Laban, il cui insegnamento resta per lei fondamentale. Non solo lo apprezza per aver liberato la danza dalla dipendenza subordinata alla musica, vi apprende anche la possibilità di improvvisare, è spinta da lui a inventare una sua propria tecnica e un suo criterio di composizione. Se si legge in The language of dance, ossia in uno dei libri scritti dall’artista tedesca, si scopre innanzitutto che il motivo scatenante è per lo più un oggetto reale o una situazione accaduta nel quotidiano. Il punto di partenza non è né astratto, né intellettuale, nè tecnico: l’ispirazione scaturisce da un elemento di una circostanza del reale. Per esempio nel 1929 con Ritmo festivo, la base d’avvio sta nell’esperienza di una corrida a Pamplona vissuta tempo prima dalla Wigman e nel 1929 da lei richiamata alla mente. Mary osserva la sua ansia e il suo timore per la vita del torero quanto per quella dell’animale. Non pensa affatto a una coreografia pantomimica o che intenda rendere la corrida realisticamente in scena, o imitare la corrida. Sulla vicenda originaria s’innesta lo sguardo di chi l’ha vissuta da spettatore e poi la ricorda: l’episodio reale va rappresentato non in maniera oggettiva, ma intriso dell’accensione emotiva, dalle pulsioni, dello sgomento, dell’ansia provati dal soggetto osservante. Per descrivere lo stato d’animo provato in questi momenti, Mary Wigman impiega espressioni che richiamano quelle usate da Nolde, come scuotimento dell’essere, animazione intima, impulso psichico, sentimento vitale esaltato. E aggiunge: tutto ciò che volevo fare era danzare le mie visioni, dare forma alle mie visioni, al mio occhio interiore. Quel che è certo che questa composizione- non deve essere fatta, deve premere, come osserva giustamente Isabelle Launay, nascere come da se stessa. Detto in altri termini, l’embrione motorio generato dalla visione primaria deve crescere, secondo la Wigman, non in quanto gli si incollano addosso pezzi nuovi o per forza decisioni prese da una volontà razionale, ma per necessità interna. Osserva: ogni lavoro artistico autentico domanda una crescita, non un assemblaggio. Strettamente connesso a questo snodo è quello relativo al rifiuto della tecnica intesa come insieme di passi codificati e di regole definite una volta per tutte, al modo, per esempio, dell’eh dehors nel balletto. La danza deve costruirsi ogni giorno di nuovo, non devono esistere forme preconfezionate che il coreografo si limita a combinare assieme. L’opposizione a una tecnica sancita una volta per sempre affonda le radici nella contestazione della moderna società, dominata dall’industrializzazione, vista come il luogo del meccanico, del devitalizzato, dell’uniforme, dell’assenza di originalità, della freddezza, della superficialità. E’ bene citare anche le parole di una sua allieva, la lezione era sull’elevazione, diverse ragazze ridiscendevano facendo rumore, ma nessuna critica d’ordine tecnico era loro fatta. Era unicamente una critica qualitativa, il loro movimento era troppo verso il basso, il rumore fosse manifestamente dovuto ad una mancanza di tensione nella caviglia e nel ginocchio, spiegando la qual cosa le allivellare avrebbero ottenuto rapidamente il risultato di cadere silenziosamente, la Holm ( allieva della Wigman e fondatrice di un scuola wigwam) non forniva queste spiegazioni tecniche: non le interessava, evidentemente, raggiungere lo scopo per la via breve, ma secondo la via che le avrebbe abituate a un’attenzione interiore anziché esteriore. Coerentemente con quando detto, tante danze della Wigman aboliscono ogni scenografia o la riducono in modo drastico. Come molto espressionismo, l’artista tedesca opta per un palcoscenico nudo per lasciar parlare il corpo dell’attore. E se lo svuotamento interiore, l’energia, che non devono essere coperti dalla materialità dell’ambientazione. La danza delle streghe del 1926, l’oggetto ispiratore o, quanto meno, quello che imprime la svolta decisiva alle idee magmatiche che invadono il pensiero e il corpo di Mary Wigman, è uno splendido e costassimo vestito acquistato anni prima in un magazzino svizzero. Dalla annotazioni sul processo creativo si apprende che, nella visione wigmaniana, è come se, nascosta dentro al vestito giacesse una figura barbarica primordiale. Oltre al capo, c’è un altro oggetto generatore, una vecchia maschera, quasi una traslazione demoniaca del volto, maschera che sembra alla coreografa tedesca la faccia del corpo invisibile vestito dell’abito di sera. Come anticipato, la scelta di bandire ogni elemento scenografico corrisponde all’esigenza di concentrare tutta l’attenzione sulla danzatrice, sul fremito interiore, sull’elemento psichico, che non deve essere occultato dalla materialità dell’ambientazione. La strega insomma, altro non sarebbe che un aspetto del creato primordiale ancora oggi nascosto nelle profondità del nostro essere e che, nell’io della Wigman lotta per uscir fuori. Carmina Burana
In questo caso, l’importanza stessa del
modo di procedere viene meno, a tutto favore del prodotto finale, che non sembra il risultato di un’ispirazione proveniente dalle zone più profonde e remote dell’essere, ma di una lucida elaborazione compiuta a tavolino. Nella tipologia di danza indicata il focus dell’interesse si sposta dall’energia interiore del ballerino al significato della trama simbolica del prodotto finito. Una coreografia costruita inoltre non in parallelo alla musica, ma su una musica pre-scritta ( di Carl Orff). L’esigenza di un piano pre-definito destinato a non essere cambiato è tanto più indispensabile-precisa- in quanto avrà a disposizione solo ballerini di formazione accademica, totalmente digiuni della cosiddetta danza libera, e che pertanto impiegheranno un tempo consistente per orientarsi nel nuovo stile. La coreografia offre in primis un assolo femminile, che dev’essere espressione della sofferenza d’amore. Quando nel testo cantano la giovane donna narra come il suo uomo se ne sia andato lontano a cavallo, entra in scena un cavaliere, che si toglie il cappello, la saluta e subito dopo esce. Si tratta di una sorta di flash-baci o di episodio passato che si fa presente nella memoria della figura femminile materializzandosi in scena, quasi potessimo vedere le immagini del suo pensiero nel ricordare come l’amato l’ha salutato ed è partito. Detto in altri termini, decide di sottolineare, del testo, il motivo del contrasto fra la gioia che risorge con la primavera e la sofferenza della vita che non è sbocciata, ma, invece, è stata traumatizzata dall’abbandono. Nella coreografia il cigno sembra l’emblema dell’essere vivente dominato dalla sorte: anche i più belli sono destinati a rientrare nel ciclo vitale, in cui un animale mangia l’altro. Nella danza cosiddetta classica siamo stati abituati a vedere un corpo di ballo formato da molti membri che si muovono perfettamente all’unisono: tutti compiono gli stessi passi al medesimo ritmo. Nei carmina burana della wigwam occorre fare un passio indietro, non limitarsi ad accogliere la presenza di sei o, in altre sezioni, di dodici danzatori che si muovono nello stesso modo e all’unisono come un mero elemento esornativo. L’intervento di sei o dodici figure che seguono il medesimo tracciato motorio secondo un identico ritmo ribadisce in primo luogo l’uniformità della sorte umana: tutti sono destinati a innamorarsi, a essere rifiutati, a subire o ad attivare conflitti. Il numero da cui è formato il gruppo, numero che ricorre in tutta la coreografia in maniera ossessiva, è chiaramente simbolico, laddove la cifra sei nella cultura occidentale quanto orientale rappresenta l’Umano, mentre il sette raffigura di norma il complimento. il sei può essere l’emblema della rivoluzione riuscita, cui si contrappone un settimo anello della serie, che simboleggia l’esito fallito. In ogni caso, se la cifra sette è centrale anche della Wigman come le sette danze della vita. Ebbene, la Wigman sembra scegliere i Carmina Burana anche perché in essi il personaggio nomade è centrale, rispecchia la natura di chi scrive il testo ed è metafora dell’apertura mentale e della predisposizione alla conoscenza di chi è in viaggio. Se i personaggi offerti della Wigman non vanno intesi in senso realistico, il vagabondo potrebbe essere la personificazione dell’io, di cui gli altri sarebbero le proiezioni definite negli archetipi maschile e femminile. Potrebbe essere il suo io a compiere il viaggio interiore di cui la danza presenta la storia, un io che nel contempo è animale ( cigno) fagocitato dagli altri animali senza per questo essere meno bestia fagocitante, amante e amato, sofferente a causa di dolore, aggressore e aggredito; di lui le altre presenze paiono le molteplici e contraddittorie sfaccettature.