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Il testo aristotelico ci illumina su due aspetti fondamentali dell’indagine filosofica: 1) il rapporto con lo
stupore; 2) il disinteresse della ricerca.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto ci viene in aiuto il filosofo Pitagora che, secondo una tradizione
consolidata, avrebbe usato per primo il termine filosofia (dal greco philèin, amare, e sophìa, sapienza) con
un significato specifico, dicendo di se stesso di non essere un “sapiente”, ma solo un “amante della
sapienza”. Egli paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia, dove alcuni convenivano per affari, altri per
partecipare alle gare, altri per divertirsi e, infine, alcuni soltanto per “vedere” ciò che avveniva: questi ultimi
erano i filosofi. In questo modo Pitagora intendeva sottolineare il distacco tra la contemplazione
disinteressata propria dei filosofi e l’affaccendamento utilitaristico degli altri uomini. 2
Il rapporto della filosofia con lo stupore ci costringe invece ad interrogarci anche sui rapporti tra filosofia e
mito poiché, come leggiamo nel testo aristotelico, <<…anche chi ha propensione per le leggende è, in certo
qual modo filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose>>.
Tra mito e filosofia, da questo primo punto di vista, non c’è, dunque, opposizione, ma un comune sentimento
di stupore e la comune volontà di dare un senso alle cose e alle vicende umane, in modo disinteressato.
Prima che la filosofia prendesse esplicitamente avvio, l’arte e la religione greca avevano già abbozzato
alcune riflessioni generali sull’uomo e sul mondo. Ciò avviene soprattutto nelle cosmologie mitiche, che
cercano di narrare l’origine del mondo a partire dal caos primitivo.
Questi racconti sono definiti “mitici”, in quanto ricorrono a spiegazioni fantastiche. Anche se il mito, termine
derivato dal greco mythéo (io racconto o narro), è la narrazione fantastica di avvenimenti umani e divini,
costituisce già un’interpretazione della realtà.
Abbiamo due tipologie di miti: i miti naturalistici e i miti storici.
I miti naturalistici si propongono di dare un senso ai fenomeni della natura: dai corpi celesti ai fenomeni
atmosferici, dall’alternarsi delle stagioni all’origine stessa degli uomini.
I miti storici intendono spiegare la vita sociale e le istituzioni fondamentali dello stato.
Il mito, dunque, da questo punto di vista, non si contrappone alla filosofia, in quanto entrambi sono attività
del pensiero umano tendenti a rispondere al “perché” del mondo. 3
1
Aristotele, Metafisica, I, 982b, 10-25, trad. it. Di G. Giannantoni, Laterza, Bari, 1971, pp. 8-9
2
Abbagnano-Fornero, La filosofia (1A). Dalle origini ad Aristotele, Paravia, 2009, pag. 19
3
Cfr. Massaro-Fornero, “Tra mito e logos: la nascita della filosofia”, in: Fare filosofia, Vol. 1°, Paravia, 1998, pag. 6
Il più antico documento della cosmogonia presso i Greci è la Teogonia di Esiodo (VIII sec. a.C.), dove il
multiforme divenire della realtà astrofisica viene “antropomorfizzato” attraverso la narrazione delle
generazioni degli dèi.
Basti pensare che, dovendo rappresentare l’ordine del mondo attraverso le gerarchie divine, Esiodo pone
all’origine di tutte le generazioni una coppia che è la personificazione stessa dell’universo fisico: Gaia (la
Terra) e Urano ( il Cielo).
Erebo Notte
Stige Pallante
Zelo
Nike
Crato
Bia
I versi del poeta sembrano proprio la trasfigurazione mitica di un fenomeno di natura geologica così descritto
da Pausania: <<In Arcadia, non lungi dalle rovine di Nonacri, si spalanca un dirupo, il più profondo di quanti
ne abbia mai veduti. E dalle sue rocce stilla un’acqua dai Greci chiamata Stige. Quest’acqua, che dal dirupo
giunge sino a Nonacri, cade prima su una rupe altissima, e di lì, permeando la pietra, si getta nel fiume Crati.
Il suo corso è letale all’uomo e a qualsiasi altro animale: infrange il vetro, il cristallo, la porcellana, e ogni
oggetto di pietra, ogni stoviglia, e il corno, l’osso, il ferro, il bronzo, il piombo, lo stagno, l’argento e l’ambra,
tutto stempera quest’acqua, e così tutti gli altri metalli, e perfino l’oro>> [VIII, 17-18].
Tèmide e Mnemosine sono invece personificazioni di astrazioni. La tradizione, volendo affermare il concetto
che Giove era pervenuto al potere e lo manteneva grazie al senno e alla giustizia, gli aveva assegnate come
spose Mnemosine, la saggezza madre delle Muse (le facoltà più sublimi dello spirito umano), e Tèmide,
madre a sua volta del buon Governo, della Giustizia e della Pace. Così Esiodo le ha elevate al primo gruppo,
dei Titanidi.
Più chiara d’ogni altra è forse l’origine dei Ciclopi, il cui nome si identifica addirittura con il corrispondente
fenomeno naturale: Bronte (il tuono), Stèrope (il fulmine), Arge (il baleno).
Per quanto riguarda i Centìmani (Cotto, Gìa, Briarèo), essi hanno cinquanta teste e cento braccia, e
lanciano pietre immani, con le quali, nella titanomachia (la guerra fra i Cronidi e i Titani), ombreggiano il
campo di battaglia. Sembra piuttosto evidente come questi particolari rispecchiano i vulcani che, intorno al
cratere centrale ne aprono, come nell’Etna, molti altri, fumosi e fiammeggianti, spandendo giù per l’enorme
dorso centinaia di braccia di fuoco e lanciando grandi pezzi di roccia a immensa distanza.
Crono è universalmente noto come il dio del tempo o la stessa personificazione del Tempo (da cui i termini
cronologia, cronometro…). Ma come diventa tale nella Teogonia?
4
In: Esiodo, I poemi. Le opere e i giorni. La Teogonia. Lo scudo di Ercole. Frammenti, trad. di Ettore Romagnoli,
Zanichelli , BO, 1929, Prefazione, pagg. XLI-XLII
5
Esiodo, La Teogonia, op. cit., pagg. 76-77
Egli è l’ultimogenito di un padre, Urano (il Cielo) che, costantemente disteso su Gaia (la Terra), non
permette ai figli concepiti dalla Terra di venire alla luce. Così, con la complicità della madre, Crono castra il
padre, gettando alle sue spalle il membro virile di Urano.
In questo modo << Crono segna una tappa fondamentale nella nascita del cosmo. Separa il cielo e la terra.
Crea fra terra e cielo uno spazio libero: da allora in poi tutto ciò che la terra produrrà, tutto ciò che verrà
generato dagli esseri viventi, avrà un luogo per respirare e per vivere. Da un lato, lo spazio si è aperto, ma
anche il tempo si è trasformato… nel momento in cui Urano si ritrae, i Titani possono…uscire fuori dal
grembo materno e procreare a propria volta. Generazioni si susseguiranno a generazioni. Lo spazio è infine
libero e il “cielo stellato” rappresenta ora un soffitto, una sorta di grande volta buia, che si eleva al di sopra
della terra >>.6
Per quanto riguarda questo mito della pietra ingoiata da Crono al posto di Zeus bambino, è interessante
notare che potrebbe essere la rielaborazione fantastica di una caduta di meteoriti, di cui gli uomini serbavano
memoria. Infatti Pausania racconta di un aeròlito caduto presso Pito che veniva adorato, unto d’olio e, nei
giorni festivi, ricoperto di lana [X, 24]. In questo meteorite i contemporanei di Pausania probabilmente
6
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, Einaudi, TO, 2001, pagg. 14-15
7
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 16-17
vedevano ancora una creatura vomitata dal cielo, sede degli dèi, sulla terra; un fenomeno astro-fisico che
fornisce una soddisfacente spiegazione alla favola di Crono “divoratore e poi rivomitatore dei figli”. 8
A questo punto, nel teatro cosmico troviamo due schiere di dèi pronti alla guerra per il potere:
da un lato, Crono con i suoi fratelli Titani , dall’altro, Zeus con i suoi fratelli Cronidi (figli di Crono).
Le sorti della guerra, che si protrae per dieci “grandi anni”, rimangono a lungo incerte. C’è addirittura un
momento culmine di questa battaglia in cui il mondo sta per regredire nello stato caotico originario:
Questo è un momento fondamentale nella mitica storia dell’universo, poiché la vittoria di Zeus “appare non
soltanto come un modo per sconfiggere il proprio avversario, nonché padre, Crono, ma anche come un
espediente per creare di nuovo il mondo, per dargli daccapo un ordine a partire dal Caos e Voragine in cui
niente è visibile, dove tutto è disordine”. 10 Non dobbiamo infatti dimenticare che kòsmos (universo) significa
anche ordine, quasi a voler sottintendere che l’universo non è un’accozzaglia informe e incomprensibile di
eventi, ma una totalità regolata e strutturata di cui è possibile intendere il senso.
8
Esiodo, La Teogonia, op. cit., Prefazione, pagg. XVII-XVIII
9
Esiodo, La Teogonia, op. cit., pag. 73
10
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 28
11
Claude Lévi-Strauss, Mito e significato, Il Saggiatore, MI, 1980, pagg. 25-26
sotto i colpi di frusta del suo fulmine e sotto la
stretta degli Ecatonchiri ….. i Centobraccia
rovesciano loro addosso un cumulo massiccio
di pietre sotto il cui peso non possono più
muoversi …In quanto immortali Titani non
possono essere uccisi, ma vengono ricondotti
nel Caos sotterraneo, ricacciati nel Tartaro
tenebroso…E affinché i Titani non possano mai
più risalire in superficie, Poseidone viene
incaricato di costruire un baluardo intorno a
quella sorta di strozzatura che, nelle profondità
della terra, costituisce lo stretto passaggio
diretto al mondo sotterraneo e ricco d’ombre del
Tartaro. Attraverso questa strozzatura, così
come per la bocca di una giara, affondano tutte
le radici che la terra insinua nelle tenebre per
ancorarsi e assicurarsi stabilità. E’ là che
Poseidone eleva una triplice cinta muraria in
La caduta dei Titani, von Cornelis van Haarlem, 1588, bronzo e, ai piedi delle mura, elegge e investe
Statens Museum for Kunst, Kopenhagen i Centobraccia a guardiani fedeli di Zeus”.12
Immaginiamo quindi, con Esiodo, “un’immensa giara terminata da un collo stretto, da dove spuntano le radici
del mondo. Nella giara, turbini di vento soffiano in tutti i sensi: è il mondo del disordine, d’uno spazio non
ancora orientato. Le cosmogonie raccontano appunto come Zeus, divenuto re dell’universo, abbia tappato
per sempre il collo della giara: ha sigillato per sempre questa apertura, perché il mondo sotterraneo del
disordine …non possa più emergere alla luce”. 13
Come si può notare l’equilibrio così faticosamente
raggiunto è contemporaneamente “fisico” e “politico”,
dimensioni tenute insieme dalla spiegazione
antropomorfica. Infatti il trionfo di Zeus rappresenta,
al tempo stesso, la stabilità della terra che si ancora
con le sue radici nelle profondità del Tartaro e
l’ordine politico di un re che sa gestire
diplomaticamente il potere. Mentre Urano (che
relegava i figli nel buio del ventre materno) e Crono
(che li divorava) rappresentano i tipi dei tiranni
assoluti che, pur di conservare il potere, non esitano
a sopprimere i parenti e magari i figli, con Zeus
siamo in presenza di una monarchia temperata: il Re
comanda, ma con l’assistenza di un gran consiglio.
Immagine perfetta della monarchia che vediamo
riflessa nei poemi d’Omero. Il potere di Zeus, che
tiene in ordine il mondo, è basato sul consenso. Sono
gli dèi Olimpici, suoi fratelli e sorelle (Poseidone,
Ade, Era, Demetra…) che, una volta constatata la
situazione creatasi con i Titani, decidono che la
sovranità spetta a Zeus. Questi, da parte sua,
spartisce, con grande giustizia, gli onori fra le divinità,
“istituendo un universo gerarchizzato, ordinato, Luigi Sabatelli, L’Olimpo (Convito degli dèi),
organizzato e che, di conseguenza, avrà anche 1850 – Sala dell’Iliade – Palazzo Pitti, Firenze
solidità e stabilità.
Il teatro del mondo è preparato, la scena è allestita. In alto, sulla sommità dell’universo regna Zeus, colui che
ha dato ordine a un mondo originariamente nato dal Caos”.14
Se ora paragoniamo questa immagine mitica con la spiegazione che uno dei primi filosofi, Anassimandro, ci
fornisce della stabilità della terra, ci rendiamo subito conto della differenza fondamentale tra mito e filosofia.
12
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 28-29
13
Vernant, Mito e pensiero preso i greci, Einaudi, TO, 2000, pag. 130
14
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 30
2 - Dal mito alla filosofia (logos)
Per Anassimandro la terra è una sorta di cilindro che sta sospeso in mezzo al
cosmo, cioè rimane stabile e immobile senza essere sostenuto da alcunché,
perché, trovandosi a eguale distanza da tutti i punti della circonferenza celeste,
non ha nessuna ragione per muoversi verso destra piuttosto che a sinistra,
verso l’alto invece che verso il basso.
Ricostruzione della
carta universale della
Terra di
Anassimandro,
Schema dell’universo secondo Anassimandro secondo
A. Herrmann
Con Anassimandro assistiamo quindi alla nascita di una nuova concezione dello spazio cosmico e di un
nuovo tipo di spiegazione dei fenomeni. Non si tratta più dello spazio mitico, con le sue radici e la sua giara,
né della spiegazione antropomorfica che fa dipendere l’equilibrio astrofisico dall’equilibrio politico
instaurato dal regno di Zeus, ma di uno spazio geometrico e di una spiegazione logica (basata sul logos).
Mentre nello spazio mitico l’alto e il basso hanno un significato politico (alto = spazio di Zeus e degli dèi
immortali), la destra (propizia) e la sinistra (funesta) un significato religioso, nello spazio geometrico di
Anassimandro le direzioni non hanno più un valore assoluto, ma relativo, essendo lo spazio omogeneo e
costituito da rapporti simmetrici e reversibili: quello che a noi appare come l’alto costituisce, per gli abitanti
degli antipodi, il basso e quello che forma la nostra destra per loro trova a sinistra.
Il logos, strumento di questi pubblici dibattiti, prende perciò un duplice senso: da una parte, è la parola, il
discorso che pronunciano gli oratori all’assemblea; ma è anche la ragione, questa facoltà d’argomentare
che definisce l’uomo in quanto non è semplicemente un animale ma, come “animale politico”, un essere
ragionevole. A quest’importanza che prende allora la parola, diventata ormai lo strumento per eccellenza
della vita politica, corrisponde anche un cambiamento nel significato sociale della scrittura.
Nei regni del Medio Oriente, la scrittura era specialità e privilegio degli scribi; permetteva all’amministrazione
reale di controllare, tenendone la contabilità, la vita economica e sociale dello stato… questa forma di
scrittura è esistita nel mondo miceneo fra il 1450 e il 1200 a.C., ma scompare nella rovina della civiltà
micenea e, al momento in cui ci poniamo, cioè al momento della nascita della città, sostituita da una scrittura
che ha una funzione esattamente inversa. Invece d’esser privilegio d’una casta, segreto d’una classe di
scribi che lavora per il palazzo del re, la scrittura diviene “cosa comune” a tutti i cittadini, uno strumento di
pubblicità; permette di immettere nel dominio pubblico tutto quello che, superando la sfera privata, interessa
la comunità.
Le leggi debbono essere scritte; in tal modo diventano veramente cosa di tutti. Le conseguenze di questa
trasformazione dello statuto sociale della scrittura saranno fondamentali per la storia intellettuale: se la
scrittura permette di rendere pubblico, di porre sotto gli occhi di tutti, quello che nelle civiltà orientali restava
sempre più o meno segreto, ne risulta che le regole del gioco politico, cioè il libero dibattito, la discussione
pubblica, l’argomentazione contraddittoria diverranno anche le regole del gioco intellettuale. Come gli affari
politici, anche le conoscenze, le scoperte, le teorie di ogni filosofo sulla natura saranno messe in comune,
diverranno “cose comuni”: Koina >>.15
16
Vernant, Mito e pensiero preso i greci, op. cit., pag. 134
17
Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Roma, Bari, 1973 (tr. Da: Preface to
Plato, Cambridge, Mass. - USA, 1963)
18
Aristotele, Poetica, in Opere, a cura di Giannantoni, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 9
migliore, l’ineguagliabile Achille, figlio di Peleo (un re umano) e Teti (ninfa del mare, figlia di Nereo e Doride,
la più bella delle Nereidi che alla nascita immerse il figlio nello Stige per renderlo invulnerabile, eccetto che
per il tallone).
Non è possibile nello steso tempo gioire di ciò che l’esistenza condotta alla luce del sole offre di più dolce
agli umani, e insieme assicurarsi il privilegio di non esserne mai privato, di non morire. Gioire della vita, il
bene più prezioso per le creature effimere, … è rinunciare ad ogni speranza di immortalità. Volersi immortali
significa, in parte, accettare di perdere la vita prima ancora di averla pienamente vissuta. Se Achille
scegliesse, come gli consiglia il vecchio padre, di vivere a casa, a Ftia, in famiglia e in sicurezza, avrebbe
una vita lunga, piacevole e felice, completando l’intero ciclo dell’esistenza concessa a un mortale … Ma, per
quanto brillante possa essere, sebbene allietata da tute le felicità che il passaggio su questa terra può
portare agli uomini, la sua esistenza non lascerà dopo di sé traccia alcuna del proprio splendore; dall’istante
in cui volge al termine, questa vita sprofonda nella notte, nel nulla…. Orbene, Achille sceglie l’opzione
contraria: la vita breve e la gloria per sempre. Sceglie di andare lontano, di lasciare tutto, di rischiare tutto, di
consacrarsi in anticipo alla morte. Vuol far parte di quell’esigua schiera di eletti che non si curano né degli
agi, né delle ricchezze, né degli onori ordinari, ma che vogliono piuttosto trionfare nei combattimenti in cui la
posta in gioco, ogni volta, è la loro propria vita. Affrontare in battaglia gli avversari più forti e agguerriti,
significa mettersi costantemente alla prova in una gara di valore in cui ciascuno deve mostrare chi è, rivelare
agli occhi di tutti la propria eccellenza, un’eccellenza che ha il proprio culmine nelle gesta guerriere, e che
trova il proprio compimento nella “bella morte”. Nel pieno del combattimento, nel pieno della giovinezza, le
forze virili, il coraggio, l’energia, la grazia intatte non conosceranno così mai la decrepitezza della vecchiaia.
Parte di un complesso
programma decorativo
eseguito nelle sale di
Palazzo Ducale a Mantova.
Se Achille è un “superuomo” che rappresenta il modello di una civiltà guerriera, Ulisse è << l’eroe della
metis, dell’astuzia, della capacità di trovare soluzioni all’inestricabile, di mentire, di raggirare le persone, di
raccontare loro sciocchezze e di sapersela cavare sempre al meglio >> 20.
Tiepolo, Trasporto in
città del cavallo di Troia,
1760, Londra, National
Gallery.
L’areté di Ulisse è mirabilmente espressa e immortalata per sempre nel XXVI canto dell’Inferno, quando
l’eroe greco così risponde a Dante:
<< …né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo quale dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
…”O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
19
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 90-91
20
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 99
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. >>21
E’ un’areté che si addice ad un nuovo tipo di civiltà, più progredita rispetto a quella dell’Iliade. Quest’ultima,
probabilmente scritta attorno all’VIII sec. a.C., si riferisce alla civiltà “micenea” degli Achei (1400-1200 a.C.) e
all’età del bronzo. Ora, anche se l’Odissea è il racconto del ritorno da Troia nei dieci anni successivi alla sua
caduta, molto probabilmente il suo sfondo storico corrisponde all’inizio dell’età del ferro (VII sec. a.C.) e alla
civiltà ionica, con lo sviluppo dell’artigianato, del commercio e, quindi, della navigazione nel Mediterraneo,
dell’esplorazione, della scoperta, dell’incontro e dello scontro con l’altro e il diverso.
La figura di Ulisse-Odisseo si erge a modello eterno e universale di questo tipo d’uomo che parte, che vive
nella nostalgia del ritorno, ma che, al tempo stesso, è curioso delle novità, ama conversare e conoscere
l’ignoto, indugiare nel suo viaggio, per tornare più “ricco”, più saggio di quando era partito, in sintesi: per
realizzare la propria umanità.
Gli esempi più emblematici di queste virtù sono certamente (oltre all’ideazione del cavallo di Troia) l’incontro
con il ciclope Polifemo e quello con le Sirene.
Mentre i suoi compagni, sbarcati sull’isola dei Ciclopi (giganti mostruosi, con solo occhio in mezzo alla fronte,
mangiatori di uomini) per fare provviste, di fronte all’inquietante caverna del mostro tornerebbero volentieri
alla nave per salpare, Ulisse si rifiuta. << Ulisse vuole restare perché vuole vedere. Vuole conoscere
l’abitante di quello strano luogo. Ulisse non è soltanto l’uomo che deve ricordarsi, ma colui che vuole vedere,
conoscere, sperimentare tutto ciò che può offrigli il mondo, anche questo mondo subumano in cui si trova
gettato >>22.
È’ opinione diffusa
che siano stati i
ritrovamenti di resti
fossili di elefanti nani
della Sicilia a
originare il mito dei
Ciclopi. Infatti, i
teschi degli elefantini
sono di dimensioni
poco più che umani
ed evidenziano un
incavo centrale,
prodotto
dall’attaccamento
della proboscide,
che nelle
rappresentazioni
fantastiche dei
navigatori e dei primi
coloni, potrebbe
essere divenuto il
bulbo oculare dei
giganti con un
occhio circolare al
centro della fronte.
Vestibolo di Polifemo.
Pavimento a mosaico, Piazza Armerina, Villa romana del Casale (III-IV sec. d.C.).
La stessa brama di conoscenza,
Quando sopraggiungerà il ciclope Polifemo, figlio del dio Poseidone, Ulisse, prevedendo gli sviluppi futuri
mista alla massima scaltrezza, si
dell’azione, gli offrirà un vino soporifero e si presenterà con il nome di “Nessuno” così che, quando Polifemo,
ritrova nel celebre incontro con le
dopo essere stato accecato nel sonno, chiamerà i suoi fratelli in aiuto e questi gli chiederanno chi lo
seducenti, ma mortifere Sirene.
minaccia, egli risponderà: “nessuno!”, restando senza soccorso di fronte all’astuzia dell’eroe.
Ulisse non vuole passare vicino alle
Sirene senza aver udito il loro canto
ammaliatore e senza sapere cosa
21
Dante Alighieri,
cantano. AlloraLasi Divina Commedia,
fa legare Inferno, XXVI Canto, vv. 94-120
all’albero
22
della nave costringendo i suoiop. cit., pag. 97
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini,
compagni a remare imperterriti con
le orecchie tappate di cera,
diventando l’unico uomo ad aver
ascoltato il richiamo erotico-mortale
delle Sirene, senza essere morto!
Draper, Ulisse e le Sirene,
Hull, Ferens Art Gallery
Possiamo concludere questa breve rassegna sull’universalità (“filosoficità”) del mito, ricordandoci del valore
universale del mito di Edipo, sia dal punto di vista psicologico che antropologico.
Come quasi tutti sanno Edipo è un eroe tebano che, a sua insaputa, uccide il padre Laio, re di Tebe, sposa
la madre Giocasta (dopo aver sconfitto la Sfinge che perseguitava Tebe, risolvendo l’enigma sulle tre età
dell’uomo), ha dei figli dalla madre che sono anche suoi fratelli e sorelle; scopre tutto questo, dopo una
drammatica indagine sull’uccisione di Laio, e si acceca con i fermagli della veste della madre/moglie
Giocasta che, nel frattempo, si è impiccata.
Dal punto di vista psicologico, o meglio psicoanalitico, il mito è
stato assunto da Freud a paradigma del conflitto di amore/odio
tra bambino, madre e padre che struttura la famiglia
mononucleare occidentale, il cosiddetto “complesso di Edipo”,
che si verifica fra i tre e i sei anni, all’interno della cosiddetta
“situazione edipica”.
Il bambino maschio, in particolare, durante la cosiddetta fase
“falllica”, vivrebbe contemporaneamente una pulsione “erotica”
nei confronti della madre, alla quale è affettivamente attaccato fin
dalla nascita, e una pulsione aggressiva nei confronti di
quell’intruso che è il padre. Contemporaneamente, essendo la
sua libido concentrata sulla zona fallica, il conflitto con il padre è
vissuto dal bambino come “complesso di castrazione” da parte di
quest’ultimo.
Nello sviluppo “normale” del bambino, secondo la teoria
Edipo e la Sfinge, Coppa freudiana, questo complesso verrà superato tra i sei e i sette
(480 a.C.), Musei Vaticani anni, tramite il meccanismo di difesa dell’identificazione con
l’aggressore (padre) e conseguente formazione del Super-Io.
Dal punto di vista antropologico, invece, il mito, come osserva Vernant: << pone il problema della continuità
sociale, del mantenimento delle condizioni, delle funzioni, delle posizioni in seno alle culture, a dispetto del
flusso delle generazioni che nascono, regnano e poi spariscono, cedendo il posto alle successive. Il trono
deve restare lo stesso, mentre quelli che lo occupano sono sempre diversi. Come può il potere reale restare
uno e stabile, quando coloro che lo esercitano, i re, sono numerosi e diversi?
Il problema è sapere come il figlio del re possa diventare
re come suo padre, possa prendere il suo posto senza
scontrarsi con lui o eliminarlo. In quale modo il flusso delle
generazioni, la successione degli stadi che segnano
l’umanità e che sono legati alla temporalità,
all’imperfezione umana, possono procedere di pari passo
con un ordine sociale che deve restare stabile, coerente e
armonico?>>.23
Nello stesso enigma posto dalla Sfinge è contenuta tutta la
mostruosità del destino di Edipo:
“Qual è l’essere, il solo fra quelli che abitano la terra,
l’acqua e l’aria, che ha una sola voce, un solo modo
di parlare, una sola natura, ma che ha due piedi (dipous),
tre piedi (tripous) e quattro piedi (tetrapous)?”.
Il giovane Edipo risolve l’enigma indicando l’uomo che,
quando è bambino cammina a quattro zampe, quando
è adulto con due gambe e, quando è vecchio, si appoggia
ad un bastone per aiutare la sua incerta andatura.
Ma, in realtà, il “mostro” a cui allude l’enigma della Sfinge,
che è contemporaneamente a due, a tre e a quattro gambe,
è lo steso Edipo! Infatti: << l’eroe ha mescolato i tre
stadi dell’esistenza umana. Ha sconvolto il corso regolare
delle stagioni, confondendo la primavera della gioventù
con l’estate dell’età adulta e con l’inverno della vecchiaia.
Nell’istante in cui uccideva il proprio padre, si identificava
con lui prendendone il posto sul trono e nel letto di sua madre.
Generando figli dalla propria madre, inseminando il campo
che gli aveva dato la luce - come dicevano i Greci -, si
identificava non soltanto con suo padre, ma con i propri
figli, che sono insieme i suoi figli e i suoi fratelli, le sue figlie
e le sue sorelle >>.24
Gustave Moreau, Edipo e la Sfinge, 1864, Metropolitan Museum, New York
23
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 173
24
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 172-173
DAL MITO AL LOGOS:
La nascita della filosofia in Grecia nel VI sec. a. C.
PAROLE CHIAVE
Antropomorfismo: dal greco ànthropos (uomo) e morphé (forma). Concezione mitico-religiosa che
attribuisce agli déi, o alla natura divinizzata, sembianze, atteggiamenti e comportamenti umani.
Archè: “principio” costitutivo di tutte le cose che contiene in sé una “forza”, la quale, agendo secondo una
“legge” necessaria, presiede a tutte le trasformazioni nell’incessante divenire del mondo.
Areté: “virtù”; termine che i greci usavano per esprimere “il modo migliore di essere di qualcosa”, in
partivcolare, il modo migliore di essere uomini.
Cosmo: dal greco kòsmos (universo) che significa anche “ordine”, sottintendendo quindi l’idea dell’ordine
dell’universo, ovvero che l’universo non è qualcosa di caotico, ma una totalità di enti ordinati da leggi.
Cosmogonia: dal greco kòsmos, universo, e ghìghnomai, io genero, è una spiegazione mitica dell’origine
e della formazione del mondo. Nella Teogonia di Esiodo coincide con la generazione degli dèi.
Edipo (complesso di): conflitto psichico inconscio per cui, secondo la psicoanalisi freudiana, Il bambino
maschio durante la cosiddetta fase “falllica”, vivrebbe contemporaneamente una pulsione “erotica” nei
confronti della madre, alla quale è affettivamente attaccato fin dalla nascita, e una pulsione aggressiva nei
confronti del padre. Contemporaneamente, essendo la sua libido concentrata sulla zona fallica, il conflitto
con il padre è vissuto dal bambino come “complesso di castrazione” da parte di quest’ultimo.
Filosofia: dal greco philèin, amare, e sophìa, sapienza, da cui, letteralmente, “amore del sapere”. Si tratta
di un’indagine razionale e disinteressata della realtà naturale e umana, volta a metterne in luce i principi che
ne stanno alla base.
Logos: derivato etimologicamente da légo (raccogliere), implicava quasi sempre un duplice significato: da
un lato significava mettere insieme (raccogliere) le parole in modo da costruire un “discorso” dotato di senso,
quindi razionale, coerente, non contraddittorio; dall’altro lato logos significava anche la “legge” universale
che lega insieme tutto ciò che accade, legge razionale che governa l’universo, al di là dell’apparente
disordine e accidentalità dei fenomeni che ci circondano.
Metis: astuzia prudente, capacità di prevedere tutto ciò che accadrà, di trovare soluzioni all’inestricabile.
Nella mitologia greca è la prima moglie di Zeus, il quale, sfruttando il potere di metamorfosi della sua sposa,
le chiede di trasformarsi in una goccia d’acqua per ingoiarla subito dopo, diventando egli stesso metis.
Mito: dal greco mythéo (io racconto o narro). Si tratta di narrazioni verosimili e fantastiche riguardanti i
fenomeni naturali, le vicende degli dèi e degli uomini, nel tentativo di individuarne il senso.
DAL MITO AL LOGOS:
La nascita della filosofia in Grecia nel VI sec. a. C.
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