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Loie Fuller

L’ultimo scorcio dell’ottocento,


probabilmente è il 1891. Non ancora
trentenne si esibisce come attrice
intepretando la parte di una donna sotto
ipnosi, indossando una veste di un
tessuto leggero, assai ampia e svasata.
Stagliata contro la scenografia di un
giardino bagnato da una luce verde
pallido, deve dare l’idea di uno spirito
volteggiante. A tal fine, inizia a muoversi
fluidamente nello spazio e sollevare le
braccia tenendo con le mani due capi
dell’abito, di modo che le si alzi sopra la
testa, benché il corpo continui a restare
coperto. Ad un certo punto, un grido
improvviso proruppe dalla sala: Una
farfalla, una farfalla!, incoraggiata
dall’esclamazione ammirata, si mette a
girare su se stessa, correndo da un capo
all’altro della scena, finché si ode un
secondo grido: Un’orchidea!
La scena ha ottenuto un enorme
successo, cosi la Fuller inizia a lavorare
su questa prima casuale esperienza,
intraprendendo, sul solco d’essa, una
ricerca sul costume e sull’illuminazione
sviluppata nel corso del tempo e i cui
risultati vengono impiegati nelle
successive creazioni sceniche. Uno dei
primi risultati delle ricerche è l’invenzione
di una veste molto particolare, concepita
per essere indossata in scena.
Amplissima, di diversi metri quadrati,
viene mossa, oltre che dalle braccia della
danzatrice che la porta, da lunghe
bacchette utili a prolungare gli arti
superiori. In scena, il movimento del
tessuto, sapientemente studiato, forma
onde, spirali, cerchi, ali, fiori.
Sul tessuto dell’abito la Fuller fa proiettare
fasci luminosi di vari colori studiati ad hoc
e provenienti dalla sala, dai lati, dal
fondale, dall’alto o persino dal basso,
grazie a strumentazioni sofisticatissime da
lei stessa inventate e note oggi grazie ai
brevetti presentati. Il risultato finale in cui
la luce impregna di sé lo spazio e le figure
create dal corpo tramite il costume
modificandoli nelle forme e nei colori e
fungendo dunque da elemento unificante.
E’ noto che l’opera di Fuller è assunta
dalla corrente mallarmeana del
simbolismo francese come modello cui
fare riferimento. Stephane Mallarè parte
dall’idea di fare teatro parola poetica,
liberato dalla presenza dell’attore.
Il teatro ideale per Mallarmè, è il libro, la
presenza ingombrante e opaca dell’attore,
è reputato l’ostacolo che impedisce
all’immaginario del fruitore di prendere
vita. La pagina, identificata da Mallarmè
con il Teatro ideale, diviene, cosi, una
sorta di trampolino dei sogni, laddove la
dimensione onirica si configura come la
condizione che consente la penetrazione
nell’essenza dell’universo, nella corrente
segreta che lega tra loro le cose della
natura.
Le coreografie fulleriane sono percepite
come scrittura, infatti la fuller fa quasi
scomparire il proprio corpo per lasciar
parlare strumenti leggeri e impalpabili
come veli e lui, elimina la scenografia e fa
della danza una travatura evanescente
che dura un attimo, per poi essere
inghiottita dal buio.
Ella parla in diverse occasioni delle sue
creazioni sceniche come di opere
connesse alla natura, principio sui cui
insiste soprattutto in un breve testo
intitolato alla natura, principio su cui
insiste soprattutto in un breve testo
intitolato La danse, che comincia cosi: La
natura è la nostra guida e il nostro
maestro più grande.
sostiene che non esistono due cose che
siano della stessa natura ed esattamente
uguali: lo spirito che le muove è lo stesso,
ma ogni cosa risponde a suo modo alla
grande forza motrice nella natura, quella
parte di noi stessi che è divina.
Le foglie si muovono in armonia con il
vento, ma ogni foglia si muove a modo
suo. Le onde del mare non sono mai
uguali e tuttavia sono tutte in armonia.
Cosi, dunque, ciò che dobbiamo
apprezzare è che la legge dell’impulso è
una cosa, e la legge dell’armonia un’altra.
E’ bene quindi, abbandonare il modo di
procedere dei registi naturalisti: imitare
esteriormente la fluttuazione delle onde o
delle foglie al vento, riproducendole una a
una separatamente, non consente di
cogliere i nessi tra le cose. Il movimento
invece, ha il compito di trasformarsi nello
strumento attraverso il quale la danzatrice
getta nello spazio vibrazioni e onde di
musica visuali. Si fa riferimento dunque, a
un’idea della coreo-grafia come
figurazione immateriale non legata alla
pesantezza dei coefficienti scenici e al
corpo dell’attore, ma a una trama leggera
e quasi impalpabile, svincolata dalla carne
e dalla fisicità. Richiamando una
concezione dell’arte che mira alla
cancellazione dell’io, evocando un’opera
quasi incorporea, di cui Fuller, che
scompare dentro ai suoi veli e alle luci
colorate, è il modello esemplare.
Mettendo assieme tutti i dati fin qui
proposti, si può aggiungere che l’opera
d’arte ammirata dalla Fuller è quella che,
attraverso la luce, il colore il movimento.
esprimere la spiritualità, rivela il battito
universale pulsante sotto ogni cosa, la
linfa che circola secondo misteriose
corrispondenze.

LA Danza serpentina
Intesa come specifica coreografia,
rappresentata per la prima volta in
America nel 1892, ma contiene già i
principi basilari sui cui successivamente
lavorerà. Il lavoro è diviso in tre quadri,
ogni movimento del corpo provoca un
risultato di pieghe della stoffa, la
lunghezza e l’ampiezza della veste di seta
la obbligavano a molte ripetizioni dello
stesso movimento per imprimere a questo
movimento un disegno speciale e
definitivo.
Totalmente priva di una trama, la danza
serpentina evoca una serie di immagini
tratte dal mondo vegetale e animale, una
sorta di sogno concepito al fine di mettere
in moto la fantasia dello spettatore.
Un bellissimo particolare da ricordare è
per esempio la ragnatela che tiene
imprigionato il corpo rimanda al tema
centrare della danze della fuller: quello del
fisico che vuole uscire dal carcere della
carne, dell’io che lotta per la
smaterializzazione, per farsi luce anziché
materia, e che effettivamente alla fine si
trasforma in farfalla, in greco psiche,
termine che eloquentemente significa
anche anima.

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