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Carocci editore
1a edizione, febbraio 2020
© copyright 2020 by Carocci editore S.p.A., Roma
isbn 978-88-430-9668-8
Introduzione 15
di Roberto Rea e Justin Steinberg
Opere
1. Rime 21
di Marco Grimaldi
2. Vita nuova 37
di Donato Pirovano
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3. Convivio 55
di Andrea Mazzucchi
4. De vulgari eloquentia 79
di Mirko Tavoni
5. Commedia 95
di Giorgio Inglese
6. Monarchia 115
di Diego Quaglioni
8
indice
7. Epistole 127
di Antonio Montefusco
8. Egloge 149
di Marco Petoletti
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dante
Questioni
10
indice
11
dante
12
indice
Bibliografia 363
13
13
Il volgare di Dante
di Giovanna Frosini
13.1
Questioni di testo e di lingua
Nel De vulgari eloquentia (I xvi) si va alla ricerca della lingua illustre
come di una «pantheram [...] redolentem ubique et necubi apparen-
tem» (“una pantera... che fa sentire il suo profumo dappertutto e non
si fa vedere da nessuna parte”): di questa straordinaria creatura Dante
è andato in caccia – si può dire – per tutta la vita, attraversando selve
inospitali e inesplorate, tentando strade mai percorse, affrontando e
combattendo la nequizia dei tempi, mutando orizzonti, prospettive,
idee. Tutto fino alla Commedia, fino a quella eccezionale inventiva e
libertà linguistica, propria di una lingua che crea e definisce la realtà,
che caratterizza il poema.
Un qualsiasi accostamento alla sovranità dell’onnipotenza lingui-
stica dantesca, che si manifesta non solo nel poema ma nel complesso
dell’opera volgare, non può prescindere da un dato oggettivo: che di
Dante non abbiamo nessun autografo, fatto solo in parte collegabile
con le vicende dell’esilio, dalle quali si dovrà invece più probabilmente
far dipendere la dispersione della biblioteca del poeta.
Tutto ciò che leggiamo di Dante lo leggiamo dunque senza poter
avere la completa certezza, anche là dove la lezione sostanziale è sicu-
ra, della paternità dantesca quanto alla veste linguistica. Manca infatti
qualsiasi autografo che ci possa orientare, seppure indirettamente, man-
ca qualsiasi elemento di raffronto per la questione della grafia e delle for-
me, «sul cui grado di variabilità», come scriveva Avalle (1967), «non
è dato di stabilire norme precise neppure sulla base dell’uso contempo-
raneo»; si è al contrario messi davanti all’estrema variabilità e perfino
contraddittorietà della tradizione manoscritta (Stussi, 2001, p. 231).
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13.2
L’italiano fra Dante e noi
Quale rapporto esiste fra la lingua di Dante e la nostra? Fra l’italiano di
Dante e quello del nostro tempo? Impostiamo il ragionamento su due
punti fondamentali.
Primo punto. La lingua di Dante nelle sue componenti fonomor-
fologiche è sostanzialmente vicina all’uso fiorentino del tempo quale
lo possiamo leggere nei testi documentari. Come ha scritto Ignazio
Baldelli (1996, p. 8), la «congruenza media fra le strutture fonetiche
e grammaticali della lingua documentaria fiorentina [...] e quelle della
lingua di Dante appare essere assai forte, e tende ad aumentare dalla
lirica giovanile alle opere in prosa e alla Commedia», saldamente an-
corata nella sua struttura fonetica, morfologica e sintattica e nel lessico
fondamentale alla realtà linguistica della Firenze della fine del Duecen-
to e dei primissimi anni del Trecento (cfr. anche Baldelli, 2005).
Fra i tratti che mostrano la sostanziale aderenza della Commedia al
fiorentino si possono ricordare: l’esito an in sanza; la -e finale in dima-
ne, stamane; il comune esito toscano /ggj/ di -gl- in tegghia, Tegghiaio,
mugghiare, Fegghine; il mantenimento di e tonica in iato nelle forme
del congiuntivo dea, stea (ma dieno, stieno alla 3a pl.); la desinenza in -a
dell’imperfetto indicativo 1a persona sing.; la 2a persona sing. del pre-
sente indicativo di essere, sè.
In sintesi: Dante ha scritto in fiorentino (quale fiorentino, semmai,
con quali caratteri, con quali limiti anche, lo vedremo dopo: in rela-
zione a questo specifico punto, la questione si fa subito più complessa,
ma è comunque una sottoarticolazione del problema); resta un punto
fermo l’adozione del fiorentino quale lingua naturale: «ciò vale anco-
ra a maggior ragione per la Commedia, nel senso di un’accettazione
piena e senza remore del linguaggio naturale» (Tavoni, 2011a, p. 335).
Varrà sempre la pena di richiamare a questo proposito il luogo famoso
dell’epistola XIII xxxi (chiunque ne sia l’autore), in cui si afferma che
lo stile della commedia (modus loquendi) è «remissus et humilis quia
locutio vulgaris», dove cioè dallo stile si passa alla lingua, e si legano
in un nodo inestricabile i due elementi (lo stile dimesso e umile e la
lingua volgare). Qui il concetto (e la definizione) di locutio vulgaris,
che stando al De vulgari eloquentia (I i 2) è la lingua naturale, quella
che i bambini imparano a usare spontaneamente, viene applicato alla
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dante
tini, 19762, pp. 21-31), volto a mostrare come i termini fondamentali del
sonetto – apparentemente così simili all’italiano di oggi – abbiano in
verità un valore diverso da quello corrente.
Come valutare, e se possibile conciliare, posizioni tanto diverse, in
cui – come è evidente – sono il ruolo e la “leggibilità” di Dante a essere
convocati in primo piano? Si impone un rigoroso senso della misura,
riconoscendo – con Maurizio Dardano (2012, pp. 6-15) – che certa-
mente le differenze ci sono, ma non sono tali da giustificare un giudi-
zio di radicale diversità fra la fase antica e la fase moderna della lingua,
il che vuol dire – in prima istanza – fra Dante e noi.
A più riprese e in più modi, Tullio De Mauro ha osservato che più
dell’80% (83,98) del lessico italiano fondamentale – le 2.000 parole a
maggiore frequenza – faceva già parte del patrimonio linguistico an-
tico, si era cioè costituito entro il Trecento (63,4% entro il Duecento,
20,58% nel Trecento: in altri termini, più del 60% appartiene già alla
lingua del tempo di Dante): osservando questo altissimo tasso di so-
pravvivenza delle parole dantesche, si converrà che «il presente del-
la nostra lingua e il suo futuro hanno dunque un cuore antico» (De
Mauro, 2016, p. 50).
Ulteriori declinazioni di questi dati fondamentali si possono otte-
nere restringendo l’osservazione alla Commedia (per dar conto della
sua rilevanza, si può ricordare che su circa 10.000 lemmi delle opere
volgari di Dante, incluse le parole grammaticali e i nomi propri, circa
4.000 sono attestati solo nel poema):
– il 15% del lessico dell’italiano contemporaneo è costituito da voca-
boli immessi nell’uso dalla Commedia (come ascoltare, imparare, succe-
dere, cigolare, stormire ecc.);
– molte parole già attestate nel Duecento (equivalenti al 56% del les-
sico contemporaneo nel suo insieme) sono state effettivamente immes-
se nell’uso solo da Dante.
È questo il passaggio che appare rilevante, dal momento che più
che la singola o sparuta attestazione conta l’affermazione e la diffusio-
ne di un termine, e la sua eventuale variazione semantica. Pensiamo
a una parola come bolgia (< fr. bolge, bouge ‘sacco’ < *bulgia), il cui
significato originario è quello di ‘borsa’, ‘sacco di cuoio’, sparsamente
attestata con questo valore nell’italiano antico, ma in realtà nota nel
senso traslato usato da Dante (che ha anche inventato il toponimo
Malebolge, If 18.1, sul modello di Malebranche, If 21.37, Malacoda, If
21.76), che è l’unico rimasto nell’italiano moderno, scivolando anzi
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13. il volgare di dante
13.3
Il senso di Dante per la lingua
Lo studio del volgare di Dante con gli strumenti che oggi abbiamo a
disposizione (in primo luogo il tlio e il Corpus ovi, il Corpus Avalle,
ma anche la liz e la bit, o la Lessicografia della Crusca in rete) ci per-
mette di misurare l’esperienza linguistica dantesca sullo sfondo della
tradizione italiana antica, di misurarne gli scarti e illuminarne le scelte
personali.
Prendendo spunto dai canti 21-22 dell’Inferno, si può affrontare un
punto centrale del discorso sulla lingua di Dante. Sono questi i can-
ti della «fossa quinta» dei barattieri, bolgia grottesca e diavolesca,
in cui tutto lo sviluppo narrativo è impostato in chiave apertamente
comico-elegiaca.
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dante
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13. il volgare di dante
lutazione per così dire verticale, che dal basso dell’Inferno procede in
maniera che si vuole consequenziale, lineare tutto sommato, verso il Pa-
radiso? Il passaggio dal tono comico dell’Inferno al tono medio del Pur-
gatorio e quindi a quello sublime del Paradiso c’è senz’altro, ed è eviden-
te ai lettori: ma come va definito riguardo alle categorie della lingua?
Credo che il punto nevralgico della questione stia nel riconosci-
mento di un’attenzione inesausta per il valore della parola, per la sua
scelta, sia che essa appartenga a un registro basso sia che essa sia di
un registro alto: un’attenzione per dir così “in orizzontale”, dove ciò
che conta è la selezione del linguaggio, l’attenzione ai meccanismi di
formazione – che corrispondono alle forze generali interne alla lingua
(da un prefisso o da una somma di prefissi, ad esempio, si formano
serie di parole) –, agli effetti di significato e di suono, alla compo-
sizione ritmica: ossia, un senso potentemente classico della parola e
della lingua, che già era stato avviato dalle scelte sintattiche e lessica-
li di Cavalcanti. Ricondurre la lingua a regola: questo insomma pare
fondamentale; inserire un materiale linguistico incandescente – e tale
perché in fase aurorale, perché nascente – dentro coordinate “di si-
stema” (le modalità di composizione delle parole; il ritmo fonico; il
metro), e proprio in questo sperimentare e portare ai limiti estremi le
potenzialità della lingua nuova, che già erano state largamente mes-
se a prova nella prosa magnifica del Convivio (proprio a cominciare
dall’intromissione di tanto lessico quotidiano e tecnico nella sostenu-
tissima sintassi di impronta latina). In questo senso si può vedere nel
Convivio una fortissima proiezione verso la Commedia, e cogliere il
valore della medesima operazione, che inserisce una realtà nuova (una
luce nuova/un sole nuovo) in una cornice che è solida perché consacra-
ta dalla tradizione classica.
Nella capacità di dare alla scrittura la vita della lingua naturale ri-
conducendola alla regola del sistema sta la libertà creativa di Dante.
La gabbia di una schematizzazione eccessiva degli stili e dei registri
– comoda magari a livello di semplificazione didattica – va infranta, al
pari di qualunque ghettizzazione della lingua di Dante (di cui Pietro
Bembo è stato uno dei primi responsabili), che rischia di spezzare la
sua profonda unità, che è unità nativa e sorgiva: ce lo insegna l’epistola
XIII, ce lo conferma la rivendicazione precisa della dimensione lingui-
stica, ossia il fatto che non più, non solo di stile si tratta (perché le con-
venzioni dei generi hanno da essere forzate), ma di lingua, che è quella
«in qua et muliercule comunicant». Il fiorentino di Dante è per dir
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13.4
La collocazione linguistica di Dante
Restituire Dante alla lingua del suo tempo significa restituirlo anche
alla sua varietà interna, persino alle sue non sanabili contraddizioni.
Si generano in questo modo le coordinate cartesiane della lingua
di Dante.
In primis, la variabile diacronica, legata alla collocazione temporale
di Dante fra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Tre-
cento: un periodo in cui Firenze si trova immersa in una situazione di
grande vivacità, dovuta a un complesso sommarsi di vicende storiche,
economiche, demografiche, culturali, letterarie, tutte caratterizzate da
un alto tasso di evoluzione. Questa dinamicità di fattori agisce anche
sul piano della lingua, in un dialogo multiforme e complesso fra la tenu-
ta degli elementi “arcaici” (che configurano il fiorentino duecentesco)
e la tensione dialettica con gli elementi dell’innovazione (la transizione
che si annuncia nell’ultimo quarto del secolo e si consolida poi – con
passaggi anche senza ritorno – all’inizio del successivo, formando il fio-
rentino trecentesco, classico). La vicenda temporale di Dante implica
all’immediato una proiezione all’indietro delle strutture del suo volga-
re, costituite negli anni dell’infanzia e della giovinezza, e dunque salda-
mente ancorate al Duecento; e la necessità di tenere sempre presente il
principio della variabilità, che è in primo luogo la dinamica interna al
sistema linguistico fiorentino fra tipo “arcaico” e tipo “antico”.
Ne deriva – anche metodologicamente – una diversa considerazio-
ne dell’arcaismo di Dante, da intendere non tanto come fatto retori-
co e stilistico, ma da rivendicare nella sua qualità intrinseca, come un
elemento costitutivo, strutturante, del suo volgare, per evidenti motivi
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13. il volgare di dante
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13. il volgare di dante
13.5
La Vita nuova
Nella Vita nuova, compiuta nel 1292-93 (o al più tardi nel 1294), riu-
tilizzando in parte materiali pre-esistenti, collegando e illustrando le
rime attraverso una prosa che è insieme narrazione e spiegazione, Dan-
te costruisce e dà prova del suo «dolce stile». Esso è la lingua della
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dante
poesia, il volgare nobile di una lirica raffinata propria di alcuni poeti del
secondo Duecento, di Firenze o prossimi a Firenze: Guido Cavalcanti,
Dante stesso, Cino da Pistoia, e pochi altri; e insieme, il volgare della
prosa che costituisce il tessuto connettivo della Vita nuova. Questa lin-
gua muove storicamente, per quanto attiene alle strutture grammaticali
fondamentali, dal volgare di Firenze; si tratta anzi di un monolingui-
smo fiorentino rigoroso, in marcata tendenza antiguittoniana (Frosini,
2016a), portato poi a un livello di elaborazione artistica e di raffinatezza
stilistica tale da riassumere in sé la tradizione, e da distinguersi dalla
lingua dell’uso quotidiano. Si definisce in questo modo un punto fon-
damentale nella storia della lingua letteraria, e in particolare di quella
della poesia lirica: si decantano i risultati delle esperienze poetiche pre-
cedenti (in primo luogo dei poeti della Magna Curia federiciana, già
letti attraverso il filtro toscanizzato, quindi di Guido Guinizzelli), si
fissa il fiorentino letterario, si costituisce un patrimonio destinato a sta-
bilizzarsi nella futura poesia italiana, giungendo a Petrarca e passando
attraverso la sua decisiva elaborazione.
La prosa della Vita nuova è in genere una prosa “dematerializzata”
quanto a indicazioni locali, ma offre spesso particolari realistici che
non hanno riscontro nella poesia: ad esempio nel cap. xxiii termini
concreti come corpo, faccia, testa figurano solo nella prosa, dove an-
che compaiono termini specifici del linguaggio scientifico: «farnetica
persona» ‘persona in preda al delirio’, e «grandissimi terremuoti». Il
linguaggio della poesia tende a una limitazione dei latinismi e a una
rigorosa scelta dei gallicismi e della componente della tradizione “sici-
liana”; già nel prosimetro giovanile si nota un’attenzione agli allotropi
(augelli si usa nella poesia, uccelli nella prosa) che si rivelerà con prodi-
giosa ricchezza nella Commedia.
Dal punto di vista delle strutture grammaticali, è notevole – come
già si è detto – il grado di “arcaismo” della lingua che è possibile ora
ricostruire attraverso un’analisi dettagliata dei testimoni manoscrit-
ti principali (il codice Chigiano l viii 305 [K], il codice Martelli 12
[M]). Si dà qui di seguito una rapida elencazione di questi tratti. La
morfologia verbale, in primo luogo, presenta tratti rilevanti, a comin-
ciare dalle desinenze -emo, -imo nella 1a persona pl. del presente indi-
cativo dei verbi della 2a e 3a classe: il tratto è notevole, perché -emo,
-imo sono le desinenze regolari a Firenze nel Duecento (e anche nella
Toscana occidentale, e poi a Siena e Arezzo, dove anzi resistono molto
a lungo); gli esiti dell’imperfetto iera, ierano, con dittongo regolare nel
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13. il volgare di dante
13.6
Il Convivio
Il Convivio si presenta come un grande prosimetro sapienziale, nato
con lo scopo di offrire, in una cornice unitaria e ragionata, con una
prosa «temperata e virile», il commento a grandi canzoni allegoriche
e dottrinali (Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, Amor che nella men-
te mi ragiona, che sarà intonata da Casella sulla spiaggia dell’Antipur-
gatorio [Pg 2.112-114], Le dolci rime d’amor ch’i’ solia); anch’esso – come
il De vulgari eloquentia – troppo presto interrotto, al capitolo xxx del
quarto libro (contro il progetto di quattordici trattati). L’opera, pensa-
ta come un’enciclopedia filosofica e strutturata secondo i principi della
tecnica universitaria, non ha raggiunto purtroppo il pubblico al quale
era stata destinata, quello degli uomini civilmente e politicamente im-
pegnati e perciò distratti dall’impegno dello studio, ai quali si intende-
va offrire «un generale convivio» di sapienza (I i 11).
Il trattato dantesco si alimenta alla tradizione scritturale e scienti-
fica, alla prosa classica, medievale e scolastica, nonché alla precedente
trattatistica fiorentina, sia originale sia tradotta, opera di autori quali
Bono Giamboni o Brunetto Latini. Veicolo di conoscenza della filoso-
fia – con una scelta autenticamente, potentemente rivoluzionaria – è
il volgare, il quale «sarà luce nuova, sole nuovo» (I xiii 12). Si affer-
ma con forza nel Convivio una verità che non sarà più abbandonata, e
che anzi troverà poi traduzione ancora più piena nella Commedia: che
il volgare può coprire tutte le esigenze espressive del latino, e che la
scrittura realizza tutte le potenzialità comunicative del volgare: «per
questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si
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vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e novissimi concetti con-
venevolemente, sufficientemente e aconciamente, quasi come per esso
latino [‘proprio come attraverso il latino’], manifestare» (I x 12).
Il rapporto col latino costituisce la qualifica dominante del Con-
vivio, ciò che alimenta la sua prosa e ne definisce la struttura retorica,
producendo una serie di acquisizioni che rimarranno determinanti
per il passaggio alla Commedia. Il lessico di origine latina – che ani-
ma e innerva il trattato – giunge da una molteplicità di fonti: le Sacre
Scritture, la trattatistica scientifica, i testi di filosofia. Dalla ricchezza
di questa tradizione provengono macula, abito nel senso di ‘costume,
abitudine’, essenza, forma, atto, materia, effetto, disposizione, sillogismo e
sillogizzare (questi ultimi di raro recupero nel Paradiso), idea (di cui il
Convivio offre la prima attestazione assoluta in lingua italiana). Tutto
il Convivio è fittamente costellato di latinismi, e questa scelta costitui-
sce un elemento fortissimo di unione con la Commedia. Ma accanto al
lessico dotto si trova un lessico ampio e variegato, anche assai realisti-
co, nel passo seguente: «acciò che questo tallo che detto è, per buona
consuetudine induri e rifermisi nella sua rettitudine, sì che possa frut-
tificare» (IV xxi 14), tallo convive con fruttificare, latinismo tecnico
esclusivo del Convivio. Si tratta di un lessico vivo, anche popolare e
quotidiano (si vedano palpastrello ‘pipistrello’, o gallina) con cui Dan-
te prende progressivamente confidenza – così come gli era accaduto
nella parte più realistica ed espressiva delle Rime – e che rappresenta
un precedente fondamentale per comprendere l’escursione linguistica
straordinaria della Commedia.
Il grande lascito della tradizione latina scritturale e della trattati-
stica scientifica alimenta anche la sintassi del Convivio, la struttura
che magistralmente sostiene il ragionamento filosofico, e ne traduce
in espressione la forza limpida e cristallina. Ricorrono perciò con fre-
quenza tutta una serie di moduli sintattici di ascendenza latina, qua-
li le proposizioni infinitive preposizionali, l’accusativo con l’infinito
(«E contra costoro Aristotile parla nel primo dell’Etica, dicendo quelli
essere insufficienti uditori della morale filosofia», IV xv 14), il par-
ticipio passato in funzione di proposizione implicita assoluta; molto
frequente è poi l’anticipazione delle subordinate, l’inserimento di pro-
posizioni incidentali, l’uso delle interrogative indirette, e soprattutto
è forte la tendenza alla simmetria (parallelismi, strutture ripetitive,
adozione di segnali di ripresa ecc.). In genere, la sintassi del Convivio
punta alla assoluta prevalenza della subordinazione, che costituisce la
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13. il volgare di dante
«Ma però che, dinanzi dall’aversario, se ragiona, lo rettorico dee molta caute-
la usare nel suo sermone, acciò che l’aversario quindi non prenda materia di
turbare la veritade; io, che al volto di tanti aversarii parlo in questo trattato,
non posso lievemente parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si
maravigli» (IV viii 10).
13.7
La lingua della Commedia
Il carattere fondamentalmente fiorentino della lingua della Commedia
(continuamente ribadito: If 10.22-27, If 16.8-9, If 22.99, If 23.76, 91-92,
«ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo» di If 33.11-12;
ecc.) si declina in primo luogo secondo la variabile diacronica di cui
già si è parlato (par. 13.2): il fiorentino della Commedia non è dunque
una lingua statica, ma una lingua in movimento, con una fisionomia
unitaria, seppure articolata ed evolutiva, secondo quel principio di spe-
rimentazione di tutte le risorse linguistiche disponibili che caratterizza
nel profondo il modo che Dante ha di trattare la parola e il discorso
(cfr. Frosini, 2015a, pp. 214-6).
La compresenza di elementi arcaici e di elementi più moderni è
uno degli aspetti della polimorfia del fiorentino impiegato nella Com-
media. Al tempo stesso, la libertà linguistica di Dante si esprime si-
gnificativamente nella ricchezza degli allotropi e nella variabilità dei
registri: l’uso dantesco è infatti estremamente ricco di varianti attinte
dalla tradizione o per via libresca, e largamente sfruttate per ragioni di
contenuto o di metro (Migliorini, 19785, p. 188). Il volgare fiorentino è
assunto nella sua estensione più ampia, che accanto alle forme elevate
e auliche accoglie voci dell’uso colloquiale e popolare, e infine basse e
261
dante
gergali, in stretto rapporto con la varietà dei temi, delle situazioni, dei
personaggi (Dante è sempre “il Dante della realtà”): è questo il più po-
tente precipitare delle potenzialità fino allora inespresse della lingua.
Un esempio minimo è la scansione di tre allotropi in relazione al
progredire stilistico delle tre cantiche: vecchio è Caronte (If 3.83), con
termine ordinario; un veglio solo è Catone (Pg 1.31), con più nobile gal-
licismo (dall’antico fr. vieil, prov. velh, vielhs); infine, Bernardo è un
sene (Pd 31.59), con aulico e solenne latinismo, usato due sole volte,
e sempre in riferimento a questo personaggio. I tre sinonimi vecchio/
veglio/sene realizzano una progressione di dignità linguistica che ac-
compagna perfettamente lo scandirsi delle tre cantiche, e sono segno
della continua ricerca di arricchimento e diversificazione del lessico.
Ciò che più colpisce è l’incrocio di queste varietà, la suprema li-
bertà con cui Dante usa la lingua: in Inferno 5 Francesca e Paolo sono
introdotti con una similitudine soave, che illumina la loro gentilezza:
«Quali colombe dal disio chiamate» (v. 82); in Purgatorio 25 si ado-
pera un preciso linguaggio tecnico-scientifico: Sangue perfetto (v. 37),
virtute informativa (v. 41), coagulando (v. 50), l’articular del cerebro (v.
69) ecc.; sono notevoli le intromissioni di termini realistici nel Para-
diso, come in 17.129 («e lascia pur grattar dov’è la rogna»), o 27.25-27
(«fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza; onde ’l
perverso / che cadde di qua su, là giù si placa»).
È straordinaria la capacità di Dante di integrare nel tessuto lingui-
stico forme diverse provenienti da altri volgari toscani, soprattutto
toscano-occidentali, settentrionali (dialettalismi evocativi, ossia pa-
role che evocano con perfetta volontà linguistica e stilistica luoghi e
ambienti: forme lucchesi come issa, Pg 24.55, lombarde come istra, If
27.21, bolognesi come sipa, If 18.61, sarde come donno ‘signore’, ‘perso-
na munita di poteri di governo’, più volte usata nell’Inferno), romanzi
(come in Pg 26.140-147): è l’eccezionale variabilità diatopica a cui già
si è accennato. Ci sono poi i termini latini, soprattutto nel Paradiso,
spesso latinismi di prima mano, inseriti e fusi nel fluire del discor-
so volgare; la capacità di creare termini nuovi, secondo una potente
prassi onomaturgica che si esercita in primo luogo sulle formazioni
verbali parasintetiche, così frequenti nella terza cantica (inluiare,
transumanare).
Si veda questo esempio, da cui emerge la totale naturalezza con la
quale Dante piega nell’endecasillabo italiano la struttura e il lessico
della lingua latina: in Pg 30.19-21 le parole latine inserite nel tessuto
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13. il volgare di dante
del volgare sono introdotte dalle citazioni dei vv. 11: «Veni, sponsa,
de Libano» (Cantico dei cantici 4, 8) e 17: «ad vocem tanti senis», e
numerosi latinismi (novissimo bando/alleluiando/basterna) marcano
la solennità del ritorno di Beatrice: «Tutti dicean: ‘Benedictus qui ve-
nis!’, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / ‘Manibus’, o, ‘date lilia
plenis!’». Questi versi sono anche un esempio mirabile di utilizzazio-
ne contestuale della latinità classica e di quella biblica, nel saldare la
citazione evangelica di Gv 12,13 e quella classica di Aen vi 883 (cfr.
Frosini, 2014-15).
Tutti questi elementi riconducono in ogni caso all’unica e unificante
struttura di fondo del volgare fiorentino, la cui fondamentale defini-
zione fonomorfologica non risulta nell’insieme alterata: un fiorentino
onnicomprensivo nella sua qualità complessiva, e proprio per ciò capa-
ce di assorbire e integrare elementi esterni. A questo quadro di solida
tenuta unitaria va ricondotto il discorso sugli elementi linguistici extra-
fiorentini rintracciabili nella Commedia: un discorso complesso, non
solo per l’apprezzamento dell’espressione dantesca, ma, come abbiamo
detto, per le ricadute filologiche sulla storia del testo e del suo passaggio
fra Nord e Centro Italia. Oltre ai dialettalismi evocativi che abbiamo
visto, scelti con marcata intenzionalità, c’è infatti indubbiamente nel
poema un plurilinguismo inerziale, ossia un lascito idiomatico non
fiorentino di dialettalità irriflessa, acquisito a causa dei numerosi spo-
stamenti di Dante, e forse anche per contiguità di alcuni elementi del
fiorentino con i volgari “di là dall’Appennino” (ad esempio, forme come
co ‘capo’, If 20.76, 21.64, Pg 3.128 ecc., o ca ‘casa’, If 15.54, che sono sì
settentrionali, ma possono essere rintracciate anche in aree toscane). Si
deve però andare ancora oltre, e accogliere l’idea (già espressa con chia-
rezza da Nencioni, 1989, p. 192) che ci siano innovazioni e acquisizioni
che entrano nel tessuto profondo, grammaticale della lingua di Dante.
Spiccano ad esempio, in primo luogo per la loro frequente collocazione
in rima, i casi di sicura eccezione fonomorfologica al fiorentino (Bal-
delli, 1994; Tomasin, 2013), per lo più desinenze verbali di tipo toscano-
occidentale: la 3a persona pl. del presente indicativo formata con la 3a
persona sing. + -no, come in enno di If 5.38 (non determinato da alcuna
necessità di misura del verso, appare un segnale linguistico-stilistico di
forte rilievo, attestato nella Toscana non centrale, ma anche nel Setten-
trione, e presente nella tradizione poetica), e Pd 13.97 in rima (in un
contesto di rime fortemente latineggianti e rare); ponno in If 21.10 (nel-
la similitudine dell’arzanà dei veneziani, in un testo ricco di elementi
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dante
Approfondimenti bibliografici
Lo studio della lingua volgare di Dante richiede la familiarità con gli strumen-
ti e i testi di base dell’italiano antico, fra cui si ricorderanno le raccolte dei Testi
fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Sansoni,
Firenze 1926 (rist. anast. 1954), dei Nuovi testi fiorentini del Dugento, a cura di
A. Castellani, Sansoni, Firenze 1952, e la Prosa italiana delle Origini. i. Testi
toscani di carattere pratico, a cura di A. Castellani, Pàtron, Bologna 1982. Lo
studio dell’italiano antico si arricchisce oggi delle risorse offerte dal tlio (Te-
soro della lingua italiana delle origini) e dal Corpus ovi (http://tlio.ovi.cnr.it;
http:/gattoweb.ovi.cnr.it), dell’Istituto del cnr Opera del Vocabolario Italia-
no, nonché dal Corpus Avalle relativo alla lirica duecentesca (http://clpweb.
ovi.cnr.it); sempre utili la liz (liz 4.0, Letteratura italiana Zanichelli, 2001)
e la bit (www.bibliotecaitaliana.it); indispensabile per ricerche nelle impres-
sioni del Vocabolario della Crusca è la Lessicografia della Crusca in rete (www.
lessicografia.it). È specificamente dedicato ai testi danteschi DanteSearch
(http://www.perunaenciclopediadantescadigitale.eu), ed è in preparazio-
ne presso l’Accademia della Crusca e l’ovi il Vocabolario Dantesco (www.
vocabolariodantesco.it).
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13. il volgare di dante
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