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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, e


Psicologia applicata.
Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche.

DIALETTICA DELL’ASCOLTO.
Percorsi di filosofia della musica tra Adorno e Tomatis.

Relatore:
Chiar.mo Prof. Giangiorgio Pasqualotto

Laureanda:
Giada Malacarne
Matricola n. 1015611

Anno Accademico 2014 – 2015


II
Per essere, l’uomo deve smettere di esistere. Deve
rinunciare a ciò che crede di rappresentare e a ciò
che pretende di raggiungere. Non può che essere
guidato. Ma occorre anche che si lasci pervadere
dal desiderio di navigare sulla propria orbita.
Allora sentirà le leggi dell'universo dettargli la
condotta da seguire e gli basterà ascoltarle per
scoprire che finalmente accede alla libertà, poiché
non vi è altra libertà che quella offerta
dall’abbandono. Da questo punto in poi, ogni
rifiuto che pretenda di costruire una qualsiasi
indipendenza, si riduce a quello che è: un insieme
di vincoli imposti all’uomo per permettergli di
sopravvivere nel labirinto di un’esistenza senza
scopo. (Tomatis [1995] 1998: 290)

III
IV
INDICE GENERALE

INTRODUZIONE 9

I. CAPITOLO

Il regresso nell’ascolto.
1. Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie. 31
2. L’industria culturale. 45
3. Il concetto di materiale musicale. 59
4. Regressione. 77  

II. CAPITOLO

Il progresso in musica.
1. Una questione di stile. 93
2. Verso la Neuen Musik. 103
3. Aufklärung in musica. 122
4. Tra Progresso e «Restaurazione». 138

III. CAPITOLO

Ἄσκησις.
1. «Tipi di comportamento musicale». 153
2. “Acustica fisiologico-filosofica”. 164
3. La felicità di un utopico Καιρός. 185
4. Pedagogia dell’ascolto. 195

V
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 211

RIFERIMENTI BIBIOGRAFICI

1. Bibliografia. 227
1.1. Opere di Adorno, T.W. 227
1.2. Letteratura critica e altri autori. 229
2. Sitografia. 242

VI
VII
VIII
INTRODUZIONE

«Per trasformarsi in un insetto, l’uomo ha bisogno di quella stessa energia che


potrebbe forse trasformarlo in un uomo.» (Adorno [1941] 2004b: 125).
L’indubbia sfumatura kafkiana, che l’ipotesi adorniana evoca, scaturisce
dall’accostamento che il filosofo francofortese opera tra l’etimologia, o, come
egli puntualizza, l’entomologia, del termine jitterbug e l’aderenza di questa con
l’atteggiamento effettivo che egli riscontra in quanti si riconoscono all’interno di
tale denominazione. Secondo Adorno, il termine pone in evidenza lo spasmodico
agitarsi di un insetto attratto passivamente da uno stimolo esterno, visivo o
sonoro, poiché il verbo to jitter nel gergo americano vale nel senso di “essere
nervoso, agire nervosamente”, mentre il sostantivo bug, significa “cimice,
piccolo insetto”.

Una simile equiparazione, che allude a un gruppo di individui spersonalizzati


e degradati allo stadio di insetti, ad ogni modo, non è forse meno lusinghiera del
significato convenzionalmente attribuito al nome jitterbug1 e per il quale esso si
impose con successo tra coloro che si riconoscevano come appartenenti a tale
categoria: il cantante e musicista statunitense Cab Calloway, vedendo un gruppo

1
Nel saggio Il carattere di feticcio in musica, contenuto in Dissonanze, Adorno, riguardo
questa categoria di ascoltatori, scrive: «Si sono dati l’appellativo di ‘jitterbugs’ come se volessero
contemporaneamente accettare e schernire la perdita della loro individualità e la loro metamorfosi
in scarabei che svolazzano ammaliati. Unica loro scusante è che la parola jitterbugs […]
gliel’hanno cacciata in testa gli imprenditori, per far loro credere di essere del mestiere.» (Adorno
[1956] 1981: 41).

9
di danzatori ballare lo swing, usò questo termine, con il quale uno slang
americano indica gli alcolisti affetti da delirium tremens, per designare i ballerini
di questo genere musicale e i loro balzi improvvisi e ripetuti. Questa
caratterizzazione suscita sin d'ora una considerazione. La trasfigurazione degli
individui che Adorno si trovava a constatare, non ci appare particolarmente
distante dalla metamorfosi che, ai giorni nostri, possiamo osservare nei più o
meno giovani frequentatori di discoteche nonché di concerti2; di conseguenza, ci
sembra interessante tentare di comprendere in che cosa consista, nello specifico,
tale analogia e, secondariamente, da quali elementi comuni ai due generi essa
eventualmente discenda. Lo swing e l’attuale musica disco, all’apparenza, non
sembrano presentare caratteristiche simili; addirittura, la maggior parte delle
persone, anche coloro che appartengono al settore della musica, considera, oggi,
il jazz, genere musicale a cui lo swing appartiene, una produzione artistica colta.
Perché allora gli atteggiamenti che riscontriamo nei ballerini di swing ci
inducono, per analogia, a pensare ai gesti febbricitanti dei frequentatori delle
moderne discoteche? Il paragone ci sorprende in maniera ancor maggiore se
prendiamo in considerazione l’enorme distanza temporale che intercorre fra i due
raggruppamenti a cui ci stiamo riferendo. Ci chiediamo dunque: è l’essere umano
in quanto tale che, a partire da quelle prime manifestazioni a cui assistette suo
malgrado Adorno, ha consapevolmente deciso di mutare il suo approccio nei
confronti del fenomeno sonoro o vi è qualcosa nella musica che ha indotto
l’individuo a reagire ad essa nel modo sopra descritto? Con l’intenzione di
cercare una risposta ai quesiti proposti, proseguiamo quindi con le riflessioni del
francofortese relativamente ai jitterbugs.

Questi soggetti «[…] non possono sopportare la tensione di aguzzare


l’attenzione e si abbandonano come rassegnati a ciò che scorre sopra di loro, e
che possono amare solo se non lo ascoltano attentamente […]» (Adorno [1956]
1981: 36); la musica leggera infatti, che proclama a gran voce la sua funzione
distensiva, la sua capacità di rilassare coloro che ne usufruiscono, reduci dalla

2
In tale contesto, dal termine “concerto” stiamo aprioristicamente escludendo le
manifestazioni di quella musica che viene comunemente designata come “seria”.

10
loro giornata lavorativa, «[…] non esige, e quasi neppure tollera, spontaneità e
concentrazione dell’ascolto» (Adorno [1962] 2002: 36-37). Tuttavia, i gesti
convulsi di questi individui spersonalizzati non hanno nulla a che vedere con la
scatenata danza delle menadi che consegue alla malia3 del flauto di Pan, poiché
«[…] l’attuale coscienza musicale delle masse non può certo dirsi dionisiaca4
[…]» (Adorno [1956] 1981: 9); la malia presuppone un rapporto diretto, intimo,
con la cosa, una capacità di annullarsi in essa, mentre l’uomo moderno è
divenuto incapace di giudicare liberamente, egli non si pone neppure il problema
di doverlo fare al punto che «[…] [l]e categorie dell’arte intesa come un fatto
autonomo sono, per quanto riguarda la ricezione attuale della musica, fuori corso
[…]» (ivi: 10).

Gli uomini oramai percepiscono la musica come un mero sfondo sonoro, le


loro reazioni inconsce sono smorzate e il loro calcolo cosciente è orientato «[…]
esclusivamente verso le dominanti categorie feticistiche5 […]» (ivi: 31). Questa
passività, incoraggiata dalla diffusa convinzione che sia naturale ascoltare senza
fatica, «[…] possibilmente a mezz’orecchio […]» (Adorno [1962] 2002: 37),
«[…] si inserisce nel sistema generale dell’industria culturale inteso come

3
È interessante notare che non solo i fruitori di musica leggera presentano questo aspetto
volutamente “mistico”, esso appartiene infatti anche a coloro che la realizzano; nell’Introduzione
alla sociologia della musica Adorno osserva: «L’espressione disinibita, che si suole associare con
l’esoterismo artistico, contiene il desiderio di essere accettato da chi ascolta.» (Adorno [1962]
2002: 121).
4
Ne Il carattere di feticcio in musica, Adorno osserva come l’estasi propria dei jitterbugs sia
modellata sulla mimesi con cui i selvaggi reagiscono al tamburo di guerra e prosegue la propria
riflessione affermando che «[…] [c]hi danza o ascolta non lo fa per ‘sensualità’ e tanto meno
sodisfa la sensualità con l’ascolto, ma non fa che imitare i gesti di individui sensuali.» (Adorno
[1956] 1981: 41).
5
Adorno afferma che anche le opere musicali hanno ormai assunto il carattere di merce; egli
dichiara apertamente di aver attinto al pensiero di Marx, per quanto attiene al concetto di
feticismo musicale, quando, a un certo punto del saggio intitolato Il carattere di feticcio in
musica, scrive che «Marx ha determinato il carattere di feticcio della merce come venerazione del
prodotto uscito dalla mano dell’uomo, ugualmente alienato in quanto valore di scambio sia per i
produttori sia per i consumatori […]» (Adorno [1956] 1981: 21).

11
sistema di istupidimento progressivo.» (ibid.). Nel momento in cui la coscienza
dell’ascoltatore corrisponde, si adatta, alla musica feticizzata si compie quel tipo
di ascolto che Adorno definisce “regredito”, precisando tuttavia che «[n]on si
tratta di una ricaduta dell’ascoltatore singolo in una fase anteriore del suo
sviluppo né di una decadenza del livello complessivo […]» (Adorno [1956]
1981: 32), quanto di un tipo di ascolto proprio di «[…] individui regrediti,
inchiodati a uno stadio di sviluppo infantile.» (ibid.).

Cionondimeno, calandoci nella situazione attuale, che è visibilmente


caratterizzata da un generale appiattimento culturale e da un irrefrenabile
livellamento verso il basso delle scelte programmatiche della radiotelevisione
pubblica, sosteniamo l’argomentazione di Roman Vlad quando ci propone di
sostituire l’espressione “soggetti regrediti” con quella di “soggetti non
progrediti”, «[…] nel senso di soggetti ai quali non viene permesso, o non viene
offerta la possibilità di compiere quel processo di assimilazione di tipo
filogenetico dell’evolversi della nostra civiltà musicale […] che ha portato
all’odierna situazione della creatività musicale.» (Vizzardelli 2002: 115). A
partire dall’assunto che non esiste una musica cosiddetta “naturale”, ma che la
percezione di determinate costruzioni sonore come “naturali” si sia originata
durante il processo storico di assimilazione delle sensazioni acustiche, si può
affermare il fatto che reiterare e riproporre costantemente gli stessi intervalli
musicali e le stesse combinazioni di note, o di accordi, significa provocare
un’atrofizzazione della nostra facoltà uditiva; argomento, questo, che intendiamo
sviluppare in tutte le sue implicazioni, nel corso della nostra ricerca.

Il motivo per cui riteniamo opportuno esordire proprio con la frase conclusiva
del saggio adorniano dedicato alla popular music è che essa presenta, già ad una
prima lettura, l’aspetto su cui, a nostro avviso, meno si tende a porre l’accento
quando si fa riferimento al pensiero di Adorno e, in particolare, alla sua
concezione musicale: ci riferiamo a quel risvolto positivo, costruttivo, che la sua
critica rigorosa e serrata, negativa6, cela in sé, simile a un giano bifronte.

6
È utile qui richiamare l’attenzione su una considerazione che Giacomo Manzoni svolge nella

12
L’asserzione sopra citata, a nostro parere, esemplifica tale risvolto perché
Adorno si sofferma ampiamente sulla necessità da parte di questo genere di
individui, che a suo parere somigliano a scarafaggi, di compiere uno sforzo
continuo per riuscire a «[…] trasformare l’ordine esterno a cui sono soggetti in
un ordine interno.» (Adorno [1941] 2004b: 121). Egli ritiene che, per
trasformarsi in un insetto, non sia sufficiente un atteggiamento acritico e passivo
del consumatore di musica popular nei confronti del materiale musicale
propostogli, ma che a tale accettazione sia altresì necessaria «[…] un’azione
psicologica da parte dell’ascoltatore […]» (ivi: 119-120).

Nonostante il nostro ammetta che «[…] la sproporzione tra la forza di ogni


individuo e la struttura sociale concentrata che preme sopra lui distrugge la sua
resistenza e allo stesso tempo attribuisce una cattiva coscienza alla sua stessa
volontà di resistere […]» (ivi: 118), sostiene anche che detta resistenza non si
dissolve, ma assume una diversa forma: si tramuta in risentimento; un astio che
però gli appartenenti alla categoria in questione, anziché rivolgere «[…] verso
quanti stringono i loro lacci […]» (ivi: 119), rivolgono «[…] verso coloro che
segnalano la loro dipendenza […]» (ibid.).

E risiede proprio nelle conseguenze che ci sembra possibile trarre da questo


ragionamento un’esemplificazione del risvolto positivo a cui ho accennato poco
prima: la resistenza dei jitterbugs, sia pur declinata nelle sue forme deteriori, si
manifesta laddove è ancora presente una non completamente sopita capacità di
percepire «[…] che qualcosa del loro piacere è falso […]» (Adorno [1941]
2004b: 124) e se una simile capacità è presente anche in quel tipo di soggetti che
Adorno equipara ad insetti, crediamo di poter verosimilmente sostenere che la
sua analisi, immancabilmente critica e negativa, lasci comunque «[…] uno
spiraglio, una via d’uscita, una prospettiva di riscatto futuro […]» (ivi: 35) per
l’umanità. Inoltre, unitamente alla presenza di tale consapevolezza, sia pur

sua introduzione a Il fido maestro sostituto, egli osserva che Adorno, pensatore dialettico, «[…]
rigetta indirettamente nel Korrepetitor l’aggettivo qualificante di negativo […]» (in Adorno
[1963] 1982: IX) e che questo atteggiamento speculativo «[…] ci discopre un lato insolito del suo
pensiero, un modo singolarmente empirico della trattazione […]» (ibid.).

13
sopita, vi è un ulteriore spiraglio di luce: Adorno ritiene infatti che, anche se
«[l]’ascolto regressivo non è certo un sintomo di progresso nella coscienza della
libertà[,] […] potrebbe repentinamente mutare, una volta che l’arte e la società
lasciassero insieme i binari dell’eternamente identico.» (ivi: 50).

Il rigore che contraddistingue le analisi di Adorno, i suoi giudizi talvolta


impietosi e il suo stile a tratti aforistico concorrono a farlo apparire simile ad un
giudice spietato e imparziale, atto a predisporre condanne senza possibilità di
appello; tutto ciò, oltre magari ad indisporre chi si accosta al suo pensiero,
induce, nel peggiore dei casi, a liquidare le sue analisi come tragiche,
drammatiche, volte a dipingere uno scenario apocalittico senza vie d’uscita. Si
pensi per esempio al caso della Philosophie der neuen Musik, uno scritto che,
attorno a sé, generò vivaci discussioni e accese polemiche destinate a durare a
lungo7, esso, infatti, venne accolto con non pochi dissensi, e un’affatto celata
irritazione, in vari ambienti musicali, inclusi quelli tedeschi; o, altresì, al giudizio
di Simon Frith che viene riportato da Middleton nel capitolo da quest’ultimo
interamente dedicato alla teoria adorniana: «“ [q]uella di Adorno è l’analisi più
sistematica e più inorridita della cultura di massa, ma anche la più provocatoria
per chiunque cerchi anche un solo frammento di valore all’interno dei prodotti
sfornati dall’industria di massa, dall’industria musicale.”» (Middleton [1990]
1994: 60).

Ciononostante, a noi preme di sottolineare che nell’attività speculativa del


filosofo francofortese non riscontriamo una mal celata finalità disfattista; lo
stesso Adorno, nel saggio A proposito di pedagogia musicale, afferma che «[s]e
l’individuo pensante non ha da offrire ricette pronte all’uso né formule settarie,
non deve darne la colpa alla propria indole distruttiva, in quanto ciò può
dipendere da condizioni oggettive generali […]» (Adorno [1956] 1981: 139). In
effetti, non vi è una ragione per cui tutto debba essere «[…] positivo, pura
armonia e accettazione dell’esistenza […]» (ivi: 56). A questo proposito
potremmo chiederci con Nietzsche: «[…] [i]l pessimismo è necessariamente un

7
Cfr. ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. IX.

14
segno di declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboliti? […]»
(Nietzsche [1968] 2004: 3-4) oppure «[c]’è un pessimismo della forza?
Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante,
malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute
straripante, di una pienezza dell’esistenza? […] (ivi: 4). Qualche pagina più
avanti, Nietzsche, procedendo mediante domande retoriche, intesse un
ragionamento quasi paradossale: egli nota come, presso i Greci, l’intensa
aspirazione alla bellezza si sia sviluppata in virtù di una loro inclinazione al
dolore e alla privazione, grazie ad una loro intima propensione al pessimismo;
parallelamente si chiede se l’ottimismo di Epicuro non celi, al contrario, una
profonda sofferenza, poiché il desiderio di allontanare il pessimismo appartiene
con molta probabilità al novero delle precauzioni che prenderebbe una persona
infelice, sofferente8. A nostro avviso, il pessimismo di Adorno non sfocia nella
rassegnazione né è da questa generato, esso deriva piuttosto da una tenace
volontà di smascheramento della menzogna ed è il prodotto di un’analisi che, in
primis, pone in discussione se stessa e la propria validità. Egli scosta il velo
d’ipocrisia steso dall’industria del fun e mette a nudo quei fattori che l’hanno
resa necessaria. Thomas Mann scrisse di Adorno che non seppe mai scegliere tra
la professione della filosofia e quella della musica, perché era certo di mirare allo
stesso obiettivo in entrambi i campi9; se dunque, attraverso il discorso filosofico,
Adorno dimostra che l’illuminismo è regredito a un’ideologia totalizzante, come
per esempio fa in Dialettica dell’illuminismo, dal canto loro, le vere opere d’arte,
quelle che si possono chiamare tali dal momento che esse soltanto sono in grado
di rispecchiare la cosa in sé, svelerebbero quella stessa falsità dandole un volto.
Scrive Adorno nel saggio La musica con le dande: «L’arte non dovrebbe mai
garantire o rispecchiare la calma e l’ordine, ma dovrebbe costringere a prendere
un volto [a] ciò che è esiliato sotto la superficie e alla pressione della facciata.»
(Adorno [1956] 1981: 59).

Potremmo quindi dire che, adottando un approccio estremamente critico


8
Cfr. NIETZSCHE, [1872] (2004), pp. 7-8-9.
9
Cfr. MANN, [1947] (1999), p. 729.

15
anche nei confronti della popular music, le cui tendenze concrete vengono
esaltate in modo negativo10, Adorno faccia leva, stimoli, provochi proprio quella
“volontà di resistere” di cui ogni uomo comunque dispone . A tale riguardo ci
sembra interessante riportare quanto sostiene Giacomo Manzoni
nell’introduzione a Il fido maestro sostituto, egli scrive che «[…] [d]istrutto
senza pietà il vecchio modo ipocrita di “apprezzare” la musica, posti i
fondamenti per un primo accostamento alla produzione d’oggi da parte di chi
ascolta e di chi esegue, si gettano […] le basi di un modo diverso e più adeguato
di comprendere la musica.» (in Adorno [1963] 1982: XXVI). Il lettore, non
appena abbia superato il disorientamento causato dalla rotazione di prospettiva,
che consegue all’approccio eterogeneo caratterizzante l’indagine adorniana,
«[…] incomincia a orientarsi in un sistema complesso ma ben congeniato […]»
(Arbo 1991: 14) in cui «[…] [l]’insaziabilità dello sguardo è compensata da un
costante atteggiamento di rispetto per l’oggetto, di fronte al quale si avverte la
necessità di frenare gli schemi e di mettersi all’ascolto […]» (ivi: 16).

A questo proposito, ovvero riguardo l’approccio eterogeneo, che


caratterizzerebbe l’indagine adorniana, va detto che Adorno, nell’accostarsi ai
fenomeni musicali, si avvale di una pluralità di strumenti analitici: essi non sono
solo di tipo filosofico e teorico-musicale, ma anche di tipo storico, sociologico e
psicoanalitico; di conseguenza risulta evidente come i fatti musicali si trovino ad
essere inevitabilmente inseriti in una complessa trama di relazioni che, grazie
all’adozione di più punti di vista, conferiscono alla conoscenza un carattere
globale. Facendo riferimento alla Filosofia della musica moderna, Arbo ci mette
in guardia sul «[…] meccanismo che regola la sua scrittura […]» (ivi: 14) poiché,
di volta in volta, l’oggetto della critica è aggredito da ogni lato dimodoché
risultano essere «[…] assai pochi i momenti in cui l’indagine non si mantiene
all’incrocio di motivi e approcci talmente eterogenei da non apparire in contrasto
reciproco […]» (ibid.).

In aggiunta al carattere interdisciplinare, il pensiero di Adorno pone un’altra

10
Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.

16
complicazione, che potremmo efficacemente introdurre servendoci di una
metafora musicale; si potrebbe infatti affermare che l’ulteriore grado di
complessità sia determinato dal ricorso ad un costante intreccio contrappuntistico
delle parti. A chiare lettere, le parti in questione sarebbero le discipline musicale
e filosofica. Come acutamente osserva Luigi Rognoni nel saggio introduttivo alla
Filosofia della musica moderna, se nel pensiero di Adorno «[…] [m]usica e
filosofia si integrano […] in un’unica preoccupante dimensione […]» (in Adorno
[1949] 1959: X), i fraintendimenti e le incomprensioni, ai quali può
eventualmente dar luogo una filosofia della musica11 che pretende da una parte
che il filosofo sia in grado di comprendere tecnicamente i fenomeni musicali e
dall’altra che il musicista abbia familiarità con un linguaggio e dei ragionamenti
rigorosamente filosofici, sono allora parzialmente giustificati 12 . Giacomo
Manzoni, ad esempio, rileva che «[…] Adorno, per una necessità di metodo che
egli ha fatto sua fin dai primissimi scritti di critica musicale, documenta e
comprova sovente i risultati della sua critica con l’analisi diretta e
prevalentemente tecnica di pezzi musicali.» (ivi: XIX).

Anche se «[…] Adorno non ha scritto una storia della musica, e non ha
descritto in modo dettagliato la propria visione del campo storico-musicale […]»
(ivi: 61), o anche se gli viene contestato di «[…] sopravvaluta[re] l’omogeneità
della cultura nell’ambito del capitalismo avanzato […]» (Middleton [1990] 1994:
75) e dunque di essere «[…] incline a un’interpretazione simile della forma della
popular music.» (ivi: 75), crediamo di poter con convinzione affermare che nelle
pieghe, nei risvolti, nel ricongiungimento di certe sue affermazioni aforistiche

11
Una filosofia, per l’appunto, della musica e non sulla musica: quando utilizziamo
quest’espressione, ci troviamo d’accordo con Arbo nel momento in cui ci suggerisce di riflettere
sul senso del genitivo e ci ripropone la definizione di Karl Oppens, il quale qualificava il pensiero
di Adorno, «[…] che è filosofico nella misura in cui è specificatamente musicale […]» (Arbo
1991: 16), «[…] come una ‘filosofia del comporre’.» (ibid.).
12
Nell’Introduzione a Dialettica della musica, Alessandro Arbo osserva che «[…] [l]a visione
musicologica di Adorno si regge su un disegno dalle vaste proporzioni, più organico e complesso
di quanto venga fatto di credere alla lettura di un testo come la Filosofia della musica moderna.»
(Arbo 1991: 13).

17
entro la giusta costellazione13 e, soprattutto, nei saggi ove propone un’originale
pedagogia musicale14, egli giunga a delinearci un diverso, auspicato sentiero che
l’umanità potrebbe decidere autonomamente di percorrere al fine di ritrovare se
stessa e dunque la propria autentica individualità.

Un’individualità di cui l’uomo può riappropriarsi soltanto attraverso un


consapevole e continuo esercizio critico che, a sua volta, è mosso da quella che
potremmo definire come una volontà di verità 15 di Adorno e che consiste
nell’invito che egli instancabilmente ci rivolge nel momento in cui ci suggerisce
di non accettare mai acriticamente nulla, neppure quanto è comunemente
ipostatizzato sotto l’etichetta di bene culturale16, e soprattutto ciò che a prima
vista ci appare spontaneo, sincero ed immediato. A parere di Adorno «[l]a
tolleranza teorica conferma l’opera di distruzione effettuata comunque dalla
prassi che ingoia l’arte come entertainment.» (Adorno [1962] 2002: 168). Ne Il
fido maestro sostituto il nostro ricorda: «[…] Rudolf Kolisch mi disse una volta,
durante una prova, che è relativamente indifferente quello che viene criticato:
perché quando qualcosa non va e si incomincia a studiare con mentalità critica in

13
La paternità dell’idea di costellazione va attribuita a Walter Benjamin che, come è noto,
intrattenne rapporti di amicizia e scambio intellettuale con Adorno. Giovanni Gurisatti,
nell’Introduzione a Costellazioni, in riferimento al ruolo metodologico che questo concetto
svolge nell’opera benjaminiana, scrive: «La costellazione ci dà l’immagine di un metodo in grado
di tenere assieme –dialetticamente, anzi polarmente – gli opposti: visibile e invisibile, frammento
e totalità, dettaglio e figura, differenza e affinità, mobilità e arresto, continuità e discontinuità,
vicinanza e distanza – nello spazio e nel tempo.» (Gurisatti 2010: 13).
14
Ci sentiamo infatti di concordare con le osservazioni di Giacomo Manzoni quando sostiene
che in essi sono gettate «[…] le basi di un modo diverso e più adeguato di comprendere la musica
[…]» (in Adorno [1963] 1982: XXVI).
15
Cfr. JAY, 1987, pp. 41-42.
16
«Tra i motivi della critica della cultura ha sempre occupato un posto centrale il motivo della
menzogna. La cultura prospetta l’immagine di una società umana che non esiste; copre e
dissimula le condizioni materiali su cui si eleva tutto ciò che è umano, e, con la sua azione
calmante e consolatrice, contribuisce a mantenere in vita la cattiva struttura economica
dell’esistenza. […] Ma questa idea, come ogni invettiva contro la menzogna, ha un’ambigua
tendenza a trasformarsi a sua volta in ideologia.» (Adorno [1951] 2009: 40).

18
un punto qualsiasi, tutto il resto viene poi da sé.» (Adorno [1963] 1982: 110).

Dopo questa breve premessa metodologica, procediamo a spiegare come


intendiamo sviluppare la nostra ricerca, la quale si presenterà strutturata in tre
capitoli principali che, al loro interno, saranno ulteriormente suddivisi in quattro
sezioni.

Nel primo capitolo rifletteremo sul concetto di alienazione in riferimento alla


musica sforzandoci, in primo luogo, di comprendere che cosa Adorno intenda nel
momento in cui adopera l’espressione “regresso dell’ascolto” e,
secondariamente, di capire in che modo tale concetto abbia a che fare con la
libertà individuale. Prenderemo dunque le mosse da Dialettica dell’illuminismo,
soffermandoci in modo particolare sul capitolo che Adorno e Horkheimer
dedicano all’industria culturale; seguirà poi l’analisi del primo saggio contenuto
in Dissonanze, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto,
integrata con la lettura di Filosofia della musica moderna. Questi scritti, una
volta presentati e discussi, saranno sottoposti alla critica di Richard Middleton, il
quale ha sentito l’esigenza di dedicare un intero capitolo al confronto con la
teoria adorniana17 che, a suo avviso, «[…] presenta molti punti forti […]»
(Middleton [1990] 1994: 60); in parallelo, allargheremo la nostra indagine
all’epoca attuale al fine di verificare se, e in quale misura, le previsioni del
francofortese si siano realizzate. A tal proposito leggeremo L’industria culturale
di Gianni Sibilla che, a nostro parere, conferma appieno le tesi adorniane.

Nel secondo capitolo, quello centrale, ci impegneremo ad esaminare nel


dettaglio la concezione estetico-filosofica che Adorno delinea in campo musicale
e, poiché appare evidente come l’indagine adorniana «[…] nasc[a] da una

17
Middleton ritiene che la polemica di Adorno sulla popular music non possa venire
tralasciata perché, nonostante il nostro abbia dedicato poco tempo a questo genere musicale, la
sua critica rimane «[…] ricca e complessa […]» (Middleton [1990] 1994: 59). Middleton infatti,
dopo essersi chiesto: «[p]erché dedicare proprio a lui un intero capitolo di un libro che incoraggia
esplicitamente a prendere in considerazione questa musica […]» (ivi: 59), dichiara: «Chiunque
creda che sia importante studiare la popular music deve far proprio il pensiero di Adorno per
poterlo poi superare.» (ivi: 60).

19
complessa visione fenomenologica del linguaggio musicale, interpretato,
analizzato, messo a nudo come specchio della crisi della nostra civiltà […]» (in
Adorno [1949] 1959: IX), nel farlo, non potremo esimerci dallo scandagliare il
suo pensiero in merito alle composizioni appartenenti a quella produzione
musicale, a lui coeva, che egli definisce con l’espressione neue Musik, la
cosiddetta Musica Nuova.

Riguardo alla ricezione di questo genere Adorno scrive: «Proprio colui al


quale non tutta la musica nuova appare grigia come i gatti di notte potrà infine,
essendosi identificato interiormente con la cosa, rifiutare ciò che non è adeguato
all’idea della cosa stessa e quindi alla propria.» (Adorno [1962] 2002: 219).
Parlando di neue Musik stiamo in particolare facendo riferimento ai tre autori
che, più di tutti, hanno goduto della stima costante di Adorno: Arnold Franz
Walther Schönberg, Alban Marie Johannes Berg e Anton Friedrich Wilhelm von
Webern e che, verosimilmente, compaiono citati quasi in ogni sua opera. Come
precisa Manzoni, «[n]on è certamente solo il diretto legame personale 18, di
partecipazione a quel mondo, che ha indotto Adorno a far coincidere il termine di
“musica nuova” con quello della scuola schönberghiana.» (in Adorno [1963]
1982: XV). Adorno ravvisa i tre compositori «[…] come autori emblematici di
una musica costituzionalmente nuova […]» (ibid.), perché essi «[…] presentano
all’ascoltatore e all’analista, in ogni dimensione della loro produzione
compositiva, i valori integrali di un modo diverso di sentire e di esprimere.»
(ibid.).

Seguendo, dunque, l’analisi adorniana delle opere di Arnold Schönberg, Alban


Berg e Anton Webern, cercheremo di comprendere cosa vi sia di tanto diverso,
radicale, progressivo, nella musica dei compositori della seconda scuola di
Vienna da indurre Adorno ad interpretarla come una reazione all’espansione
dell’industria culturale. Ci impegneremo inoltre in un duplice tentativo, che
consiste, da una parte, nel capire in che senso Adorno sostenga che la musica più
18
Adorno fu infatti molto vicino alla Scuola di Vienna perché, come allievo di Alban Berg,
entrò in contatto con il fondatore, Arnold Schönberg, subendo il fascino della sua personalità;
inoltre dal 1928 al 1931 fu redattore dell’«Anbruch», la rivista d’avanguardia viennese.

20
avanzata si distingue da quella tradizionale «[…] per il fatto che in quella diventa
manifesto tutto ciò che in questa accadeva sotto la superficie […]» (Adorno
[1956] 1981: 153) e, dall’altra, nell’intendere il perché un autore come Arnold
Schönberg rimarrà fino all’ultima sua produzione estraneo all’alienazione,
mentre Igor' Fëdorovič Stravinsky venga al contrario letto come la
personificazione stessa dell’alienazione, addirittura il suo interprete. Siamo
dunque determinati a cogliere ciò che muove Adorno a sostenere la teoria
secondo la quale l’antitesi delineata dal binomio Schönberg-Stravinsky dovrebbe
genererare quella dialettica degli opposti che soli permettono di riconoscere il
contenuto di verità (Wahreitsgehalt), ovvero, nel nostro caso, l’essenza della
musica moderna.

Una musica che, innegabilmente, rimane tutt’oggi ancora problematica; a


distanza di quasi un secolo, essa continua a sollevare polemiche e a lasciare
insoluti i contrasti nati dai numerosi tentativi di interpretarla. In effetti, quel
divaricamento tra creatori e fruitori, che si era andato creando già a partire
dagl’anni della sua comparsa, non è ancora stato colmato, anzi, oserei dire, è
divenuto forse più ampio. Come acutamente osserva Roman Vlad in
Progressione e regressione dell’ascolto, «[u]n pregiudizio diffusissimo vuole che
la musica si possa fruire in modo del tutto passivo, senza preparazione né sforzo
alcuno […]» (Vizzardelli 2002: 116), ma se tale ascolto può essere effettuato nei
confronti di quella musica che presenta una struttura elementare o, comunque,
talmente trita da poter essere recepita come una sorta di linguaggio “naturale”,
esso non può applicarsi alla musica del Novecento19 che, in pochi anni, fedele
alla propria logica di evoluzione interna, è passata dall’armonia tonale diatonica,
al cromatismo integrale della dodecafonia seriale, all’infracromatismo per
approdare infine al nuovo orizzonte della sperimentazione elettronica.

Infine, nel terzo capitolo del nostro lavoro ci confronteremo con l’idea cardine
della filosofia di Adorno, l’idea dell’Einstand, del Kαιρός, che fa riferimento a

19
Ad oggi, a nostro parere, un simile ascolto, non è possibile neppure nei confronti della
musica “classica” precedente.

21
una condizione che si concreta mediante quello che egli definisce un ascolto
strutturale, l’unico approccio che il filosofo reputa valido per avvicinarsi ad
un’opera musicale, sia essa tradizionale o avanguardista: l’idea dell’Einstand (o
del Καιρός) è «[…] l’idea secondo cui qualsiasi pezzo di vera musica, di «grosse
Musik», annulla per così dire il tempo reale in cui esso si svolge in una sorta di
attimo illuminante entro il quale tutta la struttura nella sua globalità si rivela
all’orecchio dell’ascoltatore.» (in Adorno [1963] 1982: XVII). Non è un caso che
la nostra trattazione si chiuda su questo tema, poiché è soltanto con la
comprensione, a cui dovrebbe far seguito l’applicazione, del tipo di ascolto
tratteggiato a più riprese, anche se mai organicamente, da Adorno, come ascolto
strutturale, che è possibile venire a capo di quelle contraddizioni che, nel
pensiero del francofortese, appaiono, a prima vista, oggettivamente insolubili.

«Esser musicali […]» (ivi: 35), scrive Adorno, «[…] significa saper «pensare
con le orecchie» il dispiegarsi del fenomeno sonoro nella sua necessità. L’ideale
della struttura e dell’ascolto strutturale è l’ideale del necessario dispiegarsi della
musica dal singolo fenomeno al tutto, da cui soltanto esso viene poi
determinato.» (ivi: 36). Si palesa, già in Filosofia della musica moderna, ma
soprattutto ne Il fido maestro sostituto, la novità insita nella modalità di recepire
e comprendere la musica proposta dal maestro di Francoforte; tuttavia è nel
saggio A proposito di pedagogia musicale, datato 1957, che Adorno delinea, a
più riprese, in che modo debba condursi l’analisi dell’opera musicale. Egli spiega
che tutto ciò che si incontra nella musica va compreso nel senso della funzione
che esso possiede rispetto alla totalità, in vista della posizione che occupa e del
suo valore costruttivo. Secondo Adorno, «[…] esistono i mezzi per spiegare la
ragion d’essere di ciascun suono, ciascuna pausa, ciascun inciso e ciascuna frase
[…]» (Adorno [1956] 1981: 140); di conseguenza, applicare all’opera una
riflessione extra-musicale significherebbe non rispettare la sua “forza
vincolante”, vorrebbe dire non essere in grado di ricavare le nozioni dalla cosa
stessa, bensì applicargliele forzosamente dall’esterno e, contemporaneamente,
avviare “ragionamenti cultural-filosofici impotenti e di seconda mano”, con la
pretesa di penetrare nella religione, nella società e nell’umanità, mentre in verità

22
si stanno adoperando concetti che provengono proprio da queste sfere.

Ne Il fido maestro sostituto, Adorno si spingerà ad affermare che un ascolto


strutturale non va applicato soltanto alla musica moderna dal momento che tutte
le opere, dall’inizio dell’epoca del basso numerato a oggi, vanno ascoltate come
se fossero delle composizioni moderne20. Egli ci sta chiaramente proponendo un
modo nuovo di «apprezzare» la musica, un metodo teso a superare «[…] quel
feticismo21 dei nomi e delle opere che si sovrappone alla loro qualità e al loro
contenuto […]» (Adorno [1963] 1982: 15). Il nostro è giunto in questo modo a
prospettarci una soluzione, un rimedio si potrebbe quasi dire, all’alienazione: dal
momento che le opere d’arte sono, a suo parere, le sole cose in sé, saperle
comprendere significherebbe potersi riconciliare con le cose perdute, con la
natura, ma affinché ciò avvenga il soggetto deve per l’appunto essere in grado di
«[…] privarsi di sé in una cosa che diviene così sua […]» (ivi: 39). «Saper
comprendere22 a fondo la musica […] è l’anticipazione di una condizione in cui
si annullerebbe l’alienazione.» (ibid.).

Prima di concludere, e al fine di rendere il più esaustiva possibile questa


nostra introduzione, riteniamo opportuno soffermarci brevemente sul termine
“ascoltare”. Ci siamo fino ad ora riferiti ad esso da un lato denunciandone un
attuale e persistente regressione dall’altro riproponendone la declinazione in
senso strutturale presentata da Adorno; tuttavia non abbiamo ancora provveduto
a definirlo. È dunque necessario spiegare cosa intendiamo quando lo

20
Cfr. ADORNO, [1963] (1982), p. 36.
21
“Feticismo” che, poco sopra, Adorno dice essere causato dalle «[…] categorie inamovibili
della cultura di massa pianificatrice […]» (Adorno [1963] 1982: 15). In Dissonanze spiega che lo
specifico carattere feticistico della musica si istituisce quando il valore d’uso va a sovrapporsi
completamente al valore di scambio, più precisamente afferma che «[…] gli affetti, che si
riferiscono al valore di scambio, producono l’apparenza dell’immediatezza, e
contemporaneamente la mancanza di rapporti del soggetto verso l’oggetto smentisce
quell’apparenza.» (Adorno [1956] 1981: 22).
22
«L’ideale dell’uomo saggio è un orecchio che ascolta, diceva a suo tempo il Siracide.»
(Tomatis [1987] 2000: 113-114).

23
adoperiamo, allo scopo di riuscire a delimitare un raggio d’azione concettuale nei
confronti di tale vocabolo. Per compiere quest’operazione abbiamo scelto di
confrontarci con il pensiero di Alfred Tomatis, il quale reputa l’ascolto «[…] una
facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi sullo stesso piano della coscienza,
come se […] fosse allo stesso tempo una porta aperta sulla coscienza e
un’apertura della coscienza sul campo della percezione.» (Tomatis [1987] 2000:
112).

Tomatis è un ricercatore che, avviando i suoi studi a partire da un’intima


passione per l’universo sonoro, ha adottato, al pari del filosofo francofortese, un
approccio teorico interdisciplinare. Le sue scoperte, alle quali dedicheremo una
sezione a parte, nonostante siano state oggetto di polemiche, critiche23 e, in
certuni ambienti accademici, anche di ironico disprezzo24, gettano, a parer nostro,
«[…] il seme di una riflessione che, indagando sulla natura fisica dell’uomo, si
spinge fino ai confini della filosofia, della psicologia, della linguistica.» (Tomatis
[1977] 1999: 5).

Senza dilungarci in ulteriori considerazioni, forniamo ora la definizione che


Tomatis ci propone per il termine “ascoltare”; tuttavia, è bene precisare che,
prima di procedere alla sua enunciazione, egli ci presenta il concetto ad esso
antitetico, quello di “sentire” che, per l’appunto, si contrappone al primo. Se il
sentire, a suo avviso, si manifesta con gran parte delle caratteristiche che
contraddistinguono un atto involontario, nel senso che «[…] significa avvertire il
suono e […] lasciarsene invadere passivamente, abbandonandosi indifesi, senza
23
«[…] [M]olte persone sono partite all’attacco delle mie concezioni, unicamente perché
erano nuove. Per accoglierle, sarebbe stato necessario fare una bella pulizia intellettuale: ed è uno
sforzo al quale molti si decidono solo con grande ritrosia. Certe persone hanno preferito
respingere in blocco le mie tesi, ancor prima di venirne a conoscenza in maniera seria e
dettagliata.» (Tomatis [1977] 1999: 131).
24
Ne L’orecchio e la vita, Tomatis racconta che, nel periodo in cui stava formulando la teoria
secondo la quale «[l]a musica (la lingua) non cambia se non perché lo strumento (l’aria) si
trasforma […]» (Tomatis [1977] 1999: 123), fu caricaturalmente deriso da un docente della
Sorbona che ridicolizzava tale teoria sostenendo che per il nostro sarebbe stato «sufficiente
passeggiare sotto la pioggia per imparare a parlare inglese!» (ibid.).

24
averne una reale percezione […]» (Tomatis [1987] 2000: 112); ascoltare «[…]
significa [invece] voler sentire, quindi applicarsi[,] […] disporre l’apparato
uditivo nella sua forma di massimo adattamento per poter captare quello che si
desidera ricevere[,] […] passare dalla sensazione alla percezione.» (Tomatis
[1977] 1999: 321).

Emerge chiaramente come, secondo Tomatis, l’ascoltare richiami


figurativamente l’atteggiamento di «tendere l’orecchio25» (ibid.), configurandosi
pertanto come un atto volontario che, a differenza del mero udire, si caratterizza
per la presenza di un desiderio da parte del soggetto nei confronti della materia
sonora da cui è toccato. Da tale volizione ha poi origine una concatenazione di
regolazioni neurofisiologiche che non coinvolge solo l’apparato vestibolo-
cocleare e la muscolatura dell’orecchio medio e dell’orecchio esterno, ma anche
la struttura neuronica che dipende dalla funzione «dinamica» (ibid.), così la
definisce Tomatis, dell’ascolto: «[l]a funzione dell’ascolto non si serve soltanto
dell’orecchio. Essa mobilita tutto il sistema nervoso per mezzo del vestibolo che,
grazie al suo specifico ruolo neuronico, regola le tensioni muscolari del corpo, la
statica, la dinamica, la relativa posizione delle membra, cioè in effetti tutta la
posizione del corpo e la gestualità.» (ibid.).

Detto ciò, credo appaia alquanto evidente la motivazione che soggiace alla
nostra scelta di proporre il pensiero di Tomatis in uno scritto che intende
analizzare alcuni aspetti riguardanti la filosofia della musica di Adorno: in una
condizione di passività non è pensabile che vi sia un ascolto nel vero senso della
parola. Entrambi ritengono che l’ascolto umano non possa prescindere da un atto
volontario da parte dell’individuo, un atto che abbisogna sempre di un certo
grado di applicazione26. L’attività del soggetto ascoltante richiede l’intervento del

25
In L’orecchio e la voce, Tomatis definisce quest’espressione precisando che «[t]endere
l’orecchio singifica tendere il corpo, come significa sollecitare il sistema nervoso nel suo
complesso a entrare in questa dinamica particolarmente attiva, intraprendente, che mobilita sia il
corpo sia il pensiero.» (Tomatis [1987] 2000: 112).
26
«[…] res severa verum gaudium […]» (Adorno [1956] 1981: 133) sentenziava Adorno in
Dissonanze laddove discute sulla necessità di non interrompere l’educazione ritmica e

25
sistema nervoso e allo stesso tempo ne stimola la vitalità, che si manifesta anche
negli atteggiamenti corporei. Tomatis infatti osserva: «È incontestabile che esiste
un intervento della volontà che agisce immediatamente, cambiando di punto in
bianco l’atteggiamento mentale, così come la postura fisica dell’ascoltatore.»
(Tomatis [1987] 2000: 112).

Orbene, consideriamo ora il bagno sonoro di canzoni dalla forma e dal ritmo
talmente triti e prevedibili da essere totalmente privi di qualsivoglia originalità o
carattere proprio, a cui siamo immancabilmente sottoposti ogniqualvolta
entriamo in un bar o in un negozio, o, parimenti, la sensazione alienante
provocata da quella musica creata ad hoc per un effetto “desilenziante27”. È

dell’orecchio appena si sono raggiunte le nozioni fondamentali, infatti, così facendo, si


defrauderebbe il fanciullo «[…] della gioia vera dell’esperienza musicale […]» (ibid.).
27
Siamo venuti a conoscenza del termine “desilenziatore”, che non è presente in alcun
vocabolario, grazie al ciclo di lezioni di storia della musica curate da Giovanni Bietti e affidate
alla competenza di alcuni rinomati musicologi e/o musicisti; un’attività divulgativa rielaborata
per la radio, promossa dalla Fondazione Musica per Roma e dall’Accademia di Santa Cecilia che
ha preso corpo nell’estate 2011 e che prosegue tutt’ora. Precisamente, Bietti menzionò tale
termine durante la lezione del 31 luglio 2011 su Il pianoforte e l’espressione musicale tenuta da
Roberto Prosseda con il costante intervento dello stesso Bietti. Quest’ultimo, parlando
dell'importanza del silenzio nella musica, rievocò il suo triste incontro, avvenuto qualche tempo
prima, con una strana parola: "desilenziatore". Aveva scoperto, con una stretta al cuore, che
questo era il termine usato per definire la musica di fondo presente in ogni luogo. Così, ci siamo
ricordati che qualche anno fa leggemmo un articolo che trattava approfonditamente tale questione
e, in effetti, navigando in rete, abbiamo rilevato che qualcun altro si è preoccupato di reperirlo.
L’articolo in questione appartiene alla sezione domenicale di «La Repubblica» ed è del luglio
2006. In esso viene detto che la musica desilenziante, o la musica-muzak, nata per coprire i
rumori inquietanti che, nei primi anni Venti, all’alba dell’era dei grattacieli, i primi ascensori
producevano, oggi copre i rumori inquietanti che la nostra mente genererebbe se, per un fortuito
caso, si verificasse un silenzio improvviso causato da un black-out elettrico. Questa non-musica
che svuota le nostre menti staccandole dal corpo, serve per contrastare l’orrore, la minaccia, del
silenzio; un silenzio di tomba perturbante che è un vuoto d'angoscia, un horror vacui sensoriale
da cui difendersi con accanimento. Mi permetto di proporvene l'interessante lettura: M.
Smargiassi, Dal supermarket all’ aeroporto prigionieri della musica-flebo in «La Repubblica», 7
luglio 2006.

26
evidente che, tutti questi sfondi fonici, oltre ad impedirci di pensare o comunque
di rivolgere la nostra attenzione all’interno di noi stessi, ci abituano sempre più
ad una condizione di permanente distrazione, ad una percezione sensoriale
uditiva passiva, dal momento che di ascolto non sarebbe, a questo punto,
nemmeno più lecito parlare.

Proseguendo il nostro ragionamento, ci troviamo, in questo senso, posti


dinnanzi ad una correlazione fra “ascolto passivo” e “passività cerebrale”, in
effetti, quello stesso stato di ottundimento, che Adorno riscontrava nelle movenze
meccaniche e ripetitive di coloro che annientano i loro pensieri, attratti
culinariamente dal ritmo standardizzato delle canzonette che si ripetono sempre
uguali, sembra per l’appunto rivelare in quei soggetti una certa lentezza mentale;
una condizione, quest’ultima, che ci sembra a sua volta richiamare
l’atteggiamento beota che Tomatis riscontrava in coloro ai quali, mediante un
apparecchio elettronico, eliminava d'emblée la facoltà uditiva, egli infatti
osservava: «Private improvvisamente un uomo della sua capacità di udire e lo
vedrete immediatamente ingarbugliarsi non solo in difficoltà di espressione, ma
anche di pensiero. Perderà in una volta la sua fluidità verbale e la sua flessibilità
mentale.» (ivi: 127).

L’antitesi di questo stato, per così dire, alienato, è, per Tomatis come per
Adorno, quella comprensione che deriva da un ascolto attivo, da un’attività
cerebrale che si estrinseca in un pensiero in atto; un pensiero che si sforza di
essere coerente, fecondo e produttivo nei confronti della cosa al punto da
ottenere la scomparsa del soggetto nell’oggetto della contemplazione: «[c]’è un
passaggio all’azione, che altro non è se non una partecipazione del soggetto, fino
al punto di offrire il proprio orecchio, il proprio corpo e il proprio sistema
nervoso al messaggio musicale o verbale che desidera assimilare.» (Tomatis
[1987] 2000: 113).

Secondo Tomatis, il venir meno dell’attività dell’ascolto determinerebbe una


sorta di annientamento doloroso dell’individuo; mentre sarebbe solo attraverso
un ascolto permanente che, a suo avviso, l’uomo realizzerebbe se stesso. Ad ogni
modo, senza spingerci troppo in là nell’indagine, rischiando di sfiorare degli

27
ambiti che si trovano al di là delle nostre competenze, ci limitiamo ad accostare
due centrali osservazioni. La prima appartiene a Tomatis, il quale tratteggia la
facoltà dell’ascolto come «[…] una facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi
sullo stesso piano della coscienza, come se l’ascolto fosse allo stesso tempo una
porta aperta sulla coscienza e un’apertura della coscienza sul campo della
percezione.» (ivi: 112). La seconda appartiene invece ad Adorno che,
parallelamente, osserva che «[l]’attività dell’orecchio, la sua attenzione, è
probabilmente venuta crescendo tardi, unitamente alla forza dell’io: e nel pieno
delle generali tendenze regressive le qualità più tarde dell’io sono quelle che si
tornano a perdere più rapidamente.» (Adorno [1962] 2002: 62).

Aggiungendo un’ulteriore riflessione di Tomatis, notiamo che le due indagini


procedono in modo quasi complementare; egli nota che:

«[…] la funzione principale dell’orecchio è di assicurare la stimolazione corticale


di potenziale nervoso; se il medico dimentica questa nozione, lo fa perché distolto
dall’idea precostituita che attribuisce all’orecchio una funzione essenzialmente
uditiva. Si tratta di un fatto ben noto in zoologia: l’apparato uditivo ha le stesse
incombenze di una dinamo. Fornisce della corrente per alimentare il cervello.»
(Tomatis [1977] 1999: 290).

A questo proposito, è bene far subito presente che, nell’ottica di Tomatis, non
esiste un solo tipo di corrente e che, inoltre, non tutti i tipi di corrente sono
ugualmente in grado di stimolare un’attività intellettuale: egli rileva
sperimentalmente che i suoni gravi agiscono sul corpo «[…] senza fornirgli
nessuna carica […]» (ibid.) e che, al contrario, quelli acuti attivano «[…] la
corteccia per permettergli di pensare.» (ibid.). Oltre alla maggiore o minore
intensità della stimolazione cerebrale che l’altezza di volta in volta assunta dalla
frequenza del suono udito provocherebbe nei soggetti, Tomatis ritiene altresì che
un certo tipo di musica, e in particolar modo quella di Wolfgang Amadeus
Mozart, sarebbe in grado di sollecitare la facoltà intellettiva ad una maggiore
attività. Inoltre, egli giunge a teorizzare che è possibile sviluppare, o
perfezionare, la propria capacità di ascolto, e dunque, di riverbero, di emissione

28
del suono vocale28, mediante un preciso percorso sonoro che, nel terzo capitolo,
ci preoccuperemo di esporre il più esaustivamente possibile.

Considerando che le tesi del ricercatore francese prendono le mosse dagli


esperimenti che egli condusse con costanza e lungo l’intero arco della propria
carriera di otorinolaringoiatra sui suoi pazienti, nel corso di questo lavoro
esamineremo le teorie da lui elaborate in seguito a tali indagini e,
contemporaneamente, tenteremo di comprendere se e come fra i due teorici in
questione, Adorno e Tomatis, sia riscontrabile un’eventuale convergenza di
pensiero.

28
La forte correlazione che intercorre tra la capacità di ascoltare e quella di emettere suoni
vocali, teorizzata a più riprese da Tomatis e a cui finora abbiamo accennato solo marginalmente,
sarà oggetto di una trattazione più approfondita nella parte che dedicheremo all’autore in
questione.

29
30
CAPITOLO I Il regresso nell’ascolto.

SOMMARIO: 1.Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie. – 2. L’industria


culturale. – 3. Il concetto di materiale musicale. – 4. Regressione.

1. Dialettica dell’illuminismo o dialettica tra cultura e barbarie.


Per comprendere a chiare lettere che cosa Adorno intenda quando si serve
dell’espressione “regresso dell’ascolto” e, dunque, il nesso che lega tale concetto
alla libertà individuale, non possiamo esimerci dal confronto con l’opera che il
nostro scrisse a due mani assieme all’amico e collega, nonché direttore
dell’Institut für Sozialforschung29, Max Horkheimer.

La Dialettica dell’illuminismo30, composta fra il 1942 e il 1944, durante la


guerra, mentre i due autori erano costretti all’esilio americano 31 , venne

29
Adorno, nella premessa alla prima edizione della Dialektik der Aufklärung, sottolinea il
fondamentale contributo che l’Institut ha apportato alle ricerche empiriche sui temi di volta in
volta trattati nei propri scritti; quando menziona l’Istituto di ricerca egli lo ricorda come la «[…]
fondazione creata e mantenuta in vita da Felix Weil, e senza la quale non solo i nostri studi, ma
buona parte del lavoro teorico continuato, nonostante Hitler, da fuoriusciti tedeschi, non sarebbe
stato possibile.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 9).
30
Il titolo dell’opera è da attribuirsi alla penna di Adorno: in una lettera del 1941, indirizzata
ad Horkheimer, egli scrive all’amico che, grazie alla lettura del libro di Gorer su Sade, «[…] gli
sono venute in mente molte idee che “riguardano essenzialmente la dialettica dell’illuminismo o
la dialettica tra cultura e barbarie.» (Petrucciani 2007: 47-48).
31
Adorno si era trasferito a New York nel febbraio del 1938 poiché, grazie alla mediazione di
Horkheimer, gli era stato offerto di collaborare con il Princeton Project of Radio Research, a quel
tempo diretto da Paul Lazarsfeld; in seguito si trasferirà in California.

31
pubblicata per la prima volta nel 1947; la seconda edizione del 1969 non ha
subito tuttavia particolari tagli o revisioni dal momento che, come spiega Adorno
nella Premessa all’ultima edizione tedesca, gran parte delle tesi in essa sostenute
erano anche allora (nel 1947), a distanza di un ventennio, da considerarsi
totalmente valide 32. Il filosofo, del resto, si rende perfettamente conto che,
essendo la prima edizione stata scritta in un periodo storico in cui era possibile
presagire la conclusione della guerra, «[…] adattare pienamente il testo alla
33
situazione attuale avrebbe […] significato scrivere un nuovo libro.»
(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: VIII).

Il nucleo attorno al quale ruota l’intero scritto, come emerge già dal titolo, è il
concetto di illuminismo, ma tale termine non deve trarre in inganno:
l’Aufklärung viene tolta all’arco temporale al quale si è soliti relegarla,
approssimativamente il secolo diciottesimo, ed estesa all’intero corso storico.
Invero, il concetto di illuminismo, per Adorno, definisce la tendenza verso la
progressiva razionalizzazione dell’esistenza, la febbrile corsa al progresso
dell’umanità, l’industrializzazione di ogni aspetto dell’attività sociale; e un tale
processo, la cui fase di maggior intensità era dal nostro ravvisata nella propria
epoca, per potersi attuare, deve negare sempre più l’uomo come soggetto,
sacrificando la sua individualità all’oggettività collettiva. Nel capitolo intitolato
«Concetto di illuminismo» 34 , Adorno scrive che «[i]narrestabile non è solo

32
È tuttavia bene precisare che Adorno dichiara di non serbare un’immutata adesione alle
teorie allora espresse; invero, ciò non sarebbe compatibile, poiché vi entrerebbe in
contraddizione, con il concetto di verità che egli ha elaborato nel corso della propria maturazione
filosofica. Secondo il nostro, il concetto di verità, possedendo un nocciolo temporale, non è mai
dato una volta per tutte: la verità, per Adorno, segue nella propria dialetticità il movimento
storico. (Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. VII).
33
Si debbono, ovviamente, considerare le vicende storiche contemporanee agli anni della
seconda stesura del volume. Riteniamo che, nello specifico, Adorno abbia in mente la scissione
politica in due grandi blocchi contrapposti che minacciano uno scontro imminente, i frequenti e
sanguinosi conflitti nel terzo mondo e la nuova spinta verso sistemi di tipo totalitario. (Cfr.
HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. VII).
34
Mentre i due excursus e il capitolo sull’industria culturale reclamano un’indiscussa

32
l’illuminismo del secolo decimottavo, come è stato riconosciuto da Hegel, ma,
come nessuno meglio di lui, ha saputo, il movimento stesso del pensiero.» (ivi:
28). A partire dall’Homo sapiens, l’Aufklärung si attua in quella tensione,
contemporaneamente35 positiva e negativa, ma in ogni caso autodistruttiva, che
coinvolge l’intera vicenda del dominio dell’essere umano sulla natura per mezzo
della scienza e della tecnica. In tal senso, la società tardocapitalistica, quella che
ha visto la trasformazione della società borghese, o capitalismo privato, in
società di massa, o supercapitalismo monopolistico, è una realtà apocalittica, in
cui l’arte e la cultura hanno finito con l’essere alienate, trasferite, all’industria:
esse, assorbite dall’immane apparato industriale, si sono ridotte a cosa,
estraniandosi a se stesse poiché tale è la sorte dello “spirito” quando si consolida
a patrimonio culturale per venire distribuito a fini di consumo36. L’illuminismo,
temendo la verità37, è regredito ad ideologia totalizzante, una concezione che,
naturalizzatasi, ha deprivato il singolo della propria sostanzialità. L’uomo, «[…]
ridotto a zero […]» (ivi: 6), è stato dapprima costretto a ritirarsi nella sfera del
privato, in seguito è divenuto «[…] un’appendice del processo materiale della
produzione […]» (Adorno [1951] 2009b: 3).

Tale sintesi critica del concetto d’illuminismo potrebbe indurci a credere che
Adorno attribuisca al concetto di illuminismo una valenza totalmente negativa38
o, comunque, che, nella sua teoria, la componente negativa prevalga
ampiamente; ciò è insostenibile per almeno due ragioni, l’un l’altra strettamente
connesse: in primo luogo il nostro dichiara di non possedere il minimo dubbio in

paternità adorniana, opera di entrambi gli autori è la stesura di questo primo capitolo, che si
proprone di delineare con chiarezza, evidenziandone le aporie e le contraddizioni, il concetto di
illuminismo.
35
Il pensiero critico «[…] appena esce volontariamente dal suo elemento critico per diventare
uno strumento al servizio di una realtà, contribuisce, senza volerlo, a trasformare il positivo che si
è eletto in qualcosa di negativo ed esiziale.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 4).
36
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 7.
37
Cfr. ivi, p. 6.
38
«La critica a cui […] è sottoposto l’illuminismo, intende preparare un concetto positivo di
esso […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 8).

33
merito alla posizione che riconosce quanto «[…] la libertà nella società [sia]
inseparabile dal pensiero illuministico […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980:
5), secondariamente va tenuto presente che la dialettica, maturata
nell’impegnativo e defatigante confronto che Adorno intrattenne con Husserl39,
già a partire dalla metà degli anni Trenta, non cesserà mai di muovere il pensiero
del francofortese per l’intero arco della sua esistenza.

Ad ulteriore conferma, in relazione al primo di questi due punti, Adorno


scrive che «[…] l’illuminismo è, in linea di principio, opposto al dominio […]»
(ivi: 47) e che in esso la «[…] natura […] si fa udire nella sua estraniazione […]»
(ibid.), come una sorta di autocoscienza ed effettivamente, senza il dominio della
natura, che è la condanna naturale, non ci sarebbe spirito. Altresì, il movimento
dialettico connette il dispiegarsi della libertà mediante l’esercizio del pensiero
illuminista al rivolgimento di quest’ultimo contro se medesimo, fa coesistere due
opposte tendenze all’interno di un singolo concetto: libertà e autodistruzione40
della stessa, estrema razionalizzazione e mitologia.

La Dialektik der Aufklärung si propone il duplice scopo di illustrare il


processo di rischiaramento che, come vedremo poco oltre, si realizza anche nelle
opere d’arte, e, insieme, di mostrare come esso, se non è costantemente spinto al
limite delle proprie possibilità, vada incontro ad una cristallizzazione, ad una
reificazione, stritolando gli uomini nelle maglie delle contraddizioni a cui una
razionalizzazione incompiuta immancabilmente dà luogo. È quindi opportuno,
auspica Adorno, che la riflessione illuminista sussuma in sé quel concetto di
progresso a cui essa stessa ha dato forma, concentrandosi sul suo aspetto
distruttivo poiché, «[s]e la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è
lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo

39
Durante il soggiorno oxoniense, Adorno si dedicò allo studio della filosofia di Husserl: egli,
lavorando alla dissertazione di dottorato, redisse un corposo manoscritto che, anche se non fu mai
concluso, funse da base per il libro su Husserl pubblicato dal filosofo nel dopoguerra. (Cfr.
PETRUCCIANI, 2007, p. 24).
40
«Non solo idealmente, ma anche praticamente la tendenza all’autodistruzione appartiene fin
dall’inizio alla razionalità […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 8-9).

34
carattere superante e conservante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla
verità.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 5). Allo stato attuale delle cose,
osserva il nostro, l’illuminismo, nella sua più ampia concezione di pensiero in
continuo progresso, ha perduto ogni residuo di autocoscienza41; esso, assurto a
ideologia totalizzante e godendo delle comodità che un asservimento ai poteri
forti immancabilmente comporta, non ha interesse ad esercitare violenza nei
propri confronti: in questo modo è divenuto incapace di infrangere i miti, quei
miti da lui stesso creati. In effetti, proprio nel senso di un’autocritica
dell’Aufklärung, un modello di critica che si rifà alla negazione determinata di
marca hegeliana, va interpretata la sentenza con cui viene concluso il capitolo
intitolato «Elementi dell’antisemitismo»: «L’illuminismo stesso, divenuto
padrone di sé e forza materiale, potrebbe spezzare i limiti dell’illuminismo.» (ivi:
223).

A raccogliere i motivi dell’illuminismo, il cui programma era di liberare il


mondo dalla magia, fu Bacone; secondo Adorno egli seppe intuire con esattezza
ciò che avrebbe animato la scienza successiva, ovvero quel connubio di tipo
patriarcale fra l’intelletto dell’uomo e la natura delle cose: un sapere a
disposizione di tutti, un sapere di tipo tecnico, volto a soddisfare gli scopi
dell’economia borghese. Siamo dunque al cospetto di una conoscenza
tecnicistica, democratica come il sistema economico in cui si sviluppa42, che non
mira ad un approccio conoscitivo eidetico e concettuale né si appaga della
felicità e del piacere del puro ricercare43; le sue scoperte sono meri strumenti, i
quali facilitano al potere il dominio sugli uomini e sulla natura. Più
concisamente, la tecnica, essenza di questo sapere, tende «[…] al metodo, allo
sfruttamento del lavoro altrui, al capitale […]» (ivi: 13); per il perito non è più la

41
«Lungo la via della mitologia alla logistica il pensiero ha perduto l’elemento della
riflessione-su-di-sé, e oggi il macchinario mutila gli uomini, anche se li sostenta.» (Horkheimer-
Adorno [1944] 1980: 45).
42
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 12.
43
«La sterile felicità di conoscere è lasciva per Bacone come per Lutero.» (Horkheimer-
Adorno [1944] 1980:13).

35
verità ad essere foriera di soddisfazione, ma l’operazione efficace: poiché tutto
deve poter essere spiegato mediante il criterio del calcolo e dell’utilità,
l’illuminismo di marca positivista riconosce solo ciò che è riducibile a unità44 e
che può essere dedotto dal sistema, suo ideale strumento conoscitivo. Più
precisamente, in Juliette, o illuminismo e morale, Adorno scrive: «La ragione
non fornisce che l’idea di unità sistematica, gli elementi formali di una salda
compagine concettuale.» (ivi: 88).

Inoltre, vedendo rendere omaggio al proprio principio di razionalità analitica


ogniqualvolta un mito gli si opponga, l’Aufklärung si rafforza ad ogni resistenza
spirituale che incontra, sviluppandosi indisturbata: tale aspetto ne denota il
carattere totalitario. Tanto più che «[…] i miti che cadono sotto i colpi
dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso […]» (ivi: 16) e
quando essi trapassano in esso e la natura diviene pura oggettività, gli uomini
pagano il loro accresciuto potere con la moneta dell’estraniazione45. Adorno
giunge ad equiparare il rapportarsi alle cose dell’Aufklärung all’atteggiamento
del dittatore nei confronti degli uomini: egli li conosce solo in quanto è in grado
di manipolarli; parallelamente, lo scienziato conosce le cose in quanto le fa, il
loro in-sé diventa per-lui46.

La riflessione critica sui progressi che l’uomo compie nel tentativo di


dominare la natura per soccombere nuovamente ad essa è una tematica che
Adorno aveva sviluppato sia nel Kierkegaard, riprendendo e approfondendo
spunti benjaminiani, sia nel saggio su Wagner; è, inoltre, alquanto evidente che
l’orizzonte teorico, in cui i due autori, Horkheimer e Adorno, si muovono quando
fanno menzione al sacrificio di sé implicato dalla sottomissione dell’uomo alla
natura interna ed esterna, è segnato dalle acquisizioni del pensiero materialistico,
psicoanalitico e antropologico: sono infatti chiari i riferimenti a Marx, a Freud
(di quest’ultimo Adorno cita in nota, ad esempio, lo scritto Totem und Tabu) e il
44
«Unità rimane la parola d’ordine, da Parmenide a Russell. Si continua a esigere la
distruzione degli dèi e delle qualità.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 16).
45
Entäussern, alienare, letteralmente significa “trasferire in altri il dominio dei propri beni”.
46
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 17.

36
confronto con gli insegnamenti dell’antropologia classica e contemporanea
attraverso la lettura di Durkheim.

Oltre a ciò è interessante notare come nella Dialektik risuoni l’eco della
riflessione hegeliana che anima la Fenomenologia dello spirito: Adorno traccia
un farsi, un costituirsi del soggetto attraverso le esperienze vissute durante lo
svolgersi della storia. Nella “fase magica”47, il soggetto non si è ancora costituito
come tale, l’autonomia e la certezza di sé sono in divenire, la sua intera
realizzazione non avverrà se non attraverso un processo doloroso48 che, anziché
cessare una volta che l’Io si è costituito, continua ad inasprirsi: invero, se l’Io
desidera autoconservarsi, non può permettersi di deviare dallo sforzo49 che un
costante autodisciplinamento e una continua autorepressione comportano.
Parallelamente, quanto maggiore è lo sforzo che l’Io dirige alla repressione di se
medesimo tanto più impellente è il suo bisogno di regredire; l’Io si muove quindi
alla ricerca di vie di fuga nell’intenzione di sottrarsi al potere costituito,
all’ordine vigente che, al fine di mantenere immutati la propria posizione e i
propri privilegi, lo costringe ad una cieca sottomissione. Lo spirito, impedendosi
di ascoltare l’irrevocabile o, alla stregua di Ulisse, facendosi incatenare per avere
la possibilità di udirlo, «[…] si trasforma di fatto in quell’apparato di dominio e
autodominio, che la filosofia borghese (fraintendendolo) ha visto in esso da
sempre.» (ivi: 43). Tuttavia, la sordità, rimasta ai docili proletari dai tempi del
mito, non rappresenta alcun vantaggio rispetto all’immobilità del padrone.»

47
Adorno prevede una fase magica a cui farebbe seguito una fase storica. La fase magica e la
fase storica si distinguerebbero per la presenza, nella prima, della mimesi, nella seconda, della
prassi razionale. Precisamente il nostro scrive che «[…] la civiltà ha introdotto dapprima, nella
fase magica, l’uso regolato della mimesi, e poi, nella fase storica, la prassi razionale, il lavoro.»
(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 195).
48
«L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si
consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete
in ogni infanzia.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 41).
49
«Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadî, e la tentazione di
perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo.» (Horkheimer-Adorno
[1944] 1980: 41).

37
(ibid.).

Ora, a partire dal presupposto che i rapporti gerarchici si sono da sempre


stabilizzati svolgendo un ruolo duplice e contraddittorio: da una parte
proclamando di garantire protezione ai singoli; dall’altra difendendo e
riproducendo i privilegi della classe dominante, Adorno indaga in che modo il
dominio, che non può reggersi sulla mera violenza fisica o sulla semplice
persuasione dei sottomessi, possa apparire legittimo e naturale. La risposta è da
ricercarsi nella nozione di ideologia: le parole e i concetti, resisi indipendenti
dalle cose, hanno assunto una consistenza propria, si sono reificati, sostituituendo
la cosa che prima erano chiamati a significare, ed infine hanno preteso di
assurgere essi stessi a verità50 . L’illuminismo, il cui processo senza fine è stato
avviato dalla mitologia, fa cadere ogni concezione teoretica determinata sotto
l’accusa distruttiva di essere solo una fede, «[…] finché anche i concetti di
spirito, di verità, e perfino di illuminismo, vengono relegati tra la magia
animistica.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 19). Le istituzioni del dominio51,
grazie alla loro capacità intellettuale, sono in grado di elaborare ed inculcare
delle ideologie dalle quali risulta che la loro esistenza sia indispensabile per la
sopravvivenza del tutto, senza apparire alla massa per ciò che esse realmente
sono, ovvero una determinazione contingente, in quanto storica e sociale.

Così la ragione, che aveva originato il mito del progresso e della civiltà, viene
ridotta a fungere da strumento di autoconservazione e dominio, rovesciandosi
nel suo opposto dialettico, la barbarie. In tal senso è Odisseo ad incarnarne il
mito, egli infatti è l’emblema dell’astuzia, dell’espediente e dell’arguzia, qualità
che sostituiscono, forse ancor più efficacemente, la forza bruta; mentre la Juliette
di Sade, dal canto suo, ne rappresenterebbe la morale. In conclusione, la

50
«Infine l’illuminismo ha consumato non solo i simboli, ma anche i loro successori, i
concetti universali, e non ha lasciato altro, della metafisica, che la paura del collettivo dalla quale
essa è nata.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 30).
51
«Il brivido oggettivato in un’immagine fissa diventa l’emblema del dominio consolidato di
gruppi privilegiati. Ma tali restano anche i concetti generali, anche quando si sono liberati di ogni
aspetto figurativo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 29).

38
strumentalizzazione della ragione (assurta a criterio soggettivo) da parte di una
classe minoritaria e privilegiata, che conforma la realtà ai propri scopi, genera la
tecnocrazia e l’industria culturale, figlie di una razionalità funzionale e
calcolante. In quest’epoca, «[…] la musica, l’arte in generale, che agli inizi del
secolo difende la propria posizione soggettiva e rifiuta di lasciarsi
industrializzare, cade nell’isolamento, nell’estraniamento, tende al solipsismo
[…]» (in Adorno [1949] 1959: XIV); similmente, isolato ed escluso dalla società,
verrà a trovarsi quell’artista che miri a nuove forme e a nuovi contenuti
rompendo gli schemi cristallizzati della conservazione borghese. La logica del
dominio, dunque, è indiscutibilmente più forte di quella dell’economia
capitalistica teorizzata da Marx perché è stata in grado di far sparire il singolo
davanti all’apparato che serve, rifornendolo meglio di quanto sia mai accaduto
prima: ad essere distribuiti non sono solo i beni materiali, ma anche, e
soprattutto, quelli spirituali.

Abbiamo fin’ora avuto modo di notare come Adorno auspichi che il sentiero
delineato dall’Aufklärung possa un giorno venire percorso coerentemente sino al
proprio limite e che il pensiero trovi la forza e l’audacia necessarie per svolgere
l’attività che gli è peculiare su di sé, dando avvio ad una riflessione di tipo
metalinguistico. È tuttavia opportuno porre in evidenza come «il processo di
razionalizzazione» non solo si sia arrestato, fallendo nel raggiungimento di tali
mete, ma come esso, nel forte desiderio di mantenersi in vita, abbia deviato dal
proprio itinerario, a volte imboccando vie parallele, altre ripercorrendo le
precedenti a ritroso, verso il mito e l’irrazionale. Gli interrogativi52 che animano

52
Tali interrogativi sono stati raccolti con chiarezza e puntualità da Petrucciani nella sua
introduzione ad Adorno. Le domande a cui, secondo l’autore, Adorno e Horkheimer si sforzano
di fornire una risposta sono le seguenti:«[…] come è possibile che il processo di
razionalizzazione occidentale […] abbia generato dal suo seno le più nefaste ricadute nel mito e
nell’irrazionale? Come è possibile che nel bel mezzo della società colta, progredita e
razionalizzata si riproducano il delirio collettivo, la soggezione ipnotica nei confronti di capi che
assomigliano a dei moderni maghi, la riattualizzazione dell’omicidio rituale nella forma di una
macchina da sterminio assolutamente razionale e completamente folle? E ancora: come è
possibile che la straordinaria potenza produttiva liberata dall’intreccio tra capitalismo e tecnica

39
la Dialektik e ai quali Adorno e Horkheimer cercano di dare una risposta sono
riassumibili infatti nella domanda: perché il progresso si è capovolto in regresso
facendo sprofondare l’umanità in un nuovo genere di barbarie? Tuttavia gli
autori stessi ammettono che la loro risposta è rimasta al di sotto delle intenzioni
poiché essi, per primi, avevano «[…] sottovalutato le difficoltà della trattazione
[…]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 3). In sostanza, dobbiamo rallegrarci
che tale risposta ci venga fornita in forma di frammento; ciò, da una parte, è in
linea con lo spirito del modus operandi adorniano, dall’altra, è attribuibile alle
molteplici forme che può assumere la regressione dell’illuminismo.

Se i fatti che accaddero in Germania negli anni del mito nazista del sangue e
della razza ne sono la manifestazione più estrema, poiché rappresentano la forma
più barbara e brutale di tale regressione, quest’ultima può tuttavia assumere un
volto più rassicurante, come nel caso della mitologia hollywoodiana, tanto
sgargiante quanto inconsistente. Nel capitolo dedicato all’industria culturale,
Adorno osserva che «[…] il sistema dell’industria culturale è nato e si è
sviluppato nei paesi industriali più liberali, come è in essi che si affermano e che
trionfano i suoi mezzi caratteristici, fra cui in primis il cinema, la radio, il jazz e i
settimanali rotocalco.» (ivi: 139). Il paese campione della modernità, gli Stati
Uniti, ha disteso una cortina ideologica così ampia e onnipervasiva da non
lasciare scoperto nulla: essa, come una seconda natura, aderisce perfettamente
all’esistente al punto che, in qualsiasi settore, letterario o artistico, le funzioni
della censura sono rese completamente superflue dal processo che sta alla base
della produzione53 delle opere di volta in volta considerate. Lo Stato, nel caso
dell’Unione Sovietica 54 , e i grandi monopoli privati, in quello del neonato

moderna non sia servita a creare una vita senza privazioni e senza angoscia, cioè più degna
dell’uomo, ma sia rimasta confinata nell’ambito di un progresso dei mezzi che non esclude l’uso
più folle e distruttivo di essi?» (Petrucciani 2007: 51).
53
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, pp. 4-5.
54
È opportuno tener presente che se Adorno non appoggia il sistema capitalistico occidentale,
non per questo simpatizza per il sistema comunista sovietico; per fugare ogni perplessità in
merito, rimandiamo alla lettura del saggio La musica con le dande, contenuto in Dissonanze, nel
quale il nostro si profonde in una serie di ragionamenti sul valore e sul significato che la cultura

40
colosso occidentale, organizzano e pianificano la produzione in serie su cui si
basa la società di massa e creano una fabbrica del consenso che permette agli
apparati del potere di continuare indisturbati nel loro esercizio di dominio. È
evidente che, in un simile contesto, una reale partecipazione democratica può
esistere soltanto in forma di slogan pubblicitario. Riflettendo infatti su come la
radio, il cinema e la pubblicità siano capaci di insinuarsi nella coscienza delle
masse, influenzandone subdolamente gusti e atteggiamenti55, Adorno constata il
tramonto del mondo borghese-liberale, a cui si sostituisce, nell’età al nostro
contemporanea, un fosco scenario di individui ridotti ad una condizione di
assoluta impotenza, intrattenuti e soggiogati dall’industria del fun.

Lo sgomento e la ricusa che Adorno, costretto a soggiornare in America,


sperimentava dinnanzi al fenomeno della feticizzazione della merce, una merce
che, trasformatasi in investimento libidico, si stava rivelando un collante più
potente di quanto fossero mai state le religioni e le ideologie56, è ancor più
comprensibile se non si dimenticano le sue origini e i suoi studi. Volontariamente
o no, egli, per valutare le creazioni artistiche, in particolare quelle musicali, si
avvaleva dell’alta cultura della Germania e della grande musica di Vienna come
metri di paragone e, ci sembra alquanto evidente che, giudicando della bontà

viene ad assumere nella sfera d’influenza sovietica. In particolare, ci sembra emblematica


l’equiparazione che egli opera tra il concetto di Weltanschauung, così come esso veniva
adoperato dai nazisti, e la coloritura che l’Unione Sovietica dà al termine ideologia, più
precisamente Adorno scrive che «[u]na volta, il termine ideologia valeva quanto coscienza
sporca; oggi nella sfera di potere sovietica l’espressione ideologia è impiegata positivamente, allo
stesso modo che i nazisti parlavano di Weltanschauung, confessando così involontariamente di
aver degradato lo spirito proprio a ciò che dello spirito si criticava quando ideologia si chiamava
la pura e semplice sovrastruttura di interessi reali.» (Adorno [1956] 1981: 55).
55
È ad oggi ancora evidente, crediamo, il fenomeno per cui l’individuo è portato ad emulare
acriticamente personaggi televisivi, divi del cinema e star della musica o, comunque, ad adottare
atteggiamenti che rispecchino quelli dei modelli di volta in volta proposti e osannati dai media.
Un fenomeno dalla vastissima portata che coinvolge non solo gli adolescenti, ma tutte le fasce
d’età. A partire da tale constatazione, risulta chiaro come il condizionamento a cui il popolo era,
ed è, sottoposto fosse, e sia tutt’ora, molto accentuato.
56
Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 41.

41
artistica delle opere da una simile altezza, quasi nessun prodotto dell’industria
culturale avrebbe potuto rivelarsi adeguato. Adorno stesso, nel capitolo dedicato
all’industria culturale, osserva che in Germania il sistema educativo, comprese le
università, i teatri57, le grandi orchestre, i musei, beneficiava di un peculiare stato
di protezione, senza dubbio più favorevole ad un’arte, per usare un’espressione
adorniana, priva di dande58. Secondo il nostro, tali istituzioni potevano ancora
giovarsi della medesima autonomia di cui avevano goduto, nonostante tutto, per
buona parte dell’Ottocento, durante il governo dei principi e dei signori feudali: a
suo parere infatti, le autorità politiche, lo stato e i comuni, a cui l’assolutismo
aveva lasciato in eredità questi istituti, avrebbero continuato a concedere ad essi
una parte di quella stessa indipendenza «[…] dai rapporti di potere consacrati in
forma esplicita dal mercato […]» (ivi: 140).

57
La funzione dei teatri era di primaria importanza poiché essi, a parere del nostro,
esercitavano una funzione di guida sul piano artistico.
58
La musica con le dande è il titolo del secondo saggio contenuto in Dissonanze. Il sostantivo
“danda” è una voce onomatopeica oramai in disuso poiché, oggi, l’azione concreta del reggere da
dietro, mediante delle strisce di lana tessuta, i bambini ai primi passi, non è più una pratica
comune; mentre Adorno, nell’epoca in cui lo scritto è stato elaborato, poteva servirsi di tale
immagine condivisa con la certezza che, ipso facto, il senso figurato del termine in questione
sarebbe stato colto. In particolare, egli adopera questa metafora per evidenziare la non libertà
dell’arte che, in zona sovietica, emergerebbe da un’attenta lettura del proclama accolto
all’unanimità dal Sindacato dei compositori cecoslovacchi: la risoluzione, figlia del “Secondo
congresso internazionale dei compositori e dei musicologi”, comparve in un documento che,
redatto abilmente, riuscì, avvalendosi di un vocabolario progressivo, «[…] nell’evidente tentativo
di accalappiare qualche intellettuale, evitando saggiamente di mostrargli lo staffile.» (Adorno
[1956] 1981: 57). In breve, l’editto di Ždanov, servendosi di discorsi veri, concreti, nel senso che
effettivamente essi denunciavano uno stato di cose deteriori che stavano avendo luogo in ambito
musicale, impose all’arte delle regole e dei precetti a cui attenersi, dei punti fermi che
tracciassero il percorso del decorso musicale e a cui la musica potesse, per l’appunto, appoggiarsi
come a delle dande. A parere di Adorno, sia l’Editto discusso sia l’industria della cultura,
volutamente, non tenevano conto del fatto che pretendere di imporre all’arte qualsivoglia dettame
dall’esterno, significa usarle violenza, sottrarle ciò che le è peculiare: non consentendole di dire
ciò che avrebbe eventualmente avuto da dire, l’arte, in quanto perde il diritto ad esprimersi
liberamente, viene deprivata della propria essenza e perde la propria ragion d’essere.

42
Adorno quindi, in terra americana, continuerà a rimanere uno straniero, un
osservatore critico e imparziale della nuova società che via via si veniva
formando. A questo proposito ci sembrano esemplificative le riflessioni che il
francofortese svolge nella tredicesima meditazione, Protezione, aiuto e consiglio,
dei Minima moralia, in particolare egli scrive che «[o]gni intellettuale
nell’emigrazione è – senza eccezione – minorato […] Egli vive in un ambiente
che deve restargli per forza di cose incomprensibile, e, sia pure pratico di
organizzazioni sindacali o del commercio automobilistico, sarà sempre un
nomade, un vagabondo.» (Adorno [1951] 2009b: 26-27).

A conclusione di questo paragrafo, prima di dare avvio alla trattazione del


capitolo sull’industria culturale e, quindi, all’analisi critica dei prodotti da essa
distribuiti, della cui bontà egli dubita fortemente, vorremmo brevemente
soffermarci su un inconsueto pronostico adorniano. Intendiamo ora riprendere
una considerazione che abbiamo svolto nell’Introduzione, ovverosia il
convincimento che l’esito a cui conduce la critica adorniana, secondo il nostro
modo di vedere, non è sine speranza: Adorno, nelle sue analisi filosofiche,
sociologiche e musicali, più in generale, nel suo pensiero, critica, demolisce o
annienta la materia che sta di volta in volta ponendo ad oggetto, ma ciò, per
l’appunto, non è un atteggiamento catastrofista o meramente pago degli aspetti
deteriori e negativi che egli porta alla luce con una pervicacia che, spesso,
disarma il lettore, il quale, suo malgrado, si ritrova spesso a contemplare un
tragico scenario di rovine. Il nostro infatti, coerente con la propria nozione di
verità, attraverso un incessante lavorìo critico-concettuale, spinge le proprie
analisi sino in fondo perché, è persuaso, è soltanto in questo modo che il
pensiero, il quale non deve aver timore di volgersi contro se medesimo, - è
proprio ad una simile azione che dovrebbe tendere - diventa un valido strumento
contro l’ideologia e la conseguente reificazione delle parole e dei concetti.
Inoltre, a nostro avviso, la finalità del filosofare adorniano, che viene spinto sino
ai suoi esiti più estremi, non è, ancora una volta, quella di dipingere
un’imminente ed inevitabile catastrofe; riteniamo piuttosto che, nei suoi scritti,
sia individuabile una prospettiva per così dire “salvifica”, la quale starebbe nel

43
dispiegarsi stesso del pensiero, nel senso che l’esito positivo della sua critica è la
critica medesima, la sua possibilità e la sua funzione. Finché vi è pensiero critico
significa che è ancora lecito sperare di “salvare” quell’attività intellettiva di cui
Adorno denuncia la progressiva scomparsa: l’ascoltatore passivo, l’acritico
spettatore, l’onnivoro divoratore di tutto ciò che viene etichettato come cultura,
forse, sentendo mettere in discussione gli oggetti con i quali,
aproblematicamente, si è nutrito fino a quel momento, potrà, magari indignato,
impegnarsi in una loro difesa, ma, per farlo, dovrà in primo luogo attivare la
propria facoltà intellettiva e confrontarsi dialetticamente con un’analisi che
induce a prendere coscienza di uno status quo. L’analisi critica viene quindi a
fungere da pungolo mentale, da antidoto all’effetto anestetizzante, narcotico,
indotto dall’industria del fun e scrolla di dosso all’habitué l’ottundimento che lo
contraddistingue; a quel punto non avrà più importanza da quale parte stia la
ragione e se veramente sotto lo splendore della confezione sia annidato un
inconsistente, miserevole, feticcio, perché l’avvenuta riflessione sarà già una
conquista rispetto all’acriticità e al piattume imperanti.

Il filosofo, nel volume intitolato Prismi, in particolare nel saggio Aldous


Huxley e l’utopia, svolge una riflessione che termina con una curioso
interrogativo, il quale però è, in certo senso, onnipresente nel suo pensiero. Egli
si chiede: la società riuscirà infine ad “autodeterminarsi” o, al contrario,
provocherà una “catastrofe tellurica”? Probabilmente, avendo presente l’asprezza
delle analisi che Adorno muove alla società a lui contemporanea nel momento in
cui la pone come oggetto d’indagine, propenderemmo per la seconda opzione; in
realtà, pur riconoscendo che, attualmente, le persone non sono in grado di
distinguere fra bisogni falsi e bisogni autentici, egli è persuaso che «[u]n giorno
si dimostrerà assai rapidamente che gli uomini non hanno bisogno della robaccia
che offre loro l’industria culturale, né della miserevole roba di prima qualità che
fornisce un’industria più solida.» (Adorno [1968] 1973: 104). Questa nuova
consapevolezza affiorerà, a suo avviso, perché ogni bisogno umano è mediato
dalla storia e se nella società odierna i bisogni si fissano nella riproduzione del

44
sempre uguale59, ciò dipende dal fatto che l’attuale ordinamento vincola ad una
coazione a produrre per il bisogno nella sua forma mediata dal mercato60. Infatti,
qualora l’irrazionalità che dirige la statica dei bisogni venisse abolita da un
diverso ordinamento, il quale non debba il proprio sostentamento alla capacità di
indurre bisogni che in realtà non sono tali, «[…] la produzione agirà sui bisogni
in senso vero e non distorto: non perché placherà l’insoddisfazione con cose
inutili, ma perché la sazietà potrà orientarsi nel mondo senza adeguarsi al criterio
dell’utilità universale[61].» (ivi: 105).

2. L’industria culturale.

Ora, al fine di cogliere appieno le implicazioni della concezione adorniana che


dichiara l’aspetto involutivo dell’illuminismo regredito ad ideologia, ci
impegneremo nel tentativo di individuare, circoscrivendolo, il nesso che lega tale
regressione all’industria culturale e, contemporaneamente, indagheremo in che
modo i prodotti di quest’ultima, nella pretesa di essere creazioni estetiche e
quindi verità rappresentata, rilevino, una volta smascheratane la struttura,
l’assurdità sociale. Per riuscire a penetrare il senso e la valenza che Adorno
conferisce all’espressione “industria culturale”, rivolgeremo la nostra attenzione
alla sezione ad essa interamente dedicata. Inoltre, per avere una panoramica più
ampia e dettagliata del fenomeno, la lettura di questo capitolo sarà integrata con

59
Nel secondo paragrafo analizzeremo nel dattaglio in che modo Adorno adatti
quest’espressione dai rimandi niciani ai prodotti dell’industria culturale.
60
Cfr. ADORNO, [1955] 1973, p. 105.
61
Una riflessione analoga, in questo caso però rivolta al mondo musicale, compare in
Dissonanze; Adorno ne Il carattere di feticcio in musica scrive infatti che «[l’]ascolto regressivo
non è certo un sintomo di progresso nella coscienza della libertà: eppure potrebbe repentinamente
mutare, una volta che l’arte e la società lasciassero insieme i binari dell’eternamente identico.»
(Adorno [1956] 1981: 50).

45
l’analisi dello scritto adorniano Il carattere di feticcio in musica e il regresso
dell’ascolto62, pubblicato per la prima volta nel 1938 all’interno del VII volume
della «Zeitschrift für Sozialforschung». Nel 1956, Über den Fetischcharakter in
der Musik und die Regression des Hörens fu posto in apertura del volume
Dissonanzen63, ma, nel frattempo, Adorno già ne aveva tratto la premessa per la
sua Philosophie der Neuen Musik pubblicata nel 1949. Quando il saggio in
esame vide per la prima volta le stampe, dunque nella seconda metà degli anni
Trenta, Adorno risiedeva negli Stati Uniti e, svolgendo il ruolo di direttore della
sezione musicale del Princeton Project of Radio Research, era con tutta
probabilità stimolato ad approfondire gli studi sulla fruizione musicale; non è
infatti un caso se, proprio a partire da tali ricerche, la critica dell’industria
culturale e della società dei consumi cominciò a prendere forma64.

L’espressione ossimorica “industria culturale” è stata coniata e utilizzata per

62
Sulla questione del consumo culturale di massa, Adorno non smetterà mai di riflettere. Tale
tema compare, oltre che all’interno di innumerevoli scritti, dei quali il più rappresentativo è forse
Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto che, per l’appunto intendiamo
analizzare, anche nello scambio epistolare che il nostro intrattenne con l’amico Benjamin: è noto
infatti che Adorno non concordasse con molte delle tesi che Benjamin aveva sostenuto ne
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e che ciò contribuì non poco
all’allontanamento che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, si verificò fra i due
pensatori.
63
Cfr. TH. W. ADORNO, Dissonanzen, Ed. Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1956. Il
sottotitolo di questa versione originale, Musik in der verwalteten Welt (Musica nel mondo
amministrato), è stato eliminato nella traduzione italiana di G. Manzoni a cui, noi, facciamo qui
riferimento.
64
Il soggiorno negli Stati Uniti, gli permise, inoltre, di intrattenere relazioni con la society di
Hollywood, della quale conobbe registi, autori, sceneggiatori, attori e produttori. In particolare,
egli aveva frequenti contatti con Charlie Chaplin, di cui considerava il film Monsieur Verdoux
del 1947 un autentico capolavoro, con Fritz Lang e la sua compagnia Lily Latté e aveva avuto
modo di conoscere personalmente gli attori Harold Russell e Alexander Granach. Nella sua
monumentale biografia, Müller-Doohm afferma che «[s]enza le sue conoscenze da insider del
business cinematografico e senza la sua frequentazione del cinema e la lettura della letteratura
popolare, difficilmente Adorno sarebbe riuscito a scrivere il capitolo sull’industria culturale
contenuto nella Dialettica dell’illuminismo.» (Müller-Doohm 2003: 418).

46
la prima volta dagli autori di Dialektik der Aufklärung: nello specifico, essa
funge da titolo per il capitolo che segue i due excursus adorniani, dei quali il
primo è dedicato a Odisseo; il secondo, a Juliette. I due filosofi, ci sembra, non
accostano i due termini, quello di industria e quello di cultura, con un’intenzione
meramente polemica; vi è piuttosto una volontà di illustrare con perspicuità uno
stato di cose: tale locuzione è sì una presa d’atto critica, ma rivela anche uno
sguardo che si posa disilluso e smaliziato su una realtà esistente e fattuale.
L’immissione nel mercato di beni che dichiaravano di avere un legame diretto
con l’arte e la cultura, di prodotti musicali sempre nuovi, di concerti sempre più
spettacolari, di film, di libri più o meno seri che quasi tutti potevano permettersi
di acquistare, era un evento che, all’epoca di Adorno, non aveva precedenti.
Altresì, prima di chiederci se questo fatto sia o meno disprezzabile, è
difficilmente contestabile che esso fosse un fenomeno analogo a quello della
produzione in serie di beni materiali, avviatasi a partire dalla prima rivoluzione
industriale. Prova ne è il fatto che l’espressione industria culturale, a prescindere
dall’ostilità che i filosofi in questione nutrivano nei confronti65 di tale fenomeno,
iniziò ben presto ad essere adoperata in un’accezione non critica e, anzi, già a
partire dagli anni Sessanta, assunse una connotazione marcatamente positiva.

Ad oggi non esiste una definizione condivisa di industria culturale, tuttavia,


potremmo dire che la moda, il design, l’editoria, l’industria discografica,
l’industria dell’intrattenimento, l’high tecnology, i media, la fotografia, il cibo e
la ristorazione sono solo alcuni dei settori di produzione che rientrano sotto tale
definizione. In aggiunta, abbiamo potuto osservare che, oltre ad essere divenuto
sempre più frequente l’accostamento del termine “creatività” alla parola
“cultura”, il sostantivo “produzione” torreggia fiero e indisturbato accanto ad
esse; nell’esprimere questa considerazione, pensiamo per esempio allo scritto di
Walter Santagata intitolato Libro bianco sulla creatività, promosso dal Ministero

65
Adorno ritiene che parlare di cultura sia già un’operazione che si rivolge contro la cultura,
egli infatti scrive che «[i]l denominatore comune “cultura” contiene già virtualmente la presa di
possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno
dell’amministrazione.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 138).

47
per i Beni e le Attività Culturali e presentato a Roma nel 2008.

Tuttavia, questi ultimi rilievi non ci impediscono di attribuire alle riflessioni


adorniane sull’industria culturale un’innegabile lungimiranza nel decifrare
anzitempo il prorompere di tendenze ed indirizzi culturali ad oggi riscontrabili.
Adorno osserva che il sistema dell’industria culturale è nato e si è sviluppato nei
paesi industriali più liberali, ove si sono affermati i suoi strumenti specifici, fra
cui in primis il cinema, la radio, il jazz e i settimanali a rotocalco66. Secondo il
francofortese, nonostante i prodotti immessi nel mercato siano innumerevoli, la
loro varietà è in realtà solo apparente: i film, le trasmissioni radiofoniche, i
settimanali ammantano a priori la loro uniformità attraverso un’azione
pubblicitaria che ne ribadisce enfaticamente le distinzioni; differenze, inculcate e
diffuse artificialmente, che non c’entrano nulla con il significato intrinseco del
prodotto67. Lo schematismo preventivo della produzione68 presuppone e crea,
allo stesso tempo, le categorie in cui il pubblico rientra: quest’ultimo, livellato
inconsapevolmente a materiale statistico, si rivolge docilmente al materiale che
per lui è stato predisposto; certo di aver compiuto una scelta spontanea e
indipendente, il pubblico ritiene di avere un gusto proprio e originale ed è pago
che tale scelta sia condivisa e avvalorata da chi appartiene al suo stesso level.
Una simile rigidità nella produzione è possibile perché i prodotti dell’industria
culturale sono inseriti in un sistema la cui unità è garantita da quei clichés che lo
rendono compatto: gli stereotipi conferiscono agli articoli un’aura di familiarità
che li rende facilmente riconoscibili e godibili anche senza una concreta attività
mentale.

Adorno, dopo aver constatato che l’industria ha levato al soggetto il compito

66
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 139.
67
Cfr. ivi, pp. 128-129.
68
«La traduzione stereotipa di ogni cosa, compreso ciò che non si è ancora avuto il tempo di
pensare, nello schema della riproducibilità meccanica, supera in rigore e validità ogni vero stile,
concetto con cui gli amici della cultura idealizzano come “organico” il passato precapitalistico.»
(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 134).

48
lasciatogli dallo schematismo kantiano69, ci propone alcuni esempi di clichés che
fungerebbero per l’appunto da particolari impiegabili ovunque e che sarebbero
«[…] interamente definiti, ogni volta, dallo scopo che assolvono nello schema
complessivo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131). Egli fa menzione, per
esempio, alla capacità dell’eroe di accettare sportivamente la temporanea
sconfitta, ai suoi modi ruvidi e spigolosi nei confronti della bella e ricca
ereditiera, alla cui condotta, frutto di un’educazione troppo indulgente, un sonoro
ceffone, in risposta alla di lei ostinazione, non può che giovare. Gli esempi che
Adorno ci suggerisce sono tratti anche dalle canzonette più ascoltate, le quali
deriverebbero la propria notorietà dall’efficacia di una breve successione di
intervalli entro un brano che, anziché definire opera, dovremmo definire
formula70; concetti, questi ultimi, sui quali intendiamo soffermarci più avanti. Per
il nostro, sostanziali differenze non sussisterebbero neppure per quanto attiene ai
modelli di automobile dei due colossi dell’industria automobilistica: la Chrysler
e la General Motors; altresì, le cose non starebbero diversamente neanche per le
due compagnie private di cineproduzione: la Worner Brothers e la Metro
Goldwin Mayer. In entrambi i casi, «[l]a misura unitaria del valore consiste nella
dose di conspicuous production, di investimento messo in mostra […]» (ivi:
130): nelle automobili le differenze si ridurrebbero a quelle nella cilindrata, nelle
dimensioni degli interni o nelle date in cui i vari optionals sono stati brevettati; i
film si distinguerebbero invece fra loro per il numero dei divi, per l’impiego di
mezzi tecnici sempre più efficaci e innovativi, per i costumi o, ancora, per «[…]
[l’]impiego di formule psicologiche più aggiornate.» (ibid.). Di conseguenza,
l’uomo, che si trova accerchiato da merci standardizzate e che è troppo debole
per sottrarsi alla loro strapotenza, nota Adorno in Dissonanze, non può scegliere

69
In particolare, Adorno si riferisce al compito «[…] di riferire in anticipo la molteplicità dei
dati sensibili ai concetti fondamentali […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131).
70
Il nostro sostiene che l’industria culturale ha posto fine all’emancipazione del particolare
all’interno dell’opera nel suo insieme: esso, che dal romanticismo fino all’espressionismo era
divenuto ribelle, «rivoltandosi contro l’organizzazione», ora, «[…] [non conosce] più nient’altro
che gli effetti, […] [l’industria culturale] spezza la loro insubordinazione e li sottomette alla
formula che ha preso il posto dell’opera.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 132).

49
tra ciò che gli viene proposto; anche nei confronti dei prodotti musicali, la cui
scelta parrebbe immediata e personale, l’atto valutativo è sostanzialmente una
finzione perché «[…] tutto è talmente simile che la preferenza è legata solo al
dettaglio biografico o alla situazione particolare in cui avviene l’ascolto.»
(Adorno [1956] 1981: 10).

Nella cultura di massa, dunque, il nuovo è escluso perché implicherebbe un


rischio ritenuto inutile e, secondo Adorno, è proprio per questo motivo che i
vocaboli idea, novelty e surprise vengono ribaditi senza sosta: tutto scorre, tutto
è dinamico, tutto è in moto, ma, in realtà, la macchina ruota sur place71; ci
sembra che il nostro e Giuseppe Tomasi di Lampedusa 72 si citino quasi
testualmente, quando il filosofo osserva che «[n]ulla deve restare com’era prima,
tutto deve continuamente scorrere, essere in moto. Poiché solo l’universale
trionfo del ritmo della produzione e della riproduzione meccanica può assicurare
che nulla muti […]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 142). Ad ogni modo, per
chi, insoddisfatto, si avvedesse di quest’eterna ripetizione dell’identico73, anche
se nell’attuale coscienza delle masse «[…] piacere vale praticamente quanto
riconoscere 74 […]» (Adorno [1956] 1981: 10), vi sarebbe la spiegazione di
coloro che sono interessati a quella che essi stessi definiscono industria della
radio o del cinema. Se si parte cioè dal presupposto che i fruitori non siano
capaci di apprezzare qualcosa in base ad un giudizio di valore genuino, essendo
succubi delle strategie di vendita, essi, mentre credono che quel dato prodotto sia
proprio ciò che desideravano, in realtà, sono semplicemente appagati dalla
sensazione di familiarità che sperimentano dinnanzi ad esso: popolarità e

71
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 142.
72
Abbiamo in memoria la conversazione che, nel primo capitolo del Gattopardo, avviene tra
il principe Fabrizio e Tancredi, ove il primo, smagato, svela apertamente al nipote: «Se vogliamo
che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» (Tomasi di Lampedusa [1957] 1985: 33).
73
«Non solo i tipi di ballabili, divi, radiodrammi ritornano ciclicamente come entità
invariabili, ma il contenuto specifico dello spettacolo, ciò che apparentemente muta, è in realtà
dedotto da quelli.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 131).
74
Perlomeno ciò è quanto il nostro afferma ne Il carattere di feticcio in musica.

50
riconoscimento, dunque, assurgono a criteri valutativi; di conseguenza, anche se i
consumatori, ipoteticamente, avessero un’intuizione dell’identità di fondo che
accomuna i prodotti tra loro, forse, non avrebbero motivo alcuno per ritenere tale
uguaglianza un dato di per sé biasimevole. Tuttavia, qualora del biasimo vi fosse
e, da parte del pubblico, venissero formulati dei giudizi negativi nei confronti
della riproposizione del sempre identico, gli interessati all’industria potrebbero
sempre far leva sull’ideologia condivisa che musica e film, in fin dei conti, non
sono nient’altro che affari, i quali hanno di certo la priorità su arte e metafisica.

Questi manipolatori75, così li definisce Adorno, non essendo più interessati a


tenere nascosto che «[…] ogni civiltà di massa sotto il monopolio è identica
[…]» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 127), hanno acquistato coscienza del
fatto che oramai il cinema e la radio non hanno più bisogno di convincere che i
loro prodotti siano arte: dunque, gridare a chiare lettere che essi possiedono la
propria ragion d’essere nella verità che non sono nient’altro che affari, è la mossa
allo stesso tempo più semplice e adeguata da compiere: ciò rientrerebbe infatti
nell’indiscussa e onnipervasiva ideologia dell’utile. A tale proposito, anche in
Minima moralia, precisamente nel ventesimo aforisma, o meditazione, emerge la
riflessione che se una qualsiasi attività non è indirizzata ad un fine pratico,
sarebbe considerata, nella società odierna, inutile e sospetta; spiegare poi tale
attività con argomentazioni che prevedono discorsi sulla contemplazione
teoretica o artistica equivarrebbe ad esporsi alla ridicolizzazione, simili discorsi
verrebbero infatti valutati alla stregua di ingannevoli e macchiettistici orpelli
ideologici76. Di conseguenza, ricorrere «[…] [al]la parola diretta, che senza
dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose
[…]» (Adorno [1951] 2009b: 38), significa rafforzare, riconoscendola
brutalmente, l’armatura concettuale fabbricata dal monopolio.

Nell’ideologia, naturalizzatasi, che sano sia tutto ciò che si ripete77, i capi
75
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 127.
76
Adorno scrive: «[…] [I] giudizi di valore vengono percepiti come réclame o come
chiacchere insulse.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 158).
77
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 159.

51
esecutivi hanno in comune la determinazione di non ideare e di non accogliere
nulla che non aderisca ai loro schemi preventivi e alla loro rappresentazione di
consumatore. L’industria culturale, per mezzo dei divieti che impone, fissa in
modo positivo il suo linguaggio specifico: «[i]l catalogo esplicito ed implicito,
essoterico ed esoterico, del proibito e del tollerato è talmente ampio e dettagliato
che non si limita a circoscrivere un settore libero, ma lo domina e lo controlla da
cima a fondo.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 134-135).

Ma il monopolio di cui parla il francofortese, da chi è rappresentato? La


risposta sembra emergere da questo passaggio: «[…] la tendenza sociale
oggettiva dell’era in cui viviamo si incarna nelle tenebrose intenzioni soggettive
dei direttori generali […]» (ivi: 129); costoro, tuttavia, non sono tutti ugualmente
potenti, va infatti riconosciuto che i monopoli culturali sono, nei confronti dei
magnati dei settori forti dell’industria, quali l’acciaio, il petrolio, l’elettricità e la
chimica, deboli e inermi e, se vogliono evitare che la loro sfera venga
ulteriormente ridimensionata, è necessario che si prodighino per soddisfare i veri
detentori del potere. Ecco spiegato perché «[…] non si presenta più una sola
espressione che non tenda a cospirare con indirizzi di pensiero dominanti […]»
(ivi: 4). Per Adorno, i prodotti dell’industria culturale rappresentano, ciascuno,
un modello 78 dell’immane meccanismo economico, il quale è in grado di
premere sugli uomini, deprivandoli della loro facoltà immaginativa, della loro
spontaneità e indirizzandoli ad una specifica routine, sia nel lavoro che nel
tempo libero.

Secondo il filosofo, l’ambiente in cui la tecnica esercita la propria capacità di


riprodurre quei beni realizzati in serie che, a parere di chi è direttamente
interessato al corretto funzionamento dell’industria culturale, soddisferebbero i
bisogni di milioni di persone, «[…] è il potere di coloro che sono
economicamente più forti sulla società stessa.» (ivi: 127). Il nostro infatti, nella
razionalità tecnica non vede altro che la razionalità del dominio; tuttavia la

78
«Tutto ciò che appare è segnato da un marchio così profondo e sistematico che, alla fine,
non si può affacciare più nulla che non rechi in anticipo l’impronta del gergo e che non si
dimostri, a prima vista, lecito e riconosciuto.» (Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 135).

52
convinzione adorniana che la tecnica impiegata dall’industria culturale sia giunta
soltanto alla standardizzazione e alla produzione seriale, sacrificando ciò per cui
la logica dell’opera si differenziava da quella del sistema sociale79, non vuole
essere un’accusa rivolta alla tecnica in quanto tale né egli ritiene che l’effetto
nefasto della tecnica sia attribuibile ad una sua presunta legge di sviluppo. Ciò
che da Adorno viene biasimata è la funzione che la tecnica svolge nel sistema
attuale. In particolare, ne Il fido maestro sostituto, precisamente, all’interno del
saggio intitolato Impiego musicale della radio, Adorno spiega che la tecnica non
può essere isolata dalla sua situazione sociale e che essa, come tale, «[…] non ha
colpa […] di quei risultati che gli ingenui, e coloro che sono rimasti inferiori ad
essa nel livello della propria coscienza, credono di osservare dovunque: essa ne
ha colpa solo per via della sua posizione e del suo valore (Stellenwert) sociale80.»
(Adorno [1963] 1982: 253). Proseguendo su questa linea di pensiero, il nostro
ammette che è impossibile stabilire se la standardizzazione della merce, da cui si
sviluppa la virtuale standardizzazione della coscienza, causerebbe ancora agli
uomini il medesimo danno qualora cessasse di essere guidata ideologicamente.

Diversamente da Adorno, Benjamin giudicava positivamente le


trasformazioni subite dall’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: il fatto
che l’opera d’arte avesse perduto la propria eccezionalità, la propria “aura81”, e
79
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, pp. 127-128.
80
A tale proposito, ci sembra pertinente riportare le puntuali osservazioni di Roman Vlad in
merito al sempre più ampio divaricamento tra acquisizioni tecniche e fruitori che, ad oggi, è
riscontrabile in qualsiasi ambito, sia esso musicale, artistico o scientifico; nella fattispecie, egli
nota come «[l]a comprensione delle conquiste della mente umana che si susseguono con ritmi
inarrestabili appa[ia] riservata a cerchie sempre più ristrette e specializzate. Le ricadute
tecnologiche di tali conquiste vengono fruite però da masse sempre più larghe che non hanno
nessuna possibilità, ma che non sentono però neanche il minimo bisogno di capire i miracoli della
tecnica che stanno dietro a tante macchine e strumenti di generalizzato uso quotidiano.»
(Vizzardelli 2002: 116).
81
Nello specifico, l’aura di un’opera d’arte è, secondo Benjamin, la sua unicità, la sua
irripetibilità, il suo hic et nunc: il poter fruire dell’opera solo in un dato momento ne amplifica il
valore e le fa assumere, in senso lato, i caratteri della sacralità. Nel quarto paragrafo dell’Opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è scritto che «[…] il valore unico dell’opera

53
che fosse riproducibile tecnicamente in vista di una fruizione di massa era, per
Benjamin, una risposta all’estetizzazione fascista della politica82. L’autore de
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ritiene infatti che vi
siano dei concetti tradizionali che indurrebbero a un’elaborazione in senso
fascista del materiale storico, come, ad esempio, «[…] i concetti di creatività e di
genialità, di valore eterno e di mistero […]» (Benjamin [1955] 2000: 19).
Dinnanzi a questi concetti, quelli propri dell’arte di massa sono «[…] del tutto
inutilizzabili ai fini del fascismo […]» (ivi: 20), mentre «[…]sono utilizzabili per
la formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale.» (ibid.).
Benjamin, in linea con il pensiero brechtiano, nel carattere di massa delle nuove
tecniche scorgeva un processo inevitabile e positivo che avrebbe posto fine ad
una concezione aristocratica dell’arte; le nuove modalità dell’esperienza che
l’individuo si sarebbe trovato a sperimentare nella metropoli moderna avrebbero
liquidato le antiche forme, liberali e ottocentesche, della borghesia.

Adorno invece, che nell’ultima parte del saggio Il carattere di feticcio in


musica e il regresso dell’ascolto sottopone a critica le tesi che Benjamin aveva
espresse nel sopraccitato volume, rimane in linea con le precedenti posizioni83
dell’amico; per il francofortese questo darsi diversamente dell’esperienza non è
foriero di un potenziale di rottura e di innovazione, ma significa soltanto
impoverimento e regressione. Nelle lettere rivolte a Benjamin, il nostro scriveva
che, al cinema, le risate degli spettatori non avevano nulla di emancipativo, ma
che, anzi, erano l’espressione del peggior sadismo borghese84; secondo Adorno,
Benjamin si dimostrava ingenuo nell’attribuire alle masse, al proletariato, delle

d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo
e originario valore d’uso.» (Benjamin [1955] 2000: 26).
82
Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 44.
83
Ci riferiamo in particolar modo alle posizioni che emergono da alcuni scritti precedenti
come, ad esempio, i saggi su Leskov o su Baudelaire, ove Benjamin si era maggiormente
soffermato sugli aspetti negativi del processo tecnico; uno per tutti è il fatto che, nella società di
massa, l’uomo avesse sostituito l’esperienza reale con l’Erlebnis.
84
Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 44.

54
potenzialità di analisi critica di cui, in realtà, esse non disponevano. Il nostro gli
rimproverava inoltre di sottovalutare da un lato, il potenziale critico dell’arte
autonoma e auratica, dall’altro, i caratteri negativi e regressivi dell’“arte”
tecnicizzata: in altre parole Adorno rimproverava a Benjamin un deficit di
dialetticità nel trattare questi due momenti contrapposti.

Le ragioni di questa diversa evoluzione di pensiero tra i due autori sono


molteplici, tuttavia, va ricordato che, a differenza di Adorno e di tanti altri
pensatori della «Zeitschrift für Sozialforschung», a Benjamin fu preclusa
l’esperienza americana: egli, infatti, nel 1940, poco dopo aver ricevuto il visto
per l’America, si suicidò. Coloro che invece ebbero modo di soggiornarvi non
poterono non osservare che i mass media si stavano rivelando dei potentissimi e
formidabili strumenti nelle mani del capitalismo monopolistico; difficilmente,
dunque, avrebbero potuto stabilire una parentela tra questi strumenti e il
comunismo85 o, eventualmente, scorgervi dei benefici per le masse. In ogni caso,
riteniamo sia impossibile parteggiare per l’una o l’altra posizione poiché
entrambi i pensatori fanno ricorso a concetti meditati e ad esempi validi: di
conseguenza, abbiamo preferito limitarci a riassumere i loro ragionamenti come
meglio ci è stato possibile; speriamo, in questo modo, di aver messo in risalto
quanto tali riflessioni siano, ad oggi, ancora attuali.

Ora, ritornando a ciò che la fabbrica della cultura fornisce e alla sua capacità
di subordinare a sé gli elementi inconciliabili della cultura, l’arte e lo svago,
anche a prescindere dalla volontà dei cosiddetti manipolatori, ammette Adorno, è
la massa stessa a preferire di gran lunga l’arte leggera, quel genere di amusement
che soltanto l’industria culturale è in grado di offrirle. Secondo il nostro, chi
ricerca incessantemente il fun ha bisogno di questo stato di disimpegno e
passività per essere poi di nuovo in grado di affrontare il processo lavorativo
meccanicizzato a cui è quotidianamente costretto. Del resto, osserva Adorno ne Il
carattere di feticcio in musica, la possibilità di apprezzare un’arte

85
Cfr. BENJAMIN, [1955] (2000), p. 10.

55
“responsabile”, un’arte che impiega quindi criteri prossimi alla conoscenza86,
presuppone che vi sia ancora qualcuno che disponga di un gusto proprio, il quale,
solo, consentirebbe di compiere una vera scelta 87. Tuttavia se di colui che
potrebbe disporre di questo gusto, ovvero del soggetto, si mette addirittura in
discussione l’esistenza, è palese come il cerchio si chiuda ancora una volta a
favore dell’industria. In effetti, compendiando le manifestazioni vitali che, per
Adorno, caratterizzerebbero l’uomo a lui contemporaneo, otteniamo l’immagine
grottesca di un soggetto deformato dall’ansia e dalla routine di una giornata che
si ripete sempre uguale, di uno schiavo piegato ad una cieca obbedienza: ci si
staglia dinnanzi un soggetto caricaturale, muto e allo stesso tempo incapace di
ascoltare; un individuo che teme a tal punto il silenzio che si trova costretto a
riempirlo con un prodotto sfornato dall’industria culturale approntato
preventivamente a questo scopo.

Con l’obiettivo di giungere ad una comprensione sempre più dettagliata dei


ragionamenti fin’ora svolti e, allo stesso tempo, di avvicinarci con gradualità al
settore che abbiamo precedentemente dichiarato di voler approfondire, quello
della musica, dobbiamo ora indirizzare la nostra trattazione ad un’indagine del
concetto di opera, in particolare a quello di opera musicale, e, parallelamente, ad
una disamina del rapporto che essa intrattiene con il soggetto alienato. Credo
risulti ormai evidente che, per Adorno, ogniqualvolta si faccia riferimento ad un
prodotto dell’industria culturale, non è lecito rivolgersi ad esso denominandolo
opera d’arte. Nel precedente paragrafo, riferendoci all’esempio della canzonetta
di successo, abbiamo puntualizzato che la sua fama le deriverebbe da una
successione di suoni ben riuscita all’interno di una formula; ebbene, ci sembra
ora giunto il momento di indagare perché, secondo il nostro, quella canzone,
assieme al resto dei prodotti usciti dal grembo della fabbrica della cultura, nella
quale il paradosso della routine travestita da natura si avverte in ogni sua

86
Criteri quali l’esatto e l’inesatto, il giusto e lo sbagliato. (Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p.
9).
87
Secondo Adorno una scelta può essere considerata tale solo nel momento in cui viene
giustificata soggettivamente.

56
manifestazione88, non si possa definire un’opera d’arte. In effetti, se passiamo in
rassegna le osservazioni che Adorno muove nei confronti dell’opera in quanto
tale, troviamo una conferma del fatto che per il nostro il valore di quest’ultima
non sia stimabile in base a dei criteri presi singolarmente quali, ad esempio, la
perfezione tecnica, il particolare d’effetto, il virtuosismo o la trovata
spettacolare; mentre, queste, sono proprio le qualità elencate che, nello specifico,
contribuiscono a definire lo stile che contraddistingue i prodotti dell’industria
culturale. Un jazzista chiamato ad eseguire un pezzo di musica seria, nota
Adorno, foss’anche il più semplice minuetto beethoveniano, lo sincopa
involontariamente e solo ostentando un’espressione sardonica ci farebbe la
cortesia di attaccare con la battuta preliminare. Quest’ideale di naturalezza,
prosegue il nostro, costituisce il nuovo stile, uno stile di cui egli ci fornisce la
definizione citando testualmente quella proposta da Nietzsche, vale a dire: « “un
sistema di non-cultura, a cui si potrebbe riconoscere perfino una certa ‘unità
stilistica’, sempre che abbia ancora un senso parlare di una barbarie stilizzata.»
(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 135).

Tuttavia, per quanto attiene all’ambito musicale, interviene un altro discorso


a complicare la ricerca di una corretta definizione di opera d’arte: Adorno scrive
infatti che, nell’epoca capitalistica, i tradizionali fermenti antimitologici della
musica come il «[…] fascino sensorio, [la] soggettività e [l’]aspetto profano
[…]» (Adorno [1956] 1981: 13), i quali un tempo si opponevano all’alienazione
reificata, oggi, «[…] cadono in balìa proprio di quest’ultima […]» (ibid.); essi
congiurano contro la libertà mentre nell’antichità erano invece ritenuti ad essa
affini. Perché, ci chiediamo dunque, la stimolazione dei sensi, la superficialità e
il “culto dell’individuo”, nella grande musica, avrebbero dato luogo
rispettivamente ad una sensuale varietà dei colori, a quel tanto di profano che
libera la musica dall’oppressione magica e ad una libertà soggettiva, mentre, più
tardi, questi stessi elementi si sarebbero frantumati in istanti gustosi in senso
culinario volti a sgravare l’ascoltatore dal pensiero del tutto89? Partendo dal
88
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 135.
89
Cfr. ADORNO, [1956] 1981, pp. 11-13.

57
presupposto che, per Adorno, la musica debba servire alla costituzione di una
società migliore, potremmo rispondere che nel momento in cui tali elementi
cessano di emergere dall’insieme della composizione con un atto di
insubordinazione, essi, isolati, si reificano e «[…] si vincolano alla connivenza
con tutto ciò che l’attimo isolato è in grado di offrire a un individuo che è a sua
volta isolato e da tempo non è nemmeno più un individuo.» (Adorno [1956]
1981: 14). Secondo Adorno, nell’isolamento, senza un rapporto conflittuale con
la legge che informa l’opera d’arte genuina, gli stimoli si ottundono e si mutano
in clichés. Il nostro ritiene che la banalità della musica di massa, dunque della
musica leggera tout court, conferisce a tale musica il suo aspetto decisivo: la
volgarità; egli sospetta che la mens musicale degli ascoltatori abbia come
massima la frase brechtiana ove l’individuo dichiara di non voler essere un
uomo90. Gli ascoltatori giungerebbero addirittura ad adirarsi quando le vere opere
d’arte ricordano loro ciò che potrebbero essere, quando ricordano loro «[…] la
problematicità e la possibile elevazione della loro esistenza […]» (Adorno
[1962] 2002: 34). Nell’Introduzione alla sociologia della musica, in cui sono
raccolte le lezioni che Adorno tenne all’Università di Francoforte durante il
semestre invernale 1961-62, il nostro osserva che «[f]ino ad oggi la musica
leggera non ha preso granchè parte all’evoluzione del materiale compiutasi
nell’ambito della musica superiore da più di cinquant’anni.» (ivi: 30). In questa
dichiarazione, ma anche in molte altre, è possibile notare come egli,
nell’esprimere il proprio giudizio di valore, si serva di un concetto la cui
importanza non abbiamo ancora avuto modo di evidenziare, ma che è
indispensabile avere presente nel momento in cui vogliamo capire cosa intenda
quando utilizza espressioni come quella citata poco sopra, ovvero quando si
riferisce, nella fattispecie, alla “legge che informa l’opera d’arte genuina”.
Siamo infatti convinti che per intendere correttamente il pensiero di Adorno sulla
musica, la critica che muove al genere popular e l’enorme responsabilità che
attribuisce all’avanguardia storica, non ci si possa esimere dallo sforzo di
comprendere che cosa egli intenda quando fa riferimento ad un’ “evoluzione del

90
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 34.

58
materiale”. Ora, poiché riteniamo che la nozione di materiale sia un concetto da
cui non si possa prescindere se ci si vuole orientare all’interno di un pensiero
estetico-musicale la cui complessità è innegabile, intendiamo porre l’indagine del
materiale musicale, il quale, è bene tenere fin d’ora presente, non coincide con la
materialità dell’opera, al centro della nostra ricerca. Per analizzare questo
concetto che, in accordo con la posizione espressa nel saggio di Zurletti,
riteniamo essere il concetto cardine 91 dell’estetica musicale del filosofo,
leggeremo gli scritti adorniani sulla musica adottando il punto di vista proposto
dal saggio Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno, la cui acquisizione
più importante, dichiara l’autrice, è forse quella di aver individuato, nell’estetica
musicale del francofortese, una mai sospettata matrice strutturalista che illumina
«[…] di una luce inedita l’idea adorniana di una somiglianza tra musica e
linguaggio.» (Zurletti 2006: X).

3. Il concetto di materiale musicale.

Prima di dare avvio alla trattazione del concetto di materiale musicale,


vorremmo premettere che Adorno, pur avendole sempre attribuito molta
importanza, non ha mai definito direttamente tale nozione. Nell’estetica
adorniana, non vi è nessun altro concetto che sia così elusivo e poco determinato
come quello di materiale musicale, tuttavia ciò è a tal punto dovuto alle
caratteristiche stesse dell’oggetto da esaminare che il non averlo esplicitato ci
appare una scelta deliberata; a questo proposito Zurletti osserva che «[…] il
materiale non può e non deve essere definito positivamente perché è non-
concreto, entità astratta, dispositivo condizionante situato al cuore
dell’esperienza musicale.» (Zurletti 2006: 16). Il materiale, secondo Adorno,
rivela un carattere radicalmente storico e sociale92, esso non va concepito come il
91
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 15.
92
Nel paragrafo in cui le posizioni di Adorno sono messe a confronto con quelle di Krenek, la

59
complesso delle scelte tecnico-formali possibili al di fuori del tempo, ma va
inteso come se fosse una funzione del progresso della storia musicale93: l’opera
d’arte nasce da un confronto serrato fra il compositore e lo stato del materiale
così come esso gli si consegna in un preciso momento storico. In questo senso, il
genio del compositore starebbe nella sua capacità di intuire cosa debba andare
fatto per riempire quel vuoto che egli si ritrova chiamato a colmare94. Il materiale
acquista una sorta di dimensione sovrapersonale grazie al sedimentarsi in esso
del patrimonio di competenze individuali, le quali si originano dal costante
dialogo tra opera e materiale: «[…] se il materiale vive grazie agli individui, esso
si rapporta tuttavia ai singoli compositori innanzi tutto come istanza esterna,
come pressione della tradizione.» (ivi: 20).

Il nostro proposito è dunque quello di riuscire a comprendere l’analisi delle


opere propostaci da Adorno in un modo che sia libero da schemi precostituiti,
allontanandoci, al pari del filosofo, da una concezione storicistica della musica,
ed è proprio per tale ragione che intendiamo riferirci al concetto di materiale
musicale. La sintassi, la teleologia, la narratività, l’intenzionalità che Adorno
legge nella composizioni che vanno da Johann Sebastian Bach fino alla seconda
scuola di Vienna sarebbero il risultato del confronto-scontro del compositore con

controversia fra i due viene letta come il contrasto tra una concezione soggettiva e una
concezione oggettiva del materiale; per quanto riguarda la prima, quella adorniana, è detto che il
materiale è un’istanza «[…] esterna all’opera, un dispositivo condizionante perché presente al di
qua di questa: […] il materiale è visto […] come una “funzione del sociale”, sintomo che l’opera
ha la sua origine e il suo destino nella società.» (Zurletti 2006: 20).
93
A questo proposito ci sembra esemplificativo riportare una citazione tratta dalla Filosofia
della musica moderna; Adorno, dopo aver chiarito che non è possibile cogliere la “verità” e
“non-verità” di A.F.W. Schönberg e I.F. Stravinskij avvalendosi di categorie quali l’atonalità, la
dodecafonia o il neoclassicismo poiché esse non sono in grado di esprimere la “configurazione
estetica dell’immagine creativa”, prosegue dicendo che «[s]e invece ad esempio si esamina il
neoclassicismo cercando di determinare quale necessità interna delle opere le spinga a questo
stile, o come l’ideale stilistico si comporti verso il materiale dell’opera e la sua totalità
costruttiva, diventa virtualmente possibile risolvere anche il problema della legittimità dello
stile.» (Adorno [1949] 1959: 10).
94
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 19.

60
l’insieme di Stoffe e Techniken sedimentatesi lungo il corso storico. In sintesi,
siamo determinati a cogliere quegli elementi della musica segnalatici da Adorno
che, nelle singole opere, generano il sistema di universali che, a parere di
Zurletti, starebbero alla base della possibilità di realizzare un’opera dotata di
senso; infatti, il materiale a cui facciamo riferimento è una sorta di dispositivo
virtuale che, pur essendo la struttura di ogni atto musicale, quella cosa che
conferisce alla musica un senso, che le permette di comunicare, non è completo
in nessun individuo95, ma si trasforma e si esaurisce soltanto nella collettività.

Nella Prefazione alla Filosofia della musica moderna, opera che Adorno
considerò una “lunga appendice96” alla Dialettica dell’illuminismo, il nostro
sostiene che la scuola di matrice schönbergiana «[…] è la sola che risponde alle
attuali possibilità oggettive del materiale musicale e che si pone con
intransigenza di fronte alle sue difficoltà […]» (Adorno [1949] 1959: 4); a parere
del filosofo l’esattezza dodecafonica, a differenza dei prodotti musicali
dell’industria culturale, tratterebbe la musica secondo lo schema del destino97: è
evidente come, per Adorno, neppure la musica possa sfuggire alla dialettica
storica, essa prende parte a questo processo e riconosce nella dodecafonia il suo
destino. D’altra parte, dagli scritti adorniani sulla musica di massa emerge che il
materiale musicale prodotto e distribuito dall’industria capitalistica è chiamato a
svolgere una funzione di conservazione dell’ordine esistente: i momenti parziali
di fascino sensorio che, come si è detto, non emergono dall’unità sintetica
dell’opera, non esercitando più alcuna funzione critica, si mostrano
condiscendenti verso l’unità reificata e nella misura in cui generano l’illusione
che il meglio è alla portata dell’uomo comune, danno luogo ad un effetto
ideologico. Ne Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto,
Adorno dichiara che tutta l’arte “leggera”98, indossando un’ipocrita maschera di
felicità, è divenuta ingannevole e bugiarda poiché in arte il godimento si ha nel

95
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 63.
96
Cfr. JAY, 1987, p. 39.
97
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 72.
98
Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 14.

61
momento in cui l’elemento sensoriale veicola un fattore spirituale, il quale non si
presenta mai nei momenti isolati del materiale, bensì nell’insieme. Secondo il
nostro, essendo il concetto dell’ascesi, in musica, dialettico, oggi l’ascesi è
diventata suggello dell’arte avanzata, la quale esclude tutto ciò che è culinario e
vuole dunque essere gustato e consumato come tale.

Riteniamo che Adorno elabori un proprio concetto di ascesi a partire dal suo
significato originario: tale termine deriva infatti dal vocabolo greco ἄσκησις,
con il quale, nel mondo classico, si indicava ogni tipo di esercizio, di educazione
a una tecnica. Se per i noetici lo stimolo sensoriale era da evitare, per il nostro
esso diventa il veicolo del fattore spirituale, ma alla condizione che non ci si
abbandoni culinariamente al piacere dell’attimo: da parte del fruitore vi
dev’essere un costante sforzo intellettivo a cogliere l’insieme dell’opera, un
ascolto che si eserciti ad essere attivo e consapevole, teso ad avere
contemporaneamente presenti i nessi che rendono la creazione artistica un tutto
significante. Ci sembra quindi di capire che, per il filosofo, il godimento estetico
non è mai immediato, ma è da intendersi soltanto come una “promessa” di
felicità che l’arte registra negativamente e alla cui possibilità può tendere
unicamente uno spirito ascetico che non tema lo sforzo della concentrazione.
Potremmo perciò affermare che «[l]a forza di seduzione dello stimolo sopravvive
ancora solo dove sono più forti le forze della rinuncia, cioè nella dissonanza, che
non ammette di credere all’inganno dell’armonia costituita.» (Adorno [1956]
1981: 14).

Va tuttavia puntualizzato che, per Adorno, la fase di declino estetico della


musica leggera, o popular 99 , fu contemporanea all’irrevocabile e verticale

99
Popular music, musica popular e musica leggera sono le tre espressioni che ci è sembrato
possibile adottare nel momento in cui Adorno si riferisce alla musica non seria e dunque
d’intrattenimento, da ballo o di consumo. In italiano non esiste una dicitura che corrisponda
all’inglese popular music; quest’ultima «[…] possiede caratteristiche molto differenziate: dalla
salsa, fino al jazz e poi al rock, all’easy-listening, alla world-music […]» (Spaziante 2007: 16),
mentre la relativa traduzione italiana “musica popolare” rimanda a quella tradizione popolare-
folklorica, non condizionata dai media e dalla cultura di massa e di consumo, che è l’equivalente
dell’albionico folk music. Parimenti insoddisfacente, crediamo, sarebbe stata la scelta del termine

62
rottura, sanzionata dalle amministrazioni della cultura, tra i due settori della
musica che oramai si sono cristallizzati in rigide branche100; infatti, ammette il
nostro, una decente musica leggera, per gran parte del secolo decimonono, fu
talvolta ancora possibile 101 . Per quanto riguarda invece una loro possibile
fusione, in Dissonanze il nostro decreta che dopo il Flauto magico, opera in cui
vi sarebbe una perfetta coincidenza fra l’utopia dell’emancipazione e il piacere
del couplet musicale102, non sia stato più possibile fondere assieme la musica
seria con quella leggera. Ad ogni modo, prosegue Adorno, non solo la
Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, ma anche gran parte delle opere di
Franz Joseph Haydn e di Ludwig van Beethoven sarebbero inconcepibili senza
l’interazione tra questi due settori che, all’epoca, erano già ben separati 103.
Secondo il francofortese, per comprendere il rapporto che intercorre tra musica
seria e musica leggera, è necessario soffermarsi a riflettere sul concetto di
quest’ultima, essendo esso «[…] situato sulla zona torbida dell’ovvietà […]»
(Adorno [1962] 2002: 26). Ci sembra in effetti che tutti sappiano cosa aspettarsi
quando meccanicamente accendono la radio e che nessuno, in genere, si senta
tenuto ad occuparsi della bontà, o del valore, di ciò che viene costantemente
trasmesso: il fenomeno musicale così come si manifesta appare agli ascoltatori
perfettamente naturale.

“pop” perché, anche se rimane la contrazione di popular, esso designa un settore musicale più
ristretto, essenzialmente anglo-americano, caratterizzato da una musica di facile comprensione,
leggera, giovanile e interamente gestita dall’industria discografica. Abbiamo infine ritenuto
conveniente limitare l’utilizzo di formule come “musica di massa” o “musica di consumo” perché
ci sarebbe parso di esprimere troppo apertamente un giudizio di valore che ancora non saremmo
in grado di giustificare.
100
«Bisogna nuovamente pensare nella loro unità le due sfere della musica, che sono separate
da una voragine: è illusoria l’idea di separarle staticamente come fanno occasionalmente codesti
custodi della cultura o di dividere pulitamente il campo sociale di tensione della musica.»
(Adorno [1956] 1981: 15).
101
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, pp. 26-27.
102
Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 13.
103
Cfr. ADORNO, [1962] 1981, p. 27.

63
Storicamente, già a partire dai mimi dell’epoca romana, l’arte inferiore, che si
rivolgeva a coloro i quali erano stati respinti da ciò che si era stabilizzato come
cultura, si componeva degli elementi più eclatanti e godibili che l’arte superiore
eliminava da sé in virtù di una crescente razionalizzazione del materiale.
Parimenti l’arte superiore non ha mai cessato, almeno fino a che «[…] lo spirito
oggettivo non fu completamente pianificato e guidato da centri amministrativi
[…]» (ibid.), di assorbire elementi della musica inferiore; certamente, un siffatto
materiale poteva fungere da stimolo per il compositore che avesse voluto dar
prova delle proprie capacità conferendo ad esso una nuova dignità estetica104.
Tuttavia, a partire da Mozart e dunque dal momento in cui le due sfere hanno
smesso di dialogare, la musica seria riflette come una negativa il profilo di quella
leggera, ponendosi come prima istanza di rifuggire dal banale; mentre il
bassofondo musicale vive di ciò che gli viene accordato dall’alto, trasfigurato da
ideologie di originalità e naturalezza, esso ormai da tempo non esprime più la
contraddizione di coloro che, per una pressione economica e psichica, sono
esclusi dalla cultura. Nell’Introduzione alla sociologia della musica, in
particolare all’interno del capitolo dedicato alla musica leggera, dopo aver
passato in rassegna la musica leggera fino a Puccini e averla giudicata tanto
peggiore quanto più assume atteggiamenti pretenziosi, individuando il culmine di
tale pretenziosità nell’operetta Friederike di Lehár105 (da Goethe), il filosofo
riflette sulle ragioni della morte della rivista e dell’operetta di tipo europeo per

104
Adorno, per avvalorare la propria tesi, oltre a richiamare alla memoria l’antica usanza della
parodia, ovvero la consueta applicazione di testi sacri a melodie profane, si avvale del Quodlibet
delle Goldbergvariationen bachiane, una composizione strumentale che è indubbiamente in
grado di testimoniare la possibilità di realizzare composizioni strumentali di un certo livello
mediante l’adozione di materiali dalla musica inferiore.
105
Ferenc Lehár (o Franz Lehár), di cui, in genere, si conosce la romanza Tu che m’hai preso
il cuor, tratta dall’operetta intitolata Il paese del sorriso, fu un compositore austriaco di origine
ungherese nato nel 1870 e morto nel 1948. Studiò composizione su consiglio di Antonín Leopold
Dvořák. In Austria, nel corso del XX secolo, dopo Johann Strauß figlio, egli portò il genere
operistico alla sua massima espressione.

64
approdare infine ad un paragone fra quest’ultima106 e il musical.

Secondo il francofortese il musical, genere all’epoca di Adorno


massimamente in voga, ritrasferisce sul teatro musicale la reificazione
tecnologica del film; paragonata a questa, la forma precedente appare trasandata,
ingenua, priva di freschezza. Per il nostro il musical non adempie neanche alle
più basilari esigenze di originalità e inventiva, tuttavia grazie agli effetti ben
pianificati e calcolati con esattezza quasi scientifica, in esso non rimane alcun
punto morto: in tal modo «[…] la parata spettacolare, integralmente organizzata
nel senso della tecnica commerciale, produce proprio perciò l’illusione di una
cosa ovvia e naturale.» (Adorno [1962] 2002: 30). Proseguendo nelle nostre
riflessioni possiamo dunque affermare che la musica leggera, da oltre
cent’anni107, tenendo comunque presente che alcuni tipi e forme di tale musica
sono andati incontro ad un’inesorabile decadenza, continua ad esibire un
linguaggio riconoscibile, uniforme e costante: essa seguita a nutrirsi dei resti del
romanticismo senza preoccuparsi di prendere parte all’evoluzione del materiale
compiutasi nella musica superiore. Certamente essa non si priva della possibilità
di attingere alle acquisizioni che via via in quest’ultima hanno luogo, tuttavia le
inserisce nel proprio linguaggio dall’esterno, senza che abbiano un qualsivoglia
potere su di esso; tali nouveautés, deprivate di quella che sarebbe stata la loro
reale funzione e ridotte ad ornamenti esteriori, al pari della musica nella quale

106
Gli aspetti dell’operetta che più interessano ad Adorno ci sembrano essere la vivacità
musicale, la godibilità immediata e l’attrazione che, in questo genere, le danze e l’aspetto
coreografico esercitano sugli spettatori. Va tenuto presente che l’operetta, che per diversi aspetti
è vicina sia al teatro di prosa sia al vaudeville, non viene dal nostro discussa in quanto forma, ma,
piuttosto, viene valutata nella sua dimensione culturale, quella della borghesia francese
(appassionatasi ad essa a partire dal 1860, anno in cui venne rappresentata La Rose de Saint-
Flour di Jacques Offenbach) e austriaca fin de siecle.
107
Dal momento che la condizione della musica leggera ci è sembrata inalterata rispetto agli
anni in cui Adorno rifletteva su di essa, abbiamo aggiunto i cinquant’anni che sono ormai
trascorsi dal periodo nel quale avevano avuto luogo l’osservazione e lo studio dei fenomeni in
esame.

65
sono inserite, cesseranno di evolversi liberamente108.

Abbiamo quindi da un lato, una musica che conferma passivamente lo status


quo sociale; dall’altro, un’avanguardia musicale che non è disposta a scendere a
compressi: queste due tendenze contraddittorie sono le due metà, separate con
violenza, di una libertà integrale che non può essere ricreata mediante una
semplice addizione. L’enfasi è posta sulla totalità perché le due sfere della
musica stanno tra loro in un rapporto dinamico: «[…] in ciascuna di esse
compaiono, sia pure in prospettiva, le modificazioni dell’insieme, che si muove
esclusivamente entro la contraddizione.» (Adorno [1956] 1981: 16). Di
conseguenza, non è solo la musica leggera a cadere in balìa del consumo poiché,
stando le due sfere in un rapporto dinamico, è mutata anche la linea di
demarcazione che divide la musica classica da quella leggera, due settori ad oggi
ben distinti la cui dicotomia continua ad essere data per scontata dall’industria
della musica, dai critici, dagli ascoltatori, dai musicisti, dai musicologi e dagli
studenti di cultura109. Infatti, nel momento in cui la musica avanguardista si è
staccata totalmente dal consumo per seguire senza compromessi la dialettica
interna del materiale, anche la musica seria è decaduta al livello della ricezione
di una merce110: «[l]e differenze nella ricezione della musica “classica” ufficiale
e di quella leggera non hanno più un significato reale, e vengono manipolate
ancora e soltanto nel senso della smerciabilità.» (ivi: 17).

Secondo il nostro, analogamente all’operazione che viene compiuta nei


confronti di tutti i prodotti dell’industria culturale, più ci si adopera per innalzare
barriere che distinguano con precisione un genere dall’altro, marcandone
differenze, peculiarità e novità più si ha l’impressione che tale suddivisione sia
indispensabile sia per mascherare l’uniformità e il piattume che essa offre sia per
confermare ognuno nel proprio status. Di conseguenza, anche per quanto
riguarda la musica cosiddetta classica, l’importante è che l’habitué della

108
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 30.
109
Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.
110
Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 17.

66
filarmonica veda convalidato il suo livello culturale ogniqualvolta sfoderi il
proprio abbonamento o acquisti un disco contenente dei pezzi che già possiede,
ma che, questa volta, sono stati eseguiti dall’ultimo musicista in auge.

Tuttavia, a parere di Middleton, la posizione di Adorno sulla musica, pur non


essendo Middleton in contrasto con un approccio che veda la formazione di
elementi quali il significato essenzialmente sociale della musica e la relativa
autonomia delle tecniche musicali all’interno di una dialettica storica, diviene
problematica se la si applica al caso specifico della popular music 111 . Nel
capitolo dedicato all’analisi della critica adorniana nei confronti della musica
popular, Middleton sottolinea che quando ci si appresta ad esaminare le critiche
che il filosofo rivolge a tale genere, sia necessario tenere in considerazione la
loro collocazione storica. Egli ritiene che Adorno abbia tracciato le linee
fondamentali del proprio pensiero musicale a partire dagli anni trenta e non
andando oltre gli anni quaranta, ovvero in un periodo in cui la macchina della
cultura avrebbe avuto un effetto più profondo che in qualsiasi altro momento; il
nostro dunque sarebbe colpevole di aver tralasciato completamente gli sviluppi
musicali che si ebbero con il rock’n’roll e la controcultura degli anni Sessanta.

A parere di Middleton, la nozione di industria culturale posa su una


concezione di economia politica generale troppo generalizzata: Adorno
tenderebbe ad esagerare l’omogeneità delle componenti che costituiscono la
struttura dominante e, contemporaneamente, a sottovalutare le tensioni che si
manifestano tra le classi sociali; in definitiva, la sua teoria sulla popular music si
fonderebbe su un modello storico parziale, legato all’analisi marxiana dello
sviluppo della società borghese112. Il francofortese, riferendosi sia alle industrie
culturali sia agli altri settori, porrebbe l’accento soltanto sulla tendenza verso il
monopolio e il controllo, senza tenere in minima considerazione il dissenso che
non ha mai cessato di manifestarsi nei confronti del domino sociale, economico e
ideologico; ciò lo avrebbe reso cieco dinnanzi a fenomeni quali:

111
Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 60.
112
Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 61.

67
«[…] la nascita di case discografiche “indipendenti” negli anni quaranta e
cinquanta, e ancora negli anni settanta; la “guerra” fra la American Society of
Composers, Authors and Publishers (ASCAP) e la Broadcast Music Incorporated
(BMI) negli anni quaranta; la ricezione ostile della musica da ballo sincopata e,
più tardi, del rock’n’roll da parte di Tin Pan Alley113 ; i conflitti politico-musicali
all’interno della BCC; il contenuto spesso stilisticamente eterogeneo delle hit
parade; le numerose dispute fra musicisti e le loro case discografiche e via
dicendo.» (Middleton [1990] 1994: 64).

Per quanto riguarda il debito che il nostro contrarrebbe con Marx, abbiamo
precedentemente fatto notare come il pensiero di Adorno non sia una mera
riproposizione, al più in una versione aggiornata, della critica marxiana della
società e del capitalismo: peraltro, l’orizzonte teorico in cui si muove il
materialismo non sarebbe, in ogni caso, sufficientemente ampio per rendere
conto di come l’abbondanza di beni materiali e il benessere (o forse dovremmo
scrivere “beneavere”) generalizzato diventino «[…] elementi di sventura […]»
(Horkheimer-Adorno [1944] 1980: 7). In accordo con quanto è sostenuto in
Zurletti 2006, siamo inoltre convinti che il rapporto tra musica e società in
Adorno, tenendo presente la rilevanza che in esso ha il concetto di materiale
musicale, non possa essere spiegato facendo riferimento esclusivamente alle
categorie dell’estetica materialista perché, nel pensiero adorniano, non c’è alcuna
preminenza della struttura sulla sfera della riflessione 114 . Adorno infatti,
insistendo pervicacemente sulle capacità utopistiche dell’arte, rende manifeste le
proprie aspettative nei suoi confronti: egli è convinto che, se si permette all’arte
di muoversi all’interno della più totale autonomia, lasciandola quindi operare
nella sfera che gli è peculiare, essa possa incidere concretamente sulla realtà. È
chiaro dunque che il nostro non considera l’arte una mera funzione delle
dinamiche strutturali; in definitiva, l’implicazione reciproca di arte e società
andrebbe piuttosto spiegata in senso triadico, nel senso che esiste un terzo

113
Tin Pan Alley è una strada di New York, la ventottesima per la precisione. All’inizio del
secolo XX, essa era la sede di tutti i principali editori musicali americani; per estensione, indica,
nella letteratura, il mondo della produzione di canzoni da classifica.
114
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 26.

68
elemento da tenere in considerazione: lo spirito. Quest’ultimo, hegelianamente
inteso, è in grado di garantire l’interdipendenza115 dei due termini in questione,
esso infatti «[…] nel suo progressivo “dispiegamento” rende conto per molti
aspetti della concezione adorniana della causalità storica.» (Zurletti 2006: 27).

In realtà Middleton dimostra, anche se non propriamente in questi termini, di


essersi reso conto di tale aspetto, infatti, qualche pagina dopo, muove ad Adorno
un’ulteriore critica e, al contrario, rileva che il nostro, investendo la musica di
troppa autonomia, corre l’effettivo rischio di ricadere nell’idealismo116. L’autore
di Studiare la popular music ritiene che la teoria musicale adorniana, che egli
riassume nell’evocativa immagine di un microcosmo in libero sviluppo, le cui
dinamiche interne sono tuttavia parallele a quelle del macrocosmo sociale, tenda
pericolosamente verso un’ipostasi della tecnica poiché nel primo, come anche nel
secondo, è previsto un continuo ed inevitabile progresso tecnico. In un certo
senso, fino a qui, le due interpretazioni individuano una medesima problematica,
tuttavia, in Zurletti 2006, il focus viene leggermente spostato: riprendendo le
considerazioni di Serravezza, viene fatto notare come, per Adorno, lo “stato del
materiale” e lo “stato delle forze produttive” siano gli epifenomeni di uno “stato
dello Spirito” che li determina entrambi. In questo modo lo spirito, assorbendo
non solo il mondo estetico, ma anche quello sociale, darebbe luogo ad una teoria
che permette di salvare sia l’autonomia dell’arte che la sua coincidenza con la
struttura della società e, proseguendo nel ragionamento, Zurletti conclude che si
potrebbe dire la medesima cosa nei confronti dei “rapporti di produzione”, nel
senso che:

115
Poiché in Zurletti 2006 si fa riferimento ad un pensiero di matrice strutturalista, una
concezione di cui ci siamo in precedenza occupati, crediamo di poter intendere il termine
“interdipendenza” come «[…] una funzione fra due costanti […]» (Hjelmslev [1943] 1968: 39),
così tale termine è definito da Hjelmslev ne I fondamenti della teoria del linguaggio.
Naturalmente, a “funzione” non va attribuito il significato che pertiene alle scienze matematiche;
essa, in tale contesto, «[…] designa sia la dipendenza fra due terminali, sia uno o entrambi tali
terminali (questo secondo caso è quello in cui si dice che un terminale è “una funzione
dell’altro”)» (ivi: 38).
116
Cfr. MIDDLETON, [1990] 1994, p. 67.

69
«[…] anch’essi sono “spirito sedimentato” nella misura in cui in ogni stato delle
forze di produzione è contenuta implicitamente l’intera storia del progresso
economico, e un occhio particolarmente attento potrebbe intuire negli
automatismi della catena di montaggio e nel miracolo quotidiano della fissione
nucleare il gesto eterno dell’uomo che strofina due pietre per accendere il fuoco.»
(ivi: 29).

Per quanto attiene invece alla prima parte della critica che Middleton muove
ad Adorno, quella che giudica l’analisi adorniana eccessivamente ristretta, sia dal
punto di vista temporale sia per quanto riguarda i pezzi considerati, riteniamo
inverosimile che ad un così attento osservatore della società e dei moti più o
meno superficiali che la percorrono, quale è appunto Adorno, siano sfuggiti i
fenomeni musicali e gli avvenimenti sociali che Middleton ha elencato e, del
resto, non crediamo neppure che egli potesse aver timore di un confronto diretto
con essi. Il pensiero filosofico di Adorno è inestricabilmente connesso a quello
musicale: come il primo non ha mai cessato la propria evoluzione, allo stesso
modo le sue analisi musicali hanno continuato a susseguirsi. Ci sembra piuttosto
che i generi musicali che sono discesi dalla primissima produzione popular o che
le si sono dichiaratamente opposti non siano, per il nostro, a tal punto rilevanti da
indurlo a modificare la propria impostazione valutativa117. Dal momento che egli
ritiene che la dialettica interna al materiale musicale sia chiamata a dar conto dei
fenomeni sociali, è irrilevante che una canzone, una composizione o la
produzione musicale di un intero genere dichiarino la loro non connivenza con lo
status quo. Se è il materiale a dover parlare per sé, ai fini di un giudizio critico
sull’opera non hanno rilevanza né il significato polemico del testo, nel caso
quest’ultimo fosse presente, né le affermazioni preventive dell’autore. Per

117
Riteniamo ragionevole la correzione proposta da Arbo all’osservazione di Jay nel punto in
cui afferma che il pensiero di Adorno rimane «[…] sorprendentemente costante, in pratica per
tutto l’arco della sua maturità […]» (Jay 1987: 62); Arbo è infatti persuaso che il nostro,
ogniqualvolta si accinga ad interpretare l’opera di musicisti del presente o del passato, subordini
la sua analisi ad un costante processo di revisione: in tal modo l’analisi è sottratta a
classificazioni eccessivamente generiche e contribuisce a scansare le polemiche che in
precedenza poteva aver contribuito a generare . (Cfr. ARBO, 1991, p. 17).

70
Adorno la musica deve essere in grado di esprimere quelle fratture che solcano la
società, così come il dolore che esse recano agli uomini, nelle problematiche del
suo proprio linguaggio formale, nella sua chiusa e rigorosa immanenza poiché è
solo in questo modo che la musica può attingere la propria verità118.

Adorno è fermamente convinto che, nei paesi industriali progrediti, la musica


leggera sia irrimediabilmente definita dalla standardizzazione, senza eccezioni;
ad essere standardizzato non è solo il genere dei ballabili, la cui rigidità nei
modelli è comunque comprensibile se li si considera dal punto di vista della
funzione, ma sono standardizzati anche i tipi generali della canzoni di successo
come, ad esempio, «[…] le “canzonette della mamma”, quelle che celebrano le
gioie della vita domestica, le canzoni assurde o novelty-songs, i pseudocanti
infantili e i lamenti per la perdita di un’amica […]» (Adorno [1962] 2002: 31).
Mentre a noi sembrerebbe piuttosto scontata la necessità di conferire una veste
più concreta al giudizio con cui Adorno marca la differenza che intercorrerebbe
tra le forme standardizzate della musica leggera e i modelli rigorosi della musica
seria, il nostro invece reputa quest’ultima un’operazione vana per la sola ragione
che essa debba venire effettuata: nello specifico egli afferma che «[…]
bisognerebbe lasciar perdere ogni speranza nel momento stesso in cui v’è
bisogno di tale dimostrazione.» (ivi: 32).

Nel capitolo che nell’Introduzione alla sociologia della musica è dedicato alla
musica leggera, dopo una breve parentesi volta ad evidenziare l’insipienza degli
autori di un popolare manuale americano sul come scrivere e vendere canzoni di
successo119, i quali sostenevano con convinzione che, mentre nella “canzonetta”
la melodia e il testo debbono necessariamente seguire uno schema rigoroso e
vincolante e che i lieder seri120 si differenzierebbero da essi soltanto perché

118
Cfr. PETRUCCIANI, 2007, p. 28.
119
Anche se nel corso del capitolo i nomi degli autori in questione non compaiono, riteniamo
con buona probabilità che Adorno si stia riferendo a A. Silver e R. Bruce, autori del manuale
How to Write and Sell a Song, uscito a New York nel 1939.
120
In tale contesto, l’espressione “lied serio” non è utilizzata dagli autori, ma da Adorno, il
quale ottiene così di porre in risalto l’involontario paradosso a cui essi danno luogo nel momento

71
consentono al compositore una maggiore libertà e una più ampia autonomia; il
nostro prosegue poi a spiegare le caratteristiche della musica popular, nella
quale, per l’appunto, il fenomeno della standardizzazione si riscontrerebbe
ovunque. In quest’ultima, le regole da seguire sono da applicarsi sia all’impianto
generale sia ai dettagli.

Per quanto riguarda il primo, cioè l’impianto generale, la più nota è la regola
che il chorus121 consista di trentadue battute, con al centro un bridge122, e che il
range (l’estensione) sia limitato ad un’ottava e una nota. Tra tutte, la regola più
importante è che i punti estremi, metrici ed armonici, ovvero i capisaldi armonici
di ogni pezzo, – l’inizio e la fine di ogni sua parte – facciano emergere lo schema
standard; in tal modo le più semplicistiche strutture di base, i fatti armonici più
elementari, indipendentemente da quanto di armonicamente più complesso possa
essersi realizzato all’interno del brano, per quante digressioni possano esserci
state tra questi punti fermi, vengono sottolineati, mentre le complicazioni
rimangono al contrario prive di conseguenze123.

Per quanto attiene invece ai dettagli124, essi non sono meno standardizzati

in cui adoperano l’espressione “lied standard”. In merito all’attribuzione della parola “standard” a
qualsiasi composizione appartenente al repertorio comunemente definito classico, il nostro, ne Il
fido maestro sostituto, osserva che, nel caso la si applicasse, per fare un esempio, al genere
sonatistico, la sonata «[…] non potrebbe mai essere qualcosa di più di un brutto pezzo scolastico
[…]» (Adorno [1963] 1982: 26); infatti, «Haydn non ha foggiato la forma della sonata come un
modello rigido da riprodursi a volontà, ma come un’idea formale dinamica, legittimata proprio
dal suo flessibile adattarsi all’impulso del compositore nell’opera specifica.» (ibid.).
121
Tale termine è a volte reso in italiano come “ritornello”; Adorno, in genere, lo usa per
indicare l’unità di misura armonico-melodica del brano.
122
Il bridge è noto come quella parte che conduce alla ripetizione. Similmente a quanto
avveniva nel minuetto classico, il bridge esercita anche una funzione analoga al compito che,
dopo la presentazione del tema principale, spetta all’introduzione di un secondo pezzo, il quale
può portare a regioni tonali più distanti e, infine, alla replica della parte originale. (Cfr.
ADORNO, [1941] 2004b, pp. 71-72).
123
Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, pp. 67-68.
124
Nel saggio sulla popular music, Adorno ci rivela che per i dettagli esiste una vera e propria
terminologia e, dopo averci elencato i dettagli più noti, come, ad esempio, il break, i blue chords,

72
della forma generale, tuttavia, nel loro caso, la standardizzazione non è
immediatamente manifesta all’ascoltatore perché viene nascosta dietro una coltre
di “effetti” individuali125, la cui segretezza è gelosamente custodita dai musicisti.
La relazione tra lo schema generale e il particolare ha come effetto principale di
indurre nell’ascoltatore una reazione di maggior intensità nei confronti del
dettaglio, nessuna enfasi infatti viene posta sul tutto poiché esso è già dato, è già
“digerito”, ancor prima che la concreta esperienza musicale abbia inizio: risulta
quindi evidente come la struttura dell’insieme non venga mai a dipendere dai
dettagli.

La canzone è così in grado di rimandare a limitate e ben conosciute categorie


di fondo della percezione e il musicista non deve realizzare nulla di realmente
nuovo, gli effetti calcolati a cui egli dà luogo, adeguandosi a loro volta a schemi
precostituiti, sono finalizzati ad insaporire la perpetua identità senza metterla in
pericolo. La canzone di successo condurrà inevitabilmente l’ascoltatore a
rivivere ogni volta la medesima esperienza, desueta e familiare, dal momento che
lo schema generale è, sostanzialmente, un semplice automatismo musicale.
«L’inizio di ogni chorus è sostituibile con l’inizio di un numero infinito di altri
chorus. Il rapporto reciproco tra i singoli elementi o la relazione degli elementi
con il tutto non verrebbero modificati. […] Nella popular music, la posizione è
assoluta.» (Adorno [1941] 2004b: 70).

La standardizzazione, individuata in questi schemi meccanici della musica


leggera, che per il nostro è un dato sussistente cattivo (ein schlechtes
Bestehendes), un sintomo palese di reificazione sociale, come abbiamo accennato
poco sopra, è equiparata dagli autori del manuale in questione ai severi postulati
delle forme che seguono canoni più elevati; essi propongono un paragone fra tali
schemi e la vincolante forma del sonetto 126 , dimostrando in tal modo di

le dirty notes, ci fornisce, in nota, una breve spiegazione di ognuno di essi.


125
Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, p. 68.
126
Dinnanzi ad un simile paragone, che equipara le doti e la genialità del compositore di
musica leggera a quelle dei più celebri sonettisti, il nostro, con ironica eleganza, si limita a
commentare che i grandi maestri: Petrarca, Michelangelo e Shakespeare, non sono toccati dallo

73
confondere i modelli meccanicamente intesi con la stringente organizzazione
delle forme artistiche. Nella musica leggera, secondo il nostro, la materia viene
compressa all’interno di forme che sono adoperate alla stregua di vasi vuoti: di
conseguenza, non essendovi una reale interazione tra le forme adottate e la
materia plasmata, quest’ultima subirebbe un depauperamento, un “intristimento”
che smentisce il fatto che le forme, in sede compositiva, non organizzino più
nulla127.

Dialettico è invece il rapporto che la musica superiore intrattiene con le sue


forme storiche, «[…] a loro essa si accende, le rifonde, le fa scomparire e poi
ritornare in quanto scomparenti.» (Adorno [1962] 2002: 32). Nella musica seria
ogni singolo particolare deriva il suo senso musicale dalla totalità concreta del
pezzo che, a sua volta, non è generata dalla mera applicazione di uno schema
musicale, ma ha come proprio fondamento la costitutiva e vitale relazione che
ogni dettaglio intrattiene con gli altri. A questo punto, nel saggio sulla popular
music, Adorno ci fornisce una dimostrazione pratica del proprio ragionamento
servendosi di alcuni capolavori beethoveniani come la Settima Sinfonia e
l’“Appassionata”. Limitatamente alla prima delle due composizioni possiamo
osservare come, nell’introduzione al primo movimento, il secondo tema, quello
in Do maggiore, sarebbe, qualora venisse estrapolato dal contesto, privo di
significato; esso acquista, infatti, le sue peculiari qualità solamente attraverso
l’insieme che si concretizza ad opera del suo stesso contrasto con il tema iniziale,
il quale presenta un carattere simile ad un cantus firmus128. In conclusione,
«[n]ella musica seria, ogni elemento musicale, anche il più semplice, è proprio
“lui”, e più l’opera è altamente organizzata, meno possibilità vi sono di una
sostituzione dei singoli dettagli.» (Adorno [1941] 2004b: 75).

Da questo confronto emerge come la standardizzazione e la non


standardizzazione siano le fondamentali categorie contrastanti per comprendere

stupore che avrebbe potuto provocare in loro tale accostamento; essi sono infatti «[…] morti da
un pezzo […]» (Adorno [1962] 2002: 32).
127
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, pp. 32-33.
128
Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, pp. 70-71.

74
la differenza tra musica leggera e musica colta. Non potremmo infatti renderci
conto di tale diversità se alle due sfere ci limitassimo ad applicare concetti di
dubbia precisione come “semplice – complesso” e “ingenuo – sofisticato”; in tal
caso, ci troveremmo costretti a giudicare pezzi come Deep Purple o Sunrise
Serenade superiori a tutte le opere del primo classicismo, infatti, dal punto di
vista melodico, gli ampi intervalli presenti in molti pezzi di successo sono di per
sé più difficili da eseguire di quanto non lo siano invece le melodie che si
limitano a triadi di tonica e intervalli di seconda come, ad esempio, accade nelle
composizioni haydniane129. Parimenti, «[…] dal punto di vista armonico, […] il
repertorio di accordi dei cosiddetti classici è sistematicamente più limitato di
quello di qualunque compositore di Tin Pan Alley che si rifaccia a Debussy,
Ravel e fonti anche successive.» (ibid.). Nella musica di successo, ma anche nel
jazz, l’ascoltatore riconduce meccanicamente le complicazioni, eventualmente
presenti, ai modelli di base attraverso delle sostituzioni minime; ciò accade
perché nella musica non seria il dettaglio non ha mai un valore in sé, ma ha
sempre e solo la funzione di un abbellimento, di un travestimento pianificato
dietro cui è immancabilmente possibile percepire lo schema di fondo:
l’ascoltatore ode dunque il complicato «[…] solo come una distorsione
parodistica del semplice.» (ibid.). Ed è proprio nel meccanismo appena descritto
che Adorno scorge l’aspetto più grave e insidioso della popular music: se la
musica viene consegnata già “predigerita”, essendo essa predisposta ad ascoltare
in vece dell’ascoltatore, dettandogli le regole dell’ascolto ed evitandogli lo sforzo
e la concentrazione che una qualsiasi composizione musicale dovrebbe
richiedere, concorre a deprivare l’ascoltatore, l’uomo, della sua spontaneità e
della sua libertà intellettiva sostituendo tali affetti con meri automatismi ed
elementari riflessi condizionati.

E qui Adorno ribadisce il nesso inestricabile tra il fenomeno dell'ascolto


definito dalle dinamiche dell'industria culturale e le condizioni materiali di
esistenza del lavoratore-fruitore-consumatore, la cui libertà di pensiero viene
sostituita da una serie di risposte precostituite. Quest’ultimo può prestare o
129
Cfr. ivi, p. 74.

75
distogliere la propria attenzione dal brano in qualsiasi momento poiché la
presenza di uno schema di base, che omologa tutte le canzoni fra loro, ha indotto,
nell’ascoltatore, degli automatismi che gli consentono di immaginare ciò che è
avvenuto in precedenza, o quello che avverrà in seguito, a prescindere dal punto
dal quale egli abbia iniziato ad udire il pezzo. In questo modo si viene disabituati
ad ascoltare consapevolmente sia perché la musica proposta dall’industria non lo
richiede sia perché, con ogni probabilità, un ascolto attento esaspererebbe
l’individuo che decidesse di cimentarsi nell’impresa per l’ovvia ragione che,
quasi sicuramente, si accorgerebbe, prima o poi, della riproposizione dei
medesimi patterns. Questa musica semplicistica, che ha progressivamente
disabituato ad un ascolto attivo e ragionato, ad un ascolto che sia anche pensiero
in atto, conduce inevitabilmente ad un progressivo ottundimento delle facoltà
umane, ma, del resto, tale situazione non è nient’altro che l’esito auspicato:
l’ascolto passivo richiesto dalla musica “predigerita” è indispensabile al
funzionamento della società industrializzata dal momento che il tipo di lavoro
che le masse si trovano a compiere è caratterizzato da un ininterrotto processo di
razionalizzazione e da una sempre più massiccia meccanizzazione.

Adorno sostiene infatti che questo modo di produzione, che genera stress da
lavoro e, al contempo, il timore di rimanere disoccupati, richiede
necessariamente, come indispensabile correlato, l’intrattenimento, il quale
consiste nel piacere della distrazione, nella possibilità di un godimento
immediato che non implichi alcuno sforzo di concentrazione. Coloro le cui vite
sono cariche di tensione hanno il duplice desiderio di cercare sollievo e dalla
noia e dalla fatica, prosegue il nostro, ad essi dunque non rimane altra scelta che
cercare rifugio e ricreazione nell’intrattenimento commerciale, in generale, e
nella musica leggera, in particolare: è precisamente in tal senso che i caratteri
strutturati e predigeriti si rivelano degli indispensabili correlati non-produttivi. Il
rilassato disimpegno che viene offerto alle masse, se da un lato offre loro un
rifugio psicologico, dall’altro, impedisce loro di accostarsi alla vera arte,
rendendole progressivamente sempre più incapaci di assumere
quell’atteggiamento di attiva partecipazione, consapevolezza e vigile

76
concentrazione (sia nell’ascolto che nell’osservazione) senza cui non ci può
essere alcuna ricettività rispetto ad essa130.

È errato credere che le persone vogliano la ripetizione, esse infatti non sono
direttamente consapevoli che sia il momento del riconoscimento il motivo della
loro esaltazione; tutt’altro: la gente andrebbe alla ricerca del nuovo, «[…] ma la
tensione e la noia associate al lavoro reale induce ad evitare qualunque sforzo in
quel tempo libero che offre l’unica possibilità per esperienze realmente nuove
[…]» (Adorno [1941] 2004b: 108); di conseguenza il concetto di “nuovo” trova
un suo surrogato, identificandosi con quello di “stimolante”. Ora, poiché le
stimolazioni della musica popular «[…] si incontrano con l’incapacità di fare
qualche sforzo nel sempre-identico […]» (ibid.), essa si rivela costituzionalmente
adatta a corrispondere a tale aspettativa.

In Dialettica dell’illuminismo, Adorno, dopo aver ribadito il medesimo


concetto, completa il proprio ragionamento con l’osservazione che l’arte leggera
è da intendersi come la cattiva coscienza sociale dell’arte seria e che le due sfere,
sommandosi, danno luogo alla negatività della cultura131; infine, egli conclude
giudicando assurdo il tentativo che l’industria culturale cerca di compiere: se la
verità sta nella scissione tra arte leggera e arte seria, la sua pretesa di conciliare
tale antitesi, assumendo la prima nella seconda, si rivela impossibile e
immotivata.

4. Regressione.

Quando il 22 dicembre 1945 un inviato del “Times Magazine” interrogò


Thomas Mann a proposito di una sua profezia132 per il fatto che quest’ultima

130
Cfr. ADORNO, [1941] 2004b, p. 106.
131
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 143.
132
La profezia che Mann, quindici anni prima, aveva espresso alla fine di un saggio

77
stava tardando ad avverarsi, Mann ebbe la prontezza di rispondere che
l’adempiersi delle profezie è un fatto singolare: «[…] esse si attuano talvolta non
proprio alla lettera, ma per accenni i quali sono magari imprecisi e contestabili,
ma rappresentano una innegabile attuazione.» (Mann [1947] 1999: 701). Ci è
parso fondamentale per la completezza della nostra ricerca compiere un’indagine
che avesse ad oggetto l’industria musicale ai giorni nostri. Lo scopo che ci
proponiamo è quello di verificare se le previsioni di Adorno sulla pregressiva
incapacità di ascoltare, causata dall’abitudine alla distrazione e dall’ottundimento
della facoltà uditiva, e non solo, provocato dalla banalità e dalla
standardizzazione dei pezzi di musica leggera, si siano o meno attuate. Il
manuale che fra tutti abbiamo ritenuto essere il più adeguato a tale scopo è quello
scritto da Sibilla. L’industria musicale, dichiara nell’introduzione l’autore, nasce
dall’esperienza quinquennale del master in Comunicazione Musicale per la
Discografia e i Media dell’Università Cattolica di Milano. Se nei paesi
anglosassoni analoghi indirizzi di studio esistono da decenni, in Italia, quello
appena menzionato è il primo corso universitario ad essere dedicato alla
riflessione sui meccanismi della comunicazione del pop e alla formazione
professionale in questo settore133.

In seguito alla lettura del volume, una volta venuti a conoscenza del tipo di
lavoro svolto per produrre una canzone di successo, di quale sia il complesso di
operazioni che determinano l’ascesa di una star della musica pop o di quali
tecniche promozionali e di vendita si servano i “narratori occulti” per indurci a
comprare i dischi di un cantante e ad andare ai suoi concerti134, ci sembra di
poter affermare che le allarmate previsioni di Adorno riguardo l’oscuramento
dell’intelligenza e la perdita dei valori che stanno alla base della convivenza
umana135 connesse con il tragico destino della musica e dell’arte in generale,

autobiografico, credendo un po’ per gioco in alcune simmetrie e corrispondenze di numeri della
sua vita, era che nel 1945, all’età di settant’anni, sarebbe morto. (Mann [1947] 1999: 701).
133
Cfr. SIBILLA, 2006, p. 9.
134
Cfr. SIBILLA, 2006, pp. 7-9.
135
Cfr. GALEAZZI, 1979, p. 9.

78
trovino una loro peculiare attuazione. Intendiamo di fatto dire che, sia pure in
modo paradossale, la “profezia” di Adorno si è avverata: riteniamo che essa si sia
concretizzata proprio perché, ai giorni nostri, il suo pensiero è senza dubbio
inattuale, le sue riflessioni, non essendo considerate di alcuna utilità pratica,
vengono bellamente scansate e l’indignazione che talvolta affiora dai suoi
caustici e mordaci commenti, oltre a non essere un granché condivisa, spesso,
non viene nemmeno più compresa; oggi pare una ridicolaggine chiedersi se la
musica leggera sia anch’essa arte e se, ammesso e non concesso che lo sia,
possieda, in quanto tale, un valore morale. Nelle prime pagine del suo saggio,
Sibilla dichiara che l’idea di un’industria culturale della musica è, per certi versi,
un ossimoro, tuttavia chiedersi se la musica che viene definita “leggera” sia «[…]
un prodotto privo di contenuti e destinato all’intrattenimento puro; oppure,
all’opposto, una forma d’arte autentica, che non può scendere a compromessi
commerciali […]» (Sibilla 2006: 8), è, per l’autore, un interrogativo futile, un
“luogo comune” che egli, nel proprio scritto, si propone di eludere.

La speculazione adorniana è inattuale perché «[…] si oppone radicalmente


agli aspetti più deteriori – che spesso sembrano prevalenti – della crisi, non di
rado tragica, che stiamo vivendo […]» (Galeazzi 1979: 9), mentre oggi tali
aspetti sono a tal punto radicati nella società da apparire naturali: poche persone
si scandalizzano dinnanzi alla storpiatura “muzak136” o rabbrividiscono quando si
discute di musica nei termini di “un oggetto che viene impacchettato e piazzato
qua o là dagli attori dell’industria culturale137”; al contrario, abbiamo avuto modo
di osservare delle reazioni di vivo dispetto quando, in un breve ciclo di lezioni di
storia della musica138, venivano proposti degli ascolti di alcuni spaccati delle

136
Per definire il termine “muzak”, ci serviamo della descrizione fornitaci da Sibilla; egli ci
spiega infatti che ad essere sempre più “muzak” è la musica pop. «Una musica “funzionale”
edulcorata (da qui la storpiatura di “music”), usata per rendere più confortevoli gli ambienti, dagli
ascensori ai supermercati. La musica-muzak è un sottofondo costante e inevitabile delle nostre
vite.» (Sibilla 2006: 7).
137
Cfr. SIBILLA, 2006, p. 7.
138
Per verificare le previsioni di Adorno sul regresso dell’ascolto, abbiamo partecipato al
ciclo di lezioni di storia della musica che la M° Barbara Broz ha tenuto alla Biblioteca civica di

79
opere più rappresentative della produzione avanguardista. In particolare,
reputiamo emblematica una scena a cui abbiamo assistito poco prima che il breve
assaggio di una sezione dell’Erwartung139 di Arnold Schönberg si concludesse;
la scena è la seguente: una signora di mezz’età, con uno scatto improvviso balza
in piedi e, indignata, esprime con veemenza il proprio disappunto nei confronti di
una musica che si propone di inscenare così apertamente il deliro e la pazzia140;

Rovereto. Poiché le lezioni erano rivolte ad un pubblico di amatori, e dunque non di esperti del
settore, è stato interessante osservare come molte delle riflessioni di Adorno in merito all’ascolto
e alla ricezione della musica seria trovassero un effettivo riscontro nelle domande e nelle reazioni
dei partecipanti, a distanza di ormai mezzo secolo dalla sua morte.
139
L’Erwartung (Attesa), come anche i tre Klavierstücke op. II (1908) e i quattro Lieder op.
22 per canto e orchestra (1913-14), appartiene a una fase che è chiamata atonale e in cui videro la
luce alcune delle opere più caratteristiche dell'espressionismo, quali il dramma musicale Die
glückliche Hand (1908-13) e il Pierrot lunaire (1912) per Sprechgesang e un piccolo complesso
strumentale. L’Erwartung è, in assoluto, il primo lavoro teatrale di Schönberg ed è, forse, l’opera
più significativa del teatro musicale espressionista. Essa, composta a Vienna nel 1909, dovette
attendere ben quindici anni prima di debuttare su un palcoscenico teatrale, venne infatti
rappresentata per la prima volta a Praga il 6 giugno 1924. L’opera, che si avvale di un libretto
scritto da Marie Pappenheim, giovane poetessa e medico simpatizzante del nuovo orientamento
psicoanalitico, è in un unico atto suddiviso in quattro quadri e, complessivamente, dura soltanto
una trentina di minuti. Il fatto che, in essa, compaia un solo personaggio è singolare e accomuna
la drammaturgia schönberghiana alla coeva letteratura viennese; si pensi, per esempio, ad Arthur
Schnitzler e al suo innovativo stile letterario basato sul monologo interiore.
140
Come abbiamo prima avuto modo di notare, Marie Pappenheim scrisse il libretto in un
periodo della sua vita nel quale gli studi psicoanalitici di Freud esercitavano su di lei una forte
influenza: la librettista era infatti una giovane dottoressa in Medicina, specializzatasi in
Neurologia e Psichiatria che, per un certo tempo, fu anche allieva e assistente di Freud.
Erwartung nacque dal fortuito incontro fra Arnold e Marie: un’estate la famiglia Schönberg e la
famiglia Zemlinsky (Schönberg aveva infatti sposato la sorella del compositore austriaco
Alexander) trascorsero le vacanze in una montagna austriaca e lì, nel 1909, Arnold Schönberg
conobbe la viennese Marie Pappenheim. Quando le venne chiesto di provvedere alla stesura del
libretto per un’opera, Marie ammise di non sentirsi all’altezza dell’incarico, tuttavia aggiunse che
non si sarebbe sottratta al tentativo di scriverne uno per un monodramma. Lo fece e quello che ne
uscì fu un dramma vicino all’universo della psiche profonda scoperta in quegli anni, in linea con
la cultura dell’espressionismo e del simbolismo. Ad ogni modo, la Pappenheim giudicava il
proprio scritto un qualcosa di poco conto per cui grande fu il suo stupore quando, di lì a poco, lo

80
poi, lamentandosi del fatto che di cose brutte e di sofferenza se ne sperimentano
già a sufficienza, conclude decretando che non vi è la necessità di farsi
deliberatamente del male ascoltando i drammi personali di un compositore
depresso.

Prima di dare avvio all’ascolto, la relatrice aveva fornito gli essenziali dati
biografici sull’autore, Schönberg, accennando brevemente alla scuola da lui
creata141; aveva poi ammesso di non amare le opere dei compositori appartenenti
alla seconda scuola di Vienna perché i loro lavori si sarebbero contraddistinti per
una completa libertà espressiva e per un soggettivismo che non bada alla
comprensione del pubblico; infine, aveva svolto una sintetica panoramica
contenutistica del monodramma in un atto di Marie Pappenheim.

Ciò che, in conclusione, emerse dalla trattazione fu che le opere dei


compositori avanguardisti sarebbero state composte unicamente allo scopo di

vide musicato. Il titolo stesso ci suggerisce il carattere drammatico dell’opera, essendo l’attesa
uno stato d’animo e non un’azione. L’unico personaggio che compare all’interno della storia è
una donna la cui vicenda è, per l’appunto, tutta interiorizzata: ella, fin dall’inizio, manifesta segni
evidenti di instabilità psichica e la sua delirante e allucinata interiorità appare come l’unico
elemento scenico-rappresentativo concreto dell’opera. Nella prima scena, la donna è ritratta al
limitare di un bosco mentre cerca ansiosamente il proprio amante, oppressa dall’oscurità della
notte; la disperata ricerca, simile ad un incubo, prosegue per l’intera scena seconda, infatti,
l’attraversata del bosco è un’occasione per scatenare ossessioni e deliri. Nella terza scena, il
sentiero, finalmente, si apre su una radura illuminata dalla luna, ma la donna continua ad essere
terrorizzata dai rumori e dalle ombre che la circondano; infine, nell’ultima scena, la protagonista
si imbatte nell’amante, ma egli è steso a terra, esanime, tuttavia il corpo dell’uomo si trova nei
pressi di una casa che, forse, è quella della rivale cosicché il deliro isterico dell’innamorata
aumenta ulteriormente: realtà e sogno divengono indistinguibili fino a che lei, esausta, si
abbandona stremata all’estasi irrazionale dell’attesa. Nel finale, l’espressionismo tedesco e il
simbolismo di Maurice Maeterlinck sembrano saldarsi tra loro: da quando la voce della donna
tace fino alla fine trascorre solo una battuta, ma è una delle più impressionanti battute scritte da
un compositore del secolo scorso.
141
Schönberg, all’inizio del XX secolo, diede vita alla seconda scuola di Vienna, i cui
esponenti principali sono Alban Berg e Anton Webern, suoi allievi diretti. La denominazione fa
riferimento ad un'implicita prima scuola di Vienna: quella formata da Joseph Haydn, Wolfgang
Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven.

81
dare libero sfogo all’interiorità degli autori, ai loro drammi e alla loro sofferenza;
neppure un minimo accenno al rapporto che essi invece hanno sempre continuato
ad intrattenere con i grandi compositori del passato o al loro tentativo di andare
oltre il tradizionale linguaggio musicale di cui ambivano a rinnovare le forme,
avvertite oramai sature. Vi fu, tuttavia, da parte dell’esperta, l’intenzione di
compiere una riflessione sullo sforzo intellettuale e sulle abilità tecnico-
matematiche di quei compositori il cui lascito darà luogo al serialismo integrale:
spiegò infatti che Webern, per il suo uso intransigente della dodecafonia, divenne
un punto di riferimento per tutte quelle personalità che, attorno agli anni
Cinquanta del Novecento, partecipavano ai corsi estivi di Darmstad, come, ad
esempio, Ernst Krenek, René Leibowitz, Edgard Victor Achille Varèse, Luciano
Berio, Rudolf Kolisch, Eduard Steuermann, Pierre Boulez, John Cage, György
Sándor Ligeti, Bruno Maderna, Luigi Nono e Karlheinz Stockhausen. Eppure,
non appena la relatrice diede avvio ad un ragionamento sulla peculiarità del loro
modo di comporre, “attento soltanto all’oggettività matematica delle relazioni
interne all’opera”, l’uditorio prese a rumoreggiare asserendo che non era questo
il genere di tematica che essi si erano attesi venisse trattata in un ciclo di lezioni
aperte al pubblico: essi avrebbero maggiormente gradito ascoltare aneddoti sulla
vita e sull’operato di quei compositori “che hanno fatto la storia della musica”,
possibilmente intervallati dagli ascolti dei pezzi più significativi e rappresentativi
delle diverse epoche storiche trattate.

Potremmo dunque spingerci a dichiarare che il pubblico si aspettava che la


musica adempisse a quella che esso riteneva essere la “funzione” che,
indiscutibilmente, la contraddistingue, ovvero allietare, rasserenare e svagare,
anche all’interno di un ciclo di lezioni volte a raccontarne la storia; va da sé,
dunque, che, a partire da simili pretese, occuparsi delle relazioni matematiche
che animano le partiture risultasse a dir poco fuori luogo. Ad ogni modo, la
valutazione complessiva delle reazioni alla musica del XX secolo, ci persuade a
ritenere che il baratro, ormai da tempo apertosi tra l’impegnata musica colta e la
sempre più mercificata e banale musica leggera sia, ancor oggi, ben al di là dal
colmarsi.

82
Il francofortese aveva già avuto modo di constatare le reazioni di cui abbiamo
poco sopra discusso; egli le aveva osservate già a partire dagli anni Trenta e ad
esse, sia in quegli anni che in quelli successivi, aveva ampiamente reagito
all’interno dei propri scritti e nei vari articoli redatti durante il periodo della
collaborazione al progetto radiofonico americano. Per esempio, in Filosofia della
musica moderna, Adorno si era confrontato con quell’indirizzo critico che ritiene
che i membri della scuola di Vienna compongano in una maniera troppo tecnica
e che, dunque, taccia le opere avanguardiste di intellettualismo142; in un senso
forse deteriore, anche dalla valutazione complessiva delle reazioni del pubblico
alle lezioni di storia della musica emerge, a distanza di decenni, una genuina
tendenza a rimarcare il verdetto piuttosto condiviso che una musica che discenda
da accurati calcoli a tavolino non sia né ammissibile né lecita giacché essa
dovrebbe nascere dal “cuore143” e non dal “cervello”.

Ritornando alla sopraccitata signora, forse, la donna ha avuto una reazione più
sincera e indicativa di una maggior comprensione di chi, trincerandosi dietro
l’ipocrita affermazione di non capire la musica delle avanguardie144, dimostra, in
realtà, di non attribuirle alcun valore: infatti in Dissonanze Adorno afferma che
«[i]l terrore che la musica di Schönberg e Webern diffonde […] non deriva dal
fatto che essa sia incomprensibile, ma dal fatto che la si comprende fin troppo
esattamente […]» (Adorno [1956] 1981: 51) e conclude dichiarando che le loro
opere danno forma «[…] a quell’angoscia, a quello spavento e a quella visione di

142
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 16-21. Un atteggiamento che spesso si presenta anche
negli ambienti di alta formazione musicale. Per tale ragione, riteniamo di poter, ad oggi,
considerare ancor valida la constatazione adorniana che appare ne Il fido maestro sostituto,
laddove il nostro scrive: «L’istruzione musicale tien dietro all’attuale prassi compositiva con
assai maggior fatica che in qualsiasi altra epoca, e a volte la sabota addirittura.» (Adorno [1963]
1982: 44).
143
Cfr. ADORNO, [1963] 1982, pp. 46-47; cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 16-17; cfr.
ADORNO, [1956] 1981, pp. 50-51.
144
Secondo Adorno questo atteggiamento sarebbe più fatale dell’ostilità manifesta perché,
vantando la propria onestà, «[…] evita qualsiasi relazione verso l’oggetto.» (Adorno [1963]
1982: 46).

83
una condizione catastrofica, a cui gli altri possono sottrarsi solo regredendo.»
(ibid.).

Consideriamo la regressione dell’ascolto e la regressione dell’individuo come


due luoghi concettuali che procedono simulataneamente: in Introduzione alla
sociologia della musica, Adorno medita sulla rilevanza che l’attività dell’ascolto
riveste nello sviluppo dell’individuo tout court; precisamente, egli afferma che
«[l’]attività dell’orecchio, la sua attenzione, è probabilmente venuta crescendo
tardi, unitamente alla forza dell’io: e nel pieno delle generali tendenze regressive
le qualità più tarde dell’io sono quelle che si tornano a perdere più rapidamente.»
(Adorno [1962] 2002: 62). A questo proposito Roman Vlad ci fa notare come sia
in Dissonanzen che nella Philosophie der Neuen Musik Adorno intenda la
regressione non al pari di una ricaduta del singolo in una fase precedente del suo
proprio sviluppo o di un arretramento collettivo del livello complessivo, ma,
piuttosto, come un arresto intellettivo e spirituale dell’individuo145, al quale viene
in tal modo preclusa la possibilità di «[…] accedere ai livelli ai quali la musica
investe le facoltà emotive e spirituali più alte e più profonde dell’essere umano
[…]» (Vizzardelli 2002: 116): l’uomo medio infatti non dispone né di una
preparazione musicale elementare né, tanto meno, è in grado di prestare il genere
di attenzione richiesta dal fenomeno sonoro per venire compreso. Se, oggi,
accendendo la radio, constatiamo di poter fruire della musica in modo del tutto
passivo, senza sforzo o competenza alcuna, ciò non avviene perché il
pregiudizio, diffusissimo, che ascoltare la musica non necessiti di una particolare
dedizione e di un certo esercizio sia da considerarsi veritiero, ma avviene perché
ci vengono propugnati dei brani di livello infimo, delle musiche di sostanza
primitiva. Da questo punto di vista, l’“urlo” espressionista non ha come unico
obiettivo quello di sottrarsi alla comunicazione mediante il distacco da una forma
ormai codificata, «[…] ma è oggettivamente anche il tentativo disperato di
raggiungere coloro che non odono più.» (Adorno [1962] 2002: 122).

Ora, per mostrare in che senso sia evidente che le persone “non odono più”,

145
Cfr. VIZZARDELLI, 2002, p. 109.

84
ritorniamo al manuale di Sibilla; prima di descrivere il procedimento a cui oggi
una canzone deve essere sottoposta per poter aspirare a diventare un pezzo di
successo, ci sembra interessante proporre un breve elenco della terminologia che
Sibilla si vede costretto ad adoperare. Siamo infatti convinti che già a partire
dalla semplice disamina delle parole utilizzate, ci si possa rendere conto di come
la musica non si differenzi in nulla da un qualsiasi altro oggetto che il mercato è
in grado di offrire. Premesso che il brano musicale è chiamato “prodotto”,
forniamo, di seguito, una sintetica, ma esplicativa, lista di vocaboli “industriali”
impiegati per raccontare la musica leggera: consumo, sfruttamento, spremitura
(nel senso che “spremuto a dovere” deve essere il prodotto musicale),
realizzazione seriale, produttore artistico, promozione, gestione del talento,
routine produttiva, struttura produttiva, industria discografica, oggetto disco,
vetrina delle canzoni, appetibilità […]. L’elenco potrebbe tranquillamente
continuare, ma riteniamo di aver comunque raggiunto lo scopo che ci eravamo
prefissati: l’impossibilità di dare luogo ad un discorso sulla dignità artistica o
sulla valenza morale della musica leggera mediante l’adozione di un siffatto
repertorio lessicale è alquanto evidente.

Procediamo dunque con la nostra indagine: Sibilla ci spiega che, in genere,


non si sa molto della struttura organizzativa che sostiene il musicista perché la
musica pop vive di miti romantici, come per esempio l’immagine del musicista
ispirato, il quale, in una sorta di estasi creativa, compone da solo alla chitarra o al
piano. Nella realtà, prosegue l’autore, il musicista è semplicemente l’ultimo
anello della catena produttiva, quello più in vista, poiché è lui che mette il nome
e la faccia sulla copertina di un disco; tuttavia alle spalle di questi “incompresi
spiriti solitari” c’è un mondo all’opera: «[…] altri musicisti, produttore artistico,
staff tecnico di registrazione, management, casa discografica.» (Sibilla 2006: 12).
Lo staff dei collaboratori del musicista, una struttura che lavora su tre livelli, è il
“sommerso” che, al più, compare nei crediti di copertina, ma, senza il quale, di
fatto, l’artista, a livello produttivo, non esisterebbe.

La “routine produttiva” di un musicista è individuabile in quattro momenti,


ognuno dei quali coinvolge diverse strutture e figure professionali di supporto: la

85
scrittura; l’ascolto e l’incisione; la performance e, infine, la promozione.

Soffermiamoci proprio sul primo di questi momenti. In relazione al modo di


comporre, a quella che qui viene definita scrittura, l’autore ci rimanda alla lettura
della raccolta Songwriters, pubblicata nel 2005 da Minimum Fax, facendoci così
scoprire come la gran parte dei musicisti non sia a conoscenza neppure delle
regole basilari della composizione musicale: essi infatti dacché non sono in grado
di spiegare sistematicamente la propria tecnica di scrittura, si avvalgono di
metafore suggestive per eludere la questione. Eppure, ciò che conferisce al
repertorio di un dato autore la sua “impronta” peculiare, quell’ingrediente che ci
permette di indovinare di chi è il brano che stiamo ascoltando, non è tanto la
maniera di comporre, come accade per esempio nei pezzi classici, quanto
l’operato del produttore artistico, il cosiddetto “regista del suono”. Sibilla ce lo
presenta come colui cui spetta il compito di «[…] tradurre in realtà il “suono”
che un artista ha in testa, trovando le strumentazioni tecniche adatte e le persone
giuste […]» (ivi: 24): egli dovrà essere in grado di dare i consigli più giusti su
«[…] quali canzoni scegliere, come risistemarle per renderle più efficaci, quali
tecniche di registrazione usare per inciderle al meglio.» (ivi: 25).

A questo punto però noi non possiamo evitare di porci una domanda: come
può un artista avere un “suono in testa” e non essere lui stesso in grado di
realizzarlo? Poniamo che questo suono sia affettivamente presente nella mente
dell’“artista” ma che lui non sia in grado di riprodurlo concretamente, come fa
allora a condividerlo con il produttore che lo dovrebbe aiutare? Quale linguaggio
adopera per farsi capire? Se anche rispondessimo che egli trasmette al
collaboratore il “suono che ha in testa” attraverso delle “metafore suggestive”,
rimane comunque un fatto incontestabile che le metafore siano comunque
passibili di differenti interpretazioni. A nostro avviso, come la lingua non
esprime un pensiero già di per sé esistente e formato a priori, ma è il mezzo che
ci permette di rendere il pensiero articolato, di limitarne e precisarne i concetti146

146
A questo proposito non possiamo esimerci dal citare un breve passo contenuto in Cours de
linguistique générale, all’interno di un paragrafo per l’appunto intitolato La lingua come pensiero
organizzato nella materia fonica. Poco dopo l’inizio del paragrafo, Ferdinand de Saussure

86
così un suono, un’idea musicale, riteniamo che non esista fino a che il musicista
in questione non è in grado di renderlo concreto con lo specifico linguaggio della
musica 147 . Cionondimeno, se le canzoni, per acquistare una propria dignità
estetica e, quindi, essere apprezzate dal pubblico, abbisognano di peculiari
strumentazioni, persone scelte o, ancora, di una “risistemazione efficace”, non
può che significare che esse sono, in quanto tali, prive di un loro valore
intrinseco. Parimenti, non rendersi conto, durante l’ascolto, di un simile inganno,
lo reputiamo sintomatico della perdita, o comunque di una certa regressione, di
“una delle più tarde qualità dell’io”.

Perlomeno Adorno, ai suoi tempi, nel trattare il fenomeno dell’industria della


musica leggera, faceva riferimento a un gran numero di musicisti altamente
qualificati che, intelligentemente, rispettavano e menavano per il naso l’altrui
imbecillità148: il nostro infatti riconosceva un’ottima conoscenza del mestiere non
solo agli arrangiatori, ma anche ai band leaders. Il filosofo ammetteva che la loro
resa esecutiva non doveva temere il confronto con la prassi avanzata
dell’esecuzione di musica da camera; egli riteneva che la musica leggera
assorbisse molti talenti genuini poiché in America, nonostante la fase di totale
commercializzazione, era ancora possibile udire «[...] archi melodici di bello

afferma: «Filosofi e linguisti sono stati sempre concordi nel riconoscere che, senza il soccorso dei
segni, noi saremmo incapaci di distinuguere due idee in modo chiaro e costante. Preso in se
stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono
idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua […]» (Saussure [1922]
2008: 136) e, per completare il discorso saussuriano in senso musicale, dei suoni musicali; infatti,
la capacità di circoscrivere quei dati suoni, o sequenza di suoni, sta alla base, è una conditio sine
qua non, della possibilità di dare luogo ad un pensiero, o ad un’idea, musicalmente strutturato.
147
In merito al linguaggio verbale, la nostra convinzione che la lingua e il pensiero non siano
due cose diverse, ma che, anzi, “noi pensiamo come parliamo”, si è sviluppata in seguito alla
lettura del saggio hjelmsleviano che ha ad oggetto proprio il rapporto che intercorre tra i due
termini in questione. Tale scritto, intitolato Lingua e pensiero, è tratto da una conferenza
radiofonica a cui Hjelmslev partecipò nel lontano 1936.
148
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 40.

87
slancio, pregnanti movenze ritmiche e armoniche149.» (Adorno [1962] 2002: 40).
Tuttavia, oggi, nell’odierna industria musicale, non siamo così sicuri che Adorno
riconfermerebbe la propria posizione riguardo l’alto livello di preparazione
musicale delle star della musica.

Appiattimento del livello generale, abbassamento del livello qualitativo degli


interpreti, regressione dell’ascolto e conseguente regressione dell’individuo sono
aspetti che giacciono tutti sullo stesso piano e che si implicano vicendevolmente.
In Minima moralia, Adorno osserva come l’uomo sia divenuto incapace di
compiere un’azione che non sia finalizzata a qualche scopo, come l’individuo
agisca solo per puro interesse e sappia ragionare soltanto in termini di utilità. In
un mondo totalmente amministrato, nel quale anche lo stringere amicizia con
qualcuno non è un atto privo di calcolo e premeditazione, la musica non può
certo pretendere che le venga riservato un trattamento speciale. Qualche pagina
più indietro abbiamo potuto constatare che il pubblico si aspettava qualcosa dalla
musica, attendendo fiducioso che essa ottemperasse a quella che l’uditorio
reputava essere la sua “funzione”.

Proseguendo in tale direzione, vediamo ora quali funzioni svolte dalla musica
sarebbero, a parere di Adorno, indicative della sua regressione. Nel capitolo
intitolato «Funzione della musica», in Introduzione alla sociologia della musica,
il nostro si sofferma particolarmente sulla regressione all’aspetto extra-estetico
allorché la musica svolge una funzione consolatrice: il suo suono evoca il
lamento di una collettività che non intende abbandonare del tutto i propri membri
coatti perché, dopotutto, le stanno ancora a cuore; la conseguenza che, tuttavia,
ne deriverebbe è quella di una regressione della musica a forme antiche, pre-
borghesi o, addirittura, pre-artistiche. Rimane difficile, procede il nostro, valutare

149
Adorno non è un detrattore assoluto della produzione leggera; egli dichiara di non prestare
volutamente attenzione a quelle strutture della musica leggera che, nonostante tutto, presentano
una loro validità tecnico-formale; il nostro è infatti convinto che «[…] le diverse sfere possono
essere delimitate solo sulla base dei fenomeni estremi e non di quelli intermedi, dove del resto
anche le digressioni più ingegnose vengono nella musica leggera deformate dal fatto che bisogna
aver riguardo a coloro che badano alla smerciabilità del prodotto.» (Adorno [1962] 2002: 40).

88
se gli elementi di cui il suddetto suono è costituito riescano ad esercitare una
reale efficacia, ma è un fatto che essi, anche contro ogni evidenza fonica, per il
semplice motivo di venire convalidati dall’ideologia della musica, godano di
un’indiscussa credibilità, essendo la reazione degli individui situata entro
l’ambito di validità dell’ideologia150.

Nonostante già Schubert si domandasse se una musica lieta potesse mai


esistere, l’audience considera la musica come mero veicolo di piacere e, non a
caso, la musica in assoluto più consumata, quella leggera, «[…] è sempre
accordata su un tono di diletto, dove il modo minore è una spezia elargita
raramente. Il meccanismo arcaico è pilotato e socializzato.» (ivi: 53). In questo
modo la veste di letizia di cui la musica si ammanta fa credere a chi la ode di
essere altrettanto lieto, la maschera di cui infatti si veste, a differenza che nei
film, è molto difficile da individuare, anche perché essa altro non è che la
“smorfia diabolica” della società stessa, quella che “ripudia e stritola” l’individuo
e che, tautologicamente, si eterna per venire ogni volta riconfermata come tale.
«Quanto meno i soggetti stessi avvertono di vivere tanto più sono felici di
illudersi di essere anche loro là dove sono persuasi che vivano gli altri. Il chiasso
e la confusione della musica leggera dissimulano condizioni eccezionali di
festosità […]» (ivi: 55): queste ultime parole di Adorno ci sembrano evocare il
medesimo panorama tratteggiato da Thomas Mann nella lettera che il 10
settembre 1931 inviò a Georg Rosenthal, il direttore del Katharineum, il liceo più
antico di Lubecca; nella lettera Mann delinea infatti un’era «[…] di esuberante e
mostruosa degenerazione […] di volgarità vociante, frastuono carnevalesco, urla
di piazza del mercato, slogan urlati a squarciagola151 […]» (Vizzardelli 2002:
117).

La testimonianza più vistosa di questa funzione della musica è l’attrazione che


essa riesce ad esercitare, il suo palesarsi come il miraggio di una festa a cui si è
invogliati a partecipare, se non altro per illudersi di essere lì dove sono gli altri,
150
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 53.
151
Cfr. P. V. MANN, Lettere contro i demoni dell’Occidente, in “La Repubblica”, sabato, 16
febbraio 2002, p. 31.

89
felici come loro, ma il suo inganno e la sua truffa sono dietro l’angolo. Nella
fallace promessa di gioia che la musica incarna, essa riesce ad essere conforto
solo in quanto infrange il silenzio, poiché è creata appositamente per chi non è
più in grado di parlare: tra sé e il soggetto la musica leggera non lascia spazio
alla riflessione concettuale, dando così luogo all’illusione che fra essi non vi
siano né barriere né mediazioni, in un mondo completamente mediato non vi
potrà mai essere immediatezza. La musica, in virtù della sua non-oggettualità
“riscalda” e “colora” sia lo scolorito mondo delle cose che circondano l’uomo sia
il vuoto interiore a cui egli, nel mondo reificato, è sempre più spesso soggetto:
essa decora un tempo vuoto, disintegrato in momenti discontinui152, equiparabili
all’effetto dello choc. Nella realtà della produzione industriale, il concetto di
esperienza tende a dissolversi cosicché il destino della coscienza soggettiva è
quello di disintegrasi durante il decorso del tempo astratto, fisico, esteriore; in tal
senso, la musica è chiamata ad acquietare il presentimento di questo fenomeno.

Eppure, non è sfuggendo dalla propria vuotezza interiore che il soggetto,


deprivato di una genuina relazione qualitativa con gli oggetti, può sperare di
trovare un rimedio duraturo tanto ad essa quanto al “crudo” e “minaccioso”
decorso temporale; su questo argomento già avevano riflettuto Goethe e Hegel,
osservando che «[…] la pienezza interiore non nasce da un sottrarsi alla realtà,
da un isolamento, ma dal suo opposto, e che la stessa pienezza soggettiva è

152
Adorno si sta qui avvalendo dei concetti bergsoniani di temps espace e temps durée. Il
temps espace è il tempo che si oppone alla durata: esso si contrappone al contenuto
dell’esperienza al pari di un dato meccanico; secondo il nostro, è soltanto nel temps durée, un
tempo continuo, interiore, refrattario ad ogni tipo di misurazione, che è ancora possibile salvare
«[…] la vivente esperienza del tempo.» (Adorno [1962] 2002: 58). Secondo l’interpretazione di
Zurletti, Adorno fa coincidere il temps durée bergsoniano con ciò che egli definisce mediante il
concetto di Einstand (che intendiamo trattare nel terzo capitolo del presente elaborato). Nello
specifico, l’autrice de Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno dimostra come il
concetto di “ascolto responsabile” sia strettamente connesso a questa temporalità alternativa, a
questo tempo non diacronico, a questo «[…] tempo psicologico, proprio della musica, che si
contrappone al tempo fisico della comune esperienza e virtualmente l’annulla.» (Zurletti 2006:
89).

90
l’aspetto modificato dell’oggettività vissuta.» (Adorno [1962] 2002: 59).
Secondo Adorno, il tedium vitae, che comunque non è una novità del XX secolo,
non va affrontato mediante dei diversivi, avvalendosi dei blandi surrogati di
piacere quali la musica o il cinema, poiché tali rimedi denotano solo che non vi è
la minima intenzione di sopportare la noia, la quale potrebbe scomparire soltanto
attraverso una differente, ragionata e consapevole impostazione della vita.
Parimenti, permettersi di avvertire il vuoto, in realtà, significherebbe possedere
già in qualche misura la coscienza della possibilità del suo contrario.

91
92
CAPITOLO II Il progresso in musica.

SOMMARIO: 1. Una questione di stile. – 2. Verso la Neuen Musik. – 3.Aufklärung in musica. –


4. Tra Progresso e «Restaurazione».

1. Una questione di stile.


La notorietà della Philosophie der neuen Musik è in gran parte attribuibile alla
scandalosa apparizione del Doktor Faustus nel 1947. Thomas Mann si accinse
all’opera una domenica mattina, era il 23 maggio 1943. Erano passati poco più di
due mesi da quando aveva esumato un vecchio fascicolo di appunti153 contenenti
quelle che poi sarebbero state, a grandi linee, le memorie del mite Serenus
Zeitblom. Più che ad un romanzo, puntualizza l’autore ne La genesi del Doctor
Faustus, siamo di fronte ad una biografia: Mann, oltre ad essersi lasciato
condurre dal ricordo della parodistica autobiografia di Felix Krull154, ritenne che

153
«[…] si era venuto accumulando un grosso fascio di appunti che attestavano la complessità
dell’impresa: erano circa duecento mezzi fogli protocollo nei quali, in disordine e dentro la
cornice di freghi continui, si affollavano ingredienti multicolori di vari campi linguistici,
geografici, politico-sociali, teologici, medici, biologici, storici, musicali.» (Mann [1947] 1999:
717-718).
154
La figura di Felix Krull ha accompagnato per quasi mezzo secolo l'esperienza letteraria di
Thomas Mann: lo scrittore iniziò il romanzo Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull nel
gennaio 1910, lo lasciò in sospeso per una quarantina d’anni e, infine, lo pubblicò incompiuto un
anno prima della propria morte. Ispirandosi alle memorie dell’ingegnoso avventuriero
Manolescu, Mann rappresenta Felix Krull, al contempo protagonista e io narrante, come un
brillante mistificatore che, dotato di un portamento nobile ed elegante, privo di affettazione,
riesce, con prontezza di spirito, a fingersi un uomo di classe e ad inseririrsi nel mondo della
grande borghesia.

93
non raccontare personalmente, ma far raccontare la vita di Adrian ad “un’anima
umanisticamente pia e schietta, tutta ansie affettuose”, sarebbe stata una misura
necessaria, “un’idea comica e in certo qual modo di sollievo” per stemperare la
tensione e l’animosità suscitate dall’onnipervasivo elemento demoniaco.
L’umanista Serenus e il tragico Adrian, che rivelano notevoli affinità con i
personaggi di Settembrini e Naphta de La montagna incantata, rappresentano, il
primo, lo spirito apollineo, e dunque la fede nella ragione, nella democrazia e nel
progresso; il secondo, lo spirito dionisiaco, irto di contraddizioni, passioni e
tragicità. L’elemento demoniaco è pervasivo perché non rimane limitato alla
figura del compositore, ma si estende a tutto ciò con cui egli entra in contatto,
fino ad abbracciare l’intero arco storico entro cui la sua vita si svolge; non è
peraltro un caso che la parabola esistenziale di Leverkühn si delinei
contemporaneamente all’ascesa e alla caduta del Terzo Reich.

Ciononostante, prima di affidare all’umanista Serenus la stesura della


biografia del compositore Adrian Leverkün, Mann, reputando sciocco limitarsi
ad elogiarne l’arte, il genio e le opere, e fantasticare intorno alla loro efficacia
spirituale155, dopo varie ed attente letture intorno alla vita e alla produzione
musicale dell’artista, nonché di studi attinenti alla teoria e alla composizione
della musica, decise di ricorrere all’aiuto di un consigliere che, per eccezionale
competenza e per altezza spirituale, Mann ritenne essere proprio quello giusto:
durante la presa di Palermo e della grande offensiva russa, lo scrittore stava
leggendo un’opera di Adorno, Zur Philosophie der modernen Musik, e nel
proprio taccuino annotava: «[m]omenti di illuminazione sulla situazione di
Adrian. Le difficoltà devono arrivare al massimo, prima che si possano superare.
Situazione disperata dell’arte […]» (Mann [1947] 1999: 728).

Relativamente ad Adorno 156 , lo scrittore tedesco sottolinea come il

155
Cfr. MANN, [1947] 1999, p. 726.
156
Nella terza sezione della biografia di Adorno, Müller-Doohm descrive la collaborazione, in
seguito all’instaurarsi di uno stretto legame personale, tra l’autore della Philosophie e Thomas
Mann. Riguardo l’apporto di Adorno alla realizzazione delle parti relative al lavoro del
compositore Adrian Leverkün, Müller-Doohm scrive che Adorno, che il destino fece approdare a

94
radicalismo delle sue posizioni non debba venire semplicisticamente interpretato
alla stregua di una specie di “sanculottismo musicale” poiché esso è
costantemente accompagnato da un marcato senso della tradizione e da un
inflessibile atteggiamento di severa e sicura padronanza di tutto il mondo
musicale; ad esempio, ciò che esso «[…] trova da ridire contro Wagner non è
tanto il suo romanticismo, i suoi sogni sbrigliati, la sua ‘borghesia’ o la sua
demagogia, ma piuttosto il fatto semplicissimo che molte volte egli ‘compone
male’.» (ivi: 729).

Introdurre Adorno e dare avvio alla trattazione di Filosofia della musica


moderna avvalendoci delle impressioni che di lui ebbe lo scrittore e saggista
tedesco Thomas Mann, non ci sembra così fuori luogo se per un attimo
decidiamo di porre in secondo piano l’indagine del contenuto delle opere del
francofortese per dedicarci altresì all’analisi dello stile con cui il nostro ce le
presenta. Mann scrive romanzi, tuttavia essi sono il frutto di accurate ricerche a
tavolino, di indefesse letture a tema, di frequentazioni personali ad hoc, in
definitiva, di una preparazione che cessa soltanto con la fine degli scritti di volta
in volta in elaborazione, i quali, soprattutto se ci si sofferma a considerare il
rigore analitico con cui molti dei suoi personaggi principali espongono le proprie
convinzioni letterarie, filosofiche, politiche, ecc., possono, in moltissimi punti,
vantare una loro dignità filosofica. Similmente, Adorno, “quest’uomo singolare”
che per tutta la vita rifiutò «[…] di decidersi tra la professione della filosofia e
quella della musica […]» (ibid.), veste il proprio pensiero di un abito artistico,
tratta i suoi scritti filosofici alla stregua di opere letterarie, di composizioni
musicali, lavorandoli di cesello e conferendo loro una compattezza formale che,
a volte, li rende quasi impermeabili all’analisi perché estremamente difficili da

Santa Monica, spedì al celebre romanziere, nel corso del 1943 «[…] una copia del libro in cui
aveva pubblicato le sue analisi delle composizioni di Alban Berg. Inoltre rese largamente
disponibili a Thomas Mann la sua interpretazione ancora non pubblicata dell’opera di Arnold
Schönberg, nonché il proprio saggio su Wagner. Dopodiché, la relazione tra i due s’intensificò
durante i quattro anni successivi. Nel corso degli inviti reciproci per il tè del pomeriggio o per la
cena, perlopiù era sempre la musica a fare la parte del leone nella conversazione.» (Müller-
Doohm 2003: 421-422).

95
parafrasare157.

Martin Jay, nell’Introduzione del volume intitolato Theodor W. Adorno,


soppesando la replica di Adorno alla reazione di stordimento che l’amico di
vecchia data Siegfried Kracauer lamentò in seguito alla lettura di una delle sue
opere158, ritiene lecito muovere al filosofo la medesima accusa che quest’ultimo
aveva rivolto a Martin Heidegger: «Si barrica dietro a questo tabù: qualsiasi
comprensione del suo pensiero non può non esserne, allo stesso tempo, una
falsificazione.» (Jay 1987: 7). Il motivo che spinge Jay a volgere l’aspro giudizio
di Adorno contro Adorno stesso è il costante e deliberato rifiuto da parte del
nostro di presentare in maniera semplice concetti che semplici non sono,
contribuendo, a causa della complessità della forma, a renderne ancor più oscuro
il contenuto. Tuttavia, è bene precisare che il filosofo era contrario a compiere
un’operazione di livellamento verso il basso del proprio stile per agevolare un
eventuale lettore abulico nella comprensione delle proprie idee dai molteplici
risvolti e dalle innumerevoli sfumature: semplificare il proprio modus scribendi,
avrebbe, secondo Adorno, impoverito e svuotato la sostanza critica di ciò che
egli intendeva comunicare.

157
Nel saggio che dedica ad Adorno, Jay dichiara che in qualsiasi modo lo si consideri, lo
stile del filosofo si oppone caparbiamente ad una traduzione efficace, avvalorando poi questa sua
affermazione con un aneddoto riguardante la mossa precauzionale che i primi traduttori del
francofortese si sentirono obbligati a compiere. Jay scrive infatti che questi spiriti a tal punto
coraggiosi «[…] da tentare di rendere in inglese un suo libro, si cautelarono con una prefazione
intitolata “Tradurre l’Intraducibile”.» (Jay 1987: 8). Secondo Jay, il fatto che i testi di Adorno
siano stati tradotti in inglese con risultati non uniformi e che in un solo caso uno dei traduttori in
lingua albionica abbia accettato di mettere nuovamente mano ad una sua opera, contribuiscono
non poco ad avvalorare questo suo giudizio.

158
La “stizzosa” replica di Adorno riportata da Jay è la spiegazione che egli fornisce a
proposito dell’accusa, mossagli in più occasioni, di scrivere servendosi di uno stile
eccessivamente complesso che, spesso, va a detrimento della chiarezza contenutistica. Il
francofortese, dal canto suo, sostiene che non sia possibile comprendere le sue opere
singolarmente poiché «[…] il significato di ciascuna di esse poteva essere inteso soltanto
attraverso una autentica comprensione di tutte le altre.» (Jay 1987: 7).

96
Al pari della musica di Arnold Schönberg, la quale richiede all’ascoltatore di
essere vigile ed attivo, gli scritti di Adorno non intendono alimentare l’innata
tendenza alla passività del lettore, anzi, è proprio una immediata ricezione del
suo pensiero che egli apertamente si propone di ostacolare. Nel paragrafo
dedicato all’analisi dello stile del filosofo, Zurletti, riportando un passo di
Pfersmann in cui quest’ultimo fa notare come la scrittura del nostro privilegi
l’ornatus alla perspicuitas, prosegue l’indagine osservando che «[i] testi di
Adorno, molto prima di convincere con la forza dell’argomentazione, incantano
il lettore con la preziosità stilistica, con l’eleganza incomparabile del dettato, con
il profilo ermetico delle frasi, con l’accenno di sprezzatura […]» (Zurletti 2006:
2).

Secondo il francofortese la vera filosofia è quel tipo di pensiero che resiste


alla parafrasi159. Ci accorgiamo, in effetti, che i concetti adorniani solo con
estrema difficoltà possono essere altrimenti riproposti: alterare lo stile mediante
il quale Adorno veicola le proprie idee è un’operazione oltremodo delicata
poiché espone al rischio che la ricchezza di significazione160 che emana dalla
pagina venga immediatamente perduta. Per quanto attiene invece alla possibilità
di comprendere le sue opere, è possibile avvedersi di come ognuna di esse si
rapporti con le altre in modo peculiare: come all’interno di una costellazione,
l’opera svela il proprio significato solo entro il disegno complessivo che concorre
a formare in unione con tutte le altre. A parere di Zurletti, la resistenza alla
parafrasi e l’andamento paratattico fanno parte di una precisa strategia
dell’esposizione che si sovrappone all’andamento logico-deduttivo,
destabilizzandolo: le idee sono spesso concatenate tra loro in modo simultaneo e
non razionalmente chiaro e dunque la logica che le lega non è trasparente come
quella che, in genere, caratterizza un discorso scientifico, dove tutte le
implicazioni possono essere controllate. Di conseguenza, un pensiero che
presenta il profilo di un discorso scientifico-filosofico, ma che con una maestria
stilistica sa opportunamente rendersi coerente applicando a sé quella strategia di
159
Cfr. JAY, 1987, p. 7.
160
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 3.

97
significazione di norma impiegata in un contesto poetico, «[…] richiede una
particolare considerazione: vuol essere infatti capito sia come filosofia che come
arte; o meglio, come un mélange delle due che abbia l’incontestabilità dell’una e
l’incanto dell’altra.» (ivi: 5).

Quasi a conferma di quanto abbiamo appena sostenuto, in Der Essay als


form161, Adorno si chiede come sia possibile poter parlare di ciò che è estetico in
modo non estetico senza cadere nel filisteismo o comunque senza mancare a
priori la presa sull’oggetto, poiché, secondo il filosofo, costruendo un discorso
privo di dignità estetica, non si avrebbe alcuna somiglianza con l’oggetto
trattato162. Tuttavia, come fa accortamente notare Zurletti, questo è un esempio
del tipico argomentare adorniano; nel senso che il nostro non ci dimostra perché
per parlare di arte sia necessario organizzare in modo artistico il discorso, ma si
limita ad asserirlo con tono apodittico, dichiarando filisteo chiunque dovesse
eventualmente dissentire da questo precetto. Infatti, nel passo implicato,
l’espressione “cadere nel filisteismo”, che viene dopo una precedente
argomentazione filosofica, è un evidente scarto verso il poetico; mentre
l’espressione che segue, con la presenza di quell’“a priori”, ci riporta nell’ambito
della filosofia quando, in realtà, non è altro che un abile colpo da
pamphlettista163.

Pertanto, se si vuole comprendere come il pensiero filosofico di Adorno possa


vantare un’unità del contesto espressivo e una tenuta complessiva
dell’esposizione conviene, ancora una volta, guardare all’immagine della

161
«In Il saggio come forma, che è evidentemente un saggio che parla della forma “saggio”, il
filosofo indica lo statuto di tale forma dell’espressione nella sua paradossale posizione
epistemologica: sempre in equilibrio fra l’istanza scientifica (“il suo medium sono i concetti”) e
la tentazione di rendersi esteticamente consistente, e dunque semanticamente autonomo.»
(Zurletti 2006: 5).
162
«Come si potrebbe infatti mai parlare di ciò che è estetico in modo non estetico, senza la
minima somiglianza con l’oggetto, e non cadere nel filisteismo e mancare a priori la presa su
quell’oggetto?» (Zurletti 2006: 9).
163
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 9.

98
costellazione164 unitamente a quella del Kraftfeld165 (campo di forza), due delle
metafore preferite 166 del filosofo. In particolare, Jay osserva che l’esito del
frequente uso di uno stile paratattico, caratterizzato dalla marcata propensione a
evitare che argomentazioni ed osservazioni vengano subordinate in rapporti di
implicazione gerarchica, non è un caos relativistico di elementi sconnessi tra
loro. Il nostro, infatti, non privilegia mai un fattore del campo di forza, o
costellazione, rispetto ad un altro, ma conferisce ad ognuno di essi il medesimo
valore; in questo modo egli, sempre avverso al momento della riconciliazione
con cui in genere terminano i processi dialettici, dava luogo ad un «[…] modello
dialettico di negazioni che simultaneamente costruivano e decostruivano i
modelli di una realtà fluida» (Jay 1987: 11). Adorno, attribuendo la massima
importanza al ruolo che la critica svolgeva all’interno del processo conoscitivo,
difficilmente stemperava le tensioni presenti in un campo di forza o
costellazione, piuttosto disponeva i termini implicati in un ordine che ne acuisse i
contrasti dinamici; a tale proposito, in Minima moralia, ma già a partire dal
Kierkegaard167, è espressa l’idea che la dialettica trascorra continuamente da un

164
«[…] termine astronomico che Adorno prese in prestito da Benjamin per indicare un
gruppo di elementi mutevoli giustapposti e non integrati, che si oppongono alla riduzione ad un
comune denominatore, ad un nucleo essenziale, o ad un principio generativo primario.» (Jay
1987: 10).
165
Adorno si serviva di tale metafora «[…] per indicare l’interazione di attrazioni e repulsioni
che costituisce la struttura dinamica, trasmutazionale, di un fenomeno complesso.» (Jay 1987:
10).
166
Cfr. JAY, 1987, p. 10.
167
Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, composta tra il 1929 e il 1930, fu la tesi di
abilitazione che Adorno concordò con il teologo politicamente impegnato Paul Tillich. Grazie a
questo scritto, Adorno, nel febbraio 1931, riuscì finalmente ad ottenere la libera docenza in
filosofia. Il libro su Søren Aabye Kierkegaard, per essere adeguatamente compreso, andrebbe
letto unitamente alle due conferenze tenute dal filosofo nel 1932: L’attualità della filosofia e
L’idea di storia naturale; e il breve scritto non datato, Tesi sul linguaggio del filosofo. Opere,
queste, che risalgono al periodo che Petrucciani individua come il primo tempo del filosofare
adorniano, al quale seguirà poi un lungo silenzio filosofico in cui Adorno non pubblicherà nulla,
dedicandosi interamente agli studi su Husserl. Il Kierkegaard uscirà rielaborato nel 1933, «[…]

99
estremo all’altro e che tale movimento, anziché qualificare il pensiero, lo
conduca piuttosto, mediante un’estrema coerenza, fino al suo capovolgimento.

La speculazione filosofica di Adorno, ricordiamolo, è in contrasto con quel


pensiero che egli accusa di essersi consegnato ad un uso strumentale della
ragione e, dunque, funzionale al dominio, da cui discenderebbe una razionalità
che, asservita alla volontà di potenza, non si volge mai alla dimensione
autoriflessiva e critica, ma che, riproducendosi continuamente, rimane chiusa alla
verità. Ad una logica preda dell’accecamento egocentrico, osserva Galeazzi, il
francofortese oppone un pensiero aperto a riconoscere e a far posto all’altro, un
pensiero che trascende criticamente ogni situazione di fatto ed ogni orizzonte
limitato168. In Minima moralia, Adorno fa riferimento a quello sguardo lungo e
contemplativo con cui solo è possibile avvicinarsi all’oggetto senza fargli
violenza perché, a prescindere dall’intensità dello sforzo con il quale si tenti di
applicare, nell’esposizione, il processo del pensiero, quest’ultimo non sarebbe
comunque un graduale procedere discorsivo; per il filosofo, infatti, «[l]a
conoscenza si attua in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature,
correzioni, anticipi ed esagerazioni, cioè nel contesto dell’esperienza, che, per
quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto.» (Adorno [1951]
2009b: 86). Per quanto attiene invece agli oggetti della conoscenza, Adorno
prosegue la propria riflessione polemizzando sia contro la regola cartesiana che
raccomanda di rivolgersi solo a quegli oggetti di cui il nostro spirito è capace di
acquisire una conoscenza chiara e indubitabile sia, all’opposto, contro la teoria
dell’intuizione delle essenze. Riguardo quest’ultimo punto, i bersagli che egli ha
in mente sono le filosofie del sentimento e dell’intuizione, in generale, e la
fenomenologia di Husserl, in particolare.

In conclusione, in accordo con quanto afferma Zurletti, riteniamo di poter


sostenere che l’autore della Filosofia della musica moderna, in piena
consapevolezza, trasferisce la retorica letteraria allo specifico filosofico e ciò

nello stesso giorno – ricorda amaramente Adorno – che vide l’instaurarsi della dittatura hitleriana
[…]» (Petrucciani 2007: 19), nel periodo della cosiddetta Kierkegaard-Renaissance.
168
Cfr. GALEAZZI, 1979, p. 19.

100
spiegherebbe perché il suo discorso sia caratterizzato dalla presenza di giochi di
parole, paradossi, concetti reversibili e figure retoriche a chiasmo, i quali
conferiscono alla pagina adorniana la propria aura. Di conseguenza, il compito di
una lettura critica verrebbe ad essere quello di riuscire a cogliere la trama
“paronomastica”169 che struttura i periodi in modo che la fine di una frase ne
richiami semanticamente l’inizio, chiudendosi in un’ermetica ed impenetrabile
unità di senso, invero «[…] quanto a prima vista sembra pura ornamentazione, o
effetto di una sovrana e capricciosa padronanza della lingua, è in effetti una
precisa strategia di significazione concepita per mantenere non tematizzati
concetti che si rivelerebbero altrimenti fondamentali.» (Zurletti 2006: 7).

In sostanza, il disorientamento che il lettore può sperimentare dinnanzi alla


pagina adorniana deriva dall’innegabile difficoltà a cogliere l’istante esatto dello
scarto fra i due piani metalinguistici di cui Adorno si serve: il modo tecnico-
filosofico e il modo poetico-letterario. Il filosofo, che è innanzitutto uno
straordinario scrittore, seduce e incanta chi, impreparato, intenda analizzarne il
pensiero. Egli, attraverso un’impercettibile oscillazione, si muove con destrezza
da un registro di scrittura all’altro, dando luogo ad uno spostamento che spesso
marca la riluttanza dell’autore a spingersi troppo oltre nella risoluzione di un
problema o perché non intende misurarsi direttamente con tutti i dettagli di una
dimostrazione o perché avverte l’eventuale debolezza di una maglia della catena
argomentativa. In relazione a quanto detto, Zurletti nota come questa doppia base
linguistica costituisca il proprium della prosa di Adorno e, contemporaneamente,
uno degli elementi del suo fascino; a questo proposito l’autrice ci mette in
guardia dalla “diabolica” abilità virtuosistica che egli rivela quando fa cambiare
statuto alla frase senza però modificarne apertamente il profilo, garantendo
l’unitarietà del contesto di senso mediante la squisitezza della forma. In
particolare, l’autrice de Il materiale musicale in Th. W. Adorno avverte il lettore

169
Zurletti puntualizza che quando si serve della locuzione “strategia paronomastica” in
riferimento all’espressione adorniana, intende «[…] il termine esattamente nel senso in cui è
utilizzato per indicare la trama di corrispondenze interne che strutturano il senso di un testo
poetico.» (Zurletti 2006: 6).

101
ingenuo che, in ogni elaborato del filosofo, anche laddove non ce lo
aspetteremmo, per esempio in Teoria estetica, il gusto per lo scarto improvviso
resta inalterato 170 , infatti, è: «[…] il versante pericolosamente seducente di
Adorno, che dove non riesce a arrivare con le armi della logica getta
silenziosamente i ponti dorati della poesia.» (Zurletti 2006: 10).

In accordo con quanto sostiene Paddison, la studiosa reputa gli scritti di


Adorno antisystematic, ma non unsystematic, poiché essi, se si penetra sotto la
loro superficie frammentaria, rivelano una coerenza che lega gli elementi
portatori di significato in un sistema di valori solidali, cosicché diviene possibile
cogliere il carattere sistematico soggiacente del discorso. Una volta che,
nell’analisi dei testi adorniani, si decida di adottare questo tipo di approccio, ci si
avvede di come vi siano delle idee fondamentali che, inalterate, si dispiegano
attraverso tutte le opere del francofortese e che permangono dagli scritti giovanili
alla postuma Teoria estetica, costituendo una fondamentale unità. Zurletti
termina quindi il paragrafo dedicato all’analisi e allo studio delle due piattaforme
metalinguistiche, quella filosofica e quella poetica, dalla cui intersezione prende
forma la pagina adorniana, suggerendo di leggere Adorno come forse egli stesso
avrebbe voluto essere letto, ovvero da “lettori strutturali”, seguendo cioè la
tipologia del bewußte Hörer 171 , che, diversamente da Giacomo Manzoni,

170
Con “scarto improvviso” stiamo alludendo all’abile e surrettizia manovra mediante cui
Adorno muta registro stilistico e scivola impercettibilmente dalla piattaforma filosofica a quella
poetica. La problematicità di una simile operazione consiste nel fatto che l’interprete fatica a
stabilire dei criteri di riferimento adeguati: la validità di un discorso filosofico si misura
soprattutto a partire dalla possibilità di quantificarne e determinarne le implicazioni. Mentre, in
ambito poetico, non è necessario che ogni implicazione sia motivata: ai concetti si può soltanto
alludere, lasciandoli sfumati, indefiniti. In poesia, a contare maggiormente è la capacità di
coinvolgere emotivamente, di affascinare, di utilizzare metafore evocatrici e, in effetti, secondo
Zurletti, è proprio al discorso artistico che Adorno vuole apparentare il proprio.
171
Nell’Introduzione alla sociologia della musica, Adorno traccia il profilo dei tipi di
ascoltatori che egli ritiene possibile individuare in seguito ad una riflessione sociologica che
conduca ad un raggruppamento della discontinuità delle reazioni dinnanzi al fenomeno musicale
che le provoca. All’interno di tale tipologia, che Adorno specifica essere soltanto una “tipologia
di tipi ideali”, il bewußte Hörer è il tipo dell’ascoltatore consapevole, responsabile, che si

102
Paddinson traduce con l’espressione “ascoltatore responsabile172”; dal canto suo,
Manzoni, rimandando alla lettura delle Anweisungen zum Hören neuer Musik, un
capitolo del volume Der getreue Korrepetitor, per un approfondimento di tale
concetto, preferisce renderlo in italiano con la locuzione “ascoltatore strutturale”.
Ad ogni modo, adottare il tipo di ascolto proprio del bewußte Hörer, afferma
l’autrice, significa essere consapevoli del fatto «[…] che elementi
apparentemente estranei, che non stanno in una relazione reciproca,
configurazioni fraseologiche a prima vista inesplicabili, se ascoltate attentamente
si rivelano invariabilmente come parte di uno stesso contesto di senso, di una
“costellazione” che può estendersi su un’intera opera o addirittura attraverso più
opere.» (ivi: 14-15).

2. Verso la Neuen Musik.

Nella Prefazione alla Philosophie der neuen Musik, Adorno dà alcune


indicazioni sulla genesi del proprio libro e, in particolare, spiega come i due studi
di cui esso si compone siano stati scritti a distanza di sette anni l’uno dall’altro. Il
lavoro su Schönberg173 iniziò a delinearsi nella mente del filosofo già durante la

identifica con il ritratto dell’esperto, il quale «[…] andrebbe definito come colui che ascolta in
modo perfettamente adeguato, sarebbe insomma l’ascoltatore pienamente cosciente cui di norma
non sfugge nulla e che in pari tempo sa rendersi conto in ogni istante di quello che ha ascoltato
[…] Mentre segue spontaneamente il decorso di una musica anche complessa, egli assomma
nell’ascolto il susseguirsi dei vari momenti (passati, presenti e futuri) in modo che gli si configura
un senso compiuto, e sa cogliere distintamente anche complessità simultanee, come fosse
un’armonia e una polifonia complicata. Tale comportamento pienamente adeguato andrebbe
definito come “ascolto strutturale”.» (Adorno [1962] 2002: 7).
172
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 14.
173
La parte su Schönberg fu portata a compimento nel 1940-41, ma rimase inedita e, «[…] al
di fuori della ristretta cerchia dell’Institut für Sozialforschung di New York, accessibile solo a
pochi.» (Adorno [1949] 1959: 4).

103
stesura del saggio Fetischcharakter in der Musik und die Regression des Hörens,
articolo che venne pubblicato nel 1938 nella «Zeitschrift für Sozialforschung».
Mentre elaborava lo scritto con cui si proponeva di mostrare sotto quali aspetti
l’inquadramento nella produzione commerciale di massa avesse provocato un
sostanziale mutamento anche nella sfera della musica, Adorno, che non si era
mai illuso che l’arte a cui era stato educato fosse esclusa dalla reificazione
predominante, progettava di inserirvi una riflessione sulla situazione della
composizione musicale poiché essa soltanto, a suo parere, sarebbe stata in grado
di decidere dello stadio della musica. Considerare con attenzione il linguaggio
compositivo è infatti imprescindibile se si ritiene, come nel caso del filosofo, che
l’essenza della musica sia inquadrabile storicamente 174 : il compositore,
trovandosi di fronte al materiale musicale, che è il risultato di quattro secoli di
tonalità, può decidere di guardare al futuro e, dunque, instaurare un dialogo con
le forme che gli sono state lasciate in eredità, sviluppandole e prendendosi la
responsabilità di una loro eventuale rottura, oppure, nel timore di cadere
nell’isolamento e trovarsi escluso dalla società, può accettare gli schemi
cristallizzati della conservazione borghese e adeguarsi alla reificazione
imperante. A partire da tale premessa, riflettere sulla situazione della
composizione musicale significa decidere dello stadio della musica, nella
consapevolezza che il compositore «[…] non è affatto il “libero creatore” che dai
mezzi indifferenziati e infiniti del materiale musicale reinventa ogni volta l’opera
d’arte […]» (in Adorno [1949] 1959: XX). Tuttavia, quando, dopo la guerra,
l’autore risolse di pubblicare 175 quell’opera in Germania, ritenne opportuno
accostarvi un’altra parte su Stravinskij perché, nel 1949, per il filosofo, la musica
“nuova” si divide in due estremi, nel senso che il problema speculativo è

174
A questo proposito, Schönberg afferma che «[…] la tonalità non è una legge naturale ed
eterna della musica […]» (Schönberg [1922] 1984: 9), bensì il risultato della via che la musica
occidentale ha scelto di imboccare.
175
In realtà, per amor del vero, va detto che, qualche tempo prima, vi era già stato un tentativo
di pubblicazione da parte di Adorno, ma l’editore americano a cui propose la stampa «[…] rifiutò
di tradurre in inglese la sua Filosofia della musica moderna perché “badly organized” […]» (Jay
1987: 8).

104
innescato dalla maniera diametralmente opposta di servirsi del materiale
musicale da parte dei compositori in questione: Schönberg e Stravinskij.
Accogliendo l’interpretazione di Zurletti, riteniamo che «[…] ciò che fa di
Schönberg e Stravinsky due figure ugualmente esemplari agli occhi di Adorno è
[…] quanto li condanna a un insuccesso speculare sotto il segno della dicotomia
Progresso/Reazione […]» (Zurletti 2006: 159): essi sono perfettamente lucidi
dinnanzi al materiale musicale, ma operano delle scelte antitetiche rispetto ad
esso e in questo processo dialettico in cui Schönberg funge da “tesi” e Stravinskij
da “antitesi”, il momento salvifico della sintesi è lasciato in sospeso perché la
Nuova Musica è in preda a delle antinomie irrisolte, e insolubili, che la
paralizzano.

La scuola schönberghiana, dichiara Adorno, «[…] è la sola che risponde alle


attuali possibilità oggettive del materiale musicale e che si pone con
intransigenza di fronte alle sue difficoltà.» (Adorno [1949] 1959: 4); tuttavia, una
musica che, senza tener conto dell’effetto, si preoccupi soltanto di rimanere
fedele alle esigenze intrinseche del materiale, porta inevitabilmente a delle
antinomie. Adorno, però, si affretta subito ad aggiungere che un procedimento
antitetico a quello adottato dalla suddetta scuola, come è classificabile quello di
Stravinskij, non si rivela una valida alternativa al loro superamento: sperare
qualcosa dalla restaurazione delle forme del passato è impossibile; si tratta, per il
nostro, di una “comoda scappatoia” poiché il recupero di ciò che ormai è andato
in rovina rivela un atteggiamento in linea con le tendenze distruttive dell’epoca.
Per Adorno che, come emerge dall’assiduo scambio epistolare con il compositore
Ernest Krenek176, collegava l’idea del “nuovo” a quella di “progresso”, non vi
era critica al progresso che potesse essere considerata legittima: la tecnica
compositiva di Schönberg, “il musicista radicale ispirato dall’espressività177”, dal

176
Ernst Krenek e Adorno si conoscevano dagli anni Trenta; il compositore austriaco era stato
interlocutore del francofortese sulla questione del Progresso e della Reazione in musica, tale
corrispondenza è poi confluita nella rivista viennese «Anbruch».
177
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 5.

105
cromatismo178 d’esordio alla tecnica atonale179 a cui approdò, segue un percorso
irreversibile e necessario; mentre la trattazione «[…] dell’antipsicologico
Strawinsky pone il problema del soggetto leso – a cui tutta la sua opera si
riconduce […]» (ivi: 5). In ogni caso, per comprendere la natura della Neue
Musik, non si può prescindere dal movimento dialettico prodotto dalle tendenze
antitetiche presenti negli estremi: essi soli, infatti, «[…] permettono di
riconoscerne il contenuto di verità […]» (ivi: 9); per questo dunque, precisa poco
più avanti Adorno, nella Philosophie, la gran parte delle osservazioni ruotano
attorno alle tecniche compositive adottate da Schönberg e da Stravinskij.

Prima di addentrarci nel vivo della questione, impegnandoci nel tentativo di


comprendere l’enorme portata storica che Adorno attribuisce alla Musica Nuova,
attraverso un’attenta analisi di Filosofia della musica moderna, ci sembra
opportuno fornire alcune delucidazioni, siano esse dati biografici o brevi
chiarimenti teorico-concettuali, che ci consentano di orientarci più agevolmente
all’interno dei suoi ragionamenti. Delucidazioni che, con buona probabilità,
Adorno considera dei prerequisiti, delle nozioni basilari; tuttavia, a nostro avviso,
le definizioni di tonalità e atonalità, di “dodecafonia” e di musica seriale, come
anche la conoscenza dello stile e delle opere dei compositori che egli di volta in

178
Il cromatismo d’esordio è rintracciabile a partire dal poema sinfonico Verklärte Nacht op.
4. In quest’opera infatti, che, in origine, nel 1899, era stata ideata e composta per sestetto d’archi
e più tardi, nel 1917, trascritta per orchestra di archi, il cromatismo tristaneggiante è spinto al suo
limite estremo. (Cfr. SCHÖNBERG, [1922] 1984, p. XII e ROGNONI, 1974, p. 25).
179
In Dialettica della musica, Arbo, in riferimento alla riorganizzazione dell’universo sonoro
post-tonale operata da Schönberg, ricorda che «[s]econdo Adorno rimane più corretto indicare
questo tentativo con il termine “atonalità” piuttosto che con quello di “dodecafonia”.» (Arbo
1991: 65). Tuttavia, va detto che a Schönberg il termine “atonalità” non fu, al pari della
definizione di “dodecafonia”, mai gradito; in merito ad esso, in una lunghissima nota all’interno
della Harmonielehre, egli scrive che «[i]l termine “atonale” potrebbe solo indicare qualcosa che
non corrisponde affatto alla natura del suono. Già il termine “tonale” è usato impropriamente”
[…] esso può avere un senso solo se si ammette che tutto ciò che deriva da una successione di
suoni […] costituisce la tonalità. È evidente che in base a questa definizione, che è l’unica giusta,
non è possibile creare un’antitesi ragionevole che corrisponda alla parola atonalità.» (Schönberg
[1922] 1984: 509).

106
volta menziona o, ancora, il percorso storico-musicale che avrebbe condotto la
musica mitteleuropea a mettere in seria discussione il proprio linguaggio, non
possono essere dati per scontati180. Il nostro, rivolgendosi, come abbiamo fatto
presente anche nella nostra Introduzione, al filosofo come ad un musicista e al
musicista come ad un filosofo, sembra non avvedersi né, tantomeno,
preoccuparsi, dei possibili fraintendimenti a cui una tale noncuranza può
eventualmente dare luogo. Tant’è vero che l’incomprensione di cui le sue
riflessioni furono oggetto, si verificò non solo tra i suoi detrattori, ma anche,
paradossalmente, tra gli stessi membri della “seconda scuola musicale di
Vienna”181, dei quali, peraltro, egli è considerato uno dei più strenui difensori182.

Adorno fa spesso riferimento all’antitesi che i due estremi Schönberg e


Stravinskij concorrerebbero a formare. Tuttavia, prima di leggere
l’interpretazione che il nostro fornisce della loro musica, riteniamo

180
Nello sviluppare una simile prospettiva è tuttavia necessario tenere presente il giudizio,
con buona probabilità sfavorevole, che Adorno avrebbe formulato nei confronti di una simile
operazione; infatti, egli, nelle pagine iniziali della Philosophie, afferma che «[l]a verità o non-
verità di Schönberg e Stravinsky non si può cogliere discutendo categorie come atonalità,
dodecafonia o neoclassicismo, ma solo cristallizzando concretamente tali categorie nella
compagine della musica in sé.» (Adorno [1949] 1959: 10).
181
A tale proposito, Jay scrive che «[l’]interpretazione della “nuova musica” da parte di
Adorno in termini filosoficamente così connotati non sembra […] essere stata apprezzata dai suoi
docenti viennesi. Questo “giovane un po’ troppo articolato”, come lo avrebbe chiamato l’amico
Ernst Krenek, era troppo consapevole teoreticamente e politicamente per i suoi maestri i cui
interessi si limitavano alla musica; persino Berg, come ammise Adorno in seguito, era alquanto
irritato dalla sua seriosità eccessiva […]» (Jay 1987: 26) e, spesso e volentieri, esasperato dalla
sua inesauribile prolificità verbale. Dal canto suo, Soma Morgenstern, in una delle sue lettere,
ricorda l’appellativo di “Fadian”che Alban Berg aveva attribuito ad Adorno nei tempi in cui
quest’ultimo era ancora un suo allievo. «Con questo appellativo Berg alludeva al fatto che il
filosofo parlava sempre con serietà estrema, facendo uso di un linguaggio ricercato e risultando
dunque alla lunga, per il viennese, “fad”, noioso.» (Müller-Doohm 2003: 126).
182
Martin Jay, per esempio, scrive che Adorno «[…] analizzò e difese per tutta la vita in
innumerevoli saggi e libri, a cominciare dai contributi alle riviste viennesi “Anbruch” e “Pult und
Taktstock” […]» (Jay 1987: 26) l’“espressionismo”, in particolar modo il primo, di Schönberg e
dei suoi seguaci.

107
indispensabile inquadrare i due compositori sia dal punto di vista storico-
musicale sia dal punto di vista biografico; per farlo, adopereremo il ricco e
dettagliato manuale scritto da Luigi Rognoni183, rinomato musicologo184. Anche
Rognoni parla di “antitesi”, in particolare, nell’Introduzione a La scuola
musicale di Vienna, uscito per la prima volta nel lontano 1954 con il titolo di
Espressionismo e dodecafonia, egli afferma che comprendere il senso
dell’antitesi che, nella prima metà del XX secolo, sembra riproporsi185 attraverso
Schönberg e Stravinskij, significa innanzitutto circoscrivere il processo tecnico-
musicale che ha condotto, da una parte, alla “reazione tonale” (comprendente il
diatonicismo e l’atonalità) e al “neoclassicismo”; e, dall’altra, a partire dalla

183
Luigi Rognoni fu a lungo ritenuto, e per molti lo rimane tutt’ora, il massimo esperto
italiano di “dodecafonia”. Filosofo, docente di Storia della Musica all’Università, dal 1957 al
1970 di Palermo e, dal 1971, di Bologna, nonché regista e direttore d’orchestra.
184
Tra i vari manuali a disposizione, abbiamo scelto la guida di Luigi Rognoni perché egli è
stato a lungo considerato il massimo esperto italiano di “dodecafonia”. Rognoni, oltre a
possedere delle vastissime competenze musicali: studiò musica con Antonio Casella, fu direttore
d’orchestra e fu, soprattutto, un filosofo ed uno studioso di estetica musicale. In aggiunta, nel
dopoguerra, seguì attivamente l’avanguardia musicale viennese e curò abilmente la regia di
alcune opere di A. Schönberg, E. Chabrier, J. Massenet e H. Wolf. Lo teniamo inoltre in altissima
stima in quanto interprete adorniano dal momento che ne studiò con accuratezza le opere e, fatto
non secondario, ebbe modo di intrattennere con Adorno un ampio carteggio; quest’ultimo è
conservato, assieme a numerosissime altre lettere che si scambiò con celebri personalità musicali
(solo per menzionare alcuni nomi con cui corrispose, citiamo: Casella, Dallapiccola, Leibowitz,
Poulenc, Capitini, la vedova Berg; Argan, Brandi, Plebe, Mila, Millos, Stravinskij, eccetera ),
nell' archivio Rognoni che, dopo la sua morte nel 1986, fu donato all’istituto palermitano di storia
della musica.
185
Nel paragrafo precedente, Rognoni fa riferimento alla volontà di contrapporre, nella
seconda metà dell’Ottocento, Wagner a Brahms, il quale, per l’ultima volta, avrebbe mediato lo
spirito romantico attraverso la forma classica. (Cfr. ROGNONI, 1974, p. 4). Nel breve saggio
posto a introduzione di Filosofia della musica moderna, Rognoni ribadisce tale convinzione,
affermando che «[i]n fondo l’antitesi Schönberg-Stravinsky sembra riproporre quella già sorta
con Wagner-Brahms, agli inizi della crisi. Arnold Schönberg spinse alle estreme conseguenze la
crisi stessa del Romanticismo; Igor Stravinsky vi reagì, proponendo infine un ritorno artigianale
all’oggettività preromantica.» (in Adorno [1949] 1959: XVII).

108
“crisi cromatica 186 ”, alla sospensione tonale, alla atonalità e infine alla
riorganizzazione “dodecafonica187”. È qui interessante notare come tale processo,
per Rognoni, non sia interpretabile soltanto come una logica conseguenza della
ricerca di nuovi mezzi espressivi da parte dei musicisti, ma sia soprattutto il
risultato di una Weltanschaaung musicale:

«[…] nella quale si riflette l’eterno dualismo dello spirito di fronte alla realtà che,
nel pensiero e nella cultura dell’età contemporanea (da Hegel e Marx ai giorni
nostri), era andato conformandosi in un aut-aut reciso e inconciliabile, proprio
perché il processo dialettico dello spirito, al suo estremo limite, svuotato dei
propri contenuti, sembrava muoversi ormai in un vicolo cieco.» (Rognoni 1974:
5).

Da quest’affermazione la cui eco adorniana è innegabile, emerge la


convinzione da parte di Rognoni che, nell’arte contemporanea, l’inconciliabile
aut-aut a cui spirito e realtà erano andati conformandosi si manifesti attraverso
un’alternativa netta e basilare: retrocedere o proseguire; rivolgersi al passato, alle
sue forme antiche e levigate, o guardare oltre, brancolando nel buio alla ricerca
di un nuovo ordine costruttivo.

186
L’autore di La scuola musicale di Vienna sta alludendo alla saturazione cromatica
dell’armonia wagneriana.
187
Riteniamo sia opportuno porre tra virgolette il termine “dodecafonia”, poiché l’inventore
di tale metodo, Schönberg (anche se, nello stesso periodo, Joseph Matthias Hauer stava
formulando una sua teoria dodecafonica fondata su 44 “tropi”), dichiara di preferire delle
perifrasi o, al più, i termini “politonale” o “pantonale”. All’occorrenza, il compositore definiva e
al contempo illustrava il proprio sistema attraverso una locuzione, che ci è impossibile riportare
ogni volta per intero: «[…] “metodo per comporre mediante dodici suoni che non stanno in
relazione che fra loro” […]» (Schönberg [1922] 1984: XIII). Ad ogni modo, il termine
“dodecafonia”, oltre ad essere più sintetico, ha comunque a che fare con la musica pentafonica e
con le scale esatonica ed eptatonica; inoltre, nonostante la scala cromatica fosse l’ultima cosa che
Schönberg aveva in mente quando pensò alla composizione seriale, la successione di tutte le note
a distanza di semitoni l’una dall’altra sono i dodici suoni che compongono la scala cromatica,
dalla quale viene per l’appunto estratta una serie dodecafonica; con la differenza che i suoni di
una serie vengono scelti dal compositore non rispettando l’ordine della scala cromatica, bensì
seguendo la sequenza da lui selezionata.

109
Nella crisi della musica contemporanea verificatasi dopo Wagner, con il quale
il processo di cromatizzazione armonico-melodica tocca gli estremi limiti, (anche
se, è doveroso precisare, i casi di tematizzazione dodecafonica, nelle musiche del
compositore, sono alquanto rari) si pone quindi questo tipo di alternativa ed il
bivio, da cui si diramano le due scelte possibili, registra come punti estremi
Stravinskij, da una parte, e Schönberg, dall’altra. Il neoclassicismo stravinskiano
è l’esito della reazione diatonica al cromatismo che, dopo essere passata
attraverso il raffinamento estetizzante dell’impressionismo debussiano, si è
188
cristallizzata in Ravel , concludendosi, infine, nel “razionalismo”
intellettualistico di Satie e dei “Sei189”; la saturazione cromatica della tonalità ha
invece imboccato la via dell’“espressionismo”, il cui punto culminante è
ravvisabile nella produzione 190 del secondo Schönberg, che è l’erede di

188
Rognoni, nel corso del volume, precisa che, nei medesimi anni in cui Schönberg scriveva
musica ‘atonale’, Claude-Achille Debussy e Joseph-Maurice Ravel reagirono alla saturazione
cromatica cercando una via d’uscita con l’esatonalismo (la scala orientale, priva di semitoni) e
con una conseguente armonia per terze concatenate sino ad accordi di tredicesima che totalizzano
i sette suoni della scala diatonica. Rognoni non vede in Pelléas et Melisande un’antitesi al Tristan
und Isolde, ma, piuttosto, un “rovescio”, poiché, negando il semitono mediante la scala per toni
interi, in essa, «[…] l’armonia si polverizza, il suono si pone come “timbro”; la prorompente
sensualità wagneriana si tramuta in raffinato edonismo estetizzante […]» (Rognoni 1974: 6) e si
tramuta in una statica angoscia passiva.
189
Con “Sei”, Rognoni si riferisce a quello che è conosciuto come «Gruppo dei Sei». Tale
gruppo fu un circolo musicale che sorse spontaneamente nella Francia del primo dopoguerra e
che, fondamentalmente, raccoglieva l’eredità musicale di Eric Satie. Il Gallo e l’Arlecchino fu il
titolo che lo scrittore Jean Cocteau diede al manifesto programmatico, uno scritto che esponeva
l’ideologia dei Sei trasponendola in una vera e propria estetica musicale. Darius Milhaud, Arthur
Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis David sono i celebri
compositori che appartennero al gruppo.

190
Con il termine produzione non ci riferiamo soltanto alle sue composizioni musicali, ma
anche, e soprattutto, alla sua riflessione teorica e critica, mediante la quale Schönberg sottopose
«[…] ad una serrata requisitoria quel processo di crisi del linguaggio musicale che aveva
raggiunto la sua saturazione nell’estremo post-romanticismo tedesco.» (Schönberg [1922] 1984:
XI). Quest’ultima, tra l’altro, è una delle ragioni per cui l’attività didattica del compositore
occupò un posto di primo piano nella cultura musicale degli inizi del secolo XX; l’altro motivo è,

110
quell’infiammata tradizione romantica che ha il suo limite in Anton Bruckner,
Richard Strauss e, in parte, Gustav Mahler. Mentre Schönberg, nella
Harmonielehre 191 , sostiene che lo sfaldamento della tonalità, acutizzatosi
nell’armonia cromatica di Wagner, si preannunci già nei Romantici, in La scuola
musicale di Vienna, Rognoni precisa che questa saturazione della tonalità,
decantata dall’“allargamento” di Bruckner ed esteriorizzata nel ripiegamento
barocco di Strauss, culmina nell’accademismo cromatico di Max Reger e nella
turbata esperienza di Gustav Mahler192, aprendosi, in ultima istanza, a nuovi
mezzi espressivi attraverso Gustav Mahler, Aleksandr Nikolaevič Skrjabin e
Arnold Schönberg 193 . Dal canto loro, questi ultimi accetteranno le estreme
conseguenze di quella crisi della coscienza soggettiva, tradottasi, dal punto di

naturalmente, il fatto che dal suo magistero si distinsero Alban Berg e Anton Webern, due tra i
maggiori musicisti del Novecento. L’arte e l’insegnamento schönberghiani verranno poi
promossi da Erwin Stein e Egon Wellesz, i quali saranno i suoi primi esegeti.
191
La Harmonielehre è il famoso Manuale di armonia che Schönberg scrisse di getto fra il
1909 e il 1911. Esso, dedicato alla memoria di Gustav Mahler, è il risultato di una metodologia
che il compositore maturò negli anni in cui insegnava composizione. L’intenzione del Maestro
non era quella di scrivere un trattato di armonia (Schönberg attribuiva scarso valore didattico ad
ogni insegnamento che seguisse, ed imponesse, schemi precostituiti e regole che la tradizione
dava per dimostrate). La Harmonielehre, che sottopone lo studio dell’armonia e del contrappunto
ad una nuova metodologia, vuole invece essere, ci informa Rognoni nell’Introduzione all’opera,
“una vera e propria fenomenologia della tecnica musicale”, che non intende sottrarsi ad un
rapporto di dialogo e di confronto con “l’esperienza viva dell’arte”. A tale proposito, Schönberg
asserisce che «[n]on esistono per noi leggi eterne, ma solo indicazioni che hanno valore finché
non vengono superate ed eliminate, del tutto o in parte, da condizioni nuove.» (Schönberg [1922]
1984: 63).
192
A parere di Rognoni, è bene puntualizzare, la tradizione romantica, più che in Strauss o in
Reger, troverebbe il proprio limite in Gustav Mahler che, più di tutti, sconta la sua sofferta
esperienza «[…] nelle conseguenze storiche più autenticamente esistenziali del linguaggio
musicale […]» (Rognoni 1974: 4); tali conseguenze, infatti, saranno poi raccolte da Schönberg
che porrà le basi di tutta la sua ricerca sulla difesa e sull’affermazione del più acuto
“soggettivismo” del linguaggio musicale.
193
Cfr. ROGNONI, 1974, p. 6.

111
vista del linguaggio musicale, “in lotta con la forma194”, che i Romantici avevano
avviato e i Post-Romantici, con la progressiva cromatizzazione delle strutture
tonali, saturato.

Ad oggi, nonostante sia ormai trascorso un quarantennio dal volume di Luigi


Rognoni, anche Enzo Restagno, che figura tra i massimi specialisti italiani della
musica del Novecento, vedendosi affidare la trattazione di Arnold Franz Walther
Schönberg e Igor' Fëdorovič Stravinskij da parte di Radio 3, ha deciso di
accostare tale coppia per fortissimo contrasto ed effettivamente, a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento, puntualizza Giovanni Bietti, il quale ne introduce
la lezione, sono proprio questi i due filoni che caratterizzano gran parte della
storia della musica occidentale: da una parte la corrente mitteleuropea, della
logica musicale, dell’elaborazione motivica; dall’altra, la linea russa, che si
caratterizza per l’onnipervasività del balletto, per la marcata preponderanza
ritmica e per la brillantezza coloristica. Sempre nell’introduzione curata da
Bietti, viene poi ravvisata una linea di discendenza che da Johannes Brahms
conduce a Schönberg195 e che, parimenti, individua Pëtr Il'ič Čajkovskij come il
progenitore di Stravinskij. Per quanto riguarda la prima linea di discendenza, la
conferma ci viene fornita da Schönberg stesso, il quale, nel saggio intitolato

194
Cfr. ivi, p. 10.
195
Una discendenza a cui fa riferimento anche Adorno nella Philosophie quando, in una nota,
scrive: «Brahms anticipa Schönberg in tutti i problemi di costruzione che vanno oltre il materiale
armonico: e in lui si può già toccare con mano ciò che più tardi diventerà discrepanza tra
esposizione seriale e continuazione, frattura tra il tema e la conseguenza più prossima che se ne
deve trarre.» (Adorno [1949] 1959: 78).

112
Brahms il progressivo196, non esita a riconoscere Brahms quale suo principale
antenato; per quanto attiene invece alla seconda, è noto come Stravinskij non
manchi, in più occasioni, di dedicare a Čajkovskij sia composizioni sia parole di
grande stima.

Cercare di dimostrare, per quanto sinteticamente, in che modo Schönberg


possa essere ricondotto a Brahms e quali affinità siano riscontrabili tra la
produzione di Stravinskij e quella di Čajkovskij non è un’iniziativa futile perché,
crediamo, si tratta di un’operazione che avvalora ciò che Adorno scrive nella
pagina iniziale della Philosophie quando dichiara, senza tuttavia preoccuparsi di
dimostrarlo con dovizia di particolari, che:

«[s]e si volesse passare in rassegna tutta la produzione non cronologicamente ma


qualitativamente moderna, comprendendovi tutte le transizioni e i compromessi,
si finirebbe inevitabilmente con l’imbattersi di nuovo in quegli estremi[ 197 ],
purché non ci si accontenti di una semplice descrizione o di giudizi da
specialista.» (Adorno [1949] 1959: 9).

Detto questo, ci sentiamo tuttavia di dissentire parzialmente dalla


proposizione eccettuativa con cui il nostro conclude la propria riflessione, perché
le descrizioni, che non è detto siano “semplici”, o i giudizi di uno specialista, dai
quali è possibile comunque dissentire, sono, a nostro avviso, indispensabili
qualora si sia determinati a formarsi un’opinione riguardo il clima artistico-
musicale dei periodi storici di volta in volta implicati dal filosofo all’interno
delle proprie riflessioni. L’alternativa, che è forse il procedimento auspicato da
Adorno, sarebbe quella di analizzare direttamente, quindi dal punto di vista del

196
Schönberg impara rigorosamente la lezione brahmsiana legata alla variazione motivica e al
contrappunto, ma, rispetto all’uso dell’armonia, compie un passo ulteriore, superando il sistema
tonale. Ci sembra rilevante sottolineare come, sino alla conferenza di Schönberg su “Brahms il
progressivo”, Brahms fosse, in generale, considerato veramente accademico, e nel senso più
deteriore del termine, perché il nuovo che, all’epoca, avanzava era altro, ossia, come abbiamo
accennato poco sopra: il poema sinfonico derivato dalla cosiddetta “musica a programma”
dell’ungherese Franz Liszt, peraltro suocero di Richard Wagner; Wagner stesso e le sue opere
teatrali, che rivelavano, anch’esse, la forte esigenza di una più stretta unione tra musica e parola.
197
I “due estremi” a cui Adorno sta alludendo sono, per l’appunto, Schönberg e Stravinskij.

113
linguaggio prettamente musicale, le opere stesse dei compositori a cui egli si sta
riferendo, ma, in realtà, non ci pare una vera alternativa poiché, quest’ultima,
dovrebbe essere proprio l’operazione che gli specialisti compiono prima di
formulare verbalmente il loro giudizio in merito alle opere. Bisognerebbe allora
capire quali “esperti”, o presunti tali, Adorno abbia in mente, soprattutto quando,
poco più avanti, scrive che, nell’esprimere giudizi sulla musica, «[i] critici si
attengono letteralmente all’alto discernimento del Lied di Mahler[198], valutando
secondo quel che capiscono o meno; e gli esecutori, direttori in prima linea, si
lasciano sempre guidare dai momenti della più diretta ed esteriore efficacia e
comprensibilità del pezzo da seguire.» (ivi: 14). Da parte nostra, riteniamo in
qualche modo “ingiusta” un’accusa così generalizzata nei confronti di chiunque,
all’epoca, si occupasse criticamente di musica.

Probabilmente, similmente a quanto sosteneva Schönberg, egli condanna


coloro i quali tendano ad inquadrare rigidamente l’arte in ben definite categorie
che, applicate forzosamente dall’esterno, «[…] impediscono la consequenzialità
dell’idea non programmatica, tutta immanente alla cosa stessa.» (ivi: 10). Sia
Adorno che Schönberg, in effetti, pensano all’arte come ad un ‘oggetto’ vivo,
pulsante, un microcosmo in continuo divenire: all’inizio essa, sostando sul
gradino più basso, era semplice mimesi, imitazione della natura esteriore poi, al
suo livello più alto, essa si occupa, per il Maestro della Seconda Scuola, «[…]
solo di riprodurre la natura interiore […]» (Schönberg [1922] 1984: 20); per il
filosofo, di testimoniare i “conflitti inconciliabili” della società, poiché ogni
tremito e ogni rigidità della vita vengono riflessi «[…] anche là dove non arriva
alcun bisogno empirico, in una sfera […]» (Adorno [1949] 1959: 5), in questo
caso, la musica, «[…] che gli uomini ritengono garantisca loro un asilo dalla
198
Adorno sta qui alludendo al Lob des hohen Verstandes (“Lode dell’alto intelletto”), che
appartiene alla raccolta Des Knaben Wunderhorn (“Il corno magico del fanciullo”), un ciclo di
Lieder tratti da testi poetici curati da Arnim e Brentano. Questo pezzo, decimo dei dodici Lieder
per canto e orchestra di Gustav Mahler, fu realizzato, secondo le dichiarazioni dell’autore, con
l’intento di prendersi garbatamente beffa dei critici: il cuculo e l’usignolo scelgono come giudice
del loro canto un ciuco, il quale, manco a dirlo, conferisce la palma al cuculo, il cui interprete si
esprime in un canto per terze.

114
pressione della norma raccapricciante […]» (ibid.).

Ritornando ora alla prospettiva che pone Brahms come precursore di


Schönberg, essa può apparire, in certo modo, paradossale se si pensa che a
partire dal 1854, cioè da quando uscì il Bello musicale dell’allora influente
critico musicale Eduard Hanslick, egli iniziò ad essere considerato una sorta di
parruccone che seguiva un orientamento opposto a quello di Richard Wagner e
Franz Liszt e che, in sostanza, si rifaceva alle forme classiche. Una tesi
probabilmente avvalorata dalla decisione di Brahms di schierarsi contro
l’orientamento della «Neue Zeitschrift für Musik» (“Nuova rivista musicale”) di
Lipsia, in precedenza diretta dal suo quasi mecenate Robert Alexander
Schumann199, dal momento che il nuovo direttore Franz Brendel appoggiava
apertamente il pensiero dei cosiddetti ‘neotedeschi’ progressisti allora tanto in
voga. Per i Neudeutscher, Ludwig van Beethoven aveva fatto il massimo e,
dunque, tale apice della musica strumentale poteva essere superato soltanto in
due modi: il primo era di riallacciarsi all’opera di Wagner200, accostandosi al
mondo della sinfonia ed espandendone le possibilità mediante il gesto, la parola e
la scena; oppure, vi era, con Liszt, l’alternativa di tendere al superamento della
sinfonia mediante l’approdo al poema sinfonico che, a sua volta, era derivato

199
Sono alquanto note le infervorate parole di Schumann che presenta al mondo Brahms in un
tono quasi messianico. L’annuncio comparve il 28 ottobre 1853 in un celebre articolo facente
parte della sua rivista, intitolato Neue Bahnen (“Vie nuove”). Schumann dimostra una veggenza
straordinaria quando scrive che vi era «[…] un giovane alla cui culla hanno vegliato Grazie ed
Eroi […] [che] del pianoforte faceva un’orchestra di voci […] [e]rano sonate o piuttosto sinfonie
velate […] sembrava poi che egli, passando come un fiume scrosciante, unificasse tutte queste
sorgenti in un’unica cascata […]» (Schumann [1854] 1991: 1093-1094), poiché, in effetti, ciò che
Brahms fa è uniformare la scrittura dei principi base, i quali, per l’appunto, innervano e
informano, riunendoli, tutti i generi da lui toccati: dai Lieder, alla Sinfonia (sua costante
preoccupazione, tanto che vi perverrà solo a più di quarant’anni), alla Kammermusik, ai Concerti.
200
Si pensi non solo al Tristan und Isolde, che rappresenta il primo compiuto esempio di
Wort-Ton-Drama, ma anche al Siegfried, alla Götterdämerung e, in particolare, al Parsifal,
l’ultima opera wagneriana, nella quale la musica, nel rappresentare la forza redentrice dell’Eros,
sembra talora involversi in se stessa.

115
dalla musica a programma. Nello specifico, il poema sinfonico201, che è una
composizione musicale per orchestra, si propone di esprimere un contenuto che è
raccontato dal programma, il quale, possibilmente, è preso da un grande
capolavoro della letteratura; esso, in definitiva, proponendosi di evocare vicende
drammatiche, ambienti naturali o determinate figure storiche e leggendarie,
sostituirebbe la sinfonia con l’idea di andare oltre il concetto formale della
musica al fine di pervenire ad un concetto più legato ai contenuti, in tal senso
possiamo quindi dire che, in quel periodo, si era andata sviluppando una vera e
propria estetica dei contenuti.

Brahms, invece, fu il primo compositore, o comunque il più importante, che


ebbe una consapevolezza storica in senso musicale, essendo, la musica, forse
l’ultima tra le arti a prendere coscienza della propria storia; per Brahms, la storia
della musica era determinante. Egli continua, a suo modo, la tradizione nazionale
del Settecento e del primo Ottocento, in particolare quella di Johann Sebastian
Bach e dei compositori della prima Scuola di Vienna, seguendone le tracce nelle
forme202 e nel procedimento dell'elaborazione tematica, senza curarsi, perlomeno
nel primo periodo della sua attività, della generazione che lo aveva direttamente
preceduto. Brahms aveva una consapevolezza ed una cultura straordinarie, ma,
diversamente da quanto si ritiene oggi203, era convinto che andasse conservato
soltanto ciò che possedeva una sua dignità artistica: per lui le antiche forme,
come anche quella che all’epoca si riteneva essere la musica popolare, andavano
preservate mediante un loro rinnovo, il quale sarebbe avvenuto attraverso alcuni

201
Sebbene di tale musica descrittiva si potrebbero segnalare saggi fin dal Medioevo e dal
Rinascimento. Dopo Liszt, che comunque ne è considerato l’inventore a tutti gli effetti, il poema
sinfonico fu praticato da molti altri compositori del diciannovesimo e del ventesimo secolo, tra
questi, solo per citarne alcuni: Antonín Leopold Dvořák, Richard Georg Strauss e Claude-Achille
Debussy.
202
Forme, per citare soltanto le più considerevoli, quali il corale, la fuga, la variazione, la
sonata e il Lied strofico.
203
Oggi, con criteri più scientifici, si pensa che tutto debba andare conservato e ci si astiene
dall’emettere prontamente dei giudizi in merito a ciò che si ritiene o meno essere un valore
estetico.

116
strumenti che le potenziassero. Lo strumento principe era il contrappunto204 e la
strada che egli trovò per elaborare la tecnica contrappuntistica fu la variazione,
tant’è vero che è lecito affermare che in Brahms tutto è variazione: variazione
motivica, variazione elaborata, contrappunti sulle variazioni. Egli possiede un
forte senso della simmetria che deriva dal classicismo; tuttavia, all’interno delle
sue melodie, è sempre presente un’elaborazione molto sottile. Si pensi al
conosciutissimo, e temutissimo per i pianisti, Concerto per pianoforte e
orchestra n. 2 Op. 83 in Si bemolle maggiore, in cui tutto il tessuto musicale è
ricavato da dei piccoli incisi di tre note che vengono continuamente elaborati,
ottenendo così, in un certo senso, il massimo della varietà con il massimo
dell’economia, oppure si pensi anche soltanto alla sua famosissima Ninna nanna:
Brahms ha trasformato un semplice canto austriaco in una melodia che, benché
appaia estremamente semplice all’ascolto, in realtà, è il risultato di una forma di
contrappunto davvero molto sofisticato.

In effetti, i percorsi armonici che egli pianifica per sviluppare i suoi intrecci
polifonici sono stabiliti in senso millimetrico, si può quasi dire che Brahms dia
luogo ad una specie di contrappunto armonico; inoltre, egli applica la variazione
ad ogni segmento tematico e tali segmenti vengono poi incessantemente variati
grazie all’uso degli intervalli, scambiati per moto retto e retrogrado, come
facevano i Fiamminghi e come, in seguito, farà Schönberg. Quest’ultimo, che,
ricordiamo, riabilitò l’immagine musicale di Brahms come artista d’avanguardia,
imparò rigorosamente la lezione brahmsiana legata alla variazione motivica e al
contrappunto, seguendone gli stessi criteri nel recupero delle vecchie forme, ma,
rispetto all’uso dell’armonia, fu in grado di spingersi ancora oltre. Che vi sia una
indiscutibile affinità tra Brahms e la Seconda Scuola, emerge qualora si

204
Secondo Michele dall’Ongaro, fu Schönberg a fornire la risposta migliore alla domanda su
che cosa sia il contrappunto. Infatti, il compositore, con un’estrema semplicità, spiega che il
contrappunto si dà quando una voce fa da accompagnamento a se stessa: il canone, invero, ne è
l’esempio base. Noi abbiamo invece trovato la definizione di contrappunto che egli propone nella
Harmonielehre: «Il contrappunto è la teoria della disposizione e del movimento delle parti, con
riguardo alla combinazione tematica […]» (Schönberg [1922] 1984: 14).

117
accostino, a titolo esemplificativo, le Variazioni op. 27 di Anton Webern (un
pezzo seriale, scritto, con il sistema dei dodici suoni, nel pieno degli anni trenta
del Novecento) e l’intermezzo205 delle Sette fantasie per pianoforte op. 116 di
Brahms: entrambe le opere sono interamente costituite di piccoli gruppi di due
note che, all’inizio, si presentano specularmente nella mano destra e nella mano
sinistra e che poi iniziano a rispondersi, in un disegno melodico, all’interno dello
spazio, sempre in maniera simmetrica; l’unica differenza è forse che, nelle
Variazioni, queste due note sono isolate da pause. Naturalmente Brahms scrive in
uno stile tonale, quindi l’effetto espressivo è differente, tuttavia non possiamo
non avvederci di una loro rassomiglianza sia dal punto di vista della tecnica sia
per quanto attiene al risultato fonico.

Evidentemente, è proprio rispetto a questo alto grado di elaborazione, a questo


tipo di complessità e a questa logicità del discorso che i musicisti russi, ma anche
quelli italiani, si contrappongono206: Čajkovskij raramente è contrappuntistico,
egli detestava, o comunque reputava noiosa, la musica di Bach, mentre amava
Mozart e guardava con favore Liszt 207 , il poema sinfonico e la musica a
programma. E disprezzava Brahms. Se quest’ultimo lavora sul ritmo in quanto
arricchimento del discorso, per Čajkovskij il ritmo è un ingrediente essenziale

205
Sono, forse, i due esoterici Intermezzi, i numeri 5 e 6, che più di tutti mostrano di aprirsi
sulla dimensione decadentistica che aleggiava a fine secolo: se nel secondo e nel quarto pezzo
l’introspezione giunge ad un altissimo livello di profondità e rassegnazione, il quinto e il sesto
esprimono una qualità poetica talmente elevata da superare il Romanticismo.
206
Usiamo, qui, il termine “contrapposizione” in una duplice accezione: italiani e russi si
contrappongono a questo modo di concepire la musica sia perché, con la loro produzione, ne
costituiscono l’“antitesi”, l’ “estremo opposto”, sia perché dichiarano apertamente la propria
avversione nei confronti di ciò che essi percepiscono come un eccessivo rigore formale. A loro
parere, infatti, i musicisti di orientamento mitteleuropeo sarebbero così preoccupati di sviluppare
logicamente le proprie composizioni, traendo da un singolo inciso tematico ogni conseguenza
possibile, da tralasciare del tutto l’aspetto melodico.
207
È invece comicamente noto che Brahms amasse poco la musica di Liszt; si è infatti soliti
ricordare la prima volta che quest’ultimo gli venne presentato grazie all’intermediazione del
violinista Joseph Joachim: Brahms, durante l’esecuzione del Maestro, cadde addormentato.

118
perché la pulsazione, nella sua musica, svolge un ruolo primario e riconduce
immancabilmente alla danza, al balletto208. Se Brahms pensava una musica di
sostanza, conferendole poi un corpo sonoro attraverso la sua orchestrazione,
Čajkovskij componeva a partire da un timbro: per lui il suono era l’elemento
principale ed era la musica che si doveva poi adattare a quel dato timbro; anche
qui, dunque, riteniamo di poter concludere che, come Brahms “diventa”
Schönberg, Čajkovskij “diventa” Stravinskij. È sorprendente, per esempio, la
somiglianza che si riscontra qualora si accostino fra loro l’ouverture fantastica di
Romeo e Giulietta e il Sacre du printemps; si scopre che diviene addirittura
possibile sovrapporli: ritmo percussivo, pulsazione, ripetizione, uso di tempi
dispari, dispiegamento coloristico all’ennesima potenza, in entrambe le
composizioni, nota giustamente Michele dall’Ongaro, ci troviamo dinnanzi ad
una vera e propria cinecittà della musica.

Al pari di Schönberg che, in qualche modo, riuscì a riabilitare l’immagine


musicale di Brahms come artista d’avanguardia, Stravinskij si preoccupò di
riscattare la figura di un Čajkovskij che, nella prima metà del ‘900, veniva
giudicato dagli appassionati di musica seria un musicista facile, languido e
salottiero. In una lettera del 1921 a Sergej Pavlovič Djaghilev, Stravinskij, che si
stava accingendo a completare e a strumentare alcune parti de La bella
addormentata, dichiara che Čajkovskij possedeva il dono della melodia, centro
di gravità di ogni sua composizione sinfonica, di ogni sua opera o balletto. Egli
aggiunge poi che questa qualità è del tutto assente nei tedeschi, poiché essi
avrebbero invero costruito la loro musica, faticosamente, con temi e
Leitmotive209, i quali verrebbero impiegati proprio nel tentativo di sopperire

208
Ciò è quanto afferma anche Giovanni Bietti nella sua lezione Il tardo Ottocento tra
orchestra e teatro.
209
Il termine Leitmotiv (pl. Leitmotive) si compone del verbo leiten, il cui significato è
“dirigere”, “condurre”, preposto, nella veste di prefisso, al sostantivo Motiv, che mutua il proprio
significato dal vocabolo francese motif, ovvero “motivo”, “tema”. Leitmotiv può dunque tradursi,
in italiano, con la locuzione “motivo conduttore”. Esso è un tema musicale ricorrente associato a
un personaggio, a un luogo, ad una situazione, che conferisce a queste entità carattere e spessore
emozionale. In genere, il leitmotiv è costituito da una breve melodia, ma può anche essere una

119
all’assenza delle melodie. Oggettivamente, sostenere che nei tedeschi manchi la
capacità di inventare melodie, sembra piuttosto paradossale se pensiamo, per
esempio, a quanti meravigliosi temi brahmsiani è possibile cantare; tuttavia,
quella di Stravinskij, è una dichiarazione in linea con un’intera tradizione russa
tardo ottocentesca che si è sempre espressa contro la costruzione melodica,
contro l’uso dell’elaborazione motivica all’interno delle melodie mitteleuropee.
Modest Petrovič Musorgskij stesso, nonostante non amasse particolarmente la
musica di Čajkovskij, una volta, mentre eseguiva brani scelti dalla Sinfonia n. 3
in mi bemolle maggiore (op. 97) di Schumann, si arrestò all’inizio della sezione
dello sviluppo, smise di suonare e disse: «Bene, ora comincia la matematica
musicale[210].» (Emerson [1999] 2006: 25).

Abbiamo precedentemente detto che in Brahms, e poi in Schönberg, la


variazione entra in tutti i processi elaborativi, divenendo un processo di

breve sequenza di suoni accordali, i quali, legati ai vari personaggi o alle diverse ambientazioni,
contribuiscono alla coerenza dell’opera e facilitano il compositore nel raccontare una storia senza
avvalersi del linguaggio verbale. Il critico musicale Friedrich Wilhelm Jähns, nel 1871, utilizzò
tale vocabolo, descrivendo l'opera di Carl Maria von Weber, quest’ultimo, infatti, fu tra i primi
compositori a servirsi estensivamente di questa tecnica. Ad ogni modo, il compositore più spesso
associato alla tecnica del leitmotiv è Richard Wagner che, per definirla, usava però la parola
Grundthema (“tema fondamentale”). Nel ciclo Der Ring des Nibelungen, egli adopera ben 74
leitmotive sia per rappresentare personaggi, cose o situazioni sia per ottenere unitarietà. Fu
l'editore del «Bayreuther Blätter», Hans Paul von Wolzogen, ad utilizzare per la prima volta, nel
1887, il termine leitmotiv in riferimento a Wagner. Oggi, l'uso di tale termine è diffusissimo e
viene impiegato nei campi più disparati: pervade il mondo delle colonne sonore, e quasi non c'è
film, programma televisivo, musical o videogioco che non vi ricorra.
210
Tale episodio è tratto dalle memorie di Borodin ed è riportato all’interno del volume Vita
di Musorgskij di Caryl Emerson.

120
sviluppo211 continuo, costante, degli elementi; questa complessità veniva sentita
da alcuni musicisti, soprattutto da quelli di tradizione non mitteleuropea, come
una sorta di pesantezza, come una difficoltà nella libertà, nella freschezza e nella
leggerezza dell’ascolto: fu questa, infatti, la ragione per la quale, a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento, molte scuole musicali decisero di staccarsi da tale
tradizione, ormai percepita soltanto come qualcosa di cui sgravarsi. Ma i germi
di questo atteggiamento sono ravvisabili già in Čajkovskij e, dunque, al fine di
comprendere il significato di questo rifiuto, riteniamo utile riassumere il giudizio
fortemente negativo che Čajkovskij emetteva nei confronti della musica
brahmsiana. Dall’Ongaro legge testualmente una parte di quest’aspra condanna e
da essa emerge chiaramente che Čajkovskij reputava Brahms un musicista privo
di inventiva melodica, poiché “nella sua musica vi sarebbe stato qualcosa di
arido, freddo, confuso e indefinito, estraneo all’anima russa”; gli contesta inoltre
di non servirsi mai di effetti superficiali che tentino di sorprendere o di stupire
con una qualche nuova e brillante combinazione orchestrale e, al contempo, di
non essere mai banale o imitativo, infatti, “ogniqualvolta sia dato di udire, con
difficoltà, un accenno a una frase melodica, questa è già caduta in un gorgo di
insignificanti sequenze e modulazioni armoniche come se il compositore si fosse
prefissato il compito specifico di apparire incomprensibile”. È quindi chiaro
come, a parere dello scrivente, la serietà dello stile brahmsiano e la sua
contemporanea mancanza di banalità ed effetti superficiali fossero un enorme e a
dir poco deprecabile difetto.

211
Nella sua Philosophie, Adorno scrive che: «Già in Brahms lo sviluppo, come lavoro
tematico, ha preso possesso della sonata nella sua interezza. [Egli] costringe ad unirsi
l’intermezzo lirico e il pezzo accademico. Nell’ambito della tonalità egli respinge interamente le
formule e i residui convenzionali e crea per così dire ad ogni istante l’unità dell’opera ex novo, in
libertà. […] Non c’è più nulla che non sia tematico, nulla che non possa essere inteso come
derivazione di un elemento identico, sia pur latente quanto si vuole.» (Adorno [1949] 1959: 62).

121
3. Aufklärung in musica.

All’interno della Philosophie, Adorno ritiene che, a partire dalla metà del
secolo XIX, quindi, nel clima e nel contesto storico-musicale che abbiamo
appena descritto, quella che secondo il suo giudizio è musica d’arte si sia del
tutto distaccata dal consumo; un giudizio che troviamo ribadito in almeno altri
tre scritti dell’autore: esso infatti compare in Dialektik der Aufklärung, in
Dissonanzen e in Einleitung in die Musiksoziologie. In particolare, egli scrive che
«[l]a coerenza della sua evoluzione è entrata in contraddizione con i bisogni
manipolati e nello stesso tempo compiaciuti del pubblico borghese. […] La
qualità si impose solo grazie alla strategia dell’autore, che era di cattivo
giovamento alle opere stesse, o grazie all’entusiasmo della critica e dei periti
musicali.» (Adorno [1949] 1959: 13). Tale considerazione rileva, da un lato, la
mancanza di comprensione alla quale andò incontro la musica di Brahms,
incapace di comunicare la propria bellezza a chi fosse estraneo alla costruzione
melodica mitteleuropea; dall’altro lato, inquadra il primo manifestarsi di una
calcolata strategia dell’effetto da parte del compositore: strategia che ricorre al
ritmo, alla pulsazione, alla giustapposizione di melodie (senza che vi sia una
variazione delle medesime), alla strategia della ripetizione 212 , all’utilizzo di
effetti superficiali e di banalità da parte di Čajkovskij e dei musicisti di tradizione
non mitteleuropea, i quali percepivano tali elementi come requisiti indispensabili
alla riuscita di un’opera.

A nostro parere, senza nulla togliere al valore e all’indubbia qualità delle


composizioni dei musicisti non mitteleuropei del periodo in questione,
l’immediata comprensione e il subitaneo godimento che era possibile
sperimentare durante l’ascolto della loro musica, ha effettivamente avviato un
processo di progressiva disabitudine dell’orecchio ad essere attivo: in un certo
senso si potrebbe dire che lo ha disabituato a “pensare”. Se Adorno riteneva che
“la strategia dell’autore” fosse di cattivo giovamento alle opere stesse, oggi,

212
Una strategia adottata e perfezionata più avanti da Stravinskij; si pensi, per esempio, al
modo in cui egli se ne serve nell’Uccello di fuoco.

122
potremmo dire che, effettivamente, essa è andata a loro detrimento,
danneggiandole ampiamente: la disabitudine all’ascolto ha condotto ad una
graduale semplificazione della musica che, per l’appunto, è divenuta musica di
consumo e ha generato, di riverbero, un ulteriore appiattimento uditivo. La
conseguenza e, contemporaneamente, la conferma di questa progressiva
involuzione, di questo “circolo involutivo”, è la triste constatazione che, ora, la
musica di Čajkovskij e dei suoi contemporanei non è più ritenuta di immediato
godimento, prova ne sia il fatto che la maggior parte delle persone la ritiene un
genere di musica colta o comunque “da balletto”; se, inizialmente, il cinema si è
limitato ad appropriarsi delle opere di Čajkovskij, è sufficiente ascoltare alcune
sigle di film o di serie televisive per accorgersi delle storpiature e delle
manipolazioni a cui esse sono state sottoposte al fine di risultare maggiormente
gradite, perché ancor più immediate, al pubblico dei consumatori.

Ecco, dunque, la ragione per cui al pubblico, tagliato fuori dalla produzione di
livello, la Musica Nuova, che nella nostra epoca non è certamente più tale,
appare, ad oggi, ancora così sconcertante: essa disorienta non soltanto perché,
come sosteneva Adorno, le dissonanze spaventano gli ascoltatori, rendendo loro
tale musica insopportabile213, ma anche perché il pubblico è divenuto sempre più
incapace di ascoltare in modo serio e concentrato: se non si è in grado di godere
della musica classica tradizionale, accostarsi alla Neue Musik diventa
impossibile. È evidente che, qualora non si abbia dimestichezza con le forme e le
strutture proprie del linguaggio tonale, non si possa comprendere come si sia
giunti alla sua progressiva “dissoluzione” verso l’atonalità (o pantonalità, come
ama precisare Schönberg). Del resto, continuiamo a reputare valida la
constatazione adorniana sulla concezione che il pubblico avrebbe nei confronti
della musica tradizionale214: in quest’ultima «[…] conserva un’importanza solo
l’aspetto più grossolano, idee musicali facili da tenere a mente, passaggi

213
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 14.
214
Con “musica tradizionale” Adorno si riferisce alla musica cosiddetta “classica”;
escludendo, naturalmente, la Neue Musik, che, oggi, al contrario, si tende a far rientrare nella
categoria del “classico”.

123
nefastamente belli, atmosfere e associazioni […]» (Adorno [1949] 1959: 15).
Anche se al giorno d’oggi, neppure tali aspetti trovano più asilo nella mente
collettiva; “l’ometto della metropolitana” che fischietta i temi di quei pezzi di
Beethoven, divenuti indifferenziatamente atti al consumo, come ninnoli
casalinghi215, è, oggi, introvabile: egli è defunto assieme al ricordo di quei
motivi. Ciò non toglie che Adorno fu tra i primi a rendersi conto che
l’onnipresente musica leggera stava iniziando a rendere la capacità percettiva
talmente ottusa che un ascolto responsabile sarebbe divenuto sempre più raro,
fino a scomparire del tutto, assieme alle opere che lo avrebbero eventualmente
richiesto.

Dal momento che nella nostra trattazione abbiamo avuto modo di fare
riferimento sia al monodramma Erwartung sia alla musica di Čaikovskij,
possiamo riportare, senza preoccuparci di essere fraintesi, questa particolare
asserzione adorniana: «[...] assurdo pensare che l’amatissimo Čaikovskij, che
dipinge la disperazione con melodie da canzonetta, renda in esse quanto a
sentimento più del sismografo della schönberghiana Erwartung.» (ivi: 17). Il
fatto che per il consumatore non sia affatto così, dipende, a parere di Adorno,
principalmente da due motivi: il primo riguarda l’incapacità, da parte di chi
ascolta, di concepire che si possa andare oltre l’idioma tonale degli ultimi
trecentocinquant’anni; il secondo ha invece a che fare con l’“appetito” del
consumatore, al quale poco interessa il sentimento per cui l’opera nasce, essendo
il guadagno in termini di piacere il risultato che egli si attende. Per quanto attiene
al primo aspetto, ribadiamo che la “naturalità” dell’idioma tonale è, per Adorno,
solo presunta, un’apparenza formatasi nel corso della storia: di conseguenza,
superare ciò che ha ristagnato nel tempo non significa andare contro natura, ma
ampliare, rinnovare e, se necessario, dissolvere le antiche forme ereditate dalla
tradizione. È vero che l’interiorità soggettiva che prorompe dall’Erwartung nasce
da un nuovo ordine costruttivo che consente la massima libertà espressiva, ma
tale libertà non coincide con il libero arbitrio del compositore che, a un certo
punto, decide di infrangere le regole, ma coincide con la sua decisione di
215
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 15.

124
sottomettersi all’oggettività della costruzione stessa, obbedendo «[…] alla legge
integrale della compagine complessiva, dall’accordo singolo fino a creare la
forma: anche e proprio se così è impedita la comprensione automatica dei
momenti singoli.» (ivi: 18).

Ora, poiché, a parere di Adorno, «[…] una filosofia della musica oggi è
possibile […] solo come filosofia della musica moderna […]» (ivi: 16),
l’ulteriore passo da compiere è quello di comprendere la natura, il significato e,
in ultima istanza, il contenuto di verità della “musica moderna”; tuttavia, per
farlo, non ci si può limitare alla discussione di categorie come atonalità,
dodecafonia o neoclassicismo, ma bisogna riuscire a comprendere concretamente
tali categorie nella compagine della musica in sé. In sostanza, il filosofo ritiene
che una trattazione filosofica dell’arte debba ricavare i propri concetti e le
proprie categorie concettuali dall’opera stessa, evitando di applicarle
forzosamente dall’esterno delle categorie stilistiche precostituite; in questo
secondo caso, infatti, anche se accedere alle opere sarebbe più facile, non si
riuscirebbe a determinare, e a comprendere, quale necessità interna ad esse abbia
indotto il compositore a dar vita a quel dato stile. Ora, poiché, secondo Adorno,
la superiorità di Schönberg e Stravinskij starebbe nell’aver saputo esaltare “in
forza di una conzequenzialità che non conosce compromessi”, “gli impulsi
presenti nelle loro opere fino a trasformarli nelle idee immanenti dell’oggetto216”,
la nostra intenzione sarebbe quella di apprestarci, parallelamente, all’esame delle
opere di Schönberg e di Stravinskij. Tuttavia, una tale trattazione ci è preclusa se
prima non tentiamo di spiegare che cosa Adorno intenda nel momento in cui
parla di carattere linguistico della musica; di conseguenza, proveremo a fare
entrambe le cose, rivolgendoci, ancora una volta, alla nozione di materiale
musicale.

Nel terzo capitolo de Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno,


Zurletti scrive:

«[…] il grandioso processo di “emancipazione delle dissonanze” il rettilineo sul

216
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 10-11.

125
quale si muoveranno Wagner, Brahms, i tardo romantici, Debussy che
radicalizzerà la lezione di Wagner defunzionalizzando l’armonia, e finalmente i
Viennesi, che coroneranno l’opera formidabile di tre generazioni affermando
trionfalmente la morte della tonalità.» (Zurletti 2006: 136-137).

Secondo la prospettiva di Adorno, il materiale musicale, al pari della società,


va incontro a quell’inesorabile processo di razionalizzazione che egli individua
con il concetto di Aufklärung, il quale conduce anche la musica nel regno della
Ragione tecnologica217: con Schönberg, e ancor prima con Brahms, nel rapporto
tra il compositore e il suo linguaggio penetra il germe della riflessione 218.
Tuttavia, sviluppare questa considerazione, portandola alle sue estreme
conseguenze, significa imboccare una strada senza vie d’uscita219; è dunque
preferibile posticiparne a più tardi la trattazione e concentrarci, invece, ora, sulle
modalità del dialogo che l’artista intrattiene con le forme della tradizione.

«[…] [L]’ultimo Schönberg spartisce col jazz, e del resto anche con
Stravinsky, la dissociazione del tempo musicale.» (Adorno [1949] 1959: 65-66).
Con tale affermazione, Adorno allude al rovesciamento della dinamica 220
musicale in statica che caratterizza la scrittura dello Schönberg maturo; una
scrittura che, in virtù della tecnica “dodecafonica” e dell’estrema raffinatezza
217
«[…] l’artista è divenuto semplicemente l’esecutore delle proprie intenzioni che gli si
presentano come entità estranee, come esigenze inesorabili nate dalle immagini a cui lavora.»
(Adorno [1949] 1959: 23).
218
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 132.
219
Nell’Introduzione alla Philosophie, Adorno fa una dichiarazione che mette seriamente in
dubbio che la musica, avendo raggiunto, in seguito all’esperienza avanguardista, un’“organizzata
vuotezza di significato”, possa ancora essere capace di comunicare un qualsivolgia contenuto.
Nello specifico, il nostro scrive: «Il trasformarsi dei veicoli di espressione della musica in
materiale, processo che secondo Schönberg si effettua in continuazione nel corso dell’intera
storia della musica, è divenuto oggi così radicale che mette in discussione la possibilità stessa
dell’espressione. La coerenza della propria logica pietrifica sempre più il fenomeno musicale da
entità densa di significato in qualcosa che semplicemente esiste ed è impenetrabile a se stesso.»
(Adorno [1949] 1959: 25).
220
Naturalmente, Adorno, con il termine “dinamica”, si riferisce alla dinamica della struttura
musicale e non al semplice cambiamento d’intensità.

126
contrappuntistica, ha assunto il carattere di sistema irrigidito: la variazione, che
prima era lo strumento della dinamica compositiva, ora diventa totale, ostacola la
dinamica e impedisce al fenomeno musicale di presentarsi come un “fatto di
evoluzione221”. Rispetto a Wagner, Brahms o all’ultimo Beethoven, Schönberg,
come si è già accennato, compie un passo ulteriore: la polifonia222 diviene per lui
l’essenza stessa dell’armonia emancipata, mentre, nei suoi precursori, essa era
conciliabile con l’armonia solo a seconda dei casi: il suo utilizzo serviva per lo
più a supplire al venir meno della forza formatrice della tonalità 223 e a
compensare il suo irrigidimento in formule224. Nella pagina che precede il pezzo
appena citato, Adorno spiega che «Schönberg è stato il primo a svelare i principî
di un’unità e di un’economia universale in un materiale soggettivo ed
emancipato, rinnovato nello spirito di Wagner […]» (ivi: 63), poiché le sue opere
dimostrano che egli ha saputo assecondare le tendenze immanenti al linguaggio
musicale inaugurato da Wagner; prova ne è il rapporto di Schönberg con la
polifonia, la quale, puntualizza il filosofo, è il mezzo idoneo all’organizzazione
della musica emancipata. Il singolo accordo che, nella tradizione classica e
romantica, stava al polo opposto dell’oggettività polifonica, viene ora
riconosciuto nella sua polifonia interna; e il tramite che condusse a quest’ultima
fu l’accorgimento più radicale che i Romantici adottarono per esprimere il
culmine della soggettivazione: la dissonanza.

Nella prima parte del suo lavoro, Zurletti compie un’analisi che ci porta a
concludere che il materiale musicale, in Adorno, corrisponde a un codice di tipo

221
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 66.
222
Si tenga presente che, in senso lato, la polifonia può indicare qualsiasi aggregazione
verticale di suoni e che, dunque, nel linguaggio dell’armonia, essa può riferirsi agli accordi.
223
Un’efficace definizione di tonalità ci viene fornita da Schönberg nella Harmonielehre; egli
scrive: «La tonalità è una possibilità formale – che sprigiona dalla natura del materiale sonoro –
di raggiungere, nell’unità, una certa compattezza. A tale scopo è necessario impiegare nel corso
di un pezzo solo certi accordi e certe successioni di suoni, in una disposizione tale che il rapporto
con la fondamentale della tonalità del pezzo, cioè con la tonica, possa essere avvertito senza
difficoltà.» (Schönberg [1922] 1984: 34).
224
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 64.

127
linguistico atto a regolare la ricezione del senso musicale e che, inoltre, esso
coincide con la nozione di tonalità225. L’autrice de Il concetto di materiale
musicale in Th. W. Adorno, infatti, individua: l’“arbitrarietà”, il “carattere
sociale”, il “carattere storico” e “il carattere di costrizione” come i quattro aspetti
che, definendo il materiale musicale, lo identificano come quel codice, la tonalità
appunto, «[…] che struttura la produzione musicale alla maniera di un atto
“linguistico” […]» (Zurletti 2006: 65). Ricordiamo, invero, che, per Adorno,
l’artista non è mai totalmente libero di creare; egli, certo, possiede la libertà di
decidere cosa esprimere in musica, tuttavia è obbligato ad effettuare tale scelta
all’interno di un repertorio di elementi prefissati dal materiale, il quale, dettando
le condizioni del senso musicale, funge, in un certo senso, da orizzonte della
dicibilità.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’“arbitrarietà”, esso è anche il più


importante; non vi è, in effetti, un criterio che stabilisca che una combinazione
sia migliore o più pertinente di un’altra: all’inizio, la selezione degli elementi fu
un atto del tutto immotivato, privo di giustificazioni, arbitrario. Reputiamo sia
efficace spiegare tale concetto avvalendoci della stessa metafora, efficacissima,
che Hjelmslev adopera per definire il “sistema del contenuto” delle lingue
storico-naturali; ne I fondamenti della teoria del linguaggio leggiamo: «Si può
dire che un paradigma in una lingua, e un paradigma corrispondente in un’altra
coprano una medesima zona di materia che, astratta da tali lingue, è un continuo
amorfo inanalizzato entro cui l’azione formatrice delle lingue pone delle
suddivisioni[ 226 ].» (Hjelmslev [1943] 1968: 57). Ovverosia, come non vi è
nessuna necessità nel modo in cui una lingua seleziona gli aspetti della realtà che

225
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 65.
226
Una definizione che, a sua volta, ci riporta alla riflessione saussuriana sulla lingua, in
quanto sistema di valori puri, e sul pensiero che, astratto dalla sua espressione in parole, è una
massa amorfa e indistinta, una nebulosa. Nello specifico, Ferdinand de Saussure afferma che la
sostanza fonica «[…] è un calco di cui il pensiero debba necessariamente sposare le forme, […]
una materia plastica che si divide a sua volta in parti distinte per fornire i significanti di cui il
pensiero ha bisogno.» (Saussure [1922] 2008: 136).

128
intende esprimere227, non esiste, parimenti, un dispositivo che, all’interno del
continuum dei suoni e della massa virtualmente infinita delle loro combinazioni,
circoscrive, in maniera differenziale, quali siano gli elementi pertinenti da
includere in quello che andrà a costituirsi come materiale: tale principio, infatti, è
totalmente arbitrario. Relativamente alla sfera linguistica, risulta evidente che,
per i parlanti, il modo di vedere le cose secondo le delimitazioni tracciate dalla
propria lingua madre, appare un fatto naturale, una caratteristica oggettiva dei
fenomeni e non una modalità arbitraria valida soltanto all’interno di un gruppo
linguisticamente omogeneo 228 . Dal canto suo, Adorno pone in evidenza il
medesimo carattere di arbitrarietà nella musica e lo individua nel materiale
musicale in quanto codice fonologico; egli, prendendo ad esempio il materiale
della tonalità, si scaglia contro quella diffusa e generalizzata credenza, risalente
ad una tradizione di pensiero avviatasi con Zarlino, che reputa tale materiale un
prodotto della natura229, sostenendo che se la tonalità è riuscita a restare un
sistema normativo per ben quattro secoli, ciò è dovuto proprio al concetto di
arbitrarietà230. Invero, un fondamento naturale del sistema tonale non le avrebbe

227
Hjelmslev, al fine di chiarire ulteriormente tale concetto, propone vari esempi: le differenti
delimitazioni che si verificano nelle sfere dei colori, dei morfemi, dei fonemi ecc.; tra le
molteplici esemplificazioni, abbiamo scelto di riportare sinteticamente il caso della differenza
nella definizione dei colori. Hjelmslev fa notare come la parte dello spettro coperta dall’inglese
green sia tagliata, in gallese, da una linea che assegna una parte di tale zona a gwyrdd e l’altra a
glas; quest’ultimo, invece, si estende fino a ciò che gli inglesi reputano blue; a gray
corrispondono altresì i gallesi glas o llwyd. Da questo confronto emerge quindi con chiarezza
che, nelle due lingue, non vi è corrispondenza fra le delimitazioni e, estendendo tale analisi nei
confronti di altre lingue, scopriamo che ogni lingua suddivide differentemente la gamma dello
spettro solare. (Cfr. HJELMSLEV, [1943] 1968, pp. 57-58).
228
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 42.
229
Nel saggio intitolato Difficoltà, contenuto all’interno della raccolta intitolata Impromptus,
Adorno nota che «[n]el preconscio musicale e nell’inconscio collettivo la tonalità, benché sia a
sua volta un prodotto della storia, sembra essere divenuta qualcosa di simile a una seconda
natura.» (Adorno [1968] 1973: 110).
230
In accordo con Adorno, Schönberg, nella Harmonielehre, dichiara che egli non ritiene la
tonalità una legge eterna, né «[…] una legge di natura della musica, come hanno fatto tutti i

129
consentito di evolversi, di trasformarsi, ma, al contrario, ne avrebbe determinato
un’immobilità nel tempo231; la tonalità ha invece saputo dispiegare le sue enormi
potenzialità adattandosi camaleonticamente alle esigenze comunicative dei
differenti contesti storico-sociali a cui è riuscita, e continua ancor oggi, a
sopravvivere: «La tonalità fu la mediazione tra un linguaggio musicale
immediato, che gli uomini, se così può dirsi, parlavano più o meno
spontaneamente, e le norme che si erano cristallizzate all’interno di questo
linguaggio.» (Adorno [1968] 1973: 111).

Tale citazione ci consente di collegarci al secondo dei quattro aspetti


enunciati: il “carattere sociale”, infatti, garantisce al materiale la sua concreta
validità. Le norme che, in esso, si sono “cristallizzate” vengono ereditate dal
compositore come una competenza che gli permette di strutturare l’opera in
modo da poterla inserire nel circuito comunicativo232; allo stesso tempo, nel
momento in cui il materiale viene “attualizzato” in una composizione, esso
evolve, si vivifica, muta e lascia che al suo interno si sedimentino nuove forme,
le quali, per l’appunto, sarebbero il risultato del processo di trasformazione delle
antiche. Inoltre, poiché Adorno definisce il materiale musicale nei termini di
“spirito sedimentato”, l’opera d’arte, al pari della realtà sociale, verrebbe ad

teorici che mi hanno preceduto, anche se questa legge corrisponde alle condizioni più semplici
del modello naturale, cioè del suono e dell’accordo fondamentale […]» (Schönberg [1922] 1984:
35). Una quarantina di pagine dopo, Schönberg conduce un’osservazione ancora più interessante;
egli infatti scrive: «[…] penso che nell’armonia di noi moderni si finiranno un giorno col vedere
le stesse leggi che governano l’armonia degli antichi, naturalmente in forma ampliata e più
generale.» (ivi: 87).
231
A questo proposito, in Filosofia della musica moderna si trova scritto che «[s]i ragiona
come se l’idoma tonale degli ultimi trecentocinquant’anni fosse “natura”, e come se fosse andare
contro natura il superare ciò che ha ristagnato col tempo; mentre lo stesso fatto di aver ristagnato
attesta proprio una pressione sociale.» (Adorno [1949] 1959: 16-17). E, a conferma di quanto
detto, in Impromptus troviamo ribadito: «La seconda natura del sistema tonale è un’apparenza
formatasi nel corso della storia […]» (ivi: 17).
232
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 46.

130
essere una determinazione dello spirito233. A parere di Zurletti, con il termine
“spirito sedimentato”, Adorno intende sottolineare il suo aspetto di sistema
costituito di rapporti coglibili in relazione allo scorrere del tempo, «[…] in uno
stato virtuale di “solidarietà sincronica” […]» (Zurletti 2006: 47); in tal modo
nella strutturazione interna di un materiale così concepito, sarebbe possibile
rinvenire le tracce della sua storia e persino delle anticipazioni dei suoi aspetti
futuri234. Il materiale, in sintesi, compie un’azione di mediazione attraverso una
rete di rapporti interni, i quali indirizzano, guidano, canalizzano l’espressività
interiore dell’artista in forme prestabilite in modo tale che essa possa venire
compresa dalla collettività. Il punto fondamentale, tuttavia, è che per Adorno
esiste soltanto un sistema musicale in grado di esercitare la funzione di
universale della comunicazione: il sistema tonale. Nel saggio Difficoltà,
appartenente alla raccolta intitolata Impromptus, il nostro scrive:

«Gli apologeti della nuova musica dimenticano troppo facilmente che la tonalità
non è un sistema di suoni meramente posto e pertanto dimenticano che essa

233
In Introduzione alla sociologia della musica, Adorno scrive: «Lo spirito è di natura
sociale, è un comportamento umano che per un motivo sociale si è separato dall’immediatezza
sociale e si è reso autonomo. La natura della società si impone attraverso di esso nella produzione
estetica, sia come natura degli individui che producono di volta in volta, sia come natura dei
materiali e delle forme che stanno di fronte al soggetto e con i quali questo si adopera,
determinandoli e venendone a sua volta determinato. Il rapporto delle opere d’arte con la società
è paragonabile alla monade leibniziana. Prive di finestre, senza esser cioè consce della società e
comunque senza che questa coscienza le accompagni sempre e necessariamente, le opere
musicali, e, soprattutto, la musica assoluta, presentano la società, tanto più profondamente – si
potrebbe credere – quanto meno guardano ad essa.» (Adorno [1962] 2002: 252). Il paragone tra
opera d’arte e monade leibniziana compare anche nella Philosophie, tuttavia, qui, la similitudine
viene portata alle sue estreme conseguenze, poiché ha ad oggetto, ci sembra, l’opera d’arte che ha
già avviato il processo di riflessione sul suo materiale; Adorno, invero, afferma che
«[l]’eliminazione di ogni elemento prestabilito, la riduzione della musica quasi a monade
assoluta, la irrigidisce e ne mina il contenuto più interiore. Come sfera autarchica, essa dà
pienamente ragione a una società organizzata in branche, che è quanto dire all’ottusa
predominanza dell’interesse particolare, riconoscibile anche dietro la manifestazione
disinteressata della monade.» (Adorno [1949] 1959: 23).
234
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 47.

131
inverava con molta precisione il concetto di spirito oggettivo. La tonalità fu la
mediazione tra un linguaggio musicale immediato, che gli uomini, se così può
dirsi, parlavano più o meno spontaneamente, e le norme che si erano cristallizzate
all’interno di questo linguaggio.» (Adorno [1968] 1973: 111).

Per quanto attiene invece al terzo aspetto, il “carattere storico” del materiale,
Adorno, in Teoria Estetica, afferma: «Del materiale astrattamente disponibile
solo estremamente poco è utilizzabile concretamente, dunque senza collidere con
la situazione dello spirito. Il materiale non è materiale naturale neanche quando
si presenta agli artisti come tale bensì è sempre integralmente storico.» (Adorno
[1970] 2009a: 250). Ancora una volta ad essere presa di mira è l’autonomia
dell’artista; le scelte tecniche del compositore, la sua libertà creativa non sono
che delle funzioni della dialettica storica del materiale: è quest’ultimo a decidere
ciò che può o non può essere espresso in un dato momento. Anche se va
ricordato che l’artista, confrontandosi con il materiale, ne provoca
inevitabilmente un’alterazione e lo costringe ad assumere costantemente nuovi
volti. Per tornare al paragone con la teoria del linguaggio e osando un parallelo
tra il materiale musicale e la Langue235 di Saussure, notiamo che, mentre il
linguista francese, relativamente alla storicità della lingua, ritiene che non sia
possibile prevedere la direzione della sua evoluzione236 (nonostante, a posteriori,
si sia in grado di stabilire le leggi empiriche dei cambiamenti fonetici), per
Adorno, al contrario, l’evoluzione musicale è regolata da un telos interno che la

235
All’interno del Cours de linguistique générale, la Langue è definita da Ferdinand de
Saussure come «[…] un tesoro depositato nella pratica della parole nei soggetti appartenenti a
una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più
esattamente, nel cervello d’un insieme d’individui, dato che la lingua non è completa in nessun
singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa.» (Saussure [1922] 2008: 23).
236
Nello specifico, Saussure afferma che: «[i]l fenomeno fonetico è […] illimitato e
incalcolabile nel senso che tocca qualunque tipo di segno, senza fare distinzioni tra un aggettivo,
un sostantivo ecc., tra un radicale, un suffisso, una desinenza ecc. Deve essere così a priori,
perché, se la grammatica intervenisse, il fenomeno fonetico si confonderebbe con il fatto
sincronico, cosa radicalmente impossibile. Sta in ciò quel che si può chiamare il carattere cieco
delle evoluzioni dei suoni.» (Saussure [1922] 2008: 184).

132
conduce verso una progressiva e sempre maggiore razionalizzazione 237 : la
musica, seguendo la via indicata dall’Aufklärung, è infatti destinata ad una
graduale, ma continua, chiarificazione tecnica.

Come abbiamo precedentemente affermato, il materiale imporrà delle forti


limitazioni e opporrà una costante resistenza ai tentativi individuali di
sovvertirlo, tuttavia, ogniqualvolta ci si accinga a compiere un atto artistico, che
potremmo paragonare, proseguendo nel nostro parallelo con la linguistica, ad un
atto concreto di parole, esso, attraverso continue prove, modifiche e verifiche,
potrebbe, infine, giungere ad essere accettato o, più precisamente, “assorbito”,
dal codice o, è la stessa cosa, all’interno del materiale-Langue. In tal senso, cioè
a partire dalla considerazione che l’atto sovversivo della parole ha stabilmente
modificato la Langue, potremmo affermare che vi sia stata una concreta
innovazione strutturale, ovvero, l’opera artistica, avendo saputo dialogare con il
materiale musicale che le era stato tramandato come patrimonio di norme dalla
tradizione, entra, a sua volta, a far parte di quel patrimonio. Anche se, in Adorno,
tale modificazione, più che a sovvertire il materiale, contribuisce a dispiegare
delle possibilità che già sarebbero state ad esso immanenti, portandole in
superficie; in altre parole: il compositore nutre e attualizza il codice attraverso le
composizioni che da esso trae.

A partire da tali considerazioni, è forse più semplice comprendere cosa


significa quanto Adorno scrive nella Prefazione alla Filosofia della musica
moderna in relazione al fatto che questo suo lavoro sia da leggersi «[…] come
una digressione alla Dialektik der Aufklärung […]» (Adorno [1949] 1959: 6): la
tendenza del materiale alla razionalizzazione corrisponde, infatti, al Progresso
tecnologico attuatosi nella realtà sociale, a quella Ragione occidentale che è

237
Nel saggio Critica del musicante, contenuto in Dissonanze, Adorno afferma che
«[n]ell’evoluzione della tendenza storica della musica occidentale, che è quella del progressivo
dominio razionale del materiale musicale, vale realmente la logica conseguente che ‘una volta
iniziato, bisogna continuare’: in altre parole, chi dice Schütz già sottintende Bach.» (Adorno
[1956] 1981: 112).

133
pervenuta ad un completo ed irreversibile dominio sulla Natura238. L’Aufklärung
in musica, nome che Adorno non pronuncerà mai239, coincide, dunque, con il
Progresso musicale che, a sua volta, corrisponde al Progresso tecnologico
realizzatosi nella realtà sociale attraverso il dominio della Ragione, strumentale e
calcolante, sulla Natura. In particolare, la ratio musicale si è definitivamente
imposta alla Natura dei suoni con Schönberg e l’invenzione della “dodecafonia”;
la Natura dei suoni è stata innalzata ad un livello d’ordine paradigmatico,
esemplare: un livello che collima con la completa dequalificazione del
materiale240.

«Con la dodecafonia, che elimina il tradizionale sistema di relazioni


convenzionali, il materiale copre finalmente l’intero campo dei suoni e delle loro
possibili combinazioni[ 241 ] e rivendica, da questa posizione privilegiata, la
possibilità di produrre strutture che trovino in se stesse il proprio principio di

238
Adorno, in Introduzione alla sociologia della musica, scrive che: «[l]a concordanza di
quell’evoluzione tecnica con la progrediente socializzazione razionale della società risultò
evidente solo alla fine di una fase che agli inizi non si sognava nemmeno questo processo. Dal
punto di vista tecnico bisogna distinguere rispetto allo stadio del materiale e quello dei
procedimenti. Il primo sarebbe grosso modo paragonabile ai rapporti di produzione in mezzo a
cui viene a trovarsi un compositore; i secondi all’insieme delle forze di produzione formate sul
quale egli controlla la propria.» (Adorno [1962] 2002: 260-261).
239
A tal proposito Zurletti afferma: «Aufklärung in musica: è questo per Adorno il nome
impronunciabile del Progresso musicale, il nome che Adorno non riesce per tutta la vita a dare
alla “dialettica storica del materiale” che, con la seconda scuola di Vienna, presenta il suo frutto
più maturo in un materiale totalmente formato dalla Ragione determinata.» (Zurletti 2006: 57-
58).
240
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 58.
241
A partire da tale considerazione, ci sembra interessante riportare ciò che, in proposito,
Schönberg scrive nella Harmonielehre: «Oggi siamo ormai al punto di non distinguere più tra
consonanza e dissonanza, o almeno al punto di usare meno volentieri le consonanze. Forse è una
reazione alle epoche ormai terminate della consonanza, forse è un’esagerazione; […] [p]er
quanto mi riguarda personalmente […] potrei tranquillamente dire ai miei scolari che sono
permessi tutti gli accordi e tutte le successioni.» (Schönberg [1922] 1984: 87). Tuttavia poco
dopo aggiunge: «Ma sento già oggi che anche qui vi devono essere delle precise condizioni, e che
da queste dipende l’uso di una dissonanza piuttosto che di un’altra.» (ibid.).

134
legittimità.» (Zurletti 2006: 58).

In tal modo, siamo infine giunti ad affrontare l’ultimo dei quattro aspetti in
questione, il “carattere di costrizione” del materiale. A questo proposito, in
Teoria estetica, Adorno dichiara che:

«Il materiale, invece, è ciò che gli artisti maneggiano: ciò che gli si offre in
parole, colori, suoni, su su fino a collegamenti di qualunque sorta, fino a
procedimenti sviluppati di volta in volta in funzione dell’intero: in tal misura
anche forme possono diventare materiale; dunque tutto ciò che compare innanzi a
loro su cui essi devono decidere. L’idea della eleggibilità del materiale diffusa tra
artisti che non riflettono, è problematica in quanto ignora quella coercizione sia
del materiale sia a un materiales pecifico che domina nei modi di procedere e nel
loro progresso.» (Adorno [1970] 2009a: 249-250).

A partire da tale riflessione, riteniamo sia lecito giungere alla conclusione che,
nella coscienza del compositore, il materiale sia percepito come “il sentimento
della possibilità dell’opera” 242 . La costrizione a cui il materiale dà luogo,
parimenti alla costrizione linguistica, non è qualcosa a cui si possa liberamente
acconsentire: per ogni data lingua, così come per la musica, vi sono orizzonti
differenti di “dicibilità”; il modo in cui la realtà appare al parlante dipende dal
modo in cui egli la definisce verbalmente e, dunque, la sua “visione” del mondo
è strettamente connessa alla “concezione” che egli ha di esso, ovvero, ai tagli che
la sua lingua di appartenenza avrà operato nel continuum amorfo di un pensiero
prima inarticolato, indefinito243. Se in eschimese esistono otto nomi diversi per
designare ciò che in italiano si designa mediante un unico vocabolo, si pensi per
esempio alla parola “neve”, laddove un parlante nativo italiano vedrà una sola
sostanza, il nativo eschimese ne vedrà invece otto. Premesso che nessuno dei due
abbia problemi visivi, nessuno dei due ha torto; semplicemente, ognuno di loro
reputerà naturale vedere ciò che la propria forma mentis linguistica concepisce e

242
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 62.
243
«Fornendo le categorie, le classi grammaticali per comunicare, ogni lingua seleziona gli
aspetti della realtà che possono e devono essere espressi, lasciando tutti gli altri al di là della
portata dell’immaginazione individuale e dunque anche dell’espressione.» (Zurletti 2006: 60).

135
delimita come “neve”. Possiamo quindi proseguire dicendo che il materiale,
come la Langue saussuriana244, è un codice-competenza che l’individuo registra
passivamente, senza premeditazione, poiché è situato in una zona inaccessibile
ad ogni possibilità di controllo consapevole245. Ed è proprio a questo che ci
sembra alludere Adorno quando, avvalendosi di una domanda retorica, si chiede:
«Ma credono[246] forse sul serio che il comportamento dell’artista dipenda da una
decisione oggettiva e che non sia determinato dal suo stadio di coscienza, entro il
quale tutta la violenza del momento storico si trasforma in ciò che gli è possibile
o impossibile?» (Adorno[1962] 2002: 58).

Naturalmente, non era nostra intenzione compiere una simile analisi nel
tentativo di dimostrare una perfetta coincidenza tra musica e linguaggio verbale;
è evidente che, a differenza del discorso verbale, la musica manchi di una vera e
propria presa referenziale sulla realtà: essa, non costituendo un sistema di segni,
non produce concetti. Tuttavia un suo Sprachkarakter è innegabile e, per
Adorno, fa notare Zurletti, tale carattere risiede nella dialettica
particolare/universale che lo schema tonale stabilisce con le opere. Ora, a partire
dal presupposto che, nella concezione adorniana, la storia è intesa
teleologicamente, il materiale musicale che, in quanto codice, ribadiamo,
coincide con la nozione di tonalità, dispiega la propria capacità dialettica
all’interno di una parabola storica: esso compie, o, meglio, ha compiuto un arco
evolutivo all’interno del quale ha raggiunto diversi livelli di adeguazione rispetto
alla dialettica tra particolari e universale. Ricordiamo infatti che se, per Adorno,
il materiale musicale coincide con la tonalità, quest’ultima, al pari di una lingua
storico-naturale, esercita nei confronti della musica la funzione di codice
universalmente condiviso. Il codice-tonalità, che è un sistema di norme a cui

244
«La lingua non è una funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra
passivamente; non implica mai premeditazione […]» (Saussure [1922] 2008: 23).
245
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 61.
246
Il soggetto sottinteso sarebbero i “dimentichi successori di Hegel”, i quali, a parere di
Adorno, pensano che una tendenza, la cui sostanza è oggettivamente determinata, possa venire
modificata dall’artista con un semplice atto di volontà.

136
occorre conformarsi, mentre garantisce la comunicabilità degli atti espressivi
individuali, «[…] lavora, durante tutta la sua parabola storica, alla possibilità di
sovrapporre particolare e universale.» (Zurletti 2006: 50). In effetti, secondo il
filosofo, l’evoluzione storica della tonalità è sotterraneamente animata da una
tensione all’identificazione completa dell’universale con il particolare e il
culmine di tale identificazione, il momento di compenetrazione quasi completa, è
rappresentato dallo stile classico. Nello specifico, il carattere ottimale della
dialettica storica del materiale e, dunque, il punto più elevato nella parabola
storica della musica occidentale coincidono con la «prima scuola di Vienna», di
cui fanno parte F. J. Haydn, W. A. Mozart247 e L. van Beethoven, ma anche
Stamitz, Kalkbrenner e Salieri, autori in cui prevaleva uno spiccato interesse per
la musica strumentale. Nello stile che fiorì nel lasso di tempo compreso,
all’incirca, tra il 1760 e il 1830 e che fu percepito come “classico” già nel corso
del XIX secolo, andò affermandosi un concetto di musica strumentale che fosse
assolutamente autonoma dal canto e dalla danza, tipici del cosiddetto stile
‘galante’. Il risultato espressivo a cui il «primo classicismo» pervenne fu una
musica più logica e consequenziale che si espresse in un sistema noto come
forma-sonata. Adorno non nega la bellezza dei madrigali di Monteverdi o la
magnificenza di alcuni preludi di Debussy, semplicemente egli non include tali
risultati entro la propria concezione storica, la quale non ha mai inteso essere un
approccio neutro ai fatti.

La dialettica storica del materiale è un processo di razionalizzazione della


musica, in seno alla tonalità, che, a partire da J. S. Bach, e in particolare dal suo
Clavicembalo ben temperato, include obbligatoriamente l’Ars Nova, i
Fiamminghi, Händel e Scarlatti, giungendo, infine, al «[…] classicismo come

247
Secondo Adorno, è con Mozart che, per la prima volta, si può parlare di equilibrio fra
materiale e composizioni; in Introduzione alla sociologia della musica, egli scrive: «Se la grande
musica è talmente integrale da non insistere sul particolare né sottometterlo al totale facendo
invece sprigionare questo dall’impulso della particolarità, tale integrazione nasce, come risonanza
dei momenti italiani e tedeschi, nel linguaggio musicale di Mozart che si va sublimando.»
(Adorno [1962] 2002: 197).

137
punto d’equilibrio fra l’universale del materiale e il particolare delle
composizioni.» (ivi: 74-75). Tuttavia, per Adorno, anche all’interno del
classicismo c’è una gradazione rispetto all’adeguazione all’Idea; da questo punto
di vista, la “soggettività” di Mozart non è ancora sufficientemente potente nei
confronti della potenza costrittiva del materiale 248 , infatti, sarà soltanto
Beethoven, vero centro dell’estetica musicale adorniana, che saprà realizzare, in
virtù di una perfetta padronanza delle categorie della tonalità, il carattere
linguistico della musica. Di conseguenza, afferma Zurletti, «[l]a “filosofia della
musica”, il libro che Adorno aveva da sempre in mente e che uscirà, a titolo
postumo, sotto forma di un imponente frammento, non avrebbe mai potuto essere
dedicato alla Neue Musik […]» (ivi: 80), bensì a Beethoven.

4. Tra Progresso e «Restaurazione»

La dialettica storica del materiale è tuttavia implacabile – la fatalità


dell’Aufklärung, infatti, non perdona, in musica come in ogni altro contesto249 – e
la sua tendenza ad irrigidirsi si manifesta già nell’ultimo Beethoven, il quale, se
nella propria “fase centrale” aveva, per Adorno, saputo costringere le categorie
della tonalità alla misura, pervenendo ad una sintesi suprema nella relazione
particolare/universale, nella sua terza e ultima fase, ne smaschera il carattere
mendace, il carattere di apparenza, di Schein e su tale scoperta baserà la sua
produzione più splendida. Beethoven, infatti:

«[…] intuisce la classicità come classicismo, e si ribella all’affermativo,


all’accettazione acritica dell’essere – presente nell’idea della sinfonia classica […]
C’era qualcosa nella sua mente geniale, qualcosa certo di profondamente
costitutivo, che si rifiutava di conciliare astrattamente ciò che è inconciliabile.

248
La costrizione del materiale, secondo Adorno, va individuata nella standardizzazione delle
soluzioni espressive e nella conformazione alle convenzioni.
249
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 116.

138
[…] L’esigenza di verità dell’ultimo Beethoven rigetta l’apparenza di
quell’identità di soggettivo e oggettivo che è quasi tutt’uno con l’idea guida del
classicismo.» (Adorno [1993] 2001: 211-212).

È come se, ad un certo punto, Beethoven si avvedesse della “non-


naturalità” del codice tonale, perché quest’ultimo comincia ad apparirgli nel suo
essere “creazione collettiva”, esito di precipitazioni storiche250. Di conseguenza,
scorgendo l’architettura nascosta delle tensioni codificate e vedendo sotto una
nuova luce ciò che un tempo percepiva come l’impenetrabile e provvidenziale
complessità del sistema, «[…]egli rinuncia, secondo Adorno, a simulare la
coincidenza tra particolare e universale, lasciando apparire le convenzioni per
quelle che sono.» (Zurletti 2006: 115). Dunque, l’inizio del processo di
razionalizzazione – di Aufklärung – del materiale – coinciderebbe, secondo la
concezione adorniana, con la terza maniera di Beethoven; quest’ultimo, infatti,
intraprenderebbe una esplicita riflessione sul linguaggio tonale in quanto tale,
rompendo l’implicito patto tra l’inventiva del compositore e il linguaggio
universale. E, interrogarsi sul materiale, significa dare avvio ad una sorta di
operazione metalinguistica che, nel volgere di un secolo, condurrà a niente di
meno che allo smantellamento della tonalità ad opera dei protagonisti della
seconda avanguardia viennese. Adorno non sta dicendo che prima non vi fosse
riflessione compositiva, ma che quest’ultima, inizialmente, si concentrava
sull’architettura della forma e sulla vivificazione delle formule del materiale,
mentre, a partire dall’ultimo Beethoven, e ciò anticipa uno degli aspetti più
eclatanti della Nuova Musica, tale riflessione viene condotta sulle formule
stesse251.

250
In Beethoven. Philosophie der Musik, Adorno afferma che il Beethoven tardo è
completamente diverso, poiché «[d]appertutto nel suo linguaggio formale, anche laddove si serve
di una sintassi così singolare come nelle ultime cinque sonate per pianoforte, sono disseminate
formule e frasi della convenzione. Sono piene di serie di trilli, cadenze e fioriture decorative;
spesso la convenzione diviene visibile in modo manifesto, nudo, diretto […]» (Adorno [1993]
2001: 177).
251
Cfr. ZURLETTI, 2006, pp. 116-117.

139
Nello Spätstil beethoveniano si verifica, quindi, una progressiva dissociazione
interna del materiale: il linguaggio, per la prima volta, parla di se stesso, diventa
autocosciente e si impone al “soggetto” come “oggetto”, nel senso di alterità
inconciliabile252. Un’opera indicativa di un diverso rapporto con il materiale e
che si situa esattamente tra il Beethoven di mezzo e la sua ultima fase può, a
giudizio di Zurletti, essere individuata nella Sonata per pf solo in si bemolle
maggiore op. 106253; allo stile tardo appartengono invece le sonate per pianoforte
op. 101, 109, 110 e 111 e le Variazioni Diabelli. Tuttavia, nella 106 ci sono già i
sintomi inconfondibili del mutato rapporto che Beethoven intrattiene con i mezzi
della tradizione; Adorno, infatti, nota come in essa emergano con chiarezza,
“senza parrucca”, le convenzioni tonali: l’onnivoro materiale del tardo
classicismo ha ormai completamente assimilato elementi arcaici quali la fuga e la
variazione all’interno di una complessità formale del tutto eccezionale. Ma,
ammonisce Zurletti, «[l]a complessità e la genialità delle soluzioni espressive
della 106 non devono trarre in inganno: sono chiare le tracce nel capolavoro
beethoveniano di un’impasse creativa che non è dovuta a una momentanea eclissi
dell’ispirazione, ma alla perdita della fiducia in ulteriori possibili sviluppi della
forma-sonata.» (ivi: 119). Per quanto riguarda invece le opere propriamente
tarde, esse, caratterizzate da una sorta di indifferenza verso ciò che la forma
“formalizza”, certificano che l’evoluzione è completamente cessata e,
avvicinandosi ad una sempre più completa libertà d’espressione, sono anche le
più perturbanti e le meno coese, poiché vi si può udire, in forma frammentaria,
l’accento della verità254.

252
«Toccata dalla morte, la mano del maestro libera le masse di materia cui prima dava
forma; le fessure e crepe ivi presenti, testimonianza dell’impotenza finita dell’Io di fronte
all’esistente, sono la sua ultima opera.» (Adorno [1993] 2001: 178 Testo 3).
253
A proposito della Hammerklavier, Adorno sostiene che «[…] dire che il materiale si
indurisce diventando convenzione è comunque soltanto una mezza verità. Nella sua alienazione
dal processo e dall’identità è nel contempo spoglio, freddo, come roccia. Essendo divenuto
soggettivamente inespressivo, assume un’espressione oggettiva, allegorica. “Parla il principio
tonale stesso”.» (Adorno [1993] 2001: 182, frammento 266).
254
«Le opere di rango più elevato si differenziano dalla altre non per la riuscita – che cos’è mai

140
Ora, a partire dal presupposto che, per Adorno, come abbiamo più volte
ribadito, il Progresso musicale, al pari di quello sociale, è necessariamente
rettilineo, si giunge alla conclusione, suggerita, ma mai affermata, che sia
possibile tracciare una linea che congiunga, secondo uno sviluppo logico,
Beethoven, a Wagner, a Brahms e, infine, alla scuola schönberghiana. Da questo
punto di vista, l’intero secolo XIX viene letto come una lunga premessa alla
completa emancipazione della dissonanza, come un lungo periodo di transizione
che vede un confronto costante tra materiale e compositore fino al momento in
cui tale materiale, per mezzo della rivoluzione funzionale 255 operata dalla
dodecafonia, non si rivelerà più essere il medesimo sistema di universali, bensì
un fatto privato del compositore. Per Adorno, l’attività di Schönberg è
suddivisibile in due periodizzazioni: la prima è ravvisabile nel cosiddetto periodo
“atonale/espressionista 256 ”, che denoterebbe un rapporto ancora piuttosto

riuscito? – bensì per la modalità della loro mancata riuscita. Infatti sono quelle i cui problemi sono
posti in modo estetico-immanente e sociale (le due cose coincidono nella dimensione della
profondità) in modo tale che devono per forza fallire, mentre il fallimento delle opere minori resta
casuale, questione della mera incapacità soggettiva. Un’opera d’arte è grande quando il suo
fallimento contrassegna antinomie oggettive. Questa è la verità e la sua “riuscita”: scontrarsi con il
proprio limite. Rispetto a ciò, ogni opera d’arte che non lo raggiunge e riesce è fallita. Questa teoria
rappresenta la legge formale che determina il passaggio dal Beethoven “classico” a quello tardo, e in
modo tale che il fallimento insito oggettivamente in quello viene scoperto da questo, elevato ad
autocoscienza, purificato dall’apparenza della riuscita e proprio in tal modo elevato a riuscita
filosofica.» (Adorno [1993] 2001: 145-146, frammento 229).
255
La “rivoluzione funzionale” con la quale Schönberg risolverà «[…] l’essenza magica della
musica in razionalità umana.» (Adorno [1949] 1959: 69).
256
Rognoni ravvisa una reale rottura con la tradizione armonica e, contemporaneamente,
l’avvio verso la “sospensione tonale” nella Kammersymphonie op. 9 (1906). Nonostante tale
opera non sia ancora una composizione tonale, per essa non è ad ogni modo corretto parlare
neppure di “politonalità” la quale, in genere, connota le composizioni di Stravinskij e Hindemith
che, nei propri lavori, sono soliti applicare due o più tonalità, dando luogo ad una contaminazione
polifonico-tonale. Il critico ritiene che a partire da Verklärte Nacht (1899), Schönberg sia passato
attraverso alcune tappe importanti quali i Gurre-Lieder per soli, coro e orchestra (1900), il poema
sinfonico Pelleas und Melisande op. 5 (1903), i Sechs Orchesterlieder op. 8 (1904) e il primo
Streichquartett op. 7 (1905), ma che il significato “attivo” della sua esperienza cromatico-
wagneriana si possa comprendere soltanto con la Kammersymphonie; essa, infatti, «[…] rivela

141
tradizionale con il materiale; la seconda coincide, altresì, con la vera e propria
presa di coscienza nei confronti di quest’ultimo, momento che, per l’appunto, è
individuabile nella svolta “dodecafonica 257 ”, ove l’ordine tradizionale della
comunicazione in musica viene del tutto sovvertito, poiché la Ragione si dispiega
in tutta la propria forza sul materiale, neutralizzandolo. Schönberg, mediante
l’introduzione della “dodecafonia”, si emancipa, con completa e definitiva
coscienza, dall’ordine che gli è stato imposto dalla tradizione e costruisce,
sabotando in piena consapevolezza il precedente, un linguaggio proprio,
mutando, dunque, le condizioni fondamentali della comunicazione in musica258.

A questo proposito, Adorno dichiara: «[…] solo con Schönberg la musica ha


accettato la sfida nietzscheana, e i suoi pezzi sono i primi in cui realmente nulla
può essere diverso: sono a un tempo protocollo e costruzione. Non è in essi

un’accesa scrittura armonica, che, forzando continuamente il campo tonale, oscilla tra la tonalità
fondamentale [di Mi maggiore] e altri nuclei non più riconducibili agli schemi dell’armonia
tradizionale.» (Rognoni 1974: 27).
257
Secondo Rognoni, un primo concreto orientamento verso la costruzione dodecafonica si ha
nel 1923 con i Fünf Stücke op. 23 per pianoforte che, dopo il silenzio che seguì al Pierrot lunaire
op. 21 e ai successivi Vier Orchesterlieder op. 22 (1913-15), segnano la ripresa creativa di
Schönberg. Tuttavia, il musicologo, in accordo con l’osservazione di Egon Wellesz, ritiene che
per l’individuazione dello spazio dodecafonico, abbia un’importanza determinante il testo della
Jakobsleiter (pensato nel 1912 e scritto nel 1915) (Cfr. ROGNONI, 1974, pp. 82-83). Intuizione,
quest’ultima, che, più tardi, verrà confermata, in uno dei suoi saggi, da Schönberg stesso.
258
Come abbiamo precedentemente puntualizzato, Thomas Mann, nelle parti in cui viene
descritta la musica di Adrian Leverkün (che non è altro che la musica di Schönberg), si è avvalso,
senz’ombra di dubbio a nostro parere (nonostante il conflitto di attribuzione di paternità avviato
da Katia ed Erika Mann, figlie dello scrittore), delle conversazioni e degli scritti del
francofortese; riportiamo, di seguito, il passo in cui il fidato Serenus narra ciò che il geniale
amico gli aveva mostrato a proposito del proprio metodo di comporre, poiché ci sembra
perfettamente in linea con le osservazioni sul “metodo dodecafonico” svolte fin’ora: «Egli mi
fece vedere il “quadrato magico” d’uno stile o d’una tecnica che svolge la massima varietà da
motivi identici e fissi, dove non vi è più nulla di extratematico, nulla che non possa considerarsi
variazione d’un motivo sempre uguale. Questo stile, questa tecnica, si diceva, non ammettono
alcun suono, nemmeno uno, che non adempia alla sua funzione di motivo nell’edificio tonale, di
modo che non vi è più alcuna nota libera.» (Mann [1947] 1999: 664).

142
rimasto nulla delle convenzioni che garantivano la libertà del gioco […]»
(Adorno [1949] 1959: 47-48). In nota, egli osserva poi che intendere l’origine
della tonalità come “purificazione” completa della musica dalle convenzioni,
significa coglierne l’aspetto più “barbarico” (ed è quindi in tal senso che, in essa,
è accolta la “sfida nietzscheana”): questa primitività sarebbe l’elemento che
smaschera, facendoli affiorare in superficie, gli sfoghi anticulturali della musica
di Schönberg259. A nostro parere, Adorno conferisce all’accordo dissonante un
significato paradossale poiché esso, non solo sarebbe più progredito dell’accordo
consonante, ma renderebbe manifesta la scomoda verità che il principio d’ordine
della civiltà sia mai stato capace di soggiogarlo, quasi a dichiarare che tale
elemento sovvertitore sia più antico della tonalità stessa. Ad un orecchio non
esperto, ingenuo, gli accordi complessi, prosegue Adorno, appaiono “sbagliati”
allo stesso modo in cui trova “mal fatti” i prodotti del disegno d’avanguardia,
questo perché:

«[…] il progresso stesso, con la sua protesta contro le convenzioni, ha un che di


fanciullesco, qualcosa di regressivo. Le primissime composizioni atonali di
Schönberg, in particolare i Tre pezzi per pianoforte op. 11, spaventavano più per il
loro primitivismo che per la loro complicatezza, e l’opera di Webern, con tutta la
sua lacerazione e forse proprio grazie ad essa, resta quasi sempre primitiva.» (ivi:
48).

Nel terzo paragrafo, ci siamo riservati di eludere momentaneamente una


questione che ci avrebbe condotto ad una situazione di impasse qualora ci

259
«Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso,
l’epoca culturale, cioè l’epoca della cultura e del suo culto, avrai il coraggio della barbarie, che è
doppiamente tale perché arriva dopo il senso di umanità, dopo il più radicale trattamento della
radice e il raffinamento borghese.» (Mann [1947] 1999: 333). Dopo aver letto attraverso quali
parole il diavolo tenti di persuadere Adrian e aver notato l’indubbia assonanza tra i contenuti
espressi dal “non addomesticato Sammael” e il pensiero adorniano, si può ben comprendere
perché Adorno fu indotto a chiedere all’ironico scrittore se, effettivamente, nel capitolo XXV,
«[…] egli si fosse ispirato al suo ritratto per descrivere la figura del diavolo […]» (Müller-
Doohm 2003: 15), a prescindere dalla descrizione ambiguamente somigliante con la quale Mann
delinea la mefistofelica figura.

143
fossimo confrontati con le estreme conseguenze del processo di Aufklärung in
musica; quest’ultima, al pari della società, sarebbe anch’essa destinata ad entrare
nel regno della Ragione tecnologica con la diretta conseguenza che il suo
carattere artistico verrebbe irreparabilmente smantellato. Abbiamo detto che
l’Aufklärung in musica si manifesta con estrema chiarezza nello stile dell’ultimo
Beethoven, uno stile in cui le convenzioni tonali, nell’impossibilità di essere
usate come pura immediatezza espressiva, si mostrano per quello che sono. Ma
nel momento in cui nello Spätstil beethoveniano il materiale musicale si impone
alla riflessione e si propone come un meccanismo autoalimentato, prendendo
possesso della forma, la musica firma la sua condanna, poiché «[q]uando la
musica di Beethoven comincia a parlare il materiale, lo fa perché l’individuo non
ha più posto.» (Zurletti 2006: 118). Una volta che la dialettica storica del
materiale musicale abbia condotto a riflettere sui meccanismi compositivi, non è
più possibile ternare indietro dal progresso, che per Adorno ha un carattere
rettilineo: le acquisizioni dell’ultimo Beethoven, riprese, prima, dai romantici e,
in seguito, dal dodecafonismo schönberghiano, trasformeranno la composizione
nell’esposizione dei propri principi costruttivi. Ma a questo punto si pone un
problema: se il compositore dodecafonico rigetta il materiale musicale in quanto
codice universale della comunicazione e non si preoccupa più di far coincidere i
propri atti espressivi individuali (la propria parole musicale) con il codice-
tonalità (la Langue universalmente riconosciuta), com’è possibile che in musica
si riesca ancora a “produrre senso”? E, effettivamente, Adorno nega alla
“dodecafonia” la possibilità di produrre senso. L’aporia a cui siamo di fronte è la
necessità di giustificare il metodo di composizione con dodici suoni come il
260
prodotto inevitabile della dialettica storica del materiale e,
contemporaneamente, la sua incapacità di generare senso261.

260
«L’esattezza dodecafonica, sbarazzandosi di ogni significato in sé essente nella cosa
musicale come se fosse un’illusione, tratta la musica secondo lo schema del destino.» (Adorno
[1949] 1959: 72).
261
Nel paragrafo intitolato Dominio sulla natura in musica, Adorno afferma: «Il problema
posto dalla musica dodecafonica al compositore non è come possa essere organizzato un senso

144
A parere di Zurletti, Adorno, stretto in questa implacabile morsa dialettica,
giungerà a determinare la fisionomia formale, esterna, del saggio su Schönberg
come un vasto movimento dialettico in cui la seconda parte rovescia le
conclusioni della prima262, rivelando così una profonda onestà intellettuale. In
particolare, è in corrispondenza del paragrafo intitolato «Trapasso nell’illibertà»
che «[…] si assiste al rovesciamento dialettico per il quale tutto ciò che è stato
presentato in un primo tempo come una conquista trionfale e progressiva, rivela
ora la portata tragicamente autodistruttiva dello stesso Progresso.» (ivi: 141). È
evidente che l’Aufklärung si è rovesciato nel proprio contrario: con la
“dodecafonia” la Natura del suoni è stata piegata dalla Ragione mediante un
criterio d’ordine logico-matematico e l’enorme libertà che il compositore
sembrava all’apparenza avere in relazione all’organizzazione dei suoni, viene
immediatamente revocata, perché, come emerge con chiarezza nel Doctor
Faustus, ogniqualvolta la voce narrante si appresti a descrivere in che modo, e
mediante quali sforzi, avvenga il processo compositivo del dottor Leverkün,
nessuna regola è più restrittiva di quella che il creatore si impone da sé263; nello
specifico, Adorno dichiara che la dodecafonia, nel liberare la musica, la incatena
e che, anche se il soggetto impera sulla musica mediante il sistema razionale, a
questo soccombe. «Se nella dodecafonia l’atto compositivo propriamente detto,
cioè la feconda elaborazione della variazione, viene sospinto nel materiale, la
stessa fine tocca a tutta la libertà del compositore.» (Adorno [1949] 1959: 72).

Ad ogni modo, nonostante la Neue Musik abbia rinunciato al materiale in


quanto sistema di universali della comunicazione, abdicando così alle sue
possibilità espressive, per Adorno, “non c’è critica al progresso che sia
legittima” 264, e ancor meno si può sperare qualcosa dalla restaurazione del

musicale, ma piuttosto come possa l’organizzazione acquistare un senso […]» (Adorno [1949]
1959: 71).
262
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 141.
263
«Nessuna regola si dimostra più repressiva di quella che ci si è posti da se stessi.» (Adorno
[1949] 1959: 73).
264
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 4.

145
passato, mediante una ritrattazione consapevole della ratio265 musicale. In fin dei
conti, la musica, in seno ad una realtà sociale in preda alle antinomie irrisolte
generate dal Progresso, non può che rivelarsi incapace anch’essa di risolvere le
proprie266. Tuttavia, se le composizioni rispettose dello stato del materiale erano
disposte a scontrarsi con tali antinomie, al contrario, Stravinskij, pur consapevole
del problema della crisi del materiale musicale, ignora questo aspetto
problematico e, con l’abilità di un acrobata provetto, escogita un sistema per
aggirarlo. A questo proposito Adorno dichiara:

«In realtà l’armonia di Stravinsky resta sempre sospesa e si sottrae alla


gravitazione del procedimento degli accordi per gradi armonici. L’ossessione e la
perfezione dell’acrobata, priva di ogni senso, l’illibertà di chi ripete sempre la
stessa cosa finché gli riescono gli esercizi più temerari, denota oggettivamente
senza porsi nessun obiettivo una padronanza piena, una sovranità e una libertà
dalla costrizione naturale che però vengono al tempo stesso smentite come
ideologia nel momento in cui si affermano.» (ivi: 142).

Il leitmotiv, il motivo di fondo, l’idea ricorrente che anima le critiche che


Adorno muove a Stravinskij e alla sua musica, è la posizione che il compositore
assume dinnanzi allo “sfacelo” del materiale; Adorno non sta mettendo in
discussione le qualità di Stravinskij compositore, ma condanna la sua
insensibilità al problema del codice, giudicando, in un certo senso, disonesta e
dannosa l’operazione con la quale egli “manomette” consapevolmente
dall’esterno la tonalità267. Le analisi o, meglio, le ininterrotte osservazioni che il
filosofo svolge sull’Histoire du Soldat, su Petruška o sul Sacre, passando
continuamente da un’opera all’altra, senza dare luogo ad un commento compiuto

265
Nel termine “ratio”, che compare a pagina quattro della Philosophie, riteniamo, in accordo
con quanto sostenuto da Zurletti, di poter individuare la dialettica storica del materiale musicale
che, per Adorno, porta inevitabilmente alla neutralizzazione dello stesso.
266
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 150. A questo proposito Adorno scrive: «Con la spontaneità
della composizione si paralizza anche la spontaneità dei compositori d’avanguardia. Essi si
trovano di fronte a problemi insolubili, al pari di uno scrittore che debba espressamente servirsi
del vocabolario e della sintassi per ogni periodo che scrive.» (Adorno [1949] 1959: 107).
267
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, pp. 178-179.

146
e dettagliato di nessuna di esse, rivelano sì un giudizio accorto e penetrante nei
confronti della struttura compositiva che anima questi pezzi, tuttavia l’ideologia
di fondo con la quale Adorno li interpreta e alla quale intende a tutti i costi
rimanere fedele, a nostro avviso, gli impedisce di conferire alle composizioni
stravinskiane il giusto valore. Al critico non sfugge l’intricato gioco che il Russo
attua nei confronti dell’armonia, che, a tratti, si ritrova in un particolarissimo
stato di sospensione (pensiamo ad esempio al Pulcinella268, nel quale Stravinskij
altera nota per nota, in maniera davvero sottile, l’armonia di una musica di
Pergolesi); e non sfugge nemmeno la virtuosistica capacità che il compositore ha
di giustapporre l’uno accanto all’altro pezzi di diversi autori e di differenti
tradizioni stilistiche, modificandoli (si pensi all’elaborato mosaico del Petruška o
del Sacre), ma si sforza di conferire a tutto questo una valenza estremamente
negativa.

Nessuno ha mai osato affermare che Stravinskij fosse un compositore di


maniera, neppure Adorno, nonostante vi siano numerose occasioni in cui il
musicista impiega testualmente musiche di altri compositori, soprattutto dopo
l’esilio. L’autore del Pulcinella, infatti, dopo aver perso ogni contatto con la
madrepatria, cercherà di colmare tale frattura abitando tutta la musica attorno a
lui: Čajkovskij, Gesualdo, Bach, Pergolesi fino a Webern; e il motivo per cui non
fu tacciato di manierismo dipende, a nostro giudizio e in accordo con quanto
afferma Francesco Antonioni nella lezione intitolata L’invenzione della
tradizione, dal fatto che Stravinskij, appropriandosi a modo suo della tradizione,
riesce a “reinventarla”, indicandoci, rispetto ai pezzi che decide di utilizzare, una
strada alternativa, una diversa via che essi avrebbero potuto percorrere qualora

268
Pulcinella, composto tra il 1919 e il 1920, è la prima opera nell’ambito della corrente del
neoclassicismo, denominazione dalla quale Stravinskij prese sempre le distanze. Il titolo originale
di questo balletto è “Ballet avec chant” Pulchinella (Musique d'après Pergolesi), scritto
originariamente per orchestra e voci soliste. Lo abbiamo scelto come esempio perché con il
Pulcinella Stravinskij iniziò a muoversi su un terreno molto diverso da quello esplorato in
precedenza; infatti, in seguito all’esilio, egli abbandonò il principio ispiratore della tradizione
popolare russa, ponendo alla base del suo processo compositivo forme e materiali attinti
direttamente dal passato.

147
fossero stati scritti in un’epoca posteriore269. Ciononostante, dal momento che
l’arte di Stravinskij non è, per Adorno, allineata alla legge del Progresso, egli si
preoccupa fondamentalmente di criticarne, non eventuali singoli fallimenti
estetici, ma la connivenza che, a suo avviso, essa manifesta con la società
dominata e irretita dall’industria della cultura.

A suo parere, nella musica di Stravinskij vi è il medesimo “comportamento


schizofrenico” che “serve a superare la freddezza del mondo270” riscontrabile nel
jazz e tale relazione diretta sarebbe verificabile nello stadio del rituale presente in
entrambi: quest’ultimo, invero, si manifesterebbe con particolari tecnici quali, ad
esempio, la simultaneità dei tempi rigidi e gli accenti sincopati irregolari. Anche
se, ammette Adorno, paragonato al Ragtime per undici strumenti, alla Piano Rag
Music o, ancora, al Tango e al Ragtime dall’Histoire du Soldat, «[…] ogni altro
interesse dei compositori per il jazz fu solo un ammiccare verso il pubblico, pura
e semplice vendita commerciale […]» (ivi: 168), infatti, Stravinsky soltanto è
giunto a ritualizzare la vendita e, addirittura, il rapporto stesso con la merce; in
tal senso, conclude Adorno, «[e]gli balla la danza macabra intorno al carattere
feticistico della merce.» (ibid.).

Il filosofo, insomma, resta fedele a se stesso e alla propria lettura


“ideologica”: applicando anche all’autore del Sacre il consueto quadro
categoriale, egli giudica l’operato di Stravinskij in base alla posizione tecnico-
morale del compositore di fronte al materiale271. Al compositore russo viene

269
Antonioni, all’interno della lezione citata, per spiegare ciò che accade nella musica di
Stravinskij si avvale di una metafora oltremodo esplicativa: egli fa riferimento ad un passo
dell’autobiografia del compositore in cui quest’ultimo spiega che i nomi russi terminanti in “и”
(i) sono il più delle volte degli aggettivi, al contrario, se il suo nome avesse voluto essere un
sostantivo, si sarebbe concluso con la lettera “к” (k).“Italianizzando” questa considerazione,
prosegue Antonioni, potremmo dire che Stravinskij, nome in funzione aggettivale,
“stravinskizza” la propria musica e, ad esempio, nel caso del tema del Pulcinella, la sua musica
diventa un “Pergolesi stravinskizzato”, dove Stravinskij è l’aggettivo e Pergolesi il sostantivo,
avendo il primo avuto l’intuito di capire le potenzialità ancora inespresse di questo tema.
270
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 168.
271
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 154.

148
accusato di assumere il materiale acriticamente, così come gli viene trasmesso
dalla tradizione, senza sottoporlo ad una verifica preliminare per accertarsi che
esso non sia già stato sperimentato e che, dunque, le sue possibilità e la propria
capacità di organizzare il senso non siano già state esaurite. Quando parla di
Petruška, Adorno, nel riferirsi al modo straordinario in cui i diversi materiali
musicali, appartenenti ai più disparati stili, vengono accostati, non accenna
minimamente al fatto che essi, montati l’uno accanto all’altro, diano luogo ad
uno straordinario senso di unitarietà e di compattezza quasi monolitica; non si
chiede in base a quale tecnica Stravinskij riesca a tenere insieme un’estrema
raffinatezza nell’orchestrazione, nella scrittura dei dettagli e una grande
semplicità ed efficacia diretta della musica. Ad ogni modo, noi continuiamo a
pensare che ciò non possa essergli affatto sfuggito, se non altro perché,
altrimenti, non avrebbe, a distanza di anni, avvertito l’esigenza di integrare lo
scritto dedicato a Schönberg con un’accorata confutazione del Russo.

Interessante è inoltre notare come, a partire dalle sue convinzioni estetico-


morali, le critiche adorniane non risparmino neppure gli allievi della Seconda
Scuola; atteggiamento che, a nostro avviso, dimostra che egli non difende a
spada tratta la Neue Musik per partito preso o per i personali rapporti d’amicizia
che intratteneva con i membri appartenenti ad essa. Nonostante non nutrisse una
particolare simpatia nei confonti di Schönberg272, Adorno non giungerà mai a
criticarne le composizioni, al contrario, criticherà il suo maestro Berg, con il
quale aveva invece instaurato fin dai primi anni di studio un profondo legame di

272
A tale riguardo si esprime anche Müller-Doohm, osservando che, a partire
dall’indiscutibile importanza che, in quanto iniziatore della nuova musica, Schönberg assumeva
agli occhi di Adorno, «[s]alta dunque ancor di più agli occhi l’antipatia che quelle due persone,
entrambe così ostinate e alle quali stavano a cuore le stesse cose, nutrivano l’una per l’altra. Già
in una lettera dell’aprile del 1925 inviata a Kracauer da Vienna, Adorno parla del temperamento
“inquieto”, “ossessivo” e “angoscioso” di Schönberg. […] Non sopportava di essere contraddetto
ed imponeva a tutti quanti i suoi consigli in questioni di composizione. Schönberg si sarebbe
rivolto ad Adorno “come Napoleone ad un attendente, dall’alto in basso”.» (Müller-Doohm 2003:
122).

149
amicizia e di stima reciproca273. Berg, a differenza di Webern, avrebbe, agli
occhi del filosofo, “cercato di spezzare il bando della dodecafonia
ammaliandola 274 ” e, effettivamente, pensando al Concerto per violino e
orchestra simbolicamente intitolato "Alla memoria di un angelo", non è affatto
difficile intuire il senso di una simile dichiarazione. In particolare, Adorno criticò
le scelte che il suo maestro compì in Lulu perché l’intera opera, a suo avviso:

«[…] potrebbe essere immaginata rinunciando alle virtuose manipolazioni


dodecafoniche, senza che per questo si mutasse nulla di decisivo: ed è una vittoria
del compositore che egli possa fare, oltre a tutto il resto, anche questo,
trascurando il fatto che l’impulso critico della dodecafonia in realtà esclude
appunto tutto il resto. La debolezza di Berg sta nel non poter rinunciare a nulla,
mentre la forza di tutta la musica nuova sta nella rinuncia.» (Adorno [1949] 1959:
111).

All’opposto, un completo senso della rinuncia sarà riconosciuto con estrema


ammirazione a Webern, il quale si rivela del tutto insensibile alle “lusinghe”
della tonalità. Webern non esita a sottomettersi alla legge della dialettica storica
del materiale, realizzando la tecnica dodecafonica in maniera talmente compiuta
da “non comporre più”: «[…] il silenzio è ciò che resta della sua maestria.» (ivi:
113). Anche se è forse lecito leggere quest’ultima affermazione in senso ironico
anziché conferirle un tono apocalittico; sono infatti note le parodie che, a scopo
meramente ludico, Adorno e Berg, spesso a quattro mani, realizzavano nei
confronti delle opere di Anton Webern, al quale stavano riuscendo composizioni

273
A conferma di tale affermazione, riportiamo quanto emerge dalle ricerche di Müller-
Doohm, il quale dichiara che il legame di Adorno con Berg era molto intenso ed è, inoltre,
testimoniato dall’ampio carteggio che ebbe luogo fra i due musicisti: 136 lettere dal 1925 al
1935. A questo proposito, l’autore della Biografia di un intellettuale scrive: «Un esempio
concreto del riconoscimento senza riserve di Berg da parte di Adorno si trova in un passaggio di
una delle sue lettere al compositore, quella del 30 marzo 1926: “Lei deve sapere che non esiste
una persona alla quale io mi senta più profondamente e decisamente legato che a lei, e per la
quale nutra maggior gratitudine; ed io non riesco ad immaginare nulla, assolutamente nulla che,
per parte mia, potrebbe por fine a questa relazione”.» (Müller-Doohm 2003: 114).
274
Cfr. ADORNO, [1949] 1959, p. 112.

150
sempre più brevi. Müller-Doohm riporta il caso di quella che sarebbe stata
un’imitazione perfetta di un pezzo di quel compositore inflessibile ed essenziale:
essa «[…]“consisteva di un’unica pausa di un quarto, infiorata di ogni sorta di
segni e di indicazioni interpretative” […]» (Müller-Doohm 2003: 120); nello
specifico, a tale pausa era stata ridicolmente posta sopra una quintina, provvista
di ogni indicazione espressiva ed esecutiva pensabile che, oltretutto, doveva
anche spegnersi con gradualità.

Dalla valutazione complessiva di Filosofia della musica moderna ci sembra


dunque possibile trarre un resoconto fallimentare: da un lato, la Neue Musik che
porta a compimento l’Aufklärung del materiale, non è in grado di dar luogo ad un
nuovo orizzonte del senso (a prescindere dalla considerazione che la mancanza di
senso sia, per Adorno, un fattore positivo); dall’altro, Stravinskij, che pensava, o
sperava, di conservare un senso alla musica, sottraendosi al confronto con la
ratio di quest’ultima, non fa altro che allinearsi alle tendenze distruttive
dell’epoca consegnandosi, contemporaneamente, al predominio del “gusto275”,
alla regressione276 e, infine, alla completa assurdità. Di conseguenza, entrambe le
risposte che vengono date alla crisi del tonalismo si rivelano, in ultima analisi,
estreme e vane poiché «[…] la nozione di Progresso/Reazione è in Adorno
un’unità dialettica i cui termini non fanno che rovesciarsi l’uno nell’altro […]»
(Zurletti 2006: 158); essi assumono consistenza soltanto nel momento in cui si

275
Secondo Adorno, «[l]a tradizione della musica tedesca, che comprende anche Schönberg, è
caratterizzata fin da Beethoven, sia nel buono che nel cattivo senso, dall’assenza di “gusto”.»
(Adorno[1949] 1959: 153). Il francofortese ritiene infatti che “la profondità della cosa” resti
preclusa al “gusto”, poiché tale profondità richiede il contributo di spirito e intelletto, in modo
che venga dispiegata tutta la potenza della riflessione; quest’ultima è destinata a venir meno
qualora le sensazioni siano sollecitate da un gusto totalmente rivolto alla superficie esterna.
276
«[…] [C]ome un fanciullo smonta i suoi giocattoli e poi li rimette insieme maldestramente,
così si comporta la musica infantilistica verso i suoi modelli. Qualcosa di non interamente
addomesticato, di un indomito mimetismo – la natura – sta celato proprio in questa non-natura:
così forse danzavano i selvaggi intorno a un missionario prima di divorarlo. Ma quell’impulso è
scaturito dalla pressione civilizzatrice, che vieta un’imitazione amorevole e la tollera solo se è
lesiva […] » (Adorno [1949] 1959: 182).

151
lasciano riconoscere nel loro opposto dialettico, in perfetto accordo con il
concetto di Aufklärung.

152
CAPITOLO III Ἄσκησις

SOMMARIO: 1. «Tipi di comportamento musicale». – 2 “Acustica fisiologico-filosofica”. – 3.


La felicità di un utopico Kairós. – 4. Pedagogia dell’ascolto.

1. «Tipi di comportamento musicale».


Nei due capitoli precedenti, abbiamo potuto osservare come, per Adorno,
l’arte musicale e le creazioni estetiche in generale siano l’esito, il manifestarsi
stesso, dell’inesorabile dispiegarsi della dialettica dell’Aufklärung lungo l’intero
arco storico. Si è inoltre visto come il concetto di illuminismo non abbia una
valenza di per sé negativa poiché, nel senso più ampio del termine, esso è
“pensiero in continuo progresso”: il filosofo francofortese non dubita che
l’esercizio del pensiero, della ragione, abbia, in un primo momento, contribuito
a liberare l’uomo dalle proprie fantasie mitiche e dalla propria sudditanza nei
confronti della Natura, tuttavia, secondo il nostro, non va dimenticato che “il
mito è già illuminismo” e che “l’illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia”. Di
conseguenza, nella consapevolezza che entro il concetto di pensiero
illuministico, e in particolare nelle forme storiche in cui quest’ultimo si è
concretizzato277, sia già presente il germe della regressione, sappiamo che l’unico
modo di contrastarne l’avanzata è quello di ripensare criticamente l’aspetto
distruttivo del progresso, accogliendo nelle nostre riflessioni tale momento
regressivo.
277
«Come l’illuminismo esprime il movimento reale della società borghese nel suo complesso
sotto la specie delle sue idee, incarnate in persone ed istituzioni, così la verità non è solo
coscienza razionale, ma anche la sua configurazione nella realtà.» (Horkheimer-Adorno [1944]
1980: 6).

153
Tuttavia, prosegue Adorno, siccome tale riflessione è stata lasciata in mano ai
suoi nemici, paralizzati dalla paura della verità, è possibile osservare, nella
pervasività del fenomeno regressivo, il conseguente dileguarsi dello spirito. La
tipologia dei beni materiali che l’individuo produce, le azioni che egli compie e,
più di tutto, la povertà concettuale che lo caratterizza sono tutti aspetti
sintomatici del fatto che gli uomini stiano pagando il loro accresciuto potere con
l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano278. Sappiamo oramai che la gran parte
delle osservazioni che il filosofo compie nei riguardi della società affonda le sue
radici nel mondo della musica, la quale viene indagata sia dal punto di vista della
composizione sia dal punto di vista della ricezione. Dal momento che, fino ad
ora, ci siamo prevalentemente dedicati ad esaminare lo stato compositivo delle
opere, operazione che ci ha permesso di capire quando, secondo Adorno, è lecito
adoperare il termine “opera” nei confronti di un pezzo musicale279; nel corso di
questo terzo ed ultimo capitolo, ci soffermeremo invece sul secondo aspetto: la
ricezione musicale. Quest’ultimo aspetto, a nostro avviso, ci aiuterà, tra le altre
cose, a comprendere quanta importanza rivesta la componente etica all’interno
del pensiero estetico adorniano. In seguito, infatti, vedremo che se il “saper
ascoltare” è indice di “umanità”: nel momento in cui Adorno si accinge a
scrivere Der getreue Korrepetitor280, egli dimostra di essere in un certo senso

278
Cfr. HORKHEIMER-ADORNO, [1944] 1980, p. 17.
279
Grazie a tale disamina, siamo ora in grado di distinguere, in base a determinate
considerazioni stilistiche, quando un pezzo musicale è, secondo Adorno, un’opera d’arte e
quando invece è un semplice prodotto sfornato, e “ammannito culinariamente”, dall’industria
della cultura.
280
Il fido maestro sostituto è, in effetti, una sorta di “pedagogia musicale ”, un libro
dall’innegabile risvolto pratico che insegna ai non esperti ad “ascoltare” la Grosse Musik e ai
musicisti di professione a comprendere a ad interpretare la musica che, prima o dopo, andrà a
costituire il loro repertorio. Adorno si concentra soprattutto nel tentativo di aiutare il lettore a
superare determinate difficoltà, o presunte tali, della Neue Musik, per risolvere le quali egli si
sforza di esemplificare e concretizzare i propri discorsi teorici: commenta le opere e spiega il
motivo per cui esse siano da interpretarsi in una determinata maniera. Nello specifico, il nostro
riporta per esteso dei frammenti tratti dai Lieder op. 3 e op. 12, dalle Sechs Bagatellen per
quartetto d’archi op. 9 e dai Vier Stücke per violino e pianoforte op. 7 di Anton Webern; delle

154
convinto non solo che l’uomo possa ancora salvarsi a patto che indirizzi
consapevolmente il suo sguardo, anche se forse dovremmo dire “porga il suo
orecchio”, alle opere, nello specifico quelle musicali, ma anche che il “modo”
mediante il quale l’uomo debba rivolgersi a tali opere possa essere correttamente
insegnato, appreso e, infine, interiorizzato281, ottenendo così che il singolo si
riappropri della propria perduta in-dividualità.

Sappiamo, in base a quanto fin’ora esposto, che, a parere del nostro, la


capacità di ascoltare è direttamente proporzionale allo stato di “evoluzione”, o di
“non-regressione”, dell’uomo. Ma che cosa significa, per Adorno, saper
ascoltare? Al fine di trovare una risposta al presente interrogativo, riteniamo utile
esaminare quegli scritti nei quali il filosofo illustra in cosa consiste l’«ascolto
strutturale», o responsabile, poiché esso soltanto è, a suo avviso, il giusto
approccio all’universo musicale, l’unica modalità di ascolto che consenta una
sincera comprensione della Grosse Musik, nonché il criterio principe per stabilire
il livello di consapevolezza e di intelligenza critica dell’umanità.

Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, da tale analisi emergerà che la


direzione dell’estetica adorniana è ben lungi da una concezione meramente
tecnicistica della musica e che, anzi, secondo il francofortese, l’ascoltatore ideale
è la persona in grado di cogliere naturalmente, con spontaneità ed immediatezza,
i nessi strutturali di una composizione. Riteniamo, in aggiunta, che la concezione
di ascolto responsabile sviluppata da Adorno possa essere meglio compresa e
chiarita se, parallelamente, ci dedichiamo alla lettura delle opere di Alfred
Tomatis, il cui raggio d’azione concettuale ci pare convergere con e, per certi

sezioni della Phantasy per violino con accompagnamento di pianoforte op. 47 di Arnold
Schönberg e parti tratte dal Concerto per violino e orchestra (simbolicamente intitolato “Alla
memoria di un angelo”) di Alban Berg.
281
Dopo che ci saremo occupati di esporre, se pur a grandi linee, la concezione didattico-
musicale di Adorno, enunceremo, ponendola a confronto, la concezione didattico-musicale di
Tomatis poiché, a nostro parere, i due studiosi indagano l’ascolto da due prospettive diverse ma
complementari; siamo infatti convinti che l’accostamento dei due disegni teorico-pratici ci
permetterà di dare luogo ad un’esaustiva problematizzazione dell’argomento in esame.

155
aspetti, integrare la descrizione di quell’insieme di condizioni che
permetterebbero di ritenere e capire realmente quanto si sta ascoltando, sebbene
lo studioso francese parta da un punto di vista completamente diverso da quello
adorniano.

Diamo dunque inizio alla nostra analisi prendendo in considerazione ciò che
Adorno scrive a proposito del comportamento dei soggetti nei confronti
dell’ascolto musicale, nel primo dei dodici saggi che costituiscono l’Introduzione
alla filosofia della musica. All’interno del capitolo intitolato «Tipi di
comportamento musicale», il filosofo di Francoforte si propone di descrivere il
rapporto intercorrente tra gli ascoltatori di musica e la musica stessa, tuttavia egli
precisa fin da subito che per raggiungere tale conoscenza non è sufficiente stilare
un’indagine empirica; quest’ultima, infatti, risulterebbe priva di valore se
precedentemente non fosse stato già tratteggiato un quadro teorico entro cui
inscrivere i dati raccolti. Una simile dichiarazione d’intenti rivela che, nonostante
nell’attività speculativa di Adorno sia possibile individuare una costante e
progressiva evoluzione concettuale, soprattutto in risposta ai diversi contesti
socio-culturali in cui egli è di volta in volta calato, alcuni snodi fondamentali del
suo pensiero rimangono immutati nel corso degli anni. In effetti, ci sembra che
mediante tale preludio egli ribadisca la convinzione che non sia possibile
accostarsi al campo musicale, o culturale, nell’illusione che esso sia un ambito a
parte, una zona franca, privilegiata, in cui ciò che conta è soltanto il giudizio
soggettivo. Per il filosofo, infatti, nella società a lui contemporanea, non si può
parlare impunemente né di giudizi estetici né di soggettività; del resto, in base a
quali criteri gli “pseudoindividui”, i soggetti che mancano di personalità e di
gusto, possono emettere un giudizio estetico?

A suo parere, prima di limitarsi ad accertare dei dati precostituiti282, che si


accontentano di chiedere ai fruitori se quella data canzone gli piace o meno, è

282
Per Adorno, dei dati precostituiti, che non seguano ad un’ampia indagine empirica, sono
dei dati privi di valore. Essi, tuttavia, potrebbero aspirare a diventare qualcosa di più di un futile
compendio di dati inerti, qualora si procedesse ad una preventiva strutturazione teorica dei
problemi. (Cfr. Adorno, [1962] 2002, p. 3).

156
indispensabile prestare attenzione alla dinamica a cui tali dati partecipano,
essendo il comportamento dei soggetti fortemente legato alle dinamiche su scala
industriale e di consumo che hanno letteralmente inglobato il settore della
musica. Il nostro, pur non intendendo concorrere con le idee di sociologia
musicale in voga nel suo tempo283, reputa imprescindibile un’interpretazione dei
fenomeni che non manchi di relazionarsi con la dimensione storica. Così, prima
di avviare qualsiasi tipo di indagine musicale, egli ribadisce la ben radicata
convinzione che «[u]na sociologia musicale in cui la musica significhi più di
quanto le sigarette o il sapone significhino nelle inchieste di mercato […]»
(Adorno [1962] 2002: XXI), non deve soltanto essere consapevole della società e
della sua struttura, ma deve anche avere una conoscenza dell’oggetto musicale, il
cui contenuto non va trattato e ridotto a semplice scaturigine di reazioni
soggettive, bensì definito e compreso in ogni sua implicazione.

Vediamo dunque quali sono i sei284 tipi di ascoltatori che Adorno individua,
nella consapevolezza, in primo luogo, che essi sono dei modelli puramente
ideali, secondariamente, che tali profili (a nostro avviso “caricaturali”) siano utili
per marcare quelle contraddizioni e quelle antitesi che si riflettono sulla natura
dell’ascolto musicale e nelle abitudini d’ascolto. Va inoltre tenuto presente che,
secondo il filosofo, le opere sono degli oggetti in sé strutturati e sensati che,
dischiudendosi all’analisi, possono essere esperiti a diversi gradi di esattezza; di
conseguenza, quanto più le opere sono rozze tanto più sottili devono essere i

283
Perlomeno ciò è quanto dichiara nella Prefazione al volume considerato. Nello specifico,
vi si trova scritto che egli non si pone come obiettivo quello di «[…] concorrere con idee di
sociologia musicale già esistenti, nemmeno nei casi in cui gli intenti di queste contraddicono
quelle dell’autore.» (Adorno [1962] 2002: XIX). Invero, poco oltre, Adorno ricorda che, nel
corso delle lezioni da cui è nato il presente scritto, per dimostrare ai propri studenti che la
sociologia musicale non si esaurisce nelle idee da lui esposte, aveva caldeggiato, e ottenuto, la
partecipazione di altri tre relatori: Hans Engel, Alphons Silbermann e Kurt Blaukopf, i quali
avrebbero rispettivamente posto l’accento sull’aspetto storico, sul metodo empirico nella
sociologia musicale e sul rapporto tra acustica e sociologia musicale.
284
Nella categorizzazione che di seguito proporremo, abbiamo deciso di non includere il
“settimo tipo”. Le ragioni di questa nostra scelta verranno spiegate più avanti.

157
procedimenti capaci di cogliere il motivo per cui esse sono efficaci. Per il
filosofo, infatti, «[è] molto più difficile individuare perché una canzonetta sia
popolare e un’altra no, che non capire perché Bach piaccia più di Telemann o
una sinfonia di Haydn più di un pezzo di Stamitz.» (ivi: 5).

A manifestare il più alto grado di adeguatezza dell’ascolto alla musica è il


primo dei tipi proposti: l’esperto285. Tale figura, il cui modo d’intendere la
musica è da Adorno definito come «ascolto strutturale», a grandi linee,
corrisponde al musicista di professione; tuttavia questo tipo, a livello
quantitativo, è quasi trascurabile dal momento che nemmeno tutti i professionisti
della musica possono essere fatti rientrare in questa prima categoria di
ascoltatori. L’esperto ascolta in modo perfettamente cosciente: già ad un primo
ascolto è in grado di indicare la struttura formale dell’opera, poiché il suo
orizzonte è la concreta logica formale. Egli pensa con l’orecchio al punto che, in
ogni istante, ha contemporaneamente presenti le singole componenti tecniche
della musica ascoltata, le quali, ad un certo punto, danno luogo, nella sua mente,
ad una configurazione compiuta.

Il secondo tipo è il buon ascoltatore (o amatore) ed è a lui che, con buona


probabilità, va tutta la simpatia di Adorno. Il buon ascoltatore, pur non essendo
del tutto consapevole di ogni implicazione tecnica o strutturale, «[…] capisce la
musica all’incirca come uno capisce la propria lingua anche se sa poco o niente
della grammatica e della sintassi […]» (ivi: 8); egli, al pari dell’esperto, avverte
la logica musicale soggiacente, tuttavia la coglie in modo inconscio. Il buon
ascoltatore, un tempo, apparteneva ai circoli cortesi e aristocratici, i cui membri,
a giudizio di Adorno, avrebbero avuto ben poco in comune con quelle persone
che, nell’epoca attuale, vengono generalmente indicate con l’appellativo di

285
Ci esimiamo tuttavia dallo scandagliare la problematica sociale e inframusicale a cui
dovrebbe essere sottoposta la questione dei criteri con i quali individuare l’esperto, in prima
istanza, perché daremmo luogo ad una deviazione eccessiva rispetto alle tematiche che ci siamo
prefissati di affrontare all’interno del presente capitolo, secondariamente, perché, e ciò viene
sottolineato dallo stesso Adorno, «[…] l’unanimità di una giuria di specialisti non costituirebbe
una base di lavoro sufficiente.» (Adorno [1962] 2002: 7).

158
“gente colta”. Oggi, infatti, l’amatore è un tipo estremamente raro, ancor meno
frequente dell’esperto: secondo il filosofo, a causa della forte pressione dei mass
media, la decadenza dell’iniziativa musicale conduce ad una polarizzazione
verso le manifestazioni estreme dell’ascolto: «[…] di massima oggi un individuo
capisce tutto o non capisce niente.» (ivi: 9).

Il terzo tipo, quello del consumatore di cultura, antesignano dell’ascoltatore


per passatempo286, sembra essere l’ascoltatore meno tollerato da Adorno e forse
il motivo è che esso, a differenza dei precedenti, non subisce inconsapevolmente
le conseguenze del sistema in cui si trova a vivere, ma, in un certo senso, ne è il
rappresentante, il promotore. Il consumatore di cultura, infatti, appartenendo, in
genere, all’alta borghesia, anche se quantitativamente supera di poco gli
appartenenti alla seconda tipologia, “decide in larga misura della vita musicale
ufficiale287”. Tuttavia, oltre alla ragione appena riportata, ve n’è un’altra che,
forse, è d’importanza ancor maggiore se si considera il fatto che tale ascoltatore,
più che di ciò che ascolta, si compiace della posizione in cui il dichiarato oggetto
del proprio interesse lo pone rispetto alle altre persone. Esso non si immerge
nella musica, non partecipa al decorso musicale; il suo ascolto è atomizzato e il
suo orecchio è in attesa dell’effetto, che poi tale effetto si estrinsechi nella
prestazione esorbitante, nel virtuosismo strumentale o nell’istante grandioso, non
ha alcuna rilevanza poiché l’appartenente a tale tipologia «[c]onsuma secondo il
metro del prestigio sociale della musica consumata, e il piacere del consumo, di
ciò che – come lui dice – la musica gli “dà”, supera il piacere della musica stessa
intesa come un’opera d’arte che esige tutto il suo impegno.» (ivi: 10).

A differenza del consumatore di cultura, costantemente occupato ad


accumulare nozioni sulla musica per mantenere alto il proprio prestigio sociale,
l’ascoltatore emotivo non vuole saper nulla di ciò che ascolta e, invero,
quest’ultimo, secondo i criteri del gusto corrente, si trova ad un livello più basso.
Anche se il quarto tipo, a parere di Adorno, non è facilmente identificabile, vi

286
Cfr. ADORNO, [1962] 2002, p. 19.
287
Cfr. ivi, p. 11.

159
potrebbero appartenere i “malaugurati tired businessmen” che, immiseriti
dall’aridità della loro faticosa occupazione, sentono il bisogno di scaricare le
tensioni accumulate e, allo stesso tempo, il desiderio di provare ancora delle
emozioni, lasciando libero spazio alla fantasia. Il filosofo, ad ogni modo, non sta
dicendo che un ascolto adeguato sia privo di un investimento affettivo, anzi,
l’ascolto strutturale, che abbiamo visto essere spesso e volentieri giudicato dai
più un comportamento “freddo ed esteriormente calcolatore” verso la musica,
sarebbe addirittura impensabile senza tale partecipazione; tuttavia, nel caso
dell’ascoltatore emotivo, non è la cosa stessa ad essere investita affettivamente.
Per tale tipo, la musica è un “medium di mera proiezione”, un semplice mezzo
con cui raggiungere gli “scopi della sua personale economia”, mentre, in un
ascolto adeguato, l’energia psichica viene assorbita dalla concentrazione
sull’oggetto sonoro: l’ascoltatore responsabile, alienandosi completamente alla
cosa, viene da essa ripagato con sensazioni interiori.

Al polo opposto dell’ascoltatore emotivo c’è invece l’ascoltatore risentito o


astioso. In questa quinta tipologia possono essere fatte rientrare due sottospecie:
gli amanti di Bach o della musica prebachiana e il tipo dell’esperto di jazz288 (che
fa tutt’uno con il «fan» del jazz). I due sottotipi sono affini nell’atteggiamento
dell’«eresia recepita», poiché la loro protesta contro la cultura ufficiale è
socialmente integrata, e dunque innocua289, e nel carattere di setta290. Inoltre, essi
condividono sia una disposizione d’animo ostile nei confronti dell’ideale
musicale classico-romantico sia l’illusione della spontaneità musicale;
quest’ultimo aspetto spiegherebbe lo snobismo nei confronti della partitura

288
Adorno non fa direttamente rientrare nella quinta tipologia l’esperto di jazz; tuttavia, dopo
aver enunciato le somiglianze di questo tipo con gli ascoltatori bachiani (o prebachiani), ne
ipotizza, “in un tempo non troppo lontano”, una fusione col tipo dell’ascoltatore risentito.
289
«Disprezza la vita musicale ufficiale in quanto slavata e illusoria, ma non sa spingersi oltre
questa constatazione […]» (Adorno [1962] 2002: 13).
290
Entrambe le categorie, infatti, tendono ad escludere rigidamente chiunque dissenta dal loro
modo di concepire la musica e si reputano superiori a ciò che tacciano di essere mera “routine
musicale convenzionale”.

160
scritta. Una differenza notevole consiste, invece, nel fatto che al tipo
dell’ascoltatore di jazz manca il gesto ascetico-sacrale dei primi; tale gesto, tra
l’altro, è l’atteggiamento che più oppone il quinto tipo all’ascoltatore emotivo:
infatti, il bachiano (o prebachiano) «[…] invece di liberarsi nella musica dalla
proibizione del sentimento impostagli dalla civiltà, dal tabù mimetico, se ne
appropria eleggendolo addirittura a norma del proprio comportamento musicale.»
(ivi: 13). La conseguenza di un simile comportamento dai connotati fortemente
masochistici è che l’arte subisce un procedimento di sterilizzazione, poiché la
sensibilità di tali individui si è progressivamente intristita, la mimesi291 viene
“spurgata” dall’arte: infatti, le sfumature che dovrebbero essere colte nelle
partiture che questa tipologia dichiara a gran voce di amare non vengono
minimamente percepite292. Tutt’altro destino subisce l’aspetto mimetico nella
concezione dell’esperto di jazz, il quale può, al contrario, vantarsi di averlo
uniformato a standard devices. L’ascoltatore di jazz sostiene che tale genere
presenta una maggiore immediatezza rispetto alla musica “classica”, ma, in
verità, osserva Adorno, tale mimesi è solo un inutile atteggiarsi ad esplosione di
sentimenti primordiali, poiché «[l]’alienazione dalla cultura musicale approvata

291
Durante l’analisi della Dialektik der Aufklärung abbiamo potuto osservare come, per
Adorno, l’uomo si liberi via via dalla sua dipendenza dalla natura avvalendosi di strutture di
dominio sempre più rigide e come queste strategie di controllo siano costantemente
accompagnate da un comportamento mimetico (che compare come riflesso, impulso), se pur
progressivamente marginalizzato. Il soggetto, infatti, in quanto essere vivente, in quanto “corpo”
(oltre che mente e spirito), non può dimenticare, o soffocare, del tutto la sua provenienza dal
mondo naturale. Lungo il percorso di dominio sulla natura, ragione e mimesi si corrispondono,
sono due facce della stessa medaglia e, in particolare, nel mimetico (che, è bene precisare, non
funge da luogotenente di una natura pura e primigenia) erompe l’irrazionalità che l’uomo è stato
costretto a rimuovere per assimilare in sé il dominio sulla natura. Secondo il filosofo, l’ambito
privilegiato delle relazioni mimetiche è l’estetica poiché essa, più di ogni altro contesto, è capace
di sottrarsi alla ragione strumentale. Di conseguenza, se l’arte, e in particolar modo la musica, è il
rifugio del comportamento mimetico, l’ascoltatore risentito rinuncia all’unica possibilità che
all’uomo è rimasta di potersi sottrarre da quel meccanismo razionale mirante al controllo e al
dominio sociale che la Ragione esercita.
292
Cfr. Adorno, [1962] 2002, p. 15.

161
ricade in questo tipo di ascoltatore in un aspetto barbarico e preartistico […]»
(ivi: 18).

Il sesto e ultimo tipo è infine rappresentato dall’ascoltatore di musica per


passatempo, il più diffuso dal punto di vista quantitativo e l’oggetto privilegiato
dell’industria culturale. Abbiamo precedentemente affermato che l’anticipatore
di tale tipologia è il consumatore di cultura; entrambi i tipi condividono infatti la
mancanza di un rapporto specifico con la cosa: una condizione che motiva la
vuotezza, l’astrattezza e l’indeterminazione dei loro domini interiori. Se il
consumatore di cultura si compiace, dandosene gran vanto, delle proprie nozioni
biografico-musicali e si adopera affinché il proprio prestigio culturale sia
costantemente riconosciuto e, dunque, la propria posizione riconfermata,
l’ascoltatore di musica per passatempo non vuole essere posto troppo in alto:
«[e]gli è un low-brow conscio del proprio io che della sua mediocrità fa una
virtù.» (ivi: 21-22). Dal momento che, in questo tipo, la distrazione è uno stato
permanente, non sono colti neppure gli stimoli atomizzati; sporadicamente capita
però che la sua mancanza di concentrazione sia intervallata da improvvisi istanti
di attenzione e ricordo. Dunque, nel caso dell’ascoltatore per passatempo, è
improprio asserire che la musica viene goduta; Adorno equipara questo tipo di
ascolto all’azione del fumare: la struttura di tale atto viene definita non tanto dal
godimento che si sperimenta quando la sigaretta, o la radio, è accesa, quanto
dalla sensazione di disagio che si prova quando entrambe vengono spente. In
sintesi, «[…] i rappresentanti del tipo dell’ascoltatore per passatempo sono
decisamente passivi e oppongono veemente resistenza all’impegno intellettuale
che le opere d’arte pretendono da loro […]» (ivi: 21).

Con tale categorizzazione abbiamo, in un certo senso, potuto comprendere


mediante la descrizione di atteggiamenti che, secondo Adorno, sono indicativi di
una vera e propria incapacità di ascoltare che, per il nostro, la maggior parte delle
persone non è in grado di attivare, o non ne sente il desiderio, tale facoltà.
Abbiamo, inoltre, accennato che la simpatia di Adorno ci sembra essere
indirizzata al buon ascoltatore, il tipo più raro in assoluto e fondamentalmente
destinato all’estinzione. Il buon ascoltatore possiede una memoria che è stata

162
educata da secoli di tonalità, la cui struttura è stata a tal punto interiorizzata che
nel suo intelletto si sono sedimentate delle articolazioni parziali della forma. A
differenza dell’esperto che, volutamente, si preoccupa di assumere un
atteggiamento estetico che sia il più adeguato possibile nei confronti dell’opera
d’arte, esso vi è portato naturalmente, perché può appropriarsi del pezzo grazie
ad una sorta di competenza classificatoria che è stata affinata nel corso della
pratica secolare del linguaggio tonale. A questo proposito, Zurletti osserva che
«[…] tale ascoltatore liberamente coltivato somiglia all’autore dell’ISM
[Introduzione alla sociologia della musica] in modo inequivocabile […]»
(Zurletti 2006: 88); si sa, infatti, che Adorno crebbe in un ambiente agiato e
oltremodo favorevole allo sviluppo delle proprie doti filosofiche, letterarie e
musicali293.

Se Zurletti ha esposto tale considerazione per evidenziare il fatto che le


riflessioni musicologiche di Adorno non sono aridamente tecniche in senso
accademico poiché fondate «[…] sulla comprensione spontanea di un grande
“dilettante” […]» (ibid.), in aggiunta a ciò, noi vorremmo dimostrare, in
generale, attraverso la lettura delle opere di Alfred Tomatis, non solo che
un’adeguata stimolazione sonora, a partire dalla più tenera età, può influire
positivamente sulla capacità di ascoltare, ma anche che la costante immersione in
un “bagno sonoro”, come quello in cui Adorno ebbe la fortuna di crescere, è una

293
Müller-Doohm racconta che la madre e la diletta zia Agathe, entrambe cantanti un tempo
famose, per far addormentare un Adorno neonato, gli cantavano, con tanto di accompagnamento
al pianoforte, Guten Abend, gute Nacht di Brahms, un’esperienza di cui il nostro dichiara di
serbare ancora il ricordo. Inoltre, Agathe, che Adorno indicava affettuosamente come la propria
“seconda madre”, «[…] contribuiva in modo essenziale al fatto che in casa fosse viva la passione
per la musica: dal mattino alla sera si cantavano o si eseguivano al piano brani di Bach, Mozart,
Beethoven.» (Müller-Doohm 2003: 37). Non solo, per Adorno anche frequentare concerti, a
partire dall’età di dieci anni, era un’ovvietà. In aggiunta, Müller-Doohm racconta che, già da
liceale, Adorno era dedito a tutto ciò che riguardasse la sfera intellettuale e che non si lasciava
sfuggire nessuna occasione per dare avvio ad una disussione filosofica o letteraria. Siegfried
Kracauer, quattordici anni più anziano del nostro, «[…] è soltanto una delle persone, ma una
delle più importanti, tra quelle con cui egli faceva filosofia già ai tempi della scuola.» (ivi: 63).

163
condizione indispensabile affinché il soggetto abbia modo di sviluppare appieno
le proprie abilità psico-fisiche, la propria personalità e, in generale, di realizzare
compiutamente la propria umanità. Siamo del tutto consapevoli che il filosofo
francofortese avrebbe reputato il discutere della bontà delle opere d’arte
musicali, in relazione alla dimostrazione sperimentale che esse sono in grado di
fungere da “stimolatori corticali”, un’operazione impropria e poco rispettosa
dell’oggetto artistico in sé; tuttavia, una volta ammesso che un’effettiva
“regressione dell’ascolto” è avvenuta e che, ad oggi, un’inversione di tendenza
non è neppure immaginabile, ci sembra utile indirizzare le nostre energie nel
tentativo di capire se sia ancora possibile imboccare una via che consenta
all’uomo di riappropriarsi di una reale capacità di comprendere la musica e l’arte
in generale294.

2. “Acustica fisiologico-filosofica”.

Alfred Tomatis295 dedicò tutta la propria vita allo studio delle potenzialità,

294
La via che seguiremo è quella indicataci dal lavoro di Alfred Tomatis. I risultati che egli
riuscì ad ottenere con i suoi pazienti non si limitano alla sola sfera uditiva, ma, attraverso il
recupero, o il potenziamento, della loro curva uditiva, Tomatis si accorse che a trarne beneficio
erano anche le abilità artistiche dei pazienti; per esempio, avvalendosi dell’Orecchio Elettronico,
lo studioso fu in grado di aiutare numerosi pittori che, perdendo l’udito, avevano parallelamente
perso le proprie abilità pittoriche.
295
Alfred Tomatis nacque a Nizza nel 1920 e morì a Carcassonne nel 2001. Fu grazie ai suoi
studi sulla rieducazione dell’orecchio che la scienza audiopsicofonologica vide la luce.
Nonostante egli fosse costantemente impegnato nello svolgere la propria attività di medico, la sua
sete di conoscenza lo spinse a sconfinare negli ambiti più disparati tra cui, in primis, quello
dell’estetica musicale e della linguistica. Per una serie di circostanze che hanno costellato fin da
subito la sua esistenza, egli non smise mai di nutrire interesse per tutto ciò che gravitava attorno
all’orecchio e all’ascolto. Potremmo, molto sinteticamente, riassumere i suoi studi in tre leggi
fondamentali.

164
prima di lui insospettate, dell’orecchio, partendo dal quale costruì una teoria che
non ha una valenza solo scientifica, ma anche filosofica: egli era convinto che
l’uomo dipendesse a tal punto da ciò che sente da esserne sostanzialmente
plasmato. Padre del cosiddetto Effetto Mozart, del quale avremo modo di parlare
più avanti, scoprì per esempio che l’orecchio destro 296 presenta un’attività
particolare che lo differenzia dal sinistro e che è possibile definire un orecchio
musicale in base alla sua corrispondenza a specifici criteri fisiologici; dimostrò
inoltre che ciascuna lingua presenta una propria curva uditiva e sostenne che
l’80% dell’energia di cui il cervello necessita è elaborata dall’orecchio interno.

Figlio di un famoso basso d’opera del tempo, Tomatis poté verificare sul
campo, e ciò fin dai primi anni della sua attività di otorinolaringoiatra, la validità
delle proprie ipotesi e delle proprie teorie grazie alla collaborazione dei numerosi
cantanti che, in quanto amici del padre, ben presto iniziarono a frequentare il suo

1. La voce di una persona presenta soltanto quelle frequenze che il suo orecchio è in grado
di percepire.

2. Qualora si riuscisse ad intervenire nell’ascolto correggendo le frequenze alterate,


l’emissione vocale presenterebbe un subitaneo miglioramento.

3. É possibile correggere e risanare le frequenze alterate attraverso una specifica


stimolazione, la quale è data da un sofisticato apparecchio di laboratorio, ormai
collaudato, chiamato Orecchio Elettronico.
296
Nel 1952, le conclusioni che Tomatis e la sua équipe trassero dinnanzi ad un importante
fatto sperimentale li indusse a supporre che esista un orecchio direttivo, «[…] un orecchio
preferenziale, destinato ad eseguire delle funzioni di controllo più particolari e precise, dotato di
una dominanza acquisita in cui si inserisce la volontà.» (Tomatis [1963] 1995: 94-95).
Trasferendo poi questa sperimentazione, prima eseguita su alcuni professionisti del canto, nel
campo del linguaggio parlato, il risultato fu analogo: quando all’attore che si sottopose
all’esperimento venne escluso l’ascolto della propria voce attraverso l’orecchio sinistro «[…] la
voce divenne più leggera, con un timbro migliore, più alta. Il fatto era ancor più notevole poiché
l’attore era dotato di una voce molto profonda. Invece, quando escludemmo l’orecchio destro, ci
fu un vero crollo. All’attore restava solo una voce bianca, atimbrica, male impostata, in cui si
inserirono presto delle esitazioni, degli “euh” sempre più prolungati: poi, nel giro di qualche
frase, a questo balbettìo si aggiunsero dei raddoppiamenti sillabici e degli arresti che sfociarono,
con nostro stupore, in una tipica balbuzie.» (ivi: 95).

165
studio. Egli, avvalendosi del loro aiuto, riuscì a distinguere le qualità sensoriali
dell’orecchio destinato a sentire da quelle indotte dalla facoltà di ascoltare e,
sottoponendo i cantanti a determinate prove audio-vocali da lui stesso approntate,
constatò che l’uomo sa riprodurre vocalmente solo i suoni che il suo orecchio è
in grado di selezionare 297 . Lo scienziato ebbe quindi modo di verificare
sperimentalmente che, modificando l’ascolto dei soggetti, attraverso uno
strumento chiamato Orecchio Elettronico298, e riparando certi guasti uditivi, a cui
molto spesso i professionisti della voce vanno incontro nel corso della propria

297
Nello specifico, Tomatis, in L’orecchio e il linguaggio, afferma che «[o]gni alterazione
che colpisce l’udito si trasmette all’emissione e, mentre il filtro introdotto sull’udito ci informa
della perdita di una banda passante che conosciamo, sul tubo catodico un buco vocale si traduce
in uno scotoma frequenziale che corrisponde in modo sorprendente allo scotoma inerente al
filtro.» (Tomatis [1963] 1995: 76). Le modificazioni vocali, che si manifestano quando l’udito è
difettoso, richiedevano un’analisi particolareggiata, la quale fu possibile quando lo scienziato fu
in grado di fotografare su tubo catodico le immagini che rivelavano le qualità armoniche dei
suoni. Il suono, scisso da un apparecchio chiamato analizzatore, fu dunque “catturato” e studiato
nei suoi diversi elementi. Il tubo catodico, infatti, nel proiettare il suono, agisce come un prisma
quando scompone la luce in uno spettro ad arcobaleno.
298
L’Orecchio Elettronico è un sistema computerizzato che si compone di audiometro, cuffie,
casse per campo libero e software di programmazione; questo complesso elettronico, che
comporta degli amplificatori, dei filtri e un gioco di basculle elettroniche può essere utilizzato
nella modalità di training puramente uditivo o di training audio-vocale. Nel 1953, Jacques
Bourgeois, in occasione di una pubblicazione su una rivista musicale, chiamò in questo modo uno
degli apparecchi che Tomatis aveva ideato per permettere a bambini e adulti di utilizzare
l’orecchio al massimo delle proprie potenzialità. Lo scienziato ideò l’Orecchio Elettronico a
partire dalla constatazione che se Caruso, grazie all’ascolto osseo e alla sordità selettiva che lo
caratterizzavano, era stato un’artista eccezionale, forse, offrendo la capacità di ascolto di questo
cantante ai soggetti lesi nel proprio autocontrollo uditivo, sarebbe stato possibile, mediante una
sorta di meccanismo pavloviano di condizionamento, ottenere dei risultati positivi. Tale ipotesi
fu, negli anni successivi, pienamente confermata: l’Orecchio Elettronico si rivelò utile non solo
per consentire ai cantanti che avevano perduto la voce di recuperare la loro originaria capacità
vocale, ma iniziò ad essere usato anche per curare casi gravi di balbuzie, dislessia e autismo,
nonché come valido ausilio nell’apprendimento delle lingue straniere; esso si è infatti dimostrato
capace di offrire all’individuo la possibilità di percepire correttamente la lingua straniera che
desidera imparare.

166
carriera, era facile far loro ritrovare un eccellente timbro o la perduta
intonazione. Nello specifico, analizzando le voci di cantanti quali, ad esempio,
Caruso, Tita Rufo e Beniamino Gigli, Tomatis poté osservare che sui loro
fonogrammi si distinguevano con chiarezza delle zone privilegiate in cui dei
fasci di frequenze dense andavano ad aggiungersi ai suoni fondamentali: ciò
significa che in corrispondenza di queste zone preferenziali vi è un controllo
uditivo oltremodo raffinato. In seguito a tale scoperta, che fungeva da conferma
alle sue precedenti ipotesi, lo scienziato cercò di realizzare degli apparecchi
elettronici capaci di ricreare in laboratorio dei modi di autocontrollo audio-
vocale che coincidessero con quelli dei cantanti scelti come test sperimentali.
Secondo Tomatis, l’imporre a dei soggetti lesi nel proprio autocontrollo questa
nuova modalità di ascolto, avrebbe comportato dei miglioramenti sia a livello di
curva uditiva sia a livello di emissione del suono299.

Quando Tomatis si appresta a definire l’ascolto, dichiara immediatamente che


esso è «[…] una facoltà di altissimo livello, tale da inscriversi sullo stesso piano
della coscienza […]» (Tomatis [1987] 2000: 112). Lo studioso, per cogliere
meglio tale concetto, ci suggerisce di tenere presente la differenza fra sentire e
ascoltare. Sentire significa lasciarsi invadere passivamente dal suono: il discorso
dell’altro o il brano musicale ci raggiungono, ma da parte nostra non vi è né un
sincero interesse né una reale partecipazione. Tutt’altro atteggiamento subentra
invece nel momento in cui ci si vuole rendere conto di quanto viene enunciato,
l’ascoltare richiede infatti che vi sia un intervento della volontà: l’orecchio, così
come il corpo, si “tendono”, il sistema nervoso, la cui attività è facilmente
ravvisabile in una mobilitazione corporea e di pensiero, viene sollecitato e, nel
suo complesso, entra in una dinamica particolarmente attiva.

Tuttavia, l’atto di ascoltare non è soltanto una questione di intenzionalità da

299
I risultati non si fecero attendere: dall’istante in cui il soggetto può modificare il suo
autocontrollo grazie a degli apparecchi elettronici capaci di ricreare dei modi di autocontrollo
identici a quelli dei cantanti d’eccezione, «[…] la sua emissione cambia; si arricchisce a scelta
nelle stesse zone che gli vengono fornite uditivamente. Il timbro s’accende e, sul fonogramma,
diventa identico al modello voluto.» (Tomatis [1963] 1995: 78).

167
parte del soggetto: ovvero, riuscire o meno ad ascoltare, e in particolare la qualità
dell’ascolto, non dipende solo dalla scelta volontaria di prestare attenzione ad un
determinato stimolo sonoro, ma dipende anche dal profilo della curva uditiva che
il soggetto in questione possiede e, in questo senso, può comprendersi
l’affermazione di Tomatis che sostiene che «[n]on vi [sia] giudice peggiore del
musicista che non comprende come altri non possano usufruire dei suoi stessi
vantaggi percettivi.» (Tomatis [1963] 1995: 34). Sul finire degli anni cinquanta,
Tomatis, in seguito all’analisi dei dati sperimentali raccolti tra il 1946 e il 1951,
giunse a determinare quali fossero i requisiti di un orecchio dotato di talento
musicale e ciò fu possibile dopo che ebbe verificato che la fonazione cantata
dipende esclusivamente dall’udito e che la precisione e la qualità del suono sono
situate in due zone frequenziali specifiche. Una volta che ebbe valutato un
discreto numero di audiogrammi appartenenti a soggetti capaci di amare e di
riprodurre la musica con una buona qualità, si avvide che essi condividono una
curva uditiva dall’identico profilo, la cosiddetta “curva carusiana300”: «Fra i 500
Hz – do medio – e i 4000 – do al di sopra del do del flauto – si disegna una curva
ascendente la cui inclinazione oscilla tra 6 e 18 dB a ottava fino a 2000 Hz. La
sua traiettoria è regolare, senza fratture, senza scotomi. Più l’inclinazione è
marcata, più forte è la musicalità. Dai 2000 Hz ai 4000 si nota una curva a cupola
con una leggera flessione dai 4000 verso i 6000 Hz.» (ivi: 74).

300
A parere di Tomatis, i cantanti d’eccellenza, per ascoltare, utilizzano, senza eccezione, la
via ossea e cantano attraverso il proprio scheletro. In particolare, egli sostiene che tra tutti i
grandi tenori, Caruso è stato quello che ha cantato nel modo più osseo, facendo vibrare la sua
struttura ossea come nessun altro prima di lui. Più specificamente, per quanto riguarda l’ascolto
di tipo carusiano, Tomatis, in L’orecchio e la vita, dichiara che l’orecchio destro di Caruso era
sordo all’informazione semantica «[…] ma tanto più sensibile al canto. Più esattamente, al canto
era sensibile il suo ascolto. Invece di compiersi per il tragitto esterno – attraverso l’orecchio
propriamente detto, che era difettoso – l’autoascolto si realizzava per via ossea: cranio, torace
ecc.» (Tomatis [1977] 1999: 90).

168
Grafico 4.1 Curva di risposta di un “orecchio musicale”

Fonte: Mia elaborazione di Tomatis [1963] 1995: 74

Secondo gli studi di Tomatis, chi possiede un ascolto di questo tipo, questa
sorta di udito globale, di “orecchio musicale”, non può che essere un musicista301
ed è in grado di sentire e apprezzare corretamente la musica, riprodurla nel modo
giusto e per di più con una certa qualità302; ma come accade per il primo tipo di
ascoltatore individuato da Adorno, quello dell’esperto, non è detto che tutti i
musicisti abbiano la suddetta curva o, parimenti, che ascoltino alla maniera
dell’esperto. In L’orecchio e la voce, Tomatis dichiara: «Senza orecchio, niente
canto e niente linguaggio. Ma fra l’assenza di udito e l’acquisizione di un

301
Ciò poté essere verificato sperimentalmente quando Tomatis pose sulle orecchie dei suoi
pazienti (dei soggetti il cui autocontrollo era leso) una cuffia che imponeva loro un ascolto di tipo
carusiano; la reazione fu immediata: «[…] tutti, senza eccezione, si sentirono euforici; persino
molti di coloro che non erano cantanti, mi confidavano che veniva loro voglia di mettersi a
cantare! Li incoraggiai a farlo e constatai che mentre tenevano la cuffia in testa e io non alteravo
la registrazione, cantavano come non avrebbero mai fatto. Ma quando gli toglievo la cuffia, tutto
ridiventava difficile come prima […]» (Tomatis [1977] 1999: 91).
302
Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 84.

169
orecchio ideale c’è tutta una serie di modi di sentire e di ascoltare, ognuno dei
quali interferisce nell’atto del parlare e ancora di più in quello del cantare.»
(Tomatis [1987] 2000: 115).

Lo scienziato, nel tentativo di dimostrarci cosa accade quando vi sono delle


deviazioni dalla curva uditiva di tipo carusiano, raccoglie e riassume la
moltitudine dei casi particolari, proponendoci tre profili di curva uditiva, cioè tre
rilevatori uditivi che attuano diverse modalità di controllo, che ora andremo ad
illustrare.

Il primo tipo di ascoltatore presenta una curva identica a quella del musicista
che possiede un “orecchio musicale”, privata però degli acuti oltre i 2000 Hz:
tale soggetto non manifesterà il minimo problema nella riproduzione tonale,
tuttavia, per lui, regolare la qualità del suono si rivelerà, al contrario,
un’operazione difficile.

Nell’“ascoltatore ricettivo”, la curva d’ascolto presenta un’interruzione


dell’andamento ascendente fra i 1000 e i 2000 Hz, motivo per il quale la
riproduzione tonale diviene impossibile, ciononostante tale mancanza di
correttezza non esclude l’apprezzamento della qualità, qualora venga mantenuta
la cupola fra i 2000 e i 6000 Hz; resterà, altresì, un’affinità alla musica legata alla
curva ascendente fra i 500 e i 1000 Hz.

Infine, se la curva assume un andamento lineare o completamente


disarticolato, l’ascoltatore, incapace di riprodurre alcunché, mancandogli sia la
qualità che la precisione, si rivelerà un soggetto del tutto amusicale.

Nella prima parte della nostra Introduzione, abbiamo riportato le annotazioni


di Adorno nei confronti dei jitterbugs: il filosofo, osservando il loro
comportamento in pista e, in generale, il loro atteggiamento in relazione alla
musica di cui erano fan, ne rilevava un insincero e, a suo parere, autoimposto
entusiasmo all’ascolto, ne descriveva lo spasmodico agitarsi, la goffaggine che
caratterizzava i movimenti e una reazione, per lo più meccanica, non tanto ai
ritmi sincopati quanto ai soli tempi forti della battuta. Ebbene, tale ritratto ci
sembra un dato da non sottovalutare qualora si tengano presenti le correlazioni

170
che Tomatis stesso poté verificare, attraverso delle indagini di laboratorio303, tra
tipo di ascolto e atteggiamento corporeo; fra le osservazioni del filosofo e le
rilevazioni dello scienziato è infatti riscontrabile una sorprendente somiglianza.

Tomatis si era reso conto che quando imponeva ai suoi pazienti una
determinata modalità di ascolto, i loro atteggiamenti, le loro reazioni a stimoli
psichici della stessa natura e della stessa intensità mutavano sensibilmente a
seconda della banda passante selezionata: «[l]i osservavo o accasciarsi o gonfiare
il petto, aprirsi o chiudersi in se stessi, mostrarsi entusiasti o perdere tono ecc.»
(Tomatis [1977] 1999: 111). Colpito da simili modificazioni, il ricercatore decise
allora di effettuare un diverso genere di misurazioni: non accontentandosi più di
tracciare audiogrammi e di scattare fotografie della voce, cominciò ad eseguire
rilevazioni di carattere antropometrico. Si accorse così che la circonferenza
toracica dei soggetti ai quali aveva, per esempio, dato l’orecchio di Mario del
Monaco, in un anno, era aumentata di dieci centimetri: essi, sentendo e
autocontrollandosi in modo differente, avevano di riflesso modificato la loro
respirazione; altri individui, a cui erano stati imposti tipi di ascolto ancora
differenti, avevano invece cambiato postura304, stavano cioè più dritti e con la
testa leggermente inclinata in avanti; in numerose persone era altresì
riscontrabile un’accelerazione o un rallentamento del ritmo cardiaco. In sostanza,
a seconda di come “sentivano” la musica, «[t]utta la loro vita neurovegetativa
veniva […] messa sottosopra.» (ibid.).

Questa, secondo Tomatis, è la dimostrazione che, attraverso l’orecchio, in

303
Il ricercatore francese, già a partire dagli anni cinquanta, utilizzava l’Orecchio Elettronico
non solo come terapia per rieducare i cantanti, ma anche come strumento per condurre i propri
esperimenti.
304
Se l'ascolto migliora e trasforma l'atteggiamento posturale, viceversa, quest'ultimo, se
adeguato, permette a sua volta all'ascolto di perfezionarsi grazie al messaggio che comincia ad
arrivare in maniera più fedele. Non è infatti un caso che la maggior parte dei professionisti della
voce, i quali devono esercitare un costante e serrato autoascolto dei suoni che emettono,
mantengano un’analoga posizione verticale del corpo: i piedi ben ancorati al suolo con una
leggera flessione delle ginocchia, il bacino ben poggiato con relative riduzione dell’insellatura
lombare e cervicale e il capo leggermente reclinato in avanti.

171
particolare l’orecchio destro, si può arrivare a ogni parte del corpo. Quando un
soggetto adulto si trova immerso in un “bagno musicale”, il corpo può
fondamentalmente assumere due comportamenti diversi: o è in perfetta sintonia
con la musica, “vibra” con essa, le si offre; oppure manifesta un rifiuto: fra il
soggetto e la musica si frappone come un ostacolo a causa dell’assenza di
armonia neuropsicofisiologica305.

Nel parlare di ascolto, di ascoltare e ascoltarsi, abbiamo precedentemente


affermato che esso è un atto che implica volontarietà; Tomatis dichiara a più
riprese che l’ascoltare è un’acquisizione tardiva e umana dell’evoluzione306, ma,
se si escludono vere e proprie patologie uditive, come mai non tutti gli esseri
umani dispongono di un “orecchio musicale”? Secondo lo studioso, l’atto
volontario dell’ascoltare lascia rapidamente spazio all’atto automatico dell’udire
non appena un ostacolo psicologico distrugge, “dissolve”, questa stupefacente,
ma estremamente fragile, struttura funzionale: «[b]asta che si verifichi uno choc
affettivo e il mondo sonoro diventa doloroso, penoso. Udire, ma non ascoltare,
ecco una possibile difesa.» (Tomatis [1963] 1995: 83). Al contrario, se la minima
inezia patologica o psicologica può alterare il modo di ascoltare, soltanto uno
sforzo diretto e consapevole consente di riappropriarsene.

È quindi evidente che l’ambiente circostante, gli stimoli esterni, sia sonori che
affettivi307, sono di cruciale importanza per lo sviluppo della facoltà uditiva

305
Cfr. TOMATIS, [1991] 1996, p. 60.
306
«Quello di ascoltare e ascoltarsi è un atto volontario, è un’acquisizione tardiva e umana
dell’evoluzione, mentre udire è un atto automatico.» (Tomatis [1963] 1995: 82).
307
Tomatis, in L’orecchio e la vita, dichiara che un orecchio “alterato” può riprendere
appieno il suo ruolo di strumento di comunicazione, qualora il soggetto intraprenda un percorso
finalizzato ad eliminare le distorsioni della curva d’ascolto. Tali distorsioni, a suo avviso, «[…]
sono una delle principali conseguenze della confusione provocata dall’affettività profonda, che si
traduce in ogni genere di blocchi. In questa curva d’ascolto, l’inconscio seziona questa o
quell’altra banda passante in funzione di quello che non vuole sentire. Dato che ogni banda
passante possiede dei corrispettivi semantici, i guasti provocati non si ripercuotono solamente
sull’orecchio. E dato che, infine, la psiche non è separata dal corpo e che il nostro corpo è il
supporto di una ricca e complessa produzione di immagini della mente, è quasi inevitabile che ne

172
umana; banalmente, se un bimbo, ma spesso tale fenomeno si verifica anche
dopo l’infanzia, ode costantemente una voce educatrice arrochita, il suo
rilevatore uditivo assorbe elettivamente questo “nutrimento verbale” e, nella
quasi totalità dei casi, l’educato presenterà la medesima voce arrochita. Ciò
accade perché l’orecchio è un organo selettivo, nel senso che esso «[…] si
comporta come un rilevatore i cui limiti di frequenza coincidono con i limiti
della selettività […]» (ivi: 82). Ciò che Tomatis vuole in sostanza affermare è
che il diaframma uditivo è totalmente condizionato dall’ambiente esterno.
L’orecchio, a partire da quando inizia a formarsi, tende a sintonizzarsi sulle
frequenze dell’ambiente sonoro entro cui gli è stato dato in sorte di essere
inscritto. Una volta adattatosi, esso si “apre” solo a determinati livelli
frequenziali e, in queste zone elettivo-preferenziali, diverrà in seguito capace di
distinguere i suoni, fino a riconoscerne i minimi dettagli, gli scarti e le direzioni
delle variazioni; al contrario, all’altezza dei livelli frequenziali non selezionati,
rimane chiuso, incapace sia di scomporre sia di analizzare quella che percepirà
come un’informe massa sonora. È a partire da quest’ultima constatazione che,
per esempio, possiamo affermare di essere “sordi” alle lingue diverse dalla
nostra.

Abbiamo detto che l’ambiente acustico circostante provoca l’apertura del


diaframma selettivo dell’udito su una determinata zona frequenziale e che il
nostro udito, a partire da quando veniamo al mondo (anche se, ad essere precisi,
dovremmo dire che l’ambiente acustico, per Tomatis, agisce sull’orecchio
quand’esso è ancora in uno stato embrionale, dunque, all’incirca, a partire dal
quarto mese di gravidanza) tende a restringersi e a dirigere l’ascolto verso la
gamma dei suoni che appartengono al nostro idioma, rendendoci in questo modo
esperti nell’utilizzare con precisione e agilità la nostra lingua madre, di cui siamo
in grado di cogliere le più sottili sfumature d’intonazione, i diversi accenti, le
parole dette a mezza voce o sussurrate. Ma che dire delle lingue diverse dalla
nostra, il cui mondo acustico è completamente altro?

conseguano dei disturbi psichici.» (Tomatis [1977] 1999: 244).

173
Al fine di capire la limitazione acustica che la selettività del diaframma
uditivo comporta, riportiamo ora ciò che Tomatis ebbe modo di osservare in un
nutrito gruppo di cantanti originari della zona di Venezia. Lo studioso notò che
ogni volta che un cantante veneziano si rivolgeva a lui, il problema da risolvere
era il medesimo e si trattava dell’incapacità di pronunciare la «r» in punta di
lingua: anziché «erre» dicevano tutti «elle»; un inconveniente non da poco se si
considera che nei libretti d’opera italiani tale fonema è onnipervasivo. Tomatis,
che in quel periodo non aveva ancora avuto modo di studiare seriamente né la
fonetica né la linguistica, non pensava che avrebbe potuto essere d’aiuto ai
cantanti, tuttavia, non avendo nulla da perdere, pose una cuffia sulle loro
orecchie e li fece sentire come Caruso 308 . Il medico francese approntò
l’assemblaggio adeguato e, rivolgendosi al primo dei suoi pazienti, gli chiese
semplicemente di pronunciare «r»; la risposta del cantante, con un enorme
sorpresa da parte di chi stava assistendo all’esperimento, fu «r». Tomatis ottenne
il medesimo risultato anche con gli altri soggetti: la conclusione che trasse da
questo esperimento fu che i cantanti veneziani non avevano mai emesso quel
fonema perché non l’avevano mai inteso; in altre parole, il loro mutismo selettivo
era la traduzione di una sordità selettiva309. Tale esito spinse Tomatis a riflettere
sui dialetti italiani e, proseguendo negli studi, egli giunse ad ipotizzare che, con
buona probabilità, ogni regione italiana presentava una curva uditiva specifica e
peculiare. Una previsione che, in effetti, alcuni anni dopo venne verificata,
cosicché il nostro, avendo trovato conferma alla propria teoria, poté infine
affermare che «[a] ogni regione corrispondeva non solo un dialetto (una maniera
di parlare), ma anche un orecchio (una maniera di sentire, caratterizzata dalla sua
banda passante, cioè dalla sua banda selettiva).» (Tomatis [1987] 2000: 113).
Una simile conclusione indusse lo scienziato a proseguire nelle proprie indagini e
308
«A questo punto, perché non tentare di offrire, se non altro provvisoriamente, la capacità
d’ascolto di Caruso ai soggetti lesi nel proprio autocontrollo? Se la mia teoria era giusta, doveva
necessariamente accadere qualche cosa, qualcosa di positivo. Misi dunque una cuffia sulle loro
orecchie e impostai quel tipo di ascolto mediante un particolare sistema di filtri. La reazione fu
immediata […]» (Tomatis [1977] 1999: 91).
309
Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 112.

174
ad estendere i propri ragionamenti alle lingue in generale.

È facile sperimentare come, davanti ad una lingua straniera, l’orecchio310


perda tutta la sua capacità analitica, diventando un rilevatore totalmente incapace
di distinguere i diversi suoni che contribuiscono a formare le singole parole: nel
flusso verbale che lo investe, le sillabe si sovrappongono in un ritmo sconosciuto
e inafferrabile, mentre le fluttuazioni d’intonazione vengono colte, qualora lo
siano, con un enorme sforzo di concentrazione. Tomatis era determinato a
cogliere la ragione di tale fenomeno ed era convinto che esso potesse essere
spiegato interrogando il circuito audio-fonatorio. Ricostruendo progressivamente
le curve di contenimento dei valori medi delle frequenze degli idiomi in
esame311, il nostro riuscì a dimostrare che esistono diversi tipi di ascolto connessi
ai differenti insediamenti geografici e che, dunque, a ogni “ascolto etnico”
corrisponde una specifica banda selettiva312.

310
Con il termine orecchio, intendiamo riferirci all’intero apparato che comincia col condotto
uditivo esterno per terminare sulla zona cerebrale corrispondente.
311
Per comprendere in che modo i valori medi di ciascun idioma siano stati definiti, si tenga
presente che ogni atto vocale corrisponde a un atto uditivo. Tomatis, mediante l’analizzatore che
registra le diverse caratteristiche di una frase (della durata di 2,4 secondi), identificando ciascun
elemento per frequenza, intensità e durata, ha registrato e analizzato le frasi raccolte negli stessi
gruppi etnici.
312
Con “banda selettiva” o “banda passante”, Tomatis si riferisce alla «[…] fascia
preferenziale della maggiore agglomerazione delle frequenze per una lingua, quindi per un dato
tipo d’orecchio […]» (Tomatis [1987] 2000: 115).

175
Grafico 4.2 Bande selettive a confronto

Fonte: Mia elaborazione

I grafici sotto riportati sono gli etnogrammi di alcune lingue storico-naturali;


«etnogramma» è, infatti, il nome che Tomatis diede alla curva d’inviluppo che
riuscì a stabilire per ogni gruppo etnico.

Grafico 4.3 Etnogramma

Fonte: Mia elaborazione

176
Secondo lo studioso, in una lingua vi sono tre parametri caratteristici,
interiorizzati i quali, ognuno di noi potrebbe apprendere tutte le lingue che
desidera:

1. Il   campo   selettivo,   cioè   l’apertura   del   diaframma   uditivo  


corrispondente  alla  banda  passante.  
2. La   pendenza   della   banda:   la   curva   che   la   definisce   può   essere  
ascendente,  discendente,  con  o  senza  “guglie”  ecc.  
3. Il  tempo  di  latenza313.  

Come si può osservare nel grafico sotto riportato, l’orecchio inglese, per
esempio, percepisce i suoni fra i 2000 e i 12000 hertz e la progressione della sua
curva è dell’ordine di 6 decibel per ottava.

Grafico 4.4 Curva e campo selettivo di un orecchio inglese.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 114

313
Il tempo di latenza, che varia a seconda della lingua, è il tempo che occorre a un soggetto
per autoascoltarsi ed è paragonabile alla messa a fuoco visiva poiché l’orecchio necessita di un
certo tempo per passare dall’ascolto generico all’individuazione dei suoni. Tale tempo, in realtà,
«[…] corrisponde a un tempo medio di emissione di ogni sillaba, che condiziona la risposta di
adattamento degli organi fonatori (laringe ecc.).» (Tomatis [1987] 2000: 120).

177
Da tale curva emerge che la caratteristica essenziale del tipo di audizione
all'inglese (dell’inglese parlato in Inghilterra) è rappresentata, in primo luogo,
dalla grande sensibilità ai suoni acuti, secondariamente, da un tempo di latenza
rapidissimo; il primo aspetto provoca una concentrazione dell’immagine
corporea sulla parte alta del corpo314, il secondo influisce invece sul tempo di
emissione sillabica. La dittongazione sistematica delle vocali è spiegata dalla
contro reazione uditiva che si manifesta a causa dell’attrazione verso gli acuti di
tutto lo schema verbale: le vocali, anche se nello spettro iniziale sono presenti,
scivolano dal suono fondamentale verso la banda di frequenza situata dopo i
2000 Hz315. Ci sembra inoltre interessante rilevare come la distanza che esiste tra
il suono fondamentale316 e la banda passante di una lingua motivi la differenza
che intercorre tra la riproduzione scritta di una lingua e la sua pronuncia.

Per quanto riguarda la lingua francese, secondo Tomatis, l’orecchio francese


adopera la zona di frequenze tipica del linguaggio. Esso si muove essenzialmente
in due zone frequenziali: una è situata tra i 100 e i 300 hertz, quindi nei gravi,
l’altra tra i 1000 e i 2000 Hz, con un picco di maggiore sensibilità a 1500 Hz; si
ipotizza che la relativa caduta verso gli acuti di tale picco si ponga alla base del
fenomeno della nasalizzazione.

314
Secondo Tomatis, il linguaggio è il punto di congiunzione tra orecchio e immagine
corporea. L’orecchio, per controllare e condurre l’ascolto fin nelle sue più piccole modulazioni,
impone, a livello mentale, una rappresentazione corporea, un’immagine posturale, ben definita.
L’audizione all’inglese provoca una concentrazione dell’immagine corporea sulla parte alta del
corpo perché i suoni acuti, per essere colti, richiedono che vestibolo e coclea (costituenti il
labirinto) siano orientati nello spazio in maniera tale che l’utricolo si trovi in posizione
orizzontale e il sacculo in posizione verticale: la testa e la parte superiore della colonna
vertebrale, dunque, posizionandosi correttamente, dispongono il labirinto secondo questi assi.
(Cfr. TOMATIS, [1987] 2000, pp. 183 e seguenti).
315
Infatti, dal momento che l’orecchio inglese percepisce in una banda passante acuta, la
controreazione audio-vocale non può che essere acuta: il suono grave, non essendo selezionato
dall’orecchio, “scivola” negli acuti e produce il fenomeno della dittongazione.
316
Il suono fondamentale è grave ed è lo stesso in tutte le lingue.

178
Grafico 4.5 Curva e campo selettivo di un orecchio francese

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 115

È alquanto noto che i francesi fatichino a percepire l’inglese di Oxford, ma


non l’americano, e che i britannici, dal canto loro, stentino a sintonizzarsi con il
francese; ebbene, mettendo a confronto il grafico della banda uditiva inglese con
quello della banda uditiva francese, possiamo facilmente notare che l’orecchio
inglese utilizza frequenze non selezionate dall’orecchio francese e viceversa,
parimenti, la fatica dei francesi diminuisce nei confronti della lingua americana,
la quale, neanche a dirlo, tende a rimanere all’interno di una banda passante più
bassa rispetto a quella dell’inglese britannico e presenta, in aggiunta, una punta
di maggiore sensibilità a 1500 hertz.

La banda passante della lingua tedesca parte invece dai gravi e si estende fino
ai 3000 hertz. La sensibilità è più accentuata tra i 250 e i 2000 hertz con una
punta di maggiore permeabilità intorno agli 800 hertz.

179
Grafico 4.6 Curva e campo selettivo di un orecchio tedesco

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 114

Dal momento che la banda passante dei tedeschi è visibilmente molto ampia,
tale popolo, al pari di quello russo, risulta notevolmente facilitato
nell’apprendimento delle lingue straniere, ovviamente, a condizione che queste
ultime rientrino nella loro zona frequenziale.

La lingua spagnola, dal canto suo, è poco sensibile ai suoni acuti, viceversa
presenta una spiccata sensibilità alle frequenze gravi, in particolare a quelle entro
i 500 hertz, e un livello di intensità meno elevato nella zona compresa tra i 1500
e i 2500 hertz.

180
Grafico 4.6 Curva spagnola.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 115

A causa di questa predilezione per le frequenze basse, possiamo ipotizzare


che, nell’apprendimento delle lingue, uno spagnolo incontrerà maggiori difficoltà
rispetto ad un tedesco o ad uno slavo.

Peculiare è la curva di inviluppo della lingua italiana: essa, in virtù della


particolare zona frequenziale coperta dalla sua banda passante (che comunque
non è molto estesa: dai 2000 ai 4000 Hz) e dei tempi di latenza che le sono
propri, indica un orecchio molto musicale.

181
Grafico 4.6 Selettività di un orecchio italiano

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 116

Fra i 2000 e i 4000 hertz, infatti, l’ossatura ha la maggiore risonanza e, in


effetti, il suono osseo, che riequilibra la respirazione sulla base di una modalità di
non spinta 317 , è proprio ciò che contraddistingue un emissione e un canto
qualitativamente migliori. La musicalità dell'ascolto e quindi della fonazione di
tipo italiano è favorita, oltre che dalla reazione audio-posturale legata all'ascolto
di tipo italiano, anche dall’ascendenza della curva di inviluppo che sale dai gravi
verso gli acuti con una pendenza di circa 6 decibel per ottava fino ai 3000-4000
hertz, per poi flettersi leggermente verso gli estremi acuti; interessante notare
come questo tipo di curva sia, per Tomatis, prossimo all’ascolto musicale ideale.

Siccome il dono delle lingue, è ormai chiaro, non dipende tanto dall’attitudine
al parlarle quanto dalla capacità di intenderle, sembra che la facilità dei russi e,
più in generale, degli slavi, nell’integrare le lingue straniere, sia la conseguenza
della loro grandissima permeabilità uditiva: questo popolo, infatti, dispone di
un'apertura molto estesa del diaframma uditivo, che va dai suoni gravi fino ai più
acuti, con un’ affinità maggiore verso i toni gravi.

317
Cfr. TOMATIS, [1987] 2000, p. 216.

182
Grafico 4.7 Curva e campo selettivo di un orecchio slavo

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1977] 1999: 117

Si è precedentemente affermato che ogni tipo di ascolto si riflette nella


postura del corpo; nel caso del popolo slavo, i piedi risultano essere fortemente
ancorati al suolo, mentre la respirazione si rivela ampia, fatto tra l’altro
confermato dalla qualità dei suoni emessi, larghi e caldi. In aggiunta a ciò, il
lungo tempo di latenza della percezione spiegherebbe perché nei russi e nei
tedeschi si verifica una forte presa in carico del suono da parte del corpo, che si
trova ad essere fortemente integrato nella dinamica audio-vocale.

Ci teniamo a precisare che non stiamo asserendo che ciò che cade al di fuori
dalla banda frequenziale di una data lingua non sia udito, cioè, non stiamo
dicendo che chi utilizza un dato idioma non percepisca affatto le frequenze che la
sua lingua tende a non utilizzare o che sia ad esse concretamente sordo. Stiamo
solo affermando che, nelle zone poco adoperate, vi è un’innegabile calo di
sensibilità. In effetti, è possibile cogliere in maniera corretta i gruppi di
frequenze di una lingua per noi straniera, ma ad una condizione: dal momento
che il nostro rilevatore uditivo funziona come un filtro, dobbiamo gradualmente
abituarci a percepire «[…] in modo tale che la nostra selettività ottimale
raggiunga quella delle frequenze auspicate al momento della nostra emissione.»

183
(Tomatis [1963] 1995: 86). Tomatis, con l’intento di velocizzare il processo di
318
apprendimento delle lingue straniere , avvalendosi delle tecniche di
integrazione, come per esempio l’Orecchio Elettronico, è riuscito ad approntare
delle tecniche di condizionamento che, ad oggi, vengono correntemente
impiegate nei centri linguistici specializzati. Sinteticamente, non appena il
soggetto parla, il suo udito viene modificato, poiché tutti i suoni emessi vengono
fatti passare per un canale selettivo, il quale fornisce loro la qualità desiderata,
ovvero quella che, per definizione, caratterizza la lingua che intendiamo
studiare319.

Grafico 4.8 Tracciato della curva di risposta che rapidamente si sovrappone


alla curva imposta.

Fonte: Mia elaborazione su grafico di Tomatis [1963] 1995: 84

318
Ci pare doveroso puntualizzare che le tecniche di integrazione approntate da Tomatis non
dispensano dallo studio della grammatica, della sintassi e del vocabolario, ma sono ad esso
complementari; semplicemente, tale condizionamento libera dalle inibizioni che il venir meno
dell’autocontrollo causa e rende l’acquisizione di una lingua più facile e più duratura. (Cfr.
TOMATIS, [1977] 1999, pp. 128-129).
319
Cfr. TOMATIS, [1963] 1995, p. 86.

184
Nel dettaglio, l’Orecchio Elettronico «[…] sovrappone all’ascolto originale
del soggetto una maniera di sentire che lo costringe a individuare i suoni secondo
uno schema preciso, in funzione dell’apertura diaframmatica dell’udito sulla
banda passante scelta, della pendenza della curva etnica media e infine del tempo
di latenza relativo allo sforzo di messa a fuoco, variabile […] da lingua a
lingua.» (Tomatis[1987] 2000: 120).

3. La felicità di un’utopico Kairós.

«In una partitura musicale, non vi è nulla che risulti dal caso, ma tutto è la
conseguenza di una sola e unica volontà, quella che detta, a chi sa porgere
l’orecchio, cosa è bene fare in un istante che continuamente si inscrive in un
processo di divenire.» (Tomatis [1995] 1998: 290). Se non avessimo posto tra
parentesi l’autore della citazione appena riportata, probabilmente, attribuirne la
paternità a Tomatis piuttosto che ad Adorno, non sarebbe stata un’operazione
così immediata.

Dall’affermazione citata emerge che, secondo Tomatis, una partitura


musicale, per essere compresa, deve essere inscritta in una temporalità
simultanea: sarebbe essenziale che le categorie musicali che si sono già
manifestate, quelle che si stanno rivelando e quelle che verranno in seguito
proposte fossero contemporaneamente presenti nella mente dell’ascoltatore,
perché, soltanto così, il brano potrà essere adeguatamente compreso. Parimenti,
Adorno, ne Il fido maestro sostituto, dichiara che «[c]ompito di un retto ascolto
[…] è di collegare, di ricordare, di attualizzare un dato non-attuale.» (Adorno
[1963] 1982: 57).

Quando il filosofo parla di “ascolto responsabile”, per lo più in relazione ad


una corretta comprensione della musica beethoveniana, fa riferimento alla
necessità che, nella coscienza, venga anticipato ciò che ancora deve venire;
un’operazione che sarebbe possibile grazie a quella sorta di competenza

185
classificatoria acquisita dopo secoli di linguaggio tonale. Secondo Adorno,
l’esperienza musicale si differenzia da qualsiasi altra esperienza proprio per la
temporalità alternativa che la contraddistingue: richiamandosi a Bergson, il
nostro dà a questo tempo non diacronico il nome di «temps durée» e lo definisce
come il tempo peculiare della musica; esso è un tempo psicologico che,
contrapponendosi al tempo fisico della nostra quotidianità, è in grado,
virtualmente, di annullarlo. Come l’istante di Tomatis “si inscrive in un processo
di divenire” così, per Adorno, «[…] [i]l tutto diviene, ed è compendio di tutte le
relazioni sia successive sia simultanee.» (ivi: 39).

Nello specifico, secondo il francofortese, l’ideale della musica è la


sospensione del tempo, dal nostro definita con il vocabolo tedesco Einstand o
con quello greco di Kairós. Poiché la musica decorre nel tempo, essa non esiste
in un luogo temporale specifico e isolato, la sua struttura è coglibile
dall’ascoltatore soltanto come il risultato dei singoli momenti di cui essa si
compone e, in tal senso, possiamo affermare che l’Einstand è «[…] l’istante in
cui il tempo si coagula intorno alla categoria di “totalità 320 ” e vi si fa
virtualmente sospendere […]» (Zurletti 2006: 90). La sensazione di totalità, il
sentimento di completamento di cui parla Adorno sono dunque cosa effimera,
limitata a quel preciso istante, e implicano che l’ascoltatore “sia-nel-tempo”, in
un peculiare stato di concentrazione e, insieme, di abbandono: colui che ascolta
deve essere “concentrato” perché deve porsi in una condizione che gli consenta
di anticipare la struttura globale del pezzo al fine di poter collocare correttamente
ogni dettaglio entro la sua architettura formale; “rilassato” perché non vi devono
essere altri pensieri o preoccupazioni che occupino la sua mente, dal momento
che il tipo di ascolto auspicato ha senso soltanto se viene applicato ad una musica
complessa, e non ad una musica che permetta di integrare con facilità ciò che si
è, per distrazione, trascurato321.

320
Una totalità che, in questo caso, è però parziale e corrisponde ad un’articolazione minore
dell’opera.
321
«Un’arte che si svolge nel tempo non permette che la si trascuri impunemente, come
invece è possibile con le arti spaziali: l’ascoltatore della musica resta coinvolto nel suo procedere,

186
Secondo i due autori, quindi, l’ascolto responsabile o strutturale e l’ascolto
proprio di un orecchio musicale conducono all’instaurarsi di una temporalità
alternativa che produce, in chi ascolta, il sentimento di una sospensione del
tempo, in particolare, nel caso in cui ci si appresti ad ascoltare le composizioni di
Beethoven, per Adorno, e durante l’ascolto delle opere di Mozart, per Tomatis.

Nonostante il filosofo di Francoforte abbia più volte dichiarato che la musica,


in quanto opera d’arte, va compresa e apprezzata a prescindere dagli effetti322 che
provoca in chi l’ascolta, nel tratteggiare il sinfonismo beethoveniano come il
luogo dove accediamo al “brivido del Kairós”323, ci sembra che, per la prima
volta, egli riesca a spogliarsi di quell’aura severa e di condanna nei confronti del
piacere, anche fisico, che si può sperimentare ascoltando la musica. Ne Il fido
maestro sostituto, Adorno dichiara che «[l]a coscienza primitiva desidera che la
musica sopprima le ore della noia: ed ecco che, ad uno stadio di maggiore
maturità, la coscienza ritorna a questo scopo, dopo essersene però liberata
guarendo in pari tempo dalla noia anche la musica. La sospensione (Einstand)
del tempo, intesa come fine di ogni coercizione, è l’ideale della musica, e anche
della sua percezione e dell’insegnamento musicale.» (Adorno [1963] 1982: 39).
In un certo senso, egli sta ammettendo che, una volta svolto il lavoro preliminare

sempre che questo non sia così semplicistico da permettere di integrare meccanicamente quello
che si è trascurato. Con l’aumento dello stadio di organizzazione, di integrazione della musica,
con l’accresciuto rigore con cui tutti i suoi momenti sono in rapporto reciproco, aumenta anche
l’integrazione dell’ascoltatore nella musica e la sua impossibilità di staccarsene, ed è questa
l’incombente contropartita della grandezza e magnificenza della musica stessa. Questo lato
coattivo della musica si accompagna al suo aspetto irrazionale, l’unico a coinvolgerla seriamente
nel dominio razionale della natura.» (Adorno [1963] 1982: 45-46).
322
Per esempio, in Introduzione alla sociologia della musica, Adorno dichiara di reputare
inutili quelle indagini di laboratorio che mirano a registrare scientificamente il contenuto
soggettivo dell’esperienza musicale; in particolar modo quando afferma che «[g]li effetti diretti
(ad esempio fisiologici) e misurabili di una musica (e in questo campo ci si è addirittura occupati
delle accelerazioni delle pulsazioni) non sono affatto identici all’esperienza estetica di un’opera
d’arte come tale.» (Adorno [1962] 2002: 6).
323
Cfr. ZURLETTI, 2006, p. 91.

187
di analisi e critica musicologica, consapevoli di ciò che si ascolterà, è lecito, e
auspicabile, abbandonarsi alla musica, ricercandone quella primigenia sensazione
di piacere e appagamento che essa, qualora sia “buona musica”, è in grado di
dispensare. E, in effetti, ricordiamolo, in Dissonanze, Adorno afferma che,
nell’arte, l’elemento sensoriale non è di per sé pernicioso perché non equivale a
ciò che è culinario e che, dunque, vuol essere gustato e consumato così come si
offre, a prescindere dal rapporto che intrattiene con la totalità dell’opera; nella
vera arte, l’elemento sensoriale è, al contrario, veicolo di un fattore spirituale ed
è tale perché non si presenta in momenti isolati del materiale, anticipando
positivamente una felicità soltanto parziale, bensì si rivela, e svela, nell’insieme,
registrando negativamente tale possibilità324.

Nell’ascolto strutturale adorniano che, abbiamo detto, è applicabile


principalmente al discorso musicale classico, soprattutto quello beethoveniano,
non vi è tanto un rapporto privilegiato con il tempo quanto la fondazione di una
temporalità “altra”, che viene generata dall’ascoltatore in virtù delle sue
competenze classificatorie. A partire dall’istante in cui il pezzo ha inizio, tra
quest’ultimo e l’ascoltatore si instaura un rapporto peculiare: l’ascoltatore
responsabile entra in uno stato di assoluta concentrazione, consapevole che i
singoli dettagli, che la sua mente dovrà essere in grado di mandare a memoria,
fanno parte di un tutto che dipende da essi e che, allo stesso tempo, conferirà loro
quel significato non immediatamente coglibile. In una concezione «strutturalista»
o «categoriale» della musica, si può realmente comprendere la struttura di un
pezzo soltanto quando si giunge all’ultima misura, perché per riuscire a conferire
l’esatto valore ad un elemento x, che si trova ormai nel passato, dobbiamo essere
in grado, grazie ad una memoria classificatrice, di intuire quando un elemento
che compare in seguito, y, ha qualcosa in comune, a livello formale, con il primo.
In altre parole, è necessario scorgere se e quando vi sia, tra i vari elementi, una
reciproca implicazione: nel momento in cui x, elemento anteriore, viene
compreso grazie a y, i due dati vengono sussunti sotto la medesima categoria. In
questo senso, secondo Zurletti, dal punto di vista strutturale, «[…] l’atto di
324
Cfr. ADORNO, [1956] 1981, p. 14.

188
“comprendere la molteplicità sotto categorie” non comporta soltanto la
sospensione del tempo, ma anche un’inversione nella catena delle determinazioni
causali.» (Zurletti 2006: 93).

Sia Adorno sia Tomatis, ad un certo punto, dopo essersi lungamente occupati
delle problematiche e delle implicazioni relative all’ascolto, si dedicano allo
studio, e alla realizzazione, di un metodo pratico con il quale far acquisire, o
riacquisire, all’individuo questa fondamentale facoltà umana. A noi piace
considerare i suoni filtrati e l’Effetto Mozart di Tomatis che, vedremo, sono in
grado di apportare effetti benefici su ambiti quali la vita neurovegetatitva
(appetito, sonno), la motricità, la gestualità, la creatività, la vigilanza (attenzione
e concentrazione), la memoria e il comportamento325, come una propedeutica
all’ascolto strutturale tratteggiato, per la prima volta in modo chiaro e didattico,
ne Il fido maestro sostituto. Nel getreue Korrepetitor, infatti, Adorno, con
l’obiettivo di avvicinare il pubblico alla musica seria, si impegna nel tentativo
sostanzialmente pedagogico di svelare i principi strutturali delle opere in esame.

A nostro parere, nelle condizioni attuali 326 , prima di pretendere che gli
ascoltatori divengano capaci di un ascolto responsabile, o strutturale, come
auspicherebbe Adorno, bisognerebbe verificare, in primo luogo, che il loro

325
Cfr. TOMATIS, [1995] 1998, p. 171.
326
Relativamente alle “condizioni attuali”, ci sembra che l’attuale tipo di ascolto sia ancora
quello «[…] di individui regrediti, inchiodati a uno stadio di sviluppo infantile.» (Adorno [1956]
1981: 32). Se, in un primo momento, le moderne tecnologie hanno inciso positivamente
permettendo una diffusione sempre più massiccia delle opere musicali che prima erano
appannaggio esclusivo di chi poteva permettersi un ingresso a teatro, oggi, la priorità delle
emittenti private, e non solo, è l’indice di ascolto. Risulta evidente che se la principale
preoccupazione è quella di aumentare tale indice, al fine di assecondare i gusti, le aspettative e le
richieste degli ascoltatori potenziali, non si può che assistere ad un inarrestabile livellamento
verso il basso delle scelte programmatiche: in un “infernale” circolo involutivo, gli ascoltatori,
ormai disabituati ad “ascoltare”, si aspettano la medesima “pappa” e la medesima “pappa” viene
loro prontamente riproposta. In questo modo, dimentichi che l’ascolto richiede attivazione
mentale e concentrazione, ad essi non viene mai concessa la possibilità di mutare il proprio
approccio alla musica.

189
orecchio “accetti” di ascoltare, valutandone la curva uditiva: sappiamo che è
sufficiente un ambiente sonoro327 sfavorevole o emotivamente inadatto perché
accada che la muscolatura dell’orecchio medio non riesca più ad assicurare
l’apertura che permette ai suoni di accedere all’orecchio interno e, quindi, al
cervello; secondariamente, una volta che ci si sia accertati e, eventualmente, si
sia intervenuti, sul primo aspetto, sarebbe opportuno assicurarsi che il canale
solitamente impiegato ai fini della comunicazione non sia stato compromesso per
le medesime ragioni che avevano indotto l’orecchio a sabotare se stesso: musica
e linguaggio sono infatti inestricabilmente connessi. Abbiamo oramai maturato la
convinzione che un ascolto strutturale, o responsabile, non sia ottenibile soltanto
perché lo si desidera, neppure se questo desiderio è accompagnato da uno sforzo
individuale, soprattutto se non si ha avuto modo di svilupare una buona curva
uditiva, tuttavia, crediamo che tale sforzo, tale ἄσκησις, non sia vano se viene
sostenuto dal percorso di propedeutica all’ascolto predisposto da Tomatis; il
medico francese, filtrando la musica di Mozart 328 , attiva un processo di
stimolazione neuropsicofisiologica che “apre” l’orecchio e lo guida a
riappropriarsi della facoltà che gli sarebbe peculiare: l’ascolto.

327
«Tutti gli orecchi del mondo sono identici al momento della nascita, sia sul piano
anatomico che dal punto di vista fisiologico. Tutti hanno conosciuto la stessa avventura
ontologica durante il loro soggiorno nel ventre della madre. Però, a seconda dell’ambiente sonoro
in cui l’orecchio si immergerà a partire dalla nascita, si manifesteranno rapidamente delle
differenze sensibili. […] Nelle condizioni più favorevoli, l’orecchio non dovrebbe presentare
alcuna anomalia né manifestare rifiuto nei confronti dell’analisi dei suoni. […] Ma chi può
pretendere di usufruire di tutti questi vantaggi, dal momento che viene immerso nel mondo degli
uomini?» (Tomatis [1995] 1998: 169).
328
In venticinque anni di continue sperimentazioni, i risultati che Tomatis ottenne mediante la
musica di Mozart si rivelarono sempre positivi e costanti. In L’orecchio e la vita, egli afferma che
«[n]on è insensato supporre che Mozart abbia elaborato la struttura sottostante di un linguaggio
primario […] Grazie a questa universalità, i primitivi nel cuore della foresta vergine e gli
eschimesi che attraversano le distese ghiacciate del Labrador reagiscono positivamente alla sua
musica, così diversa dalla loro. Forse Mozart aveva scoperto, senza averla cercata, e grazie
all’amore per la musica, la fonte generatrice dell’espressione estetica musicale.» (Tomatis [1977]
1999: 238).

190
Adorno, probabilmente, pur avendo colto perfettamente la regressione a cui
gli individui andavano incontro ascoltando sempre e soltanto musiche banali e,
nei luoghi deputati, ad alto volume, non aveva immaginato che un ambiente
sonoro sfavorevole avrebbe potuto indurre una vera e propria “chiusura”
funzionale dell’orecchio e, dunque, rendere impossibile non solo l’ascolto della
Neue Musik, ma anche quello della “musica classica” in generale. A titolo
esemplificativo, si pensi soltanto a queste due manifestazioni esteriori, e quindi
verificabili con facilità, della società: la prima è che se, ad oggi, dovessimo far
rientrare in una delle sei tipologie adorniane degli ascoltatori coloro che
prediligono ascoltare, amandola sinceramente, la musica seria, con molta
probabilità constateremmo che essi appartengono tutti alla categoria dell’esperto,
nel senso che, oggi, intende e apprezza la musica più complessa soltanto chi ne
ha fatto la propria professione; il secondo esempio, invece, lo si ha chiedendo ad
un insegnante di musica 329 quali pezzi proponga ai suoi giovani allievi per
indirizzarli o, meglio, “invogliarli” (perché oramai di questo si tratta) allo studio
di uno strumento, questi risponderebbe che, qualora non ambisca a ritrovarsi con
un esiguo numero di alunni, i pezzi che è costretto a proporre sono adattamenti di
brani tratti dalla musica leggera.

Dunque, dal momento che l’ascolto degli individui, rispetto all’epoca in cui è
vissuto Adorno, non ha subito miglioramenti di sorta, prima di pretendere che un
soggetto si sforzi di realizzare un ascolto strutturale, è forse opportuno capire se
egli sia o meno in grado di ascoltare adeguatamente i suoni e, qualora non lo sia,

329
Gli insegnanti a cui stiamo facendo riferimento svolgono la loro attività didattica nelle
scuole di musica o nelle scuole secondarie di primo grado: nel primo caso è importante che i
maestri abbiano un buon numero di allievi perché ciò è quanto auspica la politica economica di
queste istituzioni che, in genere, devono autofinanziarsi. Nelle scuole secondarie inferiori, invece,
l’ora di musica tende ad essere confusa con l’ora di ricreazione e, in genere, il professore di
musica, una volta ricondotta la classe all’ordine, si trova a dover svolgere il compito basilare, e
oltremodo avvilente, di suscitare un qualche interesse per il mondo sonoro proponendo
canzonette facili ed orecchiabili; chiaramente, l’alto tasso di euforia e il basso livello di
attenzione, che i ragazzi riservano a tale disciplina, non consentono al docente, neanche in questo
secondo caso, di proporre brani che richiedano un qualche tipo di sforzo.

191
indirizzarlo a ristabilire la sua facoltà d’ascolto mediante un percorso specifico.
Tomatis è riuscito a dimostrare sperimentalmente che cosa accade ad una
persona quando il suo orecchio non permette di ascoltare i suoni di cui il suo
intero essere necessiterebbe per svolgere al meglio tutte le sue funzioni, fisiche
ed intellettive. Lo studioso ha potuto, grazie ai progressi dell’elettronica, valutare
le modificazioni della psiche nel momento in cui il campo uditivo si restringe330;
nella realtà, è pressoché impossibile avvedersi dei singoli cambiamenti
psicologici in relazione alla perdita uditiva, ma Tomatis, attraverso l’uso di filtri
in laboratorio, è stato in grado di riprodurre una sordità professionale a tutti i
livelli. Non appena la mancanza di acuti diventa manifesta, il semplice parlare
richiede uno sforzo non indifferente, si assiste infatti ad una modificazione della
voce che, a causa di un appoggio anormale della laringe, diventa grave e assume
un timbro sordo e gutturale. L’apparato tracheo-laringeo, sottoposto alle
pressioni esercitate da questa disfunzione, inizia ad infiammarsi, le corde vocali
si congestionano e la respirazione è affrettata, a tratti addirittura bloccata.
Spesso, oltre alla sensazione di blocco respiratorio, il ritmo cardiaco rallenta e la
tensione cade. A coronare il tutto, vi è una cronica mancanza di entusiasmo. Per

330
Il campo uditivo può facilmente restringersi, non solo a causa dei traumi emotivi che il
soggetto può sperimentare nel corso della propria esistenza, ma anche per una prolungata
esposizione ai rumori tipici della modernità. L’orecchio, infatti, entra in una zona critica a partire
dai 100 dB, che corrispondono, più o meno, ai treni che entrano in stazione, ad alcuni camion, ai
trattori e alle moto a scappamento libero; ma oltre i 100 dB l’orecchio soffre ed entra in pericolo:
per esempio, le officine delle caldaie e di chiodatura superano regolarmente i 100 dB e gli aerei
ad elica raggiungono i 120/130 dB, con gli aerei a reazione, invece, siamo oltre i 130 dB, mentre,
le discoteche, dal canto loro, presentano intensità equivalenti e talvolta superiori. (Cfr.
TOMATIS, [1995] 1998, pp. 153-154.). Per non parlare degli impianti sonori che oggi è lecito
allestire; al semplice scopo di rendere evidente a quale e a quanto stress è sottoposto il nostro
orecchio durante un concerto dal vivo, proponiamo, di seguito, alcune cifre: «[…]

- nel 1957 i Beatles utilizzavano tre amplificatori da 30 W;

- nel 1969 un’orchestra psichedelica si esprimeva con 300 W;

- nel 1970 i Pink Floyd inaugurano i 1000 W;

- da allora in poi l’aumento diventa delirante. Raggiunge i 120.000 W con Bob Dylan,
e attualmente si parla di utilizzare 2.400.000 W!». (Tomatis [1995] 1998: 153).

192
realizzare una controprova dell’esperimento, è sufficiente amplificare le
armoniche elevate, rafforzando gli acuti a scapito dei suoni gravi:
«[i]mmediatamente l’espressione si illumina. Il viso si schiarisce di nuovo. Torna
il sorriso. La respirazione diventa ampia, libera. La parola scorre agevolmente. Il
polso accelera. Tutto, nel comportamento, esprime di nuovo la gioia di vivere.»
(Tomatis [1995] 1998: 159).

Questi sono, in sintesi, gli effetti che l’incapacità di udire provoca nell’essere
umano quando, per vari motivi, l’orecchio è incapace di ascoltare e ai suoni
viene precluso il percorso che dall’orecchio interno conduce, attraverso le vie
nervose, al cervello. È infatti scientificamente dimostrato che il cervello, per
funzionare sul piano del pensiero e della creatività e per poter, in generale,
aspirare alla pienezza delle sue funzioni, necessita di una sollecitazione dinamica
intensa, Tomatis definisce questa sollecitazione energia331. È noto che il cervello,
per raggiungere il suo pieno rendimento, deve venire letteralmente bombardato
da una grande quantità di stimoli per molte ore al giorno; tra questi stimoli, rileva
lo studioso, l’energia sonora trasmessa attraverso il circuito audio-vocale occupa
un posto di primaria importanza. In particolare, sono le musiche dotate di suoni
acuti332 quelle che, più di tutte, riescono a stimolare nel modo migliore e più
efficace il cervello: i suoni acuti, infatti, raggiungono con facilità la zona di
Corti333 che è la più densa di cellule destinate alla ricarica corticale334. Dal

331
Secondo Tomatis, il termine “energia” è da riferirsi alle stimolazioni che il cervello deve
ricevere per poter funzionare sul piano del pensiero e a livello della creatività; nello specifico, il
loro effetto «[…] mette in campo processi psicochimici cellulari da cui deriva una sollecitazione
dinamica caratterizzata da un impulso nervoso. Questo è misurabile in base a un insieme di
fenoemeni che si traducono in un’attivazione dei procedimenti del pensiero e il cui effetto è
rilevabile sotto forma di campo elettrico.» (Tomatis [1987] 2000: 29).
332
In Perché Mozart?, Tomatis dichiara che «[...] i suoni acuti costituiscono in alcune zone, a
certe intensità e a certi ritmi, dei veri generatori di energia. In questo caso, la carica corticale
supera largamente il dispendio di energia del corpo e diviene in qualche modo positiva per
quanto riguarda la dinamizzazione dell’insieme del corpo.» (Tomatis [1991] 1996: 115).
333
In effetti, sull’apparecchio di Corti, contenuto nell’orecchio interno, «[…] le cellule
sensoriali non si distribuiscono allo stesso modo a seconda che si trovino nella zona riservata ai

193
momento che Tomatis, dopo anni e anni di sperimentazioni, ha constatato che gli
effetti neurofisiologici desiderati erano ottenibili sempre e soltanto con la musica
di Mozart335, nella prima parte del prossimo paragrafo, analizzeremo i benefici
che è possibile trarre336 dall’ascolto mozartiano, mentre, nella seconda parte, ci

suoni gravi, in quella dei medi o in quella degli acuti. Sono scarse nella zona dei gravi (un
centinaio), un po’ più numerose nella parte dei medi (500), e molto più numerose nella zona
destinata agli acuti (24.000).» (Tomatis [1991] 1996: 115).
334
«L’orecchio dunque assicura la carica corticale. Questa genera energia. Ha un potere
dinamizzante, che detiene dai tempi più remoti del genere animale.» (Tomatis [1991] 1996: 114).
335
«Certo ho sperimentato tutto quello che si può registrare di acustico: rumori, messaggi
musicali, classici o moderni, tradizionali o contemporanei. Ho anche cercato di inserire musiche
originarie di altri continenti, e cioè quelle provenienti dall’Estremo Oriente, dall’India,
dall’Africa. I risultati riguardanti gli effetti della musica sul corpo e sulla psiche non hanno mai
raggiunto, sul piano della dinamicizzazione, quelli che ci dà Mozart.» (Tomatis [1991] 1996: 17).
336
Le sperimentazioni effettuate da Tomatis sono state condotte su decine di migliaia di casi
(patologici e non) e le risposte neuropsicofisiologiche ottenute sono state le medesime a
prescindere dall’etnia considerata; i soggetti, infatti, provenivano da ogni parte del mondo. In
Perché Mozart?, Tomatis dichiara che la musica di Mozart fa parte degli universali. «Agisce su
tutti e ovunque. In Francia, in America, in Germania, fra i Bantu, in Alaska o in Amazzonia, è
Mozart che innegabilmente riporta il punteggio più alto in fatto di reazioni positive […]»
(Tomatis [1991] 1996: 18); la sua efficacia e i suoi effetti benefici si estendono sino ai regni
animale e vegetale, sui quali sono stati condotti innumerevoli esperimenti con esiti sempre
positivi. Va tuttavia precisato che la musica di Mozart, per buona parte del percorso mirante a
risolvere i difetti dell’ascolto, del linguaggio orale o scritto, della voce parlata o cantata , viene
filtrata oltre gli 8000 Hz perché solo in questo modo essa diventa un vettore di armonizzazione,
di dinamizzazione, di risveglio e di creatività. Inoltre, Tomatis ha potuto constatare che, in
culture diverse, il tempo medio da dedicare a ogni tappa del percorso pedagogico da lui ideato
varia sensibilmente. Secondo lo studioso, l’universalità della musica di Mozart riguarda
innanzitutto gli effetti neurofisiologici e, dunque, essa va costantemente pensata in relazione con
il sistema nervoso: partendo dal presupposto che l’organizzazione vestibolo-cocleare è tutt’uno
col sistema neuromuscolare e sensoriale (e vi è dunque, nell’integrazione uditiva, un totale
coinvolgimento della sfera corporea, oltre che mentale), il ritmo e le frequenze caratterizzanti la
musica mozartiana agiscono sul corpo predisponendolo «[…] all’integrazione di tutti i sistemi
sonori quali che siano, e da qualsiasi luogo provengano.» (ivi: 68). Ci sembra quindi di capire che
gli scritti di Mozart figurino fra gli “universali” perché comunicano il loro contenuto attraverso
un linguaggio immediatamente coglibile che precede il linguaggio verbale e prescinde sia dal

194
occuperemo invece di illustrare alcuni aspetti della metodologia didattico-
musicale propostaci da Adorno.

4. Pedagogia dell’ascolto.

Abbiamo detto che, secondo Tomatis, qualsiasi soggetto dovrebbe poter


disporre, qualora non vi siano patologie specifiche, di una curva uditiva ideale
che gli permetta di passare con facilità dall’azione involontaria del mero sentire
all’atto consapevole di ascoltare. Si è poi precisato che è sufficiente qualche
incidente di percorso o, semplicemente, un ambiente circostante inadeguato
perché questa tarda facoltà umana non raggiunga un livello ottimale. Oltre che
effettuando il test audiometrico approntato dallo studioso, è possibile avvedersi
che nell’evoluzione acustica vi sono state delle interferenze e che, dunque, alla
personalità del soggetto non è stato permesso di schiudersi in maniera adeguata,
qualora il soggetto in questione presenti una balbuzie, una dislessia, un leggero
autismo, una mancata lateralizzazione o un atteggiamento simile a quello
precedentemente descritto (laddove ci siamo preoccupati di esporre gli effetti
della sordità o della mancanza di ricettività nei confronti dei suoni acuti). Nel
corso della propria carriera, Tomatis ha avuto la possibilità di studiare da vicino
questo tipo di problematiche e ciò gli ha consentito di verificare l’ipotesi che tali
disturbi si manifestassero perché il soggetto aveva vissuto in maniera traumatica
quelle fasi che costituiscono il percorso uditivo che ogni uomo dovrebbe
compiere a partire da quando ha inizio il suo “soggiorno terrestre”, ovvero da
quando si trova ospite nell’utero materno. A partire da questa considerazione,

livello di consapevolezza individuale sia dall’etnia di appartenenza: la sua musica è in grado di


“accarezzare” il corpo di chi ancora non è in grado di ascoltare, stimolando il soggetto ad uscire
dal suo mutismo, dalla sua incapacità di ascoltare; non viene rifiutata da chi possiede una curva
uditiva poco sviluppata e, infine, si lascia apprezzare e scoprire in tutta la sua complessità da chi
si accosta con competenza alle sue opere.

195
egli ha speso tutte le proprie energie nel tentativo di ricreare artificialmente un
percorso sonico, percorrendo il quale, nel soggetto possa sorgere spontaneamente
il desiderio di ascoltare. Il metodo proposto dallo studioso consiste nel far
rivivere al paziente, mediante un condizionamento, la progressione sonora ideale,
da cui, per qualche motivo, si è troppo allontanato. Anche se, più volte, Tomatis
ha designato questo tipo di intervento con la parola «trattamento», precisa che lo
fa soltanto per ragioni di comodità e che, in realtà, il termine «pedagogia» gli
sembra molto più adatto; in effetti, in L’orecchio e la vita, egli scrive che “si
tratta proprio di aiutare un essere prigioniero di una certa forma di immaturità”:
«Io non curo i bambini che vengono portati da me bensì li risveglio. Per le stesse
ragioni, non parlerei di “rieducazione”. Risvegliare delle potenzialità che non si
sono ancora espresse non è “rieducare”, ma semplicemente “educare”; e questo
proprio nella misura in cui è possibile considerare l’esistenza come
un’educazione permanente.» (Tomatis [1977] 1999: 222).

Dopo anni di studi e sperimentazioni, Tomatis, mediante delle apparecchiature


elettroniche, è riuscito a ricreare, in laboratorio, le varie tappe che, a suo avviso,
costituiscono l’itinerario uditivo ideale. I nomi dei cinque stadi che si possono
individuare e che, di seguito, abbiamo proposto, non hanno in sé alcun valore,
ma, semplicemente, dipendono dal relativo uso che gli utilizzatori dell’Orecchio
Elettronico ne fanno:

1. ritorno sonoro;

2. suoni filtrati;

3. parto sonoro;

4. fase prelinguistica;

5. strutturazione del linguaggio.

Non avendo la possibilità di riservare ad ogni punto la trattazione di cui


necessiterebbe per venire adeguatamente compreso, ci limiteremo a fornire una
breve descrizione di ognuno, soffermandoci poi ad analizzare alcuni aspetti della
musica mozartiana con lo specifico intento di capire in che cosa essa si differenzi
rispetto alle musiche di altri compositori.

196
Con «ritorno sonoro» ci si riferisce al percorso predisposto affinché il
soggetto da educare sia gradualmente condotto, senza che ne venga turbato,
verso l’ascolto intrauterino mediante l’azione della musica filtrata, la quale viene
selezionata in base alla sensibilità del paziente. La musica che si è rivelata
maggiormente adatta a tale scopo è quella di Mozart perché, nella quasi totalità
dei casi, viene accolta senza problemi.

Dopo una lenta e accorta preparazione, quando il bambino o l’adulto


dimostreranno di essere pronti, si potrà procedere con i cosiddetti «suoni filtrati».
I suoni vengono, per l’appunto, “filtrati” in modo tale che soltanto determinate
alte frequenze rimangono operative perché, ricordiamolo, l’ascolto intrauterino è
caratterizzato dal fatto che l’embrione si trova immerso nel liquido amniotico; è
inoltre indispensabile che tali suoni siano prodotti sulla base della voce della
madre337 perché, secondo Tomatis, è proprio il rapporto con essa che questo
sistema di percezioni deve essere in grado di rinnovare. Alla madre viene dunque
chiesto di leggere338 per una buona mezz’ora: della sua voce, registrata su nastro
mediante Orecchio Elettronico, saranno conservate le frequenze acute in vista del
filtraggio, il quale porterà i suoni della voce della madre oltre gli 8000 hertz.
Infine, verrà realizzato un montaggio sonoro che consentirà di riprodurre
l’ascolto della voce materna come se essa passasse attraverso gli strati liquidi
dell’ambiente intrauterino. Le sedute con i suoni filtrati dovranno continuare
finché il soggetto non avrà accettato la comunicazione, in particolare, fino al

337
Qualora il soggetto abbia perso la propria madre biologica, si ricorre alla musica, in
particolar modo, a quelle musiche che sono maggiormente dotate di suoni acuti; a tale proposito,
in L’orecchio e la vita, Tomatis dichiara: «Fra le decine e decine di brani musicali che abbiamo
sperimentato in venticinque anni, abbiamo scelto Mozart e i canti gregoriani perché i più adatti ai
nostri fini.» (Tomatis [1977] 1999: 226).
338
Inizialmente, alle madri veniva chiesto di dire qualcosa di personale, ma, spesso, le frasi
che pronunciavano erano inadatte e, anziché comunicare amore, erano colme di risentimento; il
blocco psicoaffettivo del soggetto, in effetti, risultava più che giustificato. Per ovviare a tale
inconveniente, Tomatis decise di ricorrere alla lettura di un brano scritto e, dopo aver
sperimentato vari testi, notò che un’opera che non mancava mai di sortire le reazioni più positive
era Il piccolo principe di Saint-Exupéry.

197
momento in cui egli comincerà a goderne e a manifestare il desiderio di
ascoltare, preludio del desiderio di entrare in comunicazione339 con la propria
madre e, più avanti, con il mondo circostante.

Con il «parto sonoro» si procede al passaggio dall’ascolto in ambiente liquido


all’ascolto in ambiente aereo; in molti casi, per non provocare un trauma al
soggetto, prima di utilizzare la voce materna, è necessario filtrare
un’informazione sonora musicale, poiché essa, essendo neutra, non presenta
alcun contenuto verbale che, in qualche modo, possa essere mal recepito dal
paziente. Dopo che la “nascita” ha avuto luogo, il parto sonoro dovrà rispettare la
successione delle tappe del parto sonoro naturale, in un’operazione lenta e
graduale340 di apertura del diaframma uditivo, «[…] quel diaframma attraverso il
quale il bambino ritroverà la voce materna solo dopo un certo tempo.» (ivi: 230).

A questo terzo passaggio, segue poi la «fase prelinguistica», il cui fine è


quello di condurre l’udito del paziente verso un ascolto del linguaggio; in questo
caso, si deve operare in modo che vi sia, nell’autocontrollo, una dominanza
dell’orecchio destro. La presente fase è tra le più difficili perché richiede
l’accettazione dell’altro, inizialmente rappresentato dalla figura del padre,
all’interno della confortevole e sicura orbita materna: la voce del padre che viene
fatta ascoltare dopo i suoni filtrati è, per moltissimi soggetti, intollerabile,
«[d]avanti a questa immagine il figlio incontra ciò che è indesiderabile, il
nemico. Reagisce con estrema durezza: va in collera, scoppia in singhiozzi, si
strappa gli auricolari e li scaraventa all’altro lato della sala.» (ivi: 235). Bisogna,
dunque, procedere gradualmente e, nel contempo, alternare la voce paterna con
sonorità musicali o vocali sotto forma di musica filtrata (e non), delle
filastrocche341 e dei canti gregoriani, cosicché, poco alla volta, «[…] si creano

339
Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 229.
340
Ora che il soggetto dispone di un nuovo modo di comunicazione sonora, «[n]on bisogna
farlo passare bruscamente dal disadattamento (in cui per ragioni diverse si è rifugiato) al
comportamento uditivo corretto.» (Tomatis [1977] 1999: 230).
341
Secondo Tomatis queste filastrocche, che hanno attraversato i secoli, sono fondamentali
perché «[…] costituiscono le basi stesse della lingua che verrà più tardi utilizzata come mezzo di

198
dei codici neuronici che costituiscono il binario sul quale il linguaggio sociale
imposterà le proprie strutture.» (ivi: 236). È interessante notare come anche
Adorno avesse connesso l’incapacità assoluta di ascoltare con un’autorità paterna
oltremodo severa. Nello specifico, il filosofo, in Introduzione alla sociologia
della musica, illustra un’ulteriore “tipologia di comportamento musicale”, che
noi avevamo consapevolmente deciso di non annoverare fra le sei sopra descritte,
perché non è di un tipo di ascoltatore che Adorno parla, ma del non-ascoltatore
tout-court: l’“ascoltatore” indifferente, non musicale e antimusicale. In perfetto
accordo con quanto sostiene Tomatis, Adorno afferma che «[n]on si tratta qui,
come affermano le convenzioni borghesi, di una mancanza di predisposizione
naturale, ma di processi verificatisi nella prima infanzia: oseremmo avanzare
l’ipotesi che in quell’epoca della vita un’autorità estremamente brutale ha
causato in questo tipo delle deficienze.» (Adorno [1962] 2002: 23). La
considerazione con cui prosegue è, al contrario, del tutto inattuale, perlomeno per
quanto attiene all’Italia: il filosofo si meraviglia del fatto che questi soggetti
siano “addirittura” incapaci di leggere la musica. Se, ad oggi, dovessimo
estendere tale giudizio e annoverare in quest’ultima categoria tutte quelle
persone che non sono in grado di leggere uno spartito, potremmo tranquillamente
eliminare, nel nostro paese, i tipi del consumatore di cultura, dell’ascoltatore
emotivo, del fan del jazz e dell’ascoltatore per passatempo, dal momento che
nessun soggetto esce dalla scuola primaria o dalla scuola secondaria (a meno che
non abbia studiato musica privatamente o non si sia iscritto ad un liceo musicale)
con una simile competenza.

Pienamente consci che questo breve excursus necessiterebbe di essere


ulteriormente approfondito, ritorniamo tuttavia a discutere il nostro itinerario
uditivo nella sua ultima fase. Le basi psicolinguistiche, che consentiranno al

comunicazione. Apportano gli elementi strutturali folcloristici del futuro linguaggio.» (Tomatis
[1991] 1996: 125). Ma, poiché ciascuna etnia ha dei ritmi di base propri, corrispondenti a diverse
codificazioni neuroniche, le filastrocche devono essere rigorosamente selezionate entro l’ambito
etnico d’appartenenza: «[p]ersino all’interno dello stesso ambito linguistico (quello francofono,
ad esempio) le filastrocche costituiscono degli elementi particolari che non possono essere
utilizzati in un altro paese.» (ivi: 126).

199
soggetto di rapportarsi adeguatamente con il mondo esterno mediante la lingua
parlata, verranno acquisite durante la quinta tappa, definita «strutturazione del
linguaggio», la quale comincia con l’ascolto – sempre grazie all’Orecchio
Elettronico – di fonemi ricchi di frequenze elevate342, detti “sibilanti filtrate”.
L’immissione di sibilanti serve per “dilatare” la capacità di sentire, per “aprire”
l’orecchio ad una buona percezione nelle frequenze acute e nelle armoniche alte.
In alternanza a sedute con sibilanti filtrate, viene proposta, ancora una volta, la
musica di Mozart, che si rivela adatta ad assolvere una funzione “purificatrice”:
essa, innanzitutto, deconcentra, poiché stempera la tensione dello sforzo
consapevole richiesto al soggetto affinché il trattamento abbia un esito positivo,
e, allo stesso tempo, sdrammatizza il difficile incontro acustico con il padre. Ma
perché proprio Mozart e non Salieri, Beethoven, Bach o Haydn?

Per rispondere a questa domanda, Tomatis ha scritto un libro in cui spiega


perché la musica di Mozart è diversa da tutte le altre e perché, a suo avviso,
questo musicista fu un genio ineguagliato. Ciò che viene più volte sottolineato è
che, a differenza di Beethoven o di Bach, Mozart non richiede che si sappia già
ascoltare: egli è in grado di guidare il neofita alla scoperta della musica, ne
mobilita il sistema nervoso343 e fa sì che il suo orecchio diventi capace di
eseguire delle discriminazioni frequenziali, le stesse di cui si compone anche
ogni struttura linguistica. Beethoven o Bach richiedono, per poter essere ascoltati
e compresi, che chi si accosta alle loro opere abbia già familiarità con alcune
strutture della musica e sappia concentrarsi, in caso contrario, il loro modo
espressivo e il loro codice musicale non può essere recepito. Se si vuole, per
esempio, godere appieno del paesaggio vivo e luminoso di Bach, un perfezionista
che non è mai sazio di costruire, innovare e rendere più solide le sue strutture
logiche, occorre una preparazione specifica, non è possibile avvicinarsi alla sua
sofisticata produzione senza preliminarmente affrontare alcuni aspetti teorici,
formali, che possano venirci in aiuto, fornendoci delle efficaci chiavi di lettura.

342
Cfr. TOMATIS, [1977] 1999, p. 236.
343
«Mozart suona il corpo umano. È un virtuoso del sistema neuro-vegetativo e uno
specialista della neurologia funzionale.» (Tomatis [1991] 1996: 134).

200
Tutto ciò non vale assolutamente per Mozart, il quale non costruisce la sua
musica, ma la “parla” come si parla la propria lingua madre e, effettivamente, la
musica fu il suo primo linguaggio344, il suo modo naturale di esprimere sé e i
propri umori: entrambi i suoi genitori erano musicisti e, per questo, furono in
grado di cogliere la grande dote del piccolo già a partire dai primissimi anni di
vita; si consideri che all’età di tre anni il piccolo Wolfgang era in grado di
comporre e, dunque, di ragionare in termini musicali.

Secondo Tomatis, è solo tramite la musica di Mozart che il corpo viene


addestrato per assorbire il messaggio: essa predispone il terreno per ulteriori
acquisizioni acustiche e prepara «[…] all’integrazione di tutti i sistemi sonori
quali che siano, e da qualsiasi luogo provengano. Sotto questo aspetto, è l’unico
compositore i cui scritti musicali figurano fra gli “universali” […]» (Tomatis
[1991] 1996: 68). Lo studioso spiega che, per apprezzare un brano, colui che lo
ascolta deve riuscire ad assimilarlo, ad interiorizzarne le strutture: il pezzo deve
entrare a far parte di un bagaglio personale che ne permette un riconoscimento
immediato ed indiretto. E Mozart, dal canto suo, renderebbe possibile tutto ciò e
lo farebbe senza trascinare chi lo ascolta in una disposizione d’animo
sfavorevole, perché si sa che la musica «[p]uò trascinare nei suoi ritmi e nelle sue
volute, più di qualunque altro linguaggio, chi ama chiudersi fra i propri fantasmi
e i propri sogni.» (ivi: 127).

Se è infatti vero che lo stato emotivo può modificare per intero la percezione e
la ricettività - perché un cambiamento di umore, in chi non sappia ancora
ascoltare in modo adeguato, influisce sulla memoria e sulla discriminazione
qualitativa 345 - è vero anche che, «[…] come sapevano bene già i filosofi

344
In Perché Mozart?, Tomatis afferma che Mozart è dotato di “sapere musicale” fin da
subito, «[…] quando la sua memoria non era ancora contaminata da un cumulo di ricordi
ingombranti. Devo ricordare che questi ricordi sono delle zavorre, che possono spingersi fino a
disturbare i processi profondi della comunicazione e oscurare quelli della creatività?» (Tomatis
[1991] 1996: 134).
345
È bene precisare che la reazione a cui stiamo facendo riferimento è propria dell’ascoltatore
non-educato, codificato male o in modo imperfetto, il quale, non essendo in grado di fornire una

201
dell’antichità, la musica è capace di generare atmosfere (Stimmungen, moods)
che contagiano gli stati d’animo e alterano il comportamento umano […]»
(Bertinetto 2012: 142). Per esempio, un ascoltatore non educato, e “sono rari
quelli che sanno ascoltare 346 ”, finirà per essere indotto nelle condizioni
psicologiche del compositore; un’eventualità ancor più rischiosa nel caso di un
soggetto autistico: qualora un bambino bloccato in una condizione di non-
comunicazione347 fosse indotto ad ascoltare con attenzione, per esempio, un
pezzo di Chopin, proverà una forte angoscia, «[…] mentre con un brano di
Mozart questo bambino, calmandosi, si risveglierà.» (Tomatis [1991] 1996: 126).
Parimenti, potremmo non riuscire ad ascoltare una serenata di Beethoven che,
qualche giorno prima, aveva destato in noi delle vividissime emozioni (come
quelle che il tipo dell’ascoltatore emotivo adorniano va ricercando), e ciò in virtù
di una disarmonia fra i nostri ritmi interiori e quelli del compositore nel momento
in cui scriveva, una disarmonia di cui, a causa della nostro ascolto ancora
immaturo, non riusciamo a prendere coscienza348.

Ma la musica di Mozart, ribadiamo, sfugge a tale inconveniente: in primis, la


struttura delle opere mozartiane viene immediatamente recepita e assimilata349, a

risposta davvero valida, finirà per essere indotto nelle condizioni psicologiche del compositore.
Al contrario, un ascoltatore consapevole «[r]eagirà secondo la risonanza del proprio sistema
nervoso che terrà sotto controllo grazie all’ascolto.» (Tomatis [1991] 1996: 126). Dal canto suo,
anche Adorno sostiene che «[…] è possibile ascoltare con la massima concentrazione una musica
dalla veemente eccitazione e capirla senza venirne eccitati personalmente, ché un’eccitazione di
questo tipo renderebbe eventualmente più difficile la comprensione.» (Adorno [1963] 1982: 31).
346
Cfr. TOMATIS, [1991] 1996, p. 126.
347
«[…] vorrei rivolgermi a tutti i responsabili del futuro dei giovani d’oggi, e soprattutto a
quelli fra loro che trattano l’espressione sonora con una disinvoltura inquietante. Non si gioca
impunemente con il sistema nervoso dei bambini che da noi dipendono e che dobbiamo educare
per farne degli adulti completi.» (Tomatis [1991] 1996: 127).
348
«In questi casi estremi può succedere che Chopin, che gli era parso così meraviglioso,
perda di colpo ogni fascino, che Schumann, tanto ammirato otto giorni prima non lo alletti più, o
che Wagner, che lo rapiva un tempo nelle sue fantastiche cavalcate finisca per annoiarlo.»
(Tomatis [1991] 1996: 71).
349
È chiaro che vi sono vari livelli di comprensione, i quali dipendono sia dalla preparazione

202
prescindere dalla disposizione d’animo di chi l’ascolta, secondariamente, le sue
opere sfuggono alle fluttuazioni emotive e hanno sempre un effetto benefico, ad
un tempo stimolante e calmante. Quasi dando luogo ad una sorta di “metafisica
mozartiana”, Tomatis afferrma che Mozart incarna la musica allo stato puro
perché il suo corpo:

«[…] vibrava alla musica e non esprimeva altro, in funzione dei suoi ritmi
fisiologici. Questi ritmi, fissati in lui dalla sua precoce creatività, sono i ritmi che
corrispondono al sistema nervoso del bambino, e ancor di più a quello del
giovanissimo, immerso in un bagno sonoro. Seppe assorbire la musica e
trascriverla in funzione dei propri ritmi vitali iniziali, mentre per il resto dei suoi
giorni determinava le cadenze del suo tempo definitivo.» (ivi: 133).

È opportuno ribadire che non stiamo sostenendo che la musica di Mozart sia
migliore rispetto a quella degli altri compositori in base a dei criteri estetici, ma
che lo sia in virtù della sua azione neurofisiologica. Tale azione, nei soggetti
sottoposti ad Orecchio Elettronico, è riscontrabile sia attraverso la misurazione di
alcuni parametri fisici350 sia mediante il confronto di ciò che, graficamente, i
pazienti sono in grado di realizzare prima delle sedute di ascolto e quello che
sono in grado di realizzare durante, o dopo, la rieducazione uditiva351. Vi è però
un altro genere d’indagine che consente di osservare la specificità di Mozart ed è
l’analisi spettrografica della sua musica; è chiaro che non si possa pretendere di

musicale del singolo sia dalla capacità individuale di ascolto, tuttavia, qui, si intende evidenziare
il fatto che la musica di Mozart non viene mai respinta perché è come se fosse in grado di parlare
un linguaggio universale che ognuno può capire a modo proprio, a prescindere dall’attitudine alla
musica o dall’etnia di appartenenza.
350
Laddove abbiamo fatto riferimento all’accelerazione del ritmo cardiaco, alla maggiore
ampiezza della respirazione, all’aumentare dell’energia e all’aprirsi della creatività
351
«Tutti questi risultati, ovviamente confrontati con quelli ottenuti con opere di altri
compositori, secondo noi sono già ampiamente convalidati. Infatti li riscontriamo da trent’anni.
La loro permanenza e universalità ci induce naturalmente a indagare sulla causa e sulla continuità
di questi effetti. Speravo di trovare dei suggerimenti in lavori precedenti, ma non ho trovato
nessuna risposta scientifica valida. Non ho letto nulla che potesse fornire se non spiegazioni
solide, almeno un filo conduttore in grado di giustificare un tentativo di ricerca.» (Tomatis [1991]
1996: 132).

203
riassumere l’irripetibile Amadeus in un grafico, tuttavia è sorprendente come i
diagrammi raccolti, che rappresentano le strutture portanti del suo flusso
musicale, “siglino”, come una firma riconoscitiva, la sua opera.

Esaminiamo, dunque, l’ultima sezione del volume Perché Mozart?. La parte


finale dello scritto è interamente dedicata all’analisi spettrografica e si rivela
oltremodo interessante perché accanto agli spettrogrammi mozartiani sono posti
a confronto i tracciati di altri celebri musicisti quali, ad esempio, suo padre,
Leopold Mozart, il suo contemporaneo Salieri, nonché Beethoven, Bach, Haydn,
Wagner e i canti gregoriani di Solesmes. Nello specifico, i tracciati mozartiani
che Tomatis, assieme a dei validi collaboratori, ha realizzato nei suoi laboratori
parigini, presentano delle caratteristiche che si ripetono sempre identiche e che
non sono rilevabili in nessun altro compositore. In primo luogo, nessun brano
mozartiano esaminato è monotono perché, nonostante la frase musicale, con la
sua andatura ben delineata, presenti un flusso fluido e costante, la notevole
mobilità delle curve sonore assicura la vivacità, la gaiezza e la giocosità che
immancabilmente caratterizzano le composizioni di Mozart. In secondo luogo, in
qualsiasi frammento di musica mozartiana, vi è una modulazione che può essere
individuata in maniera sistematica: 120 pulsazioni al minuto; infatti, le note della
sottostante base ritmica battono tutte a 0,5 secondi352. A titolo esemplificativo,
abbiamo deciso di giustapporre il tracciato dell’Exsultate, jubilate K. 165353, a
quello che registra l’inizio del Fremat Thyrannus354.

352
«In Wolfgang Amadeus Mozart (ad esempio nell’Exsultate, jubilate K. 165) le note
distano 0,5 secondi, come degli accordi in semiminima in una battuta di quattro tempi. Uno
spazio di 0,5 secondi dà due accordi per misura, cioè 120 semiminime al minuto, da cui un tempo
di 120. Questo per la velocità di esecuzione.» (Tomatis [1991] 1996: 142).
353
L’Exsultate, jubilate K. 165 è un mottetto mozartiano del 1773, in fa maggiore, per
soprano, due oboi, due corni e archi. Nonostante quest’opera non sia una composizione di grandi
proporzioni, è annoverata fra i massimi esempi di musica vocale del giovane Mozart, appena
diciassettenne.
354
Il Fremat Thyrannus è un mottetto del 1778 in do maggiore per soprano, coro e orchestra,
composto da Antonio Salieri.

204
Grafico 4.9 W.A. Mozart: Exultate, jubilate K. 165

Fonte: Tomatis [1991] 1996: 143

Grafico 4.10 A. Salieri: inizio del Fremat Thyrannus – Mottetto

Fonte: Tomatis [1991] 1996: 146

205
Tomatis, prima di interpretare e commentare gli spettrogrammi, ci fornisce
delle precisazioni di carattere tecnico che consentono anche ai non addetti ai
lavori di leggere agevolmente i tracciati proposti: «Sull’ascissa, l’asse delle x
indica lo sviluppo nel tempo in millesimi di secondo. Sull’ordinata, l’asse delle y
esprime le frequenze delle gravi contrapposte alle acute fino a 10 kHz. Il nero
segnala la presenza di livello, il bianco l’assenza. Le righe verticali
rappresentano la differenza di tempo fra due note o due accordi.» (ivi: 142).

Di primo acchito, e per un occhio non allenato, i due spettrogrammi


parrebbero somigliarsi moltissimo ed «[è] vero che vi sono delle colate nel
frasario che rischiano di sorprendere chi non è esperto […]» (ivi: 146), tuttavia
tale impressione dipende dal fatto che Mozart e Salieri vissero nel medesimo
periodo storico e nello stesso ambiente: ciò che confondiamo come simile è il
clima del loro tempo, la moda dell’epoca, il genere in voga. Lo spettro
dell’Exsultate è raffinato, sottilmente cesellato; la modulazione, evidenziata sul
tracciato in base allo scorrere del tempo (portato a 25 secondi), è nettamente
percepibile sotto la ricchezza degli strati sonori che fissano un timbro luminoso e
caldo, familiare. Quello che, invece, scopriamo quando entriamo nei dettagli del
tracciato del Fremat è che la modulazione di base è molto meno regolare, più
anarchica, poco fluida, mentre il ritmo di fondo si presenta più lento e meno
sostenuto, poiché, rispetto agli scarti mozartiani, quelli di Salieri sono
discontinui, di 0,7 secondi maggiori.

Vorremmo, dunque, concludere la presente trattazione con una breve


considerazione: ci sembra che per poter “apprezzare” la musica nel senso
auspicato da Adorno, la strada indicata da Tomatis sia, nel contesto sociale
attuale, un percorso imprescindibile. In particolare, qualora si rifletta sulla
dichiarazione che il filosofo fa ne Il fido maestro sostituto, laddove sostiene che
per amare la musica «[…] innanzi tutto bisogna essere in grado di seguire
comunque un discorso musicale, bisogna avere a disposizione un organo capace
di percepirlo esattamente nei suoi termini.» (Adorno [1963] 1982: 16).

Per Adorno, chi capisce, ed è capace di giudicare, il linguaggio della musica,


non lo fa perché, in sede pedagogica, gli sono state fornite delle nozioni sulla vita

206
del compositore e sul periodo storico o perché gli si è spiegato il funzionamento
degli strumenti musicali. Infatti, a parere del nostro, l’aspetto visivo o gli aspetti
“esteriori” non avvicinano al mondo sonoro, semmai possono essere integrati, e
contestualizzati, in un secondo momento, ma soltanto dopo che l’essenziale della
musica è stato colto. Il filosofo si dice per esempio contrario a
quell’orientamento pedagogico che associa il suono di uno strumento a una
“personalità”, a un qualcosa di concreto, perché, nell’orchestra, gli strumenti
sono usati come suoni incorporei355 e se l’allievo che sa ascoltare provasse ad
individuare le personalità che gli sono state indicate, rimarrebbe inevitabilmente
deluso; al contrario, sarebbe utile che si trovasse il modo di presentargli «[…] il
fenomeno fisico acustico nella sua veste sensibile in senso primitivo, e ad esso ci
si potrebbe collegare in un accorto procedimento educativo.» (ivi: 17).

Altrettanto importante, secondo Adorno, sarebbe sfatare il “dogma” dei temi.


Il metodo educativo contro cui si scaglia il filosofo è quello incentrato sul
riconoscimento dei temi portanti al punto che la sinfonia risulta quasi una somma
di temi intermezzati da meri riempitivi. L’educazione musicale dovrebbe invece
scoraggiare questa supremazia della singola parte sul tutto e porre in primo piano
la totalità delle forme, insegnando all’allievo che, per esempio, una data melodia
(quella che magari ha appena appreso ed è quindi capace di riprodurre
vocalmente) è sviluppata da un inciso fondamentale che viene ripetuto e variato.
In questo modo, l’ascoltatore verrebbe indotto a distinguere i momenti parziali di
una musica articolata e a ricongiungerli funzionalmente.

Sul piano della fruizione, inoltre, a parere del filosofo, «[l]’osservatore o


l’ascoltatore trae appagamento dalle opere d’arte semmai per il fatto che egli le
avverte come qualcosa di Altro nei confronti dell’esistenza empirica e non per le
immediate qualità sensoriali che assapora e consuma.» (ivi: 29). Tuttavia, per
avvertire l’arte come “qualcosa di Altro” è necessario uno sforzo individuale, un

355
Naturalmente ciò non vale per quelle composizioni in cui gli strumenti, dichiaratamente,
imitano qualcosa; pensiamo ad esempio al clarinetto che imita l’asino in un Lied di Mahler o alla
viola che rappresenta l’eroe in Harold en Italie di Berlioz o, ancora, all’associazione
personaggio-strumento in Pierino e il lupo di Sergej Sergeevič Prokof'ev.

207
esercizio di pensiero teso a cogliere in che modo le singole parti vadano a
costituire un tutto significante. E, in tal senso, ci sentiamo di affermare che
l’efficacia della musica sia solo un punto di partenza che consente di entrare in
sintonia con l’opera, di stabilire con essa una relazione, ma non va confusa con
l’interpretazione della cosa. Ricordiamo che Adorno non condanna il “piacere
fisico” che si può sperimentare durante l’ascolto: il concetto di Einstand ne è una
dimostrazione; tuttavia, dal momento che “Kairós” non equivale ad “attimo
culinario”, non è dato di sperimentare tale brivido senza una preparazione
specifica, una preparazione che coinvolge sia il corpo (che deve essere educato
all’ascolto) sia la mente (l’esperienza estetica non è intuitiva, ma, per così dire,
“interpretativa”, nel senso che viene conseguita attraverso un’attività della
coscienza basata sulla riflessione).

Essere capaci di interpretare un’opera è fondamentale soprattutto a partire


dalla constatazione che una “natura” musicale non esiste, o meglio, esiste, ma è
diventata tale grazie al deposito di convenzioni che si sono sedimentate nel corso
della storia. Di conseguenza, se si vuole andare oltre la “canzonetta”, è
indispensabile che vi sia uno sforzo volontario e individuale teso a comprendere
ciò che, ad un primo ascolto, ci appare difficile o addirittura incomprensibile356;
infatti, «[c]iò che oggi passa come generalmente musicale-naturale è solo il resto
insulso di una convenzione trascorsa.» (ivi: 30). Affinché l’esperienza estetica,
che si può sperimentare rapportandosi all’opera musicale o alla creazione
artistica in generale, liberi l’individuo, se pur momentaneamente, dal dominio
della ragione strumentale, assolvendo alla funzione mimetica che è ad essa
peculiare e “anticipando una condizione in cui si annullerebbe l’alienazione357”,
è necessario che la distanza che intercorre tra arte e realtà venga percepita:
l’elemento irrazionale, infatti, può erompere soltanto se, tenendo conto della
complessità delle opere, ci si accosta ad esse “asceticamente”; al contrario, se
tale divario viene soppresso da una pedagogia tesa a sostituire il valore estetico

356
«É colui che riceve che deve dare qualcosa all’opera d’arte, e non viceversa […]» (Adorno
[1963] 1982: 30).
357
Cfr. ADORNO, [1963] 1982, p. 39.

208
con il valore d’uso, l’arte viene trascinata al livello di ciò di cui dovrebbe essere
per principio l’antitesi358.

358
Cfr. ivi, p. 31.

209
210
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

Questo nostro lavoro si è aperto con il giudizio che Adorno formula nella
parte conclusiva del saggio Sulla popular music: «Per trasformarsi in un insetto,
l’uomo ha bisogno di quella stessa energia che potrebbe forse trasformarlo in un
uomo.» (Adorno [1941] 2004b: 125). Per il filosofo di Francoforte, infatti, gli
ascoltatori del jazz, dello swing e di tutta quella musica che egli fa rientrare nel
genere popular, incapaci di un “vero” ascolto, hanno perduto la propria libertà e
si sono degradati allo stadio di insetti. Di conseguenza, nel corso del nostro
lavoro, ci siamo impegnati nel tentativo di comprendere quale nesso vi sia tra
l’incapacità di ascoltare, la “regressione dell’ascolto” tout court, e la libertà
individuale.
Risalire le ragioni di tale nesso ha significato, per il nostro percorso, la
necessità di indagare il concetto di Aufklärung per come esso si delinea nella
Dialettica dell’illuminismo. Dalla lettura del testo che Adorno scrisse a due mani
con l’amico e collega Horkheimer è emerso che l’Aufklärung, che definisce la
tendenza verso la progressiva razionalizzazione dell’esistenza, per potersi
realizzare deve negare sempre più l’uomo come soggetto.
Abbiamo tuttavia sottolineato che, per il filosofo, l’illuminismo è, in linea di
principio, opposto al dominio e che, in esso, la natura si fa sentire come una sorta
di autocoscienza; in effetti, senza il dominio sulla natura non ci sarebbe spirito. Il
problema si pone quando lo spirito si consolida a patrimonio culturale per venire
distribuito a fini di consumo e ciò è proprio quanto accade nella società

211
tardocapitalistica, dove, a causa del predominio della scienza e della tecnica,
anche l’arte e la cultura hanno finito con l’essere assorbite dall’industria,
riducendosi a bene di consumo.
In sostanza illuminismo e mitologia non sono due concetti antitetici; essi
coesistono, si corrispondono, stanno in un rapporto dialettico: di conseguenza, se
non si vuole che il primo termine vada a sovrapporsi al secondo, è necessario che
il pensiero illuminista rifletta criticamente sul suo aspetto totalizzante e
distruttivo. Si è però visto come, per Adorno, l’Aufklärung, ben lungi da tale
riflessione, abbia perso ogni residuo di autocoscienza, divenendo incapace di
infrangere i miti da lei stessa creati: non mira alla verità, mentre riconosce solo
ciò che è riconducibile a unità e che, dunque, può essere dedotto dal sistema, suo
ideale strumento conoscitivo. In tal modo, mentre i miti trapassano
nell’illuminismo e la natura diviene pura oggettività, gli uomini pagano il loro
accresciuto potere con la moneta dell’estraniazione.
Invero, se il soggetto può costituirsi come tale soltanto attraverso le
esperienze vissute durante lo svolgersi della storia (una concezione dai forti
rimandi hegeliani), anche una volta che il processo di formazione dell’Io sia
giunto a compimento, l’uomo non può permettersi di deviare dallo sforzo che un
costante autodisciplinamento e una continua autorepressione comportano. Allo
stesso tempo, quanto maggiore è lo sforzo che l’Io dirige alla repressione di se
medesimo tanto più impellente è il suo bisogno di regredire; l’Io si muove quindi
alla ricerca di vie di fuga nell’intenzione di sottrarsi al potere costituito,
all’ordine vigente che, al fine di mantenere immutati la propria posizione e i
propri privilegi, lo costringe a una cieca sottomissione.
Poiché l’illuminismo si è trasformato in mitologia, agli occhi dei “dominati” il
dominio non appare tale, bensì uno stato di cose legittimo e naturale,
indispensabile per la sopravvivenza del tutto: schiacciati da una spessa cortina
ideologica, le parole e i concetti si sono reificati e, sostituendo la cosa che prima
erano chiamati a significare, hanno preteso di assurgere essi stessi a verità,
facendo cadere ogni concezione teoretica determinata sotto l’accusa distruttiva di
essere solo una fede. Cosicché la ragione, che aveva originato il mito del

212
progresso e della civiltà, viene ridotta a fungere da mero strumento di
autoconservazione e dominio, rovesciandosi nel suo opposto dialettico, la
barbarie.
È a questo punto che Adorno introduce l’industria culturale, spiegandone la
logica autoritaria: essa, generata da una classe minoritaria e privilegiata che
conforma la realtà ai propri scopi, è figlia di una razionalità funzionale e
calcolante. La regressione dell’illuminismo può infatti assumere diversi volti: se i
fatti che accaddero nella Germania nazista sono considerati la manifestazione più
estrema di tale regressione, quest’ultima è altresì in grado di indossare delle
maschere tanto rassicuranti quanto inconsistenti, come nel caso della mitologia
hollywoodiana.

L’industria del fun, che è nata e si è sviluppata nel paese campione della
modernità, gli Stati Uniti, organizza e pianifica la produzione in serie anche in
quei settori che, in apparenza, sembrerebbero neutrali, estranei alla sfera politica,
non-ideologici, creando una fabbrica del consenso che permette agli apparati del
potere di continuare indisturbati nel loro esercizio di dominio. Adorno, spettatore
in terra straniera, osservava con sgomento che la merce, feticizzatasi e
trasformatasi in investimento libidico, si stava rivelando un collante più potente
di quanto le religioni e le ideologie fossero mai state.
Il filosofo stava assistendo a un fenomeno che, prima di allora, non aveva
precedenti: nel mercato veniva immessa una grande quantità di beni che
vantavano un legame diretto con l’arte e la cultura: musica, film, trasmissioni
radiofoniche, settimanali, etc. Adorno, dal canto suo, si adoperò invece per
dimostrare che fra i prodotti dell’industria culturale e l’arte in quanto tale non
sussiste, di fatto, alcuna affinità e che, essendo i prodotti privi di un significato
intrinseco, la loro apparente varietà è dovuta a un’efficace azione pubblicitaria
che ne ribadisce artificialmente le distinzioni.
In questa babele di merce pseudoculturale, il pubblico crede tuttavia di avere
piena libertà di scelta, mentre, in realtà, è lo schematismo preventivo della
produzione che presuppone e crea le categorie in cui il pubblico rientra: clichés e
triti stereotipi conferiscono agli articoli un’aura di familiarità che li rende

213
facilmente riconoscibili e godibili anche senza che vi sia una concreta attività
mentale; popolarità e riconoscimento assurgono a criteri valutativi.
Nell’ideologia, naturalizzatasi, che sano sia tutto ciò che si ripete, il nuovo, ciò
che non è familiare e che quindi potrebbe perturbare, innescare un meccanismo
di pensiero non inscrivibile in una categoria predefinita, è escluso: per i
produttori esso implicherebbe un rischio ritenuto inutile che consisterebbe sia in
un crollo delle vendite e, dunque, in una diminuzione dei profitti, sia nella
possibilità che nell’intelletto dei fruitori si risvegli una sopita capacità critica
capace di mettere in discussione la legittimità dello status quo.
Il filosofo ritiene che i prodotti dell’industria culturale, rappresentando,
ciascuno, un modello del colossale e onnivoro meccanismo economico, abbiano
come obiettivo primario quello di deprivare gli individui della loro facoltà
immaginativa, della loro spontaneità e di indirizzarli a una specifica routine, sia
nel lavoro che nel tempo libero. Ci è sembrato tuttavia indispensabile dimostrare,
anche attraverso un confronto tra la posizione di Adorno e quella di Benjamin,
che il filosofo non condanna la tecnica in quanto tale, bensì l’uso che di essa
viene fatto e, effettivamente, ne Il fido maestro sostituto, all’interno del saggio
intitolato Impiego musicale della radio, egli ammette che è impossibile stabilire
se la standardizzazione della merce da cui si sviluppa la virtuale
standardizzazione della coscienza, causerebbe ancora agli uomini il medesimo
danno qualora cessasse di essere guidata ideologicamente.
Bisogna però aggiungere che al nostro non sfugge il fatto che sia la massa
stessa a preferire quel genere di amusement che soltanto l’industria culturale è in
grado di offrirle e che si declina tanto nel film demenziale quanto nella
canzonetta orecchiabile. Secondo il francofortese, l’uomo contemporaneo,
deformato dall’ansia e dalla monotonia del proprio impiego e, allo stesso tempo,
timoroso di perdere la propria occupazione, è un soggetto caricaturale, incapace
di concentrarsi e di ascoltare, uno schiavo muto piegato a una cieca obbedienza
che, per riuscire ad affrontare giorno dopo giorno il processo lavorativo
meccanicizzato, ricerca incessantemente il fun, il disimpegno e la passività.

A partire dalla considerazione che sia l’individuo stesso a preferire i prodotti

214
dell’industria della cultura, ci siamo chiesti in che cosa essi, per Adorno, si
differenzino rispetto alle opere d’arte autentiche e, nel tentativo di avvicinarci
con gradualità al settore che avevamo precedentemente dichiarato di voler
approfondire, quello della musica, abbiamo indirizzato la nostra trattazione a
un’indagine del concetto di opera d’arte, in particolare a quello di opera d’arte
musicale, cercando di comprendere quale tipo di rapporto essa intrattenga con il
soggetto alienato.
Da tale disamina è emerso con estrema chiarezza che il concetto di
Aufklärung è, per il pensiero critico-filosofico di Adorno, a tal punto
fondamentale e pervasivo da giocare un ruolo di primo piano anche nella sfera
musicale: il filosofo di Francoforte, in Dissonanze, sottolinea che se nell’epoca
precapitalistica, il “fascino sensorio”, la “soggettività” e l’“aspetto profano”
erano dei fermenti antimitologici che si opponevano all’alienazione reificata,
oggi, frantumati in istanti gustosi in senso culinario, congiurano contro la libertà
e contribuiscono ad alimentare l’ideale di naturalezza che caratterizza il jazz e, in
generale, qualsiasi manifestazione del genere cosiddetto popular.
“Fascino sensorio”, “soggettività” e “aspetto profano”, precisa il
francofortese, non sono di per sé negativi, ma lo diventano nel momento in cui
cessano di scaturire dall’insieme della composizione, di essere indispensabili
all’economia dell’opera: infatti, secondo il nostro, nell’isolamento, senza un
rapporto conflittuale con la legge che informa l’opera d’arte genuina, gli stimoli
si ottundono e si mutano in clichés.
Ne Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, Adorno
dichiara che tutta l’arte “leggera”, indossando un’ipocrita maschera di felicità, è
divenuta ingannevole e bugiarda poiché in arte il godimento si ha nel momento
in cui l’elemento sensoriale veicola un fattore spirituale, il quale non si presenta
mai nei momenti isolati del materiale, bensì nell’insieme. Proprio nel tentativo di
comprendere più chiaramente tali considerazioni, abbiamo deciso di confrontarci
con il concetto di materiale musicale seguendo l’analisi che di esso ci propone
Zurletti ne Il concetto di materiale musicale di Th. W. Adorno, una lettura che
consideriamo imprescindibile qualora si desideri intendere correttamente il

215
pensiero di Adorno sulla musica, le accuse che muove al genere popular e
l’enorme responsabilità che attribuisce all’avanguardia storica.
In seguito a tale disamina, si è visto come, per il filosofo, il materiale
musicale sia da intendersi in riferimento al progresso della storia della musica, la
cui essenza è, per l’appunto, inquadrabile storicamente: esso è il risultato di
quattro secoli di tonalità e raccoglie quel patrimonio di competenze individuali
che, nel corso del tempo, si sono originate dal dialogo costante tra l’opera e il
complesso delle scelte tecnico-formali di volta in volta possibili. In particolare,
dall’analisi che abbiamo svolto all’interno del secondo capitolo, è emerso che il
materiale musicale presenta quattro aspetti (l’“arbitrarietà”, il “carattere sociale”,
il “carattere storico” e “il carattere di costrizione”) che lo individuano come un
codice di tipo linguistico e che questo codice linguistico coincide con la tonalità,
la quale, strutturando la produzione musicale alla maniera di un atto verbale, è in
grado di regolare la ricezione del senso musicale.
Proponendo un parallelo con le acquisizioni dello strutturalismo, durante
l’indagine analitica dei quattro aspetti costitutivi del materiale, si è a più riprese
posto l’accento sul fatto che, per Adorno, l’idioma tonale, al pari di una lingua,
non è naturale e necessario perché, come non vi è nessuna necessità nel modo in
cui il linguaggio verbale seleziona gli aspetti della realtà che intende esprimere,
ugualmente, non esiste un dispositivo che, all’interno del continuum dei suoni e
della massa virtualmente infinita delle loro combinazioni, circoscrive, in maniera
differenziale, quali siano gli elementi pertinenti da includere in quello che andrà
a costituirsi come materiale: tale principio, infatti, è totalmente arbitrario.
La tonalità ha saputo imporsi per quattro secoli, ma ciò che viene confuso con
una presunta “naturalità” del sistema tonale è proprio la forza del consenso
sociale che essa è stata capace di attirare, la sua perfetta funzionalità
comunicativa. In aggiunta, precisa il francofortese, un fondamento naturale di
tale sistema avrebbe costretto la tonalità a una immobilità nel tempo, mentre, se
il codice tonale è durato così a lungo, ciò è proprio in virtù del suo carattere
arbitrario, il quale, solo, riesce a spiegare le trasformazioni che essa ha subito
lungo il corso storico. In Impromptus, all’interno del saggio intitolato Difficoltà,

216
Adorno dichiara:
«Disponendo, al pari del linguaggio parlato, di formule generali del singolo suono
composto e della successione degli intervalli sino alla grande struttura
architettonica, la tonalità fece posto con duttilità nella combinazione di questi
elementi al particolare, e intendo dire alla caratterizzazione del singolo elemento e
all’espressione individuale. La tonalità, è vero, aveva preventivamente
organizzato ogni fenomeno nel senso di un linguaggio oggettivo, in modo analogo
ai linguaggi parlati; ma al tempo stesso le erano possibili innumerevoli
combinazioni, e soprattutto aveva la possibilità di saziarsi per così dire con
l’espressione; così che in quell’universale poteva inserirsi il particolare, e anzi
questo per più versi era enucleato dallo stesso universale.» (Adorno [1968] 1973:
113-114).

E, in effetti, il linguaggio tonale ha via via subito una sorta di processo di


naturalizzazione, entrando a far parte del bagaglio di competenze individuali; per
esempio, se, inizialmente, gli intervalli di quarta e di quinta venivano percepiti
come “consonanze imperfette” e tutti gli altri intervalli venivano vietati in quanto
troppo “aspri” (troppo dissonanti), col tempo, l’orecchio si abituò alle
imperfezioni delle prime consonanze, finché anch’esse, come prima era accaduto
per le note che si sovrapponevano all’ottava, cominciarono ad essere sentite
come troppo perfette perché prive di tensione, ‘vuote’; di conseguenza, per
apportare degli indispensabili elementi di varietà e per conferire ai brani la giusta
tensione, le terze e le rispettive seste complementari furono chiamate a sostituire
quarte e quinte, consonanze ormai “svuotate359”.
A partire da tali considerazioni, è emerso che, per il filosofo di Francoforte, il
compositore, pur avendo la libertà di decidere cosa esprimere in musica, non è
totalmente libero di creare poiché, a seconda dell’epoca storica a cui appartiene,
dovrà confrontarsi con un determinato repertorio di elementi prefissati dal
materiale, il quale, dettando le condizioni del senso musicale, funge da orizzonte
della dicibilità.
Il confronto-scontro di chi compone musica con l’insieme di Stoffe e

359
Cfr. VIZZARDELLI, 2002, p. 111.

217
Techniken testimoniate dalla tradizione ci permette, inoltre, di comprendere il
giudizio che, in generale, Adorno emette nei confronti dei compositori. Secondo
il nostro, infatti, le strade percorribili sono due: l’artista può scegliere di guardare
al futuro e, quindi, di avviare un dialogo con le forme che ha ereditato dalla
tradizione, assumendosi la responsabilità di svilupparle e il rischio di una loro
eventuale rottura o, altresì, può accettare gli schemi cristallizzati della
conservazione borghese e chinare il capo dinnanzi alla reificazione imperante.
Proseguendo con il ragionamento, è evidente che, per il nostro, l’unico
movimento compositivo che, ai suoi tempi, rispondeva alle attuali possibilità
oggettive del materiale musicale era la scuola di matrice schönberghiana.
Secondo Adorno, e ciò emerge, in particolare, dall’esame di Filosofia della
musica moderna, la Musica Nuova è il risultato del movimento dialettico
generato dai due estremi che la compongono: Schönberg e Stravinskij. I due
autori, imboccando delle strade diametralmente opposte dinnanzi a un materiale
musicale di cui sono perfettamente consapevoli, sono condannati a un insuccesso
speculare sotto il segno della dicotomia Progresso/Reazione che rappresentano.
Tant’è vero che la Philosophie, non riuscendo a risolvere le antinomie della Neue
Musik, lascerà il momento salvifico della sintesi in sospeso: se una musica che
rimane fedele alle esigenze intrinseche del materiale, che non bada agli effetti e
che giunge a dissolvere il codice tonale, è condannata all’impossibilità di
produrre senso e a rivelare la portata tragicamente autodistruttiva dello stesso
Progresso 360, la restaurazione delle forme del passato è semplicemente una
comoda scappatoia, poiché, recuperando ciò che è ormai andato in rovina, la
musica di Stravinskij manifesta un’imperdonabile affinità con le tendenze
distruttive dell’epoca.
Anche la musica leggera, il cui linguaggio sempre riconoscibile, uniforme e
costante non subisce mai modifiche sostanziali, seguita a nutrirsi dei resti
scadenti del passato, ma lo fa in modo quasi inconsapevole, poiché non si
preoccupa minimamente dello stato del materiale musicale: con esso né dialoga
né si confronta. La popular music si limita ad attingere dal materiale tutti quegli
360
Cfr. ZURLETTI, 2006, P. 141.

218
effetti culinari che un tempo davano vita a un tutto significante e strutturato, ma
che ora sono forieri di un’immediata e, dunque, effimera, soddisfazione.
Si è detto che, fino a un certo momento della storia, tra la musica colta e la
musica leggera, oggi totalmente in balia del consumo, non vi era una frattura così
netta, poiché sia a livello stilistico sia a livello qualitativo esse erano tutto
sommato equiparabili. Si pensi soltanto al fatto che un compositore del calibro di
Johann Sebastian Bach teneva dei concerti al Caffè Zimmermann di Lipsia o,
parimenti, al fatto che Ludwig van Beethoven scrivesse per la Corte imperiale
viennese. E neppure per l’Ottocento si può parlare di distacco vero e proprio;
certo, in seguito alla Rivoluzione francese i due generi iniziarono a dividersi,
tuttavia non diedero mai luogo ad una completa rottura, la quale si verificò,
invece, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, nel momento in cui
apparvero i primi mezzi di riproduzione di massa. Un divario acuitosi dopo che i
dischi, la radio e la televisione si furono capillarmente diffusi, quando le scelte
programmatiche iniziarono ad essere livellate verso il basso: è infatti noto che
soddisfacendo le richieste della massa di ascoltatori potenziali e aumentando
l’indice di ascolto, incrementano anche gli introiti finanziari.
Abbiamo dunque posto l’accento sul fatto che se all’uomo non viene offerta la
possibilità di ascoltare una musica con un certo grado di strutturazione, egli
perderà la propria capacità di ascolto e, nel peggiore dei casi, si chiuderà del tutto
allo stimolo sonoro. La popular music, invero, a causa della sua struttura
semplicistica, standardizzata e “predigerita” (riscontrabile sia nell’impianto
generale sia nei dettagli), provoca negli individui una progressiva disabitudine
all’ascolto. Tutte le canzoni sono accomunate da uno schema di base che
consente al soggetto di prestare o di distogliere la propria attenzione dal brano in
qualsiasi momento e che, sostanzialmente, genera nell’ascoltatore delle risposte
precostituite: sapendo che tale atteggiamento mentale gli è sufficiente per
“capire” e apprezzare ciò che viene di volta in volta proposto dall’industria
musicale, egli non è mai portato a “tendere” l’orecchio e il pensiero musicale che
avrebbe potuto nascere e svilupparsi nella sua coscienza viene sostituito da degli
automatismi mentali, da brevi momenti di attenzione che presto lasciano spazio

219
all’abituale distrazione.
Fino a che punto un’adeguata stimolazione sonora sia importante, lo abbiamo
posto in evidenza nel terzo capitolo. In esso è stata presentata la concezione, per
così dire, “acustico-filosofica” di Tomatis, posta poi a confronto con il pensiero
adorniano. Riguardo al genere pop e rock, anche se per ragioni differenti, lo
studioso francese condivide l’opinione di Adorno; in L’orecchio e la vita
possiamo infatti leggere che certe composizioni moderne sono considerabili:
«[…] vere e proprie droghe sonore destinate ad asservire, deliberatamente, intere
generazioni di giovani. Distruggendo il loro sistema nervoso in maniera talvolta
definitiva, questa musica cosiddetta moderna, del genere pop e rock, diffusa a
livelli d’intensità estremamente elevati è molto nociva per l’orecchio. Certe
lesioni possono risultare irreversibili.» (Tomatis [1977] 1999: 344).

Si sono dunque indagati i motivi per i quali il ricercatore francese Tomatis sia
fermamente convinto che l’ambiente acustico influenzi in maniera determinante
lo sviluppo neuropsicofisiologico dell’individuo in quanto tale e, altresì, si è
potuto osservare quale sia lo strettissimo legame che sussiste tra ascolto,
emissione vocale e linguaggio verbale. Se per Tomatis la musica e il canto sono,
in ambito pedagogico e terapeutico, essenziali, egli reputa che sia altrettanto
importante tener conto delle potenzialità e del sistema nervoso dei soggetti da
educare o, eventualmente, da rieducare. Come è stato possibile evincere
dall’esame delle diverse tipologie di curva uditiva, ma anche dalla specificità di
ciascun etnogramma (la curva di contenimento dei valori medi delle frequenze
delle lingue storico-naturali), ogni individuo dispone di una diversa capacità di
ascoltare sulla quale, secondo lo scienziato, è possibile intervenire poiché,
essendo l’orecchio un organo selettivo, attraverso determinate stimolazioni
acustiche, il diaframma uditivo può essere indotto ad aprirsi.
La musica che egli ritiene maggiormente indicata a tale scopo è quella di
Mozart, la quale, ricca di frequenze elevate e mai monotona, preparerebbe «[…]
all’integrazione di tutti i sistemi sonori quali che siano, e da qualsiasi luogo
provengano.» (Tomatis [1991] 1996: 68). Di fatto, il percorso sonoro mediante
suoni filtrati ideato da Tomatis, nel quale la musica mozartiana gioca un ruolo di

220
primaria importanza, si propone di accompagnare con gradualità il soggetto
verso l’ascolto vero e proprio, ovvero di condurlo dal mero sentire all’atto
volontario di ascoltare. E, in effetti, sia per Tomatis sia per Adorno l’ascolto
propriamente detto è un atto che implica volontarietà, concentrazione ed
esercizio.
Imparare ad ascoltare è un’acquisizione che, al pari dell’apprendimento
linguistico, richiede tempo e costanza, soprattutto nel caso in cui durante
l’infanzia non vi sia stata un’adeguata stimolazione sonora. Potremmo affermare
che se, in chi ascolta, il codice tonale (che abbiamo equiparato alla Langue
saussuriana) non è stato interamente assimilato, le composizioni che per suo
mezzo sono venute alla luce non riusciranno a comunicare alcunché. Per
apprezzare la musica più seria è infatti necessario che le norme, le convenzioni,
le strutture del linguaggio tonale occidentale si sedimentino nella memoria fino a
diventare familiari. Ciò è tra l’altro dimostrato anche dal fatto che la musica più
spiritualmente impegnata, quella molto in anticipo sui tempi, ha avuto sempre le
maggiori difficoltà a imporsi. A titolo esemplificativo, si pensi ai casi di Johann
Sebastian Bach o di Antonio Vivaldi o, parimenti, a quello di Wolfgang
Amadeus Mozart. Bach, per esempio, dovette attendere all’incirca un’ottantina
d’anni prima di veder riconosciuta la sua indiscutibile genialità: fu solamente nel
1829 che la Passione secondo Matteo, portata alla luce da Mendelssohn, fu
eseguita pubblicamente (per la prima volta dopo la morte del compositore) e con
un enorme successo di pubblico; Vivaldi, dal canto suo, attese ben due secoli
prima che la sua immensa produzione operistica riaffiorasse; mentre la genialità
di Mozart, durante la sua breve vita, non fu affatto compresa: ne è prova il fatto
che nessuno assistette al suo funerale, dopo il quale fu ignominiosamente gettato
in una fossa comune.
I compositori dialogano con il materiale musicale, si confrontano e si
scontrano con esso, letteralmente lo “parlano” come una lingua madre; al
contrario, i fruitori lo subiscono passivamente e, dunque, per assimilarlo, per
interiorizzarlo, impiegano più tempo. Tuttavia, nel momento in cui il pubblico ha
smesso di prendere parte all’evoluzione del materiale, si è allontanato non solo

221
dalla produzione seria a esso contemporanea, ma anche dalla produzione seria
precedente (quella che ricade sotto la definizione di classica), perché
maggiormente attratto dal godimento immediato che la musica di consumo può
procurare. In molti, vi è infatti la convinzione che la fruizione della musica non
debba implicare alcun tipo di attività cerebrale, alcuna attività di pensiero, alcuno
sforzo mentale. Un pregiudizio che sia Adorno sia Tomatis combatterono
alacremente.
Se Adorno dichiara che l’attività dell’orecchio si è sviluppata nel momento in
cui l’Io ha iniziato a prendere forma e che, quindi, lasciar decadere tale facoltà
significa regredire e rimanere fermi “su di un livello infantile”, Tomatis, animato
dalla convinzione che educare all’ascolto equivalga a condurre l’individuo al
superamento di una certa forma di immaturità, ha dedicato la propria vita a
ricercare delle modalità che consentissero al soggetto di riappropriarsi di questa
fondamentale e imprescindibile facoltà. È evidente che, per entrambi i pensatori,
tra soggettività e ascolto c’è un legame di reciproca implicazione, il quale li ha
spinti a proporre dei metodi pratici che aiutassero l’uomo a sviluppare il proprio
orecchio, aprendolo e risvegliandolo ad un atteggiamento attivo. Dopo aver
analizzato entrambe le proposte, siamo giunti alla conclusione che, integrare il
percorso pedagogico dello studioso francese (che consente di passare dal mero
sentire all’atto consapevole di ascoltare) con l’analisi interpretativa delle opere
proposta dal filosofo di Francoforte, voglia dire contribuire allo sviluppo
integrale del soggetto in quanto tale e trasformarlo da soggetto regredito a
individuo compiuto.
Per entrambi i pensatori, l’ἄσκησις, nell’accezione con cui veniva usata nel
mondo classico, è un approccio alla musica da cui non si può prescindere.
L’attività dell’ascoltatore «[…] non consiste in una partecipazione vacua quanto
solerte […] è piuttosto un’attività silenziosa, immaginativa, insomma auditiva,
propria di ciò che Kierkegaard chiamava l’orecchio speculativo.» (Adorno
[1963] 1982: 45). L’“ascolto responsabile” è un esercizio di concentrazione, una
sorta di “meditazione”: il soggetto deve essere costantemente “presente”
all’evolversi del pezzo, poiché, si è detto, l’opera d’arte musicale non esiste in

222
alcun luogo, ma la sua forma si determina in quanto tale soltanto attraverso il
tempo. È un “ascoltatore strutturale” chi sia stato capace di acquisire una
competenza classificatoria che rende possibile l’appropriazione di qualsiasi opera
d’arte musicale, ma ciò avviene soltanto dopo anni dedicati a una pratica di
ascolto consapevole, a un esercizio di pensiero teso a cogliere i nessi strutturali
delle composizioni. Colui che ascolta e colui che medita compiono la medesima
operazione quando il pensiero di ciò che è stato e il pensiero di ciò che dovrà
essere si congelano nel tempo presente, all’interno del quale il passato, il
presente e il futuro danno vita a un tutto significante. Dopo che un significativo
sforzo di concentrazione ha permesso all’“ascoltatore meditante” di cogliere le
singole parti componenti l’opera e, contemporaneamente, di collegarle a quelle a
venire in un processo temporale di categorizzazione progressiva, il tempo si
coagula e si fa virtualmente sospendere, dando luogo a un utopico Καιρός.
Questa sospensione temporale genera a sua volta l’impossibilità di staccarsi dalla
musica e, per Adorno, tale lato coattivo della “vera” musica (della musica
propriamente detta) rappresenta, e accompagna, il suo carattere mimetico, il suo
aspetto irrazionale, in un certo senso, demoniaco.
In Musica, Elio Matassi, discutendo sull’intrinseca temporalità della musica in
riferimento ad alcune argomentazioni di W.H. Wackenroder relativamente al
carattere demoniaco 361 (nota esplicativa) della musica – un problema che,

361
All’interno del capitolo intitolato «Ademonicità e demonicità della musica», Elio Matassi
osserva come il carattere demoniaco della musica sia, in realtà, inscindibile dal suo opposto
dialettico, l’ademonicità. Matassi ritiene di poter affermare che queste due dimensioni non si
escludano a vicenda, ma che, al contrario, la prima sia funzionale alla seconda e viceversa: tra
esse, infatti, «[…] sussiste un legame che rende sempre più ‘interno’ il transito dall’una all’altra.»
(Matassi 2004: 11). Il filosofo parla di “rapporto biunivoco” perché è convinto che, in alcuni
luoghi, come ad esempio nelle apologie o nelle recensioni che accompagnano la musica
strumentale scritte da E.T.A Hofmann e W.H. Wackenroder, si possa desumere il passaggio dal
demoniaco all’ademoniaco (nel caso di E.T.A. Hofmann) e quello inverso (nel caso di W.H.
Wackenroder). Riguardo il primo tipo di transito, quello dal demoniaco all’ademoniaco, Matassi,
a partire dall’esame della recensione di E.T.A. Hofmann alla Quinta di Beethoven, verifica che
Hofmann, pur richiamando consapevolemente le proprietà “irrazional-trasgressive” della musica
(per esempio il fatto che Beethoven conduca “nel regno del misterioso e dello smisurato"),

223
nell’Ottocento, era fortemente sentito – sostiene che, anche se la musica si
oppone all’irreversibilità del tempo, tale conflitto rimane ancora interno alla
stessa sfera temporale e conclude che, per Wackenroder, «[q]uesto essere
contestualmente contro e nel tempo esemplifica in maniera decisiva la
compenetrazione di ademoniaco-demoniaco […]» (Matassi 2004: 22) e che «[i]l
luogo letterariamente suggestivo in cui viene celebrata tale concezione è La
meravigliosa favola orientale di un santo ignudo […]» (ibid.). Il breve racconto,
come si evince dal titolo, narra di un santo che viveva ignudo in una caverna.
Quest’uomo, nonostante fosse in completa solitudine, non riusciva a trovare pace
poiché era tormentato dal gran fragore prodotto dall’incessante movimento della
ruota del tempo, dalla quale era fortemente ossessionato. Finalmente questo stato
di completa soggezione all’irreversibilità del tempo, che durava da parecchi anni,
venne meno: in un incantevole notte, nel fiume che scorreva presso la grotta
rocciosa del santo, passò una barca, all’interno della quale giacevano due amanti.
Dalla loro barca si levava una musica divina ed eterea, la quale, in un istante,
rese l’orecchio dell’uomo impermeabile alla cacofonia prodotta dalla rombante
ruota, foriera di devastazione e di morte, poiché «[p]ur seguendo il ritmo del
tempo la musica ha la straordinaria capacità di fornire un significato al suo cieco
movimento.» (Matassi 2004: 23)
«Dalla barca una musica eterea saliva ondeggiando nell’ampiezza del cielo: dolci
corni o non so quali altri incantevoli strumenti suscitava un mondo nuotante di
suoni, e nelle note, che ora salivano e ora scendevano a ondate, si poteva
distinguere il seguente canto:

precisa come a questo sostrato corrisponda una speculare ponderatezza sonora e ciò in virtù sia
della magistrale capacità beethoveniana di dominare il linguaggio musicale sia della struttura
autosufficiente della musica. Parimenti, valutando alcune definizioni wackenroderiane della
musica (come “delittuosa innocenza”, “paese della fede”), Matassi attesta che è possibile anche
una direzionalità inversa: in questo secondo caso, la demonicità è interpretata «[…] come
dimensione che travalica i limiti naturali […]» (ivi: 20). In quest’ultimo contesto, il passaggio
ademoniaco-demoniaco diventa paradigmatico anche in un’altra circostanza, ovvero nella
correlazione musica-tempo: la musica appartiene alla sfera temporale, ma, contemporaneamente,
le si oppone, dando luogo ad una temporalità altra.

224
Dolci brividi accarezzano

l’acqua e i campi addormentati,

della luna i raggi formano

letto ai sensi inebriati.

Ah, come attira l’onda, e sussurra,

e il cielo specchiasi nell’acqua azzurra.

Astri su nel cielo brillano,

astri brillan giù nei flutti:

se non fosse Amore ad accenderli,

spenti resterebber tutti;

e nel respiro che il ciel disserra

ridono il cielo l’acqua e la terra.

Su ogni fior la luna stendesi,

dormon già tutte le palme;

dell’Amor suona la musica

nelle selve austere e calme:

dal tenue suono la palma e il fiore

sognando apprendono il dolce Amore362 .».

362
Wackenroder 1993: 108.

225
226
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.

SOMMARIO: 1. Bibliografia. – 1.1. Opere di Adorno, T.W. – 1.2. Letteratura critica e altri
autori. – 2. Sitografia.

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La data dell’ultimo accesso alle URL citate è: 20 ottobre 2014

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