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Dante

A cura di Roberto Rea e Justin Steinberg

C
Carocci editore
1a edizione, febbraio 2020
© copyright 2020 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Finito di stampare nel febbraio 2020


da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

isbn 978-88-430-9668-8

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Introduzione 15
di Roberto Rea e Justin Steinberg

Opere

1. Rime 21
di Marco Grimaldi

1.1. Che cosa sono le Rime 21


1.2. Di che cosa parlano le Rime 26
1.3. Leggere le Rime 34
Approfondimenti bibliografici 36

2. Vita nuova 37
di Donato Pirovano

2.1. Genesi di un nuovo libro di poesie 37


2.2. Storia di un amore 38
2.3. Storia di un poeta d’amore 45
2.4. Tempo, spazio, personaggi 48
2.5. Uno stile dolce e nuovo 49
2.6. Genere letterario e modelli 50
2.7. I destinatari e il pubblico 52
Approfondimenti bibliografici 54

7
dante

3. Convivio 55
di Andrea Mazzucchi

3.1. Il Convivio: «alta, bella, sottile e grandissima opera» 55


3.2. Strutture formali del Dante “filosofo laico” 60
3.3. Retoriche dell’affectus e dell’exsuscitatio nel Convivio 62
3.4. Oltre la perspicuitas: pragmatiche della persuasione nel
Convivio 74
Approfondimenti bibliografici 76

4. De vulgari eloquentia 79
di Mirko Tavoni

4.1. Il I libro: la natura del linguaggio e la storia linguistica


dell’umanità da Adamo alla lingua italiana 79
4.2. II libro: poetica, retorica e metrica del volgare illustre 85
4.3. Il De vulgari eloquentia nella storia intellettuale e nella
vita di Dante 89
Approfondimenti bibliografici 93

5. Commedia 95
di Giorgio Inglese

5.1. “Struttura e poesia” 95


5.2. Spazio 101
5.3. Tempo 103
5.4. L’Oltremondo 105
5.5. Il viaggio e il viator 108
5.6. Comedia 109
5.7. Hic et nunc 112
Approfondimenti bibliografici 114

6. Monarchia 115
di Diego Quaglioni

6.1. La natura del trattato 115

8
indice

6.2. La data di composizione 117


6.3. Enrico vii e Dante 119
6.4. La Monarchia e la cancelleria imperiale 121
6.5. Dante e la modernità politica 124
Approfondimenti bibliografici 125

7. Epistole 127
di Antonio Montefusco

7.1. Un epistolario mancato 127


7.2. Nei primi anni dell’esilio 128
7.3. Autocommento e poesia di corte 131
7.4. L’alto Arrigo e la coscienza profonda della storia 134
7.5. Una disperazione tranquilla 140
7.6. Basta così 142
7.7. Caro Cangrande 144
Approfondimenti bibliografici 147

8. Egloge 149
di Marco Petoletti

8.1. La lettera di sfida di maestro Giovanni del Virgilio


contro la scelta del volgare 149
8.2. La risposta nuova di Dante in forma di egloga virgi-
liana 151
8.3. L’invito nell’antro di Bologna 154
8.4. L’ultima risposta di Dante e la paura di Polifemo 156
8.5. La circolazione manoscritta 159
Approfondimenti bibliografici 161

9. Questio de aqua et terra 163


di Theodore J. Cachey Jr.

9.1. Il luogo della Questio 163


9.2. Il luogo dell’acqua e della terra 165

9
dante

9.3. Perché Dante avrebbe scritto la Questio? 172


Approfondimenti bibliografici 178

10. Il Fiore (e il Detto d’Amore) 179


di Paolo Canettieri

10.1. Coordinate 179


10.2. Il Fiore e Brunetto Latini 180
10.3. Lingua e struttura formale 181
10.4. Il Fiore nel suo giardino 182
10.5. Fiore, fiorino e Tesoro 186
10.6. Chi non ha scritto il Fiore 190
Approfondimenti bibliografici 196

Questioni

11. Dante, Firenze e l’esilio 199


di Elisa Brilli

11.1. «La cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissi-


ma donna» (Vn xl 1) 200
11.2. Bando ed esilio 202
11.3. Le formule autobiografiche dell’atelier dantesco 203
11.4. Un esule “boeziano” tra eros e sacrificium 205
11.5. L’«exul inmeritus» tra storia e profezia 209
11.6. Il nuovo modello: l’autore e la città 213
Approfondimenti bibliografici 215

12. Dante politico 219


di Enrico Fenzi

12.1. Da guelfo a ghibellino 219


12.2. Gli inizi dell’attività politica in Firenze 220
12.3. Dagli ultimi impegni all’esilio 225
12.4. I primi anni dell’esilio 228

10
indice

12.5. Dal De vulgari eloquentia al Convivio 232


12.6. Dalla Commedia alla Monarchia 236
12.7. La Monarchia 238
Approfondimenti bibliografici 244

13. Il volgare di Dante 245


di Giovanna Frosini

13.1. Questioni di testo e di lingua 245


13.2. L’italiano fra Dante e noi 248
13.3. Il senso di Dante per la lingua 251
13.4. La collocazione linguistica di Dante 254
13.5. La Vita nuova 257
13.6. Il Convivio 259
13.7. La lingua della Commedia 261
Approfondimenti bibliografici 264

14. Dante e la tradizione scritturale 267


di Paola Nasti

14.1. Tradizione e Scrittura 267


14.2. Tradizioni materiali, ermeneutica biblica e imitatio 269
14.3. Intrecci fra scrittura e tradizione 274
14.4. Politica e profetismo 280
14.5. La trama biblica della storia 283
Approfondimenti bibliografici 284

15. Dante e la tradizione liturgica 287


di Ronald L. Martinez

15.1. La Commedia e lo scopo della liturgia 288


15.2. La poetica del volgare di Dante e la liturgia 290
15.3. Liturgia per laici e potere della preghiera 294
15.4. Le suppliche liturgiche e il grido di rimprovero
del poeta 298

11
dante

15.5. La Pasqua liturgica nella Commedia: l’accoglienza del-


le anime in cielo 299
15.6. La Pasqua liturgica nella Commedia: la discesa all’In-
ferno 303
Approfondimenti bibliografici 304

16. Dante e la tradizione filosofica 307


di Pasquale Porro

16.1. L’incontro di Dante con la filosofia 307


16.2. Il progetto del Convivio 309
16.3. L’uso del volgare e la teoria del linguaggio 313
16.4. Il desiderio naturale di conoscenza e i suoi limiti 317
16.5. Averroismo e antiaverroismo 321
16.6. Fisiognomica della nobiltà 323
16.7. Dal Convivio alla Commedia 325
Approfondimenti bibliografici 327

17. Dante e la tradizione classica 329


di Stefano Carrai

17.1. Un classicismo gotico 329


17.2. Coordinate dell’imitazione 332
17.3. Mescidanza stilistica e generi della classicità 335
17.4. Il mito di Orfeo ed Euridice 340
Approfondimenti bibliografici 344

18. Dante e la tradizione lirica 345


di Lino Leonardi

18.1. La lirica come orizzonte 345


18.2. La lirica e la storia: la Vita nova 347
18.3. La lirica oltre la tradizione: le rime della maturità e il
Convivio 350

12
indice

18.4. La lirica come modello: il De vulgari eloquentia 353


18.5. La lirica oltre la storia: la Commedia 357
Approfondimenti bibliografici 361

Bibliografia 363

Indice dei nomi 393

Gli autori 405

13
13
Il volgare di Dante
di Giovanna Frosini

13.1
Questioni di testo e di lingua
Nel De vulgari eloquentia (I xvi) si va alla ricerca della lingua illustre
come di una «pantheram [...] redolentem ubique et necubi apparen-
tem» (“una pantera... che fa sentire il suo profumo dappertutto e non
si fa vedere da nessuna parte”): di questa straordinaria creatura Dante
è andato in caccia – si può dire – per tutta la vita, attraversando selve
inospitali e inesplorate, tentando strade mai percorse, affrontando e
combattendo la nequizia dei tempi, mutando orizzonti, prospettive,
idee. Tutto fino alla Commedia, fino a quella eccezionale inventiva e
libertà linguistica, propria di una lingua che crea e definisce la realtà,
che caratterizza il poema.
Un qualsiasi accostamento alla sovranità dell’onnipotenza lingui-
stica dantesca, che si manifesta non solo nel poema ma nel complesso
dell’opera volgare, non può prescindere da un dato oggettivo: che di
Dante non abbiamo nessun autografo, fatto solo in parte collegabile
con le vicende dell’esilio, dalle quali si dovrà invece più probabilmente
far dipendere la dispersione della biblioteca del poeta.
Tutto ciò che leggiamo di Dante lo leggiamo dunque senza poter
avere la completa certezza, anche là dove la lezione sostanziale è sicu-
ra, della paternità dantesca quanto alla veste linguistica. Manca infatti
qualsiasi autografo che ci possa orientare, seppure indirettamente, man-
ca qualsiasi elemento di raffronto per la questione della grafia e delle for-
me, «sul cui grado di variabilità», come scriveva Avalle (1967), «non
è dato di stabilire norme precise neppure sulla base dell’uso contempo-
raneo»; si è al contrario messi davanti all’estrema variabilità e perfino
contraddittorietà della tradizione manoscritta (Stussi, 2001, p. 231).

245
dante

La lingua di Dante è perciò solo ricostruibile, e per segnali non sempre


certi, non sempre sicuri. Certo, una qualche minore cautela richiede la
trattazione della sintassi e del lessico, dove le alterazioni sono di porta-
ta diversa e di norma meglio fronteggiabili; ma nel complesso, si è di
fronte a un problema che è e rimane insolubile: il problema del vero,
autentico testo di Dante.
Se questo è vero per tutto Dante volgare, dal Dante fiorentino della
Vita nuova al Dante in esilio del Convivio (e si pensi all’esperienza tra-
sversale, lunga e complessa, delle Rime), lo è di più e a maggior ragione
per la Commedia, su cui concentriamo qui l’attenzione: quest’opera ci
pone di fronte a un paradosso, anzi al paradosso per eccellenza, per cui
il testo fondativo della nostra lingua e della nostra letteratura rimane
non conoscibile nella sua verità ultima.
Si ricordino in breve, per i riflessi importantissimi che hanno sulla
questione linguistica, i seguenti punti fondamentali:
– tutti i manoscritti della Commedia che abbiamo (fatta eccezione per
i frammenti contenuti nei Memoriali bolognesi) sono posteriori alla
morte di Dante (e non di pochissimo); pressoché inspiegabilmente,
tutta la primissima tradizione è andata perduta, così che si ha una vera
eclissi di codici per il primo decennio dopo il 1321: le prime testimo-
nianze organiche che abbiamo risalgono agli anni trenta del Trecento
per un’opera che è stata iniziata in data non certa (forse intorno al 1306),
che ha circolato in modo progressivo (Inferno e Purgatorio circolavano
nel 1314 e nel 1316) e che è stata conclusa proprio con la morte dell’au-
tore (1321). Non abbiamo dunque una contemporaneità scrittura/tradi-
zione, dato rilevante ai fini della valutazione del dato linguistico;
– la Commedia è opera dell’esilio e si è diffusa non da Firenze, ma da
luoghi estranei a Firenze: fra 1313 e 1315 Dante gravita ancora probabil-
mente nel Casentino, da dove potrebbe essere stato diffuso l’Inferno, e
così anche il Purgatorio potrebbe essere partito dalla Toscana, prece-
dentemente al passaggio a Verona; il Paradiso (e la Commedia intera)
si sono irradiati con ogni probabilità da Ravenna o Bologna. Non c’è
dunque immersione nel contesto linguistico fiorentino negli anni del-
la composizione della Commedia: la linfa vitale fiorentina, che aveva
formato e nutrito l’esperienza degli ultimi decenni del Duecento, si ar-
resta nel suo flusso continuo prima della scrittura del poema;
– di quali copisti potrà essersi servito Dante? Di quali Iacopo (se ac-
cettiamo l’ipotesi di Giorgio Inglese di un “prototipo” completo fatto
allestire dal figlio di Dante nei mesi successivi alla morte del padre)?

246
13. il volgare di dante

Quale professionale richiesta di fedeltà al testo sarà stato possibile avan-


zare? Tutto questo ha riflessi immediati sulla tradizione primigenia
della Commedia, sulla sua qualità testuale e (soprattutto) linguistica. Si
presenta poi il problema della presenza del testo a Firenze: quando vi
giunge la Commedia? Accanto all’ipotesi del rientro di Iacopo nella sua
città a metà degli anni Venti e della conseguente introduzione di un
esemplare completo del poema (cfr. Inglese, 2007, pp. 386-7), non si
dovrà pensare che Inferno e Purgatorio dalle terre toscane fossero già ar-
rivati a Firenze (cfr. Zaccarello, 2016)? Del resto, quanto della tradizio-
ne settentrionale debba essere proiettato all’indietro, fino a ipotizzare il
carattere linguistico dell’originale della Commedia (non si dice dell’au-
tografo/degli autografi) è una delle questioni più aperte negli studi sul
testo di Dante: essa si è progressivamente evidenziata dopo l’edizione
allestita da Giorgio Petrocchi, fondata sul ms. fiorentino Trivulziano
1080, e dopo che il dibattito sul testo è stato riacceso a seguito dell’e-
dizione curata nel 2001 da Federico Sanguineti, che ha con decisione
privilegiato un testimone di area settentrionale (il ms. Urbinate lat. 366:
Sanguineti, 2001). Sulla valorizzazione della tradizione settentrionale
sarà fondata l’edizione in via di realizzazione da parte di Paolo Trovato
e del suo gruppo di lavoro (Trovato, 2007; Tonello, Trovato, 2013);
– non si deve necessariamente pensare che le prime copie della Com-
media (ora del tutto perdute, come si è detto) dovessero essere correttis-
sime: il successo stesso del poema ha con ogni probabilità fatto sì che si
copiasse obbedendo soprattutto all’esigenza di copiare in fretta, più che
di copiare bene. Ne deriva che si poteva (o si doveva, per varie situazioni
accidentali che ci possiamo facilmente immaginare) ricorrere a modelli
diversi di copia, da cui discende una contaminazione presente – com’è
noto – fin dall’origine e in modo endemico in questa storia testuale. A
questa mescolanza dei modelli si aggiunge l’interferenza della memo-
ria, fortissima: la Commedia è un testo che fin da subito si è mandato a
mente, è insomma un testo memorabile, nel senso proprio del termine:
lo testimonia la novellistica (Sacchetti), lo testimonia la tradizione.
Questo – in sintesi – rende estremamente difficile l’accertamento
della lezione, ma soprattutto della veste linguistica. Tuttavia, la lingua di
Dante non è una sconosciuta, ed è anzi largamente conoscibile: in primo
luogo (come già vide Parodi, 19572) grazie alla struttura stessa del testo,
fondato su versi endecasillabi, legati dalla rima e organizzati in terzine
incatenate: una vera invenzione dantesca, che guida e costringe le scelte
del poeta, una sorta di “assicurazione” che Dante ha saputo riservarsi.

247
dante

13.2
L’italiano fra Dante e noi
Quale rapporto esiste fra la lingua di Dante e la nostra? Fra l’italiano di
Dante e quello del nostro tempo? Impostiamo il ragionamento su due
punti fondamentali.
Primo punto. La lingua di Dante nelle sue componenti fonomor-
fologiche è sostanzialmente vicina all’uso fiorentino del tempo quale
lo possiamo leggere nei testi documentari. Come ha scritto Ignazio
Baldelli (1996, p. 8), la «congruenza media fra le strutture fonetiche
e grammaticali della lingua documentaria fiorentina [...] e quelle della
lingua di Dante appare essere assai forte, e tende ad aumentare dalla
lirica giovanile alle opere in prosa e alla Commedia», saldamente an-
corata nella sua struttura fonetica, morfologica e sintattica e nel lessico
fondamentale alla realtà linguistica della Firenze della fine del Duecen-
to e dei primissimi anni del Trecento (cfr. anche Baldelli, 2005).
Fra i tratti che mostrano la sostanziale aderenza della Commedia al
fiorentino si possono ricordare: l’esito an in sanza; la -e finale in dima-
ne, stamane; il comune esito toscano /ggj/ di -gl- in tegghia, Tegghiaio,
mugghiare, Fegghine; il mantenimento di e tonica in iato nelle forme
del congiuntivo dea, stea (ma dieno, stieno alla 3a pl.); la desinenza in -a
dell’imperfetto indicativo 1a persona sing.; la 2a persona sing. del pre-
sente indicativo di essere, sè.
In sintesi: Dante ha scritto in fiorentino (quale fiorentino, semmai,
con quali caratteri, con quali limiti anche, lo vedremo dopo: in rela-
zione a questo specifico punto, la questione si fa subito più complessa,
ma è comunque una sottoarticolazione del problema); resta un punto
fermo l’adozione del fiorentino quale lingua naturale: «ciò vale anco-
ra a maggior ragione per la Commedia, nel senso di un’accettazione
piena e senza remore del linguaggio naturale» (Tavoni, 2011a, p. 335).
Varrà sempre la pena di richiamare a questo proposito il luogo famoso
dell’epistola XIII xxxi (chiunque ne sia l’autore), in cui si afferma che
lo stile della commedia (modus loquendi) è «remissus et humilis quia
locutio vulgaris», dove cioè dallo stile si passa alla lingua, e si legano
in un nodo inestricabile i due elementi (lo stile dimesso e umile e la
lingua volgare). Qui il concetto (e la definizione) di locutio vulgaris,
che stando al De vulgari eloquentia (I i 2) è la lingua naturale, quella
che i bambini imparano a usare spontaneamente, viene applicato alla

248
13. il volgare di dante

Commedia: la lingua dell’opera è dunque il volgare fiorentino, il fio-


rentino in quanto lingua propria, naturale, come correttamente intese
poi Boccaccio (che parlò, parafrasando il luogo, di volgare fiorentino:
Decameron, iv Introd. 3: «fiorentin volgare»), e che ammette al suo
interno ampie escursioni di livelli e abbondanza di variabili.
Il volgare fiorentino è assunto nel suo insieme più ampio e meno
selettivo. Nel considerare tutta intera la lingua della sua città, nel for-
giarla secondo la propria volontà, Dante trova la libertà che la materia
nuova richiede. Il principio in forza del quale questo può avvenire è
appunto quello della “naturalità” della lingua, ossia il riconoscimento
della qualità onnicomprensiva e della intrinseca variabilità della lingua:
naturalità e variabilità costituiscono il presupposto e la giustificazione
per l’assunzione del fiorentino nell’intera sua pluralità, che avviene
compiutamente all’altezza della Commedia. È così che può derivarne
una lingua onnicomprensiva, ossia appunto “intera” e “naturale”, non
più costretta in un orizzonte municipale ma devoluta ed estesa all’in-
tendimento universale.
Secondo punto. L’italiano di oggi rappresenta la continuazione del
fiorentino trecentesco, così come è stato codificato nella grande stagio-
ne normalizzatrice del primo Cinquecento.
La congruità fra i due sistemi linguistici si gioca anzitutto sul piano
fonetico e morfologico. Un esempio per tutti, su tutti, a parere di Ar-
rigo Castellani, è la presenza nell’italiano dell’anafonesi, un fenomeno
tipicamente e propriamente fiorentino, per cui si ha lingua e non len-
gua, famiglia non fameglia, punto non ponto, fungo non fongo ecc.; e an-
cora la desinenza -iamo nella 1a pl. del presente indicativo, questa però
estranea al primissimo fiorentino; o ancora l’assenza di metafonesi, la
conservazione delle vocali finali, il mantenimento dell’opposizione fra
consonante scempia e consonante doppia.
Questa affermazione potrà sembrare estrema ed estremizzante, so-
prattutto perché ne deriva una sottolineatura del carattere conserva-
tivo dell’italiano, e una riduzione del peso delle differenze fra la fase
antica (diciamo precinquecentesca) e la fase moderna della lingua.
Diverse ricostruzioni e vari studi hanno al contrario accentuato negli
ultimi anni le diversità fra italiano antico e italiano moderno, fino ad
affermare che «differenze significative [...] si trovano a tutti i livelli e
in quasi ogni fenomeno» (Salvi, Renzi, 2010, p. 8). Proprio in relazio-
ne a Dante, è rimasto memorabile l’esercizio di lettura di Gianfranco
Contini su Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita nuova xxvi; cfr. Con-

249
dante

tini, 19762, pp. 21-31), volto a mostrare come i termini fondamentali del
sonetto – apparentemente così simili all’italiano di oggi – abbiano in
verità un valore diverso da quello corrente.
Come valutare, e se possibile conciliare, posizioni tanto diverse, in
cui – come è evidente – sono il ruolo e la “leggibilità” di Dante a essere
convocati in primo piano? Si impone un rigoroso senso della misura,
riconoscendo – con Maurizio Dardano (2012, pp. 6-15) – che certa-
mente le differenze ci sono, ma non sono tali da giustificare un giudi-
zio di radicale diversità fra la fase antica e la fase moderna della lingua,
il che vuol dire – in prima istanza – fra Dante e noi.
A più riprese e in più modi, Tullio De Mauro ha osservato che più
dell’80% (83,98) del lessico italiano fondamentale – le 2.000 parole a
maggiore frequenza – faceva già parte del patrimonio linguistico an-
tico, si era cioè costituito entro il Trecento (63,4% entro il Duecento,
20,58% nel Trecento: in altri termini, più del 60% appartiene già alla
lingua del tempo di Dante): osservando questo altissimo tasso di so-
pravvivenza delle parole dantesche, si converrà che «il presente del-
la nostra lingua e il suo futuro hanno dunque un cuore antico» (De
Mauro, 2016, p. 50).
Ulteriori declinazioni di questi dati fondamentali si possono otte-
nere restringendo l’osservazione alla Commedia (per dar conto della
sua rilevanza, si può ricordare che su circa 10.000 lemmi delle opere
volgari di Dante, incluse le parole grammaticali e i nomi propri, circa
4.000 sono attestati solo nel poema):
– il 15% del lessico dell’italiano contemporaneo è costituito da voca-
boli immessi nell’uso dalla Commedia (come ascoltare, imparare, succe-
dere, cigolare, stormire ecc.);
– molte parole già attestate nel Duecento (equivalenti al 56% del les-
sico contemporaneo nel suo insieme) sono state effettivamente immes-
se nell’uso solo da Dante.
È questo il passaggio che appare rilevante, dal momento che più
che la singola o sparuta attestazione conta l’affermazione e la diffusio-
ne di un termine, e la sua eventuale variazione semantica. Pensiamo
a una parola come bolgia (< fr. bolge, bouge ‘sacco’ < *bulgia), il cui
significato originario è quello di ‘borsa’, ‘sacco di cuoio’, sparsamente
attestata con questo valore nell’italiano antico, ma in realtà nota nel
senso traslato usato da Dante (che ha anche inventato il toponimo
Malebolge, If 18.1, sul modello di Malebranche, If 21.37, Malacoda, If
21.76), che è l’unico rimasto nell’italiano moderno, scivolando anzi

250
13. il volgare di dante

ancora di più da ‘fossa infernale’ a ‘luogo di confusione’, ‘confusione’.


Quindi, se si guarda al rendimento funzionale, anche bolgia è una pa-
rola dantesca.
Insomma, la funzione-Dante esiste, ed è attivissima: il grado di
innovazione del lessico di Dante è altissimo. Con questa misura, con
questa forza, di nessun altro autore o pensatore si può dire la stessa
cosa. In particolare, il contributo della Commedia «spicca e primeg-
gia» (ivi, p. 52), dal momento che è importante non solo il dato quan-
titativo, già di per sé notevole, ma quello qualitativo: la nostra lingua,
in questo senso, è la lingua della Commedia, la lingua di quel libro.

13.3
Il senso di Dante per la lingua
Lo studio del volgare di Dante con gli strumenti che oggi abbiamo a
disposizione (in primo luogo il tlio e il Corpus ovi, il Corpus Avalle,
ma anche la liz e la bit, o la Lessicografia della Crusca in rete) ci per-
mette di misurare l’esperienza linguistica dantesca sullo sfondo della
tradizione italiana antica, di misurarne gli scarti e illuminarne le scelte
personali.
Prendendo spunto dai canti 21-22 dell’Inferno, si può affrontare un
punto centrale del discorso sulla lingua di Dante. Sono questi i can-
ti della «fossa quinta» dei barattieri, bolgia grottesca e diavolesca,
in cui tutto lo sviluppo narrativo è impostato in chiave apertamente
comico-elegiaca.

Quel s’attuffò, e tornò su convolto;


ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».
Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli
(If 21.46-57).

251
dante

Nell’episodio del barattiere buttato nella pece bollente, che torna su


«convolto» (‘ricoperto’, ‘imbrattato’), ed è respinto sotto dai diavo-
li armati di lunghi uncini (ai quali è riservata la celebre similitudine
culinaria dei vv. 55-57, che evoca una scena così simile a quella che
Dante avrà visto tante volte nelle cucine dei castelli in cui era ospite),
si deve richiamare l’attenzione sul verbo accaffare («sì che, se puoi,
nascosamente accaffi», v. 54), non solo in rima con graffi, v. 50, e raffi,
v. 52, ma in suggestiva eco fonica con s’attuffò, v. 46 e attuffare, v. 56,
che con movimento circolare aprono e chiudono la sezione. Accaffare
(da caffo ‘capo’ < ar. qafā ‘nuca’) è vocabolo comico e fiorentino, che
vale ‘afferrare’, ‘pigliare occultamente’, ‘rubare’, qui presente in prima
attestazione.
Lo stesso si rileva per altri casi, nel medesimo canto o in canti
prossimi, ad esempio: acceffare ‘afferrare col muso’, ‘azzannare’ («più
crudeli, / che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa», 23.18); accoccare
‘assestare (un colpo)’, dal significato proprio di ‘sistemare la cocca della
freccia sulla corda’ («Sì, fa’ che gliel’accocchi!», 21.102), verbo desti-
nato a larga fortuna nella prosa quattro-cinquecentesca, dall’ambiente
laurenziano (Luigi Pulci, Matteo Franco, Agnolo Poliziano) a Machia-
velli e Aretino, nel senso di ‘fare un brutto scherzo, un brutto tiro’; il
fantastico arruncigliare ‘afferrare con il ronciglio’, ‘uncinare’ («e poi
d’arruncigliarmi si consigli», 21.75; «li arruncigliò le ’mpegolate chio-
me», 22.35).
Dunque: parole comiche, non attestate prima della Commedia; che
possono essere neologismi danteschi (su basi documentate, come ac-
ceffare da ceffo, che si trova in Rustico Filippi, ed evidentemente riman-
da a un preciso circuito della poesia realistica), secondo modalità di
composizione strutturale note (a-, re- seguiti da derivato nominale); o
parole attinenti a un gergo diastraticamente basso (accaffare, accoccare),
che perciò non ha lasciato traccia nelle scritture precedenti o coeve.
In ogni caso, certo parole non dell’uso comune (lo aveva già rilevato
Beltrami, 2000), al contrario, parole di ristretta o ristrettissima circola-
zione, ma che sfruttano le risorse linguistiche del sistema per effetti di
strenua attenzione stilistica. Così si spiega la loro assunzione nel testo:
per una forte volontà espressiva, che si inserisce nel quadro linguistico
più generale del complessivo recupero del fiorentino che il poema (e
particolarmente la prima cantica) opera.
Qual è dunque il punto centrale di questa lingua? Si può limitare
all’affermazione e valutazione di una differenza di registri? A una va-

252
13. il volgare di dante

lutazione per così dire verticale, che dal basso dell’Inferno procede in
maniera che si vuole consequenziale, lineare tutto sommato, verso il Pa-
radiso? Il passaggio dal tono comico dell’Inferno al tono medio del Pur-
gatorio e quindi a quello sublime del Paradiso c’è senz’altro, ed è eviden-
te ai lettori: ma come va definito riguardo alle categorie della lingua?
Credo che il punto nevralgico della questione stia nel riconosci-
mento di un’attenzione inesausta per il valore della parola, per la sua
scelta, sia che essa appartenga a un registro basso sia che essa sia di
un registro alto: un’attenzione per dir così “in orizzontale”, dove ciò
che conta è la selezione del linguaggio, l’attenzione ai meccanismi di
formazione – che corrispondono alle forze generali interne alla lingua
(da un prefisso o da una somma di prefissi, ad esempio, si formano
serie di parole) –, agli effetti di significato e di suono, alla compo-
sizione ritmica: ossia, un senso potentemente classico della parola e
della lingua, che già era stato avviato dalle scelte sintattiche e lessica-
li di Cavalcanti. Ricondurre la lingua a regola: questo insomma pare
fondamentale; inserire un materiale linguistico incandescente – e tale
perché in fase aurorale, perché nascente – dentro coordinate “di si-
stema” (le modalità di composizione delle parole; il ritmo fonico; il
metro), e proprio in questo sperimentare e portare ai limiti estremi le
potenzialità della lingua nuova, che già erano state largamente mes-
se a prova nella prosa magnifica del Convivio (proprio a cominciare
dall’intromissione di tanto lessico quotidiano e tecnico nella sostenu-
tissima sintassi di impronta latina). In questo senso si può vedere nel
Convivio una fortissima proiezione verso la Commedia, e cogliere il
valore della medesima operazione, che inserisce una realtà nuova (una
luce nuova/un sole nuovo) in una cornice che è solida perché consacra-
ta dalla tradizione classica.
Nella capacità di dare alla scrittura la vita della lingua naturale ri-
conducendola alla regola del sistema sta la libertà creativa di Dante.
La gabbia di una schematizzazione eccessiva degli stili e dei registri
– comoda magari a livello di semplificazione didattica – va infranta, al
pari di qualunque ghettizzazione della lingua di Dante (di cui Pietro
Bembo è stato uno dei primi responsabili), che rischia di spezzare la
sua profonda unità, che è unità nativa e sorgiva: ce lo insegna l’epistola
XIII, ce lo conferma la rivendicazione precisa della dimensione lingui-
stica, ossia il fatto che non più, non solo di stile si tratta (perché le con-
venzioni dei generi hanno da essere forzate), ma di lingua, che è quella
«in qua et muliercule comunicant». Il fiorentino di Dante è per dir

253
dante

così “intero” e “universale”: il suo carattere si fonda su una progressiva


estensione delle potenzialità espressive, e sugli elementi di inclusivismo
linguistico che in genere si accrescono di intensità passando da un’o-
pera all’altra, e in specie nella Commedia dalla prima alla terza cantica.
La lingua del poema non è infatti più il fiorentino dell’orizzonte mu-
nicipale della generazione di Brunetto, ma un fiorentino che si potrà
proporre come lingua per l’intendimento generale: una lingua capace
di competere col latino, in qualunque settore, e pronta a uscire da quel
confronto potente e vittoriosa.

13.4
La collocazione linguistica di Dante
Restituire Dante alla lingua del suo tempo significa restituirlo anche
alla sua varietà interna, persino alle sue non sanabili contraddizioni.
Si generano in questo modo le coordinate cartesiane della lingua
di Dante.
In primis, la variabile diacronica, legata alla collocazione temporale
di Dante fra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Tre-
cento: un periodo in cui Firenze si trova immersa in una situazione di
grande vivacità, dovuta a un complesso sommarsi di vicende storiche,
economiche, demografiche, culturali, letterarie, tutte caratterizzate da
un alto tasso di evoluzione. Questa dinamicità di fattori agisce anche
sul piano della lingua, in un dialogo multiforme e complesso fra la tenu-
ta degli elementi “arcaici” (che configurano il fiorentino duecentesco)
e la tensione dialettica con gli elementi dell’innovazione (la transizione
che si annuncia nell’ultimo quarto del secolo e si consolida poi – con
passaggi anche senza ritorno – all’inizio del successivo, formando il fio-
rentino trecentesco, classico). La vicenda temporale di Dante implica
all’immediato una proiezione all’indietro delle strutture del suo volga-
re, costituite negli anni dell’infanzia e della giovinezza, e dunque salda-
mente ancorate al Duecento; e la necessità di tenere sempre presente il
principio della variabilità, che è in primo luogo la dinamica interna al
sistema linguistico fiorentino fra tipo “arcaico” e tipo “antico”.
Ne deriva – anche metodologicamente – una diversa considerazio-
ne dell’arcaismo di Dante, da intendere non tanto come fatto retori-
co e stilistico, ma da rivendicare nella sua qualità intrinseca, come un
elemento costitutivo, strutturante, del suo volgare, per evidenti motivi

254
13. il volgare di dante

storici e cronologici. Non si tratta dunque di un arcaismo soggettivo,


ma oggettivo; se vogliamo, più propriamente di arcaicità che di arcai-
smo. L’arcaicità della lingua di Dante si può riconoscere ormai per al-
cuni segnali:
– per quanto riguarda la Vita nuova, il riaffermato valore formale del
codice Chigiano l viii 305 [K], opera di un copista giudicato vicino o
addirittura coincidente con la mano principale del gruppo “del Cento”
della tradizione della Commedia, contemporaneo e omologo a France-
sco di ser Nardo da Barberino. Esso conserva tracce vistose della lingua
fiorentina duecentesca, ossia della lingua del tempo del prosimetro, e
risale a un modello assai vicino a quello che doveva essere l’assetto lin-
guistico dell’originale della Vita nuova. L’esame linguistico ravvicinato
di tutto il manoscritto (Rea, 2011; De Dominicis, 2015) ha permesso
di rilevare su una documentata base statistica la distribuzione delle ca-
ratteristiche arcaiche, che si concentrano con particolare frequenza nel
corpus dantesco e massimamente nella Vita nuova: il che, evidentemen-
te, non può che essere attribuito ai modelli utilizzati. Una corrispon-
dente arcaicità fiorentina è possibile rilevare anche nel codice Martelli
12 della medesima Vita nuova, uno dei testimoni più importanti dell’o-
pera, che ha una buona possibilità di essere stato copiato “Dante vivo”;
– per il Convivio, soccorre quanto osservato da Andrea Mazzucchi
(2012) a proposito del ms. Vaticano Barb. lat. 4086, un codice fiorentino
risalente agli anni Trenta del Trecento (Ceccherini, 2016), che offre una
serie di tratti qualificabili come arcaici: la conservazione di -an- in da-
nari, la presenza di matera, in corrispondenza con l’esito attestato in K,
accanto a materia, il tipo senpicemente, che richiama sempici della Vita
nuova di K, l’alternanza furono/furo che giunge fino alla Commedia.
A questo punto, si è autorizzati a rileggere alla luce di questi tratti
gli arcaismi rilevabili nella Commedia, per trovarvi puntuali corrispon-
denze. Il contingente dei tratti arcaici infatti non è piccolo: alcuni sono
conservati da Giorgio Petrocchi e sono perciò individuabili anche at-
traverso la sua edizione (la desinenza -emo del presente indicativo della
2a classe; le desinenze -éo, -ìo della 3a persona sing. del perfetto; le desi-
nenze -aro, -ero, -iro della 3a persona pl. del perfetto; le desinenze -e del-
la 2a persona sing. del presente indicativo e congiuntivo; la forma origi-
naria del congiuntivo stea in Pg 9.144, Pd 31.45, in posizione interna al
verso dea in Pg 21.13; la prevalenza assoluta del tipo sanza; l’esito diece
di Pd 6.138; il notevole serà di Pd 30.145, di grande valore, perché il tipo
di futuro e condizionale in -er- viene abbandonato a Firenze alla fine

255
dante

del Duecento), altri sono recuperabili da una consultazione diretta del


ms. Trivulziano 1080, datato 1337 e opera di Francesco di ser Nardo da
Barberino, come il tipo immobole in Pg 20.139: «Noi stavamo inmoboli
(e) sospesi» (f. 55v 4, lettura sicura), che è la stessa cosa della forma
mirabole della Vita nuova («uno mirabole tremore», xiv 4), su cui si
è tanto discusso proprio per la valutazione del presunto livello di “de-
moticità” del codice K: il tipo in -ole si rivela invece come forma pie-
namente legittima nella lingua poetica già duecentesca, confortata da
una serie di significative attestazioni anche nel codice Vaticano 3793.
La convergenza di presenze in testimoni autorevoli della Vita nuova e
della Commedia potrebbe a questo punto rendere il tipo in -ole sospet-
tabile di appartenere all’uso propriamente dantesco, e di conseguenza
indicherebbe anche per il Trivulziano (come per il pressoché coetaneo
Chigiano) il rilievo dei modelli messi a frutto (Frosini, 2016b).
Se c’è qualche possibilità che le cose stiano come si è detto, allora il
codice Chigiano della Vita nuova, ma anche il Barberiniano del Con-
vivio e il Trivulziano della Commedia ci dicono molto sulle modalità
di pubblicare Dante a Firenze in un momento strategico, verso gli anni
Quaranta del Trecento, prima della peste, quando la generazione che
ha conosciuto Dante (diciamo i consorti fiorentini di Dante) è ancora
viva. Sono nomi che conosciamo: Andrea Lancia (ca. 1295?-post 1357),
Giovanni Villani (ca. 1280-1348), forse Andrea di Leone Poggi, figlio
del cognato di Dante, che potrebbe essere morto negli anni Trenta; che
a loro volta erano stati in contatto con personaggi più anziani, scom-
parsi nel terzo decennio del secolo, come Dino Frescobaldi o Dino
Compagni, dunque ancora più vicini a Dante. E poi i volgarizzato-
ri, come Filippo Ceffi, come Alberto della Piagentina, vicino di casa
– perfino – di Dante: i volgarizzatori che sono per eccellenza i me-
diatori del classico, coloro che tramandano l’antico assumendolo come
moderno. È quasi sorprendente come si arrivi alle medesime con-
clusioni per le tre grandi opere organiche in volgare di Dante: Vita
nuova, Convivio, Commedia vengono realizzate a Firenze negli anni
Trenta-Quaranta in manoscritti importanti, che denunciano modelli
di estrema significatività linguistica, in quanto trasmettono caratteri
che – data la diacronia evolutiva del fiorentino, nota per altra via –
non possono essere attribuiti ai copisti, ma sono necessariamente da
imputare ai modelli. I personaggi che animano questa operazione
(arriveremo a dire questa “edizione” di Dante?) sono notai, scrittori,
intellettuali, volgarizzatori, che realizzano un preciso piano culturale.

256
13. il volgare di dante

Va poi considerata la variabile diatopica, legata alle vicende della


biografia, e dunque al fatto che il fiorentino di Dante (del Convivio,
della Commedia) è nell’ultimo suo ventennio – come si diceva – un fio-
rentino in esilio, “fuori d’Arno”. Per Dante, costretto in una condizio-
ne che infine diventa un acquisto («un acquisto per sempre», è stato
detto, strutturante dell’uomo e del suo pensiero), la lingua di Firenze
rimane lingua materna, della memoria, della consuetudine personale,
della tradizione poetica costituita, dei libri che si potevano ricordare e
leggere, dei contatti brevi con gli amici di città: non più del contesto
quotidiano, che risente invece della presenza di altri volgari.
Ne risulta un intreccio complesso, un variabile comporsi di ascis-
se e ordinate nell’individuazione di punti progressivi, per cui la lingua
“propria” di Dante, cioè la lingua della sua città, meglio ancora – in
prospettiva storica – della propria città del tempo in cui Dante vi abi-
tava, si incontra con gli elementi allotri delle altre parti della Toscana e
soprattutto del Settentrione d’Italia.
Questo processo ha due aspetti fondamentali: da un lato il decisivo
arricchimento dello spettro linguistico volgare che si realizza in pro-
gressione dalle opere della giovinezza alle opere dell’esilio (Convivio
e Commedia), per cui l’esclusivismo e la forte selettività della produ-
zione stilnovista, fondata sul monolinguismo fiorentino, si risolvono
all’opposto in un principio (e in una prassi) di inclusivismo linguistico,
fino a produrre la più «radicale idea di commistione degli stili e dei
registri linguistici» che si sia mai vista (Tavoni, 2011a, p. 333); dall’al-
tro, proprio l’assunzione della lingua materna nella pluralità dei suoi
registri e nella ricchezza intera della sua varietà fa sì che nella struttura
linguistica portante – che è e rimane fiorentina – possano liberamente
innestarsi elementi esterni, inseriti nel tessuto della lingua nuova “se-
condo natura”, rispettandone le qualità fondamentali (come ben vide
Machiavelli, 1982, paragrafi 34-37).

13.5
La Vita nuova
Nella Vita nuova, compiuta nel 1292-93 (o al più tardi nel 1294), riu-
tilizzando in parte materiali pre-esistenti, collegando e illustrando le
rime attraverso una prosa che è insieme narrazione e spiegazione, Dan-
te costruisce e dà prova del suo «dolce stile». Esso è la lingua della

257
dante

poesia, il volgare nobile di una lirica raffinata propria di alcuni poeti del
secondo Duecento, di Firenze o prossimi a Firenze: Guido Cavalcanti,
Dante stesso, Cino da Pistoia, e pochi altri; e insieme, il volgare della
prosa che costituisce il tessuto connettivo della Vita nuova. Questa lin-
gua muove storicamente, per quanto attiene alle strutture grammaticali
fondamentali, dal volgare di Firenze; si tratta anzi di un monolingui-
smo fiorentino rigoroso, in marcata tendenza antiguittoniana (Frosini,
2016a), portato poi a un livello di elaborazione artistica e di raffinatezza
stilistica tale da riassumere in sé la tradizione, e da distinguersi dalla
lingua dell’uso quotidiano. Si definisce in questo modo un punto fon-
damentale nella storia della lingua letteraria, e in particolare di quella
della poesia lirica: si decantano i risultati delle esperienze poetiche pre-
cedenti (in primo luogo dei poeti della Magna Curia federiciana, già
letti attraverso il filtro toscanizzato, quindi di Guido Guinizzelli), si
fissa il fiorentino letterario, si costituisce un patrimonio destinato a sta-
bilizzarsi nella futura poesia italiana, giungendo a Petrarca e passando
attraverso la sua decisiva elaborazione.
La prosa della Vita nuova è in genere una prosa “dematerializzata”
quanto a indicazioni locali, ma offre spesso particolari realistici che
non hanno riscontro nella poesia: ad esempio nel cap. xxiii termini
concreti come corpo, faccia, testa figurano solo nella prosa, dove an-
che compaiono termini specifici del linguaggio scientifico: «farnetica
persona» ‘persona in preda al delirio’, e «grandissimi terremuoti». Il
linguaggio della poesia tende a una limitazione dei latinismi e a una
rigorosa scelta dei gallicismi e della componente della tradizione “sici-
liana”; già nel prosimetro giovanile si nota un’attenzione agli allotropi
(augelli si usa nella poesia, uccelli nella prosa) che si rivelerà con prodi-
giosa ricchezza nella Commedia.
Dal punto di vista delle strutture grammaticali, è notevole – come
già si è detto – il grado di “arcaismo” della lingua che è possibile ora
ricostruire attraverso un’analisi dettagliata dei testimoni manoscrit-
ti principali (il codice Chigiano l viii 305 [K], il codice Martelli 12
[M]). Si dà qui di seguito una rapida elencazione di questi tratti. La
morfologia verbale, in primo luogo, presenta tratti rilevanti, a comin-
ciare dalle desinenze -emo, -imo nella 1a persona pl. del presente indi-
cativo dei verbi della 2a e 3a classe: il tratto è notevole, perché -emo,
-imo sono le desinenze regolari a Firenze nel Duecento (e anche nella
Toscana occidentale, e poi a Siena e Arezzo, dove anzi resistono molto
a lungo); gli esiti dell’imperfetto iera, ierano, con dittongo regolare nel

258
13. il volgare di dante

fiorentino del Duecento; le desinenze della 3a persona sing. del per-


fetto indicativo di tipo debole nelle classi diverse dalla 1a in -eo, -io; le
desinenze della 3a persona pl. del perfetto indicativo di tipo debole in
-aro, -ero, -iro; il futuro e condizionale in -er- nel tipo serò, serei (per
quanto in entrambi i manoscritti sia maggioritario il tipo in -ar-, con-
formemente alla tendenza evolutiva del fiorentino, la cui situazione
ibrida di fine Duecento è dunque riflessa dai due testimoni della Vita
nuova); la desinenza di 1a persona sing. dell’imperfetto congiuntivo in
-e, dominante in M e in K, a testimonianza della salda tenuta della for-
ma originaria (cfr. Frosini, 2015b).

13.6
Il Convivio
Il Convivio si presenta come un grande prosimetro sapienziale, nato
con lo scopo di offrire, in una cornice unitaria e ragionata, con una
prosa «temperata e virile», il commento a grandi canzoni allegoriche
e dottrinali (Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, Amor che nella men-
te mi ragiona, che sarà intonata da Casella sulla spiaggia dell’Antipur-
gatorio [Pg 2.112-114], Le dolci rime d’amor ch’i’ solia); anch’esso – come
il De vulgari eloquentia – troppo presto interrotto, al capitolo xxx del
quarto libro (contro il progetto di quattordici trattati). L’opera, pensa-
ta come un’enciclopedia filosofica e strutturata secondo i principi della
tecnica universitaria, non ha raggiunto purtroppo il pubblico al quale
era stata destinata, quello degli uomini civilmente e politicamente im-
pegnati e perciò distratti dall’impegno dello studio, ai quali si intende-
va offrire «un generale convivio» di sapienza (I i 11).
Il trattato dantesco si alimenta alla tradizione scritturale e scienti-
fica, alla prosa classica, medievale e scolastica, nonché alla precedente
trattatistica fiorentina, sia originale sia tradotta, opera di autori quali
Bono Giamboni o Brunetto Latini. Veicolo di conoscenza della filoso-
fia – con una scelta autenticamente, potentemente rivoluzionaria – è
il volgare, il quale «sarà luce nuova, sole nuovo» (I xiii 12). Si affer-
ma con forza nel Convivio una verità che non sarà più abbandonata, e
che anzi troverà poi traduzione ancora più piena nella Commedia: che
il volgare può coprire tutte le esigenze espressive del latino, e che la
scrittura realizza tutte le potenzialità comunicative del volgare: «per
questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si

259
dante

vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e novissimi concetti con-
venevolemente, sufficientemente e aconciamente, quasi come per esso
latino [‘proprio come attraverso il latino’], manifestare» (I x 12).
Il rapporto col latino costituisce la qualifica dominante del Con-
vivio, ciò che alimenta la sua prosa e ne definisce la struttura retorica,
producendo una serie di acquisizioni che rimarranno determinanti
per il passaggio alla Commedia. Il lessico di origine latina – che ani-
ma e innerva il trattato – giunge da una molteplicità di fonti: le Sacre
Scritture, la trattatistica scientifica, i testi di filosofia. Dalla ricchezza
di questa tradizione provengono macula, abito nel senso di ‘costume,
abitudine’, essenza, forma, atto, materia, effetto, disposizione, sillogismo e
sillogizzare (questi ultimi di raro recupero nel Paradiso), idea (di cui il
Convivio offre la prima attestazione assoluta in lingua italiana). Tutto
il Convivio è fittamente costellato di latinismi, e questa scelta costitui-
sce un elemento fortissimo di unione con la Commedia. Ma accanto al
lessico dotto si trova un lessico ampio e variegato, anche assai realisti-
co, nel passo seguente: «acciò che questo tallo che detto è, per buona
consuetudine induri e rifermisi nella sua rettitudine, sì che possa frut-
tificare» (IV xxi 14), tallo convive con fruttificare, latinismo tecnico
esclusivo del Convivio. Si tratta di un lessico vivo, anche popolare e
quotidiano (si vedano palpastrello ‘pipistrello’, o gallina) con cui Dan-
te prende progressivamente confidenza – così come gli era accaduto
nella parte più realistica ed espressiva delle Rime – e che rappresenta
un precedente fondamentale per comprendere l’escursione linguistica
straordinaria della Commedia.
Il grande lascito della tradizione latina scritturale e della trattati-
stica scientifica alimenta anche la sintassi del Convivio, la struttura
che magistralmente sostiene il ragionamento filosofico, e ne traduce
in espressione la forza limpida e cristallina. Ricorrono perciò con fre-
quenza tutta una serie di moduli sintattici di ascendenza latina, qua-
li le proposizioni infinitive preposizionali, l’accusativo con l’infinito
(«E contra costoro Aristotile parla nel primo dell’Etica, dicendo quelli
essere insufficienti uditori della morale filosofia», IV xv 14), il par-
ticipio passato in funzione di proposizione implicita assoluta; molto
frequente è poi l’anticipazione delle subordinate, l’inserimento di pro-
posizioni incidentali, l’uso delle interrogative indirette, e soprattutto
è forte la tendenza alla simmetria (parallelismi, strutture ripetitive,
adozione di segnali di ripresa ecc.). In genere, la sintassi del Convivio
punta alla assoluta prevalenza della subordinazione, che costituisce la

260
13. il volgare di dante

costruzione argomentativa per eccellenza, che permette di costruire un


ragionamento, mostra dialetticamente i vari passaggi, conduce il letto-
re a una conclusione (Mazzucchi, 1995, pp. 340-4).
Particolarmente emblematico della rappresentazione del ragiona-
mento filosofico è il periodo cosiddetto “a festone” (secondo una cele-
bre definizione di Cesare Segre, 1991a), che consiste nel procedimento
sintattico per cui si inizia un periodo con una congiunzione che viene
separata dalla principale da una secondaria prolettica, come nell’esem-
pio che segue:

«Ma però che, dinanzi dall’aversario, se ragiona, lo rettorico dee molta caute-
la usare nel suo sermone, acciò che l’aversario quindi non prenda materia di
turbare la veritade; io, che al volto di tanti aversarii parlo in questo trattato,
non posso lievemente parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si
maravigli» (IV viii 10).

13.7
La lingua della Commedia
Il carattere fondamentalmente fiorentino della lingua della Commedia
(continuamente ribadito: If 10.22-27, If 16.8-9, If 22.99, If 23.76, 91-92,
«ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo» di If 33.11-12;
ecc.) si declina in primo luogo secondo la variabile diacronica di cui
già si è parlato (par. 13.2): il fiorentino della Commedia non è dunque
una lingua statica, ma una lingua in movimento, con una fisionomia
unitaria, seppure articolata ed evolutiva, secondo quel principio di spe-
rimentazione di tutte le risorse linguistiche disponibili che caratterizza
nel profondo il modo che Dante ha di trattare la parola e il discorso
(cfr. Frosini, 2015a, pp. 214-6).
La compresenza di elementi arcaici e di elementi più moderni è
uno degli aspetti della polimorfia del fiorentino impiegato nella Com-
media. Al tempo stesso, la libertà linguistica di Dante si esprime si-
gnificativamente nella ricchezza degli allotropi e nella variabilità dei
registri: l’uso dantesco è infatti estremamente ricco di varianti attinte
dalla tradizione o per via libresca, e largamente sfruttate per ragioni di
contenuto o di metro (Migliorini, 19785, p. 188). Il volgare fiorentino è
assunto nella sua estensione più ampia, che accanto alle forme elevate
e auliche accoglie voci dell’uso colloquiale e popolare, e infine basse e

261
dante

gergali, in stretto rapporto con la varietà dei temi, delle situazioni, dei
personaggi (Dante è sempre “il Dante della realtà”): è questo il più po-
tente precipitare delle potenzialità fino allora inespresse della lingua.
Un esempio minimo è la scansione di tre allotropi in relazione al
progredire stilistico delle tre cantiche: vecchio è Caronte (If 3.83), con
termine ordinario; un veglio solo è Catone (Pg 1.31), con più nobile gal-
licismo (dall’antico fr. vieil, prov. velh, vielhs); infine, Bernardo è un
sene (Pd 31.59), con aulico e solenne latinismo, usato due sole volte,
e sempre in riferimento a questo personaggio. I tre sinonimi vecchio/
veglio/sene realizzano una progressione di dignità linguistica che ac-
compagna perfettamente lo scandirsi delle tre cantiche, e sono segno
della continua ricerca di arricchimento e diversificazione del lessico.
Ciò che più colpisce è l’incrocio di queste varietà, la suprema li-
bertà con cui Dante usa la lingua: in Inferno 5 Francesca e Paolo sono
introdotti con una similitudine soave, che illumina la loro gentilezza:
«Quali colombe dal disio chiamate» (v. 82); in Purgatorio 25 si ado-
pera un preciso linguaggio tecnico-scientifico: Sangue perfetto (v. 37),
virtute informativa (v. 41), coagulando (v. 50), l’articular del cerebro (v.
69) ecc.; sono notevoli le intromissioni di termini realistici nel Para-
diso, come in 17.129 («e lascia pur grattar dov’è la rogna»), o 27.25-27
(«fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza; onde ’l
perverso / che cadde di qua su, là giù si placa»).
È straordinaria la capacità di Dante di integrare nel tessuto lingui-
stico forme diverse provenienti da altri volgari toscani, soprattutto
toscano-occidentali, settentrionali (dialettalismi evocativi, ossia pa-
role che evocano con perfetta volontà linguistica e stilistica luoghi e
ambienti: forme lucchesi come issa, Pg 24.55, lombarde come istra, If
27.21, bolognesi come sipa, If 18.61, sarde come donno ‘signore’, ‘perso-
na munita di poteri di governo’, più volte usata nell’Inferno), romanzi
(come in Pg 26.140-147): è l’eccezionale variabilità diatopica a cui già
si è accennato. Ci sono poi i termini latini, soprattutto nel Paradiso,
spesso latinismi di prima mano, inseriti e fusi nel fluire del discor-
so volgare; la capacità di creare termini nuovi, secondo una potente
prassi onomaturgica che si esercita in primo luogo sulle formazioni
verbali parasintetiche, così frequenti nella terza cantica (inluiare,
transumanare).
Si veda questo esempio, da cui emerge la totale naturalezza con la
quale Dante piega nell’endecasillabo italiano la struttura e il lessico
della lingua latina: in Pg 30.19-21 le parole latine inserite nel tessuto

262
13. il volgare di dante

del volgare sono introdotte dalle citazioni dei vv. 11: «Veni, sponsa,
de Libano» (Cantico dei cantici 4, 8) e 17: «ad vocem tanti senis», e
numerosi latinismi (novissimo bando/alleluiando/basterna) marcano
la solennità del ritorno di Beatrice: «Tutti dicean: ‘Benedictus qui ve-
nis!’, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / ‘Manibus’, o, ‘date lilia
plenis!’». Questi versi sono anche un esempio mirabile di utilizzazio-
ne contestuale della latinità classica e di quella biblica, nel saldare la
citazione evangelica di Gv 12,13 e quella classica di Aen vi 883 (cfr.
Frosini, 2014-15).
Tutti questi elementi riconducono in ogni caso all’unica e unificante
struttura di fondo del volgare fiorentino, la cui fondamentale defini-
zione fonomorfologica non risulta nell’insieme alterata: un fiorentino
onnicomprensivo nella sua qualità complessiva, e proprio per ciò capa-
ce di assorbire e integrare elementi esterni. A questo quadro di solida
tenuta unitaria va ricondotto il discorso sugli elementi linguistici extra-
fiorentini rintracciabili nella Commedia: un discorso complesso, non
solo per l’apprezzamento dell’espressione dantesca, ma, come abbiamo
detto, per le ricadute filologiche sulla storia del testo e del suo passaggio
fra Nord e Centro Italia. Oltre ai dialettalismi evocativi che abbiamo
visto, scelti con marcata intenzionalità, c’è infatti indubbiamente nel
poema un plurilinguismo inerziale, ossia un lascito idiomatico non
fiorentino di dialettalità irriflessa, acquisito a causa dei numerosi spo-
stamenti di Dante, e forse anche per contiguità di alcuni elementi del
fiorentino con i volgari “di là dall’Appennino” (ad esempio, forme come
co ‘capo’, If 20.76, 21.64, Pg 3.128 ecc., o ca ‘casa’, If 15.54, che sono sì
settentrionali, ma possono essere rintracciate anche in aree toscane). Si
deve però andare ancora oltre, e accogliere l’idea (già espressa con chia-
rezza da Nencioni, 1989, p. 192) che ci siano innovazioni e acquisizioni
che entrano nel tessuto profondo, grammaticale della lingua di Dante.
Spiccano ad esempio, in primo luogo per la loro frequente collocazione
in rima, i casi di sicura eccezione fonomorfologica al fiorentino (Bal-
delli, 1994; Tomasin, 2013), per lo più desinenze verbali di tipo toscano-
occidentale: la 3a persona pl. del presente indicativo formata con la 3a
persona sing. + -no, come in enno di If 5.38 (non determinato da alcuna
necessità di misura del verso, appare un segnale linguistico-stilistico di
forte rilievo, attestato nella Toscana non centrale, ma anche nel Setten-
trione, e presente nella tradizione poetica), e Pd 13.97 in rima (in un
contesto di rime fortemente latineggianti e rare); ponno in If 21.10 (nel-
la similitudine dell’arzanà dei veneziani, in un testo ricco di elementi

263
dante

settentrionali), e in If 33.30 in rima; il tipo abbo di If 32.5 in rima, tratto


pisano e lucchese, ma anche aretino e senese. La relazione vale anche al
contrario, dal momento che la stessa assenza di alcuni tratti molto dif-
fusi nel fiorentino dell’età di Dante (forme verbali come méttoro, ‘met-
tono’) può essere addebitata proprio al venir meno del contatto diretto
con la città d’origine (Nencioni, 1989, p. 195).
È possibile che da considerazioni di questo tipo emerga (nella Com-
media ma non solo) un Dante più articolato, più franto, linguistica-
mente meno omogeneo e meno patinato; ma un Dante incompara-
bilmente più vero, più storico nella sua lingua, con le sue oscillazioni
fra forme del Duecento e forme del Trecento, fra esiti fiorentini e non
fiorentini. Di conseguenza, varrà forse a definire la multiformità di
Dante non solo e non tanto la variazione dei registri, ma proprio l’in-
tima varietà della sua grammatica, in felice rapporto dialettico con la
sostanziale unità della creazione poetica. Allora anche le desinenze e le
forme dei suoi verbi, dei suoi avverbi, delle sue congiunzioni reclame-
ranno a Dante la complessità, la polifonicità, la capacità sovrana di chi
prende, ricrea, infonde vita nuova in otri vecchi, insomma il fascino
meraviglioso e inestinguibile della sua lingua.

Approfondimenti bibliografici
Lo studio della lingua volgare di Dante richiede la familiarità con gli strumen-
ti e i testi di base dell’italiano antico, fra cui si ricorderanno le raccolte dei Testi
fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Sansoni,
Firenze 1926 (rist. anast. 1954), dei Nuovi testi fiorentini del Dugento, a cura di
A. Castellani, Sansoni, Firenze 1952, e la Prosa italiana delle Origini. i. Testi
toscani di carattere pratico, a cura di A. Castellani, Pàtron, Bologna 1982. Lo
studio dell’italiano antico si arricchisce oggi delle risorse offerte dal tlio (Te-
soro della lingua italiana delle origini) e dal Corpus ovi (http://tlio.ovi.cnr.it;
http:/gattoweb.ovi.cnr.it), dell’Istituto del cnr Opera del Vocabolario Italia-
no, nonché dal Corpus Avalle relativo alla lirica duecentesca (http://clpweb.
ovi.cnr.it); sempre utili la liz (liz 4.0, Letteratura italiana Zanichelli, 2001)
e la bit (www.bibliotecaitaliana.it); indispensabile per ricerche nelle impres-
sioni del Vocabolario della Crusca è la Lessicografia della Crusca in rete (www.
lessicografia.it). È specificamente dedicato ai testi danteschi DanteSearch
(http://www.perunaenciclopediadantescadigitale.eu), ed è in preparazio-
ne presso l’Accademia della Crusca e l’ovi il Vocabolario Dantesco (www.
vocabolariodantesco.it).

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13. il volgare di dante

Fondamentali alla fine dell’Ottocento, quali frutti eccelsi dello storicismo


e della linguistica italiana, gli studi di Parodi, fra i quali indispensabile La
rima e i vocaboli in rima nella “Divina Commedia” (del 1896), ora in Parodi
(19572); alla metà del nuovo secolo, un deposito ineguagliabile di conoscenze
e insieme una sistemazione rigorosa è nel capitolo Dante della Storia della
lingua italiana (del 1960) di Migliorini (19785). L’Enciclopedia dantesca, pro-
mossa dall’Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da Giovanni Treccani,
e diretta da Umberto Bosco (1970-78), ha riservato larga attenzione all’aspet-
to della lingua di Dante, in specie nel volume Appendice (vol. vi, Treccani,
Roma 1978, ora anche Mondadori, Milano 2005), in cui meritano attenzio-
ne tutti i saggi, dovuti ai maggiori studiosi ed esperti; si ricorda qui l’ampio
panorama offerto da Baldelli; a lui si deve anche il più breve ma esemplare
Dante e la lingua italiana (Baldelli, 1996). Apre nuove prospettive – di fonda-
mentale importanza – sulle strutture della lingua della Commedia in relazio-
ne alle vicende storiche e biografiche di Dante lo studio di Nencioni (1989).
Sul crinale del Novecento efficacissimo è il bilancio di Stussi (2001); mentre
il saggio di Serianni (2017) affronta con equilibrate e motivate considerazioni
il dibattito sulla veste linguistica del poema, riacceso dall’edizione Sanguineti
(2001). Fra i più recenti e utili contributi di sintesi si segnalano infine Tavoni
(2011a) e Manni (2013).

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