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Introduzione

Assumere una capacità di pensiero di lungo termine è una delle abilità che siamo chiamati
ad acquisire in quest’epoca di accelerazione continua dei cambiamenti. Questa capacità,
che possiamo definire pensiero anticipante, consiste nel cogliere per tempo, nel presente,
gli indizi di una trasformazione che dispiegherà i suoi pieni effetti nei prossimi anni e decenni,
e nell’adottare strategie conseguenti. I megatrend sono tendenze di vasta portata, che coin-
volgono diversi settori (tecnologici, economici, sociali, demografici) e una vasta parte del
mondo. Sono tendenze di lungo periodo, vale a dire che emergono e si sviluppano nel corso
di decenni, diversamente dai normali trend che durano pochi anni o spesso anche solo pochi
mesi. Questa loro natura li rende spesso difficili da individuare. Esistono certamente mega-
trend generali ben noti (per esempio, la riduzione della povertà, l’aumento delle disparità di
reddito, la crescita della popolazione); i nostri report Long-Term Megatrends si occupano
invece di individuare, a partire da fenomeni, eventi e segnali deboli dell’anno appena pas-
sato, i nuovi, potenziali megatrend emergenti.
Questo significa che i dieci temi di quest’anno non sostituiscono o smentiscono quelli elen-
cati nei report precedenti, che consigliamo sempre di leggere alla luce della distanza tem-
porale, per verificare se le tendenze lì descritte si stiano consolidando o meno; sono piutto-
sto una selezione frutto di un’attività di horizon scanning a base annuale di quei fenomeni
emergenti che ci sembrano più interessanti e su cui crediamo importante richiamare l’atten-
zione dei cittadini, delle aziende, delle istituzioni, affinché il futuro non ci colga impreparati.
Spesso coinvolgono innovazioni tecno-scientifiche, perché la fase di accelerazione che
stiamo vivendo è alimentata principalmente dal progresso tecno-scientifico, i cui sviluppi a
un certo punto escono dai laboratori, dalle industrie e dai centri di ricerca penetrando nella
società e cambiandola in modo spesso radicale. Ma concentrare l’attenzione esclusiva-
mente sugli sviluppi tecnologici spesso porta a sottovalutare i mutamenti sociali e culturali
che ancora di più cambiano il nostro presente e il nostro futuro, e che sono particolarmente
difficili da individuare rispetto agli spettacolari progressi dell’innovazione scientifica. I nostri
report cercano di restituire ai lettori un’immagine del possibile futuro non deformata dall’iden-
tificazione del futuro con il progresso tecnologico, nella consapevolezza che ad esso occorre
affiancare un analogo progresso umano e sociale di cui spesso manca evidenza nel nostro
presente.
Vi auguriamo una lettura proficua per la vostra ricerca e il vostro lavoro.
Il decoupling di Internet

Per tre decenni Internet ha parlato inglese, o meglio americano. La sua pervasività, in questi
tre decenni, è diventata tale da aver dato vita a un mondo parallelo, il cyberspazio, dove
tutto ciò che facciamo nel mondo fisico trova un suo riscontro (con l’eccezione delle nostre
più elementari funzioni fisiologiche, naturalmente). Un mondo virtuale destinato a diventare
ora il terreno di scontro più “fisico” della nuova guerra fredda tra Stati Uniti, Cina e Russia.
La “sovranità digitale” sta diventando infatti un’esigenza strategica primaria, dal momento
che fino a oggi usare Internet significa connettersi a un’infrastruttura ospitata negli USA,
nella fattispecie la DNS root zone: è all’interno di questi computer che vengono smistate le
richieste di connessione ai domini Internet. In linea teorica, nel caso di tensioni internazionali
il governo americano avrebbe facile gioco a mettere offline alcuni domini Internet, per esem-
pio quelli russi o cinesi. Un rischio strategico che la Russia ha preso molto sul serio: nel
maggio 2019 la Duma ha approvato una legge che impone agli ISP (i provider di servizi
Internet) russi di assicurare la connettività anche nel caso che una potenza straniera scol-
leghi il paese dal World Wide Web. Ciò implica che la Russia debba dotarsi di una propria
DNS root zone, vale a dire una “replica” di Internet indipendente dai server DNS occidentali
(gestiti dall’ICANN, l’Internet Corporation for Assigned Numbers and Names, con sede a
Los Angeles). Sarebbe la prima volta in assoluto: Internet si “dividerebbe”, con una parte
gestita dagli Stati Uniti e l’altra dalla Russia, ciascuna indipendente dall’altra. La Russia
vorrebbe estendere questa futura copertura web ad altri paesi, tra cui la Cina e l’India. Primi
test si sono svolti con successo nel 2014 e nel 2018. Ma il varo legislativo del progetto ha
provocato mobilitazioni di protesta in Russia, per il timore che Mosca voglia aumentare la
stretta sulla Rete creando qualcosa di simile al Grande Firewall cinese, che impedisce ai
cittadini di collegarsi a numerosi siti e social network occidentali.
Se i prossimi anni saranno caratterizzati da una crescita del decoupling (“disaccopiamento”)
tra l’Occidente a guida USA e la Cina (con la Russia nell’orbita di quest’ultima), Internet
rappresenterà inevitabilmente uno dei fronti principali. Anche se Pechino non sembra inte-
ressata, per ora, a creare una propria infrastruttura DNS indipendente (aspetto che eviden-
zia la diversità di approcci strategici tra Russia e Cina nel contrasto all’egemonia ameri-
cana), ciò non toglie che lo sforzo per una sovranità digitale perseguita dalla Cina preoccupi
gli Stati Uniti. Per la prima volta la Cina ha sopravanzato gli USA in una corsa tecnologica,
quella all’infrastruttura 5G che non servirà solo gli smartphone, ma realizzerà l’ambizione
dell’Internet of Things, diventando lo standard di connessione di tutti i dispositivi a venire,
mettendo in Rete case, ospedali, centrali elettriche, aerei, fabbriche, fattorie. Da qui le ac-
cuse di Washington riguardo i rischi di sicurezza geopolitica insiti in una dipendenza dei
paesi occidentali da un’infrastruttura guidata da un paese competitor, che potrebbe facil-
mente ottenere dall’azienda i dati sensibili degli utenti o utilizzare la Rete per attacchi di
cyberwarfare (viceversa, il braccio di ferro tra Apple e il governo USA sulla possibilità di
accedere ai dati degli utenti per ragioni di sicurezza nazionale rivela la capacità dei giganti
americani del digitale di resistere al potere politico, con tutti i pro e i contro del caso). Nel
febbraio 2019 il Segretario di stato americano ha messo in dubbio la possibilità di continuare
a collaborare con alleati strategici che usino l’infrastruttura 5G di Huawei, sebbene i paesi
europei abbiano finora preferito negoziare accordi con il gigante tecnologico cinese in cui
sia esplicitamente prevista una clausola anti-spionaggio. Nella primavera 2019, l’ammini-
strazione Trump ha imposto un bando sui rapporti commerciali tra compagnie americane e
Huawei, mettendo in crisi soprattutto Google, fornitore delle licenze del sistema Android su
cui si basano i prodotti dell’azienda cinese. Il bando si è allentato in autunno, ma nel frat-
tempo Huawei è corsa ai ripari e ora i suoi nuovi prodotti non dipendono più da Google,
rafforzando così l’indipendenza strategica digitale della Cina.
D’altronde, la Cina è già del tutto autonoma dai colossi digitali americani: Baidu, Alibaba,
Tencent e Huawei forniscono agli utenti cinesi gli stessi servizi e prodotti di Google, Amazon,
Facebook e Apple (i GAFA), con il vantaggio di essere già tecnicamente (e politicamente)
predisposti al Grande Firewall. Viceversa, i GAFA conservano una forte indipendenza dai
regimi nazionali, come ha evidenziato il dibattito che ha visto Facebook al centro delle ac-
cuse da parte del Congresso degli Stati Uniti e del Parlamento europeo per la disinibita
cessione di dati dei suoi utenti a soggetti interessati alla manipolazione politica dei social
network. La senatrice americana Elizabeth Warren, tra le principali contendenti alle primarie
democratiche 2020, ha presentato un piano per rompere il monopolio dei GAFA costringen-
doli ad adeguarsi alle leggi sulla concorrenza: in base a questo progetto, per esempio, Fa-
cebook dovrebbe rendere Instagram e WhatsApp compagnie del tutto indipendenti, mentre
Amazon non potrebbe vendere prodotti di terze parti. Una “minaccia esistenziale”, come l’ha
definita Mark Zuckeberg, alla politica economica della Silicon Valley.

Riferimenti
J. Harris, The global battle for the internet is just starting, «The Guardian», 25.03.2019 | C. Jee, Russia wants
to cut itself off from the global internet. Here’s what that really means, «MIT Technology Review», 21.03.2019
| G. Sciorati, Political Implications of Digital Technologies: the Huawei Case, ISPI, 05.03.2019.
Il divario (esplosivo) tra città e provincia

La letteratura italiana, specialmente quella del secondo dopoguerra, l’aveva capito prima di
altri: come Anguilla, il protagonista del romanzo di Cesare Pavese, La luna e i falò (1950),
che desidera solo lasciare il suo paesino nelle Langhe piemontesi per aprirsi al mondo e,
dopo alcuni anni trascorsi nelle metropoli americane, capisce che il suo destino è tornare
nella provincia dalla quale proviene. Mentre nel mondo l’urbanizzazione procede a ritmo
spedito (oggi 6 persone su 10 vivono in città, e la tendenza è destinata ad accelerare, so-
prattutto nei paesi in via di sviluppo), il disagio della provincia cresce in egual misura. Disa-
gio innanzitutto esistenziale, come quello di Anguilla, che quando torna scorge un paese
immutato nella sua essenza ma svuotato dei suoi affetti, perché tanti giovani se ne sono
andati come lui senza mai tornare; chi va e non torna fa presto a essere assimilato dalla
cultura metropolitana, chi resta o chi torna per restare finisce per erigere barriere contro il
mondo urbanizzato, difendendo le proprie origini e tradizioni.
Nulla di nuovo: quel che di nuovo c’è è che questo divario tra mondo urbano e mondo pro-
vinciale (o rurale, come dicono gli anglosassoni) sta aumentando a tal punto da diventare la
nuova linea di faglia politica, sostituendo quella tradizionale tra destra e sinistra a cui gli
ultimi duecento anni circa ci hanno abituato. Negli Stati Uniti se ne sono accorti per primi,
dopo le elezioni presidenziali del 2016: Hilary Clinton ha preso più voti, ma due terzi delle
aree suburbane hanno votato per Donald Trump. La ragione sta nella divisione dei collegi
elettorali che tradizionalmente, in America, favorisce le aree rurali e piccoli stati con un peso
elettorale maggiore. Così anche nelle elezioni di mid-term del 2018 i democratici hanno vinto
in tutti i collegi dei grandi centri urbani mentre i repubblicani hanno conquistato l’87% dei
distretti rurali. Un analogo problema è stato riscontrato nel Regno Unito, che come gli USA
ha una divisione dei collegi elettorali che favorisce il voto della provincia: lì, sempre nel
fatidico 2016, il 55% degli elettori della provincia ha votato per la Brexit, mentre nelle grandi
città – Londra in primis – hanno prevalso i remain, sebbene non come ci si attendeva alla
vigilia. Sembra infatti che l’affluenza delle piccole città sia superiore a quella delle grandi
città, dove le persone sono spesso troppo impegnate in altre occupazioni per permettersi di
andare a votare. Diversamente, anche se in Francia le campagne hanno votato in maggio-
ranza per il Front National, la divisione dei collegi premia le grandi città, dove si è concen-
trato il voto a favore di Emmanuel Macron. Le elezioni europee del 2019 hanno confermato
analoghe tendenze in Italia: qui, mentre a Roma il Partito democratico ha superato il 30%,
nel Lazio si è fermato al 24%; A Milano il PD ha preso il 36% contro un dato regionale in
Lombardia del 23%. Di contro, la Lega si ferma al 27% a Milano ma arriva il 43% nella media
regionale. Non è questione di percentuale: città metropolitane e aree suburbane e rurali
votano praticamente in maniera opposta in tutto l’Occidente.
Dal secondo dopoguerra a oggi, le persone più istruite lasciano le province per cercare
lavoro nelle grandi città, dove si concentrano le occupazioni del terziario avanzato; di con-
seguenza, in provincia restano le persone meno istruite, che andranno a occupare posti
nell’agricoltura, nella manifattura o nel piccolo commercio. Il problema quindi, secondo gli
analisti, si nasconde nei livelli d’istruzione: oltre un certo livello, le persone tendono ad avere
idee più progressiste, liberali e, per esempio, favorevoli all’immigrazione, mentre un basso
livello d’istruzione è spesso associato a xenofobia. Questi pattern non hanno nulla a che
vedere con le divisioni geografiche: non sono i posti dove si vive a definire gli orientamenti
politici, ma questi posti stabiliscono chi resta e chi se ne va in termini di brain drain, “fuga
dei cervelli” verso i centri urbani. Sembra non sia invece vero che la cultura cosmopolita
delle città favorisca un’attitudine verso l’apertura mentale: le persone provenienti dalle me-
tropoli che si spostano a vivere in provincia non cambiano le loro opinioni e quindi il loro
orientamento politico nemmeno dopo molti anni.
Se il divario tra provincia e città è stato costante per molti decenni, la situazione si è esa-
cerbata solo negli ultimi anni per effetto della Grande Recessione. A partire dal 2008, le
aree suburbane e rurali sono state le più colpite dalla crisi, perché più fragili e meno dina-
miche. La perdita di posti di lavoro e il crollo dei consumi ha comportato un generale impo-
verimento che si è tradotto in un crescente risentimento soprattutto nei confronti della glo-
balizzazione dei mercati e del multiculturalismo accusato di fungere da veicolo di ingresso
di lavoratori stranieri a basso costo. Il divario, finora limitato ai soli paesi occidentali, negli
ultimi anni ha iniziato a emergere anche in altri paesi, tra cui Brasile, Egitto, Israele, Thai-
landia, Turchia. Anche qui le grandi città vedono un elettorato in maggioranza progressista
confrontarsi con l’elettorato più conservatore delle aree rurali, segno che la tendenza è qui
per restare e caratterizzare il corso dei prossimi decenni.

Riferimenti
E. Badger, How the Rural-Urban Divide Became America’s Political Fault Line, «New York Times», 21.05.2019
| A. Beckett, From Trump to Brexit, power has leaked from cities to the countryside, «The Guardian»,
12.12.2016 | A. Magnani, Europee, perché le città votano il PD e la provincia la Lega, «Il Sole 24 ore»,
27.05.2019 | R. Maxwell, Why are urban and rural areas so politically divided?, «Washington Post», 5.03.2019
| G. Rachman, Urban-rural splits have become the great global divider, «Financial Times», 30.07.2018.
Il rinascimento psichedelico

La psilocibina, la sostanza psichedelica contenuta nei cosiddetti “funghi alluginoceni”, si è


aggiudicata per il secondo anno di seguito nel 2019 la definizione di breakthrough therapy,
“terapia rivoluzionaria”, dalla FDA, l’ente americano che regola il mercato dei farmaci. I trial
clinici in corso negli Stati Uniti, dove la psilocibina viene sperimentata per il trattamento della
depressione maggiore resistente alle terapie convenzionali, hanno infatti fornito risultati su-
periori alle aspettative. Un analogo risultato è stato ottenuto in un trial di fase 1 al King’s
College di Londra, dove a 89 pazienti volontari, divisi in due gruppi, è stata somministrata
psilocibina o placebo: il trial di fase 1, che si limita a verificare se un trattamento produce
effetti collaterali avversi, non ha evidenziato, oltre ai tradizionali effetti allucinogeni già noti
ma controllati attraverso la psicoterapia, effetti avversi rilevanti. Ciò permetterà di lanciare
nel 2020 un trial di fase 2, per verificare i vantaggi della sostanza nel trattamento della de-
pressione, disturbo che oggi affligge secondo l’OMS circa 300 milioni di persone nel mondo
e che nel 2030 diventerà, secondo le stime, la malattia più diffusa.
Diversi esperti parlano oggi apertamente di un “rinascimento psichedelico”, un ritorno in
auge di quelle sostanze – la psilocibina dei “funghi magici”, ma anche la dietilammide dell'a-
cido lisergico (LSD), la dimetiltriptamina (DMT) presente in natura in piante brasiliane come
l’ayahuasca, la mescalina contenuta nel peyote, l’MDMA (ecstasy) – che furono oggetto di
rilevanti ma premature sperimentazioni scientifiche tra gli anni Cinquanta e Sessanta per
poi essere messe al bando come sostanze stupefacenti a partire dal 1966. Due anni più
tardi, l’inizio della controcultura, in cui l’impiego di LSD e di altre sostanze allucinogene iniziò
a dilagare nei movimenti hippie, spinse il presidente Richard Nixon a definirle “il nemico
pubblico numero uno”. Per decenni, gli studi sui potenziali effetti farmacologici di queste
sostanze furono proibiti. La successiva strage di massa in Occidente prodotta dalla diffu-
sione di droghe pesanti come l’eroina, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta,
contribuì a demonizzare ulteriormente l’impiego di sostanze psichedeliche, considerate –
analogamente alla cannabis – “l’anticamera” per le droghe pesanti.
Nel 2007 la rivista The Lancet dimostrò che canapa, LSD e MDMA sono sostanze decisa-
mente meno pericolose di alcol e tabacco, dunque non equiparabili in alcun modo a droghe
come eroina e cocaina, in cima alla lista per dannosità e dipendenza. Nel 2014 Scientific
American chiese che il governo americano emendasse il Controlled Substances Act del
1970, con il quale le droghe psichedeliche erano state inserite al livello 1 delle sostanze
messe al bando (analogamente alle droghe pesanti), impedendo la ricerca scientifica sui
loro potenziali usi farmacologici, dal momento che, poco prima del bando, nella metà degli
anni Sessanta, diversi studi avevano dimostrato risultati convincenti nel loro impiego per il
trattamento di disturbi d’ansia, depressione e disordine ossessivo-compulsivo. Nel 2007 la
Svizzera è stata la prima nazione ad avviare nuove sperimentazioni sull’LSD (Albert Hoff-
mann, scopritore dell’LSD nel 1938, era svizzero). Gradualmente, anche la FDA negli Stati
Uniti ha iniziato ad avviare sperimentazioni con protocolli rigorosi nell’ambito delle neuro-
scienze. Nel 2016, su iniziativa del dottor Robin Carhart-Harris, l’Imperial College di Londra
ha inaugurato il Centre for Psychedelic Research, che sta completamente rivoluzionando
gli studi in questo settore. Attraverso l’applicazione della risonanza magnetica funzionale
(fMRI), che permette di osservare in tempo reale il comportamento dei neuroni all’interno
del cervello di un paziente, gli studi di Carhart-Harris hanno mostrato come si modificano i
pattern neurali sotto l’effetto di LSD o psilocibina: laddove i tradizionali farmaci per la de-
pressione inibiscono la ricaptazione della serotonina, riducendo i sentimenti negativi ma in
generale ottundendo l’intero spettro emozionale del paziente, le sostanze psichedeliche
creano “percorsi” nuovi all’interno del cervello, una sorta di reset dei blocchi mentali tipici
del paziente depresso. Al momento l’Imperial College ha in corso uno studio per confrontare
e valutare gli effetti della psilocibina con quelli di un tradizionale farmaco antidepressivo
(Escitalopran).
Le applicazioni delle sostanze psichedeliche ai disturbi neurologici potrebbero essere nu-
merosissime: oltre ai disturbi già citati, diverse sperimentazioni hanno già dato risultati molto
positivi per il distress dei malati oncologici, per la dipendenza da alcol e nicotina, per lo
stress post-traumatico. Non mancano tuttavia anche voci critiche, secondo cui l’impiego di
questi nuovi farmaci potrebbe ingenerare la convinzione che esistano cure miracolose per
problemi per i quali è sempre necessario un approccio psicoterapeutico sistemico, finendo
persino per nascondere il dibattito sulle cause endogene della depressione dell’attuale si-
stema di vita dell’Occidente. A tale riguardo, i ricercatori sottolineano che l’uso di queste
sostanze va sempre affiancato a un percorso psicoterapeutico.

Riferimenti
C. Cookson, Magic mushroom medicine passes first clinical safety trial, «Financial Times», 11.12.2019. | M.
Orsi, Depressione, per l’Imperial College una cura dai “funghi magici”, «Il Bo», 11.06.2019 | L. Richert, The
Psychedelic Renaissance, «Psychology Today». 14.08.2019. | V. Santoni, Il rinascimento della psichedelia,
«Internazionale», 01.01.2017. | Y. Saplakoglu, FDA Calls Psychedelic Psilocybin a ‘Breakthrough Therapy’ for
Severe Depression, «Live Science», 26.11.2019.
La corsa agli armamenti spaziali

Da sempre il “quarto ambiente” è al centro degli interessi militari. A partire dal 1957, con il
lancio dello Sputnik, si è iniziato a discutere delle questioni di sicurezza connesse allo Spa-
zio, diventato oggetto di interesse strategico al punto da affiancarlo al primo ambiente (la
terra), il secondo ambiente (il mare) e, dagli inizi del XX secolo, il terzo ambiente (l’aria, il
cui ruolo strategico è diventato centrale a partire dalla Second a guerra mondiale). Già
l’anno successivo le Nazioni Unite istituivano la Commissione per l’uso pacifico dello spazio
extra-atmosferico (COPUOS), al cui interno fu negoziato il l’Outer Space Treaty che pose il
divieto di utilizzo dei corpi celesti per scopi militari, inclusi test di armamenti, e il bando al
dispiegamento di armi nucleari e altre armi di distruzione di massa nell’orbita terrestre, ac-
cettato sia dagli Stati Uniti che dall’Unione sovietica per porre un freno alla corsa agli arma-
menti atomici. Ciò non ha impedito, negli anni successivi, lo sviluppo dei missili balistici
intercontinentali (ICBM) in grado di effettuare parabole sub-orbitali per raggiungere obiettivi
a lunga distanza, e sistemi di difesa missilistica come l’abortito progetto SDI americano du-
rante l’amministrazione Reagan. Nel 2007, inoltre, la Cina ha sperimentato per la prima volta
con successo un’arma anti-satellite, seguita nel 2008 dagli Stati Uniti (già da tempo in pos-
sesso di tale tecnologia) e nel 2019 dall’India. Simili armamenti in grado di abbattere target
in orbita sono certamente in possesso anche della Russia, di Israele e forse di altri paesi.
Alla fine del 2019, l’amministrazione Trump ha portato a termine il processo legislativo per
l’istituzione della U.S. Space Force, sesta branca delle forze armate statunitensi, scinden-
dola dall’Air Force a cui prima era subordinata (gli Stati Uniti possiedono anche un comando
strategico per il cyberspazio, istituito nel 2009). In realtà, la Space Force continuerà a risie-
dere all’interno del Dipartimento dell’Air Force, seguendo un percorso simile a quello dei
Marines organizzati come corpo indipendente all’interno del Dipartimento della Marina. Alla
Space Force saranno assegnate 16mile unità tra militari e civili (non sono previsti nuovi
reclutamenti) e 40 milioni direttamente dal Congresso, a cui si aggiungeranno nel corso del
2020 diversi miliardi trasferiti dall’Air Force alla Space Force (cica 10 miliardi di dollari per
lo sviluppo, il mantenimento e le operazioni relative a sistemi d’arma spaziali, in particolare
missilistici). Anche se i media hanno subito ribattezzato l’operazione “Space Farce” (farsa
spaziale), l’operazione americana ha fatto subito scuola: anche la Francia, infatti, si sta do-
tando di un comando spaziale, dopo le accuse lanciate alla Russia di aver tentato di inter-
cettare le trasmissioni veicolate dal satellite militare italo-francese Athena-Fidus nel 2017.
E analogamente l’Italia, con l’istituzione nel 2019 di un Ufficio generale per lo Spazio, ha
annunciato la volontà di istituire nel prossimo futuro un Comando spaziale italiano.
A preoccupare gli Stati Uniti e la NATO non sono solo le armi anti-satellite, ma soprattutto
la nuova minaccia costituita dagli armamenti ipersonici, di cui esistono due tipologie: gli
“alianti”, lanciati da ICBM nell’orbita terrestre e in grado di rientrare in atmosfera a velocità
ipersoniche per colpire un bersaglio anche con testate nucleari; e le versioni ipersoniche dei
missili da crociera, che viaggiano ad altitudine inferiore. Nel 2018 il presidente russo Vladi-
mir Putin ha annunciato il dispiegamento del motoaliante ipersonico Avangard, in grado di
sfuggire a ogni tentativo di intercettazione da parte degli attuali sistemi missilistici. Durante
la parata militare per i 70 anni della Repubblica Popolare Cinese, anche Pechino ha rivelato
al mondo il suo razzo ipersonico DF-17. Gli Stati Uniti hanno definito lo sviluppo di arma-
menti ipersonici “una delle massime priorità” del Pentagono. Le sfide dei missili ipersonici
sono molteplici, non solo per la loro capacità di sfuggire agli attuali sistemi di difesa missili-
stici (peraltro quasi inefficaci contro gli ICBM): richiedono infatti nuovi processi di decision-
making a causa dei tempi di risposta molto brevi. Se con i tradizionali ICBM il tempo tra
lancio, rilevazione e risposta è di 26 minuti, con i missili ipersonici scende a 6 minuti. Il target
di un missile ipersonico può essere predetto solo tra i 15 e i 40 minuti prima dell’impatto,
troppo poco per poter mettere al sicuro le persone sull’obiettivo. Tempi così ridotti richiede-
ranno di demandare sempre più le scelte strategiche ai computer, sottraendo il controllo di
un futuro conflitto alle decisioni umane. Si tratta inoltre di rimettere in discussione l’equilibrio
ottenuto con la MAD, il principio della distruzione mutua assicurata: di fronte all’allarme di
un lancio di missili ipersonici da parte una potenza nemica, la scelta potrebbe essere quella
di lanciare gli ICBM, ipotizzando che i silos di lancio nucleari costituiscano il target dei missili.
Ciò favorirebbe il rischio di un’escalation nucleare. Infine, come già con gli ICBM, la cui
tecnologia di lancio e rientro dall’orbita si basa sulla stessa tecnologia impiegata per la
messa in orbita di satelliti civili, anche i missili ipersonici si basano su una tecnologia dual-
use, dato che i motori scramjet che ne forniscono la propulsione sono impiegati anche per
aerei civili ipersonici o velivoli per il turismo spaziale in orbita bassa. Un limite ai tentativi in
discussione di un trattato internazionale per mettere al bando i missili ipersonici.

Riferimenti
S. Erwin, Trump signs defense bill establishing U.S. Space Force: What comes next, «Space News»,
20.12.2019 | I. Oelrich, Hypersonic missiles: Three questions every reader should ask, «Bulletin of the Atomic
Scientists», 17.12.2019 | R.H. Speier, G. Nacouzi, C.A. Lee, R.M. Moore, Hypersonic Missile Nonproliferation:
Hindering the Spread of a New Class of Weapons, RAND Corporation, 2017.
Il conflitto intergenerazionale

“Ok, boomer!” è tra i meme dello scorso anno, destinato probabilmente a restare per un po’.
Come tutti i meme, è anche l’espressione di sentimenti più profondi, nello specifico del di-
sagio e del risentimento accumulato dalle giovani generazioni nei confronti della genera-
zione oggi al potere, quella dei baby boomer, i nati nel Secondo dopoguerra più o meno fino
all’inizio della contestazione dei tardi anni Sessanta. Il successo delle manifestazioni dei
Fridays for the Future, promosse dalla giovanissima svedese Greta Thunberg, è stretta-
mente legato alla sua componente generazionale: le accuse di Thunberg, infatti, sono state
prevalentemente indirizzate ai leader mondiali colpevoli di non aver pensato al benessere
delle generazioni a venire, e hanno mobilitato principalmente giovanissimi appartenenti alle
generazioni Y (Millennials) e Z. A loro volta, reazioni critiche nei confronti dei Fridays for the
Future si sono avute principalmente tra i matures e i boomers, come evidenzia un’analisi
secondo cui il 42% dei post relativi a Greta Thunberg ha connotazioni negative su Twitter,
il social in assoluto più “vecchio” in termini di età media degli utenti.
A marcare il crescente divario generazionale in Occidente sono anche altri segnali recenti.
Anche le ultime elezioni politiche nel Regno Unito, per esempio, hanno evidenziato una
strutturazione del voto su base generazionale. È la conferma di una tendenza osservata già
nel referendum sulla Brexit del 2016, in cui la fascia d’età tra i 18 e i 24 anni votò in massa
(75%) per il remain, ben diversamente dall’esito finale che vide il leave prevalere con il 52%
dei voti. Nelle elezioni politiche britanniche del 2017, gli elettori under-45 hanno premiato il
Partito Laburista, portandolo a un’incollatura dal Partito Conservatore. È stato osservato
che, mentre negli anni Settanta il voto ai laburisti proveniva principalmente dalle classi ope-
raie ed era omogeneamente suddiviso nelle coorti d’età, oggi un trentenne inglese vota la-
burista nel doppio dei casi rispetto a un settantenne, il quale voterà per i conservatori nel
doppio dei casi rispetto a un trentenne.
In Francia, nelle elezioni presidenziali del 2017, gli over-60 hanno espresso più alte prefe-
renze per il candidato dei Repubblicani, François Fillon, espressione dell’élite politica mo-
derata uscente, ma arrivato poi terzo al primo turno, mentre i più giovani hanno dimostrato
una spiccata tendenza alla polarizzazione verso i candidati estremi (l’esponente della sini-
stra Jean-Luc Mélenchon e del Fronte Nazionale Marine Le-Pen) rispetto ai candidati mo-
derati e centristi. Se si fosse tenuto conto dei soli voti degli under-35, il ballottaggio sarebbe
stato tra Mélenchon e Macron, con un netto vantaggio del primo; mentre per la coorte over-
60 il ballottaggio sarebbe stato tra Fillon e Macron, con di nuovo un netto vantaggio dell’altro
candidato. Una lettura che permette di comprendere in chiave di conflitto generazionale, e
non solo sociale, anche il movimento di protesta dei gilet gialli scoppiato alla fine del 2018
in Francia.
Simili relazioni tra coorti d’età e orientamento al voto sono state osservate anche in Italia,
dove di recente si è iniziato a discutere della possibilità di abbassare l’età minima di voto a
16 anni. L’insofferenza nei confronti dei vecchi partiti risulta evidente dal fatto che nelle ele-
zioni politiche del 2018 gli elettori under-35 hanno votato in massa per il Movimento 5 Stelle
(40%), senza comunque disdegnare un altro partito anti-sistema come la Lega, che ha ot-
tenuto il 21,2% dei consensi (superiore alla media complessiva) tra i 18 e i 24 anni e il 15%
(inferiore alla media) tra i 24 e i 34 anni. Si assiste nel complesso a un ritorno ai pattern
elettorali degli anni Sessanta e Settanta, quando lo scollamento generazionale nell’eletto-
rato arrivò in Italia a portare diversi partiti anti-sistema in Parlamento e spinse il principale
partito d’opposizione (il PCI) a un passo dal sorpasso storico del principale partito di governo
(la Democrazia Cristiana). La conflittualità sociale esplosa in Italia e in tutto l’Occidente a
partire dal 1968 e per tutto il decennio successivo fu l’inesorabile esito di una rappresen-
tanza politica diseguale in termini di rappresentatività generazionale, che ostacolò a lungo
le legittime aspirazioni dei più giovani a un radicale cambiamento culturale e sociale.
Il passato aiuta a immaginare i potenziali esiti di questo scollamento generazionale: per
esempio, lo storico Peter Turchin ha individuato nella sovrapproduzione di élite cultural-
mente preparate ma incapaci di accedere alle leve del potere la miccia di tutti i principali
rivolgimenti storici, dall’epoca romana alla Rivoluzione francese fino al Sessantotto e oltre.
Ma la situazione attuale aggiunge al quadro un componente inedito: la percezione dei gio-
vani che le generazioni più anziane abbiano dilapidato il loro patrimonio futuro, sia in termini
economici che ambientali, a causa di un modello di crescita economica insostenibile sul
lungo periodo. È a questo che si riferiscono le accuse di Greta Thunberg e del movimento
Fridays for the Future: il pericolo percepito di un orizzonte futuro inesorabilmente precluso
perché già esaurito e dilapidato, una sorta di violazione del patto intergenerazionale a favore
delle possibilità delle generazioni a venire.

Riferimenti
A. D’Angelo, Il ritorno del voto generazionale, «YouTrend», 13.03.2018 | A. Gentili, Quanto pesa il fattore
Millennials nelle urne d’Europa, «Eastwest», 14.03.2018 | J.C. Sternberg, The Theft of a Decade: How the
Baby Boomers Stole the Milennials’ Economic Future, Public Affairs, 2019 | D. Tuorto, L’attimo fuggente. Gio-
vani e voto in Italia, Il Mulino, 2018 | R.A. Ventura, La guerra di tutti, Minimum Fax, 2019.
Verso un Green New Deal

L’espressione “Green New Deal” è stata coniata per la prima volta nel 2007 da Thomas
Friedman, autore del best-seller Caldo, piatto e affollato, in riferimento all’auspicio di varare
un ambizioso piano di decarbonizzazione dell’economia globale per contrastare i cambia-
menti climatici senza andare a impattare sullo sviluppo e l’occupazione ma anzi, similmente
al New Deal americano, promuovendo al tempo stesso la crescita. L’espressione è stata
ripresa nel corso del 2019 in seguito alla proposta di alcuni parlamentari americani appar-
tenenti al Partito democratico (in particolare il senatore Bernie Sanders e la deputata Ale-
xandra Ocasio-Cortez) di un ampio pacchetto di misure per attuare l’obiettivo del Green
New Deal. Anche la Commissione europea ha battezzato “European Green Deal” una pro-
posta di legge europea in corso di discussione sui cambiamenti climatici; sulla stessa scia,
la nuova maggioranza di centro-sinistra in Italia ha annunciato un “Green Deal”.
Si tratta di iniziative molto diverse per impostazione ideologica, modalità, costi e ambizioni.
Il Green New Deal originale americano, che potrebbe entrare in vigore in caso di una vittoria
dei democratici alle elezioni presidenziali del novembre 2020, è decisamente il più costoso:
16mila miliardi di dollari in dieci anni, da coprire attraverso una regolamentazione del mer-
cato energetico, il taglio delle spese militari per la protezione delle infrastrutture petrolifere,
un ingente gettito fiscale proveniente dai nuovi posti di lavoro creati e, soprattutto, dall’au-
mento della tassazione sui redditi più alti. Gli investimenti saranno orientati allo sviluppo e
all’adozione di energia rinnovabile e stoccaggio energetico, una nuova smart grid a corrente
continua sotterranea, un fondo delle Nazioni Unite per aiutare gli altri paesi del mondo a
ridurre le proprie emissioni, un fondo per la “giustizia climatica” per aiutare gruppi svantag-
giati che più di altri subiranno gli effetti dei cambiamenti del clima, tra cui anziani, disabili e
nativi americani. Il grosso dell’investimento, tuttavia, servirà a creare 20 milioni di posti di
lavoro (i disoccupati americani al momento sono 6 milioni, ma il piano tiene conto dell’ap-
porto dell’immigrazione e degli effetti della disoccupazione tecnologica nel corso del decen-
nio). Similmente al Civilian Conservation Corps – il programma di assistenza statale dell’am-
ministrazione Roosvelt per contrastare la disoccupazione giovanile negli anni successivi alla
Grande Depressione con imponenti opere pubbliche – toccherà allo stato impiegare i 20
milioni di nuovi lavoratori nella mitigazione dei cambiamenti climatici, nella riforestazione e
nel contrasto al dissesto idrogeologico. Il piano è stato fortemente criticato per i costi ecces-
sivi e tacciato dai conservatori di “socialismo”, ma ne esistono versioni alternative, come
quella presentata dall’influente saggista e consulente Jeremy Rifkin, che, riprendendo tesi
già sviluppate in alcuni testi precedenti, propone un Green New Deal gestito dal mercato, in
particolare reinvestendo i fondi pensione americani (circa 20mila miliardi di dollari) in pro-
grammi di decarbonizzazione dell’infrastruttura energetica.
Lo European Green Deal varato dalla Commissione europea guidata da Ursula von der
Leyen prevede invece di raggiungere entro il 2050 la “neutralità climatica”, rendendo cioè la
UE a emissioni nette zero. Più precisamente, entro il 2030 le emissioni saranno tagliate del
50-55% (si tratta di un impegno giuridicamente vincolante per gli Stati membri), e la parte
residuale ancora presente nel 2050 sarà compensata da misure di sequestro del carbonio
e altri meccanismi di compensazione. Il piano prevede oltre 50 misure, tra cui il più econo-
micamente oneroso è il Just Transition Mechanism da 100 miliardi di euro per la riconver-
sione energetica delle regioni e delle aree produttive più svantaggiate. Introiti proverranno
da una carbon tax frontaliera che si applicherà alle merci di quei paesi che non si sono dotati
di analoghi piani di decarbonizzazione (un monito a Cina e Stati Uniti in primis), soprattutto
per evitare che le industrie europee, per sfuggire ai costi di riconversione energetica, delo-
calizzino in paesi “inquinanti”. La strategia è stata giudicata credibile dagli osservatori in
termini di sostenibilità economica, ma potrebbe rivelarsi inadeguata nei mezzi. Ancor meno
ambizioso appare il Decreto clima italiano, che però si muove nella direzione di un Pro-
gramma strategico nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici, mentre la Camera dei
Deputati ha proclamato, come altre nazioni, l’emergenza climatica, impegnando il governo
al varo di misure urgenti.
Il tema del Green New Deal è sempre più oggetto di proposte politiche. Di recente il Movi-
mento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM2025), piattaforma di sinistra presente in
diversi paesi europei, ha presentato una propria proposta per l’Europa, più vicina a quella
americana. L’orientamento emergente che la formula “Green New Deal” suggerisce ri-
guarda la stretta interrelazione tra sviluppo economico e decarbonizzazione: anziché con-
siderare, come si è fatto finora, l’emergenza climatica un problema meramente tecnico-
scientifico, cresce l’attenzione sul legame tra modelli insostenibili di crescita economica e
devastazione dell’ambiente e del clima, puntando all’adozione di nuove politiche sostenibili.

Riferimenti
G. Calella, I falsi amici del Green New Deal, «Jacobin», 18.10.2019 | Commissione europea, Il Green Deal
Europeo, COM(2019) 640, 11.12.2019 | L. Friedman, What Is The Green New Deal? A Climate Proposal,
Explained, «New York Times», 21.02.2019 | A. Giacometti, Ideologia Green New Deal, «Il Tascabile»,
29.11.2019 | J. Rifkin, Un Green New Deal globale, Mondadori, 2019.
La supremazia quantistica

La corsa al computer quantistico, teorizzato per la prima volta agli inizi degli anni Ottanta, è
entrata nella sua fase cruciale nel 2012, quando la D-Wave ha lanciato il primo prototipo di
computer quantistico commerciale. Quello stesso anno il fisico teorico John Preskill definì
con il concetto di “supremazia quantistica” il vero obiettivo da raggiungere: una marcata
superiorità rispetto a un computer classico in termini di velocità di calcolo. Nell’ottobre 2019,
con un articolo su Nature, Google ha annunciato di aver conseguito l’ambito traguardo: un
suo processore a 54 qubit (versione quantistiche dei bit tradizionali), battezzato “Sycamore”,
è stato in grado di effettuare un calcolo di campionamento casuale che avrebbe richiesto
10mila anni per essere svolto dal più potente supercomputer in circolazione (Summit di IBM)
in appena 3 minuti e 20 secondi. La spettacolarità del risultato è tale che, nonostante un
iniziale scetticismo, la verifica da parte della comunità scientifica ha confermato l’annuncio
di Google. Fino a ora, infatti, nessun computer basato su qubit (tra cui il D-Wave 2 con
processore a 512 qubit) aveva dato prova del quantum speed-up, la capacità di eseguire
calcoli complessi in tempi nettamente inferiori ai supercomputer classici e senza andare in
stallo all’aumentare della complessità del calcolo.
Il principale rivale di Google nella corsa al computer quantistico, IBM, ha immediatamente
replicato all’annuncio, sostenendo che il suo supercomputer Summit sarebbe in grado di
svolgere il calcolo di Sycamore in due giorni e mezzo e non certo in diecimila anni, cosicché
anche in questo caso ci troveremmo di fronte solo a un normale incremento di velocità di
calcolo ma non di quantum speed-up. La questione, tuttavia, è più sfumata, e risiede nelle
diverse tipologie di complessità temporale di un programma: un programma può essere
veloce in tempo polinomiale e lento in tempo esponenziale, vale a dire che a seconda del
problema che si trova ad affrontare (solitamente la scomposizione in fattori primi di grandi
numeri) può procedere velocemente fino a un certo livello e poi entrare in crisi al crescere
della complessità del problema. Il Sycamore di Google ha affrontato un tipo di problema
particolare complesso, il campionamento casuale: un tipico esempio è il calcolo della distri-
buzione degli esiti possibili del lancio di un dado. In questo caso, al posto del dado, c’è un
circuito quantistico, di cui vanno calcolati i possibili esiti. A differenza che nella fisica clas-
sica, la meccanica quantistica è basata sul principio della sovrapposizione. I 53 qubit del
processore non hanno due soliti esiti possibili (0 e 1) per ogni bit come nei computer classici,
ma 253 stati, pari a oltre un quadrilione di esiti possibili. Calcolare la distribuzione di un qua-
drilione di esiti è un problema che un computer classico riesce a svolgere in tempi molto
lunghi, che aumentano esponenzialmente all’aumento esponenziale del numero di possibili
stati. Aggiungendo un singolo qubit al circuito, un computer classico dovrà raddoppiare di
dimensioni per svolgere lo stesso calcolo nello stesso tempo, al punto tale che un proces-
sore da 70 qubit richiederebbe un analogo classico (come il Summit di IBM) della grandezza
di una città.
La computazione quantistica rappresenta la frontiera più estrema dell’evoluzione informa-
tica. La possibilità di sfruttare le proprietà della meccanica quantistica – in particolare il prin-
cipio della sovrapposizione, alla base dei qubit – apre le porte a numerose applicazioni pra-
tiche, per esempio la comprensione di sistemi complessi come l’atmosfera (migliorando sen-
sibilmente le previsioni meteorologiche e la comprensione degli effetti dei cambiamenti cli-
matici) o lo sviluppo di simulazioni affidabili per studiare l’efficacia dei farmaci (facendo a
meno di modelli animali) o l’interazione con l’espressione genica di un paziente. Nell’ottica
di una transizione verso la medicina personalizzata, su cui si concentrano gli sforzi della
ricerca biomedica e genetica, l’impiego di calcolatori quantistici rappresenta uno sviluppo
tecnologico cruciale. La computazione quantistica è considerata anche un asset strategico
tanto da parte degli Stati Uniti che della Cina: quest’ultima sta investendo miliardi nello
sforzo di sopravanzare entro il 2030 la tecnologia quantistica americana, soprattutto con
l’obiettivo di usarla come infrastruttura di calcolo per la futura intelligenza artificiale. Come
ha osservato il presidente russo Vladimir Putin, la nazione che per prima riuscirà a realizzare
un’autentica intelligenza artificiale diventerà potenza mondiale; e la supremazia quantistica
è una tappa fondamentale in questa corsa. Nel 2018 l’amministrazione Trump ha varato il
National Quantum Initiative Act per finanziare con 1,2 miliardi di dollari in cinque anni la
ricerca nel settore. Nello stesso anno, la Commissione europea ha varato la Quantum Tech-
nologies Flagship, con un finanziamento di oltre un miliardo di euro in dieci anni. Numerosi
restano infatti i problemi ancora da risolvere sul versante tecnologico, in particolare quello
della decoerenza, ossia dell’interferenza dell’ambiente esterno che provoca la scomparsa
della sovrapposizione nei processori quantistici, producendo gravi errori di calcolo.

Riferimenti
D. Cossins, It’s official: Google has achieved quantum supremacy, «New Scientist», 23.10.2019 | K. Hartnett,
Google and IBM Clash Over Milestone Quantum Computing Experiment, «Quanta Magazine», 23.10.2019 |
A.D. Signorelli, L’era della supremazia quantistica, «Le macchine volanti», 28.11.2019 | P. Smith-Goodson,
Quantum USA Vs. Quantum China: The World’s Most Important Technology Race, «Forbes», 10.10.2019.
Il grande gioco artico

L’Artico è l’area del mondo più sensibile ai cambiamenti climatici. Le temperature nella re-
gione aumentano a una velocità doppia rispetto alla media globale e per periodi sempre più
lunghi, in estate, è possibile percorrere la rotta del Mare del Nord senza incontrare ghiacci.
Secondo le ultime stime, entro gli anni Quaranta l’intero circolo polare artico potrebbe essere
libero dai ghiacci durante l’estate. Benché drammatico, questo rapido cambiamento dello
scenario artico rappresenta per diversi attori un’importante opportunità economica e geopo-
litica. Secondo una stima del servizio geologico statunitense, nell’area nord del circolo po-
lare articolo si troverebbe circa il 30% dei giacimenti ancora ignoti di gas e il 13% del petrolio
mondiale, la maggior parte ad appena 500 metri di profondità. Tuttavia, secondo alcuni ana-
listi, a prezzi correnti e con la concorrenza delle attuali fonti fossili e delle energie rinnovabili,
lo sfruttamento di questi giacimenti non sembra ragionevole dal punto di vista economico.
Entro il 2050 le nuove aree pescose potrebbero far aumentare fino al 39% i proventi del
settore ittico (anche se la stima va ridimensionata per gli effetti dell’acidificazione degli
oceani): già negli ultimi anni la Groenlandia ha visto un’impennata dell’export grazie all’arrivo
dello sgombro atlantico in conseguenza del riscaldamento degli oceani.
Circa il 5% delle rotte commerciali potrebbero in futuro passare per il Mar del Nord. Nell’ago-
sto 2018 la compagnia leader mondiale di settore, Mærsk, ha fatto passare una portacon-
tainer da Vladivostok a San Pietroburgo via Mar del Nord riducendo del 40% i tempi di per-
correnza. Nel giugno 2019 ha quindi siglato un accordo con l’operatore russo di navi rompi-
ghiaccio Atomflot per creare una rotta stabile nel prossimo futuro. Ciò porterebbe a un au-
mento del commercio tra Europa e Asia del 6% circa. Nel frattempo stanno già aumentando
significativamente i viaggi delle navi da crociera, che offrono – sebbene a prezzi molto più
alti degli standard – nuove rotte nel circolo polare artico. Il rischio è che l’aumento dell’inqui-
namento e del riscaldamento della regione abbia conseguenze disastrose, con un impatto
economico negativo, nello scenario peggiore (quello che prevede il rilascio di enormi quan-
tità di metano fossile per lo scioglimento del permafrost), fino a 60mila miliardi di dollari di
perdite nell’economia mondiale entro la metà del secolo.
Un’altra importante opportunità dello scioglimento dei ghiacci artici riguarda Internet. Sta
infatti diventando economicamente e tecnicamente fattibile posare sul fondale artico un fa-
scio di fibre ad alta velocità concorrente alla dorsale atlantica in termini di latenza di trasmis-
sione, ma in grado anche di collegare direttamente per la prima volta Asia ed Europa. Un
accordo a tal fine è stato siglato tra la compagnia finlandese Cinia (che gestisce circa 15mila
chilometri di cavi in fibra ottica) e l’operatore di telecomunicazione russo MegaFon. Un primo
step connetterà Londra all’Alaska con un risparmio in termini di distanza del 20-30%. Sono
inoltre in corso studi sulla possibilità di dislocare nel circolo polare artico i grandi data center
il cui impatto sull’ambiente è considerato molto oneroso: l’abbondanza di energia idroelet-
trica favorirebbe l’obiettivo di decarbonizzare Internet.
L’importanza geopolitica dell’Artico è nota da tempo. Sono otto i paesi che hanno sovranità
sulle aree del Polo Nord: Stati Uniti, Canada, Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia, Finlan-
dia e Russia. Tutti i paesi, tranne la Russia, hanno stretti legami di alleanza attraverso la
NATO, di cui sono membri o partner. La Russia, tuttavia, può vantare il fatto che l’intera
rotta del Mar del Nord ricade nella propria area economica esclusiva; il governo di Mosca
sta da tempo provando a sfruttare questo vantaggio per rivendicare le nuove acque libere
dai ghiacci nel circolo polare artico, a partire da quando, nel 2007, con un’operazione sim-
bolica, due sommergibili russi hanno piantato bandiera sul fondale del Polo Nord geografico,
a 4200 metri di profondità, rivendicando la dorsale Lomonosov (una catena montuosa sot-
tomarina del Mar Glaciale Articolo) come estensione della propria piattaforma continentale.
La Russia, inoltre, minaccia di attaccare tutte le navi che non si conformano agli obblighi di
legge russi per l’accesso alla rotta del Mar del Nord (che prevede di essere scortate da
equipaggio e navi rompighiaccio russe). Nel 2014 a Mosca è stato istituito un Comando
congiunto strategico della flotta del Nord e da allora sono cresciuti gli sforzi russi di installare
sistemi missilistici, radar e altri sistemi di sorveglianza. Nel corso del 2019 la Russia ha
svolto diversi test di armi segrete nella regione. Nel gennaio 2018 la Cina si è dotata di una
propria strategia per l’artico, aumentando la sua presenza con l’obiettivo di assicurarsi l’ac-
cesso commerciale alle nuove rotte e alle risorse sottomarine. Anche gli Stati Uniti hanno
adottato nel 2019 una strategia per l’Artico, a partire dal contenimento di Russia e Cina.
Anche se non se ne fa riferimento in questo documento, l’ipotesi dell’amministrazione Trump
di acquistare la Groenlandia dalla Danimarca, apparsa al governo danese come una bou-
tade, è strettamente collegata al desiderio di Washington di accrescere la sua posizione
egemonica nella regione.

Riferimenti
J. Alvarez, D. Yumashev, G. Whiteman, A framework for assessing the economic impacts of Arctic change,
«Ambio», giugno 2019 | M. Koziol, Melting Arctic Ice Opens a New Fiber Optic Cable Route, «IEEE Spectrum»,
13.06.2019 | Office of the Under Secretary of Defense for Policy, Report to Congress – Department of Defense
Arctic Strategy, giugno 2019 | E. Pitzianti, Tutti vogliono andare in crociera sull’Artico, «Esquire», 29.12.2019.
Il suprematismo bianco

Nel primo pomeriggio del 15 marzo 2019 a Christchurch, in Nuova Zelanda, un uomo di
nazionalità australiana di 28 anni ha aperto il fuoco contro due luoghi di culto islamici affollati
per la preghiera del venerdì, uccidendo cinquanta persone. L’attentato, il più grave della
storia neozelandese, è solo uno dei più eclatanti attacchi terroristici legati al cosiddetto “su-
prematismo bianco”, che oggi in Occidente miete più vittime del terrorismo di matrice isla-
mica fondamentalista. Nel suo delirante manifesto, l’attentatore di Christchurch ha lanciato
l’allarme contro una supposta “sostituzione etnica” della razza bianca da parte di musulmani
e afroamericani, temi che ricevono inquietante popolarità su diversi forum online, in partico-
lare su social network tradizionalmente legati all’alt-right come 4chan e 8chan. Il manifesto
cita altri attentati a cui si legherebbe quello di Christchurch, tra cui il massacro di Oslo e
Utøya nel 2011 compiuto dal suprematista bianco Anders Breivik che costò la vita a 77 per-
sone e l’attentato rimasto per fortuna senza conseguenze dell’italiano Luca Traini a Mace-
rata nel 2018 in cui furono presi di mira immigrati africani. Anche la strage di El Paso, il 3
agosto 2019, in cui hanno perso la vita 22 persone, è stato compiuto da un cittadino ameri-
cano bianco autore di un manifesto contro l’immigrazione di origine ispanica. Matrice simile
per l’attentato alla sinagoga di Halle, in Germania, il 9 ottobre 2019.
Numerosi sono i punti di contatto tra questi attacchi. Pur prendendo di mira soggetti diversi
(neri, ispanici, ebrei, molto spesso anche bianchi considerati responsabili della deriva glo-
balista favorevole all’immigrazione e al multiculturalismo), gli attentatori sono sempre gio-
vani maschi bianchi frequentatori di gruppi online dove vengono condivisi materiali xenofobi
o neo-nazisti spesso prodotti da gruppi sovranisti. Gli esperti hanno individuato numerosi di
questi gruppi, ben 100 nei soli Stati Uniti, quasi sempre con riferimenti al Ku Klux Klan ame-
ricano o al neo-nazismo; tuttavia, gli attentati veri e propri sono sempre compiuti da “lupi
solitari”, singole persone radicalizzatesi in seguito alla frequentazione di gruppi di discus-
sione online o alla lettura di documenti prodotti da questi gruppi, i quali non sono mai for-
malmente coinvolti in attacchi terroristici. Il ruolo determinante dei gruppi suprematisti con-
siste nel fornire una “base ideologica” all’azione violenta dei singoli, forgiando e diffondendo
teorie del complotto di matrice razzista e sovranista, come il presunto “genocidio dei bianchi”
o il “piano Kalergi”, un’invenzione del negazionista austriaco Gerd Hosnik su una supposta
sostituzione etnica in Europa da parte di africani e asiatici. Il mito della “grande sostituzione”
risalirebbe agli inizi del Novecento, ma è tornato in auge prima dopo l’11 settembre 2001 e
poi in seguito all’inizio dell’ondata migratoria dall’Africa nell’ultimo decennio. Contaminatosi
con il risentimento degli afrikaner dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica (alla cui base c’era
il concetto di swart gevaar, il “pericolo nero” in afrikaans) e con il sovranismo anti-globalista
diffuso in Europa e Stati Uniti, questo mito ritorna nei manifesti degli attentatori bianchi e nei
forum sul web.
Basandosi sui dati del Global Terrorism Database tra il 2011 e il 2017, il New York Times
ha identificato 350 attacchi terroristici di estremisti bianchi in Europa, Nord America e Au-
stralia. Circa un quarto degli attentati in Europa ha preso di mira islamici e moschee, mentre
la maggioranza ha a che fare con l’odio contro gli immigrati. Negli Stati Uniti, a causa della
disponibilità di armi, gli attentati fanno generalmente più vittime. Nella prima metà del 2019
l’FBI ha arrestato circa cento persone per terrorismo interno, la maggior parte con legami
col suprematismo bianco; sempre dati dell’FBI hanno rivelato un aumento del 17% dei cri-
mini d’odio nel corso del 2017, primo anno di presidenza di Donald Trump, e addirittura un
aumento del 226% nelle contee che hanno ospitato nel 2016 un comizio di Trump, secondo
il Washington Post. Nel 2017 il 59% di tutte le vittime legate a estremisti negli USA sareb-
bero dovute a esponenti di estrema destra e suprematisti bianchi. Ci sarebbe dunque una
stretta connessione tra la retorica dell’invasione usata da alcuni leader politici occidentali e
l’aumento di questo tipo di attentati. Nell’agosto 2017 il raduno di esponenti dell’estrema
destra a Charlottesville, in Virginia, è sfociato in violenti disordini che hanno provocato oltre
trenta feriti, costringendo il governatore a dichiarare lo stato di emergenza e scatenando la
follia di un suprematista bianco che, lanciandosi con la sua auto contro il corteo della contro-
manifestazione, ha ucciso una persona e ne ha ferite altre 19. Nonostante i tentativi della
Casa Bianca di minimizzare queste vicende, nel settembre 2019 il Dipartimento americano
per la sicurezza interna ha definito per la prima volta il terrorismo suprematista bianco “una
minaccia primaria alla sicurezza”. Anche l’ultimo rapporto sul terrorismo in Europa dell’Eu-
ropol, pur sottostimando significativamente il fenomeno, evidenzia un aumento costante de-
gli arresti legati al terrorismo di estrema destra nell’ultimo triennio, una minaccia considerata
in crescita nella UE.

Riferimenti
L. Bianchi, Il mito tossico del “genocidio dei bianchi”, «Vice», 27.11.2018 | W. Cai, S. Landon, Attacks by White
Extremists Are Growing. So Are Their Connections, «New York Times», 03.04.2019 | Counter Extremism
Project, U.S. White Supremary Groups | Europol, Terrorism Situation and Trend Report 2019, 27.06.2019 | C.
Torrisi, Le stragi dei suprematisti bianchi, l’uso della Rete e le parole di odio dei leader politici, «Valigia Blu»,
08.08.2019 | M. Wendling, Alt-Right: From 4chan to the White House, Pluto Press, 2018.
Il boom degli animali da compagnia

Sono passati almeno ventimila anni da quando l’Uomo ha addomesticato il cane, trasfor-
mandolo da pericoloso predatore ad animale da caccia e poi da compagnia; e circa diecimila
da quando anche il gatto, nel Vicino Oriente e poi in Egitto, è stato addomesticato, prima
per finalità pratiche (tenere lontani i topi dalle coltivazioni) e poi per compagnia. Il processo
di civilizzazione umana è dunque andato sempre di pari passo con la domesticazione di
diverse specie animali; ma solo negli ultimi decenni gli animali da compagnia sono diventati
una norma in Occidente, e solo da pochi anni la tendenza si è così diffusa da genere un
mercato con cifre da capogiro, noto sotto il termine di pet economy. Non solo l’Europa, dove
pure l’Italia traina il continente con 60 milioni di animali domestici diffusi in circa il 50% dei
nuclei familiari; ma anche gli Stati Uniti dove la percentuale sale al 68%, e persino in Asia,
dove la tendenza sta prendendo prepotentemente piede: in Corea del Sud, dove ancora
poco più di un anno fa durante i giochi olimpici invernali era possibile ordinare carne di cane
in alcuni ristoranti, agli inizi del 2019 il sindaco di Seoul ha promesso la messa al bando
delle macellerie che trattano carne canina; in Cina circa 74 milioni di abitanti possiedono
oggi un animale domestico.
Che si tratti di una tendenza destinata a crescere incontrastata lo dimostro il dato genera-
zionale. Mentre infatti nella generazione dei baby boomers i possessori di animali sono solo
il 32%, questa percentuale quasi raddoppia (62%) nelle coorti d’età più giovani. Ciò ha ali-
mentato il dibattito sulla possibilità che la scelta di un animale da compagnia sia sostitutiva
alla volontà di avere figli, una spia della crescente denatalità dei paesi occidentali. Si tratta
tuttavia di un’ipotesi non comprovata: in paesi come gli Stati Uniti, per esempio, gli animali
da compagnia sono più frequenti in famiglie con figli. È vero però che un sondaggio del 2015
negli USA ha rilevato che il 95% degli americani considera gli animali membri della famiglia
a tutti gli effetti.
Questo spiega soprattutto la crescita continua della pet economy. Fino a qualche decennio
fa, gli animali domestici non erano oggetto di cure particolari: i cani erano per esempio ali-
mentati abitualmente con avanzi di cibo, attitudine ancora diffusa nei paesi a reddito più
basso. Oggi nel mondo il mercato dei prodotti per gli animali domestici vale intorno ai 130
miliardi di dollari e raggiungerà, secondo le stime, i 200 miliardi nel 2025. Negli Stati Uniti la
pet economy ha raggiunto un fatturato di 75 miliardi di dollari, con una crescita annua stabile
al 5% negli ultimi due decenni. In Italia solo per il cibo si spendono poco più di due miliardi
di euro, più o meno equamente distribuiti tra cibo per cani e per gatti, con una crescita annua
nell’ultimo quinquennio intorno al 3,5% in media. Aumentano di conseguenza gli investi-
menti nella ricerca dell’alimentazione animale, per andare incontro alle esigenze dei pro-
prietari per mangimi di qualità nutrizionale superiore. Non solo: negli ultimi anni sono nati
diversi fondi di investimento esclusivamente dedicati ai titoli azionari di società operanti nel
settore degli animali da compagnia e da allevamento, in particolare aziende produttrici di
alimenti e mangimi, distribuzione di prodotti per animali, aziende farmaceutiche e biotecno-
logiche per la salute animale e persino compagnie di assicurazioni nel ramo animali.
La propensione a prendersi cura degli animali domestici è strettamente legata alla disponi-
bilità di reddito: è stato osservato che emerge a partire da una soglia di circa 5000 dollari
annui e cresce con l’aumentare del reddito in quantità e qualità. Le persone più abbienti
sono più portate a considerare i propri animali parte della famiglia, anche in considerazione
delle maggiori spese che affrontano per garantire il loro benessere. Con il crescere del Pil
pro-capite in molti paesi non occidentali, in particolare in Cina, le previsioni stimano un au-
mento del 22% del numero di gatti e del 18% del numero dei cani domestici in tutto il mondo
entro il 2024.
Tra gli effetti collaterali di questa tendenza c’è l’impatto degli animali domestici sulla fauna
selvatica. Si stima che nei soli Stati Uniti i gatti uccidano circa 1,4 miliardi di uccelli e tra i 6
e i 22 miliardi di mammiferi ogni anno. Il problema diventa marcato negli ambienti confinati,
in particolare nelle isole, dove l’introduzione massiva di cani e gatti può condurre all’estin-
zione le specie autoctone. La specie degli scriccioli di Stephens Island, un uccello passeri-
forme nativo di quest’isola della Nuova Zelanda, si estinse a causa di un solo gatto di pro-
prietà del guardiano del faro alla fine del XIX secolo. Anche i cani sono stati responsabili
della scomparsa di numerose specie in diverse isole: è il caso delle iguane sulle isole Cai-
cos, dell’hutia cubano a Cuba e delle iguane marine nelle Galapagos. Analoghi problemi
sono riscontrati nei parchi nazionali, in particolare in Brasile, dove 37 specie native sono
considerate a rischio per la diffusione dei cani.

Riferimenti
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Wall Street wag its tail, «Financial Times», 31.07.2019 | R. Kestenbaum, The Biggest Trends In The Pet In-
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