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GILLO DORFLES

INTRODUZIONE
AL DISEGNO
INDUSTRIALE

Linguaggio e storia della produzione di serie


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3

Indice

6 Introduzione

12 1. Breve premessa storica

16 2. Da William Morris alle Arts and Crafts

18 3. LʼArt Nouveau e i suoi rapporti con il disegno


industriale

21 4. Dal Bauhaus ai nostri giorni

25 5. Carattere iterativo e concetto di « standard »

29 6. Distinzione tra artigianato e disegno


industriale

33 7. Architettura industrializzata e design

36 8. Interferenze tra disegno industriale, pittura e


scultura

40 9. La grafica fa parte del design?

41 10. Teoria dellʼinformazione, complessità


funzionale e strutturale e « consumo » del diegno
industriale

45 11. Valori simbolici e semiotici del disegno


industriale
49 12. Aspetti positivi e negativi dello syling
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53 13. Interferenze tra styling, moda, e


ordinamento sociale

57 14. Il concetto di « fuori serie » e gli equivoci della


« piccola serie »

61 15. Valore pubblicitario e autopubblicitario del


design

63 16. Originalità, universalità e plagio

66 17. Importanza del fattore tecnologico

69 18. Il lavoro di équipe e le sue caratteristiche

71 19. Indagine di mercato e sistemi di vendita

74 20. Disegno industriale e mass media

78 21. Tentativo di una classificazione del disegno


industriale

83 22. Limiti dellʼazione del designer nella


progettazione

86 23. Lʼinsegnamento del disegno industriale

92 24. Ipotesi per lʼevoluzione futura del design

97 Appendice. Gli ultimi sviluppi del disegno


industriale nel mondo

108 Glossario
5

Introduzione
6

Ogni definizione rischia di risultare monca e imprecisa, tanto


più quando essa si riferisce ad un settore vasto e complesso
come quello che mi accingo a trattare: per questo preferisco non
dare nessuna definizione netta ed assiomatica del disegno
industriale1, lasciando che il lettore si venga formando da sé il
concetto più idoneo e più rispondente alla realtà dei fatti
attraverso la lettura dei paragrafi che seguiranno. Esistono,
tuttavia, alcuni capisaldi dai quali non si può prescindere
nell'iniziare uno studio di questo delicato settore ed è perciò
1 Un'impostazione teoretica del concetto di disegno industriale si può
riallacciare già ad alcune postulazioni estetiche rinvenibili in Kant e ancor prima
negli empiristi inglesi. Di solito si considera il concetto di bellezza funzionale
come antikantiano e più prossimo a quel naturalismo eclettico, proprio alla
filosofia del tardo Ottocento, appunto per il fatto che da questa veniva respinta
ogni distinzione kantiana tra bello e arte, bello e razionale; ma, a ben guardare,
già Kant, come è noto, critica la teoria del bello come perfezione e adatta alla sua
teoria l'idea d'una finalità, considerando tale finalità possibile anche senza la
rappresentazione d'un fine. Accanto alla bellezza pura (pulchritudo vaga) esiste
per il filosofo tedesco la bellezza aderente (adhaerens), ossia quella bellezza che
implica anche il fine a cui la cosa deve servire (ed è noto altresì come per Kant la
finalità venga posta come principio a priori della facoltà estetica). Tuttavia non è
solo la possibilità di assimilare tale finalità della cosa arti-, stica con la sua
funzionalità che ci deve colpire, quanto il fatto che il concetto stesso di
appropriatezza (la «fitness» degli empiristi) si identifichi per lui con la
perfezione dell'oggetto artistico (ed è noto che, per Kant, nel grande settore della
pittura rientrano di pieno diritto anche le arti decorative, i mobili, l'arredamento:
elementi, dunque, in cui il concetto del fine a cui debbono servire, ossia quello
che chiamiamo funzionalità, prevale).
Proprio negli empiristi, e specialmente in Addison e in Burke, è già presente
una visione dell'oggetto artistico che potremo a ragione definire come
funzionalista. Dice, ad esempio, Burke (Ricerca sull'origine del sublime e del
bello): «Quando esaminiamo la struttura d'un orologio e riusciamo a conoscere
l'uso di ogni parte di esso, soddisfatti come siamo della convenienza dell'oggetto
completo, siamo lontani dal trovare nell'orologio stesso alcunché di bello... nella
bellezza... l'effetto precede ogni conoscenza dell'uso; ma per giudicare della
proporzione dobbiamo conoscere lo scopo a cui un oggetto è destinato». È
evidente in questa citazione la distinzione ancora posta da Burke tra bellezza e
convenienza da un lato e d'altro lato tra proporzione (come elemento di bellezza)
e conoscenza dell'uso, e tuttavia si intravvede già in queste righe una prima
avvisaglia di quella lunga discussione mirante ad identificare, contrapporre o
subordinare l’utile al bello, integrandone i due concetti in quello di funzione.
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che vorrei, sin dall'inizio, porre alcune fondamentali


precisazioni che mi consentano di sbarazzare il terreno da
pericolosi equivoci che si son venuti man mano addensando
in questo campo, per la presenza di fattori ad un tempo
estetici e tecnici, che interferiscono tra di loro senza mai
raggiungere un vero punto di equilibrio.
Sarebbe erroneo, innanzitutto, ritenere che il disegno
industriale sia un settore esistito da sempre: quello cioè
dell'oggetto utilitario. È un primo equivoco che va chiarito, e
vedremo meglio, nel paragrafo dedicato ai rapporti tra
disegno industriale ed artigianato, perché non si debba
considerare l'oggetto artigianale come un « analogon» di
quello industriale. Una delle prime condizioni necessarie per
considerare un elemento come rientrante nel settore che ci
accingiamo ad esaminare è che esso sia prodotto attraverso
mezzi industriali e meccanici, ossia mediante l'intervento —
non solo fortuito, occasionale o parziale — ma esclusivo
della macchina. Da questa prima condizione derivano
immediatamente altri corollari, come quello della ripetibilità,
dell'iterazione, del prodotto; requisito che non era mai stato
pre-visto prima dell'avvento della macchina. E, finalmente,
come ulteriore premessa, dobbiamo considerare quella della
maggiore o minore — ma comunque sempre presente —
«esteticità» del prodotto; esteticità sui cui valori ovviamente
sarà arduo intendersi (come è del resto arduo intendersi a
proposito d'ogni opera d'arte che sia ancora sub judice), ma
che dovremo ipotizzare come momento essenziale —
almeno intenzionalmente — d'ogni opera del design. Non
ogni prodotto dovuto alla macchina — s'intende — è di per
sé artistico; per cui si dovranno considerare come
appartenenti al settore del disegno industriale solo quelli che
saranno stati, sin dalla fase di progettazione, ideati con tale
intento; mentre d'altro lato si avranno numerosi casi di
oggetti e di elementi industrialmente prodotti, che
risulteranno provvisti di qualità espressive ed estetiche
senza che tali qualità fossero menomamente previste all'atto
della loro progettazione.
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Anche se, da parte di molti studiosi e teorici recenti, si


tende a svalutare il lato artistico del disegno industriale e a
considerare questo aspetto del tutto secondario, io ritengo
che questa posizione di « rifiuto estetico» — o, se vogliamo,
di puritanesimo antiedonistico — sia dovuta soprattutto al
fatto di non aver ancora compreso come il concetto stesso di
« arte » sia venuto mutandosi negli ultimi decenni, per cui
non si dovrà piú considerare come artistico soltanto il
prodotto delle « arti belle»: pittura, scultura, architettura, ma
anche molti degli oggetti, degli strumentari, di cui la attuale
civiltà tecnologica si vale nelle sue diverse manifestazioni. Si
tratta, cioè, di constatare la presenza in ogni opera umana di
una vis formativa, implicita nella stessa natura del materiale
— del medium espressivo — ogni qual volta esso sia usato
secondo quelle leggi compositive che gli si confanno, e che
ha dato spesso origine al presentar-si di elementi altamente
artistici all'insaputa degli stessi artefici. Nel nostro caso come
vedremo è accaduto che, proprio alcune delle prime
costruzioni tecnologiche del secolo scorso (i primi grandi
ponti sospesi in metallo, alcuni edifici ingegnereschi come i
docks di certi porti inglesi [Liverpool], alcune fabbriche,
altiforni, alcune primitive macchine a vapore, ecc.)
rivelassero per la prima volta certe costanti formali, che
dovevano costituire le matrici di tutto quanto un nuovo
«stile» architettonico e costruttivo, all'insaputa dei loro stessi
ideatori.

Potremo perciò riassumere le nostre premesse


affermando che, mentre già in passato esistevano prodotti
creati manualmente o solo parzialmente con interventi
meccanici (ceramica, vetro), destinati a scopi pratici e
utilitari, e provvisti di qualità estetiche (utensili, armi, arnesi
preistorici, suppellettili, ecc.), e altresì numerosi elementi
modulari, parzialmente e anche totalmente standardizzati,
soltanto ai nostri giorni — ossia dopo l'avvento della
rivoluzione industriale — si è data la produzione di oggetti, di
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sagome, di modelli, in grado di essere ti-prodotti in serie, e


tali da adempiere, oltre che ad una funzione pratica-utilitaria,
anche ad una estetica. Del resto lo stesso quoziente utilitario
e «funzionale» non è del tutto indispensabile quale
componente essenziale del di-segno industriale. (Ed è, anzi,
questo, uno dei piú frequenti abbagli di chi ancora ritiene
necessaria la presenza d'una componente «funzionale» alla
base dell'oggetto industrialmente prodotto). In effetti: si può
concepire l'esistenza e, si dà, l'esistenza di oggetti «inutili»:
soprammobili, oggetti «decorativi», e anche oggetti di «arte
pura » (che rientrano nella categoria della cosìddetta «arte
programmata »), eseguiti in serie mediante l'esclusivo
intervento della macchina e che sono quindi, a buon diritto,
da considerarsi come facenti parte della categoria che
stiamo esaminando. Per cui potremo concludere che, ciò
che si richiede, per poter considerare un oggetto come
appartenente al disegno industriale è: 1) la sua seriabilità; 2)
la sua produzione meccanica; 3 ) la presenza in esso di un
quoziente estetico, dovuto alla iniziale progettazione e non
ad un successivo intervento manuale. Ecco, perché non è
lecito discorrere di disegno industriale a proposito di oggetti
appartenuti a età precedenti la rivoluzione industriale; e tanto
meno a proposito di quelli (utensili, mobili, attrezzi) risalenti
all'antichità e addirittura alla preistoria. Se il quesito del
binomio bello-utile (dell'esteticità delle forme utili), rientra di
pieno diritto nel nostro discorso, come quello dei rapporti tra
funzione e forma, ciò non toglie che tale quesito esuli dal
nostro orizzonte, quando esso si riferisce ad opere create a
mano, senza possibilità di replica esatta, e senza l'intervento
della macchina.

Per questa ragione alcuni studi (come, ad esempio


l'antico e classico volume “Arte e Industria” di Herbert Read
«come l'ampio saggio di Lindinger sulla Designgeschichte)
peccano nel loro rifarsi a delle pretese origini storiche del
disegno industriale, risalendo all'utensile, al vaso, alla coppa
dell'antichità, per il solo fatto che tali oggetti ave-'vano un
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fine utilitario oltre che estetico. t per questa ragione che nel
tracciare una brevissima cronistoria del disegno industriale
prenderò l'avvio sol-tanto dagli albori dell'« era neotecnica»,
dopo l'avvento della prima rivoluzione industriale,
trascurando ogni riferimento alle forme «utili » precedenti
quest'epoca.

Un'ultima osservazione — prima di dare inizio alla


trattazione dei diversi problemi che interessano l'oggetto
prodotto industrialmente —, riguardo alla particolare
latitudine del campo d'azione del disegno. Come avrò agio di
precisare meglio nel paragrafo dedicato alla classificazione
degli oggetti di spettanza del disegno industriale, il nostro
settore si estende oggi alla quasi totalità degli elementi che
costituiscono i punti di riferimento della nostra esistenza
quotidiana ed è anche questo un fatto di primaria importanza
di cui non tutti realizzano la portata.
Noi siamo avvolti, ad ogni istante della nostra giornata
lavorativa e ricreativa, da una marea di oggetti prodotti
industrialmente, in serie, e con o meno palesi intendimenti
estetici: dall'orologio che portiamo al polso, alla penna «biro
», dagli occhiali alle forbici, dall'automobile alla carrozza
ferroviaria, dallo scooter al jet. Tanto la vita casalinga (con i
diversi elettrodomestici), che quella d'ufficio (con le
macchine da scrivere, le calcolatrici), che quella sportiva
(con gli sci, le mazze da golf), che quella bellica (con le armi,
i missili, le navi da guerra), sono assiepate da produzioni alla
cui base esiste sempre un momento progettativo, di
creazione disegnativa, e un momento iterativo di produzione
meccanizzata e seriale.
Non deve dunque far specie se il nostro odierno orizzonte
visuale è così fortemente influenzato dalla presenza di
questa ingente quantità di elementi industrialmente prodotti, i
quali — attraverso la loro forma, il loro colore, la loro
tessitura — sono in grado d'influenzare — positivamente e
negativamente — le nostre facoltà percettive e quindi anche
le nostre tendenze creative e ideative. Potremo anzi
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affermare che proprio a tali elementi si deve, e si dovrà


ancor più in futuro, il particolare indirizzo che potrà assumere
il gusto dell'uomo e il suo atteggiamento verso le forme —
utili e inutili — dell'ambiente entro il quale si svolge la sua
esistenza.
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1.
Breve premessa storica

Come ho spesso avuto occasione di osservare, dobbiamo


far coincidere l'inizio del disegno industriale con l'avvento
della macchina nella produzione di oggetti progettati
dall'uomo. Non è possibile discorrere di disegno industriale
riferendosi ad epoche precedenti la rivoluzione industriale,
anche se sin dall'antichità si sono dati alcuni oggetti eseguiti
in serie e con il parziale intervento di :macchinari primitivi
come il tornio, il trapano, la ruota ' dei vasai e le presse a
mano delle fornaci di laterizi. dunque agli albori del secolo
scorso che dobbiamo porre l'inizio dei primi oggetti
industrialmente prodotti su disegno appositamente studiato
per una produzione di serie. In quei primissimi oggetti —
tanto nei mobili e nelle suppellettili che in alcuni elementi
delle costruzioni edili (colonne di ghisa, ponti metallici) o nei
primi mezzi di locomozione (macchine a vapore, bastimenti a
ruote) si vede quasi sempre perpetuato l'errato concetto di
mascherare le caratteristiche funzionali dell'oggetto
mediante sovrapposizioni ornamentali che si rifanno al gusto
dominante nell'epoca. In altri termini, non si era ancora giunti
a concepire il prodotto sfornato dalla macchina come capace
di possedere una sua « esteticità» derivata dall'incontro della
funzionalità con la forma, senza aggiunta d'un fattore
decorativo ad essa sovrapposto. Poichè il primo affermarsi
della rivoluzione industriale si ebbe nel campo della
lavorazione della ghisa, i primi conoscimenti dell'importanza
dei nuovi metodi di lavorazione si ebbero nel settore
dell'ingegneria. Gli ingegneri, difatti, furono i primi ad
avvertire le possibilità estetiche, oltreché tecniche, dei nuovi
sistemi di produzione, valendosi di elementi industrialmente
prodotti per la realizzazione di opere le più svariate. Le più
antiche di esse risalgono all'ultimo quarto del secolo XVIII;
dato che il primo ponte in ferro ad una solo arcata - il Severn
Bridge - fu costruito in Inghilterra tra il 1775 e il 1779 mentre
la Royal Opera Arcade a Londra è del 1790. Ma la più ampia
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fioritura di opere ingegneresche si ebbe lungo tutto il secolo


XIX ; secolo che vide il sorgere di costruzioni quali il
Padiglione reale di Brighton di John Nash (1818-21), le serre
del Jardin des Plantes di Rouhault a Parigi (1833), e, sempre
a Parigi, la Bibliothèque Sainte Geneviève (1843-50) e la
Bibliothèque Nationale di Henri Labrouste, les Halles
Centrales (1849-53), nonché un buon numero di stazioni e
altri edifici industriali, magazzini e ponti, tutti, a struttura
interamente metallica. Sullo scorcio del secolo spiccano due
importantissimi esempi di costruzioni a carattere provvisorio
e cioè: Les Halles des Machines (Contamin), in occasione
dell'esposizione universale dell'89 e la Torre Eiffel (Eiffel
aveva già costruito precedentemente il Douro Bridge nel
1875 e il Garabit Viaduct nel 1879) destinata fortunatamente
a sopravvivere all'esposizione per cui era stata ideata.
Come ho già detto in quasi tutte queste costruzioni
ingegneresche si perpetua l'equivoco di usare i nuovi
materiali sotto forme e ornamentazioni che li fanno
apparentare ai materiali che essi vengono sostituendo
(pietra, legno, ecc.). Un primo esempio di emancipazione
dalle formule linguistiche preesistenti lo si riscontra
nell'estremo assottigliarsi del fusto delle colonne portanti,
realizzate in ghisa, pur conservando esse tutti i loro
tradizionali elementi compositivi. Anche in altri settori
produttivi - come in quello della ceramica e della lavorazione
in serie dei mobili (Thomas Chippendale e Thomas
Sherraton [1718-79, 1751-1806], Joshiah Wedgwood
[1730-95]), - si verifica un analogo fenomeno del perpetuarsi
di schemi stilistici del passato, pur nel tentativo di immettere
nella produzione nuovi sistemi di lavorazione a carattere
ormai nettamente industrializzato.
Nel caso di Wedgwood è significativo il fatto che la sua
competenza e intuitiva modernità nel campo tecnico e
organizzativo non si accompagnasse ad un'equivalente
aggiornatezza nel campo estetico; infatti - soprattutto dopo la
sua associazione con Thomas Bentley (1768) -egli prese a
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rivestire i suoi prodotti ceramici di motivi ornamentali desunti


dall'antichità classica e rinascimentale.
Tuttavia un graduale abbandono dei moduli architettonici
e decorativi che venivano di giorno in giorno perdendo ogni
giustificazione era inevitabile; e, se punti di vista come quelli
espressi da Labrouste nelle sue annotazioni (Souvenirs
d'Henri Labrouste, Paris 1928): «insisto sul fatto che in
architettura la forma deve essere sempre appropriata alla
funzione» erano ancora rari in Europa attorno alla metà del
secolo, in America, invece, erano ben più frequenti forse in
merito al più rapido sviluppo tecnologico di quel paese.
L'impiego di elementi industrialmente prefabbricati
nell'edilizia è qui molto più diffuso che in Europa, già sin
dalla prima metà del secolo. Di essi si valsero architetti come
Alexander Parris (1825) nel disegnare il progetto per il
mercato di Boston e molti altri costruttori di grandi magazzini,
palazzi per uffici, negozi, ecc. La più tipica di queste
costruzioni, è forse l'edificio costruito da James Bogardus nel
1854 per Harpers & Brothers valendosi esclusivamente
d'una intelaiatura metallica e di vetrate continue. A questo
indirizzo si uniformarono, avallandolo con le loro esperienze,
altri architetti come Henry Richardson (Magazzini Field a
Chicago 1885-87) e i componenti della Scuola di Chicago:
William Le Baron Jenney, Holabird, Burnham, John Root,
nonché il grande Sullivan, maestro, come è noto, di F. Lloyd
Wright.
Un'analoga praticità e chiarezza di quella usata
nell'architettura stava alla base della miglior produzione
americana di oggetti di serie,, come resultò dalle impressioni
suscitate dai prodotti americani presentati alla Esposizione di
Londra del 1851, di cui Lothar Bucher (Kulturhistorische
Skizzen aus der Industrieaustellung aller Völker, 1851) ebbe
a dire: «Tutto quanto vediamo dell'arredamento domestico
americano respira spirito di confort e adattamento allo
scopo».
Così, mentre in America già prima di giungere alla
formulazione teorica dei problemi riguardanti il compito del
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disegno nell'industria, tali problemi ' avevano ottenuto una


loro prima soluzione pratica, in Europa, ci si stava appena
accostando alla determinazione ideologica degli stessi
attraverso mal poste e confuse discussioni.
Un primissimo riconoscimento - sia pur basato su
postulati assolutamente non accettabili - dell'importanza del
quoziente estetico nei prodotti dell'industria si ebbe nel
discorso pronunciato da Sir Robert Peele (grande uomo di
stato e grande industriale dell'epoca) ai Comuni nell'aprile
del 1832 per appoggiare la proposta dell'erezione d'una
galleria nazionale d'arte (cioè la National Gallery, di Londra).
Egli affermò tra l'altro (come ci riferisce Herbert Read nel
suo volume) che era precipuo interesse dei manifatturieri
inglesi incoraggiare nel paese lo studio e la dimestichezza
con le arti belle dato che la produzione inglese, tanto
superiore a quella straniera dal punto di vista tecnico, si
trovava in condizioni di netta inferiorità per quanto
riguardava la bontà del pictorial design. In seguito a questo
discorso - dove tra l'altro si raccomandava di prender
esempio da quanto si faceva in Francia con l'Ecole des
Beaux Arts di Lione - vennero aperte scuole, esposizioni, e si
istituì un comitato che promovesse l'auspicato connubio tra
arte e industria. Eppure il fattore artistico veniva tenuto in
considerazione come qualcosa di distinto da| processo di
produzione meccanica e come qualcosa che si doveva
«applicare dal di fuori» all'oggetto industrialmente prodotto.
Concetto codesto, come abbiamo spesso affermato, del tutto
controproducente ed errato.
16

2.
Da William Morris alle Arts and Crafts

Uno dei primi a voler reintrodurre l'elemento estetico nel


campo della produzione di serie fu certamente William
Morris (1834-95) uno degli animatori del movimento inglese
delle Arts and Crafts, ma la cui posizione rispetto
all'intervento della macchina nell'operare artistico e
artigianale fu del tutto negativa. Per Morris una delle più alte
qualità dell'uomo consisteva appunto nella sua capacità di
fabbricare manualmente e senza far ricorso all'intervento
meccanico. Tutto quanto egli produsse personalmente e
tutto quanto egli fece per promuovere la comprensione
d'ogni forma d'arte, per richiamare in vita vecchi
procedimenti di lavorazione artigianale o elaborarne dei
nuovi, fu il frutto di questa sua profonda convinzione. E se ne
possono constatare i risultati per esempio nella Casa Rossa
che egli si fece costruire da Philip Webb nel 1859 e di cui
curò personalmente ogni particolare dell'arredamento, dalle
tappezzerie alle stoffe, dai tappeti ai vetri e ai mobili. Principi
analoghi furono da lui rivendicati nel laboratorio d'arte
applicata (Morris, Marshal, Faulkner and Co.) e persino nella
piccola casa editrice (Kelmscott Press) che estendeva i suoi
interessi anche al campo della legatoria d'arte. In questo
modo veniva riconosciuta ogni importanza educativa
all'attività artigianale mentre la si negava a quella
meccanizzata. Tuttavia i suoi continui sforzi per una
chiarificazione del rapporto tra materiale, metodo produttivo
e forma e per un'emancipazione dell'artigianato dalla
schiavitù dai moduli derivati da stili preesistenti dovevano in
definitiva risultare positivi anche per la successiva
impostazione estetica del prodotto industriale, svincolandolo
totalmente dai ricordi stilistici del passato. L'efficacia di tali
principi fu del resto evidente nella ripresa dell'artigianato
inglese di cui si ebbe tosto una tangibile prova
nell'esposizione delle Arts and Crafts (nome con cui si
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designò la produzione artigianale inglese dopo il 1860)


tenuta alla New Gallery di Londra nel 1880.
La parte più vitale del suo insegnamento fu raccolta e
sviluppata da alcuni suoi discepoli (come Walter Grane, W.
R. Lethaby, John Sedding, Lewis Day, Charles Robert
Ashbee), i quali dovevano in seguito affrancarlo da quei
pregiudizi antimeccanicistici che ne avevano intralciato
l'applicazione in un senso giusto e consono ai tempi. Basti
citare a questo proposito quanto Lewis Day ebbe a scrivere
attorno al 1882 (in «Everyday Art»): «ci piaccia o no, la
macchina, la forza motrice e l'elettricità avranno qualcosa da
dire nell'arte ornamentale del futuro».
Alcuni dei principi morissiani - in cui più efficacemente
traspaiono le teorie estetiche derivate da John Ruskin
(1819-1900) e da altri autori e artisti preraffaelliti -ispirarono
movimenti e personalità anche fuori dall'Isola. Tra queste
una certamente delle più significative per i suoi influssi sul
disegno industriale dell'epoca è quella di Henry Van de Velde
(1863-1956) massimo esponente dell'Art Nouveau.
18

3.
L'Art Nouveau e i suoi rapporti con il disegno
industriale

Il nuovo indirizzo architettonico e artistico di tal nome


ebbe come luogo di nascita Bruxelles e da li poi si diffuse nel
resto d'Europa quasi contemporaneamente all'affermarsi in
altri paesi di movimenti analoghi come lo Jugendstil in
Germania, la Secessione in Austria, il Liberty in Italia, il
Modernismo in Catalogna.
Esso ebbe il grandissimo merito di proporre alla creazione
architettonica e disegnativa moduli e decorazioni che
astraevano completamente da ogni ricordo stilistico
precedente, ispirandosi ad elementi naturalistici (specie
floreali) e a motivi dove era possibile avvertire influssi
estremorientali.
Questo vagheggiare il mondo della natura nelle
decorazioni dell'Art Nouveau ne rivelano l'affinità con le già
considerate impostazioni dei movimenti morissiani e
preraffaelliti cui si conforma anche nel senso d'una più intima
aderenza tra struttura e decorazione. Dalle posizioni
morissiane e ruskiniane questo movimento si discostava
invece in quanto accettava incondizionatamente l'intervento
della macchina. «Il gioco potente delle loro braccia di ferro -
come scrive Van de Velde nei suoi Kunstgewerbliche
Laienspredikten, 1901 - creerà la bellezza, purché la
bellezza le guidi». L'architetto belga può dunque essere
considerato come il più illuminato esponente del «nuovo
stile». Alla sua iniziale attività di pittore, sostituì quella di
cultore delle arti applicate e di architettura, ponendosi a
disegnare mobili, stoffe, tappezzerie; e attraverso tale attività
ebbe un successo clamoroso in Fran-' eia quando venne
chiamato nel '93 da S. Bing, mercante d'arte parigino, ad
arredargli il negozio, che prese per l'appunto il suo nome
dall'Art Nouveau. Lo scalpore creato attorno al negozio di
Bing in quell'occasione diede origine al sorgere anche in
Francia di uri analogo movimento (lo stile Galle), cui
19

aderirono mobilieri, ceramisti, industriali e artisti come Galle


e Guimard (il creatore delle famose inferriate del Metrò
parigino) che accentuarono ancora il fantasioso
decorativismo degli architetti belgi Van de Velde e Horta.
Correnti analoghe all'Art Nouveau - come dissi - sorsero
in Austria (dove J. Hoffmann [1870-1956] fondò nel 1903 con
K. Moser le Wiener Werkstaetten) e in Germania dove venne
dato notevole sviluppo alla creazione di mobili, oggetti per la
casa, suppellettili. Mentre in Gran Bretagna l'opera di Morris
e delle Arts and Crafts veniva continuata e perfezionata dalla
scuola scozzese di Mackintosh (1869-1928) e di Mackmurdo
(1851-1942). Un importante nesso tra i fermenti artistici
anglosassoni e quelli germanici doveva poi essere realizzato
da Hermann Muthesius (1871-1927), il quale - come addetto
all'ambasciata tedesca a Londra - ebbe modo di studiare i
problemi dell'industrializzazione del prodotto artigiano in quel
paese e, tornato in patria, auspicò l'avvento d'un nuovo
«Maschinenstil» che trovò poi nelle Deutsche Werkstaetten
(a partire dal 1907) la sua prima realizzazione.
È solo di recente che si è reso giustizia all'importanza dei
movimenti dell'Art Nouveau nel promuovere l'avvento d'una
forma d'arte già decisamente industrializzata, ma al tempo
stesso provvista d'una nuova originalità stilistica; e questo
perché, sino a non molti anni or sono, si continuò a
considerare l'Art Nouveau come una corrente opposta e
nemica di quella «razionalista». In realtà le due correnti, in
apparenza distinte ed avverse, ebbero entrambe la funzione
di promuovere l'utilizzazione della macchina nella creazione
sia architettonica che delle « arti applicate», con la differenza
che il razionalismo volle fare tabula rasa d'ogni motivo
decorativo e ornamentale alla ricerca d'una assoluta purezza
costruttiva e d'una assoluta funzionalità. Alle tendenze più
spiccatamente razionaliste parteciparono sin dalla prima
decade del secolo alcune importanti personalità come
Berlage in Olanda, Adolf Loos in Austria, Tony Garnier e
Auguste Perret in Francia e Behrens in Germania. E, anzi,
bisogna riconoscere proprio a Behrens (divenuto nel 1909
20

consulente dell'AEG di cui aveva costruito la fabbrica a


Berlino) il merito - o la fortuna - di essere stato forse il primo
caso di «consulente artistico» - di designer dunque -
chiamato direttamente da un'industria col fine di curarne ad
un tempo la organizzazione tecnica ed artistica. È perciò a
Behrens, nella sua successiva veste di direttore
dell'accademia d'arte di Dusseldorf, come a Van de Velde, in
quella di direttore della scuola di Weimar, che spetta il
massimo riconoscimento quali pionieri di un metodo didattico
volto a riconoscere il peso che il disegno industriale doveva
assumere nel settore tecnico e artistico della produzione di
serie.
21

4.
Dal Bauhaus ai nostri giorni

È, con il 1920 che ha inizio uno dei periodi più decisivi


nella storia del disegno industriale. Infatti in quell'anno
Gropius (che già un anno prima era stato chiamato da Van
de Velde alla direzione del Bauhaus) inizia la sua attività
presso quella scuola. L'importanza del Bauhaus non ha più
bisogno di essere sottolineata, ne vanno però ridimensionati
gli apporti ed è di questi ultimi anni un fiorire di studi che
mirano a dare il giusto peso alle iniziative di Gropius e dei
suoi collaboratori. Dal 1920 al 1925 il Bauhaus continuò la
sua attività a Weimar, in seguito a partire dal 1925, e sino al
1928, si trasferì a Dessau, sempre diretto da Gropius che, in
quell'anno, per il sopraggiungere della incresciosa situazione
politica dovuta al nazismo incalzante, abbandonò la
Germania e lasciò la direzione della scuola a Hannes Mayer.
Alla scuola collaborarono alcune delle personalità artistiche
più rilevanti dell'epoca come Klee, Kandinskij, Feininger,
Moholy-Nagy, Mies van der Rohe, Albers, Vordemberge-
Gildewart, e gli allora giovanissimi Max Bill, Gyorgy Kepes, e
Breuer. È sin troppo facile rivolgere oggi degli appunti ai
metodi didattici del Bauhaus e tentare di limitarne la portata
dell'insegnamento. In effetti è noto che una certa quale
«artigianalità» dell'insegnamento aveva ancora la prevalenza
sui metodi decisamente scientifici che in seguito dovevano
essere adottati; ma non bisogna dimenticare l'epoca in cui la
scuola si era venuta formando e la sua derivazione da quella
che era ancora una visione «estetizzante» dell'oggetto
industriale e dell'architettura. Rimane comunque il fatto che
senza il Bauhaus difficilmente si sarebbe sviluppata così
rapidamente una chiara coscienza dei nuovi requisiti
necessari all'evoluzione architettonica e disegnativa
moderna. Anche per quanto si riferisce all'impostazione
sociologica data da Gropius al suo insegnamento e che,
attualmente, dovremmo considerare alquanto utopistica, è
importante segnalare come essa costituisse una prima
22

rottura con degli schemi sociali ottocenteschi del tutto


arretrati. Gropius, infatti, mirava a creare un'arte capace di
raggiungere col minimo costo il più alto livello artistico e
mirava a creare degli oggetti che fossero destinati a tutte le
categorie sociali e che non fossero riservati a sparute élites;
non solo ma credeva che, abbinando l'insegnamento
artigianale con quello industriale e artistico, si potesse creare
quell'artista completo capace di dominare tutti quanti" i
settori della produzione. Oggi sappiamo che un cosìffatto
ideale «umanistico» è pressocché impensabile, sappiamo
che sono necessarie altre basi - di carattere scientifico,
linguistico, psicologico, filosofico - per permettere una chiara
visione del problema; ma comunque non possiamo
misconoscere l'efficacia dell'insegnamento di Gropius, non
solo in Europa ma anche negli Stati Uniti dove il suo apporto
doveva risultare decisivo.
Alcune realizzazioni del Bauhaus rimangono perciò quali
tappe fondamentali del disegno industriale, e mi limito a
citare i famosi mobili in tubo d'acciaio di Breuer (dove sedile,
schienale e braccioli erano costituiti da elementi di tessuto
tesi sull'intelaiatura metallica), le seggiole metalliche di Mies,
tra le quali la Barcellona, costruita nel 1928 per la fiera
omonima, doveva avere una lunghissima vita giacché la sua
produzione di serie (sia pur di serie limitata e ad alto costo)
doveva ancora prolungarsi sino ai nostri giorni.
Anche nel caso dei mobili di Breuer si verificava una
condizione analoga a quella della Barcellona. Essi venivano
riproposti di recente (1962) e rilanciati sul mercato, sia pur
con risultati alquanto incerti, a dimostrare comunque una
notevole durevolezza del disegno. Altri prodotti notissimi del
Bauhaus furono la maniglia in nichel di Gropius e la sua
automobile Adler (1932) e ancora lampade da tavolo,
diffusori di luce, ceramiche.
Attorno alla stessa epoca anche in Olanda, come è noto,
si andavano svolgendo importanti ricerche nel settore della
progettazione industriale, e vorrei rammentare alcuni mobili
tipici come quelli di Rietveld (la sua seggio: la del 1917) che,
23

seppur ancor in parte di carattere artigianale, sono


interessanti perché dimostrano il completo abbandono di
quei compiacimenti decorativi che ancora erano presenti in
molti oggetti, mobili, e suppellettili.
Con l'abbandono, da parte di Gropius, di Mies, di Breuer,
di Mendelsohn e di quasi tutti i migliori architetti e grafici,
della Germania all'avvento del nazismo, quel paese doveva
cessare di costituire un centro di attiva ricerca e di altrettanto
attiva produzione per l'arte moderna (dimostrazione ovvia -
se ce ne fosse bisogno - di quanto le tirannie politiche
possano influenzare il settore della cultura e dell'arte); ma, in
un certo senso, l'avvento del nazismo fu «salutare» proprio
per l'immenso contraccolpo che ne doveva risultare al
continente transatlantico. Infatti gli Stati Uniti che, attorno
agli anni trenta erano ancorati ad un'estetica del prodotto
quanto mai edonistica e priva di purezza stilistica, dovevano
ricevere un apporto formidabile dal trasferimento sul loro
suolo di molti artisti europei fuggiaschi dal nazismo e dal
fascismo. Fu così che a Chicago si venne istituendo
lʼInstitute of Design (guidato in un primo tempo da Moholy-
Nagy e in seguito da Jay Doblin a partire dal 1955), che fu,
soprattutto nei primi tempi, quasi una continuazione dei
metodi bauhausiani. Anche in altri istituti già esistenti come
I'IIT di Chicago (dove per lunghi anni insegnò Mies) e il mit di
Cambridge (Mass.), l'università di Harvard e quella di Yale, e
alcuni istituti della California, si trasferirono parecchi dei più
giovani allievi del Bauhaus portando ovunque nuove idee e
nuovi metodi didattici. Tra i più impegnati ricorderò qui
Gyorgy Kepes (professore al MIT), Albers (a Yale), Mundt (in
California), Breuer e Gropius (a Harvard), ecc.
Con la fine della seconda guerra mondiale, possiamo in
certo senso considerare chiusa l'epoca dominata dal
Bauhaus. Vediamo ora quali si possano considerare le tappe
essenziali del design in questo dopoguerra: se, come
vedremo, lo styling americano - specie nel settore
automobilistico - rappresentò attorno agli ai' i cinquanta uno
dei fenomeni più vistosi, non dobbiamo sottovalutare
24

l'influsso esercitato nel decennio 1950-60 dall'avvento del


disegno italiano che apparve, sia in Europa che oltreoceano,
come un elemento rivoluzionario per i suoi aspetti fantastici e
anticonformisti, sin dall'introduzione nel primo dopoguerra
dei primi motoscooter (Vespa e Lambretta). Un importante
apporto alla diffusione del disegno italiano fu anche dovuto
alle Triennali del '51 e '54 e all'illuminata attività di alcune
ditte come la Olivetti e la Necchi. Tuttavia con la Triennale
del '60 il prestigio italiano cominciò a declinare, minato dalle
eccessive leziosità d'un revival di moduli neoliberty. Tra le
iniziative culturali dell'ultimo decennio sono da annoverare le
riunioni internazionali ad Aspen (Colorado), che costituirono
importanti punti d'incontro tra designer di tutto il mondo e che
furono seguiti dal convegno internazionale di Tokio (1961), di
Venezia (1962), di Parigi (1963). di Vienna (1965), di
Montreal (1967), di Londra (1969) e di Ibiza (1971). Una
importanza notevole, poi (come vedremo parlando
dell'insegnamento), ebbe l'istituzione della Scuola di Ulm,
che introdusse per la prima volta sistematicamente nel
settore del disegno industriale lo studio della semiotica, della
teoria dell'informazione, dell'ergonomia e della cibernetica, e
la cui collaborazione con una ditta illuminata come la Braun
portò alla creazione di oggetti assai rigorosi e selezionati.
25

5.
Carattere iterativo e concetto di « standard »

A base d'ogni produzione industriale che possa rientrare


nel settore che stiamo esaminando deve essere posto il suo
carattere nettamente iterativo: ossia la sua produzione di
serie. Ogni fase lavorativa del prodotto, perciò, dovrà essere
organizzata e controllata in maniera tale da consentire una
resa che sia sempre eguale e che non presenti la benché
minima deviazione dalla serie.
Mentre nei precedenti tipi di produzione, apparentemente
«di serie» (come parecchie lavorazioni artigianali eseguite
con mezzi parzialmente meccanizzati e dove ogni esemplare
veniva ripetuto molte decine o centinaia di volte), il controllo
della produzione era quanto mai relativo, appunto perché
non interessava l'assoluta identità dei diversi oggetti, e
perché essi non avevano bisogno di adeguarsi ad un
«prototipo» costante; nel tipo di produzione industriale, il
concetto di serie, riguarda, ancor più che la quantità dei
singoli elementi, il loro metodo produttivo.
Potremo avere, pertanto una piccola e piccolissima serie
(locomotori, bastimenti, sommergibili, macchine calcolatrici
elettroniche giganti, elettroencefalografi, ed altri strumenti
d'alta precisione e di scarsa diffusione) in cui gli esemplari
prodotti potranno essere poche decine d'unità, o addirittura
pochissime unità, pur permanendo identico il carattere di
«serialità» che starà alla base della loro produzione.
Mentre d'altro lato avremo, il più delle volte, degli oggetti
di grandissima serie (stoviglie, elettrodomestici, vasellame,
transistor, ecc.) dove la ripetizione del prodotto raggiungerà
le molte migliaia e centinaia di migliaia di capi, mantenendosi
pur sempre costante la fedeltà del singolo oggetto al suo
prototipo grazie al sistema di lavorazione che non consente
nessuna deviazione di sorta.
Il concetto stesso di serie è uno dei principi basilari di cui
occorre tener conto. «Serie», significa possibilità di
riproduzione, di iterazione, d'un determinato modello
26

(modello capostipite) che possiede - secondo la definizione


di G. Ciribini - «nella più larga misura quell'insieme di
caratteri ritenuti necessari al suo uso a fine di campionatura
o esemplativi di processi operativi di serie e come impiego
combinatorio o compositivo di elementi standardizzati» (G.
C, Architettura e Industria, Milano 1959). Il «capostipite»
viene anche definito come «modello normale, o standard»,
oppure «tipo».
L'atteggiamento del pubblico verso l'oggetto d'arte ha
dovuto essere necessariamente mutato sostanzialmente per
permettergli di accettare l'opera prodotta industrialmente, in
serie, alla stessa stregua, o meglio con analogo «rispetto»,
di quanto avveniva nel passato per l'opera d'arte o anche per
la semplice opera artigianale; infatti, nel caso della
produzione di serie, viene a cadere totalmente il valore
implicito nel concetto di «unicità» che era sempre alla base
d'ogni valutazione d'un oggetto artistico; come pure viene a
cadere la presunzione d'una particolare abilità manuale da
parte dell'artefice, giacché ogni dettaglio esecutivo è già
implicito nella progettazione da parte del designer, e non può
venire « aggiunto» successivamente dall'eventuale «tocco»
dell'artefice. Questo fattore, della presenza d'una produzione
squisitamente seriale di esemplari tra di loro identici, è
praticamente ignoto a qualsivoglia epoca del passato. Ogni
prodotto artigianale, come abbiamo già detto, anche nelle
sue esemplificazioni più accurate e anche nei casi
d'intervento parziale della macchina (tornio, trapano, ruota
dei vasai), aveva sempre un limite di compiutezza, e un
margine di azzardo. Lo stesso quesito dei limiti d'inesattezza
ammissibile per l'oggetto di serie, è del tutto diverso da
quello relativo alla diversità degli oggetti artigianali, nei quali
l'inesattezza costituisce spesso, anziché un difetto, un
«pregio estetico», mentre nell'oggetto industriale il «limite di
tolleranza» è strettissimo e ogni difetto costituisce un
ostacolo alla produzione ed alla vendita.
È ovvio che il principio di produzione di serie, e l'assenza
di imperfezione che ne consegue, oltre a costituire un dato
27

tecnico assolutamente non trascurabile, costituisce altresì un


dato formale dei più significativi e rilevanti. Come abbiamo
già accennato è proprio in ciò che consiste la grande
rivoluzione portata dal disegno industriale in questo campo
delle arti visuali; e come avremo agio di ripetere meglio
parlando degli oggetti di serie non funzionali (della
cosìddetta «arte programmata»), è da qui che sorge quel
principio che consente di concepire oggetti, industrialmente
prodotti, senza fine utilitario e quindi concepiti
esclusivamente per un fine «artistico», ma che, del pari,
debbono andar esenti da ogni imperfezione, da ogni
compiacimento «personalistico» per quanto riguarda la loro
lavorazione e la loro produzione.
Il concetto di «standard», dunque (o di «norma-
campione»), sorge con l'avvento della macchina quale
strumento capace di moltiplicare all'infinito un determinato
modello; per cui l'oggetto industrialmente prodotto deve
essere concepito come già compiuto all'atto stesso della sua
produzione, e non deve sottostare ad ulteriori manipolazioni
che ne migliorino o ne modifichino l'aspetto. Naturalmente
esistono ancora in commercio alcuni oggetti ibridi che dai più
vengono compresi nella categoria del disegno industriale per
quanto la loro produzione sia di tipo misto; tra questi
ricordiamo molti tipi di mobili prodotti solo parzialmente
secondo un rigoroso principio seriale e nei quali interviene la
rifinitura, la lucidatura e altri processi lavorativi eseguiti a
mano. Tali mobili dovranno evidentemente essere inclusi
solo con cautela nel nostro discorso, e del resto la loro
esistenza è già sin d'ora precaria e sarà probabilmente
destinata a cessare con l'affermarsi d'una più vasta
produzione industriale.
Un'altra categoria di prodotti che, secondo il nostro modo
di vedere, esula dal settore del disegno industriale, è quella
dei tessuti stampati a macchina, cioè di quei tessuti la cui
«decorazione» avviene del tutto industrialmente e senza
l'intervento dell'artista in una ulteriore fase della lavorazione.
La ragione per cui consideriamo che tali prodotti siano da
28

escludere è semplice: si tratta in questo caso non già di


forme tridimensionali create industrialmente in base ad una
previa progettazione della loro sagoma; ma si tratta
semplicemente di motivi decorativi sovrimposti ad una
superficie bidimensionale (alla stessa stregua di quanto
avviene nelle carte stampate o in qualsivoglia «riproduzione»
meccanica d'un motivo figurativo, d'un dipinto, d'un disegno,
d'una fotoincisione), per cui il valore di tali prodotti non potrà
assolutamente essere considerato come rientrante nel
campo del disegno industriale vero e proprio. Ho voluto
tuttavia nominare tali prodotti, perché spesso li vediamo
inclusi in trattazioni del genere della nostra e addirittura
premiati in concorsi riservati al disegno industriale.
Del tutto diverso è il caso dell'imballaggio (packaging).
Quest'ultimo settore - pur essendo un settore misto che ha
attinenze con quello della grafica e della pubblicità -rientra
peraltro nel quadro del vero e proprio disegno industriale.
Infatti l'imballaggio d'un prodotto può spesso costituire un
esempio dei più interessanti per la ricerca d'una forma
tridimensionale capace di contenere un determinato oggetto
in maniera opportuna: funzionale ed estetica insieme,
mentre è portato spesso a risolvere un altro dei fattori
decisivi della vendita: quello dell'auto-pubblicizzarsi del
prodotto, in seguito al suo aspetto esterno.
29

6.
Distinzione tra artigianato e disegno industriale

Una delle prime distinzioni su cui è necessario insistere


riguarda l'attuale situazione dell'artigianato e del disegno
industriale.
Se è indubbio che si possa considerare il primo come il
vero progenitore di molte opere attualmente di spettanza del
secondo, ciò non toglie che tra i due settori produttivi esista
oggi una netta differenza, una opposizione addirittura, per
cui è bene dirimere ogni equivoco a questo proposito.
Spettava un tempo all'artigianato tutta quanta la vastissima
gamma di produzioni parzialmente eseguibili in serie e che si
era soliti considerare come di valore estetico inferiore a
quello delle «arti pure». Si contrapponeva pertanto alla
«grande scultura e pittura» l'opera più modesta dell'artigiano
come la ciotola, l'anfora, il vaso di ceramica, di vetro, la
statuetta in legno di tipo folkloristico, il ricamo e il pizzo, il
tappeto e in genere la stoffa tessuta e dipinta e ancora tutta
la serie di cosìddette «arti applicate» quali il mosaico, l'arte
dell'alabastro, del cuoio intagliato, e via dicendo. In realtà
con l'avvento dell'era industriale, tali settori erano andati
vieppiù decadendo e questo poteva giustificare il fatto che si
tendesse a considerare queste forme artistiche come
«minori» rispetto a pittura, architettura, scultura. L'equivoco
era dovuto soprattutto al fatto di non aver inteso come la
minore efficacia di tali opere era dovuta non al loro essere
«applicate» o «decorative» (entrambi concetti che devono
essere oggi del tutto lasciati in disparte), ma dall'essere il più
delle volte cattive imitazioni del passato anziché nuove
formulazioni consone allo spirito dell'epoca. La lotta di
Ruskin e di Morris era appunto imperniata su tale fatto; e
mirava cioè a ridare all'attività artigiana una sua autonomia
estetica; ritenendo però che ciò dovesse portare ad una
sconfitta dell'arte industrializzata. La situazione oggi, invece,
è del tutto chiarita: le antiche forme di artigianato locale,
spesso folkloristico, continuano a vegetare soltanto come
30

echi di esperienze ormai desuete e destinate nel breve


volgere d'anni a scomparire del tutto; mentre le forme di
artigianato «moderno», quelle che hanno fatto proprie le
lezioni delle arti maggiori dei nostri tempi, si sono poco alla
volta del tutto riscattate dalla imitazione degli antichi moduli
derivati dal passato. Ed è logico che sia così quando si
pensa che, in tutte le epoche e le civiltà, i prodotti artigianali
ebbero in ogni singolo periodo una loro ben precisa
caratteristica formale ed estetica (basti confrontare oggi
un'anfora minoica antica ad una dei successivi periodi
micenei, o un'anfora olmeca con una azteca o maya). Ma, se
abbiamo affermato la possibilità dell'esistenza d'un
artigianato moderno che vive e si evolve secondo sue linee
autonome ed originali, dobbiamo a questo punto precisare
con ancora maggior recisione come sia necessario
distinguere nettamente tra codesta produzione artigianale e
quella che fa capo al disegno industriale. In cosa consisterà
la differenza tra i due prodotti? Prima di tutto nello stesso
principio informatore che è alla loro base: l'opera artigianale,
per la sua stessa natura, è un'opera che deve risultare come
«fatta a mano»; e questo anche nei casi in cui vi sia
l'intervento parziale d'una Macchina. Come è noto, sin
dall'antichità alcune opere artigianali (ceramiche) venivano
eseguite con l'aiuto d'un meccanismo (la ruota, il tornio dei
vasai, il trapano dei marmisti), ma, anche in questi casi, era
sempre il «tocco» dell'artista-artigiano a intervenire per
portare a compimento l'opera. Come del resto accade
anch'oggi per la ceramica, per il vetro, per il metallo
sbalzato, o intagliato. In altre parole, l'opera artigianale,
anche quando sia sottoposta ad una iterazione in molteplici
esemplari, non raggiunge mai l'assoluta identità d'ogni sua
copia. Un quid differenziale esiste sempre - e deve esistere -
a distinguere un oggetto dall'altro; ed è proprio in questa, sia
pur piccola, differenza, in questa minutissima imperfezione
formale, che consiste il fascino e l'essenza stessa di questa
forma artistica.
31

Nel caso dell'oggetto industrialmente prodotto, per contro,


tale evento non si verifica mai, e non deve verificarsi;
quand'anche avvenga che un determinato oggetto presenti
delle «imperfezioni» per ragioni di caso che sfuggono alla
volontà del progettista, tali imperfezioni dovranno essere
considerate come errori di fattura e non come compiacimenti
d'una «bella materia». E infatti, si può a ragione affermare che
l'oggetto industriale esiste già al momento in cui è stato
progettato, in cui è stato ultimato il disegno esecutivo che
porterà all'esecuzione del modello-prototipo da cui prenderà
origine la serie perfettamente eguale ed identica di tutti i pezzi
che seguiranno il primo. L'opera dell'artista, dunque, nel pezzo
artigianale si esplica «alla fine» della lavorazione, nel pezzo
industriale «al principio».
Per questa ragione l'artigianato è destinato ai nostri giorni a
diventare sempre più un'opera «d'eccezione», proprio per la
necessità della presenza incessante dell'artista che ne rende
impossibile la produzione «di massa» e che invece ne prevede
solo una produzione d'elite. In questo modo l'artigianato sarà
ridotto tra breve a un genere di produzione del tutto analogo a
quello di pittura e scultura, mirante alla creazione di oggetti
unici e irrepetibili e che appunto perciò saranno di per sé
particolarmente pregiati e altamente costosi.
L'artigianato «di serie», a poco prezzo, quello che ancora ai
nostri giorni invade alcuni grandi mercati come quello di
Salvador di Bahia in Brasile o di certe zone della Grecia, della
Sardegna, del napoletano, del Giappone, dell'India, non potrà
sussistere quando la sua costosità sia divenuta equiparata al
costo effettivo d'una mano d'opera specializzata, e dovrà
cedere il campo ad analoghi - meno caratteristici ma più
funzionali - prodotti industriali; potrà continuare ad esistere solo
per la produzione di singoli oggetti «di lusso», di pregio,
eseguiti da quei pochi artisti-artigiani che avranno la possibilità
di creare della merce altamente specializzata e tale da essere
commerciabile a un prezzo molto più elevato della corrente
produzione di serie.
32

Il fatto non deve rattristare qualche nostalgico del passato: è


logico che ogni epoca abbia le sue particolari leggi di mercato e
non è possibile mantenere artificialmente in vita quelle opere
artistiche la cui ragion d'essere contrasti con quelle che sono le
costanti socioeconomiche dell'epoca in questione.
33

7.
Architettura industrializzata e design

Si è discusso a lungo sulla possibilità di includere il vasto


settore dell'architettura industrializzata entro i limiti del design,
e si è anche, da parte di alcuni autori (Argan), proposto di
allargare il concetto di design fino a farvi includere non solo la
creazione di oggetti di serie, ma in genere di ogni elemento
pianificato serialmente, estendendone quindi l'ambito sino a
buona parte dell'architettura e addirittura dell'urbanistica.
Ritengo che tale allargamento dell'area semantica del
design non sia opportuna anche per non creare ulteriori
equivoci; perciò in questa trattazione mi limiterò sempre ad
esaminare soltanto quelle opere che possano essere incluse
con proprietà entro i limiti del disegno industriale. Sarà bene
tuttavia notare come in realtà esistano molte e rilevanti
analogie tra il tipo di progettazione dell'oggetto industriale e
quello di alcuni elementi dell'architettura moderna (curtain
walls, snodi e giunti, serramenti e altri infissi prefabbricati,
ecc.); e addirittura di certi grandi impianti industriali dove
compaiono elementi formali che stanno per l'appunto a
cavallo tra design e architettura e che, a dire il vero, si
possono senz'altro far rientrare nel nostro settore (così dicasi
di strutture come: turbine, altiforni, serbatoi, tanks, serpentine,
distillatori, antenne d'alta tensione, ecc.).
Simili strutture effettivamente fanno parte del design, ma,
una volta inglobate entro un organismo architettonico, vengono
a costituire esse stesse delle vere e proprie «architetture».
Nessuno potrà negare che la vista d'una serie di immensi
serbatoi alternati alle ben note serpentine di distillazione d'una
grande raffineria moderna non costituiscano uno spettacolo
«architettonico» anche se gli elementi singoli possono essere
considerati opere di «design».
Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per le strutture di
facciate continue (curtain walls) montate sopra un moderno
grattacielo e che - anche se come elementi singoli rispondono in
pieno al tipo di progettazione e di esecuzione dell'oggetto
34

industriale - sono tuttavia, una volta montati sull'edificio, parte


integrante di esso. Potremo dunque, in definitiva, mantenere
una netta distinzione tra i due settori considerando che il fatto
architettonico dipenda oltre che dalla progettazione del singolo
elemento costitutivo, anche dall'intervento dell'elemento
topografico, planimetrico, ambientale: elementi che esulano
totalmente da quello del design.
E potremo anche accennare come, pur continuando a
considerarli «architetture», sia facile prevedere per un
prossimo futuro un sempre maggior sviluppo di tali elementi
prefabbricati non solo parziali (maniglie, infissi, serramenti), ma
totali, di cui sono già espliciti esempi le famose cupole
geodesiche e le «dymaxion houses» di Buckminster Fuller, i
numerosi elementi modulari di Konrad Wachsmann, e alcune
interessanti costruzioni unifamiliari in materiali plastici come la
House of the Future della Marzant Chemical Co., l'abitazione
in resina di J. Schein in Francia, e alcune case progettate, tra
altri, da J. Johansen negli Stati Uniti.
Ho preferito mantener distinta, più che altro per una
ragione metodologica, l'architettura dal disegno industriale; non
posso, tuttavia, far a meno di notare, qui, come molti dei
problemi che abbiamo considerato a proposito del disegno
valgano, e siano prossimi a valere, anche per . l'architettura.
Non si dimentichi che ci troviamo oggi in una situazione
ancora prevalentemente artigianale del fare architettonico,
situazione che dal punto di vista economico presenta tutti gli
inconvenienti già lamentati a proposito dell'oggetto
artigianale. È perciò probabile che in un prossimo futuro si
giunga, non solo a concepire, ma a realizzare un'architettura
(soprattutto un'architettura domestica e residenziale, ma
anche un'architettura pubblica) completamente
industrializzata, prefabbricata, e standardizzata; il che
porterà ad un immenso abbassamento dei costi e ad una
concezione assai diversa del criterio di «originalità» in
quest'arte. Da recenti ricerche compiute negli Stati Uniti
risulta ad esempio che, ove un'automobile fosse realizzata ai
nostri giorni con gli stessi sistemi artigianali con i quali si
35

realizzano le nostre case, essa verrebbe a costare circa


cinquanta volte di più di quanto attualmente costa. Eppure
nonostante, - anzi proprio in merito - alla completa
standardizzazione della produzione automobilistica, noi
possiamo constatare oggi una maggior varietà di «tipi», e
dunque una maggior originalità creativa, nel caso di
macchine automobili, rispetto a quanto accade nel caso delle
«normali» case d'abitazione (non intendiamo, ovviamente,
riferirci ad alcune pochissime costruzioni d'alto livello
artistico ed economico destinate a una esigua schiera di
committenti). Il che sta a dimostrare come la paura di molti
circa un inaridimento delle qualità inventive come
conseguenza dell'introduzione di sistemi meccanizzati di
produzione sia del tutto errata. L'attuale situazione
dell'edilizia nelle nostre periferie cittadine è la miglior
dimostrazione del fatto che — spesso, proprio per la
sopravvivenza di metodi costruttivi artigianali - i risultati sono
pessimi; mentre non lo sono in molti dei prodotti, anche più
economici e standardizzati, realizzati industrialmente.
36

8.
Interferenze tra disegno industriale, pittura e scultura

Una delle ipotesi estetiche più comunemente accettate è


quella che postula una identità stilistica tra opere d'arte d'una
determinata epoca; persino tra quelle di arti tra di loro assai
distinte (musica, architettura, poesia), e, tanto più per quelle
appartenenti ad una stessa categoria « sensoriale» come le
arti visuali.
È, forse soltanto ai nostri giorni, che si può assistere ad
una certa sfasatura a questo proposito, sfasatura
indubbiamente derivata dall'avvento dei mezzi meccanici.
Questi da un lato hanno stimolato ed esaltato il processo
creativo, dall'altro l'hanno subordinato a nuove ragioni
d'essere che spesso esulano da quelle che dovrebbero
regolare il sorgere e il divenire dell'opera d'arte.
Se osserviamo, infatti, i rapporti che si sono venuti
istituendo tra disegno industriale, pittura e scultura, potremo
facilmente renderci conto che tali rapporti hanno subito tre
fasi distinte: una prima fase - quella, tanto per intenderci,
corrispondente alla prima rivoluzione industriale
(all'architettura ingegneresca dell'Ottocento) -, in cui le opere
tecniche e meccaniche (ivi compresi i grandi ponti metallici,
le prime macchine a vapore, le prime macchine tessili, e da
scrivere) venivano considerate del tutto distinte dalle « arti
belle » e, tutt'al più si tentava talvolta di «mascherare» la
macchina con l'aggiunta d'un fregio o d'un ornato o con
l'inclusione di elementi decorativi (capitelli, colonnine) entro il
corpo del meccanismo.
A questa fase fece seguito quella dell'Art Nouveau che
cercò di creare oggetti e architetture che, pur valendosi della
lavorazione meccanica, avessero anche un quoziente
artistico; e in quest'epoca si realizzarono alcune importanti
opere che dovevano essere rivalutate soprattutto ai nostri
giorni.
A questa fase subentrò quella bauhausiana e
neoplasticista durante la quale venne prendendo forza la
37

convinzione che l'oggetto industriale (e l'architettura creata


coi nuovi materiali) dovessero essere del tutto sottomessi al
binomio utilità-bellezza; e fu allora che si verificarono i noti
casi di analogie «stilistiche» tra alcune pitture (Mondrian,
Van Doesburgh, Malevic), alcune sculture (Arp, Pevsner,
Gabo), e gli oggetti industrialmente prodotti (mobili di
Rietveld, di Le Corbusier, di Mies, di Breuer). Fu certo,
quest'ultimo, un periodo glorioso e pieno di interesse
polemico e ideologico; ma oggi, a distanza di un
quarantennio, possiamo constatare che in questa voluta
sottomissione d'un settore artistico all'imperativo della
«funzionalità» doveva esservi alcunché di forzato. In effetti,
nel dopoguerra, si è potuto assistere ad un progressivo
ribellarsi di pittura e scultura alle frigide regole del
costruttivismo e del concretismo e si sono viste sorgere
nuove forme pittoriche e plastiche assai più libere, sfociate
addirittura nei modi estroversi e irrazionali della pittura
«informale», del tachisme, dell'action painting americano, e
di altre correnti neodadaiste e pop. È ovvio che tra queste
ultime forme di arte visuale e l'oggetto industriale non poteva
sussistere che una ben scarsa affinità. Invano si tentò da
parte di alcuni autori di individuare in certa architettura
«brutalista» o in certa ripresa ornamentale dell'oggetto
industriale, un'analogia con l'Informale pittorico; la realtà è
ben diversa: abbiamo oggi un genere di pittura e di scultura
che — proprio in opposizione al razionalismo architettonico e
al rigorismo scientifico della produzione industriale — vuol
mantenere intatti i suoi privilegi di assoluta libertà creativa e
di assoluta indipendenza da ogni costruzione razionale.
D'altro lato abbiamo la vasta gamma dei prodotti industriali
che non possono comunque sottrarsi alle esigenze della
praticità, della funzionalità e delle leggi del mercato e che
debbono quindi sottostare ad alcune norme costitutive e
costruttive che ne regolino anche l'« aspetto esterno». Il che
non toglie che un'osmosi tra le diverse forme creative
sussista; ne sono un esempio, dal lato delle «arti pure», la
frequente inclusione in esse di elementi presi a prestito al
38

mondo dell'industria e del disegno industriale (come si può


constatare in parecchi artisti pop come Rauschenberg,
Jasper Johns, Jim Dine, Arman, Raisse, Baj, Oldenburg,
ecc.), e d'altro canto il progressivo svilupparsi ed affermarsi
in diversi paesi d'un genere di produzione «industriale» (o
quanto meno eseguita con sistemi industriali e di serie)
dedicata alla creazione di oggetti «non utilitari» ossia di
oggetti che hanno l'unico fine di essere «piacevoli», di
soddisfare l'esigenza estetica del pubblico. Alcune di tali
opere, come quelle create dal gruppo francese delle
Recherches visuelles (Morellet, Le Pare, Sobrino, Yvaral), o
da quelli italiani del Gruppo T (Boriani, Colombo, Devecchi),
da Mari e Munari, o da altri artisti come i tedeschi Rot, Pohl,
Mack, Piene, e altri ancora², stanno a dimostrare la
possibilità di concepire anche il disegno industriale in
funzione d'una creazione di opere « artistiche » non utilitarie
e con ogni probabilità troveranno in futuro ampie applicazioni
nel settore della pubblicità, dell'arredamento, della
segnaletica e in genere in tutto quanto il lay out della
moderna civiltà meccanizzata.

D'altro canto il recente fiorire di forme d'arte definite come


«concettuali» o «povere» e di alcune sottospeci delle stesse
come la land art e la earth art, dimostra, una volta di più,
come esista tuttora un forte impulso a ribellarsi ai dettami
della macchina e dell'industria. Non c'è dubbio che molte di
queste forme artistiche basate più sull'enunciazione d'un
concetto, d'una «metafora visiva», che sulla realizzazione di
veri e propri oggetti; al pari di quelle forme che segnano un
ritorno alla natura, un recupero di azioni e situazioni naturali,
stanno a indicare in certo qual modo, un rifiuto del mondo

²Si veda il catalogo della mostra Groupe de recherche d'art visuel, Parigi 1962
e quello di Arte cinetica, arte programmata, Milano 1962, dove si trovano
riprodotte parecchie opere di Munari, Mari, del Gruppo T (Anceschi, Boriani,
Colombo, Devecchi), del Gruppo N (Padova) di Grazia Varisco, dei francesi Le
Pare, Morellet, Yvaral, di Alviani, ecc., molte delle quali sono progettate in
maniera da esser eseguibili mediante procedimenti di serie industriali.
39

meccanizzato e standardizzato della civiltà tecnologica di


cui, indubbiamente, l'oggetto creato dal design è uno dei
principali esponenti.
40

9.
La grafica fa parte del design?

Un altro quesito che è stato causa di frequenti dispute, è


quello che riguarda l'inclusione della grafica (del graphic
design) nell'ambito del disegno industriale; tanto più quando
si tenga conto che in alcune associazioni di disegno
industriale (come, ad esempio nell'Adi, italiana) i grafici
costituiscono una percentuale rilevante.
In effetti, la distinzione tra product design e graphic
design basata solo sul fatto che il primo sia prevalentemente
tridimensionale e il secondo bidimensionale, è troppo
semplicistica. Quello che costituisce la stigmata più rilevante
del design in genere, è il fatto di essere una progettazione
globale rivolta ad un determinato prodotto, oggetto,
operazione, e non soltanto un singolo disegno privo di quelle
caratteristiche programmatrici e di strutturazione globale e
unitaria proprie del design. Ecco, perché, ritengo che,
mentre non si dovrà includere nel disegno industriale, il
disegno (lo schizzo) d'una stoffa stampata, d'una
tappezzeria, e in genere d'un motivo «ornamentale» (ossia
sovrapposto ad un oggetto), si potrà includere invece ogni
progetto destinato ad una complessa operazione grafica,
come quello della creazione d'un marchio di fabbrica, d'un
logotipo, d'un'immagine coordinata riferita ad una ditta, ad
un'impresa; e in genere ogni forma di progettazione che
potrà essere bidimensionale o tridimensionale (nel caso
dell'imballaggio) anche se questa progettazione sarà
essenzialmente di carattere grafico piuttosto che di carattere
oggettuale.
41

10.
Teoria dell'informazione, complessità funzionale
e strutturale, e «consumo» del disegno industriale

Il recente sviluppo che hanno preso alcune estetiche


basate sulla teoria dell'informazione e legate quindi ad
alcune norme prese a prestito alla cibernetica, ci permette di
considerare il problema del disegno industriale anche sotto
questo punto di vista. Infatti, proprio per la sua natura, che lo
porta ad una fruizione immediata e strettamente legata con
l'uso e quindi sottoposta ad un precoce «consumo»,
l'oggetto industriale si presta, meglio d'ogni altro, ad essere
studiato secondo le regole di quest'ultima teoria.
L'oggetto industriale sarà quindi considerato alla stregua
d'ogni altro «messaggio» che sia in grado di fornire un
determinato quoziente informativo. Poiché la teoria
dell'informazione si basa essenzialmente sulla ricerca della
«quantità d'informazione» presentata da un dato messaggio,
sarà facile convincersi che l'informazione stessa sarà tanto
maggiore quanto maggiore sarà l'imprevedibilità del
contenuto di tale messaggio. E questo secondo le note
ricerche cibernetiche di Wiener, Shannon, Weaver, e
secondo le successive applicazioni di queste all'estetica
tentate da A. Moles, da Max Bense e da altri studiosi³. Non
possiamo in questa sede addentrarci nella precisazione
matematica di codesta teoria; ci basta soltanto ricordare, a
coloro che non ne fossero al corrente, come la quantità di
informazione offerta da un messaggio (e quindi anche quella
offerta da un'opera d'arte o da qualsivoglia altro elemento
comunicativo) segue delle leggi analoghe a quelle che
regolano il principio termodinamico dell'entropia, grandezza

³ A proposito dell'applicazione all'estetica della teoria dell'informazione e della


cibernetica si vedano: A. moles, Théorie de l'information et perception esthétique,
Flammarion, Parigi 1958, e il mio Simbolo comunicazione consumo, Einaudi,
Torino 1962, dove sono riportate altresì le ricerche di Max Bense, di Leonhard
Mayer e di altri su questo argomento.
42

interpretata già nel 1894 da Boltz-mann come rispondente


ad una distribuzione di probabilità.
Poiché l'informazione fornita da un dato messaggio, da
una data comunicazione, dipende dalla sua «originalità »,
potremo facilmente comprendere come il grado
d'informazione dello stesso possa equivalere al suo grado di
inaspettatezza e di imprevedibilità e di improbabilità, il che
porta a identificare l'informazione con l'opposto dell'entropia.
Se ora applichiamo tali principi al caso del disegno
industriale ci sarà facile arguirne come l'inaspettatezza del
messaggio (offerto dall'oggetto industriale di nuovo conio), la
sua «novità» dunque, sia fondamentale per ottenere un alto
grado di informazione, per presentare cioè al consumatore
un alto grado di sollecitazione all'acquisto. Tanto più nuovo,
più insolito, più inedito sarà l'oggetto posto sul mercato, tanto
più facile, più intensa ne sarà la richiesta; non solo, ma non
appena la forma abbia perso la sua «novità» - dunque
l'inaspettatezza del messaggio —, non appena si sia
«consumata» la sua qualità comunicativa, verrà a scadere il
suo valore — non solo estetico -, ma soprattutto informativo.
Giacché non dobbiamo identificare tout court quoziente
estetico e quoziente informativo, come taluni autori hanno
tentato di fare. Sarà anzi interessante notare, come, proprio
per il fatto che l'oggetto industriale è creato appositamente
per una fruizione (pratica ed estetica) che sia immediata e
strettamente legata all'uso, esso venga a consumarsi più
rapidamente di quanto accade per le opere d'arte (pittura,
scultura, architettura), la cui validità può persistere anche
una volta andato smarrito il loro valore informativo. In queste
ultime, infatti, l'usura e l'invecchiamento sono meno sensibili,
non solo, ma non basta l'inaspettatezza e la novità a crearne
la validità.
Sempre legato ai canoni della teoria dell'informazione, è
da considerare anche il problema della complessità
dell'oggetto industriale e del suo «messaggio»; secondo Moles,
ad esempio (A. Moles, Théorie de la complexité et civilisation
industrielle, in «Communications»,n. 13,1969) occorre distinguere
43

tra complessità funzionale e complessità strutturale d'un


oggetto. La prima è legata alle diverse funzioni che sono
deputate alla realizzazione d'un certo numero di prodotti o di
usi; la seconda è legata alla varietà del repertorio d'elementi
costitutivi dell'oggetto. La informazione fornita dall'oggetto (o dal
meccanismo) in questo caso, corrisponderà alla complessità
strutturale dello stesso. Tuttavia alcuni oggetti (o organismi
tecnologici) hanno una complessità strutturale elevatissima di
contro ad una complessità funzionale scarsa (un'automobile
ha una quarantina di «funzioni», e circa quindicimila organi
di svariati tipi).
Sarà possibile quindi porre una distinzione dei diversi
oggetti industrialmente prodotti anche in base al rapporto tra
la complessità funzionale e strutturale degli stessi.
44

11.
Valori simbolici e semiotici dell'oggetto industriale

È stato spesso affermato - specie dalle più recenti correnti


estetiche (Langer, Morris, Cassirer) - che l'opera d'arte deve
essere considerata come «simbolica» di qualcosa. Non intendo
certamente, in questa sede, addentrarmi e soffermarmi sopra
tale quesito.
Vorrei invece - da un punto di vista molto più pratico che
teoretico - considerare l'importanza dell'elemento simbolico
che è posto alla base di buona parte degli oggetti
industrialmente prodotti. Si tratta di un genere di simbolismo
che potremmo definire «funzionale»; che s'identifica dunque
con la stessa funzionalità dell'oggetto. E non si dimentichi a
questo proposito come nel caso del disegno industriale si abbia
sempre a che fare con un elemento che, solo parzialmente,
rientra nel dominio dell'arte; si ha dunque sempre a che fare
con una categoria di prodotti la cui prima ragion d'essere è
quella di «funzionare» e di richiamare l'attenzione del
consumatore attraverso loro specifiche qualità formali.
Ecco, dunque, come discorrendo del peculiare
simbolismo dell'oggetto industriale intendo riferirmi a quella
proprietà per cui l'oggetto è portato, anzi destinato sin dalla
sua progettazione, a «significare la sua funzione» in maniera
del tutto evidente attraverso la semantizzazione d'un
elemento plastico capace di sottolineare quel genere di
figuralità che di volta in volta vale ad indicarci la caratteristica
funzione dell'oggetto. Quasi tutti gli oggetti industriali - dal
telefono al curtain wall, dalla penna a sfera al jet - racchiudono
in sé alcune qualità formali che ne simboleggiano la funzione
o, se vogliamo meglio, degli elementi «semantici» atti a renderle
più facilmente identificabili. Accade il più delle volte che la
funzione debba essere sottolineata ed esaltata in modo da
dare al fruitore l'immediata sensazione dello scopo per cui
l'oggetto è stato creato. Ma può anche accadere che la
funzione sia da un lato esaltata ed accentuata
(aereodinamicità d'una macchina da corsa), mentre ne viene
45

celata e «mascherata» la parte più propriamente meccanica


(come avviene in quasi tutti gli oggetti a carrozzeria). La
ragione di questa mascheratura è dovuta al fatto che la vista
dei meccanismi (a prescindere da quelle che possono
essere delle ragioni di praticità, di igiene, o di riparo dagli
agenti atmosferici) potrebbe alle volte risultare
controproducente, proprio agli effetti simbolico-psicologici di
cui abbiamo testé discorso. Un piccolo motore come quello
posteriore della Fiat 500 è certo ancor meno «simbolico» di
velocità e potenza di quanto non sia la carrozzeria che lo
contiene. Lo stesso dicasi per la parte meccanica d'una
macchina da cucire (per esempio la Singer, o la Necchi
Supernova, o la Mirella). Naturalmente questo particolare
simbolismo iconico dell'oggetto è sottoposto a numerose
alterazioni e modificazioni. Valgano alcuni facili esempi. Si
consideri il caso del mobile-radio agli albori del suo
diffondersi, quando ancora l'elemento musicale rivestiva,
nelle abitazioni borghesi, l'aspetto del pianoforte verticale o a
coda: mobili ingombranti, spesso polverosamente adorni di
intagli e ornati, e sempre tali da denunciare, già con la loro
mole e il loro aspetto esterno, una indiscutibile
magniloquenza. Parve indispensabile, appunto perciò, in
quella prima fase dell'adozione dell'apparecchio radio a
scopo domestico, rivestire anche quest'ultimo d'una
«facciata» pomposa e adorna, spesso corredata dalla
presenza di colonne, alternate con piastre di cristallo o da un
bordo dentellato e a merlature, alle volte addirittura
improntato ad un caratteristico revival goticizzante. Era
evidente, dunque, la volontà di imporre, attraverso questa
esaltazione del carattere aulico e «in stile», l'importanza d'un
oggetto che doveva avere le caratteristiche di «mobile da
salotto buono» e di «strumento moderno »(i pulsanti, il
quadrante luminoso, l'«occhio magico», ecc.). L'uso di
questo stile doveva prolungarsi circa fino allo scoppio
dell'ultima guerra ed è interessante notare, proprio attorno al
1944, l'avvento in Italia d'uno dei primi esemplari di radio
moderna: l'apparecchio Phonola dei fratelli Castiglioni che
46

presenta per la prima volta caratteristiche del tutto diverse:


abbandono d'ogni ricordo stilistico rinascimentale o
goticizzante, ma in compenso l'adozione d'una sagoma
nuova e più idonea ai tempi: quella dell'apparecchio
telefonico; per cui assistiamo ad un nuovo tipo di
simbolizzazione: la radio cammuffata da telefono; un genere
di simbolizzazione che doveva essere fatto allora per
appagare il gusto del pubblico già assai dimestico col
normale telefono; il quale, d'altronde, non era divenuto
ancora d'uso così ubiquitario da essere scaduto al rango
d'un oggetto privo di ogni fascino. Per rimaner ancora
all'esempio del mobile radio potremo finalmente osservare
come più recentemente con il diffondersi di tali oggetti e col
loro diventare di dominio pubblico — essi ebbero a subire
un'ulteriore « riduzione » simbolica e tecnica insieme
scemando di grandezza e di vistosità fino a veder capovolta
la situazione con l'avvento della miniaturizzazione
(fenomeno sul quale ritorneremo), che ridette a tali
apparecchiature un nuovo fascino, non più con l'esaltarne la
forma e la mole, ma anzi col rendere quest'ultima sempre più
esigua e, d'altro lato coll'ottenere la facilissima
trasportabilità, fino a trasformare l'apparecchio in oggetto
d'uso personale alla stessa stregua dell'orologio o della
penna stilografica.
Non mi è possibile soffermarmi sui diversi aspetti simbolici
dei più importanti oggetti; sarà facile al lettore identificarli di
volta in volta (potrò rammentare tutt'al più l'importanza della
simbolizzazione dovuta al colore: bianco: usato per frigoriferi
e cucine, rosso: per macchine da corsa, e via dicendo), ma
vorrei ancora ricordare come sia proprio all'elemento
simbolico che il più delle volte va riferita la ragione prima del
mutare così frequente delle forme, non già in merito a motivi
di funzionalità, bensì in merito a motivi per l'appunto,
simbolici ed espressivi. Questi e simili quesiti, del resto,
rientrano in un più ampio discorso legato all'impostazione
semiologica della critica architettonica che può agevolmente
essere esteso anche al design.
47

Come è noto nell'ultimo decennio si sono moltiplicati gli


studi impostati sopra principi cari alla linguistica e allo
strutturalismo e basati sulle ricerche degli strutturalisti
sovietici e slavi (Jakobson, Trubeckoj), dei linguisti americani
(Sapir, Bloomfield) del danese Hjelmslev, e soprattutto dello
svizzero Ferdinand de Saussure. In architettura si è cercato
di identificare delle unità morfologiche e semantiche che
permettessero d'applicare a quest'arte gli schemi già usati
per il linguaggio verbale. Anche nel caso del design,
possiamo senz'altro ammettere che ogni singolo oggetto
possa essere identificato con un «morfema» (o monema
secondo la dizione di Martinet) ossia con una unità formale
distinta e capace di fornire un suo particolare messaggio. E
possiamo anche ammettere che — a seconda della
complessità strutturale d'un oggetto — lo si possa a sua
volta considerare alla stregua d'un sintagma (sempre
linguisticamente parlando) ossia d'un insieme di più parole.
Se poi volessimo approfondire ancora di più questa
analogia tra linguaggio verbale e linguaggio disegnativo,
potremmo asserire che la complessità funzionale sta alla
complessità strutturale d'un oggetto (o d'un meccanismo)
come la «prima articolazione» monematica sta alla seconda
articolazione fonematica (secondo i noti schemi di Martinet
(A. Martinet, Traité de linguistique générale, PUF, 1960).
Mi sembra, tuttavia, che questo genere di impostazione
rischierebbe di apparire troppo astratto ai lettori e senza una
vera e propria utilità ai fini della nostra ricerca. Mi limiterò
perciò ad osservare come l'aspetto semiologico del design
sia un dato fondamentale dello stesso nel senso che è
necessario - come ho già ripetuto più sopra - che il singolo
oggetto, o l'insieme di più oggetti tra di loro complementari
(cucina, frigorifero, forno; mobili d'ufficio, telefoni, dittafoni,
mobili-bar, giradischi, televisore; automobile, cruscotto,
abitacolo, organi di guida, ecc.) abbiano una chiara
rispondenza al significato che intendono esprimere.
Per cui potremo, in definitiva, sostenere che il concetto di
«funzionalità», - a suo tempo considerato determinante per
48

l'oggetto industrialmente prodotto - può essere sostituito da


quello di semanticità: ossia che un oggetto, per essere
funzionale nel vero senso della parola, dovrà rispondere
oltre che a delle esigenze pratiche, utilitarie, di adeguatezza
ai caratteri del materiale usato e ai costi, ecc. — anche a
delle esigenze semiotiche, di corrispondenza tra la forma
dell'oggetto e il suo significato.
Ed è a questo punto che credo si possa utilmente
introdurre una breve nota su quei casi in cui la semanticità
dell'oggetto viene caricata di valori eccessivi e che
corrisponde al cosìddetto fenomeno dello styling o cosmesi
dell'oggetto.
49

12.
Aspetti positivi e negativi dello styling

La parola styling, che ormai è entrata nell'uso corrente


anche fuori dal suo paese d'origine, gli Stati Uniti d'America,
conserva tutt'ora una connotazione peggiorativa che
difficilmente le potrà essere tolta. Questo termine s'impose
nel linguaggio parlato soprattutto dopo la grande crisi
economica del 1929 quando gli Stati Uniti si videro obbligati
a ricorrere, per necessità di cose, a tutti i sistemi più efficaci
per attirare l'attenzione degli acquirenti sui prodotti d'un
mercato in crisi. Furono infatti gli anni dal '30 al '35 che
videro sorgere in America delle potenti organizzazioni di
studi professionali (come quelli di Walter Dorwin Teague, di
Raymond Loewy, di Henry Drey-fuss), il cui compito precipuo
era quello di studiare la miglior maniera per «rendere
appetibili» i prodotti ormai consumati dall'uso. E infatti il vero
significato della parola può essere considerato quello di una
appropriata e cauta cosmesi del prodotto, tale da dare nuovo
fascino e nuova eleganza all'oggetto a prescindere da ogni
vera e propria ragione tecnica e funzionale.
È facile comprendere come un cosìffatto indirizzo - specie
nei casi decisamente esagerati cui si giunse nell'America tra
le due guerre - era fatto per trovare immediatamente degli
strenui avversari, soprattutto da parte di quella tendenza
prevalentemente puritana e funzionalista che faceva capo al
Bauhaus di Gropius. Per molti anni così lo styling venne
deprecato da buona parte dei designers europei e da molti
critici e studiosi dei problemi del disegno. Eppure è proprio
allo styling che si possono attribuire delle importanti
trasformazioni nello «stile» di molti oggetti d'uso che oggi a
distanza di anni sarebbe inconcepibile immaginare quali
erano in precedenza: si pensi al passaggio dallo stile lineare
e rettangolistico del primo razionalismo (a quello, per
intenderci, che vide le famose poltrone di Rietveld, di Breuer
e di Gropius e le prime applicazioni del tubo metallico) a
quello aerodinamico e sinuoso del periodo dal 1930 al '40.
50

Una precisa e quasi inarrestabile evoluzione del gusto era


stata resa possibile solo per l'intervento d'una serie di
«stilisti» che avevano applicato le loro ricette formali senza
preoccuparsi più che tanto delle ragioni tecniche ad esse
sottese. Qualcosa d'analogo del resto si è verificato anche di
recente (attorno agli anni sessanta) con l'abbandono di tali
forme sinuose e areodinamiche e con l'adozione di nuove
sagome spigolate e carenate. Si osservino ad esempio
alcuni modelli di carrozzerie (come la Renault R8, la Giulia
Ti, la Fulvia, la Simca 1000), e numerosi elettrodomestici,
mobili in acciaio, e via dicendo, tutti rispecchianti questa
tendenza verso una sagoma non più aerodinamica ma
rettangolistica, che però ha perduto la durezza e la rigidità di
quella «razionalista», per assumere una nuova duttilità
accentuata da motivi decisamente «ornamentali» (la
presenza di carenature, di filettature, ecc.), inimmaginabile
ancora una decina d'anni prima.
Potremo notare a questo proposito come assai spesso tali
trasformazioni stilistiche vadano di pari passo con analoghe
trasformazioni «simboliche»; ossia di quegli elementi
simbolici che sono determinanti per sottolineare la funzione
d'un dato prodotto. È spesso a seconda del valore di tale
funzione simbolica che muta anche la linea costruttiva, per
cui nel periodo in cui ebbe a predominare la aerodinamicità,
si assistette al dilagare di questa persino sugli oggetti che
non avevano nessuna ragione per essere considerati «
dinamici », come del resto si può scorgere l'affermarsi di
sagome rettilinee e del tutto prive di sapore dinamico in
oggetti destinati al rapido movimento (la Simca 1000, la Fiat
1300, ecc.). Secondo alcuni autori (Reyener Banham,
Machine Aesthetics, «The Arch. Rev.», n. 171, 1955) lo
styling si potrebbe addirittura considerare come una forma di
«arte popolare», una sorta, cioè, di sottocategoria artistica il
cui valore estetico è soltanto aleatorio ma la cui importanza nel
rispondere alle esigenze delle masse è di primaria necessità. Non
c'è dubbio che nell'affermazione del critico inglese ci sia
parecchio di vero; non c'è dubbio, cioè, che il disegno industriale,
51

specie nelle produzioni destinate al consumo delle grandi masse e


ad una spiccata ostentazione simbolica, abbia un indiscusso
fascino «mitagogico », non diverso da quello che offrono alle
masse i miti del divismo, dello sport e della fantascienza. Non
bisogna però neppure escludere che - anche all'insaputa dello
stesso designer — possano essere contrabbandate, attraverso lo
styling di alcuni prodotti apparentemente solo edonistico e
autopubblicitario, alcune qualità formative destinate ad
assumere ulteriori sviluppi anche in opere d'arte autentica.
Ecco perché il nostro verdetto circa lo styling non è altrettanto
pessimistico di quello di molti studiosi europei (specie inglesi
come Paul Reilly o Misha Black) che sono del tutto ostili ad un
simile atteggiamento del disegno industriale. Si è del resto
potuto constatare che il tipo di styling all'americana doveva
tosto far breccia anche in Europa appena la situazione
economico-sociale ne ebbe a richiedere l'applicazione. Gli
esempi di questo aspetto dello styling europeo non mancano. E
ci basti qui di accennare al noto caso della macchina Lexicon
Olivetti, ridisegnata da Nizzoli, e prodotta sotto il nuovo
modello della Diaspron, che, pur peggiorando rispetto alla prima
la linea costruttiva (senza nessuna ragione tecnica), ne rendeva
più appetibile l'acquisto dato il rinnovamento esterno del
prodotto. E potremmo accennare all'altro interessante caso della
calcolatrice Underwood - pure prodotta dalla Olivetti secondo il
brevetto americano - che presentava un meccanismo identico a
quello della calcolatrice prodotta in Italia, però provvisto della
carrozzeria americana che, agli occhi di talune categorie
condizionate alla marca straniera, poteva sembrare più
appetibile. Vorrei, in definitiva, concludere affermando che il
caso dello styling ci deve ammaestrare sopra la particolare
natura equivoca del disegno industriale, la cui caratteristica è
appunto quella di essere un anello di congiunzione tra il dominio
dell'estetica e quello della produzione; tanto che non è possibile
prescindere mai da un elemento pubblicitario e di allettamento
commerciale anche là dove può sembrare più rigorosamente
rispettato l'unico imperativo della funzione e della «buona
forma».
52

E, per l'appunto questa equivocità formale del design ad


essere divenuta negli ultimi tempi uno dei motivi di maggior
contestazione da parte di quei designers che sono più sensibili
ai problemi sociopolitici della loro professione.
Il problema, purtroppo, è di difficile soluzione. Si è potuto
constatare come anche nei paesi non capitalisti, a struttura
nettamente statalizzata, è intervenuto a un certo punto un
fattore di stilizzazione del tutto superflua a fini tecnici, e solo
rivolta a fini edonistici e pubblicitari.
53

13.
Interferenze tra styling, moda, e ordinamento sociale

C'è tuttavia chi nega che lo styling sia un fattore


ubiquitario del disegno industriale, e lo considera come
esclusivamente legato ai paesi capitalistici (come gli Stati
Uniti) dove più alta e intensa è la lotta competitiva tra le
grandi società monopolistiche che, appunto per assicurarsi il
successo presso il grosso pubblico, sono costrette a
sfornare sempre nuovi e diversi prodotti. Secondo tale
opinione non si potrebbe in realtà discorrere di vero e proprio
styling a proposito di nazioni - come l'Urss - dove venga a
mancare la concorrenza tipica delle nazioni capitalistiche.
Tale affermazione risponde solo in parte al vero: è vero
bensì, che proprio là dove maggiore è la lotta per il dominio
d'un mercato e dove maggiore è la concorrenza tra industrie
private o grandi holdings monopolistici, occorre che il
prodotto risulti appetibile; eppure, a ben considerare le cose,
non appena una nazione (anche se comunista e priva di
vere e proprie iniziative private) abbia raggiunto un
determinato livello economico, una determinata capacità di
acquisto da parte dei consumatori, il problema dello styling è
destinato a riproporsi, proprio perché la nazione sarà
costretta a ricorrervi per ragioni del tutto analoghe a quelle in
vigore nei paesi capitalistici; e cioè perché sarebbe difficile
poter sollecitare l'acquisto di nuova merce e di modelli nuovi,
se non ci fosse un elemento estetico (di novità e
piacevolezza) a potenziarlo. Quella competizione che viene
a mancare tra i produttori, non viene infatti a mancare tra i
singoli consumatori. Quel desiderio di differenziazione, tipico
d'ogni individuo umano, dallo stadio di selvaggio piumato a
quello di nobile azzimato, a quello di borghese
meccanizzato, non verrà comunque mai meno; il fatto di
ricorrere a oggetti «diversi» non ancora posseduti da tutti o
che comunque presentino delle particolarità tali da conferire
al loro proprietario quella invidiabile preminenza che solo
l'insolito, il nuovo, l'inedito sono in grado di conferire,
54

difficilmente sarà estirpata da un'umanità, anche socialmente


evoluta e non più classisticamente retriva.
E, del resto, una delle riprove di questo bisogno di
differenziazione e di individualizzazione è rilevabile anche in
un confronto con altri mass media dove risulta evidente la
duplice caratteristica della standardizzazione dei mezzi unita
all'individualizzazione degli stessi, per cui si viene
determinando da parte del pubblico l'incessante richiesta
d'un prodotto «individualizzato», oltre che nuovo. Il fatto che
alcuni trust monopolistici siano indotti a lanciare sul mercato
numerosi prodotti identici, o quasi, e diversi soltanto per
l'aspetto esterno, l'imballaggio e il nome, e lutti egualmente
pubblicizzati, dimostra che anche per il prodotto di consumo
più elementare (detersivi, dentifrici, cosmetici) una certa
differenziazione viene costantemente richiesta.
Ho cercato sin qui di definire il concetto di styling e di
rilevarne i lati positivi e negativi; occorre però considerare
questo aspetto entro il più vasto quadro che regola il
fenomeno della «moda». È ancora sotto discussione sino a
qual punto la moda si possa o si debba identificare con lo
«stile» d'un'epoca; crediamo che ormai sia generalmente
accettata l'idea di considerare la moda come un
«epifenomeno» rispetto allo stile; ossia come la presenza, in
un determinato periodo storico, di alcune forme espressive,
non legate strettamente a necessità di carattere etico e
sociale, ma soltanto ad un effimero bisogno di mutamento
per lo più di carattere edonistico. Non si può, d'altro canto,
escludere che, proprio attraverso il continuo alternarsi delle
mode, venga finalmente ad esplodere la nascita d'un vero e
proprio stile. Per quanto riguarda il disegno industriale, non
c'è dubbio che l'oggetto d'uso sia soggetto come nessun
altro a rapidità di consumo e di obsolescenza e perciò stesso
ad una costante instabilità formale; sarà pertanto tale
instabilità formale a portare con sé delle trasformazioni nelle
forme degli oggetti che potranno essere considerate del tutto
gratuite e potranno quindi essere ascritte con certezza a un
fenomeno di «moda». Sullo specifico concetto di moda e sul
55

suo intervento nel disegno industriale è stata persino


impostata una «giornata dell'estetica industriale» cui presero
parte anni fa parecchi rappresentanti del disegno industriale
di diversi paesi europei⁴. Tra le altre proposte avanzate a tale
convegno una delle più suggestive fu quella dell'olandese L.
C. Kalff che propose una divisione dei prodotti a seconda del
prevalere in essi d'una forma funzionale, derivata dalla
natura tecnologica del prodotto, o d'una forma «decorativa»
derivata dalla natura affettiva dello stesso. Partendo da
questa premessa l'autore distinse gli oggetti che sono posti
in commercio da quelli che non appaiono in commercio
perché di un genere d'uso non destinato al singolo individuo
(come: antenne d'alta tensione, lampade stradali, treni,
aerei, ecc.). Questa categoria d'oggetti «superindividuali»
sottostà ad una ragion d'essere prevalentemente funzionale,
che si estende, del resto, anche ad altri oggetti destinati al
pubblico ma senza particolari implicazioni «affettive» (come
mazze da golf, ventilatori, radiatori, ecc.). Da questa
seconda categoria si passa progressivamente a quelle dove
viene sempre di più a prevalere l'elemento affettivo -
decorativo (frigoriferi, utensili da cucina, aspiratori,
automobili) - finché si giunge agli articoli deve il carattere
funzionale è del tutto secondario a quello affettivo (come:
articoli da toilette, e di vestiario, vetrerie, articoli da viaggio,
ecc.).
È ovvio che l'assenza d'ogni competizione individuale
(come accade per gli oggetti, cui accennammo, a consumo
«nazionale» o collettivo) porta con sé la scomparsa o la
diminuzione del fenomeno della moda; che invece si
esacerba e si acutizza nel caso degli oggetti d'uso
personale. La distinzione tracciata da Kalff è forse troppo
netta e le sue classificazioni troppo sistematiche, tuttavia
esse corrispondono a quanto abbiamo già avuto occasione
⁴Cfr. il convegno L'estbétique Industrielle à la foire de Paris, in «Esthétique
Industrielle», n. 28, 1957, dove sono riportati anche gli interventi di Delevoy,
Paul Reilly, Otto Haupt, J. Viénot, e Gillo Dorfles.
56

di osservare a proposito della rapidità di obsolescenza dei


prodotti destinati alla «grande serie» rispetto a quelli
destinati ad un consumo «superindividuale»⁵.
⁵Concetti del tutto analoghi a quelli esposti resultano anche in uno scritto di
Werner Graeff, Ueber Formgebung, Rat für Formgebung, Darmstadt 1960
(organo del disegno industriale in Germania).
57

14.
Il concetto di «fuori serie»
e gli equivoci della «piccola serie»

Il fenomeno della moda è intimamente legato a quello


dell'oggetto «fuori serie», di cui ha dato un'acuta analisi
Pierluigi Spadolini⁶, e che rientra indubbiamente in quello già
notato dello styling. Il fenomeno «fuori serie», secondo
Spadolini, sarebbe in certo senso l'opposto di quello della
moda: tanto la moda costituisce un «conformarsi» ad alcuni
dettami del gusto, altrettanto il «fuori serie» costituisce un
«non conformismo» rispetto al gusto generalmente accetto.
In realtà le cose non stanno così: il fuori serie (il fatto cioè di
voler distinguersi dal prossimo mediante l'adozione di un
oggetto - automobile, scooter, motoscafo - inusitato, o
quanto meno non posseduto che da pochi, dall'elite) non
significa un nonconformismo ma bensì un'accentuazione
ancor più specifica ed esaltata del conformismo delle masse;
è in altri termini quello che si potrebbe definire «
conformismo dell'anticonformismo».
Infatti l'oggetto «fuori serie» non cozza con il tipico «stile»
del momento, ma anzi lo asseconda e lo accentua. La
carrozzeria di Pininfarina, di Bertone, di Ghia, è soltanto un
genere che porta alle sue ultime conseguenze la «linea»
divenuta «di moda», e la rende più duttile ed efficace
mediante l'uso di materiali e rifiniture migliori.

In questo senso potremo anzi dire che il «fuori serie»


costituisce l'ultimo capitolo d'una determinata moda (quando
invece non ne costituisce il primo passo; il che peraltro
avviene più raramente).

⁶Cfr. le dispense del corso di Progettazione artistica per industrie, di Pierluigi


Spadolini, Editrice Universitaria, Firenze 1960, che consistono d'una parte storica,
d'una teorico-tecnica, e che in appendice portano alcuni importanti testi sul
disegno industriale tra i quali sono da segnalare gli interventi e le relazioni al
Congresso internazionale di disegno industriale alla X Triennale di Milano, di
Argan, Paci, Wachsmann, Teague, Max Bill, Paul Reilly, G. Dorfles e altri.
58

Un genere di «fuori serie» del tutto particolare, che esula


in parte dallo studio che stiamo compiendo per rientrare
piuttosto in quello d'un'analisi dei costumi, è la disposizione
spesso rilevata in determinati ambienti e individui, ad
adottare modelli (di automobili, di oggetti d'uso, di capi di
vestiario) decisamente desueti, appartenuti a periodi
precedenti, ormai «passati di moda» (per ragioni non solo
tecniche ma estetiche), e che possono per contro venir scelti
unicamente per ragioni «affettive», snobistiche, di
differenziazione sociale⁷.
Questo esempio - che nulla ha a che vedere con quello
del fuori serie, né dello styling - rientra tuttavia in quegli
aspetti squisitamente sociali cui sottostà quasi sempre il
disegno industriale, e di cui evidentemente tanto il produttore
che il disegnatore dovranno tener conto.
Uno degli equivoci più frequenti in cui s'incorre a
proposito della distinzione tra «grande serie» e «piccola
serie» consiste nell'accostare il concetto di piccola serie a

⁷ A proposito della moda è interessante ricordare ancora quanto afferma George


Nelson (Problems of Design, New York 1957, p. 48): «Fashion is an expression
of people's habit of getting tired of things, and it constantly obsoletes things,
long before they are worn out. In a society so subject to fundamental change as
our own... fashions change swiftly. The essential caracteristic of fashion is that it
is cyclical, and it therefore has little to do with obsolescence of a basic kind. The
newly old is àlways unfashionable, but let enough time pass and the old seems
new again».
Il fatto è noto: accade spesso che, mentre gli oggetti e gli abiti «dei genitori»
sono considerati soltanto desueti e di cattivo gusto, quelli « dei nonni» sono
nuovamente adottati e rivalutati nell'opinione dei consumatori; ed è perciò che è
opportuno porre una distinzione tra «moda» e obsolescenza (usura dovuta ad
autentico superamento d'un dato tecnico e formale).
Mentre l'invecchiamento dovuto alla moda può anche essere transitorio e
non legato ad altro che ad una ragione estrinseca e formalistica, la vera e
propria obsolescenza dovrebbe essere considerata quella che viene
provocata da qualche autentico fattore di miglioramento tecnico o estetico
del prodotto.
Naturalmente una netta distinzione è quanto mai ardua; ed è perciò che spesso è
solo un fatto di moda, e non di vero e proprio «stile», che conduce a un
mutamento formale e cioè a quello che abbiam visto andare sotto il termine di
«styling».
59

quello di «serie artigianale»; anzi nel tendere a identificare i due


tipi di produzione, quasi a voler rinvenire un anello di
congiunzione tra prodotto industriale e prodotto artigianale
attraverso la particolare categoria della piccola serie. Le cose,
invece, non stanno così. Dobbiamo intendere, infatti, col
termine di piccola serie due aspetti nettamente distinti d'un
medesimo evento: da un lato potremo parlare ed avremo in
effetti una piccola serie quando le particolari esigenze d'un
prodotto industriale portano alla realizzazione di oggetti
destinati ad una seriazione limitatissima (anche se il loro metodo
produttivo rientra in pieno nella prassi del disegno industriale);
è questo il caso, ad esempio dei jet (dei grandi aerei a reazione
ed anche, in genere, di bastimenti, sottomarini, locomotori,
turbine, ecc.) dove sarebbe inconcepibile una serie che
superasse le poche decine di unità; o addirittura (come nel caso
di navi, di grandi calcolatrici elettroniche, di cosmonavi, di satelliti
spaziali, ecc.) le singole unità. Questo tipo di piccola serie,
peraltro - come ho già avuto occasione di rilevare - presenta
delle caratteristiche del tutto peculiari dovute al fatto che la
richiesta di tali oggetti ben difficilmente può essere individuale; è
invece quasi sempre «superindividuale», nazionale, e finisce
dunque per sottrarsi agli imperativi della sollecitazione del
«gusto» del singolo.
Trattandosi dunque d'una domanda superindividuale
l'elemento dello «styling» entrerà solo parzialmente in gioco
nella progettazione di tali oggetti a differenza di quanto avviene
per quelli destinati alla grande serie ed al consumo di massa.
Ma c'è un secondo tipo di «piccola serie» di carattere
diametralmente opposto e la cui importanza è alquanto
limitata. Si tratta di alcuni oggetti «d'eccezione», per lo più
prodotti d'alta moda, suppellettili, soprammobili, oggetti
ornamentali per la casa (portacenere, vassoi, lampade,
maniglie, mobili «d'autore»), dove l'esiguità della domanda e la
volutamente ottenuta scarsità dell'offerta va di pari passo con
l'alto prezzo e la peculiare ricercatezza della merce. Si tratta, in
realtà, d'un genere di produzione che potremo considerare
socialmente riprovevole, giacché sfrutta le condizioni di
60

iterabilità dell'oggetto industrialmente prodotto limitandone però


la richiesta e la produzione più che altro per un calcolo
commerciale.
Rimane aperto il quesito se proprio ad un principio come
quello or ora esposto non debba e possa ispirarsi un
particolare tipo di produzione industriale, di alta qualità e di
gusto raffinato, che potrebbe in certo senso e con ogni cautela,
venire a sostituire almeno in parte alcuni settori della
produzione un tempo di spettanza dell'attività artigiana.
Soltanto in questo senso, dunque, potremo accostare questo
genere di «piccola serie» alla piccola serie artigianale, pur
mantenendo ben netta la demarcazione tra le due categorie di
prodotti.
61

15.
Valore pubblicitario e autopubblicitario del design

Nel caso del disegno industriale abbiamo il tipico esempio


d'una forma artistica (o parartistica) che mira a pubblicizzare
ad un tempo se stessa nel prodotto, e il prodotto in se
stessa: in altri termini, se possiamo considerare tutta quanta
l'arte (a cominciare dall'architettura), come avente in sé un
elemento di autopubblicizzazione (quello stesso che mira a
renderla visibile, fruibile, e percettibile al massimo),
dobbiamo ammettere che nel disegno industriale vi sia, oltre
a tale aspetto autopubblicizzante, anche quello — che
abbiamo spesso notato — d'un « simbolismo presentativo»,
cioè d'un elemento simbolico che mira a mettere in rilievo
quelle caratteristiche proprie a rendere appetibile al
consumatore l'oggetto in questione.
Con questa affermazione io non miro punto a svalutare il
valore estetico del disegno industriale: è ormai tempo di
accettare anche il fatto pubblicitario (specie nel caso di
pubblicità visuale) come facente parte in certo qual modo del
grande meccanismo comunicativo entro il quale anche l'arte
rientra. Sarebbe stolto non voler riconoscere l'importanza
sempre maggiore che viene acquistando ai nostri giorni il
fenomeno pubblicitario, che costituisce uno dei più vasti e
diffusi mezzi di informazione di cui l'uomo d'oggi dispone.
Ma, a differenza delle «arti pure», la pubblicità ha il compito
di attirare l'attenzione del pubblico sopra il prodotto, il nome,
la ditta, che mira a reclamizzare e non può mai prescindere
per far ciò da un quoziente altamente informativo; il quale più
facilmente di quello estetico sottostà ad una rapida usura.
Come ho accennato (più sopra) un messaggio offre il
massimo d'informazione quando per la sua imprevedibilità ci
procura il massimo di sorpresa. Ove tale messaggio venga
più volte ripetuto verrà man mano a perdere la sua efficacia.
Avremo perciò un minimo di informazione al momento in cui il
segnale pubblicitario avrà perduto ogni inaspettatezza,
giacché con l'aumento del processo entropico diminuisce il suo
62

grado informativo. Ecco perché, nel caso del disegno industriale


è così indispensabile che la forma dell'oggetto venga spesso
mutata e subisca quel processo di rinnovamento (da taluni
identificato nel processo dello styling); appunto per il
coesistere d'un quoziente pubblicitario (e autopubblicitario) I
nella natura stessa dell'oggetto industrialmente prodotto,
specie quando tale oggetto abbia un fine utilitario e debba
sottostare alle leggi di domanda e di offerta d'un mercato.
63

16.
Originalità, universalità e plagio

Come logico corollario del problema dello styling sarebbe


opportuno considerare l'importanza dell'originalità d'ogni
singolo disegno e chiedersi se e fino a che punto si possa
ammettere il verificarsi del «plagio», inteso, non quanto vero
e proprio «furto» d'una scoperta tecnica, quanto come
imitazione abbastanza fedele d'un determinato «stile»
formale.
Sul tema dell'originalità del disegno e sulla sua
generalizzazione entro una determinata epoca culturale si è
soffermato a lungo il Congresso del disegno industriale di
Tokio⁸ (1960), e, dalla maggior parte degli intervenuti, sono
stati sostenuti i principi d'un progressivo generalizzarsi del
gusto e delle forme nel mondo appunto in seguito al
progredire dei diversi canali di comunicazione.
Da altri relatori, per contro, si è tentato di difendere,
almeno in parte, l'opportunità di concepire la presenza d'un
disegno autonomo, con caratteri se non regionalistici, quanto
meno nazionali. È ovvio che alcuni oggetti di disegno
particolarmente riuscito e caratteristico sono da considerare
come legati, almeno inizialmente, ad una loro precisa origine
nazionalistica. (A tutti son noti alcuni famosi mobili
scandinavi, soprattutto danesi e finlandesi, alcune ceramiche
giapponesi e svedesi, alcuni «metalli» questi pure svedesi e
tedeschi e via dicendo).

Siamo senz'altro pronti a riconoscere l'importanza di


queste importanti caratteristiche nazionali pur auspicando un

⁸ Cfr. la pubblicazione degli atti del congresso Wodeco (World Design


Conference) di Tokio, 1960, dove sono riportati gli interventi e le relazioni dei
congressisti, tra le quali segnaliamo per la loro importanza quelle di Herbert
Bayer, Kamekura, Minoru Yamasaki, Erik Herlow, Kurokawa, Maldonado,
Smithson, e altri.
64

progressivo allentarsi delle barriere tra le nazioni e un


attenuarsi delle caratteristiche nazionali, e quindi un
universalizzarsi della produzione.
Se il quesito del progressivo affermarsi d'un'universalità
del prodotto è in definitiva abbastanza agevolmente
risolvibile, più complesso appare quello che riguarda
l'originalità dello stesso. Ho già affermato più volte che,
nell'oggetto industriale, l'elemento di «novità»,
«inaspettatezza», e dunque di originalità, è fondamentale
proprio per il rapido consumo cui tale oggetto va incontro, e
per le sue caratteristiche di effimericità. D'altro canto
abbiamo anche visto i pericoli che finisce con l'assumere la
caccia del nuovo a tutti i costi, che riveste appunto gli aspetti
d'un eccessivo styling senza nessuna vera necessità.
Dovremo quindi dirci nemici d'una originalità eccessiva e
potremo anzi ammettere che possa risultare conveniente e
consigliabile un certo quoziente di «plagio» di alcune forme
ben riuscite e funzionali. La cosa non dovrebbe far specie:
tutta l'arte, anche del passato più remoto, è sorta piuttosto
dall'imitazione di altra arte che a diretta ispirazione del
mondo esterno (e questo anche quando si trattava di opere
figurative che apparentemente si rifacevano a raffigurazioni
naturalistiche); è logico, dunque, che anche ai nostri giorni
avvenga qualcosa d'analogo nel settore del disegno
industriale, tanto più tenendo conto dell'immensa marea
d'oggetti che vengono continuamente sfornati dalle industrie.
Un'eccessiva proliferazione di forme nuove, e non
«necessarie», non potrebbe che portare all'inaridimento delle
forze fantastiche o allo scadere di quel tanto di funzionalità
che deve possibilmente stare alla base del prodotto stesso.
Ecco, dunque, fino a che punto possiamo ammettere
l'esistenza del plagio, e ricordiamo che di questo argomento
si è anche interessato il Congresso internazionale del
disegno industriale di Parigi (1963).
Per quanto riguarda ancora il problema dell'originalità e
quindi anche quello della «novità» della forma, vorrei a
questo punto ricordare anche un'altra importante
65

osservazione di Spadolini circa la differenza sostanziale che


è bene porre tra quello che potremo definire «oggetto
capostipite» d'una determinata serie e quello che non è che
l'adattamento d'una forma non idonea preesistente. È facile
offrire un esempio di quanto sopra: se consideriamo ad
esempio il caso dell'automobile sarà facile constatare come
le prime macchine (si veda la famosa Ford T 1909, e, prima
ancora, la celebre Benz Dos à Dos del 1899) non erano che
l'adattamento ad uso automobile delle vecchie carrozze e dei
landò ottocenteschi, e come tali possedevano una forma
spuria, che solo in seguito a successivi rimaneggiamenti
riuscì a perfezionarsi e a trasformarsi abbastanza
lentamente nell'attuale e «giusta» forma della macchina
semovente.
Se invece consideriamo un oggetto concepito sin dal suo
sorgere per l'uso a cui è destinato e di cui non esiste in
passato nulla di analogo, come per esempio nel caso della
macchina da cucire o della macchina da scrivere, vedremo
che la «bontà» di tale disegno e la sua efficacia e quindi
originalità è tale da rimanere immutata per molto più tempo,
anzi da essere difficilmente sostituibile. In tal caso diventa
molto più ovvio il plagio e molto meno condannabile
l'imitazione.
66

17.
Importanza del fattore tecnologico

Dopo essermi soffermato sui problemi dello styling e


dell'originalità inventiva, vorrei ancora sottolineare
l'importanza del fattore tecnologico nella determinazione
della forma, dell'aspetto esterno, e altresì del funzionamento
dell'oggetto; fattore che rimane, comunque, basilare, per una
buona conoscenza del nostro argomento. Molto spesso il
processo di fabbricazione porta ad una modificazione
sostanziale della forma e determina non solo importanti
trasformazioni funzionali, ma decisive modificazioni formali.
Mi piace a questo proposito, citare un esempio fornito da
uno studioso italo-argentino, l'ingegner Pablo Tedeschi⁹, che
riguarda le modificazioni ottenute in alcuni oggetti costruiti
col sistema di saldatura elettrica o ossiacetilenica, anziché
con quello, precedentemente in uso, della fusione. Nel caso
di molti oggetti meccanici (macchine utensili, riduttori di
velocità, ecc.) si ottiene, con il sistema della saldatura,
l'unione di parti di lamiera e di acciaio (noti col nome inglese
di «weld-ments»), sostituendo in tal modo analoghi oggetti
trattati con la fusione; ma, mentre col metodo della fusione, è
possibile ottenere una maggior libertà di forme, con
arrotondamento degli spigoli e sinuosa curvatura della
copertura, adottando l'altro sistema l'aspetto esterno del
meccanismo apparirà più spigoloso appunto perché tale ;
sistema non consente la plasticità formale della fusione, e si
avrà un evidente profilarsi dei cordoni di saldatura che
conferiscono un aspetto del tutto diverso e «nuovo»
all'oggetto.

Il sistema a fusione abbisognerà di spessori maggiori e


non abbisognerà, per converso, di nervature rinforzate come
avviene per gli elementi saldati; e tutti questi fattori

⁹Si veda: Pablo Tedeschi, La genesis de las formas y el diseño


industrial, Editorial Universitaria, Buenos Aires 1962.
67

contribuiranno a determinare la particolare forma del


prodotto che dovrà ovviamente rispondere, anche
esteticamente, a quei sistemi di lavorazione che saranno
stati adottati a seconda del caso. Vige, infatti, sempre il
principio di non «tradire» il proprio medium espressivo e
quindi di non adottare, con un metodo di lavorazione diverso,
delle espressioni formali rese necessarie da altro metodo
precedente, magari opposto.
Esempi analoghi potrebbero essere invocati senza limiti:
potrei ricordare ad esempio la trasformazione che il fattore
tecnologico ha suscitato nella lavorazione di alcuni prodotti
tipici, come la ceramica, i vetri, la lavorazione del legno (in
seguito all'adozione del materiale compensato, di quello
compensato-curvato di cui hanno fatto così largo e abile uso
Alvar Aalto, e Tapio Wirkkala), dell'alluminio anodizzato
(ormai ampiamente usato nei serramenti delle abitazioni, in
molti elementi prefabbricati), delle diverse materie plastiche
che hanno reso possibile una strutturazione del tutto diversa
di oggetti casalinghi, di suppellettili, di mobili (appunto per la
possibilità di eseguire elementi fusi e pressati in un blocco
unitario), della pressofusione applicata all'acciaio (che ha
dato vita a tutta la serie degli elettrodomestici e degli
apparecchi da ufficio), e gli esempi si potrebbero prolungare
a dismisura. Forse il settore del mobilio riflette più d'ogni
altro le profonde trasformazioni dovute al fattore tecnologico.
Anche se - come è noto - il sistema artigianale è ancor lungi
dall'essere tramontato nella produzione del mobile, esiste
tuttavia una vasta gamma di mobili del tutto industrializzati e
anche prodotti in grande serie. Tra questi, i tipici mobili
metallici da ufficio (Olivetti, Castelli), le seggiole e le poltrone
in tubo d'acciaio e in materie plastiche tanto spesso
impiegate nei caffè, nei bar, negli uffici pubblici. Se il primo
uso del tubo di acciaio si deve riportare alla famosa poltrona
di Breuer (1925) e a quelle successive di Le Corbusier e di
Mies (la famosa Barcellona di quest'ultimo [1929] è ancora
prodotta ai nostri giorni, sia pure in piccola serie), la serie dei
mobili succeduti a quei primi esemplari è infinita ed ha
68

certamente trasfigurato un determinato settore


dell'arredamento. Ed è interessante seguire le successive
fasi di questa produzione che hanno completamente
trasformato le forme e le strutture del mobile: si pensi - per
limitarsi alla seggiola - alla sostanziale differenza tra la
classica sedia in legno e quella, già in tubo di legno, di
Thonet, e alle successive sedie tubolari metalliche sino alle
più recenti in compensato curvato, in materie plastiche, a
guscio, interamente stampate, tra le quali possiamo
ricordare, in Italia, quelle ideate e realizzate da Mangiarotti
Zanuso, Spadolini, Gregotti, Gae Aulenti, Magistretti; fino ai
recenti mobili gonfiabili e dilatabili, oppure costruiti in
materiali amorfi (come la serie «Soriana» degli Scarpa, o la
serie «Bobo» di Cini Boeri) che sono la miglior dimostrazione
di come possa trasformarsi l'aspetto d'un oggetto
tradizionale e antichissimo in seguito all'avvento di nuovi tipi
di lavorazione e di nuovi materiali impiegati.
69

18.
Il lavoro di équipe e le sue caratteristiche

Il lavoro di équipe («di squadra» o «team-work»)


costituisce un altro dei fattori differenziali tra il disegno
industriale è le altre forme produttive e soprattutto creative
che lo precedettero. Se è possibile concepire un oggetto
artigianale creato da un singolo individuo non è possibile
concepire un oggetto industriale se non come risultante da
un complesso convergere di attività multiple entro le quali
l'elemento primo della progettazione appare solo come una
delle tappe, anche se la più importante e delicata. In effetti,
già il sorgere dell'oggetto, prevede sempre la richiesta
specifica da parte dell'industriale ed esclude l'invenzione
autonoma e incontrollata appunto per la necessità del
convergere di elementi tecnici, economici, meccanici oltre
che estetici nella produzione stessa.
È vero, che da alcuni autori si tende a considerare come
« autentico » soltanto lo schizzo, la progettazione grafica, o
quanto meno il primo modello manuale dovuto al designer e
a considerare tutte le fasi successive come non
necessariamente legate al momento inventivo, ma è ovvio
che anche ammettendo la «purezza» di codesto «momento
aurorale » del disegno, rimarrà il fatto incontestabile che solo
a fabbricazione ultimata sarà possibile concepire come
esistente e effettivamente operante l'oggetto in questione e
che pertanto noi dobbiamo indiscutibilmente riferirci sempre
ad oggetti già esistenti e in grado di funzionare. Il designer,
dunque, agisce sempre in vista d'una programmazione del
prodotto da parte dell'industria. Vorrei tuttavia accennare al
fatto che - almeno da un punto di vista sperimentale - esiste
tutta una gamma di disegni che sono rimasti allo stato di
abbozzo o di semplice esercitazione e che possono esser
valsi a determinare in un secondo tempo la realizzazione dei
veri e propri prototipi d'una serie e, che, come tali, si
possono considerare molti degli esperimenti realizzati per
70

studio nelle scuole di design, il cui valore se non altro


formale non può essere misconosciuto.
Vediamo invece come si svolga il lavoro in seno
all'industria quale effettivamente risulta dalla situazione
attuale. Per quanto da molte parti si sia avanzata la tesi che
il lavoro del progettatore debba essere libero da ogni
ingerenza e da ogni ingiunzione da parte del committente, è
facile comprendere come ciò non possa di solito verificarsi;
anche nei casi più favorevoli, in cui il gusto personale del
designer non venga coartato dal produttore, il primo finisce
sempre per essere vincolato tanto dal gusto del pubblico al
quale il suo prodotto è destinato, quanto dalle esigenze
economiche cui deve sottostare; ed è soprattutto per queste
due ragioni che si presenta necessario un lavoro di équipe
che permetta al disegnatore d'avere a sua disposizione tutta
una serie di individui a diretto contatto col settore produttivo
e con quello tecnico e scientifico. La necessità d'un lavoro di
équipe è, nel caso dell'oggetto industriale, determinante:
molto spesso un particolare prodotto richiede conoscenze
tecniche quanto mai particolareggiate (materie plastiche,
leghe leggere, ecc.) e solo la collaborazione con i tecnici
d'ogni singolo settore potrà permettere al progettista di non
incorrere in gravi errori nel risolvere costruttivamente le sue
«intuizioni» plastiche e formali. Non solo, ma la presenza
nell'equipe lavorativa di studiosi di tecnica del mercato
(marketing), di ricerca motivazionale, di ergonomia (la
dottrina che indaga sui rapporti tra la macchina e l'uomo) e di
altri metodi di indagine rivolti a studiare la possibilità di
assorbimento del prodotto e il probabile verificarsi di
tendenze del gusto - specie negli oggetti a grande
diffusione - risulta sempre più indispensabile.
71

19.
Indagine di mercato e sistemi di vendita

Nessun altro prodotto artistico soggiace al pari di quello


industrialmente prodotto alle ferree leggi del mercato verso
cui è diretto; per cui ogni analisi estetica dovrà
accompagnarsi ad un'indagine economica e di mercato
(marketing). Non è qui la sede per discutere sull'opportunità
e l'attendibilità delle indagini di solito intraprese e basate sui
noti sistemi statistici, numerici, sui sondaggi dell'opinione
pubblica (tipo Gallup o Doxa), sulla preferenza da accordare
alle indagini basate su gruppi-campione di popolazione
oppure su singoli colloqui svolti più direttamente e
personalisticamente da abili indagatori specializzati. Quello
che preme è precisare quanto sia importante il principio
stesso di affiancare tali analisi alla progettazione e alla
produzione del prodotto, partendo dal concetto che si possa
veramente prestar fede alla risposta del pubblico,
ammettendo che quest'ultimo sia in grado d'avere una
sufficiente consapevolezza dei requisiti migliori d'un dato
prodotto di cui non sia venuto precedentemente a
conoscenza, o di cui possieda una conoscenza quanto mai
superficiale. Sta di fatto che l'indagine di mercato si viene
sempre più estendendo di pari passo con l'adozione delle
relative pratiche pubblicitarie - direttamente proporzionali alle
indagini stesse ed alle ricerche motivazionali eseguite - ed è
un dato di fatto che il più delle volte le campagne
pubblicitarie compiute sulla base dei dati così ottenuti
risultano assai efficaci per la vendita del prodotto, anche se
ci lasciano nell'incertezza riguardo all'autentica «validità»
dell'aspetto formale cui si sia sottoposto l'oggetto sulla
presunta base di cosìffatte indagini.
Nel considerare l'indagine di mercato, una delle prima
condizioni di cui bisognerà tener conto è se il prodotto sia
destinato alla piccola, alla media o alla grande serie (come,
ad esempio per il caso di macchine da cucire, di macchine
da espresso, o di calcolatrici elettroniche), e inoltre se la
72

«grandezza» della serie, dipenda dal fatto che la domanda è


ancora ristretta per ragioni economiche e per mancata
diffusione e popolarizzazione del prodotto (mobili d'autore,
televisori di classe) oppure per l'appartenenza del prodotto
stesso a quelle categorie «superindividuali» di cui già
ragionammo e che ne prevedono la diffusione solo in
numero quanto mai esiguo. Nel primo caso sarà possibile e
quindi utile ed auspicabile mirare ad una maggior diffusione
del prodotto; mentre nel secondo caso qualsiasi pressione
sul consumatore sarà inutile o di scarsa utilità data la
peculiarità e rarità dell'uso e l'impossibilità di estenderlo
(elettroencefalografo, telescopio, ecc.). Da questa
distinzione, ovviamente, dipenderà anche l'opportunità di
preoccuparsi più o meno dell'aspetto esterno dell'oggetto e
di curarne l'eccezionalità formale; poiché nel caso d'un
oggetto destinato alla piccolissima serie e al consumo
superindividuale, l'apparenza esterna non potrà incidere che
in maniera del tutto secondaria sulla vendita. Nel caso
opposto - quello dell'oggetto destinato al consumo di
massa - l'aspetto esterno avrà una diretta influenza sulla sua
vendibilità, in concorrenza con prodotti analoghi presenti sul
mercato. A questo punto entra immediatamente in gioco il
fatto della « concorrenza », che ha una diretta influenza sulla
vendibilità maggiore o minore d'un prodotto. Sarà opportuno,
a questo riguardo, tener conto di alcuni fattori come il mezzo
o i mezzi di distribuzione dell'oggetto (se attraverso filiali,
agenzie specializzate delle singole ditte produttrici,
rivenditori, catene di supermarket, ecc.) e del sistema
economico vigente nel paese produttore e consumatore.
Molti ricercatori - tenuto conto dell'indubbio prevalere del
fenomeno dello styling in paesi a economia capitalistica
come gli Stati Uniti, piuttosto che in quelli a economia
socialistica - hanno considerato che il fenomeno
concorrenziale potesse essere posto in second'ordine in
questi ultimi paesi. Ma, a questo riguardo bisognerà altresì
distinguere tra i due tipi di concorrenza: quella pura e quella
monopolistica; la prima è, ai nostri giorni, limitata a poche
73

aree quanto mai circoscritte (mentre dominava ancora nel


periodo della prima industrializzazione ottocentesca); la
seconda è diffusa in tutti quei paesi ad alto tenore industriale
dove l'elemento concorrenziale vale a differenziare il
prodotto in base a sue effettive caratteristiche tecniche,
economiche e simboliche. Tale genere di concorrenza si
basa essenzialmente sulla possibilità da parte d'un sistema
industriale di ottenere il monopolio d'un determinato prodotto
a scapito di altri prodotti inferiori per qualità e appetibilità. È
un errore, del resto, quello di credere che tale genere di
concorrenza monopolistica non abbia a verificarsi nei paesi
socialisti per il solo fatto che la produzione è passata nelle
mani dello stato anziché in quelle di privati. In effetti, anche
in questo tipo di sistema economico, la concorrenza tra i
prodotti esiste, sia pure in forma meno acuta; e non è
verosimile credere che si possa giungere ad un punto di
equilibrio tra domanda e offerta a prescindere dal movente
psicologico creato appunto dalla veste esterna del prodotto,
anche ove tale veste sia conferita per soddisfare, non già un
complesso monopolistico privato ma, bensì, un complesso
monopolistico di stato.
74

20.
Disegno industriale e mass media

Si pone, a questo punto, un quesito che investe, non solo


il disegno industriale, ma in genere tutti i recenti aspetti
dell'arte pianificata e meccanizzata; ossia tutte quelle forme
artistiche o parartistiche, che sono state rese possibili solo
ed esclusivamente in seguito all'intervento della macchina e
della meccanizzazione dell'era industriale.
Si pensi, tanto per esemplificare brevemente, al caso
della musica riprodotta attraverso dischi, nastri e trasmessa
dalla TV e dalla radio, alla prosa, al teatro, che attraverso gli
stessi canali trovano una diffusione e una diffondibilità mai
prima raggiunte; e si pensi agli altri aspetti di molte forme
pseudoartistiche (come i fumetti, i cineromanzi, ecc.) che
raggiungono tirature mai per l'innanzi immaginate. Accade
oggi su scala universale quello che solo assai limitatamente
s'era verificato attraverso l'invenzione di Gutenberg e forse
con conseguenze ideologiche ed estetiche che potranno
superare di gran lunga quelle prodotte dall'invenzione della
stampa.
Le opere destinate a questo nuovo tipo di «funzione di
massa» devono necessariamente rispondere ad alcuni
requisiti di gusto e di livello artistico che le renda idonee ad
essere fruite, comprese, ed apprezzate da ognuno; devono
perciò abdicare da ogni loro qualità di sofisticatezza e di
eccezionalità. È un dato di fatto riconosciuto da quasi, tutti gli
studiosi dei problemi legati ai mass media¹⁰ e porta alla
conclusione che si venga sempre di più instaurando un
genere d'arte, se non decisamente low-brow (di livello
infimo), quanto meno middlebrow (di livello medio); un'arte,
dunque, che accontenti la sensibilità media, il gusto

¹⁰Uno dei migliori documenti sui problemi dei fenomeni di massa e sui mass
media è l'antologia di Bernard Rosenberg e David Manning White, Mass Culture,
The Free Press, New York 1957. Si veda anche il volume di Edgard Morin,
L'esprit du temps, Grasset, Paris 1962.
75

medio, e che non sia più esclusivamente destinato alle


élites.

Questo fatto è d'un'importanza estetico-sociale


rilevantissima e investe problemi d'ordine etico che non
possono essere sottovalutati. In effetti, se siamo pronti a
convenire sopra una probabile standardizzazione, sopra un
certo livellamento del gusto (in campo musicale, teatrale,
narrativo) in seguito all'avvento dei mass media; dobbiamo
per altro notare come proprio in merito ad essi sia possibile
«contrabbandare» in ambienti che ne sarebbero stati sempre
totalmente esclusi, forme d'arte destinate alle élites e che
finiscono così per essere ammesse, tollerate, e finalmente
amate anche dalle «masse» e da esse rettamente intese.
Giacché in realtà, ciò che distingue le élites (culturali,
s'intende, non economiche; poiché quest'ultime sono spesso
ancor più retrive degli strati medi della popolazione) spiega
che ciò possa essere ottenuto - per quanto concerne
l'aspetto visuale - dal disegno industriale. In realtà, sarà
facile notare come, assai spesso, un oggetto dall'ottimo
disegno possa venir accettato e prediletto universalmente
per le sue intrinseche qualità estetiche e anzi si è potuto
dimostrare come proprio popolazioni non ancora «viziate»
dall'uso di oggetti industriali di «cattivo disegno» abbiano
accettato con più comprensione il «good design» di quanto
non abbiano fatto popolazioni considerate più evolute.
È di sommo interesse a questo proposito notare come -
da un punto di vista antropologico - si sia potuto constatare
un fenomeno assai istruttivo circa la diffusione di taluni
oggetti tra popolazioni meno colte o addirittura
sottosviluppate.
In alcuni casi, la precoce introduzione in una determinata
area sottosviluppata (Africa centrale) di alcuni meccanismi
industriali tipici (macchina da cucire) ha, a tal punto,
condizionato il gusto delle popolazioni da far si che queste,
in seguito, accettassero solo quel determinato tipo di
macchina antiquata cui si erano ormai abituate, rifiutando il
76

modello ridisegnato e perfezionato perché considerato


«meno bello» - diremmo piuttosto meno simbolicamente
efficace - di quello antico. (Ed è noto che alcune ditte, come
la Necchi, si videro costrette a mantenere in vita vecchi
modelli appunto per soddisfare la richiesta di quelle aree
sottosviluppate). In altri casi si verificò una circostanza del
tutto opposta; ossia: l'introduzione di oggetti mai prima
conosciuti e posseduti in determinate zone (per esempio il
televisore nel Sud dell'Italia) vide una netta preferenza, da
parte delle popolazioni non precedentemente condizionate
ad un determinato modello, per gli oggetti di miglior disegno
e più progrediti. Come si vede, anche da questi due facili
esempi, il problema della diffusione dell'oggetto industriale in
aree depresse o addirittura barbariche pone dei problemi di
alto interesse antropologico.
Quanto ho affermato, oltretutto, contraddice un'opinione
quanto mai diffusa e cioè che, attraverso l'industrializzazione
dei mezzi di comunicazione e dell'arte in genere, si renda
ubiquitario e trionfale il Kitsch¹¹ (la «nonarte») al posto
dell'arte. Ma, se è vero che dare in pasto alle popolazioni i
fumetti e i fotoromanzi significa condizionare tali popolazioni
a questo genere di prodotti artistici, è anche possibile
l'opposto; e cioè come spetti proprio a noi di somministrare
attraverso i canali di massa gli oggetti di buon gusto, se
vogliamo che si realizzi un'effettiva educazione artistica delle
popolazioni.
Infatti, se manca nella cultura di massa, ogni
differenziazione fruitiva, tuttavia, il prodotto, destinato a
questa stessa fruizione spersonalizzata e livellatrice, ha pur
bisogno d'una certa qual differenziazione per essere accetto
per cui si determina da parte del pubblico l'incessante
richiesta di prodotti «individualizzati» e «nuovi».

¹¹Il problema del Kitsch è analizzato nel mio volume Kitsch, antologia del
cattivo gusto, Mazzotta, Milano 1969; e si veda anche - per una interpretazione
teoretica del Kitsch - il volume di Ludwig Giesz, Phänomenologie des Kitsches,
Rothe Verl., Heidelberg 1960.
77

Naturalmente il gusto di massa potrà essere individualizzato


solo fino ad uh certo punto, per l'impossibilità da parte del
produttore di imporre un prodotto che non incontri
l'accettazione dei molti e che pertanto renda impossibile una
sua ampia seriazione. Tuttavia l'effetto spersonalizzante della
produzione di massa sarà certamente meno grave, quando si
tratti di oggetti d'uso comune, come la maggior parte di quelli
dovuti al disegno industriale (orologio, frigorifero), che quando
si tratti di musica o di letteratura a base di «condensati» e
fumetti.
Ecco perché sarà forse attraverso un miglioramento - sia
pur spersonalizzante - dell'oggetto d'uso comune, che si potrà
sperare in un successivo miglioramento del gusto anche
riguardo alle opere d'arte vere e proprie dove la
spersonalizzazione è più pericolosa.
Per quanto poi riguarda il fenomeno del Kitsch, cui dianzi
alludevo, non c'è dubbio che la presenza attorno a noi di molti
oggetti prodotti industrialmente (bottigliette di coca-cola, lattine
di birra e marmellata, tubetti di dentifrici e cosmetici, ecc.) dalla
tipica connotazione «Kitsch», abbia avuto un curioso effetto di
rimbalzo sull'arte d'elite. È noto, infatti, come molta pop-art si
sia valsa di tali oggetti, inclusi nelle proprie opere (nei combine-
paintings di Rauschenberg, nelle composizioni di Arman o di
Spoerri) o imitati e ingigantiti (come nel caso di Oldenburg),
appunto per la loro valenza di «cattivo gusto popolare»,
ottenendo così, un effetto demistificante tutt'altro che
disprezzabile. Non solo, ma attirando l'attenzione dello stesso
pubblico verso un genere di prodotti il cui valore estetico-
simbolico non era stato sino allora sufficientemente
considerato.
78

21.
Tentativo d'una classificazione del disegno industriale

Giunti a questo punto della nostra trattazione potrebbe


sembrare opportuno di addivenire ad una classificazione dei
singoli oggetti industrialmente prodotti e aventi caratteristiche
tali da permettere la loro inclusione nel settore di cui ci
occupiamo. In realtà tale classificazione è quanto mai ardua e
credo anzi che potrebbe risultare discutibile la sua stessa
importanza perché condurrebbe solo ad una monotona
elencazione dei singoli oggetti. Dato poi il carattere piuttosto
estetico che tecnico di questo volume ci sembra inutile
insistere in una minuziosa analisi dei materiali costitutivi, analisi
che avrebbe scarso peso non potendo giungere ad uno studio
approfondito dei materiali stessi, da un punto di vista chimico,
fisico, strutturale, ecc. In effetti, come ho già avuto agio di
osservare: una cosa è lo studio tecnico-scientifico dei sistemi
lavorativi e produttivi d'ogni categoria di oggetti (studio che
ovviamente deve essere devoluto al campo della tecnica
aziendale e industriale) e altra cosa è l'esame delle costanti
estetiche e metodologiche che presiedono allo sviluppo del
disegno industriale. E a tale esame non può certo competere
l'entrare in dettagli scientifici circa la costituzione fisica e la
impostazione meccanica degli oggetti in questione.
Ecco perché una catalogazione degli oggetti del disegno
industriale come quella tentata da Herbert Read ci sembra
ormai desueta.
Lo studioso inglese, infatti, partiva ancora da principi che
portavano ad identificare o quanto meno ad assimilare
l'oggetto artigianale e l'oggetto industriale, purché questi
fossero costituiti dalle stesse materie prime (ceramica, vetro,
legno, metallo). Una posizione che - come ho più volte
ribadito - non possiamo più accettare. Per la stessa ragione
la classificazione degli oggetti a seconda dei materiali usati
non è oggi più sufficiente, sia per la frequente commistione
degli stessi che per l'estrema complessità della lavorazione;
sicché i dati (circa la loro costituzione fisica, la creazione di
79

leghe metalliche, la diversa composizione delle paste


ceramiche, la lavorazione del vetro, ecc.) offerti da Read,
sarebbero del tutto inadeguati a chi, in base ad essi, volesse
accingersi ad una pratica progettazione e lavorazione dei
singoli oggetti, mentre d'altro lato non farebbe che
appesantire la presente trattazione con dati pseudoscientifici
del tutto irrilevanti ad una precisazione
estetico-metodologica del problema che stiamo
esaminando. Sarà, naturalmente, di primaria importanza,
oggi come ieri, tener conto dello specifico materiale in cui
l'oggetto è costruito per valutarne le qualità non solo
tecniche ma estetiche; proprio per la necessità mai
abbastanza sottolineata d'un'aderenza della forma alla
natura del materiale, base prima d'ogni funzionalità
costruttiva; e sarà quindi ancora possibile una divisione degli
oggetti a seconda del materiale costitutivo (tale è ad
esempio la classificazione in atto presso l'Archivio di
Darmstadt); ma sia ben chiaro che tale classificazione -
utilissima da un punto di vista pratico e organizzativo - non ci
potrà offrire che scarsi chiarimenti circa la validità
dell'oggetto in questione.
Ecco perché preferiremo ricorrere ad altri tipi di
catalogazione che siano più rispondenti al rapporto tra
funzione e forma, così tipico per tutto il settore del disegno
industriale.
Una delle possibili suddivisioni sarà, ad esempio, quella
che tenga conto della presenza o meno nell'oggetto d'una
sezione meccanica che formi con esso parte integrante.
Avremo, cioè, da un lato una categoria di oggetti, creati
bensì meccanicamente, ma sprovvisti di meccanismo;
mentre dall'altro lato dovremo considerare la notevole
gamma di quelli in cui alla forma esterna farà riscontro una
«forma interna» derivante dalla presenza d'una parte
meccanica. A questo secondo gruppo appartengono
numerosi oggetti d'uso costante ai nostri giorni che vanno
dall'orologio al rasoio elettrico, dall'automobile alla macchina
da cucire, dal transistor al radiogrammofono, dal motoscafo
80

al bollitore elettrico e allo scaldabagno. Mentre la prima


categoria d'oggetti dovrà presentare una forma che risponda
ai requisiti del caso, senza tener conto di altre esigenze; la
seconda categoria dovrà rispondere a delle esigenze che
comprendano anche la delicata presenza del meccanismo, il
quale dovrà essere ospitato, protetto, e a seconda dei casi,
evidenziato o occultato (anche questo a seconda, non solo
di ragioni pratiche, ma, come abbiamo già visto, estetico-
simboliche).
Sempre rimanendo entro i limiti di questa seconda
categoria potremo inoltre compiere un'ulteriore distinzione a
seconda del fatto che l'oggetto appartenga o meno alla
famiglia degli oggetti «a carrozzeria»; a seconda cioè che la
sua parte meccanica sia intimamente inclusa nell'oggetto o
soltanto ad esso sovrapposta o ancorata; e soprattutto a
seconda che la forma esterna, come tale, abbia un rapporto
più o meno intimo con la struttura del meccanismo. È,
quest'ultima, un'altra delle più importanti determinazioni della
forma oggettuale; come è noto molti oggetti provvisti di
meccanismi appaiono rivestiti da «gusci» metallici o di
materie plastiche che li occultano e che valgono sia da
protezione dei meccanismi stessi, quanto da protezione
dell'uomo da tali meccanismi (macchine da scrivere, e da
cucire, calcolatrici, ecc.). C'è appena bisogno di accennare
al fatto che la carrozzeria dovrà « sposare» nel miglior dei
modi l'elemento meccanico, abbracciandone i diversi
elementi senza spreco di spazio, di materiale, di peso, ecc.
Naturalmente la latitudine interpretativa da parte
dell'elemento carrozzeria è vastissima; basti considerare il
caso d'un'automobile da corsa, dove tra la forma del motore
e l'aspetto esterno del veicolo c'è una scarsissima analogia,
giacché in questo caso l'involucro dovrà rispondere non solo
ai requisiti di «copertura» del motore, ma a quelli di
«abitabilità» da parte del pilota, di efficacia simbolica del
veicolo stesso, e via dicendo.
81

Oltre a questa classificazione possiamo ricordarne


un'altra, alla quale abbiamo già avuto occasione di
accennare a proposito dei rapporti tra disegno e moda,
quella cioè proposta dall'ingegnere olandese Kalff.
Quest'ultima è basata sulla maggiore o minore qualità
individualistica del prodotto; ossia sul fatto che esso sia
destinato ad una fruizione spiccatamente individuale (che
terrà in massimo conto il fattore estetico-ornamentale) o ad
una di tipo «superindividuale» che terrà invece conto
prevalentemente del fattore funzionale-pratico. Tra i primi
oggetti Kalff pone quelli che non si «trovano sul mercato»,
che non sono di solito di acquisizione pubblica (come
antenne per l'alta tensione, treni, lampadari per
l'illuminazione pubblica, cassette postali), tra i secondi, tutti
gli oggetti comunemente in commercio distinti in diverse e
sottili gradazioni a seconda che prevalga in loro l'aspetto
funzionale (ventilatori, radiatori, articoli sportivi, mazze da
golf, fucili), o invece che prevalga l'aspetto affettivo e
personalistico (come negli orologi, nella ceramica e negli
oggetti casalinghi o addirittura negli oggetti da toilette e da
vestiario, che siano naturalmente eseguiti industrialmente e
non artigianalmente). Secondo Kalff oggetti puramente
funzionali (e non «personali») come un proiettile, un razzo,
un aviogetto, non possono subire l'influsso dell'estetica
industriale e devono addirittura essere esclusi dal nostro
settore d'indagine. Noi siamo del parere che, anche nel caso
di una richiesta superindividuale, si dia egualmente un
quoziente estetico, seppure in sottordine, a quello
strettamente tecnico-meccanico.
In definitiva, riassumendo i lati positivi delle diverse
catalogazioni, e naturalmente senza voler dare nessun
valore assiomatico a quelle proposte ed elencate, credo di
poter così definire le principali categorie di oggetti che si
possono considerare come facenti parte della grande
famiglia del disegno industriale:
1 ), oggetti d'uso individuale (sia con che senza la
presenza d'un meccanismo incluso) a funzionalità spiccata,
82

poco soggetti alla moda ed al consumo: buona parte degli


elettrodomestici, strumenti di precisione, microscopi,
cannocchiali, telefoni, giradischi, altoparlanti, macchine da
scrivere e da cucire, apparecchi sanitari...
2), Oggetti d'uso individuale, soggetti a periodiche
modificazioni del gusto, legati alla moda, presentanti requisiti
di funzionalità limitata sottoposti ad un rapido consumo:
oggetti d'uso personale e di vestiario, penne, matite,
portacenere, soprammobili, alcuni mobili di serie, automobili,
scooter, motoscafi, ecc., lampade e altri elementi
dell'arredamento e, in genere, suppellettili (ceramica, vetro,
metalli) di serie.
3), Oggetti destinati ad un uso «superindividuale»,
sottostanti a minore alterazione del gusto, non legati alla
moda, rispondenti a requisiti di assoluta funzionalità e
sottoposti ad un genere di consumo solamente tecnologico e
non estetico: aviogetti, sottomarini, navi, treni, elettromotrici,
turbine, serpentine di distillazione, macchine utensili,
elementi d'arredamento urbano (cassette postali, antenne
d'alta tensione, lampade stradali, ecc.).
4), Oggetti «inutili», costruiti in base ad una
progettazione di tipo industriale tipicamente di serie, ma
senza alcun fine «pratico»; facenti parte della cosìddetta
«arte programmata » e dell'« arte cinetica » e costituenti la
categoria dei cosìddetti «multipli». (Categoria che di solito
non viene inclusa nelle trattazioni riguardanti il disegno
industriale, mentre merita di esserlo per gli sviluppi futuri che
potrà presentare).
5), Alcuni settori di «architettura industrializzata»: giunti,
snodi, curtain walls, serramenti, e altre parti di
edifici prefabbricati; cupole geodesiche di Buckminster-
Fuller, snodi di elementi modulari di Wachsmann, ecc.,
tenendo peraltro ben distinti tali elementi dall'architettura e
cioè tenendo sempre conto dell'opportunità di distinguere gli
oggetti del design dalla vera e propria architettura.
83

22.
Limiti dell'azione del designer nella progettazione

Sarà opportuno ripetere qui quanto abbiamo già detto più


volte, e cioè che il designer non deve essere considerato
soltanto un «disegnatore» nel senso che questa parola
riveste di solito in italiano; ossia un individuo che possieda
particolari doti di talento e di perizia nel disegno. Proprio a
ribadire la distinzione di «disegno» (nel senso inglese di
«design» e spagnolo di «diseño» contrapposto a dibujo e a
drawing ossia disegno d'arte distinto da ogni elemento di
progettazione), dobbiamo considerare il designer come un
progettista dell'oggetto da produrre industrialmente, ma
anche come un pianificatore della stessa vicenda produttiva.
Prima ancora di accingersi alla progettazione ed al disegno
d'un determinato oggetto, infatti, egli dovrà aver precisato il
suo compito di creatore dello stesso nell'ambito di tutta la
complessa compagine produttiva.
Uno dei suoi primi obiettivi sarà pertanto, quello di
raggruppare sinteticamente i dati ricavati dalle informazioni
avute dai diversi ricercatori, tecnici, statistici, esperti del
mercato e delle tecniche operative, così da poterne trarre le
conclusioni che gli permettano di individuare il tipo di
prodotto da progettare. Ecco perché sarà impossibile che un
designer possieda le nozioni tecniche e scientifiche
sufficienti a permettergli la progettazione di qualsivoglia
prodotto, anche se si sarà specializzato in un determinato
ramo dell'industria. Mentre sarà certamente ammissibile che
- valendosi delle informazioni avute dai tecnici e dagli esperti
- possa progettare oggetti di cui possa anche non penetrare
compiutamente i requisiti scientifici. E questo giustifica
anche il fatto che in questo volume - come del resto nella
maggior parte di quelli destinati al nostro problema - si
sorvoli su tutta quanta la complessa materia delle basi
scientifiche dei singoli manufatti, proprio perché una
conoscenza soltanto superficiale di esse sarebbe del tutto
insufficiente e permetterne l'indagine, mentre, solo attraverso
84

i dati scientifici di cui gli esperti sono in possesso, sarà


possibile, al momento opportuno, orientare in un modo
piuttosto che in un altro la progettazione del singolo oggetto.
Eppure al disegnatore per l'industria, spetta un compito assai
più complesso e importante che quello di « stilizzare » una
determinata forma, ossia di rivestire di panni acconci e nuovi
un meccanismo di cui egli ignori le caratteristiche vitali. Il
designer, per le sue conoscenze particolari circa l'indagine
delle esigenze del pubblico, sarà in grado di giungere
all'ideazione d'un determinato oggetto che corrisponda a
determinati requisiti tecnico-formali, non previamente
immaginati né supposti dagli stessi tecnici del ramo in
questione. Spesso, cioè, è lo stesso disegnatore a imporre o
a suggerire la dimensione ottimale d'un apparecchio, la cui
costruzione sarà portata al valore formale che il disegnatore
considererà più adatto alle esigenze del pubblico.
Si è visto così più d'una volta adottare determinati
accorgimenti che non sarebbero stati individuati dalla
produzione ma che furono ipotizzati e suggeriti dalla
progettazione.
A questo proposito possiamo ricordare una osservazione
di Arthur Becvar¹²: «il design, nel suo stadio iniziale di
progettazione, consiste nel pensare al problema non nel
considerarne la soluzione... cercando di individuare se il
problema è stato posto in maniera chiara ed è comprensibile
al pubblico cui si rivolge».
In altre parole, spetta proprio al designer di ideare
l'oggetto, in maniera che esso sia immediatamente
«comprensibile» e «leggibile» al consumatore; in maniera,
cioè, che le sue qualità funzionali siano esplicitamente
semantizzate. Guai se la forma d'un oggetto - specie d'un
oggetto «a meccanismo» - dovesse risultare
«incomprensibile» all'utente, se dovesse risultare
mascherato con vesti non proprie, se potesse venir
scambiato con un altro prodotto affine ma non identico.
¹² Arthur Becvar, The designer's answer, in «Design Forecast», n. 1.
85

Questo dimostra, oltretutto, come non sia vero che il


disegnatore debba sottostare supinamente alla volontà del
produttore e neppure a quella del consumatore. Spesso
spetta proprio al progettatore di individuare quella forma che,
soddisfacendo ai requisiti basilari imposti dalla funzione, dal
costo, dall'analisi di mercato, possa altresì costituire,
appunto, un elemento di «novità», e come tale educare il
pubblico all'accettazione d'un nuovo genere di linea e di
forma cui non era precedentemente condizionato¹³.
¹³ Chi voglia documentarsi direttamente sull'opinione degli stessi designers
rispetto alla loro professione potrà consultare le numerose. riviste specializzate
(«Stile-Industria», «Industrial Design», «Design», ecc.) e le non molte opere
scritte sinora dai disegnatori. Tra questi, quelli che hanno saputo meglio illustrare
la loro professione con scritti pieni di vivacità e di partecipazione sono forse
George Nelson, Problems of Design, New York 1957; Waltee D. Teague, Design
this Day, New York 1949 (1960), e, in diversi articoli, Eames, Viénot,
Maldonado, ecc. È interessante notare come dalla maggior parte degli scritti
risulti la evidente volontà e consapevolezza da parte degli autori di essere gli
artefici in certo senso più delicati e importanti nella strutturazione dell'aspetto
estetico della nostra società.
86

23.
L'insegnamento del disegno industriale

L'importante problema dell'insegnamento del disegno


industriale è lungi dall'essere risolto, proprio per la peculiare
struttura di questa disciplina. Come spesso accade - specie
nei paesi di antica tradizione culturale come quelli latini:
Italia, Francia, Spagna - prima che le strutture didattiche
preesistenti si siano adeguate a discipline di nuovo conio,
passano molti anni, spesso molti decenni. D'altro canto è
ovvio che, in un campo squisitamente tecnologico, ma anche
direttamente legato a problemi estetici, sia quanto mai arduo
addivenire ad una precisa e organica distribuzione delle
materie di insegnamento. Ecco perché nel nostro paese, e
praticamente in tutti gli altri, il disegno industriale ha
attraversato una prima fase di autodidattismo cui solo in un
secondo tempo si è venuto sostituendo una precisa e
rigorosa metodologia didattica. Un altro fatto di cui occorre
tener conto è l'origine parzialmente artigianale della nostra
disciplina che ha fatto si che in molti paesi dove le scuole
artigiane erano più sviluppate esso venisse innestato
direttamente sul tronco artigianale già funzionante; e questo
spesso con notevole danno per il sistema didattico. Così
infatti è accaduto per la Germania e l'Austria dove le
Kunstgewerbeschulen già esistevano ad un livello assai
elevato e così per l'Inghilterra dove la tradizione delle Arts
and Crafts era ancora operante sin dai lontani tempi di
Morris e di Mackmurdo.
Nei paesi anglosassoni, infatti, e soprattutto nella Gran
Bretagna, dove il processo d'industrializzazione era stato più
precoce, avvenne appunto che già per tempo, entro alle
scuole dei «mestieri» artigianali, si cominciassero ad
impartire delle nozioni di progettazione industriale, anche se
ad un livello ancora assai modesto. Lo stesso accadde in
Germania, dove, oltretutto, si svolse l'importantissimo -
seppur oggi superato - esperimento del Bauhaus legato sin
dai suoi inizi alla possente personalità di un Van de Velde,
87

che aveva intuito tra i primi l'importanza dell'arte creata


industrialmente; e proseguito, come è noto, dal 1920 in poi,
dall'altra grande figura di maestro che è stato Walter
Gropius.
In realtà anche nel Bauhaus, vigeva ancora un sistema
didattico prevalentemente artigianesco: i vari laboratori
addestravano gli allievi alla manipolazione del vetro, del
metallo, del legno, ed anche ad una vera e propria
progettazione industriale, sempre tuttavia basandosi sopra
un alquanto utopistico funzionalismo «socialistico», che in
realtà era ben lungi dal corrispondere a quelle che in seguito
si rivelarono le vere esigenze dei prodotti di massa.
È comunque doveroso riconoscere al Bauhaus il merito di
essere stato la prima grande scuola ad affrontare i problemi
della progettazione - sia artigianale che industriale - con la
stessa serietà e con la stessa profondità ideologica con la
quale sino allora erano affrontati soltanto i problemi degli
«alti studi» universitari, scientifici ed umanistici.
Questo concetto, infatti, doveva perpetuarsi anche in
seguito e divenire operante ai nostri giorni presso i docenti
più illuminati: quello cioè di considerare lo studio del design
alla stessa stregua di qualsivoglia altro importante studio di
discipline scientifiche o artistiche.
Ed è questo che più ci preme di ribadire in queste righe:
come cioè non si possa assolutamente concepire uno studio
del disegno industriale che sia avulso da una globale
educazione dell'individuo e da una preparazione tecnica,
sociale, scientifica, artistica, davvero integrata. Per questa
stessa ragione non è ammissibile di riservare lo studio del
disegno industriale al solo livello «undergraduate» (ossia per
i giovani al disotto dei diciotto anni), giacché sarebbe
inconcepibile (salvo un successivo autonomo e privato
complemento di studi) che a costoro venisse affidata la
progettazione dei prodotti industriali in tutta la loro estrema
complessità. Perché un disegnatore possa essere
veramente idoneo ad accingersi ad una progettazione, non
limitata al singolo oggetto ma che sia rivolta ad una vasta
88

gamma di prodotti e che tenga conto di tutte le esigenze


sociali, economiche ed artistiche ad essi sottese, è
opportuno, anzi indispensabile, che egli abbia avuto un
insegnamento completo, costituito da anni di studi
undergraduate (che potranno già essere «specialistici») e
seguito da un periodo di studi «superiori» (dai tre ai cinque
anni) che gli diano una completa visione dei complessi
problemi cui va incontro. A tale criterio sono orientati quei
pochi istituti specializzati che si sono di recente venuti
istituendo in Europa e in America; tra i primi l'Institute of
Design di Chicago (che fu diretto in origine da Moholy-Nagy
e da Mies), il MIT di Cambridge (dove insegna Gyorgy
Kepes) e la Hochschule für Gestaltung di Ulm, fondata da
Max Bill, diretta in seguito da Tomas Maldonado, e da Otl
Aicher e che, purtroppo, ha cessato la sua attività nel 1969.
Se il MIT corrisponde piuttosto ad uno dei nostri
politecnici o ad una Technische Hochschule tedesca, gli altri
istituti possono effettivamente considerarsi come scuole
specializzate nello studio del design - non solo del disegno
industriale, ma delle branche affini, della grafica, del shelter
design, del visual design, della comunicazione audio visiva,
e dell'architettura industrializzata, e possiedono corsi
completi (a livello undergraduate e graduate) per il disegno
industriale comprendenti anche quegli insegnamenti
complementari indispensabili alla formazione del designer.
Così, ad esempio ¹⁴ la Scuola di Ulm tendeva a dare un
particolare sviluppo, oltre che all'aspetto tecnico-scientifico
del disegno e alle sue applicazioni pratiche, anche alle basi
teoretiche dello stesso ed alla ricerca nel campo della
comunicazione visuale e della comunicazione

¹⁴ A illustrazione dell'attività della Scuola di Ulm, si veda la pubblicazione edita


dalla scuola: Zeitschrift der Hochschule fur Gestaltung, Ulm, di cui sono apparsi
sino alla chiusura della scuola numeri con importanti notizie tecniche e scritti
teoretici tra i quali ricordiamo soprattutto quelli di Tomas Maldonado, e Gui
Bonsiepe.
89

scritta, inserendo così lo studio del design nel più vasto


settore delle discipline sociali, statistiche e linguistiche, che
hanno e avranno sempre maggior peso nella nostra civiltà.

In Italia, dove la progettazione industriale ha raggiunto


livelli altissimi in alcuni settori, si deve purtroppo ancora
lamentare una quasi assoluta carenza dell'impostazione
didattica, sicché la maggior parte dei nostri designers sono,
vuoi degli autodidatti, vuoi degli architetti che hanno
applicato al disegno di oggetti le nozioni apprese nel corso
dei loro studi architettonici. Solo negli ultimi anni sono state
istituite, presso l'università di Firenze, di Milano e di Napoli
(Facoltà di Architettura) delle cattedre di disegno industriale,
e solo da alcuni anni sono stati fondati dei corsi superiori di
disegno industriale appoggiati agli Istituti d'arte di Roma e di
Firenze (che, tuttavia, hanno ormai ultimato la loro fase
sperimentale e dovranno - si spera - essere sostituiti da
appositi istituti specialistici a carattere universitario e non
dipendenti dagli Istituti d'arte). Da alcuni anni, inoltre,
funziona a Novara una Scuola d'avviamento «arte-tecnica»,
a livello non universitario, diretta da Nino di Salvatore;
mentre, sempre a livello medio, esistono dei corsi presso
l'Umanitaria di Milano e l'Istituto d'arte di Monza.
Se veniamo a considerare i sistemi stranieri, già da tempo
funzionanti, vedremo come essi possano, in linea di
massima, distinguersi in quelli miranti alla formazione di
designers specializzati in un determinato settore (e perciò
legati ad una determinata industria) e in--quelli volti
all'integrazione tra disegno, grafica e altre discipline
analoghe; oltre, naturalmente, a quelli che ancora indulgono
nella pericolosa frammistione di sistemi artigianali e sistemi
industriali abbinati in una stessa scuola.
Poiché non ci è possibile soffermarci pili a lungo a
considerare i diversi tipi di istituti esistenti e le diverse forme
d'insegnamento, ci limiteremo ad esporre quello che
potrebbe essere un «programma-tipo» d'una scuola a livello
universitario che si articoli in quattro o cinque anni di corso e
90

che sia in grado di ospitare studenti provenienti da istituti di


cultura a livello medio-superiore.
Una scuola del genere dovrà comprendere, oltre alle
materie complementari che varieranno a seconda della
preparazione avuta in precedenza dall'alunno (tra le quali
saranno comprese: storia dell'arte, lingue estere, psicologia,
fisica, chimica, matematica, elementi di architettura, disegno
dal vero, plastica, fotografia, ecc.), le seguenti materie
fondamentali divise nei diversi anni di corso: analisi della
forma e della funzione di oggetti naturali e artificiali,
introduzione alle tecniche di ricerca, uso di utensili e di
macchine fondamentali; studio della sensibilità manuale e
visiva; studio delle capacità espressive mediante i diversi
mezzi di progettazione e di presentazione; studio
dell'elemento comunicativo visuale; analisi del mercato;
studio del packaging (imballaggio) e della esposizione,
progettazione di oggetti dagli stadi preliminari fino allo stadio
di prototipo e al campione definitivo; studio delle qualità
fisiche e organolettiche dei materiali e delle strutture;
meccanica e trasmissione meccanica delle forze; analisi dei
tempi e dei costi; costruzione di modelli funzionanti;
pianificazione commerciale e industriale, analisi
motivazionale; protezione dei progetti, brevetti, copyright,
marchi, organizzazione professionale, ergonomia, teoria
dell'informazione, cibernetica.
Naturalmente quelle scuole che saranno provviste di
sezioni speciali per l'insegnamento di particolari processi
produttivi (ceramica, metalli, materie plastiche, vetro, tessuti,
arredamento, architettura industrializzata, fotografi,
decoratori, tecnici della pubblicità, lynotipisti, ecc.), daranno
a tali materie uno sviluppo che non sarà possibile altrove;
ma - come ho già precisato - phi che lo studio del singolo
materiale (che potrà sempre essere completato direttamente
con la partecipazione ad un ciclo lavorativo di fabbrica con
risultati molto più veloci e pratici), quello che dovrà essere
curato dalla scuola è l'impostazione globale dello studente;
la sua formazione percettiva e la sua impostazione
91

comunicativa. Senza questi elementi basilari ogni ulteriore


specializzazione sarà destinata spesso a trovare un terreno
arido e non potrà sviluppare validi risultati creativi.
92

24.
Ipotesi per l'evoluzione futura del design

Le previsioni che possiamo avanzare circa il futuro del


disegno industriale sono, ovviamente, come ogni previsione,
quanto mai problematiche e aleatorie. E, tuttavia, ritengo sia
possibile, sin da oggi, anticipare alcune ipotesi che forse
potranno risultare veritiere.
Ho cercato, nei paragrafi che precedono, di dimostrare
come l'oggetto industriale sia derivato da un primitivo e
arcaico oggetto artigianale, opera individuale d'ogni uomo,
quasi prolungamento degli arti stessi dell'individuo; ed ho
anche accennato a come, in un secondo tempo, tale
oggetto, creato per l'uso del singolo si sia andato
trasformando in oggetto standardizzato e destinato all'uso di
molti, di tutti.
Ho anche cercato di precisare come - con l'avvento della
macchina e con la rivoluzione industriale - sia sorta una
nuova categoria di oggetti, completamente distinta dagli
oggetti artigianali e destinata a sostituire progressivamente e
quasi integralmente la prima.
È stato anche accennato al progressivo evolversi e
modificarsi di alcuni concetti-base che presiedevano alla
valutazione estetica ed alla progettazione stilistica degli
oggetti; e cioè come ad un primo criterio estetico divenuto
dominante nel periodo bauhausiano secondo il quale Inutile»
e il «bello» venivano quasi ad identificarsi, sia venuto
sostituendosi un secondo criterio per cui si tiene conto -
accanto al binomio di utilità-bellezza - anche dell'elemento
«piacevolezza» e «novità». Ossia come, per soddisfare il
gusto del pubblico e quindi per sollecitare l'acquisto di
sempre nuovi prodotti, si sia giunti a concepire la necessità
di produrre oggetti in cui l'elemento funzionale venga posto
in secondo ordine di fronte all'elemento estetico capace di
costituire una efficacissima molla per l'acquisto di sempre
nuovi prodotti. È proprio a questo proposito che gli ultimi
tempi hanno visto svilupparsi una situazione di particolare
93

disagio che ha colpito, non solo i designers, ma la parte più


illuminata del pubblico.
È accaduto infatti che, sotto la spinta incessante della
iperproduzione, soprattutto nei paesi neocapitalisti e di più
avanzata industrializzazione, si sia giunti ad una vera e
propria inflazione nell'avvicendamento dei singoli oggetti di
design.
Il consumismo - questa pericolosa condizione entropica
che tende a dominare l'economia e la mentalità stessa
dell'uomo occidentale - ha fatto sì che da parte dello stesso
utente i valori intrinseci degli oggetti venissero posti in
sottordine rispetto ai valori meramente edonistici e
formalistici; con l'immediata conseguenza d'un decadere
della qualità strutturale e tecnica degli oggetti. Si è giunti
così a parlare d'una «crisi dell'oggetto», e a intravvedere da
parte di qualcuno, un prossimo futuro in cui si giungerebbe
alla scomparsa dell'oggetto e al suo integrarsi in più
complessi circuiti e sistemi.
In realtà siamo ben lungi dalla scomparsa dell'oggetto, e -
anche ove molti degli attuali elementi oggettuali venissero
inglobati in più complessi meccanismi unitari (telefoni,
illuminazione, elettrodomestici, ecc.) - ciò non toglie che la
civiltà dei consumi sarebbe sempre vigile e pronta a creare
nuovi «bisogni indotti» e nuovi oggetti per tali bisogni.
I tentativi degli stessi designers, dei più coscienti e maturi,
di opporsi alla marea consumistica, di ribellarsi alla 1
sfrenata ricerca del nuovo per il nuovo, sono stati frustrati il
più delle volte dalla situazione del mercato, che, ovviamente,
è sempre più ferreamente legata all'establishiment
dominante.
Bisogna dunque auspicare che in un prossimo futuro, ; lo
stesso verificarsi di particolari crisi economiche o l'avvento di
diverse impostazioni sociopolitiche, determini un arresto, o
quanto meno, una limitazione all'incessante avvicendarsi
della produzione di nuovi prototipi, e permetta quindi una
maggior riflessione e maturazione nell'opera del designer e
una minor caccia al nuovo da parte del consumatore.
94

L'interdipendenza, d'altronde, tra fattori economici ed


estetici è troppo stretta perché si possa ipotizzare uno
svincolarsi dei due settori l'uno dall'altro; per cui, il design
continuerà ad essere una sensibilissima spia
socioeconomica, ma potrà anche risultare una benemerita
campana d'allarme d'una situazione in procinto d'evolversi in
maniera patologica e anormale.
È probabile, dunque, che in un prossimo futuro, abbiano a
subentrare alcune importanti modificazioni nella concezione
stessa dell'oggetto industriale, nella sua progettazione e
nella sua distribuzione.
Per il generalizzarsi in tutto il mondo d'un analogo
standard di vita e di analoghe esigenze produttive e di
consumo, è quanto mai probabile che si giunga ad una
sempre maggiore omogeneizzazione, sia della società
umana (con lo scomparire delle attuali differenze di classe),
sia con l'attenuarsi e lo scomparire delle attuali differenze
«nazionalistiche» nella produzione di serie. La scomparsa di
questi due importanti elementi differenziali è destinata a
portare con sé alcuni sostanziali mutamenti anche nel
settore della produzione dell'oggetto di serie. Stiamo già
assistendo al progressivo diffondersi di alcuni tipi di
architettura industrializzata e prefabbricata che hanno ormai
invaso tutti i continenti e che sono destinati sempre di più a
generalizzarsi.
Altrettanto sta accadendo anche per il singolo oggetto
creato dall'industria: assistiamo già ad un progressivo
omogeneizzarsi di alcuni prodotti (automobili, apparecchi
radio, televisori, frigoriferi, ecc.) in tutti i paesi industrializzati;
ed è probabile che le distinzioni nazionali tra tali prodotti
abbiano sempre di più a venire eliminate anche per ragioni di
intercambiabilità dei prodotti stessi e delle loro singole parti e
pezzi di ricambio.
Ma c'è un altro fenomeno di cui bisogna, credo, tener
conto ed è la progressiva «scomparsa» di molti oggetti in
quanto tali in seguito ad un loro generalizzarsi così
ubiquitario da farne cessare il carattere di eccezionalità e di
95

prestigiosità. Mi spiego: alcuni oggetti, gadgets domestici,


che ancora nei primi tempi della loro introduzione sul
mercato costituivano un elemento di eccezione (e quindi di
prestigio) (frigorifero, lucidatrice, macchina da cucire,
televisore), stanno già oggi diventando oggetti alla portata di
tutti e vengono pertanto a perdere la loro caratteristica di
eccezionalità.
Il pubblico preferirà perciò che tali oggetti diventino
sempre di più «comodi» e pratici ma meno «vistosi»; il
processo di miniaturizzazione è dunque destinato a
procedere e ad estendersi a molti settori che ancora oggi ne
sono immuni. Non solo, ma con la progressiva pianificazione
edile e dei diversi «servizi» domestici, e con l'analoga
pianificazione e standardizzazione di molti altri « servizi»
industriali è assai probabile che molti elementi oggi ancora
individualizzati finiscano per essere «incorporati» entro più
vaste strutture come già accennavo più sopra.
Bisogna, tuttavia, tener conto anche del lato opposto del
fenomeno: quello che riguarda l'invincibile - e a mio modo di
vedere salutare - desiderio dell'uomo di differenziarsi, di
vincere la standardizzazione, di sconfiggere l'anonimato
della sua esistenza e del prodotto di cui si serve. E tale
desiderio potrà facilmente venir appagato proprio attraverso
la persistenza di alcuni prodotti fatti a mano.
Da quanto ho detto sin qui ritengo si possa affermare che
l'area di dominio del design nella società futura dovrà essere
semmai ancora accresciuta, senza tuttavia che questo porti
alla eliminazione di quello che ancora vogliamo chiamare
«arte». Il concetto di «arte» e di design, verranno, anzi,
sempre più intercambiandosi: si dovrà attribuire a molti
settori tecnologici e scientifici un valore estetico, mentre
verranno a decadere molte attuali strutture artistiche, che
sono, in effetti già ora, esclusivamente «sovrastrutturali», e
sarà, con ogni probabilità, riattivato un genere di produttività
manuale, sia per scopi psico-pedagogici, che a livello
altamente tecnologico. Il che dimostra l'impossibilità d'un
trasferimento integrale dell'attività creativa dell'uomo a
96

organismi cibernetici, e questo anche nel caso che - proprio


attraverso di essi — si possa giungere alla realizzazione di
nuovi prodotti artistici solo in parte guidati dall'intervento
dell'uomo.
97

Appendice
Gli ultimi sviluppi del disegno industriale nel mondo

Non sarebbe possibile tracciare una particolareggiata


cronistoria di tutte le personalità che hanno militato nel settore
del disegno industriale in questi ultimi anni e in tutte le
nazioni del mondo, e questo per ovvie ragioni; a differenza di
quanto accade nel campo delle altre arti dove un giudizio di
valore - sia pur soggettivo e discutibile - può tuttavia essere
difeso e preso in considerazione come decisivo per una
accurata e severa selezione, nel campo del disegno
industriale, è sempre assai arduo distinguere il valore
meramente tecnico da quello tecnico-estetico, e soprattutto è
arduo decidere quale sia il vero iniziatore d'un nuovo «stile»
che possa considerarsi autonomo e scevro da imitazioni e da
influssi. Dato poi il numero immenso degli oggetti prodotti,
alcuni del resto del tutto anonimi, sarebbe impossibile una
scelta che coprisse tutti i settori e tutti i singoli prodotti.
Dovrò pertanto limitarmi a considerare, per ogni paese
quegli esempi davvero significativi e che si possono
considerare come tappe ormai «storiche» nel cammino della
progettazione industriale.
Rifacendomi, allora, agli Stati Uniti, di cui ho brevemente.
ricordato gli sviluppi dovuti all'intervento degli uomini del
Bauhaus, vorrei qui rammentare come in questa nazione
esistesse anche prima dell'apporto europeo un altissimo
livello di industrializzazione che aveva dato ottimi frutti, specie
nel settore architettonico, già a partire dall'epoca dei grandi
«architetti del ferro e dell'acciaio» come i Sullivan, i Bogardus,
i Le Baron Jenney, ecc.
Tra i pionieri d'una progettazione industriale intesa in senso
moderno è bene ricordare innanzitutto i nomi di Walter
Porwin Teague (morto nel 1960), di Raymond Loewy e di
Henry Dreyfuss. Loewy, d'origine francese, giunse negli Stati
Uniti nel 1919, ed ebbe un notevole peso sui futuri
svolgimenti dello styling americano, proprio per i suoi frequenti
contatti con le industrie europee, alle quali veniva attingendo
98

parecchie idee che poi dovevano trovare la loro applicazione


nei prodotti del mercato americano.
A lui si deve la progettazione d'una serie vastissima di
oggetti che va dalle automobili, ai treni, ai motoscafi, ai frigoriferi
e persino ad alcuni imballaggi, tipico quello delle sigarette
Lucky-Stryke.
È interessante notare come l'apice delle attività stilizzatrici
dei designers americani coincidesse con la crisi economica del
1929 (fu in quell'anno che Loewy aprì il suo studio a New York
ed è nello stesso anno che Teague iniziò alcuni dei suoi più
efficaci interventi di styling applicato alle carrozzerie
automobilistiche), e ciò appunto per l'esigenza avvertita dalle
industrie statunitensi di dare ai loro prodotti una miglior
cosmesi così da vincere la riluttanza del pubblico all'acquisto.
Anche Teague esplicò nella sua lunga carriera
professionale un'attività multiforme dedicandosi alle
apparecchiature cliniche come ai motoscafi e agli utensili più
svariati, alle stazioni di servizio automobilistiche come alle
carrozzerie automobilistiche. Il suo studio, specie nel periodo
tra il 1930 e il 1945 costituì uno degli esempi più tipici della
«maniera» stilistica americana.
Un altro grande designer è Henry Dreyfuss, consulente
della Bell Company e ideatore d'una lunga serie di apparecchi
telefonici che sono stati i progenitori di tutti quanti gli
apparecchi oggi in uso e inoltre progettatore del
Superconstellation G (1951), dei piroscafi Indipendence, di
sveglie, termostati, estintori d'incendi, trattori, ecc.
Nella generazione leggermente posteriore troviamo alcuni
designers particolarmente geniali, già parzialmente influenzati
dalle nuove correnti europee, ma con personalità ben distinte,
come Charles Eames, noto per la seggiola prodotta da Miller in
compensato curvato e tubo d'acciaio, per altre originali
produzioni in plastica e legno, per le lampade e i numerosi
«giochi di carte», oltre che per le molte applicazioni
architettoniche; George Nelson, autore di molti oggetti e anche
acuto teorizzatore dei problemi della progettazione
architettonica e industriale; e alcuni architetti come Eero
99

Saarinen (morto nel 1962) autore di interessanti mobili,


Breuer (che si dedicò a mobili in legno e in metallo e ad una
serie di locomotori) e numerosi altri che - soprattutto
attraverso le realizzazioni di alcune ditte come la Knoll e la
Miller (progetti di Bertoia, di Breuer, ecc.) - invasero negli ultimi
anni i mercati mondiali con i loro prodotti per la casa e l'ufficio.

Nel settore automobilistico, a prescindere da alcuni ottimi


esempi come la Studebaker di Loewy (1955) e alcune più
recenti «compact cars» ormai influenzate dallo stile europeo,
si manifestò negli Stati Uniti una tendenza verso un tipo quanto
mai vistoso e complicato di carrozzeria che indubbiamente I
badava piuttosto ad una funzionalità «psicologica», di
prestigio sociale, che ad una funzionalità tecnica. Per tale
motivo alcune automobili americane (la Oldsmobile, la
Chevrolet, la Dodge) divennero tosto le tipiche
rappresentanti di quella volontà o addirittura smania di cui
abbiamo avuto agio di ragionare a proposito dello styling e
giunsero ad una eccessiva esaltazione di elementi
esclusivamente «simbolici» di potenza e di sfarzo, come le
immense pinne posteriori, le pesanti nichelature, lo sfoggio
di segnalazioni luminose e di altri aggeggi pubblicitari.
Sembra che negli ultimi tempi - appunto con l'avvento anche
in America dei compact cars - tale fase esibizionistica del design
automobilistico sia in netto regresso.
Altri importanti disegnatori - e non possiamo ovviamente
che fare alcuni dei tanti nomi noti - sono Muller Munck, Herbert
Bayer, Louis Becvar, J. C. Shalvoy, Jay Doblin, Elliot Noyes, J.
Mango, D. Chapman, Don Defano, W. Smith, ecc. Se negli
Stati Uniti le tendenze del design negli anni del dopoguerra
ebbero a rispecchiare una esaltazione dello styling ed una
inevitabile carenza di autentiche novità formali che fossero
anche novità estetiche, qualcosa di analogo succedeva anche
negli altri paesi più altamente industrializzati. Non c'è alcun
dubbio che persino paesi notoriamente sobri come quelli
scandinavi o dall'alta tradizione disegnativa come il Giappone
100

risentissero dell'influsso americano e dessero ai loro prodotti


una vistosità e un'accentuazione plastica forse eccessive.
Bisogna riconoscere che tra i paesi più sobri, tanto nel
settore architettonico che in quello disegnativo, va annoverata
la Gran Bretagna dove, proprio a causa della precocissima
industrializzazione del paese, la richiesta del pubblico era più
facilmente colmabile anche attraverso un prodotto che
mantenesse le sue caratteristiche normali per un periodo
assai lungo. Infatti in questo paese nell'immediato dopoguerra
non si ebbero che pochi esempi di stilizzazione esagerata e
magniloquente. Tra gli esempi migliori dovuti ai designers
inglesi vorrei almeno rammentare alcuni locomotori di Misha
Black (noto anche per i suoi arredamenti), alcuni mobili di
Robin Day, Neville Ward, lan Bradbery, apparecchi radio di A.
Bednall, J. White, televisori di R. Day, di Thwaites,
elettrodomestici di David Ogle, Roy Perkins, suppellettili
metalliche di P. H. Davies, Robert Cantor, ecc. Eppure anche
l'Inghilterra proprio negli ultimissimi anni ha in parte seguito
l'indirizzo degli altri paesi più evoluti e forse proprio trascinata
in ciò dall'esempio dell'Italia. Due mostre di disegno industriale
italiano che furono allestite a Londra nel 1955 e nel 1956
ebbero un inatteso successo, e fu appunto a partire da quegli
anni che a Londra cominciarono a moltiplicarsi
vertiginosamente i caffè-bar all'italiana che ostentavano la
lucentissima macchina da caffè della ditta Gaggia o di ditte
locali. Negli anni 1958-60 inoltre anche il mercato
automobilistico britannico si rese conto che la domanda del
pubblico si rivolgeva verso tipi di macchine continentali, ed in
seguito a ciò invitò un disegnatore italiano, Pininfarina, a
creare alcuni disegni per carrozzerie di auto inglesi (come
accadde appunto per la Morris, la Austin, la Hillmann).
La Germania del dopoguerra, se mirò subito a riparare alle
ingiustizie commesse dal nazismo verso i massimi architetti
dell'epoca, e se tentò di aggiornare al più presto le
manchevolezze del suo patrimonio architettonico e
disegnativo, non si può dire tuttavia che abbia dato sinora
esempi particolarmente rilevanti di questa sua volontà di
101

rinnovamento. Dato l'alto grado di industrializzazione del


paese, tuttavia, esistono moltissimi e discreti esempi di
prodotti industriali nei quali il disegno è sufficientemente
accurato, e tra questi sarà bene ricordare i molti oggetti
disegnati da Wilhelm Wagenfeld (tra cui alcune porcellane,
molti vetri; materie plastiche, posate, lampade), quelli creati
dalla ditta Braun (ad esempio gli apparecchi radio disegnati
da Hans Gugelot, il condizionatore di Laing), e ancora le
posate di Hugo Pott, l'orologio di Max Bill per Junghaus, la
lampada tascabile di P. Sieber, la radio a transistor di Theo
Haussler, lo spremifrutta di H. Ehring e altri prodotti disegnati
da Cari Pott, Rido Busse, W. Kersting, Braun-Feldweg, Cari
Aubock, T. Maldonado, H. Loffelhardt, e altri.
Ma il campo in cui la Germania ha offerto l'esperimento più
notevole è quello didattico con la creazione avvenuta nel 1954
d'una Hochschule für Gestaltung (Scuola superiore per la
formatività), creata da Inge Scholl-Aicher, con una
fondazione in parte sovvenzionata dagli americani, e a cui fu
chiamato come direttore l'architetto-grafico svizzero Max Bill. Bill,
ben noto come scultore, grafico e saggista, era uno dei più
giovani allievi del Bauhaus, e sua intenzione fu quella di
riportare a Ulm l'antico spirito funzionalista che aveva
animato la vecchia e gloriosa scuola. Purtroppo i tempi
erano mutati e, in seguito a dissidi sempre più forti con gli altri
docenti della scuola (tra i quali si possono ricordare il vecchio
pittore
Vordemberge-Gildewart, il grafico Aicher, il designer
Gugelot e il critico e sociologo Maldonado), egli fu costretto a
dimettersi, lasciando la direzione della scuola in un primo
tempo a Tomas Maldonado (il quale mirava a sviluppare
l'impostazione linguistico-informativa anziché la plastico-
formalistica), e in seguito al critico Gert Kalow e poi al grafico
Otl Aicher.
La Francia, nonostante l'alto quoziente di
industrializzazione e l'interesse, anche teorico, rivolto ai
problemi del disegno industriale (non si dimentichi che il
massimo estetologo francese, Etienne Souriau, continuò,
102

sulle orme del padre Paul, ad occuparsi di disegno industriale,


e che di architettura industrializzata e di disegno industriale si
interessano numerosi altri studiosi, come P. Francastel, M.
Dufrenne, R. Huyghe, ecc.), non diede vita negli ultimi anni a
rilevanti novità strutturali e formali, se si eccettua l'alto livello
di certo disegno nel settore automobilistico, dove una
carrozzeria come quella della DS 19 Citroen valse a
capovolgere addirittura un indirizzo divenuto da tempo
stagnante.
Tuttavia, per la presenza nel paese di una organizzazione
come quella dell'Esthétique Industrielle (associazione e rivista
diretta e fondata da J. Viénot sino alla sua morte avvenuta nel
1959), la Francia vide accendersi numerose competizioni nel
campo del disegno industriale e mise sul mercato negli anni del
dopoguerra svariati prodotti, tra i quali si ricordano quelli
dovuti alla progettazione di Le Creuset (pentole), G. Gauthier,
R. de la Godelinais (trasformatori, oggetti metallici), B. La
Croix (lampade), T. Meunier (radiatori elettrici), J. Abraham,
H. de Looze (apparecchi igienici e mobili), J. Viénot (rasoio
elettrico) e ancora: Defrance, Philippon, J.-A. Motte, C.
Gaillard, M. Mortier, P. Paulin, J. C. Hennin, Gisèle Pelletier,
J. Dumond, J. Goudeman, Ph. Leloup, Tiarko Meunier, J.A.
Motte, Jean Luce, e dalle società Technès, Sapac, Durand,
ecc.
La qualità e il prestigio del design scandinavo sono ben noti
ovunque, e soprattutto i mobili e gli oggetti casalinghi svedesi,
danesi e finlandesi, sono apprezzati in tutto il mondo e
considerati anzi come un traguardo pressoché irraggiungibile.
È bene notare, per altro, che in queste nazioni la produzione
si è volta a quel genere di oggetti per i quali la tradizione
artigianale poteva ancora far valere i suoi richiami; molto
spesso i materiali usati sono il legno e la ceramica o il vetro,
solo più di rado le materie plastiche e il metallo (soprattutto in
Svezia). Molti di questi oggetti, anche se concepiti per la serie
e prodotti secondo i metodi della più rigorosa
standardizzazione, conservano in parte una piacevolezza del
materiale che ricorda i loro progenitori artigianali, e talvolta -
103

specie nei mobili - si valgono addirittura d'una raffinata


rifinitura a mano. Rimane tuttavia da notare che per purezza di
linea, per assenza di sovrastrutture decorative, molti di questi
prodotti sono senz'altro tra i più «artistici» che oggi possa
fornire l'industria moderna. Tra i più noti e singolari artisti sono
da menzionare almeno i danesi Arne Jacobsen e Finn Juhl,
entrambi creatori di originalissimi mobili, i finlandesi Tapio
Wirkkala e Alvar Aalto - il quale, oltre ad essere il massimo
architetto finlandese, è uno dei più fantasiosi disegnatori di
mobili e di oggetti di compensato curvato e di plastica , Erik
Herlòw e Tormod Olesen, autori della serie di pentole R, di
ghisa smaltata, un esempio tra i più perfetti d'un oggetto
utilitario, dove le caratteristiche della funzionalità e
dell'artisticità convergono. Ancora tra i finlandesi bisognerà
ricordare Kay Frank (autore di numerosi oggetti di porcellana
per la casa), mentre Wirkkala è il creatore di numerose
raffinatissime serie di posate, sia di metallo che di legno. Tra
gli svedesi che hanno affrontato anche oggetti più
spiccatamente meccanici (come calcolatrici, apparecchi per
riscaldamento), si ricordano Sigvard Bernadotte, Acton Bjorn e
Heribertson; tra i creatori di vetrerie e di ceramiche il finlandese
Timo Sarpaneva e Toini Muona, i danesi Herbert Krenchel e
Kristian Vedel, lo svedese Sven Palmquist, mentre sono da
citare per le produzioni in acciaio gli svedesi Polke Arstrbm,
Arne Gillgren e Sigurd Persson. Fra i norvegesi vanno ricordati
Grete Corsmo, Willy Johansson, Bjbrn Engo (oggetti e mobili),
Jore Hjertholm, Karl Korseth (mobili), Birges Dahl (lampade), e
ancora: gli svedesi Stig Lindberg, S. E. Skavonius, Àstrid
Sampe, i finlandesi Eero Rislakki, C. Borrfan, J. Pellinen, ecc.
La posizione del Giappone rispetto alla produzione industriale
è quanto mai caratteristica: è noto che questo paese ha saputo
allinearsi con sorprendente velocità al ritmo produttivo dei
paesi occidentali sfornando una congerie di prodotti di ottima
qualità a prezzi di assoluta concorrenza. Quello che appare
tuttavia singolare è che, mentre nel caso della produzione
artigianale il paese ha saputo conservare inalterate le sue
altissime doti di gusto e di originalità, tanto che ancora ai nostri
104

giorni l'artigianato risulta tra i più evoluti e sofisticati, nel


settore del disegno industriale si è avuto spesso una
pedissequa imitazione dei prodotti occidentali senza un parti-
colare apporto stilistico nazionale. Questo vale soprattutto
per gli oggetti di più recente invenzione come radio, televisori,
cannocchiali, apparecchi fotografici, registratori, calcolatrici, ecc.
Uno sviluppo del tutto particolare hanno avuto in questo settore
gli apparecchi radio a transistor che sono divenuti pressoché
paradigmatici della virtù stilizzatrice e miniaturizzatrice del
paese. Se invece rivolgiamo l'attenzione al settore un tempo
artigianale e oggi ampiamente industrializzato, potremo
constatare come alcune peculiarità nazionali sono riuscite a
conservarsi inalterate: così dicasi per la raffinatezza e la
precisione del disegno di alcuni mobili (ad esempio quelli di
Sori Yanagi e di Isamu Noguchi, e di Kenzo Tange) come pure
per le lampade di Yoshida, di Saito, di Shimazuma, le vetrerie
di Awashima, e gli arredamenti di Yamawachi, Watanabe,
Kenmochi; nonché altri prodotti di Iwasaki, Kimura, Mukai,
Nakamura, Shimizu, Yotsumoto, ecc.
Gli inizi di un'attività moderna e cosciente del disegno
industriale italiano si identificano in certo senso con quelli
dell'architettura funzionale; mancando in Italia quella
tradizione industriale che in altri paesi europei, come abbiamo
visto, risaliva già ai primi dell'Ottocento, un risveglio della
coscienza architettonica e disegnativa si ebbe soltanto con
l'inizio della grande battaglia razionalista imperniata sulle
famose Triennali milanesi dell'anteguerra e specialmente su
quella del 1935.
Prima di quest'epoca gli oggetti prodotti dall'industria e le
stesse macchine (da cucire, da scrivere, a vapore) sono ancora
vittime del compromesso ornamentale. È solo, dunque, nel
periodo tra le due guerre che si può parlare di qualche
esempio d'un certo rilievo in questo settore: è il caso della
Lancia Aprilia del 1937, ed è quello degli elettrotreni ETR 200,
la cui sagoma era, per quei tempi (1936), indice d'una certa
maturità formale. Attorno alla stessa epoca si ebbero alcuni
interessanti tentativi anche nel campo del mobile radio (come
105

quello di Figini e Pollini del 1935 e come quello disegnato dai


fratelli Castiglioni e da Caccia Dominioni nel 1939 per la
Phonola). Ma solo in questo dopoguerra si è assistito ad
un'autentica presa di coscienza del problema del disegno, sia
dal punto di vista pratico che da quello teorico.
Nell'immediato dopoguerra (ossia attorno al 1946) le
necessità pratiche d'una rapida ed economica motorizzazione
dettero origine alla nascita del celebre motoscooter Piaggio
chiamato Vespa a cui segui poco dopo la Lambretta Innocenti.
Questi due modesti ma fantasiosi modelli (che dovevano
rivoluzionare il campo della motorizzazione a due ruote anche
fuori del nostro paese), assieme alle esperienze compiute nel
campo automobilistico (coi famosi esempi di alcune macchine
come l'Aurelia GT, la Cisitalia di Pininfarina, ecc.), dovevano
dare l'esempio a molte altre industrie italiane additando
l'importanza del fattore estetico sulla vendibilità del prodotto.
Altri settori in cui negli stessi anni si ebbe un intenso
sviluppo furono quelli delle macchine da scrivere - dove prima
la Lexicon poi la Lettera 22 create da Nizzoli per la Olivetti
dovevano costituire esempi memorabili - e quello delle
macchine da cucire, dove apparvero gli apparecchi ideati da
Nizzoli per la Necchi, da Zanuso per la Borletti e più
recentemente da Mangiarotti e Morassutti per Salmoiraghi.
Notevole anche lo sviluppo degli imballaggi dei prodotti di
plastica, ecc.
Nel campo teorico-critico del disegno industriale la prima
manifestazione d'una certa importanza fu la mostra «La forma
dell'utile», ideata e ordinata da Peressuti e Belgiojoso alla IX
Triennale di Milano; a questa seguì una pili importante
manifestazione alla X ed una grande mostra comprendente una
trentina di personali dei maggiori designers del mondo alla XI
Triennale, mentre in occasione della X Triennale si svolgeva un
grande congresso internazionale, cui parteciparono numerose
personalità straniere come Max Bill, Teague, Le Corbusier,
Wachsmann, ecc. Altra importante manifestazione fu, negli
anni successivi, la mostra ordinata a Londra (da Zanuso e
Dorfles), che doveva riscuotere un notevole successo. In questa
106

mostra vennero esposti tra gli altri prodotti: La Motom di


Frua, la macchina da cucire Borletti di Zanuso, la poltrona
Martingala dello stesso, la Lexicon di Nizzoli, oltre a numerose
interessanti produzioni come i vetri di Poli, le stoffe Jsa, le
ceramiche Ginori. Attorno a questa epoca (1956) ebbero inizio
quelle competizioni istituite dalla Rinascente (Compasso d'oro)
che videro premiati tra gli altri prodotti: il mulinello Atlantic
dell'Alcedo, la serie di tegami di acciaio di Sambonet, un
secchio di plastica di Menghi, numerosi oggetti di plastica della
Kartell di Colombini, l'orologio Solari di Valle, Myer e
Provinciali, i vasi di Vianello, i mobili di De Carlo, lo scalda-
acqua di Rosselli, le lampade Arteluce di Sarfatti,
l'aspirapolvere di Castiglioni, e recentissimamente: un
televisore Brion-Vega di Zanuso, una macchina da caffè Cimbali
dei fratelli Castiglioni, un tavolo di M. Bellini, un vaso portafiori
di Sergio Asti, per non citare che alcuni degli oggetti più
caratteristici. In un secondo tempo (1967) il Compasso d'oro
venne affidato alle cure dell'Adi (Associazione per il disegno
industriale) che ne assunse la gestione e l'organizzazione. Tra
gli oggetti e i progetti premiati nelle ultime edizioni ricorderò:
nel 1967, la macchina utensile Auctor (Olivetti) di Rodolfo
Bonetto, la lampada Eclisse (Artemide) di Magistretti, il
telefono Grillo (Siemens) di Zanuso, l'apparecchio ricevente
(Phoebus) dei Castiglioni, la lampada Spider (O-Luce) di Joe
Colombo, le ricerche di design di Enzo Mari; e nel 1970,
l'elaboratore elettronico (GE) di Sottsass, la calcolatrice
(Olivetti) di Mario Bellini, il Meteor (Orlandi) di Rosselli, la
poltrona Soriana (Cassina) di A. e T. Scarpa, la produzione di
Sambonet (per la Sambonet) l'apparecchio per microfilm
(BCM) di Bonetto.
Non sarebbe, ovviamente, possibile un'elencazione,
neppure approssimativa, di tutti gli oggetti d'un certo rilievo
prodotti negli ultimi anni in Italia e all'estero. È anzi
opportuno, fare, a questo punto, un rilievo essenziale riguardo
le attuali condizioni del design internazionale.
Mentre negli anni immediatamente successivi alla guerra
era possibile identificare e selezionare con una certa facilità i
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pochi esemplari degni d'essere considerati significativi dal


punto di vista sia tecnico che estetico; oggi, l'aumento
vertiginoso dei prodotti, dovuto in buona parte all'indirizzo
consumistico che ha assunto la nostra civiltà, specie nei paesi
dell'Occidente capitalistico, ha fatto sì che nella marea degli
oggetti sfornati in continuazione, sia sempre più difficile
compiere una selezione. Da un lato il livello medio del design
si è indubbiamente elevato; dall'altro è venuta a far difetto
una ricerca meditata e precisa. Molto spesso la stessa
coscienza dellʼeffimericità dei prodotti induce il designer a
sbizzarrirsi in progetti la cui validità è dubbia dal punto di vista
tecnologico ed economico, ma è efficace dal punto di vista
pubblicitario e quindi dello smercio. Una globale tendenza
verso l'aspetto «informale», ad esempio, ha colpito il settore
del mobile, mentre in altri settori la miniaturizzazione ha di per
sé portato alla scomparsa dell'oggetto.
Assistiamo dunque a quella che è stata spesso definita
come «crisi dell'oggetto». Crisi, del resto, che va di pari passo
con quella in atto nel settore dell'architettura. Senza volere
né potere far previsioni che sarebbero azzardate, ritengo che
questo periodo di crisi possa essere superato soltanto
attraverso profonde trasformazioni del sistema economico-
sociale oggi in atto.

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