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Economica Laterza

555
Piero Rattalino

con un’appendice di interviste e lettere

Editori Laterza
© 2009, Gius. Laterza & Figli

Nella «Economica Laterza»


Prima edizione 2011

Edizioni precedenti:
«i Robinson/Letture» 2009

www.laterza.it

Questo libro è stampato


su carta amica delle foreste, certificata
dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel gennaio 2011


SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-9560-6

È vietata la riproduzione, anche parziale,


con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche
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ai danni della cultura.
per Ilia, con immutato
ed immutabile amore
Indice

Quaderno A 3
Di George ed io..., p. 5

Di quando lasciai per sempre..., p. 10

Del mio amico Titus..., p. 13

Di quando arrivai a Parigi..., p. 17

Di una baronessa che affittava camere a Vienna...,


p. 22

Del grande maestro Kalkbrenner..., p. 25

Dello zar di tutte le Russie..., p. 30

Delle marette che Kalkbrenner provocò


involontariamente a Varsavia..., p. 34

Di alcune belle cantanti che mi deliziarono la


vista..., p. 38

Di quello che un grosso critico parigino scrisse su di


me..., p. 44

Di come il mio vecchio maestro cercò di impartirmi


una lezione di vita e di patriottismo..., p. 48

Degli splendori e delle miserie del teatro d’opera...,


p. 52

Di quando ebbi a Vienna cupe visioni e di come vi


soffrii indicibili pene..., p. 57

VII
Quaderno B 63
Di come Robert Schumann parlò della mia Sonata
op. 35 e del granchio che prese..., p. 65

Del gotico nella mia arte..., p. 70

Di un mio discepolo, delle mie idee sulla tecnica, di


tante mie allieve aristocratiche..., p. 76

Di una borsa di studio che mi fu negata...., p. 81

Di alcuni miei vecchi compagni di studio, del castello


di Antonin e dei pericoli che si corrono con le allieve
graziose..., p. 90

Ancora dei miei tormenti a Vienna e della mia amata


Konstancja..., p. 96

Della morte di mio padre..., p. 102

Della morte di Kalkbrenner e della Catalani...,


p. 107

Dei miei rapporti con la contessa Marie d’Agoult...,


p. 114

Del mio arrivo a Londra..., p. 121

Delle mie avventure a Londra e in Scozia..., p. 128

Delle mie idee sul matrimonio..., p. 134

Di come, grazie ad un veggente, fu ritrovato un


plico che si era volatilizzato..., p. 141

Appendice. Interviste e lettere 149


Con Justyna Krzyżanowska in Chopin ed Izabela
Chopin in Barciński, p. 151

Con il nobiluomo Titus Woyciechowski, p. 160

Con il maestro Moritz Ernemann, p. 169

VIII
Con il maestro Carl Czerny, p. 174

Con il signor Camille Pleyel, p. 177

Con Maria Wodzińska, p. 185

Con il conte Wojciech Grzymała, p. 189

Con il marchese Astolphe de Custine, p. 201

Con Hector Berlioz, p. 208

Con George Sand, p. 210

Con il maestro Stephen Heller, p. 221

Con il maestro Julian Fontana, p. 225

Con miss Jane Stirling, p. 235

Con Solange Dudevant, p. 239

Con il reverendo abate Alexander Jelowicki, p. 250

Con madama Pauline Garcia in Viardot, p. 253

Con la contessa Delphine Potocka nata Komar,


p. 255

Con mastro Nicolas Ridel, p. 257

Cronologia della vita


di Fryderyk Franciszek Chopin 259

Nota dell ’autore 271


Quaderno A
Di George ed io, della mia Sonata in si bemolle minore,
di un mio grave busillis, e di quando comperai
una mazurca da una forosetta

Oggi, 10 agosto 1839, ho ultimato un ciclo di quattro mazur-


che. Sono belle? Non so. Io mi dichiaro, sì, mi dichiaro... sod-
disfatto. Se siano belle o no, ripeto, non so. Belle sembrano a
me, così come i figli più piccoli sembrano belli ai genitori. Ai
genitori, preciso, che invecchiano. Non ho figli e non ne avrò,
le mie composizioni sono la mia prole, e dispongo di una di-
scendenza più numerosa di quella di Priamo. Dunque, se
queste quattro neonate mazurche mi sembrano belle, mi
chiedo, sarà forse perché sto invecchiando? E che ci sarebbe
di male? Ho compiuto ventinove anni in marzo. Ma la vec-
chiaia come io l’intendo non è una questione d’età: da vecchi,
non da canuti, il mondo e la vita ti appaiono sotto una luce
diversa e migliore, la vecchiaia è un invidiabile traguardo,
non un’inevitabile disgrazia. Più presto ci arrivi, meglio è. E
nell’ultimo anno trascorso io ho preso delle decisioni che non
avrei mai supposto di dovere o di saper prendere. Una, sopra
tutte, per me molto grave.
Avevo sempre pensato di sposarmi, di essere in amore sag-
gio come Mendelssohn, non folle come Liszt. Invece, ora, con-
vivo. Sì, convivo. Per Nostra Santa Madre Chiesa sono un pub-
blico concubino. Non so come mi giudichi l’Altissimo che la
mia mamma adorata venera con tanta purezza di cuore, ma la
macchina ecclesiastica del suo Vicario in Terra mi condanna,

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mentre la società, che a parole si proclama laica, se non finge
di non vedere fa suo l’anatema della Chiesa. E questo mi crea
purtroppo dei problemi, spiccioli ma spinosissimi, che tanto
volentieri avrei lasciato cadere nella polvere.
Ci sono dei nodi che devo, che dobbiamo affrontare in-
sieme, io ed Aurore (la quale, in realtà, se ne impippa alta-
mente, ma che rispetta le mie paure e che mi aiuta con pa-
zienza a districarle). Ad esempio, ho sul leggio una Sonata in
si bemolle minore non ancora finita e che tuttavia, mi sento
di dirlo sotto voce a me stesso senza falsa modestia, non sarà
del tutto indegna delle grandi sonate dell’epoca classica. Ho
composto di slancio il primo movimento e lo scherzo, come
terzo movimento utilizzerò una marcia funebre che avevo
scritto or sono due anni senza saper bene, allora, cosa farne,
e per il finale ho già in mente un qualcosa di molto breve, tre
pagine, forse, della mia scrittura, un moto perpetuo tutto in
pianissimo con le due mani all’unisono.
La finirò fra breve, la sonata che già mi sembra bella – sto
invecchiando?, sono invecchiato? – e poi cercherò un edito-
re che me la acquisti pagandola per quel che merita. Schle-
singer si lamenta sempre perché sono troppo caro, Probst di-
ce smoccolando che le mie richieste sono enormi e che i suoi
padroni di Lipsia lo sgridano, ma tutti in cuor loro sanno be-
ne che ho pochi concorrenti, e alla fine allentano seppur a
malincuore i cordoni della borsa. Devo ancora terminare, ol-
tre alla sonata, uno scherzo che ho cominciato mesi or sono,
ho già consegnato un ciclo di preludi, una ballata, due po-
lacche, ed ho pronti due notturni e le quattro mazurche. Con-
to di ricavare da tutto ciò una certa somma bene in carne,
ma...
Ma qui viene, e me ne vergogno un po’, il mio busillis. Da
tempo immemorabile è d’uso che ogni composizione abbia
una dedica, che ogni composizione sia per qualcuno un do-
no e un segno di alta considerazione. Le mie dediche sono
molto ambite, io le centellino con estrema cura, in modo da
soddisfare la vasta clientela che alimenta le mie lezioni priva-

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te di pianoforte, perché le lezioni rappresentano per me il cer-
to, e le composizioni l’incerto. Ora, acclarato che tout le
monde sa, sebbene nessuno si azzardi a dirlo, che “Chopin
vive in concubinaggio”, posso io arrischiarmi a mettere in ci-
ma alle mie composizioni i blasonati nomi di rispettabili da-
me? Una dedica muliebre, in questo preciso momento della
mia esistenza, non potrebbe forse gettare un’ombra di com-
plicità sull’onorabilità della dedicataria? E le rispettabili da-
me di cui sopra potranno ancora venir a pianottare nello stu-
dio d’un pubblico concubino? Santi numi, ci sto proprio per-
dendo il sonno.
“Ma chi se ne fotte?”, butta là Aurore, togliendosi il siga-
ro di bocca (Aurore, essendo di sinistra, è molto disinibita,
fuma il sigaro, porta i pantaloni, la domenica non va alla mes-
sa e talvolta usa un linguaggio da scaricatore di porto). “Ma
chi se ne fotte?”, ripete placida. Poi si fa meditabonda. “In
fondo in fondo”, osserva, “ti capisco, cioè non posso fare a
meno di capirti e di compatirti. Il tuo mondo non è il mio, io
scrivo romanzi” – scrive romanzi firmando George Sand – “e
non ho rapporti diretti e personali con i miei lettori. Ma tu,
con tutte quelle puzzettasottilnaso che prendono lezioni da
te...”.
“Non sono affatto delle smorfiose”, protesto, “sono per-
sone squisite, colte, che pendono dalle mie labbra, ma che ov-
viamente...”.
“...ma che devono ovviamente rispettare certe convenzio-
ni, certe regole che la società applica in modo molto rigido”,
mi interrompe Aurore, rimettendosi il sigaro in bocca.
“Proprio così”.
“Proprio così, ne convengo. L’adultero, o il concubino, se
non salva le apparenze, dev’essere bandito dalla buona so-
cietà. Io ero moglie d’un barone e, in quanto adultera fuggita
dal tetto coniugale, sono stata bellamente emarginata. Ma so-
no stata accolta dalla società degli artisti, degli intellettuali”.
“Che non prendono lezioni di pianoforte a venti franchi
all’ora”.

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“Già. Ma non angustiarti, Chip-Chip, il mondo lo cono-
sciamo bene tutt’e due, una soluzione la troveremo. Fino a
che resteremo qui a Nohant, per intanto, non avremo pro-
blemi. Fammi piuttosto sentire le mazurche che hai appena
finito”.
Da quasi dieci mesi viviamo insieme, Aurore ed io, lonta-
no da Parigi. All’inizio di giugno siamo arrivati a Nohant, nel-
la casa di campagna di lei, io sono curato e accudito meravi-
gliosamente, non devo dar lezioni, posso passeggiare, dormi-
re, conversare, oziare, suonare e comporre come più mi ag-
grada. Aurore conosce la musica per quel poco che gliel’ha
insegnata sua nonna ma, artista com’è, la musica la sente con
molta forza e partecipazione. Suono per lei le quattro ma-
zurche che mi sembrano belle, scacciando dalla mente il ro-
vello del “ma a chi cavolo le dedico?”, e come per incanto mi
ritrovo, ragazzino, a Szafarnia durante le vacanze estive del
1824, quando intuii che la missione affidatami dall’Altissimo
era di rivelare attraverso la mazurca l’anima antica e profon-
da della mia terra, quella che il mio amico Adam Mickiewicz
ha così ben celebrato nel dramma Dzyady.
Ospite di una famiglia amica dei miei, venivo mandato in
piena Mazovia (la terra dalla mazurca) perché mi rinvigoris-
si e mi distraessi, ed io, che ero un ragazzino giudizioso, dili-
gentemente seguivo le principali prescrizioni dietetiche che
mi venivano raccomandate: tutti i santi giorni bevevo il latti-
cino e il caffè di ghiande e la tisana, e facevo lunghe passeg-
giate. Un pomeriggio, arrivando presso un casolare, sentii
una voce di donna che cantava. Era una mazurca. Mi fermai,
preso da una vertigine, da una magia che mi portava lontano
lontano lontano, in tempi remoti. La canzone aveva molte
strofe con musica sempre uguale, e così fissai rapidamente
nella memoria la melodia. Ma non riuscivo a capir bene le pa-
role, e comunque non avrei potuto ricordarle. Mi scossi dal-
l’incantesimo. Una rustica staccionata mi divideva dalla don-
na. Le girai attorno, scorsi una bella ragazza che seduta su
uno sgabello da mungitore cantava come in trance. Veden-

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domi comparire si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello, e
fuggì verso casa. “Non scappare, ti prego”, le gridai alzando
il braccio, “non scappare, io volevo solo vedere chi era la
creatura che cantava così meravigliosamente”.
Avevo già conosciuto Angelica Catalani, grandissima can-
tante e grandissima diva che poi è restata per me una cara
amica, e sapevo bene quale colata di miele odoroso sarebbe
stato per una bella voce un complimento ben tornito. La ra-
gazza si fermò, guardandomi in tralice ma quasi sul punto di
sorridere. “Non avevo mai sentito questa mazurca, ho molto
goduto il tuo canto così appassionato”, le dissi, “e vorrei che
tu me la facessi ascoltare di nuovo: scriverò le parole nel mio
taccuino”. La ragazza, con le labbra serrate, scosse decisa la
testa. “Perché no?”, obbiettai. “Io ci tengo. Molto”. Lei scos-
se di nuovo ostinatamente la testa, arrossendo. Capii che si
vergognava e che neppure il più tornito dei complimenti sa-
rebbe bastato a smuoverla, quella Catalani di villaggio. Allo-
ra tirai fuori dal borsellino qualche moneta, gliela mostrai di-
cendo: “So bene che un’artista non è tenuta a cantare gratui-
tamente per uno sconosciuto seccatore, e perciò mi permet-
to di offrirti questo piccolo omaggio”.
Gli occhi della rustica Catalani si spalancarono – era dav-
vero bella – al pensiero di stringere nella mano qualche mo-
neta. Probabilmente non ne aveva mai posseduto una. Si ras-
settò con cura i capelli e la veste, cercando di ritrovare l’ispi-
razione, e riprese a cantare. “Vedi come di là dalle montagne
danza il lupo”, diceva la canzone, “di là dalle montagne dan-
za il lupo. Non ha la femmina, e perciò è così desolato”. Men-
tre scrivevo le parole mi accorsi che ad ogni strofa la ragazza
introduceva nella musica qualche piccola variante. E che mu-
sica! Del tutto diversa da quella delle mazurche che si balla-
vano a Varsavia. Non li ho mai citati nelle mie composizioni,
quei suoni che comperai da una forosetta dalla voce d’oro,
ma su di essi ho via via modellato le mie mazurche, cercando
di ritrovare le radici profonde che li avevano alimentati. E
adesso posso dire che forse, grazie a Dio, ce l’ho quasi fatta.

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Di quando lasciai per sempre la Polonia, del pragmatismo
di mio padre, e di come il granduca Costantino, fratello
dello zar, prese una cotta per una mia marcetta

Mio padre Nicolas, saggio e sentenzioso com’era, mi diceva


sempre che nella vita di ciascuno di noi capita inopinata-
mente un giorno risolutivo, un giorno in cui tu imbocchi, sen-
za sapere esattamente come, una strada che non faceva parte
di un itinerario prefissato ma che diventa immediatamente la
tua strada, e che sarà senza ritorno. Capitò a lui quando ave-
va sedici anni e sei mesi, a me quando avevo vent’anni, otto
mesi e un giorno. Nicolas Chopin, nato in Lorena, nel villag-
gio chiamato Marainville, il 15 aprile 1771, partì nell’autun-
no del 1787 per la Polonia e non fece mai più ritorno nel pae-
se natio. Fryderyk Franciszek Chopin detto Frycek, nato in
Polonia, a Żelazowa Wola, il 1º marzo 1810, il 2 novembre
1830 partì da Varsavia, soggiornò a Vienna per sette mesi e
ventotto giorni, e dal settembre 1831 visse a Parigi. Non è più
tornato nella madrepatria e, ne sono sicuro, non ci tornerà
mai più, se non, forse, con i piedi in avanti.
Non ci tornerò mai più, nella mia Polonia che amo con la
mia mente e con i miei visceri. Ufficialmente, ben s’intende,
sono franco-polacco, monsieur le maître Frédéric Chopin, e
il francese l’ho parlato fin dalla più tenera infanzia. Ma la mia
lingua saetta agevolmente soltanto nella liquida parlata po-
lacca, e le mie orecchie si beano soltanto dei ritmi e delle me-
lodie polacche, e i miei occhi si illuminano soltanto quando
ripenso alle dolci pianure polacche. Io sono polacco, polac-
co, polacchissimo, ...ma vivo in Francia. Perché me ne sono
andato dalla mia amatissima patria? Perché non mi passa
nemmeno per l’anticamera del cervello la tentazione di ritor-
narci? Forse sarò un po’ bizzarro, forse sarò un po’ troppo
delicato di pelle, ma adesso io lo so, il perché, sebbene non
lo sapessi in quel 2 novembre che ricordo come se fosse og-
gi: me ne andai perché i miei connazionali mi avevano cari-

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cato di ambizioni che erano loro, non mie, me ne andai per-
ché solo allontanandomi fisicamente dalla Polonia avrei po-
tuto celebrarla a mio modo, senza leggere negli occhi dei miei
la delusione e senza sentirmi un verme.
Quando venni al mondo la Polonia già non esisteva più co-
me Stato indipendente. Ai tempi del gran re Ladislao III Ja-
gellone si era estesa dal Baltico fino al Mar Nero e all’Adria-
tico, al tempo del gran re Jan III Sobieski gli eserciti polacchi
avevano liberato Vienna dall’assedio dei turchi, ma ormai la
mia Polonia, dopo essere stata fatta a pezzi e bocconi dai fa-
melici confinanti, si era ridotta al solo granducato di Varsa-
via, creato da Napoleone e da lui assegnato al re di Sassonia.
Già nel 1813, tre anni dopo la mia nascita, i russi rioccupa-
rono Varsavia. Due anni più tardi il Congresso di Vienna ri-
costituì il Regno di Polonia, sempre amputato però dei terri-
tori occupati dai prussiani e dei territori occupati dagli au-
striaci, e ne donò graziosamente la corona allo zar di tutte le
Russie. Amen! Mio padre, che pure nel 1794 aveva combat-
tuto contro i moscoviti le ultime disperate battaglie per l’in-
dipendenza, sotto i moscoviti si adattò a vivere. Che avrebbe
potuto fare, del resto? Sposato, con quattro figli da tirar su,
con un impiego pubblico... Ragionava da pragmatico, mio
padre, e siccome così era e tutto diceva che non poteva esse-
re diversamente seppellì quei sentimenti che gli avrebbero
soltanto portato dolore e frustrazione, ci mise su una croce e
visse serenamente.
Anch’io, bambino, vivevo serenamente. Ero piuttosto
bravo con la musica, e molto precoce. A sette anni avevo già
composto un paio di polacche ed una marcia, parecchi ari-
stocratici, ansiosi di sentirmi, mi invitavano nelle loro son-
tuose dimore. Avevo otto anni quando un giorno papà, guar-
dandomi fisso negli occhi e con le labbra un po’ tremanti, mi
disse solennemente: “Fryderyk”, disse proprio Fryderyk, non
Frycek, e ciò mi fece drizzar le orecchie, “Fryderyk, Sua Ec-
cellenza il granduca Costantino ha sentito parlare di te e vuo-
le vederti. Ci recheremo a palazzo dopodomani”. Rimasi sba-

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lordito. “Sua Eccellenza il granduca?”, balbettai. “Proprio
lui, proprio lui”, confermò mio padre, con una faccia com-
punta che improvvisamente mi sembrò quella d’un mansue-
to cavallo da tiro.
Il granduca Costantino, accipicchia! Il granduca, coman-
dante in capo dell’esercito polacco, teneva in pugno il regno
di Polonia in nome di suo fratello, lo zar Alessandro I. Esse-
re convocato a palazzo, per mio padre, oscuro professore di
francese nel liceo di Varsavia, era un onore inaudito. E a pro-
curargli l’invito ero stato io, un bimbetto di otto anni! Mi sen-
tii cresciuto di un buon palmo, se non fisicamente per lo me-
no moralmente: la musica, pensai, serviva pure a qualcosa.
Ripassai diligentemente al pianoforte le mie composizio-
ni, la mamma mi vestì e mi pettinò con cura amorosa, papà
mi prese per mano e... ci avviammo. Il granduca ci ricevette
subito. “Ah!, questo è il giovanotto di cui ho sentito tanto
parlare”, esclamò giovialmente. “Un po’ gracilino, mi pare,
poco esercizio fisico, credo, dovrebbe giocare a fare il solda-
to”. “Eccellenza”, replicò mio padre, rispettosamente ma con
fermezza, “mio figlio è di salute un po’ delicatina, però è sa-
nissimo”. “Mmh!”, fece il granduca, “per la salute fisica e
mentale non c’è di meglio che la vita militare, anche per gio-
co. Ne sono profondamente, ne sono incrollabilmente con-
vinto”. E batté due volte la mano sulla spalla di mio padre,
vigorosamente. Il granduca Costantino andava pazzo per le
parate militari, tutte le domeniche presenziava gongolando
alle manovre dei reggimenti sulla piazza di Sassonia, ed era
soldato dalla punta dei capelli alle piante dei piedi. “Beh!”,
proferì ruvidamente, “vediamo un po’ come te la cavi con la
musica, giovanotto”.
Andai al pianoforte, e sentendomi perfettamente a mio
agio suonai una polacca e la marcia (il trac, il panico, mi en-
trò in corpo più tardi, brutto schifoso, allora, anche in pre-
senza di estranei, correvo e saltavo sui tasti come lo scoiatto-
lo corre e salta sui rami). Il granduca mi fulminò con lo sguar-
do. “L’hai proprio scritta tu, questa bella marcia, senza l’aiu-

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to di nessuno?”. Avevo la gola chiusa in una morsa, riuscii so-
lo ad annuire muovendo vigorosamente la testa mentre papà
balbettava “Eccellenza, le posso assicurare che...”. “Allora
me la prendo io, già, me la prendo senza chiedere il permes-
so all’illustre autore”, concluse il granduca, sorridendo che
gli si vedevano tutti i denti. Fece un cenno al suo aiutante di
campo, che era rimasto impalato come uno stoccafisso per
tutto quel tempo vicino alla porta: “Capitano, dia un po’ su
questa musica al capobanda della mia guardia. Voglio sentir-
la eseguita con trombe e pifferi e tamburi, è così vivace, così
carina”.
E perciò, la domenica, sulla piazza di Sassonia venne sof-
fiata nei tubi d’ottone e martellata sulle pelli d’asino la mia
marcia trascritta per la fanfara reggimentale. Mi fece una
grande impressione, mi procurò una montagna di compli-
menti, papà, mamma, le mie tre sorelle, gongolanti, non sta-
vano più nella pelle. Il granduca non mi rese il manoscritto,
io non ne avevo fatto una copia, e perciò la marcia che com-
posi a sette anni è pressoché svanita dalla mia mente. Era,
questo lo ricordo, era ingenua, infantile. E del resto il gran-
duca Costantino era come un bambino innocente che gioca-
va alla guerra con soldatini in carne ed ossa. Nel ’30, quando
Varsavia insorse, non schierò guerrescamente le truppe tanto
accuratamente addestrate per le parate pacifiche, e con la sua
guardia russa scappò come una lepre prima che gli facessero
la festa.

Del mio amico Titus, di quando feci naufragio


nella città imperiale di Vienna, e di come la mia santa madre
raddrizzò la mia barca a Parigi

Partito da Varsavia il 2 novembre, arrivai a Vienna il 23. Il


viaggio fu molto piacevole, anche perché da Kalisz mi ac-
compagnò Titus Woyciechowski, mio grande amico e mio
confidente (in faccende amorose). Ci fermammo quattro

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giorni a Breslavia, dove ero già stato e dove un vecchio ami-
co del mio maestro tanto mi pregò che mi convinse a suona-
re in pubblico, ci fermammo una settimana a Dresda, dove
fui così pazzo da concedermi di noleggiare una portantina
per sbarcare con più pompa ad una serata mondana a cui ero
stato invitato, ci fermammo un paio di giorni a Praga. Cono-
scevo Dresda e Praga – c’ero passato l’anno prima – e mi pia-
cevano molto. Ritornandovi ritrovai le vecchie conoscenze e
ne feci di nuove e interessanti, fra le quali la mia futura ami-
ca Delphine Komar, una bellezza, mamma mia!, da lasciarti
stordito. Poi passammo in Austria e raggiungemmo la capi-
tale dell’impero, che anche sotto il pallido sole novembrino
mi parve ancora più splendida di come la ricordavo.
A Vienna dovevamo trovare prima di tutto un alloggia-
mento che non gravasse troppo pesantemente sulle nostre fi-
nanze, ...cioè soprattutto sulle mie, perché Titus, agiato possi-
dente terriero, poteva spendere con una certa larghezza, men-
tre mio padre, per finanziare il mio viaggio, aveva dovuto pren-
dere a prestito del denaro, cosa che mi responsabilizzava ter-
ribilmente ogni volta che mettevo mano al borsellino per ca-
varne un kreutzer. Titus si mise subito in moto, e dopo una set-
timana in cui cambiammo albergo quasi ogni notte, limando
progressivamente il prezzo, trovò una brillante soluzione.
L’amicizia con Titus era nata un po’ per caso e un po’ per
volontà del destino. Papà, già l’ho detto, aveva una numero-
sa famiglia a cui provvedere, e con il suo stipendio di profes-
sore di liceo, sia pure integrato da un analogo incarico pres-
so la Scuola d’Artiglieria, non c’era di che stare allegri e spen-
sierati. Valendosi delle grandi doti di massaia della mamma,
mio padre... Che splendida persona era, anzi, che splendida
persona è mia madre. Nata a Długie il 14 settembre del 1782,
lontanissimamente imparentata con una grande famiglia po-
lacca, gli Skarbek, i conti Skarbek, la mamma aveva lavorato
presso di loro come governante. Papà, precettore del conti-
no dopo i suoi giovanili trascorsi di sfortunato patriota, ave-
va impiegato quattro anni prima di accorgersi di essere capi-

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tato a un passo dalla donna della sua vita. Si erano sposati il
2 giugno 1806, i miei genitori, nel 1807 era nata la mia sorel-
la maggiore, Ludwika, nel 1810 io, nel 1811 e nel 1812 le mie
sorelle minori, Izabela ed Emilia. Una famiglia felice, la no-
stra. Però le ristrettezze finanziarie si erano fatte sentire sin
da quando il clan Chopin si era trasferito da Żelazowa Wola
a Varsavia, e allora papà...
Non ho mai conosciuto una donna che fosse più operosa,
più retta, più giusta, più saggia di mia madre, e più capace di
non far pesare queste sue qualità, anzi, di nasconderle dietro
una maschera di semplicità e di umiltà che la faceva sembra-
re una persona comune mentre era invece un essere eccezio-
nale. Con quale naturalezza, quando il mio primo concerto a
Parigi era andato economicamente maluccio ed io non sape-
vo dove sbattere la testa, mi mandò tutti i suoi risparmi! Mio
padre aveva finanziato il mio viaggio nella previsione – sua e,
del resto, anche mia: avevo ormai più di vent’anni – che du-
rante i soggiorni nelle varie città sarei stato in grado di gua-
dagnarmi da solo il pane e il companatico. Invece soltanto al-
l’ultimo momento, a Vienna, avevo rimediato qualche fiorino
con la cessione di una mia composizione ad un editore.
Il 29 giugno, mentre stavo per partire per Parigi via Mona-
co e Strasburgo, papà mi aveva mandato, come diceva lui, un
“piccolo rinforzo”, aggiungendo bonariamente qualcosa che
m’aveva fatto sudar freddo: “Avendo rilevato dalle tue lettere
che hai già intaccato il denaro destinato alla continuazione del
tuo viaggio, riceverai insieme con questa un piccolo rinforzo,
più conforme alla nostra situazione che alla nostra buona vo-
lontà”. E poi, dopo avermi spiegato come incassare il denaro
in banca senza pagare alcuna commissione perché a questo
aveva già provveduto lui, concludeva in questo modo: “Così,
mio caro ragazzo, siccome i tuoi fondi non saranno grandi, cer-
ca di non restare a lungo a Monaco, per non spendere il poco
che hai. Conto sulla tua prudenza. Risparmia più che puoi, mi
sanguina il cuore per non poter fare di più”. E concludeva con
il solito “Ti abbraccio con tutto il cuore”.

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Placidamente preciso e realistico, com’era nel costume di
papà. Ma tremendo, per me. La lettera di mio padre era la ri-
sposta ad una mia lettera del 23 giugno, nella quale, imba-
razzato come mi sentivo per non essere economicamente in-
dipendente, già avevo proposto ai miei di vendere l’anello
prezioso che mi era stato regalato dallo zar Alessandro I. Ri-
ferendo dunque a casa sull’esito del mio concerto a Parigi, ar-
tisticamente ottimo, non mancai di dire incidentalmente che
l’incasso non aveva coperto le spese. Ma non chiesi alcun aiu-
to. La mamma, che non mi scriveva mai, mi mandò allora una
letterina che diceva:

Mio caro Fryderyk, ho ricevuto la tua lettera del 16 di questo


mese con la quale mi comunichi che stai bene. Per me è un vero re-
galo. Oh, come vorrei stare con te, avere cura di te come un tem-
po! Ma siccome ciò non può essere, bisogna conformarsi alla vo-
lontà dell’Altissimo che nella sua misericordia ti manderà degli
amici che mi sostituiranno. Così, mio beneamato, abbi fede in lui e
sii felice. Suppongo che tu abbia adesso bisogno di un po’ di de-
naro; ti mando quello che posso, milleduecento franchi. Ed ora,
che Dio ti benedica e ti dia la salute, è quello che io imploro per te.
Tua madre che t’ama.

Milleduecento franchi. Qualche anno dopo, con le mie le-


zioni, io li avrei guadagnati in dieci giorni e anche meno. Per
mia madre quelle quattro svanziche rappresentavano invece
i risparmi di tutta la vita matrimoniale. Ed io sapevo che
ognuno di quei franchi aveva una storia, una storia di picco-
li sacrifici quotidiani, di piccole continue rinunce, zloty su
zloty. Come avrei voluto stringere fra le braccia mia madre,
in quel momento! Come vorrei stringerla ora! Come vorrei
che la dolcezza del suo sguardo mi accompagnasse nell’eter-
no riposo, perché non mi resta molto da vivere, lo so, la tos-
se, gli sbocchi di sangue finiranno per soffocarmi. Purché io
non sia seppellito vivo. Se ne dicono tante, sulle morti appa-
renti, questo pensiero mi terrorizza. No, dovrò provvedere, e
provvederò: chiederò che il mio corpo venga aperto.

16
Farò così, di sicuro. Ma, ...ma che dico mai, sciagurato im-
becille che sono? Perché mi lascio andare a queste fantasie fu-
nerarie? Non i miei terrori notturni devono essere suscitati
dal pensiero di mia madre, ma i giorni felici della mia infan-
zia, e di quando mi innamorai – non trovo una diversa paro-
la che renda altrettanto bene il mio sentimento – quando a
prima vista mi innamorai di Titus. Avevo cominciato a dire
poco fa che mio padre, avendo soppesato le grandi doti di
massaia di mia madre, decise di aprire un pensionato per
ospitare qualcuno, sei o sette, dei tanti ragazzi che venivano
a studiare a Varsavia dalle città e dai borghi della Polonia sog-
getta ai russi. E così io conobbi Titus, che arrivava da Po-
turzyn, e Jan Białobłocki di Sokolowo, e Eustace Marilski di
Pencine, con i quali mi legai in solidissima amicizia. Ma il pre-
diletto era Titus, studente di agronomia che praticava anche
la musica, componeva qualcosina e suonava con me a quat-
tro mani.
Quando arrivammo a Vienna fu lui che, con il suo spirito
pratico da gentiluomo di campagna, trovò un buon alloggia-
mento dopo pochi giorni passati in vari alberghi (dispendio-
si). Le mie faccende sarebbero forse andate a Vienna diver-
samente – in meglio! – se Titus fosse restato con me. Ma do-
po poco più d’una settimana lui tornò in Polonia, ed io mi
sentii solo come un cane. E come un cane polacco venni trat-
tato dagli austriaci che tenevano nelle loro mani la fetta più
nobile e sacra, Cracovia, della mia patria.

Di quando arrivai a Parigi, di come il mio amico


Mendelssohn riuscì meglio di me a farsi avanti,
del mio esordio in Francia, del trac che mi perseguitò
e che per una volta fu guarito da Aurore

Ero arrivato per la prima volta a Vienna nell’agosto del 1829,


due anni dopo la morte di Beethoven, con l’idea di vedere la
città e di cominciare ad orientarmi nel suo prestigiosissimo

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ambiente musicale: con mia somma meraviglia venni invece
invitato subito a tenere due concerti con orchestra che anda-
rono piuttosto bene, tanto che diversi giornali ne parlarono
simpaticamente e, letti a Varsavia, alzarono di un bel po’ le
mie quotazioni nella mia città. A me gli onori... e a me gli one-
ri, perché in cambio delle mie brillanti prestazioni non inta-
scai nemmeno un mezzo ducato.
Arrivai a Vienna la seconda volta nel novembre del 1830
con l’idea – da quel pollo che ero – di poter mettere final-
mente a frutto il capitale artistico che avevo guadagnato un
anno prima. Con mia incommensurabile sorpresa trovai fer-
reamente sbarrate tutte le porte a cui bussai. Oh!, non lesinai
gli sforzi, sebbene non fosse nella mia natura di fare il postu-
lante, non mi risparmiai le visite, venni cameratescamente ap-
poggiato da Jan Nepomuk Hummel, che conoscevo perché
era stato a Varsavia per concerti e che era una somma auto-
rità musicale e che mi aveva in simpatia. Il risultato grandio-
so fu che ricevetti tante belle promesse e che non cavai un ra-
gno dal buco. O meglio, cavai solo un ragnetto perché suo-
nai l’11 giugno in un concerto a beneficio di un danzatore,
Dominik Mattis, che naturalmente si produsse in un ballet-
to... Feci insomma quello che fa il giovane artista quando si
presta a rimpolpare il programma della serata di un altro, rin-
graziando calorosamente per essere stato benignamente scel-
to fra i molti, fra i moltissimi sitibondi giovani artisti dispo-
nibili sulla piazza.
In agosto, di passaggio a Monaco, ebbi un incredibile col-
po di fortuna: senza che neppure muovessi un dito fui scrit-
turato – e pagato! – per suonare il mio Concerto in mi mino-
re. E con che successo! Tutti impazzivano per me. Perciò, di-
menticando le vergogne di Vienna, arrivai a Parigi pieno di
speranze. Avevo un po’ di lettere di presentazione, feci delle
visite, conobbi molti personaggi di peso del mondo musica-
le. A Parigi operava, e vi opera ancora adesso, una famosa or-
chestra sinfonica, l’orchestra del Conservatorio diretta da
François Habeneck, che teneva una regolare stagione di con-

18
certi. Chissà, pensavo, se ce l’avrei fatta ad infilarmici... Non
ce la feci. Ce la fece Felix Mendelssohn, arrivato bel bello a
Parigi tre mesi dopo che c’ero arrivato io.
Mendelssohn non suonò il Concerto in sol minore che
aveva composto da poco. Furbo come una volpe tedesca, il
mio amico Felix (e, questo lo dico sottovoce, furbo come una
volpe tedesca ebrea; convertito al protestantesimo, sì, ma suo
padre era un Abraham, suo nonno un Moses, e il buon san-
gue non cambia solo perché c’è stata un’abiura). Felix arriva,
fiuta l’aria. Capisce immediatamente che Habeneck va pazzo
per Beethoven, e che fa? Ovvio: propone un Concerto di
Beethoven, quello in sol maggiore. Habeneck si scioglie in un
brodo di giuggiole e lo introduce nel santuario. Io non li suo-
navo, perdiana, i concerti di Beethoven. Io suonavo solo i
miei! Di cui ad Habeneck, ovvio, non importava un fico sec-
co. E così, se volevo farmi sentire dai parigini il concerto me
lo dovevo organizzare da me.
Per Giove, che fatica! Che fatica, mio Dio! Non si attira il
pubblico, questo lo sanno tutti, con l’ignoto: lo si attira con
il noto. E siccome monsieur le maître Frédéric Chopin è igno-
to, da ignoto deve procurarsi la presenza di un noto. Va dun-
que a trovare Friedrich Kalkbrenner, un grande maestro, una
celebrità, uno che se muove un dito se ne accorgono tutti.
Monsieur Kalkbrenner, che è anche un grand seigneur, pren-
de monsieur Chopin sotto le sue ali, gli promette di apparire
come artista ospite nel concerto del giovane collega con una
sua Polacca per sei pianoforti preceduta da Introduzione e
Marcia. Un grandissimo pianoforte per lui, per me un pia-
noforte più piccolo ma con un suono d’argento come un cam-
panellino, quattro normali pianoforti d’accompagnamento.
Per di più, essendo socio del fabbricante Camille Pleyel,
Kalkbrenner farà mettere a disposizione la prestigiosa Salle
Pleyel e i prestigiosi pianoforti Pleyel. Vittoria! E i pianisti ac-
compagnanti? In quattro e quattr’otto si trovano Mendels-
sohn, Hiller, Osborne e Sowiński, tutti felicissimi di venire in
soccorso al collega.

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In verità, bisognerebbe adesso scritturare l’orchestra per
il Concerto e per le Variazioni sul tema del Don Giovanni di
monsieur Chopin. Quanto costa, l’orchestra? Costa, non im-
porta nemmeno quanto. Costa, e il derelitto Chopin non è in
grado di spendere neppure un baiocco. Ma i pezzi per pia-
noforte e orchestra possono essere eseguiti con accompagna-
mento del solo quartetto d’archi perché, come accertato da
insigni trattatisti, quando il quartetto va bene, tutto va bene.
Un illustre violinista, Pierre Baillot, si mette a disposizione:
accompagnerà i due pezzi di Chopin e suonerà il Quintetto
op. 29 di Beethoven, molto “leggero”, persino un po’ italia-
neggiante. Altra vittoria. E come la ciliegina sulla torta si ren-
de disponibile per soprammercato un celebre oboista, Henri
Brod.
Dunque, tirando le somme, abbiamo nel mazzo Kalk-
brenner, Baillot, Brod, il quartetto di pianisti (e Chopin). Che
bel platò. Ma dice, chi sa, dice chi sa che non basta ancora,
che oltre agli strumentisti ci vuole per forza qualche cantan-
te perché per il pubblico la torta non è completa se le manca
la ciliegina della voce. Si trovano i cantanti, il concerto viene
fissato al 25 dicembre. La direzione dell’Opéra scopre all’ul-
timo momento di non poter rinunciare ai servizi dei suoi can-
terini e annulla il placet. I manifesti – stampati a spese di Cho-
pin – devono essere rifatti, il concerto viene spostato al 15
gennaio. Il 15 gennaio Kalkbrenner è ammalato. Spostamen-
to al 26 febbraio. Oltre a Kalkbrenner e a Chopin suonano
Hiller, Osborne, Sowiński e Stamaty (che sostituisce Men-
delssohn), suona il Quartetto Baillot, suona l’oboista Brod,
gorgheggiano le signorine Tomeoni e Isambert. La sala non è
piena, il piatto piange, ma il successo è vivissimo, diversi gior-
nali parlano del jeune homme con entusiasmo.
E il jeune homme prende il coraggio a due mani e il 13
marzo scrive ai signori della Società dei Concerti del Conser-
vatorio: “È mia somma ambizione d’essere ascoltato in uno
dei vostri ammirevoli concerti, e perciò sollecito da voi que-
sto favore. In mancanza d’altri titoli per ottenerlo oso spera-

20
re che nella vostra benevolenza verso gli artisti vogliate acco-
gliere favorevolmente la mia domanda. Ho l’onore d’essere,
Signori, il vostro umile e obbediente servitore”. Risposta: “La
domanda arrivò troppo tardi”. Difetto di tempestività, jeune
homme che con casato francese vieni dalla Polonia. Ma non
ti si dice che la tua umilissima richiesta verrà tenuta in conto
per la stagione successiva. Troppo tardi, e basta. Ah, che ipo-
criti! La firma era illeggibile, altrimenti mi farei un dovere di
passare ai posteri il nome del burocrate che mi diede quel
bruciante schiaffo morale. Con l’orchestra del Conservatorio
suonai tre anni più tardi, il 26 aprile 1835, in un concerto a
beneficio di Habeneck, e quindi come artista ospite che si
presta a rimpolpare il programma. In fondo, fu una mia de-
bolezza, accettare. Vero è che non sono rancoroso (in questo
ho preso da mia madre). Però...
Non è un segreto per nessuno che io non mi esibisco vo-
lentieri nei concerti con orchestra, e nemmeno nei concerti in
genere. Soffro di trac e suono volentieri solo per gli amici,
quando voglio farlo, quando mi viene l’estro di farlo. E allo-
ra penso soltanto alla musica, e sono felice e fatico persino a
smettere. Se c’è il pubblico mi sento come se avessi delle scar-
pe nuove, strette. Eleganti, lucide, ma strette: non vedo l’ora
di togliermele. E nei giorni che precedono il concerto, brrr...
Quando mi balzò in mente l’idea di riprendere il controllo
della mia clientela mediante un concerto che doveva diven-
tare il clou della stagione, come poi divenne, Aurore smontò
i miei terrori in questo modo spiccio. “Senti, Chip-Chip”, mi
disse, “da quanto vai ripetendo da giorni e giorni io ho certi-
ficato con notarile precisione che:
1) non vuoi che ci siano i manifesti,
2) non vuoi che ci siano i programmi,
3) non vuoi che se ne parli,
4) non vuoi che ci sia molto pubblico.
Visto e matagrabolizzato tutto ciò, ti propongo il seguen-
te accomodamento:
1) che tu suoni senza illuminazione,

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2) che tu suoni senza uditori,
3) che tu suoni su una tastiera muta”.
Risi, e feci un concerto memorabile. Ma, decisamente, il
concertismo non fa per me. E che importa? A portare le mie
musiche in teatro ci pensa il mio amico – una volta, adesso
non più tanto, per parte mia – il mio amico Liszt.

Di una baronessa che affittava camere a Vienna, di altre


graziose femminelle sparse qua e là, e di come entrai
trionfalmente nel ruolo di Eterno Fidanzato

Eravamo a Vienna da quasi una settimana, Titus ed io, e, co-


me ho già detto, avevamo cambiato più volte l’albergo per-
ché dopo ogni notte, al risveglio, mi sembrava di stare spen-
dendo una fortuna. Una mattina sul tardi il mio compagno,
entrando con l’aspetto dell’homo ridens nella camera in cui
stavo ancora oziando, mi disse: “Ho trovato quello che fa per
noi: un appartamentino in centro. Ce lo affitta per una som-
ma ragionevolissima una baronessa, vedova, ma piuttosto
giovane”. “È carina?”, mi scappò detto prima ancora di com-
plimentarmi con Titus per il successo. Lui si rabbuiò: “Oh,
non ci ho mica badato, a questo. Tu sai come la penso, e mi
meraviglio persino un po’ di te, che dovresti sentirti come io
mi sento”.
Questa risposta che, oggi, sembra sibillina persino a me,
non era sibillina allora. Titus amava disperatamente una ra-
gazza che aveva ben altre idee, e ben altri corteggiatori per la
testa. Si chiamava Alexandra Pruszak detta Olesia, e avrebbe
poi sposato un tizio che a me stava antipatico (e che di ciò,
meschinazzo, si rammaricava molto). Titus, uomo tetragono,
avrebbe portato rancore a lei per tutta la vita. Ed anche, non
si sa bene perché, anche al marito. Ma in quella fine di no-
vembre a Vienna, scoraggiato sì e tuttavia non ancora defini-
tivamente sconfitto, Titus rimaneva fedele all’immagine di
Olesia che aveva stampata negli occhi, e nella baronessa af-

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fittacamere era stato in grado di vedere, appunto, solo l’affit-
tacamere e la baronessa, non la donna.
Ed io? Io avevo afflitto Titus con lettere e chiacchiere par-
landogli di Konstancja, il grande amore che mi aveva ispira-
to il secondo movimento del Concerto in fa minore. L’amavo
disperatamente senza, per fortuna, aver ricevuto alcun rifiuto
perché mi ero ben guardato dal dichiararmi. Mi comportavo
come il trovatore, o addirittura come il paggetto che silenzio-
samente si è votato alla castellana, ma mi ci trovavo benissi-
mo, sebbene fossi poi soggetto ad accessi di furiosa gelosia
quando gli ufficialetti della guardia russa con lo spadino tin-
tinnante ronzavano nelle serate di ballo intorno alla mia bel-
la, mentre io me ne stavo impalato in un angolo come un sa-
lame. Secondo Titus, comunque, tutte le donne, eccetto Kon-
stancja, avrebbero dovuto essere per me dei manichini senza
volto. Invece mi si era persino offuscata la vista, a Dresda, da-
vanti alla radiosa e sensuale Delphine Komar, infelicemente
sposata al conte Potocki. E il pensierino di andare ad abitare
presso una giovane vedova – viennese! – quel pensierino,
beh!, non mi lasciava affatto indifferente.
Le donne mi piacciono, ed io piaccio alle donne. Non so
perché. Sono di statura media, magro, non prestante, i miei
tratti sono delicati, ho mandibola lievemente prognatica e na-
so prominente. Però le donne mi reputano distinto e mi tro-
vano simpatico. Una litografia di Nicolas Maurin, che per ora
è ancora in fase di preparazione per la stampa, ma che è già
completa e che si intitolerà Famosi virtuosi del pianoforte, mi
mostra insieme con Rosenhain, Döhler, Dreyschock, Thal-
berg, Wolff, Henselt e Liszt. Döhler è un bel ragazzo dai trat-
ti delicati (la principessa Belgiojoso, donna stupenda e fata-
le, è pazza di lui), Liszt è bello e fascinoso, Thalberg sembra
un pesce lesso, Rosenhain uno sfigato, Wolff un golosone,
Dreyschock e Henselt due funzionari austriaci. In me si no-
tano le guance incavate, lo sguardo perduto nel vuoto e – for-
se è una mia fissazione, su questo punto sono molto sensibi-
le – il gran naso affilato. Che dire? Non-brutto è il massimo

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che mi concedo. Però, alle donne, io piaccio. Che cosa tro-
veranno in me? Che cosa troveranno in Liszt il rubacuori? In
Liszt, secondo me, trovano il ritratto del sesso. In me trova-
no il ritratto del sentimento. Liszt è l’Amante, io il Fidanza-
to. Anzi, l’Eterno Fidanzato. E a me, fino allo scorso anno,
andava bene così (ora non più).
La baronessa, la vedovella presso la quale alloggiai duran-
te tutto il mio disgraziato soggiorno a Vienna, era veramente
carinissima e simpaticissima. Di lei scrissi con entusiasmo ai
miei: “Figuratevi che la padrona di casa è una baronessa, ve-
dova e carina, ancora assai giovane e che, ci ha detto, ha fat-
to un lungo soggiorno in Polonia. A Varsavia avrebbe senti-
to parlare di me. Ha frequentato l’alta società ed è stata in
rapporti con gli Skaryński. Ha chiesto a Titus se conosceva la
giovane e bella madame Rembielinski, ecc. Una persona così
degna val bene da essa sola venticinque fiorini renani o di più,
perché le piacciono molto i polacchi e non troppo gli au-
striaci. È prussiana e donna di buon senso”. Con lei passai in
vivaci conversari delle bellissime ore.
Un’altra coinquilina molto, molto graziosa la trovai a Pari-
gi. Al n. 27 del boulevard Poissonière, in un freddo inverno,
lei abitava al quarto piano, io al quinto. Era sposata, il marito
stava fuori di casa dal primo mattino alla sera, la trascurava...
Più volte mi invitò ad entrare da lei. “Venga, ho acceso il fuo-
co, facciamo un po’ di conversazione, sono così sola”, mi sus-
surrava con occhi quasi imploranti e con un irresistibile sorri-
so che le scavava fossette nelle guance. Irresistibile per tutti,
ma non per me. Non avevo nessuna voglia di farmi bastonare,
se lo sposo avesse dovuto scoprire di aver la testa come un ce-
sto pieno di lumache. E a Monaco, quattro mesi prima, aven-
do fatto uno strappetto alla mia natura di Eterno Fidanzato
con una certa Therese presentatami da un certo August, ap-
pena conosciuto, che mi chiamava Fritzerle e che nel mio al-
bum scrisse due dichiarazioni di eterna amicizia...
Ero piuttosto candido, allora, un ragazzo a cui della Gre-
cia era noto che era insorta contro i turchi e che nell’insurre-

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zione ci aveva rimesso la pelle lord Byron. E stop. Adesso ho
motivo di sospettare che il mio eterno amico August, non più
rivisto da allora e che non rivedrò mai più, avesse un bel pen-
chant per l’amore greco. Comunque, fu lui a portarmi da
Therese, con il risultato che, appena arrivato a Parigi, dovet-
ti correre da un medico che in verità mi prese in giro facen-
domi arrossire – “Perché mai ti spaventi per una piccola in-
fiammazione? Mi sembri un pivello” – ma che prescrivendo-
mi un blando rimedio mi tolse dall’imbarazzo. Lo spavento,
però, me l’ero preso, e forte. Con la sposina trascurata dal
marito, per quanto piacevolissima da rimirare, non volevo
dunque gustare il frutto proibito, visto che con lei il ruolo di
fidanzatino non sarebbe stato per nulla appropriato.
Con la bella Alexandrine de Moriolles la reciproca simpa-
tia si spinse fino al punto che l’occhialuta, la pettegola Varsa-
via ci considerò prossimi al fidanzamento, proprio nel mo-
mento in cui mi ero innamorato come un pazzo di Konstancja
Gładkowska. Anzi – ero stranito per vari aspetti, in quel mo-
mento – coltivai le apparenze pensando astutamente (!) che
Alexandrine mi sarebbe servita come schermo impenetrabi-
le perché nessuno sospettasse delle mie mire, del resto plato-
niche, su Konstancja. Tirando le somme, sono stato fidanza-
to con un’unica ragazza: Maria Wodzińska. Fidanzato, come
dire?, in pectore, fidanzato segreto perché così volle fermissi-
mamente madame Wodzińska. E segretamente buttato giù
dal cocchio nuziale. Ma questa è tutta un’altra storia.

Del grande maestro Kalkbrenner, di come lo agganciai


e di una sua onesta proposta, suppostamente pelosa

Quando mi presentai a Kalkbrenner per strappargli il patro-


cinio al mio concerto d’esordio a Parigi, di lui sapevo già pa-
recchie cose, e non solo perché era famosissimo, né perché le
sue musiche arrivavano regolarmente nell’unico negozio spe-
cializzato di Varsavia, né perché avevo studiato assiduamen-

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te il suo Concerto in re minore, ma anche perché nella mia
città era tornato dopo sei anni di studi a Parigi Alexander
Rembielinski, con il quale avevo stretto amicizia. Alexander
aveva studiato con Kalkbrenner, e suonava benissimo. Provai
un certo stupore, di cui feci immediatamente partecipe Jan
Białobłocki: “Ha passato sei anni a Parigi e suona il pia-
noforte come non l’ho sentito mai suonare da nessuno. Puoi
immaginare la nostra gioia! Non avevamo mai conosciuto
niente di così perfetto! Non posa da artista, ma da dilettante.
Non mi dilungherò sulla sua esecuzione rapida, elegante, age-
vole. Ti dirò soltanto che la sua mano sinistra è sciolta come
la destra, cosa straordinaria in una sola persona. Mi ci vor-
rebbe una pagina intera per descriverti il suo delizioso talen-
to”. A Jan mandai anche dei valzer di Rembielinski, lodan-
doli molto.
Presentandomi alla porta di Kalkbrenner sapevo dunque
come orientare la conversazione. Consegnai il biglietto da vi-
sita al cameriere, che mi introdusse nell’anticamera. Trascor-
sero appena due minuti e Kalkbrenner, con mia grande sor-
presa, venne lui stesso a prendermi.
“Buon giorno, buon giorno, monsieur Chopin, felicissimo
di fare la vostra conoscenza”.
Ero sbalordito. Ma come, il grande Kalkbrenner... “Mae-
stro illustre, Ella mi mette in confusione con la sua acco-
glienza così, così...”.
“Ma no, ma no, dico sinceramente, senza complimenti, di-
verse persone mi hanno già parlato di voi, sono veramente fe-
licissimo di conoscervi. E poi, non apparteniamo tutt’e due
alla razza dei Fritz?”.
Era una battuta. Risi. Kalkbrenner si fregò le mani: “Veni-
te, carissimo, passiamo nel mio studio dove staremo comodi”.
Mi fece strada verso lo studio, ampio, luminoso, lussuoso,
in cui troneggiavano due grandi pianoforti Pleyel. Sedemmo
in due poltrone di cuoio, Kalkbrenner cominciò spiegando-
mi tutto quel che aveva fatto per migliorare i pianoforti
Pleyel, divenuti ormai i più quotati rivali dei più noti Érard.

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Finalmente mi rivolse lo smagliante sorriso per cui, anche,
andava famoso, oltre che per la sua bravura e il suo narcisi-
smo: “Ma ditemi di voi. Venite da Varsavia, vero? Ma siete
francese”.
“Vengo da Varsavia e sono polacco. Padre francese, tra-
piantato in Polonia a sedici anni, madre polacca. Mi sento,
sono polacco”.
“Oh!, allora siete in buona compagnia. Io sono parigino
d’adozione e tedesco di famiglia e di nascita”.
Era una battuta. Risi. “E come vanno le cose in Polonia?”,
disse Kalkbrenner, soddisfatto.
“Molto male, ora. L’ordine regna a Varsavia, come disse
alla Camera il ministro francese degli esteri”.
“Oh, già, che sbadato! Scusate. Intendevo artisticamente,
non politicamente”.
“Varsavia non è né Parigi, né Vienna, né Londra, artisti-
camente. Però le vostre musiche ci arrivano, io ho studiato
con passione il vostro Concerto in re minore ed ho anche avu-
to modo di ammirare, maestro, il vostro lavoro di didatta,
ascoltando con grandissimo piacere Alexander Rembielin-
ski”.
“Alexander...”.
“Rembielinski”.
“Oh, certo! Rembie-linski, un caro ragazzo, dotatissimo e
studioso. E che fa ora?”.
“È deceduto, purtroppo. Giovanissimo”.
“Oh, poveretto! E voi?”.
“Non sono deceduto, sebbene lo desiderassi molto, a
Stoccarda, tre mesi or sono”.
“Ma sapete che siete prontissimo nel mettermi alla berli-
na? Siete un birichino. Suvvia, bando alle chiacchiere. Fate-
mi sentire qualcosa di vostro”.
Gli diedi la partitura del mio Concerto in mi minore, che
più tardi gli dedicai, e glielo feci ascoltare.
“Musica interessante, originale”, mi disse, “e suonata
comme il faut. Siete stato allievo di Field?”.

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“No, maestro”.
“Strano. Avete il suo tocco. E lo stile di Cramer”.
Era un bel complimento, e il mio cuore si colmò di gioia.
Ma non sapendo bene come rispondere – potevo mai dirgli
di essere stato allievo di un tale chiamato Żywny? – mi limi-
tai ad inchinarmi, mettendo la mano destra sul cuore. Kalk-
brenner andò al pianoforte per farmi sentire la sua ultima
composizione. E subito – di sicuro Dio lo punì per la sua si-
cumera – subito si impappinò e dovette fermarsi. Sorpreso
come se avesse visto un fantasma a mezzogiorno stirò le brac-
cia con un moto di stizza e riprese a suonare. Il pezzo non po-
teva più interessarmi, dopo quello che avevo passato, e com-
posto, a Vienna. Ma l’esecuzione! L’esecuzione! Come scris-
si a Titus, “gli Herz, i Liszt, gli Hiller, ecc., sono tutti degli ze-
ro in confronto a Kalkbrenner. Se Paganini è la perfezione
stessa, Kalkbrenner è il suo eguale ma in una tutt’altra ma-
niera. È molto difficile descriverti la sua calma, quel suo toc-
co che ti strega, l’uguaglianza senza pari della sua esecuzione
e quella maestria che s’afferma in ciascuna delle sue note. È
un gigante che mette a terra gli Herz, i Czerny, ecc., e di con-
seguenza anche me”.
Ero talmente fuori di testa da non poter parlare. Presi le
mani di Kalkbrenner e le strinsi con un calore che diceva più
di mille parole. E il maestro mi gratificò un’altra volta del suo
celebre sorriso. Parlammo ancora un poco. Poi, mentre mi
congedavo, Kalkbrenner mi disse: “Lasciatemi il vostro indi-
rizzo. Verrò a trovarvi”. Ero paralizzato dallo stupore. Ma
Kalkbrenner salì per davvero i cinque piani di boulevard
Poissonière 27, ed io tornai a trovarlo e suonai per lui altre
cose mie, evitando naturalmente lo Scherzo in si minore scrit-
to a Vienna che, ben lo sapevo, lo avrebbe lasciato scandaliz-
zato. Dopo avermi studiato ben bene affrontò un argomento
a cui doveva aver pensato fin dal primo momento: “Vi con-
fermo, caro Frédéric, l’impressione che ebbi di voi la prima
volta. Tuttavia”, aggiunse, profondamente meditabondo,
“permettetemi di dirvi che non... avete... che non avete...

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scuola. No, proprio non ce l’avete. Potete suonare in modo
delizioso, se siete ispirato, ma potete suonare mediocremen-
te, molto mediocremente, se lo Spirito della Musica si ritira
da voi, cosa che a me non capita mai”.
Ascoltavo, un po’ stupito e un po’ sospettoso. “Il fonda-
tore dell’arte pianistica, come sapete”, continuava intanto
Kalkbrenner, “è stato Clementi, che vive ancora ma che già
da parecchi anni ha esaurito il compito che la Storia gli ave-
va affidato. Io ho studiato con Clementi, dopo aver studiato
con Louis Adam, e ne ho sviluppato i princìpi, gli eterni
princìpi. La grande scuola rischia di morire con me. Voi pos-
sedete le qualità per diventarne l’erede. Ma non potrete mai
fondare una nuova scuola senza conoscere l’antica. Perciò vi
propongo”, e sorrise quasi timidamente, “di studiare con me.
In tre anni...”, ed esitò, “in tre anni...”.
“Tre anni?”.
“Tre anni saranno sufficienti perché acquisiate tutto il pa-
trimonio di cui sono in possesso. Vi impegno il mio onore.
Che ne dite?”.
“Non so, non so rispondere. Sono cosciente di quel che mi
manca, ma non voglio essere, scusate tanto, non voglio esse-
re un... un vostro imitatore”.
“Non si tratta affatto di questo, credetemi”.
“Non ho difficoltà a credervi. Ma non so. Devo parlarne
con i miei, che stanno finanziando il mio soggiorno all’estero”.
“Troppo giusto, non c’è fretta alcuna. Pensate alla mia
proposta, ne riparleremo”.
“Intanto, però, bisogna che io esordisca a Parigi, lo devo
ai miei e alla mia città, se lo aspettano da me senza fallo. E sto
cercando di organizzare qualcosa senza spendere al di là del-
le mie scarse disponibilità”.
“Capisco. È giusto. E se lo desiderate mi impegno a pren-
dere parte al vostro concerto e a chiedere al mio socio Pleyel
la disponibilità della sala e, ovviamente, dei pianoforti”.
Strinsi le mani di Kalkbrenner, mentre il cuore mi balzava
in gola come impazzito. Avevo vinto senza neppure dover

29
combattere. Ma quei tre lunghissimi anni mi guastavano l’e-
sultanza che provavo.

Dello zar di tutte le Russie, di come imparai un poco


alla volta a detestarlo, dell’opera nazionale polacca
e di un mio mancato appuntamento con il destino

Il mio primo incontro con l’arciduca Costantino fu seguito da


molti altri, specialmente dopo il matrimonio del suddetto con
una ragazza polacca, Joanna Grudzińska. Lo zar sapeva che,
archiviato il Congresso di Vienna e spartiti definitivamente i
territori polacchi fra Russia, Prussia e Austria, soci e sodali
autoritari e arcigni nella Santa Alleanza, ai polacchi non re-
stava oggettivamente alcuna speranza di riconquistare l’indi-
pendenza. Se avessero rialzato la cresta sarebbero stati inve-
stiti dalla Russia a est, dalla Prussia a ovest e dall’Austria a
sud, e né la Francia né l’Inghilterra avrebbero messo in mare
una flotta per soccorrerli dal nord, dal Baltico. Ma sapeva an-
che, lo zar, che nel 1794, in una situazione in gran parte ana-
loga, quei pazzi mentecatti di polacchi erano insorti e che sot-
to la guida del generale Kościuzko avevano dato del filo da
torcere ai russi. Perciò procedette con la tecnica sopraffina di
chi capisce che una goccia di miele fa catturare più mosche
di un secchio di fiele: enfatizzò la sua amicizia con il nostro
principe Adam Czartoryski, suo compagno di studi nell’ac-
cademia militare, concesse ai polacchi l’autogoverno, permi-
se che venisse eretto un monumento al principe Józef Ponia-
tozski, morto nella battaglia di Lipsia combattendo dalla par-
te dei francesi, tentò persino di far rientrare in patria il gene-
rale Kościuzko, e per l’incoronazione a Varsavia si presentò
alla dieta in costume polacco. E Costantino, per parte sua,
sposò Joanna. Però, se lo zar era il bonario piccolo padre, il
fratello era il pugno di ferro nel guanto di velluto, cosa di cui
i polacchi, un poco alla volta, ben s’accorsero.
Io venivo invitato spesso a palazzo: la mia presenza diver-

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tiva l’arciduca e le mie improvvisazioni calmavano le furie
omicide di quell’uomo collerico. Ero il suo Orfeo (modesta-
mente). Il 26 settembre 1818 conobbi la zarina madre, in vi-
sita nel liceo in cui insegnava mio padre: suonai per lei e le of-
fersi le mie due prime polacche, pubblicate da un piccolo edi-
tore locale. E nel maggio del 1825 lo zar in persona mi ascoltò
suonare nella Chiesa Evangelica uno strumento di nuova in-
venzione, l’Aelomelodicon, mezzo pianoforte e mezzo orga-
no, e mi regalò il prezioso anello con diamanti di cui ho già
detto en passant.
Vivevo in un mondo artificiale, la felice Polonia su cui fe-
licemente regnava Alessandro I. Cominciai a prendere co-
scienza di ciò a sedici anni, quando acquistai le Romanze e
Ballate di Mickiewicz, pubblicate quattro anni prima. Leg-
gendole tutte d’un fiato mi entusiasmai a tal punto che subi-
to ne comprai un’altra copia per spedirla come regalo di Na-
tale al mio amico Jan Białobłocki a Sokolowo. Per me le Ro-
manze e Ballate rappresentarono un capovolgimento di pro-
spettiva che mi fece capire la miseria del presente. Le glorie
dell’antico Regno di Polonia erano note a tutti, e tutti ne era-
no fieri. Ma l’esaltazione di un passato storico è sterile, gene-
ra solo nostalgia e malinconia. Il Giglio e Il Bardo di
Mickiewicz erano rifacimenti di testi di canzoni popolari e ri-
velavano un passato mitico in cui si annidava l’anima della na-
zione polacca. Questo lo capii forse più tardi, ma a sedici an-
ni lo intuii chiaramente. E l’ultimo verso di Romanticismo –
“Abbi un cuore e guardaci dentro” – mi colpì più di qualsia-
si altro insegnamento che avessi mai ricevuto.
Nel 1826 terminai con un anno d’anticipo il liceo. Mi
iscrissi al Conservatorio, non all’università, perché già avevo
deciso di diventare musicista, ma ancor prima di uscire dal li-
ceo avevo frequentato all’università il corso di letteratura po-
lacca, di stilistica e di estetica di Kazimierz Brodziński, che
militava nel movimento romantico. Imparai molte cose, e nel-
la caffetteria Dziurka conobbi alcuni intellettuali come Mo-
riz Mochnacki, Bohdan Zaleski, Stefan Witwicki, Severin

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Goszczyński, che non condividevano affatto la generale ac-
quiescenza nei confronti del giogo russo. Si stava lentamente
preparando l’insurrezione dell’autunno 1830, ed io vissi quel
momento aurorale in piena coscienza, pur senza rendermi
conto di dove sarebbe sfociato e, tanto meno, che si sarebbe
concluso in una catastrofe di immani proporzioni.
L’incontro con la Catalani di villaggio, di cui ho detto pri-
ma, mi aveva intanto aperto uno spiraglio verso una civiltà
musicale che il mio futuro maestro Elsner e il direttore del
Teatro dell’Opera Karol Kurpiński, autori di melodrammi
ispirati alla storia della Polonia, avevano ignorato. Il Król Ło-
gietek di Elsner e il Kazimierz Wielcki di Kurpiński, cele-
brando le glorie della Polonia, citavano la musica polacca co-
me un elemento di colore, pittoresco e grazioso, mentre le ba-
si del loro linguaggio erano tributarie della civiltà tedesca e,
soprattutto, dell’opera italiana. Io sapevo di dover operare
diversamente, ma non sapevo come.
Dal 1821 al 1826 composi pochi pezzi e fui veramente sod-
disfatto di uno soltanto, il Rondò in do minore che fu pub-
blicato a Varsavia e che più tardi ripubblicai a Parigi asse-
gnandogli il numero d’opera 1. Dall’estate del 1826, termi-
nato il liceo, presi a comporre intensamente. Tenevo conto sia
degli insegnamenti di Josef Elsner, slesiano di nascita e vien-
nese di studi, sia dello stile dei maggiori pianisti-compositori
dell’epoca, come Cramer, Hummel, Field, Moscheles, Kalk-
brenner. Non dimenticavo tuttavia di essere polacco. Da Pa-
rigi, nel giorno di Natale del 1831, scrivendo a Titus gli dissi:
“Tu sai quanto ho sempre cercato di esprimere il sentimento
della nostra musica nazionale e come ci sia in parte arrivato”.
Così era stato, nelle mie intenzioni. Ma nei finali dei miei due
concerti, nel finale delle Variazioni op. 2, nella Fantasia su
arie nazionali polacche op. 13, nel Krakowiak, in varie po-
lacche e mazurche, e un po’ meno nel Rondo à la Mazur op.
5 i miei “polacchismi” erano ancora legati allo stile interna-
zionale, come se indossassi il costume polacco senza essere
polacco e senza saper parlare il polacco. Però i miei lavori di

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pianista-compositore e le poche canzoni per canto e pia-
noforte che scrissi vennero considerati, da Elsner e dagli in-
tellettuali che frequentavo, alla stregua di araldi di una gran-
de svolta patriottica: dovevo diventare il creatore dell’opera
nazionale polacca.
Nacque così il grandioso disegno di mandarmi a Vienna,
e da Vienna in Italia, patria del melodramma, nell’ingenua
convinzione che lì mi sarei impadronito dei ferri del mestie-
re e che con quelli avrei realizzato l’opera capace di innalza-
re nell’universo mondo il nome della Polonia. Di più, della
nazione slava. Questo argomento venne affrontato con me
dal poeta Stefan Witwicki, del quale avevo musicato alcuni
versi.
“Caro Fryderyk”, esordì seriosamente mentre, seduti alla
Dziurka, stavamo sorbendo una cioccolata calda, “i vostri
concerti e le canzoni che avete composto di recente, facen-
domi l’onore di musicare i miei versi, mi hanno dato la cer-
tezza che un mio grande sogno sta per avverarsi. Io ho sem-
pre lodato gli sforzi del signor Elsner e del signor Kurpiński,
come ben sapete, e sono convinto che essi abbiano merito-
riamente cominciato ad esplorare un continente, un conti-
nente straordinariamente importante per la nostra povera pa-
tria, oggi vinta e prostrata”.
“Così è, ne sono convinto”, risposi. E poi, misurando le
parole: “Credo però che, essendo ancora giovani – Elsner ha
sessant’anni, Kurpiński quarantaquattro, se non erro –, cre-
do, dicevo, che trovandosi in un’età in cui le forze creative
permangono pressoché intatte, essi potranno verosimilmen-
te...”.
“Non state parlando di Beethoven e di Weber, caro il mio
ragazzo, pur con tutto il rispetto che meritano Elsner e Kur-
piński. Le loro qualità non sono quelle del genio, sono sol-
tanto quelle del buon talento e del buon professionismo”.
Non risposi, sapevo che aveva ragione: non ero riuscito a
distrarlo dal suo proposito assassino, che indovinavo benissi-
mo; e infatti la botta mi arrivò subito addosso. “Voi”, affermò

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con enfasi Witwicki, battendo il pugno sul tavolo, “voi siete
il genio di cui aspettavamo l’apparizione. Voi darete alla Po-
lonia l’opera nazionale, voi sarete la voce dei popoli slavi”. Mi
spaventai: “Non ditelo nemmeno per scherzo, amico mio. Io
sono solo un pianista, solo ed esclusivamente un pianista”.
“Ma che pianista”. Witwicki andava ormai sparato a tutta bir-
ra. “Ma che pianista, Chopinek! Certo, lo siete. Lo era anche
Mozart. Ma questo è solamente l’inizio, il prologo, direi per-
sino l’antefatto”. E batté di nuovo il pugno sul tavolo, facen-
do sobbalzare certi pacifici signori che lì vicino sorbivano il
caffè. “Voi, voi creerete...” “Tacete, vi scongiuro”. “Nemme-
no per sogno. Lo dico, anzi, lo scriverò”. “No!”. “Sì!”.
E davvero lo scrisse nel giornale nazionale: “Di già ascol-
tato e apprezzato a Vienna, ammirato da Hummel e Czerny,
egli può esser certo di farsi rapidamente un nome in Europa.
Fra meno d’un mese deve partire per l’estero. Gli auguri dei
suoi compatrioti l’accompagneranno ovunque. Speriamo che
nessuna capitale straniera lo trattenga per sempre ma che, au-
reolato di nuovi allori, egli ritorni nel seno della sua famiglia,
nella sua città natale, per consacrarsi alla gloria dell’opera po-
lacca, che può legare al suo nome grandissime speranze”. Lu-
singhiero, per me, molto lusinghiero. Tuttavia Witwicki, fo-
coso poeta e ardente sognatore, non fu buon profeta.

Delle marette che Kalkbrenner provocò involontariamente


a Varsavia e di come io navigassi perigliosamente
fra Scilla e Cariddi

La proposta di Kalkbrenner mi lasciò sulle prime interdetto.


Ma poi, ripensandoci e ripensandoci, quasi mi convinsi del-
l’opportunità di accettarla. In quel momento non avevo an-
cora rinunciato del tutto alla tradizionale carriera del piani-
sta-compositore, del campione che gira il mondo presentan-
do i suoi lavori per pianoforte e orchestra, che ha una vasta
schiera di allievi, pubblica i suoi studi e il suo metodo e i suoi

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pezzi di intrattenimento, diventa eventualmente socio in una
fabbrica di pianoforti in cui investe i suoi guadagni e la fa pro-
gredire mettendo a frutto le sue esperienze di virtuoso, e pas-
sa infine alla Storia come Caposcuola.
Era questa la prospettiva in cui mi ero mosso fino al mo-
mento in cui ero partito da Varsavia. I mesi passati a Vienna
l’avevano resa per me obsoleta, ma ciò non mi era ancora del
tutto chiaro, e quindi la proposta di Kalkbrenner mi era par-
sa, riflettendoci sopra, piena di lusinghe. Perciò, scrivendo in
novembre al mio amico Norbert Alfons Kumelski, dissi:
“Penso di restare qui tre anni. Ho forti legami con Kalk-
brenner, il primo pianista d’Europa. Ti piacerebbe certa-
mente. È il solo al quale non sono degno di spolverare i san-
dali. Gli Herz, ecc., sono, te l’assicuro, dei semplici fanfaro-
ni; mai suoneranno meglio di lui”.
Comunicando la notizia ai miei mi mostrai dunque assai
possibilista, quasi convinto. Apriti cielo! Mio padre, dopo
aver consultato Elsner, mi scrisse una lettera che era un ca-
polavoro di paterna diplomazia:

L’amicizia che ti testimonia il signor Kalkbrenner è per te lu-


singhiera ed io, come padre, ho verso di lui ogni possibile obbliga-
zione. Ma, mio buon amico, io non mi capacito di come con le tue
capacità, che dice di aver notato, egli creda che ci vogliano ancora
tre anni, sotto i suoi occhi, per fare di te un artista e per darti una
scuola. Non sono nella condizione di capire quest’ultima parola,
sebbene ne abbia chiesto il significato al tuo vero amico Elsner. Tu
sai che ho fatto tutto quello che dipendeva da me per assecondare
le tue disposizioni e sviluppare il tuo talento, che in nulla ti ho con-
trariato; tu sai inoltre che il meccanismo del suonare t’ha portato
via poco tempo e che il tuo spirito è stato occupato più delle tue di-
ta. Se altri hanno passato intere giornate a far muovere una tastie-
ra, tu hai di rado passato un’intera ora ad eseguire le opere degli al-
tri. Considerato tutto ciò, il termine di tre anni è al di sopra del mio
comprendonio. Tuttavia non voglio contrariarti in niente, soltanto
tu mi farai il piacere di differire ancora la decisione dopo aver ben
considerato, ascoltato e riflettuto. Non mi sentirai ritornare su que-

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sto argomento. Spero che al momento in cui ti scrivo avrai già ri-
cevuto il piccolo rinforzo che t’ho mandato.

Equanime e generoso come sempre, senza dubbio: il mio


straordinario padre non si smentiva mai. Tuttavia quell’ac-
cenno al “piccolo rinforzo” era per me come una coltellata in
pieno petto: quanti altri rinforzi, e non piccoli, ci sarebbero
voluti durante tre anni di studio? Izabela, sorella minore, mi
manifestò soprattutto la prima impressione che la mia lettera
aveva fatto in famiglia:

Ludwika ed io non abbiamo potuto dormire dalla contentezza.


Ma la nostra immaginazione lavorava alla grande. Mentre rilegge-
vamo più volte ogni frase ci sembrava di vedere in chi t’ha offerto
la sua protezione un uomo di valore. Eravamo felici di saperti nel-
le sue mani. Ma ogni gioia deve ridimensionarsi quando, come la
nostra, non riposa su alcuna base veritiera. Non puoi immaginare
quanto queste espressioni, fratello e padre, superiorità morale,
m’abbiano interessato. Mi figuravo quest’uomo come un padre,
non come Papà ma come colui che, con i suoi consigli, ti avrebbe
dato l’orientamento verso il tuo avvenire. Vedevo, o piuttosto ca-
pivo che sarebbe stato per te un fratello su un pari grado di istru-
zione. Ma queste illusioni, pur rallegrandomi, non mi impedivano
di avere dei dubbi, suscitati da quei tre anni fatali. Per riconoscere
e apprezzare un talento come il tuo bisogna essere di molto supe-
riori a te. Tu parli di differenze ed io non ti contesto nulla, ma cre-
do che tu arriverai a farle sparire in meno di tre anni. Tuttavia ciò
che ti scrivo non è un consiglio perché non te ne darei mai; ho vo-
luto soltanto dirti quale influenza ha avuto sul nostro spirito la tua
lettera.

La lunghissima lettera di Ludwika, sorella maggiore, ri-


percorreva passo per passo tutto il dramma:

Io capisco molto bene che la mia lettera d’oggi possa causare in


te un po’ di fastidio perché sono in parte d’opinione diversa dalla
tua; ed io mi scuso se, per questo motivo, tu dovessi provare qual-
che dispiacere. Al primo momento la proposta di Kalkbrenner ci

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ha fatto così tanto piacere che, appena letta la lettera, mi sono mes-
sa a scriverti, sebbene fossero già passate le nove. Volevo annun-
ciarti con entusiasmo che nessuno di noi s’opponeva alla realizza-
zione di questi progetti e che, di comune accordo, ti mandavamo il
desiderato sì. Mi stupivo persino che tu avessi potuto credere alla
eventualità d’un rifiuto. La mia immaginazione mi faceva vedere in
lui un uomo come io vorrei che, con l’aiuto di Dio, fossero tutti. Ve-
devo la sua nobiltà, la sua superiorità morale, e in una parola (se si
fosse trattato di me), avrei firmato un patto con lui, l’avrei firmato
pure per te senza esitazione.

La mia adorabile sorella evocava, senza accorgersene, una


specie di patto col diavolo. Ma adorabile, e generosissima, era
per davvero: né lei, né Izabela erano ancora sposate, e il co-
sto dei miei studi a Parigi avrebbe limitato la disponibilità
economica di mio padre al momento del loro matrimonio.
Tutt’e due erano disposte a sacrificarsi per me. Mi vennero le
lacrime agli occhi. Ludwika così proseguiva:

Tuttavia siamo andati il giorno dopo a trovare il buon Elsner,


che non solo ti vuole bene forse più di ogni altra persona al mon-
do, ma che desidera per te la gloria ed una scienza approfondita.
(Mi esprimo senza dubbio male, mio caro, ma tu mi perdonerai).
Ebbene! Dopo aver ascoltato la lettura della tua lettera non s’è mo-
strato come noi contento della proposta. Scuotendo la testa si è
messo a gridare: “Ecco di già l’invidia. Tre anni!”. Allora, molto
meravigliata del fatto ch’egli fosse di avviso contrario al nostro, gli
parlai delle qualità di Kalkbrenner e del suo amore per l’arte, gli
lessi più volte la frase della tua lettera nella quale tu dici che nes-
sun interesse spingeva Kalkbrenner, ecc. ecc. Ma non servì a nulla.
Fece una smorfia e disse che ti avrebbe scritto. Poi aggiunse: “Io
conosco Fryderyk, è buono, non è vanitoso, ha poca fretta di mi-
gliorare il suo stato e lo si domina facilmente. Gli scriverò per dir-
gli come io interpreto tutto ciò”. In effetti, questa mattina ci ha por-
tato la lettera che ti mando ed ha continuato ad intrattenerci su
quest’affare. Noi, che giudichiamo le persone con la semplicità del
nostro cuore, pensavamo che Kalkbrenner fosse il più onesto degli
uomini. Elsner non è del tutto di quest’avviso. Ci ha detto: “Ha vi-

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sto il genio di Fryderyk e già teme di essere sopravanzato da lui. Per
questo vuole tenerlo sotto tutela per tre anni al fine di fermare quel-
lo che la natura farebbe da sola. Kalkbrenner, per la sua costitu-
zione morale, è un vero italiano”.

Italiano? Gli italiani sono così astutamente doppi? Non


mi sembra che quelli a me noti, a cominciare da Soliva, da
Malfatti e da Rossini, rispondano a questo cliché. Il succo del
ragionamento di Elsner era però un altro:

Il signor Elsner non vuole vedere in te solamente un concerti-


sta virtuoso, un compositore per pianoforte e un pianista celebre,
perché queste sono le cose più facili e di minor valore. Vuole che
tu scriva delle opere, desidera vederti raggiungere il fine verso il
quale ti spinge la natura e per il quale ti ha creato. Il tuo posto è fis-
sato fra Rossini, Mozart, ecc. Il tuo genio non deve sedersi davanti
al pianoforte da concerto, tu devi immortalarti con le opere. Elsner
dice che, educato come sei, superiore forse, malgrado la giovane
età, a tutti gli autori celebri di oggi, devi con un tale genio aspirare
alle cime dove il tuo genio ti spinge e non seguire le altre.

Ludwika continuava ancora per pagine e pagine, cara


creatura votata soltanto al mio bene, riprendendo più volte
gli stessi ragionamenti in una maniera che manifestava chia-
ramente, e in modo commovente, l’agitazione del suo animo
e il suo infinito amore per me. Dietro le lettere delle mie so-
relle c’era di sicuro l’attenta regia di nostro padre. Ammirai
la sua saggezza. Ma mentre mi accingevo ad aprire l’epistola
di Elsner era già maturata in me la risposta.

Di alcune belle cantanti che mi deliziarono la vista,


oltre che l’udito, e del mio gusto per il “travesti” (femminile)

Se qualcuno leggerà questi miei scarabocchi – forse no, ma


non si può mai dire –, se qualcuno mi leggerà si chiederà, co-
me si chiedevano e mi chiedevano i miei amici se, avendo di-

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mestichezza con molte cantanti, con una o con più d’una di
loro fosse scoccata qualche scintilla. Konstancja era cantan-
te, o più precisamente allieva della scuola di canto, ma il mio
amore per lei fu profondo e, come ho già detto, non glielo fe-
ci mai neppure sospettare. Nei primi tempi della mia resi-
denza a Parigi conobbi diverse canterine che, come scrissi a
Titus, avrebbero tanto voluto gorgheggiare con me in duetti
non canori. Io so accompagnare i cantanti. Al pianoforte, per
lo meno. A Varsavia fui quasi l’accompagnatore ufficiale del-
la classe di canto di Carlo Soliva (Konstancja era una delle sue
allieve). A Vienna, in casa di Giovanni Malfatti, il medico cu-
rante di Beethoven, mostrai tutta la mia abilità accompa-
gnando a memoria il tenore Franz Wild in un’aria dell’Otel-
lo di Rossini. E quante volte ho accompagnato Delphine,
sempre ammirandone non solo le angeliche grazie ma anche
la voce, tutt’altro che angelica, anzi, intinta nel peccato e co-
me il peccato attraente. Dicono che sia stata la mia amante.
Ha avuto più d’un amante, Delphine, ma tra questi non c’è il
noto Chopin che però l’ama, che l’ama molto, quella creatu-
ra discesa dal cielo. Non proprio platonicamente, se devo es-
sere sincero con me stesso. Direi eroticamente ma non ses-
sualmente.
Ho accompagnato la bella Laure Cinti-Damoreau, gran-
dissima cantante e grande attrice prediletta da Rossini e da
Auber, che fu tanto gentile da prender parte al mio concerto
del 1841 cantando le due arie della Rose de Péronne di Adam.
Per quel concerto, in verità, avrei voluto avere Pauline Viar-
dot, disgraziatamente impegnata a Londra. Pauline quasi si
offese, e un po’ per scherzo e un po’ sul serio si sfogò scri-
vendo ad Aurore, cioè a George: “Mi incanta, che il bravo
Chip-Chip si sia deciso a farsi sentire, ma sono desolata di
non poter avere una piccola parte nel suo programma. Che
malvagio: perché aspetta che io sia assente, per dare un con-
certo? È un brutto tiro, quello che mi gioca, un brutto tiro
che bisognerà riparare prima o poi. Complimenti e cari salu-
ti agli amici. Io tiro i biondi capelli del biondo Chip, io acca-

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rezzo i lunghi baffi di Maurice ed abbraccio Solange, il pic-
colo mostro”.
Pauline non è affatto bella, secondo me, solo il giovane
sventato Maurice, figlio d’Aurore, ne è pazzamente innamo-
rato. Ella non è incantante, come scrissi una volta, in italiano,
di una ragazza che a momenti... Ma lasciamo perdere. Non è
incantante, Pauline. Se però togliamo l’“in” e guardiamo a
quel che resta, accipicchia! Brava, Pauline, brava quanto la so-
rella Maria Malibran, che viceversa era anche una bellezza
sfolgorante. Peccato che sia morta così giovane, povera Maria.
Con la moda di oggi la venustà delle donne si rivela nel vi-
so, nella capigliatura, nelle orecchie, nelle braccia, nelle ma-
ni, nel busto e, se la gonna scivola o viene fatta scivolare, nei
piedini. Ma dalla vita alle caviglie, con tutto quel tripudio di
sottane, è come se la bellezza muliebre fosse calata nel basa-
mento d’un monumento. Così è, disgraziatamente. Tranne
che, ballerine a parte, per qualche eccezione. E Maria Mali-
bran faceva eccezione perché tra i suoi ruoli preferiti c’era il
Romeo dei Capuleti e Montecchi del povero Bellini che l’a-
mava così tanto e che morì anche lui troppo giovane. Appa-
rendo come Romeo in vesti maschili e in costume rinasci-
mentale, con le belle gambe strettamente fasciate nelle calze
e l’orlo della casacca che le arrivava soltanto fino a mezza co-
scia... Che spettacolo era, rimirarla tutta allungata presso la
tomba di Giulietta, a terra, mentre protesa verso il corpo del-
l’amata cantava “Ah, se tu dormi svegliati”! Figura ed espres-
sione vocale, che spettacolo, che spettacolo, ripeto! Anche
Giuditta Grisi, che fu Romeo a Parigi dopo la Malibran, era
però tutt’altro che male, a vedersi e a sentirsi.
Prima che da quelli della Malibran e della Grisi io ero ri-
masto fulminato a Vienna dal travesti di Sabine Heinefetter,
che venne poi anche a Parigi e che fu la prima deliziosa Adi-
na nell’Elisir d’amore di Donizetti. Scrissi di lei a Jan Matu-
szyński, sfoggiando – ero giovane – un giudizio critico da
esperto su questa cantante che come donna mi piaceva mol-
tissimo: “Wild e la Heinefetter sono gli unici pilastri dell’O-

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pera di Vienna, mentre il resto è miserevole e del tutto inde-
gno d’una tale città. Tuttavia la signorina Heinefetter è quasi
del tutto priva di sentimento. Una voce come non si arriverà
mai di sicuro a sentirne una simile”, a Parigi, si capisce, le
avrei sentite, “tutto è cantato bene, ogni nota tenuta esatta-
mente, purezza, scioltezza, portamenti, ma tutto ciò è così
freddo che quando sono seduto nella prima fila quasi mi si
gela il naso. Bella a vedersi in scena, soprattutto in travesti.
Nella Clemenza di Tito di Mozart è stata un bel Sesto”. Con
Sabine nacque una schietta amicizia quando, nel 1835, ci tro-
vammo a partecipare insieme ad un concerto a Parigi. Il mio
allievo Gutmann, che la conosce, mi dice che parla sempre di
me con grande simpatia.
In un certo senso io sono un dongiovanni, un dongiovan-
ni del flirt, e non per nulla sono stato attirato dal duettino “Là
ci darem la mano” al punto di scriverci delle variazioni.
Un’altra cantante, tanto graziosa da perderci la testa, era la
giovanissima Francilla del Castillo Göhringer, figlia adottiva
– più tardi, ma io equivocavo – del pianista-compositore
Johann Peter Pixis. Avevo conosciuto Pixis e pupilla duran-
te il viaggio da Vienna, rividi lui a Parigi. Mi invitò ad andar-
lo a trovare. Sapevo che era ombroso, e l’avevo detto a Titus:
“Pixis ha la massima stima di me – sia a causa del mio modo
di suonare, sia perché è geloso: la sua giovane ragazza, effet-
tivamente, si dà da fare più con me che con lui”. Quando an-
dai a trovarlo mi capitò quello che mi affrettai a riferire a Ti-
tus: “Sappi che sotto il suo tetto vive una graziosissima pic-
cola signorina di quindici anni ch’egli si propone (dice lui) di
sposare. Ne avevo fatto la conoscenza a Stoccarda. Appena
arrivato qui, Pixis mi invita ad andare da lui senza dirmi (per-
ché forse ci sarei andato prima) che la sua signorina – del re-
sto non pensavo più a lei – l’aveva accompagnato a Parigi.
Ora, ecco che incontro la pupilla sulle scale. Lei manifesta la
più gran gioia, m’invita ad entrare dicendo che non c’era in
ciò alcun male. Ed aggiunge: ‘Il signor Pixis non c’è, riposa-
tevi, non tarderà’, ecc. ecc. (una sorta di tremore ci prende

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tutt’e due). Mi scuso, sapendo quanto il vecchio sia geloso, e
le dico che ritornerò un’altra volta, ecc. E mentre del tutto in-
nocentemente parliamo così, con dolcezza, sulla scala, ecco
che arriva Pixis. Punta diritto lo sguardo attraverso i suoi
grossi occhiali per vedere chi, là in alto, parla alla sua bella.
Si affretta, poveretto. Subito si ferma davanti a me dicendo
bruscamente: ‘Buon giorno’. Poi, voltandosi verso di lei, ag-
giunge ‘Che fate qui?’ prima di opprimerla con un’intermi-
nabile geremiade mischiata d’imprecazioni teutoniche per
aver osato ricevere in sua assenza un giovanotto”.
Avrei voluto aiutare Francilla, che se ne stava lì tutta mor-
tificata. Ma un diavoletto mi suggerì, per gettare un po’ di pe-
pe sulla ferita di Pixis, di comportarmi da provocatore. Co-
me dissi a Titus: “Sorridendo (e con aria negligente), feci no-
tare, come per approvare Pixis, che Francilla era uscita dalla
camera vestita leggermente, con una semplice vestaglia di se-
ta. Alla fine il vecchio si calma, mi riconosce, mi abbraccia e,
non sapendo cosa far di meglio mi fa entrare nella sala”. Ma
un rovello gli torceva le viscere: lei in veste da camera sulle
scale, insieme con me. Ero appena arrivato, o mi stavo con-
gedando? Povero Pixis! “Senza dubbio paventava”, dissi a
Titus, “che, contrariato per non averlo trovato, io mi fossi la-
sciato andare a giocargli un qualche brutto scherzo in sua as-
senza o, piuttosto, a giocarlo alla sua pupilla. Alla fine mi ac-
compagnò fino alle scale ma, accorgendosi che ero pur sem-
pre allegro (in effetti non potevo dissimulare il mio diverti-
mento: era la prima volta che incontravo qualcuno che mi
supponeva capace di qualcosa di simile), siccome vide dun-
que che avevo l’animo pieno di gioia, Pixis entrò dal porti-
naio e lo sentii chiedere se era molto tempo che ero salito, ecc.
Da allora Pixis non ha abbastanza lodi per vantare il mio ta-
lento presso gli editori e in particolare presso Schlesinger. E
costui mi ha consigliato di scrivere delle variazioni su temi del
Robert le Diable, questo Robert che ha comperato da Meyer-
beer per 24.000 franchi! Che ne dici? Io – un seduttore!”.
Beh!, a Pixis, che alla fin fine era un gran bravuomo, dedicai

42
la mia Fantasia su arie polacche op. 13, ...dopo che lui mi ave-
va dedicato le sue Variazioni per pianoforte e orchestra.
La prima cantante con la quale feci un duettino da Eterno
Fidanzato fu la celeberrima Henriette Sontag, soprano scelto
da Beethoven in persona per la Nona Sinfonia e per la Missa so-
lemnis, nonché da Weber per l’Euryanthe. Henriette – ero au-
torizzato a chiamarla così – venne a Varsavia per concerti nel-
la primavera del 1830 dopo essere diventata, senza che lo si sa-
pesse, la contessa Rossi (nobiltà piemontese, non proprio da
Gotha; ma dopo il matrimonio lei si era comunque ritirata dal-
le scene, perché così era di prammatica). La ascoltai, mi piac-
que immensamente (a parte la Catalani, era la prima grande
cantante che sentivo), le fui presentato, mi trovò simpatico e
mi invitò a farle visita in albergo. In albergo e, nota bene, nel-
la sua camera... per mettere a punto delle variazioni su una
dumka ucraina composte per lei dal principe Radziwiłłl e che
non si adattavano del tutto alla sua voce. Non era precisamen-
te bella, ma charmante al massimo grado, charmantissima, e
campionessa di coquetterie, di coquetterie spinta fino al pun-
to in cui diventa naturale perché non si può credere che sia
possibile raggiungere una tale naturalezza senza conoscere a
fondo tutte le risorse della coquetterie.
Subito subito scrissi a Titus: “Non puoi immaginare quan-
to piacere mi ha dato conoscerla più da vicino, cioè nella sua
camera, su un canapé, perché non ci permettemmo niente di
più con quel ‘messaggero degli dei’, come lo chiamano quel-
li che ne vanno pazzi”. Io amavo Konstancja, però il fascino
di una donna di gran classe esercitava su di me un’irresistibi-
le attrattiva. Come dicevo prima, non per nulla avevo scelto
il duetto “Là ci darem la mano” per farci sopra delle varia-
zioni... Tuttavia, quando Henriette cantò per il granduca Co-
stantino non l’accompagnai al pianoforte e con mio grande
dispiacere non assistetti neppure al concerto. Tutti si meravi-
gliarono, ben pochi capirono che da un pezzo avevo cessato
di vivere nella felice Polonia su cui felicemente regnava Ales-
sandro I.

43
Di quello che un grosso critico parigino scrisse su di me,
un po’ prendendoci e un po’ no, e di come scivolai senza
graffiarmi fra gli scogli di Scilla e Cariddi

Il concerto del 26 febbraio 1832, il concerto che dovevo dare


per impormi a Parigi, anche se ormai mi stavo avviando per
un’altra strada, fu utile per un solo motivo, perché François
Fétis, critico influentissimo, lo recensì positivamente. Fétis,
che mi prese subito in simpatia, era un tipo abbastanza biz-
zarro. Ne parlai con Titus: “Fétis, che conosco e che può in-
segnare molte cose, abita in periferia e viene a Parigi solo per
dare delle lezioni, altrimenti, a causa dei debiti che i suoi gua-
dagni con la sua Revue Musicale non potrebbero coprire, sa-
rebbe da lungo tempo internato a Sainte-Pélagie. Bisogna sa-
pere che a Parigi i debitori non possono essere arrestati fuo-
ri dal loro domicilio, e perciò Fétis ha lasciato il suo abituale
alloggiamento per la periferia, dove la legge, per un po’ di
tempo, non può niente contro di lui”.
Io ammiravo Fétis. Un’immensa erudizione, una penna
brillante, il coraggio di caricarsi di debiti per pubblicare una
rivista musicale che orientava il gusto dei parigini e non solo
dei parigini, anche se non sempre nel modo che piaceva a me.
Ad esempio, fra Liszt e Thalberg lui si mise dalla parte del se-
condo, che io avevo conosciuto a Vienna, con il quale ero in
ottimi rapporti personali e che prendeva le decime come io le
ottave e suonava splendidamente, ma che non era proprio il
mio uomo: faceva il piano con il pedale invece che con le di-
ta ed era talmente blasé da portare bottoni da camicia intar-
siati di brillanti. Thalberg fu molto gentile con i miei, e pieno
di riguardi, quando andò a Varsavia, tanto che mio padre mi
chiese di ricambiare: “Forse vincerai la tua ripugnanza; ti as-
sicuro che ha parlato molto bene di te”. Non lo mettevo in
dubbio, ma Sigismond proprio non era il mio uomo (chi lo è?
Un tempo lo era Liszt, oggi ammiro di più Moscheles, cam-
pione della vecchia scuola).

44
Ritorno al mio concerto. Fétis lo recensì il 3 marzo nella
sua Revue Musicale dicendo:

Ecco qui un giovanotto che, abbandonandosi alle sue impres-


sioni naturali e non prendendo alcun modello ha trovato, se non un
rinnovamento completo della musica pianistica, per lo meno una
porzione di ciò che cerchiamo invano da molto tempo, cioè l’ab-
bondanza di idee originali che non si trovano da nessuna parte. Non
si può dire che il signor Chopin sia dotato d’una organizzazione po-
tente come quella di Beethoven, né che abbia nella sua musica quel-
le forti concezioni che si rilevano in quel granduomo. Beethoven ha
composto musica per pianoforte, ma io parlo qui della musica dei
pianisti, ed è in paragone con quella che io trovo, nelle ispirazioni
del signor Chopin, il segnale di un rinnovamento di forme che potrà
esercitare in seguito molta influenza su questa parte dell’arte.

Ho già detto che non suonavo i concerti di Beethoven. Ave-


vo studiato a Varsavia il Concerto in re minore di Kalkbren-
ner, avevo eseguito in pubblico, dopo averlo studiato tutto
quanto, il solo primo movimento del Concerto in sol minore
di Moscheles, e al mio esordio da bambino, il 24 febbraio 1818
nel palazzo del principe Radziwiłł, avevo eseguito il Concerto
in mi minore di Adalbert Gyrowetz. Avevo eseguito anche il
Concerto n. 3 di Ries e il Concerto n. 5 di Field. Conoscevo ed
apprezzavo i Concerti in la minore e in si minore di Hummel
e il Concerto in la bemolle di Field. Da tutti questi, tranne che
da Gyrowetz, avevo preso qualcosa, da Beethoven nulla, e
quindi Fétis mi collocava giustamente fra i pianisti-composi-
tori. A Vienna mi ero avvicinato sì a Beethoven, ma l’ombra di
questo gigante non appariva ancora nei pezzi che presentavo
a Parigi. Tutto considerato, la prima parte della recensione di
Fétis mi piacque molto e pensai che a Varsavia l’avrebbero let-
ta spalancando gli occhi dallo stupore e dalla gioia.
Non mi dispiacque neppure il seguito. Eccolo:

Il signor Chopin ha fatto ascoltare nel concerto che ha dato il


26 del mese passato nei saloni dei signori Pleyel e Soci un Concer-

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to, era quello in mi minore, che ha provocato nel suo uditorio tan-
to stupore quanto piacere, sia per la novità delle idee melodiche
che per i passaggi, le modulazioni e la disposizione generale del
pezzo. C’è dell’anima nei suoi canti, c’è della fantasia nei passi e c’è
dell’originalità nell’insieme. Troppo lusso nelle modulazioni, di-
sordine nel collegamento delle frasi, sicché sembra talvolta di sen-
tire un’improvvisazione piuttosto che della musica scritta, tanti so-
no i difetti che si mescolano alle qualità che ho appena segnalato.
Ma questi difetti appartengono all’età dell’artista: spariranno quan-
do sarà arrivata l’esperienza. Se il seguito dei lavori del signor Cho-
pin risponderà ai suoi inizi non si può dubitare che egli ne ricavi
una reputazione brillante e meritata.

Questo per il compositore. E il pianista? “Come esecutore”,


proseguiva Fétis, “questo giovane artista merita pure degli elo-
gi. La sua esecuzione è elegante, facile, graziosa, ha della bril-
lantezza e della nitidezza. Cava dallo strumento poco suono ed
assomiglia, sotto questo aspetto, alla maggior parte dei pianisti
tedeschi”. Non so proprio quali pianisti tedeschi fossero capi-
tati sotto le orecchie di Fétis. A Vienna avevo ascoltato nel 1829
Leopoldine Blahetka, che aveva solo un anno meno di me... A
proposito, come ho fatto, prima, a dimenticare di includerla tra
i miei flirt? Poco più d’un mese dopo essere ritornato a Varsa-
via scrivevo a Titus: “Tu capirai benissimo la necessità d’un
nuovo viaggio. Non credere che io desideri intraprenderlo per
rivedere la signorina Blahetka, la giovane graziosa ragazza che
suona bene e di cui ti ho parlato, perché, forse per mia disgra-
zia, ho già incontrato il mio ideale, che servo fedelmente da sei
mesi senza averle parlato dei miei sentimenti”. Leopoldine, che
ha sposato un francese e che adesso abita a Boulogne-sur-Mer,
mi incantò quando la vidi da vicino. Prima, quando l’avevo sen-
tita solo suonare, no. E alla mia famiglia, parlando dell’impres-
sione che avevo fatto sul pubblico, avevo detto: “Secondo l’o-
pinione generale la mia esecuzione è stata di sonorità troppo
debole, o piuttosto troppo delicata per ascoltatori che come
quelli di qua sono abituati a sentire gli artisti sfondare il pia-
noforte. Mi aspetto di trovare questo rimprovero nei giornali,

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tanto più perché la figlia d’uno dei critici pesta terribilmente
sul suo strumento. Questo non ha nessuna importanza. È im-
possibile che non ci sia qualche ‘ma’, ed io preferisco quello al
sentirmi dire che suono troppo forte”.
Non so, ripeto, da dove ricavasse le sue impressioni il mio
amico Fétis. Il quale dava però per già scontato per me il ri-
medio: “Ma lo studio che di questa parte della sua arte egli fa
sotto la direzione di Kalkbrenner non potrà mancare di dargli
quella importante qualità, da cui dipende il nerbo dell’esecu-
zione e senza la quale non si possono modificare gli accenti del-
lo strumento”. Anche a Vienna un giornale aveva scritto che
“nell’esecuzione del giovane artista si è notato qualche difet-
to, segnatamente l’assenza di accento per annunciare l’inizio
delle frasi musicali”. Un mio amico aveva inoltre sentito una
distinta signora che diceva: “Che peccato, il ragazzo non ha
presenza scenica”. Ma io avevo scritto ai miei dicendo: “Ho
conquistato i sapienti e i sensibili”. Insomma, in realtà stavo
tentando di intraprendere un mestiere per il quale mi ero sì
preparato, ma per il quale non ero tagliato. Lo capii dopo il
concerto del 26 febbraio a Parigi. E, in seguito, suonai con or-
chestra tre volte soltanto: con l’orchestra del Conservatorio
sotto la direzione di Habeneck, come ho detto, a Parigi in una
serata di beneficenza a favore degli esuli polacchi, e a Rouen,
lontano da Parigi, per compiacere un amico polacco.
La proposta di Kalkbrenner, che Fétis dava per passata in
giudicato, aveva suscitato un vespaio non solo a Varsavia ma
anche fra le mie conoscenze parigine. Per me la questione non
era se Kalkbrenner, invidioso della magnitudine dei miei ta-
lenti, volesse azzannarmi in un sol boccone e masticarmi per
tre anni, bloccando il mio sviluppo naturale, o se volesse per
lo meno aggregarmi al suo carro trionfale. La questione, per
me, era se la nuova prospettiva che mi si era aperta a Vienna
come compositore e se le ricerche e le relative scoperte che co-
me pianista stavo facendo con gli studi che pubblicai più tar-
di dedicandoli a Liszt rendessero o no compatibile una qual-
che forma di alunnato presso Kalkbrenner. Sulla buonafede

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del quale non ebbi mai dei dubbi, come scrissi a Titus il 26 di-
cembre: “Egli trova che ci sia del carattere nelle mie composi-
zioni e afferma che sarebbe proprio un peccato se non mi mo-
strassi all’altezza delle promesse. Così dunque, se tu fossi qui,
mi diresti: ‘Impara, ragazzo mio, finché sei in tempo’. Molti me
l’hanno sconsigliato. Essi pensano che io sia capace di suona-
re altrettanto bene di Kalkbrenner e ritengono che egli sia
mosso dal suo orgoglio e che voglia poter dire che sono allie-
vo suo, ecc. ecc. Non sono altro che facezie; sebbene tutti pro-
vino qui la più grande stima per Kalkbrenner, nessuno può
sopportare l’uomo perché non fraternizza affatto con il primo
imbecille che si presenta. Come è vero che ti voglio bene, lui è
al di sopra di tutto quello che ho sentito fino ad ora”.
Kalkbrenner non si risentì affatto per il mio sostanziale ri-
fiuto, e i nostri rapporti rimasero cordiali. Io gli dedicai il Con-
certo in mi minore, lui scrisse delle variazioni sulla Mazurca in
si bemolle maggiore che apre la mia opera 7, alcuni suoi allie-
vi vennero a studiare con me senza rompere con lui. Non ci sia-
mo più visti di frequente ma siamo rimasti amici. E mi dispia-
ce che il mio implacabile padre abbia continuato a dipinger-
melo come un farabutto da cui devo guardarmi. Certo, ai miei
allievi non faccio studiare le musiche di Kalkbrenner, né quel-
le di Herz, altrettanto famose, mentre ritengo utili, e faccio stu-
diare, quelle di Cramer e di Moscheles e di Field, e soprattut-
to quelle di Hummel. Così la vedo io, sul contributo che al pro-
gresso della musica pianistica hanno dato i grandi pianisti-
compositori della generazione che precede la mia, e così mi
comporto. Il tempo dirà se ho visto giusto o no.

Di come il mio vecchio maestro cercò di impartirmi


una lezione di vita e di patriottismo, e di un certo compito
storico che rifiutavo di caricarmi sulle spalle

Sapevo benissimo quel che avrei trovato nella lettera di Els-


ner: le stesse cose, dette in tono dottorale, che in tono esalta-

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to mi aveva scritto Witwicki mentre ancora mi trovavo a
Vienna. Quel bel matto, rimasto insaziato anche dopo l’arti-
colessa pubblicata nel giornale nazionale, mi scriveva:

Voi dovete assolutamente essere il creatore dell’opera polacca;


sono profondamente convinto che potreste diventarlo e che come
compositore polacco potreste aprire al vostro talento una via estre-
mamente ricca che vi porterebbe ad una rinomanza poco comune.
Purché abbiate sempre in vista la nazionalità, la nazionalità e an-
cora la nazionalità. Questa è una parola pressoché vuota di signifi-
cato per un artista ordinario, ma non per un talento come il vostro.
C’è una melodia natale come c’è un clima natale. Le montagne, le
foreste, le acque e le praterie hanno la loro voce natale, interiore,
sebbene non ogni anima la colga. Sono persuaso che l’opera slava,
chiamata in vita da un vero talento, da un compositore pieno di
sentimenti e di idee, brillerà un giorno nel mondo musicale come
un nuovo sole e che forse s’innalzerà persino al di sopra degli altri
ed avrà tanta melodia quanta ne ha l’opera italiana, ancora più di
sentimento e incomparabilmente più di pensiero.

Mancava solo il pugno sul tavolo.


La melodia slava... Io mi ero impegnato sulla melodia del-
la Mazovia, e non era stato un compito facile, sebbene mi sem-
bri alla fine di aver creato qualcosa di non troppo lontano da
quanto volevo. Ma Witwicki, da esaltato poeta nazionalista e
da mistico panslavista, volava più in alto: “Fareste bene, se an-
drete in Italia, a fermarvi per un certo tempo in Dalmazia e in
Illiria per conoscere i canti di questo popolo fratello, e pure in
Moravia e in Boemia”. Ma mi ci vedeva, Witwicki, a percorre-
re in barchetta le coste della Dalmazia, abitate peraltro da po-
polazioni veneziane? E l’Illiria? Il mio delirante amico aveva
presente la divisione amministrativa creata da Napoleone,
quella delle Province Illiriche: ne avevamo parlato nei nostri
incontri nella caffetteria. Nel 1830 quel territorio, cioè la
Croazia, era tenuto in pugno, com’è ancora, dall’Austria.
Quanto sarebbero stati contenti, a Vienna, se avessi chiesto un
passaporto per andare a raccogliere i canti slavi fra i croati! E

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perché mai la Boemia e la Moravia, e non piuttosto l’Ucraina
che al tempo dei tempi era stata parte del Regno di Polonia?
Che mattacchione, Witwicki! Siamo diventati poi grandi ami-
ci, amici per la pelle, da quando è venuto ad abitare a Parigi
dopo l’insurrezione ed ha rinunciato a vedere in me il Weber
(o il Meyerbeer) della nazione polacca. Ma nel 1830 il suo so-
gno di palingenesi slava lo portava fuori dal mondo.
Gli argomenti di Elsner li conoscevo ad abundantiam. In-
vece il tono espositivo, apparentemente distaccato ed equa-
nime, mi sorprese non poco, dopo quello che mi aveva detto
Ludwika. L’inizio era pacato:

Ho appreso con il più grande piacere che Kalkbrenner, il primo


dei pianisti (come dici), t’abbia ricevuto così bene. Ho conosciuto
suo padre a Parigi nel 1805 e, a quell’epoca, il giovane Kalkbrenner
era già celebrato fra i migliori virtuosi. Tanto più mi rallegro della
sua accoglienza in quanto t’ha promesso di rivelarti i segreti della sua
arte, ma mi stupisco che abbia fissato un termine di tre anni per far-
ti raggiungere lo scopo. Come ha potuto, l’impressione prodotta da
una prima audizione, come ha potuto fargli dedurre che sarebbe ne-
cessario un tale periodo per iniziarti al suo metodo? Come ha potu-
to fargli pensare che il tuo genio musicale dovesse votarsi unica-
mente al pianoforte, e il tuo talento unicamente alle composizioni
per questo strumento? Una conoscenza più approfondita delle tue
capacità gli farà, penso, mutare opinione, sempre che, inculcandoti
la sua scienza, egli voglia, attraverso la tua persona, servire l’arte in
generale. Se per te è un amico, sii per lui un allievo riconoscente.

Poi arrivava la prima, elegante stoccata:

Quanto a me, io vorrei, lo confesso, avere come allievo il tuo ami-


co Linowski. Ma non ho mai pensato di fare di te, o di Nidecki, un
allievo. Lo dico con orgoglio, sebbene mi congratuli con me stesso
per avervi dato lezioni d’armonia e di composizione. Insegnare la
composizione non consiste nel dettare regole, soprattutto quando si
è in presenza di discepoli le cui capacità sono evidenti. Spetta a loro
di trovare da soli il modo di arrivare un giorno a superarsi. Anche la
maniera più perfetta di suonare uno strumento, per esempio quella

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di Paganini per il violino o di Kalkbrenner per il pianoforte, con tut-
to quello che comporta di conseguenza, sia per il carattere partico-
lare dello strumento, sia per l’originalità della composizione adatta-
ta alle sue specificità, tutto quello che costituisce il complesso di que-
ste cose non è tuttavia, nel campo della musica, altro che un mezzo
per arrivare alla espressione dei sentimenti.

Ben detto. Anzi, detto splendidamente. Subito dopo, però,


Elsner, che non era pianista, prendeva una bella cantonata:

La gloria di cui hanno goduto in passato Mozart e Beethoven co-


me pianisti si è spenta da molto tempo e, sebbene i valori classici in
esse contenuti reggano al tempo, le loro composizioni pianistiche so-
no state abbandonate in favore di opere di più nuova concezione. Ma
i loro lavori non composti per un solo strumento, le loro opere, le lo-
ro romanze, le loro sinfonie sono vive fra noi e permangono a fianco
delle produzioni artistiche le più moderne di oggi. Sapienti pauca.

Il sapiens non concordava affatto.


Il ragionamento di Elsner ripartiva con un colpo d’ala che
dimostrava la formazione illuminista del mio carissimo mae-
stro, e che tuttavia non condividevo proprio per intero:

Non bisogna consigliare agli allievi di attardarsi sullo studio d’un


solo metodo, d’una sola maniera, né dello stile d’un solo popolo. Ciò
che è vero e bello non dovrebbe essere imitato ma vissuto secondo
le leggi sue proprie e superiori. Come modello (come non plus ultra)
né un uomo né un popolo può essere utile, ma solo la natura eterna
e invisibile che tutto contiene in sé. In una parola: l’artista (traendo
profitto da tutto quello che lo circonda e spargendolo attorno a sé),
l’artista non può trovare che in se stesso, attraverso il suo proprio
perfezionamento, ciò che stupirà i contemporanei. La causa di que-
sta ammirazione e d’una gloria realmente meritata nel presente e nel-
l’avvenire non è altro in effetti che la sua individualità geniale, tra-
sposta nelle sue opere e che continua a vivere in esse.

Gli uomini e i popoli avevano offerto a lui dei temi di ispi-


razione per le sue opere serie, che spaziavano dal mito greco a

51
Carlo Magno ai re polacchi. Ma a Mickiewicz avevano offerto
di più, ed era a Mickiewicz che io volevo riferirmi. Elsner af-
frontava poi un argomento spicciolo. Kalkbrenner mi aveva
consigliato di abbreviare l’esposizione orchestrale del mio
Concerto in mi minore, e mi aveva messo in mano una matita
rossa perché segnassi il taglio. Elsner così commentava:

Mi ha divertito il fatto che Kalkbrenner t’abbia passato la mati-


ta rossa. Mi sono ricordato in effetti come, ritornata dall’Inghilter-
ra dove aveva fatto appunto la conoscenza di Kalkbrenner, la si-
gnora Szymanowska, che doveva dare un concerto, ci distribuì du-
rante una prova delle matite rosse per farci tagliare certe battute nel
Concerto in si minore di Hummel, che del resto già aveva abbre-
viato considerevolmente. Peggio ancora: nelle variazioni di non so
più quale autore, a cui già aveva fatto subire la sorte del povero
Hummel, inserì un Andante di Field. Era un abuso. Ci vedemmo
costretti a prestare attenzione soltanto all’esecuzione della signora
Szymanowska e ad ammirare unicamente le sue dita.

Maria Agatha Szymanowska, nella quale il pubblico am-


mirava insieme la bravura della pianista e – cavoli! – la mar-
morea bellezza della donna, con delle spalle che, si diceva,
avevano fatto diventare strabico Field, componeva piccoli
pezzi graziosi ma non era in grado di scrivere concerti ed ese-
guiva dunque quelli di altri. Aveva o no il diritto di aggiu-
starseli a sua misura? È una domanda che, con la rarefazione
attuale dei pianisti-compositori, sta diventando sempre più
pregnante. Ci sto facendo qualche riflessione.

Degli splendori e delle miserie del teatro d’opera,


di un mio incontro con Rossini, e di come chiusi il duello
con il mio vecchio e venerato maestro

Alla lettera così affettuosa e seria di Elsner era dovuta una ri-
sposta ben ponderata e cortese, sebbene – e questo lo sape-
vo con assoluta certezza – sebbene nettamente negativa, e ta-

52
le da chiudere per sempre la questione che ci divideva. A me
l’opera piaceva, piaceva da pazzi. A Varsavia avevo ammira-
to prima di tutto i melodrammi di Mozart e di Rossini. Sem-
pre a Varsavia avevo conosciuto il Freischütz di Weber, a Pa-
rigi ero rimasto folgorato sia dallo splendore esecutivo della
compagnia del teatro italiano diretto da Rossini, sia dal Ro-
bert le Diable di Meyerbeer. Il Barbiere di Siviglia con la Ma-
libran, Rubini e Lablache, l’Otello, ancora con la Malibran,
Rubini e Lablache, l’Italiana in Algeri con Rubini, Lablache
e la Raimbeaux! “Non puoi immaginare” scrissi a Titus, “che
cos’è Lablache. La Pasta, si dice, non è più la stessa d’un tem-
po, ma io non avevo ancora sentito niente di più sublime. La
Malibran, con la sua voce miracolosa, ti incanta. Meraviglia
delle meraviglie! Rubini, tenore eccellente, canta a voce pie-
na, mai in falsetto. Le sue roulades durano talvolta due ore
(ma gli capita di ornamentare per troppo tempo e di far vi-
brare deliberatamente la sua voce. Infine, prolunga all’infini-
to i trilli, cosa che gli procura del resto i più vivi applausi). La
sua mezza voce è incomparabile”.
E il Robert, produzione dell’Opéra nella quale era stata
impiegata per la prima volta sulla scena lirica l’illuminazio-
ne a gas! A Titus così scrissi: “Dubito che mai si sia rag-
giunto in teatro un grado di magnificenza al quale è arriva-
to Robert le Diable, l’ultima opera di Meyerbeer, l’autore del
Crociato”. Avevo visto il Crociato in Egitto a Vienna, duran-
te la mia prima visita alla città, nel 1829, l’avevo mancato per
un pelo a Dresda, in viaggio verso casa, ed ero tornato a ve-
derlo a Vienna nel 1830 (cantava la mia favorita, la Heine-
fetter). L’opera mi era piaciuta moltissimo, il Robert mi piac-
que ancora di più e Les Huguenots mi convinsero definiti-
vamente della grandezza del loro autore: sono ben lontano
dal condividere il disprezzo che Schumann dimostra nei
confronti di Meyerbeer.
Scrivendo a Titus, dunque, continuai dicendo che il Ro-
bert era “il capolavoro della nuova scuola”, cioè del grand-
opéra. E poi: “Ci si vedono dei diavoli, cori immensi che

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cantano nel sottopalco e anime che escono dalla tomba per
gruppi di cinquanta o sessanta. Il teatro è un diorama, all’e-
stremità del quale si vede l’interno della chiesa e tutta la
chiesa illuminata come a Natale o a Pasqua”. Era la scena fi-
nale, nella quale la cattedrale appariva come se ci si arrivas-
se volando. “Sui banchi si vedono dei monaci e una folla di
fedeli con gli incensieri ecc., e, cosa la più straordinaria, l’or-
gano, la cui voce, venendo dalla scena, incanta, stupisce, e
quasi sovrasta quella dell’orchestra. Meyerbeer si è immor-
talato”.
Aggiungevo però, e da ciò, oltre che da altre ragioni, de-
rivava il mio scetticismo sulle mie possibilità di diventare
operista, aggiungevo però che Meyerbeer era rimasto per tre
anni a Parigi prima di riuscire a far rappresentare la sua ope-
ra, sebbene vi fosse arrivato con una fama già consolidata in
Italia e in Germania, e che per avere la compagnia adatta al-
la inusitata spettacolarità del suo nuovo lavoro aveva sbor-
sato di tasca sua ben ventimila franchi. Se io avessi scritto
un’opera il teatro di Varsavia mi avrebbe di sicuro aperto
con entusiasmo le sue porte. Ma a che mi sarebbe servito un
successo a Varsavia? E quanto avrei dovuto penare, per en-
trare in uno dei due grandi teatri di Parigi, il francese e l’i-
taliano? Di più, che tipo di opera sarei stato in grado di scri-
vere?
Essendo stato presentato a Rossini, che si era mostrato
molto benevolo con me, andai a trovarlo per chiedergli se
non avrebbe incontrato difficoltà nel permettere che alcuni
dei cantanti del suo teatro prendessero parte al mio concer-
to. “Io non ho di certo problemi nel favorire le vostre aspira-
zioni, mio giovane amico e collega”, mi rispose. “Ma bisogna
che sentiamo il condirettore, il signor Robert”. Fece chiama-
re monsieur Robert, che subito insorse come se lo avesse mor-
so la tarantola: “Concedere qualche permesso vuol dire rice-
vere altre due o trecento domande analoghe. Illustre Mae-
stro, non mettiamoci da soli nell’imbarazzo, non facciamo ca-
sini”. Rossini, spaventato, si rivolse a me: “Avete sentito, ami-

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co mio? Io non devo interferire nell’organizzazione della ca-
sa. Ma voi, essendo francese, potrete trovare facilmente
udienza all’Opéra”. “Non sono francese, maestro”. “Ah!,
no? Dal cognome, scusate, mi sembrava certo che...”. “Fran-
cese di nascita era mio padre, ma trasferito in Polonia
quand’era ragazzo. Io sono polacco”. “Ma pensa un po’, per
Giove pluvio, non l’avrei mai immaginato. Sapete che il pro-
tagonista del mio Sigismondo, disgraziatamente caduto senza
rimedio alla Fenice di Venezia, è un re di Polonia? Ne ho ri-
ciclato qualche pezzo, pensate un po’, nell’Adina, che è una
turcheria”. E rise come un matto. Io pensai che sarei forse
riuscito a scrivere un’opera di argomento polacco ma di stile
rossiniano, e che avrei fatto un buco nell’acqua.
Il 14 dicembre 1831 vergai dunque senza la minima esi-
tazione la risposta a Elsner: “La vostra lettera m’ha dato
nuova prova dell’interesse paterno e dei voti veramente sin-
ceri che volete riservare al più fedele dei vostri allievi. Nel
1830 io mi rendevo conto di tutto quello che mi mancava,
io sapevo quale cammino avevo ancora da percorrere se mi
fossi lasciato tentare da uno degli esempi che m’avevate pro-
posto. Tuttavia, allora, io dicevo a me stesso: ‘Mi avvicinerò
a lui, fosse anche solo un poco e, se non un Łokjetek, dal
mio cervello uscirà un Łaskonogi’. Ma ho perduto ogni spe-
ranza di questo genere. Sono costretto ad aprirmi una via
nel mondo come pianista e a rimettere a più tardi le pro-
spettive maggiori che vivamente mi consigliate nella vostra
lettera”.
Il Król Łoketjek, ispirato alla vita di Stanislao IV Il Bre-
ve, o Il Nano, era la migliore opera di Elsner, e Stanislao IV
era stato un grande, vittorioso re di Polonia, mentre il suo
predecessore Stanislao III detto Łaskonogy, Dalle Gambe
Stecchite, era stato cacciato dal trono ed era morto misera-
mente in Germania. Su Stanislao III ci avevo fatto vera-
mente un pensierino – mi attraeva la sua tragica figura – ma
niente di più. Comunque, quel che dicevo a Elsner, in so-
stanza, era vero.

55
Dopo aver parlato delle difficoltà enormi che si incontra-
vano per mettere in scena un’opera, difficoltà, facevo notare,
alle quali non era sfuggito lo stesso Meyerbeer, calavo in ta-
vola le mie carte squadernandole sotto gli occhi del mio mae-
stro: “Per me si presenta oggi un’occasione unica di mante-
nere le promesse di cui le mie capacità innate hanno fatto in-
travedere la realizzazione. Perché non afferrarla? Non per-
metterei a nessuno dei pianisti tedeschi di darmi dei consigli
perché se più d’uno ha capito che mi manca ancora qualche
cosa, nessuno tra di loro ha potuto decidere che cosa. Quan-
to a me, non m’accorgevo allora di questa polvere nel mio oc-
chio che oggi mi impedisce di vedere più in alto. Tre anni so-
no molti, sono troppi (dopo avermi studiato più da vicino lo
stesso Kalkbrenner lo riconosce, cosa che dovrebbe dimo-
strare come un vero virtuoso meritevole della sua gloria sia
immune dalla gelosia). Avrei pure accettato tre anni di lavo-
ro se avessi potuto, grazie ad essi, fare un grande passo verso
la realizzazione dei miei progetti... Sono realmente convinto
che non sarò mai una copia di Kalkbrenner, che nulla po-
trebbe distogliermi dall’idea e dal desiderio, forse troppo au-
dace ma nobile, di creare un mondo nuovo, e se lavoro è per
tenermi più solidamente sui miei piedi”.
Creare un mondo nuovo. Mica una bagatella, per un ra-
gazzo di ventun anni e dieci mesi. Mi viene oggi persino da
sorridere un po’, ma con tenerezza, di quel me stesso così si-
curo della sua missione. Però, però... Lo Scherzo in si mi-
nore, gli studi, un pezzo in sol minore che mi creava tanti
problemi e che non sapevo ancora come intitolare mi dice-
vano che ero in grado di riuscirci. E il succo del mio nuovo
stile era polacco, autenticamente polacco. Concludendo la
lettera al mio maestro con le parole “vogliate gradire, Si-
gnore, l’assicurazione della mia riconoscenza e del rispetto
con il quale resto per sempre il Vostro allievo più fedele” mi
sentivo con la coscienza in pace. Non so quale effetto faces-
sero su Elsner le mie parole: la mia risposta chiuse per sem-
pre la partita.

56
Di quando ebbi a Vienna cupe visioni
e di come vi soffrii indicibili pene,
scoprendo grazie ad esse la mia vera vocazione poetica

Come ho detto prima, ci eravamo appena sistemati a Vienna,


Titus ed io, quando il mio compagno mi lasciò per rientrare
precipitosamente in patria. Era giunta la notizia che Varsavia
era insorta contro gli occupanti e che dopo la capitale era in-
sorta tutta la Polonia russa. L’arciduca Costantino, come ho
già ricordato, era fuggito a gambe levate, i russi avevano
sgombrato, ma era certo che avrebbero scatenato presto la
controffensiva, e tutti gli uomini in grado di impugnare un’ar-
ma dovevano tenersi pronti per fare il loro dovere di patrio-
ti. Avrei voluto partire anch’io. Titus mi dissuase, i miei, te-
nuto conto della mia salute delicata, furono del resto dello
stesso parere. Invece di occupare l’appartamento del terzo
piano che era stato scovato da Titus salii più in alto, al quar-
to, in un quartiere più piccolo e più a buon mercato che la
graziosissima baronessa, padrona del palazzo, graziosissima-
mente mi offrì dimostrandomi tutta la simpatia che provava
per me.
Mi fermai dunque, seppur di malavoglia, e torturandomi
per essere partito da casa nel momento peggiore, mi fermai
dunque a Vienna, triste, scontento, preoccupato, ...e solo.
Andai a trovare Giovanni Malfatti, il medico italiano che ave-
va sposato una polacca e che aveva curato Beethoven. Si di-
ceva che Beethoven avesse amato la nipote di Malfatti, figlia
di suo fratello, ma io mi guardai bene dall’appurare con lo zio
la veridicità della notizia. Malfatti fu con me straordinaria-
mente gentile, mi buttò le braccia al collo, mi invitò più vol-
te a pranzo facendomi sempre trovare piatti polacchi. Una
volta che per discrezione esitavo nell’accettare un ennesimo
invito mi minacciò scherzosamente: “Se non vieni ti taglio le
palle”. Era medico, era un cuor d’oro, e ascoltava paziente-
mente i miei sfoghi ipocondriaci e cercava di tirarmi su di mo-

57
rale dicendo: “Credi a me, Federico, l’artista è cosmopolita”.
Eh! no, dottore, io sono polacco!
Parlando la mia lingua con la signora Malfatti e gustando
i cibi del mio paese ritrovavo una scheggia del mio mondo.
Ma ci voleva ben altro, per me: da quando avevo ricevuto la
notizia dell’insurrezione soffrivo di nostalgia in un modo tor-
turante. Lo scrissi a Jan Matuszyńki: “Se non fosse che al mo-
mento attuale sarei forse un peso per mio padre, rientrerei
immediatamente a Varsavia. Maledico l’istante della mia par-
tenza. Essendo, come sei, al corrente della mia situazione,
ammetterai che su di me, dopo il ritorno in Polonia di Titus,
si sono abbattuti troppi tormenti. Tutti i concerti, i pranzi, le
serate, le danze... Ne ho fin sopra i capelli, m’annoiano. Tut-
to, per me, è qui talmente triste, talmente cupo e tetro. An-
dare in società mi piace, ma non in circostanze così crudeli.
Non posso far nulla di quello che vorrei: devo vestirmi, pet-
tinarmi, mettermi le scarpe. Nei salotti sembro calmo, ma una
volta rientrato a casa fulmino sul pianoforte”.
La musica come io l’intendo è il linguaggio dei senti-
menti. Ho tentato più volte, negli appunti che di tanto in
tanto metto giù per un metodo per pianoforte che forse non
vedrà mai la luce, ho tentato più volte di dare una defini-
zione della musica. “L’arte che si manifesta attraverso i suo-
ni è detta musica”. Non va: via. “L’arte di esprimere i pro-
pri pensieri attraverso i suoni”. No: anche la poesia si serve
di suoni. “L’arte di maneggiare i suoni. Il pensiero espresso
attraverso i suoni. L’espressione delle nostre percezioni at-
traverso i suoni. La manifestazione del nostro sentimento at-
traverso i suoni”. Niente da fare: non va. “La parola indefi-
nita (indeterminata) dell’uomo è il suono. La lingua indefi-
nita è la musica”. Meglio, ma non ancora convincente. “La
parola nasce dal suono – il suono prima della parola”. Ec-
co! Se mai pubblicherò il mio metodo adotterò questa defi-
nizione, aggiungendo che la parola è una certa modificazio-
ne del suono e che ci si serve dei suoni per fare della musi-
ca come ci si serve delle parole per fare un linguaggio. Non

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sarà una scoperta sublime ma è la mia convinzione: la musi-
ca viene prima del linguaggio.
L’insurrezione e il pensiero di quello che avrebbe potuto
subire il mio angelo, Konstancja, se mai i russi, i moscoviti,
fossero tornati con tutta la loro rabbia e con tutta la loro fe-
rocia, aveva provocato in me l’eruzione di un lancinante sen-
timento antizarista, un sentimento di odio di cui mai mi sarei
creduto capace. E sul pianoforte avevo fulminato. Oh!, se
avevo fulminato! Nella lettera a Jan avevo anche detto: “Vor-
rei che i suoni che mi furono ispirati da un sentimento cieco,
furioso, scatenato, avessero il potere di ritrovare, almeno in
parte, i canti che cantarono gli eserciti di Jan e i cui echi di-
spersi errano ancora sulle rive del Danubio”. Gli eserciti di
Jan III Sobieski, io me li immaginavo, io li vedevo, quando
passeggiavo tristemente sui bastioni. Vienna assediata dai tur-
chi, i comandanti cristiani che guardando dalle mura hanno
sotto gli occhi gli accampamenti variopinti di Kara Mustafà e
scrutano ansiosamente l’orizzonte, spasimando nell’attesa di
veder apparire le insegne polacche. E quando i vessilli si pro-
filano lontano lontano, la speranza che rifiorisce... E la batta-
glia, la battaglia che non soltanto salva Vienna ma che arresta
per sempre l’avanzata della mezzaluna verso Occidente. Se
l’Ungheria non è più occupata dai turchi, se il principe Eu-
genio di Savoia poté riconquistare Belgrado, il punto di svol-
ta nella lotta fra cristiani e musulmani si verificò con la scon-
fitta che Kara Mustafà subì sotto le mura di Vienna ad opera
dei polacchi.
I due accordi stridenti che aprono il mio Scherzo in si mi-
nore mi uscirono dalle dita che si abbattevano sulla tastiera,
come le pennellate violente che tagliano il Massacro di Scio del
mio amico Delacroix (Eugène mi disse una volta che un cri-
tico – si parla di vent’anni or sono – definì il suo capolavoro
come “il massacro della pittura”). E quando improvvisai l’ul-
tima pagina non so qual demone fece sì che dalle corde del
pianoforte uscisse un violento blocco di suoni che non era
mai stato analizzato nei trattati e che non è stato analizzato

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neppur oggi, tanto che nessuno sa spiegare che cosa sia se-
condo la venerabile scienza dell’armonia.
Odio, disperazione, ...e nostalgia: nello Scherzo ho co-
struito la parte centrale sul canto popolare natalizio (polac-
co) “Dormi, piccolo Gesù”. Ah!, quel Natale del 1830, quel
Natale da incubo! Ero così teso che non riuscivo più a con-
trollare le mie reazioni emotive. Passavo al fermo-posta tutti
i giorni, sperando sempre di trovare delle lettere da Varsavia
e sentendomi torcere il cuore se l’impiegato scuoteva con in-
differenza la testa. Ma quando arrivavano... Appena uscito
dalla posta leggevo un giorno una lettera di Matusziński che,
facendo un accenno a Konstancja, passava dal polacco al
francese (era una precauzione, un trucco, per il caso che la
lettera fosse andata dispersa in Polonia: mi ossessionava la
paura, in realtà immotivata, di compromettere la mia amata).
Appena lessi le parole di Jan mi si piegarono le ginocchia co-
me se fossi stato un burattino, un passante che camminava
dietro di me si precipitò a sostenermi prendendomi sotto le
ascelle. “Che succede, che avete?”, mi disse, tutto preoccu-
pato. Io lo abbracciai. “Una buona notizia”, sussurrai con il
pianto nella voce. E avevo voglia di fermare tutti i passanti e
di abbracciarli.
Era la vigilia di Natale. Avevo un invito a pranzo da certi
conoscenti polacchi, i Bayer. La padrona di casa si chiamava
Konstancja, sugli spartiti di musica, sui tovaglioli, sui fazzo-
letti spiccava la K. Ed io ero beato. Nel pomeriggio conver-
sammo e giocammo alle carte. Uscii che stava cadendo la not-
te. Andai a passi lenti verso la cattedrale di Santo Stefano.
“Quando vi arrivai”, scrissi a Matuszyński, “non c’era anco-
ra nessuno. Non per devozione, ma per contemplare a quel-
l’ora quell’immenso vascello restai in piedi alla base di un pi-
lastro gotico nell’angolo più buio. Impossibile descrivere la
magnificenza e la grandezza di quelle immense volte. Regna-
va il silenzio. Soltanto i passi d’un sacrestano che al fondo
della chiesa accendeva dei ceri rompevano talvolta questa cal-
ma letargica. Dietro di me, una tomba; sotto i miei piedi, una

60
tomba. Ne mancava solo una sopra la mia testa. Una lugubre
armonia si sollevò in me... più che mai sentii la mia solitudi-
ne. Bevvi con delizia alla fonte dell’emozione, rappresentata
per me da questa grandiosa visione, fino al momento in cui
uomini e luci cominciarono ad affluire. Allora, rialzando il
colletto del mio mantello come talvolta nel quartiere di Cra-
covia a Varsavia, tu ricordi, mi avviai verso la cappella impe-
riale per sentire della musica. Traversai a piedi le più belle
strade di Vienna; ma non ero più solo, una folla festante mi
circondava. Raggiunsi così il castello dove, dopo aver ascol-
tato tre pezzi d’una messa poco interessante, ed eseguita in
modo soporifero, rientrai all’una passata per coricarmi. Ho
sognato di te, di voi, delle mie sorelline, dei miei cari. Un in-
vito a pranzo mi risvegliò il mattino dopo. Mi alzai e suonai
tristemente”.
E nacque il Notturno in si bemolle minore, nel quale, alla
fine, mi tornò sotto le dita, ma non più furioso, solo doloro-
so, quel tale accordo che la scienza dell’armonia non sa spie-
gare. Non rinnego nulla di ciò che scrissi prima, e anche nei
primi anni di Parigi non mi vergognai, per assecondare le ri-
chieste di certi editori, di resuscitare il vecchio Chopin, il pia-
nista-compositore che si attaccava alla tradizione così come
oggi, con questa nuova invenzione che sta sconvolgendo il
mondo, si attacca al treno un vagone in più. Ma fu la dispe-
razione senza sbocco di Vienna a permettermi di avere un
cuore, di guardarci dentro, e di cominciare a costruire un
mondo nuovo.
Quaderno B
Di come Robert Schumann parlò della mia Sonata op. 35
e del granchio che prese, nonché di un confortante
colloquio con il saggio Moscheles

Robert Schumann recensisce nella sua rivista la mia Sonata in


si bemolle minore. Devo dire che non si smentisce mai, Schu-
mann: nessuno scrive come lui. Questa volta si inventa un or-
ganista di campagna che si reca in città per fare delle compe-
re musicali. Il bravuomo entra in un negozio, scartabella fra
le novità del giorno, non ci capisce una mazza, si impazienti-
sce. Ma finalmente un commesso astuto gli mette in mano
una cosa del buon tempo antico, una sonata. Entusiasta, l’or-
ganista dice a se stesso “ecco quello che fa per me”, e acqui-
sta il fascicolo senza neppure sbirciarne una nota. Arrivato a
casa lo mette sul leggio, comincia a scorrerlo e, rimanendo or-
ripilato, non va oltre la prima pagina. Però un giorno, forse,
un nipote dell’organista riprenderà il fascicolo abbandonato
e dirà che quella musica non era poi tanto male. E questo, se-
condo Robert, sarebbe il mio scopo: ma che c...!
Poi Robert esamina da critico il mio pezzo. Da critico se-
vero che, frammezzo alle lodi, non manca di tirarmi le orec-
chie perché scrivo in modo spesso armonicamente troppo
complicato. Appena gli sembra che capiti l’occasione mi mol-
la una botta mancina, asserendo – e lo dice proprio a me! –
che il “gusto nazionale polacco” delle mie prime opere va un
poco alla volta scomparendo e che, passando per la Germa-
nia, io sto puntando sull’Italia. La mia melodia avrebbe ad-

65
dirittura un certo sapore belliniano! Il mio amico Bellini.
Grande melodista. Ma che ha a che fare con me? La marcia
funebre è per Schumann un “qualcosa di repulsivo” e il fina-
le – l’ultima sparata – “non è musica”.
Il mio finale, le mie tre pagine in pianissimo con le due ma-
ni all’unisono, non è musica! Che cosa sarà? Sarà la macchi-
na del vento? In teatro la si usa, eccome, la macchina del ven-
to, e la si usa per fare musica, sia pure imitativa. Ma Schu-
mann recensì nel 1831 le mie Variazioni op. 2, quelle sul te-
ma del Don Giovanni, in un modo, in un modo talmente, tal-
mente... “Giù il cappello, signori: un genio!”. Scrisse proprio
così. Avevo diciassette anni, quando composi di getto quelle
Variazioni. Comunque, vero è che anche Elsner, al momento
del mio congedo dal Conservatorio, scrisse nel registro: “Ta-
lento straordinario. Genio musicale”. Un conto è però una
frase messa lì in un registro scolastico, un altro conto è una
frase pubblicata nella più autorevole rivista di musica tede-
sca. C’era da rimanere sbalorditi, a tal punto che la rivista fe-
ce seguire a quella di Schumann un’altra recensione, molto
più pacata. Però, e di questo non potevo che essergli eterna-
mente grato, lui si era esposto con un coraggio persino teme-
rario.
A parte il folgorante inizio, Schumann parlava del mio
pezzo come se io avessi anticipato il mio amico Berlioz della
Sinfonia fantastica. Lo lessi più tardi. Ma il suo futuro suoce-
ro, Friedrich Wieck, lo aveva parafrasato in un articolo che
fu pubblicato a Kassel e che mi pervenne non appena arrivai
a Parigi. Louis Plater, che conosce il tedesco meglio di me, me
ne faceva la traduzione: “Senti un po’: la prima variazione sa-
rebbe aristocratica e civettuola, con il Grande di Spagna che
scherza con la contadinella, nella seconda variazione si vedo-
no rincorrersi Don Giovanni e Leporello”. Nella seconda va-
riazione le due mani suonano velocissimamente all’unisono.
Che c’è di diverso, rispetto al finale della Sonata? Quei quat-
tro accordi in croce dell’orchestra. Ed è questo, ciò che basta
a far diventare musica un fruscio? Mah! “Nella terza varia-

66
zione”, proseguiva Plater, “ci sono chiaro di luna e magia di
fate, Don Giovanni che abbraccia Zerlina mentre – ma que-
sta è proprio comica – mentre nella parte della mano sinistra
c’è Masetto che impreca”. “Che immaginazione, per Dio!”,
mi scappò detto. “Altro che. E senti un po’ quest’altra. Nel-
la quinta variazione, esattamente alla quinta battuta, al re be-
molle maggiore, Don Giovanni bacia Zerlina”. “E quando
mai”, sbottai, “Don Giovanni può baciare Zerlina? E anche
abbracciarla? Quando lei sta per seguirlo nel casinetto arriva
la guastafeste, Donna Elvira”. “Queste”, ribatté ridendo quel
burlone di Plater, “sono meschine osservazioni da notaio, che
vorrebbero tarpare le ali alla critica. Io mi chiedo piuttosto
dove si collochi questo benedetto re bemolle maggiore, su
Zerlina, intendo”. “Sulle mani, penso”. “O non piuttosto sul-
le...”, e fece un gesto rotatorio con le mani a coppa, “doveva
avercele belle sode, la contadinotta”. “Ma va là, scostumato”.
“Scostumato io? Stiamo parlando, gioia mia, di Don Gio-
vanni”.
Nella recensione dei miei due concerti Schumann fece
un’osservazione che mi piacque da pazzi: “Se il potente au-
tocrate del nord sapesse quale nemico si cela nelle opere di
Chopin, nelle semplici melodie delle sue mazurche, proibi-
rebbe la sua musica. Le opere di Chopin sono cannoni na-
scosti sotto i fiori”. Perfetto, più vero del vero. Ma ultima-
mente dev’esserci stato qualcosa in me che muove in lui i più
cattivi umori. La recensione dei Preludi non era favorevole
(“rovine e penne d’aquila”, ma che vuol dire?), e adesso arri-
va questa della Sonata, che nella sostanza è negativa. Non so
bene che pensare. Alla fine, si capisce, Robert è sempre un
amico: mi ha dedicato i Kreisleriana (che non ho mai avuto il
tempo di leggere), gli ho dedicato la Ballata in fa maggiore...
Ma qualcosa fra di noi si è guastato.
Strano: Ignaz Moscheles, che è più vecchio di Schumann,
per la Sonata non mi fece altro che ponderati complimenti (è
un uomo ponderato in tutto, un adorabile puntualizzatore).
Gli feci sentire la Sonata in casa di George, il 30 ottobre 1839,

67
il giorno dopo che avevamo suonato insieme alla corte di Lui-
gi Filippo a Saint-Cloud. Moscheles, che da molti anni vive-
va a Londra, si trovava a Parigi per mettere a punto il meto-
do scritto in collaborazione con Fétis (e per quel metodo mi
commissionò tre studi). Era stato invitato a corte assieme a
me, ciascuno di noi suonò una piccola scelta dei propri pez-
zi, e insieme eseguimmo la Sonata a quattro mani di Mo-
scheles (la conoscevo bene, l’avevo eseguita anche con Liszt).
È bella, quella Sonata, un buon lavoro di uno che sta in equi-
librio fra il classico e il romantico, che affonda solidamente le
radici nel passato ma che fiorisce nel presente. E che non re-
spinse né la mia Sonata, eseguita da me, né il mio Scherzo in
do diesis minore che ascoltò dal mio allievo Adolph Gut-
mann, al quale l’avevo dedicato (bisognerà che spieghi poi il
perché, adesso non voglio perdere il filo).
“Ho letto tutte le vostre composizioni che sono state pub-
blicate a Londra da Wessel e Stapleton”, mi disse Moscheles
dopo i soliti “bello”, “originale”, “magnifico”, “e devo con-
fessarvi che...”.
“Per amor del cielo”, lo interruppi, “spero che non ab-
biate prestato fede a quei titoli osceni che Wessel e Stapleton
hanno aggiunto senza consultarmi”.
“Osceni?”.
“Artisticamente osceni”.
“Capisco. Io non sono affatto contrario, adesso, ai titoli
caratteristici: i miei Studi op. 95 li hanno, mentre non li ave-
vano gli Studi più vecchi, quelli dell’op. 70”.
“Studi che conosco benissimo e che faccio adottare dai
miei allievi. Vedo però che seguite la moda dei nostri giorni.
Non ho nulla da obbiettare. Ma io... sono all’antica, e non mi
va che i miei Notturni op. 9 diventino a Londra i Mormorii
della Senna e lo Scherzo op. 20 il Banchetto infernale”.
“Titoli, effettivamente, osceni. Artisticamente”.
“Mi fa piacere, mi fa enormemente piacere che siate d’ac-
cordo con me. Con Wessel e socio ho protestato più volte,
sempre inutilmente”.

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“Il pubblico inglese è molto sentimentale, sapete, molto
sentimentale, e quindi...”, mormorò Moscheles tirandosi con
entrambe le mani i favoriti, grossi e folti. “Ma, come vi stavo
dicendo, io avevo letto tutte le vostre musiche edite a Lon-
dra, e molto spesso mi ero trovato spiazzato di fronte a certe
vostre modulazioni. Non riuscivo a capirle, mi sembravano
forzate e artificiose. Non avrei capito quelle della Sonata, se
l’avessi semplicemente letta. Ma ascoltando i vostri pezzi da
voi e dal vostro allievo, ieri e oggi, tutto è scivolato via liscio,
tutte le cose per me più enigmatiche mi sono parse non solo
logiche ma naturalissime”.
“Sono molto sorpreso, confesso”. E lo ero per davvero.
“Anch’io. Non credevo che ad una musica nuova, origi-
nale, dovessero corrispondere una nuova, originale maniera
di esecuzione e una concezione così flessibile del tempo. Le
mazurche eseguite da voi mi sembrano scritte in misura bi-
naria, non ternaria”.
“Fermatevi per favore, se no... mi arrabbio. Questo argo-
mento l’ho discusso con Meyerbeer, molto a lungo e accani-
tamente. In realtà, il ritmo della mazurca non può essere re-
so con la nostra notazione se non in modo assai rozzo”.
“Già. Molto logico. Ma ciò non esclude che anche al di fuo-
ri della mazurca il vostro ritmo abbia margini inconsueti di
flessibilità. E anche la dinamica. Il vostro piano è talmente te-
nue, un soffio, che per ottenere il chiaroscuro non avete biso-
gno di un grande forte. Né avete bisogno di effetti orchestrali
sebbene, a veder la musica, sembrerebbe che ci fossero”.
Le osservazioni così cortesi ma così acute di Moscheles,
musicista di grande esperienza, mi fecero riflettere. La mia
musica, eseguita da me nell’ambiente più appropriato, viene
capita. La mia musica, eseguita da Liszt nell’ambiente meno
appropriato, perché lui suona in grandi sale e in teatri, viene
capita. Mia sorella mi scrisse una volta di aver sentito dire da
Józef Brzowski, violoncellista e compositore che era stato per
qualche tempo a Parigi, che “due sole persone al mondo so-
no capaci di eseguire Chopin: Chopin e Liszt”. Ed io, tor-

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nando a Schumann, mi chiedo: il suo mutato atteggiamento
nei confronti della mia musica sarà dovuto ad un discerni-
mento critico divenuto con il progredire dell’età più profon-
do e raffinato, o non sarà dovuto piuttosto ad una incapacità
di immaginare l’esecuzione nel modo giusto, nel modo che la
rende immediatamente comprensibile?

Del gotico nella mia arte, di Palma di Maiorca,


paradisiaca e infernale, e dei miei ventiquattro Preludi
che mi costarono di molta e annosa fatica

Mentre il gigante Gutmann suonava con molta diligenza e


senza grande charme il mio Scherzo in do diesis minore, in
verità imparato da poco... Gutmann, Adolph di nome, venne
a Parigi per studiare con me, da Heidelberg, quando aveva
quindici anni. Adesso ha più di vent’anni, è sempre stato un
allievo diligente e suona in modo per lo meno soddisfacente.
Scrissi al granduca di Baden Baden pregandolo di esentarlo
dal servizio militare. Affermai che sarebbe stato veramente
un peccato se la carriera d’un artista che faceva così bene spe-
rare fosse stata intralciata proprio mentre iniziava. In verità,
non credevo che Adolph avrebbe fatto una carriera di rilie-
vo. Scrive graziosi pezzi da salotto, insegnerà, avrà una vita
tranquilla, ...e avrebbe potuto senza danno fare il servizio mi-
litare. Ma al granduca spiattellai una piccola bugia perché ad
Adolph volevo, e voglio bene, è alto, robusto, ingenuo, entu-
siasta...
Ma stavo dimenticando il motivo per cui sento il bisogno
di stendere questa nota. Moscheles ascoltò con estrema at-
tenzione lo Scherzo, mi strinse calorosamente la mano, lodò
l’esecuzione (Adolph arrossì di piacere e bofonchiò un qual-
cosa di incomprensibile), e poi fece un’osservazione che su-
bito mi colpì: “Sapete”, mi disse, “che questa vostra nuova
composizione, questa vostra nuova e ammirevole composi-
zione mi ha fatto pensare ad un monastero gotico? E un al-

70
cunché di gotico ce lo trovo anche nella Sonata, ammirevole
essa pure, e di una originalità..., di una originalità che – non
lo dico in senso negativo – oserei definire sfrenata”.
“È un po’ sorprendente per me, caro Ignaz”, risposi, “che
mi diciate queste cose. Ma in verità non ho motivo di stupir-
mi, se non per la vostra perspicacia, per il vostro acume di
musicista. Ho iniziato a comporre lo Scherzo in una cella mo-
nastica di un’abbazia gotica, la Certosa di Valldemosa nell’i-
sola di Maiorca”.
“Davvero?”, fece Moscheles, sorridendo beato come se
avesse vinto una mano di whist. “Sono contento di averci az-
zeccato. Non riesco in verità ad immaginare un’abbazia goti-
ca immersa nella flora lussureggiante di un’isola mediterra-
nea, io penso piuttosto a Fontehill Abbey, la villa di William
Beckford che all’esterno riproduce un edificio gotico in rovi-
na. Ma nella vostra musica ho sentito, come dire?, l’aura del
gotico”.
“L’aura del gotico. Dite bene. Avevo quindici anni quan-
do scoprii il gotico, a Toruń, dov’ero andato in gita”.
“Toruń? Forse dove (mi sembra) è nato Copernico?”.
“Precisamente. Visitai la casa natale di Copernico, le im-
ponenti fortificazioni e le chiese costruite dai cavalieri teuto-
nici (la più antica è del 1231), la torre pendente e il munici-
pio, che ha tante finestre quanti sono i giorni dell’anno, tan-
te sale quanti sono i mesi e tante stanze quante sono le setti-
mane”.
“Ma che meraviglia. Non lo sapevo, e non sono mai stato
a Toruń. Se mai andrò a S. Pietroburgo cercherò di passarci,
la vostra descrizione mi incuriosisce molto”.
“L’architettura gotica del municipio di Toruń è forse
quanto di più grandioso io abbia visto, escluse le cattedrali.
Io avevo quindici anni, come vi dicevo. Ammirai il gotico, che
si rivelava ai miei occhi in tutta la sua magnificenza. Ma da
buon quindicenne ammirai anche, e molto, ...il panpepato.
Quello di Toruń è celebre in Polonia, i pasticceri gli dedica-
no cure infinite. Io visitai i magazzini del panpepato, certi

71
lunghi corridoi in cui erano stipati i cassoni con i dolci, clas-
sificati per genere e qualità. Quando scrissi al mio amicone
Jan per descrivergli la gita gli dissi che niente di quello che
avevo visto superava il panpepato”.
“Siete goloso?”.
“Non particolarmente. Il profumo del panpepato mi dava
però la vertigine, come l’architettura gotica. Era un po’ il suo
corrispettivo... olfattivo”.
“Dovreste dirlo a Rossini. Darebbe fuori da matti, e met-
terebbe sossopra tutta l’Europa, per arrivare ad assaggiare il
panpepato di Toruń”.
“Ah sì! Mi avete dato un’idea! Glielo dirò, se rientrerà a
Parigi. Peccato che sia tornato in Italia, ho sempre ammirato
le sue opere, e come persona è stato simpaticissimo con me”.
“Non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo, purtrop-
po”.
“Vi auguro di poterlo conoscere: ne vale la pena. Dunque,
come vi dicevo, io porto nel mio cuore l’aura del gotico da
quando visitai la città di Toruń, polacca un tempo, ora, di-
sgraziatamente, occupata dai prussiani. Il gotico spagnolo è
certamente diverso. Un po’ diversa la parte gotica di Barcello-
na, ma non radicalmente. Maiorca, invece... Immaginate di
trovarvi in un immenso giardino botanico: palme, cedri, cac-
tus, olivi, rosai, alberi di aranci, limoni, aloe, fichi, melograni,
e un cielo di turchese, un mare di lapislazzuli, le montagne di
smeraldo, sole dal mattino alla sera, enormi balconi da cui pen-
dono a grappoli i tralci, e i bastioni di epoca araba: l’Africa
quale me l’ero immaginata guardando le stampe o, come dice-
va Aurore, la poesia, la solitudine, tutto quello che esiste al
mondo di più artistico, insomma, la Terra Promessa”.
“Che meraviglia. E come vi brillano gli occhi. Quanti bei
ricordi”.
“Bei ricordi, sì. Però non solo quelli. In questo paesaggio di
sogno, a poche leghe dalla città e vicino alle montagne tro-
vammo l’abbazia, abbandonata dai monaci, con un chiostro
meraviglioso, un vecchio cimitero, i resti di antichi mosaici, i

72
resti di una moschea. Certi olivi, ci dissero, avevano mille an-
ni. Ci installammo nelle antiche celle dei monaci, io avevo re-
cuperato la salute, solo mi dava noia la mancanza del pia-
noforte, che avevo ordinato a Parigi ma che non arrivava mai”.
“Componete al pianoforte?”.
“Certamente. E voi?”.
“Non sempre. A volte compongo scrivendo quello che ho
già in testa”.
“Io ho bisogno del pianoforte. Mi metto ad improvvisare,
le idee emergono a contatto con il suono, cerco di scoprire la
musica e di formarla, la scrivo, poi correggo e ricorreggo, tal-
volta i miei manoscritti diventano illeggibili persino per me.
È una grande gioia ed è un grande tormento, per me, il com-
porre. Ma la musica devo sentirla. E nei primi giorni a Palma
di Maiorca sentivo solo le chitarre, oh!, quante chitarre, la se-
ra, sembrava che i maiorchini non facessero altro che gratta-
re la pancia della chitarra. Noleggiai un pianoforte locale, tal-
mente cattivo che, invece di sentirmi sollevato, provai una
crescente irritazione”.
“Non era la Terra Promessa, dunque”.
“Lo era, ...e non lo era. L’impressione dei primi giorni fu
presto contraddetta. Gli sbalzi della temperatura erano fre-
quenti, io ricominciai a tossire e tossire. Aurore chiamò a con-
sulto i tre migliori medici dell’isola. Il primo annusò, con li-
cenza parlando, il mio sputo, il secondo mi picchiettò qua e
là per capire da dove sputavo, il terzo mi palpò, ascoltando
come sputavo. Il primo disse che sarei crepato, il secondo che
stavo per crepare, il terzo che ero già crepato. Con estrema
fatica riuscii a scansare i salassi, i vescicanti e gli impacchi.
Dopo pochi giorni stavo di nuovo benissimo”.
“Effetto del clima, evidentemente. Ma esistono ancora i
medici alla Molière, oggi? E vennero a visitarvi nell’abba-
zia?”.
“Esistono, per lo meno a Palma di Maiorca. No, non ven-
nero nell’abbazia (che in verità, per essere precisi, è una Cer-
tosa). Fu prima che ci trasferissimo. Vi dicevo che pochi gior-

73
ni dopo essere stato malissimo stavo di nuovo benissimo. Ma
non durò”.
“Sempre effetto del clima?”.
“Così presumo. Il tempo era in genere splendido, proprio
da Terra Promessa, ma terribili temporali e venti tremendi
abbassavano d’improvviso la temperatura, le acque rodevano
le strade, giganteschi smottamenti erano all’ordine del gior-
no. Ed io tossivo e tossivo e tossivo”.
A Maiorca, alla fine, ero stato più male che bene, e quan-
do me ne andai stavo decisamente peggio di come quando
c’ero arrivato. Durante la traversata da Palma a Barcellona
sputai sangue, ripetutamente. Per fortuna il medico di un ba-
stimento francese che era nel porto seppe curarmi, tanto che
potei fare una gita e sopportai poi bene le trentasei – trenta-
sei! – ore di traversata da Barcellona a Marsiglia. L’alberga-
tore di Barcellona, stupido e cafone, accortosi delle mie con-
dizioni di salute concluse senza tante indagini che ero un ti-
sico all’ultimo stadio e pretese che gli pagassi il letto in cui
avevo dormito. Che fu bruciato.
Non posso ricordare volentieri il mio soggiorno a Palma di
Maiorca. Però, evidentemente, se Moscheles ha ragione, la
bellezza misteriosa e il misterioso fascino della Certosa ab-
bandonata non rimasero senza influenza sulle mie idee musi-
cali. La mia cella era come una grande bara, con un’enorme
volta polverosa, una finestrucola che mi apriva il panorama del
giardino, con gli aranceti, le palme, i cipressi. Una branda, una
specie di pesante leggio quadrato scomodissimo per scrivere,
un candeliere di piombo, una sedia, e il mio pianoforte Pleyel,
arrivato dopo un secolo. Questo era tutto l’arredamento. Sul-
le pareti, nude, si vedevano i resti di un rosone filigranato di
stile moresco. Oltre alle carte da musica che riempivo di note
avevo soltanto il Clavicembalo ben temperato di Bach, che
avevo ripreso a studiare con grande passione, e qualche scar-
tafaccio restato lì dal tempo dei monaci, qualche vetusto scar-
tafaccio che mi guardai bene dall’aprire perché la polvere dei
secoli mi avrebbe fatto tossire fino a sputar l’anima.

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Tutte queste cose non le dissi, a Moscheles. Mi limitai a
fargli sapere che, dopo avere penato con il pianoforte noleg-
giato sul luogo avevo preso a comporre furiosamente quan-
do era arrivato il mio bel Pleyel. “E così avete cominciato lo
Scherzo. Avete scritto anche dell’altro, suppongo”.
“Certamente. Era come se fossi uscito da un digiuno, e
sebbene mi venissero i brividi ogni volta che mi svegliavo nel-
la mia cella, spettinato, con servizi che a dirli rudimentali è
fargli un complimento, senza comodità e senza il mio came-
riere, mi gettavo sul pianoforte come il naufrago, restato per
settimane su una zattera, si getta in un letto con doppio ma-
terasso. Aurore si occupava di me maternamente, ma doveva
badare anche ai suoi due ragazzi, e aiutava la cameriera bron-
tolona, in cucina e nel rassettare e pulire, perché era impos-
sibile trovare sul posto una domestica capace. Di notte scri-
veva, il romanzo Spiridion fu finito a Palma e a Valldemosa.
Non so come riuscisse ad essere così attiva. Ma badava a tut-
to, e per badare a tutto doveva lasciarmi solo per molte ore.
Siccome non mi piace fare passeggiate, la composizione era
la mia esclusiva distrazione”.
“Che cosa avete composto, oltre ai magnifici pezzi che ho
sentito?”.
“Parecchie cose. Sono soprattutto orgoglioso di essere ar-
rivato a finire i ventiquattro Preludi, ai quali lavoravo da di-
versi anni. Non è affatto facile, mettere insieme ventiquattro
pezzi nelle ventiquattro tonalità maggiori e minori, che for-
mino un blocco artisticamente non soltanto valido, ma coe-
rente. C’è riuscito solo Bach e, un po’, il Clementi dei Prelu-
di ed Esercizi”.
“Sono d’accordo con voi. Non ci sono riusciti né Hummel
né Kessler, che ci hanno provato di recente. Ma un altro ci è
riuscito, ne sono sicuro come sono sicuro che esiste Jahvé, il
mio Dio”.
“E chi sarà mai costui?”.
“Ma è Chopin”.

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Di un mio discepolo, delle mie idee sulla tecnica,
di tante mie allieve aristocratiche, e di come con l’aiuto
di Aurore trovai la soluzione del mio busillis

Non vorrei apparir cinico, ma la ragione che mi spinse a de-


dicare a Gutmann lo Scherzo in do diesis minore fu essen-
zialmente... egoistica: non sapevo a chi altro dedicarlo. La de-
cisione di diventare il convivente della celebre romanziera
George Sand, nota oltre tutto per i suoi amori vorticosi e per
le sue simpatie di sinistra, fu da parte mia molto sofferta. L’ho
già detto prima. I miei redditi provengono in larga misura
dalle lezioni private di pianoforte, ed ho una clientela di per-
sone facoltose che possono permettersi di versarmi un ono-
rario molto alto, il più alto che venga pagato a Parigi. Sì, le
mie lezioni costano come il fuoco, io sono carissimo. Più di
tutti, persino più di Kalkbrenner e più di Herz, inventore, il
primo, del Guidamani, inventore, il secondo, del Dactylion,
che vengono usati come attrezzi ginnastici per ottenere una
tecnica sciolta e sicura e ai quali si affidano legioni di piani-
stici coscritti.
Senza citare né Kalkbrenner né Herz, ma avendo in men-
te proprio loro, mi sono appuntato un pensierino che inserirò
nel metodo a cui sto lavorando, a intermittenza, da molto
tempo: “Sottopongo a coloro che imparano l’arte di suonare
il pianoforte delle idee pratiche molto semplici che l’espe-
rienza mi ha dimostrato essere realmente utili. Si sono tenta-
ti molti mezzi inutili e fastidiosi per imparare a suonare il pia-
noforte, mezzi che non hanno nulla in comune con lo studio
di questo strumento. Come se si imparasse a camminare sul-
la testa per fare una passeggiata. Da ciò consegue che non si
sa più camminare correttamente sui piedi, e nemmeno trop-
po bene sulla testa. Non si sa più suonare la musica propria-
mente detta – e il genere di difficoltà che si pratica non è quel-
lo della buona musica, la musica dei grandi maestri. È una
difficoltà astratta, un nuovo genere di acrobazia”.

76
I miei allievi, ma dovrei dire le mie allieve, perché il mio
zoo è formato in grandissima misura da splendidi animali
femmine, sono quasi tutte dilettanti di un rango sociale mol-
to elevato, che sotto la mia guida arrivano a suonare con gra-
zia, sensibilità e gusto le musiche che scelgo per loro. In mol-
tissimi casi posseggono un’abilità pari a quella dei professio-
nisti, ma la classe sociale a cui appartengono non permette-
rebbe loro – a parte il fatto che non ne hanno la necessità –
di trasformare la loro abilità in moneta sonante. Per loro è es-
senziale fare bella figura nei salotti chic, che non sono affat-
to di facile contentatura. Io so come addestrarle a dovere, le
mie leonesse, e così posso tenere alti i miei onorari. Onorari
che, con la convivenza, rischiavo di mettere a repentaglio.
Qualche settimana dopo il colloquio di cui ho detto all’i-
nizio, e dopo aver ben rimuginato senza venire a capo del
problema, ripresi con Aurore l’argomento che mi angustiava.
“Sono usciti alla fine dello scorso anno i miei tre Valzer op.
34. Il primo è dedicato alla figliola dei Thurn-Hohenstein, fa-
miglia boema di altissimo rango, di cui sono stato ospite, il se-
condo alla baronessa d’Ivry, il terzo alla signorina d’Eichtal,
la sorella, ricordi?, del barone. Adesso, oltre alle quattro ma-
zurche che conosci, ho pronte parecchie altre cose, a comin-
ciare da due notturni. Penso di pubblicarli insieme. Il primo
non è difficile, il secondo è un po’ scomodo da suonare. So
bene quali delle mie allieve possono studiare l’uno o l’altro, e
so che una dedica sarebbe molto, molto ambita”.
“Figurarsi!”, sbotta Aurore, che quando si parla di aristo-
cratici impugna subito lo spadone vendicatore. “Figurarsi! In
salotto, dopo la cena squisita, la madama della casa o il suo
tenero virgulto femminile che dice flautando: ‘Signore e si-
gnori, con il vostro permesso vorrei farvi ascoltare un nuovo
notturno che il grande maestro, l’incommensurabile Frédéric
Chopin, ha composto espressamente per me’. Roba da far
schiattare d’invidia tutte le altre smorfiose”.
“Ma no”.
“Ma no? Le vedo, le vedo, le altre gallinelle, agitare il ven-

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taglio come tanti mulini a vento per nascondere il sangue che
gli monta agli occhi. Che trionfo, per la fortunata dedicata-
ria. E come se la ride sotto i baffi, lei”.
“Se la metti su questo tono”, le dissi, ed ero un po’ risen-
tito, “possiamo chiuderla lì. Io ti sto chiedendo un consiglio,
e tu te ne approfitti per fare un comizio”.
“Chip-Chip, scusami tanto. In fondo, si tratta di affari, e
gli affari devono essere trattati seriamente, senza farsi saltare
la mosca al naso”.
“Oh, così va bene”.
“Dunque, le dediche. Ci ho pensato anch’io, e per ora non
ho trovato la soluzione. L’unica scappatoia che vedo è di non
pubblicare nulla, prima che le acque si siano un po’ calmate.
Perché si calmeranno, vedrai. Basta che noi riusciamo a co-
struire un castelluccio di apparenze in cui mettere al riparo le
paturnie di questa tua gente”.
Accettai il consiglio, e per tutto il resto del ’39 non pub-
blicai nulla. Ma gli editori mi stavano addosso, e d’altronde
io avevo bisogno di ricevere da loro quello che mi spettava.
Nell’inverno del ’40 presi la decisione che mi parve la più sa-
lomonica: da maggio a luglio pubblicai senza dedica la Sona-
ta op. 35, l’Improvviso op. 36, i Notturni op. 37 e il Valzer op.
42. Nessuna dedica, nessun imbarazzo per nessuno.
Già dall’anno precedente avevo però deciso di ricambiare
con la Ballata op. 38 la dedica di Schumann, che mi aveva de-
stinato i suoi Kreisleriana. Feci una piccola riflessione. A Schu-
mann non importava di sicuro un fico secco, che io fossi o no
un concubino. Dunque... La sua dedica era “Al suo amico F.
Chopin”. Esitai per un attimo, poi decisi di dedicare la Ballata
“Al signor R. Schumann”. Una piccola vendetta? Non so: qual-
cosa mi costrinse a fare così. Assolvere un obbligo verso un ami-
co-non-amico mi diede l’idea di cercare altri dedicatari che non
si sarebbero doluti del dono: destinai a Camille Pleyel l’edizio-
ne francese e a Joseph Kessler l’edizione tedesca dei Preludi op.
28, la cui uscita era stata ritardata rispetto alle previsioni, a Gut-
mann l’op. 39, al mio vecchio compagno di scuola Julian Fon-

78
tana la Polacche op. 40 e al poeta Stefan Witwicki le Mazurche
op. 41. Tutti questi pezzi uscirono nell’autunno del ’40 (lasciai
invece senza dedica la Tarantella op. 43).
La situazione restava però ambigua, e in sostanza irrisol-
ta. Per andare a Palma eravamo partiti da Parigi separata-
mente. Aurore, Solange, Maurice e la cameriera Amélie ave-
vano viaggiato comodamente, fermandosi la notte in albergo.
Io avevo percorso la distanza da Parigi a Perpignan, dove ci
eravamo riuniti, in diligenza postale: quattro giorni e quattro
notti con le sole indispensabili fermate per il cambio dei ca-
valli. Una pazzia. Eppure avevo sopportato bene la fatica,
tanto che Aurore, radiosa, felice di vedermi, mi disse: “Ah,
eccoti qua, finalmente: fresco come una rosa, e rosa come una
rapa”. Che tipo!
A Port-Vendres ci eravamo imbarcati per Barcellona, e
dopo una settimana eravamo salpati da lì per Maiorca. Al ri-
torno ci eravamo fermati per quasi tre mesi a Marsiglia, fa-
cendo una gita a Genova. A Marsiglia – città vecchia ma non
antica, ...e sporca – un bravo medico con i suoi vescicanti, la
dieta, le pillole, i bagni, e Aurore con le sue angeliche cure mi
avevano rimesso in salute: magro da fare spavento, pallido
come un lenzuolo, ma in salute (e affamato). Il 22 maggio par-
timmo per Nohant, dove restammo fino alla metà d’ottobre.
Julian Fontana, che avevo seppellito sotto una valanga di
istruzioni, alla fine, dai e dai, era riuscito a trovare in affitto
un bell’appartamento per me in rue Tronchet, e per Aurore
due padiglioni nel giardino di un palazzo, al n. 16 della rue
Pigalle. In uno dei padiglioni andò ad abitare Aurore con i
ragazzi, nell’altro potevo fermarmi io se dopo la cena non mi
andava di tornarmene a casa. Ma dopo quasi due anni mi sta-
bilii nel secondo padiglione. Con la mia compagna che pen-
colava a sinistra ci fu un piccolo battibecco a proposito delle
stampe da appendere nella sala in cui avrei fatto le lezioni.
Quando dissi che bisognava scegliere qualcosa, Aurore, sog-
ghignando, si offrì di occuparsene personalmente: “Ci pen-
serò io, so cosa serve”, esclamò, e scoppiò a ridere come una

79
matta. “Cercherò una grande riproduzione del Concerto cam-
pestre di Giorgione: la musica e le nudità femminili saranno
l’ideale per le tue caste miss”. Immaginai i commenti non tan-
to delle caste miss quanto dei chaperon... La brillante solu-
zione che avevamo escogitato faceva sì che le mie allieve po-
tessero un po’ di soppiatto ma decentemente venire nel mio
padiglione durante la giornata, mentre nessuno era tenuto a
sapere se la sera Aurore traversava il giardino e bussava ad
un’altra porta. Il castelluccio delle apparenze fu perfetto.
Fu perfetto. Prima, però, finché abitai ufficialmente a rue
Tronchet, il mio rientro in società mi sembrò furtivo, e non
mi soddisfece. Parlai ad Aurore anche di questa mia insoddi-
sfazione, di questo mio disagio. Rifletté un momento. “Do-
vresti dare un concerto”, mi disse. Posò il sigaro e batté con
forza il pugno sinistro sul palmo della mano destra. “Dovre-
sti dare un concerto. Il Tout-Paris non potrebbe lasciarsi
scappare un evento così straordinario. Parlane con Habe-
neck, sarà felice di mettersi a tua disposizione con la sua or-
chestra”. “Per l’amor del cielo, Aurore”, replicai spaventato,
“Per l’amor del cielo, non posso pensare a suonare di nuovo
i miei concerti. Ho il terrore di ritrovarmi a lottare con l’or-
chestra. E poi i miei pezzi da concerto sono cose vecchie. Ho
la debolezza di credere che le mie creature più recenti sia-
no migliori”. “Giusto”. Aurore, meditabonda, riprese il siga-
ro e lo rigirò fra le dita. Di botto me ne puntò contro la brace
ardente della punta, tanto che sobbalzai: “Giusto. Ma allora
bisogna pensare a qualcosa di più intimo, e di più esclusivo.
Liszt adesso suona da solo, fa, come dice lui, il recital. Fallo
anche tu”. L’idea mi sembrò buona, e mi tentò: “Un recital?
Forse. Ma non in una grande sala. Da Pleyel, magari”. “Quan-
ti posti ci sono, nella Sala Pleyel?”. “Più o meno trecento”.
“Non è male. Anzi, è proprio quello che ci vuole per mette-
re un sacro fuoco sotto al popò delle tue miss. Fissa un prez-
zo alto, farai per giunta un buon incasso. All’opera, maestro”.
Gettò via il sigaro e mi abbracciò.
Mi ero già pentito di essermi lasciato scappare quello che

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mi ero lasciato scappare. Ma ero ormai incastrato, Aurore non
mi avrebbe dato più requie. E non me ne diede, come ho già
detto. Fissai il costo del biglietto, e i biglietti andarono esau-
riti in un baleno (incassai seimila franchi). Feci il recital il 26
aprile 1841, vennero a sentirmi Kalkbrenner, Berlioz, Liszt,
Mickiewicz, Heine, Delacroix e uno stuolo di profumate dame
e damine froufrounnantes con i loro cavalieri. Liszt, che pro-
prio il giorno prima aveva suonato nel Conservatorio il Con-
certo n. 5 di Beethoven sotto la direzione di Berlioz, pubblicò
nella Gazette musicale una recensione osannante, osannante
ma anche criticamente intelligentissima: “Rivolgendosi ad una
società piuttosto che ad un pubblico, Chopin poteva mostrar-
si qual era: poeta elegiaco, profondo, casto e sognatore. Non
aveva bisogno né di stupire né di trascinare, sin dai primi ac-
cordi tra lui e il suo uditorio si è stabilita una stretta comunica-
zione”. Léon Escudier scrisse sulla France musicale una frase
che mi piacque immensamente e che mi fece ricordare quello
che avevo detto a Elsner tanti anni prima (tanti? meno di dieci,
ma per me era come se fosse passato un secolo): “Si può dire
che Chopin è il creatore d’una scuola di pianoforte e d’una
scuola di composizione”. Successo artistico, successo monda-
no, successo finanziario. La mia rentrée era stata trionfale... e
gli effetti che avevo sognato non tardarono ad arrivare.
Durante l’estate terminai la Polacca op. 44, che uscì in no-
vembre. La sorella minore di Delphine Potocka, Ludmila, che
era stata una delle mie prime allieve a Parigi e che aveva spo-
sato il principe di Beauvau, ne aveva accettato con entusiasmo
la dedica: il mio mondo era di nuovo prono ai miei piedi.

Di una borsa di studio che mi fu negata, di come il mio


amico Nidecki riuscì a Vienna meglio di me, di Hummel e
Czerny e dei loro protetti

Mi capita talvolta di ripensare a Vienna, in parte con gioia, in


parte con disappunto. Con gioia, perché Vienna mi costrin-

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se, in un certo senso mio malgrado, a diventare quello che so-
no, e con disappunto, perché nulla di quanto avevano imma-
ginato e sognato per me i miei concittadini si realizzò. Dovrei
essere contento e in pace con me stesso, e lo sono. Talvolta
non posso tuttavia fare a meno di sentirmi, come dire?, in col-
pa per non essere riuscito a realizzare neppure una scheggia
dei piani che tanto occupavano i sogni dei miei compatrioti.
Vero è però che la mia patria mi offrì il suo cuore senza apri-
re i suoi forzieri.
Che cosa c’era, di strutturalmente sbagliato, nella mia se-
conda andata a Vienna? Prima di tutto, credo, il fatto che ci
fossi arrivato senza una borsa di studio governativa, e quindi
con la preoccupazione, per non pesare troppo sulle magre fi-
nanze di mio padre, di dover fare immediatamente dei gua-
dagni. Già nel 1829 papà aveva presentato al Ministro della
Pubblica Istruzione la domanda per la borsa di studio, con-
tando sul fatto che l’anno prima una borsa era stata assegna-
ta al mio condiscepolo Tomasz Nidecki. “In questo momen-
to”, aveva scritto papà, “mio figlio ha soltanto bisogno di vi-
sitare dei paesi stranieri, in particolare la Germania, l’Italia e
la Francia, al fine di potersi formare sufficientemente, par-
tendo da buoni esempi”. Il Ministro della Pubblica Istruzio-
ne diede parere favorevole. Ma il Ministro dell’Interno e del-
la Polizia, il cui parere era d’obbligo, scrisse in calce alla do-
manda di non poter consentire che “fondi pubblici servisse-
ro ad incoraggiare tali artisti”. Stupido idiota! Nel 1830 mio
padre non ripresentò l’istanza, che sarebbe stata sicuramen-
te respinta per la seconda volta, ed io mi trovai a Vienna ad
amministrare un piccolo gruzzolo che, come ho già detto, ve-
devo scemare con terrore e vergogna.
Nidecki, che aveva tre anni più di me, era un simpatico ra-
gazzo. Si chiamava Tomasz, ma aveva un secondo nome che
nascondeva accuratamente, Napoleon. Si capisce, era nato
quando l’imperatore francese faceva ancora tremare tutta
l’Europa, mentre nel 1830... Comunque Tomasz Napoleon
era, è un musicista ferrato. Rimase a Vienna per una decina

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d’anni, scrisse diverse opere (in tedesco, nessuna in polacco),
da qualche tempo è il sovrintendente dell’Opera di Varsavia
ed ha sposato la figlia di Elsner. Avevo rivisto Tomasz a Vien-
na nel 1829, e avevo avuto da lui una grande prova d’amici-
zia perché mi aveva aiutato nella correzione delle parti d’or-
chestra delle mie Variazioni op. 2. Mi era stato sempre vici-
no, aveva sinceramente gioito del mio successo, mi aveva ac-
compagnato alla stazione delle diligenze al momento della
partenza: un vero amico, insomma.
Lo rividi nel 1830, ci ritrovammo spesso insieme, e la sua
vicinanza, solo e abbandonato come mi sentivo, fu per me
molto confortante. Il grande costruttore di pianoforti Graff,
che dopo avermi ascoltato nel 1829 mi stimava sinceramen-
te, mi aveva fatto avere un bellissimo strumento, che troneg-
giava nel grazioso appartamento in cui vivevo, ospite pagan-
te della bella baronessa vedova. Tomasz, che con la sua bor-
sa di studio era riuscito a procurarsi appena uno sganghera-
to pianoforte a tavolo, veniva quasi ogni giorno da me per stu-
diare. Una volta mi disse: “Io suono il pianoforte come suo-
no il violino, non da virtuoso, anzi, tutt’altro. Conoscere il
violino mi servirà per dirigere l’orchestra, conoscere il pia-
noforte mi servirà per istruire i cantanti”. “Pensi di compor-
re prima o poi l’opera nazionale polacca?”, gli chiesi. “Non
ci tengo”, rispose scuotendo la testa, “quella la dovrai com-
porre tu, è questo che tutta Varsavia, che tutta la nostra po-
vera Polonia si aspetta da te”.
Rimasi interdetto. Persino Tomasz, così dotato ma così
modesto, aveva abdicato alle ambizioni di ogni compositore
polacco perché tutte le speranze nazionali si erano concen-
trate su di me. Rabbrividii. E replicai: “Credo onestamente
che tu sia più adatto di me per il mestiere di operista. Sei mu-
sicista nel profondo, e il teatro musicale ti interessa molto più
di quanto interessi a me”.
“È vero che il teatro mi interessa, ed io so di essere stato il
migliore allievo di Elsner, ...però fino a che non sei arrivato
tu”.

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“Elsner non è di questo parere, ti stima quanto stima me”.
E infatti, come ho già detto, Elsner mi avrebbe scritto un an-
no dopo di non aver “mai pensato di fare di te o di Nidecki
un allievo”. Strinsi affettuosamente il braccio a Tomasz, e ri-
petei: “Il Maestro ti stima quanto stima me”.
Commosso per la mia amicizia, ma non scosso nelle sue
certezze, Tomasz sospirò, pensieroso. Tacemmo per qualche
istante. “Il discorso ha preso una piega inattesa, Frycek, e che
mi mette un po’ in imbarazzo”, riprese sorridendo il mio ami-
co. “Ritorniamo all’inizio. Quel che volevo chiederti, e che ti
parrà strano, a me farebbe un immenso piacere e mi rende-
rebbe un gran servizio. Non sono un virtuoso, ma il pia-
noforte lo so suonare e sono tenace nello studio. Ecco, il tuo
Concerto in mi minore mi piace talmente che, con il tuo per-
messo, vorrei studiarlo e, se ci riesco, vorrei eseguirlo in pub-
blico. Il periodo della mia borsa di studio sta per scadere e ci
terrei a ripresentarmi a Varsavia con qualche articolo di gior-
nale che parlasse bene di me, come è avvenuto a te lo scorso
anno”.
Che caro compagno! E che candore! Il Concerto in mi mi-
nore era una delle carte che intendevo sfoderare a Vienna, se
qualcuno mi avesse usato la misericordia di scritturarmi. Era
una parte non marginale del mio capitale artistico. Tuttavia
cedetti volentieri, sospettando in verità che Tomasz non ce
l’avrebbe fatta ad impararlo, il Concerto, e tanto meno a tro-
vare chi glielo facesse suonare. “La musica è lì sul mio tavo-
lo”, gli dissi, “comincia quando vuoi. Però, ...potrei compor-
re un concerto per due pianoforti, tenendo conto delle tue e
delle mie caratteristiche, e potremmo suonarlo insieme. Che
ne dici?”. Tomasz mi abbracciò, entusiasta.
L’idea mi era balenata lì per lì ma non mi abbandonò. Scri-
vendo ai miei il 22 dicembre li misi a parte del progetto: “Ni-
decki viene da me ogni mattina. Quando avrò scritto un con-
certo per due pianoforti lo suoneremo insieme in pubblico.
Ma prima di tutto bisogna che io mi faccia sentire da solo”.
Ci credevo ancora, alle mie chances di tenere un concerto, ed

84
avevo persino discusso con Wilhelm Würfel, mio vecchio in-
segnante d’organo a Varsavia che si era trasferito a Vienna, se
convenisse di più fare per primo il Concerto in fa minore o il
Concerto in mi minore. Il 1° dicembre avevo scritto ai miei
dicendo: “Ho passato questa settimana ad occuparmi del mio
naso” – ero raffreddatissimo – “e ad andare a teatro e da
Graff, dove suono tutti i giorni per sciogliere le mie dita in-
torpidite dal viaggio. Ieri gli ho presentato Nidecki. Non so
davvero come ho passato questa settimana, non abbiamo
avuto il tempo di distrarci, e nulla è stato ancora deciso a pro-
posito del mio concerto. Domanda. Quale concerto dovrei
suonare: in fa o in mi? Würfel sostiene che il Concerto in fa
è più bello di quello in la bemolle maggiore di Hummel, che
è stato appena pubblicato”. Würfel precorreva i tempi al
punto da sconsigliarmi vivamente di suonare gratis. E Graff
mi consigliava di scegliere – di scegliere! – la Landständi-
scher Saal, il migliore e il più bel posto che ci fosse per i con-
certi. Sempre il 1° dicembre affrontavo questo argomento
con i miei: “Per potervi suonare ci vorrà l’autorizzazione di
Dietrichstein” – l’intendente dei teatri, amico di Beethoven,
che si era vivamente complimentato con me nell’agosto del
’29 – “autorizzazione che mi sarà facile ottenere grazie a Mal-
fatti. Va tutto bene. Spero che grazie a Dio e a Malfatti (al-
l’eccellente Malfatti) tutto andrà meglio ancora”.
Vivevo il mio sogno, ed ero baldanzoso. Due mesi più tar-
di, scrivendo a Elsner, dipingevo una situazione per me non
più così rosea: “Spero che voi, Signore, che mi conoscete, non
mi rimprovererete per aver lasciato che i miei sentimenti per
il mio paese prendessero tutta la mia attenzione e per non es-
sermi ancora occupato di organizzare un concerto. Difficoltà
incomparabilmente più grandi di prima ostacolano oggi del
resto questo progetto. Non soltanto una sequela ininterrotta
di concerti di pianoforte, mediocri, che corrompono questo
genere di musica, ne hanno allontanato il pubblico, ma so-
prattutto gli avvenimenti di Varsavia hanno trasformato la
mia situazione a Vienna tanto spiacevolmente quanto avreb-

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bero potuto agire in mio favore a Parigi. Ho tuttavia la spe-
ranza che tutto in qualche modo s’aggiusterà e che potrò, al
tempo del carnevale, fare sentire il mio Concerto in fa mino-
re, il favorito di Würfel”.
Poi riferivo a Elsner di Nidecki: “A proposito di Nidecki,
sono andato ieri con lui da Steinkeller, che gli ha commis-
sionato un’opera”. Rudolph Steinkeller era il proprietario
del Leopoldstadttheater; eravamo diventati buoni amici e al-
la mia partenza da Vienna mi avrebbe prestato del denaro
nell’attesa che ricevessi il “piccolo rinforzo” di mio padre.
Eravamo amici, ...ma neppure lui poté rischiare con me, per
farmi fare un concerto. Poi proseguivo così: “Schuster, cele-
bre buffo, canterà, Nidecki può farsi un nome. Questa noti-
zia, spero, vi farà piacere. Lui ha sì ricevuto la commissione
dell’opera, ma non ancora il denaro. Nidecki ha imparato di
sua propria iniziativa il mio Concerto in mi minore. Doven-
do farsi sentire in pubblico a Vienna prima della sua parten-
za e non avendo nient’altro di suo che delle belle variazioni,
mi ha richiesto il mio manoscritto. Ma a questa situazione è
stato posto rimedio e Nidecki si produrrà, come composito-
re invece che come virtuoso. Vi scriverà lui stesso a questo
proposito. Farò eseguire la sua ouverture nel mio concerto.
Spero che vi faremo onore (a meno che non vi facciamo on-
ta. Aloys Schmidt, pianista di Francoforte, è stato qui ben
maltrattato; vero è che ha più di quarant’anni e la musica che
compone ne ha ottanta)”.
Io mi illudevo ancora di riuscire a farmi scritturare, e pen-
savo di adoperarmi per Nidecki includendo nel programma
una sua ouverture. La realtà era invece che Tomasz, non io,
s’era imbattuto in un inatteso colpo di fortuna. L’opera che
gli era stata commissionata da Steinkeller, Kathi von Holla-
brunn, andò in scena nel 1831 e gli procurò la commissione
per Schneider, Schlossel und Tischler, rappresentata pur essa
nel 1831. Così, allo scadere della borsa di studio Nidecki ri-
mase a Vienna come libero professionista, diresse il Leo-
poldstadttheater di proprietà di Steinkeller e si costruì la fa-

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ma che lo portò a tempo debito alla sovrintendenza dell’O-
pera di Varsavia.
Posso ben dire che a Vienna le tentai tutte, ...cannando
tutti gli obbiettivi perché dell’ambiente musicale conoscevo
soltanto quello che mi era concesso di conoscere, cioè la fac-
ciata. A casa di Würfel, mio vecchio maestro d’organo, buon
pianista stimato da Beethoven e che a Vienna si era guada-
gnato una tranquilla posizione come quarto maestro della
cappella di corte, a casa di Würfel, dicevo, che per me si sa-
rebbe gettato nel fuoco ma che non aveva alcun potere, co-
nobbi un giovane violinista di Praga, Josef Slavik, virtuoso
sensazionale, secondo solo a Paganini. Era stato molto amico
di Schubert, che gli aveva dedicato una fantasia per violino e
pianoforte, ed era bene accolto ovunque. Simpatizzammo
immediatamente. “Tornate a casa?”, mi disse quando ci con-
gedammo da Würfel. “Ma sì”. “Ebbene, venite piuttosto con
me dalla vostra compatriota, la signora Bayer”. Per una Bayer
avevo una lettera di presentazione che non ero riuscito a con-
segnare perché a Vienna ce ne sono migliaia, di Bayer. “Be-
ne”, risposi a Slavik, “ma devo passare a prendere una certa
lettera”.
La Bayer della lettera era proprio la Bayer da cui mi portò
Slavik. Aveva sentito parlare di me, mi invitò a pranzo, anzi,
ci invitò a pranzo per la successiva domenica. Il 22 dicembre
riferii ai miei ciò che avvenne: “Slavik suonò e, Paganini a
parte, mi incantò. Il modo di suonare di Mia Maestà gli piac-
que, e decidemmo di scrivere insieme un duo per violino e
pianoforte di cui già a Varsavia avevo avuto l’idea. È un gran-
de artista, un violinista geniale. Quando avrò fatto la cono-
scenza di Merk, che trio formeremo! Devo vedere Merk mol-
to presto”. Suonai con Merk, grande violoncellista, gli dedi-
cai la Polacca che avevo scritto per il principe Radziwiłł. Ma
né scrissi il duo con Slavik né suonai in pubblico con lui e con
Merk. I burattinai che tenevano in mano i veri fili del potere
erano altri, e per quanto riguardava il pianoforte erano due:
Hummel e Czerny.

87
Hummel fu con me di una gentilezza squisita, mi presentò
al direttore del Kärthenthortheater, portò da me suo figlio,
disegnatore, che mi fece il ritratto (assai somigliante). Ma nel
suo cuore, e nei suoi interessi di didatta autore di un metodo
monumentale c’era Sigismund Thalberg, suo allievo, che si
era presentato al pubblico di Vienna il 3 aprile 1830 con il se-
condo e il terzo tempo di un suo Concerto in fa minore. Co-
nobbi Thalberg, come ho già detto, e pur frequentandolo
non provai per lui alcuna simpatia, né come artista né come
persona. Lui guardò i miei concerti, apprezzandone soltanto
le parti in cui suonava la sola orchestra... Thalberg era stato
compagno di studi del Duca di Reichstadt, cioè del figlio di
Napoleone e dell’arciduchessa Maria Luisa d’Austria. E chi
era stato l’istitutore del Duca di Reichstadt? Ma il conte Mo-
ritz Dietrichstein che, si diceva, era il padre naturale di Thal-
berg. Che interesse poteva mai avere Hummel, e Dietrich-
stein con lui, a muovere le leve del potere per far conoscere
al mondo un oscuro polacco, autore di due concerti e di tre
pezzi da concerto che avrebbero forse fatto ombra alla fama
nascente dell’astro Thalberg?
Carl Czerny era il didatta che succedeva a Hummel come
continuatore della grande scuola pianistica di Vienna. Liszt e
un bel po’ di fulgide promesse del pianoforte avevano stu-
diato con lui, e lui era effettivamente un abilissimo istruttore.
Gli ero stato presentato nell’agosto del ’29, mi aveva sentito
e si era molto complimentato con me, ero stato più volte a ca-
sa sua ed avevamo suonato insieme a due pianoforti. Scri-
vendo ai miei avevo lasciato cadere sul suo conto una picco-
la malignità: “È più sensibile e più tenero di tutte le sue ope-
re”. E scrivendo a Titus avevo detto che Czerny era “un bra-
vuomo, niente di più”. Non ero stato più... benevolo nel di-
cembre del 1830: “Sono andato da Czerny. Cortese come
sempre e con tutti, mi ha chiesto se avevo studiato assidua-
mente. Ha trascritto un’altra ouverture per otto pianoforti e
sedici esecutori ed è soddisfatto!”. Con Czerny, che era vera-
mente un bravuomo, mantenni tuttavia rapporti amichevoli.

88
Chissà, pensavo, avrebbe potuto aiutarmi. Come mi illudevo!
Czerny doveva concentrare tutte le sue forze per curare l’e-
sordio di un suo allievo, Theodor von Döhler, più giovane di
me di quattro anni, nato a Napoli da genitori tedeschi ma
protégé del Duca di Lucca, che lo aveva mandato a Vienna
pagandogli gli studi.
Il 28 maggio assistetti ad un concerto in cui suonarono un
mediocre violinista di nome Herz, che avevo già ascoltato a
Varsavia, e Döhler. Döhler eseguì musiche di Czerny, Herz
certe sue variazioni su un tema polacco. “Poveri temi polac-
chi!”, scrissi ai miei, “voi non sapete con quali canzoni ebrai-
che sono stati avvelenati, pur chiamando ciò musica polacca
per attirare il pubblico! Provatevi poi a difendere la musica
polacca, provatevi a parlarne con conoscenza di causa, e vi
tratteranno come dei pazzi, tanto più che Czerny, il fabbri-
cante viennese, specialista di pasticcini musicali, non ha an-
cora preso dei motivi polacchi come temi per le sue variazio-
ni”. Ero un po’ acido, in verità, ma a veder trattare così su-
perficialmente la musica polacca ci soffrivo, e non poco.
Non si può dire che Döhler non abbia poi contribuito ad
accrescere la fama del didatta Czerny. Già dopo l’esordio a
Vienna fu nominato, a diciassette anni, virtuoso di camera del
Duca di Lucca, compose studi e pezzi favoriti dai dilettanti,
girò molto in Europa e venne a Parigi, dove conquistò il cuo-
re di Cristina di Belgjoso. Cosa io pensi del suo unico Con-
certo, op. 7, lo rivela una frase un po’... spinta che scrissi a Ju-
lian Fontana da Nohant, nel 1839 (con gli amici, qualche vol-
ta, mi faccio tentare dal linguaggio goliardico): “Se Mosche-
les è già arrivato a Parigi fagli fare un clistere con gli oratori
di Neukomm, avvelenato con il Cellini e con il Concerto di
Döhler”. Ahimé, anche il Benvenuto Cellini del mio amico
Berlioz, visto nel 1838, non mi aveva entusiasmato...
Insomma, quando arrivai a Vienna con grandi speranze e
grandi illusioni non sospettavo minimamente di essere entra-
to in un soavissimo tritacarne. Sarebbe andata diversamente,
se avessi avuto la borsa di studio? Probabilmente sì. Ma, co-

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me dicevo, non sarei diventato quello che sono... E adesso?
Olé, compañeros, come si dice a Maiorca: sono un illustre ca-
poscuola – lo ha sancito Escudier – sia del pianoforte che del-
la composizione.

Di alcuni miei vecchi compagni di studio, del castello


di Antonin e dei pericoli che si corrono con le allieve graziose,
e delle avventure parigine del mio vecchio amico Jozéf

Con i miei compagni di studio ho mantenuto pochi contatti.


Mi spiace sinceramente di non aver più rivisto Tomasz Na-
poleon Nidecki, per il quale provavo un affetto profondo ed
intenso. Mi spiace moltissimo di non aver più visto Titus
Woyciechowski. Nel 1839, mentre mi trovavo a Nohant, i
miei mi fecero sapere che Titus mi consigliava di comporre
un oratorio. Pregai i miei di chiedergli perché lui non co-
struiva un chiostro per i camaldolesi o per i domenicani in-
vece di una fabbrica dello zucchero. E aggiungevo, parlan-
done con Fontana: “Il bravo Titus possiede ancora un’im-
maginazione da collegiale, cosa che non mi impedisce di
amarlo come quando eravamo al liceo. Ha avuto un secondo
figlio e gli ha dato il mio nome. Lo compatisco”.
Julian Fontana, che mi ha reso generosamente dei servizi
da segretario e da factotum, è un compagno di studi con il
quale ho mantenuto stretti rapporti. Ho visto spesso Antoni
Orłowski fino a quando è rimasto a Parigi, e su sua richiesta
sono andato a Rouen, dove si era trasferito, per tenervi un
concerto. Fu un bel concerto. Il mio amico Ernest Legouvé
venne a sentirmi e pubblicò nella Revue et Gazette musicale
un inno che finiva così: “Animo, Chopin, animo! Che questo
trionfo vi decida; non siate egoista, date a tutti il vostro bel
talento. Consentite a passare per quello che siete, conclude-
te il dibattito che divide gli artisti, e quando si chiederà chi
sia il primo pianista d’Europa, se Liszt o Thalberg, che tutti
possano rispondere come quelli che vi hanno ascoltato: è

90
Chopin”. Amichevole, e sincero, ...ma incompetente. Liszt,
lui sì, che ci aveva preso.
Ho visto a intermittenza Jozéf Nowakowski, conosciuto a
Sanniki. Nowakowski, allievo di Elsner e di Würfel, è di die-
ci anni più anziano di me ma, in quanto a testa, è un eterno
pargolo. Mi è già accaduto di ricordare le mie vacanze a Sza-
farnia. Ci andai due volte, nelle estati del 1824 e del 1825,
presso una famiglia amica dei miei genitori. Nel 1828 passai
invece l’estate a Sanniki, nel 1829 fui ospite del principe Rad-
ziwiłł ad Antonin, in un magnifico castello con attorno un
enorme parco.
Oh!, Antonin, Antonin, come ho fatto a dimenticarti quan-
do parlavo dei miei trascorsi di dongiovanni da flirt! Il princi-
pe – gran signore che suonava il violoncello e componeva, com-
pose persino le musiche di scena per il Faust di Goethe – aveva
due figlie, Elise e Wanda. Come tutte le ragazze dell’aristocra-
zia che o suonano il pianoforte o cantano, anche Elise e Wan-
da erano musiciste. Ed io, musicista, non potevo venir meno ai
doveri che chi viene ospitato ha verso chi lo ospita, specie se l’o-
spitalità, è proprio il caso di dirlo, è principesca. Per il princi-
pe violoncellista scrissi la Polacca che pubblicai più tardi a
Vienna (“effetti brillanti per i salotti e per le dame, niente di
più”, dissi a Titus), e gli dedicai il mio unico Trio, che piaceva
alla follia a lui e ad Elise. Ad Elise e a Wanda diedi delle lezio-
ni di pianoforte, ...provandoci gusto. Lo scrissi a Titus: “Vole-
vo che la principessina Wanda potesse imparare questa Polac-
ca. Le ho dato delle sedicenti lezioni durante il mio soggiorno.
È giovane, diciassettenne, e graziosa e, per Dio, è molto piace-
vole metterle le dita sulla tastiera. Ma, scherzi a parte, ha vera-
mente molto sentimento musicale. Non c’è bisogno di dirle: qui
crescendo, là piano, o più svelto, o più lento, eccetera. Non ho
potuto rifiutare di mandare ad Antonin una copia della mia Po-
lacca in fa minore, che interessa alla principessa Elise”.
Il contatto fisico che si stabilisce in certi momenti fra il
maestro di pianoforte e l’allieva, beninteso se l’allieva è bella,
ben di rado è totalmente casto. E questo lo si sa a tal punto

91
che nessuna signora in età non sinodale, e nessuna signorina
in attesa di marito fa la sua lezione se non in presenza di una
anziana dama di ineccepibile moralità, lo chaperon, pronta
ad intervenire se qualche gestuzzo o parolina appaiono am-
bigui o sospetti. Ma può il povero chaperon capire se, cor-
reggendo la posizione della mano dell’allieva, i polpastrelli
del maestro indugiano nel contatto perché così esige la sua
scienza o perché così esige il piacere di una carezza lieve e
bruciante? Quando parlavo tranquillamente con Francilla,
lei sul pianerottolo, io alla sommità della scala, improvvisa-
mente fummo presi entrambi da un inspiegabile tremore, in-
spiegabile perché arrivò in quel preciso momento, spiegabi-
lissimo in relazione con ciò che lo causava. E se in quel pre-
ciso momento avessi dovuto prendere la mano di Francilla
per condurla nella posizione che io ritengo quella giusta per
salire sulle scale, sulle altre scale, intendo, quelle con diesis e
bemolli, beh!, penso che uno chaperon non proprio orbo o
sonnacchione avrebbe avuto qualche motivo di allarmarsi.
Ma stavo parlando di Nowakowski. Ero arrivato a Parigi da
poco più di sei mesi quando ricevetti una sua lettera... esplora-
tiva. “Caro Nowakosiu”, gli risposi, “quello che mi chiedi mi
tocca il cuore e l’anima. Tu sai quanto sarei felice di vederti qui,
di suonare e di sospirare con te, di scambiare le nostre impres-
sioni e di trovare insieme delle distrazioni. Soltanto, non parti-
re senza denaro per non trovarti in difficoltà. A Parigi è molto
difficile avere degli allievi e più difficile ancora è organizzarvi
dei concerti. La società è preoccupatissima per diverse que-
stioni e soprattutto per la situazione politica. Questa paralizza
tutto il paese. Per di più, c’è qui una vera moltitudine d’asini e
di diavoli che ostacolano i talenti autentici e che impediscono
loro di prodursi dignitosamente. Il pubblico è stato ingannato
da così tanti ciarlatani che non ha più fiducia in nessuno”.
Per quella volta Jozéf rinunciò, ma più tardi arrivò bel bel-
lo a Parigi, e mio padre mi raccomandò di aiutarlo. Poi ri-
tornò a Varsavia, sempre cercando cocciutamente l’occasio-
ne per aprirsi una strada nella capitale francese e frequen-

92
tando ingenuamente i miei per ingraziarseli. A Parigi, ostina-
to come un mulo, ricapitò dunque come si va alla Terra Pro-
messa. Arriva, viene a trovarmi, si commuove, mi abbraccia,
balbetta con la sua voce acuta che sembra una trombetta in-
fantile: “Che piacere, che piacere, dopo tanto tempo. Come
stai? Ti trovo bene, un po’ smagrito, ma stai bene, hai un bel-
l’aspetto. Che piacere!”.
“Il mio peso, Jozéf carissimo, va un po’ su d’estate, quan-
do sono a Nohant, e va un po’ giù quando sono a Parigi. E
anche la mia tosse fa l’altalena. C’è chi dice che tossisco con
grazia infinita, la mia tosse è come un abbellimento, un trillo.
Io però dò la preferenza al canto spianato, non al canto or-
nato. Quello che non cambia mai è il mio naso”.
Menavo il can per l’aia perché un oscuro timore mi vieta-
va di rispondere a Nowakowski nel modo più ovvio. Lui si
mise a ridere rumorosamente: “Oh!, il naso, il tuo naso! È an-
cora sempre il tuo tendine d’Achille?”.
Non risposi, e non risi. Io posso scherzare sul mio naso,
non gli altri. E se lo fanno sono molto suscettibile. Feci un
passo indietro, l’oscuro timore si era dissolto: “Come sta il
mio figlioccio?”, chiesi cortesemente. Avevo tenuto io a bat-
tesimo il primo marmocchio che Nowakowski aveva messo al
mondo, e quindi la domanda era del tutto pertinente.
“Sta benone”, rispose Jozéf, “grande e grosso quanto me,
è ormai vicino ai vent’anni. Ti saluta, ti saluta tanto affettuo-
samente”.
“E come sta la madre?”.
“Non so”, rispose farfugliando, “non la vedo da tempo”.
E arrossì violentemente. Nowakowski aveva ingravidato la
governante di casa Pruszak, a Sanniki. La ragazza, con le oc-
chiaie segnate dalle notti insonni e con i conati di vomito che
le capitavano di frequente, aveva messo in sospetto la con-
tessa Pruszak, che aveva svolto le sue brave indagini. E su
quale furfante l’avevano indirizzata, le sue brave indagini?
Ma su Fryderyk Chopin, per la buona ragione che il candi-
dissimo Fryderyk Chopin era stato visto più volte, la sera in

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sul crepuscolo, a passeggio in giardino in compagnia della go-
vernante. Durai fatica a convincere madama di essere inno-
cente come un agnellino, e fra le tante ragioni che esposi feci
scivolare anche quella che con la ragazza era piacevole con-
versare ma che, insomma, non provavo per lei alcuna attra-
zione fisica. “Ella non è incantante”, scrissi a Titus (l’ho già
detto, mi pare), al quale raccontai tutta la faccenda usando
l’italiano per evitare che ne avesse notizia in casa Woycie-
chowski chi avesse visto per caso la mia lettera.
Nowakowski aveva patito molto questa tragicomica vi-
cenda e si era vergognato – a ragione, per dindirindina! – per
non essersi subito fatto avanti quando tutti sapevano che in
cima alla lista dei sospettati c’ero io. Aveva poi riconosciuto
il marmocchio, che era stato dato in adozione, mentre la ra-
gazza era stata rimandata a Danzica, la sua città. Non era una
vicenda di esemplare moralità e Nowakowski si sentiva in
grave imbarazzo se qualcuno gliela resuscitava. Vedendolo
arrossire, il risentimento che avevo provato nei suoi confron-
ti sparì di colpo. Lo feci sedere in poltrona, gli chiesi che co-
sa facesse a Parigi. Arrossì di nuovo, ma in modo diverso.
“Avrei degli studi che... Ma questo non è veramente impor-
tante. Ti ho portato le Canzoni Popolari raccolte da Oskar
Kolberg. Penso ti interessino”.
“Certamente sì”. Oskar è il fratello di Wilhelm Kolberg,
mio grande amico al tempo dei miei anni da studente: per lui
avevo scritto nel 1826 la Polacca in si bemolle minore, usando
per la parte centrale, quale simbolo di affettuosa amicizia, il te-
ma “Vieni fra queste braccia” della Gazza ladra di Rossini che
avevamo visto insieme, divertendoci molto. In verità, dopo
averle lette, pensai che le canzoni raccolte da Oskar fossero
una dimostrazione lampante di buone intenzioni e di spalle
troppo gracili. Realizzazioni come queste mi portano a pensa-
re che sarebbe meglio non avere nulla, perché un lavoro così
imperfetto può soltanto disorientare le ricerche del genio che
arriverà un giorno alla verità e che saprà restituire a queste bel-
lezze tutte il loro valore. Fino a quel momento queste canzoni

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rimarranno mascherate sotto il belletto e sfigurate da nasi fin-
ti. Con le gambe tagliate, oppure appollaiate sui trampoli su-
sciteranno soltanto la curiosità maligna degli osservatori su-
perficiali. Comunque, questo lo penso adesso. A Nowakowski
risposi soltanto: “Certamente sì. Mi interessano. Grazie. Ma
che mi dicevi degli studi, degli studi tuoi, immagino?”.
Le guance di Jozéf avevano sempre il colore delle ciliegie
mature e la sua voce suonava più che mai come una trombetta
infantile. “Sì, sono tredici studi che ho composto. Vorrei, con
il tuo permesso, dedicarli a te. E naturalmente mi farebbe
tanto piacere se un editore di qui...”.
“Ho capito. Ti ringrazio. Lasciami gli studi, vedrò quello
che posso fare”.
Il colore di ciliegia si mutò di botto in colore d’aglio. Se
non fosse stato seduto, Jozéf sarebbe di sicuro piombato a
terra. Essere pubblicato a Parigi! A Parigi, caspio! Era un
mondo nuovo e favoloso che si spalancava davanti ai suoi oc-
chi imbambolati. Mi fece tenerezza, aprii il manoscritto che
mi porgeva con mano tremante, ...e mi bastò un’occhiata:
troppo vecchio, Jozéf, sia per imparare qualcosa di nuovo che
per mettere ordine nel suo cervello. Ma un bravuomo. Quel-
lo che gli si mette in bocca lo mangia. Capii che mi piaceva
qual era, povero Nowakowski, e lo aiutai come potevo, e gli
studi a me dedicati vennero pubblicati.
In verità bussai più volte alla sua anima ma non mi rispo-
se mai. La sua capigliatura copriva un gran vuoto, cosa di cui
si rendeva conto lui stesso. Avevo dimenticato che in Polonia
esistevano ancora molte persone che non più di lui sapevano
perché, come, di che vivere. Lo aiutai. Ma era persino una fa-
ticaccia, aiutarlo.
Il mio amico Franchomme, il violoncellista, gli propone
una sera di andare in visita in un posto in cui si possono co-
noscere molte persone importanti e in cui si può sentir can-
tare una stella del teatro italiano come Lablache. Non ne vuo-
le sapere (e Franchomme commenta con me: “È un perfetto
imbecille”). Ha una lettera di presentazione per Jules Janin,

95
grande giornalista. Me lo dice. Ci troviamo in una serata dai
Gavard, vedo Janin, voglio presentarglielo: rifiuta. Qualche
giorno dopo viene da me: “Ho consegnato la lettera a Janin.
Scriverà un articolo su di me ma ha bisogno che entro le quat-
tro tu gli mandi per scritto qualche parola sulle mie compo-
sizioni. Lo farai, vero? Ti scongiuro”.
“Sei andato da Janin? Ti ha accompagnato qualcuno?”.
“Sì, ci sono andato. Mi ha accompagnato un suo intimo
amico, un redattore del Courrier”.
“Del Courrier conosco il redattore-capo, Durieu. Era lui?”.
“No. Era Dubois”.
“Non so chi sia. Senti, oggi non posso, scusami. Andrò do-
mani a parlare con Janin. Non sarà un giorno, a cambiare
qualcosa”.
Il giorno dopo vado da Janin: “Sono venuto per...”, ecc.
ecc. “Ma parbleu”, esclama Janin, stupitissimo, “ho detto a
Nowakowski che sarebbe bastata una parolina di Chopin per
raccomandarmelo, non che mi serviva una parolina di Cho-
pin per parlare delle sue opere. E poi, che strano uomo: si è
fatto presentare da un imbecille di cui manco conosco il no-
me”. Scoppiamo a ridere tutt’e due. “Nowakowski”, dico,
cercando di scusarlo, “è una buonissima persona. Ma che ba-
lordo! Del resto, in francese sa dire soltanto garçon de café,
bougie, cocher, dîner, jolie Mademoiselle, bon musique”.
Proprio così. Che balordo! Ma è un bravuomo ed è una
vecchia conoscenza. E con lui posso parlare in polacco. Che
Dio l’abbia in gloria, lui e la sua donna che non fu per me in-
cantante.

Ancora dei miei tormenti a Vienna e della mia amata


Konstancja, alla quale non dissi mai
che l’amavo disperatamente

Come dicevo prima, quand’ero a Vienna mi dispiaceva, per un


certo verso, di non riuscire a fare ciò che a Varsavia tutti s’a-

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spettavano da me, cioè a tenere dei concerti, anche perché,
pensavo, un clamoroso successo mi avrebbe incoraggiato ad
aprirmi finalmente con la ragazza di cui portavo da più d’un
anno l’immagine impressa nel cuore. Ma per un altro verso mi
interessava di più sviluppare ciò che stavo sperimentando in
fatto di linguaggio musicale e di tecnica pianistica. La compo-
sizione che mi diede la chiave per penetrare in un mondo nuo-
vo fu un pezzo in sol minore che fiorì formalmente in un mo-
do per me inesplicabile. Lo cominciai a Vienna, lo terminai a
Parigi quattro anni più tardi. Sembrava un primo movimento
di sonata ma non era un primo movimento di sonata, piutto-
sto una ouverture da concerto ma non proprio una ouverture
da concerto. Alla fine lo intitolai Ballata. C’erano state molte
ballate per canto e pianoforte, nessuna per pianoforte solo o
per strumenti senza voci. Io fui il primo, e con la Ballata in sol
minore capii di poter dare al mondo il corrispettivo musicale
delle Romanze e Ballate di Mickiewicz che tanto mi avevano
impressionato quand’ero ancora un ragazzo.
I miei tormenti a Vienna vorticavano intorno a due argo-
menti: come avrei potuto guadagnare del denaro? Quale sa-
rebbe stato il destino dei miei dal momento in cui, dopo la
rottura delle trattative diplomatiche che avvenne in febbraio,
i russi si mossero per riconquistare la Polonia? Che cosa sa-
rebbe accaduto a mio padre, a mia madre, alle mie sorelle, ai
miei maestri, ai miei amici, ...a Konstancja?
Ho già detto che quando Jan mi parlò di Konstancja, usan-
do per eccesso di prudenza il francese, mi si piegarono le gi-
nocchia e rischiai di andare bell’e disteso sul marciapiede da-
vanti alla posta centrale. Di Konstancja non mi incantava sol-
tanto l’aspetto – era davvero una bella ragazza, e di bellezze
io m’intendo. Mi incantava anche la voce, la sua voce scura di
contralto. Era allieva di Carlo Soliva, compositore italiano di
un certo nome che con la sua prima opera, appena diploma-
to, aveva esordito alla Scala di Milano (il libretto, di Felice
Romani, aveva vinto un concorso la cui commissione giudi-
catrice – Soliva ci teneva a farlo sapere – era presieduta dal

97
celebre poeta Vincenzo Monti). Soliva aveva dedicato a
Beethoven un trio, bene accolto dal dedicatario; era stato poi
in casa di Beethoven, che lì per lì aveva scritto in suo onore
un Canone, “Te solo adoro”. Direttore dal ’21 della scuola di
canto di Varsavia, e direttore d’orchestra all’Opera, Soliva era
un musicista colto e di grande mestiere. Mi diede dei consi-
gli per la orchestrazione dei miei lavori e diresse la prima ese-
cuzione del mio Concerto in mi minore. Adesso abita a Pari-
gi ed è diventato molto amico di George. Ci vediamo, parlia-
mo anche dei vecchi tempi, ...ma mai di Konstancja.
Il debutto teatrale di Konstancja Gładkowska avvenne nel
luglio del ’30, in occasione della sessione annuale del parla-
mento, nell’Agnese di Paër. Il 15 maggio io scrivevo a Titus di-
cendo: “Ieri sera sono stato da Soliva. G. ha cantato un’aria ag-
giunta appositamente da Soliva per lei nell’opera. Dev’essere
un pezzo di buon effetto. A dire il vero, contiene dei passaggi
graziosi e Soliva ha ben adattato certe frasi del pezzo alla sua
voce”. Qualche settimana più tardi Soliva portò Konstancja ed
un’altra allieva dalla Sontag. Io ero presente. Le ragazze ese-
guirono un duetto del loro maestro, “Barbara sorte”, e la Son-
tag, pur lodandole, disse loro che a cantare così aperto c’era il
rischio di perdere la voce! Questa osservazione mi parve ec-
cessiva, e quando ascoltai Konstancja nell’Agnese trovai che la
mia bella non avesse eguali per purezza di voce, intonazione
ed alta qualità di sentimento. Queste doti preclare vennero
confermate due mesi dopo, quando Konstancja cantò la Gaz-
za ladra di Rossini. Le chiesi perciò di prender parte al mio
concerto – anzi, lo chiesi a Soliva, e per... astuzia diplomatica
lo pregai di far partecipare alla serata anche un’altra sua allie-
va. Konstancja, tutta in bianco con una coroncina di rose fra i
capelli, cantò l’aria della Donna del lago di Rossini in un modo
che, in un modo che... mi lasciò basito. Quando partii scrisse
nell’album che mi fu offerto dagli amici due pensieri. Il primo
diceva: “Tu compi i tristi cambiamenti del destino, Noi dob-
biamo rassegnarci. Non dimenticare, o indimenticabile, Che
sei amato in Polonia”.

98
Ah!, per le saette di Giove, se avesse scritto “che sei ama-
to da me”. Ma le avevo forse mai detto di amarla? Le avevo
forse mai chiesto di amarmi? Giravo intorno al castello della
felicità e non ne trovavo la porta d’ingresso. Che diritti pote-
vo vantare sulla signorina Konstancja Gładkowska? Meno di
zero. Che diritto avevo di essere geloso? Meno di zero. Ep-
pure ero geloso, furiosamente geloso, geloso in un modo del
tutto irragionevole. Ma ne avevo ben donde. Una cantante
che calca le scene è un po’ come una merce esposta in vetri-
na, e i militari sono gente che da quando mondo è mondo cer-
ca occasioni di divertimento. Gli ufficialetti della guarnigio-
ne russa, che frequentavano assiduamente il teatro, la mia
Konstancja se l’erano mangiata con gli occhi. L’avrebbero di
nuovo invitata alle serate danzanti del loro circolo, io non sa-
rei stato là a sorvegliare, e... Il 26 dicembre mi sfogai con Jan:
“Konst... (non oso scrivere il suo nome, la mia mano non ne
è degna). Ah! Mi strappo i capelli al pensiero che potrebbe
dimenticarmi. Gresser! Bezobrazow! Pisarzewski! È trop-
po, è troppo! Che Otello sono oggi”.
Chiedevo a Jan di fiutare il vento per capire se Konstancja
avrebbe gradito di ricevere il mio ritratto, quello disegnato dal
figlio di Hummel (i ritratti, si sa, se li scambiano i fidanzati). E
spingevo il mio ardire fino ad includere un bigliettino per Lei.
Salvo a spaventarmi e a scrivere a Jan, il 1° gennaio: “Hai rice-
vuto la mia lettera? L’hai consegnata? Oggi rimpiango di aver-
tela mandata. Vedevo allora brillare un piccolo raggio di spe-
ranza là dove non scorgo più altro che disperazione e tenebre.
Forse lei ne riderà, forse se ne burlerà!”.
A momenti ero pazzo di lei, a momenti mi sembrava di
non amarla: “La sua immagine”, scrissi nel mio diario ai
primi di giugno, “è continuamente davanti ai miei occhi;
mi sembra di non amarla più, e tuttavia non esce mai dal-
la mia testa”. Non riuscivo più a sopportare la lontananza:
“Tutto quello che fino ad ora ho visto all’estero mi sembra
vecchio, insopportabile, tutto mi fa soltanto sospirare la
mia casa, quei momenti deliziosi che non stimai per il loro

99
valore. Quello che un tempo mi sembrava grande mi sem-
bra ora ordinario, e quello che un tempo trovavo banale
m’appare oggi incredibile, straordinario, troppo grande,
troppo alto”.
Il pensiero della mia casa e di Konstancja divenne ossessi-
vo e raggiunse l’apice quando i russi, assalita la Polonia, mar-
ciarono su Varsavia. Dopo aver suonato a Monaco, come ho
detto, ripresi la strada per Parigi e in settembre – settembre
del ’31 – feci sosta a Stoccarda. A Monaco avevo festeggiato
il successo in un modo per me inusuale e a Stoccarda mi sen-
tivo in colpa, tanto più perché le poche notizie che giunge-
vano dalla Polonia erano terrificanti. All’una della notte,
mentre stavo per coricarmi, un pensiero bizzarro mi attra-
versò il cervello. Gettai febbrilmente sulla carta delle note
che rivelavano bene il mio stato psichico completamente al-
terato. “Strana cosa. Questo letto in cui sto per coricarmi ha
forse servito a più d’un moribondo. Questo pensiero non mi
dà oggi alcun disgusto. Forse più d’un cadavere vi ha riposa-
to, e riposato a lungo. Ma in che cosa un cadavere è diverso
da me? Un cadavere non sa neppure lui nulla di suo padre e
di sua madre, né delle sue sorelle, né di Titus. Un cadavere
non ha la fidanzata. Non può parlare la sua lingua con quel-
li che lo circondano. Un cadavere è pallido come me. È tan-
to freddo quanto lo sono io adesso di fronte a tutti. Un cada-
vere ha cessato di vivere ed io pure ho vissuto fino alla sazietà.
A sazietà? Un cadavere s’è saziato della vita? Se lo fosse
avrebbe una buona cera, mentre è così miserabile. La vita ha
dunque una così grande influenza sui tratti somatici, sull’e-
spressione del viso, sulla fisionomia dell’uomo? Perché vivia-
mo una vita così miserabile che ci divora e che non serve se
non a fare di noi dei cadaveri?”.
Un fiotto di disperazione mi travolgeva, ero sommerso dal
più nero pessimismo: “È evidente che la morte è il migliore
degli atti. Qual è dunque il peggiore? La nascita, poiché è il
contrario del migliore degli atti. Ho dunque ragione di de-
plorare d’essere venuto sulla terra. Perché non mi è stato per-

100
messo di non venirci, visto che sono qui inattivo? A che ser-
ve la mia esistenza?” Solo un pensiero mi teneva lontano dal-
la tentazione del suicidio: “Non mi manca molto per frater-
nizzare matematicamente con la morte. Oggi non la deside-
ro, a meno che voi siate infelici, miei cari, e che anche voi non
vi auguriate niente di meglio che la morte! Se no, io desidero
ancora di rivedervi. Non per la mia felicità diretta ma per la
mia felicità indiretta, perché so quanto mi amate. Ma lei ha
simulato d’amarmi; questo è un enigma da sciogliere. Sì, no,
sì, sì, no, sì, no, sì, sì, un dito sull’altro; scivola... Mi ama? Mi
ama di sicuro? Che faccia quel che vuole”. E concludevo con
un altro pensiero, prosaico, che si infilava non so come nella
mia disperazione senza lacrime: “Il mio passaporto scadrà il
mese prossimo, non potrò più vivere all’estero – per lo meno,
non lo potrò più ufficialmente. Allora sarò ancor di più simi-
le a un morto”.
Non sapevo ancora, in quel momento, che Varsavia era
caduta. “Forse mio padre ha fame”, scrissi qualche giorno
dopo nel diario, “forse non ha di che comperare il pane per
mia madre! Le mie sorelle sono state forse vittime della rab-
bia della scatenata soldatesca moscovita”. E poi: “Che è di
lei? Dov’è? Poveretta! Un moscovita la opprime, la stran-
gola, l’assassina, l’uccide! Ah!, mia amata, io sono qui solo
– vieni da me – asciugherò le tue lacrime, calmerò le ferite
del presente ricordandoti il passato – i tempi in cui non c’e-
rano ancora i moscoviti”. Ma questo non era vero. Ed io mi
correggevo: “Allora tuttavia qualche moscovita voleva a tut-
ta forza piacerti – e tu te ne facevi beffe perché c’ero là io,
non Grab”. A Vienna mi era giunta qualche avvisaglia sul-
la corte che Jozéf Grabowski stava facendo a Konstancja.
Ed era così: si sposarono entro l’anno. Ma a Stoccarda io
deliravo, veramente, e delirando, come scrissi nel diario,
sfogavo “la mia disperazione sul pianoforte”. “A che ser-
ve?”, mi chiedevo. Per i miei, per Konstancja, a nulla. Ma
per l’arte – posso dirlo adesso, a mente fredda – a qualco-
sa serviva.

101
Della morte di mio padre, di come appresi la notizia,
di come di lui mi scrisse mio cognato,
e di quanto mi sentii simile a lui

La morte di mio padre all’età di settantatre anni, in parte at-


tesa e in parte no, mi colse in un momento in cui la mia salu-
te era tornata buona dopo un periodo di sofferenza, seguito
alla morte di Jan Matusziński, mio medico e mio fraterno
amico. Non provavo nulla di preciso, nessun dolore, per co-
sì dire, localizzabile, ma un malessere generale che Aurore
chiamava “oppressione nervosa”. Scoprii allora, e fui poi un
suo paziente fino alla sua morte, un medico omeopatico ve-
ramente eccellente, il dottor Jean Jacques Molin. Il dottor
Cauvières che mi ebbe in cura a Marsiglia e il dottor Papet di
Nohant mi rimisero in sesto, nel ’39, dopo che quei tre figu-
ri dell’isola di Maiorca, che sembravano usciti dal Malato im-
maginario di Molière, mi avevano dato per spacciato. Sono
grato al dottor Cauvières e al dottor Papet, e non mi intendo
di medicina, ma con il dottor Molin mi trovai più a mio agio
che con tutti. Lui mi spiegò anche cos’è l’omeopatia, mi parlò
del suo maestro Hahnemann (che curava Kalkbrenner). Ma
a me la teoria interessa poco persino nel mio campo, la musi-
ca. Figuriamoci quanto mi interessa nella medicina. Mi im-
porta di star bene, e finché il dottor Molin fu in vita riuscii a
star meglio.
La morte di mio padre fu l’evento che consentì ad Auro-
re di uscire un poco dalla zona d’ombra in cui il nostro rap-
porto era stato tenuto nei confronti della mia famiglia. Auro-
re, quando prese carta e penna per scrivere a mia madre il 29
maggio 1844, si ricordò di essere George Sand, la grande ro-
manziera:

Signora, non credo di poter offrire altra consolazione all’eccel-


lente madre del mio caro Frédéric se non con l’assicurazione del
coraggio e della rassegnazione di questo ragazzo ammirevole. Voi
sapete quanto è profondo il suo dolore e quanto è accasciata la sua

102
anima; ma, grazie a Dio, non è malato, e noi partiamo fra qualche
ora per la campagna in cui prenderà infine riposo dopo una così
terribile crisi.
Egli non pensa che a voi, alle sue sorelle, a tutti i suoi che ama
tanto ardentemente e la cui afflizione lo inquieta e lo preoccupa
quanto la sua.
Almeno, non siate per vostra parte inquieta per la sua situazione
visibile. Io non penso affatto di sollevarlo da questa pena così
profonda, così giusta e durevole; ma posso per lo meno darmi cura
della sua salute e circondarlo d’affetto e di precauzioni quanto voi
fareste. È un ben dolce dovere che mi sono imposta con felicità e a
cui, ve lo prometto, Signora, non verrò mai meno, e spero che voi ab-
biate fiducia nella mia devozione per lui. Non vi dico che la vostra
disgrazia m’abbia colpito come se avessi conosciuto l’uomo ammi-
revole che piangete. La mia simpatia, per quanto vera essa sia, non
può addolcire questo colpo terribile, ma dicendovi che consacrerò
i miei giorni a vostro figlio e che lo guardo come un figlio mio, so di
potervi dare per questo aspetto qualche tranquillità di spirito. Per
questo mi son presa la libertà di scrivervi per dirvi che sono profon-
damente devota alla madre adorata del mio amico più caro.

Mia madre rispose il 13 giugno e, devo dire con sincera


ammirazione, seppe portarsi all’altezza della romanziera (lo
so, che la mia mamma è un essere straordinario):

Vi ringrazio, Signora, per le toccanti parole che m’avete indi-


rizzato; esse hanno portato qualche tranquillità al mio povero es-
sere, tormentato dalla tristezza e dall’inquietudine. Nella mia di-
sgrazia non ho altra consolazione che le mie lacrime e il ricordo
incancellabile della vita esemplare del mio degno compagno; la
mia inquietudine a proposito di Frédéric era infinita. Dopo il col-
po ricevuto non ho fatto che pensare al caro ragazzo che solo, in
una terra lontana, con la sua fragile salute e il suo immenso senti-
mento, non avrebbe tardato ad essere abbattuto da una notizia
delle più fatali. Circondata dagli altri miei figli soffrivo di non po-
ter serrare fra le braccia, in quel momento terribile, quel figlio
amatissimo, e di aiutarlo a risollevarsi dalla sua tristezza; ero de-
solata per lui e il mio spirito non aveva riposo. Ci voleva il cuore
d’una madre, Signora, per intuirlo e per saper portare nel mio

103
cuore una vera consolazione; per ciò è la madre di Frédéric che vi
ringrazia sinceramente e che affida suo figlio alla vostra materna
sollecitudine. Siate, Signora, il suo angelo tutelare, così come sie-
te stata il mio angelo consolatore, e vogliate credere che il nostro
rispetto e la nostra riconoscenza per voi eguagliano la vostra inap-
prezzabile devozione.

Angelo tutelare, materna sollecitudine. Senza rendersene


conto, o forse, non so, intuendo quello che stava accadendo,
la mamma coglieva perfettamente nel segno. Aurore ed io vi-
vevamo insieme da cinque anni e mezzo, e tutti i suoi legami
amorosi si erano consumati in un tempo più breve. Nel sen-
timento da lei provato per me, che era stato all’inizio di bru-
ciante passione, si era ben presto insinuato, ed era andato poi
ingigantendosi, un aspetto protettivo. Aurore era stata un’a-
mante devota quanto una moglie, ed era una moglie sollecita
quanto una madre. Lei aveva ottenuto il divorzio nel ’36, io
ero scapolo, le nozze avrebbero regolarizzato il nostro rap-
porto nei confronti di coloro che, pur facendo le viste di tol-
lerarlo, aborrivano in cuor loro il concubinaggio. Ma Aurore
disprezzava l’istituto del matrimonio che, diceva, era “sanci-
to da una legge civile che consacra la dipendenza, l’inferiorità
e la nullità della donna”. E la rottura fra di noi sarebbe arri-
vata proprio quando io, in una circostanza drammatica e pur
con tutto il tatto e la discrezione possibili, avrei tentato di as-
sumere contro di lei il ruolo antico del pater familias.
Non voglio però parlare di una vicenda che risveglia in me
un dolore profondo, incancellabile. Dicevo della morte di
mio padre, che su mia richiesta mi fu raccontata da mio co-
gnato Antoni Barciński, il marito di Izabela. Antoni – ci co-
nosciamo fin da ragazzi – è un uomo con la testa sul collo e
di una rettitudine morale a tutta prova, un rappresentante, al
meglio, della borghesia operosa che costituisce oggi l’ossatu-
ra della società. Secondo lui, ma era vero, mio padre appar-
teneva alla stessa razza:

104
Se possedessi il dono della parola e se fossi capace di narrare la
sua vita lo farei per il bene generale, affinché gli uomini appren-
dessero come si deve vivere e morire se si vuole rimanere fino alla
tomba vivi nel ricordo e meritare, di generazione in generazione, la
stima e l’ammirazione di tutti. Coloro che desiderassero sapere
quel che dev’essere la morte d’un giusto avrebbero dovuto essere
testimoni della breve malattia e della fine edificante di nostro pa-
dre. Avrebbero potuto ammirare quella tranquillità di pensiero, in-
separabile dalla calma della coscienza, e capire quale gioia interio-
re, quale consolazione procurano la felicità di aver bene allevato dei
ragazzi che amano e rispettano i loro genitori, la certezza d’esser
vissuti non per se stessi ma per il bene del prossimo e anche il dol-
ce pensiero d’essere ammirati in forza d’un carattere a cui tutti ren-
dono omaggio.

“Essersi accontentati del poco senza mai augurarsi né la


fortuna né gli onori straordinari”, proseguiva Antoni, “pre-
diligere la vita domestica, essere l’amico di una famiglia che
si ama, vivere della sua felicità, rallegrarsi – e anche esserne
orgogliosi – che Dio abbia voluto permettere di raccogliere
nei figli, nei quali si possono vedere riflessi come in uno spec-
chio la propria anima e il proprio cuore, i frutti di tante pene
e di tanti sforzi”. Questo racconto mi commuoveva profon-
damente. Ma un paragrafo della lunga lettera di Antoni mi fe-
ce venire i sudori freddi, risvegliando in me un oscuro terro-
re che mi accompagna da molto tempo:

Per dirti proprio tutto devo parlarti adesso di Belza, quest’inti-


mo amico che da molto tempo vive in casa nostra, condividendo le
nostre pene e le nostre gioie. Molto istruito e di cuore onesto, egli
tenta da parecchi anni di realizzare la creazione a Varsavia di un
edificio in cui i morti sarebbero custoditi per alcuni giorni prima
d’essere sepolti. Molto addentro a questo problema, egli usava rac-
contare a nostro padre – quand’egli era ancora ben portante – e
raccontare a tutti noi, certi casi fortuiti di morte apparente. E no-
stro padre l’incoraggiava a realizzare il suo progetto. Ecco perché,
avendo la sua memoria così pronta ricordato negli ultimi giorni di
vita tali circostanze, nostro padre ci chiese di far aprire il suo cor-

105
po dopo la sua morte, per evitargli la terribile sorte di quelli che si
risvegliano nella tomba.

In un poscritto alla lettera del marito, Izabela mi annun-


ciava che il signor Belza sarebbe venuto molto presto a Pari-
gi. Ci incontrammo, e i suoi discorsi non furono per me af-
fatto rassicuranti. Ma ho già detto di come penso di... pre-
munirmi, seguendo l’esempio di mio padre, contro una tale
terrificante eventualità.
Aurore restò molto impressionata dal discorso di Antoni.
“Tuo padre”, mi disse, “è morto come un patriarca. Non cre-
devo che ne esistessero ancora, di famiglie così, ma devo ri-
credermi, perché nelle parole di tuo cognato non c’è nulla di
forzato o di artificioso. E mi spiace di non aver conosciuto
tuo padre. Chissà se mi sarà dato di incontrare tua madre”.
“Mio padre e mia madre erano persone tanto sagge quanto
modeste, e nelle parole di mio cognato rivedo mio padre co-
me in un ritratto vivente. Ma non credo che mia madre si
muoverà dalla Polonia, e non credo nemmeno che in Polonia
andremo noi”. “Già! Peccato”.
Leggendo la lettera di Antoni io avevo visto sì un ritratto
vivente di mio padre, ma – questo non lo dissi ad Aurore – in
mio padre avevo visto anche me stesso. Io ero nato per fare
una vita come la sua. Avevo sognato infantilmente di averla,
con Konstancja al mio fianco. Avevo sognato di averla con
Maria Wodzińska, la mia fidanzata segreta. E l’avevo avuta,
sì, l’avevo avuta, ma solo a Nohant, con Aurore e i suoi figli.
Perciò mi manca tanto, Nohant, perciò rimpiango amara-
mente un tempo che non si è fermato. Se non fossi così ma-
landato in salute direi che forse potrei ancora averla, la vita
di mio padre, con Jenny Lind, la simpaticissima cantante sve-
dese che da un mese – e ha solo ventinove anni – si è ritirata
dalle scene dopo una carriera folgorante. L’avevo conosciuta
a Londra l’anno scorso, mi aveva mandato un biglietto per la
sua recita nella Sonnambula ed era venuta ad un mio concer-
to privato: si era congratulata con me con gli occhi che le bril-

106
lavano come stelle, ed era nata subito fra noi una di quelle
inesplicabili profondissime simpatie che sono tanto rare. Che
perfezione di canto, la sua! Scrivendo ad un mio amico a Pa-
rigi dissi che non era “illuminata da bagliori ordinari ma da
una specie di aurora boreale”. Purezza assoluta della voce, si-
curezza tecnica, un piano sostenuto ed uguale come un ca-
pello. Qualche giorno addietro Jenny è passata da Parigi ed
è venuta a trovarmi. C’erano da me Delphine Potocka e sua
sorella la principessa de Beauvau, e inoltre la signora Rot-
schild. Jenny ha cantato per me, divinamente. Si dice (lo di-
cevano le mie visitatrici prima che arrivasse) che abbia un fi-
danzato in Svezia ma che il suo unico, vero e grande amore,
non... consumato, sia stato il defunto Mendelssohn. Ah!, se
non fossi così malato come sono...

Della morte di Kalkbrenner e della Catalani, di quello


che rappresentarono per me e della posizione storica
di Kalkbrenner, mio mancato insegnante

Dalla morte di mio padre sono passati più di cinque anni, ma


a lui ho pensato quando, tre giorni or sono, ho avuto notizia
di due... decessi illustri, quelli di Friedrich Kalkbrenner e di
Angelica Catalani. Sia l’uno che l’altra sono morti di colera,
la Catalani a Parigi, Kalkbrenner a Enghien-les-Bains dov’e-
ra scappato per sentirsi più al sicuro. Negli stessi giorni è
morto Carlo Alberto, re di Sardegna in esilio, la cui scom-
parsa non è passata inosservata per me perché di lui mi ave-
vano parlato a Genova, quando vi andai con Aurore in gita
turistica (Genova è il maggior porto del Regno).
L’Italia, io l’avevo sognata ben prima di vederne una
scheggia... Come ho detto, il piano di battaglia elaborato a
Varsavia prevedeva che io mi affermassi a Vienna come pia-
nista per scendere poi in Italia a forgiarmi i ferri del mestiere
di operista. In astratto, a parte la mia mancanza di vocazione
per il teatro, non era affatto un disegno sbagliato, ...se ci fos-

107
se stata la borsa di studio. Ho già detto di Nidecki. Ma c’è
dell’altro ancora. Una quindicina d’anni prima che io partis-
si per l’estero un musicista polacco – però di Cracovia, occu-
pata dagli austriaci – di circa vent’anni più anziano di me era
andato a Vienna e vi si era fermato per tre anni a studiare. Si
chiamava Franciszek Mirecki. Il suo maestro di pianoforte
era stato Hummel, aveva conosciuto Beethoven, Salieri, Mo-
scheles. Finiti gli studi a Vienna era sceso in Italia, a Venezia
e a Milano, poi era andato a Parigi ed era diventato allievo per
la composizione di Cherubini.
Mirecki, con alle spalle questa formazione soignée, era ve-
nuto a Varsavia quand’era ormai sulla trentina e vi aveva fat-
to rappresentare un suo singspiel (in polacco). Tornato quin-
di in Italia aveva esordito a Milano con un balletto, subito se-
guito da un altro balletto, e a Genova con un’opera; si era
quindi spostato in Portogallo per concerti come pianista e
per mettere in scena la sua seconda opera. È un farabutto,
Mirecki, un farabutto che disprezza la musica popolare della
sua patria e che si fa beffe dell’opera nazionale come di uno
sciocco miraggio. Però si è affermato all’estero, ed attual-
mente dirige l’Opera di Cracovia. Io avrei potuto seguire un
percorso analogo. E quando ci penso non mi rammarico di
certo per avere operato in un modo diverso. Ma la mia men-
te immagina oziosamente la realtà ipotetica di uno Chopin
che non si oppone ai progetti di Elsner. In fondo, se sono co-
me sono non lo devo solo a me stesso ma anche ad un bel po’
di circostanze casuali.
L’Italia, Genova, Angelica Catalani. Bella città, Genova.
La raggiungemmo per mare da Marsiglia, ovviamente, con un
battello a vapore. La traversata fu spaventosamente agitata (e
il ritorno peggio ancora: quaranta ore di navigazione in rollio
perenne; però per la romantica Aurore la tempesta era entu-
siasmante, gettava addirittura grida d’ammirazione verso i ca-
valloni che sballottavano la nave). Genova adagiata in riva al
mare, la natura rigogliosa, i giardini a terrazze sulle colline, i
palazzi del centro, certi quadri meravigliosi. Vi passammo

108
una dozzina di giorni, una dozzina di giorni di sogno. E sic-
come George è famosa ed io, insomma, un po’ mi difendo, la
notizia della nostra gita volò sui giornali. Quando eravamo
ormai a Nohant ricevemmo una lettera di Marie d’Agoult, la
contessa che da qualche anno, abbandonato il marito, viveva
con Liszt e gli aveva dato due figlie.
La contessa e George erano state amiche intime, un tem-
po, si erano frequentate molto, il romanzo Simon della se-
conda era stato dedicato alla prima, poi il rapporto affettivo
si era guastato perché Marie, a dirla proprio giusta, è una pic-
cola vipera sempre pronta, se le capita l’occasione, a pianta-
re i suoi aguzzi dentini nelle carni di qualcuno. Marie d’A-
goult, che cercava di riprendere i vecchi rapporti, ci scriveva
da Albano, vicino a Roma: “Si ha un bel dire, è una gran bel-
la cosa vivere in tempi in cui ci sono battelli a vapore e gior-
nali. Senza i battelli a vapore voi non avreste forse avuto l’i-
dea di venire a Genova; senza i giornali io non l’avrei sapu-
to”. Ci annunciava la nascita del figlio maschio che “succhia
il latte della più bella donna di Palestrina” e ci invitava a rag-
giungere lei e il “padre di tre bambini in tenera età” a Lucca,
nel casino (a me venne in mente il “quel casinetto è mio” del
Don Giovanni) che avevano affittato per l’estate e dove ci sa-
rebbe sempre stato pronto per noi “un piatto di macaroni”.
Nemmeno parlarne, di mettersi in viaggio per Lucca: il solo
pensiero della traversata da Marsiglia a Livorno mi faceva tor-
cere le budella. Però Lucca era così vicina a Firenze e, a par-
te il rischio di incontrarvi il virtuoso di camera Theodor von
Döhler, doveva essere una gran bella città antica. Era gio-
coforza rinunciare, ovviamente, però... Beh!, era proprio de-
stino che dell’Italia io dovessi vederne soltanto un pezzetto.
Il colera, dicevo, si è portato via Angelica Catalani. Italia-
na, ma nata in una città ben più prosaica di Lucca, Senigallia,
e vissuta per la maggior parte a Parigi. Non posso che ricor-
darla con profonda commozione. Era stata una fenomenale
cantante che, si diceva, poteva sbrigarsela con ruoli da con-
tralto, da mezzosoprano e da soprano, ed era stata una gran-

109
de diva che si cavava tutti i capricci possibili e immaginabili.
Aveva ormai sessantanove anni e da molto tempo non canta-
va più. Ma io l’avevo sentita nei suoi bei giorni, sia pure ap-
prezzandone le qualità un po’ confusamente perché avevo al-
lora solo nove anni e mezzo.
La Catalani capitò a Varsavia per tenervi dei concerti, che
le rendevano più dell’opera. Famosa com’era, poteva star si-
cura di vendere fino all’ultimo biglietto. E siccome le spese
vive di un concerto sono infinitamente più basse di quelle di
una rappresentazione operistica, la Catalani incassava somme
favolose che puntualmente e con la robusta collaborazione
del marito si incaricava poi di dilapidare buttando il denaro
a destra e a manca. Anche con me, in fondo... Ma è bene che
io proceda con ordine.
Dopo che erano state pubblicate due mie piccole polac-
che e dopo che il granduca Costantino aveva fatto eseguire
dalla fanfara la mia marcia ero diventato una celebrità locale.
Già il 1° gennaio 1818 il Giornale di Varsavia mi dedicava uno
stelloncino in cui si affermava che “se questo ragazzo fosse
nato in Germania o in Francia avrebbe certamente già attira-
to su di sé l’attenzione di tutte le nazioni”. Il Giornale di Var-
savia, immaginando che la sua diffusione fosse assicurata nei
quattro angoli del mondo, concludeva in questo modo il pi-
stolotto: “Che questo articolo proclami dunque che anche
nella nostra terra nascono geni, e che solo la mancanza di
informazione cela al pubblico la loro esistenza”.
Così, se un qualche rinomato artista o personaggio stra-
niero capitava a Varsavia io venivo puntualmente esibito co-
me uno dei tesori posseduti dalla città. La Catalani ascoltò in
un salotto una mia improvvisazione. Mi abbracciò e mi baciò,
mi coprì di elogi con meridionale slancio. Ma nessuno si sa-
rebbe aspettato quel che seguì. Dopo qualche giorno mi ven-
ne consegnato a casa un orologio da tasca con incisa una de-
dica in francese: “Donné par M.me Catalani à Frédéric Cho-
pin, âgé de dix ans”. I dieci anni non li avevo ancora com-
piuti, in verità. Però, che classe, e che generosità, da parte di

110
un’artista che aveva l’intera Europa ai suoi piedi! Ci rive-
demmo a Parigi, diventammo amici. Era venuta a trovarmi
anche pochi giorni prima della morte: è stata per me una
grande perdita.
L’orologio era ben più che un dono: era una silenziosa of-
ferta della grande Catalani, l’offerta di aprirmi le porte dei
salotti di Parigi e di mettermi in contatto con il mondo in
cui si decidevano le sorti della musica. Il padre di Liszt mol-
lò temerariamente baracca e burattini, cioè gli sterminati
greggi del principe Esterházy affidati alle sue cure, per por-
tare il suo unico figlio a Vienna e lanciarlo in una carriera di
fanciullo-prodigio. Mio padre, responsabile della vita di
quattro figli, non di uno solo, non era un temerario (ed ave-
va ragione), e della offerta implicita della Catalani manco
s’accorse. Ma quattro anni più tardi lessi nel Corriere del bel
sesso di Varsavia un articolo in cui, recensendo la mia ese-
cuzione di un concerto di Ries, si diceva, dopo grandi lodi
a me tributate senza risparmio: “L’ultimo numero della Gaz-
zetta Musicale di Lipsia riferisce in una corrispondenza da
Vienna che pure in quella città un giovane dilettante, di no-
me Liszt, stupisce tutti per la precisione dell’esecuzione, la
sicurezza e la potenza di suono con cui interpreta il concer-
to di Hummel. Noi non invidiamo di certo a Vienna il signor
Liszt perché la nostra capitale possiede effettivamente, nel-
la persona del signor Chopin, qualcuno che lo eguaglia e che
forse persino lo supera”.
Era la prima volta che leggevo il nome di Liszt e non po-
tevo immaginare che un giorno gli avrei dedicato la mia pri-
ma raccolta di dodici Studi e che alla sua compagna avrei de-
dicato la seconda raccolta. Beh!, così è andata. Io ero salpa-
to da casa per arrivare alle Indie e invece sbarcai a San Salva-
dor. A Parigi giunsi che non ero più un ragazzino, e sia pure
con qualche fatica iniziale riuscii a brillarvi. Per merito mio,
e anche un po’ per merito dell’altra illustre vittima del cole-
ra, Friedrich Kalkbrenner.
Di lui ho già parlato a lungo, e pour cause. Desiderava che

111
io diventassi suo allievo, ma mi appoggiò fattivamente prima
che lo diventassi e non me ne volle quando fu chiaro che non
lo sarei diventato. Anzi, mi invitò più volte a pranzo, fu pre-
sente ai miei concerti, frequentò assiduamente il salotto di
Aurore, e alla fine del ’45 mi sorprese con una richiesta, per
così dire, di consulenza:

Caro Chopin, vengo a Voi per chiederVi un grande favore: mio


figlio Arthur avanza la pretesa di eseguire la Vostra bella Sonata in
si minore e desidera moltissimo che voi gli diate qualche consiglio
per avvicinarsi quanto più possibile alle Vostre intenzioni. Voi sa-
pete quanto mi piaccia il Vostro talento e non ho bisogno di dirVi
quanto Vi sarei riconoscente per il favore che Vi chiedo per il mio
piccolo bricconcello. Egli è a Vostra disposizione tutti i giorni dal-
le due alle quattro, e la domenica per tutta la mattinata. Mille scu-
se per questa libertà, ma voi mi avete abituato alla Vostra amicizia
ed io ci conto. Mille saluti da tutta la famiglia.

Da tutta la famiglia, perché conoscevo le due figlie di


Kalkbrenner, ragazze carine e simpatiche. Ecco, un grande
maestro della vecchia scuola mi chiedeva a meno di sei mesi
dalla pubblicazione di istruire suo figlio in una delle mie ope-
re più complesse, e si rivolgeva a me con il rispetto, e insieme
con la confidenza che si ha con i propri pari. A Vienna, a fa-
re il bello e il cattivo tempo erano Hummel e Czerny. En-
trambi mi trattarono con estrema gentilezza ma non mossero
un dito per darmi quell’aiuto concreto che in effetti non mi
era dovuto. A Parigi il bello e il cattivo tempo lo facevano
Kalkbrenner e Pierre Zimmermann, che insegnava in Con-
servatorio e che contava fra i suoi allievi Charles-Valentin
Alkan, mio amico fraterno, e virtuoso non inferiore a Liszt.
Zimmermann mi aveva accolto con simpatia, ma Kalkbren-
ner mi appoggiò presso Pleyel e presso l’editore Schlesinger,
e mi fece da padrino al mio concerto d’esordio. Checché ne
pensassero Elsner e mio padre, con me fu generoso, e se con-
sidero gli odi feroci di cui è costellato il nostro mondo devo
dire che fu incredibilmente generoso. La notizia della sua

112
morte a soli sessantaquattro anni mi ha sinceramente rattri-
stato.
Certo, come compositore Kalkbrenner non è fra gli arti-
sti della sua generazione, secondo me, pari a Cramer, Hum-
mel, Field, Moscheles, sebbene nello sterminato deserto del-
la sua produzione fiorisca qualche oasi, come il Concerto in
re minore che studiai da ragazzo. Per quanto riguarda la di-
dattica del pianoforte io non trovo che il Guidamani bre-
vettato da Kalkbrenner, e ormai diffusissimo, sia realmente
utile. Chi si allena con questo attrezzo fa lavorare molto le
dita e un po’ la mano ma non va oltre l’articolazione del pol-
so. Ora, uno dei miei appuntini per un metodo dice così, a
questo proposito: “Nessuno osserverà l’ineguaglianza del
suono in una scala molto veloce, se sarà suonata con regola-
rità di tempo – il fine non è di saper suonare tutto con ugua-
glianza. Mi sembra che un meccanismo ben formato debba
sapere ben sfumare una bella qualità di suono. Per molto
tempo, esercitando le dita ad avere una forza uguale, si è agi-
to contro natura. Essendo ogni dito formato in modo diver-
so è meglio non cercare di distruggere il fascino speciale di
tocco di ciascun dito ma, al contrario, cercare di sviluppar-
lo. Ogni dito ha la forza secondo la sua conformazione. Tan-
ti suoni diversi quante dita. Il fatto è di saper ben diteggia-
re. Hummel è stato a questo proposito il più sapiente. Così
come bisogna utilizzare la conformazione delle dita, bisogna
utilizzare altrettanto il resto della mano, il polso, l’avam-
braccio e il braccio. Non bisogna suonare tutto di polso, co-
me esige Kalkbrenner”.
Polso, polso, polso. Un tedesco molto simpatico che cercò
di avere delle lezioni da me, Carl Hallé, diceva che Kalk-
brenner aveva radicata nel cuore una convinzione incrollabi-
le: se l’Onnipotente avesse suonato il pianoforte lo avrebbe
suonato di polso. Il tempo dirà se io ho ragione o se il Gui-
damani è veramente la panacea. Per intanto l’inventore del
Guidamani non è più fra noi, povero Kalkbrenner: che ripo-
si in pace.

113
Dei miei rapporti con la contessa Marie d’Agoult, compagna
di Liszt, del mio concerto a Parigi nel ’48, del microscopio
per le orecchie e della mia partenza per Londra

Quando si sta preparando il mio concerto del 1841, quando il


Tout-Paris è già entrato in ebollizione, quando il trac... pre-
ventivo mi fa soffrire le pene dell’inferno e quando Aurore me
lo cura con robuste dosi di ironia, quella viperetta di Marie
d’Agoult dice al pittore Henri Lehmann che “una piccola ma-
levole cricca si sforza di resuscitare Chopin, che suonerà da
Pleyel”. A questo arriva, quella strega! E sì che all’inizio, pri-
ma di lasciarsi travolgere dalla passione per Liszt, mi aveva,
posso ben dire, corteggiato. Non le bastava che frequentassi di
tanto in tanto il suo salotto. Mi voleva tutto per sé. Come quan-
do – era un giovedì – mi mandò questo bigliettino profumato:

Signor Chopin, Voi sareste molto cortese, Signore, se talvolta,


essendo libero alle sei precise, veniste a cena da me. Mia madre, al-
la quale ho molto parlato di voi, desidera straordinariamente di fa-
re la vostra conoscenza; quanto a me, voi sapete quanto mi faccia
sempre piacere vedervi ed ascoltarvi. Sarebbe molto gentile se po-
teste venire domani, io sono stata malata e sono ancora un po’ sof-
ferente; mi sembra che uno dei vostri notturni porterebbe a com-
pimento la mia guarigione.
Non me lo rifiuterete.

La Contessa d’Agoult

P. S. – Se non potete domani, venite sabato, se non sabato, do-


menica, ecc.

Un altro si sarebbe precipitato, io no: quella insistenza e


quel tono imperioso che la forbitezza del discorso non riu-
sciva a dissimulare del tutto mi mettevano in sospetto. Qual-
che tempo dopo Marie mi invitò a raggiungerla nella sua re-
sidenza di campagna, l’imponente castello di Croissy, a dieci
chilometri da Parigi e costruito al tempo del Re Sole:

114
Sento da Liszt che siete stato molto malato. Vi ricordo, Signo-
re, che Croissy sarebbe una eccellente casa di cura: se voleste veni-
re a passarci qualche po’ di tempo godreste di aria buona. Vi pro-
metto del latte delizioso e la musica degli usignoli, cosa che vi affa-
ticherà meno del pianoforte. Lasciatemi dire tuttavia quanto io am-
miri i vostri Studi, che sono prodigiosi; da molto tempo non avevo
sentito nulla di altrettanto bello. Addio, Signore, e, spero, arrive-
derci: credete al mio autentico interesse.

La Contessa d’Agoult

Marie aveva ascoltato i miei studi da Liszt, al quale li avevo


dedicati e che effettivamente li suonava in un modo fantastico.
Scrivendo a Ferdinand Hiller il 20 giugno 1833 avevo detto: “Vi
scrivo senza sapere quello che la mia penna farfuglia perché
Liszt suona in questo momento i miei studi e mi trasporta fuori
dalle mie oneste idee. Vorrei rubargli la sua maniera di rendere
i miei propri studi”. Pochi giorni più tardi ricevevo l’invito di
Marie. Non dico che, se fossi andato a Croissy, ci sarebbe stato
un attentato alla mia virtù. Ma il conte d’Agoult era in città, e
con Marie un po’ di intimità, un po’ di amitié amoureuse sareb-
be potuta nascere. Penso che lei lo desiderasse e che forse ve-
desse in me – chi potrà mai saperlo – l’Eterno Fidanzato.
Sentendomi un po’ in imbarazzo incaricai Liszt di dirle
che non potevo accettare il cortese invito. E lui le scrisse in
questi termini:

A meno d’un ordine preciso e formale, firmato dalla contessa


d’Agoult (da Ma), ordine che io mi incaricherei volentieri di far ese-
guire dalla gendarmeria del regno, non contate affatto sulla visita
del celebre pianista F. Chopin, perché il suddetto amico e pianista
ha levato il campo la scorsa settimana e in questo momento si tro-
va probabilmente a Tours, in compagnia del signor Franchomme,
presso qualche bella ragazza semplice ed ingenua.

Andai effettivamente a fare le vacanze a Tours, invitato da


Franchomme, ma la lettera di Liszt era sottilmente perfida:

115
con quell’accenno alla bella ragazza semplice ed ingenua vo-
leva che lei si ingelosisse, e voleva infilarsi lui nel piccolo var-
co che io avevo aperto nel suo cuore. Lui ci teneva, a sedur-
re una contessa, e del resto era molto attratto da lei. Marie
pencolava tuttavia ancora fra lui e me, e solo all’inizio del-
l’anno seguente successe il patatrac con il mio amico. Ma cin-
que mesi prima di quando, incinta della prima figlia, sarebbe
fuggita a Ginevra con il suo amante, la contessa mi scrisse in
questi termini:

M’avete forse dimenticata, Signore? Non voglio crederlo, e so-


prattutto voglio sperare che la certezza di farmi un piacere gran-
dissimo vi farà trovare qualche volta un quarto d’ora delle vostre
serate per donarmelo. Non esco mai di sera e vi sarei molto grata
del buon pensiero che vi fermasse davanti al numero 39 di rue Go-
dot, in una di quelle ore in cui non si esamina rigorosamente l’im-
piego del proprio tempo.
Addio, Signore, arrivederci, spero, e molto presto.

Contessa d’Agoult

Le dedicai gli Studi op. 25, rimanemmo amici fino a quan-


do non mi misi con la Sand. Perché mai una specie di postu-
ma gelosia dovette farle dire che una malevola cricca tentava
di resuscitarmi? Se mi si era dato per morto, comunque, io
resuscitai, e gloriosamente. Tanto gloriosamente che dopo un
anno me la sentii di ripetere l’esperimento. Suonai nella Sala
Pleyel il 21 febbraio 1842; al concerto presero parte Pauline
Viardot e Franchomme, e il successo fu pari a quello dell’an-
no precedente. Incassai una somma inferiore a quella del ’41,
5000 franchi, ma Aurore mi fece notare di quale effettiva en-
tità fosse il mio guadagno: “Muovendo le dita per una sera tu
incassi un quarto di quello che io, agitando la penna, mi pro-
curo in un anno”. “Ah!, il tuo guadagno è...” “Eh sì!, è di
20.000 franchi, messi insieme con il lavoro diurno e nottur-
no. E tu sai quanto tempo impiega un operaio, per mettere

116
insieme 5000 franchi?”. “Non ne ho assolutamente idea”.
“Impiega cinque anni, caro mio, cinque interi anni. Ah! que-
sta nostra società di merda!”.
Dopo il ’42 mi astenni completamente dal suonare in pub-
blico per sei anni. Alcuni dei miei amici mi consigliarono
però caldamente di riprendere questa attività, che non mi
piaceva, dopo la rottura con George. “Dovreste dare un con-
certo”, mi disse Camille Pleyel, con il quale talvolta mi alte-
ravo ma che era un fidatissimo amico. “Dovreste dare un con-
certo”, mi disse il conte Perthuis, aiutante di campo del re
Luigi Filippo (sua moglie era una delle mie allieve). Il conte
era un personaggio politico di prima fila, introdotto in tutti
gli ambienti della capitale che contavano: non potevo lasciar
cadere con leggerezza il suo consiglio. E ci si misero anche il
banchiere Auguste Léo, e Thomas Albrecht, segretario del-
l’ambasciata di Sassonia e mercante di pregiatissimi vini, uno
dei primi amici che m’ero fatto a Parigi (ero il padrino di bat-
tesimo di sua figlia; a lui avevo dedicato lo Scherzo op. 20).
Un mattino vennero da me tutti e quattro insieme per dirmi
che era ormai ora che mi decidessi e che non avrei dovuto fa-
re altro che sedermi e suonare: a tutto il resto avrebbero pen-
sato loro.
Di fronte alle insistenze di così tanti amici fidati, e disinte-
ressati, perché non avevo difficoltà a suonare per loro tutte le
volte che me lo chiedevano, mi ero deciso a compiere il gran
passo. Ne parlai il 10 febbraio 1848 con mia sorella Ludwika:
“Da otto giorni non ci sono più posti disponibili. Il concerto
avrà luogo il 16 di questo mese, nella Sala Pleyel. C’erano solo
300 biglietti a 20 franchi. Il re ha fatto prendere dieci biglietti,
la regina dieci, e dieci il duca di Montpensier, sebbene tutti sia-
no in periodo di lutto e nessuno di loro assisterà al concerto.
Ci sono prenotazioni per un secondo concerto che non darò
di sicuro perché già questo mi disturba”.
Il Tout-Paris era di nuovo in fibrillazione. E non solo quel-
lo. Non appena i giornali scrissero che avrei forse dato un se-
condo concerto la Corte chiese quaranta biglietti ed arriva-

117
rono lettere di prenotazione da Brest e da Nantes. Il marche-
se de Custine, il mio vecchio devotissimo amico omosessuale
che verso di me aveva delicatezze d’animo e scherzose colle-
re da donna innamorata, mi scrisse sgomento, dal suo castel-
lo: “E che, il silfo del pianoforte si fa sentire ed io vengo a sa-
perlo dalla voce pubblica? Questo è male: comprendete me
e giudicatevi voi stesso! Volete trovarmi due biglietti? Avrei
molto desiderato di chiedervene di più, ma sono fuori dal
mondo e da tutto. Mille vecchie amicizie e centomila nuovi
rancori”.
Bisognava dunque che mi mettessi pianisticamente in tiro,
e bisognava che scegliessi il programma. Chiesi di nuovo la
collaborazione di Franchomme, interpellai il violinista
Delphin Alard e, siccome Pauline era assente, mi rivolsi a sua
nipote, Antonia Molina di Mondi, e in più al tenore Gusta-
ve-Hippolythe Roger. L’11 febbraio comunicai ai miei quello
che stava bollendo in pentola: “Oggi devo mettermi a suona-
re, non fosse altro che per scarico di coscienza, perché mi
sembra di suonare peggio di come abbia mai suonato. A tito-
lo di curiosità suonerò con Alard e Franchomme un trio di
Mozart. Non ci saranno biglietti di favore, né manifesti. La
sala è elegante, può contenere 300 persone. Pleyel, che sem-
pre mi punzecchia a proposito della mia stupida paura, farà
addobbare la scala con fiori per incoraggiarmi a suonare.
Sarò quasi come a casa mia e i miei occhi incontreranno so-
prattutto volti amici. Ho qui il pianoforte su cui suonerò”.
Il concerto si aprì con il Trio in mi maggiore di Mozart.
Solo quand’ero ragazzino-ragazzino e solo pochissime volte a
Parigi, eccezionalmente, avevo suonato in pubblico musica
non mia. Ma ormai i tempi stanno cambiando, e come!, so-
prattutto perché prima Moscheles in piccole e poi Liszt in
grandi sale hanno proposto musiche del passato, e con suc-
cesso. Scegliendo il Trio di Mozart, che del resto mi piaceva
moltissimo, mi adeguai ad un costume che si stava evolven-
do. La Molina di Mondi cantò le sue arie, Roger una nuova
romanza che Meyerbeer aveva scritto per il Roberto il Diavo-

118
lo, con Franchomme eseguii il secondo, terzo e quarto tem-
po della mia nuova Sonata per violoncello e pianoforte, e da
solo un mazzetto di pezzi miei, fra cui la Barcarola. Avevo
provato con Franchomme la Sonata qualche mese prima, in
casa di Delphine Potocka. Non è uno dei miei pezzi soliti,
non è nello stile a tutti familiare, e malgrado ciò era piaciuto.
Ma erano stati espressi alcuni dubbi sull’opportunità di met-
terlo in programma per intero. Perciò ne eliminai il primo
tempo.
Il concerto ebbe un grandissimo successo, il giornale del-
l’editore Schlesinger mi definì “l’Ariel dei pianisti”, il mar-
chese de Custine mi scrisse con un tono che a dirlo estatico è
ancora poco:

Avete progredito in sofferenza e poesia; la melanconia delle vo-


stre composizioni penetra più avanti nei cuori; si è soli con voi in
mezzo alla folla, non è un pianoforte, è un’anima, e quale anima!
Conservatevi per i vostri amici; è una consolazione, potervi ascol-
tare qualche volta; nei rudi giorni che ci minacciano solo l’arte co-
me voi la sentite potrà riunire gli uomini divisi dall’aspetto mate-
riale della vita; ci si ama, ci si capisce in Chopin. Avete fatto del
pubblico una cerchia d’amici: infine, siete uguale a voi stesso, ed è
tutto. Pensate a me, io non posso pensare che a voi.
Sempre lo stesso.

A. de Custine

Ci si ama in me? “Essi si amano in me”, disse Cristo dei


suoi discepoli. Possibile che questo sia l’effetto della mia ar-
te? E il marchese non rasentava la blasfemia, nel suo incon-
tenibile entusiasmo? A castigare la mia soddisfazione ci pen-
sò Henri Blaze de Bury, critico ma anche autore di opere, che
sputava fiele su di me ad ogni occasione. Ecco il suo veleno-
so commento: “Il giorno in cui verrà inventato un microsco-
pio per le orecchie monsieur Chopin sarà divinizzato”. Spiri-
toso! Comunque, io avevo suonato con tranquillità, e forse
mi sarei lasciato andare ad accettare la proposta di ripetere il

119
concerto il 10 marzo. In una sera avevo di nuovo incassato
seimila franchi, cioè il corrispettivo di trecento ore di lezioni
private, cioè due mesi interi del mio solito lavoro di inse-
gnante. Siccome non ci tenevo, siccome non ci ho mai tenu-
to – e mio padre me l’aveva bonariamente rimproverato non
so quante volte – a mettere in banca dei risparmi, un concer-
to mi avrebbe permesso in pratica di disporre, senza inse-
gnare, di due mesi in più per comporre. Non era una pro-
spettiva da buttar via senza rifletterci. E se avessi avuto del
denaro avrei persino potuto prendermi una lunga vacanza e
tornare in incognito in Polonia per rivedere mia madre.
La mamma aveva capito quanto mi avesse addolorato la
rottura con Aurore, e in febbraio, cosa che non era nelle sue
abitudini, mi aveva scritto per farmi gli auguri di buon com-
pleanno. Poi mi aveva scritto di nuovo l’8 marzo per ralle-
grarsi dell’esito del concerto. E mi diceva: “Il Courrier aveva
annunciato che avresti dato un concerto e che subito dopo
avresti lasciato Parigi. E noi facevamo delle ipotesi: dove va?
In Olanda, diceva qualcuno. In Germania, dicevano altri; al-
tri ancora dicevano a S. Pietroburgo e noi desideravamo tan-
to vederti: qui da noi, forse. I Barciński volevano darti il loro
appartamento, Ludwika voleva darti il suo. Fu un vero gioco
di bambini che soffiano le bolle di sapone”. Il desiderio di ri-
vedere mia madre si faceva sempre più forte: dopo che io ero
partito ci eravamo incontrati una sola volta, a Carlsbad,
quando lei e papà s’erano finalmente decisi a prendersi una
meritatissima vacanza all’estero. Ma nel momento in cui ri-
cevetti la splendida lettera della mia adorata mamma tutto era
stato già deciso: il 22 febbraio era scoppiata a Parigi la rivo-
luzione, poco dopo tutta l’Europa continentale era in subbu-
glio e nei polacchi in esilio era rifiorita una grande speranza.
Scrivendo il 4 aprile a Julian Fontana, che si trovava a New
York, feci un quadro della situazione politica e dissi: “Il Mo-
scovita avrà del filo da torcere quando dovrà marciare contro
i prussiani”, perché correva voce che lo zar avrebbe deciso di
occupare il territorio di Pozńan, soggetto alla Prussia, dove si

120
stavano concentrando in gran numero gli esuli polacchi. “I
contadini galiziani hanno dato l’esempio a quelli della Voli-
nia e della Podolia. Si svilupperanno di sicuro dei terribili av-
venimenti, ma alla fine ci sarà una Polonia grande e presti-
giosa: in una parola, La Polonia. Perciò dunque, malgrado la
nostra impazienza, aspettiamo che le carte siano state ben mi-
schiate per non perdere invano delle forze che, al punto giu-
sto, possono diventare utilissime. Quest’ora è vicina ma non
suona ancora oggi... Può darsi fra un mese... può darsi fra un
anno. Qui si è convinti che il nostro affare prenderà corpo
prima dell’autunno”. Le rosee speranze d’un mattino...
La vita culturale nella Parigi postrivoluzionaria – Luigi Fi-
lippo aveva subito abdicato ed era stata proclamata la re-
pubblica – non era per il momento favorevole a chi, come me,
viveva del suo lavoro di insegnante con una clientela aristo-
cratica. Dovevo andarmene per un po’, fino a che le cose si
fossero riassestate. Ma dove? Con l’Europa in fiamme non
c’era molto da scegliere. Accettai perciò il consiglio di una
mia allieva scozzese e il 19 aprile partii per l’Inghilterra.

Del mio arrivo a Londra, di come capii che il mondo


stava cambiando, nonché del mio incontro a Varsavia
con Paganini e delle polemiche suscitate dalla sua arte

Jane Stirling, così si chiamava la mia allieva devotissima, mi


aveva prospettato delle possibilità di guadagno che non mi
potevo permettere di trascurare. Tuttavia l’Inghilterra mi fa-
ceva un po’ paura. Come sarei stato accolto? Londra era an-
cora tutta per Mendelssohn, scomparso da appena un anno,
che era stato il coqueluche della giovane regina Vittoria. E
quasi otto anni prima il Musical World aveva recensito in un
modo persino più che insultante le mie Mazurche op. 33:

Frédéric Chopin ha raggiunto, con un mezzo o con l’altro che


non siamo in grado di indovinare, una popolarità larghissima, una

121
reputazione troppo spesso negata a compositori dieci volte più ge-
niali di lui. Chopin non è affatto un compositore mediocre; ma è,
cosa che da molti potrebbe venire considerata il peggio, un com-
positore che produce le più assurde e iperboliche stravaganze. Il
fatto che un così grossolano e limitato autore debba essere stima-
to, come è stimato in genere, un profondo e classico musicista, è
una cosa sorprendente e che getta il ridicolo sulla capacità di pen-
sare posseduta dai professionisti della musica.

E via di questo passo per un bel po’ di colonne, fino alla


sferzante conclusione, con l’insulto spostato incredibilmente
sulla mia vita privata:

Vi è oggi un’attenuante ai misfatti di Chopin: egli è irretito nei


lacci di quella maga che è George Sand, altrettanto celebrata per il
numero e l’eccellenza dei suoi romanzi che dei suoi amanti. Ci sem-
bra strano come essa, che una volta ha dominato il cuore del subli-
me e terribile religioso democratico Lammenais, possa ora adat-
tarsi ad avvilire la sua eccezionale esistenza accanto ad una nullità
artistica come Chopin.

I miei editori inglesi avevano protestato, sia pure in tono


conciliante ed umilissimo per non provocare un’altra bella
dose di improperi, il Musical World aveva replicato con mi-
nore astio ed era tornato poi varie volte sulle mie musiche con
atteggiamento non più così arrogante. Tuttavia io sapevo che
Londra avrebbe potuto guardarmi con anglica sufficienza e
non mi fidavo interamente delle previsioni che faceva la can-
dida Jane. Partito il 19 da Parigi, arrivai nella capitale ingle-
se – prodigio del treno – già il 20, tre giorni prima della Pa-
squa. La Stirling e sua sorella mi avevano trovato un appar-
tamento ed avevano pensato a tutto ciò che mi avrebbe mes-
so a mio bell’agio, persino alla cioccolata calda di cui non
posso fare a meno. Il periodo festivo mi permise di riposar-
mi, poi cominciai a fare delle visite: venni accolto da tutti con
la più viva cordialità. I rappresentanti di Pleyel e di Érard mi
mandarono i loro pianoforti, e mi mandò un suo pianoforte

122
anche Broadwood, che avevo conosciuto nel ’37, cosicché eb-
bi addirittura a mia completa disposizione tre splendidi stru-
menti.
Con mia grande sorpresa mi venne subito proposto di suo-
nare con orchestra alla Società Filarmonica. Nicchiai e dissi
di no. Thalberg era stato scritturato per qualcosa come dodi-
ci concerti in teatro, Londra era piena zeppa di pianisti scap-
pati dal continente e specialmente da Parigi, e il gusto locale
era fortemente orientato sul classico, ...con l’ovvia appendi-
ce di Mendelssohn. Carl Hallé, diventato nel frattempo Char-
les, che conoscevo bene perché aveva studiato a Parigi con il
mio amico Kalkbrenner, nutriva buone speranze di essere
scritturato per suonare il Concerto in sol minore di Men-
delssohn, mentre Émile Prudent, bravissimo allievo di Zim-
mermann, aveva fatto cilecca con il suo Concerto. Se almeno
si fosse potuto provare uno dei miei concerti con la calma ne-
cessaria...
Mi confidai con il mio amico Grzymała: “La Filarmonica
m’ha chiesto di dare un concerto, ma io non ci tengo, sareb-
be con orchestra. Ci sono andato e ho studiato il problema.
Prudent ha fatto sentire alla Filarmonica il suo Concerto ed
ha fatto fiasco. Bisogna suonare Mozart, Beethoven o Men-
delssohn. Tuttavia i direttori ed altri mi hanno detto che i
miei concerti sono stati eseguiti”. Erano stati eseguiti da
Louise Dulcken, tedesca di nascita (sorella del violinista Fer-
dinand David, primo interprete del Concerto di Mendels-
sohn) ed inglese per matrimonio, che dava lezioni di pia-
noforte alla regina Vittoria e che era una celebrità locale. “Ma
io”, proseguivo nella lettera, “preferisco astenermene perché
non potrei attendermi alcun risultato favorevole. La loro or-
chestra assomiglia al loro roastbeef e alla loro zuppa di tarta-
ruga: è forte, è rinomata, ...ma nulla più. E tuttavia ciò che di-
co non rappresenterebbe un ostacolo alla realizzazione del
progetto se non vi si aggiungessero delle circostanze inaccet-
tabili: il tempo ha per gli inglesi un tale valore che l’orchestra
fa una sola prova, e che per di più questa prova è pubblica”.

123
A Londra capii veramente quanto stesse cambiando il
mondo, e quale abbaglio avessi preso io nel 1830, quando
avevo cercato di inserirmi in uno spazio professionale che
ben presto avrebbe subito delle profonde modifiche. Se-
guendo l’esempio di Moscheles e delle sue celebri Variazioni
sulla Marcia d’Alessandro avevo composto a diciassette anni
le Variazioni op. 2 sul tema “Là ci darem la mano” del Don
Giovanni di Mozart. L’anno dopo scrissi due lavori che ac-
centuavano la mia appartenenza alla Polonia: furono il
Krakowiak op. 14 e la Fantasia su arie nazionali polacche op.
13. Moscheles aveva dato inizio alla moda dei pezzi da con-
certo su musiche popolari con il Souvenir d’Irlande op. 69 e
con gli Echoes from Scotland op. 75. Per la mia Fantasia scel-
si la canzone popolare “La luna è già tramontata”, un
krakowiak di un’opera di Karol Kurpiński ed una canzone
contadina, “Jasio va a Toruń”, che avevo sentito in campagna.
Il Krakowiak op. 14 era un rondò brillante, che aveva il suo
ovvio precedente nei due rondò da concerto di Hummel, il
quale era venuto a Varsavia nella primavera del 1828 per te-
nervi una serie di concerti.
L’audizione di Hummel, e l’audizione di Paganini, che tra
la fine di maggio e l’inizio di luglio del ’29, in occasione del-
l’incoronazione dello zar Nicola I a re di Polonia, tenne a Var-
savia ben dieci trionfali concerti, mi avevano aperto gli occhi
sulla realtà del virtuosismo strumentale contemporaneo, del
virtuosismo verso cui ero stato già indirizzato da Wilhelm Wü-
ferl, mio maestro d’organo ma eccellente pianista e, al contra-
rio del mio primo maestro Żywny, “moderno”. Würfel, piani-
sta, come dicevo, eccellente, non era però un virtuoso di sta-
tura internazionale e alle sue esecuzioni delle pagine più bril-
lanti – come alle mie esecuzioni, del resto – mancava quel rag-
giante splendore che scoprii invece nelle esecuzioni e nelle im-
provvisazioni di Hummel. I festeggiamenti per l’incoronazio-
ne di Nicola I non attirarono a Varsavia il solo Paganini. Ven-
ne anche Karol Lipiński, polacco di Lublino e rivale del Ge-
novese. E il confronto fra i due fu quanto mai illuminante.

124
Il pubblico fu tutto per Paganini, tanto che Lipiński, offe-
so e deluso, se ne andò prima del previsto, ma la critica si di-
vise e il mio amico Mauryczy Mochnacki cercò di trovare una
sintesi fra le opposte posizioni. “Guarda un po’ qui”, mi dis-
se un giorno, “quali cazzate scrive Lach Szyrma su Paganini”
(Szyrma era un professore universitario, conservatore e clas-
sicista). “Che cosa scrive?”, risposi. “Una cazzata via l’altra,
proprio una cazzata via l’altra”. “Ad esempio?”. Mauryczy
sfogliò nervosamente il Giornale Generale Nazionale, e citò:
“Lo spirito della sua esecuzione è lo stesso di quello della
poesia di Byron”. “Mi sembra ben detto”, osservai. “Già, se
Byron fosse nelle grazie di Szyrma. Ma siccome ama Byron
come il diavolo l’acqua santa... Proseguo: i suoi suoni, dice,
non sono né divini né angelici – come li qualificano talvolta i
suoi ciechi ammiratori – ma dolorosi, lugubri, infernali. E poi
dice ancora (ti faccio grazia di qualcosa): il suono naturale è
puro, ma il suono del flautato ha talvolta qualcosa di striden-
te, di diabolico, e se non proviene dall’inferno proviene per
lo meno dalla caverna del Freischütz”. “Beh!”, dissi, “ci pren-
de un’altra volta senza volerlo, quel coglione. E del nostro
Karol, che dice?”. “Dice così: questo grande artista della
nuova scuola – ma che nuova, perdiana! Szyrma è proprio un
coglione – si attiene strettamente alle regole dell’arte, non si
scosta mai dal buon gusto, disprezza il brillante e, se capita
che se ne serva, lo fa sempre da buon intenditore, in accordo
con la sua aspirazione alla bellezza. E poi conclude, ovvio,
che Paganini è romantico e Lipiński classico”.
Lipiński era un artista di grande valore, ed era polacco. Fe-
ci allora la sua conoscenza, e più tardi, quando venne a Pari-
gi, lo portai con me nei salotti che frequentavo e gli feci co-
noscere molti personaggi influenti. Poté esordire a Parigi,
senza tuttavia ottenere il successo che sperava e che avevo
sperato per lui; ma mi fu sempre riconoscente e una volta,
scrivendomi per presentarmi il conte Tarnowski che voleva
conoscermi, si dichiarò “vostro autentico adoratore”. Per Li-

125
piński, artista esimio e uomo retto, provavo una grande sim-
patia. E tuttavia Paganini...
Paganini apparteneva ad un altro mondo. Lo ascoltai e gli
fui presentato. Era magrissimo, brutto, stava sempre un po’
storto, come se dovesse tenere perennemente il violino sotto
il mento, le sue mani, anzi, i suoi lunghissimi artigli erano im-
pressionanti. Ed era, stranamente, molto meticoloso, pren-
deva continuamente appunti su un quaderno dalla copertina
rossa. Mi chiese di sillabargli il mio nome e lo annotò. Vidi,
sbirciando sopra la sua spalla, che aveva scritto “Chopin gio-
vane pianista”. Composi subito un piccolo pezzo in forma di
variazioni, Souvenir de Paganini, sul tema del Carnevale di
Venezia. Ma un anno più tardi scrissi due studi, che furono
poi i primi due della mia op. 10, ispirati al violinismo paga-
niniano, il primo al rapidissimo balzellato sulle quattro cor-
de, il secondo al moto perpetuo con i pizzicati della mano si-
nistra. E due anni dopo, con lo Scherzo op. 20 e la Ballata op.
23, entrai nel mondo stregato di cui Paganini mi aveva dato
la chiave.
L’articolo di Lach Szyrma provocò una tempesta di rea-
zioni contrarie. Lessi nella Gazzetta di Varsavia un paragone
ingiustificato: “L’esecuzione di Paganini possiede il fascino
dell’ispirazione, quello di Lipiński tradisce un esercizio labo-
rioso, Paganini è un maestro, Lipiński è l’allievo dei maestri”.
Andai a cercare Mauryczy Mochnacki: “Questa è un’ingiu-
stizia bell’e buona”, gli dissi. “Concordo. Secondo me è da
folli, trafiggere uno per esaltare l’altro”. Il mio amico rifletté
per un momento, poi mi chiese: “Che ne diresti, se io scrivessi
un articolo, tentando di essere imparziale?”. “Direi che è una
buonissima idea. Come lo imposteresti?”. “Mi sembra di po-
ter asserire – correggimi se sbaglio – che l’arte di Paganini è
personalissima, lirica e fantastica fino al grottesco, mentre
l’arte di Lipiński è poeticamente oggettiva, e armoniosa fino
al pittoresco”. “Io sono d’accordo. Ma non è un dire in mo-
do diverso che l’uno è romantico e l’altro classico?”. “Sì, è co-
sì. Però non si tratta più di etichettare i due, e poi, io argo-

126
menterò il discorso in modo approfondito”. Così Mauryczy
pubblicò un lungo e bellissimo articolo nella Gazzetta polac-
ca, un articolo che aveva il merito di fare pacatamente chia-
rezza su una questione che era stata affrontata da altri con
troppa partigianeria.
Paganini suonava solo le sue musiche, Hummel suonava
solo le sue musiche, Moscheles, Ries, Kalkbrenner, Field suo-
navano solo le loro musiche, e così avevano fatto i primi pia-
nisti concertisti itineranti, come Dussek e Steibelt. Potevo io
pensare, quando avevo vent’anni, che nel concertismo fosse
imminente una grande svolta? Mendelssohn lo capì, ma lui
viveva in un centro di cultura come Berlino, e a Berlino si sta-
va creando il culto di Bach e della musica antica. Io non lo ca-
pii: vivevo a Varsavia. Né lo capii nell’estate del ’29, quando
rimasi per qualche settimana a Vienna e vi tenni due concer-
ti con musiche mie ed improvvisazioni. Tornato a Varsavia mi
misi subito a comporre i due concerti, in modo da completa-
re il mio repertorio, e prima di ripartire abbozzai anche la Po-
lacca Brillante, e a Vienna schizzai il primo tempo di un ter-
zo concerto che poi abbandonai (ne ho utilizzato gli abbozzi
per l’Allegro da concerto op. 46).
Avevo solo vent’anni, e nessun pianista, a vent’anni, nes-
suno, per la miseria, aveva mai messo in scuderia un reperto-
rio così nutrito come il mio. Non mi servì. Forse e senza for-
se non ero tagliato per il concertismo itinerante, forse e sen-
za forse non ero adatto ad affrontare le tournée. Tuttavia il re-
pertorio che avevo preparato, e che sarebbe stato utile
vent’anni prima, negli anni trenta non era più à la page. Che
cosa fecero i concertisti un po’ più giovani di me, quelli che
avevano fiutato per tempo il mutare del vento? Thalberg,
Henselt, Döhler hanno scritto un concerto ciascuno, Liszt
non ne ha scritti. Hanno però in repertorio molte loro varia-
zioni e fantasie su temi di melodrammi, macchine virtuosisti-
che spettacolari per pianoforte solo che sono state la grande
novità degli anni trenta e a cui non sono interessato. Liszt ese-
gue i concerti di Beethoven, Weber, Hummel, Moscheles,

127
Mendelssohn, ...e i miei. Questo mondo che cambia, e che si
volge verso il passato e lo valorizza, garantirà dunque la so-
pravvivenza di quei miei lavori che io non ho sfruttato? Che
paradosso!

Delle mie avventure a Londra e in Scozia,


della regina Vittoria e della nobiltà affamata di musica,
e di una strana notizia che dalla Scozia rimbalzò a Parigi

La mia presenza a Londra fu notata prima ancora che mi fos-


si messo in moto per fare tutte le visite che avevo in pro-
gramma, e i miei timori della vigilia si dimostrarono infonda-
ti. Cinque allievi mi chiesero delle lezioni nel giro di pochi
giorni, un giornale parlò di me in termini estremamente elo-
giativi. E fu così che Jenny Lind mi mandò l’invito per la rap-
presentazione della Sonnambula. Il 12 maggio cenai con lei,
ospiti entrambi della signora Grote che la proteggeva. Come
dicevo, fra noi era subito scoccata una scintilla di calda sim-
patia. Dopo la cena Jenny cantò fino a mezzanotte delle can-
zoni svedesi, che mi interessarono molto. La musica svedese
ha un carattere particolare e speciale quanto la musica po-
lacca. Come scrissi a Grzymała, “la musica slava e la musica
scandinava sono completamente diverse, e tuttavia sono vici-
ne l’una all’altra più di quanto lo siano la musica italiana e la
musica spagnola”. Forse era anche merito di Jenny: che arti-
sta, per Giove!
Ad introdurmi nell’alta società inglese ci pensò la duchessa
di Sutherland, che il 15 maggio mi invitò a suonare a casa sua
in un trattenimento dato in occasione di un battesimo, presen-
ti la giovane regina Vittoria, il principe Alberto suo marito, il
principe di Prussia, il vecchio duca di Wellington e una quan-
tità – ottanta persone all’incirca – di milordi e milordesse. In-
sieme con il pianista Julius Benedict, molto amico di Jenny
Lind, suonai, facendo il dovuto omaggio al classico, le Varia-
zioni in sol maggiore di Mozart e poi, da solo, qualcuno dei miei

128
valzer e delle mie mazurche. Non dico che fosse umiliante, per
me, sentirmi chiedere di suonare Mozart, ma avrei certamente
preferito se gli ospiti della duchessa avessero desiderato senti-
re una delle mie maggiori composizioni, una ballata, uno scher-
zo, la Barcarola o la Polacca-Fantasia. Pazienza!
I bravi pianisti Benedict e Chopin erano però come le pa-
tate al forno e gli spinaci al burro rispetto alla maestosità del-
l’arrosto, e di arrosto ce n’erano quella sera tre specie pre-
giatissime: tre cantanti italiani celeberrimi, il tenore Mario, il
baritono Tamburini, il basso Lablache. La regina si rivolse a
me con cortesia, per due volte, e il principe Alberto si acco-
stò a me mentre suonavo al pianoforte, cosa, mi fu detto, che
capitava rarissimamente e che dimostrava un insolito interes-
se. La regina, coperta di decorazioni e di parure di diamanti,
scintillava come un albero di Natale e si muoveva con un’e-
leganza suprema (la vidi scendere lo scalone del palazzo con
piede fermissimo e sicurissimo). Con me, dicevo, fu cortese e
carina. Ma era evidente che era stato il canto, a farla sentire
in paradiso. Ed io non venni invitato a suonare a corte.
La serata in casa della duchessa di Sutherland mi procurò
molti inviti a pranzo e a cena, e tutti coloro che incontravo
erano con me gentili. Ma io non mi ci trovavo bene, con gli
inglesi, ed avevo per di più l’impressione che, essendo vesti-
to con una certa ricercatezza, avendo le scarpe pulite e non
avendo messo nel mio biglietto da visita la solita appendice
del “dà lezioni private, suona in serate”, mi considerassero
come una specie di dilettante, un gran signore che faceva per
hobby il compositore e il pianista. Per la serata in casa della
duchessa avevo ricevuto venti ghinee, prezzo richiesto per me
dal costruttore Broadwood, che conosceva le tariffe e che sa-
peva trattare. Una sera la vecchia Rotschild mi chiese senza
tante perifrasi: “Qual è il vostro prezzo per una serata?”.
“Venti ghinee”, risposi. La saggia signora scosse la sua testa
canuta: “Voi suonate davvero bene, nulla da dire. Ma vi con-
siglierei di chiedere di meno: a questo punto della season bi-
sogna avere più moderazione”.

129
Un po’ sconsolato scrissi a Grzymała: “Se fossi nella con-
dizione di spostarmi per tutta la giornata da Hanna a Caifa,
se non sputassi sangue da qualche giorno, se fossi più giova-
ne, se non fossi oppresso dalle mie amicizie, come lo sono, al-
lora, forse, potrei iniziare una nuova vita. Le mie care dame
scozzesi mi testimoniano un vivissimo affetto, sono sempre
con loro quando non sono a zonzo. Ma hanno l’abitudine di
andare in giro il giorno intero e di rompersi le reni in vettura
per tutta Londra per lasciare i loro biglietti da visita. Vorreb-
bero che andassi da tutti i loro amici, ma è già tanto se io so-
no ancora in vita. Quando mi son fatto sballottare per tre o
quattro ore in vettura è come se avessi fatto il viaggio da Pa-
rigi a Boulogne. Le distanze, qui...! C’è stato un ballo polac-
co, molto ben riuscito. Non ci sono andato, sebbene mi fos-
se stato mandato un biglietto d’invito, perché avevo pranza-
to da lady Kinlogh in compagnia di lord, cancellieri e il dia-
volo sa cosa, in ogni caso ogni sorta di gente con grandi cor-
doni sul gilet. Vengo presentato, ma io non capisco a chi, e a
Londra non mi riconosco del tutto. Vent’anni di Polonia, di-
ciassette di Parigi... Che c’è da stupirsi, se qui non mi sento a
mio agio?”.
Quando suonavo nei salotti gli ospiti ascoltavano senza
fiatare. Era già un segno di somma distinzione, che si so-
spendesse la conversazione. Ma, quanto a capire la mia mu-
sica, ci correva molto. La borghesia inglese ha bisogno di
qualcosa di straordinario e di meccanico, impossibile per me.
Quanto al gran mondo, che viaggia, è altezzoso ma civile e,
quando si decide a giudicare da solo, è competente; ma è tal-
mente distratto da mille cose, talmente oppresso dalla noia
delle convenienze e delle convenzioni che gli è diventato in-
differente se la musica sia buona o cattiva: ne sente dalla mat-
tina alla sera. Non c’è nessuna esposizione di fiori senza mu-
sica, nessun pranzo senza musica, nessuna vendita di carità
senza musica. La mia unica preoccupazione, dopo un mese
di vita londinese, era di dare qualche concerto privato che
mettesse un po’ in sesto le mie finanze: se avessi trovato una

130
sala tra i centocinquanta e i duecento posti avrei potuto in-
cassare un centocinquanta ghinee. Adelaide Sartoris, ex can-
tante che aveva fatto un matrimonio da favola, mise a mia di-
sposizione il suo salone: vi suonai il 23 giugno, avendo come
partner il tenore Giuseppe Mario, che cantò tre romanze,
mentre io suonai varie mie composizioni brevi. Incassai, co-
me previsto, centocinquanta ghinee.
Tenni un secondo concerto il 7 luglio nel palazzo di Lord
Falmouth, insieme con Pauline Viardot. Il fatto che Pauline,
la migliore, la più devota amica di George Sand, mi avesse
cercato ed avesse, anzi, cantato in teatro, senza che glielo
chiedessi, le mie mazurche arrangiate da lei per la voce, mi
aveva un po’ sorpreso e mi aveva reso felice. Seppi da Pauli-
ne, e mi fece piacere, che Aurore le aveva scritto per avere no-
tizie della mia salute. Anche Mario, che era ospite fisso del
teatro italiano di Parigi e che conoscevo bene, fu molto gen-
tile nel, diciamo pure, darmi amichevolmente una mano: la
sua fama aiutò il pubblico inglese a... digerire l’alto prezzo
che avevo fissato per il mio concerto.
Al secondo concerto assistette la moglie del grande scrit-
tore Thomas Carlyle, che scrisse a Jane Stirling, mandandole
dei versi composti da un suo amico “in suo onore e per la sua
gloria”, cioè per il mio onore e per la mia gloria, e chieden-
dole di farmi conoscere la traduzione, visto che io l’inglese né
lo capisco né lo parlo. Le parole di accompagnamento ai ver-
si mi ricordarono le lettere di Astolphe de Custine e mi com-
mossero. Jane me le aveva tradotte: “Io preferisco la sua mu-
sica a quella di tutti gli altri, perché essa non è un prodotto
artistico offerto all’ammirazione del mondo, effetto che in me
produce la maggior parte della musica, ma il riflesso d’una
parte della sua anima, d’una particola della sua vita prodi-
giosa in favore di coloro che hanno orecchie per intendere e
cuore per comprendere. Penso che ciascuna delle sue com-
posizioni ha dovuto sottrarre dei giorni a quelli che gli erano
dati da vivere! Oh, quanto vorrei che capisse l’inglese, quan-
to vorrei potergli parlare con tutto il mio cuore”. Anche il

131
marito fu con me gentilissimo. Conobbi inoltre un altro scrit-
tore, che mi fu detto essere celebre: Charles Dickens.
La season era finita, e con la fine della season si chiudeva il
periodo della mia permanenza a Londra. Alla metà di luglio,
amareggiato e depresso, scrivendo come al solito a Grzymała,
che da anni era diventato il mio... confessore, tirai le conclu-
sioni. “Sono snervato, soffro di stupida nostalgia e, malgrado
tutta la mia rassegnazione, sono inquieto: che sarà di me? Di
tutto il denaro che ho guadagnato ho dovuto sacrificare circa
duecento ghinee (cioè, all’incirca, cinquemila franchi) per l’al-
loggio e la carrozza e il domestico. Quello che mi resta mi per-
metterebbe di vivere in Italia per un anno ma, qui, appena per
sei mesi. Non ho dato un concerto dalla regina sebbene aves-
si suonato in sua presenza presso la duchessa di Sutherland.
Attualmente la regina ha lasciato Londra. Può darsi che io sia
stato scartato da qualche regio direttore per aver trascurato di
rendergli visita, a meno che non sia per aver rifiutato di suo-
nare alla Società Filarmonica”. Il direttore della Filarmonica
era anche direttore dei concerti di corte: non ero andato a far-
gli visita, e forse se l’era legata al dito. Conclusione: “Se la sea-
son fosse durata sei mesi avrei potuto farmi conoscere a poco
a poco. Mi è mancato il tempo. Così, tutto si è imbrogliato”.
Mi era anche capitata qualche piccola disavventura finan-
ziaria. Una mia allieva era partita per le vacanze tralasciando
distrattamente (!) di pagarmi nove lezioni (nove ghinee per-
dute). Altre allieve che mi avevano impegnato per due lezio-
ni alla settimana ne avevano fatte la metà di quanto previsto.
Ad una signora arrivata da Liverpool avevo dovuto dare cin-
que lezioni in cinque giorni. Una lady voleva delle lezioni per
la figlia. Ma siccome il suo maestro prendeva solo una mezza
ghinea concordò con me una sola lezione alla settimana inve-
ce delle due di prammatica: tutto per poter dire che la figlia,
d’altronde ben dotata, era stata mia allieva. In altre circo-
stanze avrei mandato a quel paese e la dama di Livepool e la
lady. Ma non ero nella condizione di esigere il rispetto che in
teoria mi era dovuto.

132
In questo stato di incertezza accettai l’invito di Jane Stir-
ling e della sorella, pensando di passare l’agosto in Scozia
prima di raggiungere Manchester il 28, dove avevo accetta-
to di prendere parte ad un concerto. Arrivando alla stazione
di Londra per imbarcarmi sul treno espresso per Edimbur-
go, via Birmingham e Carlisle, ebbi la sorpresa di trovare un
inviato di Broadwood che mi consegnò tre biglietti di viag-
gio. Uno per me, uno per il mio cameriere, certo. E il terzo
per chi? Sempre per me: quel bravuomo di Broadwood ave-
va riservato, oltre al mio posto, anche quello in faccia al mio,
per evitarmi il fastidio di trovarmi con un dirimpettaio: un’i-
dea da gran signore, non da mercante! In dodici ore percor-
si le 407 miglia da Londra ad Edimburgo, ad Edimburgo mi
fermai un giorno e mezzo per riposare e per visitare la città,
superbamente bella, e quindi raggiunsi in carrozza Calder
House, a dodici miglia dalla capitale, dove sarei stato ospite
di Lord Torpichen, cognato di Jane e della sorella.
Il soggiorno a Calder House, nell’antico castello in cui non
mancavano i lunghi corridoi oscuri, la legione dei ritratti di
famiglia e il fantasma che si mostrava nei momenti più ina-
spettati (ma io non lo vidi) fu quanto mai piacevole. L’unico
mio assillo – e non da poco – riguardava il mio futuro. Rima-
nere in Inghilterra? Me lo consigliavano in molti, ma io non
me la sentivo di affrontare di nuovo il tourbillon della vita di
società londinese e di cercare di piacere come pianista for-
zando la mia natura. Però non sapevo che cosa sarebbe acca-
duto, se fossi rientrato in una Parigi ancora agitata dai po-
stumi della rivoluzione. Scrivendo a Grzymała gli confidai il
mio cruccio: “Se soltanto fossi sicuro di avere da mangiare a
Parigi, nel prossimo inverno”. Nell’ansia di mettere insieme
quanto più denaro possibile presi parte al concerto a Man-
chester il 28 agosto e poi ritornai in Scozia, a Glasgow.
Jane Stirling, ossessionata dall’idea di farmi conoscere ed
apprezzare da tutta la noblesse scozzese, mi scarrozzò di qua
e di là come se fossi un baule. Ebbi anche un brutto inciden-
te di viaggio, dal quale uscii miracolosamente con poche con-

133
tusioni: la carrozza ribaltò in piena corsa e rotolò verso un
precipizio, fermandosi nell’impatto con un albero. Vidi la
morte in faccia. Paesaggi meravigliosi, dimore splendide,
gente incuriosita che mi chiedeva di suonare e che dopo aver-
mi sentito diceva invariabilmente “like water”, intendendo
che la mia musica scorreva come l’acqua. Una vita d’inferno,
distrutto com’ero dalle troppe premure delle mie due vesta-
li. Lo scrissi a Grzymała: “Esse finiranno col soffocarmi con
le loro gentilezze, ed io, pure per gentilezza, le lascerò fare”.
Suonai a Glasgow e a Edimburgo, intascando un po’ di de-
naro. E mentre ancora continuavo a dibattere con me stesso le
ipotesi quasi tutte tremendamente pessimistiche che facevo
sul mio avvenire mi arrivò una lettera di Grzymała che mi chie-
deva fresco fresco se era vero che stavo per maritarmi.

Delle mie idee sul matrimonio, del mio ritorno a Parigi,


del mio ultimo e triste incontro con Aurore
e dei miei ricordi di Nohant

A Grzymała risposi subito, da Edimburgo (era il 30 ottobre):


“Hai dunque dimenticato quello che sono, per dedurre dal-
le lettere in cui ti scrivo di sentirmi sempre più debole, op-
presso, senza alcuna speranza, senza un tetto, per dedurre
dunque da tutto quello che precede che sto per sposarmi?”.
Abitavo presso un medico omeopatico polacco, il dottor Ły-
szczynski, coniugato con una scozzese e che in Scozia se la
passava piuttosto bene. “Non voglio più fare visite in nessun
posto”, scrivevo a Grzymała, “perché il colera non è lontano
ed anche per non dover passare tutto l’inverno in qualche po-
sto dove mi capiterebbe di crollare del tutto”. Aspettavo – sa-
pevo bene che ci sarebbe stata – la visita di Jane Stirling e del-
la sorella, che non avevo più visto da qualche giorno. Se non
ero nelle loro vicinanze mi scrivevano, io non rispondevo ma
loro mi scrivevano lo stesso. Erano così noiose, che Dio le
perdoni! E mi volevano un bene dell’anima e avrebbero vo-

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luto aiutarmi, anche..., sì, anche proponendomi in modo ve-
lato gli sponsali.
Non posso sapere come fosse nata la voce che era rimbal-
zata fino a Parigi. Forse le mie due sante donne s’erano scon-
sideratamente lasciate scappare qualcosa del loro disegno e la
notizia, data per certa, doveva aver fatto il giro del bel mon-
do, del bel mondo scozzese a cui, per la stagione della caccia,
s’erano aggregati esponenti della nobiltà francese, polacca,
italiana, tedesca. “Per sposarsi”, scrissi a Grzymała, “biso-
gnerebbe provare una qualche attrazione fisica. Ora, quella
che non è sposata mi rassomiglia troppo”. Era così magra,
povera Jane, con un naso così lungo. “Come farei, ad ab-
bracciare me stesso?”. Alla sorella di Jane, che mi aveva par-
lato della grande amicizia e del grande affetto che entrambe
avevano per me, e della possibilità che, ehm, ehm, che l’ami-
cizia, ehm, ehm, portasse a, ehm, ehm, avevo dichiarato sec-
camente che l’amicizia è l’amicizia, e basta. “E anche se mi in-
namorassi e fossi riamato secondo il mio desiderio”, dicevo a
Grzymała, “non mi sposerei perché non avremmo da man-
giare, né dove alloggiare. Le ragazze ricche cercano i ricchi e
se si incapricciano dei poveri bisogna che questi non siano dei
malati ma degli uomini giovani e ben portanti. Si ha il diritto
di esser poveri da soli, ma l’esserlo in due è la più grande del-
le disgrazie. Sono disposto a crepare all’ospedale ma non vo-
glio lasciare dietro di me una moglie nella miseria”.
Quando non pensavo all’incerto avvenire ero roso dalla
nostalgia: “Non penso a sposarmi”, conclusi, “penso alla mia
casa, a mia madre, alle mie sorelle. Che Dio conceda loro di
non avere altro che pensieri felici. Ma che cos’è della mia ar-
te? E che ho fatto io del mio cuore? È già tanto se mi ricordo
ancora di come si canta nel mio paese. Questo mondo svani-
sce davanti a me, io dimentico, io non ho più forza, io mi sol-
levo un po’ per ricadere più in basso. Non mi lamento con te,
ma siccome mi hai chiesto dei chiarimenti ti spiego che sono
più vicino alla bara che al letto nuziale. Il mio spirito è cal-
mo”.

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Ritornai a Londra ai primi di novembre, raffreddatissimo
e con un feroce mal di testa. Un medico omeopatico venne a
vedermi tutti i giorni (e costava caro), ricevetti moltissime vi-
site (erano subito arrivate Jane e la sorella), e il 16 potei pren-
der parte ad un concerto prima del ballo che si dava per rac-
cogliere fondi per la Polonia. Alla fine avevo deciso di rien-
trare a Parigi ed avevo incaricato Grzymała di cercarmi un
appartamento, perché quello che avevo ancora in affitto non
era adatto per passarci l’inverno. Ma nello stesso tempo mi
sfogavo: “Perché ritorno? Perché Dio dispone le cose in que-
sto modo? Invece di uccidermi subito mi fa morire a poco a
poco per questa febbre di indecisione. Ed oltre a questo le
mie brave scozzesi m’annoiano di nuovo. La sorella di Jane,
protestante molto praticante e gran brava donna, vorrebbe
senza dubbio fare di me un protestante perché mi porta la
Bibbia, mi parla della mia anima, mi indica quali salmi devo
leggere. È religiosa e s’interessa straordinariamente alla mia
salvezza; non la smette mai di dire che l’altro mondo è mi-
gliore di questo, ed io, che tutto ciò lo conosco a memoria, le
rispondo, per dimostrarglielo, con citazioni della Sacra Scrit-
tura”. Altro che salmi e Bibbia e Sacra Scrittura. Io mi tortu-
ravo perché, malato come continuavo ad essere, non potevo
dare delle lezioni: mi restava quanto mi sarebbe bastato per
vivere a Londra non più di tre o quattro mesi.
Il 23 partii finalmente, accompagnato dal mio cameriere
(irlandese, un bravissimo ragazzo) e da un compatriota, e il
giorno dopo ero a Parigi. Avevo chiesto di riscaldare per bene
il mio appartamento, senza badare a spese, ed avevo chiesto –
mi concedevo un capriccio – di avere nel salone un mazzolino
di violette, tanto per trovare un po’ di poesia prima di metter-
mi a letto dove, lo prevedevo, sarei rimasto a giacere per mol-
to tempo, con la tosse, le nevralgie, i gonfiori, l’asma e l’inson-
nia. Appena arrivato seppi che era morto il dottor Molin, il mio
dottor Molin che sapeva, solo lui, come tenermi sano. In que-
sti ultimi mesi ho cambiato vari dottori, in genere omeopatici,
che brancolano tutti a tentoni, che mi consigliano come tanti

136
pappagalli un clima diverso, calma, riposo. Un bel giorno lo
avrò, il riposo, senza di loro. La mia salute non fa altro che an-
dare su e giù come un altalena, ma ogni volta meno su e ogni
volta più giù. Da qualche settimana ho deciso di non prende-
re più medicine e tisane, tanto non servono a nulla. Desidero
soltanto che venga a Parigi – gliel’ho chiesto e richiesto – mia
sorella Ludwika: ritrovarmi con i miei significherebbe mette-
re riparo ai morsi della nostalgia, e questa sarebbe senza dub-
bio la migliore delle medicine.
Riesco ancora a dare qualche lezione, esco qualche volta.
Sono andato a teatro – mia vecchia passione – ed ho assistito
alla prima rappresentazione del Profeta di Meyerbeer, uno
spettacolo magnifico, con l’impiego – per la prima volta nel-
la storia! – della luce elettrica, con un incendio e un balletto
di pattinatori su un lago gelato. I pattinatori avevano pattini
a rotelle, ovviamente, non era possibile riprodurre in scena il
ghiaccio, ma l’effetto era ugualmente superbo. Mi ha fatto
piacere constatare che Meyerbeer compone poco ma non fal-
lisce mai il colpo, anche se per me valgono ancora sempre le
vecchie equivalenze: Rossini=genio, Meyerbeer=talento, Au-
ber=grazia, Halévy=savoir-faire.
Molte persone sono venute a trovarmi. Aurore, come già
ho detto, s’è informata più volte, con amici comuni, sulla mia
salute, ma non ha fatto lo sforzo di bussare alla mia porta. Do-
po che ci siamo lasciati l’ho rivista una sola volta, il 4 marzo
1848. Dell’incontro scrissi a Solange, la figlia di Aurore che
nel distacco fra sua madre e me, col suo matrimonio mal com-
binato, aveva avuto una parte non marginale. Ma di questo
non voglio parlare: è una storia troppo triste e troppo amara.
Dicevo del nostro incontro. Ero andato a trovare una comu-
ne amica, la contessa Charlotte Marliani. Uscendo dall’anti-
camera mi imbattei in Aurore, che stava giusto arrivando.
“Buongiorno, Signora”. Fu tutto quello che in quel mo-
mento riuscii a spiccicare, non sapevo che altro dire. E lei non
sapeva che altro rispondere. Disse però il semplice “Buon-
giorno” con voce ferma.

137
“Da quanto tempo non avete notizie di Solange?” Mi era
venuta un’ispirazione.
“Non ne ho da una settimana”.
“Non ne avete da ieri, dall’altro ieri?”.
“No”. Aurore mi guardava con un po’ di stupore e un po’
di fastidio.
“Allora vi informo che... siete... nonna. Solange ha avuto
una figlioletta, ed io sono molto contento di potervi dare per
primo questa notizia”.
Feci un rapido saluto, mi avviai e discesi le scale. C’era con
me Edmond Combes, un bravo ragazzo molto devoto ad Au-
rore ma anche a me, e siccome avevo dimenticato di dire che
Solange stava bene, cosa importante, soprattutto per una ma-
dre, quando arrivai al fondo delle scale mi rivolsi al mio ac-
compagnatore: “Scusatemi, Edmond, se vi prego di risalire,
io non ce la faccio, mi verrebbe un terribile accesso di tosse.
Dite per favore alla signora Sand che sua figlia sta bene, e la
bambina anche”. Aspettai che Combes ritornasse. Ricom-
parve dopo pochi minuti, ed insieme con lui c’era Aurore.
“Mi dite che Solange sta bene? È vero? Ma perché non mi
ha scritto?”. Aurore dimenticava di aver cacciato di casa la fi-
glia. Evitai di farglielo notare.
“Mi ha scritto lei stessa a matita due parole il giorno dopo
la nascita della bimba”.
“Ma avrà sofferto, immagino”.
“Ha sofferto molto ma dice che la sua bimbetta le ha fat-
to dimenticare tutto”.
“E suo marito è con lei?”. Aurore sapeva che il marito, lo
sconsiderato scultore, aveva intenzione di andare a cercar la-
voro all’estero.
“Mi sembrò che l’indirizzo fosse di sua mano”.
“E voi, come state?”.
“Oh, va abbastanza bene. Vi saluto, signora”.
“Addio. E grazie”.
Chiamai il portiere, uscii, e mi avviai, taciturni entrambi,
con Combes al mio fianco. Nei miei spostamenti per Parigi

138
non rinuncio mai alla carrozza. Ma quella volta ero così tur-
bato che non ci pensai proprio, alla carrozza, tanto da farmi
a piedi tutto il cammino, che non è poco, da Rue Godot de
Mauroy, dove abitava la Marliani, fino alla Place d’Orleans,
dove abitavo io. Ero triste, abbattuto. Vedere Aurore mi ave-
va riportato al mio primo soggiorno a Nohant, e non potevo
che rimpiangere amaramente un luogo a me molto caro di cui
mi ero, o ero stato, privato. Rividi il momento in cui Nohant
era apparsa all’orizzonte. Eravamo partiti da Marsiglia in bat-
tello, eravamo arrivati ad Arles e l’avevamo visitata. Poi, viag-
giando a piccole tappe, tanto che da Marsiglia a Nohant im-
piegammo una settimana, eravamo giunti a destinazione. Il
paesaggio della Provenza s’era a poco a poco convertito nel
paesaggio tutto diverso del Berry. Dolci avvallamenti, quer-
ce, olmi, castagni, salici in riva ai ruscelli, tutto mi ricordava
la terra intorno al villaggio in cui ero nato, Żelazowa Wola. E
sulle mura del castello – bello e comodo castello di residen-
za, non castello fortificato – vidi apparire gli arbusti della vi-
talba e delle rose rampicanti, proprio come nella casa in cui
ero venuto alla luce. Non che fossi nato in un castello, no. Ero
nato in una casa colonica presso la dimora signorile dei con-
ti Skarbek. Ma il tuffo al cuore lo ebbi vedendo il muro or-
nato di vitalba e roselline: era come se fossi tornato bambino.
Per parecchi mesi facemmo vita di famiglia, una famiglia
di possidenti terrieri che educano i figli, hanno il loro medi-
co che è ben più che un medico, ricevono ed ospitano gli ami-
ci venuti da lontano, trattano cordialmente i contadini e gli
artigiani del posto, rivedono i parenti: vicino a Nohant abita-
va con la moglie e la figlia Hippolyte Chatiron, fratellastro di
Aurore, un campagnolo ingenuo dal cuore largo, ed amante
del buon vino, del quale divenni subito amico. Vero è che Au-
rore predicava contro il diritto di proprietà, tanto che io, es-
sendo di parere del tutto opposto, una volta le dissi: “Il mio
capitale consiste nelle mie dieci dita, tu sei la castellana di
Nohant. Non dovremmo invertire le parti?”. Lei si arrabbiò
un poco: “Che c’entra, questo? Io professo un principio, e

139
non avrei nulla da recriminare se diventasse legge”. Adesso è
arrivata la repubblica, ma i principi socialisti dormono anco-
ra in maestoso letargo ed Aurore è sempre la castellana di
Nohant, sebbene durante la rivoluzione avesse dovuto an-
darsene da Parigi perché certi suoi articoli piuttosto incen-
diari sembravano incitare i francesi alla guerra civile, e seb-
bene avesse poi dovuto lasciare anche il suo castello e rifu-
giarsi a Tours perché i contadini del Berry l’avevano accolta
con un’aria così truce che metteva paura.
Nell’estate del ’39 Aurore prendeva molto sul serio, ed as-
solveva splendidamente, i suoi molteplici compiti: di mia in-
namorata, di madre, di istitutrice, di padrona di casa, di scrit-
trice, e, se necessario, di mia infermiera. Non aveva voluto
prendere un istitutore, ed era commovente, vederla ponzare
sull’enciclopedia di Pierre Leroux e Jean Reynaud per pre-
parare le lezioni di Maurice e di Solange. A Valldemosa ave-
va letto a Maurice e a me molte pagine del De l’humanité, de
son principe, de son avenir di Leroux e della Économie politi-
que di Reynaud, aveva studiato l’Encyclopédie dei due che
trattava dell’educazione e ce la metteva tutta nel seguirne
scrupolosamente le direttive. Il suo idealismo si stava con-
vertendo in programma politico, ma della politica capiva po-
co, come me, del resto. Lei sognava una Francia socialista, io
una Polonia libera: la rivoluzione dello scorso anno non ha
aperto le vie per la realizzazione né dell’una né dell’altra.
A Nohant avevo occasione di ascoltare la musica popola-
re, che mi piaceva molto. La mia preferita era la Bourrée de
Marsillat, che mi incantava quanto le mazurche della mia pa-
tria. Facevamo, in famiglia, persino del teatro. Io posso dire
senza insuperbirmi a vuoto di avere un certo talento mimico:
i salotti di Parigi hanno più e più volte applaudito le mie mac-
chiette dell’inglese sentimentale e dell’inglese che parla un
francese di fantasia, e la caricatura – che Dio mi assolva – di
Federico il Grande. Quando mi trovo fra intimi amici, en pe-
tit comité, mi esibisco nella caricatura di Bellini, del mio ami-
co Bellini, cioè di certi tratti tipici della sua musica. A Nohant

140
facevamo delle azioni mimiche e recitavamo, spesso io im-
provvisavo la musica di accompagnamento... E anche questo
mi riportava alla mia adolescenza, quando con i compagni di
liceo recitavo le piccole commedie che scrivevo con la mia so-
rellina Emilia, così ricca di talento, povera cara, morta così
giovane, a quattordici anni, di tisi...

Di come, grazie ad un veggente, fu ritrovato un plico


che si era volatilizzato, degli amici che mi stanno vicino
e della malattia che forse mi porterà presto alla morte

Il mio... agente immobiliare di fiducia Julian Fontana se ne sta-


va a New York, come ho detto, e per trovare un alloggio più
conveniente per l’inverno io mi ero rivolto a Grzymała, che per
quanto volenteroso s’era rivelato meno accorto di Julian, tanto
che dovetti trascorrere la brutta stagione nell’appartamento di
Place d’Orleans, affittato nel 1842 e piuttosto umido, ma co-
modo, allora, per una ragione di... convivenza: ha due ingressi,
uno sulla Place d’Orleans, l’altro sulla Rue St. Lazare. Umido
e, dopo la separazione, troppo grande per me. In giugno, gra-
zie ad un gran daffare che si dettero i miei amici, traslocai un
po’ fuori città, sulla collina di Chaillot, adattissima per l’estate
perché più fresca e salubre e, per di più, con una magnifica vi-
sta su Parigi, sull’immensità di Parigi, la città di un milione d’a-
bitanti – un milione! – che nel 1831 avevo guardato senza cre-
dere ai miei occhi. A Londra e in Scozia non ero riuscito a scri-
vere musica, tranne un piccolo valzer, non commerciabile, per
la sorella di Jane, e dal mio ritorno in Francia fino a quando tra-
slocai a Chaillot ero rimasto inattivo come compositore. Nien-
te da vendere agli editori, dunque, la salute che mi consentiva
di dare poche lezioni... A giugno ero arrivato a raschiare il fon-
do del barile, e dopo aver consumato tutto il mio gruzzolo con
le spese del trasloco non sapevo più come tirare avanti.
Un giorno la buona signora Erskine, cioè la sorella di Ja-
ne, venne a trovarmi e cominciò a farmi dei discorsi incoe-

141
renti e incomprensibili. Pensando che volesse o ripropormi
le nozze o impartirmi un’altra lezione di catechesi biblica evi-
tai di chiederle delle spiegazioni. Alla fine lei si decise a por-
mi una domanda diretta: avevo per caso ricevuto, in marzo,
un grosso plico senza il nome del mittente? Non avevo rice-
vuto proprio niente, risposi. Lei sbiancò, balbettò, strinse
spasmodicamente il fazzoletto che non aveva cessato un mo-
mento di martoriare, e mormorando convulsamente uno
“scusatemi!” scappò via a tutta birra.
Ero sbalordito, non sapevo che pensare, e conoscendo il
carattere tutt’altro che equilibrato della Erskine non feci nep-
pure delle congetture e lasciai perdere. Lei mi scrisse il gior-
no dopo – seppi più tardi che aveva consultato Grzymała e
che questi le aveva consigliato di essere chiara con me – per
raccontarmi una strana faccenda. In marzo Jane, volendo
mandarmi un cestino di violette, perché da quando avevo
chiesto un mazzolino di questi fiori per il mio rientro a Pari-
gi s’era fissata in testa che senza violette io non potessi vive-
re, dunque, per mandarmi le violette Jane aveva chiamato un
commissionario, un commissionario che, vedendo il nome e
l’indirizzo, le aveva detto: “Che strano, ho appena consegna-
to a questa persona un plico che da com’era sigillato sembra-
va importante”.
Avendo capito dai nostri discorsi che, a meno di non esse-
re smemorato (o pazzo, pensai io), quel plico proprio non l’a-
vevo ricevuto, la Erskine si era preoccupata ed aveva rintrac-
ciato il commissionario, il quale le aveva confermato l’avve-
nuta consegna, non nelle mie mani ma in quelle della porti-
naia, la Stefania. Animate dal loro solito spirito filantropico
la Erskine e Jane si erano allora recate in Place d’Orleans: la
Stefania ricordava di avermi dato le violette – me lo ricorda-
vo anch’io – ma non si ricordava del plico. E il commissiona-
rio, diceva la Erskine, non le aveva fatto firmare la ricevuta.
Ero proprio proprio sicuro che... Le scrissi pregandola di ve-
nire da me quando le era comodo, cosa che avrebbe del resto
immancabilmente fatto anche senza il mio invito.

142
Non solo venne, ma arrivò insieme con il commissionario,
il quale, temendo di essere sospettato di negligenza, se non di
furto, aveva preso una sorprendente iniziativa. “Maestro”, mi
disse, “ho consultato il celebre veggente Alexis, il quale mi ha
messo la mano sulla testa, è andato in trance, ha subito visto
bene la scena e me l’ha descritta – ero stupefatto – con pre-
cisione: il qui presente commissionario aveva avuto l’incarico
di portare al maestro Chopin un plico, sì, un plico molto im-
portante, sì, un plico che non era mai arrivato nelle mani del
destinatario”. “Chi era la persona, di grazia, che vi aveva chia-
mato per affidarvi quel plico?”, chiesi. “Non posso dirlo”, mi
rispose tutto compunto il commissionario, “chi ha messo il
plico nelle mie mani mi ha confidato di voler mantenere ad
ogni costo l’incognito, e nel mio mestiere, come potete bene
immaginare, l’affidabilità è essenziale”. Non replicai. “Alexis”,
continuò il commissionario, “vide che il plico era stato con-
segnato, sì, in una piccola oscura stanzetta, alla più grossa di
due donne che vi si trovavano. Questa donna, che teneva in
mano una lettera, aveva preso il plico, assicurando che l’a-
vrebbe consegnato subito al destinatario, ed era uscita. Ma
mentre il commissionario se ne stava andando era tornata
senza la lettera e con il plico ancora in mano”.
La faccenda cominciava ad interessarmi. Era da un bel po’
che sentivo parlare di sonnambulismo, di telepatia, di ma-
gnetismo, di mesmerismo, di chiaroveggenza, di tutta una
congrega di fenomeni paranormali, e questo Alexis era di-
ventato del resto famoso per i suoi ritrovamenti. Mi rivolsi al
commissionario: “Un veggente così mirabile saprà anche
dunque dov’è finito il plico”. “No, purtroppo. Per scoprirlo,
cioè per andare in trance e per avere la visione, ha bisogno di
toccare dei capelli o un fazzoletto o dei guanti appartenenti
alla donna che ha preso il plico in consegna”. Io ero incurio-
sito, la Erskine più che mai agitata. “Che possiamo fare, mae-
stro? Che possiamo fare?”, mi chiese. Riflettei un momento.
“Un’idea ce l’ho. Spero che non sia bislacca, ma tutta questa
vicenda è così strana! Dite alla Stefania che nel mio apparta-

143
mento ci sono ancora dei miei fazzoletti e il dizionario di Boi-
ste, che ho dimenticato di prendere, e pregatela di portarme-
li. Riuscirò a procurarmi la ciocca”. Il giorno dopo arrivò da
me la portinaia. Dopo averla ringraziata le dissi: “Stefania, la
signora scozzese, che abita a St. Germain, ha conosciuto là
una guaritrice sonnambula che sarebbe capace di fare una
previsione sul decorso della mia salute se potesse toccare una
ciocca dei miei capelli. Io non ci credo. Però, siccome non si
sa mai, vorrei mandare una ciocca di capelli di una persona
sana e di sesso diverso. Se la guaritrice si accorge dell’ingan-
no, allora manderò una ciocca dei miei capelli. Volete aiutar-
mi?”. “E come? Dando una mia ciocca alla signora scozze-
se?”. Annuii. La brava Stefania rise di cuore e mi assicurò che
avrebbe fatto quanto desideravo…
Il giorno dopo la Erskine arrivò, esultante, insieme con il
commissionario. “Siamo stati da Alexis”, dichiarò, “ha detto
che i capelli sono quelli della persona giusta, che il plico è sta-
to messo nel tavolino da notte, che è ancora lì e che non è sta-
to aperto. Bisogna riavere ciò che vi appartiene, e Alexis ha as-
sicurato che il commissionario può recuperarlo, ma che deve
agire con prudenza. Lo autorizzate a compiere questa missio-
ne?”. “Certo che sì”, dichiarai. “Tutta questa faccenda è così
stravagante che voglio vederne la conclusione. Anzi, vi ringra-
zio di cuore per la pena che vi siete data”. Dopo poche ore la
mia scozzese ritornò, eccitata e rossa in viso, con il commis-
sionario... e con il plico. “La Stefania era sola, quando il qui
presente si è recato da lei. Lo ha riconosciuto, si è ricordata del
plico e, su suggerimento di questo bravuomo, è andata a ve-
dere nel comodino. E così il plico è risaltato fuori”. “Ma be-
ne”, le dissi, “mi congratulo. E poiché è stato recuperato gra-
zie alle vostre indagini volete aprirlo voi, questo fantomatico
plico?”. La Erskine lo aprì dopo avere licenziato, con una bel-
la mancia, il commissionario. Vedendone il contenuto le sfuggì
un lungo “oh!” di meraviglia. Io, credo, diventai bianco, bian-
co come un lenzuolo di bucato: il plico conteneva delle mone-
te d’oro. Le contai: venticinquemila franchi.

144
“Rallegramenti, rallegramenti”, esclamò la Erskine, tal-
mente felice che sarebbe potuta uscire di senno da un mo-
mento all’altro. Ma nel suo “rallegramenti”, come prima nel
suo “oh” c’era una sottile stonatura che non mi sfuggì. “Si-
gnora Erskine, io ho una certa idea di chi...”. “Ma sull’indi-
rizzo, vedete, non c’è il nome del mittente”. “Non c’è. Tutta-
via io non solo ho una certa idea, io so a chi devo questo ge-
sto, questo gesto commovente”. La Erskine arrossì, fissando-
mi con uno sguardo d’agnellino che metteva compassione al
solo vederlo. “È stata miss Jane, non è vero?”, le dissi, con un
tono molto calmo. Lei assentì. “Signora, non vi so dire quan-
to sia grato a vostra sorella per questo gesto. La mia non bril-
lante situazione finanziaria è nota ai miei amici ed io apprez-
zo lo slancio generoso che ha indotto miss Jane ad inventarsi
questo dono di uno sconosciuto mio ammiratore. Ditele che
la ringrazio, che la ringrazio con tutto il cuore. Ma vi prego
di dirle anche che non posso accettare”. La Erskine mi prese
la mano: “Maestro, vi assicuro che per Jane non si tratta di un
sacrificio. Abbiamo entrambe molto più denaro di quello che
ci serve, e non sappiamo che cosa farne. Accettando, voi fa-
reste la felicità di Jane, e la mia”. Scossi la testa, ma lei conti-
nuò a parlarmi con molta dolcezza e con un tono di umile
supplica. Alla fine mi propose di considerare quella somma
come un prestito. Feci un calcolo di quanto mi sarebbe stato
necessario per arrivare alla fine dell’anno, quando, pensavo,
avrei potuto riprendere le mie lezioni, ed accettai quindici-
mila franchi.
La storia del ritrovamento mi aveva molto colpito, al mo-
mento. Più tardi, ripensandoci, trovai che troppi particolari
erano romanzeschi e che mal si conciliavano con il magneti-
smo, e conclusi che si era trattato di una messinscena escogi-
tata dalle due scozzesi, nella speranza che io prendessi venti-
cinquemila franchi senza mai cercar di scoprire chi me li ave-
va donati. Un cuore largo come il mare, una testa romantica-
mente perduta nelle nuvole, un misto di fantasticheria e di
colossale ingenuità avevano fatto costruire a quelle due im-

145
pagabili donne la commedia che avevano inscenato, proba-
bilmente compensando generosamente la parte recitata dal
commissionario. Lo dissi a Grzymała, ma con loro non ritor-
nai sull’argomento. E loro non me ne fecero più alcun cenno.
Mia sorella Ludwika è arrivata, insieme con il marito e la
figlioletta, ai primi di settembre. Per me è stata una benedi-
zione, un dono del Cielo. Aurore ha subito scritto a Ludwika,
chiedendo di me: “Avrò alla fine da voi notizie certe di Frédé-
ric. Qualcuno mi scrive che è molto più malato del solito, al-
tri che è debole e sofferente come l’ho sempre visto”. Genti-
le e premurosa, fino a qui. Ma poi il suo cattivo carattere le
ha fatto sputare il veleno: “Scrivetemi, ve lo chiedo, perché si
può essere misconosciuti e abbandonati dai propri figli sen-
za cessare di amarli”. Ludwika non ha risposto alla lettera.
Aurore e lei erano diventate molto amiche quando, anni pri-
ma, mia sorella era venuta a farmi visita ed aveva soggiorna-
to a Nohant, trattando la mia compagna come una cognata.
Più tardi si erano scambiate delle lettere. L’arrivo di Ludwika
avrebbe dunque potuto diventare un’occasione non dico di
riconciliazione ma per lo meno di ripresa di rapporti affetti-
vi e comunque amichevoli. Aurore avrebbe voluto altro,
avrebbe voluto, penso, che mi prosternassi e che umilissima-
mente implorassi il perdono al suo cuore magnanimo. Scher-
zi dell’orgoglio? Credo di sì. Ma brutti scherzi.
Ho avuto l’occasione, purtroppo perduta, di rivedere Ti-
tus, che è stato in villeggiatura a Carlsbad e che poi si è reca-
to a Ostenda. Gli ho scritto il 20 agosto, dicendogli che i me-
dici mi vietavano di mettermi in viaggio e che speravo di far-
gli ottenere un visto d’ingresso in Francia. Ci ho provato met-
tendo di mezzo un personaggio un tempo influente, ma tra i
repubblicani non ho amici (ce li ha Aurore), e la neonata re-
pubblica teme l’arrivo di stranieri che potrebbero essere
anarchici, comunisti o qualcos’altro di tremendo. Anarchico,
comunista, il possidente Titus che cura la sua terra e dirige
uno zuccherificio? Volevo partire ad ogni costo, ma i medici
furono categorici nel vietarmelo. E mi vietarono anche di ac-

146
cettare l’invito di Delphine Potocka, che mi proponeva di
passare l’inverno nella sua villa di Nizza.
Ci sarei andato molto volentieri. Delphine, che a quaran-
tadue anni è incantevole come il primo giorno in cui l’ammi-
rai, è una creatura infelice. Matrimonio subito fallito ma te-
nuto in piedi per convenienza, diversi amanti, una lunga re-
lazione con Zygmunt Krasiński, il poeta. L’ultima mia com-
posizione prima di partire per l’Inghilterra fu una canzone su
testo di Krasiński, che intitolai Melodia. Donai a Delphine il
manoscritto, scrivendo sotto il mio nome pochi versi di Dan-
te: “Nessun maggior dolore / Che ricordarsi del tempo felice
/ Nella miseria”. Valeva per lei, povera creatura, e valeva per
me, purtroppo.
Passare l’inverno a Nizza vicino a Delphine, ricordare con
lei tante cose, e parlando in polacco... Oh, sarebbe stato me-
raviglioso. Ma non posso muovermi di qui (sono tornato a Pa-
rigi, ho un bell’appartamento in Place Vendôme, molto caro).
Perché? Mi curano tre medici, Cruveilhier, Louis, Blache. Es-
si pensano che io sia tisico. Non me lo dicono, ed io non oso
chiederlo. Ma indovino la loro diagnosi dalla sola medicina
che Criveilhier mi ha prescritto: una mistura contenente della
polvere di licheni. Del resto, i miei sintomi coincidono in gran
parte con quelli di Jan Matuszyński, mio amico d’infanzia con
il quale divisi l’appartamento a Parigi e che morì fra le mie
braccia, di tubercolosi polmonare. A Palma mi consideravano
tisico, quei fottuti maiorchini, e anche l’albergatore di Barcel-
lona ne era sicuro. Il dottor Cauvières che mi auscultò palpò
picchiettò quasi ogni giorno a Marsiglia, il dottor Papet a
Nohant, il dottor Molin a Parigi giudicavano che i miei pol-
moni fossero sani, delicati ma sani. Chi avrà ragione? Se la mia
salute migliorerà andrò a Nizza, anche a costo di disubbidire
ai medici. Ma se Cruveilhier vede giusto morirò presto, molto
presto. Morirò come mia sorella Emilia.
La morte vorrebbe dire la fine delle sofferenze, e io non la
temo, come non la temeva Emilia. Ricordo la sua ultima poe-
sia: “Morire è la mia sorte, / Io non temo la morte, / Ma te-

147
mo di morire / Nel vostro sovvenire”. Mia madre e mio pa-
dre, Ludwika, Izabela ed io non abbiamo mai dimenticato
Emilia, i miei familiari, i miei amici non mi dimenticheranno.
Grazie a Liszt, che ha inventato il recital, non periranno le
mie musiche, anzi, spero che vivano, che vivano in eterno. E
posso star sicuro che sulla mia tomba non mancheranno mai,
finché lei avrà vita, le violette di Jane Stirling.
Appendice
Interviste e lettere
Nel gennaio del 1850 la sorella maggiore di Chopin, Ludwika,
tornò da Parigi a Varsavia portando con sé, oltre a vari ricordi e al
cuore del fratello, un pacco di lettere di George Sand. Giunta in
Slesia, in prossimità della frontiera fra Prussia e Russia, Ludwika
temette che la dogana ispezionasse il suo bagaglio e che le lettere
di George Sand, nota in tutta Europa per le sue idee politiche di
sinistra, potessero essere confiscate. Affidò perciò il pacco conte-
nente le lettere ad un amico di suo marito, proprietario di un’im-
presa commerciale a Myslowice, nella parte della Slesia apparte-
nente alla Prussia. Nel 1851 il letterato Samud Erdnas Kela, pas-
sando per Myslowice durante un viaggio in Polonia, venne ca-
sualmente a sapere dell’esistenza delle lettere, convinse il deposi-
tario a mostrargliele e cominciò a farne copia, ma alla fine riuscì a
farsi consegnare tutto il plico, sostenendo che apparteneva di di-
ritto a George Sand e che lui si sarebbe fatto carico di restituir-
glielo. Sia Samud Erdnas Kela che suo padre, famoso romanziere,
conoscevano la Sand e avevano conosciuto Chopin. Le lettere del-
la Sand, da lui scorse avidamente, suggerirono all’Erdnas Kela di
preparare una biografia di Chopin, ed a tal fine egli si recò subito
a Varsavia, dove poté avvicinare la madre e la sorella minore di
Chopin. Si spostò quindi a Poturzyn, dove viveva Titus Woy-
chiekowski, ritornò a Varsavia per incontrare il pianista Moritz
Ernemann, e poi, una volta rientrato in Francia, cercò altre per-
sone che avevano ben conosciuto Chopin, compresa George Sand,
e parlò a lungo con loro o, quando non riuscì ad incontrarle, le con-
tattò epistolarmente. La biografia, per ragioni che restano ignote,
non fu tuttavia mai scritta. Si è molto fantasticato sul contenuto
delle lettere, ma pare ormai accertato che la Sand le distruggesse.
Non ci sono pervenute neppure le copie dell’Erdnas Kela.
CON JUSTYNA KRZYŻANOWSKA IN CHOPIN
ED IZABELA CHOPIN IN BARCIŃSKI

Dalla morte del marito la mamma di Chopin, Justyna


Krzyżanowska, vive in casa della figlia Izabela, sposa di Anto-
ni Barciński. La signora Chopin, prossima a compiere set-
tant’anni, è in buona salute e perfettamente lucida di mente.
Ricorda avvenimenti di un passato ormai lontano con estrema
precisione e parla del figlio con un affetto profondissimo. Du-
rante il colloquio la signora Barciński, bionda come il fratello,
è intervenuta di tanto in tanto. Anche lei parla di Fryderyk con
una devozione assoluta.
S.E.K.

– Gentile, e cara Signora Chopin, grazie per avermi gene-


rosamente fissato questo appuntamento, grazie di tutto cuo-
re. Non voglio farvi perdere troppo tempo e perciò entro su-
bito in argomento. Risulta dai miei appunti che voi abbiate
conosciuto la buonanima di vostro marito a Żelazowa Wola.
– Sì, è proprio così. Lavoravamo entrambi per la contessa
Gora-Skarbek, separata dal marito, poverella. Il mio futuro
sposo era stato in precedenza precettore dei figli di madame
Lonczyńska, tra i quali c’era Marie, divenuta poi moglie del
conte Walewski e che, come voi saprete di sicuro, diede un fi-
glio all’imperatore Napoleone. Mio marito era successiva-
mente diventato precettore dei giovani rampolli di casa Gor-
ga-Skarbek. Così ci conoscemmo, il mio Nicolas ed io, così

151
volle il caso, o così volle Qualcuno che la sa più lunga di noi.
Ci sposammo nella antica, magnifica chiesa di Bronchow.
– I vostri primi due figli nacquero a Żelazowa Wola, non
è vero? E gli altri a Varsavia.
– No. Solo Fryderyk nacque a Żelazowa Wola. Anche
Ludwika, la nostra primogenita, era nata a Varsavia, dove ci
eravamo spostati momentaneamente perché il contino Skar-
bek doveva terminarvi i suoi studi. A proposito della data di
nascita di Fryderyk devo farvi notare che quando venne bat-
tezzato – madrina e padrino furono i conti Skarbek – quan-
do venne battezzato, il 23 aprile 1810, mio marito prese un
abbaglio e disse al parroco che la nascita era avvenuta il 22
febbraio, mentre la data giusta era quella posteriore di una
settimana, il 1° marzo. Il giorno era giusto, giovedì, ma con
lo scarto di una settimana.
– Scusate, mammà, ma così come l’avete detto sembra che
la madrina e il padrino fossero i conti Skarbek moglie e ma-
rito, mentre erano la figlia e il figlio della contessa.
– Hai ragione, Izabela, non era chiaro, ...però avevo detto
che la contessa e il conte erano separati.
– Vero: siete molto precisa, Signora, mi complimento con
voi per la vostra memoria. Perdonatemi ancora tanto se vi
sembro importuno. Mi serve una precisazione. Le date sono
da intendere secondo il calendario giuliano o secondo il ca-
lendario gregoriano?
– Secondo il calendario gregoriano. La Polonia non è la
Russia, e comunque nel 1810 i russi erano fuori gioco (solo
momentaneamente, purtroppo): avevamo allora il Grandu-
cato di Varsavia creato da Napoleone.
– Quando lasciaste Żelazowa Wola?
– Nello stesso 1810, in settembre. Mio marito aveva avuto la
nomina a professore di francese nel liceo di Varsavia. Andam-
mo ad abitare in una dépendance del Palazzo di Sassonia, e nel
1816 ci trasferimmo nel Palazzo Casimir, sede del liceo. Dopo
la nascita della nostra ultima figlia tenemmo a pensione sei o
sette ragazzi. Ce ne avevo da sbrigare, di lavoro domestico!

152
– Quando capiste che vostro figlio possedeva una forte
predisposizione per la musica?
– Molto, molto presto. Mia figlia Ludwika, che suonava il
pianoforte, gli diede le prime lezioni. Quando aveva sette an-
ni lo affidammo al professor Żywny, grande amico di mio ma-
rito. Non sapeva ancora scrivere la musica, il mio Frycek, ma
già componeva. Żywny mise sulla carta una Polacca che Fry-
deryk aveva creato al pianoforte: fu subito pubblicata.
– Quando imparò a scrivere la musica?
– Tre anni dopo, nel 1820. Ma già nel 1816, a sei anni, co-
nosceva l’alfabeto, leggeva e scriveva. A sei e a sette anni pre-
parò e scrisse delle brevi poesie per gli onomastici miei e di
mio marito.
– Dei biglietti d’auguri in poesia, se ho ben capito.
– Avete capito perfettamente. Per il San Nicola del 1818
scrisse un augurio in prosa: “Sarebbe per me più facile farti
partecipe dei miei sentimenti se ciò fosse possibile con i suo-
ni della musica, ma siccome il più bello dei concerti non ar-
riverebbe a farti partecipe, mio caro papà, di tutto l’affetto
che ti porto, devo impiegare le semplici parole che escono dal
mio cuore per dirti che depongo ai tuoi piedi l’omaggio del-
la mia riconoscente tenerezza e del mio attaccamento filiale”.
Amò sempre moltissimo suo padre.
– E sua madre.
– E sua madre. È così. Era un bambino talmente dolce che
mi si inumidivano gli occhi, guardandolo. A otto anni era già
noto, a Varsavia: aveva suonato per l’arciduca Costantino e
per la zarina madre, la sua marcia era stata eseguita sulla piaz-
za di Sassonia, e nel Palazzo Radziwiłł si era esibito con gran-
de successo in un concerto di un compositore che... Tu te lo
ricordi, Izabela, chi era?
– Certo, mammà. Era Adalbert Gyrowetz. Fryderyk
suonò un movimento del suo Concerto in mi minore.
– E quando iniziò a studiare la composizione?
– Nel 1822, come allievo privato del professor Elsner. Nel

153
1823 si iscrisse al liceo e al termine dell’anno scolastico rice-
vette persino un premio.
– Un allievo modello.
– Faceva tutto con grande facilità ed aveva un ingegno
multiforme. Il signor Żywny, eccellente persona e professore
quanto mai coscienzioso, era violinista, più che pianista. A
Fryderyk insegnava la musica, e lui la realizzava al pianofor-
te senza fatica. Non si attardò mai su esercizi e studi.
– Dove trascorrevate le vacanze?
– Non potevamo permetterci vacanze da signori, e del re-
sto non ne sentivamo affatto la necessità. Nel ’24 Fryderyk fu
ospite, in agosto e in settembre, dei nostri amici Dziema-
nowski a Szafarnia. Nel ’25 andò in vacanza ancora a Szafar-
nia, e a Kowalewo, con escursioni a Toruń e a Danzica. Nel
’26, preoccupati per lo stato di salute della nostra figlia mi-
nore e facendo uno strappo alle nostre usanze, passammo le
acque a Reinertz, Fryderyk, Ludwika, Emilia ed io. La nostra
Izabela, che aveva quindici anni, si sacrificò, restando a casa
per tenere compagnia al papà. Nel 1827 fummo colpiti da
una tremenda sciagura: Emilia morì, a quattordici anni. Il
colpo fu così forte che non ce la sentimmo più, nella nostra
desolazione, di abitare in un appartamento traboccante di
tanti ricordi felici. Ci trasferimmo nel Palazzo Krasiński.
– Mi è stato detto che Frédéric ed Emilia scrissero una
commedia.
– Una commedia in versi. La scrissero e la recitarono nel
1824. Frycek fu irresistibile, come Borgomastro Grantrippa.
Più tardi fece un viaggio a Berlino in compagnia di un colle-
ga di mio marito, e al ritorno recitò in una commedia, in ca-
sa di nostri amici. Il suo talento letterario si era manifestato
nel 1824 con il Corriere di Szafarnia, resoconto umoristico
delle avventure della villeggiatura. Frycek raccontava fatte-
relli di poco conto con un brio straordinario, ci faceva ridere
di cuore.
– Vi ricordate, mammà, che si riferiva a se stesso come al
“sieur Pinchon?”.

154
– Certo, lo ricordo.
– Ma lo sapete voi, cara signora Chopin, che in Francia esi-
stono le Associazioni Pinchon! È un nome molto comune.
– Guarda un po’, non l’avrei mai immaginato. Izabela,
com’era la storia del cameriere sul pero?
– Un cameriere sale sul pero e ne scuote i rami per farne
cadere i frutti, attesi da un gruppo di dame assetate. Scuoti e
scuoti, nessun frutto si stacca, ma a un certo punto piomba a
terra il cameriere.
– Una storia banalissima, non vi sembra, dottore? Però
quest’immagine delle dame che guardano in su come volpi fa-
meliche, scrutando l’albero, e che vedono piombare giù un
omone invece dei succosi frutti in cui piantare i candidi den-
tini, ci faceva sbellicare dalle risa.
– È certamente vero che non il contenuto, ma il modo di
esporlo diverte il lettore. Mi permetto di introdurre un altro
argomento. Non pensaste mai di avviare a vostro figlio verso
la carriera di enfant prodige?
– Assolutamente no. La signora Catalani ci disse: “Questo
ragazzino farebbe impazzire tutta Parigi”. Ma mio marito
non era uomo da correre dietro alle chimere. Noi, dottore,
siamo gente semplice. Ci piace la vita operosa e tranquilla, ci
piace di avere molti amici fidati e della nostra condizione.
Varsavia è più che sufficiente per noi. Fryderyk è diventato
celebre e noi ne siamo immensamente orgogliosi e felici. Ma
so che era giusto mandarlo al liceo, dargli un’istruzione re-
golare, lasciare che crescesse come tutti gli altri ragazzi, an-
che se era un po’, o molto, speciale.
– Però, come dicevate prima, a Varsavia era conosciutissi-
mo.
– Lo invitavano in tutti i palazzi dell’aristocrazia, suonava,
era vezzeggiato, ma ciò non lo rendeva superbo. In pubblico
si esibì poche volte: nel 1825 in occasione della visita dello zar
Alessandro, a Reinertz per beneficenza, a Poznan mentre era
di ritorno da Berlino, alcune altre volte a Varsavia. L’oriz-
zonte cambiò quando suonò a Vienna.

155
– Come cambiò?
– Fryderyk aveva diciannove anni ed aveva terminato
summa cum laude gli studi di composizione nel Conservato-
rio. Era ormai chiaro che avrebbe dovuto fare il musicista ed
era perciò opportuno che studiasse all’estero, come era capi-
tato e capitava ad altri ragazzi, anche molto meno talentuosi
di lui. Non fu possibile ottenere subito una borsa di studio
statale e perciò mio marito mandò Fryderyk a Vienna, per co-
sì dire, in viaggio-premio.
– E il viaggio-premio a Vienna fu allietato da concerti-pre-
mio.
– Fummo molto sorpresi, quando nostro figlio ci scrisse
che avrebbe suonato. Una decisione estemporanea, non pri-
va di incognite e di pericoli. “Dio mi aiuterà – ne ho la spe-
ranza”, ci scrisse. Ne fui orgogliosa. In quelle poche parole
riconoscevo mio figlio. Dottore, io ho sempre confidato mol-
to nell’Onnipotente e non ho mai avuto a pentirmene.
– La vostra fede, signora, è ammirevole. Parlavamo dei
concerti: furono due, mi pare.
– Dopo il primo, Fryderyk ci mandò un preciso resocon-
to. La conclusione era: “Mi sento più saggio e più esperto di
almeno quattro anni”. Il secondo concerto andò ancor me-
glio del primo. Fryderyk ci scrisse di essere “piaciuto alle da-
me e agli artisti” e di aver “conquistato i sapienti e i sensibi-
li”. Restavano esclusi, osservò rudemente mio marito, resta-
vano esclusi solo, scusi il termine, i cazzoni.
– Mammà!
– Oh!, lasciamelo dire, Izabela, il dottore non si scanda-
lizza di certo. Vedete, dottore, eravamo così felici che aveva-
mo bisogno di sfogare la nostra gioia con una grande risata li-
beratoria. Mio marito, che non era mai sboccato, capì che ser-
viva qualcosa di enorme, e sì, di volgarotto. Trovò l’espres-
sione giusta e noi ci sganasciammo da perdere il fiato.
Ludwika ululava addirittura, e questo ci faceva ridere dop-
piamente.
– I giornali di Vienna furono favorevoli, vero?

156
– I resoconti dei giornali confermarono che le impressio-
ni di Frycek erano esatte. Dopo il suo ritorno, e dopo che eb-
be scritto il Concerto in fa minore, cominciammo a fare dei
piani, ambiziosi, per il suo futuro.
– Andò tutto come previsto?
– Al contrario, le previsioni furono completamente smen-
tite dalla realtà, Fryderyk non poté avere a Vienna un vero
esordio da professionista, non andò in Italia ed arrivò a Pari-
gi molto tempo prima di quanto avevamo progettato. La sua
carriera fu diversa da quella che era stata ideata nella nostra
immaginazione ed avemmo occasione di rivederlo una sola
volta nei diciannove anni che precedettero la sua morte.
– Mammà, scusate se vi interrompo, ma ci tengo a farlo sa-
pere al dottore. Frycek mi mandò da Vienna un portafortu-
na che mi è caro. Lui era molto preso dal ricordo del nostro
re Jan Sobieski che aveva liberato Vienna dall’assedio dei tur-
chi. Salì sul Kahlenberg che il re aveva scelto per il suo ac-
campamento prima della battaglia e mi mandò una fogliolina
presa lì da un albero.
– Ricordo che ti sciogliesti in lacrime. Era stato un pen-
siero originale e tanto delicato.
– Posso sapere, signora, dove rivedeste il vostro Frédéric?
– A Carlsbad. Eravamo andati lì in villeggiatura, mio ma-
rito ed io, e nostro figlio ci raggiunse, senza preavvertirci.
Fummo come tramortiti per la sorpresa. Rimanemmo insie-
me per tre settimane e fu un momento di grande felicità per
noi e per lui. Ludwika lo rivide due volte, in Francia, Izabe-
la non lo rivide più.
– È stato un grande dolore, per me, non poterlo più rive-
dere. Io suonavo il pianoforte con impegno, e con impegno
affrontavo le sue musiche, i tremendi Studi op. 10 e il primo
movimento del Concerto op. 11. Li studiavo con quel bra-
vuomo di Nowakowski. Poi studiai il Duo con il violoncello,
le Variazioni op. 12, i Notturni op. 15. Quanto avrei voluto
farmi sentire da lui, avere i suoi consigli per l’interpretazio-

157
ne. La partenza del mio adorato fratello ha creato nella mia
vita un vuoto incolmabile.
– Izabela, non bisogna lagnarsi, lo sai, se il volere dell’Al-
tissimo non corrisponde ai nostri desideri. La lontananza di
Frycek mi ha spesso rattristata, ma io credo che così il Cielo
avesse inteso di segnare il suo cammino per condurlo alla glo-
ria.
– Voi pensate, signora, che la vita di vostro figlio sia stata
felice?
– La vita è fatta di gioie e di dolori, di un rapporto armo-
nioso fra le une e gli altri. L’unica preoccupazione che aveva-
mo per nostro figlio, mio marito ed io, era che si trovasse a
corto di mezzi di sostentamento. Quante volte il mio Nicolas
gli raccomandò di accantonare una parte dei suoi guadagni,
che erano cospicui! Non lo fece, e l’ultimo anno della sua vi-
ta fu funestato da problemi finanziari. Me lo spiegò Ludwika,
che su sua pressante richiesta andò a Parigi nell’estate del ’49
e che lo assistette fino al trapasso. Ricevette i Santissimi Sa-
cramenti, e questo fu per me motivo di grande conforto.
– Avete dei documenti riguardanti vostro figlio?
– Abbiamo lettere, oggetti, manoscritti. Fryderyk aveva
chiesto a Ludwika di bruciare tutta la musica che non era sta-
ta pubblicata. Lei non lo fece ed io approvai la sua scelta.
Pensiamo di affidare ad un editore ciò che riterremo degno
di pubblicazione, siamo in contatto con un amico e con una
allieva di Frycek, una scozzese tanto per bene, e generosa, che
ci ha mandato molte molte cose, fra cui anche l’ultimo pia-
noforte su cui mio figlio ha suonato. A me sarebbe dispiaciu-
to, ad esempio, se fossero andate distrutte le sue canzoni, co-
sì semplici, così toccanti, e credo che la decisione di mia fi-
glia sia stata la più giusta. Ludwika saprebbe dirle di più su
questo argomento, e sull’amicizia di Fryderyk con la signora
Sand, stimabilissima persona, e sui suoi ultimi giorni. Pur-
troppo non è potuta venire qui oggi: suo marito è molto ma-
lato e lei deve assisterlo. Sono preoccupata per lei e per i bam-
bini, ma come sempre prego con fervore e mi affido all’Altis-

158
simo, che meglio di noi sa quel che conviene alla salvezza del-
la nostra anima.
– Vi ringrazio, signora, e ringrazio anche voi, Izabela. Ho
stenografato tutto quello che m’avete detto e non vi aggiun-
gerò nemmeno una parola. Grazie ancora, a nome mio e di
tutti gli innumerevoli ammiratori di quel grande artista che fu
vostro figlio, che fu vostro fratello.
CON IL NOBILUOMO TITUS WOYCIECHOWSKI

– Chopin è stato per voi un compagno di studi ed un ami-


co, non è vero?
– Metterei prima l’amicizia. Il mio incontro con Fryderik
fu dovuto al caso. Dovendo io frequentare le scuole superio-
ri a Varsavia, mio padre – noi abitavamo in campagna – mi
mise a pensione in casa Chopin. Fra i tanti ragazzi che vi tro-
vai, non ebbi la minima esitazione nel riconoscere in Fry-
deryk – e l’attrazione fu reciproca – il cosiddetto amico del
cuore.
– Fino a quando rimaneste a Varsavia?
– Fino al 1826. Durante l’anno scolastico vedevo Fryderyk
ogni giorno, durante le vacanze ci scrivevamo, ma lo scambio
delle lettere divenne veramente intenso, e molto confidenzia-
le, dopo finito il liceo. Io non mi ero iscritto all’università –
mio padre era scomparso prematuramente e dovevo occu-
parmi delle mie terre – e tornavo a Varsavia di rado. Il rap-
porto epistolare divenne quindi per noi l’unico modo di man-
tenere viva un’amicizia alla quale tenevamo molto entrambi.
Fryderyk era, in realtà, un cattivo corrispondente, prendere
la penna in mano era per lui una tortura, ma quando poi de-
cideva di fare il sacrificio scriveva lettere chilometriche, e vi-
vacissime e spiritosissime. Non le ho conservate tutte, pur-
troppo.
– Parlatemi per favore della prima lettera che vi è rimasta.
– Eccola qui: da Varsavia, il 9 settembre 1828. Fryderyk

160
stava per partire per Berlino, in compagnia di un professore
di zoologia che vi si recava per un congresso, ed era al setti-
mo cielo, eccitatissimo. Mi annunciava poi di aver riscritto
per due pianoforti il Rondò in do maggiore e di averlo pro-
vato con Ernemann, pianista che aveva studiato a Berlino e
che Fryderyk ammirava. Mi diceva anche – e mi vennero le
lacrime agli occhi per la commozione e la gioia – di avermi
dedicato le Variazioni op. 2. “Lo esigeva il cuore, l’amicizia
ne dava l’autorizzazione, non prendertela a male”. Non pren-
dertela a male, diceva. Si scusava per avermi dedicato il suo
primo capolavoro!
– Conoscevate le Variazioni?
– Oh sì, erano state composte un anno prima e Fryderyk
me le aveva fatte ascoltare. Suonavo anch’io il pianoforte, e
componevo qualche sciocchezzuola. I lavori precedenti di
Fryderyk mi erano piaciuti molto ma non mi avevano spa-
ventato. Esercitandomi pazientemente, pensavo, avrei potu-
to eseguirli anch’io. Ma le Variazioni! Di una difficoltà terri-
ficante, e così ingegnose come composizione. Fu quello, il
momento in cui capii veramente che Fryderyk avrebbe fatto
parlare di sé il mondo intero.
– Del viaggio a Berlino ho sentito dalla madre. Mi è stato
detto che al suo ritorno Chopin recitò nella rappresentazio-
ne privata di una commedia.
– Dottore, voi toccate un tasto..., un tasto per me penoso
anche oggi. Fryderyk recitò la parte di Pedro nel Progetto di
matrimonio di Alexandre Duval, lo recitò in casa Pruszak. Io
corteggiavo la figlia di madama Pruszak, Olesia, e quella
commedia mi sembrava di buon augurio. Invece...
– Invece?
– Invece Olesia, ahimé!, mi trattò sempre e soltanto con
distaccata cortesia.
– Chopin recitava bene?
– Recitava benissimo. E ballava benissimo: le ragazze lo
adoravano anche per questo, mentre io sapevo sbrigarmela
solo con la mazurca alla contadina. Facemmo parecchie com-

161
mediole, una delle quali scritta da Fryderyk e dalla sua sorel-
la più piccola, Emilia. Fryderyk era un attore molto brillante,
un caratterista di classe, e sapeva fare delle deliziose imita-
zioni. Ho qui la lettera in cui mi parla del Progetto di matri-
monio. È del 27 dicembre 1828. Curiosa lettera.
– Per via della commedia?
– No. Per via di una piccola disavventura che gli era capi-
tata durante le vacanze a Sanniki. Questa parte della lettera è
in italiano. Gliela leggo così com’è: “N. ha fatto infelice la si-
gnorina governante della casa, nella strada Marszalowska. La
signorina governante a un bambino nell’ventre, e la Contessa
sive la padrona non vuole vedere di piu il seduttore. Il miglio-
re evento è che credevano avanti, che tutto è apparito, ch’il se-
ducente son io, perché io ch’era piu d’un messo a Sanniki, e
sempre andava colla governante camminar nell’giardino. Ma
andare camminar e niente di piu. Ella non è incantante. Imbe-
cille io non ho avuto alcuno apetito, pour mon bonheur”.
– Curiosa davvero. Sapete chi è N.?
– Nowakowski, Jozéf Nowakowski. Un bravo ragazzo, ma
uno sprovveduto come pochi. Buon musicista, però. Fry-
deryk fece eseguire una sua sinfonia nel penultimo concerto
che tenne a Varsavia, il 22 marzo 1830.
– Senza volerlo avete introdotto un argomento su cui vi
avrei comunque chiesto delle delucidazioni: le donne, Cho-
pin e il sesso femminile.
– Eh, le donne! Frycek aveva l’animo di un dongiovanni,
ma non era... predatore come il Don Giovanni vero. La bel-
lezza fisica, la grazia dei movimenti, la vivacità della conver-
sazione lo incantavano sempre, ed era perennemente inna-
morato. Però il suo amore si nutriva di fantasie. Fino a quan-
do fummo in contatto non corteggiò apertamente nessuna
donna, nessuna donna o ragazza. Nessuna. Meno che mai
Konstancja.
– Konstancja chi?
– Konstancja Gładkowska. Oh, una bella ragazza bruna,
di aspetto malinconico. Fryderyk mi scrisse che a lei era ispi-

162
rato il secondo movimento del Concerto in fa minore. È un
pezzo dolcissimo, idilliaco, ma con una parte centrale molto
drammatica che è un riflesso, credo, della gelosia. Frycek sof-
friva di terribili attacchi di gelosia ogni volta che Konstancja
sorrideva a qualcuno o mostrava di gradire una compagnia
maschile. Il suo era un amore intenso, possessivo, e... ine-
spresso. Durò abbastanza a lungo, circa un anno, come una
nota pedale sulla quale si inserivano capricciose armonie: in-
comprensibile, per me proprio... incomprensibile.
– E Konstancja, secondo voi, intuì quello che passava nel-
l’animo di Chopin?
– Assolutamente no. Come avrebbe potuto? Lui non solo
non fiatava, ma metteva in atto tutte le possibili strategie di
mascheramento. Il suo era un sogno d’amore, non un amore.
Più che nel Concerto il sentimento genuino che provava per
Konstancja è espresso secondo me nel Valzer in re bemolle
maggiore che scrisse nel 1829 e che non è stato pubblicato.
– Dove lo si trova?
– Io ho la copia che Fryderyk mi mandò. Il manoscritto
originale, credo, sarà ancora in possesso della famiglia. Si par-
la ora della pubblicazione delle opere postume, forse quel
valzer uscirà, cosa che mi farebbe molto piacere. La scrittura
è piuttosto intricata, la mano destra suona spesso due parti in
contrappunto, e non è facile realizzarle bene, con chiarezza.
Nella parte centrale la melodia è alla mano sinistra. Frycek mi
avvertì: “Nel Trio il canto deve dominare nel basso fino al mi
bemolle della chiave di violino della quinta battuta. Ma che
bisogno ho di dirtelo, visto che lo capirai da solo?”. Sempre
gentile, sempre delicato, Frycek, sempre con il timore di of-
fendermi quando appariva evidente la sua superiorità. Però
quella volta avrei effettivamente capito le sue intenzioni an-
che senza l’avvertimento.
– Questo racconto mi incuriosisce molto, e vorrei che mi
faceste sentire il valzer.
– Mi spiace, mi spiace proprio, però non è possibile. Non
so nemmeno dove stia esattamente la musica e le mie dita so-

163
no ormai talmente arrugginite che non ne verrei a capo. Quel
valzer era difficile per me già vent’anni or sono, quando suo-
navo spesso. Si figuri adesso, adesso che l’amministrazione
delle mie terre e dello zuccherificio mi porta via tutta la gior-
nata.
– Peccato! Che fece, Chopin, dopo aver composto il con-
certo e il valzer? Scrisse subito l’altro concerto?
– No, non subito. Andò ad Antonin, ospite del principe
Radziwiłł, e si divertì molto. Gli piacevano, oh, quanto gli
piacevano le principessine!
– Parlavate spesso di donne?
– Direi continuamente, fin da quando, ragazzini, ci erava-
mo accorti del fatto che l’umanità è formata da due sessi di-
versi. Le principessine Radziwiłł erano per lui “due Eve”.
Però l’ammirazione per la bellezza era sempre unita all’am-
mirazione per il talento musicale. La maggiore delle due prin-
cipessine lo conquistò anche perché era pazza di una sua Po-
lacca in fa minore di cui possedevo io la copia (mi scrisse per-
ché gliela mandassi), e della minore, a cui dava lezioni di pia-
noforte, mi assicurò che aveva veramente molta sensibilità
musicale: “Non c’è bisogno di dirle: qui, crescendo, là, pia-
no, in un altro posto, più svelto, là, più lentamente, eccete-
ra”. Fryderyk stimava il principe anche in quanto composi-
tore, sebbene ne parlasse come di un “gluckista arrabbiato”.
– Si potrebbe dire che i Radziwiłł erano protettori di Cho-
pin?
– In un certo senso, sì. Il principe propose a Fryderyk di
ospitarlo nel suo palazzo, se avesse deciso di andare a studia-
re a Berlino. Ma questa prospettiva non era allettante per il
mio amico. Già nell’autunno del ’29 desiderava partire al più
presto per Vienna, l’Italia e Parigi, e siccome dovette rinvia-
re il viaggio fu in preda all’ipocondria per gran parte del
1830. Soffriva e gli piaceva soffrire, cosa per me inconcepibi-
le. Il 17 aprile mi scrisse, ecco qua: “Che sollievo è stato per
me, nella mia insopportabile malinconia, ricevere una tua let-
tera. Oggi avevo appunto bisogno di questo perché languivo

164
più che mai. Come caccerei via i pensieri che avvelenano la
mia esistenza, se non provassi piacere nel coltivarli. Non so
neppur io cosa mi manca”. Dice proprio “se non provassi
piacere nel coltivarli”. Mah!
– Sono stati d’animo molto diffusi anche oggi, e molto al-
la moda vent’anni or sono.
– Sarà. A me sembrano smancerie. Fryc doveva comporre
il nuovo concerto, altro che storie, doveva averlo pronto e
provato prima della partenza! Nella stessa lettera mi parlava
dell’Adagio: “Non vi ho cercato la forza. È piuttosto una ro-
manza calma e melanconica. Deve dare l’impressione di un
dolce sguardo rivolto verso un luogo che evoca piacevoli ri-
cordi. È come una fantasticheria in un bel tempo primaveri-
le, ma al chiaro di luna. L’accompagnamento è con sordina”.
– Conosco quell’Adagio, l’ho sentito a Parigi da un allie-
vo di Chopin, Carl Filtsch, che morì giovanissimo, e da un ra-
gazzo, Gottschalk, che veniva dall’America, dalla Louisiana,
e che è diventato famoso. È una meraviglia, quell’Adagio.
– Oh sì! Frycek venne a Poturzyn durante l’estate e mi
suonò tutto il concerto. Purtroppo non potei andare a Varsa-
via per la prima esecuzione, in ottobre. Fu invece presente al-
la prova il mio futuro cognato, il principe Poletyllo, che me
ne parlò. Ma durante il viaggio per Vienna, a Breslavia, ascol-
tai il finale del concerto con orchestra perché Fryc si lasciò
convincere dal maestro Schnabel. Un pianista tedesco avreb-
be dovuto suonare il Concerto n. 2 di Moscheles, ma si spa-
ventò udendo Fryc che provava il pianoforte, si spaventò tal-
mente che si ritirò. E così io ebbi l’immenso piacere di senti-
re con l’orchestra per lo meno un terzo di quel Concerto in
mi minore, così mostruosamente difficile che lo stesso Fryc
aveva temuto di non riuscire ad impararlo.
– Stavate prima parlando della malinconia. Credete dav-
vero che si trattasse di una posa?
– All’inizio sì, poi non più, poi mi preoccupò. Mi preoccupò
la lettera del 4 settembre: “Sono sempre qui e non sento la for-
za di fissare il giorno della partenza. Se me ne vado, mi sembra,

165
a casa non tornerò più. E come dev’esser triste, morire in un
luogo diverso da quello in cui si è vissuto. Quanto sarebbe spa-
ventoso per me, vedere vicino al mio letto di morte non i miei,
ma un medico compassato o un domestico. Credimi, ho spera-
to più d’una volta d’andare da te a cercare la calma, ma invece
esco di casa, vado per strada, sono preso dalla nostalgia e rien-
tro. Per cosa? Per languire. Non ho ancora provato il concer-
to. Come che sia, abbandonerò tutti i miei tesori prima della fe-
sta di San Michele e mi troverò a Vienna, condannato a sospi-
rare in eterno. Che è dunque mai, questa perdita della nozione
del tempo... Spiegami tu, che conosci così bene la natura uma-
na: perché mi sembra sempre che oggi sarà soltanto domani?
‘Non essere stupido’ è la risposta che posso dirmi da solo. Se ne
conosci un’altra, mandamela”. Non sapevo che dire, ma mi im-
pressionava la sincerità della confessione.
– A me sembra che dopo il ritorno da Vienna nell’estate
del ’29 Chopin non vedesse l’ora di ripartire, e che nel mo-
mento in cui si avvicinava la partenza fosse in preda ad un’o-
scura paura.
– Proprio così. Mi diceva di volersi fermare a Vienna per
due mesi, dicembre e gennaio, e di voler poi passare l’inver-
no a Milano. E mi chiedeva di restare con lui. Lo avrei fatto
molto volentieri, e il nostro viaggio fino a Vienna fu piacevo-
lissimo. Trovai anche un delizioso appartamentino presso
una giovane baronessa, vedova. Chopin mi chiese subito se
era carina. Io in verità non ci avevo badato per nulla, ma ef-
fettivamente era molto carina, e simpatica. Quando la vide
Frycek temette di non piacerle perché era raffreddato ed ave-
va il naso un po’ gonfio. Il naso era una sua fissazione anche
senza il raffreddore, e al pensiero dell’impressione che avreb-
be fatto sulla baronessa, mi creda, smaniava. Era un bel tipo,
sempre pronto a prendere una sbandata malgrado il suo
grande amore per Konstancja.
– Come andò, il soggiorno a Vienna?
– Andò benissimo nei pochi giorni in cui mi fermai. Ma
poi rientrai in patria di corsa, e...

166
– Già, l’insurrezione.
– La disgraziata insurrezione che portò la Polonia ad es-
sere del tutto asservita alla Russia. Che tragedia per la nostra
patria. E che tragedia per me e per lui. A Vienna si trovò co-
sì male che peggio non avrebbe potuto essere. Quando arrivò
a Parigi mi scrisse una lunghissima lettera, piena di entusia-
smo per la città e per l’ambiente musicale e sociale. Una suc-
cessiva lettera, alla fine dell’anno, era ancora molto gaia, ma
improvvisamente vi si infilavano certe considerazioni che mi
raggelarono. Ne provai una gran pena, avrei voluto essergli
vicino.
– Di che si trattava?
– Ho qui la lettera, che dice: “Nello stesso istante in cui
stavo per iniziare la descrizione di un ballo in cui ero stato ra-
pito da una divinità dai capelli neri ornati di rose, ecco che ri-
cevo la tua lettera. Tutto il moderno esce dal mio spirito, mi
avvicino ancora di più a te, ti prendo la mano e piango. Ho
ricevuto la tua lettera da Lwow. Ci rivedremo forse più tardi,
se mai ci rivedremo perché, a dire il vero, la mia salute è mol-
to cattiva. Esteriormente sono allegro, soprattutto fra i miei
(dico miei i polacchi), ma interiormente molte cose mi fanno
soffrire. Certi presentimenti, dei sogni, delle insonnie, la no-
stalgia, l’indifferenza che incontro, il desiderio di vivere e, un
momento più tardi, di morire, una serenità deliziosa, una spe-
cie di nodo alla gola, mi sento lontano da tutto e talvolta so-
no tormentato da precisi ricordi. L’amarezza, l’acredine, uno
spaventoso miscuglio di sentimenti mi sconvolge e mi agita.
Sono più bestia che mai. Ma perdonami. Basta. Vado a ve-
stirmi, poi prenderò una carrozza per andare alla cena che si
dà oggi in onore di Ramorino e di Langermann al Rocher de
Concale, il più grande ristorante di Parigi”.
– Molto penoso, davvero. Ed è strano, questo senso del
dovere che lo induceva a prender parte ad un banchetto in
onore di due eroi della resistenza polacca.
– No, non è affatto strano. Chopin avrebbe voluto essere
attivo nell’insurrezione, e non si perdonava di non essersi

167
mosso da Vienna. Diceva che avrebbe per lo meno voluto ser-
vire come tamburino! E per chi aveva rischiato la vita in bat-
taglia provava una venerazione.
– Vi scrisse ancora?
– No. Ci perdemmo di vista, anche epistolarmente, mi
scrisse di nuovo solo poche settimane prima della morte. Il
mio più caro amico non l’ho più rivisto. Ed è spirato in un
paese lontano, come gli aveva predetto il cuore.
CON IL MAESTRO MORITZ ERNEMANN

– Tutti mi dicono che voi, maestro, avete conosciuto bene


Chopin e che siete stato suo amico.
– Più che amico, lui fu per me, ed io per lui, un collega con
il quale si intrattengono rapporti cordiali e privi d’invidia. Io
avevo dieci anni più di lui ed ero tedesco di nascita e di stu-
di. I suoi amici veri, i suoi amici fraterni erano suoi coetanei
ed erano polacchi. Titus Woychiekowski, Jan Bialobłocki,
Jan Matuszyński. Titus era un ragazzone forte e sano, solido
di corpo e di mente. Bialobłocki, bello come un arcangelo,
morì di tisi a ventitre anni, e Matuszyński, che era di costitu-
zione gracile come Chopin, morì di tisi anche lui, a Parigi.
– Ho conosciuto Matuszyński perché conoscevo George
Sand, e ricordo il momento della sua morte. Una morte atro-
ce, che colpì Chopin in un modo terribile.
– Anche la fine di Chopin dev’essere stata atroce.
– Sì, per quello che ne so.
– Povero Chopin. Ci vedemmo molto spesso negli ultimi
due anni che trascorse a Varsavia. Io avevo studiato a Berlino
con Ludwig Berger, allievo di Clementi, e con Berger aveva
studiato anche Mendelssohn. Chopin era molto interessato a
conoscere la scuola di Clementi. Quando andò a Berlino gli
illustrai meglio che potevo la vita musicale della capitale e gli
indicai in Mendelssohn uno dei pianisti più in vista.
– Mendelssohn, che aveva solo un anno più di Chopin, era
già famoso per aver diretto la Passione secondo Matteo di Bach.

169
– Voi siete in errore, amico mio. Chopin andò a Berlino
l’anno prima che Mendelssohn vi dirigesse la Passione, avve-
nimento, quello sì, che gli diede grande fama in Germania.
– Chopin conobbe Mendelssohn mentre si trovava a Ber-
lino?
– Lo vide ma, mi disse, non osò presentarsi (e non si pre-
sentò nemmeno a Spontini e a Zelter). Di fronte ai berlinesi,
pur essendo conscio del suo valore, Chopin si sentiva pro-
vinciale. Andò a teatro per vedere il Fernand Cortez di Spon-
tini e il Matrimonio segreto di Cimarosa, vide il Freischütz di
Weber e un’opera di Onslow. Ciò che lo impressionò di più,
a parte la grandezza e la pulizia della città, fu però la Cäci-
lienfest di Händel. Mi disse che questo oratorio era il più
prossimo all’idea che s’era fatto della grande musica.
– Titus Woyciechowski mi ha detto che voi suonaste con
Chopin il Rondò in do maggiore per due pianoforti.
– Nell’estate del ’28 Chopin passò le vacanze a Sanniki
presso i Pruszak e modificò il Rondò. Lo provammo nel ne-
gozio di Buchholtz e pensammo di darne un’esecuzione pub-
blica. Ma non se ne fece niente. Qualche mese più tardi Cho-
pin lo provò di nuovo, con Julian Fontana. Anche quella vol-
ta tutto finì lì. Il pezzo era brillantissimo. Purtroppo non è
stato pubblicato.
– I vostri incontri con Chopin, se ho ben capito, erano di
lavoro.
– Direi di sì. Io mi ero stabilito a Varsavia perché la mia
carriera vi si sarebbe sviluppata più facilmente che a Berlino.
Oltre a me si era spostato in Polonia un altro pianista tede-
sco, Joseph Kessler, di Augusta. Kessler organizzava a casa
sua, tutti i venerdì, delle serate musicali senza programma
prefissato. Chopin ed io vi andavamo regolarmente.
– Che cosa vi capitava di suonare?
– Leggevamo soprattutto le ultime pubblicazioni. Ricordo
il Concerto in do diesis minore di Ries, il Trio in mi maggio-
re di Hummel, il Trio in si bemolle maggiore di Beethoven, il
Quartetto con pianoforte del principe Luigi Ferdinando di

170
Prussia. E tante altre cose. Chopin restò molto impressiona-
to dal Trio di Beethoven. Ma aggiunse una strana osservazio-
ne: “Beethoven si prende gioco del mondo intero”.
– Chopin ascoltava soltanto o suonava anche?
– Ciascuno di noi ascoltava e suonava, indifferentemente.
Ci scambiavamo i ruoli anche fra un movimento e l’altro. Ri-
cordo che Chopin suonò il Quintetto per pianoforte e fiati di
Spohr. Gli piaceva, lo suonò benissimo, ma disse che la par-
te pianistica non entrava mai nelle dita e che era talvolta im-
possibile trovare una buona diteggiatura. “Insopportabil-
mente difficile”, disse. Ero d’accordo. Spohr è violinista e il
pianoforte non lo conosce perfettamente. Di Spohr piaceva a
Chopin anche l’Ottetto. Con grande soddisfazione suonam-
mo varie volte le Variazioni di Hummel su La Sentinelle, che
erano allora famosissime. Chopin era entusiasta della scrittu-
ra pianistica di Hummel.
– Voi eravate presente ai concerti di Chopin in teatro, ve-
ro?
– Naturalmente. Il 17 marzo 1830 il teatro era strapieno,
ma Chopin non fu soddisfatto dell’esito, soprattutto perché
la Fantasia su arie nazionali polacche op. 13 e il primo movi-
mento del Concerto in fa minore non furono accolti con
grande calore. Io gli espressi tutta la mia ammirazione, ma il
maestro Elsner, che non possedeva il minimo savoir-faire, dis-
se subito che il suono del pianoforte era sordo e che non si
sentivano i bassi. Il concerto venne ripetuto il 22 marzo, e
andò meglio sia perché venne cambiato il pianoforte, sia per-
ché invece della Fantasia Chopin suonò il Krakowiak op. 14
e finì la serata con una improvvisazione su temi polacchi, co-
sa che fa sempre molto effetto sul pubblico. Gli chiesero di
dare un terzo concerto ma rifiutò.
– Perché?
– Non era interamente soddisfatto né dell’esito artistico,
né dell’esito sociale (perché una buona parte dell’alta società
non era intervenuta: Chopin ci teneva, invece, all’alta so-
cietà). Non fu confortante neppure l’esito finanziario (il gua-

171
dagno netto fu di soli cinquemila zloty). Andò meglio il con-
certo dell’autunno, l’11 ottobre. Lo ricordo bene.
– Fu la serata in cui Chopin tenne la prima esecuzione del
Concerto in mi minore?
– Esattamente. Già in aprile Chopin mi aveva fatto senti-
re il primo movimento del nuovo concerto, che secondo me
era migliore del precedente. In seguito ebbi l’occasione, in un
certo senso, di rendere a Chopin un servizio. Nell’Agnese di
Paër esordiva Konstancja Gładkowska, che poi si sposò e la-
sciò la carriera, ma che era una cantante molto notevole. Nel
secondo atto dell’opera c’è una romanza che la protagonista
canta accompagnandosi con l’arpa. Konstancja cantava, fin-
gendo di accompagnarsi con una finta arpa presa in attrezze-
ria, mentre l’arpa vera avrebbe dovuto essere collocata in
quinta. Ma il teatro non aveva disponibile né un’arpa né un
arpista. In quinta mi ci misi io, con il pianoforte, e giocando
con i pedali cercai di imitare il suono dell’arpa. Chopin ven-
ne a complimentarsi con gli occhi lucidi. Mi chiese che cosa
pensassi della cantante, e dopo aver sentito il mio parere al-
tamente positivo mi strinse con forza la mano.
– La Gładkowska rappresentava per Chopin l’ideale della
femminilità.
– Io non lo sapevo, allora, ma sospettai subito che gatta ci
covasse. Poco dopo Chopin mi fece l’onore di invitarmi ad
assistere ad una prova del Trio e della Polacca con violoncel-
lo. Oltre a me erano stati chiamati solo Elsner, Żywny e un al-
lievo di Elsner, Linowski. Chopin voleva conoscere il nostro
autorevole parere: incredibile!
– E quale fu il vostro parere?
– Il più positivo, ovviamente. Non so proprio perché ce lo
avesse chiesto: da una parte era sempre sicuro di sé, dall’altra
sentiva il bisogno d’essere rassicurato. Come a proposito del-
la sordina nella Romanza del Concerto in mi minore.
– Gli archi suonano con sordina, sì, me lo ha detto Woy-
ciechowski.
– Ed è un magnifico effetto. Ma Chopin, stranissimamen-

172
te, aveva dei dubbi: “Che ne pensi?”, mi disse. “La sordina
diminuisce la sonorità e la rende nasaleggiante e argentina.
Forse l’effetto è cattivo, ma perché si dovrebbe temere di scri-
vere male a dispetto delle proprie conoscenze, dal momento
che solo il risultato può rendere manifesto l’errore?” In
realtà, aveva già previsto di fare una prova con il solo quar-
tetto d’archi, ma temeva, se fosse andata male, di fare la figu-
ra dell’inesperto. Lo rassicurai, ovviamente.
– Il concerto di ottobre, dicevate, andò bene.
– Andò veramente bene, e Chopin mi confessò che per la
prima volta in vita sua aveva suonato con orchestra facilmen-
te. Oltre al Concerto eseguì la Fantasia op. 13. Il successo fu
anche favorito dalla direzione di Carlo Soliva che, al contra-
rio di Kurpiński in marzo, si era dato la pena di studiare le
partiture. Fu l’addio di Chopin alla sua città. Partì pochi gior-
ni più tardi. Io andai a salutarlo e a fargli gli auguri, come tan-
ti altri. Poi non solo non ci siamo più rivisti, ma non ci siamo
più sentiti nemmeno per lettera. Acquistai tutte le composi-
zioni di Chopin a mano a mano che venivano pubblicate, e
fra le altre anche i due concerti. Il fatto che abbia pratica-
mente scritto solo per pianoforte non esclude che egli sia, se-
condo il mio parere, uno tra i maggiori compositori del no-
stro tempo.
CON IL MAESTRO CARL CZERNY

Vienna, lì 18 agosto 1852

Stimatissimo Signor Dottor Erdnas Kela,


ben volentieri aderisco al di Lei cortesissimo invito nel
rammemorare i miei passati incontri con il caro Frédéric
Chopin, che altamente mi onoro di aver conosciuto e di cui
ammiro pressoché incondizionatamente le opere. Lo incon-
trai per la prima volta a Vienna nell’agosto del 1829. Era egli
venuto nella mia città con l’animo modesto e rispettoso di chi
s’affaccia sulla culla di una grande civiltà ma, stanti la stagio-
ne estivale e la poca presenza di musicisti valenti, venne invi-
tato dal preclaro conte Gallenberg a subito esibirsi in un con-
certo e, visto il successo dell’esordio, in un secondo concerto
che, se mal non m’appongo, ebbe luogo il 18 dell’agosto. Ese-
guì lo Chopin le sue stellari Variazioni op. 2, poco più tardi
pubblicate dallo Haslinger, e il delizioso Krakowiak, ed im-
provvisò genialmente su un tema della ben nota Dame blan-
che. Alla somma eleganza del porgere ed alla signorile riser-
vatezza dell’eloquio non fecero in essolui da complemento
l’amplitudine del suono e la scolpitezza del fraseggio, tanto
che una dama di fine intendimento dissemi, cito sue testuali
parole, “peccato che il giovine non abbia tournüre”, volendo
con ciò intendere, ed io convenni, non essere lo Chopin fi-
gura di teatrale presenza.

174
Ritornò poi lo Chopin a Vienna sul cadere del 1830 e ri-
masevi per mesi assai. Venne da me, mostrommi le partiture
di due concerti novellamente composti, che originali e ma-
liosi mi parvero, sebbene non virtuosi quanto oggimai richie-
devasi dal nuovo modo del pianismo di bravura di cui erasi
fatto campione il giovine e già esimio Thalberg. Il secondo
soggiorno a Vienna del caro Chopin fortunato non fu, ed io
medesmo, pure apprezzando onninamente in essolui e l’arti-
sta e puranco l’uomo, fornirgli non potetti, e molto me ne
dolsi, quei pochi soccorsi di cui era necessitoso.
Incontrai infine lo Chopin a Parigi nel 1837. Eravi stato io
chiamato dal Liszt, mio antico discepolo, che fra sé e sé divi-
sando di aprire una scuola per concertisti intendeva affidar-
ne la direzione alla mia modesta persona. Il progetto non eb-
be il felice esito a cui speranzosi guardavamo. Ma durante la
mia permanenza a Parigi con sommo giubilo rinnovai la mia
conoscenza con lo Chopin, che frattanto erasi illustrato con
due mirabili raccolte di studi e con altre commendevoli cose
per soprammercato, e conobbi nella sua interezza un lavoro
a cui avevo preso parte per iniziativa della radiosa principes-
sa Cristina Trivulzio in Belgiojoso.
Volle ella promuovere un grande concerto al fine di rac-
cogliere fondi a favore degli esuli italiani, ed intese giustissi-
mamente presentarvi un pezzo-monstre che gran concorso di
pubblico richiamasse.
Fu scelto il duetto “Suoni la tromba, e intrepido” dai Pu-
ritani del sommo Bellini, che poco più tardi in ancor giovine
età da questo mondo si dipartì. Su quel tema scrissero sei va-
riazioni tre maestri della vecchia scuola, vale a dire il Herz, il
Pixis e il sottoscritto, e tre della nova, vale a dire lo Chopin,
il Liszt e il Thalberg. Ebbene, mentre quattro dei sei prescel-
ti si attennero all’uso delle variazioni brillanti, preferì il Liszt
una fantasticheria non priva di cupezza, e compose lo Cho-
pin un Largo dolcissimo, un Notturno al chiaro di luna che ve-
runa attinenza avea col clima guerriero del tema, ma che in sé
e per sé era d’un magico incanto. Il Liszt compose inoltre l’in-

175
troduzione, il finale e i raccordi fra le variazioni, ed il pezzo,
che appieno soddisfò i desideri della esimia Principessa com-
mittente, ebbe il titolo Héxaméron.
Ella mi addomanda infine che cosa io pensi appetto al va-
lore artistico dello Chopin pianista. Malgrado quel che prima
dissi su quella mancanza di tournüre che in sommo grado
posseggono il Liszt e il suo rivale Thalberg e il Henselt e il
mio scolare Döhler, trovasi la mia risposta in una mia recen-
te fatica letteraria, il Compendio Generale di Storia della Mu-
sica, in cui allo Chopin attribuisco la denominazione di Cla-
viervirtuose, non di semplice Pianist. Oltracciò distinsi nel
Metodo che nel 1839 vide la luce sei grandi scuole pianisti-
che: 1) di Clementi, 2) di Cramer e Dussek, 3) di Mozart, 4)
di Beethoven, 5) di Hummel, Kalkbrenner e Moscheles, 6) di
Thalberg, Liszt e Chopin. Risponde ciò bastantemente,
com’io credo, al di Lei quesito?
Ho l’onore, stimatissimo Dottore, di dichiararmi di Lei
umilissimo servitore ed estimatore

Carl Czerny
CON IL SIGNOR CAMILLE PLEYEL

– Come Le ho detto, caro Maestro, vorrei scrivere una bio-


grafia di Chopin e sto incontrando tutte le persone che pos-
sono fornirmi preziose informazioni di prima mano. Lei sarà
per me, come dire?, una miniera di diamanti.
– Farò quel che posso, amico mio, con la più grande di-
sponibilità. Ma ad un patto: non mi chiamiate “maestro”.
– Come! Voi, allievo di pianoforte del grande Dussek, al-
lievo di composizione del vostro illustre padre, discepolo a
sua volta di Haydn, Voi, autore di quartetti, di trii, di sona-
te...
– ...e di pezzi per pianoforte. Sì, ho studiato e ho fatto la
musica molto seriamente. Ma nel 1824, ed avevo trentasei an-
ni, dovetti affiancare mio padre nella gestione della casa edi-
trice e della fabbrica di pianoforti da lui fondate, e dal 1831,
alla morte di papà, tutto venne caricato sulle mie spalle. Voi
capite bene che...
– Capisco benissimo. Dunque, Voi, invece che maestro,
siete...
– ...industriale e commerciante, non per vocazione ma per
necessità: non potevo lasciar perire quello che era stato crea-
to da quel granduomo di mio padre.
– Come conosceste Chopin?
– Mi fu presentato da Kalkbrenner, che nella nostra fab-
brica aveva investito del denaro. Nel 1831, anno per me den-
sissimo di avvenimenti, morì mio padre, come dicevo, sposai

177
la bellissima e talentuosissima pianista Marie Moke, che per
me ruppe il fidanzamento con Berlioz, e conobbi Chopin,
che a Natale avrebbe dovuto esordire nella nostra sala di con-
certi. Ma l’esordio dovette essere rimandato perché il dottor
Véron, direttore dell’Opéra, si... rimangiò il permesso con-
cesso ad una cantante che doveva prender parte al concerto.
– Kalkbrenner stimava Chopin?
– Lo stimava moltissimo, e avrebbe tanto desiderato che
diventasse suo discepolo. Vedete, amico mio, Kalkbrenner
era un uomo molto migliore di quello che di solito si pensa.
La sua autostima era grande, ed era secondo me giustificata,
ma risultava fastidiosa a molti perché veniva ingenuamente
esibita. Con i giovani era però molto generoso e fu genero-
sissimo con Chopin. Purtroppo non tutto filò liscio fra di lo-
ro, perché Chopin declinò l’invito di Kalkbrenner, e di con-
seguenza, all’inizio, non tutto filò liscio anche con me.
– Che intendete dire?
– Misi gratuitamente a disposizione di Chopin la sala che
avevamo inaugurato nel gennaio del 1830, lui vi tenne il suo
primo concerto a Parigi e Kalkbrenner vi prese parte. Però
Chopin, mal consigliato da non so chi, firmò un contratto con
un piccolo editore, Farrenc, che gli versò un acconto. Sciolse
il contratto, con difficoltà e, se mi è permesso di dirlo, ciur-
lando nel manico. Quando Pixis lo raccomandò insistente-
mente al mio concorrente Maurice Schlesinger, le cui fortu-
ne avevano fatto un enorme balzo in avanti con il trionfo del
Robert le Diable di Meyerbeer, da lui acquistato per una som-
ma enorme, ventiquattromila franchi, Schlesinger commis-
sionò a Chopin il Duo per violoncello e pianoforte su temi
dell’opera di Meyerbeer, e divenne il suo principale editore.
– Che cosa significa, che Chopin ciurlò nel manico?
– Con Farrenc aveva un contratto ed aveva anche, come
dicevo, ricevuto un acconto. Bene, cominciò a consegnare dei
manoscritti con molte cancellazioni e difficili da leggere, ri-
tardò nel fare le correzioni richieste, si giustificò dicendo di
essere indolente e inesperto negli affari fino a che Farrenc

178
stracciò il contratto, accusandolo di essere un pigro e un ec-
centrico di cui non ci si poteva fidare. E così Frédéric otten-
ne quello che voleva senza colpo ferire.
– Sorprendente davvero, da quanto so di lui non avrei im-
maginato che Chopin fosse il tipo da architettare una simile
commedia. E per quanto riguarda voi, che cosa avvenne?
– Per il momento divenni, e rimasi poi sempre, il suo for-
nitore di pianoforti. Schlesinger era legato al mio concorren-
te, Érard, che come suo... campione in scuderia aveva Liszt.
Io avevo Kalkbrenner, mio socio, ed ebbi Chopin, che dopo
il concerto d’esordio rimase per sempre fedele al mio stru-
mento.
– Mi scusi se vi faccio una domanda che potrà sembrarvi
sciocca, ma era proprio così importante per i fabbricanti ave-
re, come voi dite, dei campioni in scuderia?
– Altroché, perbacco! Kalkbrenner e Chopin avevano una
vastissima clientela di allievi ed allieve private, e Chopin, in
particolare, si muoveva quasi esclusivamente fra la crème de
la crème de la société. Queste persone, diventando allieve di
Chopin, acquistavano con entusiasmo il pianoforte della mar-
ca prediletta dal Maestro, ed avevano mezzi più che suffi-
cienti anche per cambiare lo strumento quando usciva un
nuovo modello.
– Questo aspetto dell’insegnamento è veramente sorpren-
dente, non ci avevo mai pensato.
– La stima di Chopin era per la mia fabbrica una specie di
rendita assicurata. Non riuscii però mai, sebbene ci provassi,
a concludere con lui qualche affare anche come editore.
– Ad esempio?
– Non riuscii ad avere, e me ne rammaricai molto, i Not-
turni op. 9 che Chopin dedicò a mia moglie. Uscirono pres-
so Schlesinger. E assai più tardi non riuscii ad acquistare i
Preludi op. 28, che mi furono dedicati. Chopin, che stava nel-
l’isola di Maiorca, mandò in avanscoperta Julian Fontana, poi
mi scrisse. Ho qui la lettera, da Valldemosa, il 22 gennaio
1839. Noti la sottilissima, la signorile adulazione dell’esordio:

179
“Caro amico, Vi mando infine i miei Preludi – che ho finito
di comporre sul Vostro pianino, arrivato nel migliore stato
possibile, malgrado il mare, il cattivo tempo e la dogana di
Palma”. Avevo spedito a Chopin un pianoforte verticale, e la
circostanza che il mio strumento avesse... fatto il suo dovere
non poteva che inorgoglirmi. Chopin era assolutamente sin-
cero, ma avrebbe anche potuto fare a meno di dirmi quello
che mi diceva.
– In un certo senso era una captatio benevolentiae.
– Proprio così, ma... finissima. Subito dopo mi piazzava la
botta: “Ho incaricato Fontana di consegnarVi il mio mano-
scritto. Voglio per esso millecinquecento franchi per la Fran-
cia e l’Inghilterra. Probst, come sapete, ha avuto per mille
franchi la proprietà per Härtel in Germania. Sono libero da
impegni con Wessel a Londra; lui può pagare di più. Quan-
do ci avrete pensato consegnate il denaro a Fontana”.
– Insomma, Chopin non apriva una trattativa.
– No, fissava il prezzo e basta. Nella stessa lettera mi pro-
poneva la Ballata op. 38 per mille franchi, lo Scherzo op. 39
per millecinquecento (per tutta l’Europa), e le Polacche op.
40 per millecinquecento. Io nicchiai, anche perché avevo
avuto una brutta botta: era andata in fallimento una banca in
cui avevo investito del denaro. Chopin rimandò da me Fon-
tana, che venne con un atteggiamento molto battagliero, fa-
cendomi capire chiaramente che, in mancanza di immediato
accordo con me, si sarebbe rivolto a Schlesinger.
– Come andò a finire?
– Dissi a Fontana che i prezzi mi sembravano un po’ alti,
lui mi rispose che le disposizioni di Chopin erano chiarissi-
me: se si dovevano abbassare i prezzi era preferibile vendere
a Schlesinger.
– E allora?
– Alla fine, grazie all’abilità manovriera di Fontana, i Pre-
ludi li prese Catelin, e tutto il resto Troupenas che, penso, ac-
cettò il diktat e che acquistò altri pezzi ancora. Poi Chopin
tornò da Schlesinger. Eppure Chopin ed io eravamo amici,

180
amici veri. Ma quando si trattava d’affari lui curava i suoi in-
teressi... ed io i miei. Il fatto che preferisse Schlesinger mi fe-
riva. Nello stesso tempo mi dicevo però che Schlesinger ave-
va fatto per lui, all’inizio, quello che non avevo fatto io, e che
quindi era giusto così.
– Molto nobile da parte vostra, lo dico sinceramente.
– Ed io sinceramente vi ringrazio. Ecco, le cose stanno in
questo modo: come editore, avendo dei soci e degli investi-
tori a cui rispondere delle mie azioni, tenevo rigorosamente
conto degli interessi della mia ditta, come amico mi sarei per
Chopin gettato nel fuoco.
– A quanto mi è stato riferito, voi sapete qualcosa sul fi-
danzamento di Chopin.
– Sì, del suo fidanzamento segreto con Maria Wodzińka,
quello che lui chiamava “la mia disgrazia”. Ma lo diceva in
polacco: Moja bieda.
– Che cosa avvenne?
– I tre ragazzi Wodziński, i maschi, erano stati allievi al li-
ceo del padre di Chopin, e Chopin era particolarmente lega-
to a Feliks. Nel 1831 i Wodziński fuggirono dalla Polonia e
presero dimora a Ginevra. A Ginevra conobbero il pianista
Pierre Wolff, che di tanto in tanto si recava a Parigi (Chopin
gli dedicò un piccolo preludio). Feliks e Maria diedero a
Wolff una lettera da consegnare a Chopin, e Maria unì alla
lettera delle variazioni che aveva composto lei stessa. Ero pre-
sente la sera in cui Chopin, nel salotto della contessa Potocka,
improvvisò sul tema di Maria Wodzińska dopo aver parlato
di lei con affetto. Era molto commosso.
– Era già innamorato?
– Direi proprio di no. Come sempre, gli faceva piacere ri-
trovare le vecchie conoscenze polacche. Vedete, Chopin era
un carattere freddo, controllato, ma quando parlava della Po-
lonia e dei polacchi gli tremava la voce e spesso gli luccicava-
no gli occhi. Con Maria aveva giocato a nascondino e le aveva
dato qualche lezione di pianoforte. La ritrovava dopo anni, la
immaginava cresciuta, provava un gran desiderio di rivederla.

181
– Che cosa fece?
– Nulla, per il momento; non era, diciamo così, un uomo
d’azione ma un sognatore. Dopo un po’ ricevette una lettera
di mamma Wodzińska che gli chiedeva di procurarle auto-
grafi di personaggi celebri. Passò dell’altro tempo, i Wod-
ziński si spostarono da Ginevra a Dresda. Chopin, che dopo
essere stato con i suoi genitori a Carlsbad si era recato in Boe-
mia, ospite della famiglia Thun-Hohenstein, nel viaggio di ri-
torno passò per Dresda, vi si fermò per una settimana, rivide
Maria e se ne innamorò.
– E poi?
– Un fratello di Maria, Antoni, venne a Parigi. Chopin lo
accolse con tutto l’affetto, lo portò all’opera, gli prestò dei
soldi (Antoni aveva le mani bucate).
– Aveva le mani bucate come tutti i rampolli delle famiglie
nobili.
– La vostra supposizione è in generale ragionevole ma, nel
caso in questione, è sbagliata. I Wodziński passavano per
conti ma non lo erano, non erano affatto nobili. E non pos-
sedevano un patrimonio veramente considerevole. Non era-
no né i Komar né i Czartoryski, insomma. Però si davano un
gran tono.
– Ma il fidanzamento segreto?
– Quello arrivò due anni dopo che i Wodziński si erano
fatti vivi con Chopin. Chopin andò in vacanza a Marienbad,
incontrò i Wodziński, li accompagnò a Dresda e poco prima
di lasciare la città fece la sua dichiarazione. La fece a Maria,
che rispose di sì a patto che la mamma dicesse di sì. E la mam-
ma disse di sì a patto che il papà dicesse di sì. Il papà non si
trovava in quel momento a Dresda, il fidanzamento doveva
rimanere sospeso, e quindi segreto. Povero Chopin!
– Perché, povero?
– Perché mamma Wodzińska era una donna senza testa.
Andò a Varsavia per il matrimonio di suo figlio Feliks e in-
contrò i genitori di Chopin. Non disse loro nulla di preciso
ma lasciò trapelare qualcosa, tanto che il padre scrisse a Cho-

182
pin per ricordargli come avrebbe dovuto fare per richiedere
formalmente la mano di Maria. La Wodzińska madre man-
dava al futuro genero materni consigli: usare calze di lana,
mettere le pantofole, andare a letto alle undici, ma Chopin,
che pure aveva giurato di attenersi ai consigli della... pro-
messa suocera, continuava a fare la vita, sregolata, che aveva
sempre fatto a Parigi. Lei continuava a chiedere autografi, e
Chopin mandava del denaro ad Antoni, che era andato a fa-
re la guerra in Spagna. Ma intanto erano passati sei mesi e il
pensiero di papà Wodziński restava circondato dalle nebbie
più fitte. Chopin era così scombussolato che andò a farsi fa-
re le carte da una celebre chiromante!
– Addirittura!
– La chiromante disse che andava tutto per il meglio. Ma
il fidanzamento segreto fu seppellito segretamente. Non se ne
parlò mai più, come se nulla fosse mai successo. Allora inter-
venni io.
– Voi? In che senso?
– Diciamo, tanto per celiare, e voi prendetela in ridere, che
di queste cose mi intendevo. Il mio matrimonio era... svanito
ben presto. Beh!, avevo sposato una bellissima, spumeggian-
te, focosissima coquette, di ventitre anni più giovane di me...
Vero è che Marie vive adesso a Bruxelles, è la compagna di
François Fétis...
– Il grande storico della musica.
– Lui, in persona. Che ha quattro anni più di me. Eviden-
temente non era tanto una questione di differenza d’età,
quanto d’altro. E Marie ha trovato la scarpa adatta al suo pie-
de. Ma, come dicevo, io sapevo che cosa si prova, quando si
è abbandonati. E dovendo andare a Londra per affari pensai
di portare Chopin con me. Per distrarlo.
– Ottima ricetta. Accettò?
– Accettò. E fu allegrissimo. Londra non gli piacque affat-
to ma tutto, di Londra, muoveva il suo spirito ironico, e quin-
di lo divertiva. Mi fece osservare che nei grandiosi orinatoi
pubblici quasi non c’era il posto per fare la pipì. Schiattò dal-

183
le risate quando vide l’insegna di Duppa & Co., dicendomi che
in polacco dupa significa culo, culo e soci. Ridivenne malin-
conico e ansioso quando rientrammo a Parigi. Ma sapeva ed
accettava che una pagina importante della sua vita fosse ormai
chiusa e sigillata. Ripeto: sigillata. Moja bieda. Lo scrisse sul
pacco contenente le lettere dei Wodziński, e ci mise dentro pu-
re una rosellina appassita. Le lettere verranno di sicuro pub-
blicate, prima o poi, e passeranno alla storia. Ci passerà anche
lei, la rosellina appassita, come la reliquia di un grande tragico
amore che i devoti contempleranno compunti, lacrimando.
– Mi sembra di cogliere in ciò che voi dite un filo di non
celata ironia.
– E mal non vi apponete, amico mio. L’esito del fidanza-
mento segreto ferì Chopin, lo ferì il comportamento dei...
promessi suoceri. Ma il suo amore per Maria non fu una pas-
sione bruciante: fu un sogno di felicità domestica. A Maria
donò un valzer, cioè una copia di un valzer – osservate bene!
– di cui tenne per sé l’originale. Un anno circa dopo la rottu-
ra del fidanzamento ne fece un’altra copia e la donò alla si-
gnora Peruzzi. Qualche anno più tardi donò una terza copia
a Charlotte de Rotschild. E sempre – le ho viste tutt’e due –
con su scritto “hommage de F.F. Chopin”.
– Ammetto che questo comportamento mi cambia un po’
le carte in tavola. Beh! Peccato: credevo di trovare una di
quelle vicende romantiche che segnano per sempre la vita
dell’uomo e ci trovo un po’, come dire?, un affare andato a
male.
– Il rapporto con George fu completamente diverso.
– Parliamone.
– Un’altra volta. Adesso, caro mio, devo rientrare. Ho su-
perato la boa dei sessanta e il mio medico mi impone di riti-
rarmi presto. Io non faccio promesse da marinaio, al contra-
rio del mio amico Chopin.
– Grazie, allora.
– Non c’è di che. Anzi, è stato un piacere conversare con
voi.

184
CON MARIA WODZIŃSKA

Dresda, 23 settembre 1852

Egregio Dottore,
mi costa molta fatica e molta pena, rispondere alla vostra
lettera, così gentile, così delicata, ma che risveglia in me la no-
stalgia acuta di un sogno tramontato. Non mi sottrarrò tutta-
via a quello che ritengo essere per me un debito che ho con
la memoria di Fryderyk Chopin. Conoscevo Chopin fin da
bambina, e lui, che era già un giovanotto, per compiacermi
mi vezzeggiava e giocava a nascondino con me. Mi diede an-
che qualche lezione di pianoforte, correggendomi la posizio-
ne delle mani. Dopo che i russi ebbero rioccupato Varsavia –
i miei fratelli avevano preso parte all’insurrezione – mio pa-
dre ci portò nella parte prussiana della Polonia, poi a Berli-
no, a Dresda, a Ginevra. Mentre eravamo a Ginevra la nostra
casa divenne un ritrovo quotidiano per letterati ed artisti. Io
partecipavo alle riunioni leggendo poesie – anche mie – e
suonando al pianoforte pezzi alla moda – anche miei.
Posso dire senza venir meno alla modestia di essere stata
molto ammirata. Anzi, fui persino richiesta in moglie dall’an-
ziano conte Momigny, console francese a Ginevra. Mia ma-
dre oppose un netto rifiuto, ed effettivamente la disparità di
età fra il signor conte e me era enorme. Ma talvolta mi viene
di pensare che l’amore non conosce ostacoli: mi ha sempre

185
commosso la storia della grande danzatrice Fanny Elssler, che
a diciassette anni si innamorò di un signore ultrasessantenne
e che fu felice con lui finché lui rimase in vita. Ma queste so-
no le fantasie che talvolta mi attraversano la mente, e di cui vi
prego di scusarmi.
Nel 1834 mio fratello Feliks scrisse a Chopin, invitandolo
a nome di mia madre a farci una visita; io spinsi il mio ardire
fino al punto di unire alla lettera un mio biglietto ed una mia
piccola composizione. Chopin rispose con un lusinghiero ap-
prezzamento del mio pezzo e mi mandò, con dedica, il suo
Valzer op. 18, che subito studiai con fervore. La dedica di-
ceva: “Hommage à Mlle M. W. de la parte de son ancien pro-
fesseur F.F. Chopin, 18 jui. 1834”. Un anno più tardi – noi ci
eravamo trasferiti di nuovo a Dresda – mia madre rinnovò
l’invito, e Chopin venne. Arrivò il 19 settembre. Ci vedemmo
ogni giorno e più volte al giorno, conversammo, suonammo,
facemmo lunghe passeggiate. Al momento di partire, il 24
settembre, Chopin mi fece dono di un valzer, il mio valzer che
non è stato mai pubblicato e su cui c’è scritto di sua mano
“pour Mlle Marie”, oltre al luogo e alla data. Io aggiunsi
“L’Adieu”. Lo suonai ripetutamente dopo la sua partenza, e
tutti avevamo le lacrime agli occhi.
Avevo allora sedici anni ed ero molto ingenua, ma avevo
ben intuito che un certo sentimento si era insinuato nell’ani-
mo di Chopin. Gli scrissi e, con astuzia da ragazzina, gli chie-
si se fosse lui l’autore della canzone “Se fossi il sole nel cielo
non brillerei che per te”. Credo che lui capisse. In ottobre
mio fratello Antoni andò a Parigi e fu accolto da Chopin con
grande affetto. In una lettera che ci mandò, Antoni scrisse:
“Fryderyk si alza dal pianoforte e dice: ‘Non dimenticare di
dir loro che li amo tutti terribilmente, sì, terribilmente’”. Io
credevo di sapere che cosa ciò significasse. Ma tornando a Pa-
rigi Chopin si era ammalato seriamente, tanto che su certi
giornali era uscita la notizia della sua morte. I miei genitori
avevano cominciato a preoccuparsi seriamente della sua sa-
lute, ed erano molto inquieti. Rividi Chopin a Marienbad il

186
28 luglio 1836. Sia lui che mia madre ed io alloggiavamo al-
l’hotel Al Cigno Bianco. Trascorremmo a Marienbad tutto il
mese d’agosto e fu un lungo idillio, un idillio senza parole,
fatto di sguardi e di sospiri. In settembre, a Dresda, Chopin
mi chiese se avrei acconsentito a sposarlo. Dissi di sì, ma ag-
giunsi che avrei comunque rispettato sempre il volere dei
miei genitori. E Chopin parlò con mia madre, che acconsentì,
dicendo però che la decisione ultima spettava a mio padre, in
quel momento assente.
La mamma, sempre inquieta e preoccupata, chiese co-
munque a Chopin di farsi visitare dal nostro medico, il dottor
Paris, il quale, dopo averlo auscultato e interrogato, gli diede
molti consigli. La costituzione, disse, era sana ma fragile, Cho-
pin avrebbe dovuto tenere un regime di vita all’incirca oppo-
sto a quello che seguiva abitualmente: doveva evitare gli sfor-
zi, evitare i ricevimenti notturni, evitare i colpi di freddo, ve-
stire indumenti molto caldi e calze di lana, andare a letto al
massimo alle undici, bere regolarmente certe pozioni salutife-
re (specialmente l’acqua di gomma). Mamma disse che prima
di pensare alle nozze, e sempre fatto salvo il parere di mio pa-
dre, era necessario un anno di prova, durante il quale Chopin
avrebbe dovuto seguire pazientemente e diligentemente le
prescrizioni del dottor Paris. Chopin promise, e partì.
Gli scrissi, gli mandai delle pantofole ricamate da me. Ave-
va promesso... Ma i polacchi che vivevano a Parigi e con i
quali la mamma era in corrispondenza epistolare le fecero sa-
pere che gli impegni presi erano stati in gran parte promesse
da marinaio, e la mamma stessa, oltreché mio padre, conclu-
se che non era il caso di pensare più alle nozze. Io soffersi un
poco, sì, per la loro decisione. Solo un poco, però. Il pensie-
ro delle nozze con Chopin lo avevo accolto in letizia, ma ero
stata educata a seguire in tutto e per tutto il volere dei miei
genitori e non feci la minima opposizione. Non rividi Chopin
mai più .
E questa, signor dottore, è tutta la mia storia. Una storia
comune come ce ne sono tante altre, ...tranne il fatto che io

187
mi sarei legata ad un genio della musica di cui non cesso mai
di ammirare le opere, così come non cesso mai di riprendere
in mano il prezioso foglio dell’Adieu e di ripercorrerne le no-
te mentre mi si inumidiscono gli occhi.
Egregio dottore, ho l’onore di ben distintamente salutarvi

Maria Wodzińska

P.S. Dimenticavo di dirvi che a Chopin offersi una rosa.


Mi assicurò che l’avrebbe conservata sempre, e vorrei tanto
che così fosse avvenuto.
CON IL CONTE WOJCIECH GRZYMAŁA

– Come vi scrissi, signor conte, Chopin...


– Per carità, amico mio, lasciate perdere il conte. Chiama-
temi Wojciech o, se preferite, Adalbert.
– Adalbert sarebbe il corrispettivo di... come avete detto?
– Wojciech. Anche il primo maestro di Chopin, Żywny,
che ho conosciuto e che era una degnissima persona, si chia-
mava Wojciech.
– Interessante. Ebbene, Adalbert, vengo subito al punto.
Camille Pleyel mi ha parlato del disgraziato fidanzamento di
Chopin, ed io vorrei...
– Scusate se vi interrompo, ma quel “disgraziato”, sacre-
bleu, non mi suona del tutto giusto.
– Ah, no?
– Considerate la situazione finanziaria di Chopin. Impar-
tiva lezioni private a persone dell’aristocrazia e frequentava i
loro palazzi. Doveva essere alla loro altezza, ed aveva perciò
il domestico fisso, la carrozza, il sarto, il camiciaio, il calzo-
laio, il guantaio, il parrucchiere, il profumiere... Guadagnava
molto e spendeva tutto.
– Già, me lo hanno detto la madre e la sorella.
– Che, come il padre, pensavano che Fryderyk avrebbe
dovuto risparmiare. Mettere da parte una pera per la sete,
scriveva il padre, e Fryderyk sorrideva, nel dirmelo. No. Non
era proprio, sacrebleu, questione di saper risparmiare. Quel-
lo che Chopin guadagnava bastava a fargli condurre la vita

189
che doveva condurre per guadagnare quello che guadagnava.
Scusate il bisticcio.
– Oh, è chiarissimo.
– Con una moglie sarebbero aumentate le spese, e se fos-
sero poi arrivati dei figli...
– Ma la moglie avrebbe portato una dote.
– Il cui frutto sarebbe stato di sicuro insufficiente a pa-
reggiare l’aumento delle spese. I Wodziński spandevano mol-
to fumo, ma l’arrosto era poca cosa.
– Me lo ha detto anche Pleyel.
– Fryderyk non poteva fare più lezioni di quante ne face-
va perché già erano fin troppe, e non poteva aumentare i
prezzi perché già erano molto alti.
– E allora?
– L’unica possibilità di guadagno alternativo stava nei con-
certi. Ma avrebbe dovuto viaggiare, e la sua precaria salute ne
avrebbe risentito. A parte il fatto, sacrebleu, che i concerti li
vedeva come il fumo negli occhi.
– Dunque?
– Dunque fu una manna dal cielo, la decisione dei Wod-
ziński di non vedere in lui un buon partito per la figlia, che
diedero invece in sposa ad uno Skarbek, ricco ma impotente,
sacrebleu, proprio impotentia coeundi: il matrimonio non fu
consumato e, pensate un po’ che scandalo, fu annullato dal-
la Sacra Rota. Fryderyk, per parte sua, passò con George i set-
te migliori anni della sua vita. Vero è che poi, negli ultimi due,
le cose andarono sempre peggio, fino ad una rottura trauma-
tica (almeno per lui) che gli avvelenò la vita. Ma una fine in-
fausta non può cancellare gli anni felici.
– Voi conoscevate sia Chopin che la Sand.
– Conoscevo Fryderyk fin da Varsavia ed avevo anche
scritto su di lui nei giornali (il mio mestiere era quello del mi-
litare, ma avevo qualche ambizione, poi rientrata, ahimé, di
letterato). Dopo l’insurrezione, alla quale naturalmente par-
tecipai con entusiasmo, emigrai a Parigi. Vi arrivai poco tem-
po prima di Fryderyk ed aprii la mia casa a scrittori ed arti-

190
sti, fra cui la Sand. Con George nacque una vera amicizia. Mi
chiamava scherzosamente il suo sposo.
– Vi è quindi nota tutta la storia del rapporto amoroso fra
i due.
– Credo di conoscerla meglio di chiunque, sacrebleu, an-
che meglio di Chopin perché non gli mostrai tutte le lettere
che George mi mandò. Meno che mai quella, fluviale e tor-
renziale, e poematica (un vero manifesto dell’amore, sacre-
bleu) che mi fece pervenire quando la situazione... prelimi-
nare era arrivata al punto critico.
– La Sand scrisse a voi, Adalbert?
– Sì, perché con Fryderyk, ah! ah!, non cavava un ragno
dal buco. Considerate che Chopin aveva conosciuto George
nel 1836, quando il suo romanzetto con Maria stava ancora
in bilico, e l’aveva trovata pochissimo femminile. “Ma è ve-
ramente una donna?”, mi disse. “Sono incline a dubitarne”.
Un mese dopo la invitò tuttavia ad una serata musicale in ca-
sa sua (ne faceva spesso). Oltre a George c’erano Liszt e Ma-
rie d’Agoult. Rinnovò l’invito poco più tardi, allargando il
numero dei convenuti: il celebre tenore Nourrit, Pixis, il vio-
loncellista Franchomme, il romanziere Eugène Sue, Matu-
sziński, il marchese de Custine, il compositore polacco Jozéf
Brzowski e qualcun altro che non ricordo. E anch’io. Due in-
viti a George a così poca distanza di tempo non potevano che
mettermi in sospetto, sacrebleu d’un sacrebleu.
– Chopin aveva cambiato parere?
– Dottore, voi, che conoscete George come me, se non
meglio, sapete quanto sia difficile resistere al suo fascino, spe-
cialmente quando decide di esercitarlo dispiegando tutto il
suo repertorio di seduzioni. E con Fryderyk sfoderò le sue
più potenti batterie. Marie d’Agoult, rientrata a Parigi dopo
che lo scandalo della sua fuga a Ginevra con Liszt si era un
po’ calmato, se ne accorse subito e cercò, quella sciacquetta, di
mettere il bastone fra le ruote a George. Non appena George
si allontanò da Parigi le scrisse, e me lo disse anche, diver-
tendosi un mondo, per dipingerle Chopin come una bande-

191
ruola: “Chopin è l’uomo a cui non si può resistere, in lui non
c’è di permanente altro che la tosse”.
– Perfidia sottile, certo. E perché? Lo sapete?
– Perché, presumo, la d’Agoult era molto portata all’intri-
go, e perché era gelosa. Credete a me, sono sicuro di non sba-
gliarmi. La d’Agoult, bella, civetta, corteggiatissima, aveva
messo gli occhi addosso a Chopin non appena l’aveva cono-
sciuto. Oh, non credo che volesse farne un amante, ma un ca-
valier servente. Del resto, Fryderyk era un maestro, nelle
schermaglie amorose. George mi disse, in un momento di
buonumore, che Chip-Chip (lo chiamava così) poteva amare
appassionatamente tre donne nella stessa serata di festa e an-
darsene tutto solo, non pensando ad alcuna di loro e lascian-
do ciascuna delle tre convinta di averlo essa sola incantato.
Maestro delle schermaglie, dicevo, un maestro che dalle
schermaglie non passava all’affondo. Liszt passava all’affon-
do, lui non se ne sarebbe andato a letto da solo, sacrebleu.
Chopin no. La d’Agoult li avrebbe voluti per sé tutt’e due, i
dioscuri. E vi dirò che qualcosa di simile agitò oscuramente
anche la psiche di George.
– In che senso?
– È una faccenda molto complicata che cercherò di spie-
garvi senza dilungarmi troppo. Alla fine, anche per questo
motivo di rivalità segreta, l’amicizia fra George e Marie, che
era stata molto forte, andò in fumo, e fino ad oggi non c’è sta-
ta riconciliazione. George, posso ben dire, mise l’assedio a
Chopin con una corte serrata che fece infuriare Marie, e Cho-
pin restò in bilico per un tempo interminabile: non rompeva
e non saltava il fosso. Gli ci volle più d’un anno, prima di de-
cidersi, e la decisione fu molto sofferta.
– Più d’un anno! Un’eternità, per il bel mondo parigino.
– E come no, sacrebleu! George invitò insistentemente
Fryderyk a Nohant nel Berry, e lui non ci andò. Lei cercò per-
sino di farsi aiutare da Marie d’Agoult, equivocando alla
grande sui sentimenti che torcevano le budella dell’amica.
Ma riuscì ad aprire una breccia solo nella primavera del ’38.

192
Una sera, dopo che Chopin aveva suonato in un salotto, di-
vinamente, George scrisse su un foglio di carta a lei intestato
“Vi si adora. George”. Marie Dorval, sapete, la grande attri-
ce, che sedeva vicino alla Sand e che era curiosa più d’una bi-
scia e impicciona più d’una comare, aggiunse però tre “e an-
ch’io” che guastavano di parecchio il messaggio. Il foglio, tut-
tavia, fu recapitato, e Fryderyk, che teneva meticolosamente
in ordine tutte le sue cose, lo inserì nell’album dei suoi ricor-
di più cari.
– Cose da romanzo per le sartine. E aggiungiamoci pure il
fatto che la Dorval, sì, insomma, professava la religione di
Saffo.
– Beh, non siate cattivo, e del resto i romanzi per le sartine
non inventano le realtà amorose delle classi privilegiate, ma
tutt’al più le enfatizzano. Proseguo con il romanzo. Poco do-
po la consegna del foglio, una sera, nella casa in cui George
era ospite di un’amica (io, vedendo come buttava, mi ero al-
lontanato con un pretesto), ci fu tra i due un rapinoso con-
tatto fisico, e ci fu una concitata spiegazione. George partì su-
bito per Nohant.
– Perché mai? Cosa si erano detti?
– Era una commedia degli equivoci. George era allora le-
gata – sentimentalmente e... carnalmente – all’istitutore dei
suoi figli, Félicien Mallefille, che era di nove anni più giova-
ne (la d’Agoult diceva che lo aveva assunto per filarselo più
comodamente). Si sentiva perciò – poi vi spiegherò meglio –
“come sposata”. Ma si guardò bene dal dirlo a Fryderyk. Il
quale le confessò invece di essere attirato da lei ma di dover
tener fede al fidanzamento con Maria Wodzińska. Dibattero-
no la questione, lui al momento non mi disse nulla ma era spa-
ventato a morte. Passarono alcuni giorni, ed io ricevetti la
grande epistola di George.
– Oh, interessante, interessante, sebbene io conosca già lo
scioglimento della commedia degli equivoci.
– George si scusava per non avermi parlato mentre era an-
cora a Parigi. E mi diceva una cosa rivelatrice: “Mi sembrava

193
che ciò che avrei conosciuto avrebbe fatto impallidire il mio
poema. Ed ecco che effettivamente si è oscurato, o piuttosto
che è molto impallidito”. La confessione di Chopin l’aveva
messa in un dilemma da cui voleva uscire a tutti i costi. E chie-
deva imperiosamente il mio parere: “Ascoltatemi bene e ri-
spondetemi chiaramente, categoricamente, nettamente. Que-
sta persona che egli vuole, o deve, o crede di dover amare, è
quella giusta per fare la sua felicità, oppure accrescerà le sue
sofferenze e le sue tristezze? Non chiedo se l’ama, se ne è ama-
to, se conta di più o di meno di me. So pressappoco, per quel-
lo che provo, quello che deve provare lui. Chiedo di sapere
quale di noi due lui debba dimenticare o abbandonare per la
sua quiete, per la sua felicità, infine per la sua vita, che mi sem-
bra troppo vacillante e troppo fragile per resistere a grandi do-
lori. Non voglio ricoprire il ruolo dell’angelo cattivo”.
– Ma perbacco, Chopin doveva averla impapocchiata mi-
ca male, questa storia.
– “Se avessi saputo”, mi scriveva George, “che c’era un le-
game nella vita del nostro ragazzo e un sentimento nel suo
animo non mi sarei mai impegnata per respirare un profumo
riservato ad un altro altare. E così pure lui si sarebbe senza
dubbio allontanato dal mio primo bacio se avesse saputo che
ero come sposata. Non ci siamo affatto ingannati l’un l’altra,
ci siamo abbandonati al vento che passava”, al vento che pas-
sava, sacrebleu, “e che ci ha trasportati per qualche istante in
un’altra regione. Ma bisogna nondimeno che ridiscendiamo
in basso, dopo questo abbracciamento celeste e questo viag-
gio attraverso l’Empireo”.
– Volo pindarico e buon senso comune, direi. Ma tutt’e
due sprecati.
– E già. Posso offrirvi un tè? O un cognac, o un armagnac?
– Vada per l’armagnac, grazie. Ma non perdiamo il filo del
discorso, dell’intreccio.
– L’armagnac non ce lo farà perdere. Quando ricevetti la
lettera io, pur volendo sinceramente bene ad entrambi, con
entrambi ero arrabbiatissimo. Lei era stata reticente, sacre-

194
bleu, lui era stato bugiardo, e a me toccava di fare o l’incen-
diario o il pompiere. Non sapevo veramente che pesci pren-
dere, tanto più perché George si lanciava poi in una para-
dossale laudatio delle doti preclare di Mallefille, sostenendo
addirittura che “è sacra per me la sua felicità”.
– Forse, come dicono gli italiani, aspirava ad avere la bot-
te piena e la moglie ubriaca.
– Ebbi veramente questa impressione. Ma tutto il suo ra-
gionamento, peraltro appassionato, viscerale, sincero, era vi-
ziato dalla premessa che Fryderyk fosse imprigionato in un
patto d’onore con la fidanzata polacca e con la famiglia sua e
con quella della promessa. E la povera George diceva, misti-
camente: “Dio non ha permesso che compissimo il nostro
pellegrinaggio in terra fianco a fianco. Dovremo incontrarci
in cielo, e i rapidi istanti che vi trascorreremo saranno tal-
mente belli che varranno tutta una vita passata qui in basso”.
– Non capisco se teorizzasse un amore platonico o incon-
tri sessuali saltuari, in deroga, diciamo così, ad altri legami
permanenti.
– Teorizzava un melange di incontri saltuari e di amore
platonico: “Se la sua anima eccessivamente, forse follemente,
forse saggiamente scrupolosa rifiuta di amare contempora-
neamente due esseri in due maniere diverse, se gli otto gior-
ni che passassi con lui in una stagione dovessero impedirgli
di essere nel suo intimo felice per il resto dell’anno, allora sì,
allora vi giuro che mi impegnerei a farmi dimenticare da lui”.
– Credevo di conoscere abbastanza bene George, ma non
avrei mai immaginato che potesse concepire una simile tra-
ballante sintesi di amore-passione e amore-angelicato.
– Fui molto sorpreso anch’io. Chopin, facendo, per dirla
proprio schietta, facendo il furbo, aveva anche accennato a
scrupoli religiosi. E George mi scriveva: “Per il mio gusto
avevo aggiustato il nostro poema in questo senso: io non avrei
saputo nulla, assolutamente nulla della sua vita positiva, né lui
niente della mia, lui avrebbe seguito tutte le sue idee religio-
se, mondane, poetiche, artistiche, senza che io avessi mai a

195
chiedergliene conto, e reciprocamente, ma dappertutto, in
qualche luogo e in qualche momento della nostra vita ci fos-
se capitato di incontrarci, la nostra anima sarebbe stata all’a-
pogeo della felicità e delle sue superiori qualità perché, ed io
non ne dubito, si è migliori quando si ama d’amore sublime
e, ben lungi, dal commettere un crimine, ci si avvicina a Dio,
fonte e focolaio di questo amore”. Il Paradiso Terrestre pri-
ma della Caduta. Io non credevo ai miei occhi.
– Nemmeno io. Ma, più prosaicamente di voi, mi sembra
di assistere al primo atto della Favorita.
– L’opera di Donizetti?
– Sì. Ma la drammaturgia è degli autori del libretto, Royer
e Vaëz.
– Non conosco l’opera.
– In dieci secondi, caro Adalbert, vi spiego il nocciolo del-
la trama. Eleonora di Guzmán è l’amante del re di Castiglia
Alfonso XI ma incontra segretamente, su un’isoletta, un gio-
vane che vi arriva bendato, con il quale ha intrecciato una re-
lazione platonica. Naturalmente, come sempre negli amori
platonici, tutto va a scatafascio e il giovanotto canta nell’ulti-
mo atto la romanza “Spirto gentil, ne’ sogni miei brillasti un
dì, ma ti perdei: fuggir dal cor, mentita speme, larve d’amor”.
– Non fu però il caso di George. Poverina! Per pagine e
pagine si torturava con quel pensiero martellante della fidan-
zata guastafeste, che non sapeva come togliere decentemente
di mezzo. Voi mi avete citato la Favorita. Io potrei citarvi il
balletto Giselle: la fidanzata tradita muore di crepacuore ma
riappare come fantasma. Scommetterei che George ci aveva
pensato.
– È probabile. Però non c’era solo la fidanzata, da mette-
re in cornice: c’era da dare il benservito anche al giovane
amante.
– Certo. E George se ne rendeva conto e si rimprovera-
va acerbamente: “Sono così abituata a vivere fra gli uomini
senza pensare di essere donna che sono stata veramente un
po’ confusa e un po’ costernata per l’effetto che ha prodot-

196
to su di me questo piccolo essere”, cioè il nostro Fryderyk.
“Non mi sono ancora rimessa dal mio stupore e, se avessi un
eccesso di orgoglio, sarei molto umiliata per essere caduta in
pieno nell’infedeltà del cuore, nel momento della mia vita in
cui credevo d’essere ormai calma e salda. Sono costretta a
mentire come tutti gli altri”. Poveretta, ripeto! E povero
Mallefille!
– Una passione travolgente. Tanto più travolgente, credo,
perché Chopin si rappresentava come una fortezza inespu-
gnabile.
– Inespugnabile sì, ma tentata di cedere. Sentite: “Fino a
qui, lui era stato molto forte. Io non sono però una bambina.
Vedevo bene che la passione umana faceva in lui dei rapidi
progressi e che era tempo di separarci. Ecco perché, la notte
che precedette la mia partenza, non volli restare con lui e qua-
si vi misi alla porta”.
– Vi eravate accorto, Adalbert, che le cose si stavano av-
viando su questa china?
– Sì e no. No e sì. Fryderyk mi sembrava spaventato, più
che eccitato. Ma George mi spiegò anche questo: “Poiché vi
dico tutto, voglio dirvi della sola cosa che in lui mi sia dispia-
ciuta. Aveva avuto delle cattive ragioni per astenersi. Fino a
quel momento trovavo bello che si astenesse per rispetto a
me, per timidezza, anche per fedeltà ad un’altra. Tutto ciò era
sacrificio, e conseguenza della forza e della castità bene inte-
se. Quello era ciò che più mi incantava in lui e che mi sedu-
ceva. Ma nel momento di lasciarci, e come volendo respinge-
re un’ultima tentazione, mi ha detto due o tre parole che non
rispondevano alle mie idee. Sembrava che disprezzasse, alla
maniera dei bigotti, le grossolanità umane, e che arrossisse
delle tentazioni che aveva avuto, e che temesse di sporcare il
nostro amore con un trasporto in più. Questo modo di con-
siderare l’ultimo abbracciamento amoroso mi ha sempre ri-
pugnato. Se quest’ultimo abbracciamento amoroso non è co-
sa così santa, così pura, così devota come il resto, non è virtù
astenersene”.

197
– Dice davvero “ultimo abbracciamento amoroso”? Non
la facevo così pudica.
– Pensate forse, sacrebleu, che una donna possa oggi, scri-
vendo ad un uomo, evitare la perifrasi e dire papale papale
“coito”?
– E perché no?
– Perché certe cose le donne le fanno ma non le dicono, e
se le dicono non le nominano.
– Anche le donne emancipate, le femministe come Geor-
ge?
– Anche loro. E per me, che sono nato nel secolo passato,
va bene così, sacrebleu. Ma George stava ormai scivolando su
un terreno diverso da quello in cui si era posta prima. “C’è
mai amore senza un solo bacio, e c’è mai bacio d’amore sen-
za voluttà?”. C’era stato, e tutto il poema dell’amore angeli-
cato, più ancora che platonico, era alla fine della fiera soltan-
to una fantasticheria. Ma George era così presa e nello stesso
tempo già così materna che per Fryderyk cercava una giusti-
ficazione: “Chi è dunque la disgraziata femmina che dell’a-
more fisico gli ha lasciato tali impressioni? Ha dunque avuto
un’amante indegna di lui? Povero angelo”.
– Una scuffia da non crederci. E sì che di uomini ne ave-
va avuti parecchi, prima dell’angelo. Più d’una mezza dozzi-
na, se i miei calcoli sono esatti.
– Eh già. E si metteva nelle mie mani: toccava a me, sa-
crebleu, trovarle la strada per uscire dal ginepraio.
– Ce la faceste, evidentemente. Ma come?
– Nel modo più semplice. Dissi a George che il fidanza-
mento di Fryderyk era già andato in cavalleria. Tutto il ca-
stello di carta crollò, e lei venne a Parigi a spiccare il frutto
ormai maturo. Chopin, quando seppe dell’arrivo, mi mandò
un biglietto chiedendomi di incontrarci a qualunque ora, an-
che dopo la mezzanotte: doveva chiedermi un consiglio.
– E Mallefille?
– Fu la vittima sacrificale. Ma di una pochade. Mallefille
andò a Le Havre con Maurice, George ce lo aveva mandato.

198
Appena tornato pubblicò nella Gazette musicale un racconto
ispirato alla Ballata n. 1 di Chopin. Tutto contento, tutto or-
goglioso, non sospettava di nulla. Ma la freddezza che Geor-
ge gli mostrava gli mise una pulce nell’orecchio, e la gelosia
gli aguzzò l’ingegno. Armato di pistola si mise di guardia da-
vanti all’abitazione di Chopin, dove George, ospite durante
il giorno di un’amica, la contessa Marliani, passava tutte le
notti. Mallefille la sorprese che ne usciva, si lanciò verso di lei
urlando improperi e brandendo l’arma, ma un grosso carro
gli tagliò la strada. George scappò a gambe levate, vide un fia-
cre, vi si gettò dentro e scampò alla furia dell’ex-amante.
– Mallefille si rassegnò presto?
– Non tanto presto. Era disperato, adirato, offeso, Geor-
ge si sentiva in colpa con lui, Fryderyk paventava la scenate e
non sapeva se prendere o no qualche iniziativa. Per un colpo
di fortuna Mallefille si rivolse proprio a me. Ed io riuscii a cal-
marlo e a distoglierlo dai propositi omicidi.
– Adalbert, ma lo sapete che in questa incredibile faccen-
da, in fondo, avete fatto un po’ la parte della mezzana?
– Un po’ sì, lo so. E non me ne dispiace. Perché, come vi
ho già detto, i primi sette anni “sandiani” furono i migliori
della breve vita di Chopin. Peccato che non siano durati.
– Ma potevano durare?
– In realtà, no. I caratteri erano troppo diversi. Però an-
che la rottura, per una specie di nemesi, si basò su una com-
media degli equivoci.
– Raccontatemi.
– Vi chiedo scusa ma si è fatto troppo tardi, e devo uscire.
Ci vedremo magari un’altra volta, quando avrete cominciato
a scrivere la biografia. Posso però confessarvi un piccolo se-
greto?
– Certamente.
– Avevo intenzione io di scrivere la biografia del mio ami-
co, sacrebleu. Ma intervenne quella vestale del culto di Cho-
pin...
– Quale vestale?

199
– Jane Stirling, la scozzese che avrebbe voluto sposare
Chopin, oh, con le più nobili e candide intenzioni, per to-
glierlo dalle preoccupazioni di natura economica. Adesso
controlla come un cerbero tutto quello che riguarda il suo
amatissimo maestro.
– Ma che cosa c’entra, la Stirling, con la vostra intenzione
di scrivere la biografia?
– Quando glielo confidai serrò le labbra e fece un “uhm!”
scozzese che era tutto un programma. Poi, dopo qualche
giorno, venne da me e mi disse, con le opportune perifrasi,
che secondo lei ero privo delle qualità del letterato e che non
avrei saputo scrivere in modo degno del mio amico. Il bello,
sacrebleu, è che mi convinse.
– Stupefacente!
– Voi non potete sapere quanto è forte quella donna, e
quanto è battagliera e tenace e indomabile, quando si tratta
di Chopin, del suo Chopin. Alla fine è commovente, ed io
non gliene voglio. Ma stateci attento, se la incontrerete: vi
passerà al setaccio.
CON IL MARCHESE ASTOLPHE DE CUSTINE

– Perdonate, caro dottor Erdnas Kela, la mia pretenzione


di farvi trottare fino a Saint-Gratien. A mia sola scusante pos-
so dire che i miei lavori letterari mi impegnano a tal punto da
impedirmi per il momento di spostarmi a Parigi, ...e non so-
no neppure tanto in gamba quanto vorrei.
– Non c’è nulla di cui scusarsi, signor marchese. Sono ve-
nuto molto volentieri, e il servizio degli omnibus, come mi
scriveste, è veramente ottimo. Aggiungo, vi confesso, di ave-
re avuto anche la curiosità di conoscere il vostro castello.
Quello che vedo non delude di certo le mie attese.
– Sono lusingato e vi ringrazio. Mio nonno era un genera-
le, mio padre un diplomatico, la mia dimora è ricolma di ciò
che i miei avi illustri portarono qui da lontani paesi.
– E di ciò che portaste voi, signor marchese. Sappiamo dei
vostri viaggi, e il vostro La Russia nel 1839 è ormai un classi-
co della memorialistica politica.
– Non nego che quella mia modesta fatica sia stata bacia-
ta da Madonna Fortuna. Ha avuto molte traduzioni nelle lin-
gue più diverse. Do you know, John, how many? Not? Que-
sto ragazzo tiene bene in ordine la mia biblioteca, ma non
possiede la memoria classificatoria. Bah, pazienza. Qui ci so-
no tante cose, tanti ricordi. E voi immaginate di certo quale
sia per me il più prezioso.
– Chopin?
– Venite con me, passiamo nella sala della musica. Conob-

201
bi Chopin nel 1836. Era già celebre, le famiglie più altolocate
se lo disputavano, avrei voluto invitarlo a pranzo ma temevo
di ricevere un rifiuto. Il mio fornitore di vini era Herr Thomas
Albrecht, che affiancava all’attività commerciale quella diplo-
matica (era attaché dell’ambasciata di Sassonia). Chopin era il
padrino della figlioletta di Albrecht, e perciò chiesi a lui di
inoltrare... diplomaticamente l’invito. Fu una buona idea:
Chopin accettò, venne, suonò per i miei ospiti e per me, c’era-
no fra gli altri Victor Hugo e Alphonse de Lamartine, e ritornò
più volte e mi invitò a casa sua. Ricordo una serata da favola
con George Sand, Liszt, Marie d’Agoult, Pixis, Franchomme,
Nourrit, Eugène Sue ed altri. Chopin e Liszt eseguirono la So-
nata a quattro mani di Moscheles, Nourrit cantò dei Lieder di
Schubert accompagnato da Liszt. Una storica serata. Da par-
te di Chopin era nata una sincera amicizia per me, e da parte
mia una illimitata devozione per lui.
– Provavate questo sentimento verso una persona che, mi
sembra, era più giovane di voi? Di solito accade il contrario.
– Chopin aveva vent’anni meno di me. Ma era fatto di un
cristallo così puro, era una persona così eccezionale, oltre che
uno straordinario artista da essere in sé, Lui, un’opera d’arte.
– Verso la quale, ovviamente, non si prova amicizia ma de-
vozione.
– Precisamente. Oh, non prendetemi per un mentecatto.
Fu lo stesso Chopin che indirettamente e inconsapevolmen-
te mi chiarì quel che provavo per Lui.
– Posso chiedervi di spiegarmelo? Mi interessa moltissi-
mo.
– Chopin mi disse di una lettera di Marie d’Agoult a...
quella che non voglio nominare. Trovandosi a Genova con
Liszt, la d’Agoult aveva visitato il Palazzo Durazzo ed aveva
visto il ritratto di un giovane Durazzo dipinto da Rubens. Le
era sembrato di vedere Chopin. Credete nella metempsicosi?
– Veramente, no.
– Non posso dire di crederci neppur io, però mi affascinò
l’idea che Chopin fosse la reincarnazione di quel Durazzo,

202
non però del Durazzo in carne ed ossa ma del ritratto, la per-
sonificazione di ciò che un grande pittore aveva fissato sulla
tela. Non so se mi spiego. Io vedevo, sì, io vedevo in Chopin
una vivente opera d’arte.
– Vi spiegate benissimo, e quel che dite è affascinante.
Adesso ho capito.
– Non mi giudicherete male per questo, spero.
– Assolutamente no.
– Bene. Ecco qui il pianoforte che varie volte fu destato
nel suo sonno dal tocco magico di Chopin. Un Pleyel, natu-
ralmente. Finché avrò vita nessuno lo toccherà, sarebbe una
profanazione.
– Chopin venne qui spesso?
– Alcune volte. Due mesi dopo essere stato ospite nel mio
appartamento di Parigi ricevette da me in dono alcune stam-
pe (gli piacevano molto le stampe). Nella lettera accompa-
gnatoria gli esposi un progetto. Lo invitavo a Saint-Gratien
per un soggiorno che avrebbe compreso la visita di Erma-
nonville, Montefontaine e Chantilly.
– Venne?
– No. Andò a Enghien a passare le acque, vivendo in una
pensioncina. Quando lo seppi gli scrissi, ed ero così coster-
nato da dirgli che, se fosse tornato a Enghien, non avrebbe
dovuto farmi l’ingiuria di non prendere alloggio da me. Po-
teva passare le acque anche a Saint-Gratien ma, se proprio
voleva abbeverarsi a quelle di Enghien, che sta a un quarto
d’ora da casa mia, gli avrei messo a disposizione una carroz-
za. Due giorni più tardi gli scrissi di nuovo per dirgli che era
Lui la sola persona autorizzata a venire a Saint-Gratien senza
prima avvertire dell’arrivo.
– Venne?
– Venne. E non se la prese quando mi capitò di chiamar-
lo Chopinet. Sapevo del resto che così lo chiamava il genera-
le polacco Jozéf Bem. Lo sapevo da un esule, Ignaz Gurow-
ski, che viveva in casa mia. Gli scrissi poi, per reinvitarlo, una
lettera scherzosa, e scherzosamente gli facevo una proposta

203
che, in realtà, era basata su una falsa informazione. Riguar-
dava madame Pleyel.
– In che senso, scusate? Questa è nuova per me.
– Marie Moke era stata l’amante di Ferdinand Hiller, che
aveva abbandonato per unirsi a Berlioz. Per Berlioz era la pri-
ma amante in assoluto, e lui era quasi diventato pazzo quan-
do lei lo aveva piantato in asso per sposare Pleyel mentre il fi-
danzato, vincitore del Prix de Rome, a Roma se ne stava…
Dopo sposata, Marie si era incapricciata di Liszt, che non si
tirava mai indietro, al contrario di Chopin, quando c’era da
aggiungere un trofeo nella sua panoplia. Il fattaccio era addi-
rittura avvenuto in casa di Chopin che, essendosi assentato da
Parigi, aveva lasciato la chiave a Liszt. Un’indelicatezza da
non credersi, che fece arrabbiare molto Chopin. Nel 1836 si
diceva che la volatile Marie stesse facendo gli occhi languidi
con Chopin. Perciò scrissi a Chopin di invitarla a Saint-Gra-
tien per tutto il periodo delle feste di luglio.
– La Presa della Bastiglia.
– Già. Avevo preso un bel granchio, di cui Chopin rise
molto. La Pleyel stava per raggiungere a Bruxelles Fétis, con
il quale vive ancora, e Chopin stava per fidanzarsi con quella
ragazza polacca.
– Maria Wodzińska.
– Di lei non so praticamente nulla. Ma Dio avesse voluto
che la sposasse. Era di sicuro una degna persona. Non come
quell’altra, quella megera!
– Geo...
– Non pronunciate il suo nome in mia presenza! Mi fa per-
dere il lume della ragione! Chopin sognava il matrimonio e
faceva di tutto per compiacere la madre della ragazza, che
collezionava manoscritti. Chiese anche a me di scrivere per
lei qualche parola cortese, cosa che feci. E quando il fidanza-
mento fu sciolto scrissi a Chopin una lunga lettera.
– Cercavate, immagino, di dargli una consolazione.
– Molto di più. Gli amici veri si vedono in queste circo-
stanze. Ho qui la brutta copia della lettera. Ve ne leggo qual-

204
che passo. “Voi”, gli dicevo, “siete malato. Potreste soprat-
tutto diventarlo ben più seriamente. Siete sul limite dei di-
spiaceri dell’anima e dei mali del corpo; quando le pene del
cuore si trasformano in malattie siamo perduti; ed è questo
che voglio evitare per voi. Non tento di consolarvi, rispetto i
vostri sentimenti, che del resto intravvedo soltanto; ma voglio
che restino sentimenti e che non diventino dolori fisici. Vive-
re è un dovere, quando si ha, come voi avete, una fonte di vi-
ta nella poesia; non perdete questo tesoro e non trattate con
leggerezza il buon Dio trascurando i suoi doni più preziosi.
Ecco un crimine imperdonabile, perché Dio stesso non vi
renderà il passato perduto da voi volontariamente”.
– Capisco ancora di più la vostra devozione. È una lettera
nobilissima. E quali consigli gli davate?
– Proseguo. “Per conservare questo passato così pieno
d’avvenire avete da prendere una sola decisione: lasciarvi
trattare come un bambino e come un malato! Dovete per-
suadervi di avere una sola preoccupazione: la vostra salute; il
resto ritornerà da solo. Ho per voi quanto basta d’amicizia
perché mi permettiate di andare al fondo delle cose. È il de-
naro, che vi trattiene a Parigi? Se è questo, io posso prestar-
vene, me lo renderete più tardi, ma vi riposerete per tre me-
si!!! Se vi manca l’amore lasciate almeno fare all’amicizia; vi-
vete per voi, per noi; ci sarà tempo, allora, per arricchirvi. Tre
mesi di riposo e di trattamento ragionato, coerente, baste-
ranno per fermare il male; ma ce n’è bisogno! Nella solitudi-
ne vi perseguiterà l’inquietudine dello spirito: è vero, ma il ri-
poso del corpo finirà per prendere il sopravvento sull’anima,
e le ali del talento vi trasporteranno in un mondo che di ciò
ci consola. Non restate nel tran tran delle vostre giornate di
Parigi: avete qui da me un’occasione difficile da trovare altri-
menti: un mese di campagna e di buon regime, poi un viag-
gio fino alle rive del Reno. Ignaz deve andare fino a Stra-
sburgo con i miei cavalli; se questo modo di viaggiare vi pare
troppo lento ne troveremo un altro; ma una volta arrivato sul

205
Reno siete a Ems, e di là siete dappertutto, perché il tratta-
mento di Ems, fatto bene e bene applicato, è la salute!”.
– So già che non accettò i vostri consigli e che andò con
Pleyel a distrarsi a Londra.
– Proprio così. L’anno dopo venne a Saint-Gratien poco
prima di partire per le Baleari. Suonò una splendida Polacca
in la maggiore, superba per potenza e vigore, un’opera tra-
boccante di gioia patriottica, e un piccolo pezzo commoven-
te che chiamava Preghiera dei Polacchi. Suonò poi una Mar-
cia funebre che aveva scritto l’anno prima, al tempo in cui si
era spezzato il sogno del matrimonio. Era malato, tutto nel
suo aspetto denunciava la tisi, era come un’anima senza cor-
po. Straziante, per me, vederlo ridotto in quello stato. E pian-
gevo, mentre suonava. Poi mi confidò – lo sapevo già, avevo
i miei zelanti informatori – che partiva per la Spagna... E sem-
brava lieto. Mi disse che aveva bisogno di riposo. Ma io sa-
pevo con chi partiva: partiva con un vampiro. Riposarsi in
compagnia d’un vampiro. Pensai che non sarebbe più torna-
to, e mi si spezzava il cuore.
– Non gli scriveste, mentre si trovava a Maiorca, se non al-
tro per avere notizie della sua salute?
– Partii quasi subito per la Russia, e rientrai nel novembre
del 1839, dopo un anno. Chopin era arrivato da poco a Parigi.
Gli scrissi, invitandolo nel mio palco del Teatro Italiano. Gli
mandai un biglietto, non due. Non venne. Alla fine dell’anno
gli scrissi un’altra volta, lamentando – pateticamente, lo con-
fesso – di essere stato messo in disparte. Venne a trovarmi men-
tre ero a Parigi ed accettò l’invito per una serata alla quale ave-
vo chiamato anche il suo grande amico Grzymała. Ripren-
demmo a vederci di tanto in tanto, sempre con una sceltissima
compagnia ma senza... Il 27 giugno venne a Saint-Gratien, e
suonò in un modo, in un modo... Restai sveglio tutta la notte e
il giorno dopo gli manifestai con esaltazione tutta la mia am-
mirazione per la maturità che aveva raggiunto. “Questa matu-
rità nella giovinezza è sublime”, gli scrissi, “è l’arte nella sua
perfezione”. Avevo cinquant’anni, lui ne aveva trenta, ma sen-

206
tivo in lui una saggezza che andava ben oltre non solo la sua
età, anche oltre la mia. Quattro giorni dopo venne a trovarmi
a Saint-Gratien, in compagnia del vampiro.
– Un bel rebus, per voi.
– Mi ero messo il cuore in pace, per così dire, e spasima-
vo dalla voglia di rivederlo e di risentirlo suonare. Vennero il
2 luglio, con i ragazzini, Delacroix e Grzymała. Non andò
male, ...ma nemmeno bene. Ed immagino che il vampiro fa-
cesse poi la sua parte. Ci perdemmo di vista. Assistetti al suo
ultimo concerto a Parigi, nel 1848. Ah, quel Trio di Mozart
che eseguito da lui risuscitava sotto i miei occhi attoniti la
Grecia! Ah, la Barcarola, Venezia come in un dipinto di Tur-
ner! Sono lieto che quello sia stato il mio addio a Lui. Ne ho
conosciuti, di artisti, e di grandi artisti: Chopin è per me il più
grande di tutti. Posso pregarvi di rimanere per la cena?
– Grazie, accetto ben volentieri.
– Allora pernotterete qui da me. E parleremo ancora di
Lui. Please, John...
CON HECTOR BERLIOZ

Weimar, questo 18 novembre 1852

Carissimo Samud,
la tua lettera mi ha raggiunto qui a Weimar, dove il Capell-
meister del granduca, Franz Liszt, ha programmato una set-
timana-Berlioz. La patria di Gluck apprezza la mia musica
più della mia patria, e ciò mi rende nello stesso tempo orgo-
gliosissimo e scocciatissimo. Ma non devo parlarti di me. Tu
mi chiedi del mio caro Chopinetto. Certo, l’ho conosciuto be-
ne e posso dire di esserne stato amico, sebbene la nostra ami-
cizia non diventasse mai fraterna. Lo conobbi quando tornai
da Roma a Parigi, nel 1832. Aveva l’apparenza e i modi del-
l’aristocratico, ma con gli amici era quanto mai cameratesco.
Ci trovammo insieme molte volte, davanti ad una tavola im-
bandita o davanti ad un pianoforte pronto a servirlo. Ero pre-
sente la sera in cui, fra quattro amici, Liszt suonò gli Studi di
Chopin appena pubblicati, in un modo da lasciare a bocca
aperta, nonché noi, persino lo stesso Chopinetto. Con Franz
e con Frédéric ci trovavamo spessissimo. Suonarono entram-
bi nel concerto che io promossi per raccogliere fondi a favo-
re dell’attrice inglese che sarebbe diventata mia moglie, e che
si era malamente fratturata una caviglia. Franz e Frédéric ese-
guirono a quattro mani la Sonata in fa minore di Onslow. Il
14 dicembre 1834 invitai Chopin a prender parte ad un mio

208
concerto (la sua sola presenza avrebbe messo in moto una
bella fetta di aristocrazia). Accettò, suonò il Larghetto del suo
Concerto in fa minore (che fece poco effetto). Chopin venne
a trovarmi con altri amici a Montmartre, dove abitai per qual-
che tempo. Poi ci vedemmo di rado. Grande musicista, sen-
za dubbio, grande creatore, e per il pianoforte un caposcuo-
la. Ma per questo puoi leggere il necrologio che pubblicai nel
Journal des débats. In camera caritatis, e tu fanne l’uso che
credi, ti dirò che nei suoi concerti l’orchestra altro non è che
un freddo e pressoché superfluo accompagnamento. E quan-
do lo sentivo suonare non mi convinceva il suo rubato. Cho-
pin, te lo dico brutalmente, non sapeva andare a tempo.
Franz non è d’accordo con me (è venuto a prendermi: sto de-
clamando ad alta voce quello che scrivo), e su questo punto
protesta. Lui parla poeticamente del rubato, io pretendo di
capire com’è fatta la battuta e dove sta il primo quarto. Ma
Chopin era soltanto il virtuoso dei salotti eleganti, delle riu-
nioni intime dove l’eccentricità celebra i suoi fasti... Quando
sarò di ritorno potremo forse approfondire l’argomento. E ti
racconterò della settimana-Berlioz. Scusa per ora la brevità,
ma sono davvero molto indaffarato. Franz s’unisce a me nel
mandarti un affettuoso saluto

tuo Hector
CON GEORGE SAND

– Samud, vieni avanti, dammi un bacio, anzi, due, siediti,


accendi un sigaro, bevi un cognac, togliti le scarpe, fai quel che
vuoi, chiedimi quel che ti garba. Ma ti vieto nel modo più as-
soluto di parlare di Lucrezia Floriani. Verboten! Forbidden!
– Pure...
– Non c’è “pure” che tenga. Ti dico io papale papale quel
che c’è da dire, che è poi una cosa sola: nel principe Karol,
che causa la morte per crepacuore della sua amante Lucrezia,
non ho affatto voluto raffigurare Chopin. Punto e a capo.
– E a capo ritroviamo Chopin.
– Nulla osta, signor mio. Chip-Chip è stato per me un
grande amore, finito male per colpa sua. Ma ciò non ha più
importanza, ormai.
– Com’era cominciato?
– Era cominciato che io, alla non più verdissima età di
trentadue anni e con alle mie spalle un’esperienza di vita
tutt’altro che strettina, ci ero cascata come una pera cotta, di
fronte a quel biondino di sei anni più giovane di me.
– So già che non fu facile, arrivare al redde rationem.
– Scommetto che hai parlato con Grzymała. Eravamo
molto amici, ma la rottura con Frédéric ci ha allontanati. Spe-
ro di riagganciarlo un giorno, mi manca la sua rude presenza
di vecchio militare slavo.
– George, ci hai azzeccato in pieno! Grzymała mi ha fatto
un rendiconto molto accurato ed equilibrato di come arriva-

210
ste alla liaison, e mi ha detto, te lo giuro su ciò che ho di più
sacro, che gli anni passati con te sono stati i migliori della vi-
ta di Chopin.
– Ah!, riconosco il mio Adalbert, il mio sposo, come lo
chiamavo. E ciò accresce il mio desiderio di rivederlo. Se
Adalbert fosse stato presente il patatrac, forse, non sarebbe
successo, o non nel modo sgradevole in cui avvenne. Ma di
questo non voglio parlare, mi mette addosso troppa tristezza.
– Mi dici che cosa ti colpì – o ti fulminò – la prima volta
che vedesti Chopin?
– Che lo vidi e che lo udii suonare. Giove mi scagliò ad-
dosso due fulmini, non uno solo. Da mia nonna avevo rice-
vuto una certa educazione musicale, basata sul Settecento, su
Pergolesi, Porpora, Gluck, Haydn, Mozart, non su Bach e
Händel. Appena arrivata a Parigi scoprii Rossini, e poi
Beethoven e Weber, e infine Berlioz, Liszt, Meyerbeer. Franz,
a Nohant, mi fece ascoltare i Lieder di Schubert da lui tra-
scritti per pianoforte, sconvolgenti. Ma con Chopin fu un
mondo fatato che s’aprì davanti ai miei occhi stupefatti.
– Ah!, certo, il poeta del pianoforte.
– E qui, benedetto uomo che sei, ti sbagli di grosso. Fétis
afferma che non Chopin, ma Stephen Heller, quell’antipati-
co, è il poeta del pianoforte. Lui lo dice per malanimo, ma, in
realtà, ha ragione.
– Questa me la devi proprio spiegare: da solo non ci arri-
vo.
– Per me è una cosa chiara come il sole. Pensa a quel che
contano oggi, per l’umanità, non per le persone di cultura raf-
finata, i poeti. Un tempo i poemi in versi influenzavano l’e-
voluzione dell’umanità, oggi questo compito è passato al ro-
manzo. Ti parlo senza falsa modestia di me. Chiedi a chiun-
que sappia leggere se conosce George Sand, e ti risponderà
di sì. Chiedigli se conosce una poetessa squisita come Mar-
celine Desbordes-Valmore, mia amica, e nel novantanove per
cento dei casi ti risponderà di no.
– In questo hai ragione. Non credo che Victor Hugo sa-

211
rebbe Victor Hugo se avesse scritto solo Les Orientales e non
anche Notre-Dame de Paris.
– Mi va a fagiolo il concetto ma non il personaggio, quel-
l’ipocrita, quel tartufo di Hugo, con i suoi versi edificanti sul-
la famiglia e la sua scandalosa vita privata.
– L’hugoismo, come dice Heine. D’accordo, non questio-
nerò con te su questo punto. Però, dico, come puoi vedere il
romanziere in Chopin, che si è servito soltanto del pianofor-
te?
– E qui ti voglio, qui ti casca l’asino. Non appena lo sentii
suonare capii che la sua musica riguardava l’umanità tutta e
non una classe di essa, sebbene di una classe egli fosse il co-
queluche e di uno strumento da salotto si servisse. Questo è
il suo paradosso. Però, fra tutti i creatori di musica uno solo
– intendimi bene! – uno solo, Mozart, è più grande di lui. E
lui lo sapeva e lo riconosceva, il Don Giovanni e il Requiem
stavano sempre sul suo leggio, e una volta, avendo dimenti-
cato a Parigi le due partiture, non ebbe pace fino a che non
gli furono spedite a Nohant.
– Primo Mozart, secondo Chopin. C’è un seguito? E qual è?
– C’è. Bach (che Chopin mi fece conoscere, insieme con
Händel), Bach, ti dicevo, e Beethoven e Weber. Chip-Chip li
aveva assimilati e li aveva superati: era i tre insieme ed era an-
cora lui stesso.
– Quello che dici mi sorprende più che un po’. Di Chopin
si apprezza in genere la capacità di rendere i sentimenti dol-
ci, espressi da lui con una grazia, una spontaneità, una deli-
catezza e una freschezza di immagini incomparabili.
– Puff, puff, puff! Che stupidaggine! Quale sesquipedale
stupidaggine, Samud del mio cuore! L’espressione è in lui
drammatica, austera, straziante, il suo genio è vasto, comple-
to, sapiente quanto quello dei più grandi maestri. E la sua
musica, sotto l’apparenza delicata, è bizzarra, misteriosa, tor-
mentosa. Com’era del resto lui. Altro che sospiroso abatino:
un vero, completo romanziere.
– Però, come dicevi, era il coqueluche di una classe sola.

212
– Non è stato, non è ancora riconosciuto dalla folla. Que-
sto è vero. Ci vorranno di grandi progressi nel gusto e nella
comprensione dell’arte, perché le sue opere diventino popo-
lari. Del resto, di una cosa sono convinta. L’ho messa in boc-
ca a Porpora nella mia Consuelo: “La gloria dell’incoronazio-
ne non arriva quasi mai, per il vero genio, se non dopo la mor-
te”.
– Chopin è scomparso da appena tre anni. Ma tu sei con-
vinta che ci sarà un progresso nel gusto e che perciò lui di-
venterà popolare.
– Forse ci sarà bisogno di qualche aiuto. Penso che i suoi
maggiori lavori dovrebbero essere trascritti per orchestra e
dovrebbero apparire nei concerti sinfonici, seguiti da un
pubblico non selezionato. Allora si vedrebbe che un pezzo di
Chopin vale più di tutte le strombettate di Meyerbeer.
– Se ti sentisse Meyerbeer...
– Ma io apprezzo Meyerbeer, lo apprezzo come merita,
per me rappresenta la conciliazione fra la possente intelli-
genza tedesca e la poesia appassionata dell’Italia, è un gran-
de maestro, è un genio. Ma Chopin, Chopin! Chopin sta mol-
to più in alto di lui.
– Non so se come storico della musica tu sia pari alla tua
creatività di romanziere. Accetto però il tuo giudizio. Dimmi
adesso come fu la tua vita con Chopin quando si furono con-
clusi i... preliminari che mi sono stati narrati da Grzymała.
– I primi mesi furono paradisiaci, ...con la brutta eccezio-
ne di Mallefille, lo sai, vero?
– Lo so.
– Povero ragazzo, non pensavo che si sarebbe arrivati a
quel punto e mi dispiacque molto, per lui... e per noi. Avevo
detto a Grzymała che da quella parte avrei potuto condurre
la nave al disarmo senza drammi (lui aveva nove anni meno
di me ed era piuttosto ingenuo). Invece... Bah!, pazienza!
Mallefille se l’è poi cavata molto bene, nel ’48 la repubblica
gli affidò persino incarichi diplomatici, e come commedio-
grafo non è malaccio.

213
– Dicevi che i primi mesi...
– ...furono paradisiaci. Ero così fuori di me che in settem-
bre – parlo del ’38 – scrivendo a Delacroix gli dissi di aver
trascorso tre mesi di ebbrezza senza ombre. Gli confessai per-
sino di cominciare a credere che ci fossero degli angeli ma-
scherati da uomini che si facessero passare per tali e che ri-
manessero per qualche tempo sulla terra per consolare e per
attirare con loro verso il cielo le povere anime affaticate e de-
solate, rassegnate a perire su questa bassa terra.
– Accipicchia!
– Prima, quando mi tormentavo vanamente, avevo avuto
il torto, gravissimo, di separare lo spirito dalla carne, cosa che
in realtà – lo scrissi a Grzymała – è contro natura. Quando fi-
nalmente li riunii, spirito e carne, fu un’ebbrezza, una follia.
– In verità, perdonami, non lo facevo così rapinoso, il tuo
Chopin.
– Ma che ne sai tu? Che ne sai, per Dio? Che ne sai? Co-
nosci la sua Sonata in si bemolle minore?
– Quella con la marcia funebre? La conosco sì.
– La scrisse durante quella che posso chiamare la seconda
stagione del nostro amore, nel ’39, a Nohant.
– Perché dici seconda stagione?
– Poi te lo spiego, non farmi perdere il filo perché devo
battere subito in breccia la somma bestialità che ti sei lascia-
to scappare fuori da quella boccaccia. Ebbene, l’anno scorso
è stata qui da me una milady, mia ammiratrice. Abbiamo par-
lato anche di Chopin e della Sonata, e lei mi ha spiegato che
secondo il punto di vista anglo-vittoriano nel primo movi-
mento la musica diventa sempre più appassionata e nella par-
te conclusiva trascende i limiti della correttezza. Ostrega!, di-
co io, ricordando il mio soggiorno a Venezia. Ostrega! Pro-
prio così: trascende i limiti della correttezza. Hai capito? Co-
me rispondi?
– Rispondo: ostrega!
– Bravo! Adesso ti spiego delle due stagioni. Quando io
partii per Perpignan con i miei ragazzi e la camerista, Chip-

214
Chip rimase ancora a Parigi per qualche giorno, perché nei
suoi scrupoli, per me superflui, c’era il terrore che nascesse-
ro voci e pettegolezzi. Essendo solo e sentendosi solo e ab-
bandonato andò a Saint-Gratien a salutare quel suo amico,
quel marchese finocchio, ...de Custine.
– Lo conosco, Astolphe de Custine.
– Pensa che nel ’38, l’8 maggio (lo ricordo come fosse ora),
ero in casa del marchese, che conoscevo abbastanza bene.
Era presente Chopin, che suonò come sapeva suonare quan-
do si era in pochi, dopo mezzanotte. Il cuore mi batteva al-
l’impazzata, dovevo avere le guance del colore delle braci. Il
marchese mi fissò come si fissa una serpe velenosa, e da quel
momento mi detestò.
– Avevi l’impressione che il marchese si filasse Chopin?
– Impressione, dici? No, certezza, certezza assoluta. Chip-
Chip lo teneva tranquillamente a bada, ma non lo mollava
perché de Custine era uno dei pochi che sapevano esprimere
nei suoi confronti degli apprezzamenti graditi, graditi perché
acuti e profondamente sentiti: il finocchio era un intelligen-
tissimo e finissimo intenditore di cose artistiche. Nell’estate
del ’40 andammo insieme a Saint-Gratien. Il marchese fu im-
peccabilmente cortese con me, ma spandendomi addosso
una tale corrente gelata che, una volta tornati a Parigi, io dis-
si a Chip-Chip: “Bimbo, quello lì bisogna lasciarlo a rime-
starsi da solo le sue paturnie”.
– Tutto ciò è interessante, ma tu continui a svicolare: cos’è
la seconda stagione?
– Dopo quei tre mesi di sogno andammo a Maiorca. Al
primo momento ci sentimmo come nel Paradiso Terrestre,
ma ben presto...
– Ho letto il tuo Un inverno a Maiorca: natura incantevo-
le, abitanti detestabili, tempo incostante con prevalenza di
vento freddo.
– E Chopin che si ammalò, che s’ammalò gravemente e
che non poté essere curato da medici capaci. Mediconzoli da
commedia erano quelli, non sacerdoti d’Esculapio. Chopin lo

215
curai io, mettendoci, se non la sapienza, tutto il cuore. E lui
era un malato angelico, così paziente, così timoroso di dare
fastidio, così umilmente grato per ogni minima gentilezza che
riceveva. Quando, dopo Maiorca, arrivammo a Marsiglia,
stava così male che decidemmo di fermarci. E migliorò a po-
co a poco, anche se il servizio funebre per Nourrit gli procurò
molta pena.
– Ma Nourrit, se ben ricordo, si suicidò a Napoli.
– Certo, era andato in Italia per rivalersi dell’insuccesso
avuto a Parigi dopo che a Parigi era comparso Gilbert Du-
prez con il suo do di petto. A Napoli Nourrit cantò varie ope-
re, tra cui il Giuramento di Mercadante; giudicò che l’esito
non era quello sperato e si gettò dal balcone dell’albergo. La
sua salma arrivò per mare a Marsiglia prima di proseguire per
Parigi.
– E a Marsiglia ci fu un servizio funebre.
– L’emozione era enorme. Il servizio si svolse nella chiesa
di Notre-Dame-du-Mont e all’Elevazione Chopin suonò l’or-
gano. Eseguì un Lied di Schubert che aveva spesso accom-
pagnato a Nourrit. Erano stati grandi amici.
– In quel periodo, stante la malattia di Chopin, i vostri sen-
timenti – scusa la domanda un po’ indiscreta – subirono un’e-
voluzione?
– Domanda non indiscreta per me, e molto acuta, alla qua-
le risponderò sinceramente. In me, accanto alla passione, nac-
que l’amicizia. L’amicizia della donna, in generale, è molto ma-
terna. Questo sentimento ha dominato la mia vita più di quan-
to avrei voluto. Ma non fu il caso di Chip-Chip. Provai per lui
un forte sentimento di amore materno che lui ricambiò. E ciò
arricchì il nostro legame. Quando andammo a Nohant e il pe-
riodo di... astinenza imposto dai medici poté cessare perché lui
era tornato in buona salute avemmo, come ti dicevo, una se-
conda stagione d’amore, più ricca della prima.
– Una felicità così piena, recita la sapienza popolare, non
può essere che di breve durata. Mi puoi dire quando dalle ali
del tuo angelo cominciò a cadere qualche penna?

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– La prima penna, per riprendere la tua immagine, cadde
quando in Chopin si manifestò una violenta gelosia, che ri-
guardava sia il presente che il passato, il mio passato.
– Un passato che doveva essergli noto da tempo, visto che
non avevi mai fatto una vita di apparenze e di sotterfugi.
– Non era geloso del mio passato in generale. Lo era, mol-
to, di de Musset, tanto che trattò con freddezza la madre di
Alfred che si rivolse a lui per raccomandargli un’allieva. Ma
ebbe un accesso di vero furore quando senza minimamente
pensarci su gli dissi di aver avuto una breve relazione con
Pierre Bocage, l’attore. Dovetti scrivere a Pierre per pregar-
lo di tenersi alla larga da me e di stare attento, se mi scriveva,
a contraffare sulla busta la calligrafia. Pensa un po’. Però que-
sto avvenne più tardi, mi pare nel ’45.
– La gelosia si manifestò dunque prima.
– Oh sì, molto prima, praticamente subito. Si insinuò un
poco alla volta nel nostro rapporto e crebbe come un’epide-
mia. Pensa che era geloso persino di Delacroix, nostro gran-
de amico. Eugène mi scrisse quando stavo con Chip-Chip da
qualche mese. Aprii la lettera, la lessi sorridendo (era una bel-
la lettera), ma con la coda dell’occhio vidi che il mio amore
se ne stava lì imbronciato come un cane bastonato. Mi accu-
sai di indelicatezza, lo chiamai, gli mostrai la lettera, che piac-
que anche a lui. Lì per lì non ci feci caso, ma quella era già
una manifestazione di gelosia.
– Detto sinceramente, un po’ lo capisco. Delacroix, con
quei baffi, quegli occhi, quella fama di rubacuori...
– Ma dai! Te ne cito un altro. Chip-Chip era geloso persi-
no di Grzymała, il suo amico più intimo. Un giorno incontrai
per caso Adalbert e andai con lui in un caffè dove passammo
qualche mezz’ora a conversare piacevolmente. Tornata a ca-
sa non dissi nulla a Chopin, perché mi avrebbe fatto un sac-
co di storie e non l’avrei sopportato, ma scrissi ad Adalbert
per metterlo sull’avviso. In ogni moto di simpatia Chopin ve-
deva la scintilla di una passione amorosa.

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– Mi stai elencando le piccole omissioni, le calcolate bu-
gie, tutto il codice di ipocrisia del matrimonio borghese.
– Dici benissimo. Chopin finì col porsi di fronte a me co-
me amante, come marito, come proprietario dei miei pensie-
ri e delle mie azioni. Una sorta di tirannia. Ma di questo non
voglio parlare. Preferisco ricordare i momenti felici che non
mancarono affatto anche dopo il 1839. Specialmente a
Nohant, dove facevamo vita ritirata, dove lavoravamo fianco
a fianco in pace e concordia (io gli leggevo tutto quello che
scrivevo, lui mi faceva sentire tutto quello che componeva), e
dove – chiedo perdono alla sua memoria per la cattiveria – la
situazione rimaneva sempre sotto il suo vigile controllo. Se
scriverai la sua biografia potrai ritrarlo come vorrai. Ma esi-
go da te un giuramento.
– Di che si tratta?
– Prima devi giurare!
– Sta bene: giuro.
– Grazie. Chip-Chip non era un angelo sceso in terra. C’e-
rano nella sua educazione dei canali di giudizio religiosi, so-
ciali, morali che condizionavano il suo pensiero e le sue azio-
ni. Come artista andava ben oltre il suo tempo e la sua classe
d’appartenenza, come uomo no.
– Pregiudizi religiosi? Chopin era religioso?
– La mia risposta potrà sorprenderti, potrà sembrarti pa-
radossale, ma è vera. Chopin era polacco, ed era religioso in
quanto polacco. La religione cattolica è ciò che differenzia i
polacchi, privi di Stato, dai loro vicini, prussiani e russi. Per
Chopin la fede cattolica era la testimonianza di appartenen-
za ad un popolo e alle sue più sacre tradizioni. Il suo confor-
mismo in questo campo era un’attestazione di amor patrio.
– Immagino che anche la malattia condizionasse il suo ca-
rattere.
– I periodi di cattiva salute, che ricomparvero puntual-
mente fin dalla primavera del ’40 e che diventarono sempre
più frequentemente ricorrenti, ebbero certamente un’in-
fluenza nefasta sul suo carattere, altrimenti non potrei spie-

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garmi la trasformazione alla quale assistetti. La sua anima era
la perfezione in un corpo malato, e di conseguenza in una im-
maginazione inquieta e in un carattere irresoluto e melanco-
nico. Alla fine della nostra vita comune non era più il malato
paziente di un tempo: era irritabile, intollerante, l’assisterlo
diventava, invece di una gioia, un sacrificio. Tutto ciò puoi, e
devi dirlo. Ma ricorda, e questo riguarda il giuramento, che
Chip-Chip non fu mai ridicolo.
– Non ho mai pensato che lo fosse.
– Temevo che tu potessi equivocare, perché certi compor-
tamenti patologici possono dare origine a considerazioni iro-
niche, se li si osserva senza partecipazione affettiva. Chopin
– non so bene come dirlo – era al di sopra del ridicolo. Hai
visto le statuette di Dantan?
– Ho visto quelle di alcuni cantanti, non quella di Chopin.
– Dantan è un genio, nel cogliere tratti somatici e atteg-
giamenti che si prestano alla caricatura.
– Oh certo! L’eleganza dandistica con cui Gilbert Duprez
spara il do di petto, e la fatica con cui Nourrit emette un acu-
to che do di petto non è sono esilaranti.
– Guarda invece la statuetta che raffigura Chopin: Cho-
pin, visto da un caricaturista, mantiene il massimo grado di
distinzione e di signorilità. È un’icona, un essere intangibile.
– D’accordo, rispetterò scrupolosamente il giuramento.
Cambiamo adesso argomento. George, ho per te una sorpre-
sa. Apri questo pacchetto.
– Che cosa... Che cosa... Oddio, ma sono certe mie lettere
a Chip-Chip. Dove le hai trovate?
– Le ho recuperate in Slesia. Ludwika Chopin, rientrando
a casa dopo la morte del fratello, le aveva lasciate in custodia
ad un conoscente prima di varcare la frontiera fra la Polonia
prussiana e la Polonia russa. Sono riuscito a farmele conse-
gnare e te le ho portate. Sono tue.
– Oh, Samud, quale dono inaspettato! Ostrega, proprio
un dono del cielo. Ne hai fatto la copia?
– In parte sì. Ma perché me lo chiedi?

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– Perché, ...perché penso di distruggerle. E ti chiedo di di-
struggere comunque le copie. Sto scrivendo la storia della
mia vita e sto ripensando a tutto ciò che fu, con distacco, con
imparzialità, con serenità. Per lo meno, così mi sforzo di fa-
re. Vedi, certe lettere che scrissi da Maiorca erano molto cru-
de, nei confronti dei maiorchini. Un inverno a Maiorca, scrit-
to tre anni più tardi, era un po’ meno violento, la Storia della
mia vita lo è ancora di meno. E io voglio consegnare Chopin
ai posteri secondo il bilancio che ne faccio ora, senza esalta-
zioni e senza furori, senza speranze e senza rimpianti, senza
idealizzazioni e senza demonizzazioni. Ho forse torto?
– Non lo so, onestamente. Ma sei tu che devi decidere, e
qualsiasi decisione tu prenda sarà, ne sono sicuro, da rispet-
tare. Grazie, George, per tutto quello che hai voluto confi-
darmi.
– E grazie a te, Samud, per avermi ascoltata. Adesso vai,
caro. Ho bisogno di rimanere sola con i miei fantasmi.
CON IL MAESTRO STEPHEN HELLER

Parigi, 16 dicembre 1852

Esimio Dottore,
mi spiace assai che voi non mi abbiate trovato in casa ma,
come forse potete immaginare, io spendo una buona parte
della mia giornata in giro a dar le lezioni di pianoforte che mi
procurano quel panem non garantitomi dai carmina. Simile
in ciò allo Chopin di cui mi chiedete notizie, ma anche di-
verso. Chopin cominciò, come me, a far lezione recandosi in
casa degli allievi ed entrando nelle suddette case dalla porta
di servizio. Poi gli fu accordato l’onore di entrare dal porto-
ne principale, ed infine i suoi allievi – soprattutto allieve – gli
usarono la cortesia, in considerazione della sua malferma sa-
lute, di recarsi essi stessi a casa sua. Risparmiò così parecchio
tempo, Chopin, oltre a guadagnare di molti danari perché la
sua tariffa era la più alta che in Parigi mai si fosse vista.
Sentii parlare per la prima volta di Chopin quando, nel
1829, tenni due concerti a Varsavia. Avevo allora sedici anni,
e chi mi accompagnava pensò bene di farmi incontrare, per
averne consigli e protezione, il più reputato insegnante di pia-
noforte della città. Ci fu indicato il professor Moritz Erne-
mann, sussiegoso individuo che mi ricevette sì, ma che cercò
in tutti i modi di smorzare il mio entusiasmo: il momento, dis-
se, era sfavorevole, la città non era grande, c’era poco da spe-

221
rare con un concerto, era consigliabile andare altrove, e il ge-
neroso professorone era dispostissimo a darmi lettere di rac-
comandazione per altre città (purché mi togliessi dai coglio-
ni). Io i concerti li feci, e andarono benissimo. Ci fu poi det-
to esservi in Varsavia un astro nascente, Chopin. Non venne
ai miei concerti e non lo vidi. Lo vidi a Parigi, dove arrivai nel
’38, e gli fui presentato. Era cortese, ma altero. Con lui, non-
ché di amicizia, mestier non era neppure di franco camerati-
smo. E si era legato con artisti estranei al mio orizzonte e che
io vedevo, giustamente, come sovvertitori delle sane tradizio-
ni della musica: Berlioz, Liszt, Alkan. Artisti di grandissimo
talento tutt’e tre, s’intende, grandissimi virtuosi gli ultimi
due, grandissimo orchestratore il primo, e persona coltissima
e umanamente interessante. Ma le loro opere... Toglietegli gli
orpelli e vedrete quel che ne resta: quasi non c’è sostanza.
Il creatore contemporaneo che rappresenta per me la mo-
derna perfezione dell’arte musicale è Schumann, che bene-
volmente mi accolse nella Lega dei Fratelli di Davide (mi
chiamò Jeanquirit, e sotto questo pseudonimo pubblicai pa-
recchie corrispondenze da Parigi nella schumanniana Nuova
Rivista della Musica). Nulla ho artisticamente a che spartire
con Berlioz, Liszt, Alkan. E poco aveva a che spartirci anche
Chopin. Ma fu con loro amico e sodale. Prese parte a due
concerti di Berlioz, suonò varie volte in pubblico, a quattro
mani e a due pianoforti, con Liszt, avallò con la sua parteci-
pazione la mostruosa trascrizione di Alkan, per due pia-
noforti a otto mani, della Settima Sinfonia di Beethoven (ol-
tre ad Alkan e Chopin suonarono Pixis e Zimmermann).
Io, come Schumann, avevo molto ammirato, sinceramen-
te, le prime composizioni di Chopin. E mi chiedevo perché
convenisse egli con una tale brigata. La risposta mi parve al-
la fine chiarissima. Essi erano influenti nella società, e Cho-
pin a loro erasi agganciato per opportunismo. Mi spiace di dir
ciò, ma non posso venir meno alle mie convinzioni. Così co-
me non posso non dire che la lunga convivenza con George
Sand, superba pitonessa di tendenze comuniste o comuni-

222
stoidi, fortemente strideva con gli intensi e proficui rapporti
intrattenuti dal professor Chopin con la più alta aristocrazia.
Tenere il piede in due staffe: questa fu alla fine la ratio della
vita di Chopin a Parigi.
Il mio Schumann dilettissimo salutò l’apparizione di Cho-
pin con le alate parole “giù il cappello, signori: un genio”. Col
trascorrere del tempo egli emendò tuttavia in parte quel suo
primo detto, più rapinoso grido di compiacimento che pon-
derato giudizio. Ed ecco oggimai il giudizio mio, maturato
nel corso di quattro lustri. Chopin è un modello inimitabile
quanto alla grazia e alla finezza che si trovano nelle sue in-
cantevoli composizioni, merito che Liszt non ha e non avrà
mai. E tuttavia, che sono in arte la grazia e la finezza? Sono
accessori seducenti, sono soltanto qualità ma non costitui-
scono ancora, affatto, una grande opera. Beethoven possede-
va certamente grazia e finezza; ma sarebbe ben ridicolo, par-
lando del suo genio, citare la grazia e la finezza delle sue com-
posizioni. Beethoven è un maestro, è grande, è un uomo di
genio. Ecco quello che si può dire: quando c’è vera genialità
si può avere pure grazia e finezza, ecc., ma non se ne parla, è
una misura troppo piccola per un grande talento. I Preludi di
Chopin hanno aperto una via al genere in modo eccellente, e
felice chi ha potuto trovare simili scintille di pensiero (cosa
che sono per la maggior parte). Ma molti tra di essi presenta-
no una forma troppo aforistica, per quanto ammirevoli siano
questi aforismi. Rovine e penne d’aquila, come disse benissi-
mo Schumann.
Chopin era un grande pianista dalla sonorità ammaliante
e dal gusto raffinatissimo. La sua tecnica era del tutto etero-
dossa e perciò, credo, tra i suoi allievi non si può enumerare
alcun importante virtuoso. Lui suonava come se fosse stato di
gomma, e le sue mani oscillavano lateralmente dando l’im-
pressione della corsa d’un serpente. Era stupefacente, ma
troppo personale. Io ritengo che una buona tenuta della ma-
no si debba basare sulla quiete della scuola di Clementi.
Vi ringrazio, dottore esimio, per avermi fatto l’onore di in-

223
terpellarmi a proposito di Chopin, e mi professo il vostro sin-
cerissimo ammiratore

Stephen Heller

P.S. Ignoro se come storico oppure come amico voi inten-


diate comporre la biografia di Chopin. Nel primo caso servi-
tevi secondo il modo che credete il migliore di quanto vi ho
detto. Nel caso opposto non temete di recarmi offesa se l’i-
gnorerete. Anzi, vi prego, in tale evenienza, di dare alle fiam-
me questa mia lettera.
CON IL MAESTRO JULIAN FONTANA

– Non so bene, maestro, se vedere nel vostro rapporto con


Chopin più l’amico o più il collega.
– Amico, collega, compagno di studi, amanuense, agente
letterario, agente immobiliare. Scegliete come più vi piace. E
compatriota. Sebbene Chopin portasse un nome francese, ed
io uno italiano, eravamo entrambi, incrollabilmente, polacchi.
– Vediamo allora il tutto con ordine. E cominciamo dall’a-
micizia. Amicizia nata sui banchi di scuola?
– Non precisamente. Fummo compagni nel liceo e poi nel
Conservatorio. Ma, vedete, Fryderyk era uno a cui tutto riu-
sciva facile, io no. E nei suoi confronti mi sentivo in sogge-
zione. Non so se mi spiego.
– Vi spiegate benissimo. Se mi permettete di dirlo in mo-
do un po’ brutale, c’era un continuo confronto e voi vi senti-
vate continuamente perdente.
– Proprio così.
– A cominciare dalla composizione, immagino.
– Più che dalla composizione, dall’improvvisazione, du-
rante il periodo in cui eravamo al liceo. Frycek componeva
poco, allora, ma improvvisava in un modo da lasciare a boc-
ca aperta me e non solo me. Poi, si capisce, anche dalla com-
posizione, quando entrammo nel Conservatorio.
– E il pianoforte?
– Fryderyk era un talento naturale, un fantastico talento
naturale. Eccettuata la potenza, che non gli interessava, sul

225
pianoforte poteva fare tutto quello che voleva. Possedeva
un’agilità e una disinvoltura da giocoliere.
– Dita di gomma, mani di serpente, dice Stephen Heller.
– Giustissima osservazione: non teneva una posizione fer-
ma della mano, come predicavano gli insegnanti all’antica, e
non teneva costantemente curve le dita. Cercai di imitarlo,
ma senza riuscirci; anzi, facendo così peggioravo. Io non ero
un pianista naturale, dovevo rispettare le regole.
– Quali regole?
– Quelle che si trovano nei metodi classici. A Varsavia, ne-
gli anni venti, gli ultimi sviluppi della didattica moderna non
erano ancora arrivati. Ci si basava sui metodi classici, e inter-
pretati nel modo più restrittivo.
– Mentre Chopin faceva di testa sua.
– Già. Una volta mi propose di suonare con lui il suo
Rondò in do maggiore per due pianoforti. Nel momento stes-
so in cui lo componeva, stando al pianoforte, lui sapeva suo-
narlo. Io studiai la mia parte per un mese intero, prima di sen-
tirmi sicuro. Lo suonammo insieme, il Rondò, e Frycek, mal-
grado la sua innata gentilezza, mi guardava con una certa
commiserazione. Capite bene che l’amicizia, in queste condi-
zioni, non sarebbe nata con il vento in poppa.
– Ma mi avete detto però che foste amici, amici veri. Co-
me dunque lo diventaste?
– Lo diventammo quando io... presi il sopravvento su di
lui in un certo campo. L’insurrezione scoppiò a Varsavia men-
tre Chopin si trovava a Vienna in compagnia di Titus Woy-
ciechowski. Titus ritornò subito in Polonia, Frycek no. Io mi
arruolai e divenni ufficiale di artiglieria.
– In un certo senso, dunque, voi superaste Chopin in pa-
triottismo.
– Non si dimostra il proprio patriottismo soltanto pren-
dendo le armi e combattendo. Ma Frycek si vergognava di re-
stare inattivo. In una lettera che scrisse a Jan Matusziński dis-
se persino, un po’ goffamente, “perché non posso servire al-
meno come tamburino?”.

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– Curiosa espressione davvero, che mi era già stata riferi-
ta da Woyciechowski. Lei sa perché, pur provando questi
sentimenti, Chopin rimanesse a Vienna?
– Credo che a dissuaderlo dal ritornare fosse soprattutto
suo padre, che temeva per la sua salute. La campagna contro
i russi, iniziata in inverno, fu molto dura, e Jan, che vi prese
parte e che anche lui era di costituzione delicata, come Cho-
pin, si ammalò di tisi.
– Dopo la capitolazione, se non sbaglio, voi vi rifugiaste
subito a Parigi.
– Non subito, restai prima per qualche tempo in Germa-
nia, ma poi, come tantissimi altri, preferii Parigi. A Parigi si
formò una vera e propria colonia di emigrati polacchi, politi-
camente frantumata in sinistra, centro, destra. Io vi arrivai
parecchi mesi dopo che vi era arrivato Chopin, lo cercai, mi
fece un mucchio di domande sulla guerra e, ...mi trattò da
amico.
– Vedeva dunque in voi il combattente per la patria.
– E ammirava il mio coraggio. In verità, di un’altra specie
di coraggio, e molto, ebbi bisogno per affrontare la vita del-
l’esiliato.
– Capisco bene quanto sia duro, specie per un artista, pe-
netrare in un ambiente estraneo.
– Era stato duro anche per Frycek, e il racconto di quello
che aveva passato lui mi aiutò nel superare quello che stavo
passando io. Chopin aveva fatto subito molte conoscenze ed
era stato bene accolto da tutti, ma per parecchi mesi aveva
consumato il denaro che riceveva da casa senza guadagnare
di che vivere. A un certo momento, mi disse, gli era persino
balenata in mente l’idea di emigrare negli Stati Uniti. Poi,
senza che ne capisse il perché, tutto era cambiato e lui era di-
ventato rapidamente un maestro alla moda.
– Veramente non sapeva perché il vento avesse soffiato
nella direzione opposta?
– Credo avesse capito che erano state determinanti, per il
suo successo, le numerose esibizioni nei salotti, più dell’uni-

227
co concerto nella Salle Pleyel. Aveva trovato ben presto mol-
te lezioni nelle famiglie nobili polacche, poi Delphine Po-
tocka, che a quel tempo era, beh!, era in relazioni molto...
strette con un importante uomo politico francese, gli aveva
spianato la strada verso l’alta clientela parigina.
– Non vi seguo bene. Il concerto pubblico, mi pare, aveva
avuto una buonissima eco nella stampa.
– Ma la sala non era piena e gli spettatori erano in maggior
parte polacchi, e non tutti paganti. Quando un artista orga-
nizza un concerto in proprio, alla fine si fanno tre bilanci:
economico, artistico, mondano. Per parlare di successo biso-
gna che almeno due dei tre siano nettamente positivi, altri-
menti è un insuccesso. Il primo concerto di Chopin a Parigi
fu negativo sotto l’aspetto economico e positivo sotto l’a-
spetto artistico, ma non sotto l’aspetto mondano.
– Che cosa c’era di diverso, nei salotti?
– Nelle esibizioni estemporanee nei salotti valevano altri
criteri. Lì non occorreva la potenza, lì si suonavano piccole
pagine e la musica veniva capita meglio, lì le improvvisazioni
di Frycek avevano un tono intimo, e vedendolo suonare da
poca distanza si restava anche affascinati dai suoi gesti da gio-
coliere. Tutto ciò stimolava fortemente il desiderio di diven-
tare suoi allievi.
– Adesso capisco: ciò che avete detto mi sembra molto
acuto. Chopin, in fondo, era come un fiore di serra e in un
luogo aperto il suo profumo si disperdeva, mentre in un luo-
go chiuso...
– ...diventava inebriante. Il successo di Chopin nei salotti
era stato travolgente e i suoi guadagni, grazie anche ai sagaci
consigli del... di Delphine, erano schizzati subito nell’empi-
reo. La mia carriera fu molto più modesta, com’era giusto.
Tenni una volta una matinée alla quale Chopin assistette in-
sieme a George Sand. Fu molto gentile. Una certa nicchia, in-
somma, me l’ero fatta. Tuttavia mi ero spostato negli anni
trenta anche a Bordeaux e a Londra, e nel 1842 partii per il
Nuovo Mondo, dove mi fermai per dieci anni.

228
– Parlatemi dell’amicizia con Chopin.
– Eravamo diventati amici intimi. Cosa curiosa, si poteva
misurare il grado di amicizia di Frycek dal frasario che usava.
Di solito parlava in punta di forchetta, ma con certi amici in-
fiorettava il discorso con qualche espressione grassoccia, in-
tendo in senso scatologico.
– Mi ha accennato qualcosa, in tal senso, Camille Pleyel.
– Al principio mi sorprese. Ma era così privo di malizia e
di volgarità da diventare semplicemente sapido e giocoso.
– Vi vedevate spesso?
– Molto, molto spesso. Abitavamo entrambi in rue de la
Chaussée d’Antin, lui al n. 5 e poi al n. 38, io al n. 10 e poi al
34, e ci saremmo incontrati anche senza volerlo. Andavo da
lui, lui veniva da me, ci recavamo insieme dagli amici polac-
chi. Una volta, non ricordo più in casa di chi, mi fu chiesto di
suonare perché le ragazze volevano danzare. Lo feci ma di
malavoglia. Qualche giorno più tardi Frycek mi mandò un in-
vito dei Komar, giurandomi scherzosamente che non avrei
dovuto suonare per i ballerini.
– Gentile, da parte sua, un segno di una delicata sensibi-
lità.
– Un’altra volta, invitandomi a una serata in casa sua, mi
scrisse di portarvi per amore o per forza Liszt e due cono-
scenti polacchi, dicendo che forse avremmo organizzato “una
piccola festicciola danzante”. Le serate in casa sua erano sem-
pre molto brillanti, si suonava, si cantava, si conversava, si fa-
cevano scherzi, e Frycek era bravissimo nelle imitazioni, un
vero trasformista. Altre volte invitava un gruppo d’amici a ce-
na in un ristorante. Il tono dei suoi biglietti era sempre mol-
to scherzoso. Mi scrisse una lunga lettera, spumeggiante, da
Londra, dov’era andato con Camille Pleyel.
– Compagno, collega, amico. Vediamo adesso l’amanuen-
se?
– Divenni il suo amanuense, posso dire di fiducia, quando
si trovava a Maiorca. Mi mandò i Preludi chiedendomi di far-
ne la copia insieme con un bravo pianista-compositore po-

229
lacco, Édouard Wolff, un po’ più giovane di noi due. Chopin
trattava con due editori, uno per la Francia ed uno per la Ger-
mania, e quindi c’era bisogno, oltre che del manoscritto, d’u-
na copia. Wolff ed io lavorammo con molta attenzione, ...e
con molti dubbi, perché certe cose, nei Preludi, ci lasciavano
sconcertati al punto da temere che si trattasse di errori o di
trascuratezze di Chopin. Ma lavorammo con gioia, con entu-
siasmo.
– Un editore per la Francia ed uno per la Germania. So,
perché ma l’ha detto lui stesso, che l’editore francese era
Pleyel. Chi era l’altro?
– Probst, Heinrich Probst, che era anche stato editore in
proprio ma che allora, dopo aver ceduto la sua azienda, face-
va l’agente a Parigi di Breitkopf & Härtel di Lipsia. Il primo
e più importante editore di Chopin a Parigi era stato Mauri-
ce Schlesinger, ebreo (questo ha la sua importanza). Pleyel,
che a Chopin forniva i pianoforti, gli fece osservare che gli
onorari pagati da Schlesinger gli sembravano piuttosto bassi
e gli propose di diventare il suo editore di riferimento. Cho-
pin mi affidò l’incarico di trattare con Pleyel e con Probst. Fu
una fatica immane.
– E Pleyel alla fine si tirò indietro. Ma mi dicevate che il
giudaismo di Schlesinger aveva la sua importanza. Perché?
– Gli ebrei, lo sanno tutti, hanno fama di strozzini, e Cho-
pin, quando si arrabbiava, in ogni ebreo vedeva lo strozzino.
Ebbe parole durissime persino per Auguste Léo, banchiere e
suo grande amico, a proposito d’un prestito. Quando Pleyel
nicchiava nell’accettare il prezzo dei Preludi, Chopin mi
scrisse, da Marsiglia: “Procedimenti così giudei da parte di
Pleyel mi stupiscono”. E aggiunse che avrei potuto portare i
Preludi a Schlesinger: “Se si deve trattare con dei giudei, che
siano per lo meno ortodossi”.
– C’era in Chopin una vena di antisemitismo?
– Assolutamente no. Parlando di ebrei-strozzini riprende-
va una vecchia e tenace tradizione, molto presente in Polo-
nia. Ma uno dei suoi amici più cari, Charles-Valentin Alkan,

230
era ebreo. Ed era tale, oltre all’amicizia, la reciproca stima,
che la maggior parte delle allieve di Chopin, dopo la sua mor-
te, si rivolse ad Alkan.
– La vostra opera di agente letterario non riguardò solo i
Preludi, vero?
– Riguardò anche la Ballata op. 38, e le Polacche op. 40
che mi furono dedicate. Le mie trattative non ottennero il ri-
sultato pieno, ma Chopin fu soddisfatto del mio lavoro. In-
cassai le somme, feci i pagamenti che Chopin mi indicò e con-
segnai il rimanente a Grzymała. Con Probst, che era un osso
duro, io non arrivai ad un accordo. Le trattative furono ri-
prese da Chopin quando tornò a Parigi, e anche lui non riu-
scì a spuntare i 3500 che chiedeva: dovette accontentarsi di
2500. Probst era davvero un osso duro. Poveretto: morì sui-
cida qualche anno più tardi.
– Vediamo infine come faceste l’agente immobiliare di
Chopin.
– Ritornando a Parigi dopo un anno d’assenza, Chopin
doveva affrontare il problema di trovare un appartamento
che, senza imporre la coabitazione, favorisse la convivenza
con George. Mi diede le istruzioni ed io trovai dopo molti
tentativi ciò che gli conveniva. Mi occupai anche del cambio
della tappezzeria. Frycek voleva della carta di color tortora,
ma brillante e satinata, e con una bordatura verde scuro, non
troppo larga. Mi occupai del trasloco dei mobili, sistemai le
tende. Partecipai però anche, attivamente, alla ricerca del-
l’appartamento per George, che veniva fatta da un altro in-
caricato. Era un’impresa tutt’altro che facile.
– Perché?
– Le esigenze erano molteplici. Due piccole camere da let-
to (per Maurice e per Solange), una terza camera da letto se-
parata dalle altre due, e attigua ad uno studiolo. La terza ca-
mera e lo studiolo avrebbero dovuto avere un ingresso sepa-
rato. E calma, e silenzio, e nessun fabbro nelle vicinanze, e
niente odoracci, e niente fumo, e nessuna... passeggiatrice, ed
esposizione a Sud, e una bella vista...

231
– L’Araba Fenice.
– Più o meno, in apparenza. Mi mandarono, George e Fry-
cek, un elenco di quattro strade preferite, e uno schizzo di
piantina d’appartamento, di mano di lui. Sembravano due
bambini che volevano la luna. Ma visitando vari palazzi mi
accorsi che la soluzione non era così disperata come m’era
sembrata al primo momento. George aveva in mente un tipo
d’appartamento che negli ultimi anni era diventato abba-
stanza comune, in certi quartieri. Trovai quello che ci voleva,
e ad un buon prezzo, tanto buono da mettere Chopin in so-
spetto che ci fosse un qualche grave inconveniente nascosto.
Mi diceva di verificare che non abitasse nel palazzo un suo-
natore di cornetta o di altri strumenti del genere.
– Fu poi soddisfatto?
– Alla fine non presi quell’appartamento, ma un altro. Fry-
cek mi pressò a un punto tale che trovai in extremis la solu-
zione ottimale per George e indirettamente per lui: due pa-
diglioni in un giardino, in rue Pigalle 16. Grzymała diede la
sua approvazione, e con ciò ebbe termine il mio lavoro di
agente immobiliare. Tuttavia Chopin non andò ad abitare nel
secondo padiglione di rue Pigalle fin dal 1839. La sua situa-
zione era troppo delicata ed egli temeva che il sospetto di una
coabitazione senza matrimonio, per di più con una donna che
come scrittrice non nascondeva la sua ostilità verso l’aristo-
crazia, avrebbe allontanato da lui il gran mondo. Traslocò a
rue Pigalle – ed io mi occupai del trasloco – nell’autunno del
1841, dopo il trionfo ottenuto con l’ormai leggendario con-
certo nella Salle Pleyel.
– Aveste ancora occasione di occuparvi degli affari di Cho-
pin? Dico, quando lui stava a Nohant?
– Trattai ancora con gli editori, ma di meno. Piuttosto,
Frycek mi diede degli incarichi spiccioli. Nel 1841 mi mandò
cento franchi per piccoli pagamenti e per comprare, e spe-
dirgli, una manina d’avorio montata su bastone d’ebano per
grattarsi la testa ...e anche il trattato di contrappunto di Che-
rubini.

232
– E come amanuense?
– Feci la copia della Tarantella op. 43 e consultai la Ta-
rantella di Rossini perché Chopin voleva che la misura del
suo pezzo fosse la stessa del pezzo rossiniano. Copiai anche
la Polacca op. 44, il Preludio op. 45, l’Allegro da concerto op.
46, la Ballata op. 47, i Notturni op. 48 e la Fantasia op. 49.
– Chopin, perdonate l’indiscrezione, vi fece mai delle con-
fidenze sul suo rapporto con la Sand?
– Mai. Non era il tipo da fare delle confidenze. Per lo me-
no, non con me. A parte gli affari mi scrisse soltanto di un so-
gno che lo aveva spaventato: aveva sognato di morire all’o-
spedale. E mi disse: “Se sopravvivi a me saprai se bisogna fi-
darsi dei sogni”. Se fossi stato italiano di spirito come di no-
me avrei fatto le corna.
– Mi avete detto, maestro, della stima di Chopin per
Alkan. Sapete che cosa pensava di Liszt?
– Di Liszt e della sua capacità di dominare qualsiasi platea
con qualsiasi musica aveva la massima stima possibile. Ed
erano anche amici. Della musica di Liszt pensava che fosse un
fuoco d’artificio destinato a non durare. Nel ’41, da Nohant,
mi scrisse: “Liszt sarà forse un giorno deputato o persino re
d’Abissinia o del Congo. Quanto ai motivi delle sue compo-
sizioni, riposeranno insieme ai giornali”. Piuttosto crudo,
non è vero? Chi legge i giornali del giorno prima?
– I vostri rapporti si allentarono quando partiste per l’A-
merica.
– Fu nel 1842, come dicevo. Nel 1848 arrivò a New York
un tizio con una lettera di presentazione di Chopin. Nel po-
scritto alla lettera Chopin mi parlava della situazione politica
in Europa, sconsigliandomi di ritornare. Io mi recai però a
Londra, e Frycek mi scrisse dalla Scozia, dove si trovava. Mi
diceva: “Respiro appena: sono pronto a crepare”. Ma scher-
zava: “Quel che mi rimane è un gran naso e un quarto dito
non esercitato”. Chopin sosteneva che il tentativo di rendere
il quarto dito indipendente dal terzo, imposto dalla didattica
classica, fosse un andare contro natura.

233
– Vi incontraste?
– No. Da Londra ripartii per New York e ritornai in Eu-
ropa solo nel ’52. Abito a Parigi e sono in contatto con la fa-
miglia Chopin. Può darsi che mi occupi della pubblicazione
degli inediti del mio grande amico. Ludwika Chopin mi dice
che c’è un gran materiale: mi sentirò molto onorato, se mi af-
fideranno questo incarico, e cercherò di assolverlo con la più
grande e scrupolosa attenzione.
CON MISS JANE STIRLING

Edimburgo, 4 gennaio 1853

Gentilissimo Dottore, dottor Erdnas Kela,


ho ricevuto la Vostra pregiata del 26 u. s., alla quale ri-
spondo volentieri perché ho letto i Vostri scritti e ritengo Voi
siate persona ben degna di scrivere la biografia del Maestro
Sublime di cui tutti piangiamo la prematura scomparsa. Ave-
te ben ragione di fare appello alla mia devozione nei con-
fronti del Grande Artista di cui ho avuto l’incommensurabi-
le onore di essere allieva per sei anni. La mia devozione per
lui non ha limiti, il mio dolore per la perdita, e per le vicissi-
tudini che travagliarono l’ultimo anno di vita del Maestro,
non accenna a mitigarsi e, credo, non si mitigherà mai, il mio
orgoglio per i grandi riconoscimenti postumi che si accumu-
lano sul nome di Chopin cresce ogni giorno, e sempre più si
radica in me la convinzione di aver potuto immeritatamente
godere della vicinanza di uno fra i più Grandi Spiriti che l’u-
manità abbia avuto. Conservo in me con gelosissima cura il
ricordo dei giorni e delle ore passate con Lui e sfoglio spesso
le musiche che recano le annotazioni di diteggiatura e di
espressione tracciate per me dalla Sua mano. La Sua presen-
za ha dato pienezza alla mia vita e non cesserà di dargliela fi-
no alla mia morte, che spero vicina.
Frédéric Chopin era un maestro serio ma non severo, un

235
maestro che con la gentilezza e l’indulgenza colmava la di-
stanza siderale che mi separava da Lui, un maestro che spin-
se la Sua benevolenza fino al punto di dedicare a me – a me!
– i due Notturni op. 55, il primo che in poche pagine rac-
chiude tutto un mondo di cosmica tristezza, il secondo, al-
l’opposto, come un duetto d’amore, così difficile da rendere
ma così trascinante, così sublime che quando Lui lo suonò
per me mi si annebbiò la vista ed arrossii. Nel mio paese si di-
ce che in Chopin l’espressione del sentimento amoroso è tal-
volta impudica. Non condivido questa opinione ma devo am-
mettere che l’intensità bruciante che si sprigiona da certe pa-
gine Sue mi fa persino provare un po’ di imbarazzo.
Quel che dite a proposito del Suo ultimo viaggio rispon-
de a verità: fui io a proporre al Maestro di recarsi a Londra e
in Scozia nel 1848. Mia sorella ed io lo accogliemmo al Suo
arrivo a Londra. Avevamo cercato di prevedere tutto quello
che gli sarebbe occorso, ci ringraziò molto, e restò commos-
so perché gli avevamo fatto trovare la carta da lettere intesta-
ta. Lo accompagnammo in molte visite alle famiglie più in vi-
sta, forzandolo un po’ perché essere sballottato in carrozza
per tutta la giornata non Gli piaceva (e, lo dico con un certo
rimorso, probabilmente nuoceva alla Sua salute già molto
compromessa). Noi facevamo del nostro meglio, ma non ave-
vamo un piano preciso, selezionato, perché agivamo da di-
lettanti volenterose, non da esperte donne di mondo. A Lon-
dra Chopin ottenne poco, molto di meno, certo, di ciò che
nella nostra ingenuità avevamo sperato.
In agosto arrivò Egli ad Edimburgo e fu ospite a Calder
House di un nostro anziano parente. Avrebbe potuto rima-
nervi per molto tempo, ma non voleva essere di peso a nes-
suno e desiderava guadagnare qualcosa con i concerti. Sape-
vo che la Sua salute ne avrebbe risentito, e tuttavia era per me
impossibile, malgrado tutti i miei sforzi, di convincerLo a ri-
nunciare. Andò a suonare a Manchester, a Glasgow e ad
Edimburgo, riposando sì fra un concerto e l’altro, ma giam-
mai abbastanza. Ai primi di novembre ritornò a Londra. Ci

236
andammo pure mia sorella ed io, ed eravamo veramente spa-
ventate per il Suo aspetto e per il Suo umore malinconico.
Ma, al solito, non sapevamo che fare. Mia sorella Lo infastidì
con discorsi religiosi che subiva con angelica pazienza, seb-
bene Lo annoiassero gravemente. Mi arrabbiai con lei. Tut-
tavia non sapevo veramente che cosa fosse conveniente per il
Maestro, e pensavo, e mi struggevo, e di nulla venivo a capo.
Chopin prese ancora parte ad un concerto di beneficenza per
i suoi compatrioti e partì per Parigi, mia sorella ed io Lo se-
guimmo dopo pochi giorni.
A Parigi il Maestro era più sollevato di spirito, ma si di-
batteva in mezzo a difficoltà economiche. Per darGli un aiu-
to senza offenderLo cercai di farGli arrivare anonimamente
– una delle mie solite ingenuità! – una certa somma. Fu un
tremendo pasticcio, di cui ebbi solo a vergognarmi. Ma alla
fine Lui accettò un prestito, e per lo meno morì in pace. Gli
fu vicina la sorella maggiore, donna di grande equilibrio e di
grande bontà, con la quale ho continuato a mantenere affet-
tuosi rapporti epistolari.
Per onorare la memoria del Maestro ho cercato di classi-
ficare i documenti trovati nel Suo appartamento e li ho spe-
diti alla sorella, alla quale ho fatto anche pervenire, dopo il
suo ritorno in Polonia, il pianoforte Pleyel che il fabbricante
aveva concesso – così si deve dire, me lo suggerisce mio pa-
dre, banchiere – che il fabbricante aveva concesso in como-
dato, e che ho riscattato. Mi sono occupata di sorvegliare la
creazione del monumento funebre, bellissima opera di Au-
guste Clésinger (il marito di Solange, figlia di George Sand),
che fu inaugurato un anno esatto dopo la dipartita del Mae-
stro. In quella circostanza, sapendo quanto il Maestro le aves-
se amate, ricoprii la tomba di violette fresche. Sono molto im-
pegnata anche per la pubblicazione degli inediti. A questo
proposito non concordo del tutto con la scelta di Julian Fon-
tana, amico d’infanzia sì, ma che fu assente da Parigi per un
lungo periodo durante gli ultimi anni di vita del Maestro. Tut-
tavia convengo che la scelta spetta alla famiglia. Spero che un

237
giorno sia possibile rendere pubbliche le opere di Chopin
con le aggiunte di Sua mano, quelle pagine che costituiscono
il mio tesoro più caro e più esclusivo.
E questo, gentilissimo dottore, è tutto quello che sono sta-
ta in grado di dirVi, forzando anche la mia ritrosia per essere
del tutto sincera. È molto poco, in verità, è nulla rispetto al
sentimento profondo che mi lega al ricordo di Lui. Posso so-
lo dire che ho cercato, nella mia pochezza, di fare del mio me-
glio. Vogliate gradire, insieme con le mie scuse per non aver
saputo veramente esprimere ciò che provo, i sensi della mia
alta considerazione

Vostra Miss Jane Wilhelmina Stirling


CON SOLANGE DUDEVANT

– Cara madame Clésinger, come vi ho scritto...


– Sto affrontando, dottore, la causa di separazione da mio
marito e mi riprendo il mio nome da ragazza. Basta Clésin-
ger!
– Solange Sand, allora?
– Magari! Magari! Nelle mie partecipazioni di nozze figu-
ro effettivamente come Solange Sand. Ma Sand è il nom de
plume di mia madre, ed appartiene solo a lei. Solange Dude-
vant. Anzi, per voi, Sol, come mi chiamava Chopin.
– Cara Sol, proprio di Chopin vorrei che mi parlaste, e an-
zi, se non sono indiscreto, della separazione da vostra madre,
che non ho potuto affrontare con lei.
– Per me sta bene. Ma vorrei che partissimo da più lonta-
no.
– Da quando? Da dove?
– Da Perpignan, 31 ottobre 1838. Mio fratello Maurice
aveva quindici anni, io dieci. Nostra madre ci aveva detto che
saremmo andati in Spagna perché ne avrebbe tratto giova-
mento la salute di Maurice, che soffriva di reumatismi. Ag-
giunse che il nostro istitutore Félicien Mallefille non sarebbe
venuto con noi e che avremmo invece avuto la compagnia del
celebre pianista Frédéric Chopin, anche lui bisognoso di un
clima caldo e asciutto e dell’aria di mare. Fummo subito mol-
to eccitati.
– Per la Spagna? O per Chopin?

239
– Per entrambi, ma di più per la Spagna.
– La Spagna è un paese esotico anche oggi, è la Porta d’O-
riente. Capisco la vostra agitazione.
– Ma l’arrivo a Perpignan di Chopin – fresco come una ro-
sa e rosa come una rapa, disse mia madre – fece arretrare per
me la Spagna in secondo piano. Posso dirvi che mi innamo-
rai di lui a prima vista.
– Avevate soltanto dieci anni. Non guardate per caso la
realtà col senno di poi?
– Al contrario. Da adulta ho voluto bene a Chopin come
ad un fratello maggiore. Ma da ragazzina egli fu per me il
Principe Azzurro delle fiabe, il mio Principe Azzurro.
– Ignoravate, penso, quali fossero i rapporti fra vostra ma-
dre e Chopin.
– Naturalmente. Lo capii più tardi, anche dando un signi-
ficato a certi brontolamenti della cameriera che veniva con
noi in Spagna, a certe sue frasi allusive che diventarono chia-
re per me alcuni anni dopo.
– In che cosa consisteva dunque il vostro innamoramen-
to?
– Volevo piacergli, volevo che mi dimostrasse affetto, che
volesse bene a me più che alla mamma e a Maurice. Chopin
era riservato, raramente ti abbracciava, raramente ti dava un
bacio. Ma il suo sguardo era eloquente più di qualsiasi gesto.
Io ero una ragazzina molto, molto vivace, e impertinente. Lo
sguardo di Chopin mi rese mansueta. Durante la traversata
soffrii il mal di mare, e Maurice, quando arrivammo in Spa-
gna, disse che ero cambiata perché avevo vomitato tutto il ve-
leno che c’era in me. Mentre eravamo a Valldemosa mia ma-
dre disse a Chopin – ed io lo sentii – di essere soddisfatta dei
miei progressi: sebbene i miei istinti di resistenza fossero co-
me sempre feroci, il mio carattere era molto migliorato. La
realtà era diversa. Lo sguardo di Chopin mi intimidiva, e vo-
levo piacergli a tutti i costi.
– Ci riusciste?
– Oh, sì! Chopin giocava con me, mi diede anche delle le-

240
zioni di pianoforte senza pretendere che mi impegnassi più
di tanto, fece venire da Parigi i pezzi facili a quattro mani di
Weber per suonarli con me. Quando presi confidenza con lui
il mio temperamento vivace si risvegliò. Gli davo scherzosa-
mente dei pugni sul petto, e lui si scansava ridendo. Ma, per
rispondere in pieno alla vostra domanda, gli affibbiai – pro-
prio non so perché – un soprannome: Senza Sesso.
– Senza Sesso? Se io fossi il mio papà romanziere potrei
farci dei ghirigori mica male, qui sopra.
– Fateli pure, se vi garba, basta che non mi diciate niente.
Non mi importa di sapere perché, da ragazzina, mi compor-
tassi in un certo modo. Il mio rapporto con Chopin divenne
profondamente affettivo da entrambe le parti, nel senso di
amoroso ma non di erotico, dopo il mio matrimonio.
– Cioè dopo che usciste dalla casa di vostra madre. Vole-
te parlarmi di ciò?
– Ancora un attimo di pazienza. Prima voglio ricordare i
momenti felici in cui, senza rendermene conto, ebbi con la
mamma e con Chopin una vita di famiglia.
– E ciò avvenne quando?
– Quando, dopo la Spagna e dopo Marsiglia, andammo a
Nohant. A Marsiglia mia madre scrisse un saggio su Goethe,
Byron e Mickiewicz, e per Mickiewicz, che era un suo amico,
Chopin la aiutò molto. Il saggio piacque enormemente a
Chopin e, patriota com’era, lo inorgoglì il fatto che uno scrit-
tore polacco figurasse accanto ad un tedesco e ad un inglese.
Credo che ciò avesse la sua importanza nel rinsaldare il rap-
porto fra la mamma e Frédéric.
– A Nohant andaste molte volte, non è vero?
– Ci andammo ogni anno dal ’39 al ’47, tranne che nel ’40.
E nel ’47 Chopin non venne, cosa che affrettò la conclusione
del dramma.
– Si tratta di un periodo abbastanza lungo, e in questi casi,
in genere, i rapporti fra le persone subiscono un’evoluzione.
– Tutto andò a gonfie vele fino al ’42. Chopin divenne per
Maurice, e soprattutto per me, un padre putativo. Nel 1840

241
la mamma andò a Cambrai per qualche giorno da sola e noi
due fummo affidati a Chopin, che accantonò i suoi impegni
per restare con noi. Anche quella fu una svolta nei nostri rap-
porti: lo sentimmo ancora più vicino, ancora di più come un
componente la famiglia. Portò Maurice e me al galoppatoio
a cavalcare, ci trattò come principini. Facemmo molte pas-
seggiate, giocammo, parlammo per ore. Una volta, passando
sui Champs Elysées, vedemmo una pesa pubblica. Chopin mi
disse “allons”, e ci pesammo: 42 chili io, 48 e mezzo lui. A
Nohant facevamo delle gite, noi a piedi, lui – che buffo! – su
un asino. Lo prendevo in giro per ciò, e lui non si offendeva.
Avevamo serate di teatro e serate di ballo. Era una vita ma-
gnifica, che durò, con qualche cedimento, fino al ’45.
– Mi dicevate del ’42.
– In quell’anno mia madre scrisse uno dei suoi capolavo-
ri, il romanzo breve La mare au diable. Lo dedicò a Chopin e
gli regalò il manoscritto. Chopin non ricambiò la dedica, e
sebbene mia madre non dicesse nulla penso che in cuor suo
si risentisse un poco. Dopo il ’42, molto lentamente, la loro
intesa cominciò a mostrare delle crepe.
– In che senso?
– Maurice era cresciuto, pretendeva di fare il padrone di
casa e mal tollerava la presenza di un intruso che gli sottrae-
va un po’ dell’affetto materno. Cominciò anche a sbuffare dal
dispetto se c’erano ospiti polacchi, e a fare acide osservazio-
ni. A Chopin piaceva parlare nella sua lingua e si illuminava,
quando arrivavano dei suoi connazionali. Una volta venne la
contessa Laura Czosznowska, molto bella, vedova di un paz-
zoide che tanti anni prima, torturato dalla gelosia (ingiustifi-
cata) si era sparato un colpo in testa in presenza della moglie.
– Conosco questa storia. Un dramma spaventoso e grotte-
sco insieme.
– Laura era una persona piacevolissima, ma Maurice non
la sopportava. Quando lei andò via mio fratello fece delle os-
servazioni ironiche, Chopin si inalberò, ci fu una scenata e
mia madre appoggiò Maurice. Venne preso di mira pure il ca-

242
meriere polacco di Chopin, Jan, a tal punto da farlo licenzia-
re. Chopin divenne anche lui un ospite, non più uno della fa-
miglia. E Maurice si oppose, per il solo gusto di opporsi, ad
un progetto di viaggio in Italia a cui Chopin teneva molto.
Mia madre stravedeva per il suo Bouli, come chiamava Mau-
rice, e non accettava non solo il minimo dissenso, ma neppu-
re la più blanda delle osservazioni critiche su argomenti, co-
me l’educazione dei figli, in cui riteneva non dovessero es-
serci delle intromissioni. E cominciò anche ad essere turbata
dalla gioiosa saldezza dell’intesa fra Chopin e me.
– Credo di indovinare: voi crescevate, non eravate più una
ragazzina...
– Proprio così. Mia madre ebbe l’impressione che civet-
tassi con Chopin e che lui mi... desiderasse.
– La figlia che ruba l’amante alla madre: un classico della
letteratura.
– E della vita. Conosco diversi casi. Ma non si trattava di
questo né per me, credetemi, né per Chopin. Tuttavia mia
madre era diventata sospettosa. In un momento di rabbia mi
disse una frase tremenda, anche se, in realtà, senza capo né
coda. Mi disse: “Tu non gli concederai affatto ciò a cui lui non
aspira, e che otterrebbe del resto, nello stato in cui è, solo la-
sciandoci il suo ultimo respiro”. Le cose peggiorarono, stra-
namente, quando mi fidanzai. Questo avrebbe dovuto met-
terla tranquilla, e invece...
– Ma pensateci un momento, Sol. È un altro classico del-
la letteratura. La figlia non è più una ragazzina, è una pro-
messa sposa, fiorente e trionfante, che fa sentir vecchia la ma-
dre. Nella madre si accende l’ansia di piacere ancora agli uo-
mini, e ciò vale tanto di più quando manca lo scudo protetti-
vo del matrimonio.
– Credo che abbiate ragione, anche perché i periodi in cui
Chopin si ammalava erano frequenti e non brevi. I medici
consigliavano, ...sì, consigliavano e imponevano l’astinenza.
Mia madre, esagerando, mi disse di essere vissuta per anni,
nel fiore dell’età, come una vergine.

243
– Vi eravate fidanzata con Clésinger, non è vero?
– No. Mi ero fidanzata con un ragazzo del Berry, Fernand
de Préaulx, che piaceva molto a Chopin e che mia madre con-
siderava come fin troppo per bene. Clésinger irruppe nella
nostra vita come un uragano, e il mio fidanzamento fu rotto
per iniziativa di mia madre. Chopin espresse la sua disappro-
vazione. Aveva ragione lui, ma la mamma andò su tutte le fu-
rie.
– Raccontatemi bene del vostro fidanzamento con Clésin-
ger. Lo vedo come il preludio alla rottura fra Chopin e vostra
madre.
– E fra mia madre e me. Clésinger era un giovane scultore
emergente. Fu invitato da mia madre ad un concerto privato
che Chopin tenne in casa per pochi amici, lui ci invitò a visi-
tare il suo atelier e si offrì di fare il busto marmoreo alla mam-
ma e a me. Andammo a posare e lui cominciò a circuirci.
– Forse calcolava i vantaggi che gli sarebbero venuti dal
matrimonio con la figlia di una celebre romanziera.
– Esattamente così. Era un uomo spregiudicato. Non mi
vergogno di dirvi – ero giovane e inesperta – che riuscì subi-
to a... sedurmi.
– E ad offrire, immagino, le nozze riparatrici.
– Mia madre era terrorizzata al pensiero che avrei potuto
scoprirmi incinta. Mi sposai a Nohant il 19 maggio. Chopin
fu informato delle nozze imminenti all’inizio del mese. Era
restato a Parigi, ammalato. Rimase sbalordito e disgustato.
– Cosa avvenne poi?
– Fra mio marito e mio fratello c’era una totale incompa-
tibilità di carattere. Mia madre, come dicevo prima, aveva
sempre avuto un debole per Maurice, ...e Chopin per me. Nei
contrasti che sorsero subito fra il figlio e il genero la mamma
parteggiò per il figlio, ...dimenticando la figlia. In luglio ci fu
una scenata terribile. Clésinger si lanciò contro Maurice
brandendo il suo martello da scultore, mia madre, che cercò
di ostacolarlo, si prese un pugno in pieno petto, mio fratello
corse a cercare la pistola. Se in quel momento non fosse ca-

244
sualmente arrivato il parroco di Nohant sarebbe finita molto
male.
– Come finì, invece?
– Mia madre cacciò fuori di casa mio marito. Io non ap-
provavo il suo comportamento ma lo seguii. Ero incinta.
Chiesi a mia madre di poter usare la carrozza di Chopin. Il
permesso mi fu negato ed io scrissi a Chopin.
– Per chiedergli la carrozza?
– Anche. Lo pregai di attendermi prima di partire da Pa-
rigi per Nohant. Volevo vederlo, parlargli, consigliarmi con
lui. Lui mi rispose offrendomi la carrozza, e scrisse in tal sen-
so a mia madre. Mia madre, fuori di sé dalla rabbia, gli rispose
che se fosse venuto a Nohant non avrebbe mai più dovuto
pronunciare il mio nome in sua presenza.
– Intanto voi avevate visto Chopin a Parigi.
– Certo, e gli avevo aperto il mio cuore fino in fondo. Cho-
pin scrisse alla mamma in modo pacato, ma rifiutando in so-
stanza di accettare l’imposizione. Le sue parole resteranno
per sempre impresse nella mia mente: “Voi ricorderete che
intercedevo sempre con voi in favore dei vostri ragazzi senza
fare preferenze, ogni volta che si presentava l’occasione, es-
sendo sicuro che voi siete destinata ad amarli sempre, perché
sono questi i soli affetti che non mutano. La incomprensione
può offuscarli ma non snaturarli. Bisogna che questa incom-
prensione sia assai potente oggi, tanto da impedire al vostro
cuore di sentir parlare di vostra figlia, all’inizio della sua nuo-
va vita, nel momento in cui il suo stato fisico esige più che mai
delle cure materne. In presenza d’un fatto così grave che ri-
guarda i vostri affetti più santi io non mi preoccuperò di ciò
che mi concerne. Il tempo farà la sua parte, io aspetterò –
sempre lo stesso. Vostro devotissimo Ch.”.
– E così la decisione di rompere fu presa da vostra madre.
– Sì. La sua ultima lettera, che Chopin mi mostrò e di cui fe-
ci la copia, tanto mi aveva colpito, era gelida: “Sta bene, ami-
co mio, fate quello che vi detta ora il vostro cuore e prendete
il suo istinto come il linguaggio della vostra coscienza. Capi-

245
sco perfettamente. Quanto a mia figlia, essa non ha bisogno
dell’amore di una madre che detesta e calunnia. A voi piace di
ascoltare tutto ciò e forse di crederci. Non ingaggerò un com-
battimento di questa specie: mi fa orrore. Preferisco vedervi
passare al nemico piuttosto che difendermi da un nemico usci-
to dal mio seno e nutrito con il mio latte. Occupatevi di lei, vi-
sto che a lei credete di dovervi consacrare. Non ve ne vorrò,
ma capite che io mi chiudo nel mio ruolo di madre oltraggiata
e che nulla me ne farà ormai misconoscere l’autorità e la di-
gnità. Già mi basta di essere ingannata e vittima. Vi perdono e
non vi indirizzerò mai alcun rimprovero, visto che la vostra
confessione è sincera. Mi stupisce un po’ ma, se così vi sentite
più libero e più tranquillo, non soffrirò per questo bizzarro
voltafaccia. Addio, amico mio, guarite presto da tutti i vostri
malanni, ed io ringrazierò Dio per questo bizzarro sciogli-
mento di nove anni d’amicizia esclusiva. Datemi di tanto in
tanto vostre notizie. È inutile ormai ritornare sul resto”.
– Ma è terribile, è persino perfida. Immagino quale effet-
to ebbe su Chopin.
– Ne fu molto ferito, ma non cessò di rispettare mia ma-
dre.
– Voi ritenete, Sol, che una crepa nella relazione fosse do-
vuta a Lucrezia, intendo al romanzo Lucrezia Floriani?
– Questa è una tesi, è una voce che fece il giro del mondo.
Ci credettero tutti. Io ho qualche incertezza in proposito. Mia
madre lesse a Chopin quel romanzo a mano a mano che lo
scriveva, come del resto faceva sempre, Chopin non vide se
stesso rispecchiato nel principe Karol de Roswald, ed ap-
provò la storia senza riserve. La mia incertezza nasce dal fat-
to che la mamma lesse a Chopin la prima versione di Lucre-
zia Floriani mentre erano a Parigi. Ai primi di maggio – par-
lo del ’46 – lei partì per Nohant, e lavorando intensamente ri-
scrisse interamente il romanzo. Chopin arrivò a Nohant alla
fine del mese. Può darsi che la seconda versione introduces-
se delle varianti che accentuavano la somiglianza fra Chopin
e il protagonista.

246
– Il protagonista, che è il carnefice (morale), mentre Lu-
crezia, modellata su George Sand, è la vittima. Lucrezia è una
donna sublime e generosa, Karol è un nevrotico che tortura
la sua amante, più anziana di lui e madre di quattro figli, fino
al punto di causarne la morte. A parte l’intreccio romanze-
sco, a me sembra che l’identificazione Lucrezia-George e Ka-
rol-Frédéric sia fuor di dubbio. I dubbi nascono sul caratte-
re dei due: il romanzo non sembra rispecchiare la realtà.
– Infatti, tutti o quasi tutti ritennero che attraverso l’odio-
sità della figura di Karol mia madre volesse giustificare una
rottura premeditata e immotivata. Ma Mickiewicz, che cono-
sceva bene entrambi, prese, stranamente, le parti di mia ma-
dre. Ciò mi stupì, e mi fece riflettere, ...senza costrutto.
– Ho letto il seguito di Lucrezia Floriani, Le Château des
Déserts, pubblicato due anni dopo la morte di Chopin. Il fi-
glio di Lucrezia, Celio, dice che la madre fu “assassinata dal-
l’ingiustizia e dalla follia d’un amante”. George Sand non ha
dunque cambiato parere, e il fatto che, fra lei e voi, lui sce-
gliesse voi causò nel suo orgoglio una ferita insanabile.
– Un piccolissimo indizio mi dice che forse Chopin cam-
biò parere. Una volta, riferendosi alla mamma, la chiamò
“Lucrezia”.
– Credo, cara Sol, che non verremo mai a capo di questa
questione, e quindi io la lascerei lì per aria, al punto in cui sia-
mo arrivati. Che avvenne dopo la rottura?
– Vidi spesso Chopin, anche in compagnia di mio marito,
con il quale si era stabilito un rapporto di estrema cortesia.
Anzi, quel pazzoide di Clésinger diventava, con Chopin, un
agnello. Penso che capitasse a lui quello che tanti anni prima
era capitato a me: voleva piacergli.
– Chopin apprezzava la scultura?
– Apprezzava soprattutto la pittura. Il nudo scultoreo gli
sembrava sempre un po’ indecente. Criticò come troppo vo-
luttuosa una scultura di mio marito, quella della ragazza – nu-
da – con una serpe che le striscia su una coscia.
– Eravate incinta, mi dicevate. Maschio o femmina?

247
– Misi al mondo una bambina e la perdetti dopo poche
settimane. Chopin prima mi scrisse, poi venne a trovarmi e
suonò per me. Fu una vera consolazione. Ci scambiammo let-
tere quando si recò in Inghilterra e quando io andai a parto-
rire – ebbi anche un maschietto – a casa dei miei suoceri.
– E vostra madre?
– Rivide Chopin una volta sola, casualmente. Con me rial-
lacciò il rapporto – come Chopin aveva previsto – e, lo dico
con grande gioia, fu più materna di prima. Credo che fra sé e
sé riconoscesse le sue responsabilità nel mio malriuscito ma-
trimonio. Ma non mi disse mai nulla.
– Voi eravate presente, quando Chopin spirò?
– Andai a trovarlo quasi ogni giorno, durante il suo ulti-
mo mese di vita. A settembre era arrivata da Varsavia la so-
rella di Chopin, Ludwika, che prese le redini della casa. Oltre
a me venivano spesso la principessa Marcelina Czartoryska,
Adolph Gutmann, Thomas Albrecht, Franchomme, Grzy-
mała, l’abate Jelowicki, il pittore Teofil Antoni Kwiatkowski
che lo ritrasse sul letto di morte. Chopin era terrorizzato dal-
l’idea di essere sepolto vivo. Con grande sforzo – non poteva
parlare, era agli estremi – scrisse su un biglietto “Quando
questa tosse mi soffocherà vi prego di far aprire il mio corpo
perché io non sia sepolto vivo”. Poco prima della morte, era
agonizzante, io lo tenevo un po’ sollevato, con la testa ap-
poggiata sul mio petto. Ebbi paura e chiamai Gutmann, che
lo prese fra le braccia. Morì alle due del 17 ottobre. Io ero
presente, e con me c’erano la sorella, la principessa, Gut-
mann e Albrecht.
– Se non sbaglio fu vostro marito a prendere la maschera
mortuaria.
– Sì. La maschera e il calco delle mani. Mio marito scolpì
il monumento funebre, pagato con una sottoscrizione a cui
parteciparono in molti, e inaugurato esattamente un anno do-
po, il 17 ottobre 1850. Il mio matrimonio è andato a rotoli, e
me ne dispiace. Ma qualche volta penso che se Chopin fosse
stato vicino a noi avremmo forse imparato a sopportarci a vi-

248
cenda. La calma interiore di Chopin era una cosa meravi-
gliosa, ...ed era contagiosa.
– Sono stati espressi dei dubbi sullo stato di tisico di Cho-
pin. Ne sapete qualcosa?
– Mia madre, ed io di conseguenza, era convinta che i pol-
moni di Chopin fossero sani. Lo credette sino alla fine. Ma
l’autopsia fatta dal dottor Creuveilhier non ha lasciato dub-
bi: i polmoni erano rosi dal male.
– Come lo ricorderete voi, Chopin?
– Non c’era mai stato uno come lui, e non ci sarà mai più.
CON IL REVERENDO ABATE ALEXANDER JELOWICKI

Parigi, 16 marzo 1853

Sia benedetto il Nostro Signore Gesù Cristo

Molto onorevole dottore,


le informazioni che avete raccolto sulla morte del mio ca-
ro compatriota Chopin sono esatte ed io le confermo per in-
tero, con l’aggiunta di qualche significativo particolare che
mi sta molto a cuore. Sì, Chopin spirò nella pace di Dio, pos-
so affermarlo io, che raccolsi la sua confessione generale, che
lo assolsi nel nome del Signore, che gli diedi la Santa Comu-
nione e che gli impartii l’Estrema Unzione. Chopin raggiun-
se un mondo migliore a soli trentanove anni. Una fine edifi-
cante. Già da parecchi anni la sua vita era attaccata ad un fi-
lo. Il suo corpo debole e debilitato era sempre più consuma-
to dal fuoco del genio. Tutti si stupivano del fatto che in un
corpo così fragile l’anima potesse dimorare senza perdere né
la vivacità dello spirito né il calore del cuore. Il suo viso sem-
brava d’alabastro: era come di ghiaccio, bianco e trasparen-
te. Nei suoi occhi di solito un po’ velati si accendevano tal-
volta degli sguardi lampeggianti. Sempre dolce ed amabile,
spumeggiante di spirito ed estremamente affettuoso, sem-
brava a stento appartenere alla terra. Ma, ahimé, non pensa-
va al cielo. Aveva assai pochi amici buoni, e molti cattivi, sen-

250
za fede, e soprattutto questi ultimi formavano la cerchia dei
suoi adoratori. E i trionfi che aveva riportato nell’arte più dif-
fusa mettevano a tacere nel suo cuore i pianti ineffabili dello
Spirito Santo. La pietas che aveva succhiato con il latte dal se-
no della sua madre polacca non era più per lui altro che un
ricordo di famiglia, mentre l’empietà dei compagni e delle
compagne dei suoi ultimi anni s’infiltrava sempre più nel suo
spirito, tanto ricettivo, come una nuvola di piombo, e si de-
positava sotto forma di dubbio nella sua anima. E grazie sol-
tanto alla sua elegante benevolenza egli non si prendeva gio-
co delle cose sante e ancora non le scherniva. In questo de-
plorevole stato fu attaccato da una mortale malattia di petto.
Andai subito a trovarlo, gli parlai di sua madre, della San-
ta Vergine, poi di nostro Signore Gesù Cristo, gli tracciai il
quadro più tenero della Misericordia Divina. Furono vani
tentativi. Pregai per la sua salvezza, pregarono con me i miei
confratelli, moltiplicai le visite. Finalmente, in un modo per
me insperato, il giorno prima di entrare in agonia Chopin ac-
cettò, di sua spontanea volontà, di riconciliarsi con Dio. La
pazienza, la confidenza in Dio e spesso anche la gioia lo ac-
compagnarono fino al suo ultimo respiro. Nelle più acute sof-
ferenze egli parlava della sua felicità, ringraziava Dio procla-
mando il suo amore per Lui e il suo desiderio di unirsi a Lui
al più presto. Parlava della sua felicità agli amici venuti a dir-
gli addio e che vegliavano nelle camere vicine. Già gli man-
cava il respiro, già sembrava morire, persino non s’udivano
più i suoi gemiti, aveva perduto conoscenza. Tutti, presi dal-
la paura, si accalcarono allora nella sua camera. All’improv-
viso Chopin riaprì gli occhi e, vedendo questa folla davanti a
lui, disse: “Che fanno? Perché non pregano?”. E tutti cadde-
ro con me in ginocchio, ed io recitai la Litania e persino i pro-
testanti mi risposero. E Chopin, che mai non si esprimeva se
non con la più grande, con la più squisita delicatezza, volen-
do esprimermi la sua riconoscenza e descrivere la disgrazia di
coloro che muoiono senza i Sacramenti, mi disse: “Senza te,
mio caro, sarei crepato come un porco”.

251
Spero, onorevole dottore, che queste mie povere parole
sianvi di qualche utilità per il compito meritorio che vi pre-
figgete, e salutandovi distintamente mi professo vostro umi-
le servitore in Gesù Cristo

A. Jelowicki
CON MADAMA PAULINE GARCIA IN VIARDOT

Parigi, 2 aprile 1853

Caro Dottore,
avevo visto Chopin per l’ultima volta a Londra e non sa-
pevo che fosse tornato a Parigi, né che fosse agonizzante. Eb-
bi notizia della sua morte atroce da persone estranee che ven-
nero a chiedermi in pompa magna di prendere parte al Re-
quiem che doveva essere eseguito per Chopin nella chiesa
della Madeleine. Soltanto allora sentii quanto affetto gli por-
tassi. Povero ragazzo, è morto martirizzato dai preti che gli
hanno fatto abbracciare per forza delle reliquie durante sei
ore fino al suo ultimo respiro, circondato da una folla di gen-
te nota e ignota che veniva a singhiozzare al suo capezzale.
C’era sua sorella, è vero, ma la povera donna era lei stessa
troppo presa del suo dolore per pensare a mandar via gli im-
portuni.
Tutte le grandi dame di Parigi si sono sentite in obbligo di
andare a svenire nella sua camera, piena di disegnatori che fa-
cevano alla svelta degli schizzi, un fotografo voleva far met-
tere il letto vicino alla finestra per avere il morente in luce. Al-
lora il buon Gutmann, indignato, mise alla porta questi in-
dustriosi messeri.
In mezzo a tutto ciò Chopin ha trovato la forza di dire ad
ognuno una parola affettuosa. Consolava lui i suoi amici. Ha

253
pregato Gutmann, Franchomme ed altri musicisti di non
suonare ai suoi funerali altro che della buona musica: “Fatelo
per me, sono sicuro che la sentirò, e mi farà piacere”. Qual-
che istante prima della morte aveva pregato Madame Po-
tocka di cantargli un salmo di Marcello, e s’è spento sull’ulti-
ma nota. Era una nobile creatura. Sono felice d’averlo cono-
sciuto e d’aver ottenuto un po’ della sua amicizia.
Vi saluto con la più sincera cordialità

Pauline Viardot
CON LA CONTESSA DELPHINE POTOCKA NATA KOMAR

Nizza, 6 maggio 1853

Caro Samud,
non posso confermarvi la notizia, anzi, devo rettificarla.
Seppi della gravità dell’ultima malattia di Fryderyk mentre
mi trovavo qui a Nizza (ho fondato, come forse saprete, un
educandato per fanciulle). Partii immediatamente. Appena
arrivata a Parigi – era il 15 ottobre – corsi al n. 12 di Place
Vendôme. L’appartamento del mio sventurato amico non era
situato nella parte del palazzo che dà sulla piazza, ma nel cor-
tile, al piano rialzato, ed io stentai un po’ a trovarlo. Ero ter-
ribilmente agitata e la vista di Fryderyk, cereo, quasi privo di
vita, mi raggelò il sangue. Mi accolse con un sorriso che non
dimenticherò mai più, un sorriso celestiale. E mi chiese di
cantare per lui. Sapete, tante volte aveva accompagnato al
pianoforte il mio canto, aveva anche fatto per me una versio-
ne di “Casta Diva” della Norma. Quanto mi sarebbe piaciu-
to, cantare ancora per lui, mentre lui mi accompagnava. Ma
era morente. E allora dissi a me stessa: “Coraggio, Delphine,
per un po’ di tempo hai studiato con lui il pianoforte. Mo-
strati degna del tuo maestro”. Albrecht spinse il pianoforte,
dalla stanza vicina, fin sulla porta della camera da letto. E co-
sì cantai, accompagnandomi da sola. Ma non un salmo di
Marcello, bensì il Dignare Domine del Te Deum in re mag-

255
giore di Händel. Subito dopo, con sommo dispiacere, dovet-
ti ripartire per Nizza, e non potei ritornare per i funerali.
Avevo conosciuto Fryderyk a Dresda, lo avevo ritrovato a
Parigi ed eravamo stati tante volte insieme per fare musica,
per chiacchierare, per la gioia di essere amici. Era stato l’in-
segnante di pianoforte delle mie sorelle e mio, e quando sten-
tava ancora, malgrado il suo genio, a trovare delle allieve, lo
avevo presentato ad un distinto gentiluomo, il conte di
Flahaut, molto amante della musica. Le contessine erano sta-
te le prime allieve francesi di Fryderyk, poi aveva avuto così
tante richieste da non poterle soddisfare tutte. È stato il più
caro amico che io abbia avuto, non ne piangerò mai abba-
stanza la perdita.
Un affettuoso saluto da

Delphine Potocka nata Komar


CON MASTRO NICOLAS RIDEL

Parigi, 28 maggio 1853

Stimatissimo Dottore,
come battitore d’asta sono in grado di darvi, e lo faccio
molto volentieri dopo aver consultato gli appunti che sempre
prendo nell’esercizio del mio mestiere, le informazioni che mi
chiedete. La morte del signor Frédéric-François Chopin fu
immediatamente comunicata dal signor Thomas Albrecht al
mio collega Eugène Pierre Louveau, giudice di pace. Secon-
do la legge francese, se in caso di morte non sono presenti tut-
ti gli aventi diritto alla eredità si devono apporre i sigilli e si
deve procedere all’inventario. Il signor Louveau, accompa-
gnato dal cancelliere, si recò nell’appartamento occupato dal
fu maestro Chopin al n. 12 della Place Vendôme, e dalle 12
alle 7 della sera (il defunto era spirato alle 2 della notte) fece
diligentemente ciò che la legge gli imponeva di fare, tanto che
io potei agevolmente predisporre l’asta. I mobili e gli oggetti
inventariati furono trasportati all’Hotel des Ventes ed esitati
da me in asta pubblica il 30 novembre 1849. Il materiale era
stato diviso in lotti, e il mio martello batté settanta volte. Il ri-
cavato della vendita fu di franchi 6.952,25 (dico franchi sei-
milanovecentocinquantadue e centesimi venticinque), som-
ma che, dedotte le spese, si ridusse a franchi 6.142,40 (dico
franchi seimilacentoquarantadue e centesimi quaranta). Ver-

257
sai la somma, in buona moneta metallica, alla sorella del de-
funto, la signora Louise, il 5 dicembre. La dama, squisita, am-
mirevole persona, si mostrò molto preoccupata. Mi confidò
che la spesa da saldare, compreso l’acquisto di una conces-
sione al cimitero Père-Lachaise, ammontava a franchi
7365,55 (dico franchi settemilatrecentosessantacinque e cen-
tesimi cinquantacinque), e che quindi restavano scoperti
franchi 1223,15 (dico franchi milleduecentoventitre e cente-
simi quindici). Le espressi la mia solidarietà, purtroppo vana.
Ma ero certo di essere riuscito a ricavare dalla vendita il mas-
simo risultato possibile. Mi stupì invece il fatto che un artista
così celebre e così ammirato, e la cui scomparsa aveva pro-
vocato ampie e laudative necrologie in tutti i giornali, la-
sciasse ai suoi eredi, invece di un patrimonio da spartirsi, un
debito da saldare. E mi sovvenni dell’antico detto che non è
tutt’oro quello che luce.
Stimatissimo dottore, vi riverisco distintamente

Mastro Nicolas Ridel

P.S. No, nel lascito del defunto Maestro, stranamente, non


si trovavano musiche.
Cronologia della vita
di Fryderyk Franciszek Chopin
1810 Nasce alle 18 del 1° marzo a Żelazowa Wola, ad una cin-
quantina di chilometri da Varsavia, secondo figlio di Ni-
colas e di Justyna Krzyżanowska (la sorella maggiore
Ludwika era nata nel 1807 a Varsavia). Viene battezzato
nella chiesa di Brochow il 23 aprile. Nell’atto di battesi-
mo la data di nascita è indicata al 22 febbraio, ma diver-
se dichiarazioni scritte di Chopin e l’abitudine della sua
famiglia di festeggiarne l’onomastico il 1º marzo ci dico-
no che la data del 22 febbraio fu probabilmente comuni-
cata al parroco, per un banale errore di calcolo, dal pa-
dre.
Il 2 settembre Nicolas Chopin viene nominato professo-
re di lingua e letteratura francese nel liceo di Varsavia,
appena aperto. La famiglia Chopin si trasferisce nella ca-
pitale.
1811 Nasce a Varsavia Izabela, sorella minore di Chopin.
1812 Nasce a Varsavia l’altra sorella minore, Emilia.
1817 Inizia a prendere lezioni di pianoforte con Wojciech
Żywny, sessantunenne musicista nato in Boemia e resi-
dente in Polonia da una trentina d’anni. Con lui Chopin
studierà fino al 1822. Viene pubblicato a Varsavia il pri-
mo lavoro composto da Chopin, una breve Polacca in sol
minore per pianoforte.
1818 Prima apparizione in pubblico, il 24 febbraio, in una se-
rata di beneficenza nel palazzo del principe Radziwiłł:
Chopin esegue un movimento del Concerto in mi mino-
re di Adalbert Gyrowetz. Suona per l’arciduca Costanti-
no, comandante dell’esercito polacco, e gli offre una
Marcia che viene eseguita da una banda sulla piazza di
Sassonia. Nel corso dell’anno e negli anni successivi Cho-

261
pin viene spesso invitato a suonare nei palazzi dell’ari-
stocrazia.
Il 26 settembre la zarina madre visita il liceo di Varsavia:
Chopin le offre il manoscritto di due sue Polacche.
1819 Angelica Catalani, a Varsavia per concerti, ascolta un’im-
provvisazione di Chopin e gli dona un orologio da tasca
con incisa una dedica.
1821 Risale a quest’anno il primo manoscritto musicale cono-
sciuto, di mano di Chopin: si tratta di una Polacca in la
bemolle maggiore, offerta a Żywny, il 23 aprile, per il suo
compleanno.
1822 Inizio delle lezioni private di composizione con il Jozéf
Elsner, cinquantatreenne musicista nato in Slesia, resi-
dente a Varsavia dal 1799 e direttore del locale teatro del-
l’opera.
1823 Il 24 febbraio esegue in pubblico il Concerto n. 3 di Fer-
dinand Ries e il 5 marzo il Concerto n. 5 di John Field.
Viene iscritto nella quarta classe del liceo. La sua educa-
zione era stata in precedenza curata da suo padre.
1824 Termina il suo primo anno di scuola con un’ottima clas-
sificazione. In agosto trascorre le vacanze a Szafarnia, do-
ve studia il Concerto n. 1 di Kalkbrenner. Il 6 dicembre
viene rappresentata in casa Chopin la commedia in versi
L’errore o Il presunto imbroglione di Emilia e Fryderyk
Chopin. I due autori interpretano i ruoli principali.
1825 All’inizio di maggio lo zar Alessandro I assiste nella Chie-
sa Evangelica Protestante di Varsavia al concerto di pre-
sentazione dell’Aelomelodicon, strumento misto fra pia-
noforte e organo, suonato da Chopin. Al termine dell’esi-
bizione lo zar dona a Chopin un anello con brillanti. Il 27
maggio Chopin suona sull’Aelopantaleon, affine all’Aelo-
melodicon, il primo movimento del Concerto n. 3 di Mo-
scheles. Prende lezioni di organo da Wilhelm Würfel,
trentacinquenne pianista e compositore boemo, residen-
te a Varsavia dal 1815, e suona ogni domenica l’organo du-
rante la messa cantata dagli allievi del liceo nella Chiesa
delle Visitandine. Vacanze a Szafarnia e a Kowalewo.
1826 Il 27 luglio ottiene con un anno d’anticipo il certificato
di maturità liceale e il giorno successivo parte con la ma-

262
dre e le sorelle Ludwika ed Emilia per Reinertz, dove tra-
scorre le vacanze. L’11 agosto prende parte ad un con-
certo di beneficenza. A settembre si iscrive alla Scuola
Superiore di Musica, studiandovi con l’Elsner.
1827 Muore di tubercolosi polmonare il 10 aprile, a quattor-
dici anni, Emilia Chopin.
1828 Hummel arriva in primavera a Varsavia e vi tiene concerti
al Teatro Nazionale e nel Municipio, eseguendo musiche
sue (concerti con orchestra, musica da camera) e im-
provvisando. Chopin gli viene presentato e il famosissi-
mo maestro assume verso il giovane genio un atteggia-
mento di schietta simpatia.
Chopin si reca in settembre a Berlino in compagnia di
uno zoologo che partecipa ad un congresso. Durante il
viaggio di ritorno prende parte ad un concerto a Pozńan.
1829 A metà maggio arriva a Varsavia Paganini, venuto in oc-
casione dell’incoronazione dello zar Nicola I. Paganini si
trattiene a Varsavia fino a metà luglio e tiene dieci con-
certi al Teatro Nazionale. Chopin gli viene presentato.
Conclude in luglio gli studi di composizione. Percorren-
do la strada di Cracovia si reca a Vienna, dove prende
parte a due concerti l’11 e il 18 agosto; esegue le Varia-
zioni op. 2 e il Krakowiak op. 14 e improvvisa su un te-
ma della Dame blanche di Boïeldieu. Ritorna a Varsavia
passando per Praga, Teplitz e Dresda. A Teplitz, in casa
del principe Clary, improvvisa su un tema del Mosè in
Egitto di Rossini.
Il 3 ottobre, scrivendo all’amico Titus Woyciechowski,
confessa di essere innamorato da circa sei mesi di Kon-
stancja Gładkowska, cantante, allieva della scuola di mu-
sica. In ottobre soggiorna per una settimana presso il
principe Radziwiłł nel castello di Antonin e il 19 dicem-
bre prende parte ad un concerto a Varsavia.
1830 L’8 febbraio esegue il Concerto op. 21 in casa sua con
un’orchestra ridotta. La prima esecuzione pubblica del
Concerto e della Fantasia op. 13 ha luogo il 17 marzo nel
Teatro Nazionale. Il 22 marzo viene ripetuto il Concerto,
insieme con il Krakowiak op. 14 ed un’improvvisazione
su una canzone popolare polacca. L’8 luglio prende par-

263
te al concerto della cantante Barbara Majerova nel Tea-
tro Nazionale, eseguendo le Variazioni op. 2. Il 22 set-
tembre prova in casa sua, con un’orchestra ridotta, il
Concerto op. 11, davanti ad un ristretto pubblico di in-
vitati. L’11 ottobre esegue per la prima volta al Teatro
Nazionale il Concerto op. 11, insieme con la Fantasia op.
13. Al concerto, che sarà l’ultimo tenuto da Chopin a
Varsavia, prende parte Konstancja Gładkowska.
Parte per Vienna il 2 novembre, salutato dagli amici che
eseguono una piccola cantata in suo onore, composta da
Elsner. Durante il viaggio suona a Breslavia, il 7 novem-
bre, il terzo movimento del Concerto op. 11, e improvvi-
sa su un tema della Muta di Portici di Auber; prosegue
per Praga e Dresda ed arriva a Vienna il 23 novembre.
Il 29 novembre scoppia a Varsavia l’insurrezione: i russi
sono costretti alla fuga. Chopin vorrebbe rientrare in pa-
tria ma viene dissuaso dal padre. Conosce Giovanni Mal-
fatti, medico di Beethoven, e il violinista Josef Slavik, con
il quale progetta di scrivere un duo. Progetta inoltre di
scrivere un concerto per due pianoforti, da suonare con
l’ex compagno di scuola Tomasz Nidecki, che studia a
Vienna.
1831 Nel corso dell’inverno fa un’intensa vita di società e co-
nosce molti musicisti, ma non riesce ad organizzare un
suo concerto. Il 4 aprile dovrebbe prender parte ad un
concerto a beneficio della cantante Garcia-Vestris, che
viene annullato. L’11 giugno esegue il Concerto op. 11 in
una serata mista durante la quale ha luogo la prima rap-
presentazione del balletto Theodosia del conte Gallen-
berg. Il 20 luglio parte per Parigi. Il 28 esegue a Monaco
il Concerto op. 11 e la Fantasia op. 13. Proseguendo per
Parigi fa sosta a Stoccarda dove, in settembre, gli giunge
la drammatica notizia della presa di Varsavia da parte dei
russi. Arriva a Parigi alla fine del mese e in breve fa mol-
te conoscenze fra i musicisti e gli artisti. In dicembre
Konstancja Gładkowska si sposa.
1832 Dopo due rinvii ha luogo il 26 febbraio il concerto d’e-
sordio a Parigi di Chopin, che suona nella Salle Pleyel,
con accompagnamento del solo quartetto d’archi, un suo

264
Concerto (quasi certamente l’op. 11) e le Variazioni op.
2, partecipando inoltre alla prima esecuzione della Intro-
duzione, Marcia e Polacca brillante per sei pianoforti di
Kalkbrenner. Kalkbrenner si propone a Chopin come
suo insegnante per un corso di perfezionamento di tre
anni. Chopin prima esita, poi, sentito il parere di Elsner,
rifiuta. Comincia a dare lezioni private di pianoforte ad
allieve dell’aristocrazia e in breve diviene l’insegnante
più ricercato di Parigi. Trova in Maurice Schlesinger un
editore disposto a pubblicare tutti i suoi lavori.
1833 Il 2 aprile prende parte ad un concerto organizzato da
Berlioz, suonando a quattro mani con Liszt, e il 3 suona,
con Liszt e i fratelli Herz, un lavoro di Henri Herz per
due pianoforti a otto mani. Diventa membro della So-
cietà Letteraria Polacca. Passa le vacanze a Tours, nella
casa paterna del violoncellista Auguste Franchomme.
1834 In maggio si reca ad Aachen in compagnia di Ferdinand
Hiller e vi incontra Mendelssohn, conosciuto a Parigi nel
1832. In compagnia di Mendelssohn visita Colonia, pro-
seguendo poi per Coblenza e Düsseldorf.
Il 14 dicembre prende parte ad un concerto di Berlioz,
eseguendo il secondo movimento del Concerto op. 21, e
il 25 dicembre partecipa ad un altro concerto, suonando
a quattro mani e a due pianoforti con Liszt.
1835 Il 22 febbraio prende parte ad un concerto di musiche di
Hiller, suonando con questi a due pianoforti. Il 15 mar-
zo prende parte ad un concerto di Camille Stamaty, il 5
aprile esegue il Concerto op. 11 e, con Liszt, il Duo di
Hiller in un concerto a beneficio degli esuli polacchi. Il
26 aprile si presenta nella sala del Conservatorio per ese-
guire sotto la direzione di François Habeneck l’Andante
spianato e Grande Polacca brillante op. 22.
In luglio trascorre alcune settimane a Enghien-les-Bains
ma, venuto a conoscenza della decisione dei suoi genito-
ri di recarsi a Carlsbad, raggiunge il 15 agosto la località
termale boema e vi si ferma per tre settimane. Dal 6 set-
tembre soggiorna con i genitori a Tetschen nel castello
del conte Thun-Hohenstein e dopo la metà del mese si
reca a Dresda, dove incontra i Wodziński, conosciuti a

265
Varsavia negli anni del liceo, con i quali era in contatto
epistolare dall’anno precedente. Il 26 settembre raggiun-
ge Lipsia, dove incontra Mendelssohn, Schumann, Clara
e Friedrich Wieck, e gli editori che pubblicano i suoi la-
vori in Germania. Durante il viaggio di ritorno si amma-
la: sui giornali tedeschi esce la notizia della sua morte.
1836 Il 28 luglio arriva a Marienbad e vi passa un mese di va-
canza in compagnia dei Wodziński. In settembre, a Dre-
sda, chiede la mano di Maria Wodzińka: la ragazza e la
madre acconsentono, ma manca il consenso del padre, in
quel momento assente. L’11 settembre è a Lipsia, dove
incontra Schumann. Il 5 novembre, nell’appartamento di
Liszt e Marie d’Agoult nell’Hotel de France di Parigi, co-
nosce George Sand. Il 13 dicembre la invita, insieme con
altri amici, ad una serata musicale in casa sua.
1837 Durante l’inverno incontra varie volte George Sand. La
corrispondenza con i Wodziński, frequente ed affettuosa
nell’autunno dell’anno precedente, si fa a mano a mano
più rara e più distaccata. Del matrimonio non si fa più
parola. In luglio Chopin si reca a Londra in compagnia
di Camille Pleyel. Non accoglie l’invito di George Sand
di passare alcune settimane dell’estate nella sua residen-
za di campagna a Nohant nel Berry.
1838 Il 25 febbraio suona nel Castello delle Tuileries per il re
Luigi Filippo e per la famiglia reale. Il 3 marzo prende
parte ad un concerto di Alkan. Il 12 marzo suona a
Rouen, invitato da un amico polacco che ha preso la re-
sidenza in quella città, il Concerto op. 11.
Alla fine di giugno la Sand e Chopin sono ritratti insieme
da Delacroix in un quadro che dopo la morte del pittore
viene tagliato (il ritratto di Chopin è ora al Louvre, quel-
lo della Sand nella Gipsoteca di Copenhagen). Fra giu-
gno e luglio il rapporto con la Sand si evolve al punto che
i due decidono di vivere insieme. Il 31 ottobre Chopin
raggiunge a Perpignan la Sand, giuntavi con i due figli ed
una cameriera. Il 1° novembre i viaggiatori si imbarcano
a Port-Vendres e giungono a Barcellona il 2; il 7 si imbar-
cano per Palma di Maiorca, giungendovi l’8 e prenden-
dovi alloggio in un appartamento in Calle de la Marina.

266
Il 15 novembre Chopin, la Sand e i suoi familiari pren-
dono alloggio nei sobborghi di Palma, il 10 dicembre,
scacciati dal padrone di casa che vede in Chopin il mala-
to di tisi, vengono ospitati dal console francese, e il 15 di-
cembre si spostano nell’abbazia gotica di Valldemosa.
1839 Valldemosa viene lasciata l’11 febbraio, il 13 il gruppo si
imbarca per Barcellona, giungendovi il 14. Chopin, in
pessimo stato di salute, viene curato dal medico di un ba-
stimento francese. Dal 18 al 20 i viaggiatori restano ad
Arenys de Mar, ospiti di un conoscente della Sand. Il 22
si imbarcano per Marsiglia, vi giungono il 24 e vi si fer-
mano fino al 22 maggio, salvo che per una gita a Geno-
va, con partenza il 3 maggio e ritorno il 18. Partendo da
Marsiglia il 22 arrivano a Nohant il 1° giugno e vi resta-
no fino al 10 ottobre.
Il 29 ottobre Chopin e Moscheles suonano, singolar-
mente e a quattro mani, nel Castello di Saint-Cloud per
il re e la famiglia reale.
1840 La Sand e Chopin restano a Parigi per tutto l’anno, fa-
cendo soltanto alcune gite nei dintorni della città.
1841 Il 26 aprile Chopin tiene un concerto nella Salle Pleyel in
compagnia del soprano Laure Cinti-Damoreau e del vio-
linista Heinrich Ernst. Soggiorno a Nohant dal 20 giugno
al 31 ottobre, salvo una corsa di Chopin a Parigi dal 25
al 29 settembre.
Maria Wodzińska sposa Jozéf Skarbek; il matrimonio
verrà annullato dalla Sacra Rota.
1842 Il 21 febbraio Chopin tiene un concerto nella Salle Pleyel
avendo come partner il contralto Pauline Viardot e il vio-
loncellista Auguste Franchomme. Nello stesso giorno
muore il primo maestro di Chopin, Wojciech Żywny. Il
20 aprile muore a Parigi di tisi, a trentatre anni, Jan Ma-
tuszyński, amico d’infanzia di Chopin. Dal 7 maggio al 28
luglio Chopin e la Sand soggiornano a Nohant, rientrano
a Parigi dal 30 luglio all’8 agosto e sono di nuovo a
Nohant dal 9 agosto al 27 settembre.
1843 A Parigi fino al 21 maggio, a Nohant dal 22 maggio al 28
ottobre, salvo un viaggio a Parigi di Chopin dal 13 al 17
agosto.

267
1844 Muore a Varsavia, il 3 maggio, Nicolas Chopin; la notizia
della morte perviene a Chopin il 25 maggio. La Sand scri-
ve alla vedova, che risponde ringraziando. Soggiorno a
Nohant dal 31 maggio. Il 15 luglio Chopin si reca a Pari-
gi per accogliere la sorella Ludwika e il cognato, fa loro
visitare la città e rientra a Nohant il 26. Ludwika e il ma-
rito raggiungono Nohant il 9 agosto e vi restano fino al
27. Chopin li accompagna a Parigi e rientra a Nohant il
3 settembre. Fa una scappata a Parigi dal 22 al 27 set-
tembre e vi ritorna definitivamente il 28 novembre, men-
tre la Sand resta a Nohant fino alla metà di dicembre.
1845 A Parigi fino al 12 giugno, a Nohant dal 13 giugno al 27
novembre, ma Chopin rientra a Parigi dal 19 al 25 set-
tembre. Tra il 29 ottobre e il 1° novembre la Sand scrive
il romanzo breve La mare au diable che dedica a Chopin,
donandogli anche l’autografo.
1846 A Parigi fino al 26 maggio, a Nohant dal 27 maggio al 10
novembre. Dal 25 giugno esce a puntate sul Courrier
français il romanzo di George Sand Lucrezia Floriani. Gli
amici della coppia ritengono di riconoscere nella sublime
protagonista la Sand e nel suo nevrotico amante Chopin.
In novembre la figlia della Sand, Solange, si fidanza con
Fernand de Preaulx.
1847 La Sand, la figlia e il fidanzato di questa, il figlio Mauri-
ce e una ragazza, lontana parente e protetta della Sand,
arrivano a Parigi in febbraio. In marzo lo scultore Augu-
ste-Jean-Baptiste Clésinger comincia a scolpire i busti
della Sand e di Solange. Rottura del fidanzamento di So-
lange. In aprile la Sand e i suoi rientrano a Nohant, Clé-
singer vi si reca poco dopo e si fidanza con Solange; il ma-
trimonio ha luogo il 19 maggio. Chopin, malato, non può
recarsi a Nohant.
Esplodono in luglio violenti litigi fra Clésinger e Mauri-
ce. La Sand scaccia il genero e Solange segue il marito.
Chopin viene informato da Solange dell’accaduto e scri-
ve alla Sand. Questa ha l’impressione che l’amante si sia
schierato contro di lei e dalla parte di Solange e gli man-
da il 28 luglio una durissima lettera con la quale rompe il
rapporto, definito “amicizia esclusiva durata nove anni”.

268
1848 Suona il 16 febbraio nella Salle Pleyel in compagnia del
soprano Antonia Molina di Mondi, del tenore Gustave-
Hippolyth Roger, del violinista Delphin Alard e del vio-
loncellista Auguste Franchomme. Il successo pieno del-
la serata consiglierebbe una ripetizione a breve termine,
ma il 22 scoppiano a Parigi i moti che provocano l’abdi-
cazione del re Luigi Filippo e la proclamazione della re-
pubblica. Il 28 febbraio Solange partorisce una figlia, che
muore il 7 marzo. Il 4 marzo Chopin incontra casual-
mente George Sand sulla soglia di casa della contessa
Marliani: la breve conversazione che segue sarà l’ultima
fra i due.
Il 19 aprile, su invito pressante dell’allieva Jane Stirling,
Chopin parte per Londra, dove arriva il 20. Conosce
molti personaggi, suona il 15 maggio, nel palazzo della
duchessa di Sutherland, in presenza della regina Vittoria
e del principe consorte Alberto ma non viene invitato a
corte. Tiene due concerti privati: il 23 giugno nel palaz-
zo della ex-cantante Adelaide Sartoris e il 7 luglio nel pa-
lazzo di lord Falmouth. Il 5 agosto parte per Edimburgo,
vi rimane qualche giorno e si reca quindi a Calder Hou-
se, nei dintorni di Edimburgo, ospite di lord Torpichen,
cognato della Stirling.
Suona a Manchester il 28 agosto, il 27 settembre a Glas-
gow e il 4 ottobre ad Edimburgo. Ritorna a Londra il 31
ottobre. Il 16 novembre prende parte ad un concerto or-
ganizzato dalla Società Polacca di Londra: è la sua ulti-
ma apparizione come concertista. Il 23 novembre parte
da Londra ed arriva a Parigi il giorno dopo, in pessimo
stato di salute.
1849 La salute di Chopin ha un miglioramento in primavera,
tanto che può riprendere a dare qualche lezione. Il 20
aprile assiste alla prima rappresentazione del Prophète di
Meyerbeer. All’inizio di giugno trasloca in un apparta-
mento sulla collina di Chaillot. Compone i suoi due ulti-
mi lavori, le mazurche in sol minore e in fa minore pub-
blicate con i numeri d’opera postumi, rispettivamente,
67 n. 2 e 68 n. 4. Il 9 settembre arriva a Parigi insieme con
il marito e la figlioletta la sorella Ludwika, che lo assisterà

269
fino alla fine. Negli ultimi giorni del mese Chopin traslo-
ca in un nuovo appartamento, al n. 12 di Place Vendome.
Il suo stato di salute peggiora rapidamente. Riceve i Sa-
cramenti e spira alle 2 del mattino il 17 ottobre. Clésin-
ger prende le impronte del viso e della mano sinistra.
Nello stesso giorno, dalle 12 alle 19, il giudice di pace
procede all’inventario dei beni ed appone i sigilli. Il dot-
tor Jean Cruveilhier, medico curante di Chopin, procede
all’autopsia ed estrae il cuore, che viene collocato in un
bagno di formalina in un’urna.
Il servizio funebre ha luogo il 30 ottobre, nella chiesa del-
la Madeleine. Durante la cerimonia vengono eseguiti il
Requiem di Mozart, la Marcia funebre della Sonata op.
35, orchestrata da Napoléon Réber, e i Preludi op. 28 nn.
4 e 6 trascritti per organo da Louis Lefébure-Wely. Il cor-
teo, guidato dal principe Czartoryski e da Giacomo
Meyerbeer, si avvia quindi verso il cimitero del Père-La-
chaise, luogo della sepoltura; tengono i cordoni del car-
ro funebre Alexandre Czartoryski, Franchomme, Dela-
croix e Camille Pleyel. Il cuore verrà portato a Varsavia
dalla sorella e sarà collocato nella Chiesa di Santa Croce.
Il 30 novembre ha luogo la vendita in asta pubblica dei
beni di Chopin. Si forma un comitato degli amici di Cho-
pin, presieduto da Delacroix. Il monumento funebre,
scolpito da Clésinger, sarà inaugurato il 17 ottobre 1850.
Nota dell ’autore

Mentre si avvicinava il bicentenario della sua nascita avevo in


mente di dedicare a Chopin una pubblicazione, ma una pub-
blicazione che fosse destinata ad un lettore non specificata-
mente interessato alla musica quanto, piuttosto, alla cono-
scenza di un grande personaggio, di un protagonista nella sto-
ria della civiltà. Scartando quindi già in partenza la soluzione
dell’analisi delle opere e della biografia combinata con l’anali-
si delle opere, scartai successivamente anche la soluzione del-
la biografia pura. Nulla di veramente inedito era stato scoper-
to dopo l’ormai annosa pubblicazione del minuziosissimo F.
Chopin, l’uomo (3 voll., Ed. Sapere, Milano-Roma 1974) di
Gastone Belotti e del Frédéric Chopin di Tadeusz A. Zieliński
(Polskie Wydawnictwo Muzycne, Varsavia 1993, trad. france-
se Fayard, Parigi 1995). D’altra parte, sia il Belotti che lo Zie-
liński, e con loro molti altri biografi, si erano occupati di Cho-
pin e delle sue vicende mettendole in relazione con il contesto
storico e culturale ma non, o molto marginalmente, con il con-
testo esistenziale in cui erano avvenute. Mi sembrò allora di
poter fare un lavoro utile e non ripetitivo reimmergendo Cho-
pin nel flusso della vita dal quale era emerso per passare alla
storia, e di spiegare come le sue scelte di uomo e di artista fos-
sero avvenute non in un campo aperto ma entro un raggio di
possibilità ben delimitato. A questo punto l’unica soluzione
che riuscii ad immaginare, senza gravare il testo di spiegazio-
ni a piè di pagina, fu di far parlare lo stesso Chopin e coloro
che con Chopin ebbero, almeno per un certo periodo, fre-
quenti rapporti. Era evidente per me che questa decisione

271
comportava dei rischi, ma decisi che, dati gli scopi che mi pro-
ponevo, valesse la pena di correrli. E l’Editore, che ringrazio
per ciò, condivise la mia scelta.
Il documento sul quale mi sono in primis basato è l’epi-
stolario curato da Bronisław Edward Sydow con la collabo-
razione di Suzanne e Denise Chainaye e di Iréne Sydow (Cor-
respondance de Frédéric Chopin, 3 voll., Richard Masse, Pari-
gi 1953-1960, ripubblicati nel 1981). Questo epistolario, a
tutt’oggi il più completo che esista, fu a suo tempo una ma-
gnifica iniziativa, ma a distanza di mezzo secolo si presenta
molto datato, povero com’è di note esplicative e condotto se-
condo criteri che appaiono nettamente superati. Tuttavia,
nell’attesa di un nuovo epistolario scientificamente più atten-
dibile, non c’è altro da fare che ringraziare ancora una volta
il Sydow e... saccheggiarlo. Ho tenuto conto, oltre che delle
biografie del Belotti e dello Zieliński, di altre che non cito per-
ché non ho ricavato da esse nulla di utile per me. Mi sono val-
so inoltre dei pochi documenti contenuti in Sur le traces de
Frédéric Chopin (a cura di Danièle Pistone, Librairie Honoré
Champion, Parigi 1984). Per il rapporto fra Chopin e Geor-
ge Sand ho trovato preziose informazioni ed acute analisi in
Chopin dans la vie et l’oeuvre de George Sand di Marie-Paule
Rambeau (Société d’Éditions “Les Belles Lettres”, Parigi
1985) e in minor misura in Chopin chez George Sand à Nohant
di Sylvie Delaigue-Moins (Les amis de Nohant, Châteauroux
1986). Ho consultato senza cavarne molto Un hiver à Major-
que della Sand (Ediciones de Ayer, Palma di Maiorca 1971)
ed ho scorso – non posso dire di averle lette – le novecento
pagine del suo romanzo Consuelo (Éditions Phébus, Parigi
1999), in cui si parla molto di musica per la semplice ragione
che la protagonista è una cantante, allieva di Porpora, e per-
ché vi compaiono a profusione lo stesso Porpora e Haydn.
Non mi è sembrato però che le idee sulla musica che si tro-
vano nel romanzo siano da ricondurre a Chopin. Qualche
spunto mi è stato offerto da particolari dell’epistolario Sand-
d’Agoult (Marie d’Agoult-George Sand. Correspondance, a cu-

272
ra di Charles F. Dupêchez, Bartillat, Courtry 1995) che non
erano stati presi in considerazione dai biografi di Chopin.
Dalla sola biografia esistente di Solange Dudevant (Solange.
Fille de George Sand di Michelle Tricot, L’Harmattan, Parigi
2004) ho ricavato pochissimo. La frase riguardante la coda
del primo movimento, nella Sonata op. 35, è stata ripresa dal-
lo Chopin di Arthur Hedley (J.M. Dent & Sons LTD, Londra
1947). La nipote del medico Giovanni Malfatti fu effettiva-
mente amata, e probabilmente richiesta in moglie da Beetho-
ven; per lei fu scritta la bagatella che per un errore di lettura
di chi per primo la pubblicò nel 1867 è nota con il titolo Per
Elisa.
Per gli appunti per un metodo mi sono servito della esem-
plare pubblicazione curata da Jean-Jacques Eigeldinger
(Esquisses pour une Méthode de Piano, Flammarion, Parigi
1993) ed ho reperito qualche altra notizia interessante nello
Chopin vu par ses élèves (À la Baconnière, Neuchâtel 1979)
dello stesso Eigeldinger. I giudizi di George Sand su Chopin
musicista sono stati ricavati dalla sua autobiografia (Histoire
de ma vie, in Oeuvres autobiographiques, vol. II, Gallimard,
Parigi 1971), quelli di Stephen Heller dalle sue lettere (Let-
tres d’un musicien romantique à Paris, a cura di Jean-Jacques
Eigeldinger, Flammarion, Parigi 1981) e quelli di Berlioz dal-
le Memorie (Edizione Studio Tesi, Pordenone 1989). Per le
trattative editoriali con Probst mi sono rifatto, oltre che alle
lettere di Chopin, al volume di Hans Lenneberg Breitkopf
und Härtel in Paris. The Letters of their Agent Heinrich Probst
between 1833 and 1840 (Pendragon Press, Stuyvesant 1989).
Chopin pubblicò composizioni con numero d’opera, tran-
ne l’op. 4, dall’1 al 65, e pubblicò inoltre poche altre pagine
senza numero d’opera. La Sonata op. 4, consegnata dall’Au-
tore all’editore Haslinger di Vienna e da questi trattenuta, fu
pubblicata solo nel 1851. Una scelta delle opere inedite, sot-
tratte dalla sorella Ludwika e al rogo e alla vendita all’asta, fu
pubblicata a Berlino e a Parigi nel 1855, a cura di Julian Fon-
tana, con i numeri d’opera postuma da 66 a 73. Nel 1857, con

273
il numero 74, vennero pubblicate, solo a Berlino, diciassette
canzoni. Gli altri inediti uscirono, saltuariamente, in un lun-
go lasso di tempo. Le composizioni in possesso di Jane Stir-
ling con annotazioni autografe di Chopin vennero pubblica-
te da Édouard Ganche a Oxford nel 1932. Le stesse musiche,
in fac-simile, furono ripubblicate nel 1982 a Parigi, a cura di
Jean-Jacques Eigeldinger.
Il lettore minimamente esperto di enigmistica avrà subito
capito che il mio Samud Erdnas Kela è Alexandre Dumas let-
to a rovescio e con la x suddivisa in c dura e s. La storia del
ritrovamento, da parte del Dumas junior, di un pacco di let-
tere della Sand a Chopin, è documentata: Dumas ne parlò
ampiamente in una lettera al padre, dicendo di averne fatte
delle copie, ma né le lettere né le copie furono mai ritrovate
ed è opinione corrente, sebbene non da tutti accettata, che
siano state distrutte. Le interviste e le lettere indirizzate al
mio Erdnas Kela in vista della stesura di una biografia sono
però una mia finzione.
La lettera di Marie d’Agoult, che racconta a George Sand
di aver visto a Palazzo Durazzo un ritratto, opera di Rubens,
“qui ressemble à Chopin et qu’ai toujours contemplé en sou-
venir de ma passion malheureuse pour l’illustre pianiste”, è
del 4 luglio 1838. L’architetto Mario Semino, che ringrazio di
cuore, ha effettuato per me delle ricerche a Genova. Non è
stato reperito alcun ritratto d’un giovane Durazzo, opera di
Rubens, ma al Museo di Palazzo Reale si trova, catalogato con
il n. 1196, un Ritratto di gentiluomo di casa Durazzo (olio su
tela, 90×65 cm) in cui si nota effettivamente una notevole so-
miglianza, nell’ovale del viso e nel naso, con Chopin. Il di-
pinto è oggi attribuito a Domenico Parodi.

P.R.

Giugno 2009

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