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EUROCOMUNISMO

Il termine eurocomunismo è stato utilizzato per la prima volta in ambito giornalistico, dal giornalista
jugoslavo Frane Barbieri, per il “giornale nuovo” di Idro Montanelli, di ispirazione diametralmente opposta
a quella comunista. L’articolo di riferimento utilizzava questo termine per indicare la tendenza del Leader
del partito comunista spagnolo Santiago Carrillo a non uniformarsi con la linea d’azione dettata da
Brezniev. Secondo la spiegazione del giornalista il termine eurocomunismo fu preferito a quello di
“neocomunismo” per marcare il fenomeno in tendenza soltanto geografica, evitando di utilizzare un
termine che mettesse in risalto le novità ideologiche. I partiti che possono essere catalogati nel gruppo di
Eurocomunisti sono il partito comunista italiano con segretario Enrico Berlinguer, il Partito Comunista
spagnolo di Santiago Carrillo, il quale è anche autore del libro “Eurocomunismo y Estado” (1977) e il Partito
comunista Francese guidato da Georges Marchais. A questo gruppo già molto frammentato si aggiungono
nell’analisi storica sporadicamente il Partito Comunista Greco, quello Belga, quello Britannico e quello
Danese, nonostante il peso elettorale e l’importanza politica di quest’ultimi siano esigui. In seno allo
sviluppo dell’integrazione europea è possibile notare la convergenza del partito italiano, francese e danese
nel gruppo parlamentare “gruppo comunista e apparentati” che risultò il quarto gruppo parlamentare per
numero di seggi nelle prime elezioni del parlamento europeo (1979).

Il termine non fu accolto dall’assenso dei partiti stessi che lo utilizzarono, almeno inizialmente, virgolettato,
per varie motivazioni: racchiudere il fenomeno in una chiave prettamente geografica avrebbe escluso altri
partiti non europei, come il Giapponese, che in quegli anni stava sviluppando tendenze analoghe;
nel caso italiano non era immaginabile creare una visione sovranazionale del comunismo quando fondava
la propria specialità proprio nella “via nazionale al socialismo” Togliattiana. Infine una visione che fosse
stata diversa e addirittura oppositiva a quella sovietica sarebbe stata un’eresia e avrebbe compromesso il
filo doppio che collegava il Soviet Supremo con i partiti che si ispiravano, almeno nell’atto di fondazione,
alla rivoluzione d’Ottobre e al Marxismo declinato in chiave Leninista.

Il termine venne utilizzato, virgolettato, per la prima volta da Berlinguer in occasione della Conferenza
paneuropea dei partiti comunisti, tenutasi a Berlino Est il 29 - 30 giugno 1976:“....E’ assai significativo che
alcuni altri partiti comunisti e operai dell’Europa Occidentale siano pervenuti, attraverso una loro autonoma
ricerca, a elaborazioni analoghe circa la via da seguire per giungere al socialismo e circa i caratteri della
società socialista da costruire nei loro Paesi. Queste convergenze e questi tratti comuni si sono espressi
recentemente nelle dichiarazioni che abbiamo concordato con i compagni del P.C.E., del P.C.F., del P.C. di
Gran Bretagna. E’ a queste elaborazioni e ricerche di tipo nuovo che taluni danno il nome di
“Eurocomunismo.”

Santiago Carrillo, vero avanguardista del movimento utilizzò il termine sempre nella conferenza
pan-comunista di Berlino per marcare la differenza ideologica dei partiti comunisti occidentali rispetto al
PCUS: “…Per lunghi anni Mosca fu la nostra Roma e la grande rivoluzione socialista di Ottobre il nostro
Natale. Era il periodo della nostra infanzia. Oggi siamo diventati adulti” e “la nostra vocazione è di essere
una forza che esce dalle catacombe, e che aspira ad arrivare al governo là dove non c’è ancora riuscita”,
“Ma è indiscutibile che oggi i comunisti non fanno capo ad alcun centro dirigente, non ubbidiscono ad una
disciplina internazionale. Noi non accetteremo un ritorno alle strutture e alle concezioni
dell’internazionalismo secondo le formule del passato”.
CARATTERISTICHE STRUTTURALI COMUNI
Il continente europeo, a ormai trent’anni dalla fine della guerra e ormai terminato il boom economico degli
anni sessanta, si ritrova nel decennio successivo a fare i conti con problemi nuovi mai affrontati
precedentemente: le tensioni riguardo la redistribuzione delle risorse interne, veicolate dai movimenti di
protesta del 1968, i problemi macroeconomici mondiali quali la fine di Bretton Woods e gli shock petroliferi
creati in un contesto distante dall’Europa, l’ interdipendenza tra stati ed economie in un unicum mondiale e
il rallentamenti naturali dei cicli economici.

A queste inedite domande, che non si ponevano nel blocco socialista, i partiti comunisti occidentali
trovarono delle risposte che si discostarono sensibilmente dall’ortodossia sovietica. I motivi principali che
allentarono questo storico collegamento furono molteplici: i comunisti nel periodo post-bellico avevano
fatto attivamente parte della vita parlamentare dei propri paesi, dimostrando una ferrea lealtà alla
costituzione, da essi stessi coo-redatta nelle assemblee costituenti. Questo aveva modificato la strategia del
consenso, che passò dalla teoria Leninista del partito d’avanguardia rivoluzionaria, ad accettare il
parlamentarismo “borghese” e le dinamiche delle votazioni.

Un altro elemento che allontanò i partiti comunisti europei dal Mosca furono gli avvenimenti accaduti nello
stato guida nel 1956, dove il segretario del PCUS Nikita Krushev denunciò il carattere totalitario e liberticida
di Josif Stalin, precedentemente considerato dai comunisti di tutto il mondo come unica guida al socialismo,
difensore della pace e argine all’imperialismo. Nonostante ciò accadde ben 20 anni prima della svolta
eurocomunista lo shock della scoperta di un’URSS totalitaria sconvolse i dirigenti e gli ideologhi occidentali.
Inoltre le invasioni degli Stati satellite e i successivi interventi dell’armata rossa per bloccare le proteste
(Cecoslovacchia, Ungheria), ordinate dallo stesso Krushev nonostante non fossero state in un primo
momento condannate dai segretari comunisti europei furono fondamentali successivamente nell’analisi
della strategia comunista europea e a prendere le distanze da quella sovietica . A questo si unii un’analisi
accurata dei progressi dell’economia capitalistica occidentale e la migliore condizione di vita di tutta la
società, lavoratori compresi.

Questo portò a rianalizzare la propria ideologia interna, per renderla più attuale al contesto europeo e
aggiungendovi delle “devianze” che resero latentemente conflittuale il rapporto tra i partiti
“eurocomunisti” e la patria del socialismo mondiale, l’Unione Sovietica.

In una conferenza comune tra il PCI e il PCE del 1975 i due leader (Berlinguer e Carrillo) affermarono il loro
perseguimento di una via “democratica al socialismo”, seguendo un convincimento strategico che nasce
dalla riflessione “sull’insieme delle esperienze del movimento operaio e sulle condizioni storiche specifiche
dei paesi dell’Europa occidentale” e “riconosciamo congiuntamente il valore delle libertà personali e
collettive e della loro garanzia, dei principi della laicità dello stato, della sua articolazione democratica,
della pluralità dei partiti in una libera dialettica e della libertà del sindacato”.

Quindi i caratteri nuovi dei partiti comunisti europei sarebbero stati: prassi democratica, parlamentarismo,
laicità dello stato e riconoscimento delle libertà personali e collettive. Queste caratteristiche prettamente
della società europea accettate dai partiti comunisti porteranno l’analisi storica del tempo a definire
l’eurocomunismo una sorta di “quarto centro del comunismo” dopo quello di Mosca e le devianze di
Pechino e di Belgrado.

Eventi plateali mostrarono il volere dei partiti comunisti di integrarsi a pieno regime nella struttura
democratica dei propri paesi e legittimarsi davanti il corpo elettorale popolare e anche borghese; fece
molto discutere in quegli anni il rifiuto del concetto di “dittatura del proletariato” da parte del francese
Marchais, l’abbraccio pubblico tra il sindaco di Roma comunista e il Papa e l’accettazione della bandiera
monarchica, e quindi la delegittimazione di quella repubblicana da parte del partito comunista spagnolo di
Carrillo.

È possibile vedere nei tre partiti un tentativo di istaurarsi nella vita politica nazionale attraverso un’opera di
mediazione, dialogo e alleanza con le altre forze politiche nazionali. Coincide infatti con il periodo
dell’eurocomunismo la “strategia dell’ascolto” e il “compromesso storico” italiano e l’alleanza con i
socialisti di Mitterand da parte del partito comunista francese nell’union de la gauche. Obiettivo inoltre del
gruppo eurocomunista nella politica interna era quella di non accelerare la modifica delle strutture
economiche, ma guidare in maniera graduale in processo di socializzazione dei mezzi di produzione,
evitando che processi repentini, nonostante fossero stati approvati dalla base elettorale attraverso le
dinamiche delle elezioni, potessero compromettere la vita economica e sociale delle rispettive nazioni.
Oltre alla legittimazione nazionale è riscontrabile un progetto condiviso di entrare nelle dinamiche
sovranazionali dell’integrazione europea, sia all’interno del consiglio, prefigurando una possibile entrata nel
governo dei propri paesi, sia attraverso l’elezione dei membri del parlamento europeo.

IL CASO ITALIANO
È possibile notare nel partito di Berlinguer un’ elaborazione dottrinaria nuova a partire dal 1973, quando in
Cile il legittimo governo di Allende subì un golpe militar-fascista da parte del generale Pinochet con la
collaborazione attiva USA. Questo portò il PCI a un momento di profonda riflessione ideologica, esplicata da
tre articoli del giornale “la rinascita” dove lo stesso segretario Berlinguer si chiedeva ”come promuovere
profonde soluzioni sociali senza creare ostilità tra tutte le classi della popolazione”. La soluzione trovata dal
leader Sardo fu quella di “istaurare un procedimento morbido per l’istaurazione del socialismo, per evitare
che in Italia (come in Cile) il centro e la destra si coalizzino insieme e distruggano la sinistra”. Tutto ciò è
stato elaborato anni prima dei “vertici eurocomunisti” e mostra come il PCI nella sua “via nazionale al
socialismo” avesse nel tempo aumentato la distanza ideologica con l’Unione Sovietica, rifiutando già nel
1973 la possibilità di prendere il potere e modificare repentinamente le dinamiche sociali ed economiche,
prospettando una prassi graduale e condivisa con le altre forze sociali per il socialismo.

Soltanto un anno dopo, nel 1974 ci fu lo storico discorso in cui il segretario accettò la propria condizione
geografica e collocamento nella politica dei due blocchi e dichiarò di vedere la NATO come opportunità
politica per il PCI “visto che l’Italia non fa parte del Patto di Varsavia il PCI può seguire la propria via al
socialismo senza alcun condizionamento esterno”.

Il carattere innovativo del PCI è palese e la grandezza del partito, insieme al carisma dei dirigenti e del
segretario lo renderanno il partito guida della strada eurocomunista. Importante notare che fu proprio
Berlinguer a utilizzare per primo il termine “eurocomunismo”, inoltre fu lui a organizzare i vari vertici con gli
altri partiti affini (PCI e PCF) nei quali vennero marcate le linee comuni e le prese di distanza dall’Unione
Sovietica. Il rapporto tra il Leader e l’URSS è sempre stato molto conflittuale: “l’URSS in quanto primo
partito che ha raggiunto il socialismo nel suo percorso ha dovuto affrontare durezze, difficoltà e numerosi
errori” disse nel 1976 in un vertice con il PCE.

il PCI elabora nella sua dottrina anche una parziale accettazione dell’economia di mercato, riscontrando
che negli anni del boom economico le condizioni di vita fossero migliorate per tutti. Il fine del PCI era quello
non di socializzare tutti i mezzi i produzione e di spingere verso la nazionalizzazione più ampia possibile
delle imprese, quanto quella di guidare il capitalismo a essere più equo, più redistributivo e di eliminare le
tendenze monopolistiche che l’economia di mercato naturalmente porta con se. Questo nel breve periodo
ipotizzando una strategia gradualistica di socializzazione dei mezzi di produzione nel lungo periodo. Le
aperture comuni a quelle del PCI e del PCF (democrazia, libertà personali e civili, laicità dello stato e
processo graduale e condiviso al socialismo) unite all’apertura all’economia di mercato spinge gli storici a
definire il PCI di Berlinguer più che un partito comunista puro una sorta di partito mediatore tra il
socialismo reale sovietico e la tradizione socialdemocratica europea.

In realtà il partito anche a causa di una parte dell’elettorato fortemente filosovietico non riuscirà a rompere
definitivamente i rapporti con Mosca, creando un rapporto ambivalente e insincero con l’URSS. Ciò portò
nel 1978 a non prendere le parti di un altro leader eurocomunista, lo spagnolo Santiago Carrillo, che nella
sua veste di leader meno legato con Mosca scrisse “eurocomunismo y estado”, una sorta di avveniristico
manifesto politico che sanciva la definitiva rottura con l’URSS e descriveva i caratteri fondamentali (già
ampiamente esplicati dai leader nelle conferenze) della nuova coordinazione oppositiva a quella sovietica.

Il PCI si mosse in chiave estremamente innovativa anche nella politica nazionale. Gli anni 70 videro In Italia
una situazione estremamente critica a causa del terrorismo di matrice nera e rossa, che rischiava di mettere
in crisi una democrazia che nei fatti non era ancora matura. È in questi anni che si elabora il “compromesso
storico” l’accordo tra il PCI e la DC, i due partiti maggiori del panorama italiano, di cooperare insieme per
risolvere la difficile situazione che stava passando il paese, prendendo misure fortemente impopolari con la
stragrande maggioranza del parlamento. Il PCI nonostante le altissime percentuali nelle votazioni legislative
non era mai entrato dall’inizio della guerra fredda all’interno del governo. Il compromesso storico quindi si
poneva come un passo in avanti alla “strategia dell’ascolto” e dei “governi della non sfiducia”, portando i
comunisti a fare parte del gruppo governativo, eliminando la pregiudiziale anticomunista della guerra
fredda e spostando di fatto l’Italia dalla politica dei blocchi decisa a Yalta.

Quindi gli anni ’70 sono fondamentali per il PCI che vede in ottica nazionale la possibilità finalmente di
poter governare, amplificando il suo ruolo nella politica italiana e legittimando nelle successive legislature
l’alternanza al governo con la DC, alternanza che non si era mai avuta e aveva fossilizzato e
deresponsabilizzato la classe dirigente nazionale. Questa legittimazione interna non poteva venire senza un
distanziamento dall’Impero del Male, l’unione Sovietica. È qui che l’eurocomunismo con le sue aperture
democratiche, civili ed economiche si istaura. Creando un centro comunista diverso da quello sovietico
(senza mai però prenderne formalmente le distanze) era possibile che i comunisti venissero accettati anche
nel panorama nazionale. Questa tattica politica venne seguita anche dal PCF che invece di allearsi con le
forze centriste si alleò con i socialisti, creando la difficile coalizione dell’Union de la gauche.
L’eurocomunismo trova anche legittimazione nelle istituzioni comunitarie dove il gruppo “comunisti e
apparentati” guidati dagli Italiani Amendola e Spinelli sono il quarto gruppo per grandezza nel primo
europarlamento eletto.

L’OPPORTUNISMO POLITICO DEL PCF


Il partito di George Marchais è quello in assoluto più ambivalente e stridente nella coalizione
eurocomunista. Da sempre il più ortodosso e filosovietico entra nel circolo dell’eurocomunismo nel Maggio
1975 con un vertice congiunto con il PCI; successivamente ritratta nei fatti la sua posizione acquisita dando
un caldo assenso al tentato golpe portoghese, nonostante lo stesso leader Marchais sostenne che il
sostegno al PCP è molto diverso dall’allineamento alla politica di Cunhal, e che è il sostegno era solamente
“una questione di lotta al fascismo”. Nel settembre 1975 ci fu un altro vertice con il PCI e nella dichiarazione
congiunta la tendenza eurocomunista si amplifica attraverso l’elencazione delle libertà civili e individuali
che il socialismo avrebbe difeso e conservato, tutte figlie non solo delle lotte operaie e popolari, ma anche
“delle grandi rivoluzioni democratico-borghesi di questo secolo”. È in questo congresso che l’asse Roma-
Madrid diventa il triangolo eurocomunista Roma-Madrid-Parigi.

Nonostante ciò i partiti mantennero delle differenze non di poco conto. I caratteri differenti e i contrasti
latenti tra il partito italiano e quello francese hanno profonde origini: partito a vocazione di massa, con
dirigenza intellettuale e appoggio di grandi menti e artisti, con carattere nazional-popolare e grandi
ideologhi e politici, quello italiano; chiuso, settario, operaista e poco duttile quello francese. Altre
differenze si possono riscontrare nella politica estera: Berlinguer aveva già accettato da tempo il patto
atlantico e la prospettiva di unificazione europea. Marchais d’altro canto manteneva nel suo partito i
caratteri fortemente nazionalisti, filosovietici e spesso in accordo con le forze della destra Gaullista, come
per la “force de frappe”. L’accantonamento dell’uscita dalla NATO venne sviluppata solo come mossa di
opportunismo politico, per creare un cartello elettorale con i socialisti, “union de la Gauche” nel 1972.

Il vertice di Maggio 1975 aveva sancito “l’italianizzazione” del PCF. Altro gradino fondamentale venne il 20
Dicembre, quando il quotidiano comunista “Humanité” polemizzò con la “Pravda” condannando “il ricorso
ai mezzi amministrativi e alla repressione, in sostituzione della lotta politica di massa”, una chiara accusa
all’operato sovietico. Successivamente lo stesso Marchais abbandonerà, tramite una intervista in tv, la
formula della dittatura del proletariato. Nel XXII congresso del PCF del 1976 venne sancito definitivamente
l’abbandono della dittatura del proletariato, il saluto a pugno chiuso e venne accantonato il modello
sovietico, definito “innaturale e arretrato”, “faremo il socialismo come piace a noi, alla francese” concluse
Marchais alla fine del congresso.

Nel triangolo eurocomunista, il vertice PCI, PCF e PCE del 1977 a Madrid Marchais utilizzò per la prima e
ultima volta il termine “eurocomunismo”, con riserva: “se l’eurocomunismo significa l’allargamento di tutte
le libertà conquistate dai nostri popoli, se significa la democrazia socialista, io sono d’accordo. Ma se
attraverso l’eurocomunismo ci vogliono far dire che si tratta di creare un nuovo centro internazionale
comunista, allora noi rispondiamo categoricamente che l’internazionale comunista ha fatto il suo tempo.
Non ne siamo usciti per entrare in un’altra che avesse un’etichetta regionale”.

Dal punto di vista della politica interna è possibile riscontrare nel PCF una sorta di compromesso storico
simile a quello visto in Italia. Gli attori protagonisti sono il partito socialista, PS, il partito comunista
francese, PCF, e i radicali di sinistra MRG. Il leader e simbolo di questa coalizione è François Mitterrand,
presidente della Repubblica francese dal 1981 al 1995. L’obiettivo della coalizione era quella di fare
“cartello comune” per battere i Gaullisti alle elezioni presidenziali e legislative. La prima coalizione, soltanto
a carattere elettorale si ebbe già nel 1972, 4 anni prima dell’eurocomunismo e vide una comune linea
programmatica tra Mitterrand e Marchais e i radicali del MRG.

L’alleanza programmatica proseguirà per tutti gli anni dell’eurocomunismo. Nonostante il tentativo di
avvicinamento tra questi partiti ci sarà uno smacco a causa di un programma molto vago e dell’impossibilità
concreta di trovare degli accordi, soprattutto sulle nazionalizzazioni delle imprese. Stesso problema sul
tema dell’integrazione Europea, dove l’acrobatica mediazione tra i partiti fu: “partecipare alla costruzione
della Cee per liberarla dal dominio del grande capitale, democratizzarne le istituzioni” ma dall’altro lato il
governo dell’union de la gauche avrebbe dovuto “preservare all’interno del mercato comune la sua libertà
d’azione per realizzare il suo programma politico, economico e sociale”.
I comunisti e i socialisti avevano ognuno bisogno dell’altro per intesse politico, per superare finalmente il
periodo Gaullista e del suo delfino Pompidou. Nonostante ciò erano due partiti molto diversi, in latente
opposizione l’uno con l’altro e in una “coalizione competitiva” che vide alla fine prevalere i socialisti nei
confronti dei comunisti, allargando il proprio elettorato alle spese di quest’ultimi. In questo contesto la
tattica comunista per portare a se la maggioranza dell’elettorato a spese dei socialisti era quella di
“giocare a ribasso”, cioè concedendo svolte borgesi, accettando la democrazia, sostenendo la strenua
difesa delle libertà personali e aprendo all’elettorato popolare e non solo quello operaista. Ciò portò a
risultati opposti con la prevaricazione dei socialisti di Mitterand a spese dei comunisti “snaturati.”

Quindi come in Italia l’eurocomunismo francese ha una chiave di lettura anche nella politica interna che
bene spiega l’allontanamento dal modello sovietico per imboccare strade diverse, tipicamente borghesi,
mantenendo sempre vivo, anche se sotterraneamente conflittuale, il rapporto con l’URSS.

La differenza più grande riscontrabile tra il PCI e il PCF in chiave interna è: mentre per il PCI l’apertura alla
tendenza occidentale seguiva un iter più lungo e complesso e il “compromesso storico” aveva sia valore
legittimante di un futuro governo con presenza comunista, sia l’urgente necessità di coalizione nazionale
contro il terrorismo e la crisi economica dei 70 per il PCF la svolta interna e poi di riflesso quella esterna è
legata a un’ottica di interesse politico: cercare di fagocitare l’elettorato socialista per entrare nella
maggioranza di governo.

Il fallimento di quest’obiettivo, a causa della vittoria socialista a spese dei comunisti, porterà nel 1977 allo
scioglimento dell’union de la gauche. Oltre a questo significato prettamente elettorale l’union fallì anche
per divergenze che affrontarono il PCF e il PS sul fronte programmatico: i comunisti proponevano in piena
crisi economica la possibilità indiscriminata di nazionalizzare le fabbriche in qualsiasi momento se la base
operaia avesse votato favorevolmente; inoltre proponevano politiche accomodanti e keynesiane. Nella
politica estera volevano fortemente che la “force de frappe”, l’arsenale atomico fosse “nazionalizzato” e
che quindi non rispondesse ai principi della difesa nazionale nell’ottica della divisione in blocchi, ma che
servisse all’interesse nazionale indistintamente da dove fosse venuta la minaccia, mettendo sullo stesso
piano USA e URSS e eliminando quanto stabilito a Yalta.

ETERODOSSIA SPAGNOLA
Il partito comunista spagnolo, quello meno legato all’URSS presenta i caratteri più avanzati, o per meglio
dire spregiudicati, antidogmatici e indipendenti del blocco eurocomunista. Illegale fino alla fine del regime
Franchista nel 1977, il PCE si è divincolato dalla linea sovietica, per elaborare nell’analisi del suo Leader
Santiago Carrillo, una dottrina sui generis e di rottura, cristallizzata nel libro “Eurocomunismo y Estado” del
1976.

Particolarità del comunismo spagnolo è la necessità di istaurarsi nel nascente contesto democratico,
legittimarsi e attraverso le dinamiche parlamentari guidare il processo di transizione democratica, senza
lacerare con la rivoluzione il fragilissimo equilibrio politico istituzionale Spagnolo post-Franco.
L’eurocomunismo quindi quale via di apertura democratica al parlamentarismo e alle libertà personali
serve al PCE per legittimare il proprio agire politico. È necessario quindi per Carrillo dimostrare l’affidabilità
del suo partito inserito nel contesto democratico e quindi marcare un allontanamento dall’URSS. Vicinanza
inesistente in realtà quella tra Carrillo e il PCUS per la storia personale e la maturazione politica del leader
alla quale Mosca voleva delegittimare la leadership già dagli anni 60 e in un contesto di piena illegalità del
PCE stesso.
Carrillo si contraddistingue quindi da Berlinguer e Marchais come fervente promotore di un sistema di
partiti comunisti europei separati e indipendenti dal modello sovietico. La sua idea di partito, identica a
quella di Berlinguer, comprende un’alleanza di tutte le forze del lavoro , quindi anche le classi popolari e
piccolo borghesi, e della cultura. Visti gli sviluppi in Cile come il PCI sviluppa la teoria del compromesso con
tutte le altre componenti sociali, cercando di coalizzarsi con le forze popolari e non tentare la strada in
solitaria. “...l’esperienza insegna che la socializzazione radicale a breve termine di tutti i mezzi di produzione
e di scambio determina una distruzione e una disorganizzazione delle forze produttive e dei servizi”. Quindi
è più importante istaurarsi nel gioco democratico e cercare vie di compromesso che distruggere attraverso
una repentina modifica dei sistemi economici lo status-quo, che verrà modificato attraverso la mediazione
e il compromesso nel lungo periodo.

Importante marcare in chiave di cooperazione con gli altri partiti comunisti che il primo atto pubblico del
PCE non più illegale si è svolto a Madrid ed è stato definito il primo e unico vertice eurocomunista. Questo
vedeva infatti assieme a Carrillo l’italiano Berlinguer e il francese Marchais.

Il progetto interno di legittimazione democratica e estero di coalizione con i partiti simili vede un
improvviso arresto a causa delle prime elezioni libere spagnole. Il PCE raccoglie dalle urne soltanto il 9% dei
consensi, un risultato ben al di sotto delle aspettative che relega il partito in subalternità non solo per un
governo, ma anche nella leadership della sinistra, vedendo il partito socialista molto più forte. I marcati
caratteri «eurocomunisti» non fanno altro che creare un partito difficile da inquadrare per l’elettorato, che
sceglie, a rigor di programma molto simile, il PSOE. Necessario inoltre rimarcare come l’elettorato spagnolo
a causa della lunga dittatura non avesse sviluppato il cosiddetto “voto di appartenenza” che legava
l’elettorato con i partito che storicamente aveva tutelato le proprie istanze. Facile quindi comparare
l’assenza di questo in Spagna in paragone al caso italiano, dove era presente tra elettorato comunista e
partito una fortissima simbiosi e fiducia, dovuto soprattutto alla lunga tradizione del PCI, al suo carattere
nazional popolare, alla presenza forte nel mondo della cultura e alla raffinatezza e competenza degli
ideologhi e dei politici.

Altra brusca frenata per il PCE viene proprio dal rapporto di amicizia e cooperazione con i compagni italiani
e francesi, dopo la fortissima reazione sovietica al libro di Carrillo “Eurocomunismo y Estado”, dove lo
spagnolo polemizzava con l’operato sovietico e teorizzava la possibile strada europea al socialismo.
Berlinguer e Marchais dopo le accuse da parte di Brezniev non presero le parti di Carrillo, isolandolo sia
all’interno del panorama internazionale, sia nel partito cui era il leader. Questo dimostra quanto difficile
fosse da staccare il filo che collegava l’URSS con i partiti europei, i quali nonostante si stessero allontanando
progressivamente dal dogmatismo e si aprissero a soluzioni e teorie inedite, fossero legati da un rapporto
viscerale con la patria del socialismo e quanto l’interesse strategico della vicinanza con l’URSS fosse più
importante che coalizzarsi insieme in chiara opposizione ad essa.

EUROCOMUNISMO E INTEGRAZIONE EUROPEA


Gli anni dell’eurocomunismo vedono sia all’interno dei singoli stati, sia in ottica sovranazionale l’obiettivo
da parte dei partiti comunisti di legittimarsi e di dialogare con le altre forze. Da dei partiti storicamente
avversi all’integrazione europea essi iniziarono ad accettare anche le istituzioni comunitarie e a volerne fare
parte rispettando le competenze ad esse designate e i fini. Questo processo che vedrà la cristallizzazione
negli anni dell’eurocomunismo inizia già 10 anni prima, con l’entrata nel parlamento europeo ancora non
elettivo di una delegazione di comunisti italiani presieduti da Giorgio Amendola.

All’inizio degli anni 70 il PCI vedeva l’Europa come una possibile terra di mezzo nella politica dei due
blocchi, che potesse attraverso la sua mediazione aprire il dialogo e la cooperazione tra gli USA e L’URSS.
“Un’Europa Occidentale democratica, indipendente e pacifica, che non sia ne antisovietica ne
antiamericana ma si proponga di stabilire rapporti di amicizia e collaborazione con questi e con tutti gli altri
Paesi”. Quindi non vedeva l’Europa chiaramente all’interno della sfera di influenza occidentale ma anzi la
vedeva come una zona di cooperazione debole «dagli Urali all’atlantico», inserendo quindi anche L’unione
Sovietica nella cooperazione europea.

Negli anni dell’eurocomunismo ci fu un ulteriore passo in avanti e dalla cooperazione debole si progredì
all’accettazione da parte del partito italiano e spagnolo dell’integrazione. L’obiettivo era quello di entrare
legittimamente nelle comunità europee e attraverso l’operato interno modificarne gli obiettivi.
Accettarono inoltre l’elezione diretta dell’assemblea legislativa, “per dotarla di piena effettività e
rappresentanza democratica, per legittimare e ampliare la sua funzione in seno dell’integrazione europea”.
Berlinguer e Carrillo sono anche favorevoli all’integrazione monetaria ed economica, per guidarla
dall’interno e per renderla favorevole alle classi lavoratrici. Si resero conto delle difficoltà economiche degli
anni 70 e cercarono di trovarne una soluzione sovranazionale, operando nella sfera europea e
legittimandone le finalità.

Situazione differente invece per il partito comunista Francese che a causa della forte tendenza nazionalista
non accettò l’integrazione europea nonostante comprendesse che fosse impossibile risolvere problemi
economici internazionali soltanto operando nel proprio paese. Per questo motivo non accettò il parlamento
europeo come organo legislativo, ma soltanto come organo di rappresentanza dei popoli europei. Il PCF
vedeva l’Europa come un compromesso incontrovertibile che però non doveva essere ampliato. Le
decisioni in materia economica dovevano essere prese solamente nel consiglio, dove ogni stato doveva
difendere gli interessi nazionali.

Nelle prime elezioni del parlamento europeo del 1979 ci fu la convergenza del partito italiano, francese e
danese nel gruppo parlamentare “gruppo comunista e apparentati” che risultò il quarto gruppo per numero
di seggi. Il presidente di questo gruppo parlamentare fu Giorgio Amendola e il vicepresidente fu Altiero
Spinelli, eletto come “indipendente di sinistra” e padre fondatore delle comunità europee. La sua visione
dell’integrazione europea non combaciava con quella del gruppo comunista, infatti lui spingeva fortemente
per un’Europa federalista, aveva il desiderio di aumentare il potere parlamentare e quello di creare una
“costituente Europea”.

RAPPORTI USA /URSS CON L’EURCOMUNISMO


Il fenomeno eurocomunista, figlio del disgelo dei rapporti USA/URSS si pone come superamento almeno
programmatico della politica della divisone in blocchi. Questo si può notare con l’accettazione del patto
atlantico e nella concezione dell’Europa, vista non come allineata del blocco occidentale, ma come zona di
mediazione tra le due superpotenze. Chiare le parole di Enrico Berlinguer, il quale auspicava nel futuro
prossimo uno scioglimento dei blocchi e “un’Europa occidentale democratica, che non sia ne
antiamericana ne antisovietica, e che costituisca un fattore di pace e di sicurezza per tutto il mondo”. Tutto
ciò doveva svilupparsi in maniera graduale e non ponendo la dissoluzione dei blocchi come fondamentale
per la cooperazione ma esattamente il contrario.

L’obiettivo dei partiti comunisti di rafforzare la distensione portò però a risultati opposti. Furono infatti un
fattore destabilizzante per la politica interna dell’occidente, soprattutto il PCE con il suo programma di
rottura con il PCUS, le critiche all’Unione Sovietica e le spinte verso una separazione da essa. Ciò spiega
l’opposizione di Henry Kissinger all’eurocomunismo: la sua visione statica della distensione come
congelamento dello status quo era concepita al fine di stabilizzare la vita politica di est e ovest. In questo
egli si trovava d’accordo con il Cremlino, che a sua volta, dal 1977 in avanti, attaccò aspramente
l’eurocomunismo e soprattutto Santiago Carrillo.

Oltre al motivo geopolitico della divisione in blocchi l’URSS osteggiava fortemente l’eurocomunismo a causa
dell’affievolimento dei rapporti di cooperazione e di indirizzo dei partiti comunisti europei; in particolare
aveva paura di perdere il ruolo di guida ideologica e politica dei partiti comunisti mondiali. Bisogna quindi
ricordare la differenza concettuale tra “via nazionale al socialismo” che non presuppone un’avversità
ideologica con Mosca e un “modello di socialismo” diverso da quello imposto dai 21 punti di Lenin a tutti i
partiti comunisti mondiali. Oltre a ciò credeva che la politica accomodante dei partiti europei
all’integrazione europea e all’auspicato ruolo dell’Europa quale mediatore tra USA e URSS potesse portare
a inglobarli in un ordine antisovietico.

Forte fu la reazione del PCUS contro “Eurocomunismo y estado” di Carrillo, il quale da leader
eurocomunista meno legato al rapporto con l’Unione Sovietica scrisse un manifesto politico della nascente
coalizione europea in rottura con i dettami sovietici e prendendo posizioni dure a quelle rispetto all’operato
e alla mancanza di libertà e diritti in unione sovietica. Questo portò all’isolamento di Carrillo non solo dalla
base del suo stesso partito, ma anche con gli altri leader europei, che non fraternizzarono con lui per
approvare l’accusa sovietica. Quindi l’URSS ha un ruolo fondamentale sulla fine del progetto eurocomunista
e proprio la sua opposizione latente e poi palese è stata una dei motivi di fallimento del progetto.

Come anticipato in precedenza il segretario di stato USA Henry Kissinger era fortemente critico
dell’eurocomunismo, definendolo un processo destabilizzante dell’ordine costituito e un tentativo di
modificare la politica della divisione in blocchi, legittimando i partiti comunisti a essere soggetti
politicamente influenti nelle democrazie occidentali. Inoltre le dinamiche interne alle singole nazioni, nello
specifico il compromesso storico italiano e l’alleanza con il PS in Francia poneva il PCI e il PCF nell’ambito
di essere dei partiti facenti parte attivamente del governo del loro paese, una possibilità categoricamente
esclusa dagli USA e dalla politica di divisione in blocchi. Sempre nell’amministrazione USA c’era chi, come il
segretario di Stato del governo Carter, Cyrus Vance, che vedeva l’eurocomunismo favorevolmente, in
quanto delegittimante della potenza sovietica in occidente.

Inizialmente la strategia statunitense nei confronti dell’eurocomunismo fu quella di ”non interferenza ma


non indifferenza.” Carter prese le distanze dagli affari europei, convinto che i paesi europei fossero
democrazie mature, in grado di occuparsi di se stesse, e si interessò prevalentemente del Medio Oriente.
Proprio in questo periodo ci fu il tentativo italiano e spagnolo di dialogo con l’amministrazione Carter;
numerosi sono i viaggi nel 76-78 di Santiago Carrillo e Giorgio Napolitano negli States. Carrillo non verrà mai
ascoltato dai delegati del presidente, ma affascinerà molto il mondo accademico facendo molte lezioni nei
maggiori atenei statunitensi per mostrare la bontà del progetto eurocomunista. I francesi del PCF più per
motivazioni nazionalistiche che per divergenze politiche non seguirono la strada dei compagni italiani e
spagnoli.

Riguardo il patto atlantico le posizioni dei leader non sono accomunate: da un lato Berlinguer aveva
accettato la Nato e anzi la vedeva come opportunità politica per sviluppare la propria via al socialismo
senza condizionamenti sovietici. Carrillo aveva accettato anche la presenza di basi Nato sul territorio
spagnolo, ipotizzando una smobilitazione di esse soltanto quando le basi sovietiche negli stati del patto di
Varsavia fossero state smobilitate. Marchais, rispettando i caratteri sui generis del PCF premeva fortemente
sull’uscita dall’alleanza, nonostante fosse stata accettata temporaneamente per trovare un accordo
nell’union de la gauche con i socialisti di Mitterrand.

Dalla strategia di “non interferenza ma non indifferenza” si passa successivamente a una piena opposizione
dell’apertura ai comunisti al governo e al dialogo con i partiti della strategia europea al socialismo. Un
primo segnale di ciò si ha nella dichiarazione del Dipartimento di Stato dell’aprile 1977, dove si dice:
“La nostra capacità di lavorare insieme ai Paesi dell’Europa Occidentale riguardo questioni di vitale
importanza, potrebbe essere menomata se questi governi giungessero ad essere dominati da partiti politici
le cui particolari tradizioni, valori e pratiche sono estranei ai fondamentali principi democratici.” Nonostante
l’apertura ai principi democratici dei partiti comunisti gli USA vedevano nell’eurocomunismo solo una
strategia di facciata, vedendo opportunismo politico più che sincero scrollamento dell’influenza sovietica. E’
il preludio ad una nuova dichiarazione del Dipartimento di Stato che nel gennaio ’78, rende noto che la
partecipazione dei comunisti ad un governo occidentale è ritenuta un problema fondamentale per
l’avvenire stesso dell’Alleanza Atlantica.

In realtà questa chiusura a ruoli governativi da parte degli USA era indirizzata alla situazione italiana, dove il
PCI aveva chiarissime possibilità ,attraverso il compromesso storico, di entrare nel gruppo di governo.
Anche il PC francese attraverso l’union de la gauche aveva possibilità di governare con i socialisti, ma
l’ingerenza statunitense fu minima in quanto il peso politico del partito di Marchais era minore rispetto a
quello di Berlinguer e la figura di Mitterand era capace di sottomettere le istanze comuniste alle proprie.

FINE DELL’EUROCOMUNISMO
Nonostante il carattere fortemente di rottura con la tradizione comunista ortodossa, l’accettazione del
pluralismo, della democrazia, delle libertà e dell’integrazione europea l’ipotesi eurocomunista dura
soltanto fino al 1978. Le motivazione della fine della cooperazione tra i partiti comunisti sono molteplici.
Una di queste è la già citata mancata fraternizzazione del PCI e del PCF nei confronti di Carrillo “reo” di aver
anticipato i tempi scrivendo un libro di rottura con l’URSS.

Anche il rapporto con l’URSS e l’influenza che essa aveva con i partiti occidentali un’altra chiara
motivazione del fallimento dell’eurocomunismo. Marchais, sempre stato il componente più inaffidabile,
ripiega sotto l’ala del Cremlino abbandonando non solo la convergenza con i partiti europei, ma anche
l’Union de la Gauche con i socialisti, vista l’erosione dell’identità distintiva del suo partito e le misure
impopolari che avrebbe preso al governo, tornando a essere il partito ortodosso e filosovietico degli anni
precedenti. Anche il PCI nonostante fosse il partito guida del movimento tornerà sotto l’ombra di Mosca e
abbandonerà la possibilità di seguire una strada diversa da quella indicata da Brezniev. Una prima chiara
rottura con l’URSS da parte del leader Berlinguer ci sarà soltanto 3 anni dopo, fraternizzando con i polacchi
di Solidarność e accusando Mosca.

Oltre a questi motivi “esogeni” un’altra motivazione fu l’assenza di uno sviluppo concreto e a lungo termine
del progetto e la mancanza di una linea comune per proporre insieme un progetto di comunismo differente
da quello sovietico. Ciò è riscontrabile anche nel gruppo europarlamentare, che non si presentò con una
linea univoca, ma con singole linee di pensiero per ogni partito nazionale, che appariranno inconciliabili nel
complesso.

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Griffith William, L’Eurocomunismo sarà il terzo grande scisma comunista? La rivalità tra U.R.S.S. e U.S.A.
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L’amministrazione Carter e l’eurocomunismo Irwin Wall

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