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Pace, diritti e ordine internazionale

Lezione 1. Introduzione

Fra pace, diritti e ordine internazionale nella riflessione occidentale incontriamo uno stretto
legame.
L’invenzione della pace sembra correre parallela all’invenzione dell’idea dei diritti umani.
Due libri sono particolarmente significativi in proposito:

Michael Howard, The Invention of peace. Reflections on War and International Order, 2000 (tr. it.
Bologna, il Mulino, 2001)
Lynn Hunt, Inventing Human Rights. A History, 2007 (tr. it. Roma-Bari, Laterza, 2010)

In entrambi i casi gli autori guardano al Settecento e all’Illuminismo come l’epoca dell’”invenzione”
della pace e dei diritti umani.

In via preliminare, per analizzare la storia di questi concetti, è importante ripercorre la storia delle
discipline che studiano la pace (e la guerra) e i diritti.

In effetti, nel corso del tempo, più della pace è stata studiata la guerra.

Quali discipline nel corso del tempo hanno studiato la guerra e la pace? Questo è importante,
perché, a seconda della disciplina, muta anche il tipo di prospettiva che si assume nell’analizzare il
fenomeno della guerra.
Fino alla nascita delle scienze sociali nella prima metà dell’Ottocento, a occuparsi di guerra e
conflitto sono stati gli storici, i filosofi, i teologi e i giuristi, oltre che i poeti e i letterati (es. Omero e
Iliade, Tucidide).
In seguito, con l’avvento delle scienze sociali, nel corso dell’Ottocento la guerra è stata dapprima
un fenomeno sottovalutato dai sociologi, che si ispiravano agli ideali pacifisti del Settecento ed
erano convinti che i fenomeni bellici sarebbero stati destinati a scomparire con la fine delle società
tradizionali, aristocratico-guerriere, e l’avvento della moderna società industriale. Anche i primi

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esponenti della scienza politica, come gli elitisti, non hanno attribuito grande importanza al
fenomeno della guerra.

Elenco delle discipline:


Diritto internazionale
Scienza politica internazionalistica (Relazioni internazionali)
Filosofia morale e politica
Storia del pensiero politico
Relativamente più recenti:
Filosofia delle relazioni internazionali
Storia del pensiero politico internazionale

Si tratta di ambiti di studio che sono relativamente giovani come discipline accademiche o
scientifiche.

1) Diritto internazionale: seconda metà XIX secolo

L’espressione «diritto internazionale» viene coniata per la prima volta dal filosofo Jeremy Bentham
nel 1789 (Principi di morale e di legislazione).
Verso la metà dell’Ottocento l’insegnamento di questa materia viene introdotto nelle università
europee, soprattutto nelle facoltà giuridiche.

1873: fondazione a Gent/Gand, in Belgio, dell’Institut de Droit International.

Si trattava di un’associazione di giuristi e accademici che aveva come obiettivo la promozione dello
sviluppo del diritto internazionale, il “riconoscimento ufficiale” dei suoi principi “in conformità alla
coscienza giuridica del mondo civilizzato” [citato da A. Cassese, Diritto internazionale, a cura di P.
Gaeta, Bologna, il Mulino, 2006 p. 37]
L’elaborazione scientifica dell’Istituto si inserisce nel contesto dei trattati che danno vita alla prima
fase di affermazione di quello che viene chiamato il diritto internazionale “classico”, che ha come
fonti la consuetudine, la Conferenza di Bruxelles del 1874 e le Conferenze per la pace dell’Aia del
1899 e del 1907.

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Si tratta dell’esito di una serie di fenomeni paralleli, al tempo stesso accademici, politici e legati
allo sviluppo dei movimenti pacifisti.

Le prime Peace Societies nacquero negli Stati Uniti e in Gran Bretagna intorno al 1815.
A Bruxelles nel 1848 e a Parigi nel 1949 si svolsero importanti congressi dominati dalle figure di
Richard Cobden e di Victor Hugo, che il 21 agosto 1849 pronunciò il discorso più famoso del
movimento pacifista ottocentesco, inneggiando agli Stati Uniti d’Europa:

Messieurs, cette pensée religieuse, la paix universelle, toutes les nations liées entre elles d’un lien
commun, l’Evangile pour loi suprême, la médiation substituée à la guerre, cette pensée religieuse
est-elle une pensée pratique ? cette idée sainte est-elle une idée réalisable ? Beaucoup d’esprits
positifs, comme on parle aujourd’hui, beaucoup d’hommes politiques vieillis, comme on dit, dans
le maniement des affaires, répondent : Non. Moi, je réponds avec vous, je réponds sans hésiter, je
réponds : Oui ! (Applaudissements) et je vais essayer de le prouver tout à l’heure.
Je vais plus loin ; je ne dis pas seulement : C’est un but réalisable, je dis : C’est un but inévitable ;
on peut en retarder ou en hâter l’avènement, voilà tout.
La loi du monde n’est pas et ne peut pas être distincte de la loi de Dieu. Or, la loi de Dieu, ce
n’est pas la guerre, c’est la paix. (Applaudissements.) Les hommes ont commencé par la lutte,
comme la création par le chaos. (Bravo ! bravo !) D’où viennent-ils ? De la guerre ; cela est
évident. Mais où vont-ils ? A la paix ; cela n’est pas moins évident.
Quand vous affirmez ces hautes vérités, il est tout simple que votre affirmation rencontre la
négation ; il est tout simple que votre foi rencontre l’incrédulité ; il est tout simple que, dans cette
heure de nos troubles et de nos déchirements, l’idée de la paix universelle surprenne et choque
presque comme l’apparition de l’impossible et de l’idéal ; il est tout simple que l’on crie à l’utopie ;
et, quant à moi, humble et obscur ouvrier dans cette grande œuvre du dix-neuvième siècle,
j’accepte cette résistance des esprits sans qu’elle m’étonne ni me décourage. Est-il possible que
vous ne fassiez pas détourner les têtes et fermer les yeux dans une sorte d’éblouissement, quand,
au milieu des ténèbres qui pèsent encore sur nous, vous ouvrez brusquement la porte rayonnante
de l’avenir ?

(si può consultare il testo con le correzioni autografe di Victor Hugo presso il sito della
Bibliothèque Nationale de France: https://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb451688163)

Peraltro, nel pensiero di Victor Hugo, fortemente segnato da un’ispirazione di tipo religioso,
incontriamo un nesso fondamentale fra pacifismo e condanna della pena di morte; nel 1829 Hugo
pubblica un romanzo che diventerà il simbolo dell’abolizionismo, Ultima giornata di un
condannato a morte.

Nel 1867 il congresso per la pace di Ginevra fu presieduto da Giuseppe Garibaldi.

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2) Scienza politica internazionale: 1919
Prima fase

La Conferenza di pace dell’Aia del 1899 aveva avuto come esito la creazione della Corte
Permanente di Arbitrato (1899), oggi nota come Corte Internazionale di Giustizia. Nel 1913 fu
spostata nella sua attuale sede, il Palazzo della Pace all’Aia, che era stato costruito con il denaro
donato dal filantropo americano Andrew Carnegie (1835-1919), industriale dell’acciaio di origini
scozzesi che nel 1910 aveva dato vita al Carnegie Endowment for International Peace. Obiettivo di
Carnegie era «accelerare l’abolizione della guerra internazionale».

Palazzo della pace


http://www.peacepalacelibrary.nl

Carnegie Endowment for International Peace


http://carnegieendowment.org
Attualmente è un’organizzazione privata non-profit.

1919: Dipartimento di International Politics fu creato insieme alla Woodrow Wilson Chair of
International Politics, all’Università del Galles, ad Aberystwyth.

Primo professore di relazioni internazionali fu Alfred Zimmern (1879-1875), studioso di storia


greca, che nel 1936 pubblica un’opera fondamentale sulla Società delle Nazioni: The League of
Nations and the Rule of Law, 1918-1935.

Il sostegno finanziario di Carnegie ha anche reso possibile la pubblicazione della serie dei Classics
of International Law, curata da James Brown Scott, Presidente della Società Americana di Diritto
Internazionale. Ventidue volumi apparvero nella serie fra il 1917 e il 1950, comprese tre opere di
Grozio, De Jure Praedae, Mare Liberum, De Jure Belli ac Pacis.

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La Grotius Society fu fondata a Londra nel 1915, il presidente americano Woodrow Wilson (1856-
1924) e James Brown Scott (giurista statunitense 1866-1943) ne divennero membri onorari nel
1920.

Alfred Zimmern, The League of Nations and the Rule of Law, 1918-1935, London, Macmillan, 1936

Prefazione

Uno studio sulla Società delle Nazioni deve essere necessariamente uno studio di forme e forze.

(vii) Problema: se il rule of law (governo della legge/primato del diritto), così come lo intendiamo in questo
paese, possa essere stabilito nella sfera delle relazioni internazionali.
Sono stato per questo in dubbio se scrivere al passato o al presente, se stavo scrivendo la storia di un
esperimento ormai concluso o le prime fasi di (viii) un’istituzione vitale e in via di sviluppo.
Se in materia di stile ho errato pendendo dal lato dell’ottimismo, confido che i lettori non trovino che
questo abbia influito sulla sostanza del libro o inficiato l’imparzialità dell’analisi.

1 Introduzione
Nella sua fase attuale lo studio della Società delle Nazioni significa pensare a un metodo particolare di
condurre le relazioni fra stati.
Qualsiasi cosa si pensi della Prima guerra mondiale, non si può negare che abbia implicato un fallimento dei
vecchi metodi, di ciò che viene chiamato “la vecchia diplomazia”. Gli uomini che nel 1919 crearono la
Società delle Nazioni miravano a produrre un meccanismo che potesse prevenire, per quanto umanamente
possibile, il verificarsi di simili catastrofi.

Non pensavano però che la procedura contenuta nel Patto si sarebbe dimostrata infallibile o a prova di
furfante. Erano però convinti che si trattasse delle migliori garanzie che si potessero ideare per limitare
politiche sconsiderate o criminali negli affari internazionali e che, se un crollo (breakdown) si fosse dovuto
produrre, non si sarebbe dovuto attribuire alla mancanza di un meccanismo adeguato o a difetti tecnici nel
suo funzionamento.

Gli stati che hanno adottato questo nuovo metodo di relazioni fra loro sono “membri della Società delle
Nazioni”.
Essi includono la stragrande maggioranza dei più di 60 stati che sono candidabili a diventare membri.
Anche quelli che non hanno preso parte ne hanno apprezzato il valore e vi hanno fatto ricorso.
Possiamo dire che il nuovo metodo si è giustificato con il suo funzionamento ed è probabile che diventerà
una parte permanente dell’organizzazione politica dell’umanità.

Zimmern critica il nome inglese: “league”, perché implica esclusione, l’idea di una banda di crociati
entusiasti contro altri. Ritiene invece migliore il termine francese “società”, che esprime l’idea di
inclusione.

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Per quanto riguarda il secondo termine, “nazioni”, secondo Zimmern si tratta di un errore in tutte
le lingue.

Le unità costitutive non sono le nazioni ma gli stati; l’appartenenza alla Lega delle Nazioni non ha nulla a
che fare con la nazionalità; ha solo a che fare con la statualità, ossia con uno status politico.
(4) I membri del comitato che redasse la bozza del Patto erano legati a un’idea che ogni nazione dovesse
essere “indipendente”.
Si tratta di un’idea che nasce nell’Europa continentale occidentale e di una teoria rivoluzionaria: se
applicata comporterebbe un rovesciamento della situazione politica attuale in una larga parte del mondo.
Gli estensori del patto hanno trasferito nel mondo post-bellico una delle principali cause di confusione e
conflitto nella politica internazionale del XIX secolo in Europa.
Società delle nazioni non intende essere organizzazione rivoluzionaria. Al contrario accetta il mondo degli
stati così com’è e cerca solo di provvedere strumenti più soddisfacenti per condurre alcuni degli affari che
(5) gli stati trattano fra loro.
Non è rivoluzionaria nel senso di una radicale trasformazione dei vecchi metodi: non li elimina,
semplicemente li integra.

La prima scuola di relazioni internazionali, segnata, come dice Zimmern, dall’”ottimismo”, e anche
definita “idealistica” in quanto mirante a realizzare il fine della pace, nasce in area britannica e si
radica nella tradizione filosofico-politica del socialismo, con Thomas Hill Green, Norman Angell
(1872-1967): la guerra come «grande illusione» (Norman Angell, La grande illusione, prima
edizione 1909, Europe’s Optical Illusion). Lo storico Arnold Toynbee va annoverato fra i seguaci del
pensiero idealistico.
Per gli esponenti della cosiddetta scuola idealistica non solo la pace è un bene in sé stessa, ma è
anche realizzabile: si tratta di dotarsi degli strumenti idonei, che sono individuati nei principi
dell’organizzazione internazionale. Lo sforzo teoretico dei filosofi politici e del diritto conduce
direttamente alla traduzione operativa, rappresentata dalla Società delle Nazioni, allora
considerata una possibilità di superare i mali della vita politica internazionale, in particolar modo
quello della guerra.

La visione idealista delle relazioni internazionali fu però radicalmente messa in discussione da


Edward H. Carr (1892-1982), storico della Russia sovietica, un britannico, nel 1939 pubblica The
Twenty Years’ Crisis. An Introduction to the Study of International Relations (trad. it: Utopia e
realtà: introduzione allo studio della politica internazionale, a cura di A. Campi, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2009). Si tratta della crisi degli Anni Venti: il sorgere del fascismo, la crisi economica e

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poi l’affermarsi di regimi totalitari in Germania e in Europa. Il libro di Carr viene scritto poco prima
dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

Nonostante le buone intenzioni degli idealisti, afferma Carr, il pensiero idealista è inficiato da
un’illusione fondamentale, la credenza in una presunta armonia di interessi fra gli stati. Ciò di cui
gli idealisti non si accorgono è che non esiste alcuno stato che possa agire per l’interesse generale
nel caso in cui questo non sia direttamente compatibile con il suo. La pretesa di promuovere gli
interessi generali dell’umanità è addirittura mistificatoria per il semplice fatto che l’istanza della
solidarietà internazionale e dell’unione mondiale è sostenuta dalle nazioni dominanti che possono
sperare di esercitare il controllo su un mondo unificato. Può permettersi di agire per il bene
collettivo solo chi è già soddisfatto della posizione relativa che detiene nei confronti della globalità.

2) Scienza politica internazionale:


Seconda fase: il realismo, il neo-realismo

Lo scenario internazionale del secondo dopoguerra (dopo i regimi totalitari, con la guerra fredda e
poi la minaccia della guerra nucleare) sembrava aver messo a tacere la filosofia politica normativa,
così come le speranze di costruire un modo pacifico.
Prevalgono le visioni “realistiche” che considerano la politica internazionale come uno scenario in
cui il problema della sicurezza è primario e la guerra è sempre possibile.

L’autore che viene considerato il primo e il più importante esponente del realismo classico è Hans
Morgenthau, nato in Germania nel 1904, ebreo, emigrato negli Stati Uniti nel 1937, insegna a
Chicago e muore nel 1980.

La sua opera più celebre è Politica fra le nazioni, del 1948 [su di lui si può vedere il profilo di A.
Panebianco in Maestri della scienza politica, a cura di Donatella Campus e Gianfranco Pasquino,
Bologna, il Mulino, 2004, pp. 209-227].

L’esponente più importante del realismo strutturale o neo-realismo è invece Kenneth Waltz,
politologo statunitense (1924-2013), la cui opera più importante è Teoria della politica
internazionale del 1979.

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Il realismo sembra dominare completamente le scienze sociali e politiche.
Nel 1956, lo storico di Cambridge, Peter Laslett (1915-2001), aveva affermato: “Per il momento, la
filosofia politica è morta” [Intoduction, in P. Laslett (a cura di), Philosophy, Politics and Society,
Oxford, Basil Blackwell, 1956).

A questo rispondono, nel 1958, Isahiah Berlin, con i “Due concetti di libertà” e poi John Rawls con
Una teoria della giustizia del 1971, che inaugura un’era senza precedenti di fioritura della filosofia
politica normativa.

3) Filosofia politica: teorie della giustizia globale

Oggetto della rinata filosofia politica normativa era però la giustizia delle istituzioni interne dello
Stato. Come scriveva John Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1997, p. 21:

“Inizierò con una descrizione della giustizia nella cooperazione sociale, e con una breve
esposizione dell’oggetto principale della giustizia, la struttura fondamentale della società […] La
giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali”.

E Norberto Bobbio nel 1981 scriveva:

Nella filosofia politica sono compresi tre tipi di ricerca: a) della miglior forma di governo o
dell’ottima repubblica; b) del fondamento dello Stato, o del potere politico, con la conseguente
giustificazione (o ingiustificazione) dell’obbligo politico; c) della essenza della categoria del politico
o della politicità, con la prevalente disputa sulla distinzione fra etica e politica.
[N. Bobbio, Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica, Torino, Einaudi, 1985, p.
45].

Tuttavia, lo stesso Bobbio aveva iniziato a riflettere sul problema della guerra e della pace con una
serie di articoli e di interventi a partire dagli anni Sessanta, raccolti poi nel volume Il problema
della guerra e le vie della pace, Bologna, il Mulino, 1979

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Inoltre, il filosofo statunitense Michael Walzer, pubblica nel 1977 un importante libro dal titolo
Guerre giuste e ingiuste, riportando il problema della moralità nell’ambito delle relazioni fra gli
Stati e nella guerra.

Successivamente nasce il filone di ricerca che viene definito “giustizia internazionale” o “giustizia
globale”, o ancora “giustizia cosmopolitica”.
Fra i filosofi universalisti: Martha Nussbaum, David Held, John Rawls, Jürgen Habermas, Thomas
Nagel, e in Italia Norberto Bobbio e Luigi Ferrajoli.

4) Storia del pensiero politico internazionalistico

Uno dei più celebri manuali di storia del pensiero politico della seconda metà del Novecento, The
Foundations of Modern Political Thought, dello storico di Cambridge Quentin Skinner (1978; trad.
it. a cura di Maurizio Viroli, Bologna, Il Mulino, 1989) terminava in questo modo:

“Agli inizi del XVI secolo, il concetto di Stato – la sua natura, poteri, diritto all’ubbidienza – era
ormai considerato l’oggetto più importante d’analisi del pensiero politico europeo. Hobbes
rispecchia questa evoluzione quando dichiarava nella Prefazione del De Cive del 1642, che lo scopo
della “scienza civile” è di “compiere una ricerca scrupolosa sui diritti degli Stati e sui doveri dei
sudditi”. Come è avvenuta questa evoluzione? […] Scopo di queste osservazioni conclusive è
riassumere l’argomento, ricapitolando quelli che a mio avviso sono i requisiti indispensabili
necessari all’acquisizione del concetto moderno di Stato”.
[trad. it. leggermente modificata, vol. 2, p. 501].

Nel 2013 David Armitage, storico di Harvard, pubblica il libro Foundations of Modern International
Thought, Cambridge University Press, 2013, ponendosi la domanda:

perché non c’è stata finora una storia del pensiero internazionalistico?

Separazione disciplinare: distinzione fra politica interna e politica internazionale.

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M. Bazzoli, Stagioni e teorie della società internazionale, Milano, LED, 2005, pp. 28-29:

“la storia delle dottrine politiche “attraverso la sua stessa rappresentazione storiografica ha
tradizionalmente accreditato un’immagine di sé come disciplina essenzialmente (per non dire
esclusivamente) rivolta all’indagine sulle forme storico-dottrinali dell’‘ordine interno’, a tutto
scapito delle espressioni della ‘sovranità esterna’. L’ipotesi metodologica che qui viene
presupposta, e che sfrutta il carattere tipicamente interdisciplinare di questo genere di indagini,
assume invece la storia del pensiero politico come parte necessariamente integrante della Storia
delle dottrine politiche, sulla base di due considerazioni.
La prima considerazione è che la riflessione teorica sulle forme dell’ordine internazionale (e della
società internazionale) è parte addirittura costitutiva del processo storico delle relazioni
internazionali, è fattore determinante della stessa politica internazionale nella sua concreta
dinamica […]
La seconda considerazione è che la riflessione sul rapporto tra la teorizzazione della sovranità
esterna e la sua pratica è un momento imprescindibile della configurazione del ‘politico’ nella sua
determinazione storica, ossia dell’oggetto d’elezione della Storia del pensiero politico”.

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Lezione 2 – 11/02/2020
La pace e la guerra

Dopo aver preso in considerazione le discipline che studiano il tema della guerra, della pace e
dell’ordine internazionale, è ineludibile porsi il problema di che cosa siano la pace e la guerra e
quale relazione intercorra fra esse. In particolare: che cos’è la pace? Possiamo definire la pace
indipendentemente dalla guerra?
Da un punto di vista concettuale e analitico i termini di pace e guerra sono strettamente collegati,
sono al tempo stesso opposti e correlativi, come i concetti di quiete e di moto (si tratta di un
esempio tratto dal libro di N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, il
Mulino, 1979, p. 121).
Considerati come termini correlativi, i due concetti possono assumere un duplice significato,
positivo e negativo: è possibile attribuire un primato alla pace e quindi considerare la guerra come
negazione della pace; oppure possiamo pensare la pace come negazione della guerra,
considerando in questo caso come originaria la guerra.
Quali sono i presupposti teorici di queste due diverse definizioni? In entrambi i casi si assume il
primato quanto meno logico e cronologico e dell’una o dell’altra condizione, quella della pace o
quella della guerra.

La pace come concetto negativo (assenza di guerra)

Citando la definizione hobbesiana della guerra come «quel periodo di tempo in cui la volontà di
contrastarsi con la violenza si manifesta sufficientemente con le parole e coi fatti» (De Cive,I, 12),
Norberto Bobbio ha sostenuto che la definizione della pace è in genere residuale e “negativa”,
come assenza di guerra (Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. 121-122).
Norberto Bobbio riprende quindi la teoria hobbesiana nel momento in cui presenta la sua
concezione della pace e del pacifismo. In questa prospettiva la pace è un concetto negativo, nel
senso che consiste nella negazione della guerra, nell’assenza di guerra.
Secondo Bobbio, la guerra, nella sua definizione generale, è un conflitto armato tra organizzazioni
politiche [questa è ad esempio la definizione di Gaston Bouthoul, uno dei fondatori della
polemologia, la scienza che studia la guerra, nel suo libro Le guerre. Elementi di polemologia

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(1951): «La guerra è la lotta armata e cruenta fra gruppi organizzati»]. Non si tratta del puro e
semplice esercizio della violenza e neanche di un atto occasionale, ma di una condizione duratura
nel tempo che vede il ricorso al conflitto armato da parte di soggetti che sono organizzati
politicamente, ossia di gruppi all'interno dei quali vi è unità di comando. In questa prospettiva, la
guerra è fatta sempre da soggetti collettivi (va però precisato che la scienza politica moderna e lo
stesso Norberto Bobbio su questo si discostano da Hobbes, che riteneva che la guerra potesse
sussistere fra individui in stato di natura).
Se la guerra è il dato naturale, cosmico o umano, la pace viene definita come un concetto
residuale, come assenza di guerra. In questa prospettiva si presuppone che la guerra sia data per
natura e che la pace invece sia costruita, corrisponda alla dimensione “artificiale” della vita tra gli
uomini, un prodotto delle istituzioni umane. Secondo Hobbes la costruzione artificiale della pace è
l’esito del contratto sociale. Da un certo punto di vista possiamo affermare che nella storia del
pensiero, della filosofia, e non solo in occidente, è stato riconosciuto un certo primato della guerra
sulla pace, almeno cronologico. La guerra è stata considerata come parte essenziale della politica.
Ad esempio, Platone nella Repubblica quando si accinge a descrivere lo stato ideale individua tre
classi che compongono la città: i lavoratori, i guerrieri e i governanti, che corrispondono alle tre
funzioni essenziali di ogni città: il nutrimento, la difesa e il comando. Queste tre funzioni a loro
volta rimandano alla distinzione fra le tre parti dell’anima (l’anima concupiscibile, quella irascibile
e quella razionale); l’ordine della città, la gerarchia fra queste tre parti, corrisponde alla gerarchia
dell’anima e del cosmo.
È possibile considerare la guerra come un fatto naturale al di là della sua auspicabilità, e questa
naturalità può rimandare a livelli diversi nell’ordine dell’essere. La guerra può essere considerata
naturale perché iscritta nella natura stessa dell'universo. In questa prospettiva non si tratta di una
realtà semplicemente umana, ma è connaturata all’essere stesso delle cose; ad esempio, il filosofo
Eraclito (VI-V secolo a.C.) ha definito la guerra (pòlemos) come madre e regina di tutte le cose, e
quindi l’ha considerata come il principio di tutte le cose.
Se prendiamo il caso di Tucidide, la guerra è la conseguenza inevitabile di una sorta di legge di
natura che coincide con la legge del più forte e trascende la stessa dimensione umana: è la logica
della potenza, della nascita, della crescita e del declino degli esseri viventi. La guerra si produce nel
momento in cui la crescita di un soggetto minaccia l’esistenza dell’altro, come nel caso della guerra
del Peloponneso, scoppiata, secondo Tucidide, a causa della crescita della potenza militare
ateniese che minacciava il potere di Sparta. In particolare, gli uomini come le città e gli imperi sono

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spinti al conflitto dal desiderio di difendersi, dal desiderio di ricchezza e dal desiderio della gloria.
La guerra è quindi inevitabile per una molteplicità di fattori che riguardano tanto il regno naturale
degli esseri viventi, quanto più specificamente la natura degli uomini e degli stati nei loro reciproci
rapporti.
In altre prospettive, come quella hobbesiana, la guerra è naturale ma è limitata al mondo umano:
per gli uomini lo stato di natura è lo stato di guerra. In questo caso non si tratta di un principio
cosmico, ma di una condizione specificamente umana: le api sono per natura animali socievoli; in
natura l’aggressività è “inter-specifica” e non “intra-specifica”, solo l’uomo è un lupo per l’altro
uomo (homo homini lupus).
Il primato cronologico della guerra non implica una valutazione positiva della guerra. Per Hobbes
occorre fuggire la guerra e cercare la pace. E tuttavia, in questa prospettiva, essendo naturale, la
guerra è anche giustificata nella sua inevitabilità.
Vi sono anche altre teorie che giustificano la guerra e le attribuiscono un valore positivo: pur
considerata in se stessa come un male, in certi casi la guerra può nascondere o produrre un bene.
Fra queste teorie possiamo includere quelle provvidenzialistiche: la guerra è giustificata come una
fase di passaggio che consente il pieno sviluppo dell’umanità (Kant), o anche come l’affermazione
di una civiltà superiore che in quel momento incarna lo spirito del mondo (Hegel); o ancora può
essere uno strumento di rigenerazione dei popoli corrotti (Hegel, alcuni romantici).

La pace come concetto positivo

La definizione della pace come concetto negativo e residuale, che Bobbio riprende da Hobbes, non
è però l’unica possibile e nemmeno l’unica storicamente disponibile. Oltre ad alcuni teorici
contemporanei della nonviolenza (su cui ritorneremo), esiste una tradizione all’interno della quale
la guerra non è né naturale, né ineliminabile né tanto meno necessaria. In questa prospettiva i
rapporti tra guerra e pace appaiono rovesciati rispetto a quella precedente. Bobbio non tiene
conto queste teorie nella sua definizione di “pace negativa”. Nella storia del pensiero politico è
stato possibile anche partire dall'assunto che la pace possa essere definita in modo “positivo” e
costituire il dato naturale delle relazioni umane o, quanto meno, il dover essere. Possiamo cogliere
questa diversa concezione della pace all'interno della tradizione cristiana, in due varianti: quella
patristico-tomista e quella del diritto naturale protestante. In questo caso la pace viene definita
come un bene e come un fine da perseguire, come qualcosa che è insegnato dai testi sacri e dalla

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morale evangelica, o anche come la condizione originaria dell’umanità, che solo in un secondo
momento degenera in stato di guerra. In questo caso la guerra è definita come negazione della
pace, come violazione o rottura della pace.
Se nel caso della definizione “negativa” di pace come assenza di guerra quest’ultima poteva essere
giustificata in base alla sua stessa naturalità, alla sua inevitabilità e originarietà, il concetto di pace
positiva non corrisponde necessariamente a una posizione pacifista; al contrario, incontriamo in
questo caso le dottrine della guerra giusta, ossia le dottrine che giustificano la guerra come
un’azione volta a ripristinare la condizione di pace violata dall’aggressore. In questo caso, l’ideale
della pace giustifica la guerra, ma solo in certe circostanze, ossia di fronte alla violazione di un
ordine o di una norma posta a garanzia della pace. La teoria della guerra giusta, nota al mondo
romano, ma in diversa forma, si afferma con la patristica, in particolare con Sant’Agostino, viene
poi ripresa dalla prima scolastica, con la codificazione tomista, e si afferma all’inizio dell’età
moderna con la seconda scolastica nel momento in cui i paesi europei iniziano la conquista delle
terre recentemente scoperte. Dagli autori spagnoli del XVI secolo fino a John Locke e ai
giusnaturalisti del Settecento, la teoria della guerra giusta serve a legittimare anche la conquista e
la schiavitù. Il principio di fondo è molto semplice: proprio perché la guerra è un male e va
condannata, contro chi viola la pace commettendo un atto ingiusto può essere condotta una
guerra giusta. Se le relazioni tra gli esseri umani sono per natura pacifiche, allora chi infrange il
divieto alla violenza, è considerato un aggressore ingiusto, colui che commette un torto, una
iniuria.
Per concludere, possiamo osservare come le due definizioni della pace che abbiamo preso in
considerazioni implichino due diverse concezioni della guerra: se la guerra è naturale, se è il dato
di partenza, allora non ci interessa chi prende le armi per primo, chi comincia, chi tira il primo
colpo. Ma se invece partiamo dall'assunto che ci siano delle norme naturali che impediscano la
violenza, allora il ricorso alla violenza va giustificato: diventa fondamentale la nozione di torto e la
definizione dell’aggressore.

La teoria della guerra giusta

In un certo senso possiamo affermare che nella tradizione occidentale del pensiero politico solo
con il cristianesimo la guerra diventa un problema che occorre giustificare.

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Nel mondo romano esiste il concetto di guerra giusta, il “bellum iustum”, ma riguarda le procedure
che devono essere seguite nel condurre la guerra, a partire dalla dichiarazione di guerra [su questo
punto, a partire dalla discussione che era sorta: durante la Seconda guerra mondiale non la
Germania, ma gli alleati dichiarano la guerra, Francia e Gran Bretagna dopo l’invasione della
Polonia il primo settembre 1939]. Sono i sacerdoti – i feziali – cui sono demandati i riti per iniziare
la guerra attraverso la procedura della dichiarazione.
L’autore che maggiormente elabora la teoria della guerra giusta a Roma è Cicerone, che intende
innanzi tutto per guerra giusta quella che è stata proclamata e dichiarata, e che inoltre riguarda il
recupero di beni ingiustamente sottratti. Tuttavia, ritiene giuste le guerre intraprese dai Romani
per conquistare gli altri popoli, donando loro la pace romana.
Inoltre, nel De officiis (Dei doveri), celebra il valore della pace come ciò che è proprio della ragione
e condanna la guerra come attività propria delle bestie, che sono prive di ragione: «due sono i
modi di contendere, con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell’uomo e la
forza propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può valere della
prima. Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace;
ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né
crudeli né spietati» (De officiis, I, 11).
Tuttavia, gli studiosi concordano sul fatto che in Cicerone non si trovi una vera e propria teoria
delle giuste cause di guerra, anche se i teorici moderni della guerra giusta si richiameranno alla
dottrina stoica e ciceroniana.

Per quanto riguarda il cristianesimo, diverse sono le posizioni cristiane nei confronti della guerra:
dal pacifismo assoluto, alla guerra giusta, passando per la guerra santa e la teoria della guerra
come manifestazione della Provvidenza divina (R. Bainton, Il cristiano, la guerra, la pace: rassegna
storica e valutazione critica, Torino, Gribaudi, 1968).
Inizialmente non si pone una vera e propria questione della guerra all’interno del primo
cristianesimo, negli scritti del I e del II secolo.
Secondo Anna Morisi (La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze, Sansoni,
1963), fra le ragioni che avrebbero impedire a un cristiano di far parte esercito erano la ripugnanza
per lo spargimento di sangue; il rifiuto di partecipare a cerimonie e atti di culto idolatrici, inevitabili
per i membri dell’esercito; rifiuto di commettere atti biasimevoli dal punto di vista della morale
cristiana.

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Il primo soldato di cui si abbia notizia che nel 250 rifiutò di farsi arruolare è Massimiliano (295, a
Tevesta, otto anni prima che iniziasse la grande persecuzione).
Tertulliano, nel De corona, scritto intorno al 211, elogia un soldato che si è ribellato nei confronti
dei riti romani e ha disobbedito agli ordini in nome del cristianesimo. Il problema fondamentale
resta però quello dell’idolatria.
Un punto di svolta nella storia del cristianesimo è costituito dalla fine delle persecuzioni e con la
saldatura di cristianesimo e impero attuata da Costantino; la vittoria di Costantino su Massenzio
nel 312, condotta con la protezione della simbologia cristiana della croce che sarebbe apparsa
all’Imperatore stesso, segnandone la conversione (“in hoc signo vinces”).
Nel pensiero politico di Sant’Agostino non troviamo una riflessione organica sulla guerra, ma una
serie di passi e riflessioni che saranno sistematizzati nella tradizione successiva. In particolare,
Agostino giustifica tanto la guerra quanto la persecuzione degli eretici, dimostrando come il
Vangelo in quanto tale non condanni in assoluto la guerra. In particolare, secondo Agostino
(Quaestiones in Heptateuchum, VI, 10), giuste sono le guerre che vendicano un torto, sia nel caso
in cui una nazione o una città trascura di punire un cittadino che ha commesso un fatto disonesto,
sia nel caso in cui rifiuti di restituire ciò che ha sottratto ingiustamente.
Oltre a queste guerre, sono anche giuste le guerre comandate direttamente da Dio, come quelle
contro le sette nazioni.
Importante per Agostino è anche la giusta autorità, così come la giusta intenzione, ossia il
ristabilimento della pace, che è «il fine che si desidera dalla guerra; ogni uomo infatti ricerca la
pace anche attraverso la guerra, mentre nessuno ricerca la guerra anche attraverso la pace».

Tommaso d’Aquino (1225-1274)


Il pensiero di Tommaso d’Aquino ha avuto grande importanza nella storia del pensiero
occidentale, sia dal punto di vista teologico-filosofico, sia dal punto di vista politico. Dal primo
punto di vista, la sua opera rappresenta il punto di incontro fra la filosofia e la teologia cristiana e il
pensiero di Aristotele, che era stato tramandato e diffuso attraverso la mediazione del mondo
arabo. Dal secondo punto di vista, quello più specificamente politico, Tommaso è importante
perché contribuisce alla traduzione e alla divulgazione della Politica aristotelica. Alla luce della
dottrina aristotelica Tommaso reinterpreta le nuove realtà dei regni e delle «civitates» e le iscrive
nell’orizzonte del diritto naturale cristiano. Rispetto all’agostinismo politico, segnato da una
visione pessimistica della natura umana, da una visione della società politica intesa come frutto

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della corruzione e dal provvidenzialismo che sorregge le vicende di regni e città, il «tomismo»
politico è invece caratterizzato da una rivalutazione della dimensione mondana e terrena. La vita
politica è naturale per l’uomo e incarna principi di giustizia.
Da questo punto di vista la sua teoria della guerra è connessa al riconoscimento della piena
autonomia alle comunità politiche indipendenti.

Secondo Tommaso, tre sono le condizioni della guerra giusta.


1. La giusta persona (iusta auctoritas) che indice la guerra, ossia l’autorità del prìncipe per ordine
del quale si combatte. Le persone private non possono intraprendere la guerra, poiché non hanno
il diritto di chiamare alle armi i soldati. Invece i prìncipi hanno questo diritto, poiché hanno il
compito di garantire il bene della comunità. Inoltre, così come difendono questo bene punendo i
criminali, e quindi impugnando la spada contro coloro che minacciano all’interno la comunità, è
loro diritto brandire la spada della guerra per proteggere la comunità dai nemici esterni. Quindi, a
differenza dei sostenitori della «plenitudo potestatis» papale o del potere imperiale, per Tommaso
il diritto di guerra non spetta solo al sovrano o agli imperatori, ma anche ai prìncipi indipendenti.
Inoltre, come si vede, la guerra come diritto di spada, è equiparata al diritto di punire, a
un’esecuzione penale. Si tratta di un aspetto importante della teoria della guerra giusta:
l’equiparazione della guerra a una procedura giudiziaria.
2. La causa giusta (iusta causa): coloro contro cui si combatte meritano di essere combattuti a
causa di un’azione ingiusta da essi commessa. Riprendendo la formulazione agostiniana, Tommaso
afferma che giuste sono le guerre che vendicano un torto (iniuria). Inoltre, ponendo l’accento sulla
colpa, si sottolinea anche il fatto che colui contro cui si intraprende la guerra merita di essere
punito. Giuste cause sono considerate il recupero di un bene e la punizione del colpevole.
3. L’intenzione retta (recta intentio) di colui che intraprende la guerra, ossia favorire il bene e
respingere il male. Occorre quindi ricordare che Tommaso sta parlando della guerra di cui si
prende l’iniziativa, non della guerra difensiva, ritenuta sempre legittima. Il fine della guerra è la
pace, la repressione dei malvagi e la conservazione della giustizia. La guerra, inoltre, è giusta
quando il prìncipe mira a difendere la comunità dei credenti, per impedire agli infedeli di
ostacolare la religione cristiana. Quindi la guerra è lecita sia per garantire la pace temporale del
regno sia per consentire ai cristiani di adempiere ai doveri della loro fede. In questo senso, accanto
al bene comune delle comunità particolari, il prìncipe deve perseguire la giustizia e la prosperità

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della comunità umana in generale. Al tempo stesso, la teoria della guerra giusta implica una
condanna della guerra di aggressione e di espansione.

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