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Musti-sintesi - Riassunto Storia greca

Storia greca (Università degli Studi Gabriele d'Annunzio - Chieti e Pescara)

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Storia greca
I CAPITOLO

PARAGRAFO I Neolitico: età del bronzo


La periodizzazione del Neolitico è: VI millennio Neolitico Antico; V millennio Neolitico Medio-4.000 a.C compaiono i primi
insediamenti urbani; IV millennio Neolitico Recente –sviluppo dell’idea delle fortificazioni e l’uso del meandro e della spirale
nelle arti decorative-. La vigilia del Neolitico Antico –il Mesolitico- è il periodo preceramico. Aspetti di continuità tra il Neolitico e
il periodo prepalaziale si scorgono a Creta, negli strati inferiori a quelli dei palazzi minoici di Cnosso. Nella sua fase iniziale, il
Neolitico ciprota -5000 a.C- sono presenti insediamenti e abitazione che anticipano i thòloi di epoca minoica, ma
principalmente micenea. L’età del bronzo si estende grosso modo dal 2800 a.C al 1100 a.C, la tripartizione utilizzata per il
neolitico vale anche per questo periodo e cambia il suo nome in relazione al luogo: nel continente Elladico, nelle isole Cicladico,
a Creta Minoico.

PARAGRAFO II-III La civiltà minoica - La civiltà micenea e la sua espansione nel mediterraneo
Il minoico antico a Creta corrisponde al periodo prepalaziale, ed essendo un periodo lunghissimo subisce anch’esso una
tripartizione. Con il I Medio Minoico emerge la civiltà palaziale con i palazzi dalla struttura semplice del Mégaron. Nel 1900 a.C
sorgono i palazzi di Cnosso e Festo –fase dei secondi palazzi- con cui coincide il III Medio Minoico 1700 a.C a questa fase
appartiene il palazzo di Mallia nella Creta orientale. Durante il Tardo Minoico compare una scrittura sillabica accompagnata
dalla diffusione dei sigilli. Una vera irradiazione della cultura minoica si avverte a Tera nelle Cicladi, e a Citera di fronte le coste
della Lacaonia. Un uso politico del mare è quello che i greci chiamarono Talassocrazia di Minosse, Minosse come chiarisce
Tucidide, dominò le Cicladi e il mare tutto intorno liberandolo dai pirati.
L’età micenea è distinta in tre sotto-fasi riconducibili all’ultimo periodo Elladico, si distingue: un Tardo Elladico I -1600/1580-
1500-; un Tardo Elladico II -1500-1452-; un Tardo Elladico III -1425-1100-. Alla prima fase del Tardo Elladico sembra
riconducibile il Circolo A delle tombe a fossa. Tra il 1450 e il 1400 si data un regno miceneo a Cnosso, e tra il XIV-XII secolo la
maggior espansione della ceramica micenea in oriente. Nella creta minoica si verificano sviluppi interni sia sviluppi per influenze
del modello Cretese. È in questo periodo di evoluzione che la scrittura, la Lineare A si adatta alle nuove necessità di
rappresentazione grafica di parole greche di tipo dialettale –la Lineare B- di cui sarà erede il dialetto arcado-cipriota. I testi in
Lineare B hanno due punti di addensamento a Cnosso e a Pilo, per i primi si risale al XV-XIV secolo, per gli ultimi al 1200. La
struttura politica e sociale è fortemente centralizzata sottoposta al dominio del wanax affiancato dal comandate militare
lawaghètas, nelle tavolette risultano anche i doero o douloi e i teojodoero o teoduloi; l’artigianato assolve una funzione
importante ed è elevato il ruolo sociale dei chalkewes –i bronzieri-. Altra classe sociale è quella dei telestaì sono forse funzionari
o dignitari, appaiono come proprietari terrieri. Gli equetai –o hepetai- svolgono funzioni militarie sacrali di supporto. Le
monarchie micenee hanno sviluppato un’amministrazione complessa sull’esempio orientale e più direttamente delle regalità
minoiche. È durante e dopo il dominio miceneo a Cnosso nel 1370 che si colloca il periodo di massima espansione. Linee di
sviluppo dell’epoca micenea:
1. Dopo l’invasione del continente –Medio Elladico- si raggiungono nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica
che corrispondono alla fioritura dei palazzi nel Tardo Elladico o Miceneo
2. A metà del XV secolo questo assestamento ha portato all’espansione nell’egeo
3. Espansione commerciale da riferirsi anche al commercio ambulante, per sottolineare la capacità di adattamento e mobilità
sociale nel mondo greco.
L’espansione di epoca arcaica ha la funzione di creare nuove poleis, dunque si cercano territori in cui poter sostituire o
contrastare le società autoctone e insediarvisi il proprio governo, o si cercano spazi vuoti privi di abitanti e organizzazioni.

PARAGRAFO IV La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche


Dalla fine del XIII secolo si registrano i primi segni di declino del mondo miceneo. Ma la presenza di ceramiche appartenenti al
Miceneo III C sono la dimostrazione che questo decadimento non è stato un evento fulminio, ma graduale. La tradizione epica
accompagna questo periodo con la conquista dorica e tessala. I dori provenienti dal Peloponneso intratterranno rapporti di
convivenza e coesione con i popoli delle terre conquistate –Argolide, Laconia, Messenia-; la penetrazione dorica non sarà
portatrice né di distruzione né di costruzione, piuttosto i dori si approprieranno della tradizioni popolari già esistenti. Però le
prime tracce di malessere nel mondo miceneo possono essere già riscontrate precedentemente all’invasione dorica: il palazzo
di Pilo –Argolide- venne distrutto da Eracle trisavolo delle popolazioni doriche, e nella generazione successiva avrebbe avuto
inizio la guerra di Troia -1194/1184 per Eratostene e Apollodoro, ma la tradizione porta la data fino al 1340-. Accanto al
racconto della guerra si accompagnano eventi di contorno che narrano dei Nòstoi, di liti e dissidi di cui si fa interprete Tucidide.
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Esiste una teoria dei Due Tempi nel declino miceneo: a una prima crisi interna succede una trasformazione in alcune aree vitali
della popolazione. La società precedentemente gerarchizzata si trasforma in società tribale e i terreni sotto il dominio dorico
diventano proprietà private. Il primo tempo del declino lo si può immaginare frutto di contrasti tra popolazione e sovrano o tra
sovrano e la nascente aristocrazia, ma potrebbe anche essere causata dai Popoli del mare, i quali sono rappresentati nei testi
egizi e potrebbero dare significato a dei movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività di distruzione. Di
particolare interesse è la micenizzazione di Cipro in cui vengono a mescolarsi tratti micenei con quelli medio orientali, la
tradizione vuole qui gli Achei con la conseguente formazione di Salamina. Questo periodo segna il passaggio dall’età del bronzo
all’età del ferro a seguito di modifiche delle armi militari probabilmente di derivazione dorica.

PARAGRAFO V l’origine delle Pòleis


La pòlis è da considerarsi come un punto di transizione tra il periodo palaziale precedente e la società tribale successiva. Dalla
società micenea la pòlis riprende il ruolo dominante dell’acropoli, intorno ad essa verrà edificata l’asty –la città bassa- e da
cornice alla città avremo la chòra –la campagna-. La pòlis vive dell’equilibrio esistente tra asty e chòra ed ha una struttura
concentrica, il ominio territoria non è affidato alle mani un sovrano, ma ad un insieme di nuovi dominatori. Beloch ritiene che la
polis sia figlia del mondo Medio orientale, le influenze vanno ricercate e accolte, principalmente quelle di cui parla Erodoto. La
polis originaria risale all’ XI-IX secolo, la polis dell’VIII secolo è solo la forma comune di città aristocratica. Successivamente con
l’avvento delle tirannidi e con gli sviluppi del tardo arcaismo verrà a crearsi una dicotomia di organizzazioni di potere: la
Democrazia e l’Oligarchia. Queste differenze di governo porteranno anche alla creazione di unità ioniche intorno alla
democratica Atene, e di unità doriche intorno all’oligarchica Sparta.

PARAGRAFO VI Colonizzazione dell’Asia Minore. Le città ioniche ed eoliche


Al 1044 la tradizione eratostenica riconduce la migrazione ionica e la serie delle fondazioni cittadine ioniche datate dopo la
migrazione dorica. Con la fine del II millennio si determinano crolli di Stati e vuoti di potere anche in Asia Minore, luoghi che ora
diventano ancora più appetibili agli occhi dei greci. Per la nascita delle città Eoliche, le Sporadi settentrionali hanno
rappresentato un corridoio naturale in grado di collegare la Tessaglia meridionale con Lesbo. Da Lesbo vengono colonizzate
Tenedo –sul promontorio di Kane-, e Smirne. Sulla costa asiatica si costituisce una dodecapoli eolica fra cui emergono Cuma e
Smirne. Dalle Cicladi, dall’ Eubea e dall’Attica muovono i coloni delle dodecapoli più famose –Mileto, Miunte, Priene, Samo,
Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Eritre, Chio, Clazomene, Focea-. Per Mileto la tradizione fornisce una data alta di fondazione che
oscilla tra il 1077/1075 per il Marmor Parium e il 1044 per Eratostene. Dodici è il numero canonico delle città della lega che
hanno il loro centro nel santuario di Posidone Eliconio sul promontorio di Micale. La esapoli dorica –Rodi, Ialiso, Camiro, Lindo,
Cos, Cnido e Alicarnasso- hanno il proprio centro sacrale nel santuario di Apollo Triopio a Cnido- mostra di essere nata e voluta
da Rodi nel tentativo di garantire un ponte sul continente. Aspetti analoghi presenta la colonizzazione di Cipro: Salamina, Soli e
Marion sono città che devono molto all’arrivo dei greci, ma a Pafo e a Amatunte, restano tracce delle culture locali precedenti.
La colonizzazione a Cipro rappresenta una fase un po’ più arcaica, poiché non registra ancora un modello cittadino. il periodo
dall'XI secolo al 730 va definito “alto arcaismo” e dal 730 al 580 “medio arcaismo”.

PARAGRAFO VII-VIII Le regalità omeriche - Regalità di città greche arcaiche


Vanno distinti l'aspetto poetico da quello reale nella narrazione omerica (un primus inter pares = l'aristocrazia).In età classica
troviamo basilai cittadine a Sparta –diarchia fino alla fine del III secolo-, ad Argo –fino alle guerre persiane-, in Messenia – ai
tempi della II guerra messenica intorno all’ VIII secolo-, e a Cirene –ancora nel V secolo-. In buona parte del mondo delle pòleis
l’istituto basilico è ben radicato –a Corinto con i Bacchidi, ghénos aristocratico discendenti di Eracle-. Caratteristica è la diarchia
spartana, vista come riduzione della triade –ovvero rapporto con le tre tribù- o come conflitto conclusosi con un compromesso.
La pòlis nasce aristocratica, originariamente con a capo un leader del quale l’aristocrazia si sbarazzerà quando deciderà di
occuparsi di politica. Le basilai etniche di Macedonia e d’Epiro sono meno imbrigliate in un contesto aristocratico, qui
l’aristocrazia è più di modello iliadico, ovvero tanti capi raccolti intorno al grande capo.

PARAGRAFO IX Ghène, Fràtrie, Tribù


Ad Atene la fratria assolve le funzioni di registro civile; a Locri svolge invece funzione amministrativa e finanziaria. L’idea di
fratellanza che contiene serve a creare nessi più stretti tra i suoi membri. La tribù è un sistema di organizzazione di cui i tipi
fondamentali sono quelli dorici –Illei, Dimani, Pànfili-, quelli attici o ionici –Opleti, Argadei, Egilorei, Geleonti-, e sembrano
appartenere al periodo post miceneo. Lo sviluppo delle pòleis darà maggiore forza alle tribù come suddivisione di comunità.
Non è chiara la funzione delle tribù ad Atene, ma una differenza chiarissima è da notare sull’aspetto delle tribù doriche e di
quelle ioniche: le prime sono spesso menzionate nei testi, le seconde invece hanno un ruolo di secondaria importanza. I ghène

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rappresentano invece l’esito storico della stratificazione sociale impiantatosi nella polis. Essi rappresentano le grandi famiglie
nobiliari, che, come visto, si richiamavano ad origini divine o micenee.
II CAPITOLO

PARAGRAFO I Legislazioni e forme politiche


I legislatori dell’VIII-VII secolo –Licurgo a Sparta, Zaleuco a Locri, Draconte ad Atene-, hanno in comune l’essere delle
personalità fittizie legate al mito. Tuttavia è possibile considerare le legislazioni in una prospettiva d’insieme analizzando un
punto fondamentale che riguarda proprio la nascita stessa delle legislazioni, che sono viste come un momento di
trasformazione di crisi dell’aristocrazia , il quale tema è affiancato dai processi di colonizzazione e alla nascita delle tirannidi.
Esiste in oltre un rapporto tra legislazione e scrittura anche se è pure vero che solo durante la democrazia che si svilupperà l’uso
della scrittura in campo legislativo.

PARAGRAFO II- III La costituzione di Sparta - La conquista spartana della Messenia


All’ interno del mondo spartano l’equilibrio è dato dalle funzioni politiche dell’apèlla e dai 30 anziani. È possibile che la stessa
diarchia –Agiadi e Euripontidi- sia un espediente per garantire all’interno del corpo civile stabilità. L’ordine sparatano trova
manifestazione nella Grande Rhètra messa in atto la prima volta da Licurgo nell’ VIII secolo. Sparta è organizzata in tre phylaì -3
tribù genetiche doriche- e in obaì -5 tribù territoriali-. Le funzioni politiche sono controllate dalla gherousìa -30 membri-
compresi gli arcaghètai –i capostipite-, tutto è supervisionato dalla riunione stagionale dell’apella dove il damos ha solo diritto di
parola. Gli spartiati non svolgono lavoro agricolo, tale lavoro è demandato agli iloti; i perieci anch’essi di origine dorica come gli
spartiati, abitano i borghi e sono sottoposti agli obblighi militari, ma sono dediti al commercio e all’artigianato. Questi aspetti
sono integrati con l’agoghè –l’educazione- che prevede: la divisione in classi d’età, le limitazioni familiari per un certo numero di
anni, e la partecipazione ai pasti comuni. Nell’VIII VII secolo Sparta colonizza Taranto cercando così di risolvere quei problemi di
ordine demografico che altri avevano risolto con la migrazione.
Durante la metà dell’VIII secolo gli spartani aggirarono la barriera del Taigeto dando inizio alla conquista della Messenia centro
orientale. Ciò provoca la I guerra messenica durata 20 anni –per Pausania dal 743 al 724, per Apollodoro dal 757 al 738-. Due
generazioni dopo esplode la rivolta contro le condizioni durissime imposte ai vinti: II guerra messenica -684/668 secondo
Pausania, 640 secondo Suida-, combattuta da Sparta contro la coalizione di messeni guidata da Pantaleone re dei Pisati e dal re
dell’arcadica Orcomeno Aristocrate. Aristomene eroe della rivolta messenica fu sconfitto durante la battaglia della Grande
Fossa. La fortezza di Ira al confine con l’Arcadia cadde dopo 11 anni in mani spartane e Aristomene finì esule a Rodi.

PARAGRAFO IV L’Atene arcaica e aristocratica


Nella tradizione mitica un ruolo particolare spetta a Teseo re eroico e civilizzatore, famoso anche per il suo sinecismo dell’Attica
intorno ad Atene, la cui unificazione sarà di carattere giuridico-politico-religioso. Dopo Teseo si ebbero altri sette re fino a
Medonte o ad Acasto a cui segue la dinastia dei Medonti. Al periodo degli arconti a vita -1049/753- segue il periodo degli
arconti decennali -753/683- e quindi a quello degli arconti annuali la cui lista inizia nel 683. Ad Atene si ricerca un bilanciamento
di poteri e ciò è evidente nella composizione de collegio degli arconti. C’è un arconte che è denominato eponimo dal cui nome
deriva il nome dell’anno, un basileus che eredita il nome dal periodo monarchico, un polemarco che progressivamente perderà
le sue funzioni militari, e infine sei tesmoteti. Scaduto l’anno di carica gli arconti entrano nell’Aeropago il consiglio dell’Atene
aristocratica.

PARAGRAFO V Le anfizionie
Tra gli assetti territoriali, fondamentale fu il ruolo delle anfizionìe, «leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario»,
ossia una forma di «lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente». Quelle di Onchesto in Beozia e di
Calauria (un'isola di fronte l'Argolide) erano centrate intorno a santuari di Poseidone; dedicate ad Apollo erano invece quelle
ben più note di Delo e Delfi. Gli amphiktyònes (come dire «circonvicini») erano i popoli della lega, dunque anche i
rappresentanti nel sinedrio, detti in tal senso «ieromnemoni», adiuvati dai «pilagori». Ogni popolo disponeva di due legati (due
voti nel sinedrio, dunque) e il numero dei popoli anfizionici di Delfi, ad esempio, era di dodici (la maggioranza era dei Tessali). Si
riunivano a Delfi o ad Antela (presso le Termopile) e così tali riunioni furono dette pylaiai (dal nome del famoso luogo). Molto
spesso negli studi si attribuisce il nome di anfizionia a qualunque lega sacra: occorre fare più conto sul significato più letterale del
termine e sul suo uso nelle fonti, per un numero piuttosto limitato di casi (Delfi, le isole di Delo e Calauria, la beotica Onchesto).
Alla situazione tessalica e peritessalica il nome si attaglia benissimo e descrive il gravitare di diversi distretti e popoli intorno a un
unico centro». La prima guerra sacra avvenne nel VI secolo e vide scontrarsi Tessali e Ateniesi contro i Focesi – che infine
vennero battuti – perché questi avrebbero disturbato «i pellegrini diretti al santuario». «La vittori anfizionica significò il
rafforzamento dei Tessali nella Grecia centrale, comportò l'ammissione di Atene nell'anfizionia, e la riorganizzazione degli agoni
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pitici (da Pythò, l'antico nome di Delfi) nel 582 a.C.. La prima guerra sacra costituisce un momento significativo per la storia di
tutto il versante orientale della Grecia.
PARAGRAFO VI Le tirannidi arcaiche
Si ebbero di quattro tipi, divisi in base alla città: le istmiche (Corinto, Sicione e Megara), l’ateniese, quella di Argo e le ioniche o
egee (Mitilene, Mileto ed Efeso). Le tirannidi rappresentarono «un momento di crisi dell'aristocrazia, che si determina nel seno
stesso dell'aristocrazia». Aristotele individua la nascita della tirannide tanto nella degenerazione di figure aristocratiche della
magistratura, quanto nel fatto che, essendo il popolo nelle campagne e le città piccole, i bravi soldati aspirassero con facilità proprio
alla tirannide. Nei momenti di espansione mercantilistica la tirannide si fa strada in Grecia. Tali considerazioni inducono, da un lato,
a non ricercare una formula unica per caratterizzare la tirannide, perché vi sono varianti locali; dall'altro raccomandano invece di
non esasperare le differenze, perché una base sociale agraria è quasi ineliminabile, e un contesto di accelerato sviluppo economico
è per tutte innegabile». Il tiranno, insomma, «viene ad occupare la posizione mediana del campo sociale complessivo, sì che riflette
nel contempo le sue origini dalla società oplitica e la sua attenzione alle esigenze del popolo minuto». Poi però si cede alla violenza,
ampliamente attestata dalle fonti. Le famiglie dei tiranni furono due: i Cipselidi (Cipselo e Periandro – quest'ultimo considerato il
tòpos del tiranno isolato e folle) e gli Ortagoridi (Ortagora – per Musti in realtà sarebbe Mirone I–, Aristonimo e il figlio di questi,
Clistene di Sicione, che con crudeltà uccise i fratelli maggiori Mirone II e Isodemo).

PARAGRAFO VII La colonizzazione in età arcaica


Per cercare di comprendere il fenomeno della colonizzazione è necessario considerare una serie di problemi: condizioni
demografiche ed economico/politico della madrepatria; l’atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; il
rapporto tra le diverse esigenze economiche presenti in tutte le colonie e le situazioni complessive che ne emergono; la creazione di
“aree di colonizzazione”; i rapporti con l’ambiente e le popolazioni locali; i rapporti con la madrepatria. Nella madrepatria sono
particolarmente interessate le città dell’ Istmo Corinto e Megara, e quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè la
Calcide ed Eretria; le città dell’Acaia e in Asia Minore Lesbo, Rodi, Mileto ed altre. Il caso dei Corinzi e Calcidesi, le cui migrazioni e
colonizzazioni furono improntate sulla distribuzione di aree e di reciproca integrazione. Della colonizzazione Eretriese si conservano
sporadici indizi: una presenza in Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta in sincronia con la fondazione di Siracusa
da Chersicrate; una a Pitacussa con i Calcidesi. I Greci ricercano condizioni ambientali nelle colonie simili a quelle della madrepatria,
un esempio è la colonia corinzia di Siracusa e fondano una colonia sull’istimo di Pallene. Un’analoga situazione è forse a vedere
nella colonizzazione da parte degli abitanti della Calcide d’Eubea presenti nella fondazione di Zancle e Reggio. La prima colonia
greca in Italia è Cuma fondata nel 1050 a.C , ma in realtà date attendibili nella cronologia dell’ VIII secolo mancano sia per Cuma
come per le altre colonie calcidesi d’Occidente. La storiografie siceliota appare determinate e la cronologia del V secolo fornisce
indicazioni per anno delle fondazioni delle diverse colonie: 733 Siracusa, 734 Nasso, 728/727 Leontini, Catania e Megara Iblea.
Per le città del mar Ionio le date si avvicinano al 700 a.C; Nelle zone di Crotone, Sibari e Metaponto si creò un’ area achea che non
sboccò nella creazione di unità territoriali, le poleis pur restando autonome, nel corso del tempo riscopriranno forme di solidarietà
sul piano culturale, economico e politico. Nel VI secolo le colonie achee tentarono di eliminare l’enclave ionica di Siri –esuli di
Colofone- che fu distrutta e acheizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Quando i greci giunsero sulle coste siciliane vi trovarono già
delle popolazioni: i Siculi nella zona orientale –Zancle, Siracusa e Camerina fino al territorio di Gela- e i Sicani –con tratti iberici,
considerati da molti con caratteristiche preindoeuropee o che durante il passaggio persero le loro caratteriestiche indoeuropee-;
accanto a Sicani e Siculi abbiamo i Fenici nella zona di Panormo, Solunto e Mozia, e gli Elimi a Segesta e a Erice- con discendenza
troiana e focese-. Siracusa fonda nel 633 Acre e nel 643 Casmene. Nel 598 sfonda sulla costa occidentale dando vita a Camarina.
Intorno al 628-650 è da collocarsi la costituzione della colonia geloa di Akragas nella quale si instaurerà in breve tempo la tirannide
con Falaride. Da considerare è il rapporto tra Siracusa e la popolazione autoctona, la quale pur essendo asservita al colonizzatore
conserva un ruolo e un’immagine agli occhi stessi della città. Per definire l’ampiezza dei territori Siracusani durante il VI secolo,
dobbiamo ricollegarci ai compiti che ancora nel V secolo Ippocrate di Gela e il suo successore Gelone –poi tiranno di Siracusa-
dovevano affrontare. Ippocrate assediò, nell’area etnea Callipoli, Nasso, Leonitini e più a nord Zancle e più a sud Siracusa e i suoi
alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono nelle città calcidesi ma falliscono contro Siracusa e Ibla. Gelone invece sarà più
interessato alle aree vicine al siracusano, riuscendo nel tentativo di entrare nella città vi trasferirà i Camarinesi, metà dei Geloi, gli
aristocratici di Megara e gli Eubeesi di Sicilia. Quando poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un gruppo di Cnidii non trova
la possibilità territoriale per nuovi stanziamenti, per cui tenta di insediarsi a Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro
Segesta, ma è sconfitto ed ucciso dagli Elimi e dai Fenici. I suoi compagni allora lasciano i territori della Sicilia vera e propria
insediandosi nelle isole Eolie, di cui Lipari diventerà il centro cittadino. Ora c’è da tener in conto come la tradizione riporti la
presenza di elementi servili nelle colonie –figli di iloti e donne spartiate ad esempio- così Antioco attesta la nascita dei Partenii a
Taranto –e dello stesso loro capo Falanto- dagli iloti, mentre Eforo attesta la presenza degli iloti nel complotto dei Partenii contro
gli Spartiati. I primi due secoli delle colonie sono quelli in cui da un regime ugualitario si passa a un regime di maggior stratificazione
sociale che comportano il rischio di ribellioni e secessioni del corpo civico –casi di secessione le troviamo tra i Geloi e a Siracusa- è
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anche comprensibile come alcune rivolte non terminassero con l’espulsione ma con un cambiamento di regime. Le prime tirannidi
di Sicilia sono quelle di Panezio a Leonitini e quella di Falaride ad Agrigento -Quest’ultima nata già a causa di conflitti interni a Gela.
CAPITOLO III SVILUPPI POLITICI DEL VI SECOLO

PARAGRAFO I Solone
L’opera di Solone arconte nel 594/593 per Diogene Laerzio o nel 592/591 secondo la Costituzione degli Ateniesi di
Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica
attica del medio arcaismo. Egli incise con azioni innovative volte a sanare i guasti che si erano andati a creare nel corpo
sociale ed economico dell’Attica. Solone avverte il divario che si andava creando tra ricchi e poveri, alcuni dei quali, i contadini
erano costretti a versare 1/6 del prodotto e coloro i quali non riuscivano a sanare il debito erano venduti come schiavi. Solone
determinò la liberazione della terra cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle della servitù. Egli proibisce la schiavitù
per debiti e i debiti stessi modificando il peso della dracma del 30% . La riforma monetaria avrà operato in ogni caso come
mezzo di alleviamento. Sul piano politico-costituzionale verranno mantenute le vecchie articolazione censitarie definendo i
termini quantitativi degli ormai quattro téle: I pentacosiomedimni –coloro che hanno una rendita di 500 medimni annui di
grano-; i cavalieri –quota 300-; i zeugiti –o opliti, quota 200-; i teti –o salariati-. Le cariche di arconte o tesoriere erano
riservate ai pentacosiomedimni, mentre ai teti solone garantiva la presenza all’ekklesia e al tribunale del popolo. Solone
forse arrichiva il quadro istituzionale con il consiglio dei 400, cento per ogni tribù. Durante il periodo soloniano l’agricoltura
non ha spinte progressive, mentre l’artigianato ha un grande sviluppo in vista anche delle esportazioni. In ogni caso Solone
non vuole essere considerato il tiranno di Atene, lui svolge lavoro di mediazione, è il pacificatore. Successivi al suo governo si
prospettano anni di anarchie e conflitti politici fino a giungere al governo tirannico di Pisistrato.

PARAGRAFO II-III La tirannide di Pisistrato - La tirannide dei Pisistratidi.


Pisistrato proviene da Brauron centro importante dell’Attica. La sua carriera si apre quando diventa capo dei diacrii, egli
impronterà la sua politica su una stretta connessione tra oplitismo e tirannide. Egli darà soluzione al problema irrisolto della
politica soloniana riguardante le piccole proprietà terriere e si concentrerà sulla politica estera di espansione. Pisitrato tentò
per 3 volte di instaurare una tirannide al Atene, le prime due volte il risultato finale sarà l’esilio -561/560, 549 e 534/533-.
Nella prima parte del suo governo nel 561/560 egli sembra una sorta di arbitro e pacificatore tra i gruppi in lotta. Ma
un’alleanza tra Licurgo e Megacle gli impone il primo esilio. La seconda tirannide è dovuta ad un’alleanza politica tra i
diakrioi di Pisistrato e i paràlioi di Megacle, suggellata da un matrimonio, ma tale alleanza non regge a causa di insolvenze
matrimoniali di Pisistrato che non vuole figli dalla stirpe sacrilega degli Alcmeonidi –Erodoto-. Infine dopo 10 anni dalla
seconda tirannide egli tornerà al potere fino alla morte e gli succederà il figlio Ippia. È solo il terzo tentativo che segnerà
l’avvento della vera e propria tirannide caratterizzata dalla presa del potere sotto forme illegali. Pisistrato stabilisce il suo
quartier generale fuori dall’Attica, prima a Raicelo in Tracia e poi a Eretria in Eubea. L’esercito insurrezionale sbarcato a
Maratona avrà la meglio sull’esercito ateniese. In questa terza fase Pisistrato che aveva fatto dell’oplitismo una base della sua
politica decide di disarmare gli ateniesi invitandoli ad occuparsi delle proprie faccende private. Secondo Erodoto Pisistrato si
limitò ad occupare i tradizionali posti di potere tramite parenti ed amici, Aristotele invece ritiene che governò con
moderazione più come cittadino che da tiranno. Pisistrato istituì una forma di credito fondiario per favorire l’agricoltura e lo
sviluppo delle piccolo proprietà terriere. La sua politica sembra avere una componente rurale decisiva; inoltre è da doversi a
Pisistrato la creazione di un numero ristretto di ufficiali superiori gli strateghi. La politica estera era finalizzata ad accentuare
la presenza ateniese in zone di interesse già precedente. La riconquista di Salamina e la presa di Nisea sono anteriori alla
tirannide –circa il 570- . Per quanto concerne le isole dell’Egeo egli opera un consolidamento delle influenze ateniesi nei
riguardi di Delo e rinsalda i rapporti con il tiranno di Samo, Policrate. Diverso è il discorso per l’Egeo settentrionale e gli
stretti in Asia Minore: nel Chersoneso tracico si era insidiato Miliziade I; nella Troade Pisistrato riprese la posizione di Sigeo
dove egli impianterà un dominio personale. Altro fattore di rilievo nella politica di Pisistrato è la volontà di far convergere gli
interessi dell’asty con quelli della chora e per far ciò instituì le Dionisie, feste religiose con lo scopo di cementare l’unità della
polis su base religiosa e agraria. Nel VI secolo assistiamo anche al definirsi del ruolo egemonico di Sparta, per Erodoto
durante il periodo 560-546 si era già formato un bipolarismo egemonico tra Sparta e Atene. Ma il ruolo egemone Sparta lo
conquisterà all’interno del Peloponneso durante la guerra contro l’arcadica Tegea. Un’altra guerra che segnerà la figura di
Sparta è quella combattuta contro Argo, che sembra di lunga durata se si pensa a due termini abbastanza evidenti delle
guerre messiniche e l’età delle guerre persiane: la battagli di Isie nel 669/668 e la vittoria di Sparta a Sepeia nel 494.
Intermedio tra le due date uno scontro tra corpi scelti, risoltasi da leggenda con un duello in cui emergerebbe la figura dello
spartano Otrida; dalla disputa che ne nascerà sulla questione delle vittoria nascerà un ulteriore scontro che porterà gli argivi
a perdere i territori della Tireatide –alle porte dell’Argolide-. Il contrasto con gli arcadi aveva già avuto un riscontro durante
le guerre messeniche. La guerra del VI secolo secondo Erodoto passa almeno due fasi: una al tempo del re spartano Leone,
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l’altra al tempo del suo successore Anassandrida. Questo excursus sulla storia spartana è la base per la creazione della Lega
Peloponnesiaca, di cui la prima attestazione sicura risale al 506, ma è ragionevole anche considerare la data del 524. Dentro
la lega le città mantenevano la loro autonomia: niente tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate,
rappresentanza nel sinedrio federale, decisioni a maggioranza.
Nel 528/527 a Pisistrato succedono i figli: Ippia e Ipparco –avuti dalla moglie leggittima- e Iofonte e Egisistrato –avuto della
moglie argiva-. Il potere formale è concentrato nelle mani del maggiore Ippia, mentre Ipparco è l’intellettuale che opera il
mecenatismo. E’ da tenere in conto che la presenza della tirannide non aveva cancellato l’opposizione al regime anzi l’aveva
fomentata, questo è appunto il caso degli Alcmeonidi i quali furono esiliati già ai tempi della terza tirannide di Pisistrato.
Questi si erano creati una base a Delfi e grazie agli stretti rapporti che intercorrevano tra l’isola e Sparta poterono contare
sull’aiuto della città intorno al 511/510. Prima di questa data gli Alcmenonidi avevano tentato di rientrare ad Atene, subendo
una grave sconfitta nel 513 a Lipsidrio in Diacria. Nel 511/510 intervengono come si è detto gli spartani: la prima volta è un
fallimento, la seconda invece l’esercito capeggiato da re Cleomene I assedia Ippia arroccatosi sull’acropoli ottenendone la
resa. Ma le opposizioni sono anche interne alla stessa Atene, ed è il caso della congiura del 514/513, e degli eventi che nel
510 porteranno alla cacciata di Ippia, e sarà il periodo dello scontro nella città attica tra Isagora e l’alcmeonide Clistene.

IV PARAGRAFO Policrate tiranno di Samo


Policrate inizia la sua carriera politica, così come Pisistrato, con l’aiuto della classe oplitica che poi verrà disarmata. La
tirannide samia appartiene alle tirannidi di fase arcaica avanzata che più rapidamente degenerano in scontri con
l’aristocrazia, arrivando a porre le premesse per l’instaurazione della democrazia. Egli è uno di tre fratelli, i quali per qualche
anno dividono con lui il potere, che successivamente deterrà da solo. La tirannide samia si lega alle ambizioni talassocratiche,
che si esplicano nella pirateria; è caratterizzata dalla presenza di poeti di corte; e nel 524 scatenerà una rivolta cittadina con
l’aiuto di Sparta e Corinto, che si concluderà con un nulla di fatto. La tirannide di Samo, così come le altre tirannidi Ioniche
costituiscono regimi fiduciari della Persia. La fine di Policrate è proprio da ricercare in questo rapporto politico: egli mise in
pratica una politica troppo autonoma nei confronti del re di Persia e i suoi satrapi, provocando invidia, così che il satrapo di
Lidia, Orete attirandolo con l’inganno a Magnesia lo fece giustiziare e crocifiggere il cadavere nel 522.

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CAPITOLO IV

PARAGRAFO I Clistene e la fondazione della democrazia


Clistene introduce 10 tribù territoriali, l’appartenenza alla tribù dunque non è più il rapporto personale e familiare ma è di
residenza. Della vecchia struttura filetica permane l’articolazione in 3 sezioni –trittyes-, solo che ora le trittyes diventano trenta.
Dei vecchi gruppi politici –pediaci, paralii, e diacrii- ne rimane una traccia con funzione di delimitatore geografico per la
costituzione del territorio di ciascuna tribù che comprenderà sul suo territorio una sezione dell’asty, una della mesogaia, e una
della paralia. La parola d’ordine delle riforme di Clistene è mescolare, rendere impossibili o inutili ricerche delle origini familiari,
classificando così ciascuno secondo il demo. Viene istituito il consiglio dei 500 sorteggiati in numero di 50 per ogni tribù. Al
calendario naturale si affianca quello politico scandito secondo il numero 10. Accanto ai demi continuano ad esistere le fràtrie
con funzioni di registri civili, e le vecchie naucràrie ovvero le vecchie strutture dello stato aristocratico. La democrazia clistenica
ha come scopo principale l’abbattimento della tirannide, il mezzo pre prevenire l’instaurarsi nuovamente di tale regime fu
l’ostracismo, che consisteva nel denunciare un soggetto in due tempi differenti. Clistene doveva già aver elaborado la sua linea
politica quando fu attaccato da Isagora spalleggiato da Cleomene I, il primo scontro fu vinto da Isagora che ottenne l’arcontato
e 700 case di partigiani democratici furono bandite –tra le quali anche gli Alcmeonidi-. Ma la risposta popolare non tardò ad
arrivare e guidati da un baulè assediarono Isagora e Cleomene, i quali si arresero a patto di poter andar via incolumi. Dal 506
Atene avrà a che fare con vecchi rivali: Beoti e Calcidesi invadono l’Attica, ma dopo essere stati respinti subiscono un forte
contrattacco ateniese, che culmina con la sconfitta dei Beoti e degli Euboici. Poco dopo, gli Spartani spingono contro la Lega per
un intervento contro il regime democratico ateniese, ma i corinzi si oppongono. La restante Grecia si rassegna al nuovo
ordinamento politico, rinunciando di interferire.

PARAGRAFO II La politica espansionistica dell’impero persiano durante il regno di Dario


L'impero persiano intanto si era espanso a danno della Grecia. Le conquiste di Ciro il Grande (538-529) e di suo figlio Cambise
(529-521) convinsero Dario I (521-485) ad espandere ancora i propri domini.
Tuttavia, il regno di Dario – al confronto coi precedenti – è stato più un arresto che un'espansione. La spedizione contro i Traci, i
Geti e gli Sciti, secondo Erodoto ha il fine di punire l’invasione scitica della Media di cent’anni prima e mira al consolidamento
dei confini naturali –il fiume Istro/Danubio e al Fasi-.
Varcato però il Danubio diventa pericoloso per le truppe persiane tenare anche il rientro: i marinai della flotta greca, di presidio
al ponte sul Danubio stavano per distruggere il ponte e defezionare, ma furono distolti dal tiranno di Mileto, Isteo, ciò permise
ai persiani di assoggettare la costa tracica sino al fiume Strimone.

PARAGRAFO III Dall’insurrezione ionica alla battaglia di Maratona


le origini del conflitto greco-persiano sono rinconducibili alle insurrezioni della Ionia. Infatti gli Ioni d'Asia si ribellarono ai padroni
asiatici ma, nel 494 a.C., vennero sconfitti dai Persiani (o, più propriamente, dai Fenici). La rivolta si origina, sei anni prima, da un
attacco di Aristagora, tiranno di Mileto, architettato insieme al satrapo di Sardi, Artaferne, contro una florida isola delle Cicladi,
Nasso. I due però fallirono l'impresa e Aristagora, temendo l'ira del re persiano per il suo fallimento, diede inizio alla rivolta. La
sua Mileto però viene distrutta, avendo Sparta rifiutato di aiutarlo, al contrario di Atene, Eretria e la Ionia. La sconfitta non
scoraggia i confinanti i quali si uniscono alla ribellione antipersiana (498). A Cipro l’adesione era stata solo parziale: i ribelli furono
battuti presso Salamina da un esercito persiano sbarcato nel 497. Aristagora abbandona il campo e cerca di impiantare un suo
dominio alla foce dello Strimone in Tracia, ma muore a Mircino in uno scontro con gli Edoni. Nel 494 giunse nei pressi di Mileto
una flotta fenicia con contingenti ciprioti, tale arrivo spinge gli abitanti di Rodi, Cnosso e Alicarnasso a far pace con il re,
solidarizzarono con Mileto, ma nello scontro navale furono sconfitti presso l’isoletta di Lade. Nel giugno del 493 Isteo tentava di
trasferire la guerra sul continente; nei territori di Aterneo egli si scontrò con l'esercito persiano comandato da Arpago: battuto
fu fatto prigioniero e giustiziato. La terza fase ha inizio quando, nel 492 a.C., re Dario inviò il genero Mardonio in Tracia, la prima
vera spedizione contro i Greci, anche se inviato per reprimere la rivolta ionica. Atene e gli alleati vinsero (Mardonio fu ferito)
infierendo gravi perdite tra le file persiane. La fase successiva fu la battaglia di Maratona (preparata nel 491/490 spostando a
Nasso la flotta persiana): ventimila Persiani vi sbarcarono e ad Atene – con il «decreto di Milziade» – si decise di combattere
fuori dalle mura cittadine. Il polemarco Callimaco (Milziade era uno dei dieci strateghi) comandò seimila (forse settemila) opliti.
Vinsero i Greci, con pochi caduti (tra cui lo stesso Callimaco).

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PARAGRAFO IV-V Dopo Maratona: nuove guerre e riforme politiche ateniesi - La politica navale di Temistocle
La quinta fase dello scontro vede Milziade II combattere contro i Persiani nelle Cicladi (489) ma si fermò contro Paro, fedele ai
Persiani. A questo punto il padre di Pericle, Santippo (che poi verrà ostracizzato a sua volta), accusò Milziade II di corruzione per
la quale venne condannato e multato (poco dopo morirà per una ferita di guerra). Poi seguì lo scontro con Egina (488), che vide
battuti gli Ateniesi. Con gli inizi della guerra contro Egina coincide una serie di innovazioni importanti nella politica interna: prima
applicazione dell’ostracismo contro Ipparco 488/487; ostracismo contro Santippo nel 485/484; adozione della procedura del
sorteggio degli arconti 487/486.
Temistocle fu arconte nel 493, ma assunse un ruolo politico decisivo nel 484: egli propose di utilizzare i filoni argentiferi nel
Laurio per finanziare i ricchi così che creassero da loro una flotta di navi, con la clausola di restituire il denaro avuto in
concessione –un talento- qualora la città fosse rimasta insoddisfatta. Per giungere al potere egli fece ostracizzare Aristide suo
avversario politico nel 482.

PARAGRAFO VI La spedizione di Serse e Mardonio contro la Grecia


Intanto Dario moriva nel 485 a.C. e Serse (485?-465) ne ereditò il disegno espansionistico (per mare e per terra), varcando
l'Ellesponto e raggiungendo Terme, in Macedonia, nel 480. I Greci si riunirono in assemblea presso l'Istmo decidendo di unirsi
in battaglia e resistere ai Persiani: fu proclamata così la pace generale tra i Greci e furono richiamati in patria gli esuli politici
(Aristide poté dunque tornare ad Atene). Ma il re persiano poteva contare sui nemici di Sparta gli Argivi. Gli inviati di Serse
furono respinti (a Sparta addirittura uccisi) e la guerra ebbe inizio. Gli schieramenti furono così definiti: da un lato, i Greci
(Siracusa restò neutrale, perché voleva dirigere l'impresa e le fu negato), i Focesi, i Locresi e i Beoti; dall'altro i Persiani, Argo e
Corcira (i Tessali dovettero sottomettersi perchè i Persiani avevano già raggiunto e conquistato la zona). Alle Termopile 4000
opliti peloponnesiaci al comando di Leonida, il re spartano, la flotta si attestò presso il tempio di Artemide sulla costa
settentrionale dell’Eubea; mentre la flotta persiana muoveva da Terme per giungere alla stessa posizione ma la traversata fu
bloccata da una tempesta che distrusse diverse navi. Qualche giorno dopo le navi persiane poterono ancorarsi ad Afete di fonte
l’Artemisio: in due scontri, un discreto numero di navi nemiche finirono in mano greca. Alla fine di luglio dello stesso anno
frenarono l'avanzata persiana fino al massacro anche degli ultimi 300 spartani e 700 tespiesi accerchiati, dopo il tradimento di
un «disertore greco» che aveva suggerito la «famigerata Anopea», una via nascosta attraverso le montagne, rimasti fino alla fine
«per obbedire agli ordini della città», come racconta Erotodo nelle sue Storie. In totale morirono 4000 greci, i Focesi si
dileguarono e si sottomisero Beoti e Locresi (forse anche Delfi). In Grecia si forma così una solidarietà nazionale capeggiata da
Sparta, per ora. Atene viene abbandonata, secondo il «decreto di Temistocle», per rifugiarsi a Trezene, dove si racconta che
Temistocle abbia ricevuto la profezia del «muro di legno» ossia di una flotta, mentre Atene venne distrutta dai Persiani lo stesso
agosto. La settima fase è rappresentata dalla battaglia di Salamina dove si concentrò proprio il «muro di legno» greco che già
un mese dopo inflisse gravi perdite alla flotta persiana, che dovette soccombere. Inutile dire che la vittoria di Salamina fu
decisiva per i Greci. Nel 479 Mardonio assestò l'esercito di terra mentre i Greci si preparavano in Tracia: Atene fu devastata ed
evacuata una seconda volta. La penultima fase, l'ottava, vede Eurianotte e Pausania raccogliere 50.000 Greci, nell'Istmo,
vincendo 100.000 Persiani -che si ritirano in Beozia- nella battaglia di Platea (479), dove morì lo stesso Mardonio. I Greci
inseguirono pure gli ultimi persiani, dei quali si salvarono solo poche migliaia grazie al luogotenente Artabazo.

PARAGRAFO VII Dopo Platea


L'epilogo delle guerre persiane si ebbe nell'ultima fase, la nona, durante la quale fu, innanzitutto, eretto l'altare a Zeus
Eleutherio (o «della libertà», presso il quale si compirono sacrifici fino in epoca romana) e si festeggiò la vittoria, non
dimenticando di punire la città di Tebe –costretta alla resa dopo 20 giorni di assedio- che aveva aiutato la Persia in un frangente
dello scontro, ma Attagino il capo dei filopersiani riuscì a fuggire, altri furono giustiziati all’Istimo e si prese la decisione di
sciogliere la Lega beotica e di giustiziare molti capi persiani catturati. L'agosto del 479 iniziò la guerra navale di Micale, sotto
sollecitazione degli stessi Ioni allorché il re spartano Leontichida raggiunse Chio e Samo, questa battaglia vide la vittoria arridere
ai Greci contro le ultime navi persiane che, una volta raggiunte, furono bruciate. Gli eventi successivi segnano la caduta delle
tirannidi filopersiane nella Ionia e; sii istituì così la Lega navale delio-attica (478/477); tutti gli Ioni, di Samo, Lesbo e Chio
entrarono nella Lega greca. Alla fine, dunque, si raggiunse il fine della rivolta di Aristagora: la liberazione di tutta la Grecia dai
Persiani. Atene a questo punto si espanse, a danno di Sparta che a causa dei comportamenti tirannici di Pausania nei confronti
degli Ioni vede il deteriorarsi definitivo dei rapporti con questa regione, migliore accoglienza non trova il sostituto di Pausania,
Dorci che è costretto a tornare a casa privato di tutti i poteri dalla Lega Ellenica. Più congeniale a Sparta è il ruolo di gendarme
dei doveri nazionali greci che si assume partendo verso la Tessaglia contro gli Alevadi di Larissa per una spedizione punitiva al

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comando di Leontichida. Ma qui non riportò grandi successi come successe a Fere dove riuscì a impadronirsi di Pagase. Più tardi
però Leontichida fu accusato da Sparta di essere stato corrotto dagli Alevadi, condannato fu costretto all’esilio a Tegea.

PARAGRAFO VIII Le città della Magna Grecia e Sicilia fino alla tirannide dei Dinomedi a Siracusa
In Magna Grecia, intanto, si registra l'ascesa di Crotone, con Pitagora e il «comunismo pitagorico» (simile al modello spartano,
con la gestione comunitaria della terra, «indivisa»). Lo scontro che si verrà a creare tra Crotone e Sibari porterà alla distruzione
di quest’ultima. A Sibari l’aristocrazia chiede asilo per fuggire dalla tirannide di Telys il quale ne richiede l’estradizione, negarla
significa guerra, e Pitagora spinge perché sia così. Sibari viene conquistata e tale incremento territoriale si ripercuote sullo stesso
Pitagora, che propone una gestione comunitaria della terra, ma pur credendo di avere dalla sua il consenso cittadino la sede di
Pitagora e dei suoi 300 affiliati (il synhédrion) viene data alle fiamme perché sospettati di intenti tirannici: «segno dei tempi, e
degli umori che li percorrono». «Le tirannidi di Sicilia si rivelano come la formula di governo più adatta alle prospettive di
incremento territoriale di alcune città in epoca post-arcaica (o tardo-arcaica)». Si susseguono difatti – tra Siracusa e Gela –
Cleandro a Gela (dal 505 al 498), suo fratello Ippocrate (altri sette anni) e Gelone dei Dinomenidi. Quest'ultimo era
aristocratico e militare, sposò la figlia del tiranno Terone di Agrigento (cui Cartagine dichiara guerra) il quale a sua volta sposò la
figlia del fratello di Gelone. L'esercito cartaginese, sbarcato a Panormo, mosse contro Terone ma Gelone intervenne in aiuto del
parente acquisito e sconfisse i Cartaginesi (secondo Erodoto, lo stesso giorno della battaglia di Salamina, nell'estate del 480),
due anni prima di morire. A Gelone successe il fratello Ierone, colto mecenate di Simonide, Pindaro, Eschilo, Senofane,
Epicarmo e altri, il quale osteggiò le città calcidesi, assoggettò Catania e fece trasferire i suoi abitanti a Leontini (al posto dei
Siracusani e di diversi mercenari che, invece, fece spostare a Catania), ribattezzando Catania col nome di Etna (quando morirà
Ierone, nel 476, i Catanesi torneranno nella città natia che riprenderà il nome di Catania nel 461, mentre gli Etnei si sposteranno
a Inessa –ribattezzata anch'essa Etna). Nel 474 Ierone aiutò Cuma contro gli Etruschi, estese il dominio siracusano fino a
Pitecussa (per poco, perché la città venne distrutta da un terremoto), che venne ribattezzata Neapolis (forse fondata sull'antica
Partenope). Sotto Ierone, Siracusa era diventata una «caserma», come dice lo stesso Pindaro, e solo quando Agrigento e Imera
esiliarono il tiranno Trasideo, Siracusa poté insorgere a sua volta contro l'ultimo tiranno Trasibulo (466-465), cacciato, che si
salvò grazie all'aiuto di mercenari importati in gran quantità dai Dinomenidi in Sicilia.

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CAPITOLO V Il cinquantennio dall’età di Temistocle all’età di Pericle

PARAGRAFO I Tucidide e la storia della pentacontaetìa


Per pentacontaetia si intende il periodo di circa 50 anni che intercorrono tra la fine delle guerre persiane e l’inizio della guerra
del Peloponneso. Per Tucidide il periodo è un’ampia premessa alla narrazione della guerra del Peloponneso, egli ritiene che se in
un determinato spazio geografico nello stesso periodo storico si trovino a coesistere e a crescere due Stati è fisiologico che essi si
scontrino. Atene e Sparta sono due entità statali opposte tra loro, la prima è la città del progresso, dell’audacia, la seconda è la
città della conservazione. Tucidide non ci ha dato rappresentazioni parallele degli svolgimenti politici interni ad Atene, ma da ciò
che è egli afferma abbiamo un’idea sulla posizione che prese allo scoppio della guerra; Tucide ritiene che la responsabilità
immediata della guerra sia dei peloponnesiaci e da ciò il nome della guerra.

PARAGRAFO II Fondazione della Lega Delio-Attica 447 a.C


Il momento decisivo nella presa di coscienza da parte di Atene del nuovo ruolo all’interno del mondo greco, è nell’assunzione
dell’egemonia all’interno della Lega ellenica. Sede del tesoro è l’isola di Delo, distinta quel che basta da Atene per non
mortificare gli altri Ioni, ma abbastanza legata ad Atene da permetterle di esplicarle il proprio dovere di egemone. La cerimonia
del giuramento sancisce l’impegno ad avere <<gli stessi amici e gli stessi nemici>> . Di voci discordi ai piani della lega se ne
conoscono poche, una di queste è quella di Temistocle, incline ad un conflitto con Sparta più che con la Persia, egli fu
ostracizzato nel 471, in un momento di predominio politico di uomini come Cimone e Aristide, nonché di generale prestigio
dell’Aeropago.

PARAGRAFO III Temistocle e Pausania il reggente


L’ostracismo condurrà Temistocle dapprima nelle città peloponnesiache ostili a Sparta, dopo di che n Epiro, in Macedonia e
infine giungerà in Persia alla corte del re Artaserse, il quale gli concederà il possesso di Magnesia, Lampsaco e Miunte, dove
l’eroe di Salamina morrà suicida poco dopo. Simile destino toccherà al reggente di Sparta Pausania che scacciato da Cimone,
cercò di stabilirsi a Colone nella Troade, ma non potendo consolidare il suo dominio finì col rientrare a Sparta, dove venne
inquisito e accusato di tentare una rivolta con gli iloti. Pausania allora si rifugia nel tempio di Atena Calcieco, dove venne tenuto
rinchiuso e da dove verrà fatto uscire solo al sopraggiungere della morta avvenuta per inedia.

PARAGRAFO IV Democrazia nel Peloponneso


Ad Argo, dopo la sconfitta subita a Sepeia nel 494 ad opera degli Spartani, guidati da Cleomene I, si instaura un governo
provvisorio di servi. Si ha dunque un’evoluzione della città verso forme democratiche, che si realizza attraverso l’assorbimento di
strutture politiche quella popolazione rurale che invece a Sparta continua a vivere nella condizione dell’ilotia. A questi sviluppi
democratici si accompagna l’attenzione e la benevolenza di Atene e la stessa letteratura ateniese sembra registrare l’evoluzione
politica argiva. In Elide gli sviluppi verso la forma democratica, che si compiono nel V secolo sono il risultato storico favorito dalla
democrazia di Atene e dall’organizzazione territoriale: una campagna dotata di centri autonomi che producono e promuovono
un centro urbano sede delle decisioni politiche. Una città di democrazia aeropaetica quale è tra il 478 e il 461 Atene , rifiuta
l’innovatore Temistocle, e altrettanto vale e si verifica in forma più traumatica a Sparta, ormai sotto il controllo degli efori e dal
regno di Cleomene I.

PARAGRAFO V-VI Cimone o il lealismo dei conservatori/ Le riforme di Efiate e la conclusione della III guerra messenica
Ad Atene era il momento dell’ascesa di Cimone, il quale libera dalla presenza persiana Eione nel 476 e poi assoggetta Sciro nel
475. Ma l’acme della carriera di Cimone è la battaglia di Eurimedonte una duplice battaglia navale e terrestre di cui si hanno due
versioni: la prima prevede uno scontro navale svoltosi a Cipro e un secondo prevede lo scontro alla foce dell’Eurimedonte.
Diodoro colloca la battaglia tra il 470/469, altri tentativi di abbassare la data nel 466/465 appaiono poco giustificati, ma se
l’episodio è vero esso non impone che il trionfo di Cimone fosse nel 469: infatti alla designazione degli strateghi come giudici
seguì una rissa tra gli spettatori del teatro. La nomina a giudice in ogni caso attesta l’alto prestigio di Cimone. È ben attestato il
suo ruolo nella spedizione contro Taso che nell’area mineraria del Pangeo sfruttava le miniere d’oro. Nel 465 Taso defeziona e
dall’anno al 463 si svolge un lungo assedio dell’isola, la miniera passa nelle mani ateniesi. Addentratisi nella regione però
subiscono ad opera dei Traci Edoni una dura sconfitta a Drabesco. È da tenere in considerazione che l’intervento ateniese a Taso
faceva seguito a una rivolta e comunque questa zona dell’Egeo è un area di interesse familiare. Il processo che a vittoria
conseguita venne intentato a Cimone è sintomo della parabola discendente del suo potere politico. Cimone fu denunciato per il
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sospetto di essere stato corrotto da Alessandro I il Macedone, al fine di fermare un intervento ateniese che avrebbe dovuto
punire Alessandro per aver aizzato i Tasii alla ribellione. Ma l’errore più grande di Cimone accadde nel quando intervenne in
aiuto degli Spartani impegnati nella III guerra messenica. Gli spartani però resisi conto che la presenza ateniese avrebbe solo
creato ulteriori problemi poichè temettero che una qualche posizione antiaristocratica avrebbe creato solidarietà tra gli insorti e
gli ateniesi stessi, chiesero a Cimone di ritirarsi. Ciò segno un crollo nella credibilità del politico , ne seguì l’ostracismo di Cimone,
ma in questo caso questa volta l’istituzione politica non verrà usata con il suo fine originario, ma allo scopo di regolare i conti col
partito avverso. Liquidato Cimone, Efiate e Pericle poterono dare il via alle riforme costituzionali: abolizione dei poteri
dell’Aeropago, riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera costituzionale dei delitti di sangue. Nel mentre la guerra messenica
era destinata a durare dieci anni, un tempo concepibile se si pensa che il conflitto sarà diluito da scaramucce e piccoli scontri
senza effetto. Sulla durata del conflitto confermano sia Tucidide che Diodoro.

PARAGRAFO VI Pericle uomo di Stato


Salì al potere dunque Pericle. In politica estera egli appare come un personaggio di discutibile profilo, poiché il suo governo si
sviluppa in un periodo di espansione della Lega, ma anche di conflitti interni in Eubea, Mileto e Samo, e l’avvio della guerra del
Peloponneso. La sua politica interna lo ricorda come il protos anèr ossia il “primo cittadino” che governa come il demagogo che
sa condurre il popolo, ma non si fa condurre.

PARAGRAFO VIII Pubblico e privato nella democrazia periclea


Pericle distingue nel corso della sua politica il pubblico e il privato: in più luoghi del discorso pericleo si legge lo sforzo di
garantire il privilegio, al riparo dalle contestazioni e dai conflitti sociali. Il privato e l’economico si presenta nel compromesso
pericleo coordinato al pubblico, che non subordinato e vincolato ad esso. L’ambito del privato si configura come il regno
dell’individuale, del diverso e della divergenza; il pubblico invece è il mondo dell’uguaglianza e dell’omologia. Bisogna però
considerare che l’idea del pubblico non sia un entità così nuova poiché conserva dei vecchi valori come quello dell’isòtes –valore
ugualitario-, e di valori omogenei prodotti dalle vecchie comunità aristocratiche. Il privato pericleo invece ha molto
dell’individuale, ricerca un’educazione più ricca e un uso libero della mente come del corpo. In relazione invece alla sua politica
assistenziale, questa si attua con il denaro pubblico e non si presenta come un favore-beneficio a livello privato, ma come
remunerazione destinata al cittadino per lo svolgimento della sua funzione civica. Pericle spinge le masse con la la sua elevata
razionalità, il suo rapporto con il demos è mediato da un filtro intellettuale , ma e nella sfera emotiva che agisce. Il tutto è
accompagnato da una gestualità composta che non lascia spazio alle forme estreme del pianto o del riso.

PARAGRAFO IX-X Gli inizi di Pericle - Pericle e la politica estera degli anni ‘50
Per parte di madre, egli era un discendente degli Alcmeonidi, la famiglia più aristocratica e illustre della Grecia che aveva dato
avvio, con Clistene, alla democrazia. Apparve, come si è visto, sulla scena politica come accusatore di Cimone (463), intorno ai
trent'anni, il quale fu pero assolto forse anche perché Pericle non fu durissimo nelle sue accuse. Per la prima volta nella storia –
nota Musti – si sente l'influenza dell'«opinione pubblica», di cui Pericle tenne largo conto. Probabilmente furono il
comportamento di Temistocle (ostracizzato e poi traditore) e altri avvenimenti, difficili da superare, a far sì che Pericle restasse
nell'ombra fino al 472. Si sposò una prima volta con una parente ed ebbe due figli, Santippo e Paralo, che moriranno di peste
insieme al padre. Nel 450 poi ebbe a fianco l'etera di Mileto, Aspasia, dalla quale ebbe un figlio, Pericle il Giovane, che sarà
condannato a morte e giustiziato insieme ad altri strateghi nello spiacevolmente noto «processo delle Arginuse», nel 406. Il
dominio politico di Pericle duro quarant'anni.
In politica estera, gli si può imputare la guerra contro Sparta, ma si alleò negli anni Sessanta del secolo con gli Argivi, i Tessali e i
Megaresi; combatté poi contro Cipro (che vinse i Greci) e nella spedizione in Egitto. Tala spedizione fu avviata principalmente
per motivi militari (più che per la conquista del «granaio del Mediterraneo») dacché Spartani e Persiani si erano inseriti in Egitto
a danno di Atene. Un iscrizione del 460/459 o del 459/458 indica i vari teatri di guerra in cui gli Ateniesi riportarono perdite:
Cipro, Egitto, Fenicia, Grecia, Halieis –in Argolide-, Egina e Megara. Gli Ateniesi furono però assediati a Menfi: gli Ateniesi si
trovano nell’isola di Posopide, resistendo a un assedio lungo un anno e mezzo, i Persiani allora prosciugano l’isola trasformando
una battaglia navale in una battaglia terrestre. Ne segue la ccattura della flotta ateniese e la fuga degli Ateniesi attraverso la Libia
e Cirene. Pericle vinse invece Corinto, provocata dall'alleanza ateniese con Megara, ed Egina, che cederà nel 456. A questo
punto – nota storiografica di Musti – i manuali storici parlano impropriamente di una «prima guerra del Peloponneso» tra Atene
e Sparta (459-446), ma in realtà gli Spartani dal Peloponneso attaccarono Atene nell'Attica, seguendo le indicazioni di Pausania
e, prima di lui, Tucidide. La vera e propria Peloponnesiakòs pòlemos sarà quella scoppiata nel 431. Contemporaneamente alla
spedizione in Egitto, una guerra navale tra l'Attica e l'Argolide veniva combattuta dagli Ateniesi nel golfo Saronico, cui seguì un
accerchiamento territoriale di Atene. Anche nella terraferma il conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci presenta momenti di
scontro territorialmente coerenti tra loro. L’inclusione di Megara nell’alleaza di Atene favorisce il controllo ateniese su due porti:
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quello di Nisea sul golfo Saronico, e quello di Page sul golfo Corinzio. Un intervento spartano nel 458/457 in favore dei Dori della
Metropoli blocca i tentativi di espansione Ateniese nella Grecia centrale. Ad Atene nel mentre si ha il primo complotto contro la
democrazia bloccando il processo di sviluppo di una democrazia a base navale. Gli Spartani invece rischiano di restare bloccati in
Grecia centrale a causa delle alleanze ateniesi. Tuttavia Sparta riesce a divincolarsi tra Tebe e Tanagra, nel 457, e a rientrare nel
Peloponneso. Intanto ad Atene i conservatori si mostrano leali e non cedono ad un attacco alla democrazia sollevato da coloro
che si opponevano alla politica navale e alla costruzione delle Lunghe Mura che Pericle stava realizzando. Gli Ateniesi si presero,
ad Enofita, la rivincita sui Beoti alleati degli Spartani, e sciolsero la Lega beotica ridefinendo i confini della città. A Coronea, però,
Atene perse, nel 447. L'espansionismo ateniese non si arrestò per questo: Atene difese in Tessaglia e contro Fàrsalo (sebbene
senza effetto) i Beoti e i Focesi, mentre Cimone – rientrato cinque anni dopo la sua espulsione da Atene – aveva combattuto
contro Cipro (dunque contro Persiani e Fenici) nel 450 e forse venne conquistata Marion. Infine, a Salamina gli Ateniesi
sconfissero i Ciprioti, dopo la morte dello stesso Cimone. Prima di morire però egli lottò per una tregua di cinque anni tra Sparta
e Atene, periodo durante il quale si registrò un rinnovato fermento antiateniese, sebbene Pericle fece molto per la città: una
politica di intese con la Sicilia occidentale e Leontini, e con l'Italia meridionale

PARAGRAFO XI La pace di Callia


Il 449 segna sia la data di morta di Cimone sia la stipula di un accordo tra Atene e la Persia con il quale si chiuse il passaggio ai
Persiani nel mar Egeo, vietando il transito delle navi oltre capo Chelidoni, e inoltre interdice all’esercito persiano di avvicinarsi
alla costa dell’Asia Minore a una distanza inferiore di tre giorni di marcia.

PARAGRAFO XII-XIII Nuovi toni dell’imperialismo ateniese - Riorganizzazione e crisi della Lega navale ateniese
Negli anni ’40 i Focesi avevano dato inizio ad una seconda guerra sacra occupando il santuario panellenico di Delfi. Gli Spartani
intervennero in favore di Delfi, mentre Pericle dall’altro lato restituisce ai Focesi l’amministrazione del santuario. Si viene dunque
a creare nuovamente una condizione di ostilità tra Atene e Sparta. Pericle convocò – senza successo – un congresso panellenico
per decidere: della ricostruzione dei templi distrutti dai Persiani e dell'esecuzione dei voti pronunciati in guerra, della libertà della
navigazione, del mantenimento della pace. Atene vuole esercitare ancora un ruolo panellenico , interferendo con le città vicine,
come ad esempio in Eubea, in ozia invece con l’arrivo della democrazie degli oppositori al nuovo regime scapparono verso
Orcomeno e Chersonea, provocando l’intervento di Tolmide che riesce ad espugnare Cheronea. Ma durante la marcia di ritorno
viene attaccato dai Beoti esuli a Orcomeno, da Locresi ed esuli Euboici. Alla sconfitta segue la liberazione della Beozia
dall’interferenza politica ateniese. Dello stesso segno è la rivolta in Eubea: pericle recatosi a Megara subito dopo la defezione –
sostenuta dai peloponnesiaci- blocca l’attacco ad Eleusi corrompendo il re spartano Plistoanatte e il generale Cleandrida. Pericle
ottiene Megara e i suoi porti con la pace trentennale che verrà stipulata nel 446/445. Tornato in Eubea Pericle doma una
ribellione e ad Istea caccia gli abitanti. Nel mentre sul versante della politica sociale il modello pericleo si rafforza aumentando
però il numero dei suoi oppositori: Tucidide figlio di Melesia sarà ostracizzato neò 444/443 e nello stesso anno viene fondata
sull’antica Sibari una colonia panellenica. Si riconosce un salto di qualità nella nuova organizzazione della Lega navale durante
l’intervento ateniese a Samo nel 441/439 richiesto da Mileto. Pericle arrivato a Samo con 40 triremi si impadronisce dell’isola e
vi introduce la democrazia. L’anno successivo una rivolta oligarchica riporta Pericle a Samo e dopo 9 mesi di assedio l’isola si
arrende perdendo la sua autonomia. Non è molto chiaro dato che anche Tucidide non si esprime se a Samo verrà riportata la
democrazia o se manterrà un governo oligarchico, e stesso problema per le regioni della Calcide e dell’Eretria.

PARAGRAFO XIV L’opposizione a Pericle alla vigilia della guerra del Peloponneso
La fine di Pericle ha inizio già prima dell'autentica guerra del Peloponneso. I conservatori – nella persona di Diopite, un interprete
di oracoli e con il probabile appoggio del popolo accusarono Pericle e i suoi (il filosofo Anassagora, la sua compagna Aspasia e lo
scultore Fidia) di «empietà», la stessa accusa che sarà rivolta a Socrate trent'anni dopo. Anassagora, il filosofo di Clazomene, si
ritirò nella regione natia, a Lampsaco, in Asia Minore, dove morrà nel 428; Aspasia riuscì appena ad essere salvata da Pericle;
Fidia fu accusato di furto di oro, e morì in carcere (chi l'aveva accusato, Menone, fu invece graziato da ogni imposta). «Gli
strumenti della democrazia (e il demos stesso) sono messi in moto dall'opposizione conservatrice, ai danni di chi quegli
strumenti aveva inventati. È un'opposizione per linee interne; ed era il rischio congenito al sistema obiettivamente democratico
da Pericle promosso». Difatti egli venne rieletto fino al 430, anche quando venne accusato di eccessive tasse per la guerra, e
morì stroncato dalla peste «nell'esercizio di una ormai pluriennale funzione».

PARAGRAFO XV Crisi e trasformazioni politiche nell’Occidente greco


Si registrava, nel frattempo, un periodo «post-tirannico» in Sicilia: venne restaurata la democrazia (sebbene «sbiadita» rispetto a
quella ateniese) affrontando la difficoltà costituita dai mercenari, che vennero cacciati (a Taranto e a Reggio si ebbe la
democrazia per il fallimento militare della politica, invece). In Sicilia seguì la rivolta di Ducezio, capo dei Siculi che riunì tutte le
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città sicule ma che poi – nel fronteggiare Siracusa – perse provocando la guerra tra Siracusa (che lo aveva risparmiato) ed
Agrigento, battuta. Con la morte di Ducezio (spentosi per malattia) scomparve quasi del tutto la «volontà di resistenza politica
dei Siculi» alle tirannidi.
CAPITOLO VI La guerra del Peloponneso come guerra civile dei Greci

PARAGRAFO I Il problema delle cause


La pace del 446/445 tra gli Spartani e Ateniesi prevista per 30 anni durò assai meno. Già negli anni Trenta si accendono piccoli
fuochi che creeranno il conflitto che spezzerà il mondo greco: la Guerra del Peloponneso. Si assume come data di inizio
l’invasione dell’Attica da parte del re di Sparta Archidamo II –Guerra Archidamica 431/421-. Alla guerra del Peloponneso è
primariamente legato il problema storiografico delle cause. Le guerre greche nascono come «territoriali» in base a:
· l'intervento di Atene nel conflitto tra Corinto e la sua colonia ionica Corcira (secondo l'asse ideologico Corinto-democratici di
Epidamno e Atene-Corcira-oligarchici di Epidamno, vigente nel 436 a.C.);
· la ribellione di Potidea (colonia corinzia) nella Calcidia contro la pretesa ateniese di indebolirne i rapporti con Corinto;
· il decreto di Atene contro i diritti commerciali di Megara (tra Atene e Corinto);
· probabilmente anche l'episodio del 437 in cui intervenne l'ateniese Formione a favore degli Epiroti contro l'Ambracia (l'altra
colonia corinzia).
Sono dunque le colonie di Corinto il bersaglio diretto di Atene.

PARAGRAFO II Aspetti territoriali


Nel 435 i democratici pretendono il potere ad Epidamno: i possidenti scacciati chiedono aiuto agli Illiri i quali si rivolgono a
Corcira e a Corinto, la prima respinge la richiesta mentre Corinto l’accoglie, ma viene battuta dai Corciresi presso il promontorio
di Leucimma. Due anni dopo nel 433 Corinto cerca la rivincita, Corcira si vede costretta a richiedere aiuto agli Ateniesi la quale
firma un’alleanza nella quale si impegna solo nella difesa per non rompere i rapporti con i Peloponnesiaci, questa allenza porterà
i Corinzi a desistere dalla battaglia e a ritirarsi. Stessa cosa accade a Potidea, colonia corinzia entrata nella Lega navale ateniese
(con funzione antipersiana): Atene dismette la funzione del «supermagistrato» (epidamiurgo) inviato annualmente da Corinto
alla sua colonia Potidea, che deve offrire la resa incondizionata ad Atene. Potidea rifiuta (432), rompendo l'alleanza con la città e
venendo sostenuta invece dal re macedone Perdicca II che induce anche Bottiei e Calcidici a operare un rafforzamento verso
Olintoe a inglobare il corridoio tra le alture dell’interno tra Calcidica e Olinto in direzione del lago di Bolbe. Intanto Pericle aveva
bloccato l’economia Megarese escludendo la città dalla Lega navale e dai porti dell’impero.

PARAGRAFO III Il problema delle responsabilità


La tradizione antica ha spesso dato la responsabilità del conflitto a Pericle; Tucidide invece è di un altro avviso, egli ritiene che la
responsabilità dinamica dei fatti spetti ai Peloponnesiaci, mentre le cause ultime siano da ricercare nell’espansionismo ateniese.
L’espansionismo ateniese non è da vedere come ricerca dell’unità nazionale, ma semplicemente la ricerca di ampliamento delle
proprie zone di influenza esportando il proprio modello democratico. I casi di Potidea e Megara determinarono l'entrata in
guerra da parte di Sparta, seppur per gradi: Potidea ottiene nel 432 l'appoggio spartano e Magara convince gli Spartani e tutto il
Peloponneso a dichiarare che «Atene ha violato la pace», preferendo la guerra. Segue una prima ambasceria spartana ad Atene,
cui viene chiesta l'espulsione del «sacrilego» Pericle; una seconda chiede di rinunciare a Potidea ed Egina, abrogando il decreto
«megarese »; una terza chiede invece la pace da parte spartana a condizione che Atene sciolga o modifichi la Lega navale con
tutti i Greci. Queste le richieste. Ecco invece i mastodontici schieramenti. A parte la neutralità di Argo, unica esclusa, dalla parte
di Sparta vi erano tutti i Peloponnesiaci, Achei (dopo un momento iniziale di neutralità), Megaresi, Beoti, Locresi, Focesi, le
colonie corinzie di Ambracia, Leucade, Sicione, Pellede, Elide e Anattorio; dalla parte di Atene vi erano Chilii, Lesbii, Plateesi,
Messeni, Zacinto, Corcira, gran parte degli Acarnani e varie città dell'impero sparse nella Caria, nella Doride d'Asia, nella Ionia,
nell'Ellesponto, nella Tracia, nelle Cicladi (Melo e Tera solo successivamente) e varie isole ad oriente di Creta e del Peloponneso.

PARAGRAFO IV Aspetti cronologici


La periodizzazione tucididea è la seguente: dal 431 al 421 avvenne la cosiddetta «guerra archidamica», poi nel 421 si sancì «la
pace di Nicia» cui seguì la quadruplice alleanza antispartana dal 420 al 418, la spedizione di Melo del 416 e il periodo “siciliano”
dal 415 al 413; «l'ultimo decennio» va dal 413 al 404, comprendente le guerre di Decelea e ionica (413-411) e la fase conclusiva
della guerra del Peloponneso (407-404)

PARAGRAFO V Dall’inizio della guerra alla morte di Pericle


Due mesi dopo l’attacco fallito di Platea 20.000 opliti guidati dal re spartano Archidamo II e 5.000 Beoti invadono l’Attica per
circa un mese, durante il quale gli Ateniesi si mantengono chiusi. Archidamo si ritira in Beozia. Gli Eginesi invece accusati di
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complottare con gli Spartani vengono scacciati e accolti tra le file di questi ultimi a Tirea. L’anno successivo il 430 i Peloponnesiaci
raggiungono le zone a sud di Atene in un’azione di 40 giorni bloccata dalla diffusione della peste. Gli Ateniesi spostato ora un
contingente rotatore di peste a Potidea. Il popolo vuole un accordo con gli Spartani e Pericle perde il ruolo di stratego. Potidea
cade in mano ateniese nell’inverno 430/429. Successivamente si ha la lunga spedizione del re dei Traci Odrisi, Sitalce, in
territorio Macedone. Pericle è rieletto stratego per l’anno 429/428 ma muore di peste subito dopo i figli legittimi. La diffusione
della peste fa spostare gli interessi dei Peloponnesiaci verso Platea, la quale dopo un assedio si arrenderà. A Pericle succederà
Cleone nel 427, la cui prima iniziativa sarà la punizione della ribelle Mitilene. Dalla parte dei conservatori invece emerge Nicia.
Nel 429 gli ateniesi realizzarono un blocco all’entrata del golfo corinzio con l’invio di una squadra a Naupatto: i Peloponnesiaci
reagirono tentando di staccare l’Acarnania da Atene con un attacco ad Ambracia, ma si videre costretti alla ritirata dagli stessi
Acarnani.

PARAGRAFO VI Crisi e ripresa ateniese dopo la morte di Pericle


I peloponnesiaci durante la primavera del 429 riprendono la loro spedizione in Attica; dopo il loro rientro l’isola di Lesbo si ribella
ad Atene la quale sferra un potente contrattacco assediando la città di Mitilene che si era posta a capo della rivolta; l’arrivo dei
Peloponnesiaci giunge con ritardo nel momento stesso in cui la città si arrende. Nell’estate del 427 i Peloponnesiaci ricevono la
resa di Platea. A Corcira inizia una scontro tra democratici e oligarchici che vedrà la vittoria dei primi e l’assassinio dei secondi per
mano Ateniese. Sia l’intervento a Corcira, sia la spedizione in Sicilia con la missione di Lachete e Careade contro l’espansionismo
siracusano evidenziano l’impronta anticorinzia che aveva ancora il conflitto.

PARAGRAFO VII Sintomi di nuove strategie


Nel 426 la spedizione Spartana in Attica si arresta, probabilmente a causa di un terremoto, sull’istmo di Corinto. Atene dal canto
suo sembra risvegliarsi e con lei anche le sue iniziative belliciste. Nell’ estate del 426 lo stratego Demostene di Afidna subisce una
grave sconfitta durante il tentativo di conquistare l’Etolia, ma salva al contempo l’Arcanania dai Peloponnesiaci che usavano
Ambracia come base. L’anno successivo Atene decide di rafforzare il contingente in Sicilia inviando una flotta sotto i generali
Sofocle ed Eurimedonte e un’altra successivamente con Demostene, con il compito ddi costeggiare il Peloponneso prima di
raggiungere la Sicilia. Allorchè lo stratego si attestò a Pilo all’entrata della baia che l’isola di Sfacteria chiude verso il mar Ionio
lasciando due piccolissimi varchi. Parve quindi opportuno per gli Spartani chiudere la testa di ponte ateniese a Pilo, sia all’interno
della Messenia e occupando l’isola di Sfacteria. L’intervento di una flotta ateniese ribaltò la situazione costringendo gli Spartani a
chiedere un armistizio che non approdò alla pace poiché Cleone ne bloccò le trattative, affermando che con l’arrivo dell’inverno
o il presidio spartano veniva catturato o bisognava rinunciare. Questa sua posizione creò problemi con Nicia eletto stratego per
l’anno 425/424: alla posizione di Cleone di un intervento rapido e risolutivo, egli risponde offrendogli il comando della
spedizione che Cleone accetta pur non avendo esperienza militare. Così egli guido a Pilo i rinforzi richiesti da Demostene; la
battaglia con i Lacedemonii fu decisiva, i superstiti -292- furono portati come prigionieri di guerra ad Atene e Cleone venne
rivestito di tutti gli onori. Nel 424 è Nicia a togliere agli Spartani l’isola di Citera attraverso un attacco alle basi nemiche. Nella
primavera dello stesso anno Demostene e Ippocrate conducono un esercito di 4600 opliti e 600 cavalieri a Megara, la
guarnigione peloponnesiaca a Nisea fu costretta ad arrendersi.

PARAGRAFO VIII Sparta e la nuova strategia


La nuova strategia militare spartana prevedeva un attacco in zone lontane ma raggiungibili via terra, Brasida ne fu l’iniziatore. Il
suo esercito era composto da pochi uomini ai quali presto si aggiunsero i rinforzi peloponnesiaci, beoti e macedoni. All’inizio
dell’inverno del 424/423 lo Spartano sferra un colpo ad Anfipoli sotto le direttive dello stratego Eucle e di Tucidide, quest’ultimo
riuscì a salvare solo la fortezza di Eione. Brasida nel mentre con Anfipoli decise di applicare una politica morbida dando la
possibilità alla popolazione di rimanere nella città con pieni diritti o andarsene entro 5 giorni, con tale accordi la città accettò la
resa. Questo però è anche un anno duro per Atene che subì un durissimo colpo a Delio in Beozia. Dopo l’attacco a Megara essi
avevano puntato all’occupazione di Cheronea e di Sife. Al contempo Ippocrate che aveva lasciato in un campo fortificato e un
presidio a Delio, durante la marcia di rientro perse la vita insieme a 1000 ateniesi durante un attacco delle milizie beotiche. Il 424
è per la città anche l’anno del rientro dall’impresa siciliana.

PARAGRAFO IX Verso la pace di Nicia


Il 423 è l’anno delle rivolte n Tracia e in Calcidica, della defezione di Scione a sud di Pontidea. Gli ateniesi decidono di punire
Scione e inviano una flotta di 50 triremi sotto il comando di Nicia, nella città viene posto l’assedio. Intanto per l’anno 422/421
viene nominato nuovamente stratego Cleone il quale vuole attaccare direttamente Brasida , ma dopo aver ripreso Torone e
Galepso e aver fatto una ricognizione ad Anfipoli viene attaccato da Brasida e cade insieme ad altri 600 ateniesi. Problemi interni
al Peloponneso favoriscono le trattative per la pace, ristabilendo il ripristino delle condizioni dello status quo ante bellum.
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PARAGRAFO X I trattati del 421


La pace di Nicia si presenta come un accordo di tregua di 50 anni stipulato tra Ateniesi e Spartani e alleati di entrambe. Le
clausole furono firmate da 17 personalità per parte, che poco dopo giureranno un nuovo trattato di alleanza militare bilaterale.
La pace di Nicia prevedeva: che gli scontri futuri sarebbero stati risolti tramite giuramento, che gli schieramenti non fossero posti
in assetti ostili, la restituzione ad Atene di Anfipoli e Panetto e che le città ribelli della Calcidica fossero libere, ma paganti un
tributo ad Atene, e che la città era libera di fare ciò che desiderava su Scione, Torone e Sermila a patto di liberare i progionieri
Spartani e i loro alleati; mentre a Sparta spettava Citera, Metana e Atalanta. Il trattato di symmachia era anche di durata
cinquantennale e tale alleanza è concepita come mutua difesa e di eventuale comune rappresaglia. Così finiva la guerra
decennale, e per Atene terminava con un nulla di fatto sull’aspetto territoriale, ma ne guadagnò di prestigio e rilevanza.

PARAGRAFO XI La quadruplice alleanza antispartana 420/418


Il nuovo generale spartano Clearida, non fu in grado di restituire Anfipoli, per cui gli Ateniesi non restituirono né Pilo, né Citera,
né i prigioniri a Sfacteria. Dall’altra parte Corinzi e Beoti si sentivano frustrati per non aver avuto liberate Potidea e Corcira. Argo
da canto suo vista la situazione stringe un patto con Corinto, Mantinea, Corcira e i Calcidici. Sparta allora cerca di riavvicinare i
suoi alleati stipulando anche trattati di pace, ma nel 420 sono eletti efori spartani ostili alla pace e nel versante Attico alla
strategia è eletto Alcibiade per l’anno 420/419. Atene si allea con Argo, Mantinea ed Elide denunciando la violazione della pace
da parte spartana. Nel 418 il re spartano Agide II penetra in Arcadia e con alleati beoti blocca il passo di Nimea, mentre con i
lacedemoni si spinge da Filunte fin sotto Argo. Venutosi però a ritrovare in una posizione pericolosa richiede una tregua di
quattro mesi. Lo scontro si riaccende subito dopo, quando Atene invia 1000 opliti e 600 cavalieri al comando di Lachete e
Nicostrato con il supporto di Alcibiade. Gli Elei si ritirano, e gli Spartani con i Tegeati attaccano il nemico sotto le mura di
Mantinea. Per gli Ateniesi e Argivi lo scontro è durissimo. Sparta riprende così in mano il controllo sul Peloponneso. Ad Atene si
viene a creare una certa inquietudine tra le fila dei cittadini, che si sfoga in forme impreviste che si sfoga contro Iperbolo, il
demagogo ostracizzato si ritira a Samo. Nicia e Alcibiade invece vengono rieletti strateghi per il 417/416 e 416/415.

PARAGRAFO XII Nicia e la spedizione a Melo


Nicia durante i suoi due anni alla strategia non mantenne un profilo pacifista a oltranza: egli stesso guidò una flotta in Tracia per
riprendere Anfipoli con l’aiuto di Perdicca II. Nel mentre Argo riprendeva la democrazia e si pensò a un progetto di mura tra la
città e il mare. Ma la spedizione più rilevante l’abbiamo con l’isola cicladica di Melo assediata tra il 416 e il 415, la quale alla fine
capitola e la popolazione viene sterminata e resa schiava. Tucidide ricorda l’evento trascritto sotto forma di dialogo, tra Nicia e
Alcibiade, in cui quest’ultimo propone un intervento in Sicilia, a tale proposta Nicia risponderà che bisogna assoggettare i ribelli e
quelli che obbediscono in modo dubbio, senza andare a cercarsi altrove altre guerre.
Tucidide evidenzia così il profilo di una politica non pacificatrice, ma ostile all’allargamento del conflitto a macchia d’olio.

PARAGRAFO XIII La spedizione ateniese in Sicilia negli anni 415/413


La situazione ateniese e l’assenza di un “partito della pace” spiegano i motivi della nuova spedizione in Sicilia, la più famosa e
disastrosa sarà quella degli anni 415/413. La richiesta di aiuto di Segesta e degli esuli di Leontini contro Selinunte spingono gli
Ateniesi all’intervento. Nicia invano cerca di far presente come un timore reverenziale da lontano possa sortire lo stesso effetto
di una guerra, ma il senso di grandezza e di sicurezza ateniese hanno la meglio così come la posizione di Alcibiade. Quest’ultimo
sarà vittima di un complotto attuato durante la preparazione alla guerra. Verranno distrutte la staute di Ermes un gesto sacrilego
che farà iniziare una caccia alle streghe, di cui sarà vittima per paradosso lo stesso Alcibiade a cui l’attacco era rivolto –si pensa
che possano essere stati nemici politici e che l’accusa sia stata la seconda parte di un piano ben congeniato-. L’accusa viene
lasciata pendere sulla sua testa, ma viene mandato ugualmente in Sicilia con Nicia e Lamaco nel 415. I tre avevano progetti e
diversi per questa guerra, Alcibiade voleva costruire grandi alleanze con i sicelioti contro Siracusa; Lamaco era favorevole ad un
attacco immediato; Nicia invece voleva aiutare la città elima di Segesta contro Selinunte e fare qualcosa per i Leontini. La flotta
aveva costeggiato l’Italia meridionale cercano di riscuotere simpatie, ma nessuna città aveva loro aperto le porte, così a Catania
decisero di forzare la mano. A questo punto Alcibiade è richiamato in patria ma arrivato a Turii fece perdere le sue tracce, per
poi riapparire nel Peloponneso, dove consigliò al re Spartano Gilippo l’intervento a Siracusa. Durante l’autunno 415 si svolse la
battaglia nei pressi del santuario di Zeus Olimpio contro l’esercito siracusano che ne uscì battuto. Ne seguì il trasferimento
dell’esercito a Nasso e a Catania, tentando di guadagnare alleati in Sicilia con magri risultati. Fino al 414 gli Ateniesi registrano
successi assicurandosi le posizioni vincenti. Siracusa allora iniziò a cingere la città di fortificazioni, alle quali Atene intese
contrapporre una lunga cinta di mura lunga circa 5km. Gli scontri con i quali i Siracusani tentarono di impedire l’opera furono
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degli insuccessi per i sicelioti anche se nel corso di uno di essi trovò la morte Lamaco. Sparta sollecitata dai Siracusani e da
Alcibiade arrivarono sull’isola con un esercito al cui comando vi era Gilippo. Egli sbarcò a Imera, e con aiuti Imeresi, di Gela e dei
Siculi raggiunse Siracusa. Gilippo prende l’altura di Epipole e inizia a far fortificare la zona precludendo il completamento della
cinta Ateniese. Tra l’autonno 414 e la primavera 413 arrivarono diversi aiuti via mare per i Siracusani. Nel mentre Gilippo da
terra si impadroniva di capo Plemmirio. Gli scontri navali portarono ad una prima sconfitta di Siracusa e ad una seconda di
Atene. In questo momento per la città attica tutto inizio a prendere una piega sbagliata. La spedizione in Sicilia ha maturato
contro di essa i timori e i risentimenti di Sparta, la quale già al momento della spedizione nel 414 aveva avuto in mente di
occupzre Decelea in territorio Attico. Ormai la pace di Nicia era palesemente violata, perciò nell’estate del 413 il re Agide II
invade l’Attica iniziando l’occupazione di Decelea. Atene nel mentre invia un’altra flotta in Sicilia al comando di Demostene
raccogliendo adesioni nella città di Metaponto e Turii. Sbarcato a Siracusa Demostene è consapevole che la premessa non può
non essere la riconquista di Epipole; in uno scontro notturno gli Ateniesi, dopo un primo successo subiscono un a grave sconfitta,
e ciò provocò il rientro in patria. La sera del 27 agosto 413 la flotta è pronta a salpare, ma a causa di un eclissi il superstizioso
Nicia decide di rinviare la partenza, allorchè i Siracusani decidono di attaccare la flotta ateniese bloccano l’uscita del porto e in
due scontri navali raggiungono il loro intento, nel primo muore lo stratego Eurimedonte e cadono nelle mani nemiche 18 navi,
nel secondo gli Ateniesi sono ancora battuti e perdono altre 50 navi. Ora gli Ateniesi possono solo cercare una via di fuga via
terra. Durante la marcia di ritorno però l’esercito guidato da Demostene perde di vista quello di Nicia, venendo così attaccati dai
Siracusani, Nicia e Demostene vengono giustiziati e gli altri fatti prigionieri e di questi ultimi solo pochissimi torneranno in patria.

PARAGRAFO XIV La guerra di Decelea e la guerra ionica


Nel fitto susseguirsi di eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni politiche che costituiscono il secondo
grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi
almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421). In primo
luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di
Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli Spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia,
sia in patria, con l’ideazione, che a lui in prima istanza risale, del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411.
In Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni, e alla sua idea di rapporto
col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e, fatale per Atene, i disegni che più andarono ad effetto
furono proprio quelli più avversi alla sua città. Uomo di fondamentale formazione democratica, nonostante i rinnegamenti
occasionali e strumentali, ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà
politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta
l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi. Ad Alcibiade si deve l’avvio di quei
contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio
del Gran-re a Sparta (seconda caratteristica della nuova fase di guerra). Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato
posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato
rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’ateniese, abbia
poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/1 sono la distante ma logica premessa della fervida
intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro il giovane, e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi. Ad Alcibiade si devono ancora
iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione,
nel 413, di una commissione di 10 próbouloi (consiglieri che istruivano le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine,
nel 411, il colpo di stato oligarchico. Quest’ultimo giustificato dal fatto che sarebbe stato gradito alla Persia, ma pur desiderando
successivamente di rientrare nel campo democratico pur essendo una democrazia con molti aspetti personalistici. Il quarto
aspetto riguarda gli alleati di Atene. Nell’ambito della seconda fase della guerra che si delimita nella zona della Ionia. Vi si
intrecciano le rivolte degli alleati ionici di Atene, le sollecitazioni per la presenza di Sparta e lo stesso Alcibiade. la fine della guerra
del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le
stesse coste dell‟Asia Minore occidentale. Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi „asiatici‟ o di
aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso: per gli antichi non vi era
dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto, fosse, in senso lato, la diretta premessa
della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo. Sul terreno politico v’è l’innovazione della commissione istruttoria di 10
próbouloi (tra i quali vi è anche Agnone, padre di Teramene), espressione dell’esigenza di un qualche controllo preventivo
dell’attività della boulé. Sul terreno finanziario si ha la sostituzione del vecchio tributo con uno nuovo, consistente in una
quantità fissa pari al 5% del valore delle merci in arrivo e in partenza, un criterio forse più equo, ma certamente fonte di ancora
maggiori entrate. La rivolta degli alleati di Atene scoppia in Eubea, a Lesbo, a Chio, che mandano ambasciatori a Sparta, per
sollecitarne l’intervento. Un convoglio peloponnesiaco al comando di Astioco riesce a forzare il blocco ateniese e arrivare
all’isola di Chio a metà dell’estate del 412. La rivolta si allarga a macchia d’olio: Eritre, Clazomene, Teo, Mileto, Lebedo, Metimna
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e Mitilene defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade il coinvolgimento della Persia. Vi era naturalmente una
comprensibile ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello
di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani. Dopo la presa di Mileto da parte Peloponnesiaca, comincia la serie di trattati tra
Sparta e Persia. I trattati saranno tre stipulati da Calcideo, Terimene e Tissaferne. Si può notare come i tre trattati siano l’uno il
perfezionamento dell’altro, i primi due evidenziano le competenze di Sparta –Calcideo- e di Persia –Terimene e il terzo sia la
sintesi tra i due. Nel 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riprendere Lesbo e Clazomene e di bloccare Mileto: qui gli
Ateniesi sbarcarono sopraggiunti poi da 55 triremi Spartani. In Asia si illustrano gli Spartani Pedarito e Astioco, che nel 412 ha
raggiunto Mileto divenuta ormai base navale Spartana. Iaso invece e consegnata a Tissaferne. Ad Atene resta la fedele Samo.
All’inizio del 411 gli Ateniesi hanno Samo, Notion, Lesbo, Cos, Alicarnasso e Clazomene; i punti chiave come Chio, Efeso, e Mileto
sono ormai perdute.

PARAGRAFO XV Il colpo di stato del 411 ad Atene


Si vennero a creare così le basi per l’instaurazione di un regime oligarchico come reazione agli insuccessi della politica estera
democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo.
Secondo Alcibiade, la situazione nell’Egeo orientale si poteva ribaltare mutando il regime da democratico in oligarchico:
Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene. In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nella politica ateniese e
quando le trame sarenno ben tessute il suo scopo è tornare al regime democratico. Ostacoli al nascente regime oligarchico
potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del complotto (Pisandro e
altri). Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di
contrastare gli sviluppi politici ateniesi. Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e
degli equipaggi ateniesi che erano a Samo. Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, ora un anno
dopo sono gli oligarchici a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo.
L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti, tra cui Trasibulo di Stiria e Trasillo, è decisivo
per soffocare il tentativo oligarchico. Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchici di Atene – fra cui spiccano Antifonte, Frinico e
Teramene – cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri ai
Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene sarebbero i cinquemila di norma a frequentare
l’assemblea. L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto. A Samo. Si assiste a una
vera e propria scissione nella cittadinanza ateniese. La parte della cittadinanza ateniese che serve nella flotta di Samo intende
incarnare la legittimità democratica, intende valere come la vera città di Atene. Alcibiade, che nel frattempo ha preso le distanze,
pur con opportune lentezze, dagli oligarchi, è il lontano “garante” dell’operazione. L’assemblea dei marinai ateniesi a Samo lo
richiama dall’esilio; loro stessi sono fuori di Atene, ma, poiché si sentono come la vera Atene, pongono fine all’esilio di Alcibiade,
chiamandolo fra loro. Dopo appena quattro mesi di oligarchia dei Quattrocento, il tentativo di fortificare il nord del Pireo, certo
con l’intento di impedire uno sbarco di quelli di Samo, suscita il sospetto che si stia costituendo una base d’appoggio per uno
sbarco spartano – sospetto preparato ad arte da Teramene. Frinico fu ucciso in piazza; il potere si disse essere esteso ormai ai
Cinquemila (agosto del 411). Intanto riprendeva l’attività della flotta ateniese di Samo. Della zona dell’Ellesponto gli Ateniesi
conservavano ancora il controllo: è perciò qui che si rivolge lo sforzo peloponnesiaco. Azioni di Dercidilla contro Abido e
Lampsaco nella Troade, e defezioni di Bisanzio, Calcedone, Selimbria, Perinto, Cizico, compromettono nell’estate del 411 le
posizioni ateniesi nella zona degli Stretti. Nel vicino Egeo settentrionale, in autunno, seguono l’esempio dei ribelli l’isola di Taso e
la città di Abdera in Tracia. Circa lo stesso periodo una flotta peloponnesiaca di 42 navi, al comando di Agesandrida, batte gli
Ateniesi presso Eretria, e la vittoria procura la defezione di tutte le città dell’isola d’Eubea, così vitale per il rifornimento di Atene.

PARAGRAFO XVI La continuazione della guerra ionica e il ritorno della democrazia ad Atene
Nella primavera del 410 la flotta ateniese, comandata da Alcibiade e rafforzata da una piccola squadra condotta proprio da
Teramene, sconfiggeva davanti a Cizico il nuovo navarco spartano Mindaro, che trovava la morte in battaglia: tutta la flotta
peloponnesiaca era catturata. Ora anche nelle operazioni di terra Atene riprende l’iniziativa: il re Agide, spintosi da Decelea fin
sotto Atene, si trova di fronte a un esercito, comandato da Trasillo, ma rifiuta la battaglia. I tempi sono finalmente maturi per
ristabilire la democrazia e le indennità, abolite col colpo di stato del 411. Tra il 409 e il 408, Alcibiade coglie nuovi successi
nell’Ellesponto contro i Peloponnesiaci e contro Farnabazo, il satrapo persiano della Frigia, e quasi tutte le posizioni perdute
nell’area degli Stretti e nell’Egeo settentrionale sono recuperate da Atene. Nella democrazia ateniese si creano ora le condizioni
di una rivalità politica, che per il momento non dà ancora luogo a un conflitto. Infatti Alcibiade è eletto alla strategia nella
primavera del 408; il rientro trionfale in patria, nell’estate di quello stesso anno, coincide con l’assunzione della carica. Alcibiade,
che era andato in esilio per l’accusa di aver parodiato i misteri eleusinii, è lo stesso a cui è consentito guidare per via di terra ad
Eleusi la processione, che in quegli anni aveva potuto svolgersi solo per mare, per timore di attacchi spartani da Decelea.

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PARAGRAFO XVII L’ultima fase della guerra


Ma è nell’Egeo orientale che si va preparando la svolta decisiva per la guerra. L’invio a Sardi del quindicenne Ciro, figlio di Dario
II, nel 408, con poteri di capo delle forze persiane in Asia Minore, determina un decisivo avvicinamento tra la Persia e Sparta, per
l’intesa piena che si istituisce tra Ciro e Lisandro. Lisandro, uno stratega del tempismo, rifiuta una provocazione di Alcibiade alla
battaglia nell’estate del 408, e invece accetta quella che gli offre il luogotenente di Alcibiade, Antioco, di sua sola iniziativa nella
primavera del 407: Antioco è sconfitto e muore in battaglia. Ora gli eventi assumono quella repentinità e quella rapidità che
sono caratteristiche di tanti sviluppi politici ad Atene: nella primavera del 407 Alcibiade, che era stato rieletto stratego per il
407/6, è deposto e sostituito con Conone, e si ritira nelle sue fortezze sull’Ellesponto. Dopo il durissimo colpo subìto a Cizico, gli
Spartani avevano provveduto a ricostituirsi una flotta. Nel quadro dell’impegno spartano per la ripresa della guerra navale, da
dirigere contro l’Egeo settentrionale e gli Stretti va collocato il riavvicinamento tra Sparta e la Persia, avvenuto a seguito
dell’allontanamento di un Tissaferne già orientato a favore di Atene e dell’insediamento di Ciro al posto di comando di Sardi. Nel
406 a Lisandro succede Callicratida: questi, con una flotta di 140 triremi, conquista la postazione ateniese del Delfinio a Chio, poi
si spinge fino a Lesbo, dove prende Metimna e sconfigge una flotta ateniese dislocata, al comando di Conone, davanti a
Mitilene, bloccandola poi nel porto. Ad Atene si corre ai ripari arrivando addirittura a fondere oggetti sacri in oro per le monete.
Una flotta di 150 triremi affronta ora una flotta spartana di 170 triremi, guidata da Callicratida, presso le isole Arginuse, situate
tra Lesbo e il continente asiatico. Il comandante spartano muore nella battaglia, che costa a Sparta 70 triremi (tarda estate del
406). Ma gli Ateniesi ne perdono a loro volta 25: la vittoria è quindi pagata a caro prezzo e senza salvare i naufraghi. Per questo,
quanti di essi erano rientrati in patria, furono sottoposti a giudizio di fronte all’assemblea popolare; sei, su otto che avevano
esercitato il comando alle Arginuse – due si sottrassero infatti al giudizio con la fuga; gli altri, tra cui Pericle il giovane, figlio di
Pericle e Aspasia, e Trasillo, leader della rivolta samia, furono condannati a morte. Suscitò l’opposizione di Socrate (e suscita
ancora oggi fortissime riserve) la procedura sommaria adottata: non si fecero infatti distinzioni fra le responsabilità individuali, e
giuridicamente questo è l’aspetto più sconcertante del processo delle Arginuse. La colpa c’era anche se potevano esserci delle
attenuanti. Il processo non fu tanto un atto di follia della democrazia ateniese, quanto l’espressione di una esasperata e
implacabile coerenza, che non volle sanare un comportamento colpevole, neanche con gli allori di una vittoria. Gli strateghi
volevano in definitiva salvare tutti dalla condanna, diluendo le responsabilità fra se stessi e i trierarchi a loro subordinati (cioè i
capitani di vascello, tra i quali Trasibulo e Teramene); ma è proprio Teramene che parte all’attacco, calcando la mano sulla
responsabilità degli strateghi, i quali finiscono necessariamente schiacciati tra il furore del popolo e le accuse del subordinato.
Nel frattempo, alla navarchia spartana torna di fatto Lisandro come epistoleús, cioè come comandante in seconda agli ordini di
Araco, Lisandro riprende le operazioni nell’area degli Stretti e nell‟Egeo settentrionale (405/4). Lampsaco, nella Troade, è ripresa
agli Ateniesi: qui le 200 triremi peloponnesiache fronteggiano le 180 triremi ateniesi, ancorate alla rada di Egospotami. Gli
Ateniesi offrono invano la battaglia per quattro giorni; al quinto, quando sono dispersi a terra per colazione, Lisandro li attacca e
li sgomina. La flotta ateniese cade nelle sue mani; solo Conone riesce a scappare con 20 navi. Fra i prigionieri, Lisandro fa
uccidere a Lampsaco 3000 Ateniesi. Così crollarono tutte le posizioni ateniesi da Sesto a Bisanzio a Mitilene; presto Lisandro
compare con 150 navi di fronte al Pireo, mentre da terra il re Pausania II congiunge le sue forze con quelle di Agide II, attestate a
Decelea, e, avendo marciato su Atene, si apposta presso l’Accademia, poco fuori di Dipylon. Dopo qualche tempo gli eserciti
spartani rinunciano all’assedio; resta la flotta a bloccare i rifornimenti. Le proposte di pace di Sparta, non così gravi come quelle
che dovranno alla fine essere accettate, sono respinte da Cleofonte, divenuto campione di una resistenza ad oltranza che ormai,
senza l’impero, senza l’Eubea, senza la flotta, e col nemico al Pireo, era divenuta priva di senso. Decisiva, ancora una volta,
l’iniziativa di Teramene: dapprima egli si offre come ambasciatore presso Lisandro, e vi resta ben tre mesi. Rientrato quando
ormai la temperatura era quella giusta, Teramene ottiene i pieni poteri come ambasciatore. Ed ecco che, alla fine della guerra
del Peloponneso, riappaiono i Corinzi e Tebani che volevano la distruzione di Atene e la dispersione, con la vendita in schiavitù,
dei suoi cittadini; ma il governo spartano si oppose, nonostante l’orientamento estremistico di Lisandro e Agide II. Le condizioni
furono: rinuncia di Atene a tutti e possedimenti esterni, anche le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro (cioè, il vitale corridoio
ateniese verso l’Ellesponto); abbattimento delle fortificazioni del Pireo e delle Lunghe Mura; consegna della flotta da guerra,
tranne 12 triremi; richiamo degli esuli; revisione della costituzione, che doveva tornare ad essere quella “patria‟. Il 16
Munichione del 404 Lisandro entrava con la flotta nel Pireo. Qualche mese ancora resisterà Samo, che alla fine dovrà arrendersi
e subire un nuovo mutamento di regime, questa volta in senso oligarchico. Anche ad Atene gli sviluppi politici saranno nel senso
dell’oligarchia: per la seconda volta, in pochi anni, la democrazia era abolita, dopo aver esibito un grado notevolissimo di
stabilità, dal 508 al 411. Una commissione di trenta “costituenti” è instaurata e incaricata di redigere le “leggi patrie”, la
“costituzione patria. Presto Crizia e Teramene diventeranno protagonisti di un conflitto che sarà fatale per entrambi. Alla fine
della guerra del Peloponneso qualcuno, come Crizia, può credere seriamente di poter trasformare Atene in una nuova Sparta.

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CAPITOLO VII E RICOMPOSIZIONE DELLE POLEIS DOPO LA GUERRA DEL PELOPONNESO

PARAGRAFO I L’idea di crisi. Pubblico e privato tra V e IV secolo


Un taglio importante nella storia della polis greca è data dalla fine guerra del Peloponneso nel 404. Nel V secolo Sparta e Atene
rappresentano emblematicamente le differenze culturali e socio-politiche esistenti nella Grecia post bellica. Subito dopo la
sconfitta, l’Atene democratica produce un’oligarchia dai tratti tirannici; poi, dopo il suo abbattimento, si instaura una nuova
democrazia: si avrà una democrazia attenuata rispetto alla classica linea politica vigente precedentemente la guerra, ma d’altra
parte, questa democrazia attenuata diventerà la forma politica più diffusa, che investirà la struttura anche delle città che
anteriormente si erano alleate con Sparta contro Atene durante la guerra del Peloponneso. Le due città si scoprono più simili di
quanto si potesse pensare, soprattutto per quanto riguarda l’economia: se Atene rappresentava la forma più avanzata di
economia, in cui accanto all’attività agraria aveva largo sviluppo quella artigianale e mercantile si scoprirà ben presto però
queste trasformazioni investiranno anche le città nemiche di Atene, e addirittura persino Sparta, da sempre considerata la
roccaforte dell’economia agraria e antimonetaria. Nel IV secolo emerge nello scenario politico Tebe con ruolo di egemone il cui
culmine sarà rappresentato tra il 371 e il 362 nelle battaglie di Leuttra e Mantinea. Ne seguirà un appiattimento del ruolo politico
e della funzione di aggregazione; l’emergere di nuovi poli, il formarsi e l’assestarsi di una facies politica e culturale, policentrica
da un lato e insieme ormai relativamente omogenea al suo interno sono le novità del IV secolo nei rapporti interstatali che
preparano l’assetto della Grecia in età Ellenistica e Romana. L’idea di una forte trasformazione avviatasi intorno al 404, data
della sconfitta di Atene e della fine dell’impero navale e della democrazia radicale, resta valida in relazione ai fatti politici e
militari successivi. Sul terreno istituzionale, attraverso e al di là dell’oligarchia dei Trenta, si passa a una democrazia di stampo
moderato, o meglio più moderato. Trasibulo è il restauratore della democrazia dopo aver abbattuto i Trenta costituenti, che
abbozzavano l’idea di limitare a 3.000 i cittadini ateniesi. Trasibulo, esule dall’Attica, dapprima con altri 70 a File, fortezza alle
falde del Parnete, si trasferisce al Pireo e si batte a Munichia, nel 403, in uno scontro in cui muore Crizia; solo nel settembre del
403 gli oligarchi si ritireranno ad Eleusi, creandovi uno Stato altamente improbabile, che chiude la sua esistenza già nel 401/0.
Nel marzo del 399 Socrate è condannato.

PARAGRAFO II Cultura e politica: portata e limiti della “separatezza” dell’intellettuale


Socrate esercità il suo insegnamento nell’epoca post-periclea, nella democrazia degli artigiani, dei bottegai. Socrate appartiene
per formazione periclea: fu visto dai contemporanei come uno dei Sofisti – Protagora di Abdera, Gorgia di Leontini, Prodico di
Ceo, Ippia di Elide: tutti stranieri ad Atene. Egli, dunque, si differenzia già perché puro “animale di città‟: è ben nota la difficoltà di
Socrate ad allontanarsi dall’ormai urbanizzata Atene. È in questo ambiente urbano che si svolge l’interrogare di Socrate: il suo
gusto per il rapporto dialettico, e i destinatari del suo “insegnamento‟, si spiegano con la città e nella città. Il problema educativo
dei Sofisti con lui si approfondisce, segnata da una nuova influenza filosofica sulla letteratura. Tra gli allievi di Socrate si
annoverano: Senofonte, Isocrate, Eforo e Teopompo. Isocrate esprime il pensiero dell’uomo medio e considera filosofia il
proprio insegnamento. Tutti gli insegnanti sono filosofi, così anche l’insegnamento pratico di Isocrate che si tiene fuori dalla vita
politica , ma è con l’insegnamento che egli influenza la politica, dunque come Socrate avrà con la politica stessa un rapporto
mediato. Per quanto riguarda l’istruzione elementare e media ad Atene, nel V secolo possiamo dire che la città ne sancisca i
princìpi, ne definisca in parte i contenuti e forse riservi spazi comuni per un insegnamento che non è più soltanto quello del
pedagogo (pur permanendo in classi aristocratiche). Sembra però che in età classica non ci fossero né remunerazione pubblica
degli insegnanti, né scuole pubbliche: di queste si facevano carico invece i privati. Un regime dunque a carattere misto quello
dell’istruzione elementare e media, fino ai 18-20 anni. Per gli studi superiori invece il discorso cambia, è un’istruzione privata
seguita da Sofisti, oratori e maestri di vita che impartiscono lezioni di retorica e filosofia.

PARAGRAFO III Crizia, Teramene e il regime dei 30 tiranni


Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno il nome di Trenta Tiranni, è una figura di politico intellettuale.
Vi è una grande somiglianza, e anche familiarità, tra Crizia e Alcibiade, i quali, tra l’altro, furono entrambi allievi di Socrate.
Nell’ultima fase della sua vita, nel periodo dei Trenta Tiranni, Crizia matura una posizione filolaconica, fino ad ipotizzare una
riduzione di Atene nei termini politici di Sparta: diversamente da altre figure ateniesi filospartane, quale Cimone, l’ammirazione
per Sparta di Crizia lo condusse sicuramente alla rottura con la stessa tradizione Ateniese. Teramene, che aveva contribuito
all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi.
Cacciato dopo l'episodio delle Arginuse, dovette infatti giustificare le sue posizioni del 411. Spogliato dei diritti politici e
sottoposto a processo di fronte alla boulé, fece un autodifesa tanto appassionata quanto inutile. Nonostante il suo discorso
avesse fatto un’impressione positiva, nessuno mosse un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei
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giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle. Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di
merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto
forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento che egli afferma fu voluta proprio
dai cittadini che ritenevano fosse un modo per accattivarsi gli Spartani mantenendo in vita un regime oligarchico. Nel 404
Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli‟ ricordati dallo stesso Teramene nel suo discorso di replica a Crizia: “I veri traditori sono
coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade”. La riforma della
costituzione operata dal regime dei Trenta Tiranni vede ancora la contrapposizione di Crizia e Teramene. Teramene propone la
riduzione del numero dei cittadini al numero orientativo di 5.000; orientativo perché, in realtà, Teramene è inclinè verso una
costituzione “oplitica‟, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti, restandone esclusi i teti (cioè, in
pratica i marinai). La posizione di Crizia invece può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che non
comprende neanche tutti gli opliti – è una posizione estrema: 3000, forse 4000 cittadini (su un totale di 30.000). Tra le molte
riforme, c’era anche la soppressione delle indennità periclee (i misthoí). Questi progetti non passeranno. Di fatto, la democrazia
restaurata da Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte
cose cambiano. Ci sono alcuni cambiamenti nei meccanismi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della
ricchezza. In questa fase della politica ateniese compare anche il nome di Clitofonte che è l’autore dell’emendamento al decreto
di Pitodoro,il quale nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli, sopra i 40 anni con il compito di redigere una costituzione.
Egli operò una selezione all’interno dei nómoi – bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla
legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono
conservate fino a un certo periodo, ma si opera una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le
leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato.
Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pàtroi nòmoi che appaiono come il correttivo, un elemento accessorio dela proposta
di Pitodoro di riformare la costituzione per la salvezza di Atene. In concreto per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi di
Clistene quando stituì la democrazia, che è sentita vicina alla costituzione soloniana. Aristotele delinea, nella Costituzione degli
Ateniesi, un quadro della situazione politica dopo il 404, distinguendo: un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterìe; una
democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (che poi si affermerà); e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios
politeía. A conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; la democrazia greca deve passare
attraverso questa fase per diventare la forma positiva del regime popolare.

PARAGRAFO IV Il rientro dei democratici con Trasibulo


I democratici, capeggiati da Trasibulo, si erano insediati a File, dove avevano costruito una fortezza, preparandosi per
l’abbattimento del governo dei Trenta. Ad Atene, invece, i Trenta Tiranni decidono di mandare una spedizione con lo scopo di
distruggere i ribelli: una nevicata imprevista però vanifica il loro piano. Tre settimane dopo si ha la battaglia del Pireo: i
democratici assalgono il porto; Crizia e Carmide, i capi del regime, vengono uccisi in battaglia: gli oligarchi sono forzati a
percorrere le vie della pace, rimettendo il potere a un nuovo collegio di magistrati, incaricato della riconciliazione. Senofonte
racconta che il giorno dopo lo scontro del Pireo, i superstiti dei Trenta, ormai privi delle loro guide (Crizia e Carmide), si
riuniscono in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in
luoghi diversi, per discutere la situazione. I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirano ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati,
e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli
del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotelia agli stranieri che continuino a combattere dalla parte
dei democratici. Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per
ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e
sconfigge, quelli del Pireo; poi però Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa
opera di convincimento anche con „quelli della città‟ – ambascerie delle due parti arrivano a Sparta. La pace è fatta, con
un’amnistia – che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi invece che lo vogliano possono
ritirarsi ad Eleusi. Ad Archino, uno dei capi dei democratici appena rientrati, rappresentante del filone moderato della rinata
democrazia e della pátrios politeía, vengono attribuite da Aristotele tre misure: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva
col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche degli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la
fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato “recriminare”, cioè contravvenire al principio della
amnestía; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi (con lo scopo di trattenere in città gli
incerti).

PARAGRAFO V La condanna di Socrate


L‟integrale unitá della pólis, che si voleva ricostruire al prezzo della rinuncia alle vendette, sarebbe stata frantumata dal lógos di
Socrate e dal suo daímon – la riconquistata unità esigeva che si eliminassero gli autori di azioni dissolvitrici, come Socrate. Vi
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erano anche dei motivi personali, come le gelosie di Anito nei confronti di Socrate (a causa di Alcibiade), che però non emergono
come fattori di primo piano. Socrate, certamente legato all’esperienza della cultura democratica, non rappresenta però l’ala
democratica stessa. Egli ebbe un continuo contatto con l’ambiente degli artigiani e, probabilmente per questo, era convinto che
si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese, eliminando il sorteggio perché “quando ci affidiamo a un timoniere, o a un
falegname, o a un flautista, non lo scegliamo col sorteggio; invece i governanti li scegliamo col sorteggio” (Memorabili,
Senofonte). Quindi, c’era in lui l’interesse a modificare i sistemi elettorali nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un
voto di designazione, che premiasse le competenze reali nel campo politico. Egli vuole trasformare la politica in una téchne, cioè
in un’attività di “competenti‟. Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva, riportata da
Diogene Laerzio: la prima era il theoùs ou nomízein (“non onorare gli dei‟, estremizzato da Socrate nel “non credere negli dei‟,
più facilmente smentibile); la seconda, quella di avere “corrotto” i giovani (diaphtheírein toùs néous). È comunque evidente il
peso che ebbe il richiamo alla responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e di Alcibiade. “I nostri mali sono stati uomini
come Crizia”, può dire la parte oligarchica, che Meleto rappresenta da posizioni moderate; e Alcibiade è stato la “rovina”, per la
parte democratica che Anito rappresenta: va eliminato Socrate che è stato maestro di entrambi – egli sembra il padre degli
opposti estremismi. Ora che Eleusi è riassorbita, che l’unità si è ricostruita compiutamente, che l’amnistia si è fatta
compiutamente, si condanna l’uomo che potrebbe continuare a produrre uomini come Crizia e Alcibiade; Anito e Meleto
rappresentano la gente „di mezzo‟, che trova il capro espiatorio nell’uomo che ha prodotto delle forti alterazioni all’interno della
città: Socrate diventa la vittima designata; la sua morte il suggello della nuova concordia (homónoia). Socrate ha percorso
l’intero cammino che la democrazia attica aveva reso possibile con la creazione della realtà politica e urbana che fa posto alla
libertà dell’individuo, consentita e vissuta fino al rischio estremo di un distacco dalla stessa città democratica. Socrate ha
percorso, dunque, fino in fondo la strada resa possibile dalla democrazia, finendo in una situazione di rischio e di estraneità agli
occhi della città stessa, che lo porta alla condanna. Ma tutta la sua storia appare iscritta in quella della città.

PARAGRAFO VI Tensioni a Sparta


Lisandro è un personaggio chiave per interpretare i cambiamenti che stanno avvenendo in questo periodo a Sparta. Lisandro è
l’uomo politico più spartano e insieme più antispartano che si possa immaginare – emblematico il giudizio che Plutarco dà di lui:
“È caratteristico di Lisandro il fatto che egli sopportasse bene la povertà, e che mai si lasciasse domare, né corrompere con il
denaro; riempì, però, la patria di ricchezze e di amore della ricchezza”. Padrone della Grecia dopo la vittoria del 404, Lisandro
aveva ricevuto molti doni, ed era venuto in possesso di bottini e offerte, che trasferisce a Sparta, ove si svolge un dibattito:
proibire l’ingresso in città della moneta corruttrice, o accettare un compromesso? Vince il compromesso, per cui sarà possibile
accogliere la moneta pubblicamente, cioè farne oggetto di tesoro pubblico, con severissimo divieto di possesso privato. Intorno
al 400 a.C. fa dunque il suo ingresso la moneta d’oro e d’argento (moneta straniera, in gran parte ateniese o degli alleati di
Atene), che viene depositata in un tesoro pubblico – che si costituisce solo adesso, perché prima Sparta non conosceva una
tesaurizzazione pubblica: le uniche fonti da cui si poteva attingere, in guerra, erano le grandi sedi di santuari tradizionalmente
collegati con Sparta, o con l’ambiente peloponnesiaco (Olimpia, Delfi). Plutarco riflette sul fatto che, una volta introdotto l’amore
per il denaro a Sparta, si doveva prevedere che i privati seguissero l’esempio. E proprio Gilippo è il primo a cadere nella rete
dell’avidità: incaricato da Lisandro di portare a Sparta i sacchi contenenti le monete, Gilippo ricorre a un espediente, veramente
spartano nella sua ingenuità, per prendersi un po’ dei soldi: scuce il dal basso i sacchi e da ciascuno toglie un certo numero di
monete, trascurando però il fatto che all’interno di ciascun contenitore ci fosse una tavoletta a indicare l’esatta quantità del
denaro contenuto. Quando gli efori eseguono i controlli, si accorgono degli ammanchi. Gilippo va in esilio, ma il risultato storico
è un’attenzione diversa alla moneta. Sparta e l’eleuthería: La demokratía non può certo essere la parola d’ordine della politica
spartana, e perciò la libertà politica interna dell’uomo greco non può essere il fine di tale politica e, meno che mai, di quella di
Lisandro. Tuttavia, per quanto riguarda l’indipendenza dei Greci nei confronti della Persia, con le campagne di Tibrone, Dercillida
e Agesilao in Asia Minore (che si svolgono tra il 400 e il 394 a.C.), Sparta tenta di assolvere il ruolo di patrona della grecità in
generale: il risultato ultimo di questa politica sarà nei fatti la pace di Antalcida (386 a.C.), che certamente non sancirà la libertà
per le città greche d’Asia, anzi sarà una rinuncia da parte spartana alla funzione di patronato nei confronti dei Greci d’Asia.
Tuttavia Sparta si era mossa realmente, da Tibrone ad Agesilao, nel senso di una difesa dell’eleuthería delle città greche d’Asia.
Della libertà politica Sparta non poteva, per ragioni di principio, farsi propagandista: la politica di Lisandro semplificava ovunque i
termini dei conflitti politici, risolvendoli con i governi dei Dieci o dei Trenta, con le guarnigioni, con le occupazioni vere e proprie.
Chiunque può capire quanto poco potesse durare una forma di controllo politico di questo tipo nel mondo greco. Sparta potrà
perseguire da un lato la sua politica tradizionale, dall’altro soddisfare l’esigenza dell’autonomia cioè della libertà particolaristica
delle città all’interno del mondo greco. Su questo piano Sparta riuscirà grazia alla sua Lega e perché era riuscita ad affidarne la
garanzia al re di Persia. Si introduce, con la legge di Epitadeo, la libertà di lasciare e di donare i propri beni, quindi una forma di
alienabilità della proprietà – e ne conseguirà presto un accentramento di proprietà. Si introducono inoltre i primi elementi di
economia monetaria. Sparta reagisce insomma, in un certo senso, in maniera speculare ad Atene: Atene conserva formalmente
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la vecchia democrazia periclea, ma ne avvia l’interna trasformazione; Sparta reagisce, conservando la diarchia e anche i fermi
limiti (che poi le saranno fatali) della cittadinanza – ma anch’essa registra un fermento che, sul piano economico, è soprattutto
visibile sul terreno della proprietà. Lisandro era anche il creatore del culto della personalità, e ciò è non poco sorprendente nel
cittadino di una città fondata sul principio della parità dei membri del ristretto corpo civico (hómoioi = pari): Lisandro erige una
sua statua di bronzo a Delfi; Duride di Samo dice anche che sia stato il primo dei Greci a cui da vivo furono dedicati altari e
sacrifici – addirittura la festa più importante di Samo, in onore di Era, sarebbe stata ribattezzata Lysándreia. Questo dà l’idea di
tendenze individualistiche e personalistiche a Sparta, che, per la sicurezza con cui si affermano e per il fatto che restano
impunite, sono il segno di nuovi tempi; è il corrispettivo delle personalità, forti, abnormi, eterodosse, contemporaneamente
apparse in Atene, da Crizia ad Alcibiade. Il culto della personalità avrà risvolti anche nella politica istituzionale di Lisandro, che
tenterà di abolire la basileía a Sparta: lui infatti vorrebbe rendere elettiva la regalità. Fino ad allora la diarchia era stata eriditata
solo nelle due famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, entrambe eraclidi. Per Lisandro invece le due famiglie regali non erano le
uniche rappresentanti degli eraclidi a Sparta – pure Lisandro era un eraclide, ma non apparteneva alla discendenza diretta; egli
proponeva quindi di estendere la scelta dei re agli Eraclidi o addirittura a tutti gli Spartiati. Tutto questo va datato a epoca dello
scontro con Agesilao, che era succeduto ad Agide II circa il 400-398 a.C., contro la norma, che avrebbe favorito Leotichida,
ufficialmente figlio di Agide II (ma correva ed era accreditata la voce che Leotichida fosse in realtà figlio di Alcibiade con la moglie
di Agide II). Un oracolo metteva in guardia gli Spartani dall’adottare una regalità zoppa; essendo Agesilao zoppo, gli avversari
suoi e partigiani di Leotichida, insistevano su un’interpretazione letterale dell’oracolo – Lisandro riuscì a far valere però un’altra
interpretazione, secondo cui la regalità zoppa sarebbe stata quella di uno spurio come Leotichida. Il sospetto si convalida e così
Agesilao diventa re. Sorgono però dissapori durante la campagna d‟Asia di Agesilao, nel 396, quando il re umilia in vari modo
Lisandro, che era fra i Greci d’Asia troppo popolare per il suo glorioso passato per non suscitare la gelosia del sovrano. Lisandro
rientrò a Sparta, e prese quindi parte alla guerra beotica, morendo sotto le mura di Aliarto nel 395. La storia e la figura di
Lisandro mettono in luce le tendenziali contraddizioni insite nella società spartana.

PARAGRAFO VII Gli Spartani in difesa dei Greci d’Asia


Finché Ciro è káranos a Sardi, egli tiene comportamenti leali verso il potere centrale persiano e le relazioni spartano-persiane
sono buone. Ma sono proprio gli Spartani a dare man forte a Ciro, quando egli decide di procurarsi un esercito di mercenari, per
marciare contro il fratello, Artaserse II, succeduto sul trono achemenide, cui Ciro aspira: è la spedizione dei Diecimila (in realtà,
circa 13.000 uomini), che Senofonte ha raccontato nell’Anabasi, e si svolge fra il 401 e il 400 a.C. Essa culmina nella battaglia di
Cunassa, località sita un po‟ a nord di Babilonia, dove arriva l’esercito dei mercenari greci, in cui gli Spartani hanno un ruolo
preminente. Ciro aveva chiesto agli Spartani, come compenso per l’aiuto fornito durante la guerra del Peloponneso, il sostegno
nell’invio di truppe e nel reclutamento di truppe mercenarie per la sua impresa. A Cunassa (401) Ciro combatte valorosamente e
vittoriosamente, ma muore nello stesso scontro; e ciò naturalmente trasforma la spedizione dei Diecimila in una tragica ritirata,
lungo il Tigri, per l’Armenia, fino alle coste del Mar Nero; segue un rientro, almeno parziale, attraverso la Tracia, e di nuovo per
l’Asia minore, fino a Pergamo. Una parte dei Diecimila continuerà a combattere al fianco degli Spartani. Morto Ciro,
naturalmente viene presentato il conto a Sparta da parte dei vincitori, cioè il governo legittimo di Susa e i suoi rappresentanti;
Sparta, per gratitudine e lealtà nei confronti dell’alleato Ciro, si è lasciata dunque in qualche modo attirare nella trappola
asiatica. Ora i vincitori reclamano, dell’Asia minore occidentale tutte le posizioni che avevano prima del governatorato di Ciro il
Giovane e della sua ribellione al fratello Artaserse. Tissaferne viene inviato a sostituire Ciro come satrapo di quelle regioni su cui
già prima egli aveva esteso la sua autorità: Tissaferne recupera i suoi domini particolari in Caria e chiede subito che tutte le città
ioniche siano a lui soggette. Scrive però Senofonte: “Ma le città ioniche, da un lato volendo essere libere, dall’altro temendo
Tissaferne, per il fatto che avevano a lui preferito Ciro, quando era in vita, non lo volevano accogliere nelle loro città, ma
inviavano ambasciatori agli Spartani e chiedevano loro che, come prostátai (campioni) di tutta la Grecia, si curassero anche di
loro, Greci d’Asia, affinché non fosse devastata la loro terra, ed essi fossero liberi”. Ecco come nasce tutto l’intrigo dell’intervento
spartano in Asia negli anni 400 e seguenti. Bisogna dire che gli Spartani prendono molto a cuore il loro compito: in Asia vengono
dunque a pagare anche quel conto, che loro impone la coerenza con le premesse generali della loro politica estera, e con la
funzione che essi intendono svolgere nel mondo greco dopo la sconfitta di Atene. Nel 400 in Asia sbarca Tibrone, con un certo
numero di soldati (1000 neodamòdi, 4000 Peloponnesiaci, 300 cavalieiri ateniesi [che la città invia volentieri per sbarazzarsi di
gente compromessa con il regime dei Trenta]). La campagna di Tibrone rivela l’intento di affrontare direttamente il vero nemico,
Tissaferne; dall’altro però mette in luce una certa difficoltà a muoversi degli Spartani, con le scarse risorse finanziarie a
disposizione (Tibrone viene messo sotto accusa a Sparta perché permette all’esercito di depredare gli „amici‟; ma questi aveva
un esercito da nutrire, perciò lasciava saccheggiare anche città alleate – accade dunque che l’esercito spartano susciti
l’irritazione proprio di quegli che è venuto a difendere). Tibrone viene in possesso di alcune località nelle regioni della Troade e
dell’Ellesponto; poi scende a Efeso, dove progetta di marciare in Caria, cioè contro i diretti domini di Tissaferne. A questo punto
però è sostituito da Dercillida, nel 399, che mette in atto una strategia diversa: stipula un armistizio con Tissaferne, e inizia a
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dirigere i suoi sforzi verso le regioni dominate da Farnabazo, cioè l’area più settentrionale, ove consegue un certo numero di
successi: qui la movimentazione era certo più facile, il che è confermato dai successi di Dercillida, però l’attacco lì avrebbe potuto
essere utile solo come preludio all’attacco contro Tissaferne, la vera minaccia per le città greche che si sentivano più premute dai
Persiani. Segue un armistizio con Farnabazo, esteso poi a Tissaferne, mentre un’ambasceria spartana viene inviata al gran re per
chiedergli l’autonomia delle città greche. Nel frattempo Dercillida si spinge verso il nord, creando una linea di fortificazione
contro i Traci. A questo punto le città della Ionia inviano ambasciatori a Sparta, per illustrare agli Spartani come dipendesse da
Tissaferne, ove l’avesse voluto, lasciare autonome le città greche – se fosse colpita la Caria, egli sarebbe stato disposto a
concedere loro l’autonomia. È una guerra al fondo di cui non si può venire a capo senza soluzioni drastiche: da un lato c’è
l’esigenza di autonomia dei Greci, che coincide con il desiderio di liberarsi dalla paura di una minaccia sempre incombente;
dall’altro il che re persiano non rinuncia all’affermazione della sua sovranità fino alla linea della costa. Le città greche temono la
grande potenza territoriale alle loro spalle e invocano l’aiuto dei confratelli della madrepatria, in questo momento gli Spartani,
che, avendo distrutto l’impero di Atene, ora devono coerentemente subentrare allo scomparso patronato ateniese delle città
della Ionia. Ma che cosa dovrebbero fare a rigore gli Spartani per tranquillizzare del tutto i Greci d’Asia? Ciò che farà solo
Alessandro Magno, cioè distruggere l’impero persiano. Questo richiede però grande forza militare e finanziaria, due condizioni
che si verificheranno alcuni decenni più tardi per i Macedoni. L’arrivo di Agesilao in Asia nel 396 sembra cambiare la strategia
spartana: in quell’anno egli sconfigge l’esercito di Tissaferne sotto Sardi. A questo punto il gran visir persiano, Titrauste, è inviato
per le trattive con Agesilao, proponendo (invano) che i Greci d’Asia conservino l’autonomia, ma paghino i tributi alla Persia;
Titrauste ottiene però (a pagamento) che Agesilao si rechi a fare spedizione contro i possedimenti del satrapo Farnabazo. Così
nel 395 Agesilao ritorna alla Troade e si prepara per una nuova spedizione nell’Asia minore interna – ma era ormai troppo tardi:
le cose in Grecia avevano già preso un verso, che costrinse Sparta ad impegnare tutte le sue forze nella madrepatria e a
rinunciare a un‟ulteriore offensiva in Asia. A mettere in moto nel 395 la ribellione della Grecia a Sparta fu lo stesso Titrauste:
questi, ritenendo di capire che Agesilao disprezzava il re e non pensava più di andarsene dall‟Asia, inviò Timocrate di Rodi in
Grecia, avendogli dato oro da distribuire tra i personaggi più importanti delle città greche, ottenendone però garanzie nella
prospettiva della guerra a Sparta. Venuto in Grecia Timocrate dà il denaro ai capi del partito “democratico‟ tebano, ai corinzi e
agli argivi.

PARAGRAFO VIII La guerra Corinzia


L’agosto del 394 a.C., Conone vince con la flotta persiana sui Peloponnesiaci a Cnido (battaglia di Cnido), in pratica ponendo fine,
per sempre, al predominio spartano nel mare Egeo. Poco dopo la battaglia di Cnido Agesilao è richiamato dall’Asia in patria,
combattendo e vincendo la battaglia di Coronea in Beozia. È questo forse il fatto d’arme più importante della guerra corinzia, già
avviata di fatto nel 395 da quel conflitto che Diodoro chiama “guerra beotica”. Il conflitto si apre con scaramucce tra Focesi da
una parte e Locresi dall’altra, per questioni di confini e di elementari razzie: quanto basta per consentire ai Beoti d’intervenire in
favore dei loro amici locresi e indurre Sparta ad assumersi a sua volta la responsabilità di un intervento armato. Nell’autunno del
395 Lisandro e Pausania II attaccano la Beozia: il sincronismo però dei due eserciti non riesce; Lisandro, spintosi
coraggiosamente sotto le mura della beotica Aliarto, vi trova la morte; Pausania II, sospettato di tradimento, è condannato a
morte e si sottrae all’esecuzione con l’esilio in Arcadia. La guerra sposta ora il suo centro di gravità nel Peloponneso, nell’area
dell’Istmo: qui gli Spartani vincono i collegati nello scontro di Nemea; segue poi la vittoria navale di Cnido sulla flotta
peloponnesiaca ad opera della flotta persiana, comandata da Conone; e Agesilao, rientrato in tutta fretta dall’Asia Minore,
raggiunge la Beozia, dove vince i collegati a Coronea (agosto del 394). Nel frattempo Conone, affiancato da Farnabazo, continua
la sua attività in Asia, nell’Ellesponto; nel 393 egli compie operazioni contro Melo e Citera; a Corinto, porta la sua solidarietà
politica e finanziaria al sinedrio della lega antispartana (ancora sostenuto da Farnabazo, in funzione ovviamente antispartana).
Nel 393 Conone rientra ad Atene, lui che era lontano dalla città sin dalla battaglia di Egospotami (405): per impulso di Conone si
ha la ricostruzione delle Lunghe Mura e del Pireo, con l’ausilio dei sussidi persiani, che vengono destinati anche ai Corinzi, i quali
allestiscono una flotta. Si verifica un nuovo ribaltamento della politica spartana nei confronti della Persia; un ribaltamento che
sarà contraddetto soltanto da qualche fatto episodico di segno diverso. Il protagonista di questo rovesciamento di fronti è
Antalcida, che ancora per buoni 25 anni continuerà a praticare una politica di intesa strettissima con la Persia. Per quanto
riguarda Agesilao, lui certo era stato impegnato nella sua campagna antipersiana in Asia; però ad esercitare una costrizione sui
Beoti e sugli Argivi e i Corinzi, con minaccia di intervento, perché accettino la pace del re (o pace di Antalcida), sarà, nel 386 a.C.,
proprio Agesilao. È Antalcida a denunciare, nel 393, al governatore di Sardi Tiribazo il fatto che gli Ateniesi con i soldi ricevuti da
Farnabazo ricostruiscano le Lunghe Mura e si dotino di una flotta, determinando dunque un cambiamento di rotta anche nella
politica estera Persiana, che presto passerà dalla parte degli Spartani. Senofonte denuncia in maniera obiettiva la grettezza di
Sparta che, per la sua rivalità con Atene, non esita a rinunciare a una politica cui aveva dedicato impegno, forze e vite umane:
Sparta cambia quindi direzione. Seguono le trattative di pace di Sardi (392/1). Antalcida, dopo aver fatto le sue denunce, offre
dunque al governatore persiano la rinuncia alla tutela dell’autonomia delle città greche d‟Asia. Come si diffonde la voce di
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questa intesa persiano-spartana, vengono a Sardi anche i rappresentanti degli Ateniesi, degli Argivi e dei Tebani. Il compenso per
Sparta, il principio su cui Tiribazo e Antalcida possono intendersi, è quello dell’autonomia delle città greche non d’Asia. Quelle
d’Asia sono dunque rimesse alla sovranità del re di Persia, quelle della madrepatria dovranno regolarsi e organizzarsi secondo il
principio dell’autonomia. Ma l’autonomia è concetto polivalente, che può usarsi contro i Persiani (e, sotto questo aspetto, gli
Ateniesi continuano a difendere i Greci d’Asia, mentre gli Spartani vi rinunciano); può valere però, in quanto applicato al mondo
greco e ai suoi rapporti interni, contro Atene e contro tutti quelli che vogliono costituire coalizioni regolate da un rapporto
egemonico, e opposte a Sparta. Sparta è interessata ovviamente alla seconda faccia del principio dell’autonomia, e quindi a un
regime di autonomia interna al mondo greco, che possa frenare le pretese egemoniche di Atene, o quelle di Argo (concretatasi
nell’annessione di Corinto), o quelle dei Tebani sull’intera Beozia. Di fronte al rischio di vedere frustrate le proprie aspirazioni
egemoniche, Ateniesi, Argivi e Tebani rifiutano la proposta di Tiribazo di una pace fondata da un lato sulla rinuncia alla difesa
dell’autonomia dei Greci d’Asia, dall’altro sull’estensione generalizzata del principio di autonomia ai rapporti intragreci. Ma la
guerra riprende. Nel marzo del 392 veniva annessa ad Argo Corinto; nell’agosto del 392 seguono colpi e contraccolpi da una
parte e dall’altra: gli Spartani conquistano il Lecheo, il porto corinzio sul golfo di Corinto. In Asia Tiribazo è richiamato a corte, al
cui posto è inviato Struta, un satrapo filoateniese; Sparta allora ricomincia gli attacchi, non contro la Persia, ma contro Struta
(ancora i comandanti Tribone e Dercillida). Atene invece, nonostante il satrapo filopersiana, non cambia la sua politica
antipersiana: nel 390 gli Ateniesi inviano aiuti ad Evagora di Cipro, che vengono catturati dal navarco spartano. Di fatto però dal
392 gli Spartani agiscono ormai, nonostante episodiche smentite, come alleati e gli Ateniesi come nemici della Persia. La guerra
corinzia nella penisola: Nel 390, dal Peloponneso, ha luogo una nuova campagna di Agesilao contro Argo e Corinto, e una marcia
in profondità attraverso l’Istmo, fino quasi a Megara; gli Spartani occupano parti del golfo Saronico. Del 390 però è anche la
gloriosa vittoria del generale ateniese Ificrate, noto per le sue innovazioni tattiche, come creatore del corpo di fanteria leggera
dei peltasti e di una tattica più mobile della fanteria oplitica. Il corpo dei peltasti comandato da Ificrate consegue presso Corinto
na schiacciante vittoria sulla mora spartana (uno dei sei reggimenti dell’esercito di Sparta). È uno dei grandi traumi della storia
militare di questa città (accanto a quelli delle Termopili nel 480, di Sfacteria durante la guerra del Peloponneso, di Leuttra nel
371). Segue l’occupazione ateniese delle posizioni spartane nel golfo Saronico. Segue l’attacco di Agesilao contro gli Acarnani
(389/8); la guerra si trascina lentamente; Atene subisce attacchi da forze regolari e da pirati, partite dall’isola di Egina, nel golfo
Saronico, ma riesce ad ottenere una vittoria in quelle acque per opera del generale Cabria. Nel frattempo Antalcida si
posizionava nell’Ellesponto con una flotta che, coi rinforzi di parte persiana, ammontava ormai a più di 80 navi: Antalcida era
ormai in grado di bloccare il passaggio delle navi ateniesi attraverso l’Ellesponto, essenziali per i rifornimenti alimentari della città
(387/6). Questo è la premessa immediata della pace di Antalcida, che è da attribuire probabilmente alla primavera del 386. Gli
Ateniesi temono ormai di essere sconfitti quando constatano l’efficacia del blocco degli Stretti da parte di Antalcida. Sono
preoccupati soprattutto per l’operatività dell’alleanza del re, che si manifesta, tra l’altro, nell’invio di una cospicua flotta; inoltre
Atene, e il Pireo in particolare, sono esposti ad attacchi da Egina. Tutti questi motivi contribuiscono ad alimentare il desiderio di
pace degli Ateniesi. Ma della pace sentono il bisogno anche gli Spartani, costretti dalla prosecuzione della guerra a tenere in
piedi una guarnigione di un reggimento a Lecheo, il porto corinzio, e insieme un’altra mora a Orcomeno in Beozia. Temono
anche che alcune città alleate possano defezionare. Intorno a Corinto si ha un andirivieni di azioni militari, di attacchi e
contrattacchi, che si susseguono senza efficacia: sotto la minaccia di un intervento armato spartano, sono ormai disposti ad
accettare la pace anche gli Argivi: Il re Artaserse “ritiene giusto” che siano sue le città d’Asia, e insieme Cipro e Clazomene
(entrambe oggetto dell’attivismo ateniese negli ultimi anni). Diverso è il discorso per le altre città greche: in Europa esse
possono, anzi devono, essere autonome. Il re sancisce l’autonomia di città piccole e grandi, tranne Lemno, Imbo e Sciro – le
cleruchie dovranno essere ateniesi, come già prima. Se qualcuno si opporrà a questa pace, o non l’accoglierà, il re gli muoverà
guerra su tutti fronti e con tutti i mezzi. Tutti i Greci accettano e giurano: salvo che i Tebani vorrebbero giurare per i Beoti, con
questo mettendosi già in conflitto con la pace che stanno giurando, perché non vogliono evidentemente riconoscere
l’autonomia alle città beotiche. A ciò si oppone Agesilao; gli ambasciatori tebani tornano per consultazioni a Tebe; ma Agesilao
nel congedarli annuncia loro un intervento militare, se non accetteranno la pace soltanto a nome di Tebe, senza quindi invocare
l’egemonia sulla Beozia e la sua rappresentanza. In effetti, egli non si limita a minacciare la spedizione, ma già la organizza, e
stabilisce il quartier generale a Tegea in Arcadia; quando a Tebe si sa dell’imminenza dell’attacco spartano, si accetta la
condizione di „firmare‟ a solo proprio nome, e non in nome di Beozia. A Corinto c’è un certo ritardo nella esecuzione degli
impegni: la parte democratica al potere teme che, una volta rimossa la tutela argiva, gli oligarchici rientrati possano farle pagare
le stragi che nel 392 essa aveva compiuto, perciò trattiene la guarnigione di Argo; a una nuova minaccia spartana segue
l’attuazione degli impegni anche da parte corinzia. A questo punto, Sparta ha finalmente ottenuto ciò che voleva: ha abolito
l’egemonia tebana in Beozia, ha reso autonoma Corinto, ponendo fine all’annessione argiva, ed ha ottenuto, almeno in linea di
principio, da parte di Atene, il riconoscimento che i rapporti interstatali nel mondo greco si debbano regolare sul principio
dell’autonomia (il che comporta almeno una certa remora alla ricostituzione di un suo impero navale).

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CAPITOLO VIII DALL’EGEMONIA SPARTANA AL NUOVO POLICENTRISMO GRECO

PARAGRAFO I Errori politici di Sparta


Nel Peloponneso, il primo conflitto in cui Sparta fu coinvolta fu quello con la città arcadica di Mantinea, roccaforte democratica
nel Peloponneso e alleata di Atene. Il re spartano Agesipoli dopo un primo, inutile assedio, viene in possesso della città, per
averla allagata con il disarginamento del fiume Ophis – la città viene frazionata nei primitivi cinque villaggi di cui era composta.
Gravido di più pesanti conseguenze fu invece l’intervento spartano contro la Lega calcidica, ai confini con la Macedonia. Gli
Olintii erano intervenuti a sostegno di un pretendente (Argeo) nelle lotte dinastiche seguite all’assassinio del re macedone
Archelao; avevano anzi sconfinato in territorio macedone fino ad occuparne la capitale Pella. D’altra parte gli Olintii inglobarono
Potidea e facevano pressioni su altre città loro confinanti, le quali perciò chiesero (d’intesa col re macedone Aminta III)
l’intervento spartano. Quest’ultimo ebbe luogo con l’invio di un esercito di circa 2.000 uomini al comando di Eudamida, che
ottenne alcuni risultati, come la defezione di Potidea. Risolutivo però avrebbe dovuto essere l’arrivo di un secondo contingente,
al comando del fratello di Eudamida, Febida. Durante la marcia però, Febida sostò a Tebe e, approfittando del conflitto in corso
tra partiti filospartano e antispartano, si impadronì della Cadmea (l’acropoli di Tebe) e vi insediò una guarnigione (382). Il
governo spartano, secondo una parte della tradizione, condannò Febida (che aveva agito per conto proprio), sotto la pressione
della protesta greca suscitata dal proditorio atto volto all’asservimento di una delle più importanti città di Grecia (tra l’altro in
palese contrasto con il principio di autonomia della pace di Antalcida). Ma la pena si limitò a una multa di 10.000 dracme, e la
guarnigione spartana non fu ritirata. Nel frattempo Teleutìa, fratello di Agesilao, continuava l’assedio ad Olinto, dove trovò la
morte sul campo nel 381. In seguito fu il re Agesipoli ad assumere il comando della guerra, che si concluse con la resa di Olinto
(ridotta alla fame nel 379), ma anche con la morte dello stesso sovrano. La Lega calcidica veniva sciolta e gli antichi confini della
Macedonia ripristinati. Un altro lungo assedio, condotto questa volta dall’infaticabile Agesilao, contro la città di Fliunte, nel
Peloponneso settentrionale, consegnava a Sparta la città, che accoglieva una guarnigione e mutava in oligarchia la forma
politica. Ad Atene la situazione politica presenta nuove articolazioni rispetto al passato: gli oltranzisti della guerra su due fronti,
contro Sparta e la Persia, come Agirrio, sono condannati a morte. Fra gli altri politici, duttili e realisti, anche se non rinunciatari,
emergono Callistrato di Afidna e, come generali, Cabria e Ificrate, e il figlio di Conone, Timoteo (allievo di Isocrate e in contatto
con Platone). Ora la linea politica dominante ad Atene sembra essere quella di un contenimento di iniziative di guerra, dove che
possano essere sollecitate e dirette (verso l’Egitto ribelle, la Persia, a Mantinea o in Calcidica), e di una preparazione, invece, di
intese politiche e di alleanze, con un’insistenza più sugli aspetti positivi, connessi col tornare a tessere la tela di una posizione di
prestigio per Atene, che non su quelli negativi dell’apertura di nuovi conflitti nell’immediato. Naturalmente Atene non poteva
però rinunciare all’iniziativa là dove le norme fossero state troppo palesemente infrante: una rapida normalizzazione della
situazione a Tebe, una rivitalizzazione nella città beotica del partito democratico, era un passaggio obbligato per la ripresa di una
politica attiva di Atene. Atene dà asilo agli esuli tebani dopo la presa della Cadmea, e nell’inverno 379/8 truppe ateniesi
sostennero il tentativo di rientro di Pelopida ed altri esuli tebani: il traditore che aveva consegnato Tebe a Febida, Leontiada, fu
ucciso, e successivamente il presidio della Cadmea dovette capitolare. Sparta inviò un esercito al comando del re Cleombroto
che, trascorsi alcuni giorni, senza aver conseguito alcun risultato, si ritirò. Poco dopo, Sfodria, uno spartano che deteneva il
comando a Tespie, ancora per conto proprio, tentò da questa posizione di occupare il Pireo, con la marcia di una notte; ma al
mattino egli si trovava ancora presso Eleusi. Il colpo era scoperto e sventato; contro le aspettative di tutti però (anche di Sfodria),
i re Cleombroto e Archidamo, lo assolvono: per Atene fu un chiaro segnale della necessità di una svolta verso una nuova politica.

PARAGRAFO II L’ascesa di Tebe e la crisi delle egemonie tradizionali


Il periodo che segue è un’epoca di grande movimento: è il periodo (378-371, cioè fino alla battaglia di Leuttra) in cui Sparta cerca
in vario modo di contrastare i fatti nuovi emersi dopo la pace di Antalcida, cioè la ribellione e l’ascesa di Tebe da un lato, la
ricostituzione dell’impero navale ateniese e la sua rapida espansione (in acque di recente venute sotto il controllo di Sparta)
dall’altro; ma alla fine del periodo Sparta si troverà ad aver perduto la posizione di forza che aveva al suo inizio. Per Tebe invece
quegli anni rappresentano il momento della resistenza a Sparta fino alla vittoria epocale di Leuttra e alla fondazione di una sia
pur effimera egemonia. Atene in quegli anni rafforza la sua potenza con il consolidamento della Lega navale; d’altra parte, la sua
politica estera cambia radicalmente nel corso degli anni Settanta: decisamente protebana e antispartana all’inizio di essi,
diventa, dal 375 e soprattutto dal 372, più ricompatta con Sparta, fino al pieno accordo del 369. A tutto questo si accompagna,
nel Peloponneso, una diffusione di forme democratiche, anche in tradizionali roccheforti dei regimi oligarchici. Fra tutti questi
dati, quello più rilevante è la crisi dell’egemonia spartana, a cui non corrisponde però una rinascita dell’egemonia ateniese.
Atene ricostituisce certo un suo notevole ruolo politico nel ondo greco, ma esso non è comparabile con quello del V secolo, ed è
sempre più un ruolo culturale. Si può parlare di una crisi delle egemonie nel mondo greco, affermazione che non sarebbe
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smentita dal fatto che Tebe sia riuscita ad imporne una sua per alcuni anni, a partire dal 371: troppo evidente è la diversità di
spessore e di qualità di questa egemonia rispetto a quelle esercitate in passato da Sparta e Atene. È questo un segno
dell’esaurirsi della capacità di potenza e di dominio delle singole póleis: toccherà ai re di Macedonia dare una risposta
all’esigenza, che ormai si pone all’interno del mondo greco, della creazione di un nuovo centro di gravità. Sparta non accettò il
nuovo stato di cose maturato in Beozia dopo la liberazione della Cadmea. Nel 378 Agesilao invase la regione e giunse quasi fin
sotto Tebe, dove i Tebani però contavano con l’aiuto di un corpo di spedizione ateniese al comando di Cabria. Altrettanto
penetrante, ma in definitiva infruttuosa, la spedizione nel 377 di Agesilao, caduto malato sulla via del ritorno; sostituito nel 376
dal re Cleombroto nel comando della spedizione, questa volta essa non riesce a forzare i passi tra Megaride e Beozia. Ancora nel
376, Sparta subiva un altro rovescio, per opera dell’altra protagonista, Atene: Cabria, in una battaglia in cui rifulgono le sue
grandi qualità strategiche, riesce ad affondare nelle Cicladi metà della flotta peloponnesiaca. La spedizione navale spartana
rispondeva alla costituzione di una nuova Lega navale attica, cui si è già accennato.

PARAGRAFO III La seconda Lega navale attica dal 377 al 345


Il testo del decreto della “carta di rifondazione della Lega navale ateniese”, proposto da Aristotele di Maratona nel 377, e che
indica, innanzi tutto, le finalità della symmachía: che gli Spartani lascino vivere in pace i Greci “liberi e autonomi”; e che venga
fatta salva la “pace generale”, che i Greci e il re avevano giurato. La pace di Antalcida (e il principio di autonomia) vengono
dunque abilmente utilizzati dagli Ateniesi contro gli Spartani. Le premesse della nuova alleanza, che doveva procurare ad Atene
da 70 a 75 alleati (molti di meno invero dei circa 400 che aveva contato, nel periodo di massima espansione, la Lega attica del V
secolo), sono da riconoscere nei trattati bilaterali che Atene aveva stipulato con Chio (384/3) e, successivamente (in un periodo
che si estende fino al 378) con città dell’isola di Lesbo (come Mitilene e Metimna), con Bisanzio, con Rodi, infine con la stessa
Tebe. Questa politica di alleanze bilaterali era l’unica consentita ad Atene, sotto il vincolo della pace di Antalcida, e del principio
di autonomia su cui questa era fondata. Nel 377 Atene, con gli alleati sopra ricordati, lancia il “manifesto‟ della costituzione di
una vasta alleanza, che fa propri i princìpi della pace del re e non è intesa a contrastare la Persia, ma impone a se stessa forti
limitazioni, al fine di rispettare il principio di autonomia, e si dichiara diretta contro Sparta. La città procede anche a ricostituirsi la
flotta, che dalle circa 100 triremi del 377, passeranno in venti anni a 383 nel 357/6. In poco tempo alla Lega partecipano le città
libere dell’Eubea, le isole Cicladi, le isole dell’Egeo settentrionale, Corcira, Acarnania e Cefallenia (a seguito anche di battaglie
condotte da Timoteo e Cabria). Nell’autunno del 375 gli Spartani, ormai alle corde su diversi fronti, dovevano accettare una pace
con Atene. Questa pace però era destinata a rimanere un documento di scarsa efficacia. Timoteo si ritira da Zacinto ma la lascia
alla parte democratica, nonostante le proteste spartane. Presto cominceranno anche i tentativi di Sparta contro Corcira: uno
fallito nel 374, e un altro, sventato dall’intervento ateniese, nel 373. Ificrate nel 372 libererà definitivamente Corcira dall’assedio
spartano e acquisirà le città dell’isola Cefallenia che erano ancora legate a Sparta. Contemporaneamente consolidava le sue
posizioni in Beozia l’altra città protagonista di questi movimentati anni, Tebe, che assoggettava Tanagra e Tespie e distruggeva
con un attacco improvviso Platea (373?, i cui abitanti furono accolti da Atene).

PARAGRAFO IV Tebe verso l’egemonia: la battaglia di Leuttra. Luglio 371


Nell’estate del 371 un congresso a Sparta vide riuniti i principali Stati greci, nonché rappresentanti di Dionisio I di Siracusa, di
Aminta III di Macedonia e del re di Persia. La pace consisté nel riconoscimento della Lega navale attica, e in quello esplicito dei
diritti ateniesi sull’area tracica ed egeo-settentrionale (Anfipoli, Chersoneso tracico). La prima contestazione dello schema
politico su cui la pace era fondata fu mossa dai Tebani, che volevano ora quello a cui, nel 386, avevano dovuto giocoforza
rinunciare: giurare non come Tebani, ma come Beoti; la richiesta, presentata da Epaminonda (che ora, all’età di 35-40 anni
appare per la prima volta sulla scena della storia tebana) fu respinta, e ciò comportò l’esclusione di Tebe dalla pace. Se questo
rifiuto sanciva da un lato la nuova intesa tra Sparta e Atene, e allontanava in qualche misura da Tebe la stessa Atene, dall’altro
esso era anche il preludio della sfida che Tebe lanciava a Sparta, sentendosi forte ormai anche di un certo supporto del nuovo
tago di Tessaglia, Giasone di Fere (che produsse però più una benevola neutralità che non un reale intervento al fianco di Tebe).
Il re spartano Cleombroto, nel tentativo di imporre la rinuncia alla rappresentanza dei Beoti, diede inizio all’attacco contro la
Beozia. A Leuttra, in una piana fra colline dolcemente digradanti, a 11 km da Tebe, avvenne il contatto col nemico, forte di 7.000
uomini. Al combattimento delle cavallerie seguì la fase decisiva dello scontro tra le fanterie. Fu qui che Epaminonda mise in atto
per la prima volta la “tattica obliqua‟, organizzando appunto una falange obliqua: al vecchio schema tattico dell’attacco della
destra sulla sinistra del nemico, con intento di aggiramento, si sostituisce l’attacco da sinistra. La novità è ben più forte del
semplice cambiamento del fianco più attivo: al vecchio modello delle battaglie greche come tentativo di aggiramento
dell’armata avversaria Epaminonda sostituisce un nuovo schema, che dà all’ala sinistra una notevole profondità (50 uomini),
destinandola all’attacco dell’ala destra nemica, cioè quella più forte, con l’intento di una preliminare e immediata operazione di
sfondamento della posizione forte del nemico, riservando poi a una seconda fase la liquidazione delle parti residue, e più deboli,
dello schieramento avversario. Insomma, la falange obliqua equivale all’adozione di un tattica d’urto e di sfondamento. La
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sconfitta fu per Sparta un colpo durissimo. Sul campo restarono Sfodria, lo stesso re Cleombroto, e in totale 400 su 700 Spartiati
presenti: era un tributo di sangue fatale per la città dalle poche migliaia di cittadini (quasi 3.000 in quest’epoca).
PARAGRAFO V L’egemonia tebana e la spinta autonomistica in Grecia
Intanto Tebe si rafforzava nell’area a sud della Tessaglia, costringendo Orcomeno ad aderire alla Lega beotica e piazzando
guarnigioni a Nicea presso le Termopili. Così, dopo Leuttra, la Tessaglia entrava nel campo dell’interesse attivo di Tebe, con un
significativo ribaltamento dei ruoli tra le due regioni, conseguenza della morte di Giasone. In aree lontane dalla Beozia, Tebe
sosteneva spinte e tendenze autonomistiche, principalmente nell’area del Peloponneso. In Arcadia si costituiva una
confederazione, con un’assemblea generale di 10.000 (mýrioi), un collegio di strateghi e uno di magistrati federali, nonché una
milizia stabile. Un intervento di Agesilao per l’autonomia Tegea, ove il partito democratico era stato portato al successo dai
Mantineesi, si risolse in una ritirata e in un nulla di fatto. A portare aiuto alla neonata Lega arcadia, dunque, non fu Atene, ma
Tebe. Comincia così la serie delle spedizioni tebane nel Peloponneso (ve ne furono quattro), sempre guidate da Epaminonda,
che assunse la regione come settore di suo particolare impegno. Nel solo anno 370/69 furono due le discese di Epaminonda nel
Peloponneso. Nella prima, i Beoti intervengono per replicare al vano attacco di Agesilao contro Mantinea; poi avanzano fino in
vista di Sparta, ma per difficoltà di attraversamento dell’Eurota e il sopraggiungere di soccorsi alleati, proseguono, oltre Sparta,
verso la Messenia, dove la defezione tocca la maggior parte delle località e si dà avvio alla costruzione della città di Messene al
monte Itome. Atene e Sparta serrano ora i ranghi e stipulano un trattato di mutua difesa, su basi paritarie, un trattato che segna
la svolta storicamente decisiva nei rapporti tra le due città, che ormai avranno un buon numero di occasioni d’intesa e
collaborazione. In aiuto di Sparta interverrà Dionisio I, con l’invio di navi e mercenari, quando Epaminonda calerà per la seconda
volta nel Peloponneso, limitando però la sua azione al nord della penisola e a Sicione e Pellene, dopo essersi congiunto con gli
Argivi, gli Elei e gli Arcadi. Al compito di rafforzare la presenza e l’influenza beotica nel nord greco (Tessaglia e Macedonia)
provvede invece l’altro protagonista dell’egemonia tebana, Pelopida. In Tessaglia (369) egli libera Larissa, e poi interviene da
paciere nelle contese dinastiche macedoni, tra il re Alessandro II e il cognato, Tolomeo di Aloro. Nel 368 Pelopida interviene di
nuovo in Macedonia, dove il momentaneo accordo tra Tolomeo e Alessandro II si era già rotto: Alessandro fu assassinato,
Tolomeo assunse la reggenza per il fratello di Alessandro, Perdica III. L’arrivo di Pelopida ristabilisce l’influenza tebana in
Macedonia, mediante un nuovo accordo con Tolomeo e la consegna di Filippo (il futuro re Filippo II), fratello di Perdicca III, e il
suo trasferimento a Tebe come ostaggio. Intanto nel Peloponneso la Lega arcadica si estendeva e consolidava i rapporti con i
popoli nemici di Sparta, dagli Argivi ai Messenii: la nuova lega si rafforzava politicamente e si creava una capitale federale,
Megalopoli, nell’Arcadia occidentale. L’impianto fu pensato in termini grandiosi, del tutto corrispondenti al significato del nome,
con l’intento anche di fungere da città rifugio (368/7). Nel 367 una terza spedizione nel Peloponneso guadagnava l’Acaia come
alleata a Tebe. Epaminonda avvia il suo programma di armamento e di politica navale. L’imitazione competitiva nei confronti di
Atene è evidente e dichiarata. Si avviò così la costruzione di una flotta di 100 triremi: con le prime navi disponibili, Epaminonda
raggiunse Bisanzio, che indusse ad uscire dalla Lega navale ateniese, e Chio, Rodi e Cos, con cui strinse buoni rapporti. Ma la
politica navale si fermò lì: Tebe non solo mancava di una tradizione di pratica marinara e mercantile, ma più che altro non aveva
il ruolo di guida ideologica che aveva Atene nei confronti del mondo greco d’Asia. Nel 364 i Tessali richiedevano l’intervento
tebano contro il tiranno Alessandro di Fere: Tebe concede un aiuto limitato, 300 cavalieri capeggiati da Pelopida: esso ottiene la
vittoria, ma resta morto sul campo lo stesso Pelopida. L’anno successivo le forze Beoti sconfiggevano definitivamente quelle di
Alessandro di Fere, di cui si riducevano drasticamente i domini. Circa lo stesso periodo i Tebani procedevano a regolare storici
conti con Orcomeno: la città venne distrutta, la popolazione maschile sterminata, le donne e i bambini venduti schiavi.

PARAGRAFO VI Il significato della battaglia di Mantinea del 362


Nell’estate del 362 Epaminonda scende ancora una volta nel Peloponneso, prendendo a base Tegea per un’azione contro
Sparta, subito interrotta per il controattacco di Agesilao. Ma da Tegea Epaminonda poté invece inviare contro Mantinea la
cavalleria beotica e tessalica, che si trovò però di fronte la cavalleria ateniese, e poi gli opliti ateniesi e gli spartani insieme con i
loro alleati, in un grande spiegamento di milizie. Forti del sostegno dei loro alleati (Sicionii, Argivi, Arcadi e Messenii), i Beoti
accettarono la battaglia campale sull’altopiano di Mantinea. La battaglia seguì lo schema tattico di Leuttra: attacco concentrico
della cavalleria, movimento d’urto dell’ala sinistra della fanteria. Gli Spartani cedettero, ma nello scontro Epaminonda rimase
ferito a morte; l’esito militare e politico fu quello della più grande incertezza, che investì il sistema di rapporti all’interno del
mondo greco. La conclusione delle Elleniche di Senofonte, che si chiude con questa battaglia, è appunto che dopo la battaglia di
Mantinea in Grecia vi fu più confusione e disordine di prima. In effetti, in Grecia non vi era più spazio per l’egemonia di una pólis.
L’egemonia tebana aveva prodotto quel che poteva produrre l’ultimo tentativo di questo genere: lo smantellamento, appunto,
dell’idea stessa di egemonia. Una pace generale, da cui si tenne però fuori Sparta, sanciva lo status quo, l’indipendenza della
Messenia e l’esistenza di due leghe arcadiche, l’una intorno a Tegea e Megalopoli, l’altra intorno a Mantinea; fondamentale
comunque il fatto che l’Arcadia confinante con la Laconia fosse anche quella antispartana. Ciò non significa che le prospettive
egemoniche fra le póleis cessassero di colpo: a suo modo, ciascuna delle tre maggiori città di Grecia continuava a perseguirle,
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ma con più incertezza, minore slancio e minore coesione interna, quindi con un’efficacia storica sempre più limitata. Sparta non
intendeva rinunciare alla Messenia e al suo ruolo nel Peloponneso; Atene manteneva, e forse momentaneamente accentuava,
la sua posizione egemone all’interno della Lega navale; Tebe continuava a tener viva la propria ostilità verso Sparta e anche,
benché in minor misura, verso Atene, ma soprattutto cercava di conservare un ruolo fondamentale nella Grecia centrale e nella
stessa Tessaglia. Lo scontro tra queste ormai sempre più inefficaci ambizioni creò, nei fatti, le condizioni per il conflitto accesosi
nella Grecia centrale intorno al santuario di Delfi, non a caso nelle vicinanze e per iniziativa stessa dei Tebani: una nuova guerra
sacra (la terza della storia del santuario delfico), che si apriva come conflitto regionale, rigorosamente contenuto all’interno del
mondo delle póleis, e però doveva svilupparsi e chiudersi (segno, questo, di un’epoca veramente nuova) come conflitto
coinvolgente anche i Macedoni, e con una pace, quella di Filocrate (346), in cui Filippo II era parte determinante, anzi già
dominante.

PARAGRAFO VII L’intervento cartaginese in Sicilia 409-405 e l’ascesa di Dionisio I di Siracusa


Durante la grande spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413, Cartagine era stata a guardare, certamente decisa a impedire
che i sogni di conquista che si attribuiscono ad Alcibiade diventassero realtà, ma non del tutto sfavorevole alla spedizione
ateniese, che colpiva una sua nemica, Siracusa: e proprio dallo strascico della recente spedizione ateniese deriva l’intervento
cartaginese del 409, che provocò la distruzione di Selinunte e di Imera e il conseguente massacro delle popolazioni
(particolarmente nella prima città) e a cui seguì, tra il 406 e il 405, la distruzione e annessione di Agrigento, Gela e Camarina da
parte cartaginese. Fu il riaccendersi di controversie territoriali tra Segesta e Selinunte a provocare l’intervento di un forte
esercito punico di cittadini, sudditi libici e mercenari. Il comando era nelle mani di Annibale, che distrusse le mura di Selinunte, le
case e i tempi, facendo strage di 16.000 persone, mentre 5000 cadevano prigioniere e solo 2300 riuscivano a trovare scampo
nella fuga. L’intervento di un contingente siracusano al comando di Diocle fu reso vano dalla rapidità con cui Selinunte fu messa
in ginocchio (nove giorni); sorte analoga poi toccò a Imera, dove però si riuscì a mettere in salvo almeno una parte della
popolazione, che si rifugiò a Messina; 3000 uomini catturati da Annibale furono da questo sacrificati ai suoi Mani. A Siracusa,
una prima ripercussione politica è il tentativo di rientro di Ermocrate, che sbarcato a Messina compì una serie di imprese di
grande effetto propagandistico, ma di scarsa efficacia, poiché nel frattempo l’armata cartigese sotto Annibale era rientrata in
patria. Nella primavera dell’anno successivo (406) i Cartaginesi riprendono l’offensiva in Sicilia, con manifeste intenzioni di
allargare l’area del proprio dominio mediante l’acquisizione dell’intera costa occidentale. Il primo attacco è rivolto contro la
ricchissima e popola Agrigento, che, nonostante le difficoltà, fu conquistata dagli Cartaginesi. Questa volta i Siracusani, rafforzati
da un gran numero di Greci di Sicilia e d’Italia, accorsi contro un pericolo cartaginese ormai chiaramente emerso in tutta la sua
entità, riescono a entrare ad Agrigento, ma non a liberarla per intero, comunque alla popolazione furono risparmiati i massacri
simili quelli di Selinunte; si dovette intanto attuare lo sgombero di Gela. A Siracusa intanto, un valoro ufficiale del partito di
Ermocrate, Dionisio, mise sotto accusa la conduzione della guerra, ottenendo la destituzione dei precedenti strateghi e la
nomina di un nuovo collegio, in cui fu eletto egli stesso. Egli ottenne nel contempo il rientro degli esuli e si appoggiò
decisamente alla parte popolare. Fu solo il primo atto dell’ascesa di Dionisio. Recatosi a Gela, Dionisio intervenne in favore del
dêmos contro i proprietari; a Siracusa accusò i suoi colleghi di intelligenza col nemico – questi furono deposti e Dionisio divenne
stratego con pieni poteri. Nell’estate del 405 i Cartaginesi attaccano Gela; Dionisio non riuscì ad espugnare l’accampamento del
nemico e fallì, proprio come i suoi predecessori ad Agrigento: Gela e Camarina furono perciò evacuate. L’esito deludente diede
spazio a un ultimo tentativo dell’aristocrazia della città di abbattere la nuova tirannide; ma Dionisio sopravvenne da Camarina,
uccise alcuni dei cavalieri e altri cacciò dalla città. Anche da parte cartaginese il pericolo veniva meno, non da ultimo per l’effetto
deterrente. Dell’epidemia che ne aveva decimato le truppe. Verso la fine del 405 si stipulava la prima pace tra Dionisio e i
Cartaginesi. Selinunte, Imera, Agrigento appartenevano a Cartagine; i cittadini di Gela e Camarina diventavano tributari di
questa, che esercitava la sua autorità anche su Elimi e Sicani, e assumeva di fatto la tutela dell’autonomia dei Siculi; a Dionisio
però veniva riconosciuto il dominio su Siracusa.

PARAGRAFO VIII Lo Stato territoriale di Dionisio I


Dopo il primo trattato coi Cartaginesi, Dionisio provvide a rafforzare strategicamente e politicamente la sua tirannide: fortificò
l’isola di Ortigia, e vi insediò amici e mercenari; fece demagogiche concessioni di terre e di cittadinanza, anche a schiavi liberati.
Quindi si mise all’opera per correggere gli effetti del primo trattato, volendo ricostituire l’area de influenza siracusana, partendo
dai Siculi: comincia nel 404 l’assedio della sicula Erbesso. Già in quest’anno comincia l’ostilità a Dionisio di Reggio, che con
Messina invia la sua flotta a sostegno degli insorti. Vinti i nemici senza neanche versare molto sangue, e rafforzata la sua
posizione militare e politica a Siracusa, Dionisio riprende i suoi piani di espansione, questa volta contro Nasso, che viene
distrutta, e il cui territorio è ceduto ai Siculi; Catania è conquistata e ceduta ai mercenari campani; così anche Leontini, la cui
popolazione si trasferì a Siracusa. Dionisio è il creatore del “più grande dominio d’Europa‟ prima di quello macedone, e quindi
una delle tappe miliari nello sviluppo dell’idea stessa di Stato territoriale nel mondo greco; lo scopo e il risultato delle sue
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conquiste è la creazione di un dominio continuo, ma non omogeneo al suo interno (quanto a tipo di rapporto con Siracusa), che
si estenderà, nel 386, dopo la vittoria dell’Elleporo e la presa di Reggio, sino all’attuale Puglia e che includerà: 1) aree annesse a
Siracusa, dove è praticata una politica di depoliticizzazione e disurbanizzazione (area etnea); 2) Messina, che resta città, per
opportunità geografica e strategica, ma in posizione di stretta dipendenza politica; 3) Reggio, che sarà distrutta; 4) Locri, che è la
fida alleata, la sentinella degli interessi e del dominio di Dionisio. Oltre questi confini, Dionisio cerca solo posizioni di egemonia, di
prestigio, di controllo: ma il dominio „continuo‟ non risulta essersi esteso oltre quell’istmo. Affidato al limitato respiro di un
uomo e della sua discendenza, questo impero si sgretolerà già sotto Dionisio II: ma esso è, se non un modello, certo un sicuro
antecedente degli stati territoriali creati da una città nel mondo mediterraneo. Lo stesso dominio di Roma sarà un sistema non
meno complesso e in definitiva analogo; la differenza fondamentale è che Roma concepisce l’impero come un compito che va al
di là del respiro di uno o di pochi individui, di una o due generazioni, come il compito storico di una intera classe dirigente, che se
lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli. In Sicilia lo sbocco non potrà essere che un nuovo
conflitto con i Cartaginesi, in vista del quale sulle Epipole, già nei primi anni della tirannide, Dionisio costruisce il poderoso
castello Eurialo, modello di architettura militare. Verso gli Italioti egli tenta le armi dell’intesa. Messina esce dall’alleanza con
Reggio e si accorda con il tiranno, entrando nel ruolo assegnatole da Dionisio di sentinella sullo Stretto, per bloccare eventuali
aggiramenti della flotta cartaginese; con Reggio Dionisio tenta un’alleanza matrimoniale, chiedendo in moglie una fanciulla di
nobili natali – secondo la tradizione Reggio gli avrebbe offerto la figlia di uno schiavo; diverso il comportamento dei Locresi, che
concessero al tiranno Doride, la figlia del più insigne cittadino: il tiranno la sposò lo stesso giorno che contrasse le nozze con una
nobildonna siracusana: non c’è ragione di dubitare della bigamia; era una condizione eccezionale che corrispondeva in pieno
alla duplicità del campo d’interesse di Dionisio. Reggio, in definitiva, rappresentava nel conflitto che si profilava col tiranno
siracusano, il principio cittadino e autonomistico, contro il principio dello Stato territoriale costituito intorno a Siracusa, che
Dionisio da parte sua perseguiva e rappresentava.

PARAGRAFO IX Dionisio I tra l’epicrazia cartaginese e l’autonomia delle città italiote


Ma il confronto con Reggio (più volte avviato da Dionisio) era di fatto accantonato, visto che comunque l’alleanza di Locri
assicurava al tiranno una solida posizione sul continente, rispetto a cui Reggio si riduceva ad una fastidiosa ma fragile enclave.
Ora era più urgente il consolidamento delle posizioni in Sicilia e perciò la guerra contro Cartagine. Rapidamente Dionisio affermò
la sua autorità nella Sicilia interna, andando a cozzare contro lo zoccolo duro del dominio cartaginese. Nel 396 sbarcava in Sicilia
ancora una volta Imilcone, alla testa di un grande esercito punico. La controffensiva di Imilcone è invero un seguito di successi e
si svolge in senso “orario‟ lungo il perimetro della Sicilia: cadono Terme e Messina, che viene completamente distrutta; i Siculi
defezionano da Siracusa, e i Cartaginesi putano su Catania, dove la flotta di Dionisio subisce una durissima sconfitta (con la
perdita di più di 100 navi e 20.000 uomini). Cominciava ora l’assedio della stessa Siracusa da parte dell’esercito di Imilcone.
Durante l’estate del 396 una squadra peloponnesiaca interveniva in favore di Dionisio. La situazione non sarebbe tuttavia
facilmente mutata a favore dei Siracusani senza un evento catastrofico per i Cartaginesi, una peste che ne decimò le truppe.
L’esercito punico era da questa sciagura reso incapace; Imilcone cercò di salvare il salvabile, utilizzando le residue possibilità di
fuga per mare; gli altri soldati si arresero ai Siracusani. Dionisio recuperava Catania, Lipari e Terme, provvedendo inoltre alla
ricostruzione di Messina. Nel frattempo, in Italia, alcune cittá fondano la Lega italiota, che aveva come obiettivo di resistere ai
Lucani e di opporsi a Dionisio. Nel 392, dopo ancora qualche spedizione punica che non ottennero successi, è pace fra i
Cartaginesi e Dionisio, il quale ottiene la rinuncia di Cartagine ad esercitare il suo protettorato sui Siculi, e il riconoscimento,
almeno di fatto, del dominio del tiranno in Sicilia. Ora Dionisio, l’árchon Sikelías, rivolge il suo sforzo contro Reggio, ma una
tempesta risolve in un disastro la spedizione navale. Dionisio stabilisce allora una sorta di tacita intesa con i Lucani, che
compiono incursioni periodiche nei territorio di Turi; più che di un’alleanza attiva tra Dionisio e i barbari, si trattava di una
coincidenza strategica. Nel 388 il tiranno passava all’azione contro la Lega italiota, iniziando l’assedio a Caulonia. Mentre egli
assediava la città, da Crotone moveva un esercito federale italiota, forte di 25.000 fanti e 2000 cavalieri; Dionisio sospese
l’assedio di Caulonia e marciò verso il nord per intercettare il nemico; presso il fiume Elleporo ebbe luogo la battaglia, che gli
diede la vittoria decisiva sulla Lega; Dionisio costrinse a rifugiarsi su un colle la massa dei soldati italioti, che infine si arresero per
sete, e che tuttavia, dopo essere stati fatti prigionieri, vennero rimandati nelle rispettive patrie senza riscatto. Era l’atto più
generoso compiuto dal tiranno nella sua vita, un atto che, da un lato, sembra suggellare la costruzione e delimitazione del
dominio territoriale siracusano (poco dopo iniziava la costruzione di un muro nell’istmo calabro), dall’altro doveva solo lasciargli
le mani più libere per l’azione decisiva contro Reggio, che per sé non poteva non suscitare l’indignazione dei Greci: col
comportamento dopo l’Elleporo, Dionisio pagava anticipatamente ammenda per quel che stava per fare ai Reggini. Caulonia era
intanto conquista – il suo territorio annesso da Locri, e la popolazione trasferita in Sicilia. Reggio, isolata, dapprima trattò col
tiranno e gli versò 300 talenti e consegnò ostaggi. Poi Dionisio chiese „mercato‟ ai Reggini, con l’intento di ridurli senza viveri; i
Reggini, capito il suo piano, si rifiutarono di rifornirlo ulteriormente; Dionisio allora pose un assedio che durò 11 mesi e costò
sofferenze enormi alla città, ridotta all’isolamento e alla fame. Ai superstiti, ridotti ormai a cadaveri ambulanti, fu consentito di
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riscattare la vita con il pagamento di una mina; quello che non potevano pagare, furono venduti schiavi a Siracusa. Solo Dionisio
II ricostruirà il nucleo di una nuova Reggio chiamata, dal nome della divinità più cara alla città, Febìa.
PARAGRAFO X La politica imperiale di Dionisio
Dionisio incentiva anche la fondazione di colonie nella costa Illirica dell’Adriatico, nonché nella stessa Italia, riprendendo in
grande stile dunque le colonizzazioni corinzie. Presenze siracusane si hanno anche nel Tirreno, contro gli Etruschi, e addirittura in
Corsica, dove si alleano con i Celti nella lotta contro gli Etruschi. Tra 379 e 374 si ha una terza guerra cartaginese, e la pace che
seguì sancì l’appartenenza a Cartagine di alcuni territori ad occidente, come Selinunte e Terme; in una quarta guerra contro
Cartagine, nel 367, Selinunte è ripresa, ma il tiranno muore nell’inverno, all’età di 63 anni. Scompariva con lui un personaggio
che aveva irradiato, da Siracusa e dal suo dominio costruito intorno allo Stretto, presenza e potenza e capacità di intervento in
tutte le direzioni. In Grecia stessa egli aveva più volte interferito militarmente, sempre in favore degli Spartani, già durante la
guerra corinzia; poi, nel 372, aveva partecipato all’assedio di Corcira, contro gli Ateniesi, e ancora era intervenuto dopo Leuttra,
per contrastare Epaminonda e gli Arcadi ostili a Sparta. Ma dopo Leuttra, con il riavvicinamento tra Atene e Sparta, si erano
anche create le condizioni per la ricostituzione di buoni rapporti tra Atene e l’árchon Sikelías. La vicinanza ideale a Sparta e la
notorietà del personaggio ad Atene, sommate insieme, spiegano in misura non trascurabile i primi due dei tre viaggi di Platone
in Sicilia: a questi due dati ne va aggiunto un terzo, la consapevolezza, che ha il mondo greco, della relativa facilità con cui in
Sicilia si poteva procedere a operazioni di ingeneria politica, disfacendo vecchie città e costruendone di nuove. A un riformatore
e sognatore di un nuovo stato, come Platone, doveva sembrare la terra promessa.

PARAGRAFO XI Dionisio II, e gli intellettuali nella politica


Dionisio II, figlio della moglie locrese del primo Dionisio, successe al padre, a dispetto dei tentativi contrari della discendenza di
Aristomache, e del fratello di questa, Dione. La sua politica fu, rispetto a quella del padre, di contenimento: accordo con
Cartagine, intervento in favore degli Italioti contro i Lucani, fondazione di due colonie contro i pirati in Apulia. All’interno, il
governo del giovane Dionisio fu caratterizzato da qualche misura sociale e politica (ridotte le tasse, richiamati gli esuli). Il secondo
viaggio di Platone in Sicilia (367/6) appare come il nodo storico in cui si annodano diverse premesse: oltre alla disponibilità
intellettuale del tiranno, il complesso gioco politico dello zio Dione che mirava a crearsi una posizione di potere a Siracusa,
estromettendo, o almeno fortemente condizionando, il giovane Dionisio. Terzo fattore in gioco, per questo come per il
successivo viaggio di Platone (361) in Sicilia è il ruolo politico di Archita di Taranto, amico di Siracusa, ma anche dei Dionisii; nel
rapporto stretto che si instaura tra Archita e Dionisio II vai riconosciuta la condizione primaria per l’avvento di una lata unità
politico-culturale, alla cui luce diventa più comprensibile l’attenzione di Platone alla grecità occidentale nel suo insieme. Poco
doveva durare l’intesa tra Platone e Dionisio II. La rottura è da iscriversi in primo luogo nel conflitto tra il tiranno e Dione, che più
s’era adoperato, anche con i buoni uffici d’Archita, per far tornare Platone in Sicilia, e che invece fu costretto all’esilio, perché
sentito dal tiranno come una minaccia; Dione s’insediò ad Atene, in attesa dell’occasione per spodestare Dionisio. Inutile fu il
terzo viaggio di Platone a Siracusa, intrapreso nel 361 allo scopo di metter pace fra i due. Con il sostegno di allievi di Platone
(Callippo, Eudemo, Timonide) e la connivenza dei governi di Atene e di Corinto, Dione organizzò un corpo di spedizione contro
Dionisio. Dionisio II riuscì a resistere agli attacchi condotti per terra da Dione e a sopravvivere alla sconfitta navale; fuggì però a
Locri. Nel campo degli avversari scoppiava intanto la discordia: Dione veniva cacciato e fuggiva a Locri. Seguirono nuovi successi
delle truppe di Dionisio; tuttavia poco dopo Dione era richiamato a Siracusa come strategós autokrátor. Cominciava una nuova
tirannide, connotata da comportamenti autoritari o violenti. In questo clima matura la ribellione dell’accademico Callippo, che
fece assassinare Dione dai suoi mercenari, nel 354, e assunse il potere, venendo a sua volta ucciso poco dopo. Dopo qualche
anno Dionisio riusciva a ritornare a Siracusa.

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CAPITOLO IX La Macedonia dalle origini al regno di Filippo II

PARAGRAFO I Le origini dei Macedoni e il loro rapporto con la grecità


Il territorio macedone è circondato da varchi diversi, che in epoche diverse devono aver consentito l’afflusso di popoli dalle
regioni illiriche e da quelle epirotiche, come anche dalla Tracia o dalla Frigia. Queste condizioni territoriali favorivano senza
dubbio una qualche mistione etnica – e non v’è dubbio che nella lingua, nella toponomastica, oltre che naturalmente nella
controversia che divide i Greci circa la realtà, o almeno il grado, della grecità di quel popolo, traspaia qualcosa di questa mistione
etnica e culturale. Tuttavia gli stessi tipi di evidenza possono anche essere addotti per sostenere che, nonostante l’apporto di
aree culturali diverse, un fondo cospicuo di grecità sia da riconoscere al popolo macedone. La storiografia greca riconosce la
dinastia degli Argeadi come greca, più specificamente argolica (quindi dorica), in quanto il primo dei re macedoni (Perdicca per
la tradizione più antica; il leggendario Carano per la tradizione successiva) discenderebbe da un ramo degli Eraclidi, quello dei
Temenidi (dal mitico bisnipote di Eracle, Temeno, fondatore della Argo dorica): si riconosceva dunque una qualche misura di
grecità alla realtà macedone presa nel suo complesso, e ciò nel senso di una connessione dei Macedoni col mondo dorico. Nel
nome Makedónes è del resto da riconoscere, con ogni verosimiglianza, un riferimento all’altezza, non tanto delle persone, ma
dei luoghi che esse abitavano. Abitanti dunque dei luoghi alti, “montanari”; e già l’accezione così indeterminata di quel nome
incoraggia alla conclusione che i Macedoni si presentino come una realtà etnica mista. I “macedoni‟, cioè i “montanari‟,
identificavano dunque agli occhi dei Greci un popolo dell’interno, con tutto il relativo carico di connotazioni di ordine culturale
ed economico, un popolo tenuto distinto dai Dori della Grecia centrale, ma anche sentito in una suggestiva contiguità con essi,
come risulta da Erodoto.

PARAGRAFO II I re di Macedonia fino ad Alessandro I


Erodoto ci fornisce la lista dei re all’incirca dall’inizio del Vii secolo fino alla prima metà del V: Perdicca I, Argeo, Filippo I, Aeropo,
Alceta, Aminta I, Alessandro I detto il Filelleno; a lui, che regna forse dal 498 al 454, succedono i figli Alceta, Filippo e Perdicca II; a
quest’ultimo segue Archelao (413-399). È Tucidide che completa la lista fino ad Archelao, confermando implicitamente con le
sue indicazioni la lista di Erodoto. La dinastia macedone e le vicende di essa cominciano ad assumere contorni storici solo a
cominciare da Aminta I, il padre del Filelleno, e dal Filelleno stesso, il che corrisponde perfettamente ai tempi della storiografia
greca: è naturale che la dinastia macedone entri in piena luce di storia solo in quell’epoca – già i fatti storici in cui essa è coinvolta
contribuiscono a trarla dall’oscurità che l’avvolge per l’epoca precedente. Sono infatti le spedizioni persiane, quella scitica di
Dario I circa il 513 a.C., e poi quella di Serse contro i Greci nel 480, a interessare, anche se solo marginalmente, la Macedonia e
perciò ad attirare l’attenzione di Erodoto, e della storiografia successiva, sul popolo, tra barbaro e greco, che i Persiani trovarono,
ora meno ora più direttamente, sulla loro strada nelle due occasioni. Nel corso della spedizione in Scizia, del 513 circa a.C., Dario
invia suoi uomini al re di Macedonia, Aminta I, per ottenere il riconoscimento della sua sovranità formale sulla regione
confinante con la Tracia. Il racconto erodoteo, in questo caso di matrice macedone, maschera il riconoscimento della condizione
di vassallaggio della Macedonia verso la Persia dietro l’episodio della strage di alcuni intemperanti nobili persiani alla corte di
Aminta, avvenuta per iniziativa del figlio Alessandro I; l’episodio si conclude comunque con un matrimonio „politico‟ della
sorella di Alessandro con un nobile persiano. Il lunghissimo regno di Alessandro I (498-454) si segnala sotto l’aspetto culturale,
politico, militare, economico. Sotto l’aspetto culturale, esso significa il riconoscimento definitivo, da parte greca, della grecità
della dinastia regnante in Macedonia, per influenza forse di Argo e Corinto, ma sicuramente anche di Atene. L’occasione
immediata del riconoscimento dell’origine greca di Alessandro fu, secondo Erodoto, la partecipazione alle gare di Olimpia,
dapprima contrastata dai concorrenti, poi ammessa. Pindaro dedica ad Alessandro I un encomio (“oh omonimo degli opulenti
Dardanidi”) – nel sottolineare l’omonimia tra il re macedone e il troiano Paride Alessandro, Pindaro risolveva elegantemente il
dilemma sul tema della grecità dei Macedoni. Alessandro è detto omonimo dei Dardanidi, cioè della stirpe nata “da Dardano‟
(per i Greci, un greco d’Arcadia), non “dei Dardani‟, non cioè dei Troiani: e infatti nella Troade la tradizione greca immagina una
dinastia di origine greca, ma regnante su un popolo barbaro, proprio lo stesso schema che veniva fatto valere per i Macedoni!
Sul piano politico, a parte le prime incertezze nei confronti della Persia e della causa nazionale greca, il comportamento
posteriore di Alessandro I a Platea e la ricusazione di fatto del rapporto di vassallaggio verso la Persia, segnarono l’inizio
dell’ascesa della Macedonia. Questa si concretò in una spinta espansionistica che, dirigendo anche l’attenzione verso est, veniva
a interferire nell’area degli interessi di Taso, prima, e poi della stessa Atene, rischiando con essa uno scontro diretto, per cui
comunque la Macedonia non era ancora matura. Sul piano militare va forse attribuita ad Alessandro I una riorganizzazione
dell’esercito, attraverso la creazione di un’armata di pezeteri (o eteri appiedati), una fanteria cioè che veniva ad affiancarsi alla
cavalleria degli eteri. Liberazione progressiva dal vassallaggio verso la Persia e prima collocazione culturale e politica nel mondo
greco possono considerarsi come gli apporti principali del regno di Alessandro I.
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PARAGRAFO III Perdicca II tra Atene e Sparta


Il regno del figlio e successore di Alessandro, Perdicca II, che regnò da solo almeno dal 437 fino al 414/3, si segnala per un più
attivo inserimento della Macedonia nello scontro di potere che si determina all’interno del mondo greco, e che ha i suoi poli in
Atene e Sparta. La Macedonia non sfugge a una condizione e a una sorte che riguardano l’intero mondo greco – il grande duello
politico e ideologico, che si svolge fra le due città; e i comportamenti di Perdicca II hanno molto dell’abile altalena e del furbesco
barcamenarsi. Comunque, nell’incertezza della Macedonia di Perdicca II tra Sparta ed Atene, si capisce che il vero problema
politico e storico della Macedonia è Atene; l’altalena di Perdicca II è tra l’accettazione dell’egemonia di una città, il cui ruolo
culturale è vitale per la Macedonia, e il rifiuto di forme di dominio che contrastino troppo direttamente con gli interessi della
Macedonia e dei suoi vicini. Questa difficile partita tra Atene e Macedonia si gioca principalmente nell’area della Calcidica.
Mentre la fondazione di Anfipoli alla foce dello Strimone da parte ateniese nel 437/6 avviene senza l’ostilità, e forse con il
favore, della Macedonia, quest’ultima però sostiene a ripetizione, pur con frequenti ripensamenti,la ribellione della Calcidica alle
pretese egemoniche di Atene, che aveva incluso nella Lega navale e nel suo sistema tributario vari centri della regione. Dietro la
ribellione di Potidea ad Atene e dietro la costituzione del nuovo stato dei Calcidici centrato su Olinto, c’è la mano di Perdicca II. È
comprensibile che Atene gli scateni contro un’invasione di Traci nel 429 – una “grande paura”, che però si conclude con un
matrimonio politico tra la sorella di Perdicca II e un nobile trace. Sull’aiuto spartano Perdicca II conterà al momento della
spedizione tracia di Brasida (424-422), sia nei suoi poco efficaci tentativi di assoggettarsi la Macedonia interna, sia per
contrastare la presenza di Atene nell’Egeo settentrionale, e in particolare ad Anfipoli. Anfipoli dopo il 424 non tornò nelle mani di
Atene (ancora al tempo di Filippo II e di Demostene sarà un ricorrente, ma sistematicamente delusa, rivendicazione ateniese). La
Macedonia, da Perdicca II almeno fino ai tempi di Filippo II, pratica nei confronti della penisola Calcidica una politica di “buon
vicinato”: azione di Perdicca II volta a potenziare Olinto con il sinecismo del 432: Olinto, e la Calcidica in generale, svolgevano
una funzione di grandi intermediarie del commercio delle materie prime macedoni verso il mondo greco.

PARAGRAFO IV La politica macedone da Archelao a Perdicca III (413-360/59)


Il regno di Archelao, figlio e successore di Perdicca II, il cui regno dura soltanto 14 anni (414/3-399 a.C.), fu traumaticamente
interrotto da un assassinio, per mano di un suo favorito, Krateuas. Ne seguì un periodo di convulse lotte dinastiche, la cui
conclusione è il passaggio di mano da un ramo ad un altro della dinastia degli Argeadi (con l’ascesa al trono di Aminta III nel 393).
Dal punto di vista della crescita culturale della Macedonia, che non può che significare una sua crescente ellenizzazione, il regno
di Archelao è di fondamentale importanza. Alla sua corte giungono poeti ateniesi, come i tragici Agatone, Cherilo e soprattutto
Euripide, che alla corte del re compose le Baccanti, l’Archelao e i Temenidi: segno dell’importanza del dramma, e al suo interno
particolarmente della tragedia, come veicolo di cultura. In Macedonia Euripide, secondo il racconto tradizionale, avrebbe
trovato la morte, perché sbranato dai cani molossi di Archelao. Archelao provvide ad una migliore organizzazione del territorio
macedone, ad una migliore organizzazione sia della fanteria sia della cavalleria. In politica estera poi non parleremo di rinuncia
ad una iniziativa verso la Calcidica, che lo stesso Perdicca II aveva contenuto entro i limiti della promozione di una migliore
organizzazione dei suoi vicini; interferenze di Archelao nelle cose di Tessaglia, verso cui la Macedonia assume sempre di più un
ruolo protettivo, esercitato in favore dell’aristocrazia di Larissa, mentre tende a trasformare gli interventi protettivi in forme di
più stabile presenza. Aminta III dové affrontare seri problemi. Sotto questo sovrano la Macedonia conobbe una vera grande
crisi, risultante dall’assassinio di Archelao e dalle convulse lotte dinastiche che ne seguirono. Egli dovette fronteggiare una Lega
calcidica ormai divenuta ostile e intraprendente verso la Macedonia, al punto di occupare, se pur solo temporaneamente, la
capitale Pella. Aminta III invocò l’aiuto di Sparta, che debellò e sciolse la Lega calcidica dopo una guerra durata tre anni. La Lega
calcidica presto si ricostituì e riprese i buoni rapporti di prima con la Macedonia. Aminta III d’altra parte, circa il 375, aderiva alla
Lega navale ateniese, come anche Giasione di Tessaglia: costellazione significativa del particolare momento politico che vive la
Grecia, dove a una rinnovata egemonia ateniese si accompagna un’egemonia tessalica nella Grecia centrale e un sostanziale
accodarsi della Macedonia; eppure nel regno di Aminta III (padre del grande Filippo II) si coglie l’intera parabola della crisi
macedone, fino al suo primo superamento, del quale può considerarsi come un segno ancora ambiguo ma non trascurabile la
collocazione a pieno titolo nel quadro della nuova organizzazione politica intragreca creata da Atene con la nuova Lega navale.
Alla morte di Aminta III si hanno nuove lotte dinastiche, durante le quali però sul trono macedone rimangono insediati sempre
dei figli dello stesso Aminta, garantendo così la continuità dinastica (diversamente dalla crisi seguita all’assassinio di Archelao nel
399). Alessandro II regna solo un anno, assassinato dal cognato Tolemeo di Aloro, che assume quindi la reggenza per il fratello di
Alessandro, Perdicca III. È il periodo in cui l’egemonia tebana fa sentire la sua influenza anche in Macedonia. Qui era intervenuto
infatti in sostegno di Alessandro II il tebano Pelopida; successivamente questi aveva prestato il suo aiuto a Tolemeo di Aloro. Gli
Ateniesi non potevano stare a guardare: si spiegano così le campagne di Timoteo nella Calcidica e sulla stessa costa macedone.
Atene sostiene nelle lotte dinastiche il figlio di Aminta III, Perdicca III, che, dopo essere stato aiutato dagli Ateniesi, contesta i loro
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diritti su Anfipoli, inviandovi e installandovi una guarnigione nel 360; ma l’anno successivo perisce in una spedizione contro gli
Illiri.
PARAGRAFO V Stato territoriale e póleis nell’età di Filippo II
A Perdicca III succedeva, dapprima come reggente per il nipote minorenne (Aminta IV), Filippo II, con il quale la Macedonia
comincia una grande ascesa storica. La storia dei rapporti tra Filippo II, la Macedonia e la Grecia ha subìto negli ultimi decenni una
radicale revisione rispetto alle impostazioni ottocentesche del problema. È stata soprattutto la cultura tedesca dell’Ottocento e del
primo Novecento a proporre un’interpretazione nazionalistica dello scontro tra Macedonia e Grecia al tempo di Filippo II e di
Demostene, interpretato alla luce delle vicende dell’unificazione della Germania nel XIX secolo da parte della Prussia. L’applicazione
di una chiave di lettura nazionalistica allo scontro Macedonia-Grecia è inadeguata però sia sul versante macedone sia sul versante
greco. La Macedonia di Filippo II non si pose il problema di una unificazione politica indifferenziata e centralizzata del restante del
mondo greco intorno alla Macedonia; così come neanche il mondo delle città greche riuscì realmente a produrre un’idea di unità
nazionale, ma al massimo, e anzi con particolare fervore, produsse un programma panellenico, che di fatto non andava oltre uno
schema politico associativo e confederativo di stati autonomi, stretti intorno all’egemonia di uno di essi. La politica egemonica
perseguita da Filippo II presenta moduli diversi di politica estera di forme di predominio, a seconda delle diverse aree e delle diverse
regioni a cui quella politica espansionistica è destinata. Se è vero che nell’area macedone e trace, e in generale nell’Egeo
settentrionale, Filippo II perseguì una politica di espansione e annessione territoriale, di unificazione territoriale secondo princìpi di
continuità e compattezza di dominio, nelle restanti regioni del mondo greco egli perseguì moduli diversi, i quali ricalcano
fedelmente le tradizioni di potere di quelle stesse regioni: in Tessaglia, ad esempio, Filippo II assunse la carica di tago, cioè il ruolo di
generalissimo, investito di ampi poteri non solo militari ma anche finanziari nell’àmbito delle città tessaliche; a sud delle Termopile
invece, la politica di Filippo II non poteva che essere di egemonia, cioè di controllo dall’esterno, dapprima attraverso l’utilizzazione di
organismi panellenici preesistenti (come l’Anfizionia delfica) e poi, quando quelli non basteranno più allo scopo, attraverso nuove
forme associative e federative, improntate al principio dell’autonomia (certo coronata dall’egemonia, cioè, dal preminente ruolo
militare di Filippo II). Quel che risulterà dalla battaglia di Cheronea del 338 non sarà la morte della democrazia in assoluto; non sarà
neanche la morte della libertà greca; sarà soltanto la premessa a una situazione nuova, nella quale il mondo delle città greche si
sarebbe trovato a confrontarsi con una realtà politica nuova, quella degli stati territoriali ellenistici a vertice monarchico.
Naturalmente questo accentramento significava anche un formidabile strumento di condizionamento per le „libere‟ città greche. Il
problema storico resta quello del reale grado di autonomia che le città greche, vecchie e nuove, riuscirono a garantirsi nei confronti
degli stati territoriali: è innegabile che sul piano formale il rapporto fu di autonomia, ma, sul piano sostanziale, esso cambiò a
seconda degli uomini, dei tempi, delle condizioni. I primi anni del regno di Filippo II sono contrassegnati da azioni dapprima
diplomatiche, poi militari, rivolte a contenere e successivamente a respingere la pressione degli Illiri, dei Peoni, dei Traci sui confini
della Macedonia. La fase successiva (dal 357 in poi) del regno di Filippo II rappresenta il periodo in cui si pongono le premesse dello
scontro con Atene. In un trattato stipulato segretamente con Atene, il re macedone si era dimostrato disponibile a conquistare per
Atene medesima Anfipoli e a consegnargliela, in cambio della città macedone di Pidna. Ma nel 357 Filippo II procedeva
all’annessione di Anfipoli. Il gesto di Filippo, che inizia una serie di conquiste nell’àmbito dei possedimenti o delle località di influenza
ateniese nell’area traco-macedone (Pidna e Potidea nel 356; Metone nel 354), e che inaugura la politica dell’unificazione territoriale
delle Macedonia e delle contigue aree, si inserisce in un momento di grave crisi per Atene.

PARAGRAFO VI La guerra sociale della nuova Lega navale attica (357-355)


C’è coincidenza storica tra l’espansionismo di Filippo e il declino dell’imperialismo di Atene. La presa di Anfipoli si colloca nel periodo
in cui la Lega navale ateniese subisce una prima grave crisi a seguito della ribellione delle città alleate di Chio, Rodi, Cos, cui presto si
aggiunge Bisanzio, per sollecitazione del satrapo di Caria, Mausolo (guerra sociale). Da parte ateniese si reagisce con l’invio di una
flotta al comando di Carete e di un’altra al comando di Cabria; ma nell’attacco intrapreso contro il porto di Chio (357) il generale
ateniese Cabria trovò la morte. Prendevano intanto l’iniziativa gli alleati ribelli, mettendo sotto pressione Samo. Nuovi preparativi
militari ateniesi nei confronti dell’isola ribelle di Chio (356) – si riproducono in qualche modo le condizioni verificatesi cinquant’anni
prima con la battaglia delle Arginuse: in un giorno di tempesta, i generali ateniesi Ificrate e Timoteo (figlio di Conone) non volevano
attaccare il nemico; Carete prese da solo l’iniziativa dell’attacco ma poco dopo fu costretto dalle gravi perdite a interrompere la
battaglia; ne seguirono un’accusa e un processo, mossi da Carete contro i suoi due colleghi, considerati colpevoli della sconfitta per
non aver collaborato. Si rinnovò lo spirito delle Arginuse: Timoteo fu condannato al pagamento di cento talenti e perciò si recò
esule a Calcide, dove poco dopo morì; Ificrate, benché assolto, non riotteneva la sua carica e moriva qualche anno dopo. Carete
ebbe a questo punto il comando generale della flotta in seguito alla eliminazione dei due colleghi e rivali; egli interverrà contro il re
persiano in Frigia, a sostegno del satrapo ribelle Artabazo, ma successivamente, in seguito alla reazione decisa del re di Persia, si
verificò un cambiamento di fronte e di politica in Atene, e l’avventura persiana si concludeva con un nulla di fatto. Ormai Atene, nel
355, anche a causa del ripiegamento compiuto in Asia, non poteva più contare su un recupero degli alleati; la Lega si vedeva privata
di Chio, di Cos, di Rodi, di città dell’isola di Lesbo, e persino di Corcira nel mar Ionio. Ormai la confederazione si limitava alle Cicladi,
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all’Eubea e al settore dell’Egeo settentrionale che comprendeva le isole del mar Egeo e alcune città sulla costa tracica. Atene poteva
contare ancora sull’entrata annua di circa quattrocento talenti e sulle circa trecentocinquanta triremi stazionate al Pireo.
PARAGRAFO VII La terza guerra sacra (356-346) e la guerra di Olinto (349/8)
Si era intanto aperto, qualche tempo dopo l’inizio della guerra sociale, un decisivo capitolo della storia non solo della Grecia
centrale, ma della Grecia in generale: la III guerra sacra, che già nel suo nome dichiara che essa si svolge intorno al santuario di Delfi
e alle sue ricchezze. Da un punto di vista politico la guerra sacra nasce come espressione del tentativo di Tebe di assicurare la
continuità della sua egemonia (di fatto compromessa dalla battaglia di Mantinea del 362 a.C.). I prodromi della guerra sacra
risultano proprio dal desiderio di rivalsa dei Beoti nei confronti sia dei Focesi sia degli Spartani: agli uni e agli altri vengono inflitte
multe altissime, da versare al santuario delfico, per responsabilità di ordine diverso: agli Spartani veniva imputato di aver occupato
la Cadmea nel 382 a.C., ai Focesi di aver coltivato la terra sacra di Cirra. L’imposizione di una multa troppo forte per la coltivazione di
un territorio assai piccolo suscita la ribellione dei Focesi: Filomelo occupa il santuario, sostenendone l’originaria appartenenza ai
Focesi e limitandosi in un primo momento a riscuotere contributi dai cittadini della città di Delfi, astenendosi dalla ricchezze del
santuario. Immediata la reazione dei Locresi, con una battaglia presso Delfi, a cui però risponde una irruzione dei Focesi in territorio
locrese. I Beoti non si lasciarono sottrarre la funzione la funzione di tutori del santuario, che apparteneva loro come ad autorevoli
membri dell’Anfizionia: perciò essi inviarono ambasciatori ai Tessali e agli altri Anfizioni, invitandoli a prendere le armi contro i
Focesi usurpatori. Scoppia dunque la guerra, che è sacra in quanto proclamata dagli Anfizioni contro i Focesi; ne segue una
spaccatura all’interno del mondo greco: per il santuario, e contro i Focesi, si schierano i Beoti, i Locresi, i Tessali; ai Focesi prestano il
loro aiuto gli Ateniesi, gli Spartani e alcuni altri peloponnesiaci. Nel 354 a.C. i Tessali irrompono nella Locride e combattono contro i
Focesi presso il colle Argola, ma ne sono sconfitti; successivamente, l’intervento dei Beoti raddrizza progressivamente la situazione,
fino alla sconfitta di Filomelo nella battaglia di Neon (354 a.C.). La sua carica fu assunta da Onomarco, che sfrutta di più le ricchezze
del santuario, aumentando l’impegno militare e riuscendo a corrompere i Tessali, e quindi a escluderli dalla guerra anfizionica,
conquistando nel frattempo posizioni sia in Locride sia in Beozia. Nel frattempo i Tessali chiedono a Filippo II di Macedonia di
sostenerli contro il tiranno Licofrone di Fere. Filippo interviene una prima volta nel 354 a.C. contro Licofrone; ma con il tiranno di
Fere si schierano i Focesi. In due successivi scontri Filippo II, seguito dai Tessali, viene sconfitto da Onomarco. È l’anno più critico
(353) nella storia dell’ascesa politica di Filippo II e dell’espansione della Macedonia. Ne seguì una ritirata strategica; ma nel 352
Filippo II rientra per attaccare Licofrone di Fere, che ricorre all’aiuto dei Focesi – all’appressarsi di un esercito focese di 20.000 fanti e
500 cavalieri, Filippo induce i Tessali ad associarsi a lui, con un esercito che supera i 20.000 fanti e 3000 cavalieri. In uno scontro ai
Campi di Croco, Filippo consegue una straordinaria vittoria su Onomarco: dei Focesi e dei loro mercenari periscono più di 6000, fra
cui lo stesso generale; non meno di 3000 i prigionieri. Filippo impicca Onomarco già morto e fa annegare gli altri come profanatori
del tempio. Nel 352 Filippo II ha dunque ormai una posizione preminente, e di tutta legittimità, nel conflitto greco. Pur non essendo
ancora intervenuto a sud delle Termopile, egli aveva battuto e punito il profanatore del santuario. Dopodiché Filippo cerca di
forzare il passaggio delle Termopile, ma qui lo bloccano gli Ateniesi che, in numero di 5000, insieme con 2000 Achei e 1000
Spartani, erano venuti in soccorso dei Focesi. Filippo rinuncia ad attraversare il passo. In questa decisione è da vedere non soltanto
una sorta di pragmatismo militare, ma anche un’oculata scelta politica. Al di là delle Termopile gli si sarebbe aperto il campo più
vasto e complesso dei rapporti diretti con le principali città greche: il mondo delle póleis, seppure ben rappresentato anche a nord
delle Termopile, era infatti la facies storica dominante nelle regioni greche a sud di quel passo. Superandolo, Filippo si sarebbe
venuto a trovare di fronte a nuovi problemi, a nuove scelte, in un mondo entro il quale egli non voleva entrare in quel momento e
in quel modo, e soprattutto non poteva entrare con gli stessi metodi, lo stesso tipo di rapporto, le stesse prospettive di dominio che
aveva perseguito in Macedonia e, in forma diversa, persino nella Tessaglia. Di là delle Termopile, si apriva il campo per una politica
nuova. In compenso, nel 351 Filippo diresse il suo attivismo militare ed espansionistico verso l’Egeo settentrionale, e precisamente
verso la regione tracica, ancora controllata nei suoi lembi estremi da Atene. Qui forse egli avrebbe raggiunto, ancora in quell’anno, il
confine dell’Ebro, minacciando l’area degli Stretti, fondamentale per Atene, se non altro per il commercio di grano con il Mar Nero.
Quanto Filippo II intendesse la decisione di non varcare le Termopile nel 352 come una decisione politica, dirottandone altrove la
spinta espansionistica e le mire strategiche, risulta dallo svolgimento degli eventi successivi, nei quali l’attenzione del re macedone
appare ancora una volta rivolta a nord dell’Egeo. Tra il 349 e il 348 si svolge la guerra tra Filippo II e Olinto, cioè contro quella Lega
calcidica alla quale ancora nel 356 Filippo aveva attribuito il territorio di Potidea. Questa fu anche l’occasione storica per la
precisazione del ruolo politico di Demostene quale antagonista di Filippo II. Durante la guerra di Olinto si verificano ben tre
interventi ateniesi, guidati rispettivamente da Carete, da Caridemo e di nuovo da Carete, e con un sempre maggiore impegno di
Atene sul terreno dell‟utilizzazione di forze oplitiche cittadine, da schierare contro il nemico accanto ai mercenari. Tuttavia di questi
interventi furono inefficaci i primi due e addirittura tardivo il terzo: quando l’ultima spedizione giunse, la città era già caduta. Filippo
ne volle la distruzione; e fu definitiva nella storia. Nel 347, logorati dal confronto con i Focesi, i Beoti chiedono l’aiuto di Filippo.
Questi invia pochi soldati – secondo le fonti, per non favorire troppo i Beoti. Ce ne sarebbe un’altra spiegazione, del tipo che sopra
abbiamo proposto per il mancato passaggio delle Termopile nel 352: Filippo non voleva ancora un coinvolgimento diretto nelle
questioni che si ponevano per il mondo greco a sud del passo. Finalmente, nel 346 i Focesi incominciano ad accusare una notevole
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stanchezza e Filippo riuscirà in quell’anno a domarli, smilitarizzando poi le città e consentendo la partenza delle forze mercenarie,
comandato dall’ultimo capo focese, Faleco. La resa definitiva dei Focesi si ebbe però soltanto dopo che in Grecia fu raggiunto un
accordo tra i Macedoni, gli Ateniesi e gli altri Greci, con la cosiddetta pace di Filocrate. I Macedoni volevano l’esclusione dei Focesi
dal trattato, ma gli Ateniesi riuscirono a farli rinunciare almeno formalmente a questa pretesa. Filippo II ne usciva pienamente
legittimato nel quadro di quello che era all’epoca lo strumento panellenico per eccellenza, il sinedrio anfizionico, nel quale i due voti
dei Focesi passavano ormai a Filippo II. Così Filippo aveva realizzato il disegno di intervenire nel mondo delle città greche nella
posizione e forma più legittima possibile, e addirittura prefigurava, rispetto all’Anfizionia delfica, quella posizione di capo militare
(hegemón), che egli perfezionerà, dopo la battaglia di Cheronea, con la creazione della Lega di Corinto. A Filippo fu anche attribuita
la molto onorifica presidenza dei giochi pitici.

PARAGRAFO VIII La strategia politica di Filippo II verso Atene e Tebe (346-336)


Gli anni successivi mostrano quanto siano diversi il modulo della politica di Filippo II verso Atene e verso la stessa Tebe, nella Grecia
centrale e meridionale, da un lato, e quello valido per altre regioni. Nell’area delle póleis, in Eubea e nel Peloponneso, Filippo
dispiega un’attività, che è di tipo più squisitamente politico. In Eubea favorisce tirannidi; nel Peloponneso ricalca la vecchia politica
tebana di intesa con gli stati avversi a Sparta. Ancora gli eventi del 341 mostrano come le azioni militari Filippo le concentrasse in
aree ben diverse da quelle della Grecia centrale o dell’Attica, dell’Eubea o del Peloponneso. Verso Atene egli sembra aver
costantemente adottato una politica di “guerra limitata‟, limitata appunto alle aree di diretta frizione tra Macedonia e Atene,
lontane dall’Attica, che il re sentiva come appartenenti alla sfera di interesse macedone, e macedoni di diritto. Questo spiega il
tentativo di espugnare sia Perinto sia la stessa Bisanzio: tutto si svolge nella zona del Mar di Marmara e del Bosforo. Il re giunse
addirittura a catturare nel Bosforo una flotta ateniese per il trasporto del grano: Demostene a questo punto (autunno 340)
considerò rotto il trattato della pace di Filocrate; ma è chiaro che la condizione di guerra tra Filippo e Atene è affermata da
Demostene, ma non realmente riconosciuta da Filippo II. Questi mostra invece di continuare a sentirsi in guerra con Atene soltanto
in regioni molto lontane dalla Grecia centrale e da Atene stessa: dalle sue prospettive politiche niente di più lontano di una guerra
globale con la città principale della Grecia. A sud delle Termopile il vero problema, per un Filippo che voleva tutta la Grecia dietro di
sé, era quello di una scelta tra Tebe e Atene, proprio in considerazione dei conflitti che da sempre dividevano le due città. Si può
affermare con buone ragioni che Filippo perseguisse di preferenza un disegno panellenico, volto a non scegliere tra gli interessi
opposti di queste città: ma, realista come era, naturalmente conosceva l’ostilità ateniese verso Tebe e, quando avesse dovuto
rischiare una contrapposizione e fare una scelta, certamente egli l’avrebbe fatta in favore di Atene stessa. Per Demostene perciò
contrastare Filippo significava da un lato operare in modo che Filippo non scegliesse in favore di Tebe, dall’altro avere Tebe al fianco
di Atene nell’opposizione comune a Filippo. Se per Filippo l’opzione ottimale era dunque quella di vedere allineate al suo fianco sia
Atene, in posizione dominante, sia Tebe; altri politici, favorevoli alla causa macedone come Eschine, perseguivano una politica di
più stretta intesa tra Atene e Filippo II, oltre che di scontro con Tebe e di eliminazione di questa dal gioco politico. Un’accorta analisi
della nuova guerra anfizionica (a rigore una quarta guerra sacra) che si accese in Grecia tra il 339 e il 338, e che condusse alla
battaglia di Cheronea tra Macedoni da un lato, e la lega delle leghe costituita da Demostene, dall’altro, mostra come Filippo fino
all’ultimo perseguisse il disegno politico di avere Atene legata al suo carro politico, alla sua posizione egemonica, già garantita dal
suo ingresso nell’Anfizionia delfica, senza arrivare a uno scontro cruento: in un certo senso la politica di Filippo II non aveva bisogno
della battaglia di Cheronea. Se nel gioco diplomatico, nella schermaglia che precede la guerra sacra, entrano in gioco i Locresi di
Anfissa, essi sono in qualche modo le vittime designate, sulla cui testa dovrebbe passare il progetto politico di Filippo II. Una volta
tanto la guerra sacra scoppia senza l’apporto diretto dei Focesi, che dal 346 sono fuori gioco. I Locresi di Anfissa muovo ad Atene
l’accusa di aver offerto scudi votivi nel santuario delfico non ancora riconsacrato dopo le violazioni focesi; Eschine di Atene replica
accusando i Locresi di aver coltivato terra sacra – da qui la necessità della guerra anfizionica. L’accusa di Eschine dovrebbe servire al
disegno di Filippo: quello di avere Atene dalla sua in una guerra sacra contro i Locresi di Anfissa. Quale sarebbe stato però
l’atteggiamento di Tebe? I rapporti tra Beoti e Locresi erano molto stretti, e quindi l’azione anfizionica contro i Locresi non doveva
trovare il consenso di Tebe: ma era quello invece che Filippo sperava, e che avrebbe nei suoi intenti determinato appunto
l’auspicata costellazione politica, quella cioè di un’Atene alleata di un Filippo riconosciuto egemone, che si trascinasse però dietro
anche nella guerra guerra sacra, obtorto collo, la riluttante Tebe. In ipotesi subordinata, Filippo sperava di avere con sé almeno
Atene, e Tebe contro. Il capolavoro politico di Demostene fu quello di rovesciare le aspettative di Filippo, allineando su una identica
posizione ostile Tebe e Atene. Il compito di Demostene non era facile verso la stessa cittadinanza ateniese, poiché i risentimenti
verso i Beoti erano molto forti. Poiché la propaganda filomacedone eschinea enfatizzava l’ostilità di Filippo per Tebe, Demostene
doveva da un lato premere sul pedale dell’ostilità popolare contro Tebe, mettendo sotto accusa il re macedone proprio per non
essere tanto antitebano quanto andava dichiarando (in modo sottile però, dato che Demostene pur aveva bisogno in futuro
dell’aiuto beotico); dall’altro, egli doveva augurarsi e fare in modo che Filippo non desse mai seguito del tutto ai conclamati
propositi antitebani su sollecitazione ateniese, perché appunto, in prospettiva, Tebe appariva un’alleata necessaria, e non soltanto
per ragioni di ordine strategico. L’associazione di Tebe alla politica e all’azione ateniese contro la Macedonia nell’autunno del 339 fu
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però solo il coronamento del lungo e intensissimo sforzo prodotto da Demostene nell’organizzare un campo di resistenza
all’azione, spesso blanda e diplomatica, ma talora più aggressiva e d’intervento, dispiegata da Filippo II. L’alleanza con Tebe fu il
capolavoro politico di Demostene, cui però non seguì il successo militare. Negli ultimi anni prima di Cheronea lo scontro fra Atene e
la Macedonia assume quindi i contorni di un conflitto personale di dimensioni titaniche fra Demostene e Filippo. Al principio del 340
Demostene era riuscito a stringere intorno ad Atene l’Eubea (con l’espulsione dei tiranni ivi insidiati con l’appoggio di Filippo),
inoltre Megara, Corinto, Corcira, l’Acaia e l’Acarnania. Filippo aveva insediato sul trono di Epiro il proprio cognato, ed era riuscito a
fronteggiare le crociate diplomatiche di Demostene nel Peloponneso, che avevano fruttato ad Atene alleanze con Argo, Megalopoli
e Messene (destinate però a rimanere infruttuose al momento della resa dei conti con Filippo, perché bilanciate da precedenti e
mai annullate alleanze delle medesime città col re macedone); egli poteva inoltre contare sul controllo di fatto della Tessaglia, sulla
sua autorevole presenza nell’Anfizionia, e sulla possibilità di azione politica da esercitare verso la debellata Focide, le due Locridi e
soprattutto la Beozia, ormai così violentemente e contraddittoriamente contesa fra i due grandi rivali. Per Filippo, nel 340, dopo i
fallimenti delle campagne di Perinto e Bisanzio, si era ormai creata una situazione di stallo: difficile avanzare nella zona degli Stretti;
difficile consolidare alleanze e possedimenti nel Peloponneso, nell’area del golfo Corinzio, in Eubea; lo strumento che ora egli
poteva attivare era l’Anfizionia e il ruolo da lui detenuto in quel sinedrio: e così fece, con quel gioco politico sottile e penetrante che
egli spinse fino alla dichiarazione della guerra sacra contro i Locresi di Anfissa (339/8). Filippo intervenne con la rapidità del fulmine:
raggiunse la Doride e quindi Elatea nella Focide; la notizia suscitò sgomento in Atene, che si riteneva in stato di guerra con Filippo:
correre ai ripari significava per gli Ateniesi in primo luogo frapporre tra sé e Filippo la resistenza di una Beozia alleata. Filippo cercava
però un’intesa politica con Tebe, facendo balenare concessioni, in cambio dell’alleanza militare contro Atene, o del permesso di
attraversare il territorio. A Tebe, Atene dovette cedere il comando generale delle operazioni di terra e metà del comando per mare,
mentre la città beotica avrebbe provveduto solo per un terzo alle spese di guerra. Mentre l’esercito ateniese si spostava in Beozia e
poi, con i Tebani, in Focide, un esercito mercenario al comando di Carete infliggeva due sconfitte al Macedone presso il Cefiso, non
lontano da Anfissa. Nella primavera del 338 Filippo si prese la rivincita, sconfiggendo duramente Carete, attaccò quindi Anfissa, che
si arrese e dovette abbattere le mura e mandare in esilio i responsabili. Ora, assolti i suoi doveri anfizionici, Filippo occupava Delfi, e
successivamente Naupatto sulla costa; quindi ritornava in Focide, costringendo i confederati nemici a ritirarsi in Beozia, a Cheronea.
Qui il 7 Metagheitnione del 338, ebbe luogo l’epocale battaglia: tra le alture di Cheronea e il Cefiso si disponevano gli alleati (a
destra i Beoti, al centro i Corinzi gli Achei ed altri, a sinistra gli Ateniesi al comando di Carete Lisicle e Stratocle). I Macedoni
attaccarono da sinistra la destra nemica: una decisione che da un lato riprendeva la „tattica obliqua‟ della battaglia di Leuttra,
dall’altro aveva forse anche il fine di togliere alla battaglia il significato di uno scontro frontale con Atene. Sulla sinistra, infatti, il figlio
di Filippo, Alessandro (diciottenne), attacca e sfonda, travolgendo il „battaglione sacro‟ tebano; sulla destra, il re dapprima
fronteggia gli Ateniesi e poi si ritira su “terreni più alti‟ presso il Cefiso, fino al momento che il centro dei nemici confederati si allarga
e scompone: a questo punto il contrattacco macedone produce l’accerchiamento degli Ateniesi. Della vittoria Filippo fece un
accortissimo uso politico. Tebe dovette accogliere una guarnigione macedone sulla Cadmea, consentire la rinascita di Platea e di
Orcomeno, richiamare gli esuli e condannare gli avversari di Filippo. Ad Atene invece ci si disponeva a un’ultima difesa da un attacco
militare (che Filippo però mostrò proprio in quella circostanza di non aver mai realmente progettato): furono chiamati alle armi i
cittadini di età fino a 60 anni, fu promessa la libertà agli schiavi e la cittadinanza agli stranieri, fu previsto il ritorno degli esuli. Ma
rapidamente il partito pacifista, con alla testa Focione ed Eschine, riprese in mano la situazione. Presto si arrivò all’accordo: Atene
doveva cedere alla Macedonia il Chersoneso tracico, ma otteneva in compenso Oropo (sempre contesa ai Tebani); ess scioglieva
inoltre la Lega navale, e aderiva alla Lega panellenica, che Filippo si accingeva a fondare; riotteneva i prigionieri di Cheronea senza
pagamento di riscatto: in cambio, Filippo s’impegnava a non varcare con l’esercito i confini dell’Attica. Nel momento della vittoria si
confermano tutti i caratteri fondamentali della politica estera di Filippo II e in particolare della stessa politica seguita verso Atene:
intransigente costruzione di un coerente dominio territoriale nel nord (in Macedonia e Tracia); buona disposizione verso Atene (che
equivale a un rigorosa valutazione del suo insostituibile ruolo politico e culturale), anche, e in particolare, nel confronto con Tebe (a
cui si assestano più volentieri colpi duri, anche se non ancora mortali, come farà Alessandro a distanza di pochi anni); tenace
volontà di non distruggere Atene, ma di aggregarla al proprio disegno panellenico: di inserirla nel gioco politico macedone, non di
farne la vittima designata. Al re fu eretta una statua nell’agorá di Atene, al figlio Alessandro, che riportava in città i resti dei caduti
ateniesi di Cheronea, fu concessa la cittadinanza. Nell’autunno del 338, Filippo in persona entrava con un esercito nel Peloponneso,
invadeva e devastava la Laconia, pur senza entrare in Sparta. Argivi, Arcadi, Messenii si schieravano ormai decisamente dalla parte
macedone; i confini della Laconia venivano rintoccati a vantaggio di Argo, della Messenia e dell‟Arcadia. Seguì il congresso di tutti „i
Greci a sud delle Termopile‟, cui rimase estranea Sparta. Fu dapprima proclamata una pace generale (koinè eiréne), e l’autonomia
di tutti gli stati greci: non vi dovevano essere mutamenti violenti né nei regimi né nei rapporti di proprietà. Si creò un consiglio
comune di tutti i Greci (koinòn synhédrion), con sede a Corinto, con voto “ponderato‟ attribuito ai partecipanti; in caso di guerra il
comando generale per terra e per mare sarebbe spettato a Filippo: tutto era ormai pronto sul versante greco per la grande impresa
contro la Persia. A Filippo fu dato di inviare soltanto un’avanguardia sul territorio asiatico come premessa della guerra contro la
Persia; l’assassinio del re, per mano del suo ex-favorito, Pausania, doveva porre quasi uno storico schermo tra l’opera del padre, il
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politico che alla fine era riuscito a legare la Grecia al suo carro, pur lasciando in vita tanta parte delle condizioni preesistenti, e quella
del figlio, il conquistatore di un immenso impero.
CAPITOLO X Alessandro il Grande e le origini dell’Ellenismo

PARAGRAFO I L’eredità di Filippo II


Tra l’estate del 336, data dell’assassinio di Filippo II, e l’autunno del 335, quando Alessandro Magno distrugge Tebe (che si era
ribellata alla Macedonia), mentre la stessa Atene era minacciata dagli eventi, il regno sembra stentare a ritrovare il livello di
potenza e di efficienza a cui Filippo lo aveva portato. Ma si trattava solo di fatti transitori: gli inizi di Alessandro furono faticosi.
Intorno ai primi mesi del 337 la symmachía greca, riunita a Corinto, aveva eletto Filippo II generale con pieni poteri per la guerra
contro i Persiani – la richiesta che motivava la guerra era che il re di Persia lasciasse libere le città greche d’Asia; la richiesta fu
ovviamente respinta dai Persiani. A quel punto, un’avanguardia di 10.000 uomini, al comando di Parmenione e del suo genero
Attalo, varcò l’Ellesponto nella primavera del 336, costituendo una testa di ponte in territorio asiatico. In Persia era asceso al
trono Dario III; di fronte all’iniziativa macedone la reazione del potere centrale persiano fu pressoché nulla, il che spiega come
l’avanguardia degli invasori potesse ivi tranquillamente sostare per un paio d’anni, prima di venire a colpo o di affrontare
reazioni dall’impero invaso. Una triste impressione di ripetitività accompagna la considerazione dei primi atti di Alessandro
Magno dopo la morte del padre (estate del 336): Alessandro eliminò il cugino Aminta IV, figlio di Perdicca III, e la stessa dura
sorte tocca ad altri personaggi della casa reale che avevano sostenuto i diritti di Aminta. Il modo drammatico del trapasso dei
poteri in Macedonia non poteva non suscitare nel mondo greco reazioni che sembravano mettere in forse i risultati storici della
battaglia di Cheronea. Da Ambracia, in Epiro, fu cacciata la guarnigione macedone; a Tebe, e soprattutto ad Atene, si registrava
un vivo fermento nazionalistico e antimacedone – la posizione di un Iperide e di un Demostene, che si poteva pensare
definitivamente compromessa dopo la storica sconfitta del 338, andava invece rapidamente riassestandosi. Alla notizia
dell’assassinio di Filippo, Demostene andò in consiglio col capo coronato e compì un sacrificio di ringraziamento agli dèi, pieno di
disprezzo per quello “stupido ragazzo” succeduto a Filippo sul trono di Macedonia – prova palmare dunque di quanto le vicende
drammatiche della Macedonia nel 336 sembravano ripetere agli occhi dei Greci, per la loro soddisfazione, uno scenario
tradizionale per molti passaggi di mano in quella dinastia, vanificando le posizioni acquisite da Filippo II. Ma subito doveva
risultare chiaro come Alessandro avesse ben presente il significato di ognuna delle tappe dell’itinerario politico di Filippo II verso
l’egemonia in Grecia e intendesse ribadirne la definitiva acquisizione, come suo erede a tutti gli effetti: in Tessaglia gli è
confermata, quasi posizione ereditaria, la tagía; alle Termopile egli ottiene il rinnovato riconoscimento di protettore del
santuario delfico; Tebe e Atene sono indotte a formali tributi d’ossequio; a Corinto si rinnova il trattato stipulato fra Greci e
Filippo, e Alessandro ne eredita la posizione di strategòs autokrátor. Tutti i punti del complesso disegno egemonico di Filippo
sono fermamente ribaditi. C’era tuttavia qualcosa di vero nella sensazione diffusa che la storia macedone ripercorresse vecchi
itinerari. Alessandro doveva ancora difendersi all’interno del contesto familiare e dinastico; lo fece con quella durezza
sanguinaria, che complessivamente lo distingue dal padre, più incline, pur nei limiti dei comportamenti dell’epoca, a soluzioni
politiche e diplomatiche di compromesso. Attalo, che era nemico di Alessandro e che aveva trescato con il partito ateniese
antimacedone, fu fatto uccidere a tradimento, e con la complicità del suocero di quello, Parmenione, il quale sembrava
anteporre ai sentimenti familiari ed umani la devozione alla dinastia; una delle spose di Filippo, Cleopatra, fu indotta al suicidio
da Olimpiade, e la sua prole assassinata.Campagna al nord contro i popoli minacciosi: partito da Anfipoli nella primavera del
335, affrontò i popoli dell’area tracica, danubiana, peonica e illirica. La lontananza del re macedone, il diffondersi della notizia
della sua morte in battaglia e della distruzione del suo esercito, unitamente all’opera di sobillazione antimacedone che
svolgevano in Grecia gli agenti del re persiano, determinarono un moto di rivolta in Grecia. Ad Atene furono assassinati i capi del
partito filomacedone; a Tebe veniva assediata nella rocca Cadmea la guarnigione macedone. Si ricostituiva l’alleanza di
Cheronea, e la reazione di Alessandro fu, sotto il profilo politico, simile (anche se più dura sotto ogni altro aspetto) a quella di
Filippo II: bisognava concentrare la reazione su Tebe, e dare ad Atene una risposta ferma, ma, per necessità storiche che non
sfuggivano neanche ad Alessandro, differente. In quattordici giorni il re, informato della rivolta tebana, raggiunse la capitale
beotica. A nulla valsero le linee di fortificazione costituite dai Tebani, che respinsero ogni invito alla resa da parte di Alessandro.
Cadmea e città furono prese dai Macedoni con un’azione decisa, che consegnò nelle loro mani la pólis ribelle, nell’ottobre del
335. C’erano stati circa 6000 morti negli scontri; un giudizio del tribunale federale diede sfogo a storici odi dei Greci contro la
città che aveva, qualche decennio prima, distrutto Platea e Orcomeno, da poco ricostruite: tutta la popolazione di Tebe fu
deportata in Macedonia o venduta in schiavitù. Ora sembrava dovesse toccare analoga sorte ad Atene. Qui si organizzarono, da
un lato, preparativi di difesa, dall’altro si provvide ad inviare ad Alessandro un’ambasceria guidata dal filomacedone Demade, la
cui posizione politica poteva tornare a questo punto utile alla città compromessa. Alessandro pose dapprima condizioni dure,
quale l’estradizione dei numerosi rifugiati Tebani e dei politici antimacedoni, fra cui Demostene, Iperide, Licurgo e altri ancora;
contro queste richieste si schierò quasi tutta la città, e uomini irriducibili, come Caridemo e Carete, preferirono andare in esilio.

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PARAGRAFO II Il confronto con la Persia fino alla battaglia del Granico (334)
La resistenza persiana veniva intanto organizzata dal greco Memnone di Rodi, nel comando delle truppe della fascia costiera; i
suoi sforzi riuscirono meglio nell’area meridionale (Caria) e fino ad Efeso; le regioni settentrionale dell’Anatolia apparvero subito
più permeabili all’azione dei Macedoni. Nella primavera del 334 Alessandro lasciava il governo della Macedonia ad Antipatro, e
varcava l’Ellesponto con circa 40.000 uomini: di questi, 32.000 erano fanti, tra Macedoni (12.000), alleati e mercenari greci,
armati alla leggera, Traci ed altri ancora; della cavalleria facevano parte 1800 hetaîroi macedoni, 1200 cavalieri tessali ed altri da
diverse regioni greche e balcaniche, posti al comando di Parmenione. La spedizione di Alessandro si caratterizzava nel suo
insieme come l’impresa di un grande stato continentale – la flotta di 160 navi, al comando del macedone Nicanore, era
costituita soprattutto da navi greche ed era certamente inferiore a quella persiana. Il sogno di Isocrate, di una impresa che
unificasse il mondo greco in una spedizione punitiva contro l’Asia, la rivale di sempre dalla guerra di Troia ai conflitti con i
Persiani, sembrava dunque avere una prima realizzazione. Fra i primi atti di Alessandro in terra asiatica vi furono la visita di Troia
e gli onori resi alla tomba di Achille. Da parte di Alessandro tutto ciò equivaleva a conferire un tratto personale in più a quel
riaffiorare di livelli culturale „omerici‟ nella storia del mondo greco, che aveva connotato l’ascesa di uno stato come la
Macedonia. Era il risultato dell’intreccio tra obiettive caratteristiche della società macedone e le scelte soggettive, culturali, del
giovane Alessandro, a cui non era estranea l’influenza di Aristotele, di Callistene e della stessa tradizione di pensiero isocratea. I
satrapi di Lidia, Frigia e Cappadocia con un concitato sforzo raccolsero le truppe disponibili e affrontarono Alessandro presso il
fiume Granico (Mar di Marmara). Lo scontro fu deciso dal valore delle cavallerie macedone e tessalica; molti i morti persiani, fra
di essi gli stessi satrapi di Lidia e Cappadocia; poche le perdite macedoni (maggio-giugno 334). Quanto a volontà e capacità di
resistenza persiana all’invasore, si constata una facile avanzata di Alessandro nella Ionia, fino ad Efeso – solo Mileto oppose una
qualche resistenza. Più Alessandro si spingeva a sud però, più doveva piegare la resistenza dei Persiani e del loro comandante
rodio.

PARAGRAFO III Alessandro, i Greci, l’Asia fino alla battaglia di Isso (333)
Una scelta politica obbligata, per quanto riguarda i regimi interni, fu quella di restaurare la democrazia a Efeso e altrove, visto
che le oligarchie locali erano quelle tradizionalmente più legate al Persiano, che del resto, ancora dopo il Granico, era presente e
capace di resistenza nella parte occidentale dell’Anatolia. Alessandro prendeva, nell’autunno del 334, la decisione di rinviare a
casa la più gran parte della già modesta flotta, decisione nient’affatto sorprendente per chi capisce il senso della conquista
macedone dell’Asia: vittoria di uno stato continentale su uno stato continentale. Nell’avanzata verso sud egli doveva affrontare
la resistenza di Alicarnasso, che cinse d’assedio e di cui riuscì a conquistare la città bassa, dopo qualche tentativo andato a vuoto
e il ritiro nottetempo del rodio Memnone, che trasferì le sue forze nell’antistante isola di Cos. Dopodiché Alessandro avanza
ancora in Licia e Panfilia e poi nel cuore della Frigia fino a Gordio. Ivi, realizzando un’antica profezia, tagliò di netto il nodo che
legava un giogo a un carro, il cui scioglimento, realizzato dal macedone con drastica decisione, doveva, in virtù della profezia,
assicurargli il dominio dell’Asia. Dunque già ora, circa l’inizio del 333, Alessandro comincia a mandare segnali e cercare conferme
del suo disegno di conquista dell’Asia, sia nel senso di una conquista in assoluto, sia nel senso dell’acquisizione di un’eredità
storica (e già questo è qualcosa di diverso dall’idea iniziale, quella del „vendicatore della grecità‟ sull’Asia). Dall’Anatolia centrale
Alessandro raggiunge la Cilicia, dove è colto da una grave infermità, riprendendo poi però la sua attività, sottomettendo Soli e
Mallo. Intanto da Babilonia Dario III si sposta nella Siria settentrionale, cioè in direzione delle basi avversarie. La battaglia di Isso
dell’autunno del 333 si articola in due fasi: 1) Dapprima Alessandro, attraversati i passi tra Cilicia e Siria, prende posizione presso
Miriandro, in faccia al re persiano, che nel frattempo era giunto nella piana di Sochoi. A questa prima fase di irresoluto
fronteggiamento, segue 2) il tentativo di aggiramento del macedone da parte di Dario: attraversato i passi montuosi, il persiano
punta a chiudere alle spalle l’esercito nemico, attestandosi a nord di esso, nella piana di Isso. Questa volta ad Alessandro, che
rischiava di cadere in una trappola senza scampo, non restava che prendere l’iniziativa dell’attacco: nella piccola piana di Isso
l’ala destra dello schieramento macedone (cavalleria e fanteria, personalmente guidate dal re) travolse l’ala sinistra e il centro
dello schieramento persiano, risolvendo al tempo stesso a proprio vantaggio la situazione di difficoltà in cui era venuta a
trovarsi, sulla sua sinistra, la cavalleria tessalica e peloponnesiaca al comando di Parmenione. A questo punto lo schieramento
persiano crollò. Dario fuggiva con parte dei suoi uomini verso l’interno e oltre l’Eufrate; una parte si salvò in Fenicia e quindi a
Cipro; nelle mani del vincitore restavano l’accampamento del re, con la madre Sisigambi, la moglie Statira e i figli. La notizia
dell’inattesa vittoria di Alessandro placò momentaneamente i fermenti ostili dell’opinione pubblica greca: alle feste Istmie del
332 i rappresentanti della Lega di Corinto decretarono per il re una corona d’oro. Nell’Egeo intanto (332) i Persiani perdevano
una posizione dopo l’altra; gli equipaggi fenici e ciprioti disertavano la flotta per raggiungere le regioni di provenienza; navi
macedoni liberavano, a cominciare dal nord, Tenedo, Chio, Lesbo, la Caria, mentre Rodi era già passata spontaneamente dalla

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parte di Alessandro. Gli oligarchi di Chio e i tiranni di Lesbo saranno puniti, rispettivamente, con la deportazione in Egitto e con
esecuzioni capitali.

PARAGRAFO IV Alessandro in Fenicia e in Egitto; la battaglia di Gaugamela (332/1)


Alessandro procedeva intanto dalla Siria in Fenicia, dove conquistava in successione le principali città. Mentre procedeva a
quest’impresa, egli ricevette richieste di pace da Dario, con l’offerta dell’Asia „di qua dall’Eufrate‟ e di un risarcimento di 10.000
talenti, nonché la mano di una delle figlie del re sconfitto. Alessandro ha sin dall’inizio respinto un compromesso, che avrebbe
reso precari gli effetti di una vittoria che egli, con le azioni dopo Isso, mostrava in tutti i modi di voler rendere piena e definitiva.
A questo programma si ispira la strategia di conquista preliminare di tutte le regioni costiere, seguita da Alessandro dopo la
vittoria in Siria: si trattava di tagliare la Persia fuori dal Mediterraneo, per trasformare definitivamente il conflitto in una guerra di
conquista continentale, a cui il macedone si sentiva adeguato. Alessandro rinunciò quindi ad inseguire Dario (che intanto si era
ritirato nel cuore della pianura assira), e s’impegnò nella conquista della Fenicia e dell’Egitto. In Fenicia Alessandro s’imbatté in
una fortissima resistenza da parte di Tiro, protetta dalla sua posizione insulare – furono spesi ben sette mesi nella conquista di
questa città, il che le costò ovviamente una dura vendetta da parte di Alessandro (strage di 8.000 abitanti, vendita in schiavitù di
altri 30.000). Sulla via dell’Egitto Alessandro non ebbe altri ostacoli oltre Gaza, che occupata da una guarnigione persiana resisté
per due mesi. La campagna di Alessandro in Egitto (inverno 332/1) era favorita dal fatto che l’elemento indigeno aveva fresco il
ricordo del periodo dell’indipendenza dai Persiani, conservata fino ad appena dodici anni prima. Naturale dunque che
Alessandro fosse accolto come un liberatore, e trovasse anche il modo di visitare l’oasi di Siwah, ove sorgeva il santuario
oracolare di Zeus Ammone – ivi i sacerdoti proclamarono Alessandro figlio di Ammone, in quanto signore dell’Egitto; ma dal
canto suo egli poteva trovarvi la conferma di quel che la stessa madre Olimpiade aveva detto di lui: che fosse figlio di Zeus, e non
di Filippo II. E sempre in Egitto, entrato ormai per la prima volta a tutti gli effetti nel ruolo di signore riconosciuto di un paese
straniero, Alessandro poteva dare vita a una fondazione cittadina, sorta col suo nome (Alessandria), presso il delta del Nilo.
Dopo la fondazione di Alessandria il re ripartì dall’Egitto, raggiunse la Fenicia e poi la Mesopotamia, attraversando l’Eufrate e
successivamente anche il Tigri. Addentratosi per qualche giorno in territorio nemico, prese infine contatto con l’esercito di Dario
presso il villaggio di Gaugamela, nella regione di Arbela. La battaglia di Gaugamela (1° ottobre 331) presenta alcune peculiarità
tattiche, come la creazione di una seconda linea per un intervento di emergenza, che gli occorse di fare; per altri aspetti però
essa replica il consueto cliché: attacco di cavalleria e fanteria dalla destra e, dopo una fase di difficoltà e l‟intervento della linea di
riserva, vittoria sulla sinistra del nemico. Difficoltà invece vi furono per l’ala sinistra dello schieramento macedone, comandata
da Parmenione, a cui solo con ritardo l’ala destra, con Alessandro vincente, poté portare aiuto, quando comunque Parmenione
aveva ribaltato la situazione. Lo scontro si chiude con la fuga del re sconfitto, e un vano inseguimento da parte del re vittorioso,
Alessandro, che però viene in possesso dei magazzini e del tesoro del nemico ad Arbela, e di decine di migliaia di prigionieri. La
conquista di Babilonia (una “liberazione‟ per la popolazione indigena), di Susa, con il suo tesoro di 50.000 talenti, e di Persepoli,
con i suoi 120.000, furono le tappe successive.

PARAGRAFO V Il grande inseguimento


Nell’inverno 331/0 Alessandro sostò in Perside, dove aveva dato alle fiamme il palazzo di Persepoli; in primavera (330) mosse
ancora verso l’interno. Dopo Gaugamela la sua avanzata ha ormai le motivazioni, ma anche la velocità e il tratto romanzesco di
un lungo inseguimento, in cui il fuggiasco stesso sembra fatalmente segnare ed aprire la strada all’avanzata e alla conquista
dell’inseguitore. Dario fugge in Media e poi nelle estreme regioni orientali, in Battriana (Afghanistan); Alessandro lo incalza in
Media, raggiungendo Ecbatanam dove lascia Parmenione, e continua nella sua avventurosa marcia attraverso regioni impervie,
dietro un nemico che sembra solo confessare la propria debolezza e la strepitosa grandezza di Alessandro, fuggendo, su un
territorio così vasto, come un uomo braccato e senza scampo. La storia, in questi vasti spazi, riempiti dalla fuga dello sconfitto e
dall’implacabile caccia che gli dà il vincitore, sembra ridursi a un tragico duello, a un dramma e a un’epopea individuali. Mentre
Parmenione resta a Ecbatana (in Media) con metà dell’esercito, con Traci e mercenari, Alessandro continua l’inseguimento con
la cavalleria e pochi fanti. Nel frattempo Dario è deposto dai suoi stessi generali, e il comando è assunto da Besso, satrapo di
Battriana, appartenente alla casa degli Achemenidi. E ormai l’inseguimento di Alessandro, che è informato degli ultimi sviluppi,
non ha più come scopo la cattura di un rivale, ma di una persona la cui sopravvivenza sta invece a cuore all’inseguitore: il più
spietato nemico di Dario a questo punto è diventato proprio Besso, che lo uccide per non lasciarlo vivo nelle mani di Alessandro
(luglio del 330), riuscendo poi a rifugiarsi nella sua satrapia di Battriana, dove si proclama finalmente re col nome di Artaserse.
Ormai i ruoli tra il macedone e il satrapo di Battriana sono completamente rovesciati, nel rapporto con il potere monarchico
persiano. Alessandro s’impadronisce della salma di Dario e la trasferisce in Perside, per una solenne sepoltura nella necropoli
regale di Persepoli. Tutto, negli atti di Alessandro, è inteso a presentarlo come il legittimo successore di Dario III, e questo ha una
serie di conseguenze: 1) l’obbligo morale di continuare nell’inseguimento di Besso, che di fronte ad Alessandro, come già di
fronte a Dario, è ormai scaduto al ruolo di usurpatore; 2) la spinta a completare la conquista delle regioni orientali dell’impero
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persiano, fino ai suoi confini storici e naturali; 3) la forte ideologizzazione dell’ulteriore conquista di Alessandro, le cui iniziative e i
cui gesti si caricano ormai tutti di densi valori simbolici; 4) il progressivo entrare del re macedone nel ruolo e nei panni del re
persiano, di cui egli è legittimo successore; 5) il formarsi di una opposizione macedone (e poi greco-macedone) ad Alessandro,
nel suo stesso entourage, il prodursi cioè di congiure, o quanto meno il costituirsi di una humus ad esse propizia e perciò di un
clima di sospetto nella cerchia di Alessandro, a cui risponde la vendicativa ira del re. Una dopo l’altra vengono a tiro, in questa
velocissima avanzata di inseguimento e di punizione, le diverse regioni a sud del Caspio e nell’area centro- e sud-orientale
dell’Iran. Spesso i satrapi del distrutto regno persiano facevano atto di sottomissione; quelli che vi si rifiutavano cercavano
scampo e sostegno nella Battriana di Besso o nell’India dell’Indo: comunque, la Battriana di Besso si rivelava come il vero fulcro
della resistenza. Alessandro svernò ai piedi del Paropamiso, tra la fine del 330 e la primavera del 329, quando, attraversati i passi
dell’imponente catena montuosa e sceso nell’altopiano battriano, poté proseguire il suo tenace inseguimento: occupò Battra
abbandonata da Besso, e inseguì la sua preda fin oltre il fiume Oxos. L’usurpatore fu consegnato a Tolemeo dai suoi stessi
generali e, trasferito a Battra e poi ad Ecbatana, fu giustiziato. Alessandro aveva agito e vinto anche come tutore dei legittimi
diritti della dinastia achemenide.

PARAGRAFO VI Congiure e repressione


Nel 330 si era comunque svolta, nell’entourage del re, una prima tragedia: uno dei figli di Parmenione, Filota, comandante della
cavalleria pesante macedone, avendo omesso di denunciare al re una congiura organizzata dagli ufficiali dell’esercito (irritati per
l’introduzione del cerimoniale di corte persiano), viene accusato di alto tradimento, condannato a morte e giustiziato, mentre il
fratello Nicanore, capo della guardia speciale, moriva per gli strapazzi affrontati nell’inseguimento di Dario. La posizione di
Parmenione, che deteneva il comando di metà dell’esercito in sosta ad Ecbatana, risultava così parecchio indebolita, ma la
stessa eliminazione violenta di Filota raccomandava di per sé ad Alessandro di prevenire qualunque reazione del padre. Alcuni
ufficiali di Parmenione ricevettero dal re l’ordine di eliminare proditoriamente il loro comandante: il fedele e valorosissimo
Parmenione veniva così trucidato per allontanare la paura che Alessandro riteneva di doverne ormai avere. Tra il 328 e la
primavera del 327 Alessandro fronteggiò la rivolta di Spitamene e degli abitanti della valle dell’Oxos. I Macedoni subirono
scacchi a Maracanda e nella stessa Battra; finalmente Spitamene fu vinto e ucciso: il confine del regno di Alessandro coincideva
ormai con quello del regno persiano, cioè col fiume Iaxartes. Nello stesso periodo altri due drammi si erano svolti nella cerchia di
Alessandro: a Maracanda, nel 328/7, durante una lite, che aveva a motivo l’esaltazione incautamente fatta da Clito di Filippo II,
come di un modello di comportamento autenticamente macedone in confronto ad Alessandro, il re, nei fumi dell’alcol, ma
anche nel trasporto di un’ira che aveva motivazioni ben più che personali, trafisse con una lancia e uccise il suo troppo loquace
amico. E quando Alessandro volle imporre a tutti, non solo asiatici, ma anche macedoni e greci, il bacio con la mano,
accompagnato da genuflessione davanti all’ossequiato (proskýnesis), la risposta fu la congiura dei “paggi‟, cioè dei giovani nobili
macedoni destinati al servizio personale del re, alla quale non fu estranea l’aspra opposizione di Callistene di Olinto, nipote di
Aristotele e storico ufficiale della spedizione. Il capo della congiura era Ermolao, discepolo e amico di Callistene; la responsabilità
morale dell’intellettuale greco era agli occhi del re inequivocabile, e ne seguì la condanna a morte (327).

PARAGRAFO VII La costruzione del confine: la campagna d’India e la spedizione nel Golfo Persico(327-325)
Raggiunti ormai i confini (o meglio una parte del confine complessivo) del caduto regno di Persia, Alessandro poteva in teoria
pensare alla conquista dell’India. A questo proposito si apre un problema riguardo alle autentiche finalità e intenzioni di
Alessandro al momento della campagna indiana (estate 327 – estate 325), sulla quale gravano a avviso del Musti molti equivoci.
Secondo lui ci si lascia spesso suggestionare dalle tradizioni antiche che parlano dell’impulso di Alessandro verso una marcia
senza sosta e senza confini, volta alla conquista di sempre nuovi mondi, di un Alessandro, dunque, di irrazionalità e sogno.
Secondo il Musti però, considerando più attentamente sia l’esito e la consistenza storica della campagna indiana di Alessandro,
sia le parti dello stesso racconto degli storici antichi riguardanti gli atti concreti di Alessandro e la loro effettiva concatenazione e
motivazione, si deve convenire che, sul terreno dei fatti, la spedizione indiana di Alessandro abbia molto meno di romanzesco e
irrazionale di quanto si immagina e si costruisce sulla base di scarse indicazioni degli scrittori antichi. Alessandro sembra aver
mirato, secondo il Musti, a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’impero persiano, cioè del fiume Indo,
compresi ovviamente i poteri dei dintorni, il cui completo controllo era la condizione perché si potesse esercitare un controllo
effettivo del fiume stesso. Questo è dunque il terreno dei comportamenti reali, tutti riconducibili a un disegno di ricostruzione e
consolidamento di un confine, che si muove sul piano della razionalità. Altro è il terreno delle aspirazioni, delle intenzioni, dei
vagheggiamenti e dei sogni: essi appartengono ad una sfera individuale e psicologica, certo esistente ma per noi del tutto
irrecuperabile, o che comunque non incise profondamente nelle azioni concrete di Alessandro. Qualcosa di analogo si può
affermare per l’imitazione di Eracle e di Dioniso, che certamente orientò e guidò il re, e che doveva condurlo almeno alla
Battriana (non necessariamente anche all’India); ma essa operò solo come impulso ulteriore, che andò solo ad aggiungersi a
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motivazioni di altro tipo (militare, politico, e così via di seguito). Superato nuovamente il Paropamiso nell’estate del 327, e
assoggettati gli abitanti della valle del fiume Kabul, Alessandro attraversò l’Indo nella primavera del 326. La sua politica era volta,
come si è detto, a un’opera di consolidamento del confine fluviale, con tutte le varianti politiche che un’opera siffatta potrebbe
comportare. Tra l’Indo e l’Idaspe Alessandro conta sull’alleanza del re Taxila, che egli aiuta contro il vicino re Poro, che viene
sconfitto e fatto prigioniero, ma resta come principe vassallo del suo proprio dominio. Con i regni a est dell’Indo, dunque,
Alessandro procede nella politica di creazione di una barriera di stati vassalli: la politica del macedone si rivela, dunque, fin
dall’inizio della spedizione indiana razionalisticamente orientata a considerare l’Indo come un confine estremo, da non valicare
per nuove avventure. Le colonie militari di Nicea e di Bucefala servono allo stesso scopo. Altri popoli e città, realtà politiche assai
più disperse e difficili da controllare che non quelle affidate all’intermediazione di sovrani amici e vassalli, venivano assoggettati,
ma si tratta di popoli e città della regione più esterna del dominio macedone, tra l’Idaspe e l’Ifasi. Superare l’Ifasi in direzione del
Gange sarebbe stato veramente l’atto che avrebbe rotto con lo schema della “politica dell’Indo‟, e significato la presenza di una
spinta indifferenziata alla conquista, da protrarre fin dove possibile. Ma il malumore dell’esercito e l’esito dei diabatéria (sacrifici
per la traversata), naturalmente negativo, determinano un’inversione della rotta di marcia, non senza che sulla riva dell’Ifasi
fossero eretti dodici altari, alti come torri di città, simbolo sacrale e monumentale di un confine fluviale consolidato. Dopo la
consacrazione dell’Ifasi a soglia ultima dell’impero (in quanto gravitante nel sistema fluviale dell’Indo), comincia la marcia di
rientro, segnata da altrettante tappe, volte a garantire la sicurezza dell’Indo stesso come confine. L’esercito si ritira all’Idaspe,
dove viene completata la costruzione di una flotta; due parti dell’esercito marciano sulle rive, una parte si imbarca, seguendo
l’Idaspe fino alla confluenza con l’Indo, con un’opera che è di vera verifica e consolidamento del confine medesimo. In generale
le popolazioni della regione si assoggettano, ma alla presenza di una organizzazione politica di tipo cittadino corrisponde anche
una maggiore resistenza, o addirittura aggressività, da parte indiana, come è il caso dei Malli: nell’assalto di una loro città (fine
326 o inizio 325) Alessandro, spintosi con incauto eroismo troppo avanti ai suoi e perciò scopertosi al nemico, viene ferito
gravemente al torace e subisce lesioni polmonari (che potrebbero essere state una delle cause remote della precoce morte di
Alessandro nel 323). L’importanza strategica della confluenza con l’Indo è sottolineata dalla fondazione di molte colonie, fra cui
un’altra Alessandria, e dalla creazione di un porto a Pattala. Due macedoni e un indiano erano incaricati del governo delle tre
satrapie create da Alessandro nel territorio a est dell’Indo. Anche l’operazione di rientro, terrestre e navale, presenta due piani
diversi di lettura, entrambi realmente esistenti, e dei quali nessuno va sacrificato all’altro: da un lato, c’è il dichiarato intento di
verificare la sicurezza dell’Indo dalla parte della foce, dall’altro certamente anche il desiderio di conoscere nuove realtà
geografiche o di definire vecchi problemi (come quello del rapporto, che ormai si rivelava insussistente, dell’Indo col Nilo), ma
questo desiderio naturalmente non esclude affatto l’intento della sicurezza militare e quindi politica. Al cretese Nearco viene
affidato il comando della flotta che dalla foce dell’Indo deve prendere il mare, attraverso l’Oceano Indiano sino alla foce del Tigri;
l’esercito invece viene diviso tra Cratero e Alessandro stesso, per due itinerari diversi di rientro: le fatiche e le perdite umane
delle traversate terrestri furono notevolissime. In Carmania ci fu il ricongiungimento delle tre forze, che anche per queste vie
avevano esplorato e consolidato le regioni di confine dell’impero.

PARAGRAFO VIII Un anno di grandi scelte (324)


Il re giungeva a Susa nella primavera del 324, un anno in cui Alessandro dovette confrontarsi con problemi di carattere
organizzativo del regno, che erano ormai cresciuti all’altezza di grandi temi politici: quelli del rapporto tra Greco-Macedoni e
Persiani, che potevano avere una risposta nei termini della cogestione, fusione o assimilazione, o invece della netta separazione.
Il sistema organizzativo delle satrapie persiane era per Alessandro un dato storico da conservare, adattandolo alla nuova
situazione solo sul piano dell’attribuzione dei posti di comando. In Anatolia e Siria il potere, sia militare sia civile, fu
semplicemente assegnato a un ufficiale macedone (solo in Caria l’amministrazione civile fu affidata alla sorella di Maussollo,
mentre a Tolomeo fu attribuito il potere militare; soluzione analoga riguardò l’Egitto). Diversamente si dispose per
l’amministrazione finanziaria, che fu organizzata non secondo satrapie, ma secondo distretti che ne comprendevano più d’una.
Nelle province che avevano costituito il nucleo dell’impero persiano fin dai tempi di Ciro il Grande, cioè in Mesopotamia e Iran,
la politica di Alessandro fu, dopo Gaugamela (331), fondamentalmente diversa. Da quella data il macedone opera come erede
legittimo del trono achemenide e adotta, perciò, la politica dell’affidamento a satrapi persiani dell’amministrazione civile delle
regioni conquistate. Questa politica organizzativa non dette sempre i risultati sperati di “collaborazione‟ delle regioni
assoggettate; d’altra parte, Alessandro affidava comunque la difesa di alcuni punti forti a contingenti macedoni. Accanto a
questa organizzazione territoriale, e spesso al suo interno, esisteva un gran numero di città greche, per le quali la scelta del
regime democratico, in luogo di quello oligarchico, era in parte imposta dall’atteggiamento filopersiano dei gruppi oligarchici,
ma in parte era il riflesso di un’esperienza della cultura politica greca che il re macedone portava con sé, e che si lascia scorgere
anche nelle gradazioni e nei „distinguo‟ verificabili all’interno della politica verso i Greci come praticata da Filippo II e dallo stesso
Alessandro. Negli anni del grande inseguimento e della spedizione indiana (331-325) si era andata accumulando una gran
quantità di problemi e di pericoli per l’unità e solidità organizzativa del nuovo impero: ne erano prove significative le ribellioni
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degli stessi Greci in regioni periferiche, che esibiscono cronicamente la loro nativa vocazione separatista, le ribellioni dei
mercenari, le rivolte di satrapi persiani (via via sostituiti da Alessandro con ufficiali macedoni). Il caso più clamoroso di defezione
dal nuovo ordine istituito dal macedone fu quello del „tesoriere generale‟, l’ateniese Arpalo. Già una volta Arpalo si era reso
colpevole di malversazione poco prima della battaglia di Isso (333) e aveva cercato rifugio in Grecia; ma una seconda, più
clamorosa fuga, che diede luogo a un vero complicato „affare‟ di corruzione, connivenze, intrighi politici, processi, condanne,
fughe e finali tragici, fu quella con cui Arpalo si salvò dalla rappresaglia del re (324), dopo il ritorno di questo dall‟India. Con 5000
talenti e 6000 mercenari, Arpalo giunse ad Atene; l’esercito non vi fu accolto, ma le porte della città furono aperte al tesoriere e
finanziere infedele. Alla richiesta di estradizione presentata da parte macedone, gli Ateniesi arrestarono Arpalo e gli
sequestrarono 700 talenti, di cui, alla verifica da parte delle autorità, eseguita qualche tempo dopo, risultarono mancanti 350.
Tra gli altri, fu accusato di averne ricevuti 20 Demostene; condannato al risarcimento di una ingente somma (50 talenti), riuscì a
sottrarsi alla prigione, cui lo condannava l’insolvenza, con una fuga che fu favorita dai suoi stessi carcerieri, e che lo portò a
rifugiarsi ad Egina, e poi a Trezene nel Peloponneso. Arpalo intanto, fuggito da Atene e recuperati i suoi mercenari in Laconia, si
trasferiva a Creta, che in questo periodo appare come una terra di nessuno, del tutto aperta alle imprese degli avventurieri; ma
a Creta egli trovò la morte per mano di uno dei suoi stessi ufficiali. L’anno 324 segna dunque per Alessandro, dopo il lungo
periodo di movimento e di conquista, quello dell’esplosione dei vari problemi organizzativi, l’anno in cui si mette in luce il nodo
che tutti li lega, cioè il problema dei rapporti fra le diverse nazionalità. Una risposta programmatica e simbolica è quella data dal
re con le nozze in massa, celebrate a Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, nella primavera di quell’anno. Già sposato alla
battriana Rossane, Alessandro ora prendeva come mogli Statira, una figlia di Dario, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco; Efestione
sposò Drypetis, un’altra figlia di Dario; 80 ufficiali si unirono ad altrettante nobili persiane; fu anche l’occasione per una
premiazione ufficiale dei numerosi soldati macedoni che avevano sposato donne iraniche. Queste celebrazioni non furono
accolte di buon grado dai Macedoni; ma ancora più gravi sembrano essere state le conseguenze della riforma dell’esercito,
portata avanti da Alessandro all’insegna di una “politica di fusione‟, che dovette presto cedere il passo alla creazione di
„strutture parallele‟, che ribadivano nel fondo il principio dell’apartheid. Alla fine delle conquiste, l’entità dell’esercito di
Alessandro doveva aggirarsi sui 100.000 effettivi: era cioè più che raddoppiata, e con forte dispendio di mezzi, rispetto alla
partenza. Ora il re, per rispondere nella maniera al tempo stesso più politica e più economica alle esigenze di rafforzamento del
dispositivo militare, istituì un corpo di 30.000 giovani persiani (epígonoi), educati e addestrati alla macedone; ma elementi iranici
furono inseriti anche nella falange macedone e nella stessa guardia del corpo. Soprattutto egli costituì una serie di corpi persiani
“paralleli‟, in cui non si verificavano commistioni iranico-macedoni. A Opi, sul Tigri, il re affrontò, e assai male, il problema dei
veterani desiderosi, dopo dieci anni di ininterrotte campagne, di tornare in patria: egli propose dapprima di dimettere gli invalidi,
il che era congedo umiliante per chi veniva rimandato in patria e non soddisfacente per chi era trattenuto. L’esercito si
ammutinò, invitando il re a ricorrere ormai ai servigi dei suoi “cari Persiani”. Alessandro venne a capo della rivolta, sia facendo
valere di fronte ai soldati i meriti storici della dinastia, in particolare del padre Filippo e di lui stesso nello sviluppo civile del
popolo e del paese, sia congedando, contemporaneamente, tutti i veterani (ma fece giustiziare anche, con dura
determinazione, i capi della rivolta). I veterani, in numero di 10.000, premiati ciascuno con un talento, che l’accaparramento dei
tesori persiani consentiva di pagar loro, si misero in viaggio per la Macedonia sotto il comando di Cratero. La morte di
Alessandro avverrà durante la loro marcia di trasferimento e, al loro arrivo in Europa, i veterani saranno in gran parte usati per
reprimere quella rivolta di molti Greci, che va sotto il nome di “guerra di Làmia‟. Cratero veniva anche investito della funzione di
„stratego d’Europa‟, cioè della successione di Antipatro che, nei dieci anni di assenza del re dal suo paese, era divenuto agli
occhi di questo troppo potente, e soprattutto era venuto a duro conflitto con la madre di Alessandro, Olimpiade. Antipatro,
secondo le disposizioni di lessandro, doveva semplicemente dare le consegne a Cratero e portare nuovi soldati in Asia al posto di
quelli rientrati. Anche per altri aspetti il 324 si rivela come anno di grandi svolte, tutte forse riconducibili alla figura di „re
universale‟, cui Alessandro sembra ormai voler dare corpo: richiesta degli onori divini rivolta ai Greco, o almeno segnalazione
della sua aspirazione a riceverne da parte loro – in Ionia, in Arcadia, nella stessa Atene furono tributati onori divini ad Alessandro
(altrove la consacrazione di un sacro bosco o di un tempio, ad Atene l‟inclusione di Alessandro come nuovo Dioniso fra gli dèi
cittadini). Anche la decisione di far rientrare nelle città di appartenenza tutti gli esuli politici greci, annunciata di fronte
all’assemblea dei soldati di Alessandro, e poi semplicemente comunicata dall’inviato del re, Nicanore di Stagira, ai Greci riuniti a
Olimpia per la celebrazione delle feste dell’estate del 324 („decreto di Nicanore‟) rispondeva da un lato a una scelta politica di
pacificazione del mondo greco, dall’altro alla concezione di una monarchia universale che irradia i suoi benefici sull‟umanità
intera. Ancora nello spirito di quegli atti simbolici, di cui ormai è sempre più pieno il comportamento di Alessandro, è da leggere
la decisione del re di passare la stagione calda del 324 nella capitale d’estate degli Acheminidi, la meda Ecbatana. E qui morì
Efestione, per le sregolatezze del bere, che egli aveva trasferito incautamente in Asia dal più idoneo clima di Macedonia; a lui
furono tributati onori divini, ormai all’insegna del culto dello stesso Alessandro quale divinità fra gli uomini.

PARAGRAFO IX L’impero “universale”


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Da Ecbatana il re si trasferì nell’inverno 324/3 a Babilonia, dove l’attendevano ambascerie provenienti da stati greci e dalla stessa
Italia. Alessandro, secondo una discussa tradizione, si accingeva alla conquista dell’Occidente. Ma la concezione della monarchia
universale in Oriente non era mai andata, storicamente, oltre la costituzione reale di un grande dominio e la proclamazione, di
principio e solo potenziale, del dominio sugli altri popoli (il primo vero dominio universale nella storia mediterranea resta quello
di Roma, come ben comprese Polibio). Gli atti compiuti nel 323 da Alessandro (allestimento di una spedizione terrestre e navale
di conquista dell’Arabia, tra Indo e golfo Persico, da un lato, ed Egitto, dall’altro) non vanno al di là di quel razionale progetto di
consolidamento e perfezionamento del confine (in questo caso un confine interno, data la posizione dell’Arabia), che abbiamo
visto all’opera nella campagna dell’Indo, qualunque fosse la portata dei sogni o delle remote intenzioni. Da buon greco,
Alessandro non rinunciò mai, per quanti ideali e idealità gli si possano attribuire, a tener ben fermi i piedi sul terreno della realtà.
Quando già tutto era pronto per la spedizione arabica, il re cadde malato: una febbre, probabilmente dovuta a un male che
Alessandro si portava da anni, lo consumò in appena dodici giorni. La conservazione di tracce delle efemeridi reali (il “diario”, la
cronaca ufficiale delle giornate del re), nella storiografia su Alessandro, consente di aver nozione dell’avvicinarsi giorno per
giorno della morte, che giunse il 13 giugno del 323.

PARAGRAFO X La successione
Si apriva un problema di successione gravissimo per vari e concorrenti motivi: l’età ancora giovane del re, la vastità e complessità
dell’impero conquistato, la confusa situazione familiare ed ereditaria, la difficoltà di istituire, sul piano politico, in sostituzione del
vertice monarchico improvvisamente venuto meno, una rigorosa gerarchia tra le funzioni diverse che lo stesso Alessandro aveva
creato intorno a sé, più per distribuire ed equilibrare poteri e funzioni che non per designare (condizione sentita sempre come
troppo pericolosa) un vero delfino. Alessandro non aveva figli legittimi al momento della morte: Eracle, figlio di Barsine, era un
illegittimo, in quanto nato da una concubina; e tuttavia un figlio legittimo stava per nascere da Rossane (e nascerà qualche mese
dopo la morte del re). Aumentando ulteriormente la tensione e confusione vi era l’avversione dei soldati della fanteria macedone
nei confronti del figlio nascituro della barbara, che favorivano invece la scelta legittimista in favore di Filippo Arideo, il figlio
mentalmente minorato di Filippo II. I generali macedoni erano invece più favorevoli ad attendere il parto di Rossane, anche perché
quest’attesa, nonché la necessità di mettere il neonato sotto tutela, poteva tornare a loro vantaggio, come poi fu. Qual era il
rapporto gerarchico però tra la carica di rappresentante del regno, attribuito a Cratero, in marcia per la Macedonia con i veterani, e
quella che da tempo deteneva il vecchio Antipatro, ormai reggente da dieci anni nella sede del regno macedone? A questi
interrogativi presto se ne aggiungerà un altro, più concreto e drammatico: queste cariche centrali erano da intendere come
sovraordinate ai poteri regionali delle diverse satrapie dell’impero, attribuite ai diversi generali; oppure quelle cariche dovevano
valere solo come centri di coordinamento fra quei poteri, che per sé stessi si profilavano non solo come distinti ma anche come
assai più fondati di quelle posizioni centrali, proprio in quanto legati alle realtà regionali? Si apriva insomma il conflitto fra il principio
unitario, che si presentava sotto diverse forme e in differenti versioni, e il principio particolaristico, destinato a prevalere
storicamente in meno di venti anni.

PARAGRAFO XI In Occidente: l’intervento di Corinto in Sicilia (Timoleonte)


La crisi del regime di Dionisio II, il frantumarsi di un forte potere accentratore in diversi poteri locali (si insediano tiranni in diverse
città: Iceta a Leontini; Mamerco a Catania; Ippone a Messina; Andromaco a Tauromenio), il vuoto di potere che ne deriva, nonché il
progressivo spopolamento dei centri greci dell’isola, suscitano ovviamente l’interesse di Cartagine a una rinnovata espansione in
Sicilia. È il perdurante conflitto tra Iceta e Dionisio il Giovane, oltre alla minaccia di Cartagine, a provocare l’appello dello stesso Iceta
a Corinto, per l’invio di aiuti. Corinto interviene (344), inviando un esercito di mercenari, e milizie cittadine e delle stesse colonie
corinzie del mar Ionio, nello spirito pancorinzio che caratterizzerà tutta l’impresa, al comando di Timoleonte. Fin dalla giovinezza,
Timoleonte era stato un fiero nemico dei tiranni, sì da uccidere il fratello Timofane, che, per aver assunto il patronato dei più poveri
della città, era stato accusato di volere la tirannide: la „democrazia‟ di Timoleonte va dunque letta alla luce del suo opposto, che
non è più l’aristocrazia, ma semma una politica democratica radicale; Timoleonte è perciò fin dall’inizio un moderato. Timoleonte
raggiunge la Sicilia dopo essere passato per Metaponto e Reggio (ormai rinnata come città). A Tauromenio lo accoglie Andromaco,
padre dello storico Timeo, l’unico fra i tiranni di Sicilia che avrà la benevolenza del corinzio. Iceta, che aveva invocato l‟intervento
corinzio e occupato la terraferma siracusana, contendendola a Dionisio, preferisce cambiar fronte e passare dalla parte dei
Cartaginesi (cominciando un’altalena che gli riuscirà fatale), mentre Dionisio si consegna a Timoleonte e ottiene di potersi trasferire
a Corinto, dove vivrà vari anni facendo apprezzati racconti e confidenze sulla sua amara esperienza politica. Timoleonte ha quindi
sotto controllo Siracusa; con l’aiuto di rinforzi corinzi egli riesce a tenere in scacco i Cartaginesi, e a riguadagnare l’ubbidienza dei
volubili tiranni e di varie città dell’interno. Il massiccio reclutamento di forze da parte di Cartagine porta alla battaglia campale del
fiume Crimiso, presso Segesta, in cui i Cartaginesi sono battuti con gravi perdite, anche di forze cittadine; poco dopo sono battuti
Iceta di Leontini e Mamerco di Catania, che avevano ancora una volta cambiato fronte a favore dei Cartaginesi. L’alleanza punico-
calcidese, che più volte nel corso della storia siceliota si era presentata come una possibilità di opposizione a Siracusa, è ormai
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battuta. In Sicilia comincia quindi il ripopolamento delle città ad opera di Timoleonte, con coloni provenienti da tutte le parti del
mondo greco. Non va perduto comunque per intero, nell’azione di Timoleonte, quello che era stato il filo conduttore della politica
di Siracusa sin dall’epoca dei Dinomenidi, cioè il potenziamento demografico della città, con facilitazioni nella concessione della
cittadinanza agli immigrati, in particolare a quelli di Leontini. Per il resto, la prassi timolontea è di puro stile cittadino: le risorte città
debbono fondersi in una lega, di cui Siracusa è città egemone, ed entro cui vige il principio dell‟autonomia. A Siracusa stessa
Timoleonte instaura, in armonia con le premesse di tutta la sua vita, un regime di oligarchia moderata, con un sinedrio di 600
consiglieri; contro i barbari, Siracusa si impegna a chiedere all’occorrenza un capo militare a Corinto, da affiancare agli strateghi
cittadini. Nel 337, conclusa la sua opera, Timoleonte, divenuto nel frattempo cieco, depone la carica di strategós autokrátor, da lui
detenuta per quasi otto anni; resterà però a Siracusa, dove morirà e, secondo una tradizione frequente nelle città doriche, riceverà
l’onore di una tomba nell’agorá.

PARAGRAFO XII Il ruolo di Taranto fra mondo greco ed entroterra italico


Sul piano militare, l’intervento corinzio è da considerare come uno sviluppo della III guerra sacra, perché mercenari focesi, sloggiati
da Delfi e dalla Focide con la pace del 346, furono utilizzati nella spedizione di Timoleonte, così come poi in quella del re spartano
Archidamo III, figlio di Agesilao; questi intervenne in aiuto di Taranto, che aveva richiesto il sostegno della madrepatria contro Iapigi
e Lucani, e portò con sé anche mercenari focesi. Ma Archidamo in una battaglia fu sconfitto e ucciso (338). Ormai, e già dal secondo
quarto del IV secolo a.C., Taranto è la città egemone della Lega italiota, dell’Italia greca in generale: ma la sua è un’egemonia su una
grecità che, malgrado non trascurabili manifestazioni di vitalità, è entrata in crisi (sicché, e contrario, anche di più spicca la potenza e
la ricchezza della città egemone). Dopo Archidamo, il successivo condottiero, da cui Taranto e la grecitá d’Italia otterranno aiuto
contro gli ormai attivissimi Lucani, è Alessandro il Molosso (334-331/0): Sparta, impegnata contro la Macedonia, non avrebbe avuto
infatti forze da dirottare verso Taranto, e forse quest’ultima considerava realisticamente i vantaggi che potevano derivarle dal
collegarsi con il re epirota, zio di Alessandro il Grande, nel momento in cui la Macedonia era ormai diventata la prima potenza del
Mediterraneo. Alessandro affronterà uno dopo l’altro i popoli barbari dell’Italia meridionale; libererà Siponto ed Eraclea, ed da
Paestum farà una sortita per affrontare e sconfiggere in battaglia Sanniti e Lucani. Egli stringe anche un patto con i Romani. Presto
però si incrinano i rapporti con Taranto, e questo ha motivazioni sia contingenti sia di più vasta portata: da un lato l’istinto di
autodifesa della città dall’autorità del sovrano, dall’altro però l’ampliarsi troppo rapido dell’orizzonte delle ambizioni del Molosso,
che investono l’intera Italia meridionale, in una prospettiva che scavalca lo stesso orizzonte politico di Taranto; infine, a Taranto
prende sempre più piede una linea politica che è sì di competitività, ma anche di possibile intesa, sul lungo periodo, con le
popolazioni italiche, in virtù di un riassestamento delle alleanze della città greca verso gli stessi vicini Lucani, dopo la I guerra
romano-sannitica. Taranto sembra interpretare sempre di più il suo ruolo come quello di una città egemone dell‟intera Italia, greca
e indigena, decisa semmai a contrastare l’avanzata di un altro, più distante e più temibile, popolo “barbaro‟, il romano. Il Molosso
invece, e con lui le città greche che gli restano devote (Turii e Metaponto), è più legato alla tradizione politica di opposizione
all’elemento barbarico lucano-brettio, che è al momento il più attivo e geograficamente il più vicino. Alessandro cerca di sfruttare a
suo vantaggio i conflitti interni al mondo lucano, che in quest’epoca è in fase al tempo stesso di espansione e di fermento; ma sarà
ucciso a tradimento a Pandosia proprio da un esule Lucano (330 a.C. circa). La condizione dei Greci in Italia nel settantennio tra le
due date in esame (400 e 330 a.C.) può descriversi come uno „stato di sofferenza‟, esattamente come la rappresenta per Siracusa e
la Sicilia greca l’autore della VII e dell’VIII lettera platonica: condizione di tryphé, di opulenza e benessere economico, ma anche di
crisi morale, avvertita nel rischio di perdita dell’identità “nazionale‟, linguistica e politica, pur in un periodo in cui si conserva ancora
l’indipendenza politico-militare, tuttavia minacciata, in senso lato, dal punto di vista culturale.

PARAGRAFO XIII Vicende del regno bosporano (l’ellenizzazione nel Mar Nero)
L’acquisizione alle forme della cultura greca di regioni adiacenti alle póleis, l’ellenizzazione, è un fenomeno che nel IV secolo a.C.
raggiunge livelli di solido assestamento non solo in Occidente, ma anche in Oriente. Paradigmatico, e perciò degno di particolare
menzione, il caso della costituzione, a partire dal 438/7, del regno bosporano, nella zona del Bosporo Cimmerio, ad est della
penisola di Crimea. Le città di fondazione milesia, come Panticapeo e Teodosia, venogno invero assoggettate a una dinastia di
origine tracia, quella degli Spartocidi: essa regnerà fino alla fine del II secolo a.C. Le figure più illustri, anche e soprattutto per il loro
rapporto con il mondo greco-egeo, e in particolare con Atene, sono Leucone I (389-348) e Pairisade I (349-310). L’ellenizzazione
consiste nel fatto che le città greche costituiscono il nucleo del regno, anche se esso ha una dinastia di origine tracia, che si
sostituisce alla stirpe milesia degli Archanattidi, e risulta composito di popolazioni locali, quali gli Sciti e i Maiti. La forma politica del
regno rivela un carattere composito, ma appunto anche una decisa presenza di forme greche: il dinasta spartocide si chiama perciò
árchon Bospórou kaì Theodosías e in questo tende a presentarsi come un magistrato cittadino e al tempo stesso un re delle
popolazioni ricordate. Nella sostanza si tratta di una monarchia militare, che regna su di uno stato territoriale, dove esistono
tradizioni cittadine, benché la funzione della pólis sul piano politico sia molto ridotta: non a caso è stato evocato il parallelo delle
monarchie-tirannidi siciliane. L’area ha scambi significativi col mondo greco-egeo+, che ne importa grano, pesce salato, schiavi, e vi
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esporta olio, e prodotti artigianali vari. A una certa distanza, restano indipendenti e latamente collegate alla vicenda storica greca, le
città greche di Chersonaso, di origine megarese, in Crimea, e Olbia, di fondazione milesia, alla foce dl fiume Ipani.

CAPITOLO XI L’alto ellenismo

PARAGRAFO I Concezioni statali a confronto nelle lotte dei Diadochi


L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione di quei vastissimi territori, l’assenza di un erede
che fosse all’altezza del sovrano scomparso o nell’età giusta per succedergli, condizionarono fortemente gli eventi successivi alla
sua morte, che vanno sotto il nome di guerre dei Diadochi (successori) e degli Epigoni (la seconda generazione di successori), ed
occupano complessivamente un quarantennio, dal 323 fino alla battaglia di Curupedio, nel 281 a.C. Il primo “ventennio‟ (323-
301) è il periodo di maggiore tensione, quando tutto è rimesso in discussione, il potere centrale nelle regioni conquistate, come
la stessa egemonia macedone in Grecia. Con la battaglia di Ipso (301), cioè con la sconfitta di Antigono Monoftalmo, l’assetto
complessivo, che comporta una netta distinzione tra Egitto, Asia ed Europa macedone, può dirsi ormai consolidato. Nel 323 si
era posto innanzi tutto il problema della forma del potere centrale, che aveva ricevuto una soluzione complessa: a Cratero
(assente dalla Babilonia, perché in marcia con i veterani verso la Macedonia) era affidato il ruolo di prostátes tês basileías, cioè
del regno di Arideo: la monarchia era sottoposta a una sorta di procuratela, se non di tutela vera e propria; al trono erano
destinati Filippo Arideo, fratellastro di Alessandro il Grande, e il nascituro figlio di quest’ultimo e di Rossane, se di sesso maschile
(divisione dunque del potere tra chi regna, il basileús, o chi lo rappresenta come prostátes; e chi invece governa, il chilíarchos,
“capo dei mille”, che detiene il potere operativo militare). A un gradino, dunque, teoricamente più basso del basileús o del
prostátes si collocava il chilíarchos Perdicca, che aveva di fatto sotto di sé i territori asiatici. E infatti già ora si profila la dicotomia
nettissima tra parte originaria (europea) e parte acquisita (asiatica e libica) dell’impero macedone, visto che ad Antipatro resta
affidata la funzione di stratego d’Europa. Senza l’esistenza formale ed effettiva della regalità macedone, era del resto poco
giustificato l’esercizio di un dominio unitario di tutti i territori conquistati. Il dramma della successione ad Alessandro è tutto qui.
Già quando il conquistatore era in vista, si era posto il problema di affidare l’amministrazione dei singoli territori a governatori,
forse già allora indicati come satrapi. Per lo più si era trattato di Macedoni o di Greci; ma non erano mancati casi di utilizzazione
di Persiani collaborazionisti. Con la morte di Alessandro il principio della ripartizione territoriale si estende, ma si applica anche in
maniera complicata, che va molto al di lá delle stesse ripartizioni tradizionali, rese plausibili dalla geografia come dalla storia:
salvo per l’Egitto, di cui Tolemeo ebbe l’acume politico di garantirsi il controllo, che mai più (caso unico fra tutti i Diadochi)
perderà. Per il resto, è la nascita di una geografia politica bizzarra e velleitaria: ad Eumene vanno i territori, da conquistare, di
Paflagonia e Cappadocia; ad Antigono, Panfilia, Licia e Frigia maggiore, nell’Asia minore meridionale e occidentale; a Leonnato, la
Frigia ellespontica; a Lisimaco la Tracia, formalmente sotto l’autorità dello stratego d’Europa, Antipatro. La confusa serie di
eventi può essere ricostruita secondo la logica degli sviluppi necessariamente conseguenti a queste premesse, e raccordata
intorno a periodi distinguibili almeno in parte fra loro. Negli anni 323-321 le personalità dominanti e più attive nei due grandi
troconi dell’impero macedone sono Antipatro in Europa e Perdicca in Asia. Come è chiaro, Perdicca aveva un nemico alle spalle,
verso Occidente, in Antigono (che fuggì in Europa), ed uno al di là del territorio asiatico da lui controllato, in Egitto (Tolemeo). In
un’astratta logica territoriale, è verso l’Egitto che egli doveva rivolgere (e di fatto rivolse) il suo sforzo di conquista, tanto più che
in Asia minore continuava a sostenerlo Eumene. L’inimicizia di gran parte della dirigenza macedone era tuttavia assicurata a
Perdicca dai suoi progetti di sposare Cleopatra, la sorella di Alessandro Magno (già vedova di Alessandro il Molosso), e di porsi
perciò come erede legittimo della dinastia degli Argeadi, con la naturale conseguenza dell’ostilità di Antipatro. Perdicca cadde
vittima di un attentato, nel 321 a.C., alle porte dell’Egitto, a Pelusio.

PARAGRAFO II I Greci e la morte di Alessandro: la guerra lamiaca


Intanto la vocazione europea di Antipatro è quasi paradossalmente confermata dallo scoppio in Grecia della “guerra lamiaca‟,
detta così dal nome della roccaforte tessalica presso il golfo di Làmia, dove Antipatro fu per qualche tempo, dal tardo 323,
bloccato dai Greci ribelli. Protagonisti della ribellione furono gli Ateniesi, in particolare l’oratore Iperide e lo stratego Leostene;
quest’ultimo arruolò un esercito di mercenari raccolti in Laconia; la Lega ellenica di Corinto si sciolse; alla rivolta presero parte
anche gli Etoli; fu allora che Demostene, in esilio a seguito dell’affare di Arpalo, poté rientrare in patria. La battaglia navale di
Amorgo, nell’estate del 322, segnò la vittoria del macedone Clito sulla flotta ateniese; poco dopo, Antipatro, raggiunto dai
soccorsi di Cratero, sconfiggeva per terra gli Ateniesi a Crannone in Tessaglia. Gravissime le conseguenze interne per Atene: nel
322, per la terza volta nella sua storia, dopo gli eventi del 411 e del 404, la democrazia ateniese subiva il contraccolpo di un
radicale cambiamento di regime, che diveniva di tipo timocratico, cioè basato sul censo, che era definito nella misura minima di
una proprietà di 20 mine. Ne seguì la condanna a morte e l’esecuzione di Iperide, mentre Demostene, rifugiatosi nel santuario di
Posidone nell’isola di Calauria, si tolse la vita, quando era ormai braccato da zelanti emissari di Antipatro (322). L’anno successivo
raccorda momentaneamente fra loro le vicende d‟Europa e d‟Asia: Antigono era sbarcato già nel 322 ad Efeso, recuperando
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quel suolo asiatico che, per la parte occidentale, era passato piuttosto sotto il controllo di Eumene. Nella primavera del 321
Cratero e Antipatro varcano l’Ellesponto e, mentre Antipatro avanza verso la Cilicia, Cratero si fa incontro ad Eumene, ma è
sconfitto, soprattutto per merito della soverchiante cavalleria del nemico, e trova la morte sul campo.
PARAGRAFO III Antigono protagonista
La scomparsa dei due grandi rappresentanti del potere regale (Cratero e Perdicca) impone un riassetto dell’impero, che è
attuato nel convegno di Triparadiso, in Siria, forse nel 321: questa volta rappresentante “dei re “ è nominato Antipatro, che si
ritira in Europa con Filippo Arrideo, Euridice e Alessandro IV, figlio di Alessandro il Grande e di Rossane. Contro Eumene, il
vecchio fautore di Perdicca (e dell’idea di un impero unitario centrato sui dominii dell’Asia), fu emessa una sentenza di morte, di
cui doveva essere esecutore Antigono, che ormai si poneva come l’erede del progetto di impero asiatico di Perdicca (senza
ancora però avere formalmente rinunciato ad un ancor più ambizioso disegno unitario. Già Triparadiso prefigurava la grande
tripartizione ellenistica (Europa macedone, Asia, Egitto), pur includendo, per la parte più vasta e complessa, cioè l’Asia, tutte le
incognite possibili degli sviluppi delle posizioni individuali. Gli accordi del 321 provvidero in effetti a una nuova ripartizione delle
satrapie, in generale, e già con essa minarono ulteriormente il principiò dell’unità dell’impero; essi avevano messo in gioco
anche personalità destinate a un grande futuro, come Seleuco, che ottenne la satrapia di Babilonia. Questi accordi mettono in
luce anche una notevole chiaroveggenza in Antipatro, in quanto riflettono il suo tentativo di scongiurare un conflitto che poi si
rivelerà, per un ventennio, come centrale, anzi come il filo conduttore della dinamica dei conflitti fra i Diadochi: quello che
opporrà il figlio Cassandro, da un lato, e Antigono e Demetrio, dall’altro – un contrasto di personalità, ma anche di princìpi
politici e concezioni statali. A scopo di conciliazione, Antipatro metteva Cassandro accanto, e subordinato, ad Antigono (stratego
dell’Asia), come comandante della cavalleria: ma prestò dovrà richiamarlo in Macedonia, per l’impossibilità di accordo fra i due.
D’altro canto, Antipatro tentava di rinsaldare i rapporti con il matrimonio tra la figlia Fila, vedova di Cratero, e Demetrio, figlio di
Antigono. All’interno della prospettiva storica aperta dai Macedoni, Antipatro rappresenta un caso di saggezza politica, volta a
conservare, se non un’unità formale dell’impero, che diveniva ogni giorno più teorica, almeno l’armonia tra le diverse parti in
causa. I fatti successivi non assecondarono le intenzioni del vecchio macedone, che nondimeno vanno ben considerate. Le
decisioni prese da Antipatro prima della morte (319) sono delle soluzioni interlocutorie, in cui alla preminente intenzione
legittimistica si mescola il riconoscimento di fatto della ricostituita dicotomia tra Europa ed Asia: il vecchio generale, morendo,
non lasciava al figlio Cassandro le sue stesse posizioni di potere, ma nominava “reggente del regno‟ il veterano Poliperconte,
conferendogli però allo stesso tempo la carica su cui egli stesso aveva per anni fondato il suo effettivo potere, quella di “stratego
d’Europa‟; Cassandro era solo chiliarco. Dopo la morte di Antipatro si crea contro Poliperconte una naturale coalizione tra i
quattro personaggi più importanti del momento: Antigono, stratego dell’Asia dal 321; Tolemeo, rimasto saggiamente satrapo
d’Egitto, rifiutando offerte maggiori nei territori extra-europei conquistati; Cassandro, rientrato già nel 321 in Macedonia col
padre; e Lisimaco, saldamente insediatosi in Tracia. Antigono in Asia è il più attivo: sconfigge in Pisidia il fratello di Perdicca,
Alceta, che viene assassinato dai suoi (319), e costringe Eumene a rinchiudersi nella fortezza di Nora, ai confini tra Cappadocia e
Licaonia. In Europa, morto Antipatro e tenuto a freno Cassandro, è dominante la figura di Poliperconte, che già aveva
partecipato alle campagne d’Asia di Alessandro, come capo di una parte della falange. In Asia, Antigono, accantonata per il
momento la resa dei conti con Eumene, procede ad eliminare gli ostacoli minori, attaccando la Frigia ellespontica di Arideo e la
Lidia di Clito; così egli s’impadronisce di Efeso e di una cospicua somma di denaro, 600 talenti, che erano destinati al tesoro
macedone: ormai la rottura fra i due principali protagonisti, Antigono e Poliperconte, è consumata; Cassandro abbandona la
Macedonia e raggiunge Antigono.

PARAGRAFO IV La politica dei generali macedoni in Europa


Ormai Poliperconte entra sempre di più nel suo ruolo di “governatore dell’Europa‟, anche se per conto della dinastia argeade;
solo, capovolge le linee della politica verso i Greci, mettendo in luce una delle due anime che caratterizzano l’atteggiamento
macedone verso i regimi politici interni alle città greche. Egli emetto così nel 318 un celebre decreto, con cui si restaurano i
regimi già vigenti sotto Filippo, si richiamano gli esuli, si ritirano le guarnigioni macedoni, si restituisce Samo ad Atene: un
programma dunque di libertà e di autonomia, che di fatto significa per Atene democrazia (restaurata nel 318 appunto). Ma
nello stesso 318 cominciano i rovesci per Poliperconte: Clito, che si appoggia a lui, è sconfitto da Antigono sul Bosforo; ad Atene
Cassandro, installatosi al Pireo, impone il governo di Demetrio del Falero, un peripatetico allievo di Teofrasto – fu restaurata
ancora una volta la costituzione timocratica, con abbassamento del censo però a 10 mine: Demetrio, nominato epimeletés tês
póleos, governerà la città per ben 10 anni. Ora Cassandro rientra in forze in Macedonia e affronta Poliperconte, a cui non resta
che abbandonare il campo portandosi dietro Alessandro IV e Rossane, a causa delle numerose defezioni in favore del figlio di
Antipatro; è adesso che nasce l’alleanza formale tra Cassandro ed Euridice; la donna sostituisce di fatto il marito, Filippo Arideo,
debole di mente, nell’esercizio del potere politico. In Grecia si schierano per Cassandro le regioni centro-orientali, dalla Tessaglia
alla Locride alla Beozia e all’Eubea; gli Etoli e la maggior parte dei Peloponnesiaci tengono invece per Poliperconte. Mentre
Cassandro è impegnato nell’assedio di Tegea in Arcadia, avviene il rientro di Olimpiade dall’Epiro in Macedonia, dietro
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sollecitazione di Poliperconte: Euridice la affronta al confine fra le due regioni, ma le truppe macedoni l’abbandonano per
passare dalla parte della prestigiosa madre di Alessandro Magno, che prende allora tutte le sue vendette, facendo Uccidere
Filippo Arrideo ed Euridice, il fratello di Cassandro Nicanore, e un altro centinaio di nemici (estate-autunno 317). Alla notizia di
questi avvenimenti Cassandro lascia l’assedio di Tegea per la Macedonia; Olimpiade si chiude in Pidna, con Alessandro IV e
Rossane, ma nella primavera del 316 è costretta a capitolare, anche a seguito delle numerose defezioni. Le condizioni della resa
le garantivano salva la vita, ma non fu possibile per Cassandro resistere alla richiesta dei parenti delle vittime dell’ira sanguinaria
di Olimpiade, di sottoporla a un processo di fronte al tribunale del popolo macedone; ne seguì la condanna a morte. L’orgogliosa
regina non accettò di fuggire ad Atene su una nave che Cassandro sembra averle offerto; Alessandro IV fu comunque trasferito
ad Anfipoli sotto la custodia di Cassandro. Questi, da canto suo, fondava nel 316 una città che prendeva il suo nome,
Cassandrea, sul sito di Potidea (distrutta da Filippo II nel 356), e forse nello stesso anno anche Tessalonice, presso l‟antica
Terme. Certamente, sempre nel 316, Cassandro richiamava in vita Tebe, tra il giubilo di tanti Greci: una politica dunque, verso i
Greci, cauta sul piano dei regimi politici interni, ma aperta e sensibile sul terreno dell’insopprimibile esigenza greca di tenere in
vita o rivitalizzare le póleis e le loro tradizioni. In Asia continuava intanto il confronto tra Antigono e i suoi nemici vecchi e nuovi.
Eumene, che Poliperconte aveva nominato “stratego d’Asia‟ (in opposizione ad Antigono), rotto ormai il blocco di Nora, aveva
raggiunto la Fenicia e poi la Siria. In Mesopotamia si era formata un’alleanza tra Seleuco, satrapo di Babilonia, e Pitone, già
satrapo di Media. Quando Eumene raggiunge la Mesopotamia, chiede invano a Seleuco e a Pitone il riconoscimento della sua
autorità sull’Asia; ottiene però di poter varcare il Tigri, mentre già Antigono è impegnato nel suo inseguimento: dopo diverse
campagne la sconfitta definitiva di Eumene avviene a Gabiene; le sue truppe defezionano e si uniscono a quelle di Antigono;
Eumene e i suoi collaboratori sono uccisi (316). Ma neanche a quelli che non avevano collaborato con Eumene andò troppo
bene: Antigono represse un tentativo di ribellione di Pitone, che fu giustiziato, e si mosse verso Babilonia per chiedere a Seleuco
i rendiconti della sua amministrazione come satrapo della regione; quest’intenzione provocò la fuga di Seleuco, che presto
raggiunse Tolemeo in Egitto. Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) è dunque caratterizzato da una progressiva
assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro, e di erede in Asia da parte di Antigono; restano
sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui sono protagonisti Eumene, Poliperconte, Olimpiade. Il realismo della politica di
spartizione è già presente nell’azione politica di diversi personaggi, ma non riesce a conseguire subito tutti i suoi risultati. Contro
le ambizioni imperiali di Antigono si determina, come già un tempo contro le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una
coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, escono pienamente allo
scoperto: Tolemeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro. Padrone dell’Asia di là dal Tauro, Antigono rivolge ora il suo sforzo di
conquista, nella stessa esaltata logica territoriale e politica di Perdicca, verso i domini di Tolemeo. La sua marcia contro l’Egitto
comporta l’invasione di Siria, Fenicia e Palestina: egli conquista Ioppe e Gaza, pone l’assedio a Tiro (315), cerca di sottrarre a
Tolemeo il possesso dell’isola di Cipro e a tutta prima vi riesce per la maggior parte delle città dell’isola (fa eccezione Salamina,
soggetta a Nicocreonte); subito però Tolemeo riprende il controllo della situazione.

PARAGRAFO V La politica greca di Antigono e di Tolemeo (315-313)


Antigono cerca di guadagnare a sé la Grecia: il primo passo è un’alleanza con Poliperconte, che diventa “stratego del
Peloponneso‟ in nome del re Alessandro IV; a Tiro è convocata un’assemblea dell’esercito macedone, che proclama Antigono
reggente del regno, dichiarando Cassandro come nemico, salvo che non consegni Alessandro IV e la madre Rossane e lasci i
Greci autonomi e liberi da guarnigioni e tributi. È così ripetuto nel 315 il proclama di Poliperconte sulla libertà dei Greci. Non si
trattava di un semplice espediente retorico e propagandistico, ma di un grande tema politico, che tanti protagonisti della storia
ellenistica dovranno negli anni successivi tener presente, così come era stato ben presente alla generazione di uomini politici
che aveva creato il nuovo assetto delle regioni del Mediterraneo orientale. A tutta prima Antigono ottiene in Grecia solo il favore
degli Etoli, mentre l’intervento di Cassandro nel Peloponneso impedisce alla parte avversa di registrare particolari successi; anzi
ne segue la defezione, da Antigono a Cassandro, dello stesso Poliperconte e di suo figlio Alessandro (ucciso poco dopo dai
democratici di Sicione). Nel 314, con una flotta composta di navi rodie, cilicie e fenicie, Antigono può conseguire alcuni grandi
risultati: conclusione dell‟assedio di Tiro; attacchi alle posizioni di Atene (allora sotto il controllo di Demetrio del Falero)
nell’Egeo, e acquisizione di Lemno e di Imbro; liberazione di Delo. Tra la fine del 314 e la primavera del 313 egli estende il suo
dominio anche in Asia minore, nella parte cistaurica della penisola, eliminando il satrapo di Caria, e acquisendo alla sua parte
Mileto, che divenne libera e autonoma per volere di Antigono, tra l’altro restituendole la democrazia – un’applicazione coerente
del programma di Alessandro Magno e dello stesso Poliperconte in tema di rapporti con le vecchie città greche e di assetti
politici interni. In Tracia e le truppe di Antigono venivano battute da quelle di Lisimaco. Il 313 portava però significativi successi in
Grecia per Antigono: il Peloponneso, la Beozia, l’Eubea passavano dalla sua parte o resistevano agli attacchi di Cassandro, al
quale presto restarono solo il Pireo, Megare, Opunte nella Locride e alcune città focesi; vacillava anche il dominio di Cassandro in
Acarnania e Illiria. Oltre a Cassandro, e in parte anche Lisimaco, il bersaglio principale di Antigono, in questa lunga terza guerra
dei Diadochi (315-311), era evidentemente Tolemeo. Questi andava d’altronde consolidando il suo dominio nel Mediterraneo
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orientale, dominio che, pur avendo il suo fulcro nell‟Egitto, aveva come necessarie aree di appoggio e di espansione Cipro, la
Cilicia, la Siria. A Cipro un intervento personale di Tolemeo doma una rivolta dei re delle diverse città: il fedele Nicocreonte di
Salamina è fatto stratego dell’isola; in Cilicia Tolemeo prende temporaneamente Mallo.
PARAGRAFO VI Verso un assestamento: da Gaza (312) alla pace del 311
Ma lo scontro principale con la parte antigonide doveva avvenire in Celesiria, dove il figlio del Monoftalmo, Demetrio, subiva a
Gaza una dura sconfitta nella primavera del 312 a.C., nonostante la superiorità che gli avrebbero dovuto garantire i 40 elefanti
che poté mettere in campo. Demetrio dovette per il momento ritirarsi fin oltre Sidone. La conseguenza più decisiva più decisiva
della sconfitta di Gaza fu il rientro in Babilonia dell’ex-satrapo Seleuco, rifugiatosi qualche anno prima presso Tolemeo. Seleuco
fu accolto trionfalmente dalla popolazione locale, e mostrò subito intraprendenza e fermezza nel consolidare ciò che aveva
riconquistato, nell’estendere i suoi domini e nel venire a capo di ripetuti tentativi di Antigono di ribaltare la situazione: tolse al
satrapo Nicanore la Susiana e la Media, ottenne da parte degli altri satrapi il riconoscimento della sua sovranità fino alla
Battriana e all’India, tornò in possesso di Babilonia (che Demetrio aveva precedentemente conquistata). Anche l’offensiva
antigonide in Grecia subiva una decisiva battuta d’arresto, dopo la sconfitta di Gaza; le posizioni di Cassandro si rafforzavano un
po’ dovunque (Atene, Epiro). Antigono reputò opportuno stipulare un accordo di pace con Cassandro e Lisimaco, a cui presto si
aggiunse Tolemeo; Seleuco non sembra (nonostante autorevoli pareri contrari) avervi preso parte. Ad Antigono veniva di fatto
riconosciuto il controllo di tutta l’Asia, e i Greci dovevano essere autonomi: alla completezza della sovranità di Antigono sull’Asia
era d’ostacolo la costituzione del vastissimo dominio di Seleuco, che evidentemente Antigono non intendeva riconoscere come
definitivo. Più definite, e anche più sicure, le acquisizioni di Tolemeo in Egitto e nelle regioni confinanti di Libia e di Arabia, e
quelle di Lisimaco in Tracia; Cassandro invece doveva restare “stratego d’Europa‟ fino alla matura età di Alessandro IV: la
clausola fu però solo premessa all’assassinio di questo e della madre Rossane nel 310/9 ad opera di Cassandro. Con la pace del
311 nasceva forse, come spesso si è affermato, il sistema dei cinque regni ellenistici, ma più come ripartizione di fatto che non
come stato di cose definitivamente accettato dal maggiore protagonista, Antigono: la crudele ingenuità della clausola
sull’assunzione dei pieni diritti da parte di Alessandro IV sta a dimostrare, se non altro, la persistenza in Antigono di illusioni
ambiziose, ma anche generose (la vasta unificazione sotto la dinastia degli Argeadi). Fra tutti i Diadochi, egli è quello che più agita
idee, sbandiera princìpi, nutre sogni e illusioni.

PARAGRAFO VII Tra la pace del 311 e la nascita delle nuove basileîai
Gli anni immediatamente successivi alla pace furono anche quelli della fondazione di grandi capitali, che rafforzavano
l’irreversibile processo in atto, verso la costituzione di regni indipendenti: Lisimachia sull’istmo del Chersoneso tracico, Antigonea
sull’Oronte (dove più tardi Seleuco I fonderà Antiochia), Seleucia sul Tigri – tutte città che prendono nome dal fondatore e
signore vivente, mettendo in luce il ruolo della personalità politica nelle vicende dell’epoca, che è quella di personaggi che
dispongono di un rilevante potere militare. L’assassinio di Alessandro IV e di Rossane ad opera di Cassandro (310/9) mise in
moto reazioni a catena sul territorio greco; protagonisti ne furono, il vecchio e sempre attivo Poliperconte, il nipote di Antigono,
Polemeo, Tolemeo stesso e infine nuovamente, e con gli esiti più rilevanti, Antigono e il figlio Demetrio. Poliperconte tentò nel
309 il rientro in Macedonia, facendosi tra l’altro scudo del figlio illegittimo di Alessandro Magno, Eracle di Barsine, allora nell’età
dell’adolescenza; ma Cassandro parò la minaccia riconoscendo a Poliperconte la strategia del Peloponneso; il patto ebbe come
prezzo, troppo facilmente pagato da Poliperconte, l’assassinio di Eracle. Tolemeo era divenuto particolarmente in questo
periodo, e nel 309 metteva piede in Licia, in Caria e nell’isola di Cos; si candida alle nozze con Cleopatra, figlia di Filippo II, ma
Antigono la fa uccidere. D’altra parte, l’indebolimento del prestigio di Poliperconte dopo l’uccisione di Eracle di Barsine, induce
Tolemeo a dirigere i suoi piani verso la Grecia: un accordo con Antigono, siglato con l’assassinio di Polemeo (nipote di Antigono
che aveva tramato contro lo zio insieme a Tolemeo), apriva al Sotère (Tolemeo) la strada della Grecia, dove lui insediava le
proprie guarnigioni a Corinto, Sicione e Megara. Presto però Tolemeo preferì accordarsi con Cassandro e ritornare nei binari,
provvisoriamente abbandonati, di una politica realistica, e prudentemente fondata sull’idea di centralità dell’Egitto, con i suoi
annessi geografici e storici. Di maggior respiro, perché dotata di più profonde radici, la politica “greca‟ anticassandrea, praticata
da Antigono dal 307 in poi. Fino al 309/8 egli aveva tentato invano di contrastare il radicarsi di Seleuco in Babilonia. Nel 307 la
flotta di Demetrio Antigonide occupava di forza il Pireo, e portava direttamente la sua minaccia su Atene, governata ormai da
dieci anni da Demetrio del Falero, in nome di Cassandro (una tirannide illuminata, ma intrisa comunque di ostentazione e dalla
sollecitazione di un vero culto personale, nonché dalla presenza della guarnigione macedone e delle limitazioni dei diritti politici).
Pronta fu dunque la sollevazione popolare di Atene, in favore del Poliorcete; il Falero lasciò subito la città; ad Atene il Poliorcete
manteneva i suoi impegni, in tema di libertà e autonomia: fu restaurata la piena democrazia (non radicale, invero, anch’essa
ormai moderata); ad Antigono e Demetrio furono dedicate statue d’oro sull’agorá, accanto a quelle dei tirannicidi Armodio e
Aristogitone e gli fu tributato il titolo di basileîs; Atene da canto suo recuperava Lemno e Imbro. La formula di Filippo II, di una
“guerra limitata‟ con Atene, nel rispetto di alcune tradizioni ed esigenze vitali di questa città, si mostrava ancora efficace. A
bloccare eventuali tentativi di recupero di Tolemeo in Greci, nel 306 si svolge la grande offensiva di Demetrio Poliorcete contro
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Cipro e la sua principale base tolemaica, Salamina: la guerra di terra si completa con un poderoso scontro navale, in cui si
affrontano le flotte di Demetrio Poliorcete e dello stesso Tolemeo, che di circa 200 navi portò in salvo a Cizio soltanto 8: l’isola
ormai era nelle mani di Demetrio, e a Tolemeo non restaav che rifugiarsi in Egitto, anche per provvedere alla difesa di un
territorio non più al riparo da gravissimi rischi. La vittoria di Salamina cipria dà l’avvio alla nascita formale dei regni ellenistici, con
l’assunzione del titolo di basileús, per sé e per il figlio, decisa dal Monoftalmo. Egli intendeva naturalmente con ciò il regno come
unitario, il suo regno come il regno per eccellenza: ne seguì, di conseguenza, l’ingente attacco contro l’Egitto, con 80.000
cavalieri, 83 elefanti e una flotta di 150 navi. Egli giunse con l’esercito fino al ramo più orientale del delta del Nilo, però non riuscì
a penetrare con la flotta; il sopraggiungere dell’autunno (305) gli impose il rientro in Siria. Fu allora che Tolemeo assunse
ufficialmente a sua volta il titolo di basileús, presto imitato da Cassandro, Lisimaco e Seleuco La partita in Grecia si giocava ormai
tra Demetrio e Cassandro, che rappresentavano anche le due scelte politiche di fondo: entrambe filelleniche, ma l’una di
stampo autonomistico-democratico, l’altra di carattere più conservatore in politica interna e ispirata al principio di un controllo
diretto, anche militare, nel rapporto tra regno di Macedonia e póleis.

PARAGRAFO VIII La Grecia tra Cassandro e Demetrio Poliorcete dopo il 307


Nella guerra dei “quattro anni‟ (307-304), Cassandro registrava alcuni successi, nel Peloponneso (Corinto), in Beozia, in Attica,
dove prese File, Panatto e l’isola di Salamina: egli pose l’assedio alla stessa Atene. L’avanzata di Cassandro era stata favorita
dall’assedio posto a Rodi senza frutto da Demetrio, assedio durato circa un anno (305/4). Ma lo stesso Cassandro fu fermato
dall’intervento in aiuto di Atene attuato da Demetrio, liberatosi dalla guerra contro Rodi mediante un trattato: nello stesso 305
Demetrio (che ormai si profila come quello degli Antigonidi che s’interessa specificamente alla Grecia e che tenta di aggregare
l’Europa alla parte asiatica del regno paterno) è in grado di liberare da Cassandro l’Eubea, Atene, la Beozia e la Focide, e di
ottenere l’alleanza degli Etoli. Nel 303 è la volta della maggior parte del Peloponneso (Sicione, Corinto, Argo, l’Acaia, l’Elide, gran
parte dell’Arcadia) di passare sotto il controllo del Poliorcete; solo la Messenia, Mantinea e qualche altra località restano nelle
mani di Poliperconte (dal 309 ridotto ormai alla condizione di rappresentante di Cassandro). E alle feste Istmie, celebrate presso
Corinto nella primavera del 302, Demetrio può ricostituire la Lega ellenica: i Greci (quelli a sud delle Termopile, cioè quella parte
della Grecia che era stata da sempre il vivaio delle libere póleis) giuravano di non farsi guerra fra loro e di restar fedeli alla casa di
Antigono.

PARAGRAFO IX La grande coalizione contro Antigono, fino alla battaglia di Ipso (301)
Contemporaneamente si avvia la reazione della coalizione avversa ad Antigono e Demetrio, una gigantesca manovra a tenaglia,
che tuttavia, per arrivare a un conclusivo esito positivo, impiega più di un anno. A muoversi per primo è Lisimaco, che attraversa
l’Ellesponto per attaccare l’impero di Antigono sul fianco occidentale, nell’Asia minore ad ovest del Tauro, nello stesso 302,
sostenuto da truppe di Cassandro. Le defezioni degli strateghi di Antigono in Frigia e a Sardi, in una zona dell’impero
particolarmente vulnerabile per la sua perifericità, e che includeva anche l’irrequieto mondo delle città greche, favoriscono
l’avanzata di Lisimaco. In una prima fase questi, raggiunto da Antigono in Frigia, cercò di sottrarsi allo scontro frontale, dando
così l’impressione ai suoi stessi soldati di non saper affrontare il temibile nemico. I successi nel frattempo conseguiti da Demetrio
Poliorcete anche in Tessaglia si rivelarono effimeri: egli dovette persino adattarsi a un accordo con Cassandro, per avere le mani
libere per un intervento in Asia minore in aiuto del padre; Cassandro però inviava ulteriori soccorsi a Lisimaco, al comando di suo
fratello Plistarco. La manovra a tenaglia sul regno asiatico di Antigono si compiva comunque solo con l’intervento di Seleuco e di
Tolemeo – decisivo fu quello di Seleuco. Nella primavera del 301 l’offensiva contro Antigono si scatena su tutti i fronti: in Grecia,
Cassandro avanza fino ad Elatea; in Fenicia Tolemeo si porta fino all’altezza di Sidone, che stringe con un assedio destinato a
concludersi al sopraggiungere d’una falsa notizia, che dava Antigono vincitore in Anatolia su Lisimaco e Seleuco. Era accaduto il
contrario: a Ipso (in Frigia) avevano vinto i collegati contro Antigono, soprattutto per l’impatto degli elefanti di Seleuco
soverchianti per numero (480 contro 75), ma anche per l’imprudenza di Demetrio, abbandonatosi a uno sconsiderato
inseguimento della cavalleria avversaria: Antigono, che invano aveva sperato nel ritorno del figlio, trovava una gloriosa morte sul
campo (estate del 301). Ne seguì la spartizione dei domini asiatici di Antigono: a Seleuco andarono la Siria e progressivamente i
restanti possessi fino al Tauro; l’Asia minore occidentale passava nelle mani del re di Tracia, Lisimaco, che creava così uno stato
europeo-asiatico, tanto complesso quanto fragile. Ipso segna in effetti il superamento di quelle soluzioni “composite‟, che erano
state agitate qualche anno dopo la morte di Alessandro, e che erano state soprattutto la caratteristica della politica di Antigono,
almeno nella sua forma più pura di aspirazione all’impero unitario persistita fino al 311. Ancora dopo Ipso il dominio del figlio
Demetrio Poliorcete comprendeva città costiere della Ionia, Caria, Fenicia, Cipro e, in Grecia, le istmiche Megara e Corinto: un
variegato dominio costiero e insulare, periegeo, invitante alle avventure, ma piuttosto vulnerabile e fragile. La Lega del 302 si
sfaldava subito dopo Ipso, segnando il fallimento del sogno politico riguardo al mondo greco di Antigono e dello stesso
Poliorcete. Cassandro rimetteva piede in qualche modo in Asia, con l’affidamento al fratello Plistarco di parte della costa
meridionale dell’Anatolia. Per Seleuco e il suo regno si trattò di una svolta decisiva, che, sommandosi alla rinuncia alle estreme
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satrapie orientali, accentuava la occidentalizzazione del regno, che ormai veniva ad avere il suo polo principale in Siria e,
progressivamente, in Asia minore, perciò nel Mediterraneo orientale. Alla battaglia di Ipso non aveva invece preso parte, per un
eccesso di prudenza, il re d’Egitto, Tolemeo. Tuttavia la sua campagna del 302 non doveva nelle sue intenzioni restare senza
effetti: egli non volle cedere a Seleuco la Siria meridionale e quella interna, che per sé reclamava il re di Babilonia; si apriva così
un contenzioso inesauribile tra le due monarchie, che porterà nel corso di un secolo e mezzo a ben sei guerre dette “di Siria”,
combattute per spostare verso nord o verso sud il labile confine fra le rispettive zone di dominio.

PARAGRAFO X Il recupero di Demetrio dopo Ipso (301-291)


Dopo Ipso cominciano per Demetrio Poliorcete anni difficili, che egli seppe affrontare con duttile realismo, in attesa di una
ripresa che non tardò a venire e alla quale egli diede i contorni di una politica ben diversa da quella perseguita mentre era in vita
il padre. Fu Atene a dare il segnale della rivolta: l’influenza del partigiano di Demetrio, Stratocle di Diomea, crollò, mentre
crescevano uomini come Democare di Leuconoe, il nipote di Demostene, e il comico Filippide di Cefisia. Il distacco di Atene da
Demetrio avvenne comunque all’insegna del fair play: la moglie Deidamìa fu accompagnata a Megara; a Demetrio, su sua
richiesta, furono consegnate le navi da guerra in sosta al Pireo – l’alleanza con il Poliorcete era dunque lasciata cadere, e in sua
vece subentravano buoni rapporti con Lisimaco e con Cassandro. Ma anche Beozia, Focide, Argo defezionavano da Demetrio,
che ormai controllava solo Corinto e Megara, e parte dell’Argolide, dell’Acaia e dell’Arcadia. La figura e l’opera di Pirro, re
d’Epiro, si iscrive pienamente nel contrasto che oppone Antigono e Demetrio, da un lato, e Cassandro dall’altro. Il rapporto di
ostilità con Cassandro segna i primi vent’anni della vita di Pirro (nato circa il 318 a.C.), ed è addirittura un dato ereditario. Il padre
Eacide, parente di Olimpiade, viene infatti eliminato nel 317 a.C. da Cassandro, che espande la sua autorità sull’Epiro, attraverso
uomini di fiducia e l’imposizione di Alceta. Pirro, ancora in tenerissima infanzia, viene messo in salvo presso il re illirico Glaucia; vi
resta fino al 306, quando, nel clima di successi di Demetrio Poliorcete e di forte ripiegamento di Cassandro, in Epiro Alceta è
abbattuto, e Pirro messo sul trono. Nel 302 il ragazzo è di nuovo cacciato dal trono; ad Ipso combatte al fianco di Demetrio (che
nel frattempo ne aveva sposato la sorella Deidamìa). Nel 298, dopo una tregua tra Demetrio e i suoi nemici, gli epiroti
richiamano Pirro sul trono, Tolemeo consenziente. Nel maggio 297 muore Cassandro; e Pirro fronteggerà ormai i diversi
personaggi che aspirano a un dominio sulla Macedonia, ai danni dei figli di Cassandro: da Demetrio stesso a Lisimaco. Il
personaggio Pirro è caratterizzato da un attivismo inquieto, che si dispiega su tutti i fronti. Già parecchio prima dell’intervento in
favore di Taranto nel 280, egli è fra tutti i diadochi ed epigoni di Alessandro quello più attento alle possibilità d’intervento in
Occidente: ve lo indirizzano la posizione geografica dell’Epiro e la tradizione dei re di quella regione, in particolare di Alessandro il
Molosso. All’impegno dispiegato su larga scala non corrisponderà mai un reale e stabile successo; ma in essi egli portava però la
genialità e il valore del grande generale, rafforzato poi dal mitico storico richiamo ad Achille. Questa coscienza Pirro porterà
durante la spedizione in Italia, dove egli combatterà come un re panellenico, quasi un nuovo Achille contro i Romani discendenti
dei Troiani, e come un nuovo Alessandro Magno contro i barbari. La morte di Cassandro, nel 298/7, mette in moto un processo
vorticoso di scontri, in cui tutto sembra rimesso ancora una volta in gioco nel Mediterraneo orientale, anche se, a conti fatti,
l’area dove si verifica il maggiore sconvolgimento è ormai quella greco-macedone. Ad Atene un democratico radicale, Lacare,
che esercita il potere in forma tirannica, suscita contro di sé la reazione di amici di Demetrio, che provocano l’intervento di
quest’ultimo. Demetrio riesce a conquistare Salamina, Eleusi e assedia Atene, da cui Lacare dovette cercare scampo in Beozia
(inizio del 294). Demetrio restaurò ad Atene la democrazia, ma pose guarnigioni sulla collina del Museo in città. La presenza
attiva e i successi in Grecia costarono al Poliorcete perdite nel settore orientale (Efeso e Mileto, Cilicia, gran parte di Cipro) in
favore di Lisimaco, di Seleuco, di Tolemeo, rispettivamente; ma le novità maggiori dovevano riguardare in quegli anni tumultuosi
il teatro greco-macedone. A Cassandro era succeduto sul trono di Macedonia, ma per soli quattro mesi, il figlio Filippo; morto
quest’ultimo, il regno era passato ai più giovani fratelli Antipatro e Alessandro, sotto la tutela della madre Tessalonice, che
favoriva Alessandro, al quale fu riservato il nucleo stesso della Macedonia, nonché la Tessaglia; ad Antipatro era riservata la
parte orientale. Antipatro uccise la madre, e si rivolse contro il fratello, il quale chiamò in suo aiuto Pirro e Demetrio. Quando
però Demetrio fu arrivato, Alessandro gli si fece incontro per licenziarlo – lo accompagnò anzi nella marcia di ritorno fino a
Larissa, dove Demetrio durante un pranzo lo uccise a tradimento. Solo Lisimaco potrebbe ormai impedire l’accesso di Demetrio
al trono di Macedonia; ma, preso da una guerra contro il re dei Geti, Lisimaco si acconciò a un compromesso e a uno scambio: a
Demetrio Macedonia e Tessaglia, a se stesso i possedimenti d’Asia di recente acquisizione. Puntualmente, la storia politica delle
due regioni tende a scindersi di nuovo anche a dispetto di qualche apparenza contraria, poiché il regno eurasiatico di Lisimaco
rivelerà, in meno di un quindicennio, tutta la sua instabilità e improbabilità. Nel 294 Demetrio controllava ormai quasi l’intera
Grecia, ad esclusione di Sparta, e ancora ad eccezione della libera Etolia e dell’Epiro, nel quale si era ormai consolidato il potere
di Pirro, personaggio destinato ad animare coi suoi disegni avventuristici il prossimo ventennio di storia greca. Demetrio fondava
una sua capitale, Demetriade, al centro della Grecia; sul piano politico fu fortemente limitata l’autonomia della Beozia
(anteriormente ribellatasi), con l’insediamento di un funzionario alle dipendenze del re, e con l’installazioni di guarnigioni nelle
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singole città – anche per questo aspetto la politica di Demetrio dopo Ipso conosce dunque una significativa innovazione (e
involuzione).

PARAGRAFO XI Demetrio contro tutti


Un po’ alla volta si vanno riannodando i fili tra i diversi sovrani ostili a Demetrio. In un’età caratterizzata dal predominio di forme
di potere personale, è del tutto comprensibile che il filo dei grandi conflitti politici e ideologici si alterni e intrecci con quello delle
politiche personali e dinastiche. Un primo assaggio dell’ineludibile contrasto con la personalità emergente nella penisola greca, il
re d’Epiro Pirro, Demetrio lo ha fra il 290 e il 289, quando tenta invano interventi in Etolia e in Epiro, ma poi riesce a bloccare una
controffensiva di Pirro, giunto in Macedonia fino alle porte di Edessa. La pace stipulata tra Pirro e Demetrio nell’autunno del 289
consentiva a quest’ultimo di riprendere i suoi piani verso est. Ma se Lisimaco era stato finora inerte di fronte al rafforzamento di
Demetrio, lo si doveva solo alle disavventure in cui era incorso nella guerra contro il geta Dromichaite. Tra il 289 e il 288 si forma
però una nuova coalizione tra Lisimaco, Seleuco e Tolemeo, a cui presto aderisce Pirro. Demetrio, stretto fra due fuochi
(Lisimaco da est, Pirro da ovest), sceglie di affrontare il nemico che crede meno potente, il re epirota; ma, al momento del
contatto tra i due eserciti nemici, quello di Demetrio defeziona e il re è costretto ad abbandonare il campo in umiliante fuga (alla
vergogna non resse la moglie Fila, che si tolse la vita avvelenandosi). Fra Pirro e Lisimaco avvenne una spartizione della
Macedonia, forse negli stessi termini della divisione attuata fra i due figli di Cassandro. Anche Atene intanto si ribellava a
Demetrio, sotto la guida di Olimpiodoro (estate 288 o 287). Un tentativo di rientro in Atene compiuto dal Poliorcete fu
vanificato da un intervento di Pirro, forse nell’estate del 287; restarono tuttavia nelle mani del Poliorcete Eleusi, il Pireo, Panatto
e File, in territorio attico, nonché Salamina, e le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro. L’ultima avventura Demetrio la tenterà in Asia,
sbarcandovi nell‟autunno del 287 e acquisendo Mileto, Sardi e il sostegno della Cappadocia in vista di un’invasione della Media
e una conquista delle satrapie superiori ai danni di Seleuco. Gli inizi dell’impresa sembravano resi facili dalla scarsa popolarità di
Lisimaco nella regione, ma Seleuco non volle accettare la presenza di Demetrio in Cilicia, offrendogli in cambio la più interna
Cataonia; Demetrio rifiutò l’accordo e ne seguì la guerra fra i due. Un fallito assalto alle posizioni di Seleuco indusse alla
defezione l’esercito del Poliorcete, che poté ormai soltanto darsi alla fuga, nel tentativo di raggiungere il mare. Seleuco glielo
impedì e ne ottenne poco dopo la resa (inverno 286/5), cui seguì un’onorevole prigionia riservata da Seleuco al nemico e
consuocero Demetrio, in una residenza reale presso Apamea dell’Oronte, dove nel 283 Demetrio si spense, a 54 anni, per
malattia.

PARAGRAFO XII Lisimaco, Seleuco, Antigono Gonata


Durante l’assenza di Demetrio dal suolo europeo, ne rappresentava gli interessi il figlio Antigono Gonata. Questi riuscì a
conservare faticosamente il Pireo, ma non poté impedire che Eleusi fosse recuperata dagli Ateniesi, al comando di Democare.
Un accordo stipulato tra il Gonata e Pirro, ormai in conflitto con Lisimaco, consentì al re epirota di affrontare presso Edessa
l’avversario re di Tracia: ma un ammutinamento dei Macedoni dell’esercito di Pirro, in favore del vecchio e prestigioso
compagno di Alessandro, indusse Pirro a rientrare in Epiro, lasciando così Lisimaco, nel 284, in possesso dell’intera Macedonia.
Le posizioni di Lisimaco in Grecia si rafforzavano rapidamente, come rapidamente si deterioravano quelle del Gonata, a cui, in
breve volgere di tempo, rimasero solo alcuni capisaldi (il Pireo e Megara a sud, la Beozia e Demetriade al centro). Un
rafforzamento non piccolo ebbe Lisimaco sul piano politico generale col matrimonio di sua figlia Arsinoe con l’erede di Tolemeo
I, poi divenuto il Filadelfo, associato dal padre al trono già nel 285, e succedutogli nel 283. Fu una tragedia familiare e dinastica a
mettere in moto il meccanismo che fece precipitare Lisimaco dalla posizione di particolarissimo rilievo che si era conquistata nel
mondo ellenistico. La giovane moglie di Lisimaco, Arsinoe, figlia di Tolemeo I, mise in cattiva luce il figliastro Agatocle (nato dal
matrimonio di Lisimaco con Nicea figlia di Antipatro il reggente), ottenendo dal re la sua condanna a morte: e la vedova di
Agatocle, Lisandra, insieme con i fratelli e un altro figlio di Lisimaco, cercò scampo presso Seleuco; alla rivolta si unì anche
Filetero, tesoriere di Lisimaco, di stanza a Pergamo (da lui trae origine la dinastia pergamena degli Attalidi). Seleuco superò allora
il monte Tauro e invase la parte dell’Asia minore che era in possesso di Lisimaco; ovunque egli fu accolto trionfalmente, o senza
che gli s’opponesse seria resistenza. Poco a nord di Magnesia del Sipilo, a Curupedio, nell’estate del 281 si svolse lo scontro
decisivo con Lisimaco, che era sopravvenuto dall’Europa e trovò la morte sul campo; subito passavano dalla parte di Seleuco
altre città, come Efeso. Seleuco mirava ora a cogliere tutti i frutti della sua vittoria, ricostituendo a suo vantaggio, e con
dimensioni maggiori, quello stato eurasiatico, di cui aveva da poco privato Lisimaco: egli voleva infatti finire i suoi giorni come re
di Macedonia (benché anche a lui, che tante prove aveva dato di realismo politico, dovesse apparire ben chiara l’impossibilità di
una struttura „unitaria‟ di un impero esteso sui due continenti, se progettò una spartizione di fatto col figlio, Antioco I, a cui
sarebbe toccato di governare le province asiatiche). Ma a questi disegni pose una brusca fine Tolemeo, che presto sarà detto
Cerauno (fulmine), il fratello della vedova di Agatocle, che era rimasto deluso nelle sue attese di restituzione sul trono d’Egitto
(ormai saldamente assicurato al Filadelfo), e perciò scelse di eliminare Seleuco a tradimento; questi solo da poco aveva messo
piede sul suolo europeo, nel Chersoneso tracico, e si accingeva a conquistare sia la Tracia sia la Macedonia, quando venne
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ucciso dal Cerauno, che ora poté rivendicarle e acquisirle per sé (inizio del 280). Gli impegni diversi di Pirro (in procinto di
raggiungere Taranto, per soccorrerla contro Roma) e dello stesso Antioco I (attivo nelle satrapie interne del suo impero),
facilitarono decisamente il compito a Tolemeo Cerauno. L’unico che provò a sbarrargli il passo fu Antigono Gonata, che per terra
e per mare cercò di recuperare i domini parterni di Macedonia e Tessaglia: ma una durissima sconfitta navale, inflittagli nello
stesso 280 dal Cerauno, non solo assicurò a quest’ultimo il dominio in Macedonia, ma fu anche l’occasione per una rivolta
generalizzata di quelle parti della Grecia che erano sotto il controllo di Antigono (tra l’altro Atene recuperò il Pireo). La pace
stipulata da Tolemeo Cerauno con Antioco I sembrava comunque garantirgli un lungo regno: ma appena un anno dopo questi
tumultuosi eventi, Tolemeo cadeva combattendo contro i Celti (Galati) invasori della Grecia (279). La Macedonia doveva trovare,
dopo qualche altro anno di sussulti, un suo stabile assetto, per più di un secolo, proprio ad opera di quell’Antigono Gonata che
nel 280 sembrava quasi destinato a scomparire dalla grande scena politica del mondo ellenistico. Un importante elemento di
turbamento e di crisi fu rappresentato, poco dopo Curupedio, dall’invasione dei Celti: occorre tuttavia ricordare che la capacità
di reazione degli stati ellenistici fu all’altezza della situazione; rapidamente i Celti furono per la maggior parte allontanati
dall’Europa, ma anche dalle regioni costiere dell’Asia minore. L’uno e l’altro risultato si dovettero alla decisa reazione ellenica; e i
modi di questa hanno la virtù di mettere alla prova, e di evidenziare storicamente, le nuove realtà politiche emerse nel mondo
greco di età ellenistica. Tutta la nuova grecità (fatta eccezione per l’Egitto) si misurò sulla questione celtica. Il re di Macedonia,
Tolemeo Cerauno, cadde nel 279 combattendo contro i barbari. Quando questi, attraverso la Tessaglia, ebbero raggiunto le
Termopile, a fronteggiarli trovarono le popolazioni della Grecia centrale: Beoti, Focesi e, soprattutto, un popolo che solo ora
emerge nel contesto greco, gli Etoli. Benché questi Greci non riuscissero a impedire lo sfondamento della linea di difesa delle
Termopile, tuttavia sembra che il santuario delfico venisse risparmiato. Dalla resistenza, almeno in parte feconda, e
dall’istituzione e celebrazione dei Sotéria, deriva e data la supremazia degli Etoli a Delfi, un notevole mutamento infatti rispetto
al tradizionale assetto dell’Anfizionia e del governo del santuario. Passate nel 278 in Asia, su sollecitazione di alcuni satrapi, le
tribù galliche furono indotte a stabilirsi nella Frigia interna (che da loro prese il nome di Galazia) a seguito della sconfitta loro
inferta dal re di Siria, Antioco I nella battaglia “degli elefanti” (275/4): essa mise in luce il ruolo di campioni dell’ellenismo d’Asia
minore che i Seleucidi ora si assumono e che eserciteranno più tardi i pergameni Attalidi. Negli stessi anni, e come conseguenza
più o meno immediata degli stessi eventi, si assiste all’insediamento di uno stabile potere monarchico in Macedonia, con
l’ascesa al trono (nel 277 o 276) di Antigono Gonata: nella battaglia di Lisimachia nel Chersoneso tracico (277) il Gonata aveva
sconfitto le retroguardie dei Celti, che allora avevano già ormai per la maggior parte varcato l’Ellesponto – questa vittoria
consegnò nelle sue mani la Macedonia. Con Pirro lo scontro si protrasse, soprattutto nel Peloponneso, fino al 272, anno dela
morte di quell’irrequieto sovrano: ma ala fine degli anni Settanta Antigono aveva sotto il suo controllo anche la Tessaglia, e
ampie zone del restante della Grecia; aveva del resto suoi uomini di fiducia (tiranni) nel Peloponneso, e guarnigioni
opportunamente dislocate nei ter punti strategici dell’Ellade (Demetriade, Calcide e Corinto).

PARAGRAFO XIII Il consolidamento e i suoi limiti nei decenni centrali del III secolo a.C.
Un pieno consolidamento del dominio seleucidico in Asia minore fu ostacolato da alcuni fattori e condizioni, che in determinati
periodi operarono congiuntamente, procurando i più gravi momenti di crisi al regno di Siria. La conquista seleucidica
dell’Anatolia ad ovest del Tauro era stata fin dall’inizio limitata al controllo della grande arteria di collegamento con la costa egea
dell’Asia minore, e della costa medesima, cioè dell’area delle vecchie e nuove città greche, sì che permanevano stati che mai i
Seleucidi aveva assoggettato o assoggetteranno, come il Ponto, la maggior parte della Cappadocia, la Bitinia. Per conseguenza
anche regioni un tempo soggette, come quella di Pergamo, si rendono autonome, sollecitando l’ulteriore sfaldamento del
dominio seleucidico. Il terzo fattore, che costituirà la causa di maggior durata delle condizioni di relativa insicurezza, in cui
cronicamente versa il regno di Siria, è la vicinanza di un Egitto, assillante nella pretesa di controllo dell’area siriaca, quanto meno
di quella meridionale, nel tentativo di ricomporre una coerenza territoriale da Cipro e Cilicia alle regioni siro-fenicio-palestenesi,
fino all’Egitto medesimo. Le diverse guerre di Siria, che si succedono tra Siria ed Egitto tra il 280 e il 168, seguono quasi sempre lo
stesso copione: lo spostamento più a sud o più a nord dei confini dei due imperi, senza influire notevolmente nella sicurezza
delle parti centrali degli imperi stessi. La storia delle guerre siriache, come già quella della penetrazione celtica, è rivelatrice delle
difficoltà in cui si dibattono i recenti regni ellenistici. Fra i sovrani, Antioco I si trovava di fronte a un carico particolare di problemi,
dopo l’assassinio del padre e di fronte all’attivismo ormai dispiegato dall’Egitto, sotto il nuovo sovrano, come risulta evidente
dalle prime battute del confronto tra Seleucidi e Tolemei (280/9), che provoca il formarsi di una coalizione di vari popoli d’Asia,
dell’Egitto, e della Macedonia. La prima guerra siriaca in senso stretto è però da datare agli anni 274-270: i Seleucidi riuscirono a
strappare Marato in Fenicia, nonché a suscitare la ribellione del sovrano della Cirenaica contro Tolemeo II. La politica tolemaica
già nella prima guerra siriaca smette di iscriversi in un disegno di coalizione con la Macedonia. Lo scontro con la Siria è scontro
diretto, e corrisponde a un tratto aggressivo, ampiamente dovuto all’influenza esercitata su Tolemeo II da Arsinoe II, la sorella
uterina che egli aveva sposato. Il matrimonio tra fratelli (che ebbe sul piano cultuale il riscontro dell’istituzione del culto dei theoì
adelphoí, cioè gli “dèi fratelli”) non poteva non suscitare negli ambienti greci uno scandalo, cui diede l’espressione di uno
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sferzante dileggio il poeta Sotade di Maronea. Il raffreddamento dell’Egitto tolemaico con la Macedonia del Gonata si esasperò
in aperto conflitto con la cosiddetta “guerra cremonidea‟, che prende nome dal decreto del politico ateniese Cremonide (267):
di fatto fu una coalizione tra Sparta, Atene e lo stesso Tolemeo II contro il re macedone Antigono Gonata; ma con la sconfitta del
re di Sparta Areo presso Corinto, poi di Atene, essi dovettero chinare il capo di fronte al Gonata: guarnigioni macedoni al Pireo e
sulla collina del Museo, un governatore macedone della città, nomina di alcuni magistrati, furono le imposizioni che Atene
dovette subire nonostante alcuni alleggerimenti successivi, fino alla liberazione e restaurazione democratica favorita sia da Arato
di Sicione sia dal re d’Egitto Tolemeo III nel 229/8. Lo scontro tra l’Egitto, da un lato, e la Macedonia e la Siria, dall’altro, ebbe la
sua acme nella II guerra siriaca (260-253), quando la Macedonia sviluppò il suo massimo sforzo per realizzare una politica navale,
volta soprattutto al dominio delle isole dell’Egeo, mentre la Siria di Antioco II si prendeva affermazioni e rivincite nei settori
occidentale e meridionale dell’Asia minore (dove il contatto con le vecchie città greche orientava sempre di più la politica
seleucidica verso la valorizzazione dei regimi di libertà e democrazia, legando a questi programmi politici l’immagine della
politica dei re di Siria verso le póleis. Tra Egitto e Macedonia l’oggetto principale del contendere era la Lega dei Nesioti (isolani),
cioè delle isole Cicladi; e un duro colpo alla supremazia tolemaica fu assestato dalla flotta macedone con la vittoria di Cos (255
a.C.?); in Asia Tolemeo II dovette registrare notevoli perdite in Ionia, Panfilia e Cilicia. Due paci separate con la Macedonia e con
la Siria (255 e 253, rispettivamente) posero fine al conflitto, a cui fece seguito addirittura un’alleanza tra Siria ed Egitto suggellata
dal matrimonio tra Antioco II e Berenice, figlia di Tolemeo II, che comportava il ripudio della precedente consorte, Laodice.
Sembrava la fine delle alterne tensioni fra i tre grandi regni ellenistici, ma proprio dal matrimonio tra Antioco e Berenice doveva
nascere il nuovo conflitto. Antioco aveva scelto la via di un compromesso, poi rivelatosi infelice, nel nominare suo successore il
figlio di Laodice, Seleuco II, mentre intendeva le nozze con Berenice come ragione d’intesa con i Tolemei. Alla morte di Antioco II
(246) scoppiò la guerra tra Tolemeo III, che interveniva nell’interesse della sorella Berenice e del figlioletto di questa, e Seleuco II.
L’avanzata travolgente di Tolemeo III nel cuore stesso del regno nemico fu forse di dimensioni minori di quel che suggerisce la
propaganda ufficiale tolemaica; e certo Tolemeo non riuscì a raggiungere gli scopi che si era prefissi, poiché Berenice e il figlio
furono trucidati dai nemici ad Antiochia; tuttavia, dalla guerra di Laodice (246-241) in poi (fino all’età di Antioco III) il dominio
tolemaico in Siria era così avanzato in direzione nord da includere la stessa Seleucia, una delle quattro città fondamentali della
Siria Seleucide (insieme ad Antiochia, Apamea e Laodicea). Il regno di Siria continuò in seguito ad essere scosso da lotte di
successione dinastica (lotte che negli altri regni avevano ormai ceduto il passo a successioni ereditarie regolari): tra il 240 e il 237
arse la cosiddetta “guerra dei fratelli‟ tra Seleuco II e Antioco Ierace (“l’avvoltoio”), che fino al 228 amministrò in maniera
indipendente i possedimenti seleucidici dell’Asia minore occidentale, dalla Troade alla Ionia alla Caria. E sempre intorno al primo
decennio della seconda metà del III secolo a.C. si verifica la perdita, da parte dei Seleucidi, del controllo della Partia, dell’Ircania e
della Battriana, cioè delle regioni a sud-est ed est del Mar Caspio, tappe avanzate dell’ellenismo in oriente, all’interno di quel
confine “artificioso‟ e difficilmente difendibile che fu per Alessandro Magno l’Indo (e che Seleuco I per primo aveva rinunciato a
difendere). Le possibilità di sopravvivenza dell’ellenismo seleucidico in Partia e Battriana erano, da un punto di vista territoriale,
migliori: tuttavia già durante il regno e per effetto della politica „occidentale‟ di Antioco II, si avviò un processo di distacco della
Partia e poi della Battriana stessa. Un certo ridimensionamento toccava in quegli anni anche al dominio macedone, comunque
non così drastico come quello toccato al regno seleucidico dal 246 in poi. In Grecia si andavano rafforzando le posizioni di Etoli e
Achei, raccolti in due rispettive leghe (koiná). L’elemento dinamico della Lega achea però fu rappresentato da una città non
achea, Sicione: liberata dal regime di cronici tirannelli nel 251, essa si inserì in quelle manifestazioni di irrequietezza che
turbavano ormai il dominio macedone a Corinto. Qui, nel 253, si era ribellato al Gonata Alessandro, figlio di Cratero; intanto gli
Achei si rivolgevano all’Egitto di Tolemeo III, che entrava in alleanza con gli Achei, e che era in grado di inalberare il vessillo della
libertà e, se del caso, della democrazia, visto che la Macedonia di Antigono Gonata aveva invece imboccato la strada del
predominio militare, del controllo politico e dell’insediamento al potere di propri uomini di fiducia, che la tradizione greca
considera tiranni. Sono comunque questi decenni centrali del III secolo a.C. anche quelli della massima fioritura politica e
culturale dell’ellenismo, gli anni più propriamente definibili di „altro ellenismo‟, dando all’espressione un senso valutativo.
Benché sia difficile trovare dopo il 260 anni di pace, e di uguale solidità dei tre regni, tuttavia, nei decenni centrali del secolo, alla
sostanziale stabilità interna dell’Egitto e della Macedonia corrisponde una tenuta del regno seleucidico. L’ellenismo, in senso
politico e culturale, conosce insomma la sua acme tra il 280 e il 220 circa. Dopo la morte di Antigono Gonata (239), il confronto
fra la Macedonia e le libere città di Grecia passa attraverso fasi diverse: nella prima (239-229), corrispondente al regno di
Demetrio II (figlio del Gonata), lo scontro della macedonia con le nuove realtà federali, che ormai rappresentano la roccaforte
dell’autonomia greca, è incautamente frontale, perché investe entrambe le Leghe: quella etolica, estesa su gran parte della
Grecia centrale di qua e di là dalle Termopile e forte anche del controllo del santuario delfico, e quella achea, che raggruppava
gran parte del Peloponneso e affilava le armi contro Sparta. La guerra demetriaca non è risolutiva per la Macedonia, che dal 229,
con l’avvento di Antigono Dosone, tutore e reggente per il futuro Filippo V (figlio di Demetrio II), entra in un periodo di
raccoglimento (229-224), durante il quale si verifica un significativo attivismo dei Tolemei in Grecia, e la restituzione, a
pagamento, delle fortezze attiche da parte macedone, che porta alla restaurazione della democrazia ad Atene. Sono anche gli
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anni del risveglio politico di Sparta. Qui già negli anni 243-241 il re Agide IV aveva avviato un processo di riforma, basato sulla
restaurazione dei valori dell’antica agogé spartana, e mirante all’ampliamento del corpo civico, ormai ridotto a 700 membri, di
cui soltanto 100 erano cittadini di vero e pieno diritto. Il tentativo si concluse tragicamente per Agide IV, e ad esso successe un
consistente periodo di reazione, guidata da Leonida II, che ottenne la condanna a morte del re riformatore. Per l’ironia della
sorte, fu proprio il figlio di Leonida, Cleomene III, a condurre in porto le riforme accennate da Agide: lo fece con metodo violenti,
facendo uccidere gli efori nel 227, e portando a 4000 membri il corpo civico. Ne seguì il conflitto con la Lega achea, che si colora
ormai delle tinte del conflitto ideologico. Proprio Arato di Sicione, che aveva a suo tempo dato una decisiva scossa al dominio
della Macedonia sulla Grecia, chiamava nel Peloponneso Antigono Dosone, offrendogli la restituzione della base di Corinto
(224), che vent’anni prima era riuscito a liberare. È una svolta decisiva nella politica achea, che legherà decisamente le politiche
degli Achei e della Macedonia per un buon venticinquennio, attraversando ben quattro conflitti: 1) la guerra con Cleomene, che
si sta svolgendo; 2) la guerra sociale (symmachikòs pólemos) tra le due potenti federazioni, l’achea e l’etolica (220–217); 3) la I
guerra romano-macedonica (215-205); 4) i primi due anni della II guerra romano-macedonica (200-198 a.C.). La Lega achea si
avvia così verso quella politica collaborazionista, che continuerà poi per alcuni decenni nei confronti di Roma (di contro a una
Lega etolica capace di viva resistenza nazionale). Cleomene III fu sconfitto da parte della nuova alleanza nella battaglia
combattuta nel 222 nella valle dell’Eurota. Qualche mese dopo moriva Antigono Dosone (222/1) combattendo contro gli Illiri; e
gli succedeva sul trono di Macedonia Filippo V. Questi continuò la politica filoachea; tra il 220 e il 217 Filippo si impegna in una
guerra tanto dura contro irrisolutiva a fianco degli Achei contro gli Etoli: ad incitarlo al conflitto è l’incombente presenza di una
potenza come quella etolica, che estende i suoi domini lungo tutta la fascia centrale del territorio greco. La pace di Naupatto
(217), l’ultimo accordo stipulato fra soli Greci, chiudeva un conflitto su cui già allungavano la loro ombra le nubi che provenivano
da Occidente (secondo la celebre immagine del pacifista Agelao di Naupatto, che con ciò faceva esplicito riferimento ai possibili
esiti dello scontro epocale che si svolgeva in Occidente tra Romani e Cartaginesi, scontro i cui vincitori avrebbero poi rivolto la
loro attenzione alla Grecia). Sullo scorcio degli anni ‘20 del III secolo si pone l’inizio del regno di un sovrano, Antioco III di Siria, il
Grande, che, se rappresenta un’epoca di significativa ripresa del regno seleucidico, e di ricostituzione dell’unità dell’impero,
approda poi al confronto con Roma nella guerra degli anni 192 e seguenti, conclusa dalla pace di Apamea (188), che è anche
l’avvio del declino del regno di Siria. Un’intera parabola dunque, quella del regno di Antioco il Grande, che passa per la
repressione di rivolte in diverse satrapie, la grande spedizione per il recupero delle satrapie orientali, fino all’Indo e il fortunato
ritorno, la vittoria sugli Egiziani nella V guerra di Siria, l’espansione in Asia minore e in Tracia, per imboccare infine la curva
discendente nel conflitto con Roma.

PARAGRAFO XIV I regni ellenistici: il territorio, la popolazione, le città


Dei nuovi stati a dirigenza macedone e greca, sorti in seguito alle conquiste di Alessandro Magno e al successivo
smembramento del suo impero, l’aspetto più caratteristico è l’estensione territoriale: un dato fondamentale, cui conseguono
direttamente vari altri, di ordine demografico, amministrativo, socio-economico, politico. Alla grande estensione territoriale
sono collegati, come conseguenze immediate, il numero cospicuo di abitanti, e in molti casi il carattere composito della
popolazione dal punto di vista etnico, nonché l’eterogeneità dei caratteri geografici ed economici del territorio. Manca un centro
urbano unico, intorno a cui la chóra si disponga e si distenda, quasi in fasce circolari, come è nel caso della pólis; né vi si riscontra
una pluralità di centri equivalenti in diritto, o politicamente collegati con un centro egemone, come è in una lega o in uno stato
federale. Lo stato monarchico territoriale comporta l’esistenza di una capitale, cui si affianca una chóra, in cui sorgono altre
póleis (questo, tutto sommato, è il caso di Alessandria, nel suo rapporto con l’Egitto), o di una capitale primaria, accanto a cui
sussistono alcune secondarie (come è il caso di Antiochia sull’Oronte, Seleucia sul Tigri, Sardi nel periodo di maggiore fulgore del
regno seleucidico), e di un territorio che presenta una notevole complessità di strutture geografiche, etniche, economiche,
politiche.
La vastità della chóra disponibile in generale è la causa immediata dell’estensione del territorio appartenente allo Stato, o al re in
quanto incarna lo Stato, della chóra basiliké, accanto alla quale sussistono proprietà private e templari. Il territorio dei regni
ellenistici per la sua estensione si presta inoltre ad una suddivisione che risponde ad esigenze di carattere amministrativo,
fiscale, giudiziario, mentre la prima conseguenza sul piano dell’organizzazione militare è la dislocazione delle forze in più punti,
cui si accompagna la creazione di più centri di comando, ovvia occasione di conflitti. Dal punto di vista delle forme politiche
espresse, il territorio di un regno ellenistico presenta una varietà, determinata dalla presenza, nel tessuto compatto della chóra
del regno, di entità politiche autonome, come le póleis, organizzate di norma secondo gli istituti della demokratía e fornite di un
più o meno alto grado di autonomía e di eleuthería. Le strutture politiche fondamentali dei regni ellenistici non rappresentano
una novità sostanziale nella storia di quegli spazi geografici e politici. Il regno seleucidico eredita la maggior parte dei territori e
delle relative strutture dell’impero persiano; l’Egitto recupera strutture di epoca faraonica. La novità consiste nel sopravvenire di
un elemento etnico estraneo alla regione, nettamente minoritario, e differente da qualsivoglia fra gli elementi etnici prevalenti
in epoca precedente. Nell’impero seleucidico i Macedoni non dovettero mai superare il 10%, e in Egitto rappresentavano una
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percentuale ancora più bassa. La presenza greca era assicurata da un lato da una forte immigrazione, che avveniva così al livello
di soldati, di uomini di cultura o persone professionalmente qualificate, come anche di piccoli e grandi commercianti, dall’altro
dalla sopravvivenza di vecchie città greche, numerose soprattutto sulle coste dell’Egeo. Per tutti questi elementi rappresentava
una novità la creazione di stati a dirigenza greco-macedone, rispetto agli stati che li avevano preceduti e in cui gli elementi greci
avevano costituito un corpo estraneo e in qualche modo sottomesso. Ma tutto sembra mostrare che i Greci non arrivassero mai
ad elaborare una teoria politica dello stato ellenistico, inteso come fusione di elementi etnici diversi e distribuzione di
responsabilità politiche fra queste stesse componenti. Che Alessandro Magno abbia praticato una politica di fusione tra
Macedoni e Orientali è cosa che vien molto naturale ammette sia sulla base della politica matrimoniale da lui perseguita (si pensi
al suo matrimonio con Rossane, e poi con Statira e con Parisatide, e alle nozze in massa dei suoi ufficiali con donne iraniche), sia
in considerazione di aspetti dell’organizzazione militare da lui voluta (un corpo di 30.000 epígonoi persiani, addestrati nel suo
esercito; inserimento di cavalieri battriani nella cavalleria eterica; ammissione di singoli nobili persiani nel ruolo dell’ágema) e del
suo comportamento personale e di governo. Certo, non mancarono drammatici ritorni indietro, nella politica perseguita da
Alessandro verso gli Orientali (si pensi all’eliminazione violenta dei satrapi persiani della Perside e della Susiana); ma nell’insieme
una politica di fusione, almeno sul piano delle strutture amministrative militari e civili, doveva essere nei piani di Alessandro. Un
completo rovesciamento della situazione sotto i Diadochi è ammesso in generale dagli studiosi, ma forse con troppa facilità.
Diciamo che un’inversione totale di tendenza non era neanche possibile pensarla, in un regno come quello dei Seleucidi; altrove,
come in Macedonia, il problema non si poneva nemmeno; fra i tre grandi regni ellenistici, quello in cui poteva verificarsi, e in
larga misura si verificò, un mutamento di rotta in fatto di rapporti fra Greco-Macedoni e indigeni, nella direzione della
separazione, era l’Egitto.

PARAGRAFO XV Le forme della monarchia ellenistica. Le strutture militari


E. Bikerman ha formulato in maniera precisa i fondamenti su cui poggia la monarchia ellenistica: 1) il diritto di vittoria; 2) la
trasmissione ereditaria del diritto una volta acquisito. Il concetto di chóra doríktetos (terra acquistata con la lancia) è richiamato
più volte in Diodoro per fatti relativi al periodo 334-301 a.C., mentre le pretese di Antioco III sulla costa egea della Tracia sono
fondate proprio su questo concetto, secondo Polibio. L’importanza dell’idea è diversa comunque da regno a regno e nelle
diverse epoche. La monarchia si fondava sulla capacità di guidare un esercito e di amministrare saggiamente la cosa pubblica:
una concezione che si contrapponeva all’idea che la posizione monarchica fosse fondata o sulla nascita o su un diritto. A sua
volta il sovrano diventa legge animata e vivente, nómos émpsychos. Le definizioni teoriche della figura e delle funzioni del re
dell’età ellenistica ne indicano tre funzioni essenziali: 1) comandante militare; 2) giudice; 3) sacerdote. Tali caratteri saranno stati
più o meno comuni a tutte le monarchie ellenistiche, ma non senza sfumature e varianti, nei diversi casi. Il re-generale è
caratteristico della Macedonia, ed è certamente anche un portato del predominio storico di essa, se l’età ellenistica si configura
come età militare per eccellenza, dove il „militare‟ predomina sul „politico‟, almeno quanto, nella pólis classica, esso era invece
espressione e funzione del „politico‟. Questi caratteri si trovano anche nella prassi dei re seleucidi: si tratta di re combattenti e
conquistatori (come osserva Bikerman, dei quattordici re che si succedettero fino ad Antioco VII, ben dieci trovarono la morte
sul campo di battaglia). Un po’ diverso è il caso dei Tolemei: anche se nella dinastia sono presenti diverse figure di conquistatori
e combattenti, l’ideologia del sovrano tolemaico però appare in qualche misura ancorata di più a quella faraonica, dove il re è
l’incarnazione innanzi tutto della giustizia divina. Riassumendo: lo stato monarchico ha un’estensione che coincide con quella
della chóra doríktetos e della popolazione che vi risiede; un vertice che coincide con il re-generale; un supporto di fatto che
coincide con le dynámeis, le forze armate. La fondamentale opera di M. Launey sulle armate ellenistiche approda al risultato di
una notevole penetrazione degli elementi non greco-macedoni nelle armate ellenistiche, determinata innanzi tutto
dall’incapacità demografica dei Greci e dei Macedoni di far fronte alle esigenze militari dei vari stati, monarchici o cittadini che
fossero. A fornire uomini alle armate provvedono, nel primo ellenismo, la penisola balcanica (soprattutto la Tracia), e l’Asia
minore (soprattutto Misia, Caria, Licia, Panfilia e Cilicia); a partire dal II secolo a.C. subentrano Iranici, Semiti (soprattutto Giudei e
Idumei), ed Egiziani. Per fare un esempio statistico. A Rafia (217) l’esercito seleucidico già contiene un 70-80% di orientali. Quello
dell’esercito è un terreno su cui si può valutare il rapporto dell’elemento militare col potere centrale da un lato, e l’integrazione
tra stranieri e indigeni, dall’altro: e ciò in Egitto molto meglio che in altri regni ellenistici. Ivi l’esercito è un terreno di confronto
tra gli stranieri, affluiti dalla Grecia, Asia minore, Palestina, fin verso la fine del III secolo a.C., gli indigeni e il popolo dominatore.
Non sembra comunque potersi parlare di vera integrazione: le unità restavano separate, la lingua differente, anche se non
manca qualche scambio nell’ambito di koiná cultuali.

PARAGRAFO XVI La Sicilia, Cartagine e l’Italia nella politica di Agatocle di Siracusa


L’assetto dato da Timoleonte alla Sicilia greca durò all’incirca un ventennio. Ma furono proprio le caratteristiche del regime da
lui instaurato a Siracusa a dare il via a una crisi dei rapporti politici interni, poi a una piena ripresa dell’ostilità punica, sempre
latente, ma per sua natura tarda a tradursi in azioni aggressive di ampio respiro, e inoltre fino ad allora tenuta a freno dal dato
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rassicurante dell’assenza di un forte potere militare nella Sicilia orientale. All’interno di Siracusa il governo oligarchico viene
rovesciato dai democratici; riesce a riaffermarsi a stento soltanto per l’intervento di Corinto, e col sostegno della stessa
Cartagine. Fra gli esuli democratici di questa volta c’è Agatocle: i primi anni della sua attività politica sono caratterizzati da un
susseguirsi di esili, e anche però dall’acquisizione di posizioni di forza in città vicine a Siracusa (Morgantina, Leontini). Ne derivò
un compromesso con gli oligarchici, ai quali fu lasciato il potere all’interno della città, mentre i presidii extra-siracusani erano
affidati ad Agatocle (319/8). Presto però questi riuscì ad espellere da Siracusa gli avversari, e a ottenere la carica di stratego
unico, rispettando in un primo momento la costituzione timoleontea, ma adottando misure popolari, quali l’abolizione dei debiti
e una ridistribuzione delle terre (316). Un intervento di Sparta contro Agatocle, mediato da Taranto, fallisce (il re spartano
Acrotato uccide il capo del partito oligarchico siracusano, Sosistrato). La posizione di Agatocle si rafforzava così anche nei
confronti dei Cartaginesi, che riconoscevano l’egemonia di Siracusa, cioè di Agatocle, sulle altre città della Sicilia orientale. La
politica di Cartagine era stata fino ad allora di tolleranza e talora persino di connivenza con Agatocle, più che altro per
responsabilità di Amilcare. Dopo la morte di questo, la situazione era di nuovo in movimento, e Agatocle decise di prendere
l’iniziativa antipunica, nel 311, con un attacco ad Agrigento. I Cartaginesi intervenivano in difesa della città, nel territorio di Gela,
dove assestavano un duro colpo ad Agatocle alla foce del fiume Imera (giugno 310). Ne seguì la defezione delle solite città
greche recalcitranti al dominio siracusano, da quelle della costa occidentale (Camarina) ai centri dell’area etnea (Leontini,
Catania, Tauromenio), a Messina. Con una decisione imprevista e geniale, Agatocle trasferì allora la guerra in Africa, sbarcando
14.000 uomini al Capo Ermeo: prese Megalepoli e Tunisi, e s’accampò davanti a Cartagine; l’esercito punico accettò la sfida, ma
dovette ripiegare sotto i colpi dell’armata di Agatocle, che ormai controllava il territorio, occupava Neapolis, Adrumeto e Tapso,
e sconfiggeva nuovamente presso Tunisi i Cartaginesi. Parte delle truppe puniche avevano dovuto nel frattempo lasciare la
Sicilia, per correre in difesa del territorio metropolitano; il resto subì una nuova sconfitta ad opera dei Siracusani. In Africa
Agatocle s’intendeva con il signore di Cirene, Orfella, col quale stringeva un patto di spartizione dei domini cartaginesi, che
avrebbero dovuto essere attribuiti per la parte siciliana ad Agatocle e per la parte libica ad Ofella. Quest’ultimo raggiungeva
(309) Agatocle sotto Cartagine, ma fra i due scoppiavano dissensi culminati in uno scontro armato, in cui Ofella perdé la vita,
mentre il suo esercito passava sotto le insegne del siracusano. Una dopo l’altra cadevano ormai nelle mani di questo le città
suddite di Cartagine, da Utica a Hippou Akra. Cartagine restava però in piedi; Agatocle perciò lasciava gran parte dell’esercito in
Africa al comando del figlio Arcagato, e faceva rientro in Sicilia (primavera 307), per fare il punto della situazione e riprenderne il
pieno controllo. Eraclea, Segesta e Terme passavano sotto il controllo di Agatocle; minor fortuna egli ebbe con l’esercito degli
oppositori: di fronte alla sua imponenza dovette ripiegare. In Africa intanto i Cartaginesi, destati alla riscossa non da ultimo
dall’assenza dell’audace e fortunato generale siracusano, riuscivano a riconquistare la maggior parte delle posizoni perdute e a
chiudere Arcagato in Tunisi, in una morsa che Agatocle non riuscì ad allentare neanche con una reiterata incursione in Africa. Fu
la fine dell‟audace spedizione: le truppe al servizio dei Siracusani si ribellarono agli sconfitti e trucidarono Arcagato e un altro
figlio di Agatocle. Dopo un accordo con Cartagine, Agatocle poté affrontare in battaglia l’esercito degli emigrati siracusani,
assestandogli il colpo decisivo: Agatocle era finalmente legittimato all’interno come all’esterno, e poté assumere il titolo di
basileús, nella scia dei Diadochi di Alessandro Magno, e sposare anche una figlia di Tolemeo I, Teossena. Agatocle si rivela
personaggio capace di concepire piani di ampio respiro, che comportano la centralità di Siracusa, l’unificazione tendenziale della
Sicilia, un orizzonte strategico così vasto da includere un attacco diretto ai territori africani di Cartagine, un orizzonte politico e
diplomatico che coinvolge, sempre in prospettiva anticartaginese, lo stesso Egitto tolemaico. Non sorprende che egli, finita
l’avventura africana, riprenda i piani di Dionisio I per la costituzione di un dominio in Italia e la creazione di stabili punti
d’appoggio siracusani nell’Adriatico – l’eredità di Dionisio I, in tema di politica territoriale ed egemonica, viene dunque per intero
assorbita da Agatocle e persino trasferita a un livello di maggiore completezza ed organicità. Va ricordato il giudizio di Polibio su
di entrambi: in loro si riconosce non solo la capacità di fare carriera, partendo da umili origini (Agatocle avrebbe cominciato
lavorando al tornio e alla fornace, come ceramista), ma anche di diventare, oltre che tiranni di Siracusa, “basileîs di tutta la Sicilia
e signori di alcune parti d’Italia”. In Italia, dopo la conclusione (304) della seconda guerra romano-sannitica, Tarando vede
lucidamente da che parte proviene il pericolo indigeno: da Roma, con cui essa stipula, circa il 303/2, il cosiddetto trattato del
capo Lacinio, che ne vieta l’attraversamento a una flotta romana da guerra. Taranto dunque, alla fine del IV secolo, prevede lo
scontro con Roma, ma combatte ancora gli ultimi conflitti con i Lucani, che ora si schierano con Roma. La città greca chiede
ancora aiuto alla madrepatria Sparta, che nel 303 invia un esercito di mercenari al comando di Cleonimo, che agisce con i modi
spregiudicati del condottiero e dell’avventuriero, usando i Lucani contro gli stessi greci di Metaponto; impadronendosi poi di
Corcira e arrivando addirittura alla laguna veneta, dove subì una sconfitta da parte di quelli di Padova. A questo punto, contro gli
Italici i Tarentini non possono che chiedere aiuto a Siracusa, cioè ad Agatocle. Questi conseguì alcuni primi successi contro gli
Italici, con l’aiuto dei Bretti; nel frattempo conquistava anche l’isola di Corcira, che diede in dote alla figlia Lanassa quando questa
fu data in sposa al re d’Epiro, Pirro (295). Sulla via del ritorno da Corcira dovette fronteggiare la ribellione dei Bretti; occupò
Crotone e forse anche Locri in funzione anti-romana; rientrato in Sicilia, tornò ad invadere il territorio brettio con un esercito di
30.000 uomini, e ottenne la resa della bellicosa popolazione; ma appena Agatocle fu rientrato in Sicilia, la ribellione brettia gli
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scoppiò nuovamente alle spalle. Gli ultimi anni Agatocle è lì a tessere la sua tela grandiosa, alla prova dei fatti troppo ambiziosa
per le forze la durata della vita di un individuo: allestisce una grande flotta, destinata sempre al sogno della guerra
anticartaginese; rompe con Pirro; fa divorziare da lui la figlia Lanassa, che resta in possesso di Corcira. Ma una grava malattia
accelera la fine del sovrano siracusano, ormai settantaduenne. Con la fine del re siracusano, tutti i tradizionali problemi della
storia politica della Sicilia (conflitti fra Greci e Cartaginesi; conflitti all’interno del mondo greco; problema dei mercenari di origine
extra-siceliota) si ripropongono puntualmente, senza che ci sia più un uomo capace di venirne a capo in una linea di politica
d’indipendenza. Sicché ormai i problemi del governo della Sicilia si incaricheranno di risolverli potenze estranee all’isola. Si va
costituendo il terreno per quella prima guerra tra Cartagine e Roma, in cui una larga parte dei Sicelioti sentirà la propria sorte e
cultura meglio rappresentata da Cartagine che non da Roma. Ancora una volta Siracusa (allora sotto il governo di Ierone II)
rappresenterà l’intera parabola dei sentimenti e degli atteggiamenti greci e farà presto la scelta militarmente e storicamente
vincente.

PARAGRAFO XVII La grecità d’Italia e di Sicilia dalla spedizione di Pirro alle guerre puniche
Nei confronti dei Lucani, Taranto voleva esercitare in prima persona la funzione di tutrice delle popolazioni greche; quando
perciò, nel 282, Turi chiese aiuto ai Romani contro i Lucani, e Roma inviò G. Fabrizio Luscino con un esercito che sgominò gli
Italici, Taranto reagì come di fronte a un’interferenza grave: sequestrò una squadra navale romana, che era comparsa nel golfo
di Taranto, e impose alle truppe che presidiavano Turii di lasciare la città. Taranto capiva che l’intervento romano a tutela di una
città greca del golfo tarentino comportava un salto di qualità nella politica della città latina verso la Magna Grecia, svolta che
significava ormai l’arrivo delle armi di Roma fino all’ultima spiaggia della grecità italiota, quella che era stato storicamente il
nucleo stesso della Magna Grecia. Come già mezzo secolo prima ad Alessandro il Molosso, Taranto si rivolgeva ancora una volta
a un re epirota, perché esercitasse una funzione di tutela, che la grecità d’Italia chiedeva contro il ben più temibile barbaro che si
affacciava ormai sulla costa greca. Pirro, sfortunato pretendente al trono di Macedonia, aveva le mani libere per un’impresa del
genere, e Tolemeo Cerauno, salito al trono macedone nel 281, gliene fornì i mezzi, in uomini (5000 fanti e 4000 cavalieri) ed
elefanti (50). Con la spedizione di Pirro, l’Oriente ellenistico s’immette di forza nella storia dell’Occidente greco, ma solo per
registrare la fine dell’indipendenza di quest’ultimo. Pirro considerava l’azione in Italia quale preludio alla conquista della Sicilia; il
disegno di assoggettarsi l’isola era stato preparato anche dalle intese con Agatocle, ed era confortato dall’esistenza di un figlio
dato a Pirro da Lanassa (Alessandro), al quale era probabilmente destinato il regno sull’isola, come appendice di un regno
paterno impiantato nella penisola greca. La storica traversata (diábasis) dell’Adriatico da parte di Pirro avvenne nel maggio del
280. Egli portava con sé un cospicuo esercito (circa 25.000 tra fanti e cavalieri). Ad Eraclea ebbe luogo il primo scontro con i
Romani, che fu vittorioso per l’epirota, ma costò 4000 uomini, contro i 7000 caduti di parte romana. Nel clima della vittoria si
crea quell’unione greco-italica contro Roma, che era stata già da tempo il programma politico di Taranto. Sanniti, Lucani e Bretti,
e, fra i Greci, Crotone e Locri passano subito dalla parte del re epirota. Pirro si spinse fino ad Anagni, nella sua avanzata verso
Roma, che però veniva subito validamente presidiata con truppe fatte rientrare dall’Etruria e con nuove leve. Già allora
cominciano tra i Romani e Pirro trattative di pace (la cui esistenza chiarisce di per sé i limiti della spedizione dell’epirota); ma esse
si rivelano infruttuose, anche per l’opposizione di Appio Claudio Cieco. Nel secondo anno (279), Pirro cerca di venire a capo dei
Romani anche in Apulia: i Romani furono nuovamente battuti, ma ancora una volta le perdite di Pirro si avvicinavano a quelle
subìte dagli sconfitti (4000 caduti contro 6000 del nemico). La ripresa delle trattative (che nell’intenzione di Pirro dovevano
produrre la rinuncia di Roma al dominio sull’Italia meridionale, nella componente greca, come in quella italica dai Sanniti ai
Bretti) fu resa vana dall’intervento di Cartagine, che consolidò e ampliò i vecchi trattati con Roma, e che mirava soprattutto a
bloccare il prevedibile intervento di Pirro contro i Cartaginesi, i quali cingevano d’assedio Siracusa. Chiamato dai Greci di Sicilia,
Pirro passò nell’isola nell’autunno del 278, confermando così il carattere della sua missione, che era di liberazione dell’intera
grecità occidentale dalla minacce incombenti, sia quella di Roma in Italia, sia quella di Cartagine in Sicilia. Chi pensi alla storia dei
decenni successivi, che nel Mediterraneo occidentale saranno occupati dal confronto tra Roma e Cartagine, misurerà a pieno la
portata storica del tentativo di Pirro di bloccare due forze crescenti, minacciose per la libertà d’azione dei Greci e destinate a
scontrarsi fra di loro. In Sicilia Pirro rimase per tutto il 277, e ancora il 276, per ripartirne nella primavera del 275. Nell’isola
l’avanzata del re era stata dapprima travolgente: erano cadute nelle sue mani Selinunte, Alicie, Segesta; ma la marcia si era poi
arrestata di fronte alla munitissima fortezza punica di Lilibeo. I Cartaginesi offrirono a questo punto la pace, a patto di conservare
Lilibeo: Pirro, sollecitato dai Sicelioti, rifiutò e tentò di prendere Lilibeo con un assedio che dopo due mesi dové togliere. Presto
scoppiarono dissensi tra il re e i Greci di Sicilia, insofferenti della disciplina e dei tributi imposti dal conquistatore sopravvenuto.
Pirro giustiziò addirittura il governatore di Siracusa; e cadde nel vuoto il suo invito a trasferire, come Agatocle, la guerra in Africa.
Durante la spedizione di Pirro in Sicilia, i Romani avevano recuperato molte delle posizioni perdute fra gli Italici come fra i Greci;
la stessa traversata di ritorno del re epirota nella penisola, dove la sua presenza era richiesta dagli abitanti delle città greche, non
fu senza difficoltà. Già la flotta punica cercò di ostacolarlo; e sulla terraferma lo scontro, avvenuto nel 275 presso Maluentum,
tra i Romani e Pirro, segnò la vittoria dei primi. In tutta fretta Pirro abbandonò Taranto nello stesso 275 con gran parte delle sue
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forze, lasciandovi (fino alla resa di Taranto a Roma nel 272) un presidio al comando del figlio Eleno; rientrò in Grecia dove voleva
contendere ad Antigono Gonata il regno di Macedonia. L’irruzione dell’epirota in Macedonia (primavera del 274) e in Tessaglia
fu al momento un successo; le ripetute sconfitte subìte da Antigono incoraggiarono nel Peloponneso la Lega achea, da pochi
anni ricostituita, a una ribellione contro la Macedonia e poi a una politica di indipendenza e di ostilità anche nei confronti di
Sparta. Trasferitosi nel Peloponneso, Pirro vi fu accolto da molti come liberatore, e si spinse fino a minacciare la stessa Sparta,
che però ancora una volta si rivelava imprendibile senza un duro assedio; Pirro del resto vi rinunciò, limitandosi a saccheggiare la
Laconia e puntando poi su Argo, su cui moveva, da Corinto, Antigono Gonata. Pirro offrì invano battaglia al Gonata; decise poi di
entrare in Argo, dove aveva partigiani che gli aprirono di notte una porta. Egli si spinse incautamente all’interno di una città che
in gran parte gli era nemica, e nel corso di un combattimento confuso e difficile per le strade cittadine, rimase ucciso (autunno
del 272). Intanto Roma consolidava le sue posizioni sulla costa greca d’Italia: Taranto si arrese nel 272, dopo il ritiro della
guarnigione epirota seguito alla morte di Pirro. Taranto dovette accogliere una guarnigione romana, dare ostaggi, assicurare un
contingente navale a Roma. In Sicilia intanto si andavano creando le premesse per quell’adattamento dei Greci alla nuova realtà
dell’avvento del dominio di Roma, che nell’Italia meridionale, dopo il ritiro di Pirro, si presentava ormai come un processo
storico difficilmente reversibile, e che la vittoria su Annibale nella II guerra punica (218-201) sancì come irreversibile. Ancora una
volta Siracusa fu teatro dell’avvento di un potere personale, quello di Ierone II – il suo lunghissimo regno (morto nel 215) segnò
in profondità la storia della Sicilia greca nella delicata fase di trapasso dal periodo del cronico confronto con Cartagine al periodo
del dominio di Roma (che circa il 227, e poi di nuovo e definitivamente nel 210 a.C., ordinerà la Sicilia a provincia). Con la tentata
traversata di Appio Claudio nel 264 e la riuscita diábasis dello Stretto ad opera di M. Valerio nel 263, cominciava la I guerra
punica (264-241), che doveva rendere i Romani padroni della Sicilia, ponendo fine, dopo circa tre secoli, all’esistenza di un
dominio cartaginese nell’isola. Anche l’elemento greco dovette adattarsi a una situazione radicalmente nuova in Sicilia. Ierone
aveva stretto alleanza in un primo momento con i Cartaginesi, ma, dopo lo sbarco e le prime vittorie romane, egli decise di voltar
pagina: nessuna resistenza perciò trovò l’esercito romano che nel 263 avanzava da Messina e prendeva successivamente
Adrano, Alesa, Catania, Camarina e Gela. Quando M. Valerio si avvicinò a Siracusa, trovò Ierone disposta a cedere assai più che a
combattere: il re accettò infatti di rinunciare alle città conquistate da Roma, e a confinare il suo dominio a Siracusa, Leontini,
Acre, Noto e Tauromenio; si impegnò al versamento di 100 talenti e naturalmente si alleò con Roma contro Cartagine. Come già
in Italia, nonostante le cospicue resistenze e i progetti diversi che erano di volta in volta affiorati (e che nella duplice spedizione di
Pirro avevano trovato la loro più sistematica espressione), anche in Sicilia si determinava quel blocco storico tra Romani, Greci e
Italici, che doveva produrre, come esito ultimo, la costituzione di una nuova, composita ma fondamentalmente salda unità
culturale, a detrimento di altri elementi, destinati a rimanere estranei alla compagine della nuova Italia.

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CAPITOLO XII Il mondo greco e Roma

PARAGRAFO I Le guerre illiriche e la I guerra macedonica (229-205)


Le ripetute aggressioni compiute dai pirati illirici ai danni dei commercianti italici portano ad una protesta presso il Senato
romano nel 230. Anche città greche coe Corcira, Apollonia, Epidamno e Issa ricorrono alla fides con Roma per proteggersi dagli
Illiri. Inviata senza successo un’ambasceria presso la regina illirica Teuta, i Romani nel 229 promuovono un intervento miltare:
l’anno successivo, 228, si instaura un protettorato romano sull’Illiria. Dieci anni dopo, Demetrio, dinasta di Faro,arreca danni alle
città di area illirica: nel 219 vi è un secondo intervent romano che porta all’espulsione del dinasta. Filippo V di Macedonia
intuisce che i Romani sono un pericolo, perciò nel 215 stipula un giuramento d’intesa con Annibale. A patti con i Romani scende
la Lega etolica, cui si aggiungono Elide, Messenia e Sparta. Anche Attalo I di Pergamo si allea con i Romani. Vi fu un primo
confronto tra Filippo e gli Etoli, con uno scarso intervento romano, che vide la pace nel 206. Con i Romani, Filippo stipulò la pace
di Fenice nel 205, grazie alla quale conservò la Atintania, cedendo a Roma Partinia ed alcune località illiriche. Nell’autunno del
198, Roma acquisisce l’allenza della Lega achea, riuscendo così ad avere il patronato panellenico.

PARAGRAFO II La II guerra macedonica


Negli ultimi anni del III secolo, Filippo V di Macedonia promuove una politica di espansione del suo regno verso l’Egeo
settentrionale. Cadono sotto il suo controllo varie città presso gli Stretti, tra cui Lisimachia nel 202. Attalo I, con Bisanzio, Cizico e
Rodi alleate, promuove una battaglia navale presso Chio (201) in cui il macedone viene sconfitto e si porta in Caria. I Romani a
questo punto intervengono, sollecitati da Attalo, preoccupato per un presunto patto segreto di Filippo con la Siria: nell’agosto
del 200 M. Emilio Lepido rivolgeva a Filippo V, ad Abido, la richiesta di smettere la guerra contro i Greci e ritirarsi in Asia. La
richiesta fu immediatamente respinta e, dopo due spedizioni infruttuose di P. Sulpicio Galba Massimo e P. Villio Tappulo, nel 198
T. Quinzio Flaminino ottenne delle vittorie e ebbe alleata la Lega achea. A Nicea si tentò una trattativa tra Filippo e Flaminio,
fallita. Flaminiò prese la Locride, Filippo avanzò in Tessaglia dove nel 197 vinse la battaglia campale a Cinoscefale. Nell’inverno
del 196 si giunse ad una pace: Filippo perse i possedimenti in Grecia ed in Asia Minore, fu obbligato a fornire truppe ai Romani e
dovette pagare 1000 talenti d’argento come riparazione. Dopo aver sconfitto il ribelle tiranno spartano Nabide (192) con l'aiuto
di Macedoni, Tessali, Achei, Pergamo e Rodii, e avergli concesso la reggenza della città sotto il dominio romano – quando ormai
«proscrizioni e uccisioni di ricchi, liberazione di schiavi e iloti, ridistribuzioni di terre, misure monetarie e sui debiti caratterizzano
un regno, che cambiò il volto storico di Sparta» –, Flaminio alle Feste Istmie (aprile) del 196 proclamava l’indipendenza dei Greci
dalla Macedonia (riferendosi a Corinzi, Euboici, Focesi, Locresi, Tessali e loro perieci).

PARAGRAFO III La guerra romano-siriaca (192-188)


Vi fu poi la «guerra romano-siriaca» (192-188) tra Roma e Antioco III, che in vari modi suscitava «sospetti» antiromani da diversi
anni; questi fu sconfitto in più occasioni – alle Termopile nel 191 da M. Acilio Glabrione, in Asia Minore lo stesso anno, e a
Magnesia del Sipilo nel 189 da L. Cornelio Scipione, col fratello Publio Cornelio Scipione l'Africano come consigliere, insieme a
Eumene II di Pergamo – e seguì la pace di Apamea (188) dove Antioco III rinunciò alle terre, estradò Annibale (che aveva
protetto fino a quel momento) e pagò ingenti somme di denaro. Così era avvenuto anche con gli Etoli, battuti nel 189 da M.
Fulvio Nobiliare.

PARAGRAFO IV Roma, la lega achea, la Macedonia di Perseo


Intanto il figlio e successore di Antioco III, Seleuco IV, si avvicinò alla Macedonia con il matrimonio tra Perseo, successore di
Filippo V di Macedonia (179), e sua figlia Laodice. Intervennero però i Romani: prima con Q. Mario Filippo (172) e poi con L.
Emilio Paolo che sconfisse a Pidna il re Perseo, salvatosi con una vile fuga ma morto poi in prigione quando venne catturato dai
Romani. Fu a questo punto che la Macedonia venne divisa in quattro repubbliche con capitali Pella, Pelagonia, Tessalonica e
Anfipoli, scelte strategicamente e tutte con i divieti di commercio, costruzione navale ed estrazione mineraria. L'interferenza
romana era ormai ovunque; anche in Egitto, col «cerchio di Eleusi» (o «di Lenate»), del 168, in cui Q. Popilio Lenate a Eleusi
impose ad Antioco IV Epifane «di lasciare il paese dopo avergli tracciato intorno un cerchio, entro il quale Antioco doveva
scegliere fra l'obbedienza ai Romani e la guerra».

PARAGRAFO V La politica romana nel Mediterraneo orientale dopo Pidna


Dopo Pidna, Roma fu più restia agli accordi e cambiò «politica» sia in Grecia che in Asia, preferendo «ancorarsi alle città che ne
rappresentano i vecchi valori, Atene e Sparta, che del resto già da decenni avevano ricevuto l'attenzione e la protezione di
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Roma». La rivolta acaica (147-146) e l'episodio di Andrisco furono due emblemi delle reazioni a tale durezza: presunto figlio di
Perseo, Andrisco nel 151 e nel 149 si era ribellato a Roma e aveva ucciso P. Invenzio ma era stato sconfitto da Q. Cecilio Metello
nel 148 sempre a Pidna. «La Grecia è ridotta, nell'ottica romana, in una condizione quasi-museale, che ne mortifica la vitalità
politica, pur se se ne conserva o perfino consolida il ruolo culturale e l'immagine storica». Poco dopo la distruzione di Cartagine
(146 a.C.), fu epocale la distruzione della città di Corinto, nella guerra romana contro gli Achei in difesa di Sparta, città protetta.
La Siria, costretta dalle posizioni romane alla fusione culturale con Babilonia e i Giudei, riformò i costumi giudaici e proibì il culto
di Jahvé, sostituito da Zeus Olimpio; sebbene Giuda Maccabeo guidò una rivolta costituendo uno «stato giudaico» (152-142).
Invece il regno seleucida finì con l'uccisione in Media di Antioco VII Sidete (129) dopo il quale il regno cadde sotto il dominio
romano. In Egitto, i regni greco-indiani si integrarono e si registrò un rilevante processo di ellenizzazione dell'elemento indigeno
ma poi il regno si frantumò in tre: Alessandria, Cipro e Cirenaica. Poi Tolemeo VII, da Cirene, dettò un 27 testamento – prima
segreto, poi reso pubblico dopo un attentato al re – in cui favoriva Roma nel 162; in forza di un altro testamento, la Cirenaica
venne ereditata dai Romani solo nel 96, alla morte di Apione, e poi annessa nel 74. In Asia, la città fondata dal ribelle Aristonico
alla morte di Attalo III – Heliopolis, dedicata al dio Sole protettore della giustizia – preferì la protezione romana e, con M.
Perperna nel 130 e M. Aquilio nel 129, Roma potè annettere buona parte del regno, nel quale imperversarono così i
«publicani», avidi appaltatori di imposte romane.

PARAGRAFO VI - VII La crisi dei regni ellenistici nel II secolo a.C. – L’annessione dei regni ellenistici all’impero di Roma
I Romani completarono l'opera con l'annessione dei regni ellenistici: il regno dei Seleucidi (la Siria) fu annesso da Pompeo nel 63;
nel Ponto, il re Mitridate VI Eupatore (121-63) fece strage di Italioti per vendicarsi di Roma e dei suoi «publicani» trascinando
con sé anche Atene ma L. Cornelio Silla non tardò a saccheggiare Atene (86), i templi di Olimpia, l'Epidauro e Delfi, per poi
stipulare la «pace del Dardano» (85) mentre Pompeo – seppur imponendo come sempre forti tassazioni – liberare l'area dai
pirati; l'annessione dell'Egitto fu ritardato solo per interessi di personaggi romani come Antonio, Cesare ed altri, oltre che dalle
figure di Cleopatra (che darà un figlio a Cesare – Cesarione – e conquisterà Antonio dopo aver sostenuto Bruto e Cassio) e suo
fratello Tolemeo XIII (che consegnerà la testa di Pompeo a Cesare dopo la battaglia di Fàrsalo nel 48), ma da quando Tolemeo IX
Sotere II era morto (80), i suoi successori furono «marionette» in mano ai Romani tanto che, soprattuto dopo la vittoria di
Ottaviano su Antonio ad Azio (31), l'Egitto fu come una provincia romana.
Augusto sviluppò i centri greci, creò la provincia d'Acaia e trasformò Sparta in una città minore, nella quale potè emergere un
personaggio come l'affarista G. Giulio Euricle; Nerone dichiarò – ancora una volta – la libertà dei Greci (67 d.C.); Vespasiano (dei
Flavii) giudicò i Greci come incapaci e schiavi espellendo i filosofi da Roma e dall'Italia nel 74 d.C.; invece Adriano (degli
Antoninii), dal 117 al 138 d.C., consolidò la pace e l'Ellenismo concentrando la cultura soprattutto nei centri maggiori: «i Romani
(...) non potenziarono certo i Greci sul terreno politico (... difatti) la popolazione indigena continuò a vivere soprattutto in
campagna», tuttavia «i Greci (e i grecizzati) continuarono a praticare orgogliosamente proprie forme di vita e di cultura». Quale
possa essere il criterio storico per determinare la «fine della grecità» Musti ritiene sia «l'attenuarsi della funzione e
dell'irradiazione culturale della grecità». Dunque i fattori di accelerazione della crisi della grecità furono vari: la politica imperiale,
la pressione barbarica e le gravi calamità naturali e storiche. Sotto i Severi, il centro di gravità si spostò verso la Siria e alla crisi si
aggiunsero, da un lato, il fisco – presente a Roma con l'«editto di Caracalla» (212 d.C.) che estendeva la cittadinanza romana a
tutto l'Impero – e, dall'altro, il conflitto tra campagne e città, acuito da Massimino Trace (235-238 d.C.); i barbari (Goti, Burgundi
e altri) arrivarono nel 253 e gli Eruli nel 267, sebbene questi furono affrontati da Erennio Duxippo (nome greco-romano,
emblema del tempo). Infine il cristianesimo invase la romanità e le vecchie istituzioni culturali, anche se non furono Diocleziano
e Costantino a determinare propriamente la «fine» della grecità. Essa si può decretare invece con Giustiniano «che vietò la
retribuzione e l'esercizio dell'insegnamento pubblico dei maestri pagani ad Atene nel 529», quando cioè avvenne la «chiusura
della scuola di Atene».

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