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CLONAZIONE UMANA

I fatti
1987 Il prof. Wilmut e colleghi riescono a clonare una pecora: Dolly
2001 Il prof. Antinori afferma che nel mondo ci sono 7 gravidanze con embrioni umani clonati
2002 La Advanced Cell Technology riesce a ottenere un gruppo di cellule embrionali umane
clonate
2002 L'università di Edimburgo, ottiene il brevetto per l'isolamento e la modifica di cellule
staminali di mammifero.
2002 riuscito un trapianto d’organi ottenuto dalla clonazione di cellule staminali di vitello

La tecnica
Per clonazione si intende il processo attraverso il quale è possibile ottenere un clone, cioè un
organismo identico nel suo corredo genico all’organismo di partenza.
Questo processo avviene normalmente in tutti gli organismi unicellulari (microrganismi, alghe).
Spesso, però, si fa riferimento soprattutto alla tecnica eseguita su organismi superiori, in
particolare ai mammiferi, in quanto portante di una serie di problematiche.

Ci sono due modi per ottenere una clonazione, una è costituita dalla divisione di cellule
totipotenti come quelli embrionali (proprio come avviene per la formazione di gemelli
omozigoti), l'altra per sostituzione del nucleo di una cellula uovo (con genoma aploide, che si
dovrebbe ricombinare ed unire a quello proveniente dallo spermatozoo) con un nucleo di una
cellula adulta: sotto stimolazione questa può incominciare a duplicarsi e sviluppandosi, dare
luogo ad un organismo identico a quello della cellula donatrice. E' da notare che in questo
processo non si ha una ricombinazione, tuttavia non si tiene conto della componente ambiente
che risulta essere molto importante sopratutto per le caratteristiche, la maggior parte, che
vengono prodotte dall'interazione di molti geni o fenomeni superiori come la psicologia.
Il processo è ancora con un rendimento molto basso, circa il 2%, ma non sembrano esserci
particolari motivi per il quale la clonazione non possa essere portato a rese molto maggiori e
trasferite oltre che sui mammiferi anche sull'uomo. Alcuni pensano che ciò possa essere la
definitiva risposta al problema dell'infertilità di entrambi i componenti di una coppia, ma la
clonazione umana con finalità riproduttiva è vietata per legge negli Stati Uniti e in quelli
dell’Unione Europea ed è stata respinta da tutti gli organismi internazionali Consiglio d’Europa,
Parlamento Europeo, OMS, UNESCO).
La Advanced Cell Technology afferma che ha ottenuto un embrione (di poche cellule) umano
clonato per scopi terapeutici.
La cosiddetta “clonazione” terapeutica è uno dei mezzi proposti per ottenere “cellule
staminali”, che si presume possano essere utilizzate nella terapia di malattie degenerative. Di
qui l’aggettivo “terapeutico”.
L’embrione unicellulare o zigote, derivante dalla “fusione” dei genomi (complesso dei geni)
della cellula uovo e dello spermatozoo, è definito totipotente perché è in grado di sviluppare un
intero organismo, cioè un individuo in toto della specie codificata da quel genoma composito.
Già al quinto giorno di sviluppo tuttavia, quando l’embrione ha assunto la forma costituita da
alcune decine di cellule (blastomeri) detta di “blastocisti”, ha perduto questa proprietà. Le
cellule della sua “massa centrale” restano tuttavia multipotenti, in grado cioè di differenziarsi
in più e diversi tipi di cellule e tessuti, anche se incapaci di evolvere ciascuna in un individuo
completo, che è la peculiare caratteristica che si vorrebbe sfruttare in terapia. Le cellule della
“massa centrale” della blastocisti costituiscono perciò un primo tipo di cellule staminali, definite
“cellule staminali embrionali”
E' probabile che grazie a queste cellule un giorno saremo in grado di avere organi biologici
ottenuti proprio da noi, evitando così problemi di rigetto ed eliminando il grosso problema delle
donazioni di sangue o d'organi.
Esiste ormai un ampio consenso anche nella comunità scientifica che l'opinione pubblica nei
confronti di una nuova tecnologia costituisca uno dei fattori in grado di rallentarne o
velocizzarne lo sviluppo e/o l'applicazione. In modo particolare questo avviene con un acceso
dibattito per quello che concerne la biotecnologia. Infatti ancor prima che una qualunque
scoperta scientifica venga utilizzata, applicata e sviluppata esiste già un forte pensiero pubblico
che influenza il lavoro dello scienziato.

La percezione
Esiste ormai un ampio consenso anche nella comunità scientifica che l'opinione pubblica nei
confronti di una nuova tecnologia costituisca uno dei fattori in grado di rallentarne o
velocizzarne lo sviluppo e/o l'applicazione. In modo particolare questo avviene con un acceso
dibattito per quello che concerne la biotecnologia. Infatti ancor prima che una qualunque
scoperta scientifica venga utilizzata, applicata e sviluppata esiste già un forte pensiero pubblico
che influenza il lavoro dello scienziato.
Infatti, secondo un recente sondaggio eseguito da un quotidiano la realtà della clonazione,
annunciata dal mondo scientifico, spaventa oltre la metà delle persone. Su 100 intervistati, 55
hanno provato sgomento di fronte all’annuncio. Ma è importante osservare come si è
comportata l’altra metà: 21 su cento hanno detto di avere fiducia nella scienza; 23,5 hanno
invece ammesso di non essere stati colpiti particolarmente dall’annuncio. Si avvicina invece la
percentuale di chi vorrebbe proibire assolutamente la clonazione di embrioni umani con quella
di chi chiede una regolamentazione. Infine, una buona fascia di italiani, il 57,5 per cento, è
piena di speranze per i risultati scientifici nell’ambito dei trapianti e auspica quindi che la
ricerca vada avanti.
E’ da notare una dichiarazione agli inizi degli anni ’70 quando il sindaco Al Velucci di
Cambridge, Massachusetts disse che se il MIT facesse batteri geneticamente modificati, "little
green monsters would come out of the sewers" (piccoli mostri verdi uscirebbero dalle fogne).
Batteri che ora fanno l'insulina ed altri prodotti farmaceutici, non piccoli mostri verdi. In realtà,
la clonazione sarà probabilmente usata dalla gente non fertile, o da omosessuali che ora usano
lo sperma, le uova, o gli embrioni donati. E’ sembra che la gente preferisca di gran lunga avere
bambini con i “propri geni” piuttosto che avere geni altrui in famiglia, anche per la possibilità
dell’introdurre geni portanti eventuali malattie (che non sono fenotipiche, perché portate su un
gene recessivo).
La discussione principale contro la clonazione è che ruberebbe gli individui della loro unicità,
un'unicità che qualcuno considera contro Dio o la Natura. Questa discussione è basata sul
presupposto che siamo niente più che “i nostri geni". In realtà, siamo molto più dei nostri geni.
La natura clona normalmente l’essere umano e anche frequentemente. Una su 67 nascite è
gemellare. Si chieda al gemello se lui o lei si considera un individuo o una copia di
qualcun'altro. I gemelli hanno lavori differenti, prendono malattie differenti, vivono esperienze
diverse durate la vita con il matrimonio, l'alcool, le malattie mentali e l'omosessualità.
Teologicamente, hanno anime differenti, come gli individui clonati. Anche se qualcuno clonasse
2.000 Napoleone, sarebbero tutti differenti, perché sarebbero cresciuti in famiglie diverse. I
bambini clonati probabilmente sarebbero ancor più diversi dai loro genitori che non i gemelli,
perché il bambino clonato sarebbe cresciuto in un periodo storico differente.

L’etica
E' importante ricordare che un comportamento bioeticamente corretto è osservare i principi
della sicurezza per gli operatori nel settore biotecnologie, per la salute umana e ambientale,
minimizzare i rischi e prevederli quanto più possibile, ottenere conoscenze sempre
perseguendo obiettivi che sono la tutela della salute umana e la salvaguardia dell'ambiente. In
questo modo le biotecnologie vanno considerate come utile metodo per produrre benessere e
sono quindi eticamente corrette.
Il comitato nazionale per la Bioetica è comunque sempre attivo ad esaminare casi e situazioni,
a coinvolgere il mondo scientifico, i legislatori ed il pubblico ad un tavolo di discussione che
porti le sue conclusioni e le sue forze in direzione della tutela della salute umana e ambientale.
Inoltre chiede alle comunità scientifiche ed ai legislatori di essere quanto più conformi agli
stessi principi, per una normativa quanto più legittima per tutti, per uno sviluppo migliore di
tematiche di ricerca promettenti, per un controllo di tipo istituzionale su progetti e laboratori,
per una informazione dettagliata e precisa senza effetti da cinema o scandalistici, e con una
forte intesa con le istituzioni per la formazione universitaria di corsi specialistici per operatori
ed esperti nel settore biotecnologico.
La decisione dell'European Patent Office (EPO) di concedere all'Università di Edimburgo, il
brevetto che prevede l'isolamento e la coltura di cellule staminali da embrioni e da tessuti
adulti e la loro modificazione genetica, ha riproposto la questione etica della produzione e
utilizzazione di embrioni a scopo sperimentale e della brevettabilità della vita umana ai fini
dello sfruttamento commerciale.
Essa ha destato vaste polemiche e serie preoccupazioni da parte dell'opinione pubblica e delle
istituzioni italiane ed europee.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha già in precedenti occasioni espresso le proprie riserve
sulla brevettabilità degli esseri viventi e sulla sperimentazione sull'embrione umano e la
propria opposizione alla clonazione umana in particolare (Rapporto sulla brevettabilità degli
organismi viventi del 19 novembre 1993, Identità e statuto dell'embrione umano del 22 giugno
1996, La clonazione del 17 ottobre 1997).
L'orientamento espresso in tali documenti è coerente con quanto previsto dalla normativa
adottata in sede europea e internazionale, alla cui stesura il CNB ha anche collaborato e
precisamente:
1) la Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e la biomedicina del Consiglio d'Europa
(firmata ad Oviedo il 4 aprile del 1997), che prevede all'art. 18 il divieto di costituire embrioni
umani ai fini di ricerca, e all' art. 21 l'interdizione di trarre profitto dal corpo umano;
2) il Protocollo sulla Clonazione Umana - anch'esso del Consiglio d'Europa- (firmato a Parigi il
12 gennaio 1998) recante interdizione della clonazione degli esseri umani;
3) La Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani (adottata dalla Conferenza
generale dell'UNESCO l'11 novembre 1997) che definisce il genoma umano, in senso simbolico,
"patrimonio comune dell'umanità" e che all'art.11 prevede che "la pratiche che sono contrarie
alla dignità umana, quali clonazione di esseri umani a fini di riproduzione, non devono essere
permesse".
La rettifica che l'Ufficio Brevetti Europeo ha emesso subito dopo l'accaduto, al fine di precisare
che l'oggetto del brevetto non include la specie umana né pertanto la clonazione di embrioni
umani, non ha alcun valore giuridico in quanto non comporta alcuna modifica del testo che
invece parla esplicitamente, al paragrafo 0011 di "all animal cells, especially of mammalian
species, including human cells" (tutte le cellule animali, specialmente di mammiferi, incluse le
cellule umane). Il brevetto resta quindi giuridicamente efficace nella sua formulazione attuale,
e nelle conseguenze pratiche che essa comporta, anche se la decisione dell'EPO è suscettibile
di complicate e lunghe procedure di ricorso.
Questo episodio avviene in un contesto caratterizzato dall'allarmante tendenza a ridurre
l'intera vita biologica, compresa quella umana, a mero oggetto di proprietà intellettuale
brevettabile e a bene commerciale, e dal rischio di un progressivo cedimento delle strutture
politiche e giuridiche, predisposte alla regolamentazione della materia, alle pressioni esercitate
dall'industria biotecnologica. In antitesi a questa tendenza si deve sottolineare l'opposizione di
movimenti e associazioni ambientaliste e umanitarie, degli scienziati, ma soprattutto, più
semplicemente, della società civile, all'integrale commercializzazione della vita biologica e in
particolare del corpo umano.
Ciò ha condotto recentemente al fallimento del vertice dell'Organizzazione mondiale del
commercio di Seattle e successivamente, come applicazione degli orientamenti della
Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, alla definizione di un primo Protocollo internazionale
sulla biosicurezza, adottato il 29 gennaio scorso a Montreal. La vicenda di questi giorni
potrebbe però generare, presso l'opinione pubblica, un clima di diffusa diffidenza nei confronti
delle scienze biomediche, dalla quale possono originarsi indebiti ostacoli alla libertà della
scienza e in particolare alla ricerca nella difficile lotta contro le malattie genetiche e le altre
patologie che affliggono la condizione umana. Proprio al fine di evitare un'ingiustificata critica
della scienza, è necessario che le sue applicazioni ai fini industriali e commerciali vengano
valutate in ragione delle finalità perseguite e dei fondamentali valori umani implicati.
Il CNB, nell'apprendere con soddisfazione la notizia che il governo italiano intende presentare il
proprio ricorso contro la concessione del citato brevetto, auspica che le istituzioni e la politica
assumano il proprio ruolo di guida delle applicazioni delle moderne biotecnologie. Ribadisce
inoltre la propria opposizione alla brevettabilità dell'essere umano.

La legge
A livello legislativo, il divieto di clonazione umana è generalmente condiviso e previsto da
Protocolli e Convenzioni internazionali.
All'interno dei singoli Paesi, tuttavia, tranne pochi casi, non esistono, allo stato attuale,
normative che sanciscano precise sanzioni al divieto di clonazione.
In Italia è allo studio del Ministero della Sanità la definizione di una disciplina legislativa del
settore, anche sulla base del documento del Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le
Biotecnologie. Il Ministro della Sanità, nell'attesa della definizione della disciplina legislativa, la
cui assenza potrebbe comportare sperimentazioni ed interventi senza alcuna garanzia di tutela
della salute pubblica, ha emanato una Ordinanza che prevede l'assoluto divieto di pratiche di
clonazione umana e animale. Il divieto non si applica alla sola clonazione di animali transgenici
utilizzati per medicinali innovativi ottenuti con biotecnologie (previa notifica al Ministero della
Sanità) e alla salvaguardia delle specie animali in via di estinzione.
Il divieto di clonazione umana, infine, è previsto nel disegno di legge sulla disciplina della
procreazione medicalmente assistita attualmente all'esame della Commissione Igiene e Sanità
del Senato. Una ulteriore questione è poi rappresentata dalla brevettabilità degli organismi
viventi attualmente regolamentata a livello europeo dalla direttiva 98/44/CE.
Il disegno di legge di recepimento di tale direttiva è attualmente in discussione alla
commissione Industria del Senato.

LA TUTELA DELL’AMBIENTE

Tra le esigenze più sentite dall'uomo contemporaneo c'è quella di vivere in un ambiente salubre ed
esteticamente piacevole.
Si tratta di soddisfare i bisogni di sopravvivenza e di conservazione, ma anche di placare il proprio
desiderio spirituale di bellezza.

La rivoluzione industriale, se da un lato ha migliorato il tenore di vita di ampi strati sociali


altrimenti esclusi dalla fruizione di tutta una serie di beni e servizi, ha dall'altro creato degli squilibri
nell'ecosistema globale. E il liberismo sfrenato, da molti auspicato in economia come catalizzatore
di sicuro progresso, minaccia di produrre danni ancora più terribili.

Le metropoli, troppo densamente abitate, sono già oggi invivibili; i centri urbani del mondo
sviluppato sono soffocati da un traffico ingovernato e folle, dallo smog che impedisce di respirare,
dalle esalazioni industriali che a volte minacciano da vicino i cittadini; le acque, spesso usate senza
razionalità e rispetto cominciano già a scarseggiare, quando non sono avvelenate da ogni sorta di
veleno prodotto dalle lavorazioni industriali e dai consumi domestici o inquinate da microrganismi
patogeni, il cui sviluppo è dovuto ad uno sviluppo produttivo non armonioso.

L'utilizzo di fonti fossili di energia, petrolio e carbone soprattutto, produce come sottoprodotto
l'immissione nell'atmosfera di biossido di carbonio (CO2), un gas che contribuisce ad aumentare
l'effetto serra, quindi il riscaldamento terrestre, fonte, secondo molti studiosi, di cambiamenti
climatici catastrofici.

Il disastro ecologico determinato dal cambiamento radicale della produzione e dell'economia, ha


determinato come reazione, un movimento di idee critico verso la civiltà industriale. Il filone
principale di questa ideologia antindustriale è rappresentato dal marxismo e da tutte le sue
ramificazioni ideologiche novecentesche. Il movimento ecologista, che oggi raccoglie in qualche
modo l'eredità di questo pensiero critico radicale, ha rinunciato beneficamente a molti massimalismi
e fondamentalismi ideologici (e ad altri sarebbe bene rinunciasse) e si è andato invero stemperando
in un un movimento variegato, dalle molte anime, ma con un obiettivo comune: garantire all'uomo
la vita nell'ecosfera, la più armoniosa e salubre possibile.

Qualsiasi intervento parziale, settoriale, locale sull'ambiente ha, secondo me, scarse probabilità di
successo.
Sempre più va profilandosi la necessità di intervenire sul modo di produrre, nell'impedire quelle
lavorazioni che, come sottoprodotti generano veleni pericolosi per l'uomo, nel cercare delle fonti di
energia il più pulite possibile.

Non si tratta di predicare un'austerità ideologica fine a se stessa; tutti, credo, vogliamo continuare a
godere degli agi e delle comodità che il mondo contemporaneo ci offre copiosamente. Si tratta,
però, di modulare meglio, in maniera più concertata e razionale, le attività economiche, di garantire
quello "sviluppo sostenibile", invocato dalle autorità mondiali più illuminate, che permetta di
soddisfare non soltanto i nostri bisogni, ma anche quelli delle generazioni future.

Il ruolo di regolatore deve essere ripreso dallo Stato o da quegli organismi sovranazionali che ne
hanno l'autorità. E' necessario che le istituzioni riacquisiscano il loro ruolo, cui troppo
frettolosamente avevano abdicato, di arbitri del mercato e della vita economica, con troppa euforia e
superficialità lasciati nelle mani della pur necessaria iniziativa, intelligenza e lungimiranza dei
singoli.

Lo Stato, o chi per lui, deve fissare delle regole da rispettare e stabilire con chiarezza cosa è lecito e
cosa è illecito.
La cosiddetta "mano invisibile", benefica regolatrice di ogni cosa, è ormai un'utopia a cui credono
in pochi.
Sull'uomo contemporaneo urgono e incombono, come già detto, le gravi responsabilità nei confronti
delle generazioni future.
Superare il narcisismo egotista del massimo piacere e divertimento da realizzare nel presente
immediato significa dirigere il nostro pensiero al benessere dei nostri figli e nipoti, consegnare loro,
in una ipotetica e ideale staffetta, un pianeta vivibile.

Non solo; significa tutelare il patrimonio urbanistico, architettonico e artistico delle nostre città, così
piene di storie e di cultura.
Soddisfare il nostro senso estetico e permettere che le testimonianze più alte delle civiltà che ci
hanno preceduto siano accessibili anche alle generazioni future.

Per ottenere questi importanti obiettivi, c'è bisogno si diffonda in maniera sempre più capillare, e
massimamente in coloro che amministrano e governano, una sensibilità e una cultura che anziché
alla quantità, siano orientate alla qualità.

LA DROGA

Uno dei pericoli più gravi per un adolescente è rappresentato dall'assuefazione a qualche sostanza
chimica che modifichi il suo stato di coscienza.
La "droga", come si definisce in maniera inappropriata la tossicomania, costituisce, da alcuni
decenni e da alcune generazioni, un problema per giovani, genitori, educatori, famiglie.
Soltanto nel 2001, i morti per droga sono stati 822.

Si tratta sovente di molecole, che provocano danni irreversibili al cervello e che generano
dipendenze fisiche e psicologiche difficili da trattare; sostanze che, comunque, mettono a
repentaglio gravemente la salute di chi ne fa uso.

Per questo ci si interroga su quali siano le cause che inducono i giovani a fare uso di sostanze
stupefacenti. Quali i meccanismi psicologici e le dinamiche culturali che determinano questo
comportamento giovanile deviante.
Intanto va notato che alcune sostanze capaci di modificare il nostro stato mentale, tossiche per
l'organismo, vengono accettate dalla società: il tabacco, l'alcol e gli psicofarmaci in primo luogo.
Ogni cultura riconosce le proprie droghe "legali", stigmatizzando l'assunzione di altre.
Il fatto che l'uso di determinate sostanze sia legalizzato permette di procurarsele senza ricorrere a
comportamenti "criminali" e, forse, una maggiore conoscenza consente di usarle in modo più
maturo e cosciente.
Quanto conti la conoscenza degli effetti negativi di una sostanza introdotta nel corpo umano lo
dimostra il caso dell'eroina. Un tempo le overdose di eroina falcidiavano centinaia di giovani vite
ogni anno. Poi gli eroinomani hanno imparato, coll'esperienza, ad usare l'eroina prendendo maggiori
precauzioni (dosi maggiormente controllate, impiego di siringhe monouso), in modo da far
diminuire sensibilmente negli ultimi anni, il numero di decessi collegati all'abuso di questa
sostanza.

Con questo non si intende certo sminuire i pericoli, gravissimi, collegati all'uso delle droghe,
comprovati da numerosi e seri studi tossicologici e scientifici sull'argomento. Si vuole soltanto
sottolineare come la conoscenza e l'informazione, approfondite, consentano di difendersi meglio.

Ma perché i giovani si drogano?


Intanto esiste quel fenomeno sociologico giovanile che si chiama "gruppo dei pari". Si tratta di quel
gruppo amicale di coetanei, la cui importanza e la cui autorità stanno superando quelle dei genitori.
Il gruppo ha delle sue rigide regole di funzionamento, un codice morale a volte estraneo se non
antitetico al contesto sociale, che induce i singoli a uniformarsi pedissequamente a determinati
comportamenti (scelta dell'abbigliamento, linguaggio, stile di vita, ecc.). Il conformismo, vissuto
come timore di non essere accettati e approvati dal gruppo, può indurre l'adolescente ad adottare
comportamenti disadattivi.

La fine dell'autoritarismo, un certo permissivismo, la libertà di scelta, il relativismo culturale,


aspetti del mondo contemporaneo tutt'altro che negativi, lasciano però spesso i giovani soli (o mal
consigliati) di fronte alle scelte cruciali della propria esistenza. Sbagliare è facile; entrare in un
tunnel da cui è arduo fare ritorno, altrettanto.
Diventare "grandi" è sempre stato malagevole. La droga può costituire anche una apparentemente
comoda via di fuga dalle responsabilità del mondo adulto, un ingannevole alibi per ritardare le
scelte, le fatiche, gli impegni (ma anche le soddisfazioni), che l'esistenza di ogni adulto comporta.
Il consumismo, la comunicazione che avviene ormai soltanto attraverso l'esibizione di oggetti,
sembrano privare i giovani di un solida identità, basata sulla consapevolezza delle proprie qualità
interiori.
Il successo da conseguire ad ogni costo, a scuola, sul lavoro, in società, con la necessità di essere
costantemente all'altezza, brillanti, socievoli, nell'epoca che esalta ed esige la performance, come ci
insegnano i messaggi pubblicitari, porta giovani, e sempre più spesso anche adulti, ad aiutarsi con
qualche sostanza chimica.
L'eccessivo edonismo della nostra civiltà, la ricerca spasmodica di piaceri forti e immediati, a
scapito della gioia, della felicità e della serenità che si possono ottenere sviluppando i propri talenti,
mettono molti adolescenti sulla cattiva strada di una penosa, stordita e triste quotidianità.
Inoltre l'abuso di droga rappresenta talvolta una delle forme, oscura, contorta e sbagliata, in cui si
manifesta il conflitto generazionale, la rivolta contro il mondo dei valori abbracciati dai genitori.
Una rivolta sterile e autodistruttiva, cui possono indulgere adolescenti altrimenti intelligenti e
sensibili.

Non ultimo esiste un business, gestito dalla criminalità organizzata, che preme per indurre certi
comportamenti, perché con la droga realizza ingenti profitti.
Per arginare il fenomeno droga e limitarne i danni, forse sarebbe necessario ripristinare quel dialogo
generazionale, oggi interrotto, fra genitori e figli , privato però degli autoritarismi di epoche
trascorse, che ancora affiorano, purtroppo, qua e là, fra le maglie di un produttivismo esasperato.
Occorre recuperare, quindi, il valore del tempo da trascorrere insieme, nella dimensione di una
comunicazione autentica, capace di critica nei confronti dei valori dominanti; un tempo e una
comunicazione intrisi di tenerezza, di conoscenza reciproca, di ritrovata fisicità.
Con la scuola, che deve abbandonare la faccia feroce, per diventare, per gli adolescenti, occasione
emotivamente significativa di maturazione culturale, affettiva, civile.
Con la società, che deve essere in grado di proporre ai giovani possibilità di autorealizzazione.

Ed è necessaria, purtroppo, anche la repressione, per battere mafie e bande criminali e per tutelare la
collettività dal comportamento di quei singoli che hanno deciso, mettendo in atto comportamenti
sciocchi, violenti, pericolosi e delinquenziali, di muovere guerra alla società.

FACEBOOK

Secondo una recente statistica circa i siti Internet più visitati del mondo, stilata da Google,
Facebook occupa il primo posto.

Nato nel 2004, dall'idea di uno studente di Harvard, Mark Zuckerberg, che intendeva creare un
album fotografico degli allievi della scuola, Facebook è tecnicamente un social network, un tipo di
sito, cioè, che permette agli utenti un alto grado di interazione con gli altri iscritti.

Al di là degli innovativi aspetti tecnici, Facebook ha avuto un impatto sociale grandissimo. Se non
rivoluzionato, ha senz'altro cambiato radicalmente il nostro modo di comunicare e di socializzare.
Facebook conta quasi 500 milioni di utenti in tutto il mondo, e il loro numero sembra destinato ad
aumentare. In pratica, ormai quasi tutti noi siamo iscritti a Facebook o conosciamo numerose
persone che lo sono.

Facebook è diffusissimo tra i giovanissimi, ma il social network americano conta tantissimi adepti
anche fra i trenta e quarantenni. Lo sta a testimoniare l'uso intensivo che di Facebook si fa anche nei
luoghi di lavoro, utilizzo più o meno consentito e incoraggiato, con ricadute talvolta persino
positive sulla produttività.

Facebook è uno strumento duttile, che consente di fare molte cose: rintracciare vecchie conoscenze,
mantenersi in contatto con i propri amici, conoscere persone nuove sulla base di criteri di affinità,
partecipare a gruppi ed eventi, condividere foto, giocare. Una piattaforma informatica e di
connessione, che favorisce e velocizza i rapporti sociali.

Esaltato o demonizzato, a seconda delle circostanze, Facebook è, a mio avviso, uno strumento di
comunicazione ancora troppo giovane per consentire di esprimere un giudizio definitivo,
attendibile e ponderato, sul suo utilizzo.

Facebook assomiglia a una grande agorà telematica, dove si trova di tutto, dal filantropo che lancia
iniziative di solidarietà, al gruppo razzista più cretino. Ambiente destrutturato e informale, la
creatura di Zuckerberg consente la circolazione di una mole impressionante di informazioni. Se da
una parte ciò è un bene per la libertà di pensiero, di stampa e quindi per lo sviluppo della
democrazia, dall'altro non si tratta sempre di informazioni di qualità.

Si è adombrato che Facebook sia lo specchio della società narcisista in cui viviamo, composta
prevalentemente da individui egocentrici e, nello stesso tempo, dall'identità fragile, dipendente dal
giudizio degli altri e dalle loro conferme. Non a caso esiste una specie di tacita gara, tra gli iscritti
al social network, a chi è più popolare e conta più amici, anche se spesso si tratta di amicizie
superficiali, di legami deboli e privi di coinvolgimento emotivo, che possono incrementare, invece
di lenire, il senso individuale di solitudine e isolamento.

Facebook sembra comunque soddisfare il bisogno psicologico, piuttosto generalizzato, di


appartenenza a un gruppo. Permette, inoltre, un controverso "controllo sociale" verso la propria
cerchia di conoscenze. Supplisce, in qualche modo, a quello che, in altre epoche, nei piccoli paesi e
nelle piccole città, era il ruolo, talvolta oppressivo e talaltra salvifico, esercitato dal vicinato.

La creatura di Zuckerberg è anche, senza dubbio, l'espressione di una società che valorizza il gioco,
l'aspetto ludico dell'esistenza. È una comunità aperta, in divenire, che si articola a seconda dei
contributi di ciascuno: ogni iscritto può intervenire con proposte, condivisioni e commenti
personali.

Molti psicologi hanno messo in guardia dalla dipendenza sviluppata da numerose persone verso
questi nuovi strumenti tecnologici. Un abuso della tecnologia, che può incidere sull'adattamento
sociale individuale. Un rischio che è, a mio avviso, sopravvalutato.

Da ultimo, è nata una polemica circa la privacy e il diritto degli utenti alla riservatezza dei propri
dati. Facebook è accusato di non tutelare a sufficienza la privacy dei propri iscritti. Un'accusa
culminata addirittura nel "Quit Facebook Day", proclamato il 31 maggio, un'iniziativa tesa a
invitare gli utenti insoddisfatti a lasciare il social network.

Il "Libro delle Facce" è diventato un successo economico, attirando l'interesse di migliaia di


inserzionisti. Divenuto orami uno dei principali strumenti di comunicazione della nostra epoca,
l'affermazione di Facebook, al di là dei giudizi favorevoli e delle critiche, rappresenta un caso
esemplare di economia creativa. Al suo fondatore va dato il merito di aver avuto il genio di
individuare un nuovo bisogno diffuso nella società, legato alla comunicazione e alle relazioni
sociali, finora parzialmente ignorato.

MASS MEDIA

Se c'è un fenomeno che caratterizza la nostra epoca è il bombardamento vertiginoso di informazioni


cui siamo quotidianamente sottoposti, destinato con gli anni ad aumentare ulteriormente.
Secondo me, ciò va interpretato favorevolmente: il cervello umano, per svilupparsi e per mantenersi
in perfetta forma, agile e flessibile, ha bisogno di stimoli, il più variati possibile.
Ed è ciò che ci consente la fruizione diffusa di quotidiani, libri, riviste, pubblicazioni di vario
genere, ma anche cd, cd-rom, film, audio e videocassette, televisione e per ultimo, ma non ultimo
per importanza, il computer e la "rete delle reti": Internet.
Mai come oggi è consentito alle masse di appagare la loro sete di conoscenza, mai come ora è a
disposizione di tutti la possibilità di completare in autonomia la propria formazione culturale e
professionale, soddisfare le proprie curiosità, usare il tempo libero in modo creativo e gratificante,
partecipare "da vicino" e "in diretta" agli avvenimenti internazionali.
Certo esiste anche chi critica questo stato di cose, chi depreca che mai come oggi le masse siano
narcotizzate da programmi televisivi che mirano allo stordimento e da pubblicazioni che incitano al
conformismo consumista.
Spesso poi la pletora di informazioni, talvolta contraddittorie, e le immagini violente che arrivano
nelle nostre case finiscono per disorientarci, per angosciarci, per destabilizzarci a causa di quella
che è definita "ansia da informazione".
Sono critiche di cui è lecito tener conto.
E' vero: molti di noi hanno smarrito la preziosa capacità dell'introspezione, di fermarsi a riflettere in
silenzio, di ascoltarsi, di formarsi un giudizio nella quiete di un'attenta meditazione personale; forse
molti hanno abdicato per sempre al proprio spirito critico e abbracciano le idee professate di volta in
volta dall'opinion-maker di turno.
Personalmente tendo a dubitare che in epoche storiche passate l'indipendenza e sicurezza di giudizio
fossero qualità diffuse a vari strati della popolazione. Probabilmente soltanto un'elite di aristocratici
o di studiosi era in grado di farsi un'idea precisa delle cose e del mondo.
Ciò non toglie che hanno perfettamente ragione coloro che, per esempio, sostengono che la
televisione, almeno quella pubblica, dovrebbe proporre spettacoli più educativi, dovrebbe stimolare
il pubblico alla visione di programmi che sollecitino la riflessione attiva.
Senza parlare del cinema che spesso produce film di una comicità becera e inconcludente.
Ma più che una mano occulta, più che un complotto delle multinazionali a danno dei cittadini,
dietro questi spettacoli e il loro successo stanno i gusti del pubblico, che sono spesso diversi da
quelli ipotizzati dagli intellettuali, che prendono probabilmente se stessi a modello.
Trovo profondamente sbagliato riferirsi ad uno spettatore tipo che non esiste, idealizzare gli uomini,
che sono quelli che sono e spesso preferiscono la partita di calcio ad un dramma di Shakespeare,
Panariello a Pirandello.
Dobbiamo imparare a convivere con i chiaroscuri che riguardano le umane vicende e abbandonare
talvolta le belle illusioni prodotte dal cielo delle utopie.
L'importante è che l'offerta "culturale" arrivi a tutti secondo le loro necessità e i loro desideri.
L'industria culturale che produce i quiz un po' "scemotti" è quella stessa che consente di leggere i
capolavori della letteratura mondiale a poco prezzo, quella che mette alla portata del nostro
portafoglio la musica classica o il cinema di autore.
Pur con tutti i limiti e le critiche possibili, la nostra epoca mette a disposizione una vasta gamma di
opportunità da cui scegliere.
La diffusione del computer e di Internet rappresenta un po' la sintesi della situazione
contemporanea.
Il computer permea ormai le nostre vite, è strumento di divertimento e di lavoro, di studio e di
gioco. Il suo funzionamento, preciso, matematico, ha finito per influenzare il nostro modo stesso di
ragionare e di giudicare.
Per quanto riguarda Internet, è un mezzo che stimola l'interattività e la partecipazione attiva e, se è
vero che i siti di maggior successo sono spesso quelli "stupidotti" sulle barzellette o quelli erotici,
ciò non toglie che siano a portata di clic siti di biblioteche, università, quotidiani autorevoli, enti
umanitari, ecc.
Ciascuno è libero di scegliere secondo le proprie inclinazioni, il proprio sviluppo emotivo e
culturale, la propria storia personale, il proprio senso di responsabilità.
La nostra sarà anche un'epoca di declino e di crisi, ma a mio giudizio ricca di opportunità per tutti

EMERGENZA RIFIUTI

La società occidentale produce una mole elevatissima di merci e di oggetti da consumare. Mentre in
epoche passate si tendeva a conservare, a riparare e a riciclare, al contrario il nostro odierno sistema
di vita, centrato sul consumismo, produce una ingente quantità di rifiuti da smaltire. Persino gli
esseri umani, presi nel vorticoso, efficientista e globalizzato ingranaggio del turbocapitalismo,
possono facilmente diventare rifiuti ingombranti, di cui ci si libera a fatica.

La società contemporanea ha raggiunto una complessità tale da risultare sempre più difficile da
governare. Metropoli da milioni di abitanti richiedono, affinché la vita vi si svolga in modo
gradevole e ordinato, amministrazioni competenti e coordinamento fra le diverse istituzioni. Non
basta. In una società ad elevata complessità ogni singolo cittadino deve comportarsi in modo
responsabile; ciascuno deve fare il proprio dovere, perché il benessere individuale e la cosiddetta
qualità della vita coincidono sempre più con il buon andamento della cosa pubblica e col
raggiungimento dell'interesse generale.

Tutti sogniamo, infatti, di vivere in una realtà in cui poste, scuole, ospedali, biblioteche funzionino,
dove, quando ci presentiamo ad uno sportello qualsiasi, siamo trattati con cortesia e disponibilità.
Tutti desideriamo comperare auto, telefoni, frigoriferi, computer privi di difetti. Tutto questo
richiede uno sforzo collettivo, un'assunzione di responsabilità da parte di tutti, perché tutti, a turno,
siamo produttori e consumatori.

A Napoli purtroppo questi due aspetti della realtà quotidiana, complessità e consumismo, sono
andati in cortocircuito. La città, due milioni di abitanti, una delle città più belle del mondo è stata
sommersa dai rifiuti, come hanno documentato impietosamente tutte le agenzie informative del
villaggio globale.

Napoli ha rappresentato, nel gennaio del 2008, il nodo intricatissimo della crisi economica, ma
soprattutto civile, culturale e morale in cui si dibatte il nostro Paese. Cattiva amministrazione,
ampie zone del territorio nelle mani della criminalità organizzata, affarismo, connivenze fra
burocrazia e malavita, arretratezza, disprezzo della cosa pubblica, egoismo familista, fatalismo,
parassitismo, vittimismo e anarchia hanno prodotto un disastro che offre in tutto il mondo
un'immagine dell'Italia assai poco lusinghiera e che produce riflessi economici e di prestigio
internazionale del tutto negativi.

Purtroppo, malgrado i consistenti contributi economici elargiti nel corso di decenni, a Napoli molte
cose non funzionano o sono letteralmente fuori controllo, a sottolineare come, nella complessità,
tutto sia collegato. La sanità campana, per esempio, è una delle più costose ed inefficienti del
panorama nazionale, ma il record negativo riguarda quasi tutti i servizi, pubblici e privati.

Molti scrittori, e i napoletani tra i migliori, hanno denunciato e denunciano questo stato degradato
delle cose. Come disse quel tale, l'annosa questione meridionale, nella cui analisi si dilungano da
troppo tempo persino i manuali scolastici, è sempre più una faccenda dei meridionali.

È difficile per un cittadino del Nord capire quei napoletani che, in certi quartieri della città,
solidarizzano con i criminali contro le vittime della delinquenza e i poliziotti.
È paradossale che i napoletani pretendano che i propri rifiuti vengano smaltiti in altre regioni o,
addirittura, all'estero, con costi economici insostenibili. La modernità richiede l'assunzione di
responsabilità, usufruire delle comodità, ma, nello stesso tempo, farsi carico anche degli oneri che
esse comportano.
Non si va molto lontano, a mio avviso, se non si procede, più che a una bonifica dei rifiuti con tanto
di commissario straordinario, ad una rifondazione del senso civico e morale, una rivoluzione
culturale che, certo, richiede anni, se non secoli.

Inutile tuttavia nascondersi che Napoli rappresenta anche la spia accesa della nostra coscienza
nazionale e forse dell'intero funzionamento planetario. Napoli è una città che vanta ricche tradizioni
storiche e culturali. Quello che è successo di recente a Napoli potrebbe succedere domani in
qualsiasi altra città italiana e del mondo. A Napoli sono scoppiate contraddizioni che ci riguardano
tutti e che ci richiamano a interrogarci sulla giustezza del nostro sistema di vita.

Forse occorre ripensare al nostro modo di vivere e di produrre. Il nostro consumismo compulsivo va
moderato. Inoltre bisogna capire che i rifiuti non rappresentano soltanto un imbarazzante ingombro,
bensì una fonte importante di energia e di ricchezza. Non servono più le discariche, ormai obsolete
e inquinanti, ma occorre implementare un sistema moderno di raccolta differenziata e riciclo dei
rifiuti. Accompagnato magari dalla costruzione dei necessari impianti di smaltimento, al passo con i
tempi, efficienti e poco inquinanti (i termovalorizzatori), per liberarci da strade olezzanti e dal
pericolo immediato di malattie infettive e degenerative.
Alle aziende andrebbe imposta una riduzione degli imballaggi delle merci mentre nella
distribuzione si dovrebbe incentivare la vendita di prodotti sfusi.
Ma quello che conta, soprattutto, è, a mio avviso, lo sviluppo del senso civico dei cittadini, una
virtù sempre più rara nella vita contemporanea, attraverso campagne di educazione ambientale
condotte anche nelle scuole.

Il problema dei rifiuti ci riguarda tutti, condiziona la qualità della convivenza nelle nostre città. Si
deve impedire ad ogni costo che la questione rifiuti concorra invece ad alimentare loschi traffici e
vecchie e nuove povertà

LA BONTA’

La bontà sembra un valore assai trascurato nei rapporti che viviamo quotidianamente. Tutta la vita
economica e i rapporti personali che ne sono sovente il riflesso, sono improntati alla competizione,
all'aggressività, al superare gli antagonisti.
Le altre persone con cui intratteniamo scambi giornalieri, finiamo col percepirli talvolta come
avversari da distruggere.

Si tratta del "Mors tua, vita mea" dei latini, della darwiniana lotta per la sopravvivenza. Di qui alla
legge della giungla, si sa, il passo è breve.
In Italia si è persino creato un brutto neologismo, "buonismo", per screditare coloro che
manifestano una qualche forma di solidarietà verso i più deboli e viceversa per giustificare ogni
sorta di nefandezze perpetrate dai più forti.

Vediamo i nostri simili sempre più impegnati a desiderare con voracità il potere, la ricchezza, il
successo, da ottenere in qualsiasi modo; il fine, si dice, giustifica i mezzi.

I dirigenti delle grandi aziende, ma qualche volta anche i quadri intermedi, vengono scelti per la
loro capacità di comandare, che troppo spesso non è altro che un agire senza soverchi scrupoli,
spremere i sottoposti, prevaricare in nome del profitto. E' spesso considerato come "bravo manager"
colui che valorizza la propria azienda licenziando i dipendenti; a questo processo viene dato il nome
di ristrutturazione aziendale o qualche nome inglese in apparenza neutro, scientifico, ma le
conseguenze umane sono comunque quelle spiacevoli dell'insicurezza economica e talvolta della
povertà.
Eppure all'interno della nostra coscienza avvertiamo che questo modo di vivere è sbagliato, ci crea
disagio e sofferenza; finiamo così col ribellarci in modo salutare, anche se soltanto in maniera del
tutto interiore, a questo stato di cose. Sentiamo che, portato alle estreme conseguenze, questo nostro
stile di vita è disumano, inautentico, faticoso.

Una parte di noi, io credo consistente, aspira alla bontà, alla gentilezza, alla cortesia. Vuole un
mondo più amorevole, vuole più dolcezza, più buon cuore, più generosità, più giustizia. Poter essere
d'aiuto agli altri e poter chiedere aiuto quando ne ha bisogno. Fare finalmente qualcosa contro il
proprio intessesse immediato.
Per esempio, almeno in un periodo dell'anno, a Natale, ci proponiamo di essere tutti più buoni.
Secondo me non si tratta soltanto di un rituale ipocrita. Rappresenta il riconoscimento, certo
parziale e contraddittorio, che la bontà è una nostra esigenza, che è forse iscritta nei nostri geni.
Vediamo allora persone, solitamente avare di sé e del proprio denaro, non accontentarsi di celebrare
un Natale consumistico, ma fare beneficenza, aiutare i bisognosi, dedicare un po' del proprio tempo
libero al benessere degli altri.
Ma la bontà non può essere un passatempo natalizio.
Ci sono persone che si dedicano con slancio e generosità agli altri durante tutto l'anno.
Sono coloro che, in silenzio e quasi in punta di piedi, si fanno carico di assistere volontariamente le
persone malate, le vanno a trovare in ospedale, recano loro conforto, cercano di rendere la loro
sofferenza più dolce e sopportabile. Coloro che si dedicano con slancio all'aiuto e al recupero di
giovani disadattati, di ragazze fuorviate e sfruttate, di persone in difficoltà economica, o
semplicemente disorientate, in crisi, di alcolisti o "drogati", di carcerati o disabili.
Un'amica di mia madre, per esempio, ha rinunciato quest'anno ai regali di Natale, per devolvere il
denaro, che avrebbe speso in articoli del tutto superflui, per aiutare una conoscente, che la morte del
giovane marito ha ridotto in ristrettezze economiche.
Non solo: ha consegnato all'amica anche i soldi guadagnati con le proprie ore di lavoro
straordinario.

La nostra coscienza si sta talmente raffinando inoltre, che non tolleriamo, finalmente, nemmeno le
sofferenze imposte ad esseri viventi appartenenti a specie diverse dalla nostra, agli animali e persino
alle piante.
Il cane, il gatto e il canarino di casa, il pesciolino nell'acquario sono diventati nella vita i nostri
inseparabili e familiari compagni di viaggio, ma anche quegli animali non domestici, spesso
destinati al macello per fini alimentari li percepiamo come dotati di una qualche forma, spesso
complessa, di intelligenza e sensibilità.
Non tolleriamo che vengano maltrattati, torturati, che vengano loro inferte sofferenze evitabili. Ci
sentiamo solidali con loro.
Ed ecco che ci sono persone che, a proprie spese, curano gli animali randagi o feriti e dedicano
parte del proprio tempo alle associazioni che li difendono.

C'è pure chi, nel proprio lavoro, qualunque sia, va oltre il proprio dovere professionale e cerca di
aiutare sinceramente il prossimo negli uffici, nella scuola, negli ospedali. Si tratta di una forma
silenziosa, inapparente, di bontà e proprio per questo suo anonimato, di una delle forme più
preziose.
Insomma, a dispetto delle guerre, degli attentati, degli assassini, dei crimini, di cui stampa e
televisione ci rendono sconsolati testimoni, la bontà non ha segnato il passo, anzi sembra conoscere
un suo momento di ritrovata popolarità.
Non a caso Norberto Bobbio, un filosofo e un pensatore che tutta l'Italia ammira, ha dedicato un suo
profondo saggio alla mitezza. E lo scrittore inglese Nick Hornby, molto amato dalle giovani
generazioni, ha intitolato un suo recente romanzo : "Come diventare buoni".
Siamo giunti finalmente alla consapevolezza che aiutare chi è rimasto indietro non è un cedere una
parte di se stessi, un impoverirsi, ma un arricchimento necessario.

"Ama il prossimo tuo come te stesso" è il precetto fondamentale della nostra religione e il
fondamento insuperato della nostra civiltà .
E poi, al di là delle sempre possibili ingratitudini, talvolta succede il miracolo e chi aiutiamo è in
grado di donarci la parte migliore, più umana, di se stesso

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Tra il 7 e il 18 dicembre si svolge a Copenhagen, città modello dal punto di vista ecologico, un
summit mondiale sul clima. Secondo la maggior parte degli scienziati l'attività umana sta
provocando preoccupanti cambiamenti climatici. La Terra si sta riscaldando (global warming) e
l'aumento delle temperature potrebbe dar luogo ad eventi catastrofici nei prossimi decenni. I
ghiacciai potrebbero sciogliersi e il livello dei mari innalzarsi. Ne conseguirebbero inondazioni di
vaste aree costiere, milioni di persone dovrebbero abbandonare le loro abitazioni, le colture
verrebbero gravemente danneggiate. Le economie di alcuni Paesi verrebbero distrutte e schiere di
sventurati resterebbero senza lavoro. L'inquinamento crescente dell'atmosfera e l'aumento
dell'effetto serra continuerebbero intanto a peggiorare la salute di moltissime persone:
aumenterebbero le patologie polmonari e gli anziani e coloro che soffrono di malattie croniche gravi
vedrebbero decurtata la loro aspettativa di vita dall'innalzamento medio delle temperature e
dall'inquinamento atmosferico.

Uno scenario davvero drammatico quello delineato da scienziati, climatologi ed ecologisti, che
dovrebbe spingere politici ed amministratori a correre ai ripari per evitare il possibile disastro.

Ad essere sinceri del tutto, in materia di clima non esiste, in realtà, neanche a livello scientifico, una
unanimità di vedute.
Addirittura alcuni scienziati arrivano a negare che profondi cambiamenti climatici siano imputabili
all'uomo. Il clima, sostengono, è cambiato continuamente durante la storia della Terra e dell'uomo e
alla sua determinazione concorrono molti fattori, anche astronomici, fuori del controllo umano.
Per contro, molti ecologisti ritengono che gli interessi economici delle multinazionali, dei petrolieri
e degli industriali siano in grado di finanziare e manipolare la propaganda "negazionista",
spacciandola per verità scientifica.

Su un punto comunque tutti gli scienziati più autorevoli sembrano d'accordo: che in misura
maggiore o minore l'attività umana è in grado di generare degli effetti climatici. La stragrande
maggioranza ritiene che gli effetti prodotti dall'attuale produzione economica, basata sul petrolio e
ad alta emissione carbonica, siano nefasti e che urga intervenire per modificare al più presto
l'attuale stato di cose. Una personalità del calibro di Al Gore, ex Vicepresidente degli Stati Uniti, ha
fatto della questione ambientale addirittura il cavallo di battaglia della propria azione politica,
culminata nel raggiungimento del premio Nobel.

Tuttavia le previsioni su un futuro impegno ecologico dei politici rappresentanti i grandi Paesi, di
coloro cioè che reggono le sorti del mondo, appaiono poco ottimistiche. Tutti sembrano procedere
con eccessiva cautela sulla strada di una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica: i
leader delle grandi potenze perché non riescono a persuadere i loro elettori a un cambiamento
radicale dello stile di vita, i capi dei Paesi in via di sviluppo, perché, per favorire la crescita
economica dei rispettivi Stati, sembrano non poter rinunciare all'energia fossile. Usa e Cina, in
particolar modo, sembrano temporeggiare, tra rinvii e compromessi.

Purtroppo la questione del cambiamento climatico non sembra tollerare ulteriori proroghe. La
globalizzazione economica sembra aver uniformato il mondo, ma in senso negativo, facendogli
adottare l'ideologia della crescita illimitata e dello sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali.
L'attivismo cieco e frenetico dell'Occidente sembra aver contagiato l'intero globo. Il Prodotto
Interno Lordo conta ormai più della vita delle persone, il profitto economico sta impoverendo
sempre più larghi strati della popolazione mondiale, i giochi speculativi finanziari stanno
mortificando la dignità del lavoro.

Che fare? Bisogna intanto uscire dall'egoismo e dal narcisismo e cominciare a pensare con senso di
responsabilità e maturità al benessere delle generazioni future, lasciando loro in eredità un pianeta
incontaminato da abitare.
Produrre e consumare senza limiti non può continuare ad essere il comportamento prevalente. La
qualità della vita deve tornare a prevalere sulla quantità. Mettiamo dunque un freno alle produzioni
inquinanti, al traffico soffocante, alle auto che consumano troppo carburante.
Più che sull'industria manifatturiera, la nostra può diventare un'economia basata sui servizi, sui beni
immateriali, sul capitale intellettuale, sulla conoscenza.
Quando possiamo, almeno per i tragitti più brevi, proviamo ad usare di più la bicicletta o andiamo a
piedi. Ne guadagneremmo senz'altro in salute: meno obesità, minore stress, significativa riduzione
di malattie cardiache e metaboliche. Mangiamo meno proteine animali, visto che agli allevamenti di
bestiame viene imputata un'alta emissione carbonica.
Costruiamo case intelligenti ed ecologiche. Riduciamo gli sprechi di luce ed acqua. Sfruttiamo
l'energia del sole e del vento, mentre nel frattempo ci adoperiamo per la ricerca di nuove fonti
energetiche rinnovabili.
Rispettiamo gli oceani e le foreste, le piante e gli animali.
Sostituiamo, quando possibile i bit alla carta. Intensifichiamo l'uso di Internet nella vita quotidiana
per contattare uffici, sbrigare pratiche, muovere denaro. Promuoviamo il telelavoro e l'e-learning.
Liberiamoci dalla schiavitù della griffe, del brand, della marca, dagli inutili oggetti che soffocano le
nostre case.

Ritorniamo a vivere come individui e non come schiavi della produzione. I miglioramenti climatici
seguiranno di conseguenza.

ENERGIA CRISI PETROLIFERA FONTI RINNOVABILI

Dammi un litro di oro nero" cantava l'ironico Rino Gaetano negli anni Settanta. Era l'epoca della
prima violenta crisi petrolifera, con il prezzo del greggio alle stelle, che obbligava gli italiani alle
domeniche a piedi, non per finalità ecologiche, ma per necessità di risparmio energetico.

Il rischio di nuove impennate del prezzo del petrolio sembrava negli anni successivi definitivamente
scongiurato e, invece, oggi il prezzo al barile ha superato abbondantemente i cento dollari,
costringendo i paesi sviluppati a interrogarsi sul proprio futuro economico e a ricercare fonti
energetiche alternative.

Il tema dell'energia è strategico per lo sviluppo economico e sociale di tutti i Paesi. Avere accesso a
quantità elevate di energia a prezzi convenienti è un fattore fondamentale per alimentare la
produzione industriale, diffondere e far funzionare una rete elettrica adeguata, promuovere
l'aumento del PIL (Prodotto Interno Lordo), il benessere economico e il miglioramento della qualità
di vita dei cittadini.
Rispetto agli anni Settanta lo scenario internazionale è cambiato. Molte nazioni, un tempo arretrate,
stanno diventando protagoniste della ribalta mondiale e conoscono una crescita economica
incredibile.
È il caso, per esempio, della Cina e dell'India, paesi che assommano miliardi di abitanti e le cui
economie crescono negli ultimi anni a ritmi vertiginosi. Per poter continuare a crescere e
raggiungere in qualche decennio un tenore di vita simile a quello occidentale, cinesi e indiani
abbisognano di poter disporre di molta energia per sostenere le loro economie, ancora basate sulla
produzione industriale e non dematerializzate e ormai basate su servizi e conoscenza come quelle
occidentali. Inoltre, cinesi e indiani hanno un drammatico bisogno di energia per far funzionare
illuminazione domestica, televisori, computer, lavatrici, frigoriferi e automobili, comodità cui mai
noi rinunceremmo.

L'energia disponibile per gli impieghi economici è nel mondo in gran parte ancora fornita da fonti
fossili: petrolio, carbone e gas naturale (metano). Sono prodotti formatisi sulla Terra, durante
milioni di anni, in seguito alla sedimentazione e trasformazione di materiale organico, in gran parte
di origine vegetale. Si tratta di materie prime soggette quindi ad esaurimento, anche se tale
eventualità è tutt'altro che prossima.
C'è poi l'energia nucleare che si produce a partire dalla fissione del nucleo di atomi di uranio o di
altri elementi. Si tratta di un'energia "pulita", la cui scoperta si deve proprio all' italiano Enrico
Fermi, artefice nel 1942 della prima pila atomica, ma il cui impiego è tuttavia ancora controverso ed
osteggiato.
Infine esistono le cosiddette "fonti rinnovabili": l'energia solare, quella ricavata dalle biomasse,
l'idroelettrica, l'eolica (l'energia che si ricava dal vento), la geotermica. Un economista americano,
Jeremy Rikfin, caldeggia l'utilizzo universale dell'idrogeno quale fonte energetica rinnovabile e non
inquinante e le prime applicazioni in tal senso sono incoraggianti.
Promettente, ma in prospettiva futura, sembra l'impiego dell'energia legata alle maree.

In una congiuntura dominata dall'aumento mondiale della domanda di energia, legato all'aspirazione
di miliardi di uomini di uscire dalla povertà e di godere degli agi del benessere, fermo restando che
ancora per decenni le fonti fossili (petrolio, carbone e gas) continueranno ad essere le principali
fornitrici di energia, occorre un ripensamento della politica energetica. Principalmente in Italia,
completamente dipendente sotto l'aspetto energetico da Paesi stranieri e dove il dibattito
sull'energia, come del resto in altri ambiti, è dominato da pregiudizi ideologici, aspettative
irrazionali e scarsa concretezza.

Il possibile ricorso all''impiego, economicamente vantaggioso, di energia nucleare determina, per


esempio, ancora una pregiudiziale e ingiustificata avversione in gran parte dell'opinione pubblica,
spesso disinformata. Eppure si tratta di un'energia "pulita", che non contribuisce all'inquinamento
dell'atmosfera, non produce, cioè, emissioni tossiche di quel biossido di carbonio (CO2), ritenuto
responsabile di aumentare il cosiddetto effetto serra e quindi il riscaldamento della Terra, cui molti
esperti attribuiscono effetti climatici catastrofici.
La sicurezza raggiunta nell'allestimento, nella conduzione e nella manutenzione degli impianti
nucleari è assolutamente ottimale e non giustifica quell'allarme sociale così diffuso, alla cui
propagazione hanno contribuito frange radicali dell'ecologismo e scelte politiche ormai datate.
In uno storico referendum del novembre 1987, gli italiani si sono pronunciati, infatti, contro il
nucleare. Sull'onda emotiva del drammatico incidente accaduto l'anno precedente, nell'aprile 1986,
nell'impianto ucraino di Chernobyl , che determinò numerosi decessi e danni prolungati, enfatizzati
poi dai media. Un incidente tuttavia da ascrivere, più che alla pericolosità del nucleare, al mancato
rispetto di elementari norme di sicurezza, all'impreparazione e all'approssimazione con cui
l'impianto era stato costruito e poi gestito, espressione di un impero, quello sovietico, che si stava
rovinosamente sfaldando.
Incidenti nucleari della gravità di quello di Cernobyl mai si sono verificati, infatti, in Occidente,
dove centinaia sono gli impianti nucleari destinati alla produzione di energia, che funzionano in
perfetta sicurezza.

Certo anche il ricorso all'energia nucleare non è completamente privo di rischi. In primo luogo
quello bellico: la produzione di energia nucleare a scopi civili può trasformarsi facilmente, per scopi
militari, in fabbricazione di ordigni letali. Infine esiste il problema dello stoccaggio dei rifiuti
radioattivi, che conservano la loro radioattività per periodi prolungati e che sono potenzialmente
molto nocivi. Tuttavia lo stoccaggio di tali rifiuti in profondità, in siti scelti accuratamente per la
loro stabilità geologica, sembra scongiurare ogni pericolo per la salute.
Del resto l'esistenza umana comporta sempre dei rischi: si tratta di scegliere comunque il male
minore, che non è certo, al momento, il massiccio inquinamento da gas serra.

Si sta diffondendo anche in Italia, caldeggiato anche dai movimenti ecologisti, l'utilizzo delle fonti
rinnovabili di energia, cui sono legate molte speranze. Opportunamente finanziati e incentivati, si
sta propagando l'impiego dei pannelli fotovoltaici che catturano l'energia solare. Si tratta di
un'energia pulita e rinnovabile, ma ancora costosa. Può darsi che la diffusione e la competizione
economica aumentino il rendimento dell'energia solare nei prossimi anni. Suggestivo e ricco di
promesse è l'impiego di particolari pannelli solari nel deserto del Sahara, prospettato da alcuni
esperti.
L'energia ricavata dalle biomasse, per lo più dai cereali, ma anche dalla canna da zucchero, sta
purtroppo creando attualmente squilibri alimentari in tutto il mondo e acuendo il problema della
fame. L'idrogeno richiede ancora un costo sostenuto per essere impiegato con profitto. L'energia
eolica può essere sfruttata principalmente in alcune aree geografiche particolarmente ventose.

La ricerca tecnico scientifica è comunque sempre al lavoro per cercare nuove soluzioni alle sfide e
ai problemi posti dai cambiamenti socioeconomici e dalla necessità di procurarsi risorse
energetiche. Fare delle previsioni a lungo termine, in tema di energia, senza tener conto di nuove
scoperte e invenzioni, che sempre si sono avvicendate nella storia dell'uomo, è difficile e aleatorio.
Purtroppo in Italia il clima culturale appare molto poco promettente. A parte le inadeguatezze della
classe dirigente, persistono atteggiamenti molto diffusi nell'opinione pubblica, che tendono, anche
in materia di energia, a privilegiare l'ideologia, il massimalismo e gli interessi particolari e di breve
respiro. Da noi, si è contro l'inquinamento e si fa un uso scriteriato dell'auto; siamo soffocati dal
traffico, ma siamo contro la costruzione di nuove autostrade e di treni superveloci e a favore del
trasporto su gomma. Siamo contro i termovalorizzatori e i rigassificatori e bruciamo i rifiuti per
strada producendo diossina e altri gas nocivi. Temiamo la catastrofe da effetto serra, ma rifiutiamo a
priori l'impiego del nucleare pulito. Le pale per catturare l'energia eolica, poi, ci sembra deturpino il
paesaggio. Siamo in via di principio favorevoli alla costruzione di alcune infrastrutture che ci
permettano di stare agganciati ai Paesi più sviluppati, ma poi siamo presi dalla sindrome NIMBY
(Not In My Back Yard, ossia, tradotto, "non nel mio cortile")

Dipendiamo dai Paesi stranieri per l'approvvigionamento dell'energia, con tutte le conseguenze
geopolitiche che ciò comporta, ma siamo contrari alla produzione di energia pulita e a basso costo
in casa nostra. Ecco, il problema italiano in tema di energia, non mi sembra tanto un problema di
approvvigionamento, ma un problema culturale, di maturazione delle coscienze, di acquisizione di
quel sano empirismo scientifico che ancora ci difetta e che caratterizza invece le democrazie più
avanzate.

COSA VOGLIO FARE DA GRANDE

Provo ammirazione e un po' di invidia per chi sa, già in giovane età, cosa farà da grande. Sono forti
quelli che hanno in mente, fin da ragazzi, un percorso preciso, quelli che riescono a pianificare la
propria vita nei minimi dettagli e non sbagliano mai strada.

Personalmente sono ancora un po' confuso circa il mio futuro. Senza contare che non mi farebbe
schifo trascorrere il resto della mia vita coltivando l'ozio, godendomi un bel paesaggio o un bel
tramonto, viaggiando in paesi lontani, prendendomi tutto il tempo necessario per riflettere sui
problemi dell'esistenza o semplicemente per sorseggiare un aperitivo davanti a un caffè, da solo o in
buona compagnia, guardando con indolente attenzione la gente che passa.
Come i filosofi dell'antica Grecia, che consideravano il lavoro una faccenda da schiavi, sono
piuttosto dubbioso sulla necessità del febbrile attivismo del mondo contemporaneo.

Se proprio dovessi elencare le carriere che più mi piacerebbe intraprendere, metterei al primo posto
quella di calciatore. Acclamato dalle folle, corteggiato dalle ragazze, il calciatore è un dio.
È vero che la sua carriera finisce piuttosto presto e, ancora giovane, deve reinventarsi la vita,
cercandosi una nuova occupazione. Inoltre deve affrontare preoccupanti infortuni, trasferte faticose,
noiosi ritiri e stressanti allenamenti, oltre ad essere costantemente sottoposto alle critiche della
stampa sportiva. Malgrado ciò, i benefici che trae dalla propria attività mi sembrano tuttavia ben
superiori ai sacrifici e alle seccature cui deve sottoporsi. Il problema è che mi manca il talento e
ancora, nelle partitelle tra amici, mi capita purtroppo qualche volta di ciccare la palla.

Seducente trovo anche la carriera della rockstar, con i suoi concerti da 80mila spettatori paganti e
adoranti, gli incassi da milioni di euro e la possibilità di esprimere la propria personalità in modo
creativo. Irresitibili e irraggiungibili, le rockstar inventano la colonna sonora della vita degli altri:
non è, secondo me, un merito di poco conto. Ma la vedo dura: non conosco le note e non so suonare
nessuno strumento.

Mi piacerebbe anche il mestiere di giornalista. Scrivere mi piace, contribuire a far luce sui problemi
della propria epoca storica mi sembra un'attività utile e gratificante. Certo, anche in questo caso
ambirei alla gloria, l'articolo di fondo in prima pagina, l'elzeviro nella pagina culturale, la rubrica
con fototessera sul settimanale trendy.
La concorrenza è agguerrita: la professione di giornalista esercita attrazione su decine di migliaia di
giovani. Per inserirsi bisogna mettere in conto di faticare tanto, e di fare la consueta gavetta. A
meno che non si abbiano conoscenze altolocate.

Da ultimo, mi attira il lavoro del medico. Assistere chi ha bisogno di aiuto, contribuire
all'avanzamento della scienza e al benessere della collettività, essere utile agli altri, mi sembra un
bel modo di impegnare il proprio tempo. Mi dicono che gli studi sono particolarmente severi e che
l'orario di lavoro è pesante. In più non bisogna essere schifiltosi: le malattie hanno talvolta aspetti
raccapriccianti e spesso il medico si deve confrontare con la sofferenza, la morte, col sangue, le
urine e altri liquidi e secreti prodotti dal corpo umano. Occorre quindi una motivazione fortissima
per superare tutti questi ostacoli. Non so se potrei essere all'altezza della difficile sfida.

Se devo essere sincero devo aggiungere che non mi piacerebbe poi tanto dedicare la mia vita ad
un'unica occupazione, che mi assorbisse tutte le energie. Mi piacerebbe occuparmi di tante cose,
con competenza; una vita varia mi sembrerebbe l'unica degna di essere vissuta.
Purtroppo viviamo nell'era della specializzazione e il mio desiderio è destinato quasi di certo a
rimanere insoddisfatto. Pazienza, dovrò rimboccarmi le maniche, realisticamente abbassare le mie
aspettative e cercare, un po' controvoglia, di adattarmi.

ROSSO MALPELO

Pubblicata per la prima volta nell'agosto 1878, la novella Rosso Malpelo entrò a far parte della
raccolta Vita dei campi, che comprende altre sette novelle, tra le più famose di Verga.

Rosso Malpelo è un ragazzo che lavora in una cava di rena. Il narratore ci tace il suo vero nome, si
limita a dire che "Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi
perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone". Persino la
mamma "aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo".

Il ragazzo, dunque, è vittima di un pregiudizio popolare, quello che associa i capelli rossi alla
cattiveria.

Inoltre Malpelo "era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico". È la vita che conduce
ad averlo ridotto così: la mamma lo trascura, la sorella si vergogna di lui. Il padre, l'unico che gli
riservava una qualche forma di affetto, è morto nella stessa cava dove lavora Malpelo, sepolto da un
pilastro di rena.
In seguito alla morte del padre, un dolore che lo segnerà per sempre, Malpelo coltiva un oscuro
spirito di vendetta. Lavora alacremente, ma fa di tutto per meritarsi l'appellativo col quale viene
chiamato: picchia il suo povero vecchio asino, è cattivo con tutti.

Sviluppa un rapporto di amore-odio per un ragazzetto arrivato da poco alla cava, Ranocchio, cui
una lussazione del femore impedisce di fare il manovale, obbligandolo, invece, a lavorare sottoterra.

Malpelo lo picchia, ma gli insegna nello stesso tempo, con rabbioso affetto, le dure e feroci leggi
della vita, le uniche che egli conosca: la continua lotta di tutti contro tutti e la sopravvivenza del più
forte.

Un giorno colpisce Ranocchio che si accascia a terra senza più rialzarsi. Il ragazzo è gravemente
malato di tisi e ha uno sbocco di sangue. Non è più in grado di lavorare. Malpelo, a modo suo, è
disperato, lo va a trovare, gli porta del vino e della minestra, ma il ragazzo muore.

Sempre più solo, - la madre e la sorella sono nel frattempo andate a vivere altrove -, Malpelo
continua la sua bestiale vita alla cava. Persino un evaso, capitato a lavorare di nascosto nella cava,
preferisce tornare in prigione, reputandola meno disumana di "quella vitaccia da talpa".

A Malpelo toccano i lavori più ingrati e rischiosi, tanto non ha famiglia e di lui non importa niente a
nessuno. In un'audace esplorazione del sottosuolo, alla ricerca di un passaggio che colleghi a un
pozzo, un giorno Malpelo sparisce, portando con sé gli attrezzi che furono del padre, inghiottito per
sempre dalla terra. E ora i ragazzi temono che il suo fantasma si aggiri per la cava, "hanno paura di
vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi".

Racconto denso, documento storico sullo sfruttamento del lavoro minorile nell'Ottocento, Rosso
Malpelo ci spiega i meccanismi sociali e psicologici che possono costituire l'origine di
comportamenti violenti e devianti.
Malpelo è cattivo, a volte persino crudele, ma nello stesso tempo è vittima di pregiudizi, un
perseguitato, un oppresso, un ragazzo che della vita ha esperito solo gli aspetti più duri, è un reietto
che vive in un deserto affettivo. Le uniche forze positive, umane che lo muovono sono, oltre
all'istinto di conservazione, il ricordo e la nostalgia del padre. Grazie al ricordo del padre, che
qualche volta lo carezzava, tutte le violenze subite non riescono a spegnere in lui una scintilla di
umanità.

Egli odia Ranocchio per la sua debolezza, per la sua incapacità di sopravvivere in un mondo in cui
vige la legge del più forte. Ma anche lo ama, perché nelle debolezze di Ranocchio, scorge le proprie
e perché, nonostante cerchi di indurirsi il cuore per meglio proteggersi dall'aggressione del mondo
esterno, non riesce a soffocare la pietà e la partecipazione nei confronti della sofferenza.

Nel racconto di Verga, dove persino la natura e le cose inanimate mostrano un volto ostile, il lavoro
assume, per le classi inferiori, i connotati di una maledizione che si tramanda di padre in figlio.
Sono gli istinti elementari a muovere gli esseri viventi e fra loro vigono rapporti ispirati al semplice
utilitarismo, alla strumentalizzazione gli uni degli altri
CIAULA…
Ciaula è un povero minatore che lavora tutto il giorno sotto terra e ritenuto dagli altri incapace di
capire e provare sentimenti umani. La vicenda è ambientata in Sicilia e Cacciagallina, colui che
sorveglia il lavoro dei minatori, quando doveva prendersi uno sfogo, se la prendeva con Zi’ Scarda.
Quest’ultimo se la prendeva con Ciaula. Un giorno Zi’ Scarda dice a Ciaula che avrebbero dovuto
lavorare tutta la notte, ma lui ha paura del buio. Ha paura del buio da quella volta che il figlio di Zi’
Scarda ebbe un grave incidente in seguito allo scoppio di una mina. A quello scoppio tutti avevano
smesso di lavorare ed erano andati sul luogo dell’incidente, tutti tranne Ciaula, che atterrito era
scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui. Nella fretta di andare là, gli si era spenta la
lumiera che faceva luce e aveva cercato di trovare l’uscita dalla galleria. In quel momento ebbe
paura.
Il lavoro con Zi’ Scarda cominciò e quella notte, all’uscita dalla galleria vide la luna, o meglio la
scopre perché non l’ha mai vista prima: la sua emozione è così grande e intensa che scoppia a
piangere.
Ciaula rappresenta tutti gli uomini che, oppressi dall’oscurità dell’angoscia, aspirano al chiarore
delle certezze e che nella bellezza del mondo cercano il riscatto della loro miseria.

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