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Eurocentrismo e Afrocentrismo in Musica
Eurocentrismo e Afrocentrismo in Musica
9
Alejo
Carpentier,
La
música
en
Cuba.
México,
Fondo
de
cultura
económica
1946.
10
The
Alan
Lomax
Collection.
Caribbean
Voyage:
The
1962
Field
Recordings.
Cambridge,
Mass.:
Rounder
Records
1999-‐2002.
11
Adriano
Mazzoletti,
Il
jazz
in
Italia
(due
volumi).
Torino:
EdT,
2004
-‐2010.
tempi
e
luoghi,
perché
ogni
storia
locale
ha
un
suo
inventore.
Un
po’
come
nei
libri
XI
e
XVI
dell’Iliade
dove,
per
la
somma
dei
contributi
di
tanti
aedi,
durante
la
stessa
battaglia
mezzogiorno
arriva
due
volte.
È
ciò
che
accade
con
il
contatto
tra
musica
degli
europei
e
degli
schiavi
bantu:
ogni
nazione
americana
lo
racconta
come
accaduto
lì,
quando
in
realtà
c’era
già
stato
in
Portogallo,
prima
di
Cristoforo
Colombo.
Ma
c’è
di
peggio.
Ogni
storia
ha
un
inizio
mitico
perché
le
cause
di
tale
“origine”
sono
ovviamente
esterne,
quindi
indecidibili
rispetto
a
quella
storia.
Così,
gli
autori
di
storie
cumulative
prendono
per
buone
tutte
le
storie,
e
quindi
tutti
i
miti
delle
origini.
Il
risultato
è
un
castello
di
bugie.
Prendendo
in
prestito
le
parole
di
Thomas
Kuhn,12
la
storia
della
musica
oggi
non
è
in
una
condizione
di
“scienza
normale”.
È
in
crisi.
Secondo
Kuhn,
nei
periodi
di
scienza
normale
un
paradigma
è
accettato,
risulta
fecondo,
produce
buoni
risultati,
e
le
sue
contraddizioni
o
lacune
appaiono
trascurabili
rispetto
ai
vantaggi.
Ma
quando
i
fatti
inspiegati
si
accumulano,
il
paradigma
entra
in
crisi.
Compaiono
allora
diversi
concorrenti
e
si
ha
una
fase
di
caos,
una
selva
di
approcci
contraddittori.
Se
ne
esce
quando
vince
un
paradigma
nuovo,
che
spiega
più
cose
con
assiomi
più
generali
ed
economici.
Si
può
uscire
dall’attuale
caos
storiografico
costruendo
un
paradigma
di
questo
tipo?
E
può
esso
inglobare
quelli
esistenti,
risolvendone
le
contraddizioni?
Cioè:
si
può
scrivere
la
storia
della
musica
di
tutti?
La
mia
risposta
è:
sì.
Dal
nuovo
paradigma
mi
aspetto
non
solo
che
descriva
la
storia
di
tutti,
ma
anche
che
mostri
un
quadro
delle
parentele
chiaro
e
coerente
tanto
quanto
si
può.
Io
stesso
lavoro
a
questo
progetto
dal
1994,
e
sto
per
pubblicare
i
risultati.
Ma
se
è
possibile,
perché
non
è
stato
fatto
prima?
L’ostacolo
più
grave
è,
credo,
il
pregiudizio
della
scrittura.
Ancor
oggi,
nella
storiografia
musicale,
molti
pensano
che,
senza
documenti
di
musica
scritta,
non
si
possa
fare
storia.
Quando
ero
bambino,
i
libri
di
scuola
separavano
storia
e
preistoria
così:
la
storia
inizia
quando
appare
la
scrittura.
Ma
in
storiografia
questa
idea
è
superata,
e
anche
in
storia
della
musica
è
ora
di
andare
oltre.
Chi
fa
ricerca
storica
deve
trovare
sempre
nuovi
modi
di
spremere
informazione
dal
mondo.
La
storiografia
generale
non
è
rimasta
a
lamentarsi
che
Neandertal
non
abbia
scritto
le
sue
memorie:
ha
adottato
la
tecnica
del
C14.
Bene:
gli
storici
della
musica
siamo
noi,
tocca
a
noi
trovare
il
nostro
C14.
Non
possiamo
solo
dire:
“Scrivere
una
vera
storia
della
musica
è
impossibile”.
Se
lo
fosse
davvero,
nessuno
dovrebbe
pagarci.
Forse
è
meglio
trovare
una
soluzione
prima
che
se
ne
accorgano.
Sappiamo
già
che
altre
discipline
possono
darci
una
mano:
ad
esempio
l’archeologia
e
l’iconografia
musicale.
Ma
non
basta.
L’ostacolo
principale,
anche
se
forse
solo
psicologico,
è
che
la
musica
orale
non
si
possa
datare.
Ai
miei
studenti
di
conservatorio
raccontavo
sempre
un
aneddoto.
Un
12
Thomas
S.
Kuhn,
The
Structure
of
Scientific
Revolutions.
Chicago:
University
of
Chicago
Press
1970.
famoso
cantante
pop
italiano,
Franco
Battiato,
è
nato
in
Sicilia.
Nel
1992,
fra
le
due
guerre
tra
Stati
Uniti
e
Iraq,
quando
quest’ultimo
era
sotto
embargo,
andò
a
cantare
a
Baghdad
e
ne
riportò
impressioni
forti.
Udì
melodie
note
in
Sicilia
e
considerate
siciliane.13
Ora,
si
sa
che
la
Sicilia
fu
sotto
dominazione
araba
per
oltre
due
secoli,
dall’827
al
1091.
Con
la
riconquista
cristiana
di
Ruggiero
d’Altavilla,
molti
segni
materiali
della
fase
islamica
furono
cancellati:
edifici
demoliti,
moschee
ritrasformate
in
chiese.
Ma
la
cultura
immateriale
è
più
dura
dei
muri,
e
non
occorre
una
laurea
per
capire
che
una
melodia
araba
tramandata
sia
in
Sicilia
sia
nel
lontano
Iraq
risale
alla
dominazione
araba,
ed
è
quindi
giunta
in
Sicilia
entro
un
intervallo
di
circa
due
secoli.
Né
occorre
dimostrare
un
teorema
di
geometria
per
capire
che
tutta
la
storia
della
musica
dovrebbe
più
o
meno
corrispondere
alla
storia
generale.
Negli
ultimi
decenni,
un
immenso
passo
avanti
è
stato
possibile
grazie
alla
biologia
molecolare.
Il
grande
lavoro
di
Luigi
Luca
Cavalli-‐Sforza
ha
ricostruito
l’albero
genealogico
dell’umanità.
Esso
sta
tuttora
dando
una
messe
di
informazioni
sul
nostro
passato,
spesso
sorprendenti.
La
biologia
molecolare
non
solo
contribuisce
a
datare
eventi,
ma
permette
di
ricollegare
tra
loro
storie
locali.
Se
la
storiografia
musicale
vuole
restare
al
passo
con
il
pensiero
più
avanzato
e
svolgere
un
ruolo
nello
scambio
di
idee
con
altre
scienze,
deve
accettare
i
dati
della
biologia
molecolare.
Facendolo,
tutto
cambia.
Se
la
metafora
della
storia
musicale
tradizionale
era
una
linea
retta,
quello
della
nuova
storia
è
un
albero.
Fin
dal
primo
libro
in
cui
espose
tale
ricerca,14
Cavalli-‐Sforza
ha
sottolineato
che
l’albero
delle
parentele
biologico-‐molecolari
corrisponde,
con
naturalezza
e
poche
eccezioni
locali,
all’albero
delle
famiglie
linguistiche,
e
dunque
delle
culture
umane.
Quando
il
mondo
era
vuoto
e
gli
umani
lo
esploravano
per
la
prima
volta,
se
un’orda
di
cacciatori
di
fronte
a
una
montagna
si
divideva
in
due
gruppi
che
andavano
uno
a
est
e
uno
a
ovest,
a
divergere
da
quel
momento
sarebbe
stata
la
loro
eredità
sia
genetica
sia
culturale.
È
vero
che
la
prima
sta
negli
organi
sessuali
e
la
seconda
nella
testa,
ma
si
dimentica
spesso
che
organi
sessuali
e
testa
sono
attaccati
allo
stesso
corpo
(o
dovrebbero
esserlo).
Nello
studiare
le
corrispondenze
tra
albero
del
DNA
e
albero
delle
lingue,
Cavalli-‐Sforza
si
è
servito
delle
classificazioni
più
recenti,
come
quelle
di
Joseph
Greenberg
per
le
lingue
africane15
e
amerindie16.
Ma
il
pioniere
dell’albero
delle
lingue
fu
un
altro
italiano,
Alfredo
Trombetti,
che
con
coraggio
pubblicò
un
libro
sulla
monogenesi
del
linguaggio17
nel
1905,
quando
le
prove
erano
ben
più
scarse
di
oggi.
Fu
deriso.
Oggi
il
suo
lavoro
pionieristico
appare
di
sconcertante
attualità.
Nell’albero
della
storia
della
musica,
costruito
con
l’aiuto
degli
altri
due,
le
13
Non
mi
è
stato
possibile
rintracciare
una
fonte
specifica
per
questo
episodio:
lo
cito
quindi
a
memoria,
in
forma
per
ora
dubitativa.
14
Luigi
Luca
Cavalli-‐Sforza,
Francesco
Cavalli-‐Sforza,
Chi
siamo.
La
storia
della
diversità
umana.
Milano:
Arnoldo
Mondadori
1993.
15
Joseph
Harold
Greenberg,
The
classification
of
African
languages.
N.p.:
1948.
The
Languages
of
Africa.
Bloomington
e
L’Aja:
Indiana
University
Press
e
Mouton
1963,
19662,
19703.
16
Joseph
Harold
Greenberg,
Language
in
the
Americas.
Stanford:
Stanford
University
Press
1987.
17
Alfredo
Trombetti,
L’unità
d'origine
del
linguaggio.
Bologna:
Libreria
Treves
di
Luigi
Beltrami
1905.
storie
locali
e
nazionali
si
connettono
per
assumere
un
senso
più
profondo.
Il
risultato
è
una
nuova
visione
della
musica,
con
l'Africa
come
centro
da
cui
si
riversa
il
flusso
di
popolazioni
e
di
musica,
l'Oceano
Indiano
come
il
primo
bacino
di
trasmissione,
l’Europa
come
terreno
di
sviluppo
più
tardivo,
e
l'America
come
luogo
di
una
nuova
confluenza
fra
tre
correnti.
Spariscono
miti
come
l'origine
monodica
della
musica
e
l’
“invenzione”
della
polifonia,
assurdità
sostenute
a
lungo
per
costringere
la
storia
della
musica
ad
aderire
ai
soli
documenti
scritti
europei,
ignorando
che
in
tutto
il
mondo
proprio
molte
delle
culture
più
arcaiche
sono
polifoniche.
In
Africa,
in
particolare,
gli
esploratori
dell’Ottocento
trovarono
monodia
nella
zona
nord,
più
vicina
all’Europa,
poi,
più
scendevano
a
sud,
più
trovavano
musica
polifonica:
il
contrario
di
quanto
sarebbe
avvenuto
se
l’Africa
avesse
ricevuto
la
polifonia
dall’Europa.
Inoltre
diventa
possibile
una
storia
fondata
su
altri
parametri
come,
per
esempio,
l’evoluzione
del
ritmo
—
in
genere
trascurato
a
favore
dell’armonia
—
e
l’espansione
e
il
perfezionamento
degli
strumenti
musicali,
che
spesso
si
possono
datare
per
conto
loro.
Nella
mappa
degli
stili
musicali,
una
dialettica
fondamentale
si
ha
tra
estasi
e
trance.
Questo
tema
è
stato
trattato
in
antropologia
musicale,18
ma
senza
vederne
il
potenziale
come
marcatore
di
eventi
storici
databili
quali
migrazioni,
invasioni
o
commerci.
Peggio,
la
storia
scritta
da
una
cultura
di
estasi
germanocentrica
sacrifica
il
ruolo
della
trance,
il
che
implica
imporre
criteri
di
valore
distorti,
sminuire
certe
forme
di
arte,
di
espressione
e
di
culto
(come
vodu
o
santeria),
e
vedere
la
musica
di
trance
come
“primitiva”.
Rimettere
al
centro
l'Africa
corregge
questo
errore
e
consente
una
visione
storica
ed
estetica
più
equilibrata.
Tra
musica
e
linguaggio
vi
è
comunque
una
differenza:
i
prestiti
sono
più
facili
in
musica.
Gli
umani
faticano
a
imparare
lingue
straniere
e,
se
possono,
conservano
la
lingua
madre;
sono
più
disponibili
ad
assorbire
elementi
di
un’altra
musica,
come
melodie,
ritmi,
passi
di
danza
o
strumenti.
L’ipotetico
diagramma
evolutivo
delle
musiche
del
mondo
somiglia
dunque
a
un
albero,
ma
solo
in
parte.
La
somiglianza
era
massima
nel
Paleolitico,
quando
due
gruppi
di
cacciatori
che
si
separavano
lo
facevano
per
millenni.
Oggi,
grazie
ai
mass
media
e
alla
riproducibilità
della
musica,
non
è
più
così.
Il
diagramma
è
dunque
simile
a
un
albero
nei
rami
bassi,
più
antichi,
e
a
una
rete
ferroviaria
nei
rami
alti.
Negli
ultimi
anni,
studiosi
come
Joseph
Jordania19
e
Victor
Grauer20
hanno
provato
a
verificare
se
gli
stili
musicali
più
arcaici
si
possano
raggruppare
lungo
linee
simili
all’albero
di
Cavalli-‐Sforza.
Hanno
ottenuto
qualche
buon
risultato,
ma
si
arrendono
di
fronte
al
problema
di
includere
le
fasi
successive
al
Paleolitico.
Il
nostro
approccio,
adottato
fin
dal
1994,
non
soffre
di
questo
problema.
Già
l’antropologo
Marvin
Harris,
nel
suo
fondamentale
Cannibali
e
re,21
aveva
mostrato
18
Gilbert
Rouget,
La
musique
et
la
trance.
Esquisse
d’une
théorie
générale
des
realtions
de
la
musique
et
de
la
possession.
Paris:
Gallimard
1980.
19
Joseph
Jordania,
Who
Asked
the
First
Question?
The
Origins
of
Human
Choral
Singing,
Intelligence,
Language
and
Speech.
Tbilisi,
Logos
2006,
http://www.polyphony.ge/uploads/whoaskthefirst.pdf
.
20
Victor
Grauer,
Sounding
the
Depths.
http://soundingthedepths.blogspot.mx/
.
21
Marvin
Harris,
Cannibals
and
Kings:
The
Origins
of
Cultures.
New
York:
Random
House
1977.
come
la
varietà
delle
culture
umane,
anche
se
sembra
infinita,
si
riduca
in
effetti
a
una
serie
di
stadi
in
ordine
fisso.
Le
culture
umane
nascono
come
orde
nomadi
dedite
a
caccia
e
raccolta,
e
rimangono
tali
fin
quando
una
crisi
ecologica
non
le
induce
a
coltivare
piante
e
allevare
animali.
Inizia
così
il
secondo
stadio,
quello
dei
contadini
neolitici,
che
vivono,
per
tutto
l’anno
o
parte
di
esso,
in
case
raggruppate
in
villaggi.
Il
terzo
stadio
si
ha
quando,
sotto
la
pressione
delle
feste
redistributive
organizzate
nei
villaggi
da
capi
carismatici,
si
assiste
alla
nascita
di
organizzazioni
statuali,
con
un
territorio,
confini
difesi
da
un
esercito,
un
re
che
incarna
un
potere
centrale
e
impone
tasse
che
servono
a
mantenere
esercito,
sacerdoti,
una
corte
e
una
burocrazia.
A
questo
punto
può
comparire
la
scrittura.
Ulteriori
crisi
ecologiche
portano
via
via
al
crollo
di
ciascuno
stadio
e
all’inizio
del
successivo,
in
cui
una
tecnologia
nuova
sfrutta
ed
esaurisce
l’ecosistema
con
più
intensità
per
sfamare
una
popolazione
crescente.
Oggi
siamo
nella
fase
di
crisi
di
uno
di
questi
stadi.
Il
modello
di
Harris
fornisce
alla
storia
della
musica
un
prezioso
asse
diacronico.
Una
cultura
può
restare
nella
fase
in
cui
si
trova
o
passare
alla
successiva,
e
in
qualche
raro
caso
ricadere
nella
precedente,
ma
non
può
fare
salti
a
caso.
Non
ci
sono
civiltà
industriali
che
“involvono”
in
orde
paleolitiche,
e
non
ce
ne
saranno
in
futuro,
se
non
ci
distruggiamo
a
vicenda.
A
parte
rare
eccezioni,
i
fenomeni
culturali
dello
stadio
più
arcaico
devono
precedere
quelli
dello
stadio
successivo.
Il
modello
di
Harris
spiega
con
chiarezza
gli
stadi
e
come
si
passi
dall’uno
all’altro,
ma
non
spiega
perché
la
sequenza
sia
fissa.
La
spiegazione
l’ha
fornita,
senza
volerlo,
un
grande
studioso
italiano,
oggi
dimenticato:
il
neurofisiologo
Renato
Balbi.
Già
mezzo
secolo
fa
Balbi
formulò
una
teoria
ardita,
originale
e
dettagliata
del
funzionamento
del
cervello
umano.22
Prese
le
mosse
dal
più
semplice
modello
di
Paul
McLean,23
in
cui
il
cervello
umano
ha
tre
strati,
antico,
intermedio
e
recente.
La
teoria
di
McLean
incontrò
enormi
resistenze
ma
oggi
è
in
sostanza
accettata.
Balbi
presentò
nel
1963
una
teoria
che
identificava
ventuno
strati
nell’encefalo,
corrispondenti
alle
varie
fasi
dell’evoluzione
del
phylum
Chordata,
fino
a
sapiens.
Secondo
la
sua
“teoria
dell’evoluzione
neurale
stratificata”,
ogni
strato
dell’encefalo
corrisponde
a
un
nostro
antenato;
e
in
ogni
nuovo
essere
umano
i
vari
strati
dell’encefalo
si
accendono
esattamente
nell’ordine
dei
suoi
antenati
pre-‐umani,
secondo
una
visione
aggiornata
della
teoria
di
Ernst
Häckel,
“L’ontogenesi
ricapitola
la
filogenesi”.
Per
Balbi,
gli
ultimi
cinque
strati,
dal
17
al
21,
corrispondono
all’evoluzione
culturale:
cacciatori
paleolitici,
villaggi
neolitici,
organizzazione
statuale
con
scrittura,
pensiero
logico,
pensiero
scientifico.
Balbi
aveva
compreso
meccanismi
fondamentali
del
cervello
umano
quando
molte
macchine
per
la
diagnosi,
oggi
comuni
negli
ospedali,
non
esistevano
ancora.
22
Renato
Balbi,
L'evoluzione
stratificata.
Napoli:
Edizioni
Scientifiche
Italiane
1965.
23
La
prima
formulazione
in
libro
della
teoria
è
Paul
D.
MacLean,
V.A.
Kral,
A
Triune
Concept
of
the
Brain
and
Behaviour.
Ontario
Mental
Health
Foundation
1973.
Tuttavia
Balbi
conosceva
già
nel
1965
cinque
articoli
di
MacLean,
pubblicati
fra
il
1949
e
il
1961,
che
cita
in
bibliografia
(p.
489).
Gli
enormi
progressi
compiuti
dalle
neuroscienze
negli
ultimi
decenni
hanno
portato
gli
scienziati
a
riscoprire
le
sue
idee
senza
saperlo,
ovviamente
con
qualche
ritocco
che
qui
non
interessa.
Dopo
mezzo
secolo,
la
teoria
di
Balbi
è
più
attuale
che
mai.
Già
nei
primi
anni
’80
mi
resi
conto
che
gli
strati
di
Balbi
corrispondono
con
buona
precisione
alle
fasi
culturali
di
Harris.
Il
fatto
che
queste
siano
generate
da
strutture
innate
del
cervello
spiega
perché
Harris
avesse
osservato
le
stesse
fasi
nel
Vecchio
e
Nuovo
Mondo.
Balbi
incontrò
un
ostracismo
radicale
in
Italia
e,
dopo
due
libri
sull’argomento,
abbandonò
la
battaglia,
convinto
che
prima
o
poi
la
giustezza
delle
sue
idee
sarebbe
stata
riconosciuta.
All’inizio
degli
anni
’90
venni
a
conoscere
l’albero
di
Cavalli-‐Sforza
e
mi
resi
conto
che
questo
ci
dà
le
orizzontali
di
un
cruciverba,
mentre
Balbi
e
Harris
ci
danno
le
verticali.
Combinando
tutti
questi
strumenti
di
indagine
diventa
possibile
collocare
ogni
cultura
musicale
umana
al
posto
giusto
nel
quadro
della
storia
della
musica
mondiale
e
riconoscerne
il
reale
contributo.
Il
quadro
che
emerge
si
può
senz’altro
dire
afrocentrico:
non
però
nel
senso
ideologico,
e
quasi
vendicativo,
che
il
termine
ha
preso
di
recente
negli
Stati
Uniti,
suscitando
aspre
resistenze.
Non
c’è
bisogno
di
sostituire
un’ideologia
di
dominio
con
un’altra.
C’è
bisogno
di
un
diagramma
che
metta
le
cose
accadute
nell’ordine
corretto,
e
questo
non
può
che
essere
afrocentrico,
nel
senso
che
tale
modello,
come
detto,
parte
dall’Africa.
Ricostruire
l’ordine
corretto
significa
anche
abbandonare
il
pregiudizio
per
cui
l’Europa
avrebbe
inventato
tutto,
e
il
resto
del
mondo
avrebbe
costituito
una
specie
di
platea
plaudente.
Il
concetto
stesso
di
centralità
non
è
solo
spostato
dall’Europa
all’Africa,
ma
è
ridiscusso.
Nella
storia
esistono
centri
principali
e
secondari,
duraturi
ed
effimeri.
L’Italia
fu
centro
della
diffusione
del
canto
gregoriano,
dell’opera
e
del
pianoforte,
ma
oggi
è
periferia
di
mode
statunitensi.
Questo
è
il
nostro
destino
comune:
dare
e
ricevere
a
fasi
alterne.
Rimettere
l’Africa
al
centro
e
a
fondamento
della
storia
della
musica
significa
anche
togliere
gli
studi
sulle
musiche
nere
dell’Africa
e
della
diaspora
da
una
marginalità
che
ormai
appare
assurda,
considerando
che
la
musica
del
nostro
pianeta
si
sta
non
solo
globalizzando,
ma
anche
riafricanizzando.
Non
molti,
ancor
oggi,
percepiscono
quanto
la
musica
del
Paleolitico
africano
stia
ridiventando
la
base
sonora
comune
del
mondo.
Una
volta
accettata
l’idea
che
la
storia
della
musica
mondiale
si
può
scrivere,
la
si
deve
scrivere.
La
possibilità
tecnica
diviene
dovere
etico.
Dobbiamo
capire
chi
siamo
e
a
che
punto
siamo
della
nostra
avventura
nell’universo.
Abbiamo
di
fronte
un
lavoro
gigantesco.
Questo
lavoro,
basato
sui
fondamenti
teorici
esposti,
è
appena
iniziato.
Intorno
alla
mia
persona
si
è
già
formato
un
piccolo
gruppo
di
colleghi
che
lavorano
sul
nuovo
paradigma.
Ce
ne
sono
certo
altri,
che
non
conosciamo,
ma
che
hanno
avuto
idee
analoghe
e
si
sentono
vicini
a
noi.
Vorremmo
riuscire
a
unirne
gli
sforzi.
Speriamo
di
trovare
molti
amici.