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3/4/2020 Darwinbooks: Storia linguistica e storia letteraria

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Società editrice il Mulino

Alfredo Stussi
Storia linguistica e storia letteraria

III
LA LINGUA DEL «DECAMERON»

Giovanni Boccaccio è uno dei pochi scrittori della letteratura italiana medievale del quale ci sono giunte in
manoscritti autografi alcune opere, e, in particolare, opere volgari[1]. Da questo punto di vista egli è
assimilabile a Petrarca, piuttosto che a Dante di cui nulla ci è rimasto vergato dalla sua propria mano: ciò
è molto importante non solo perché consente di valutare una cospicua componente culturale come la
scrittura, ma anche perché allo studioso della lingua antica offre una testimonianza ampia e affidabile[2]. È
evidente infatti che, nel caso del volgare dantesco, la nostra conoscenza soffre d’una limitazione
progressivamente crescente passando dalla sintassi e dal lessico alla morfologia, alla fonetica, e che,
soprattutto nel caso di verisimile coesistenza tra minime varianti fono-morfologiche, restano incerti, salvo
l’eventuale referto dirimente della rima, la loro distribuzione e il loro rapporto in percentuale.
Le opere volgari autografe di Boccaccio finora note sono le seguenti: il Teseida nel codice Acquisti e Doni
325 della
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Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze[3], la prima redazione del cosiddetto Trattatello in laude di Dante
nel codice 104.6 della Biblioteca Capitular di Toledo e il più breve dei compendi di tale Trattatello nel
codice Chigiano L V 176 della Biblioteca Apostolica Vaticana[4], gli argomenti in terza rima delle tre
cantiche (codd. Toledano cit., Riccardiano 1035, Chigiano L VI 213) e i sommari in prosa (Chigiano L VI
213) di ciascun canto della Commedia[5], la lettera a Leonardo Del Chiaro conservata tra le Carte Del
Chiaro dell’Archivio di Stato di Perugia[6] e infine il Decameron nel codice Hamilton 90 della
Staatsbibliothek di Berlino[7].
Quest’ultimo manoscritto contiene non l’originale del capolavoro boccacciano databile al 1350 circa, ma
una copia effettuata dall’autore stesso una ventina d’anni dopo, intorno al 1370-1372[8]. Si tratta, con ogni
probabilità, d’una copia che, rispetto alla stesura originaria, rappresenta una fase ulteriore, innovativa
proprio dal punto di vista linguistico: Boccaccio, secondo la tesi di Vittore Branca, avrebbe accentuato la
componente espressivistica attingendo, per la caratterizzazione di personaggi e situazioni, anche ai volgari
non toscani. Questo
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variegato tessuto linguistico sopravvive a stento perché nella tradizione manoscritta e a stampa del
Decameron si sono verificate energiche «piallature»: così Branca ha chiamato quel processo di
banalizzazione, accentuatosi una volta che nelle novelle boccacciane si è additato il modello linguistico da
imitare nel campo della prosa[9].
Le striature espressivistiche del Decameron, quali si colgono nell’autografo, acquistano rilievo proprio
perché inserite in un compatto tessuto di cui è interamente responsabile, data l’autografia del codice
berlinese, Giovanni Boccaccio[10]. Un Boccaccio copista di se stesso, ma non per questo, come ben
mostrano altri prodotti di tale sua attività, meno distratto e capace di incorrere in errori[11]; errori che
tuttavia, e per qualità e per numero, non pregiudicano l’attendibilità della sua testimonianza, ma
richiedono solo che qua e là, soprattutto di fronte a sporadiche anomalie sintattiche, si tenga presente
anche l’ipotesi di mera incongruenza. Più importa invece avvertire, preliminarmente, che il codice
berlinese ci è giunto mutilato di tre fascicoli, uno iniziale di poche carte sulle quali saranno stati scritti
l’intestazione e le rubriche delle novelle, altri due corrispondenti a parti cospicue della narrazione; è
caduta anche la prima carta dell’attuale primo fascicolo, reintegrata con copia quattrocentesca. Quindi,
facendo riferimento al testo critico di Vittore Branca, da cui derivano tutte le citazioni[12], si tratta delle
pagine del Proemio e dell’Introduzio
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ne alla prima giornata fino al paragrafo 15, delle pagine che vanno da VII 1 16 (pare che l’uscio) a VII 9
32 (e ciascuno altro, se) e da IX 10 12 (tu di’) a X 8 50 (i fatti suoi a Roma). Tutt’e due le volte il moderno
editore ha colmato le lacune attingendo al non autografo codice Mannelli, ma nella successiva trattazione
linguistica le parti così integrate non saranno prese in esame, in modo da evitare ogni possibile
interferenza di elementi non imputabili con sicurezza alla penna dell’autore[13].
Boccaccio si può considerare di madrelingua fiorentina sia perché nacque probabilmente a Firenze da
famiglia certaldese qui trasferitasi, sia perché nella prima metà del Trecento era ormai avvenuta la
sostanziale assimilazione al fiorentino della varietà di Certaldo, anche se modi e tempi, per carenza
documentaria, non sono accertabili con esattezza[14]. Quanto alla sua autocoscienza linguistica, basterà
ricordare l’esplicito pronunciamento a proposito delle «presenti novellette [...], le quali non solamente in

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fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso
quanto il più si possono» (IV Intr. 3). Sul fiorentino non letterario coevo, cioè del tardo Trecento, siamo
informati, anche se mancano studi specifici paragonabili a quelli di Arrigo Castellani per il Duecento e di
Paola Manni per il Quattrocento[15]; ma le frequenti prospezioni del primo e le
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altrettanto frequenti retrospezioni della seconda finiscono col colmare lo iato, consentendo di avere
un’idea sufficientemente dettagliata della cronologia dei fenomeni, della loro diffusione in Toscana e
anche, talvolta, della loro valenza diastratica. Lo stesso autografo decameroniano, in virtù della sua
precisa datazione, è stato utilizzato talvolta come fonte documentaria nei casi dove il filtro letterario
risulta verosimilmente inoperante. Ma questi e altri favorevoli presupposti non sono bastati a far sì che la
lingua di Boccaccio, e quella del Decameron in ispecie, divenisse oggetto di studio esauriente, nonostante
una plurisecolare attenzione di cui pur sarebbe interessante fare la storia. Inutile dire di Bembo, se non
per ricordare, a riprova della scelta classicistica e della complementare carente esperienza della lingua
viva, la sua difesa dell’ordine accusativo + dativo nella successione dei pronomi atoni (tipo lo mi)
ritenendolo anche fiorentino moderno, mentre esso vacilla già nel Decameron stesso[16]. E poi, almeno,
l’impegnativa attività filologico-linguistica dei Deputati, le varie prese di posizione pro e contro quel
modello linguistico da parte di intellettuali privi per secoli del conforto d’una lingua d’uso largamente
diffusa; e infine, col sorgere alla metà del secolo scorso della moderna filologia e linguistica, l’inizio di
studi scientifici, non turbati da ragioni allotrie, cioè, in sostanza, dai corsi e ricorsi dell’eterna questione
della lingua. Questo passaggio dalla preistoria alla storia è sancito, come in altri settori degli studi sulla
nostra lingua e letteratura antica, dal grande Mussafia, autore nel 1857, poco più che ventenne, di quelle
Osservazioni a proposito dell’edizione Fanfani del Decameron che tutt’oggi sono, quanto meno per la
sintassi, uno dei più importanti contributi disponibili[17]. Un contributo cui hanno fatto séguito indagini su
singoli aspetti
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di quella prosa, nonché il prelievo dal Decameron di esempi utili allo studio d’un determinato fenomeno,
piuttosto che ricerche sistematiche: prova ne sia, a un secolo di distanza dalle pagine di Mussafia, la
sommaria trattazione di cui sono oggetto Boccaccio e il suo capolavoro nella Storia della lingua italiana di
Migliorini[18]. Succede quindi che la più ricca messe di osservazioni sulla lingua del Decameron sia quella
che, a partire dalla bibliografia disponibile, Vittore Branca ha raccolto in funzione e dell’edizione critica e
dell’edizione commentata[19].
Il fiorentino tardotrecentesco, ormai da più d’un secolo impiegato in scritture estese di vario genere, dopo
aver assorbito verso la fine del Duecento i contraccolpi d’una consistente immigrazione dalla campagna
alla città, sta assumendo le funzioni di lingua non più d’un Comune, ma d’uno Stato territoriale. Di questa
interessante fase d’assestamento e di espansione Boccaccio offre un’immagine articolata dove arcaici tratti
caratterizzanti sul piano fono-morfologico coesistono con i segni d’un incipiente sviluppo[20]. L’ormai
anziano
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scrittore resta fedele al fiorentino della sua giovinezza e maturità quando conserva, per esempio, forme
come dea I Intr. 98 t. 22, deano II 2 7, stea I Intr. 95 t. 14, steami I Intr. 93, steano VIII 4 8 e stean III 3
19, che tuttavia alla metà del secolo cominciavano a essere insidiate da dia e stia per la spinta dei
circostanti volgari, soprattutto occidentali[21]; fedele è anche a diece I Intr. 35 t. 13 e a milia (dumilia III
Intr. 3 t. 4, tremilia VIII 10 45 e 48, cinquemilia II 9 22 t. 5, diecemilia II 7 121 t. 5, centomilia I Intr. 47
t. 5), domane I Intr. 71 t. 21 e stamane I 4 11 t. 16, mentre cominciano a essere attestati altrove sia
dieci sia mila ed è imminente la comparsa di domani[22]. In altri casi, come nel tipo sirocchia II 5 40 t. 7
non serocchia, prevale l’adesione a forme più moderne, fermo restando tuttavia che da questo particolare
punto di vista nel disegno complessivo della lingua del Decameron non si può giungere a conclusioni né
rigide, né sistematiche: infatti da un lato i termini di confronto offerti da altri testi sono soggetti alle
incostanti limitazioni e lacune intrinseche a ogni documentazione solo scritta, dall’altro è impossibile
stabilire in che misura la competenza linguistica di Boccaccio fosse cambiata tra il 1348 e il 1370, in che
misura egli fosse condizionato dal rispetto, anche formale, per quel suo testo di vent’anni prima[23].
Quanto al vocalismo tonico, caratteristica del fiorentino, ma anche del volterrano, del sangimignanese e
del toscano occidentale, è l’anafonesi[24]:
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– in corrispondenza a I breve latina davanti a LJ consiglio I Intr. 70 t. 86, consigli I 4 3 t. 7


(eccezionale conseglio III 3 9), famiglia I Intr. 59 t. 39, gozzoviglia VIII 2 46 (la cui prima
attestazione è proprio decameroniana), maraviglia I 10 15 t. 25, somigli I 8 3, IV Intr. 35, somiglian
X 9 56 (più trentacinque corradicali, anche in si-, rizoatoni), stovigli II 4 22 e quindi anche il
gallicismo vermiglio V 7 34, IX 8 14, vermiglia I Intr. 81 t. 4, vermigli III Intr. 6 t. 3, vermiglie IV 6
12, IV Concl. 4, nonché fuori accento vermigliuzza IX 5 37;
– in corrispondenza di I breve latina davanti a NJ lucignoli III 3 54 e lucignoletto VII 9 38, macigni
VIII 3 19, Sardigna II 7 10 t. 5, tigna IX 7 9 (e quindi tignosi V 10 58);
– in corrispondenza di I breve latina davanti a N + G o C lingua I 3 9 t. 16 (quindi linguaggio V 2
26), cignere X 9 86, dipignere I 8 13 t. 6 (e ventisette corradicali rizoatoni e con anafonesi
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analogica, tipo dipinto), infignere X 8 11, infignersi IV 5 7 (e sei corradicali rizoatoni e con anafonesi
analogica, tipo infinte), sospignerla II 8 20, sospignersi X 8 54, sospigne IV 3 5 (quindi
sospignessero IX 2 9), strignere IV 10 16, IX 5 42, strignersi V 7 16 e costrignere V 7 45 (e
venticinque corradicali rizotonici e rizoatoni e con anafonesi analogica tipo costrinse), vincere III 3
51 t. 6, vincer I 10 20 (e sessantuno corradicali rizotonici, rizoatoni e con anafonesi analogica, tipo
vinse), più voci d’origine germanica, come aringo II 8 3, IX 1 2, lusinga V 1 4, lusinghe I 8 9 t. 10 e
derivati, o con suffisso germanico come solingo V 6 14, VIII 7 61;
– in corrispondenza di U breve latina davanti a N + G o C giunger VIII Concl. 12 (solo in questa
ballata), giugnere III 6 37 t. 5, giugner VIII 4 32 t. 4, agiugnere III Intr. 11, aggiugnere I Concl. 6,
IV 10 17 (e sessantatré corradicali rizotonici, rizoatoni e con anafonesi analogica), pugnere I 10 15,
V 3 11 (e due corradicali rizoatoni), ugner I 6 9, ugnersi IX 3 6 (analogici unto II 9 72 e forme
declinate t. 8, untume VI 10 23), giunchi I Intr. 91, ma once IV 10 53 (sono latinismi carbunculo X 9
86 e forse anche spelunche III 10 3);
– per quanto riguarda infine O breve latina nella stessa posizione, spugna II 4 22, lungo I Intr. 35 t.
66, lunga I 8 4 t. 50, lunghi II 5 30 t. 9, lunghe III 4 6 t. 3 e tutti i derivati rizoatoni.

Il dittongamento di e ed o aperte in sillaba libera (il cosiddetto dittongamento spontaneo) è presente nei
modi tipici del
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fiorentino due-trecentesco. Quindi non solo tiene II 6 54 t. 7, viene II 2 11 t. 13, ciriegi VI Concl. 22,
richiede II 8 51 t. 7 (anche rizoatono: richiedea I Intr. 49 t. 9) ecc., buono I Intr. 75 t. 91, cuore II 8 45 t.
49, uomo I Intr. 17 t. 377 (compresi sdruccioli come tiepido III Concl. 7, suocera II 8 100, suocero II 3
48, X 10 67) ecc., ma anche brieve I 6 5 t. 38, brievi I 10 4 t. 4, priego I 1 34 t. 60, prieghi I 1 4 t. 42 e
priegano I 1 5 (ma prego VIII 2 44), triemito II 2 22, il germanismo triegua II 8 87 e triegue II 8 86[25],
nonché pruova I Intr. 96 t. 16, pruove II 8 34, X 10 68, pruovi I Intr. 96, VI Concl. 2, pruovo III 9 13 (ma
prova X 10 61), truova II 3 1 t. 11, truovo III 6 15 t. 3, truovi II 8 53 t. 4, ritruoval V 2 1, ritruovano VII
10 20, ritruovi IV Concl. 17. La monottongazione dopo palatale, che inizia a manifestarsi nella seconda
metà del Duecento[26], non è documentata nella prosa decameroniana: brodaiuolo III 7 52, brodaiuola I 6
20, cavriuoli II 6 1 t. 10, cavriuola II 6 15 t. 10, figliuolo I Intr. 39 t. 92, figliuol I 1 33 t. 26, figliuola I 4 5
t. 138, legnaiuolo IV 10 19 t. 5, nocciuole VIII 6 48 ecc.; notevole semmai la riduzione uò > ù nei soli
figliulo II 3 47, V 9 16 e legnaiulo IV 10 36[27]. Normale negli antichi testi toscani mele II 9 72 e 75 t. 4
‘miele’ (perché la vocale è originariamente in sillaba chiusa) e leva III 7 93 t. 5 per influsso delle forme
rizoatone; così pure sembra corrispondere a una linea di sviluppo del fiorentino (che oggi ha nego ecc. con
e chiusa), l’oscillazione tra nego IV 1 36, Concl. 3 e nega I Intr. 66 da un lato, niega VI 6 11 e nieghi VIII
7 53 dall’altro[28].
Tipico il caso del passaggio, in un ristretto numero di
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parole, da en ad an in protonia[29]: presente senza eccezioni in tutte le occorrenze di sanesi III 9 28, VII
10 1 e 7, VIII 9 2 e di tanaglie VII 9 53, è minoritario nel caso di sanza I 4 9 t. 6 contro senza I Intr. 20 t.
649; sempre denaio II 5 60 t. 8, denari I 1 55 t. 90, mentre a Firenze è di regola il tipo dan-. Ancora in
protonia, apertura er > ar in maraviglia I 10 15 t. 25 (una volta meraviglia II 6 24) e corradicali, sarà I
Intr. 114 t. 60 contro serà I 1 73, II 8 31, IV 10 24, ma anche il passaggio di ar ad er in paleserò II 7 99,
diletterete II 8 61, donerò II 9 49, VIII 4 23, mariterò II 8 31 (tuttavia maritaremo III 9 15).
Quale vocale palatale atona in sillaba iniziale, i ha il sopravvento su e: diliberò I 1 18 t. 25, diporre II 5
37, disidera I 7 4 t. 5, disiderato I 1 41 t. 12, divoto I 6 8 t. 5, gittato I 1 25 t. 15, limosina II 8 28 t. 6,
piggiore I 1 15, IX 1 8, piggiori I 2 24, piggior VIII 7 43, pistilenze I Intr. 2, pistolenza I Intr. 25 t. 3,
pistolenzia VI 3 8, IX Intr. 2, pistolenzioso X Concl. 3, pistilenziosa II 8 70, quistioni I 1 11, I 3 4, risuscitò
I 1 60 (e in genere con schiacciante maggioranza tutta la serie ri-), simplicità I 1 85 t. 5, virginità I 1 85,
V 7 42, X 10 45, virtù I 5 6 t. 24 ecc., non senza qualche eccezione (peggiorò II 8 66, peggiorando I 1 81,
peggiorato III 9 7, pestilenza II 8 72, pestilenzia I Intr. 17 e 64, verginità III 1 25, X 8 78 e vertù I 5 16 t.
46; solo prencipe III 8 31 t. 3). Notevole è il fatto che si allineano anche quelle parole con e originaria le
quali più avevano resistito: quindi, sempre, non megliore ma migliore I Intr. 25 t. 37, migliori I 2 15 t. 8 e
miglior I 2 11 t. 21, non pregione ma prigione II 3 16 t. 26, non segnore ma signore I Intr. 22 t. 59,
signor I 3 10 t. 65, signori I Intr. 48 t. 35, signoria I Intr. 96 t. 29 (una volta segnoria V 10 41), non
serocchia ma sirocchia II 5 40 t. 7; a parte un pregionieri III 7 69 (ma prigioniere II 6 43, 45 e 47),
rimangono ancora soltanto nepote I Intr. 27 t. 16, melanese III Concl. 18, VIII 2 2 e Melano III 5 4 t. 8[30].
Non manca una parallela tendenza ad avere in protonia la vocale velare più chiusa: difficultà I 7 4, II 7 18,
giucatore I 1 14, gulosi I 2 20, gulosità I 2 21 e 24, gulosissimo I 1 14, multiplicava I 8 7, II 1 19,
singulare I 2 4 t. 3, singular V 8 6, singulari III 5 10, sufficiente IX 4 8, sufficienti
{p. 91}
VIII 9 17, sufficienza I 7 26; ma sofficiente I 1 7, VIII 9 102, sofficienti I Intr. 82.
Come nel secolo precedente, il fiorentino continua a mantenere e o i atone tra occlusiva (o spirante
labiodentale) e r[31]: comperatore II 4 9, comperò II 4 9 t. 5, ricoverare II 6 64 t. 4, diritto I 2 4 t. 5,
diritta II 4 20, III Intr. 9, diritti V 8 37, VII Concl. 5, diritte III Intr. 6, dirittamente I 2 28 t. 7, dirittura I 2
5, dirizzare VIII 9 97, X 7 40 (contro un solo dritta V 5 35), opera I Intr. 21 t. 45, sofferire II 5 43 t. 9,
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sofferir IV 10 20 t. 7 (contro un solo soffrir III 7 8), temperare IV 1 2, VI 7 4, ma sempre vespro I Intr. 96
t. 17, sprone IX 9 7 e sproni V 3 11, parole che effettivamente nel fiorentino trecentesco arrivano per
prime alla sincope. Sincope che già alla fine del Duecento aveva interessato i futuri e i condizionali della
seconda classe: avrò I 1 33 t. 16 e avròtti II 6 56, potrò III 3 45, avrebbono II 3 42 t. 5, potrebbono II 6
29 t. 4, ma anche andrò II 3 26, andrònne II 9 40 e forme affini t. 56.
Non c’è sincope, e semmai si produce epentesi tra i ed esse più nasale in biasimo I 1 23 e derivati t. 43,
medesimo I 3 14 e declinati t. 215, desinare I 5 12 t. 32, fantasima VII 1 1 t. 10[32]. Fa eccezione
masnadiere III 7 99 e masnadieri II 2 6 t. 7, che in testi coevi come la Cronica domestica del Velluti e il
Centiloquio del Pucci compare nella forma masinadieri.
Nel fiorentino della seconda metà del Duecento gli avverbi in -mente costituiti con aggettivi terminanti in -
le sono di regola sincopati se l’aggettivo è piano (naturalmente I 10 16 t. 7), non sincopati se l’aggettivo è
sdrucciolo[33]. Nel corso del Trecento la sincope guadagna terreno fino al verificarsi, per gli sdruccioli, della
coesistenza di forme sincopate e non sincopate, come risulta per l’appunto dal Decameron dove si
incontrano onorevolemente I 1 82 t. 9 e onorevolmente I 2 19 t. 14, similemente I Intr. 55 t. 8 e
similmente I Intr. 82 t. 88, amichevolemente II 6 49 e amichevolmente I 2 6, II 8 98 ecc. Resiste la
vocale finale degli sdruccioli davanti ad altri sostantivi dotati di quell’autonomia che mente nell’età di
Boccaccio
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aveva ormai quasi perduta: infatti accanto a natural ragione I Intr. 53, — caldo I 10 10, — vena III Intr.
9, — peccato IV 1 35 (ma naturale corso I Intr. 41, — uso II 5 37, — avvedimento II 9 14, — affezione IV
Intr. 32), fedel balia II 6 76, — commessario IV 2 11, — compagno VIII 9 44 (ma fedele famigliare II 7
79, — amico II 8 4), si ha sempre onorevole stato I 3 18, — compagnia II 7 9, 48 e 105, X 10 54, —
cittadino V 10 44, sempre convenevole pregio II 4 29, — ora III 3 8, — sepoltura IV 5 16, — cosa V 9 35,
X Concl. 6, — testimonianza VI 7 8; sempre amichevole compagnia IV 2 33, — festa X 8 89; sempre simile
coppia I 5 6, — maniera III 2 28, — letizia III 7 60, — avvenimento V 8 1, — veduta VIII 7 29 ecc.
Notevole è l’evoluzione d’alcuni gruppi biconsonantici (o formati da consonante più iod): tipico del
fiorentino antico, Boccaccio compreso, l’esito velare con intacco palatale di GL secondario intervocalico in
mugghiar VIII 7 142 < *MUG(U)LARE, ragghiasse VIII 2 10 < *RAG(U)LARE, tegghiuzza V 10 36 <
TEG(U)LA, vegghiava V 3 19, vegghiando IV 6 5, vegghiare IV 8 17, VIII 9 40, vegghiato IV 10 27, IX 6
33. Di fronte a questo risultato indigeno di VIG(I)LARE, quello contraddittorio di *EXVIG(I)LARE,
regolarmente documentato da si risvegliasse I 9 7, svegliò IV 1 18, V 4 40, si svegliasse IV 8 24 e 25, V 1
10, svegliarsi V 4 31, VII 1 17, svegliarono V 6 26, si spiega con la penetrazione del fr. antico esveiller[34].
Il nesso NG davanti a vocale palatale dà luogo a nasale palatale in cignere X 9 86, dipignere I 8 13 t. 6 più
quattro forme coniugate, giugnere III 6 37 t. 5 e giugner VIII 4 32 t. 4 più otto forme coniugate, infignere
X 8 11, infignersi IV 5 7 più quattro forme coniugate, piagnere I 4 14 t. 43 e piagner I 1 65 più
settantacinque forme coniugate, sospignerla II 8 20, sospignersi X 8 54, strignere IV 10 16, IX 5 42 e
strignersi V 7 16 più quindici forme coniugate ecc. Tuttavia sono attestati anche piangea II 7 75, piangeva
III 6 47, VII 8 22, piangevano II 7 86, II
{p. 93}
8 82, piangendo I 1 85, giunger VIII Concl. 12 nella ballata, fingesse II 5 49.
L’esito di RJ nel tipo -ARIUS e simili è quello caratteristico della Toscana, cioè -aio, per cui, regolarmente,
acciaio III 2 14, denaio II 5 60 t. 8 (pl. denari I 1 55 t. 90), fornaio VI 2 1 t. 5, fornaia I 10 6, mugnaio VI
2 11[35] ecc., con qualche caso di singolare rifatto sul plurale, come marinaro II 6 10, II 9 42 (marinari II 7
10 t. 7), segretaro VIII 9 56, e analogamente i semidotti dormitoro I 4 8 e dormentoro I 4 19, disidero I 4
17, I 5 15 (accanto a disiderio III 7 4), Grigoro III 3 32, Purgatoro III 8 26 t. 7 (accanto a Purgatorio III 8
13 e 64), vitupero II 10 35 t. 5.
Per quanto attiene alla morfologia, ci si limiterà a qualche cenno relativo al settore più interessante, quello
della flessione verbale. Ben salda è all’imperfetto indicativo la desinenza -a per la prima persona
singolare: io aveva I 4 11, io era II 7 109 e 110, io me la teneva III 8 45, io nella tua corte di neve piena
moriva VIII 7 81, io disiderava III 9 50 ecc. Libera oscillazione si ha, alla terza singolare, tra il tipo -eva e
il tipo -ea, forse intenzionale quando si manifesta a breve distanza nella stessa frase: quanto maggiori
mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea I 1 12. Notevoli le forme di prima e seconda plurale
assimilate, se non analogiche ad eravamo, eravate, e cioè avavamo II 5 23 e VIII 9 107, sapavamo IV 10
34, solavamo VIII 8 34, venavamo VIII 4 31, avavate I 4 21 e X 8 61, credavate III 7 31 e III 8 26,
diciavate VII 9 71, dovavate II 10 31 (due volte) e II 10 32, faciavate II 10 31 e 32, paravate II 10 32,
potavate III 7 32, X 9 23, sapavate II 10 32, VIII 9 111, vedavate VIII 3 58, venavate VIII 3 58, volavate
V 9 35. Alla terza plurale accanto al tipo venivano II 4 14 si ha quello concorrente venieno II 3 17, da
accentare probabilmente -iéno[36].
Rari sono gli esempi di perfetto in -io alla terza singolare: seguio I Intr. 30 contro seguì II 3 47 t. 8; sentio
I 4 7 contro sentì I Concl. 21 t. 30; per il resto si ha il tipo morì I 1 81 t. 13. Assenti sia -ie, sia -eo[37].
{p. 94}
La polimorfia tipica delle terze plurali dell’indicativo perfetto e quindi del congiuntivo imperfetto e del
condizionale, si manifesta anche a breve distanza, come nel passo seguente[38]: essi potrebbono, se vivi
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fossero, nel perduto stato tornare II 6 29, Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi
ricevessero II 7 113. In dettaglio, si nota qualche residuo di forme più antiche come andaro II 2 42 (ma
andarono I Intr. 104 t. 58 e andaron I 1 84 t. 6), cominciaro VII 4 28 (ma cominciarono I Intr. 52 t. 57 e
cominciaron IV 8 29, V 3 12), comperar II 3 12 (ma comperarono IV 3 17 e 19, ricomperarono II 3 12),
diliberar IX 3 6 (ma diliberarono II 2 5 t. 7, diliberaron VI Concl. 29), dirizzaro IV 6 31 (ma dirizzarono II 1
12), domandar II 5 58 (ma domandarono I 1 30 t. 8 e domandaron V 3 32, X 9 88), entrar IV 10 28 (ma
entrarono I 5 7, entraron VIII 6 15, VIII 10 16), mandar II 8 24 (ma mandarono II 3 12), passar V 10 25,
IX 8 11 (ma passarono VIII Concl. 7), ritrovar X 8 89 (ma ritrovarono I Intr. 49 t. 4), rubar II 8 24 (ma
rubarono II 2 13), trapassar V 9 38, VII 9 38 (ma trapassarono VII Concl. 6) e inoltre bisognar II 2 39,
cavalcar X 9 33, penar IV 3 15, nonché circa centotrenta verbi per cui si ha solo -arono (abbandonarono I
Intr. 25 ecc.); centotrentatré tra furono I Intr. 39 e furon I 1 4 più fur I Intr. 28 t. 10[39]; unico è
capitorono X 9 56 coesistente con capitarono
{p. 95}
IV 3 3. Si hanno trentacinque dissero I Intr. 86 (più disser IV 5 20, dissergli IX 8 28) contro dissono III 10
34 t. 4, disson IV 4 23; cinquantasette tra fecero I 1 20 e fecer I 10 14 (un fer II 4 16) contro feciono V 1
60; sedici tra presero I Intr. 18, preser III 10 10 e preserci VIII 9 18 contro presono V 4 29 t. 3; trentadue
tra vennero I Intr. 105 e venner II 7 41 contro vennono VIII 6 41. Nel caso di verbi meno frequentemente
usati c’è maggior equilibrio tra le forme concorrenti: concorsero V 6 28 e concorsono VI 10 30; corsero I
Intr. 80 t. 5 e corsono IV 10 28, corson III 8 68; diedero II 7 10 t. 6 e diedono I Intr. 88 t. 6 (inoltre dier
IV 3 18 e dierono II 7 60 t. 6, dieron IX 5 66); raccolsero IV 7 11 e raccolsono III 1 7; rimasero V Intr. 4,
VI 3 7, rimaser I Intr. 48 t. 3 e rimasono II 3 16 t. 3; risposero VIII 9 105 t. 3, rispuosero I Intr. 88 e
risposono VI Concl. 19 e risposon X 10 8; trassero II 1 22 t. 5, trasser IX 8 28 e trassono IV 3 18;
uccisero II 7 76 e uccisono II 7 35, IV 5 13; vollero IV 5 21 t. 3 e vollono III Concl. 18, VIII 9 69, vollon
VIII 6 8; solo chiesongli III 7 99, concedettono V 1 33, congiunsono IV 7 9, parvongli I 1 36, ridussono III
10 35, ristrinsono V 7 13, scesono III 7 15, tacettono IV 10 25 (ma tacquero I Intr. 86, IX 6 2).
Parallelamente restano senza alternativa trentanove tra ebbero II 1 17 e ebber I 5 3 e ventinove videro I
Intr. 48 (più vider VIII 5 9, viderla VI Concl. 19, viderlo III 8 68), come anche, con numero minore di
occorrenze, una sessantina d’altri verbi tutti con -ero. Infine il tipo -erono compare in adempierono II 2
39, combatterono IV 4 22, empierono VI 10 29, goderono III 6 50 t. 3, goderon III 7 101, perderono II 3
16, poterono II 5 69 t. 10, renderono I 7 11 t. 3, riempierono II 7 65; il tipo -irono compare in venti verbi,
da aggradirono IV 7 9 a vestirono VIII 10 21.
Altrettanto succede per il congiuntivo: netta supremazia di trenta tra avessero I Intr. 38 e avesser I Intr.
18 contro avessono I Intr. 88, VIII 9 102; di venti tra dovessero I Intr. 73 e dovesser VI 3 10 contro
dovessono II 3 16; di centoquattro tra fossero I Intr. 25, fosser I Intr. 35 e fosserne II 10 37 contro
fossono II 3 32 t. 3 e poi andassero II 5 57 t. 8, andasser II 7 74, III 2 26 e andassono II 3 18; dicessero
II 7 109 e dicessono VII 9 42; mostrassero IX 6 12 e mostrassono VIII 8 5; potessero I Intr. 99 t. 11,
potesser X 9 8 e potessono II 7 20 t. 4; prendessero III 9 33 e prendessono I 1 30; ridessero V Concl. 14
e ridessono I 6 20; servissero I 1 20 e servissono VII 9 42; tornassero IX 6 9 e
{p. 96}
tornassono V 8 11; vivessero II 6 83 e vivessono VIII 9 8; volessero II 6 54 t. 3, volesser IV 4 21 e
volessono IV 9 9, volesson IV 1 56; solo ammaestrassono IX 9 4, apparassono VII 9 42, aprissono III 2
29, dimorasson X 9 33, dipartissono III 1 32, dormissono V 2 16, onorassono II 7 113, operassono II 8
89, partissono I Intr. 88, VI 7 18, ritraessono IV 5 22, strangolassono IV 1 46. Presenta soltanto -assero
una trentina di verbi (accordassero II 9 7 ecc.); -essero un’altra trentina (accorgessero II 7 76, X 9 11,
ecc.); -issero una decina (avvenissero II 7 78 ecc.).
La situazione non cambia per il condizionale con nove tra avrebbero II 6 49, e avrebber II 6 16 contro
dieci tra avrebbono II 3 42 e avrebbon III 2 18 (ma anche avrieno I Intr. 48), dovrebber I 2 25, IV Intr.
35 e dovrebbono IV Intr. 18, farebbero IV 8 10 e farebbono II 9 13 t. 4, potrebbero VI 7 14 e potrebbono
II 6 29 t. 4, sarebbero VI Intr. 11, II 6 49, sarebber II 9 19, IX 3 25 e sarebbono II 6 81 t. 4, sarebbon III
9 3 (ma anche sarieno I Intr. 30 e 39, II 1 13)[40], vorrebbero V 10 45 e vorrebbono III 10 30, vorrebbon
V 10 45; inoltre attenderebbono III 4 12, diliberrebbono IV 9 9, direbbono IV Intr. 37, gitterebbono I 5 16,
metterebbono IV Intr. 10, penserebbono VIII 6 35, starebbono VI Intr. 10, trarrebbono VIII 9 53,
verrebbono VIII 6 35. Presentano solo -ebbero (-ebber): andrebber IX 1 18, caricherebber III 3 5,
faticherebber IX 4 3, parrebber VIII 9 25, saprebbero IX 5 35, tirerebber II 5 66, varrebbero IV Intr. 10.
Notevole, al solito, la coesistenza a breve distanza: elle si vorrebbero uccidere, elle si vorrebbon vive vive
metter nel fuoco V 10 45.
Dei tratti fono-morfologici del Decameron si è dato un panorama parziale e sommario, ma forse non
insufficiente per un orientamento generale; non c’è modo di fare altrettanto in poco spazio per quanto
concerne la sintassi e della frase e del periodo, perché i singoli costrutti e le loro varie combinazioni
costituiscono un organismo complesso e ramificato cui occorrerebbe accostarsi non solo sulla base d’una
esauriente tassonomia, ma anche analizzando il rapporto di certi fenomeni sintattici con l’elaborazione
retorico-stilistica, se non addirittura la loro omologia con la struttura narrativa d’alcune novelle[41].
{p. 97}

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Partendo da un noto fenomeno caratteristico della lingua antica, per quanto riguarda la posizione dei
pronomi e delle particelle pronominali atone nel Decameron, la legge di Tobler e Mussafia manifesta
ancora parziale vitalità[42]: all’inizio assoluto (Partissi adunque il Saladino X 9 39) o in proposizione
principale asindetica (Il re, veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe disdire, mostrogliele
III 9 9) duecentotrentasei enclisi, senza eccezioni[43]; all’inizio di proposizione principale collegata con e ad
altra precedente quattrocentoundici enclisi (per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a
casa IV 1 14) e sedici proclisi (fu la mattina a messer Lizio e gli disse V 4 25); se il collegamento avviene
con ma, venticinque enclisi (né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi I Intr.
55) e otto proclisi (La donna gli prese e non s’avide perché Gulfardo dicesse così, ma si credette che egli il
facesse VIII 1 13). Quando la proposizione prin
{p. 98}
cipale viene dopo la dipendente, novecentottantasei proclisi (E quantunque a te queste ciance omai non ti
stean bene, ti dico io di lei cotanto III 3 19) e quarantatré enclisi, quasi sempre con imperativi (se tu non
puoi, tienloti a mente fin che tu possa V 10 64); in proposizione dipendente coordinata senza ripetizione
del pronome o della congiunzione introduttivi, dopo e centosedici enclisi analogiche (son certa che udita
l’avete e sapetela IV 6 38) contro nove proclisi (acciò che voi gliele rendiate e gli diciate III 3 27),
un’enclisi dopo asindeto (Vogliono gli odierni frati che [...] serviate castità, siate pazienti, perdoniate le
’ngiurie, guardiatevi del mal dire III 7 40), quattro proclisi dopo ma (pur m’è di tanto Amore stato
grazioso, che egli non solamente non m’ha il debito conoscimento tolto nello elegger l’amante ma me n’ha
molto in ciò prestato II 8 16).
Nelle infinitive rette dai cosiddetti verbi a ristrutturazione il pronome atono complemento dell’infinito viene
sempre cliticizzato al verbo reggente. Rispetto all’italiano moderno, che ammette sia il tipo lo voglio
mangiare, sia il tipo voglio mangiarlo, l’italiano antico presenta dunque una restrizione che era condivisa
dalle altre lingue romanze[44]. La salita del clitico è determinata, in dettaglio, dai modali: gliele convenne
gittar via II 4 7, sì il dovresti far tu V 10 15, ve lo intendo dimostrare I 9 3, non v’oso negar cosa III 6 12,
tu ora ne puoi per prova esser verissima testimonia VIII 7 104, acciò che voi vi sappiate guardare I 10 8,
non mi volea far cristiano I 2 27, nel Mugnone se ne solevan trovare VIII 3 22, io non ci ho a far nulla I 1
45 ecc.[45]; dagli aspettuali: vi cominciarono le genti a andare I 1 87, la cominciò a pregare II 2 24,
cominciarongli a far festa II 8 78, cominciandosi a riscaldare VI Intr. 2, cominciatala a basciare VIII 8 27,
s’incominciò a confortare X 9 69 ecc.; dai verbi di movimento: dopo alcun ballo s’andarono a riposare II
Intr. 3, egli la venne ad annunziare in Nazarette VI 10 11 ecc. Nel caso che il verbo reggente sia un tempo
composto, avviene il cambio
{p. 99}
d’ausiliare da avere a essere, se quest’ultimo è selezionato dall’infinito: quand’ella si sarebbe voluta
dormire III 4 6 (cfr. se io fossi voluto andar dietro a’ sogni IV 6 14). Nel caso che un verbo a
ristrutturazione ne regga un altro dello stesso tipo, il clitico si può appoggiare all’uno o all’altro: cominciò a
volerla riprendere IV 2 14, noi la vogliamo venire a visitare X 7 32 ecc. Come già si vede confrontando i
due ultimi esempi, mentre la proclisi accompagna i modi finiti, l’enclisi è dell’infinito, participio e gerundio:
di venirlo a visitare II 7 48 (contro la venisse a visitare I 5 9), cominciatolo amorosamente a guardare II 2
36 ecc. Ma, ovviamente, anche nel caso di modi finiti si ha enclisi quando interferisce la legge di Tobler e
Mussafia: Vogliamgli noi imbolare stanotte quel porco VIII 6 9, Voglianlo fare VIII 6 36 ecc. Una variante
indifferente rispetto alla sequenza clitico-verbo-infinito è quella ben boccacciana di infinito-clitico-verbo:
lasciar lo volesse I 3 14, trovar ne potesse I 4 9, se dentro entrar vi potesse II 2 15, parlar gli volesse II 5
11, veder la volle II 7 44 ecc., dove senza alcun dubbio il pronome è proclitico al verbo finito, non enclitico
all’infinito, sia in omaggio alla regola su esposta, sia in forza di altri indiscutibili esempi[46]: rendere il
voleva II 1 31, dove porre si potesse II 2 17. In ogni caso, nella sequenza dei due verbi con clitico, si
possono interporre solo forme avverbiali o preposizioni reggenti l’infinito, come mostrano il già citato
cominciatolo amorosamente a guardare II 2 36, gl’incominciò forte a increscere I 2 5 e analoghi esempi
che saranno qui di séguito citati dandosi come verbi reggenti i causativi e i percettivi. Rinviando ad altra
sede un’analisi esauriente, si segnalano ancora il caso degli infiniti coordinati in la cominciò a confortare e
a pregarla I 4 17 e la salita del clitico con meritare in io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t’ho
molto meglio meritata d’avere che Pasimunda per promessa fede V 1 33[47].
Dal punto di vista della collocazione del clitico si ha dunque un risultato omogeneo rispetto a quanto
succede coi verbi
{p. 100}
causativi e percettivi, quale che sia nella struttura soggiacente la funzione del pronome che figura in
superficie all’accusativo o al dativo: seco il fece sedere I 3 8 (sogg. in acc.), la fece uccidere II 9 54 (ogg.
in acc.), con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse III 1 15 (sogg. in dat.), dove Sicurano
gli fece fare un fondaco II 9 56 (compl. ind. in dat.); e ancora: l’infermo senza esser adoppiato non
sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare IV 10 10, senza lasciargli por mano addosso a altrui VIII 10
16, non ne lasciava a far tratto V 10 25, andar la vedeva IX 7 6, sentendosi assai cortesemente pugnere I
10 15, veggendolo assalire II 2 14 (‘vedendo che i masnadieri lo assalivano’), ricordar non m’udisti II 5 18
ecc. Beninteso, coi verbi a ristrutturazione opera una regola che produce la sequenza terminale senza
nessun cambiamento d’ordine perché si limita a formare col verbo principale più quello incassato un unico
predicato complesso che consente al clitico di uscire dalla frase infinitiva. Lo stesso risultato, con i verbi
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causativi e percettivi, è invece ottenuto mediante una regola che spostando il verbo incassato a fianco del
verbo reggente opera un cambiamento d’ordine[48].
In quest’ultimo tipo sintattico, mentre la posizione del clitico non presenta sostanziali differenze rispetto
all’italiano moderno, è notevole il fatto che al soggetto profondo dell’infinito transitivo corrisponde per lo
più un complemento retto da a: gli fece pigliare a tre suoi servidori II 6 38, la feci a un mio famigliare
uccidere II 9 62, il quale, in assai povero stato essendo, a alcun suo amico tacitamente fece ricevere II 9
57, Aveva già Sicurano fatta raccontare a Ambruogiuolo la novella II 9 58, la fa uccidere e mangiare a’
lupi II 9 64, io udii a Guidotto divisare dove la ruberia avesse fatta V 5 32, a Gianni fece la giovinetta
{p. 101}
sposare V 6 42. Inoltre tale dativo compare anche quando c’è coreferenza tra il complemento oggetto
dipendente dall’infinito e il soggetto del verbo reggente, cioè quando nell’italiano attuale è possibile avere
soltanto da[49]: e essi, fattisi tirare a’ paliscalmi II 4 15, fattisi menare al matto II 7 61, e a lui ti fa aiutare
VIII 7 82, Io debbo staman desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare VIII 8 15,
si disperava e massimamente veggendosi guatare a quegli che v’eran da torno IX 4 16 e, con
pronominalizzazione, gli si fece sposare II 3 35. Così pure, sempre a differenza dell’uso attuale, la
restrizione di omocasualità sembra in vigore solo per il doppio accusativo, non per il doppio dativo, come
mostrano i seguenti esempi: io feci fare alla donna mia a colei che l’aspettava questa risposta III 6 19, e
quivi non avendo a cui farle tener compagnia a altrui, disse V 9 23, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa
por la scala per la qual tu scenda VIII 7 82, nonché, in condizione di coreferenza analoga a quella già
segnalata, senza lasciarsi parlare a alcuno I Intr. 20, non sentendosi rispondere a alcuno II 7 15, fatevi a
ciascun che m’accusa dire II 1 25. Subentrano forme agentive in corrispondenza alla restrizione di
coreferenza solo in non m’avavate monstrato che ’ monaci si debban far dalle femine premiere come da’
digiuni e dalle vigilie I 4 21 e [Amore] come potentissimo signore da’ più ricchi si fa temere IV 7 4, cui si
accompagnano altre rare occorrenze rappresentate da di ciò che intervenuto era s’informò; e fatto da certi
medici riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso
{p. 102}
IV 6 33, e, particolarmente interessante, dalla sequenza coordinata quivi vede cacciare a un cavaliere una
giovane e ucciderla e divorarla da due cani V 8 1. Non contano né il quale non stette guari che trapassò e
da loro fu onorevolmente fatto sepellire II 7 86 (perché loro è il soggetto profondo di fare, non di
seppellire), né, per la stessa ragione strutturale, egli sarà domattina trovato e portatone a casa sua e fatto
sepellire da’ suoi parenti IV 6 25 e fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano dintorno alla fonte si
posero a sedere VI Intr. 4. Tuttavia forse proprio in esempi di questo genere, dove coll’agentivo si esprime
il soggetto di fare, sta una potenziale ambiguità che porta ad esprimere con lo stesso caso anche il
soggetto dell’infinito dipendente[50]. Infine, a completare il quadro, si ricordi che mancando il complemento
oggetto, il soggetto dell’infinito riceve l’accusativo: oltre a seco il fece sedere I 3 8 già citato ad altro
proposito, se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta
arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire VIII 7 122.
L’ordine di successione di più pronomi atoni è uno dei non molti fenomeni che, nella sostanziale staticità
dell’italiano, consentono di delineare un’evoluzione dall’antico al moderno. Nella prosa decameroniana
sono documentati i seguenti tipi[51]:

1. 1) me, te, se, ce, ve + ne (n’) diventa «costante o quasi nelle generazioni nate dopo il 1265»
subentrando progressiva
{p. 103}
mente al tipo mi ne[52]. Infatti nel Decameron si ha soltanto me ne I Intr. 93 t. 53, te ne I 1 50 t.
42, se ne I Intr. 39 t. 333, ce ne I Intr. 61 t. 24, ve ne I 6 19 t. 52. Altrettanto in enclisi:
aiutarmene VIII 5 17 t. 12, ammendartene III 8 52 t. 15, accorgendosene IV 5 20 t. 130 (solo un
esempio della variante andossen V 8 10), andiancene VIII 2 37 t. 7, andatevene III 6 30 t. 19.
2. 2) il tipo gli, glie + ne («a lui, a loro ne») e le ne («a lei ne») coesiste con ne gli e ne le che anzi ha
una certa prevalenza: in proclisi ne gli I 1 65 t. 21 soltanto[53], ma ne le I Intr. 97 t. 7 accanto a le
ne II 7 24, III 9 53; in enclisi avendonegli VIII 10 44 t. 6 contro andargliene X 9 35 e
comportargliene III 3 41[54], fattelene VIII 8 26.
3. 3) lo mi ecc., lo ne ecc. cioè l’ordine accusativo + dativo o ne è pressoché esclusivo per tutto il
Duecento, ma nel secolo seguente si afferma progressivamente l’ordine moderno me lo (l’) ecc., ne
lo (l’) ecc. Boccaccio è buon testimone, alla metà del Trecento, d’una situazione d’equilibrio quanto
ai tipi lo mi e me lo, i quali, come fu già osservato a proposito delle prime quattro giornate[55],
ricorrono con pressoché uguale frequenza, mentre prevale il tipo ne lo. Infatti me lo III 6 17 t. 5,
mel II 5 28 t. 4 e il mi VIII 6 27, nol mi I 4 15 t. 4 (nessun lo mi), me gli III 5 30; me la III 8 45 t. 6
e la mi III 1 39 t. 5, me le I Concl. 7 t. 5 e le mi III 9 58; te l’ (= lo) II 9 17 t. 5, tel II 5 18 t. 6, il ti
V 5 10 t. 6, nol ti IX 5 17, X 10 32, te gli VIII 10 52 t. 2 e gli ti VIII
{p. 104}
10 59; te la I 9 6 t. 3 e la ti IV 4 23, le ti IV 1 53; se lo III 4 8 t. 4, sel I 2 9 t. 15 (e nessun lo si),
se gli I Intr. 83 t. 6; se la VIII 3 1 t. 4 e la si II 8 46 t. 13, solo le si II 7 57 t. 11; cel V 3 33 t. 4, il
ci VIII 8 25 (locativo), ce gli X 8 62 (due volte); ce l’ (= la) VII 9 111, la ci IV 4 17 t. 3 (la ci I 8 17
locativo); ve lo I 9 3 t. 8, ve l’ III 3 27, vel I 1 53 t. 14, il vi I 1 39, nol vi III 3 39 t. 4 e nessun lo
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vi; ve la I 4 22 t. 5 e la vi III 6 20 t. 5, ve le VI 10 44 e le vi II 9 49, IV Intr. 7; nel II 6 44 t. 23, ne


gli VIII 10 17; ne la I 4 6 t. 16, la ne II 6 23 t. 3, ne le III 1 15. In enclisi: datemelo VIII 2 36 t. 6 e
averlomi VIII 7 79 t. 5, donatolmi X 10 44, dalmi VI Concl. 45 (nella ballata), torglimi IX 1 10,
rendendomela II 6 59, concederlami V 1 31 t. 8, farmele III 9 42; vogliantelo V 3 28 e vedendotel II
6 40, averloti V 9 32 t. 4, dicolti II 1 10 t. 3, mandargliti VIII 10 52 t. 3, manicarlati IX 5 37 e
togliendolati VIII 7 88, dateleti IV 1 53 e recherolleti VIII 6 40; andavaselo II 7 61 t. 12, doverlosi IX
1 21 t. 5, credendolsi X 9 22 t. 6, fattiglisi X 8 107 t. 4, recatasela III 6 42, fattalasi IV 1 25 t. 14;
diccelo II 9 52 e ritenercelo III 1 17 (locativo), menarloci IX 3 17 (locativo), puolci II 7 6, mettercela
VIII 3 29; darlovi VIII 10 47 t. 6 e serrollovi VIII 8 18 (locativo), diròlvi VI 10 17, tenervela IX 5 7,
domandarlavi III 5 28, contarlevi III 7 68; mandarnelo III 3 44 t. 4 e rimandatolone III 1 36 t. 2,
farnegli IX 4 12, volendonegli II 8 33 e menargliene II 6 38, avendonela IV 5 20 t. 6 e fattalane IX 2
1, farlene I 4 11.
4. 4) gliele, gliel (acc. + dat. invariabile per qualsiasi genere e numero): con l’introduzione delle
combinazioni dat. + acc. in me lo, ne lo (gruppo 3), gliele verrà poi inteso come ‘a lui lo’ con
conseguente possibilità di variare le in la, lo, li[56]. Nel Decameron è ben saldo l’uso antico: gliele
perdonerebbe liberamente I 1 68 (‘i peccati a lui’), che Idio gliele dovesse perdonare I 1 85 (‘il
peccato a lui’), gialla gliele pose in sul nero I 6 10 (‘la croce a lui’), se spacciar volle le cose sue,
gliele convenne gittar via II 4 7 ‘le cose a lui’, con lagrime gliele diede II 8 32 (‘la figlia
{p. 105}
alla dama’), sì gliele dà VIII 1 1 (‘i denari a lei’) t. 88; enclitico avendogliele promesso III 3 37 (‘ciò
a lui’) t. 41. Si noti, per l’interpretazione di gliel II 8 35 t. 4, l’esempio significativo fornito da un
beveraggio e, fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere X 9 84.
5. 5) gli (le) si (s’) e gli (le) mi ecc. (dat. + acc.) presenta ancora ben saldo questo tipo d’ordine la cui
inversione comincerà a manifestarsi più tardi per culminare verso la metà del secolo successivo,
senza però sopravvivere nell’italiano moderno, forse per «l’attrazione esercitata dalla serie mi si, ti
si, ci si, vi si, serie che vien sentita scompleta senza gli si»[57]: gli si I 7 7 t. 34, le si II 7 30 t. 12, le
ti V 2 24, gli ci I 1 91. In enclisi: accostataglisi IX 5 56 t. 23, avvicinatolesi III 7 17 t. 7,
raccomandalemi VIII 7 43, accostaleti IX 5 49, torglivi III 7 31.
6. 6) altri tipi: mi ti feci palese II 7 99, mi ti raccomando VIII 10 25, mi ti voglio un poco scusare VIII
10 49; mi ti rende II 10 24, non mi ti appressasti III 6 37, mi ti fa vedere IV 1 51, mi t’avicini II 3
33, lasciamiti IX 5 59 e 60, potendomiti II 7 99; non so perché tu mi t’abbi a far questo IX 6 20; le
mi pareva IV 6 15 (= illi dativo femm. + mihi); mai nell’animo m’entrò questo pensiero che per
costui mi c’è entrato I 7 23, mi ci fanno entrare II 5 77, mi ci coricai IX 6 26; continua fraternal
dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire X Concl. 5; mi vi convien dire I 3 10 (= mihi vobis); io
vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dormiviti II 3 27, vi t’induceva V 10 54, vi t’entrò VIII 7 25;
come che voi diciate che io qui a inganno v’abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci
abbia fatta venire per denari III 6 44; non veggio come noi vi ci possiam pervenire II 1 7 (doppia
particella locativa).

Basti accennare infine a sequenze triplici come se ne la menò V 4 49 e portandosenela IX 7 13; mi ve ne


dolfi III 3 25, mi ve ne sia doluta III 3 25 e siamivene III 3 15; non se ne gli attiene III 1 26; chi che ti se
l’abbia mostrato IV 1 36; faccialevisi V 4 26; lasciarglielne II 9 55[58] ecc.
{p. 106}
Interessanti fenomeni d’ordine riguardano anche costituenti di maggior peso: qui forse meglio che altrove
si percepisce il carattere enciclopedico, dal punto di vista linguistico, del Decameron, perché frequenti e
ben note manifestazioni dell’ordine artificiale (dai costrutti latineggianti col verbo in posizione finale al
sapiente ricorso alle clausole ritmiche) coesistono con fenomeni sintattici di segno opposto, governati cioè
da regole tutt’altro che rigide, sensibili alle ragioni dell’espressività e anteriori, talvolta si direbbe, al filtro
che si interpone di solito nel passaggio dal parlato allo scritto[59]. Tipico in tal senso è il porre all’inizio di
frase (dislocazione a sinistra) costituenti che normalmente occupano posizione postverbale, come nel caso
di complemento oggetto espresso da quello ± sost. + che (il quale), con una relativa interposta prima del
verbo reggente, ripreso da un pronome anaforico: talvolta avviene che [...], quello rossore che in altrui ha
creduto gittare sopra sé l’ha sentito tornare I 10 7, spesse volte già addivenne che quello che varie
riprensioni e molte pene date a alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte, per
accidente non che ex proposito detta, l’ha operato I 9 3, È il vero che quello che Pampinea non poté fare,
per lo esser tardi eletta al reggimento, io il voglio cominciare a fare I Concl. 10, Quello che i maggior
medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? III 9 11,
Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l’aperse IV 8 32, eran
vicine di far
{p. 107}
credere a se medesime che quello che fatto avean la notte passata non l’avesser fatto ma avesser sognato
di farlo IV 10 30. Interessanti questi altri casi di estrazione dell’oggetto dalla subordinata, perché il verbo
reggente transitivo determina un’ambiguità strutturale: mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti
conci gliel’avessero VIII 3 59, tentò l’uscio se aprir lo potesse VIII 7 39 (il costrutto lineare è in Egli tentò
più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio II 5 79, e cfr. tentar le forze dello altrui

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ingegno III 5 3); analogamente, col soggetto pronominale, sempre attenta stava a una picciola finestretta
per doverlo vedere se vi passasse III 3 20[60]. Non manca la dislocazione di complementi preposizionali
con corrispondente pronome anaforico: al re di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto e era
male stata curata, gli era rimasta una fistola III 9 7, E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti I 1 65, di
questa parte mi vergogno io di dirvene il vero I 1 37, avvisando non di ciò alleviamento di miscredenza
nello inquisito ma empimento di fiorini della sua mano ne dovesse procedere I 6 6. Spesso tuttavia è
dislocato un sintagma nominale senza preposizione, cui corrisponde un clitico nel caso richiesto dal
verbo[61]; in alcuni esempi la distanza tra quest’ultimo e l’elemento dislocato fa pensare a cambiamento di
progetto, ipotesi che però sembra da escludere almeno là dove tale distanza è minima (come in VIII 6 48
citato qui di séguito): Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa,
dallo
{p. 108}
ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le dea principio I 1 2, Il Saladino, il valore
del quale fu tanto, che non solamente di piccolo uomo il fé di Babillonia soldano ma ancora molte vittorie
sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze
speso tutto il suo tesoro e per alcuno accidente sopravenutogli bisognandogli una buona quantità di
denari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria
un ricco giudeo I 3 6, Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima VIII 6 48.
Affine è il caso del pronome relativo oggetto in posizione iniziale, che può essere ripreso dal clitico se ne è
stato allontanato il verbo reggente, come succede in ingiuria [...] la quale, sallo Iddio, se io far lo potessi,
volentieri te la donerei I 9 6, li quali Tancredi [...] onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro gli
fé sepellire IV 1 62, oppure in due figliuoli, li quali le fa veduto d’uccidergli X 10 1. Ma molto spesso il
clitico corrispondente al relativo senza preposizione ha la forma dell’obliquo (richiesta dal verbo reggente),
tanto da dare l’impressione che i vari il quale, la quale, i quali, le quali siano usati come generici connettivi
sintattici, rinviando a successivi elementi della frase la loro definizione funzionale (ma non con i locativi: a
un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere I 7 13). Anche tale impressione va tuttavia
limitata e precisata distinguendo intanto un certo numero di costrutti gerundiali con pronome fortemente
scisso dal gerundio come in Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti
dormivano, andandosi tutto solo da torno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne
veduta una giovinetta I 4 5, Il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere,
riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata I 5 11. Analogamente a Egli credendoselo,
quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne rammaricasse, pur, poi che fuor n’era, gli
parve esser guerito VII 9 55, si tratterà di collegare Il quale + andandosi in I 4 5 e Il quale +
riguardandola in I 5 11, riconoscendo dunque costrutti assoluti permeabili, come questo participiale:
Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola II 5 38, la sua
casa apparata, davanti v’incominciò a passare VIII 7 10. Restano tuttavia esempi di relativo svincolato
difficili da ricondurre a
{p. 109}
costrutti noti: un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse,
era uno anello bellissimo e prezioso I 3 11, il capo di quello, il quale voi generalmente, da torto appetito
tirate, il capo vi tenete in mano e manicate le frondi I 10 17, in Mugnone si truova una pietra, la qual chi
la porta sopra non è veduto VIII 3 28, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli [messer Niccola] e
i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, [Maso del Saggio] vide che il fondo loro infino a mezza
gamba gli agiugnea VIII 5 7 (si noti che qui il relativo non preposizionale è ripreso dal possessivo loro)[62].
Anche un’intera frase può essere anticipata rispetto al verbo reggente e ripresa dal clitico: ma quanto
questo voglia esser segreto, voi il vi potete vedere VIII 9 30, il che come voi il faciavate, voi il vi sapete II
10 31, e, analogamente a quanto visto in precedenza, è possibile incontrarla priva della preposizione che
sarebbe richiesta dal verbo reggente, il quale però determina la forma del clitico: ma chi se l’abbia, come
degli anelli, ancora ne pende la quistione I 3 16.
Del meno frequente clitico in posizione cataforica rispetto a segmenti che stanno sulla destra, basti questa
sommaria campionatura, fornita da discorsi diretti riportati: Molto tosto l’avete voi trangugiata, questa
cena v 10 29, Egli ci guarderà e voi e me di questa noia V 3 29, fate che noi ce ne meniamo una colà su di
queste papere IV Intr. 28, né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s’arde a queste cene VIII 9 21, Dio il
sa che dolore io sento V 10 17, Io ne son molto certa che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte
ci ardesse V 10 55; nella narrazione: più volte insieme ne motteggiarono, di vedere uno umo, così antico
d’anni e di senno, inamorato I 10 12.
Tra le caratteristiche della prosa decameroniana spiccano senz’altro l’abbondanza e la varietà delle
perifrasi verbali. Cominciamo col dire che «la presenza di dovere pleonastico nelle dipendenti da verbi
deliberativi quando vi è identità di soggetto fra sovraordinata e subordinata, è una singolarità
{p. 110}
individuale della sintassi del Boccaccio»[63]: a doversi dileguar del mondo, per non far lieta colei, che del
suo male era cagione, di vederlo consumar, si dispose III 7 6, e vedendola sola, fra sé diliberarono di
doverla pigliare e portarla via V 6 7, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare V 8 7
ecc. Struttura analoga, in dipendenza da espressioni che indicano accordo o desiderio, hanno vennero a
concordia di doverla donare a Federigo re di Cicilia V 6 8, venne disiderio a Pinuccio di doversi pur con
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costei ritrovare IX 6 7 e ancora le finali e consecutive implicite ci era venuto per dovergli ammonire e
gastigare e torgli da questo abominevole guadagno I 1 45, sempre attenta stava a una picciola finestretta
per doverlo vedere se vi passasse III 3 20, con certi compagni armati a dovere entrare in tenuta andò V 5
15, ciascun s’apparecchi di dover doman ragionare di ciò IV Concl. 5, se modo alcuno trovar potesse a
dovere avere quelli denari II 5 7, parendo lor tempo da dover tornar verso casa VI Concl. 32, paioti io
fanciullo da dovere essere uccellato? IX 8 25 (più rara la forma esplicita: con questo patto che egli non
dovesse lasciar lei per la Vergine Maria IV 2 25).
Questi e molti altri esempi fanno parte della vasta gamma di impieghi boccacciani dei verbi modali per
funzioni riconducibili alla loro originaria componente semantica in modo spesso così debole o incerto da
configurare un uso pleonastico[64]. Per esempio dovere, prevalendo un valore implicito al senso deontico,
può esprimere azione futura, e quindi con ulteriore compatibile slittamento, possibile più che necessaria (e
appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser
perdonato I 1 69, oppure, con tipica ridondanza, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi
dovessero così lietamente vivere VIII 9 8), ed eventualmente probabile (dovere epistemico): il riprese
molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto III 3 34, e cominciò seco stesso a
ricordarsi di doverla avere altra volta veduta II 7 91. Di qui dunque la frequente perifrasi con
{p. 111}
dovere al congiuntivo per esprimere il futuro del passato in subordinate esplicite dipendenti da verbi che
richiedevano il congiuntivo[65]: parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar
lui IX 1 25, dove si evita un *levasse e uno *scannasse che sarebbero venuti a «coincidere con la forma
indicante fatto contemporaneo a quello di una sovraordinata al passato»[66]; oppure, nel caso di
subordinate implicite, E fatto prima sembiante d’avere la Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte
stessa fare in mar mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella IV 3 28, fino a sequenze cumulative come e
avendo udito in che guisa quivi pervenuta fosse, s’avvisò di doverla potere avere II 7 44, e imaginò niun
altro compagno migliore né più fido dover potere avere che Cimone in questa cosa V 1 54, e dopo
alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere V 8 32, imaginossi di non dover
mai di quella selva potere uscire V 3 45, noi ci credemmo dover potere entrare in Firenze IX 6 9. Anche
all’indicativo in udendo che veder dovevano la penna dello agnolo Gabriello VI 10 30.
In dipendenza di verbi o costrutti già di per sé indicanti compimento futuro dell’azione dipendente
compare spesso dovere quasi a ribadire tale prospettiva: cominciò ad aspettare che di lui dovesse
intervenire IX 1 26, Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffare costui, rispose III 5 8, il
giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa ricevuto da lei II 10 23, nel principio della
presente opera promisi di dover fare Concl. 1, veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa
celebrare le sue nozze V 1 50, di che a Buffalmacco parea mille anni di dover essere a far quello che
questo maestro sapa andava cercando VIII 9 60, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e
torgli da questo abominevole guadagno I 1 45: in questi due ultimi esempi ci si trova di fronte a una frase
che, esprimendo un fine da raggiungere, è semanticamente contigua a quelle che esprimono azione futu
{p. 112}
ra. Analogamente, dato il primario senso deontico, si avevano usi ridondanti quando, in dipendenza da
verbi esprimenti volontà, preghiera, consiglio e simili, dovere indicava la situazione prodotta da quella
volontà, preghiera ecc.[67]: al famiglio segretamente impose che, come in parte fosse con la donna che
miglior gli paresse, senza niuna misericordia la dovesse uccidere II 9 34, pregolla che essa dovesse esser
contenta del suo amore VIII 4 6 (ridondanza ancor più laboriosa nella formula dover piacere, per esempio
in pregassersi che dovesse lor piacere in così fatta andata lor tener compagnia I Intr. 86), più volte il
pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire V 8 9, persuadette loro che con grandissima
reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere I 1 83, non so quale idio dentro mi stimola e
infesta a doverti il mio peccato manifestare X 8 105.
Anche di volere c’è un uso ridondante dopo espressioni indicanti deliberazione, accordo, desiderio e simili,
quasi a ribadirne analiticamente l’intenzionalità: poi pensò di volere tenere in ciò altra maniera I 4 7,
disiderosa di volerlo più accendere e certificare dell’amore che ella gli portava III 3 22, insieme
diliberrebbono se andar vi volessono e come IV 9 9. In parallelo con potere il contenuto di una finale o di
dipendente da espressioni indicanti consenso o impedimento viene analiticamente designato come
possibilità o meno di eseguire una certa azione: niun termine è sì lungo che mi bastasse a pienamente
potervi ringraziare come io vorrei III 5 23, gli licenziò di potersi tornare a Genova al loro piacere II 9 74, è
molto malagevole ad una donna il poter trovar mille fiorin d’oro VIII 10 51 e così pure in espressioni finali.
Mentre non compare il vero e proprio passivo con venire, è molto frequente nel Decameron la perifrasi
formata da dativo + venire + part. pass. passivo che esprime per lo più un avvenimento casuale o
improvviso[68]. Della sessantina di esempi reperibili, più della metà presenta venir fatto, cioè ‘riuscire’: si
pensò leggiermente doverle il suo disidero venir fatto II 8 8, E
{p. 113}
quello gli venne fatto, per ciò che II 10 6, Se quivi ti dà il cuor di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi
verrà di dormirvi V 4 13 ecc.; speculare semanticamente è fallire in se fallito non ci viene, per mio avviso
tu albergherai pur male II 2 11. Con altri verbi: gli venne veduta una giovinetta assai bella I 4 5, per
avventura gli venne trovato un buono uomo, assai più ricco di denar che di senno, al quale [...] era

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venuto detto un dì a una sua brigata I 6 5, se veduto le venisse un giovanetto V 10 24, spesse volte mi
vien presa l’una per l’altra VI 10 49, Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il
piè sopra una tavola II 5 38. Entro questa parziale esemplificazione si noti la convivenza di forme
perifrastiche dotate di valore perfettivo (venne fatto ecc.) con altre dove tale valore aspettuale è debole o
nullo (venir fatto, fatto mi verrà, spesse volte mi vien presa, era venuto detto, veduto le venisse): la
lingua del Decameron ben rappresenta dunque una fase di transizione verso la progressiva «obliterazione
del significato originario della perifrasi e il passaggio di questa ad una funzione di espressione del
passivo»[69].
Analogo declino di una funzione aspettuale si verifica verso la fine del Trecento col diradarsi del trapassato
remoto in proposizione principale, ma non mancano esempi decameroniani in cui al valore perfettivo si
somma l’idea di subitaneità dell’azione: e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il
cattivel d’Andreuccio II 5 58, gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non aveva potuti spezzare, li quali
costui che fortissimo era, in poca d’ora ebbe tutti spezzati III 1 14, sì come colui che leggerissimo era,
prese un salto e fusi gittato dall’altra parte VI 9 12. Il trapassato remoto si usava «quando si voleva
particolarmente non insistere sulla durata dell’azione stessa ed eliminare ogni possibile valore durativo,
per esprimere un’azione passata, immediatamente giunta al suo termine»[70].
{p. 114}
Andare e venire accompagnati dal gerundio mantengono per lo più il senso proprio di verbi di movimento
e perciò si possono accompagnare molto liberamente: una giovinetta assai bella [...] la quale andava per
li campi certe erbe cogliendo I 4 5, due cavriuoli, li quali già grandicelli pascendo andavano II 6 19,
passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo II 6 42; spesso sono anche
impiegati in funzione di ausiliari aspettuali[71], e quindi la perifrasi progressiva è trattata quale sintagma
verbale unico, come risulta dagli esempi in cui a andare / venire è cliticizzato il pronome atono: per lungo
spazio diportando s’andarono II Intr. 2, molto per ogni caverna gli andò cercando II 6 12, gli andò dicendo
II 6 41 e parallelamente mi verrete sostenendo II 1 10, cominciò [...] così tutto a venirsi distendendo II 1
13. Il che fornisce un buon test per dirimere alcuni casi di ambiguità interpretativa tra senso aspettuale e
senso lessicale: Poi che Filostrato ragionando in Romagna è intrato, a me per quella similmente gioverà
d’andare alquanto spaziandomi col mio novellare V 5 3 sarà dunque da intendere, sia pure
metaforicamente (col mio novellare), come ‘muovermi in lungo e in largo’; viceversa in cominciò a
piagnere e ad andarla or qua e or là per la selva chiamando V 3 15 prevale la rappresentazione
progressiva della ‘cominciata’ azione di ‘chiamare’. Anche col più raro venire in su per lo Mugnone infino
alla porta a San Gallo il vennero lapidando VIII 3 48 siamo di fronte (nonostante la forma perfettiva del
verbo reggente) ad una perifrasi continuativa-terminativa, ed è questa l’unica interpretazione linguistica
pertinente al contesto diegetico dove è centrale non il fatto che Bruno e Buffalmacco
{p. 115}
arrivarono alla porta, ma il fatto che continuarono fin lì a lapidare il povero Calandrino.
Come mostra bene il passo già citato II 1 13, la gradualità è il tipico tratto semantico associato a tali
costruzioni, e si manifesta sia, in quel passo, al livello contestuale, sia al livello lessicale in non suole esser
usanza che, andando verso la state, le notti si vadan rinfrescando V 4 19, venne crescendo e in anni e in
persona e in bellezza II 8 37, e venendo più crescendo l’età, l’usanza si convertì in amore IV 8 6. Quanto
ai verbi ammessi nelle perifrasi progressive di andare, oltre ai risultativi, compaiono anche verbi
continuativi (gli andò dicendo II 6 40, gli andò cercando II 6 12, andava cercando II 8 91, dando andava
per un suo maestro lanaiuolo lana a filare IV 7 6, acciò che io non vada ogni particular cosa delle sue virtù
raccontando V 1 20, andava guardando donde venissero V 3 12, chi vi vo io annoverando VIII 9 24, a tutti
cominciò ad andar toccando il petto III 2 24, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi
andassomo faccendo VIII 3 35)[72]. Quanto a venire, prevalgono i verbi risultativi, più omogenei ai tratti
semantici originari del verbo reggente: il lavorio si veniva finendo IX 5 42; non mancano anche perifrasi
con continuativi come tutto il venne considerando V 5 6, e in un caso uno stativo[73]: secondo che alla
giovane donna ne venivan piacendo V 10 25.
Se è vero che nell’italiano moderno i costituenti d’una struttura coordinata devono appartenere alla stessa
categoria sintattica e avere la stessa funzione semantica, il Decameron non sembra condividere
rigidamente tale restrizione, come mostra l’esempio seguente: niuna persona, la quale abbia alcun polso e
dove possa andare I Intr. 60. Altre caratteristiche dell’uso antico consistono nel fatto che la coppia di
aggettivi coordinati precedente il sostantivo presenta spesso ripetizione dell’articolo o della
preposizione[74]: un grande e un bel testo IV
{p. 116}
5 17, in grande e in sicuro riposo I 3 4, con bella e con gran gente II 7 63 (accanto ai tipi in grande e
buono stato II 6 78 e con una sua donna valorosa e santa II 6 18). Notevole, tra sintassi e scelta stilistica,
è l’incorniciatura: un grande uomo e ricco I 3 11, presto parlatore e ornato I 7 7, il molto parlare e lungo I
10 4, la quale lui e sollazzevole uomo e festevole conoscea I Concl. 14, li santi luoghi e reverendi II 3 40,
mio padre e tuo II 5 19, gravi cose e noiose II 6 3, buon vento e fresco II 7 36, eventualmente con
preposizione in con belli motti e leggiadri I 8 8, di santissima vita e di buona II 1 3. Anche in strutture più
complesse i due tipi d’ordine coesistono: era il più leggiadro e il più dilicato cavaliere II 8 6, erano i più
belli e i più vezzosi fanciulli del mondo II 8 78, accanto a la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa II 6

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15, la più bella figliuola e la più onesta e la più valorosa II 7 118, un valente uomo di corte e costumato e
ben parlante I 8 7, in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama I 10 9, nonché una bella e
grande e poderosa oste II 7 62[75].
Fenomeno ben noto all’antica sintassi è la cosiddetta paraipotassi. Distinguendo a seconda del tipo di
protasi[76], essa si manifesta dopo 1) protasi gerundiva o participiale: Essendo dunque già venuta l’ultima
vivanda, e il romor disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato a udire V 8 37, uscito il marito
d’una parte della casa, e ella uscì dall’altra IX 7 11; 2) temporale: e quando tu ci avesti messi in galea
senza biscotto, e tu te ne venisti VIII 6 54; 3) ipotetica: se voi non gli avete, e voi andate per essi VIII 2
30; 4) causale: Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò I 1 39; 5) comparativa: per ciò che sì
come i corsari tolgono la roba d’ogni uomo, e così facciam noi VIII 9 29.
La subordinazione presenta aspetti vari e complessi di cui si potrà avere un’idea molto parziale passando
brevemente in rassegna soltanto alcuni usi della congiunzione che e del pronome relativo[77]. Si va da
regolari frasi oggettive o soggettive
{p. 117}
all’uso di che + infinito in Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali,
così in sé e fuor di sé esser piene di noia I 1 3 e all’uso di che + discorso diretto in Per che così vi vo’ dire,
donne mie care, che chi te la fa, fagliele V 10 64. Tra questi estremi si collocano: che ‘quanto al fatto che’
in E che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera II 9 30[78], che con valore finale in
Non mollò mai che egli divenne amico di Buffalmacco VIII 9 61[79]. Ben documentata è anche l’ellissi di che
congiunzione: si dee creder ve la facesser tornare I 4 22, nonché, per il relativo, invidia per tali vi furono
VII Concl. 15[80]. Interessante, ma spesso difficile da identificare,
{p. 118}
è la paraipotassi relativa, cioè l’estensione oltre i limiti originari del modulo latino del relativo paratattico,
con una fortuna «legata a tempi ed ambienti, in cui si andava sviluppando la tendenza a far assumere al
periodo volgare una accentuata tensione ipotattica»[81]. Stante la frequente necessità di mettere a
confronto diverse interpretazioni con le connesse diverse soluzioni editoriali (da Mussafia a Branca a
Ghinassi), basterà citare soltanto due casi pacifici: E così detto, volle saper chi fosse; e trovato che era
Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenza quello che n’aveva udito, il quale avendo l’abate
per fama molto tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò I 7 25, e poco appresso, levatasi
la luna e ’l tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro ardire d’adormentarsi per non cadere, come
che, perché pure agio avuto n’avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l’avrebber
lasciato, per che egli, sospirando e piangendo e seco la sua disaventura maladicendo, vegghiava V 3 19 (è
stato eliminato il punto e virgola posto da Branca prima di per che).
Le interrogative indirette e le dubitative sono in generale distinte dall’uso del modo finito nelle prime (né
ne perdé altro che un paio di cintolini de’ quali non sapevano i masnadieri che fatto se n’avessero II 2 41),
infinito nelle seconde, dove è anche notevole la forma riflessiva dell’infinito in dipendenza da non sapere e
simili: Rinaldo [...] non sappiendo che farsi III 2 15, Il frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del
mondo e non sapeva che dirsi III 3 42, in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che
partito di te mi pigliare IV 1 27, uno di loro, non sappiendo altro che farsi, gittò la sua lancia nel fieno V 3
35, ma di te sallo Idio che io non so che farmi IV 1 28, e non sapeva che dirsi III 3 42, non sapeva che si
rispondere IX 2 14 ecc.; di rado con sovraordinata affermativa: spezialmente la donna, che sapeva a cui
farlosi III 7 81, Di Guiscardo [...] ho io già meco preso partito che farne IV 1 28.
Non mancano tuttavia anche interrogative indirette (e relative) all’infinito per continuazione e
ampliamento del tipo
{p. 119}
già bassolatino nihil habeo quod + infinito[82]: si va da sì che l’anima tua non abbia in vecchiezza che
rimproverare alle carni V 10 19, tu non t’avrai che ramaricare V 10 61, niuna cosa trovandosi di che
potere onorar la donna V 9 24, al tipo non è chi + infinito in qui è questa cena e non saria chi mangiarla II
2 25 (ed anche, purché sia negativo il senso generale, e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti
udiremmo I Intr. 58)[83].
Basti accennare, molto cursoriamente, a subordinazioni latineggianti come venutagli alle mani una tavola,
a quella s’apiccò, se forse Idio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto II 4 18 (lat. si forte),
sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le ’nsegnasse II 10 10[84]; nonché al tipo ‘temo non’,
‘dubito non’ in temendo di non peccare I 1 37, temendo non quella cassa forse il percotesse II 4 19,
dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse I 1 78, dubitò non forse l’abate [...] si movesse II 3 30.

Note
[1] G. Auzzas, I codici autografi. Elenco e bibliografia, in «Studi sul Boccaccio», VII, 1973, pp. 1-20 e E. Lippi, Giovanni
Boccaccio, in Storia della letteratura italiana. X. La tradizione dei testi, coord. da C. Ciociola, Roma, Salerno Editrice,
2001, pp. 331-357.
[2] Sulla scrittura di Boccaccio si vedano almeno V. Branca - P.G. Ricci, Un autografo del Decameron (Codice Hamiltoniano
90), Padova, Cedam, 1962, A. Petrucci, Il ms. berlinese hamiltoniano 90. Note codicologiche e paleografiche, in G.
Boccaccio, Decameron, edizione diplomatico-interpretativa dell’autografo Hamilton 90 a c. di Ch.S. Singleton, Baltimore
and London, The Johns Hopkins University Press, 1974, pp. 643-661, A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura

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italiana. II. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 499-524: 514-516; per gli usi grafici, E. Corradino, Rilievi
grafici sui volgari autografi di Giovanni Boccaccio, in «Studi di grammatica italiana», XVI, 1996, pp. 5-74.
[3] G. Boccaccio, Teseida delle nozze di Emilia, a c. di A. Limentani, Milano, Mondadori, 1964, pp. 229-664 e 872-899.
[4] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, a c. di P.G. Ricci, Milano, Mondadori, 1974, pp. 423-538 e 848-911.
[5] G. Boccaccio, Argomenti e rubriche dantesche, a c. di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1992, pp. 145-192 e 205.
[6] G. Boccaccio, Lettere, a c. di G. Auzzas, Milano, Mondadori, 1992, pp. 857-878.
[7] G. Boccaccio, Decameron. Facsimile dell’autografo conservato nel codice Hamilton 90 della Staatsbibliothek
Preussischer Kulturbesitz di Berlino, a c. di V. Branca, Firenze, F.lli Alinari, 1975 e G. Boccaccio, Decameron, edizione
critica secondo l’autografo hamiltoniano a c. di V. Branca, Accademia della Crusca, Firenze, 1976 (da usare con cautela,
perché macchiata da «centinaia di errori di stampa»: così lo stesso V. Branca, Il capolavoro del Boccaccio e due diverse
redazioni. II. Variazioni narrative e stilistiche, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002, p. 6). Per
completezza si può anche ricordare che Boccaccio conclude le epistole autografe prima e seconda citando un suo verso
volgare (una volta è conservato, un’altra abraso tranne la parola iniziale): cfr. G. Boccaccio, Rime, a c. di V. Branca,
Milano, Mondadori, 1992, pp. 57 e 240-241.
[8] G. Boccaccio, Decameron, edizione critica secondo l’autografo hamiltoniano cit., p. XXIX.
[9] V. Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 19866, pp. 358-377 e A. Stussi,
Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 129-144.
[10] «Nel Decameron il linguaggio popolare si adatta e sottostà a quello aulico: il Boccaccio introduce nel tessuto del suo
stile, senza deformarlo, l’espressione popolare, con particolari scopi umoristici o di colore ambientale, simile
all’aristocratico che a tratti si diverte a fare il verso al volgo»: così C. Segre, Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli,
19742, p. 341.
[11] F. Brambilla Ageno, Errori d’autore nel «Decameron»?, in «Studi sul Boccaccio», VIII, 1974, pp. 127-136 e Ead.,
Ancora sugli errori d’autore nel «Decameron», in «Studi sul Boccaccio», XII, 1980, pp. 71-93.
[12] Mi servo di G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992 («Einaudi Tascabili. Classici»). Nella
«nuova edizione rivista e aggiornata» del 2003 è registrato questo mio saggio uscito nel frattempo (p. LXXXIII), e sono
inseriti nel testo i ritocchi proposti alle note 43 e 46, non quelli altrettanto sicuri delle note 53, 54, 58.
[13] In linea di massima non si terrà conto nemmeno delle ballate che richiedono un discorso a sé stante, come mostra,
tanto per fare un esempio, la presenza lì soltanto di forme senza dittongo come cor e core (cfr. rispettivamente IV Concl.
16, V Concl. 17, IX Concl. 10, X 7 20 e 22; IV Concl. 11 e 14, VIII Concl. 10, X 7 22), trovo VII Concl. 12, trovi VII Concl.
13 ecc.; di virtute IV Concl. 12, X Concl. 11 ecc. Sulla distinzione linguistica tra parte in prosa e parti in versi nel
Decameron si sofferma V. Coletti, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, pp. 74-82.
[14] A proposito di una particolarità dell’ordine dei pronomi atoni A. Lombard, Le groupement des pronoms personnels
régimes atones en italien, in «Studier Modern Språkvetenskap», XII, 1934, pp. 19-76: 30, aveva pensato, senza
fondamento, che si potesse trattare d’un certaldismo. Niente di specifico risulta da Paolo di messer Pace da Certaldo, il cui
autografo Libro «tutto fiorentino è, nella parola e nello spirito»: Il libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da
Certaldo, a c. di S. Morpurgo, Firenze, Le Monnier, 1921 (anche in «Atti della R. Accademia della Crusca per la lingua
italiana», a.a. 1919-1920, pp. I-CXCVIII).
[15] A. Castellani, Introduzione a Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze, Sansoni, 1952, P. Manni, Ricerche sui tratti
fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, in «Studi di grammatica italiana», VIII, 1979, pp. 115-171.
[16] P. Bembo, Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Torino, UTET, 19662, pp. 215-216.
[17] A. Mussafia, Osservazioni, a proposito di Il Decameron di messer Giovanni Boccacci, riscontrato ecc. da P. Fanfani,
Firenze, Le Monnier, 1857, in «Rivista ginnasiale», IV, 1857, pp. 733-766 e 857-908, rist. in A. Mussafia, Scritti di filologia
e linguistica, Padova, Antenore, 1983, pp. 1-94 (da cui si cita).
[18] B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 207-210: e ciò non si spiega soltanto con la
prevalente attenzione dell’autore agli «istituti della lingua [...] considerando essi istituti e non gli individui parlanti o
scriventi come il filone principale della trattazione», ivi, pp. VII-VIII della premessa. Più spazio dedica al Decameron L.
Serianni, La prosa, in Storia della lingua italiana. I. I luoghi della codificazione, a c. di L. Serianni e P. Trifone, Torino,
Einaudi, 1993, pp. 451-577: 472-475.
[19] Si aggiungano le recenti ampie disamine di M. Vitale, Il capolavoro del Boccaccio e due diverse redazioni. I. La
riscrittura del “Decameron”. I mutamenti linguistici, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002 e di P.
Manni, Storia della lingua italiana. Il Trecento toscano, Bologna, il Mulino, 2003. Fondamentale, e già fruibile grazie ai
numerosi «Capitoli» anticipati in rivista, A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana. I. Introduzione, Bologna, il
Mulino, 2000.
[20] Per ragioni di capienza, saranno presi in considerazione solo pochi fenomeni significativi, corredandoli d’una
esemplificazione molto ridotta. Inoltre, di occorrenze numerose, è indicata solo la prima e poi il totale (t.): s’intende che
nel caso di fenomeni sintattici tale totale si riferisce al tipo rappresentato dall’esempio citato. Per lo spoglio del
Decameron sono state ancora utili le concordanze di A. Barbina, Concordanze del “Decameron”, Firenze, Giunti-Barbèra,
1969 rapportate ovviamente all’edizione citata alla nota 12; preziosi, da ultimo, le verifiche e gli accertamenti quantitativi
effettuati grazie a LIZ 2.0. Letteratura Italiana Zanichelli. CD-ROM dei testi della letteratura italiana, a c. di P. Stoppelli ed
E. Picchi, Bologna, Zanichelli, 1995.
[21] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 72-78.
[22] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 131-139.
[23] Proprio durante tale arco di tempo, in rapporto a una nuova situazione demografica, cambia significativamente la
fisionomia del fiorentino: cfr. M. Palermo, Sull’evoluzione del fiorentino nel Tre-Quattrocento, in «Nuovi Annali della
Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», 8-10, 1990-1992, pp. 131-156.
[24] Si tratta di «un’evoluzione vocalica particolare (i, u toniche in luogo di ẹ, ọ) dovuta all’influsso del consonantismo
seguente [...] a) Si ha i tonica invece di ẹ dinanzi a l’l’, n’n’ provenienti rispettivamente da LJ (*LLJ) e NJ (*NNJ). b) Si ha
i tonica invece di ẹ, e così pure u tonica invece di ọ, quando segue o seguiva una n velare. Tuttavia nella formula -onk-
compare di norma ọ, non u»: così A. Castellani, Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946-1976), Roma,
Salerno Editrice, 1980, I, p. 73 e cfr. Id., Capitoli d’un’introduzione alla grammatica storica italiana. V: le varietà toscane
nel Medioevo, in «Studi linguistici italiani», XVIII, 1992, pp. 72-118: 91-115.
[25] Sulla probabile sincronia, tra Cinque e Seicento, della riduzione del tipo brieve a breve e della trasformazione di
ciriegia in ciliegia, cfr. A. Castellani, Saggi cit., II, pp. 12-15.
[26] A. Castellani, Glossario a Nuovi testi cit., p. 868, s.v. figliolo e in generale A. Ventigenovi (= A. Castellani), Il
monottongamento di ‘uo’ a Firenze, in «Studi linguistici italiani», XIX, 1993, pp. 170-212.
[27] Si aggiunga lugo IX 1 11, IX 1 25, e giuco VIII 8 25, IX 9 26, oltre a giucare in posizione atona e uno umo I 10 12,
III 1 11 che può dipendere da assimilazione in sequenza. Si tratta, a Firenze e nella Toscana occidentale, di «esempi
occasionali» d’un fenomeno che è invece più frequente nell’aretino-cortonese, nel senese e nel sangimignanese, cfr. A.
Castellani, Saggi cit., I, p. 336 nota 13 (e sempre prevale uò > ù su iè > ì).

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[28] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 124-125, O. Castellani Pollidori, Lieva – leva, in «Studi linguistici italiani», II,
1961, pp. 167-168, A. Castellani, Capitoli cit., p. 74 nota 69.
[29] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 53-57.
[30] A. Castellani, Introduzione cit., p. 868.
[31] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 57-66.
[32] A. Castellani, Introduzione cit., pp. 66-68.
[33] A. Castellani, Saggi cit., I, pp. 254-279.
[34] Cfr. A. Castellani, Saggi cit., I, pp. 213-221, con sostanziali precisazioni e rettifiche rispetto a J. Jud, Problèmes de
géographie linguistique romane: III. – S’eveiller dans les langues romanes, in «Revue de linguistique romane», II, 1926,
pp. 163-207, nonché la spiegazione del successivo diffondersi del tipo vegliare.
[35] Per l’evoluzione autoctona di MOLINARIUS a *MOLNARIUS, cfr. A. Castellani, Saggi cit., II, pp. 16-20.
[36] G. Contini, Letteratura italiana delle Origini, Firenze, Sansoni, 1970, p. 729 nota 15.
[37] Secondo A. Castellani, Introduzione cit., p. 144, si ha «uso sempre più raro di -eo, -io nelle generazioni nate dopo la
metà del sec. XIII. Le generazioni nate dopo la fine del secolo conoscono soltanto -é, -ì (e -ette)» che sono infatti i tipi
dominanti nel Decameron. In particolare si noti che -é e -ette sono distribuiti in modo complementare: abbatté II 2 4 t.
3, bevé IV 10 13 t. 3, combatté II 7 79, VI 10 45, compié V 1 20, dové IV 1 33, empié VIII 3 40 (due volte), impié VI 2
27, godé VIII 1 18, perdé II 2 41 t. 6, poté I 1 89 t. 77, rendé II 2 31 t. 6, riempié V 1 37, V 8 38, tondé III 2 27, vendé
VIII 10 26; concedette II 8 35 t. 5, credette II 2 33 t. 16 e credettelo IX 10 12, persuadette I 1 83, procedette III 1 42,
VIII 7 14, ricevette I 1 89 t. 27, ristette II 8 46 t. 8, soprastette IV 7 21, V 2 42, temette I 7 14 t. 3.
[38] Per la genesi e lo sviluppo del fenomeno nel toscano antico cfr. A. Schiaffini, Introduzione a Testi fiorentini del
Dugento e dei primi del Trecento, Firenze, Sansoni, 1926, pp. XIV-XXIV, G. Nencioni, Un caso di polimorfia della lingua
letteraria dal secolo XIII al XIV, in «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», XVIII,
1953, pp. 211-259 e XIX, 1954, pp. 137-269, rist. in Id., Saggi di lingua antica e moderna, Torino, Rosenberg & Sellier,
1989, pp. 11-188 (da cui si cita): 38-43, e soprattutto A. Castellani, Introduzione cit., pp. 146-156, il quale scrive: «tipo
normale del sec. XIV: -arono, -erono, -ero e -ono, -irono, furono» (p. 150).
[39] furo II 6 69 è in citazione dantesca (Purg. VII 2).
[40] Ben presente anche saria I Intr. 47 t. 11 e inoltre: avria III Intr. 9, parleria II 5 10, troveria I 7 14; solo nelle ballate
poria I Concl. 20.
[41] Sarebbe il caso della relazione concessiva, secondo l’interessante tesi di W. Pötters, Negierte Implikation im
Italienischen. Theorie und Beschreibung des sprachlichen Ausdrucks der Konzessivität auf der Grundlage der
Prosasprache des Decameron, Tübingen, Niemeyer, 1992. Più in generale basti ricordare vari studi finora prodotti, da A.
Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma, Edizioni di “Storia
e Letteratura”, 19432 a F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 347-404.
[42] I dati quantitativi desunti da A. Mura Porcu, La legge di Tobler-Mussafia nel Decameron, in «Lingua e Stile», XII,
1977, pp. 229-245: 231 nota 8, si riferiscono a tutto il testo, comprese le parti non autografe rimpiazzate con ricorso al
codice Mannelli: essi sono dunque approssimati per eccesso, presumibilmente in modo uniforme. Cfr. in generale anche A.
Schiaffini, Annotazioni linguistiche, in Testi fiorentini cit., pp. 275-283 (con particolare riferimento al fiorentino), L.
Sorrento, Sintassi romanza, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino, 1950, pp. 141-201, A. Marcantonio, Alcune
considerazioni sulla legge Tobler-Mussafia, in Problemi di analisi linguistica, a c. di P. Berrettoni, Roma, Cadmo, 1980, pp.
145-166, G. Patota, Ricerche sull’imperativo con pronome atono, in «Studi linguistici italiani», X, 1984, pp. 173-246, A.
Rollo, Considerazioni sulla legge Tobler-Mussafia, in «Studi di grammatica italiana», XV, 1993, pp. 5-33. Una stimolante
rivisitazione è proposta da G. Salvi, La formazione della struttura di frase romanza. Ordine delle parole e clitici dal latino
alle lingue romanze antiche, Tübingen, Niemeyer, 2004.
[43] In A. Mura Porcu, La legge di Tobler-Mussafia cit., p. 235 è indicato come eccezione Che? il mostrerò per sì fatta
ragione VI 6 11. Stranamente nessun editore ha pensato, ch’io sappia, che l’eccezione non esiste purché si stampi Che? i’
’l mostrerò ecc. (si veda tuttavia la nota 12). Allo stesso risultato in altro modo approda A. Rollo, Considerazioni cit., p. 9.
[44] F. Benucci, ‘Ristrutturazione’, ‘destrutturazione’ e classificazione delle lingue romanze, in «Medioevo romanzo», IV,
1989, pp. 305-337 e, per le condizioni moderne, L. Rizzi, Issues in Italian Syntax, Dordrecht, Foris, 1982, pp. 1-48.
[45] Quindi anche io gli credo per sì fatta maniera riscaldar gli orecchi III 3 30 dove ‘credere’ vale ‘intendere’ / ‘volere’.
[46] Un isolato avervi dovesse I 5 14 sarà dunque un refuso da correggere in aver vi dovesse (si veda infatti la nota 12).
Cfr. tutto ciò che aver vi doveano II 3 47.
[47] Questo passo è oggetto d’una delle più acute analisi di A. Mussafia Osservazioni cit., pp. 11-13.
[48] L’eccezione costituita da e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo VII 9 13, per quanto in parte non
autografa, merita d’essere ricordata, sia perché se ne possono trovare altre nell’italiano antico, sia perché essa è
probabilmente da collegare a certi aspetti della coordinazione tra causative. Qui infatti, accanto a prestamente la fece
vestire e calzare, e sopra i suoi capelli, così scarmigliati come erano, le fece mettere una corona X 10 19, si ha amenduni
gli fece pigliare a tre suoi servidori e a un suo castello legati menargliene II 6 38, e addirittura non lo lasciai uccidere né
fargli alcun male V 10 41 ecc. Ma anche su questo argomento tornerò in altra sede.
[49] La questione delle restrizioni e della loro eventuale evoluzione diacronica merita una più approfondita indagine.
Intanto si vedano almeno, oltre alla breve sintesi di G. Salvi, Proposizioni infinitive complemento di un verbo, in Grande
grammatica italiana di consultazione, a c. di L. Renzi e G. Salvi, Bologna, il Mulino, II, 1991, pp. 497-538, le acute analisi
relative al francese di R.S. Kayne, Syntaxe du français, Paris, Seuil, 1977, pp. 196-319 e lo studio comparativo di M.T.
Guasti, Causative and Perception Verbs. A Comparative Study, Torino, Rosenberg & Sellier, 1993; dal punto di vista della
genesi storica, oltre al classico D. Norberg, Au seuil du Moyen Âge. Études linguistiques, métriques et littéraires, Padova,
Antenore, 1974, pp. 17-60, soprattutto F. Brambilla Ageno, Aspetti della storia della lingua: la trasmissione dei moduli
sintattici e le loro modificazioni attraverso il tempo, in «Studi di grammatica italiana», VII, 1978, pp. 353-373: 353-354,
371-372 e C. Robustelli, Indagine diacronica sul costrutto latino FACIO + INFINITO, in «Studi e Saggi linguistici», XXXIII,
1993, pp. 191-201.
[50] C. Robustelli, Alcune osservazioni sulla sintassi del costrutto causativo FARE + INFINITO nell’italiano dei primi secoli,
in «The Italianist», 12, 1992, pp. 83-116, approfondendo F. Brambilla Ageno, Il verbo nell’italiano antico, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1964, p. 240, sottolinea il peso determinante che avrebbe avuto nell’italiano antico la reinterpretazione passiva
del costrutto causativo e vede nel Decameron la prima insorgenza dell’agentivo come concorrente del dativo. Cfr. anche
C. Robustelli, La sintassi dei verbi percettivi vedere e sentire nell’italiano antico, in «Studi di grammatica italiana», XIX,
2000, pp. 5-40.
[51] L’ordinamento segue sostanzialmente A. Castellani, Introduzione cit., pp. 79-105, che sviluppa J. Melander, L’origine
de l’italien me ne, me lo, te la, etc., in «Studia Neophilologica», II, 1929, pp. 169-203 e A. Lombard, Le groupement cit.
Il nesso con l’enclisi secondo la legge di Tobler e Mussafia è discusso da F. Antinucci - A. Marcantonio, I meccanismi del
mutamento diacronico: il cambiamento d’ordine dei pronomi clitici in italiano, in «Rivista di grammatica generativa», 5,
1980, pp. 3-50.
[52] A. Castellani, Introduzione cit., p. 86.
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[53] Arrigo Castellani mi segnala che il passo ché gli ne potrebbe troppo di mal seguire III 3 30 è da stampare piuttosto
ch’egli ne potrebbe ecc., eliminando quindi un’apparente eccezione alla presenza costante di ne gli in proclisi. L’altra
eccezione, glien VI Concl. 45, è nella ballata.
[54] L’intero passo è un esempio di coesistenza delle due sequenze: Ora, se questa è bella cosa e è da sofferire, vedetelvi
voi: io per me non intendo di più comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe III 3 41.
Ovviamente non tengo conto di lasciargliene II 9 55, cui P. Stoppelli ed E. Picchi, LIZ 2.0 cit. (e successive versioni)
hanno ricondotto lasciarglielne dell’autografo: cfr. nota 58. Escludo anche menargliene nel passo Il quale, doloroso oltre
modo questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a tre suoi servidori e a un suo
castello legati menargliene II 6 38, dove, come consente la coordinazione tra causative, si tratta di ILLOS INDE (cfr. il
gruppo seguente), piuttosto che di ‘menarglieli’ suggerito in G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Torino, Einaudi,
1992, p. 211 nota 3.
[55] J. Melander, L’origine cit., p. 181.
[56] «Sebbene si possa ammettere l’esistenza di tali forme già nel sec. XIV, non se ne hanno esempi sicuri fino al
Quattrocento»: A. Castellani, Introduzione cit., p. 89 e nota 1. Un esempio di gliela con l’accusativo variabile è stato poi
trovato, come mi segnala Castellani, in Agnolo Torini (1315 circa-1398): I. Hijmans-Tromp, Vita e opere di Agnolo Torini,
Leiden, Universitaire Pers Leiden, 1957, p. 197.
[57] A. Castellani, Introduzione cit., p. 94.
[58] Nel passo conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò di non lasciarglielne portare impunità II 9
55 quella successione di tre clitici (hanc illi inde) non ha senso; ne ha purché si legga non impunità, ma impunita,
concordato col pronome femminile in funzione di ‘neutro’ (del tipo Bene ascolta chi la nota di Inf. XV 99).
[59] Cfr. P. D’Achille, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo
XVIII, Roma, Bonacci, 1990, donde attingo parte degli esempi. Uno studio specifico meriterebbe la varia fenomenologia
dei discorsi diretti all’interno delle novelle, le quali, a loro volta, figurano come dette dai narratori; cfr. intanto almeno G.
Held, Zur Variation der Eröffnungsformen. Beobachtungen am Beispiel der Aufforderungen in der direkten Reden vom
Boccaccios Decamerone, in Varietätenlinguistik des Italienischen, hrsg. von G. Holtus - E. Radtke, Tübingen, Narr, 1983,
pp. 195-210, P. Blumenthal, Elaborierte und restringierte Personensprache in Boccaccios Decameron, in Gesprochenes
Italienisch in Geschichte und Gegenwart, hrsg. von G. Holtus - E. Radtke, Tübingen, Narr, 1985, pp. 330-339, e, in
generale, E. Testa, Simulazione del parlato, Firenze, Accademia della Crusca, 1991.
[60] Come esempi di topicalizzazione, mentre VIII 3 59 ha qualche riscontro nell’italiano moderno, non ne hanno VIII 7
39 e tanto meno III 3 20: è infatti (diventata?) impossibile la topicalizzazione all’esterno d’un complementatore.
[61] Piuttosto che la dislocazione, tali costrutti ricordano il cosiddetto tema sospeso, cfr. L. Vanelli, Strutture tematiche in
italiano antico, in Tema-Rema in Italiano, a c. di H. Stammerjohann, Tübingen, Narr, 1986, pp. 249-274: 263-266; con
riferimento a I 3 6, condivide questa interpretazione V. Egerland, Sulla sintassi delle costruzioni assolute participiali e
gerundive nell’italiano antico ed il concetto di anacoluto, in «Revue Romane», 34, 1999, pp. 181-204: 183. Qui con
ragione l’autore mostra come spesso presunti anacoluti siano invece costrutti regolari, purché si avverta che la sintassi
antica ha molte regole diverse da quella attuale; un interessante esempio di razionalizzazione d’un presunto «garbuglio»
(Fornaciari) è offerto da L. Serianni, Noterella sintattica (Decam., Intr. 41), in «Letteratura italiana antica», I, 2000, pp.
189-193.
[62] In generale, sulle frasi assolute introdotte da il quale e forme declinate nell’italiano antico, spunti interessanti si
trovano in V. Egerland, Sulla sintassi cit., pp. 194-198.
[63] F. Brambilla Ageno, Il verbo cit., pp. 451-452.
[64] Fondamentale, nel complesso, F. Brambilla Ageno, Il verbo cit., pp. 432-467.
[65] Altrimenti il futuro del passato si esprimeva col condizionale semplice: s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor
bere del suo buon vin bianco VI 2 10: cfr. F. Brambilla Ageno, Aspetti della storia della lingua cit., pp. 361-363, e M.
Squartini, Riferimento temporale, aspetto e modalità nella diacronia del condizionale italiano, in «Vox Romanica», 58,
1999, pp. 57-82.
[66] F. Brambilla Ageno, Il verbo cit., p. 434.
[67] F. Brambilla Ageno, Il verbo cit., pp. 439-447.
[68] R. Kontzi, Der Ausdruck der Passividee im älteren Italienischen, Tübingen, Niemeyer, 1958, pp. 32-51, M. Bertuccelli
Papi, Studi sulla diatesi passiva in testi italiani antichi, Pisa, Pacini, 1980, pp. 60-89 e soprattutto F. Brambilla Ageno,
Aspetti della storia della lingua cit., pp. 369-372.
[69] F. Brambilla Ageno, Aspetti della storia della lingua cit., p. 371.
[70] R. Ambrosini, L’uso dei tempi storici nell’italiano antico, in «L’Italia dialettale», XXIV, 1961, pp. 13-124: 38. Per il
valore, in generale, del trapassato remoto, vale quanto scrive lo stesso Ambrosini commentando il passo decameroniano
né poté ella, poi che veduto l’ebbe, appena dire «Domine, aiutami!» che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala forte
la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto IX 7 12: «in questo esempio tra le si fu avventato e la
cominciò a portar via non si osserva notevole differenza di tempo – tale, almeno, da giustificare una differenza formale –,
bensì una differenza di aspetto, che sottolinea la rapidità con cui il lupo si avventa alla gola dell’infelice: tanto cominciare
quanto avventarsi indicano genericamente un’azione incipiente, ma il trapassato remoto viene impiegato proprio nella
parte della frase con cui più si accentua l’immediatezza di un’azione e, insieme, la si contrappone ad un’altra ugualmente
momentanea, né poté ella, poi che veduto l’ebbe, appena dire» (pp. 34-35).
[71] Nel Decameron risulta prevalente la perifrasi con andare (116 volte) rispetto a quella con venire (15 volte): cfr. G.
Brianti, Périphrases aspectuelles de l’italien, Berne, Peter Lang, 1992, p. 275, dove, oltre ad un’interessante analisi
dell’uso attuale, c’è una parte dedicata a quello antico (pp. 229-260).
[72] Si noti andassomo qui e a VIII 3 31 (come stessomo VIII 9 22), forma vernacolare caratterizzante.
[73] Il verbo piacere appartiene alla classe lessicale dei verbi inaccusativi (accadere, andare, arrivare ecc.) che
nell’italiano attuale ordinariamente non compaiono nelle perifrasi aspettuali in questione. Cfr. G. Brianti, Périphrases cit.,
pp. 97-139.
[74] Cfr. F. Brambilla Ageno, Studi danteschi, Padova, Antenore, 1990, pp. 133-137.
[75] A un altro aspetto della coordinazione nell’italiano antico accenna la nota 48.
[76] L. Sorrento, Sintassi romanza cit., pp. 25-91, da leggere tenendo conto delle riserve avanzate da G. Ghinassi, Casi
di «paraipotassi relativa» in italiano antico, in «Studi di grammatica italiana», I, 1971, pp. 45-60: 54 nota 1.
[77] Si integri per esempio con M. Ulleland, Nota sulla frase concessiva in italiano (con speciale riferimento alla prosa
boccacciana), in «Studia Neophilologica», 39, 1967, pp. 244-260, R.Ch. Mäder, Le proposizioni temporali in antico
toscano (sec. XIII/XIV), Bern, Herbert Lang & Co SA, 1968, passim e pp. 149-150, D. Cernecca, Note sull’inversione del
soggetto nella prosa del Decameron, in Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, a c. di F. Mazzoni, Firenze,
Olschki, 1978, pp. 351-369, A. Stefinlongo, Le completive nel Decameron. Verbalità del sostantivo, presenza del
determinatore e tipologia delle completive, in «Studi di grammatica italiana», IX, 1980, pp. 221-252, A. Pelo, Per uno
studio delle proposizioni comparative nel Decameron, Pescara, Editrice Trimestre, 1980, M. Dardano, Collegamenti nel
Decameron, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, I, pp. 593-612 (anticipato, col titolo

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Aspetti della coesione testuale nell’italiano antico, in Id., Studi sulla Prosa Antica, Napoli, Morano, 1992, pp. 213-262).
Infine, per il che polivalente, P. D’Achille, Sintassi del parlato cit., pp. 231-232, nonché, in generale, G. Fiorentino,
Relativa debole. Sintassi, uso storia in italiano, Milano, Angeli, 1999.
[78] C. Segre, Lingua, stile e società cit., p. 253.
[79] C. Segre, Lingua, stile e società cit., p. 338.
[80] Data la compresenza di numerose relative del tipo Io non so se Filippello si prese giammai onta dell’amore il quale io
vi portai III 6 14, Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo I 1 6 ecc., emerge
dunque la correlazione per cui, «if a language has both the that-relative and the zero relative, it also has the wh-
relative», come indica anche per il toscano antico V. Bianchi, Consequences of Antisymmetry. Headed Relative Clauses,
Berlin-New York, Mouton de Gruyter, 1999, pp. 237-240, e la conferma del Decameron è utile a fugare i dubbi che
potrebbero sorgere in merito alla pertinenza primotrecentesca della documentazione attinta alla Cronica di Dino
Compagni, cioè a un testo conservato in copia della fine del Quattrocento. Decameroniano (si trasse di seno l’uno de’ tre
pani li quali portati aveva I 7 20), anche se unico, era per altro l’esempio utilizzato da M. Cennamo, Relative clauses, in
The Dialects of Italy, ed. by M. Maiden and M. Parry, London-New York, Routledge, 1997, pp. 190-201: 200. Dati
esaurienti fornisce F. Sestito, Sull’alternanza che/il quale nell’italiano antico, in «Studi di grammatica italiana», XVIII,
1999, pp. 5-30: 16.
[81] G. Ghinassi, Casi di «paraipotassi relativa» cit., p. 58. Cfr. da ultimo M. Marra, La «sintassi mista» nei testi del Due e
Trecento toscano, in «Studi di grammatica italiana», XXII, 2003 [ma 2005], pp. 63-104: 88-93.
[82] F. Brambilla Ageno, Annotazioni sintattiche sul «Decameron», in «Studi sul Boccaccio», II, 1964, pp. 217-233: 220-
223, Ead., Il verbo cit., pp. 400-431.
[83] F. Brambilla Ageno, Aspetti della storia della lingua cit., pp. 366-367.
[84] C. Segre, Lingua, stile e società cit., p. 145.

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