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IL PENSIERO.

UNA RICERCA LOGICA

GOTTOLOB FREGE

La parola «vero» indica alla logica la direzione, così come «bello» la indica
all'estetica e «buono» all'etica. Certo, tutte le scienze hanno come obiettivo la
verità; ma la logica se ne occupa in una maniera del tutto diversa. Il suo
rapporto con la verità è press'a poco quello che la fisica ha con il peso o con il
calore. Scoprire verità è il compito di tutte le scienze: alla logica spetta di
individuare le leggi dell'«esser vero». La parola «legge» viene usata in due sensi.
Quando parliamo di leggi morali o dello stato abbiamo in mente delle
prescrizioni che devono venir seguite, ma alle quali non sempre ciò che accade
si accorda. Le leggi naturali sono quanto vi è di generale in ciò che avviene in
natura, e gli eventi sono loro sempre conformi. E più in questo senso che
parlo di leggi dell'esser vero. Tuttavia in quest'ultimo caso non si tratta di un
accadere ma di un essere. Ora, dalle leggi dell'esser vero risultano pre-scrizioni
per il ritener vero, per il pensare, il giudicare, l'inferire; per questo si parla
spesso anche di leggi del pensiero. Ma corriamo qui il rischio di confondere
cose tra loro differenti. L'espressione «legge del pensiero» può venir forse
presa in modo simile a «legge naturale» — si intenderebbe così quanto vi è di
generale nell'evento mentale del pensare. In questo senso una legge del
pensiero sarebbe una legge psicologica, e si giungerebbe all'opinione che nella
logica ci si occupi del processo mentale del pensare e delle leggi psicologiche
secondo le quali esso si svolge. Ciò significherebbe però non aver capito
quale sia il compito della logica, perché in questo caso la verità non otterrebbe
il posto che le spetta. L'errore e la superstizione hanno cause esattamente
come le ha la retta conoscenza. Quando si [59] ritiene vero qualcosa che è
vero, ciò avviene in accordo con leggi psicologiche proprio come quando si
ritiene vero qualcosa che è falso. Una derivazione o una spiegazione, a partire
da tali leggi, di un processo mentale, che si concluda nel ritener vero qualcosa,
non possono mai sostituire una dimostrazione di ciò cui tale ritener vero si
riferisce. Non può darsi che in questi processi psichici fossero cointeressate
anche leggi logiche? Non voglio contestarlo; ma quando si tratta della verità
non possiamo accontentarci di una possibilità. E d'altronde possibile che
qualcosa di non logico sia intervenuto e abbia sviato dalla verità. Ciò potrà
comunque essere stabilito solo dopo che avremo individuato le leggi dell'esser
vero; ma a quel punto saremo probabilmente in grado di fare a meno della
derivazione o della spiegazione del processo mentale, se ciò che ci importa è
decidere se è giustificato il ritener vero cui il processo conduce. Al fine di
escludere malintesi e di evitare che siano cancellati i confini tra la psicologia e
la logica, assegno alla logica il compito di individuare le leggi dell'esser vero, e
non quelle del ritener vero o del pensare. Nelle leggi dell'esser vero si
dispiegherà il significato della parola «vero».
Ma in primo luogo cercherò di delineare a grandi tratti ciò che in questo
contesto intendo per «vero». In tal modo potremo escludere alcuni modi
marginali di usare la nostra parola. Non la si deve qui adoperare con il senso
che hanno «verace» o «veritiero», e nemmeno come spesso capita nel trattare
questioni artistiche: quando ad esempio si parla della verità nell'arte, o quando
la verità viene posta come obiettivo dell'arte, quando si parla della verità di
un'opera d'arte o di un sentimento vero. La parola «vero» viene anche apposta
a un'altra parola per dire che quest'ultima deve essere intesa nel suo senso
proprio e non in un senso alterato. Anche questo modo d'uso si discosta dalla
strada che seguiremo; la verità cui pensiamo è piuttosto quella la cui
conoscenza viene eretta a scopo della scienza.
Da un punto di vista linguistico la parola «vero» si presenta come un
termine di proprietà. Da ciò origina il desiderio di delimitare più precisamente
l'ambito nel quale la verità può venir affermata, nel quale la verità possa in
genere entrare in linea di conto. La verità si vede affermata di immagini,
rappresentazioni, enunciati e pensieri. Colpisce il fatto che siano qui
raggruppati oggetti che possiamo vedere e sentire assieme ad altri che non
possono venir percepiti con i sensi. Questo fatto tradisce l'intervento d'uno
spostamento di significato. Infatti, possiamo dire in senso proprio che
un'immagine, in quanto mera cosa visibile e tangibile, è qualcosa di vero? e
una pietra o una foglia non lo sarebbero? E ovvio che non diremmo vera
l'immagine se non vi fosse un'intenzione che essa sia vera: l'immagine deve
rappresentare qualcosa. Anche la rappresentazione non viene detta vera in sé
ma solo rispetto a un'intenzione di farla corrispondere a qualcosa. È a partire
di qui che si può supporre che la verità consista in una corrispondenza di
un'immagine con quanto viene raffigurato. La corrispondenza è una relazione.
Ma ciò è contraddetto dal modo d'uso della parola «vero», che non è un
termine di relazione e non contiene alcun rimando ad alcunché d'altro con cui
qualcosa dovrebbe concordare. Se non so che una certa immagine deve
rappresentare il Duomo di Colonia non so con che [60] cosa dovrei
confrontare l'immagine per decidere della sua verità. E inoltre la
corrispondenza può essere completa solo allorché le cose corrispondenti
coincidano, e non siano pertanto in alcun modo cose distinte. Si dovrebbe
poter controllare l'autenticità di una banconota cercando di farla combaciare
stereoscopicamente con una autentica. Ma sarebbe ridicolo il tentativo di
far combaciare stereoscopica-mente una moneta d'oro con un biglietto da
venti marchi. Far combaciare una rappresentazione con una cosa sarebbe
possibile solo se la cosa fosse anch'essa una rappresentazione. Ed esse
combace-rebbero solo se la prima corrispondesse completa-mente con la
seconda. Ma non è questo che si intende quando si definisce la verità come
corrispon-denza di una rappresentazione con qualche cosa di reale. È infatti
essenziale proprio che ciò che è reale sia distinto dalla rappresentazione. Ma
allora non c'è nessuna concordanza completa, nessuna verità completa. E
quindi non vi sarebbe proprio niente di vero, dal momento che ciò che è vero
a metà è non vero (ist unwahr). La verità non tollera i più o meno. Ma come!
Non si può stabilire che c'è verità quando sussiste una corrispondenza sotto
un qualche aspetto? Ma sotto quale? Cosa dovremmo mai fare per decidere se
qualcosa sia vero? Dovremmo ad esempio indagare se sia vero che una
rappresentazione e un che di reale concordano nell'aspetto stabilito. Ma con
questo ci troveremmo nuovamente di fronte a una questione dello stesso tipo,
e il gioco potrebbe ricominciare da capo. Fallisce quindi questo tentativo di
spiegare la verità nei termini della corrispondenza. Ma con ciò fallisce anche
ogni altro tentativo di definire l'«esser vero». Infatti in una definizione
verrebbero fissate alcune caratteristiche e, nell'applicazione a un caso
particolare, si tratterebbe sempre di vedere se sia vero o no che queste
caratteristiche concordano. Così ci si muoverebbe in un circolo. E pertanto
probabile che il contenuto della parola «vero» sia di una specie del tutto
singolare e indefinibile.
Quando si afferma di un'immagine che essa è vera non si vuole veramente
ascriverle una proprietà che le spetterebbe in completo isolamento da altre
cose, ma si ha in mente qualcosa di totalmente diverso: si vuole dire che
quell'immagine corrisponde in qualche modo a questa cosa. «La mia
rappresentazione corrisponde al Duomo di Colonia» è un enunciato: si tratta
adesso della verità di questo enunciato. Quella che, in modo del tutto indebito,
viene chiamata la verità di immagini e rappresentazioni viene quindi
ricondotta alla verità di enunciati. Cos'è che viene denominato un enunciato?
Una successione di suoni; ma a condizione che essa abbia un senso, senza
voler asserire con ciò che ogni successione sensata di suoni sia un enunciato.
E quando si dice vero un enunciato si pensa in effetti al suo senso. Sembra
quindi che ciò per cui si pone la questione dell'esser vero sia il senso di un
enunciato. Il senso di un enunciato è forse una rappresentazione? A ogni
modo l'esser vero non consiste nella corrispondenza di questo senso con
qualcosa d'altro, perché altrimenti si riproporrebbe all'infinito la questione
dell'esser vero.
Senza voler con ciò dare una definizione, chiamo pensiero qualcosa per cui
possa in generale porsi la questione della verità. Annovero quindi tra i pensieri
sia ciò che è falso che ciò che è vero '. In base a ciò [61] posso dire: il pensiero
è il senso di un enunciato — senza voler con questo asserire che il senso di
ciascun enunciato sia un pensiero. Il pensiero, in sé non sensibile, si riveste
dell'abito sensibile dell'enunciato e diviene così afferrabile da parte nostra.
Diciamo che l'enunciato esprime un pensiero.
Il pensiero è qualcosa che non può esser percepito con i sensi, e tutte le
cose sensibilmente percepi-bili sono escluse dall'ambito di ciò per cui possa in
generale porsi la questione della verità. La verità non è una proprietà che
corrisponda a un genere particolare di impressioni sensibili. Essa si distingue
quindi nettamente dalle proprietà che denominiamo con le parole «rosso»,
«amaro», «dal profumo di lillà». Ma non vediamo forse che il sole è sorto? e
non vediamo al tempo stesso anche che ciò è vero? Il fatto che il sole sia sorto
non è un oggetto che emetta raggi che giungono ai miei occhi, non è una cosa
visibile come lo è il sole stesso. Sulla base di impressioni sensibili si riconosce
vero che il sole sia sorto. Ciò nonostante l'esser vero non è una proprietà
percepibile sensibilmente. È sempre sulla base di impressioni sensibili che una
cosa è riconosciuta essere magnetica, sebbene a questa proprietà corri-sponda
tanto poco una specie particolare di impressioni sensibili quanto ne
corrisponda alla verità. Sotto questo aspetto le due proprietà concordano. Ma
per riconoscere che un corpo è magnetico ci sono indispensabili impressioni
sensibili. Se di contro trovo vero che in questo momento non sento alcun
odore non mi baso su impressioni sensibili.
Eppure dà da pensare che non possiamo riconoscere una proprietà in una
cosa senza con ciò stesso trovare vero il pensiero che questa cosa ha questa
proprietà. Quindi a ciascuna proprietà di una cosa è connessa una proprietà di
un pensiero, quella della verità. E anche degno di nota che l'enunciato «sento
un profumo di violette» ha né più né meno lo stesso contenuto dell'enunciato
«è vero che sento un profumo di violette». Pare così che non venga aggiunto
niente al pensiero con l'attribuirgli la proprietà della verità. Ma non è tuttavia
un grande successo se dopo lunghi tentennamenti e indagini faticose il
ricercatore può finalmente dire «ciò che avevo supposto è vero?>. Il
significato della parola «vero» sembra essere veramente unico nel suo genere.
Non potrebbe darsi che abbiamo qui a che fare con qualcosa che non può
esser denominato una pro-prietà nel senso ordinario? Nonostante questo dub-
bio intendo per il momento tenermi ancora all'uso [62] linguistico comune, ed
esprimermi come se la verità fosse una proprietà, finché non verrà trovato
qual-cosa di più appropriato.
Al fine di chiarire più precisamente che cosa chiamo pensiero distinguo
diversi tipi di enunciati2. Non si vorrà contestare un senso a un enunciato
imperativo, ma questo senso non è di un tipo per cui possa porsi la questione
della verità. Non chiamerò quindi pensiero il senso di un enunciato
imperativo; così pure sono da escludere proposizioni ottative e preghiere.
Possono venir presi in considerazione quegli enunciati nei quali
comunichiamo o asseriamo qualcosa. Non considero tuttavia tali le
esclamazioni in cui si dà sfogo ai propri sentimenti, il gemere, il sospirare, il
ridere, a meno che essi, tramite un accordo particolare, non siano destinati a
comunicare qualcosa. Ma cosa avviene nel caso degli enunciati interrogativi?
Con un termine interrogativo articoliamo un enunciato incompleto, che
ottiene un senso vero e proprio solo grazie al completamento da noi richiesto.
Non prendiamo quindi in considerazione i termini interrogativi. Diverso è il
caso degli enunciati interrogativi, ci aspettiamo di sentire un «sì» o un.«no». La
risposta «sì» dice la stessa cosa che un enunciato assertorio; perché per il suo
tramite viene posto come vero il pensiero che è già interamente contenuto
nell'enunciato interrogativo. Si può quindi formare un enunciato interrogativo
a partire da qualsiasi enunciato assertorio. Un'esclamazione non è pertanto da
considerare come una comunicazione, poiché non può venir costruito nessun
enunciato interrogativo che le corrisponda. L'enunciato interrogativo e quello
assertorio contengono lo stesso pensiero; ma quello assertorio contiene
ancora qualcosa d'altro, cioè l'asserzione. Anche l'enunciato interrogativo
contiene qualcosa d'altro, vale a dire una richiesta. In un enunciato assertorio
occorre perciò distinguere due elementi: il contenuto, che esso ha in comune
con il corrispondente enunciato interrogativo, e l'asserzione. Il primo è il
pensiero, o perlomeno contiene il pensiero. E quindi possibile esprimere un
pensiero senza presentarlo come vero. In un enunciato assertorio le due cose
sono talmente legate che è facile lasciarsene sfuggire la scomponibilità.
Distinguiamo quindi:
1. l'afferrare il pensiero — il pensare;

2. il riconoscimento della verità di un pensiero — il giudicare 3;

3. la manifestazione di questo giudizio — l'asserire.


Col formare un enunciato interrogativo abbiamo già compiuto il primo di
questi atti. Un progresso nella scienza ha luogo di solito in questo modo:
dapprima viene afferrato un pensiero, più o meno così come esso può ad
esempio venir espresso in un enunciato interrogativo, a partire dal quale, dopo
appropriate ricerche, questo pensiero viene infine riconosciuto vero. Il
riconoscimento della verità lo [63] esprimiamo nella forma dell'enunciato
assertorio; non abbiamo bisogno a questo fine della parola «vero». E, se pure
la utilizziamo, l'autentica forza assertoria non sta in essa ma nella forma
dell'enunciato assertorio, e nel caso che questa perda la sua forza assertoria la
parola «vero» non può ricostituirla. Ciò accade quando non parliamo con la
dovuta serietà. Così come un tuono sulla scena è soltanto un tuono apparente,
ed è apparente un combattimento sulla scena, anche un'asserzione sulla scena
è un'asserzione apparente. E soltanto un gioco, è soltanto poesia. L'attore, nel
suo ruolo, non fa asserzioni, e neppure mente, nemmeno se dice qualcosa
della cui falsità è convinto. Nella poesia abbiamo il caso di pensieri che
vengono espressi senza venir effettivamente posti come veri, nonostante la
forma dell'enunciato assertorio; sebbene possa venir suggerito a chi ascolta di
formare egli stesso un giudizio di assenso. Occorre pertanto chiedersi sempre
se contenga effettivamente un'asserzione ciò che si presenta con la forma di
un enun-ciato assertorio. E bisogna rispondere negativa-mente alla questione
nel caso manchi la serietà indispensabile all'asserzione. È del tutto irrilevante
se venga qui usata o meno la parola «vero». Diviene quindi chiaro perché non
sembra che venga aggiunto niente al pensiero quando gli si ascrive la proprietà
della verità.
Oltre a un pensiero e all'asserzione, un enunciato assertorio contiene spesso
un terzo elemento al quale l'asserzione non si estende. Sovente esso agisce sul
sentimento e sullo stato d'animo di chi ascolta, o mette in moto la sua
immaginazione. Stiamo parlando di espressioni come «ahimè» e «grazie a
Dio». Questi costituenti dell'enunciato emergono in modo più pronunciato
nella poesia, ma anche nella prosa è raro che manchino del tutto; nelle
esposizioni matematiche, fisiche e chimiche sono più rari che non in quelle
storiche. Quelle che vengono chia-mate scienze umane sono più prossime alla
poesia (ma sono per questo anche meno scientifiche) delle scienze rigorose,
che sono tanto più aride quanto più sono rigorose — perché la scienza
rigorosa è diretta alla verità e a nient'altro che alla verità. Pertanto tutti i
costituenti dell'enunciato ai quali non si estende la forza assertoria non fanno
parte dell'espo-sizione scientifica, ma sovente è difficile che riesca a evitarli
anche colui che vede il rischio a essi con-nesso. Quando è necessario
avvicinarsi con vaghe intuizioni a ciò che non è afferrabile dal pensiero, questi
costituenti hanno piena giustificazione. Quanto più rigorosamente scientifica è
un'esposi-zione, tanto meno discernibile è la nazionalità del suo autore, e
tanto più facilmente essa è traducibile. Di contro i costituenti del linguaggio
sui quali ho cercato qui di attirare l'attenzione rendono difficile la traduzione
di una poesia, e addirittura rendono quasi sempre impossibile una traduzione
completa; perché è su queste parti che si basa in buona misura il valore
poetico ed è proprio in esse che le lingue maggiormente differiscono.
Non fa differenza per il pensiero se utilizzo 1a parola «cavallo» o «destriero»
o «brocco» o «cor-siero». La forza assertoria non si estende a ciò per cui
queste parole si differenziano. Quel che in una poesia si può chiamare il tono,
la fragranza o gli effetti di luce e ombra, quel che viene reso con la cadenza e il
ritmo non appartiene al pensiero.
Alcuni elementi nella lingua servono a facilitare [64] la comprensione a chi
ascolta, come ad esempio la messa in evidenza di un elemento dell'enunciato
per mezzo dell'accentazione o della disposizione delle parole. Si pensi anche a
parole come «ancora» e «già». Con l'enunciato «Alfredo non è ancora arrivato »
vien detto in effetti « Alfredo non è arrivato » e si accenna con ciò al fatto che
si attende il suo arrivo; ma vi si accenna soltanto. Non si può dire che il senso
dell'enunciato sarebbe falso perché l'arrivo di Alfredo non è atteso. La parola
«ma» si distingue da «e» per il fatto che con essa si indica che quel che segue è
in contrasto con quanto c'era da aspettarsi sulla base di quel che precede.
Questi suggerimenti all'interno del discorso non fanno alcuna differenza per il
pensiero. Si può trasformare l'enunciato convertendo il verbo dall'attivo al
passivo e contemporaneamente mutando il complemento oggetto in soggetto.
Del pari si può cambiare il dativo nel nominativo sostituendo
contemporaneamente «dare» con «ricevere». Certo queste trasformazioni non
sono equivalenti sotto tutti i punti di vista; ma non toccano il pensiero, non
toccano ciò che è vero o falso. Se venisse universalmente riconosciuta
l'inammissibilità di queste trasformazioni, verrebbe impedita ogni ricerca
logica che si spinga sotto la superficie. E altrettanto importante trascurare
distinzioni che non riguardano il nocciolo della questione quanto lo è farne
che concernano l'essenziale. Ma ciò che è essenziale dipende dallo scopo che
si persegue. Allo spirito orientato alla bellezza della lingua può apparire
importante proprio ciò che per il logico è indifferente.
Non di rado quindi il contenuto di un enunciato va al di là del pensiero in
esso espresso. Ma spesso avviene anche l'inverso, vale a dire che la pura e
semplice sequenza di parole, che può venir registrata dalla scrittura o dal
fonografo, non sia sufficiente all'espressione del pensiero. Il tempo presente
viene usato in due modi: in primo luogo per dare un'indicazione temporale, e
in secondo luogo per neutralizzare ogni limitazione temporale nel caso che
l'atemporalità o l'eternità siano costituenti del pensiero. Si pensi ad esempio
alle leggi della matematica. Quale dei due casi abbia luogo non viene detto
espressa-mente ma dev'essere intuito. Ma se con il tempo presente viene
fornita un'indicazione temporale, per comprendere correttamente il pensiero
occorre sapere quando è stato pronunciato l'enunciato, e in questo caso anche
il momento in cui si parla è parte dell'espressione del pensiero. Se qualcuno
volesse dire oggi ciò che, utilizzando la parola «oggi», ha detto ieri, la
dovrebbe sostituire con «ieri». Sebbene il pensiero sia lo stesso, l'espressione
verbale deve essere differente perché venga compensato il muta-mento del
senso che verrebbe altrimenti provocato dalla diversità dei momenti in cui si
parla. Stessa cosa per parole come «qui» e «là». In tutti questi casi la pura e
semplice sequenza di parole, così come può venir registrata dalla scrittura, non
è l'espres-sione completa del pensiero; e per la corretta com-prensione di
quest'ultimo occorre la conoscenza di certe circostanze concomitanti che
possono venire utilizzate come mezzo per esprimerlo. In questa rubrica
possono rientrare anche l'azione dell'indi-care, i movimenti della mano, gli
sguardi. Se il medesimo enunciato verbale contiene la parola «io», esso
esprimerà, in bocca a persone diverse, pensieri diversi, dei quali alcuni
potranno essere veri e altri falsi.
L'occorrenza della parola «io» in un enunciato dà [65] adito ad ancora altre
questioni.
Prendiamo il caso seguente. Il Dr. Gustav Lauben dice: «Io sono stato
ferito». Leo Peter ode ciò e, qualche giorno più tardi, racconta: «Il Dr. Gustav
Lauben è stato ferito». Quest'enunciato esprime lo stesso pensiero che lo
stesso Dr. Lauben ha articolato? Si supponga che Rudolf Lingens fosse
presente quando il Dr. Lauben parlava e che ora senta quel che viene
raccontato da Leo Peter. Se è lo stesso pensiero che è stato articolato dal Dr.
Lauben e da Leo Peters, Rudolf Lingens, che domina perfettamente la lingua e
che si ricorda di ciò che il Dr. Lauben ha detto in sua presenza, deve capire
allora immediatamente dal racconto di Leo Peter che si sta parlando della
medesima cosa. Ma quando si tratta dei nomi propri la conoscenza della
lingua non basta più. Può darsi che siano in pochi a connettere un pensiero
determinato all'enunciato «Il Dr. Lauben è stato ferito». In questo caso alla
piena comprensione appartiene la conoscenza del vocabolo «il Dr. Gustav
Lauben». Ora, se entrambi - Leo Peter come Rudolf Lingens — intendono
con «il Dr. Gustav Lauben» il medico che abita in una casa a entrambi ben
nota, comprendono tutti e due l'enun-ciato «Il Dr. Gustav Lauben è stato
ferito» allo stesso modo, vi connettono lo stesso pensiero. E tuttavia possibile
che Rudolf Lingens non conosca di persona il Dr. Lauben e non sappia che
sia stato proprio il Dr. Lauben a dire di recente «Io sono ^ stato ferito». In
questo caso Rudolf Lingens non può , sapere che si tratta dello stesso fatto.
Sostengo per-tanto che in questo caso il pensiero comunicato da Leo Peter
non è lo stesso che il Dr. Lauben ha articolato.
Si assuma inoltre che Herbert Garner sappia che il Dr. Gustav Lauben è
nato a N.N. il 13 settembre 1875 e che ciò non si possa dire di nessun'altro; e
che di contro egli non sappia dove ora abiti il Dr. Lauben né null'altro che lo
concerna. D'altro lato Leo Peter non sa che il Dr. Gustav Lauben è nato a
N.N. il 13 settembre 1875. Pertanto, nella misura in cui venga in causa il nome
proprio «il Dr. Gustav Lauben», Herbert Garner e Leo Peter non parlano la
stessa lingua, sebbene con questo nome designino di fatto lo stesso uomo,
perché lo fanno senza saperlo. Herbert Garner non connette quindi all'e-
nunciato «il Dr. Gustav Lauben è stato ferito» lo stesso pensiero che Leo Peter
vuole esprimere con esso. Per evitare l'inconveniente di far sì che Herbert
Garner e Leo Peter non parlino la stessa lingua assumo che Leo Peter usi il
nome proprio «il Dr. Lauben» e che invece Herbert Garner usi il nome
proprio «Gustav Lauben». È ora possibile che Herbert Garner prenda per
vero il senso dell'enunciato «Il Dr. Lauben è stato ferito», mentre — sviato da
notizie false — prenda per falso il senso dell'enunciato «Gustav Lauben è
stato ferito». Data l'ipotesi questi pensieri sono quindi differenti.
Di conseguenza nel caso di un nome proprio tutto dipende da come
vengono date le persone o le cose che sono designate per il suo tramite; a
ciascuno dei diversi modi in cui ciò può accadere corrisponde [66] un senso
particolare dell'enunciato che contiene il nome proprio. I differenti pensieri
che si delineano così a partire da uno stesso enunciato concordano
naturalmente nel loro valore di verità; vale a dire: se uno di essi è vero sono
tutti veri, e se uno di essi è falso sono tutti falsi. Tuttavia va riconosciuta la
loro diversità. Si deve quindi esigere, a voler essere pre-cisi, che a ogni nome
proprio venga connesso un unico modo di essere date delle cose e delle
persone cui si fa riferimento mediante esso. Spesso non è essenziale che
questa condizione sia soddisfatta; ma non in tutti i casi.
Ora, ciascuno è dato a se stesso in un modo particolare e originario nel
quale non è dato a nessun altro. Allorché il Dr. Lauben pensa di essere stato
ferito, si basa probabilmente su questo modo origina-rio in cui egli è dato a se
stesso, e non vi è che il Dr. Lauben che può capire il pensiero determinato in
questo modo. Ma ecco che egli vorrebbe comunicare con gli altri. Non può
comunicare un pensiero che solo lui può capire. Se pertanto dice «Sono stato
ferito» deve utilizzare «io» in un senso che sia comprensibile anche agli altri,
più o meno nel senso di «colui che vi sta parlando in questo momento». Egli
mette così al servizio dell'espressione del pensiero le circostanze che
accompagnano il suo parlare 4.
Sorge tuttavia una perplessità. È davvero lo stesso pensiero che viene
articolato prima dall'una e poi dall'altra persona?
L'uomo non ancora sfiorato dalla filosofia conosce in primo luogo le cose
che può vedere e toccare, in una parola ciò che può percepire con i sensi,
come alberi, pietre, case, ed è convinto che un altro possa, in modo analogo,
vedere e toccare lo stesso albero e la stessa pietra che lui stesso vede e tocca. È
evidente che tra queste cose non si trova un pensiero. Non può darsi tuttavia
che esso stia di fronte agli uomini proprio come l'albero?
Anche chi non è un filosofo si vede ben presto costretto a riconoscere un
mondo interno diverso dal mondo esterno, il mondo delle impressioni
sensibili, delle creazioni della sua immaginazione, delle sensazioni, dei
sentimenti e degli umori, un mondo delle inclinazioni, dei desideri, delle
decisioni. Per avere un'espressione abbreviata voglio raccogliere tutto ciò —
escludendo le decisioni — sotto il termine « rappresentazione».
Ora, i pensieri appartengono a questo mondo interno? Sono
rappresentazioni? E certo che non sono decisioni. [67] In che cosa si
distinguono le rappresentazioni dalle cose del mondo esterno? In primo
luogo: Le rappresentazioni non possono venir viste o toccate, né odorate,
gustate, o udite.
Faccio una passeggiata assieme a un amico. Vedo un prato verde; ho
l'impressione visiva del verde. La ho, ma non la vedo.
Secondo: le rappresentazioni si hanno. Si hanno sensazioni, sentimenti,
umori, inclinazioni, desideri. La rappresentazione che uno ha appartiene al
contenuto della sua coscienza.
Il prato e le rane, il sole che li illumina sono là, non importa se li guardo o
meno; ma l'impressione sensibile del verde, che ho, sussiste solo per il mio
tramite; ne sono il portatore. Ci sembra insensato che un dolore, uno stato
d'animo, un desiderio se ne vadano in giro autonomamente per il mondo
senza un portatore. Una sensazione non è possibile senza qualcuno che senta.
Il mondo interno ha come presupposto qualcuno di cui esso è il mondo
interno.
Terzo: le rappresentazioni hanno bisogno di un portatore. Al confronto le
cose del mondo esterno sono autonome.
Io e il mio amico siamo convinti di vedere entrambi lo stesso prato; ma
ciascuno di noi ha una particolare impressione sensibile del verde. Scorgo una
fragola tra il fogliame verde. Il mio amico non la trova: è daltonico.
L'impressione cromatica che riceve dalla fragola non si differenzia
sensibilmente da quella che egli riceve dalle foglie. Ora, il mio amico vede
rossa la foglia o vede verde la fragola? oppure le vede entrambe di un colore
che non conosco affatto? Queste sono domande senza risposta, e a dire il vero
senza senso. Infatti, quando la parola «rosso» non sta a indicare una proprietà
delle cose, ma contrassegna un'impressione sensibile appartenente alla mia
coscienza, è applicabile solo nell'ambito di quest'ultima; infatti è impossibile
confrontare le mie impressioni sensibili con quelle di un altro. Per far ciò
bisognerebbe riunire in una coscienza due impressioni sensibili appartenenti a
coscienze diverse. E se anche fosse possibile far sparire una rappresentazione
da una coscienza e farne contemporaneamente affiorare una in un'altra,
resterebbe tuttavia senza risposta la questione se si tratti della stessa
rappresentazione. L'essere un con-tenuto della mia coscienza è qualcosa di
talmente legato all'essenza di ogni mia rappresentazione che ogni
rappresentazione di un altro è, già solo come tale, diversa dalla mia. Ma non
sarebbe possibile che le mie rappresentazioni e l'intero contenuto della mia
coscienza fossero al tempo stesso contenuto di una coscienza più ampia,
magari di quella divina? Bisognerebbe che io fossi una parte del divino essere.
Ma in tal caso sarebbero veramente le mie rappre-sentazioni? ne sarei il
portatore? Ma questo oltre-passa di tanto i limiti della conoscenza umana che
non si deve tener conto di questa possibilità. A noi esseri umani è in ogni caso
impossibile confrontare le rappresentazioni di qualcun altro con le nostre. [68]
Colgo la fragola e la tengo tra le dita. Adesso anche il mio amico la vede, e
vede la stessa fragola; ma ciascuno di noi due ha la sua propria
rappresentazione. Nessun altro ha la mia rappresentazione; ma più persone
possono vedere la stessa cosa. Nessun altro ha il mio dolore. Qualcuno può
aver compassione di me, ma in tal caso il mio dolore continua ad appartenere
a me e la sua compassione a lui. Egli non ha il mio dolore e non ho la sua
compassione.
Quarto: ogni rappresentazione ha un solo portatore; non ci sono due
persone che abbiano la stessa rappresentazione.
Altrimenti essa avrebbe sussistenza indipendentemente dall'uno e dall'altro.
Quel tiglio è una mia rappresentazione? Usando in questa domanda
l'espressione «quel tiglio» anticipo in effetti la risposta; perché con
quest'espressione voglio riferirmi a qualcosa che vedo e che anche gli altri
possono osservare e toccare. Ci sono ora due possibilità: se raggiungo il mio
proposito, se, con l'espressione «quel tiglio», mi riferisco a qualcosa, deve
allora, ovviamente, venir negato il pensiero espresso nell'enunciato «quel tiglio
è una mia rappresentazione». Se invece non lo raggiungo, se ritengo soltanto
di vedere senza vedere realmente, se di conseguenza la designazione «quel
tiglio» è vuota, mi sono smarrito senza saperlo né volerlo nel mondo della
poesia. E quindi non sono veri né il contenuto dell'enunciato «quel tiglio è una
mia rappresentazione» né quello dell'enunciato «quel tiglio non è una mia
rappresen-tazione», perché in entrambi i casi ho un'afferma-zione cui manca
l'oggetto. Si può allora rifiutare di dare risposta alla domanda solo adducendo
il motivo che il contenuto dell'enunciato «quel tiglio è una mia
rappresentazione» non è che poesia. Ho senza dubbio una rappresentazione,
ma non è questa ciò che intendo con le parole «quel tiglio». Qualcuno
potrebbe voler in effetti designare con le parole «quel tiglio» una delle sue
rappresentazioni, e in tal caso sarebbe il portatore di ciò che vorrebbe
designare con quelle parole: ma allora egli non vedrebbe quel tiglio, e
nessun'altro lo vedrebbe o ne sarebbe il portatore.
Ritorno alla questione: il pensiero è una rappresentazione? Se il pensiero
che articolo nel teorema di Pitagora può essere riconosciuto vero tanto dagli
altri che da me, non appartiene allora al contenuto della mia coscienza, e
quindi non ne sono il portatore: posso tuttavia riconoscerlo come vero. Ma se
non fosse proprio per niente lo stesso pensiero quello che viene considerato
da me e dagli altri come contenuto nel teorema di Pitagora, non si dovrebbe in
senso proprio dire « il teorema di Pitagora » ma « il mio teorema di Pitagora»,
«il suo teorema di Pitagora», e questi sarebbero differenti: infatti, il senso fa
necessariamente parte dell'enunciato. Quindi il mio pensiero sarebbe un
contenuto della mia coscienza, e il pensiero d'un altro un contenuto della sua.
Può essere che il senso del mio teorema di Pitagora sia vero e che sia falso
quello del teorema di un altro? Ho sostenuto che la parola «rosso» è
applicabile solo nell'ambito della mia coscienza quando non indichi una
proprietà delle cose ma caratterizzi certune delle mie impressioni sensibili.
Così anche le parole «vero» e «falso», per come le intendo, potrebbero essere
applicabili solo nell'am-bito della mia coscienza se, invece di concernere [69]
qualcosa di cui non sono il portatore, fossero desti-nate a caratterizzare in
qualche modo i contenuti della mia coscienza. E in conseguenza di ciò la
verità sarebbe limitata al contenuto della mia coscienza e resterebbe il dubbio
se qualcosa di simile si presenti mai nella coscienza degli altri.
Se ogni pensiero ha bisogno di un portatore alla cui coscienza appartenere,
è un pensiero di questo portatore soltanto, e non vi è mai una scienza comune
a molti e alla quale in molti possano lavorare. Ma forse io ho la mia scienza,
vale a dire un insieme organico di pensieri di cui sarei il portatore, e un altro
ha la sua. Ciascuno di noi si occupa dei contenuti della sua coscienza. In
questo modo una contraddizione tra le due scienze non è possibile, e la
discussione sulla verità è altrettanto oziosa, fino al limite del ridicolo, quanto
lo sarebbe la discussione sull'autenticità di una banconota da cento marchi tra
due tizi ciascuno dei quali intenda la banconota che lui ha in tasca e dia al
termine «autenticità» un senso del tutto particolare noto soltanto a lui. Se
qualcuno sostiene che i pensieri sono rappresentazioni, ciò che allora egli
riconosce.come vero, se stiamo alla sua opinione, è un contenuto della sua
coscienza e non riguarda proprio per niente gli altri. E se egli udisse la mia tesi
che i pensieri non sono rappresentazioni, non potrebbe contestarla, perché
neanche questo lo riguarderebbe.
Sembra che quindi il risultato sia che i pensieri non sono né cose del
mondo esterno né rappresentazioni.
Un terzo regno va riconosciuto. Ciò che vi appartiene concorda da un lato
con le rappresentazioni, perché non può venir percepito con i sensi, e d'altro
lato con le cose, perché non ha bisogno di alcun portatore ai contenuti della
cui coscienza appartenere. Così il pensiero che articoliamo nel teorema di
Pitagora è vero atemporalmente, vero indipendentemente dal fatto che
qualcuno lo ritenga vero. Non ha bisogno di alcun portatore. È vero non
soltanto a partire dal momento in cui è stato scoperto - così come un pianeta
è in un rapporto di azione reciproca con altri pianeti già prima che lo si scopra
5.

Mi sembra però di sentire una strana obiezione. Ho più volte supposto che
la stessa cosa che io vedo può venir osservata anche da un altro. Ma se fosse
tutto un sogno? Se avessi soltanto sognato la mia passeggiata con un amico, se
avessi soltanto sognato che sia io che lui vedevamo il prato verde, se tutto
fosse stato soltanto uno spettacolo recitato sul palcoscenico della mia
coscienza, sarebbe dubbio se esistano le cose del mondo esterno. Forse il
regno delle cose è vuoto, e non vedo né cose né persone; forse ho soltanto
rappresentazioni di cui io stesso sono il portatore. Una rappresentazione, vale
a dire qualcosa che non può sussistere senza di me come non lo può il mio
senso di fatica, non può essere un essere umano, non può osservare assieme a
me lo stesso [70] prato, non può vedere la fragola che tengo in mano. E
assolutamente inverosimile che io abbia soltanto il mio mondo interno al
posto dell'intero ambiente che mi circonda e nel quale suppongo di muovermi
e agire. E tuttavia questa è l'inevitabile conseguenza del principio che soltanto
ciò che è una mia rappresentazione può essere oggetto della mia
considerazione. Se questo principio fosse vero cosa ne segui-rebbe? Ci
sarebbero altri uomini? È possibile, ma non saprei nulla di loro: perché un
uomo non può essere una mia rappresentazione e di conseguenza, se fosse
vero il nostro principio, non potrebbe nemmeno essere un oggetto della mia
considerazione. E si leverebbe così il terreno sotto a tutte le riflessioni in cui
assumo che qualcosa potrebbe essere oggetto per un altro al modo in cui lo è
per me, perché se anche ciò avvenisse non ne saprei nulla. Mi sarebbe
impossibile distinguere ciò di cui sono il portatore da ciò di cui non lo sono.
Tutte le volte che giudicassi che qualcosa non è una mia rappresentazione lo
renderei oggetto del mio pensiero e, al tempo stesso, una mia
rappresentazione. C'è un prato verde, stando a questa concezione? Forse, ma
esso non mi sarebbe visibile. Infatti un prato non è una mia rappresentazione
e quindi, stando al nostro principio, non può essere oggetto della mia
considerazione. Se invece è una mia rappresentazione è invisibile, perché le
rappresentazioni non sono visibili. Naturalmente posso avere una
rappresentazione di un prato verde, ma quest'ultima non è verde, perché non
ci sono rappresentazioni verdi. C'è un proiettile che pesa cento chili, stando a
questa concezione? Forse, ma non potrei saperne nulla. Se un proiettile non è
una mia rappresentazione, non può, stando al nostro principio, essere oggetto
della mia considerazione o del mio pensiero. Se invece il proiettile fosse una
mia rappresentazione, non avrebbe alcun peso. Posso avere una
rappresentazione di un proiettile pesante. Essa contiene come
rappresentazione parziale quella della pesantezza. Quest'ultima non è però una
proprietà della rappresentazione complessiva, così come la Germania non è
una proprietà dell'Europa. Da tutto ciò risulta:
O è falso il principio per cui può essere oggetto della mia considerazione
soltanto ciò che è una mia rappresentazione; oppure tutto il mio sapere e tutta
la mia conoscenza si limitano all'ambito delle mie rappresentazioni, alla scena
della mia coscienza. In tal caso avrei soltanto un mondo interno, e non saprei
nulla delle altre persone.
È strano come in queste riflessioni gli opposti si trasformino l'uno
nell'altro. Prendiamo per esempio un fisiologo del sistema sensoriale. Come si
addice a uno scienziato naturalista egli è anzitutto ben lon tano dal ritenere
che le cose che è convinto di vedere e di toccare siano sue rappresentazioni.
Crede, al contrario, di avere nelle impressioni sensibili le migliori
testimonianze di cose che sussistono del tutto indipendentemente dal suo
sentire, dal suo rappresentare, dal suo pensare, e che non hanno bisogno della
sua coscienza. Fibre nervose e cellule gangliari sono per lui talmente poco un
contenuto della sua coscienza che egli è piuttosto incline a ritenere la propria
coscienza come dipendente da fibre nervose e cellule gangliari. Egli sostiene
che i raggi luminosi, rifratti nell'occhio, incontrano le terminazioni del nervo
ottico e vi provocano una modificazione, uno stimolo, di cui qualcosa viene
ulterior mente trasmesso alle cellule gangliari tramite le fibre nervose. Forse
nel sistema nervoso si susseguono [71] ulteriori processi, si formano le
sensazioni cromatiche e queste si connettono a ciò che noi chiamiamo la
rappresentazione di un albero. Tra l'albero e la mia rappresentazione si
frappongono processi fisici, chimici e fisiologici. Ma, come sembra,
direttamente connessi alla mia coscienza sono soltanto processi nel mio
sistema nervoso, e ogni osservatore dell'albero ha i suoi particolari processi
nel suo particolare sistema nervoso. Ora, i raggi luminosi, prima di penetrare
nel mio occhio, potrebbero venir riflessi da una superficie speculare e
propagarsi ulteriormente come se provenissero da un luogo dietro lo specchio.
Gli effetti sul nervo ottico, e tutto ciò che ne segue, avrebbero luogo in questo
caso proprio al modo in cui avrebbero luogo se i raggi luminosi provenissero
da un albero posto dietro lo specchio e si propagassero indisturbati fino
all'occhio. Alla fine si produrrebbe una rappresentazione di un albero anche se
l'albero in questione non c'è affatto. Anche con la rifrazione della luce, unita
alla mediazione dell'occhio e del sistema nervoso, si può produrre una
rappresentazione alla quale non corrisponde nulla. La stimolazione del nervo
ottico non ha d'altronde affatto bisogno di avvenire tramite la luce. Quando
un fulmine ci cade vicino crediamo di vedere delle fiamme anche se non
possiamo vedere il fulmine stesso. Il nervo ottico viene in qualche modo
stimolato da correnti elettriche che si producono nel nostro corpo in seguito
alla caduta del fulmine, e se viene stimolato esattamente nel modo in cui lo
sarebbe da raggi luminosi provenienti da delle fiamme, crediamo allora di
vedere queste ultime. Tutto dipende dalla stimolazione del nervo ottico, ed è
indifferente come questa abbia luogo.
Ci si può spingere ancora oltre. A parlar propriamente questa eccitazione
del nervo ottico non è qualcosa di immediatamente dato, ma soltanto una
supposizione. Crediamo che una cosa indipendente da noi stimoli un nervo e
provochi con ciò un'impressione sensibile, ma, a voler essere precisi, di questo
processo noi viviamo solo il momento finale che fa irruzione nella nostra
coscienza. Quest'impressione sensibile, questa sensazione, che riconduciamo a
uno stimolo nervoso, non potrebbe avere anche altre cause, così come lo
stimolo nervoso può sorgere in diversi modi? Se chiamiamo rappresentazione
ciò che ricade nella nostra coscienza, allora a parlar propriamente viviamo
soltanto le rappresentazioni ma non le loro cause. E se lo scienziato vuole
evitare le pure e semplici ipotesi, non gli restano che le rappresentazioni; tutto
si dissolve in rappresentazioni, anche i raggi luminosi, le fibre nervose e le
cellule gangliari da cui egli aveva preso le mosse. Alla fin fine egli scalza le
fondamenta della sua stessa costruzione. Tutto è rappresentazione? Tutto ha
bisogno di un portatore senza il quale non avrebbe consistenza? Mi sono
considerato porta-tore delle mie rappresentazioni, ma non sono per caso
anch'io una rappresentazione? Mi pare di stare su di un divano, di vedere le
punte di un paio di stivali, il davanti di un paio di pantaloni, un gilet, dei
bottoni, parti di una giacca - specialmente le maniche — due mani, qualche
pelo di barba, il profilo sfuocato di un naso. E sarei questa associazione di
impressioni visibili, questa rappresentazione com-plessiva? Mi pare di vedere
anche una sedia. È una rappresentazione. In verità non è che mi differenzi [72]
poi tanto da essa; non sono infatti anch'io un'associazione di impressioni
sensibili, una rappresentazione? Ma allora dov'è il portatore di queste
rappresentazioni? Com'è che arrivo a scegliere una di queste rappresentazioni
e a eleggerla portatrice delle altre? E perché mai deve essere proprio quella che
mi piace chiamare io? Per questo scopo non potrei altrettanto bene scegliere
quella che sono tentato di chiamare una sedia? Ma in generale: a che pro un
portatore delle rappresentazioni? Costui sarebbe pur sempre qualcosa di
essenzialmente diverso dalle rap-presentazioni, che sono meramente portate,
qual-cosa di autonomo, che non avrebbe bisogno di un portatore estraneo. Se
tutto è rappresentazione, non c'è alcun portatore delle rappresentazioni. Ed
eccoci ancora una volta di fronte a una tesi che si trasforma nel suo opposto.
Se non c'è portatore delle rappresentazioni non c'è neppure rappresentazione,
perché le rappresentazioni hanno bisogno di un portatore, senza il quale non
possono sussistere. Se non c'è sovrano, non vi sono nemmeno sudditi. La non
autonomia, che mi trovavo sospinto ad attribuire alle sensazioni rispetto al
soggetto senziente, viene a cadere se non c'è più un portatore. Ciò che avevo
chiamato rappresentazioni sono allora oggetti autonomi, e non c'è alcun
motivo di riservare una posizione particolare a quell'oggetto che chiamo io. Ma
è mai possibile tutto ciò? Può esserci un vissuto senza qualcuno che lo viva?
Cosa sarebbe tutto questo spettacolo senza uno spettatore? Può esserci un
dolore senza qualcuno che lo abbia? Il venir sentito è qualcosa di necessario al
dolore, e a esso è a sua volta necessario qualcuno che senta. Ma in tal caso c'è
qualcosa che non è mia rappresentazione e che può essere tuttavia oggetto
della mia considerazione, e sono una cosa di questo genere. Oppure posso
essere una parte del contenuto della mia coscienza, mentre un'altra parte è,
mettiamo, una rappresentazione della luna? E forse questo che ha luogo
quando giudico che sto osservando la luna? Allora questa prima parte avrebbe
una coscienza, e una parte del contenuto di questa coscienza sarei ancora io, e
così via. Ma è assolutamente impensabile che sia inscatolato in me all'infinito
in questo modo, perché in tal caso non ci sarebbe un solo io ma infiniti. Non
sono una mia rappresentazione, e se affermo qualcosa di me, ad esempio che
in questo momento non sto sentendo alcun dolore, il mio giudizio concerne
qualcosa che non è un contenuto della mia coscienza o una mia
rappresentazione, vale a dire me stesso. Pertanto ciò di cui affermo qualcosa
non è necessariamente una mia rappresen-tazione. Ma forse si obietterà: se
penso che in questo momento io non ho alcun dolore, alla parola «io» non
corrisponde comunque qualcosa nel contenuto della mia coscienza? e ciò non
è forse una rappresentazione? Può darsi. Nella mia coscienza una certa
rappresentazione può essere legata alla rappresentazione della parola «io». Ma
allora essa è una rappresentazione tra altre rappresentazioni, e sono il suo
portatore come sono portatore delle altre. Ho una rappresentazione di me, ma
non sono questa rappresentazione. Bisogna distinguere con precisione tra ciò
che è contenuto della mia coscienza, ciò che è quindi mia rappresentazione, e
ciò che è oggetto del mio pensiero. E quindi falso il principio per cui può
essere oggetto della mia considerazione e del mio pensiero soltanto ciò che
appartiene al contenuto della mia coscienza. [73] Adesso ho via libera al
riconoscimento di un altro essere umano come portatore indipendente di
rappresentazioni. Ne ho una rappresentazione, ma non la scambio con lui
stesso. E se asserisco qualcosa di mio fratello non lo asserisco della rap-
presentazione che ho di mio fratello.
Il malato che ha un dolore è il portatore di questo dolore; ma non ne è
portatore il medico che lo cura e che riflette sulla causa di questo dolore. Egli
non si immagina certo di placare il dolore del malato anestetizzando se stesso.
Ovviamente al dolore del malato può corrispondere una rappresentazione
nella coscienza del medico; ma questa non è il dolore, non è ciò che il medico
si sforza di eliminare. Supponiamo che il medico chiami a consulto un suo
collega. Bisogna allora distinguere: in primo luogo il dolore, il cui portatore è il
malato, in secondo luogo la rappresentazione che di questo dolore ha il primo
medico, in terzo luogo la rappresentazione che di questo dolore ha il secondo
medico. Questa rappresentazione appartiene invero al contenuto della
coscienza del secondo medico, ma non è oggetto delle sue riflessioni, quanto
piuttosto un ausilio, al modo in cui può esserlo un disegno. Entrambi i medici
hanno come oggetto comune il dolore del malato, del quale loro stessi non
sono portatori. Da ciò si vede che non solo una cosa ma anche una
rappresentazione può essere l'oggetto comune del pensare di persone che non
hanno questa rappresen-tazione.
Mi sembra che in questo modo la questione divenga infine intelligibile. Se
l'uomo non potesse né pensare né prendere come oggetto del suo pensiero
qualcosa di cui non è il portatore, avrebbe un mondo interno ma non un
mondo che lo circondi. Ma non può essere che tutto ciò si basi su di un
errore? Sono convinto che alla rappresentazione che connetto alle parole «mio
fratello» corrisponde qualcosa che non è una mia rappresentazione e di cui
posso dire qualcosa. Ma non potrei sbagliarmi? Sbagli di questo tipo possono
ben capitare. Contro le nostre intenzioni ricadremmo allora nella poesia. In
effetti, con il passo nel quale mi guadagno il mondo che mi circonda mi
espongo al rischio dell'errore. E qui mi accorgo di un'altra differenza tra il
mondo esterno e il mio mondo interno. Per me non può esserci alcun dubbio
che ho l'impressione visiva del verde; ma non è altrettanto certo che io veda
una foglia di tiglio. Contrariamente a opinioni assai diffuse troviamo così nel
mondo interno la sicurezza, mentre il dubbio non ci abbandona mai
completamente nelle nostre peregrinazioni nel mondo esterno. Ciò
nonostante anche qui la probabilità è in molti casi appena distinguibile dalla
certezza, cosicché possiamo azzardarci ad avanzare dei giudizi circa le cose del
mondo esterno. E dobbiamo azzardarci, anche a rischio dell'errore, se non
vogliamo soccombere a pericoli ben maggiori.
Come risultato delle ultime considerazioni stabilisco quanto segue: non
tutto ciò che può essere oggetto del mio pensiero è una rappresentazione. Io
stesso, in quanto portatore di rappresentazioni, non sono una
rappresentazione. Niente mi impedisce ora di riconoscere anche altre persone
simili a me come portatori di rappresentazioni. E, una volta che ne è [74] data
la possibilità, anche la probabilità è assai grande, così grande da non
distinguersi, a mio parere, dalla certezza. In caso contrario potrebbero esistere
le discipline storiche? Non verrebbe a cadere qualsiasi diritto, qualsiasi dottrina
del dovere? Cosa resterebbe della religione? Anche le scienze naturali
potrebbero venir valutate solo come poesia, come l'astrologia e l'alchimia.
Quindi le riflessioni che ho condotto, presupponendo che vi fossero oltre a
me altre persone le quali potessero assieme a me rendere le stesse cose
oggetto del loro pensare e della loro considerazione, conservano
nell'essenziale tutta la loro forza.
Non tutto è rappresentazione. Perciò posso riconoscere come indipendente
da me anche il pensiero che pure altre persone possono, come me, capire.
Posso riconoscere una scienza alla quale, con la ricerca, prendano attivamente
parte in molti. Non siamo portatori dei pensieri al modo in cui lo siamo delle
nostre rappresentazioni. Abbiamo un pensiero ma non al modo in cui
abbiamo un'impressione sensi-bile; ma neppure vediamo un pensiero nel
modo in cui vediamo una stella. E perciò consigliabile sce-gliere qui
un'espressione particolare, e per questo ci si offre la parola «afferrare».
All'afferrare 6 pensieri deve corrispondere una particolare disposizione spi-
rituale, la facoltà di pensare. Col pensare non produ-ciamo i pensieri, ma li
afferriamo. Infatti ciò che ho chiamato pensiero sta nella più stretta
connessione con la verità. Ciò che riconosco vero lo giudico essere vero del
tutto indipendentemente dal mio riconosci-mento della sua verità, e anche
indipendentemente dal fatto che io lo pensi. Il venir pensato non è parte
dell'esser vero di un pensiero. «Fatti! Fatti! Fatti!», invoca lo scienziato quando
vuole insistere sulla necessità di una fondazione più sicura della scienza. Ma
cos'è un fatto? Un fatto è un pensiero che è vero. Ma lo scienziato non
riconoscerà certo come fondamento più sicuro della scienza qualcosa che
dipende dai mutevoli stati di coscienza degli uomini. L'attività scientifica non
consiste nel creare quanto piuttosto nello scoprire pensieri veri. L'astronomo
può applicare una verità matematica nell'indagine intorno ad avvenimenti
remoti che ebbero luogo quando ancora nessuno, perlomeno sulla terra, aveva
riconosciuto quella verità. Egli lo può fare perché l'esser vero di un pensiero è
atemporale; e quindi quella verità non può essersi prodotta sol-tanto a partire
dalla sua scoperta.
Non tutto è rappresentazione. In caso contrario la psicologia conterrebbe
tutte le scienze o quanto-meno sarebbe il sommo giudice di tutte le scienze, e
dominerebbe sulla logica e sulla matematica. Ma non si potrebbe interpretare
in modo più erroneo la matematica che subordinandola alla psicologia. Né la
logica né la matematica hanno come compito di indagare l'anima e il
contenuto di coscienza il cui portatore è il singolo individuo. Piuttosto, si
potrebbe forse assegnare loro come compito l'inda-. gine della mente: della
mente, non delle menti.
L'afferrare pensieri presuppone qualcuno che [75] afferri e che pensi. Ma
questi è portatore del pensare e non del pensiero. Sebbene il pensiero non
appar-tenga al contenuto di coscienza di colui che pensa, ci deve ben essere
nella coscienza qualcosa che rimandi al pensiero. Ma questa cosa non deve
venir scam-biata per il pensiero stesso, così come Algol è diversa dalla
rappresentazione che si ha di Algol.
Il pensiero non appartiene né al mio mondo interno come
rappresentazione né al mondo esterno, al mondo delle cose percepibili
sensibilmente.
Per quanto questo risultato possa emergere in modo cogente sulla base di
quanto abbiamo esposto, forse non lo si ammetterà senza opposizioni. Penso
che a qualcuno sembrerà impossibile ottenere informazioni su qualcosa che
non appartiene al suo mondo interno se non per il tramite della percezione
sensibile. In effetti la percezione sensibile viene spesso considerata la fonte di
conoscenza più sicura, se non l'unica, per tutto ciò che non appartiene al
mondo interno. Ma con che diritto? Della percezione sensibile fa parte, come
costituente essenziale, l'impressione sensibile, e questa è parte del mondo
interno. Se anche due persone potessero avere impressioni sensibili simili non
avrebbero in ogni caso la stessa sensazione. E le impressioni, da sole, non ci
dischiudono il mondo esterno. Forse esiste un essere che ha solo impressioni
sensibili ma che non vede le cose né le sente al tatto. L'avere impressioni
sensibili non è ancora vedere le cose. Come avviene che vedo l'albero proprio
nel luogo in cui lo vedo? Certo ciò dipende dalle impressioni sensibili che ho -
e dalla loro particolare qualità, una conseguenza del fatto che vedo con due
occhi. Fisicamente parlando si forma un'immagine particolare su ciascuna
delle due retine. Un altro soggetto vede l'albero nello stesso luogo. Anche lui
ha due immagini retiniche che sono però diverse dalle mie. Dobbiamo
ammettere che queste immagini retiniche sono determinanti per le nostre
impressioni. Stando a ciò non solo non abbiamo identiche impressioni visive,
ma ne abbiamo di notevolmente distinte. E tuttavia ci muoviamo nello stesso
mondo esterno. L'aver impressioni sensibili è in effetti necessario ma non
sufficiente al vedere cose. Ciò che vi si deve aggiungere è qualcosa che non è
sensibile. Ed è proprio ciò che ci dischiude il mondo esterno, perché senza
questo elemento non sensibile ciascuno resterebbe rinserrato nel suo mondo
interno. Poiché il fattore decisivo sta nel non sensibile, un elemento non
sensibile potrebbe condurci fuori del mondo interno e farci afferrare pensieri
anche laddove non v'è il contributo di alcuna impressione sensibile. Al di fuori
del proprio mondo interno si dovrebbe distin-guere tra il mondo esterno vero
e proprio, quello delle cose percepibili con i sensi, e il regno di ciò che non è
percepibile sensibilmente. Abbiamo bisogno di un elemento non sensibile per
riconoscere questi due mondi; ma nella percezione sensibile di cose ci sono
necessarie anche le impressioni sensibili, e queste appartengono soltanto al
mondo interno. Pertanto ciò su cui si fonda la differenza tra il modo in cui è
data una cosa da quello in cui è dato il pensiero va ricondotto non a uno di
questi due ambiti, ma al mondo interno. Perciò non riesco a trovare questa
differenza così grande da far sì che sia impossibile l'esser dato di un pensiero
che non appartiene al mondo interno. [76] Certo, il pensiero non è qualcosa
che si è soliti chiamare attuale. Il mondo dell'attualità è un mondo in cui una
cosa agisce su di un'altra e la modifica e, subendo a sua volta una retroazione,
ne viene modificata. Tutto ciò avviene nel tempo, ed è difficile che
riconosciamo come attuale ciò che è atemporale e immutabile. Il pensiero è
dunque qualcosa che può subire mutamenti? o è invece atemporale? Il
pensiero che articoliamo nel teorema di Pitagora è certo atemporale, eterno,
immutabile. Ma non ci sono anche pensieri che sono veri oggi e che saranno
falsi tra qualche mese? Per esempio, il pensiero che quell'albero laggiù è
coperto di foglie verdi non sarà falso tra sei mesi? No, perché non è più lo
stesso pensiero. La sequenza di parole «questo albero è coperto di foglie verdi»
non basta da sola all'espressione perché una parte di quest'ultima è il
momento dell'emissione. Senza la determinazione temporale che viene data
dal momento dell'emis-sione non abbiamo un pensiero completo, vale a dire
non abbiamo affatto un pensiero. Solo l'enunciato integrato dalla
determinazione temporale e com-pleto sotto ogni aspetto esprime un
pensiero. Ma se il pensiero è vero lo è non oggi o domani, ma
atemporalmente. Il presente verbale di «è vero» non accenna quindi al
presente del parlante ma è, se ci è consentita l'espressione, un tempo della non
tempo-ralità. Se utilizziamo semplicemente la forma dell'e-nunciato assertorio,
evitando la parola «vero», occorre che distinguiamo ancora due cose: l'espres-
sione del pensiero e l'asserzione. La determinazione temporale in qualche
modo contenuta nell'enunciato appartiene solamente all'espressione del
pensiero, mentre la verità, il cui riconoscimento è insito nella forma
dell'enunciato assertorio, è atemporale. Certo le stesse parole possono
prendere un altro senso ed esprimere un altro pensiero a causa del mutare
della lingua nel tempo: ma in tal caso il mutamento concerne la sfera
linguistica.
Ma quale valore potrebbe aver mai per noi ciò che è eternamente
immutabile, che non può subire effetti né provocarne che arrivino fino a noi?
Qualcosa di completamente inattivo sotto ogni aspetto sarebbe anche del
tutto non attuale e per noi inaccessibile. Anche ciò che è atemporale, se
dev'essere per noi qualcosa, dev'essere in qualche modo intrecciato alla
temporalità. Cosa sarebbe per me un pensiero che non venisse mai afferrato
da me? Con l'afferrare un pensiero tuttavia entro in relazione con esso, ed
esso con me. E possibile che lo stesso pensiero che viene pensato oggi da me
non sia stato pensato da me ieri. In tal modo verrebbe certo neutralizzata la
stretta atemporalità del pensiero. Ma si sarà dopotutto inclini a fare una
differenza tra proprietà essenziali e inessenziali e riconoscere qualcosa come
atemporale se i mutamenti che subisce concernono soltanto le proprietà
inessenziali. Si dirà inessenziale una proprietà di un pensiero se essa consiste
nel fatto che il pensiero viene afferrato da un soggetto pensante, o se
consegue da questo stesso fatto.
Come agisce un pensiero? Tramite il suo essere appreso e ritenuto vero.
Questo è un processo nel mondo interno di un soggetto pensante, un
processo che in questo mondo interno può avere conseguenze ulteriori le
quali, estendendosi all'ambito della volontà, possono rendersi manifeste anche
nel mondo esterno. Per esempio, se afferro il pensiero articolato nel teorema
di Pitagora, ciò può avere [77] come conseguenza il fatto che lo ritengo vero e
che, inoltre, ne faccio un'applicazione col prendere una decisione che provoca
l'accelerazione di certe masse materiali. Così, le nostre azioni vengono di
solito preparate dal pensare e dal giudicare. Ed è così che i pensieri possono
avere un influsso mediato sui movi-menti delle masse materiali. L'agire
dell'uomo sul-l'uomo passa in gran parte per la mediazione dei pensieri. Un
pensiero viene comunicato: com'è che avviene ciò? Si provocano dei
mutamenti nel mondo esterno comune, mutamenti che, percepiti da un altro,
lo inducono ad afferrare un pensiero e a ritenerlo vero. Avrebbero potuto aver
luogo i grandi avvenimenti della storia del mondo se non per il tramite della
comunicazione del pensiero? E tuttavia siamo inclini a ritenere non attuali i
pensieri, perché appaiono inefficaci sui processi, mentre tutto ciò che vien
fatto con il pensare, il giudicare, l'asserire, il comprendere e ogni forma
dell'agire sono cose pro-prie all'uomo. Di quale efficacia completamente
diversa appare tuttavia dotato un martello, confron-tato con un pensiero!
Com'è diverso il processo del passare di mano un martello da quello del
comuni-care un pensiero! Il martello passa dalla mia sfera di azione alla tua, e
col venir preso patisce una pres-sione a causa della quale la sua consistenza e
la disposizione delle sue parti vengono modificate localmente. Nulla di tutto
ciò nel caso del pensiero. Nella comunicazione il pensiero non abbandona la
sfera di potere di colui che comunica, perché l'uomo non ha in fondo alcun
potere su di esso. Con il venir afferrato esso provoca dei cambiamenti
dapprima soltanto nel mondo interno di colui che lo afferra, e tuttavia questo
non ne modifica il nucleo essenziale, perché i mutamenti che subisce
concernono soltanto le proprietà non essenziali. Qui manca ciò che
ritroviamo ovunque negli avvenimenti naturali: l'azione reciproca. I pensieri
non sono completamente privi di attualità, ma la loro attualità è
completamente diversa da quella delle cose. E il loro agire viene liberato da un
atto di colui che pensa, un atto senza il quale essi sarebbero inefficaci —
almeno per quel che possiamo vedere. E tuttavia colui che pensa non li crea,
deve prenderli così come sono. I pensieri possono essere veri senza venir
afferrati da qualcuno che pensi, e anche così non sono del tutto privi di
attualità, se perlomeno c'è la possibilità che vengano afferrati e, grazie a ciò,
resi attivi.

1 Analogamente, è stato detto: «Un giudizio è qualcosa che è o vero o falso». In effetti utilizzo la
parola «pensiero» più o meno nel senso in cui «giudizio» è utilizzata negli scritti dei logici. Spero che
nel seguito sarà chiaro perché preferisco «pensiero». Si è criticata questa definizione sulla base del
fatto che in essa verrebbe proposta una ripartizione dei giudizi in veri e falsi, una ripartizione che
tra tutte quelle possibili sarebbe forse la meno significativa. Non posso vedere una imperfezione
logica nel fatto che con la definizione venga al tempo stesso offerta una ripartizione. Per quel che
riguarda la
significatività, non la si dovrà sottovalutare se, come ho asserito, è la parola «vero» che indica alla
logica la sua direzione.
2 Non utilizzo qui il termine «enunciato» in un senso coincidente con quello della grammatica,
per la quale sono ammissibili anche enunciati secondari. Un enunciato secondario isolato non
sempre ha un senso per il quale possa porsi la questione della verità, mentre un tale senso è
posseduto dalla connessione enunciativa cui esso appartiene.
3 Mi pare che fino a oggi non si sia distinto a sufficienza tra pensiero e giudizio. Forse è il
linguaggio che induce a ciò. In effetti negli enunciati assertori non abbiamo alcuna parte speciale
che corrisponda all'asserire; piuttosto, che si asserisca qualcosa è insito nella forma stessa
dell'enunciato assertorio. La lingua tedesca ha il vantaggio che enunciato principale e
secondario si differenziano tramite la posizione delle parole. A questo riguardo va notato che anche
un enunciato subordinato può contenere un'asserzione e che spesso né l'enunciato principale in sé
né un enunciato secondario in sé ma soltanto la connessione enunciativa esprime un pensiero
completo.
4 Non sono qui nella vantaggiosa posizione del mineralogista che mostra un cristallo di rocca al
suo auditorio. Non posso mettere un pensiero nelle mani dei miei lettori pregandoli di osservarlo
per bene da tutti i lati. Devo accontentarmi di offrire al lettore il pensiero, di per sé non sensibile,
avviluppato nella forma linguistica sensibile. Qui però la figuratività del linguaggio provoca delle
difficoltà. Il sensibile si insinua dappertutto rendendo figurata, e con ciò impropria, l'espressione.
Nasce così una lotta col linguaggio, e mi vedo costretto a occuparmi ancora di esso, sebbene questo
non sia qui il mio vero compito. Spero di essere riuscito a precisare al lettore quel che voglio
chiamare pensiero.
5 Si vede una cosa, si ha una rappresentazione, si afferra o si pensa un pensiero. Quando si

afferra o si pensa un pensiero non lo si produce, ma si entra in una certa relazione con esso, che
esisteva già da prima; una relazione che è differente da quella del vedere una cosa o dell'avere una
rappresentazione.
6 L'espressione «afferrare» è altrettanto figurata che quella «contenuto di coscienza». Ma l'essenza
del linguaggio non ci consente di meglio. Ciò che tengo in mano può certo venir visto come il
contenuto della mano, ma lo è in un senso del tutto diverso da quello in cui lo sono le ossa e i
muscoli di cui essa è fatta, con le loro tensioni; ed è un contenuto a essa ben più estraneo di questi.

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