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2016 0304124546 Diritto DEL Lavoro-1

Diritto del lavoro (Università di Bologna)

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DIRITTO DEL LAVORO

INTRODUZIONE

1. Il diritto del rapporto individuale: origini e caratteri fondamentali.


Il diritto del lavoro si divide in tre parti fondamentali:
- il diritto del rapporto individuale del lavoro;
- il diritto sindacale;
- il diritto della previdenza sociale.
Il punto di riferimento dell’intero corpo giuslavoristico è il diritto del rapporto individuale di lavoro
che ha visto il consolidasi della figura del lavoratore subordinato, cioè di colui che si impegna a
prestare il proprio lavoro... “alle dipendenze e sotto la direzione” di un datore di lavoro (art. 2094
cod. civ.)
Il diritto del rapporto individuale di lavoro e il diritto sindacale risultano influenzati dalle diverse
fasi che hanno caratterizzato la storia del nostro paese.
La locazione di opere La prima fase (metà ‘800) è caratterizzata da un limitato intervento legislativo
in materia di rapporto di lavoro subordinato e dalla repressione penale dell’attività sindacale; si fa
rientrare l’attività lavorativa nello schema della locazione di opere: mentre la locatio operis (cioè il
lavoro autonomo) ha un’intera regolamentazione nel code civil, la locatio operarum (cioè il lavoro
subordinato) ha una sola norma all’interno del codice stesso, l’art. 1628 che prevede l’illiceità di
rapporti di lavoro che non abbiano un termine, considerati una forma di schiavitù. In tale ambito
dunque dominava l’autonomia privata (in conformità all’ideologia liberale, ispirata al principio di libertà di
concorrenza, secondo cui doveva essere il mercato a fissare i salari e le condizioni di lavoro in generale, e non la

legge)..

La legislazione sociale La seconda fase (quella della c.d. legislazione sociale) si colloca a cavallo tra la
fine dell’800 e l’inizio del 900, ed è caratterizzata, sotto il profilo penale, dalla fine della
repressione penale dell’attività sindacale, e sotto il profilo civile, dalla promulgazione di alcune
leggi in materia di lavoro volte a disciplinare alcuni aspetti particolarmente gravosi delle condizioni
di lavoro (la legislazione sociale). Infatti l’aumento dei lavoratori delle braccia, avvenuto dopo la
rivoluzione industriale, aveva determinato il diffondersi delle prime forme di autotutela, delle prime
lotte. L’aggravarsi della questione sociale portò all’approvazione di norme volte ad affrontare due
autentiche piaghe sociali della prima industrializzazione: lo sfruttamento delle mezze forze di
lavoro (fanciulli e donne) e il trasferimento del costo economico degli infortuni e delle malattie
professionali sulle spalle dei soli lavoratori lesi. Si trattava di una serie di disposizioni di legge
dettate in deroga ai principi del codice civile, che si affiancarono alla codificazione civile del 1865
per proteggere il lavoratore in quanto contraente più debole nel rapporto di lavoro.

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Sempre al fine di proteggere il lavoratore il Codice Zanardelli elimina il reato di coalizione,


tollerando, in tal modo, il fenomeno sindacale.
La disciplina separata del lavoro impiegatizio Per trovare la prima legge che si faccia carico di
regolamentare organicamente il rapporto di lavoro individuale dobbiamo aspettare il d. lgs. 1919 n.
112 (sostituito poi dal R.d.l. 1924 n. 1825), il quale disciplina il contratto di impiego privato. Con
questa legge il legislatore fornisce agli impiegati privati uno status giuridico organico,
tendenzialmente comparabile a quello già introdotto per gli impiegati pubblici.
Questa è stata considerata una legge storica, perché contiene la prima definizione di contratto di
lavoro subordinato, anche se limitata al lavoro impiegatizio, e perché contiene una disciplina
anticipatoria rispetto a quella del codice del 1942.
Il carattere unilaterale della inderogabilità La particolarità della disciplina del contratto/rapporto
individuale di lavoro, rispetto a quella del diritto civile, sta nel fatto che nel primo viene rimesso in
discussione il principio fondamentale della parità formale dei contraenti, legittimati a trovare
liberamente il punto di compromesso dei loro interessi, per tenere conto della disparità fra datore e
lavoratore. Il lavoratore è considerato un soggetto debole del rapporto poiché il suo stipendio è la
fonte esclusiva per il suo sostentamento e quello della propria famiglia, così da costringerlo a
trovare un posto retribuito. Ciò lo pone in uno stato di inferiorità nel momento in cui deve trattare
condizioni e termini della sua assunzione con il datore, in grado di scegliere in un mercato
altamente concorrenziale. La debolezza sul mercato del lavoro, che può condizionare il contenuto
del contratto in senso sfavorevole al lavoratore,continua in quella esistente nel corso dello
svolgimento del rapporto, caratterizzato da una soggezione al datore di lavoro fornito di un potere
direttivo e disciplinare. Dunque il diritto del lavoro si presenta come un diritto “diseguale”, cioè
diretto a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di un diverso potere nella conclusione del
rapporto; e ciò, all’inizio, prefissando questo contenuto ex lege, sottraendolo alla libera disponibilità
dei contraenti.

2. Il periodo corporativo
Questa fase, che coincide col ventennio fascista, va dal 1926 all’estate del ’43 e si caratterizza per
un irrigidimento dell’intera struttura sindacale e per l’illiceità di qualsiasi forma di conflitto
(sciopero o serrata). In particolare:
- la legge del 1926 riconosce la personalità pubblica ad un solo sindacato di datori e
lavoratori per ogni categoria produttiva e solo i sindacati così riconosciuti, hanno ex lege la
rappresentanza di tutti i componenti della categoria sicché i contratti collettivi da questi

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conclusi assumono efficacia per l’intera categoria (erga omnes), con effetti simili alle
norme di legge.
- Viene introdotta la magistratura del lavoro, chiamata a sostituirsi alle parti quando queste
non fossero in grado di mettersi d’accordo, private della possibilità di ricorrere allo sciopero
e alla serrata nuovamente considerati come reati;
- viene costituita la camera dei fasci e delle corporazioni con la legge del 1938.
In questo periodo viene elaborato il libro V del codice civile del 1942, “del lavoro”, che disciplina
sotto lo stesso titolo sia il lavoro dell’imprenditore individuale e collettivo, sia quello del lavoratore
subordinato e autonomo e si afferma inoltre la concezione gerarchica della comunità di lavoro, con il datore nel
ruolo di capo e il prestatore di lavoro subordinato in quello di collaboratore diretta all’interesse dell’impresa e di quello
superiore della produzione nazionale.
Con il corporativismo dunque i sindacati vengono trasformati in organi burocratici, privi di spinta
conflittuale e di effettiva rappresentatività.

3. La Costituzione
Con la caduta del fascismo (1943), la conseguente fine del corporativismo e l’emanazione della
costituzione (1948) si apre una nuova fase storica dello sviluppo del diritto del lavoro e delle
relazioni industriali.
Se con il codice civile del 1942 la disciplina del rapporto di lavoro aveva perso il suo carattere di eccezionalità a seguito
dell’inserimento nella codificazione unificata del diritto privato; con la costituzione, i principi fondamentali della
disciplina del rapporto di lavoro trovano una definitiva e più alta consacrazione nel testo costituzionale.
La costituzione in particolare dedica al rapporto di lavoro:
- l’art. 1 Cost., che pone come base dell’ordinamento repubblicano il lavoro, comprensivo di
ogni attività socialmente rilevante;
- l’art. 4 Cost., 1° comma, che riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro;
- l’art. 3, 2° comma, che sancisce il principio di uguaglianza sostanziale.
Oltre a questi principi, di portata più generale, nella Parte prima del titolo 3° (dedicato ai rapporti
economici) ve ne sono altri che si occupano del rapporto di lavoro e del fenomeno sindacale. Tra
questi spiccano:
- gli artt. 39 e 40 che riconoscono rispettivamente la libertà di organizzazione sindacale e il
diritto di sciopero.
- l’art. 35, 1° comma, che pone a carico della Repubblica la tutela del lavoro “in tutte le sue
forme e applicazioni”;

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- l’ art. 36 che riconosce il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ed il diritto


al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, rinviando alla legge per la fissazione della
durata massima della giornata lavorativa
- l’art. 37 che prevede una disciplina di tutela per la donna lavoratrice e i minori.
- L’art. 41 che riconosce la libertà dell’iniziativa economica privata, ma ne vieta lo
svolgimento in contrasto con l’utilità sociale o quando essa rechi danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana.
Dunque, con il varo della Costituzione, quegli stessi artt. 2094 ss. acquistano un rilievo particolare,
in ragione del fatto che il rapporto di lavoro interprivato ha un importante riconoscimento
all’interno della stessa.

4. la legislazione post-costituzionale. Dalla normativa paternalista-individualista degli anni 50 e 60


a quella garantista-promozionale dello Statuto dei lavoratori.
Gli anni 50 e 60 Negli anni 50 e 60, in un clima di mancata applicazione delle norme costituzionali e di ripulitura
del codice dai residui del corporativismo, matura la stagione paternalista-individualista caratterizzata da
una astensione del legislatore sul piano collettivo, con riguardo agli artt. 39 e 40 Cost., e da un forte
intervento dello stesso sul piano individuale. In pochi anni vengono emanate diverse leggi al fine di
proteggere i singoli lavoratori.
Esempi ne sono la legge Vigorelli del ’59 (che prevede il recepimento con decreto dei contratti
collettivi stipulati sino a quel momento, allo scopo di garantire minimi di trattamento economico e
normativo a tutti i lavoratori appartenenti ad una stessa categoria), la L230/1962 (sul contratto a
termine), e la L604/1966 sui licenziamenti individuali.
Lo Statuto dei lavoratori La successiva stagione, denominata autunno caldo del 69, vede la nascita
dell’intervento legislativo più importante del periodo repubblicano, lo statuto dei lavoratori del
1970 il cui obiettivo è quello di rendere operativi i diritti riconosciuti dalla Costituzione, anche
all’interno dei luoghi di lavoro, non solo garantendo la presenza del sindacato, ma tutelando
direttamente la posizione del singolo lavoratore.

5. Il passaggio dagli anni 70 agli anni 80: dall’emergenza alla flessibilità.


Il diritto del lavoro dell’emergenza Dopo il primo shock petrolifero l’Italia si trova di fronte a due
problemi: la stagnazione del prodotto interno lordo e l’inflazione con un aumento della
disoccupazione. Viene prodotta così, nella seconda metà degli anni 70, una legislazione c.d.
“dell’emergenza”, diretta a favorire la ristrutturazione industriale con una mobilità dei lavoratori e a

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favorire l’assunzione dei giovani attraverso i contratti flessibili, quali quelli di formazione e lavoro;
e diretta a contenere la dinamica della scala mobile per rallentarne la ricaduta inflativa.
La scala mobile era un meccanismo di adeguamento automatico della retribuzione dei lavoratori dipendenti all’aumento
del costo della vita; l’aumento del costo della vita era a sua volta determinato sulla base della variazione del prezzo di
alcuni beni di consumo (il paniere). Lo scopo dell’introduzione della scala mobile doveva essere quello di mantenere
inalterato il potere d’acquisto salariale. A questo scopo dal 1946 fu prevista in Italia, sulla base della contrattazione
collettiva, la presenza di una quota integrativa del salario detta indennità di contingenza il cui importo, oltre a essere
proporzionato a fattori quali l'età o la qualifica del lavoratore, veniva periodicamente rivalutato in base alle variazioni
intervenute nei prezzi di alcuni beni e servizi ritenuti rappresentativi dei consumi della famiglia tipo (paniere). Tuttavia
lo stesso meccanismo della scala mobile innescava a sua volta dinamiche inflazionistiche, in relazione alla sue
connessioni con il PIL. Infatti un aumento dei salari al di sopra della produttività (per quanto in linea con l’inflazione
corrente) è causa di nuova inflazione. Se aumentano i salari e l’utile rimane invariato si genera un aumento della moneta
circolante non corrisposto da una crescita della ricchezza prodotta e dunque, una spirale inflazionistica. Questa
legislazione dell’emergenza mirava a favorire la difesa e la crescita dei livelli di occupazione, prevedendo l’estensione,
sia pure controllata e contrattata, delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro (contratto a termine e a tempo
parziale; contratto di formazione e contratti di solidarietà).
Inoltre nel corso degli anni ’70 matura un profondo cambiamento nel ruolo dello Stato nelle relazioni industriali. Da
mediatore che cerca di garantire le regole del gioco, lo Stato diviene un “giocatore” nelle dinamiche delle relazioni
industriali e vi interviene quale gestore di risorse proprie richiedendo ai sindacati comportamenti di moderazione, specie
salariale e di contenimento della conflittualità; e ai datori di lavoro richiede un tasso elevato, o almeno regolare,
d‘investimento. Tra i 3 attori delle relazioni industriali (Stato, sindacati e datori)si realizza in tal modo quello che è stato
definito “scambio politico”. La concertazione e l’intervento pubblico dunque danno vita allo scambio politico, i cui
primi frutti possono essere intravisti nei protocolli triangolari del ’77, dell’83 (protocollo Scotti) e dell’84 (protocollo di
S. Valentino, che inferse il primo duro colpo al meccanismo della scala mobile).

Nei primi anni 80 si cerca di ripristinare l’equilibrio dell’economia attraverso la concertazione


triangolare e con la politica dei redditi, introdotta con il Protocollo Scotti del 1983 e terminata con il
Protocollo di S. Valentino del 1984. In questi anni inoltre cambia la struttura produttiva ed
occupazionale con il passaggio da un modello di sviluppo industriale ad uno terziario che
determina una crescente competizione mondiale; per cui la legislazione sorta con la sua
caratteristica di emergenza diviene una legislazione flessibile, ideale per i continui cambiamenti dei
mercati, dei prodotti, dei processi.
Tre novità vengono introdotte in questo periodo nell’ambito del diritto del lavoro:
- La negoziazione triangolare la concertazione triangolare – che comporta la partecipazione del
Governo negli accordi tra le parti sociali attraverso una spendita di risorse pubbliche.
Questo intervento pubblico è determinato in gran parte dalla necessità di frenare l’inflazione
causata dalla scala mobile e a questo scopo sono emanate alcune misure che prevedono
dei“tetti massimi” per i trattamenti dei lavoratori, inderogabili, non solo in peius, ma anche
in melius.

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- La diversificazione dei tipi di rapporto la moltiplicazione dei tipi di rapporto – la


terziarizzazione della produzione e dell’occupazione ha portato sia una frammentazione
dell’azienda, che suddivide la sua produzione su diverse unità via via più piccole, sia una
moltiplicazione della domanda di lavoro fondata su una maggiore flessibilità di tempo,
intensità e autonomia. La legislazione cerca di far fronte a questo processo con
l’introduzione di forme di lavoro parasubordinato, cooperativo, part-time.
- Tendenze alla deregolazione del diritto del lavoro La deregolazione del diritto del lavoro – la
frammentazione del mercato e dell’impresa, che richiede una maggiore adattabilità della
forza lavoro, determina anche una riduzione della dote di garanzie inderogabili ex lege. Può
esserci una deregolazione “secca”, quando viene meno la copertura legislativa imperativa a
favore di una maggiore autonomia individuale (come in Gran Bretagna) e una deregolazione
“controllata”, anche questa con una riduzione della dote legale inderogabile, ma per istanze
amministrative o dell’autonomia collettiva (come nel nostro paese).

6. Gli anni 90: la stagione di mezzo.


Nel corso del decennio ’90 non ci sarà nessun intervento sullo Statuto dei lavoratori (che era stato elaborato a favore dei
lavoratori stabilmente occupati nelle grandi e medie realtà produttive), piuttosto si interviene al di fuori di questo
comportando una divaricazione tra diritto del lavoro maggiore (per gli occupati a tempo indeterminato e pieno delle
grandi e medie imprese, sindacalizzate) e diritto del lavoro minore (per tutti gli altri). Divaricazione accentuata dalla
presenza e rispettivamente assenza della contrattazione aziendale.
Il metodo della concertazione e gli accordi interconfederali Gli anni ’90 devono fare i conti con i problemi
del risanamento e della stabilizzazione economica. . Dopo una lunga pausa, ritorna la stagione dei
protocolli, con una istituzionalizzazione e formalizzazione della concertazione triangolare, sempre
all'insegna della politica dei redditi, resa drammaticamente necessaria dall'accentuarsi della crisi
finanziaria proprio alla vigila della nascita dell'euro. All'accordo interconfederale del 23 luglio 1993, che
rende stabile la concertazione e riscrive il modello di contrattazione collettiva a tutt'oggi in vigore, segue il protocollo
del ’96 (Patto per il lavoro) che, nel tentativo di rispondere all’esigenza di risanare i conti pubblici, in vista degli
impegni assunti a Maastricht, si concentra sulle tematiche occupazionali (introduzione del lavoro interinale, riforma del
part-time; riforma della disciplina dei LSU). Con l’accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione del ’98 (Patto di
natale) la concertazione diviene istituzionalmente lo strumento di coordinamento tra ordinamento statale e autonomia
collettiva, ma anche tra ordinamento nazionale e Unione Europea.
La privatizzazione del pubblico impiego Da questa crisi finanziaria derivano due importanti riforme: la
privatizzazione del pubblico impiego e la modifica della normativa previdenziale. Di fatti il D. Lgs.
3 febbraio 1993, n. 29 prevede che il pubblico impiego sia disciplinato non più dal diritto pubblico,
ma dal diritto privato, cioè non più dal diritto amministrativo ma dal diritto del lavoro, unificando in

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tal modo sotto la disciplina del diritto comune quasi tutto il rapporto di lavoro subordinato al fine di
rendere l’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni meno costoso e burocratico.
La riforma previdenziale Anche la materia pensionistica subisce delle importanti modifiche attraverso
l’introduzione della previdenza obbligatoria (L. n. 335 del 1995) e della previdenza integrativa (D.
Lgs. n. 124 del 1993).
La legislazione che riguarda il rapporto di lavoro è caratterizzata da due tendenze diverse:
- Una tendenza ri-regolativa diretta ad allargare l’area della tutela e ad adeguare la normativa
stessa all’evoluzione economico-sociale. Questa tendenza vedrà l’emanazione di diverse
leggi tra le quali quella sui licenziamenti individuali, quella sul riconoscimento delle pari
opportunità fra lavoratori e lavoratrici...
- Una tendenza de-regolativa (controllata) del secolo precedente, che rimette alla pubblica
autorità determinate situazioni del diritto del lavoro derogando alle norme imperative. Ne
costituiscono esempi la legge 223/1991, che delega al sindacato il delicato compito della
gestione dei processi di crisi e ristrutturazione delle imprese (l’individuazione di alternative al
licenziamento e la determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare collettivamente o da collocare

in mobilità); oppure la L 196/1997 (c.d. pacchetto Treu), che introduce il lavoro interinale e
rende flessibili una serie di istituti, tra cui l’orario di lavoro.

7. Il diritto del lavoro, la globalizzazione e l’Europa


Globalizzazione dell’economia e nazionalità del diritto del lavoro La “globalizzazione” ha comportato
un’intensa comunicazione tra le diverse economie nazionali, tale da determinare una (sua)
dimensione autonoma rispetto a quella dei singoli Stati, costretti ad adattarvisi. Il che comporta una
ricaduta incisiva proprio su quei settori degli ordinamenti interni, cresciuti e consolidatisi in termini strettamente
nazionali, che hanno storie e realtà socio-economiche peculiari come, i sistemi di relazione collettive e i regimi
disciplinanti i rapporti di lavoro. Tutto questo riduce i margini di competizione sui mercati mondiali, incoraggiando la

delocalizzazione industriale e disincentivando l'entrata/permanenza di capitali esteri. Si avvia così un percorso


verso un'Europa comunitaria attraverso diverse tappe:
- il Trattato di Roma del 1957 ha costituito, fra i sei paesi fondatori, inclusa l’Italia, un
mercato comune, aperto alla libera circolazione dei capitali, dei servizi e dei lavoratori;
nell’ultimo ventennio questo trattato è stato modificato, con la correzione dell’iniziale deficit sociale, ed è
aumentata l’importanza per le tematiche dell’occupazione, della flessibilità del lavoro, della parità tra
lavoratori e lavoratrici, della salute e sicurezza del lavoratore...
- il Trattato di Maastricht del 1992, insieme all’Accordo sulla politica sociale ad esso
allegato, ha trasformato la Cee in UE con una estensione delle sue competenze sociali;
l’Accordo (allegato al trattato) autorizza il Consiglio dei Ministri dei singoli Paesi
dell’Unione a decidere, su alcune materie sociali, in base alla regola di maggioranza e non
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più quella dell’unanimità e valorizza la mediazione sindacale come strumento per realizzare
ed attuare la politica sociale comunitaria. Tale accordo, però, è stato firmato da undici stati
membri su dodici, con eccezione del Regno Unito, per cui inizialmente è rimasto un
semplice allegato al trattato privo di effetti.
- Il Trattato di Amsterdam , entrato in vigore nel 1999, realizzerà l’incorporazione
dell’Accordo nel Trattato originario. Questo trattato dedica il Titolo ottavo alle tematiche
occupazionali, promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri, per raggiungere obiettivi
comuni, cd. strategia europea per l’occupazione.
- Il Trattato di Nizza prosegue l’opera di unificazione con il fine di rifondare il diritto
europeo. A tal proposito è stata presentato il progetto di Costituzione Europea con lo scopo
di imporre valori e principi comuni tra gli Stati. E’ forte così l’intervento del diritto
comunitario sui diritti del lavoro nazionali. Ciò è dimostrato dalle diverse direttive che
hanno interessato il nostro ordinamento nella seconda metà degli anni ’90 e che il Patto
sociale per lo sviluppo e l’occupazione, intende recepire con il metodo concertativo.
Tuttavia molte materie giuslavoristiche sono ancora sottratte alla competenza comunitaria, mentre
altre restano soggette alla regola dell’unanimità.
Il Libro Verde e la flessicurezza La Commissione Europea, nel 2006, ha redatto un Libro Verde sulla
modernizzazione del diritto del lavoro: è un documento che sintetizza le opinioni degli Stai membri
e della Comunità sulla opportunità di promuovere la flessicurezza, capace di tutelare l’esigenza di
flessibilità (allentamento dei vincoli nella regolamentazione del rapporto) e la sicurezza dei
lavoratori, aumentando le tutele che operano sul mercato.
Il Trattato di Lisbona Il Trattato di Lisbona, del 13 dicembre 2007, abbandona l’idea di unificare la
precedente normativa europea in un solo testo di valore costituzionale (poiché il progetto si era
bloccato) e procede ad una rivisitazione degli attuali trattati, in particolare del trattato istitutivo del
1957 e del Trattato di Maastricht del 1992. Il Trattato è entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il
nuovo sistema istituzionale si fonda su due Trattati: il Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

8. Il rapporto Stato-Regioni.
La riforma del titolo V della Costituzione La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha riscritto il titolo
V della Costituzione. Essa in particolare inverte il rapporto tra legislazione statale e legislazione
regionale: l’art. 117 Cost. elenca, non più le competenze delle Regioni, ma le competenze esclusive
dello Stato. Ne deriva che la legislazione regionale ha una competenza residuale (è di competenza

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esclusiva regionale ciò che non appartiene alla competenza esclusiva statale) che si definisce solo
successivamente rispetto alla determinazione dell’intervento esclusivo dello Stato.
L’endiadi “tutela e sicurezza del lavoro” Il legislatore della riforma include tra le materie oggetto di
competenza legislativa concorrente la tutela e sicurezza del lavoro. Al riguardo la dottrina ha
espresso diverse opzioni interpretative. Da un lato si è tentato di assegnare all’espressione tutela e
sicurezza del lavoro un significato pieno, coincidente con quello di “ordinamento giuslavoristico”.
Dall’altro l’espressione tutela e sicurezza va collegata con la competenza esclusiva dello Stato in
materia di “ordinamento civile”. Secondo quest’ultimo orientamento, che finora ha raccolto maggior consenso tra
gli autori, il diritto del lavoro, in quanto parte dell’ordinamento civile, resta di esclusiva competenza statale, con
l’eccezione della materia della tutela e sicurezza del lavoro, affidata alla competenza concorrente. In tal modo la
competenza regionale viene circoscritta all’attività amministrativa di tutela del lavoro (formazione, assistenza,
collocamento, incentivazione all’occupazione), e si scongiura il rischio di una federalizzazione dei diritti e delle tutele,
tutt’ora di competenza della legislazione statale esclusiva.
L’art. 120 Cost. sancisce che il Governo può comunque “sostituirsi a organi delle Regioni… nel caso di mancato
rispetto di norme e di trattati internazionali o della normativa comunitaria… ovvero quando lo richiedono la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali”; l’art. 117, 2° comma, lett. m) prevede che lo Stato mantiene, invece, la legislazione esclusiva in
tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il
territorio nazionale”.

9. Le prospettive del nuovo secolo tra riforme e controriforme.


Si manifesta forte all’inizio del decennio 2000 una sollecitazione alla ripresa della concertazione
degli anni ’90. Il patto per l’Italia del 2002 ed il Protocollo del 2007 Tale sollecitazione trova risposta nel
c.d. Patto per l’Italia del 2002, accordo concluso tra governo e parti sociali, con lo scopo di tradurre
le disposizioni programmatiche contenute nel Libro Bianco in un’attività di riforma del mercato del
lavoro, capace di assecondare le istanze di flessibilità poste dal contesto economico europeo e
mondiale. Tale tentativo però fallisce. Un tentativo di ripristinare la concertazione sociale lo
ritroviamo, un quinquennio più tardi, nella stipulazione tra pubblici poteri, sindacati e associazioni
imprenditoriali del Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita
sostenibili, c.d. Protocollo Welfare, del 23 luglio 2007, che si concentra sulle tematiche più
importanti della riforma del sistema previdenziale e pensionistico, degli ammortizzatori sociali, del
mercato del lavoro. Anche questo Protocollo però non ha avuto pratica attuazione.
Gli accordi di riforma del sistema contrattuale del 22 gennaio In questi anni dunque la concertazione pare entrata in una
fase di declino. Ciò è dimostrato non solo dai Protocolli del 2002 e del 2007, ma anche dalle vicende che, nell’ambito
delle relazioni sindacali, hanno portato alla stipulazione dell’accordo 22 gennaio 2009 sulla riforma del sistema
contrattuale italiano. Si tratta di un accordo privo della sottoscrizione della Cigl perché considerato separato al
protocollo del 23 luglio 1993 anche se in realtà non era così.

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All’inizio del decennio 2000 si avverte anche la necessità di riformare il diritto del lavoro al fine di
smontare la struttura tradizionale dello stesso, di impostazione garantista e di vocazione nazionale, a
favore di un sistema più flessibile e decentrato.
Tale processo di riforma ha inizio con Il Libro Bianco sul mercato del lavoro, che è un documento
programmatico di livello comunitario che propone una riforma del diritto del lavoro; il tema di
fondo è la flessibilizzazione del mercato del lavoro, che può realizzarsi attraverso:
- una distribuzione graduata delle tutele dei lavoratori con la previsione di un minimo di
garanzie anche per i rapporti di lavoro parasubordinato, come le collaborazioni coordinate e
continuative;
- una moltiplicazione delle tipologie di rapporto di lavoro, con la previsione di nuove
fattispecie (lavoro a progetto, lavoro intermittente, lavoro ripartito);
- L’accentuazione della deregolazione, specie sotto il profilo del rapporto tra contratto
collettivo e contratto individuale;
- La sospensione; temporanea e sperimentale, degli effetti di cui all’art. 18 St. lav., finalizzata
a promuovere l’occupazione.
La legge delega n. 30/2003 La sottoscrizione del Patto per l’Italia portò all’emanazione di una legge delega al governo,
la L. 30/2003 (legge Biagi) che, a sua volta, porterà al D. lgs. 276/2003, il quale eserciterà la delega in materia di
mercato del lavoro attribuita al governo dalla legge Biagi.

L’attuazione delle indicazioni programmatiche del Libro Bianco, non sarà integrale. Dal disegno
originario prefigurato dal Libro Bianco, infatti, verrà tolta la parte relativa alla sospensione degli
effetti dell’art. 18. La mancata sottoscrizione del patto da parte della CGIL è da ricondursi proprio
al rifiuto (della cgil) di accettare una riduzione delle tutele ai lavoratori, con particolare riguardo
alla parte relativa alla sospensione degli effetti dell’art. 18 St. lav. (reintegrazione nel posto di
lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo), introdotta sotto forma di possibilità di non computo di alcune
categorie di lavoratori (tendenzialmente i nuovi assunti per le imprese di dimensioni minori).
Dunque alla flessibilizzazione (scopo della L. 30/2003, pur carente della parte sul licenziamento) si
perviene attraverso una moltiplicazione dei rapporti atipici e il decentramento produttivo con lo
strumento della deregolazione. Tuttavia, a differenza delle precedenti esperienze deregolative,
stavolta alla deregolazione segue una ri-regolazione accentrata, in cui il ruolo del sindacato e della
contrattazione collettiva (cui nelle precedenti esperienze deregolative erano delegati i compiti di
riregolazione) risulta del tutto marginalizzato.
Il decreto legislativo n. 276/2003 Il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che recepisce la legge delega,
conferma la graduatoria tradizionale della gerarchia delle fonti, in cui la legge statale ha il ruolo di
protagonista, affiancata però dal Ministro del lavoro che può sostituirla in determinati casi; inoltre

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la marginalizzazione del sindacato e dell’autonomia collettiva, permette l’esaltazione


dell’autonomia privata individuale.
La legislazione 2006 – 2009 La ricezione delle innovazioni attraverso il D. Lgs. n. 276/2003 non sarà
lineare, così come dimostrato dalla sequenza legislativa degli ultimi anni. Meritano considerazione i
provvedimenti del 2006 e del 2007 e le riforme del 2008 – 2009.
- La L. n. 296/2006 (c.d. finanziaria 2007) e la L. n. 247/2007 hanno lo scopo di limitare gli
eccessi di flessibilità riconosciuti dal D. Lgs. 368/2001 e dal D. Lgs. n. 276/2003.
- Il D. L. 25 giugno 2008 n. 112 ha lo scopo di incoraggiare le imprese ad assumere attraverso
una nuova flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ed una semplificazione del sistema che
porta anche il recupero di una maggiore severità nella gestione del lavoro pubblico, all’interno di una politica
meritocratica e incentivante (c.d. riforme Brunetta).
La legislazione anticrisi Con il D. L. n. 185/2008 vengono adottate misure di sostegno per le famiglie e
i disoccupati attraverso un uso più esteso degli ammortizzatori sociali quali la cassa integrazione
guadagni e l’indennità di disoccupazione, insieme all’erogazione di una somma una tantum a favore
dei collaboratori coordinati e continuativi.
Il T.U. della sicurezza sul lavoro Il D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 riordina le disposizioni in materia di salute e sicurezza
sul lavoro con lo scopo di incidere soprattutto nelle aree in cui è più frequente il ricorso al lavoro nero, nel rispetto della
nuova competenza delle Regioni.

Il c.d. collegato lavoro Il finire del decennio è dominato dalla vicenda del c.d. Collegato lavoro, che ha
l’obiettivo di modernizzare il diritto del lavoro, così come previsto dalla riforma del 2003,
attraverso una individualizzazione della disciplina del rapporto ed il rafforzamento della procedura
di certificazione.

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CAPITOLO PRIMO

IL TIPO “LAVORO SUBORDINATO”

1. La questione della subordinazione


Tipo e subordinazione La disciplina del diritto del lavoro contenuta nel codice civile si concentra sul
lavoro subordinato: è subordinata la prestazione che si svolge nell’organizzazione del datore di
lavoro, “alle dipendenze e sotto la direzione” dello stesso (art. 2094 cod.civ.).
Per tale articolo è la subordinazione, o l’eterodeterminazione della prestazione lavorativa, che
prova la presenza del lavoro subordinato, e cioè la soggezione alle altrui decisioni direttive.
Fragilità qualificatoria dell’art. 2094 cod.civ. L’eterodeterminazione però non può essere considerato un
criterio generale per qualificare il lavoro subordinato, poiché anche ai lavoratori autonomi, ai soci di
fatto e ad altri, possono essere impartite direttive o indicazioni per quanto riguarda lo svolgimento
del lavoro, senza che ciò comporti l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Locatio operarum come obbligazione di mezzi Nel codice del 1865 la distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo
rispecchiava la distinzione tra locatio operarum e locatio operis, cioè tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di
mezzi. La locatio operarum, in quanto lavoro subordinato, aveva ad oggetto un’attività lavorativa in senso stretto, per
cui il debitore non era responsabile e non ne sopportava le conseguenze nel caso in cui il creditore non avesse raggiunto
il risultato programmato; la locatio operis, in quanto lavoro autonomo, aveva ad oggetto un risultato di lavoro, ciò
significava che nel realizzare un’opera o un servizio, il debitore, era responsabile e sopportava le conseguenze nel caso
di mancata realizzazione del risultato programmato. Tale distinzione, però, non è veritiera poiché il lavoratore
subordinato deve comunque perseguire l’interesse del datore di lavoro (e quindi un risultato) nell’esecuzione
dell’obbligazione lavorativa.
Nozione socio-economica di subordinazione Diversi tentativi hanno cercato di far dipendere la
subordinazione dalla debolezza socio-economica del prestatore di lavoro: estraneità ai mezzi di
produzione, debolezza economica, ecc. Tentativi falliti poiché esistono molti lavoratori che, seppur
dipendono economicamente dal datore di lavoro, non sono qualificati lavoratori subordinati; e
lavoratori che, seppur possiedono gli strumenti della produzione, rimangono lavoratori subordinati.
Tali elementi saranno utilizzati dal legislatore, a seguito dell’emanazione della L. N. 533/1973,
come presupposti per estendere la disciplina del lavoro subordinato a situazioni estranee alla
fattispecie tipica (lavoro parasubordinato).

2. Le operazioni giurisprudenziali di qualificazione: il metodo tipologico.


Gli indici della subordinazione L’impossibilità di costruire sull’art. 2094 cod. Civ. una nozione
generale e omnicomprensiva di subordinazione ha portato una maggiore attenzione della dottrina
alle operazioni di qualificazione effettuate dalla giurisprudenza. La dottrina ha costatato che, la

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giurisprudenza, pur fondando formalmente la subordinazione sulla nozione generale (coniugando


l’eterodeterminazione, l’antica distinzione attività\risultato e il conseguente profilo della
ripartizione del rischio), in realtà, in concreto, opera la qualificazione per via diversa.
Infatti, la giurisprudenza, ha fissato un serie di indici che rivelano la presenza di lavoro subordinato,
ricavati dalla figura socialmente prevalente di lavoratore subordinato:
- l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore di lavoro;
- la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare
dell’imprenditore;
- l’esclusività della dipendenza da un solo datore;
- le modalità della retribuzione, generalmente a tempo ed indipendente dal risultato;
- il vincolo dell’orario di lavoro;
- l’assenza di rischio...
Di fronte ad un rapporto di lavoro, di natura incerta, la giurisprudenza effettua un confronto tra le
caratteristiche del rapporto concreto e gli indici che rivelano la situazione di subordinazione
(giudizio di identità).
Il metodo tipologico La giurisprudenza, però, si è resa conto dell’impossibilità di far coincidere
totalmente la fattispecie concreta con quella astratta, per questo motivo ha optato per un giudizio di
approssimazione della fattispecie concreta rispetto al tipo prefigurato dalla fattispecie astratta (c.d.
metodo tipologico). Dunque al fine della qualificazione è sufficiente che la fattispecie concreta
abbia la maggior parte delle caratteristiche legali del lavoratore subordinato.
Secondo la Corte Suprema l’elemento essenziale che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, e lo differenzia da
quello autonomo, è la subordinazione e cioè l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore
di lavoro con limitazione della sua autonomia, mentre gli altri elementi quali l’assenza di rischio, la continuità della
prestazione... hanno natura sussidiaria e non decisiva.
Selezione in concreto degli indici si subordinazione Il giudizio di approssimazione dunque consiste nel
verificare se, malgrado l’assenza di alcuni indici della subordinazione, l’interesse che è alla base del
rapporto da qualificare sia da ritenersi più vicino a quello espresso dal tipo lavoro subordinato
piuttosto che a altri tipi (contratto d’opera, agenzia, ecc.).
È evidente come tale giudizio comporti da parte del giudice una valutazione di merito largamente
discrezionale. E la Suprema Corte ha affermato che è censurabile, in sede di legittimità, soltanto l’individuazione
degli indici di subordinazione, mentre è insindacabile, se adeguatamente motivata, la valutazione delle circostanze di
fatto che hanno indotto il giudice a ritenere o escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
L’utilizzazione del metodo tipologico ha consentito alla giurisprudenza di operare (in ossequio alla
forti pressioni provenienti dal contesto sociale) negli anni un allargamento dell’area coperta dalla

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disciplina del rapporto di lavoro subordinato (ed una conseguente estensione della relativa tutela).
Si è parlato in relazione a questo fenomeno, di espansione del diritto del lavoro subordinato.

3. La rilevanza della qualificazione operata dalle parti e le presunzioni giurisprudenziali.


Le difficoltà di qualificare il rapporto di lavoro subordinato (e distinguerlo quindi da quello
autonomo, a causa dell’innovazione tecnologica), hanno determinato l’inserimento tra gli indici
giurisprudenziali, come indice sussidiario, quello del nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto.
Nomen iuris in precedenza ignorato dalla giurisprudenza che considerava irrilevante la volontà delle
parti poiché era affidata solo al giudice la qualificazione del rapporto, a causa del principio della
tassatività del tipo “lavoro subordinato”.
A partire dalla seconda metà degli anni 80 la Suprema Corte ha affermato che ai fini della
qualificazione non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti, che deve
comunque essere presa in considerazione. Ciò però non fa venir meno il principio della tassatività
del tipo, poiché a questo indice può farsi ricorso solo sussidiariamente ossia quando la volontà delle
parti non risulti contraddetta dalle modalità di effettivo svolgimento del rapporto (che sono sempre
destinate a prevalere in sede di qualificazione).

4. Subordinazione, fattispecie tipica ed effetti.


Tassatività della disciplina tipica Ogni rapporto che presenta gli elementi della subordinazione va
ricondotto alla fattispecie tipica lavoro subordinato (tassatività del tipo), con la conseguenza che si
producono tutti gli effetti che caratterizzano tale fattispecie (c.d. tassatività della disciplina tipica).
Dunque,sulla base del giudizio di identità, troverà inderogabile ed integrale applicazione tutta
quanta la disciplina tipica.
Tuttavia, preso atto che il procedimento di qualificazione si basa oggi su un giudizio di
approssimazione (e non di identità), occorrerebbe riconoscere che allo specifico rapporto, che pur
viene qualificato come rapporto di lavoro subordinato, possano ben difettare alcuni elementi propri
della fattispecie tipica
Dunque la disciplina tipica va considerata tendenzialmente, ma non interamente applicabile al
rapporto che pur viene qualificato come di lavoro subordinato.
5. Parasubordinazione, lavoro autonomo, lavoro a progetto e occasionale.
Il lavoro autonomo Secondo l’art. 2222 si è in presenza di lavoro autonomo, o di un contratto
d’opera, “quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio,
con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente”.

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L’inserimento degli artt. 2094 e 2222 nello stesso libro del codice, il V, porta a considerare che
anche il lavoro autonomo può essere utilizzato come fattore produttivo dell’impresa. Qui, la durata
della prestazione, però può dar luogo a figure ambigue di prestatori di lavoro formalmente autonomi
ma di fatto dipendenti dal committente.
La parasubordinazione Tra l’autonomia e la subordinazione, così, la dottrina ha inserito la
parasubordinazione, una collaborazione nell’attività produttiva , che si realizza con forme di
lavoro autonome. È un’area che presenta profili propri della subordinazione (la debolezza o
soggezione economica del prestatore di lavoro) per questa ragione il legislatore ha avvertito
l’esigenza di estendere ad essi forme di tutela e istituti propri del lavoro subordinato. Così la L. N.
533/1973 (che riforma il processo di lavoro) ha esteso la disciplina delle controversie individuali di
lavoro anche ai “rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale e ad altri rapporti di
collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata,
prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
La collaborazione coordinata e continuativa Da questa definizione è nata la figura della “collaborazione
coordinata e continuativa” dotata di autonoma fisionomia grazie ai diversi interventi legislativi.
- Il requisito della continuità sta ad indicare la necessità di una collaborazione durevole nel tempo.
- La prevalente personalità , sottolinea che deve prevalere l’attività del lavoratore sugli altri fattori impiegati per
l’esecuzione dell’obbligazione prevista, anche sul capitale.
- Il requisito della coordinazione comporta un collegamento del collaboratore con l’attività economica del
committente.
Tale tipo di collaborazione prevede una certa libertà nell’esecuzione della prestazione, (per esempio sotto forma di
assenza di vincoli cogenti di orario di lavoro e conseguente libertà di organizzazione)ed è proprio questa libertà che
differenzia tale rapporto da quello previsto dall’art. 2094. Tale libertà, inoltre, giustifica la perdurante assenza di tutele
di tipo giuslavoristico.

La disciplina del lavoro parasubordinato Dal punto di vista della disciplina di tutela, il lavoro
parasubordinato non si differenzia da quello autonomo. Per quanto riguarda la possibile
applicazione delle norme previste per il lavoro subordinato, la giurisprudenza e la dottrina
maggioritarie ritengono applicabili a questo tipo di rapporto solo le norme relative al processo di
lavoro e l’art. 2113 c.c. Da circa un decennio la dottrina è impegnata ad elaborare importanti riforme in tale area.
Tra i progetti possiamo ricordare quello che prevede l’elaborazione dello statuto dei lavori (contenuto nel libro bianco),
che avrebbe lo scopo di superare la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato attraverso la previsione di un minimo
di tutele per tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi.
Il lavoro a progetto Un momento di svolta nell’evoluzione della disciplina dei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa si ha con il D. lgs. 276/03, che tenta di fare chiarezza dei
confusi rapporti tra le aree della subordinazione e dell’autonomia, introducendo il lavoro a

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progetto, che va a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Questa


normativa ha lo scopo di porre una linea di divisione precisa tra autonomia e subordinazione, in
modo tale da evitare l’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, utilizzate spesso per
eludere la legislazione posta a tutela del lavoro subordinato (circostanza questa alquanto frequente,
data l’atipicità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa).
Secondo l’art. 61, 1° comma del D. Lgs. 276/2003 “i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione devono essere
riconducibili a uno o più specifici programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento
con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione
dell’attività lavorativa”. L’elemento che caratterizza tale figura è quindi l’esistenza di uno specifico
progetto o programma di lavoro. In assenza del progetto il rapporto si considera subordinato a
tempo indeterminato.
Il progetto o programma La circolare del Ministero del lavoro n. 1/2004 ha sancito che il progetto
“consiste in un’attività produttiva ben identificabile e collegata ad un determinato risultato finale”;
mentre il programma consiste in un tipo di attività che non è direttamente collegata ad un risultato
finale. Il progetto ha la funzione di predeterminare il perimetro dell’obbligazione del collaboratore,
per impedire al datore di esercitare quel potere direttivo proprio del lavoro subordinato. Il
committente ha invece sul collaboratore un più limitato potere di coordinamento, le cui forme di
estrinsecazione devono essere determinate per iscritto (ad probationem, quindi la sua mancanza
non rende il contratto nullo) nel contratto.
Il termine Nel contratto deve essere indicata la durata, determinata o determinabile, della prestazione
di lavoro. Parte della dottrina considera incostituzionale tale previsione, poiché sancisce un divieto
di lavoro parasubordinato a tempo indeterminato.
Le esclusioni Dalle disposizioni sul lavoro a progetto sono esclusi, oltre che la pubblica
amministrazione, alcuni specifici rapporti (agenti e rappresentanti di commercio; fruitori delle
pensioni di vecchiaia; professioni intellettuali etc.) e i rapporti occasionali.
Il lavoro occasionale Per prestazione occasionale si intende il rapporto di durata non superiore a 30
giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito sia
superiore a 5000 euro, nel qual caso trovano applicazione le norme sul lavoro a progetto.
Il lavoro accessorio Un tipo particolare di prestazione occasionale è il c.d. lavoro accessorio. Il D. Lgs. 276/2003
qualificava il lavoro accessorio come uno strumento per inserire nel mondo del lavoro soggetti deboli del mercato
(disoccupati di lunga durata, casalinghe, studenti e pensionati...). Diversi interventi legislativi, tra cui l’ultimo è dato
dalla L. n. 191/2009, ne hanno modificato il campo di applicazione. In linea di principio il lavoro accessorio riguarda
attività lavorative marginali di diversa natura (lavori domestici, giardinaggio e pulizia, insegnamento privato, attività

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agricole stagionali). I fruitori di tali attività lavorative non versano ai prestatori una retribuzione, ma appositi carnet di
buoni, che potranno essere convertiti in denaro presso rivendite autorizzate (nelle quali i buoni erano stati acquistati dai
fruitori). La differenza tra il valore dei buoni ed il compenso netto è detratta dal concessionario e versata, per conto del
lavoratore, in parte all’INPS, in parte all’INAIL. Il compenso è esente da imposizioni fiscali e non interferisce sullo
stato di disoccupato o inoccupato del prestatore.
Per le pubbliche amministrazioni, la stipulazione eccezionale di contratti di collaborazione
coordinata e continuativa deve essere legata a un’attività di lavoro di natura temporanea e altamente
qualificata, per la quale attività vi è un’impossibilità oggettiva di utilizzo dei lavoratori interni.
Il legislatore ha di recente stabilito che il ricorso a tali contratti “per lo svolgimento di funzioni
ordinarie o l’utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità
amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti”.
La forma Il contratto a progetto deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova e deve contenere
l’indicazione del progetto, della durata, delle forme di coordinamento al committente, delle misure
per la tutela e sicurezza del collaboratore. La mancanza dell’indicazione scritta del progetto, in
particolare, comporta l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 69, e cioè la presunzione di
subordinazione ( a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto).
L’art. 50 della L. n. 183/2010 prevede che se si accerta che i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa hanno natura subordinata e il datore di lavoro ha offerto la conversione a tempo
indeterminato del contratto in corso o l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti,
è tenuto solo ad indennizzare il prestatore con un’indennità di importo compreso tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione.
Disciplina A favore del collaboratore a progetto sono previste diverse garanzie, alcune si ricavano
dalla disciplina del lavoro autonomo contenuta nel codice civile (artt. 2222 ss.), altre nuove.
- Tra le prime rientra il criterio di proporzionalità previsto per la determinazione del corrispettivo, che dovrà
tenere conto dei compensi corrisposti per le stesse prestazioni di lavoro autonomo e dei contratti collettivi
nazionali di riferimento;
- Tra le seconde la previsione che la gravidanza, la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano
l’estinzione del rapporto, ma solo la sua sospensione, senza erogazione del corrispettivo e senza proroga della
durata del contratto (salvo il caso di gravidanza , per cui è prevista una proroga di 180 giorni).
La L. n. 296/2007 e la L. n. 247/2007 hanno riconosciuto, in caso di malattia e di maternità, oltre alla possibilità di
astenersi dall’attività lavorativa, il diritto di recepire apposite indennità da parte dell’INPS (in precedenza al lavoratore
in malattia era garantito il diritto al trattamento economico solo in caso di degenza ospedaliera).
Un’altra tutela è contenuta nel D. L. n. 185/2008, conv. in L. n. 2/2009 (legge anticrisi), che ha previsto un sostegno al
reddito in caso di assenza di lavoro per il triennio 2009-2011. È una somma, attualmente pari al 30%, del reddito
percepito l’anno precedente e il lavoratore a progetto ne ha diritto se opera in regime di mono-committenza e se sono
soddisfatti determinati requisiti reddituali e contributivi. Anche il lavoratore a progetto ha l’obbligo di rendersi
disponibile a svolgere un’attività lavorativa, già previsto per i soggetti beneficiari di forme di sostegno del reddito. Al

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lavoratore a progetto si applica la normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro se la prestazione lavorativa si
svolge nei luoghi di lavoro del committente.
Estinzione del rapporto Il legislatore stabilisce che il contratto si risolve quando si realizza il progetto,
o quando si raggiunge il risultato. Inoltre le parti possono recedere prima della scadenza per giusta
causa secondo le regole previste per il contratto di lavoro individuale.
Disciplina transitoria Il D. Lgs. 276/2003 aveva previsto l’anticipata cessazione delle co.co.co.
instaurate prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. Tale previsione è stata dichiarata
illegittima dalla Corte Costituzionale poiché fa cessare rapporti già instaurati senza progetto ma
leciti al momento della loro stipulazione. Essi, perciò, sono efficaci fino alla loro naturale scadenza.

9. La questione dei rapporti di lavoro speciali o di disciplina speciale: Il lavoro giornalistico.


Iscrizione all’ordine professionale dei giornalisti Esistono rapporti di lavoro che, pur essendo di natura
subordinata, presentano differenze rispetto alla fattispecie elaborata dall’art. 2094 cod. civ. che
hanno una disciplinato
Un esempio di tale tipo di rapporto è il lavoro giornalistico. Il lavoro giornalistico, svolto in genere
a favore di aziende editrici di quotidiani o periodici o di agenzie di informazione per la stampa, oltre
che oggetto di un rapporto di lavoro subordinato, può caratterizzarsi come collaborazione
autonoma, ma richiede in ogni caso il requisito dell’appartenenza all’Ordine professionale dei
giornalisti. La mancanza dell’iscrizione a quest’Ordine determina la nullità del contratto di lavoro.
In questo caso la giurisprudenza prevalente ritiene che il lavoratore (ai sensi dell’art 2126 c.c. e
dell’art. 36 Cost.), per la natura subordinata della prestazione, ha diritto al trattamento economico
previsto dal contratto collettivo, poiché la mancata iscrizione, pur essendo penalmente sanzionata,
non incide né sulla causa e né sull’oggetto del contratto. Tale regola vale solo per i trattamenti
economici.
Le categorie dei giornalisti Per ottenere l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti è necessario svolgere la pratica
giornalistica, attraverso un praticantato durante il quale l’aspirante giornalista viene impiegato nei servizi redazionali
per imparare l’attività giornalistica ed acquisire la preparazione necessaria. Una volta iscritti all’Albo i giornalisti sono
divisi in due categorie:
- i professionisti, che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione giornalistica;
- i pubblicisti, che svolgono una attività non occasionale e retribuita (anche in concorso con altre professioni),
per i quali la qualificazione del rapporto in termini di autonomia o subordinazione richiede di volta in volta
un’attenta analisi e risulta decisivo l’inserimento nella organizzazione editoriale, nel quale si coglie il vincolo
di dipendenza e la continuità della prestazione che caratterizza la subordinazione.
La contrattazione collettiva ha anche creato figure atipiche di giornalisti, quali quella del collaboratore fisso, che può
essere un professionista o un pubblicista e svolge un’opera giornalistica non quotidiana, caratterizzata, però, da
continuità di prestazioni, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio. La subordinazione è limitata a precise
prestazioni e non vi è la disponibilità tipica delle mansioni giornalistiche.

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La contrattazione collettiva Il rapporto di lavoro giornalistico è regolato da un contratto collettivo


nazionale, che contiene previsioni particolari sia per l’inquadramento dei prestatori, sia per il
trattamento normativo degli stessi.
La clausola di coscienza Il giornalista gode inoltre di una particolare tutela della sua dignità
professionale e morale nel caso di mutamento dell’indirizzo politico del giornale. Questa
circostanza fa venir meno l’iniziale consenso del giornalista all’attività editoriale che aveva
determinato l’instaurazione del rapporto, permettendo le dimissioni senza perdere i benefici
economici e l’indennità, altrimenti riconosciuta solo nel caso di licenziamento per colpa dell’editore
(c.d. clausola di coscienza).
Licenziamento L’azienda giornalistica, che non ha i caratteri dell’impresa, non può applicare l’art.
18 St. Lav. e i rapporti di lavoro restano soggetti alla sola tutela obbligatoria, indipendentemente
dalle dimensioni dell’azienda. Viceversa, ai datori imprenditori di tendenza si dovrà applicare l’art.
18 St. lav.

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CAPITOLO II

LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO


A. CONTRATTO E RAPPORTO

1. La contrattualità del rapporto.


Fin dalle origini al rapporto di lavoro è riconosciuta natura contrattuale, poichè considerato una
sottospecie della locazione.
Le teorie istituzionali acontrattuali Tuttavia, nel corso del primo 900, si manifesta una corrente di
carattere istituzionalistico-comunitario, secondo la quale l’impresa non è altro che una comunione
di scopo tra datore e lavoratore organizzati su base gerarchica. La fonte di questo tipo di rapporto
non è il contratto, ma l’inserzione del lavoratore nell’impresa. Tali suggestioni, conformi
all’ideologia corporativa, parvero trovare consacrazione nel codice civile del ’42. Il codice infatti non
definisce il contratto di lavoro subordinato, ma il prestatore di lavoro subordinato ed intitola la disciplina al rapporto e
non al contratto, collocandola nel libro 5° (sull’impresa) e non nel libro 4°, dove sono disciplinati i più importanti
contratti di scambio.
Le teorie contrattuali di scambio Nonostante ciò la nostra dottrina è rimasta contrattualistica. Infatti,
pur nel quadro di una concezione autoritaria dell’impresa, il codice riconduce al contratto le
reciproche posizioni di supremazia e soggezione delle parti.
Le teorie acontrattuali di scambio Una parte della dottrina, però, ha negato la matrice contrattuale del
rapporto. Secondo tale dottrina il rapporto di lavoro trae in realtà origine dalla materiale prestazione
di un’attività lavorativa e quindi dall’inserzione nell’organizzazione di lavoro. Tale dottrina ha
creduto di trovare fondamento normativo del proprio pensiero nell’art. 2126 cod. civ. (prestazione di
fatto con violazione di legge) secondo il quale “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro
non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi
dall’illiceità della causa o dell’oggetto”. Dunque se malgrado la nullità o l’annullamento, si producono i
normali effetti del rapporto di lavoro subordinato a seguito della sua materiale esecuzione (secondo questa dottrina) la
fonte di quel rapporto non è il contratto, ma la prestazione di fatto dell’attività lavorativa. La dottrina contrattuale ha
però affermato che è proprio tale norma a richiedere l’esistenza di un contratto, anche se nullo o annullabile.
Il contratto di lavoro nel settore pubblico La natura contrattuale del rapporto di lavoro è stata confermata
dallo Statuto dei lavoratori. Tale natura è prevista anche nella p.a. , all’interno della quale si è avuta
la privatizzazione del pubblico impiego, che ha riformato lo status giuridico dei dipendenti della
p.a., inquadrandolo nello stesso schema contrattuale del privato.

2. Art. 2126 cod. civ. e prestazione di fatto

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Contratto invalido ed effetti retrospettivi dell’art. 2126 c.c. Con la semplice esecuzione non si producono gli
effetti del contratto tipico, dunque non sorgono in capo al lavoratore l’obbligo di lavorare e in capo
al datore di lavoro l’onere di cooperare all’adempimento per poter corrispondere la retribuzione. In
tale circostanza non è riconosciuta nemmeno la tutela alla stabilità del posto di lavoro. Infatti la
giurisprudenza ha più volte affermato che il contratto di lavoro nullo non è equiparabile a quello
valido, e quindi al primo non si applica la disciplina che limita il licenziamento.
La prestazione invito domino Gli effetti dell’art. 2126 (retrospettivi) si producono solo se sussiste un
contratto (accordo per lo scambio tra lavoro e remunerazione), anche se invalido, e non si
producono nel caso di lavoro prestato invito domino, cioè senza il consenso o addirittura contro la
dichiarata volontà del datore di lavoro. In questo caso, il prestatore di lavoro potrà invocare solo la
disciplina sull’ingiustificato arricchimento (artt. 2041 ss. c.c.).
Il contratto per fatti concludenti La giurisprudenza, di fronte allo svolgimento di un’attività lavorativa,
presume vi sia il consenso del datore, dunque la prestazione si considera resa in esecuzione di un
contratto di lavoro (stipulato per fatti concludenti), salvo prova contraria da parte dell’imprenditore.
Il regime dell’art. 2126 è eccezionale rispetto alle normali conseguenze della nullità che, in genere, non è sanabile ed è
retroattiva. Nel rapporto di lavoro subordinato, anche quando il contratto sottostante è nullo, si conservano gli effetti
prodotti riconoscendo al lavoratore il trattamento economico e normativo per l’attività prestata.
L’illiceità dell’oggetto e della causa L’eccezionale regime disposto da tale norma non opera nel caso di
“illiceità dell’oggetto o della causa”; nel qual caso il prestatore potrà invocare solo la disciplina
sull’ingiustificato arricchimento. Solo se l’illiceità dipende dalla “violazione di norme poste a tutela
del prestatore di lavoro”, questi avrà comunque diritto alla retribuzione pattuita. Ad es., è il caso del
contratto con un minore che ha ad oggetto un’attività vietata per ragioni di sicurezza o di salute.
L’ipotesi di illiceità dell’oggetto e della causa si presenta “solo nei casi in cui il contratto sia
contrario ai principi di ordine pubblico e cioè a quelli etici fondamentali dell’ordinamento
giuridico”.
È generalmente esclusa l’applicabilità in via analogica dell’art. 2126 al di fuori del lavoro subordinato (ossia al lavoro
autonomo e parasubordinato).

B. I SOGGETTI DEL CONTRATTO


1. Il lavoratore: capacità giuridica e capacità di agire.
Capacità giuridica speciale e capacità al lavoro Per la stipulazione del contratto di lavoro è necessaria
una capacità giuridica speciale, c.d. capacità al lavoro, che si acquista con l’età minima di
ammissione al lavoro (indicata dalla L. 17 ottobre 1967, n. 977, modificata e integrata prima dal D.
Lgs. 4 agosto 1999 n. 345 e poi dall’art. 1 della L. 27 dicembre 2006, n. 296).

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Età minima di ammissione al lavoro Secondo l’’art. 3, L. 977/1067, “l’età minima per l’ammissione al
lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e
comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”.
Tale previsione è stata modificata e integrata dalla L. n. 296/2006 che ha innalzato l’età per
l’accesso al lavoro da 15 a 16 anni, ritenendo obbligatoria l’istruzione impartita per almeno 10 anni
(dai 6 ai 16). Così l’età minima per l’accesso al lavoro coincide con l’età prevista per
l’assolvimento dell’obbligo di istruzione.
Bambini L’art. 4, 1° comma della stessa legge pone un divieto al lavoro per il “bambino” e cioè “il
minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico”.
Con il consenso scritto dei titolari della potestà genitoriale e l’autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro è
legittimo l’impiego del bambino in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario, purché ciò
non ne comporti un pregiudizio per la sicurezza, la salute, lo sviluppo, l’istruzione e la possibilità di formazione del
bambino. Speciali regole, dettate dalla L. n. 977/1967, disciplinano questo rapporto di lavoro.
Adolescenti Hanno, invece, piena capacità al lavoro gli “adolescenti”, cioè i minori con un’età
compresa tra i 15 e i 18 anni , non più soggetti all’obbligo scolastico.
Sono comunque vietate per gli adolescenti specifiche attività lavorative indicate dalla L. n. 977/1967, a meno che tali
attività abbiano un fine didattico e di formazione professionale,autorizzate dalla Direzione Provinciale del Lavoro.
Il difetto della capacità giuridica speciale La mancanza della capacità giuridica speciale, cioè dell’età
minima per l’ammissione al lavoro, comporta la mancanza di un elemento essenziale per la validità
del contratto e ne determina la nullità per illiceità dell’oggetto. Tuttavia, nonostante la nullità sia
dovuta all’illiceità dell’oggetto del contratto, resta comunque applicabile l’art. 2126 poiché,
attraverso l’assunzione di un minore che non ha la capacità al lavoro, il datore ha violato le norme
che tutelano il prestatore di lavoro nel qual caso il prestatore ha comunque diritto alla retribuzione.
La capacità di agire Nel diritto del lavoro la capacità di agire è la capacità di stipulare il contratto di
lavoro da parte di colui che ha l’età minima di ammissione al lavoro. Nel 1975 il legislatore, ha
abbassato a 18 anni il raggiungimento della maggiore età e ha stabilito che le leggi speciali possono
stabilire un’età inferiore in materia di capacità di prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è
abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
La nuova disciplina è stato oggetto di letture contrapposte. Un parte della dottrina ritiene che il minore di 18 anni è
incapace di stipulare il contratto di lavoro, anche se può autonomamente esercitare i relativi diritti ed azioni. Altra parte
della dottrina ritiene che si deve ritenere legislativamente sancita la coincidenza tra capacità giuridica speciale e
capacità di agire.
Il difetto di capacità d’agire determina l’annullabilità del contratto. E, dal momento che il difetto di
capacità di agire non incide sulla liceità dell’oggetto del contratto, è senz’altro applicabile l’art.
2126 c. C..

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2. (segue): Minori e lavoro.


La prima normativa di protezione: la tutela delle c.d. mezze forze la l. n. 977/1967 prevede speciali garanzie
per i lavoratori con età inferiore ai 18 anni per esigenze di tutela della salute e dello sviluppo dei
minori. Il lavoro minorile solo da qualche tempo viene considerato autonomamente: infatti il lavoro
minorile e quello femminile erano disciplinati nella stessa normativa, quella della tutela delle
“mezze forze di lavoro”, volta a scoraggiarne lo sfruttamento.
I principi costituzionali La necessità di una disciplina differenziata è emersa con l’art. 37 Cost., che
riconosce tre principi fondamentali:
- attribuisce al legislatore il compito di determinare l’età minima di ammissione al lavoro;
- prevede una tutela speciale per il lavoro minorile, distinguendolo dal lavoro femminile;
- stabilisce che il minore ha diritto, a parità di lavoro, alla stessa retribuzione del lavoratore
adulto. Per la donna, invece, la parità riguarda tutti i diritti relativi al rapporto di lavoro.
La riforma della L. n. 977/1967 ad opera del D. Lgs. n. 345/1999 Il D. Lgs. n. 345/1999 ha attuato la Direttiva n.
94/33/CE, riformando la L. n. 977 del 1967, con lo scopo di privilegiare l’istruzione, assicurare l’inserimento
professionale mediante la formazione, garantire la salute e la sicurezza dei minori, in quanto gruppo a rischio
particolarmente sensibile.
Età e condizioni di lavoro nella L. n. 977/1967 Fermi i diversi divieti in materia di ammissione al lavoro,
la legge 977/1967 prevede due generali requisiti che consentono di ammettere il lavoro minorile:
a. che il datore di lavoro effettui la valutazione dei rischi ambientali;
b. che il minore sia riconosciuto idoneo a svolgere la prestazione oggetto del contratto con
visita medica pagata dall’imprenditore ed eseguita da un medico del Servizio sanitario
nazionale prima e dopo l’assunzione, con cadenza annuale.
Il lavoro notturno è poi proibito per tutti i minori, salvo il caso delle prestazioni culturali, artistiche,
sportive e pubblicitarie.
La durata massima dell’attività lavorativa per i bambini e gli adolescenti impegnati nelle attività culturali, artistiche,
sportive, pubblicitarie e dello spettacolo è di:
- 8 ore giornaliere e 40 settimanali per gli adolescenti ;
- 7 giornaliere e 35 settimanali per i bambini.
Entrambi hanno diritto a riposi intermedi, più frequenti in caso di lavori pericolosi o pesanti.
È assicurato un periodo minimo di ferie annuali retribuite:
- 30 giorni per i minori di 16 anni;
- 20 giorni per i maggiori di 16 anni.
È vietato l’impiego nei lavori discontinui, se non consentito dai contratti collettivi ed autorizzato dalla Direzione
provinciale del lavoro.

3. Il datore di lavoro.

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Se la capacità di lavoro del prestatore richiede il possesso di requisiti soggettivi speciali, nulla di
analogo è previsto invece per il datore di lavoro, applicandosi ad esso le regole civilistiche sulla
capacità giuridica e di agire destinate alla generalità dei soggetti.
Datore di lavoro non imprenditore Sul versante datoriale rileva la distinzione tra imprenditori e non
imprenditori (questi ultimi titolari di un’attività organizzata a fini non lucrativi). Questi ultimi sono
esclusi dall’ambito di applicazione di importanti normative di tutela del lavoro subordinato
(disciplina delle integrazioni salariali e sostegno dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro).
Pubbliche amministrazioni Significative evoluzioni si registrano nelle amministrazioni pubbliche. In
tale ambito la sottrazione al regime pubblicistico dei rapporti di pubblico impiego non ha tuttavia
eliminato la netta distinzione concettuale tra impresa privata e p.a. Pertanto alcuni tratti di specialità della
disciplina rimangono, nel rispetto delle norme costituzionali (art. 97 Cost) o al fine di perseguire al meglio l’interesse
pubblico o per l’esigenza di confermare il tradizionale favor per il dipendente pubblico (applicazione dell’art. 18 St lav.,
a prescindere dai limiti dimensionali).
La piccola impresa Infine, nel diritto del lavoro riveste particolare rilievo la dimensione dell’impresa. Sono numerose le
ipotesi in cui il legislatore condiziona l’applicabilità di determinate normative di tutela al superamento di una
determinata soglia occupazionale (si pensi ad esempio alla normativa sul licenziamento individuale, all’attività
sindacale nei luoghi di lavoro, alle procedure sindacali in tema di trasferimento d’azienda e licenziamenti collettivi, alle
assunzioni obbligatorie, ecc,).

C. LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO


1. La forma del contratto di lavoro.
Libertà di forma Per il contratto di lavoro non è prevista una forma vincolata, vige dunque il
principio della libertà di forma.
Comunque il D.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, attuativo della Direttiva 91/533/CE, prevede l'obbligo del datore di
informare il lavoratore, all’atto dell’assunzione, delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro.
La disciplina pattizia nel settore privato Molti contratti collettivi del settore privato prescrivono la forma scritta del
contratto di lavoro, ma è assai dubbio che questa sia richiesta ai fini della validità del negozio. L’art. 1352 c.c
presuppone che la forma convenzionale sia stata voluta nell’interesse delle parti, mentre nelle clausole collettive in
questione la forma scritta è disposta ad esclusiva garanzia del lavoratore.
Il settore pubblico La situazione è invece diversa nel caso del mancato rispetto dell’obbligo di forma scritta del
contratto individuale di lavoro prescritto da tutti i contratti collettivi di comparto del settore pubblico . In tal caso infatti
si ritiene che la forma scritta soddisfi anche l’interesse della p.a. alla certezza dei rapporti giuridici in essere, e dunque
l’inosservanza determina l’invalidità del contratto concluso oralmente (con conseguente operatività dell’art. 2126 c.c.).
Casi di forma vincolata In diversi casi sono previste eccezioni al principio della libertà di forma. In
queste ipotesi il vincolo di forma può essere previsto:
- ad substantiam, cioè ai fini della validità del contratto con conseguente nullità dello stesso
e applicabilità del meccanismo della conversione automatica, quando la legge lo preveda

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esplicitamente. In alternativa, alla dichiarazione di nullità consegue l’applicabilità dell’art.


2126 c.c..
- ad probationem (ai fini della prova), per cui il contratto sarà comunque valido, ma in caso
di contestazioni sulla sua esistenza non potrà essere data prova contraria con l’atto scritto,
poiché inesistente, salvo che il documento non sia andato perduto senza propria colpa art.
2725 cod.civ).
La forma scritta ad substantiam è prevista per il contratto di arruolamento del personale marittimo,
per il contratto di lavoro subordinato sportivo, per l’apprendistato, per il contratto di inserimento...
La forma scritta ad probationem è richiesta per il lavoro intermittente, per il lavoro ripartito, per il
lavoro part time, per il lavoro a progetto.
Una forma vincolata è prevista per alcune clausole speciali quali il patto di prova; il patto di non
concorrenza; le clausole flessibili e le clausole elastiche nel part-time.

2. Consenso, vizi del consenso e simulazione.


Il consenso tra le parti L’accordo è solo in parte uno scambio di consenso poiché in genere la
proposta di lavoro proviene dal datore ed è formulata in base alle disposizioni di legge e di contratto
collettivo. Le parti, però, possono integrare il contenuto contrattuale predeterminato dalla legge e
dal contratto collettivo, attraverso la previsione di clausole più favorevoli al lavoratore.
Il settore pubblico: fase preassuntiva e rifiuto a stipulare Nel settore pubblico poi, la compressione dell’autonomia del
datore di lavoro è ancor più accentuata, essendo vincolata finanche la scelta dell’altro contraente. Se infatti è vero che la
fase costitutiva del rapporto è ormai sotto l’egida del diritto privato, la fase preassuntiva sembra rimanere nel dominio
del diritto pubblico, applicandosi ancora la regola del pubblico concorso. (D.lgs. n. 165/2001).
La volontà dei contraenti è regolamentata dalla disciplina codicistica . In particolare sul piano del
contratto di lavoro, può verificarsi:
- L’errore, quando esso riguarda le qualità personali del lavoratore. Tuttavia, per essere
essenziale, e quindi possibile causa di annullamento del contratto, l’errore deve riguardare
qualità che abbiano diretta attinenza con la prestazione lavorativa.
L’importanza dell’errore dipende dalla sua riconoscibilità da parte del lavoratore.
Essenzialità e riconoscibilità non sono però necessari in caso di dolo del lavoratore, qualora
cioè questi abbia dato causa all’errore con affermazioni false (dolo commissivo) o reticenti
(dolo omissivo).
- L’errore di diritto, ad es. quando il datore assume un lavoratore senza rispettare la graduatoria concorsuale,
basandosi sulla clausola preferenziale della residenza contenuta nel bando di concorso e poi dichiarata nulla.
- la simulazione, è il caso in cui la volontà effettiva delle parti e le dichiarazioni negoziali
non coincidono. Può esserci:

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Una simulazione è assoluta, quando viene simulato (ad es. per ragioni fiscali o
previdenziali) un contratto di lavoro subordinato mentre le parti non vogliono dar vita ad
alcun tipo di rapporto. In tale ipotesi si applica l’art. 1414 cod. civ. secondo cui il contratto
simulato non produce effetto tra le parti;
Una simulazione è relativa, quando viene simulato un contratto diverso, ad es. di lavoro
autonomo, ma le parti intendono dar vita e di fatto danno vita ad un rapporto di lavoro
subordinato o viceversa. In questi casi troverà applicazione la disciplina del tipo di rapporto
che le parti hanno effettivamente realizzato.

3. La clausola di prova (art. 2096 cod. civ.).


La clausola di prova (art. 2096 c.c.) è quella clausola apposta al contratto di lavoro, con cui le parti
subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di prova.
La forma Il patto di prova deve risultare da atto scritto, richiesto ad substantiam, cioè a pena di
nullità e di conseguente assunzione definitiva.
L’oggetto Esso consente di verificare, nel reciproco interesse, se vi è una utilità a proseguire il
rapporto di lavoro. Per cui le parti sono tenute ad effettuare l’esperimento, escludendosi ogni rifiuto.
La durata Oltre alla forma scritta, l’ordinamento impone la predeterminazione della durata massima
del periodo di prova, normalmente stabilita dai contratti collettivi in misura non superiore a 6 mesi.
Il recesso Durante il periodo di prova ciascuna delle parti (e quindi anche il datore) può recedere
dal contratto, senza obbligo di preavviso e senza sussistenza dei motivi. Se però la prova è stabilità
per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del
termine.È prevista però una tutela per il prestatore a non subire licenziamenti arbitrari; sicché il
giudice potrà ben dichiarare l'invalidità del recesso quando il lavoratore dimostri che allo
scioglimento unilaterale del vincolo negoziale abbia concorso un motivo non attinente
all'esperimento della prova, quindi illecito. Conseguenze dell'invalidità del recesso sono o la
prosecuzione dell'esperimento fino alla scadenza del termine prefissato o il risarcimento del danno.
Terminato il periodo di prova, se le parti non recedono, il rapporto diventa definitivo e il servizio
prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro.
Il trattamento Salvo il profilo del recesso senza preavviso, la disciplina legislativa del rapporto in
prova è la stessa del rapporto definitivo, per cui è riconosciuto al lavoratore in prova il normale
trattamento economico e normativo, il diritto all’indennità di anzianità e alle ferie o alla
corrispondente indennità sostitutiva in caso di recesso.
La natura Per quanto riguarda la natura del patto di prova, la dottrina maggioritaria tende a qualificarlo come una
condizione sospensiva potestativa. Alla luce della disciplina finora ricostruita peraltro, sembra comunque lecito ritenere
che si tratti di un patto di libera recedibilità senza preavviso da un altrimenti normale rapporto di lavoro subordinato.

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CAPITOLO III

PUBBLICO E PRIVATO NEI MERCATI DEL LAVORO

A. IL COLLOCAMENTO E L’AVVIAMENTO AL LAVORO


1. L’evoluzione della normativa: dal vincoliamo alla liberalizzazione.
Fino agli anni 90, l’intervento pubblico sul mercato del lavoro è stato esercitato dal collocamento,
inteso come sistema istituzionale-normativo, con il compito di svolgere l’attività di mediazione fra
domanda e offerta di lavoro ai fini della collocazione od assunzione della manodopera.
La fase precorporativa Nella fase precorporativa l’attività di mediazione fra domanda ed offerta di
lavoro era svolta contemporaneamente da agenzie private con finalità lucrativa, associazioni
sindacali, strutture statali e comunali.
La fase corporativa Nella fase corporativa viene istituito in Italia il monopolio pubblico del
collocamento con il conseguente divieto di mediazione privata anche se gratuita. L’attività di
collocamento poteva essere esercitata solo dalle organizzazioni sindacali corporative.
Fase repubblicana: i tre principi Nella fase repubblicana è confermata la “pubblica funzione” del
collocamento. In particolare la L. n. 264/1949, c.d. “legge Fanfani”, sanciva che il collocamento
doveva caratterizzarsi di alcuni elementi:
- monopolio pubblico: poiché era ammesso solo l’intervento pubblico nel mercato del lavoro
con l’esclusione di soggetti privati;
- gestione statale e accentrata: poiché la gestione dell’attività era svolta solo dagli uffici
periferici del Ministero del lavoro, senza partecipazione degli enti territoriali minori;
- natura vincolistica: nel senso che per l’assunzione di manodopera era obbligatoria
l’iscrizione dei lavoratori nelle liste di collocamento; così il datore di lavoro si rivolgeva
all’ufficio competente per l’assunzione di un certo numero di lavoratori iscritti nelle liste ed
in possesso di determinati requisiti professionali, c.d. chiamata numerica, senza possibilità
di scelta.
La caduta dei tre principi La rigidità della disciplina, la moltiplicazione dei collocamenti speciali che
si affiancarono a quello ordinario (per i domestici, per i lavoratori a domicilio, per gli
extracomunitari, i disabili, ecc.) e la loro complessiva scarsa efficacia, hanno condotto negli anni il
legislatore a decidere di intervenire in materia, con numerose riforme, che hanno profondamente
modificato il sistema. Tali riforme hanno comportato:
a. l’introduzione della regola della chiamata nominativa (L. n. 223/1991): che consente la
scelta del lavoratore ma richiede il nulla osta preventivo degli uffici;

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b. l’introduzione della regola della assunzione diretta (L. n. 608/1996): che ha comportato
l’eliminazione, per il collocamento ordinario, agricolo e dello spettacolo, del vincoliamo
nelle modalità di assunzione;
c. il decentramento amministrativo: di funzioni e compiti dello Stato alle regioni e agli altri
enti locali (applicazione del principio di sussidiarietà verticale: la sussidiarietà verticale comporta una
distribuzione delle funzioni amministrative e/o legislative dal basso, sfoltendo quelle ritenute superflue e
conferendo alle amministrazioni territoriali quelle localizzabili nel rispettivo ambito di competenza, risalendo

di volta in volta al livello immediatamente superiore per le funzioni non localizzabili ); e la liberalizzazione
controllata dell’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro (in un’ottica di
sussidiarietà orizzontale che riguarda i rapporti tra pubblico e privato, tra istituzioni e società civile ed

economica, con una inevitabile ridefinizione tra potere sociale e politica ). La definitiva consacrazione
del decentramento e del principio di sussidiarietà verticale è avvenuta con la L. Cost.
3\2001, che riforma il titolo V della Costituzione. Il nuovo testo dell’art. 117 Cost.
attribuisce alle regioni una potestà legislativa concorrente in materia di tutela e sicurezza del
lavoro (collocamento, sostegno del reddito…). A fronte di questa frammentazione, la
garanzia di uniformità di prestazioni a livello nazionale è prevista dalla disposizione che
attribuisce allo stato la determinazione dei principi fondamentali, dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti diritti civili e sociali che dovranno essere garantiti su tutto il
territorio nazionale, dal potere sostitutivo del governo nei cfr. delle regioni e degli enti locali
nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione;
d. l’emanazione dei D. Lgs. 297/2002 e 276/2003 : che cambiano le regole del collocamento e
riorganizzano il mercato del lavoro riconoscendo la possibilità di svolgere l’attività di
mediazione tra domanda ed offerta di lavoro anche ai soggetti privati. Dunque l'intervento
pubblico nella mediazione tra domanda e offerta di lavoro (collocamento) diventa un
servizio senza un regime di monopolio, né vincolistico.

2. L’intervento pubblico nei mercati del lavoro. Struttura organizzativa e funzioni.


A seguito della liberalizzazione del collocamento, la complessa struttura dell'organizzazione
amministrativa ha dovuto rinnovarsi.
Cade il principio della gestione statale del collocamento Il D. Lgs. 469/1997 ha previsto il conferimento
alle Regioni e alle Province delle funzioni e dei compiti relativi al collocamento e alle politiche
attive, con la conseguente creazione di un sistema di “servizi regionali e provinciali per l’impiego”.
Allo Stato rimane un ruolo generale di indirizzo e coordinamento. Cade così uno dei pilastri della legge
Fanfani; quello della natura statale della gestione del collocamento.

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Per le regioni a statuto ordinario la disciplina dell’organizzazione di tale sistema è contenuta nelle
leggi regionali, fornendo un modello preciso; Per le regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e Bolzano, il conferimento delle funzioni deve avvenire nel rispetto degli statuti
e attraverso apposite norme di attuazione.
Il sistema regionale/provinciale Alle Regioni è stato riconosciuto un ruolo di regia, coordinamento e
programmazione in materia di politica attiva del lavoro, mentre la gestione e l’erogazione dei
servizi per l’impiego è affidata alle Province che l’esercitano attraverso strutture periferiche, i così
detti centri per l’impiego.
Il ruolo dello Stato Allo Stato restano le competenze specificamente elencate e un ruolo generale di indirizzo,
promozione e coordinamento; competenze che sono esercitate dal “Ministero del lavoro e delle politiche sociali” che è
articolato in 8 Direzioni Generali. Il nuovo ministero è poi articolato in strutture periferiche, le Direzioni regionali e
provinciali del lavoro. Una riforma organica dell'attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale è stata
realizzata con il D.lgs. n. 124/2004: ora la funzione ispettiva si articola su tre distinti livelli di direzione e
coordinamento: centrale, regionale e provinciale, con un rafforzamento delle funzioni di prevenzione e formazione.

3. L’intervento dei privati nei mercati del lavoro. Le agenzie per il lavoro.
Cade il principio del monopolio pubblico del collocamento Il D. Lgs. 469/1997 ha attribuito anche alle
agenzie private la possibilità di svolgere l’attività di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro,
facendo venir meno un altro pilastro del vecchio collocamento, quello del monopolio pubblico.
La riforma del 2003. Le agenzie per il lavoro Il successivo D.lgs. 276/03 ridisegna tutta l’organizzazione
e la disciplina del mercato del lavoro, in un intreccio di norme che coinvolgono, oltre il
collocamento, la somministrazione e l’appalto.
Le agenzie per il lavoro Dal 2 giugno 2004 viene istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche
sociali un apposito albo, articolato in 5 sezioni, in cui vengono iscritti i soggetti (pubblici e privati)
autorizzati dallo stesso Ministero (oppure, laddove previsto, dalla regione) a svolgere attività di:
-Intermediazione, ossia attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro (ossia l’attività vera e propria di
collocamento, da non confondersi con l’intermediazione di cui alla L. 1369/1960).
-Somministrazione (fornitura professionale di manodopera).
-Ricerca e selezione del personale (attività di consulenza finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza del
committente attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative).
-Supporto alla ricollocazione professionale (attività effettuata su incarico del committente, volta alla ricollocazione nel
mercato del lavoro di lavoratori).
I 5 tipi Alle 5 sezioni dell’albo corrispondono 5 tipi di agenzie per il lavoro:
1. agenzie di somministrazione di lavoro c.d. generaliste, che svolgono sia la
somministrazione (fornitura di manodopera) a tempo determinato che indeterminato;
2. agenzie di somministrazione di lavoro c.d. specialistiche, che svolgono solo
somministrazione a tempo indeterminato in specifiche attività o servizi;
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3. agenzie di intermediazione (attività di mediaz. tra domanda e offerta di lavoro);


4. agenzie di ricerca e selezione del personale (su indicazione del datore);
5. agenzie di supporto alla ricollocazione professionale.
Per ottenere l’autorizzazione e la successiva iscrizione all’albo l’agenzia deve possedere alcuni
requisiti tali da garantire un minimo di solidità economica e finanziaria e la sua affidabilità sul
piano organizzativo, professionale e sociale.
Altri soggetti Accanto agli operatori pubblici (centri per l’impiego) e quelli privati (agenzie per il
lavoro), il decreto riconosce,a seguito di un’autorizzazione, ad altri soggetti la possibilità di
svolgere l’attività di mediazione, a condizione che non abbiano finalità di lucro e che venga
garantita l’interconnessione con la Borsa continua nazionale del lavoro. Così sono autorizzate a
svolgere l’attività di intermediazione le università pubbliche e private, le camere di commercio, gli
istituti di scuola secondaria di 2° grado..
Sanzioni L'esercizio non autorizzato delle suddette attività è punito con sanzioni penali di natura
contravvenzionale.
Gratuità per i lavoratori Il D.lgs. n. 276/2003 riafferma il principio di gratuità, per i lavoratori, delle
prestazioni rese dai soggetti autorizzati e prevede una sanzione penale in caso di violazione, ma
contemporaneamente lo rende parzialmente derogabile dalle parti sociali: i contratti collettivi
possono infatti stabilire che tale principio non trovi applicazione per specifiche categorie di
lavoratori o per specifici servizi offerti.

4. Le modalità di assunzione e gli adempimenti successivi.


Il vincolismo nelle assunzioni Il collocamento, a partire dal periodo corporativo fino agli anni ’90, era considerato
come un procedimento amministrativo di avviamento al lavoro, in cui un insieme di atti precedevano la fase di
stipulazione del contratto di lavoro, limitando la libertà contrattuale. Lo scopo della natura vincolistica del sistema di
collocamento, progettato nella L. n. 264/1949, era quello di distribuire equamente i posti di lavoro tra i disoccupati.
Richiesta numerica, libretto di lavoro e liste di collocamento Protagonisti del procedimento erano: gli uffici di
collocamento statali, per il cui tramite dovevano passare le richieste di assunzione; i datori di lavoro che dovevano
rivolgersi a tali uffici per poter assumere correttamente; i lavoratori che dovevano premunirsi del libretto di lavoro e
richiedere agli uffici l’iscrizione nelle liste di collocamento per poter essere assunti. La regola generale per le assunzioni
(seppur con numerose eccezioni) era quella della richiesta numerica (oggi sopravvissuta per il collocamento dei
disabili), che non permetteva la scelta del lavoratore da parte del datore di lavoro, il quale domandava all’ufficio solo un
certo numero di lavoratori in possesso di determinati requisiti professionali, la cui individuazione avveniva ad opera
degli uffici in base alle graduatorie delle liste di collocamento.
Richiesta nominativa Nel ’91 cade la regola della richiesta numerica e viene generalizzata la chiamata nominativa che
consente al datore di lavoro di richiedere agli uffici di collocamento solo il nulla osta preventivo per l’assunzione di un
determinato lavoratore, già individuato dallo stesso datore.

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La liberalizzazione Con la generalizzazione della c.d. assunzione diretta, nel 2003, il datore di
lavoro può stipulare direttamente il contratto di lavoro subordinato senza passare per il tramite degli
uffici pubblici e a prescindere da liste e graduatorie. Nel 2003 viene infatti prevista l’abrogazione di
gran parte delle liste di collocamento, del libretto di lavoro e della riserva per le fasce deboli. La
preferenza può cadere su qualsiasi lavoratore, nel rispetto però delle precedenze previste dalle
norme antidiscriminatorie e di quelle poste a garanzia della riservatezza individuale al fine di
evitare che la mancata assunzione di un soggetto avvenga per motivi extra professionali.
Le precedenze Esistono preferenze assolute (introdotte da norme speciali) a favore di certe categorie di lavoratori
nel caso di assunzione di personale da parte di determinati datori di lavoro:
a. a favore dei lavoratori licenziati per riduzione di personale o messi in mobilità, rispetto alle loro ex ditte che
effettuino richieste entro 6 mesi dal licenziamento;
b. a favore dei lavoratori che, a seguito di trasferimento d’azienda, rimangano alle dipendenze del cedente,
poiché ritenuti in eccesso rispetto alle esigenze del cessionario, nel solo caso in cui quest’ultimo effettui
assunzioni entro 1 anno dal trasferimento o un periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi;
c. in caso di assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro i 12 mesi successivi, a favore dei lavoratori che,
nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, hanno prestato un’attività lavorativa
per un periodo superiore a 6 mesi, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi;
c. in caso di assunzioni a termine per lo svolgimento di attività stagionali a favore dei lavoratori in precedenza
assunti a termine per lo svolgimento delle stesse attività. Nelle ultime due ipotesi il diritto di precedenza può
essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro
rispettivamente 6 mesi e 3 mesi dalla cessazione del rapporto stesso e si estingue entro 1 anno dalla cessazione
del rapporto di lavoro.
Sanzioni per la violazione delle precedenze In caso di violazione, da parte del datore, del diritto di precedenza del
lavoratore si avrà (secondo la previsione dell’art. 8 del D. Lgs. n. 61/2000) la trasformazione del part-time in full-time:
il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno in misura corrispondente alla differenza tra l’importo della
retribuzione percepita e quella che gli sarebbe stata corrisposta con il passaggio a tempo pieno nei 6 mesi successivi a
questo passaggio (risarcimento del danno da responsabilità contrattuale, quantificato attraverso la valutazione
equitativa del giudice ai sensi dell'ex art. 1226 c.c.).
Regole particolari Sopravvivono poi regole particolari, che limitano la discrezionalità datoriale, per l’assunzione nelle
pubbliche amministrazioni e per alcuni sopravvissuti collocamenti speciali (disabili).
Le liste di collocamento ancora vigenti Non risulta più obbligatoria l’iscrizione nelle liste di collocamento, a parte
alcuni casi particolari. Così restano in vigore solo la lista speciale di collocamento prevista per la gente di mare, la lista
di mobilità e la lista di disabili ai fini del collocamento obbligatorio.
Invio di lavoratori italiani all’estero Restano in vigore, inoltre, dei vincoli particolari per i lavoratori italiani che si
rendono disponibili a svolgere attività di lavoro all’estero in paesi extracomunitari: la chiamata nominativa, il nulla osta
preventivo per l’assunzione e l’iscrizione ad una speciale lista di collocamento.
Adempimenti successivi all’assunzione All’atto dell’assunzione sorgono in capo al datore obblighi di
registrazione nel Libro unico del lavoro, di comunicazione agli uffici e di informazione al
lavoratore.

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Il Libro unico del lavoro I privati datori di lavoro, escluso quello domestico, i committenti di
collaborazioni a progetto o coordinate e continuative e gli associati in partecipazione, devono
formare il Libro unico del lavoro nel quale iscrivere i dati personali e contrattuali di tutti i lavoratori
subordinati, parasubordinati o gli associati in partecipazione con apporto lavorativo. Il Libro unico
del lavoro è entrato in vigore il 18 agosto 2008 ed a pieno regime il 17 gennaio 2009, comportando
l’abrogazione di tutti i libri e registi con questo incompatibili (es., libro paga e matricola). Tale
obbligo non è previsto per le Pubbliche Amministrazioni.
La comunicazione preventiva A partire dal 1° gennaio 2007, tutti i datori di lavoro privati, gli enti
pubblici economici e le pubbliche amministrazioni, devono comunicare in via preventiva – cioè
entro le ore 24 del giorno precedente a quello di instaurazione del rapporto – al centro per l’impiego
competente i dati anagrafici del lavoratore, la data di assunzione, quella di cessazione se il rapporto
non è a tempo indeterminato, il tipo di contratto, la qualifica professionale e il trattamento
economico e normativo, in ogni caso di instaurazione del rapporto di lavoro subordinato, autonomo
in forma coordinata e continuativa, o di associazione in partecipazione con apporto lavorativo da
parte dell’associato. Il mancato rispetto di questi obblighi comporta una sanzione amministrativa.
L’obbligo di comunicazione preventiva in alcuni casi subisce:
a) Una deroga totale, quando si tratta di Pubbliche amministrazioni e Agenzie di
somministrazione, in favore delle quali il legislatore ha previsto un regime speciale che
consente alle stesse di comunicare i dati del lavoratore al centro per l’impiego competente
entro il 20° giorno del mese successivo alla data di assunzione;
b) Una deroga parziale, per i casi di urgenza legata ad esigenze produttive, al verificarsi dei
quali la comunicazione completa può essere effettuata entro 5 giorni dall’instaurazione del
rapporto di lavoro, è sufficiente comunicare in via preventiva solo la data di inizio della
prestazione e le generalità del datore e del lavoratore;
c) Una deroga totale, per i casi di forza maggiore consentendo di effettuare la comunicazione
entro il primo giorno utile e comunque non oltre in 5° giorno successivo.
Informazioni in forma scritta al lavoratore All’atto dell’assunzione, prima dell’inizio dell’attività
lavorativa, i datori di lavoro pubblici e privati devono consegnare ai lavoratori una copia della
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro inviata al centro per l’impiego. In tal modo
viene implicitamente imposta la forma scritta al contratto di lavoro, ma non a pena dell’invalidità
del contratto, né per la sua prova, bensì soltanto a pena di una sanzione amministrativa.
5. Il collocamento mirato dei disabili.

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Il collocamento c.d. obbligatorio dei disabili, per quanto oggetto anch’esso di un’attività di riforma,
resta tuttavia fortemente caratterizzato da una disciplina vincolistica, consistente nell’obbligo
imposto a certi datori di lavoro di assumere lavoratori considerati deboli sul mercato del lavoro.
Collocamento mirato In materia la legge 68/1999 promuove l’inserimento e l’integrazione lavorativa
delle persone disabili nel mondo del lavoro, attraverso servizi di sostegno e di “collocamento
mirato” in modo che il disabile possa partecipare al processo produttivo al pari di qualsiasi
lavoratore sano.
I soggetti beneficiari: disabili Il collocamento obbligatorio è rivolto:
a. alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap
intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dalle
competenti commissioni mediche;
b. alle persone invalide per lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, accertata dall’INAIL;
c. alle persone non vedenti o sordomute;
d. alle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio.
Inoltre il legislatore prevede l'applicazione marginale del collocamento obbligatorio anche verso soggetti che disabili
non sono ma appartengono a categorie ritenute nel passato meritevoli di tutela (es. orfani e coniugi superstiti di coloro
che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio).
Collocamento obbligatorio I datori di lavoro pubblici e privati devono assumere disabili quando
raggiungono determinate soglie occupazionali. In particolare essi sono obbligati ad assumere:
- il 7% dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti;
- 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
- 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti. L’obbligo scatta quando viene effettuata
più di una nuova assunzione, aggiuntiva rispetto all’organico dell’impresa.
Eccezioni agli obblighi Sono indicati tassativamente dalla legge i casi di sospensione, di esclusione o esonero parziale
degli obblighi di assunzione.

Le liste dei disabili I disabili disoccupati, che aspirano ad una occupazione conforme alle proprie
capacità lavorative, si iscrivono in un elenco tenuto dagli uffici provinciali competenti la cui
graduatoria è determinata in base a criteri che possono anche variare da Regione a Regione. Per
ogni persona, il Comitato tecnico provinciale inserisce in una scheda le capacità lavorative, le
abilità, le competenze e le inclinazioni, la natura e il grado di minorazione e esamina le
caratteristiche dei posti da assegnare ai lavoratori disabili, favorendo l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro.
Modalità di assunzione Quando si verifica una scopertura nella quota di riserva, i datori di lavoro con più di 14
dipendenti devono inviare agli uffici competenti il prospetto informativo dal quale risulti la
situazione dell’organico aziendale e presentare, entro 60 giorni, richiesta di assunzione. Le
assunzioni obbligatorie possono avvenire sia mediante richiesta inviata dai datori di lavoro obbligati

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all'ufficio competente sia mediante convenzioni stipulate dagli stessi datori con l'ufficio
competente.
Richiesta numerica e nominativa La richiesta numerica (con la quale sarà l’ufficio competente ad inviare il disabile al
datore richiedente) è ancora simbolicamente la regola di questo sistema di avviamento al lavoro, anche se la richiesta
nominativa è ammessa in diversi casi.
Sanzioni La violazione dell’obbligo (di assunzioni obbligatorie) comporta sanzioni amministrative.
Sono inoltre previste diverse misure volte a spingere i soggetti obbligati ad ottemperare all’obbligo
spontaneamente, pena l’esclusione da benefici (ad esempio la partecipazione ad appalti pubblici).

6. L’avviamento al lavoro degli extracomunitari.


Mentre i lavoratori comunitari possono circolare liberamente nei paesi dell’U.E., lo stesso non può
dirsi per i lavoratori extra comunitari, i quali sono soggetti ad un regime più rigido.
limiti all’ingresso e parità di trattamento La disciplina opera una differenza di trattamento tra:
- stranieri che intendono entrare nel nostro Paese, per i quali vigono limiti al loro ingresso per
motivi superiori di ordine pubblico che consistono nel controllo dei flussi d’ingresso e nella
predisposizione annuale,con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di quote
massime in entrata;
- stranieri che regolarmente ormai vi soggiornano. Ai quali, una volta ottenuto il permesso di
soggiorno, si riconosce parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai
lavoratori italiani (una volta ottenuta l’autorizzazione a lavorare in Italia).
L’assunzione dello straniero residente in Italia Per l'assunzione di stranieri già soggiornanti in Italia e in
possesso di un regolare permesso di soggiorno non si incontrano particolari difficoltà.
E non residente in Italia Una procedura lunga e complessa, invece, è prevista quando un datore di
lavoro italiano o straniero, che soggiorna in Italia, vuole instaurare un rapporto di lavoro
subordinato con uno straniero residente all’estero. La procedura si basa su due discipline distinte:
- una relativa all’ingresso e soggiorno in Italia (rilascio del visto e del permesso di soggiorno)
di competenza dell’autorità diplomatica o consolare italiana nel Paese d’origine e delle
questure una volta in Italia;
- l’altra relativa all’accesso al mercato del lavoro, per cui i datori interessati devono rivolgere
agli uffici competenti le richieste numeriche di lavoratori iscritti in apposite liste o
nominative di nulla osta al lavoro.
Condizioni per il rilascio del “nulla osta al lavoro” sono: l’impegno del datore di lavoro nei confronti dello Stato
italiano al pagamento delle spese di ritorno dello straniero nel Paese di provenienza; l’esibizione agli uffici della
proposta di contratto di soggiorno; l’impegno all’applicazione al lavoratore extracomunitario di trattamenti non inferiori
a quelli previsti dai contratti collettivi applicabili; l’indicazione delle modalità di alloggio; l’impegno a comunicare ogni
variazione concernente il rapporto di lavoro.

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Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo a seguito della stipula del contratto di soggiorno e per la
durata di questo, ma non può comunque superare: a) in caso di lavoro stagionale, la durata di 9 mesi; b) in caso di
lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di 1 anno; in cado di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la
durata di 2 anni. Il contratto di soggiorno è una figura atipica di contratto di lavoro, nel quale devono essere presenti, a
pena di nullità: a) la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio sicuro per il lavoratore;
l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore del Paese di
provenienza.

7. Le politiche attive del lavoro.


Le politiche attive del lavoro L’intervento pubblico sul mercato del lavoro non può limitarsi solo alla
regolamentazione delle modalità di incontro tra domanda e offerta, ma deve anche intervenire sul
lato dell’offerta di lavoro attraverso una politica che stimoli e indirizzi i lavoratori inoccupati e
disoccupati.
Le politiche attive del lavoro si trovano in 3 grandi aree: informazione, orientamento e formazione
professionale.
L’informazione sul mercato del lavoro Per quanto riguarda l’informazione, esistono diverse strutture
pubbliche che controllano e monitorano i flussi di lavoratori in entrata e uscita dal mercato del
lavoro e cercano di studiarne caratteristiche e tendenze (Istat, Cnel, Ministero del lavoro ecc.).
Dal SIL alla Borsa del lavoro Per garantire una migliore circolazione delle informazioni e la
trasparenza del mercato nel 1997 viene ideato il “Sistema Informativo Lavoro” (SIL) una sorta di
rete protetta, accessibile solo da soggetti autorizzati. Il D. Lgs. 276/2003 sostituisce il SIL (prima
ancora di trovare attuazione sul territorio nazionale) con la “Borsa continua nazionale del lavoro”,
un sistema basato su una rete di nodi regionali facilmente consultabile sia dai lavoratori che dalle
imprese. Severi limiti all'acquisizione, al trattamento e alla divulgazione dei dati personali sono
predisposti per la tutela della riservatezza dei lavoratori e per evitare trattamenti discriminatori. La
conduzione della Borsa del lavoro resta nelle mani dello Stato mentre la sua gestione viene affidata
alle regioni.
L’elenco anagrafico e la scheda professionale Per favorire l’inserimento al lavoro e l’incontro tra
domanda ed offerta è stata istituita una banca dati informatizzata dei lavoratori in cerca di impiego,
chiamata elenco anagrafico, e una scheda professionale (che contiene le informazioni relative alle
esperienze formative e professionali di ciascun lavoratore e i dati che certificano le rispettive
competenze). Elenco anagrafico e scheda professionale vanno così a sostituire rispettivamente le
liste di collocamento e il libretto di lavoro ormai abrogati Lo scopo è sia quello di favorire
l’assunzione e l’accesso ai servizi per l’impiego (pubblici e privati) da parte di lavoratori e datori di
lavoro, sia quello di controllare e monitorare le professionalità più richieste sui mercati, la qualità
professionale offerta dai soggetti in cerca di impiego e le loro esigenze. Con ciò si rinnova il

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sistema che regola l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e si permette allo Stato di mantenere
una vigilanza sull’andamento dei mercati regionali del lavoro.
L’orientamento Per orientamento professionale si intende l’attività diretta ad informare ed
indirizzare il soggetto verso un lavoro che tenga conto delle sue aspirazioni, delle sue competenze e
delle richieste del mercato.
La formazione professionale La formazione professionale è invece il momento di raccordo tra
l’istruzione e il lavoro, tra il diritto allo studio e il diritto al lavoro. La formazione professionale
consente di adeguare la qualità dell’offerta di lavoro alle esigenze della domanda. L’art. 117 Cost.
affida alle Regioni potestà legislativa primaria in materia di formazione professionale.
L’art. 3 del D. Lgs. n. 181/2000 L’art. 3 del D. Lgs. n. 181/2000 impone alle Regioni di fornire ai
soggetti più deboli sul mercato del lavoro alcuni servizi minimi essenziali per favorire l’incontro tra
domanda ed offerta. In particolare si prevede che i centri per l’impiego, o altri organismi autorizzati,
sottopongano i disoccupati e gli inoccupati a colloqui di orientamento, proposte di adesione ad
iniziative di inserimento lavorativo o di formazione o di riqualificazione professionale entro 3, 4 o 6
mesi dal momento dell’acquisizione dello stato di disoccupazione.

8. Le politiche per l’occupazione.


Le politiche per l’occupazione incidono invece sulla domanda di lavoro con incentivi di vario
genere e natura diretti a creare nuova occupazione.
Gli incentivi per nuove assunzioni Le misure di politica per l’occupazione, ed in particolare quelle
riguardanti gli incentivi per nuove assunzioni, si possono classificare in 2 gruppi a seconda che
siano destinate a categorie di lavoratori o a determinate aree geografiche.
Indirizzati a particolari zone In quest’ultima categoria rientrano gli strumenti del credito d’imposta ( i
c.d. premi di assunzione) e quello dello sgravio totale triennale. Sono misure che hanno una durata
limitata, che il legislatore adotta di volta in volta, in base anche a valutazioni di politica economica,
nei confronti delle aziende del Mezzogiorno. Devono essere notificate alla Commissione CE perché
non sono destinate a categorie di soggetti svantaggiati.
O a categorie di soggetti svantaggiati Rientrano nel primo gruppo le agevolazioni destinate ai soggetti
svantaggiati. Al suo interno si possono trovare 2 sottotipi a seconda che l’assunzione incentivata
venga effettuata con un contratto di lavoro subordinato tipico o atipico o flessibile. Nel primo
sottotipo rientrano le fattispecie disciplinate dall’art. 8, 9° comma, L. n. 407/1990, dagli artt. 8 e 25
della L. n. 223/1991 e dall’art. 3 della L. n. 68/1999 per i disabili assunti in convenzione. Nel
secondo sottotipo rientrano le agevolazioni che riguardano il contratto di formazione e lavoro per le
Pubbliche Amministrazioni e il contratto di inserimento per i datori di lavoro privato. Può esserci un

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terzo sottotipo che è destinato non a particolari categorie di lavoratori ma a particolari categorie di
imprese, cioè le piccole e medie che hanno diritto ad agevolazioni se assumono ricercatori,
dirigenti; in questo caso lo svantaggio riguarda l’impresa e non il lavoratore da assumere.
Anche il contratto di solidarietà espansivo ha lo scopo di incrementare l’occupazione (con una
riduzione dell’orario di lavoro) ma si tratta di uno strumento poco diffuso.

B. LA SOMMINISTRAZONE DI LAVORO
1.Il pregresso divieto di interposizione di manodopera e le garanzie per l’appalto lecito (L. n.
1869/1960).
L’ interposizione di manodopera è un’antica prassi, volta a liberare i datori di lavoro dalla propria
responsabilità giuridica ed economica nei confronti dei lavoratori, scaricandola su altri soggetti
(intermediari o interposti) così da potersi assicurare manodopera in maniera meno costosa e più
flessibile. Questo fenomeno è definita nel linguaggio del legislatore del 1960 come interposizione.
Divieto di interposizione La cattiva immagine lasciata nella storia dai raggiri e dagli abusi di
intermediari e reclutatori (che scomparivano quando dovevano adempiere agli obblighi nei
confronti dei lavoratori) hanno spinto il legislatore italiano a porre un divieto di interposizione per
via della compressione della tutela dei lavoratori e per la mercificazione della loro essenza.
Il sistema della L. n. 1369/1960 La L. n. 1369/1960 vietava quella condizione in cui un committente,
imprenditore o non imprenditore, si rivolgeva ad un altro soggetto, detto interposto, per richiedere
la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da questo, ma operanti
alle dipendenze del primo. L'interposto si rivelava un fantoccio che, privo di garanzie di solidità
economico-finanziaria, lucrava sull'attività interpositoria (facendo pagare un prezzo anche ai
lavoratori). Era così vietata la fornitura di manodopera, con sanzioni sia sul piano civile sia penale
in caso di violazione. La sanzione civile stabiliva che, eliminato lo schema dell'interposto, i
lavoratori fossero considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dirette di chi ne avesse effettivamente
utilizzato le prestazioni, tutelando gli interessi individuali, personali e patrimoniali del lavoratore
coinvolto nella fattispecie interpositoria. Con la sanzione penale (contravvenzione) si garantiva
l'interesse pubblico all'inderogabilità delle norme protettive poste a tutela del lavoratore
subordinato.
L’appalto lecito Oltre alla fattispecie vietata della mera interposizione fittizia, la legge del 1960
disciplinava anche quella dell’appalto “lecito”, in cui il fornitore non conferiva solo la manodopera
all’utilizzatore, ma apportava un complessivo servizio o un’opera compiuta, con l’utilizzo di una
propria organizzazione di mezzi, strumenti e personale gestiti a proprio rischio. Dunque l’elemento
che contraddistingueva l’appalto lecito era l’apporto di strutture materiali da parte dell’appaltatore,

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senza il quale la fornitura era limitata solo al personale , quindi illecita. Successivamente si sono
diffusi appalti a basso impiego di strutture materiali e con prevalente apporto del fattore lavoro
portando a considerare quale elemento di liceità il fatto che l’appaltatore organizzasse i fattori
produttivi e dirigesse i lavoratori impiegati.
Garanzie per i lavoratori nell’appalto lecito Tale tipologia di appalto lecito era comunque accompagnata
dalla garanzia di solidarietà tra appaltante e appaltatore per i crediti dei lavoratori impiegati da
quest’ultimo nell’appalto, e da un vincolo di parità di trattamento retributivo e normativo dei
lavoratori dipendenti dell’appaltatore pari a quello riconosciuto ai dipendenti dell’appaltante. Il
legislatore però non era favorevole al decentramento produttivo, dunque lo scopo era quello di
utilizzare il lavoro dell’appaltatore, per il minor costo.
Entrambi i tipi di appalto sono stati riformati dal legislatore.

2. La legittimazione della somministrazione di lavoro.


Dapprima la L. n. 196/1997 (c.d. Pacchetto Treu) e poi il D. Lgs. 276/2003, a determinate
condizioni e con precisi vincoli garantistici, hanno reso legittima la interposizione vietata dalla
legge del 1960, attraverso la abrogazione di quest’ultima.
La triangolazione consentita Essa assume il nome di “somministrazione di lavoro” ed è quella situazione
in cui il somministrante (agenzia per il lavoro) resta datore di lavoro e assume gli obblighi
retributivi e contributivi, l’utilizzatore esercita i poteri direttivi nei confronti dei lavoratori e
corrisponde al somministrante un compenso globale. Si realizza così una scissione tra la titolarità
formale del rapporto di lavoro (in capo al somministrante) e l’utilizzo del rapporto di lavoro (da
parte dell’utilizzatore). I soggetti coinvolti sono tre: agenzia fornitrice, utilizzatore e lavoratore e i
contratti sono 2, uno di fornitura stipulato dall’agenzia con l’utilizzatore e uno di lavoro subordinato
stipulato dall’agenzia con il lavoratore.
Le valenze positive I vantaggi di tale triangolazione sono diversi. L’utilizzatore non deve effettuare la
ricerca e formazione del personale, non deve gestire il rapporto dal punto di vista amministrativo,
può sperimentare il lavoratore per un periodo superiore a quello del periodo di prova, alla cui
scadenza può “restituire” il lavoratore all’impresa di somministrazione senza dover ricorrere a
procedure di licenziamento, o può assumere il lavoratore alle proprie dipendenze se convinto.
L’agenzia riceve un profitto per l’attività imprenditoriale di ricerca, selezione, formazione.

3. La disciplina della somministrazione di lavoro.


È quindi lecita la somministrazione che rispetta i limiti e le condizioni previste dalla disciplina della
somministrazione di lavoro, pena l’imputazione del rapporto in capo all’utilizzatore.

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a) L’autorizzazione Possono svolgere attività di somministrazione, cioè fornitura professionale di


manodopera solo soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro, a condizione che siano in
grado di garantire una solidità economica, finanziaria e organizzativa.
b) Somministrazione a termine e a tempo indeterminato La fornitura di lavoro può essere a tempo
determinato o a tempo indeterminato. Quest’ultima tipologia è stata molto contestata, ed è
stata abrogata dal Governo di centro sinistra, ma la legge Finanziaria per il 2010 (L. n.
191/2009,emanata dal Governo di centro destra) ha legittimato tale tipologia, nei casi
originariamente e tassativamente previsti dall’art. 20 del D. Lgs. n. 276/2003 (ad es. per i
servizi e assistenza nel settore informatico).
Requisiti del contratto Per il contratto di somministrazione sono previsti precisi requisiti di forma
(l’atto scritto ad substantiam) e di contenuto (i c.d. elementi obbligatori: estremi dell’autorizzazione
dell’agenzia, numero dei lavoratori da somministrare, causali giustificative, eventuali rischi per la
salute dei lavoratori...).
Tutte le informazioni che riguardano il contratto di somministrazione devono essere date
dall’agenzia al lavoratore al momento della stipulazione del contratto di lavoro subordinato o al
momento dell’invio presso l’utilizzatore a pena di sanzione amministrativa. L’utilizzatore ha
l’obbligo di comunicare ai sindacati il numero e i motivi del ricorso alla somministrazione in
occasione di ogni fornitura e ogni dodici mesi.
Divieti di somministrazione La somministrazione è vietata: 1) per la sostituzione di lavoratori in
sciopero; 2) per le unità produttive e per le mansioni interessate, nei sei 6 precedenti, da
licenziamenti collettivi o da integrazioni salariali; 3) per le imprese che non abbiano effettuato la
valutazione dei rischi.
La L. n. 191/2009 ha consentito la stipula del contratto di somministrazione anche quando sono stati
effettuati licenziamenti collettivi di lavoratori che svolgevano gli stessi compiti contenuti nel
contratto di somministrazione, se la somministrazione è diretta a sostituire i lavoratori assenti o se
viene conclusa prevedendo l’utilizzo di lavoratori in mobilità assunti dal somministratore con un
contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, oppure se ha una durata iniziale non
superiore a 3 mesi. Incentivi Tale legge ha inoltre previsto degli incentivi per i lavoratori assunti dall’utilizzatore al
termine della somministrazione: 1200 euro per ogni lavoratore intermediato che viene assunto con un contratto a tempo
indeterminato o contratto a termine di durata non inferiore a 2 anni, con esclusione della somministrazione di lavoro e
del contratto di lavoro intermittente; 800 euro per ogni lavoratore intermediato che viene assunto con contratto a
termine di durata compresa tra 1 e 2 anni, con esclusione della somministrazione di lavoro e del contratto di lavoro
intermittente; tra i 2500 e i 5000 euro per l’assunzione, con contratto a tempo indeterminato, di inserimento al lavoro o
a termine non inferiore a 12 mesi, dei lavoratori disabili iscritti nelle liste speciali, che abbiano particolari caratteristiche
e difficoltà d’inserimento nel ciclo lavorativo ordinario.

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Il contratto di lavoro subordinato Accanto al contratto di somministrazione (a termine o tempo


indeterminato) stipulato tra l’agenzia autorizzata e l’utilizzatore troviamo il contratto di lavoro
subordinato tra agenzia e lavoratore, che non è collegato con il primo. Il contratto di lavoro
subordinato, a prescindere dalla natura o dal termine della somministrazione, può essere stipulato a
tempo pieno o parziale, a tempo determinato, prorogabile con il consenso del lavoratore, o a tempo
indeterminato, con diritto del lavoratore, per i periodi in cui resta in attesa di assegnazione, ad una
più ridotta “indennità di disponibilità”.
Rapporto tra lavoratore e utilizzatore I lavoratori somministrati sono alle dipendenze dell’agenzia,
titolare del contratto di lavoro, ma essi svolgono la propria attività lavorativa sotto la direzione ed il
controllo dell’utilizzatore. E’ sull’agenzia che gravano in favore dei lavoratori gli obblighi
retributivi e contributivi, previdenziali ed assistenziali, ma vi però una obbligazione solidale
sussidiaria dell’utilizzatore, che comunque è contrattualmente tenuto a rimborsare all’agenzia i
costi da questa sostenuti per i lavoratori.
Potere direttivo, disciplinare. Jus variandi Per quanto riguarda l’esercizio dei poteri tipici del datore di lavoro, si ha
una divisione tra il potere direttivo e di controllo, che spettano all’utilizzatore ed il potere disciplinare che resta in capo
all’agenzia. In caso di jus variandi da parte dell’utilizzatore, quest’ultimo ha l’obbligo di una immediata comunicazione
scritta all’agenzia; in mancanza l’utilizzatore dovrà corrispondere al lavoratore le differenze retributive o il risarcimento
del danno eventualmente dovuti.
Parità di trattamento L’art. 23, 1° comma, prevede la regola della parità di trattamento riconoscendo che il lavoratore
somministrato ha diritto ad un “trattamento economico non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello
dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte”.
Deroga per i lavoratori svantaggiati Una deroga all’obbligo di applicare ai lavoratori somministrati un trattamento
economico e normativo non inferiore a quello dei dipendenti dell’utilizzatore è prevista per i lavoratori svantaggiati,
cioè quei soggetti che trovano particolari difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, a condizione però che vengano
assunti dall’agenzia di somministrazione per almeno 6 mesi con un piano individuale di inserimento o reinserimento nel
mercato del lavoro.
Tutela della salute e sicurezza Salvo diversa previsione contrattuale, l’agenzia di somministrazione deve addestrare i
lavoratori e informarli sui rischi generali per la loro sicurezza e salute, mentre tale obbligo ricade sull’utilizzatore per i
rischi specifici, cioè quelli relativi alle mansioni a cui verranno adibiti. . Gravano sull'utilizzatore nei cfr. dei lavoratori
somministrati tutti gli obblighi di sicurezza e protezione individuati dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Gli enti bilaterali del settore A causa della sua originaria opposizione alla legittimazione della
somministrazione di lavoro, il sindacato, ha condizionato l’introduzione di tale istituto alla
previsione di alcune garanzie e vantaggi in favore dei lavoratori somministrati. Sono stati così
disciplinati 3 enti bilaterali (Formatemp, Ebitemp, Ebiref) che offrono ai lavoratori particolari
modalità formative e forme di sostegno al reddito per i periodi di inattività.
4. I risvolti giuslavoristici dell’appalto lecito.

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Diversa dall’ipotesi di mero conferimento di personale diretto e coordinato dall’utilizzatore – ipotesi


ieri vietata, oggi consentita a precise condizioni – è l’ipotesi dell’appalto genuino in cui è l’appaltatore ad
apportare e coordinare gli strumenti produttivi e personale con assunzione del rischio
imprenditoriale.
L’originaria diffidenza legislativa Nei confronti dell’appalto lecito, che determina un decentramento
della produzione, il legislatore è rimasto per diverso tempo diffidente. A partire dagli anni ’80 però
si riconosce la convenienza delle operazioni di esternalizzazione di segmenti produttivi. Per cui il
legislatore ha pensato di ampliare la fattispecie lecita e di attenuare i vincoli in precedenza previsti.
a) La puntualizzazione della fattispecie L’art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003 ha precisato che si può di considerare
legittimo anche il solo esercizio dei poteri datoriali nei confronti dei lavoratori (da parte dell’appaltatore), pur
in assenza di un apporto di strumentazioni; per contro è illecito l’appalto se i lavoratori sono diretti e coordinati
dall’appaltante. Un appalto di pulizia è, ad es., legittimo se è la ditta di pulizie a dirigere e coordinare i
lavoratori; è illegittimo se tali poteri sono esercitati dall’appaltante; se i lavoratori sono “inviati”
all’utilizzatore da un soggetto autorizzato a svolgere attività di somministrazione la fattispecie è considerata
legittima somministrazione di manodopera.
b) Il superamento della presunzione Il legislatore del 2003 ha inoltre abrogato l’art. 1 della L. n. 1369/1960,
secondo cui l’appalto era considerato illecito quando la proprietà dei capitali, delle macchine e delle
attrezzature impiegate nell’appalto era del committente-appaltante. Oggi macchine e attrezzature di proprietà
dell’appaltante possono essere noleggiate dall’appaltatore, purché quest’ultimo è l’organizzatore dei fattori
produttivi.
c) Il superamento della parità di trattamento È scomparso l’obbligo di parità di trattamento dei lavoratori
impiegati dall’appaltatore rispetto a quelli dipendenti dall’appaltante.
L’appalto non genuino, cioè privo dei requisiti previsti all’art. 29, è punito con la stessa sanzione
penale contravvenzionale della somministrazione non autorizzata. In più il lavoratore può chiedere
la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del committente che ha
utilizzato effettivamente la prestazione. Un altro strumento di uso flessibile della forza lavoro che
rientra nello schema della triangolazione lecito è quello del comando o distacco. Questa figura
comporta che il dipendente di un datore venga dislocato presso un altro, con assoggettamento al
comando ed al controllo di quest’ultimo. Questa non è altro che un’ipotesi di fornitura lecita di
manodopera non esercitata professionalmente (necessaria invece per la somministrazione lecita).
Dunque il distacco è quella somministrazione posta in essere temporaneamente da un datore di
lavoro qualunque (non una agenzia autorizzata) per soddisfare un proprio interesse; in caso di
distacco non corrispondente al tipo legale descritto è prevista la stessa sanzione civile prevista per la
somministrazione illecita e per l’appalto non genuino: imputazione del rapporto in capo all’effettivo
utilizzatore.
CAPITOLO IV

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IL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO
1. Il distacco
Distacco o comando Il distacco o comando consiste nell’invio di un dipendente di un datore di lavoro
(c.d. distaccante) presso un diverso datore (distaccatario), con il permanere della titolarità del
rapporto e dell’obbligo retributivo e contributivo in capo al primo, anche se il lavoratore distaccato
viene assoggettato al potere direttivo, di controllo ed eventualmente disciplinare del secondo. Si
tratta di un’ipotesi di somministrazione di lavoro, che, seppur posta in essere non da un’agenzia
autorizzata, costituisce comunque uno strumento lecito di decentramento produttivo (decentrare
vuol dire scorporare o comunque affidare a terzi pezzi del processo produttivo la produzione di un
bene o di un servizio di una certa impresa).
Il distacco nel D. Lgs. n. 276/2003 Il distacco è oggi disciplinato dall’art. 30 del D. Lgs. n. 276/2003
che però non è applicabile alle pubbliche amministrazioni. Quest'ultimo considera il distacco come
ipotesi legittima di somministrazione di lavoro posta in essere da un soggetto che non esercita
professionalmente attività di fornitura di lavoro altrui. Lo schema è sempre quello della
triangolazione, in quanto anche col distacco si realizza quella temporanea dissociazione tra datore
formale e utilizzatore della prestazione di lavoro. Un datore di lavoro distaccante, per soddisfare un
proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto
(c.d. distaccatario) per eseguire una determinata attività lavorativa pur rimanendo direttamente
responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore.
Requisiti di liceità del distacco Il D.lgs n. 276/2003 ha confermato la prassi giurisprudenziale
precedente, ma ha anche introdotto nuovi elementi: ammette il distacco anche da parte di datori non
imprenditori purché dotati di un’autonoma struttura organizzativa; la prestazione del lavoratore
distaccato deve essere determinata, non potendo essere riconducibile ad una generica messa a
disposizione di manodopera.
Elementi di continuità con il passato, indispensabili per la liceità del distacco, sono:
- la presenza dell’interesse proprio del datore distaccante - se il distacco perseguisse
l’interesse dell’impresa del distaccata rio si avrebbe una somministrazione non autorizzata.
- la temporaneità del distacco, cioè non definitività.
Sanzioni per distacco illecito Il distacco che non rispetta tali requisiti configura un’ipotesi illecita di
decentramento produttivo ed è punito con la stessa sanzione della somministrazione illecita: su
domanda, il lavoratore interessato può ottenere l’imputazione del rapporto in capo all’effettivo
utilizzatore.

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Limiti al potere di distacco A tutela del lavoratore distaccato sono poi previste 2 regole che corrispondono a due limiti
imposti al potere del distaccante:
- il distacco che comporta un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;
- il distacco deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive
quando comporta un trasferimento ad una unità produttiva che si trova a più di 50 km da quella in cui il
lavoratore è adibito.
Distacco e riduzione di personale Inoltre il distacco può essere disposto per evitare il licenziamento del lavoratore,
rimettendo la decisione agli accordi sindacali.
Distacco nell’ambito dei gruppi transnazionali Per quanto riguarda il distacco di lavoratori all’estero, in Italia è stato
emanato il D. Lgs. n. 72/2000 che garantisce ai lavoratori distaccati, durante il periodo del distacco, la parità di
trattamento rispetto ai prestatori comparabili impiegati nel luogo del distacco ed il rafforzamento della garanzia
dell’obbligazione retributiva, attraverso la previsione di un regime di solidarietà tra distaccante e distaccata rio.

2. Il rapporto di lavoro nei gruppi di impresa e in imprese collegate.


Un fenomeno connesso al distacco è quello del collegamento fra più imprese, individuali o
collettive, società di persone o di capitali. Quando il collegamento è particolarmente intenso, con
situazioni di controllo o di direzione unitaria, si parla di “gruppo di imprese” o di “imprese di
gruppo”. Il semplice collegamento economico-societario tra più società non comporta la presenza di
un unico datore di lavoro, ai fini lavoristici, salvo che non risulti con molta chiarezza la presenza di
un unico centro decisionale, per la gestione del personale e dei rapporti sindacali. In tale circostanza
sono previste alcune disposizioni legislative che danno rilievo al rapporto di collegamento esistente tra imprese o al fine
di ampliare l'ambito dei destinatari di determinate tutele e prevenire le frodi o con l'obbiettivo di consentire
l'accentramento in capo alla società capogruppo degli adempimenti burocratici “in materia di lavoro, previdenza e
assistenza sociale dei lavoratori dipendenti”.

3. Il trasferimento d’azienda (o di ramo d’azienda).


Decentramento produttivo e diritto del lavoro La disciplina del trasferimento d’azienda (o di un suo
ramo) ad un terzo ha lo scopo di garantire la prosecuzione del rapporto di lavoro presso l’acquirente
con un rafforzamento delle tutele dei diritti dei lavoratori, coinvolgendo sia il cedente che il
cessionario dell'azienda nelle posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori.
I ripetuti interventi del legislatore comunitario e nazionale in materia, sono ispirati dalla volontà di
rafforzare le tutele dei lavoratori poiché il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo costituiscono
uno strumento molto utilizzato per realizzare il decentramento produttivo, o per esternalizzare attività
non appartenenti al nucleo essenziale del ciclo produttivo ed affidarle a terzi, fenomeni che possono sfociare in
licenziamenti collettivi o possono determinare riflessi sulle condizioni di vita e lavoro dei lavoratori
Il trasferimento d’azienda: evoluzione normativa La disciplina del trasferimento di azienda è contenuta
nell’art. 2112 cod. civ. e nell’art. 47, L. 428/1990 sui quali è intervenuto il D.lgs. n. 18/2001 e l’art.
32 del D. Lgs. n. 276/2003. Il principio base della normativa è quello del mantenimento dei diritti
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dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda (art. 2112) e di conservazione del posto, che si
realizza garantendo il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare dell’azienda o di un suo ramo.
Si è parlato di crisi di identità dell'art. 2112 c.c., poiché detto articolo, nato per garantire il mantenimento dei diritti dei
lavoratori e la continuità dell'occupazione, oggi viene spesso utilizzato per ridimensionare o dismettere da parte
dell'imprenditore settori di attività e quindi i dipendenti a questi addetti senza sottostare alla procedura e agli oneri
previsti per i licenziamenti collettivi e a prescindere dal consenso dei lavoratori ceduti.
Il collegamento con l’appalto Può accadere che l’acquirente di parte dell’azienda si impegna con il
cedente, attraverso un contratto di appalto, a fornirgli beni o servizi realizzati attraverso la parte
ceduta. Ciò si può verificare, ad es., quando una società automobilistica affida la costruzione dei pezzi in plastica
dell’autovettura ad una società specializzata in lavorazioni plastiche con connesso contratto di appalto, con il quale tale

società specializzata si impegna a fornire un certo numero di pezzi in plastica alla società automobilistica. In questo
caso appaltante e appaltatore sono obbligati in solido verso i lavoratori dipendenti dell’appaltatore
entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto.
I diversi interventi novellatori (del 2001 e del 2003) all’art. 2112 cod. civ. hanno ampliato:
- la definizione di trasferimento la nozione di “trasferimento. Per trasferimento si intende
qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità dell’azienda (o del ramo) a
prescindere dalla tipologia negoziale o del provvedimento sulla base del quale il
trasferimento è attuato. Quale che sia lo strumento utilizzato per attuare il trasferimento è consentito
all’imprenditore cedente di trasferire automaticamente i dipendenti addetti alla parte trasferita.
- La definizione di azienda il concetto di azienda. Oggi per azienda si intende una attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità.
La smaterializzazione dei processi produttivi secondo il nuovo dato normativo l’art 2112 c.c. può essere
applicato anche quando ad essere trasferita è un’attività realizzata solo con l’impiego di un insieme di
lavoratori organizzati senza il supporto di un apparato strumentale, a condizione che non si tratti di una mera
sommatoria di prestazioni lavorative e che l'attività traslata si caratterizzi per un’insieme organizzativo. Una
simile lettura smaterializzata dell'azienda consente di estendere l'art. 2112 c.c., anche al trasferimento di
attività caratterizzate da elevato “contenuto umano”.
Applicabilità ai non imprenditori Resta aperta la questione concernente l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. e
dell'art 47 L. n. 428/1990, ai datori di lavoro non imprenditori. Di fronte all'attuale formulazione del 5° comma
dell'art. 2112 c.c., come novellato dal D.lgs. n. 276/2003, che definisce l'azienda “come un'attività economica
organizzata, con o senza scopo di lucro” dopo aver eliminato la specificazione prevista dal D.lgs. n. 18/2001
“al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”, ha portato certa dottrina ad includere nel campo di
applicazione della norma anche il caso in cui il cessionario sia un soggetto non imprenditore. L’art. 2112 c.c.
trova applicazione anche in caso di trasferimento di attività da parte delle pubbliche amministrazioni ad altri
soggetti, pubblici o privati.
Il ramo d’azienda Per ramo d’azienda si intende una parte autonoma di un’attività economica
organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento.
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Autonomia funzionale al momento del trasferimento nel D. Lgs. n. 276/2003 Il D,lgs. n. 18/2001 richiedeva come
requisiti per l'identificazione della “parte dell'azienda” la sua preesistenza rispetto al trasferimento e la conservazione

della propria identità nel trasferimento. Con le modifiche apportate con il D.lgs 276/2003 il legislatore ha
stabilito che per l'applicazione dell'art. 2112 c.c. è sufficiente che la parte di attività ceduta sia
dotata di autonomia funzionale, cioè di coesione funzionale e organizzativa , che può sorgere anche solo al
momento del trasferimento.
Art. 2112 cod. civ.: passaggio automatico dei lavoratori Se ricorrono gli elementi identificativi dell’azienda
o del ramo di azienda, il passaggio dei lavoratori addetti sarà automatico, con le garanzie dell’art.
2112 c.c., senza bisogno del consenso dei lavoratori. In caso contrario ( ad es, trasferimento di una
porzione di attività non idonea alla produzione di beni o servizi o di un segmento aziendale privo di autonomia

funzionale) si avrà l’ipotesi di cessione di singoli beni e di singoli contratti di lavoro, che richiede il
consenso del contraente ceduto, sicché il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare resterà
subordinato al loro consenso, ma non opereranno in loro favore le garanzie previste dall’art. 2112.
Le garanzie offerte al lavoratore in caso di trasferimento d’azienda sono diverse:
- Conservazione dei diritti e continuità del rapporto I lavoratori conservano i diritti già maturati
presso il cedente, tra questi la conservazione dell’anzianità di servizio maturata e dei
conseguenti diritti (scatti, progressione di carriera...);
- La responsabilità solidale e le sue deroghe È prevista una responsabilità solidale tra cedente e
cessionario, a garanzia dei crediti del lavoratore maturati nel rapporto con il primo. Il
lavoratore può decidere di liberare dalla responsabilità solidale uno dei due, nel rispetto di
precise modalità;
- Il contratto collettivo applicabile: l’ultrattività Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti
economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento,
fino alla loro scadenza, conferendo a tali contratti collettivi una sorta di ultrattività (in
deroga alle disposizioni civilistiche sull’efficacia del contratto), visto che la pattuizione
collettiva continuerà a produrre effetti (fino alla scadenza) nei confronti di un soggetto, il
cessionario, che non è parte dell’accordo. o sostituzione automatica per lo stesso livello Tuttavia,
se il cessionario applica uno specifico contratto collettivo, tale disciplina prevale e
sostituisce quella del contratto collettivo in precedenza applicato dal cedente. Ma ciò solo
nel caso in cui i 2 contratti siano dello stesso livello per evitare i potenziali effetti pregiudizievoli che
una sostituzione di contratti collettivi con contratti aziendali potrebbe cagionare ai lavoratori (sul presupposto,
non sempre corretto, che la contrattazione collettiva nazionale sia nel più favorevole di quella aziendale).
La deroga alle garanzie per le imprese in crisi Per agevolare il rilevamento ed il salvataggio di
aziende in crisi (crisi aziendale o dichiarazione di fallimento con accertamento del Ministero
del Lavoro) oggetto di procedure concorsuali, il legislatore ha stabilito una deroga alle

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garanzie in favore dei lavoratori, fin qui descritte. In tali casi, se viene raggiunto un accordo
sindacale circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione da parte del cessionario, le
garanzie di conservazione di tutti i diritti, di mantenimento dei trattamenti collettivi
pregressi, nonché l’obbligazione solidale tra cedente e cessionario, possono essere azzerate
o graduate dal medesimo accordo sindacale.
- La tutela del posto di lavoro Il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di
licenziamento (per evitare che il trasferimento d’azienda vanga usato come espediente per procedere a
licenziamenti senza osservare la disciplina prevista dal legislatore). . L’imprenditore può licenziare i
propri dipendenti solo se ricorre una autonoma giusta causa o un giustificato motivo, non
avendo rilievo il semplice trasferimento.
- Le dimissioni del lavoratore collegate al trasferimento Il lavoratore può presentare le dimissioni,
con preavviso, quando non accetta il trasferimento. Tuttavia, nel caso in cui le condizioni di
lavoro subiscano una sostanziale modifica per effetto del trasferimento, il lavoratore ha la
facoltà di dimettersi entro 3 mesi dal trasferimento con gli effetti propri del “recesso per
giusta causa” (art. 2119 c.c.), ossia senza dover dare preavviso e ricevendo l’indennità
sostitutiva del preavviso.
La procedura di consultazione sindacale È prevista, dall’art. 47 della L. n. 428/1990, una procedura
particolare per il trasferimento di azienda, quando l’azienda ha più di 15 lavoratori. Il cedente e il
cessionario devono comunicare per iscritto ai sindacati l’intenzione di trasferire l’azienda o un suo
ramo almeno 25 giorni prima del perfezionamento dell’atto da cui deriva il trasferimento.
L’esame congiunto I sindacati, entro 7 giorni dalla ricezione dell’informativa, possono richiedere per
iscritto che si apra un confronto con cedente e cessionario. Ed in tal caso, questi ultimi saranno
obbligati ad aprire un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione termina
quando, dopo 10 giorni dal suo inizio, non è stato raggiunto un accordo.
Sanzione Il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario degli obblighi di informazione e
di esame congiunto costituisce condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 St. lav. La violazione
tuttavia non inciderà sulla validità del negozio traslativo.
Precedenze nell’assunzione I lavoratori che non passano alle dipendenze del cessionario hanno diritto di precedenza
nelle assunzioni che quest’ultimo effettua entro un anno dalla data del trasferimento, o entro un periodo più esteso
stabilito dagli accordi collettivi.

CAPITOLO V

LA PRESTAZIONE DI LAVORO: MANSIONI, QUALIFICHE E CATEGORIE

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1. L’obbligazione di lavoro.
L’obbligazione di lavoro Il rapporto di lavoro è quel rapporto, tra il datore di lavoro ed il lavoratore,
che si basa su 2 contrapposte obbligazioni fondamentali (di lavoro e di retribuzione) e su altri
obblighi e doveri reciproci fra di loro connessi alle obbligazioni principali. La prestazione di lavoro
è oggetto dell'obbligazione principale del lavoratore. L’obbligazione di lavorare è un’obbligazione
di comportamento (o di attività) che impone al lavoratore soltanto di tenere un certo
comportamento, e non di raggiungere un risultato specifico. Gli elementi che concorrono a
determinare la prestazione di lavoro sono diversi: il tipo di attività, la durata e il luogo di
esecuzione della prestazione.
Mansioni Per indicare l’ attività che costituisce oggetto dell’obbligazione di lavoro si fa riferimento alle mansioni del

lavoratore (art. 2103 c.c.). In relazione alle mansioni si stabiliscono qualifica e categoria. L'oggetto della
prestazione di lavoro è determinato solo in modo generico, con riferimento cioè alla serie di compiti
e quindi alle mansioni per le quali è stato assunto. La specificazione dei compiti di volta in volta
richiesti al lavoratore rientra nel potere direttivo del datore di lavoro. Le mansioni sono dunque
l’insieme dei compiti e delle concrete e specifiche attività che il lavoratore è chiamato ad eseguire e
che sono esigibili dal datore di lavoro.
Qualifiche e categorie La qualifica (carpentiere, tornitore) invece è un raggruppamento di mansioni ed
indica lo status professionale del lavoratore (identificato in base alle mansioni assegnate) e concorre con le
mansioni a determinare la sua posizione nella struttura organizzativa dell’impresa, e quindi il suo
trattamento economico e normativo. Benché sia la qualifica che la mansione concorrano entrambe a
determinare l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore e la sua posizione giuridica, esse si
distinguono, in quanto la qualifica indica l’oggetto generico dell’obbligazione lavorativa inerente
allo status professionale del lavoratore, mentre le mansioni individuano l’oggetto specifico
dell’obbligo, i concreti compiti che il lavoratore esegue in base alle direttive del datore.
Le qualifiche sono a loro volta raggruppate in entità classificatorie più ampie: le categorie. Il codice
civile (art. 2095) individua 4 categorie; operaio, impiegato, quadro e dirigente (il quadro è stato
aggiunto nel 1985).
Il codice (art. 2095) rinvia all’autonomia collettiva l’esatta determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna
categoria. Inoltre la terminologia contrattuale tradizionale inverte quella legislativa. La contrattazione collettiva parla di
“qualifica” per indicare le categorie legali (operaio, impiegato, quadro e dirigente) e di “categorie”, “livelli” o “profili
professionali” per indicare le classificazioni interne (operaio di 1° o 2° categoria o livello).
2. Le categorie dei lavoratori: impiegati e operai.
Distinzione fra impiegati e operai La distinzione tra impiegati e operai era contenuta nel R.D.L. n. 1825
del 1924, c.d. “legge sull’impiego privato”. L’art. 1 di tale legge definiva l’impiegato come colui che svolge

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attività professionale, con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, esclusa ogni prestazione che sia
solamente di manodopera. Successivamente si è dato rilievo al criterio della “collaborazione impiegatizia”, cioè alla
particolare funzione degli impiegati di collaborare ad attività organizzative proprie dell’imprenditore, e quindi di agire
in sua sostituzione.
La definizione di operaio si ha per esclusione, per cui è tale il prestatore che non può qualificarsi
impiegato.
Il processo di superamento della distinzione fra operai ed impiegati Il superamento della distinzione fra
operai e impiegati è avvenuto con il c.d. inquadramento unico, introdotto dalla contrattazione
collettiva, con il quale sono stati unificati i metodi di classificazione e di valutazione retributiva del
lavoro. Restano alcune differenze quali ad es. le diverse discipline contrattuali del periodo di prova,
di preavviso (entrambi più corti per gli operai) e alcune diversità della disciplina legale in tema di
previdenza e sicurezza sociale. La giurisprudenza ha evitato di forzare il superamento di tali residue differenze.
Comunque, la diminuzione delle differenze, a partire dagli anni '90, ha attenuato l'interesse sia della giurisprudenza che
della dottrina per la tradizionale questione della distinzione fra operai e impiegati.

2.1. I dirigenti.
Disciplina legale e contrattuale Per i dirigenti è prevista una disciplina legale speciale che è di tipo
prevalentemente “negativo”. Infatti molte disposizioni che prevedono tutele e garanzie a favore dei
lavoratori non si applicano ai dirigenti (in relazione al licenziamento, alla durata della giornata
lavorativa, alla durata massima settimanale, ecc.). Sotto il profilo contrattuale invece, la disciplina si
caratterizza in senso “positivo”. Infatti la contrattazione collettiva ha stabilito condizioni più
favorevoli rispetto agli impiegati ed operai nella maggior parte degli istituti. I dirigenti hanno,
inoltre, un trattamento economico e previdenziale più favorevole delle altre categorie.
Criteri di identificazione Se la specialità della disciplina è netta, non può dirsi altrettanto dei criteri
distintivi della categoria tra dirigenti e quadri. In mancanza di definizioni legali (l'art 2095 c.c.
rinvia alla contrattazione) l'identificazione di tali criteri è stata operata dalla giurisprudenza,
ricorrendo alle indicazioni contrattuali. La giurisprudenza tradizionale ritiene che il dirigente può
essere preposto alla direzione dell’intera impresa o a un ramo importante e autonomo di questa con
piena autonomia nell’ambito delle direttive dell’imprenditore. A partire dagli anni 80 però l’evoluzione
della società ha allargato la figura fino a comprendervi lavoratori del tutto privi di poteri direzionali e di autonomia. La
c.d. qualifica convenzionale Il riconoscimento della qualifica dirigenziale attraverso la contrattazione rende applicabile
la disciplina contrattuale, ma non basta di per sé a rendere applicabile a tali figure la disciplina legale speciale. I giudici
hanno cercato di tenere separata la qualificazione di dirigente ai fini legali da quella a fini contrattuali con il
riconoscimento della c.d. “qualifica convenzionale di dirigente”. Ma il tentativo non ha fermato la tendenza espansiva
della categoria. In realtà l'identificazione del dirigente, non può basarsi su criteri astratti e generali (come quello di alter
ego), ma deve risultare da un'analisi delle funzioni.

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Crisi dell’unitarietà della categoria La tendenza espansiva della categoria ha spinto parte della dottrina a mettere in
discussione la sua unitarietà. Infatti esistono al suo interno differenziazioni significative. A parte le norme legislative
che si riferiscono talora ai soli dirigenti, altre volte agli impiegati con funzioni direttive, la contrattazione collettiva
distingue spesso tra alta dirigenza e dirigenti. La giurisprudenza, da una parte, ritiene che la contrattazione collettiva
può prevedere tutele differenziate in base al diverso grado dei poteri attribuiti al dirigente, dall’altro, è divisa sulla
possibilità di applicare al licenziamento del dirigente le garanzie dell’art. 7 St. lav.

2.2. I quadri.
La nozione La L. N. 190/1985 definisce i quadri come quei lavoratori che, “pur non appartenenti
alla categoria dei dirigenti”, svolgono “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza
ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. Ancora una volta il legislatore
affida alla contrattazione collettiva il compito di stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria.
La disciplina Gli aspetti di disciplina speciale individuati dalla L. n. 190 sono alquanto limitati e non sono nemmeno
collegati solo alla posizione di quadro, ma estendibili a tutti i prestatori che siano meritevoli di pari considerazione per
le mansioni svolte. Per gli altri aspetti non espressamente regolamentati, ai quadri si applicano le norme riguardanti la
categoria degli impiegati, salvo diversa espressa disposizione della contrattazione collettiva (art. 2, 3°comma, L. n.
190/1985). La difficoltà di delimitare la figura dei quadri, verso l’alto rispetto ai dirigenti e verso il basso rispetto agli
impiegati con funzioni direttive, è confermata dall'esperienza contrattuale successiva alla L. n. 190/1985; in generale
evidenzia la scarsa corrispondenza all'attuale realtà organizzativa del lavoro di classificazioni come quelle dell'art 2095
c.c., imperniate su categorie rigide.
La contrattazione collettiva L’orientamento dei sindacati confederali, in sede di contrattazione
collettiva nazionale, mostra una tendenza al contenimento della categoria. Tendenza che pare
confermata dalla Corte Costituzionale, la quale ha rilevato che la categoria rientra pur sempre
nell’ambito impiegatizio, sia pure inteso latu sensu, cosicché al riconoscimento sul piano legislativo
della nuova categoria professionale non è seguito un vero e proprio “riconoscimento” sul piano
sindacale.

3. Le mansioni e la qualifica.
Il principio di contrattualità Le mansioni del lavoratore sono contenute nel contratto. È il c.d.
principio di contrattualità delle mansioni confermato dall’art. 2103 cod. civ. il quale afferma che
il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Inoltre il datore di lavoro, al
momento dell’assunzione, ha l’obbligo di far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state
assegnate in base alle mansioni per cui è stato assunto.
L’individuazione delle mansioni e della qualifica avviene secondo modalità stabilite dalla
contrattazione collettiva. Tuttavia in mancanza di una indicazione contrattuale precisa delle
mansioni il punto di riferimento per stabilire la qualifica saranno le mansioni effettivamente svolte
in modo stabile nell’organizzazione del lavoro.

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L’identificazione della qualifica diventa così oggetto di frequenti controversie. Dato che i criteri di classificazione e di
gerarchia delle qualifiche sono fissati nella contrattazione collettiva senza indicazioni legislative, i parametri cui riferirsi
dovranno desumersi dalla stessa contrattazione. L'unica definizione legislativa specifica è quella della categoria di
impiegato (R.D.L. n. 1825/1924), che peraltro è sempre stata alquanto indeterminata ed è sempre più incerta. Non
maggiore importanza ha la definizione dei quadri contenuta nella L. n. 190/1985.
Qualifica oggettiva e soggettiva Base della valutazione sono le mansioni oggettive del rapporto, non le
caratteristiche professionali del lavoratore. La c.d. qualifica soggettiva del lavoratore, intesa come
insieme delle capacità personali professionali, non ha rilevanza giuridica nel nostro ordinamento.
Rilievi del titolo di studio Per cui si può verificare che un lavoratore, che ha un certa qualificazione professionale, sia
assunto in mansioni e qualifiche diverse, anche inferiori. In altri settori invece il titolo di studio costituisce elemento
decisivo per l’attribuzione di una certa qualifica, o condizione essenziale per acquisirla.
Mansioni polivalenti Possono esserci inoltre mansioni di assunzione polivalenti o promiscue. La polivalenza è
favorita nell’interesse di entrambe le parti; una maggiore flessibilità del lavoro e minore ripetitività dei compiti.
Mansioni promiscue Nel caso di mansioni promiscue (a cavallo fra qualifiche diverse), l'inquadramento può
presentare problemi. La giurisprudenza ritiene in tal caso di far riferimento alle mansioni di fatto prevalenti.
Rilevanza di qualifiche e categorie L’importanza delle qualifiche è diversa da quella delle categorie.
Mansioni e qualifica indicano l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore e quindi i tratti
essenziali del suo trattamento, a cominciare da quello economico. La qualifica è la posizione
fondamentale del lavoratore da cui deriva una serie di doveri/diritti concernenti il rapporto di
lavoro. Le categorie si determinano sulla base delle mansioni e qualifiche e consentono di
individuare alcuni aspetti del trattamento c.d. normativo del lavoratore, sia esso stabilito su base
legislativa o su base contrattuale.

4. La disciplina contrattuale delle qualifiche: l’inquadramento unico.


Il c.d. inquadramento unico L’inquadramento unico è un nuovo sistema di classificazione
professionale introdotto dalla contrattazione collettiva negli anni ’70. Il sistema è costituito da
diverse categorie contrattuali di inquadramento (denominate “livelli professionali”) ordinate
gerarchicamente. Le novità introdotte da questo nuovo sistema sono:
- il superamento parziale della distinzione tra operai e impiegati attraverso l’adozione di una
scala di classificazione unica, ordinata per livelli professionali;
- la riduzione del numero delle categorie contrattuali di inquadramento, livelli, in cui si
raggruppano le mansioni ai fini retributivi, in modo tale da ridurre la differenziazione
salariale.
L’evoluzione del sistema In definitiva il sistema di inquadramento unico ha mantenuto il significato prevalente di
raggiungimento classificatorio, di riduzione di differenziali salariali e di perequazione normativa fra operai e impiegati.
Tuttavia l'influsso della scala mobile ha provocato un crescente appiattimento salariale che nei primi anni '80 ha
contribuito in modo decisivo a mettere in crisi l'intero sistema classificatorio.

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Una innovazione netta è stata introdotta dai primi anni '90 in quei contratti di categoria che hanno riformato il sistema
classificatorio. In particolare il contratto dei chimici ha sostituito i tradizionali livelli di inquadramento con nuove aree
(o categorie) professionali.
Gran parte dei contratti di categoria prevede apposite Commissioni paritetiche nazionali per la revisione delle
classificazioni (dei profili professionali) in base alle indicazioni provenienti dalla realtà aziendale. Ciò perché negli
attuali contesti produttivi, caratterizzati da grande mutevolezza tecnologica/organizzativa, una valutazione corretta del
lavoro non può raggiungersi con declaratorie statiche, ma solo adottando procedure flessibili di adattamento continuo
delle classificazioni alla realtà produttiva realizzabili a livello decentrato.
Controllo giudiziale Questa evoluzione contrattuale incide anche sul sindacato giudiziale e sui diritti
del singolo lavoratore all'inquadramento. Il controllo giudiziale è ammesso per verificare la
corrispondenza fra le mansioni concrete del singolo e la relativa classificazione, non invece sulle
regole classificatorie come tali che sono di competenza dell’autonomia collettiva. Il controllo del
giudice non è quello tradizionale per la mancanza di riferimento a regole classificatorie generali.

5. Lo jus variandi: dal codice civile all’art. 13 St. Lav.


Jus variandi del datore di lavoro L’oggetto dell’obbligazione di lavoro è solo in parte determinato in
riferimento alle mansioni di assunzione. Le specificazioni del comportamento dovuto dal lavoratore
spettano al datore di lavoro,attraverso l'esercizio del proprio potere direttivo.
Inoltre il datore di lavoro ha il potere di modificare le mansioni del lavoratore oltre l’ambito
convenuto. Tale potere unilaterale, denominato jus variandi, non è presente in altri rapporti
obbligatori di durata, dove le modifiche del contenuto obbligatorio sono ammissibili solo per mutuo
consenso; questo perché le esigenze dell’organizzazione di lavoro spesso richiedono modifiche non
prevedibili o non fronteggiabili (per la loro eccezionalità) da parte del datore con l’assunzione di
nuovi lavoratori e che il datore deve poter affrontare con tempestività.
La disciplina codicistica La prima disciplina organica dello jus variandi fu stabilita dall’art. 2103 cod.
civ. Nella versione originaria della norma, lo jus variandi era riconosciuto all'imprenditore per
esigenze dell'impresa e purché non importasse una diminuzione della retribuzione e un mutamento
sostanziale della posizione del lavoratore. In concreto però l'unico limite che tutelava il lavoratore
era quello della invariabilità in pejus della retribuzione, mentre la libertà dell’imprenditore nell’uso
della forza lavoro restava ampia e incontrollata.
Le modifiche “consensuali di mansioni I limiti stabiliti dalla norma riguardavano solo le modifiche unilaterali di
mansioni, ma non le modifiche consensuali, ritenute ammissibili senza condizioni sul presupposto della piena
disponibilità della materia da parte dell'autonomia privata. Al punto che la giurisprudenza tendeva a riconoscere la
possibilità di una modifica consensuale tacita in pejus delle mansioni e quindi della retribuzione. Per cui il lavoratore
che non avesse reagito con le dimissioni alle modifiche disposte dal datore continuando a lavorare nelle nuove
mansioni, dimostrava tacitamente di accettare tale modifica. Quindi qualsiasi modifica imposta unilateralmente dal

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datore poteva avvenire in maniera legittima sotto la veste formale del silenzio del lavoratore; che quest’ultimo preferiva
nel timore di perdere il posto di lavoro in presenza di una libertà di licenziamento.
L’art. 13 dello Statuto dei lavoratori Alle deboli garanzie dell’originaria disciplina ha rimediato l’art. 13
dello Statuto dei lavoratori, che ha riformulato l’art. 2103 cod. civ. Tale nuova norma (art. 13) ha
sollevato diverse controversie relative sia alla sua incidenza sullo jus variandi, sia sul significato dei
singoli limiti in essa stabiliti alle variazioni delle mansioni.
Non sembra accettabile la tesi secondo cui la norma avrebbe del tutto cancellato lo jus variandi dell'imprenditore e
implicherebbe la necessità del consenso del lavoratore. Lo Statuto mira infatti a limitare i poteri direttivi
dell'imprenditore, non ad eliminarli, conformemente alla contrattazione collettiva che il legislatore ha tenuto presente.
Le ultime mansioni effettivamente svolte Il richiamo della norma alle mansioni ultime effettivamente svolte
costituisce il termine di raffronto per giudicare le legittimità degli spostamenti.

5.1. Il limite dell’equivalenza delle mansioni.


L’equivalenza delle mansioni Il nuovo art. 2103 cod. civ. ammette le modifiche “in orizzontale” solo
per mansioni equivalenti a quelle di assunzione o a quelle successivamente svolte con carattere di
stabilità, senza nessuna diminuzione della retribuzione.
Il concetto di equivalenza è, fin dall’inizio, un concetto piuttosto rigido e statico che esclude ogni
mobilità - unilaterale o consensuale - verso il basso.
Il giudizio sull'equivalenza delle mansioni risulta da più elementi: L'eguaglianza di retribuzione,
prevista dagli inquadramenti contrattuali, ha un valore indicativo, ma non sufficiente; L’equivalenza
è essenzialmente equivalenza professionale che garantisce il lavoratore da ogni svalutazione del suo
patrimonio professionale.
La giurisprudenza della Cassazione prevalente stenta ad imboccare la via di un'interpretazione più elastica della nozione
di equivalenza, restando ancorata ad una nozione statica e alimentando diverse azioni giudiziali contro la
dequalificazione. Se così è, non sorprende che poi la stessa Corte sia costretta a percorrere, la strada della creazione di
“eccezioni” al divieto di patti contrari.
Controllo giudiziale In caso di violazione di tale limite il lavoratore può richiedere, oltre alla
dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna alla reintegra(restituzione delle mansioni originarie o
equivalenti), anche il risarcimento del danno da dequalificazione (c.d. danno alla professionalità).
Al riguardo vi sono incertezze circa il contenuto dell’onere della prova, la quantificazione del
danno, per lo più operata con valutazione equitativa (sulla base della retribuzione) e le diverse
figure di danno. La Corte di Cassazione in una recente sentenza ha stabilito che grava sul lavoratore
l’onere di provare, anche per presunzioni, la natura e le caratteristiche del danno, ma lascia aperte le
altre questioni.
5.2. La nullità dei patti contrari.

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Nullità dei patti contrari Attraverso la previsione della nullità dei patti contrari, introdotta nell’art. 2103 dallo St. lav.,
si è corretta la lacuna della precedente disciplina (che consentiva di aggirare il divieto di demansionamento attraverso

modifiche consensuali). L’art. 2103 sancisce la nullità di quegli accordi individuali e collettivi che
realizzano un risultato vietato dalla norma stessa, ad es., l'adibizione a mansioni inferiori (c.d.
mobilità verso il basso).
In alcuni casi però lo spostamento a mansioni inferiori può essere disposto per soddisfare un
interesse qualificato del lavoratore; quello di evitare un licenziamento, giustificato da ragioni oggettive, ad es.
quando il prestatore non è più abile a svolgere il lavoro originario per invalidità permanente sopravvenuta, o in caso di
abolizione del posto di lavoro per motivi tecnologici, senza possibilità di reimpiego altrove.

Per cui la norma non esclude una variazione consensuale rispetto a mansioni diventate inagibili o
per invalidità incolpevole (es. per sopravvenuta inidoneità psico-fisica), o per modifiche oggettive
della struttura aziendale (es. come unica alternativa al licenziamento) nel qual caso è necessario
accertare la presenza effettiva di una situazione che non consente vie alternative al datore di lavoro.
Deroghe di fonte legale Dunque in alcuni casi il legislatore può prevedere l’assegnazione a mansioni
inferiori:
- per le lavoratrici madri, che temporaneamente vengono adibite a mansioni non
pregiudizievoli alla loro salute (anche inferiori) con conservazione della retribuzione
precedente.
- Per i lavoratori divenuti invalidi, per infortunio o malattia, durante il rapporto di lavoro i
quali non possono essere licenziati quando possono essere adibiti a mansioni inferiori.
- Per i lavoratori eccedenti , in alternativa al licenziamento collettivo. In questo caso la
dequalificazione è ammessa solo in presenza di un accordo sindacale.
Un filone giurisprudenziale, ricalcando la citata normativa, giunge a legittimare il mutamento in pejus delle mansioni su
mera richiesta del lavoratore per soddisfare un proprio interesse non ulteriormente qualificato. A volte il consenso è
desunto dal comportamento del lavoratore. Quest'ultima soluzione però accende il sospetto di un'operazione elusiva
della prescrizione posta dal nuovo art. 2103 c.c. Per un controllo sull'effettiva libertà negoziale del lavoratore appare
condivisibile la prassi di trasfondere gli accordi di dequalificazione in verbali di conciliazione avanti la Direzione
provinciale del lavoro.

5.3. Mobilità verso l’alto e carriera.


Mobilità verso l’alto L’art. 2103 disciplina anche l’assegnazione a mansioni superiori.
La regola: la promozione automatica Il legislatore ha previsto che lo svolgimento di mansioni superiori
per più di tre mesi (o per il minor periodo previsto dai contratti collettivi) rende definitivo lo
spostamento. La norma vuole evitare che vengano effettuati spostamenti di mansioni di breve durata
senza riconoscimento della professionalità. La promozione è dunque automatica, una volta trascorso
il termine di tre mesi.

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Il periodo continuativo e i casi di cumulo La giurisprudenza prevalente ritiene che per ottenere la
promozione tale periodo di svolgimento delle mansioni superiori deve essere continuativo ( e
intende i 3 mesi come mesi di lavoro effettivi, non di calendario), inoltre eventuali interruzioni di
tale periodo non concernenti esigenze produttive, ma effettuate dal datore per eludere l’applicazione
della norma (come nel caso di adibizioni reiterate a mansioni superiori per un periodo di poco
inferiore a 3 mesi), non impediscono il cumulo e quindi la promozione, perché sono in frode alla
legge o contrarie ad una esecuzione secondo buona fede del contratto. Inoltre si precisa che la
continuità non va intesa in senso rigido e quindi essa non si considera interrotta ad esempio dalle
ferie o dalla malattia (perché tali periodi non si computano).
L’eccezione La norma prevede un’eccezione alla c.d. promozione automatica quando lo
spostamento alle mansioni superiori è disposta per sostituire un lavoratore assente il quale ha diritto
alla conservazione del posto: malattia, infortunio, maternità/paternità...
Si ritiene che rientrano nel contenuto della norma anche le c.d. sostituzioni a cascata, cioè la promozione automatica
non è preclusa solo al sostituto dell’assente, ma anche ad altri sostituti che coprono il posto di chi sostituisce l’assente.
È illegittima la prassi di utilizzare alcuni lavoratori come supplenti permanenti del personale assente, perché in
contrasto con la temporaneità delle variazioni unilaterali prevista dalla norma. Il lavoratore spostato a mansioni
superiori ha diritto da subito al trattamento superiore corrispondente (art 2103 c.c.).

CAPITOLO VI

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DILIGENZA, OBBEDIENZA, FEDELTA’, LUOGO E DURATA DEL LAVORO

A. DILIGENZA, OBBEDIENZA E FEDELTA’


1. La diligenza come misura della prestazione.
Il lavoratore, nello svolgere le sue mansioni, ha il dovere di diligenza e di obbedienza (art. 2104
c.c.). La diligenza indica l’insieme di cautele, cure ed attenzioni nell’esecuzione della prestazione.
Essa va misurata in relazione a diversi criteri. In particolare la diligenza da prestare dipende dalla
natura della prestazione, dall’interesse superiore della produzione nazionale e dall’interesse
dell’impresa.
- natura della prestazione : la diligenza va valutata in base all’attività esercitata;
- interesse superiore della produzione nazionale : criterio da considerarsi abrogato con la caduta del sistema
corporativo;
- interesse dell’impresa : la prestazione del lavoratore deve corrispondere alle esigenze organizzative
dell’impresa.

2. Il dovere di obbedienza.
Obbedienza L’obbligo di obbedienza impone al lavoratore l’osservanza delle disposizioni impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali il lavoratore dipende per l’esecuzione e per
la disciplina del lavoro. In sostanza il lavoratore deve eseguire le disposizioni che derivano dal
potere direttivo e quindi l’obbligazione di lavoro conferitagli.
Limiti: la spersonalizzazione del rapporto Lo St. lav. ha avviato un processo di spersonalizzazione del rapporto di
lavoro per ridimensionare gli aspetti di soggezione giuridica del prestatore (l’inserimento del lavoratore nell’impresa,
pur mantenendo rilievo, non può far sì che lo stesso debba avere comportamenti che non siano ragionevolmente
richiesti da esigenze organizzative). Anche la giurisprudenza ha più volte sottolineato la necessità di ridimensionare il
dovere di obbedienza, tenendo conto dei limiti legali e contrattuali; così che il prestatore di lavoro potrà legittimamente
rifiutare (cd. Autotutela) l'esecuzione di disposizioni datoriali, se illegittime e contrastanti con i suddetti limiti,
assumendosi il rischio di essere considerato inadempiente nel caso in cui venisse accertata la legittimità dell’ordine
disatteso.

3. L’obbligo di fedeltà: concorrenza e riservatezza.


Il contenuto dell’art. 2105: natura degli obblighi in capo al lavoratore sono previsti ulteriori obblighi,
obblighi di non fare, e sono accessori rispetto alla prestazione di lavoro. La loro autonomia rispetto
all’obbligo di lavorare ne permette la continuità anche in assenza di prestazione lavorativa (ad es. in
periodi di malattia, di maternità...). Si tratta in particolare dell’obbligo di non concorrenza e
dell’obbligo di riservatezza (art. 2105 c.c.).

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obbligo di non concorrenza L’ obbligo di non concorrenza vieta al lavoratore di realizzare affari, per
conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore (con danno all’impresa). È un obbligo
del lavoratore più ampio del divieto di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.
Patto di non concorrenza Per la sua base contrattuale, l’obbligo di non concorrenza ha la stessa durata
del rapporto di lavoro ed in caso di violazione l’azienda può riottenere i compensi già erogati e
chiedere il risarcimento dei danni provocati dal lavoratore. Spesso si inserisce nel contratto una
clausola che prevede una penale da pagare in caso di inadempimento. Se si vuole estendere tale
obbligo anche dopo la cessazione del rapporto è necessaria un’apposita pattuizione c.d. patto di
non concorrenza, per la cui validità l’art. 2125 cod. civ. prevede alcuni requisiti:
limiti di durata massima del vincolo, che non deve superare i 5 anni per i dirigenti e i 3 anni per gli
altri; la forma scritta ad substantiam; la delimitazione del luogo e dell’oggetto dello stesso (delle
attività di concorrenza ancora vietate); la previsione di un corrispettivo a favore del lavoratore per
la ridotta possibilità di utilizzare le proprie capacità professionali. In quest’ultima ipotesi in caso di
violazione da parte dell’ex lavoratore, il datore potrà chiedere oltre al risarcimento del danno, anche
la cessazione dell’attività concorrenziale illegittima con un provvedimento giudiziale.
obbligo di riservatezza aziendale L’obbligo di riservatezza vieta la divulgazione di tutte le notizie di
carattere organizzativo e produttivo conosciute dal dipendente a causa del suo inserimento
nell’impresa (c.d. segreto aziendale), e l’utilizzo solo in caso di potenziale conseguente pregiudizio
per la stessa impresa. Sono esclude dal divieto quelle competenze e conoscenze professionali
acquisite dal lavoratore durante lo svolgimento della propria prestazione lavorativa che fanno parte
del patrimonio professionale dello stesso.
Esistono dubbi circa la possibile durata di tale obbligo. Alcuni ritengono che esso rimane in capo al
lavoratore finché resta l’esigenza cui è diretto, quindi anche dopo la cessazione del rapporto. Altri,
invece, ritengono che esso si estingue con la cessazione del rapporto di lavoro. In ogni caso tutti
concordano nel ritenere che, la violazione di tale obbligo successiva alla cessazione del rapporto di
lavoro determina l’ipotesi della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. o addirittura le fattispecie
delittuose degli artt. 622 (rivelazione di segreto professionale) o 623 (rivelazione di segreti
scientifici o industriali) cod. pen.
Obbligo di fedeltà e aziende di tendenza Nelle aziende di tendenza si ritiene che la fedeltà può essere stesa alla
personale adesione all’indirizzo ideologico perseguito solo se ciò risulta da una previsione contrattuale esplicita o tacita.

4. Le invenzioni del lavoratore.


L’art. 2590 cod. civ. Prevede che il prestatore di lavoro ha diritto ad essere riconosciuto “autore”
dell’invenzione realizzata nello svolgimento del rapporto di lavoro, rinviando alle leggi speciali la
disciplina degli aspetti patrimoniali.

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Le invenzioni di servizio, aziendali, occasionali Tale disciplina è contenuta nel R.D. 29 giugno 1939, n.
1127 che regola i diritti e i doveri delle parti sulla base di tre ipotesi:
a) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’adempimento di un contratto di lavoro (c.d.
invenzioni di servizio), nel qual caso tutti i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione
appartengono al datore di lavoro;
b) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’adempimento di un contratto di lavoro,
realizzata nell’orario di lavoro, sfruttando le occasioni e le possibilità offerte dalla propria
posizione nell’impresa (c.d. invenzioni aziendali). In tal caso il datore mantiene i diritti
che derivano dall’invenzione, ma il lavoratore ha diritto ad un “equo premio”
proporzionato all’importanza dell’invenzione;
c) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’ambito dell’attività dell’impresa, ma
indipendentemente dal rapporto, fuori dall’orario di lavoro e con mezzi propri del
lavoratore (c.d. invenzioni occasionali). In quest’ultima ipotesi i diritti patrimoniali
spettano al lavoratore ma il datore ha diritto di prelazione da esercitarsi entro 3 mesi per
l’uso della stessa o per l’acquisto del brevetto.

B. LUOGO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


1.La disciplina del trasferimento del lavoratore.
Luogo della prestazione Il luogo di adempimento della prestazione, se non è indicato nel contratto,
deve ricavarsi dagli usi o da altre circostanze, prima tra tutte quella della natura della prestazione.
L’art. 2103 cod. civ., così come rinnovato dall’art. 13 St. lav., ha confermato l’esistenza del potere
unilaterale del datore di lavoro di modificare il luogo di lavoro.
Nozione di trasferimento L’art. 13 non prende in considerazione qualsiasi spostamento spaziale del
lavoratore ma solo quello da un’unità produttiva ad un’altra (trasferimento esterno); mentre non
considera i c.d. trasferimenti interni, cioè i passaggi del lavoratore all’interno della medesima
articolazione produttiva (per i trasferimenti interni dunque non operano i limiti dell’art. 13).
Trasferimento discriminatorio L’art 15 st. lav. Può comunque sanzionare anche il semplice mutamento di posto,

all’interno dell’unità produttiva, quando è ispirato da intenti discriminatori o antisindacali, provati dal lavoratore .

Limiti: la giustificazione del trasferimento L’art. 13 St. lav. prevede che il trasferimento deve essere
giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Il giudice dovrà solo
accertare l’effettiva presenza di tali ragioni e il nesso di causalità tra queste ed il provvedimento
preso, senza richiedere la prova dell’inevitabilità del trasferimento.

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La comunicazione dei motivi Il datore ha l’onere di comunicare i motivi del trasferimento al proprio
dipendente, ma solo se c’è una sua richiesta, con applicazione della procedura del licenziamento
individuale non disciplinare.
Il trasferimento per incompatibilità e quello disciplinare Il trasferimento del lavoratore può essere disposto
dal datore anche per i comportamenti del lavoratore, in particolare nei casi di c.d. incompatibilità
ambientale (ad es. Rapporti difficili con i colleghi) in quanto causa di disorganizzazione aziendale.
I divieti di trasferimento Sono previsti limiti al potere di trasferimento a favore di particolari
lavoratori:
- per il dirigente sindacale è richiesto il previo nulla-osta delle associazioni sindacali di
appartenenza (art. 22 St. lav.);
- per il lavoratore che usufruisce dei congedi di maternità o di paternità è previsto il diritto al
rientro nella stessa unità produttiva o in altra dello stesso comune (art. 56 D. Lgs. 151/2001);
- per il lavoratore handicappato grave e per i suoi congiunti che lo assistono con continuità,
anche non conviventi, è previsto il consenso e il diritto di scegliere, ove possibile, la sede
più vicina al proprio domicilio (art. 33, L. n. 104/1992).

2. Trasferta e trasfertismo.
Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 13 sarebbe chiamato a disciplinare, non ogni modifica del
luogo della prestazione, bensì solo il trasferimento definitivo del lavoratore. Resterebbero così
escluse dalla disciplina di tutela altre fattispecie, quali il distacco, la trasferta ed il trasfertismo,
figure trattate prevalentemente dalla contrattazione collettiva, che vi ricollega solo uno speciale
trattamento economico (indennità di trasferta o di trasfertismo).
Trasferta e trasfertismo La trasferta si distingue dal trasferimento per la sua provvisorietà. Essa quindi
non incide irrimediabilmente sull’interesse del lavoratore alla dimora e alla vita di relazione connessa.
Il trasfertismo è il trasferimento di quei lavoratori obbligati per contratto a svolgere la propria
prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori (ad es. i viaggiatori e i piazzisti). In tali casi la
trasferta è una modalità normale, anziché eccezionale, della prestazione lavorativa.

C. DURATA DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


1. La durata della prestazione: orario e pause.
Riduzione e rimodulazione degli orari di lavoro La disciplina del tempo di lavoro ha lo scopo di limitarne
la durata massima al fine di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore. Non fanno parte dell’orario di
lavoro le c.d. pause periodiche, ossia i riposi giornalieri, settimanali e le ferie. Durante tali pause, nonostante il lavoro
sia sospeso, rimangono gli obblighi accessori e strumentali: ad es. il dovere di fedeltà del lavoratore.

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Orario massimo: il R.D.L. n. 692/1923 In Italia la legge base in materia di orario massimo giornaliero è
stata per diverso tempo rappresentata dal R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, integrato dai relativi
regolamenti di attuazione. Tale tipo di regolamentazione è stata successivamente confermata dagli
artt. 2107 e 2108 c.c. e dal 2° comma dell’art. 36 Cost.
Riduzione e rimodulazione degli orari di lavoro La disciplina legislativa e contrattuale mostrano, nel corso
degli anni, una tendenza alla riduzione della durata di lavoro e alla fissazione di nuovi regimi di
orario non più per proteggere la salute del lavoratore ma come mezzo per combattere la crescente
disoccupazione, anche al prezzo di riduzioni retributive. Una prima modernizzazione della
normativa sui regimi di orario si è avuta con la L. n. 196/1997, art. 13.
Nel frattempo, l'emanazione della Direttiva Ce n. 104 del 1993 sui tempi di lavoro e di riposo ha
sollecitato un intervento legislativo su alcuni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro.
Intervento a cui si è giunti soltanto dopo una condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia
Europea, con il D.lgs. 8 aprile 2003, n.66 (subito corretto dal D.lgs. 19 luglio 2004, n. 213).
La Direttiva CE e la riforma del 2003 Nonostante la direttiva fosse ufficialmente finalizzata a garantire
un più elevato livello di protezione dei lavoratori, l’intervento del legislatore italiano ha invece per
obiettivo la flessibilità nella gestione degli orari di lavoro in relazione alle mutevoli esigenze
produttive e organizzative.

2. L’orario di lavoro: disciplina legale e contrattuale.


Il R.D.L. n. 692/1923 e la contrattazione collettiva La disciplina originaria sulla durata massima del lavoro (R.D.L. n.
692/1923) prevedeva che l’orario massimo non potesse superare le 8 ore giornaliere o le 48 ore settimanali.
L’art. 13 della L. n. 196/1997 Successivamente L’art. 13, L. N. 196/1997 ha stabilito la riduzione dell’orario normale
di lavoro da 48 a 40 ore settimanali.
Il D. Lgs. n. 66/2003: l’orario settimanale e l’orario c.d. multiperiodale Infine il D.lgs. 66/2003, nel recepire
le indicazioni comunitarie, ha sancito l’integrale abrogazione delle precedenti disposizioni non
esplicitamente richiamate dallo stesso decreto. In particolare il legislatore oltre a fissare l’orario
normale (limite oltre il quale la prestazione lavorativa è da considerarsi straordinaria ) in 40 ore settimanali ha
riconosciuto ai contratti collettivi: la possibilità di stabilire una durata minore; di confrontare
l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative per periodi ultrasettimanali non
superiori all’anno. Così, la norma ha confermato i limiti normali massimi come valori medi in un
periodo superiore alla settimana e ha riconosciuto il regime di orario multiperiodale, che consente
di superare convenzionalmente i limiti normali massimi, salvo compensazione nell’anno. Per cui la
settimana lavorativa può pure spingersi oltre le 40 ore, seguita da un’altra di minore durata , seguita ancora da un’altra
sopra il limite normale, e così via per tutto il periodo di riferimento per il calcolo della media oraria. Al termine di tale
periodo si procederà all’operazione aritmetica di calcolo della media oraria settimanale per verificare se l’orario di
lavoro richiesto sia rimasto entro i limiti dell’orario normale o sia confluito in quello straordinario.

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L’orario settimanale massimo Un’innovazione rispetto al regime precedente riguarda la disciplina della
durata massima complessiva (ossia comprendente anche gli straordinari) della settimana lavorativa.
La determinazione della durata massima settimanale dell’orario di lavoro è affidata ai contratti
collettivi (stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative). Questi in ogni caso
devono rispettare un limite legale di 48 ore per ogni periodo di 7 giorni . Tale limite però é calcolato
in modo flessibile. Esso infatti deve calcolarsi non settimana per settimana, ma come media in un
periodo non superiore a 4 mesi. Periodo che può essere elevato a 6 o a 12 mesi, per “ragioni obiettive,
tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi”. Dal calcolo della
media oraria complessiva sono escluse le ferie annue, i periodi di assenza per malattia e le ore di
lavoro straordinario se i lavoratori hanno beneficiato di corrispondenti riposi compensativi, in
alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive.
L’orario giornaliero La nuova legge non fa più riferimento ad una durata della giornata lavorativa.
Tuttavia, visto che la contrattazione collettiva può fissare tetti di orario giornaliero, una limitazione
di tale facoltà può essere ricavata dalla norma sul riposo giornaliero (art. 7 D. Lgs. N. 66/2003).
Tale articolo infatti riconosce al lavoratore il diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore e
della pausa obbligatoria di almeno 10 minuti; da ciò si ricava, attraverso un calcolo aritmetico, che
la durata della giornata lavorativa non può superare le 12 ore e 50 minuti.
Lavoro effettivo e pause I limiti (seppur indiretti) stabiliti dal legislatore si riferiscono al lavoro
effettivamente svolto. Sono esclusi dal computo i riposi intermedi (ad es. per i pasti), le soste di
lavoro di durata non inferiore a 10 minuti non recuperati, il tempo necessario per recarsi al lavoro, il
tempo impiegato per raggiungere la sede della trasferta, il tempo di semplice reperibilità, quello
impiegato per la timbratura del cartellino e per indossare gli indumenti da lavoro. Il D. Lgs. 66/2003
(attuativo della Direttiva 2003/88) fornisce una nuova nozione di orario di lavoro, più ampia di
quella previgente, intesa come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del
datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.Vanno infatti considerati
anche quei periodi nei quali in lavoratore non sia impegnato in attività di lavoro in senso stretto, ma
stia comunque mettendo a disposizione le proprie energie lavorative al datore di lavoro, essendo
comunque obbligato a restare sul luogo di lavoro, per poter fornire a richiesta del datore,
immediatamente la propria prestazione (ipotesi diversa dalla reperibilità, durante la quale il lavoratore non è
obbligato a restare sul luogo di lavoro).

La modifica unilaterale dell’orario di lavoro L’opinione dominante non riconosce al datore di lavoro un
potere unilaterale per la modifica dell’orario (e della retribuzione), che può essere effettuata solo
con il consenso del lavoratore. Invece un orientamento giurisprudenziale ammette le modifiche

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unilaterali della collocazione temporale dell’orario, quale strumento del potere direttivo del datore.
Ovviamente sono esclusi gli eventuali limiti negoziali concordati a livello individuale o collettivo.
Orario di lavoro nel P.I. La disciplina generale dell’orario di lavoro del D. Lgs. n. 66/2003 si applica
“a tutti i settori di attività pubblici e privati”.
Esclusioni dall’ambito di applicazione del regime generale dell’orario di lavoro Sono esclusi, invece da tale
normativa particolari attività indicate all’art. 2 del decreto: il personale della scuola, delle forze di polizia, delle forze
armate, gli addetti al servizio di polizia municipale e provinciale, la gente di mare, il personale di volo civile...
Le attività di rilevante interesse pubblico ( protezione civile, musei) sono in parte escluse dalla regolamentazione
generale dell’orario di lavoro in presenza di particolari esigenze relative al servizio prestato.
Eccezioni ai limiti di orario Il D. Lgs. 66/2003 inoltre indica un elenco di attività per le quali il limite di orario non
corrisponde alle 40 ore settimanali: per i lavoratori agricoli e gli altri lavori stagionali; per le industrie di ricerca e
coltivazione di idrocarburi; per i lavori discontinui; per i commessi viaggiatori e piazzisti; per gli operai agricoli a
tempo determinato; per i giornalisti professionisti; per il personale addetto alle aree operative, per assicurare la
continuità del servizio in particolari settori di attività ...(autostrade, azienda di raccolta, trattamento, smaltimento dei
rifiuti). Non sono soggetti a limiti di orario i lavoratori che hanno un potere di decisione autonomo.

3. Lavoro straordinario (e supplementare).


Lavoro straordinario Il lavoro straordinario è il lavoro prestato oltre l’orario normale settimanale di
lavoro fissato dalla legge. Nel sistema originario il lavoro straordinario era quello eccedente le 48 ore settimanali o
le 8 giornaliere, con il limite quindi di 12 h settimanali e 2 h giornaliere. Con l’entrata in vigore del decreto 66/2003
invece il limite settimanale è stato ridotto a 40 ore (calcolate come media), di conseguenza si è abbassato il limite oltre
il quale il lavoro è da considerarsi straordinario legalmente. Sono venuti meno anche il limite giornaliero (2 h) e
settimanale (12h).
I limiti al lavoro straordinario Il legislatore per evitare un eccessivo ricorso al lavoro straordinario - che
può compromettere la salute del lavoratore e diminuire la possibilità di assumere nuovi lavoratori -
ha previsto che lo stesso sommato al lavoro normale non può superare il limite massimo
settimanale di orario stabilito dai contratti collettivi, senza eccedere, in ogni caso, le 48 ore
calcolate come media. Per quando riguarda lo straordinario giornaliero, in mancanza di disposizioni
legislative, si ritiene che la prestazione lavorativa giornaliera non può superare le 12 h e 50 min
(limite indiretto). I contratti collettivi possono anche prevedere nei confronti del lavoratore un vero
e proprio obbligo allo svolgimento del lavoro straordinario (nei limiti di orario settimanale e
giornaliero), a meno che non vi sia un giustificato motivo per il rifiuto.
Invece, in mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo se vi è
il consenso del lavoratore e nel limite massimo di 250 ore. Salvo diversa previsione della disciplina
collettiva il lavoro straordinario può essere ammesso anche senza il consenso del lavoratore e oltre
il limite delle 250 h annue per determinate esigenze: a) eccezionali esigenze tecnico-produttive,
impossibili da fronteggiare con l’assunzione di altri lavoratori; b) casi di forza maggiore o casi in

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cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa comportare un pericolo grave
ed immediato o un danno alle persone o alla produzione; d) eventi particolari, come mostre, fiere e
manifestazioni collegata all’attività produttiva.
La maggiorazione retributiva ed riposi compensativi Il lavoro straordinario deve essere computato a parte
e compensato con maggiorazioni retributive, la cui determinazione è rimessa integralmente alla
contrattazione collettiva. Quest’ultima può anche consentire ai lavoratori di usufruire, in aggiunta o
in alternativa alle maggiorazioni retributive, di riposi compensativi (banca delle ore). Per
scoraggiare l’utilizzo del lavoro straordinario il legislatore aveva previsto l’obbligo per il datore di
pagare un contributo addizionale in una percentuale (dal 5 al 15%) della retribuzione erogata per le
ore di straordinario. Obbligo che però è venuto meno con la L. 24 dicembre 2007 (art.1). Inoltre con la
L. n. 133/2008 (art. 41) è venuto meno l’obbligo per il datore di informare la Direzione provinciale del lavoro i caso di
superamento delle 48 h settimanali di lavoro attraverso prestazioni di lavoro straordinario.
Lavoro supplementare Il lavoro che supera il limite di orario fissato dai contratti collettivi (ma entro
le 40 h legali) non è straordinario agli effetti della legge ma è definito come lavoro supplementare
(o straordinario contrattuale). Così, dove la contrattazione collettiva prevede un limite settimanale
di orario normale pari a 37 ore, al lavoro prestato oltre la 37ma (limite negoziale) ora ma sempre
entro la 40ma non si applica la disciplina legislativa sul lavoro straordinario, ma solo quella
contrattuale prevista per il lavoro supplementare.

4. Lavoro notturno e regimi di orario.


Lavoro notturno: dall’art 2108 c.c. al D. Lgs. 66/2003 L’art. 2108 cod. civ. stabilisce che il lavoro notturno
“non compreso in regolari turni periodici” deve essere retribuito con una maggiorazione rispetto al
lavoro diurno,rinviando alla legge o alle norme corporative per la regolamentazione dei diversi
aspetti del lavoro notturno. La disciplina organica del lavoro notturno è contenuta nel decreto
66\2003, il quale stabilisce i criteri per individuare quando e in favore di chi debba essere applicata.
Le definizioni di notte e di lavoratore notturno In particolare essa definisce:
a. il periodo notturno come il periodo di almeno 7 ore consecutive che comprendono l’intervallo fra la
mezzanotte e le 5 del mattino;
b. il lavoratore notturno come qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga in via eccezionale
almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero o una parte del suo orario di lavoro normale. Solo in
mancanza di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno “qualsiasi lavoratore che svolga per almeno
3 h lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno”.
Obbligatorietà del lavoro notturno Il D. Lgs. n. 66/2003 rinvia alla contrattazione collettiva il compito
di stabilire “i requisiti dei lavoratori che possono essere esclusi dall’obbligo di effettuare lavoro
notturno”. Da ciò si deduce che il lavoratore ha un vero e proprio obbligo di prestare lavoro
notturno, senza la tradizionale distinzione basata sul sesso.

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Limiti di durata del lavoro notturno L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore
complessive (cioè comprensive anche del lavoro straordinario) nel periodo di 24 ore. Salvo la
previsione di un periodo di riferimento più ampio delle 24 ore sul quale calcolare la media di 8 ore.
I contratti collettivi possono anche derogare a tali previsioni.
Lavoro notturno versus riduzione d’orario o maggiorazione retributiva La contrattazione collettiva inoltre ha
il compito di scegliere se attribuire le eventuali riduzioni dell’orario di lavoro o i trattamenti
economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni. Tale competenza è una novità rispetto
all’art. 2108 c.c. (che prevede la sola maggiorazione) al punto da far propendere per un’abrogazione
implicita della norma stessa.
Obblighi informativi Il datore di lavoro che ricorre al lavoro notturno ha una serie di obblighi
procedurali, derogabili dai contratti collettivi. Così il datore ha l’onere di informare e consultare le
RSA o RSU per l’introduzione del lavoro notturno, oppure in mancanza di queste le associazioni
territoriali dei lavoratori cui l’azienda aderisce o conferisce mandato.
Tutela della salute dei lavoratori notturni I lavoratori notturni devono essere sottoposti ad accertamenti
sanitari (da un medico competente o dalle competenti strutture sanitarie), preventivi e periodici,
almeno ogni 2 anni per verificare l’assenza di controindicazioni al lavoro notturno. In caso di
sopravvenuta inidoneità al lavoro notturno per motivi di salute il lavoratore verrà assegnato al lavoro diurno in altre
mansioni equivalenti se esistenti e disponibili. Nel caso in cui la contrattazione collettiva non ha fissato le modalità di
applicazione di tale disciplina e il datore dimostri l’inutilizzabilità delle mansioni esistenti il lavoratore verrà assegnato
a mansioni inferiori o licenziato per inidoneità, che costituisce giustificato motivo oggettivo.
Lavoro notturno degli apprendisti, dei minori e dei genitori Il decreto inoltre estende la nuova disciplina
dell’orario di lavoro, e quindi quella sul lavoro notturno, anche agli apprendisti maggiorenni (prima
esclusi dal lavoro notturno) a condizione che ne sia tutelata la salute. Gli apprendisti minorenni invece
non possono svolgere il lavoro notturno; possono però essere previste deroghe a tale previsione in
casi eccezionali.
La legge in esame prevede il divieto assoluto di svolgimento del lavoro notturno per le donne in
gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Inoltre il decreto stesso prevede 3
ipotesi nelle quali il lavoro notturno non deve essere obbligatoriamente prestato, cd. Diritto di
esenzione:
a) nell’ipotesi in cui la lavoratrice sia madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o
alternativamente il padre convivente con la stessa (in caso di rinuncia da parte della madre);
b) nell’ipotesi in cui le lavoratrici o i lavoratori siano l’unico genitore affidatario di un figlio
convivente di età inferiore ai 12 anni;
c) nell’ipotesi in cui le lavoratrici o i lavoratori abbiano a proprio carico un soggetto disabile.

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Regimi di orario: i turni Sono previsti anche altri regimi particolari di orario, come il lavoro a turni, che è un metodo
organizzativo del lavoro, anche a squadre in base al quale i lavoratori sono occupati negli stessi posti di lavoro secondo
un certo ritmo che comporta il compiere di un lavoro a ore differenti nel giorno o nella settimana.

5. Riposi giornalieri, settimanali, annuali e festività.


Riposi e pause giornaliere Il D. Lgs. n. 66/2003 riconosce al lavoratore il diritto a 11 ore di riposo
consecutivo ogni 24 ore. Tale riposo deve essere usufruito in modo consecutivo ad eccezione di
quelle attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata. I contratti collettivi
possono derogare tale principio di consecutività del riposo ed anche alla sua durata minima.
Se l’orario giornaliero supera le 6 ore il lavoratore ha diritto ad un intervallo per pausa, le cui
modalità e la cui durata sono stabilite dal contratto collettivo (per il recupero delle energie psico-fisiche, per
la consumazione del pasto e per attenuare il lavoro monotono e ripetitivo). In mancanza della disciplina
collettiva la legge impone una pausa minima di 10 minuti, collocata “tra l’inizio e la fine di ogni
periodo giornaliero di lavoro”.
Riposi settimanali Il lavoratore ha diritto “ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore
consecutive, di regola in coincidenza con la domenica”. È stato inoltre previsto il cumulo del riposo
settimanale con le 11 ore di riposo giornaliero, garantendo così di fatto al lavoratore 35 ore di riposo consecutive ogni 7

giorni. Tali principi subiscono diverse deroghe per cui: sono considerati legittimi periodi di lavoro
anche superiori ai 6 giorni, a condizione,però, di garantire nel giro di 14 giorni di calendario almeno
2 riposi, ciascuno di 24 ore consecutive; sono escluse dal riposo giornaliero settimanale le attività di
lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra, le attività caratterizzate da periodi di
lavoro frazionati durante la giornata, il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari.
Coincidenza del riposo con la domenica Il riposo settimanale di regola coincide con la domenica.
Possono però essere previste diverse eccezioni. È consentito il riposo di 24 ore consecutive in un
giorno diverso dalla domenica, sempre nel rispetto della cadenza settimanale in particolari ipotesi:
per le attività industriali a ciclo continuo; per le industrie stagionali per le quali si abbiano ragioni
di urgenza riguardo alla materia prima o al prodotto dal punto di vista del loro deterioramento; per
servizi ed attività il cui funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche o soddisfi
interessi rilevanti della collettività o sia di pubblica utilità.
Lavoro festivo Il lavoro nella giornata domenicale dà diritto ad una maggiorazione retributiva
prevista dai contratti collettivi. In assenza di previsione negoziale sarà il giudice a determinare il
compenso. Il diritto alla maggiorazione viene meno quando il contratto collettivo già preveda per i
turnisti un trattamento più favorevole rispetto a quello degli altri dipendenti, anche attraverso la
previsione di ulteriori giorni di riposo.

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Oltre alle ipotesi autorizzate dalla legge, la prestazione di lavoro nella giornata festiva è illecita per
contrarietà a norma imperativa di legge (art. 2126 c.c.); la nullità non pregiudica il diritto del
lavoratore alla retribuzione.
Festività infrasettimanali Le festività settimanali sono 12, di cui 5 civili e 7 religiose. Durante tali festività i lavoratori
ricevono la normale retribuzione giornaliera. Se le festività capitano di domenica, i lavoratori ricevono una retribuzione
doppia. Il lavoro prestato per particolari motivi in tali giornate è retribuito con maggiorazioni. Diversi contratti collettivi
hanno previsto che le festività soppresse si debbano recuperare in aggiunta alle ferie annuali.

6. Le ferie.
L’art. 36, 3° comma, Cost. riconosce al lavoratore il diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite,
per la tutela delle esigenze fisiche e psicologiche dello stesso. La loro durata minima è di 4
settimane, elevabile dai contratti collettivi.
La c.d. introannualità delle ferie Il periodo di ferie è annuale, poiché spetta entro l’anno. In base al
principio di introannualità, poiché esso maturi non occorre aver prestato servizio per un intero
anno, in quanto il periodo di ferie matura in base ai giorni lavorati. Il lavoratore matura 1/12 delle
ferie per ogni mese di servizio prestato o frazione superiore a 15 giorni (che vale come mese intero).
Se il rapporto di lavoro cessa prima della maturazione o del godimento delle ferie, il lavoratore ha
diritto alla corresponsione di un’indennità sostitutiva proporzionale alle ferie non godute.
Servizio effettivo Le ferie maturano solo in presenza di effettiva prestazione lavorativa, anche se sono previste alcune
eccezioni. Il D. Lgs. 151/2001 esclude la maturazione delle ferie:
nei periodi di congedo parentale, di congedo per la malattia del figlio.
Vanno computati invece:
i periodi di congedo per maternità e secondo la giurisprudenza anche i periodi di assenza dal lavoro per malattia
e infortunio.
Godimento delle ferie La scelta del periodo feriale rientra nel potere dispositivo del datore di lavoro,
anche se spesso le condizioni di godimento delle ferie sono oggetto di contrattazione, aziendale e in
parte individuale. Continuità del periodo di ferie Il datore dovrà comunque rispettare il principio
secondo cui le ferie vanno godute per almeno 2 settimane entro l’anno di maturazione, mentre per il
restante periodo entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione. Inoltre è riconosciuto al
lavoratore il diritto di godimento consecutivo delle prime 2 settimane di ferie.
Retribuzione Il lavoratore ha diritto alla retribuzione globale giornaliera durante tale periodo.
Irrinunziabilità delle ferie Secondo il D. Lgs. 66/2003, il periodo minimo di 4 settimane non può
essere sostituito dall’indennità per ferie non godute, salvo che in caso di risoluzione del rapporto.
Ferie e malattia La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 2109 c.c. nella parte in cui
non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. L’orientamento

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dominante attribuisce effetti sospensivi non ad ogni malattia, ma solo a quella che impedisca il
normale decorso delle ferie e ne precluda il raggiungimento delle finalità tipiche.
Esistono diversi altri periodi di sospensione dal lavoro: i vari tipi di permessi e aspettative sindacali e pubbliche; le c.d.
150 ore per lavoratori studenti; i permessi retribuiti diretti alla frequenza di corsi in scuole pubbliche o ufficialmente
abilitate...

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CAPITTOLO VII

POTERI E DOVERI DEL DATORE DI LAVORO


A. IL POTERE DIRETTIVO

1. I poteri del datore in generale e i loro limiti.


La disciplina tradizionale del rapporto Secondo la concezione tradizionale del rapporto di lavoro il
datore di lavoro gode di una posizione attiva, di preminenza, mentre il lavoratore si trova in una
posizione passiva, di soggezione.
Limiti legislativi e contrattuali Una modifica di tale struttura del rapporto si è avuta con lo Statuto dei
lavoratori e, in parte, con la contrattazione collettiva, che hanno ridotto gli aspetti di soggezione del
lavoratore, riconoscendogli posizioni attive nell’attuazione del rapporto, e limitando l’esercizio dei
poteri imprenditoriali.

2. Il potere direttivo: contenuti.


Il potere direttivo e la disciplina del lavoro Le innovazioni normative introdotte dallo Statuto hanno
riguardato il potere direttivo, cioè il potere giuridico fondamentale del datore di lavoro, in cui sono
compresi diversi poteri del datore stesso (potere gerarchico, di conformazione ecc.) diretti a
garantire l’esecuzione e la disciplina del lavoro.
Poteri di gestione dell’impresa Non rientra in tale disciplina il potere di gestione dell’impresa, che non
è regolamentato dallo Statuto ma in parte dalla contrattazione collettiva.

3. I limiti legislativi del potere direttivo: principio di non discriminazione.


Poteri del datore e limiti legislativi I poteri del datore di lavoro sono contenuti all’interno del Titolo I
dello Statuto dei lavoratori. Divieto di discriminazione Un limite generale all’esercizio dei poteri
dell’imprenditore è il divieto di discriminazione.
Il principio costituzionale di parità La costituzione (artt. 3, 37) prevede la parità fra lavoratori e
lavoratrici precisando che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della
sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata
protezione.
Il principio di uguaglianza formale e sostanziale Di fondamentale importanza sono anche le direttive
sull’eguaglianza formale e sostanziale. Con il principio di eguaglianza formale (inteso come
eguaglianza di fronte alla legge) si impone che vengano trattate in modo eguale situazioni eguali;
col principio di eguaglianza sostanziale si impone allo Stato e agli enti pubblici di porre in essere

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misure specifiche di sostegno volte ad assicurare una reale parità di trattamento, sostenendo le
categorie svantaggiate.
Il principio di non discriminazione nello St. lav. Non tanto una direttiva di eguaglianza, quanto piuttosto
l'imposizione di un esercizio non arbitrario dei poteri datoriali, viene sancita dall'art. 15 St. lav., che
dichiara nullo ogni atto o patto che rechi in qualche modo pregiudizio alla lavoratrice o al lavoratore
a causa del suo sesso, per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali e di lingua.

4. La tutela contro le discriminazioni per ragioni di sesso. Parità di trattamento e parità retributiva
nella L. n. 903/1977.
La parità di trattamento nell’accesso al lavoro La L. n. 903/1977 è stata la prima legge che ha di fatto
vietato le discriminazioni per ragioni di sesso. Tale norma, oggi risulta quasi completamente
abrogata e confluita in parte nel D. Lgs. n. 151/2001 (T. U. sulla tutela e sostegno della maternità e
della paternità) e in parte nel D. Lgs. n. 198/2006 ( codice delle pari opportunità tra uomo e donna),
vieta ogni discriminazione per sesso nell’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di
assunzione e dal settore di attività, anche nel campo della formazione e dell’aggiornamento
professionale.
...nella carriera La legge vieta anche ogni discriminazione fra uomini e donne nell’attribuzione delle
qualifiche, delle mansioni e nella progressione di carriera.
...e nella previdenza sociale La parità è prevista anche nell’area della previdenza sociale.

Il divieto degli atti discriminatori e la strumentazione processuale La discriminazione è vietata anche se


realizzata con riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza oppure in modo
indiretto, attraverso meccanismi di preselezione o a mezzo stampa o con qualsiasi forma
pubblicitaria, che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
La L. n. 903/1077 prevede che qualora vengano posti in essere comportamenti discriminatori, il
lavoratore o, per sua delega, i sindacati o i consiglieri di parità, potranno chiedere al giudice un
decreto immediatamente esecutivo, che contiene l’ordine di cessazione del comportamento e di
rimozione degli effetti.
La parità retributiva Infine tale legge conferma il principio della parità di retribuzione per prestazioni
uguali tra lavoratori e lavoratrici e precisa che le scale retributive devono basarsi su criteri comuni
per uomini e donne.
La scarsa effettività della L. n. 903/1977 La L. n. 903/1977 si è rivelata poco efficace soprattutto per
quanto riguarda le discriminazioni indirette. A tale carenza ha rimediato la L. n. 125/1991, la quale
però risulta quasi completamente abrogata e confluita nel T.U. sulla maternità e paternità e nel
codice delle pari opportunità.
5. Il codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
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Il D. Lgs. 11 aprile 2006 n. 198, cd. Codice delle pari opportunità, definisce chiaramente le
discriminazioni per ragioni di sesso, distinguendole tra dirette ed indirette:
Discriminazione diretta per ragioni di sesso - La discriminazione sessuale diretta (discriminazione
individuale) consiste in qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto
pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. (es. rifiuto di
assunzione di una donna in gravidanza).
Discriminazione indiretta per ragioni di sesso - La discriminazione sessuale indiretta (discriminazione
collettiva) è qualsiasi comportamento pregiudizievole, da chiunque posto in essere, che si ha con
l’adozione di criteri formalmente neutri ed uguali fra soggetti, ma che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori di un sesso senza giustificazione alcuna, in quanto non
essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. (es. discriminazione economica tra part.timers e full-timers
dove i part.timers sono prevalentemente donne).
Dalla parità di trattamento alle pari opportunità: le azioni positive La L. n.125/1991 (oggi il codice delle pari
opportunità) riconosce, al fine di promuovere le pari opportunità, le c.d. azioni positive. Sono tutte
quelle iniziative dirette a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari
opportunità fra lavoratori e lavoratrici. Esse sono uno strumento di diritto diseguale, che tuttavia non contrasta
con l’art. 3 Cost., essendo di natura transitoria. Si tratta infatti di deviazioni dall’eguaglianza formale legittimate dal
perseguimento dell’eguaglianza sostanziale. Rientrano tra le azioni positive: esempi 1) gli incentivi per
l’imprenditorialità femminile; 2) la promozione di forme d’orario flessibile; 3) i corsi di formazione per le sole donne
per avvicinare le stesse a settori in cui sono sottorappresentate; 4)gli asili nido sovvenzionati a disposizione del
personale dipendente di sesso femminile.
Gli strumenti attuativi della parità nella L. 125/1991 L’attuazione delle azioni positive a favore delle donne
è affidata a diversi organi promotori. Il D. Lgs. n. 98/2006 disciplina le cd. Istituzioni di parità: “il
Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici” e “le consigliere e i consiglieri di parità”.
Il CNP Il comitato nazionale di parità (CNP) è istituito presso il Ministero del lavoro per
promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che
limiti di fatto l’uguaglianza fra uomo e donna. Esso è composto da esponenti del Governo, delle parti sociali,
della società civile ed esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche. Il CNP formula ogni anno un
programma-obiettivo che contiene i progetti di azioni positive da promuovere, i soggetti ammessi e
i relativi criteri di valutazione.
I/le Consiglieri/e di parità I consiglieri e le consigliere di parità , nominati a tutti i livelli di governo
(nazionale, regionale e provinciale) hanno il compito di promuovere e di controllare il rispetto dei
principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per donne e uomini nel lavoro. Sono
pubblici ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria i reati di cui vengano a
conoscenza.
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Tutela giurisdizionale o sanzioni La L. n. 125/1991 affianca alla azione individuale in giudizio, sempre
a disposizione del soggetto discriminato, una azione istituzionale in giudizio, che può essere
promossa dal consigliere di parità competente per territorio autonomamente quando la
discriminazione ha rilevanza collettiva, o su delega del soggetto discriminato negli altri casi.
Onere della prova Inoltre, in tema di discriminazione, vi è l’inversione parziale dell’onere della
prova nel giudizio. Quando il soggetto ricorrente fornisce elementi di fatto che fanno presumere
l’esistenza di comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto (il datore)
l’onere della prova sulla inesistenza della discriminazione.

6.La tutela contro le discriminazioni per ragioni di razza o di origine etnica e le altre discriminazioni.
I D.lgs. 215 e 216 del 9 luglio 2003 contengono una definizione di discriminazione diretta ed indiretta per razza od
origine etnica, religione convinzioni personali, agli handicap, all'età e all'orientamento sessuale.
Si ha discriminazione diretta quando in ragione di tali motivi una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia,
sia stata o sarebbe stata trattata un'altra in una situazione analoga.
La discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto un patto o un
comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, di una
determinata religione o ideologia di altra natura o i soggetti portatori di handicap, o di una particolare età, o di un
orientamento sessuale, in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone.
Sul piano processuale il soggetto discriminato ha innanzitutto la possibilità di ricorrere al giudice per vedere dichiarata
la nullità dell'atto discriminatorio ai sensi dell'art. 15 St. lav. , come modificato dal D.lgs. n. 216; per il resto, la tutela
giurisdizionale prevista dai decreti in esame, ricalca il procedimento speciale già contemplato dal testo unico
sull'immigrazione

B. IL POTERE DI CONTROLLO
1. I limiti al potere di vigilanza: controlli nell’attività e visite personali.
Il potere di vigilanza e di controllo consente di verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa
venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro.
Limiti al potere di vigilanza: La disciplina dello Statuto dei lavoratori sottopone a specifici limiti il
potere di vigilanza del datore:
- l’art. 2 1.Le guardie giurate sancisce che le guardie giurate hanno solo il compito di tutelare
il patrimonio aziendale, e il datore non può servirsene per effettuare un controllo
dell’attività lavorativa.
- l’art. 3 2.Il personale di vigilanza sul lavoro impone al datore di lavoro di comunicare
preventivamente ai lavoratori i nominativi e le mansioni del personale di vigilanza sul
lavoro di cui intende avvalersi;
- l’art. 4 3.controlli a distanza sancisce che i lavoratori non possono essere controllati
attraverso impianti audiovisivi (es. televisioni a circuito chiuso) e altre apparecchiature

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dirette a sorvegliare a distanza l’attività dei lavoratori. Controlli a distanza possono essere
ammessi solo se richiesti da esigenze organizzative, produttive o concernenti la sicurezza
del lavoro, per cui il controllo sul lavoro ne è una conseguenza accidentale. Tali
apparecchiature, in quest’ultima ipotesi, possono essere installate solo a seguito di un
accordo con tutte le RSA (o RSU) o con la commissione interna. In mancanza di accordo il
datore di lavoro può ricorrere alla Direzione del Lavoro-Servizi Ispettivi che stabilisce le
modalità di uso degli impianti. Contro tale provvedimento è consentito il ricorso al Ministro
del lavoro;
- l’art. 5 4.controllo delle malattie vieta, in caso di assenza di lavoro per malattia, i controlli
realizzati dai c.d. medici di fabbrica (medici nominati e pagati dal datore). Il controllo sullo
stato di salute dei lavoratori può essere effettuato solo dai servizi ispettivi competenti
(INAIL per gli infortuni, ASL e INPS per le malattie). Questi sono tenuti a compierlo
quando il datore lo richiede, nel rispetto delle c.d. fasce orarie di reperibilità. Agli enti
pubblici spetta anche il controllo sulla capacità del lavoratore di proseguire il rapporto.
- L’art. 6 5.visite personale di controllo sul lavoratore vieta le visite personali sul lavoratore
(perquisizioni personali e sugli oggetti) che sono ammesse solo se indispensabili per la
tutela del patrimonio aziendale e a condizione che esse siano svolte all’uscita dei luoghi di
lavoro e riferiti a gruppi di lavoratori. È richiesto comunque un accordo sindacale o, in
mancanza, una decisione da parte della Direzione del Lavoro-Servizi Ispettivi.

2. Il divieto di indagine sulle opinioni e la tutela della privacy.


L’art. 8 St. lav. Il datore di lavoro incontra un ulteriore limite nell’esercizio dei propri poteri. Esso è
contenuto nell’art. 8 St. lav. che vieta al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione e nel corso del
rapporto, di effettuare indagini, anche attraverso terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali
del lavoratore e su tutti i fatti che non rilevano ai fini della valutazione della attitudine
professionale.
La normativa di tutela della privacy In realtà, al fine di una effettiva tutela, tale situazione è ricompresa
nella disciplina generale di tutela della privacy, in particolare nel Codice in materia di protezione
dei dati personali (D. LGS: 196/2003). Le regole sono diverse per i dati ordinari o comuni e per
quelli sensibili e giudiziari.
Il trattamento dei dati ordinari o comuni: la regola del consenso I dati ordinari o comuni sono tutti quei dati
che non sono sensibili e il cui trattamento è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato
salvo specifiche eccezioni (Che riguardano gran parte dei trattamenti per la gestione del rapporto di lavoro).

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Il trattamento dei dati sensibili e giudiziari: la regola del consenso e dell’autorizzazione I dati sensibili rivelano
l’origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di latro genere, le opinioni
politiche, ecc. I dati giudiziari invece rivelano i provvedimenti giudiziari in materia di casellario
giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi
pendenti, o la qualità di imputato o di indagato.
Tali dati possono essere trattati solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione
del Garante per la protezione dei dati personali.
Eccezioni alla regola del consenso In alcune ipotesi il trattamento è ammesso (al datore) anche senza
consenso dell’interessato, a seguito della sola autorizzazione del Garante: 1) nel caso in cui il trattamento
è effettuato da organismi senza scopo di lucro a carattere politico, religioso o sindacale, con riguardo a soggetti che
hanno contatti regolari con essi (organizzazioni di tendenza); 2) nel caso in cui il trattamento sia svolto per adempiere a
specifici obblighi di legge per la gestione del rapporto di lavoro, incluso la sicurezza e la previdenza.
Accesso ai dati personali Il lavoratore ha diritto di accedere ai dati personali, di ottenerne l’aggiornamento la
rettificazione, l’integrazione, la cancellazione. Può inoltre opporsi, per motivi legittimi, al loro trattamento.
La disciplina sulla privacy è da considerarsi una regolamentazione aggiuntiva rispetto a quella
specifica di limitazione del potere di controllo del datore.
Comunicazioni telefoniche, posta elettronica, internet Importante è anche il tema dei controlli tecnologici
sulle comunicazioni telefoniche del lavoratore e sull’utilizzo del computer aziendale, della posta
elettronica e di internet. Al riguardo è possibile menzionare il caso di un dipendente, che aveva effettuato
conversazioni private con il telefono aziendale, per questo motivo licenziato. Permettendo in tal modo la registrazione
ad opera del datore dei numeri telefonici chiamati anche in assenza della procedura codeterminativa.
Per quanto riguarda il controllo del computer aziendale, c’è da verificare se questo è utilizzabile solo per scopi
professionali o anche per fini personali. Questioni sorgono in particolare per il controllo sull’uso della posta elettronica.
Secondo il Garante essa andrebbe protetta come qualsiasi altra corrispondenza, con conseguente piena applicabilità
della normativa penale, che protegge le comunicazioni personali. Ma la giurisprudenza ha ritenuto che il datore non
commette reato quando controlla la posta elettronica a causa della natura aziendale dell’indirizzo e-mail.
Inoltre i giudici hanno considerato legittimo il licenziamento di un prestatore di lavoro, disposto a seguito di un
controllo sulla rete aziendale da cui erano emersi collegamenti giornalieri sul web di durata lunghissima per scopi
personali. In tale ambito però è assente una disciplina nel nostro ordinamento. Il Garante ritiene che la miglior tutela
della riservatezza delle comunicazioni personali si realizza con la prevenzione delle condotte illecite del personale (ad
es. dando a questi carte a pagamento per le telefonate private).

C. IL POTERE DISCIPLINARE
1.Il fondamento del potere disciplinare.
Il potere disciplinare indica la facoltà del datore di lavoro di irrogare sanzioni al lavoratore che non
rispetta i suoi doveri contrattuali e gli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà (artt. 2104-2106
c.c.).

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2. I requisiti sostanziali.
Il potere disciplinare può essere esercitato solo in presenza di alcuni requisiti. In particolare deve
esserci:
1. la sussistenza del fatto addebitato : è necessario quindi che il fatto addebitato al lavoratore
sussista in concreto. Spetta al datore di lavoro l’onere di provarlo, mentre il lavoratore ha l’onere
di discolparsi;
2. la proporzionalità tra infrazione e sanzione : il compito di controllare la proporzionalità è
svolto dalla contrattazione collettiva, ma in caso di contestazione può esserci anche il controllo
del giudice. La recidiva Sul rapporto di proporzionalità influisce l’eventuale recidiva, cioè il
fatto che una determinata infrazione sia già stata sanzionata; ma secondo l’art. 7 St. lav. non può
tenersi conto delle sanzioni disciplinari una volta decorsi 2 anni dalla loro applicazione.

3. I requisiti “procedimentali”.
Il potere disciplinare inoltre va esercitato secondo specifiche modalità. Il mancato rispetto di tali
procedimenti determina l’inesistenza dello stesso potere e quindi la nullità della sanzione. In
particolare, secondo l’art. 7 St. lav, per poter irrogare una sanzione disciplinare è necessaria:
a. La preesistenza del codice disciplinare aziendale, cioè di un testo che contenga le infrazioni
e le relative sanzioni, al fine di evitare la creazione ex post delle une e delle altre. Le sanzioni
legali sono il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa per un massimo di 4 ore e la
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni. Non possono essere
disposte sanzioni disciplinari che comportano mutamenti definitivi del rapporto di lavoro
(trasferimento...) salvo il caso in cui ve ne siano i presupposti;
b. La pubblicità del codice disciplinare , che deve essere portato a conoscenza dei lavoratori
attraverso affissione in un luogo accessibile a tutti;
c. La preventiva contestazione dell’addebito , per cui il datore non può irrogare la sanzione al
lavoratore senza avergli comunicato l’addebito (per iscritto) e senza averlo sentito a sua difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce

mandato. Immediatezza e specificità La contestazione deve essere immediata, e quindi avvenire


entro un termine massimo necessario per effettuare gli accertamenti da parte del datore, e deve
essere specifica, cioè deve individuare i fatti addebitati in maniera precisa, non deve esserci
incertezza sui fatti che il lavoratore deve giustificare.
La recidiva La recidiva deve essere comunicata solo se concorre a realizzare l’infrazione (nel
caso di ritardo che solo se reiterato diviene sanzionabile).

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Il diritto di difesa Il datore di lavoro è tenuto a sentire oralmente il lavoratore se ne fa richiesta


oppure può ricevere le sue giustificazioni scritte.
La pausa di riflessione I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono
essere applicati se non sono trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto.
L’’obbligo contrattuale delle motivazioni Il datore di lavoro non è obbligato, se non espressamente
previsto dal codice disciplinare, ad indicare le motivazioni in base alle quali ha respinto le
giustificazioni del lavoratore. Se vi è tale obbligo, la sua inosservanza determina la nullità del
provvedimento disciplinare.
Collegio di conciliazione e arbitrato Il lavoratore può contestare la sanzione disciplinare o attraverso il
ricorso all’autorità giudiziaria oppure può avvalersi di una procedura arbitrale. In particolare il
lavoratore può richiedere, entro 20 giorni, la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato.
La scelta della via arbitrale comporta la sospensione della sanzione fino alla pronuncia sulla
controversia da parte del collegio; sospensione che rimane anche se sia poi il datore a scegliere la
via della magistratura ordinaria. Inoltre la sanzione perde efficacia se il datore di lavoro non
nomina, entro 10 giorni dall’invito della Direzione provinciale del lavoro, il proprio rappresentante
in seno al Collegio arbitrale.
Superati i 20 giorni il provvedimento può essere impugnato con l’azione giudiziaria, assoggettata ai
normali termini di prescrizione.

D. I DOVERI DEL DATORE DI LAVORO


1. L’obbligo di sicurezza e l’art. 2087 cod. civ.
L’art. 2087 cod. civ. L’art. 2087 cod. civ. vincola il datore ad un obbligo di sicurezza nei confronti
dei lavoratori, imponendogli di adottare tutte le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Dunque il datore di lavoro deve adottare tutte
le misure idonee a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore
alla luce della mutevole realtà produttiva. All’inizio tale articolo è stato richiamato per ottenere il
risarcimento dei danni dovuti a infortuni o lesioni già verificatisi, mentre non ha avuto rilievo nella
sua funzione preventiva.

2. Dall’art. 9 St. lav. al D. Lgs. n. 626 del 1994 e successive modifiche.


I contenuti dell’art. 9 St. lav. L’art. 9 St. lav. da il diritto ai lavoratori di controllare, attraverso loro
rappresentanze, che siano applicate le norme per prevenire gli infortuni e le malattie professionali al
fine di attuare tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Il D. Lgs. 626/1994 Tale articolo è stato poi assorbito dal D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626.

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Misure generali di tutela e soggetti della sicurezza Il sistema si fonda ora sul principio della prevenzione,
che si realizza attraverso una valutazione di tutti i rischi presenti in azienda. Lo scopo è quello di
eliminarli alla fonte, o comunque di ridurli al minimo attraverso una attenta programmazione degli
interventi che coinvolge diverse figure.
È il c.d. modello partecipato della sicurezza: accanto al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti,
agli organismi pubblici di controllo (ASL e Direzione del lavoro) il legislatore prevede nuovi
soggetti destinatari di diritti ed obblighi: il servizio di prevenzione e protezione ed il suo
responsabile; il medico competente; i lavoratori; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
(RLS). Obblighi del datore L’obbligo di sicurezza si caratterizza in una serie di adempimenti:
- la valutazione dei rischi relativi allo svolgimento della prestazione lavorativa, per
individuare le fonti di pericolo e l’entità del danno che ne può derivare;
- la redazione del c.d. documento di sicurezza, da custodire nell’azienda, che contiene una
relazione sulla valutazione dei rischi, l’individuazione delle misure di prevenzione, le
modalità e i tempi per realizzare il programma di sicurezza.
Entrambe le funzioni devono essere esercitate dal datore in collaborazione con il responsabile del
servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del
rappresentante per la sicurezza. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza Quest’ultimo è consultato
anche per la nomina degli addetti al servizio di prevenzione e per l’organizzazione della formazione
dei lavoratori. Deve essere eletto dai lavoratori in tutte le aziende o unità produttive.
Gli altri soggetti Gli addetti ed il responsabile del servizio di prevenzione devono essere
obbligatoriamente nominati dal datore di lavoro, preferibilmente tra il personale dell’azienda. Il loro
compito consiste nell’aiuto tecnico al datore per la valutazione del rischio, per la programmazione
della sicurezza, per la progettazione della formazione dei prestatori. Il datore di lavoro deve inoltre
nominare un medico competente che potrà svolgere la sua funzione come dipendente di una
struttura esterna pubblica o privata convenzionata o come libero professionista o come lavoratore
subordinato del datore stesso.
Obblighi e diritti del singolo lavoratore Anche i lavoratori devono contribuire all’adempimento degli
obblighi per la tutela della salute e devono: 1) ubbidire alle direttive generali che gli vengono
impartite in materia; 2) utilizzare correttamente macchinari, attrezzature e dispositivi di protezione;
3) sottoporsi alla formazione; 4) segnalare le carenze dei dispositivi in proprio uso. In ogni caso
essi hanno diritto di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e
inevitabile.

3. L’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.

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L’assicurazione contro gli infortuni e malattie professionali Il sistema delle assicurazioni sociali
obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è diretto a tutelare i lavoratori
dai rischi dell’ambiente di lavoro ed è gestito dall’INAIL. La normativa si applica ai lavoratori che
svolgono attività pericolose e li assicura da eventi dannosi derivanti dallo svolgimento del lavoro.
Il D. Lgs. n. 38 del 2000 Il D. Lgs. n. 38 del 2000 ha esteso l’obbligo assicurativo ai lavoratori
parasubordinati, ai lavoratori dell’area dirigenziale, agli sportivi professionisti, ai lavoratori italiani
operanti in Paesi extracomunitari. Tale norma ha fatto rientrare nell’ambito dell’assicurazione
obbligatoria anche le ipotesi di infortunio c.d. “in itinere”, cioè quello subito dal lavoratore nel
recarsi sul luogo di lavoro o fra 2 diversi luoghi di lavoro o nel normale tragitto di andata e ritorno
rispetto al luogo dove il lavoratore consuma il pasto, in assenza di un servizio di mensa aziendale.
Il danno biologico In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, è riconosciuta la
risarcibilità non solo del danno patrimoniale, ma anche del c.d. danno biologico, cioè quella
menomazione della integrità psico-fisica della persona. Esso deriva dalla violazione del diritto alla
salute subita dal lavoratore e risarcibile tramite l’art. 2087 cod. civ.

4.Il danno alla persona del lavoratore.


Oltre il danno biologico Possono presentarsi anche ulteriori pregiudizi al lavoratore, che sono
risarcibili a titolo di responsabilità contrattuale sulla base dell’art. 2087 cod. civ. Si tratta di
menomazioni alla dignità personale, quali:
 Danno per demansionamento , si ha quando il datore adibisce il dipendente a compiti
inferiori rispetto agli ultimi svolti o provveda ad un graduale svuotamento delle mansioni
assegnategli o lo costringa a lunghi periodi di inattività. In tal caso il lavoratore ha diritto al
risarcimento del danno per lesione della professionalità;
 Danno da usura psico-fisica , risarcito dai giudici al lavoratore che ha esercitato la sua
attività oltre il sesto giorno consecutivo, in violazione del principio della irrinunciabilità del
riposo settimanale;
 Danno da molestie sessuali , si tratta di quella situazione nella quale si verifica un
comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non
verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando
un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante, offensivo. Si tratta di una violazione
dell’obbligo contrattuale contestabile dalla vittima davanti al giudice del lavoro;
 Danno da mobbing , sono forme di persecuzione poste in essere nei luoghi di lavoro da parte
di colleghi (mobbing orizzontale) oppure del datore di lavoro e dei suoi collaboratori (mobbing
verticale). Si tratta di molestie continue ed aggressioni psicologiche in campo lavorativo che

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producono uno stato di profondo disagio nella vittima. La tutela che più frequentemente è
riconosciuta al lavoratore è di tipo risarcitorio.

5. Gli obblighi di informazione del datore.


Le informazioni al lavoratore Nel tempo hanno acquistato una crescente rilevanza gli obblighi di
informazione a carico dell’imprenditore. La Costituzione europea ha riconosciuto a favore dei
lavoratori o dei loro rappresentanti un diritto di informazione e di consultazione degli stessi
nell’impresa nei casi previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali.
Già il codice impone all’imprenditore di comunicare al lavoratore informazioni relative agli aspetti
del rapporto: categoria e qualifica corrispondente alle mansioni di assunzione, tempo delle ferie...
Il D. Lgs. n. 152/1997 pone a carico del datore un obbligo di informare il lavoratore delle
condizioni applicabili al rapporto di lavoro: luogo, orario, mansioni, durata del preavviso ecc.
Gli obblighi di informazione al sindacato Altri obblighi per il datore sono previsti dalla disciplina
contrattuale nei confronti o del singolo lavoratore o delle rappresentanze aziendali. Tali obblighi
riguardano non solo informazioni attinenti allo svolgimento dei rapporti di lavoro ma anche notizie
sulla gestione complessiva dell’impresa.

6. La cooperazione del datore all’adempimento.


Mora credendi Ai fini dell’adempimento della prestazione da parte del lavoratore è necessaria la
cooperazione del datore. Si tratta di un onere, per cui il rifiuto di ricevere una prestazione produce
in capo al datore solo le conseguenze tipiche della mora credendi e cioè il risarcimento dei danni o
meglio la retribuzione.
Obbligo di far lavorare L’obbligo del datore di consentire lo svolgimento della prestazione riguarda
solo quei rapporti in cui vi è un interesse del lavoratore ad eseguire il proprio lavoro. È il caso
dell’apprendistato dove lo svolgimento della prestazione è diretto all’apprendimento, che è la
causa del rapporto.

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CAPITOLO VIII

LA RETRIBUZIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO: FONTI NOZIONE, STRUTTURA

1.Fonti individuali e collettive.


Profili individuali della retribuzione Sul piano del rapporto individuale la retribuzione è la prestazione
fondamentale del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Ciò caratterizza il contratto di
lavoro come contratto oneroso di scambio.
Profili collettivi Sul piano collettivo la retribuzione è una quota consistente del reddito nazionale e
rappresenta uno strumento per la sua distribuzione fra diversi gruppi sociali. La disciplina della
retribuzione, per quanto riguarda gli aspetti quantitativi e i criteri di calcolo, è determinata dalla
contrattazione collettiva, mentre all’autonomia privata spetta un ruolo di miglioramento degli
standards retributivi stabiliti in sede collettiva.
Ruolo della legge La legislazione ordinaria ha avuto un ruolo limitato fino ai provvedimenti sul
costo del lavoro dal 1977 in poi, con i quali si è realizzato un controllo eteronomo delle dinamiche
retributive. Una funzione importante è stata esercitata dalle direttive costituzionali, in materia di
retribuzione proporzionata e sufficiente, attraverso una intensa opera di interpretazione
giurisprudenziale. Tale materia è sottratta dalle competenze comunitarie, salvo per quanto riguarda
la parità tra uomini e donne.

2.Corrispettività e principi costituzionali: a) sufficienza e proporzionalità. Il concetto


giurisprudenziale di retribuzione minima.
La corrispettività nel rapporto di lavoro L’obbligo del datore di corrispondere la retribuzione comporta
che esso venga definito come rapporto di scambio o a prestazioni corrispettive. Il nesso di
corrispettività tra le prestazioni, previsto nei contratti sinallagmatici (che trovano causa nella
prestazione del lavoratore), subisce nel rapporto di lavoro delle deroghe, tutte tassativamente
previste, nelle quali la disciplina legale o contrattuale impone al datore di corrispondere la
retribuzione anche in assenza di controprestazione (malattia, infortunio, gravidanza...) e anche
prescindendo dal riferimento al lavoro effettivamente svolto (la gratifica natalizia diretta a
compensare la prestazione fornita durante l’anno).

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L’art. 36 Cost.: sufficienza Per quanto riguarda l’aspetto quantitativo della retribuzione, l’art. 36
Cost. sancisce che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e
dignitosa”.
La sufficienza sta ad indicare che la retribuzione deve essere tale da permettere al lavoratore e alla
sua famiglia non solo un minimo vitale, ma un tenore di vita adeguato al contesto storico e
ambientale.
Proporzionalità La proporzionalità sta ad indicare che la retribuzione deve essere determinata in
base alle mansioni svolte dal lavoratore e al tempo di lavoro.
La giurisprudenza ha ritenuto in realtà che il canone di sufficienza è rispettato solo se è rispettato il
principio di proporzionalità. Infatti il giudice deve solo verificare se la retribuzione è
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato ritenendo che la retribuzione sia idonea a
soddisfare le esigenze di vita del lavoratore medio e della sua famiglia, non deve invece verificare
se la retribuzione corrisposta al singolo sia anche idonea a garantire in concreto a lui e alla sua
famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. Dall’art. 36 la giurisprudenza ha ricavato un principio
unitario di retribuzione minima. Per determinare il livello retributivo i giudici devono fare
riferimento alla retribuzione base (i c.d. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi della
categoria o del settore produttivo. Così le retribuzioni individuate in base alle tabelle dei contratti
nazionali di categoria o di settore costituiscono il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di
lavoro di quella categoria o di quel settore. L’art. 36 è una norma precettiva, ne consegue che il
giudice può giudicare se la retribuzione spettante al lavoratore è conforme al dettato costituzionale.
Richiamo artt. 1419 2° comma e 1339 cod.civ. Di fronte a un regolamento contrattuale difforme, e cioè
nei casi in cui la retribuzione è concordata in misura insufficiente (quindi la relativa pattuizione è
nulla), il rimedio non è quello della nullità totale dell’atto, così come sancito dal diritto comune,
piuttosto il giudice interviene con la sostituzione della retribuzione concordata con la retribuzione
minima legale. Non interviene invece in assenza di una definizione consensuale della retribuzione.
L’erga omnes dei minimi retributivi Ma ciò che è eccezionale è il fatto di aver consentito anche ai
lavoratori dipendenti da imprese che non aderiscono ad associazioni sindacali (che non sono tenute
a rispettare i minimi retributivi) di richiedere l’applicazione delle tabelle collettive richiamando la
disciplina costituzionale così come interpretata dalla giurisprudenza.

3.b) non discriminazione e parità retributiva.

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Principio di uguaglianza e non discriminazione È necessario il richiamo, anche in tema di retribuzione,


dei principi di non discriminazione e di uguaglianza:
- il principio di non discriminazione vieta trattamenti differenziati fra gruppi di lavoratori per
specifici motivi (per motivi di sesso fra lavoratori e lavoratrici e per motivi di età tra adulti e
minori).
- Il principio di uguaglianza riconosce ai lavoratori che ricoprono la stessa posizione
professionale la parità di trattamento.
Non operatività generale del principio di uguaglianza. Corte Cost. N. 103/1989 Per quanto riguarda l’esistenza
di un diritto all’uguale retribuzione a parità di mansioni la Corte Costituzionale, con la sentenza n.
103 del 1989, ammette che sono “tollerabili e possibili disparità di trattamento” per i lavoratori in
posizione di identico valore quando tali differenziazioni sono giustificate e comunque ragionevoli.
Non esiste dunque nel nostro ordinamento un principio assoluto di parità retributiva.

B. NOZIONE DI RETRIBUZIONE
1. Il concetto di retribuzione. a) Le definizioni legislative.
Pluralità delle definizioni di retribuzione Fra le diverse definizioni legali di retribuzione la più
importante è quella dell’art. 2121 cod. civ. che nel testo precedente alle modifiche della L. n.
297/1982, individuava gli elementi retributivi da computare nel calcolo delle indennità di mancato
preavviso e di anzianità, ed ora disciplina solo la prima. Secondo tale definizione devono essere
inclusi nel calcolo tutti i compensi corrisposti al lavoratore dal datore di lavoro, comprese le
provvigioni, le partecipazioni agli utili, ecc., che hanno carattere continuativo, con esclusione delle
sole prestazioni erogate a titolo di rimborso spese.
La L. n. 297/1982 ha introdotto una diversa nozione di retribuzione per il calcolo del trattamento di
fine rapporto: devono essere considerati tutti gli emolumenti corrisposti in dipendenza del rapporto
a titolo non occasionale dal datore.
Per lungo tempo si è trattato di 2 nozioni distinte.
L’art. 12, L. n. 153/1969 Oggi l’art. 12, L. n. 153/1969 rinvia per la nozione generale del reddito ai
fini contributivi all’art. 48 del TUIR che prevede un parametro unico di riferimento per le
disposizioni contributive e fiscali in materia di lavoro: in considerazione vengono tutte le somme e i
valori in genere, a qualunque titolo percepiti...anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione
al rapporto di lavoro.

2.b) La nozione giurisprudenziale onnicomprensiva. Critica.

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Onnicomprensività della retribuzione A causa delle numerose nozioni di retribuzione la determinazione


degli elementi di cui si compone dipende dalla nozione di retribuzione cui si fa riferimento.
La giurisprudenza ha così elaborato una nozione c.d. onnicomprensiva di retribuzione che individua
alcuni caratteri strutturali propri della retribuzione in modo costante: la determinatezza per definirne
la quantità; la obbligatorietà, in quanto si tratta di un diritto irrinunciabile del lavoratore; la
corrispettività, in quanto trova la sua causa nel rapporto di lavoro; la continuità, come
corresponsione ricorrente nel tempo con regolarità.
Tali caratteri sono stati utilizzati per far rientrare nella retribuzione, non solo il compenso della
prestazione lavorativa, ma tutti i compensi erogati dal datore per il rapporto.
Critiche al concetto di onnicomprensività Tale concetto di retribuzione elaborato dalla giurisprudenza ha
subito diverse critiche. Dal punto di vista giuridico, un concetto onnicomprensivo non ha
fondamento normativo perché è costruito su elementi stabiliti per finalità diverse e non può avere
valore assoluto (cioè applicabile in tutte le ipotesi) al di fuori delle ipotesi nelle quali è recepito. Il
concetto di retribuzione va ricercato di volta in volta in base agli elementi strutturali del singolo
istituto.
La Cassazione ha affermato che la onnicomprensività non costituisce un principio dell’ordinamento
e che l’individuazione dell’ammontare della retribuzione è un problema di interpretazione delle
formule del legislatore o delle clausole dei contratti collettivi.

1. Tipologia legale.
La tipologia della retribuzione La retribuzione comprende diverse attribuzioni patrimoniali cui è
obbligato il datore nei confronti del lavoratore e diversi sono i criteri di classificazione degli istituti
retributivi. La classificazione dell’art. 2099 c.c. In particolare l’art. 2099 prevede una classificazione
delle forme retributive: retribuzione a tempo, retribuzione a cottimo, partecipazione agli utili o
prodotti, provvigione, la retribuzione in natura.
 La retribuzione a tempo è quella più diffusa, e consiste nella corresponsione di un somma di
denaro stabilita in base al tempo della prestazione di lavoro (euro per ora, giorno, mese o anno)
indipendentemente dal risultato ottenuto. Essa è l’unica adottata in maniera esclusiva.
 La retribuzione a cottimo , in cui si tiene conto non solo del tempo impiegato, ma anche del
risultato della produttività del lavoro e, quindi, del rendimento del lavoratore (es. numero di
scarpe prodotto in una determinata unità di tempo). È possibile distinguere:
- il cottimo a forfait o a prezzo fatto in cui il compenso è determinato all’opera finita;
- il cottimo a misura o a prezzo, commisurato alla quantità prodotta;
- il cottimo a tempo, in cui si considera il tempo risparmiato rispetto al tempo standard;

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- il cottimo individuale, se considerato il rendimento del singolo lavoratore;


- il cottimo collettivo, se considerato il rendimento di un gruppo o di una squadra.
- Il cottimo obbligatorio, che si ha quando, in base all’organizzazione del lavoro, il prestatore
è vincolato ad un certo ritmo produttivo o quando la valutazione della sua prestazione
avviene con la misurazione dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.). esso è previsto nel
lavoro a domicilio, il quale si svolge fuori dall’impresa, per cui non può essere verificato il
tempo impiegato ma solo il risultato.
Al lavoratore a cottimo spetta una percentuale minima garantita di retribuzione superiore a quella
prevista per il lavoro a tempo.
Divieto di cottimo È previsto il divieto di cottimo nell’apprendistato, per evitare che il giovane
apprendista sia spinto ad intensificare il lavoro invece che concentrarsi nell’apprendimento
conformemente alla natura del rapporto.
La legge impone al datore di comunicare preventivamente ai lavoratori gli elementi costitutivi della
tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il compenso unitario, i dati relativi alla quantità di
lavoro eseguito e al tempo impiegato. Negli anni 90 il cottimo è confluito nella retribuzione c.d.
variabile.
 La retribuzione in natura , è un’ipotesi residuale che trova applicazione in certe forme di
lavoro domestico, agricolo e nel settore della pesca e consiste nella fornitura di determinati beni
o servizi.
 La provvigione , in cui il compenso è determinato in una percentuale sugli affari trattati dal
lavoratore (a quelli conclusi o solo a quelli andati a buon fine). Tale forma di compenso è
dovuta a quei lavoratori che trattano gli affari per il datore di lavoro (viaggiatori e piazzisti).
 La partecipazione ai prodotti , usata nelle attività di lavoro agricolo e nella pesca come
retribuzione parziale, è una specie particolare di provvigione. Qui il prodotto non è l’affare, ma
il bene fisico oggetto dell’attività dell’impresa.
 La partecipazione agli utili , si ha quando il lavoratore è retribuito con una percentuale sugli
utili dell’impresa. Secondo l’art. 2102 cod. civ. gli utili devono essere determinati in base agli
utili netti e per le imprese soggette alla pubblicazione del bilancio, sono quelli che risultano dal
bilancio approvato e pubblicato.
L’art. 2349 prevede che i lavoratori possano acquisire azioni a titolo gratuito. Così la società può
assegnare in via straordinaria utili ai propri dipendenti emettendo per lo stesso ammontare speciali
categorie di azioni. L’art. 2441 prevede invece un aumento di capitale con assegnazione di azioni, a
titolo oneroso, ai dipendenti.

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Stock options Forme atipiche di distribuzione di azioni ai dipendenti sono le stock options dirette ai
dirigenti dell’ azienda per incentivarne la produttività. Esse attribuiscono ai dipendenti la possibilità
di esercitare entro un certo periodo un’opzione di acquisto di proprie azioni ad un prezzo che,
fissato al momento dell’offerta, rimane bloccato per tutto il periodo in cui può essere esercitata
l’opzione. Il profitto del dipendente consiste nella differenza fra il prezzo concordato per l’acquisto
e il valore di mercato che le azioni hanno acquisito nel periodo di validità dell’opzione.
3.La disciplina contrattuale della retribuzione. La proliferazione delle forme retributive.
Elementi retributivi diversi La disciplina contrattuale della retribuzione prevede istituti diversi da
quelli del codice. In particolare prevede:
La retribuzione diretta e differita la differenza tra retribuzione diretta, cioè corrisposta immediatamente
al lavoratore nei singoli periodi di durata del rapporto (settimanalmente, mensilmente), e
retribuzione differita, cioè corrisposta in modo posticipato rispetto al periodo della maturazione;
annualmente (come la gratifica natalizia) o alla fine del rapporto (come il TFR).
Automatismi retributivi L’automatismo retributivo, riguarda quegli istituti che comportano incrementi
automatici del trattamento economico al verificarsi di determinati fatti o cadenze temporali, senza
bisogno di specifici interventi. Scatti di anzianità e TFR sono automatismi legati all’anzianità di
servizio del lavoratore.
La contrattazione nazionale e la retribuzione tabellare Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione
tabellare che risulta dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria. Essa è poi integrata dalla
contrattazione aziendale.
Gli incrementi aziendali di solito non confluiscono nella retribuzione base. Spesso hanno forme e
nomi diversi e contribuiscono a formare la retribuzione normale. L’ammontare di questi elementi è
controllato dalla contrattazione collettiva in tutte le aziende in cui è presente il sindacato.

3. Le voci retributive contrattuali.


La retribuzione base La retribuzione base (o tabellare) è quella determinata dai contratti collettivi ed
è legata alla qualifica ricoperta dal lavoratore. Dall’indennità di contingenza al Protocollo del luglio 1993 e la
politica dei redditi Essa fino al 1992 comprendeva anche l’indennità di contingenza o scala mobile
consistente in un meccanismo di adeguamento delle retribuzioni all’aumento del costo della vita.
Tale indennità, a partire dal 1992 è stata soppressa. Nel 1993 viene stipulato l’accordo
interconfederale che conferma la concertazione sui salari, prevedendo che le parti sociali si
incontrino 2 volte l’anno per fissare tariffe e livello del debito pubblico. I sindacati si impegnano ad
adottare comportamenti, politiche contrattuali e salariali conformi con l’obiettivo di ottenere un
tasso di inflazione allineato alla media dei Paesi comunitari economicamente più virtuosi (c.d.

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politica dei redditi). Il recupero dell’inflazione è affidato al contratto collettivo nazionale di


categoria ogni 2 anni. Le trattative per i rinnovi contrattuali però possono subire dei ritardi con la
conseguenza che le retribuzioni dei lavoratori risultino scoperte di fronte all’inflazione. L’indennità
di vacanza contrattuale Per questo è stata introdotta una nuova forma di adeguamento automatico, la
c.d. indennità di vacanza contrattuale, il cui importo è commisurato al 30% (o al 50% se la
vacanza dura più di 6 mesi) del tasso di inflazione programmato (non reale). L’indennità spetta ai
lavoratori dopo il terzo mese dalla scadenza del contratto collettivo di categoria, se questo non è
ancora rinnovato.
Scatti di anzianità Rientrano nella retribuzione normale dei lavoratori gli scatti di anzianità. Si tratta
di aumenti periodici della retribuzione (di solito biennali e proporzionati alla paga base) stabiliti in
base all’anzianità di servizio del lavoratore, misurata dalla permanenza nell’azienda.
Superminimi I superminimi sono degli aumenti rispetto alle retribuzioni contrattuali standard
assegnati collettivamente o individualmente. Questi ultimi si considerano assorbiti dai futuri
aumenti dei minimi collettivi, con l’eccezione dei superminimi concessi per i particolari meriti del
singolo lavoratore.
Premi Un altro istituto della retribuzione è quello dei premi, che, sorti come partecipazione dei
lavoratori ai benefici della produttività aziendale, sono stati poi utilizzati dalla contrattazione
aziendale come compensi fissi slegati dalla produttività diventando una integrazione aziendale della
retribuzione stabilita nel contratto nazionale.
Retribuzione variabile Il Protocollo del 1993 riconosce i c.d. premi di risultato, che sono voci
retributive variabili collegate al raggiungimento di obiettivi predefiniti, dirette a premiare la
professionalità dei dipendenti e il loro impegno per il buon successo dell’impresa. Essi si
distinguono in base ai parametri di misurazione in: 1) premi di produttività, legati ad indicatori che
ricadono nella sfera di dominio e controllo dei lavoratori, costituiscono forme di retribuzione che
incentivano l’impegno lavorativo (in senso qualitativo); 2) premi di redditività, legati ad indici che
indicano il successo dell’impresa sul mercato ed il cui raggiungimento dipende da scelte strategiche
che non dipendono dall’impegno dei lavoratori, sono un modo di flessibilizzazione della
retribuzione e quindi di alleggerimento del costo del lavoro in periodi di difficoltà.
Gratifiche Le gratifiche sono elementi che integrano la retribuzione, differiti in quanto corrisposti
una volta l’anno per far fronte spese o bisogni particolari del lavoratore (ad es. la 13esima
mensilità).
Indennità Le indennità, previste soprattutto dalla contrattazione collettiva, servono ad adattare il
compenso complessivo del lavoratore a diverse particolarità del lavoro senza che si possa

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configurare la reintegrazione di una specifica perdita patrimoniale, danno o spesa subita dal
lavoratore a causa del lavoro.

D. L’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGO RETRIBUTIVO


1.L’adempimento dell’obbligo retributivo.
Adempimento dell’obbligo retributivo L’adempimento dell’obbligo retributivo è regolato dagli artt.
1176 e 1218 cod. civ. l’art. 2099 stabilisce che i tempi e le circostanze del pagamento devono essere
quelli in uso nel luogo dove il lavoro è eseguito.
La c.d. post-numerazione Secondo il principio della post-numerazione i pagamenti avvengono a
seguito dello svolgimento del lavoro e in periodi specifici stabiliti dai contratti (per lo più a mese
anche per gli operai ma con acconto a metà mese). Termini diversi sono previsti per gli elementi
differiti della retribuzione: ad es. scadenze annuali (per la 13esima mensilità).
La busta paga La L. n. 4/1953 obbliga il datore di lavoro a consegnare al lavoratore, al momento
della corresponsione della retribuzione, il c.d. prospetto di paga nel quale sono indicati nome e
qualifica professionale del lavoratore, periodo di riferimento, e l’elenco di tutti gli elementi che
compongono la retribuzione corrisposta, compresi gli assegni per il nucleo familiare, e delle relative
trattenute. La violazione di tale obbligo è sanzionata con un ammenda.

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CAPITOLO IX

LE SOSPENSIONI DEL RAPPORTO DI LAVORO

1.Fattispecie e tipologie.
Le varie ipotesi Avviene di frequente che il rapporto di lavoro venga sospeso per le ragioni più
varie: sciopero, aspettativa, malattia, assistenza ai figli in tenera età, serrata ecc.
La sospensione può essere totale o parziale e può essere dovuta a cause imputabili al lavoratore o al
datore di lavoro. Ciò che rimane sospeso non è il rapporto nel suo complesso, ma solo la
prestazione di lavoro.
Difformità dalla disciplina civilistica In diritto del lavoro contiene in questi casi principi speciali rispetto
alle regole generali dei contratti di scambio. Infatti, nei casi di impossibilità della prestazione la
regola generale è che il rapporto si estingue automaticamente se l’impossibilità è definitiva e totale
o quando si prolunga fino a far venir meno l’interesse del creditore al suo ricevimento. Invece gli
artt. 2110- 2111 cod. civ. sanciscono che l’impossibilità temporanea non estingue, ma sospende il
rapporto di lavoro per il periodo previsto, ed è garantita la conservazione del posto di lavoro.

A. SOSPENSIONI PER CAUSE INERENTI AL PRESTATORE DI LAVORO


1. Gli artt. 2110-2111 cod. civ.
Gli artt. 2110-2111 cod. civ. disciplinano i casi più rilevanti di sospensione per motivi attinenti alla
sfera del lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare).
Conservazione del posto In tali periodi il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per il
termine stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di
comporto). Per tutto il periodo di comporto il potere di recesso del datore è sospeso, salvo la
presenza di un fatto che determini gli estremi della giusta causa. L’eventuale recesso del datore avrà
efficacia differita alla fine della malattia o del periodo di comporto, escluso il caso della lavoratrice
in stato di gravidanza o puerperio.
Computo nell’anzianità di servizio I periodi di assenza dal lavoro vanno computati nell’anzianità di
servizio.

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Conservazione del reddito L’art. 2110 prevede anche la conservazione del reddito, stabilendo che in
mancanza di forme previdenziali equivalenti il lavoratore ha diritto alla retribuzione per il periodo e
nella misura stabiliti dalla legge, dal contratto collettivo, dagli usi o secondo equità.

2. Malattia ed infortunio.
Nozione di malattia Nel diritto del lavoro si definisce malattia ogni alterazione dello stato di salute
del lavoratore, che comporti un’incapacità al lavoro.
Conservazione del posto e del reddito La conservazione del posto è garantita per periodi variabili, di
solito in base all’anzianità di servizio del lavoratore e con esclusione dei dipendenti in prova.
Nel caso di infortunio la conservazione del posto dura fino alla guarigione certificata dall’IINAIL e,
nel caso di malattia professionale, fino a quando il lavoratore riceve dall’INAIL i relativi indennizzi
economici.
Per quanto riguarda il diritto alla conservazione del reddito è previsto che gli impiegati hanno diritto
al mantenimento della retribuzione a carico del datore di lavoro, integrale per un certo periodo di
tempo e parziale per un periodo successivo. Gli operai ricevono un’indennità previdenziale posta a
carico dell’istituto pubblico competente (INPS per la malattia e INAIL per l’infortunio), ma
anticipata dal datore di lavoro. L’indennità dovuta è del 60% della retribuzione normale.
Obblighi accessori del prestatore connessi alla malattia e controllo delle assenze da parte datoriale La regola del non
pagamento dei primi 3 giorni (c.d. carenza), giustificata dall’esigenza di limitare l’onere economico
per gli Istituti previdenziali e di scoraggiare fenomeni di assenteismo, è stata progressivamente
corretta dalla contrattazione collettiva, che ha imposto al datore di integrare in parte o in tutto la
retribuzione agli operai fin dal primo giorno di malattia.
La legge ha imposto ai lavoratori l’obbligo di reperibilità in determinate fasce orarie (ore 10-12 e
17-19 di ogni giorno anche festivo), salvo giustificato motivo, per la sottoposizione a visita medica,
pena la decadenza dei lavoratori da ogni trattamento economico fino a 10 giorni. Per permettere tali
controlli è previsto che il lavoratore deve comunicare al datore le cause dell’assenza:
immediatamente in caso di infortunio, entro 2 giorni in caso di malattia. Al datore è trasmessa
un’attestazione che indica l’inizio e la durata presunta della malattia e all’IINPS il certificato di
diagnosi, entrambi redatti dal medico curante. L’inosservanza di tali obblighi comporta la perdita
dell’indennità INPS per i giorni di ritardo, salvo che il ritardo sia giustificato da ragioni serie ed
apprezzabili.
Malattia reiterata Per quanto riguarda le malattie brevi e reiterate la contrattazione collettiva ha
distinto: 1) un comporto secco, che riguarda un unico episodio morboso; 2) un comporto per
sommatoria o improprio, che riguarda malattie reiterate. Il licenziamento è legittimo se i vari

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episodi di malattia che si sono verificati in un determinato periodo, sommati, superano il periodo di
comporto improprio. Se la contrattazione collettiva non ha fissato il comporto per sommatoria è
determinato dal giudice secondo equità.
Attività lavorativa in periodo di malattia La giurisprudenza non prevede il divieto di svolgere l’attività
lavorativa in periodo di dichiarata malattia.
Le cure idrotermali Per le cure termali è previsto il godimento per un periodo non superiore ai 15
giorni l’anno, solo per esigenze terapeutiche o riabilitative, su motivata prescrizione di un medico
specialista pubblico.

3. Gravidanza, puerperio e congedi parentali.


Il D. Lgs. n. 151/2001 La disciplina in materia di gravidanza e puerperio è contenuta nel D. Lgs. 26
marzo 2001, n. 151 che raccoglie in un testo unico le norme per la tutela ed il sostegno della
maternità e della paternità.
Il congedo di maternità pre-parto Per la lavoratrice madre naturale è previsto il c.d. congedo di
maternità pre-parto, con divieto di lavoro nei 2 mesi precedenti la data presunta del parto. Se il
parto avviene oltre tale data il divieto continua nel periodo tra la data presunta e la data effettiva del
parto. L’interdizione al lavoro deve essere anticipata in caso di complicanze della gravidanza o
quando le condizioni di lavoro o ambientali possono danneggiare la salute della gestante e del
nascituro.
Il congedo di maternità post-parto È previsto poi un congedo di maternità post-parto, che impone alla
lavoratrice madre di astenersi dal lavoro: Nei 3 mesi dopo il parto; negli ulteriori giorni non goduti
prima del parto, se il parto avviene in anticipo rispetto alla data presunta.
Dunque la donna gode di un congedo di maternità pari a 5 mesi. L’inosservanza di tali disposizioni
è punita penalmente con l’arresto fino a 6 mesi.
Flessibilità del congedo di maternità Le lavoratrici hanno la possibilità di usufruire di tale periodo anche
in maniera diversa, astenendosi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e
nei 4 mesi successivi al parto, nel caso in cui i medici per la sicurezza sul lavoro lo autorizzino.
Durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno diritto ad un’indennità giornaliera pari all’80%
della retribuzione normale. Essa è a carico dell’INPS anche se il datore di lavoro deve anticiparla,
salvo successivo conguaglio. I periodi di congedo vanno computati nell’anzianità di servizio.
Verso una tutela al di là del lavoro Gli interventi legislativi succedutisi in materia attestano come il
fondamento della protezione sia ormai sempre più nitidamente ricondotto alla maternità in quanto
tale e non più, come in passato, al solo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata. Infatti il
trattamento di maternità (ma facoltativo) è stato esteso anche alle lavoratrici autonome e alle libere

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professioniste. Inoltre leggi nazionali prevedono spesso un assegno di maternità ed un assegno


unico per il nucleo familiare, per la madre che non svolga alcuna attività lavorativa ed appartenga
ad una famiglia con limitate risorse economiche.

Divieto di licenziamento È nullo il licenziamento della lavoratrice nel periodo che va dall’inizio della
gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo casi eccezionali (colpa grave,
cessazione dell’attività aziendale...).
Convalida delle dimissioni Le dimissioni della lavoratrice possono anche mascherare un
licenziamento, per questo motivo è prevista la convalida del provvedimento da parte della Direzione
provinciale del lavoro e una tutela economica. Tali disposizioni sono estese anche al padre
lavoratore che abbia usufruito del congedo di paternità.
Diritto al rientro Al termine del congedo di maternità, la lavoratrice ha il c.d. diritto al rientro che
prevede: la conservazione del posto; il diritto all’adibizione alle precedenti mansioni o ad altre
equivalenti; al rientro nella stessa unità produttiva con diritto a permanervi fino ad 1 anno di età del
bambino (art. 56 T.U.).
Il congedo di paternità La giurisprudenza costituzionale prevede il riconoscimento al padre del
congedo post-parto per i primi 3 mesi del bambino, ma solo per casi particolarmente gravi e
tassativamente previsti (morte o grave infermità della madre, abbandono, affidamento esclusivo del
bambino al padre).
Adozione e affidamento Inoltre può essere chiesto un congedo di 3 mesi dalla lavoratrice o dal
lavoratore che abbia adottato un bambino cittadino italiano di età non superiore a 6 anni o uno
straniero fino al compimento della maggiore età; il congedo va fruito nei 3 mesi successivi
all’ingresso del bambino nella famiglia (artt. 26 e 31 T.U.). Il divieto di licenziamento si avrà fino
ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.
I congedi parentali Per consentire ai genitori di prendersi cura dei figli, la legge ha anche introdotto i
c.d. congedi parentali che attribuiscono la facoltà di astenersi dal lavoro e spettano a ciascun
genitore, per ciascun bambino, nei suoi primi 8 anni di vita. I genitori possono usufruire del
congedo sia separatamente che contemporaneamente. I congedi parentali non possono superare i
10 mesi per coppia (estendibile fino a 11 mesi se il padre utilizza almeno 3 mesi. Es. 5 mesi la
madre, 6 mesi il padre), ma il diritto può essere esercitato da ogni genitore per un periodo non
superiore a 6 mesi; se vi è un solo genitore egli può godere del congedo per un periodo non
superiore a 10 mesi (art. 32 T.U.).
Il trattamento economico La lavoratrice madre e il lavoratore padre, durante il congedo parentale,
hanno diritto ad un’indennità pari al 30% della retribuzione (corrisposta dall’INPS) fino al terzo

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anno di vita del bambino e per un periodo massimo di 6 mesi. Dal 3° anno di vita fino all’8° e per i
periodi successivi al 6° mese, l’indennità è dovuta solo se il reddito del genitore sia inferiore ad un
certo limite (art. 33 T.U.).
...e normativo I periodi di congedo devono essere computati nell’anzianità di servizio e non hanno
effetto sulla 13° mensilità o sulla gratifica natalizia e sulle ferie.
Congedi per genitori di disabile La lavoratrice madre o in alternativa il lavoratore padre di un minore
con handicap grave hanno diritto al prolungamento del congedo parentale fino a 3 anni, a
condizione che il bambino non sia ricoverato presso istituti specializzati (art. 33 T.U.).
Riposi e permessi Durante il primo anno di vita del bambino la lavoratrice madre dipendente può
usufruire di riposi giornalieri, di regola due ore retribuite al 100%. Tale diritto spetta al padre
lavoratore solo nel caso in cui vi rinunci la madre, in caso di grave malattia o morte di questa, in
caso di affidamento del figlio al padre, oppure se la madre non può usufruire dei riposi giornalieri
perché non ne ha diritto (se lavoratrice autonoma o libera professionista). In caso di parto gemellare
i riposi giornalieri sono raddoppiati. Particolari permessi sono previsti per i genitori con figlio con
handicap grave.
Congedi per malattia del figlio Entrambi i genitori, ma alternativamente, hanno diritto di assentarsi dal
lavoro (senza retribuzione) per le malattie del figlio, previo certificato medico che attesti la malattia
del bimbo: Nei primi 3 anni di vita del figlio per tutta la durata della malattia; dai 3 agli 8 anni del
figlio nel limite di 5 giorni lavorativi l’anno.
Sanzioni Il mancato rispetto di tali diritti è punito con sanzioni amministrative.
Divieto di licenziamento È nullo il licenziamento della lavoratrice o del lavoratore causato dalla
richiesta o dall’utilizzo del congedo parentale e per la malattia del bambino.

4. Servizio militare.
La garanzia del posto di lavoro e il decorso dell’anzianità (escluso il TFR) sono riconosciuti sia nel
caso di servizio dei leva, insieme al volontariato e al servizio civile e sia nel caso di richiamo alle
armi. La garanzia del reddito è prevista solo per il caso di richiamo alle armi.
Va ricordato che il reclutamento obbligatorio delle Forze armate è stato sospeso a partire dal 1°
gennaio 2005.

5. Altri casi di sospensione.


Esistono altre ipotesi, di natura legale o contrattuale, di interruzione temporanea dell’obbligazione
lavorativa con diritto alla conservazione dell’occupazione e talvolta anche del reddito.

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Disabili La legge riconosce al disabile il diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di
lavoro nel caso di aggravamento delle proprie condizioni di salute o di variazioni
dell’organizzazione del lavoro che non consentono la prosecuzione dell’attività lavorativa. In tale
periodo il prestatore può essere impiegato in un tirocinio formativo e potrà essere licenziato solo se
le competenti commissioni mediche attestino l’effettiva e definitiva impossibilità di reinserire il
lavoratore in azienda.
Congedi familiari Particolari congedi, con o senza retribuzione, sono previsti in determinate
circostanze familiari: morte o malattia di parenti prossimi, matrimonio ecc. Il congedo matrimoniale
è di 15 giorni consecutivi retribuiti per tutti i lavoratori.
Congedi formativi Il legislatore (L. n. 53/2000) riconosce ai lavoratori occupati di usufruire di 2 tipi
di congedi: i congedi per la formazione ed i congedi per la formazione continua.
Congedi per la formazione I congedi per la formazione o concedi sabbatici, sono diretti a completare
la scuola dell’obbligo, a conseguire il titolo di studio di secondo grado, il diploma universitario o di
laurea, alla partecipazione ad attività formative non predisposte dal datore di lavoro. Ne possono
fruire, per un periodo non superiore a 11 mesi, continuativo o frazionato, nell’intera vita lavorativa,
i dipendenti che abbiano almeno 5 anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda o
amministrazione. Il congedo per la formazione comporta la sospensione del rapporto di lavoro
senza retribuzione. I contratti collettivi disciplinano le modalità di godimento di tali congedi. Tale
periodo non è computabile nell’anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la malattia
e con altri congedi, ma è riscattabile ai fini previdenziali.
Congedi per la formazione continua I congedi per la formazione continua sono invece di tipo
aziendalistico che consentono al lavoratore, occupato o non occupato, di svolgere percorsi formativi
per tutto l’arco della vita al fine di accrescere le competenze professionali (di interesse anche del
datore). La contrattazione collettiva disciplina le modalità di godimento di tali congedi e le
modalità di orario e di retribuzione. Anticipazione del TFR Per agevolare ed incentivare il ricorso ai
congedi formativi, la legge prevede che può essere richiesta a tal fine l’anticipazione del TFR.
Nullità del licenziamento Il licenziamento causato dalla domanda o dall’utilizzo dei congedi formativi
è nullo. Permessi per motivo di studio I lavoratori studenti hanno diritto di fruire di permessi
giornalieri retribuiti per sostenere le prove d’esame, con l’obbligo di presentare, a richiesta del
datore, una idonea certificazione che attesta tale partecipazione. La contrattazione collettiva
nazionale ha esteso il diritto a permessi per motivi di studio anche oltre il giorno d’esame, per
determinate ore all’anno e senza retribuzione (250 ore). Lavoratori tossicodipendenti È previsto un
congedo di 3 anni, senza retribuzione e con la sospensione dell’anzianità, anche per il
tossicodipendente al fine di seguire programmi terapeutici e riabilitativi.

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Donatori di sangue e di midollo osseo Permessi retribuiti sono riconosciuti anche ai donatori di midollo
osseo, ai donatori di sangue e di emocomponenti che siano lavoratori subordinati.
Sospensione consensuale La sospensione può anche essere disposta con un accordo individuale, in cui
è lo stesso a stabilire i diritti e i doveri che derivano dalla sospensione del rapporto.
Funzioni pubbliche elettive I lavoratori che svolgono funzioni pubbliche elettive o di governo negli
enti locali hanno diritto ad un’aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato. In
alternativa, i consiglieri comunali e provinciali possono assentarsi dal servizio per il tempo
necessario ad eseguire il mandato senza perdita delle retribuzioni; mentre ai membri degli organi
esecutivi degli enti locali sono riconosciuti permessi retribuiti solo per lo svolgimento effettivo
dell’incarico entro un massimo di 48 ore mensili. Partecipazione alle operazioni elettorali La legge
permette di assentarsi dal lavoro per tutta la durata delle operazioni elettorali sia per coloro che
esercitano funzioni presso gli uffici elettorali, sia per i rappresentanti dei partiti o gruppi politici ed i
promotori dei referendum. Tali assenze vanno considerate giorni di attività lavorativa.

B. SOSPENSIONI DIPENDENTI DALL’IMPRESA


1. La Cassa Integrazione Guadagni: l’evoluzione normativa.
L’istituto della Cig La Cig è una forma di intervento pubblico sul mercato del lavoro diretta a
garantire la sopravvivenza dell’impresa e la tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori nei
periodi di crisi dell’attività aziendale. È un’ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro per fatti
inerenti all’impresa. Essa si rivolge ai lavoratori del settore privato per evitare o ritardare il più
possibile il rischio di perdere il posto di lavoro. Si tratta di una integrazione previdenziale versata a
favore del lavoratore sospeso o ad orario ridotto fino all’integrale ripresa della produzione.
L’evoluzione legislativa La Cig è stata introdotta dalla contrattazione collettiva corporativa all’inizio
dell’ultima guerra ed è stata poi recepita dalla legge che l’ha qualificata come una percentuale della
retribuzione, versata dall’ente pubblico (INPS) all’operaio sospeso o messo ad orario ridotto a
seguito di un’involontaria e breve interruzione dell’attività aziendale.

2. L’intervento ordinario e straordinario: “cause integrabili”, ambito applicativo, durata e misura


dell’integrazione.
L’intervento ordinario e l’intervento straordinario L’intervento ordinario (Cig) è uno strumento di
supporto ad un calo produttivo di breve durata. L’intervento straordinario (CIGS) è un mezzo si
ammortizzo di un ridimensionamento produttivo che ha una lunga durata. Tale differenza si
riconosce in diversi a spetti della disciplina.
Le cause integrabili Le cause che comportano l’intervento ordinario sono:

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- situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o agli operai;
- situazioni aziendali determinate da situazioni temporanee di mercato.
Per l’intervento straordinario le cause sono:
- ristrutturazione, riorganizzazione, o conversione aziendale;
- crisi aziendale individuata, sulla base di criteri ministeriali;
- fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o liquidazione coatta
amministrativa.
L’intervento straordinario è anche previsto in caso di stipulazione di un contratto di solidarietà
difensivo, per evitare una riduzione del personale.
Campi di applicazione L’intervento ordinario è limitato alle imprese industriali, anche se diverse
leggi lo hanno esteso ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura. Può ricorrere all’intervento
straordinario solo l’impresa con più di 15 dipendenti. All’inizio era riservato alla sola industria,
successivamente è stato esteso ad altri settori e alle cooperative di produzione e lavoro.
Lavoratori aventi diritto L’intervento ordinario ha riguardato per molto tempo solo gli operai, la L. n.
223 ne ha esteso l’applicazione ad impiegati e quadri, tanto da farlo coincidere con l’intervento
straordinario. L’intervento straordinario però ricomprende anche i soci delle cooperative di
produzione e lavoro.
Misura dell’integrazione L’ammontare dell’integrazione (ordinaria e straordinaria) è pari all’80%
della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non lavorate comprese fra le ore zero e il
limite dell’orario contrattuale, ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. Nei contratti di
solidarietà difensivi, l’integrazione salariale straordinaria è pari al 60% della retribuzione perduta in
seguito alla riduzione di orario.
Durata dell’integrazione L’intervento ordinario è previsto per tre mesi continuativi, con eventuali
proroghe trimestrali in casi eccezionali, fino a 12 mesi. I limiti di durata non si applicano in caso di
eventi oggettivamente non evitabili. La durata dell’intervento straordinario invece varia a seconda
delle cause integrabili:
- in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendali la sua durata è di 2 anni,
con eventuali altre 2 proroghe, ciascuna non superiore a 12 mesi;
- in caso di crisi aziendale la sua durata è di 12 mesi, prorogabili per altri 12 mesi;
- in caso di procedure concorsuali la sua durata è di 12 mesi prorogabile di 6 mesi;
- nei contratti di solidarietà difensivi il trattamento può essere corrisposto per un massimo di
24 mesi, prorogabili per altri 24 mesi (36 nel meridione).

3.Procedure, erogazione e finanziamento della Cig.

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La legge prevede obblighi di consultazione sindacale e precisi termini di decadenza per la


presentazione delle domande di ammissione al trattamento di cassa integrazione. Vi sono alcune
differenze tra le procedure relative all’ammissione alla cassa integrazione ordinaria e straordinaria.
Procedure di consultazione sindacale Nell’intervento ordinario è previsto che:
a) il datore deve effettuare una comunicazione preventiva alle RSA (o RSU) o, in mancanza,
alle organizzazioni sindacali provinciali di categoria più rappresentative, contenente la
durata prevedibile della contrazione o sospensione e del numero dei lavoratori interessati.
b) Solo in caso di eventi oggettivamente non evitabili che rendano non differibile la
contrazione o la sospensione dell’attività produttiva, è prevista una comunicazione
successiva.
Nella procedura relativa all’intervento straordinario invece, la comunicazione deve essere sempre
necessariamente preventiva.
In entrambi i casi (intervento ordinario e straordinario) può essere avviato(entro un termine
massimo), a richiesta imprenditoriale o degli organismi imprenditoriali, un esame congiunto della
situazione aziendale (e nell’intervento straordinario, del programma).
Procedura amministrativa Adempiuti gli obblighi di consultazione sindacale, il datore dovrà presentare
la domanda di ammissione al trattamento.
In entrambi i casi la domanda va presentata entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in cui è
iniziata la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro.
Nel caso di intervento ordinario, la domanda di messa in cassa integrazione va presentata alla sede
provinciale dell’inps.
Il programma di Cigs e il decreto ministeriale di concessione Nel caso di intervento straordinario, la
domanda va inoltrata al Ministero del lavoro, previo parere della Regione. Alla domanda va allegato
il programma (mirato al rilancio dell’attività e alla salvaguardia dei livelli occupazionali) che
l’impresa intende attuare (è lo stesso programma oggetto dell’eventuale esame congiunto).
Al Ministero è attribuita la competenza di approvare il programma con decreto e di concedere il
trattamento di integrazione salariale.
Modalità di pagamento Una volta concessa, l’integrazione salariale è anticipata dalla stessa azienda,
che la recupera con il sistema del conguaglio, trattenendo una somma corrispondente sui contributi
sociali da versare all’inps.
Nell’intervento straordinario però, è possibile, in caso di comprovate difficoltà finanziarie,
richiedere l’esenzione, con conseguente pagamento diretto da parte dell’inps.
Finanziamento Il finanziamento dell’integrazione salariale avviene con un contributo ordinario per
ogni dipendente (a carico dello stato nell’intervento straordinario e delle imprese nell’intervento

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ordinario), nonché con un contributo addizionale per ciascun cassintegrato a carico delle imprese. Il
contributo addizionale non è dovuto quando la Cig è giustificata da eventi oggettivamente non
evitabili.

4.Criteri di scelta, rientro in azienda, ricollocamento dei lavoratori.


Nello scegliere i lavoratori da porre in cassa integrazione, il datore deve applicare dei criteri
obiettivi e razionali, che rispettino i principi di correttezza, equità e buona fede e comunque, deve
evitare qualsiasi discriminazione. Questi criteri devono essere comunicati alle RSA ed essere
oggetto di esame congiunto.
Una novità introdotta dalla L. 223\’91 sta nella rotazione fra i lavoratori sospesi o ad orario ridotto.
Il datore non è assolutamente tenuto alla rotazione, ma eventuali motivi di impedimento al
meccanismo di rotazione dovranno essere comunicati alle OO.SS.
La L. 223\’91 prevede che i lavoratori, al termine del periodo di godimento del trattamento di
integrazione salariale, “rientrano in azienda”. , il rientro, da un lato, deve essere effettivo e la sua
efficacia non può essere degradata al mero equivalente economico; dall’altro non fa sorgere un
diritto alla stabilità del rapporto, cioè lo stesso lavoratore può, se ne ricorrono i presupposti, essere
licenziato (individualmente o collettivamente).
L’impiego dei cassintegrati Il lavoratore cassintegrato può svolgere attività di lavoro autonomo o
subordinato. Deve tuttavia darne preventiva comunicazione alla sede provinciale INPS, con
conseguente perdita dell’integrazione per le sole giornate di lavoro effettuate. In mancanza di tale
comunicazione il lavoratore decade dal diritto all’integrazione e l’eventuale datore deve versare una
somma a titolo di penale.

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CAPITOLO X

LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

1.Le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro.


Ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro L’estinzione del rapporto di lavoro può avvenire:
a) per recesso del datore di lavoro (licenziamento) o per recesso del lavoratore (dimissioni).
Il recesso unilaterale rappresenta il potere attribuito alle parti di sciogliere il rapporto con una
semplice comunicazione all’altra parte. E’ un diritto potestativo che rappresenta una deroga al
principio secondo cui il contratto può essere risolto solo per mutuo consenso. Il potere di
licenziare è fortemente limitato nel nostro ordinamento.
b) Per risoluzione consensuale. In questo caso non operano le limitazioni previste per il
licenziamento, ma altre limitazioni contenute nella L. n. 7/1963, con lo scopo di assicurare che
sotto l’apparente scioglimento consensuale non vi sia la sostanza di un licenziamento “coperto”
da un consenso estorto al dipendente (ad es. sono nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice
in occasione del matrimonio).
c) Per scadenza del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato.
d) Per altre particolari circostanze specificamente previste dalla legge (ad es. mancato ritorno in
azienda del lavoratore dopo il servizio militare, dopo la reintegrazione ex art. 18 St. lav.).
e) Per morte del lavoratore (salvi alcuni oneri economici in favore dei superstiti). Con la morte
del datore il rapporto non cessa, ma prosegue con i successivi titolari dell’impresa; esso si
estingue solo è strettamente legato alla persona del datore (ad es. per decesso dell’avvocato di
uno studio professionale).
f) Per impossibilità sopravvenuta e forza maggiore. Si distingue tra ipotesi riguardanti l’impresa o
il datore (requisizione amministrativa, ordine dell’autorità di evacuare i locali, fenomeni
naturali che abbiano distrutto i locali aziendali, stato di guerra) e ipotesi riguardanti il lavoratore
(carcerazione o accertamento sanitario di assoluta inidoneità al lavoro). L’opinione prevalente
ritiene che l’impossibilità sopravvenuta e la forza maggiore non rilevano come cause di
estinzione alla stregua del diritto comune, ma soltanto se rappresentano un giustificato motivo
oggettivo di licenziamento.

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Nel caso in cui un lavoratore divenga disabile nel corso del rapporto egli non può essere licenziato
se può essere adibito a mansioni equivalenti, o in mancanza, a mansioni inferiori.

2.Il recesso nella disciplina del codice civile.

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