INTRODUZIONE
legge)..
La legislazione sociale La seconda fase (quella della c.d. legislazione sociale) si colloca a cavallo tra la
fine dell’800 e l’inizio del 900, ed è caratterizzata, sotto il profilo penale, dalla fine della
repressione penale dell’attività sindacale, e sotto il profilo civile, dalla promulgazione di alcune
leggi in materia di lavoro volte a disciplinare alcuni aspetti particolarmente gravosi delle condizioni
di lavoro (la legislazione sociale). Infatti l’aumento dei lavoratori delle braccia, avvenuto dopo la
rivoluzione industriale, aveva determinato il diffondersi delle prime forme di autotutela, delle prime
lotte. L’aggravarsi della questione sociale portò all’approvazione di norme volte ad affrontare due
autentiche piaghe sociali della prima industrializzazione: lo sfruttamento delle mezze forze di
lavoro (fanciulli e donne) e il trasferimento del costo economico degli infortuni e delle malattie
professionali sulle spalle dei soli lavoratori lesi. Si trattava di una serie di disposizioni di legge
dettate in deroga ai principi del codice civile, che si affiancarono alla codificazione civile del 1865
per proteggere il lavoratore in quanto contraente più debole nel rapporto di lavoro.
2. Il periodo corporativo
Questa fase, che coincide col ventennio fascista, va dal 1926 all’estate del ’43 e si caratterizza per
un irrigidimento dell’intera struttura sindacale e per l’illiceità di qualsiasi forma di conflitto
(sciopero o serrata). In particolare:
- la legge del 1926 riconosce la personalità pubblica ad un solo sindacato di datori e
lavoratori per ogni categoria produttiva e solo i sindacati così riconosciuti, hanno ex lege la
rappresentanza di tutti i componenti della categoria sicché i contratti collettivi da questi
conclusi assumono efficacia per l’intera categoria (erga omnes), con effetti simili alle
norme di legge.
- Viene introdotta la magistratura del lavoro, chiamata a sostituirsi alle parti quando queste
non fossero in grado di mettersi d’accordo, private della possibilità di ricorrere allo sciopero
e alla serrata nuovamente considerati come reati;
- viene costituita la camera dei fasci e delle corporazioni con la legge del 1938.
In questo periodo viene elaborato il libro V del codice civile del 1942, “del lavoro”, che disciplina
sotto lo stesso titolo sia il lavoro dell’imprenditore individuale e collettivo, sia quello del lavoratore
subordinato e autonomo e si afferma inoltre la concezione gerarchica della comunità di lavoro, con il datore nel
ruolo di capo e il prestatore di lavoro subordinato in quello di collaboratore diretta all’interesse dell’impresa e di quello
superiore della produzione nazionale.
Con il corporativismo dunque i sindacati vengono trasformati in organi burocratici, privi di spinta
conflittuale e di effettiva rappresentatività.
3. La Costituzione
Con la caduta del fascismo (1943), la conseguente fine del corporativismo e l’emanazione della
costituzione (1948) si apre una nuova fase storica dello sviluppo del diritto del lavoro e delle
relazioni industriali.
Se con il codice civile del 1942 la disciplina del rapporto di lavoro aveva perso il suo carattere di eccezionalità a seguito
dell’inserimento nella codificazione unificata del diritto privato; con la costituzione, i principi fondamentali della
disciplina del rapporto di lavoro trovano una definitiva e più alta consacrazione nel testo costituzionale.
La costituzione in particolare dedica al rapporto di lavoro:
- l’art. 1 Cost., che pone come base dell’ordinamento repubblicano il lavoro, comprensivo di
ogni attività socialmente rilevante;
- l’art. 4 Cost., 1° comma, che riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro;
- l’art. 3, 2° comma, che sancisce il principio di uguaglianza sostanziale.
Oltre a questi principi, di portata più generale, nella Parte prima del titolo 3° (dedicato ai rapporti
economici) ve ne sono altri che si occupano del rapporto di lavoro e del fenomeno sindacale. Tra
questi spiccano:
- gli artt. 39 e 40 che riconoscono rispettivamente la libertà di organizzazione sindacale e il
diritto di sciopero.
- l’art. 35, 1° comma, che pone a carico della Repubblica la tutela del lavoro “in tutte le sue
forme e applicazioni”;
favorire l’assunzione dei giovani attraverso i contratti flessibili, quali quelli di formazione e lavoro;
e diretta a contenere la dinamica della scala mobile per rallentarne la ricaduta inflativa.
La scala mobile era un meccanismo di adeguamento automatico della retribuzione dei lavoratori dipendenti all’aumento
del costo della vita; l’aumento del costo della vita era a sua volta determinato sulla base della variazione del prezzo di
alcuni beni di consumo (il paniere). Lo scopo dell’introduzione della scala mobile doveva essere quello di mantenere
inalterato il potere d’acquisto salariale. A questo scopo dal 1946 fu prevista in Italia, sulla base della contrattazione
collettiva, la presenza di una quota integrativa del salario detta indennità di contingenza il cui importo, oltre a essere
proporzionato a fattori quali l'età o la qualifica del lavoratore, veniva periodicamente rivalutato in base alle variazioni
intervenute nei prezzi di alcuni beni e servizi ritenuti rappresentativi dei consumi della famiglia tipo (paniere). Tuttavia
lo stesso meccanismo della scala mobile innescava a sua volta dinamiche inflazionistiche, in relazione alla sue
connessioni con il PIL. Infatti un aumento dei salari al di sopra della produttività (per quanto in linea con l’inflazione
corrente) è causa di nuova inflazione. Se aumentano i salari e l’utile rimane invariato si genera un aumento della moneta
circolante non corrisposto da una crescita della ricchezza prodotta e dunque, una spirale inflazionistica. Questa
legislazione dell’emergenza mirava a favorire la difesa e la crescita dei livelli di occupazione, prevedendo l’estensione,
sia pure controllata e contrattata, delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro (contratto a termine e a tempo
parziale; contratto di formazione e contratti di solidarietà).
Inoltre nel corso degli anni ’70 matura un profondo cambiamento nel ruolo dello Stato nelle relazioni industriali. Da
mediatore che cerca di garantire le regole del gioco, lo Stato diviene un “giocatore” nelle dinamiche delle relazioni
industriali e vi interviene quale gestore di risorse proprie richiedendo ai sindacati comportamenti di moderazione, specie
salariale e di contenimento della conflittualità; e ai datori di lavoro richiede un tasso elevato, o almeno regolare,
d‘investimento. Tra i 3 attori delle relazioni industriali (Stato, sindacati e datori)si realizza in tal modo quello che è stato
definito “scambio politico”. La concertazione e l’intervento pubblico dunque danno vita allo scambio politico, i cui
primi frutti possono essere intravisti nei protocolli triangolari del ’77, dell’83 (protocollo Scotti) e dell’84 (protocollo di
S. Valentino, che inferse il primo duro colpo al meccanismo della scala mobile).
tal modo sotto la disciplina del diritto comune quasi tutto il rapporto di lavoro subordinato al fine di
rendere l’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni meno costoso e burocratico.
La riforma previdenziale Anche la materia pensionistica subisce delle importanti modifiche attraverso
l’introduzione della previdenza obbligatoria (L. n. 335 del 1995) e della previdenza integrativa (D.
Lgs. n. 124 del 1993).
La legislazione che riguarda il rapporto di lavoro è caratterizzata da due tendenze diverse:
- Una tendenza ri-regolativa diretta ad allargare l’area della tutela e ad adeguare la normativa
stessa all’evoluzione economico-sociale. Questa tendenza vedrà l’emanazione di diverse
leggi tra le quali quella sui licenziamenti individuali, quella sul riconoscimento delle pari
opportunità fra lavoratori e lavoratrici...
- Una tendenza de-regolativa (controllata) del secolo precedente, che rimette alla pubblica
autorità determinate situazioni del diritto del lavoro derogando alle norme imperative. Ne
costituiscono esempi la legge 223/1991, che delega al sindacato il delicato compito della
gestione dei processi di crisi e ristrutturazione delle imprese (l’individuazione di alternative al
licenziamento e la determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare collettivamente o da collocare
in mobilità); oppure la L 196/1997 (c.d. pacchetto Treu), che introduce il lavoro interinale e
rende flessibili una serie di istituti, tra cui l’orario di lavoro.
più quella dell’unanimità e valorizza la mediazione sindacale come strumento per realizzare
ed attuare la politica sociale comunitaria. Tale accordo, però, è stato firmato da undici stati
membri su dodici, con eccezione del Regno Unito, per cui inizialmente è rimasto un
semplice allegato al trattato privo di effetti.
- Il Trattato di Amsterdam , entrato in vigore nel 1999, realizzerà l’incorporazione
dell’Accordo nel Trattato originario. Questo trattato dedica il Titolo ottavo alle tematiche
occupazionali, promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri, per raggiungere obiettivi
comuni, cd. strategia europea per l’occupazione.
- Il Trattato di Nizza prosegue l’opera di unificazione con il fine di rifondare il diritto
europeo. A tal proposito è stata presentato il progetto di Costituzione Europea con lo scopo
di imporre valori e principi comuni tra gli Stati. E’ forte così l’intervento del diritto
comunitario sui diritti del lavoro nazionali. Ciò è dimostrato dalle diverse direttive che
hanno interessato il nostro ordinamento nella seconda metà degli anni ’90 e che il Patto
sociale per lo sviluppo e l’occupazione, intende recepire con il metodo concertativo.
Tuttavia molte materie giuslavoristiche sono ancora sottratte alla competenza comunitaria, mentre
altre restano soggette alla regola dell’unanimità.
Il Libro Verde e la flessicurezza La Commissione Europea, nel 2006, ha redatto un Libro Verde sulla
modernizzazione del diritto del lavoro: è un documento che sintetizza le opinioni degli Stai membri
e della Comunità sulla opportunità di promuovere la flessicurezza, capace di tutelare l’esigenza di
flessibilità (allentamento dei vincoli nella regolamentazione del rapporto) e la sicurezza dei
lavoratori, aumentando le tutele che operano sul mercato.
Il Trattato di Lisbona Il Trattato di Lisbona, del 13 dicembre 2007, abbandona l’idea di unificare la
precedente normativa europea in un solo testo di valore costituzionale (poiché il progetto si era
bloccato) e procede ad una rivisitazione degli attuali trattati, in particolare del trattato istitutivo del
1957 e del Trattato di Maastricht del 1992. Il Trattato è entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il
nuovo sistema istituzionale si fonda su due Trattati: il Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
8. Il rapporto Stato-Regioni.
La riforma del titolo V della Costituzione La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha riscritto il titolo
V della Costituzione. Essa in particolare inverte il rapporto tra legislazione statale e legislazione
regionale: l’art. 117 Cost. elenca, non più le competenze delle Regioni, ma le competenze esclusive
dello Stato. Ne deriva che la legislazione regionale ha una competenza residuale (è di competenza
esclusiva regionale ciò che non appartiene alla competenza esclusiva statale) che si definisce solo
successivamente rispetto alla determinazione dell’intervento esclusivo dello Stato.
L’endiadi “tutela e sicurezza del lavoro” Il legislatore della riforma include tra le materie oggetto di
competenza legislativa concorrente la tutela e sicurezza del lavoro. Al riguardo la dottrina ha
espresso diverse opzioni interpretative. Da un lato si è tentato di assegnare all’espressione tutela e
sicurezza del lavoro un significato pieno, coincidente con quello di “ordinamento giuslavoristico”.
Dall’altro l’espressione tutela e sicurezza va collegata con la competenza esclusiva dello Stato in
materia di “ordinamento civile”. Secondo quest’ultimo orientamento, che finora ha raccolto maggior consenso tra
gli autori, il diritto del lavoro, in quanto parte dell’ordinamento civile, resta di esclusiva competenza statale, con
l’eccezione della materia della tutela e sicurezza del lavoro, affidata alla competenza concorrente. In tal modo la
competenza regionale viene circoscritta all’attività amministrativa di tutela del lavoro (formazione, assistenza,
collocamento, incentivazione all’occupazione), e si scongiura il rischio di una federalizzazione dei diritti e delle tutele,
tutt’ora di competenza della legislazione statale esclusiva.
L’art. 120 Cost. sancisce che il Governo può comunque “sostituirsi a organi delle Regioni… nel caso di mancato
rispetto di norme e di trattati internazionali o della normativa comunitaria… ovvero quando lo richiedono la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali”; l’art. 117, 2° comma, lett. m) prevede che lo Stato mantiene, invece, la legislazione esclusiva in
tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il
territorio nazionale”.
All’inizio del decennio 2000 si avverte anche la necessità di riformare il diritto del lavoro al fine di
smontare la struttura tradizionale dello stesso, di impostazione garantista e di vocazione nazionale, a
favore di un sistema più flessibile e decentrato.
Tale processo di riforma ha inizio con Il Libro Bianco sul mercato del lavoro, che è un documento
programmatico di livello comunitario che propone una riforma del diritto del lavoro; il tema di
fondo è la flessibilizzazione del mercato del lavoro, che può realizzarsi attraverso:
- una distribuzione graduata delle tutele dei lavoratori con la previsione di un minimo di
garanzie anche per i rapporti di lavoro parasubordinato, come le collaborazioni coordinate e
continuative;
- una moltiplicazione delle tipologie di rapporto di lavoro, con la previsione di nuove
fattispecie (lavoro a progetto, lavoro intermittente, lavoro ripartito);
- L’accentuazione della deregolazione, specie sotto il profilo del rapporto tra contratto
collettivo e contratto individuale;
- La sospensione; temporanea e sperimentale, degli effetti di cui all’art. 18 St. lav., finalizzata
a promuovere l’occupazione.
La legge delega n. 30/2003 La sottoscrizione del Patto per l’Italia portò all’emanazione di una legge delega al governo,
la L. 30/2003 (legge Biagi) che, a sua volta, porterà al D. lgs. 276/2003, il quale eserciterà la delega in materia di
mercato del lavoro attribuita al governo dalla legge Biagi.
L’attuazione delle indicazioni programmatiche del Libro Bianco, non sarà integrale. Dal disegno
originario prefigurato dal Libro Bianco, infatti, verrà tolta la parte relativa alla sospensione degli
effetti dell’art. 18. La mancata sottoscrizione del patto da parte della CGIL è da ricondursi proprio
al rifiuto (della cgil) di accettare una riduzione delle tutele ai lavoratori, con particolare riguardo
alla parte relativa alla sospensione degli effetti dell’art. 18 St. lav. (reintegrazione nel posto di
lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo), introdotta sotto forma di possibilità di non computo di alcune
categorie di lavoratori (tendenzialmente i nuovi assunti per le imprese di dimensioni minori).
Dunque alla flessibilizzazione (scopo della L. 30/2003, pur carente della parte sul licenziamento) si
perviene attraverso una moltiplicazione dei rapporti atipici e il decentramento produttivo con lo
strumento della deregolazione. Tuttavia, a differenza delle precedenti esperienze deregolative,
stavolta alla deregolazione segue una ri-regolazione accentrata, in cui il ruolo del sindacato e della
contrattazione collettiva (cui nelle precedenti esperienze deregolative erano delegati i compiti di
riregolazione) risulta del tutto marginalizzato.
Il decreto legislativo n. 276/2003 Il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che recepisce la legge delega,
conferma la graduatoria tradizionale della gerarchia delle fonti, in cui la legge statale ha il ruolo di
protagonista, affiancata però dal Ministro del lavoro che può sostituirla in determinati casi; inoltre
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Il c.d. collegato lavoro Il finire del decennio è dominato dalla vicenda del c.d. Collegato lavoro, che ha
l’obiettivo di modernizzare il diritto del lavoro, così come previsto dalla riforma del 2003,
attraverso una individualizzazione della disciplina del rapporto ed il rafforzamento della procedura
di certificazione.
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CAPITOLO PRIMO
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disciplina del rapporto di lavoro subordinato (ed una conseguente estensione della relativa tutela).
Si è parlato in relazione a questo fenomeno, di espansione del diritto del lavoro subordinato.
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L’inserimento degli artt. 2094 e 2222 nello stesso libro del codice, il V, porta a considerare che
anche il lavoro autonomo può essere utilizzato come fattore produttivo dell’impresa. Qui, la durata
della prestazione, però può dar luogo a figure ambigue di prestatori di lavoro formalmente autonomi
ma di fatto dipendenti dal committente.
La parasubordinazione Tra l’autonomia e la subordinazione, così, la dottrina ha inserito la
parasubordinazione, una collaborazione nell’attività produttiva , che si realizza con forme di
lavoro autonome. È un’area che presenta profili propri della subordinazione (la debolezza o
soggezione economica del prestatore di lavoro) per questa ragione il legislatore ha avvertito
l’esigenza di estendere ad essi forme di tutela e istituti propri del lavoro subordinato. Così la L. N.
533/1973 (che riforma il processo di lavoro) ha esteso la disciplina delle controversie individuali di
lavoro anche ai “rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale e ad altri rapporti di
collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata,
prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
La collaborazione coordinata e continuativa Da questa definizione è nata la figura della “collaborazione
coordinata e continuativa” dotata di autonoma fisionomia grazie ai diversi interventi legislativi.
- Il requisito della continuità sta ad indicare la necessità di una collaborazione durevole nel tempo.
- La prevalente personalità , sottolinea che deve prevalere l’attività del lavoratore sugli altri fattori impiegati per
l’esecuzione dell’obbligazione prevista, anche sul capitale.
- Il requisito della coordinazione comporta un collegamento del collaboratore con l’attività economica del
committente.
Tale tipo di collaborazione prevede una certa libertà nell’esecuzione della prestazione, (per esempio sotto forma di
assenza di vincoli cogenti di orario di lavoro e conseguente libertà di organizzazione)ed è proprio questa libertà che
differenzia tale rapporto da quello previsto dall’art. 2094. Tale libertà, inoltre, giustifica la perdurante assenza di tutele
di tipo giuslavoristico.
La disciplina del lavoro parasubordinato Dal punto di vista della disciplina di tutela, il lavoro
parasubordinato non si differenzia da quello autonomo. Per quanto riguarda la possibile
applicazione delle norme previste per il lavoro subordinato, la giurisprudenza e la dottrina
maggioritarie ritengono applicabili a questo tipo di rapporto solo le norme relative al processo di
lavoro e l’art. 2113 c.c. Da circa un decennio la dottrina è impegnata ad elaborare importanti riforme in tale area.
Tra i progetti possiamo ricordare quello che prevede l’elaborazione dello statuto dei lavori (contenuto nel libro bianco),
che avrebbe lo scopo di superare la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato attraverso la previsione di un minimo
di tutele per tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi.
Il lavoro a progetto Un momento di svolta nell’evoluzione della disciplina dei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa si ha con il D. lgs. 276/03, che tenta di fare chiarezza dei
confusi rapporti tra le aree della subordinazione e dell’autonomia, introducendo il lavoro a
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agricole stagionali). I fruitori di tali attività lavorative non versano ai prestatori una retribuzione, ma appositi carnet di
buoni, che potranno essere convertiti in denaro presso rivendite autorizzate (nelle quali i buoni erano stati acquistati dai
fruitori). La differenza tra il valore dei buoni ed il compenso netto è detratta dal concessionario e versata, per conto del
lavoratore, in parte all’INPS, in parte all’INAIL. Il compenso è esente da imposizioni fiscali e non interferisce sullo
stato di disoccupato o inoccupato del prestatore.
Per le pubbliche amministrazioni, la stipulazione eccezionale di contratti di collaborazione
coordinata e continuativa deve essere legata a un’attività di lavoro di natura temporanea e altamente
qualificata, per la quale attività vi è un’impossibilità oggettiva di utilizzo dei lavoratori interni.
Il legislatore ha di recente stabilito che il ricorso a tali contratti “per lo svolgimento di funzioni
ordinarie o l’utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità
amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti”.
La forma Il contratto a progetto deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova e deve contenere
l’indicazione del progetto, della durata, delle forme di coordinamento al committente, delle misure
per la tutela e sicurezza del collaboratore. La mancanza dell’indicazione scritta del progetto, in
particolare, comporta l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 69, e cioè la presunzione di
subordinazione ( a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto).
L’art. 50 della L. n. 183/2010 prevede che se si accerta che i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa hanno natura subordinata e il datore di lavoro ha offerto la conversione a tempo
indeterminato del contratto in corso o l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti,
è tenuto solo ad indennizzare il prestatore con un’indennità di importo compreso tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione.
Disciplina A favore del collaboratore a progetto sono previste diverse garanzie, alcune si ricavano
dalla disciplina del lavoro autonomo contenuta nel codice civile (artt. 2222 ss.), altre nuove.
- Tra le prime rientra il criterio di proporzionalità previsto per la determinazione del corrispettivo, che dovrà
tenere conto dei compensi corrisposti per le stesse prestazioni di lavoro autonomo e dei contratti collettivi
nazionali di riferimento;
- Tra le seconde la previsione che la gravidanza, la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano
l’estinzione del rapporto, ma solo la sua sospensione, senza erogazione del corrispettivo e senza proroga della
durata del contratto (salvo il caso di gravidanza , per cui è prevista una proroga di 180 giorni).
La L. n. 296/2007 e la L. n. 247/2007 hanno riconosciuto, in caso di malattia e di maternità, oltre alla possibilità di
astenersi dall’attività lavorativa, il diritto di recepire apposite indennità da parte dell’INPS (in precedenza al lavoratore
in malattia era garantito il diritto al trattamento economico solo in caso di degenza ospedaliera).
Un’altra tutela è contenuta nel D. L. n. 185/2008, conv. in L. n. 2/2009 (legge anticrisi), che ha previsto un sostegno al
reddito in caso di assenza di lavoro per il triennio 2009-2011. È una somma, attualmente pari al 30%, del reddito
percepito l’anno precedente e il lavoratore a progetto ne ha diritto se opera in regime di mono-committenza e se sono
soddisfatti determinati requisiti reddituali e contributivi. Anche il lavoratore a progetto ha l’obbligo di rendersi
disponibile a svolgere un’attività lavorativa, già previsto per i soggetti beneficiari di forme di sostegno del reddito. Al
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lavoratore a progetto si applica la normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro se la prestazione lavorativa si
svolge nei luoghi di lavoro del committente.
Estinzione del rapporto Il legislatore stabilisce che il contratto si risolve quando si realizza il progetto,
o quando si raggiunge il risultato. Inoltre le parti possono recedere prima della scadenza per giusta
causa secondo le regole previste per il contratto di lavoro individuale.
Disciplina transitoria Il D. Lgs. 276/2003 aveva previsto l’anticipata cessazione delle co.co.co.
instaurate prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. Tale previsione è stata dichiarata
illegittima dalla Corte Costituzionale poiché fa cessare rapporti già instaurati senza progetto ma
leciti al momento della loro stipulazione. Essi, perciò, sono efficaci fino alla loro naturale scadenza.
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CAPITOLO II
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Contratto invalido ed effetti retrospettivi dell’art. 2126 c.c. Con la semplice esecuzione non si producono gli
effetti del contratto tipico, dunque non sorgono in capo al lavoratore l’obbligo di lavorare e in capo
al datore di lavoro l’onere di cooperare all’adempimento per poter corrispondere la retribuzione. In
tale circostanza non è riconosciuta nemmeno la tutela alla stabilità del posto di lavoro. Infatti la
giurisprudenza ha più volte affermato che il contratto di lavoro nullo non è equiparabile a quello
valido, e quindi al primo non si applica la disciplina che limita il licenziamento.
La prestazione invito domino Gli effetti dell’art. 2126 (retrospettivi) si producono solo se sussiste un
contratto (accordo per lo scambio tra lavoro e remunerazione), anche se invalido, e non si
producono nel caso di lavoro prestato invito domino, cioè senza il consenso o addirittura contro la
dichiarata volontà del datore di lavoro. In questo caso, il prestatore di lavoro potrà invocare solo la
disciplina sull’ingiustificato arricchimento (artt. 2041 ss. c.c.).
Il contratto per fatti concludenti La giurisprudenza, di fronte allo svolgimento di un’attività lavorativa,
presume vi sia il consenso del datore, dunque la prestazione si considera resa in esecuzione di un
contratto di lavoro (stipulato per fatti concludenti), salvo prova contraria da parte dell’imprenditore.
Il regime dell’art. 2126 è eccezionale rispetto alle normali conseguenze della nullità che, in genere, non è sanabile ed è
retroattiva. Nel rapporto di lavoro subordinato, anche quando il contratto sottostante è nullo, si conservano gli effetti
prodotti riconoscendo al lavoratore il trattamento economico e normativo per l’attività prestata.
L’illiceità dell’oggetto e della causa L’eccezionale regime disposto da tale norma non opera nel caso di
“illiceità dell’oggetto o della causa”; nel qual caso il prestatore potrà invocare solo la disciplina
sull’ingiustificato arricchimento. Solo se l’illiceità dipende dalla “violazione di norme poste a tutela
del prestatore di lavoro”, questi avrà comunque diritto alla retribuzione pattuita. Ad es., è il caso del
contratto con un minore che ha ad oggetto un’attività vietata per ragioni di sicurezza o di salute.
L’ipotesi di illiceità dell’oggetto e della causa si presenta “solo nei casi in cui il contratto sia
contrario ai principi di ordine pubblico e cioè a quelli etici fondamentali dell’ordinamento
giuridico”.
È generalmente esclusa l’applicabilità in via analogica dell’art. 2126 al di fuori del lavoro subordinato (ossia al lavoro
autonomo e parasubordinato).
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Età minima di ammissione al lavoro Secondo l’’art. 3, L. 977/1067, “l’età minima per l’ammissione al
lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e
comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”.
Tale previsione è stata modificata e integrata dalla L. n. 296/2006 che ha innalzato l’età per
l’accesso al lavoro da 15 a 16 anni, ritenendo obbligatoria l’istruzione impartita per almeno 10 anni
(dai 6 ai 16). Così l’età minima per l’accesso al lavoro coincide con l’età prevista per
l’assolvimento dell’obbligo di istruzione.
Bambini L’art. 4, 1° comma della stessa legge pone un divieto al lavoro per il “bambino” e cioè “il
minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico”.
Con il consenso scritto dei titolari della potestà genitoriale e l’autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro è
legittimo l’impiego del bambino in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario, purché ciò
non ne comporti un pregiudizio per la sicurezza, la salute, lo sviluppo, l’istruzione e la possibilità di formazione del
bambino. Speciali regole, dettate dalla L. n. 977/1967, disciplinano questo rapporto di lavoro.
Adolescenti Hanno, invece, piena capacità al lavoro gli “adolescenti”, cioè i minori con un’età
compresa tra i 15 e i 18 anni , non più soggetti all’obbligo scolastico.
Sono comunque vietate per gli adolescenti specifiche attività lavorative indicate dalla L. n. 977/1967, a meno che tali
attività abbiano un fine didattico e di formazione professionale,autorizzate dalla Direzione Provinciale del Lavoro.
Il difetto della capacità giuridica speciale La mancanza della capacità giuridica speciale, cioè dell’età
minima per l’ammissione al lavoro, comporta la mancanza di un elemento essenziale per la validità
del contratto e ne determina la nullità per illiceità dell’oggetto. Tuttavia, nonostante la nullità sia
dovuta all’illiceità dell’oggetto del contratto, resta comunque applicabile l’art. 2126 poiché,
attraverso l’assunzione di un minore che non ha la capacità al lavoro, il datore ha violato le norme
che tutelano il prestatore di lavoro nel qual caso il prestatore ha comunque diritto alla retribuzione.
La capacità di agire Nel diritto del lavoro la capacità di agire è la capacità di stipulare il contratto di
lavoro da parte di colui che ha l’età minima di ammissione al lavoro. Nel 1975 il legislatore, ha
abbassato a 18 anni il raggiungimento della maggiore età e ha stabilito che le leggi speciali possono
stabilire un’età inferiore in materia di capacità di prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è
abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.
La nuova disciplina è stato oggetto di letture contrapposte. Un parte della dottrina ritiene che il minore di 18 anni è
incapace di stipulare il contratto di lavoro, anche se può autonomamente esercitare i relativi diritti ed azioni. Altra parte
della dottrina ritiene che si deve ritenere legislativamente sancita la coincidenza tra capacità giuridica speciale e
capacità di agire.
Il difetto di capacità d’agire determina l’annullabilità del contratto. E, dal momento che il difetto di
capacità di agire non incide sulla liceità dell’oggetto del contratto, è senz’altro applicabile l’art.
2126 c. C..
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3. Il datore di lavoro.
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Se la capacità di lavoro del prestatore richiede il possesso di requisiti soggettivi speciali, nulla di
analogo è previsto invece per il datore di lavoro, applicandosi ad esso le regole civilistiche sulla
capacità giuridica e di agire destinate alla generalità dei soggetti.
Datore di lavoro non imprenditore Sul versante datoriale rileva la distinzione tra imprenditori e non
imprenditori (questi ultimi titolari di un’attività organizzata a fini non lucrativi). Questi ultimi sono
esclusi dall’ambito di applicazione di importanti normative di tutela del lavoro subordinato
(disciplina delle integrazioni salariali e sostegno dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro).
Pubbliche amministrazioni Significative evoluzioni si registrano nelle amministrazioni pubbliche. In
tale ambito la sottrazione al regime pubblicistico dei rapporti di pubblico impiego non ha tuttavia
eliminato la netta distinzione concettuale tra impresa privata e p.a. Pertanto alcuni tratti di specialità della
disciplina rimangono, nel rispetto delle norme costituzionali (art. 97 Cost) o al fine di perseguire al meglio l’interesse
pubblico o per l’esigenza di confermare il tradizionale favor per il dipendente pubblico (applicazione dell’art. 18 St lav.,
a prescindere dai limiti dimensionali).
La piccola impresa Infine, nel diritto del lavoro riveste particolare rilievo la dimensione dell’impresa. Sono numerose le
ipotesi in cui il legislatore condiziona l’applicabilità di determinate normative di tutela al superamento di una
determinata soglia occupazionale (si pensi ad esempio alla normativa sul licenziamento individuale, all’attività
sindacale nei luoghi di lavoro, alle procedure sindacali in tema di trasferimento d’azienda e licenziamenti collettivi, alle
assunzioni obbligatorie, ecc,).
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Una simulazione è assoluta, quando viene simulato (ad es. per ragioni fiscali o
previdenziali) un contratto di lavoro subordinato mentre le parti non vogliono dar vita ad
alcun tipo di rapporto. In tale ipotesi si applica l’art. 1414 cod. civ. secondo cui il contratto
simulato non produce effetto tra le parti;
Una simulazione è relativa, quando viene simulato un contratto diverso, ad es. di lavoro
autonomo, ma le parti intendono dar vita e di fatto danno vita ad un rapporto di lavoro
subordinato o viceversa. In questi casi troverà applicazione la disciplina del tipo di rapporto
che le parti hanno effettivamente realizzato.
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CAPITOLO III
27
b. l’introduzione della regola della assunzione diretta (L. n. 608/1996): che ha comportato
l’eliminazione, per il collocamento ordinario, agricolo e dello spettacolo, del vincoliamo
nelle modalità di assunzione;
c. il decentramento amministrativo: di funzioni e compiti dello Stato alle regioni e agli altri
enti locali (applicazione del principio di sussidiarietà verticale: la sussidiarietà verticale comporta una
distribuzione delle funzioni amministrative e/o legislative dal basso, sfoltendo quelle ritenute superflue e
conferendo alle amministrazioni territoriali quelle localizzabili nel rispettivo ambito di competenza, risalendo
di volta in volta al livello immediatamente superiore per le funzioni non localizzabili ); e la liberalizzazione
controllata dell’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro (in un’ottica di
sussidiarietà orizzontale che riguarda i rapporti tra pubblico e privato, tra istituzioni e società civile ed
economica, con una inevitabile ridefinizione tra potere sociale e politica ). La definitiva consacrazione
del decentramento e del principio di sussidiarietà verticale è avvenuta con la L. Cost.
3\2001, che riforma il titolo V della Costituzione. Il nuovo testo dell’art. 117 Cost.
attribuisce alle regioni una potestà legislativa concorrente in materia di tutela e sicurezza del
lavoro (collocamento, sostegno del reddito…). A fronte di questa frammentazione, la
garanzia di uniformità di prestazioni a livello nazionale è prevista dalla disposizione che
attribuisce allo stato la determinazione dei principi fondamentali, dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti diritti civili e sociali che dovranno essere garantiti su tutto il
territorio nazionale, dal potere sostitutivo del governo nei cfr. delle regioni e degli enti locali
nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione;
d. l’emanazione dei D. Lgs. 297/2002 e 276/2003 : che cambiano le regole del collocamento e
riorganizzano il mercato del lavoro riconoscendo la possibilità di svolgere l’attività di
mediazione tra domanda ed offerta di lavoro anche ai soggetti privati. Dunque l'intervento
pubblico nella mediazione tra domanda e offerta di lavoro (collocamento) diventa un
servizio senza un regime di monopolio, né vincolistico.
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Per le regioni a statuto ordinario la disciplina dell’organizzazione di tale sistema è contenuta nelle
leggi regionali, fornendo un modello preciso; Per le regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e Bolzano, il conferimento delle funzioni deve avvenire nel rispetto degli statuti
e attraverso apposite norme di attuazione.
Il sistema regionale/provinciale Alle Regioni è stato riconosciuto un ruolo di regia, coordinamento e
programmazione in materia di politica attiva del lavoro, mentre la gestione e l’erogazione dei
servizi per l’impiego è affidata alle Province che l’esercitano attraverso strutture periferiche, i così
detti centri per l’impiego.
Il ruolo dello Stato Allo Stato restano le competenze specificamente elencate e un ruolo generale di indirizzo,
promozione e coordinamento; competenze che sono esercitate dal “Ministero del lavoro e delle politiche sociali” che è
articolato in 8 Direzioni Generali. Il nuovo ministero è poi articolato in strutture periferiche, le Direzioni regionali e
provinciali del lavoro. Una riforma organica dell'attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale è stata
realizzata con il D.lgs. n. 124/2004: ora la funzione ispettiva si articola su tre distinti livelli di direzione e
coordinamento: centrale, regionale e provinciale, con un rafforzamento delle funzioni di prevenzione e formazione.
3. L’intervento dei privati nei mercati del lavoro. Le agenzie per il lavoro.
Cade il principio del monopolio pubblico del collocamento Il D. Lgs. 469/1997 ha attribuito anche alle
agenzie private la possibilità di svolgere l’attività di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro,
facendo venir meno un altro pilastro del vecchio collocamento, quello del monopolio pubblico.
La riforma del 2003. Le agenzie per il lavoro Il successivo D.lgs. 276/03 ridisegna tutta l’organizzazione
e la disciplina del mercato del lavoro, in un intreccio di norme che coinvolgono, oltre il
collocamento, la somministrazione e l’appalto.
Le agenzie per il lavoro Dal 2 giugno 2004 viene istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche
sociali un apposito albo, articolato in 5 sezioni, in cui vengono iscritti i soggetti (pubblici e privati)
autorizzati dallo stesso Ministero (oppure, laddove previsto, dalla regione) a svolgere attività di:
-Intermediazione, ossia attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro (ossia l’attività vera e propria di
collocamento, da non confondersi con l’intermediazione di cui alla L. 1369/1960).
-Somministrazione (fornitura professionale di manodopera).
-Ricerca e selezione del personale (attività di consulenza finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza del
committente attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative).
-Supporto alla ricollocazione professionale (attività effettuata su incarico del committente, volta alla ricollocazione nel
mercato del lavoro di lavoratori).
I 5 tipi Alle 5 sezioni dell’albo corrispondono 5 tipi di agenzie per il lavoro:
1. agenzie di somministrazione di lavoro c.d. generaliste, che svolgono sia la
somministrazione (fornitura di manodopera) a tempo determinato che indeterminato;
2. agenzie di somministrazione di lavoro c.d. specialistiche, che svolgono solo
somministrazione a tempo indeterminato in specifiche attività o servizi;
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La liberalizzazione Con la generalizzazione della c.d. assunzione diretta, nel 2003, il datore di
lavoro può stipulare direttamente il contratto di lavoro subordinato senza passare per il tramite degli
uffici pubblici e a prescindere da liste e graduatorie. Nel 2003 viene infatti prevista l’abrogazione di
gran parte delle liste di collocamento, del libretto di lavoro e della riserva per le fasce deboli. La
preferenza può cadere su qualsiasi lavoratore, nel rispetto però delle precedenze previste dalle
norme antidiscriminatorie e di quelle poste a garanzia della riservatezza individuale al fine di
evitare che la mancata assunzione di un soggetto avvenga per motivi extra professionali.
Le precedenze Esistono preferenze assolute (introdotte da norme speciali) a favore di certe categorie di lavoratori
nel caso di assunzione di personale da parte di determinati datori di lavoro:
a. a favore dei lavoratori licenziati per riduzione di personale o messi in mobilità, rispetto alle loro ex ditte che
effettuino richieste entro 6 mesi dal licenziamento;
b. a favore dei lavoratori che, a seguito di trasferimento d’azienda, rimangano alle dipendenze del cedente,
poiché ritenuti in eccesso rispetto alle esigenze del cessionario, nel solo caso in cui quest’ultimo effettui
assunzioni entro 1 anno dal trasferimento o un periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi;
c. in caso di assunzioni a tempo indeterminato effettuate entro i 12 mesi successivi, a favore dei lavoratori che,
nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, hanno prestato un’attività lavorativa
per un periodo superiore a 6 mesi, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi;
c. in caso di assunzioni a termine per lo svolgimento di attività stagionali a favore dei lavoratori in precedenza
assunti a termine per lo svolgimento delle stesse attività. Nelle ultime due ipotesi il diritto di precedenza può
essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro
rispettivamente 6 mesi e 3 mesi dalla cessazione del rapporto stesso e si estingue entro 1 anno dalla cessazione
del rapporto di lavoro.
Sanzioni per la violazione delle precedenze In caso di violazione, da parte del datore, del diritto di precedenza del
lavoratore si avrà (secondo la previsione dell’art. 8 del D. Lgs. n. 61/2000) la trasformazione del part-time in full-time:
il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno in misura corrispondente alla differenza tra l’importo della
retribuzione percepita e quella che gli sarebbe stata corrisposta con il passaggio a tempo pieno nei 6 mesi successivi a
questo passaggio (risarcimento del danno da responsabilità contrattuale, quantificato attraverso la valutazione
equitativa del giudice ai sensi dell'ex art. 1226 c.c.).
Regole particolari Sopravvivono poi regole particolari, che limitano la discrezionalità datoriale, per l’assunzione nelle
pubbliche amministrazioni e per alcuni sopravvissuti collocamenti speciali (disabili).
Le liste di collocamento ancora vigenti Non risulta più obbligatoria l’iscrizione nelle liste di collocamento, a parte
alcuni casi particolari. Così restano in vigore solo la lista speciale di collocamento prevista per la gente di mare, la lista
di mobilità e la lista di disabili ai fini del collocamento obbligatorio.
Invio di lavoratori italiani all’estero Restano in vigore, inoltre, dei vincoli particolari per i lavoratori italiani che si
rendono disponibili a svolgere attività di lavoro all’estero in paesi extracomunitari: la chiamata nominativa, il nulla osta
preventivo per l’assunzione e l’iscrizione ad una speciale lista di collocamento.
Adempimenti successivi all’assunzione All’atto dell’assunzione sorgono in capo al datore obblighi di
registrazione nel Libro unico del lavoro, di comunicazione agli uffici e di informazione al
lavoratore.
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Il Libro unico del lavoro I privati datori di lavoro, escluso quello domestico, i committenti di
collaborazioni a progetto o coordinate e continuative e gli associati in partecipazione, devono
formare il Libro unico del lavoro nel quale iscrivere i dati personali e contrattuali di tutti i lavoratori
subordinati, parasubordinati o gli associati in partecipazione con apporto lavorativo. Il Libro unico
del lavoro è entrato in vigore il 18 agosto 2008 ed a pieno regime il 17 gennaio 2009, comportando
l’abrogazione di tutti i libri e registi con questo incompatibili (es., libro paga e matricola). Tale
obbligo non è previsto per le Pubbliche Amministrazioni.
La comunicazione preventiva A partire dal 1° gennaio 2007, tutti i datori di lavoro privati, gli enti
pubblici economici e le pubbliche amministrazioni, devono comunicare in via preventiva – cioè
entro le ore 24 del giorno precedente a quello di instaurazione del rapporto – al centro per l’impiego
competente i dati anagrafici del lavoratore, la data di assunzione, quella di cessazione se il rapporto
non è a tempo indeterminato, il tipo di contratto, la qualifica professionale e il trattamento
economico e normativo, in ogni caso di instaurazione del rapporto di lavoro subordinato, autonomo
in forma coordinata e continuativa, o di associazione in partecipazione con apporto lavorativo da
parte dell’associato. Il mancato rispetto di questi obblighi comporta una sanzione amministrativa.
L’obbligo di comunicazione preventiva in alcuni casi subisce:
a) Una deroga totale, quando si tratta di Pubbliche amministrazioni e Agenzie di
somministrazione, in favore delle quali il legislatore ha previsto un regime speciale che
consente alle stesse di comunicare i dati del lavoratore al centro per l’impiego competente
entro il 20° giorno del mese successivo alla data di assunzione;
b) Una deroga parziale, per i casi di urgenza legata ad esigenze produttive, al verificarsi dei
quali la comunicazione completa può essere effettuata entro 5 giorni dall’instaurazione del
rapporto di lavoro, è sufficiente comunicare in via preventiva solo la data di inizio della
prestazione e le generalità del datore e del lavoratore;
c) Una deroga totale, per i casi di forza maggiore consentendo di effettuare la comunicazione
entro il primo giorno utile e comunque non oltre in 5° giorno successivo.
Informazioni in forma scritta al lavoratore All’atto dell’assunzione, prima dell’inizio dell’attività
lavorativa, i datori di lavoro pubblici e privati devono consegnare ai lavoratori una copia della
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro inviata al centro per l’impiego. In tal modo
viene implicitamente imposta la forma scritta al contratto di lavoro, ma non a pena dell’invalidità
del contratto, né per la sua prova, bensì soltanto a pena di una sanzione amministrativa.
5. Il collocamento mirato dei disabili.
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Il collocamento c.d. obbligatorio dei disabili, per quanto oggetto anch’esso di un’attività di riforma,
resta tuttavia fortemente caratterizzato da una disciplina vincolistica, consistente nell’obbligo
imposto a certi datori di lavoro di assumere lavoratori considerati deboli sul mercato del lavoro.
Collocamento mirato In materia la legge 68/1999 promuove l’inserimento e l’integrazione lavorativa
delle persone disabili nel mondo del lavoro, attraverso servizi di sostegno e di “collocamento
mirato” in modo che il disabile possa partecipare al processo produttivo al pari di qualsiasi
lavoratore sano.
I soggetti beneficiari: disabili Il collocamento obbligatorio è rivolto:
a. alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap
intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dalle
competenti commissioni mediche;
b. alle persone invalide per lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, accertata dall’INAIL;
c. alle persone non vedenti o sordomute;
d. alle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio.
Inoltre il legislatore prevede l'applicazione marginale del collocamento obbligatorio anche verso soggetti che disabili
non sono ma appartengono a categorie ritenute nel passato meritevoli di tutela (es. orfani e coniugi superstiti di coloro
che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio).
Collocamento obbligatorio I datori di lavoro pubblici e privati devono assumere disabili quando
raggiungono determinate soglie occupazionali. In particolare essi sono obbligati ad assumere:
- il 7% dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti;
- 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
- 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti. L’obbligo scatta quando viene effettuata
più di una nuova assunzione, aggiuntiva rispetto all’organico dell’impresa.
Eccezioni agli obblighi Sono indicati tassativamente dalla legge i casi di sospensione, di esclusione o esonero parziale
degli obblighi di assunzione.
Le liste dei disabili I disabili disoccupati, che aspirano ad una occupazione conforme alle proprie
capacità lavorative, si iscrivono in un elenco tenuto dagli uffici provinciali competenti la cui
graduatoria è determinata in base a criteri che possono anche variare da Regione a Regione. Per
ogni persona, il Comitato tecnico provinciale inserisce in una scheda le capacità lavorative, le
abilità, le competenze e le inclinazioni, la natura e il grado di minorazione e esamina le
caratteristiche dei posti da assegnare ai lavoratori disabili, favorendo l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro.
Modalità di assunzione Quando si verifica una scopertura nella quota di riserva, i datori di lavoro con più di 14
dipendenti devono inviare agli uffici competenti il prospetto informativo dal quale risulti la
situazione dell’organico aziendale e presentare, entro 60 giorni, richiesta di assunzione. Le
assunzioni obbligatorie possono avvenire sia mediante richiesta inviata dai datori di lavoro obbligati
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all'ufficio competente sia mediante convenzioni stipulate dagli stessi datori con l'ufficio
competente.
Richiesta numerica e nominativa La richiesta numerica (con la quale sarà l’ufficio competente ad inviare il disabile al
datore richiedente) è ancora simbolicamente la regola di questo sistema di avviamento al lavoro, anche se la richiesta
nominativa è ammessa in diversi casi.
Sanzioni La violazione dell’obbligo (di assunzioni obbligatorie) comporta sanzioni amministrative.
Sono inoltre previste diverse misure volte a spingere i soggetti obbligati ad ottemperare all’obbligo
spontaneamente, pena l’esclusione da benefici (ad esempio la partecipazione ad appalti pubblici).
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Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo a seguito della stipula del contratto di soggiorno e per la
durata di questo, ma non può comunque superare: a) in caso di lavoro stagionale, la durata di 9 mesi; b) in caso di
lavoro subordinato a tempo determinato, la durata di 1 anno; in cado di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la
durata di 2 anni. Il contratto di soggiorno è una figura atipica di contratto di lavoro, nel quale devono essere presenti, a
pena di nullità: a) la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio sicuro per il lavoratore;
l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore del Paese di
provenienza.
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sistema che regola l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e si permette allo Stato di mantenere
una vigilanza sull’andamento dei mercati regionali del lavoro.
L’orientamento Per orientamento professionale si intende l’attività diretta ad informare ed
indirizzare il soggetto verso un lavoro che tenga conto delle sue aspirazioni, delle sue competenze e
delle richieste del mercato.
La formazione professionale La formazione professionale è invece il momento di raccordo tra
l’istruzione e il lavoro, tra il diritto allo studio e il diritto al lavoro. La formazione professionale
consente di adeguare la qualità dell’offerta di lavoro alle esigenze della domanda. L’art. 117 Cost.
affida alle Regioni potestà legislativa primaria in materia di formazione professionale.
L’art. 3 del D. Lgs. n. 181/2000 L’art. 3 del D. Lgs. n. 181/2000 impone alle Regioni di fornire ai
soggetti più deboli sul mercato del lavoro alcuni servizi minimi essenziali per favorire l’incontro tra
domanda ed offerta. In particolare si prevede che i centri per l’impiego, o altri organismi autorizzati,
sottopongano i disoccupati e gli inoccupati a colloqui di orientamento, proposte di adesione ad
iniziative di inserimento lavorativo o di formazione o di riqualificazione professionale entro 3, 4 o 6
mesi dal momento dell’acquisizione dello stato di disoccupazione.
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terzo sottotipo che è destinato non a particolari categorie di lavoratori ma a particolari categorie di
imprese, cioè le piccole e medie che hanno diritto ad agevolazioni se assumono ricercatori,
dirigenti; in questo caso lo svantaggio riguarda l’impresa e non il lavoratore da assumere.
Anche il contratto di solidarietà espansivo ha lo scopo di incrementare l’occupazione (con una
riduzione dell’orario di lavoro) ma si tratta di uno strumento poco diffuso.
B. LA SOMMINISTRAZONE DI LAVORO
1.Il pregresso divieto di interposizione di manodopera e le garanzie per l’appalto lecito (L. n.
1869/1960).
L’ interposizione di manodopera è un’antica prassi, volta a liberare i datori di lavoro dalla propria
responsabilità giuridica ed economica nei confronti dei lavoratori, scaricandola su altri soggetti
(intermediari o interposti) così da potersi assicurare manodopera in maniera meno costosa e più
flessibile. Questo fenomeno è definita nel linguaggio del legislatore del 1960 come interposizione.
Divieto di interposizione La cattiva immagine lasciata nella storia dai raggiri e dagli abusi di
intermediari e reclutatori (che scomparivano quando dovevano adempiere agli obblighi nei
confronti dei lavoratori) hanno spinto il legislatore italiano a porre un divieto di interposizione per
via della compressione della tutela dei lavoratori e per la mercificazione della loro essenza.
Il sistema della L. n. 1369/1960 La L. n. 1369/1960 vietava quella condizione in cui un committente,
imprenditore o non imprenditore, si rivolgeva ad un altro soggetto, detto interposto, per richiedere
la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da questo, ma operanti
alle dipendenze del primo. L'interposto si rivelava un fantoccio che, privo di garanzie di solidità
economico-finanziaria, lucrava sull'attività interpositoria (facendo pagare un prezzo anche ai
lavoratori). Era così vietata la fornitura di manodopera, con sanzioni sia sul piano civile sia penale
in caso di violazione. La sanzione civile stabiliva che, eliminato lo schema dell'interposto, i
lavoratori fossero considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dirette di chi ne avesse effettivamente
utilizzato le prestazioni, tutelando gli interessi individuali, personali e patrimoniali del lavoratore
coinvolto nella fattispecie interpositoria. Con la sanzione penale (contravvenzione) si garantiva
l'interesse pubblico all'inderogabilità delle norme protettive poste a tutela del lavoratore
subordinato.
L’appalto lecito Oltre alla fattispecie vietata della mera interposizione fittizia, la legge del 1960
disciplinava anche quella dell’appalto “lecito”, in cui il fornitore non conferiva solo la manodopera
all’utilizzatore, ma apportava un complessivo servizio o un’opera compiuta, con l’utilizzo di una
propria organizzazione di mezzi, strumenti e personale gestiti a proprio rischio. Dunque l’elemento
che contraddistingueva l’appalto lecito era l’apporto di strutture materiali da parte dell’appaltatore,
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senza il quale la fornitura era limitata solo al personale , quindi illecita. Successivamente si sono
diffusi appalti a basso impiego di strutture materiali e con prevalente apporto del fattore lavoro
portando a considerare quale elemento di liceità il fatto che l’appaltatore organizzasse i fattori
produttivi e dirigesse i lavoratori impiegati.
Garanzie per i lavoratori nell’appalto lecito Tale tipologia di appalto lecito era comunque accompagnata
dalla garanzia di solidarietà tra appaltante e appaltatore per i crediti dei lavoratori impiegati da
quest’ultimo nell’appalto, e da un vincolo di parità di trattamento retributivo e normativo dei
lavoratori dipendenti dell’appaltatore pari a quello riconosciuto ai dipendenti dell’appaltante. Il
legislatore però non era favorevole al decentramento produttivo, dunque lo scopo era quello di
utilizzare il lavoro dell’appaltatore, per il minor costo.
Entrambi i tipi di appalto sono stati riformati dal legislatore.
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IL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO
1. Il distacco
Distacco o comando Il distacco o comando consiste nell’invio di un dipendente di un datore di lavoro
(c.d. distaccante) presso un diverso datore (distaccatario), con il permanere della titolarità del
rapporto e dell’obbligo retributivo e contributivo in capo al primo, anche se il lavoratore distaccato
viene assoggettato al potere direttivo, di controllo ed eventualmente disciplinare del secondo. Si
tratta di un’ipotesi di somministrazione di lavoro, che, seppur posta in essere non da un’agenzia
autorizzata, costituisce comunque uno strumento lecito di decentramento produttivo (decentrare
vuol dire scorporare o comunque affidare a terzi pezzi del processo produttivo la produzione di un
bene o di un servizio di una certa impresa).
Il distacco nel D. Lgs. n. 276/2003 Il distacco è oggi disciplinato dall’art. 30 del D. Lgs. n. 276/2003
che però non è applicabile alle pubbliche amministrazioni. Quest'ultimo considera il distacco come
ipotesi legittima di somministrazione di lavoro posta in essere da un soggetto che non esercita
professionalmente attività di fornitura di lavoro altrui. Lo schema è sempre quello della
triangolazione, in quanto anche col distacco si realizza quella temporanea dissociazione tra datore
formale e utilizzatore della prestazione di lavoro. Un datore di lavoro distaccante, per soddisfare un
proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto
(c.d. distaccatario) per eseguire una determinata attività lavorativa pur rimanendo direttamente
responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore.
Requisiti di liceità del distacco Il D.lgs n. 276/2003 ha confermato la prassi giurisprudenziale
precedente, ma ha anche introdotto nuovi elementi: ammette il distacco anche da parte di datori non
imprenditori purché dotati di un’autonoma struttura organizzativa; la prestazione del lavoratore
distaccato deve essere determinata, non potendo essere riconducibile ad una generica messa a
disposizione di manodopera.
Elementi di continuità con il passato, indispensabili per la liceità del distacco, sono:
- la presenza dell’interesse proprio del datore distaccante - se il distacco perseguisse
l’interesse dell’impresa del distaccata rio si avrebbe una somministrazione non autorizzata.
- la temporaneità del distacco, cioè non definitività.
Sanzioni per distacco illecito Il distacco che non rispetta tali requisiti configura un’ipotesi illecita di
decentramento produttivo ed è punito con la stessa sanzione della somministrazione illecita: su
domanda, il lavoratore interessato può ottenere l’imputazione del rapporto in capo all’effettivo
utilizzatore.
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Limiti al potere di distacco A tutela del lavoratore distaccato sono poi previste 2 regole che corrispondono a due limiti
imposti al potere del distaccante:
- il distacco che comporta un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;
- il distacco deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive
quando comporta un trasferimento ad una unità produttiva che si trova a più di 50 km da quella in cui il
lavoratore è adibito.
Distacco e riduzione di personale Inoltre il distacco può essere disposto per evitare il licenziamento del lavoratore,
rimettendo la decisione agli accordi sindacali.
Distacco nell’ambito dei gruppi transnazionali Per quanto riguarda il distacco di lavoratori all’estero, in Italia è stato
emanato il D. Lgs. n. 72/2000 che garantisce ai lavoratori distaccati, durante il periodo del distacco, la parità di
trattamento rispetto ai prestatori comparabili impiegati nel luogo del distacco ed il rafforzamento della garanzia
dell’obbligazione retributiva, attraverso la previsione di un regime di solidarietà tra distaccante e distaccata rio.
dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda (art. 2112) e di conservazione del posto, che si
realizza garantendo il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare dell’azienda o di un suo ramo.
Si è parlato di crisi di identità dell'art. 2112 c.c., poiché detto articolo, nato per garantire il mantenimento dei diritti dei
lavoratori e la continuità dell'occupazione, oggi viene spesso utilizzato per ridimensionare o dismettere da parte
dell'imprenditore settori di attività e quindi i dipendenti a questi addetti senza sottostare alla procedura e agli oneri
previsti per i licenziamenti collettivi e a prescindere dal consenso dei lavoratori ceduti.
Il collegamento con l’appalto Può accadere che l’acquirente di parte dell’azienda si impegna con il
cedente, attraverso un contratto di appalto, a fornirgli beni o servizi realizzati attraverso la parte
ceduta. Ciò si può verificare, ad es., quando una società automobilistica affida la costruzione dei pezzi in plastica
dell’autovettura ad una società specializzata in lavorazioni plastiche con connesso contratto di appalto, con il quale tale
società specializzata si impegna a fornire un certo numero di pezzi in plastica alla società automobilistica. In questo
caso appaltante e appaltatore sono obbligati in solido verso i lavoratori dipendenti dell’appaltatore
entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto.
I diversi interventi novellatori (del 2001 e del 2003) all’art. 2112 cod. civ. hanno ampliato:
- la definizione di trasferimento la nozione di “trasferimento. Per trasferimento si intende
qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità dell’azienda (o del ramo) a
prescindere dalla tipologia negoziale o del provvedimento sulla base del quale il
trasferimento è attuato. Quale che sia lo strumento utilizzato per attuare il trasferimento è consentito
all’imprenditore cedente di trasferire automaticamente i dipendenti addetti alla parte trasferita.
- La definizione di azienda il concetto di azienda. Oggi per azienda si intende una attività
economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità.
La smaterializzazione dei processi produttivi secondo il nuovo dato normativo l’art 2112 c.c. può essere
applicato anche quando ad essere trasferita è un’attività realizzata solo con l’impiego di un insieme di
lavoratori organizzati senza il supporto di un apparato strumentale, a condizione che non si tratti di una mera
sommatoria di prestazioni lavorative e che l'attività traslata si caratterizzi per un’insieme organizzativo. Una
simile lettura smaterializzata dell'azienda consente di estendere l'art. 2112 c.c., anche al trasferimento di
attività caratterizzate da elevato “contenuto umano”.
Applicabilità ai non imprenditori Resta aperta la questione concernente l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. e
dell'art 47 L. n. 428/1990, ai datori di lavoro non imprenditori. Di fronte all'attuale formulazione del 5° comma
dell'art. 2112 c.c., come novellato dal D.lgs. n. 276/2003, che definisce l'azienda “come un'attività economica
organizzata, con o senza scopo di lucro” dopo aver eliminato la specificazione prevista dal D.lgs. n. 18/2001
“al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”, ha portato certa dottrina ad includere nel campo di
applicazione della norma anche il caso in cui il cessionario sia un soggetto non imprenditore. L’art. 2112 c.c.
trova applicazione anche in caso di trasferimento di attività da parte delle pubbliche amministrazioni ad altri
soggetti, pubblici o privati.
Il ramo d’azienda Per ramo d’azienda si intende una parte autonoma di un’attività economica
organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento.
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Autonomia funzionale al momento del trasferimento nel D. Lgs. n. 276/2003 Il D,lgs. n. 18/2001 richiedeva come
requisiti per l'identificazione della “parte dell'azienda” la sua preesistenza rispetto al trasferimento e la conservazione
della propria identità nel trasferimento. Con le modifiche apportate con il D.lgs 276/2003 il legislatore ha
stabilito che per l'applicazione dell'art. 2112 c.c. è sufficiente che la parte di attività ceduta sia
dotata di autonomia funzionale, cioè di coesione funzionale e organizzativa , che può sorgere anche solo al
momento del trasferimento.
Art. 2112 cod. civ.: passaggio automatico dei lavoratori Se ricorrono gli elementi identificativi dell’azienda
o del ramo di azienda, il passaggio dei lavoratori addetti sarà automatico, con le garanzie dell’art.
2112 c.c., senza bisogno del consenso dei lavoratori. In caso contrario ( ad es, trasferimento di una
porzione di attività non idonea alla produzione di beni o servizi o di un segmento aziendale privo di autonomia
funzionale) si avrà l’ipotesi di cessione di singoli beni e di singoli contratti di lavoro, che richiede il
consenso del contraente ceduto, sicché il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare resterà
subordinato al loro consenso, ma non opereranno in loro favore le garanzie previste dall’art. 2112.
Le garanzie offerte al lavoratore in caso di trasferimento d’azienda sono diverse:
- Conservazione dei diritti e continuità del rapporto I lavoratori conservano i diritti già maturati
presso il cedente, tra questi la conservazione dell’anzianità di servizio maturata e dei
conseguenti diritti (scatti, progressione di carriera...);
- La responsabilità solidale e le sue deroghe È prevista una responsabilità solidale tra cedente e
cessionario, a garanzia dei crediti del lavoratore maturati nel rapporto con il primo. Il
lavoratore può decidere di liberare dalla responsabilità solidale uno dei due, nel rispetto di
precise modalità;
- Il contratto collettivo applicabile: l’ultrattività Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti
economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento,
fino alla loro scadenza, conferendo a tali contratti collettivi una sorta di ultrattività (in
deroga alle disposizioni civilistiche sull’efficacia del contratto), visto che la pattuizione
collettiva continuerà a produrre effetti (fino alla scadenza) nei confronti di un soggetto, il
cessionario, che non è parte dell’accordo. o sostituzione automatica per lo stesso livello Tuttavia,
se il cessionario applica uno specifico contratto collettivo, tale disciplina prevale e
sostituisce quella del contratto collettivo in precedenza applicato dal cedente. Ma ciò solo
nel caso in cui i 2 contratti siano dello stesso livello per evitare i potenziali effetti pregiudizievoli che
una sostituzione di contratti collettivi con contratti aziendali potrebbe cagionare ai lavoratori (sul presupposto,
non sempre corretto, che la contrattazione collettiva nazionale sia nel più favorevole di quella aziendale).
La deroga alle garanzie per le imprese in crisi Per agevolare il rilevamento ed il salvataggio di
aziende in crisi (crisi aziendale o dichiarazione di fallimento con accertamento del Ministero
del Lavoro) oggetto di procedure concorsuali, il legislatore ha stabilito una deroga alle
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garanzie in favore dei lavoratori, fin qui descritte. In tali casi, se viene raggiunto un accordo
sindacale circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione da parte del cessionario, le
garanzie di conservazione di tutti i diritti, di mantenimento dei trattamenti collettivi
pregressi, nonché l’obbligazione solidale tra cedente e cessionario, possono essere azzerate
o graduate dal medesimo accordo sindacale.
- La tutela del posto di lavoro Il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di
licenziamento (per evitare che il trasferimento d’azienda vanga usato come espediente per procedere a
licenziamenti senza osservare la disciplina prevista dal legislatore). . L’imprenditore può licenziare i
propri dipendenti solo se ricorre una autonoma giusta causa o un giustificato motivo, non
avendo rilievo il semplice trasferimento.
- Le dimissioni del lavoratore collegate al trasferimento Il lavoratore può presentare le dimissioni,
con preavviso, quando non accetta il trasferimento. Tuttavia, nel caso in cui le condizioni di
lavoro subiscano una sostanziale modifica per effetto del trasferimento, il lavoratore ha la
facoltà di dimettersi entro 3 mesi dal trasferimento con gli effetti propri del “recesso per
giusta causa” (art. 2119 c.c.), ossia senza dover dare preavviso e ricevendo l’indennità
sostitutiva del preavviso.
La procedura di consultazione sindacale È prevista, dall’art. 47 della L. n. 428/1990, una procedura
particolare per il trasferimento di azienda, quando l’azienda ha più di 15 lavoratori. Il cedente e il
cessionario devono comunicare per iscritto ai sindacati l’intenzione di trasferire l’azienda o un suo
ramo almeno 25 giorni prima del perfezionamento dell’atto da cui deriva il trasferimento.
L’esame congiunto I sindacati, entro 7 giorni dalla ricezione dell’informativa, possono richiedere per
iscritto che si apra un confronto con cedente e cessionario. Ed in tal caso, questi ultimi saranno
obbligati ad aprire un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione termina
quando, dopo 10 giorni dal suo inizio, non è stato raggiunto un accordo.
Sanzione Il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario degli obblighi di informazione e
di esame congiunto costituisce condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 St. lav. La violazione
tuttavia non inciderà sulla validità del negozio traslativo.
Precedenze nell’assunzione I lavoratori che non passano alle dipendenze del cessionario hanno diritto di precedenza
nelle assunzioni che quest’ultimo effettua entro un anno dalla data del trasferimento, o entro un periodo più esteso
stabilito dagli accordi collettivi.
CAPITOLO V
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1. L’obbligazione di lavoro.
L’obbligazione di lavoro Il rapporto di lavoro è quel rapporto, tra il datore di lavoro ed il lavoratore,
che si basa su 2 contrapposte obbligazioni fondamentali (di lavoro e di retribuzione) e su altri
obblighi e doveri reciproci fra di loro connessi alle obbligazioni principali. La prestazione di lavoro
è oggetto dell'obbligazione principale del lavoratore. L’obbligazione di lavorare è un’obbligazione
di comportamento (o di attività) che impone al lavoratore soltanto di tenere un certo
comportamento, e non di raggiungere un risultato specifico. Gli elementi che concorrono a
determinare la prestazione di lavoro sono diversi: il tipo di attività, la durata e il luogo di
esecuzione della prestazione.
Mansioni Per indicare l’ attività che costituisce oggetto dell’obbligazione di lavoro si fa riferimento alle mansioni del
lavoratore (art. 2103 c.c.). In relazione alle mansioni si stabiliscono qualifica e categoria. L'oggetto della
prestazione di lavoro è determinato solo in modo generico, con riferimento cioè alla serie di compiti
e quindi alle mansioni per le quali è stato assunto. La specificazione dei compiti di volta in volta
richiesti al lavoratore rientra nel potere direttivo del datore di lavoro. Le mansioni sono dunque
l’insieme dei compiti e delle concrete e specifiche attività che il lavoratore è chiamato ad eseguire e
che sono esigibili dal datore di lavoro.
Qualifiche e categorie La qualifica (carpentiere, tornitore) invece è un raggruppamento di mansioni ed
indica lo status professionale del lavoratore (identificato in base alle mansioni assegnate) e concorre con le
mansioni a determinare la sua posizione nella struttura organizzativa dell’impresa, e quindi il suo
trattamento economico e normativo. Benché sia la qualifica che la mansione concorrano entrambe a
determinare l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore e la sua posizione giuridica, esse si
distinguono, in quanto la qualifica indica l’oggetto generico dell’obbligazione lavorativa inerente
allo status professionale del lavoratore, mentre le mansioni individuano l’oggetto specifico
dell’obbligo, i concreti compiti che il lavoratore esegue in base alle direttive del datore.
Le qualifiche sono a loro volta raggruppate in entità classificatorie più ampie: le categorie. Il codice
civile (art. 2095) individua 4 categorie; operaio, impiegato, quadro e dirigente (il quadro è stato
aggiunto nel 1985).
Il codice (art. 2095) rinvia all’autonomia collettiva l’esatta determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna
categoria. Inoltre la terminologia contrattuale tradizionale inverte quella legislativa. La contrattazione collettiva parla di
“qualifica” per indicare le categorie legali (operaio, impiegato, quadro e dirigente) e di “categorie”, “livelli” o “profili
professionali” per indicare le classificazioni interne (operaio di 1° o 2° categoria o livello).
2. Le categorie dei lavoratori: impiegati e operai.
Distinzione fra impiegati e operai La distinzione tra impiegati e operai era contenuta nel R.D.L. n. 1825
del 1924, c.d. “legge sull’impiego privato”. L’art. 1 di tale legge definiva l’impiegato come colui che svolge
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attività professionale, con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, esclusa ogni prestazione che sia
solamente di manodopera. Successivamente si è dato rilievo al criterio della “collaborazione impiegatizia”, cioè alla
particolare funzione degli impiegati di collaborare ad attività organizzative proprie dell’imprenditore, e quindi di agire
in sua sostituzione.
La definizione di operaio si ha per esclusione, per cui è tale il prestatore che non può qualificarsi
impiegato.
Il processo di superamento della distinzione fra operai ed impiegati Il superamento della distinzione fra
operai e impiegati è avvenuto con il c.d. inquadramento unico, introdotto dalla contrattazione
collettiva, con il quale sono stati unificati i metodi di classificazione e di valutazione retributiva del
lavoro. Restano alcune differenze quali ad es. le diverse discipline contrattuali del periodo di prova,
di preavviso (entrambi più corti per gli operai) e alcune diversità della disciplina legale in tema di
previdenza e sicurezza sociale. La giurisprudenza ha evitato di forzare il superamento di tali residue differenze.
Comunque, la diminuzione delle differenze, a partire dagli anni '90, ha attenuato l'interesse sia della giurisprudenza che
della dottrina per la tradizionale questione della distinzione fra operai e impiegati.
2.1. I dirigenti.
Disciplina legale e contrattuale Per i dirigenti è prevista una disciplina legale speciale che è di tipo
prevalentemente “negativo”. Infatti molte disposizioni che prevedono tutele e garanzie a favore dei
lavoratori non si applicano ai dirigenti (in relazione al licenziamento, alla durata della giornata
lavorativa, alla durata massima settimanale, ecc.). Sotto il profilo contrattuale invece, la disciplina si
caratterizza in senso “positivo”. Infatti la contrattazione collettiva ha stabilito condizioni più
favorevoli rispetto agli impiegati ed operai nella maggior parte degli istituti. I dirigenti hanno,
inoltre, un trattamento economico e previdenziale più favorevole delle altre categorie.
Criteri di identificazione Se la specialità della disciplina è netta, non può dirsi altrettanto dei criteri
distintivi della categoria tra dirigenti e quadri. In mancanza di definizioni legali (l'art 2095 c.c.
rinvia alla contrattazione) l'identificazione di tali criteri è stata operata dalla giurisprudenza,
ricorrendo alle indicazioni contrattuali. La giurisprudenza tradizionale ritiene che il dirigente può
essere preposto alla direzione dell’intera impresa o a un ramo importante e autonomo di questa con
piena autonomia nell’ambito delle direttive dell’imprenditore. A partire dagli anni 80 però l’evoluzione
della società ha allargato la figura fino a comprendervi lavoratori del tutto privi di poteri direzionali e di autonomia. La
c.d. qualifica convenzionale Il riconoscimento della qualifica dirigenziale attraverso la contrattazione rende applicabile
la disciplina contrattuale, ma non basta di per sé a rendere applicabile a tali figure la disciplina legale speciale. I giudici
hanno cercato di tenere separata la qualificazione di dirigente ai fini legali da quella a fini contrattuali con il
riconoscimento della c.d. “qualifica convenzionale di dirigente”. Ma il tentativo non ha fermato la tendenza espansiva
della categoria. In realtà l'identificazione del dirigente, non può basarsi su criteri astratti e generali (come quello di alter
ego), ma deve risultare da un'analisi delle funzioni.
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Crisi dell’unitarietà della categoria La tendenza espansiva della categoria ha spinto parte della dottrina a mettere in
discussione la sua unitarietà. Infatti esistono al suo interno differenziazioni significative. A parte le norme legislative
che si riferiscono talora ai soli dirigenti, altre volte agli impiegati con funzioni direttive, la contrattazione collettiva
distingue spesso tra alta dirigenza e dirigenti. La giurisprudenza, da una parte, ritiene che la contrattazione collettiva
può prevedere tutele differenziate in base al diverso grado dei poteri attribuiti al dirigente, dall’altro, è divisa sulla
possibilità di applicare al licenziamento del dirigente le garanzie dell’art. 7 St. lav.
2.2. I quadri.
La nozione La L. N. 190/1985 definisce i quadri come quei lavoratori che, “pur non appartenenti
alla categoria dei dirigenti”, svolgono “funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza
ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. Ancora una volta il legislatore
affida alla contrattazione collettiva il compito di stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria.
La disciplina Gli aspetti di disciplina speciale individuati dalla L. n. 190 sono alquanto limitati e non sono nemmeno
collegati solo alla posizione di quadro, ma estendibili a tutti i prestatori che siano meritevoli di pari considerazione per
le mansioni svolte. Per gli altri aspetti non espressamente regolamentati, ai quadri si applicano le norme riguardanti la
categoria degli impiegati, salvo diversa espressa disposizione della contrattazione collettiva (art. 2, 3°comma, L. n.
190/1985). La difficoltà di delimitare la figura dei quadri, verso l’alto rispetto ai dirigenti e verso il basso rispetto agli
impiegati con funzioni direttive, è confermata dall'esperienza contrattuale successiva alla L. n. 190/1985; in generale
evidenzia la scarsa corrispondenza all'attuale realtà organizzativa del lavoro di classificazioni come quelle dell'art 2095
c.c., imperniate su categorie rigide.
La contrattazione collettiva L’orientamento dei sindacati confederali, in sede di contrattazione
collettiva nazionale, mostra una tendenza al contenimento della categoria. Tendenza che pare
confermata dalla Corte Costituzionale, la quale ha rilevato che la categoria rientra pur sempre
nell’ambito impiegatizio, sia pure inteso latu sensu, cosicché al riconoscimento sul piano legislativo
della nuova categoria professionale non è seguito un vero e proprio “riconoscimento” sul piano
sindacale.
3. Le mansioni e la qualifica.
Il principio di contrattualità Le mansioni del lavoratore sono contenute nel contratto. È il c.d.
principio di contrattualità delle mansioni confermato dall’art. 2103 cod. civ. il quale afferma che
il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Inoltre il datore di lavoro, al
momento dell’assunzione, ha l’obbligo di far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state
assegnate in base alle mansioni per cui è stato assunto.
L’individuazione delle mansioni e della qualifica avviene secondo modalità stabilite dalla
contrattazione collettiva. Tuttavia in mancanza di una indicazione contrattuale precisa delle
mansioni il punto di riferimento per stabilire la qualifica saranno le mansioni effettivamente svolte
in modo stabile nell’organizzazione del lavoro.
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L’identificazione della qualifica diventa così oggetto di frequenti controversie. Dato che i criteri di classificazione e di
gerarchia delle qualifiche sono fissati nella contrattazione collettiva senza indicazioni legislative, i parametri cui riferirsi
dovranno desumersi dalla stessa contrattazione. L'unica definizione legislativa specifica è quella della categoria di
impiegato (R.D.L. n. 1825/1924), che peraltro è sempre stata alquanto indeterminata ed è sempre più incerta. Non
maggiore importanza ha la definizione dei quadri contenuta nella L. n. 190/1985.
Qualifica oggettiva e soggettiva Base della valutazione sono le mansioni oggettive del rapporto, non le
caratteristiche professionali del lavoratore. La c.d. qualifica soggettiva del lavoratore, intesa come
insieme delle capacità personali professionali, non ha rilevanza giuridica nel nostro ordinamento.
Rilievi del titolo di studio Per cui si può verificare che un lavoratore, che ha un certa qualificazione professionale, sia
assunto in mansioni e qualifiche diverse, anche inferiori. In altri settori invece il titolo di studio costituisce elemento
decisivo per l’attribuzione di una certa qualifica, o condizione essenziale per acquisirla.
Mansioni polivalenti Possono esserci inoltre mansioni di assunzione polivalenti o promiscue. La polivalenza è
favorita nell’interesse di entrambe le parti; una maggiore flessibilità del lavoro e minore ripetitività dei compiti.
Mansioni promiscue Nel caso di mansioni promiscue (a cavallo fra qualifiche diverse), l'inquadramento può
presentare problemi. La giurisprudenza ritiene in tal caso di far riferimento alle mansioni di fatto prevalenti.
Rilevanza di qualifiche e categorie L’importanza delle qualifiche è diversa da quella delle categorie.
Mansioni e qualifica indicano l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore e quindi i tratti
essenziali del suo trattamento, a cominciare da quello economico. La qualifica è la posizione
fondamentale del lavoratore da cui deriva una serie di doveri/diritti concernenti il rapporto di
lavoro. Le categorie si determinano sulla base delle mansioni e qualifiche e consentono di
individuare alcuni aspetti del trattamento c.d. normativo del lavoratore, sia esso stabilito su base
legislativa o su base contrattuale.
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Una innovazione netta è stata introdotta dai primi anni '90 in quei contratti di categoria che hanno riformato il sistema
classificatorio. In particolare il contratto dei chimici ha sostituito i tradizionali livelli di inquadramento con nuove aree
(o categorie) professionali.
Gran parte dei contratti di categoria prevede apposite Commissioni paritetiche nazionali per la revisione delle
classificazioni (dei profili professionali) in base alle indicazioni provenienti dalla realtà aziendale. Ciò perché negli
attuali contesti produttivi, caratterizzati da grande mutevolezza tecnologica/organizzativa, una valutazione corretta del
lavoro non può raggiungersi con declaratorie statiche, ma solo adottando procedure flessibili di adattamento continuo
delle classificazioni alla realtà produttiva realizzabili a livello decentrato.
Controllo giudiziale Questa evoluzione contrattuale incide anche sul sindacato giudiziale e sui diritti
del singolo lavoratore all'inquadramento. Il controllo giudiziale è ammesso per verificare la
corrispondenza fra le mansioni concrete del singolo e la relativa classificazione, non invece sulle
regole classificatorie come tali che sono di competenza dell’autonomia collettiva. Il controllo del
giudice non è quello tradizionale per la mancanza di riferimento a regole classificatorie generali.
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datore poteva avvenire in maniera legittima sotto la veste formale del silenzio del lavoratore; che quest’ultimo preferiva
nel timore di perdere il posto di lavoro in presenza di una libertà di licenziamento.
L’art. 13 dello Statuto dei lavoratori Alle deboli garanzie dell’originaria disciplina ha rimediato l’art. 13
dello Statuto dei lavoratori, che ha riformulato l’art. 2103 cod. civ. Tale nuova norma (art. 13) ha
sollevato diverse controversie relative sia alla sua incidenza sullo jus variandi, sia sul significato dei
singoli limiti in essa stabiliti alle variazioni delle mansioni.
Non sembra accettabile la tesi secondo cui la norma avrebbe del tutto cancellato lo jus variandi dell'imprenditore e
implicherebbe la necessità del consenso del lavoratore. Lo Statuto mira infatti a limitare i poteri direttivi
dell'imprenditore, non ad eliminarli, conformemente alla contrattazione collettiva che il legislatore ha tenuto presente.
Le ultime mansioni effettivamente svolte Il richiamo della norma alle mansioni ultime effettivamente svolte
costituisce il termine di raffronto per giudicare le legittimità degli spostamenti.
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Nullità dei patti contrari Attraverso la previsione della nullità dei patti contrari, introdotta nell’art. 2103 dallo St. lav.,
si è corretta la lacuna della precedente disciplina (che consentiva di aggirare il divieto di demansionamento attraverso
modifiche consensuali). L’art. 2103 sancisce la nullità di quegli accordi individuali e collettivi che
realizzano un risultato vietato dalla norma stessa, ad es., l'adibizione a mansioni inferiori (c.d.
mobilità verso il basso).
In alcuni casi però lo spostamento a mansioni inferiori può essere disposto per soddisfare un
interesse qualificato del lavoratore; quello di evitare un licenziamento, giustificato da ragioni oggettive, ad es.
quando il prestatore non è più abile a svolgere il lavoro originario per invalidità permanente sopravvenuta, o in caso di
abolizione del posto di lavoro per motivi tecnologici, senza possibilità di reimpiego altrove.
Per cui la norma non esclude una variazione consensuale rispetto a mansioni diventate inagibili o
per invalidità incolpevole (es. per sopravvenuta inidoneità psico-fisica), o per modifiche oggettive
della struttura aziendale (es. come unica alternativa al licenziamento) nel qual caso è necessario
accertare la presenza effettiva di una situazione che non consente vie alternative al datore di lavoro.
Deroghe di fonte legale Dunque in alcuni casi il legislatore può prevedere l’assegnazione a mansioni
inferiori:
- per le lavoratrici madri, che temporaneamente vengono adibite a mansioni non
pregiudizievoli alla loro salute (anche inferiori) con conservazione della retribuzione
precedente.
- Per i lavoratori divenuti invalidi, per infortunio o malattia, durante il rapporto di lavoro i
quali non possono essere licenziati quando possono essere adibiti a mansioni inferiori.
- Per i lavoratori eccedenti , in alternativa al licenziamento collettivo. In questo caso la
dequalificazione è ammessa solo in presenza di un accordo sindacale.
Un filone giurisprudenziale, ricalcando la citata normativa, giunge a legittimare il mutamento in pejus delle mansioni su
mera richiesta del lavoratore per soddisfare un proprio interesse non ulteriormente qualificato. A volte il consenso è
desunto dal comportamento del lavoratore. Quest'ultima soluzione però accende il sospetto di un'operazione elusiva
della prescrizione posta dal nuovo art. 2103 c.c. Per un controllo sull'effettiva libertà negoziale del lavoratore appare
condivisibile la prassi di trasfondere gli accordi di dequalificazione in verbali di conciliazione avanti la Direzione
provinciale del lavoro.
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Il periodo continuativo e i casi di cumulo La giurisprudenza prevalente ritiene che per ottenere la
promozione tale periodo di svolgimento delle mansioni superiori deve essere continuativo ( e
intende i 3 mesi come mesi di lavoro effettivi, non di calendario), inoltre eventuali interruzioni di
tale periodo non concernenti esigenze produttive, ma effettuate dal datore per eludere l’applicazione
della norma (come nel caso di adibizioni reiterate a mansioni superiori per un periodo di poco
inferiore a 3 mesi), non impediscono il cumulo e quindi la promozione, perché sono in frode alla
legge o contrarie ad una esecuzione secondo buona fede del contratto. Inoltre si precisa che la
continuità non va intesa in senso rigido e quindi essa non si considera interrotta ad esempio dalle
ferie o dalla malattia (perché tali periodi non si computano).
L’eccezione La norma prevede un’eccezione alla c.d. promozione automatica quando lo
spostamento alle mansioni superiori è disposta per sostituire un lavoratore assente il quale ha diritto
alla conservazione del posto: malattia, infortunio, maternità/paternità...
Si ritiene che rientrano nel contenuto della norma anche le c.d. sostituzioni a cascata, cioè la promozione automatica
non è preclusa solo al sostituto dell’assente, ma anche ad altri sostituti che coprono il posto di chi sostituisce l’assente.
È illegittima la prassi di utilizzare alcuni lavoratori come supplenti permanenti del personale assente, perché in
contrasto con la temporaneità delle variazioni unilaterali prevista dalla norma. Il lavoratore spostato a mansioni
superiori ha diritto da subito al trattamento superiore corrispondente (art 2103 c.c.).
CAPITOLO VI
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2. Il dovere di obbedienza.
Obbedienza L’obbligo di obbedienza impone al lavoratore l’osservanza delle disposizioni impartite
dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali il lavoratore dipende per l’esecuzione e per
la disciplina del lavoro. In sostanza il lavoratore deve eseguire le disposizioni che derivano dal
potere direttivo e quindi l’obbligazione di lavoro conferitagli.
Limiti: la spersonalizzazione del rapporto Lo St. lav. ha avviato un processo di spersonalizzazione del rapporto di
lavoro per ridimensionare gli aspetti di soggezione giuridica del prestatore (l’inserimento del lavoratore nell’impresa,
pur mantenendo rilievo, non può far sì che lo stesso debba avere comportamenti che non siano ragionevolmente
richiesti da esigenze organizzative). Anche la giurisprudenza ha più volte sottolineato la necessità di ridimensionare il
dovere di obbedienza, tenendo conto dei limiti legali e contrattuali; così che il prestatore di lavoro potrà legittimamente
rifiutare (cd. Autotutela) l'esecuzione di disposizioni datoriali, se illegittime e contrastanti con i suddetti limiti,
assumendosi il rischio di essere considerato inadempiente nel caso in cui venisse accertata la legittimità dell’ordine
disatteso.
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obbligo di non concorrenza L’ obbligo di non concorrenza vieta al lavoratore di realizzare affari, per
conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore (con danno all’impresa). È un obbligo
del lavoratore più ampio del divieto di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.
Patto di non concorrenza Per la sua base contrattuale, l’obbligo di non concorrenza ha la stessa durata
del rapporto di lavoro ed in caso di violazione l’azienda può riottenere i compensi già erogati e
chiedere il risarcimento dei danni provocati dal lavoratore. Spesso si inserisce nel contratto una
clausola che prevede una penale da pagare in caso di inadempimento. Se si vuole estendere tale
obbligo anche dopo la cessazione del rapporto è necessaria un’apposita pattuizione c.d. patto di
non concorrenza, per la cui validità l’art. 2125 cod. civ. prevede alcuni requisiti:
limiti di durata massima del vincolo, che non deve superare i 5 anni per i dirigenti e i 3 anni per gli
altri; la forma scritta ad substantiam; la delimitazione del luogo e dell’oggetto dello stesso (delle
attività di concorrenza ancora vietate); la previsione di un corrispettivo a favore del lavoratore per
la ridotta possibilità di utilizzare le proprie capacità professionali. In quest’ultima ipotesi in caso di
violazione da parte dell’ex lavoratore, il datore potrà chiedere oltre al risarcimento del danno, anche
la cessazione dell’attività concorrenziale illegittima con un provvedimento giudiziale.
obbligo di riservatezza aziendale L’obbligo di riservatezza vieta la divulgazione di tutte le notizie di
carattere organizzativo e produttivo conosciute dal dipendente a causa del suo inserimento
nell’impresa (c.d. segreto aziendale), e l’utilizzo solo in caso di potenziale conseguente pregiudizio
per la stessa impresa. Sono esclude dal divieto quelle competenze e conoscenze professionali
acquisite dal lavoratore durante lo svolgimento della propria prestazione lavorativa che fanno parte
del patrimonio professionale dello stesso.
Esistono dubbi circa la possibile durata di tale obbligo. Alcuni ritengono che esso rimane in capo al
lavoratore finché resta l’esigenza cui è diretto, quindi anche dopo la cessazione del rapporto. Altri,
invece, ritengono che esso si estingue con la cessazione del rapporto di lavoro. In ogni caso tutti
concordano nel ritenere che, la violazione di tale obbligo successiva alla cessazione del rapporto di
lavoro determina l’ipotesi della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. o addirittura le fattispecie
delittuose degli artt. 622 (rivelazione di segreto professionale) o 623 (rivelazione di segreti
scientifici o industriali) cod. pen.
Obbligo di fedeltà e aziende di tendenza Nelle aziende di tendenza si ritiene che la fedeltà può essere stesa alla
personale adesione all’indirizzo ideologico perseguito solo se ciò risulta da una previsione contrattuale esplicita o tacita.
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Le invenzioni di servizio, aziendali, occasionali Tale disciplina è contenuta nel R.D. 29 giugno 1939, n.
1127 che regola i diritti e i doveri delle parti sulla base di tre ipotesi:
a) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’adempimento di un contratto di lavoro (c.d.
invenzioni di servizio), nel qual caso tutti i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione
appartengono al datore di lavoro;
b) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’adempimento di un contratto di lavoro,
realizzata nell’orario di lavoro, sfruttando le occasioni e le possibilità offerte dalla propria
posizione nell’impresa (c.d. invenzioni aziendali). In tal caso il datore mantiene i diritti
che derivano dall’invenzione, ma il lavoratore ha diritto ad un “equo premio”
proporzionato all’importanza dell’invenzione;
c) Quella in cui l’invenzione è realizzata nell’ambito dell’attività dell’impresa, ma
indipendentemente dal rapporto, fuori dall’orario di lavoro e con mezzi propri del
lavoratore (c.d. invenzioni occasionali). In quest’ultima ipotesi i diritti patrimoniali
spettano al lavoratore ma il datore ha diritto di prelazione da esercitarsi entro 3 mesi per
l’uso della stessa o per l’acquisto del brevetto.
all’interno dell’unità produttiva, quando è ispirato da intenti discriminatori o antisindacali, provati dal lavoratore .
Limiti: la giustificazione del trasferimento L’art. 13 St. lav. prevede che il trasferimento deve essere
giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Il giudice dovrà solo
accertare l’effettiva presenza di tali ragioni e il nesso di causalità tra queste ed il provvedimento
preso, senza richiedere la prova dell’inevitabilità del trasferimento.
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La comunicazione dei motivi Il datore ha l’onere di comunicare i motivi del trasferimento al proprio
dipendente, ma solo se c’è una sua richiesta, con applicazione della procedura del licenziamento
individuale non disciplinare.
Il trasferimento per incompatibilità e quello disciplinare Il trasferimento del lavoratore può essere disposto
dal datore anche per i comportamenti del lavoratore, in particolare nei casi di c.d. incompatibilità
ambientale (ad es. Rapporti difficili con i colleghi) in quanto causa di disorganizzazione aziendale.
I divieti di trasferimento Sono previsti limiti al potere di trasferimento a favore di particolari
lavoratori:
- per il dirigente sindacale è richiesto il previo nulla-osta delle associazioni sindacali di
appartenenza (art. 22 St. lav.);
- per il lavoratore che usufruisce dei congedi di maternità o di paternità è previsto il diritto al
rientro nella stessa unità produttiva o in altra dello stesso comune (art. 56 D. Lgs. 151/2001);
- per il lavoratore handicappato grave e per i suoi congiunti che lo assistono con continuità,
anche non conviventi, è previsto il consenso e il diritto di scegliere, ove possibile, la sede
più vicina al proprio domicilio (art. 33, L. n. 104/1992).
2. Trasferta e trasfertismo.
Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 13 sarebbe chiamato a disciplinare, non ogni modifica del
luogo della prestazione, bensì solo il trasferimento definitivo del lavoratore. Resterebbero così
escluse dalla disciplina di tutela altre fattispecie, quali il distacco, la trasferta ed il trasfertismo,
figure trattate prevalentemente dalla contrattazione collettiva, che vi ricollega solo uno speciale
trattamento economico (indennità di trasferta o di trasfertismo).
Trasferta e trasfertismo La trasferta si distingue dal trasferimento per la sua provvisorietà. Essa quindi
non incide irrimediabilmente sull’interesse del lavoratore alla dimora e alla vita di relazione connessa.
Il trasfertismo è il trasferimento di quei lavoratori obbligati per contratto a svolgere la propria
prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori (ad es. i viaggiatori e i piazzisti). In tali casi la
trasferta è una modalità normale, anziché eccezionale, della prestazione lavorativa.
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Orario massimo: il R.D.L. n. 692/1923 In Italia la legge base in materia di orario massimo giornaliero è
stata per diverso tempo rappresentata dal R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, integrato dai relativi
regolamenti di attuazione. Tale tipo di regolamentazione è stata successivamente confermata dagli
artt. 2107 e 2108 c.c. e dal 2° comma dell’art. 36 Cost.
Riduzione e rimodulazione degli orari di lavoro La disciplina legislativa e contrattuale mostrano, nel corso
degli anni, una tendenza alla riduzione della durata di lavoro e alla fissazione di nuovi regimi di
orario non più per proteggere la salute del lavoratore ma come mezzo per combattere la crescente
disoccupazione, anche al prezzo di riduzioni retributive. Una prima modernizzazione della
normativa sui regimi di orario si è avuta con la L. n. 196/1997, art. 13.
Nel frattempo, l'emanazione della Direttiva Ce n. 104 del 1993 sui tempi di lavoro e di riposo ha
sollecitato un intervento legislativo su alcuni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro.
Intervento a cui si è giunti soltanto dopo una condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia
Europea, con il D.lgs. 8 aprile 2003, n.66 (subito corretto dal D.lgs. 19 luglio 2004, n. 213).
La Direttiva CE e la riforma del 2003 Nonostante la direttiva fosse ufficialmente finalizzata a garantire
un più elevato livello di protezione dei lavoratori, l’intervento del legislatore italiano ha invece per
obiettivo la flessibilità nella gestione degli orari di lavoro in relazione alle mutevoli esigenze
produttive e organizzative.
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L’orario settimanale massimo Un’innovazione rispetto al regime precedente riguarda la disciplina della
durata massima complessiva (ossia comprendente anche gli straordinari) della settimana lavorativa.
La determinazione della durata massima settimanale dell’orario di lavoro è affidata ai contratti
collettivi (stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative). Questi in ogni caso
devono rispettare un limite legale di 48 ore per ogni periodo di 7 giorni . Tale limite però é calcolato
in modo flessibile. Esso infatti deve calcolarsi non settimana per settimana, ma come media in un
periodo non superiore a 4 mesi. Periodo che può essere elevato a 6 o a 12 mesi, per “ragioni obiettive,
tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi”. Dal calcolo della
media oraria complessiva sono escluse le ferie annue, i periodi di assenza per malattia e le ore di
lavoro straordinario se i lavoratori hanno beneficiato di corrispondenti riposi compensativi, in
alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive.
L’orario giornaliero La nuova legge non fa più riferimento ad una durata della giornata lavorativa.
Tuttavia, visto che la contrattazione collettiva può fissare tetti di orario giornaliero, una limitazione
di tale facoltà può essere ricavata dalla norma sul riposo giornaliero (art. 7 D. Lgs. N. 66/2003).
Tale articolo infatti riconosce al lavoratore il diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore e
della pausa obbligatoria di almeno 10 minuti; da ciò si ricava, attraverso un calcolo aritmetico, che
la durata della giornata lavorativa non può superare le 12 ore e 50 minuti.
Lavoro effettivo e pause I limiti (seppur indiretti) stabiliti dal legislatore si riferiscono al lavoro
effettivamente svolto. Sono esclusi dal computo i riposi intermedi (ad es. per i pasti), le soste di
lavoro di durata non inferiore a 10 minuti non recuperati, il tempo necessario per recarsi al lavoro, il
tempo impiegato per raggiungere la sede della trasferta, il tempo di semplice reperibilità, quello
impiegato per la timbratura del cartellino e per indossare gli indumenti da lavoro. Il D. Lgs. 66/2003
(attuativo della Direttiva 2003/88) fornisce una nuova nozione di orario di lavoro, più ampia di
quella previgente, intesa come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del
datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.Vanno infatti considerati
anche quei periodi nei quali in lavoratore non sia impegnato in attività di lavoro in senso stretto, ma
stia comunque mettendo a disposizione le proprie energie lavorative al datore di lavoro, essendo
comunque obbligato a restare sul luogo di lavoro, per poter fornire a richiesta del datore,
immediatamente la propria prestazione (ipotesi diversa dalla reperibilità, durante la quale il lavoratore non è
obbligato a restare sul luogo di lavoro).
La modifica unilaterale dell’orario di lavoro L’opinione dominante non riconosce al datore di lavoro un
potere unilaterale per la modifica dell’orario (e della retribuzione), che può essere effettuata solo
con il consenso del lavoratore. Invece un orientamento giurisprudenziale ammette le modifiche
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unilaterali della collocazione temporale dell’orario, quale strumento del potere direttivo del datore.
Ovviamente sono esclusi gli eventuali limiti negoziali concordati a livello individuale o collettivo.
Orario di lavoro nel P.I. La disciplina generale dell’orario di lavoro del D. Lgs. n. 66/2003 si applica
“a tutti i settori di attività pubblici e privati”.
Esclusioni dall’ambito di applicazione del regime generale dell’orario di lavoro Sono esclusi, invece da tale
normativa particolari attività indicate all’art. 2 del decreto: il personale della scuola, delle forze di polizia, delle forze
armate, gli addetti al servizio di polizia municipale e provinciale, la gente di mare, il personale di volo civile...
Le attività di rilevante interesse pubblico ( protezione civile, musei) sono in parte escluse dalla regolamentazione
generale dell’orario di lavoro in presenza di particolari esigenze relative al servizio prestato.
Eccezioni ai limiti di orario Il D. Lgs. 66/2003 inoltre indica un elenco di attività per le quali il limite di orario non
corrisponde alle 40 ore settimanali: per i lavoratori agricoli e gli altri lavori stagionali; per le industrie di ricerca e
coltivazione di idrocarburi; per i lavori discontinui; per i commessi viaggiatori e piazzisti; per gli operai agricoli a
tempo determinato; per i giornalisti professionisti; per il personale addetto alle aree operative, per assicurare la
continuità del servizio in particolari settori di attività ...(autostrade, azienda di raccolta, trattamento, smaltimento dei
rifiuti). Non sono soggetti a limiti di orario i lavoratori che hanno un potere di decisione autonomo.
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cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa comportare un pericolo grave
ed immediato o un danno alle persone o alla produzione; d) eventi particolari, come mostre, fiere e
manifestazioni collegata all’attività produttiva.
La maggiorazione retributiva ed riposi compensativi Il lavoro straordinario deve essere computato a parte
e compensato con maggiorazioni retributive, la cui determinazione è rimessa integralmente alla
contrattazione collettiva. Quest’ultima può anche consentire ai lavoratori di usufruire, in aggiunta o
in alternativa alle maggiorazioni retributive, di riposi compensativi (banca delle ore). Per
scoraggiare l’utilizzo del lavoro straordinario il legislatore aveva previsto l’obbligo per il datore di
pagare un contributo addizionale in una percentuale (dal 5 al 15%) della retribuzione erogata per le
ore di straordinario. Obbligo che però è venuto meno con la L. 24 dicembre 2007 (art.1). Inoltre con la
L. n. 133/2008 (art. 41) è venuto meno l’obbligo per il datore di informare la Direzione provinciale del lavoro i caso di
superamento delle 48 h settimanali di lavoro attraverso prestazioni di lavoro straordinario.
Lavoro supplementare Il lavoro che supera il limite di orario fissato dai contratti collettivi (ma entro
le 40 h legali) non è straordinario agli effetti della legge ma è definito come lavoro supplementare
(o straordinario contrattuale). Così, dove la contrattazione collettiva prevede un limite settimanale
di orario normale pari a 37 ore, al lavoro prestato oltre la 37ma (limite negoziale) ora ma sempre
entro la 40ma non si applica la disciplina legislativa sul lavoro straordinario, ma solo quella
contrattuale prevista per il lavoro supplementare.
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Limiti di durata del lavoro notturno L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore
complessive (cioè comprensive anche del lavoro straordinario) nel periodo di 24 ore. Salvo la
previsione di un periodo di riferimento più ampio delle 24 ore sul quale calcolare la media di 8 ore.
I contratti collettivi possono anche derogare a tali previsioni.
Lavoro notturno versus riduzione d’orario o maggiorazione retributiva La contrattazione collettiva inoltre ha
il compito di scegliere se attribuire le eventuali riduzioni dell’orario di lavoro o i trattamenti
economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni. Tale competenza è una novità rispetto
all’art. 2108 c.c. (che prevede la sola maggiorazione) al punto da far propendere per un’abrogazione
implicita della norma stessa.
Obblighi informativi Il datore di lavoro che ricorre al lavoro notturno ha una serie di obblighi
procedurali, derogabili dai contratti collettivi. Così il datore ha l’onere di informare e consultare le
RSA o RSU per l’introduzione del lavoro notturno, oppure in mancanza di queste le associazioni
territoriali dei lavoratori cui l’azienda aderisce o conferisce mandato.
Tutela della salute dei lavoratori notturni I lavoratori notturni devono essere sottoposti ad accertamenti
sanitari (da un medico competente o dalle competenti strutture sanitarie), preventivi e periodici,
almeno ogni 2 anni per verificare l’assenza di controindicazioni al lavoro notturno. In caso di
sopravvenuta inidoneità al lavoro notturno per motivi di salute il lavoratore verrà assegnato al lavoro diurno in altre
mansioni equivalenti se esistenti e disponibili. Nel caso in cui la contrattazione collettiva non ha fissato le modalità di
applicazione di tale disciplina e il datore dimostri l’inutilizzabilità delle mansioni esistenti il lavoratore verrà assegnato
a mansioni inferiori o licenziato per inidoneità, che costituisce giustificato motivo oggettivo.
Lavoro notturno degli apprendisti, dei minori e dei genitori Il decreto inoltre estende la nuova disciplina
dell’orario di lavoro, e quindi quella sul lavoro notturno, anche agli apprendisti maggiorenni (prima
esclusi dal lavoro notturno) a condizione che ne sia tutelata la salute. Gli apprendisti minorenni invece
non possono svolgere il lavoro notturno; possono però essere previste deroghe a tale previsione in
casi eccezionali.
La legge in esame prevede il divieto assoluto di svolgimento del lavoro notturno per le donne in
gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Inoltre il decreto stesso prevede 3
ipotesi nelle quali il lavoro notturno non deve essere obbligatoriamente prestato, cd. Diritto di
esenzione:
a) nell’ipotesi in cui la lavoratrice sia madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o
alternativamente il padre convivente con la stessa (in caso di rinuncia da parte della madre);
b) nell’ipotesi in cui le lavoratrici o i lavoratori siano l’unico genitore affidatario di un figlio
convivente di età inferiore ai 12 anni;
c) nell’ipotesi in cui le lavoratrici o i lavoratori abbiano a proprio carico un soggetto disabile.
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Regimi di orario: i turni Sono previsti anche altri regimi particolari di orario, come il lavoro a turni, che è un metodo
organizzativo del lavoro, anche a squadre in base al quale i lavoratori sono occupati negli stessi posti di lavoro secondo
un certo ritmo che comporta il compiere di un lavoro a ore differenti nel giorno o nella settimana.
giorni. Tali principi subiscono diverse deroghe per cui: sono considerati legittimi periodi di lavoro
anche superiori ai 6 giorni, a condizione,però, di garantire nel giro di 14 giorni di calendario almeno
2 riposi, ciascuno di 24 ore consecutive; sono escluse dal riposo giornaliero settimanale le attività di
lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra, le attività caratterizzate da periodi di
lavoro frazionati durante la giornata, il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari.
Coincidenza del riposo con la domenica Il riposo settimanale di regola coincide con la domenica.
Possono però essere previste diverse eccezioni. È consentito il riposo di 24 ore consecutive in un
giorno diverso dalla domenica, sempre nel rispetto della cadenza settimanale in particolari ipotesi:
per le attività industriali a ciclo continuo; per le industrie stagionali per le quali si abbiano ragioni
di urgenza riguardo alla materia prima o al prodotto dal punto di vista del loro deterioramento; per
servizi ed attività il cui funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche o soddisfi
interessi rilevanti della collettività o sia di pubblica utilità.
Lavoro festivo Il lavoro nella giornata domenicale dà diritto ad una maggiorazione retributiva
prevista dai contratti collettivi. In assenza di previsione negoziale sarà il giudice a determinare il
compenso. Il diritto alla maggiorazione viene meno quando il contratto collettivo già preveda per i
turnisti un trattamento più favorevole rispetto a quello degli altri dipendenti, anche attraverso la
previsione di ulteriori giorni di riposo.
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Oltre alle ipotesi autorizzate dalla legge, la prestazione di lavoro nella giornata festiva è illecita per
contrarietà a norma imperativa di legge (art. 2126 c.c.); la nullità non pregiudica il diritto del
lavoratore alla retribuzione.
Festività infrasettimanali Le festività settimanali sono 12, di cui 5 civili e 7 religiose. Durante tali festività i lavoratori
ricevono la normale retribuzione giornaliera. Se le festività capitano di domenica, i lavoratori ricevono una retribuzione
doppia. Il lavoro prestato per particolari motivi in tali giornate è retribuito con maggiorazioni. Diversi contratti collettivi
hanno previsto che le festività soppresse si debbano recuperare in aggiunta alle ferie annuali.
6. Le ferie.
L’art. 36, 3° comma, Cost. riconosce al lavoratore il diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite,
per la tutela delle esigenze fisiche e psicologiche dello stesso. La loro durata minima è di 4
settimane, elevabile dai contratti collettivi.
La c.d. introannualità delle ferie Il periodo di ferie è annuale, poiché spetta entro l’anno. In base al
principio di introannualità, poiché esso maturi non occorre aver prestato servizio per un intero
anno, in quanto il periodo di ferie matura in base ai giorni lavorati. Il lavoratore matura 1/12 delle
ferie per ogni mese di servizio prestato o frazione superiore a 15 giorni (che vale come mese intero).
Se il rapporto di lavoro cessa prima della maturazione o del godimento delle ferie, il lavoratore ha
diritto alla corresponsione di un’indennità sostitutiva proporzionale alle ferie non godute.
Servizio effettivo Le ferie maturano solo in presenza di effettiva prestazione lavorativa, anche se sono previste alcune
eccezioni. Il D. Lgs. 151/2001 esclude la maturazione delle ferie:
nei periodi di congedo parentale, di congedo per la malattia del figlio.
Vanno computati invece:
i periodi di congedo per maternità e secondo la giurisprudenza anche i periodi di assenza dal lavoro per malattia
e infortunio.
Godimento delle ferie La scelta del periodo feriale rientra nel potere dispositivo del datore di lavoro,
anche se spesso le condizioni di godimento delle ferie sono oggetto di contrattazione, aziendale e in
parte individuale. Continuità del periodo di ferie Il datore dovrà comunque rispettare il principio
secondo cui le ferie vanno godute per almeno 2 settimane entro l’anno di maturazione, mentre per il
restante periodo entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione. Inoltre è riconosciuto al
lavoratore il diritto di godimento consecutivo delle prime 2 settimane di ferie.
Retribuzione Il lavoratore ha diritto alla retribuzione globale giornaliera durante tale periodo.
Irrinunziabilità delle ferie Secondo il D. Lgs. 66/2003, il periodo minimo di 4 settimane non può
essere sostituito dall’indennità per ferie non godute, salvo che in caso di risoluzione del rapporto.
Ferie e malattia La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 2109 c.c. nella parte in cui
non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. L’orientamento
65
dominante attribuisce effetti sospensivi non ad ogni malattia, ma solo a quella che impedisca il
normale decorso delle ferie e ne precluda il raggiungimento delle finalità tipiche.
Esistono diversi altri periodi di sospensione dal lavoro: i vari tipi di permessi e aspettative sindacali e pubbliche; le c.d.
150 ore per lavoratori studenti; i permessi retribuiti diretti alla frequenza di corsi in scuole pubbliche o ufficialmente
abilitate...
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CAPITTOLO VII
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misure specifiche di sostegno volte ad assicurare una reale parità di trattamento, sostenendo le
categorie svantaggiate.
Il principio di non discriminazione nello St. lav. Non tanto una direttiva di eguaglianza, quanto piuttosto
l'imposizione di un esercizio non arbitrario dei poteri datoriali, viene sancita dall'art. 15 St. lav., che
dichiara nullo ogni atto o patto che rechi in qualche modo pregiudizio alla lavoratrice o al lavoratore
a causa del suo sesso, per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali e di lingua.
4. La tutela contro le discriminazioni per ragioni di sesso. Parità di trattamento e parità retributiva
nella L. n. 903/1977.
La parità di trattamento nell’accesso al lavoro La L. n. 903/1977 è stata la prima legge che ha di fatto
vietato le discriminazioni per ragioni di sesso. Tale norma, oggi risulta quasi completamente
abrogata e confluita in parte nel D. Lgs. n. 151/2001 (T. U. sulla tutela e sostegno della maternità e
della paternità) e in parte nel D. Lgs. n. 198/2006 ( codice delle pari opportunità tra uomo e donna),
vieta ogni discriminazione per sesso nell’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di
assunzione e dal settore di attività, anche nel campo della formazione e dell’aggiornamento
professionale.
...nella carriera La legge vieta anche ogni discriminazione fra uomini e donne nell’attribuzione delle
qualifiche, delle mansioni e nella progressione di carriera.
...e nella previdenza sociale La parità è prevista anche nell’area della previdenza sociale.
Il D. Lgs. 11 aprile 2006 n. 198, cd. Codice delle pari opportunità, definisce chiaramente le
discriminazioni per ragioni di sesso, distinguendole tra dirette ed indirette:
Discriminazione diretta per ragioni di sesso - La discriminazione sessuale diretta (discriminazione
individuale) consiste in qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto
pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. (es. rifiuto di
assunzione di una donna in gravidanza).
Discriminazione indiretta per ragioni di sesso - La discriminazione sessuale indiretta (discriminazione
collettiva) è qualsiasi comportamento pregiudizievole, da chiunque posto in essere, che si ha con
l’adozione di criteri formalmente neutri ed uguali fra soggetti, ma che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori di un sesso senza giustificazione alcuna, in quanto non
essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. (es. discriminazione economica tra part.timers e full-timers
dove i part.timers sono prevalentemente donne).
Dalla parità di trattamento alle pari opportunità: le azioni positive La L. n.125/1991 (oggi il codice delle pari
opportunità) riconosce, al fine di promuovere le pari opportunità, le c.d. azioni positive. Sono tutte
quelle iniziative dirette a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari
opportunità fra lavoratori e lavoratrici. Esse sono uno strumento di diritto diseguale, che tuttavia non contrasta
con l’art. 3 Cost., essendo di natura transitoria. Si tratta infatti di deviazioni dall’eguaglianza formale legittimate dal
perseguimento dell’eguaglianza sostanziale. Rientrano tra le azioni positive: esempi 1) gli incentivi per
l’imprenditorialità femminile; 2) la promozione di forme d’orario flessibile; 3) i corsi di formazione per le sole donne
per avvicinare le stesse a settori in cui sono sottorappresentate; 4)gli asili nido sovvenzionati a disposizione del
personale dipendente di sesso femminile.
Gli strumenti attuativi della parità nella L. 125/1991 L’attuazione delle azioni positive a favore delle donne
è affidata a diversi organi promotori. Il D. Lgs. n. 98/2006 disciplina le cd. Istituzioni di parità: “il
Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di
opportunità tra lavoratori e lavoratrici” e “le consigliere e i consiglieri di parità”.
Il CNP Il comitato nazionale di parità (CNP) è istituito presso il Ministero del lavoro per
promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che
limiti di fatto l’uguaglianza fra uomo e donna. Esso è composto da esponenti del Governo, delle parti sociali,
della società civile ed esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche. Il CNP formula ogni anno un
programma-obiettivo che contiene i progetti di azioni positive da promuovere, i soggetti ammessi e
i relativi criteri di valutazione.
I/le Consiglieri/e di parità I consiglieri e le consigliere di parità , nominati a tutti i livelli di governo
(nazionale, regionale e provinciale) hanno il compito di promuovere e di controllare il rispetto dei
principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per donne e uomini nel lavoro. Sono
pubblici ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria i reati di cui vengano a
conoscenza.
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Tutela giurisdizionale o sanzioni La L. n. 125/1991 affianca alla azione individuale in giudizio, sempre
a disposizione del soggetto discriminato, una azione istituzionale in giudizio, che può essere
promossa dal consigliere di parità competente per territorio autonomamente quando la
discriminazione ha rilevanza collettiva, o su delega del soggetto discriminato negli altri casi.
Onere della prova Inoltre, in tema di discriminazione, vi è l’inversione parziale dell’onere della
prova nel giudizio. Quando il soggetto ricorrente fornisce elementi di fatto che fanno presumere
l’esistenza di comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto (il datore)
l’onere della prova sulla inesistenza della discriminazione.
6.La tutela contro le discriminazioni per ragioni di razza o di origine etnica e le altre discriminazioni.
I D.lgs. 215 e 216 del 9 luglio 2003 contengono una definizione di discriminazione diretta ed indiretta per razza od
origine etnica, religione convinzioni personali, agli handicap, all'età e all'orientamento sessuale.
Si ha discriminazione diretta quando in ragione di tali motivi una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia,
sia stata o sarebbe stata trattata un'altra in una situazione analoga.
La discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto un patto o un
comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, di una
determinata religione o ideologia di altra natura o i soggetti portatori di handicap, o di una particolare età, o di un
orientamento sessuale, in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone.
Sul piano processuale il soggetto discriminato ha innanzitutto la possibilità di ricorrere al giudice per vedere dichiarata
la nullità dell'atto discriminatorio ai sensi dell'art. 15 St. lav. , come modificato dal D.lgs. n. 216; per il resto, la tutela
giurisdizionale prevista dai decreti in esame, ricalca il procedimento speciale già contemplato dal testo unico
sull'immigrazione
B. IL POTERE DI CONTROLLO
1. I limiti al potere di vigilanza: controlli nell’attività e visite personali.
Il potere di vigilanza e di controllo consente di verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa
venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro.
Limiti al potere di vigilanza: La disciplina dello Statuto dei lavoratori sottopone a specifici limiti il
potere di vigilanza del datore:
- l’art. 2 1.Le guardie giurate sancisce che le guardie giurate hanno solo il compito di tutelare
il patrimonio aziendale, e il datore non può servirsene per effettuare un controllo
dell’attività lavorativa.
- l’art. 3 2.Il personale di vigilanza sul lavoro impone al datore di lavoro di comunicare
preventivamente ai lavoratori i nominativi e le mansioni del personale di vigilanza sul
lavoro di cui intende avvalersi;
- l’art. 4 3.controlli a distanza sancisce che i lavoratori non possono essere controllati
attraverso impianti audiovisivi (es. televisioni a circuito chiuso) e altre apparecchiature
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dirette a sorvegliare a distanza l’attività dei lavoratori. Controlli a distanza possono essere
ammessi solo se richiesti da esigenze organizzative, produttive o concernenti la sicurezza
del lavoro, per cui il controllo sul lavoro ne è una conseguenza accidentale. Tali
apparecchiature, in quest’ultima ipotesi, possono essere installate solo a seguito di un
accordo con tutte le RSA (o RSU) o con la commissione interna. In mancanza di accordo il
datore di lavoro può ricorrere alla Direzione del Lavoro-Servizi Ispettivi che stabilisce le
modalità di uso degli impianti. Contro tale provvedimento è consentito il ricorso al Ministro
del lavoro;
- l’art. 5 4.controllo delle malattie vieta, in caso di assenza di lavoro per malattia, i controlli
realizzati dai c.d. medici di fabbrica (medici nominati e pagati dal datore). Il controllo sullo
stato di salute dei lavoratori può essere effettuato solo dai servizi ispettivi competenti
(INAIL per gli infortuni, ASL e INPS per le malattie). Questi sono tenuti a compierlo
quando il datore lo richiede, nel rispetto delle c.d. fasce orarie di reperibilità. Agli enti
pubblici spetta anche il controllo sulla capacità del lavoratore di proseguire il rapporto.
- L’art. 6 5.visite personale di controllo sul lavoratore vieta le visite personali sul lavoratore
(perquisizioni personali e sugli oggetti) che sono ammesse solo se indispensabili per la
tutela del patrimonio aziendale e a condizione che esse siano svolte all’uscita dei luoghi di
lavoro e riferiti a gruppi di lavoratori. È richiesto comunque un accordo sindacale o, in
mancanza, una decisione da parte della Direzione del Lavoro-Servizi Ispettivi.
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Il trattamento dei dati sensibili e giudiziari: la regola del consenso e dell’autorizzazione I dati sensibili rivelano
l’origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di latro genere, le opinioni
politiche, ecc. I dati giudiziari invece rivelano i provvedimenti giudiziari in materia di casellario
giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi
pendenti, o la qualità di imputato o di indagato.
Tali dati possono essere trattati solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione
del Garante per la protezione dei dati personali.
Eccezioni alla regola del consenso In alcune ipotesi il trattamento è ammesso (al datore) anche senza
consenso dell’interessato, a seguito della sola autorizzazione del Garante: 1) nel caso in cui il trattamento
è effettuato da organismi senza scopo di lucro a carattere politico, religioso o sindacale, con riguardo a soggetti che
hanno contatti regolari con essi (organizzazioni di tendenza); 2) nel caso in cui il trattamento sia svolto per adempiere a
specifici obblighi di legge per la gestione del rapporto di lavoro, incluso la sicurezza e la previdenza.
Accesso ai dati personali Il lavoratore ha diritto di accedere ai dati personali, di ottenerne l’aggiornamento la
rettificazione, l’integrazione, la cancellazione. Può inoltre opporsi, per motivi legittimi, al loro trattamento.
La disciplina sulla privacy è da considerarsi una regolamentazione aggiuntiva rispetto a quella
specifica di limitazione del potere di controllo del datore.
Comunicazioni telefoniche, posta elettronica, internet Importante è anche il tema dei controlli tecnologici
sulle comunicazioni telefoniche del lavoratore e sull’utilizzo del computer aziendale, della posta
elettronica e di internet. Al riguardo è possibile menzionare il caso di un dipendente, che aveva effettuato
conversazioni private con il telefono aziendale, per questo motivo licenziato. Permettendo in tal modo la registrazione
ad opera del datore dei numeri telefonici chiamati anche in assenza della procedura codeterminativa.
Per quanto riguarda il controllo del computer aziendale, c’è da verificare se questo è utilizzabile solo per scopi
professionali o anche per fini personali. Questioni sorgono in particolare per il controllo sull’uso della posta elettronica.
Secondo il Garante essa andrebbe protetta come qualsiasi altra corrispondenza, con conseguente piena applicabilità
della normativa penale, che protegge le comunicazioni personali. Ma la giurisprudenza ha ritenuto che il datore non
commette reato quando controlla la posta elettronica a causa della natura aziendale dell’indirizzo e-mail.
Inoltre i giudici hanno considerato legittimo il licenziamento di un prestatore di lavoro, disposto a seguito di un
controllo sulla rete aziendale da cui erano emersi collegamenti giornalieri sul web di durata lunghissima per scopi
personali. In tale ambito però è assente una disciplina nel nostro ordinamento. Il Garante ritiene che la miglior tutela
della riservatezza delle comunicazioni personali si realizza con la prevenzione delle condotte illecite del personale (ad
es. dando a questi carte a pagamento per le telefonate private).
C. IL POTERE DISCIPLINARE
1.Il fondamento del potere disciplinare.
Il potere disciplinare indica la facoltà del datore di lavoro di irrogare sanzioni al lavoratore che non
rispetta i suoi doveri contrattuali e gli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà (artt. 2104-2106
c.c.).
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2. I requisiti sostanziali.
Il potere disciplinare può essere esercitato solo in presenza di alcuni requisiti. In particolare deve
esserci:
1. la sussistenza del fatto addebitato : è necessario quindi che il fatto addebitato al lavoratore
sussista in concreto. Spetta al datore di lavoro l’onere di provarlo, mentre il lavoratore ha l’onere
di discolparsi;
2. la proporzionalità tra infrazione e sanzione : il compito di controllare la proporzionalità è
svolto dalla contrattazione collettiva, ma in caso di contestazione può esserci anche il controllo
del giudice. La recidiva Sul rapporto di proporzionalità influisce l’eventuale recidiva, cioè il
fatto che una determinata infrazione sia già stata sanzionata; ma secondo l’art. 7 St. lav. non può
tenersi conto delle sanzioni disciplinari una volta decorsi 2 anni dalla loro applicazione.
3. I requisiti “procedimentali”.
Il potere disciplinare inoltre va esercitato secondo specifiche modalità. Il mancato rispetto di tali
procedimenti determina l’inesistenza dello stesso potere e quindi la nullità della sanzione. In
particolare, secondo l’art. 7 St. lav, per poter irrogare una sanzione disciplinare è necessaria:
a. La preesistenza del codice disciplinare aziendale, cioè di un testo che contenga le infrazioni
e le relative sanzioni, al fine di evitare la creazione ex post delle une e delle altre. Le sanzioni
legali sono il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa per un massimo di 4 ore e la
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni. Non possono essere
disposte sanzioni disciplinari che comportano mutamenti definitivi del rapporto di lavoro
(trasferimento...) salvo il caso in cui ve ne siano i presupposti;
b. La pubblicità del codice disciplinare , che deve essere portato a conoscenza dei lavoratori
attraverso affissione in un luogo accessibile a tutti;
c. La preventiva contestazione dell’addebito , per cui il datore non può irrogare la sanzione al
lavoratore senza avergli comunicato l’addebito (per iscritto) e senza averlo sentito a sua difesa.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce
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74
Misure generali di tutela e soggetti della sicurezza Il sistema si fonda ora sul principio della prevenzione,
che si realizza attraverso una valutazione di tutti i rischi presenti in azienda. Lo scopo è quello di
eliminarli alla fonte, o comunque di ridurli al minimo attraverso una attenta programmazione degli
interventi che coinvolge diverse figure.
È il c.d. modello partecipato della sicurezza: accanto al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti,
agli organismi pubblici di controllo (ASL e Direzione del lavoro) il legislatore prevede nuovi
soggetti destinatari di diritti ed obblighi: il servizio di prevenzione e protezione ed il suo
responsabile; il medico competente; i lavoratori; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
(RLS). Obblighi del datore L’obbligo di sicurezza si caratterizza in una serie di adempimenti:
- la valutazione dei rischi relativi allo svolgimento della prestazione lavorativa, per
individuare le fonti di pericolo e l’entità del danno che ne può derivare;
- la redazione del c.d. documento di sicurezza, da custodire nell’azienda, che contiene una
relazione sulla valutazione dei rischi, l’individuazione delle misure di prevenzione, le
modalità e i tempi per realizzare il programma di sicurezza.
Entrambe le funzioni devono essere esercitate dal datore in collaborazione con il responsabile del
servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del
rappresentante per la sicurezza. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza Quest’ultimo è consultato
anche per la nomina degli addetti al servizio di prevenzione e per l’organizzazione della formazione
dei lavoratori. Deve essere eletto dai lavoratori in tutte le aziende o unità produttive.
Gli altri soggetti Gli addetti ed il responsabile del servizio di prevenzione devono essere
obbligatoriamente nominati dal datore di lavoro, preferibilmente tra il personale dell’azienda. Il loro
compito consiste nell’aiuto tecnico al datore per la valutazione del rischio, per la programmazione
della sicurezza, per la progettazione della formazione dei prestatori. Il datore di lavoro deve inoltre
nominare un medico competente che potrà svolgere la sua funzione come dipendente di una
struttura esterna pubblica o privata convenzionata o come libero professionista o come lavoratore
subordinato del datore stesso.
Obblighi e diritti del singolo lavoratore Anche i lavoratori devono contribuire all’adempimento degli
obblighi per la tutela della salute e devono: 1) ubbidire alle direttive generali che gli vengono
impartite in materia; 2) utilizzare correttamente macchinari, attrezzature e dispositivi di protezione;
3) sottoporsi alla formazione; 4) segnalare le carenze dei dispositivi in proprio uso. In ogni caso
essi hanno diritto di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e
inevitabile.
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L’assicurazione contro gli infortuni e malattie professionali Il sistema delle assicurazioni sociali
obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è diretto a tutelare i lavoratori
dai rischi dell’ambiente di lavoro ed è gestito dall’INAIL. La normativa si applica ai lavoratori che
svolgono attività pericolose e li assicura da eventi dannosi derivanti dallo svolgimento del lavoro.
Il D. Lgs. n. 38 del 2000 Il D. Lgs. n. 38 del 2000 ha esteso l’obbligo assicurativo ai lavoratori
parasubordinati, ai lavoratori dell’area dirigenziale, agli sportivi professionisti, ai lavoratori italiani
operanti in Paesi extracomunitari. Tale norma ha fatto rientrare nell’ambito dell’assicurazione
obbligatoria anche le ipotesi di infortunio c.d. “in itinere”, cioè quello subito dal lavoratore nel
recarsi sul luogo di lavoro o fra 2 diversi luoghi di lavoro o nel normale tragitto di andata e ritorno
rispetto al luogo dove il lavoratore consuma il pasto, in assenza di un servizio di mensa aziendale.
Il danno biologico In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, è riconosciuta la
risarcibilità non solo del danno patrimoniale, ma anche del c.d. danno biologico, cioè quella
menomazione della integrità psico-fisica della persona. Esso deriva dalla violazione del diritto alla
salute subita dal lavoratore e risarcibile tramite l’art. 2087 cod. civ.
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producono uno stato di profondo disagio nella vittima. La tutela che più frequentemente è
riconosciuta al lavoratore è di tipo risarcitorio.
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CAPITOLO VIII
78
L’art. 36 Cost.: sufficienza Per quanto riguarda l’aspetto quantitativo della retribuzione, l’art. 36
Cost. sancisce che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e
dignitosa”.
La sufficienza sta ad indicare che la retribuzione deve essere tale da permettere al lavoratore e alla
sua famiglia non solo un minimo vitale, ma un tenore di vita adeguato al contesto storico e
ambientale.
Proporzionalità La proporzionalità sta ad indicare che la retribuzione deve essere determinata in
base alle mansioni svolte dal lavoratore e al tempo di lavoro.
La giurisprudenza ha ritenuto in realtà che il canone di sufficienza è rispettato solo se è rispettato il
principio di proporzionalità. Infatti il giudice deve solo verificare se la retribuzione è
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato ritenendo che la retribuzione sia idonea a
soddisfare le esigenze di vita del lavoratore medio e della sua famiglia, non deve invece verificare
se la retribuzione corrisposta al singolo sia anche idonea a garantire in concreto a lui e alla sua
famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. Dall’art. 36 la giurisprudenza ha ricavato un principio
unitario di retribuzione minima. Per determinare il livello retributivo i giudici devono fare
riferimento alla retribuzione base (i c.d. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi della
categoria o del settore produttivo. Così le retribuzioni individuate in base alle tabelle dei contratti
nazionali di categoria o di settore costituiscono il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di
lavoro di quella categoria o di quel settore. L’art. 36 è una norma precettiva, ne consegue che il
giudice può giudicare se la retribuzione spettante al lavoratore è conforme al dettato costituzionale.
Richiamo artt. 1419 2° comma e 1339 cod.civ. Di fronte a un regolamento contrattuale difforme, e cioè
nei casi in cui la retribuzione è concordata in misura insufficiente (quindi la relativa pattuizione è
nulla), il rimedio non è quello della nullità totale dell’atto, così come sancito dal diritto comune,
piuttosto il giudice interviene con la sostituzione della retribuzione concordata con la retribuzione
minima legale. Non interviene invece in assenza di una definizione consensuale della retribuzione.
L’erga omnes dei minimi retributivi Ma ciò che è eccezionale è il fatto di aver consentito anche ai
lavoratori dipendenti da imprese che non aderiscono ad associazioni sindacali (che non sono tenute
a rispettare i minimi retributivi) di richiedere l’applicazione delle tabelle collettive richiamando la
disciplina costituzionale così come interpretata dalla giurisprudenza.
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B. NOZIONE DI RETRIBUZIONE
1. Il concetto di retribuzione. a) Le definizioni legislative.
Pluralità delle definizioni di retribuzione Fra le diverse definizioni legali di retribuzione la più
importante è quella dell’art. 2121 cod. civ. che nel testo precedente alle modifiche della L. n.
297/1982, individuava gli elementi retributivi da computare nel calcolo delle indennità di mancato
preavviso e di anzianità, ed ora disciplina solo la prima. Secondo tale definizione devono essere
inclusi nel calcolo tutti i compensi corrisposti al lavoratore dal datore di lavoro, comprese le
provvigioni, le partecipazioni agli utili, ecc., che hanno carattere continuativo, con esclusione delle
sole prestazioni erogate a titolo di rimborso spese.
La L. n. 297/1982 ha introdotto una diversa nozione di retribuzione per il calcolo del trattamento di
fine rapporto: devono essere considerati tutti gli emolumenti corrisposti in dipendenza del rapporto
a titolo non occasionale dal datore.
Per lungo tempo si è trattato di 2 nozioni distinte.
L’art. 12, L. n. 153/1969 Oggi l’art. 12, L. n. 153/1969 rinvia per la nozione generale del reddito ai
fini contributivi all’art. 48 del TUIR che prevede un parametro unico di riferimento per le
disposizioni contributive e fiscali in materia di lavoro: in considerazione vengono tutte le somme e i
valori in genere, a qualunque titolo percepiti...anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione
al rapporto di lavoro.
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1. Tipologia legale.
La tipologia della retribuzione La retribuzione comprende diverse attribuzioni patrimoniali cui è
obbligato il datore nei confronti del lavoratore e diversi sono i criteri di classificazione degli istituti
retributivi. La classificazione dell’art. 2099 c.c. In particolare l’art. 2099 prevede una classificazione
delle forme retributive: retribuzione a tempo, retribuzione a cottimo, partecipazione agli utili o
prodotti, provvigione, la retribuzione in natura.
La retribuzione a tempo è quella più diffusa, e consiste nella corresponsione di un somma di
denaro stabilita in base al tempo della prestazione di lavoro (euro per ora, giorno, mese o anno)
indipendentemente dal risultato ottenuto. Essa è l’unica adottata in maniera esclusiva.
La retribuzione a cottimo , in cui si tiene conto non solo del tempo impiegato, ma anche del
risultato della produttività del lavoro e, quindi, del rendimento del lavoratore (es. numero di
scarpe prodotto in una determinata unità di tempo). È possibile distinguere:
- il cottimo a forfait o a prezzo fatto in cui il compenso è determinato all’opera finita;
- il cottimo a misura o a prezzo, commisurato alla quantità prodotta;
- il cottimo a tempo, in cui si considera il tempo risparmiato rispetto al tempo standard;
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Stock options Forme atipiche di distribuzione di azioni ai dipendenti sono le stock options dirette ai
dirigenti dell’ azienda per incentivarne la produttività. Esse attribuiscono ai dipendenti la possibilità
di esercitare entro un certo periodo un’opzione di acquisto di proprie azioni ad un prezzo che,
fissato al momento dell’offerta, rimane bloccato per tutto il periodo in cui può essere esercitata
l’opzione. Il profitto del dipendente consiste nella differenza fra il prezzo concordato per l’acquisto
e il valore di mercato che le azioni hanno acquisito nel periodo di validità dell’opzione.
3.La disciplina contrattuale della retribuzione. La proliferazione delle forme retributive.
Elementi retributivi diversi La disciplina contrattuale della retribuzione prevede istituti diversi da
quelli del codice. In particolare prevede:
La retribuzione diretta e differita la differenza tra retribuzione diretta, cioè corrisposta immediatamente
al lavoratore nei singoli periodi di durata del rapporto (settimanalmente, mensilmente), e
retribuzione differita, cioè corrisposta in modo posticipato rispetto al periodo della maturazione;
annualmente (come la gratifica natalizia) o alla fine del rapporto (come il TFR).
Automatismi retributivi L’automatismo retributivo, riguarda quegli istituti che comportano incrementi
automatici del trattamento economico al verificarsi di determinati fatti o cadenze temporali, senza
bisogno di specifici interventi. Scatti di anzianità e TFR sono automatismi legati all’anzianità di
servizio del lavoratore.
La contrattazione nazionale e la retribuzione tabellare Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione
tabellare che risulta dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria. Essa è poi integrata dalla
contrattazione aziendale.
Gli incrementi aziendali di solito non confluiscono nella retribuzione base. Spesso hanno forme e
nomi diversi e contribuiscono a formare la retribuzione normale. L’ammontare di questi elementi è
controllato dalla contrattazione collettiva in tutte le aziende in cui è presente il sindacato.
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configurare la reintegrazione di una specifica perdita patrimoniale, danno o spesa subita dal
lavoratore a causa del lavoro.
85
CAPITOLO IX
1.Fattispecie e tipologie.
Le varie ipotesi Avviene di frequente che il rapporto di lavoro venga sospeso per le ragioni più
varie: sciopero, aspettativa, malattia, assistenza ai figli in tenera età, serrata ecc.
La sospensione può essere totale o parziale e può essere dovuta a cause imputabili al lavoratore o al
datore di lavoro. Ciò che rimane sospeso non è il rapporto nel suo complesso, ma solo la
prestazione di lavoro.
Difformità dalla disciplina civilistica In diritto del lavoro contiene in questi casi principi speciali rispetto
alle regole generali dei contratti di scambio. Infatti, nei casi di impossibilità della prestazione la
regola generale è che il rapporto si estingue automaticamente se l’impossibilità è definitiva e totale
o quando si prolunga fino a far venir meno l’interesse del creditore al suo ricevimento. Invece gli
artt. 2110- 2111 cod. civ. sanciscono che l’impossibilità temporanea non estingue, ma sospende il
rapporto di lavoro per il periodo previsto, ed è garantita la conservazione del posto di lavoro.
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Conservazione del reddito L’art. 2110 prevede anche la conservazione del reddito, stabilendo che in
mancanza di forme previdenziali equivalenti il lavoratore ha diritto alla retribuzione per il periodo e
nella misura stabiliti dalla legge, dal contratto collettivo, dagli usi o secondo equità.
2. Malattia ed infortunio.
Nozione di malattia Nel diritto del lavoro si definisce malattia ogni alterazione dello stato di salute
del lavoratore, che comporti un’incapacità al lavoro.
Conservazione del posto e del reddito La conservazione del posto è garantita per periodi variabili, di
solito in base all’anzianità di servizio del lavoratore e con esclusione dei dipendenti in prova.
Nel caso di infortunio la conservazione del posto dura fino alla guarigione certificata dall’IINAIL e,
nel caso di malattia professionale, fino a quando il lavoratore riceve dall’INAIL i relativi indennizzi
economici.
Per quanto riguarda il diritto alla conservazione del reddito è previsto che gli impiegati hanno diritto
al mantenimento della retribuzione a carico del datore di lavoro, integrale per un certo periodo di
tempo e parziale per un periodo successivo. Gli operai ricevono un’indennità previdenziale posta a
carico dell’istituto pubblico competente (INPS per la malattia e INAIL per l’infortunio), ma
anticipata dal datore di lavoro. L’indennità dovuta è del 60% della retribuzione normale.
Obblighi accessori del prestatore connessi alla malattia e controllo delle assenze da parte datoriale La regola del non
pagamento dei primi 3 giorni (c.d. carenza), giustificata dall’esigenza di limitare l’onere economico
per gli Istituti previdenziali e di scoraggiare fenomeni di assenteismo, è stata progressivamente
corretta dalla contrattazione collettiva, che ha imposto al datore di integrare in parte o in tutto la
retribuzione agli operai fin dal primo giorno di malattia.
La legge ha imposto ai lavoratori l’obbligo di reperibilità in determinate fasce orarie (ore 10-12 e
17-19 di ogni giorno anche festivo), salvo giustificato motivo, per la sottoposizione a visita medica,
pena la decadenza dei lavoratori da ogni trattamento economico fino a 10 giorni. Per permettere tali
controlli è previsto che il lavoratore deve comunicare al datore le cause dell’assenza:
immediatamente in caso di infortunio, entro 2 giorni in caso di malattia. Al datore è trasmessa
un’attestazione che indica l’inizio e la durata presunta della malattia e all’IINPS il certificato di
diagnosi, entrambi redatti dal medico curante. L’inosservanza di tali obblighi comporta la perdita
dell’indennità INPS per i giorni di ritardo, salvo che il ritardo sia giustificato da ragioni serie ed
apprezzabili.
Malattia reiterata Per quanto riguarda le malattie brevi e reiterate la contrattazione collettiva ha
distinto: 1) un comporto secco, che riguarda un unico episodio morboso; 2) un comporto per
sommatoria o improprio, che riguarda malattie reiterate. Il licenziamento è legittimo se i vari
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episodi di malattia che si sono verificati in un determinato periodo, sommati, superano il periodo di
comporto improprio. Se la contrattazione collettiva non ha fissato il comporto per sommatoria è
determinato dal giudice secondo equità.
Attività lavorativa in periodo di malattia La giurisprudenza non prevede il divieto di svolgere l’attività
lavorativa in periodo di dichiarata malattia.
Le cure idrotermali Per le cure termali è previsto il godimento per un periodo non superiore ai 15
giorni l’anno, solo per esigenze terapeutiche o riabilitative, su motivata prescrizione di un medico
specialista pubblico.
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Divieto di licenziamento È nullo il licenziamento della lavoratrice nel periodo che va dall’inizio della
gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo casi eccezionali (colpa grave,
cessazione dell’attività aziendale...).
Convalida delle dimissioni Le dimissioni della lavoratrice possono anche mascherare un
licenziamento, per questo motivo è prevista la convalida del provvedimento da parte della Direzione
provinciale del lavoro e una tutela economica. Tali disposizioni sono estese anche al padre
lavoratore che abbia usufruito del congedo di paternità.
Diritto al rientro Al termine del congedo di maternità, la lavoratrice ha il c.d. diritto al rientro che
prevede: la conservazione del posto; il diritto all’adibizione alle precedenti mansioni o ad altre
equivalenti; al rientro nella stessa unità produttiva con diritto a permanervi fino ad 1 anno di età del
bambino (art. 56 T.U.).
Il congedo di paternità La giurisprudenza costituzionale prevede il riconoscimento al padre del
congedo post-parto per i primi 3 mesi del bambino, ma solo per casi particolarmente gravi e
tassativamente previsti (morte o grave infermità della madre, abbandono, affidamento esclusivo del
bambino al padre).
Adozione e affidamento Inoltre può essere chiesto un congedo di 3 mesi dalla lavoratrice o dal
lavoratore che abbia adottato un bambino cittadino italiano di età non superiore a 6 anni o uno
straniero fino al compimento della maggiore età; il congedo va fruito nei 3 mesi successivi
all’ingresso del bambino nella famiglia (artt. 26 e 31 T.U.). Il divieto di licenziamento si avrà fino
ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.
I congedi parentali Per consentire ai genitori di prendersi cura dei figli, la legge ha anche introdotto i
c.d. congedi parentali che attribuiscono la facoltà di astenersi dal lavoro e spettano a ciascun
genitore, per ciascun bambino, nei suoi primi 8 anni di vita. I genitori possono usufruire del
congedo sia separatamente che contemporaneamente. I congedi parentali non possono superare i
10 mesi per coppia (estendibile fino a 11 mesi se il padre utilizza almeno 3 mesi. Es. 5 mesi la
madre, 6 mesi il padre), ma il diritto può essere esercitato da ogni genitore per un periodo non
superiore a 6 mesi; se vi è un solo genitore egli può godere del congedo per un periodo non
superiore a 10 mesi (art. 32 T.U.).
Il trattamento economico La lavoratrice madre e il lavoratore padre, durante il congedo parentale,
hanno diritto ad un’indennità pari al 30% della retribuzione (corrisposta dall’INPS) fino al terzo
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anno di vita del bambino e per un periodo massimo di 6 mesi. Dal 3° anno di vita fino all’8° e per i
periodi successivi al 6° mese, l’indennità è dovuta solo se il reddito del genitore sia inferiore ad un
certo limite (art. 33 T.U.).
...e normativo I periodi di congedo devono essere computati nell’anzianità di servizio e non hanno
effetto sulla 13° mensilità o sulla gratifica natalizia e sulle ferie.
Congedi per genitori di disabile La lavoratrice madre o in alternativa il lavoratore padre di un minore
con handicap grave hanno diritto al prolungamento del congedo parentale fino a 3 anni, a
condizione che il bambino non sia ricoverato presso istituti specializzati (art. 33 T.U.).
Riposi e permessi Durante il primo anno di vita del bambino la lavoratrice madre dipendente può
usufruire di riposi giornalieri, di regola due ore retribuite al 100%. Tale diritto spetta al padre
lavoratore solo nel caso in cui vi rinunci la madre, in caso di grave malattia o morte di questa, in
caso di affidamento del figlio al padre, oppure se la madre non può usufruire dei riposi giornalieri
perché non ne ha diritto (se lavoratrice autonoma o libera professionista). In caso di parto gemellare
i riposi giornalieri sono raddoppiati. Particolari permessi sono previsti per i genitori con figlio con
handicap grave.
Congedi per malattia del figlio Entrambi i genitori, ma alternativamente, hanno diritto di assentarsi dal
lavoro (senza retribuzione) per le malattie del figlio, previo certificato medico che attesti la malattia
del bimbo: Nei primi 3 anni di vita del figlio per tutta la durata della malattia; dai 3 agli 8 anni del
figlio nel limite di 5 giorni lavorativi l’anno.
Sanzioni Il mancato rispetto di tali diritti è punito con sanzioni amministrative.
Divieto di licenziamento È nullo il licenziamento della lavoratrice o del lavoratore causato dalla
richiesta o dall’utilizzo del congedo parentale e per la malattia del bambino.
4. Servizio militare.
La garanzia del posto di lavoro e il decorso dell’anzianità (escluso il TFR) sono riconosciuti sia nel
caso di servizio dei leva, insieme al volontariato e al servizio civile e sia nel caso di richiamo alle
armi. La garanzia del reddito è prevista solo per il caso di richiamo alle armi.
Va ricordato che il reclutamento obbligatorio delle Forze armate è stato sospeso a partire dal 1°
gennaio 2005.
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Disabili La legge riconosce al disabile il diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di
lavoro nel caso di aggravamento delle proprie condizioni di salute o di variazioni
dell’organizzazione del lavoro che non consentono la prosecuzione dell’attività lavorativa. In tale
periodo il prestatore può essere impiegato in un tirocinio formativo e potrà essere licenziato solo se
le competenti commissioni mediche attestino l’effettiva e definitiva impossibilità di reinserire il
lavoratore in azienda.
Congedi familiari Particolari congedi, con o senza retribuzione, sono previsti in determinate
circostanze familiari: morte o malattia di parenti prossimi, matrimonio ecc. Il congedo matrimoniale
è di 15 giorni consecutivi retribuiti per tutti i lavoratori.
Congedi formativi Il legislatore (L. n. 53/2000) riconosce ai lavoratori occupati di usufruire di 2 tipi
di congedi: i congedi per la formazione ed i congedi per la formazione continua.
Congedi per la formazione I congedi per la formazione o concedi sabbatici, sono diretti a completare
la scuola dell’obbligo, a conseguire il titolo di studio di secondo grado, il diploma universitario o di
laurea, alla partecipazione ad attività formative non predisposte dal datore di lavoro. Ne possono
fruire, per un periodo non superiore a 11 mesi, continuativo o frazionato, nell’intera vita lavorativa,
i dipendenti che abbiano almeno 5 anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda o
amministrazione. Il congedo per la formazione comporta la sospensione del rapporto di lavoro
senza retribuzione. I contratti collettivi disciplinano le modalità di godimento di tali congedi. Tale
periodo non è computabile nell’anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la malattia
e con altri congedi, ma è riscattabile ai fini previdenziali.
Congedi per la formazione continua I congedi per la formazione continua sono invece di tipo
aziendalistico che consentono al lavoratore, occupato o non occupato, di svolgere percorsi formativi
per tutto l’arco della vita al fine di accrescere le competenze professionali (di interesse anche del
datore). La contrattazione collettiva disciplina le modalità di godimento di tali congedi e le
modalità di orario e di retribuzione. Anticipazione del TFR Per agevolare ed incentivare il ricorso ai
congedi formativi, la legge prevede che può essere richiesta a tal fine l’anticipazione del TFR.
Nullità del licenziamento Il licenziamento causato dalla domanda o dall’utilizzo dei congedi formativi
è nullo. Permessi per motivo di studio I lavoratori studenti hanno diritto di fruire di permessi
giornalieri retribuiti per sostenere le prove d’esame, con l’obbligo di presentare, a richiesta del
datore, una idonea certificazione che attesta tale partecipazione. La contrattazione collettiva
nazionale ha esteso il diritto a permessi per motivi di studio anche oltre il giorno d’esame, per
determinate ore all’anno e senza retribuzione (250 ore). Lavoratori tossicodipendenti È previsto un
congedo di 3 anni, senza retribuzione e con la sospensione dell’anzianità, anche per il
tossicodipendente al fine di seguire programmi terapeutici e riabilitativi.
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Donatori di sangue e di midollo osseo Permessi retribuiti sono riconosciuti anche ai donatori di midollo
osseo, ai donatori di sangue e di emocomponenti che siano lavoratori subordinati.
Sospensione consensuale La sospensione può anche essere disposta con un accordo individuale, in cui
è lo stesso a stabilire i diritti e i doveri che derivano dalla sospensione del rapporto.
Funzioni pubbliche elettive I lavoratori che svolgono funzioni pubbliche elettive o di governo negli
enti locali hanno diritto ad un’aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato. In
alternativa, i consiglieri comunali e provinciali possono assentarsi dal servizio per il tempo
necessario ad eseguire il mandato senza perdita delle retribuzioni; mentre ai membri degli organi
esecutivi degli enti locali sono riconosciuti permessi retribuiti solo per lo svolgimento effettivo
dell’incarico entro un massimo di 48 ore mensili. Partecipazione alle operazioni elettorali La legge
permette di assentarsi dal lavoro per tutta la durata delle operazioni elettorali sia per coloro che
esercitano funzioni presso gli uffici elettorali, sia per i rappresentanti dei partiti o gruppi politici ed i
promotori dei referendum. Tali assenze vanno considerate giorni di attività lavorativa.
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- situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o agli operai;
- situazioni aziendali determinate da situazioni temporanee di mercato.
Per l’intervento straordinario le cause sono:
- ristrutturazione, riorganizzazione, o conversione aziendale;
- crisi aziendale individuata, sulla base di criteri ministeriali;
- fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o liquidazione coatta
amministrativa.
L’intervento straordinario è anche previsto in caso di stipulazione di un contratto di solidarietà
difensivo, per evitare una riduzione del personale.
Campi di applicazione L’intervento ordinario è limitato alle imprese industriali, anche se diverse
leggi lo hanno esteso ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura. Può ricorrere all’intervento
straordinario solo l’impresa con più di 15 dipendenti. All’inizio era riservato alla sola industria,
successivamente è stato esteso ad altri settori e alle cooperative di produzione e lavoro.
Lavoratori aventi diritto L’intervento ordinario ha riguardato per molto tempo solo gli operai, la L. n.
223 ne ha esteso l’applicazione ad impiegati e quadri, tanto da farlo coincidere con l’intervento
straordinario. L’intervento straordinario però ricomprende anche i soci delle cooperative di
produzione e lavoro.
Misura dell’integrazione L’ammontare dell’integrazione (ordinaria e straordinaria) è pari all’80%
della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non lavorate comprese fra le ore zero e il
limite dell’orario contrattuale, ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. Nei contratti di
solidarietà difensivi, l’integrazione salariale straordinaria è pari al 60% della retribuzione perduta in
seguito alla riduzione di orario.
Durata dell’integrazione L’intervento ordinario è previsto per tre mesi continuativi, con eventuali
proroghe trimestrali in casi eccezionali, fino a 12 mesi. I limiti di durata non si applicano in caso di
eventi oggettivamente non evitabili. La durata dell’intervento straordinario invece varia a seconda
delle cause integrabili:
- in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendali la sua durata è di 2 anni,
con eventuali altre 2 proroghe, ciascuna non superiore a 12 mesi;
- in caso di crisi aziendale la sua durata è di 12 mesi, prorogabili per altri 12 mesi;
- in caso di procedure concorsuali la sua durata è di 12 mesi prorogabile di 6 mesi;
- nei contratti di solidarietà difensivi il trattamento può essere corrisposto per un massimo di
24 mesi, prorogabili per altri 24 mesi (36 nel meridione).
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ordinario), nonché con un contributo addizionale per ciascun cassintegrato a carico delle imprese. Il
contributo addizionale non è dovuto quando la Cig è giustificata da eventi oggettivamente non
evitabili.
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CAPITOLO X
96
Nel caso in cui un lavoratore divenga disabile nel corso del rapporto egli non può essere licenziato
se può essere adibito a mansioni equivalenti, o in mancanza, a mansioni inferiori.
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