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Documenti

del Laboratorio di Geografia


Università di Siena
In coperta: Filé sur l’autoroute A36,
Thomas Bresson, 2010

I lettori che volessero mettersi in contatto con l’autore,


possono inviare una e-mail a giancarlo.macchi@unisi.it.
www.geografiapostumano.com

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo,


compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la
legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non
danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un
libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmette-
re la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i
mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica com-
mette un furto e opera ai danni della cultura.
Giancarlo Macchi Jánica

GEOGRAFIA DEL POSTUMANO


LINGUAGGIO E SEPARAZIONE
Laboratorio di Geografia,
Università di Siena

Prima edizione 2015

Titolo originale
Geografia del post-umano: linguaggio e separazione

© 2015, Giancarlo Macchi Jánica, independent publishing. I diritti


di memorizzazione, di riproduzione elettronica, di riproduzione e
di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i
microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati.

Printed by CreateSpace
CreateSpace, Charleston SC

ISBN-13: 978-1519771759
ISBN-10: 1519771754
INDICE

Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

I. Osservare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
«Che cosa è la geografia?» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
Tesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
Realtà terrestre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
Relazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Legami e ramificazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
Uomo e ambiente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

II. Occupare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
Etichette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
Adattare e crescere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Hockey sticks . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
Misurare un organismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
Caratteristiche distributive . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63

III. Abitare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
Specializzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
Comunicare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76
La nascita delle città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81
Dimensione urbana e rurale . . . . . . . . . . . . . . . . . 84

IV. Separare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
Retroazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97
Confini naturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104
6 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

V. Nutrire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
Ecosistema, dieta, specie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112
In polvere ritornerai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117
Rivoluzioni verdi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119

VI. Deterritorializzare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127


Post-umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128
Mode . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132
Scomparsa dei confini? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133
Modelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
Viaggiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Nella fila del supermercato . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

Epilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

Riferimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151
GEOGRAFIA DEL POST-UMANO
PRESENTAZIONE
Claudio Greppi

Per chi conosce qualcuno dei lavori precedenti di Giancar-


lo Macchi Jánica questo libro è sicuramente una sorpresa.
I temi trattati finora erano altri, a partire da un lontano
Las bases de datos en la investigación arqueológica, pub-
blicato nel 1999 dalle Ediciones Uninorte a Barranquilla,
in Colombia (quando Macchi era già a Siena): una guida
all’uso coerente e innovativo degli strumenti informatici,
destinata ai ricercatori dell’Universidad del Norte. E di
nuovo nei contributi a «Trame nello spazio. Quaderni di
geografia storica e quantitativa», prodotti dal Laboratorio
di Geografia dell’Università di Siena, il tema degli stru-
menti per la ricerca e della metodologia ricompare fin dal
primo fascicolo, del 2003, con Spatial Analysis Utilities.
Uno strumento per lo studio quantitativo dei sistemi di di-
stribuzione spaziale, preceduto da Ricerca storica e geogra-
fia quantitativa, che si presenta come un breve manuale ad
uso dei ricercatori.
Già, quali ricercatori? Nel frattempo sono cambiati i
termini di riferimento. Proprio l’uso delle nuove tecno-
logie, applicato allo studio delle relazioni spaziali fra i fe-
nomeni, lo porta in quegli anni dalla ricerca archeologica
e quella geografica: prima il territorio era il supporto per
l’analisi dei dati archeologici, ora l’archeologia diventa
uno dei supporti della ricerca geografica. Nel terzo fasci-
colo di «Trame», del 2007, con il saggio Modelli, Modelli
Geografici e Modelli Scientifici, Macchi affronta il tema del
rapporto fra modelli spaziali e scienze sociali in generale,
ma è soprattutto nel volume Geografia dell’incastellamen-
to, il primo della collana di studi regionali Chôrai, sempre
10 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

per il Laboratorio di Siena (All’insegna del Giglio, Firenze


2007), che si compie il passaggio ai temi dell’analisi spa-
ziale e del territorio. Il sottotitolo recita: Analisi spaziale
della maglia dei villaggi fortificati medievali in Toscana (XI-
XIV sec.). Si tratta infatti del risultato di tutto il lavoro
compiuto in precedenza con le tesi di laurea e di dottora-
to in archeologia, riveduto in chiave di ricerca geografica.
Ricordo che il libro era dedicato – e non poteva essere
altrimenti – a Riccardo Francovich, inventore e animatore
dell’archeologia medievale a Siena e in Italia, che proprio
quell’anno era venuto a mancare; era stato Riccardo, dieci
anni prima, a presentarmi Giancarlo Macchi come «uno
che si interessa di geografia», proprio mentre svolgeva le
sue ricerche sui castelli.
La produzione di Macchi in chiave di metodologie
della ricerca culmina con un volume assolutamente ori-
ginale, dal titolo Spazio e misura. Introduzione ai metodi
geografico-quantitativi applicati allo studio dei fenomeni so-
ciali, pubblicato dalle Edizioni dell’Università di Siena nel
2009, in una collana detta «Manuali», che forse non rende
del tutto ragione del contenuto del lavoro. Personalmen-
te sono poco incline a fidarmi dei manuali, che tendono
a semplificare, a ridurre la complessità delle relazioni, e
spesso invecchiano rapidamente. Ma in questo caso la no-
vità consiste nell’abbinare due campi che normalmente
procedono separati, se non in conflitto: quello dei metodi
quantitativi e quello delle scienze sociali. «Questo libro
colma un vuoto, o meglio un diaframma – scrivevo nella
premessa – che continua a tenere lontane le discipline sto-
riche e sociali dai metodi quantitativi». Del resto lo stesso
Macchi osservava in questo testo: «uno degli elementi più
importanti di qualsiasi processo scientifico è lo scambio di
idee e di osservazioni sulla realtà all’interno di una cornice
di riferimento chiara e precisa. A livello epistemologico, la
PRESENTAZIONE 11

costruzione di ‘nuova conoscenza’ si fonda sulla capacità


di una disciplina di comunicare concetti e teorie in modo
semplice, al di là di possibili interpretazioni soggettive».
L’occasione per sperimentare un simile scambio di idee
era stata offerta dal convegno Geografie del popolamento.
Casi di studio, metodi e teorie, organizzato da Giancarlo
Macchi nel settembre del 2008 a Grosseto, i cui atti sono
pubblicati nel 2009 dalle Edizioni dell’Università di Sie-
na nella collana «Fieravecchia», che fa capo alla facoltà
di Lettere. Vi prendono parte storici, archeologi, geografi,
antropologi, demografi. I temi sono quelli della storia del
popolamento, dei movimenti migratori, dell’urbanizzazio-
ne, delle etnie e delle minoranze, delle risorse ambientali,
dell’archeologia dei paesaggi. Il titolo stesso del conve-
gno rimanda all’incontro tenuto a Scarperia nel 1972 su
Archeologia e geografia del popolamento, i cui atti furono
pubblicati sul numero 24 di «Quaderni storici»: uno dei
rari esempi di collaborazione interdisciplinare riuscita. A
partire dal convegno di Grosseto Macchi svilupperà negli
anni successivi il progetto di un Atlante della popolazione
in Toscana, del quale sono presentate alcune anticipazioni
nei numeri 4 e 5 di «Trame», nel 2014 e nel 2015. Nel pri-
mo fascicolo il progetto è esemplificato con alcune tavole
cartografiche che rappresentano la densità di popolazione
(al 1832, al 1951 e al 2001) con una tecnica nuova, che
prescinde dalle delimitazioni amministrative: la densità di-
stribuita in base al metodo del «vicino prossimo» mostra
efficacemente i principali pattern di popolamento, specie
quando si combinano due basi di dati (per esempio con
la variazione della densità fra il 1951 e il 2001). Nel fasci-
colo più recente Macchi affronta il tema Desertificazione e
ripopolamento: trasformazione del paesaggio rurale toscano
(1991-2001), introducendo anche l’analisi delle caratteri-
stiche demografiche e non solo di quelle distributive.
12 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Si poteva pensare che un simile percorso continuasse o


si concludesse con ulteriori elaborazioni di carte del popo-
lamento, un tema che presenta sicuramente ancora molti
spunti di ricerca originale e sul quale vale la pena di sti-
molare la collaborazione dei demografi e dei territorialisti.
Non dubito che Giancarlo Macchi porterà avanti il suo
progetto di Atlante: ma intanto ci presenta questo ampio
e ricchissimo testo nel quale spazia dall’epistemologia a
tutte le discipline che si occupano della distribuzione spa-
ziale dei fenomeni. Cambiano i riferimenti, cambia il lin-
guaggio: anche se una preoccupazione epistemologica era
presente in molti dei lavori precedenti. Il tema affrontato
tocca esplicitamente il nocciolo della disciplina geografica:
che cosa è la geografia, si chiede Macchi. O meglio: come
funziona, a che cosa serve, quali contributi di conoscenza
può offrire. Molti esempi vengono dalle scienze della vita,
dalla biologia evolutiva, dove il dibattito fra gli scienziati
ha spesso avuto come oggetto proprio il ruolo dello spa-
zio e delle strutture ecologiche. Su queste parti del libro
abbiamo discusso spesso, negli ultimi mesi. Sono temi sui
quali la ricerca è in continua evoluzione e le novità conti-
nuano a travolgere tante idee acquisite. Basta pensare a un
filone di ricerca come quello che è stato definito «epigene-
tica», dove il prefisso epi- sta proprio a significare il ruolo
degli ambienti nei quali si svolgono i processi biologici,
superando la dittatura del genoma.
Si è discusso anche, con Macchi, del termine che lui usa
già dal titolo: post-umano, con o senza lineetta, con o sen-
za virgolette. Un termine che rischia di essere accostato a
tanti post- alla moda, ma che ho finito per accettare come
allusione al suo opposto, ossia a un eventuale pre-. Si tratta
cioè di un umano che si colloca all’estremità di complicati
processi evolutivi che non sono assolutamente lineari ma
in gran parte casuali, e nei quali la cosa più interessante
PRESENTAZIONE 13

diventa quella di scoprire i meccanismi da cui dipendono


le relazioni con l’ambiente: nei successivi passaggi che una
volta erano definiti adattativi ma che poi i paleontologi più
avveduti (come Gould, Eldredge, Vrba, Lewontin) ci han-
no insegnato a riconoscere come risultato di cooptazioni
di opportunità pre-esistenti, ovvero di fenomeni di ex-
aptation. Accolgo dunque il post-umano di Macchi come
risultato di una lunga storia di ex-aptation, e mi rammari-
co della mancanza di un’espressione italiana per questo
termine: sarebbe ex-attamento, per contrapposizione con
ad-attamento: dove il prefisso ad- allude a possibili finali-
tà verso cui i mutamenti sarebbero diretti. Con il prefisso
post-, mi sembra, si esclude questa finalizzazione: e spero
che su questo anche l’autore – che ha tutto il diritto di
impiegare i termini che preferisce – sia d’accordo con me.

Claudio Greppi
Dicembre 2015
AVVERTENZA

Ogni storia ha un inizio… ma questa no. Così come non ha


una fine o una morale. La trama del racconto può essere
resa manifesta solo grazie a un articolato gioco di specchi.
Scopo del testo non è illustrare una serie di riflessioni
geografiche sulla post-umanità. Né tanto meno cosa sia la
post-umanità, visto e considerato che nemmeno è chiaro
cosa, per umano, si intenda. Non credo che Francesco
d’Assisi, Friedrich Nietzsche o Franklin Delano Roosevelt
si troverebbero d’accordo sul significato del termine. Fi-
guriamoci dunque che valore potrebbe avere una defini-
zione e una periodizzazione di post-umanità.
Non ho l’ambizione di dare vita a un’altra etichetta.
Questa, peraltro, nata a metà degli anni Ottanta in ambito
letterario, risulta già abbastanza usurata. Non ho nemme-
no il desiderio di rafforzare la visibilità di questa rispetto
ad altre. Avrei potuto intitolare il libro Geografia neo-uma-
na o Geografia della neo-umanità, ma, dal momento che
qui ho voluto descrivere quali siano gli effetti della fase di
transizione attuale sulla condizione dell’individuo, il ter-
mine post-umano mi è sembrato più calzante.
In considerazione dell’anno di pubblicazione, il testo
parla di cose profondamente riciclate; considerate singo-
larmente appaiono perfino logore. Vengono riprese mol-
te idee che, per quanto non siano state né pienamente
accettate, né rifiutate, restano comunque consumate. Per
tale ragione presumo che molte delle idee illustrate nelle
prossime pagine appariranno ovvie. Ma il punto in que-
stione non è se Geografia del post-umano sia o meno una
raccolta di idee. Oggetto del testo è semmai quale sia la
16 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

posizione che assume il lettore di fronte a tale ovvietà. Per


chiarire questo primo gioco di specchi userò un picco-
lo racconto. Può un fisico quantistico discutere con sua
moglie per il pepe nella minestra? Wittgenstein, Putnam,
Eliot, Foucault, Eco, Borges, Mandelbrot, Margulis, Pes-
soa, Feynman, Bohr suggerirebbero di no. Eppure, alla
fine di una lunga giornata in laboratorio lo scienziato que-
stionerà sulla zuppa. [L’oggetto centrale del testo non è in
mezzo a queste righe, ma nel comportamento del lettore
una volta ultimata la lettura. Così come, a parer mio, l’im-
portanza della scienza non risiede nella capacità o meno
di descrivere la struttura dell’Universo, quanto piuttosto,
in quella di trasformare la vita del mio fisico quantistico
immaginario una volta che spegne la luce e la sera chiude
a chiave il suo laboratorio.]
Come già indicato prima, la tesi in sé non è altro che
una raccolta di vecchie idee ricomposte, ma nel campo
della geografia. Se proprio volessi giustificare o identifica-
re qualcosa di originale di questa breve narrazione, potrei
aggiungere solo che il filo conduttore che lega queste idee
riciclate è che esse acquistano una consistenza diversa se
ricomposte nel campo della geografia. È evidente che nel-
la geografia le idee non si possono lasciar galleggiare fra le
nuvole. Idealmente, il geografo deve tenere conto di ogni
entità della creazione, e lo deve fare coerentemente con
ogni parte. Nella geografia, le idee devono essere sempre
ricondotte a terra e devono essere verificate su un piano
concreto. Diversamente non sarebbe geografia.
Cosa hai mangiato oggi? Sai da dove proveniva il cibo
che hai ingerito? Sai chi l’ha raccolto? Sai come sono fatte
le foglie di quella pianta? Con chi hai parlato oggi? Cosa
hai raccontato di importante per il benessere tuo e di tutta
la tua comunità? Quante ore di tv hai guardato ieri? Quan-
AVVERTENZA 17

ta spazzatura hai prodotto oggi? Quanta energia hai con-


sumato durante la giornata? Le risposte a queste domande
servono da traccia per delineare la tesi qui illustrata.
La storia narrata non solo non ha inizio e non ha fine;
è una storia priva di giudizi. In questo testo non c’è spa-
zio per discriminazioni di valore morale. Non vi si troverà
nessuna indicazione su come dovrebbero essere le cose.
Affermazioni del tipo ‘questo è meglio di quello’, o perfino
‘preferisco questo a quello’ non vi avranno spazio. Non
c’è nessun progetto o ideologia dietro; solo il tentativo di
illustrare nuovi strumenti concettuali utili a realizzare una
rappresentazione più organica e integrata delle entità e dei
fenomeni. Non esiste una preferenza dell’umanità rispet-
to alla post-umanità; ambientalisti su liberisti e così via.
Per me questo punto è centrale. Sono fra quelli che consi-
derano la storia come un processo non lineare. Da eventi
apparentemente negativi si generano movimenti positivi
e viceversa. Nello stesso modo, elementi che ad una scala
geografica appaiono negativi, ad un’altra risultano positivi.
Non credo a una storia con una direzione o uno scopo.
La promessa è quella di non introdurre nessun nome
nuovo perché quelli a disposizione sono più che sufficien-
ti. Ho già affermato che post-umano non è un’etichetta
nuova. Piuttosto si cercherà maldestramente di indivi-
duare equivalenza fra concetti. Visto che non c’è una nuo-
va teoria da proporre, un nuovo modello dell’Universo o
della geografia terrestre da difendere, non esiste il bisogno
di utilizzare nuove etichette.
La realtà ha due attributi innegabili. Quello evidente
della separazione, come suggeriscono i sensi e il linguag-
gio dell’homo sapiens. Ma la realtà è composta anche da
un attributo imprecisato che conduce all’unità fra le entità
nell’Universo. È noto a tutti ormai che, quantomeno ad
18 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

una certa scala, tutto è energia. Oppure che tutto ha avuto


origine dalla singolarità del big-bang. Uno dei comporta-
menti più tenaci e caratteristici della scienza e delle scien-
ze sociali è quello di seguire la prima traccia: quella della
distinzione e della separazione. Questo è invece un testo
che parla dell’unità in geografia.

Giancarlo Macchi Jánica


Siena, Novembre 2015
I. OSSERVARE

Lo spazio rappresenta un dominio della conoscenza che


consente di legare tra loro idee di ogni tipo. A Rio de Ja-
neiro alcune favelas si affiancano a gruppi di lussuosi e
moderni grattacieli. Complessi industriali inquinanti sor-
gono nel cuore dei santuari naturali dell’Alaska e dell’A-
mazzonia. Ricchezza e povertà; purezza e contaminazione
si mescolano al di là di tutti gli idealismi. Lo spazio non
esclude o emargina nessuna entità. Un suo tratto caratteri-
stico è l’incondizionata capacità di inclusione.
Alcune delle caratteristiche che contraddistinguono la
geografia sono leggere, analizzare e interpretare lo spazio.
Ma esse non sono attività esclusive di questa disciplina.
Molti settori della scienza si avvalgono di una lettura spa-
ziale; ma, a differenza di questi, il pensiero geografico è
sempre ed esclusivamente spaziale (Thrift 1996).
I geografi sanno meglio di chiunque altro che lo spa-
zio non è però una chiave universale di decodifica della
realtà. Dematteis (1994, 91) lo definisce come «operatore
soggettivo». Inoltre lo spazio non è una entità omogenea.
In spazi limitati – come il centro di Bogotá – si genera
un volume di relazioni, che, come nel caso del traffico e
del flusso di persone, determina densità critiche. D’altro
canto, in spazi immensi, come nell’Antartide, non avvie-
ne, da un punto di vista antropologico, sostanzialmente
nulla. Lo spazio è una categoria oscura e complessa pro-
prio perché non si tratta di un’entità omogenea. Tale ca-
pacità di metamorfosi è quello che comunemente si cono-
sce come scala geografica. Per una questione di praticità,
20 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

nelle prime pagine, quello della scala sarà definito come


problema dell’intervallo o della distanza che intercorre
tra osservatore e oggetto.
La maggior parte dei settori della conoscenza è impe-
gnata nella comprensione della realtà attraverso lo studio
di parti. La geografia non fa eccezione. L’approccio re-
gionale e la corografia vanno proprio in questa direzione.
Una regione esiste proprio perché un confine la separa dal
resto del territorio. In una delle prime critiche all’approc-
cio regionale George Kimble (1951, 159) affermava:
«[…] i geografi regionali tentano di collocare confini
che non esistono intorno ad aree non significative [that
do not matter].»
Anche la geografia del paesaggio o l’approccio sistemico
sono comprensibili solo come processo di disarticolazione
e di complesse ricomposizioni. Fred Schaefer in Exceptio-
nalism in Geography (1953, 227) scriveva:
«Quindi la geografia dovrà essere concepita come la
scienza relativa alla formulazione delle leggi che rego-
lano la distribuzione spaziale di alcune caratteristiche
sulla superficie della terra.»
Benché dalla prima metà del XX secolo le scienze natu-
rali e sociali abbiano avvertito la sterilità di un approccio
di questo tipo, a oggi, la spinta verso la scissione in parti
resta quella dominante nel mondo scientifico. Una frase
attribuita a Heisenberg recita:
«C’è un errore fondamentale nel separare le parti dal
tutto, l’errore di polverizzare ciò che non dovrebbe
essere atomizzato. Unità e complementarietà costitu-
iscono la realtà.»
I. OSSERVARE 21

Analogamente, nel volume Biologia come ideologia, il


biologo e genetista Richard Lewontin (1997, 12) rappre-
senta la scienza come un’istituzione pervasa dall’istinto
dominante di ricerca dell’atomo o del frammento:
«Così l’ideologia della scienza moderna, inclusa la
biologia moderna, fa dell’atomo o dell’individuo la
fonte causale delle proprietà di collezioni più ampie.
Essa stabilisce un modo per studiare il mondo, cioè
segmentarlo in pezzetti individuali che ne sono la cau-
sa e studiare le proprietà di tali pezzetti isolati. Spezza
il mondo in campi separati e autonomi, quello interno
e quello esterno.»
Questo testo ha come obiettivo proprio la presentazione
di una tesi che mette in evidenza il ruolo centrale delle rela-
zioni tra quell’esterno e quell’interno come elemento fon-
damentale del tessuto geografico. Nella realtà esistono solo
relazioni o interazioni. Gli oggetti sono esclusivamente og-
getti mentali. Questi sono una rappresentazione simbolica
di uno stadio fisico transitorio delle relazioni. Così ‘tavolo’
è una rappresentazione simbolica dello stato di quel pez-
zo di legno; e ‘quel pezzo di legno’ è la rappresentazione
simbolica (mentale e verbale) dello stato di quella parte di
acqua e carbonio in un dato momento (Wittgenstein 1968,
21; Eco 1994, 98-100). Altri termini che possono essere
usati per definire tali relazioni sono ‘funzione’, ‘condizione’
o ‘stato’. Si tratta sempre e comunque di voci che fanno
riferimento a un processo transitorio o a un contesto di
mutamento. Osservando con attenzione la realtà, si può
dire che non esistono entità che compiano funzione di cu-
stodia definitiva di sostanza e, di conseguenza, di un dato
significato. Si usa il concetto di ‘tavolo’ pur nell’evidenza
che non è possibile indicare nell’ente quella parte che pos-
siede la qualità ‘dell’essere tavolo’.
22 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Identificare un oggetto mentale è semplice. Se qualcosa


risponde ad attributi collegati a idee statiche o non tran-
sitorie, sicuramente ciò fa riferimento a un’idea e non a
un processo inerente alla realtà. Questo gioco linguistico-
percettivo è applicabile a ogni singola parte dell’Universo.
Quali sono le vicende legate a questo intricato gioco da un
punto di vista geografico, e quali sono le sue conseguenze
nel processo di costruzione dello spazio antropico?

«Che cosa è la geografia?»


Tanti fra gli esponenti più importanti della disciplina geo-
grafica hanno cercato la risposta a questa domanda. Il caso
di Richard Hartshorne (1939) è probabilmente il più co-
nosciuto. Per l’Italia, significativo è stato il volume La co-
struzione della geografia umana di Massimo Quaini (1975).
Un altro momento importante di questa autoriflessione
disciplinare è il lavoro monumentale The Geographical
Tradition di David Livingstone (1992). Benché contraddi-
stinti da obiettivi ambiziosi e rigorosi, nemmeno i tentativi
più recenti, come il caso di Mike Heffernan, Histories of
Geography (2009), sono riusciti a raggiungere una defini-
zione condivisa e soddisfacente o a enunciare quali siano
complessivamente le sue finalità e il suo ambito applica-
tivo. Gli esiti di questa ‘autoriflessione’ disciplinare non
sono mai stati entusiasmanti. [Su ruolo e significato di The
Geographical Tradition di Livingstone e sugli sviluppi della
storia del pensiero geografico negli ultimi decenni si ri-
manda al saggio La scoperta del luogo in geografia di Paola
Pressenda (2015).]
Nel corso della sua lunga storia, tutti coloro che hanno
deciso di assumere – definitivamente o provvisoriamente
– il titolo di geografo vivono tra due sensazioni, qualche
volta contrastanti. La prima è quella di un generale stato
I. OSSERVARE 23

di inquietudine rispetto ai confini della propria discipli-


na. Definizione desiderata che appare sempre imminente;
eppure, a ogni passo, risulta sempre più chiaro quanto la
geografia, sia al di là di qualsiasi forma di determinazio-
ne, enciclopedica. L’altro sentimento deriva dalla chiara
percezione della trascendenza del proprio contributo. Il
geografo non solo conosce molte nozioni, ma ne impara
costantemente delle nuove e soprattutto concretizza col-
legamenti molto prima dei colleghi appartenenti ad altri
settori della conoscenza (Haggett 1993, 12-13). Forse,
proprio per questo, per lui resta sempre molto difficile
trasmettere, spiegare e farsi comprendere.
Se oggi fosse disponibile una definizione chiara e
universalmente accettata di cosa sia la geografia, questa
avrebbe occupato i paragrafi sopra, verrebbe impartita
durante la prima lezione agli studenti universitari, questi
la imparerebbero passivamente a memoria e del proble-
ma non si parlerebbe più.
La questione resta invece aperta e fondamentale. Ne è
prova il grande spazio che il tema su cosa sia la geografia,
occupa nella produzione scientifica della disciplina. Ri-
spetto a colleghi di altri settori, il geografo dedica molto
più tempo e risorse a capire quali siano le specificità del
proprio ambito disciplinare e il significato del proprio la-
voro. Da questa domanda introduttiva si può dedurre un
secondo interrogativo: perché i geografi attribuiscono un
ruolo così significativo alla corretta comprensione della
propria attività?
Non è difficile rovesciare la questione in una contro-
riflessione: se le menti più illustri delle geografia non sono
riuscite nel corso non degli ultimi due secoli, ma degli
ultimi 2500 anni, a trovare una definizione valida e uni-
versalmente accettata di cosa sia la geografia, si potrebbe
arrivare all’ipotesi che tale definizione semplicemente non
24 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

esiste. Se dunque è (presumibilmente in questi termini)


inconcludente porsi la domanda ‘cosa è la geografia?’, di-
venta molto più interessante interrogarsi sul perché i ge-
ografi non siano in grado di definire in cosa consista la
propria professione.
A un quesito come questo sarebbe possibile dare alcune
risposte canoniche. Un geografo non esiterebbe a sotto-
lineare come la sua disciplina sia caratterizzata dal fatto
che si occupa di tutto senza possibilità di escludere effet-
tivamente niente. Occuparsi di tutto (o quasi) rappresenta
però un inconveniente evidente.
Ma esistono altre discipline inclusive: antropologia e
filosofia, ad esempio. Eppure il campo d’applicazione e
portata della geografia appare ancora più ampio. La geo-
grafia, perfino quella definita geografia umana, non ha la
possibilità metodologica o teorica di escludere niente; sia
della sfera fisica o naturale che di quella culturale. Non
ci dovrebbero essere particolari riserve nel qualificare la
geografia come il più vasto settore disciplinare della cono-
scenza umana. Non esiste settore o area scientifica con cui
essa non sia in grado di rapportarsi e non si sia poi effetti-
vamente affiancata a livello interdisciplinare (Hartshorne
1939, 146-148; Haggett 1993, 13). Una tale universalità
comporta un onere particolare e determina condizioni
epistemiche e gnoseologiche eccezionali.
Sono dell’opinione che parte delle difficoltà di cui si
è detto sopra derivino dall’incapacità di concettualizzare
e perciò di verbalizzare in modo corretto questo ‘tutto’.
Solitamente due interlocutori – anche in ambito scientifi-
co – dialogano utilizzando vocaboli. Se un termine è noto
a entrambe le parti, esse si comportano come se vi fosse
una sintonia sul significato. Wittgenstein (1964, 3.24) sot-
tolinea più volte come l’elemento fondamentale nell’ac-
quisizione del linguaggio sia l’allenamento all’associazione
I. OSSERVARE 25

e non la spiegazione. Nella realtà però, due persone pos-


sono fare riferimento a ‘coscienza’, ‘relatività’ o ‘creatività’
senza che vi sia (e vi possa essere, allo stato attuale della
conoscenza) un chiaro consenso sul significato. Un’affer-
mazione del tipo ‘la geografia si occupa di tutto’ dà per
scontate troppe cose.
La definizione della disciplina non è possibile semplice-
mente perché il suo oggetto di studio non è definibile; non
possiede un profilo netto. Terra è un concetto evocativo
che non consente di fissare punti fermi.
Questo quadro di difficoltà di rappresentazione del
‘tutto’ viene caricato in modo ancora più significativo dalla
possibilità di far variare la distanza (non solo fisica) tra
oggetto e soggetto. Mandelbrot ha chiarito in modo defi-
nitivo come la scala rappresenti uno dei problemi scienti-
fici più importanti di sempre (1983); questo indipendente-
mente dalla tradizione disciplinare dalla quale si osservi la
realtà. Come nel caso del gomitolo di lana di Mandelbrot
(1983, 17-18), un ‘uomo’, ad esempio, può diventare una
infinità di enti a seconda della scala o distanza dalla quale
si guardi: individuo, membro di una collettività, detentore
di una sovranità, acceleratore economico, guerre, conti-
nente, pianeta; ma anche tessuto biologico, globuli bian-
chi, malattie, cellule, DNA, sostanze chimiche, elementi,
particelle sub-atomiche. Qual è la scala giusta con la quale
il geografo dovrebbe osservare l’uomo?
Il problema della scala non è altro che un nome per
definire il grande problema della realtà. Per quanto possa
apparire ovvio, va sottolineato con forza che, per capire
la realtà è necessario capire la scala e, per capire la scala
è necessario capire la realtà. Il discorso vale non solo per
il geografo, ma per qualunque uomo di scienza. Se questa
congettura è valida, ne consegue che spazio, realtà e scala
vanno comprese insieme. Non potrebbe esserci padronan-
26 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

za esclusiva di nessuna di queste tre nozioni separatamen-


te dalle altre come strumento funzionale al raggiungimen-
to della comprensione successiva delle restanti.
Asserzioni come ‘la geografia si occupa di tutto’ sug-
geriscono, ad esempio, che la geografia si occupi dell’es-
sere umano. Cosa evidente. Ma affermare che si occupa
del tutto significa anche che è interessata a esso in ogni
sua forma o possibile percezione che si trovi, appunto, tra
la scala del pianeta e quella dell’uomo, come sottolineato
da Peter Haggett (1993, 26); e forse non basta, visto che
sicuramente la geografia umana si dedica anche alle scale
sub-organiche, cellulari e perfino a quella del DNA. Una
affermazione come ‘la geografia si occupa di tutto’ risulta
dunque problematica, visto che è priva di significato se-
mantico. Sarebbe allora più esatto affermare che la geo-
grafia si occupa della realtà terrestre?

Tesi
La tesi del volume viene qui scomposta in due congettu-
re. Esse fanno riferimento a un unico problema che viene
scisso per una maggiore chiarezza dell’esposizione.
a) linguaggio. La scienza e la comprensione della realtà
– e in particolare quella terrestre – si scontrano con un gra-
ve limite legato al linguaggio. Il linguaggio naturale non è
sufficiente per la descrizione della realtà, e pertanto per
la sua comprensione e, men che meno, per la sua analisi
(Wittgenstein 1964, 5.6). Premesso che oggetto del testo
non è la promozione di argomentazioni eterodosse come
la definizione di nuovi linguaggi, si assume che quello a di-
sposizione rappresenti il migliore compromesso possibile
e con questo si deve in ultima istanza fare i conti (Olsson
1987, 29-32). Se, come è già affermato sopra, contenuto
della tesi non è la negazione dei nomi, la negazione delle
I. OSSERVARE 27

idee, ma il rifiuto di spiegazioni di una realtà geografica


composta da oggetti mentali (Margolis e Laurence 2007,
561-562), è necessario prendere atto del fatto che comun-
que il migliore linguaggio a disposizione è tuttavia ineffi-
cace nel descrivere la realtà. Problema questo che nelle
prossime pagine definirò come ‘problema del linguaggio’.
b) confini. La seconda parte della tesi riguarda il fatto
che gran parte dello schema cognitivo delle scienze sociali
si fonda sulla suddivisione della realtà in categorie, que-
stione che denominerò ‘il problema dei confini’. Tali cate-
gorie si fondano sul presupposto che esista una distinzio-
ne chiara e netta fra la natura degli oggetti in esse ripartiti.
Si può dunque affermare che la maggior parte dei confini
utilizzati per dare vita alle categorie non siano reali, non
siano precisi oppure, in quei rari casi in cui siano reali e
precisi, lo sono a una scala ma non ad altre. Il problema
sorge quando si parte, nella realtà fisica, alla ricerca dei
limiti fisici, dei confini o delle soglie che possono essere
utilizzati come evidenza e giustificazione di tali categorie.
Quei confini non esistono però nella realtà. Come ricorda-
to da Foucault (1998) il problema era già stato sufficien-
temente evidenziato da Borges con L’idioma analitico di
John Wilkins (1974, 706-709): esiste sempre un livello on-
tologico con il quale è possibile sparigliare qualsiasi forma
di classificazione, limite o confine cognitivo.
«[…] un’enciclopedia cinese che s’intitola Emporio
celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pa-
gine è scritto che gli animali si dividono in (a) apparte-
nenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati,
(d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi,
(h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano
come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pen-
nello finissimo di pelo di cammello, […]»
28 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Stephen Jay Gould, nel suo saggio La fortuna di Lin-


neo?, descrivendo le difficoltà del processo di edificazione
di tassonomie valide, mette in evidenza il legame stretto
che sussiste tra tassonomia e teorie sulle quali queste ul-
time vengono poi costruite. Gould (2009, 310-311) parla
di «schemi mentali» che vengono utilizzati per «ordinare
e rappresentare» una realtà esterna:
«i cetacei sono compresi molto meglio se vengono clas-
sificati in base alla loro genealogia insieme ai mammi-
feri, e non mettendoli insieme a squali e calamari in
un gruppo evolutivamente eterogeneo di ‘creature che
nuotano velocemente nelle acque dell’oceano.’ […] Ai
fini pratici, […] il direttore di un giardino zoologico
potrebbe decidere di classificare gli animali in base
alle loro dimensioni.»
Osservazioni che ricollego in modo immaginario
all’Emporio celeste di conoscimenti benevoli di Borges. La
sintesi finale di Gould (2009, 311) è semplicemente che lo
schema preferibile o naturale sia quello legato a evidenzia-
re i rapporti genealogici fra gli organismi.
Le due parti di questa tesi (i problemi del linguaggio e
dei confini) sono profondamente riciclate e non fornisco-
no alcun contributo originale. L’unica differenza in queste
righe è la motivazione. Quello che è reale non potrà esse-
re negato. Nello stesso modo, quello che è illusorio verrà
qui velocemente dimenticato. Le due parti della tesi sono
aspetti di un unico problema proprio perché il linguaggio
naturale riflette la logica della scomposizione in porzioni
attraverso la formulazione di confini.
La geografia – coerentemente con l’ecologia – ha con-
siderato ambiente ed esemplari (o specie) come entità
distinte e separate (Lewontin 1997, 13). Si tratta però di
un’interpretazione limitante. Nell’enciclopedia La vita sul-
I. OSSERVARE 29

la Terra di Eldredge, la lunga voce ‘ecosistema’ mette in


evidenza fin dall’inizio sia l’idea di relazione che la diffi-
coltà di stabilire meccanismi di separazione (2004, 176):
«Gli ecosistemi sono costituiti da organismi compre-
senti, dalle relazioni esistenti fra loro e gli ambienti
circostanti e da quelle parti dell’ambiente che ne sono
controllate o fanno parte delle loro vite al punto che
la separazione fra forme di vita e fattori fisico-chimici
rischia di essere del tutto arbitraria. […]»
Con la celebre frase «il mondo e la vita son tutt’uno»,
Wittgenstein evidenzia il legame tra ecosistema e organi-
smo fino a fonderli in un’unica entità (1964, 5.621). Tale
riflessione diventa altamente complessa se si prende in
considerazione la specie umana (Wittgenstein 1964, 5.63).
Occorre aggiungere che la scienza non può dimenticare
l’importanza degli elementi linguistici all’interno del pro-
cesso di conoscenza. A questo proposito, considero più
viva la rappresentazione che ne fa Borges nel breve rac-
conto L’etnografo (2007):
« – La lega un giuramento? – domandò [il professore].
– Non è questa la ragione, – disse Murdock. – In quelle
terre remote ho imparato qualcosa che non posso dire.
– Forse l’idioma inglese non basta a esprimerlo? – os-
servò [il professore]. – Non si tratta di questo. Ora che
possiedo il segreto, potrei enunciarlo in cento modi
diversi e anche contraddittori.»

Realtà terrestre
La geografia è caratterizzata fin dalle sue origini da una
continua attività riflessiva. Franco Farinelli (2003, 8-9) ha
ripetuto più volte come la geografia e la filosofia appar-
30 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

tengano a un’unica entità e ha ricordato come Strabone


lo renda esplicito nell’introduzione della sua Geografia
(1854). La geografia…
«… ci svela i fenomeni celesti, ci presenta gli occupanti
delle terre e oceani, la vegetazione e i frutti e le pecu-
liarità dei vari quarti della Terra; una conoscenza che
caratterizza colui che è sinceramente impegnato nel
grande problema della vita e della felicità».
Pur nella sua distanza storica, una tale definizione con-
densa in modo fedele il senso di questa disciplina. Omero,
Annasimandro, Ecateo, Democrito, Eudosso, Dicearco ed
Eforo fra gli altri vanno considerati geografi ma al tempo
stesso filosofi. Qualunque cosa egli sia, il geografo è ef-
fettivamente impegnato nel «grande problema della vita
e della felicità». Credo che ogni geografo rappresenti una
sincera e autentica incarnazione – cosciente o inconsape-
vole – di questo impegno. Benché la definizione di Strabo-
ne sia efficace nel descrivere la natura e i principi della di-
sciplina, sono certo che, per la loro complessità, i compiti
epistemologici del geografo siano molto più impegnativi:
egli deve essere in grado di ricondurre tutto al reale.
Distintamente da altre scienze sociali, la geografia si
fonda su una narrazione delle cose concrete: il reale è il
suo regno. Si tratta di una riflessione che contraddistingue
una disciplina che ha nella sua essenza più profonda la
narrazione delle cose come sono. Un mestiere proprio sul-
la frontiera con la realtà. E quella che a molti può apparire
come un’attività riflessiva vaga e imponderabile rappre-
senta l’unico strumento per raggiungere una valida ed effi-
cace narrazione della realtà. C’è sempre stato poco spazio
per sogni e ideologie all’interno di questa disciplina.
La realtà è! È l’esistenza medesima. Non può esse-
re contaminata dalla capacità riflessiva dell’uomo. Nel
I. OSSERVARE 31

momento in cui essa viene percepita ed elaborata dagli


schemi neurali, questa diventa già una nuova realtà che
contiene un uomo pensante al suo interno. Da questo
prende forma per l’osservatore il problema del linguag-
gio. Il segreto custodito negli haiku di Bashõ è l’impos-
sibilità di descrivere la realtà attraverso il linguaggio.
Giustamente, parlando dei poeti, Umberto Eco (1999,
20-22) fa notare che:
«Il potere rivelativo riconosciuto ai poeti non è tan-
to l’effetto di una rivalutazione della poesia quanto di
una depressione della filosofia. Non sono i poeti a vin-
cere, sono i filosofi ad arrendersi.»
Ma la scienza non ha come scopo finale la descrizio-
ne di enti. La scienza deve descrivere sistemi, relazioni e
meccanismi di interazione. Non è solo «l’inconoscibile» a
non potere essere enunciato; lo è tutta la realtà. In Sopra il
‘Vathek’ di William Beckford Borges racconta (1974, 729):
«Tanto complessa è la realtà, così frammentaria e così
semplificata la storia, che un osservatore onnisciente,
potrebbe redigere un numero indefinito, e quasi infi-
nito, di biografie di un uomo, che mettono in luce fatti
indipendenti e delle quali dovremmo leggere molte
prima di capire che il protagonista è il medesimo.»
Che si tratti di una margherita sul bordo della strada o
della collisione di particelle subatomiche in un accelera-
tore nucleare, nulla può essere veramente descritto. Ci si
può solo avvalere di suggestioni per rappresentarli nella
mente dei propri interlocutori. [Nella realtà quella mar-
gherita è! Qualsiasi rappresentazione o riferimento, grazie
a questo o quel linguaggio, rimane una semplice allusione
a essa. Quella margherita non ha bisogno di spiegazioni,
interpretazioni o descrizioni per potere esistere.]
32 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Gran parte degli oggetti mentali sono strutturati sotto


schemi definitivi e statici. Può il tessuto che compone la
Terra essere descritto con categorie statiche? Forse, il la-
voro descrittivo del ‘tutto’ appare molto più semplice di
quello della realtà. Una cosa è la produzione di modelli;
questi sono indispensabili per la comprensione del mondo
(Farinelli 2003, 12-15). Un’altra cosa è la realizzazione di
falsi accomodanti capaci di soddisfare i pregiudizi della
scienza. La differenza risiede nella motivazione.
La Terra è una entità dinamica e organica. Nessun ele-
mento, parte o categoria terrestre è passiva. Se qualcosa
caratterizza questo pianeta è l’inesauribile dinamismo di
ogni sua molecola. Il mutamento rappresenta l’attributo
caratterizzante della realtà. Certo, con le dovute specifici-
tà: le dinamiche degli strati geologici si muovono su con-
testi cronologici differenti dai cicli dei fiori nei prati; ma si
muovono. In questo pianeta niente resta fermo.
Se tutto è in trasformazione, allora ancora di più lo è
il rapporto del pianeta con la specie umana. Una specie
in grado di fare evolvere non solo il proprio DNA, ma
soprattutto il proprio patrimonio di pensieri; ovvero il
«mondo 2» di Karl Popper (1996, 14-28). In una realtà
in mutamento, una specie pensante non può che generare
pensieri in perenne stato di trasformazione. [Nel seguen-
te pagine farò riferimento ai mondi 1, 2 e 3 relativi alla
teoria dei tre mondi di Popper. La scelta ha una funzione
strumentale data l’efficacia di questi nomi. Con ciò non
intendono attribuire un mio sostegno specifico alla filoso-
fia della mente di Popper. In estrema sintesi, mondo 1 fa
riferimento al piano fisico; mondo 2 ai pensieri e i senti-
menti; mondo 3 alle idee].
I. OSSERVARE 33

Relazioni
Anche una distratta osservazione della realtà permette di
evidenziare il profondo grado di interconnessione fra tut-
te le cose. Ad esempio, è evidente che l’esistenza stessa
dell’uomo è possibile grazie al cibo che quotidianamente
consuma. L’esistenza è una funzione di tale cibo. Senza
cibo, il pensiero che detta le parole e le frasi in queste pa-
gine non può manifestarsi. Perciò il pensiero è uno stadio
della trasformazione del cibo o, più semplicemente, come
affermato sopra, il pensiero è una funzione del cibo. Quel-
la tra carboidrati e righe di questo scritto non è però una
relazione chiusa. Il cibo esiste perché il sole attraverso i fo-
toni consente la fotosintesi. Per quanto possa apparire ec-
centrico (e per qualcuno ovvio), il pensiero umano è una
funzione del sole. A prescindere dal fatto che si decida di
considerare questo come ovvio o trascendentale, è chia-
ro che tale principio di interconnessione è inconfutabile.
[Per quanto la mente possa sognare o immaginare queste
righe come una entità a sé, in assenza del sole, l’aria e i
carboidrati, esse non si sarebbero mai manifestate.]
L’utilizzo di un esempio che coinvolge anche il pensiero
come oggetto in relazione con altre entità della realtà ter-
restre è voluto. Serve per evidenziare come tutto sia effet-
tivamente in relazione con tutto. Il primo attributo della
realtà è il costante mutamento di tutte le sue parti; il se-
condo è la perenne relazione e interazione fra tutte le parti.
Eppure gli esseri umani, nel corso della loro evoluzione,
hanno sviluppato uno schema neuro-linguistico che porta
alla suddivisione della realtà in categorie separate. Perciò,
quando osserviamo un albero su un prato, la categoria
(in questo caso ‘albero’ appunto) si sostituisce alla realtà.
Mentre è evidente che, ad esempio, quel cipresso specifico
esiste come espressione dell’acqua presente nell’ambiente,
34 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

carbonio presente nell’aria, condizioni climatiche e mete-


reologiche specifiche di quel luogo, coabitazioni di altre
specie. Perciò, quando affermo ‘cipresso’, affermo anche
‘acqua’, ‘carbonio’, ‘roditori’ ‘termiti’, ‘spore’, ‘funghi’…;
in definitiva ‘ecosistema’. Detto in altri termini: pur essen-
do un’idea concreta e consistente nel monologo o nel dia-
logo sociale, nella realtà diventa molto difficile (in realtà
impossibile) individuare i confini che separano ‘questo ci-
presso’ dal resto del proprio ecosistema. In che momento
le gocce di pioggia diventano parte di questo cipresso? In
che momento i minerali delle foglie marce cessano di esse-
re parte di questo cipresso?
Come è possibile formulare concetti chiari e utili sulla
realtà terrestre attraverso idee che sono caratterizzate da
una serie di categorie statiche, quando la realtà che cercano
di descrivere è dinamica? Il linguaggio è stato uno schema
di adattamento vincente che ha permesso di dare forma
alle civiltà e alla tecnologia. Nel comprenderlo è necessario
però anche cogliere i limiti che questo impone nel formula-
re schemi utili alla rappresentazione di una realtà dove l’os-
servazione sembra indicare l’interconnessione organica fra
le cose. È possibile per il geografo continuare a concepire
la Terra come un’entità scomponibile in parti? Dato che le
categorie si basano sulla presunta capacità di discernere i
confini, ma tenendo conto che alcuni dei confini – o, come
sostiene questa tesi, quasi tutti – non sono netti, si potreb-
be concludere che immaginare la realtà come somma delle
parti diventa un processo di descrizione incompleto.
Non solo: la realtà sembra caratterizzata dal dinamismo
costante delle interconnessioni. Molte volte, quelli che
vengono percepiti come confini sono a loro volta legami
o meccanismi di relazioni. Ma esistono anche le barriere
geografiche. Certamente! Di queste si parlerà nel capitolo
IV (Confini naturali).
I. OSSERVARE 35

Legami e ramificazioni
In La terra e l’evoluzione umana Lucien Febvre (1980),
con grande semplicità, scriveva:
«La geografia dev’essere evidentemente cercata dove si
trova: presso i geografi […].»
Ma ci sono enunciazioni ancora più paradossali per de-
scriverla, come quella dell’Oxford Dictionary of Geography
(Mayhew 2004, 220-221) che conclude la sintetica voce di
cinque righe della voce ‘geografia’ con:
«A volte è più facile definire cosa non è la geografia.
Vedi la prossima voce.» [Segue la voce geography, hi-
story of.]
Alla luce degli elementi essenziali di questa tesi, ac-
quista importanza semmai cogliere gli elementi distintivi
della disciplina attraverso una descrizione dell’approccio
dei geografi. Interpretando il pensiero di Febvre, si può
concludere che la geografia non sia tanto quello che il ge-
ografo fa, quanto ciò che il geografo pensa.
Se non è possibile in definitiva descrivere la geografia,
appare come una strategia più utile fare una descrizione
socio-epistemologica del gruppo che pratica questo me-
stiere. Ne emergerà un’immagine che conferma i due ele-
menti della tesi.
Quel che contraddistingue la disciplina è proprio la
sua capacità di osservare relazioni e rapporti ben al di là
della normale sensibilità e interessi di altri scienziati so-
ciali. La stessa definizione dell’Oxford Dictionary sottoli-
nea nel penultimo rigo come si tratti di un «approccio che
incoraggia un’attenzione alla complessità.» Questo corri-
sponde a quell’attributo della geografia che ho definito
come organico. Il suo modo di pensare non si ferma a un
36 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

determinato ambito. Egli sconfina e scavalca ogni forma


di frontiera. La sua mente è in grado di abbracciare il glo-
bo intero. O forse occorre ricordare ancora una volta la
prima legge della geografia di Waldo Tobler (1970)? [Nel
farlo, sottolineo come l’elemento centrale siano proprio
le relazioni: related.]
«Tutto è in relazione con tutto il resto, ma cose più
vicine hanno relazioni maggiori che quelle distanti.»
È anche vero che la necessità di costruzione di un di-
scorso geografico impone di tracciare dei limiti. Ma, nel
farlo, il geografo ha la consapevolezza di tralasciare con-
nessioni e collegamenti forse fondamentali, ma non abbor-
dabili per questioni di tempo e risorse. Nessun discorso
geografico può essere veramente conclusivo. Questa con-
dizione corrisponde alla figura di «metafora geografica»
introdotta da Dematteis (1994, 125-139).
Si può partire da un caso concreto: una comune botti-
glietta d’acqua da mezzo litro. Nella sua semplicità questo
esempio serve a evidenziare le ramificazioni che ha il modo
di pensare del geografo. Le parti che compongono questo
oggetto quali sono? La prima e più evidente è l’acqua stes-
sa. Da dove viene l’acqua in questione? Poi naturalmente
c’è il contenitore. Questo contenitore è composto da tre
parti: bottiglia, tappo e nastro dell’etichetta. Da dove pro-
viene la plastica per la bottiglia? E quella per il tappo?
Dove è localizzato l’impianto che produce le bottiglie? Da
che raffineria arrivano i prodotti chimici per la fabbrica-
zione? Dove viene estratto il petrolio per realizzare il ma-
teriale? Da dove vengono i solventi e le tinte per le scritte?
Una volta consumata l’acqua, come e dove verrà smaltito
il contenitore? Che danni esso provocherà all’ambiente?
Lì dove la maggior parte delle persone vede una cosa
semplice come una bottiglietta d’acqua, il geografo vede
I. OSSERVARE 37

già [oltre alla cosa] una ragnatela geografica di luoghi di


estrazione, produzione, logistica, distribuzione e commer-
cio. Per meglio dire, il geografo mette in evidenza e ra-
giona sulle dinamiche di mutamento e le interconnessioni.
Mutamenti e interconnessioni che avvengono, evidente-
mente, in una dimensione spaziale.
Lo spazio risulta un tema complementare a quello delle
relazioni. Tutti i pensieri, domande e riflessioni della ge-
ografia sono già a livello di relazioni. Il processo di evo-
luzione epistemologica della geografia trova nella figura
di Alexander von Humboldt un punto centrale. Claudio
Greppi (2013, 56) ricorda che Darwin lo definisce il fon-
datore della «distribuzione geografica degli organismi»;
ma soprattutto evidenzia come oggi molti settori discipli-
nari (dunque non solo la geografia) si siano riallacciati e
abbiano recuperato la visione planetaria e l’organizzazio-
ne spaziale di Humboldt:
«Se è vero che la classificazione morfologica delle pian-
te proposta da Humboldt non ha avuto successo, essa
ha comunque contribuito a superare la staticità della
tassonomia in direzione di un’organizzazione spaziale
del sapere scientifico. […] siamo di fronte a una sor-
ta di Spatial Turn, di quella ‘svolta spaziale’ che viene
riscoperta in moltissime discipline non umanistiche».
Tutta questa complessità va in una sola direzione: le
ramificazioni e la reciprocità fra le relazioni a livello spa-
ziale. Un universo di rapporti che vengono codificati
all’interno di una scacchiera spaziale; una ragnatela che
consente di saltare da un punto all’altro, priva di posizio-
ni esclusive o riservate per cause prime e conseguenza ul-
time. [Il principio di non-esclusione, caratteristico dello
spazio fa sì che questa scacchiera acquisti delle proprie-
tà singolari. Ogni parte della scacchiera può diventare
38 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

il centro delle relazioni]. In ogni elemento del contesto


sotto esame il geografo è pronto a individuare la com-
plessità stessa; quell’organicità di cui sopra. Lo spazio è
sia oggetto dell’indagine geografica che cornice cognitiva
sulla quale organizza la propria riflessione e costruisce i
propri discorsi.
Come ogni scienziato, il geografo usa un proprio lin-
guaggio capace di descrivere il suo mondo. Questo lin-
guaggio è caratterizzato da una serie discreta di nomi;
nomi che sono solo riflessi dei pensieri con i quali il geo-
grafo categorizza gli elementi del proprio mondo (Kuhn
1970, 111).
Se da una parte il linguaggio permette allo scienziato
di descrivere in modo efficace il proprio mondo, è anche
vero che, dall’altra, il linguaggio espone un universo com-
posto di oggetti che non sempre vengono rappresentati
nel loro intrinseco stadio di mutamento e interconnessio-
ne reciproca con il resto degli elementi della realtà. [Se
uso il nome ‘albero’ faccio riferimento all’idea collegata.
È falso affermare che nell’uso comune si faccia riferimen-
to alle dinamiche in corso sottostanti alla manifestazione
che associamo alle idee di albero. Non è nemmeno vero
che il nome dia per scontato l’esistenza di tali relazioni o
dinamiche]. Così, ad esempio, in alcuni casi, il linguaggio
determina, a livello mentale, tra interlocutori, la separazio-
ne di entità che appartengono a un’unica categoria. Altre
volte, al contrario esso può portare l’osservatore a nomi-
nare (classificare) in un unico modo oggetti che in realtà
sono molto distinti.
L’uso di nomi nel linguaggio designa delle entità. Il
nome determina la separazione fra oggetti: non ne eviden-
zia i legami. Il nome non evidenzia i mutamenti. L’idea di
‘albero’ non fa riferimento a stati relazionali. Fa riferimen-
to invece a una cosa. Il riflesso della realtà nel linguaggio
I. OSSERVARE 39

è lucidamente descritto da Putman in Reason, truth and


History (1981, 4-5). ‘Albero’ si riferisce all’idea collegata
e non a muffa, fotosintesi, carbonio… Nel chiamare una
sedia ‘sedia’, si assegna un valore assoluto fuori dal tempo.
Nell’attribuire quel nome non si fa riferimento al fatto che
ieri era legno e prima albero e nemmeno che domani di-
venterà scarto e nutrimento per organismi viventi.

Uomo e ambiente
Il tema centrale intorno al quale si è evoluta la parte più
significativa del pensiero geografico è il rapporto uomo-
ambiente. Lo è da quando Friedrich Ratzel dette vita
all’Anthropogeographie (1899). Intorno a questa relazione
– senza che mai le parti divenissero effettivamente l’una
antitesi dell’altra – si sono organizzate le due principali
correnti della disciplina: ‘determinismo geografico’ e ‘pos-
sibilismo’. Uomo e ambiente costituiscono elementi es-
senziali per la formulazione e la strutturazione delle due
scuole di pensiero.
Quelli precedentemente definiti come problemi del
linguaggio e dei confini diventano strumenti utili per af-
frontare, in modo in qualche misura nuovo, alcuni aspetti
del vincolo uomo-ambiente. La mia tesi è che tale vincolo
sia l’entità principale che caratterizza la realtà. Specie (o
geni) e ambiente sono solo due delle metafore o dei rifles-
si di quella relazione.
Parte consistente della dialettica geografica ruota at-
torno a una forza generata dalle negazioni reciproche tra
determinismo e possibilismo. D’altro canto, non vi sono
geografi che possano essere definiti integralmente deter-
ministi o possibilisti. L’interpretazione dell’opera di un
geografo è ora determinista, per poi trasformarsi, nel suc-
cessivo articolo, pagina o perfino riga, possibilista.
40 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Pur essendo idee inconciliabili, le due scuole hanno


qualcosa in comune: considerano uomo e ambiente fisico
come due entità distinte. Vi sono sensibili variazioni nel-
la rappresentazione del vincolo in questione. Nel possi-
bilismo esiste evidentemente una maggiore separazione o
lontananza che non nel determinismo. Ma fino a un certo
punto, come d’altronde succede nelle altre scienze sociali;
gran parte del pensiero geografico si fonda su un indivi-
duo che è qualcosa di diverso dal resto dell’ecosistema. Le
differenze fra le due scuole stanno proprio lì: quanto siano
indipendenti azioni, gesti e comportamenti dell’umanità e
quanto vi siano costrizioni o possibilità nella natura. In en-
trambi i casi, uomo e ambiente restano due entità perfet-
tamente divise. Perfino nel determinismo, l’ambiente può
essere ostile o benevolo con l’uomo. Di fronte al variare di
queste condizioni vi è un adattamento.
In geografia, la separazione tra uomo e ambiente è stata
ereditata direttamente dalla filosofia darwiniana che consi-
derava l’adattamento alle condizioni ambientali «l’agente
essenziale» (Claval 1980, 55) e vi aveva identificato la prin-
cipale causa dell’evoluzione. Ma per Darwin le variazioni
individuali non erano sufficienti a dare senso e forma alla
sua filosofia e introduceva sotto forma di interrogativo il
problema del co-adattamento (Darwin 2003, 585):
«Questi adattamenti stupendi li vediamo più chiara-
mente nel picchio e nel vischio; essi esistono, benché
meno evidenti, nel più umile parassita che si attacca
al pelo del mammifero e alle penne di un uccello, nel-
la struttura del coleottero che si tuffa nell’acqua, nel
seme alato che viene trasportato dalla brezza più leg-
gera: in una parola, noi vediamo delle armonie mera-
vigliose nell’intero mondo organico e nelle sue parti.»
I. OSSERVARE 41

Dal mio punto di vista, il frammento è perfetto… fin-


tanto che per «parti» si intenda partecipazione, relazioni,
energia o movimento.
Nonostante ciò, per gli ultra-darwinisti specie e am-
biente restano due cose separate. Il gene egoista di Richard
Dawkins fa ripetutamente riferimento a un ambiente
esterno [external environment] (2006). Per qualcosa come
il gene egoista, qualcosa come un ambiente esterno diven-
ta una condizione essenziale.
Di segno opposto a quella del gene egoista, è la teo-
ria dell’endogenesi, dovuta principalmente alla biologa
Lynn Margulis. Gli organismi, più che essere il frutto di
un processo di selezione, determinato dalla competizione
fra geni, sono il risultato di un lungo cammino di collabo-
razione simbiotica. Cellule elementari generano rapporti
con cellule complesse attraverso la endosimbiosi prima-
ria. Tale percorso di cooperazione cellulare darà forme a
cellule sempre più sofisticate. La endosimbiosi secondaria
consiste invece nell’assimilazione di una cellula già com-
plessa da parte di un eukaryota; il risultato è la formazione
di un organismo. Questo meccanismo di partecipazione è
ciò che ha generato le cellule evolute con strutture artico-
late e ha dato vita agli organismi (Margulis 1981). Alla luce
della teoria dell’endosimbiosi, l’evoluzione appare come
un processo che premia la collaborazione anche fra entità
eterogenee. Sotto la lente del microscopio della Margulis,
la vita stessa si scoprirebbe dunque come evidenza tangi-
bile della partecipazione quale fondamento dell’organiz-
zazione degli ecosistemi.
Nella specie umana, basti pensare alla flora intestinale
e al suo ruolo vitale nel corretto funzionamento sia del
sistema immunitario che dell’assimilazione dei nutrienti
(Margulis, Sagan e Eldredge 1995, 96). Ad esempio, la
cobalamina o vitamina B12 rappresenta una sostanza pro-
42 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

dotta come scarto da microrganismi e batteri. Dato che


si tratta di una molecola essenziale per l’assimilazione del
ferro, la sua deficienza porta a gravi forme patologiche, la
più nota delle quali è l’anemia. Essa può essere ingerita
direttamente o prodotta nell’intestino. Ma l’essere umano
non può vivere in sua assenza.
La endogenesi porterà Lynn Margulis a incontrare Ja-
mes Lovelock. La loro collaborazione avrà come oggetto
la dimostrazione della validità dell’ipotesi Gaia di Love-
lock (1974) fortemente osteggiata da Dawkins. Le specie
non sono solo il risultato della collaborazione a scala mi-
croscopica, ma anche planetaria. Un’attenta osservazione
della realtà mette in evidenza come ogni organismo e mi-
crorganismo collabori non solo con i vicini del proprio ha-
bitat, ma con tutto il pianeta. Ogni organismo esercita un
incessante processo di interazione con il proprio ecosiste-
ma. Per quanto piccoli possano essere i batteri o organismi
unicellulari, sono stati i responsabili, ad esempio, e solo
per citare due casi, della lenta trasformazione del sistema
atmosferico terrestre oppure della regolazione del pH
delle piogge. Ogni animale o pianta – a prescindere dalla
propria scala – esercita un ruolo collettivo nella formazio-
ne ed evoluzione del proprio ecosistema. Questo processo
di interazione o reciprocità tra vita e Terra equivale a più
dell’82% della storia, se prudentemente si colloca l’abio-
genesi intorno a 3,7 miliardi di anni fa.
Sarà il lavoro del biologo Ernst Mayr a dare forma defi-
nitiva all’idea di speciazione e in particolare al ruolo signi-
ficativo dell’isolamento geografico o speciazione allopatrica.
L’evoluzione delle specie sarebbe il risultato della divisio-
ne dei lignaggi a livello spaziale (Mayr 1999, 508-509). Sul-
la base di questa teoria, Niles Eldredge e Stephen Gould
daranno vita alla teoria degli equilibri punteggiati (1972).
Per Eldredge e Gould l’evoluzione avviene proprio grazie
I. OSSERVARE 43

al processo di riadattamento di una specie che si trova a


migrare in un nuovo contesto geografico. Il gruppo perife-
rico, isolato in un’area specifica, sarebbe costretto a rapide
fasi di adattamento che darebbero così forma a una nuova
specie. A livello epistemologico, il principale risultato di
questa teoria sarebbe la produzione di un racconto signi-
ficativamente più conciliante con l’evidenza materiale. In-
fatti la speciazione come frutto del gradualismo filetico di
Darwin non combacia con il registro fossile (Eldredge e
Gould 1972, 84). [Una attenta analisi del rapporto tra ge-
ografia ed evoluzione la si trova nel saggio L’incontro man-
cato fra Humboldt e Darwin di Claudio Greppi (2008).]
L’evoluzione dell’uomo non è un’eccezione a questi per-
corsi articolati. Spesso si attribuisce al cervello un ruolo
centrale nella caratterizzazione dell’umanità. Si presume
(erroneamente) che sia stato il cervello ad avere attribui-
to l’eccezionalità alla specie. Invece, fra i primati, la stra-
da verso l’adattamento è iniziata dal bipedismo. Questo
rappresentava essenzialmente la scelta adattativa di fronte
alla trasformazione della foresta africana in savana come
conseguenza delle trasformazioni climatiche. Il bipedismo
era effetto di una nuova relazione che costringeva questa
specie di primati, per sopravvivere e procurarsi le risorse
necessarie, a coprire una superficie più ampia, azione pos-
sibile grazie ai nuovi arti inferiori. Secondo i principi della
exaptation [preadattamento] presentati da Gould e Vrba
(2008) e sulla base delle teorie più avvalorate, la liberazione
forzata degli arti superiori e delle mani rappresentò, ben-
ché vantaggioso, un fattore semplicemente casuale. Questo
gruppo di primati si trovò nella condizione (possibilità) di
usare le mani per realizzare oggetti e successivamente usare
le stesse per trasportarli (Biondi e Rickards 2006, 8). Ma va
ricordato che la manualità è una conseguenza e non causa
dell’eccezione umana e della sua creatività.
44 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

La exaptation come motore essenziale dell’evoluzio-


ne rappresenta un meccanismo di formazione arbitraria
di tratti genetici che poi si possono rivelare determinanti
nella formazione di nuove funzioni, relazioni o capacità
adattative in una specie.
Ma cosa significa tutto questo per la geografia? En-
dogenesi, coevoluzione di Gaia, teoria degli equilibri
punteggiati ed exaptation portano a un’angolazione dif-
ferente di osservazione: specie ed ecosistema non sono
suddivisibili. Certo possono esserlo a livello linguistico
in una conversazione o in un laboratorio di geografia. La
relazione come unità del tessuto geografico trova, a mio
parere, elementi di argomentazione precisi nelle idee ap-
pena esposte. La relazione va intesa come l’integrazione
reciproca. Da una parte, secondo i principi della teoria
degli equilibri punteggiati, la variazione dell’ecosistema
(sia a causa di una migrazione o di una trasformazione
traumatica dell’ambiente) comporta la rapida variazione
della specie; in direzione opposta, l’ipotesi Gaia mette in
evidenza come un mutamento della specie comporti la va-
riazione immediata dell’ecosistema nel tentativo di Gaia
di riconquistare il suo equilibrio.
È nota la difficoltà a mantenere in vita una generazione
di animali selvatici in ambienti alieni. Molte specie sono
in grado di adattarsi velocemente ai cambiamenti, altre
no. Vedi il caso del panda gigante [ailuropoda melanoleu-
ca]. È possibile immaginare tonni pinne gialle [thunnus
albacares] in assenza dell’oceano circumtropicale? Un’o-
biezione potrebbe essere che vi sarebbe la possibilità di
mantenere in vita esemplari di tonno in qualche acquario
condizionato. Si tratterebbe però di un’operazione ideale,
in grado di garantire la sopravvivenza di quell’esemplare,
ma non l’esistenza della specie. È valida e concreta una
strategia che miri alla costruzione di banche del DNA?
I. OSSERVARE 45

A che serve il codice genetico di un panda gigante in as-


senza della foresta di bambù? Ugualmente i tonni sono
espressione stessa di quel tessuto di collaborazione [o re-
lazioni] di quell’habitat definito oceano. Affermare ‘ton-
no’ comporta affermare anche ‘oceano’. Non è possibile
concepire come un’astrazione il sistema che ha permesso
l’evoluzione di quella specie. La specie è solo una delle
relazioni di quel tessuto.
II. OCCUPARE

Il 10 Ottobre 2011 l’agenzia Reuters è stata la prima a dare


la notizia: «la popolazione di un mondo affollato raggiunge
7 miliardi». Lo stato della popolazione umana inquieta una
parte consistente della società. Si tratta di un tema caratte-
rizzato da un piano razionale che si mischia con un ampio
livello emotivo; non a caso, l’aggettivo ‘affollato’ faceva ri-
ferimento al problema del sovrappopolamento. Dagli inizi
degli anni Settanta, quest’ultimo è stato convertito in uno
dei temi privilegiati da cinema, letteratura, giornalismo. Il
caso più noto di una lunga lista è l’influente The Limits to
Growth di Donella Meadows (1972). Cosa si intende per
sovrappopolamento? Rappresenta questo un problema
per il futuro del pianeta? E, se sì, in che forma?
Oggetto di questo capitolo è quello di evidenziare al-
cune caratteristiche della popolazione alla luce delle rela-
zioni tra specie ed ecosistema terrestre. Parallelamente, vi
sarà il tentativo di illustrare in che modo, intorno al tema
della popolazione, si sia formata una serie di idee che han-
no portato a una narrazione efficace dei problemi collegati
al sovrappopolamento umano, che non tiene però conto
di alcune evidenze che, nel quadro di una costante evo-
luzione, portano a intuire processi di riequilibro benefico
nella relazione tra società e pianeta.
Nel fare tutto ciò si desidera sottolineare con forza come
la geografia rappresenti una chiave essenziale per com-
prendere qualsiasi dinamica demografica. Non esiste, for-
se, nessun argomento che sia maggiormente ancorato alla
48 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

trinità geografica di Haggett (spazio, regioni e rapporto


con l’ambiente). Nella questione relativa alla popolazione,
lo spazio è ovunque. È lo spazio, sotto forma di disponi-
bilità di superficie, a determinare l’equilibrio o squilibrio
demografico di qualsiasi specie. La differenziazione re-
gionale determina flussi come effetto di fasi di compen-
sazione numerica. Infine, il rapporto uomo-ambiente, in
accordo con il livello tecnologico di una determinata civil-
tà o gruppo umano, genera dinamiche che porteranno alla
scomparsa, equilibrio o crescita dei gruppi umani. Da un
punto di vista demografico, va sottolineato come il tema
della popolazione sia una questione eminentemente colle-
gata alla costruzione dello spazio e alla sua articolazione in
scale. La nascita dei villaggi, crescita e collasso delle città,
la fuga dalle campagne e la desertificazione demografica
sono solo alcuni dei mille esempi possibili.
Si tratta di relazioni di vario tipo che si strutturano a
livello geografico su più ordini spaziali. Sergei Kapitsa
(1996) ha fornito evidenze solide su come la popolazio-
ne umana non possa essere concepita e raccontata con
una logica contabile. Raccontare il numero di abitanti,
nati, morti o migranti non è sufficiente. Si tratta di un
processo in perenne stato dinamico, non rappresentabi-
le esclusivamente come entità numerica. Oggi ancora di
più, a causa della forza, intensità e scala planetaria delle
relazioni (Kapitsa 1996, 70).

Etichette
Il significato o il valore di 7 miliardi è qualcosa che va al
di là delle nozioni e dell’intelligenza di chiunque. È facile
presumere che 7 miliardi di persone siano il doppio di 3,5
miliardi. Ma cifre simili sono essenzialmente etichette pri-
ve di un significato semantico.
II. OCCUPARE 49

Potrebbe, eventualmente, avere qualche senso l’inter-


pretazione del ritmo di crescita nel tempo. Ad esempio:
‘per 20.000 anni la popolazione mondiale è rimasta stabile’
o ‘nel corso degli ultimi 50 anni la popolazione si è raddop-
piata’. Ogni discorso demografico acquista valore se visto
alla luce dei mutamenti e delle trasformazioni nel tempo.
Le ansie e le paure relative al sovrappopolamento non
sono legate a un presunto superamento di una determi-
nata soglia. Il primo a farne le spese a causa di una lettura
lineare della popolazione è stato Thomas Robert Malthus
che, nel suo celebre An Essay on the Principle of Popula-
tion (1798), sottolineava l’esistenza di limiti alla crescita
della popolazione come conseguenza dei limiti alla pro-
duzione. In estrema sintesi, Malthus immaginava che la
crescita della popolazione avrebbe superato una soglia
delle disponibilità di alimenti. Secondo l’economista bri-
tannico (1798, 6):
«Dico che la popolazione, quando lasciata priva di
controllo, è cresciuta in proporzione geometrica, men-
tre i mezzi di sussistenza per l’uomo in proporzione
aritmetica.»
Il risultato di tutto questo non sarebbe stata una catastrofe,
bensì un meccanismo di autoregolazione.
Esiste un’eccezionalità nel caso del rapporto tra specie
umana ed ecosistema terrestre. La specie è sì espressione
di un codice genetico, ma è anche – e conseguentemente
si comporta – come espressione del proprio patrimonio
culturale. Umanità è DNA più cultura (Lewontin 1997,
68-69). L’homo sapiens ha la capacità di forgiare nuovi
schemi per reinterpretare condizioni. Nell’ottica di que-
sta tesi, quella che qui ho definito come reinterpreta-
zione corrisponde in realtà alla strutturazione di nuove
forme di relazione. Carl Sauer (1974, 192), uno dei ge-
50 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

ografi più influenti del XX secolo, lo ha sintetizzato nel


seguente modo:

«La geografia umana considera l’uomo come un agen-


te geografico, che usa e trasforma il suo ambiente in un
tempo non-ricorrente, secondo le sue abilità e i suoi
desideri. Noi sappiamo oggi che lui non è il padrone di
un ambiente illimitato, ma che la sua azione tecnologi-
ca nel mondo fisico e la sua vita sono diventati la crisi
della sua sopravvivenza e di quella dei suoi coabitanti.»

Pur nel disastroso quadro di disparità nel diritto alla


nutrizione, oggi la specie umana è in grado di produrre
più cibo di quello complessivamente necessario. Ester Bo-
serup (1965) arriva così a sviluppare una teoria opposta al
modello malthusiano: esiste un fattore dinamico di tipo
adattativo da parte dei processi e meccanismi produttivi.
L’incremento della popolazione porterà sempre alla ricer-
ca di soluzioni tecnologiche e cambiamenti negli schemi
produttivi necessari ad accrescere la produzione (Livi
Bacci 1998, 125-130). L’incremento della densità della po-
polazione determina l’incentivo più forte all’aumento del-
la produzione. Non è casuale che la popolazione umana
sia cresciuta con una maggiore intensità proprio nella fase
nella quale si è registrata la più drastica affermazione di un
nuovo modello culturale e produttivo.
Da un punto di vista storico-tecnologico, una soglia
non esiste. 7 miliardi sono troppi? Troppi rispetto a cosa?
Il problema non risiede nel superamento della soglia. Il
problema è implicito nella relazione. La relazione che si è
venuta a strutturare porta alla distruzione, contaminazione
e parallelamente al raggiungimento della cifra attuale della
popolazione. 7 miliardi di persone non è la causa della
distruzione dei santuari. Entrambi sono conseguenza del-
II. OCCUPARE 51

la relazione specie-ambiente; nel caso dell’homo sapiens


è più complessa perché integrata, come fa notare Sauer
(1974, 191), dalla sua capacità creativa e «tecnologica».
Quali sono gli argomenti per affermare che tale soglia
sia sfavorevole? Ogni dimensione della popolazione rap-
presenta lo stato evolutivo (storico) come risposta alle sol-
lecitazioni provenienti da un dato processo relazionale tra
specie ed ecosistema. Il punto non è la sovrappopolazio-
ne; quanto le caratteristiche delle relazioni che una spe-
cie intrattiene con il proprio ecosistema. Le paure sono
riferite agli effetti che l’interazione di una popolazione
crescente determinerebbe sul pianeta. Come suggerisce
la Boserup (1965), le risorse rinnovabili sembrano non
essere il limite al processo di crescita. Infatti oggi i timori
rispondono alle tendenze legate al ritmo di consumo e
all’esaurimento delle risorse non rinnovabili e dell’energia
(Bevilacqua 2011, 111-112). È facile capire istintivamen-
te che un quadro di crescita accelerata della popolazione
corrisponde a un conteso di trasformazione consistente
del proprio ecosistema. Una tale crescita accelerata e la
conseguente modificazione delle relazioni portano a mag-
giori incognite. Secondo i principi della presente tesi, la
dimensione della popolazione è il frutto della relazione
tra specie e pianeta; per questo si afferma sopra che una
data soglia non esiste. Al di là della neutralità delle fonti
seriali, l’osservazione sembra suggerire stati di dinamica
e mutamento nei processi di relazione.
I fattori e le interconnessioni reciproche da considerare
sono molteplici: distribuzione e spazio occupato; riparti-
zione delle risorse; livello tecnologico e stile di vita; tempo
e accelerazione storica. Tutte queste condizioni danno for-
ma a un contesto demografico rappresentato formalmente
dal complesso di variabili classiche come indice di natalità,
mortalità, mortalità infantile, tasso di fecondità e così via.
52 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

L’ingresso della specializzazione tecnologica e l’arric-


chimento culturale della specie si presentano perciò come
elementi di metamorfosi della relazione specie-ambiente
(Fracchia e Lewontin 1999, 57). Questi fattori diventa-
no sempre più determinanti nei processi di regolazione
e crescita della popolazione. Contrariamente, altri, come
carestie, clima o epidemie sembrano avere un peso sempre
minore come agenti di regolazione.
Date le paure dell’umanità sul proprio futuro, oggi
qualcuno sembra suggerire o aspirare, benché a livello pu-
ramente tetorico, a una popolazione di 7 miliardi di perso-
ne che pratichino esclusivamente agricoltura di sussisten-
za. Si tratta però di un falso ideologico: come già spiegato
da Paolo Malanima (2008), economie di sussistenza mai
avrebbero potuto raggiungere una popolazione che si av-
vicini neanche lontanamente a questa cifra. Per mantene-
re una popolazione di 7 miliardi è necessario il passaggio
da combustibile biologico a minerale e livelli di consumo
energetico meccanizzato traducibili in servizi medico-sa-
nitari, produzione alimentare, complessi di fabbricazione
industriale, sistemi di trasporto ad alta intensità o dispo-
nibilità costante di risorse, in modo da mantenere in vita
vaste aree metropolitane. In qualche misura sono le stesse
conclusioni alle quali giunge la Boserup parlando delle so-
cietà rurali e pre-industrializzate. Ma l’idea dell’ambiente
esterno è sostanzialmente falsa. Lewontin (1997, 86) chia-
risce questo punto affermando:
«Dobbiamo pertanto sbarazzarci della nozione che
là fuori ci sia un mondo costante e fisso che solo gli
esseri umani stanno disturbando e distruggendo. […]
Comunque non possiamo vivere senza cambiare l’am-
biente.»
II. OCCUPARE 53

Il principio alla base delle relazioni atomiche, ecologi-


che o antropologiche è la partecipazione. 7 miliardi sono
espressione dell’evoluzione tecnologica e della trasfor-
mazione complessiva dei rapporti delle diverse società e
dell’ecosistema terrestre. Questa metamorfosi della rela-
zione non è unilaterale. La creatività della specie deter-
mina una capacità di reinterpretare il proprio ecosistema.
Analizzando la rivoluzione industriale, lo storico dell’eco-
nomia Joel Mokyr (2005) ha interpretato la trasformazio-
ne tecnologica come conoscenza utile [useful knowledge].
Per lui, questa rivoluzione consiste in una serie di con-
vinzioni possedute, con un grado di certezza variabile, sul
proprio ambiente fisico (Mokyr 2005, 286-287).
Concordemente al modello di transizione demografico di
Warren Thompson, il futuro di questa dinamica diviene
profondamente legato al ritmo e allo stadio evolutivo delle
società nei diversi angoli del pianeta. L’evoluzione della
popolazione è sempre proceduta secondo forti distinzioni
geografiche. Quella distinzione dipende prevalentemente
dal grado di evoluzione tecnologica e dal tipo di relazione
con l’ambiente che ne deriva (Woods 2000, 15-19; Livi
Bacci 1998, 147-149).
La soluzione non può essere una catastrofe demografica;
questa è solo un’interpretazione superficiale e immatura
del problema. Come suggerito da Lewontin, la soluzione
non è nemmeno sognare di ritornare a un passato imma-
ginario. Le soluzioni passano attraverso la trasformazione
delle relazioni. E le relazioni stanno già cambiando, e stan-
no cambiando in maniera decisa (Ferraresi 2013). Il rici-
claggio, fonti di energie alternative e il ritorno al territorio
sono idee relativamente nuove. Si tratta di concetti che ap-
partengono già al linguaggio e al mondo dei più giovani e
dei più piccoli. Questa consapevolezza corrisponde, a pa-
rere mio, a nuove forme della conoscenza utile di Mokyr e
54 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

molto meno a una sensibilità o attenzione verso il pianeta;


la sua natura è pratica e non filosofica. La consapevolezza
dei consumi, la coscienza della propria impronta ecologi-
ca sono parte della pratica di un numero sempre più cre-
scente di persone. Il potere di questo gruppo è compatto
e condizionante; e viene esercitato quotidianamente alla
cassa di un supermercato.
La variabilità storica è determinata dall’evoluzione stes-
sa della civiltà. Come evidenziato da Hans Rossling (2006),
diritti e alfabetizzazione della donna nei paesi in via di svi-
luppo determineranno una riduzione dell’indice di fertili-
tà in quelle aree del pianeta.
Ma nell’ambito della questione della popolazione lo
spazio è ovunque. Parlando proprio dello spazio, Livi
Bacci mette in risalto come (1998, 130):
«Lo studio dello sviluppo demografico di lungo pe-
riodo non può farsi se non tenendo conto della di-
mensione ‘spazio’ con la quale si sintetizza tutto ciò
che con esso è collegato e particolarmente la terra e i
prodotti della terra […]. Per troppo tempo la demo-
grafia ha, se non ignorato, dedicato scarsa attenzione
a questi temi, precludendosi preziosi strumenti inter-
pretativi […].»
I meccanismi di interrelazione sono intimi e non scom-
ponibili. In questo campo ogni aspetto ha come ramifi-
cazione nuove dinamiche, frutto di conseguenze sempre
geografiche. La forza e il vigore delle dinamiche demogra-
fiche è persistente. Qual è il consumo pro-capite a livello
mondiale di petrolio? A quanto ammontano le riserve?
Dato un certo stile di vita, per quanto tempo ci sarà anco-
ra petrolio? Tutte queste domande sono espressioni di un
unico problema. Ognuna descrive la popolazione attuale e
illustra o permette di dedurre le relazioni intrinseche fra i
II. OCCUPARE 55

fattori elencati sopra. Ma ognuna fa anche riferimento allo


sfruttamento meccanico.
Ma il pianeta non è un’entità infinita. Solo sulla base
di queste considerazioni può essere definita la sovrappo-
polazione. Si tratta sostanzialmente di uno squilibrio evi-
dente tra consumo di risorse e superficie di riferimento.
Lo squilibro si materializza come incapacità del territorio
di proporzionare risorse (rinnovabili e non) sufficienti per
sostenere la popolazione al suo interno.

Adattare e crescere
La specie umana ha due caratteristiche peculiari. Da una
parte è l’unica, fra quelle complesse, ad avere visto incre-
mentare ininterrottamente (salvo brevi intervalli storici), il
numero dei propri esemplari. Questa crescita l’ha vista di-
ventare la forma più diffusa in questo pianeta. Sorpassa il
numero di esemplari di qualsiasi altra specie di mammiferi
superiori, seguita solo da quelle sfruttate per il proprio be-
neficio come cani, mucche, cavalli, polli o i parassiti come
topi e scarafaggi. Questo è stato possibile proprio perché
si tratta della specie che, grazie alla sua intelligenza, ha sa-
puto adattare le proprie strategie, trovare soluzioni a par-
tire dall’introduzione del fuoco fino alla messa in orbita
dei satelliti. L’homo sapiens ha saputo mettere al proprio
servizio la sua peculiare creatività.
La seconda caratteristica è quella di essere la specie che
ha dimostrato nel corso della sua storia la maggiore capaci-
tà di adattamento ad ambienti fisici diversi. Qualità che le
ha consentito di occupare sostanzialmente tutto il pianeta
e diventare anche la prima grande specie globale (Moran
2007, 23-25). Possiamo trovare esemplari di umani prati-
camente ovunque. Una tale distribuzione a livello plane-
tario è la premessa stessa della globalizzazione. Ma questa
56 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

diffusione è anche alla base della differenziazione su base


geografica di alcuni tratti fenotipici come colore della pelle,
occhi o capelli. Ma la disseminazione è anche condizione
essenziale per la distinzione in gruppi etnici caratterizzati
da religione, famiglie linguistiche o nutrizione.
Questo dominio non è stato conquistato facilmente e
dietro di sé ha una lunga storia, iniziata quando la spe-
cie doveva ancora raggiungere lo stato evolutivo attuale.
Indubbiamente è stato proprio grazie alle peculiari ca-
pacità cognitive e intellettuali dell’homo sapiens che que-
sto gruppo di primati ha avuto la capacità di dominare
il proprio ambiente e, attraverso questo, permettere alla
specie di raggiungere recentemente una condizione che,
apparentemente, avrebbe avuto come esito una crescita
inarrestabile. Gli ultimi due secoli di successi della sto-
ria della popolazione umana hanno avuto un costo. Alla
luce dell’esperienza accumulata durante questo percor-
so, in senso assoluto è impossibile parlare di un successo
dell’intelligenza umana. Questo costo può essere piutto-
sto misurato in termini di qualità della vita, sostenibilità
dei modelli socio-tecnologici e velocità nel consumo delle
risorse planetarie.
In ogni caso, giudizi su oneri e loro ricaduta sulle con-
dizioni della società non possono essere sbrigativi. Non
è possibile affermare che la qualità della vita delle fasi
precedenti fosse, in senso assoluto, migliore o superio-
re di quella della post-umanità. Ad esempio, è possibile
affermare che nel passato i prodotti agricoli erano senza
ombra di dubbio più genuini; il loro apporto nutritivo
era più ricco e completo; oppure che le caratteristiche
di specie ancora non ibridate erano più compatibili con
le necessità e la fisiologia del corpo umano. È facile però
mettere in evidenza che oggi la vita media delle persone
in tutte le parti del pianeta ha registrato un incremento.
II. OCCUPARE 57

Occorre sempre contestualizzare ogni singola osservazio-


ne (Pascale 2015).
Anche se molti fattori in questa storia hanno visto
un’evoluzione positiva, molti costi ci sono. Quello più
importante è legato alla costruzione di un modello eco-
nomico in grado di sostenere una popolazione immensa,
ma che, d’altro canto, priva la quasi totalità dei membri
della specie di un rapporto equilibrato con la natura, lo
spazio e il tempo. Harvey (2002, 319-321), ad esempio,
ha evidenziato come gran parte dell’onere per il processo
di crescita industriale – e dunque anche di successi demo-
grafici – sia ricaduto nella reinterpretazione del proprio
tempo da parte dell’operaio. Il vecchio tempo ecologico
dell’uomo è stato sostituito dal ritmo preciso e periodico
della catena di montaggio.
Parte della ‘civiltà moderna’ si fonda sul falso ideolo-
gico che fa riferimento alla possibilità di spezzare questo
legame o relazione con il proprio ecosistema. L’idea che
l’umanità stia da una parte e la natura dall’altra è un’illu-
sione. Casomai si può dare vita a un meccanismo disfun-
zionale che comporta stress e sofferenza per l’individuo; e,
per una questione di reciprocità, anche all’ambiente. La
rottura definitiva di questo rapporto significherebbe la
cessazione stessa dell’individuo.
Una parte consistente della popolazione umana acqui-
sta per il proprio sostentamento prodotti in punti vendita,
supermercati e, in maniera sempre più crescente, catene di
ipermercati; oggi anche espressione di multinazionali che
operano a livello mondiale. Questa modalità di consumo
cancella qualunque forma di consapevolezza del legame
indissolubile tra l’individuo e la Terra. L’amnesia provo-
cata dall’ipermercato non rappresenta una mancanza di
sensibilità dell’uomo post-moderno o la sua incapacità di
attribuire il giusto valorare alle cose. Costituisce invece un
58 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

limite a una interpretazione integrale della propria realtà,


rappresentazione del proprio mondo e, soprattutto, com-
prensione della propria identità.

Hockey sticks
Uno degli aspetti caratteristici della crescita demografica
è stata la sua accelerazione esponenziale. La popolazione
umana raggiunge 7 miliardi di esemplari nel 2011. Il pun-
to chiave precedente era dei 6 miliardi raggiunti nel 1999.
Si tratta di 1 miliardo di persone in più in 12 anni. Si pre-
sume che dal neolitico, tra alti e bassi, la popolazione sia
cresciuta con relativa stabilità per gran parte della sua sto-
ria. Questo andamento piatto si è interrotto verso l’inizio
della rivoluzione industriale. Ecco i dati:
1804 1 miliardo
1927 2 miliardi
1959 3 miliardi
1974 4 miliardi
1987 5 miliardi
1999 6 miliardi
2011 7 miliardi
Le implicazioni dell’andamento che si rileva sono signi-
ficative. Lo hockey stick è la forma tipica della curva di in-
cremento per ogni attività collegata alla specie umana. La
crescita della produzione e del consumo di petrolio, del
mais o degli elettrodomestici, per citarne solo alcuni, sono
fenomeni che hanno uno sviluppo rappresentabile sotto
curve da hockey stick. Il loro aumento semplicemente se-
gue quello dell’evoluzione dell’homo sapiens.
Paul Crutzen (2005) ha interpretato l’impatto massic-
cio delle attività umane come una nuova fase geologica
successiva all’Olocene. L’Antropocene sarebbe una nuova
II. OCCUPARE 59

fase caratterizzata da alterazioni ambientali determina-


te dalla presenza umana. Ma il passaggio all’Antropoce-
ne, e la sua identificazione scientifica, è determinato non
dall’umanità, ma dall’occupazione esponenziale della po-
polazione. La popolazione, intesa come espressione della
relazione uomo-ambiente, raggiunge una soglia dove tale
interazione lascia una traccia indelebile nelle stratifica-
zioni minerali e nell’evoluzione della chimica planetaria.
In tutte le fasi geologiche precedenti, l’evoluzione della
biosfera e la trasformazione della litosfera erano state il
frutto della collaborazione di tutte le forme di vita nel pia-
neta. L’Antropocene rappresenta una fase dove le tracce
dell’antropizzazione sono riconoscibili a livello geologico.
L’incremento dei livelli di anidride carbonica nei ghiacci
polari o l’acidificazione dei mari è conseguenza di un’u-
nica specie. [Pur nella consapevolezza delle conseguenze
fisiche dell’estrazione e consumo di risorse del pianeta,
non va mai dimenticato che quest’ultimo è un organismo
dinamico, peraltro molto potente. Il consumo quotidiano
combinato di tutte le fonti energetiche antropiche non è
che una frazione millesimale di tutta l’energia sprigionata
o coinvolta nelle dinamiche terrestri. Va ricordato inoltre
che il tempo gioca sempre a favore del pianeta.]

Misurare un organismo
Le implicazioni delle curve della popolazione, così come
di quelle del modello di transizione, sono diverse e non
sono immediatamente assimilabili. La crescita della po-
polazione determina condizionamenti reciproci con altri
aspetti della società e dell’ambiente: produzione, consumi,
sviluppo, salute e benessere.
In geografia, la definizione di popolazione può essere
sintetizzata come «l’insieme degli individui della medesi-
60 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

ma specie che compongono la stessa comunità» (Mayhew


2004, voce population). Secondo i principi del problema
del linguaggio e della separazione, questa definizione resta
insufficiente e lacunosa.
La popolazione umana indica cose molto distinte nel cor-
so della sua storia. Un milione di persone rappresenta entità
alquanto diverse se si parla di due secoli fa, di oggi o del
futuro. Questo perché la loro capacità di interazione si è tra-
sformata nel tempo. In questo senso la popolazione umana
differisce notevolmente da altre specie. Dato un certo terri-
torio, un gruppo di leoni di 200 anni fa di n esemplari sareb-
be equivalente e si comporterebbe allo stesso modo in cui si
comporterebbe un gruppo di oggi di uguale dimensione.
In sintesi, il senso della definizione canonica è quello di
gruppo o somma di tutti gli organismi con le stesse caratte-
ristiche genetiche presenti all’interno di un determinato eco-
sistema. Tale definizione è insufficiente per la specie umana.
Questa possiede una dinamica storica che si somma alla sua
interazione con il pianeta. Nel suo caso, è possibile concepi-
re, e di conseguenza interpretare, gli esemplari come entità
realmente separate e distinte (intese come unità finite e com-
plete)? In altri termini: può la popolazione di una data specie
essere concepita come un’entità scomponibile in parti?
Un piccolo esempio. Nel 1533 nasce l’insediamento che
poi avrebbe dato origine a Cartagena de Indias; nel 1624
nasce quello di Nuova Amsterdam. Entrambi i siti, prece-
duti da villaggi indigeni, nel corso di questi ultimi quattro
secoli, sono diventati entità completamente distinte. Pur
con un vantaggio storico di quasi cento anni, la prima città
conta oggi una popolazione di 900.000 abitanti, mentre
la seconda di 9.500.000. Affermare che la popolazione di
Cartagena equivale a un decimo di quella di New York è
statisticamente corretto, ma nasconde le implicazioni e le
dinamiche che portano a questa condizione.
II. OCCUPARE 61

Se il nome popolazione designa una quantità, allora fa


riferimento solo a un’etichetta. Se il termine fa invece rife-
rimento alle relazioni ambientali, storiche e tecnologiche,
allora esso è soggetto a un’interpretazione più ampia che
contiene gli elementi di relazione e interazione. In un con-
testo epistemologico simile, il numero di esemplari diven-
ta solo un sintomo di queste relazioni.
A seconda della specie, vi sono diverse strategie a be-
neficio del gruppo stesso, proprio perché sussiste un li-
vello di interazione reciproco fra componenti. Nel caso
della specie umana questo principio acquista una nuova
valenza. Che si tratti di un approccio biologico o socio-
logico, oggetto dell’analisi non è mai l’individuo, ma il
loro insieme. Come è stato già suggerito sopra, non è la
quantità specifica di esemplari a determinare le caratteri-
stiche dell’occupazione, quanto le forme d’interazione tra
popolazione e ambiente.
La visione organica della specie umana conta evidente-
mente con scale più ampie. Si è detto che immaginare i co-
lonizzatori come numero è elementare; immaginare le loro
interazioni reciproche permette di raggiungere un livello
di percezione e interpretazione organica. Coerentemente
con la logica della endosimbiosi della Margulis, i colo-
nizzatori sperimentano relazioni con altre specie. Al di là
dell’evoluzione tecnologica e degli elementi a livello con-
giunturale storico, cavalli, cani, ratti, zucche, mais devono
essere contemplati. [Il problema dei confini si manifesta
in questo caso quando si immagina di poter concepire una
data popolazione come dissociabile dal contesto].
Nel caso della specie umana, quanto può essere esteso
questo gruppo? Dipende sostanzialmente dal grado di in-
terazione. Una volta la Terra poteva essere abitata da più
gruppi. Oggi, nell’era della globalizzazione, da un grande
gruppo; per quanto possa apparire conflittuale e separato.
62 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Fatto è che tutti i componenti, per quanto distanti, diversi


e opposti in fazioni, si condizionano reciprocamente.
Secondo questa visione, l’oggetto è non tanto il grup-
po di individui nel loro insieme, quanto le relazioni che
da esso si generano e si determinano. La complessità di
queste interazioni definisce poi il grado di sviluppo di cui
il gruppo possa beneficiare. Occorre sottolineare che la se-
parazione fisica che si può percepire a livello storico è solo
un’illusione. La comunione di un unico patrimonio gene-
tico è un’evidenza chiara del contatto continuo fra tutti i
gruppi umani del pianeta.
Ma è possibile confutare la visione dell’esemplare come
entità isolabile? Teoricamente un individuo isolato potrebbe
essere in grado di mantenersi in vita e autosostentarsi. Però
non sarebbe in grado di riprodursi. Per riprodursi egli ha
bisogno di stabilire un rapporto con un altro esemplare di
sesso opposto. Se si prende in considerazione l’idea che il
programma primario di ogni individuo è la sua sopravviven-
za (Eldredge 2002, 3), si può capire che la logica numerica
non è universalmente applicabile per descrivere e spiegare
quello che la popolazione è. Nello stesso modo, un individuo
isolato non è in grado di imparare o beneficiare di un tiroci-
nio. L’isolamento da un gruppo lo porta a disfunzionalità a
livello psicologico.
Ogni specie è un’entità spaziale. Spazialità che solo
apparentemente esprime il grado di separazione dal resto
della propria popolazione e dal proprio ecosistema. Ma
anche in questo caso, tale distacco può essere interpretato
come un’illusione. Lo spazio in questione rappresenta una
manifestazione del livello di interazione fra individui. Ad
esempio, un individuo che esprime un grado di mobilità
spaziale maggiore, in realtà esprime un grado di scambio
sociale ed economico superiore. Nello stesso modo, lo
spazio è un indicatore tangibile del grado di dipendenza
II. OCCUPARE 63

o influenza reciproca con il proprio ecosistema. Il consu-


mo di risorse dell’ambiente si manifesta con un grado o
una estensione spaziale necessaria per soddisfarlo. La co-
struzione dello spazio o, se si desidera, la sua percezione,
sono funzione delle relazioni fra individui, fra gruppi e fra
gruppo ed ecosistema.
Oggetto della scienza dovrebbe essere sempre capire
cosa avvenga e che relazioni si stabiliscano tra questi atto-
ri; molto meno elencare e descrivere ‘oggetti’. Lo spazio
può essere interpretato dunque come il grado di interazio-
ne interna a una popolazione; così come il grado di inter-
dipendenza tra una popolazione e il proprio ecosistema.
A livello demografico, lo spazio esprime questo doppio
valore di scala: una verso l’esterno, centrifuga, e una verso
l’interno, centripeta.

Caratteristiche distributive
Si è già detto che la distribuzione della popolazione non
è omogenea. Vi sono regioni ad altissimo o alto livello di
occupazione antropica, mentre ci sono territori comple-
tamente disabitati. La conformazione della distribuzione
della popolazione segue una serie di condizionamenti.
Indubbiamente quello ambientale è il più importante. A
livello geografico è possibile notare come il 90% della
popolazione abiti nell’emisfero nord (Ogden 2003). In
questo caso, le condizioni che portano a ciò sono elemen-
tari: il 67% delle terre emerse si trova da quella parte del
globo. Escludendo l’Antartide, tale rapporto sale al 76%.
Nello stesso modo, l’avvicinamento alle aree polari deter-
mina una rarefazione della popolazione. Le risorse e le
caratteristiche ambientali portano alla circostanza di dar
vita e forma a gruppi sociali sempre a frequenza e intensi-
tà variabile. Un altro fattore che può determinare le sorti
64 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

del popolamento in una regione sono le risorse idriche.


Una veloce analisi della distribuzione dei grandi fiumi
mostra come requisito fondamentale per un’area ad alta
pressione demografica sia sempre appunto la presenza di
bacini fluviali importanti.
Esistono altri elementi, come quantità e qualità delle
terre, o ragioni climatiche quale l’altitudine e caratteristi-
che morfologiche o distanza dalle coste. In conclusione, è
importante ricordare che, benché l’essere umano sia stato
in grado di colonizzare e occupare anche i lembi più ino-
spitali della Terra, lo sviluppo della popolazione risponde
a una serie di possibili interazioni delle società a livello
geografico-ambientale.
I condizionamenti storici hanno un ruolo essenziale
nella comprensione della popolazione di una regione. Gli
attributi presenti in una determinata regione sono sempre
influenzati dall’evolversi del progresso. I vincoli stanziali
di una popolazione sono sempre prevalenti. Ma nello stes-
so modo occorre tenere in conto che una popolazione può
essere condizionata da vicende storiche legate a carestie,
malattie o a eventi bellici.
Ogni specie possiede un attributo essenziale. Questo
può essere immaginato come un programma primario
che l’organismo tende a portare, nel proprio contesto
ambientale e sociale, a compimento: la sopravvivenza
stessa della specie. Quella umana non fa eccezione a tut-
to ciò. Infatti, proprio per la sua intelligenza, pur com-
portandosi in modo molto distinto dalla maggior parte
degli organismi complessi, essa determina atteggiamenti
in ultima istanza non distinguibili dal resto delle specie.
L’uomo è sempre e comunque un abitante del «mondo
1» di Popper.
Ogni organismo risponde alla necessità di riprodursi. I
meccanismi di riproduzione sono controllati dalla sessua-
II. OCCUPARE 65

lità e non è difficile comprendere il ruolo centrale che tale


dimensione giochi nella quotidianità degli esseri umani e
nella stessa strutturazione della società, della religione, del
linguaggio e della cultura. Al fine di garantire la conser-
vazione della sua specie, è necessario che ogni esemplare
sia in grado di competere in modo da garantirsi la pro-
pria sopravvivenza fino all’età riproduttiva e trasmettere
il proprio patrimonio genetico alla generazione successiva.
Il gene egoista fa la sua comparsa sulla scala individuale.
Il ruolo centrale della sessualità e riproduzione della
specie viene illustrato da Livi Bacci nel seguente modo
(1998, 18):
«Da una generazione all’altra […] una popolazione si
accresce (o diminuisce, o resta stazionaria) se coloro
che ‘accedono al periodo riproduttivo’ […] sono in
grado a loro volta, di portare a riproduzione un nume-
ro superiore (inferiore, uguale) di individui.»
A dispetto delle tradizioni culturali e sociali di un de-
terminato gruppo – quali matrimonio, corteggiamento,
formazione, grado d’istruzione – nella sostanza della re-
altà terrestre, per l’individuo, tutto si riduce ad alimenta-
zione e riproduzione. Riallacciandoci al problema corpo-
mente, è possibile capire che il corpo umano conosce
precisamente solo meccanismi per la regolazione di que-
sti due processi: sopravvivenza ed, eventualmente, ripro-
duzione (Eldredge 2002, 3). Le risposte del corpo sono
solo istintive; o, meglio, sono quelle che comunemente
si associano all’idea di istinto. L’interpretazione della po-
polazione intesa come organismo strutturato dalla parte-
cipazione di più esemplari o perfino secondo i principi
della endogenesi di Lynn Margulis può apparire aliena
alla logica del funzionamento del corpo dell’individuo.
La popolazione può così effettivamente essere contem-
66 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

plata in due modi solo apparentemente discordanti: se-


parazione e collaborazione.
In questo senso, la specie umana ha avuto la meglio di
fronte a molte altre: la scommessa è stata fatta proprio
sulle capacità cognitive piuttosto che sulla forza, velocità,
capacità di predare o capacità mimetica. Il risultato è sta-
to una specie dall’incredibile capacità adattativa. Sistema
digestivo e cervello sono qui due metafore. Fanno riferi-
mento a cellule specializzate che nel lungo corso dell’e-
voluzione hanno collaborato stabilendo efficacemente
relazioni non divisibili.
Per quanto diversa e speciale, la specie umana non si
distingue dalle altre in quello che una specie deve fare. Ed
è sufficiente riflettere su come tutte le specie viventi con-
dividano gran parte dei propri patrimoni genetici. Pen-
so che sopravvivenza e riproduzione siano state per ora
metafore utili alla rappresentare delle relazioni fra geni e
pianeta. E, sempre a parer mio, si tratta di relazioni che
sono ancora lontane dall’essere comprese integralmente.
Come affermato all’inizio di questo capitolo, la geogra-
fia della popolazione rappresenta un tema centrale per
la disciplina. Ma si tratta anche di uno degli argomenti
scientifici in cui i problemi del linguaggio e dei confini si
manifesta con maggiore forza.
III. ABITARE

La lunga strada evolutiva del rapporto uomo-ambiente


viene interrotta da importanti processi adattativi che si
verificano nel neolitico. Sia che si tratti di una sperimenta-
zione iniziata in un singolo epicentro attorno alla sponda
orientale del Mediterraneo oppure una trasformazione
sparpagliata in più parti del globo, l’agricoltura mette fine
all’era nomade della specie umana (Bocquet-Appel 2011;
Diamond 1997, 98-99). Per quanto il neolitico possa ap-
parire come una fase remota, la civilizzazione ipertecno-
logica e globale non è altro che l’ultimo stadio di quella
rivoluzione. Durante il neolitico sono stati formati para-
digmi di occupazione spaziale e dinamiche di relazioni
con l’ambiente che perdurano ancora oggi come meccani-
smi essenziali per il funzionamento della società.
Dopo la comparsa dell’agricoltura, la Terra non sarà
mai più la stessa. Si tratta di una trasformazione relati-
vamente veloce degli schemi a disposizione della specie.
In accordo con la teoria portante di questo volume, il
passaggio dal nomadismo alla stanzialità ha comportato
l’inizio della trasformazione «della maggior parte degli
ecosistemi terrestri» (Mazoyer e Roudart 2006, 33). In al-
tri termini, non solo si registrerà la trasformazione della
specie che diviene stanziale, ma, questo cambiamento, av-
venuto in una finestra tra 11.000 e 4000 anni fa, dà inizio
a un processo o meccanismo di risposta e adattamento da
parte dell’ecosistema. Tale processo di adeguamento re-
ciproco dell’ecosistema diverrà manifesto sotto forma di
evidenza chimica solo dopo la rivoluzione industriale in
68 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

tutti i processi derivanti dai cicli di rilascio meccanizzato


di sostanze nell’ambiente.
La coltivazione e addomesticamento delle specie vege-
tali da una parte corrisponde a nuova relazione uomo-eco-
sistema; dall’altra l’agricoltura determinerà nuove forme
di costruzione spaziale. Banning nel suo saggio The Ne-
olithic Period: Triumphs of Architecture, Agriculture, and
Art (1998) descrive questa fase di transizione come un pro-
cesso di adattamento integrato che coinvolge ogni aspetto
delle attività umane. L’agricoltura darà vita a nuovi nomi e
nuove forme di separazione. Il colto sarà adesso separato
dall’incolto. Nasceranno così nuovi nomi ed etichette es-
senziali per le lingue: ‘parcella’, ‘campo’, ‘insediamento’,
‘fossato’, ‘confine’ e ‘strada’.
Il problema del linguaggio (come descritto nel capitolo
I) prenderà presumibilmente forma proprio in questa fase.
I nuovi nomi acquisteranno una densità consistente nella
lingua e nella mente delle prime culture. Sarà proprio la
consistenza acquisita dai nomi durante la rivoluzione neo-
litica che determineranno la trasformazione della capacità
interpretativa dello spazio e della realtà. ‘Campo’ [agrico-
lo] o ‘parcella’, ad esempio, rappresentano sintesi che tra-
ducono in un solo nome relazioni spaziali, azioni (come la
coltivazione), il raccolto e il nutrimento della popolazione.
Si tratta di termini che condenseranno in un riferimen-
to unico molti processi, relazioni o interazioni. E queste
sono quelle che definisco nuove forme di occupazione so-
ciale dello spazio. Il sociologo Henri Lefebvre (1991, 73)
faceva riferimento a tale processo come «produzione di
spazio», mettendo l’accento proprio sugli sviluppi legati
alle «interrelazioni», alla «loro coesistenza e simultaneità».
Anche John Hudson (1969, 365), descrivendo il meccani-
smo di composizione o genesi degli insediamenti, parla di
«processo» all’interno di una nicchia ecologica. Nel mec-
III. ABITARE 69

canismo di produzione di spazio, le relazioni assumono


gradi diversi a causa della loro intensità e prossimità. Ciò
dà forma alle scale geografiche.
Di conseguenza, anche in questa fase, il problema della
separazione inizierà a formarsi in modo definito. L’intro-
duzione dei campi e dei fossati determina non solo nuo-
vi cicli e nuovi ritmi di vita, ma anche la frammentazione
dello spazio in nuovi mosaici e la formazione del paesag-
gio. Questo processo di trasformazione comporta una ri-
voluzione definitiva delle forme spaziali a livello cognitivo
per l’uomo. Le nuove relazioni cicliche, adesso ancorate a
maglie insediative, daranno forma a schemi relazionali di
varia ampiezza e intensità. In questo modo, la trama delle
relazioni andrà ad articolarsi in quelle che oggi vengono
definite scale geografiche.
Il ‘mondo nuovo’ rappresenta per la maggior parte
dell’umanità la fine dell’eterno Eden nel quale la specie
umana aveva preso forma e si era evoluta. La ‘casa’, il ‘vil-
laggio’, i ‘campi’, i ‘confini’ e le ‘strade’ offriranno nuove
possibilità. Ma soprattutto nuovi vincoli, stimoli, costrizio-
ni e impegni. Il ‘villaggio’ rappresenta un rifugio sicuro; ma
il villaggio deve essere difeso sia da altri gruppi che dalla
natura stessa. Il villaggio come tale è espressione delle nuo-
ve relazioni. La densità di esse e le relative tracce materiali
daranno forma al nome e all’idea [villaggio]. E tale idea
darà vita ai meccanismi di separazione. In modo molto ef-
ficace, Edward Banning (2003, 5) ha definito questo pro-
cesso di separazione e il conseguente adattamento ai nuovi
spazi come processo di «addomesticamento umano».
Il neolitico (così come la rivoluzione industriale suc-
cessivamente) dà forma a una realtà che, mai negando i
rapporti precedenti, ne introduce dei nuovi. Questi nuovi
schemi di relazione, organizzati intorno alla logica dell’in-
sediamento, devono garantire una compatibilità a ritroso
70 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

con le dinamiche fisiologiche e reciproche stabilite in pre-


cedenza dalla specie. In parole semplici, le rivoluzioni dei
rapporti specie-ecosistema devono garantire, ad esempio,
una dieta comportabile con l’organismo e le necessità fi-
siologiche previe. La pena per il non rispetto di questa
legge è l’estinzione immediata della specie. Sono la fi-
siologia stessa e le caratteristiche anatomiche a garantire
transizioni sicure della specie umana, in un quadro dove
intelligenza e creatività possono portare a infinite speri-
mentazioni incompatibili con la fisiologia umana. I limiti
e le necessità degli esemplari restano ancorati a ritmi evo-
lutivi di lunghissima durata. Nel corso della post-umanità
si assisterà alla violazione costante di questo principio. La
sua disattenzione sarà la causa di diversi problemi per la
società e l’umanità.
Una delle conseguenze principali di tale rivoluzione
ecologica sono gli insediamenti. La casa – ovvero il rifu-
gio stabile – determina la nascita di un nuovo confine: le
mura domestiche. E con questa semplice invenzione vie-
ne data forma al dentro e al fuori. Nuovi schemi spaziali
iniziano a sbocciare ovunque. In molte delle culture poi
compariranno i recinti. E con questo nasceranno un den-
tro e un fuori su una scala diversa. Per schemi si intendo-
no anche quelle formule architettoniche o quei frammenti
con i quali, sempre all’interno di una intelaiatura spaziale,
la mente e la creatività dell’uomo danno forma a nuove
relazioni sociali: coltivare, allevare, cacciare, festeggiare,
curare, pregare o morire. Le stesse relazioni acquistano
densità sotto forma di nomi quali ‘coltivazione’, ‘gregge’,
‘preda’, ‘festa’, ‘medicina’, ‘tempio’ o ‘necropoli’.
Non che prima non ci fossero rifugi per l’homo sapiens.
L’uomo era in grado di accamparsi e trovare rifugio nel
ventre delle caverne (Binford 1990, 72-76). [Forse in quel
mondo remoto, ominide e caverna erano una cosa sola?]
III. ABITARE 71

Ma la casa, diventa un rifugio stabile; definitivo. Presu-


mibilmente esistevano rifugi stabili che avevano servito a
più generazioni di cacciatori e raccoglitori. Ma la casa e il
villaggio sono una creazione. E la casa in questo processo
di invenzione diventa il primo passo verso la formazione
di questa idea di separazione.
Qualcosa resta fuori; qualcosa può varcare i limiti del
villaggio; infine, qualcosa deve restare dentro. Ci sarà il
villaggio dei vivi; e così nascerà anche il villaggio dei morti.
Nello stesso modo, i recinti e il villaggio daranno vita alla
separazione più grande; uno dei confini più importanti
nella cultura e nell’immaginazione dell’uomo: il confine
tra cultura e natura (Levi-Strauss 1998, 161-163). Tutto
quello che è di qua, per quanto insipiente, diventa cul-
tura; tutto il resto la natura, appunto. Nel tempo, queste
strutture insipienti, questi pali e paglia matureranno. Le
strutture diverranno più solide e così saranno più solide le
idee collegate. Ci vorrà molto tempo, ma alla fine di questo
processo, nella post-umanità, l’uomo dimenticherà la sua
provenienza; dimenticherà che lui è stato – ma soprattutto
rimane – un filo di quell’intreccio che oggi chiama natura.
Ciò che una volta era lui stesso, acquisita appunto il nome
di ‘natura’. Ma questa idea di separazione è molto più illu-
soria di quello che immediatamente si possa pensare.
I nuovi confini, che non sono altro che strumenti di
mediazione o filtri di interazione, consentiranno un lento
ma inarrestabile processo di sviluppo delle società, dell’e-
conomia e della tecnologia. Questi confini o filtri non si-
gnificano però la cessazione delle relazioni precedenti. Si
tratta solo di una variazione delle forme e dell’intensità
dei rapporti. Ad esempio, la comparsa dei cereali in que-
sta fase non significherà la cessazione da parte dell’essere
umano del consumo di frutta o proteine animali; ma il loro
consumo continuerà in forme e intensità differente. Da un
72 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

certo momento però, il ciclo e la frequenza dell’utilizzo


della frutta da parte della società o l’eventualità di dive-
nire il pasto di una belva cambieranno; e tali condizioni
si trasformeranno progressivamente verso nuove forme
nel corso dei secoli successivi. Non solo si intensificherà il
consumo di cereali (Diamond 1997, 102-110), ma, intorno
alle case e all’interno delle aggregazioni abitative, si for-
meranno nuovi rapporti sociali e, successivamente, nuovi
rapporti economici. Questi saranno frutto di nuove forme
di mediazioni non solo verso l’esterno, ma di regolazione
dei meccanismi interni agli spazi insediatiti e di interazio-
ne di questi ultimi attraverso le vie di comunicazione.

Specializzazione
L’insediamento offrirà una nuova forma di stabilità par-
ticolarmente benefica per le costruzioni mentali. La sto-
ria degli insediamenti segue un’evoluzione che va verso
la specializzazione. La specializzazione come prodotto
della cristallizzazione delle tradizioni crea lo spazio che
consente alla neuro-elasticità di prende il sopravvento. In
questo nuovo spazio, i cuccioli di homo sapiens riceveran-
no in modo più efficiente il sapere prodotto dai proge-
nitori: imparare, insegnare, conservare, scrivere, leggere.
Francois Bordes (1971) descrive già dal paleolitico supe-
riore un lungo percorso evolutivo parallelo tra la specie
e la propria tecnologia. Al nuovo spazio insediativo si
potrà attribuire un nuovo ciclo, non solo produttivo, ma
l’accelerazione dei meccanismi di accumulo culturale. La
reinterpretazione dello spazio permetterà di tramandare
questo sapere ai propri discendenti. Nello stesso modo, il
nuovo spazio darà la possibilità di costruire nuove forme
di interazione tra ecosistema e neuro-elasticità. Il ‘mon-
do nuovo’ permetterà alla specie umana di reinterpretare
III. ABITARE 73

totalmente l’ecosistema del quale fa parte. Basti pensare,


ad esempio, che nel corso di 10.000 anni le belve di cui si
parlava sopra passeranno da uno status di predatrici a uno
di attrazione turistica o circense.
Benché si tratti comunque di un riflesso dell’ecosistema,
saranno le società a costruire dei nuovi corsi e meccanismi
relazionali. Le relazioni non saranno dettate o innescate
dai cicli naturali, ma da quelli sociali; più recentemente
anche da quelli culturali. Questo percorso verso una spe-
cializzazione porterà a una frizione crescente tra il mondo
esterno al di là dei confini e quello interno, delle idee, del-
le cose e della società. Ma, nel dimenticare le sue origini, la
specie, forse, non dimentica la propria identità? E questo
ignorare la mette nella pericolosa condizione di poter vio-
lare apertamente la legge primaria descritta precedente-
mente. Tale violazione comporta tragiche conseguenze sia
per la società, ma forse, ancor di più, per l’individuo.
Anche se la specie umana è lontana da un’estinzione, un
dato concreto, evidente e frequente è la morte delle sedi.
Infatti, gli insediamenti possono morire; certamente. Ma
la morte rapida di un insediamento corrisponde a relazio-
ni disfunzionali o sofferenti tra ambiente e società.
Un rapporto significativamente squilibrato porta sem-
pre alla morte di qualsiasi forma di insediamento. La re-
gola primaria è quella che nessuna nuova modalità di me-
diazione tra specie ed ecosistema può violare le relazioni
previamente stabilite e codificate nella funzionalità fisiolo-
gica degli esemplari. Le città fantasma possono non essere
più adatte, a seconda delle relazioni con l’ambiente, la sua
modificazione, la trasformazione del livello tecnologico, la
relazione con l’economia e l’evoluzione della società.
Naturalmente le possibili combinazioni di meccanismo
funzionale sono infinite. Da qui la ‘possibilità’ di incon-
trare società apparentemente molto diverse. Le tesi possi-
74 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

biliste evidenziano proprio questo elemento (Claval 1980,


73-75). Finché un’architettura relazionale di tipo spaziale
fondata su uno schema di mediazione uomo-ambiente è in
grado di garantire la piena funzionalità, quel gruppo, so-
cietà o civiltà, può continuare senza nessun rischio. Que-
ste architetture di relazione possono assumere in un dato
luogo del pianeta molteplici forme.
Ma l’insediamento non è un’entità statica nel tempo.
Possono esserlo il nome e il pensiero collegato a esso. Il
villaggio ha una sua vita. Dal punto di vista di chi propo-
ne questa tesi, si tratta di un’affermazione priva di ogni
retorica. È un sistema con una dinamica e un’evoluzione
caratteristiche a tutti gli effetti; proprio perché si tratta di
una manifestazione materiale delle relazioni che intercor-
rono all’interno. La percezione per un osservatore è quella
di mura e torri salde e perenni. Ma la realtà è quella di
una cultura materiale caratterizzata da cicli e rivoluzioni
costanti di rinnovamento e decadenza. Brian Berry (1964,
160-161) fu uno dei primi a evidenziare la necessità di
«considerare le città come sistemi». I meccanismi di in-
terazione «strutturali, funzionali e dinamici» potranno a
loro volta essere concepiti come sotto-sistemi.
Il mantenimento della stabilità materiale di un insedia-
mento è solo un’illusione; sia che si tratti di un mattone
che di un progetto architettonico fondato su un’ideologia.
Quando si pretende, pur andando contra ogni evidenza
fornita dalla realtà, di mantenere intatto un ideale di inse-
diamento, si finisce per fare inutilmente i conti con ingenti
costi. Ad esempio, la fine del progetto modernista, a livel-
lo urbanistico ha un momento preciso: la demolizione del
complesso di Pruitt-Igoe di Saint Louis (Harvey 2002, 57).
Gli insediamenti nascono e si trasformano. Alcuni molto
rapidamente. La velocità delle loro relative trasformazio-
ni, crescite, maturazioni o morti sono legate direttamente
III. ABITARE 75

all’intensità e velocità di relazioni che le regolano (Hudson


1969, 371). Le città assumono la loro forma, morfologia
e assetto urbano proprio grazie ai caratteri salienti delle
relazioni interne: scambi, specializzazioni in attività com-
merciali e produttive. La verità è che anche di fronte agli
sforzi di conservazione più caparbi e intensi, ogni forma
insediativa tende a evolvere nel tempo.
Occorre ribadirlo ancora una volta, e magari con mag-
giore enfasi: l’oggetto sono le relazioni. Esiste una reci-
procità assoluta nella logica di questo ragionamento. Le
relazioni sono determinate dalle caratteristiche stesse
dell’insediamento; le relazioni determinano la costruzione
e l’appropriazione spaziale. Perciò l’insediamento va con-
siderato come componente stessa dell’ambiente. [Nuove
forme insediative determineranno nuovi ambienti.]
Gli insediamenti non sono solo il risultato di relazioni
uomo-ambiente. Successivamente saranno anche espres-
sione di relazioni commerciali o socio-culturali interne al
villaggio. Benché la relazione uomo-ecosistema sia il mec-
canismo che ha dato vita a questa nuova strategia o con-
dotta, oggi gli insediamenti sono espressione di una gam-
ma molto ampia di possibili relazioni. La città, con la sua
evidente vocazione commerciale, industriale o finanziaria,
è un chiaro esempio di questa sovrapposizione di cause.
Non va dimenticato che anche i cittadini di un centro con
una marcata specializzazione finanziaria o tecnologica,
non cesseranno mai di respirare o consumare alimenti.
Insediamento e natura non hanno confini. Per quan-
to sia evoluta una società, il confine sarà sempre poroso
(Snyder 2013). La realtà è unica e tutti i paradossi posso-
no prendere forma solo grazie al linguaggio. Nella real-
tà, nella natura, e nelle dinamiche ambientali non vi sono
mai paradossi. Le cose sono; al di là della comprensione
dell’uomo. Le cose non esistono per essere comprese o per
76 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

permettere all’uomo di crearsi un’opinione o sviluppare


una tradizione. Le cose semplicemente sono!
Il confine tra ambiente e cultura non esiste. È un mito o,
in alternativa, un oggetto mentale. La cultura, il pensiero,
la mente umana, il linguaggio hanno bisogno dell’ambiente
per potere sopravvivere. Senza di questo, le prime cessano
di esistere. E, con questo, s’intende, non desidero certo
affermare che la cultura non abbia qualcosa di speciale.

Comunicare
Secondo una visione organica, l’insediamento, al di là di
qualsiasi interpretazione, è componente relazionale della
realtà. Non è mai un oggetto, un nome, un prodotto o
un’idea a sé. Come tale, ogni insediamento interagisce al
di là dei confini, non solo con l’ambiente, ma anche con
altri insediamenti. Proprio sull’interrelazione fra gli inse-
diamenti August Lösch (1954, 3) scriveva:
«Nessuno di questi [sistemi] è conclusivo proprio per-
ché si ignora la causa finale delle cose. Sappiamo solo
una relazione reciproca, non una semplice catena di
cause […]. È insignificante dove inizia la nostra rap-
presentazione, poiché non è possibile contemplare le
parti senza considerare il tutto.»
Gli insediamenti hanno pertanto necessità di meccanismi
relazionali o sistemi di funzioni per interagire. Queste re-
lazioni sono quelle che comunemente vengono chiamate
vie di collegamento o, più semplicemente, strade. Ma lo
stesso principio di interrelazione vale – e forse acquista
maggiore rilevanza – per le telecomunicazioni. Infatti,
queste sono state responsabili dell’introduzione, attraver-
so l’ubiquità, di nuovi forme spaziali. Si tratta della costru-
zione di forme spaziali astratte ed esotiche.
III. ABITARE 77

Le leggi che regolano la comunicazione e il trasporto


non sono, a mio parere, un’eccezione a quanto esposto
fino a questo punto. L’intensità dei collegamenti, il volume
dei traffici o la forza delle relazioni vengono determinate
dalle caratteristiche delle relazioni tra due luoghi. Se le
relazioni sono compatibili, allora le relazioni saranno in-
tense. Ad esempio, come quelle che possono stabilirsi e
solidificarsi nel corso del tempo tra due città specializzate
a livello commerciale.
Quelle che vengono interpretate come vie di collega-
mento (le strade) sono la traccia materiale delle interazio-
ni reali. Quello che conta non è il sentiero o la striscia
d’asfalto, ma le dinamiche che vi avvengono attraverso. Il
sentiero cessa velocemente di esistere una volta che quel
percorso viene abbandonato. La strada non è l’asfalto, il
cemento, il ferro che la compongono; la strada sono le per-
sone in transito.
Ma non si tratta soltanto di un limite del linguaggio.
È evidente che la strada e il villaggio si confondono. Un
osservatore distratto è capace di identificare questa come
strada e questo come un villaggio. Ma non è in grado di
indicare il punto o la soglia nella quale finisce il villaggio
e inizia la strada; e viceversa. La strada entra nel villaggio;
in altre parole, i villaggi sono composti anche di strade.
La strutturazione dei quartieri è una materializzazione o
cristallizzazione delle relazioni familiari, produttive, com-
merciali. Le comunicazioni all’interno rappresentano la
manifestazione dei flussi.
Ho affermato sopra che la chiave per capire le dina-
miche di un insediamento è la specializzazione. La quale
non è che il meccanismo con il quale la neuro-plasticità
modella e filtra i rapporti tra ambiente a cultura e, suc-
cessivamente, economia, società e tecnologia. Con le vie
di comunicazione succede qualcosa di molto simile. Le
78 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

funzioni di collegamento fra luoghi seguono un percorso


evolutivo affine a quello della specializzazione.
Oggi, ad esempio, l’uomo ha acquistato la capacità di
muoversi tra due aeroporti del globo in modo veloce e
sicuro. Questa capacità risponde alle necessità reciproca-
mente dettate e imposte da una nuova costruzione spaziale.
Anche l’operabilità degli schemi relazionali della globaliz-
zazione è uno di questi nuovi schemi spaziali esotici di cui
sopra. Questo imponente grado di specializzazione non
significa che l’uomo abbia raggiunto un livello di libertà
nello spostarsi e muoversi tra luoghi nello spazio. Anzi, a
ben vedere, questa specializzazione ha significato anche
una drastica riduzione delle sue possibilità e capacità re-
lazionali precedenti. Può piacere o meno, ma bisogna am-
mettere che la maggior parte della popolazione del mondo
civilizzato sarebbe messa a dura prova se le venisse chiesto
di muoversi a piedi e liberamente in mezzo a una fore-
sta come era solita fare nei suoi anni da nomade. Quello
che Banning (2003) ha definito come l’addomesticamento
dell’homo sapiens iniziato nel corso del neolitico, ha com-
portato una perdita enorme in termini di conoscenza intu-
itiva dell’ambiente.
Si tratta di una trasformazione progressiva dello spazio
che una data civiltà è in grado di costruire e, dentro al
quale, conseguentemente operare. Si può essere tentati a
sintetizzare e ridurre tutto al tema della percezione dello
spazio. Ma si tratta invece di un processo più ampio, che
coinvolge la capacità di intuirlo, costruirlo e poi successi-
vamente utilizzarlo.
Si faccia molta attenzione. Si può essere certi che sia
più complessa la logistica necessaria per far operare un jet
777 tra Londra e New York rispetto a quella necessaria per
una breve traversata della savana? Indubbiamente si trat-
ta di due costruzioni spaziali diverse, dove ogni relazione
III. ABITARE 79

dell’ecosistema è in grado di interagire e determinare il


comportamento delle singole variabili.
Ma, appunto, si parla di nuove forme di costruzione
spaziale. Considero che la società postmoderna di Har-
vey (o surmoderna di Augé), abbia raggiunto il livello più
astratto ed esotico di costruzione spaziale; di percezione e
concezione spaziale; di conseguenza di risposta neuro-lin-
guistica a ogni forma di rapporto. Oggi spostarsi significa
muoversi tra il punto A e il punto B; preferibilmente nel
minore tempo possibile. Il volo civile del jet pressurizza-
to, il treno ad alta velocità e le autostrade hanno ridotto
enormemente le distanze tra A e B, ma hanno cancellato
tutto il resto. Il paradigma spaziale post-umano non solo
assomiglia molto al modello astratto euclideo e isotropico,
ma in realtà esso è composto da una serie di punti attrat-
tori collegati da linee.
Oggi, il viaggio è sempre attraverso un tunnel. Che si
tratti di macchina, treno o aereo, il percorso è all’inter-
no di una linea retta. Lo aveva intuito prematuramente il
disegnatore Harry Beck che dal 1926, inizia la sperimen-
tazione della Underground Map di Londra. Per il 1931 la
rivoluzione rappresentata dal suo schema diagrammatico
dei percorsi era già stata pienamente recepita da parte de-
gli utenti della metropolitana. Oggi nessun disegnatore si
sognerebbe di fare una rappresentazione topografica del
percorso dei servizi pubblici.
Il passeggero distratto dal proprio meta-universo touch
è quello che può usufruire momentaneamente del paesag-
gio attraversato. Si tratta comunque per lui di un panora-
ma inodore e insapore. Per la maggior parte dei passeggeri
non si può affermare che questo panorama pastorale pos-
sa interessare. In tutti i modi, non più di qualche post o
immagine da rete sociale sul proprio dispositivo personale.
Nel volume L’ombra del paesaggio Massimo Quaini (2006,
80 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

43-45), ponendo l’accento sulla perdita dell’armonia nel


processo di globalizzazione del nulla, si chiede se «la no-
stra [sia] l’epoca della fine del paesaggio, del paesaggio
ridotto a utopia».
Il collegamento, la strada, sono denaturati. Nella nuo-
va relazione spaziale non sussiste un elemento di collega-
mento neuro-cognitivo con il paesaggio percorso e vissuto.
Nella surmodernità, le tre figure dell’eccesso descritte da
Augé (spazio, tempo ed ego) prendono forma in modo
definitivo e autentico senza nessun compromesso. L’unica
dimensione vissuta è quella della percezione della durata
del percorso. Le nuove formule della progettazione delle
strade fanno sì che le ondulazioni della morfologia siano
cancellate da una catena di viadotti e gallerie. Un tempo il
paesaggio era il compagno di viaggio.
La strada non è la striscia d’asfalto ma la relazione resa
manifesta dal viaggio delle persone che percorrono una
rotta. Nello stesso modo, internet non è una serie di cavi
che interconnettono una serie di routers in grado di smi-
stare, trasmettere e decodificare impulsi elettrici. Internet
sono le persone. Senza le relazioni uomo-macchina e uo-
mo-uomo internet cessa di esistere.
Non voglio muovere in questa sede critiche specifiche
al nuovo spazio cibernetico della specie umana. Nello
stesso modo mi sembra opportuno sottolineare che non
sono nemmeno un sostenitore incondizionale. Mi chiedo
soprattutto se questa nuova forma spaziale caratterizzata
da una deterritorializzazione definitiva dell’esistenza costi-
tuisca il superamento di qualche soglia che porta la società
a nuove forme di relazioni che hanno come conseguenza
meccanismi disfunzionali e rischiosi per la specie. La que-
stione dei confini è ormai la norma. Anzi, nella post-uma-
nità si tende a risolvere i problemi generati da schemi di
separazione (prevalentemente illusori) attraverso l’imposi-
III. ABITARE 81

zione di nuovi confini. L’uomo si isola sempre di più dalla


natura per paura di patologie causate proprio dalla lonta-
nanza da un ambiente naturale e dalla conseguente alte-
razione del proprio sistema immunitario. Parallelamente,
conflitti etnici, culturali e demografici determinano la pro-
liferazioni di muri di confine in ogni angolo del pianeta.
L’aggregazione di esemplari di homo sapiens determina
possibilità maggiori di interazione: commercio, scambio
economico, officine, quartieri di vasai, aree industriali,
alfabetizzazione. Come può non essere vantaggiosa la
cloud? In essa si può raggiungere un livello di interazione
letteralmente infinito. Ogni forma di densità e di vincoli
viene superata.

La nascita delle città


Cosa è una città? Come possiamo distinguere una città da
un villaggio? E ancora, cosa è un insediamento? Qual è il
senso dell’insediamento umano? Sono tutte domande alla
base del pensiero geografico e tutte domande prive di una
risposta immediata; o, se si preferisce, si tratta semplice-
mente di interrogativi privi di risposte soddisfacenti.
Le forme stanziali costituiscono oggi la modalità domi-
nante di interazione della specie umana con il proprio am-
biente. Dalle dinamiche stanziali scaturisce tutta una serie
di processi legati alle idee di sviluppo, produzione, con-
sumo o comunicazione; processi che sviluppano forme di
interazione reciproca. Per tutti questi motivi, gli stanzia-
menti umani ricoprono un ruolo centrale nella costruzio-
ne dello spazio sociale e, di conseguenza, nell’attenzione
del geografo (Dematteis e Lanza 2014, 3-31).
Le città sono diventate lo schema centrale del model-
lo dominante. Oggi la struttura della civilizzazione occi-
dentale (misura stessa della globalizzazione) si regge sulla
82 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

struttura urbana. La città rappresenta la forma di insedia-


mento determinante in processi – per citare solo quelli più
importanti – quali crescita demografica, trasformazione
dei consumi o contaminazione. La città presuppone una
nuova costruzione spaziale, una nuova forma di gestire e
percepire il proprio ecosistema.
Le città sono cresciute a un ritmo accelerato. E, anche
se l’incremento della popolazione mondiale inizia a ral-
lentare, la popolazione delle città continua ad aumentare
progressivamente. Ciò è possibile proprio perché una par-
te consistente della popolazione delle aree rurali continua
incessantemente a spostarsi nelle città.
Questo spostamento sembrerebbe rispondere a un fat-
tore direttamente collegato con l’accessibilità ai servizi.
Perciò l’elemento che determina maggiormente la cresci-
ta della popolazione è relazionale. La capacità di attivare
meccanismi di collegamento diventa sempre più impor-
tante nella società post-umana. Meccanismi relazionali
non sempre benefici come dimostrano i gravi squilibri ge-
nerati dal neolibersimo urbano delle città globali (Parenti
2009) o il consumo del suolo e l’alterazione del mercato
immobiliare (Rondinone, Rossi, Vanolo 2013).
Vivere in un grande centro abitato ha inconvenien-
ti molto importanti. Tempo perso nel traffico, smog, alti
tassi di criminalità. Ma, allo stesso tempo, questa concen-
trazione demografica determina una potenzialità di possi-
bili relazioni che nessun’altra forma di insediamento può
raggiungere. Perciò, nonostante le difficoltà e gli incon-
venienti del vivere in città, molte persone la preferiscono.
Le città sono anche il motore e il cuore della civiltà. Le
migliori menti vengono attratte dalle piazze urbane. Ospe-
dali, palcoscenici, case editrici, università, aziende, luoghi
di commercio e istituzioni di ogni genere devono essere
amministrati e operati da personale proveniente oramai
III. ABITARE 83

da ogni parte e luogo. Come ha enfatizzato più volte Ge-


offrey West (2010, 17), le aree urbane rappresentano non
solo la sorgente di «problemi super-esponenziali», ma an-
che lo scenario di qualsiasi soluzione futura, anche nella
forma di un loro sviluppo in città intelligenti (Aru, Puttilli
e Santangelo 2014). In un contesto di trasformazione del
rapporto specie-ecosistema, il problema dell’approvvigio-
namento, ad esempio, ha determinato una nuova forma
di spazio produttivo e di consumo. La rottura definitiva
tra Terra (intesa come spazio produttivo) e società. Cer-
tamente la popolazione mondiale è composta prevalente-
mente da persone che abitano in città; buona parte della
popolazione restante ambisce allo status cittadino. Quello
dell’accelerazione spazio temporale che vede nell’integra-
zione del grande nucleo urbano e dello spazio digitale e
cibernetico di internet la costruzione di un villaggio glo-
bale. Anche se questo villaggio virtuale e globale non ha
una manifestazione materiale, è incontestabile che esso
rappresenti uno spazio di nuove relazioni. In esso si pla-
smano e si manifestano nuove forme di attività produttive
e meccanismi per la produzione e la ricchezza.
Le nuove forme socio economiche globali sono struttu-
rate su uno schema che riflette molto quello generale, ba-
sato sull’aggregazione urbana e l’interconnessione virtuale
all’interno della «città-mondo» (Augé 2007, 12); ad altra
scala, basate su nuove relazioni che portano alla cristaliz-
zazione di un policentrismo (Governa e Salone 2005). Più
che un’integrazione tra piano reale e virtuale, si tratta di
una commistione fra i due piani, fino alla formazione di
un nuovo livello. Paul Virilio (2000, 11) parla di un «iper-
centro virtuale del quale le città reali non sono che la pe-
riferia». La nuova realtà urbana è caratterizzata da confini
invisibili che separano periferia e nucleo all’interno dei
villaggi globali. Così, la «metacittà-mondiale» di Virilio o
84 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

il «mondo-città» di Augè prendono forma e acquistano


consistenza nella coscienza degli individui. Il nucleo di
New York, Londra e Hong Kong presenta un livello di
integrazione più forte di quello che esiste tra ognuna di
queste città e la propria periferia.

Dimensione urbana e rurale


Il concetto di città mostra un livello di complessità signi-
ficativo. È evidente che colui che usa il concetto di città
ha bisogno di riferirsi, indicare o suggerire l’idea di un
insediamento di grandi dimensioni. È evidente però che
fa riferimento a molte altre cose. Quali sono dunque le ca-
tegorie che un certo tipo di insediamento deve possedere
per potere essere qualificato in quel modo? Cosa distingue
la città da tutto il resto?
Nel corso della storia ci sono stati diversi tentativi di ri-
spondere a questa domanda: oltre alla geografia, importan-
ti sforzi sono arrivati da urbanistica, antropologia, socio-
logia, storia ed economia. Il risultato finale di tutte queste
operazioni è stato evidenziare come non esista un criterio
unico a livello globale per il quale a livello sociale un deter-
minato insediamento possa essere qualificato come città. Il
criterio per la definizione di ‘urbano’ può, a seconda del
contesto geografico o storico, essere fondato su schemi di
tipo demografico (numero di abitanti in un determinato
insediamento), amministrativo, settore occupazionale do-
minante o funzionale. Nessuno di questi criteri ha dimo-
strato la sua capacità esclusiva di spiegare o giustificare la
definizione o classificazione di un’entità in città.
Distinguere le città come categoria introduce una dico-
tomia a livello concettuale tra dimensione urbana e rurale.
Questa dicotomia ha due grandi problemi. Da una parte si
introduce il principio secondo il quale la città costituisce
III. ABITARE 85

un’entità a sé. Ma questo non può essere: le aree urbane


esistono solo perché le aree rurali esistono. L’esistenza del-
le aree urbane è in primo luogo funzione dell’esistenza di
quelle rurali. In altri termini, la città esiste proprio perché
la parte rurale è in grado di garantirne la sussistenza.
Ma, anche a livello concettuale, ci sono dei limiti. So-
litamente si usano concetti come ‘citta’, ‘villaggio’ o ‘casa
sparsa’ per indicare gradi diversi di scala. I tre nomi in-
dicano però un’unica tipologia. Per comodità, affermerò
che tutte queste categorie sono riferibili o possono essere
accorpate nella categoria di insediamento. Vale la pena
sottolineare che ogni forma di insediamento deve consen-
tire una quantità di funzioni e necessità della popolazione.
E quello che desidero evidenziare è proprio la similitudine
tra le varie categorie di insediamento.
Si parte dunque da un’osservazione ovvia: ogni insedia-
mento deve essere contraddistinto da una serie di caratte-
ristiche minime in grado di consentire la sopravvivenza e
conservazione dei suoi abitanti. E in questo senso si arriva
a un punto centrale che frequentemente viene dimenti-
cato da molti degli scienziati sociali che si occupano del
tema dell’insediamento. Spesso si tende a considerare l’in-
sediamento come una categoria culturale. È evidente che
questo sia vero; ma credo non sia possibile affermare che
si tratti di una categoria esclusivamente culturale.
Come ho affermato precedentemente, l’essere umano
conserva una componente molto importante. Egli è un’en-
tità viva che ha necessità di una serie di parametri biolo-
gici minimi di riferimento per consentire la conservazione
delle funzioni vitali; per non parlare di funzioni più com-
plesse come la sua riproduzione, conservazione o il suo
progresso materiale. Dunque va detto che ogni forma di
insediamento è caratterizzata da una serie di caratteristi-
che che devono essere necessariamente compatibili con le
86 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

necessità per la conservazione della specie. Da questo di-


pende il fatto che tutte le forme di insediamento, indipen-
dentemente dalle aree geografiche analizzate, presentano
una serie di caratteristiche comuni. Lo stesso dicasi delle
differenze fra insediamenti nei diversi momenti storici o
stadi di sviluppo delle civilizzazioni.
Riassumendo, nel momento in cui un insediamento non
è in grado di garantire le funzioni essenziali e quelle com-
plesse, allora esso è destinato semplicemente a scomparire.
Nello stesso modo, ogni elemento comune o universale
degli insediamenti è probabilmente collegato alle neces-
sità ambientali della popolazione. Gli insediamenti non
sono strutture statiche. Questi sono entità viventi, a tutti
gli effetti paragonabili a un organismo.
La geografia ha sviluppato un concetto chiave per de-
finire e classificare gli insediamenti: i servizi. Ma come il
nome stesso suggerisce, i servizi sono semplicemente delle
relazioni. Possono essere di ogni genere: accesso a generi,
prestazione di opere, intrattenimento. Il servizio è sostan-
zialmente un rapporto di collegamento che può esistere.
La relazione rappresentata dall’attribuzione di un servizio
e dalla conseguente ricezione dello stesso prende forma in
un luogo specifico. Nelle sue apparenti banalità e frivolez-
za, considero quello dell’ipermercato come il servizio più
potente, più ramificato e influente di tutta la storia.
IV. SEPARARE

Contrariamente a un modello di meta-contenitore di og-


getti, la realtà può alternativamente essere letta e interpre-
tata come un tessuto non scomponibile. In una condizione
simile, sarebbe lecito (e necessario) questionare la capaci-
tà di enunciare, attribuire nomi e classificare la realtà da
parte di colui [lo scienziato] che rappresenta solo una fi-
bra – oltretutto minuscola – di questo vasto e complesso
tessuto. I limiti del rapporto tra conoscenza e osservatore
vengono sintetizzati dalla stessa «premessa dell’argomen-
tazione» di Hilary Putnam (1981): «i cervelli in una vasca
non possono pensare o affermare che sono cervelli in una
vasca». Nella realtà intesa come tessuto, come può l’uomo
descrivere la realtà se, per evidenti fattori, egli non può es-
sere cosciente delle innumerevoli relazioni che la compon-
gono? Come può presumere l’uomo di descrivere la realtà
se egli è in grado solo di tracciare in modo approssimato –
e per altro non confermato – il funzionamento del proprio
cervello? Forse sono precisamente gli elementi che non
riesce a discernere o interpretare attraverso i meccanismi
sensoriali tipici della specie, quelli strutturali di questa
impalcatura o metafora chiamata realtà. È evidente che
l’occhio può percepire solo una parte dello spettro (lun-
ghezza d’onda tra 390 e 750 nanometri) e l’orecchio una
parte delle onde acustiche (frequenze tra 20 e 20.000 Hz).
Esistono porzioni significative utili alla definizione della
realtà fisica che sfuggono all’apparato sensoriale dell’uo-
mo. Solo una parte di questi limiti può essere superata con
le misurazioni strumentali.
88 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

In estrema sintesi, il pensiero di Putman è che, per l’in-


dividuo, quello che egli comunemente definisce realtà è
la somma complessiva di tutti gli impulsi neurosensoriali
che riceve nel corso della propria vita. Ma la ragione e
l’intelletto non operano con spinte integrali e pure. Que-
sta vasta storia di impulsi non si comporta come meta-
contenitore, ma come sistema di categorie. Come spiega
Enrico Bellone (2000, 75), parlando del paradosso della
costanza del colore:
«gli stimoli appartengono all’ambiente esterno ma i co-
lori sono proprietà del cervello […]. È in questo senso,
dunque, che il colore è una conseguenza e non una
causa, in quanto è il cervello che agisce categorizzando
e attribuendo il colore alle cose».
Quello che si crede di osservare non è altro che il lavo-
ro del proprio cervello. Naturalmente i colori sono solo
una parte dei tanti possibili impulsi attraverso i quali si
acquisiscono (o si tenta di acquisire) le caratteristiche di
questo ambiente esterno. Indipendentemente da queste
osservazioni, il cervello umano si comporta come un’enor-
me macchina di classificazione.
La percezione razionale segue dei principi che spesso
vengono dimenticati. Gli enti vengono percepiti sempre
integrati in un contesto. La percezione rappresenta così
un triangolo tra osservatore, contesto e oggetto. Una
dimostrazione chiara di questo processo è l’osservazio-
ne delle persone all’interno della stanza di Ames [Ames
room] che porta l’osservatore a valutare erroneamente la
dimensione degli oggetti a causa dell’alterazione della di-
stanza e dei parametri di riferimento descritti dalla camera.
Lo stesso principio si ripete in un’infinità di effetti ottici
come l’illusione di Müller-Lyer o quella di Poggendorff. Il
contesto è a volte implicito nello stesso ente. Un esempio
IV. SEPARARE 89

Kaninchen und Ente [coniglio e anatra], «Fliegende Blät-


ter», 23 Ottobre 1892.

di questo è la celebre immagine Coniglio e Anatra (1892)


ripresa da Wittgenstein (1963, 193-196). Nel farlo, il filo-
sofo austriaco evidenzia come l’elemento caratterizzante
di questa esperienza sia l’osservazione «per mezzo dell’in-
terpretazione»; l’esperienza precedente gioca un ruolo
centrale nel determinare, valutare e descrivere quelle che
sono le esperienze visuali.
Ogni scienza si basa su tre premesse fondamentali. a)
Là fuori esiste una realtà. b) Lo scienziato è in grado di
conoscere la realtà; a prescindere da quali siano i suoi
metodi o strumenti, egli è in grado di realizzare delle os-
servazioni sulla realtà. c) Lo scienziato è in grado di co-
municare una serie di nozioni o interpretazioni relative
alla realtà attraverso una qualche forma di linguaggio. In
questa sede viene tralasciata qualsiasi discussione sulla
90 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

prima premessa. Si parte infatti dal presupposto che, al


di là di qualsiasi congettura, quello che solitamente viene
definito ‘io’ acquista forma all’interno di una data realtà.
L’incapacità dell’essere di negare se stesso viene dunque
qua assunta come presunta evidenza della correttezza del-
la prima premessa.
Oggetto di queste righe è invece compiere una rilettu-
ra relativa alla seconda e alla terza premessa cercando in
questo modo di evidenziare come la loro validità non sia
così evidentemente scontata. Un esempio elementare. Si
presume che la scienza si caratterizzi per lo studio della
realtà senza nessuna forma di pregiudizio o dogma. È pos-
sibile però immaginare che esistano porzioni della realtà
che non sono state ancora identificate o correttamente in-
terpretate. Nel caso contrario, se il presupposto fosse in-
vece vero, il lavoro della scienza sarebbe concluso; mentre
così non è. Il premio Nobel Richard Feynman (1999, 25),
parlando a proposito di dubbio e incertezza, affermava:
«Ho risposte approssimate e teorie possibili in diffe-
renti gradi di certezza a proposito di diverse cose, ma
non sono assolutamente sicuro di nulla, e di molte
cose non so proprio nulla, ma non ne devo avere una
risposta. Non mi sento intimorito dal non sapere cose,
dall’essere perso in un universo misterioso senza avere
un proposito, che quanto posso affermare la sua vera
natura. Non mi spaventa».
Nel momento in cui la scienza entra in contatto con una
nuova porzione della realtà, oppure porta a compimen-
to una sua inedita lettura o interpretazione, deve usare i
linguaggi precedentemente coniati per poterla descrivere.
Gli esploratori europei sono sempre stati costretti a co-
struire analogie tra entità del Vecchio Mondo e quelle con
le quali entravano in contatto nei loro viaggi. Uno fra i
IV. SEPARARE 91

tanti casi di questo processo di prestito è quello di Marco


Polo e l’unicorno con il quale entra in contatto a Giava.
Nel suo saggio From Marco Polo to Leibniz Umberto Eco
(1998, 54-55) rappresenta l’incontro tra l’esploratore e un
rinoceronte:
«Siccome la sua cultura gli metteva a disposizione la
nozione di unicorno, come appunto di quadrupede
con un corno sul muso, egli designa quegli animali
come unicorni. […] Marco Polo non mentiva. Aveva
anzi detto quello che riteneva essere la verità […]»
La scienza compie un processo simile: vive una costan-
te fase o processo di attribuzione di nomi vecchi a enti
sconosciuti o interpretate attraverso un’ottica nuova. L’e-
tichettatura, intesa come assegnazione di una serie di in-
formazioni sui caratteri comuni dell’oggetto descritto, è
il processo che segue alla catalogazione. Le simpatiche vi-
cende legate alla classificazione dell’ornitorinco (qui usato
come esempio di novità o entità sconosciuta) rappresen-
tano un esempio emblematico delle complessità di questi
processi nella ricerca scientifica (Eco 1999, 71-79):
«L’ornitorinco viene scoperto in Australia a fine Sette-
cento […]. Nel 1799 ne viene esaminato in Inghilterra
un esemplare impagliato e la comunità dei naturalisti
non crede ai propri occhi, tanto che qualcuno insinua
che si tratti dello scherzo di un taxidermista.»
Ma l’orizzonte della scienza è cosparso di ornitorinchi.
Nuove entità emergono da microscopi, telescopi e altri
strumenti di misurazione che mettono a dura prova sche-
mi di classificazione ortodossi. Per la sua condizione di
disciplina inclusiva e sullo spartiacque tra umanità e storia
naturale, la geografia è piena di ornitorinchi; non si tratta
di casi sporadici, ma della regola. La Groenlandia appar-
92 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

tiene al regno di Danimarca e per questo motivo politica-


mente appartiene all’Europa. Ma la Groenlandia è inclusa
nella placca tettonica nord americana e, per questo, secon-
do principi geologici, fa parte del continente americano.
O sarebbe meglio dire Nord-America? E questa Nord-
America si ferma al Tapón del Darien oppure all’Istmo
de Tehuantepec? E meglio distinguere l’Europa dall’Asia
oppure immaginare la grande Eurasia? Scendendo pro-
gressivamente di scala, si assiste all’esplosione crescente di
casi di dubbia o multipla interpretazione geografica, terri-
toriale o paesaggistica. Nel dizionario è evidente la diffe-
renza tra ruscello e torrente ma nella realtà ci si affida alla
tradizione custodita nella toponomastica locale.
Se qualcosa caratterizza la realtà, è la sua capacita di
operare come un solo meccanismo integrato. L’ornitorin-
co non ha sofferto per le difficoltà legate alla sua classi-
ficazione. La realtà psichica o cognitiva degli esploratori,
degli scienziati e di qualunque esemplare di homo sapiens
agisce nel tentativo di classificazione. Ma la realtà non ope-
ra secondo pareri, principi, ideali, opinioni o convinzioni;
soprattutto secondo classificazioni che cambiano costante-
mente. Gli eventi e gli enti prendono forma; le relazioni av-
vengono istantaneamente. Poi si passa alla successiva azio-
ne indipendentemente dal fatto che l’umanità sia in grado
di comprendere o afferrare gli eventi o le forme assunte
in quel dato stato dagli enti. Lo specchio non ha bisogno
dell’autorizzazione del fisico ottico per poter esercitare la
riflessione della luce. Per Gunnar Olsson (1987, 120-122)
la «radice del problema è nella categorizzazione, poiché
pensiero, azione e linguaggio riflettono ciò che noi ritenia-
mo sia identico». Gli strumenti e le misurazioni possono
essere di aiuto? In Against Method Paul Karl Feyerabend
(1993, 164-168) sottolinea come, analogamente ai linguag-
gi e alle classificazioni, le misurazioni scientifiche definisca-
IV. SEPARARE 93

no una struttura grammaticale che contiene al suo interno


una cosmologia capace di «influenzare pensiero, compor-
tamento e percezione». Le misurazioni hanno il pregio di
rappresentare molto più il metodo applicato che non il
contesto o i fenomeni che cercano di descrivere.
Per quanto sia evidente che questo pianeta non ab-
bia preso forma per conferire un significato alla scienza
o alla filosofia, la mente razionale fatica enormemente a
comprendere e accettare che l’esistenza della realtà sia
totalmente indipendente dalle proprie idee. La mente
dell’uomo ha come istinto primario quello di rimetter-
si al centro dell’Universo. Attribuire dei nomi alle cose
equivale a classificare. E questo attribuire nomi è molto
importante; significa, per l’intelletto, dare vita alla cosa
stessa. Se sono importanti nell’esperienza umana l’idea e
il nome, diventa fondamentale, ad esempio – e per citare
uno degli infiniti esempi possibili – cogliere che cosa sia-
no quelle foreste con milioni di forme di vita, distinte ma
integrate, prima della nascita dell’intelletto umano, dove
nessuna parte aveva ancora un nome. Per quanto si possa
sollecitare l’immaginazione, questa entità integrata, sem-
bra irrimediabilmente collegata a nomi. Questa foresta
priva di umanità è al di là della parola; perciò nessuno
sarà mai in grado di descriverla. [Un albero di eucalipto
nelle foreste australiane ha raggiunto il compimento e la
sua forma millenni prima che qualcuno lo chiamasse ‘eu-
calipto’. E questa ‘completezza’ continuerà molti millenni
dopo che qualcuno lo avrà chiamato per l’ultima volta eu-
calipto. Nessuna spiegazione, idea, o trattato trova spazio
all’interno di tale perfezione.]
Questa entità funzionante [eucalipto] non è altro che
un cumulo di relazioni (chimiche, biologiche, ecologiche
e così via di seguito) che si immaginano come cosa o og-
getto. E perfino il concetto di sistema funzionante è ri-
94 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

dondante e ingannevole: ogni frammento di questa realtà


è a una certa scala o ciclo di tempo perfettamente funzio-
nante e integrato.
Nel linguaggio e nella scienza esiste tutta una serie di
idee che fanno implicitamente riferimento a divisione e
confini di demarcazione; dunque a uno schema di separa-
zione. Si tratta di idee apparentemente chiare e ordinarie
– ma in realtà non ben definibili per la scienza – quali ‘vita’
o ‘intelligenza’. In che momento composti chimici inizia-
rono a organizzarsi in vita? In che momento dell’evolu-
zione si può parlare della nascita dell’intelligenza? Forse
è più facile supporre fasi di transizione lunghe o brevi. Lo
stesso dicasi per la formazione di un organismo. In quale
momento nasce un essere? Durante il parto? Durante il
concepimento? Sicuramente il concepimento determina
relazioni nuove nella dinamica embrionale; ma esse par-
tono da condizioni preesistenti classificabili sotto l’idea di
vita. Jared Diamond (1997, 267) fa notare come:
«Chi si occupa di antropologia culturale cerca di cat-
turare la diversità umana dividendo le società in vari
tipi e categorie. Questa divisione è per forza imprecisa,
cosi come lo è qualsiasi tentativo di spezzare in blocchi
un percorso evolutivo continuo. In primo luogo, ogni
stadio inizia a partire da quello precedente, il che ren-
de le linee di demarcazione inevitabilmente arbitrarie
(un ragazzo di diciannove anni, ad esempio, è ancora
un adolescente ?).»
Analogamente, Gould descrive questo processo come
«la passione umana per l’ordine e le distinzioni nette [che
induce] a designare certi particolari momenti o eventi
come esordi ‘ufficiali’» (Gould 2009, 307).
Le classificazioni non possono essere perfette. Nemme-
no le lingue con i vocabolari più articolati riescono a esau-
IV. SEPARARE 95

rire in modo assoluto lo stesso oggetto. Bosco, eucalipto,


albero, palo, legno possono essere termini con i quali de-
finire processi o stati. I nomi fanno riferimento principal-
mente a uno stato transitorio della materia (Putman 1981,
3-5). Quando si tratta di oggetti composti riguardano in-
vece gli attributi funzionali dell’oggetto, ovvero, indicano
la funzione che quest’ultimo ricopre in un determinato
contesto. Così, succede che oggetti con le stesse caratteri-
stiche possano ricoprire la funzione di tavolo in una parte
del pianeta e di letto in un’altra. Coerentemente con quan-
to detto finora, questo stesso oggetto acquisterà nomi e
significati diversi. Se riportato a un piano geografico, la ca-
tegoria dei nomi può essere estesa a contesti futuri e pas-
sati sulla base funzionale. Così la stessa entità geografica
può diventare una moltitudine di nomi: raccolta, campo,
semina, denaro o, ad esempio, nel caso del legno, carbone,
carta, calore, acqua, abitazioni.
Come già suggerito e anticipato nei paragrafi preceden-
ti, i nomi designano stati, condizioni e le relative scale di
osservazione. I confini sono sempre schemi di astrazione
calati dalla mente dell’osservatore. Ogni scala di misura-
zione è uno schema arbitrario. La misurazione ubbidisce
alla scala e non alla natura. A sua volta, ogni tipo di scala
di misurazione è un quadro di definizione di confini men-
tali. È possibile immaginare l’esistenza di note musicali,
ma la natura non conosce tale confine. Nel pianoforte il
do centrale ha una frequenza di 261,63 Hz; il do diesis di
277,18 Hz. Solo nel breve intervallo tra questi due tasti
adiacenti risiedono infinite frequenze. Levi-Strauss (2004,
40) chiarisce con estrema precisione come il processo di
costruzione delle scale sia frutto di un meccanismo arbi-
trario di selezione:
96 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

«Questi rapporti [sonori] non sono dettati dalla natu-


ra, giacché le proprietà fisiche di una qualsiasi scala
musicale eccedono considerevolmente, per il numero
e la complessità quelle che ogni sistema preleva per
costituire i suoi tratti pertinenti.»
Possiamo concludere che si presume (quanto meno in
certi contesti) l’esistenza di una realtà integrata alla quale
si contrappone la capacità dell’uomo di separare e divi-
dere. Questa capacita di separare e dividere, per quanto
qualificata, accurata e attenta è imperfetta. Per l’individuo,
lo schema di separazione in parti è quello che comune-
mente viene interpretato come mondo. Per la maggior
parte dell’umanità, tale schema equivale semplicemente al
linguaggio naturale. Emil Cioran in Aveux et Anathèmes
(1987) condensava questo concetto con:
«Non abitiamo una nazione, abitiamo una lingua. La
nostra lingua madre è la nostra vera patria».
Nel Livro do Desassossego Fernando Pessoa (1989) scrive:
«non ho alcun sentimento politico o sociale. Eppure
ho, in un certo senso, un alto sentimento patriottico.
La mia patria è la lingua portoghese».
Nella scienza le cose non sembrano andare diversamen-
te. Una descrizione del processo di formazione e trasmis-
sione dei linguaggi scientifici è stata fatta da Thomas Kuhn
(1970, 111):
«Quelle che erano anatre, dopo la rivoluzione diven-
tano conigli. […] Guardando alle curve di livello, lo
studente vede linee nella carta, il cartografo una rap-
presentazione del territorio. […] Solo dopo diversi
tentativi di ammaestramento della visione lo studente
diventerà un abitante del mondo dello scienziato […]»
IV. SEPARARE 97

E che dire di tutta l’opera di Rene Magritte? Ceci n’est


pas une pipe rappresenta solo l’immagine più emblematica
di un insieme di opere che aveva evidentemente come sco-
po quello di mostrare come al centro del triangolo realtà-
linguaggio-rappresentazione ci sia sempre, inevitabilmen-
te, il paradosso.

Retroazione
Naturalmente il problema è che le idee di classificazione
della mente non sono passive, intese come incapaci di
alterare la realtà. La particolarità del ‘problema corpo-
mente’ sta forse qui: la mente non appare come un ambito
isolato incapace di interferire con la realtà. Adottando le
definizioni canoniche del problema corpo-mente di Pop-
per, «mondo 2» (e forse anche «mondo 3») è in grado di
esercitare un influsso su «mondo 1». Le idee sul mondo
non sono entità passive. Le idee sono in grado di costruire
muri, far scoppiare conflitti e introdurre elementi di sepa-
razione molto concreti. I pensieri, e le parole, sono pro-
motori di azioni. Azioni che prendono forma nella realtà
stessa. Per il geografo, il valore della reciprocità tra realtà
e pensiero è evidente. Giuseppe Dematteis (1994, 102-
103) spiega come la logica geografica sia «performativa»;
reale in quanto «promessa di un territorio realizzabile».
Massimo Quaini (2006, 158) rimarca come «il paesaggio
[sia] una delle tante nostre mappe, che la carta geome-
trica formalizza». Franco Farinelli (2003, 14-15) descrive
la transizione dal medioevo alla modernità come una fase
dove la carta non sarà più «la copia del mondo ma è il
mondo la copia della carta».
Un esempio prematuro di questo processo è il Trattato
di Tordesillas, firmato il 1494 tra il re Giovanni II di Por-
togallo e il re Ferdinando d’Aragona, che attribuisce uso
98 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

esclusivo alla Spagna di tutti i territori posti a ovest della


Raya: il meridiano a 370 leghe a ovest delle Isole Azzorre.
Il trattato, che pone fine a una lunga disputa tra il Porto-
gallo e la Spagna, attribuisce un «ruolo di arbitro centrale
al papa, [e Roma]» (Broc 1989, 180-181). Più importante
delle vicende legate al trattato è il fatto che quel meridiano
immaginario, prodotto di un espediente geografico come
soluzione a un problema diplomatico, diventerà la causa
determinante della formazione e della nascita successiva
dello stato del Brasile.
Al di là della genesi dei confini, la separazione geogra-
fica in frammenti territoriali pone l’osservatore di fronte a
sfide significative. Anche di fronte a una realtà divisa da
un muro, un confine o una contrapposizione di pensiero,
muro, confine e contrapposizione operano all’interno di
una realtà organica e integrata. Il confine è un’illusione
perché lo spazio o la realtà contengono sia il muro divi-
sorio che il paesaggio. Muro, settore A e settore B sono
integrati in un’unica entità non scomponibile. La real-
tà abbraccia gli opposti e li integra perfettamente senza
escludere nessuna delle parti coinvolte. La forza assoluta
dello spazio sta esattamente in questo piccolo dettaglio.
Proprio perché libera da ogni paradosso e opinione, la
realtà è in grado di offrire asilo incondizionato a contesti,
funzioni o mutamenti pienamente contrastanti. Ed è per
questo motivo che considero essenziale per una disciplina
come la geografia, collocare al centro la realtà e non un
generico tutto, come già indicato nel capitolo I. La realtà
impone alla scienza di abbracciare le entità e gli elementi
al di là delle idee e delle opinioni.
Nelle scienze sociali, la difficoltà per l’osservatore nasce
da una circostanza che cospira accidentalmente contro di
lui. Si prenda il caso di un confine politico ben definito.
Da questa parte si trova lo stato del Texas; da quest’al-
IV. SEPARARE 99

tra il Messico. In mezzo un muro che divide lo spazio [o,


sarebbe più corretto affermare, che divide i due territo-
ri?]. Da ambo le parti si trovano individui convinti della
separazione della realtà in due parti. Da questa parte os-
serviamo oltre il muro quei folklorici invasori. Dall’altra
parte del muro si osserva la terra promessa. Proprio per
essere convinti di questa separazione, entrambi i gruppi
[cittadini statunitensi e messicani] si comportano coeren-
temente con questa idea. Quest’ultima ha una base isti-
tuzionale, fondata sull’esistenza legale dei due stati. Nel
contemplare il comportamento dei due gruppi di cittadi-
ni, l’osservatore sarà portato ad assumere che si trova di
fronte una suddivisione concreta dello spazio. In verità
si trova davanti a un meccanismo perfettamente funzio-
nante e integrato. A mio parere, comunque, l’aspetto più
importante è quello di considerare il comportamento dei
gruppi sociali di fronte alle idee. [Dimostrazione di que-
sta mia affermazione è il semplice fatto che questo confine
è poroso. Persone, merci e informazioni transitano sopra
questo confine in entrambe le direzioni; il passaggio è as-
sicurato nella realtà a coloro che adottano comportamenti
fedeli alle regole istituzionali e legali degli stati confinanti
tanto quanto agli immigrati illegali. Così come il confine
non ha nessun significato per tutto il resto del regno ani-
male e vegetale].
Come è stato già più volte evocato sopra, nel corso della
sua lunga storia evolutiva, la specie umana ha traslocato
progressivamente da un ecosistema organico a un sistema
socio-economico caratterizzato da uno schema neuro-
linguistico fondato sulla classificazione e, di conseguen-
za, sulla separazione. I processi vengono definiti come
interazioni meccaniche fra parti. Molto utili a progettare
una società, più o meno funzionante a seconda dei diversi
casi storici. Ma inadatti a comprendere, interpretare e de-
100 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

scrivere la realtà stessa. Questa condizione è descritta in


modo preciso da Levi Strauss in Tristi Tropici (1960, 402):
«Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di
lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita
ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflo-
rescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla
quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di
permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. […]
Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino
all’invenzione delle macchine atomiche e termonuclea-
ri, passando per la scoperta del fuoco – e salvo quando
si riproduce – l’uomo non ha fatto altro che dissociare
allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno sta-
to in cui non sono più suscettibili di integrazione».
All’interno di questa tesi non cerco di dimostrare che
gli schemi di separazione determinino l’allontanamento
dell’uomo dalla felicità perseguita da Strabone (vedi capi-
tolo I). Parallelamente non perseguo il rifiuto del pensiero,
delle idee o del linguaggio e la loro sostituzione con una
contemplazione dissociata o astratta dei fatti. Anzi, tutto il
contrario. E voglio enfatizzarlo in modo chiaro: oggetto di
questo discorso è solo ed esclusivamente il reale. Questa
tesi va proprio nella direzione di una lucidità della rifles-
sione, al di là di qualsiasi forma di pregiudizio.
La scienza non può essere costruita in assenza di lin-
guaggio. La comunicazione attraverso nomi e categorie
non solo è essenziale, ma è l’unica possibilità. Cionono-
stante, occorre prendere atto che il linguaggio e i sistemi
di classificazione provocano una drastica trasformazione
o alterazione di quello che comunemente viene definito
reale.
Si può ipotizzare dunque che, riassociando le strutture
di Levi Strauss, la specie umana potrà trovare la felicità?
IV. SEPARARE 101

La separazione dal bacino naturale non è la causa della


sofferenza. Il ritorno alla natura non è sufficiente per rag-
giungere la felicità. La natura – intesa come antagonista
della civilizzazione o della cultura – rappresenta, a mio
parere, un miraggio. Levi-Strauss (2004, 41) riesce a pla-
smare la complessa intimità tra natura e cultura quando
afferma:
«È fuor di dubbio che talvolta la cultura scopre dei
colori che crede di non aver derivato dalla natura:
comunque sarebbe più giusto dire che essa li ritrova,
giacché, sotto questo profilo, la natura è di una ric-
chezza inesauribile. »
La colpa o il peccato più grande dell’umanità è sempre
l’ignoranza; la sua principale responsabilità è la conoscen-
za. Lo stato di ignoranza volontaria e passiva alla quale
sembra votata la post-umanità è, a parere mio, la princi-
pale causa della sua sofferenza. Le relazioni con il piane-
ta, di qualunque matrice esse siano, non possono essere
ignorate. Questa regola vale per i gruppi primitivi all’alba
delle civilizzazioni così come vale per l’umanità tutta oggi.
Il legame con la Terra non cessa mai. Sicuramente cono-
scere la non-separazione era molto più semplice una volta.
Oggi diventa molto difficile desumere, nella fretta della
coda dell’ipermercato o in mezzo al traffico cittadino, il
vasto schema di relazioni che vi intercorrono. Presumo
che, così come ogni società ha una responsabilità e un’e-
tica crescente da osservare, esista anche una conoscenza e
una complessità da intendere. La comprensione della na-
tura, del pianeta e di questo Universo restano, a parer mio,
la responsabilità principale della specie.
Forse la principale causa del conflitto interiore e della
sofferenza dell’individuo sono una visione e un’interpreta-
zione erronea della realtà. Risulta fuorviante la valutazione
102 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

di essa che porta, da un lato, a immaginare l’uomo come


un’entità separata dalla natura. [Occorre considerare che
l’essere umano è un organismo pensante; l’esattezza e la
puntualità dei suoi processi cognitivi costituiscono ele-
menti tanto importanti per il suo benessere quanto nutrir-
si di bacche selvatiche in una foresta incontaminata. Può
essere vantaggioso per la sanità dell’organismo pensante
confrontarsi con schemi mentali che possiedono caratteri-
stiche fondamentalmente divergenti dalla realtà?]
D’altro canto, le idee di separazione hanno portato alla
costruzione di una società e di un mondo dove, forse, cose
che dovevano restare unite sono state – immaginariamen-
te – separate. Ma, ancor peggio, le idee di separazione
costringono l’uomo a una spiegazione e un’edificazione
falsata del proprio contesto di riferimento. Ad esempio, le
razze sono un concetto storico determinante nella costru-
zione e strutturazione del mondo presente. L’idea di razza
è equivalente a un muro ideale. Si tratta evidentemente di
un concetto che ancor oggi genera un processo di separa-
zione. Jared Diamond (1997, 19) fa notare che mantene-
re basi razziste oggi è possibile solo grazie all’ignoranza o
alla malafede. Ma il problema non è che il razzismo resti
un elemento che caratterizza il comportamento di molti
gruppi in diverse parti del globo. Questa idea rimane an-
cora oggi un pilastro fondante del mondo. Il razzismo, per
quanto occultato, resta una condizione frequente e regola-
re nella logica delle società del XXI secolo. A dispetto di
tutti, le osservazioni prodotte a livello genetico su come il
colore della pelle e altri aspetti fenotipici, quali tinta degli
occhi e tipo di capelli, siano scollegati dimostrano come
non esistano colori specifici della pelle, ma piuttosto una
scala continua di tonalità che essa assume sulla base della
frequenza degli allele. A tutte le prove scientifiche si è ag-
giunta una serie di fattori etici e morali. La società contem-
IV. SEPARARE 103

poranea è riuscita a evolversi enormemente. Nonostante


tutto questo, molti problemi sono ancora lì. Le razze, in-
tese come idea, restano elementi reali anche in alcune fra
le società più evolute del pianeta. Negli Stati Uniti d’A-
merica, ad esempio, si arriva alla creazione di categorie
come african-american, asian-american o white-hispanic.
In qualche misura esiste la necessità all’interno di quella
società di attribuire un appellativo giuridico (del tutto le-
gale) che fa riferimento alla provenienza etnica insieme al
colore della pelle (Cavalli-Sforza 1996, 56). Il fattore razia-
le rimane ancora significativo in quel tipo di società dove
processi compensativi verso le minoranze raziali vengono
applicati su più livelli.
Nonostante la scienza abbia fornito l’evidenza necessa-
ria per capire che questa idea e questo nome [razza] non
hanno fondamento e validità se applicati per distinguere
gruppi umani, parte delle strutture, istituzioni, ingiustizie
storiche e meccanismi di compensazioni sono fondate da
questa idee di separazione. Idee che ancora oggi conti-
nuano a determinare squilibri, ingiustizie e frustrazione in
gran parte del globo.
Ma razza non è l’unico schema di separazione. Ne esi-
stono tanti altri che condizionano decisamente l’esistenza
stessa degli uomini. Confini culturale-tecnologici ricordati
più volte da Diamond nel corso di Guns, Germs and Steel.
Patologie del corpo e della mente che si sono dimostrate
infondate hanno dato vita nel corso della storia a schemi
di separazione visibili e invisibili. Michel Foucault in Sor-
vegliare e punire (1993, 169-177) descrive i diversi mecca-
nismi con i quali il malato, il pazzo, il soldato, lo scolaro
vengano, attraverso rigidi schemi di separazione, ripartiti
nello spazio:
104 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

«Vengono definiti determinati luoghi per rispondere


non solamente alla necessità di sorvegliare, di inter-
rompere le comunicazioni pericolose, ma anche per
creare nuovi spazi. […] Le discipline, organizzando
le ‘celle’, i ‘posti’, i ‘ranghi’ fabbricano spazi comples-
si: architettonici, funzionali e gerarchici nello stesso
tempo. Sono spazi che assicurano la fissazione e per-
mettono la circolazione; ritagliano segmenti individua-
li e stabiliscono legami operativi; segnano dei posti e
indicano dei valori; garantiscono l’obbedienza degli
individui, ma anche una migliore economia del tempo
e dei gesti.»

Confini naturali
Le differenze linguistiche, religiose o etniche non sono
frutto di un processo neuro-cognitivo di classificazione. Le
distinzioni etniche o, comunque, quelle che comunemente
vengono interpretate come separazioni, hanno un’origine
geografica ben definita. Come ha illustrato Cavalli-Sforza
(1996, 53-54) citando gli studi di Barbujani e Sokal (1990,
1818), le zone di cambiamenti decisi nella genetica delle
popolazioni europee corrispondono, nei 33 casi sotto esa-
me, a barriere geografiche associate in molti casi anche a
barriere linguistiche.
Per quanto la realtà sia rappresentata in queste pagine
come un continuum, elementi di anche forte discontinuità
sono evidenti alla scala di interazione umana. Le barriere
naturali determinano irrimediabilmente l’isolamento delle
società e delle loro dinamiche. La sfida geografica si trova
proprio su questo spartiacque. La capacità di riconoscere
i legami che viaggiano al di là di qualsiasi confine e, al tem-
po stesso, l’abilità di comprendere e padroneggiare quei
IV. SEPARARE 105

confini terrestri che solitamente le altre discipline tendono


a dimenticare.
Si tratta di barriere naturali che a una certa scala di
interazione spaziale determinano fattori di interruzione
delle trame. Non si tratta solo della separazione di eco-
sistemi. Con gradi diversi e nei vari periodi storici, si os-
servano così a livello sociale possibilità o limitazione nelle
comunicazioni, nella circolazione e negli scambi. Queste
barriere geografiche sono in grado di filtrare o bloccare i
processi di interazione.
Ma queste interruzioni si manifestano a più scale e
pertanto non è facile nemmeno classificarle all’interno
di un unico schema. Come nella geometria frattale di
Mandelbrot, la scala determina la presenza o l’assenza di
un ente, la scala determina la comparsa o la scomparsa
di una frontiera o uno schema di separazione. Tutto di-
pende dalle caratteristiche e dall’intensità della relazione.
Roland Robertson (1999, 42-43) fa riferimento al pen-
siero di Dumont che vedeva questa dualità di scale geo-
grafiche alla base del tema antropologico: da una parte
l’unità del genere umano; dall’altra l’unicità delle società
individuali. Va sottolineato perciò che la sua separazione
a livello geografico in gruppi isolati, determinata dalle in-
terruzioni in ecosistemi diversi, ha provocato un naturale
meccanismo di distinzione.
Un oceano, una catena montuosa o una palude fissa-
no, all’interno della realtà abitata dalla specie, uno schema
naturale di separazione. Una parte dei processi biologici
può oltrepassare questa barriera; una parte no. Come evi-
denziato precedentemente, la realtà è in grado di accoglie-
re condizioni contrapposte. Per la specie umana e per i
gruppi sociali, la realtà appare dunque come uno schema
di continuità; ma anche come uno schema di separazione.
La variazione delle caratteristiche del rapporto tra specie
106 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

e ambiente determina poi la capacità di quel determinato


gruppo di attraversare quell’ostacolo.
Per la maggior parte della sua storia, per l’umanità, l’i-
solamento in contesti geografici specifici è stata la regola.
Il flusso limitato delle popolazioni fra continenti è il caso
più evidente. Ma anche all’interno dei singoli continenti
si registrano, ad altre scale, limiti alla circolazione. Spesso,
ma non sempre, la differenziazione linguistica corrispon-
de alla correlazione territoriale dell’etnia. E questo non è
un fattore secondario. I limiti dei dialetti, con le loro rela-
tive variazioni di scala, rappresentano dei confini essenzia-
li per un’archeologia delle relazioni tra la specie e i propri
ecosistemi. Ma le lingue hanno schemi spaziali non lineari.
I loro confini non sono netti. Cavalli-Sforza (1996, 287) fa
notare come sia davvero difficile definire la regione di una
lingua o di un dialetto se si prendono in considerazione i
singoli vocaboli:
«Se si tracciano le isoglosse di più parole, ognuna di
esse avrà la sua curva, o le sue curve, […] Qual è, dun-
que, la regione in cui si parla una lingua, o un dialetto?
Può cambiare secondo le parole.»
Oggi l’evoluzione tecnologica ha portato una parte del-
la specie a superare alcune delle barriere naturali e andare
così alla creazione di nuovi schemi spaziali. Le società po-
stindustriali prima, e quella postmoderna oggi, sono state
in grado, grazie al jet a propulsione, di superare catene
montuose o deserti in decine di minuti.
Data un’interruzione del continuum, vengono a formar-
si ambiti isolati; questi hanno storicamente dato forma a
ecosistemi ambientali o culturali esclusivi. A livello umano,
la società e la cultura acquistano una marcata differenzia-
zione. I fattori che maggiormente saltano agli occhi sono
i tratti culturali salienti. Tra questi, naturalmente, lingua
IV. SEPARARE 107

e religione, ai quali se ne può aggiungere un terzo, a mio


parere altrettanto importante a causa delle implicazioni
nella comprensione del rapporto dell’uomo con il suo am-
biente, che è l’alimentazione (vedi capitolo V). I primi due
elementi sono legati esclusivamente alla neuro-plasticità.
Il secondo rappresenta un autentico elemento di congiun-
zione o canale tra ambiente e cultura.
La globalizzazione si manifesta anche come un processo
di integrazione delle differenze che caratterizzano il gran-
de mosaico degli ecosistemi, delle etnie e degli stati. La
globalizzazione appare come un processo che mira a fran-
tumare tutti questi schemi di separazione. Da una parte è
evidente un superamento dei confini grazie a un’apertura
delle società verso la diversità etnica e culturale. Dall’altra,
però, questo superamento di confini non corrisponde a
un’evoluzione etica in direzione della comprensione del-
la diversità, quanto a una vera e propria negazione della
medesima. Quello dell’omologazione è di fatto il tentativo
idealistico di eliminazione – per finalità economico-finan-
ziarie – delle differenze storiche determinate nei diversi
gruppi.
Il XX secolo è stato un periodo di enorme evoluzione
tecnologica. Altrettanto non si può dire in campo etico. La
post-umanità è quella fase in cui l’evoluzione tecnologica
consente all’uomo di superare gli oceani ma contestual-
mente di rafforzare – o quantomeno lasciare inalterati – i
confini etnico-culturali. Oggi la tecnologia e l’umanesimo
rappresentano per la specie processi di evoluzione del
pensiero che seguono percorsi distinti.
V. NUTRIRE

L’agricoltura è l’attività che garantisce la fonte primaria di


sostentamento di ogni società evoluta. Insieme alla respi-
razione e all’idratazione, il processo di nutrizione rappre-
senta un insieme di connessioni primarie con l’ambiente.
Come si può ben osservare, quella della nutrizione non è
altro che una relazione ciclica ad alta frequenza, caratteriz-
zata da una natura profondamente condizionata da fattori
geografici. Gli organismi viventi non possono cessare di
nutrirsi. Letteralmente questo nutrimento non è altro che
parte dell’ambiente stesso in cui essi abitano. In questi ter-
mini, la vita non è altro che manifestazione di quei cicli
e funzione stessa della nutrizione. Tralasciando ogni ro-
manticismo retorico, quello della nutrizione non è se non il
gesto di prendere in prestito dalla Terra sostanze essenziali
per il corretto funzionamento degli organismi viventi. [Per
‘funzione di’ intendo che senza nutrizione la vita cessa. La
mente discriminante e categorizzante ragiona solitamente
su un principio del tipo: ‘vivo dunque mi nutro’].
Nella rappresentazione immaginaria del corpo umano,
generalmente si tende a enfatizzare il carattere prevalen-
te dalle sue capacità intellettuali. Questo è comprensibi-
le: cultura, scienza, immaginazione, capacità creativa e
apprendimento conferiscono all’intelletto una centralità
nell’esperienza sociale. Già nei capitoli precedenti è stato
posto in varie forme il significato stesso di umanità o uma-
no. Nel rappresentare questo mito, l’umanità ha dimen-
ticato elementi caratteristici del proprio essere che forse
sono altrettanto significativi rispetto alla sua capacità di
110 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

compiere operazioni aritmetiche o portare a termine ra-


gionamenti logici? Comunemente il cervello umano è as-
sociato all’intelligenza, alla razionalità e al ragionamento
astratto. Tutte cose vere. Nel farlo però ci si tiene presente
che il cervello è anche direttamente responsabile della se-
crezione dei principali ormoni dell’esperienza umana e in-
direttamente responsabile di tutta la parte restante. Anche
se esiste consapevolezza generica sul ruolo degli ormoni
nella vita dell’essere umano, gli aspetti più evidenti e vin-
colanti vengono dimenticati. Non c’è da meravigliarsi di
questo. Come il neurologo e behaviorista Robert Sapolsky
spiega nel suo volume Why Zebras don’t get Ulcers (2004,
24-29), le scoperte legate al ruolo del cervello sono relati-
vamente recenti. Esiste naturalmente nella società e nello
stato una tendenza marcata a esorcizzare tutto quello che
si considera irrazionale e a scongiurare i comportamenti
istintivi. Eppure è ben noto a tutti che gli istinti tendono
a prevalere. Lo sa bene colui che razionalmente inizia una
dieta. Ma non saranno la mente razionale, i pensieri o i
desideri a determinarne il successo dei regimi alimentari
terapeutici. A decidere tutto sarà l’equilibrio della grelina,
leptina, insulina e melanina fra gli altri. Un altro individuo
può razionalmente essere consapevole che nella sua vita
tutto sia in ordine, ma la sua depressione sarà regolata da-
gli ormoni prodotti dalla tiroide.
Solitamente si concepisce l’essere umano come un cer-
vello collegato ad altri organi. Nella logica della lunga sto-
ria degli esseri animati di questo pianeta, è stato immagina-
to un sistema digestivo che si evolve secondo le necessità
di un cervello. La ricerca di Michael Gershon ha permesso
di evidenziare lucidamente il ruolo chiave dell’apparato
digestivo nell’esperienza dell’uomo. L’importanza attribu-
ita al tratto intestinale viene evidenziata semplicemente
dal titolo The second Brain (1999) nel quale lo studioso
V. NUTRIRE 111

sintetizza i risultati dei suoi trenta anni di ricerca. Para-


digmi nuovi che legittimano domande ricreative in chiave
evolutiva: l’uomo è un cervello collegato a uno stomaco,
oppure l’essere umano è uno stomaco collegato a un cer-
vello? Ovvero, il cervello usa la pancia per garantire il pro-
prio corretto funzionamento oppure la pancia usa il cer-
vello per portare a compimento le strategie necessarie per
riempirsi? Nonostante gli sforzi combinati dalla biologia
dello sviluppo, genetica ed eziologia, per comprendere il
sistema nervoso enterico, la sua fisiologia e il complesso di
relazioni a livello organico restano da decifrare (Goldstein,
Hofstra e Burns 2014).
Come già anticipato più volte nei capitoli precedenti,
all’interno della questa tesi la specie è rappresentata come
manifestazione medesima della relazione con l’ecosiste-
ma. Perciò la realtà è caratterizzata da tale rapporto e non
dalla presenza di oggetti all’interno di contesti. Nel caso
degli organismi viventi, la relazione in questione passa
attraverso una serie di processi che vengono qui definiti
‘nutrizione’ appunto. Per nutrizione intendo un concetto
più ampio, di tipo relazionale, che abbraccia idee che van-
no al di là del cibo. Ho già ricordato l’aria e l’acqua. Ma
esistono altri elementi esterni che solitamente non ven-
gono considerati come nutrienti: fra i tanti, ad esempio,
l’esposizione alla luce solare, l’aria pura, o l’inalazione di
pollini e spore per contatto diretto con la natura. Oggi
la maggior parte dell’umanità abita all’interno delle aree
urbane che portano a interrompere le relazioni cicliche ad
alta frequenza illustrate sopra. La vita in molti contesti ur-
bani significa privazione da queste sostanze primarie: aria
pulita o sole. Post-umano fa anche riferimento a questa
condizione, dove la civiltà ha raggiunto un livello tecno-
logico che comporta l’interruzione di certi cicli senza che
ne siano compresi ancora i risultati finali. Post-umanità va
112 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

intesa come un grande esperimento, dove l’umanità stessa,


suo malgrado, compie le parti di committente e di cavia.

Ecosistema, dieta, specie


Quando si fa uso dell’idea di relazione come oggetto stes-
so, si fa riferimento a un rapporto biologico, ma anche a
un rapporto mentale. Da un certo punto della sua storia,
la nutrizione va intesa soprattutto come processo cultura-
le. La specie umana è stata in grado non solo di adattarsi
a nuovi contesti geografici, ma di costruire nuovi modelli
spaziali di adattamento. E questo è stato possibile grazie
alla trasformazione della componente culturale. Prima di
sviluppare la capacità di costruire armi di offesa, esempla-
ri di homo sapiens non sarebbero stati in grado di cacciare
un mammut. Prima della scoperta della domesticazione
delle piante, la nutrizione di un gruppo complesso non
poteva basarsi su un numero limitato di specie. Durante la
sua fase nomade, i gruppi umani erano caratterizzati dal-
la loro condizione di cacciatori raccoglitori. Questa spe-
cie era contraddistinta appunto da una relazione intima
con il proprio ecosistema. È quella che Giuseppe Rotilio
(2006, 85) definisce come «la grande flessibilità e creatività
nell’approccio al cibo» che culmina 10.000 anni fa.
La relazione era diretta; l’ecosistema medesimo deter-
minava le caratteristiche stesse della nutrizione della spe-
cie. Il legame reciproco non era mediato da alcuna forma
di addomesticamento. In altre parole, l’ecosistema era il
nutrizionista, sistema produttivo, magazzino e sistema di
conservazione del nutrimento della specie. L’addomestica-
mento dell’umanità ha corrisposto con la necessaria addo-
mesticazione delle altre specie.
L’introduzione dell’agricoltura determina però non
solo, come già discusso sopra, la formazione di un nuovo
V. NUTRIRE 113

schema insediativo, ma anche la costruzione di un nuovo


modello di relazione specie-ecosistema. L’addomesticazio-
ne delle specie vegetali e animali non solo determinerà la
nascita della casa, del villaggio, della stalla e dei campi, ma
anche degli spazi di stoccaggio, magazzini e granai.
La nuova relazione determina una rivoluzione spaziale.
La comparsa di tutta una nuova serie di rapporti e sotto-
rapporti e la loro materializzazione in oggetti mentali: casa,
patio, orto, villaggio, strada, campi, granaio.
Il passaggio dalla raccolta del nutrimento all’azione di
coltivare il proprio nutrimento ha determinato la rivolu-
zione stessa dell’intero universo. A loro volta, i nuovi spazi
daranno forma ai nuovi schemi di interpretazione della re-
altà: in un modo spontaneo, il nutrimento, da ecosistema,
diverrà prodotto. E tutti i nomi e le etichette acquisteran-
no un nuovo valore. Una specie in grado di fare cose com-
pletamente distinte da quelle che esercitava nel momento
precedente. La dispensa diventa il punto più vulnerabile
della casa. Questo spazio poteva essere leso da fattori cli-
matici o ambientali, parassiti, predoni o saccheggiatori.
Lo spazio destinato ai magazzini diventa essenziale per
la nuova società. Parlando del villaggio di Omarakana nel-
le isole Trobriand, Levi-Strauss (1998, 156-157) illustra
come i granai, che «sono edificati meglio e risultano più
ornati delle case di abitazione», occupano il cerchio inter-
no dell’insediamento, ricoprendo una funzione sacrale e
separata dagli anelli profani (periferici) del villaggio. Ina-
bissati nei corridoi di un ipermercato è facile dimenticare
il ruolo centrale dei granai nella storia della civiltà. Ma per
cogliere il loro ruolo basta ricordare come l’agricoltura e
i magazzini a essa collegati siano stati i principali respon-
sabili della nascita della scrittura. Le prime tavolette di ar-
gilla sumere erano schemi del potere inventati proprio per
la gestione dei magazzini (Robinson 2009, 125). Il sistema
114 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

a gettoni alla base della lingua scritta «coincideva proprio


con la transizione» all’agricoltura (Senner 1991, 32). Ma il
magazzino non è essenziale per le forme sociali complesse.
Lo spazio di stoccaggio domestico resta centrale a tutta la
vicenda umana. Questo spazio mentale che ha preso for-
ma durante la rivoluzione del neolitico è vitale. Così come
vitale diventa lo spazio della cucina.
Il problema del linguaggio impone ancora una vol-
ta una narrazione imperfetta e frammentaria. Il cambia-
mento della relazione porta con sé una trasformazione
dello spazio, della sua percezione e della sua ricostruzio-
ne e reinterpretazione. Il campo di cereali sulle sponde
del Mediterraneo o la coltivazione di patate sulle alture
andine diventano la fonte stessa della vita. La nutrizione
continuerà nella realtà a essere un ciclo di prestito e resti-
tuzione. Quel prendere in prestito è alla base delle nostre
idee odierne sulla vita e sull’evoluzione (Margullis, Sagan
e Eldredge 1995, 23):
«[…] il corpo […] continuamente si auto-ripara. Ogni
cinque giorni ottieni un nuovo strato dello stomaco.
[…] ogni anno, 98 percento degli atomi del tuo corpo
sono sostituiti. Questo ricambio chimico senza sosta, è
un segno evidente di vita. Questa ‘macchina’ richiede
un’immissione di energia chimica e materiali (cibo).»
Con la grande rivoluzione industriale inizierà un pro-
cesso che, con tempi e ritmi differenti a livello mondia-
le, darà il via al grande esodo agricolo. Iniziando da un
gruppo piccolo di persone in Inghilterra e nel Nord Eu-
ropa, comincerà un lungo processo di allontanamento da
quei campi arati. Dalla metà del XVIII secolo quella fuga
ha continuato incessantemente; oggi anche grazie all’in-
dustrializzazione dei paesi emergenti. Si arriva così a un
contesto socio-economico in cui la maggior parte degli
V. NUTRIRE 115

abitanti del pianeta non è più direttamente responsabile


della produzione del cibo che consuma. Si tratta di un
non-produrre, caratterizzato soprattutto dall’ignoranza
complessiva dei valori presi in prestito dalla Terra e dell’o-
rigine geografica di questo prestito. Progressivamente i
marchi dei prodotti industriali sostituiscono nella lingua
i vecchi nomi dei prodotti.
Non molto tempo fa, il nutrimento era mediato in pri-
mo luogo dalla fase di coltivazione, seguita da una catena
di distribuzione. I prodotti erano le uova, lo zucchero, la
farina e il burro. I commercianti di alimenti procurava-
no sostanzialmente delle materie prime alle sempre più
crescenti popolazioni urbane. Questa ulteriore fase del
meccanismo di distribuzione ha significato una brusca
trasformazione dello spazio delle persone. Il campo arato
scompare. Generazione dopo generazione, il nome ‘cam-
po’ inizierà a fare riferimento a un’entità remota e intangi-
bile. I padri di famiglia dimenticheranno progressivamente
quanto grano dovrà essere coltivato per dare da mangiare
a tutto il gruppo sotto la loro responsabilità. Per Michael
Pollan (2008), il mais coltivato nei campi dell’Iowa diven-
teranno da lì a poco ‘prodotti’ delle principali catene di
fast-food. Quanti di questi consumatori, mangiando le loro
pizza slice e i loro hamburger, sarebbero in grado di con-
templare la catena che parte dai campi descritti da Pollan?
A un certo punto, al meccanismo di produzione e di-
stribuzione si aggiungerà quello dell’industrializzazione. Il
latte non sarà più quello fresco di giornata, ma quello pa-
storizzato. Nei luoghi di commercio compariranno nuove
merci industriali. Il numero di tali prodotti sarà sempre più
crescente fino a occupare oggi la quasi totalità dello spazio
nelle aree del commercio al dettaglio. Anche la superficie
interna delle case subirà una trasformazione radicale. Il fo-
colare, la cucina, si trasformerà. Perderà la sua funzione di
116 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

centro artigianale domestico. I cicli di preparazione e con-


sumo inizieranno a trasformarsi per le imposizioni della
catena di montaggio fordista e della campanella scolastica.
Oggi si assiste a una dissociazione disfunzionale causata
dai ritmi dell’accumulazione flessibile descritta da Harvey
(2002). Pollan (2008) fa, ad esempio, riferimento al cibo
da fast-food consumato nelle macchine in corsa. Nutrizio-
ne e trasporto fuse in un’unica relazione disfunzionale.
Per capire la trasformazione radicale della cucina ba-
sti pensare al ruolo della conservazione e dell’imballaggio.
Per molte società occidentali la cucina diventerà uno spa-
zio accessorio. Sempre di più, il consumo del cibo viene
condotto all’esterno delle mura domestiche, nei fast-food.
Sempre di più piatti pronti (in realtà assemblati industria-
li) prelevati dal drive-thru o dai ristoranti e take-away en-
trano nelle case delle famiglie occidentali.
Questi assemblati industriali vanno trattati comunque
come prodotti. Come ricorda Igor Kopytoff (1988, 64):
«Per l’economista, sono semplicemente prodotti. Dal
punto di vista culturale, la produzione di beni e pro-
dotti è anche un processo culturale e cognitivo: i pro-
dotti devono non solo essere prodotti materialmente
come oggetti, ma anche culturalmente segnati come
un certo tipo di cose.»
Nella post-umanità, la nutrizione va interpretata come
prodotto di una colonizzazione culturale al servizio dell’in-
dustria che determina l’alterazione di tutti i cicli e le rela-
zioni spaziali e temporali. Oggi, ogni prodotto è sempre
e comunque disponibile. Nella post-umanità è possibile
consumare ogni cosa e ogni prodotto in ogni momento
dell’anno. Parallelamente, però, la società dimentica fatto-
ri essenziali come la stagione dei fagiolini e altre specie. Si
tratta di una società che consuma cacao e caffè tutto l’an-
V. NUTRIRE 117

no. Ma come siano fatte le loro piante o la localizzazione


geografica dei campi di coltivazione non interessa quasi
più a nessuno.

In polvere ritornerai
In questa lettura dell’evoluzione del processo di nutri-
mento va evidenziato un aspetto fondamentale. Non im-
porta la fase storica: la nutrizione è sempre un ciclo che
parte dalla Terra, passa dagli organismi, per poi tornare
al punto d’inizio. Per essere più precisi, è necessario un
salto di scala: il punto di passaggio è nell’intestino tenue.
E, compiendo un altro salto, la nutrizione prende effetti-
vamente forma nei villi intestinali che sono quelli che si
occupano di assimilare le molecole nutritive indispensa-
bili per l’organismo.
Da questo resoconto sommario dell’evoluzione del
rapporto tra nutriente e consumatore emerge qualcosa di
molto importante. Per il consumatore, l’aspetto che subi-
sce la maggiore trasformazione in questo processo è quel-
lo relativo dunque ai nomi, alle costruzioni spaziali e alle
relazioni mentali. Il movimento va sempre più verso nomi
astratti o comunque verso la trasformazione semantica dei
medesimi. Le diverse forme geografiche e figure spaziali
della produzione agraria diventano schemi linguistici privi
di significato. Nello stesso modo, le figure geografiche e
i termini perdono la ricchezza di una volta. Ad esempio,
il significato di ‘seminativo arborato’ diventa un’entità
astratta per la maggior parte della popolazione.
Considero che, all’interno della realtà, le relazioni non
possano essere qualificate. Possono semmai esistere (come
evidenziato nel capitolo II) relazioni o rapporti in equili-
brio o squilibrio. Le prime sono quelle che possono pro-
trarsi per tempi lunghissimi senza particolari variazioni o
118 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

caratterizzate da lente evoluzioni. Le seconde sono segna-


te da rivoluzioni e accelerazioni che portano o a un nuovo
equilibrio o alla fine della relazione stessa; in altre parole,
alla morte della specie.
Ancora oggi, anche per le società più avanzate a livel-
lo tecnologico, l’agricoltura costituisce la forma primaria
di sostentamento. La nutrizione dell’uomo deriva inevi-
tabilmente dal processo di coltivazione di specie vegeta-
li. Il consumo di animali e latticini rappresenta solo un
meccanismo di intermediazione da specie vegetali coltiva-
te (Diamond 1997, 86-87). Guardando con attenzione, è
possibile osservare come, di fatto, l’agricoltura costituisca
la forma di sostentamento per quasi tutti i gruppi umani; a
eccezione, naturalmente, di quelli per i quali la raccolta e
la pesca continuano a essere la base. Non interessa quanto
sia ampio il livello tecnologico di una società; quanto sia
sfarzoso il piano di ostentamento del proprio livello evolu-
tivo. Il mantenimento della specie umana passa dal muta-
mento di molecole terrestri in piante, e da cellule vegetali
in nutrienti attraverso i villi intestinali di cui sopra.
Oggi assistiamo a una condizione molto interessante.
Le ragioni sono talmente ovvie da passare inosservate. È
un dato inconfutabile che ogni singolo essere umano di-
penda dal nutrimento che riceve. La stessa struttura fisica
dell’uomo (i suoi tessuti) sono sostanze chimiche prove-
nienti dalla Terra, che passano prima da uno stadio inter-
medio denominato cibo. L’agricoltura intesa come fonte
primaria del nutrimento della società contemporanea va
a costituirsi come legame primario tra umanità e pianeta.
Essa è quella che rende possibile la trasformazione della
Terra stessa in vita. La vita diventa funzione stessa della
dinamica terrestre. La suddivisione delle relazioni in par-
ti o categorie torna a essere imprecisa. Questo elemento
si può cogliere facilmente con un esempio tanto banale
V. NUTRIRE 119

quanto pertinente con il nostro discorso: il legame tra


uomo e Terra. Guardando la composizione di un corpo
umano possiamo osservare come esso sia 75% acqua, 18%
carbonio, 3% azoto, 1,5% calcio, 1% fosforo ecc. Ogni
molecola del corpo umano appartiene in primo luogo alla
Terra. Perciò, pur non negando, a un qualche livello, l’e-
sistenza della vita da una parte e dell’umanità dall’altra, si
può affermare che ogni uomo e ogni essere vivente siano
organismi che hanno preso in prestito una serie di elemen-
ti dalla Terra. Oppure, estremizzando ancora di più que-
sto concetto, si può dichiarare che, a una certa scala di
contemplazione, ogni essere vivente e la Terra siano equi-
valenti perché costituiti dalla stessa sostanza. Gli organi-
smi non sarebbero altro che sostanza terrestre organizzata,
attuando e partecipando sotto la forma di organismo: gi-
rasole, abete, lupo, leone, uomo ecc.

Rivoluzioni verdi
Ma non si è assistito solo alla trasformazione e al cambia-
mento dal punto di vista del consumatore, cioè di colui
che deve nutrirsi. Altrettanto traumatiche sono state le fasi
di trasformazione della produzione stessa. L’agricoltura si
è modificata grazie a tre grandi rivoluzioni: a) l’adozio-
ne dell’agricoltura durante il neolitico b) l’introduzione
dell’aratro e della rotazione triennale nel medioevo c) la
meccanizzazione durante l’era industriale. Appendice di
quest’ultima fase è stata la rivoluzione verde di Borlaugh e
probabilmente, a breve, occorrerà annoverare anche quel-
la più recente delle manipolazioni genetiche.
Ognuna delle rivoluzioni agricole comporta evidente-
mente la trasformazione del grado e dell’intensità delle
relazioni produttive a livello spaziale e, con questa, la va-
riazione (positiva o negativa) del volume e della densità
120 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

dei nutrienti. Mutamenti che comportano evidentemente


delle variazioni correlate con l’andamento demografico,
come già illustrato nel capitolo II. Neolitico, basso medio-
evo ed era industriale sono state fasi di grandi variazioni;
non sempre in crescita positiva, come nel medioevo du-
rante la grande peste.
Le rivoluzioni agricole sono però anche responsabili di
importanti mutamenti nel rapporto tra specie ed ecosiste-
ma. E, come è stato evidenziato più volte, la maggiore tra-
sformazione riguarda, da una parte il rapporto reciproco
ecosistema-specie, dall’altra lo spazio d’interazione socia-
le. Un esempio: anteriormente alla prima rivoluzione, il
cacciatore raccoglitore si nutriva di alimenti provenienti
da un’area geografica molto vasta. Le migrazioni impo-
nevano un consumo disseminato e variegato. Il cibo era
caratterizzato dalla dispersione geografica. La prima rivo-
luzione comporta un nuovo schema. Ora il cibo proviene
idealmente da un’unica valle che coincide con il proprio
spazio di dimora. La dieta non segue più i cicli delle mi-
grazioni, ma quello di produzione stagionale e dunque
dipende anche dalla costruzione di un nuovo spazio e
dall’organizzazione dei gruppi sociali attraverso ruoli e
regole al loro interno.
Nello stesso modo, l’introduzione della rotazione
triennale comportò, nel X secolo, la trasformazione dello
spazio produttivo. L’aritmetica agricola porta a un incre-
mento notevole della produzione. La rotazione triennale
prende piede in Europa in concomitanza con la compar-
sa dell’aratro pesante. La maggiore profondità raggiunta
nell’aratura favorirà la produzione; così come la riduzione
del tempo necessario a completate le arature. Infatti que-
ste due novità si rafforzano reciprocamente proprio per-
ché la rotazione triennale richiedeva un potenziamento
del ritmo delle arature. La ricostruzione dello spazio attra-
V. NUTRIRE 121

verso la rotazione triennale e la trasformazione del tempo


con l’aratro pesante determinano così una nuova relazio-
ne. Questa si manifesta con una maggiore produzione di
nutrienti e una conseguente stabilità e, successivamente,
crescita della popolazione.
Ma anche se è vero che la relazione fisica rimane sostan-
zialmente intatta, cosa succede con quella culturale? Trac-
ciare un confine tra ecosistema e cultura diventa molto dif-
ficile; almeno per tutto il periodo prima della rivoluzione
industriale. Presumibilmente, esistevano prima di allora
una spontaneità ed equivalenza tra rapporto naturale e co-
noscenza. È evidente che la vita stessa (i nutrienti) viene
direttamente dalla terra. La popolazione poteva contem-
plare i futuri raccolti. Tutto questo si traduce in una sacra-
lità. Il cibo diventa automaticamente sacro per il semplice
motivo che chiunque riconosceva istintivamente in esso
la condizione di portatore di vita. Nella post-umanità la
relazione di prestito ciclico tra pianeta e tessuto biologico
grazie ai nutrienti è ignorata da molti. A prescindere da
quello che ogni individuo voglia credere o pensare, il suo
corpo non cessa di essere funzione della quantità di nu-
trienti che assume. La domanda pertinente è: che trasfor-
mazioni ha subito a livello mentale la società oggi? Anche
con la consapevolezza della relazione tra la Terra e i villi
intestinali, diventa molto difficile individuare la sacralità
di fronte a una confezione di biscotti al cacao.
In una megalopoli, l’individuo si reca all’ipermercato,
afferra un contenitore di cartone o plastica e lo ripone in
un carrello. Egli non ha cognizione ed elementi per com-
prendere come quel prodotto – che da lì a poco dal suo
sistema digestivo assumerà la forma di componenti o mat-
toni del suo corpo – sia arrivato allo scaffale da cui lo ha
colto. Esiste una giustificazione molto importante a tutto
questo. Nella post-umanità le diete sono individuali e non
122 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

collettive. Nell’infinità di combinazioni possibili che con-


sente il supermercato, la cultura alimentare è una storia
personale. Scrivere questa storia richiede tempo; analiz-
zare le sue qualità ancora di più. Nell’era della globalizza-
zione le culture alimentari individuali (o della solitudine)
determineranno anche una geografia della nutrizione per-
sonale. Fino a pochi decenni fa, interi gruppi, abitanti del-
la stessa vallata, consumavano gli stessi prodotti e lo stesso
pane. Nella post-umanità si registra la condizione inversa.
Oggi gli individui, in maniera sempre crescente, consuma-
no diete distinte perfino da quelle degli stessi componenti
del proprio nucleo familiare.
La storia e geografia individuali dell’alimentazione sono
troppo complesse: l’ignoranza in questo caso non è una
scelta, ma, per la maggior parte delle persone, un obbligo
(Blay-Palmer 2008, 1-3). La cosa più interessante e affasci-
nante è questa: un individuo non solo a volte non sa come
quel prodotto sia stato coltivato, curato, raccolto e pro-
cessato; ma per lui tutto questo continuerà a restare celato
dietro la lista degli ingredienti, dei possibili paesi di pro-
venienza e dei componenti nutrizionali. Questa rappre-
senta una nuova rivoluzione: la trasformazione definitiva
dell’alimentazione come funzione di prodotti. Il biologico,
il sano, il genuino interessano oggi solo in quanto caratte-
rizzano prodotti o merce che garantiscono un certo stan-
dard. Esiste il bisogno di un marchio proprio perché esiste
il bisogno di una garanzia. Il logo garantisce il processo
che viene associato all’idea di genuino. Il problema è che
fra poco, o forse già, l’idea stessa di genuinità scomparirà;
a meno che qualche associazione ne inventi un logo spe-
cifico. ‘Bio’, ‘DOC’, ‘light’, ‘senza glutine’, ‘vegan’ sono
loghi che compaiono su un numero sempre più crescente
di prodotti. L’acquisto di questo prodotto piuttosto che
quello sta nell’identificazione di questi loghi e non rap-
V. NUTRIRE 123

presenta un riflesso dell’individuazione in un articolo di


una qualità specifica ricercata perché connessa a processi
specifici collegati a relazioni di produzione.
L’individuo postmoderno ha perso totalmente quel-
la capacità intuitiva di concepire il prodotto della Terra
come portatore di vita. Questo avviene proprio per l’evo-
luzione della società stessa a un nuovo stadio tecnologi-
co. Se si osserva con attenzione la storia dell’umanità, ci
si potrà rendere conto che la popolazione umana è stata
per la quasi totalità della sua storia a contatto con la Terra.
La trasformazione del modello di relazioni ha determina-
to uno schema nel quale l’individuo dipende ancora della
Terra. Ma questo processo è mediato o filtrato da catene,
meccanismi o procedimenti di tipo industriale e commer-
ciale oramai troppo lunghi.
Esiste un livello territoriale materiale con il quale l’uo-
mo non interagisce più. È ancorato a vecchi schemi spazia-
li neolitici o postindustriali solo come necessità corporea;
mentre la sua mente è già altrove. Nel mondo sviluppato,
a interagire su questo piano sono le macchine automatiz-
zate e i pochi agricoltori che restano.
Nel nuovo schema di relazioni, il cibo proviene da ogni
angolo del pianeta. In un dato momento, una famiglia
può trovarsi in tavola una bistecca allevata nell’Europa
dell’Est, riso indiano, frutta tropicale proveniente dal Sud
o Centro America. La somma complessiva dei chilometri
percorsi da questo cibo raggiunge facilmente le diverse
migliaia. Anche per un prodotto emblematico come la pa-
sta, in Italia un’unica confezione risulta essere prodotto
della combinazione di grani provenienti da più continenti.
Di fronte a questo eccentrico miracolo, l’individuo rimane
impassibile. Il cibo oggi non appartiene più alla categoria
di alimento. Rappresenta piuttosto un’ingegnosa costru-
zione che integra marketing, trasporto, conservazione e
124 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

distribuzione. Le relazioni della società con il suo habitat


si sono spinte a una scala completamente distinta.
La cosa interessante è che alla base di questo processo
nulla è veramente cambiato. Il corpo di un individuo ha
bisogno di una serie di nutrienti. Il corpo umano non sa
cosa sia una nave cargo da 18.000 TEU, un carrello del
supermercato, le etichette o il codice a barre del prodot-
to. Il corpo umano ha solo dei ricettori attraverso i quali
riconoscere certi tipi di nutrienti e un apparato endocrino
attraverso il quale regolare carenze o eccessi di energia e
sostanze nutritive. Per quanto colta possa la post-umanità
percepire se stessa, per quanto il suo livello di istruzione
sia cresciuto e per quanta tecnologia sia in grado di gestire
e manipolare, sembra trasparire un’incapacità dell’uomo
di gestire in modo spontaneo e intuitivo il proprio rap-
porto con la nutrizione. Come già segnalato nei capitoli
precedenti, il rischio è quello del superamento di soglie
e di conseguenti squilibri nella relazione specie-ambiente.
Ad esempio, il lavoro di Tanumihardjo et al. (2007, 1967-
1968) descrive i meccanismi ormai noti da tempo attra-
verso i quali l’insicurezza alimentare conduce al paradosso
della fame e dell’obesità. L’assenza di una dieta varia ed
equilibrata conduce a carenza di micronutrienti essenziali.
A sua volta, quest’ultima porta a una sovralimentazione
che guida direttamente all’obesità. I casi di obesità asso-
ciati alla fame nascosta e alla carenza di micronutrienti
non sono un’eccezione, ma si confermano progressiva-
mente come la regola di questa epidemia oramai globale.
I regimi alimentari una volta erano determinati dai ci-
cli e dall’ecosistema. Era l’ecosistema stesso che offriva
il nutrimento e dettava frequenza e composizione delle
diete secondo le proprie possibilità e i cicli di rigenera-
zione. Per gran parte della popolazione mondiale, oggi
la dieta, la fame e l’istinto vengono regolati invece dalla
V. NUTRIRE 125

pubblicità e dai meccanismi del mercato. Sono la televi-


sione, la radio e la réclame di internet a regolare cosa i
genitori mettono in tavola e danno da mangiare ai propri
figli. L’industria è costretta a stabilire un saldo meccani-
smo tra catena di produzione e consumatore. Il ciclo di
vita di un prodotto deve essere garantito da un consumo
stabile. Questa stabilità commerciale di tipo artificiale è
andata a sostituire il rapporto tra ecosistema e individuo.
Secondo Harvey (2002, 351):

«La pubblicità, inoltre, non è più costruita attorno


all’idea di informare o promuovere nel senso comune
dei termini, ma è sempre più indirizzata alla manipola-
zione dei desideri e dei gusti attraverso immagini che
possono o meno avere qualcosa a che fare con il pro-
dotto da vendere.»

Questa transizione della catena ecosistema-individuo-


industria ha un peso rilevante nella logica di questa tesi.
Apparentemente si potrebbe percepire l’imposizione del
meccanismo o flusso di cura e nutrizione come unilatera-
le. Invece è sempre reciproco. La tavola e i regimi alimen-
tari nella post-umanità sono un riflesso del rapporto tra
uomo e ambiente. Gli stessi squilibri (e abusi) che trovia-
mo nel territorio li troviamo nelle tavole. Le diete attuali
non sono che uno specchio di tutto questo. Perfino una
dieta sana ed equilibrata, quando prodotta dall’interme-
diazione della grande distribuzione, è comunque frutto
di squilibri. Relazioni in squilibrio che costituiscono co-
munque una trappola.
Occorrerebbe, secondo alcuni, coltivare il proprio orto,
seminare e sapere cosa si consuma. Ma il meccanismo de-
gli orti si riduce attualmente a un mito. Il tempo neces-
sario a mantenere l’orto e fargli produrre qualche carota
126 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

sarebbe insostenibile con i ritmi richiesti oggi a un nucleo


familiare. Nel nuovo ecosistema del terziario avanzato, i
genitori, dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro,
possono avere a disposizione un intero piatto per la fami-
glia in pochi minuti attraverso un gesto che sintetizza la
compressione spazio-temporale del nostro tempo. Basta
aprire una busta di plastica con qualche alimento surge-
lato all’interno. Prodotti che possono essere la somma di
una svariata serie di sottoprodotti provenienti da ogni an-
golo del pianeta.
VI. DETERRITORIALIZZARE

Oggi sussiste la consapevolezza diffusa che la globaliz-


zazione rappresenti uno dei temi di maggiore comples-
sità nell’orizzonte delle scienze dell’uomo. Pensiero tra-
sversale che viene condiviso con gran parte dei settori
disciplinari che si occupano, in ognuna delle sue forme,
della contemporaneità. Riferendosi alla globalizzazione,
Osterhammel e Peterson (2005, 7) l’hanno definita come
nozione inerente la «diagnosi del presente». Anche al di
fuori del settore scientifico, dalla fine degli anni Ottanta,
il tema è andato gradualmente acquistando sempre più ri-
lievo. Oggi la globalizzazione è un concetto diffuso; lo si
trova in ogni angolo della comunicazione, sia essa politica,
intellettuale, accademica o giornalistica. Paul Virilio (2000,
7), la descrive in questi termini:
«Dopo la fine della storia prematuramente annunciata
da Francis Fukuyama alcuni anni fa, ciò che si rivela
qui è l’inizio della ‘fine dello spazio’ di un piccolo pia-
neta sospeso nell’etere elettronico dei nostri odierni
mezzi di telecomunicazione.»
Al di là degli importanti sforzi compiuti attorno a que-
sto tema, la globalizzazione può essere percepita come
insieme di relazioni e meccanismi di interazioni che sfug-
gono in modo deciso agli schemi conoscitivi tradiziona-
li. Conseguenza di questa complessità spaziale è, da una
parte, l’enorme difficoltà a incasellare i processi in cate-
gorie classiche, e, dall’altra, l’impossibilità di costruire un
discorso che sia in grado di offrire una sintesi.
128 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Oggetto del capitolo è illustrare in che modo i pro-


blemi del linguaggio e della separazione (vedi capitolo I)
possano essere applicati all’interno della complessa narra-
zione relativa a questo momento storico.

Post-umanità
Il nome post-umano ha in questa sede un significato pre-
ciso. Fa riferimento a una condizione della società caratte-
rizzata da elementi evidenziati nel corso degli anni Novan-
ta del XX secolo da David Harvey e Marc Augé. Harvey
(2002, 347-361) parla in particolare di compressione
spazio-temporale. Marc-Augé (1995, 31-36) ha elabora-
to invece il concetto di surmodernità come risultato delle
«tre figure dell’eccesso». Ai fini di questa tesi, post-umano
rappresenta un nome correlato ai due termini preceden-
ti. È stato voluto per evidenziare con enfasi le difficoltà
che l’individuo incontra nel contesto della surmodernità
e della compressione spazio-temporale, nel manifestare
comportamenti, reazioni, sogni o aspirazioni compatibili
con quello che idealmente e comunemente viene definito
‘umano’. Ad esempio, quando le condizioni presenti por-
tano un padre e una madre a non poter dedicare il tempo
necessario alla propria prole, allora ci si trova nella con-
dizione di post-umanità. Quando l’individuo diventa una
macchina da consumo e cessa di agire come essere razio-
nale capace di prendere le proprie decisioni, si assiste alla
formazione della post-umanità.
Il problema scientifico o tema della globalizzazione è
dunque – come d’altronde ogni argomento geografico –
intimamente legato a una dialettica linguistica. E, come
si dirà subito dopo, anche in questo caso è veramente
difficile individuare un compromesso funzionale e utile
sul significato dei termini, la loro portata e il loro valo-
VI. DETERRITORIALIZZARE 129

re semantico sia all’interno della costruzione dei discorsi


quanto dei pensieri.
La realizzazione di nuovi spazi comporta sempre sfi-
de inedite. Nel caso specifico della ‘globalizzazione’, il
problema diviene ancora più complesso perché i concet-
ti elementari di spazio, scala e confine vanno a confluire
e a intrecciarsi in un nuovo e complesso meccanismo di
regole di interazioni. Queste regole, benché derivate da
modelli previ, determinano la costruzione di nuovi schemi
spaziali che rispondo, rispetto al passato, a regole sostan-
zialmente atipiche. L’ubiquità diffusa nella popolazione ha
effetti nella trasformazione della percezione dello spazio.
Oggi un uomo ha la capacità di interagire o operare con-
temporaneamente in due luoghi del pianeta. Con ‘operare’
intendo qui la capacità di esercitare e controllare il rilascio
di energia e la conseguente trasformazione delle relazioni
che compongono il piano fisico. Esempio di questo può
essere la teledidattica o la telemedicina. Centinaia di mi-
lioni di persone nel globo lavorano e interagiscono con
entità digitali collocate all’interno di uno spazio astratto.
Un operatore può lavorare con applicazioni o frammen-
ti di codice dislocati a Las Vegas, Phoenix e Ciudad de
Panama. Le nuove coordinate geografiche sono letteral-
mente l’indirizzo IP (Internet Protocol address) usato dai
dispositivi mobili per geolocalizzare, con il supporto delle
reti Wifi, la posizione di persone all’interno di un edifi-
cio. Nella post-umanità le coordinate geografiche evolve-
ranno da intersite verso intrasite. Grazie alle nuove forme
interattive dei sistemi di telecomunicazione si è venuto a
determinare un panorama di condizioni e meccanismi di
relazione completamente nuovi.
Il linguaggio diventa in sostanza inefficace nel descrive-
re le nuove relazioni. Le entità, la loro capacità di intera-
zione, i flussi e i contesti si espandono fino ad abbracciare
130 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

le società, tutti gli ecosistemi e l’intero globo. Metafore


mai usate e provvisorie compaiono aspettando una fase
di perfezionamento dei modelli interpretativi della nuo-
va realtà: information superhighway, global village, hub, e
cloud sono alcune di queste nuove metafore spaziali. Esse
attribuiscono un nome, ma ben poco spiegano delle ca-
ratteristiche dei processi o luoghi a cui fanno riferimento
(James e Steger 2014, 423). Strutture virtuali acquistano
nomi reali. E viceversa. Ci si riferisce a queste entità senza
capire che effetti possano avere nella società. Da qui l’e-
norme difficoltà di compiere previsioni sul breve periodo.
Non solo non vi è consenso su cosa sia veramente la
globalizzazione. Ammesso che la società contemporanea
viva immersa in una fase di deterritorializzazione assoluta
e definitiva (Deleuze e Guattari 1987), va preso atto che
esiste anche un forte dibattito sulla sua natura benigna o
negativa (Giddens 1990). Le due schiere si contrappon-
gono su un piano intellettuale, politico, economico e so-
ciale. E questa opposizione intellettuale genera a sua volta
nuovi schemi interpretativi spaziali. La struttura sociale
nella sua interezza è impegnata nel processo riflessivo; sia
attivamente che passivamente.
La deterritorializzazione, la mondializzazione, le tele-
comunicazioni, l’integrazione dei mercati procedono in
un meccanismo evolutivo accelerato senza curarsi mini-
mamente delle ideologie. Gli schemi ideologici appaiono
evidentemente incapaci di spiegare e descrivere la realtà.
In estrema sintesi esistono due gruppi. Gli ‘scettici’ rap-
presentano un insieme di studiosi, politici e cittadini con-
vinti della non esistenza della globalizzazione. Secondo il
loro punto di vista, circolazione e interazioni spaziali non
differiscono sostanzialmente da quello che è sempre sta-
to. Contrapposti a questi si trovano i radicali. Per loro la
globalizzazione è caratterizzata da un’intensificazione dei
VI. DETERRITORIALIZZARE 131

traffici e delle interazioni, delle loro portate e della rami-


ficazione e reciprocità delle medesime, come affermato
in precedenza (Giddens 2000, 20-21). Radicali e scettici
rappresentano due schiere che hanno opinioni e genera-
no dinamiche e rapporti materiali; questi vengono accolti
fatalmente all’interno dello spazio o della realtà. All’inter-
no della realtà non c’è distinzione. E troppo spesso si dà
poca importanza a queste dinamiche. Dal mio punto di
vista, nella post-umanità il luogo più critico nell’esercizio
del potere è il mercato in tutte le sue forme. Poco conta se
si tratti di un mercato finanziario telematico, un mercato
rionale o l’ipermercato.
La realtà non evolve secondo le opinioni e le interpre-
tazioni di scettici o radicali; così come le nuove strutture
spaziali della globalizzazione operano indistintamente per
neoliberali o ecologisti. Nella post-umanità il fattore chia-
ve è la quantità di relazioni e non il messaggio. La rete in-
ternet e le sue interconnessioni rappresentano meccanismi
che superano la fisiologia neuro-cognitiva della specie.
Al di là delle innumerevoli definizioni, classificazioni
sociologiche e periodizzazioni storiche, la globalizzazione
appare ancora oggi come un’etichetta o un contenitore
troppo ampio e approssimativo. Al suo interno conflui-
scono una quantità eccessiva di temi. Alcuni senza un’e-
sclusività o un’eccezionalità che permettano di formulare
impalcature del linguaggio solide per una dialettica for-
male o comunque capace di determinare con precisione i
tratti che caratterizzano questa fase storica. Osterhammel
e Peterson (2005, 7) parlano appunto di «fitta selva se-
mantica». Per ‘assenza di temi esclusivi’ intendo sempli-
cemente che vecchie relazioni socio-economiche si sono
intensificate e sono diventate più evidenti oggi. Ma que-
ste indubbiamente erano presenti e avevano una grande
importanza anche in precedenza (Marramao 2008, 129).
132 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Basti pensare alla navigazione aerea o ai flussi finanziari a


livello internazionale prima degli anni novanta.
È facile capire come in un contesto epistemologico si-
mile sia possibile affermare tutto e il contrario di tutto.
Parallelamente però è facile intuire come vi sia una diffi-
coltà a operare in un contesto che permetta di costruire
una cornice di riferimento sufficientemente solida e so-
prattutto in grado di consentire il flusso di idee a livello
interdisciplinare.

Mode
Globalizzazione non è l’unica etichetta o nome con il
quale si fa riferimento alla diagnosi del presente. Molte
etichette hanno avuto un successo inferiore e alcune ad-
dirittura, dopo una fase di grande popolarità, sono state
dimenticate. Un caso paradigmatico è ‘postmodernità’.
Concetto che ha goduto di una crescita esponenziale nella
prima metà degli anni Novanta (Lyotard 1981), di gran-
de successo nella seconda metà dello stesso decennio, per
poi iniziare il suo declino subito dopo il volgere del terzo
millennio. Mondializzazione, globalismo, surmodernità
sono altri termini che però restano rilegati ad ambiti spe-
cifici e che mettono in evidenza un aspetto trascurando-
ne altri. Si tratta pertanto di etichette che presentavano
delle peculiarità specifiche che le rendevano più precise
e adatte a una diagnosi sul presente che non il generico
concetto di globalizzazione.
Una definizione ortodossa, attenta e molto importante
di ‘globalizzazione’ ci viene regalata da Osterhammel e
Peterson (2005):
«l’estensione, l’intensificazione e l’accelerazione delle
relazioni su scala mondiale. »
VI. DETERRITORIALIZZARE 133

Questa breve definizione va a reiterare il ruolo centrale


delle relazioni e dei collegamenti. Ma, di fronte alla selva
semantica, per poter giungere a una definizione accettabi-
le occorre ridurre significativamente il contenuto descrit-
tivo della medesima.
Ma non è vero che la globalizzazione corrisponda
all’era delle reti. Non è vero che i primi decenni del XXI
secolo rappresentino il tempo delle interconnessioni. Le
interconnessioni globali ci sono sempre state. E continue-
ranno a esserci anche dopo la fine dell’umanità. Molte di
queste reti biologiche presentano scambi che superano
di gran lunga qualsiasi volume di informazione mai pro-
dotto o immaginato. Gary Snyder (1974, 108) parlando
dell’ecologista Eugene Odum descrive tale condizione
dello spazio e della realtà:
«Esiste più informazione di ordine superiore di sofi-
sticazione e complessità archiviata in pochi metri di
foresta che in tutte le biblioteche dell’umanità.»
Questo pensiero può essere ricollegato con «l’allegra
dissociazione di miliardi di strutture» alla quale faceva ri-
ferimento Levi Strauss e già menzionata nel capitolo IV.

Scomparsa dei confini?


La globalizzazione viene presentata anche come un pro-
cesso evolutivo che parte da un meccanismo di scavalca-
mento dei confini (multinazionali, durante la seconda metà
del XX secolo) per giungere a una più recente scomparsa
istituzionale dei medesimi (vedi ad esempio il trattato di
Schengen o il North American Free Trade Agreement).
Ma l’enunciazione di ‘scomparsa dei confini’ può avere
varie accezioni. E, così come si parla tanto della dissolu-
zione di certi confini, la geografia non può non eviden-
134 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

ziare anche sia il consolidamento di vecchi confini che la


nascita di nuovi. Il confine cultura-natura, nato durante
il neolitico, viene rafforzato ulteriormente. All’interno di
questa società globale, poca attenzione rimane a disposi-
zione della natura. Per il cittadino comune, perfino la di-
fesa, o salvaguardia, dell’ambiente è un processo commer-
ciale-mediatico. Allo spettatore viene chiesto il numero
della carta di credito; non di imbarcarsi in una spedizione
artica. La foresta è diventata per i più uno spettacolo da
contemplare nei monitor LED UltraHD comodamente
seduti sul divano di casa.
Parallelamente a questa cristallizzazione di vecchi con-
fini si è registrata la nascita di altri. La nuova finanza e la
nuova società digitale hanno dato vita a città e insedia-
menti attraversati da nuove frontiere invisibili. Si tratta di
un racconto urbano: lo skyline rappresenta oggi l’orizzon-
te per la maggior parte dell’umanità. All’interno di entità
urbane, sono sorti questi limiti immateriali che separano
un nucleo e una periferia. La ragnatela delle relazioni si
va a strutturare su nuovi meccanismi spaziali. Il concetto
di ‘nucleo’ e ‘periferia’ fa riferimento alla teoria del siste-
ma mondo di Immanuel Wallerstein (1974, 15-38). Marc
Augé (2007, 12) recupera questo schema di contrapposi-
zione per la rappresentazione dei nuovi paradigmi dell’ur-
banizzazione globale.
Nella post-umanità si presume che il confine con le ter-
re ignote non esista più. La diffusione della cartografia e le
tecnologie geo-cartografiche consegnano, attraverso i mo-
derni dispositivi touch, la carta di ogni angolo del pianeta.
Strumenti inimmaginabili appena due decenni fa mettono
l’intera collezione di immagini satellitari del globo a dispo-
sizione dell’individuo. Dunque, si potrebbe concludere
che le terre ignote non esistano più? A ben vedere que-
sta padronanza spazio-cartografica appare più come una
VI. DETERRITORIALIZZARE 135

non-conoscenza. Il pianeta è diventato un’entità remota


e sconosciuta. Letteralmente si tratta di un non conosce-
re cartografico. Lo spazio abitato, quello dello skyline, è
diventato una trascrizione di questa astrazione digitale. Il
massimo livello di sviluppo ed efficienza dei trasporti, l’ac-
cumulo di nozioni geografiche e la maturazione dei meto-
di di rappresentazione e analisi coincidono con il livello
più profondo di ignoranza e comprensione del pianeta.
Ma ci sono anche i confini fra stati e le barriere culturali
di cui al capitolo IV. La globalizzazione non è solo un pro-
cesso che porta la mente e l’intelletto dell’uomo ad abbrac-
ciare il Globo; a concepirlo come un’entità afferrabile. La
scomparsa dei confini può essere interpretata in due modi
diversi. Da una parte si assiste all’intensificazione della po-
rosità dei confini nazionali; o, se si preferisce, a una fram-
mentazione dei medesimi per processi istituzionali. Pur
senza citarla, Roland Robertson (1999, 44) fa una chiara
rappresentazione della omologazione culturale come re-
quisito della «penetrazione economica» in questa fase sto-
rica. Uomini e merci non hanno mai goduto di un livello di
circolazione come quello che si registra oggi. Ma per fare
circolare beni e servizi è indispensabile che vi siano anche
forme di omologazione culturale. La globalizzazione cul-
turale è funzionale a quella economico-finanziaria. Questa
fase di affievolimento dei confini culturali è stata possibile
grazie all’estensione dei mezzi di comunicazione, ma an-
che all’affermazione di un modello dominante insieme a
una lingua franca: l’inglese. La globalizzazione può essere
immaginata come l’addomesticamento delle culture.
La costruzione spaziale della globalizzazione si manife-
sta invece attraverso un triplice processo: incremento e in-
tensificazione delle interconnessioni; una tendenza verso
l’uniformità economica, ideologica, linguistica e culturale;
un rafforzamento e solidificazione del contesto abitativo
136 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

urbano fortemente separato dagli ecosistemi biologici. Di


questi tre processi, i primi due vanno nella direzione della
riduzione e dissipazione delle frontiere e dei confini. L’ul-
tima verso l’irrobustimento del confine tra l’uomo e il suo
vecchio habitat. I capitoli precedenti hanno illustrato in
qualche misura un processo di allontanamento tra specie
ed ecosistema. Come illustrato nel 5°, la specie umana non
è altro che una delle possibili incarnazioni della Terra. E
sottolineo ancora come il corpo sociale o, più semplice-
mente, la popolazione umana sarà sempre un’incarnazio-
ne del proprio ecosistema.
L’evoluzione storica di questo rapporto ha subito una
trasformazione traumatica con la rivoluzione industria-
le. Da quel momento il corpo sociale inizia a perdere il
rapporto diretto con la Terra. La fine dell’agricoltura di
sussistenza, come meccanismo prioritario per il processo
di incarnazione sopracitato, determina un allontanamen-
to tra specie ed ecosistema. Si tratta letteralmente di un
cambio di scala. [Equivale anche a un salto di scala nella
storia del rapporto corpo-mente.] Tutto ciò si traduce ed
è spiegabile con la trasformazione della relazione uomo-
ambiente. Ma il punto principale è questo: una volta ideo-
logicamente separati dal proprio ecosistema, la relazione
tra specie ed ecosistema può idealmente continuare ad
espandere il distacco fra i due fintanto che è in grado di
dare forma a meccanismi di raccordo indiretto. La «de-
territorializzazione» può procedere all’infinito. Finché si
manifestano strategie ed espedienti attraverso i quali, ad
esempio, una mela, ha la possibilità di trasformarsi (attra-
verso la nutrizione) in essere umano, la distanza tra luogo
di produzione della mela e residenza dell’organismo può
continuare ad espandersi illimitatamente. Nel caso della
specie umana questo limite corrisponde al Globo (De-
leuze e Guattari 1987, 381-383).
VI. DETERRITORIALIZZARE 137

Ed è proprio questa possibilità definita in quel momen-


to di rottura del cordone ombelicale che, a mio parere,
determina la capacità della società di immaginare, parlare
e costruire una struttura spazio collassata – virtualmente
infinita – che trascende tutti i confini e si limita a quelli
fisici imposti del diametro terrestre.
Ma l’eterogeneità di idee e punti di vista che regna in-
torno al dibattito sulla globalizzazione ha la stessa origine.
Si parte dal principio che l’intellettuale, l’accademia e le
discipline siano in grado di comprendere la natura degli
stratagemmi che sussistono tra ecosistema e specie. L’ap-
prossimazione del linguaggio e le sintesi sulla globaliz-
zazione dipendono dall’impossibilità di gestire in modo
unitario un ecosistema globale e specie distanti l’una
dall’altra, e parallelamente tutti i meccanismi, gli strata-
gemmi e gli espedienti messi in essere dalla relazione per
mantenere il legame fra i due. Tutto questo tenendo con-
to del fatto che simultaneamente a questa scala globale si
manifestano anche tutte le altre scale.

Modelli
La complessità che caratterizza i processi legati alla deterri-
torializzazione ha fatto sì che nel tempo si siano formati tre
paradigmi generali della globalizzazione: omogeneizzazio-
ne, polarizzazione e glocalizzazione. I tre modelli agiscono
semplicemente come tesi, antitesi e sintesi. Resta il fatto
che nessuno di questi appare come schema dominante.
La omogeneizzazione, o «cocacolonizzazione», è la
narrazione o mito più diffuso. Sotto questa chiave inter-
pretativa l’umanità vive una fase di riduzione di tutte le
differenze sia a livello tecnologico, che sociale, culturale
ed economico. Il primo segno distintivo fu la diffusione
del marchio di bibite gassate statunitense. La rivista Times
138 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

(Marzo 13, 1950) nell’articolo Foreign News: The Pause


That Arouses descriveva la coca-colonizzazione con meta-
fore che evocavano un’invasione:
«L’Italia era stata conquistata e l’Armata Rossa avanza-
va verso Parigi; ma i comunisti francesi erano tutt’altro
che contenti. I camion di un vivace rosso-fuoco che
percorrono gli Champs Elysee, fermandosi ora in que-
sto bar, ora a quello, non erano la punta di diamante
di una forza da Mosca. Erano agenti del capitalismo
statunitense a effettuare consegne di CocaCola ai caffè
di Parigi in una nuova offensiva di vendita del dopo-
guerra. La stampa comunista della Francia con pas-
sione avvertiva contro ‘la Coca-colonizzazione’ degli
U.S.A. I venditori di [CocaCola] sono stati descritti
come agenti del OSS [Office of Strategic Services] e il
Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.»

Questa evoluzione verso un’omologazione dei processi


socioculturali sarebbe accompagnata da una scomparsa
relativamente veloce delle grandi ideologie o meta-nar-
razioni così come dalla polverizzazione progressiva dei
confini statali.
A livello spaziale, la frantumazione delle frontiere, il
miglioramento dei sistemi di trasporto non significano
che l’uomo possa viaggiare ovunque e raggiungere ogni
angolo del pianeta. L’omologazione si manifesta come una
drastica polarizzazione degli spazi planetari. Gli spazi di
relazione del post-umano vengono confinati nelle città,
nelle città diffuse, nei villaggi turistici e nei parchi di diver-
timento periferici (Graziano 2014, 149-150). La maggior
parte delle merci e della popolazione mondiale si muove
lungo pochi collegamenti o rotte. Certo, rotte ad alta in-
tensità; ma si tratta della fine della fitta rete capillare di
VI. DETERRITORIALIZZARE 139

case sparse e sentieri che avvolgeva il pianeta. Il nuovo


spazio globale si manifesta come una nuova dimensione
virtuale. Massimo Quaini (2006, 52) parlando di paesaggi
globali si chiede:
«[…], il mondo ormai unificato, che abbiamo sotto gli
occhi lontano da noi come sottocasa, non ci costringe
a riconoscere che la morte del paesaggio e la fine del
viaggio sono le facce di una stessa medaglia?»
Lo spazio della globalizzazione, inteso come lo spa-
zio dell’omogeneizzazione, si radicalizza e acquista pro-
fondità nella ‘città-mondo’ raffigurata da Augè e Virilio.
Nylonkong, battezzata così dalla rivista Time nel numero
di gennaio 2008, è il nome della principale di queste città-
mondo. Ma questa città-mondo non occupa un luogo; e
non ne occupa nemmeno tre. La denominazione fa riferi-
mento alla rappresentazione simbolica della ragnatela di
relazioni che sussistono fra i tre centri urbani.
Si è vista nella polarizzazione una reazione all’omoge-
neizzazione. È impossibile parlare di polarizzazione in un
contesto privo di un’omogeneizzazione radicale. In questa
narrazione invece, usi e costumi etnici vengono rafforzati
dalla diffusione e radicalizzazione di tradizioni dominanti
provenienti da occidente. Non considero polarizzazione
e omogeneizzazione come fattori antitetici; a mio parere
non esiste una relazione simmetrica tra questi paradigmi.
ciò per un motivo che mi pare evidente: l’omogeneizza-
zione si fonda su uno schema culturale astratto o post-
cultura; se proprio si desidera considerare il modello eco-
nomico-tecnologico del mondo occidentale come modello
culturale, va detto comunque che è uno solo, pur con una
vocazione alla trasformazione e al mimetismo. Non è pos-
sibile affermare che sia pura espressione della tradizione
nordamericana. Il modello dominante oggi è un ibrido
140 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

artificiale frutto della selezione in ambito commerciale e


finanziario, rafforzato dalla velocità e intensificazione dei
collegamenti grazie alla Rete (Marramao 2008, 134-135).
La post-cultura è composta non da idee o parole, ma da
marchi. Tale modello è altamente volatile e non è ancorato
a principi di alcunché. La sua anima è la pubblicità; il suo
principale attributo è la sua capacità di mutare velocemen-
te ed essere riposizionato. La polarizzazione rappresente-
rebbe dinamiche di alterità generate da identità soggettive
opposte a modelli economici.
Nella realtà, a opporsi a nuove strategie di mercato pos-
sono essere semmai altri schemi di mercato. Per questo
la polarizzazione va considerata come un’interpretazione
asimmetrica. Può un fantasma effimero come la post-cul-
tura combattere etnie radicate da millenni? Evidentemen-
te no. Ma può, allo stesso modo, una cultura millenaria
vincere contro un fantasma? Nella misura in cui il fanta-
sma della post-cultura viene caricato di attenzione, esso
acquista vita. Ma è proprio questa sua natura passeggera
che lo rende così efficace a operare perfettamente nella
logica del nuovo spazio globale.
Presunta sintesi di queste dinamiche sarebbe la gloca-
lizzazione. Essa mira a identificare le migliori strategie di
adeguamento dei processi di omologazione alle caratteri-
stiche locali. Ma questo si concretizza, per ora, solo come
strategia di mercato. Sia che si tratti di un movimento dal-
la scala globale a una locale che viceversa.
La glocalizzazione funziona però solo come schema di
riaffermazione del modello globale. Nel caso di un movi-
mento dalla scala globale verso il locale, la glocalizzazione
è semplicemente un espediente per addomesticare gusti
e preferenze. In senso opposto, e adottando i significati
della teoria del sistema-mondo di Wallerstein, la glocaliz-
zazione, a mio parere, si comporta solo come agente di
VI. DETERRITORIALIZZARE 141

collegamento o raccordo tra etichette, marchi e mercati


della periferia e del nucleo.

Viaggiare
Trasporti e sistemi di telecomunicazione rappresentano lo
schema fondamentale di ciò che comunemente viene de-
finito globalizzazione. Dalla fine del medioevo e per gran
parte dell’età moderna, le esplorazioni non sono state al-
tro che la ricerca e il consolidamento di rotte commerciali.
La forza commerciale – e dunque la natura relazionale – è
sempre stata l’elemento peculiare di questo processo di di-
latazione dei confini. Ma proprio per le sue caratteristiche
di flusso, la navigazione e poi a seguire gli altri sistemi di
trasporto si sono evoluti in una progressiva riduzione dei
tempi di percorrenza.
Non è mai stato così facile viaggiare come oggi. Più
persone che si spostano e incontrano culture lontane. Si
assiste a un mondo con le prime famiglie con componen-
ti distribuiti stabilmente su più continenti. Il costo del
trasporto delle merci si è ridotto notevolmente, determi-
nando la riaffermazione dell’economia globale e, di conse-
guenza, di quella che ho definito post-cultura dei marchi.
La misura della globalizzazione è il TEU (twenty-foot equi-
valent unit). Navi mercantili sempre più colossali. Anno
dopo anno, il record della nave mercantile più grande vie-
ne battuto più volte.
La ricerca di un meccanismo per sconfiggere la barriera
spaziotemporale è stata una delle cause principali dello
sviluppo dell’occidente. Transatlantici, treni e aerei sem-
pre più veloci. Così, se le prime circumnavigazioni del
Globo richiedevano minimo un paio di anni, oggi, un
bombardiere militare ad ampio raggio può compiere la
rotta equatoriale in un tempo inferiore alle 48 ore.
142 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

Le automobili hanno ridotto enormemente i tempi di


percorrenza. Il processo ha visto la trasformazione non
solo delle macchine, ma anche delle piste d’asfalto. Pri-
ma della costruzione dell’Autostrada del Sole, ci volevano
quasi due giorni per compiere il tragitto Milano-Napoli.
Oggi per un autocarro è possibile completare lo stesso
percorso in meno di 10 ore.
Le navi mercantili, i treni e i camion erano in grado di
trasportare non solo merci e persone, ma anche messag-
gi. Ma nel 1844 inizia con le trasmissioni telegrafiche una
nuova fase nella storia della civiltà umana. «What hath
God wrought?» recitava il primo messaggio di Samuel
Morse. Tutta questa meraviglia era giustificata. Arthur
Clarke, nel testo Profiles of the Future (1973), concluderà
che «ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistin-
guibile dalla magia.»
E dal telegrafo alla Rete il salto è stato brevissimo. De-
cisioni, ordini o istruzioni viaggiavano alla velocità della
luce. Si assiste alla scomparsa delle distanze; e, con questa,
all’annientamento della direzione, dell’orientamento e dei
riferimenti. Ma la fine della distanza non corrisponde alla
morte dello spazio; determina piuttosto la nascita di uno
nuovo. Si tratta di un’entità intangibile, non solo priva di
rapporti, orientamento, ma anche di tempo. Non si tratta
dell’azzeramento dei tempi di trasmissione. Si parla qua
della denaturalizzazione dei cicli naturali dell’uomo. L’u-
manità vive oggi in un meccanismo di sollecitazioni neu-
ro-cognitive che non segue più il ciclo del giorno e della
notte. A Nylonkong il sole non tramonta mai. Le prime
ore del mattino servono per un quick catch-up delle ultime
avventure dei propri amici. La finanza non dorme mai. Il
collegamento televisivo del mattino è con i grandi networ-
ks con le ultime notizie direttamente da Hong Kong. Già
oggi, molti dipendenti di multinazionali lavorano avendo
VI. DETERRITORIALIZZARE 143

come riferimento l’UTC o tempo coordinato universale.


La Rete e le interconnessioni faranno sì che questo uso
dell’UTC si estenda progressivamente anche a livello pri-
vato ed entri a far parte di una delle principali coordinate
della post-cultura.

Nella fila del supermercato


È paradossale che la compressione spazio-temporale si
registri proprio nel momento storico in cui l’essere uma-
no sembra vivere un profondo malessere. A cosa è servita
questa capacità di viaggiare e comunicare in modo istanta-
neo se la maggior parte degli abitanti del pianeta sembra
vivere in una corsa senza sosta? Ma correre dove? Correre
a fare cosa? L’insofferenza delle persone in coda al super-
mercato può rappresentare un ottimo rilevatore di questo
malessere. I più fortunati, facendo la fila, possono chat-
tare con una rete intercontinentale di amici e conoscenti.
I meno fortunati vi potranno comunque ripassare vecchi
meme e video di simpatici felini nelle reti sociali.
In serata le persone corrono a casa per seguire la se-
rie tv preferita. Quasi sicuramente si tratta di una serie tv
straniera di grande successo. Si tratta della stessa serie tv
che insegnerà gli stessi modelli, mode, atteggiamenti e for-
mule verbali al pianeta. Questo processo avviene in modo
democratico: le antenne paraboliche sono nelle case delle
élite delle grandi metropoli globali così come nelle barac-
copoli del barrio Petare di Caracas. Guardando le foto
delle slums e dei tuguri di tutto il mondo si può notare la
presenza massiccia di antenne. Una democrazia post-cul-
turale consiste in modelli identici sia per figli avvantaggiati
che per diseredati.
Ma nella fila del supermercato, l’effetto della compres-
sione spazio-temporale non si manifesta solo attraverso
144 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

l’ansia dell’individuo o la velocità delle interconnessio-


ni all’interno delle reti sociali. Fattore decisivo di tutto
questo schema di contemplazione è proprio il contenuto
dei propri carrelli. Esso è composto sostanzialmente da
due categorie. Una parte delle sostanze contenute in quel
carrello, nel corso delle successive settimane ‘incarnerà’
proprio in quei soggetti ansiosi in coda. Si trasformerà in
tessuto vivente. Effettivamente si potrebbe pensare che in
tutto questo non vi sia nessuna novità. Ma solo apparen-
temente. Qualcosa è cambiato e non certamente in meglio.
Una parte degli acquisti si trasformerà in scarti di diver-
sa natura: rifiuti biologici, packaging e spreco. [In ultima
istanza, il contenuto del carrello, su una scala più ampia
e su un piano ontologico diverso, appartiene a un unico
ciclo di consumo e smaltimento].
Nel prendere qualsiasi prodotto al supermercato si
esercita, senza saperlo, la compressione-spazio temporale.
E lo si fa per almeno due motivi. Da una parte il globa-
lismo da supermercato permette di integrare reti di pro-
dotti alimentari a livello mondiale. Tutto ciò non è però
necessariamente una cosa negativa. Il problema non è
nemmeno che un europeo non abbia la più pallida idea
di come sia fatta una pianta di cacao o caffè. La questio-
ne è che oggi una parte consistente della popolazione ha
perso definitivamente il legame con la Terra: nutrimento e
territorio sono stati trasformati in prodotti artificiali. Ma il
cittadino esercita anche una compressione spazio-tempo
perché proprio i prodotti post-culturali permettono (o
promettono) di risparmiare – presuntamene – tempo della
propria esistenza. Bisogna chiedersi che effetti determine-
ranno per l’individuo l’obliterazione e la sopraffazione dei
propri cicli di relazione con il proprio ecosistema?
EPILOGO

Ci sarebbero molti e suggestivi modi con i quali potrei


concludere questo testo. Ad esempio, abbandonandomi
a divagazioni sulla scala di Wittgenstein da «gettar via
dopo [esservi] salit[i]». Divertendomi a indovinare per
quale ragione – o non-ragione – Fred Murdock, l’etno-
grafo di Borges, da accademico con un brillante futuro di
fronte a sé, divenne ‘solo’ bibliotecario a Yale. Ma queste
storie appartengono ai filosofi e ai poeti; perciò sta a loro
spiegarle. Presumo che per un geografo vi siano compiti
non più importanti, ma molto più urgenti.
Alla fine del percorso tracciato da questo breve testo
potrebbe sorgere un interrogativo sui propositi dell’auto-
re. Come avevo avvertito all’inizio, obiettivo del testo non
è la presentazione di un programma. Unico suo oggetto è
quello di mettere in evidenza alcune delle limitazioni con-
cettuali che in ambito scientifico si incontrano nell’utiliz-
zo del linguaggio nel processo di rappresentazione della
realtà. Questa condizione è universale: da essa deriva so-
prattutto la ‘concorrenza’ tra filosofi e poeti; ma anche la
fortuna dei mistici e di qualche profeta. E per gli scienzia-
ti? Di fronte al grande problema della rappresentazione
oggettiva del reale che posizione assume il geografo?
Con questo volume ho auspicato cose minime. La
prima e più essenziale è quella di evitare [temporanea-
mente] nuovi metodi; e naturalmente linguaggi, di rap-
presentazione, che sono solo una loro emanazione. At-
tenzione: la mia non è una negazione del metodo. Ma
a cosa potrebbero servire dei nuovi e magnifici per la
rappresentazione della realtà se da essa si parte con una
146 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

visione errata o imperfetta? Il problema non risiede nei


linguaggi inadeguati o nei metodi sbagliati. Sta nell’idea
che si possiede della realtà. E il limite più importante è
quello di dimenticare – e per qualcuno perfino negare –
tratti distintivi della realtà.
La questione non è nemmeno il progressivo impoveri-
mento metodologico nell’ambito di molte scienze sociali.
La natura passeggera e transitoria di metodi e teorie sta
soprattutto nella base gnoseologica di partenza. Il proble-
ma, se mai si senta il bisogno di definirlo tale, è invece una
scienza che si affida in modo caparbio a idee che, presu-
mo, non possiedono connessione con la realtà. Nel corso
della storia della scienza, questa lezione è stata impartita
più volte. Il caso più noto è quello della sostituzione del
creazionismo con l’evoluzionismo. Un altro caso è stato
quello del passaggio del geocentrismo all’eliocentrismo.
Con la Terra al centro del sistema solare, l’evoluzione sul-
le relative teorie riguardanti la meccanica celeste immagi-
naria sarebbe continuata infinitamente. L’esaurimento e
la morte di vecchi paradigmi non comportano la necessità
di affidarsi all’ignoto. Senza nessun animo inquisitorio, a
parere mio occorre riflettere sulla piega esoterica che si
inizia a intravedere in sempre più settori della scienza.
In questo testo ho usato la metafora relazione. Ho ri-
petutamente sottolineato come la realtà non sia composta
da parti, da atomi o da individui. La realtà è composta da
relazioni. E ‘relazione’ rappresenta a sua volta solo un’ap-
prossimazione alla corretta rappresentazione dell’ente,
dei fenomeni e, in definitiva, di quelle che comunemente
vengono definite ‘cose’. La relazione è stata usata qui solo
come metafora, dato che essa appare come qualcosa di
più ampio e indefinibile.
Linguaggio e confini, così come descritti all’interno di
questo testo, rappresentano dei limiti concettuali che de-
EPILOGO 147

terminano, a parere mio, una condizione svantaggiata per


qualsiasi settore della produzione della conoscenza. Ma
il fatto che sia difficile (o molto difficile) parlare della re-
altà non autorizza a parlarne liberamente. Nonostante le
difficoltà implicite del linguaggio e la naturale tendenza
della mente alla classificazione, non vi è necessariamente
impedimento a cercare di comprendere la realtà e ten-
tare di compiere gli sforzi necessari per parlarne. Come
già affermato più volte nel testo, considero la formula-
zione di un linguaggio della realtà come un mito. Se le
entità immateriali che sono appunto le relazioni entrano
nell’orizzonte dell’osservatore, in un modo o nell’altro
gli uomini troveranno il modo di dialogare e costruire
discorsi su di esse.
L’oggetto principale della narrazione sono le connes-
sioni. Forse perché caratterizzate da natura intangibile,
sfuggono spesso al ragionamento umano e, di conseguen-
za, una loro parte si perde nel processo di articolazione
del linguaggio. Nell’ambito della geografia si individuano
principalmente relazioni uomo-ambiente. O almeno, nel
testo, ho voluto considerare le relazioni rappresentabili in
questo modo. Ma è evidente che per un geografo esse non
si esauriscono solo in questa tipologia.
Forse, il problema è che per molto tempo ci si è con-
centrati troppo sulle entità e poco sulle relazioni. Il rischio
evidente è il gesto istintivo della mente: quello di partire
dalle entità per identificarne poi le relazioni. Quello di
confondere cause con conseguenze rappresenta in que-
sto contesto la difficoltà più significativa. Le entità sono
il risultato o la conseguenza di quello che, in modo gene-
rico, continuo a definire relazioni. Anche se le relazioni
possono apparire come il risultato tra dinamiche fra enti,
il cambio di scala fa emergere una realtà completamente
diversa. Per l’osservatore, la difficoltà principale sta pro-
148 GEOGRAFIA DEL POST-UMANO

prio in questa condizione: le relazioni si trovano spesso


in scale completamente distinte agli enti generati. Inoltre,
quelli che comunemente l’osservatore definisce come og-
getti sono il risultato di relazioni concomitanti. Ad esem-
pio, sintetizzando quanto detto in precedenza, un essere
vivente è funzione o conseguenza di relazioni che si mani-
festano grazie a rapporti su scale planetarie (vedi la luce
solare e la fotosintesi) e su quella molecolare che garanti-
sce la nutrizione all’interno dell’intestino tenue.
Penso che non sarà mai attraverso l’osservazione delle
entità che si potrà capire qualcosa sulle relazioni; si potrà
piuttosto tentare di capire gli enti attraverso l’indagine
delle relazioni.
La conoscenza non è una delle tante opzioni della spe-
cie umana. È il suo primo dovere, è la sua natura. Ma
la scienza nel suo complesso deve per una buona volta
comprendere la necessità urgente di integrare le migliaia
e migliaia di nozioni sparse in una ragnatela accademica
che tristemente, ma anche, purtroppo, premia, la separa-
zione e la formazione di confini immaginari e arbitrari fra
ambiti disciplinari.
Come accennato nella premessa, il riferimento alla
post-umanità è relativo a questo complesso momento di
transizione. Senza voler giungere a speculazioni e previ-
sioni idealistiche sul futuro dell’umanità, considero que-
sto momento solo una fase. Nel corso di pochi decenni,
la specie ha assistito all’implosione definitiva dei propri
schemi di relazione con lo spazio e con il tempo. L’au-
gurio è solo che si vada incontro a una più promettente
neo-umanità. Un’umanità che abbia coscienza integrale
della Terra. Ma questo è solo un augurio personale e non
una previsione. Commentando la Pale Blue Dot, Carl Sa-
gan (1994) scrisse:
«Da questo distante punto di osservazione, la Terra
può non sembrare di particolare interesse. Ma per
noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui.
È casa. È noi.»
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