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CARTESIO

Intelletto e ragione coincidono in Cartesio, egli nega ogni possibilità di distinzione tra i due sia nel
"Discorso sul metodo", sia nei "Princìpi di filosofia", cosicchè – tenendo presente che i due scritti
risalgono il primo alla "gioventù" e il secondo alla maturità – si può dire che la sua è una posizione
che resta invariata per tutto il corso della vita. Il "Discorso sul metodo" è spesso stato considerato
come il manifesto della modernità, ma a dire il vero è teoreticamente meno significativo rispetto alle
"Meditazioni metafisiche" (in cui sono ripresi e ampliati i temi contenuti nel "Discorso"), che segnano
una cesura definitiva e netta con il passato. Composte mentre infuriava la guerra dei "Trent’anni" (nel
1637), in esse Cartesio si propone di dare una definizione della "ragione", prendendo le mosse dal
"buon senso", da lui identificato con il corretto esercizio del pensiero in generale. Di sfuggita,
possiamo notare come l’espressione che in italiano significa "buon senso", in tedesco venga meglio
tradotta con "Gesunder Verstand", che letteralmente significa "sano intelletto". Il "Discorso sul
metodo" si apre con la constatazione che "il buon senso è fra le cose del mondo quella più equamente
distribuita": ma che cosa dobbiamo intendere per "buon senso"? a) Secondo Cartesio, esso
corrisponde al giudicare rettamente, al discernimento fra vero e falso (e non tra bene e male); b)
naturalmente ciò implica che non possa sussistere una contrapposizione tra l’intelletto e la ragione o
l’intuito. c) A sua volta, ne deriva una evidente universalità, poiché si tratta di potenzialità
appartenenti a tutti: la differenza tra individuo ed individuo non è quantitativa o essenziale, ma,
piuttosto, accidentale e differisce solamente per il corretto uso che se ne fa. Proprio questa insistenza
sull’uso fa sì che la filosofia sia da Cartesio intesa come metodo: potenzialmente la ragione non ha
limiti, le sue variazioni dipendono esclusivamente dall’uso. L’unico elemento di specificità di tali
facoltà è il fatto che appartengono solo all’uomo, ma in lui si ritrovano nella loro interezza (e Cartesio
fa poi una sorta di captatio benevolentiae verso gli Aristotelici). Il problema del metodo in Cartesio
matura a partire dalla sua insoddisfazione nei riguardi dell’uso logico della ratio, sia quella di
Aristotele sia quella di Raimondo Lullo (l’ "arte combinatoria"), due logiche marcatamente
formalizzate e poggianti su base metafisica: non erano solo funzionalistiche, né rispecchiavano la
realtà della mente umana (Vico e Port-Royal), bensì avevano criteri di procedura rigorosi ed erano lo
specchio riflettente in maniera esatta l’ontologia del reale. Ma ciò non poteva coesistere con la
dottrina cartesiana del buon senso: Cartesio, per questo motivo, faceva crollare ogni riferimento alla
formalizzazione e il legame tra logica e metafisica, poiché il buon senso non ha regole fisse, non è la
traduzione dell’ordine metafisico e, in questo senso, elimina la logica, rendendola non più necessaria
(basta usare il buon senso con giusto metodo). Ma che cosa rifiuta, in sostanza, Cartesio? In primis,
l’eredità aristotelica - impantanatasi nei dogmi - della metafisica e della logica formalizzate, fondata
sulla formula "ousia = sostanza = essenza", con riferimento all’esistenza e alla definizione, per cui to
ti esti ma anche to ti eneinai. L’ousia individua e indica oltre l’essere anche l’essere-che-cosa.
Secondo Aristotele, le sostanze sono individui, l’individuo è cioè sostanza prima che rinvia a concetti
superiori: ciò significa che le sostanze prime sono tutte specie che si riferiscono ad un genere che
(antiplatonicamente) non esiste nella realtà. I generi sono, a loro volta, sostanze seconde: si delinea,
in tal senso, una scala gerarchica che risale fino a dieci generi sommi, ossia a dieci "categorie"
(sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, avere, agire, subire) come modi
dell’essere, al di sopra delle quali non c’è più nulla di generale. Infine, dalle specie alle categorie c’è
una gerarchia di sostanze: l’uomo rientra nel genere "animale", ma occorre differenziarlo dalle altre
specie che rientrano nel medesimo genere. Quindi troveremo il "genere prossimo" (animale) e la
"differenza specifica" (tra uomo e cane, ad esempio) e in base a ciò otterremo la "definizione
essenziale". Da qui derivano le inferenze aventi premesse giuste, cioè rispecchianti le definizioni
essenziali, che attendono alla metafisica e al suo ordine. Se per Aristotele il sillogismo – avente nelle
due premesse il termine medio e collegante specie e generi (come nella realtà metafisica) - , per
Cartesio le cose stanno in altri termini, poiché egli non crede nella definizione essenziale, nell’identità
tra logica e metafisica, nella loro presunta corrispondenza. Non c’è bisogno di introdurre specie e
generi, basta il buon senso, il quale non è collocato "metafisicamente". E, respingendo il sillogismo
come forma di conoscenza mediata, Cartesio privilegia in maniera netta la conoscenza immediata,
facendo a meno del termine medio. Non ci sono più gerarchie, bensì si procede per singole identità:
A=B=C=D (mentre per Aristotele era: A=B; B=C; A=C). La deduzione stessa non è un sillogismo,
ma una semplice concatenazione, una serie di intuizioni. Il "metodo" a cui fa riferimento Cartesio è
– come è noto – quello di tipo matematico: così Euclide, ad esempio, partiva da definizioni
indimostrate e indimostrabili e su di esse faceva affermazioni (ad es. posto che un punto sia inesteso,
vi passa una sola perpendicolare), affermazioni che – è facile capirlo – erano il frutto di passaggi
immediati. In questo modo, Cartesio dà una veste scientifica al pensiero e si sbarazza della
"mediatezza" (l’elemento formale della matematica è minimo). La logica aristotelica era riuscita a
conoscere l’essere come esso era senza creazione; dal canto suo, la logica di Lullo era una logica
inventiva e combinatoria, in cui - per composizione – si arrivava ai concetti primi, i più semplici; e a
tali concetti si hanno simboli che sostituiscono le quantità algebriche. Si trattava di un processo di
denotazione progressiva, in cui – operando sui simboli – si potevano combinare e creare relazioni che
senza tale tecnica sarebbero rimaste invisibili. Questa logica lulliana è per Cartesio una chimera, una
mera fantasia, anche se opposta a quella aristotelica, che ripeteva e ribadiva la realtà (Lullo la
sostituiva denotandola con i "fuochi d’artificio"). Cartesio rifiuta quindi la formalizzazione: ma l’uso
può esso stesso essere formalizzato? E poi: come oltrepassare la formalizzazione? Il rifiuto cartesiano
del sillogismo aristotelico (inutile strumento che rende farraginosa la conoscenza che già ci dà il buon
senso) e della logica di Lullo (eccessivamente fantasiosa), accomunati dalla struttura formalizzata e
dal radicamento nella metafisica, induce Cartesio a percorrere strade alternative: il sillogismo spiega
cose che già si sanno (perché attestate dal buon senso), l’arte di Lullo parla di cose "nuove" ma ne
parla "senza senso", senza seguire alcun filo conduttore. Occorrerà pertanto definire un metodo della
ragione e del buon senso che si discosti dalla tradizione, un metodo che non sia formalizzato e che
non sia più una logica, ma una serie di regole che ciascuno trae dal proprio buon senso, il quale si
rivela in maniera autoevidente. C’è una certa analogia con la logica di Port-Royal (di tipo
mentalistico), che descrive il funzionamento della mente umana e non della realtà (come invece
faceva Aristotele), secondo quattro regole fondamentali. Cartesio aveva già scritto le "Regulae ad
diretionem ingenii" (del 1627, dieci anni prima del "Discorso sul metodo"), in cui aveva rinvenuto
parecchie regole, impelagandosi però in sottigliezze troppo specifiche: ed è per questo che egli
compone il "Discorso sul metodo", in cui ritiene di poter ridurre le regole a quattro. La prima prescrive
di "non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare
scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più
di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi
nessuna occasione di dubitarne". E’ la regola dell’evidenza, assume un principio dettato dal buon
senso (e quindi non dimostrabile): la verità si manifesta apertamente nella coscienza, coincide con
l’evidenza, la quale non si fonda, bensì si autofonda. Cartesio si serve di questo principio (che sarà
l’arma fondamentale di tutto lo spiritualismo francese, il quale sosterrà che la coscienza è la fonte
della verità – per Cartesio, invece, esistono ancora criteri per stabilire se una cosa è evidente oppure
no) in senso epistemico, considerandolo valido per la conoscenza. E infatti introduce un criterio per
distinguere ciò che è evidente da ciò che non lo è: sarà evidente ciò che è chiaro e distinto. Spinoza
dice che noi conosciamo idee e Cartesio non la pensa poi così diversamente: un’idea è connotata dalle
sue "notae", ossia dalle sue caratteristiche, cosicchè posso conoscere molte, poche, nessuna delle sue
"notae". Se le conosco tutte, l’idea mi sarà chiara: così, l’idea di uomo mi sarà chiara quando saprò
che è bipede, animale, dotato do occhi, di mani, di ragione, ecc. Quanto meno l’idea è chiara, ossia
tante minori sono le "notae" di essa ch’io conosco, e tanto più è oscura. Oltre ad essere chiara, l’idea
può tuttavia essere distinta: dirò che un’idea è per me distinta se di essa conosco solo quelle "notae"
che le competono, senza mescolanze con qualità che riguardano altre idee. Poniamo che io abbia
un’idea chiarissima di cosa è l’uomo, poiché conosco con chiarezza tutte le sue "notae", e in più dico
che è alato: l’idea è chiara, ma non è distinta, poiché ci sono, sì, tutte le connotazioni che la
distinguono, ma ce n’è una (l’essere alato) che è fuori luogo: ho un’idea chiara ma non distinta, o –
se preferiamo – chiara e confusa. Questa prima regola è strettamente connessa al dubbio cartesiano:
se devo accettare solo ciò che è chiaro e distinto, allora devo dubitare di tutto ciò che non è tale. La
seconda regola prescrive invece di "dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse
possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente" e la terza di "condurre ordinatamente i miei
pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come
per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non
si precedono naturalmente l'un l'altra": per risolvere un problema, devo secondo Cartesio scomporlo
in tanti problemini più semplici; così, quando ho concetti complessi, devo scomporli in concetti
semplici e "imporre ai miei pensieri un ordine": può essere un ordine che costituisco io stesso, un
ordine cioè che non rispecchi necessariamente il reale (come invece era per Aristotele). Infatti
Cartesio dice anche, con orgoglio, che la sua interpretazione del mondo ci descrive un mondo
"nuovissimo", ricostruito ex novo sulla base delle nostre esperienze conoscitive. Ma Cartesio, pur
rifiutando la formalizzazione della logica, non intende rinunciare al rigore del metodo, tant’è che si
rifà alla matematica. Ne consegue che, dietro a queste regole, sussiste un livello interpretativo più
profondo, in particolare soggiacciono due modelli matematici diversi, due diversi indirizzi
interpretativi risalenti al tempo dei Greci. Uno prediligeva l’analisi, l’altro la sintesi: il primo trova il
suo eroe nel matematico Pappo (del III secolo), autore di una Sunagogh (Collezione), tradotta in
latino nel 1589 da Federico Commandino; Pappo distingue tra analusiV ("resolutio")
e sunqhsiV ("compositio"), prediligendo nettamente la prima delle due (proprio come Cartesio)
perché è assai più empirica e richiede una minima formalizzazione: non richiede cioè di partire da
princìpi primi da cui far discendere ogni cosa, ma di considerare i singoli problemi concreti; e Pappo,
a tal proposito, distingue tra "analisi dei problemi" e "analisi dei teoremi". Così, si prende il problema,
lo si scompone in problemi più semplici, li si risolve uno ad uno, li si riunisce e si trova la soluzione
del problema di partenza; lo stesso avviene coi teoremi. E’ vero che uso princìpi generali primi (di
non contraddizione, di identità, ecc), ma opero empiricamente sul problema dato per scomporlo.
L’altro modello (detto della sintesi) è invece quello di Euclide, che nega che si possa partire dal
problema particolare: si deve invece sempre partire da princìpi e da problemi generali, che riguardano
le determinazioni dei problemi: il punto è realtà inestesa, per un punto passano infinite rette; poi gli
assiomi. Il senso di questa procedura è che la dimostrazione ha carattere discensionale: si parte da
princìpi e si ricava il tutto; il problema non viene risolto scomponendolo in tanti problemini, e non è
un caso che Euclide si presenti come un aristotelico (tutto deriva dalle dieci categorie). Ora, Cartesio,
pur prediligendo il metodo dell’analisi di Pappo, non dice che il metodo sintetico di Euclide non vada
bene: solo, gli rinfaccia di essere eccessivamente formalizzato e di funzionare solo quando il
problema è stato già risolto. Cartesio precisa le sue posizioni in merito nelle "Risposte alle obiezioni
alla Meditazioni Metafisiche": una di queste obiezioni suonava così: "perché non usi abbastanza il
metodo sintetico?". Cartesio risponde che la matematica non procede solo con tale metodo euclideo,
bensì anche con quello analitico di Pappo, che è un metodo incredibilmente più fecondo: lo sanno
tutti, ma chi scrive di geometria non lo fa vedere. Dunque, il pensatore francese mette in luce come
il metodo sintetico non vada respinto, ma come comunque sia inferiore a quello analitico, che è
inventivo, mostra la vera via per la quale la verità è stata scoperta e fa vedere come gli effetti
dipendono dalle cause. Se spieghiamo le cose col metodo analitico, che ce le ha fatte scoprire, non
veniamo compresi: il metodo sintetico, invece, mostra per via diversa in maniera apodittica derivando
le conseguenze dalle premesse: anche gli antichi geometri procedevano per analisi, ma poiché si tratta
di un metodo non formalizzabile, esporrò gli stessi risultati seguendo l’altro metodo, che per spiegare
è molto più efficace. Lo stesso Cartesio dimostra l’esistenza di Dio in maniera analitica, ma poi,
quando si tratta di esporla ai suoi lettori, fa ricorso al metodo sintetico: questo è possibile, è evidente,
solo se si è preventivamente ricorsi al metodo analitico, poiché tutte le teorie si fanno dopo. La sintesi
funziona benissimo in geometria, dove si parte da poche definizioni: in filosofia, però, tutto è diverso
e più difficile, soprattutto stabilire quali siano i princìpi primi da cui far scendere tutto. In altri termini,
rispetto alla geometria, la filosofia è meno formalizzabile e dunque meno incline ad essere
assoggettata al metodo sintetico euclideo; anche se, a dire il vero, Cartesio stesso scriverà una
"Geometria" in cui farà esclusivamente uso del metodo analitico. Questo spiega la quarta regola, che
prescrive di "fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro
di non omettere nulla": inoltre giustifica anche quel senso di pochezza che proviamo leggendola dopo
aver letto le tre che la precedono. Propone di rivedere – senza spiegare quale strategia sia opportuno
seguire - il tutto per sincerarsi di non aver dimenticato nulla; perciò già Vico e Spinoza
rimproveravano a Cartesio che il suo non era un metodo. Lo sviluppo del discorso cartesiano prende
il via dalla prima regola, la verità come evidenza (chiarezza e distinzione): fino a che non ho evidenza,
devo dubitare di tutto (comprese le procedure del mio ragionare): ma come fa, allora, il soggetto
pensante a sottrarsi al dubbio? Perché è evidente, risponde Cartesio. Egli gioca la carta del dubbio
metodico: gran parte delle credenze, su cui si fonda la conoscenza umana, è frutto di una tradizione
la cui certezza – nota il filosofo francese - viene subito meno non appena si comincia a dubitare. La
prima cosa che fa Cartesio è, appunto, mettere in dubbio ogni cosa, per vedere se qualche cosa si
salva e, di conseguenza, risulta vera, evidente, tralasciando invece come falsa ogni realtà dubitabile.
Il filosofo francese annuncia che l’evidenza non può essere sancita da determinate procedure formali,
ma è invece qualcosa che o c’è o non c’è, un qualcosa che si autopone immediatamente. E a tal
proposito egli procede gradualmente: il primo oggetto del dubbio è l’esperienza esterna, la quale è
ambigua e segnata da errori (già gli antichi Scettici avevano messo in dubbio le attestazioni sensibili,
ricorrendo all’esempio del remo immerso in acqua che appare spezzato). In questa maniera, si arriva
a dubitare di tutto ciò che proviene da "idee avventizie", ovvero da quelle idee provenienti
dall’esterno. Ma si potrebbe allora obiettare che si può, sì, dubitare dell’esperienza esterna, ma non
di quella interna, a livello coscienziale, ossia di quelle verità che nascono da un ragionamento interno,
non inficiato dall’insicurezza dell’esperienza (ad esempio le verità matematiche, del tipo 2 + 2 = 4).
E qui Cartesio non vuole lasciar fuori nulla dal dubbio e perciò dubita perfino delle verità a noi
interne, ipotizzando che la nostra mente possa essere congegnata in modo tale da funzionare male:
essa potrebbe cioè essere costantemente ingannata se non da Dio, almeno da un genio maligno che si
insinua nei nostri processi mentali e fa sì che ci sbagliamo clamorosamente perché il nostro stesso
meccanismo di pensiero porta all’errore (magari in verità due più due non fa quattro, ma cinque).
Infine, Cartesio ritiene possibile mettere in dubbio complessivamente la realtà del mondo: egli arriva
pertanto ad ipotizzare che le cose stiano effettivamente come sembrano e che, radicalmente, esista
per davvero un mondo. Quello che noi abitualmente chiamiamo mondo, infatti, potrebbe
semplicemente essere il risultato di un sogno, poiché anche nei sogni ci sembra di vivere per davvero,
ci pare cioè che il sogno sia realtà: chi può assicurarci, allora, che anche la realtà – quella che noi
diciamo tale – non sia il frutto di un sogno? Evidentemente, non disponiamo di strumenti per
distinguere ciò che è frutto del sogno da ciò che invece è frutto della veglia: in questa tesi cartesiana
converge buona parte del pensiero del Seicento, pensiamo ad esempio alle tesi emerse in "La vita è
sogno" di Calderòn de la Barca, dove si fa credere al giovane sovrano in prova che il suo regno è stato
solo un sogno e si giunge alla paradossale conclusione – già in qualche misura presente in Pindaro e
nell’Aiace sofocleo: "Cos'è la vita? Follia. Cos'è la vita? Un'illusione, un'ombra, una finzione, e
anche il bene più grande ha poco valore, perché la vita è un sogno". Anche "La Tempesta" di
Shakespeare è in qualche misura sullo sfondo delle riflessioni cartesiane: in quest’opera il
protagonista, Prospero, arriva a dire che "siamo tutti della stoffa di cui sono fatti i sogni" ("We are
such stuff as dreams are"). Esteso il dubbio ad ogni cosa, perfino al mondo (considerato alla stegua
della realtà onirica) ve n’è una sola che si salva: ed è il fatto che io dubito; infatti, dubito di tutto
fuorchè del fatto che io dubito e ciò significa che io penso e allora – lo si coglie in maniera immediata
in quanto è autoevidente – che io esisto, esisto (almeno) come soggetto pensante. "Cogito, ergo sum":
penso, dunque sono. Non posso, tuttavia, avere garanzia di esistere come corpo (giacchè il corpo può
appartenere al mondo onirico). In questo modo, dovrò necessariamente ammettere l’eventualità della
falsità dell’oggetto pensato, ma mai quella del soggetto pensante: la verità "penso, dunque sono" è
una verità assolutamente salda, è la prima, grande ed unica evidenza che ottengo e che non può essere
minimamente scalfita dal dubbio. In molti, però, hanno attaccato l’argomentazione cartesiana,
facendo leva soprattutto sulla contraddittorietà dell’ "ergo": dicendo "penso, dunque sono" – si è
obiettato – è come se Cartesio giungesse alla certezza di esistere attraverso un ragionamento (quasi
un sillogismo: ciò che pensa esiste, io penso; dunque io esisto), un’inferenza di tipo stoico, quando
Cartesio stesso ci ha invitati a dubitare delle nostre procedure mentali (le quali potrebbero essere
manovrate da un genio maligno). Se devo dubitare delle mie facoltà mentali, allora dovrò anche
dubitare della veridicità del "cogito, ergo sum", giacchè esso è il frutto di un ragionamento partorito
dalla mia mente (ne è prova l’ "ergo"). La risposta fieramente addotta da Cartesio è che il suo non è
affatto un ragionamento, tant’è che si potrebbe benissimo eliminare l’ "ergo" e limitarsi a dire: "penso,
esisto"; è infatti nel fatto stesso di pensare che ho l’autoevidenza immediata di esistere (senza passare
per ragionamento alcuno). Si tratta, allora, di un’autoevidenza che si realizza a livello coscienziale e
non argomentativo. Lo stesso pensiero verrà da Cartesio concepito come autoriflessione coscienziale.
Con il "cogito, ergo sum" viene dimostrata l’esistenza irremovibile di qualcuno che sogna: permane
tuttavia il dubbio sul mondo esterno e su tutto il resto. Scrive Cartesio (nel "Discorso sul metodo",
parte quarta): "conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per
esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale". La certezza che ho di
me riguarda esclusivamente il pensiero: se penso, è evidente che esisto come soggetto pensante, ma
non è affatto evidente che esista un corpo e che esistano le cose che io penso. Perché esista una
sostanza, a ben pensarci, non è necessario che esistano un corpo ed un mondo esterno: basta un
soggetto pensante, e così Cartesio realizza un’identificazione della sostanza col pensiero che sta alla
base del suo radicale dualismo metafisico. Risulta pertanto chiaro, fin da ora, che se esiste un corpo
(e Cartesio dovrà successivamente dimostrarlo), esso sarà necessariamente separato dal pensiero (il
quale esiste in maniera indipendente), sicchè avremo due mondi nettamente distinti ed eterogenei: il
mondo del pensiero (libero e immateriale) e quello della materia (necessario e quantitativamente
esteso). Tale dualismo è, al contempo, una forza (poiché sganciando il pensiero dalla materia si può
affermare l’esistenza del pensiero stesso pur mantenendo il dubbio sulla materia) ma anche una
debolezza (crea non pochi problemi per quel che riguarda l’influenza dell’uno sull’altro: come faccio
io, soggetto pensante, ad agire sul mondo corporeo, e viceversa?). Che cosa sono io, di cui ora ho la
certezza dell’esistenza, si domanda Cartesio nelle "Meditazioni metafisiche"? Posso essere sicuro di
avere un corpo? Non posso dire di essere il mio corpo, poiché esso è soltanto oggetto della mia
rappresentazione. Perciò Cartesio, tralasciando momentaneamente la questione del corpo, passa ad
esaminare gli attributi dell’anima (termine col quale dobbiamo intendere il pensiero, ma anche il
soggetto animale, dotato di vita): i primi elementi costitutivi di essa sono il nutrirsi e il camminare,
ma neanche di tali attività posso per ora avere certezza, giacchè sono indisgiungibilmente legate a
quel corpo sul quale permane il dubbio (come posso camminare se non facendo riferimento al
corpo?). E il sentire? Ugualmente: non si può sentire senza il corpo, per cui cade anche su tale attività
il dubbio. E poi anche nel sogno si sentono cose che, al risveglio, si rivelano fasulle. E il pensare?
Esso – dice Cartesio – è indipendente dal corpo, e pertanto è "attributo che mi appartiene", esulante
dal dubbio. Infatti, ch’io esista come pensiero è certo, ed è vero per tutto il tempo che penso: quando
smetto di pensare, tale certezza cade, poiché potrebbe accadermi di cessare di esistere. "Non sono
nulla se non una cosa pensante, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini
sinonimi il cui significato m’era prima ignoto" (Meditazioni metafisiche"): con queste parole,
Cartesio assimila l’intelletto, la ragione e il pensiero e ammette che finora non eravamo in grado di
attribuire un significato certo a tali termini (solo ora che abbiamo spiegato il "cogito" possiamo
definire il pensiero); il pensiero è l’atto di autocoscienza esistenziale con cui l’individuo riconosce di
esistere in quanto cosa pensante. Si tratta, allora, di prendere coscienza della propria esistenza come
cosa pensante, il che avviene appunto con il "cogito, ergo sum". Cartesio presenta la prima regola del
metodo – quella dell’evidenza – come diretta conseguenza del dubbio metodico: è infatti dubitando
di ogni cosa che egli ha raggiunto la certezza del "cogito" e l’ha tradotta in una regola (accettare solo
l’evidente); in realtà, si può anche dire l’esatto contrario, ossia riconoscere che il metodo non è
l’effetto ma la causa del "cogito", ammettendo che, poiché devo accettare solo l’evidente, sono
pervenuto al "cogito", che è la cosa più evidente che ci sia. In sostanza, il dubbio metodico e la prima
regola del metodo finiscono per coincidere, e hanno comune origine nel considerare la verità come
autoevidenza: infatti, la verità si impone secondo Cartesio nella sua autoevidenza, e mancano criteri
formali per distinguere il vero dal falso (l’unica soluzione consiste, appunto, nel far riferimento
all’autoevidenza). Nella sua unica opera sistematica – i "Princìpi della filosofia" -, che è giustamente
stata considerata come il punto d’arrivo della sua riflessione, Cartesio dà (nel paragrafo 9) una
definizione del pensiero non troppo distante da quella formulata nel "Discorso sul metodo": "Con la
parola pensiero io intendo tutto quel che accade in noi in modo tale che lo percepiamo
immediatamente in noi stessi. Ecco perché non solo intendere, non solo volere, non solo ragionare,
non solo immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare"; così nelle "Meditazioni
metafisiche" diceva che solo dopo aver spiegato il "cogito" si può capire che cosa sia il pensiero e
passava al suo esame. Ora, nel passo riportato dei "Princìpi della filosofia", Cartesio considera il
pensiero come attività generica nella quale rientrano la ragione, l’intelletto, il volere, l’immaginazione
e perfino il sentire, il che risulta piuttosto strano, soprattutto se teniamo a mente che nelle
"Meditazioni metafisiche", alla domanda "che cosa sono io?", egli rispondeva "sono una cosa che
pensa" ed escludeva categoricamente il sentire in quanto funzione connessa al corpo. Ora invece,
enigmaticamente, il sentire è riabilitato ed è a pieno titolo inserito tra le funzioni non del corpo ma
dell’anima. Tutto si spiega se attribuiamo al verbo "sentire" due diversi significati, come fa appunto
Cartesio: nelle "Meditazioni metafisiche" il sentire è inteso come l’entrare in contatto, mediante il
corpo, con l’oggetto esterno, un sentire la realtà dell’oggetto esterno e del corpo che fa da tramite:
per questo motivo, il sentire così inteso va respinto, poiché connesso direttamente con quel corpo su
cui ancora pende il dubbio. Nei "Princìpi della filosofia", invece, Cartesio fa riferimento ad un’altra
accezione di "sentire", in particolare allude al "sentire" inteso come capacità di rappresentarsi "idee
avventizie" (cioè provenienti dall’esterno) senza far riferimento all’esistenza reale di tali idee
all’esterno. In questo mondo che è un sogno, vedo l’albero, ma ciò non vuol dire ch’esso esista: posso
solamente dire che esiste una rappresentazione (l’idea appunto) di tale albero, data come sensazione
distinguentesi da altre rappresentazioni (si distingue da quelle della volontà – il voler costruire una
casa -, da quelle dell’intelletto – 2+2=4 -, da quelle dell’immaginazione – il cavallo alato); il che
significa che le rappresentazioni del mondo esterno hanno una loro specificità, si presentano come
sensazioni, hanno in comune con tutte le altre di essere "oggetti interni del pensiero" – sono parole di
Cartesio. Poiché pensare è sempre pensare qualche cosa, e siccome restiamo fedeli all’ipotesi del
dubbio (il mondo come sogno), allora il pensato non corrisponde ad un oggetto esterno, ma è un mero
pensato la cui verità non consiste nel corrispondere a qualcosa di reale, ma piuttosto nell’essere un
pensato senza il quale è impossibile pensare, così come sono certo della mia esistenza sono anche
certo delle idee che penso, certo della loro esistenza come prodotto del mio pensiero. Anche il sentire,
dunque, fa parte del pensiero e non della sfera corporea. Successivamente, Cartesio, a partire dal
"cogito, ergo sum", recupererà la certezza su tutto ciò che aveva gettato al dubbio: in particolare, gli
basterà dimostrare l’esistenza di Dio per revocare il dubbio su ogni cosa; se infatti Dio esiste e ci crea
(come Cartesio dimostrerà con una pluralità di argomentazioni), essendo Egli buono e perfetto, non
potrà ingannarci, cosicchè saremo autorizzati a dire che due più due dà quattro, che il mondo esiste
quale ci appare, e così via. Molti autori del Seicento condividono con Cartesio la concezione del
pensiero senza distinzioni tra intelletto e ragione, pur con un’importante differenza rispetto al filosofo
francese: una differenza che fa di questi autori dei veri e propri precursori e, in un certo senso,
preparatori dell’Illuminismo (Voltaire vedrà in Cartesio l’anti-illuminista per eccellenza). Come è
noto, Cartesio legge nel pensiero un’attività tipicamente umana, ma non intende per questo limitarlo
e farne qualcosa di finito (quale è appunto l’uomo): sicchè, paradossalmente, l’uomo è un ente finito,
ma il pensiero – che è la peculiarità umana – è infinito, non ha limiti, può conoscere ogni cosa.
Viceversa, molti autori del Seicento, riconoscendo - sulle orme di Cartesio – nell’uomo una facoltà
conoscitiva di tipo intuitivo in grado di cogliere i princìpi ultimi della realtà, riterranno che nell’uomo
ci sia, sì, una facoltà conoscitiva simile a quella di Dio (che tutto conosce), che fa conoscere in
maniera assoluta; ma, riconducendo il pensiero ad attività squisitamente umana, essi finiscono per
leggere in esso qualcosa di finito, al pari dell’uomo: se è finito l’uomo, allora sarà finito anche il suo
attributo più peculiare, che è appunto il pensiero. Qui sta la differenza rispetto a Cartesio: egli vede
l’uomo come finito, ma il pensiero come infinito; viceversa, molti suoi contemporanei (e da qui
prenderà le mosse l’Illuminismo) vedono sia nell’uomo sia nel pensiero qualcosa di finito e limitato.
Per Cartesio, invece, il pensiero è onnipotente, non ha confini, può essere solo ridimensionato dal
cattivo uso, ma se lo impieghiamo correttamente allora esso non ha limiti e l’uomo può conoscere
tutto in maniera assoluta. E’ questa una discrasia che trae origine dal fatto che Cartesio non formalizza
il pensiero: l’autoevidenza da lui ammessa può effettivamente conoscere ogni cosa, è sconfinata. Gli
autori successivi, però, vedranno nel pensiero qualcosa di limitato, poiché limitato è colui che lo
esercita. Questo sarà uno dei grandi portati dell’età illuministica, un portato che sarà tuttavia superato
con l’Idealismo, che ritornerà ad una conoscenza di tipo assoluto, attuantesi attraverso un’intuizione
capace di cogliere la realtà nei suoi princìpi ultimi.

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