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Nel principiare relativo all’ambito discorsivo inerente l’opera italiana seicentesca v’è da esplicare il fatto che

l’opera possa definirsi quale genere misto, in quanto si costituisce da differenti particole: l’ambito artistico
drammatico, ossia ciò che è inscenato, rappresentato o che abbia l’intento di allusione a tale azione;
l’ambito musicale, il racconto è cantato, musicato; spettacolo scenico alla ricerca di un equilibrio, in quanto
vi si ha un pubblico non totalitariamente educato all’ascolto di un raccontato cantato e non enunciato.

Nel fluire dell’evo storiografico musicale seicentesco s’assistette al mutamento dell’opera di tipologia di
corte ad opera impresariale. Si ponderi in relazione al fatto che v’è un lasso temporale maggiore di
trent’anni fra le opere che Claudio Monteverdi scrisse a Mantova – “L’Orfeo”, “l’Arianna” – 1607 – 1608 –
da quelle che compose a Venezia. Esempio: 1640 “Il ritorno di Ulisse in patria” e fra esse vi sia, di fatto, una
differenza sostanziale relativa alla committenza, all’occasione esecutiva, al pubblico a cui vi si rivolge,
all’argomento. In meno di mezzo secolo s’era attuato il processo mutativo dell’opera. Esplicato tale incipit
riavvolgiamo l’ambito discorsivo.

A Firenze gli esordi operistici, ivi vi fu il tentativo esecutivo primario d’uno spettacolo interamente cantato,
il quale presentava similitudini con il recitar cantando e si poneva come fine celebrativo d’un avvenimento
la realizzazione di un evento fastoso; conseguenzialmente cotali tipologie primarie si costituivano da
spettacoli realizzati dal personale di corte a cui accedeva un pubblico sceltissimo tramite invito. Talvolta il
principe di corte investiva al fine d’enfatizzare la sua magniloquenza in relazione alle corti rivali.

Si diffuse l’eco di cotali per mezzo di resoconti dei diplomatici invitati, scenografi e pubblicazioni delle
descrizioni, ne conseguì una prevedibile emulazione da parte di tutte le corti al fine estetico di impiegare
l’opera con la funzione rituale testimone della magnificenza propria.

La realizzazione operistica che può essere scissa da tale destinazione fu la primaria realizzazione dell’Orfeo,
a Mantova da parte dell’accademia degli invaghiti seppur con il patrocinio ereditario dei Gonzaga, corte che
susseguentemente organizzò ulteriori rappresentazioni operistiche. Si ponderi in relazione al fatto che
malgrado cotale impegno, città promotrice del genere fu Roma, ove ella trovò accoglienza nei palazzi della
nobiltà e dei cardinali nonché in seminari religiosi cattolici. Conseguenzialmente ivi s’assunse una
connotazione legata alla cattolicità della città. Dunque vi fu una cospicua presenza di intrecci relativi alle
trame biografiche dei santi, accanto alla mitologia classica.

Si cogiti che lo spettacolo primordiale in assoluto nell’ultimo stile monodico si svolse a Roma e si distinse
dal contenuto moralistico fortemente enfatizzato; ivi giungiamo al 1600 alla Congregazione dell’Oratorio
nel Carnevale e fu la “rappresentazione di anima et corpo” di Emilio De Cavalieri. Tra i disparati modelli
citabili, lo spettacolo che segnò l’albore della mutazione fu il “Sant’Alessio” di Stefano Landi - 1631.

Essa fu una delle prime opere a mettere in scena l’ambito biografico dei santi, con protagonista un uomo
concreto con annessi drammi interiori, inaugurando il filone agiografico dell’opera romana cui seguirono
molteplici spettacoli incentrati sulla vite dei santi, quali SS. Didimo e Teodora, Bonifatio, Eustacchio ecc.

In secondo luogo, inaugurò la stagione delle così dette opere barberiniane e v’è da porre in rilievo cotale
aspetto, si cogiti che - I Barberini erano la famiglia romana più potente di quegli anni e durante il
pontificato di Matteo Barberini i suoi nipoti tennero le redini del potere finanziando numerosi spettacoli nei
palazzi della città, nei giardini adiacenti, il fasto degli artisti eminenti del tempo, la stagione barberiniana fu
talmente imponente da essere considerata quasi sinonimo di opere romane della prima metà del seicento.

Terza ragione di importanza risiede nel fatto che il suo libretto fu scritto da un letterato eminente Giulio
Rospigliosi, nonché perlarto al servizio della famiglia Barberini. Altresì l’uso di uno stile concitato, una
retorica verbale atta a suscitare la commozione inerente allo spettatore ed ulteriormente v’è da citare il
fatto che venne inserito una particola estranea ai primordi fiorentini, ossia l’elemento comico. Personalità
che suscitavano ironia, si pensi ai servitori di ceti inferiori, elemento che gradualmente con Rospigliosi
giunse alla compilazione di commedie musicali pur sempre aventi il fine moralistico, si pensi al Falcone e Chi
soffre e chi speri in cui v’è un protagonista ispirato da una novella di boccaccio.

Rospigliosi conobbe la produzione teatrale iberica avendo soggiornato in Spagna come nunzio apostolico e
la Spagna del ‘600 viveva un rigoglioso periodo di fioritura teatrale di prosa, contaminazione che
conseguenzialmente fu inevitabile nell’ambito operistico italiano, forte affinità nonché storiograficamente
legata alla giacenza del territorio italiano sotto il dominio spagnolo.

Si adottarono intrecci e personaggi di matrice iberica, la non osservanza delle regole aristoteliche fu una
affinità maggiormente enfatizzata, in particolare non essere vincolati dall’unità di tempo, di fatto
l’autorevolezza produttiva spagnola giustificò le frequenti infrazioni alle regole classicistiche da parte dei
librettisti italiani.

La morte di Papa Urbano VIII nel 1644 e l’avvento al potere della rivale famiglia Pamphilj con l’elezione del
Papa Innocenzo X segnarono il declino delle attività operistiche barberiniane. - Rospigliosi fu inviato come
nunzio apostolico in spagna, Barberini fuggì da Roma e ivi ritorneranno circa dieci anni dopo – evo in cui vi
fu la rappresentazione di “dal male il bene” - 1653 – la quale festeggiò la riconciliazione fra le due famiglie.

V’è d’esplicare che a tal snodo storiografico, l’asse operistico si era spostato al nord, in particolare a
Venezia ove venne in contatto con una tipologia sociale contrapposta all’ambito fiorentino, mantovano o a
romano; società che per quanto potesse essere minata dalle crisi economiche seicentesche, custodiva
ardentemente la vita culturale favorita dalla libertà di stampa e d’ideologia morale, cogitativa, di pensiero
nonché da una circolazione di capitali che neppure guerre e carestie avevano arrestato. Intuibile come uno
spettacolo cortigiano dovesse ivi subire un rinnovamento, una profonda trasformazione ed il punto di volta
di quest’ultima avvenne nel 1637 quando un gruppo di musicisti rappresentò l’opera “Andromeda” su
libretto di Ferrari e musica di Manelli recuperando le spese dell’allestimento dalla vendita dei biglietti. Così
l’opera assunse un’ulteriore fisionomia, essa non era elargita da un principe, era divenuta un’impresa
commerciale ai fini di lucro. Tuttavia, il fatto che chiunque potesse accedervi non significava che essa fosse
divenuta popolare, i costi dei biglietti erano tali che, in genere, esclusivamente l’aristocrazia poteva
accedervi, la costituzione del pubblico non mutò radicalmente tra opera di corte e la così denominata opera
impresariale.

Deducibile conseguenzialmente l’andarsi coniando inerente ad una nuova figura professionale, quella
dell’impresario, il quale investiva il suo capitale al fine di coprire le ingenti spese inerenti la
rappresentazione dello spettacolo; egli spesso parallelamente svolgeva un ulteriore lavoro ed aveva
provenienze nobili; oltre alla copertura spese relativa all’allestimento, egli doveva retribuire il compositore
dell’opera, i cantanti, gli orchestrali, lo scenografo, il personale tecnico, il copista. Le uniche spese che non
erano a suo carico, erano cotali inerenti alla stesura del libretto; il librettista non veniva pagato, in quanto
era spesso di condizione nobile e gli spettava l’intero incasso della vendita al pubblico dei libretti stessi. Di
fatto, per l’impresario la fonte di guadagno era la vendita dei biglietti, chiunque volesse accedere doveva
acquistarne uno; v’è da enfatizzare altresì c’essi erano differenziati per ciò che concerne la quota, in quanto
se volevi una postazione in platea ed assistere stando seduto affittavi una sedia, se volevi leggere
comodamente il libretto acquistavi delle candele. Guadagni però troppo legati all’afflusso del pubblico,
condizione mutevole e variabile nel momento in cui la gran parte delle spese erano state già sostenute.
Conseguenzialmente, si giunse per tanto all’ideologia di affittare per l’intera stagione i palchetti del teatro;
le famiglie aristocratiche, fornivano all’impresario una notevole quantità di denaro ad inizio stagione e
potevano disporre di uno spazio esclusivo all’interno del teatro. Fu quindi con il diffondersi dell’opera
impresariale che si andarono costituendo i così denominati nuovi teatri all’italiana con la forma
architettonica classica del teatro d’opera.

V’è da ponderare in relazione al fatto che mantenere un equilibrio tra costi e guadagni non era ambizione
docile e facile. L’opera era uno spettacolo costosissimo e per quanto si cercasse di ridurre le spese la
storiografia narra di innumerevoli fallimenti, arresti e fughe degli impresari. Fin dal seicento, accadde che
gli spazi dai ridotti dei teatri vennero adibiti al gioco d’azzardo, i cui proventi permettevano di proseguire la
gestione totalitaria dell’ambito all’impresario. Altresì v’è da citare in relazione all’argomento del libretto, su
cui vi furono impressi numerosi cambiamenti che da Venezia propagarono in tutt’Italia, si prediligevano i
temi mitologici come le prime opere di corte - Andromaca di Ferrari e Manelli - 1637 – tuttavia, al loro
fianco s’estese un filone tipico della produzione veneziana, erede delle grandi tradizioni romane e troiane,
intrecci desunti dall’Eneide o dalla storia antica. Ecco Monteverdi con il Ritorno di Ulisse in patria su libretto
di Giacomo Badoaro – le nozze di Enea con Lavinia e si pensi, il suo celebre allievo Francesco Cavalli che
produsse Didone ed Egisto. V’è, in conclusione, da ottemperare una breviloquente citazione storiografica,
in quanto nell’evo risalente al 1645 l’isola di Candia Creta, possedimento veneziano, fu attaccata
dall’esercito turco e ivi fu il primordio di un dissidio contro l’impero ottomano, un estenuante pericolo per
l’Europa; si pensi che si concluse a settecento inoltrato. Frangenti ardui in cui Venezia fu alleata tanto con
l’impero asburgico tanto quanto con il papato. Lega che interessò la Polonia, Venezia, Roma, vicende che
accelerarono la diffusione delle ideologie e dell’opera veneziana, con la riserva del libretto che fu
influenzato dalla congiuntura bellica che non permetteva una libera scelta inerente alle trame doventi
rispecchiare le ideologie delle classi dominanti al fine di evitare propagande politicamente differenti dalle
proprie ideologie dominanti. Così prevalsero le trame eroiche, si pensi al Pompeo magno del 1666 di Cavalli
o al Vincitor di se stesso di Cesti nel 1651.

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