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Storia greca
I CAPITOLO
PARAGRAFO II-III La civiltà minoica - La civiltà micenea e la sua espansione nel mediterraneo
Il minoico antico a Creta corrisponde al periodo prepalaziale, ed essendo un periodo lunghissimo subisce anch’esso una
tripartizione. Con il I Medio Minoico emerge la civiltà palaziale con i palazzi dalla struttura semplice del Mégaron. Nel 1900 a.C
sorgono i palazzi di Cnosso e Festo –fase dei secondi palazzi- con cui coincide il III Medio Minoico 1700 a.C a questa fase
appartiene il palazzo di Mallia nella Creta orientale. Durante il Tardo Minoico compare una scrittura sillabica accompagnata
dalla diffusione dei sigilli. Una vera irradiazione della cultura minoica si avverte a Tera nelle Cicladi, e a Citera di fronte le coste
della Lacaonia. Un uso politico del mare è quello che i greci chiamarono Talassocrazia di Minosse, Minosse come chiarisce
Tucidide, dominò le Cicladi e il mare tutto intorno liberandolo dai pirati.
L’età micenea è distinta in tre sotto-fasi riconducibili all’ultimo periodo Elladico, si distingue: un Tardo Elladico I -1600/1580-
1500-; un Tardo Elladico II -1500-1452-; un Tardo Elladico III -1425-1100-. Alla prima fase del Tardo Elladico sembra
riconducibile il Circolo A delle tombe a fossa. Tra il 1450 e il 1400 si data un regno miceneo a Cnosso, e tra il XIV-XII secolo la
maggior espansione della ceramica micenea in oriente. Nella creta minoica si verificano sviluppi interni sia sviluppi per influenze
del modello Cretese. È in questo periodo di evoluzione che la scrittura, la Lineare A si adatta alle nuove necessità di
rappresentazione grafica di parole greche di tipo dialettale –la Lineare B- di cui sarà erede il dialetto arcado-cipriota. I testi in
Lineare B hanno due punti di addensamento a Cnosso e a Pilo, per i primi si risale al XV-XIV secolo, per gli ultimi al 1200. La
struttura politica e sociale è fortemente centralizzata sottoposta al dominio del wanax affiancato dal comandate militare
lawaghètas, nelle tavolette risultano anche i doero o douloi e i teojodoero o teoduloi; l’artigianato assolve una funzione
importante ed è elevato il ruolo sociale dei chalkewes –i bronzieri-. Altra classe sociale è quella dei telestaì sono forse funzionari
o dignitari, appaiono come proprietari terrieri. Gli equetai –o hepetai- svolgono funzioni militarie sacrali di supporto. Le
monarchie micenee hanno sviluppato un’amministrazione complessa sull’esempio orientale e più direttamente delle regalità
minoiche. È durante e dopo il dominio miceneo a Cnosso nel 1370 che si colloca il periodo di massima espansione. Linee di
sviluppo dell’epoca micenea:
1. Dopo l’invasione del continente –Medio Elladico- si raggiungono nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica
che corrispondono alla fioritura dei palazzi nel Tardo Elladico o Miceneo
2. A metà del XV secolo questo assestamento ha portato all’espansione nell’egeo
3. Espansione commerciale da riferirsi anche al commercio ambulante, per sottolineare la capacità di adattamento e mobilità
sociale nel mondo greco.
L’espansione di epoca arcaica ha la funzione di creare nuove poleis, dunque si cercano territori in cui poter sostituire o
contrastare le società autoctone e insediarvisi il proprio governo, o si cercano spazi vuoti privi di abitanti e organizzazioni.
Esiste una teoria dei Due Tempi nel declino miceneo: a una prima crisi interna succede una trasformazione in alcune aree vitali
della popolazione. La società precedentemente gerarchizzata si trasforma in società tribale e i terreni sotto il dominio dorico
diventano proprietà private. Il primo tempo del declino lo si può immaginare frutto di contrasti tra popolazione e sovrano o tra
sovrano e la nascente aristocrazia, ma potrebbe anche essere causata dai Popoli del mare, i quali sono rappresentati nei testi
egizi e potrebbero dare significato a dei movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività di distruzione. Di
particolare interesse è la micenizzazione di Cipro in cui vengono a mescolarsi tratti micenei con quelli medio orientali, la
tradizione vuole qui gli Achei con la conseguente formazione di Salamina. Questo periodo segna il passaggio dall’età del bronzo
all’età del ferro a seguito di modifiche delle armi militari probabilmente di derivazione dorica.
rappresentano invece l’esito storico della stratificazione sociale impiantatosi nella polis. Essi rappresentano le grandi famiglie
nobiliari, che, come visto, si richiamavano ad origini divine o micenee.
II CAPITOLO
PARAGRAFO V Le anfizionie
Tra gli assetti territoriali, fondamentale fu il ruolo delle anfizionìe, «leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario»,
ossia una forma di «lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente». Quelle di Onchesto in Beozia e di
Calauria (un'isola di fronte l'Argolide) erano centrate intorno a santuari di Poseidone; dedicate ad Apollo erano invece quelle
ben più note di Delo e Delfi. Gli amphiktyònes (come dire «circonvicini») erano i popoli della lega, dunque anche i
rappresentanti nel sinedrio, detti in tal senso «ieromnemoni», adiuvati dai «pilagori». Ogni popolo disponeva di due legati (due
voti nel sinedrio, dunque) e il numero dei popoli anfizionici di Delfi, ad esempio, era di dodici (la maggioranza era dei Tessali). Si
riunivano a Delfi o ad Antela (presso le Termopile) e così tali riunioni furono dette pylaiai (dal nome del famoso luogo). Molto
spesso negli studi si attribuisce il nome di anfizionia a qualunque lega sacra: occorre fare più conto sul significato più letterale del
termine e sul suo uso nelle fonti, per un numero piuttosto limitato di casi (Delfi, le isole di Delo e Calauria, la beotica Onchesto).
Alla situazione tessalica e peritessalica il nome si attaglia benissimo e descrive il gravitare di diversi distretti e popoli intorno a un
unico centro». La prima guerra sacra avvenne nel VI secolo e vide scontrarsi Tessali e Ateniesi contro i Focesi – che infine
vennero battuti – perché questi avrebbero disturbato «i pellegrini diretti al santuario». «La vittori anfizionica significò il
rafforzamento dei Tessali nella Grecia centrale, comportò l'ammissione di Atene nell'anfizionia, e la riorganizzazione degli agoni
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pitici (da Pythò, l'antico nome di Delfi) nel 582 a.C.. La prima guerra sacra costituisce un momento significativo per la storia di
tutto il versante orientale della Grecia.
PARAGRAFO VI Le tirannidi arcaiche
Si ebbero di quattro tipi, divisi in base alla città: le istmiche (Corinto, Sicione e Megara), l’ateniese, quella di Argo e le ioniche o
egee (Mitilene, Mileto ed Efeso). Le tirannidi rappresentarono «un momento di crisi dell'aristocrazia, che si determina nel seno
stesso dell'aristocrazia». Aristotele individua la nascita della tirannide tanto nella degenerazione di figure aristocratiche della
magistratura, quanto nel fatto che, essendo il popolo nelle campagne e le città piccole, i bravi soldati aspirassero con facilità proprio
alla tirannide. Nei momenti di espansione mercantilistica la tirannide si fa strada in Grecia. Tali considerazioni inducono, da un lato,
a non ricercare una formula unica per caratterizzare la tirannide, perché vi sono varianti locali; dall'altro raccomandano invece di
non esasperare le differenze, perché una base sociale agraria è quasi ineliminabile, e un contesto di accelerato sviluppo economico
è per tutte innegabile». Il tiranno, insomma, «viene ad occupare la posizione mediana del campo sociale complessivo, sì che riflette
nel contempo le sue origini dalla società oplitica e la sua attenzione alle esigenze del popolo minuto». Poi però si cede alla violenza,
ampliamente attestata dalle fonti. Le famiglie dei tiranni furono due: i Cipselidi (Cipselo e Periandro – quest'ultimo considerato il
tòpos del tiranno isolato e folle) e gli Ortagoridi (Ortagora – per Musti in realtà sarebbe Mirone I–, Aristonimo e il figlio di questi,
Clistene di Sicione, che con crudeltà uccise i fratelli maggiori Mirone II e Isodemo).
anche comprensibile come alcune rivolte non terminassero con l’espulsione ma con un cambiamento di regime. Le prime tirannidi
di Sicilia sono quelle di Panezio a Leonitini e quella di Falaride ad Agrigento -Quest’ultima nata già a causa di conflitti interni a Gela.
CAPITOLO III SVILUPPI POLITICI DEL VI SECOLO
PARAGRAFO I Solone
L’opera di Solone arconte nel 594/593 per Diogene Laerzio o nel 592/591 secondo la Costituzione degli Ateniesi di
Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica
attica del medio arcaismo. Egli incise con azioni innovative volte a sanare i guasti che si erano andati a creare nel corpo
sociale ed economico dell’Attica. Solone avverte il divario che si andava creando tra ricchi e poveri, alcuni dei quali, i contadini
erano costretti a versare 1/6 del prodotto e coloro i quali non riuscivano a sanare il debito erano venduti come schiavi. Solone
determinò la liberazione della terra cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle della servitù. Egli proibisce la schiavitù
per debiti e i debiti stessi modificando il peso della dracma del 30% . La riforma monetaria avrà operato in ogni caso come
mezzo di alleviamento. Sul piano politico-costituzionale verranno mantenute le vecchie articolazione censitarie definendo i
termini quantitativi degli ormai quattro téle: I pentacosiomedimni –coloro che hanno una rendita di 500 medimni annui di
grano-; i cavalieri –quota 300-; i zeugiti –o opliti, quota 200-; i teti –o salariati-. Le cariche di arconte o tesoriere erano
riservate ai pentacosiomedimni, mentre ai teti solone garantiva la presenza all’ekklesia e al tribunale del popolo. Solone
forse arrichiva il quadro istituzionale con il consiglio dei 400, cento per ogni tribù. Durante il periodo soloniano l’agricoltura
non ha spinte progressive, mentre l’artigianato ha un grande sviluppo in vista anche delle esportazioni. In ogni caso Solone
non vuole essere considerato il tiranno di Atene, lui svolge lavoro di mediazione, è il pacificatore. Successivi al suo governo si
prospettano anni di anarchie e conflitti politici fino a giungere al governo tirannico di Pisistrato.
l’altra al tempo del suo successore Anassandrida. Questo excursus sulla storia spartana è la base per la creazione della Lega
Peloponnesiaca, di cui la prima attestazione sicura risale al 506, ma è ragionevole anche considerare la data del 524. Dentro
la lega le città mantenevano la loro autonomia: niente tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate,
rappresentanza nel sinedrio federale, decisioni a maggioranza.
Nel 528/527 a Pisistrato succedono i figli: Ippia e Ipparco –avuti dalla moglie leggittima- e Iofonte e Egisistrato –avuto della
moglie argiva-. Il potere formale è concentrato nelle mani del maggiore Ippia, mentre Ipparco è l’intellettuale che opera il
mecenatismo. E’ da tenere in conto che la presenza della tirannide non aveva cancellato l’opposizione al regime anzi l’aveva
fomentata, questo è appunto il caso degli Alcmeonidi i quali furono esiliati già ai tempi della terza tirannide di Pisistrato.
Questi si erano creati una base a Delfi e grazie agli stretti rapporti che intercorrevano tra l’isola e Sparta poterono contare
sull’aiuto della città intorno al 511/510. Prima di questa data gli Alcmenonidi avevano tentato di rientrare ad Atene, subendo
una grave sconfitta nel 513 a Lipsidrio in Diacria. Nel 511/510 intervengono come si è detto gli spartani: la prima volta è un
fallimento, la seconda invece l’esercito capeggiato da re Cleomene I assedia Ippia arroccatosi sull’acropoli ottenendone la
resa. Ma le opposizioni sono anche interne alla stessa Atene, ed è il caso della congiura del 514/513, e degli eventi che nel
510 porteranno alla cacciata di Ippia, e sarà il periodo dello scontro nella città attica tra Isagora e l’alcmeonide Clistene.
CAPITOLO IV
PARAGRAFO IV-V Dopo Maratona: nuove guerre e riforme politiche ateniesi - La politica navale di Temistocle
La quinta fase dello scontro vede Milziade II combattere contro i Persiani nelle Cicladi (489) ma si fermò contro Paro, fedele ai
Persiani. A questo punto il padre di Pericle, Santippo (che poi verrà ostracizzato a sua volta), accusò Milziade II di corruzione per
la quale venne condannato e multato (poco dopo morirà per una ferita di guerra). Poi seguì lo scontro con Egina (488), che vide
battuti gli Ateniesi. Con gli inizi della guerra contro Egina coincide una serie di innovazioni importanti nella politica interna: prima
applicazione dell’ostracismo contro Ipparco 488/487; ostracismo contro Santippo nel 485/484; adozione della procedura del
sorteggio degli arconti 487/486.
Temistocle fu arconte nel 493, ma assunse un ruolo politico decisivo nel 484: egli propose di utilizzare i filoni argentiferi nel
Laurio per finanziare i ricchi così che creassero da loro una flotta di navi, con la clausola di restituire il denaro avuto in
concessione –un talento- qualora la città fosse rimasta insoddisfatta. Per giungere al potere egli fece ostracizzare Aristide suo
avversario politico nel 482.
comando di Leontichida. Ma qui non riportò grandi successi come successe a Fere dove riuscì a impadronirsi di Pagase. Più tardi
però Leontichida fu accusato da Sparta di essere stato corrotto dagli Alevadi, condannato fu costretto all’esilio a Tegea.
PARAGRAFO VIII Le città della Magna Grecia e Sicilia fino alla tirannide dei Dinomedi a Siracusa
In Magna Grecia, intanto, si registra l'ascesa di Crotone, con Pitagora e il «comunismo pitagorico» (simile al modello spartano,
con la gestione comunitaria della terra, «indivisa»). Lo scontro che si verrà a creare tra Crotone e Sibari porterà alla distruzione
di quest’ultima. A Sibari l’aristocrazia chiede asilo per fuggire dalla tirannide di Telys il quale ne richiede l’estradizione, negarla
significa guerra, e Pitagora spinge perché sia così. Sibari viene conquistata e tale incremento territoriale si ripercuote sullo stesso
Pitagora, che propone una gestione comunitaria della terra, ma pur credendo di avere dalla sua il consenso cittadino la sede di
Pitagora e dei suoi 300 affiliati (il synhédrion) viene data alle fiamme perché sospettati di intenti tirannici: «segno dei tempi, e
degli umori che li percorrono». «Le tirannidi di Sicilia si rivelano come la formula di governo più adatta alle prospettive di
incremento territoriale di alcune città in epoca post-arcaica (o tardo-arcaica)». Si susseguono difatti – tra Siracusa e Gela –
Cleandro a Gela (dal 505 al 498), suo fratello Ippocrate (altri sette anni) e Gelone dei Dinomenidi. Quest'ultimo era
aristocratico e militare, sposò la figlia del tiranno Terone di Agrigento (cui Cartagine dichiara guerra) il quale a sua volta sposò la
figlia del fratello di Gelone. L'esercito cartaginese, sbarcato a Panormo, mosse contro Terone ma Gelone intervenne in aiuto del
parente acquisito e sconfisse i Cartaginesi (secondo Erodoto, lo stesso giorno della battaglia di Salamina, nell'estate del 480),
due anni prima di morire. A Gelone successe il fratello Ierone, colto mecenate di Simonide, Pindaro, Eschilo, Senofane,
Epicarmo e altri, il quale osteggiò le città calcidesi, assoggettò Catania e fece trasferire i suoi abitanti a Leontini (al posto dei
Siracusani e di diversi mercenari che, invece, fece spostare a Catania), ribattezzando Catania col nome di Etna (quando morirà
Ierone, nel 476, i Catanesi torneranno nella città natia che riprenderà il nome di Catania nel 461, mentre gli Etnei si sposteranno
a Inessa –ribattezzata anch'essa Etna). Nel 474 Ierone aiutò Cuma contro gli Etruschi, estese il dominio siracusano fino a
Pitecussa (per poco, perché la città venne distrutta da un terremoto), che venne ribattezzata Neapolis (forse fondata sull'antica
Partenope). Sotto Ierone, Siracusa era diventata una «caserma», come dice lo stesso Pindaro, e solo quando Agrigento e Imera
esiliarono il tiranno Trasideo, Siracusa poté insorgere a sua volta contro l'ultimo tiranno Trasibulo (466-465), cacciato, che si
salvò grazie all'aiuto di mercenari importati in gran quantità dai Dinomenidi in Sicilia.
PARAGRAFO V-VI Cimone o il lealismo dei conservatori/ Le riforme di Efiate e la conclusione della III guerra messenica
Ad Atene era il momento dell’ascesa di Cimone, il quale libera dalla presenza persiana Eione nel 476 e poi assoggetta Sciro nel
475. Ma l’acme della carriera di Cimone è la battaglia di Eurimedonte una duplice battaglia navale e terrestre di cui si hanno due
versioni: la prima prevede uno scontro navale svoltosi a Cipro e un secondo prevede lo scontro alla foce dell’Eurimedonte.
Diodoro colloca la battaglia tra il 470/469, altri tentativi di abbassare la data nel 466/465 appaiono poco giustificati, ma se
l’episodio è vero esso non impone che il trionfo di Cimone fosse nel 469: infatti alla designazione degli strateghi come giudici
seguì una rissa tra gli spettatori del teatro. La nomina a giudice in ogni caso attesta l’alto prestigio di Cimone. È ben attestato il
suo ruolo nella spedizione contro Taso che nell’area mineraria del Pangeo sfruttava le miniere d’oro. Nel 465 Taso defeziona e
dall’anno al 463 si svolge un lungo assedio dell’isola, la miniera passa nelle mani ateniesi. Addentratisi nella regione però
subiscono ad opera dei Traci Edoni una dura sconfitta a Drabesco. È da tenere in considerazione che l’intervento ateniese a Taso
faceva seguito a una rivolta e comunque questa zona dell’Egeo è un area di interesse familiare. Il processo che a vittoria
conseguita venne intentato a Cimone è sintomo della parabola discendente del suo potere politico. Cimone fu denunciato per il
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sospetto di essere stato corrotto da Alessandro I il Macedone, al fine di fermare un intervento ateniese che avrebbe dovuto
punire Alessandro per aver aizzato i Tasii alla ribellione. Ma l’errore più grande di Cimone accadde nel quando intervenne in
aiuto degli Spartani impegnati nella III guerra messenica. Gli spartani però resisi conto che la presenza ateniese avrebbe solo
creato ulteriori problemi poichè temettero che una qualche posizione antiaristocratica avrebbe creato solidarietà tra gli insorti e
gli ateniesi stessi, chiesero a Cimone di ritirarsi. Ciò segno un crollo nella credibilità del politico , ne seguì l’ostracismo di Cimone,
ma in questo caso questa volta l’istituzione politica non verrà usata con il suo fine originario, ma allo scopo di regolare i conti col
partito avverso. Liquidato Cimone, Efiate e Pericle poterono dare il via alle riforme costituzionali: abolizione dei poteri
dell’Aeropago, riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera costituzionale dei delitti di sangue. Nel mentre la guerra messenica
era destinata a durare dieci anni, un tempo concepibile se si pensa che il conflitto sarà diluito da scaramucce e piccoli scontri
senza effetto. Sulla durata del conflitto confermano sia Tucidide che Diodoro.
PARAGRAFO IX-X Gli inizi di Pericle - Pericle e la politica estera degli anni ‘50
Per parte di madre, egli era un discendente degli Alcmeonidi, la famiglia più aristocratica e illustre della Grecia che aveva dato
avvio, con Clistene, alla democrazia. Apparve, come si è visto, sulla scena politica come accusatore di Cimone (463), intorno ai
trent'anni, il quale fu pero assolto forse anche perché Pericle non fu durissimo nelle sue accuse. Per la prima volta nella storia –
nota Musti – si sente l'influenza dell'«opinione pubblica», di cui Pericle tenne largo conto. Probabilmente furono il
comportamento di Temistocle (ostracizzato e poi traditore) e altri avvenimenti, difficili da superare, a far sì che Pericle restasse
nell'ombra fino al 472. Si sposò una prima volta con una parente ed ebbe due figli, Santippo e Paralo, che moriranno di peste
insieme al padre. Nel 450 poi ebbe a fianco l'etera di Mileto, Aspasia, dalla quale ebbe un figlio, Pericle il Giovane, che sarà
condannato a morte e giustiziato insieme ad altri strateghi nello spiacevolmente noto «processo delle Arginuse», nel 406. Il
dominio politico di Pericle duro quarant'anni.
In politica estera, gli si può imputare la guerra contro Sparta, ma si alleò negli anni Sessanta del secolo con gli Argivi, i Tessali e i
Megaresi; combatté poi contro Cipro (che vinse i Greci) e nella spedizione in Egitto. Tala spedizione fu avviata principalmente
per motivi militari (più che per la conquista del «granaio del Mediterraneo») dacché Spartani e Persiani si erano inseriti in Egitto
a danno di Atene. Un iscrizione del 460/459 o del 459/458 indica i vari teatri di guerra in cui gli Ateniesi riportarono perdite:
Cipro, Egitto, Fenicia, Grecia, Halieis –in Argolide-, Egina e Megara. Gli Ateniesi furono però assediati a Menfi: gli Ateniesi si
trovano nell’isola di Posopide, resistendo a un assedio lungo un anno e mezzo, i Persiani allora prosciugano l’isola trasformando
una battaglia navale in una battaglia terrestre. Ne segue la ccattura della flotta ateniese e la fuga degli Ateniesi attraverso la Libia
e Cirene. Pericle vinse invece Corinto, provocata dall'alleanza ateniese con Megara, ed Egina, che cederà nel 456. A questo
punto – nota storiografica di Musti – i manuali storici parlano impropriamente di una «prima guerra del Peloponneso» tra Atene
e Sparta (459-446), ma in realtà gli Spartani dal Peloponneso attaccarono Atene nell'Attica, seguendo le indicazioni di Pausania
e, prima di lui, Tucidide. La vera e propria Peloponnesiakòs pòlemos sarà quella scoppiata nel 431. Contemporaneamente alla
spedizione in Egitto, una guerra navale tra l'Attica e l'Argolide veniva combattuta dagli Ateniesi nel golfo Saronico, cui seguì un
accerchiamento territoriale di Atene. Anche nella terraferma il conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci presenta momenti di
scontro territorialmente coerenti tra loro. L’inclusione di Megara nell’alleaza di Atene favorisce il controllo ateniese su due porti:
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quello di Nisea sul golfo Saronico, e quello di Page sul golfo Corinzio. Un intervento spartano nel 458/457 in favore dei Dori della
Metropoli blocca i tentativi di espansione Ateniese nella Grecia centrale. Ad Atene nel mentre si ha il primo complotto contro la
democrazia bloccando il processo di sviluppo di una democrazia a base navale. Gli Spartani invece rischiano di restare bloccati in
Grecia centrale a causa delle alleanze ateniesi. Tuttavia Sparta riesce a divincolarsi tra Tebe e Tanagra, nel 457, e a rientrare nel
Peloponneso. Intanto ad Atene i conservatori si mostrano leali e non cedono ad un attacco alla democrazia sollevato da coloro
che si opponevano alla politica navale e alla costruzione delle Lunghe Mura che Pericle stava realizzando. Gli Ateniesi si presero,
ad Enofita, la rivincita sui Beoti alleati degli Spartani, e sciolsero la Lega beotica ridefinendo i confini della città. A Coronea, però,
Atene perse, nel 447. L'espansionismo ateniese non si arrestò per questo: Atene difese in Tessaglia e contro Fàrsalo (sebbene
senza effetto) i Beoti e i Focesi, mentre Cimone – rientrato cinque anni dopo la sua espulsione da Atene – aveva combattuto
contro Cipro (dunque contro Persiani e Fenici) nel 450 e forse venne conquistata Marion. Infine, a Salamina gli Ateniesi
sconfissero i Ciprioti, dopo la morte dello stesso Cimone. Prima di morire però egli lottò per una tregua di cinque anni tra Sparta
e Atene, periodo durante il quale si registrò un rinnovato fermento antiateniese, sebbene Pericle fece molto per la città: una
politica di intese con la Sicilia occidentale e Leontini, e con l'Italia meridionale
PARAGRAFO XII-XIII Nuovi toni dell’imperialismo ateniese - Riorganizzazione e crisi della Lega navale ateniese
Negli anni ’40 i Focesi avevano dato inizio ad una seconda guerra sacra occupando il santuario panellenico di Delfi. Gli Spartani
intervennero in favore di Delfi, mentre Pericle dall’altro lato restituisce ai Focesi l’amministrazione del santuario. Si viene dunque
a creare nuovamente una condizione di ostilità tra Atene e Sparta. Pericle convocò – senza successo – un congresso panellenico
per decidere: della ricostruzione dei templi distrutti dai Persiani e dell'esecuzione dei voti pronunciati in guerra, della libertà della
navigazione, del mantenimento della pace. Atene vuole esercitare ancora un ruolo panellenico , interferendo con le città vicine,
come ad esempio in Eubea, in ozia invece con l’arrivo della democrazie degli oppositori al nuovo regime scapparono verso
Orcomeno e Chersonea, provocando l’intervento di Tolmide che riesce ad espugnare Cheronea. Ma durante la marcia di ritorno
viene attaccato dai Beoti esuli a Orcomeno, da Locresi ed esuli Euboici. Alla sconfitta segue la liberazione della Beozia
dall’interferenza politica ateniese. Dello stesso segno è la rivolta in Eubea: pericle recatosi a Megara subito dopo la defezione –
sostenuta dai peloponnesiaci- blocca l’attacco ad Eleusi corrompendo il re spartano Plistoanatte e il generale Cleandrida. Pericle
ottiene Megara e i suoi porti con la pace trentennale che verrà stipulata nel 446/445. Tornato in Eubea Pericle doma una
ribellione e ad Istea caccia gli abitanti. Nel mentre sul versante della politica sociale il modello pericleo si rafforza aumentando
però il numero dei suoi oppositori: Tucidide figlio di Melesia sarà ostracizzato neò 444/443 e nello stesso anno viene fondata
sull’antica Sibari una colonia panellenica. Si riconosce un salto di qualità nella nuova organizzazione della Lega navale durante
l’intervento ateniese a Samo nel 441/439 richiesto da Mileto. Pericle arrivato a Samo con 40 triremi si impadronisce dell’isola e
vi introduce la democrazia. L’anno successivo una rivolta oligarchica riporta Pericle a Samo e dopo 9 mesi di assedio l’isola si
arrende perdendo la sua autonomia. Non è molto chiaro dato che anche Tucidide non si esprime se a Samo verrà riportata la
democrazia o se manterrà un governo oligarchico, e stesso problema per le regioni della Calcide e dell’Eretria.
PARAGRAFO XIV L’opposizione a Pericle alla vigilia della guerra del Peloponneso
La fine di Pericle ha inizio già prima dell'autentica guerra del Peloponneso. I conservatori – nella persona di Diopite, un interprete
di oracoli e con il probabile appoggio del popolo accusarono Pericle e i suoi (il filosofo Anassagora, la sua compagna Aspasia e lo
scultore Fidia) di «empietà», la stessa accusa che sarà rivolta a Socrate trent'anni dopo. Anassagora, il filosofo di Clazomene, si
ritirò nella regione natia, a Lampsaco, in Asia Minore, dove morrà nel 428; Aspasia riuscì appena ad essere salvata da Pericle;
Fidia fu accusato di furto di oro, e morì in carcere (chi l'aveva accusato, Menone, fu invece graziato da ogni imposta). «Gli
strumenti della democrazia (e il demos stesso) sono messi in moto dall'opposizione conservatrice, ai danni di chi quegli
strumenti aveva inventati. È un'opposizione per linee interne; ed era il rischio congenito al sistema obiettivamente democratico
da Pericle promosso». Difatti egli venne rieletto fino al 430, anche quando venne accusato di eccessive tasse per la guerra, e
morì stroncato dalla peste «nell'esercizio di una ormai pluriennale funzione».
città sicule ma che poi – nel fronteggiare Siracusa – perse provocando la guerra tra Siracusa (che lo aveva risparmiato) ed
Agrigento, battuta. Con la morte di Ducezio (spentosi per malattia) scomparve quasi del tutto la «volontà di resistenza politica
dei Siculi» alle tirannidi.
CAPITOLO VI La guerra del Peloponneso come guerra civile dei Greci
complottare con gli Spartani vengono scacciati e accolti tra le file di questi ultimi a Tirea. L’anno successivo il 430 i Peloponnesiaci
raggiungono le zone a sud di Atene in un’azione di 40 giorni bloccata dalla diffusione della peste. Gli Ateniesi spostato ora un
contingente rotatore di peste a Potidea. Il popolo vuole un accordo con gli Spartani e Pericle perde il ruolo di stratego. Potidea
cade in mano ateniese nell’inverno 430/429. Successivamente si ha la lunga spedizione del re dei Traci Odrisi, Sitalce, in
territorio Macedone. Pericle è rieletto stratego per l’anno 429/428 ma muore di peste subito dopo i figli legittimi. La diffusione
della peste fa spostare gli interessi dei Peloponnesiaci verso Platea, la quale dopo un assedio si arrenderà. A Pericle succederà
Cleone nel 427, la cui prima iniziativa sarà la punizione della ribelle Mitilene. Dalla parte dei conservatori invece emerge Nicia.
Nel 429 gli ateniesi realizzarono un blocco all’entrata del golfo corinzio con l’invio di una squadra a Naupatto: i Peloponnesiaci
reagirono tentando di staccare l’Acarnania da Atene con un attacco ad Ambracia, ma si videre costretti alla ritirata dagli stessi
Acarnani.
degli insuccessi per i sicelioti anche se nel corso di uno di essi trovò la morte Lamaco. Sparta sollecitata dai Siracusani e da
Alcibiade arrivarono sull’isola con un esercito al cui comando vi era Gilippo. Egli sbarcò a Imera, e con aiuti Imeresi, di Gela e dei
Siculi raggiunse Siracusa. Gilippo prende l’altura di Epipole e inizia a far fortificare la zona precludendo il completamento della
cinta Ateniese. Tra l’autonno 414 e la primavera 413 arrivarono diversi aiuti via mare per i Siracusani. Nel mentre Gilippo da
terra si impadroniva di capo Plemmirio. Gli scontri navali portarono ad una prima sconfitta di Siracusa e ad una seconda di
Atene. In questo momento per la città attica tutto inizio a prendere una piega sbagliata. La spedizione in Sicilia ha maturato
contro di essa i timori e i risentimenti di Sparta, la quale già al momento della spedizione nel 414 aveva avuto in mente di
occupzre Decelea in territorio Attico. Ormai la pace di Nicia era palesemente violata, perciò nell’estate del 413 il re Agide II
invade l’Attica iniziando l’occupazione di Decelea. Atene nel mentre invia un’altra flotta in Sicilia al comando di Demostene
raccogliendo adesioni nella città di Metaponto e Turii. Sbarcato a Siracusa Demostene è consapevole che la premessa non può
non essere la riconquista di Epipole; in uno scontro notturno gli Ateniesi, dopo un primo successo subiscono un a grave sconfitta,
e ciò provocò il rientro in patria. La sera del 27 agosto 413 la flotta è pronta a salpare, ma a causa di un eclissi il superstizioso
Nicia decide di rinviare la partenza, allorchè i Siracusani decidono di attaccare la flotta ateniese bloccano l’uscita del porto e in
due scontri navali raggiungono il loro intento, nel primo muore lo stratego Eurimedonte e cadono nelle mani nemiche 18 navi,
nel secondo gli Ateniesi sono ancora battuti e perdono altre 50 navi. Ora gli Ateniesi possono solo cercare una via di fuga via
terra. Durante la marcia di ritorno però l’esercito guidato da Demostene perde di vista quello di Nicia, venendo così attaccati dai
Siracusani, Nicia e Demostene vengono giustiziati e gli altri fatti prigionieri e di questi ultimi solo pochissimi torneranno in patria.
e Mitilene defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade il coinvolgimento della Persia. Vi era naturalmente una
comprensibile ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello
di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani. Dopo la presa di Mileto da parte Peloponnesiaca, comincia la serie di trattati tra
Sparta e Persia. I trattati saranno tre stipulati da Calcideo, Terimene e Tissaferne. Si può notare come i tre trattati siano l’uno il
perfezionamento dell’altro, i primi due evidenziano le competenze di Sparta –Calcideo- e di Persia –Terimene e il terzo sia la
sintesi tra i due. Nel 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riprendere Lesbo e Clazomene e di bloccare Mileto: qui gli
Ateniesi sbarcarono sopraggiunti poi da 55 triremi Spartani. In Asia si illustrano gli Spartani Pedarito e Astioco, che nel 412 ha
raggiunto Mileto divenuta ormai base navale Spartana. Iaso invece e consegnata a Tissaferne. Ad Atene resta la fedele Samo.
All’inizio del 411 gli Ateniesi hanno Samo, Notion, Lesbo, Cos, Alicarnasso e Clazomene; i punti chiave come Chio, Efeso, e Mileto
sono ormai perdute.
PARAGRAFO XVI La continuazione della guerra ionica e il ritorno della democrazia ad Atene
Nella primavera del 410 la flotta ateniese, comandata da Alcibiade e rafforzata da una piccola squadra condotta proprio da
Teramene, sconfiggeva davanti a Cizico il nuovo navarco spartano Mindaro, che trovava la morte in battaglia: tutta la flotta
peloponnesiaca era catturata. Ora anche nelle operazioni di terra Atene riprende l’iniziativa: il re Agide, spintosi da Decelea fin
sotto Atene, si trova di fronte a un esercito, comandato da Trasillo, ma rifiuta la battaglia. I tempi sono finalmente maturi per
ristabilire la democrazia e le indennità, abolite col colpo di stato del 411. Tra il 409 e il 408, Alcibiade coglie nuovi successi
nell’Ellesponto contro i Peloponnesiaci e contro Farnabazo, il satrapo persiano della Frigia, e quasi tutte le posizioni perdute
nell’area degli Stretti e nell’Egeo settentrionale sono recuperate da Atene. Nella democrazia ateniese si creano ora le condizioni
di una rivalità politica, che per il momento non dà ancora luogo a un conflitto. Infatti Alcibiade è eletto alla strategia nella
primavera del 408; il rientro trionfale in patria, nell’estate di quello stesso anno, coincide con l’assunzione della carica. Alcibiade,
che era andato in esilio per l’accusa di aver parodiato i misteri eleusinii, è lo stesso a cui è consentito guidare per via di terra ad
Eleusi la processione, che in quegli anni aveva potuto svolgersi solo per mare, per timore di attacchi spartani da Decelea.
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giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle. Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di
merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto
forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento che egli afferma fu voluta proprio
dai cittadini che ritenevano fosse un modo per accattivarsi gli Spartani mantenendo in vita un regime oligarchico. Nel 404
Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli‟ ricordati dallo stesso Teramene nel suo discorso di replica a Crizia: “I veri traditori sono
coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade”. La riforma della
costituzione operata dal regime dei Trenta Tiranni vede ancora la contrapposizione di Crizia e Teramene. Teramene propone la
riduzione del numero dei cittadini al numero orientativo di 5.000; orientativo perché, in realtà, Teramene è inclinè verso una
costituzione “oplitica‟, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti, restandone esclusi i teti (cioè, in
pratica i marinai). La posizione di Crizia invece può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che non
comprende neanche tutti gli opliti – è una posizione estrema: 3000, forse 4000 cittadini (su un totale di 30.000). Tra le molte
riforme, c’era anche la soppressione delle indennità periclee (i misthoí). Questi progetti non passeranno. Di fatto, la democrazia
restaurata da Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte
cose cambiano. Ci sono alcuni cambiamenti nei meccanismi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della
ricchezza. In questa fase della politica ateniese compare anche il nome di Clitofonte che è l’autore dell’emendamento al decreto
di Pitodoro,il quale nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli, sopra i 40 anni con il compito di redigere una costituzione.
Egli operò una selezione all’interno dei nómoi – bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla
legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono
conservate fino a un certo periodo, ma si opera una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le
leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato.
Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pàtroi nòmoi che appaiono come il correttivo, un elemento accessorio dela proposta
di Pitodoro di riformare la costituzione per la salvezza di Atene. In concreto per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi di
Clistene quando stituì la democrazia, che è sentita vicina alla costituzione soloniana. Aristotele delinea, nella Costituzione degli
Ateniesi, un quadro della situazione politica dopo il 404, distinguendo: un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterìe; una
democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (che poi si affermerà); e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios
politeía. A conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; la democrazia greca deve passare
attraverso questa fase per diventare la forma positiva del regime popolare.
erano anche dei motivi personali, come le gelosie di Anito nei confronti di Socrate (a causa di Alcibiade), che però non emergono
come fattori di primo piano. Socrate, certamente legato all’esperienza della cultura democratica, non rappresenta però l’ala
democratica stessa. Egli ebbe un continuo contatto con l’ambiente degli artigiani e, probabilmente per questo, era convinto che
si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese, eliminando il sorteggio perché “quando ci affidiamo a un timoniere, o a un
falegname, o a un flautista, non lo scegliamo col sorteggio; invece i governanti li scegliamo col sorteggio” (Memorabili,
Senofonte). Quindi, c’era in lui l’interesse a modificare i sistemi elettorali nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un
voto di designazione, che premiasse le competenze reali nel campo politico. Egli vuole trasformare la politica in una téchne, cioè
in un’attività di “competenti‟. Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva, riportata da
Diogene Laerzio: la prima era il theoùs ou nomízein (“non onorare gli dei‟, estremizzato da Socrate nel “non credere negli dei‟,
più facilmente smentibile); la seconda, quella di avere “corrotto” i giovani (diaphtheírein toùs néous). È comunque evidente il
peso che ebbe il richiamo alla responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e di Alcibiade. “I nostri mali sono stati uomini
come Crizia”, può dire la parte oligarchica, che Meleto rappresenta da posizioni moderate; e Alcibiade è stato la “rovina”, per la
parte democratica che Anito rappresenta: va eliminato Socrate che è stato maestro di entrambi – egli sembra il padre degli
opposti estremismi. Ora che Eleusi è riassorbita, che l’unità si è ricostruita compiutamente, che l’amnistia si è fatta
compiutamente, si condanna l’uomo che potrebbe continuare a produrre uomini come Crizia e Alcibiade; Anito e Meleto
rappresentano la gente „di mezzo‟, che trova il capro espiatorio nell’uomo che ha prodotto delle forti alterazioni all’interno della
città: Socrate diventa la vittima designata; la sua morte il suggello della nuova concordia (homónoia). Socrate ha percorso
l’intero cammino che la democrazia attica aveva reso possibile con la creazione della realtà politica e urbana che fa posto alla
libertà dell’individuo, consentita e vissuta fino al rischio estremo di un distacco dalla stessa città democratica. Socrate ha
percorso, dunque, fino in fondo la strada resa possibile dalla democrazia, finendo in una situazione di rischio e di estraneità agli
occhi della città stessa, che lo porta alla condanna. Ma tutta la sua storia appare iscritta in quella della città.
la vecchia democrazia periclea, ma ne avvia l’interna trasformazione; Sparta reagisce, conservando la diarchia e anche i fermi
limiti (che poi le saranno fatali) della cittadinanza – ma anch’essa registra un fermento che, sul piano economico, è soprattutto
visibile sul terreno della proprietà. Lisandro era anche il creatore del culto della personalità, e ciò è non poco sorprendente nel
cittadino di una città fondata sul principio della parità dei membri del ristretto corpo civico (hómoioi = pari): Lisandro erige una
sua statua di bronzo a Delfi; Duride di Samo dice anche che sia stato il primo dei Greci a cui da vivo furono dedicati altari e
sacrifici – addirittura la festa più importante di Samo, in onore di Era, sarebbe stata ribattezzata Lysándreia. Questo dà l’idea di
tendenze individualistiche e personalistiche a Sparta, che, per la sicurezza con cui si affermano e per il fatto che restano
impunite, sono il segno di nuovi tempi; è il corrispettivo delle personalità, forti, abnormi, eterodosse, contemporaneamente
apparse in Atene, da Crizia ad Alcibiade. Il culto della personalità avrà risvolti anche nella politica istituzionale di Lisandro, che
tenterà di abolire la basileía a Sparta: lui infatti vorrebbe rendere elettiva la regalità. Fino ad allora la diarchia era stata eriditata
solo nelle due famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, entrambe eraclidi. Per Lisandro invece le due famiglie regali non erano le
uniche rappresentanti degli eraclidi a Sparta – pure Lisandro era un eraclide, ma non apparteneva alla discendenza diretta; egli
proponeva quindi di estendere la scelta dei re agli Eraclidi o addirittura a tutti gli Spartiati. Tutto questo va datato a epoca dello
scontro con Agesilao, che era succeduto ad Agide II circa il 400-398 a.C., contro la norma, che avrebbe favorito Leotichida,
ufficialmente figlio di Agide II (ma correva ed era accreditata la voce che Leotichida fosse in realtà figlio di Alcibiade con la moglie
di Agide II). Un oracolo metteva in guardia gli Spartani dall’adottare una regalità zoppa; essendo Agesilao zoppo, gli avversari
suoi e partigiani di Leotichida, insistevano su un’interpretazione letterale dell’oracolo – Lisandro riuscì a far valere però un’altra
interpretazione, secondo cui la regalità zoppa sarebbe stata quella di uno spurio come Leotichida. Il sospetto si convalida e così
Agesilao diventa re. Sorgono però dissapori durante la campagna d‟Asia di Agesilao, nel 396, quando il re umilia in vari modo
Lisandro, che era fra i Greci d’Asia troppo popolare per il suo glorioso passato per non suscitare la gelosia del sovrano. Lisandro
rientrò a Sparta, e prese quindi parte alla guerra beotica, morendo sotto le mura di Aliarto nel 395. La storia e la figura di
Lisandro mettono in luce le tendenziali contraddizioni insite nella società spartana.
dirigere i suoi sforzi verso le regioni dominate da Farnabazo, cioè l’area più settentrionale, ove consegue un certo numero di
successi: qui la movimentazione era certo più facile, il che è confermato dai successi di Dercillida, però l’attacco lì avrebbe potuto
essere utile solo come preludio all’attacco contro Tissaferne, la vera minaccia per le città greche che si sentivano più premute dai
Persiani. Segue un armistizio con Farnabazo, esteso poi a Tissaferne, mentre un’ambasceria spartana viene inviata al gran re per
chiedergli l’autonomia delle città greche. Nel frattempo Dercillida si spinge verso il nord, creando una linea di fortificazione
contro i Traci. A questo punto le città della Ionia inviano ambasciatori a Sparta, per illustrare agli Spartani come dipendesse da
Tissaferne, ove l’avesse voluto, lasciare autonome le città greche – se fosse colpita la Caria, egli sarebbe stato disposto a
concedere loro l’autonomia. È una guerra al fondo di cui non si può venire a capo senza soluzioni drastiche: da un lato c’è
l’esigenza di autonomia dei Greci, che coincide con il desiderio di liberarsi dalla paura di una minaccia sempre incombente;
dall’altro il che re persiano non rinuncia all’affermazione della sua sovranità fino alla linea della costa. Le città greche temono la
grande potenza territoriale alle loro spalle e invocano l’aiuto dei confratelli della madrepatria, in questo momento gli Spartani,
che, avendo distrutto l’impero di Atene, ora devono coerentemente subentrare allo scomparso patronato ateniese delle città
della Ionia. Ma che cosa dovrebbero fare a rigore gli Spartani per tranquillizzare del tutto i Greci d’Asia? Ciò che farà solo
Alessandro Magno, cioè distruggere l’impero persiano. Questo richiede però grande forza militare e finanziaria, due condizioni
che si verificheranno alcuni decenni più tardi per i Macedoni. L’arrivo di Agesilao in Asia nel 396 sembra cambiare la strategia
spartana: in quell’anno egli sconfigge l’esercito di Tissaferne sotto Sardi. A questo punto il gran visir persiano, Titrauste, è inviato
per le trattive con Agesilao, proponendo (invano) che i Greci d’Asia conservino l’autonomia, ma paghino i tributi alla Persia;
Titrauste ottiene però (a pagamento) che Agesilao si rechi a fare spedizione contro i possedimenti del satrapo Farnabazo. Così
nel 395 Agesilao ritorna alla Troade e si prepara per una nuova spedizione nell’Asia minore interna – ma era ormai troppo tardi:
le cose in Grecia avevano già preso un verso, che costrinse Sparta ad impegnare tutte le sue forze nella madrepatria e a
rinunciare a un‟ulteriore offensiva in Asia. A mettere in moto nel 395 la ribellione della Grecia a Sparta fu lo stesso Titrauste:
questi, ritenendo di capire che Agesilao disprezzava il re e non pensava più di andarsene dall‟Asia, inviò Timocrate di Rodi in
Grecia, avendogli dato oro da distribuire tra i personaggi più importanti delle città greche, ottenendone però garanzie nella
prospettiva della guerra a Sparta. Venuto in Grecia Timocrate dà il denaro ai capi del partito “democratico‟ tebano, ai corinzi e
agli argivi.
questa intesa persiano-spartana, vengono a Sardi anche i rappresentanti degli Ateniesi, degli Argivi e dei Tebani. Il compenso per
Sparta, il principio su cui Tiribazo e Antalcida possono intendersi, è quello dell’autonomia delle città greche non d’Asia. Quelle
d’Asia sono dunque rimesse alla sovranità del re di Persia, quelle della madrepatria dovranno regolarsi e organizzarsi secondo il
principio dell’autonomia. Ma l’autonomia è concetto polivalente, che può usarsi contro i Persiani (e, sotto questo aspetto, gli
Ateniesi continuano a difendere i Greci d’Asia, mentre gli Spartani vi rinunciano); può valere però, in quanto applicato al mondo
greco e ai suoi rapporti interni, contro Atene e contro tutti quelli che vogliono costituire coalizioni regolate da un rapporto
egemonico, e opposte a Sparta. Sparta è interessata ovviamente alla seconda faccia del principio dell’autonomia, e quindi a un
regime di autonomia interna al mondo greco, che possa frenare le pretese egemoniche di Atene, o quelle di Argo (concretatasi
nell’annessione di Corinto), o quelle dei Tebani sull’intera Beozia. Di fronte al rischio di vedere frustrate le proprie aspirazioni
egemoniche, Ateniesi, Argivi e Tebani rifiutano la proposta di Tiribazo di una pace fondata da un lato sulla rinuncia alla difesa
dell’autonomia dei Greci d’Asia, dall’altro sull’estensione generalizzata del principio di autonomia ai rapporti intragreci. Ma la
guerra riprende. Nel marzo del 392 veniva annessa ad Argo Corinto; nell’agosto del 392 seguono colpi e contraccolpi da una
parte e dall’altra: gli Spartani conquistano il Lecheo, il porto corinzio sul golfo di Corinto. In Asia Tiribazo è richiamato a corte, al
cui posto è inviato Struta, un satrapo filoateniese; Sparta allora ricomincia gli attacchi, non contro la Persia, ma contro Struta
(ancora i comandanti Tribone e Dercillida). Atene invece, nonostante il satrapo filopersiana, non cambia la sua politica
antipersiana: nel 390 gli Ateniesi inviano aiuti ad Evagora di Cipro, che vengono catturati dal navarco spartano. Di fatto però dal
392 gli Spartani agiscono ormai, nonostante episodiche smentite, come alleati e gli Ateniesi come nemici della Persia. La guerra
corinzia nella penisola: Nel 390, dal Peloponneso, ha luogo una nuova campagna di Agesilao contro Argo e Corinto, e una marcia
in profondità attraverso l’Istmo, fino quasi a Megara; gli Spartani occupano parti del golfo Saronico. Del 390 però è anche la
gloriosa vittoria del generale ateniese Ificrate, noto per le sue innovazioni tattiche, come creatore del corpo di fanteria leggera
dei peltasti e di una tattica più mobile della fanteria oplitica. Il corpo dei peltasti comandato da Ificrate consegue presso Corinto
na schiacciante vittoria sulla mora spartana (uno dei sei reggimenti dell’esercito di Sparta). È uno dei grandi traumi della storia
militare di questa città (accanto a quelli delle Termopili nel 480, di Sfacteria durante la guerra del Peloponneso, di Leuttra nel
371). Segue l’occupazione ateniese delle posizioni spartane nel golfo Saronico. Segue l’attacco di Agesilao contro gli Acarnani
(389/8); la guerra si trascina lentamente; Atene subisce attacchi da forze regolari e da pirati, partite dall’isola di Egina, nel golfo
Saronico, ma riesce ad ottenere una vittoria in quelle acque per opera del generale Cabria. Nel frattempo Antalcida si
posizionava nell’Ellesponto con una flotta che, coi rinforzi di parte persiana, ammontava ormai a più di 80 navi: Antalcida era
ormai in grado di bloccare il passaggio delle navi ateniesi attraverso l’Ellesponto, essenziali per i rifornimenti alimentari della città
(387/6). Questo è la premessa immediata della pace di Antalcida, che è da attribuire probabilmente alla primavera del 386. Gli
Ateniesi temono ormai di essere sconfitti quando constatano l’efficacia del blocco degli Stretti da parte di Antalcida. Sono
preoccupati soprattutto per l’operatività dell’alleanza del re, che si manifesta, tra l’altro, nell’invio di una cospicua flotta; inoltre
Atene, e il Pireo in particolare, sono esposti ad attacchi da Egina. Tutti questi motivi contribuiscono ad alimentare il desiderio di
pace degli Ateniesi. Ma della pace sentono il bisogno anche gli Spartani, costretti dalla prosecuzione della guerra a tenere in
piedi una guarnigione di un reggimento a Lecheo, il porto corinzio, e insieme un’altra mora a Orcomeno in Beozia. Temono
anche che alcune città alleate possano defezionare. Intorno a Corinto si ha un andirivieni di azioni militari, di attacchi e
contrattacchi, che si susseguono senza efficacia: sotto la minaccia di un intervento armato spartano, sono ormai disposti ad
accettare la pace anche gli Argivi: Il re Artaserse “ritiene giusto” che siano sue le città d’Asia, e insieme Cipro e Clazomene
(entrambe oggetto dell’attivismo ateniese negli ultimi anni). Diverso è il discorso per le altre città greche: in Europa esse
possono, anzi devono, essere autonome. Il re sancisce l’autonomia di città piccole e grandi, tranne Lemno, Imbo e Sciro – le
cleruchie dovranno essere ateniesi, come già prima. Se qualcuno si opporrà a questa pace, o non l’accoglierà, il re gli muoverà
guerra su tutti fronti e con tutti i mezzi. Tutti i Greci accettano e giurano: salvo che i Tebani vorrebbero giurare per i Beoti, con
questo mettendosi già in conflitto con la pace che stanno giurando, perché non vogliono evidentemente riconoscere
l’autonomia alle città beotiche. A ciò si oppone Agesilao; gli ambasciatori tebani tornano per consultazioni a Tebe; ma Agesilao
nel congedarli annuncia loro un intervento militare, se non accetteranno la pace soltanto a nome di Tebe, senza quindi invocare
l’egemonia sulla Beozia e la sua rappresentanza. In effetti, egli non si limita a minacciare la spedizione, ma già la organizza, e
stabilisce il quartier generale a Tegea in Arcadia; quando a Tebe si sa dell’imminenza dell’attacco spartano, si accetta la
condizione di „firmare‟ a solo proprio nome, e non in nome di Beozia. A Corinto c’è un certo ritardo nella esecuzione degli
impegni: la parte democratica al potere teme che, una volta rimossa la tutela argiva, gli oligarchici rientrati possano farle pagare
le stragi che nel 392 essa aveva compiuto, perciò trattiene la guarnigione di Argo; a una nuova minaccia spartana segue
l’attuazione degli impegni anche da parte corinzia. A questo punto, Sparta ha finalmente ottenuto ciò che voleva: ha abolito
l’egemonia tebana in Beozia, ha reso autonoma Corinto, ponendo fine all’annessione argiva, ed ha ottenuto, almeno in linea di
principio, da parte di Atene, il riconoscimento che i rapporti interstatali nel mondo greco si debbano regolare sul principio
dell’autonomia (il che comporta almeno una certa remora alla ricostituzione di un suo impero navale).
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smentita dal fatto che Tebe sia riuscita ad imporne una sua per alcuni anni, a partire dal 371: troppo evidente è la diversità di
spessore e di qualità di questa egemonia rispetto a quelle esercitate in passato da Sparta e Atene. È questo un segno
dell’esaurirsi della capacità di potenza e di dominio delle singole póleis: toccherà ai re di Macedonia dare una risposta
all’esigenza, che ormai si pone all’interno del mondo greco, della creazione di un nuovo centro di gravità. Sparta non accettò il
nuovo stato di cose maturato in Beozia dopo la liberazione della Cadmea. Nel 378 Agesilao invase la regione e giunse quasi fin
sotto Tebe, dove i Tebani però contavano con l’aiuto di un corpo di spedizione ateniese al comando di Cabria. Altrettanto
penetrante, ma in definitiva infruttuosa, la spedizione nel 377 di Agesilao, caduto malato sulla via del ritorno; sostituito nel 376
dal re Cleombroto nel comando della spedizione, questa volta essa non riesce a forzare i passi tra Megaride e Beozia. Ancora nel
376, Sparta subiva un altro rovescio, per opera dell’altra protagonista, Atene: Cabria, in una battaglia in cui rifulgono le sue
grandi qualità strategiche, riesce ad affondare nelle Cicladi metà della flotta peloponnesiaca. La spedizione navale spartana
rispondeva alla costituzione di una nuova Lega navale attica, cui si è già accennato.
sconfitta fu per Sparta un colpo durissimo. Sul campo restarono Sfodria, lo stesso re Cleombroto, e in totale 400 su 700 Spartiati
presenti: era un tributo di sangue fatale per la città dalle poche migliaia di cittadini (quasi 3.000 in quest’epoca).
PARAGRAFO V L’egemonia tebana e la spinta autonomistica in Grecia
Intanto Tebe si rafforzava nell’area a sud della Tessaglia, costringendo Orcomeno ad aderire alla Lega beotica e piazzando
guarnigioni a Nicea presso le Termopili. Così, dopo Leuttra, la Tessaglia entrava nel campo dell’interesse attivo di Tebe, con un
significativo ribaltamento dei ruoli tra le due regioni, conseguenza della morte di Giasone. In aree lontane dalla Beozia, Tebe
sosteneva spinte e tendenze autonomistiche, principalmente nell’area del Peloponneso. In Arcadia si costituiva una
confederazione, con un’assemblea generale di 10.000 (mýrioi), un collegio di strateghi e uno di magistrati federali, nonché una
milizia stabile. Un intervento di Agesilao per l’autonomia Tegea, ove il partito democratico era stato portato al successo dai
Mantineesi, si risolse in una ritirata e in un nulla di fatto. A portare aiuto alla neonata Lega arcadia, dunque, non fu Atene, ma
Tebe. Comincia così la serie delle spedizioni tebane nel Peloponneso (ve ne furono quattro), sempre guidate da Epaminonda,
che assunse la regione come settore di suo particolare impegno. Nel solo anno 370/69 furono due le discese di Epaminonda nel
Peloponneso. Nella prima, i Beoti intervengono per replicare al vano attacco di Agesilao contro Mantinea; poi avanzano fino in
vista di Sparta, ma per difficoltà di attraversamento dell’Eurota e il sopraggiungere di soccorsi alleati, proseguono, oltre Sparta,
verso la Messenia, dove la defezione tocca la maggior parte delle località e si dà avvio alla costruzione della città di Messene al
monte Itome. Atene e Sparta serrano ora i ranghi e stipulano un trattato di mutua difesa, su basi paritarie, un trattato che segna
la svolta storicamente decisiva nei rapporti tra le due città, che ormai avranno un buon numero di occasioni d’intesa e
collaborazione. In aiuto di Sparta interverrà Dionisio I, con l’invio di navi e mercenari, quando Epaminonda calerà per la seconda
volta nel Peloponneso, limitando però la sua azione al nord della penisola e a Sicione e Pellene, dopo essersi congiunto con gli
Argivi, gli Elei e gli Arcadi. Al compito di rafforzare la presenza e l’influenza beotica nel nord greco (Tessaglia e Macedonia)
provvede invece l’altro protagonista dell’egemonia tebana, Pelopida. In Tessaglia (369) egli libera Larissa, e poi interviene da
paciere nelle contese dinastiche macedoni, tra il re Alessandro II e il cognato, Tolomeo di Aloro. Nel 368 Pelopida interviene di
nuovo in Macedonia, dove il momentaneo accordo tra Tolomeo e Alessandro II si era già rotto: Alessandro fu assassinato,
Tolomeo assunse la reggenza per il fratello di Alessandro, Perdica III. L’arrivo di Pelopida ristabilisce l’influenza tebana in
Macedonia, mediante un nuovo accordo con Tolomeo e la consegna di Filippo (il futuro re Filippo II), fratello di Perdicca III, e il
suo trasferimento a Tebe come ostaggio. Intanto nel Peloponneso la Lega arcadica si estendeva e consolidava i rapporti con i
popoli nemici di Sparta, dagli Argivi ai Messenii: la nuova lega si rafforzava politicamente e si creava una capitale federale,
Megalopoli, nell’Arcadia occidentale. L’impianto fu pensato in termini grandiosi, del tutto corrispondenti al significato del nome,
con l’intento anche di fungere da città rifugio (368/7). Nel 367 una terza spedizione nel Peloponneso guadagnava l’Acaia come
alleata a Tebe. Epaminonda avvia il suo programma di armamento e di politica navale. L’imitazione competitiva nei confronti di
Atene è evidente e dichiarata. Si avviò così la costruzione di una flotta di 100 triremi: con le prime navi disponibili, Epaminonda
raggiunse Bisanzio, che indusse ad uscire dalla Lega navale ateniese, e Chio, Rodi e Cos, con cui strinse buoni rapporti. Ma la
politica navale si fermò lì: Tebe non solo mancava di una tradizione di pratica marinara e mercantile, ma più che altro non aveva
il ruolo di guida ideologica che aveva Atene nei confronti del mondo greco d’Asia. Nel 364 i Tessali richiedevano l’intervento
tebano contro il tiranno Alessandro di Fere: Tebe concede un aiuto limitato, 300 cavalieri capeggiati da Pelopida: esso ottiene la
vittoria, ma resta morto sul campo lo stesso Pelopida. L’anno successivo le forze Beoti sconfiggevano definitivamente quelle di
Alessandro di Fere, di cui si riducevano drasticamente i domini. Circa lo stesso periodo i Tebani procedevano a regolare storici
conti con Orcomeno: la città venne distrutta, la popolazione maschile sterminata, le donne e i bambini venduti schiavi.
ma con più incertezza, minore slancio e minore coesione interna, quindi con un’efficacia storica sempre più limitata. Sparta non
intendeva rinunciare alla Messenia e al suo ruolo nel Peloponneso; Atene manteneva, e forse momentaneamente accentuava,
la sua posizione egemone all’interno della Lega navale; Tebe continuava a tener viva la propria ostilità verso Sparta e anche,
benché in minor misura, verso Atene, ma soprattutto cercava di conservare un ruolo fondamentale nella Grecia centrale e nella
stessa Tessaglia. Lo scontro tra queste ormai sempre più inefficaci ambizioni creò, nei fatti, le condizioni per il conflitto accesosi
nella Grecia centrale intorno al santuario di Delfi, non a caso nelle vicinanze e per iniziativa stessa dei Tebani: una nuova guerra
sacra (la terza della storia del santuario delfico), che si apriva come conflitto regionale, rigorosamente contenuto all’interno del
mondo delle póleis, e però doveva svilupparsi e chiudersi (segno, questo, di un’epoca veramente nuova) come conflitto
coinvolgente anche i Macedoni, e con una pace, quella di Filocrate (346), in cui Filippo II era parte determinante, anzi già
dominante.
conquiste è la creazione di un dominio continuo, ma non omogeneo al suo interno (quanto a tipo di rapporto con Siracusa), che
si estenderà, nel 386, dopo la vittoria dell’Elleporo e la presa di Reggio, sino all’attuale Puglia e che includerà: 1) aree annesse a
Siracusa, dove è praticata una politica di depoliticizzazione e disurbanizzazione (area etnea); 2) Messina, che resta città, per
opportunità geografica e strategica, ma in posizione di stretta dipendenza politica; 3) Reggio, che sarà distrutta; 4) Locri, che è la
fida alleata, la sentinella degli interessi e del dominio di Dionisio. Oltre questi confini, Dionisio cerca solo posizioni di egemonia, di
prestigio, di controllo: ma il dominio „continuo‟ non risulta essersi esteso oltre quell’istmo. Affidato al limitato respiro di un
uomo e della sua discendenza, questo impero si sgretolerà già sotto Dionisio II: ma esso è, se non un modello, certo un sicuro
antecedente degli stati territoriali creati da una città nel mondo mediterraneo. Lo stesso dominio di Roma sarà un sistema non
meno complesso e in definitiva analogo; la differenza fondamentale è che Roma concepisce l’impero come un compito che va al
di là del respiro di uno o di pochi individui, di una o due generazioni, come il compito storico di una intera classe dirigente, che se
lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli. In Sicilia lo sbocco non potrà essere che un nuovo
conflitto con i Cartaginesi, in vista del quale sulle Epipole, già nei primi anni della tirannide, Dionisio costruisce il poderoso
castello Eurialo, modello di architettura militare. Verso gli Italioti egli tenta le armi dell’intesa. Messina esce dall’alleanza con
Reggio e si accorda con il tiranno, entrando nel ruolo assegnatole da Dionisio di sentinella sullo Stretto, per bloccare eventuali
aggiramenti della flotta cartaginese; con Reggio Dionisio tenta un’alleanza matrimoniale, chiedendo in moglie una fanciulla di
nobili natali – secondo la tradizione Reggio gli avrebbe offerto la figlia di uno schiavo; diverso il comportamento dei Locresi, che
concessero al tiranno Doride, la figlia del più insigne cittadino: il tiranno la sposò lo stesso giorno che contrasse le nozze con una
nobildonna siracusana: non c’è ragione di dubitare della bigamia; era una condizione eccezionale che corrispondeva in pieno
alla duplicità del campo d’interesse di Dionisio. Reggio, in definitiva, rappresentava nel conflitto che si profilava col tiranno
siracusano, il principio cittadino e autonomistico, contro il principio dello Stato territoriale costituito intorno a Siracusa, che
Dionisio da parte sua perseguiva e rappresentava.
riscattare la vita con il pagamento di una mina; quello che non potevano pagare, furono venduti schiavi a Siracusa. Solo Dionisio
II ricostruirà il nucleo di una nuova Reggio chiamata, dal nome della divinità più cara alla città, Febìa.
PARAGRAFO X La politica imperiale di Dionisio
Dionisio incentiva anche la fondazione di colonie nella costa Illirica dell’Adriatico, nonché nella stessa Italia, riprendendo in
grande stile dunque le colonizzazioni corinzie. Presenze siracusane si hanno anche nel Tirreno, contro gli Etruschi, e addirittura in
Corsica, dove si alleano con i Celti nella lotta contro gli Etruschi. Tra 379 e 374 si ha una terza guerra cartaginese, e la pace che
seguì sancì l’appartenenza a Cartagine di alcuni territori ad occidente, come Selinunte e Terme; in una quarta guerra contro
Cartagine, nel 367, Selinunte è ripresa, ma il tiranno muore nell’inverno, all’età di 63 anni. Scompariva con lui un personaggio
che aveva irradiato, da Siracusa e dal suo dominio costruito intorno allo Stretto, presenza e potenza e capacità di intervento in
tutte le direzioni. In Grecia stessa egli aveva più volte interferito militarmente, sempre in favore degli Spartani, già durante la
guerra corinzia; poi, nel 372, aveva partecipato all’assedio di Corcira, contro gli Ateniesi, e ancora era intervenuto dopo Leuttra,
per contrastare Epaminonda e gli Arcadi ostili a Sparta. Ma dopo Leuttra, con il riavvicinamento tra Atene e Sparta, si erano
anche create le condizioni per la ricostituzione di buoni rapporti tra Atene e l’árchon Sikelías. La vicinanza ideale a Sparta e la
notorietà del personaggio ad Atene, sommate insieme, spiegano in misura non trascurabile i primi due dei tre viaggi di Platone
in Sicilia: a questi due dati ne va aggiunto un terzo, la consapevolezza, che ha il mondo greco, della relativa facilità con cui in
Sicilia si poteva procedere a operazioni di ingeneria politica, disfacendo vecchie città e costruendone di nuove. A un riformatore
e sognatore di un nuovo stato, come Platone, doveva sembrare la terra promessa.
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diritti su Anfipoli, inviandovi e installandovi una guarnigione nel 360; ma l’anno successivo perisce in una spedizione contro gli
Illiri.
PARAGRAFO V Stato territoriale e póleis nell’età di Filippo II
A Perdicca III succedeva, dapprima come reggente per il nipote minorenne (Aminta IV), Filippo II, con il quale la Macedonia
comincia una grande ascesa storica. La storia dei rapporti tra Filippo II, la Macedonia e la Grecia ha subìto negli ultimi decenni una
radicale revisione rispetto alle impostazioni ottocentesche del problema. È stata soprattutto la cultura tedesca dell’Ottocento e del
primo Novecento a proporre un’interpretazione nazionalistica dello scontro tra Macedonia e Grecia al tempo di Filippo II e di
Demostene, interpretato alla luce delle vicende dell’unificazione della Germania nel XIX secolo da parte della Prussia. L’applicazione
di una chiave di lettura nazionalistica allo scontro Macedonia-Grecia è inadeguata però sia sul versante macedone sia sul versante
greco. La Macedonia di Filippo II non si pose il problema di una unificazione politica indifferenziata e centralizzata del restante del
mondo greco intorno alla Macedonia; così come neanche il mondo delle città greche riuscì realmente a produrre un’idea di unità
nazionale, ma al massimo, e anzi con particolare fervore, produsse un programma panellenico, che di fatto non andava oltre uno
schema politico associativo e confederativo di stati autonomi, stretti intorno all’egemonia di uno di essi. La politica egemonica
perseguita da Filippo II presenta moduli diversi di politica estera di forme di predominio, a seconda delle diverse aree e delle diverse
regioni a cui quella politica espansionistica è destinata. Se è vero che nell’area macedone e trace, e in generale nell’Egeo
settentrionale, Filippo II perseguì una politica di espansione e annessione territoriale, di unificazione territoriale secondo princìpi di
continuità e compattezza di dominio, nelle restanti regioni del mondo greco egli perseguì moduli diversi, i quali ricalcano
fedelmente le tradizioni di potere di quelle stesse regioni: in Tessaglia, ad esempio, Filippo II assunse la carica di tago, cioè il ruolo di
generalissimo, investito di ampi poteri non solo militari ma anche finanziari nell’àmbito delle città tessaliche; a sud delle Termopile
invece, la politica di Filippo II non poteva che essere di egemonia, cioè di controllo dall’esterno, dapprima attraverso l’utilizzazione di
organismi panellenici preesistenti (come l’Anfizionia delfica) e poi, quando quelli non basteranno più allo scopo, attraverso nuove
forme associative e federative, improntate al principio dell’autonomia (certo coronata dall’egemonia, cioè, dal preminente ruolo
militare di Filippo II). Quel che risulterà dalla battaglia di Cheronea del 338 non sarà la morte della democrazia in assoluto; non sarà
neanche la morte della libertà greca; sarà soltanto la premessa a una situazione nuova, nella quale il mondo delle città greche si
sarebbe trovato a confrontarsi con una realtà politica nuova, quella degli stati territoriali ellenistici a vertice monarchico.
Naturalmente questo accentramento significava anche un formidabile strumento di condizionamento per le „libere‟ città greche. Il
problema storico resta quello del reale grado di autonomia che le città greche, vecchie e nuove, riuscirono a garantirsi nei confronti
degli stati territoriali: è innegabile che sul piano formale il rapporto fu di autonomia, ma, sul piano sostanziale, esso cambiò a
seconda degli uomini, dei tempi, delle condizioni. I primi anni del regno di Filippo II sono contrassegnati da azioni dapprima
diplomatiche, poi militari, rivolte a contenere e successivamente a respingere la pressione degli Illiri, dei Peoni, dei Traci sui confini
della Macedonia. La fase successiva (dal 357 in poi) del regno di Filippo II rappresenta il periodo in cui si pongono le premesse dello
scontro con Atene. In un trattato stipulato segretamente con Atene, il re macedone si era dimostrato disponibile a conquistare per
Atene medesima Anfipoli e a consegnargliela, in cambio della città macedone di Pidna. Ma nel 357 Filippo II procedeva
all’annessione di Anfipoli. Il gesto di Filippo, che inizia una serie di conquiste nell’àmbito dei possedimenti o delle località di influenza
ateniese nell’area traco-macedone (Pidna e Potidea nel 356; Metone nel 354), e che inaugura la politica dell’unificazione territoriale
delle Macedonia e delle contigue aree, si inserisce in un momento di grave crisi per Atene.
all’Eubea e al settore dell’Egeo settentrionale che comprendeva le isole del mar Egeo e alcune città sulla costa tracica. Atene poteva
contare ancora sull’entrata annua di circa quattrocento talenti e sulle circa trecentocinquanta triremi stazionate al Pireo.
PARAGRAFO VII La terza guerra sacra (356-346) e la guerra di Olinto (349/8)
Si era intanto aperto, qualche tempo dopo l’inizio della guerra sociale, un decisivo capitolo della storia non solo della Grecia
centrale, ma della Grecia in generale: la III guerra sacra, che già nel suo nome dichiara che essa si svolge intorno al santuario di Delfi
e alle sue ricchezze. Da un punto di vista politico la guerra sacra nasce come espressione del tentativo di Tebe di assicurare la
continuità della sua egemonia (di fatto compromessa dalla battaglia di Mantinea del 362 a.C.). I prodromi della guerra sacra
risultano proprio dal desiderio di rivalsa dei Beoti nei confronti sia dei Focesi sia degli Spartani: agli uni e agli altri vengono inflitte
multe altissime, da versare al santuario delfico, per responsabilità di ordine diverso: agli Spartani veniva imputato di aver occupato
la Cadmea nel 382 a.C., ai Focesi di aver coltivato la terra sacra di Cirra. L’imposizione di una multa troppo forte per la coltivazione di
un territorio assai piccolo suscita la ribellione dei Focesi: Filomelo occupa il santuario, sostenendone l’originaria appartenenza ai
Focesi e limitandosi in un primo momento a riscuotere contributi dai cittadini della città di Delfi, astenendosi dalla ricchezze del
santuario. Immediata la reazione dei Locresi, con una battaglia presso Delfi, a cui però risponde una irruzione dei Focesi in territorio
locrese. I Beoti non si lasciarono sottrarre la funzione la funzione di tutori del santuario, che apparteneva loro come ad autorevoli
membri dell’Anfizionia: perciò essi inviarono ambasciatori ai Tessali e agli altri Anfizioni, invitandoli a prendere le armi contro i
Focesi usurpatori. Scoppia dunque la guerra, che è sacra in quanto proclamata dagli Anfizioni contro i Focesi; ne segue una
spaccatura all’interno del mondo greco: per il santuario, e contro i Focesi, si schierano i Beoti, i Locresi, i Tessali; ai Focesi prestano il
loro aiuto gli Ateniesi, gli Spartani e alcuni altri peloponnesiaci. Nel 354 a.C. i Tessali irrompono nella Locride e combattono contro i
Focesi presso il colle Argola, ma ne sono sconfitti; successivamente, l’intervento dei Beoti raddrizza progressivamente la situazione,
fino alla sconfitta di Filomelo nella battaglia di Neon (354 a.C.). La sua carica fu assunta da Onomarco, che sfrutta di più le ricchezze
del santuario, aumentando l’impegno militare e riuscendo a corrompere i Tessali, e quindi a escluderli dalla guerra anfizionica,
conquistando nel frattempo posizioni sia in Locride sia in Beozia. Nel frattempo i Tessali chiedono a Filippo II di Macedonia di
sostenerli contro il tiranno Licofrone di Fere. Filippo interviene una prima volta nel 354 a.C. contro Licofrone; ma con il tiranno di
Fere si schierano i Focesi. In due successivi scontri Filippo II, seguito dai Tessali, viene sconfitto da Onomarco. È l’anno più critico
(353) nella storia dell’ascesa politica di Filippo II e dell’espansione della Macedonia. Ne seguì una ritirata strategica; ma nel 352
Filippo II rientra per attaccare Licofrone di Fere, che ricorre all’aiuto dei Focesi – all’appressarsi di un esercito focese di 20.000 fanti e
500 cavalieri, Filippo induce i Tessali ad associarsi a lui, con un esercito che supera i 20.000 fanti e 3000 cavalieri. In uno scontro ai
Campi di Croco, Filippo consegue una straordinaria vittoria su Onomarco: dei Focesi e dei loro mercenari periscono più di 6000, fra
cui lo stesso generale; non meno di 3000 i prigionieri. Filippo impicca Onomarco già morto e fa annegare gli altri come profanatori
del tempio. Nel 352 Filippo II ha dunque ormai una posizione preminente, e di tutta legittimità, nel conflitto greco. Pur non essendo
ancora intervenuto a sud delle Termopile, egli aveva battuto e punito il profanatore del santuario. Dopodiché Filippo cerca di
forzare il passaggio delle Termopile, ma qui lo bloccano gli Ateniesi che, in numero di 5000, insieme con 2000 Achei e 1000
Spartani, erano venuti in soccorso dei Focesi. Filippo rinuncia ad attraversare il passo. In questa decisione è da vedere non soltanto
una sorta di pragmatismo militare, ma anche un’oculata scelta politica. Al di là delle Termopile gli si sarebbe aperto il campo più
vasto e complesso dei rapporti diretti con le principali città greche: il mondo delle póleis, seppure ben rappresentato anche a nord
delle Termopile, era infatti la facies storica dominante nelle regioni greche a sud di quel passo. Superandolo, Filippo si sarebbe
venuto a trovare di fronte a nuovi problemi, a nuove scelte, in un mondo entro il quale egli non voleva entrare in quel momento e
in quel modo, e soprattutto non poteva entrare con gli stessi metodi, lo stesso tipo di rapporto, le stesse prospettive di dominio che
aveva perseguito in Macedonia e, in forma diversa, persino nella Tessaglia. Di là delle Termopile, si apriva il campo per una politica
nuova. In compenso, nel 351 Filippo diresse il suo attivismo militare ed espansionistico verso l’Egeo settentrionale, e precisamente
verso la regione tracica, ancora controllata nei suoi lembi estremi da Atene. Qui forse egli avrebbe raggiunto, ancora in quell’anno, il
confine dell’Ebro, minacciando l’area degli Stretti, fondamentale per Atene, se non altro per il commercio di grano con il Mar Nero.
Quanto Filippo II intendesse la decisione di non varcare le Termopile nel 352 come una decisione politica, dirottandone altrove la
spinta espansionistica e le mire strategiche, risulta dallo svolgimento degli eventi successivi, nei quali l’attenzione del re macedone
appare ancora una volta rivolta a nord dell’Egeo. Tra il 349 e il 348 si svolge la guerra tra Filippo II e Olinto, cioè contro quella Lega
calcidica alla quale ancora nel 356 Filippo aveva attribuito il territorio di Potidea. Questa fu anche l’occasione storica per la
precisazione del ruolo politico di Demostene quale antagonista di Filippo II. Durante la guerra di Olinto si verificano ben tre
interventi ateniesi, guidati rispettivamente da Carete, da Caridemo e di nuovo da Carete, e con un sempre maggiore impegno di
Atene sul terreno dell‟utilizzazione di forze oplitiche cittadine, da schierare contro il nemico accanto ai mercenari. Tuttavia di questi
interventi furono inefficaci i primi due e addirittura tardivo il terzo: quando l’ultima spedizione giunse, la città era già caduta. Filippo
ne volle la distruzione; e fu definitiva nella storia. Nel 347, logorati dal confronto con i Focesi, i Beoti chiedono l’aiuto di Filippo.
Questi invia pochi soldati – secondo le fonti, per non favorire troppo i Beoti. Ce ne sarebbe un’altra spiegazione, del tipo che sopra
abbiamo proposto per il mancato passaggio delle Termopile nel 352: Filippo non voleva ancora un coinvolgimento diretto nelle
questioni che si ponevano per il mondo greco a sud del passo. Finalmente, nel 346 i Focesi incominciano ad accusare una notevole
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stanchezza e Filippo riuscirà in quell’anno a domarli, smilitarizzando poi le città e consentendo la partenza delle forze mercenarie,
comandato dall’ultimo capo focese, Faleco. La resa definitiva dei Focesi si ebbe però soltanto dopo che in Grecia fu raggiunto un
accordo tra i Macedoni, gli Ateniesi e gli altri Greci, con la cosiddetta pace di Filocrate. I Macedoni volevano l’esclusione dei Focesi
dal trattato, ma gli Ateniesi riuscirono a farli rinunciare almeno formalmente a questa pretesa. Filippo II ne usciva pienamente
legittimato nel quadro di quello che era all’epoca lo strumento panellenico per eccellenza, il sinedrio anfizionico, nel quale i due voti
dei Focesi passavano ormai a Filippo II. Così Filippo aveva realizzato il disegno di intervenire nel mondo delle città greche nella
posizione e forma più legittima possibile, e addirittura prefigurava, rispetto all’Anfizionia delfica, quella posizione di capo militare
(hegemón), che egli perfezionerà, dopo la battaglia di Cheronea, con la creazione della Lega di Corinto. A Filippo fu anche attribuita
la molto onorifica presidenza dei giochi pitici.
però solo il coronamento del lungo e intensissimo sforzo prodotto da Demostene nell’organizzare un campo di resistenza
all’azione, spesso blanda e diplomatica, ma talora più aggressiva e d’intervento, dispiegata da Filippo II. L’alleanza con Tebe fu il
capolavoro politico di Demostene, cui però non seguì il successo militare. Negli ultimi anni prima di Cheronea lo scontro fra Atene e
la Macedonia assume quindi i contorni di un conflitto personale di dimensioni titaniche fra Demostene e Filippo. Al principio del 340
Demostene era riuscito a stringere intorno ad Atene l’Eubea (con l’espulsione dei tiranni ivi insidiati con l’appoggio di Filippo),
inoltre Megara, Corinto, Corcira, l’Acaia e l’Acarnania. Filippo aveva insediato sul trono di Epiro il proprio cognato, ed era riuscito a
fronteggiare le crociate diplomatiche di Demostene nel Peloponneso, che avevano fruttato ad Atene alleanze con Argo, Megalopoli
e Messene (destinate però a rimanere infruttuose al momento della resa dei conti con Filippo, perché bilanciate da precedenti e
mai annullate alleanze delle medesime città col re macedone); egli poteva inoltre contare sul controllo di fatto della Tessaglia, sulla
sua autorevole presenza nell’Anfizionia, e sulla possibilità di azione politica da esercitare verso la debellata Focide, le due Locridi e
soprattutto la Beozia, ormai così violentemente e contraddittoriamente contesa fra i due grandi rivali. Per Filippo, nel 340, dopo i
fallimenti delle campagne di Perinto e Bisanzio, si era ormai creata una situazione di stallo: difficile avanzare nella zona degli Stretti;
difficile consolidare alleanze e possedimenti nel Peloponneso, nell’area del golfo Corinzio, in Eubea; lo strumento che ora egli
poteva attivare era l’Anfizionia e il ruolo da lui detenuto in quel sinedrio: e così fece, con quel gioco politico sottile e penetrante che
egli spinse fino alla dichiarazione della guerra sacra contro i Locresi di Anfissa (339/8). Filippo intervenne con la rapidità del fulmine:
raggiunse la Doride e quindi Elatea nella Focide; la notizia suscitò sgomento in Atene, che si riteneva in stato di guerra con Filippo:
correre ai ripari significava per gli Ateniesi in primo luogo frapporre tra sé e Filippo la resistenza di una Beozia alleata. Filippo cercava
però un’intesa politica con Tebe, facendo balenare concessioni, in cambio dell’alleanza militare contro Atene, o del permesso di
attraversare il territorio. A Tebe, Atene dovette cedere il comando generale delle operazioni di terra e metà del comando per mare,
mentre la città beotica avrebbe provveduto solo per un terzo alle spese di guerra. Mentre l’esercito ateniese si spostava in Beozia e
poi, con i Tebani, in Focide, un esercito mercenario al comando di Carete infliggeva due sconfitte al Macedone presso il Cefiso, non
lontano da Anfissa. Nella primavera del 338 Filippo si prese la rivincita, sconfiggendo duramente Carete, attaccò quindi Anfissa, che
si arrese e dovette abbattere le mura e mandare in esilio i responsabili. Ora, assolti i suoi doveri anfizionici, Filippo occupava Delfi, e
successivamente Naupatto sulla costa; quindi ritornava in Focide, costringendo i confederati nemici a ritirarsi in Beozia, a Cheronea.
Qui il 7 Metagheitnione del 338, ebbe luogo l’epocale battaglia: tra le alture di Cheronea e il Cefiso si disponevano gli alleati (a
destra i Beoti, al centro i Corinzi gli Achei ed altri, a sinistra gli Ateniesi al comando di Carete Lisicle e Stratocle). I Macedoni
attaccarono da sinistra la destra nemica: una decisione che da un lato riprendeva la „tattica obliqua‟ della battaglia di Leuttra,
dall’altro aveva forse anche il fine di togliere alla battaglia il significato di uno scontro frontale con Atene. Sulla sinistra, infatti, il figlio
di Filippo, Alessandro (diciottenne), attacca e sfonda, travolgendo il „battaglione sacro‟ tebano; sulla destra, il re dapprima
fronteggia gli Ateniesi e poi si ritira su “terreni più alti‟ presso il Cefiso, fino al momento che il centro dei nemici confederati si allarga
e scompone: a questo punto il contrattacco macedone produce l’accerchiamento degli Ateniesi. Della vittoria Filippo fece un
accortissimo uso politico. Tebe dovette accogliere una guarnigione macedone sulla Cadmea, consentire la rinascita di Platea e di
Orcomeno, richiamare gli esuli e condannare gli avversari di Filippo. Ad Atene invece ci si disponeva a un’ultima difesa da un attacco
militare (che Filippo però mostrò proprio in quella circostanza di non aver mai realmente progettato): furono chiamati alle armi i
cittadini di età fino a 60 anni, fu promessa la libertà agli schiavi e la cittadinanza agli stranieri, fu previsto il ritorno degli esuli. Ma
rapidamente il partito pacifista, con alla testa Focione ed Eschine, riprese in mano la situazione. Presto si arrivò all’accordo: Atene
doveva cedere alla Macedonia il Chersoneso tracico, ma otteneva in compenso Oropo (sempre contesa ai Tebani); ess scioglieva
inoltre la Lega navale, e aderiva alla Lega panellenica, che Filippo si accingeva a fondare; riotteneva i prigionieri di Cheronea senza
pagamento di riscatto: in cambio, Filippo s’impegnava a non varcare con l’esercito i confini dell’Attica. Nel momento della vittoria si
confermano tutti i caratteri fondamentali della politica estera di Filippo II e in particolare della stessa politica seguita verso Atene:
intransigente costruzione di un coerente dominio territoriale nel nord (in Macedonia e Tracia); buona disposizione verso Atene (che
equivale a un rigorosa valutazione del suo insostituibile ruolo politico e culturale), anche, e in particolare, nel confronto con Tebe (a
cui si assestano più volentieri colpi duri, anche se non ancora mortali, come farà Alessandro a distanza di pochi anni); tenace
volontà di non distruggere Atene, ma di aggregarla al proprio disegno panellenico: di inserirla nel gioco politico macedone, non di
farne la vittima designata. Al re fu eretta una statua nell’agorá di Atene, al figlio Alessandro, che riportava in città i resti dei caduti
ateniesi di Cheronea, fu concessa la cittadinanza. Nell’autunno del 338, Filippo in persona entrava con un esercito nel Peloponneso,
invadeva e devastava la Laconia, pur senza entrare in Sparta. Argivi, Arcadi, Messenii si schieravano ormai decisamente dalla parte
macedone; i confini della Laconia venivano rintoccati a vantaggio di Argo, della Messenia e dell‟Arcadia. Seguì il congresso di tutti „i
Greci a sud delle Termopile‟, cui rimase estranea Sparta. Fu dapprima proclamata una pace generale (koinè eiréne), e l’autonomia
di tutti gli stati greci: non vi dovevano essere mutamenti violenti né nei regimi né nei rapporti di proprietà. Si creò un consiglio
comune di tutti i Greci (koinòn synhédrion), con sede a Corinto, con voto “ponderato‟ attribuito ai partecipanti; in caso di guerra il
comando generale per terra e per mare sarebbe spettato a Filippo: tutto era ormai pronto sul versante greco per la grande impresa
contro la Persia. A Filippo fu dato di inviare soltanto un’avanguardia sul territorio asiatico come premessa della guerra contro la
Persia; l’assassinio del re, per mano del suo ex-favorito, Pausania, doveva porre quasi uno storico schermo tra l’opera del padre, il
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politico che alla fine era riuscito a legare la Grecia al suo carro, pur lasciando in vita tanta parte delle condizioni preesistenti, e quella
del figlio, il conquistatore di un immenso impero.
CAPITOLO X Alessandro il Grande e le origini dell’Ellenismo
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PARAGRAFO II Il confronto con la Persia fino alla battaglia del Granico (334)
La resistenza persiana veniva intanto organizzata dal greco Memnone di Rodi, nel comando delle truppe della fascia costiera; i
suoi sforzi riuscirono meglio nell’area meridionale (Caria) e fino ad Efeso; le regioni settentrionale dell’Anatolia apparvero subito
più permeabili all’azione dei Macedoni. Nella primavera del 334 Alessandro lasciava il governo della Macedonia ad Antipatro, e
varcava l’Ellesponto con circa 40.000 uomini: di questi, 32.000 erano fanti, tra Macedoni (12.000), alleati e mercenari greci,
armati alla leggera, Traci ed altri ancora; della cavalleria facevano parte 1800 hetaîroi macedoni, 1200 cavalieri tessali ed altri da
diverse regioni greche e balcaniche, posti al comando di Parmenione. La spedizione di Alessandro si caratterizzava nel suo
insieme come l’impresa di un grande stato continentale – la flotta di 160 navi, al comando del macedone Nicanore, era
costituita soprattutto da navi greche ed era certamente inferiore a quella persiana. Il sogno di Isocrate, di una impresa che
unificasse il mondo greco in una spedizione punitiva contro l’Asia, la rivale di sempre dalla guerra di Troia ai conflitti con i
Persiani, sembrava dunque avere una prima realizzazione. Fra i primi atti di Alessandro in terra asiatica vi furono la visita di Troia
e gli onori resi alla tomba di Achille. Da parte di Alessandro tutto ciò equivaleva a conferire un tratto personale in più a quel
riaffiorare di livelli culturale „omerici‟ nella storia del mondo greco, che aveva connotato l’ascesa di uno stato come la
Macedonia. Era il risultato dell’intreccio tra obiettive caratteristiche della società macedone e le scelte soggettive, culturali, del
giovane Alessandro, a cui non era estranea l’influenza di Aristotele, di Callistene e della stessa tradizione di pensiero isocratea. I
satrapi di Lidia, Frigia e Cappadocia con un concitato sforzo raccolsero le truppe disponibili e affrontarono Alessandro presso il
fiume Granico (Mar di Marmara). Lo scontro fu deciso dal valore delle cavallerie macedone e tessalica; molti i morti persiani, fra
di essi gli stessi satrapi di Lidia e Cappadocia; poche le perdite macedoni (maggio-giugno 334). Quanto a volontà e capacità di
resistenza persiana all’invasore, si constata una facile avanzata di Alessandro nella Ionia, fino ad Efeso – solo Mileto oppose una
qualche resistenza. Più Alessandro si spingeva a sud però, più doveva piegare la resistenza dei Persiani e del loro comandante
rodio.
PARAGRAFO III Alessandro, i Greci, l’Asia fino alla battaglia di Isso (333)
Una scelta politica obbligata, per quanto riguarda i regimi interni, fu quella di restaurare la democrazia a Efeso e altrove, visto
che le oligarchie locali erano quelle tradizionalmente più legate al Persiano, che del resto, ancora dopo il Granico, era presente e
capace di resistenza nella parte occidentale dell’Anatolia. Alessandro prendeva, nell’autunno del 334, la decisione di rinviare a
casa la più gran parte della già modesta flotta, decisione nient’affatto sorprendente per chi capisce il senso della conquista
macedone dell’Asia: vittoria di uno stato continentale su uno stato continentale. Nell’avanzata verso sud egli doveva affrontare
la resistenza di Alicarnasso, che cinse d’assedio e di cui riuscì a conquistare la città bassa, dopo qualche tentativo andato a vuoto
e il ritiro nottetempo del rodio Memnone, che trasferì le sue forze nell’antistante isola di Cos. Dopodiché Alessandro avanza
ancora in Licia e Panfilia e poi nel cuore della Frigia fino a Gordio. Ivi, realizzando un’antica profezia, tagliò di netto il nodo che
legava un giogo a un carro, il cui scioglimento, realizzato dal macedone con drastica decisione, doveva, in virtù della profezia,
assicurargli il dominio dell’Asia. Dunque già ora, circa l’inizio del 333, Alessandro comincia a mandare segnali e cercare conferme
del suo disegno di conquista dell’Asia, sia nel senso di una conquista in assoluto, sia nel senso dell’acquisizione di un’eredità
storica (e già questo è qualcosa di diverso dall’idea iniziale, quella del „vendicatore della grecità‟ sull’Asia). Dall’Anatolia centrale
Alessandro raggiunge la Cilicia, dove è colto da una grave infermità, riprendendo poi però la sua attività, sottomettendo Soli e
Mallo. Intanto da Babilonia Dario III si sposta nella Siria settentrionale, cioè in direzione delle basi avversarie. La battaglia di Isso
dell’autunno del 333 si articola in due fasi: 1) Dapprima Alessandro, attraversati i passi tra Cilicia e Siria, prende posizione presso
Miriandro, in faccia al re persiano, che nel frattempo era giunto nella piana di Sochoi. A questa prima fase di irresoluto
fronteggiamento, segue 2) il tentativo di aggiramento del macedone da parte di Dario: attraversato i passi montuosi, il persiano
punta a chiudere alle spalle l’esercito nemico, attestandosi a nord di esso, nella piana di Isso. Questa volta ad Alessandro, che
rischiava di cadere in una trappola senza scampo, non restava che prendere l’iniziativa dell’attacco: nella piccola piana di Isso
l’ala destra dello schieramento macedone (cavalleria e fanteria, personalmente guidate dal re) travolse l’ala sinistra e il centro
dello schieramento persiano, risolvendo al tempo stesso a proprio vantaggio la situazione di difficoltà in cui era venuta a
trovarsi, sulla sua sinistra, la cavalleria tessalica e peloponnesiaca al comando di Parmenione. A questo punto lo schieramento
persiano crollò. Dario fuggiva con parte dei suoi uomini verso l’interno e oltre l’Eufrate; una parte si salvò in Fenicia e quindi a
Cipro; nelle mani del vincitore restavano l’accampamento del re, con la madre Sisigambi, la moglie Statira e i figli. La notizia
dell’inattesa vittoria di Alessandro placò momentaneamente i fermenti ostili dell’opinione pubblica greca: alle feste Istmie del
332 i rappresentanti della Lega di Corinto decretarono per il re una corona d’oro. Nell’Egeo intanto (332) i Persiani perdevano
una posizione dopo l’altra; gli equipaggi fenici e ciprioti disertavano la flotta per raggiungere le regioni di provenienza; navi
macedoni liberavano, a cominciare dal nord, Tenedo, Chio, Lesbo, la Caria, mentre Rodi era già passata spontaneamente dalla
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parte di Alessandro. Gli oligarchi di Chio e i tiranni di Lesbo saranno puniti, rispettivamente, con la deportazione in Egitto e con
esecuzioni capitali.
persiano, fino ai suoi confini storici e naturali; 3) la forte ideologizzazione dell’ulteriore conquista di Alessandro, le cui iniziative e i
cui gesti si caricano ormai tutti di densi valori simbolici; 4) il progressivo entrare del re macedone nel ruolo e nei panni del re
persiano, di cui egli è legittimo successore; 5) il formarsi di una opposizione macedone (e poi greco-macedone) ad Alessandro,
nel suo stesso entourage, il prodursi cioè di congiure, o quanto meno il costituirsi di una humus ad esse propizia e perciò di un
clima di sospetto nella cerchia di Alessandro, a cui risponde la vendicativa ira del re. Una dopo l’altra vengono a tiro, in questa
velocissima avanzata di inseguimento e di punizione, le diverse regioni a sud del Caspio e nell’area centro- e sud-orientale
dell’Iran. Spesso i satrapi del distrutto regno persiano facevano atto di sottomissione; quelli che vi si rifiutavano cercavano
scampo e sostegno nella Battriana di Besso o nell’India dell’Indo: comunque, la Battriana di Besso si rivelava come il vero fulcro
della resistenza. Alessandro svernò ai piedi del Paropamiso, tra la fine del 330 e la primavera del 329, quando, attraversati i passi
dell’imponente catena montuosa e sceso nell’altopiano battriano, poté proseguire il suo tenace inseguimento: occupò Battra
abbandonata da Besso, e inseguì la sua preda fin oltre il fiume Oxos. L’usurpatore fu consegnato a Tolemeo dai suoi stessi
generali e, trasferito a Battra e poi ad Ecbatana, fu giustiziato. Alessandro aveva agito e vinto anche come tutore dei legittimi
diritti della dinastia achemenide.
PARAGRAFO VII La costruzione del confine: la campagna d’India e la spedizione nel Golfo Persico(327-325)
Raggiunti ormai i confini (o meglio una parte del confine complessivo) del caduto regno di Persia, Alessandro poteva in teoria
pensare alla conquista dell’India. A questo proposito si apre un problema riguardo alle autentiche finalità e intenzioni di
Alessandro al momento della campagna indiana (estate 327 – estate 325), sulla quale gravano a avviso del Musti molti equivoci.
Secondo lui ci si lascia spesso suggestionare dalle tradizioni antiche che parlano dell’impulso di Alessandro verso una marcia
senza sosta e senza confini, volta alla conquista di sempre nuovi mondi, di un Alessandro, dunque, di irrazionalità e sogno.
Secondo il Musti però, considerando più attentamente sia l’esito e la consistenza storica della campagna indiana di Alessandro,
sia le parti dello stesso racconto degli storici antichi riguardanti gli atti concreti di Alessandro e la loro effettiva concatenazione e
motivazione, si deve convenire che, sul terreno dei fatti, la spedizione indiana di Alessandro abbia molto meno di romanzesco e
irrazionale di quanto si immagina e si costruisce sulla base di scarse indicazioni degli scrittori antichi. Alessandro sembra aver
mirato, secondo il Musti, a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’impero persiano, cioè del fiume Indo,
compresi ovviamente i poteri dei dintorni, il cui completo controllo era la condizione perché si potesse esercitare un controllo
effettivo del fiume stesso. Questo è dunque il terreno dei comportamenti reali, tutti riconducibili a un disegno di ricostruzione e
consolidamento di un confine, che si muove sul piano della razionalità. Altro è il terreno delle aspirazioni, delle intenzioni, dei
vagheggiamenti e dei sogni: essi appartengono ad una sfera individuale e psicologica, certo esistente ma per noi del tutto
irrecuperabile, o che comunque non incise profondamente nelle azioni concrete di Alessandro. Qualcosa di analogo si può
affermare per l’imitazione di Eracle e di Dioniso, che certamente orientò e guidò il re, e che doveva condurlo almeno alla
Battriana (non necessariamente anche all’India); ma essa operò solo come impulso ulteriore, che andò solo ad aggiungersi a
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motivazioni di altro tipo (militare, politico, e così via di seguito). Superato nuovamente il Paropamiso nell’estate del 327, e
assoggettati gli abitanti della valle del fiume Kabul, Alessandro attraversò l’Indo nella primavera del 326. La sua politica era volta,
come si è detto, a un’opera di consolidamento del confine fluviale, con tutte le varianti politiche che un’opera siffatta potrebbe
comportare. Tra l’Indo e l’Idaspe Alessandro conta sull’alleanza del re Taxila, che egli aiuta contro il vicino re Poro, che viene
sconfitto e fatto prigioniero, ma resta come principe vassallo del suo proprio dominio. Con i regni a est dell’Indo, dunque,
Alessandro procede nella politica di creazione di una barriera di stati vassalli: la politica del macedone si rivela, dunque, fin
dall’inizio della spedizione indiana razionalisticamente orientata a considerare l’Indo come un confine estremo, da non valicare
per nuove avventure. Le colonie militari di Nicea e di Bucefala servono allo stesso scopo. Altri popoli e città, realtà politiche assai
più disperse e difficili da controllare che non quelle affidate all’intermediazione di sovrani amici e vassalli, venivano assoggettati,
ma si tratta di popoli e città della regione più esterna del dominio macedone, tra l’Idaspe e l’Ifasi. Superare l’Ifasi in direzione del
Gange sarebbe stato veramente l’atto che avrebbe rotto con lo schema della “politica dell’Indo‟, e significato la presenza di una
spinta indifferenziata alla conquista, da protrarre fin dove possibile. Ma il malumore dell’esercito e l’esito dei diabatéria (sacrifici
per la traversata), naturalmente negativo, determinano un’inversione della rotta di marcia, non senza che sulla riva dell’Ifasi
fossero eretti dodici altari, alti come torri di città, simbolo sacrale e monumentale di un confine fluviale consolidato. Dopo la
consacrazione dell’Ifasi a soglia ultima dell’impero (in quanto gravitante nel sistema fluviale dell’Indo), comincia la marcia di
rientro, segnata da altrettante tappe, volte a garantire la sicurezza dell’Indo stesso come confine. L’esercito si ritira all’Idaspe,
dove viene completata la costruzione di una flotta; due parti dell’esercito marciano sulle rive, una parte si imbarca, seguendo
l’Idaspe fino alla confluenza con l’Indo, con un’opera che è di vera verifica e consolidamento del confine medesimo. In generale
le popolazioni della regione si assoggettano, ma alla presenza di una organizzazione politica di tipo cittadino corrisponde anche
una maggiore resistenza, o addirittura aggressività, da parte indiana, come è il caso dei Malli: nell’assalto di una loro città (fine
326 o inizio 325) Alessandro, spintosi con incauto eroismo troppo avanti ai suoi e perciò scopertosi al nemico, viene ferito
gravemente al torace e subisce lesioni polmonari (che potrebbero essere state una delle cause remote della precoce morte di
Alessandro nel 323). L’importanza strategica della confluenza con l’Indo è sottolineata dalla fondazione di molte colonie, fra cui
un’altra Alessandria, e dalla creazione di un porto a Pattala. Due macedoni e un indiano erano incaricati del governo delle tre
satrapie create da Alessandro nel territorio a est dell’Indo. Anche l’operazione di rientro, terrestre e navale, presenta due piani
diversi di lettura, entrambi realmente esistenti, e dei quali nessuno va sacrificato all’altro: da un lato, c’è il dichiarato intento di
verificare la sicurezza dell’Indo dalla parte della foce, dall’altro certamente anche il desiderio di conoscere nuove realtà
geografiche o di definire vecchi problemi (come quello del rapporto, che ormai si rivelava insussistente, dell’Indo col Nilo), ma
questo desiderio naturalmente non esclude affatto l’intento della sicurezza militare e quindi politica. Al cretese Nearco viene
affidato il comando della flotta che dalla foce dell’Indo deve prendere il mare, attraverso l’Oceano Indiano sino alla foce del Tigri;
l’esercito invece viene diviso tra Cratero e Alessandro stesso, per due itinerari diversi di rientro: le fatiche e le perdite umane
delle traversate terrestri furono notevolissime. In Carmania ci fu il ricongiungimento delle tre forze, che anche per queste vie
avevano esplorato e consolidato le regioni di confine dell’impero.
degli stessi Greci in regioni periferiche, che esibiscono cronicamente la loro nativa vocazione separatista, le ribellioni dei
mercenari, le rivolte di satrapi persiani (via via sostituiti da Alessandro con ufficiali macedoni). Il caso più clamoroso di defezione
dal nuovo ordine istituito dal macedone fu quello del „tesoriere generale‟, l’ateniese Arpalo. Già una volta Arpalo si era reso
colpevole di malversazione poco prima della battaglia di Isso (333) e aveva cercato rifugio in Grecia; ma una seconda, più
clamorosa fuga, che diede luogo a un vero complicato „affare‟ di corruzione, connivenze, intrighi politici, processi, condanne,
fughe e finali tragici, fu quella con cui Arpalo si salvò dalla rappresaglia del re (324), dopo il ritorno di questo dall‟India. Con 5000
talenti e 6000 mercenari, Arpalo giunse ad Atene; l’esercito non vi fu accolto, ma le porte della città furono aperte al tesoriere e
finanziere infedele. Alla richiesta di estradizione presentata da parte macedone, gli Ateniesi arrestarono Arpalo e gli
sequestrarono 700 talenti, di cui, alla verifica da parte delle autorità, eseguita qualche tempo dopo, risultarono mancanti 350.
Tra gli altri, fu accusato di averne ricevuti 20 Demostene; condannato al risarcimento di una ingente somma (50 talenti), riuscì a
sottrarsi alla prigione, cui lo condannava l’insolvenza, con una fuga che fu favorita dai suoi stessi carcerieri, e che lo portò a
rifugiarsi ad Egina, e poi a Trezene nel Peloponneso. Arpalo intanto, fuggito da Atene e recuperati i suoi mercenari in Laconia, si
trasferiva a Creta, che in questo periodo appare come una terra di nessuno, del tutto aperta alle imprese degli avventurieri; ma
a Creta egli trovò la morte per mano di uno dei suoi stessi ufficiali. L’anno 324 segna dunque per Alessandro, dopo il lungo
periodo di movimento e di conquista, quello dell’esplosione dei vari problemi organizzativi, l’anno in cui si mette in luce il nodo
che tutti li lega, cioè il problema dei rapporti fra le diverse nazionalità. Una risposta programmatica e simbolica è quella data dal
re con le nozze in massa, celebrate a Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, nella primavera di quell’anno. Già sposato alla
battriana Rossane, Alessandro ora prendeva come mogli Statira, una figlia di Dario, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco; Efestione
sposò Drypetis, un’altra figlia di Dario; 80 ufficiali si unirono ad altrettante nobili persiane; fu anche l’occasione per una
premiazione ufficiale dei numerosi soldati macedoni che avevano sposato donne iraniche. Queste celebrazioni non furono
accolte di buon grado dai Macedoni; ma ancora più gravi sembrano essere state le conseguenze della riforma dell’esercito,
portata avanti da Alessandro all’insegna di una “politica di fusione‟, che dovette presto cedere il passo alla creazione di
„strutture parallele‟, che ribadivano nel fondo il principio dell’apartheid. Alla fine delle conquiste, l’entità dell’esercito di
Alessandro doveva aggirarsi sui 100.000 effettivi: era cioè più che raddoppiata, e con forte dispendio di mezzi, rispetto alla
partenza. Ora il re, per rispondere nella maniera al tempo stesso più politica e più economica alle esigenze di rafforzamento del
dispositivo militare, istituì un corpo di 30.000 giovani persiani (epígonoi), educati e addestrati alla macedone; ma elementi iranici
furono inseriti anche nella falange macedone e nella stessa guardia del corpo. Soprattutto egli costituì una serie di corpi persiani
“paralleli‟, in cui non si verificavano commistioni iranico-macedoni. A Opi, sul Tigri, il re affrontò, e assai male, il problema dei
veterani desiderosi, dopo dieci anni di ininterrotte campagne, di tornare in patria: egli propose dapprima di dimettere gli invalidi,
il che era congedo umiliante per chi veniva rimandato in patria e non soddisfacente per chi era trattenuto. L’esercito si
ammutinò, invitando il re a ricorrere ormai ai servigi dei suoi “cari Persiani”. Alessandro venne a capo della rivolta, sia facendo
valere di fronte ai soldati i meriti storici della dinastia, in particolare del padre Filippo e di lui stesso nello sviluppo civile del
popolo e del paese, sia congedando, contemporaneamente, tutti i veterani (ma fece giustiziare anche, con dura
determinazione, i capi della rivolta). I veterani, in numero di 10.000, premiati ciascuno con un talento, che l’accaparramento dei
tesori persiani consentiva di pagar loro, si misero in viaggio per la Macedonia sotto il comando di Cratero. La morte di
Alessandro avverrà durante la loro marcia di trasferimento e, al loro arrivo in Europa, i veterani saranno in gran parte usati per
reprimere quella rivolta di molti Greci, che va sotto il nome di “guerra di Làmia‟. Cratero veniva anche investito della funzione di
„stratego d’Europa‟, cioè della successione di Antipatro che, nei dieci anni di assenza del re dal suo paese, era divenuto agli
occhi di questo troppo potente, e soprattutto era venuto a duro conflitto con la madre di Alessandro, Olimpiade. Antipatro,
secondo le disposizioni di lessandro, doveva semplicemente dare le consegne a Cratero e portare nuovi soldati in Asia al posto di
quelli rientrati. Anche per altri aspetti il 324 si rivela come anno di grandi svolte, tutte forse riconducibili alla figura di „re
universale‟, cui Alessandro sembra ormai voler dare corpo: richiesta degli onori divini rivolta ai Greco, o almeno segnalazione
della sua aspirazione a riceverne da parte loro – in Ionia, in Arcadia, nella stessa Atene furono tributati onori divini ad Alessandro
(altrove la consacrazione di un sacro bosco o di un tempio, ad Atene l‟inclusione di Alessandro come nuovo Dioniso fra gli dèi
cittadini). Anche la decisione di far rientrare nelle città di appartenenza tutti gli esuli politici greci, annunciata di fronte
all’assemblea dei soldati di Alessandro, e poi semplicemente comunicata dall’inviato del re, Nicanore di Stagira, ai Greci riuniti a
Olimpia per la celebrazione delle feste dell’estate del 324 („decreto di Nicanore‟) rispondeva da un lato a una scelta politica di
pacificazione del mondo greco, dall’altro alla concezione di una monarchia universale che irradia i suoi benefici sull‟umanità
intera. Ancora nello spirito di quegli atti simbolici, di cui ormai è sempre più pieno il comportamento di Alessandro, è da leggere
la decisione del re di passare la stagione calda del 324 nella capitale d’estate degli Acheminidi, la meda Ecbatana. E qui morì
Efestione, per le sregolatezze del bere, che egli aveva trasferito incautamente in Asia dal più idoneo clima di Macedonia; a lui
furono tributati onori divini, ormai all’insegna del culto dello stesso Alessandro quale divinità fra gli uomini.
Da Ecbatana il re si trasferì nell’inverno 324/3 a Babilonia, dove l’attendevano ambascerie provenienti da stati greci e dalla stessa
Italia. Alessandro, secondo una discussa tradizione, si accingeva alla conquista dell’Occidente. Ma la concezione della monarchia
universale in Oriente non era mai andata, storicamente, oltre la costituzione reale di un grande dominio e la proclamazione, di
principio e solo potenziale, del dominio sugli altri popoli (il primo vero dominio universale nella storia mediterranea resta quello
di Roma, come ben comprese Polibio). Gli atti compiuti nel 323 da Alessandro (allestimento di una spedizione terrestre e navale
di conquista dell’Arabia, tra Indo e golfo Persico, da un lato, ed Egitto, dall’altro) non vanno al di là di quel razionale progetto di
consolidamento e perfezionamento del confine (in questo caso un confine interno, data la posizione dell’Arabia), che abbiamo
visto all’opera nella campagna dell’Indo, qualunque fosse la portata dei sogni o delle remote intenzioni. Da buon greco,
Alessandro non rinunciò mai, per quanti ideali e idealità gli si possano attribuire, a tener ben fermi i piedi sul terreno della realtà.
Quando già tutto era pronto per la spedizione arabica, il re cadde malato: una febbre, probabilmente dovuta a un male che
Alessandro si portava da anni, lo consumò in appena dodici giorni. La conservazione di tracce delle efemeridi reali (il “diario”, la
cronaca ufficiale delle giornate del re), nella storiografia su Alessandro, consente di aver nozione dell’avvicinarsi giorno per
giorno della morte, che giunse il 13 giugno del 323.
PARAGRAFO X La successione
Si apriva un problema di successione gravissimo per vari e concorrenti motivi: l’età ancora giovane del re, la vastità e complessità
dell’impero conquistato, la confusa situazione familiare ed ereditaria, la difficoltà di istituire, sul piano politico, in sostituzione del
vertice monarchico improvvisamente venuto meno, una rigorosa gerarchia tra le funzioni diverse che lo stesso Alessandro aveva
creato intorno a sé, più per distribuire ed equilibrare poteri e funzioni che non per designare (condizione sentita sempre come
troppo pericolosa) un vero delfino. Alessandro non aveva figli legittimi al momento della morte: Eracle, figlio di Barsine, era un
illegittimo, in quanto nato da una concubina; e tuttavia un figlio legittimo stava per nascere da Rossane (e nascerà qualche mese
dopo la morte del re). Aumentando ulteriormente la tensione e confusione vi era l’avversione dei soldati della fanteria macedone
nei confronti del figlio nascituro della barbara, che favorivano invece la scelta legittimista in favore di Filippo Arideo, il figlio
mentalmente minorato di Filippo II. I generali macedoni erano invece più favorevoli ad attendere il parto di Rossane, anche perché
quest’attesa, nonché la necessità di mettere il neonato sotto tutela, poteva tornare a loro vantaggio, come poi fu. Qual era il
rapporto gerarchico però tra la carica di rappresentante del regno, attribuito a Cratero, in marcia per la Macedonia con i veterani, e
quella che da tempo deteneva il vecchio Antipatro, ormai reggente da dieci anni nella sede del regno macedone? A questi
interrogativi presto se ne aggiungerà un altro, più concreto e drammatico: queste cariche centrali erano da intendere come
sovraordinate ai poteri regionali delle diverse satrapie dell’impero, attribuite ai diversi generali; oppure quelle cariche dovevano
valere solo come centri di coordinamento fra quei poteri, che per sé stessi si profilavano non solo come distinti ma anche come
assai più fondati di quelle posizioni centrali, proprio in quanto legati alle realtà regionali? Si apriva insomma il conflitto fra il principio
unitario, che si presentava sotto diverse forme e in differenti versioni, e il principio particolaristico, destinato a prevalere
storicamente in meno di venti anni.
battuta. In Sicilia comincia quindi il ripopolamento delle città ad opera di Timoleonte, con coloni provenienti da tutte le parti del
mondo greco. Non va perduto comunque per intero, nell’azione di Timoleonte, quello che era stato il filo conduttore della politica
di Siracusa sin dall’epoca dei Dinomenidi, cioè il potenziamento demografico della città, con facilitazioni nella concessione della
cittadinanza agli immigrati, in particolare a quelli di Leontini. Per il resto, la prassi timolontea è di puro stile cittadino: le risorte città
debbono fondersi in una lega, di cui Siracusa è città egemone, ed entro cui vige il principio dell‟autonomia. A Siracusa stessa
Timoleonte instaura, in armonia con le premesse di tutta la sua vita, un regime di oligarchia moderata, con un sinedrio di 600
consiglieri; contro i barbari, Siracusa si impegna a chiedere all’occorrenza un capo militare a Corinto, da affiancare agli strateghi
cittadini. Nel 337, conclusa la sua opera, Timoleonte, divenuto nel frattempo cieco, depone la carica di strategós autokrátor, da lui
detenuta per quasi otto anni; resterà però a Siracusa, dove morirà e, secondo una tradizione frequente nelle città doriche, riceverà
l’onore di una tomba nell’agorá.
PARAGRAFO XIII Vicende del regno bosporano (l’ellenizzazione nel Mar Nero)
L’acquisizione alle forme della cultura greca di regioni adiacenti alle póleis, l’ellenizzazione, è un fenomeno che nel IV secolo a.C.
raggiunge livelli di solido assestamento non solo in Occidente, ma anche in Oriente. Paradigmatico, e perciò degno di particolare
menzione, il caso della costituzione, a partire dal 438/7, del regno bosporano, nella zona del Bosporo Cimmerio, ad est della
penisola di Crimea. Le città di fondazione milesia, come Panticapeo e Teodosia, venogno invero assoggettate a una dinastia di
origine tracia, quella degli Spartocidi: essa regnerà fino alla fine del II secolo a.C. Le figure più illustri, anche e soprattutto per il loro
rapporto con il mondo greco-egeo, e in particolare con Atene, sono Leucone I (389-348) e Pairisade I (349-310). L’ellenizzazione
consiste nel fatto che le città greche costituiscono il nucleo del regno, anche se esso ha una dinastia di origine tracia, che si
sostituisce alla stirpe milesia degli Archanattidi, e risulta composito di popolazioni locali, quali gli Sciti e i Maiti. La forma politica del
regno rivela un carattere composito, ma appunto anche una decisa presenza di forme greche: il dinasta spartocide si chiama perciò
árchon Bospórou kaì Theodosías e in questo tende a presentarsi come un magistrato cittadino e al tempo stesso un re delle
popolazioni ricordate. Nella sostanza si tratta di una monarchia militare, che regna su di uno stato territoriale, dove esistono
tradizioni cittadine, benché la funzione della pólis sul piano politico sia molto ridotta: non a caso è stato evocato il parallelo delle
monarchie-tirannidi siciliane. L’area ha scambi significativi col mondo greco-egeo+, che ne importa grano, pesce salato, schiavi, e vi
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esporta olio, e prodotti artigianali vari. A una certa distanza, restano indipendenti e latamente collegate alla vicenda storica greca, le
città greche di Chersonaso, di origine megarese, in Crimea, e Olbia, di fondazione milesia, alla foce dl fiume Ipani.
quel suolo asiatico che, per la parte occidentale, era passato piuttosto sotto il controllo di Eumene. Nella primavera del 321
Cratero e Antipatro varcano l’Ellesponto e, mentre Antipatro avanza verso la Cilicia, Cratero si fa incontro ad Eumene, ma è
sconfitto, soprattutto per merito della soverchiante cavalleria del nemico, e trova la morte sul campo.
PARAGRAFO III Antigono protagonista
La scomparsa dei due grandi rappresentanti del potere regale (Cratero e Perdicca) impone un riassetto dell’impero, che è
attuato nel convegno di Triparadiso, in Siria, forse nel 321: questa volta rappresentante “dei re “ è nominato Antipatro, che si
ritira in Europa con Filippo Arrideo, Euridice e Alessandro IV, figlio di Alessandro il Grande e di Rossane. Contro Eumene, il
vecchio fautore di Perdicca (e dell’idea di un impero unitario centrato sui dominii dell’Asia), fu emessa una sentenza di morte, di
cui doveva essere esecutore Antigono, che ormai si poneva come l’erede del progetto di impero asiatico di Perdicca (senza
ancora però avere formalmente rinunciato ad un ancor più ambizioso disegno unitario. Già Triparadiso prefigurava la grande
tripartizione ellenistica (Europa macedone, Asia, Egitto), pur includendo, per la parte più vasta e complessa, cioè l’Asia, tutte le
incognite possibili degli sviluppi delle posizioni individuali. Gli accordi del 321 provvidero in effetti a una nuova ripartizione delle
satrapie, in generale, e già con essa minarono ulteriormente il principiò dell’unità dell’impero; essi avevano messo in gioco
anche personalità destinate a un grande futuro, come Seleuco, che ottenne la satrapia di Babilonia. Questi accordi mettono in
luce anche una notevole chiaroveggenza in Antipatro, in quanto riflettono il suo tentativo di scongiurare un conflitto che poi si
rivelerà, per un ventennio, come centrale, anzi come il filo conduttore della dinamica dei conflitti fra i Diadochi: quello che
opporrà il figlio Cassandro, da un lato, e Antigono e Demetrio, dall’altro – un contrasto di personalità, ma anche di princìpi
politici e concezioni statali. A scopo di conciliazione, Antipatro metteva Cassandro accanto, e subordinato, ad Antigono (stratego
dell’Asia), come comandante della cavalleria: ma prestò dovrà richiamarlo in Macedonia, per l’impossibilità di accordo fra i due.
D’altro canto, Antipatro tentava di rinsaldare i rapporti con il matrimonio tra la figlia Fila, vedova di Cratero, e Demetrio, figlio di
Antigono. All’interno della prospettiva storica aperta dai Macedoni, Antipatro rappresenta un caso di saggezza politica, volta a
conservare, se non un’unità formale dell’impero, che diveniva ogni giorno più teorica, almeno l’armonia tra le diverse parti in
causa. I fatti successivi non assecondarono le intenzioni del vecchio macedone, che nondimeno vanno ben considerate. Le
decisioni prese da Antipatro prima della morte (319) sono delle soluzioni interlocutorie, in cui alla preminente intenzione
legittimistica si mescola il riconoscimento di fatto della ricostituita dicotomia tra Europa ed Asia: il vecchio generale, morendo,
non lasciava al figlio Cassandro le sue stesse posizioni di potere, ma nominava “reggente del regno‟ il veterano Poliperconte,
conferendogli però allo stesso tempo la carica su cui egli stesso aveva per anni fondato il suo effettivo potere, quella di “stratego
d’Europa‟; Cassandro era solo chiliarco. Dopo la morte di Antipatro si crea contro Poliperconte una naturale coalizione tra i
quattro personaggi più importanti del momento: Antigono, stratego dell’Asia dal 321; Tolemeo, rimasto saggiamente satrapo
d’Egitto, rifiutando offerte maggiori nei territori extra-europei conquistati; Cassandro, rientrato già nel 321 in Macedonia col
padre; e Lisimaco, saldamente insediatosi in Tracia. Antigono in Asia è il più attivo: sconfigge in Pisidia il fratello di Perdicca,
Alceta, che viene assassinato dai suoi (319), e costringe Eumene a rinchiudersi nella fortezza di Nora, ai confini tra Cappadocia e
Licaonia. In Europa, morto Antipatro e tenuto a freno Cassandro, è dominante la figura di Poliperconte, che già aveva
partecipato alle campagne d’Asia di Alessandro, come capo di una parte della falange. In Asia, Antigono, accantonata per il
momento la resa dei conti con Eumene, procede ad eliminare gli ostacoli minori, attaccando la Frigia ellespontica di Arideo e la
Lidia di Clito; così egli s’impadronisce di Efeso e di una cospicua somma di denaro, 600 talenti, che erano destinati al tesoro
macedone: ormai la rottura fra i due principali protagonisti, Antigono e Poliperconte, è consumata; Cassandro abbandona la
Macedonia e raggiunge Antigono.
sollecitazione di Poliperconte: Euridice la affronta al confine fra le due regioni, ma le truppe macedoni l’abbandonano per
passare dalla parte della prestigiosa madre di Alessandro Magno, che prende allora tutte le sue vendette, facendo Uccidere
Filippo Arrideo ed Euridice, il fratello di Cassandro Nicanore, e un altro centinaio di nemici (estate-autunno 317). Alla notizia di
questi avvenimenti Cassandro lascia l’assedio di Tegea per la Macedonia; Olimpiade si chiude in Pidna, con Alessandro IV e
Rossane, ma nella primavera del 316 è costretta a capitolare, anche a seguito delle numerose defezioni. Le condizioni della resa
le garantivano salva la vita, ma non fu possibile per Cassandro resistere alla richiesta dei parenti delle vittime dell’ira sanguinaria
di Olimpiade, di sottoporla a un processo di fronte al tribunale del popolo macedone; ne seguì la condanna a morte. L’orgogliosa
regina non accettò di fuggire ad Atene su una nave che Cassandro sembra averle offerto; Alessandro IV fu comunque trasferito
ad Anfipoli sotto la custodia di Cassandro. Questi, da canto suo, fondava nel 316 una città che prendeva il suo nome,
Cassandrea, sul sito di Potidea (distrutta da Filippo II nel 356), e forse nello stesso anno anche Tessalonice, presso l‟antica
Terme. Certamente, sempre nel 316, Cassandro richiamava in vita Tebe, tra il giubilo di tanti Greci: una politica dunque, verso i
Greci, cauta sul piano dei regimi politici interni, ma aperta e sensibile sul terreno dell’insopprimibile esigenza greca di tenere in
vita o rivitalizzare le póleis e le loro tradizioni. In Asia continuava intanto il confronto tra Antigono e i suoi nemici vecchi e nuovi.
Eumene, che Poliperconte aveva nominato “stratego d’Asia‟ (in opposizione ad Antigono), rotto ormai il blocco di Nora, aveva
raggiunto la Fenicia e poi la Siria. In Mesopotamia si era formata un’alleanza tra Seleuco, satrapo di Babilonia, e Pitone, già
satrapo di Media. Quando Eumene raggiunge la Mesopotamia, chiede invano a Seleuco e a Pitone il riconoscimento della sua
autorità sull’Asia; ottiene però di poter varcare il Tigri, mentre già Antigono è impegnato nel suo inseguimento: dopo diverse
campagne la sconfitta definitiva di Eumene avviene a Gabiene; le sue truppe defezionano e si uniscono a quelle di Antigono;
Eumene e i suoi collaboratori sono uccisi (316). Ma neanche a quelli che non avevano collaborato con Eumene andò troppo
bene: Antigono represse un tentativo di ribellione di Pitone, che fu giustiziato, e si mosse verso Babilonia per chiedere a Seleuco
i rendiconti della sua amministrazione come satrapo della regione; quest’intenzione provocò la fuga di Seleuco, che presto
raggiunse Tolemeo in Egitto. Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) è dunque caratterizzato da una progressiva
assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro, e di erede in Asia da parte di Antigono; restano
sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui sono protagonisti Eumene, Poliperconte, Olimpiade. Il realismo della politica di
spartizione è già presente nell’azione politica di diversi personaggi, ma non riesce a conseguire subito tutti i suoi risultati. Contro
le ambizioni imperiali di Antigono si determina, come già un tempo contro le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una
coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, escono pienamente allo
scoperto: Tolemeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro. Padrone dell’Asia di là dal Tauro, Antigono rivolge ora il suo sforzo di
conquista, nella stessa esaltata logica territoriale e politica di Perdicca, verso i domini di Tolemeo. La sua marcia contro l’Egitto
comporta l’invasione di Siria, Fenicia e Palestina: egli conquista Ioppe e Gaza, pone l’assedio a Tiro (315), cerca di sottrarre a
Tolemeo il possesso dell’isola di Cipro e a tutta prima vi riesce per la maggior parte delle città dell’isola (fa eccezione Salamina,
soggetta a Nicocreonte); subito però Tolemeo riprende il controllo della situazione.
orientale, dominio che, pur avendo il suo fulcro nell‟Egitto, aveva come necessarie aree di appoggio e di espansione Cipro, la
Cilicia, la Siria. A Cipro un intervento personale di Tolemeo doma una rivolta dei re delle diverse città: il fedele Nicocreonte di
Salamina è fatto stratego dell’isola; in Cilicia Tolemeo prende temporaneamente Mallo.
PARAGRAFO VI Verso un assestamento: da Gaza (312) alla pace del 311
Ma lo scontro principale con la parte antigonide doveva avvenire in Celesiria, dove il figlio del Monoftalmo, Demetrio, subiva a
Gaza una dura sconfitta nella primavera del 312 a.C., nonostante la superiorità che gli avrebbero dovuto garantire i 40 elefanti
che poté mettere in campo. Demetrio dovette per il momento ritirarsi fin oltre Sidone. La conseguenza più decisiva più decisiva
della sconfitta di Gaza fu il rientro in Babilonia dell’ex-satrapo Seleuco, rifugiatosi qualche anno prima presso Tolemeo. Seleuco
fu accolto trionfalmente dalla popolazione locale, e mostrò subito intraprendenza e fermezza nel consolidare ciò che aveva
riconquistato, nell’estendere i suoi domini e nel venire a capo di ripetuti tentativi di Antigono di ribaltare la situazione: tolse al
satrapo Nicanore la Susiana e la Media, ottenne da parte degli altri satrapi il riconoscimento della sua sovranità fino alla
Battriana e all’India, tornò in possesso di Babilonia (che Demetrio aveva precedentemente conquistata). Anche l’offensiva
antigonide in Grecia subiva una decisiva battuta d’arresto, dopo la sconfitta di Gaza; le posizioni di Cassandro si rafforzavano un
po’ dovunque (Atene, Epiro). Antigono reputò opportuno stipulare un accordo di pace con Cassandro e Lisimaco, a cui presto si
aggiunse Tolemeo; Seleuco non sembra (nonostante autorevoli pareri contrari) avervi preso parte. Ad Antigono veniva di fatto
riconosciuto il controllo di tutta l’Asia, e i Greci dovevano essere autonomi: alla completezza della sovranità di Antigono sull’Asia
era d’ostacolo la costituzione del vastissimo dominio di Seleuco, che evidentemente Antigono non intendeva riconoscere come
definitivo. Più definite, e anche più sicure, le acquisizioni di Tolemeo in Egitto e nelle regioni confinanti di Libia e di Arabia, e
quelle di Lisimaco in Tracia; Cassandro invece doveva restare “stratego d’Europa‟ fino alla matura età di Alessandro IV: la
clausola fu però solo premessa all’assassinio di questo e della madre Rossane nel 310/9 ad opera di Cassandro. Con la pace del
311 nasceva forse, come spesso si è affermato, il sistema dei cinque regni ellenistici, ma più come ripartizione di fatto che non
come stato di cose definitivamente accettato dal maggiore protagonista, Antigono: la crudele ingenuità della clausola
sull’assunzione dei pieni diritti da parte di Alessandro IV sta a dimostrare, se non altro, la persistenza in Antigono di illusioni
ambiziose, ma anche generose (la vasta unificazione sotto la dinastia degli Argeadi). Fra tutti i Diadochi, egli è quello che più agita
idee, sbandiera princìpi, nutre sogni e illusioni.
PARAGRAFO VII Tra la pace del 311 e la nascita delle nuove basileîai
Gli anni immediatamente successivi alla pace furono anche quelli della fondazione di grandi capitali, che rafforzavano
l’irreversibile processo in atto, verso la costituzione di regni indipendenti: Lisimachia sull’istmo del Chersoneso tracico, Antigonea
sull’Oronte (dove più tardi Seleuco I fonderà Antiochia), Seleucia sul Tigri – tutte città che prendono nome dal fondatore e
signore vivente, mettendo in luce il ruolo della personalità politica nelle vicende dell’epoca, che è quella di personaggi che
dispongono di un rilevante potere militare. L’assassinio di Alessandro IV e di Rossane ad opera di Cassandro (310/9) mise in
moto reazioni a catena sul territorio greco; protagonisti ne furono, il vecchio e sempre attivo Poliperconte, il nipote di Antigono,
Polemeo, Tolemeo stesso e infine nuovamente, e con gli esiti più rilevanti, Antigono e il figlio Demetrio. Poliperconte tentò nel
309 il rientro in Macedonia, facendosi tra l’altro scudo del figlio illegittimo di Alessandro Magno, Eracle di Barsine, allora nell’età
dell’adolescenza; ma Cassandro parò la minaccia riconoscendo a Poliperconte la strategia del Peloponneso; il patto ebbe come
prezzo, troppo facilmente pagato da Poliperconte, l’assassinio di Eracle. Tolemeo era divenuto particolarmente in questo
periodo, e nel 309 metteva piede in Licia, in Caria e nell’isola di Cos; si candida alle nozze con Cleopatra, figlia di Filippo II, ma
Antigono la fa uccidere. D’altra parte, l’indebolimento del prestigio di Poliperconte dopo l’uccisione di Eracle di Barsine, induce
Tolemeo a dirigere i suoi piani verso la Grecia: un accordo con Antigono, siglato con l’assassinio di Polemeo (nipote di Antigono
che aveva tramato contro lo zio insieme a Tolemeo), apriva al Sotère (Tolemeo) la strada della Grecia, dove lui insediava le
proprie guarnigioni a Corinto, Sicione e Megara. Presto però Tolemeo preferì accordarsi con Cassandro e ritornare nei binari,
provvisoriamente abbandonati, di una politica realistica, e prudentemente fondata sull’idea di centralità dell’Egitto, con i suoi
annessi geografici e storici. Di maggior respiro, perché dotata di più profonde radici, la politica “greca‟ anticassandrea, praticata
da Antigono dal 307 in poi. Fino al 309/8 egli aveva tentato invano di contrastare il radicarsi di Seleuco in Babilonia. Nel 307 la
flotta di Demetrio Antigonide occupava di forza il Pireo, e portava direttamente la sua minaccia su Atene, governata ormai da
dieci anni da Demetrio del Falero, in nome di Cassandro (una tirannide illuminata, ma intrisa comunque di ostentazione e dalla
sollecitazione di un vero culto personale, nonché dalla presenza della guarnigione macedone e delle limitazioni dei diritti politici).
Pronta fu dunque la sollevazione popolare di Atene, in favore del Poliorcete; il Falero lasciò subito la città; ad Atene il Poliorcete
manteneva i suoi impegni, in tema di libertà e autonomia: fu restaurata la piena democrazia (non radicale, invero, anch’essa
ormai moderata); ad Antigono e Demetrio furono dedicate statue d’oro sull’agorá, accanto a quelle dei tirannicidi Armodio e
Aristogitone e gli fu tributato il titolo di basileîs; Atene da canto suo recuperava Lemno e Imbro. La formula di Filippo II, di una
“guerra limitata‟ con Atene, nel rispetto di alcune tradizioni ed esigenze vitali di questa città, si mostrava ancora efficace. A
bloccare eventuali tentativi di recupero di Tolemeo in Greci, nel 306 si svolge la grande offensiva di Demetrio Poliorcete contro
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Cipro e la sua principale base tolemaica, Salamina: la guerra di terra si completa con un poderoso scontro navale, in cui si
affrontano le flotte di Demetrio Poliorcete e dello stesso Tolemeo, che di circa 200 navi portò in salvo a Cizio soltanto 8: l’isola
ormai era nelle mani di Demetrio, e a Tolemeo non restaav che rifugiarsi in Egitto, anche per provvedere alla difesa di un
territorio non più al riparo da gravissimi rischi. La vittoria di Salamina cipria dà l’avvio alla nascita formale dei regni ellenistici, con
l’assunzione del titolo di basileús, per sé e per il figlio, decisa dal Monoftalmo. Egli intendeva naturalmente con ciò il regno come
unitario, il suo regno come il regno per eccellenza: ne seguì, di conseguenza, l’ingente attacco contro l’Egitto, con 80.000
cavalieri, 83 elefanti e una flotta di 150 navi. Egli giunse con l’esercito fino al ramo più orientale del delta del Nilo, però non riuscì
a penetrare con la flotta; il sopraggiungere dell’autunno (305) gli impose il rientro in Siria. Fu allora che Tolemeo assunse
ufficialmente a sua volta il titolo di basileús, presto imitato da Cassandro, Lisimaco e Seleuco La partita in Grecia si giocava ormai
tra Demetrio e Cassandro, che rappresentavano anche le due scelte politiche di fondo: entrambe filelleniche, ma l’una di
stampo autonomistico-democratico, l’altra di carattere più conservatore in politica interna e ispirata al principio di un controllo
diretto, anche militare, nel rapporto tra regno di Macedonia e póleis.
PARAGRAFO IX La grande coalizione contro Antigono, fino alla battaglia di Ipso (301)
Contemporaneamente si avvia la reazione della coalizione avversa ad Antigono e Demetrio, una gigantesca manovra a tenaglia,
che tuttavia, per arrivare a un conclusivo esito positivo, impiega più di un anno. A muoversi per primo è Lisimaco, che attraversa
l’Ellesponto per attaccare l’impero di Antigono sul fianco occidentale, nell’Asia minore ad ovest del Tauro, nello stesso 302,
sostenuto da truppe di Cassandro. Le defezioni degli strateghi di Antigono in Frigia e a Sardi, in una zona dell’impero
particolarmente vulnerabile per la sua perifericità, e che includeva anche l’irrequieto mondo delle città greche, favoriscono
l’avanzata di Lisimaco. In una prima fase questi, raggiunto da Antigono in Frigia, cercò di sottrarsi allo scontro frontale, dando
così l’impressione ai suoi stessi soldati di non saper affrontare il temibile nemico. I successi nel frattempo conseguiti da Demetrio
Poliorcete anche in Tessaglia si rivelarono effimeri: egli dovette persino adattarsi a un accordo con Cassandro, per avere le mani
libere per un intervento in Asia minore in aiuto del padre; Cassandro però inviava ulteriori soccorsi a Lisimaco, al comando di suo
fratello Plistarco. La manovra a tenaglia sul regno asiatico di Antigono si compiva comunque solo con l’intervento di Seleuco e di
Tolemeo – decisivo fu quello di Seleuco. Nella primavera del 301 l’offensiva contro Antigono si scatena su tutti i fronti: in Grecia,
Cassandro avanza fino ad Elatea; in Fenicia Tolemeo si porta fino all’altezza di Sidone, che stringe con un assedio destinato a
concludersi al sopraggiungere d’una falsa notizia, che dava Antigono vincitore in Anatolia su Lisimaco e Seleuco. Era accaduto il
contrario: a Ipso (in Frigia) avevano vinto i collegati contro Antigono, soprattutto per l’impatto degli elefanti di Seleuco
soverchianti per numero (480 contro 75), ma anche per l’imprudenza di Demetrio, abbandonatosi a uno sconsiderato
inseguimento della cavalleria avversaria: Antigono, che invano aveva sperato nel ritorno del figlio, trovava una gloriosa morte sul
campo (estate del 301). Ne seguì la spartizione dei domini asiatici di Antigono: a Seleuco andarono la Siria e progressivamente i
restanti possessi fino al Tauro; l’Asia minore occidentale passava nelle mani del re di Tracia, Lisimaco, che creava così uno stato
europeo-asiatico, tanto complesso quanto fragile. Ipso segna in effetti il superamento di quelle soluzioni “composite‟, che erano
state agitate qualche anno dopo la morte di Alessandro, e che erano state soprattutto la caratteristica della politica di Antigono,
almeno nella sua forma più pura di aspirazione all’impero unitario persistita fino al 311. Ancora dopo Ipso il dominio del figlio
Demetrio Poliorcete comprendeva città costiere della Ionia, Caria, Fenicia, Cipro e, in Grecia, le istmiche Megara e Corinto: un
variegato dominio costiero e insulare, periegeo, invitante alle avventure, ma piuttosto vulnerabile e fragile. La Lega del 302 si
sfaldava subito dopo Ipso, segnando il fallimento del sogno politico riguardo al mondo greco di Antigono e dello stesso
Poliorcete. Cassandro rimetteva piede in qualche modo in Asia, con l’affidamento al fratello Plistarco di parte della costa
meridionale dell’Anatolia. Per Seleuco e il suo regno si trattò di una svolta decisiva, che, sommandosi alla rinuncia alle estreme
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satrapie orientali, accentuava la occidentalizzazione del regno, che ormai veniva ad avere il suo polo principale in Siria e,
progressivamente, in Asia minore, perciò nel Mediterraneo orientale. Alla battaglia di Ipso non aveva invece preso parte, per un
eccesso di prudenza, il re d’Egitto, Tolemeo. Tuttavia la sua campagna del 302 non doveva nelle sue intenzioni restare senza
effetti: egli non volle cedere a Seleuco la Siria meridionale e quella interna, che per sé reclamava il re di Babilonia; si apriva così
un contenzioso inesauribile tra le due monarchie, che porterà nel corso di un secolo e mezzo a ben sei guerre dette “di Siria”,
combattute per spostare verso nord o verso sud il labile confine fra le rispettive zone di dominio.
singole città – anche per questo aspetto la politica di Demetrio dopo Ipso conosce dunque una significativa innovazione (e
involuzione).
ucciso dal Cerauno, che ora poté rivendicarle e acquisirle per sé (inizio del 280). Gli impegni diversi di Pirro (in procinto di
raggiungere Taranto, per soccorrerla contro Roma) e dello stesso Antioco I (attivo nelle satrapie interne del suo impero),
facilitarono decisamente il compito a Tolemeo Cerauno. L’unico che provò a sbarrargli il passo fu Antigono Gonata, che per terra
e per mare cercò di recuperare i domini parterni di Macedonia e Tessaglia: ma una durissima sconfitta navale, inflittagli nello
stesso 280 dal Cerauno, non solo assicurò a quest’ultimo il dominio in Macedonia, ma fu anche l’occasione per una rivolta
generalizzata di quelle parti della Grecia che erano sotto il controllo di Antigono (tra l’altro Atene recuperò il Pireo). La pace
stipulata da Tolemeo Cerauno con Antioco I sembrava comunque garantirgli un lungo regno: ma appena un anno dopo questi
tumultuosi eventi, Tolemeo cadeva combattendo contro i Celti (Galati) invasori della Grecia (279). La Macedonia doveva trovare,
dopo qualche altro anno di sussulti, un suo stabile assetto, per più di un secolo, proprio ad opera di quell’Antigono Gonata che
nel 280 sembrava quasi destinato a scomparire dalla grande scena politica del mondo ellenistico. Un importante elemento di
turbamento e di crisi fu rappresentato, poco dopo Curupedio, dall’invasione dei Celti: occorre tuttavia ricordare che la capacità
di reazione degli stati ellenistici fu all’altezza della situazione; rapidamente i Celti furono per la maggior parte allontanati
dall’Europa, ma anche dalle regioni costiere dell’Asia minore. L’uno e l’altro risultato si dovettero alla decisa reazione ellenica; e i
modi di questa hanno la virtù di mettere alla prova, e di evidenziare storicamente, le nuove realtà politiche emerse nel mondo
greco di età ellenistica. Tutta la nuova grecità (fatta eccezione per l’Egitto) si misurò sulla questione celtica. Il re di Macedonia,
Tolemeo Cerauno, cadde nel 279 combattendo contro i barbari. Quando questi, attraverso la Tessaglia, ebbero raggiunto le
Termopile, a fronteggiarli trovarono le popolazioni della Grecia centrale: Beoti, Focesi e, soprattutto, un popolo che solo ora
emerge nel contesto greco, gli Etoli. Benché questi Greci non riuscissero a impedire lo sfondamento della linea di difesa delle
Termopile, tuttavia sembra che il santuario delfico venisse risparmiato. Dalla resistenza, almeno in parte feconda, e
dall’istituzione e celebrazione dei Sotéria, deriva e data la supremazia degli Etoli a Delfi, un notevole mutamento infatti rispetto
al tradizionale assetto dell’Anfizionia e del governo del santuario. Passate nel 278 in Asia, su sollecitazione di alcuni satrapi, le
tribù galliche furono indotte a stabilirsi nella Frigia interna (che da loro prese il nome di Galazia) a seguito della sconfitta loro
inferta dal re di Siria, Antioco I nella battaglia “degli elefanti” (275/4): essa mise in luce il ruolo di campioni dell’ellenismo d’Asia
minore che i Seleucidi ora si assumono e che eserciteranno più tardi i pergameni Attalidi. Negli stessi anni, e come conseguenza
più o meno immediata degli stessi eventi, si assiste all’insediamento di uno stabile potere monarchico in Macedonia, con
l’ascesa al trono (nel 277 o 276) di Antigono Gonata: nella battaglia di Lisimachia nel Chersoneso tracico (277) il Gonata aveva
sconfitto le retroguardie dei Celti, che allora avevano già ormai per la maggior parte varcato l’Ellesponto – questa vittoria
consegnò nelle sue mani la Macedonia. Con Pirro lo scontro si protrasse, soprattutto nel Peloponneso, fino al 272, anno dela
morte di quell’irrequieto sovrano: ma ala fine degli anni Settanta Antigono aveva sotto il suo controllo anche la Tessaglia, e
ampie zone del restante della Grecia; aveva del resto suoi uomini di fiducia (tiranni) nel Peloponneso, e guarnigioni
opportunamente dislocate nei ter punti strategici dell’Ellade (Demetriade, Calcide e Corinto).
PARAGRAFO XIII Il consolidamento e i suoi limiti nei decenni centrali del III secolo a.C.
Un pieno consolidamento del dominio seleucidico in Asia minore fu ostacolato da alcuni fattori e condizioni, che in determinati
periodi operarono congiuntamente, procurando i più gravi momenti di crisi al regno di Siria. La conquista seleucidica
dell’Anatolia ad ovest del Tauro era stata fin dall’inizio limitata al controllo della grande arteria di collegamento con la costa egea
dell’Asia minore, e della costa medesima, cioè dell’area delle vecchie e nuove città greche, sì che permanevano stati che mai i
Seleucidi aveva assoggettato o assoggetteranno, come il Ponto, la maggior parte della Cappadocia, la Bitinia. Per conseguenza
anche regioni un tempo soggette, come quella di Pergamo, si rendono autonome, sollecitando l’ulteriore sfaldamento del
dominio seleucidico. Il terzo fattore, che costituirà la causa di maggior durata delle condizioni di relativa insicurezza, in cui
cronicamente versa il regno di Siria, è la vicinanza di un Egitto, assillante nella pretesa di controllo dell’area siriaca, quanto meno
di quella meridionale, nel tentativo di ricomporre una coerenza territoriale da Cipro e Cilicia alle regioni siro-fenicio-palestenesi,
fino all’Egitto medesimo. Le diverse guerre di Siria, che si succedono tra Siria ed Egitto tra il 280 e il 168, seguono quasi sempre lo
stesso copione: lo spostamento più a sud o più a nord dei confini dei due imperi, senza influire notevolmente nella sicurezza
delle parti centrali degli imperi stessi. La storia delle guerre siriache, come già quella della penetrazione celtica, è rivelatrice delle
difficoltà in cui si dibattono i recenti regni ellenistici. Fra i sovrani, Antioco I si trovava di fronte a un carico particolare di problemi,
dopo l’assassinio del padre e di fronte all’attivismo ormai dispiegato dall’Egitto, sotto il nuovo sovrano, come risulta evidente
dalle prime battute del confronto tra Seleucidi e Tolemei (280/9), che provoca il formarsi di una coalizione di vari popoli d’Asia,
dell’Egitto, e della Macedonia. La prima guerra siriaca in senso stretto è però da datare agli anni 274-270: i Seleucidi riuscirono a
strappare Marato in Fenicia, nonché a suscitare la ribellione del sovrano della Cirenaica contro Tolemeo II. La politica tolemaica
già nella prima guerra siriaca smette di iscriversi in un disegno di coalizione con la Macedonia. Lo scontro con la Siria è scontro
diretto, e corrisponde a un tratto aggressivo, ampiamente dovuto all’influenza esercitata su Tolemeo II da Arsinoe II, la sorella
uterina che egli aveva sposato. Il matrimonio tra fratelli (che ebbe sul piano cultuale il riscontro dell’istituzione del culto dei theoì
adelphoí, cioè gli “dèi fratelli”) non poteva non suscitare negli ambienti greci uno scandalo, cui diede l’espressione di uno
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sferzante dileggio il poeta Sotade di Maronea. Il raffreddamento dell’Egitto tolemaico con la Macedonia del Gonata si esasperò
in aperto conflitto con la cosiddetta “guerra cremonidea‟, che prende nome dal decreto del politico ateniese Cremonide (267):
di fatto fu una coalizione tra Sparta, Atene e lo stesso Tolemeo II contro il re macedone Antigono Gonata; ma con la sconfitta del
re di Sparta Areo presso Corinto, poi di Atene, essi dovettero chinare il capo di fronte al Gonata: guarnigioni macedoni al Pireo e
sulla collina del Museo, un governatore macedone della città, nomina di alcuni magistrati, furono le imposizioni che Atene
dovette subire nonostante alcuni alleggerimenti successivi, fino alla liberazione e restaurazione democratica favorita sia da Arato
di Sicione sia dal re d’Egitto Tolemeo III nel 229/8. Lo scontro tra l’Egitto, da un lato, e la Macedonia e la Siria, dall’altro, ebbe la
sua acme nella II guerra siriaca (260-253), quando la Macedonia sviluppò il suo massimo sforzo per realizzare una politica navale,
volta soprattutto al dominio delle isole dell’Egeo, mentre la Siria di Antioco II si prendeva affermazioni e rivincite nei settori
occidentale e meridionale dell’Asia minore (dove il contatto con le vecchie città greche orientava sempre di più la politica
seleucidica verso la valorizzazione dei regimi di libertà e democrazia, legando a questi programmi politici l’immagine della
politica dei re di Siria verso le póleis. Tra Egitto e Macedonia l’oggetto principale del contendere era la Lega dei Nesioti (isolani),
cioè delle isole Cicladi; e un duro colpo alla supremazia tolemaica fu assestato dalla flotta macedone con la vittoria di Cos (255
a.C.?); in Asia Tolemeo II dovette registrare notevoli perdite in Ionia, Panfilia e Cilicia. Due paci separate con la Macedonia e con
la Siria (255 e 253, rispettivamente) posero fine al conflitto, a cui fece seguito addirittura un’alleanza tra Siria ed Egitto suggellata
dal matrimonio tra Antioco II e Berenice, figlia di Tolemeo II, che comportava il ripudio della precedente consorte, Laodice.
Sembrava la fine delle alterne tensioni fra i tre grandi regni ellenistici, ma proprio dal matrimonio tra Antioco e Berenice doveva
nascere il nuovo conflitto. Antioco aveva scelto la via di un compromesso, poi rivelatosi infelice, nel nominare suo successore il
figlio di Laodice, Seleuco II, mentre intendeva le nozze con Berenice come ragione d’intesa con i Tolemei. Alla morte di Antioco II
(246) scoppiò la guerra tra Tolemeo III, che interveniva nell’interesse della sorella Berenice e del figlioletto di questa, e Seleuco II.
L’avanzata travolgente di Tolemeo III nel cuore stesso del regno nemico fu forse di dimensioni minori di quel che suggerisce la
propaganda ufficiale tolemaica; e certo Tolemeo non riuscì a raggiungere gli scopi che si era prefissi, poiché Berenice e il figlio
furono trucidati dai nemici ad Antiochia; tuttavia, dalla guerra di Laodice (246-241) in poi (fino all’età di Antioco III) il dominio
tolemaico in Siria era così avanzato in direzione nord da includere la stessa Seleucia, una delle quattro città fondamentali della
Siria Seleucide (insieme ad Antiochia, Apamea e Laodicea). Il regno di Siria continuò in seguito ad essere scosso da lotte di
successione dinastica (lotte che negli altri regni avevano ormai ceduto il passo a successioni ereditarie regolari): tra il 240 e il 237
arse la cosiddetta “guerra dei fratelli‟ tra Seleuco II e Antioco Ierace (“l’avvoltoio”), che fino al 228 amministrò in maniera
indipendente i possedimenti seleucidici dell’Asia minore occidentale, dalla Troade alla Ionia alla Caria. E sempre intorno al primo
decennio della seconda metà del III secolo a.C. si verifica la perdita, da parte dei Seleucidi, del controllo della Partia, dell’Ircania e
della Battriana, cioè delle regioni a sud-est ed est del Mar Caspio, tappe avanzate dell’ellenismo in oriente, all’interno di quel
confine “artificioso‟ e difficilmente difendibile che fu per Alessandro Magno l’Indo (e che Seleuco I per primo aveva rinunciato a
difendere). Le possibilità di sopravvivenza dell’ellenismo seleucidico in Partia e Battriana erano, da un punto di vista territoriale,
migliori: tuttavia già durante il regno e per effetto della politica „occidentale‟ di Antioco II, si avviò un processo di distacco della
Partia e poi della Battriana stessa. Un certo ridimensionamento toccava in quegli anni anche al dominio macedone, comunque
non così drastico come quello toccato al regno seleucidico dal 246 in poi. In Grecia si andavano rafforzando le posizioni di Etoli e
Achei, raccolti in due rispettive leghe (koiná). L’elemento dinamico della Lega achea però fu rappresentato da una città non
achea, Sicione: liberata dal regime di cronici tirannelli nel 251, essa si inserì in quelle manifestazioni di irrequietezza che
turbavano ormai il dominio macedone a Corinto. Qui, nel 253, si era ribellato al Gonata Alessandro, figlio di Cratero; intanto gli
Achei si rivolgevano all’Egitto di Tolemeo III, che entrava in alleanza con gli Achei, e che era in grado di inalberare il vessillo della
libertà e, se del caso, della democrazia, visto che la Macedonia di Antigono Gonata aveva invece imboccato la strada del
predominio militare, del controllo politico e dell’insediamento al potere di propri uomini di fiducia, che la tradizione greca
considera tiranni. Sono comunque questi decenni centrali del III secolo a.C. anche quelli della massima fioritura politica e
culturale dell’ellenismo, gli anni più propriamente definibili di „altro ellenismo‟, dando all’espressione un senso valutativo.
Benché sia difficile trovare dopo il 260 anni di pace, e di uguale solidità dei tre regni, tuttavia, nei decenni centrali del secolo, alla
sostanziale stabilità interna dell’Egitto e della Macedonia corrisponde una tenuta del regno seleucidico. L’ellenismo, in senso
politico e culturale, conosce insomma la sua acme tra il 280 e il 220 circa. Dopo la morte di Antigono Gonata (239), il confronto
fra la Macedonia e le libere città di Grecia passa attraverso fasi diverse: nella prima (239-229), corrispondente al regno di
Demetrio II (figlio del Gonata), lo scontro della macedonia con le nuove realtà federali, che ormai rappresentano la roccaforte
dell’autonomia greca, è incautamente frontale, perché investe entrambe le Leghe: quella etolica, estesa su gran parte della
Grecia centrale di qua e di là dalle Termopile e forte anche del controllo del santuario delfico, e quella achea, che raggruppava
gran parte del Peloponneso e affilava le armi contro Sparta. La guerra demetriaca non è risolutiva per la Macedonia, che dal 229,
con l’avvento di Antigono Dosone, tutore e reggente per il futuro Filippo V (figlio di Demetrio II), entra in un periodo di
raccoglimento (229-224), durante il quale si verifica un significativo attivismo dei Tolemei in Grecia, e la restituzione, a
pagamento, delle fortezze attiche da parte macedone, che porta alla restaurazione della democrazia ad Atene. Sono anche gli
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anni del risveglio politico di Sparta. Qui già negli anni 243-241 il re Agide IV aveva avviato un processo di riforma, basato sulla
restaurazione dei valori dell’antica agogé spartana, e mirante all’ampliamento del corpo civico, ormai ridotto a 700 membri, di
cui soltanto 100 erano cittadini di vero e pieno diritto. Il tentativo si concluse tragicamente per Agide IV, e ad esso successe un
consistente periodo di reazione, guidata da Leonida II, che ottenne la condanna a morte del re riformatore. Per l’ironia della
sorte, fu proprio il figlio di Leonida, Cleomene III, a condurre in porto le riforme accennate da Agide: lo fece con metodo violenti,
facendo uccidere gli efori nel 227, e portando a 4000 membri il corpo civico. Ne seguì il conflitto con la Lega achea, che si colora
ormai delle tinte del conflitto ideologico. Proprio Arato di Sicione, che aveva a suo tempo dato una decisiva scossa al dominio
della Macedonia sulla Grecia, chiamava nel Peloponneso Antigono Dosone, offrendogli la restituzione della base di Corinto
(224), che vent’anni prima era riuscito a liberare. È una svolta decisiva nella politica achea, che legherà decisamente le politiche
degli Achei e della Macedonia per un buon venticinquennio, attraversando ben quattro conflitti: 1) la guerra con Cleomene, che
si sta svolgendo; 2) la guerra sociale (symmachikòs pólemos) tra le due potenti federazioni, l’achea e l’etolica (220–217); 3) la I
guerra romano-macedonica (215-205); 4) i primi due anni della II guerra romano-macedonica (200-198 a.C.). La Lega achea si
avvia così verso quella politica collaborazionista, che continuerà poi per alcuni decenni nei confronti di Roma (di contro a una
Lega etolica capace di viva resistenza nazionale). Cleomene III fu sconfitto da parte della nuova alleanza nella battaglia
combattuta nel 222 nella valle dell’Eurota. Qualche mese dopo moriva Antigono Dosone (222/1) combattendo contro gli Illiri; e
gli succedeva sul trono di Macedonia Filippo V. Questi continuò la politica filoachea; tra il 220 e il 217 Filippo si impegna in una
guerra tanto dura contro irrisolutiva a fianco degli Achei contro gli Etoli: ad incitarlo al conflitto è l’incombente presenza di una
potenza come quella etolica, che estende i suoi domini lungo tutta la fascia centrale del territorio greco. La pace di Naupatto
(217), l’ultimo accordo stipulato fra soli Greci, chiudeva un conflitto su cui già allungavano la loro ombra le nubi che provenivano
da Occidente (secondo la celebre immagine del pacifista Agelao di Naupatto, che con ciò faceva esplicito riferimento ai possibili
esiti dello scontro epocale che si svolgeva in Occidente tra Romani e Cartaginesi, scontro i cui vincitori avrebbero poi rivolto la
loro attenzione alla Grecia). Sullo scorcio degli anni ‘20 del III secolo si pone l’inizio del regno di un sovrano, Antioco III di Siria, il
Grande, che, se rappresenta un’epoca di significativa ripresa del regno seleucidico, e di ricostituzione dell’unità dell’impero,
approda poi al confronto con Roma nella guerra degli anni 192 e seguenti, conclusa dalla pace di Apamea (188), che è anche
l’avvio del declino del regno di Siria. Un’intera parabola dunque, quella del regno di Antioco il Grande, che passa per la
repressione di rivolte in diverse satrapie, la grande spedizione per il recupero delle satrapie orientali, fino all’Indo e il fortunato
ritorno, la vittoria sugli Egiziani nella V guerra di Siria, l’espansione in Asia minore e in Tracia, per imboccare infine la curva
discendente nel conflitto con Roma.
percentuale ancora più bassa. La presenza greca era assicurata da un lato da una forte immigrazione, che avveniva così al livello
di soldati, di uomini di cultura o persone professionalmente qualificate, come anche di piccoli e grandi commercianti, dall’altro
dalla sopravvivenza di vecchie città greche, numerose soprattutto sulle coste dell’Egeo. Per tutti questi elementi rappresentava
una novità la creazione di stati a dirigenza greco-macedone, rispetto agli stati che li avevano preceduti e in cui gli elementi greci
avevano costituito un corpo estraneo e in qualche modo sottomesso. Ma tutto sembra mostrare che i Greci non arrivassero mai
ad elaborare una teoria politica dello stato ellenistico, inteso come fusione di elementi etnici diversi e distribuzione di
responsabilità politiche fra queste stesse componenti. Che Alessandro Magno abbia praticato una politica di fusione tra
Macedoni e Orientali è cosa che vien molto naturale ammette sia sulla base della politica matrimoniale da lui perseguita (si pensi
al suo matrimonio con Rossane, e poi con Statira e con Parisatide, e alle nozze in massa dei suoi ufficiali con donne iraniche), sia
in considerazione di aspetti dell’organizzazione militare da lui voluta (un corpo di 30.000 epígonoi persiani, addestrati nel suo
esercito; inserimento di cavalieri battriani nella cavalleria eterica; ammissione di singoli nobili persiani nel ruolo dell’ágema) e del
suo comportamento personale e di governo. Certo, non mancarono drammatici ritorni indietro, nella politica perseguita da
Alessandro verso gli Orientali (si pensi all’eliminazione violenta dei satrapi persiani della Perside e della Susiana); ma nell’insieme
una politica di fusione, almeno sul piano delle strutture amministrative militari e civili, doveva essere nei piani di Alessandro. Un
completo rovesciamento della situazione sotto i Diadochi è ammesso in generale dagli studiosi, ma forse con troppa facilità.
Diciamo che un’inversione totale di tendenza non era neanche possibile pensarla, in un regno come quello dei Seleucidi; altrove,
come in Macedonia, il problema non si poneva nemmeno; fra i tre grandi regni ellenistici, quello in cui poteva verificarsi, e in
larga misura si verificò, un mutamento di rotta in fatto di rapporti fra Greco-Macedoni e indigeni, nella direzione della
separazione, era l’Egitto.
rassicurante dell’assenza di un forte potere militare nella Sicilia orientale. All’interno di Siracusa il governo oligarchico viene
rovesciato dai democratici; riesce a riaffermarsi a stento soltanto per l’intervento di Corinto, e col sostegno della stessa
Cartagine. Fra gli esuli democratici di questa volta c’è Agatocle: i primi anni della sua attività politica sono caratterizzati da un
susseguirsi di esili, e anche però dall’acquisizione di posizioni di forza in città vicine a Siracusa (Morgantina, Leontini). Ne derivò
un compromesso con gli oligarchici, ai quali fu lasciato il potere all’interno della città, mentre i presidii extra-siracusani erano
affidati ad Agatocle (319/8). Presto però questi riuscì ad espellere da Siracusa gli avversari, e a ottenere la carica di stratego
unico, rispettando in un primo momento la costituzione timoleontea, ma adottando misure popolari, quali l’abolizione dei debiti
e una ridistribuzione delle terre (316). Un intervento di Sparta contro Agatocle, mediato da Taranto, fallisce (il re spartano
Acrotato uccide il capo del partito oligarchico siracusano, Sosistrato). La posizione di Agatocle si rafforzava così anche nei
confronti dei Cartaginesi, che riconoscevano l’egemonia di Siracusa, cioè di Agatocle, sulle altre città della Sicilia orientale. La
politica di Cartagine era stata fino ad allora di tolleranza e talora persino di connivenza con Agatocle, più che altro per
responsabilità di Amilcare. Dopo la morte di questo, la situazione era di nuovo in movimento, e Agatocle decise di prendere
l’iniziativa antipunica, nel 311, con un attacco ad Agrigento. I Cartaginesi intervenivano in difesa della città, nel territorio di Gela,
dove assestavano un duro colpo ad Agatocle alla foce del fiume Imera (giugno 310). Ne seguì la defezione delle solite città
greche recalcitranti al dominio siracusano, da quelle della costa occidentale (Camarina) ai centri dell’area etnea (Leontini,
Catania, Tauromenio), a Messina. Con una decisione imprevista e geniale, Agatocle trasferì allora la guerra in Africa, sbarcando
14.000 uomini al Capo Ermeo: prese Megalepoli e Tunisi, e s’accampò davanti a Cartagine; l’esercito punico accettò la sfida, ma
dovette ripiegare sotto i colpi dell’armata di Agatocle, che ormai controllava il territorio, occupava Neapolis, Adrumeto e Tapso,
e sconfiggeva nuovamente presso Tunisi i Cartaginesi. Parte delle truppe puniche avevano dovuto nel frattempo lasciare la
Sicilia, per correre in difesa del territorio metropolitano; il resto subì una nuova sconfitta ad opera dei Siracusani. In Africa
Agatocle s’intendeva con il signore di Cirene, Orfella, col quale stringeva un patto di spartizione dei domini cartaginesi, che
avrebbero dovuto essere attribuiti per la parte siciliana ad Agatocle e per la parte libica ad Ofella. Quest’ultimo raggiungeva
(309) Agatocle sotto Cartagine, ma fra i due scoppiavano dissensi culminati in uno scontro armato, in cui Ofella perdé la vita,
mentre il suo esercito passava sotto le insegne del siracusano. Una dopo l’altra cadevano ormai nelle mani di questo le città
suddite di Cartagine, da Utica a Hippou Akra. Cartagine restava però in piedi; Agatocle perciò lasciava gran parte dell’esercito in
Africa al comando del figlio Arcagato, e faceva rientro in Sicilia (primavera 307), per fare il punto della situazione e riprenderne il
pieno controllo. Eraclea, Segesta e Terme passavano sotto il controllo di Agatocle; minor fortuna egli ebbe con l’esercito degli
oppositori: di fronte alla sua imponenza dovette ripiegare. In Africa intanto i Cartaginesi, destati alla riscossa non da ultimo
dall’assenza dell’audace e fortunato generale siracusano, riuscivano a riconquistare la maggior parte delle posizoni perdute e a
chiudere Arcagato in Tunisi, in una morsa che Agatocle non riuscì ad allentare neanche con una reiterata incursione in Africa. Fu
la fine dell‟audace spedizione: le truppe al servizio dei Siracusani si ribellarono agli sconfitti e trucidarono Arcagato e un altro
figlio di Agatocle. Dopo un accordo con Cartagine, Agatocle poté affrontare in battaglia l’esercito degli emigrati siracusani,
assestandogli il colpo decisivo: Agatocle era finalmente legittimato all’interno come all’esterno, e poté assumere il titolo di
basileús, nella scia dei Diadochi di Alessandro Magno, e sposare anche una figlia di Tolemeo I, Teossena. Agatocle si rivela
personaggio capace di concepire piani di ampio respiro, che comportano la centralità di Siracusa, l’unificazione tendenziale della
Sicilia, un orizzonte strategico così vasto da includere un attacco diretto ai territori africani di Cartagine, un orizzonte politico e
diplomatico che coinvolge, sempre in prospettiva anticartaginese, lo stesso Egitto tolemaico. Non sorprende che egli, finita
l’avventura africana, riprenda i piani di Dionisio I per la costituzione di un dominio in Italia e la creazione di stabili punti
d’appoggio siracusani nell’Adriatico – l’eredità di Dionisio I, in tema di politica territoriale ed egemonica, viene dunque per intero
assorbita da Agatocle e persino trasferita a un livello di maggiore completezza ed organicità. Va ricordato il giudizio di Polibio su
di entrambi: in loro si riconosce non solo la capacità di fare carriera, partendo da umili origini (Agatocle avrebbe cominciato
lavorando al tornio e alla fornace, come ceramista), ma anche di diventare, oltre che tiranni di Siracusa, “basileîs di tutta la Sicilia
e signori di alcune parti d’Italia”. In Italia, dopo la conclusione (304) della seconda guerra romano-sannitica, Tarando vede
lucidamente da che parte proviene il pericolo indigeno: da Roma, con cui essa stipula, circa il 303/2, il cosiddetto trattato del
capo Lacinio, che ne vieta l’attraversamento a una flotta romana da guerra. Taranto dunque, alla fine del IV secolo, prevede lo
scontro con Roma, ma combatte ancora gli ultimi conflitti con i Lucani, che ora si schierano con Roma. La città greca chiede
ancora aiuto alla madrepatria Sparta, che nel 303 invia un esercito di mercenari al comando di Cleonimo, che agisce con i modi
spregiudicati del condottiero e dell’avventuriero, usando i Lucani contro gli stessi greci di Metaponto; impadronendosi poi di
Corcira e arrivando addirittura alla laguna veneta, dove subì una sconfitta da parte di quelli di Padova. A questo punto, contro gli
Italici i Tarentini non possono che chiedere aiuto a Siracusa, cioè ad Agatocle. Questi conseguì alcuni primi successi contro gli
Italici, con l’aiuto dei Bretti; nel frattempo conquistava anche l’isola di Corcira, che diede in dote alla figlia Lanassa quando questa
fu data in sposa al re d’Epiro, Pirro (295). Sulla via del ritorno da Corcira dovette fronteggiare la ribellione dei Bretti; occupò
Crotone e forse anche Locri in funzione anti-romana; rientrato in Sicilia, tornò ad invadere il territorio brettio con un esercito di
30.000 uomini, e ottenne la resa della bellicosa popolazione; ma appena Agatocle fu rientrato in Sicilia, la ribellione brettia gli
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scoppiò nuovamente alle spalle. Gli ultimi anni Agatocle è lì a tessere la sua tela grandiosa, alla prova dei fatti troppo ambiziosa
per le forze la durata della vita di un individuo: allestisce una grande flotta, destinata sempre al sogno della guerra
anticartaginese; rompe con Pirro; fa divorziare da lui la figlia Lanassa, che resta in possesso di Corcira. Ma una grava malattia
accelera la fine del sovrano siracusano, ormai settantaduenne. Con la fine del re siracusano, tutti i tradizionali problemi della
storia politica della Sicilia (conflitti fra Greci e Cartaginesi; conflitti all’interno del mondo greco; problema dei mercenari di origine
extra-siceliota) si ripropongono puntualmente, senza che ci sia più un uomo capace di venirne a capo in una linea di politica
d’indipendenza. Sicché ormai i problemi del governo della Sicilia si incaricheranno di risolverli potenze estranee all’isola. Si va
costituendo il terreno per quella prima guerra tra Cartagine e Roma, in cui una larga parte dei Sicelioti sentirà la propria sorte e
cultura meglio rappresentata da Cartagine che non da Roma. Ancora una volta Siracusa (allora sotto il governo di Ierone II)
rappresenterà l’intera parabola dei sentimenti e degli atteggiamenti greci e farà presto la scelta militarmente e storicamente
vincente.
PARAGRAFO XVII La grecità d’Italia e di Sicilia dalla spedizione di Pirro alle guerre puniche
Nei confronti dei Lucani, Taranto voleva esercitare in prima persona la funzione di tutrice delle popolazioni greche; quando
perciò, nel 282, Turi chiese aiuto ai Romani contro i Lucani, e Roma inviò G. Fabrizio Luscino con un esercito che sgominò gli
Italici, Taranto reagì come di fronte a un’interferenza grave: sequestrò una squadra navale romana, che era comparsa nel golfo
di Taranto, e impose alle truppe che presidiavano Turii di lasciare la città. Taranto capiva che l’intervento romano a tutela di una
città greca del golfo tarentino comportava un salto di qualità nella politica della città latina verso la Magna Grecia, svolta che
significava ormai l’arrivo delle armi di Roma fino all’ultima spiaggia della grecità italiota, quella che era stato storicamente il
nucleo stesso della Magna Grecia. Come già mezzo secolo prima ad Alessandro il Molosso, Taranto si rivolgeva ancora una volta
a un re epirota, perché esercitasse una funzione di tutela, che la grecità d’Italia chiedeva contro il ben più temibile barbaro che si
affacciava ormai sulla costa greca. Pirro, sfortunato pretendente al trono di Macedonia, aveva le mani libere per un’impresa del
genere, e Tolemeo Cerauno, salito al trono macedone nel 281, gliene fornì i mezzi, in uomini (5000 fanti e 4000 cavalieri) ed
elefanti (50). Con la spedizione di Pirro, l’Oriente ellenistico s’immette di forza nella storia dell’Occidente greco, ma solo per
registrare la fine dell’indipendenza di quest’ultimo. Pirro considerava l’azione in Italia quale preludio alla conquista della Sicilia; il
disegno di assoggettarsi l’isola era stato preparato anche dalle intese con Agatocle, ed era confortato dall’esistenza di un figlio
dato a Pirro da Lanassa (Alessandro), al quale era probabilmente destinato il regno sull’isola, come appendice di un regno
paterno impiantato nella penisola greca. La storica traversata (diábasis) dell’Adriatico da parte di Pirro avvenne nel maggio del
280. Egli portava con sé un cospicuo esercito (circa 25.000 tra fanti e cavalieri). Ad Eraclea ebbe luogo il primo scontro con i
Romani, che fu vittorioso per l’epirota, ma costò 4000 uomini, contro i 7000 caduti di parte romana. Nel clima della vittoria si
crea quell’unione greco-italica contro Roma, che era stata già da tempo il programma politico di Taranto. Sanniti, Lucani e Bretti,
e, fra i Greci, Crotone e Locri passano subito dalla parte del re epirota. Pirro si spinse fino ad Anagni, nella sua avanzata verso
Roma, che però veniva subito validamente presidiata con truppe fatte rientrare dall’Etruria e con nuove leve. Già allora
cominciano tra i Romani e Pirro trattative di pace (la cui esistenza chiarisce di per sé i limiti della spedizione dell’epirota); ma esse
si rivelano infruttuose, anche per l’opposizione di Appio Claudio Cieco. Nel secondo anno (279), Pirro cerca di venire a capo dei
Romani anche in Apulia: i Romani furono nuovamente battuti, ma ancora una volta le perdite di Pirro si avvicinavano a quelle
subìte dagli sconfitti (4000 caduti contro 6000 del nemico). La ripresa delle trattative (che nell’intenzione di Pirro dovevano
produrre la rinuncia di Roma al dominio sull’Italia meridionale, nella componente greca, come in quella italica dai Sanniti ai
Bretti) fu resa vana dall’intervento di Cartagine, che consolidò e ampliò i vecchi trattati con Roma, e che mirava soprattutto a
bloccare il prevedibile intervento di Pirro contro i Cartaginesi, i quali cingevano d’assedio Siracusa. Chiamato dai Greci di Sicilia,
Pirro passò nell’isola nell’autunno del 278, confermando così il carattere della sua missione, che era di liberazione dell’intera
grecità occidentale dalla minacce incombenti, sia quella di Roma in Italia, sia quella di Cartagine in Sicilia. Chi pensi alla storia dei
decenni successivi, che nel Mediterraneo occidentale saranno occupati dal confronto tra Roma e Cartagine, misurerà a pieno la
portata storica del tentativo di Pirro di bloccare due forze crescenti, minacciose per la libertà d’azione dei Greci e destinate a
scontrarsi fra di loro. In Sicilia Pirro rimase per tutto il 277, e ancora il 276, per ripartirne nella primavera del 275. Nell’isola
l’avanzata del re era stata dapprima travolgente: erano cadute nelle sue mani Selinunte, Alicie, Segesta; ma la marcia si era poi
arrestata di fronte alla munitissima fortezza punica di Lilibeo. I Cartaginesi offrirono a questo punto la pace, a patto di conservare
Lilibeo: Pirro, sollecitato dai Sicelioti, rifiutò e tentò di prendere Lilibeo con un assedio che dopo due mesi dové togliere. Presto
scoppiarono dissensi tra il re e i Greci di Sicilia, insofferenti della disciplina e dei tributi imposti dal conquistatore sopravvenuto.
Pirro giustiziò addirittura il governatore di Siracusa; e cadde nel vuoto il suo invito a trasferire, come Agatocle, la guerra in Africa.
Durante la spedizione di Pirro in Sicilia, i Romani avevano recuperato molte delle posizioni perdute fra gli Italici come fra i Greci;
la stessa traversata di ritorno del re epirota nella penisola, dove la sua presenza era richiesta dagli abitanti delle città greche, non
fu senza difficoltà. Già la flotta punica cercò di ostacolarlo; e sulla terraferma lo scontro, avvenuto nel 275 presso Maluentum,
tra i Romani e Pirro, segnò la vittoria dei primi. In tutta fretta Pirro abbandonò Taranto nello stesso 275 con gran parte delle sue
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forze, lasciandovi (fino alla resa di Taranto a Roma nel 272) un presidio al comando del figlio Eleno; rientrò in Grecia dove voleva
contendere ad Antigono Gonata il regno di Macedonia. L’irruzione dell’epirota in Macedonia (primavera del 274) e in Tessaglia
fu al momento un successo; le ripetute sconfitte subìte da Antigono incoraggiarono nel Peloponneso la Lega achea, da pochi
anni ricostituita, a una ribellione contro la Macedonia e poi a una politica di indipendenza e di ostilità anche nei confronti di
Sparta. Trasferitosi nel Peloponneso, Pirro vi fu accolto da molti come liberatore, e si spinse fino a minacciare la stessa Sparta,
che però ancora una volta si rivelava imprendibile senza un duro assedio; Pirro del resto vi rinunciò, limitandosi a saccheggiare la
Laconia e puntando poi su Argo, su cui moveva, da Corinto, Antigono Gonata. Pirro offrì invano battaglia al Gonata; decise poi di
entrare in Argo, dove aveva partigiani che gli aprirono di notte una porta. Egli si spinse incautamente all’interno di una città che
in gran parte gli era nemica, e nel corso di un combattimento confuso e difficile per le strade cittadine, rimase ucciso (autunno
del 272). Intanto Roma consolidava le sue posizioni sulla costa greca d’Italia: Taranto si arrese nel 272, dopo il ritiro della
guarnigione epirota seguito alla morte di Pirro. Taranto dovette accogliere una guarnigione romana, dare ostaggi, assicurare un
contingente navale a Roma. In Sicilia intanto si andavano creando le premesse per quell’adattamento dei Greci alla nuova realtà
dell’avvento del dominio di Roma, che nell’Italia meridionale, dopo il ritiro di Pirro, si presentava ormai come un processo
storico difficilmente reversibile, e che la vittoria su Annibale nella II guerra punica (218-201) sancì come irreversibile. Ancora una
volta Siracusa fu teatro dell’avvento di un potere personale, quello di Ierone II – il suo lunghissimo regno (morto nel 215) segnò
in profondità la storia della Sicilia greca nella delicata fase di trapasso dal periodo del cronico confronto con Cartagine al periodo
del dominio di Roma (che circa il 227, e poi di nuovo e definitivamente nel 210 a.C., ordinerà la Sicilia a provincia). Con la tentata
traversata di Appio Claudio nel 264 e la riuscita diábasis dello Stretto ad opera di M. Valerio nel 263, cominciava la I guerra
punica (264-241), che doveva rendere i Romani padroni della Sicilia, ponendo fine, dopo circa tre secoli, all’esistenza di un
dominio cartaginese nell’isola. Anche l’elemento greco dovette adattarsi a una situazione radicalmente nuova in Sicilia. Ierone
aveva stretto alleanza in un primo momento con i Cartaginesi, ma, dopo lo sbarco e le prime vittorie romane, egli decise di voltar
pagina: nessuna resistenza perciò trovò l’esercito romano che nel 263 avanzava da Messina e prendeva successivamente
Adrano, Alesa, Catania, Camarina e Gela. Quando M. Valerio si avvicinò a Siracusa, trovò Ierone disposta a cedere assai più che a
combattere: il re accettò infatti di rinunciare alle città conquistate da Roma, e a confinare il suo dominio a Siracusa, Leontini,
Acre, Noto e Tauromenio; si impegnò al versamento di 100 talenti e naturalmente si alleò con Roma contro Cartagine. Come già
in Italia, nonostante le cospicue resistenze e i progetti diversi che erano di volta in volta affiorati (e che nella duplice spedizione di
Pirro avevano trovato la loro più sistematica espressione), anche in Sicilia si determinava quel blocco storico tra Romani, Greci e
Italici, che doveva produrre, come esito ultimo, la costituzione di una nuova, composita ma fondamentalmente salda unità
culturale, a detrimento di altri elementi, destinati a rimanere estranei alla compagine della nuova Italia.
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Roma». La rivolta acaica (147-146) e l'episodio di Andrisco furono due emblemi delle reazioni a tale durezza: presunto figlio di
Perseo, Andrisco nel 151 e nel 149 si era ribellato a Roma e aveva ucciso P. Invenzio ma era stato sconfitto da Q. Cecilio Metello
nel 148 sempre a Pidna. «La Grecia è ridotta, nell'ottica romana, in una condizione quasi-museale, che ne mortifica la vitalità
politica, pur se se ne conserva o perfino consolida il ruolo culturale e l'immagine storica». Poco dopo la distruzione di Cartagine
(146 a.C.), fu epocale la distruzione della città di Corinto, nella guerra romana contro gli Achei in difesa di Sparta, città protetta.
La Siria, costretta dalle posizioni romane alla fusione culturale con Babilonia e i Giudei, riformò i costumi giudaici e proibì il culto
di Jahvé, sostituito da Zeus Olimpio; sebbene Giuda Maccabeo guidò una rivolta costituendo uno «stato giudaico» (152-142).
Invece il regno seleucida finì con l'uccisione in Media di Antioco VII Sidete (129) dopo il quale il regno cadde sotto il dominio
romano. In Egitto, i regni greco-indiani si integrarono e si registrò un rilevante processo di ellenizzazione dell'elemento indigeno
ma poi il regno si frantumò in tre: Alessandria, Cipro e Cirenaica. Poi Tolemeo VII, da Cirene, dettò un 27 testamento – prima
segreto, poi reso pubblico dopo un attentato al re – in cui favoriva Roma nel 162; in forza di un altro testamento, la Cirenaica
venne ereditata dai Romani solo nel 96, alla morte di Apione, e poi annessa nel 74. In Asia, la città fondata dal ribelle Aristonico
alla morte di Attalo III – Heliopolis, dedicata al dio Sole protettore della giustizia – preferì la protezione romana e, con M.
Perperna nel 130 e M. Aquilio nel 129, Roma potè annettere buona parte del regno, nel quale imperversarono così i
«publicani», avidi appaltatori di imposte romane.
PARAGRAFO VI - VII La crisi dei regni ellenistici nel II secolo a.C. – L’annessione dei regni ellenistici all’impero di Roma
I Romani completarono l'opera con l'annessione dei regni ellenistici: il regno dei Seleucidi (la Siria) fu annesso da Pompeo nel 63;
nel Ponto, il re Mitridate VI Eupatore (121-63) fece strage di Italioti per vendicarsi di Roma e dei suoi «publicani» trascinando
con sé anche Atene ma L. Cornelio Silla non tardò a saccheggiare Atene (86), i templi di Olimpia, l'Epidauro e Delfi, per poi
stipulare la «pace del Dardano» (85) mentre Pompeo – seppur imponendo come sempre forti tassazioni – liberare l'area dai
pirati; l'annessione dell'Egitto fu ritardato solo per interessi di personaggi romani come Antonio, Cesare ed altri, oltre che dalle
figure di Cleopatra (che darà un figlio a Cesare – Cesarione – e conquisterà Antonio dopo aver sostenuto Bruto e Cassio) e suo
fratello Tolemeo XIII (che consegnerà la testa di Pompeo a Cesare dopo la battaglia di Fàrsalo nel 48), ma da quando Tolemeo IX
Sotere II era morto (80), i suoi successori furono «marionette» in mano ai Romani tanto che, soprattuto dopo la vittoria di
Ottaviano su Antonio ad Azio (31), l'Egitto fu come una provincia romana.
Augusto sviluppò i centri greci, creò la provincia d'Acaia e trasformò Sparta in una città minore, nella quale potè emergere un
personaggio come l'affarista G. Giulio Euricle; Nerone dichiarò – ancora una volta – la libertà dei Greci (67 d.C.); Vespasiano (dei
Flavii) giudicò i Greci come incapaci e schiavi espellendo i filosofi da Roma e dall'Italia nel 74 d.C.; invece Adriano (degli
Antoninii), dal 117 al 138 d.C., consolidò la pace e l'Ellenismo concentrando la cultura soprattutto nei centri maggiori: «i Romani
(...) non potenziarono certo i Greci sul terreno politico (... difatti) la popolazione indigena continuò a vivere soprattutto in
campagna», tuttavia «i Greci (e i grecizzati) continuarono a praticare orgogliosamente proprie forme di vita e di cultura». Quale
possa essere il criterio storico per determinare la «fine della grecità» Musti ritiene sia «l'attenuarsi della funzione e
dell'irradiazione culturale della grecità». Dunque i fattori di accelerazione della crisi della grecità furono vari: la politica imperiale,
la pressione barbarica e le gravi calamità naturali e storiche. Sotto i Severi, il centro di gravità si spostò verso la Siria e alla crisi si
aggiunsero, da un lato, il fisco – presente a Roma con l'«editto di Caracalla» (212 d.C.) che estendeva la cittadinanza romana a
tutto l'Impero – e, dall'altro, il conflitto tra campagne e città, acuito da Massimino Trace (235-238 d.C.); i barbari (Goti, Burgundi
e altri) arrivarono nel 253 e gli Eruli nel 267, sebbene questi furono affrontati da Erennio Duxippo (nome greco-romano,
emblema del tempo). Infine il cristianesimo invase la romanità e le vecchie istituzioni culturali, anche se non furono Diocleziano
e Costantino a determinare propriamente la «fine» della grecità. Essa si può decretare invece con Giustiniano «che vietò la
retribuzione e l'esercizio dell'insegnamento pubblico dei maestri pagani ad Atene nel 529», quando cioè avvenne la «chiusura
della scuola di Atene».
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