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CHE LINGUA SI PARLAVA NELL’IMPERO ROMANO?

IL MISTERO SUL LATINO


Di tutte le lingue cosiddette “morte” il latino è senza dubbio quella più “viva”, studiata da milioni
di persone in tutto il mondo e considerata addirittura idioma ufficiale dalla Chiesa cattolica.
Ovunque è ritenuta la lingua effettiva dell’antichità romana, simbolo stesso della sua storia e
cultura fin dall’età più antica. Alla sua origine, però, c’è un mistero ancora irrisolto e spesso
ignorato. Delle centinaia di migliaia di iscrizioni latine che si conoscono, sparse in un territorio che
va dalla costa dell’Atlantico al mar Caspio e del Baltico al Sahara, meno di una decina sono
antecedenti al III secolo a.C. e di queste solo due provengono sicuramente dal territorio di Roma.
Sulle altre, ritrovate spesso in circostanze mai del tutto chiarite o alquanto frammentarie, è stato
perfino sollevato il dubbio dell’autenticità. Questo è tanto più sorprendente se si considera che,
per lo stesso periodo di riferimento, si contano diverse migliaia di iscrizioni redatte in etrusco e
alcune di queste rinvenute nella stessa città di Roma. Eppure, i secoli che vanno dall’VIII al III a.C.,
sono tra i più importanti della storia romana, segnati politicamente dalla lunga fase monarchica,
dal passaggio alla repubblica e dalle secolari vicende belliche contro i popoli latini e contro i
sanniti, fino al primo scontro con Cartagine. Come è possibile che questa complessa stagione
storica non abbia prodotto una quantità di documenti scritti pari a quella dei greci o almeno dei
vicini etruschi?

Alcuni testi politici e religiosi di cui abbiamo notizia per il periodo arcaico, come le leggi delle XII
Tavole o i rituali dei collegi sacerdotali, ci sono stati trasmessi infatti solo da scrittori o testi
epigrafici di epoche successive, anche di molti secoli. Anche in ambito letterario, del resto, non
esistono autori antecedenti allo stesso periodo e i primi di cui abbiamo notizia, Livio Andronico,
Nevio ed Ennio, sono traduttori dal greco o poeti.

Sembra quasi che per il primo periodo della loro storia i romani non parlassero latino o che,
comunque, questa lingua fosse limitata solo ad alcuni ambiti sociali e culturali, magari quello
religioso e giuridico, e dunque appannaggio solo di certi gruppi di popolazione o ceti. Alcuni indizi
sembrano confermare questa interessantissima e ardita ipotesi.

Tra i pochissimi documenti del latino arcaico c’è il celeberrimo cippo del Lapis Niger, una blocco di
pietra recante una lex sacra del VI secolo a.C. e piantato nel mezzo del Foro Romano. Per più di sei
secoli questo monumento è rimasto sotto gli occhi di tutti, attirando l’attenzione di antichi storici e
letterati, da Dionigi d’Alicarnasso a Festo, eppure nessuno di loro vi ha riconosciuto un testo in
latino, né è sembrato comprendere il significato dell’iscrizione. Possibile che una forma arcaica
della loro lingua fosse per loro addirittura inintelligibile?

Tra le più antiche forme di teatro popolare, inoltre, c’erano i cosiddetti fescennini,
rappresentazioni rustiche di carattere volgare e grottesco originarie dell’Etruria e recitate in lingua,
eppure di amplissima diffusione. Ci sono poi le testimonianze offerte dagli storici, dove ogni
romano, soldato, servo o donna che fosse, appare discutere normalmente con qualunque re o
comandante etrusco senza l’ausilio di interpreti.

Il ripudio degli etruschi


A questo punto la questione linguistica degli antichi romani si fa alquanto complessa, almeno per
ciò che riguarda i primi cinque secoli della loro storia. Come molte altre popolazioni italiche di
origine indoeuropea, infatti, essi appartenevano linguisticamente al gruppo detto osco-umbro e
presentavano affinità sia con i vicini sabini che con gli osci della Campania. La loro stretta relazione
con gli etruschi, di cui subirono l’influenza culturale e perfino il dominio, li indusse però ad
adottarne probabilmente la lingua, oltre che la forma di scrittura, come sembrano confermare sia i
rinvenimenti epigrafici che il mantenimento di molte parole etrusche nel latino dei secoli
successivi. L’idioma latino originario non venne comunque dimenticato ma rimase forse relegato al
culto fino al III secolo a.C., quando fu recuperato e utilizzato sistematicamente in ogni ambito,
forse per la precisa volontà di prendere le distanze dal mondo etrusco che Roma considerava
ormai nemico. Secondo lo stesso principio, del resto, anche molte leggende legate alle origini della
romanità abbandonarono i loro presupposti etruschi rivolgendosi verso la cultura latina (come nel
caso di Romolo, che si cominciò a considerare nipote del re di Alba Numitore, anziché di re
Tarchezio, dal nome più evidentemente etrusco).

Ma in ogni caso l’affermazione del latino non fu mai totale. C’è da pensare che i romani non si
riconoscessero completamente nella loro lingua ufficiale, cui mantennero sempre il nome di
“latino”, legandola cioè a una etnia a cui si sentirono legati ma che considerarono sempre ostile o
almeno altro da sé. Questo spiegherebbe anche la loro scarsa propensione nell’imporre
un’uniformità linguistica nel vastissimo impero che andranno costituendo nella loro storia più che
millenaria.

Un programma preciso?
A differenza di tutti gli altri popoli, infatti, i romani mantennero un tendenziale bilinguismo,
consentendo che in tutta la parte orientale dei loro domini si conservasse l’uso della lingua greca,
anche nelle istituzioni. Nella stessa Roma il greco rimase diffusissimo perfino all’interno della
realtà domestica e non solo in famiglie di origine orientale.

Anche a seguito della sua diffusione in molte province dell’impero, comunque, il latino subì forti
localizzazioni assumendo pronunce molto differenti in base alle precedenti realtà linguistiche ed
etniche. Il suo impianto non fu mai totale né radicale, tanto è vero che, nonostante più di mille
anni di presenza romana, forti tracce delle lingue locali antecedenti al latino sono rimaste ben
evidenti nei dialetti e negli idiomi delle regioni che fecero parte del mondo romano. E che dire
della relativa velocità con cui, nell’alto Medioevo, l’uso del latino venne pressoché dimenticato
quasi in tutta l’Europa e nella stessa Roma in favore del greco bizantino?
Alla luce di queste considerazioni bisogna forse rivedere l’idea che abbiamo del latino e del suo
peso nell’ambito della civiltà romana. C’è inoltre da chiedersi quanto dell’importanza che, per
secoli, gli abbiamo tributato non sia piuttosto il retaggio di un preciso programma culturale o
addirittura politico promosso nel Medioevo dal Sacro Romano Impero germanico e dalla Chiesa,
che proprio della riaffermazione della lingua latina fecero una delle loro più importanti
dichiarazioni di identità, mantenendone l’uso e lo studio fino a oggi… con buona pace di Cicerone e
Quintiliano.

Leandro Sperduti

L’AUTORE
Leandro Sperduti è archeologo e collaboratore presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità
dell’Università di Roma «Sapienza». Ha tenuto corsi di formazione e aggiornamento scientifico
presso numerose università, associazioni, istituti e centri di cultura storica, accademie e istituzioni
pubbliche sia in Italia che all’estero. Ha condotto scavi in Italia e all’estero. Ha intrapreso numerosi
e approfonditi studi storici e archeologici su molti monumenti romani in collaborazione con la
Soprintendenza di Roma, con l’Università e con la Pontificia Commissione di Archeologia. È stato
Segretario generale dell’Associazione Archeologica Romana e dal 1995 presiede l’associazione
culturale Athena di Roma. Con la Newton Compton ha già pubblicato due romanzi: I 7 arcani del
Vaticano e La cripta segreta dei 7 anelli.

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