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Merce Cunningham

Una data che segna una svolta


fondamentale nella biografia artistica di
Merce Cunningham è il 1951, quando per
la prima volta compone una coreografia,
Sixteen Dances for Soloist and Compagy
of three, seguendo un procedimento
aleatorio.
Nel corso del tempo questo procedimento
va arricchendosi, complicandosi,
aggiustandosi, trovando nuove soluzioni.Il
coreografo americano comincia infatti via
via a estrarre a sorte anche la durata, la
direzione dei movimenti, il tipo di passi, la
loro naturale individuale o di gruppo;
infine, l’ordine di successione delle
sequenze predisposte. Il sistema aleatorio
resta il principale criterio compositivo,
benché non l’unico, praticato da
Cunningham lungo tutta la carriera.
La prima ragione per utilizzare questo
modo di procedere, dunque, consiste nel
desiderio di sperimentare forme mai
realizzate, nel mettere alla prova le
possibilità fisiche proprie e dalla propria
compagnia.
A cunningham interessa solo lo studio del
movimenti, che, a suo parare, ha ragione
d’essere di per sé stesso: come per
Nikolais, la danza non ha bisogno di
raccontare una storia o di esprimere
emozioni e sentimenti, anzi, ciò
costituirebbe un limite dannoso. Chiede
che i movimenti siano eseguiti in modo
chiaro senza alcuna espressività. Il
movimento è il movimento del corpo.E’ qui
che Cunningham focalizza la sua
attenzione di coreografo, non sui muscoli
della faccia. Nella vita di tutti i giorni, la
gente osserva di solito le facce e i gesti
delle mani, traducendo quanto vede in
termini psicologici.
I ballerini agiscono senza tenere conto
della musica di cui addirittura alle volte
perdono contezza, concentrati, come
sono, sulla loro partitura coreografica. Di
più: capita talora che non provino neppure
con la musica il loro spartito motorio e che
si ritrovino in scena, di fronte al pubblico,
a dover danzare ascoltando per la prima
volta i suoi che li accompagnano. Questa
indipendenza è frutto della fede di
Cunningham, nel fatto che la danza non si
basa sulla musica bensì sul ballerino,
ossia sulle sue gambe, e ogni tanto su
una sola. Lo stesso dicasi per la
scenografia, per lo più costruita ( o
dipinta) senza tener conto della
coreografia, se non per consentire ai
ballerini di avere lo spazio necessario in
scena.
Bisogna allora pensare che nell’opera di
Cunningham non esista nessun altro
obiettivo se non quello di esibire il
prodotto dell’associazione del caso, di
fatto corrispondente a un movimento
virtuosistico? Non c’è concezione politica,
morale nella sua scelta= La risposta di
Copeland è seducente; il fine di
cunningham sarebbe didattico, nel senso
che il suo lavoro sarebbe finalizzato a una
sorta di educazione dello spettatore alla
percezione. Il pubblico, più precisamente,
sarebbe condotto a imparare a vedere e
ad ascoltare gli stimoli che continuamente
nella nostra società ci martellano senza
prenderli per naturali nel senso usuale del
termine, quando, in realtà, sono frutto
della storia e della cultura.
Più precisamente, molta modern dance ha
tentato di individuare un corpo capace di
muoversi come una totalità organica
ritenuta il riflesso di una psiche non
spezzata e in cui, dunque, se l’uno è il
riflesso dell’altra, anima e corpo sono in
armonioso accordo. Cunningham non
crede al mito dell’interezza, né all’idea che
era abbia potuto esistere in un tempo
remoto, più naturale di quello odierno, e
propone in scena un corpo volutamente
spezzato, ogni parte del quale- al
contrario di quanto accade, per esempio
nella tecnica della Duncan o della
Graham, quest’ultima ben nota a
Cunningham avendo egli lavorato nella
sua compagnia- può agire senza
coinvolgere il segmento limitrofo, capace
addirittura, quest’ultimo, di compiere
un’azione completamente autonoma: mira
all’impersonalità.
Si è dunque di fronte a un corpo
eccentrico nel senso etimologico del
termine, privo di un centro: ogni sua parte
è autonoma come, nello spettacolo
complessivo, ciascun coefficiente scenico
è indipendente dall’altro; e questo corpo
non intende rimandare a nessun nucleo
più profondo: né all’interiorità dell’io del
danzatore, né a un centro più elevato,
vale a dire a un Dio.
La tessa impostazione eccentrica
presenta lo spazio. Mentre la danza di
tradizione prevede soluzioni simmetriche
o, quanto meno, orientate frontalmente e
c’è un punto di vista ideale dal quale ogni
elemento sul palcoscenico è visibile e
udibile, nelle coreografie di cunningham
manca una prospettiva centrale e
privilegiata, un risultato spesso conseguito
grazie alla definizione degli spostamenti
dei danzatori mediante il metodo
aleatorio. Ha scelto quindi di aprire lo
spazio, di considerarlo uguale in ogni sua
parte, in modo che ogni luogo, occupato o
no da qualcuno, divenisse tanto importane
quanto qualunque altro. In un contesto del
genere non si può più prendere come
riferimento questo o quel punto preciso. E’
allora che ha letto una frase di Einstein:
non esiste un punto fisso nello spazio. Si
è detto: se non esiste alcun punto fisso,
allora ogni punto è ugualmente fluido e
interessante.

SCRAMBLE
Messa in scena per la prima volta il 24
Luglio del 1967 al Ravinia Festival di
Chicago e composta da 18 sezioni, alcune
di tre minuti, altre di un minuto e mezzo,
altre ancora più brevi, e il cui ordine di
successione viene modificato ogni sera; in
totale il lavoro dura tra i 20 i 28 minuti.
Nella prima versione i danzatori erano 8,
nelle esecuzioni successive sono stati da
8 a 11.
Il lavoro viene eseguito in diversi luoghi,
da un palco utilizzato soprattuto per i
concerti in un padiglione, alle palestre che
sono lo spazio ideale per rappresentarlo.
Il pubblico può essere disposto
frontalmente, tutt’attorno, sui due lati, a
seconda del contesto. Come a dire: non
c’è un punto di vista privilegiato o
preferibile.
Per questo motivo il coreografo può
decidere di ridurre il numero degli
esecutori o addirittura di cassare il pezzo.
Inoltre, poiché anche questo è concepito
in modo tale da poter ripetere una
sequenza per un numero variabile di volte
e di modificare le direzioni a seconda
dell’ampiezza e della forma dello spazio e
poiché il ritmo è assai veloce, i danzatori
corrono il rischio di scontrarsi, sicché è
necessario, una volta arrivati in loco,
definire bene gli spostamenti in scena.
L’idea di modificare l’ordine delle sezioni
di Scramble comporta ad ogni esecuzione
un prodotto diverso benché il materiale sia
sempre lo stesso. Cosi, la natura profonda
resta la medesima, ma varia radicalmente
l’aspetto, mutano le relazioni tra i
danzatori e con gli oggetti nello spazio.
La scenografia è di un pittore minimalista
del calibro di Franck Stella e consta di sei
tele, tutte assai lunghe, benché di varia
lunghezza, e non molto alte, poste in
orizzontale ad alcuni metri da terra.
La disposizione della scenografia viene
modificata in relazione allo spazio.
Esattamente come i movimenti dei
danzatori hanno una libertà controllata, le
scenografie godono, per dirla alla
cunningham, di una vita propria, non sono
soltanto un quadro sul quale basare la
danza.
Anche i costumi si devono a Franck
Stella, semplici calzamaglie elasticizzate
per le donne, tute aderenti intere per gli
uomini, ognuna è di un colore diverso,
della tinta di una delle tele della
scenografia, L’importante è che
consentano di distinguere con chiarezza
la macchina corporea.
Il titolo del lavoro rimanda a diversi
significati, il cui nesso con la coreografia
si può capire meglio ora che è stata
analizzata. Scramble è un termine dell’
aeronautica: quando gli aerei volano in
formazione e si dice scramble ai piloti,
essi devono cambiare immediatamente la
formazione; e inoltre una manovra
imprevista nel football americano, in cui
un giocatore scatta inaspettatamente in
avanti, indietro o di un lato al fine d’essere
afferrato dietro la linea di mischia:
scramble sono le uova quando sono
strapazzate.

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