 1932,
p. 41.
4 L’osservazione è di R. Haym, Die romant. Schtde cit., p. 578. Le
pagine di Haym sulla filosofia della natura rimangono tra quanto di meglio
si sia scritto sull’argomento.
5 Fuhrmans, I, 69.
6 II, 218.
7 I, 341.
8 Cfr. anche I, 391.

146
tabile » della ragione; per molti dei kantiani, la strada maestra
per liberarsi di questa illusione era stata la polemica contro la
cosa in sé — e anche Schelling non aveva mancato di ironizzare
sulla « chimera che ha così a lungo tormentato i nostri filosofi »
Ma egli non vuol perdere quella realtà che vien data soltanto
dalla intuizione sensibile, e non vuole che sia abbandonato il
principio kantiano della sintesi tra concetto e intuizione; è un
principio che, per lui, non deve essere soltanto gnoseologico, di
riflessione sulla conoscenza umana: si può « intuire » davvero
soltanto ciò che è reale, ciò che non si può fare a meno di in­
tuire 10. E perché l’uomo possa cogliere il mondo, occorre che
questo abbia tratti simili a quelli dello spirito umano: occorre
insomma, che la natura sia un analogon dello spirito e della
ragione. Non interessa, in questa sede, seguire il passaggio di
Schelling da una critica della conoscenza ad una filosofia della
natura; tanto più che, anche nelle Abhandlungen, in quegli scritti,
cioè, nei quali egli fa ricorso più spesso a formule e schemi della
tradizione criticista, si trova espressa chiaramente l’esigenza che
la « vita » si presenti allo spirito come un suo « analogo visi­
bile », come una « materia organizzata » ", come una entità;
cioè, che sia animata dallo stesso principio che muove la vita
spirituale.
La vita (o la natura) così intesa si sottrae ad ogni inter­
pretazione teleologica, ed anche alla concezione volgare della
armonia prestabilita 19: non è pensabile che essa abbia una ra-

0 I, 357.
10 Vale la pena di citare una frase tipica: « Kant prese le mosse dal
fatto che il primum della nostra conoscenza era l’intuizione. Di qui ben
presto derivò l’affermazione: l’intuizione è il grado più basso della cono­
scenza. Essa è invece quanto di più alto ci sia nello spirito umano, ciò
soltanto da cui tutte le nostre conoscenze ricavano il loro valore e la loro
realtà » (I, 355).
11 I, 388.
13 L’interpretazione dell’armonia prestabilita che Schelling respinge è
quella per cui « Dio ha creato l’anima e il corpo in tal maniera che ciascuno
di essi, senza far altro che seguire le proprie leggi, che ha ricevuto fin
dall’origine del proprio essere, s’accorda da se stesso con l’altro » (Boutroux).
Schelling esclude che questo possa essere il senso della teoria leibniziana:
anzitutto così si affermerebbe soltanto che c’è l’armonia, ma non come e
perché essa abbia luogo, e poi l’idea di uno spirito creato da Dio sarebbe
incoerente con altre affermazioni di Leibniz (per es. Il, pp. 37-39). Egli
tende invece a far propria quella interpretazione del pensiero leibniziano
che era stata suggerita da Jacobi (sia riferendo il famoso colloquio tra lui

147
i:

gione, o un fine esterno a lei, perché in questo caso, si tornerebbe


allo schema di una materia inerte che riceve dal di fuori la dire­
zione e l’armonia. Anche l’uomo, come si è già accennato, trae
profitto da questa autonomia della natura. « Nell’uomo tutto reca
il carattere della libertà. Esso è proprio un essere che la morta
natura ha licenziato dalla sua tutela, e che ha affidato al rischio
delle proprie forze (in reciproca contesa). La sua durata è un
rischio che sempre ritorna e sempre viene superato, un rischio al
quale egli si espone per proprio impulso, e dal quale da solo
torna a salvarsi » l3. Una natura non meccanica, cioè, non preme
più sull’uomo, e lascia che egli viva secondo il destino della sua
propria natura, che egli contribuisce a forgiare.
Questa impostazione reca con sé una importante conseguenza:
essa segna non soltanto il definitivo superamento di quella tema­
tica del « fato » e della « forza assoluta » che incombe sull’uomo
(tematica che Schelling aveva già affrontato nelle Lettere filoso­
fiche) ma l’inizio di quel movimento « conciliativo » che impron­
terà di sé, in forme così diverse, tutto il pensiero successivo del
filosofo. Se la natura è « analoga » all’uomo il volgersi ad essa
è in realtà un vedere nello specchio la propria essenza, è un « ri­
torno ». Alla tensione in avanti si sostituisce un movimento ci­
clico: non la linea retta, ma la « sfera » diventa il simbolo dello
svolgimento, sia della natura che dell’uomo.
Il concetto centrale, che ricorre in tutti gli scritti schellinghiani
di filosofia della natura, e che troverà poi applicazione anche nella
sfera politica, è quello di « organismo ». Sotto l’aspetto più este­
riore, è facile indicare nella Critica del giudizio la fonte più pros­
sima di esso. Ma il modo con cui Schelling lo articola mostra,
in maniera inequivocabile, l’influenza della tecnica logica della
Dottrina della scienza di Fichte. E a questo proposito è necessario
un chiarimento: è tanto nota da essere diventata quasi prover­
biale l’affermazione, formulata da Hegel e poi ripetuta da Schel­
ling, che lo svolgimento dell’io fichtiano sia un progresso all’in-

c Lessing, sia nella appendice VI delle Lettere stilla dottrina dello Spinoza)
e secondo la quale Leibniz fu sulle stesse posizioni di Spinoza quanto al­
l’avversione al dualismo, ma se ne differenziò radicalmente col suo porre
l’indipendenza delle monadi, cioè delle individualità. Ancora nel Sistema
dell’id. frase. Schelling protestò contro il « fraintendimento » dell’armonia
prestabilita (III, 378). Il rapporto Leibniz-Schclling è un tema che meri­
terebbe di essere studiato a fondo.
13 I, 389.

148
finito questa critica voleva dire, come risulta dai contesti nei
quali è formulata, che, secondo Fichte, era impossibile che si
desse, nel tempo, una conciliazione tra finito e infinito, o, in i

altri termini, che l’io accogliesse in sé l’assoluto. Ma questo non ì


toglie — e né Schelling né Hegel pensarono mai a negarlo —
che, dal punto di vista formale, la logica fichtiana conoscesse punti
fermi, e persino « ritorni » dell’io su se stesso; basterà ricordare
qui le categorie delle quali si serve anche Schelling: quella di
determinazione reciproca, nella quale l’io, nel determinare l’altro,
ne viene a sua volta limitato 15 e il movimento a ritroso della
riflessione, cioè, come anche Fichte dice, il « ritorno » di essa ,e.
Queste, in Fichte, sono figure dello svolgersi dell’io: anche i
« fatti » nei quali esso si « riflette » sono « riflessioni » dello spi­
rito umano. Per Schelling tutto questo rimane; la produzione
inconscia dei « fatti » non è però, per lui, opera dello spirito
umano, ma, come si è visto, un analogon di esso, che è cronolo­
gicamente parallelo, ma logicamente anteriore: la natura, è ovvio,
non può riflettere consapevolmente su se stessa, e in lei il « ri­
torno » è un ciclo biologico, non, come per l’uomo, una presa
•i
di coscienza, e quindi un atto di libertà. Ma quello che è più
interessante è che le categorie fichtiane vengono direttamente ado­
perate per fondare la « scalarità », la divisione in gradi della
natura, cioè per arginare il pericolo proveniente da uno « spino-
zismo materiale » (come diceva Fichte): sono adoperate, insomma,
per fondare l’individualità degli organismi.
Quanto si è detto ora può contrastare con l’immagine di ma-
niera di uno Schelling monista e panteista. Di fatto, Schelling
è affascinato dallo spinozismo, ma insieme lo guarda con diffi­
denza, lo intende più come una professione di fede che come
una comprensibile spiegazione del mondo17 ; sia Fichte che

14 Hegel, S. W., I, 34-35; Schelling, V, 113.


15 Fichte, S. IV., I, 128 sgg.
,c Per es., I, 223.
17 In questo modo Schelling si era già espresso nelle Lettere filosofi­
che. Nella Einleitung alle Idee per una filos. d. natura, poi, egli dice
espressamente che il sistema di Spinoza è « il più incomprensibile che sia
mai esistito » (II, 36). C’è qui, forse, una reminiscenza del § 173 della
Teodicea, dove Leibniz afferma che la teoria secondo la quale le cose esi­
stono per necessità della natura divina è inexplicablc (Die philos. Schriften,
a cura di Gcrhardt, VI, 217).

149
Jacobi 18 lo avevano messo in guardia contro il « dogmatismo »
e il « fatalismo » che finivano per ridurre a mera parvenza la
libertà dell’uomo. Nelle Lettere filosofiche il ripudio dello spino-
zismo era chiaro e senza riserve, e anche nel 1797-98 l’atteggia­
mento non è cambiato. Schelling sostiene che è un’unica forza
quella che anima il tutto **, ma vuole che questa si articoli nei
suoi prodotti, e che ciascuno di questi sorga non « necessaria­
mente » — il che renderebbe del tutto illusoria la « libertà » —,
ma da una sintesi di necessità e di contingenza, che ciascuno sia
ben delimitato nei confronti degli altri, che non ci sia, cioè, un
fluire indeterminato o « disorganizzato », e, in fine, che abbia
un’« anima » non solo il mondo, ma ogni organismo indivi­
duale 20.
Si è detto della centralità del concetto di organismo; le due
caratteristiche principali di esso sono che esso è un arresto della
« corrente » della natura e, insieme, è una permanenza dinamica,
che continua a tornare su se stessa, ma è anche suscettibile di
nuove creazioni21. Se nella natura fosse attivo un solo principio
vitale, esso sarebbe un tendere infinito, che non si arresta mai;
è solo con 1’ « ipotesi », o arrivando per via « deduttiva » ad una
forza contrapposta, che diventa possibile spiegare la finitezza.
D’altra parte, non si può pensare che queste due forze contrap­
poste possano mai combinarsi in un equilibrio definitivo: ciò
significherebbe che il corso della vita si è arrestato. Questo in­
treccio dinamico di forze non è retto, all’inizio, da un criterio
finalistico; verrebbe voglia di dire che, per Schelling, il mondo
quale esiste è uno dei mondi possibili, che si è determinato ad
essere quello che è senza alcuna azione di una guida intelligente
a lui esterna. Spiegare perché esso sia così, e non altrimenti, è
del tutto impossibile; come è impossibile stabilire donde pro-

i
18 Negli scritti di questo periodo Jacobi è sempre ricordato con grande
ammirazione; per es., oltre ad accettare la sua interpretazione di Leibniz,
Schelling accenna a lui quando parla dei « geistreichsten Philosophen » che
adoperano termini come « rivelazione » e « fede » a proposito della cono­
scenza delle cose esterne (I, 376).
” Basterà una citazione: « Dal lichene, nel quale è visibile appena una
= traccia di organizzazione, sino alla figura nobilitata, che sembra essersi spo­

i
gliata delle pastoie della materia, domina un unico impulso [...] » (I, 387).
20 II, 46.
21 AI di là dei cicli biologici fissi delle specie viventi si generano le
sottospecie e gli ibridi, che non sono in alcun modo determinati « dal ca­
rattere generale del grado di sviluppo» (III, 52, n. 2).
E
150

5
venga la attività illimitata di segno negativo che si oppone a
quella di segno positivo: se si riuscisse a farlo, ci si perderebbe
nella infinità =a. È qui, molto prima della svolta « religiosa », che
Schelling si è appellato al dato, non razionalmente spiegabile,
per determinare l’individualità. Fichte gli intimò, una volta, di
gettare la maschera della filosofia speculativa, e lo accusò di essere
ricaduto « nel più rozzo e cieco empirismo » 23 ; e in queste accuse
c’era un fondamento di verità. Il negativo, cioè, per Schelling,
l’individuale 24 non è deducibile né giustificabile in alcun modo;
è il fondamento di se stesso, è una interazione di cause e di
effetti, è un infinito ciclo vitale in sé conchiuso, è una « monade
naturale » 24. Il processo naturale, per essere colto nella sua in­
terezza, va guardato da due opposti punti di vista: da uno di
questi « l’ostacolo » rappresentato dal principio negativo serve
soltanto a scandire i « gradi » del movimento del principio po­
sitivo — dall’altro, invece, ci si sofferma piuttosto sulla vitalità
di ciascuno di questi gradini, sulla loro tendenza a rivendicare,
contro il tutto, la loro esistenza, di far valere il loro « egoismo » 20.
La natura, Schelling lo afferma espressamente, non ama l’indi­
vidualità: essa vuole il processo, e per lei è del tutto casuale
ciò che nel corso di esso viene generandosi27; si prende cura del
singolo soltanto finché esso sia giunto ad avere capacità genera­
tiva, ad essere cioè un anello del processo della vita: una volta
che sia giunto qui lo abbandona, anzi, lo combatte; ma così,
indirettamente, lo sostiene 28, perché gli offre una tendenza ge­
nerale (essa stessa, in qualche modo, « permanente ») contro cui
far valere la propria autonoma radice esistenziale.
Anche se di segno opposto rispetto alla forza positiva ed
espansiva, quella negativa e contrattiva ha una dignità eguale
alla prima: non è la radice della individualizzazione — una « ma­
teria » informe non sarebbe più determinata di un generico ten­
dere — ma ne è la condizione. Nell’incontro delle due forze,
22
II, 219.
23
Fichte, S. W., Vili, 402.
24 « Il fondamento della vita è contenuto in princìpi opposti, di cui

l’uno (positivo) va cercato fuori dell’individuo vivente, l’altro (negativo) nel-


l’individuo stesso ». « Ciò che distingue spirito da spirito è il principio
negativo, individualizzante, che è in ciascuno» (II, 503).
24 III, 23.
80 III, 40.
27 II, 514.
28 III, 59, nota.

151
domina la casualità, e non si può cogliere, a priori, alcuna razionale
economia: degli infiniti stimoli, ricettivi ed espansivi, soltanto
alcuni riescono ad essere assimilati, e a fecondare gli altri. La
casualità (o, se si vuole, la contingenza) è quindi la radice di
ogni esistente finito, e vuol dire qualche cosa il fatto che, pur
! polemizzando contro l’atomismo meccanico, Schelling parli con
simpatia di un « atomismo dinamico » 20. Questa forma, peraltro,
corrisponde soltanto alle fasi più elementari del processo: mano
a mano che gli individui si precisano, tutti quelli affini tendono
a costituire un genere, o una « sfera », caratterizzata da certe
proprietà; la loro capacità di « sentire » e di essere « stimolati »
si restringe; nel processo generativo, che per Schelling ha un
significato centrale, soltanto individui, vegetali e animali, della
stessa specie riescono a fecondarsi, e a generare altri individui.
Il movimento della vita, così, si consolida, la libertà (ma Schel­
ling dice « l’arbitrio », per sottolineare la casualità degli incontri)
tende via via a diminuire 30, gli individui abnormi o si articolano
essi stessi in sottospecie, particolarizzando così sempre più il
processo, o, come nel caso di certi ibridi, ne vengono spinti ai
margini, essendo privi della capacità di generare3’. La individua­
lizzazione sempre più marcata, quella che Schelling definisce più
volte il « fine della natura »32, si svolge nel quadro di caratte­
ristiche « tipiche » che si sono determinate nel quadro dello stesso
processo.
Alla apparente creatività disordinata si è sostituito così un
ordine: ai rapporti tra individuo e individuo, nel quadro dello
stesso « genere », corrispondono, infatti, i rapporti tra genere
e genere, o specie e specie. Anche se Schelling non ne parla mai
espressamente, il suo schema di ragionamento è molto simile a
quello leibniziano con l’esclusione, peraltro, di ogni intervento
divino33. Il fatto che egli insista sulla individualizzazione nel-

29 III, 22. Il Metzger, Die Epochen cit., p. 97, vede nell’« atomi­
smo dinamico » del 1799 il punto più estremo delle tendenze « pluralistico-
irrazionalistiche » del pensiero di Schelling.
30 II, 563. Anche nel Sistema dell'id. trasc. Schelling dirà: « Si può
ben dire in un certo senso che l’individuo si faccia sempre meno libero
quanto più opera » (III, 549).
31 III, 42 sgg. e 55 sgg.
32 Per es. II, 533 sgg.
33 Nei Nouveaux Essais Leibniz aveva sostenuto che non tutte le spe­
cie possibili possono avere esistenza reale, « n’estant pas compatibles avcc
cette suite des creatures que Dieu a choisie » (Pbil. Schr., V, 286); secondo

152
r

l’ambito dei generi esistenti, piuttosto che sulla possibilità della


genesi di specie nuove, mostra come egli sia convinto, in fondo,
che la formazione del mondo è compiuta, e che lo svolgimento
futuro non uscirà dalle « sfere » che si sono ormai delineate. A
rafforzare questa interpretazione c’è il fatto che il processo del
quale si è parlato non avviene in una dimensione temporale: non
c’è, tra le diverse specie, una « evoluzione », un prima e un poi.
Il ciclo « fisico » non è un ciclo « storico »34. È il caso di fer­
marsi un momento su questo punto perché esso può aiutare a
chiarire meglio il senso, anche metafisico, della posizione schel-
linghiana. Il filosofo respinge l’evoluzione proprio perché essa
implica una divisione di piani: un modello assoluto (lo Urbild)
di cui il mondo delle cose è una sorta di depotenziamento, tutto
volto, però, a riavvicinarsi a quell’assolutoas. L’organismo uni­
versale, del quale Schelling parla, non ha nulla a che vedere con
questo concetto: esso è qualificato invece dal gioco di azione-
reazione degli individui in ogni organismo singolo, e degli or­
ganismi singoli nell’ambito di quello universale; vale la pena,
a questo punto, di far parlare lo stesso Schelling:

Schelling in ogni momento certe possibilità (quelle che si manifestano


come « disposizione » o « impulso ») diventano o no reali a seconda del
contesto nel quale si verificano, a seconda, cioè, della determinata « armo­
nia » nella quale si trovano; armonia che, a sua volta, è legata a tutta l’ar­
monia universale. V. per es.: « Ogni singolo prodotto naturale percorre,
sino al punto nel quale viene arrestato, tutte le possibili figurazioni, solo
che in nessuna di esse egli giunge ad una produzione effettiva. Ogni figura,
peraltro, non è che il fenomeno di una determinata proporzione che la
natura raggiunge tra azioni opposte, limitantesi a vicenda » (III, 43).
34 « Tutte le organizzazioni, per diverse che siano, sono, dal punto di
vista della genesi fisica, nient’altro che diversi gradi di sviluppo di una, !
e di una sola, organizzazione; si può presentare la cosa come se esse fos­
sero sorte, impedimento di un solo prodotto, ai diversi gradi dello sviluppo
di esso. Ma ciò che vale per la genesi fisica delle diverse organizzazioni non
può essere esteso alla genesi storica. Se per es. si toma indietro fino allo
stato originario della terra, e poi ci si domanda in grazia di quale mecca­
nismo sia nata la natura organica, non si darà una risposta avanzando l’ipo­
tesi di un solo prodotto originario che poi, con un graduale sviluppo,
avrebbe generato le diverse organizzazioni. Per generare un nuovo prodotto,
la natura doveva infatti ricominciare da capo» (III, 62-63, n. 1). Vale la
pena di osservare che, quasi cinquantanni dopo, Feuerbach, sia pure in un
contesto teorico così diverso, manifestava, sull’ipotesi evoluzionistica, preoc­
cupazioni molto simili; cfr. L'essenza della religione (1846), § 17, nota in
Feuerbach, Opere, Bari 1965, p. 282, n. 8.
33 III, 64.
!
153
;
i

L’organismo universale opera assimilando assolutamente, non am­


mette, cioè, nella sua sfera alcuna produzione che non si adegui ad
essa; lascia sussistere soltanto ciò che si adatta al prodotto assoluto.
Nessuna individualità della natura può dunque sostenersi come
tale se essa non si disponga, proprio come l’organismo assoluto, ad
assimilare tutto a sé, a comprendere tutto nella sfera della sua atti­
vità. Onde non essere assimilata deve assimilare, onde non essere or­
ganizzata deve organizzare [...]. Con la stessa operazione con cui essa
esclude dalla sua sfera tutta la natura esterna, essa fa di se stessa,
rispetto all’insieme della natura, un esterno

È lo stesso motivo a cui già si era accennato prima, della


pressione del superiore come ciò che costringe l’inferiore ad « or­
ganizzarsi », ad operare verso l’esterno: è la pressione reciproca
di ogni sfera e di ogni individuo che garantisce così la vita ed
il movimento del mondo.
K. Fischer osservò una volta che già nella Nuova deduzione
si poteva notare come non ci fosse alcuna vera opposizione tra
natura e spirito 37 ; questa osservazione è suscettibile forse di una
applicazione anche più larga di quella che il Fischer ne ha fatto:
si potrebbe, cioè, dire che è lo stesso principio generale quello
a cui si ricorreva là e quello a cui si ricorre negli scritti di filo­
sofia della natura per spiegare la posizione degli individui rispetto
all’assoluto come rispetto agli altri individui: il principio, cioè,
che ogni individuo empirico, pur nella sua limitazione, è spinto
a fare del suo « egoismo » la legge più alta, e che è arrestato
soltanto da forze contrapposte, animate dallo stesso suo im­
pulso 3'. Eppure, malgrado queste analogie, il confronto degli
scritti di filosofia della natura con la Nuova deduzione mostra
che la posizione del filosofo è cambiata: il consolidarsi del mondo,
la genesi di una armonia che, per essere « negativa »30, cioè non
predeterminata da una mente divina, non è per questo meno
armonia, mette in crisi quell’impianto formale che Schelling aveva
assunto da Fichte. Non fosse che perché, se anche ogni organismo
ha lo stesso ritmo di tutti gli altri, ci sono, tra di essi, quelli
più e quelli meno sviluppati: il lichene e l’uomo non sono la

38 III, 70.
37 K. Fischer, Geschichte cit., VI, 411-12.
38 Per evitare citazioni, basterà rimandare ai §§ 3-23 della Nuova De­
duzione.
39 III, 545.

154
stessa cosa. E la stessa scalarità si ritrova anche nella specie
umana: « L’uomo vede ed ode ciò che vede ed ode solo in grazia
di un istinto superiore il quale, quando è rivolto prevalente­
mente al grande e al bello, si chiama genio; ogni conoscere è
il negativo di un positivo (presupposto); l’uomo conosce soltanto
ciò verso il quale è mosso da un impulso; ed è un lavoro inutile
voler far capire agli uomini qualche cosa che essi non hanno
alcun stimolo a capire » 40. E quasi contemporaneamente questo
motivo era ribadito a proposito della insegnabilità della filosofia 41. I
Il passo che si è sopra citato è significativo non solo perché in
esso compare il termine « genio » (che, almeno in questa acce­
zione, è qui adoperato da Schelling per la prima volta), ma perché
si accenna ad una « naturale » diversità tra gli uomini, e si ma­
nifesta sfiducia nell’opera di educazione — a differenza di quanto
il filosofo aveva detto negli scritti del periodo di Tubinga.
Come si vede lo studio della natura non era avvenuto invano:
l’assumere un universo organizzato, nel quale ogni elemento era
individuale, ma insieme occupava nel tutto un posto ben deter­
minato, e non modificabile, significava aprirsi ad uno schema I
che era già stato adoperato da Pope come da Leibniz42, per
legittimare l’ineguaglianza nell’ordine sociale. Schelling non arrivò
rapidamente a questo risultato: per lui, adesso e negli anni suc­
cessivi, l’uomo è visto ora come essenza spirituale, contrapposto
alla natura, incondizionato e libero 43, e ora come essere che pur
separato dagli organismi naturali, si è formato e determinato se­
condo il loro stesso ritmo.
Questa « duplicità » dell’uomo non è certamente una novità:
basta pensare alla tradizione culturale dalla quale Schelling ve­
niva, e fare i nomi di Herder e di Kant. Qui però l’impostazione
li

40 II, 562.
41 « Se dunque la filosofia è una scienza per comprendere la quale si
esige una certa libertà spirituale, essa non può essere di tutti; non può
prendere le mosse, cioè, da un postulato teorico universale, e che abbia
validità a priori. Nel suo primo postulato essa deve già contenere qualche
cosa che escluda per sempre da lei certi uomini. Già nei suoi primi prin­
1
cìpi deve essere intollerante» (I, 417).
42 Cfr. A. O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, trad. it., Milano
1966, pp. 220-22. DcH’influenza di Leibniz su Schelling si è già detto; va
ricordato ora che il libro Sull’io reca come motto dei versi tratti dallo
Essay on Man di Pope.
43 Le citazioni si potrebbero moltiplicare: per es. II, 52-53 (che ripete
quasi alla lettera affermazioni della Nuova deduzione) e I, 392.

155
è cambiata. Non si tratta, cioè, di tener conto, insieme, della
« animalità » dell’uomo e della sua « razionalità », e vedere in
qual modo la seconda possa dar leggi alla prima, ma di mettere
d’accordo due diversi schemi: quello di una organizzazione che
si manifesta in tutte le sfere della vita, che mira alla somma
individualizzazione di ogni essere, ma che, per ciò stesso, arriva
al risultato di una armonia in cui ciascuno occupa il posto con­
forme alla sua natura, e quello per cui ogni uomo, almeno come
potenziale facoltà 44 si sottrae al destino degli altri esseri naturali,
rivendica una sua « libertà », che, almeno a questo punto del
pensiero schellinghiano, non conosce ancora alcuna limitazione.
Sia Herder4S che Kant avevano stabilita una continuità tra
I la storia della natura e la storia dell’uomo; essi, in questa pro­
spettiva, non si erano interessati dell’individuo per sé, ma so­
lamente dell’opera, guidata da una provvidenza o da una finalità,
delle stirpi o del genere umano: la posizione del singolo, rispetto
agli altri individui o alla natura, era una questione che non era
stata trattata, se non nel senso che si auspicavano determinate
forme di società (la famiglia patriarcale per Herder, la costitu­
zione giusta per Kant) come le più idonee a consentire all’uomo
di assolvere ai suoi fini. Schelling, come vedremo, ricorrerà an­
ch’egli, da ultimo, a questi schemi generali: ma intanto, in lui,
si agitava un altro problema, che aveva le sue radici più remote
(vale la pena di ricordarlo) proprio in quello spirito di ribellione
contro « l’ordine » che era così diffuso tra i giovani della sua
generazione. L’idea di un ordine universale, di un progresso, di
una destinazione del genere umano non dava alcun contributo
a risolvere il problema individuale di ciascuno, di che cosa uno
fosse, e di che cosa uno dovesse fare. L’idea di una continuità
tra l’uomo e la natura sboccava quindi, per lui, non nella co­
scienza della finitezza delle forze umane, o della inevitabile de­
terminazione che ogni specie, o ogni popolo, subisce dall’ambiente,
o dalla natura in generale, ma nella consapevolezza che i caratteri
di ogni singolo individuo scaturiscono dal gioco universale delle
forze. E poiché, come si sa, la determinazione è sempre reciproca
(l’individuo, cioè, non riceve mai passivamente la sua parte di

44 V. per es.: « L’intuizione intellettuale è qualche cosa che si può


esigere e presumere; chi non ne ha la facoltà, dovrebbe almeno averla »
(III, 376).
43 Cfr. il secondo capitolo di F. M. Earnard, Herder’s social and po-
liticai Thought, Oxford 1965.

156
!
essere, ma se la conquista operando e reagendo sullo svolgimento i
universale) ecco che l’accertamento di ciò che un uomo fosse
finiva per avere anche un riflesso sociale e morale: il genio e [
l’uomo volgare sono entrambi uomini quanto al genere, ma irri­ I
ducibilmente diversi quanto ai caratteri individuali. E il carattere,
ciò che stabilisce cosa un individuo è, non è suscettibile di
trasformazione.
Per la verità, Schelling non era stato il primo a dire queste
cose: anche Fichte aveva detto che al filosofo, non meno che
al poeta o all’artista, era necessario il « genio »46 . E in un famoso
passo della Prima introduzione aveva scritto: « Quale filosofia si
scelga, dipende da qual tipo di uomo uno sia: perché un sistema
filosofico non è una suppellettile che si possa prendere a piacere,
ma è animato dall’anima dell’uomo che lo ha fatto suo. Un ca­
rattere naturalitcr torpido, o addormentato c deformato da schia­
vitù spirituale, lusso erudito o vanità non potrà mai innalzarsi
fino all’idealismo » *7. Ma tra lui e Schelling c’è una differenza
importante: per Fichte la contrapposizione tra il genio e il volgo
è legata al presente, è il risultato di una cattiva organizzazione
I'
della società, di una cattiva « educazione » degli uomini; se la
generazione presente è in gran parte perduta, in quella futura,
opportunamente educata, si possono nutrire speranze. Non ci
sono elementi positivi per affermare che Schelling fosse consa­
pevole di avere, su questo punto, un atteggiamento diverso da
quello di Fichte; ma, come si è già detto, la « analogia » con la
natura aveva già cominciato a farsi sentire. Non è soltanto da
se stesso, dalla radice incontaminata della propria personalità che
l’uomo trae la forza per levarsi sopra il modo volgare di essere
e di pensare, ma da un « intuito superiore », da un « impulso »
il quale non è strutturalmente diverso da quel grado di « irri­
tabilità » che consente agli animali superiori di cogliere determi­
nati stimoli, e di avere quindi una vita più ricca di quella delle
piante.
Lo sbocco di questa impostazione avrebbe potuto anche essere
una sorta di materialismo naturalistico, o, come Schelling avrebbe
detto, « dinamico ». Ma le sue esigenze teoriche lo portavano in
un’altra direzione. Egli si era volto alla natura per ritrovare in
essa quella « libertà » che, per lui, costituiva tipicamente la na-

46 Fichte, S. W., I, 73 nota.


47 Fichte, S. W., I, 434.

157
tura dell’uomo, e non poteva, a conclusione della sua ricerca,
arrivare a risultati che sarebbero stati opposti alle premesse da
cui era partito, e alle quali continuava a credere. Di qui la dif­
ferenza che egli introdusse (appellandosi al di più che l’uomo
ha rispetto agli altri esseri, cioè l’autocoscienza) tra il ciclo
degli esseri naturali e quello degli individui umani: in questa
ultima sfera ogni soggetto ricomincia da capo, e ha, almeno come
possibilità 48 il modo di trarre da se stesso la sua propria deter-
minazione; in sede naturale il fluire delle forze si è consolidato
in un ordine, in sede morale o intellettuale è ancora aperta la
strada alla creazione di qualche cosa di nuovo: che non è una
ennesima sottospecie, o un ibrido sterile, ma il « genio ».
È nel Sistema dell’idealismo trascendentale che Schelling ten­
terà una conciliazione tra le divergenti tendenze che gli si erano
presentate negli anni precedenti; qui egli insisterà lungamente sul
processo per il quale l’individualità umana passa da un atto
originario e inconscio, nel quale la « limitazione originaria » è
spessamente detta « inesplicabile », alla conquista dell’autoco-
.cienza, e quindi della libertà. A questo punto lo schema di ra­
gionamento fin qui seguito viene lasciato cadere, e la empiricità
inesplicabile del singolo viene proiettata, secondo il modello kan­
tiano, sul piano di una morale e di una storia universale 49. Ma
questa soluzione non venne scelta senza ondeggiamenti, di cui
ci sono significative testimonianze, né senza lasciare residui che
improntarono fortemente i suoi scritti successivi.

2. L’incontro con i romantici; il « Widerporst ».

Durante i due anni che passò a Lipsia Schelling era vissuto


in un isolamento quasi completo; i suoi rapporti con i dotti della
*• In teoria, qualsiasi essere naturale, in quanto viene formando la sua
propria individualità, avrebbe di fronte a sé possibilità infinite; di fatto, è
condizionato e limitato da tutti gli altri esseri, dall’universo intero. Ciò che
fa sì che questo non valga che parzialmente per l’uomo, c il postulare che,
in quanto autocoscienza, egli sia, almeno in potenza, « libero », e suscet­
tibile di una determinazione reciproca « morale » e non « naturale ». Schel­
ling, qui, applica concetti che aveva assunto da Kant e da Fichte ad un
contesto teorico notevolmente diverso: le ambiguità e le « contraddizioni »
erano inevitabili.
4* Mi permetto di rimandare, per una trattazione più ampia di questo
argomento, al mio articolo Individuazione e libertà nel Sistema dell’id.
frase, di Schelling, in « Giornale crit. della filos. ital. », 1968, I, pp. 101-35.

158
locale università non erano stati né intensi, né cordiali80, e la
sua solitudine era stata interrotta solo da qualche viaggio, e dalle
visite di conoscenti di passaggio. Ma intanto la sua collaborazione
al « Giornale filosofico » di Fichte e Niethammer, e la pubbli­
cazione dei primi scritti di filosofia della natura, avevano attirato
su di lui l’attenzione sia di Fichte che di Goethe: il primo de­
siderava avere presso di sé, a Jena, colui che si era dimostrato
il più energico e il più geniale dei suoi discepoliai, e Goethe, i
cui scritti di teoria della natura erano stati ignorati, o sommaria­
mente respinti, dagli specialisti, era lusingato dai riferimenti ad
essi che si trovavano nelle opere di Schelling, e si riprometteva
qualche frutto da una collaborazione personale col giovane filo-
sofo 52.
Fu già nel novembre del 1797 53 43 che a Schelling fu data la
notizia di una sua possibile chiamata all’università di Jena; nel
maggio 1798, poi, egli ebbe il primo incontro con Goethe, e
l’impressione che il poeta ne aveva ricavato era stata molto po­
sitiva: « È un cervello — aveva scritto a C. G. Voigt, alto fun­
zionario ducale — molto chiaro, energico, e organizzato secondo
l’ultima moda; non ho avuto occasione, inoltre, di riscontrare in
lui alcuna posa da sanculotto, e mi sembra anzi misurato e civile
sotto ogni punto di vista. Sono convinto che non ci dovremmo
pentire di sostenerlo, e che sarebbe utile all’università » ’4. Nel

30 Del resto, alla fine del XVIII secolo, l’università di Lipsia era un
centro accademico assai conservatore e chiuso; anche la facoltà di giurispru­
denza, un tempo brillante, era stata ormai superata da Gottinga. Che
Schelling non facesse gran conto del livello culturale di Lipsia è testimo­
niato da un accenno ironico in Plitt, I, 188.
31 Fichte non pensò mai che Schelling potesse avere una posizione
filosofica autonoma, e considerava i suoi scritti come commenti dei propri
(Fichte, Briejwechsel, I, 481); più tardi, al momento della rottura, di­
chiarò di aver ritenuto le affermazioni di Schelling discordanti dalle sue
come conseguenze della incapacità di costui di penetrare la dottrina della
scienza (v. la tipica lettera del 3-V-1805 in Briefw. cit., II, 322 sgg.).
32 V. per es. le lettere a Schiller del 6 genn. e 21 febbr. 1798.
33 Plitt, I, 209-10.
34 II passo è citato nella Introduzione (di C. Schuddekopf e O. Walzel)
al I voi. degli epistolari di Goethe con i romantici (Goethe und die
Romantik, I Th., Weimar 1898, p. lxx). Le pagine (lxvii-lxxxvii) qui de­
dicate al rapporto Schelling-Gocthe sono ancor oggi quanto di meglio ci
sia sull’argomento. Sullo stesso tema, qualche altro spunto si può ricavare
dagli studi di O. Braun, nel volume Hinauf zum Idealismus, Lipsia 1908.
Mentre correggo le bozze vedo indicato, in un catalogo, un saggio di A. B.
Wachsmuth, Goethe und Schelling, nel volume collettivo Goethe und seinc
grossen Zeitgenossen, Monaco 1968.
159
luglio, infine. giungeva rt Sehrllii’H H rescritto
^l^ccmrx»
con ^nteHcttuale
nominato prolcssoir in quello che chi i
più brillante della Gcrintiniii. G^U^IIine si
Ma prima di trasferirsi definiiivnmcntc a Jena, «
recò a Dresda, ove giunse il l« Pcr rimanervi s no
fine di settembre. E Iti qui. in quella che era con si era .
renze della Germania, che egli si incontrò con quasi tutti i ni
del gruppo romantico: c’era Augusto Schlegel, con la mog
rolina c il fratello Federico; per vedere quest ultimo giungev
spesso, da Freiberg, Novalis; c’era anche Stcflcns, J. D- 1*es*
e Rachel Levi, e, per qualche giorno, anche Fichte. Il luogo
d’incontro era la celebre galleria d’arte, della quale gli Sch ege ,
come si disse, « avevano preso possesso » e dove il gruppo tra­
scorreva quasi tutte le mattine. In questa cerchia Schelling non
si presentava certo come uno sconosciuto: i suo.' scritti erano ben
noti, in una recensione della « Allgemeine Literatur-Zeitung » Fe­
derico Schlegel aveva lodato le sue Lettere Filosofiche 5S, e la stima
di Fichte e di Goethe era una presentazione più che sufficiente;
ma forse dei nuovi amici, il solo Novalis desiderava vederlo, e
parlargli, con un sentimento che non fosse soltanto di curiosità s&.
Per la storia intellettuale di Schelling questo incontro, al quale
poi seguì, come è noto, il soggiorno jenense nella casa di Augusto
Schlegel, dove i romantici prendevano i pasti in comune, e l’amore
per Carolina che, divorziata dal marito, divenne, nel 1803, sua
moglie*', ha avuto una notevole importanza. Fino a questo mo­
mento, il suo interesse per l’arte e le tendenze letterarie contem­
poranee non si era mosso dai binari delle esperienze culturali
tubinghesi: vuol pur dire qualche cosa che egli, recatosi nel 1796
a Jena per la prima volta, fosse andato a visitare Schiller, e non
Goethe — e si è visto che ancora ai primi del 1797 egli trovava
insopportabile « l’aristccraticismo » di questi. Ora, invece era

** Anche in questi anni, però, la simpatia di F. Schlegel per Schelling


non era incondizionata, come si può vedere, oltre che dagli epistolari, an­
che da un frammento di « Athcnaeum » dall’ambiguo significato: « Schel-
Philosopbie, die man kritisirlen Mystizismus nennen konnte, endici
■rie der Prometheus des Aeschilus, mit Erdbeben und interzane» H70®’
202, ediz. Behler). &
F. Schlegel-NovaliS, Erieftvechsel, Darmstadt 1957, pp. 197.09
Cir. anche H. Knittermeyer, Schelling cit., pp. 104-5.
47 La più recente narrazione (non senza però qualche inesattezza) delle
vicende di Carolina, e dei suoi rapporti con Schelling, in C. Kahn-Waiif
STEin, Schellings Frauen: Caroline und Pauline, Berna 1959. R

160
venuto a contatto con un ambiente fondameli talmente ostile a Schil»
ler, e pronto ad esaltarsi — anche in funzione polemica contro il
poeta svevo — per ogni scritto di (ìoclhc; con un ambiente
nel quale convivevano il culto per la grecità pagana con una
ancora non ben definita aspirazione verso una « religione » con
tinte medievaleggianti, e che guardava sì alla natura, ma con
Ab
occhi poetici e non, come Schelling pretendeva, « scientifici »
A prima vista poteva sembrare che non ci fosse nulla in co­
mune tra il precoce filosofo, tutto preso dai suoi studi c dai
suoi pensieri, e gli intelligentissimi dilettanti per i quali la con­
versazione brillante e gli scambi epistolari erano un indispensabile
stimolo alla produzione critica c artistica; tra chi, come Schelling,
pur lontano da casa, sentiva ancora fortemente il vincolo degli
affetti familiari, c gli « uomini di mondo », dalla vita c dagli
amori così irregolari. Ma neanche Fichte aveva respinto l’amicizia
di questi ultimi: a permettere questo legame era la consapevo­
lezza del nuovo che essi, tutti, rappresentavano, e soprattutto
la consapevolezza di avere gli stessi avversari, che potevano essere
tenuti in rispetto soltanto da un fronte comune, da una rete di
relazioni che dalle università giungesse alle redazioni delle riviste
c delle case editrici e, quando possibile, anche ad ambienti
politicamente influenti. A scorrere gli epistolari, si ha l’impres­
sione che nulla univa i « romantici » più degli attacchi e delle
critiche a cui erano sottoposti; una recensione sfavorevole era
accolta da tutti con parole di esecrazione, e spesso della risposta
si occupava un membro del gruppo. Come già avevano fatto gli
uomini della Attfklàrung, i romantici — sotto l’impulso degli
Schlegel — si preoccupavano di riuscire a dominare l’opinione,
ed una condizione di questo era che tutti i settori dello scibile
fossero coperti da compagni di fede. A queste ambizioni, però,
si opponevano già le loro indoli, e il loro modo di sentire, e
anche di studiare. C’era chi, come Schleiermacher, sentiva tanto
il fascino e l’amicizia di F. Schlegel da mettersi, per compiacere
l’amico, a difendere anche le cause più arrischiate30; Augusto
Schlegel, per parte sua, aveva grandi doti diplomatiche, e fu

s* Haym, cit., pp. 610-11.


59 È noto che Schleiermacher intervenne, già nel 1799, con uno scritto
anonimo (le Lettere confidenziali) e con una recensione anch’cssa anonima
in difesa del valore etico c artistico della Lticinde, opera che aveva susci­
tato uno scandalo generale.

161
11. Cesa
l’unico che, quando il gruppo si ruppe, riuscì a restare in buoni
rapporti con quasi tutti i suoi antichi membri. Ma gli altri, ad
onta della schlegeliana « filoironia », che avrebbe dovuto garantire
una fruttuosa coesistenza degli opposti, riuscirono a convivere e
a collaborare soltanto per un brevissimo periodo.
E fu proprio in questi pochi mesi — praticamente dalla fine
del 1798 ai primi del 1800 — che Schelling fu parte integrante
del cenacolo romantico di Jena. I suoi nuovi amici si dettero
molto da fare non solo per aiutarlo a colmare le sue lacune nel
settore della letteratura contemporanea 60, ma anche per stimolarlo
ad alternare, come essi facevano, la « critica » con la « poesia ».
Lo stesso Goethe gli affidò una volta — e questo era un segno di
altissimo favore — l’abbozzo di un suo componimento poetico
sulla natura, perché, se gli riusciva, lo portasse in fondo. Augusto
Schlegel, il « grammatico », al quale talvolta anche il nume di
Weimar sottoponeva, per revisione metrica, i suoi scritti, lo iniziò
alla metrica delle letterature moderne, (di quella greco-latina,
Schelling, fin dagli anni dell’adolescenza, era già assai esperto)6’,
e gli fece conoscere Dante. E proprio nei mesi nei quali, per
le esigenze dell’insegnamento universitario, si sforzava di elabo-
rare il suo sistema, Schelling si lusingava anche con l’idea di re-
digere un grande poema sulla natura, che avrebbe dovuto essere
il corrispettivo moderno della Divina Commedia: e gli amici
aspettavano ansiosamente il frutto di questo connubio tra filosofia
e poesia “2. Di fatto, le poche centinaia di versi schellinghiani che
ci sono stati conservati63 non sono, salvo una eccezione della
co V. per es. la lettera di F. Schlegel a Carolina del marzo-aprile 1799:
« È un buon segno che gli piaccia tanto Tieck, ma lo ha inteso nel modo
più volgare » (Caroline, Briefe aus der Friihromantik, ediz. Waitz-Schmidt,
Lipsia 1913, I, 528); e lo stesso scriveva a Schleiermacher qualche mese
dopo: « [Schelling] si sta occupando di poesia molto sul serio, e io intendo
aiutarlo in ogni modo » (Aus Schleiermachers Leben. In Briefen, Berlino
1858-63, III, 121).
cl Fin dall’età di 11 anni Schelling aveva composto esametri latini; e
a 15 anni aveva redatto in latino un poema sulla lingua originaria del ge­
nere umano (Plitt, I, 15-20).
62 Ai primi del 1800 F. Schlegel scriveva a Schleiermacher: « Schelling
è tutto pieno del suo poema, e credo che diventerà qualche cosa di grande »
i (Aus Schleiermachers Leben cit., Ili, 146).
I
83 La maggior parte delle poesie schellinghiane si trova ora in tradu­
zione italiana, per opera di R. Assunto, in appendice al suo volume Este­
tica dell'identità, Urbino 1962, pp. 313-53. La traduzione è buona, anche
se non sono d’accordo, in qualche punto, con essa; e ciò fa rimpiangere

162
quale si dirà subito, altro che esercitazioni; uno di questi com­
ponimenti ripete, in versi, motivi che egli aveva già trattato nei
suoi scritti teorici; un altro, L'arte di vivere, nel quale si fa
l’elogio dell’ozio, e si accusa il lavoro di « soffocare la vita » è
chiaramente ispirato dall’idillio sull’ozio della Lucinde (1799)
di F. Schlegel, ed è certamente una esercitazione « ironica »: non
si può ritenere che Schelling pensasse sul serio che l’esistere sia
un « nutrirsi parassitariamente della vita ».
Ma c’è invece un componimento, la celebre Professione di
fede epicurea di Heinz Widerporst M che, sia pure nella sua forma
paradossale e scherzosa, ha un nucleo di indubbia serietà; in esso
quei motivi etici che si sono trovati accennati negli scritti di filo­
sofia della natura si manifestano senza essere condizionati da al­
cuna preoccupazione sistematica; e non credo di esagerare affer­
mando che in questo scritto si può trovare una delineazione degli
elementi, almeno, di quella morale che avrebbe potuto essere di
Schelling se egli avesse avuto la forza di dissolvere, con critica
paziente, gli schemi generali della tradizione filosofica nella quale
viveva avvolto.
La storia della genesi di questo componimento, è stata già
fatta parecchie volte: vale la pena, però, di accennare almeno
ai punti essenziali della questione. Nel 1799 erano stati redatti
due scritti che sono il segno più tipico di quel maturarsi della
svolta verso la « religione » del movimento romantico: i Discorsi
sulla religione, di Schleiermacher, e Cristianità o Europa di No-
valis. Accolti con entusiasmo dagli amici più intimi, i Discorsi
si erano urtati subito nella diffidenza di Goethe “, agli occhi
del quale non ebbe miglior sorte anche il « frammento » di
Novalis: egli ne sconsigliò, infatti, la pubblicazione su « Athe-

che l’Assunto non abbia tradotto anche il frammento poetico (13 ottave)
pubblicato in Plitt, I, 289-92.
81 Plitt, I, 282-89; Assunto, op. cit., pp. 334-51. Una traduzione ita­
liana di alcune decine di versi del Widerporst (ma quasi certamente è una
ritraduzione dall’inglese) già in J. Royce, Lo spirito della filosofia moderna,
trad. a cura di G. Rensi, Bari 1910, I, 247-49. Per intendere lo « epicureo »
occorre ricordare anche ciò che Schelling disse poco dopo, che la dottrina
di Epicuro è grande non dal lato speculativo, ma da quello morale (V, 666).
03 Sulle reazioni di Goethe così riferiva F. Schlegel: il poeta aveva
lodato i primi Discorsi, « ma quanto più lo stile diventava trascurato, e
la religione cristiana, tanto più il primo effetto si trasformava nel suo op­
posto, sino a diventare, da ultimo, una sana e gioiosa avversione » (Aus
Schleiermachers Leben cit., Ili, 125).

163
naeum ». Per quanto riguarda Schelling, non si esagera dicendo
che agli occhi di Federico Schlegel, che era lo spiritus rector del
cenacolo di Jena, le sue reazioni sarebbero state un po’ la car­
tina di tornasole della sua assimilazione dei princìpi del gruppo.
In una lettera che Federico scrisse a Schleiermacher egli si preoc­
cupava, peraltro, di mettere le mani avanti, per giustificare un
giudizio negativo che era possibile aspettarsi da Schelling: que­
st’ultimo aveva assimilato troppo poca poesia perché potesse
ascendere alla mistica. Così il 16 settembre 1799; ma alla fine
del novembre dello stesso anno, in un’altra lettera allo stesso,
si riferiva che, certo, Schelling stimava Schleiermacher molto più
di Novalis, e lo poneva anche più in alto di Jacobi: ma... non
era riuscito a leggere i Discorsi fino in fondo cc. Nei confronti
di Novalis, poi, la posizione di Schelling era ancora più netta:
da quel pochissimo che si sa risulta che, se per qualche tempo
il poeta sperò di trovare in Schelling non solo uno stimolo alle
sue proprie riflessioni, ma anche una corrispondenza spirituale,
ne fu ripagato con una cordiale antipatia; lo Schelling di quegli
anni, chiamato scherzosamente « granito », e che a Dorotea Veit
sembrava « forte, ostinato, ruvido e nobile », più simile a un
generale francese che a un professore non poteva soffrire « la
natura un po’ fiacca » di Novalis 08.
Ma il problema non era, evidentemente, di simpatie o di anti­
patie personali: il tema posto sul tappeto, cioè la discussione sulla
« religione », era sufficientemente importante da costringere ad
una presa di posizione. Sia Schleiermacher che Novalis non vo­
levano affatto riportare in onore le forme di religione (quella
razionale dell’illuminismo, come quella degli « ortodossi » con
componenti più o meno pietistiche) contro le quali si era già
rivolta la polemica di uno Herder come di un Lessing. A propo­
sito dei Discorsi, anzi, si è potuto osservare che essi non pro­
pongono espressamente una piattaforma « cristiana » 6’, ed è noto
che anziani uomini di chiesa, ammiratori e protettori di Schleier­
macher, li lessero con orrore, trovandoli infetti di spinozismo.
La « religione » che veniva proposta non aveva alcun tratto tra-

66 Ivi, III, 121 c 136.


•7 Ivi, III, pp. 128-29.
“ L’espressione è di F. Schlegel, ivi, 136.
*’ D. F. Strauss, Charakterisliken tind Kritikcn, Lipsia 1839, pp. 21-
25 e Haym, cit., p. 433.

164
dizionale: essa, tipica espressione delle aspirazioni della nuova
cultura, pretendeva di portare a compimento ciò che la filosofia,
per sua natura, non avrebbe potuto fare; l’ascesa, cioè, all’asso­
luto, un assoluto interamente spiritualizzato, nel quale non c’è
né un Dio né un mondo esistenti per sé, ma un Weltgeist che
opera, e un animo che lo intuisce e lo ama 70 70. Quella dell’unità
del tutto era anche un’idea di Schelling: ma essa, per lui, si ma­
nifestava attraverso l’azione reciproca degli individui e delle specie,
cioè di enti ben precisati, nei quali l’attività e la passività ave­
vano trovato un equilibrio, si erano espresse in una individualità;
questa poteva essere transeunte e peritura, dalla prospettiva della
natura, ma, per parte propria, impiegava tutte le sue energie a
sopravvivere. Per Schleiermacher era vero proprio l’opposto: la
« formazione organica » (organische Bildung) di cui egli parla non
ha alcun tratto fisso e definitivo — non è una specie, ma il
movimento stesso della vita. « Religione » è lasciar cadere ogni
particolarizzazione, accettare con umiltà e con gioia lo scomparire
del singolo nell’infinitamente grande, una « passività infantile »,
una « quieta devozione » 71. Giunto a questo livello, l’animo può
davvero sentirsi il tutto, e può guardare alla « umanità » non
come al punto più alto dell’universo, ma come ad un termine
intermedio che è destinato ad essere superato 7=. Con questa ul­
tima affermazione, Schleiermacher, non so quanto consapevol­
mente, si inseriva in quel filone che, da Leibniz a Herder (per
non ricordare che gli autori più vicini) arrivava fino a Fichte:
per diversa che fosse la piattaforma teorica e la terminologia, il
motivo comune era il ribadire che il genere umano è ben lungi
dall’essere l’espressione più alta dell’essere, che al di sopra di
lui c’è « un’altra vita », sia essa quella degli spiriti, o un ordine

70 Schleiermacher, Werke in Answahl, Lipsia 1911 s, IV, 258. Lo


Haym ha usato, per definire questo atteggiamento, la efficace formula di
« spinozismo soggettivo ».
71 Ivi, IV, 240-41.
72 « Se l’umanità è qualche cosa di mobile e di plasmabile, se essa
non soltanto si manifesta in modi diversi nei singoli individui, ma, qua e là,
si modifica anche, ebbene, non sentite che è impossibile che essa sia l’uni­
verso? [...] Essa è soltanto un anello intermedio tra l’individuo e l’uno,
una fermata sulla via che conduce all’infinito, e bisognerebbe trovare, nel­
l’uomo, un carattere più alto della sua umanità onde lui e la sua figura
fenomenica possano entrare in diretto contatto con l’universo » (ivi, IV,
273).

165
morale ultraterreno Non è da perdere di vista che in Herder,
come in Schleiermacher (e in Fichte) questa concezione « reli­
giosa » dell’esistenza non portava soltanto ad uno spiritualismo
morale, ma anche ad un ripudio del « realismo » in politica: la
polemica contro il dispotismo, « che tiene prigionieri gli spiriti »
va di pari passo con il vagheggiamento di un nuovo ordine (le
forme diverse con cui esso viene presentato qui non interessano)
che deve estendersi a tutto il genere umano.
Si è detto finora di Schleiermacher; per quanto riguarda No-
valis, anch’egli parlava di una natura che distruggeva « tutti i
segni di proprietà » 74, cioè i connotati fissi degli individui e delle
specie, e di un regno degli spiriti che continuava al di là della
morte fisica; e dello scritto Cristianità o Europa basterà dire che
in esso Novalis, dopo il famoso elogio della cristianità medievale,
ricavava, dalle vicende della cultura e della politica contempo­
ranea, i segni premonitori di una nuova cristianità, di una « nuova
Gerusalemme » nella quale avrebbero dovuto affratellarsi tutti
i popoli.
Non può stupire, — dopo quello che si è accennato sulle
conseguenze morali che Schelling aveva cominciato a trarre dai
suoi studi di filosofia della natura — che il filosofo respingesse
in blocco tutto questo mondo ideale. Il Widerporst si apre con
un attacco contro chi ha voluto convertirlo all’ultraterreno, con­
tiene una crudele parodia dell’idoleggiamento del Medioevo cat­
tolico fatto da Novalis ”, non manca di ironizzare sulla speranza

73 Nella Destinazione dell’uomo (1800) Fichte rimanda espressamente


| I ad un mondo diverso da quello sensibile (S. W., Il, 284-85); e nelle lettere
i di questi anni deplorava di non aver ancora scritto una « filosofia del
mondo degli spiriti » (per es. Brieftv., II, 307 e 323). Herder, per parte
sua, pur affermando che l’uomo è il punto più alto dell’organizzazione della
nostra terra, aveva anche detto che questa è solo un luogo di esercizio e
di passaggio, in vista di quella « umanità » che non potrà realizzarsi in
essa (S. W., XIII, 23 e 194 sgg.).
74 V. i pensieri pubblicati col titolo di Bliitenstaub (Polline) nel primo
! fascicolo di « Athenaeum » (1798); l’espressione cit. è a p. 73.
75 Sulle orme di una indicazione dello Haym (cit., p. 553) studiosi
autorevoli come il Leon (Fichte cit., Il, 1, pp. 416 sgg.) e il Lukacs
(Il giovane Hegel, Torino 1960, p. 353) hanno voluto vedere, in questo
gruppo di versi (Plitt, I, 284) che si aprono con l’affermazione che, se
proprio ci deve essere una religione, egli preferirebbe quella cattolica, un
segno premonitore di tendenze spiritualistiche e di romantica religiosità.
Non credo che l’interpretazione sia attendibile, neanche nella forma di cauto
suggerimento con cui lo Haym l’aveva presentata (« La vecchia religione

166

:
che la religione induca una pace universale fra i popoli, e, dopo
aver contrapposto la natura vivente all’esangue mondo della re­
ligione, conclude che è nell’uomo che lo « spirito del mondo »
ha finalmente « trovato se stesso ». La vita, insomma, è già per­
fetta, non ha bisogno di una giustificazione o di una finalità
esterna a lei: e quella « eterna ripetizione » che angustiava Schle-
iermacher (ma anche Fichte) qui, invece, dà gioia, perché non è
vista nella prospettiva della legge generale, ma in quella dell’esplo­
sione vitale di ogni attimo e di ogni singolo.
Trascurando tutte le parti satiriche, vale la pena di dare
qualche esempio della « professione di fede »: « la materia è la
sola cosa vera / di noi tutti patrona e consigliera / di ogni cosa
generatrice vera / l’elemento di tutto il pensiero [...] » 7*. « Il
mondo da sempre c’è stato / e per sempre durerà. » 77 E infine
alcuni di quei versi che lo stesso Schelling pubblicò nella sua
« Rivista di fisica speculativa », e che meritarono il caldo elogio
di Goethe 78 : nelle profondità del mondo c’è uno spirito gigan­
tesco che non può uscire dal suo carcere, ma che suscita, in tutte
le cose, un potente rendere verso la coscienza: « Esso cerca in
tutti gli angoli e i punti estremi / di emergere verso la luce /
non arretra dinanzi alla fatica / ora si innalza verso il cielo / ora
si allunga in tutte le membra / ora torna a rincartocciarsi / E
rigirandosi da tutte le parti / cerca forma e figura giuste; / e in
tal modo, battendosi con le mani e coi piedi / contro l’elemento

cattolica era così piena di poesia, e di serena sensualità »). Per quanto
riguarda la « poesia » bastano gli accenni alla Madonna cattolica, che dà
gran feste con Dio padre, e governa in cielo proprio come le donne co-
mandano in terra, per mostrare come Schelling non avesse proprio nessuna
tenerezza per quella figura che colpiva tanto la fantasia dei romantici. Per
ciò che riguarda, poi, la « serena sensualità », verrebbe voglia di dire che
Schelling ha guardato al Medioevo con gli occhi di un lettore di certe
novelle del Boccaccio: « Non si andava alla ricerca di cose remote | né,
a bocca aperta, si guardava al cielo | [...] e tutti insieme, laici e preti | vi­
vevano come nel paese di cuccagna ». È davvero un po’ troppo voler trovare
in questi versi satirici la nostalgia di una religione bella e serena! Oltre a
tutto, Schelling potè tornare, parecchi anni dopo, al protestantesimo; ma
non tollerò che lo si dicesse cattolico, e dichiarò che non sarebbe mai stato
un « rinnegato» (V. per es. Schelling-Cotta, Briefwecbsel, Stoccarda 1965,
p. 95; ma si potrebbero fare anche altre citazioni).
76
Plitt, I, 283-84; Assunto, op. cit., p. 339.
77 Plitt, I, 286; Assunto, op. cit., p. 343.
78
«[...] il leggiadrissimo frammento poetico » in Goethe und die
Romantik, cit., I, 211.

167
i
avverso / impara a trovarla in uno spazio angusto / dove final­
j mente raggiunge la coscienza. / In un rattrappito corpicciolo, /
dal bell’aspetto e le membra dritte / che si chiama uomo, / l’im­
mane spirito trova se stesso » Si è già accennato che, nell’am­
biente, Schelling è il primo ad assegnare al genere umano il posto
più alto nella catena degli esseri: e questo è possibile proprio
I
per la saldatura originaria tra l’uomo e la natura, e per l’esclu­
sione di ogni realtà che non faccia parte di questo tutto. La vita,
la materia, non ha bisogno di essere penetrata con mistici stru­
menti, perché al di là di ciò che non è percepibile non c’è una
spiritualità pura, ma uno spirito impigliato nella materia, che ne
è limitato, ma insieme le dà forma. E il mondo delle cose non è
così apparenza, non è qualche cosa che vada trasfigurato: va preso
così com’è, come l’espressione di « una sola forza, un intrecciarsi,
un tessere / un impulso e uno stimolo verso una sempre più
alta vita ».
Si sa che tra le varie ragioni che indussero a non pubblicare
su « Athenaeum » il Widerporst ci fu l’esigenza di non aggravare
quella tensione che era sorta dalla cosiddetta polemica sull’atei­
smo (e che aveva portato alle dimissioni di Fichte da Jena). Ma
da quanto si è visto dovrebbe essere chiaro che tra l’ateismo di
cui era stato imputato Fichte, e quello di Schelling 80 non c’era
proprio nulla di comune; il primo, oltre a tutto, negava risoluta-
mente di essere ateo, mentre il secondo dichiarava apertamente
di aver rinunziato ad ogni religione: e dal contesto è evidente
che egli non intendeva solo quelle tradizionali. Dal punto di
vista etico, quello di Schelling è un vitalismo immoralistico, per
il quale, con la gioia della carne, l’individuo trova da solo la con­
I ciliazione con l’universo; e dico l’individuo, perché non c’è una
: parola che faccia pensare a quel tema della « umanità » che
preoccupava tanto la cultura contemporanea. Anzi, le frasi sarca­
stiche sull’idea di una pace universale81 e sulle tendenze del­
l’epoca che vuol « tonsurare i giovani con la virtù » indicano che
il filosofo non era ostile a veder proiettato, anche nel mondo

79 Plitt, I, 286-87; Assunto, op. cit., p. 345.


•° A usare questo termine fu Novalis; cfr. F. Schlegel-Novalis,
Brieftvcchsel cit., p. 157.
81 Schelling, cioè, critica Schleiermacher e Novalis, che si sentono chia­
mati « a spingere i poveri popoli, grandi e piccini, in una sola stalla, dove
smettano di punzecchiarsi, e appaiano tutti insieme, da buoni cristiani, in
unità » (Plitt, I, 288). Ho tradotto qui diversamente dall’Assunto.

168
degli uomini, quel lottare, e quell’agitarsi vitale, che si riscontra
in tutti gli altri gradi della natura "2.

3. Le idee morali nel « Sistema dell’idealismo trascendentale ».

La redazione del Widerporst è dei mesi nei quali Schelling


scriveva il suo Sistema dell’idealismo trascendentale. A prima
vista un accostamento tra le tendenze di fondo delle due opere
non sembra possibile: come può conciliarsi quel gioioso vitalismo
con la professione di fede in una armonia prestabilita che compare
tante volte nel Sistemai Come può conciliarsi l’irreligione con
la « religione », e il movimento scatenato delle individualità con
il porre una universale costituzione giuridica, e la pace universale,
come punto di arrivo dello svolgimento del genere umano? Eppure
il Widerporst non era stato uno scherzo: si è visto che le idee
in esso espresse derivavano, senza alcuno sforzo, da quelle che
Schelling aveva elaborato negli scritti di filosofia della natura,
e che esse corrispondevano esattamente all’atteggiamento che egli
aveva assunto nei confronti delle tendenze dell’ambiente. A questo
punto della ricerca, oserei dire, il problema non sarebbe quello di
spiegare il Widerporst ma piuttosto il Sistema, e più precisamente,
la parte « pratica » di esso.
Il Sistema, a prima vista, c uno dei più « fichtiani » degli
scritti di Schelling 8a. Seno assai numerosi i luoghi nei quali si

82 È quasi inevitabile ricordare, a questo punto, la professione di fede


di Alabanda nel III libro dello Iperione di Hblderlin, pubblicato proprio
nel 1799. Ne citerò qualche frase: « Io sento in me una vita che nessun
Dio ha creato e nessun mortale ha generato. Credo che è per opera nostra,
e per intimo impulso, che noi siamo così intimamente legati col tutto [...].
Cosa sarebbe mai questo mondo se esso non fosse una consonanza di esseri I
liberi? Quanto sarebbe goffo e freddo se i viventi, fin dall’inizio, non aves­ >
sero, per proprio lieto impulso, cooperato in lui, in una sinfonica vita! [...].
Non c’è filo d’erba che cresca se in lui non c’è un proprio germe vitale!
E quanto ce n’è di più in me! » (S. W., III, 147). Va ricordato, però, che
nulla permette di affermare che Schelling abbia letto lo Iperione (Fuhrmans,
cit., I, 170, n. 22) anche se l’esordio di una lettera di Hòlderlin a lui del
luglio 1799 potrebbe far pensare che essa fosse contemporanea o di poco
successiva all’invio del II voi. del romanzo.
83 V. per es. Króner, Von Kant bis Hegel cit., II, 110; J. Habermas
(Das Absolntc and die Gescbichte ini Dcnken Schellings, diss., Bonn 1954,
p. 160) afferma addirittura che il Sistema è « esteriormente » l’opera più
vicina a Fichte. Ma un esplicito accostamento, tra Schelling e Fichte,

169
potrebbero additare ripetizioni e parafrasi, e non solo della Dot­
trina della scienza, e degli altri scritti teoretici, ma anche della
Sittenlebre e del Naturrecht. Mentre lo scritto Sull’io era stato
una riclaborazione di temi fichtiani sotto la rivelazione della prima
lettura, qui si nota (e non soltanto nel metodo, che ricalca in
modo talvolta pesantemente scolastico quello della Dottrina della
scienza) lo sforzo di accogliere nel proprio discorso quanto più
era possibile del pensiero di Fichte: e ciò anche nella IV sezione,
quella dedicata alla filosofia pratica *4. È vero che qui Schelling,
che aveva lavorato per anni quasi esclusivamente sulla filosofia
della natura, doveva sentirsi meno a suo agio, e indotto pertanto
a cercare un modello al quale appoggiarsi85. Ma non si andrà
molto lontani dal vero avanzando l’ipotesi, anche, che il Sistema,
scritto subito dopo che lo Atheismusstreit aveva costretto Fichte
a dimettersi dalla cattedra di Jena, volesse essere una vera e
propria dichiarazione di solidarietà con l’amico e maestro, un
surrogato di quella più impegnata solidarietà che Fichte si era
forse aspettato è significativo che là dove parla di Dio e di
per quanto riguarda il metodo, già nella recensione che apparve, nell’ago­
sto 1800, sulla « Allgemeine Literatur-Zeitung » di Jena, nn. 231-32, col. 375.
Di essa l’autore era Reinhold, come risulta da moltissime testimonianze
dell’ambiente; lo sapeva Schleiermacher, e lo sapevano Schelling e Fichte
(per es. Plitt, I, 310-11; Fichte, Briefw., Il, 255, 262; Schelling, W.,
IV, 112 nota); anche Jacobi Io dice apertamente nella terza lettera a
Friedrich Kóppen, pubblicata in appendice al libro antischcllinghiano dello
stesso (Schellings Lehre oder das Ganze der Philosophie des absolnten
Nichts, Amburgo 1803), p. 275. Ho voluto segnalare questa recensione
anche perché essa non figura nelle bibliografie schellinghiane.
•4 Cfr. Metzger, Gesellschaft, Recht und Staat in der Ethik des
deutschen Idealisnitis, cit., p. 243.
•* Non va dimenticato che in quell’epoca si considerava ovvio che un
professore di filosofia avesse un proprio « sistema », e lo esponesse nei
suoi corsi, spesso sulla base di un manuale da lui redatto. Così, nel seme­
stre invernale 1798-99, Schelling aveva fatto lezione sulla filosofia della
natura prendendo come testo lo Entwurf (Fuhrmans, I, 169), mentre nel
semestre estivo 1799, quando aveva voluto esporre « il sistema della filo­
sofia trascendentale » io aveva dovuto fare nach Diktalen (ivi, 170). Fu
probabilmente il bisogno di avere un proprio manuale che lo spinse ad
accelerare la redazione del Sistema, il che spiegherebbe anche perché in
molti punti egli si sia appoggiato così palesemente (c magari per criticare
e polemizzare) a Fichte c a Kant.
“ Come è noto, molti professori di Jena si erano impegnati a dimet­
tersi qualora Fichte fosse stato allontanato; ma il ministero, abilmente, fece
finta di accettare le dimissioni di Fichte, non di imporgliele. In questo
> modo la libertà accademica era formalmente salva, e nessun altro si dimise.

170

i
!
I
religione, nonché di ateismo, Schelling parafrasi proprio quelle
frasi di Fichte e di Forberg che avevano provocato la reazione
degli ortodossi ”. Se anche Schelling avesse avuto delle perples­
sità quanto a mostrarsi, all’esterno, come « fichtiano », non era
certo quello il momento nel quale egli avrebbe potuto separarsi
dall’antico maestro.
Ma se si va oltre il parallelismo di tanti passi, e si ricercano
i motivi più profondi dell’argomentare schellinghiano, non sol­
tanto balzano agli occhi sensibili differenze, ma si noterà che
Schelling, nel riesporre le tesi fìchtiane, le modifica profonda­
mente, e che in alcuni luoghi, (per es. nelle pagine sulla stori?
e sulla costituzione) polemizza addirittura contro di esse, benii;
teso senza citarle mai, e in modo che se ne potesse accorgere sol
chi avesse avuto una certa familiarità con i testi. Verrebbe fatt
di pensare che Schelling soltanto adesso, affrontando sistemati­
camente la filosofia trascendentale, si venisse accorgendo di che
cosa lo separava da Fichte: e allora diventerebbe chiaro perché
un anno dopo il Sistema, egli sentisse il bisogno di scrivere la
Esposizione del mio sistema filosofico, e, nella prefazione di
questo scritto, egli riducesse drasticamente la portata di quello
precedente, e rivendicasse, al suo pensiero, una stabilità che i
testi sono lì a contestare 88.
In questa sede ci si potrà soffermare soltanto su un problema:
quello della fondazione della individualità, e delle sue conseguenze
morali. Il tema, per Schelling, era molto importante; ma non
era certo importante solo per lui. Esso era una conseguenza quasi
ovvia della impostazione fichtiana, e, in genere, di ogni impianto
monistico. Una volta che si ponga un io assoluto, e si veda la
finitezza solo come manifestazione, o momento, di esso, vien fatto
di domandarsi cosa distingua il singolo uomo da un altro, quale
sia il suo principium individnationis. Fichte aveva parlato ampia­
mente dell’io, e dei suoi rapporti con gli altri, nei suoi scritti di
argomento morale, e giuridico-politico; ma, dal punto di vista
teoretico questo, per lui, non era un problema: la destinazione

KT Per es. Schelling, III, 333, dove si esclude che Dio sia un ente
sostanziale c personale; cfr. con Fichte, V, 187-88 e 216. Ancora, per
l’irreligione c l’ateismo, Schelling, III, 601; cfr. con Fichte, V, 185,
219 e Forberg (il cui saggio Entwickelung dcs Begriffs der Religion ho
visto nell’ediz. Mcdicus delle opere di Fichte, voi. Ili), pp. 137 e 146.
h* Cfr. IV, 108-10 e sulla « equivocità » del Sistema le acute osserva­
zioni di Kròner, op. cit., II, 77-78.

171
dell’uomo era quella di elevarsi al di sopra della individualità
empirica, e di diventare, così, la realtà. Il voler persistere nella
finitezza, e il prenderla come metro, o come base per impostare
il problema del posto dell’uomo nell’universo, era anzi un segno
di « egoismo », e di miseria mentale e morale, di una miseria a
cui, nelle sue polemiche filosofiche, Fichte venne assegnando con­
torni e connotati sempre più precisi, fino a farne un’epoca nella
storia del genere umano S9. Ma di questo ancoraggio temporale,
cioè storico, nella Dottrina della scienza, come poi negli articoli
del « Giornale filosofico » che dovevano illustrarla, non c’è an­
cora alcuna traccia. L’impianto del discorso è ancora « trascen­
dentale »: si rimanda espressamente a operazioni o « atti » della
coscienza, si dimostra come essi siano puri da ogni empiricità, ed
abbiano come contenuto, quindi, soltanto l’operare della mente
stessa. La non-dipendenza viene poi immediatamente intesa come
indipendenza, la mancanza di determinazione esterna come segno
di autodeterminazione; la domanda su ciò che c’era prima del­
l’autocoscienza viene dichiarata priva di senso, perché « io non
esistevo affatto senza essere io. L’io è soltanto in quanto è conscio
di sé » 90. Alla costruzione fichtiana non mancava una sua rigida
coerenza: a ciò che il senso comune considerava mondo fisico, e
poneva prima della coscienza, era negato ogni tratto positivo;
esso non era, appunto, che un « non io ». Veniva così eliminata,
a priori, la possibilità di discutere di una determinazione ab extra
del soggetto 91.
Dopo quanto si è detto sulla sua filosofia della natura, sarà
chiaro che Schelling non poteva accettare questo schema senza
introdurre in esso radicali correzioni. Nelle prime « sezioni » del
Sistema egli aveva delineato le prime tappe della « storia dello
spirito », e in particolare quelle forme o categorie (della rela­
zione) che secondo la Critica kantiana rendevano possibile la
conoscenza del mondo, e che, secondo la impostazione « ideali­
stica », dovevano garantire il passaggio dal produrre elementare

89 Questo motivo incomincia a delinearsi negli scritti del 1799-1800,


I
per trovare la sua compiuta esposizione nelle lezioni berlinesi del 1804-05
! sui Lineamenti dell'epoca presente.
«o
Fichte, 5. W., I, 97.
«i Nei suoi scritti di tono morale Fichte parla anche dell’influenza

i esterna sul soggetto empirico: ma essa è possibile solo perché la ragione


non si è ancora destata (VI, 298), c il compito della ragione è, appunto,
di eliminarla.

172

I
a quello articolato degli organismi. La coscienza che scopriva, o
voleva, se stessa, partiva sì, formalmente, da un atto analogo a
quello fichtiano, ma in realtà sapeva benissimo (o, se non essa,
l’« osservatore » cioè il filosofo) che era solo in grazia di tutto quel
processo precedente, della « odissea dello spirito », che essa po­
teva finalmente acquistare consapevolezza di se stessa. Consape­
volezza che aveva un duplice carattere: da una parte era conti­
nuazione della storia dello spirito, cioè produzione di una vita
più alta di quella della natura, ma dall’altra era anche ritorno,
perché il punto di arrivo dà la suprema legittimazione a quello di
partenza. È abbastanza agevole rendersi conto che questo non è
lo schema fichtiano puro e semplice, ma lo schema fichtiano inte­
grato dalla filosofia della natura. Lì si era arrivati all’organismo
animale: ora si deve passare all’individuo umano, che è però del
tutto impensabile senza il lato del suo inconsapevole operare 02
La morale di Schelling è assai meno « idealistica » di quanto nor
si soglia ritenere; il pesante impianto sistematico, la discussione,
egregiamente elaborata, di empiricità ed assolutezza, hanno spesso
fatto perdere di vista che il fondo di essa è organicistico: la filo­
sofia dell’uomo continua la filosofia della natura.
Lo schema generale del discorso schellinghianp è già stato
delineato e discusso da non pochi studiosi93 ; qui basterà, pertanto,
far cenno al punto di partenza. Si prende le mosse da un atto
di autonomia, di autodeterminazione; ma perché esso sia effettivo
occorre che cada nel tempo: un atto soggettivamente assoluto può
essere tale soltanto se è individualizzante, se rinunzia alla gene­
ricità dell’incondizionato. Perché il soggetto faccia, occorre che
faccia qualche cosa di determinato, che lasci fuori di sé, in altri
termini, tutti quegli infiniti atti che da lui non vengono compiuti.
Questa zona esterna, questa condizione « negativa » dell'esistere,
finisce per essere la chiave di tutta l’esposizione; e ciò in due
sensi: come alterità e come passato Anzitutto come alterità:
ciò che noi non siamo e non facciamo non è il vuoto, il non-

92 II. Metzger, Die Epochen cit., p. 107, osserva giustamente: « Le ti­


piche peculiarità dell’evoluzionismo del 1799 vengono qui a ripresentarsi;
anzi, in questa sfera dello spirito quella sistematica evoluzionistica sembra
aver trovato il suo terreno privilegiato ».
93 Dei grandi manuali basterà qui ricordare quelli di K. Fischer e di
R. Kròner, già cit.; delle monografie, lo Schelling dello Zeltner e il vo­
lume del Semerari.
94 Seguo, qui, un acuto suggerimento dello Habermas, op. cit., p. 161.

173
|

|
essere, ma è l’operare di altri: tra il mio non-fare e il fare degli
altri si stabilisce quel rapporto di reciproca azione cui si era già
I accennato trattando della filosofia della natura. Ed anche qui il
: concetto di base è quello di un universo « pieno », nel quale
ogni individuo reagisce, e per ciò stesso si appoggia, a tutti gli
altri *5. Questo è ciò che intende Schelling quando scrive: « Ma,
com’è certo che vi sia una singola intelligenza, con tutte quelle
determinazioni della sua coscienza che noi abbiamo dedotte, così
anche è certo che vi siano altre intelligenze con le identiche
determinazioni, poiché esse sono condizioni della coscienza della
prima, e viceversa » ”, e quando parla di una «armonia presta^
bilita di natura negativa ». Perché di natura negativa? In quanto
la reciproca azione determina (ed è inutile insistere sulla impor­
tanza della Beslimmung nella filosofia idealistica) ma, da sola, non
è la radice ultima dell’essere. Il soggetto esiste in grazia di un
suo atto di determinazione, di volontà, di libertà: libertà e vitalità
qui finiscono con l’identificarsi. C’è una infinità di individui vivi
e liberi che proprio perché hanno in sé la radice esistenziale
possono appoggiarsi agli altri. Reciproca azione e autodetermina­
zione sono due atti contemporanei dal punto di vista cronologico,
ma ben diversi quanto al significato esistenziale.
Occorre tener fermo questo carattere del pensiero di Schelling
per non arrivare a conclusioni contraddette sia dai testi che dallo
spirito che li anima: c’è stato, per es., chi ha negato che Schelling
avesse davvero un concetto della individualità, e quindi una
« etica »: il suo non è che un naturalismo camuffato da idea-

94 Sull’argomento v. anche A. Bausola, La deduzione della moltepli­


cità dei soggetti e le sue implicazioni etico-giuridiche nel primo Schelling,
in Saggi sulla filosofia di Schelling, Milano 1960, pp. 41-67.
96 III, 544 e, analogamente, 556 sgg. A proposito di quest’ultimo passo,
il Semerari (op. rii., p. 42) fa il nome di Berkeley, e cita il § 3 dei Prin-
ciples; io preferirei ricordare Leibniz, per es. un passo come il seguente:
« De dire, que la force que fame a receue de Dieu est l’unique principe
de ses actions particulières, n’est pas assés à exprimer la raison de ses
actions. Il vaut mieux de dire, que Dieu a mis dans chaque Ame une
Concentration du Monde, ou la force de representcr l’univers suivant un
point de veuc propre à cette Ame, et c’est ce qui est le principe de ses
actions, qui les distingue entre elles et des Actions dune autre Ame. Car
il s’ensuit qu’elles auront continuellement des changements qui represen-
teront les changements de l’univers, et que les autres Ames en auront
d’autres, mais avec correspondence » (Phil. Schr., IV, 542).

174

1
lismo, nel quale la libertà del singolo è inesistente 97 ; altri invece,
e sono i più, si sono fermati sulla libertà in senso metafisico, come
produzione di essere in generale: trascurando del tutto la base
vitale e naturale che è proprio ciò che rende effettiva l’indivi­
duazione Il difetto di queste interpretazioni è che ciascuna di
esse si appoggia ad una delle due componenti dell’argomentare
schellinghiano: mentre ciò che il filosofo vuole è proprio tenerle
collegate. Per esistere io devo volere, e per volere devo volere
qualche cosa; ma ciò è vero per tutti gli altri, e nessuno può
volere la stessa cosa dell’altro: non si danno due individui che
siano identici. Nello schema generale, per il quale il tempo non
esprime che la « durata » della coscienza individuale, non c’è un
prima e un poi, quasi che l’uomo arrivasse nell’universo, e tro­
vasse tutti i posti occupati tranne il suo ”, ma una contemporaneità
nella quale ciascuno, in ogni istante, rivendica e conquista la
propria zona di vita, dilatandola o restringendola a seconda delle
proprie forze, e delle forze degli altri.
Con questo si è arrivati all’altro punto cui si deve accennare,
quello del passato; l’atto di libertà con la quale il singolo afferma
se stesso è, si è visto, la radice esistenziale di ogni individuo: ma
cos’è che determina ciò che io voglio? È qui che il distacco di
Schelling dalla tradizione etica precedente è davvero evidente:
sia Kant che Fichte avevano insistito sul fatto che ciò che si vuole
c la volontà buona, e Kant aveva lungamente spiegato in qual
modo questo universale potesse essere adoperato come metro per
giudicare della proponibilità morale delle singole azioni. Qui,
invece, si argomenta che se « solo con questo limitare la libera
attività ad un determinato oggetto io divento consapevole di me
stesso, quindi anche libero », « prima che io sia libero, cioè con­
scio della mia libertà, la mia libertà dev’essere già limitata, e certi
atti liberi devono, ancor prima che io sia libero, essere resi per
me impossibili » ,0°. Questo motivo, della vita come limitazione
97 Questa tesi estrema si può trovare esposta nella dissertazione di
O. Braun, Schellings geistige Wandlungen in den Jahren 1800-1810, Lipsia
1906, pp. 20-29.
98 V. per es. F. Maugé, La liberté dans l'idéalisme transcendental de
Schelling, in « Archiv f. Gesch. d. Philos. », 1901, pp. 361-83 e 517-35,
nonché M. Gueroult, La philosophic schellingienne de la liberté, in « Stu­
dia philosophica », 1954, pp. 146-61.
99 L’immagine è suggerita dallo stesso Schelling, che conia, all’occa­
sione, un curioso neologismo: praocctipiert (III, 546).
100 III, 549 (il corsivo è mio).

175
progressiva, era di per sé abbastanza pacifico: poche righe prima si
trova la frase, già ricordata, « l’individuo si fa sempre meno libero
quanto più opera ». Ma, nel passo che si è sopra citato, il discorso
è profondamente diverso: non si tratta, cioè, di ciò che avviene
dopo la scelta, ma di ciò che avviene prima di essa, anzi, che la
condiziona. Dal punto di vista sistematico la posizione di Schelling
è del tutto coerente: la consapevolezza si ha solo ad un certo
■ grado, e dopo varie « epoche » della storia dello spirito: ed egli
non aveva alcuna intenzione di porre una astratta libertà morale
come separata da! ricco ed armonico mondo della vita naturale.
Quali sono però le conseguenze che egli trae da questo? « Suona
! molesto, ma non è perciò men vero, che, come innumerevoli
uomini sono originariamente incapaci delle più elevate funzioni
dello spirito, così pure innumerevoli altri non sono mai in grado
di operare con libertà ed elevatezza di spirito anche al di sopra
della legge, come può essere lecito solo a pochi eletti » *°l. Il
riferimento ai « pochi eletti » che vanno oltre la legge è assai
probabilmente la reminiscenza di un passo di Jacobi, dalla di poco
precedente Lettera aperta a Fichte-, e su questo si tornerà più
avanti. Ma quello che qui importa rilevare è che il talento o il
genio, per l’azione come per le arti e per le scienze, non sono
conseguenza di una scelta, o della educazione, del singolo, ma,
al contrario, l’espressione del suo carattere originario, che deter­
mina tutto il resto ,02. Si noti che non si tratta di determinazione
»
positiva (che si diventi « necessariamente » geni) ma negativa,
che ci siano cioè le virtualità per diventarlo: spetterà poi al sin­
golo mettere a frutto i talenti che gli sono stati affidati, o na­
sconderli nella terra.
È così che, pur con questo apparentemente rigoroso determi­
! nismo, Schelling lascia libero uno spazio importante alla libertà,
e può parlare di « educazione » per esprimere l’influenza che,
sulla mia coscienza, sarà esercitata da altre coscienze; educazione
che è possibile soltanto se ogni individuo è diverso dagli altri:
«la reciproca azione tra esseri razionali [...] è resa possibile sol­
I tanto da ciò che si chiama diversità di talenti e di caratteri, la
quale appunto per questo, per contraria che sembri alla tendenza
101 III, 549. La traduzione italiana Losacco-Semerari reca (p. 221)
« elementari » invece che « elevate », svisando così il significato del passo.
102 È per questo che Schelling afferma che c istintivo, per gli uomini,
giudicare del talento e del carattere di un altro dal volto e dall’espres­
sione (III, 552).

176

;
J__
verso la libertà, è purtuttavia necessaria come condizione della
coscienza » ’03. Si noti l’inciso: « per contraria che sembri alla
tendenza verso la libertà »: non si può dire che Schelling non
fosse consapevole delle possibili conseguenze di ciò che aveva
scritto; e del resto egli aggiunge subito dopo: « Come poi quella
jpriginaria limitazione possa accordarsi con la libertà stessa, anche
in riguardo alle operazioni morali, per mezzo di cui, ad es., è im­
possibile che un uomo durante l’intera sua vita raggiunga un
certo grado di eccellenza, o che esca dalla tutela altrui, non deve
preoccuparsene la filosofia trascendentale [...] ». Si son dovuti ri­
portare tutti questi passi onde mostrare, con le parole stesse del
filosofo, quale è il suo atteggiamento su questo importantissimo
problema. Ma è lecito dire che, con queste frasi, Schelling abbia
I inteso sconfessare le sue precedenti dichiarazioni egualitarie? E
che sia qui, e non negli scritti successivi, che si debbano ricercare
le radici dello « organicismo » politico? Si può rispondere che
prelude certamente all’organicismo l’affermazione — così profon­
damente radicata nel pensiero di Schelling — che soltanto la di­
versità rende possibile quel fruttuoso commercio tra gli uomini
che è la storia, o, lessinghianamente, l’educazione del genere
umano; e non c’è dubbio, anche, che d’ora in avanti non si trova
più, negli scritti di Schelling, quel pathos per la libertà di tutti
da ottenersi attraverso il connubio di filosofia e religione, che
era così forte anche nel 1798. È abbandonata, in altre parole,
l’idea di una pedagogia popolare: e, parallelamente, viene meno
anche l’idea che siano i filosofi a dover governare. In una lettera
ad un amico degli anni di Tubinga Schelling, del resto, lo dice
espressamente 10‘.
Se fosse lecito applicare a Schelling schemi interpretativi che
sono stati tanto spesso adoperati a proposito di Hegel, si potrebbe
piuttosto suggerire che, anche per lui, ad una fase di impegno
per la trasformazione del mondo si sostituisce quella della « con­
templazione » di esso. È qui che si può trovare la radice di quel­
l’atteggiamento « estetico » nei confronti della storia che gli farà
dire, neanche tre anni dopo, che essa è il « grande specchio dello
spirito del mondo, l’eterna poesia dell’intelletto divino », che il
suo ufficio, quello di mostrare come si incontrino e si mescolino
la libertà dell’uomo e la necessità, è lo stesso di quello della

103 IH, 551.


104 Plitt, I, 262.

12. Cesa 177


*
;

tragedia; e che gli farà auspicare un « artista » come il più idoneo


a scrivere di storia ,os. Dicendo « estetico » non ho inteso intro­
durre una valutazione dispregiativa, come se fosse estetismo o
qualche cosa di simile: estetismo storico è quello di Novalis, e
più tardi di molti dei patiti del Medioevo, non quello di Schelling.
Il suo, piuttosto è l’atteggiamento di chi, attraverso la natura, ha
trovato la strada per cogliere il contenuto universale della « vo­
I1 lontà » umana. Se nello scritto del 1795 le esigenze più immediate
! della polemica contro il « dogmatismo » lo avevano indotto ad
insistere sull’esigenza che l’uomo edifichi il suo mondo in confor­
mità di una non ben precisata sua propria natura, ora quest’ul-
tima viene inserita in una natura assai più vasta, dinamica e non
immota, vivente e non meccanica, nella quale la necessità scatu­
risce dal consolidarsi di un equilibrio, e nella quale la volontà
umana trova sì il suo limite, ma anche lo stimolo negativo ad affer­
marsi. Non è un caso che, proprio nel Sistema, si trovi l’afferma­
zione che il soggetto della storia è il « genere » umano, non l’in­
dividuo; ma di questo si dirà più avanti.
Quello di Schelling sarebbe stato davvero un naturalismo di­
namico se egli, accanto a tutti questi elementi, non ne avesse
introdotto un altro; se non avesse, cioè, integrato il mondo umano
con un concetto che compare appena, e con un incerto valore
sistematico, negli scritti di filosofia della natura: quello di ar­
monia prestabilita. Il richiamo a Leibniz, nella interpretazione che
egli ne suggerisce, è anche troppo ovvio. Ma oltre a questo bi­
sogna ricordare anche certi scritti di Kant, e quelli di Fichte del
I
1798-99, soprattutto il Fondamento della nostra fede e l’Appello

al pubblico. È qui che la « fede » in un piano provvidenziale
) viene energicamente ribadita come l’unica forma possibile di
religione, come ciò che può salvare l’uomo dal chiudersi in un
meschino e colpevole egoismo. E anche nel Sistema schellinghiano
! l’armonia prestabilita ha un posto decisivo nella parte pratica,
sia per spiegare il rapporto tra la parte sensibile e quella razio­
nale dell’uomo, sia per indicare come « soggetti di egual realtà » 106,
dei quali, cioè, nessuno è subordinabile ad un altro, possano coe­
sistere, ed anche cooperare. E ciò perché, al livello della consa­
pevolezza e della volontà la « reciproca azione », da sola, non è
più sufficiente: il mondo « pieno » rischia di ridurre il ritorno

105 V, 309-11.
106 III, 540 c 556.

178
dello spirito su se stesso a un breve circolo, nel quale sia la cono­
scenza che l’operare morale non hanno alcuno spazio creativo.
È in questo contesto che Schelling recupera altri caratteristici
concetti: quello di appetito o impulso (Trieb), quello di « esi­
genza » e quello di « dovere ». Non è il caso di soffermarsi su
ciascuno di questi: basterà notare che essi esprimono il movimento
del singolo ad andar oltre l’esistere come dato; e insieme (e questo,
per Schelling, è ciò che conta di più) essi assicurano l’unità pur
nella molteplicità degli atti di coscienza, fondano, cioè, la « du­
rata » dell’autocoscienza stessa. L’operare, cioè, non è soltanto un
reagire (in tal caso i singoli atti di esso sarebbero assai più legati
agli stimoli negativi che subiscono che non alla loro propria radice
individuale), ma un muoversi in una determinata direzione, in
una alternanza di limitazione e di recupero della propria radice,
l’operare infinito. Questa è la « natura » umana: e quando si dice
natura, si dice anche che l’uomo non può essere diverso da quello
che è. La libertà assoluta, o, che è lo stesso, l’identità complet i
tra necessità e libertà, si avrà soltanto al di là della filosofia teo­
retica e di quella morale, in quella attività che sola ha un fine
fuori di sé, cioè la sfera artistica ,0T. Nella zona dell’operare, in­
vece, l’uomo è limitato, ma sente sempre risorgere in sé il volere
assoluto che — a questo punto si può ben dire — non è altro
che la vitalità nella forma umana e non meramente animale 108,
una vitalità razionale, e non cieca, individuale, e non collettiva,
nella quale ogni individuo può essere, solo che lo voglia, un vei­
colo dello spirito.
Ma come si può conciliare questo con quanto si era visto
poco prima, sulla incapacità di gran parte degli uomini di adem­
piere alle funzioni dello spirito, cioè di aver coscienza della loro
libertà? Non siamo noi ad immaginare questo problema: è lo
stesso Schelling che vi accenna alla fine di questa trattazione, di­
chiarando che, per esso, egli non può che rimandare alle « analisi
di Kant sul male originario » ’00, cioè al primo capitolo del libro
sulla religione (cui Schelling si era già riferito nella dissertazione
del 1792). Sarà indispensabile, quindi, dar qualche notizia su

’07 ITT, 554 e cfr. Fichte, 5. W., IV, 223.


,0" III, 577: « [...] il volere, in quanto è assoluto, è superiore anche
alla libertà, c, ben lungi dall’essere sottoposto ad una qualsiasi legge, è
anzi la sorgente di ogni legge ».
100 III, 580.

179
quelle tesi dello scritto kantiano che interessano più da vicino il
nostro argomento.
Kant, anzitutto, nega che la sensibilità, come tale, sia la fonte
I
del male, in quanto sia essa che le inclinazioni naturali che ne
derivano, sono un dato la cui responsabilità non può essere attri­
buita all’uomo; e « non c’è male morale (cioè imputabile) se non
quello che è un nostro proprio atto » 110. Eppure nell’uomo c’è
una naturale tendenza (Hang) al male, ed è una tendenza innata,
tale da non poter essere soppressa: essa consiste, fondamental­
mente, nell’invertire l’ordine morale dei motivi “l, cioè nel su­
bordinare la legge morale all’egoismo, e nell’operare, magari,
in conformità alla legge, ma per i vantaggi che da questo com­
portamento si possono ricavare, non per adempiere alla legge
stessa. Però (ed è qui che il discorso kantiano poteva interes­
sare Schelling) il male non ha avuto inizio da una tendenza che
fosse anteriore all’agire umano, ma dal peccato, cioè dall’agire
stesso 113. E se non ha senso domandarsi perché il male « sia il
nostro proprio atto », in quanto « non si può apportare la causa
di una proprietà fondamentale, appartenente alla nostra na­
tura » 113 resta il fatto che l’uomo, in ogni momento, può af­
frontarlo, o, almeno, ha il dovere di farlo. « Ma se anche un
uomo — scrive Kant — fino al momento in cui è sul punto di
compiere un’azione libera, fosse stato così cattivo (che l’abi­
tudine di mal fare fosse diventata per lui una seconda natura)
tuttavia è certo che non solo è stato, ma è anche ora suo do­
vere di migliorarsi: e, quindi, egli deve poterlo fare, e se non
lo fa, egli è appunto così capace e passibile d’imputazione nel
momento dell’azione come se, dotato della disposizione natu­
rale al bene (che è inseparabile dalla libertà) egli fosse passato
direttamente dallo stato d’innocenza al male » ,u. In linguaggio
schellinghiano: ogni atto di libertà è un nuovo inizio, e anche
chi è più lontano dalla libertà intellettuale deve, almeno come
esigenza e come dovere, tendere verso di essa: la responsabi­
lità di chi resta nella miseria a cui è disposto non è minore di
colui che se la fosse scelta volontariamente.

no Kant, G. S., VI, 31.


ni Ivi, VI, 36.
■ !
uà Ivi, VI, 41-42.
na
Ivi, VI, 32.
114
Ivi, VI, 41.
;
180

li
Col richiamo a Kant — ma è caratteristico che Schelling
abbia scelto questa via, di appellarsi ad una autorità, piuttosto
di svolgere in proprio nome l’argomentazione — si è aperta la
strada al problema di come la « libertà » possa tradursi in agire
oggettivo; e Schelling lo affronterà discutendo di quelle istitu­
zioni e di quelle strutture che costituiscono la cornice nella
quale il genere umano potrà avvicinarsi alla sua destinazione.
Di questo si tratterà nel prossimo capitolo. Ora bisognerà sof­
fermarsi, invece, su un punto cui si era già fatto cenno: l’af­
fermazione che ci sono degli « eletti » che possono andare « al
di là della legge ». A prima vista tutto il discorso sembrerebbe
paradossale: il filosofo ha constatato che ci sono uomini inca­
paci delle più elevate funzioni dello spirito, e altri incapaci di
uscir di tutela; ha rilevato, però, che la diversità di talenti e
di caratteri è condizione della libertà stessa. Da tutto questo sa­
rebbe stato lecito concludere che l’uomo che opera secondo la
libertà, e che realizza così la sua destinazione, è anche quello
che opera secondo la « legge », e che sono gli altri ad essere
a questa inferiori. Così, almeno, se Schelling avesse ragionato
secondo uno schema vicino a quello di Kant o di Fichte. Ma
egli ha inteso dire, evidentemente, un’altra cosa: ha inteso cioè
svuotare, sia pure con un accenno ambiguo, il concetto stesso
di « legge », che egli considera come qualche cosa che va bene
per i più, per quelli che non sono in grado di dare un proprio
contenuto al proprio operare, e non per gli « eletti », o per i
« geni » delle arti, delle scienze e dell’azione.
Si è detto della possibile influenza di un passo di Jacobi:
è quello che nel 1802 venne citato come tipico anche da Hegel 1W,
e nel quale Jacobi contrappone alla « legge » e alla « volontà
che non vuole nulla » (cioè la volontà che vuole solo se stessa)
i gesti di quegli eroi che hanno violato la legge non per egoi­
stico interesse, ma per nobiltà morale, per affermare, secondo
il detto evangelico, che non l’uomo è fatto per la legge, ma la
legge per l’uomo 1,e. Questa « santificazione della soggettività »,
contro la quale Hegel, che pure non amava la morale kantiana,
non mancava di sollevare precise riserve, non può stupire chi
abbia seguito fin qui lo svolgimento del pensiero di Schelling,

1.5 Hegel, S. W., I, 381-82.


1.6 Nella silloge di scritti di Jacobi curata da N. Bobbio (Idealismo
realismo, Torino 1948) il passo è a p. 188.

181
e si sia accorto che la rivendicazione della individualità è, di
quello svolgimento, uno dei pochi punti costanti. Il fatto re­
lativamente nuovo, semmai, è che il filosofo sembra aver ri­
nunziato a fare, di questo concetto, una applicazione universale
(come nella Nuova deduzione, ma anche nel 1798) per parlare,
invece, dei « pochi ». Si può vedere, qui, una consapevole po­
lemica antidemocratica? Quasi certamente no. Schelling non
pensa al « popolo », quando parla di coloro che sono incapaci
di uscir di tutela, ma invece agli intellettuali del filone razio­
nalistico, e poi critico, che sono troppo vili per osare le avventure
dello spirito. Egli non amava il frasario immoralista, e si sa che fu
« indignato » dalla Lucinde di F. Schlegel117 : ma proprio il suo
vitalismo lo portava a preferire ciò che crea e rinnova al noioso
girare in tondo con gli stessi gesti e gli stessi argomenti. Ora
che il suo paese era ancora campo di battaglia che i governi
non mostravano altro che fiacchezza che le classi colte si
erano rifiutate di accogliere la nuova cultura, ed anzi angustia­
vano in ogni modo i portatori di essa ’20, Schelling, se poteva
vagheggiare per il futuro uno sbocco armonico della storia del
genere umano, non poteva, per il presente, che rivendicare i
diritti del « genio ». Malgrado il tono polemico, non bisogna
perdere di vista che il suo è un atteggiamento difensivo. Il fa­
moso Odi profantim volgus et arceo delle lezioni del 1802 è la
espressione più clamorosa di questo stato d’animo.
Di fronte agli stessi avvenimenti, Fichte aveva reagito in
modo molto diverso; anche per lui le resistenze e le ostilità
dell’ambiente, e il mancato trionfo della Dottrina della scienza
erano autentici segni premonitori della impossibilità che quella
i
t società e quella cultura fossero suscettibili di salvezza: ma, contro
i le molestie e le minacce, egli cercava soccorso da una parte
nell’appello alla tradizionale « libertà protestante », e dall’altro
in una consapevolezza, che nella religione trovava il suo fonda-

117 Haym, op. cit., p. 518.


"• Plitt, I, 272.
! 119 Fichte, Briefw., II, 138.
120 II Kampffmeyer, Schelling und Deutschland cit., p. 125, ha scritto,
a proposito delle vicende dello Atheismusstreit-. « La sicurezza dei filosofi
subì un colpo che minacciò di recidere le radici di queU’cntusiasmo, ani­
mato da un segreto spirito di ribellione, che, mediante la filosofia, voleva
«rivoluzionare» il tradizionale ordine del mondo [...]. Questa esperienza
deve aver esercitato su Schelling un’influenza decisiva ».

182

H
mento, del dovere di continuare, perché ogni uomo ha ricevuto
dalla provvidenza il suo posto, « e si fa conto sul suo lavoro ».
Pur oppressa, la filosofia non rinunziava al suo compito, di sti­
molare e di educare, senza che al pensatore venisse rivendicata
una posizione privilegiata.
Schelling, si è visto, ha scelto invece un’altra strada. E non
è arbitrario, credo, vedere qui la radice di quel grande contrasto,
di mentalità e di cultura, che proprio in questo periodo inco­
minciava a manifestarsi tra Fichte e i suoi discepoli (non solo
Schelling, ma anche gli Schlegel, Schleiermacher, Novalis: per­
sonalità che non erano d’accordo tra loro, ma avevano in co­
mune l’essere stati fichtiani, il professarsi ancora tali, ed insieme
l’aver cessato di esserlo). Con una contrapposizione oltremodo
fuorviarne alcuni studiosi hanno opposto il « razionalismo » di
Fichte all’irrazionalismo dei romantici. Ora, se « razionalismo »
viene preso in senso storico preciso, Fichte non era meno an­
tirazionalista di costoro; se viene preso in senso più generico,
i contorni si sfumano tanto che una netta contrapposizione di­
venta impossibile. Se si vuol far ricorso a formule, quello di
Fichte è un « teismo mistico » — così si era espresso già un
contemporaneo 121 — nel quale l’operare umano ha come somma
aspirazione quella di portarsi al livello del disegno di Dio; per
i romantici, invece, l’uomo deve sviluppare la propria indivi­
dualità, deve estrinsecare quell’ineffabile che più intimamente lo
costituisce; ciò che egli è si ricava da ciò che egli è riuscito a
fare, e la sua vita e la sua opera si identificano. Non è lui a
nobilitarsi al contatto dei supremi valori, ma sono questi che
diventano rispettabili soltanto se sono energicamente vissuti,
se sono il contenuto di una ricca esperienza individuale.
È per questo che tutti i romantici (ma anche, per ragioni di­
verse, Hegel!) si levano contro il «positivo» e la «legge».
Un ordinamento statico potrà essere vivificato solo perché gli
uomini vi si sottomettono « volontariamente », e perché la co­
scienza accetta di farsi il gendarme di se stessa? Non è forse
preferibile l’anarchia ad un assoluto dispotismo? l32. Malgrado la
pressione della rivoluzione francese, e il fermentare della nuova

121 K. C. E. Schmid, professore a Jena. La notizia in M. Wundt, Die


Philosophie ari der Universitdt Jena, Jena 1932, p. 193.
122 Così dichiarava F. Schlegel nel 1796, nel saggio ispirato dallo
scritto kantiano sulla pace perpetua {Krit. Ausg., VII, 25).

183
cultura, le istituzioni avevano retto, la società era rimasta im­
mobile, il rinnovamento non era venuto. Come stupirsi che, di
fronte alla impossibilità della « rigenerazione » collettiva si pen­
sasse ad una salvezza individuale?
Questo — anche per Schelling — è il punto di crisi della
filantropia e del cosmopolitismo del periodo precedente. I ro­
mantici tenteranno di uscirne, poco dopo, appellandosi anch’essi
ad una « religione » che non era però quella di Fichte. Ed anche
■ Schelling, sia pure con un certo ritardo, e mettendo sempre in
II evidenza le differenze che lo separavano da loro, si metterà per
i• la stessa strada. Ma non senza aver anche — sotto la influenza
di Hegel — tentato la via di una « metafisica dello Stato ».
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I
V. La storia e lo Stato

1. È possibile una filosofia della storia?

Del problema della storia del genere umano Schelling si era


già occupato nella dissertazione del 1792; allora i suoi modelli
erano stati Herder e Kant, e soprattutto il secondo. Negli anni
che seguirono, e proprio nell’ambiente nel quale egli viveva, la
discussione sulla storia universale, e sul significato di essa, non
fu caratterizzata da contributi elaborati e significativi; ci sono
però alcuni accenni, dei quali occorre rapidamente dar conto
per cogliere il preciso significato della teorizzazione del Sistema
dell’idealismo trascendentale. Anzitutto bisogna ricordare Fichte:
nella Destinazione del dotto questi aveva affidato alla conoscenza
storica un duplice compito: quello di indicare i mezzi con i
quali possono essere soddisfatte le più alte aspirazioni degli uo­
mini e quello di determinare con precisione « in quale determi­
nato grado di civiltà si trovi quella società di cui si è membri » l.
Questi due tipi di conoscenza « storica », insieme alla filosofia,
devono servire a promuovere e sostenere il « continuo pro­
gresso » del genere umano, e non a caso Fichte non esita a par­
lare di storiografia « pragmatica ». Poco dopo, e proprio sull’or­
gano della scuola fichtiana, il « Giornale filosofico », F. Schlegel
recensiva la Esquisse del Condorcet; accanto ad alcuni ricono­
scimenti dei meriti dell’opera, veniva rimproverato ad essa di
aver esposto i fatti senza aver tenuto conto « dei necessari
gradini della Entwicklung interiore », di aver mal definito e tra­
scurato l’idea di eticità e di averla addirittura confusa con il
progresso dei lumi3, quando la storia del mondo antico era lì

* 5. W., VI, 326-27.


2 II passo di Condorcet è quasi certamente il seguente: « Nous mon-

185
a dimostrare il contrario; e compariva anche l’idea che il giorno
in cui la storia dell’umanità avesse trovato il suo Newton, colui
che « con egual sicurezza sapesse cogliere lo spirito ascoso del­
l’individuo ed orientarsi in un tutto sterminato », allora non
sarebbe stato impossibile prevedere il movimento futuro della
civiltà umana 3. L’idea della « cultura etica » come del vero punto
dal quale si dovesse prendere le mosse per studiare la civiltà
umana, che poi doveva trovare una così vasta applicazione nella
storiografia della scuola romantica, era già qui delineata e si

sentiva già, sia pure confusamente, la difficoltà di conciliare un
tale concetto, che ha la sua tipica sede in un popolo o in un’epoca
omogenei, con lo schema di una unitaria storia del mondo. Com­
pare già, inoltre (ed è estremamente caratteristico) la difesa di
un altro motivo .centrale dell’interesse dei romantici per la
storia: quello della idea di « decadenza » 4.
Queste tensioni, invece, non si ritrovano affatto tra i profes­
sori kantiani che incominciavano ad occuparsi di storia della
filosofia; essi ritenevano che gli elementi positivi di tutti i si­
stemi precedenti avessero trovato nel criticismo il loro punto di
arrivo e che ciò rendesse finalmente possibile una storia della
filosofia, come esposizione dei successivi tentativi della ragione
di realizzare l’idea della scienza Se pur si trattava di un set-
tore particolare della storia dello spirito umano, anche qui ve-
I niva ribadito il motivo della unità e del progresso.
1 L’idea del carattere unitario e progressivo della storia uni­
versale è ovvia anche per Schelling; fin dalla dissertazione ma­
I gistrale egli si era richiamato ad una frase di Leibniz, quella
dell’animo come specchio del tutto, per avanzare l’esigenza di
una storia delle origini del genere umano condotta a priori, cioè

trerons [...] que les progrès de la vertu ont toujours accompagné ceux des
lumières ». Cito dall’ultima edizione della Esquisse, Parigi 1966, p. 129.
3 La recensione è ora contenuta nella Kritische-F.Schlegel-Ansgabe,
sez. I, voi. VII, Paderborn 1966, pp. 3-10.
4 Condorcet aveva scritto, a proposito dei dotti dell’età alessandrina,
che è tra loro che si diffuse « l’idée si fausse et si funeste de la décadence
du genre humain, et de la supériorité des temps antiques » (op. cit., p. 151).
Lo Schlegel ribatte seccamente che questa idea « è la voce di tutta l’anti­
chità, il risultato di tutta la storia antica » (cit. p. 8).
3 Su Tennemann cenni in M. Wundt, Die Philosophie an der Uni-
versitàt Jena, cit., p. 196; su Reinhold v. A. Pupi, La formazione cit.,
pp. 277 sgg. e 308 sgg.

186
« secundum principia ex ipsa animi humani indole hausta » *. Ma
a questa idea, della costruzione teorica della storia del passato,
a cui rimase attaccato anche in seguito, si affianca ben presto
un concetto molto più mosso; proprio contro l’aspirazione dei
« kantiani » di ricondurre all’unità i diversi sistemi, smussandone
le punte, egli esalta invece la consequenzialità del grande pen­
satore: anche se questi sbaglia ha un posto nella storia del
pensiero, perché il fondamento ultimo del suo errore « va ricer­
cato in qualche luogo dello spirito umano » 1. Questa tensione
di libertà, per la quale ogni grande spirito crea da sé il suo mondo,
è l’unico elemento che permetta di unificarli tutti; e quando « lo
spirito di un uomo non è riempito dalla coscienza della libertà,
allora è interrotto ogni commercio spirituale non solo con gli
altri, ma anche con se stesso; non può stupire che nessuno lo
capisca, né gli altri né lui, e che egli, nella sua spaventosa soli­
tudine, si logori con vuote parole, alle quali non risponde al­
cuna amichevole eco » *.
Già da questi, e da altri accenni, si delinea l’idea della storia
universale come storia dei grandi spiriti, di coloro che hanno
saputo essere liberi. Ma fu solo nel « Giornale filosofico » del
1798 che Schelling pubblicò un breve saggio sulla possibilità di
una filosofia della storia, nel quale la tematica cui si è ora ac­
cennato trova una molto provvisoria sistemazione. Egli afferma
che è solo impropriamente che si parla di « storia della natura »;
ed esclude anche che i fenomeni naturali possano esser fatti
entrare in una storia del genere umano La natura (ivi com­
prese le specie animali) ha come tratto caratteristico il ciclo,
la ripetizione: la storia, invece, ha come oggetto « ciò che si
trasforma, che progredisce nel tempo », ciò di cui è assoluta­
mente impossibile determinare la direzione futura 10. Ed ecco
l’affermazione più significativa: « Storia si ha soltanto dove c’è

“ I, 25, n. 2. La frase di Leibniz aveva già colpito la mente di Herder:


cfr. di questi S. W., XIII, 199 sgg.
7 I, 171.
* I, 443; cfr. anche II, 12.
9 I, 466-67. È assai probabile che egli intendesse qui criticare Herder,
nelle cui Idee» i primi tre libri erano dedicati alla storia della terra, e del
regno vegetale ed animale.
10 I, 470; cfr. anche p. 471: « Non è possibile storia di ciò di cui è
possibile una teoria a priori, e, viceversa, ha storia solo ciò che non ha
teoria a priori ».

187
< I

un ideale, e dove, nel particolare, ha luogo una molteplicità in­


finita di deviazioni da questo, ma, nell’insieme, c’è invece una
piena congruenza con esso; una proposizione, questa, da cui si
può ricavare subito anche che storia è possibile solo di quegli
esseri che esprimono il carattere di un genere; da questo sol­
tanto noi saremo autorizzati a dedurre che nella storia il ge­
nere umano può essere rappresentato come una totalità » 11. Ma
I cosa vuol dire « esprimere il carattere di un genere »? Il filo­
sofo si sofferma a lungo su questo punto, proprio per evitare
equivoci: egli spiega che ciò che distingue il genere umano dalle
i specie animali è il fatto che, in queste ultime, non c’è un di­
i
i * stacco tra l’ideale ed il singolo: qui « ogni individuo esprime
I compiutamente il concetto del genere », e non è possibile quindi
né tradizione, né progresso ,a. Il carattere del genere umano è
li invece proprio quello di tendere progressivamente alla realizza­
zione dell’ideale, e di un ideale che non potrà mai essere total­
mente realizzato: se lo fosse, la libertà si identificherebbe con
’a necessità naturale, e noi cesseremmo di essere uomini, e quindi
li essere liberi: « Perciò nel dogmatismo non c’è libertà, ma
pio fatalismo, e, per converso, la filosofia che prende le mosse
dalla libertà elimina per ciò stesso ogni assoluto fuori di noi » 13.
Qui il concetto di libertà = finitezza ha esattamente lo stesso
significato che aveva nelle Lettere filosofiche 14 ; manca del tutto
il motivo che troveremo invece nel Sistema, di un assoluto di
cui il finito è la rivelazione e che sta a fondamento sia della
natura che della libertà: evidentemente ancora alla metà del

11 I, 469. Queste idee saranno poi riprese nel Sistema-, ma ciò non
consente di affermare, come ha fatto il Fester, Rousseau cit., p. 165,
che qui Schelling non faccia che ripetere alla lettera le affermazioni del
1798; ciò vale soltanto per le pp. in, 587-90.
ir 12 « In questa successione (degli animali) non è possibile alcuna tra­
dizione da generazione a generazione, né un costruire sulle fondamenta
poste da chi è venuto prima; non è pensabile un accrescimento di ciò che
dagli antenati era stato raggiunto, né un superare quei limiti a cui essi si
: erano fermati » (I, 471).
13 I, 473.
14 C’è, del resto, un luogo che ricalca da vicino un passo di quello
scritto. Allora, si ricorderà, Schelling aveva respinto la beatitudine, e aveva
parlato della « infinita noia » legata all’idea di un essere infinito; e qui
I parla del « sentimento di noia » provocato da « ogni rappresentazione di
uno stato assoluto della ragione », e si fa beffe degli « uomini ideali » e
degli angeli, « i più noiosi di tutti gli esseri » (I, 473).

188
1798 Schelling tendeva più a rivendicare la libertà che a cer­
care l’armonia. Ma, nell’affermazione che c’è storia solo di chi
esprima il carattere di un genere, egli ha suggerito anche qualche
cosa di simile a quello che poi nel Sistema sarà espresso col
termine di « eletti », ovvero anche col parlare di coloro che
sanno essere « causa di un nuovo futuro » 15 ; non basta, cioè,
essere biologicamente uomini, ma bisogna anche essere uomini
liberi — è solo così che si eredita il passato andando al di là
di esso, senza farsene una legge della quale si rimanga prigio­
nieri. Va precisato che nel saggio del 1798 (come del resto anche
nel Sistema) non ce nulla che faccia pensare ad una « tradi­
zione » in senso culturale, o nel senso di quella sittliche Bildung
alla quale pensava F. Schlegel: « progresso », quindi, non esprime
altro che il superare il limite con un atto di libertà, il quale, a
sua volta, genera un altro limite. Quale sarà l’esito finale di
questo processo è del tutto imprevedibile, per cui Schelling può
concludere che se per filosofia della storia si intende una scienza
della storia a priori, allora essa « è impossibile. Quod erat de-
monstrandum » l*.
Ma è sufficiente l’ideale a sorreggere il progresso? Basta
essere liberi perché si generi una misteriosa comunità di spi­
riti che, tutti insieme, costituiscono la « totalità del genere
umano »? Era la stessa impostazione del problema a portare a
soluzioni così poco convincenti. Ma il filosofo, ora, non sembra
accorgersi di questo; il « genere » del quale egli parla è quali­
ficato, in fondo, dagli individui che ne fanno parte: esso non
ha una direzione o un fine che non si identifichi con quelli di
ciascuno di questi, o almeno di quelli che fanno storia. Tutta
la ricca problematica esposta da Kant in scritti che Schelling
senza dubbio conosceva (e dai quali trarrà non pochi spunti
neanche due anni dopo) sul mirabile fenomeno per il quale è
lo scatenato operare degli individui che, moltiplicando i motivi
di frizione e di contrasto, li costringe ad una « insocievole so­
cievolezza » che dà vita, al di là di ogni loro proponimento,
alla società e alla storia universale, qui è quasi del tutto dimen­
ticata (salvo che per l’uso del concetto «genere»). Il pathos !
della libertà portava il filosofo a mettere da parte il grosso prò- i

■l

15 III, 591.
“ I, 473.

189
blema della armonizzazione tra libertà e natura, e tra il singolo e
gli altri.

2. La costituzione cosmopolitica.

Si è già visto che ogni atto di volontà cade nel tempo; è


in base ad un ragionamento analogo che Schelling, nel Sistema^
dimostra come la libertà assoluta, quella che è radice esisten­
ziale del soggetto, non possa essere, nel mondo fenomenico, che
« arbitrio », cioè un « assoluto volere il quale si manifesta nei
I limiti della finitezza » ”.
Ogni soggetto, però, vive in mezzo ad infiniti altri, e una
«reciprocità d’azione tra loro per U mezzo del mondo ogget­
tivo è anzi condizione della libertà Questo porre l’arbitrio,
e non la libertà pura, come il termine di collegamento tra gli
uomini in quanto soggetti empirici si ritrovava già nel Natur-
recht di Fichte, al quale Schelling qui evidentemente si ispira,
quando afferma che non si può affidare al caso una armonizza­
tone degli arbìtri tra loro **; è fichtiana anche l’argomentazione
che l’essenza del diritto deve consistere nello sfruttare la ten­
denza utilitaria dell’uomo: occorre, cioè, una legge congegnata
in modo tale che ogni invasione della sfera altrui porti con sé

il un risultato opposto a quello desiderato, e che questa legge sia


inesorabile, ed operi con la stessa necessità della natura =0.
Ma le analogie con Fichte si fermano qui e le pagine de­
.1 dicate d’ora in avanti alla costituzione sono una tacita e punti­
- gliosa correzione delle formulazioni fichtiane. Perché Schelling
continua a non attribuire nessuna funzione positiva allo Stato.
Anche Fichte distingueva la teoria del diritto da quella della
morale: ma — come egli dirà anche più chiaramente negli scritti
redatti dopo il 1800 — rendendo impossibile il male, costrin­
gendo l’uomo a vivere come se avesse il cuore puro, lo Stato
prepara, a lunga scadenza, la fine dell’egoismo. Schelling, in­
vece, si ribella contro l’idea che l’ordinamento giuridico possa
arrogarsi fini morali: « Tutti i tentativi per trasformarlo in mo-
I

! 17 III, 578.
18 III, 582.
” Fichte, X W., Ili, 138.
20 Fichte, HI, 142 sgg. e Schelling, III, 583.

190
!

rale — egli scrive — manifestano il loro lato biasimevole per
la loro propria follia, e per il dispotismo nella sua forma più
terribile, che ne è l’immediata conseguenza » 21. Può ben darsi
che qui egli intendesse polemizzare contro il meschino e pa­
ternalistico moralismo di tanti Landesvàter tedeschi: ma è im­
possibile non pensare anche alla pretesa del partito robespier- ;
rista di appellarsi alla Virtù, e di non vedere, nei suoi avversari,
che degli hommes corrompus-, come l’invettiva schellinghiana
contro un ordinamento « in cui impera non la legge, ma la vo-
Jontà del giudice », fa pensare, oltre che a certi despoti tedeschi, :
anche alla richiesta, avanzata più volte da Robespierre, che si
formassero tribunali nei quali, senza sottigliezze giuridiche, le
sentenze fossero rese sulla base della coscienza dei giudici. Questi
vogliono, ovviamente, essere solo suggerimenti: si accettino, o
si sostituiscano con altri, resta il fatto che qui (come già nella
Nuova deduzione) la critica schellinghiana è a due tagli, può es­
sere intesa, cioè, come rivolta contro il dispotismo tradizionale
come contro l’autorità illimitata del governo rivoluzionario. E
i
non è probabile che questo accadesse senza una precisa inten­
zione.
Ma si ammetta pure che un ordinamento politico rinunzi a
penetrare nel sacrario della coscienza individuale, e si proponga
di regolare soltanto i rapporti esterni, in modo che la libertà
di ciascuno venga soltanto limitata, e non soppressa; quale potrà i
essere, si domanda ora, la genesi di esso? Fichte aveva indi­
cato due fasi della formazione dello Stato. La prima aveva la
sua radice nella invincibile esigenza degli uomini a vivere in­
sieme sotto un ordinamento giuridico; qui l’uomo che si trovi
almeno ad un certo grado di civiltà non ha praticamente pos­
sibilità di scelta. È il bisogno (Noi) stesso che gli impone di
sottomettersi tacitamente, e di dare, così, la sua approvazione i :
a certe disposizioni e a certe norme; è un pactum unioni: che
in realtà non è contrattato da tutti: c’è chi non si sottomette
se non riceve sostanziosi vantaggi, e chi accetta in silenzio tutto:
« In questo modo si genera un Notstaat22 che è la prima con-

21 III, 584; cfr. la lettera a Hegel del 21 luglio 1795 in Hegel, Briefe,
I, 27.
22 Notstaat è termine quasi intraducibile; il suo significato può essere
colto dalla opposizione con Vernunftstaat: è cioè uno Stato che ha la sua I ’
radice nel bisogno immediato, e non nella ragione.

191

i
dizione per il graduale progresso verso uno stato conforme alla
ragione e al diritto » M. Dopo aver adempiuto a questo « dovere
di coscienza » di sottomettersi allo Stato, l’uomo acquista il di­
ritto di operare nell’ambito della legge; ed è in questo modo
(anche se il passaggio è poco chiaro) che si può dedurre « dalla
pura ragione » tutta una serie di diritti « originari » che nessun
ordinamento che sia giusto può calpestare, e che gli uomini de­
vono « riconoscersi » a vicenda 24. Non potendosi però costruire
sulla « fiducia » è indispensabile che la legge che garantisce questi
diritti abbia una forza costrittiva, sia uno Zwangsgesetz. È a
; questo punto, quando cioè, si potrebbe dire, l’evoluzione civile
e giuridica di un popolo è giunta alla elaborazione di un vero e
proprio testo costituzionale che i singoli possono porsi il
problema di accettarlo o non accettarlo; ma la loro libertà dura
soltanto un istante, quello della scelta (per chi non accetti, è
aperta la strada dell’emigrazione), perché, dal momento in cui
la costituzione è stata accettata, essa è una forza meccanica che
opera invincibilmente, e che solo una complicata procedura potrà
modificare.
Schelling manifesta un notevole scetticismo nei confronti di
questa costruzione 25: si ammetta pure, egli dice, che la prima
forma di Stato sia imposta dalla No/: come non pensare che
questo stesso « bisogno » non agisca poi come fermento dis-
solvitore? E « poiché nelle cose della libertà non vi è alcun
a priori »20 come essere sicuri che dal Notstaat scaturisca poi
quel « meccanismo comunitario » che sarebbe lo Stato retto da
una costituzione razionale? È lecito invece prevedere che esso
potrà essere solo il risultato di « innumerevoli tentativi », con
diversissime sfumature « secondo il vario grado della civiltà,
del carattere nazionale e così via ». Ogni costituzione è perciò
<< temporanea » e destinata a crollare; e il suo crollo « è tanto

23 Fichte, S. W., IV, 238. È superfluo ricordare che il Fichte del


1796-98 ha, sul patto sociale e sullo Stato, idee assai diverse da quelle che
aveva manifestato nel 1793.
24 Fichte, S. W., Ili, 120 sgg.
: 25 Lo Hollerbach, cit., p. 127 vede qui, invece, una polemica contro
quella teoria del patto sociale, che si può, all’ingrosso, far risalire a Hobbes.
Questa interpretazione non mi convince; intendo, piuttosto, la parte poli­
! tica del Sistema come una serrata discussione, e rettifica, delle tesi dei
con temporanei.
26 III, 585.

192
!

I
r
I

più certo quanto più perfetta può essere sotto il rispetto formale,
perché, se questo è il caso, l’autorità che esercita il potere non
restituirà certo i diritti [alienati dal popolo] il che dimostre­
rebbe già una debolezza intrinseca della costituzione ». Il ripudio
della rigorosa costruzione razionale tentata da Fichte 27 non po­
teva essere più completo, tanto più che Schelling ha l’aria di
difendere i diritti del popolo contro l’autorità. Fichte aveva
dichiarato espressamente che chi esercita legittimamente il po­
tere non può abbandonarlo prima del termine stabilito 2‘, Schelling
suggerisce che un ceto di governanti consapevoli del loro di­
ritto può essere un ostacolo molto più grave, per la libertà di
tutti, di una autorità che abbia il confuso sentimento di una !
sua parziale illegittimità. Fichte aveva intèso, se è lecita l’im­
magine, chiudere la crisi rivoluzionaria additando una costitu­
zione razionale; Schelling è contrario a ridurre la questione ai
termini estremi di anarchia e di ordine, e addita invece un pro­
gredire lento, per successivi tentativi, tanto più che, come si
I
vedrà subito, egli è convinto che, nell’ambito del singolo Stato,
ogni costituzione davvero razionale sia del tutto impossibile !
Se finora era stata criticata la teoria generale del diritto e
dello Stato elaborata da Fichte, adesso si passa a criticare il suo
schema costituzionale. Fichte, si sa, aveva avversato la triparti­
zione dei poteri; Schelling, sia pure in forma involuta, ne fa
una difesa, appellandosi al « modello della natura, la quale non
produce [...] alcun sistema in sé stabile che non sia fondato su
tre forze indipendenti l’una dall’altra »30. Riconosce che le cri­
tiche contro la tripartizione hanno peso, solo, però, perché ri­
velano la debolezza di ogni costituzione che voglia limitarsi ad
organizzare la vita del singolo Stato. Ma questo atteggiamento
i
27 Che, in tutta questa trattazione, Schelling pensasse a Fichte, mi
pare sicuro, e proprio per la scelta di certi termini e di certe situazioni.
Che il popolo dovesse alienare l’esercizio del potere ai magistrati era stato
detto da Fichte (III, 160); e, in quanto alla «perfezione formale», basterà
dire che, nel Naturrecht, Fichte aveva voluto dedurre a priori l’ordina­
mento politico.
28 Fichte, 5. W„ Ili, 165.
29 « Ma se anche, in qualunque maniera accada, sorge infine una co­
stituzione veramente giuridica [...] è provato da saldi ragionamenti che
il sussistere di una tale costituzione, la quale è per il singolo Stato la più
perfetta che sia possibile, dipende in maniera evidentissima dal caso »
(III, 585).
30 III, 586.

193
13. Cesa


I

conciliante serve solo ad aprire la strada ad una critica radicale


di ogni teoria (anche quella fichtiana) che attribuisca la pre­
ponderanza all’esecutivo: ciò sembra essere imposto dalla ne­
cessità di « garantire la sicurezza del singolo Stato di fronte agli
altri », ma il risultato è che, alla fine, il rispetto della costitu­
zione si fonderà soltanto « sulla buona volontà di coloro che
hanno in mano il potere supremo ». Fichte era ben consapevole
di questo pericolo, e aveva ideato, come custode della costitu­
zione, un altro potere, quello degli « efori »31; Schelling obietta
che questo « quarto potere » « o riceve anche la forza, nel qual
caso è lo stesso potere esecutivo, o ne è lasciato privo, e allora
può farsi valere solo se per caso ci riesce: nel caso migliore,
I
qualora, cioè, il popolo si schieri dalla sua parte, è inevitabile
l’insurrezione, la quale in un buon ordinamento costituzionale
il deve essere impossibile quanto in una macchina »33.
Nel richiamarsi alla separazione dei poteri Schelling si ispi­
rava certamente più a Kant che a Montesquieu 33; e largamente
ispirato a modelli kantiani è anche il progetto di una « federa­
zione di tutti gli Stati », intesa come la essenziale garanzia che,
all’interno del singolo Stato, si possa sostenere un ordinamento
conforme al diritto. Ma bisogna aggiungere, anche, che l’impianto
schellinghiano ha una sua originalità: egli non prende le mosse,
come i pacifisti che prima e dopo di lui scrissero sull’argomento,
I dagli orrori della guerra, e dal disordine materiale e morale che
essa produce, ma piuttosto dall’idea che uno Stato il quale sia
assillato da minacce esterne penserà a difendere se stesso, non
a garantire la libertà dei suoi membri. Egli vuole, invece, che
tutti gli Stati « si garantiscano a vicenda la loro costituzione »,
e si sottopongano, a questo fine, ad una legge comune, fondando
uno «Stato degli Stati»34: «e per le mutue vertenze dei po-

31 Per la teoria dell’eforato v. K. Wolzendorff, Staatsrecht und


Naturrecht, Breslavia 1916, pp. 403 sgg., nonché le mie Noterelle sul pen­
siero politico di Pichte, « Rivista critica di Storia della Filosofia », 1968,
pp. 65-72.
33
III, 586. Neanche lo Hollerbacii ha dubbi sul fatto che, parlando
di « quarto potere », Schelling si riferisca all’eforato fichtiano. La teoria
dell’eforato fu criticata a più riprese anche da Hegel: cfr. S. W., I, 479-80
e VII, § 273.
33 Kant aveva sostenuto la separazione dei poteri sia nel Per la pace
perpetua (1795) che, soprattutto, nella Rechtslehre del 1797.
34 Staat der Staaten-, l’espressione è forse influenzata dal kantiano
Vòlkerstaat (G. S., Vili, 357); Schelling evidentemente non condivideva,

194

I
poli esista un universale areopago dei popoli, composto da membri
di tutte le nazioni civili, ai cui ordini, contro ogni ribelle indi­
vidualità statale, sia la forza di tutte le altre »3a. Qualcuno po­
trebbe essere tentato di vedere, nell’idea dello « universale areo­
pago » un riflesso di quel « venerabile concilio europeo » che No­
valis aveva vagheggiato nella chiusa di Christenheit oder Europa,
e che avrebbe dovuto garantire una « autentica libertà » e pro­
muovere « tutte le necessarie riforme »30 ; sarebbe però un acco­
stamento sbagliato, perché qui Schelling, come risulta da tutto
il contesto, ha quasi certamente presente un luogo di Kant
Sia pure in forma fantastica e mistica Novalis auspicava un ge­
nerale rinnovamento della umanità europea; Fichte, che tra l’altro
cominciava ad elaborare l’idea di uno Stato che avesse « confini
naturali »38, voleva soltanto un reciproco rispetto tra gli Stati,
e non faceva alcun cenno ad una autorità sopranazionale. Schel­
ling, invece, si riattacca a Kant, ma allo scopo di garantire i di­
ritti non del singolo Stato, ma del singolo individuo: è un at­
teggiamento che, poco più tardi, sarà di non pochi intellettuali
tedeschi, e che li spingerà ad accettare l’ordinamento imposto
all’Europa da Napoleone come il primo passo verso una pace
universale 3’. Era soprattutto l’umanismo di Weimar che premeva
in questo senso: e non può stupire che Schelling, che proprio
in questo periodo era in stretto contatto con Goethe, se ne fa­
cesse, a suo modo, portavoce.
Questo « ideale » serve ora a Schelling come principio rego-
lativo per dare una direzione alla storia universale; egli respinge
con ironia la tesi che i progressi dell’umanità si misurino dal
suo perfezionamento morale, e contesta anche che un tal metro
sia l’avanzamento delle arti e delle scienze 40: è invece il << gra-

o gli sfuggiva, la preoccupazione kantiana di evitare una proposta che as­


somigliasse alla famigerata idea di una "Weltmonarchie. Eccellenti osserva­
zioni sulla teoria kantiana della pace in K. v. Raumer, Ewiger Friede,
Friburgo i. Br. 1953, pp. 151 sgg.
35 III, 587.
30 Novalis, Fragmente (ediz. Kamnitzer), Dresda 1929, p. 748.
37 Kant, Rcchtslehre, § 61.
38
Questa teoria, di evidente origine francese, venne esposta per la
prima volta da Fichte nello Stato commerciale chiuso (1800).
39
Cfr. H. Gollwitzer, Europa-Bild tmd Etiropa-Gedanke, Monaco
1964 2, pp. 114-19 .
Egli osserva anzi — e lo spunto è interessante — che « dal punto
di vista storico (pratico) esso è piuttosto un regresso, o almeno un pro­

195

!
duale realizzarsi della costituzione giuridica » che può servire
« come misura storica dei progressi della stirpe umana ». Ciò non
può esser dimostrato né per esperienza né a priori, ma sarà sol­
tanto « un eterno articolo di fede dell’uomo agente e operante ».
Questo è lo schema della trattazione schellinghiana; su di essa
si impongono ora alcune considerazioni. Si è detto che il pro­
I? gresso del genere umano è misurato dallo svolgersi delle istitu­
zioni giuridiche. Se si pensa alla scarsissima considerazione che i
romantici avevano per il diritto, si noterà che, anche su questo
punto, Schelling è in contrasto con loro. Ciò che lo spinge a fare
appello a questo metro è l’esigenza di indicare qualche cosa di
« oggettivo ». L’analogia tra comportamento teoretico e compor­
tamento pratico è qui evidente; in sede di conoscenza c’è bisogno
di un mondo che sia pensato da tutti gli uomini, che sia indi­
pendente da me « perché esso poggia per me nell’intuizione di
altre intelligenze ». Il diritto, come qui viene inteso, cioè come
ordinamento che regola il comportamento esterno degli uomini,
senza toccare la radice individuale dell’operare, è invece la « se-
:onda natura ». Come nella sfera fisica il singolo contribuisce
nconsapevolmente a strutturare il mondo in cui vive, così accade
in quella legale: l’uomo ne fa parte necessariamente, e il pro­
gredire di essa è indipendente da ciò che il singolo possa pensare
e volere 41.
Con questa risoluzione dello Stato nelle istituzioni giuridiche,
con la notazione sulla « precarietà » di queste e sul loro lento e
progressivo modificarsi, il problema della politica era rifiutato
piuttosto che risolto. Ma è lecito dire che questo escludere qual­
siasi carattere « ideale » dello Stato indichi che Schelling, su
questo tema, è rimasto sulle posizioni del Programma di sistema?*2.
Basta un confronto dei testi per convincersi del contrario; là

gresso antistorico, sul che potremmo richiamarci alla storia stessa, e al


giudizio e all’esempio delle nazioni le quali, in senso storico, sono le clas­
siche (per es. i Romani)» (III, 593). Questo passo si può interpretare
in due modi: o nel senso di una influenza negativa della diffusione della
cultura sulla forza espansiva dell’impero romano, ovvero in analogia al
passo I, 418 (tradotto qui a p. 141) — ove lo svilupparsi della sofistica è
collegato alla caduta dello Stato dalla sua precedente altezza.
41 « Ma appunto dal fatto che la costituzione giuridica non dev’essere
se non il supplemento della natura visibile, segue che l’ordinamento giu­
ridico non sia un ordinamento morale, sibbenc puramente naturale, c su
cui la libertà può tanto poco quanto sulla natura sensibile» (III, 583).
42 Come suggerisce lo Hollerbach, cit.» p. 137.

196
r
r
« Stato, costituzione, governo, legislazione » erano detti « mise­
rabili costruzioni umane », ed erano contrapposti alla « idea » di I
umanità, qui rimane l’esigenza di << andar oltre lo Stato », ma
questo, nelle varie forme che assume, è veduto come un gradino
verso la costituzione cosmopolitica; non costruzione umana, quin­
di, ma gradino di un processo necessario, naturale.
E questa idea, delle istituzioni come « natura », e del loro
evolversi come una inconsapevole necessità (idea che si trova, qui,
ad un grado elementarissimo di elaborazione) è proprio quella a
cui più tardi accederanno tanti romantici, anche Adamo Miiller.
Basterà cancellare il punto di arrivo ideale, e spostare tutto l’ac­
cento sulla « naturalità » delle forme associative essenziali: la
famiglia, la corporazione, lo Stato. Ciò che tipicamente caratte­
rizza il pensiero politico del romanticismo, a partire dal 1803-4,
è la contrapposizione della « natura » alla « ragione », e di uno
svolgimento che modifica, trasforma, ma non rivoluziona alle
pretese della ragione di prescindere dalla « naturalità » del com­
portamento umano sulle questioni fondamentali; e prima dei ro­
mantici queste cose le avevano dette scrittori « controrivoluzio­
nari » come Rehberg e Gentz, che si erano richiamati al graduale
ritmo delle « meravigliose metamorfosi » della natura 43. Ricordo
questi nomi non per suggerire che Schelling si trovi, di fatto, sulle
loro posizioni (il che sarebbe del tutto falso) ma per indicare una
prospettiva dalla quale questi suoi spunti teorici possono ricevere
una qualificazione, e che spiega l’influenza e la considerazione di
cui in seguito egli godette negli ambienti dei romantici controri­
voluzionari.
Uno studioso ha suggerito che questo « naturalismo » giuri­
dico possa essere stato ispirato da Spinoza44. E l’indicazione
merita di essere brevemente discussa, tanto più che anche in
Spinoza, accanto al motivo della potenza della natura, c’è quello
del diritto del singolo individuo ad operare fin dove la sua potenza liI,
arriva 4S: che è una posizione molto vicina a quella di Schelling.

43 Cfr. per es. Rehberg, Untersnchnngen iìber die Franzosische Revo­


lution, Hannover-Osnabruck 1793, I, pp. 53-54, e Gentz, Atisg. Schriften.
Il Bd.. Stoccarda-Lipsia 1837, p. 58.
44 Hollerbach, cit., p. 136, che cita però, a sostegno della sua tesi.
ii
solo un luogo dello Spinoza di K. Fischer.
49 « Per jus itaque Naturae intelligo ipsas Naturae leges seu regulas,
secundum quas omnia fiunt, hoc est ipsam Naturae potentiam; atque ideo
totius Naturae, et consequenter, uniuscujusque individui, naturale jus eo

197
;
Che questi avesse letto Spinoza già a Tubinga, è certo; ed è noto
anche che egli si era proposto di scrivere, intorno al 1795-96,
una Ethik à la Spinoza**. Ma se c’è, nel Sistema, una influenza
spinoziana 47 essa deve essere stata più una reminiscenza remota
che un consapevole richiamarsi a testi precisi: perché Schelling
riprese in mano le opere di Spinoza (facendosele prestare da
Goethe) circa un anno dopo aver concluso la redazione del Si­
stema, e fu sotto l’influenza di questa nuova lettura che dette
forma « spinoziana » alla Darstellung 4“.
Ma il richiamo a Spinoza può aiutare a chiarire un altro pro­
blema: quello del « giusnaturalismo » del Sistema, che è stato
unanimemente asserito dagli studiosi del pensiero politico di
Schelling. Il difetto di questa affermazione è che non precisa
affatto di quale tipo sia il giusnaturalismo sotto il quale il filosofo
andrebbe collocato: quello di Fichte del 1792-93, o del 1796-97?
(che non sono la stessa cosa). Quello di Kant? Il meno che si
possa dire è che la posizione di Schelling è piuttosto confusa:
egli mantiene fermo un individualismo estremo e, riprendendo
Kant più che Fichte, attribuisce al diritto (ed alla organizzazione
politica, statale e soprastatale, che lo fa valere) la sola funzione
di proteggere ogni singolo dalle offese o dalle limitazioni non
strettamente necessarie alla convivenza, che gli possono essere
imposte da un’altra volontà. È vicino a Kant, accentuandone anzi
le posizioni, anche nel non ammettere un perfezionamento della
natura umana sotto l’influenza della vita associata4’: per lo meno,

usque se extendit, quo ejus jxitentia » (Traci, polii., II, 4, e cfr. Traci.
theol.-polit., XVI).
40 Hegel, Briefe, I, 15 e cfr. Fuhrmans, I, 61.
47 V. Delbos, in un’opera dedicata espressamente a seguire la diffu­
sione delle dottrine di Spinoza nel pensiero moderno (Le problème maral
dans la philosophie de Spinoza et dans l'histoire du spinozisme, Parigi
1893) non individua alcuna particolare influenza spinozista nelle pagine
politiche del Sistema, mentre la coglie (pp. 384-95) nell’appello finale al­
l'identità assoluta.
48 Cfr. Goethe und die Romantik, cit., I, 215 e 218, nonché S. 117.,
IV, 113.
49 È caratteristico, per es., che egli non si serva affatto, contro l’in­
dividualismo « egoistico », di un argomento di cui possiede già i termini:
egli osserva che, se gli uomini si uniscono sotto la spinta della No/, pos­
sono poi tornare a separarsi per soddisfare altri stimoli sorti dalla stessa
fonte. Hegel farà uso di questo argomento per battere in breccia le dot­
trine contrattualistiche; Schelling vi accenna appena.

198
I
I
è escluso che ciò accada in quel periodo storico che egli chiama
della natura, e che è quello in cui viviamo. E la ragione non ha
alcun ruolo neanche per l’edificazione della società futura; all’av­
vento di essa, dell’epoca in cui « Dio sarà »50, l’uomo deve
« credere », deve ammetterla, cioè, per fede, non per previsione il
razionale.
Ora, questo schema non soltanto ha la sua radice in tutta la
precedente riflessione di Schelling, ma tradisce troppo chiaramente
l’influenza di Kant perché sia lecito pensare a Spinoza. Esso venne
poi via via inserito nello schema più vasto, quello del dinamismo
naturale, di cui si è già più volte parlato. In questo nuovo quadro
categorie come « individualità » e « dovere » vengono conservate,
ma si smussano, perdono, per così dire, la loro remota radice
« razionale ». E se per giusnaturalismo si intende fiducia nella
« legge della ragione », e nei diritti dell’uomo in quanto essere
razionale, bisognerà concludere che, di questa teoria, in Schelling !
non c’è più alcuna traccia.
Anche se l’ideale, come si è già ricordato, rimane un « eterno
articolo di fede » 51 esso non può dare alcuna indicazione opera­
tiva in vista del futuro, perché la storia non si può costruire a
priori, e non si può prevedere ciò che seguirà ad una azione data.
Quando opera, il filosofo è « inconsapevole » non meno del più
rozzo degli uomini.
I
:
3. La storia e il presente.

Lo schema triadico di filosofia della storia, proposto da Schel­


ling nella IV sezione del Sistema, sembra, a prima vista, non pre­
sentare alcun problema. Si parla di una prima età del mondo, che
giunge fino alla grecità classica: è quella del « tragico » e del i
« destino », della « umanità più nobile che sia mai fiorita, e il
cui ritorno sulla terra non è se non un eterno desiderio »; di
una seconda, quella della natura, che inizia con le conquiste della
repubblica romana, e che giungerà, attraverso momenti e fasi di
dissoluzione e di ricomposizione, sino alla costituzione cosmopoli­
tica; e di una terza, « in cui ciò che nei periodi anteriori appariva

so
III, 604. L’« essere » di Dio si qualifica in opposizione al « dive-
ni re », che è un carattere di Dio nell’epoca presente.
SI
HI, 593.

199

I
k
come destino e come natura si svilupperà e si rivelerà come
provvidenza » 43. A prima vista, si diceva, questa successione
sembra non proporre problemi, in quanto essa è una versione
laicizzata (con la bella grecità al posto della serena vita degli
uomini prima del peccato, e la prospettiva finale del regno di
Dio) dell’antico schema cristiano della storia del genere umano.
Alcuni studiosi hanno osservato che c’è una differenza tra
il ciclo storico delineato nel 1800, e quello del 1802, esposto
sia nella Filosofia dell’arte che nelle celebri Lezioni sul metodo
dello studio accademico. Nel Sistema, essi hanno detto, ci sono
:
i tre epoche, e quella della provvidenza è proiettata nel futuro;
dal 1802, invece, si suggerisce che l’uomo abbia cominciato a pen­
sare alla provvidenza dopo che, nel mondo antico, si era verificata
la rottura con la natura: provvidenza e libertà, quindi, coinci­
dono 43. Questa interpretazione non persuade del tutto: perché
la bipartizione (invece della tripartizione) della storia non è, per
Schelling, una novità che cominci ad apparire dal 1802: la si è
incontrata nelle Lettere filosofiche, con la contrapposizione tra
l’ideale « tragico » dell’etica greca e quello della morale moderna,
e nel breve saggio del 1798 con la contrapposizione tra l’età del
dogmatismo e quella della libertà. Come mai, allora, Schelling,
proprio nel Sistema, si sarebbe allontanato da uno schema che egli
adoperò prima e dopo il 1800? L’equivoco è nato — credo — dal
confondere una problematica metafisica con una morale, una dimen­
sione universale con una temporale; la prima è quella che viene
esposta nel Sistema-, la fase nella quale la provvidenza sarà compiu­
tamente rivelata sarà quella in cui non ci sarà più divenire ma solo
essere, e nella quale, quindi, verrà meno lo spazio tipico dell'ope­
rare umano 44. In sede etica questa terza epoca non ha alcuna rile­
j vanza. Ma, si potrebbe obiettare, a partire dal 1802 Schelling ha
I collegato provvidenza e libertà; neanche questo è del tutto vero,
perché nel Sistema è detto chiaramente che nella prima come
nella seconda epoca « quanto sembrava pura opera del destino

53
ITI, 604.
53
V. per es. G. Mehlts, Schellings Geschichtsphilosophie in dcn
Jahren 1799-1804, dissert. Heidelberg, 1906, pp. 104 sgg. e Zeltner,
Schelling cit., pp. 160-61.
84 Del resto, anche nel 1802 compaiono tre epoche, di cui la terza è
quella in cui «il cielo sarà davvero riconquistato» (V, 120).

200
| i

I
_o della natura era già il principio di una provvidenza rivelantesi
in maniera incompleta »
Tutto questo andava precisato: ma resta necessario dire quale
sia il ruolo e il significato dell’età della « provvidenza ». Essa ha
la stessa funzione che hanno il regno dei fini in Kant e il « go­
verno divino del mondo » in Fichte; ma con una sfumatura di­
versa, più metafisica e più oggettiva s‘. Gran parte della cultura

I
dell’ambiente si era chiesto quale fosse il fine del genere umano,
un fine che fosse insieme una garanzia per l’operare del singolo;
questo problema è sentito da Schelling con particolare urgenza
proprio per il modo più naturalistico con cui egli intende l’operare.
Il compiere il proprio dovere, per lui, non è sufficiente ad appa­
gare l’uomo; egli ripete questo motivo in più modi: « mai un
uomo oserebbe intraprendere un’impresa gravida di conseguenze
[...] se dal suo operare può scaturire qualcosa di diverso da ciò
che egli si propone ». Il dovere stesso non mi può comandare di
esser tranquillo quanto alle conseguenze delle mie azioni se queste
« ovvero ciò che da esse può derivare per tutta la stirpe a cui
appartengo » non dipendono da qualche cosa di più alto della
mia libertà 51. Non manca neanche una riserva nei confronti della
fichtiana moralische W’eltordnung che è possibile soltanto se tutte
le intelligenze vogliono l’ordine comune: ma, osserva Schelling,
e se ciò non accade? M. Questa è assai più che una indiretta obie­
zione: è la rivelazione di tutta una diversa impostazione del pro­
blema morale; per Fichte (e in certo senso anche per Kant) il
i
non agir bene è peccato perché non si adempie alla propria de­
stinazione, non si interviene come sarebbe possibile, e perciò
stesso si sposta più indietro nel tempo quell’ordine che solo può
assicurare le felicità e la moralità di tutti. Questo motivo, del
dovere e dell’impegno individuale 39 ha senza dubbio in Schelling
un peso minore. Nella prospettiva che si è delineata nel Sistema
il buon volere del singolo è una garanzia troppo debole, sia del
risultato dell’azione che dell’ordine, presente e finale. Ecco allora

•’ HI, 604.
5® Si potrebbe additare, forse, una vicinanza all’analogo concetto her- I
deriano di « provvidenza ».
57 HI, 595.
•• La polemica contro la moralische Weltordnung, diventerà aperta, e
violentissima, neanche due anni dopo, in un articolo del « Giornale critico
della Filosofia» (cfr. V, 114).
89 Cfr. per cs. Fichte, 5. W., N, 207.

201
la necessità di un’altra « garanzia »: il « postulato » 80 della unità
finale è la prova dell’identità iniziale 81 che la riflessione e l’ope­
i rare umano hanno sì rotto, ma non distrutto, e che continua a
l;
rivelarsi nell’inconsapevole pulsare, fisico ed etico, di tutti gli
esseri. La inconsapevolezza, poi, è non soltanto una necessaria
limitazione, della quale bisogna dolorosamente o lietamente pren­
! dere atto, ma una struttura portante dell’identità verso cui si
muove: è proprio perché il suo fine ultimo non dipende dal suo
prossimo che l’uomo intelligente e attivo può « aver fede » di
raggiungerlo. I timori e i sospetti sono così fugati: l’armonia non
è garantita dalla analogia con la natura, non perché l’ordinamento
giuridico sia una « seconda natura », ma perché alla radice di
queste due nature c’è una unità che ne regge tutto lo svolgimento.
Malgrado questa impostazione, l’etica schellinghiana è ben
lungi dall’essere << religiosa » 82. Il piano della osservazione del
tutto, questo altissimo compito della ragione, non ha alcuna rile­
vanza nel presente, nella sfera in cui si opera. Il dotto, certo,
può sapere che il suo agire è una manifestazione del divenire
divino; ma l’identità assoluta, cioè Dio, non può mai giungere
alla sua « coscienza », che è nata da una scissione: è un sole
che proprio per la purezza della sua luce non può essere fissato
da occhio umano, una essenza che non coincide mai pienamente
col mondo fenomenico. In quest’ultimo l’uomo è affidato a se
stesso, e la libera vitalità è la sua legge.
In questa prospettiva acquista rilevanza un detto schellin-
ghiano, sulla storia come strumento per la comprensione del pre­
sente M, e non, come voleva F. Schlegel, per dedurre il futuro 84:
60 Schelling adopera questa espressione in una aggiunta manoscritta
(non riportata nella traduzione italiana) al sua esemplare del Sistema (III,
605, n. 1). Osservazioni sul termine in D. Jahnig, Schelling, I, Pfullingen
i 1966, pò. 188 sgg.
•* HI, 600 e 609-10.
i 82 Vale la pena di ricordare qui un maligno giudizio di F. Schlegel,
espresso in una lettera a Paulus, dopo che Schelling aveva pubblicato, nel
j
1804, il saggio su Filosofia e religione". « In Baviera ci deve essere un
i sacco di gente a parlar di religione se anche lui [Schelling] ritiene di do­
vervi portare il suo obolo; creda a me che lo conosco da un pezzo: da sé
non gli sarebbe mai venuto in mente che ci sia qualche cosa che assomigli
alla religione » (Fuhrmans, I, 292).
83 « La storia, la quale non ha altro obietto che la spiegazione del
presente stato del mondo [...] » (III, 590).
64 V. qui p. 186, c’è da aggiungere però che F. Schlegel disse anche
il contrario: in uno dei frammenti di « Athenaeum » (1798, I, 2, p. 196)

202

I
t:

e « presente » va inteso come relativo all’epoca, o ciclo storico,


nel quale siamo immersi. Di esso nel Sistema sono dati i tratti
soltanto « oggettivi »; per dire della rilevanza che essi hanno per
l’uomo che in questa epoca vive bisognerà far capo a un altro
scritto, quasi contemporaneo: le Lezioni sulla filosofia dell’arte .
È qui, per la prima volta, che Schelling ha tentato di tracciare
un quadro di tutta la storia « moderna », dall’impero romano al »
Faust di Goethe, e si è sforzato di coglierne i caratteri prendendo, !
come termine di riferimento, le grandi opere artistiche 60 ; e qui i
compare anche il cristianesimo, che Schelling vede come il tenta­
tivo di trovare una risposta ad interrogativi sempre più ango­
sciosi, di supplire, con la religione e con la chiesa, alla crisi di
quella « eticità pubblica » che aveva caratterizzato il mondo an­ «
tico; per eticità pubblica si intende la intima unione di leggi e
religione: nel processo di Oreste davanti all’Areopago si dovette ;
tener conto delle Eumenidi, ed intervenne anche Atena01. Lo
Stato romano, con la sua inarrestabile espansione, spezzò quella
si trova affermato che « lo storico è un profeta volto all’indietro »; e
Schelling si ricordava ancora di questa frase più di cinquant’anni dopo
(Plitt, III, 243).
65 Quello della datazione delle Lezioni sulla filosofia dell’arte è un
problema estremamente complesso. Il figlio di Schelling, che ne curò l’edi­ 1
zione, avvertì che i primi 15 §§ erano stati aggiunti, in sostituzione di
altri, nel periodo di Wùrzburg (V, p. xvi); e che il resto era, per gran
parte, precedente alla metà del 1802, cioè alle Lezioni sul metodo dello
studio accademico, nelle quali (come in alcuni articoli del « Giornale cri­
tico ») si ritrovano, rielaborati, ampi passi delle lezioni sull’arte. È stato
J!
però sostenuto, con buoni argomenti, che parte almeno di queste lezioni
è addirittura precedente al 1800 (Allwohn, Der Mythos cit., p. 27). Per i
quanto riguarda i cenni politici, non ci sono dubbi che le lezioni sull’arte
sono molto più vicine al Sistema che alle conferenze del 1802: basterà
osservare che nelle prime si sostiene che, nell’età moderna, lo Stato è stato
sostituito dalla Chiesa (V, 734), mentre nel 1802 lo Stato, come essere na­
turale e vivente, ne' ha preso il posto (V, 314). Qui si utilizzano quei passi
delle Lezioni sulla filosofia dell’arte che servono a illustrare affermazioni
del Sistema.
•* « La filosofia raggiunge bensì il sommo vero, ma fino a questo
punto non porta che quasi un frammento dell’uomo. L’arte porta l’uomo
intero, com’egli è, alla conoscenza del sommo vero, e qui riposa l’eterna
diversità ed il portento dell’arte» (III, 630).
07 V, 698. Questo passo corrisponde quasi alla lettera a un famoso
luogo del saggio hegeliano sul diritto naturale (S. W., I, 501); credo ozioso
porsi il problema di chi sia stato, dei due amici, che in quell’epoca colla-
boravano strettamente, a suggerire all’altro la potente evocazione dell’epi­
sodio eschileo. Del processo di Oreste Schelling tornò a parlare in VI, 573.

203

1
i!

armonica unione di finito ed infinito che caratterizzava il mondo


greco: esso, per primo, unificò l’universo, ma la sua stessa massa
attirò, quasi per una legge fisica 08 altre masse, da cui fu travolto,
trascinando con sé tutta la civiltà antica. Come potevano gli
uomini, percossi e sbigottiti, non appellarsi ad una provvidenza,
ad un mondo soltanto morale, nel quale la libertà non fosse più
unita con la natura? Questo fu il cristianesimo, che si sforzò di
ricostituire un mondo degli uomini nella nuova situazione storica,
e che, per quanto poteva, ci riuscì. Nel rivendicare, contro le
condanne degli illuministi, la positività della Chiesa e del Medio­
evo cristiano, Schelling riecheggia motivi herderiani ma non ha
esitazione a rivendicare la grandezza della Riforma, della quale
ignora però quasi del tutto il significato religioso, mentre ne
rivendica il decisivo contributo alla libertà di pensiero 70. E qui
si trova uno spunto interessante, che può forse contribuire a spie­
gare perché egli avesse visto in un apparato giuridico, e non nella
cultura e nella civiltà, la prova esterna della direzione unitaria
della storia umana: nei piani dello spirito del mondo il cristiane­
simo è stato soltanto una fase di passaggio; e, dopo la riforma,
il cattolicesimo è uno dei molti aspetti nei quali si manifesta il
mondo moderno: accanto al mondo protestante c’è la Spagna
cattolica, che con Calderon e Cervantes continua la mitologia cri­
stiana 71. Nei paesi protestanti, invece, l’abbandono della religione
tradizionale ha portato alla morte di quella mitologia, e sulla scia
della libertà di pensiero si è gettato il volgare buon senso che ha
voluto giudicare della religione secondo i suoi propri criteri: ma
ci sono stati anche Shakespeare e Goethe, che hanno saputo
creare una nuova mitologia. Il Faust « non è altro che la più in­
tima, la più pura essenza della nostra epoca: materia e forma sono
costituiti da ciò che tutta l’epoca recava in sé, ed anche di ciò

ss
V. 428.
69
V. 435.
70
« Gloria agli eroi che, almeno per quel tempo, c per alcune parti
del mondo, consolidarono per l’eternità la libertà del pensiero e dell’in­
venzione » (V, 440). Nelle di poco successive lezioni di letteratura, tenute a
Berlino alla fine del 1802, A. W. Schlegel della Riforma vedeva invece
soltanto gli aspetti negativi (Kritische Schriften und Briefe, voi. Ili, Stoc­
carda 1964, pp. 72 sgg.).
11 N, 444 sgg.

204

I
I
;
che essa non aveva, e non ha ancora, espresso. Per questo si può
! I
ben dire che è un poema mitologico » 7S.
Si è detto di Shakespeare e di Goethe: Schelling si sofferma
particolarmente sulle opere dei due poeti, suggerendo, quasi, che
in èsse si trovano i due tipi di tensione che sono peculiari del
mondo moderno: nelle tragedie del primo « ogni artificio sembra
venir meno, e si manifesta una rozza forza naturale »; il motivo
principale di esse non è più il fato, come per gli antichi, ma la
« nemesi », per la quale « la libertà lotta con la libertà » 73. La
funzione di questa poesia non è catartica, non pacifica l’animo 74 :
la tragedia moderna non addita una speranza. E lo stesso vale per
quell’opera, il Faust, che è « più aristofanea che tragica », e che
segna il passaggio, nell’età moderna, dalla tragedia alla commedia:

Non c’è soltanto un destino per l’azione; anche di fronte al sa­


pere dell’individuo come individuo si para, come una insuperabile
necessità, lo in-sé dell’universo e della natura. Il soggetto, in quanto
tale, non può godere dell’infinito come infinito, e pure c’è in lui l
un impulso necessario in quella direzione. Qui c’è, dunque, una
eterna contraddizione. Questo è, per così dire, una potenza più ideale
del destino, che si oppone e lotta col soggetto non meno che nella
sfera dell’azione. La soppressa armonia può qui esprimersi con due
facce, e il contrasto può cercare due vie d’uscita. Il punto di par­
tenza è la insoddisfatta sete di contemplare l’interno delle cose, e
di gustarlo, senza rinunziare alla propria soggettività; e la prima
direzione consiste nel voler soddisfare, in una esaltazione irrazionale, i !
al di là del fine e della misura della ragione, questo insaziabile de­
siderio [...]. L’altra scappatoia dell’insoddisfatto tendere dello spirito
è quella di gettarsi nel mondo, accettandone il male e il bene. Ma
anche in questa direzione l’esito è già scontato: anche qui, cioè, è
eternamente impossibile partecipare, in quanto essere finito, dell’in­ !ai
finito

73 V, 446. Il Faust che Schelling poteva conoscere era quello pubbli­


cato nel 1790 col titolo: Faust. Ein Fragment. Sulle diverse redazioni del
Faust v. precise indicazioni in L. Mittner, Storia della letteratura tedesca.
Dal pietismo al romanticismo, Torino 1964, §§ 177 e 261-62.
73 V, 722.
74 « L’antica lira [quella dei greci] teneva unito, con le sue quattro
tonalità, l’intero mondo; il nuovo strumento ha mille corde, spezza l’armo­
nia dell’universo al fine di crearla, ed è quindi sempre meno pacificante 11
per l’anima. La bellezza severa, che tutto lenisce, può sussistere solo dove
c’è semplicità » (V, 723).
75 V, 731-32.
I
'I ì
205 I'
H Questa interpretazione del « presente » è la chiave per spie­
gare perché Schelling lo abbia chiamato « epoca della natura »
nella quale « tutti gli avvenimenti sono da riguardarsi come sem­
plici risultati naturali » 76. Il crollo della eticità pubblica, nella
quale l’uomo si appoggiava ad un blocco compatto di istituzioni,
di norme e di credenze, ha abbandonato l’individuo a se stesso,
alla sua libertà. È, questo, un grande passo in avanti, che non
ha eliminato, però, il profondo fossato tra finito e infinito, tra
l’universo e l’uomo, tra ciò cui aspiriamo e ciò che facciamo.
L’operare e il sapere, questi due poli dell’essere, non appena si
traducono in azioni singole evocano tutta una serie di reazioni.
Gli eroi shakespeariani, che calpestano e abbattono chi sbarra loro
la strada, suscitano, per ciò stesso, resistenze sempre più forti; la
maledizione delle loro vittime li accompagna, il loro « carattere »
diventa la loro « nemesi ». E lo stesso accade per l’uomo fau­
stiano: egli può ricorrere alla magia per penetrare « l’interno
delle cose », o può metter da parte i libri e « gettarsi nel
mondo »; ma, in entrambi i casi, l’infinito gli rimane chiuso. Egli
Sa tutto il diritto di ritenersi superiore a quelli che non sentono
(uesta aspirazione e questa nostalgia:

Zwar bin ich gescheiter als alle die Laffen,


Doktoren, Magister, Schreiber und Pfaffen;

ma il risultato è che, senza volerlo, egli fa il male; il Dies irae


che scandisce la grande scena del duomo (con cui si chiudeva
il Faust del 1790), il « quid sum miser tunc dicturus? », è il
commento definitivo a questo soggettivo slancio vitale.
Per Schelling l’uomo non potrà mai sottrarsi interamente a
questa « contraddizione »; il suo operare sarà sempre inconsa­
pevole quanto alle conseguenze immediate. Però, proprio parlando
del « frammento » del Faust, egli aveva avanzato l’ipotesi ( o
aveva avuto indicazioni dallo stesso Goethe?) che « il conflitto si
sarebbe risolto in una istanza superiore ». Il che implica che,
se non si può dare, nel presente, un senso definitivo ad ogni
azione, si può però rinunziare ad elevare a principio la propria
soggettività, ad affermare che « in ogni fare ed operare non vi
sia né legge né necessità » 11. E l’istanza superiore qui è la storia.

” ITI, 604.
11 III, 601.

206
come progressiva rivelazione di Dio: « L’uomo reca, per mezzo
della sua storia, una progressiva riprova dell’esistenza di Dio, una
riprova, però, che non può esser compiuta se non dalla storia tutta
quanta » 78.
Qualche interprete ha voluto vedere, in ciò, la riduzione degli
individui a manifestazione fenomenica dell’assoluto 7*. Ora, non
ha interesse stabilire qui se la rivendicazione della libertà del­
l’uomo fatta da Schelling sia o no logicamente convincente: quello
che importa mettere in chiaro è che per lui il piano dell’essere
e quello del fenomeno non sono immersi nella stessa dimensione,
per cui il secondo sarebbe una realtà depotenziata del primo. Per
l’uomo che opera non c’è altro che il mondo suo, quello del dive­
nire: l’altro mondo, quello dell’essere, non viene da lui saputo,
ma intuito. E riprendendo e modificando un detto degli stoici
antichi, Schelling afferma che gli uomini non sono gli attori di
un dramma composto da Dio, ma ne sono, ad un tempo, attori
e autori, « collaboratori di tutta l’opera, e originali inventori dell-.’,
parte speciale che recitiamo » 80. Ciò per il rispetto soggettivo;
per quello oggettivo ci sono le « leggi naturali », cioè quella
determinazione, costituita insieme dalla presenza degli altri, e dal
nostro proprio passato, di cui si è già trattato nel IV capitolo.
Quello che a Schelling importava di stabilire è che non c’è
soltanto il peso, ritardante e limitante, del passato e della al­
terità, ma anche l’attrazione dell’ideale, del futuro; e che anche
quest’ultimo ha una sua dimensione « naturale », provata dalla
necessaria direzione della storia e dalle leggi dei popoli. Tra queste
due necessità che, nell’epoca presente, non possono coincidere,
l’uomo ha il suo spazio, la sua libertà.
E qui è opportuna un’ultima considerazione; si è già notato
che, nel Sistema, lo Stato non compare come figura autonoma e
definitiva: bisogna, anzi, che esso abbia una esistenza precaria,
onde l’individuo non ne sia schiacciato. L’eticità pubblica è un
tratto della prima epoca della storia umana, e la sua fine ha fon­
dato quella che si potrebbe forse chiamare la « libertà dei mo­
derni ». Che Schelling sia consapevole delle tensioni e dei rischi
di questa, lo si è ampiamente constatato. Ciò che lo induce a
guardare con un certo ottimismo al movimento della storia è
’• III, 603.
70 Oltre la dissertazione del Braun, già cit., v. per cs. S. Drago del
Boca, La filosofia di Schelling, Firenze 1943, p. 150.
80 III, 602. Una rettifica di questo concetto in VI, 555.

207
l’idea che, malgrado tutto, lo slancio geniale degli individui trova
sempre un’eco, e ciò che vien conquistato non va mai perduto.

4. La « vera rivoluzione ».

Uno degli studiosi più attenti del pensiero di Schelling, H.


Fuhrmans, ha osservato, non senza ragione, che è con gli scritti
di filosofia della identità (cioè a partire dal 1801) che Schelling
pose mano alla realizzazione sistematica di quel « programma »
che, cinque anni prima, egli aveva comunicato agli amici nel
lasciare il suo paese natale 81. E ciò è vero, a maggior ragione,
anche se si considera il Systemprogramm (come abbiamo sugge­
rito) un progetto di « pedagogia » popolare, piuttosto che di
sistema filosofico. Ma non c’è soltanto questo: dopo la svolta I
del 1801 — quando Schelling incominciò a parlare in proprio I
nome, senza preoccuparsi più di essere o di apparire il « colla­
boratore » di Fichte — si riscontra, nei suoi scritti, un signifi­
cativo riemergere di temi tubinghesi, o almeno un riattaccarsi,
ion so quanto consapevole, a tutta una problematica che nel
periodo 1797-1800 era stata quasi completamente messa da parte.
Il primo dato che balza agli occhi è che lo spinozismo etico
— al quale adesso Schelling si appella, e che prende come mo­
dello — ha sorprendenti analogie con quello che egli, nelle Let­
tere filosofiche, aveva respinto, ma insieme trattato con tanto
rispetto; allora, si ricorderà, egli lo aveva accostato ad una ori­
ginaria tendenza del genere umano, ed aveva parlato di misti­
cismo. Di quest’ultimo indicava i limiti, pur considerandolo tanto
più alto della morale corrente; adesso le riserve sono cadute
quasi del tutto: Schelling non solo è di nuovo « spinozista »,
ma rivendica il significato positivo di concetti come « religione »
e « mistica », che, per lui, assicurano quel contatto diretto con
le radici dell’essere che dà elevatezza e slancio all’azione. E si
ripresenta anche l’idea di un diretto intervento della filosofia
nel mondo, in alleanza con lo Stato o in esso assorbita, ma
sempre, comunque, con una funzione « pubblica », con un im-
pegno mondano: è essa, come vedremo, che deve promuovere
la « vera rivoluzione » aa.
” Briefe cit., I, 234.
83 L’espressione si trova nelle postume lezioni di Wurzburg, che l’edi­
tore intitolò Siitema di tutta la filosofia, e in particolare di filosofia della

208
Così il filosofo attacca a fondo la cultura del suo tempo,
propone la propria filosofia come la filosofia, affronta i grandi
temi etici e politici con una audacia che da tempo non gli si
conosceva. Questi sono, del resto, gli anni della sua maggiore
gloria. Come aveva detto Goethe, al tramonto di un astro (Fichte)
un altro si era levato (Schelling); ai primi discepoli di Jena altri
si aggiungevano, a Bamberga e a Wiirzburg; Hegel si recava da
lui, e i due amici (che per oltre un anno vissero nella stessa
casa) facevano uscire, insieme, il « Giornale critico della filosofia »
(1802-03); l’amicizia di Goethe era sempre affettuosa, e, quando
necessario, attiva: tutto ciò doveva compensare le traversie sen­
timentali, le polemiche, e tante altre amarezze. Ma non sarebbe
sufficiente riportare il nuovo tono che si riscontra negli scritti
di Schelling ad una radice esclusivamente personale; anzi, l’inte­
resse di ciò che egli disse sta nel fatto che, in modo più elabo­
rato ed autorevole di altri, egli seppe esprimere ciò che, in forme
e con ispirazioni diversissime, era detto in tutta la Germania,
in quei « giorni alcionici » che precedettero le guerre della terza
e della quarta coalizione — quelle guerre che imposero non sol­
tanto nelle regioni renane, ma in tutto il paese nuove forme di
amministrazione e di governo, e spesso la diretta presenza delle
truppe napoleoniche.
Due erano, se è lecito schematizzare, le esperienze fondamen­
tali. La prima era quella del fallimento della rivoluzione francese:
non era, la Francia, tornata sotto un autocrate? Essa, che si era
arrogato un ruolo privilegiato ed una missione universale, si era
rivelata, da ultimo, « uno Stato come gli altri » (Gòrres). E quanto
più gli osservatori tedeschi avevano trasfigurato, in senso positivo,
le prime vicende della rivoluzione francese, tanto più era amara
e radicale la condanna, che investiva anche le idee dell’illuminismo,
alle quali si faceva risalire la responsabilità di quanto era acca­
duto; avevano indotto vuoti sogni di palingenesi, aveva promossa
irrequietezza e disordine, ed ora, giustamente, erano represse con
la forza s3. L’altra esperienza era la definitiva perdita di prestigio

natura', questo corso venne tenuto per la prima volta nel semestre inver­
nale 1803-04 (Fuhrmans, I, 301).
83 Vale la pena di riportare le parole di Schelling, pronunziate nelle
lezioni di Jena dell’estate 1802: « Proprio quella nazione che, eccettuati
pochi individui vissuti in tempi passati, non ha mai avuto, e tanto meno
nell’epoca che ha preceduto la rivoluzione, dei filosofi, fu quella che dette
1 esempio di un rivolgimento caratterizzato da orrori selvaggi, con lo stesso

14. Cesa
209
dei vecchi Stati tedeschi, della loro classe dirigente, della loro
morale utilitaria, della loro retorica sul lento e ordinato diffon­
dersi dei lumi dal vertice a tutto il popolo. Gli esponenti della
nuova cultura non li amavano neanche prima: ma erano stati
più volte costretti (e, a proposito di Schelling, lo si è detto) a
riconoscere ad essi una relativa solidità, e la capacità di resistere
e di contrattaccare. Ma ora che la pace sembrava tornata, quali
prospettive essi offrivano per il futuro? Sono gli anni, questi,
nei quali Hegel rielabora il suo saggio sulla costituzione della
Germania, che, come gli altri suoi scritti dello stesso periodo, è
pieno di collera contro lo spirito « privato », incapace sia di ca­
pire la lezione della storia che di costituire la base per l’unifi­
cazione nazionale; e sono anche gli anni nei quali giovani mili­
tari, come Boyen e Clausewitz, che avevano udito le lezioni di
Kant, o che, più tardi, avrebbero seguito l’attività pubblicistica
di Fichte, vedevano con ira ed angoscia l’avvicinarsi del confronto
armato con la Francia napoleonica, senza che né l’esercito né il
paese vi fossero davvero preparati84. E il « partito francese »,
che pure aveva dalla sua pubblicisti influenti e capaci, non godeva
più di nessun prestigio morale 85.
Bisognava accennare rapidamente a queste cose per collocare
nella loro luce le considerazioni morali e politiche che Schelling
svolse in questi anni: senza essere affatto un nazionalista te­
desco 8C egli seppe dar voce, e con maggiore radicalità di Fichte,
alla condanna del passato, e alle istanze di un totale mutamento
di indirizzo, che fermentavano nella cultura contemporanea.

disordine morale con cui è tornata a nuove forme di schiavitù ». E dopo


aver detto che in Francia dei raisonneurs hanno usurpato il nome di filo­
sofi, egli continua: « E non desta stupore, e in sé sarebbe anzi meritevole
di lode (se non ci fossero anche altri elementi di cui tener conto per
esprimere un giudizio su tutto ciò) il fatto che un governo forte abbia
proscritto da quel popolo quelle vuote astrazioni » (V, 258-59).
84 H. v. Boyen, Denkwiirdigkeiten und Erinnerungen (1771-1813),
Stoccarda 1913, I, pp. 77 sgg. Su Clausewitz v. ora G. Ritter, I militari
e la politica nella Germania moderna, Torino 1967, pp. 63 sgg. Si legge
sempre con frutto il vecchio libretto del Meinecke, Das Zeitalter der
detitschen Erhebung (la ediz. 1906, poi più volte ristampato), soprattutto,
sul tema che ci interessa, il capitolo III.
85 J. Droz, La romantisme allemand et l'état, Parigi 1966, pp. 87 sgg.
8C C’è una caratteristica lettera ad A. W. Schlegel, del 2-V-1809, nella
quale egli manifesta il suo stupore per l’impegno politico di Federico
Schlegel, che si era unito all’esercito dell’arciduca Carlo (Fuhrmans, I,
440).

210
Dal punto di vista teorico, quello scritto dal titolo orgoglioso,
Esposizione del mio sistema filosofico 87, aveva consentito a Schel­
ling di considerare superato il dualismo tra filosofia della natura
e idealismo trascendentale — dualismo che, come egli ben presto
trovò il modo di mettere in evidenza, era il difetto fondamentale
della filosofia moderna, da Cartesio in poi, e del quale il sistema
fichtiano, con la sua « negazione » della natura 88 si poteva con­
siderare l’ultima espressione. Non è questo il luogo di esporre
l’impianto ontologico che Schelling dette al suo sistema; basterà
dire che mentre prima il tema più importante della ricerca era
come si potesse superare il dualismo, tra necessità e libertà, na­
tura e spirito, individuo e genere umano — e ciò mostrando
come, nella sfera naturale già totalmente, e in quella umana solo
parzialmente, il corso delle cose fosse retto da una legge, o da
una armonia — ora questo approccio viene rovesciato. Il primum
è l’unità, e si tratta non più di accostarsi lentamente ad essa,
e di prendere atto che, intanto, l’uomo è un « frammento »89,
ma di elevare le proprie ambizioni, mirare direttamente all’asso­
luto, e servirsi, per raggiungerlo, di strumenti diversi da quelli
della analitica ricerca teoretica. E ciò, per Schelling, è indicato
dallo stesso indirizzo scientifico del tempo: tutte le scienze vo­
gliono l’unità del sapere, e non si prestano più ad essere trattate
isolatamente: « Si viene formando un nuovo organo dell’intui­
zione, che vale quasi per tutti gli oggetti. Un’epoca come la nostra
non può trascorrere senza che nasca un mondo nuovo, che sep­
pellirà infallibilmente nella loro nullità coloro che non preste­
ranno ad esso la loro opera » 80. Non c’è più, come qualche anno
prima, un appello a tutti gli spiriti liberi perché promuovano
questa realtà: essa c’è già, esiste da sempre, ha potuto essere
messa in ombra, ma ora, come l’immane spirito di cui si parlava
nel Widerporst, si è svegliata. Quell’idea di un progresso gra­
duale e, relativamente agli uomini, inconsapevole che Schelling
aveva preso in prestito da Kant ora non ha più alcuna funzione:

87 II Fui-irmans, op. cit., pp. 221-25, ha dimostrato, con argomenti deci­


sivi, che quel titolo, in cui l’accento cade sul « mio », c da intendersi come
risposta ad un comunicato di Fichte, che aveva parlato di Schelling come
del « mio brillante collaboratore ».
88 V, 116.
88 III, 608 e 630.
90 V, 213.

211
!

tutto il problema è se l’uomo abbia o no il coraggio, e la forza,


di « adeguarsi » all’assoluto.
Anche se Schelling parla spesso, a proposito di questa con­
cezione, di religione e di Dio, non c’è proprio nulla, nel suo

argomentare, che faccia pensare alla tradizione cristiana; riemer­
gono, invece, altre idee del periodo di Tubinga, quella di un
« popolo originario » (accennata, peraltro, solo come ipotesi) e
quella di uno Urwìssen, di un sapere originario 91 di cui le mi­
tologie, le leggi e le filosofie delle varie civiltà sono stati i ten­
tativi di interpretazione e di trasposizione nel tempo. Sopravvive
l’idea che in tutto ciò ci sia un corso necessario, ma quello che
conta davvero, per il singolo come per l’epoca, è il rapporto con
quell’originario-assoluto, non il più o il meno rispetto all’epoca
precedente.
Tutte le scienze, dunque, tendono a superare il loro partico-
larismo, e a ritrovare i legami che uniscono ciascuna di esse con
le altre: la filosofia, come sistema generale del sapere, avrà così,
evidentemente, una posizione centrale. Ma ciò che a Schelling in-
teressa di più non è il ruolo della filosofia rispetto alle altre
scienze — era un vecchio tema, sul quale era intervenuto di
recente anche Kant, col suo scritto sul Conflitto delle facoltà
(1798) — ma il rapporto tra la filosofia, cioè il «pensare» e
l’operare. Ed è di qui che prende le mosse, con una precisione
e con una intensità che non aveva precedenti, la polemica contro
la morale e la politica della Aufklàrung ’2.
Si è già detto (accennando ai rapporti Schelling-Nicolai) che
un atteggiamento tipico della ultima Aufklàrung era il maggior
peso attribuito al comportamento dell’uomo rispetto alle sue teo­
rizzazioni: non importava tanto ciò che l’uomo pensava — aveva
già detto Federico II — quanto ciò che egli faceva, e il criterio
di valutazione dell’attività era commisurato alla utilità sociale,
che poteva perfettamente conciliarsi con il bene inteso utile in-
dividuale. La critica di Schelling non è volta a contestare che

81 V. per es. V, 123 e 280.


82 Non intendo dire che gli argomenti di Schelling siano del tutto
originali: basta leggere Herder, e gli scritti di Fichte dopo il 1799, per
trovare quasi tutti i motivi di cui anche Schelling si serve. Ma ciò che
dà una particolare incisività alla sua trattazione è il fatto che egli non ha
tanto l’atteggiamento di chi deplora un male, e ne addita le minacciose
conseguenze, quanto di chi pronunzia la sentenza su un sistema già fra-
dicio, e in procinto di crollare.

212
ciò possa, di fatto, verificarsi; il filosofo, anzi, è ben consapevole
che, criticando questa concezione della vita, egli può dar l’im­
pressione di mettersi contro « quelli che si sogliono chiamare
gli interessi generali dell’umanità ». Ma egli nega che quell’ideale
di vita sia meritevole di qualche rispetto. Ciò che conta davvero,
per l’uomo, non è il conservarsi nella propria finitezza, e il sod­
disfarne le esigenze, ma il purificare la sua anima da essa: e ci
si appella al detto socratico che l’aspirare alla morte è l’atteg­
giamento del vero filosofo 93. Non bisogna credere che Schelling
intenda così rinnegare tutta la sua precedente difesa del lato na­
turale dell’uomo: vuol pur dire qualche cosa che egli si sia ap­
pellato ad un esempio della saggezza greca, e non ad uno della
ascetica cristiana! Ciò che egli vuol dire è che la dignità dell’uomo
si misura sulla sua capacità di arrivare al cuore dell’essere, di
coglierne le articolazioni, di rendersi conto del rapporto neces­
sario tra l’« in sé » e ciò che si svolge nel tempo. È soltanto in
questo modo che si può salvare, nella stessa vita umana, l’unità
di tutte le parti e di tutte le tendenze, e che si può evitare di
sacrificare una parte all’altra, il vero a ciò che si considera mo­
rale, la scienza all’utile, l’eterno al contingente.
È ben noto che, qualche decennio dopo, gli scrittori della
sinistra hegeliana attaccarono non solamente Schelling, ma anche
Hegel, accusandoli di aver sacrificato, alle astratte esigenze del
pensare, la realtà dell’uomo e della natura. E questa critica, con
maggiore o minore precisione e misura storica, è ripetuta comu­
nemente anche oggi. Si potrebbe argomentare — e lo aveva già
fatto egregiamente Feuerbach 94 — che questo difetto fondamen­
tale ha la sua radice nella stessa pretesa di elaborare un « si­
stema » teorico dell’essere: una volta che ci si sia messi su
questa strada, è inevitabile che la speculazione si distacchi sempre
più dallo Erleben e dallo sperimentare reali, e che voglia anzi
strappar loro, rivendicandola a sé, quella realtà che è il loro
fondamento. Ebbene, per paradossale che la cosa possa sembrare,
quella rivendicazione del « sapere originario », o del « regno delle
idee », contro il « volgare » realismo della antropologia illumi­
nistica, ha, nelle intenzioni di Schelling e di Hegel, un significato

93 V, 123 e poi, più ampiamente, VI, 567 sgg.; cfr. Hegel, Schriften
ztir Politik tind Rechtsphilosophie, Lipsia 1913, p. 483.
Mi riferisco, soprattutto, al Ztir Kritik der hegclschen Philoso-
phie (1839).

213
opposto a quello che venne poi ad essa comunemente attribuito:
i due filosofi continuavano quella polemica, che aveva già ini­
ziato Schiller, e che ha i suoi precedenti in Herder e in Rousseau,
contro la mutilazione dell’umano nella società e nella cultura
contemporanea. La mentalità utilitaristica non solo mortifica la
scienza, la filosofia, la religione, e riduce il progresso del genere
umano allo sviluppo dei commerci, o alla introduzione di nuove
tecniche produttive ”, ma paralizza anche l’azione: essa non si
appella ad una eticità che abbia in se stessa il suo fondamento,
e che sia la stessa cosa della scienza e della religione — che
sia, insomma, tutto l’uomo, quale è —, ma ora puntella un si­
stema esteriore di norme con ciò che essa chiama religione, ora
paralizza l’agire con le sue ubbie pedagogiche, che sono vera
intolleranza
La polemica anti-utilitaristica si trova anche in alcuni scrit­
tori della controrivoluzione, per es. in Rehberg Ciò che di­
stingue nettamente la posizione di Schelling da costoro è che
questi vogliono la stabilità sociale, o almeno un lentissimo e gra­
duale ricambio della classe dirigente. Schelling, invece, non ha
per essa alcun rispetto; e non soltanto ironizza sui « pretesi uomini
di Stato » e sulle caste accademiche, ma leva la sua protesta
contro il fatto che a frequentare l’università siano, in grande
maggioranza, membri delle classi più elevate, o, come egli dice,
« fannulloni privilegiati » 98. Ma si badi bene che a queste sue
critiche non va dato, ora, un significato « democratico »: per
lui il rinnovamento della società non deve partire dai bisogni
del « popolo », o da esigenze di giustizia per tutti gli uomini.
Si è appena parlato degli hegeliani di sinistra: costoro prendono
le mosse dalla base « naturale » di tutti gli uomini, e dall’uomo
come tipo. Schelling, invece, si appella alla « idea », a quei pochi
che sanno elevarsi ad essa, all’essere assoluto, e che, muovendo
di qui, hanno la forza di tradurre nel tempo le tendenze di
fondo della storia universale. Le resistenze contro di queste sono
individuate non tanto nella presenza di corporazioni o classi pri­
vilegiate, quanto nell’inerzia, egoistica ed utilitaria, dell’intero
corpo sociale, di gran parte degli uomini, della « plebe », sia

J 95 V, 259-60.
’6 VI, 557 e 548.
•7 Untersuchungen cit., I, pp. 26-28 e 216-17.
•• V, 236.
!
214
quella delle « giornate » parigine che quella costituita dalle classi
elevate della Germania. È facile rendersi conto che qui giungono
al loro pieno sviluppo, e ad una svolta decisiva, molti di quei
motivi che si sono finora studiati come i più caratteristici del
suo pensiero: fin dagli scritti tubinghesi egli aveva insistito sulla
differenza tra il sapiente-legislatore e il popolo; negli scritti di
filosofia della natura, poi, si era delineato il motivo del carattere
e del genio che sono sì l’espressione dell’essere individuale, ma
insieme la radice di esso; e nel Sistema del 1800 si era parlato
dei pochi «eletti». Ma soltanto adesso, tra il 1802 e il 1804,
tutti questi elementi giungono ad una consapevole e decisa con­
clusione antidemocratica, che investe tutto il contenuto « umani­
tario » della tradizione illuministica: il voler metter bocca su
ogni argomento, il pacifismo, la « eccessiva sensibilità » per i
dolori umani99. Anche Hegel, quasi contemporaneamente, aveva
manifestato una radicale sfiducia sulla possibilità che la mentalità
dominante potesse dar frutti di rinnovamento politico, e, per
tagliare il nodo, si era appellato all’opera di un « conquistatore »:
«l’idea deve essere giustificata dalla forza, e solo allora l’uomo
le si sottomette » ,0°. Schelling non parla della « forza », ma
le sue conclusioni non sono molto dissimili da quelle esposte
da Hegel in altri scritti dello stesso periodo: a dirigere il nuovo ■I
corso del genere umano dovranno essere uomini che abbiano rotto
ogni legame con la tradizione culturale e morale del prossimo
passato, e che sappiano ricostruire quei valori che hanno fatto
grandi le civiltà antiche.
Nelle lezioni jenensi del 1802 la categoria di base è ancora
b
quella della eticità; ed è quasi certo che qui si riscontra una di­
retta influenza hegeliana. Nel mondo greco (« la più bella fio­
ritura dell’umanità ») l’eticità non era una peculiarità dell’indi­
viduo, ma « spirito del tutto », e « anche la scienza viveva nella
luce e nell’etere della vita pubbica, e di una organizzazione che
tutto abbracciava»; quello moderno, invece, è « un mondo di­
viso », « che vive insieme nel passato e nel presente »: alle grandi

” V, 261; VI, 554; VII, 565. In questi anni sia Hegel che Schelling
non possono soffrire la parola Htinianitàì\ per il primo essa esprime ciò
che è insulso e triviale (S. W., I, 186), mentre il secondo, in una lettera
a Hòlderlin del 12-VIII-1799, lo metteva in guardia dall’usare quel termine,
« che Herder aveva tanto screditato » (Fuhrmans, I, 174).
100 Schriflen zar Polilik cit., p. 136.

215

---1 '!
:

opere del passato è collegato da una tradizione « storica », e non


vivente. « E se i greci, come disse un sacerdote egiziano a So­
lone, erano eternamente giovani, il mondo moderno, invece, pur
nella sua giovinezza, era già vecchio, e carico di esperienza » ,<H.
Ma se bisogna essere grati a coloro che hanno saputo conservare
i ricordi del passato, facendo, dello studio di esso, una « reli­
gione », oggi non ci si può più accontentare di ciò. A questa
separazione tra passato e presente ha fatto da corrispettivo una
morale — e si pensa a quella di Kant e di Fichte ’°" — che
non ha saputo dare nulla di assoluto e di « positivo », proprio
perché ha voluto separarsi dalla scienza e dalla religione, ed una
religiosità che, pur rispettabile, non soddisfa altro che una « ge­
nialità meramente soggettiva » 103 — e qui è preso di mira
Schleiermacher. L’eticità, invece, è un elevarsi al di sopra di quella
determinazione che nasce dal concreto, e la filosofìa è la stessa
cosa, « e quindi intimamente unita con l’eticità ». « Opera della
filosofia dovrà essere il manifestare l’eticità (della quale anche
troppo a lungo si è avuto un concetto negativo) nelle sue forme
positive [...]. Lo studio di una filosofia rigorosamente teoretica
ci dà diretta familiarità con le idee, e soltanto le idee danno in­
cisività e significato etico all'agire ». Si ha l’impressione di rileg­
gere le ultime pagine del primo scritto filosofico di Schelling 104:
ma allora egli voleva una libertà tutta proiettata verso il futuro,
ora, invece, una eticità che si riattacchi all’originario, e che aiuti
così gli uomini a portarsi al livello << dell’energico ritmo del-
l’epoca ».
Malgrado l’antipatia che egli nutriva per quasi tutti i roman­
: tici, e che non risparmiava neanche la memoria di Novalis 10s,
i
i°x V, 225-26.
102 « La morale, come la filosofia, non può essere pensata senza co­
struzione. So che una teoria della morale {Sittenlehre} in questo senso non
esiste ancora » (V, 277). Kant non ha potuto estirpare dalle radici il
dogmatismo, sia in teologia che in filosofia, « perché non seppe metter nulla
di positivo al suo posto » (V, 300).
103
V, 278-79. Poco sotto c’è un’altra puntata polemica contro il « di­
lettantismo » nella filosofia e nell’arte; Schelling pensa senza dubbio ai
I membri del dissolto cenacolo romantico.
104 I, 157-59.
,os Proprio in questo periodo (il 29-XI-1802) egli scriveva ad Augusto
Schlegel, a proposito degli scritti di Novalis, che erano appena usciti: « Mi
è difficile sopportare questa frivolità nei confronti degli oggetti, quell’annu-
sare tutto senza penetrare nulla » (Plitt, I, 431-32).

216
Schelling arrivava così, per proprio conto, a conclusioni molto
vicine alle loro; e ciò si vede, in maniera assai manifesta, pro­
prio nel sistema di Wiirzburg, dove il posto della « eticità » è
ormai preso dalla « religione ». Il Dio di questa religione è senza
dubbio quello di Spinoza, e non quello cristiano: ma la scelta del
termine ha un preciso significato polemico. Moralità o eticità,
che per lui sono sinonimi ,06, hanno a fondamento il pensiero che
l’uomo sia libero di fare o di non fare — e l’agire così separato
dai valori supremi è un « arbitrio ». « Virtuoso » l’uomo è in-
vece solo se la sua volontà è assolutamente legata, se « gli è
impossibile operare in contrasto col giusto » 107 . Il giungere a que-
sto diretto contatto con l’assoluto si manifesta come conseguenza
« di una grazia, di una particolare fortuna »; « Anche se sol­
tanto pochi riescono ad esprimere, ancora nel tempo, l’eternità,
pure è chiaro che ognuno può, per sé, divenir partecipe di ciò
che è più alto, unirsi davvero a Dio, e che, per questo, ha biso­
gno fino ad un certo punto degli altri uomini. L’individuo può
così precedere il genere umano, il cui destino si estende nel tempo
senza fine, e appropriarsi in anticipo di ciò che è più alto » 108.
Ecco come l’individualismo estremo, e il dissolversi della fini­
tezza nell’assoluto, trovano ancora il modo di coesistere.
Non sarebbe privo di interesse seguire tutte le variazioni che
il filosofo svolge su questo tema: ma qui ci si dovrà acconten­
tare di mettere l’accento sull’essenziale, cioè sul tratto chiara­
mente irrazionalistico che assume, a questo punto, il pensiero
di Schelling. Se l’operare secondo giustizia è, come si è visto,
soltanto quello di chi ha superato l’atteggiamento dell’arbitrio,
cioè della libera scelta, esso sarà qualche cosa che ignora « l’ozioso
rimuginare » e il « preoccuparsi del particolare ». Il giusto, « uomo
di Dio », ha messo la fede al posto delle opere, il che significa
che importa lo spirito con cui egli agisce, non i risultati, buoni
o cattivi, che derivano dalla sua azione. << Il mio desiderio
— esclama il filosofo — è che voi portiate, quale unico vero
frutto della filosofia, non l’arrogante moralità, ma questa fede,
.questa fedeltà verso se stesso e verso Dio. In questa fede sono
vissuti i nostri valenti antenati, e ne hanno tratto valore e forza »,

106 VI, 557.


107 VI, 560. La absoltite Gebundenheit di cui Schelling parla non è
altro che la trasposizione, in tedesco, della interpretazione, di origine ago­
stiniana, di religìo a relegando.
,0‘ VI, 563.

217
mentre ora, che si attribuisce a merito dell’individuo il fatto che
egli sia virtuoso, la « viltà e l’infamia » dei sentimenti individuali
ha levato arrogantemente il capo, « e non c’è probabilmente mai
stato un tale sfacelo di ogni concetto di giustizia come nella no­
stra epoca morale » Dal contesto è chiaro che quando parla
dei « valenti antenati » Schelling si riferisce agli uomini della Ri­
forma; e va tenuto presente che questa opposizione tra Riforma
e Aufklàrung 110 è un consapevole rovesciamento di quello che
era uno schema corrente, e che anche Schelling, come si ricor­
derà, aveva fatto suo: quello, cioè, della Riforma come antici­
patrice di quella libertà di pensiero che si era poi dispiegata nel­
l’età moderna, anche nel secolo dei lumi. Qui, invece, il signifi­
cato più profondo di essa è visto nell’essere manifestazione di
fede, di devozione nei confronti di una forza originaria e sopra-
individuale. In queste pagine, oltre che a Spinoza, Schelling si
appella al « fondatore del cristianesimo »: ma di Cristo gli in­
Pressa l’esempio dell’esperienza « eroica », non il contenuto spe­
cifico della dottrina; e lo stesso vale, naturalmente, per l’accenno
igli uomini della Riforma.
Questa posizione non si presta ad essere collocata in uno
dei grandi « partiti » nei quali si articolava la cultura contempo­
ranea. Schelling non può certo essere accostato agli ortodossi,
in quanto, per costoro, la « fede » aveva un contenuto dogma­
I tico ben preciso; il suo concetto di religione, come si è visto,
II non è quello di Schleiermacher ha qualche analogia, invece,
con quello che F. Schlegel aveva accennato nelle Ideen del 1800 113
— ma le conseguenze che questi ne aveva tratto, e a cui dette
svolgimento nelle lezioni di Colonia del 1804-05 sono diversis­
! sime da quelle di Schelling. Lo Schlegel, cioè, è già chiaramente
su posizioni « restauratrici » dell’autorità, sia statale che eccle­
siastica, e delinea addirittura un tipo di società castale; il dotto,
per lui, ha la funzione di amministrare un patrimonio di idee
I ben precisato, e l’ostilità che egli manifesta per le guerre di

109 VI, 559-60.


! 1,0 È quasi inutile ricordare che il richiamarsi, contro i lumi, ai valori
della Riforma era, negli ambienti ecclesiastici più conservatori, un atteg­
giamento « antico quanto lo stesso illuminismo » (Valjavec). Ma sulla base
di quello che si sa della vita e delle relazioni di Schelling in questi anni,
si può escludere che egli sia stato influenzato da questi ambienti.
ni
Un’altra puntata contro Schleiermacher in VI, 558.
112
« Athenaeum », 1800, I, pp. 4 sgg.

218
espansione contrasta nettamente con l’ammirazione schellinghiana
per la « forza quasi divina » del « conquistatore » II3.
Certo, lo Schelling del 1802-04 non è più quello che, una
decina di anni prima, era ansioso di portare il suo contributo alla
« buona causa » del genere umano. Egli, anzi, ha lasciato cadere
anche la fede nel « progresso »; è caratteristico, però, che egli
non teorizzi la stabilità immota di istituzioni « naturali », ma cri­
tichi l’idea di progresso perché, a suo avviso, essa non è suffi­
ciente a qualificare davvero i momenti decisivi della storia del-
l’umanità. « È una legittima aspirazione dell’anima, dopo che il
bello e il grande sono scomparsi dal mondo, e dallo Stato nei
quale viviamo, di ricercarli in nuovi grandi organismi terreni » 114;
è estremamente probabile che qui ci sia un accenno alle aspira­
zioni alla unificazione della Germania in uno Stato 115 — ma que­
sto grande obiettivo non può essere realizzato col mettere una
forma « intellettualistica » di Stato al posto di quella precedente:
« Mettere il vero Stato, quello della ragione, al posto degli Stati
attuali, che sono dell’intelletto, non sarà un progresso, ma la
vera rivoluzione, la cui idea è completamente diversa da ciò a cui
è stato dato questo nome ». E, per chiarire meglio il suo pen­
siero, Schelling aggiunge che non c’è stato, dal mondo antico a
quello moderno, un progredire, ma una gànzliche Unikebrung.
La scelta della parola è assai significativa: Umkebrung vuol dir
sì cambiamento totale, ma anche « ritorno », « conversione »,
« ravvedimento ». Egli vuol dire, insomma, che occorre sì spazzar
via i valori logorati col mettere al loro posto valori nuovi — ma
che ci deve essere, anche, qualche cosa di simile ad un ritorno
alle origini, cioè un ristabilimento, sotto la guida delle idee, della
umanità in una condizione che non sia più quella, dilaniata e
scissa, del mondo attuale, ma simile a quella che era stata del
mondo greco.
Non si tratta, però, di un ristabilimento puro e semplice di

1.3 Di F. Schlegel cfr. la Kritische Atisgabe cit., voi. XIII, pp. 153 sgg.
L’accenno schellinghiano al « conquistatore » in V, 260.
11 ' VI, 564.
1.4 Nelle lezioni di Jena egli aveva detto: « In Germania l’antico ca­
rattere nazionale che si è dissolto, e sempre più si dissolve, nella partico­
larità, potrebbe esser richiamato in vita — dato che nessun legame este­
riore ci è riuscito — soltanto da un legame interiore, una religione o una
filosofia che si impongano » (V, 260).

219
I
quel mondo ,1C, ma di qualche cosa che « converta », cioè cor­
regga, l’esperienza individualistica dell’uomo moderno; ed è qui
che la « religione », cioè il sentirsi legati all’assoluto, ha un ruolo
centrale. Essa dà a chi la conosce eroismo e sicurezza, addita un
compito infinito di cui però già il presente operare è la più
alta realizzazione che sia possibile, libera dal calcolo delle forze
e dei risultati perché l’esito dipende dal « divino ». Ma se si tiene
presente che l’unica norma che sia data all’uomo è « la fedeltà
verso se stesso e verso Dio », si avrà che la direzione dell’operare
è del tutto indeterminata *17: come si è già suggerito, ciò che im­
porta è agire in quello spirito, con gli occhi fissi all’idea, contro
una civiltà che invece ha voluto divinizzare gli interessi dell’uomo
empirico.
Degli interessi, si sa, Schelling non si era mai occupato; egli
aveva insistito, però, sull’esigenza che la finitezza e la vitalità
umana non venissero sacrificate a un misterioso « soprasensi­
bile »: l’uomo, per lui, era pur sempre il più alto prodotto dello
svolgimento del tutto. Questa posizione non è ripudiata esplici­
tamente neanche adesso: ma ora l’uomo ha come metro non più
se stesso, ma un assoluto dai contorni indefiniti, che giustifica
tutto ciò che egli fa, e che lo esaurisce tutto nell’azione. Ciò che
dà importanza storica a questa conclusione è il fatto che qui il
filosofo ha cercato di superare quei limiti dell’uomo faustiano
— cioè del prodotto più nobile della civiltà moderna — che egli
aveva indicato nella Filosofia dell'arte. Non è il tendere soggettivo
che può aver ragione della volgarità del presente, frutto di una
scissione secolare, ma una « contemplazione » del tutto, e, di qui,
un operare che abbia come criterio la « fede ».
Si capisce quindi come la sua « rivoluzione » sia non politica,
ma metapolitica ’18, non si proponga di cambiare strutture, poli­
tiche o sociali, ma di cambiare idee e sentimenti, di « conver-

”• Hollerbach, op. cit., p. 175. Del resto Schelling più tardi avrebbe
scritto: « Ogni ritorno, eccettuato quello che avviene in grazia di un pro­
gresso, è corruzione e tramonto » (Vili, 4).
111 Sul fatto che quello di Schelling non fosse un « sistema » morale
aveva già richiamato l’attenzione Schleiermacher, nella lunga recensione che
scrisse delle Lezioni sul metodo-, ora in Atis Schleiermachers Leben cit.,
IV, Berlino 1863, pp. 589 sgg.
*’• « J’entends dire que les philosophes allemands ont inventé le mot
métapolitique pour étre à celui de politique ce que le mot mélaphysique
est à celui de physique » (J. De Maistre, Oeuvres, Paris 1862, col. 108).

220
tire »; ma come, insieme, il completo disinteresse per le forme
concrete di realizzazione spinga Schelling a contrapposizioni radi­
cali, di modelli di civiltà. Egli esprime così, tra i primi, un atteg­
giamento che sarà tanto diffuso tra gli intellettuali tedeschi del
XIX e del XX secolo, e che si è espresso in varie formule, dal
motto della « rivoluzione tedesca » alle antitesi di cultura e civiliz­
zazione. Alcuni di questi pensieri di Schelling si possono ritrovare,
esposti quasi con le stesse parole, nei Discorsi alla nazione tedesca
di Fichte; ma anche in certe pagine di Nietzsche, o delle Consi­
derazioni di un impolitico di Thomas Mann.

5. Lo Stato.

Si ricorderà che, fino al 1800, Schelling, quando ha parlato


dello Stato, lo ha fatto o per negarlo, o per ridurlo a strumento,
non del tutto sicuro, della libertà dell’individuo. Ma dopo quella
svolta del suo pensiero che si ha col sistema dell’identità, e di
cui nel precedente § si sono delineati gli aspetti morali, muta
anche, e radicalmente, il suo atteggiamento nei confronti dello
Stato.
Era quasi ovvio stabilire un collegamento — e gli studiosi
non hanno mancato di farlo — tra questo, e l’influenza che su d
lui può avere esercitato Hegel. Ma è lecito pensare che ci s
stata un’influenza dell’oscuro precettore, che si recava a Jei
senza aver quasi pubblicato una riga che a Francoforte si ei
comperato molti scritti di Schelling 120, forse per prepararsi al­
l’incontro con l’antico amico, e un pensatore che allora era al
culmine della sua fama, il nuovo astro della filosofia tedesca? I
contemporanei, si sa, non fecero gran conto di Hegel, e insistet­
tero, tanto da attirarsi una replica, sul fatto che egli era una sorta
di portavoce di Schelling 121 ; e F. Schiller, per parte sua, pensava
”® Hegel, quando arrivò a Jena, aveva pubblicato soltanto, e sotto il
velo dell’anonimato, una traduzione delle Lettere confidenziali del Cart
(1798); cfr. F. Rosenzweig, Hegel und der Staat, Berlino-Monaco 1920,
I, 48 sgg.
120 Rosenkranz, Hegels Leben cit., p. 100.
121 Fuhrmans, I, 473, n. 8. Si può aggiungere che anche il Kbppen,
ncll’op. cit., qui a p. 170, notava, parlando del saggio hegeliano Glatiben
und \v/issen: « Il lettore viene pregato, quando si citerà il nome di Hegel,
di tener presente che si tratta solo di eine dem Schellingschen Systeme
angehòrige Individualitàt » (p. 145, n. 2).

221
ì
f

di proporlo per un posto di precettore ,22. Horst Fuhrmans ha


raccolto tutta una serie di testimonianze per sostenere che, anche
quando abitavano insieme, i due vissero indipendentemente l’uno
dall’altro, che non erano mai stati « amici » nel senso romantico
del termine, e che non si può immaginare che essi abbiano filo­
sofato in comune l23. È una tesi, questa, che merita forse qualche
precisazione. È verissimo che tra i due non ci fu una « amicizia
del cuore »: ma sia Schelling che Hegel ebbero mai amicizie di
questo genere? A scorrere i loro carteggi non si trova quasi nulla
che faccia pensare alle effusioni epistolari di F. Schlegel o di
Novalis, di Schleiermacher o di Hòlderlin. Il Fuhrmans sottovaluta
mi pare, un aspetto che egli pure ha colto: che i due erano, e
restavano, compagni di studi: l’essere stati insieme tre anni nel
collegio teologico di Tubinga, ed anzi, per qualche mese, nella
stessa camera, le letture e le discussioni in comune, rappresen­
tavano un vincolo tale che, dopo anni di silenzio e di lontananza,
bastava una lettera perché si riannodassero immediatamente dei
legami che erano tanto più solidi perché non di « cuore », ma di
reciproca confidenza, e di cultura. Del resto quando, dopo la
pubblicazione della Fenomenologia, i rapporti tra i due si inter­
ruppero, essi evitarono sempre di apparire pubblicamente come
nemici, e, quando se ne presentò l’occasione, non mancarono di
incontrarsi... pur senza parlar più di filosofia ’24. Fu solo dopo
la morte di Hegel che Schelling si lasciò andare ad affermazioni
che spesso offendevano il buon gusto.
Si è già osservato, a proposito degli scritti del periodo di
Tubinga, che Schelling, che pure aveva una eccellente istruzione
classica, non aveva mostrato, per il mondo greco, quell’entu­
siasmo che era di Hòlderlin e di Hegel. Anche i suoi studi degli

122 A. W. von Humboldt, che da Roma gli aveva chiesto di trovargli


un precettore per i propri figli, che fosse esperto di lingue classiche o di
scienze naturali, e che non fosse solo metafisico o filosofo della natura,
Schiller rispondeva, il 18 agosto 1803: « Attualmente è a Jena, come do­
cente di filosofia, una gran brava persona, il dr. Hegel, oriundo del Wurttem-
berg, una solida mente filosofica, di cui Lei avrà forse visto qualche scritto;
ma Lei non vuole un metafisico, e poi è un po’ malaticcio e scontroso »
(Schiller-Humboldt, Briefwechsel, Berlino 1962, II, 247).
123 Fuhrmans, I, 464 sgg. Salvo qualche piccola riserva, che può essere
sollevata qua e là, la lunga trattazione che il Fuhrmans ha dedicato ai
rapporti Schelling-Hegel è di gran lunga quanto di meglio ci sia sull’ar­
gomento.
124 Fuhrmans, I, 550.

222
anni successivi lo avevano impegnato con una problematica
« moderna », che non gli offriva quasi occasione di riprendere
motivi della cultura « antica ». Ebbene, va rilevato che all’ac-
cennato ellenizzante, anzi, platonico, di certe pagine hegeliane
del periodo di Jena corrisponde qualche cosa di molto simile in
certi scritti di Schelling; in qualche caso i due ricorrono addi­
rittura alla stessa immagine, o alla stessa parola: si è già detto
del processo di Oreste, e si può ricordare ora il richiamo e l’in­
terpretazione di JtoXiTeveiv 125. Di altre prove dell’influenza hege­
liana si dirà più avanti: ora basterà osservare che essa potè veri­
ficarsi perché il distacco da Fichte liberava, in Schelling, motivi
e tendenze che, dal 1796 al 1800, si erano manifestati solo margi­
nalmente, e che ora venivano ripresi con ben altra consapevo­
lezza. Era un vecchio tema del pensiero di Schelling quello dei
rapporti tra savi e popolo; negli scritti tubinghesi esso era stato
impostato quasi senza tensioni problematiche. Ma ora Schelling
aveva direttamente esperimentato la incapacità delle « idee » di
farsi valere, da sole, contro la mentalità e le istituzioni esistenti:
non è probabilmente esagerato affermare che solo intorno al 1800
il troppo precoce « genio » giunse a sentire, e ad approfondire,
il motivo della « scissione » e delle difficoltà della « conciliazione ».
Ed è qui che gli scritti hegeliani gli offrirono, in una forma che
a lui poteva sembrare familiare, tutta una serie di indicazioni:
anzitutto quella della opposizione al presente, quale radicale
negazione di esso, di un modello ideale, del mondo classico; poi
quella della unità, in una vita « pubblica », sorretta da istituzioni
civili e religiose, di interiore ed esteriore — idealità, questa, che,
secondo Hegel, avrebbe dovuto essere adorata « come Dio del
popolo » e avere « vivacità e gioioso movimento in un culto » 126
mentre Schelling parla della « armonia » e del « movimento
ritmico » che costituirà il terreno di cultura di una nuova mito­
logia, dalla quale trarrà nutrimento lo « spirito creatore » 127.
Se si pensa alla diffidenza di Schelling verso la eticità pub­
blica, quale si manifesta nella Nuova deduzione e nel Sistema, e

135 Hegel, 5. W.t I, 495: il termine significava «vivere con e per il


proprio popolo, condurre una vita universale tutta dedita a ciò che è pub­
blico: tutto ciò è il filosofare ». Schelling, VI, 576: « La filosofia — che
non è più scienza, ma diventa vita — è ciò che Platone chiama il -oAir«v<tv}
la vita con e in una totalità etica ».
120 S. W., I, 514.
137 V, 316 e VI, 576.

223
:
più tardi di nuovo, anche se con motivazioni diverse, negli scritti
del periodo teistico, potrebbe venir fatto di dire che questo suo
entusiasmo per lo Stato fosse, in fondo, un adattarsi piuttosto
epidermico all’influenza di uno spirito tanto più maturo e « poli­
tico » del suo. Ma i testi non consentono questa ipotesi: se anche,
come sembra certo, egli ha ricevuto spunti da Hegel, li ha però
rielaborati originalmente, tanto che la tematica nuova si intreccia
con preoccupazioni e interessi antichi; le lezioni di Wùrzburg,
poi, nelle quali egli, come usava, portò alle estreme conseguenze
quegli spunti, furono stese quando ormai aveva lasciato Jena, e
Hegel, da parecchi mesi.
È stato il Metzger a osservare, molto acutamente, che mentre
Hegel, a Jena, parla di popolo, Schelling parla prevalentemente
di Stato 128 ; non ha tentato, però, di spiegare il perché di questa
diversa impostazione, e si è limitato ad indicare quali erano stati
gli autori e i testi che avevano aperto la strada alla concezione
« organicistica ». Il problema del perché, nel 1802, proprio lo
Stato sia « l’organismo esteriore di un’armonia, raggiunta nella
libertà, di necessità e libertà », non può però essere evitato: anzi,
esso è ciò che consente di collegare in un tutto fortemente coe­
rente le sparse affermazioni del filosofo. Si è già detto, parecchie
volte, della ferma fede di Schelling che la nuova filosofia fosse
l’unico possibile strumento per rinnovare il mondo: non stupirà,
quindi, che per lui il problema della libertà si riduca sostanzial­
mente a quello della libertà della cultura, e quello dello Stato a
quali siano le forme di esso che consentano alla cultura (o, come
dice Schelling, al « sapere » o alla « scienza ») di organizzarsi
liberamente, e di sviluppare tutta la propria forza creatrice. Uno
Stato il quale consideri pericolosa una filosofia degna di questo
nome, ha già pronunziato il più severo giudizio su se stesso ,29.
Ma, e questo è il punto decisivo, non si può assicurare la
libertà del sapere senza soggiogare le forze che ad esso si oppon­
gono. E, in questa prospettiva, una organizzazione « negativa »,
che garantisca una eguale libertà d’azione a chi sa e a chi non sa,
a chi muove dal tutto e a chi si ispira, invece, al proprio interesse
particolare, è del tutto insufficiente. Peggio: un simile Stato è, in
realtà, solo l’organo della società civile, cioè di quella condizione,
tipica dell’età moderna, nella quale tutti i valori sono non armo-

’2S Gesellschajt cit., pp. 244-45.


129 V, 257.

224
nizzati, ma mescolati e confusi ,3°, e che persegue solamente l’utile !
del singolo; è inevitabile che un simile Stato abbia mostrato un !
gran disinteresse per la filosofia, e abbia voluto fare dell’università,
e in genere della scuola, un luogo nel quale si insegnano soltanto
cognizioni pratiche 131 e dal quale, « isolando e contrapponendo
i singoli talenti, opprimendo tante individualità, disperdendo le
forze in direzioni così diverse, possa trarne strumenti tanto più
idonei ai suoi scopi » ,32. Come si vede, Schelling è sempre osti­
lissimo allo « Stato del benessere », illuminato e burocratico. i
Tanto più che questo, riducendosi a strumento dell’intelletto
« volgare » 133 dà ad esso, implicitamente, un potere su lui stesso,
e non potrà più imporre obbedienza: come stupirsi che un’epoca
nella quale « i re si vergognano di essere re, e vogliono essere
solo primi cittadini » 134 sia anche quella della « oclocrazia », del
dominio della plebaglia?
Ma quale è la genesi dello Stato, e quale deve essere la sua
I organizzazione? Lo Stato non è una costruzione volontaria, che
sia nata da un patto: già i primi uomini avevano una civiltà, e
questo significa che « Stati, scienze, religione e arti » erano sboc­
ciate insieme, compenetrandosi a vicenda « come tornerà ad es­
sere, a suo tempo, quando la storia sarà giunta a compimento » ,35.
Sembrerebbe qui delinearsi una sorta di armonia tra modi di
essere dell’assoluto che non sono separati da compartimenti-stagno,
nella quale l’uomo è libero proprio perché è aperto ad ogni sti­
molo; è, se è lecita l’espressione, un organo polivalente dello
spirito. Ma Schelling, se in passato aveva vagheggiato qualche
cosa di simile, ora non lo pensa più: anche nella società greca,
e anche nella Repubblica di Platone, c’era un ceto di uomini che
erano schiavi, « cose »; gli scritti politici contemporanei di Hegel

130
V, 314.
131
V, 229 sgg.
132
V, 235-36.
133
« Devo spiegare cosa intendo per intelletto volgare. Non penso af-
fatto, o esclusivamente, a quello rozzo, soltanto incolto, ma a quell’intel-
Ietto che, educato da una cultura falsa e superficiale ad un ragionare gon-
fio e vuoto, si ritiene assolutamente colto; quello che, ultimamente, si è
manifestato soprattutto con l’umiliare tutto ciò che si richiami alle idee »
(V, 258).
134 La rivendicazione della regalità è un motivo assai diffuso nella let­
teratura politica deH’epoca; ne parlano non solamente « romantici » come
Novalis c F. Schlegel, ma anche Hegel (5. W., I, 525).
135 V, 287.

225
15. Cesa
avevano ripresentato questo schema, che si armonizzava benis­
simo, del resto, con quanto Schelling aveva più volte affermato,
e che ripete anche qui: « il sapere, e soprattutto quello filosofico,
non è cosa da tutti » 13G. Quel « divino » che aveva ispirato le
prime comunità non può sopravvivere da solo; il « sapere origi­
nario » che si manifestò, nell’antichissima sapienza degli uomini,
in saghe e in miti che erano anche filosofemi, rischia di dissol­
versi senza l’intervento di un organo « reale » fornito di forza
propria: « Le formazioni statali, le leggi, le singole istituzioni che
furono edificate per conservare la supremazia del principio divino
nell’umanità, erano, per loro natura, espressioni molteplici di idee
speculative » ,37. Si noti: « per conservare la supremazia del prin­
cipio divino nell’umanità »; il che implica che lo Stato è neces­
sario, perché quel divino è ciò che dà senso alla storia del mondo,
ma insieme che esso è creazione umana, « opera d’arte » 13“. Esso
è, comunque, una struttura necessaria del vivere umano, anzi,
l’unica davvero universale. Le altre espressioni dell’assoluto con­
ducono una loro vita liberamente organizzata, e in esse il singolo
ha quel peso che gli è dato dal suo « talento », e dal contributo
che egli porta: ciò è ovvio per le arti e le scienze, che lo Stato non
può « proteggere » — basta che non favorisca ciò che ad esse si
oppone ,3#. Per la religione il discorso è diverso, perché essa, col
cristianesimo, si è organizzata in « chiesa ». Ma, secondo Schelling,
la Chiesa, come organizzazione rigida, è in via di dissoluzione: essa
è un manifestarsi del « simbolo » in un mondo ideale e unisce
gli uomini, pur senza togliere la loro singolarità; già in passato
le idee « mistiche » ne hanno minacciato l’esistenza esterna e il
loro unico torto, allora, era stato quello di volersi imporre troppo
presto 14°: ma ora esse sono sulla via di vincere, perché la Chiesa,
costituzionalmente, è nata dal fatto che gli uomini sono stati se­
parati dalla natura e tra di loro, ed hanno ricercato l’unità sola­
mente nello spirito. E poi, dopo la Riforma, come pensare ancora
ad una Chiesa come quella medievale?

136 V, 219.
137 V, 225.
138 I vari significati di questa espressione sono stati illustrati da
Hollerbach, op. cit., pp. 166-67.
139 V, 237.
140 V, 293-98 e 118. J. Stahl, Die Philosophie des Rechts, I, 404-05
fraintende del tutto, a mio avviso, il gruppo di pagine cit. (ho presente la
sua opera nell’edizione fotoctatica di Hildeshcim, 1963).

226
L’unica struttura portante della vita esterna degli uomini
resta quindi lo Stato. La sua rinascita in forme pure è possibile
proprio per quel dissolversi della Chiesa di cui si è parlato. Quando
essa si era dispiegata come organizzazione, aveva dovuto essere lo
Stato a diventare « esoterico »: così, la monarchia si era circon­
data di attributi religiosi, ma essa aveva cessato di essere « lo
strumento dell’universale » ed i dotti, da parte loro, si erano
dovuti rassegnare ad una funzione « mediatrice » 111 tra domina­
tori e dominati, senza mai riuscire ad acquistare né la consape­ !
volezza di essere « un mondo assoluto », né una « realtà indi­
pendente ».
Per delineare la forma tipica e quindi perfetta dello Stato,
Schelling si richiama all’idea, non alla storia; anzi, ha frasi piene
di disprezzo per coloro che sono attaccati a forme del passato,
nelle quali lo spirito « abita come tra le rovine ». Nei confronti
del diritto, poi, ha un atteggiamento chiaramente ispirato a quello
di Hegel, e respinge sia il « formalismo » (cioè il diritto naturale
della scuola kantiana) che l’empirismo; è però abbastanza carat­
teristico che mentre Hegel non è privo di comprensione per le
ragioni di quest’ultimo, pur rilevandone i limiti ’42, Schelling ne
parli come di un atteggiamento nel quale predomina una sorta
di « acume meccanico ». È un modello ideale, invece, che deve
esser messo a fondamento, frutto dello studio della storia del
mondo antico e delle « forme, in esso necessarie, della vita pub­
blica », nonché di quel « libro divino » che è la Repubblica di Pla­
tone, la quale, pur senza che si perda di vista l’« opposizione » tra
mondo antico e mondo moderno, resterà sempre il « modello ».
Tratti platonici, nella ispirazione, se non nella strutturazione,
ha la « costituzione » che egli propone. « L’ordinamento dello
Stato è un’immagine della costituzione del regno delle idee. In
questo l’assoluto, ossia la forza da cui tutto promana, è il mo­
narca, le idee sono — non la nobiltà o il popolo, perché questi
sono concetti che hanno realtà solo nella opposizione reciproca
— ma i liberi: le uniche autentiche cose sono gli schiavi e i

V, 314-15. Che i « mediatori » dei quali Schelling parla siano i


dotti, mi pare certo; un accenno in certo senso analogo comparirà, più
tardi, nelle lezioni berlinesi di Fichte (S. VF., XI, 165 sgg.). Nell’ala cattoli­
cizzante del movimento romantico la funzione « mediatrice » sarà invece
attribuita al clero; il concetto si trova già nella Cbristenbeii oder Europa
di Novalis.
“2 5. W., I, 453 sgg.

227
servi. » 143 Non bisogna pensare — è il caso di dirlo? — che
Schelling volesse un ristabilimento delle caste; la sua non è altro
che una trasfigurazione speculativa (si pensi al contemporaneo
System der Sittlichkeit hegeliano) di quella meritocrazia alla quale
tutta la sua generazione guardava come alla forma più alta di
organizzazione della società. Con in più, una estetica ammirazione
per quella incarnazione personale dell’assoluto che è il monarca,
da intendersi, probabilmente, non tanto come un pacifico sovrano
ereditario quanto come quel « conquistatore » la cui forza divina
sa trasformare un mondo: allo slancio di una filosofia che non
ammette nulla di immobile corrisponderebbe così la creazione
politica, che è opera d’arte proprio perché sa riattaccarsi ai valori
permanenti e immutevoli. Questa costruzione gerarchica sembra
difficilmente conciliabile con una precedente affermazione, che
« lo Stato è perfetto nella misura in cui ogni singolo membro di
esso, essendo mezzo rispetto al tutto, è insieme fine in se
stesso » 144; ma qui Schelling ha voluto semplicemente dire che
ogni uomo che viva secondo la sua natura, è un utile membro
dell’intero, ed insieme adempie alla propria destinazione: c’è di­
sordine quando il « libero » è oppresso, non quando il « servo »
vive come tale.
Quanto si è detto finora è la risposta alla domanda che era
stata proposta all’inizio di questa analisi: Schelling parla di Stato,
e non di popolo, anzitutto perché egli non aveva, come Hegel,
sottoposto ad una personale rielaborazione questi concetti, e
« Stato » gli poteva sembrare la più ovvia traduzione della plato­
nica no/.treìa; ma poi perché egli, più che alla « vita assoluta nella
patria e per il popolo » 145 pensava ad una vita nella quale l’agire
fosse illuminato e sorretto dal pensare, e da un pensare specula­
tivo. Lo Stato, lo si è già detto, è ciò che deve assicurare, con la
sua struttura gerarchica, la possibilità di questo libero manife­
starsi della attività intellettuale, che si svolge in lui, ma che in
lui non si risolve.
Quella tensione tra la vita dello spirito e la società civile
sembra placarsi alla luce della concezione « religiosa » dell’esi­
stenza, che Schelling espone nel sistema di Wurzburg. Anche qui
egli rileva che ogni uomo ha una sua peculiarità, che lo distingue

143
V, 260-61.
144
V, 232.
143
Hegel, Schriften zur Politik cit.» p. 469.


228

I
da ogni altro, che ci sono buoni e cattivi, capaci e incapaci: ma
evita di radicalizzare questa antitesi, richiamandosi al principio
che bisogna guardare non al singolo, ma all’ordine della natura,
nel quale ciascuno ha il suo posto e la sua funzione 146 — del resto
ogni operare non è che l’attività della sostanza universale e infi­
nita. Quello che conta, lo si è già visto, è lo spirito con cui l’uomo
opera: strumento dell’assoluto, solo adeguandosi consapevolmente
ad esso può non solo sentirsi, ma anche diventare libero. L’im­
pronta spinoziana di queste formulazioni è così evidente che non I
vale la pena di insistervi.
Ciò che e caratteristico di Schelling è che egli indica, come
luogo di incontro e di sintesi tra la « libera necessità e la neces­
saria libertà » 1,7 non tanto la filosofia quanto l’arte. Egli riprende,
così, la teoria che aveva esposto per la prima volta nel Sistema
del 1800. Ma mentre allora quella assoluta armonia sembrava
accessibile solamente al « genio » e si accennava appena alle con­
dizioni che ne avrebbero permesso il verificarsi, ora la genesi di
quell’arte che dovrà essere l’espressione della libertà dell’uomo
moderno viene vista in una dimensione « politica », dipendente
dall’esistenza di un « popolo » e di una « nazione ».
Per lui, ciò che manca all’arte moderna è una materia che sia
« reale » e che sia davvero « simbolo » dell’assoluto. Una tale
materia può esser data solo se c’è una mitologia, la quale, a sua
volta, è possibile soltanto « se le sue figure abbiano una relazione
con la natura » — esprimano, insomma, non singoli, « storici ».
individui, ma tutto il genere umano.

La rinascita di una concezione simbolica della natura sarebbe


quindi il primo passo per il ristabilimento di una vera mitologia. Ma
come può questa formarsi se non si è ricostituito come individuo una
totalità etica, un popolo? La mitologia, infatti, non è cosa di un in­
dividuo o di una stirpe che agisca in modo non unitario, ma è sol­
tanto di una stirpe che sia afferrata e animata da un solo impulso
artistico. La stessa possibilità di una mitologia ci rimanda così a qual­
che cosa di più alto, al tornare a riunirsi dell’umanità, come totalità,
o come figura individuale. Finché non si verificherà questa condizione,
è possibile soltanto una mitologia parziale, che si alimenta della ma-
teria fornita dall’epoca (per es. Dante, Shakespeare, Cervantes, Goe-
thè), ma non una mitologia universale, simbolica nel senso più va-
sto ,48.
140
147
VI, 543 sgg.
VI, 569.
I
148
VI, 572.
229
Non deve sfuggire l’oscillazione a proposito del « tornare a
riunirsi dell’umanità come totalità o come figura individuale »:
anche adesso, che egli ha fatto propria, senza più riserve, la con­
cezione hegeliana di « popolo » ,40 Schelling ha ancora un residuo
del suo antico cosmopolitismo. Ma ormai esso tende a diventare
tutt’altra cosa, ad avvicinarsi all’idea che un popolo vero può
generare valori non solo universali, ma eterni, come ha fatto,
appunto, quello greco. Un tale popolo può essere considerato
l’espressione dell’assoluto; c’è qui un probabile preannunzio della
teoria dei wetgescbichtliche Vòlker che poi troverà la sua matura
espressione nel quadro hegeliano della storia universale: per
spiegare questa vicinanza basta pensare, come fonte comune, a
Herder. Il pulsare della totalità etica del mondo antico viene op­
posto, ancora una volta, alla situazione del presente: ciò che
oggi viene chiamato libertà non è altro che la « singolarità e
fiacchezza » o anche la « schiavitù » 130 della « vita privata », alla
quale si contrappone la « libertà pubblica » e la « vita pub­
blica », cioè « l’unità spirituale » di un popolo.
Il « popolo » è dunque il fondamento, il tutto, nel quale non
solo l’arte, ma anche la scienza e la religione « trovano la loro
oggettività » Esso può intendersi come una sorta di terreno
di cultura, che alimenta la specifica attività spirituale, che le dà
una direzione, che le impedisce di cadere nel vuoto formalismo o
nel soggettivismo. Ma ciò in cui arte, religione e filosofia si com­
penetrano davvero, e smettono di essere soltanto attività degli
individui che le coltivano, è lo Stato. C’è un passo che si può ben
considerare la più compiuta espressione dell’organicismo politico
di Schelling e nel quale è chiaramente esposta la analogia tra
mondo fisico e mondo spirituale:

Come è una e una sola la natura e la sostanza infinita che si


manifesta nella pesantezza, nella luce e nell’organismo, e come, in
ciascuno di questi, essa è pur sempre assoluta per sè, così è uno
e uno solo il divino che vive nella scienza, nella religione e nell’arte.
14’ Cfr. per es. S. W., I, 486: « [...] die absolute sittliche Totalitat
nichts anderes als ein Volk ist ».
140 Anche questo è quasi certamente un riecheggiamento di idee hege­
liane; quel primato che il diritto privato, o civile, si è assicurato, fa sì
che esso invada tutte le altre sfere dell’esistenza, anche quella etica, e fi­
nisca per distruggere anche la biirgerliche Freiheit che in partenza si era
proposto di tutelare (v. per es. S. W., I, 524-25).
141 VI, 573.

230
!

Per le tre potenze del mondo ideale ci sono soltanto queste tre espres­
sioni assolute. Ma come nella natura la sostanza, che reca e comprende
in se tutte quelle potenze, diventa oggettiva come sostanza, priva di
potenzialità, nell’universo fisico e nell’edificio del mondo, così il di­
vino, che vive separatamente, pur restando assoluto, in scienza, re­
ligione ed arte, diventa oggettivo mediante lo Stato. E come, inoltre,
la pesantezza, la luce e l’organismo sono soltanto attributi dell’uni­
verso fisico, e tutte le cose sono e possono essere soltanto in lui,
così nè vera scienza, nè vera religione, nè vera arte hanno oggettività
che non sia nello Stato ,ca.

Schelling aveva già detto che le leggi sono la « seconda


natura »; il passo che si è ora trascritto conferma l’interpretazione
che si era a suo luogo suggerita, e che cioè, anche nel Sistema del
1800, Schelling non era affatto su posizioni « meccanicistiche »
(come invece molti interpreti hanno sostenuto). Ciò che la filo­
sofia dell’identità ha sostituito alle concezioni esposte allora è il
senso positivo attribuito alla individualità statale e nazionale.
Allora le « individualità statali » erano giudicate insufficienti a
garantire appieno la libertà del singolo, ora, invece, ne sono la
condizione; allora, coerentemente, la pace sembrava il fine su­
premo dell’organizzazione giuridica (a cui, in fondo, la politica
si riduceva) ora, invece, del pacifismo si parla con ironia e di­
sprezzo ,M: esso è un atteggiamento soltanto « empirico », nega­
tivo, cioè che vieta, non positivo, cioè che alimenta. Se l’impianto
teoretico non è sostanzialmente mutato, è mutato invece (e non
è certo poca cosa) il modo con cui esso trova applicazione sul
piano politico. Mentre fino al 1800 la prospettiva dell’armonia
finale era ancora orientata verso l’umanità, ora lo è verso il popolo-
nazione: a questa nuova entità vengono trasferite tutte le attri­
buzioni che una volta erano del genere umano. Ciò troverà illu­
strazione su due punti importanti.
Nel Systemprogramm del 1796 Schelling, si ricorderà, aveva
preannunziato un « eguale sviluppo di tutte le forze »; ora ciò
viene detto dello Stato, che non può privilegiare un « elemento
della vita » senza opprimerne un altro. Ciò potrà verificarsi, però,
se tutte le istituzioni e tutte le attività saranno sì in rapporto
dialettico tra loro, ma non in « vera opposizione » allo Stato;

152 VI, 575.


153 È appena il caso di ricordare le violente tirate di Hegel contro
il pacifismo; cfr. per es. 5. W., I, 487 e VII, 434 sgg.

231
il caso che viene presentato è classico, quello della Chiesa: « La
chiesa non è fuori da un tale Stato, è in lui. Essa potrebbe essere
esterna solo ad uno Stato dai fini e dalle istituzioni meramente
terreni: ma questo non sarebbe più uno Stato ».
Lo svolgimento è tipico della impostazione idealistica, e non
a caso si troverà poi ripreso da Hegel e dalla scuola hegeliana.
Se lo Stato è il manifestarsi del divino nel mondo ideale, il vivere
per lui è già la più alta forma di « religione »: la Chiesa, di questa
religione, è soltanto una forma, necessaria, ma non assoluta, per
sé. Essa non può limitare lo Stato dall’esterno, ma solo contri­
buire ad articolarlo dall’interno. Malgrado Schelling non abbia
poi tenuto ferma questa concezione dello Stato, egli mostrò
sempre impazienza nei confronti delle aspirazioni a fissare, sul
piano giuridico, l’indipendenza della Chiesa 1M.
Nella Abhandlungen Schelling aveva auspicato che gli « atti »
della filosofia venissero chiusi il più rapidamente possibile, in
modo che tutte le menti che valessero qualche cosa si occupassero
di scienze che avessero ima immediata rispondenza nella vita l”.
Ora quello spunto è qui ripreso e sviluppato: scienza, religione
ed arte « passano nello Stato, vivono obiettivamente in lui stesso,
— la scienza mediante la legislazione (la quale è la più alta filo­
sofia: in essa, come indica Platone, deve ritrovarsi l’impronta
della totalità vivente della scienza stessa), la religione, mediante
l’eticità pubblica e l’eroismo di una nazione, l’arte, mediante lo
spirito creatore che si muove sopra il tutto e lo anima, facendone
un’opera d’arte, e non una macchina, con il movimento vitale,
ritmico della vita pubblica, la bellezza del suo manifestarsi » ,5C.
Allora il filosofo, si ricorderà, si era quasi spaventato della sua
audacia, ed affinché il « principio » non andasse disperso tra uo­
> mini rozzi, aveva precisato che esso doveva avvolgersi in un alone
di sacertà; se ora questo non viene più detto apertamente, è
perché il sacri quid ha ricevuto un nome: è lo Stato; allora il
filosofo che andava ira gli uomini doveva preoccuparsi che il
« sacro fuoco » non venisse profanato da mani impure: adesso
|
è lo Stato modellato sull’idea che dà questa garanzia.
Il triadismo della sfera ideale ricalca evidentemente quello
della sfera naturale; ma non è escluso che Schelling abbia voluto

154
Cfr. Hollerbach, op. cit., pp. 238-43.
155
I, 417; cfr. qui p. 140.
155
VI, 576.

232
:
contrapporre la filosofia = legislazione, la religione = eroismo e
l’arte = ritmo della vita pubblica, alla tripartizione dei poteri
dello Stato « liberale ». Questa aveva voluto assicurare l’ordine
interno degli Stati, e la tutela dei diritti individuali, fissando e
isolando le sfere di attività, secondo il tipico modo di procedere
dell’intelletto e del concetto. Schelling propone invece una unità
nella quale tre diversi « elementi della vita » si compenetrano, e
potenziano non solo il tutto, ma anche l’individuo. È solo per
equivoco che molti studiosi, anche autorevoli,S7, hanno voluto I
I
collegare la contemplazione dell’assoluto con una passività quanto
all’azione: secondo le intenzioni del filosofo, è proprio il contrario
che è vero, poiché il sentirsi portato dal tutto è ciò che dà più
forza all’individuo. Lo stesso accade quando l’assoluto si ogget­
tiva nello Stato 158. Qui Schelling si incontrava, forse senza neanche
averne consapevolezza, con ciò che Schleiermacher e Novalis ave­
vano detto poco prima, sullo Stato che assicura all’individuo il t

più alto grado di esistenza, e che moltiplica all’infinito le sue


forze ’5*.

147 Basterà citare, per tutti, il Metzger, Die Epochen cit., p. 19 e


Hollerbach, op. cit., p. 148. Aveva colto più correttamente la questione J.
Stahl, Die Philosophie des Recbts cit., I, 391-95.
158 Avrebbe pur dovuto dire qualche cosa il fatto che Schelling si sia
preoccupato di spiegare che ad una idea « adeguata » al sapere eterno è
collegata l’attività, a quella non adeguata la passività (VI, 537 sgg.).
149 Schleiermacher, Werke in Auswahl cit., IV, 439, e Novalis,
Eragmente cit., p. 486.
T:
ili

h
Considerazioni finali

Quando Schelling iniziò il suo insegnamento a Wurzburg,


alla fine del 1803, poteva sperare di incominciare un periodo
nuovo della sua vita; la città era stata da poco incorporata nello
Stato bavarese, che, sotto l’energica guida del ministro Mont-
gelas, stava rinnovando le sue istituzioni sia amministrative che
scolastiche; in molti centri universitari non mancavano gli adepti
della nuova filosofia, in buona parte docenti di discipline scien­
tifiche, che vedevano in Schelling colui che aveva dato un im­
pulso al rinnovamento della fisica e della biologia. Ma a lui si
guardava anche come all’avversario della Aufklàrung, al pensa­
tore illustre che aveva incominciato a parlare di religione, e
che veniva incontro, così, a quelle aspirazioni ad una religiosità
nuova che in Baviera, dove il governo era « illuminato » e il
potentissimo clero accanito difensore della ortodossia, erano for­
temente sentite dalle giovani generazioni. Proprio la influenza
che egli poteva raggiungere scatenò contro di lui tutta una serie
di attacchi, che venivano anche dal settore « razionalistico », ma
soprattutto dagli ortodossi: erano le abituali accuse di panteismo
e di ateismo, ripetute da opuscoli e da gazzette; il vescovo della
città vietò agli studenti cattolici di frequentare le sue lezioni,,
e persino il governo finì col dover fare una concessione ad un
così forte partito proibendo che il sistema di Schelling venisse
insegnato nei licei, e invitando energicamente il filosofo a non
intervenire nelle polemiche.
Fu quasi con un senso di liberazione che, nel 1806, egli
accettò la proposta di lasciare l’insegnamento universitario per
diventare membro dell’Accademia delle scienze di Monaco: era
una soluzione di ripiego, quasi una « fuga », come dissero i suoi
avversari. Ma a Monaco egli finì col trattenersi quasi trentanni,
e qui entrò in contatto con un ambiente teosofico che in Franz

235
ili
von Baader aveva il suo maggiore esponente, e che parlava di
una « religione » non destinata a risolversi nello Stato o
nella filosofia: essa si presentava, piuttosto, come espressione
di un mondo « oscuro », « notturno », e pure tanto più solido
di quello della mente — di un mondo che aveva trovato la sua
espressione nei « misteri » delle religioni antiche, e poi in quelli
del cristianesimo. Schelling non si adeguò passivamente a questa
tendenza: le sue Ricerche filosofiche sulla essenza della libertà
umana (1809) sono un potente, anche se poco elaborato, tenta­
tivo di collegare le nuove ispirazioni con il nucleo dottrinario
più vitale della filosofia della natura. Ma, pochi mesi dopo questo
scritto, moriva, nel settembre 1809, sua moglie Carolina: basta
scorrere l’epistolario per rendersi conto di ciò che questo si­
gnificò per lui: « Si è reciso l’unico vincolo che mi univa al
mondo »; « Se dipendesse da me, il mio nome non dovrebbe
più essere ricordato ». La religione, adesso, il vagheggiato
« mondo degli spiriti » gli si presentava con una carica conso­
latrice, come ciò che schiudeva un eterno tanto più alto della
umanità presente, dei suoi dolori e dei suoi problemi.
Nel 1810 un gruppo di conoscenti di Stoccarda lo invitò ad
esporre il suo pensiero in una serie di conferenze private; in
questa sede egli parlò anche dello Stato — senza più la minima
traccia di quell’entusiasmo per esso, e per l’operare in lui di
tutte le forze, che era risuonato così energicamente ancora pochi
anni prima. Ora sembra quasi che lo Stato sia un remedium
peccati-.

L’uomo, separato dal divino, cerca una unità con la natura. Cerca
una seconda natura, al di là della prima. È così che ha origine lo
Stato, mera conseguenza del deterioramento del genere umano. Uno
Stato secondo ragione è qualche cosa di impossibile. La vera repub­
blica può essere solo in Dio; lo Stato vero deve fondarsi su due prin­
cìpi, libertà e innocenza. Ma come potrebbero, i nostri Stati, procurar­
seli? Ci si richiama alla Repubblica di Platone, e non si tiene conto
che, sotto certi rispetti, è più uno scherzo che una cosa scria; nel
delineare un simile Stato, Platone non voleva dire: datevi da fare,
e costruitelo, ma: provate un po’ a fare qualche cosa di simile; vi
accorgerete presto che è impossibile.

Lo Hollerbach, che ha pubblicato questo frammento, ha vo­


luto vedere, nelle ultime righe, un accenno alla « ironia » socra­
tico-platonica. Non ritengo che questo sia plausibile: quando

236
pronunziava queste parole, Schelling non aveva certo intenzioni
dotte. La sua era piuttosto una clamorosa palinodia di quell’ideale
di Stato secondo ragione cui egli aveva guardato nell’ultimo pe­
riodo di Jena, e poi a Wiirzburg. Proiettando in Dio, o nel
mondo degli spiriti, la futura nobilitazione del genere umano,
lo Stato era ridotto ad un inevitabile luogo di passaggio, oscil­
lante perpetuamente tra disordine e dispotismo, e non suscet­
tibile di essere trasformato.
Quelle parole schellinghiane recano troppo chiaramente il
segno dello stato d’animo nel quale il filosofo si trovava quando
le pronunziò perché si possa considerarle conclusioni meditate
e definitive. Ma esse andavano ricordate perché sono un po’ la
chiave per intendere tutte le sue successive riflessioni di filo­
sofia politica; svalutato lo Stato, da una parte c’è l’individuo,
e dall’altra Dio o la storia: in questa cornice, c’è posto per af­
fermazioni sia « liberali » che « legittimiste », a seconda della
situazione; c’è anche lo spazio per analizzare il collegamento tra
la cultura e lo spirito, o la destinazione, del popolo — ma
mancano le condizioni per la costruzione di una sistematica fi­
losofia politica. Nel quarantennio circa che Schelling dedicò al
Die Weltalter, e poi alla filosofia della mitologia e della rive­
lazione, egli elaborò (non sempre, bisogna dire, in modo scien­
tificamente attendibile) una notevole massa di materiale di storia
delle idee; le sue lezioni filosofiche in senso più stretto (L'em­
pirismo filosofico, La storia della filosofia moderna) sono ricche
di considerazioni e di intuizioni profonde, e non a caso sono
guardate con tanto interesse da certi pensatori contemporanei.
Schelling si lusingava ancora di poter dire la parola definitiva,
quella che avrebbe risolto la crisi dello spirito contemporaneo:
ma gli mancò la forza di arrivare ad una grande sintesi, nella
quale un nucleo centrale di idee si svolgesse coerentemente, rin­
novando tutto il mondo dello spirito. Chi legge le non molte
pagine che egli, in alcune occasioni, dedicò alla cultura nazio­
nale e allo Stato, ha l’impressione di ritrovare frammenti di
idee precedenti inseriti in un contesto diverso, antiche esigenze,
che proprio perché non erano state soddisfatte tornano sempre
a riproporsi.
La posizione in cui egli si trovava non era fondamentalmente
diversa da quella dei superstiti della prima generazione roman­
tica: anch’essi, come lui, si rendevano sempre più conto che il
mondo andava in una direzione profondamente diversa da quella

237
li
che avevano vagheggiato. Spesso onorati, talvolta rimunerati,
dai governi, sentivano bene che quell’ordine non era il loro, e
r che la temuta idra della « rivoluzione », con il suo spirito « cri­
ì tico » e di insubordinazione era sempre in agguato, e guada­
gnava terreno anche tra i sostenitori dell’ordine. Ma essi, e
anche quelli che non osarono mai attaccare apertamente, dopo
il 1815, i governi restaurati, non mancarono di intervenire, come
i
; pubblicisti, sulle questioni del giorno; si esposero, e talvolta
pagarono di persona. Schelling, invece, si manteneva più riser­
I vato; una volta, anzi, nel frammento del 1811 sul Carattere
della scienza tedesca, teorizzò apertamente questo atteggiamento:
come potevano, i filosofi, portare il loro contributo quando il
I corso della storia era così « terreno »? Come potevano afflig­
H' gersi per il crollo delle vecchie istituzioni tedesche, essi che
ne avevano colto, prima di chiunque altro, la vuotezza e la mi­

r seria? Prima di intervenire « con attiva energia » essi dove­


vano aspettare piuttosto « che andasse in malora tutta questa
stirpe di eunuchi viziosi e di fiacchi pieni di fatuità, incapaci
di cogliere sia la serietà della vita, che quella della scienza e
dell’arte » (Vili, 18). L’invettiva nascondeva, in realtà, la rinun­
zia, non solo ad operare, ma anche ad invitare gli altri a farlo. Que­
sta condanna del proprio tempo avrebbe potuto diventare il punto
di partenza per altre considerazioni « metapolitiche », che sa­
pessero presentare una alternativa radicale: ma ora Schelling
non osava più parlare di « vera rivoluzione »: aspettava piut­
tosto che fosse la storia stessa ad avviarsi verso quel « futuro »
che egli « intuiva ».
Il suo atteggiamento, negli anni che seguirono il 1815, fu
quello di chi guardava con apertura un po’ distaccata — spesso
senza cogliere fino in fondo le tensioni politiche e teoriche —
10 sforzo della Germania di recuperare un equilibrio politico.
Nel conflitto costituzionale che si era riaperto nel Wurttemberg
tra la camera corporativa e la corona egli, malgrado comin­
ciasse a manifestare qualche diffidenza per le « costituzioni », fu
su posizioni sostanzialmente liberali, guardando con speranza al­
l’opera rinnovatrice della corona, e non mancando di esprimere
11 suo vecchio rancore per la nobiltà. Alla fine del 1830, in oc­
casione di disordini scoppiati a Monaco, egli tenne un digni­
toso discorso che contribuì non poco a ristabilire la calma, e
ad evitare le misure estreme (chiusura dell’università ed espul­ I

sione degli studenti) che il governo aveva già deciso; qualche
I
238
anno dopo, nelle lezioni del semestre invernale 1833-34, egli
si levava contro la « assoluta divinizzazione dello Stato » fatta
da Hegel, che ai suoi occhi celava un nucleo concettuale « illi­
berale ». Tutto questo andava ricordato perché, se c’era chi,
come Heine, vedeva in lui (e in Hegel) un esemplare di quegli
Staatspbilosopben sempre pronti a farsi portavoce dei governi,
c’erano altri che, tratti in equivoco anche dal fatto che il filo­
sofo non pubblicava quasi nulla, pensavano di averlo alleato
nella lotta per la libertà della cultura e il progresso politico. Tra
questi c’era Otto Wigand, quello che si può considerare l’editore
della sinistra hegeliana; nel 1838 egli fece scrivere da Arnold
Ruge a Schelling, offrendogli di pubblicare presso di lui il corpus
delle sue opere. Schelling tardò a rispondere, e nel frattempo
ricevette i primi numeri degli « Hallische Jahrbiicher »; scriven­
done a Ruge, dopo aver lodato il « delizioso articolo » su J.
Kerner (che era di D. F. Strauss!) concludeva: « Come potrebbe
Lei immaginarsi che io sia avverso ad un tentativo che, in con­
trasto con la servilità filosofica finora in auge, vuol riportare
nella scienza un movimento libero? Io guardo con favore chiun­
que si schieri per il progresso, o si impegni in buona fede per
ciò che ritiene tale ». L’editore di questa lettera, H. M. Sass,
ricorda anche che, poco dopo, il filosofo prese pubblicamente
posizione contro la ventilata soppressione degli « Jahrbiicher »
e che, in un incontro con Ruge, gli fece dichiarazioni progres­
siste su argomenti religiosi e politici. Tanto più forte fu quindi
la delusione quando Schelling, nelle sue lezioni berlinesi, co­
minciò a parlare non in un linguaggio razionale, ma in quello,
oscuro e simbolico, della mitologia; la reazione degli hegeliani
delle varie sfumature fu tale da contribuire in maniera decisiva
al fallimento della « missione » del vecchio filosofo.
Le spietate polemiche di quegli anni, le angosce della rivo­
luzione del 1848-49, hanno lasciato una traccia profonda nel­
l’unico documento sistematico del pensiero politico dell’ultimo
Schelling: la XXIII delle lezioni di Filosofia della mitologia.
Di questa è già caratteristico l’esordio: egli si occupa di questo
argomento (cioè della filosofia pratica, e in particolare dello
Stato) per cogliere « non ciò che lega a lui l’uomo, ma ciò che
spinge quest’ultimo al di là di esso » (XI, 534). Nelle lezioni di
Jena, si ricorderà, il filosofo aveva superbamente proibito al « vol­
go » di esprimere giudizi sulla filosofia e sullo Stato; ora quel mo­
tivo ritorna, ma con una ben altra, e sconsolata, accentuazione:

239
« Non mi interessa di riuscir simpatico a questo o a quel par­
tito di oggigiorno: mi son messo per una strada solitaria, e che
diventerà sempre più solitaria quanto più si avvicina a cose,
come Stato e costituzione, sulle quali oggi ciascuno ritiene di
aver diritto di esprimere giudizi e di metter bocca » (XI, 539).
Le sue idee rivelano ora abbastanza chiaramente l’influenza di
certi filoni del pensiero controrivoluzionario francese (De Maistre,
De Bonald, il primo Lamennais) che nella Germania del Sud, e
in particolare a Monaco, era assai ben conosciuto; in un paio
di luoghi, dove egli parla della genesi della monarchia, e della
libertà che una monarchia all’antica lascia ai suoi sudditi di
occuparsi tranquillamente dei loro affari privati, mentre Io Stato
moderno « assorbe tutto in sé », si può riscontrare la presenza
di idee che erano state anche di K. L. von Haller. Ma, anche pre­
scindendo da queste influenze — che forse varrebbe la pena di
studiare sistematicamente — il tono generale è quello del pen­
siero politico dell’età della Restaurazione. È vero che c’è una
legge della ragione, ma di quella ragione che è natura, non
quella dei singoli individui. Lo Stato è nato dalla violazione
della legge, quando l’uomo è « decaduto »: le leggi civili non
possono riparare il guasto del peccato, ma sono lì per sostituire,
per quanto possono, l’ordine divino, e per far vendetta della
violazione di esso. L’individuo, sciogliendosi dalla legge naturale,
non può vivere in un bellum omnium cantra omnesx ha biso­
gno di una comunità, della « società »: e a garantire l’esistenza
e l’ordine della società è lo Stato; sottomettendosi alla sua legge,
l’uomo diventa responsabile, da individuo che era si fa « per­
sona », diventa davvero libero. Contro il contrattualismo, e il
giusnaturalismo, Schelling rivendica la « positività » della legge,
espressione di una natura che è storia; nel mescolarsi col mondo
empirico, l’ordine eterno si combina con il « caso », ed è di
qui che deriva la « naturale diseguaglianza », ma anche la pre­
senza dei « grandi uomini », delle « personalità », che soltanto
gli invidiosi teorici della democrazia, quelli che vagheggiano il
« paradiso delle mediocrità », possono considerare superflui.
Sono vecchi motivi del pensiero schellinghiano, come si può ve­
dere. Solo che, adesso, il richiamo al grande uomo non ha più
la funzione di additare un futuro ricco di movimento e di no-
vita, ma di consolidare il presente, convincendo gli uomini co-
muni che il meglio che essi possano fare è accettare l’ordine vo-
luto dalla natura.

240
La forma di Stato che Schelling vagheggia è quella che, nel
linguaggio corrente, si chiamava « monarchia temperata », che
non è la monarchia costituzionale. Era già stato De Maistre,
nelle Considérations sur la Franca, a richiamare l’attenzione sul
fatto che la monarchia francese non era mai stata assoluta: anche
senza una costituzione scritta, essa aveva sempre dovuto tener
conto delle antiche leggi del regno, e delle prerogative dei ma­
gistrati e dei corpi della nazione. In Germania una tesi simile era
stata sostenuta (dopo il 1820) da F. Schlegel, nell’importante
saggio Die Signatur des Zeitalters, come da Franz v. Baader;
entrambi non vogliono lasciare ad una camera eletta dalla bor­
ghesia la funzione di esercitare il potere in nome di tutto il
popolo. La camera dei deputati è vista come la rappresentanza
di un solo ceto, e accanto ad essa si pongono altre istituzioni:
le corporazioni o gilde, le chiese, gli istituti educativi. E sopra
di tutti, vincolata dai diritti di ciascuno di questi corpi, e in­
sieme tenendo ciascuno di essi nel suo ambito naturale, c’è la
monarchia.
Schelling arriva a conclusioni non molto diverse, che egli
giustifica con uno schema
s di filosofia della storia che ha molti
punti di contatto con quello già da lui elaborato intorno al 1800.
Solo che, ovviamente, ora non c’è più il motivo del ritorno ad
una condizione simile a quella dei greci. Il cristianesimo non è
considerato, come allora, una « scissione » destinata ad essere
superata; esso, anzi, rendendo impossibile l’assorbimento to-
tale dell’uomo nello Stato, o nella società, è la garanzia della
libertà di esso, della sua destinazione non terrena. Prima del cri­
stianesimo questo spazio, per l’uomo, non esisteva: il dispo­
tismo orientale non era uno Stato, e Stato non era neanche la
.ncóXig greca, in quanto in essa non era lo Stato a reggere la so­
cietà, ma proprio il contrario; lo Stato romano, invece, non di­
spotico né democratico, è la più bella manifestazione della « mae­
stà » di quel potere terreno: tutto era a lui subordinato, e pure
una accurata legislazione vigilava a che i diritti dell’uomo (non
come « individuo », cioè fuori dello Stato, ma come « persona »,
cioè membro di esso) venissero scrupolosamente rispettati. Ma
il carattere soltanto terreno dell’impero romano fu il suo li­
mite, la causa dei suoi disordini e della sua fine. E dopo secoli
di tentativi, solo con la Riforma, la tipica opera del popolo te-
tesco, si è edificata la « vera teocrazia », che consiste nell’as-
segnare il posto più alto non ad un uomo, imperatore o pon­
tefice, ma allo « spirito divino ».
241
16. Cesa
Schelling si preoccupa che questo appello allo spirito possa
diventare, per visionari religiosi, il pretesto di una negazione
delle forme esterne, coattive dello Stato. E dopo aver ribadito,
riecheggiando Lutero, che esso non è stato istituito « a lusinga
degli uomini, o a loro premio, ma a loro punizione », afferma :
« Riconosciamo come legittima e necessaria l’aspirazione del­
l’uomo a rompere l’oppressione dello Stato. Ma ciò in senso so­
lamente interiore. Adoperatevi prima per giungere a questo regno
interiore, ed allora, per voi, non ci sarà più l’inevitabile oppres­
sione del legittimo ordine esterno » (XI, 548).
Concludendo le sue lezioni di filosofia della storia, all’indo­
mani della rivoluzione di luglio, Hegel contrapponeva, alla in­
stabilità politica dei paesi latini, la solidità e il buon ordina­
mento degli Stati tedeschi protestanti, e in particolare della
Prussia; la burocrazia, aperta a chiunque avesse capacità di ac­
cedervi, la università come luogo di formazione della classe di­
rigente, gli sembravano garanzie di un governo degli aoiovot, di
coloro che sanno. Politica e cultura si trovavano così finalmente
conciliate. Ben diverse sono le conclusioni di Schelling, che scri­
veva dopo la rivoluzione del 1848; rivolgendosi ai suoi com­
patrioti, e rovesciando polemicamente il vecchio motivo della
impoliticità dei tedeschi, egli esclama:

Lasciate pure che vi si accusi di essere un popolo impolitico, per­


ché la maggioranza di voi preferisce, piuttosto che governare, esser
governata — anche se spesso non lo siete, o lo siete piuttosto male —,
voi, che considerate maggior fortuna che vi si lasci X'otium, lo spi­
rito e l’animo per cose che non siano l’alterco politico, che si ripete
tutti gli anni, che porta soltanto alla divisione in fazioni (e la cui
peggior conseguenza è che dà rinomanza e influenza anche ai più in­
capaci); lasciate che vi si neghi spirito politico, voi che, come Ari­
stotele, ritenete che la prima funzione dello Stato sia di garantire
Votium ai migliori, e di far sì che non solo quelli che comandano,
ma anche quelli che vivono fuori della sfera politica non si trovino
in condizioni indegne. E, per concludere, sia il maestro di Alessandro
Magno a dirvi: anche quelli che non imperano sulla terra e sul mare
possono compiere opere belle ed eccellenti (XI, 549-50).

Queste parole si possono considerare l’epilogo della storia


intellettuale di Schelling. Anche in passato egli aveva rivendi­
cato la libertà degli intellettuali sia contro il potere statale che
contro la pressione di un’opinione pubblica incolta e volgare.

242
Ma il pensiero riposto era che bisognava attendere che lo spi­
rito si rafforzasse e crescesse, per poter poi fecondare e do­
minare la materia. Ora questa speranza è caduta, ed è rimasto
solo l’incubo di un egualitarismo livellatore, che assorba e mor­
tifichi, nella sfera che esso chiama politica, anche le forze mi­
gliori dell’uomo.
!ÌP

i!

I
INDICI
Indice dei nomi

Abel C., 68. Calderon P., 204.


Adamo, 38. Cantimori D., 30.
Alabanda, 169. Carlo (arciduca), 210.
Alessandro Magno, 242. Carlo Eugenio, 41, 56, 57, 60.
Allwohn A., 35, 41, 53, 203. Carolina, 160, 162, 236.
Aner K., 21, 85. Cari J. J., 221.
Antoni C., 30. Cartesio R., 65, 211.
Archenholz J. W., 61. Cassirer E., 80, 110.
Aristotele, 242. Caterina II, 39.
Assunto R., 162, 168. Cervantes M. de, 204, 229.
Atena, 203. Clausewitz C. v., 210.
Condorcet J. A. N. de, 185, 186.
Baader F., 12, 236, 241. Crisostomo G., 67.
Barbeyrac J., 47. Cristo, 218.
Bardht K. F., 18.
Barnard F. M., 156. Dammkóhler G., 141.
Baseggio C., 112. Dante, 162, 229.
Bausola A., 174. De Bonald L., 240.
Baz C. F., 76, 77. De Maistre J., 220, 240, 241.
Beck A., 59. De Negri E., 127.
Berkeley G., 174. Dclbos V., 198.
Berolzheimer F., 125. Delle Piane M., 14.
Bobbio N., 32, 34, 181. Dclorme M., 43.
Boccaccio G., 167. Deucalione, 34.
Bodei R., 59, 77. Dilthey W., 91.
Bbhm W., 30, 107, 108, 137. Drago del Boca S., 207.
Boulanger N. A., 36. Droz J., 42, 61, 69, 81, 118, 210.
Boutroux E., 147. Durante G., 23.
Boyen H. v., 210.
Braun O., 159, 175, 207.
Brentano C., 84. Edelmann J. C., 18.
Brissot J. P., 58. Eichhorn J. G., 36, 43, 62.
Brunschwig H., 67. Engels F., 7.
Buhr M., 129. Erdmann J. E., 17, 97.
Burckhardt J., 13. Epicuro, 163.

247
Feder J. G. H., 27. Heeren A. L., 31, 34.
Federico Eugenio, 68, 73. Hegel G. W. F., 7, 14, 15, 43, 50,
Federico Guglielmo I, 79. 55 sgg., 60 sgg., 82, 90, 94,102,
Federico II (di Prussia), 79, 80. 112, 114, 116, 127, 129, 133,
Federico II (del Wiirttemberg), 148, 149, 177, 181, 183, 184,
68, 77. 191, 194, 209, 210, 213, 215,
Fester R., 25, 122, 188. 221 sgg., 239, 242.
Feuerbach L., 106, 153, 213. Heine H., 11, 239.
Fichte J. G., 7, 8, 10, 13, 15, 43, Henrich D., 59.
52, 54, 57, 61 sgg., 66, 70, 72, Herder J. G., 8, 14, 15, 17 sgg.,
80, 83 sgg., 88, 94, 96, 99, 101, 21 sgg., 25 sgg., 30 sgg., 35 sgg.,
107, 110, 112, 113, 116, 117, 41, 43 sgg., 44, 47, 49, 50, 108.
119, 120, 122 sgg., 134, 135, 146, 155, 156, 164 sgg., 185,
141 sgg., 148, 149, 151, 154, 187, 212, 214, 215, 230.
157 sgg., 175, 178, 181 sgg., 185, Herrmann M. G., 34.
190 sgg., 198, 201, 208 sgg., Heyne C. G., 30 sgg., 43 sgg., 47,
216, 221, 223, 227. 48.
Filippo II, 28. Killer C. F., 59.
Fischer K., 17, 35, 59, 96, 115, Kirsch E., 66.
154, 173, 197. Hobbes T., 34, 192.
Flatt J. F., 56. Hòlderlin F., 14, 15, 26, 28, 43,
Flitner W., 135. 58 sgg., 63, 68, 71, 82, 94. 98.
Forberg F. K., 171. 107 sgg., 129, 133, 135 sgg..
Francesco II (d’Austria), 71. 169, 215, 222.
Fuhrmans H.» 15, 59, 60, 62, 63, Holzle E., 42, 68, 70, 75, 77, 78.
169, 208, 209, 211, 221, 222. 80.
Hoffmeister J., 133, 146.
Gabler J. Ph., 36. Hollerbach A., 15, 115, 116, 118,
Geis R., 94. 122, 125, 192, 194, 196, 197,
Gentz F., 197. 220, 226, 232, 233, 236.
Georgii E. F., 77. Humboldt W. v., 80, 135, 222.
Giuliano (imperatore), 39, 40.
Gollwitzer H., 195. Iperione, 100.
Górres J., 7, 209.
Goethe W., 14, 42, 86, 87, 88, Jacobi F. H., 94, 95, 97, 99, 101.
146, 159 sgg., 167, 195, 198, 102, 106, 108, 119, 147, 150,
203 sgg., 209, 229. 170, 176, 181.
Gries J. D., 160. Jàger G., 122.
Griesinger A., 60. Jahnig D., 202.
Groh D., 39. Jaspers K., 85.
Gros C. H., 108. Jerusalem J. F. W., 21.
Grozio H., 32. Jourdan J. B., 77.
Gueroult M., 175. Jost J., 15.
Habermas J., 169, 173. Kaegi W., 30.
Haberlin K. F., 131. Kahn-Wallerstein C., 160.
Mailer K. L. v„ 240. Kiimpf W., 70, 77.
Hartlich C., 35, 36, 41. KampfTmeyer J., 133, 182.
Haym R.. 17, 35, 88, 113, 115, Kant I., 7, 8, 14, 15, 17, 19, 20.
146, 161, 164, 165, 166, 182. 22 sgg., 52, 54, 57, 62, 65, 66

248
80, 82, 83, 85, 98, 103, 104, Medicus F., 171.
107. 115, 118, 124, 128. 130, Mehlis G., 200.
146, 147, 155, 158, 170, 175, Meinecke F., 30, 39, 210.
178 sgg., 185, 189, 194, 195, Metzgcr W., 95, 96, 98, 115, 122,
193, 199, 201, 210, 211, 212. 152, 170, 173, 224, 233.
216. Michaelis J. D., 31.
Kasper W.» 15. Michel W.» 108.
KeUetat A., 110. Minor J., 85.
Keplero L, 11. Mittner L., 205.
Kerényi K., 33. Montesquieu C. L. de, 194.
Kerner G., 69, 70, 132, 133. Montgclas M. J., 235.
Kcrner !.. 239. Moreau J. V., 73.
Klaiber J., 41, 59. Mornet D., 18.
Klupfel k., 59, 68. Mosé, 19, 38, 39, 49.
Knittermeyer H., 160. Moshcim G. L., 47.
Koppen F., 170. 221. Muller A., 7, 197.
Korff H. A., 21, 42. Miiller E., 18, 43, 108.
Kosellek R., 91.
Kostlin N„ 60.
Napoleone, 10, 195.
Kròner R., 105, 169, 171, 173.
Negri A., 116, 118.
Lacorte C., 17, 49, 50, 80, 102, Newton I., 11, 186.
Nicolai F., 82 sgg., 114, 137, 212.
106, 133, 148, 164.
Niethammer F. I., 69, 84, 86, 87.
Lamennais F.. 240.
Leibniz G. W., 107, 147 sgg., 152. 89, 98, 114, 116, 142, 159.
Nietzsche F., 221.
155, 165, 174, 178, 186, 187.
Leon X., 83, 112, 166. Noack L., 17, 30, 33, 88, 115.
NohI H., 127.
Lessing G. E., 17, 49, 50, 80, 102,
Novalis, 160, 163, 164. 166, 168,
106, 133, 148, 164.
Leube M., 60, 67. 178, 183, 195, 216, 222, 225,
Leutwein C. Ph. F., 59. 227, 233.
Levi R., 160.
Losacco M., 176. Orereit .1. H., 141.
Lovejoy A. O., 155. Oelsner C. E., 61.
Lowth R., 31. Omero, 31, 48.
Luigi Eugenio, 56. Oreste, 203, 223.
Luigi XVI, 129. Origene, 67.
Lukacs G., 88, 166.
Lutero M., 242.
Lùtgert W., 25. Paolo I, 93.
Paulus H. E. G., 49, 202.
Machiavelli N., 136. Pfister A., 56, 67.
Mann Th., 221. Pietro I, 39.
Marat J. P., 58, 136. Platone, 49, 225. 227, 232, 236.
Marcione, 67. Plitt G. L., 15, 27, 41, 58, 59, 61.
Marklin J. F., 59. Pope A., 155.
Marx K., 7, 64, 106. Posa (marchese di), 28.
Massolo A., 1 33. Preti G., 137, 145.
Maugé F., 175. Pufendorf S., 32, 47, 91.
Mazzucchetti L., 23 Pupi A., 98. 118, 186.

249
Raumer K. v., 195. Schweizer J., 75.
Rehberg A. W., 197, 214. Schwegler A., 58, 59.
Reimarus H. S., 18. Scmerari G., 55, 124, 139, 173,
Reinhard K. F., 69, 70. 174, 176.
Reinhold K. L., 63, 83, 98, 170, Shakespeare W., 204, 205, 229.
186. Sinclair I. v., 60.
Rensi G., 163. Solone, 216.
Riesedel, 68. Sorel A., 77.
Ritter G., 210. Spann O., 115.
Robespierre M., 58, 129, 191. Spinoza B., 99, 102, 103, 148, 149,
Robinson H. C., 43. 197, 198, 199, 217, 218.
Rosenberg H., 84. Spittler L. T., 75 sgg., 131.
Rosenkranz K., 17, 35, 58, 115, Stahl J., 226, 233.
221. Staiger E., 29, 85, 112.
Rosenmuller J. G., 62. Steffens E., 10, 160.
Rosenzweig F., 68, 133, 137, 139, Stein H. F. K. v., 10.
140, 141, 221. Storr G. C., 56, 62.
Rousseau J. J., 18, 19, 25, 27, 70, Strauss D. F., 41, 75, 164, 239.
100, 118, 122, 125, 126, 214. Strauss L., 133, 135, 137.
Royce J., 163. Strauss W., 85, 86.
Ruge A., 239. Strich F., 35.

Tennemann W. G., 186.


Saint-Just L. A. L., 59, 129.
Tertulliano, 67.
Sachs W., 35, 36, 41.
Teseo, 82.
Sass H. M„ 239. Ticck L., 162.
Savigny F. K., 84.
Troeltsch E., 92.
Scheel H., 42, 74, 78.
Schelling G., 73.
Schelling J. F., 76, 85. Valjavec F., 80, 218.
Schiller F., 8, 14, 19, 23, 26, 28, Veit D., 164.
29, 82. 85 sgg., 96, 107, 108, Venturi F., 36, 38, 39.
112, 113, 135, 139, 146, 159 sgg., Verrà V., 30, 33.
214, 221. Vico G. B., 34.
Schlegel A. W., 85, 160 sgg., 183, Voigt C. G., 159.
204, 210, 216. Volkmann R., 31.
Schlegel F., 7, 12, 85, 160 sgg.,
182, 183, 185, 186, 189, 202, Walzel O., 159.
210, 218, 219, 222, 225, 241. Wachsmuth A. B., 159.
Schleiermacher F., 7, 29, 161 sgg., Wetzcl A., 60.
170, 183, 218, 220, 222, 233. Wigand O., 239.
Schmid K. C. E., 133. Windelband W., 17.
Schmidgall G., 60. Wintterlin F., 70.
Schmitt C., 12. Wolff C., 91.
Schneeberger G., 15. Wolzendorff K., 194.
Schneider R., 41. Wood R., 31.
Schnurrer C. F., 30, 60. Wundt M., 183.
Schubart C. D., 43.
Schiiddekopf C., 159. Zcltner H., 35, 124, 173, 200.
Schwab J. C., 67.

250
Indice del volume

Introduzione 7
Nota bibliografica 15

I. Il mito e la società umana


1. Il peccato e la storia del genere umano 17
2. Tra Heyne e Herder 30
3. Mito e tradizione 40
4. Conclusioni 51

IL Tra rivoluzione e « Aufklàrung »


1. Schelling dal 1793 al 1795 55
2. Giudizi politici dal 1796 al 1798 67
3. Schelling e Nicolai 82

III. Morale, diritto, educazione popolare


1. La formazione dell’etica schellinghiana: le « Lettere
filosofiche » 93
2. La « Nuova deduzione del diritto naturale » 114
3. L’educazione popolare 130

IV. Natura e libertà


1. L’organismo naturale e l’individuo umano 145
2. L’incontro con i romantici: il « Widerporst » 158
3. Le idee morali nel « Sistema dell’idealismo trascen­
dentale » 169

V. La storia e lo Stato
1. È possibile una filosofia della storia? 185
2. La costituzione cosmopolitica 190
3. La storia e il presente 199
4. La « vera rivoluzione » 208
5. Lo Stato 221

Considerazioni finali 235

Indice dei nomi 247


Finito di stampare nell’aprile 1969
nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli - Bari - 1280

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