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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in

Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche

Dalla “smemoratezza” del nonsense alla poesia del ricordo:


Toti Scialoja poeta e pittore

Tesi di laurea in

Poesia italiana del Novecento

Relatore: Prof. Niva Lorenzini


Correlatore: Prof. Luigi Weber
Presentata da Giulia Del Signore

Sessione
Estiva

Anno accademico
2015-2016
Dalla “smemoratezza” del nonsense alla poesia del ricordo:
Toti Scialoja poeta e pittore

Introduzione p. 4

Capitolo I
Toti Scialoja e il nonsense italiano p. 10

I.1 Preistoria dei Versi del senso perso p. 13


I.2 Il trionfo del nonsense in accezione italiana p. 19
I.3 Poeta senza morale p. 25
I.4 La semplice complessità delle parole-melagrane p. 30

Capitolo II
“Ut pictura poësis” p. 42

II.1 Toti Scialoja e il dialogo con la pittura p. 46


II. 2 Scrittura e pittura p. 71

Capitolo III
Il carnevale della mosca. Le poesie degli anni Ottanta p. 76

III. 1 Dai “paesaggi di parole” ai Paesaggi senza peso p. 81


III. 2 Il terzo Scialoja p. 101

Conclusioni p. 126

Bibliografia p. 129
Prima di essere segno la pittura è ineluttabile scaglia fisica, strato
tangibile: è calce, è gesso, è stucco, è canapa, è resina, è polvere, è
smalto, è grumo.
È insomma fibra e poro.

Toti Scialoja

La poesia è un giuoco. E’ – anche – un giuoco. La poesia è sonorità,


fonemi, altrimenti sarebbe prosa. La poesia è un altro modo di
esprimersi, non attraverso le parole della prosa, cioè della
conoscenza. E’ un modo di esprimersi, invece, attraverso le parole
della non conoscenza, della follia, del sogno, dell’evasione, del nulla,
del rapporto con la morte, con la vita.

Toti Scialoja

«Poeta» è la versione alticcia, stralunata, sul demente e nasconderella dello «scrittore».


Se lo scrittore scrive – càpita – il «poeta» ascolta; cammina tra le sillabe, inciampa nelle
allitterazioni, sdrucciola sui parossitoni, è il cavalier servente delle consonanti, il cicisbeo delle
vocali, cui è affidata la delirante gloria delle rime.

Giorgio Manganelli
Introduzione

Qual è il modo giusto per parlare di Toti Scialoja, figura di artista totale che, nel
Novecento, rappresenta un unicum nella storia dell’arte italiana? Chiariamo subito
che dicendo arte intendiamo le due arti della pittura e della poesia, entrambe
magistralmente esercitate da Scialoja lungo l’arco di tutta una vita.
Ecco. Forse il modo giusto per parlare di questo personaggio è partire dalla
consapevolezza che quella di Toti Scialoja è una vita dedicata all’arte, nel senso
che la sua arte nasce dalla necessità che egli prova di esprimere, di trasmettere, di
lasciare un segno della realtà che vive. Lunghe riflessioni sono dedicate dallo
Scialoja pittore proprio alla realtà. Cos’è la realtà? Come si può esprimere un
concetto così astratto e così profondamente diverso per ogni individuo?
La risposta di Scialoja è che ogni uomo può esprimere solamente la propria realtà
personale, attraverso la rappresentazione della propria vita, con la maggiore
onestà possibile, trasmettendola visceralmente e con sincerità.
Questo è quello che l’arte di Scialoja mette in pratica, già dai primi versi satirici
scritti in famiglia quando era piccolo ed era grande in lui la vocazione alla poesia,
messa temporaneamente da parte per dedicarsi unicamente alla pittura e alla
sperimentazione pittorica.
Dopo un esordio figurativo sulle tracce della cosiddetta “Scuola Romana”, in
Scialoja si fa incontenibile la necessità di trasmettere se stesso sulla tela, di
trasferire sulla canapa il gesto della pittura, di lasciare una traccia del proprio
passaggio che sia visibile agli occhi di un osservatore esterno. Nel 1940, anno
della sua prima esposizione personale a Genova, Toti è ancora artista figurativo
ma scrive parole dense di sensualità parlando di cosa è la pittura: «è come un
sudore luminoso e terribile che nasce dall’uomo»1, la ricerca pittorica di questo
periodo è tutta rivolta a cercare di trasmettere al quadro questo sudore, questa
pulsione emotiva e vitale. È un periodo di crisi per Scialoja, crisi che sarà superata
con l’approdo all’Espressionismo astratto. A quest’arte Scialoja era arrivato dopo
aver vissuto alcuni mesi a New York, nuova capitale mondiale dell’arte. Qui il
contatto con l’action painting gli aveva rivelato che c’erano modi non ancora
canonizzati di affrontare la tela, che, come faceva Pollock, comincia a essere da

1
T. Scialoja, Dialogo triste, in “Il Selvaggio”, Anno XVII, n. 4-5, 1940, p. 2.

4
Scialoja inchiodata a terra e riempita di colore dall’alto e non più con il pennello
ma con lo straccio, in modo che la penetrazione dell’artista nell’opera fosse anche
fisica:

attraverso le viscere dello straccio che stringo tra le dita e sento muoversi e
resistermi, attraverso questo mezzo aggrovigliato e inzuppato di colore tanto che
l’intera mano mi si bagna fino al polso, mi pare di vivere immerso. Affondare il
braccio finché è possibile nello stagno e palpare alla cieca le radici e la melma
del fondo. Invisibile, in quel buio originario, ma tangibile, decifro il fondo
concreto dello spazio, stabilisco una comunicazione interamente fisica, anche a
costo di sprofondare e di insabbiarmi.2

Lo scritto è tratto dal Giornale di pittura, una sorta di diario che serve all’autore
per comunicare con la propria arte e attraverso il quale è per i suoi lettori, fruibile
il pensiero dell’artista. Le pagine più cariche di pathos sono quelle che
corrispondo a periodi di crisi artistico-intellettuale o al loro superamento. Quella
di Scialoja è infatti una carriera che, possiamo dire, procede per grandi salti in
avanti, ogni salto è dovuto a un periodo che getta l’autore in crisi e lo spinge a
superarla. Così nel periodo in cui da figurativo era diventato espressionista
astratto, era cambiata la disposizione della tela e il mezzo di pittura e al colore,
con uno stratagemma suggerito dall’amico pittore Burri, era stata aggiunta colla
vinilica, così da incrementare l’effetto denso e materico che avrebbe avuto l’opera
(tanto che pare ossimorico definire astratta un’opera così densa di fisicità).
All’Astrattismo Scialoja era arrivato proprio nell’ottica della trasparenza e della
trasmissione della propria realtà che riteneva prerogativa fondamentale per fare
arte. La pittura astratta permette alla libera gestualità del braccio, del polso, della
mano, di trasmettere sulla superficie rendendole visibili, le pulsioni più intime del
pittore. È attraverso il gesto che spalmerà sulla tela più o meno colore, più o meno
strati di colore, che le emozioni dell’autore emergono.
È un’altra crisi, alla fine degli anni Cinquanta, a portare Scialoja alla creazione
delle Impronte attraverso le quali riesce a «concretizzare l’Espressionismo
astratto». Le Impronte, ottenute attraverso la tecnica dello stampaggio cui l’autore
era arrivato, come afferma lui stesso, per caso, sono le opere che, più di tutte le

2
T. Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 9.

5
altre, caratterizzano la sua pittura; in esse si concretizza visibilmente il
sentimento del tempo e con questo la materialità e la concretezza delle pulsioni
delle sensazioni del loro artefice che, nel contatto fisico con la tela e il colore,
riversa le proprie angosce, i propri desideri, le proprie ansie. In quasi vent’anni di
attività era già riuscito in parte a realizzare il suo progetto artistico che prevedeva
il mettere a nudo se stesso nell’opera, «confessarsi» in essa ma con le Impronte
riesce a rendere visibile il “momento della pittura”, nel senso che la tecnica con
cui le impronte vengono realizzate permette di catturare l’istante stesso della
creazione.
Il tempo visibile è quindi solo quello che riproduce il momento di pittura, quel che
resta visibile a lungo però è l’uomo, la realtà dell’uomo che quel quadro lo ha
dipinto, che attraverso il dare colore in maniera lieve o pesante trasmette allo
spettatore notizie di sé, serenità o malinconia o rabbia. Nelle sue opere pittoriche
Toti Scialoja riesce davvero a realizzare il progetto di trasmettere la realtà
attraverso l’opera, ma riesce altrettanto bene in questo progetto con la sua opera
poetica.
Giovanni Raboni dedica alle «due anime di Toti Scialoja» un saggio,
pubblicato sul catalogo dell’esposizione curata da Barbara Drudi Toti Scialoja.
Carte e carteggi tra pittura e parola, svoltasi al museo Virgiliano di Mantova nel
2000. In questo lavoro vedremo come non c’è un’anima che prevalga sull’altra, il
pittore e il poeta portano avanti contemporaneamente il progetto dell’uomo che le
incarna entrambe.
La poesia si riaffaccia nella vita di Scialoja in un nuovo momento di crisi.
Mentre si trova a Parigi e cerca una svolta allo stallo in cui la pittura di Impronte
lo ha condotto, trova rifugio nella parola. E così la poesia, che da sempre aveva
fatto parte della sua vita, si ripresenta all’uomo adulto nel 1961, scaturita dalle
suggestioni di due autori inglesi molto amati quando era piccolo, Lewis Carroll e
Edward Lear. E mentre si trova a Parigi e ha già quasi cinquant’anni, Toti Scialoja
inizia a scrivere poesie nonsense, dedicandole a un bambino di sei anni, suo
nipote James Demby, e a una donna adulta, sua moglie Gabriella Drudi. Ma il
poeta dice di essere lui stesso un bambino che scrive poesie: «la mia infanzia sono

6
io»3 e come poteva essere altrimenti per un artista il cui scopo è comunicare la sua
personale verità?
Le prime poesie nonsense aldilà delle apparenze giocose, si inseriscono
perfettamente nel discorso che vale per le opere d’arte, nel progetto cioè che vuol
far coincidere arte e vita. L’infanzia apparente dei nonsense degli anni Sessanta è
un gioco per il bambino che ancora vive nello Scialoja adulto, pittore così
profondo e concettuale: «sono io stesso un bambino che scrive poesie»4 dice il
poeta commentando i suoi componimenti.
Alla poesia nonsense Scialoja si dedicherà per circa un ventennio,
riscuotendo molto successo di critica per quei versi che dal ’71 vengono
pubblicati nelle collane per ragazzi di case editrici come Bompiani o Einaudi. In
questi anni la sua pittura non aveva visto ancora arrivare la tanto sperata svolta
che si verificherà negli anni Ottanta, precisamente nel 1982, dopo un viaggio a
Madrid in cui Scialoja ebbe modo di vedere le Pitture nere di Goya della Quinta
del sordo. Negli anni in cui aveva scritto nonsense verse la sua pittura aveva visto
un irrigidimento della forma e del gesto fino all’arrivo delle Quantità cromatiche,
in cui il colore è dato sulla tela in rigidi gesti verticali. Sembra quasi che alla
libertà trovata con la scrittura di poesie e le corrispondenti illustrazioni coincida
un irrigidimento dal punto di vista artistico. Questo equilibrio è tuttavia destinato
ad essere capovolto.
Nel 1976, in occasione di un convegno letterario svoltosi a Orvieto, Scialoja
venne definito da Antonio Porta “vero poeta”. Questa definizione fu per lui
decisiva, smise di fare poesie per l’infanzia e quindi di essere un bambino che
scrive poesie. Al bambino dei nonsense si sostituisce un uomo che porta nei versi
tutto il peso e la drammaticità dell’età adulta. Il gioco di allitterazioni e omofonie
continua nelle prime raccolte per adulti, ma l’ironia si fa più salace e aspra, le
tematiche più cupe. Arriva nelle poesie di Scialoja, con quasi venti anni di ritardo
rispetto alla pittura, il sentimento del tempo. Dai libri di poesie scompaiono i
disegni, al settenario usato fino al 1991, anno di edizione de I violini del diluvio, si
sostituisce un metro antico, che Scialoja aveva recuperato, attraverso Pascoli,
dalla tradizione letteraria più antica: l’esametro.

3
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, in Animalie, disegni con animali e poesie, Grafis, Bologna
1991, p. 33.
4
Ibidem.

7
L’esametro, somma di un ottonario e un novenario, con le sue diciassette sillabe è
più efficace alla trasmissione dei pensieri dell’uomo adulto che avverte la
necessità di raccontarsi attraverso un metro narrativo:

I vecchi vogliono raccontare, raccontare la vita che hanno fatto, i loro ricordi, i
pensieri lontani; e così la poesia ha avuto bisogno di un verso lungo, un verso
lento, con cui io potessi proporre la mia memoria. Ed il verso più antico, più
lento e più sublime è l’esametro, che ho scoperto leggendo i versi nella
traduzione pascoliana di Omero.5

La smemoratezza di senso dei nonsense viene sostituita dalla necessità di


ricordare, un bisogno che l’uomo poeta trasmette nei suoi versi che cominciano a
rientrare in uno schema ritmico molto più rigido dei primi componimenti, costretti
in un serrato rigore metrico in cui non compaiono più gli animali fantastici del suo
bestiario.
A questo irrigidimento nella poesia, in pittura corrisponde invece un ritorno alla
libera gestualità ritrovata grazie alle opere di Goya a Madrid:

Tornare al gesto, al gesto unico, al grande gesto automatico che annulli l’altro da
sé - la prigione. 6

Torna in pittura la libera espressività del gesto mentre la poesia prende una piega
autobiografica che rende possibile all’autore, ancora una volta, di mostrarsi in
maniera trasparente ai suoi lettori, rendendo visibile, o leggibile, la necessità
sempre dichiarata, di un’arte interna alle ragioni dell’uomo.

5
T. Scialoja, Una rapida luce segreta, intervista telefonica a cura di Ivan Crico trascritta nel suo
blog https://rebstein.wordpress.com/2009/09/19/una-rapida-luce-segreta-di-ivan-crico/
6
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 181.

8
Questo lavoro si sviluppa in tre capitoli nei quali sono stati analizzati i diversi
tempi poetici e i differenti linguaggi artistici del poeta-pittore.
Un primo capitolo è dedicato allo studio dei cosiddetti nonsense per l’infanzia,
alla loro preistoria poetica e alle condizioni necessarie, secondo Scialoja, per
scrivere le poesie del senso perso. Lo studio procede, nel secondo capitolo,
passando per la pittura di Scialoja esaminata attraverso l’autoanalisi svolta dallo
stesso pittore nel Giornale di pittura. L’ultimo capitolo è dedicato alle raccolte
poetiche pubblicate dal 1976 al 2002 esaminate nei loro aspetti di continuità e di
innovazione rispetto alla poesia nonsense per l’infanzia, che costituisce un primo
tempo poetico, e tra i due periodi creativi che è possibile delineare
successivamente alla svolta “seria” della poesia di Scialoja, inaugurata, appunto,
nel 1976 con La stanza la stizza l’astuzia (cooperativa scrittori).

9
Capitolo I
Toti Scialoja e il nonsense italiano

A una prima lettura può venire immediato associare i versi di Toti Scialoja a
poesie infantili, create per i bambini e che non vanno al di là del gioco di parole.
Un giudizio però senz’altro affrettato, favorito dalla scelta dei personaggi che
popolano i testi, che sono per lo più animali colti nella loro vita privata o pubblica
durante lo svolgimento di faccende quotidiane antropomorfizzate come preparare
il tè o lavare le tazze:

Sotto un cespo di rose scarlatte


offre il rospo tè caldo con latte.
Dietro un cespo di rose paonazze
tocca al rospo sciacquare le tazze.1

Senza dubbio un rospo che offre il tè e sciacqua le tazze dei suoi ospiti al ritmo di
rima baciata rimanda alla composizione per bambini tipica delle filastrocche, ma
c’è un livello di analisi più sottile nella quartina. Come avremo modo di
approfondire nel corso di questo lavoro, Toti Scialoja rivolge le sue poesie a due
tipi di pubblico: ai bambini, certamente, ma senza mai escludere gli adulti. Nel
componimento proposto, un lettore colto riesce a cogliere l’eco di un poeta che
Pier Vincenzo Mengaldo definisce «attratto dalla superficie colorata del mondo»2:
Corrado Govoni. Le rose “scarlatte” e “paonazze” che fanno da colorato scenario
al “rospo” di Scialoja paiono immagini prese in prestito dai componimenti di
Govoni, poeta che fa delle cose il soggetto delle sue poesie, eliminando l’io lirico
dai suoi testi, tanto da essere considerato un «naïf esterno alla storia», come lo
definisce Niva Lorenzini3. Nei suoi testi si accumulano oggetti caratterizzati dai
colori; ne risulta una poesia-immagine, in cui l’attenzione del lettore si ferma sui
semplici oggetti quotidiani e su questa visione la lirica si conclude, lasciando nel
lettore una sensazione di sospensione, come accade con la peonia dei Ventagli
giapponesi che crea intorno a sé il vuoto, o come in Crepuscolo, sempre della

1
T. Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, Torino 2009, p. 154.
2
P. V. Mengaldo (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 2010, p. 5.
3
N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 1999, p. 43.

10
raccolta Le fiale, che si chiude con una splendida similitudine tra il momento
culmine del tramonto e il fenomeno naturale dell’eruzione di un vulcano:

Il crepuscolo è un fulgido Vesuvio


che trabocca del sangue incandescente
di milioni di morti tulipani.4

Piuttosto che poesie per bambini, quelle di Scialoja sono poesie riconducibili
a un genere nato in Inghilterra, il nonsense, che ha precedenti in Edward Lear,
inventore del limerick, e in Lewis Carroll, professore di matematica creatore del
meraviglioso mondo di Alice in wonderland.
Il nonsense è un genere che in Italia arriva per la prima volta alla sua piena
realizzazione proprio attraverso i giochi di parole di Scialoja. Alessandro
Giammei, nel suo libro Nell’officina del nonsense. Topi, toponimi, tropi,
cronotopi5, riporta – ritenendolo inesatto – quanto affermato Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, celebre autore de Il Gattopardo, che, in Letteratura inglese, scriveva:

La letteratura italiana è la più seria delle letterature. Un libro che sia nello stesso
tempo ben scritto e umoristico si può quasi dire non esista. Siamo costretti a
fingere di sbellicarci per l'umorismo con il quale è disegnato Don Abbondio e a
trovare Ariosto divertentissimo. L'italiano, se gli capita un guaio, non ci ride mai
sopra: sale sullo scoglio di Leucade e impreca contro i fati. […] In Inghilterra lo
scrittore comico ha da circa cento anni scelto la strada del nonsense, della cosa
scritta che non ha senso alcuno, formata da un (apparentemente) fortuito
accozzamento di associazioni le quali, suscitando una serie di immagini disparate,
riescono ad un effetto talvolta fortemente umoristico 6.

Quest’analisi critica è stata contraddetta da altri studiosi, tra questi i


partecipanti a un convegno letterario svoltosi a Cassino nell’ottobre del 2007, che

4
P. V. Mengaldo (a cura di), Corrado Govoni, in Poeti italiani del Novecento, Mondadori,
Milano 2010, p. 9
5
A. Giammei, Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja. Topi, toponimi, tropi, cronotopi,
Edizioni del Verri, Milano 2014.
6
G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura Inglese, in Opere, Mondadori “I Meridiani”, Milano 2004,
pp. 1259-1260. In Letteratura Inglese sono raccolte le lezioni che inizialmente avevano come
unico destinatario Francesco Orlando, cui Tomasi di Lampedusa si era offerto di insegnare
l’inglese e la sua letteratura. Nelle lezioni lo scrittore ripercorre la storia della letteratura inglese
attraverso i suoi più grandi capolavori dalle origini al Settecento.

11
aveva come tema proprio il nonsense. Il loro scopo era svolgere indagini «su una
possibile preistoria medievale del nonsense italiano per passare subito alla nascita
“ufficiale” e al trionfo di questa tradizione poetica»7. Già il titolo del convegno
smentisce l’affermazione di Tomasi di Lampedusa: Nominativi fritti e
mappamondi ricalca, infatti, il primo verso di un sonetto del Burchiello, poeta del
Quattrocento celebre per il suo linguaggio assurdo che fece scuola nel genere
nonsense, dando il titolo, appunto, a quei componimenti divertenti proprio per il
linguaggio paradossale adottato dai loro autori, definiti dopo di lui “alla burchia”.
Ciò che Tomasi di Lampedusa invidiava all’Inghilterra, tuttavia, era il nonsense
verse tipico dei limerick di Lear o dei romanzi di Carroll: un nonsense privo di
morale e, ovviamente, di senso, in cui l’effetto comico scaturisce proprio
dall’assenza di scopo o di logica.
Un autore che fa a meno della logica pare essere proprio Toti Scialoja quando
comincia a scrivere le sue poesie nonsense nel 1961, a quasi cinquant’anni. I
nonsense verse che Scialoja compone nel primo decennio del suo esordio poetico
sono da considerarsi dedicati all’infanzia (per quanto labile sia il confine tra
infanzia ed età adulta per il poeta, come vedremo più avanti). Versi del senso
perso è la raccolta che accoglie i brani delle prime opere poetiche dell’autore,
pubblicata nel 1989 per volontà dello stesso Scialoja che motiva la scelta del titolo
della silloge in un’intervista rilasciata nel 1991:

Ho trovato un modo italiano di dire nonsense, che è appunto il senso perso, il senso
che non è mai esistito o pareva che esistesse e poi si è perduto. Perso, anche perché
Versi del senso perso è tutto un gioco allitterativo che appartiene al mio stile, al
mio modo di fare poesia. 8

7
G. Antonelli e C. Chiummo (a cura di), «Nominativi fritti e mappamondi». Il nonsense nella
letteratura italiana, Atti del convegno di Cassino, 9-10 ottobre 2007, Salerno Editrice, Roma
2009, p. 7.
8
T. Scialoja, Riforma della scuola, in 100 Scialoja. Azione e pensiero, Catalogo della mostra
(Roma 28 marzo – 6 settembre 2015), De Luca Editori d’Arte, Roma 2015, p. 81.

12
I.1 Preistoria dei Versi del senso perso

Prima di dedicarci all’analisi dei nonsense italiani di Toti Scialoja sarà utile
soffermarci più da vicino sulle opere dei due autori inglesi che fecero scuola in
questo genere e che Scialoja ha ben presenti quando scrive i suoi versi.
Abbiamo nominato il limerick. Questo titolo è attribuito ai componimenti
che Edward Lear scrisse per divertire ragazzi e bambini, che furono pubblicati a
Londra in due raccolte; A book of nonsense e More nonsense, rispettivamente nel
1846 e nel 1871. I limericks di Lear hanno una struttura fissa che conta cinque
versi in rima tra loro secondo lo schema aabba. Al loro interno animali o persone
stravaganti si trovano in situazioni assurde ed esilaranti e mantengono un
atteggiamento composto e serio, come nel caso del signore di Dumbree che
insegna ai gufi a bere il tè perché mangiare topi non è carino né appropriato:

Nel caso riportato i versi tre e quattro sono stati accoppiati per economia di spazio
ma lo schema che l’autore propone è sempre lo stesso. La costruzione del limerick
rispetta il modello seguente: nel primo verso è presentato il personaggio del quale
Lear ci dice il sesso, dà un’approssimativa età (ci sono old man, old lady, old
person, young girl…) e lo caratterizza con il nome di un determinato paese; nel
secondo verso veniamo a sapere qual è l’azione che il protagonista compie; lo

9
E. Lear, Limericks,
https://www.google.it/search?q=edward+lear+nonsense&espv=2&biw=1242&bih=585&source=ln
ms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwjV6fWWv_zKAhXJfRoKHXCZDjAQ_AUIBigB#tbm=isc
h&q=edward+lear+limerick&imgrc=Q7L-kOXvmbrAdM%3A

13
slancio umoristico si concentra nel terzo e quarto verso il cui senso è compiuto
solo se il distico è letto insieme; nel quinto verso troviamo la conclusione che è
una ripetizione più o meno parziale del primo. All’interno della poesia del
nonsenso Lear ha un estremo bisogno di essere ordinato e schematico; rigido se
vogliamo. È proprio la solidità cristallina del componimento a consentire la
grande varietà di temi e argomenti che sfilano sotto gli occhi dei lettori.
Nei versi del poeta inglese è possibile rintracciare una vera e propria
premessa dei futuri nonsense del nostro autore. Alcune somiglianze sono
lampanti: Lear accompagna tutti i suoi limericks con illustrazioni che ritraggono
la scena descritta dai versi; sono disegni molto semplici, quasi caricaturali. Carlo
Izzo, primo traduttore dell’opera completa di Lear spiega, nell’introduzione al
Libro dei nonsense10, quanto spesso le immagini siano state indispensabili allo
scrittore nel trovare la parola giusta, adatta a una traduzione che non tradisse il
senso del nonsenso pur di trovare un significato, laddove l’unico motivo di
scrittura è proprio l’assurdo. Altra caratteristica dei limericks è la presenza di
toponimi. In ogni limerick i personaggi protagonisti sono definiti attraverso un
nome geografico che non li connota come provenienti dai paesi nominati, ma è
l’unico elemento che li distingue dalla massa, pur garantendogli l’anonimato.
In un articolo pubblicato su “il verri”, la poetessa Milli Graffi a proposito dell’uso
dei toponimi da parte di Lear, scrive:

Lear usa il nome geografico come se fosse una formula magica, […]. (Il nome
geografico) possiede una semanticità oscura che si perde nei tempi sebbene faccia
attivamente e legittimamente parte della lingua; ha una peculiarità forse unica: può
perdere con estrema facilità il significato e restare solo significante. 11

Il toponimo viene meno al compito di indicare un luogo geografico preciso per


divenire guida della versificazione. Lo schema ritmico è stabilito infatti dal primo
verso ed è proprio qui che la formula cristallizzata da Lear vuole si trovi il nome
geografico che, a questo punto, è una parola in funzione del suono. È il gioco
fonetico che stabilisce quali saranno gli «omini di gomma»12 (così definiti da

10
E. Lear, Il libro dei nonsense, Carlo Izzo (traduzione e introduzione a cura di), Einaudi, Torino
1970.
11
M. Graffi, Edward Lear: una logica del nonsense, in “il verri”, Anno I, 1973, p. 121. Corsivo
mio.
12
C. Izzo, nell’Introduzione a: Edward Lear, Il libro dei nonsense, Einaudi, Torino 1970, p. XII.

14
Izzo) protagonisti dei versi, e accanto a questi quali animali costituiranno il
bestiaro dei limericks. Anche le bestie sono scelte per necessità di rima per cui
una “Old Person of Ware” si trova a cavalcare “on the Back of a Bear”,13 o
un’altra “Old Person of Crowle” necessariamente deve vivere “in the Neast of an
Owl”14.

Anche Lewis Carroll è naturalmente presente nella biblioteca di Scialoja, ed


ha un’eco forte nell’autore italiano. Un gioco di suoni e significanti è infatti anche
quello creato nelle pagine del mondo delle meraviglie in cui, letteralmente, cade
l’Alice di Carroll, che teme di finire agli “antipodici” nel suo lungo precipitare. Il
romanzo del professore di matematica pone seri problemi di linguistica, tanto che
è intorno ad esso che il filosofo francese Gilles Deleuze argomenta le sue teorie
sulla Logica del senso, opera in cui presenta i vari paradossi che formano la teoria
del senso:

Che tale teoria sia inscindibile da paradossi è facilmente spiegabile: il senso è


un’entità inesistente, che ha rapporti molto particolari anche con il non senso. Il
posto privilegiato di Carroll deriva dal fatto che compie la prima grande somma, la
prima grande messinscena dei paradossi del senso.15

Non ci interessa in questa sede indagare la logica del senso ma piuttosto verificare
che il meccanismo logico (o illogico) alla base del linguaggio del libro di Carroll
sia lo stesso che adotta Scialoja quando scrive i suoi nonsense. Milli Graffi, già
citata parlando di Edward Lear, è stata tra i primi traduttori di Carroll (e non è
curioso che si sia poi interessata anche ai nonsense di Scialoja?). Secondo la
critica il romanzo carrolliano sfugge ad ogni tipo di regola perché in esso il senso
«si dà come eternamente inafferrabile»16. Emblematico in questo contesto è il
secondo romanzo di cui Alice è protagonista. In Through the Looking-Glass and
what Alice found there il personaggio Humpty Dumpty, protagonista delle
Nursery Rhymes note a qualunque anglosassone, è il signore delle parole, domina

13
E. Lear, Il libro dei nonsense, Einaudi, Torino 1970, p. 312.
14
Ivi, p. 388.
15
G. Deleuze, Logica del Senso, Mario De Stefanis (traduzione e cura di), Feltrinelli, Milano
1975, p. 7.
16
M. Graffi, nell’Introduzione a Lewis Carroll, Alice nel paese delle Meraviglie - Attraverso lo
Specchio, Garzanti, Milano 2015, p. XXIII.

15
su tutte le poesie scritte e su quelle ancora da scrivere. Per lui le parole significano
ciò che è necessario significhino, perdono il loro significato e diventano materia
plastica, significanti adattabili al discorso del parlante:

«Quando io uso una parola» disse Humpty Dumpty con


un certo sdegno, «quella significa ciò che io voglio che
significhi – né più né meno».17

Nel mondo dello specchio il linguaggio è il Jabberwocky, una lingua dalla


struttura sintattica semplice e solida ma in cui le parole sono prive di senso e
sembrano essere significanti puri; una lingua in cui compaiono le portmanteau-
word, che Humpty Dumpty spiega essere parole che racchiudono più significati:

«Be’, viviscidi significa “svelti e scivolosi”. “Svelto” nel


senso di “attivo”. È come un baule, capisci, ci sono due
significati imballati dentro a un’unica parola». 18

L’universo-specchio altera la percezione ordinaria delle cose, anzi la capovolge


completamente, con la minuziosa precisione di un lavoro scientifico (ecco che
emerge il Charles Dodgson professore di matematica di cui Lewis Carroll è lo
pseudonimo). L’enigma della legittimità del possedere senso da parte di una
parola accompagna la piccola eroina per tutta la narrazione.
I due mondi carrolliani propongono un bestiario di animali domestici, esotici,
estinti o inesistenti. Soprattutto per aiutare il lettore ad immaginare questi ultimi,
sono notevoli le illustrazioni che accompagnano il testo dei due romanzi, tutte
opera di John Tenniel. D'altronde come potevano mancare le illustrazioni in un
libro che parla di Alice, che nelle prime pagine del romanzo Alice in wonderland,
guardando il libro che sta leggendo sua sorella, si chiede:

«e a cosa serve un libro senza figure né dialoghi?»19

17
L. Carroll, Alice nel paese delle Meraviglie - Attraverso lo Specchio, (Traduzione e note di)
Milli Graffi, Garzanti, Milano 2015, p. 219.
18
Ivi, p. 221.
19
Ivi, p. 7.

16
La breve analisi compiuta mostra efficacemente quali aspetti Toti Scialoja
prediligesse nei due autori inglesi dell’800; quando il piccolo Toti
nell’Enciclopedia dei ragazzi leggeva i limerick di Lear rimaneva affascinato da
quei versi dominati «dalla logica dell’incongruo», come la definisce Carlo Izzo,
ovvero dalla logica portata avanti fino al suo estremo opposto, l’assurdo. A
proposito dei limericks, Scialoja dichiarava ad Andrea Rauch in un’intervista cui
faremo riferimento più volte:

La mia passione per la lettura, e poi per la scrittura, deriva in gran parte
dall’Enciclopedia dei ragazzi. Su quelle pagine, quando avevo non più di sei anni,
cominciai a leggere i nonsense inglesi di Edward Lear. Divenni un fanatico: amavo
alla follia sia i testi che le illustrazioni. […] Coi nonsense mi sentivo a casa mia,
ero felice. Erano i miei paesaggi. 20

Quando Scialoja da Parigi comincerà a inviare per posta le sue poesie al nipotino
James Demby, non potrà fare a meno di imitare l’autore che lo aveva affascinato
da bambino e alla domanda di Rauch rispondeva:

Quando, nel 1961, ho cominciato a scrivere poesie per il mio nipotino che stava a
Roma (io in quegli anni abitavo a Parigi) non potevo concepire che i versi non
fossero accompagnati da un disegno.21

Nel caso di Scialoja il disegno è il più semplice possibile, deve avere effetto
immediato ed essere chiaro. Le sue sono illustrazioni fatte di pochi segni di biro,
come nel caso dei disegni che accompagnavano le poesie inviate a James Demby,
o realizzati con la china. Sono immagini semplici e richiamano anche queste
l’infanzia, soprattutto per il modo in cui è dato il colore che non riempie lo spazio
di tutto il disegno, ma è dato parzialmente, come se a colorarli fosse stato
veramente un bambino che dopo un po’ si fosse stancato di colorare.
Quanto all’uso dei toponimi, anche nei nonsense italiani questi compaiono nella
gran parte dei componimenti, con la stessa funzione che hanno nei limericks. Nel
caso di Scialoja è più difficile stabilire se a guidare il gioco eufonico sia il nome
geografico o quello di un animale, ma il richiamo tra i due sembra essere una

20
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, in Animalie, disegni con animali e poesie, Grafis,
Bologna 1991, p. 30.
21
Ivi, p. 29.

17
regola: ad Acapulco ci sono le pulci, a Taranto la tarantola; le ostriche a Ostenda,
il nibbio a Gubbio, una starna sulla Marna, lo scarafaggio a Fiuggi e così avanti su
e giù per le città e le specie animali, tanto che viene da chiedersi se sia nata prima
Zara o la zanzara. È questo l’insetto cui Scialoja attribuisce il primo stimolo alla
scrittura dei nonsense e che più volte comparirà nel bestiario scialojano.
Anche il rigore formale cercato e ottenuto da Lear è perseguito dal Nostro che,
pur non facendo rientrare le sue poesie in un vero e proprio schema, sempre
uguale e sempre prevedibile, non lascia mai la metrica al caso. Nella citata
intervista a Rauch, Scialoja continua così:

Io non amo i versi liberi: quelli sì che sono davvero un nonsense. Poesia per me è
un verso convenzionalmente racchiuso in una forma. 22

La metrica dei versi del senso perso è convenzionale e al suo interno è una
regola giocare con le parole, con i loro suoni aldilà dei significati. Sulla scia della
portmanteau-word di Carroll, quella di Scialoja è parola-melagrana, all’interno
della quale i chicchi rossi delle sillabe fanno germogliare altre parole creando dei
veri e propri paesaggi dove tutta la poesia scaturisce dall’analogia dei suoni, non
da un’associazione di significati: è in questo il massimo effetto dei nonsense di
Scialoja, nelle parole che scoppiettano sul fuoco come chicchi di mais per
trasformarsi, con un piccolo pop, in qualcosa di completamente diverso e
altrettanto, se non più, godibile.
Ma ha un senso il nonsense per Scialoja?
In un suo scritto dal titolo Come nascono le mie poesie, pubblicato su “il verri”,
Scialoja dà la sua definizione del genere:

il nonsense è una sorta di logica altra, che procede verso l’assurdo, una
cancellazione del dato cognito.23

La cancellazione di ciò che è noto è la chiave di lettura del nonsense e, se


all’apparenza l’effetto è buffo e richiama l’infanzia, esso vuole essere in realtà
uno stimolo alla riflessione; a chi si sofferma sull’ascolto e non sul primo

22
Ivi, p. 33.
23
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in “il verri”, Anno VIII, 1988, p. 16.

18
significato delle parole si apre un orizzonte di visioni nuove. Superare il primo
impatto con la parola e il suo senso è come riuscire a vedere oltre la siepe che
separa Leopardi dagli interminati spazi e dalla profondissima quiete. La poetica
nonsense è pertinente sia al genere comico che a quello tragico proprio in virtù di
questo ostacolo. Ha due facce, come gli autori di cui ci siamo occupati.
È ancora Giuseppe Tomasi a informare i suoi studenti della serietà che,
aldilà del loro modo di poetare, contraddistingue, nella vita privata, i due autori
inglesi dell’800 di cui parla a proposito del comico:

Re del nonsense verse fu Edward Lear (1812-1888), che fu poi nella vita un uomo
serio, pittore, viaggiatore e financo maestro di disegno della regina Vittoria. […]
Persona ancor più seria di Edward Lear era Charles Dodgson (1832-1898), che era
addirittura professore di matematica al Christ Church di Oxford. Egli è più
conosciuto e amato sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll col quale pubblicò la sua
immortale Alice in Wonderland e Through the Looking-Glass. Questi sono dei libri
interi di nonsense, che narrano le avventure di una bimba sperduta in un mondo
ben più irreale che quello abituale delle Fate. Del resto il matematico vi si rivela
nella precisione rigorosissima del suo nonsense e nelle deduzioni logiche che
conducono alle conclusioni più assurde.»24.

Al profilo di serio compositore di versi assurdi corrisponde il nostro Toti Scialoja


che, come abbiamo premesso, porterà il nonsense italiano al più alto livello sino a
lui raggiunto.

I.2 Il trionfo del nonsense in accezione italiana

Non immediatamente colto come tale, Toti Scialoja è invece poeta nel senso
più autentico, consacrato a Orvieto nell’aprile del 1976 per bocca di Antonio
Porta, poeta e amico del pittore, in occasione di un convegno letterario. Porta aprì
una delle giornate del congresso recitando i seguenti versi:

Il sogno segreto
dei corvi di Orvieto

24
G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura Inglese, cit., p. 1261.

19
è mettere a morte
i corvi di Orte.25

Quattro versi che la presenza della rima baciata e di uccelli come protagonisti fa
associare alla filastrocca, ma che Porta scelse perché li trovava del tutto inerenti al
tema di quelle giornate di riunione in cui si affrontavano gli autori più legati alla
tradizione con quelli della neoavanguardia, che potevano essere identificati con i
corvi dei due diversi paesi. Osserviamo fin da subito qual è il processo che fa
nascere il componimento. Non sappiamo se la poesia sia stata scritta proprio in
occasione del convegno di Orvieto, tuttavia abbiamo già parlato delle parole-
melagrane di cui sono composti i versi di Scialoja. Ammettiamo che l’occasione
di far poesia sia nata pensando proprio al convegno letterario del ’76: in questo
caso, probabilmente, Scialoja avrà giocato con la parola “Orvieto” che ad
eccezione della lettera “C”, contiene già la parola “Corvo”. In “Orvieto” c’è anche
“Orte” ed è facile immaginare un conflitto tra le due vicine città. In “Orte”,
inoltre, risuona chiarissima la parola “Morte”. Trattandosi di spifferare un segreto,
un sogno, si spiega il primo verso che preme sull’allitterazione della “S”
suggerendo un bisbigliare nascosto.
La poesia che lo rende noto ad un pubblico più vasto e colto di quello al
quale Scialoja era solito indirizzare i suoi versi, non nasce in maniera diversa dai
primi componimenti che l’autore, mentre si trovava in Francia nel 1961, scriveva
al nipotino James Demby: versi che erano puro gioco fonetico, brillanti,
divertenti, in grado di entusiasmare il bambino che li riceveva per posta mentre si
trovava a Roma con la zia Gabriella Drudi, moglie di Scialoja e sua vera
destinataria, a quanto afferma il poeta stesso nell’intervista a cura di Andrea
Rauch:

La non puerilità di quelle poesie deriva anche dal fatto che indirizzavo sì le poesie
al mio nipotino ma “segretamente” erano dirette a mia moglie che doveva leggerle
al bambino. Certe furbizie del verso, certi tratti più sottili erano per Gabriella
Drudi, che stava a Roma con il piccolo James. 26

25
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 95.
26
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., p. 32.

20
C’è da chiedersi, con Paolo Mauri: «come avvenne che Toti Scialoja, stimato
pittore e maestro di pittura, divenisse anche poeta?»27. All’epoca delle lettere al
nipotino James, Scialoja si trovava a Parigi per immergersi in una cultura diversa
che lo aiutasse nella sua ricerca creativa (nel 1960 era stato per cinque mesi a
New York). L’esperienza francese fu a suo dire, molto deludente:28 Inoltre
Scialoja viveva isolato, in un paese in cui aveva smesso di parlare italiano e ne
sentiva una forte mancanza, a quanto conferma lui stesso:

Quei primi versi nacquero da una spontaneità incontrollabile. La molla forse fu


fatta scattare dalla lontananza. In quegli anni, i primi anni Sessanta, mi trovavo ad
abitare a Parigi, parlavo francese, pensavo in francese, sognavo in francese. Avevo
finito quasi col perdere il gusto della parola italiana che è tutta corposa e concreta.
Questo rimpianto per la lingua, che mi mancava, e la gioia di trovare un mezzo
adatto per comunicare con il mio nipotino, che stava a Roma, mi spinsero a
scrivere delle poesie “italiane” dove la parola ha un suo peso e peculiari valenze
interne.29

Paolo Mauri, nella prefazione ai Versi del senso perso, riporta, a proposito
dell’esordio poetico scialojano una storiella che al poeta piaceva raccontare:

Toti cammina per la strada, gli occhi a terra. Nella testa sente un suono, lo “zzzz”
della (di una) zanzara. Improvvisamente “vede” la parola (non la zanzara) e subito
comincia a smontarla: dentro la zanzara c’è Zara, ma anche l’incipit di Zanzibar. E
dentro a Zanzibar? Non c’è un bar bello e pronto? È stato lo stesso Scialoja ad
assicurarci che è andata proprio così.30

Così nasce la poesia sulla zanzara di Zanzibar che riporto:

Una zanzara di Zanzibàr


andava a zonzo, entrò in un bar,
«Zuzzerellona!» le disse un tal

27
P. Mauri, Il più crudele dei musi, in Toti Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. V.
28
T. Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 161: “Situazione catastrofica,
fallimentare, della pittura a Parigi.”
29
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., pp. 31-32.
30
P. Mauri, Il più crudele dei musi, cit., p. V.

21
«mastica zenzero se hai mal di mar»31

La struttura delle sue poesie nasce da un metodo puramente linguistico, al


modo dello scioglilingua, della filastrocca e del nonsense. È un gioco, come
suggerisce Barbara Drudi, nipote del poeta, in un suo scritto:

è dunque ai bambini che Toti, quando comincia a scrivere, rivolge le sue poesie;
[…] ai bambini che più degli adulti sanno “stare al gioco”, in questo caso al gioco
linguistico. […] Del resto queste poesie ammaliano senza remore, queste
stravaganze di parole queste “scivolate” sulle vocali, catturano l’immaginazione, e
non solo quella infantile; esse permettono, soprattutto ai bambini, di evadere dal
mondo reale del linguaggio serio e rigoroso, dove i contorni delle cose sono
precisi, non alterabili, dove lo spazio per la fantasia è assai ristretto. Così attraverso
il nonsense, Toti avvia quella comunicazione tra adulti e bambini che tanto gli
preme.32

L’analisi di Barbara Drudi sul senso del nonsense di Scialoja, che consiste a
suo parere nella volontà di mettere in comunicazione il mondo degli adulti e dei
bambini, sembra risolutiva nel dibattito che accolse l’esordio poetico del pittore
Scialoja, uomo di eccellente cultura, facendo registrare una netta divisione in due
schiere, entusiasti e diffidenti. Questi ultimi si domandavano se Scialoja potesse
essere considerato poeta serio o soltanto giocoso e in questo erano figli di Croce,
che commentando i racconti per bambini di Capuana, trovò il modo di eliminare
dalla letteratura nobile tutto ciò che riguardava la letteratura per l’infanzia perché,
per lo studioso:

Lo splendido sole dell’arte pura non può essere sostenuto dall’occhio ancor debole
dei bambini.33

L’autore italiano del nonsense, nell’intervista di Andrea Rauch, difende


invece la categoria dei bambini:

31
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 13.
32
B. Drudi, Nonsense, gioco o esorcismo?, in Animalie, disegni con animali e poesie, Andrea
Rauch (a cura di), Grafis, Bologna 1991, pp. 25-27.
33
B. Croce, Letteratura della nuova Italia, Laterza, Bari-Roma 1964, vol. 3, p. 123.

22
coloro che si occupano di bambini pensano di avere a che fare con dei piccoli
idioti. Il bambino è invece acutissimo, malizioso, angosciato: i suoi meccanismi
psichici sono complessi e tormentati. Purtroppo molti adulti si dimenticano della
loro infanzia e si rivolgono ai bambini come a dei poveri sciocchi.34

Per il poeta l’infanzia non è intesa come un periodo di innocenza ma, come scrive
in Come nascono le mie poesie:

infanzia infera, infernale regno di apparizioni. Terrificante durata, incalcolata


permanenza: il bambino vuole crescere, abbandonare l’infanzia. Infanzia sfrontata,
sfrontata esistenza. Sfrontata perché aliena di morte, sfrontata di morte. Infanzia
senza morte, senza coscienza della morte. Ora la parola della poesia ha per me
questa presenza assente: il suo referente è ogni volta scavato nell’assenza.35

L’unica vera, incontestabile infanzia presente nelle sue poesie è «l’infanzia


delle parole».36 Essa è un luogo privo di tempo e spazio, un luogo senza memoria
in cui all’origine delle parole ci sono i suoni. La poesia si realizza quando diventa
sonora; i suoni delle parole che la compongono sono già tutti racchiusi nella
parola-melagrana sotto forma di cellule sensoriali: le sillabe. La ricerca poetica di
Scialoja è una ricerca sensoriale, ci sono poesie che sono puro suono:

C’è una lepre, a Mestre, a destra,


che rimesta la minestra,
dopo un sorso si fa mesta,
lesta lesta la rovescia
a sinistra, fuori dalla finestra.37

L’allitterazione di dentali e sibilanti suggerisce gesti e movimenti rapidi, ed è una


lepre, animale scattante per antonomasia, a compierli. Scialoja in questo caso fa
un chiaro riferimento ai bambini, capovolgendo un famoso modo di dire: “o
mangi questa minestra o salti dalla finestra”. A saltare dalla finestra è invece la
stessa minestra che la lepre proprio non vuol mangiare.

34
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., pp. 29-30.
35
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, cit., pp. 12-13.
36
Ivi, p.12.
37
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 19.

23
La poesia di Scialoja nasce dal suono, «è la parola che accende l’epifania», 38
scrive il poeta spiegando qual è il processo che si innesca nella sua mente quando
prova l’impulso di scrivere; l’epifania è un fenomeno inconscio ed è l’accesso
inconscio all’essenza della parola che crea il pretesto per scrivere. In Come
nascono le mie poesie Scialoja parla di «inconscio linguistico»:

Come a volte un nome udito per caso, cui non abbiamo prestato alcuna attenzione
ci fa sognare quella persona tutta la notte, così nelle sillabe di una parola vi sono
nozioni, suggerimenti, allusioni che sfuggono al nostro io cosciente, ma che
oscuramente operano, creando risvegli e apparizioni. Una sorta di inconscio
linguistico.39

Per apprezzare il nonsense, vuole dirci Scialoja, bisogna mettere da parte i


pregiudizi e le proprie conoscenze e farsi guidare dall’inconscio; proprio come per
capire il Grammelot, il linguaggio scenico che riproduce alcune proprietà del
sistema fonetico di una lingua ma non articola parole sensate, così come lo spiega
in un suo spettacolo l’artista Dario Fo:

Molti di voi saranno convinti di poter ascoltare e capire, capiranno alcune parole e
cercheranno di capire il tutto. Ecco: coloro che cercheranno di inoltrarsi in questo
ginepraio veramente si troveranno sconfitti e alla fine non riusciranno a capire più
niente; mentre coloro che si affidano soltanto alla propria fantasia, che non
conoscono il lombardo e non si peritano di scoprirlo, capiranno tutto, e
spiegheranno agli altri che conoscono il lombardo quello che io ho raccontato.
Questa sera è il trionfo dell’ignoranza!»40.

In un brano dal titolo Infanzia e Nonsense, voglia dell’Intangibile, Scialoja


analizza il rapporto tra il bambino e la parola. Per il bambino questa è un enigma
irrisolvibile, è assenza di senso, il suo significato è ignoto:

Elemento primo del gioco è la parola. In questo senso si potrebbe riconoscere che
la parola è persino il primo gioco – il gioco originario – anche in ordine di tempo.
La parola è udita e ascoltata da lui (il bambino), incessantemente, gratuitamente,

38
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, cit., p. 13.
39
Ivi, p. 11.
40
D. Fo, Grammelot: la fame dello Zanni, dallo spettacolo teatrale Mistero Buffo recitato al Teatro
Lirico di Milano nel 1991.

24
fin dalla nascita. […] Enigma tuttavia resta, la parola, in quanto seguita a riferirsi a
sostanze del mondo adulto. 41

Per questo il poeta arriva ad ammettere che «Si potrebbe dire che la poesia
nonsense è la poesia esclusiva dell’infanzia»,42 perché il bambino, ignorando il
significato delle parole, è naturalmente posto nella condizione di non cercarvi un
senso, l’adulto ha invece l’ostacolo del senso da superare per cercare di non dar
significato a ciò che un significato semplicemente non lo vuole avere.
Che i nonsense verse di Scialoja siano esclusivamente dedicati all’infanzia è
tuttavia assolutamente da escludere, e nel paragrafo che segue approfondiremo
perché.

I.3 Poeta senza morale

Caratteristica imprescindibile della letteratura per l’infanzia è la sua valenza


educativa; la letteratura per bambini ha sempre e da sempre uno scopo, quello di
fornire un esempio di comportamento ai suoi lettori.
L’opera di esordio di Scialoja è indicativa del nuovo ruolo che l’editoria per
bambini va assumendo in Italia nel secondo dopo guerra. Il pregiudizio crociano
che riteneva la letteratura per l’infanzia necessariamente priva del «sole dell’arte
pura»,43 viene superato da nuovi criteri di giudizio, come quelli proposti dal
pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, che nelle sue Lezioni di didattica,
sostiene:

È un buon libro per ragazzi quello che può essere gustato, senza restrizioni e
riserve, anche dagli adulti. Non tutto ciò che è scritto per gli adulti vale per il
bambino, ma tutto ciò che vale per i bambini deve valere anche per gli adulti, se è
opera d’arte.44

41
T. Scialoja, Infanzia e Nonsense, voglia dell’Intangibile, in Animalie. Disegni con Animali e
Poesie, p. 179. Corsivo mio.
42
Ivi, p. 180.
43
Cfr. p. 13.
44
G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, Sandron Editore,
Palermo 1913, p. 247.

25
I versi di Scialoja destano subito l’attenzione di critici quali Calvino e Porta. Il
pensiero dei due autori riguardo al nostro poeta è sinteticamente espresso nei libri
di cui si fanno curatori, rispettivamente: Una vespa! Che spavento, che riporta uno
scritto di Calvino in quarta di copertina; La stanza la stizza l’astuzia, con
prefazione di Porta. Il commento di Calvino descriveva Scialoja come «primo
vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla straordinaria
tradizione inglese del nonsense e del limerick»45, Porta definiva la lingua di
Scialoja come «gioco fonemico e allitterativo, sperimentato per celebrare un
tempo e uno spazio di naïveté creativa»46.

Vale sicuramente la pena raccontare la storia editoriale dei nonsense scialojani


che vedono la luce, per la prima volta nel 1971, per un evento quasi fortuito.
Nel 1969 Scialoja si era divertito a rimettere insieme, in un librettino
rilegato in marocchino rosso, i versi che aveva scritto per James Demby nel ’61.
Questo quadernino, creato per le nipoti più piccole, Barbara e Alice Drudi, aveva
titolo Tre per un Topo e girava in casa Scialoja oltre che tra le bambine anche tra i
numerosi ospiti dei coniugi. Scialoja racconta che capitò un giorno tra le mani di
Ugo Mulas, fotografo amico del poeta, che cercò senza successo di farle
pubblicare a Milano. Riuscì nello scopo Emanuela Bompiani che le pubblicò nella
sua collana di poesie per l’infanzia con il titolo Amato Topino Caro. Il libro del
1971 fu frutto di una stretta collaborazione tra Scialoja e la Bompiani, che permise
all’autore di sceglierne in prima persona l’impaginazione; nel libro disegni e
poesie sono inseparabili. Amato topino caro, letto e amato da una bambina di
nome Giovanna, suscitò l’attenzione di suo padre Italo Calvino. La bambina,
racconta lo scrittore, nel corso di un’estate imparò quei versi a memoria tanto ne
era affascinata. Questo episodio è all’origine dell’incontro tra Scialoja e Calvino,
che chiedeva al poeta se avesse altri versi da fargli pubblicare nella collana per
ragazzi della casa editrice Einaudi. Così vide la luce Una Vespa! Che Spavento,
dedicata proprio a Giovanna Calvino, che riporta, sulla quarta di copertina, uno
scritto di Calvino padre:

45
T. Scialoja, Una vespa! Che spavento, Einaudi, Torino 1975, citazione di Italo Calvino tratta
dalla quarta di copertina.
46
T. Scialoja, La stanza la stizza l’astuzia, Cooperativa scrittori, Roma 1976, citazione tratta dalla
Prefazione di Antonio Porta.

26
sono poesie che mi piacciono molto: il primo vero esempio italiano di un
divertimento poetico congeniale alla straordinaria tradizione inglese del nonsense e
del limerick.47

In questi versi è sempre assente un insegnamento morale, perché Scialoja, come


abbiamo detto, fa guidare la versificazione solo dall’eufonia. La caratteristica
tipica degli animali, protagonisti delle favole per bambini, viene meno perché gli
animali che popolano i nonsense scialojani non hanno niente da insegnare, si
muovono senza il fine di educare o dare una morale, sono veramente senza scopo:

Topo, topo,
senza scopo,
dopo te cosa vien dopo? 48

I versi sono accompagnati dal disegno di un topolino che si volta a guardare cosa
c’è dopo di lui, e la risposta è una e semplice: la coda.
Il criterio che stabilisce che questi nonsense verse sono dedicati ad un pubblico di
bambini, dunque, non è il fatto che possiedono un’intrinseca funzione pedagogica
ma, come propone Barbara Drudi nel suo scritto Nonsense, gioco o esorcismo?,49
il gioco linguistico. Il metodo di costruire la poesia basato su catene foniche
svincolate dal significato, esprime il modo di ricostruzione della realtà tipico del
bambino. Scialoja attua un recupero intellettuale dell’infanzia rivolgendosi prima
di tutto, e quasi esclusivamente, a se stesso.
L’intervista con Andrea Rauch, citata numerose volte, ha un titolo molto
eloquente: La mia infanzia sono io…. Il poeta vive, per sua stessa ammissione, in

47
T. Scialoja, Una Vespa! Che Spavento, Einaudi, Torino 1975, Italo Calvino (dalla quarta di
copertina).
48
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 5.
49
Cfr. p. 13.

27
uno stato di infanzia perenne, infanzia che Scialoja definisce come una condizione
di angoscia e di assenza, la stessa che si trovava a vivere a Parigi nel 1961,
quando ebbe inizio la sua avventura poetica. L’infanzia, per Scialoja, coincide con
la parte segreta del poeta stesso:

Io non mi considero uno specialista dell’infanzia. Non sono Rodari. Per pura
bizzarria mi è nata questa vena di poesia nonsensical e per tanti anni l’ho usata
come forma di esorcismo verso la mia condizione di isolato. A Parigi vivevo in
volontario esilio, si può dire, dimenticato da tutti, ignorato da tutti. Era
un’esistenza amara. Questi versi mi servivano come rimedio alla solitudine, come
consolazione cantata a me medesimo. Non ho comunque mai pensato, come
dovrebbe fare uno specialista, all’infanzia come ad un territorio da esplorare e
attraversare. Quando scrivevo poesie per bambini ero io stesso un bambino che
diceva poesie, che si divertiva e giocava. Io non conosco tutte le infanzie, conosco
solo la mia infanzia. Quello che ricordo di allora è uno stato d’animo dentro il
quale vivo ancora. L’infanzia è una cosa molto seria. Il mio ricordo è di un periodo
di solitudine assoluta, di sospetto, di «mito» continuo. Il tempo andava all’infinito,
lo spazio andava all’infinito e la morte non esisteva. Questa infinità, questa
perpetuità mi sgomentava e affascinava allo stesso tempo. Sapevo di essere un
bambino, assumevo il ruolo con amarezza, o con dolcezza se era il caso, ma ero
pur sempre io, non ero né «bambino» né altro. La mia infanzia di allora è immersa
in una sensazione di unicità. La mia infanzia sono io.50

Scialoja cita Flaubert che diceva “Madame Bovary c’est moi!” intendendo dire
che si immedesimava perfettamente nell’eroina di cui aveva narrato le vicende,
una donna che incarna le debolezze dell’animo umano che il suo autore non osa
condannare. Allo stesso modo Scialoja è in prima persona un bambino che gioca
con le parole e i suoi nonsense sono sì rivolti ai bambini e creati per il loro
divertimento, ma c’è un continuo cenno d’intesa con il lettore adulto di una certa
cultura.
Riferendosi all’articolo di Scialoja Come nascono le Mie Poesie, pubblicato nel
1988 su “il verri”, Federico Appel scrive che la scelta di pubblicare lo scritto su
una rivista tanto impegnata culturalmente, è eloquente:

50
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., p. 33.

28
indica come la pratica giocosa del lessico e delle forme della poesia rientri in una
logica culturale in cui il mondo dell’infanzia svolge un ruolo del tutto accessorio e
strumentale.51

Anche la scelta degli animali, tutti rigorosamente antropomorfi, come protagonisti


delle poesie, è suscettibile di interpretazioni diverse. Da un lato la decisione
appare ovvia; se si considera destinatario dei testi il mondo dell’infanzia, è la
tradizione a volere che il tramite tra questo mondo e quello degli adulti sia
costituito dagli animali, che già dall’universo fiabesco di Esopo erano allegorie
degli insegnamenti morali del mondo adulto. Il materiale codificato come “per
l’infanzia” è utilizzato da Scialoja, ancora una volta, nel progetto di una perdita di
senso che non si limita al gioco di parole. Scialoja non vuole solo essere un
Humpty Dumpty, signore delle parole, la sua è una rilettura della tradizione
indubbiamente rivolta a un pubblico che possa cogliere questa valenza
trasgressiva.
Il genere nonsense camuffa insomma un progetto di letteratura colta da sempre
sotteso ai testi. La poesia per l’infanzia non è altro che la porta di accesso al
mondo adulto. L’esperienza per bambini è compresa tra gli anni Sessanta e
Settanta, periodo piuttosto breve se si tiene conto che Scialoja sarà in attività fino
al 1998. Le poesie che Scialoja scriverà dagli anni Ottanta non si prestano ad
assegnazioni ambigue, sono poesie decisamente per adulti, anche se mantengono
alcune caratteristiche dei nonsense infantili. La cesura nell’attività poetica è
segnata proprio dal convegno di Orvieto e dall’intervento di Antonio Porta che,
come abbiamo detto, crea una svolta nella visione che il mondo della critica ha di
Scialoja, e, più profondamente, segna una svolta nel modo in cui poeta si pone di
fronte alla sua stessa opera. Riporto quanto affermato da Scialoja a proposito
dell’intervento di Porta a Orvieto:

Nel ’76 accadde una cosa per me molto importante. Il poeta Antonio Porta, in un
convegno letterario che si svolgeva a Orvieto, citò il mio nome definendomi “vero
poeta” […]. Questo mi incoraggiò e mi diede forza. Nanni Balestrini, subito dopo
mi chiese un nuovo testo delle poesie “un po’ meno infantili”. Da allora mi sono

51
F. Appel, L’animale intellettuale. La poesia per bambini di Toti Scialoja, in Bollettino
d’Italianistica, , La Sapienza, Roma, n. 1, anno 2007, p. 109.

29
accorto del nascere di una vena inattesa per cui la poesia non era più rivolta a
qualcuno in generale, o ai bambini in particolare, ma principalmente a me stesso. 52

Scopo di questo lavoro è analizzare i cambiamenti che si realizzano con il


passaggio ad una poesia adulta, verificatosi per la prima volta pienamente in La
stanza la stizza l’astuzia del 1976, attraverso l’indagine artistica portata avanti da
Scialoja sul piano pittorico nel suo Giornale di pittura. Prima di procedere
nell’indagine vogliamo però soffermarci ancora un poco sui nonsense delle
raccolte per l’infanzia ed evidenziare in essi gli aspetti più o meno velatamente
rivolti agli adulti.

I.4 La semplice complessità delle parole-melagrane

La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la


vaghezza e l’abbandono al caso.53

Con queste parole Italo Calvino aveva intenzione di inaugurare il ciclo di


conferenze che avrebbe dovuto tenere all’università di Harvard nel 1985 e che
non ebbe mai luogo a causa dell’improvvisa morte dell’autore nel settembre di
quello stesso anno. Leggerezza in quest’accezione è quella che possiede Scialoja
che già dal 1961, quando scriveva al nipotino James di sei anni, destinava le sue
poesie anche alla moglie Gabriella Drudi. Capire il concetto di leggerezza
proposto da Calvino è fondamentale per comprendere la complessità mascherata
da gioco che accompagna la produzione poetica di Scialoja nelle quattro raccolte
dedicate all’infanzia: Amato topino caro (Bompiani 1971); La zanzara senza zeta
(Einaudi 1974); Una vespa! Che spavento (Einaudi 1975); Ghiro ghiro tonto
(Stampatori 1979).
Abbiamo già detto che il mondo dell’infanzia fa da schermo a un progetto
più elevato e a un destinatario più colto di quello proposto dalla veste editoriale di
queste prime raccolte. La stessa poesia citata nel paragrafo precedente per rilevare
l’assenza di un insegnamento morale in questi testi “Topo, topo,/senza

52
T. Scialoja, La mia infanzia sono io, cit., p. 33.
53
I. Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2009,
p. 20.

30
scopo,/dopo te cosa vien dopo?”, può rimandare ad una domanda profonda e
esistenziale, che un bambino non coglie: cosa c’è dopo la morte, dopo aver
vissuto questa vita senza scopo?
Federico Appel nel suo articolo pubblicato su “Bollettino d’Italianistica” dal titolo
L’animale intellettuale. La poesia per bambini di Toti Scialoja, coglie nelle
quattro raccolte per l’infanzia un’oscillazione nei temi che va dal concreto al
metafisico all’assurdo lapalissiano. Concretezza c’è senza dubbio, in quelle poesie
con animali che toccano temi ambientalisti come le seguenti tratte da Una vespa!
Che spavento:

Sento una ruspa che raspa la valle…


Ahi! Qualche rospo ci lascia la pelle.54

Sul lido di Ostia


ho visto una bestia
coperta di nafta
che sputacchiava e basta.55

Il gioco di parole continua a solleticare l’orecchio ma non possiamo fare a meno


di notare lo sguardo critico con cui Scialoja osserva le ruspe raspare la valle dei
rospi o la nafta finita in mare a rendere irriconoscibile una povera bestia che ci si
è invischiata.
Quando l’assurdo è troppo assurdo anche per un nonsense, la poesia tende al
metafisico. Se, infatti, le vicende e le azioni delle creature del senso perso sono
condizionate in partenza dal nome dell’animale, con la stessa logica con cui da
Scialoja sono assegnati i nomi geografici, il risultato è a volte verosimile:

Chiede il bombo: «Perché ronzo?


Perché vado sempre a zonzo
come un gonzo, senza meta?
Perché peso come il piombo
sopra il fiore che si piega?»56

54
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 55.
55
Ivi, p. 71.

31
Il bombo, animale dai colori dell’ape ma molto più grande e tanto pesante da
piegare un fiore, si interroga sul motivo delle sue azioni, tutte verosimili e
realmente compiute dall’insetto bombo che non si pone domande sul suo modo di
vivere e di certo non gli sembra un problema il piegarsi di un fiore sotto il suo
peso. Il lettore di Scialoja sa perché il bombo compie determinate azioni;
chiamandosi bombo non può che essere un gonzo che ronza a zonzo, è il suo
nome che lo definisce come tale attraverso la ripetizione della vocale tonica del
nome bombo seguita da una nasale. Quando però ci troviamo davanti una scena
come la seguente, lo sforzo richiesto alla nostra immaginazione, o meglio, lo
sforzo che la poesia chiede alla mente adulta per farla stare al gioco di parole, è
più grande:

Due sciacalli giocavano a scacchi


erano magri come due stecchi
uno era scettico l’altro era sciocco
uno pensava: “Se attacchi, mi arrocco?”
l’altro pensava: “Se arrocco, mi attacchi?”
e si scrutavano di sottecchi.57

Le leggi della natura sono completamente sovvertite per cui è facile imbattersi in
scene tanto suggestivamente impossibili ed è altresì normale che gli animali
antropomorfi, seguendo rigidamente la logica dell’incongruo e lo sviluppo
naturale delle parole-melagrane si impossessino di oggetti umani o addirittura di
umani desideri, come nel seguente caso del puma che, oltre che per dovere di rima
(piuma – schiuma – fuma - puma e non si può non notare il nome puma già
racchiuso in piuma), forse anche spossato dalla vita nella giungla, sogna un letto
di piume dove posare la testa, una vasca piena di bolle e un pasto caldo:

Un letto di piuma
un bagno di schiuma
un piatto che fuma
è il sogno del puma.58

56
Ivi, p. 30.
57
Ivi, p. 29.

32
Gli ultimi due componimenti sembrano richiamare molto più di altri la “logica
dell’incongruo” che Carlo Izzo aveva individuato in Lear per cui nel Libro dei
nonsense capita spesso di trovare uccelli che fanno nidi nelle barbe, uomini che,
viceversa, vivono in nidi di uccello o ballano con i gatti versando il tè nei
cappelli.
L’ultima tendenza individuata da Appel è l’assurdo lapalissiano:

Se una lucciola va in treno


c’è una lucciola di meno.59

Dicevamo all’inizio che la logica val pochino nella poesia nonsense tuttavia è
indubbia la differente reazione che avrebbero un bambino e un adulto rispetto al
componimento appena riportato: l’adulto vi scova un’assurdità logica, un
bambino lo trova semplicemente divertente per i saltelli che la lingua è obbligata
a fare in bocca per rendere sonora la poesia e per il disegno che Scialoja affianca
al componimento che ritrae un insetto, che sappiamo essere una lucciola in quanto
tiene in mano una lanterna che fa anche da fanalino di coda al treno, composto
semplicemente dalla locomotiva e dal vagone sul quale è seduta la lucciola, che a
sua volta è raffigurata con un’espressione perplessa, come se si domandasse cosa
vuol dire il testo che l’accompagna o come se si sforzasse di restare in equilibrio
data la posizione scomoda in cui è seduta.
A proposito delle illustrazioni che accompagnano i testi, Paola Pallottino, in un
intervento pubblicato nel catalogo della mostra di Bologna del 1991 dal titolo
Toti, topi e topoi iconografici, scrive:

Queste illustrazioni amplificano le invenzioni e l’ermetismo gioiosamente


inquietante del testo, moltiplicando le loro valenze iconografiche, fino a godere di
una speciale autonomia.60

Anche quando i testi si lanciano in voli pindarici che li allontanano dal ruolo
attribuitogli dalla veste editoriale in cui sono pubblicati, il disegno, semplice e
immediato, è accanto ad esso quasi a indicare la chiave di lettura corretta per un

58
Ivi, p. 9.
59
Ivi, p. 8.
60
P. Pallottino, Toti, topi e topoi iconografici, in Animalie. Disegni con Animali e Poesie, p. 11.

33
testo altrimenti ambiguo, come nel caso già riportato del Topo, topo / senza scopo
in cui la domanda posta al roditore può essere interpretata in modi diversi,
secondo il nostro orizzonte di lettura. In questo componimento è il disegno a farci
capire che la domanda che viene rivolta al topolino è la più semplice, perché
proprio nel disegno l’animaletto dà la sua risposta.
Proprio il topo, tra l’altro, è l’animale prediletto da Toti, 61 presente da sempre nei
titoli delle sue raccolte e con cui più volte il poeta si identifica apertamente:

Quando il sorcio
beve un sorso
di fernet
si contorce
dal rimorso
d’esser me.62

Il “sorcio” è il poeta, che si immerge in prima persona nel suo zoo di carta già dal
quadernino in marocchino rosso in cui aveva raccolto le poesie per le nipotine nel
1969. Il titolo del libro, ridato alle stampe nel 2014, era, infatti, Tre per un topo, e
proprio tre sono i nipotini ai quali Scialoja dedica parole e immagini, i tre topolini
raffigurati in copertina, per cui lo zio topo scrive. Toti racconta di come la nonna,
quando era piccolo, amasse chiamarlo il mio topino americano, dunque
l’identificazione con il piccolo mammifero è addirittura precedente alla
composizione dei nonsense. È la vicinanza ai suoi “animali di carta”,63 dei quali
fa parte, che permette al poeta di comunicarci tante informazioni sui loro usi e
costumi; così veniamo a sapere che i ramarri bevono il rabarbaro, i gufi giocano a
golf, la moglie del pollo col rimmel fuma le Camel e così via, ogni animale
dell’atlante zoologico di Scialoja somiglia solo a se stesso nella sua assurdità.
Paola Pallottino cogliendo entrambi gli aspetti, testuale e iconografico, dei
componimenti, descrive questo circo di animali nel modo seguente:

61
Ivi, p. 13: «Non è infatti casuale che l’esame statistico delle illustrazioni dedicate a ciascun
animale, riveli come al cane, nominato otto volte nelle sue diverse razze, corrispondano dieci
illustrazioni, al gatto, nominato nove volte, corrispondano sedici illustrazioni, mentre il topo-
sorcio, nominato undici volte, è raffigurato addirittura in diciannove illustrazioni diverse.».
62
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 55.
63
P. Pallottino, Toti, topi e topoi iconografici, cit., p. 9.

34
Animali impossibili, in guanti e mutande, pigiama e feluca, marsina e stivali, che
discendono direttamente dalle antropomorfosi metaforiche della tradizione
animalista, si esprimono con un registro iconografico icasticamente espressionista.
Come dire: un J. J. Grandville rivisitato da Mino Maccari, con qualche malizia
orientale!64

Sono ritratti icastici spesso mostrati negli aspetti più generici che riguardano la
specie alla quale gli animali appartengono; così è per gli animali generalmente
disprezzati, come i vermi:

Contro te, povero verme,


le lagnanze sono eterne.65

O per l’aspide, che sulle ispide rive inospiti del Mar Caspio trova un ambiente
ideale per qualunque serpente:

«Caspita!» disse un aspide


capitato per caso sul Mar Caspio
«Queste ripe sono ripide, son ispide!
Un sito così inospite è fantastico!»66

L’invenzione è brillante perché l’ambiente in cui l’aspide è giunto per caso è il


luogo più adatto a lui sia perché generato dalla stessa parola-melagrana aspide,
Caspio, ma anche perché è realistico che un serpente ami la solitudine e gli
ambienti inospitali. Non sarebbe d’accordo il basilisco di Basilea:

Quando m’imbatto nel basilisco


a Basilea, spesso allibisco:
la solitudine, il lungo esilio,
lo han reso tanto senile ed esile
che sul basilico rimane in bilico.67

64
Ivi, p. 10.
65
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 29.
66
Ivi, p. 51.
67
Ivi, p. 160.

35
Che il basilisco si trovi a Basilea ci sembra ormai del tutto ovvio, la sofferenza
per la solitudine e l’esilio tuttavia, parole germinate dalla variazione di una sola
vocale dal nome del serpente, si addicono a questo particolare tipo di rettile ma
non sono attribuibili a tutta la sua specie che somiglia di più all’aspide della
poesia precedente. Questo povero basilisco soffre tanto della posizione di
emarginato in cui è costretto dalla sua natura che è diventato, con ulteriore scarto
vocalico, tanto esile da restare appeso ad una piantina di basilico, già prevista dal
suo nome.
Un altro animale che riconosciamo perché mantiene i caratteri più evidenti e noti
del suo carattere è la formica:

Oh, formica!
Quanto è antica
e nemica
la fatica
nell’ortica.
Ma tu vuoi che non si dica.68

La formica veste la caratteristica di infaticabile lavoratrice che ha sempre avuto


anche nelle favole, rispettando così le aspettative del lettore.
C’è un animale in particolare che da Scialoja è descritto sempre nello stesso modo
ma che non trae la sua sorte semplicemente dal gioco di parole: l’ostrica.
Quest’ultima è protagonista di alcuni componimenti in cui è evidente un omaggio
a Carroll:

È lastricata d’ostriche
ogni strada di Ostenda:
la passeggiata è ostica
ma la strage fu orrenda.69

Dicono che le ostriche si offrano per merenda


stendendosi sul lastrico nelle strade di Ostenda.70

68
Ivi, p. 139.
69
Ivi, p. 161.

36
In entrambe le poesie è chiaro il riferimento all’episodio del quarto capitolo del
secondo romanzo di Alice, in cui Tuidoldàm e Tuidoldìi raccontano alla bambina
la storia delle ostriche mangiate da Tricheco e Carpentiere. All’ostrica, che agisce
sempre a Ostenda, è associato il tema della strage. Citando uno degli autori
riconosciuti da Scialoja come ispiratori della propria poesia nonsense, si plasma la
caratteristica di uno degli animali dell’atlante zoologico dei versi del senso perso.
Così accade per un'altra creatura scialojana, che acquisisce le caratteristiche che la
contraddistinguono nei nonsense forgiandosi sui versi di un altro autore: Leopardi.
I passeri di Scialoja somigliano molto al passero solitario al quale Leopardi si
paragona nei Canti, un passero pensoso che sembra in qualche modo consapevole
di cosa vuol dire esistere. Ecco un esempio di come si muovono i passeri di
Scialoja:

Sul davanzale i passeri


piluccano uva passa,
è come se sapessero
quanto la vita passa.71

Nella dimensione di parodia piuttosto che di omaggio si inseriscono altri


componimenti che sembrano quasi delle citazioni imperfette:

«Sempre caro mi fu quest’erto corno»


pensa il rinoceronte
senza nessuno intorno.72

Il sabato del vigliacco


che ha la testa in un sacco
due braccia in una manica
e grida: «Oh Dio! Domenica!»73

70
Ivi, p. 241.
71
Ivi, p. 58.
72
Ivi, p. 167.
73
Ivi, p. 195.

37
Non c’è neanche bisogno di ricordare quali sono i due componimenti che Scialoja
parodizza, abbassandoli di tono e privandoli del loro slancio lirico; vi si
riconoscono chiaramente due delle più celebri poesie di Leopardi. Siamo in una
dimensione di scherzo che anche un bambino che abbia frequentato la scuola può
cogliere, come, ancora, nel caso seguente:

C’è un ramo che sporge sul lago


di Como, sospeso a quel ramo
un ragno si specchia nel lago
ma l’onda morente di un remo
increspa, col ragno, nel lago
quel ramo del lago di Como.74

L’incipit de I promessi sposi è specularmente citato dopo cinque versi che lo


introducono, ma qui il ramo non indica più la conformazione fisica del lago di
Como, è il semplice ramo di un albero che si specchia nell’acqua e che ospita un
ragno, come se lo scrittore dei nonsense avesse male interpretato la parola ramo
della solenne apertura del romanzo di Manzoni.
Ci sono parodie e citazioni più sottili, destinate non solo a non essere colte dai
bambini, ma neanche da tutti i lettori più anziani. È il caso di Pascoli, uno di
quegli autori ai quali era probabilmente rivolta la critica che Scialoja faceva alle
poesie che doveva studiare a scuola, riportata nell’intervista di Andrea Rauch, La
mia infanzia sono io…:

[…] le poesie dolciastre di Angiolo Silvio Novaro e degli altri che allora si
dovevano leggere mi davano un senso di peso, di malessere. Era un mondo di
nonni malati e di uccellini che hanno freddo: un mondo francamente stucchevole. 75

Il patetico ostentato da Pascoli è dissacrato:

Son teneri, rosei ed inermi


i vermi di Forte dei Marmi

74
Ivi, p. 164. Corsivo mio.
75
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., p. 30.

38
che in coro mi cantano: «Dormi!»
Cullato dal canto dei vermi
se dormo non posso sognarmi
che un mare di vermi che mormori.

Il mormorio dei vermi che cantano «dormi!» riproduce il canto di La mia sera,
poesia dei Canti di Castelvecchio che recita:

Don… Don… E mi dicono, Dormi!


mi cantano, Dormi! Sussurrano,
Dormi! Bisbigliano, Dormi!76

Altro bersaglio di Scialoja è Carducci, anche lui dissacrato in maniera scherzosa:

T’amo, o pio bue!


Anzi ne amo due.77

ricalca l’incipit del sonetto Il bove del poeta dell’800: «T’amo, o pio bove; e mite
un sentimento / […]». E ancora Carducci è preso di mira in un componimento
enfatico e dolorosamente personale, scritto per la morte del figlio, Pianto antico:

L’albero a cui tendevi


la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior78

La solennità celebrativa è stravolta da Scialoja in una quartina accompagnata dal


disegno di una mano che tiene nel pugno un piccolo coccodrillo e lo punta verso
l’alto. Al disegno sarebbe impossibile far corrispondere una parodia di Carducci,
ma il testo non lascia dubbi:

76
G. Pascoli, La mia sera, in Canti di Castelvecchio, Rizzoli, Milano 1983, pp. 287-290, vv. 33-
35.
77
Ivi, p. 11.
78
G. Carducci, Pianto antico, in Giambi ed epodi e rime nuove, Zanichelli, Bologna 1935, p. 214,
vv. 1-4..

39
L’albatro a cui tendevi
un piccolo caimano
volò così lontano
che non si vede più.79

La biblioteca di Scialoja non si limita comunque solo ad autori italiani o, tra gli
inglesi, agli autori di nonsense. In La mela di Amleto, in una poesia sulla lepre,
Scialoja cita l’inizio di The waste land di Eliot:

La lepre ha il più crudele dei musi quando morde


i leggeri lillà sulla radura brulla,
strappa i fiori d’aprile, li ricaccia nel nulla,
col labbro che strafà profumato di verde.80

In Eliot, che riporto nella traduzione di Alessandro Serpieri, si legge così:

Aprile è il mese più crudele, generando


Lillà dalla terra morta, mischiando
Memoria e desiderio, eccitando
Spente radici con pioggia di primavera.81

L’intenzione in questo caso non sembra dissacrante. Il testo, più che altro, dà
l’impressione di un qualcosa che sia spontaneamente riaffiorato alla mente del
poeta italiano, come un ricordo lontano citato casualmente sbagliando, come si
trattasse di un lapsus, un inciampo della lingua che inverte le sillabe delle parole
aprile e lepre con il conseguente scarto di vocale da mesi a musi.

Casi come quest’ultimo sono una finestra che permette di scorgere quali fossero
gli autori prediletti da Scialoja, che fin dai testi che, per brevità, definiamo
giocosi, lascia trasparire, attraverso la poesia, un gusto personale.

79
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 40.
80
Ivi, p. 197.
81
T. S. Eliot, La sepoltura dei morti, in La terra desolata, A. Serpieri (introduzione e traduzione a
cura di), BUR poesia, Milano 1982, p. 75, vv. 1-4.

40
Nelle raccolte successive a quelle per l’infanzia la ricerca poetica si farà
molto più intensa, la riflessione lirica più profonda e cupa, compariranno il tema
del tempo e della morte. La leggerezza che abbiamo incontrato nei versi del senso
perso caratterizza soltanto la fase iniziale della produzione di Scialoja che
vedremo essere attraversata da quello che possiamo definire, sottraendo
l’espressione a Ungaretti, il sentimento del tempo. La fase nonsensical non è da
escludere dalla storia, ne segna l’inizio, è l’infanzia di un percorso poetico nato
nel 1961.

41
Capitolo II
“Ut pictura poësis”

Il motto del poeta latino Orazio, ut pictura poësis, significa, come è noto, che una
poesia è come un’opera d’arte visiva e che un’opera d’arte visiva è come una
poesia, e dunque, in altre parole, poeta e pittore sono per lui due facce della stessa
medaglia: il primo riesce a dare concretezza alla realtà attraverso la mediazione
della lirica, il secondo, con mezzi concreti, plastici e cromatici, riesce a esprimere
valori concettuali.
Che tra le due arti ci sia una stretta relazione è quindi colto già dal primo secolo
avanti Cristo, epoca in cui visse l’autore dell’Ars poetica.
Facciamo nostro il detto di Orazio per applicarlo a Toti Scialoja, esempio per
eccellenza della convivenza di pittura e poesia, che in tutti gli aspetti e in tutte le
fasi della sua vita artistica fa propri due linguaggi così diversi e così
complementari come quello lirico e quello pittorico.
Gilles Deleuze, in un saggio del 1987 dal titolo Qu’est-ce que l’acte de création?,
rifletteva sull’essenza del cinema e della filosofia. Che differenza c’è tra le due, si
chiedeva? Che cosa vuol dire fare cinema e fare filosofia, o meglio, cosa vuol dire
avere un’idea nel cinema e cosa averla in filosofia? La risposta di Deleuze che ci
interessa è questa:

Che cosa accade quando si dice: “Ecco, ho un’idea”? Perché, da una parte, tutti
sanno che avere un’idea è un evento che accade raramente, è una specie di festa,
abbastanza rara. E poi, d’altra parte, avere un’idea non è qualcosa di generale.
Non si ha un’idea in generale. Un’idea – proprio come colui che ha l’idea – è già
consacrata a questo o a quell’ambito. Può essere un’idea in pittura, in narrativa,
in filosofia, oppure in scienza. Ed evidentemente non è la stessa persona che
può avere tutto questo. Le idee bisogna considerarle come dei potenziali già
impiegati in questo o in quel modo d’espressione e inseparabili dal modo
d’espressione, e quindi non posso dire che ho un’idea in generale. In funzione
delle tecniche che conosco posso avere un’idea in un certo ambito.1

Se per Deleuze, come qui si legge, “la stessa persona” non può avere
contemporaneamente idee in due ambiti diversi e se l’idea è un “potenziale già
1
G. Deleuze, Qu’est-ce que l’acte de création?, la citazione è tratta dalla traduzione italiana a cura
di Antonella Moscati, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2003, p. 9. Corsivo mio.

42
impiegato in questo o in quel modo di espressione” come avviene che Scialoja sia
così versato in entrambi i campi della pittura e della poesia, e che in entrambi si
realizzi pienamente? Renato Barilli prova a rispondere in uno scritto pubblicato
sul catalogo dell’esposizione su Scialoja, tenutasi a Bologna nel 1991. Nel suo
scritto dal titolo Scialoja, un solare Mr. Hyde2, Barilli affronta la questione della
convivenza di due attività artistiche nella stessa persona e sostiene che
solitamente, in questi casi, una delle due arti viene praticata in modo “serio”,
l’altra è invece più che altro un’attività di sfogo, di occupazione dilettantesca.
All’esordio poetico di Scialoja, avvenuto con la scrittura dei nonsense verse, si è
parlato di una “violinità d’Ingres”, come se la poesia potesse rappresentare un
hobby per il poeta, tanto più perché praticata, come abbiamo visto, come un
ritorno all’infanzia. Valutazione, si è già detto, parziale e inesatta. E del resto
proprio Scialoja, sostiene Barilli, fa eccezione alla regola. Se negli artisti in cui
convivono due linguaggi spetta alla vena “minore” il compito di far affiorare gli
aspetti incontrollati, l’Es della persona, il Mr. Hyde, da cui il titolo dato da Barilli
al suo intervento, in Scialoja non è questo che avviene perché la libera gestualità
della sua pittura lasciava già esprimere tutti gli impulsi inconsci della sua
personalità, mentre l’autore di nonsense possiede un’innocenza solare, è il Dr.
Jeckill del romanzo di Stevenson, la faccia scelta consapevolmente da Scialoja,
quella da mostrare in pubblico. Scrive Barilli:

Qui, a dire il vero, si dà un totale scambio di volti, in quanto lo Scialoja


portatore di titolarità sarebbe il pittore, che però corrisponde meglio a un Mr.
Hyde, in quanto, lo si ricordava sopra, consiste in un sollecitatore delle pulsioni
profonde, laddove il poeta sembra di stucchevole e troppo limpida solarità. 3

Abbiamo già approfondito il tema del nonsense e quanto la leggerezza e la


solarità nelle composizioni nonsensical siano più che altro accessorie e apparenti
maschere di una ricerca sensoriale e quindi viene da chiederci se c’è davvero un
Mr. Hyde in Scialoja, o se le “due anime” di cui parla Giovanni Raboni4
convivono nello stesso uomo, portando avanti un’unica idea che nasce da un

2
Pubblicato in Animalie. Disegni con animali e poesie, Catalogo della mostra (Bologna, 3 aprile -
3 maggio 1991), Grafis, Bologna 1991.
3
R. Barilli, Scialoja, un solare Mr. Hyde, in Animalie cit., p. 15.
4
G. Raboni, Le due anime di Toti Scialoja, in Toti Scialoja. Pittura e poesia, opere su carta, De
Luca Editori d’arte, Roma, 2005.

43
“potenziale già impiegato”, che nel caso di Scialoja è la vita stessa. Scriveva
Raboni nel 1999:

Tornando, qualche giorno fa, dall’aver visto alla Galleria dello Scudo di Verona
la mostra, esemplare per leggibilità e rigore, delle opere più significative dipinte
da Toti Scialoja fra il 1955 e il 1963, ho pensato soprattutto, per l’ora e mezzo
che il viaggio è durato, al gioioso e inquietante mistero della sua doppia vita.
Doppia vita d’artista, sia ben chiaro; perché quanto a consuetudini, affetti,
amicizie, ho conosciuto poche persone altrettanto limpide e univoche, altrettanto
solari. Dunque: una doppiezza – meglio: una duplicità – tutta giocata o sofferta
sul filo del “dirsi”, dell’avventura espressiva. […] Il ‘900 è pieno di pittori che
hanno anche scritto e, viceversa, di scrittori che hanno anche dipinto. Sempre
tuttavia, ecco il punto, con una netta prevalenza di uno dei due modi di
espressione sull’altro, relegato questo, così al rango di violon d’Ingres. Mentre
con Scialoja, diciamolo francamente, solo chi ignora la vastità della sua sia pur
tarda o addirittura, perché no?, senile produzione poetica può ostinarsi a parlarne
come di un’attività secondaria.5

L’idea che Scialoja ha dell’arte è che questa nasca dalle ragioni più interne alla
vita, e, possedendo l’artista più di un modo di espressione, egli comunica la sua
idea in pittura e in poesia. Analizzando le pagine del Giornale di pittura6, una
sorta di diario in cui lo Scialoja pittore interrogava la sua arte, il suo modo e il suo
bisogno di esprimersi, sembra proprio che sia così: la riflessione di Scialoja
sull’arte parte sempre dal presupposto che questa debba attenersi alla realtà, ma
quale sia la realtà è il vero motivo di ricerca. Il primo passo riportato nel Giornale
ha data “marzo 1954”, Scialoja scriveva:

Dipingere è diventato per me quello che doveva essere per i pittori antichi:
semplicemente un modo di «imitare per amore». Imito la mia natura, cioè la mia
cultura (quello che amo), e insieme la mia sensazione di esistere (trasformo la
sensazione in certezza).7

E nel settembre dello stesso anno:

5
Ivi, p. 11.
6
T. Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991.
7
Ivi, p. 3.

44
«Hanno vinto i diritti della pittura», pensavo nei primi mesi del mio
ritrovamento con lo stesso tono di chi dice «hanno vinto i diritti della vita». Non
importa se la frase è banale, per me era viva come un rendimento di grazie.
Capivo d’essermi proiettato per tanti anni in una idea culturalistica e letteraria
della pittura; ora finalmente mi valevo di uno spazio-coscienza come di una
nuova natura dove potevo esprimere tutto intero me stesso. Ero passato da una
posizione riflessa ad una creativa. La sensazione dello spazio apparteneva ora
alla mia storia, era contemporanea alla mia coscienza, alla realtà di un uomo che
vive nel suo unico tempo presente.8

E, ancora, nell’ottobre ’54:

La pittura non è più da recitare ma da vivere. […] Questa condizione di


artigiano ha creato una nuova comunicazione tra me e il mio lavoro di pittore:
un contato diretto, segreto e quasi felicemente automatico. La rinuncia, la piena
e convinta umiltà, ha dissolto la maschera, il diaframma precostituito, la mia
sigla intenzionale, e ha permesso che io premessi direttamente con la mia vita su
tutta la superficie della tela. Sono entrato in un vivo e semplice fluire. [..,] Da
una pittura di impressione o deformazione ottica – attraverso un tirocinio
operato su elementi razionali di forma e concettuali di spazio – sono arrivato alla
mia verità: ad una pittura di sensazione. Una pittura che rientra e partecipa
direttamente al flusso della realtà, a questa comunicazione incessante.9

La realtà è, per Scialoja, la vita stessa della persona, e lo stesso artista ha, nel
momento creativo, la possibilità di scoprire qualcosa di sé:

Non recedo il quadro con l’idea di me stesso, ma cerco di chiarire la mia visione
del mondo scoprendola sul quadro. I miei quadri non sono un’autobiografia,
sono le mie scoperte.10

Ma Scialoja propone se stesso anche quando scrive poesie. Sosteneva nella frase
riportata quando si parlava dei nonsense, «la mia infanzia sono io», ed era lui
stesso un bambino quando scriveva i nonsense, un bambino che giocava con le
parole e che al suo pubblico proponeva se stesso.

8
Ibidem.
9
Ivi, p. 5.
10
Ivi, p. 22.

45
Grazie al Giornale di pittura è possibile inoltrarsi in profondità nella sua
riflessione teorica sull’arte e costatare quanto per Scialoja fosse fondamentale
questa ricerca della verità attraverso la pittura perché, scriveva l’autore del
Giornale:

Pittura è verità oltre ogni schermo, ogni maschera. 11

II.1 Toti Scialoja e il dialogo con la pittura

Figura di artista totale, ponte tra l’arte europea e quella americana, Toti Scialoja è
stato uno dei pionieri dell’Action Painting in Italia. La sua pittura si sviluppa e si
evolve di decennio in decennio, dalla metà degli anni Trenta agli anni Ottanta,
assimilando le tecniche degli artisti con cui entrava in contatto di fase in fase.
L’arte di Toti Scialoja è un’arte dinamica, che cresce con il suo autore, il quale
porta avanti una continua e profonda autoanalisi nel Giornale di pittura.
Il suo primo approccio con il mondo dell’arte avviene con la poesia, se lo si
analizza a partire da un punto di vista biografico, come indica l’autore stesso in
un’intervista curata da Andrea Rauch e pubblicata nel catalogo della mostra del
1991:

Nella mia famiglia è sempre stato vivo il gusto per l’ironia e lo sfottò. Ci
prendevamo spesso in giro l’uno con l’altro, ci scrivevamo addosso dei versetti
comici; a nove anni scrivevo poesie satiriche su quello che succedeva intorno a
me.12

Ma la sua personalità artistica viene allo scoperto nell’ambiente pittorico.


Francesco Moschini, introducendo la giornata di Omaggio a Toti Scialoja svoltasi
all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma in occasione del centenario
dell’artista, dice di Scialoja:

Lui ricordava sempre in fondo la propria formazione da autodidatta e diceva: “in


fondo io me ne andavo per Villa Borghese con un cappello rovesciato sulla testa,

11
Ivi, p. 17.
12
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., p. 30.

46
la tavolozza e i colori, finché un buon artista passò di lì e mi disse: sei un bravo
pittore!”13

In uno degli interventi di quella giornata Giuseppe Appella riprende il discorso di


Moschini:

Francesco ha citato Toti pittore en plein air a tredici anni a Villa Borghese.
Questo vecchio pittore che gli si avvicina gli consiglia di dipingere prima il cielo
e poi gli alberi, perché altrimenti sarebbero venute dopo grandi difficoltà a
dipingere l’azzurro tra un ramo e l’altro e Toti ricorderà sempre, negli anni
futuri, il fatto che bisogna dipingere prima il cielo e poi gli alberi, anche quando
diventerà astratto. […] Toti non è un epigono della “Scuola romana”.
Verissimo! Però la vera Università di Toti è stata la Galleria della “Cometa”.
[…] Il disegno del ragazzo diventa professionale proprio nei rapporti che
stabilisce nella Galleria della “Cometa”.14

Negli anni in cui lo Scialoja adolescente dipinge en plein air a Villa Borghese,
nella capitale sono attivi quei pittori che saranno raggruppati da Roberto Longhi
sotto il nome della “Scuola di via Cavour” dal recapito del pittore Mafai. Il
gruppo comprendeva, oltre a Mafai, Scipione e Antonietta Raphael:

Proprio sul confine di quella zona oscura e sconvolta dove un Impressionismo


decrepito si muta in cabala e magia, stanno… i paesini sommossi e di virulenza
bacillare del Mafai la cui sovraccitata temperatura potrebbe iscriversi al nome di
un Raoul Dufy nostro locale. Così come la pittura di Antonietta Raphael non
tanto dal paesaggio qui contiguo a quello del Mafai, quanto da altre cose che mi
sono venute sott’occhio nel ragguagliarmi su questa che, dal recapito, chiamerei
“la scuola di via Cavour”, potrebbe rivelare i vagiti e la rapida crescenza di una
sorellina di latte dello Chagall: a conservare le debite distanze s’intende. Un’arte
eccentrica ed anarcoide che difficilmente potrebbe attecchire fra noi… 15

13
F. Moschini, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja celebrato il giorno del centenario
dell’autore il 16/12/2014 e promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca,
https://www.youtube.com/watch?v=x9mT_z97OfA
14
G. Appella, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja, cit.,
https://www.youtube.com/watch?v=bOe6zGIrjk8
15
R. Longhi, La mostra romana degli artisti sindacati, in “La fiera letteraria”, citazione tratta da
D. Durbé, Date, vicende, avvenimenti, in Giorgio Castelfranco e Dario Durbé (a cura di), La
scuola romana dal 1930 al 1945, Catalogo della mostra Sguardo alla giovane scuola romana dal
1930 al 1945 (VIII Quadriennale d’Arte di Roma 1959-1960), De Luca Editore, Roma 1960, p. 27.

47
Gli artisti di questa Scuola non erano uniti da linee programmatiche definite; più
che altro tra loro c’era sintonia di idee e di intenti culturali che, dal momento che
gli artisti lavoravano in stretto contatto, subirono reciproche influenze. Negli anni
Trenta, rifacendosi all’Espressionismo europeo, questi autori si pongono in netto
contrasto con l’arte figurativa italiana del primo dopoguerra, quella del “Ritorno
all’ordine”, che riproponeva la centralità della tradizione e il ritorno alla forma
neoclassica nell’arte, e rifiutava i movimenti d’avanguardia nati nei primi anni del
‘900. L’arte della “Scuola di via Cavour”, definita da Longhi “eccentrica ed
anarcoide”, porta avanti invece, sempre restando nell’ambito dell’arte figurativa,
la ricerca della luce e del colore che dava alle opere un carattere di visionarietà
magica che, sosteneva Longhi “difficilmente potrebbe attecchire fra noi”. Questi
autori partivano da posizioni personali molto diverse: Scipione aveva un
temperamento religioso «carico di dubbi»16, e nelle sue opere rappresentava scorci
decadenti di Roma; Mafai, laico e «pieno di pietà umana»17, rappresentava le
demolizioni attuate nella capitale dal fascismo; la Raphael, paragonata a Chagall,
trasmetteva ai quadri il suo temperamento naïf e romantico. Tutti e tre riescono a
trasmettere e risvegliare la passione per le “povere cose, cose consumate e arse”
della vita. Scrive Romeo Lucchese:

L’Espressionismo (sul filo d’un sensibilismo baudelairiano) dei tre artisti operò
in campi nuovi, vicini alla vita vissuta d’ogni giorno. I loro quadri da cavalletto,
raramente di grandi dimensioni, avevano una luce di fuoco vitale, che veniva
direttamente dal sangue. Era l’ultimo grido d’un intimo Barocco che con accenti
romantico-realistici cantava sensualmente le delizie che la vita ci offre anche
attraverso povere cose, ma vive se vissute e cantate con passione. Il dolore che
deriva dalla gioia sensuale, appena si ha il dono e l’amarezza di capire, è il
lievito di quest’arte, il catalizzatore da cui s’alzano le domande delle nostre
angosciate, deluse, ansiose ricerche.18

Dopo la morte di Scipione, avvenuta nel 1933, la “Scuola di via Cavour” si


protrae in una seconda stagione, quella della “Scuola romana”. Il nome viene dato
a un eterogeneo gruppo di pittori in seguito a un’esposizione di Cagli, Capogrossi

16
R. Lucchese, Alcune precisazioni sulla «Scuola Romana», Istituto Grafico Tiberino di Stefano
De Luca, Roma 1964, p. 7.
17
Ibidem.
18
Ivi, p. 8.

48
e Cavalli a Parigi, dove i tre vennero riuniti nel nome appunto di École de Rome. I
pittori di questa seconda stagione condividono con i loro predecessori
l’antinovecentismo e l’orientamento espressionista, ma se ne discostano per la
scelta dei temi. Cagli propone un ritorno dell’arte all’Umanesimo e ai grandi miti.
A proposito lui, scriveva Scialoja:

Come negare al personaggio, all’amico Cagli di quegli anni lontani il grande


potere catalizzatore, quel suo spiritato creare interessi pittorici in ogni luogo?
Egli usava la sua stregoneria, la sua inesausta generosissima possibilità di
contaminazione per far sentire ciascuno «se stesso», più à son aise, per
risvegliare in ciascuno un fervore insolito, delle qualità impreviste. Era come un
termometro vivente e registrava temperature immaginarie, poneva gli amici
fiduciosi in uno stato euforico, febbrile.19

Luogo di ritrovo importantissimo per la “Scuola romana” divenne la Galleria della


“Cometa”, che tra il ’35 e il ’38 svolse un’attività importante di diffusione
culturale. È in questo ambiente che si compie la formazione culturale di Scialoja,
al di fuori dunque di una vera e propria scuola ma nel vivo dell’arte italiana, in
uno dei gruppi più fecondi dell’arte romana dell’ultimo secolo. È sotto le
influenze della Galleria della “Cometa” che Scialoja realizza così le prime opere,
con le quali sarà allestita la sua prima esposizione personale, tenutasi a Genova
nel 1940, quando l’artista aveva solo 26 anni. A proposito dell’esordio artistico di
Scialoja, il critico d’arte Lionello Venturi scrive:

Un ingresso educato e discreto sulla pubblica ribalta con un pittoricismo alla


Ranzoni. […] Un Espressionismo rotto e violento con colori che sono ancora
tinte. [… ] Gli agnelli insanguinati su un piatto bianco e un tavolo celeste e
verde con un fondo giallo. Sembra che Ensor sia scelto a modello.20

Come ricordava Moschini, Scialoja si dichiara tuttavia sempre autodidatta. Infatti,


aldilà delle suggestioni suscitate dalla pittura dei due maestri della “Scuola di via
Cavour”, Mafai e Scipione, che segnano le origini della sua personalità artistica,
orientata verso l’esplorazione dell’immaginario e del cromatismo, nella pittura di

19
T. Scialoja, Pittura di Corrado Cagli, in “Mercurio”, Anno II, n. 15, p. 153.
20
L. Venturi, Pittori italiani d’oggi, Roma, 1959, citazione tratta da D. Durbé, Date, vicende,
avvenimenti, in Giorgio Castelfranco e Dario Durbé (a cura di), La scuola romana dal 1930 al
1945, cit., p. 38.

49
Toti già si intravede il tentativo di penetrare con tutto se stesso la tela, di dipingere
con il corpo, e per perseguire quello scopo già nel ’40 si allontanava dai suoi
maestri. Nel 1940 Renato Guttuso commentava così l’esordio nel mondo dell’arte
del giovane pittore:

Per Toti non è l’estro che conta, e mai una soluzione di gusto, ma il realizzare
poeticamente una sensazione plastica, e che questa si concluda nel foglio in una
metrica precisa, con domande, risposte, affermazioni, negazioni, luci, ombre,
martellata in tutti i punti del foglio, fino a renderlo esausto; perché la materia
vibri continuamente e l’orgasmo non si quieti mai. 21

Nello stesso anno, in un articolo dal titolo Dialogo triste, pubblicato sulla rivista
“Il Selvaggio”, il pittore esordiente Toti immaginava un dialogo tra un pittore e un
verme uscito da un tubetto di colore. L’uomo interrogava il verme sull’arte, e in
particolare se fosse possibile dipingere in una città deserta e inquietante come era
la Roma di quegli anni.
Il verme, che conosce tutte le risposte alle domande del pittore, esprime in quel
testo l’idea di pittura che Scialoja nella sua vita cercherà di realizzare con
successo:

Verme: Perdonami, questo devi intendere: la vera pittura ha da esser legata in


una maniera misteriosa e buia alla vita. E non dico vita nel senso meccanico di
rappresentazione di fatti umani. Psicologica o illustrativa di un sentimento. Ma
in un senso di origine, di creazione. Il mistero che rende vivo l’impasto di
sangue vento sabbia saliva: il corpo dell’uomo, è il medesimo che deve generare
e sviluppare i segni o i colori spalmati su di una superficie inerte. La pittura è
come un sudore luminoso e terribile che nasce dall’uomo. Non riduco l’arte a
una questione di soggetto: dico che tra ciò che si rappresenta e il mezzo
espressivo è una profonda relazione, e nel modo di questa relazione è la
moralità, cioè la verità della pittura. 22

Il dialogo con il verme-coscienza del pittore ricorda un episodio del racconto Il


mar delle blatte di Tommaso Landolfi. Proprio all’inizio della vicenda, Roberto

21
B. Drudi, Biografia, in Topi, lucciole, conigli e formiche… Toti Scialoja, un pittore, un poeta
che ha incontrato i bambini, cit., p. 8. L’affermazione riportata è del pittore Renato Guttuso che
nel commento si riferiva alla pittura di Toti negli anni Quaranta.
22
T. Scialoja, Dialogo triste, in “Il Selvaggio”, Anno XVII, n. 4-5, 1940, p. 2.

50
Coracaglina tira fuori un «vermiciattolo azzurro e diafano»23 da una ferita che ha
sull’avambraccio e ha con lui un breve scambio di battute che si conclude con una
maledizione del verme da parte del protagonista del racconto landolfiano:

«Iddio ti maledica, che cosa facevi qui dentro!»24

Nel Dialogo triste il congedo del verme dal pittore avviene quasi con dolore da
parte di quest’ultimo che lo saluta chiedendogli di tornare (Pittore: Addio verme,
ritorna…25). Forse già da questo articolo, il primo scritto di Scialoja ad essere
stato pubblicato, si intravede la simpatia che Scialoja nutre per gli animali, anche
per quelli comunemente detestati, e questo verme potrebbe rappresentare
l’archetipo dei vermi dei futuri nonsense (“Contro te, povero verme,/le lagnanze
sono eterne.”26).
Dal Dialogo triste, insomma, si può dedurre che, anche nel periodo in cui
era figurativo, Scialoja avvertiva il bisogno pregnante di esprimere la moralità
della persona; questo bisogno si realizzava aldilà dell’oggetto rappresentato nel
quadro, perché la relazione che Scialoja riteneva necessaria alla manifestazione
dell’artista nell’opera, era quella tra il mezzo espressivo e l’artista stesso. Questa
relazione si realizza nel gesto anche quando quest’ultimo non è preceduto
dall’intenzione dell’autore. Scrive Riccardo Donati:

Mutare l’intenzione in accoglienza, sottrarsi al rischio di usare la pittura per


sciogliersi invece in essa, significa per Scialoja abbandonare il gesto inautentico,
ipocrita, irresponsabile del nostro io sdoppiato, alterato, alienato, facile alle
estasi, ai capricci e ai peccai di gola, affidandosi invece alla carica disvelatrice
del gesto istintivo, il solo che consenta di «accrescere il campo del reale», come
scrive Bigongiari, ossia portare «continuamente maggiore ‘terra’ nel ‘viaggio’
umano»27. 28

23
T. Landolfi, Il mar delle blatte, in Il mar delle blatte e altre storie, Adelphi, Milano 1997, p. 14.
24
Ibidem.
25
T. Scialoja, Dialogo triste, cit., p. 2.
26
T. Scialoja, Versi del senso perso,cit., p. 29.
27
P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, Anna Dolfi (a cura
di) Bulzoni, Roma 2001, p. 113.
28
R. Donati, Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Le
Lettere, Firenze 2014, pp. 38-39.

51
La considerazione di Donati sorge dalla riflessione su un passo del Giornale
datato aprile 1955:

Non ci si esprime attraverso la pittura, non si usa la pittura a questo fine; ma ci


si scioglie nella pittura. Bisogna essere unici, cioè semplicemente e fino in fondo
se stessi; non “originali”. Unici, semplicemente; questo avverrà quando
l’intenzione sarà mutata fino all’estremo margine in accoglienza.29

Dopo la personale di Genova, ottenuti significativi riconoscimenti in Italia,


dove era stato inserito dalla critica tra gli autori della corrente espressionista, nel
1947 e 1948 Scialoja compie due viaggi a Parigi. Questo è per lui un momento di
crisi artistica. Sua nipote Barbara Drudi, nel redigerne la biografia, racconta come
la crisi lo portò a rinunciare a esporre le sue opere alla biennale di Venezia del
1948 e come, in quello stesso periodo, la sua tecnica cominciasse a mutare:

Nelle opere di questi anni le forme tendono a semplificarsi, il colore è graduato,


entro un quasi monocromo, così che l’oggetto non ha più appoggio prospettico
ma si appiattisce sul fondo; la pennellata è divenuta spoglia e larga, distesa e
placata nel modularsi delle campiture cromatiche. 30

Si comincia a intravedere in Scialoja una tendenza verso l’Astrattismo. Ercole


Maselli, in occasione di un’esposizione di Scialoja del ’49, scrisse:

(Scialoja) si volge ora all’Astrattismo, attinge al laboratorio propriamente


astrattista, e va provando e intessendo una propria assimilazione, un personale
innesto dei maggiori esempi di quella tendenza.31

All’abbandono della pittura figurativa corrisponde l’avvicinamento ad Afro e


Burri, due pittori ai quali Scialoja resterà legato per tutta la vita, condividendo con
loro consigli, opinioni e esperienze di vita, come testimoniano le foto che si
trovano nell’ultima residenza di Toti Scialoja e Gabriella Drudi, in via Santa
Maria in Monticelli a Roma, ora sede della Fondazione dedicata ai due coniugi. Il
rapporto con Burri fu importantissimo per Scialoja. Fu proprio Burri a insegnargli

29
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 11.
30
B. Drudi, Biografia, in Topi, lucciole, conigli e formiche…, cit., p. 10.
31
Ibidem, la citazione è di E. Maselli.

52
l’uso della colla vinilica mischiata al colore e a spingerlo ad abbandonare il
pennello per dipingere con lo straccio, due espedienti attraverso i quali Scialoja
rende la sua pittura più materica e corposa. La colla vinilica rende il colore
viscoso e denso e l’uso dello straccio aumenta la vicinanza fisica tra pittore e
opera incrementando l’osmosi dei sensi. Scrive Scialoja:

attraverso le viscere dello straccio che stringo tra le dita e sento muoversi e
resistermi, attraverso questo mezzo aggrovigliato e inzuppato di colore tanto che
l’intera mano mi si bagna fino al polso, mi pare di vivere immerso. 32

All’abbandono del pennello corrisponde un ritorno all’arte espressiva, un ritorno


su cui Scialoja aveva meditato molto, arrivando alla conclusione che l’oggetto
della rappresentazione pittorica è il farsi stesso dell’opera. Siamo nel 1954, e da
questo momento, per un lungo periodo, Scialoja annoterà ogni suo pensiero
sull’arte nel Giornale di pittura, opera, si è detto, di grande valore letterario, ricca
di momenti lirici trascritti in prosa, oltre che preziosa per testimoniare lo sviluppo
del suo pensiero estetico.
Molte pagine sono dedicate ai mesi trascorsi a New York. Dopo la seconda
guerra mondiale, il centro dell’arte contemporanea si era spostato infatti
dall’Europa all’America, e New York era divenuta culla di molte avanguardie
artistiche. In questi viaggi è fondamentale la presenza di Gabriella Drudi, moglie
di Scialoja, donna dalla personalità poliedrica: critica d’arte, traduttrice, scrittrice
e corrispondente per molte riviste culturali, fu un tramite prezioso tra il marito e
gli artisti americani, perché Scialoja, pur padroneggiando il francese, non
conosceva l’inglese.
Negli Stati Uniti Scialoja ebbe modo di conoscere e frequentare gli artisti
dell’Espressionismo Astratto, tra cui Willem De Kooning, Mark Rothko, Robert
Motherwell, Arshile Gorky, e altri. Nel Giornale, Scialoja sostiene che, pur
essendo partiti da basi comuni a quelle degli europei, gli artisti americani avevano
messo più passione nella ricerca artistica, ed erano per questo riusciti a trovare un
linguaggio espressivo adatto ai tempi:

32
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 9.

53
Gli americani sono partiti da tutte queste medesime premesse, ma con più
passione, con fede assai maggiore; come tutti i diseredati e i neofiti amorosi.
Hanno inteso che il problema era quello di reinventare un contenuto avanti tutto,
una idea, una posizione morale. Perché la pittura è avanti tutto l’immagine
concreta di una idea.33

Sempre meglio si delinea per Scialoja l’idea di una pittura che sia manifesto
dell’artista stesso:

Un’idea alimentata avanti tutto da amore; la semplice ingenua idea di


confessarsi nell’opera. Pittura di confessione: e fare pittura voleva dire
manifestare se stessi, lasciare un’impronta personale, affidare la parte più
segreta e irriducibile e renitente, e insottomessa di sé all’opera. 34

Pittura come rappresentazione delle pulsioni vitali dell’individuo quindi, che


mette tutto se stesso nell’opera d’arte, si confessa in essa, in essa rivela gli aspetti
più segreti e nascosti della propria anima. Quest’idea di pittura è talmente interna
alle ragioni della vita che Scialoja si interroga sull’attributo di astratta che le
viene assegnato:

Il termine espressionismo astratto pare improprio, in questo caso. Poiché si tratta


di pittura non figurativa (e non sempre) ma non astratta, se è tanto interna alle
ragioni della vita.35

Nella pittura americana Scialoja trova un senso morale che sarebbe impossibile
far corrispondere a una scuola o una corrente. Robert Motherwell, pittore
statunitense amico di Scialoja, afferma:

Io penso che ovunque nel mondo chi si è interessato all’Espressionismo Astratto


ha frainteso qualcosa: l’hanno visto come uno stile, nel senso in cui il Fauvismo
era uno stile, o il Futurismo o il Cubismo, mentre era esattamente l’opposto,
partiva da zero, dal niente… L’Espressionismo Astratto è nato in un contesto
miserando… in Europa hanno sempre avuto la tendenza a farlo diventare uno
stile e trascurare il vuoto, l’angst, l’angoscia, la disperazione da cui quest’arte è

33
Ivi, p. 33.
34
Ibidem.
35
Ivi, p. 34.

54
nata; non è una cosa che si inventa o si vorrebbe inventare. Chi sceglierebbe di
vivere la vita di Kafka per fare un capolavoro?36

L’esperienza americana fu dunque importantissima per Scialoja, che negli artisti


d’oltreoceano aveva trovato chi condividesse l’idea in lui nascente di un’arte che
derivasse la sua necessità da un bisogno di esprimersi dell’uomo, un’arte interna
alla vita, generata dalla vita. Gli artisti statunitensi erano riusciti a esprimere
questo concetto sulla tela e Scialoja restò molto influenzato dai pittori conosciuti
nel suo soggiorno.
Giosetta Fioroni, pittrice che collaborò a lungo con il poeta Zanzotto illustrando in
particolare le poesie della raccolta Meteo, fu allieva di Scialoja negli anni
Cinquanta, quando egli insegnava all’accademia di Belle Arti di Roma. In
un’intervista, la pittrice racconta come si modificò la tecnica del suo maestro dopo
i primi contatti con gli Stati Uniti:

All’inizio Scialoja era un pittore di cavalletto: faceva degli olii, una pittura
corposa, di piccolo formato. I suoi riferimenti erano la Scuola Romana di
Scipione e Mafai, Morandi e Soutine. Ma poi cominciò ad andare negli Stati
Uniti e a New York scoprì l’action painting e i suoi protagonisti: De Kooning,
di cui diventò amico, Kline, Pollock, Gorky. […] Ma non fu una semplice
passione, fu una vera conversione. New York era stata la sua via di Damasco:
ripudiò il cavalletto, che considerava ormai un oggetto ridicolo, cominciò a
rifiutare le tecniche tradizionali e a detestare ogni forma di figura. Non esisteva
che l’Informale, la pittura materica.37

In un articolo con cui Giulio Carlo Argan apre il numero monografico del “verri”
dedicato all’Informale38, il critico si pone la domanda che spesso ritorna nella
discussione critica intorno all’arte Informale: l’Informale è «crisi dell’arte o arte
della crisi?»39. La risposta di Argan è la seguente:

36
R. Motherwell intervistato da Luigi Ballerini. L’intervista è riportata in Toti Scialoja. Opere
1983-1997, Rolf Lauter e Marco Vallora (a cura di), Catalogo della mostra (Galleria dello Scudo,
Verona 9 dicembre 2006 -28 febbraio 2007), Skira, Milano 2006, p. 232.
37
G. Fioroni nell’intervista di Elisabetta Rasy uscita sul “Corriere della Sera” nel luglio 2000,
pubblicata in Topi, lucciole, conigli e formiche… Toti Scialoja, un pittore, un poeta che ha
incontrato i bambini, Mostra a cura dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Brescia,
Edizioni Corraini, Mantova 2002, p. 24.
38
L’informale, “il verri”, Anno V, n. 3, giugno 1961.
39
G. C. Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, in “il verri”, cit., p. 23.

55
È una domanda futile, perché è evidente che una crisi dell’arte non potrebbe
avverarsi se non nel quadro di una crisi più vasta, della cultura e della società,
ma dimostra come l’Informale venga universalmente considerato come un
fenomeno di rivolta. L’obbiettivo della rivolta non è l’arte tradizionale o
conservatrice, ma l’arte che muove da una ideologia rivoluzionaria, e alla quale
si rimprovera di non avere realizzato il proprio programma e raggiunto il proprio
fine.40

La rivolta dell’Informale si indirizza contro l’arte industriale asservita al


capitalismo, «che trasforma incessantemente la materia in serie infinite di
oggetti»41, riducendo l’esistenza ad un meccanismo di produzione e abolendo
l’individuo, rendendolo massa. La presenza, nella corrente Informale, di numerosi
artisti americani dipende dal fatto che in America la spinta della produzione
industriale non era stata contrastata da una tradizione preesistente. Scrive Argan:
«gli artisti non sono più gli ultimi difensori di tradizioni […] ma intellettuali in
aperto contrasto con il materialismo del capitalismo»42. Ciò che questi intellettuali
americani avvertono è il bisogno di contrapporre all’arte industriale «la questione
dell’individuo, di me, è la questione della foglia nel bosco, della goccia nel mare,
della persona nella città»43. L’Informale è insomma «la risposta dell’arte al modo
inautentico di vita ch’è stato imposto agli uomini»44.
Harold Rosenberg, critico d’arte statunitense che coniò il termine Action painting,
sulla pittura d’azione nordamericana scrive in “Art News”:

Ad un certo punto la tela cominciò ad apparire al pittore nordamericano come


un’arena in cui agire, piuttosto che come uno spazio ove riprodurre, ridisegnare,
analizzare o esprimere un oggetto reale o immaginato. Ciò che si realizza sulla
tela non è un quadro ma un evento. Il pittore non inizia con un’immagine, ma va
verso la tela con la materia in mano, per fare qualcosa su un’altra materia (la
tela). L’immagine sarà il risultato di questo incontro. […] Un dipinto che è un
atto inseparabile dalla biografia dell’artista. Il dipinto è un «momento
nell’adulterato miscuglio della sua vita», sia che il momento significhi i minuti
reali trascorsi nel lavoro sulla tela, oppure l’intera durata di un lucido dramma
condotto nel linguaggio del segno. L’Action painting è nella stessa sostanza

40
Ibidem.
41
Ivi, p. 28.
42
Ivi, p. 27-28.
43
Ivi, p. 29.
44
Ivi, p. 42.

56
metafisica dell’esistenza dell’artista. La nuova pittura ha rotto ogni distinzione
fra arte e vita.45

Scialoja aveva iniziato a insegnare all’Accademia nel 1953 ed era partito per
il suo primo viaggio americano nel 1956, ecco perché la Fioroni è una testimone
attendibile per quanto riguarda la “conversione” avvenuta nel suo insegnante dopo
l’incontro con gli artisti oltreoceano. Quelli del dopoguerra erano anni particolari
per l’insegnamento dell’Arte. All’Accademia di Roma molti professori avevano
assistito con dolore al tramonto del primato dell’arte italiana e non guardavano
favorevolmente all’America e alle novità da essa provenienti.
Una personalità reattiva agli stimoli esteri come quella di Toti Scialoja non era
molto amata dai suoi colleghi che - scrive la D’Acchille - «non si fecero scrupolo
di esternare questo sostanziale sospetto nei suoi confronti, trasformandolo non di
rado in vere e proprie accuse di esterofilia e opportunismo»46. Tuttavia la risposta
di molti studenti a questo professore non allineato all’ambiente accademico fu
calorosa e entusiasta:

Le lezioni di Scialoja, indipendentemente dal rapporto più o meno felice con i


diversi allievi, avevano l’indiscutibile fascino di farli sognare, di aprire loro
porte verso mondi, temi e attitudini fino a quel momento mai neanche
immaginati. […] L’acquisita consapevolezza della rivoluzionaria novità della
pratica della psicoanalisi nel mondo occidentale post bellico, una profonda
conoscenza della storia dell’arte e dei movimenti d’avanguardia d’Europa e
d’oltreoceano devono aver conferito a questo professore così diverso da molti
suoi colleghi un’aura di sacralità che legittimava definitivamente l’appartenenza
della sua scuola al mondo e al sistema dell’arte.47

A Scialoja va il merito di aver avuto tra i suoi allievi quelli che oggi sono artisti
affermati come Giosetta Fioroni, lo si è detto, rimasta colpita da quell’uomo
«affascinante, con un’aria sussiegosa e imperiosa»48 che era stato decisivo per
spingerla a perseguire la sua vocazione artistica:

45
H. Rosenberg, La pittura-azione nordamericana, in “Art News”, n. 51, dicembre 1952. La
citazione è riportata in traduzione in Breve antologia di poetica, Enrico Crispolti (a cura di), in “il
verri”, Anno V, n. 3, giugno 1961, p. 139.
46
T. D’Acchille, Toti Scialoja e l’Accademia di Belle Arti di Roma, in 100 Scialoja, cit., p. 36.
47
Ivi, p. 37.
48
G. Fioroni, in occasione dell’evento Omaggio a Toti Scialoja, cit.,
https://www.youtube.com/watch?v=jjF-rINCJ-k

57
Io avevo molta voglia di fare l’artista, il pittore nella mia vita, però, attraverso di
lui (Scialoja), la mia decisione diventò irrevocabile. Voglio dire: quello che lui
poteva dare, quello che lui trasmetteva, quello che lui raccontava… Fu uno dei
primi in quegli anni che andò a New York, e venne in contatto con l’Action
Painting, con la Scuola di New York. […] Lui portò una ventata straordinaria
anche in quel senso, di tutto quello che succedeva in America. Noi fummo
proprio illuminati dal suo sapere, dal suo conoscere sempre espressivamente la
materia dell’esprimersi, della pittura… 49

O anche Jannis Kounellis, pittore e scultore greco, una delle figure di primo piano
della cosiddetta “arte povera”:

L’entrata di Scialoja nel panorama dell’Accademia è stata una bella presenza


che portava con sé il cambiamento. Prima di tutto era un bravissimo professore,
con una grande comunicatività. […] Era andato in America. Era stato molto
impressionato da quella generazione di artisti. […] Parlava di una pittura nuova
e rivoluzionaria. Bisogna dirlo! Quello che insegnava quell’uomo sottile e
melanconico era rivoluzionario. Io gli devo molto.50

La vera rivoluzione per Scialoja avviene proprio nel suo primo soggiorno negli
Stati Uniti, tra il novembre e il dicembre del ’56. Tornato a Roma da questo
viaggio, Scialoja prosegue la stesura del suo Giornale. La sua riflessione procede
occupandosi in questi anni del ruolo dell’artista e di come trasmettere la realtà
nell’opera. Tra le pagine si trova sempre più spesso la parola azione:

Quel che valse, di cui resta traccia, è l’azione, cioè l’intervento dello spirito
nella materia da tale intervento modificata (o con negazione o con
assecondamento). Nel quadro va ricercato perciò il modo di tale azione o
intervento; va ricercato e letto il modo con il quale esso è stato fatto. La storia e
le forme di questa azione dello spirito sulla materia. […] Il pittore oggi si
consegna all’opera attraverso la tecnica del suo fare, non attraverso una finale
soluzione del suo essere.51

49
Ibidem.
50
J. Kounellis, in occasione dell’evento Omaggio a Toti Scialoja, cit.,
https://www.youtube.com/watch?v=WdQ_iGWH9Ko
51
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., pp. 59-60.

58
L’intervento dello spirito sulla materia si realizza in un contatto fisico dell’autore
con la tela e con l’oggetto con il quale si dipinge. In questo senso Scialoja aveva
guardato al maestro dell’Informale, Pollock, che aveva conosciuto negli Stati
Uniti:

La mia pittura non nasce dal cavalletto. Io quasi mai stendo la tela prima di
dipingerla. Preferisco fissare la tela alla parete o al pavimento. Ho bisogno della
resistenza di una superficie dura. Sul pavimento sono più a mio agio. Mi sento
più vicino, più una parte del quadro, perché in tal modo posso girare intorno ad
esso, lavorare su quattro lati ed essere letteralmente nel quadro.52

Pollock (alla cui morte Scialoja dedica una pagina del Giornale in cui descrive
con quanto dolore apprese la notizia53) era ammirato da Scialoja per «la labilità di
queste opere, il loro significato di azione piuttosto che il risultato, e che tale gesto,
di natura appunto apotropaica, leghi la materia spirituale all’uomo, conscia e
inconscia, alle grandi forze della natura, al vento, al sole, alla pioggia»54.
Pittura è innanzi tutto abbandono ai sensi. Diceva questo Scialoja quando
scriveva:

Un quadro non è mai finito, se non per un atto di determinazione psicologica o


fabrile.55

L’atto di abbandono all’inconscio che Scialoja ritiene necessario per scrivere


nonsense, e indispensabile per chi voglia leggere le poesie del senso perso, vale
anche in pittura. Così entrambe le arti in cui Scialoja è versato partono dalla stessa
irrinunciabile necessità: agire nell’“ignoto”. Nell’articolo pubblicato sul “verri”,
Come nascono le mie poesie, Scialoja mette a confronto i suoi due linguaggi

52
J. Pollock, La mia pittura, in “Possibilities 1”, New York, 1947-48. La citazione è tratta da
Alberto Bisignani, Jackson Pollock, Sansoni Editore, Firenze 1970, nota 8, p. 23.
53
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., pp. 23-25: “Serata soffocante in un caffè sul marciapiede di
viale Parioli. Polverone, afa, luci al neon sotto i grandi platani, riverberi intermittenti, nel viale il
frastuono dei camion, le cicale non cessano di gridare tra le foglie ora verdi ora rosse. Colla dice
ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: «Povero Pollock». «Perché povero?», domando. «Non
lo sapevi, è morto». Tutti preghiamo ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento
di mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma mentre lo interroghiamo, con un certo
affanno, e indaghiamo sul come e sul quando di tale notizia, sentiamo salire dentro di noi,
irrimediabile, l’oscura densità di questa morte.” Roma, 18 agosto 1956.
54
A. Bisignani, Jackson Pollock, cit., pp. 22-23.
55
Ivi, p. 25.

59
espressivi parlando proprio del meccanismo inconscio che è alla base di tutto il
suo fare arte:

È possibile che l'esperienza della pittura m'abbia permesso


questo abbandono alla parola, fede nella parola, nel suono, indispensabili per
fare poesia. La mia pittura nasce all'interno delle potenzialità del colore e della
pennellata, da un agire nell'ignoto, giacché non vi è un'immagine che precede il
quadro. Così non esistono né una problematica né un racconto che precedano la
poesia: la poesia si costituisce all'interno della pregnanza della parola.56

Col passare dei mesi lo Scialoja che scrive nel Giornale di pittura diventa sempre
più angosciato, la sua scrittura si fa febbrile:

La pittura è la celebrazione dell’uomo nella materia. Pittura vuol dire trasmettere


l’intero corpo dell’uomo, membra viscere cuore, il fiato della corsa e il respiro
del sonno, il sudore e l’oscuramento dei nervi, il divenir verde come erba,
l’incollarsi della lingua al palato, e le scintille delle calde lacrime e il grido
soffocato del caldo sangue, e il ridere convulso di chi tocca la gioia, e il sorriso
del curvo e l’intesa, il lampo dell’intesa tra vivente e vivente – persino la
ripugnanza, forse la pietà, a schiacciare uno scarafaggio, ciò che è vivo, ciò che
si muove: anche se non abbia più peso dello spostarsi di un rigo d’ombra.
Insomma il calore del corpo e dell’anima, l’amore e l’abbraccio. Appunto:
trasmettere il proprio corpo, cioè la condizione unica del proprio esistere, con
l’azione del dipingere; l’atto di amare, modificare, incidere, frantumare,
premere, schiacciare. Penetrare il grembo di.57

Siamo nel maggio 1957. Sul finire del decennio Scialoja vive un altro periodo di
crisi, è inappagato dal proprio modo di dipingere che riesce a esprimere a parole
ma che non ha un riscontro nell’atto effettivo della pittura. Ogni periodo di crisi
viene superato da Scialoja con l’evolversi e il rinnovarsi della tecnica, «dal
momento che i punti di arrivo in Scialoja», scrive Milton Gendel, «sono
generalmente anche i punti di nuove partenze».58 È nel luglio dello stesso ’57,
mentre si trova a Procida, che nascono le Impronte, le opere che lo rendono
celebre. Le Impronte, realizzate con la tecnica dello stampaggio, permettono a

56
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in “il verri”, Anno VIII, 1988, p. 14.
57
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., pp. 64-65.
58
M. Gendel, Scialoja paints a picture, in “Art News”, vol. 54, n. 4, 1955, citato in traduzione in
B. Drudi, Biografia, in Topi, lucciole, conigli e formiche…, cit., p. 13.

60
Scialoja di usare tutto il corpo per dipingere. In un’intervista in cui presentava
l’esposizione svoltasi al Macro di Roma nel 2015, Toti Scialoja. Azione e
pensiero, lo storico dell’arte Costantino d’Orazio racconta come avvenne la
creazione delle Impronte usando le parole del pittore:

Lavoravo a Procida, in una casa di campagna, e quell’estate attraversai una


serissima crisi d’identità. Ogni mio intervento sulla tela inchiodata al suolo mi
appariva ingiustificato e arbitrario. Così copersi la tela di nero e attesi. Per giorni
e giorni mi sfogavo spalmando colore sulle cento carte di giornale che
ingombravano lo studio. Finché un giorno, forse un colpo di vento, rovesciò un
foglio sulla tela. Può essere che l’abbia sognato, ma riempire di colore un foglio,
rovesciarlo sulla tela e stamparlo battendo forte con le mani, fu la soluzione che,
apparentemente allora, aboliva una mia scelta e affidava unicamente alla fatalità
il mio intervento sulla superficie.59

Con il processo dello stampaggio Scialoja riesce finalmente a usare tutto il corpo
per dipingere, soprattutto nei quadri di grandi dimensioni, perché per realizzarli
con la nuova tecnica appena escogitata si buttava sulla tela con tutto il corpo. La
pittura non è più solo uno strumento di confessione ma diventa sindone del
pittore:

La pittura è semplicemente sindone, impressione dell’uomo interno scoperto,


trasudante, carico di quel liquido che è il suo vivere, il suo trascorrere, la sua
memoria di ogni cosa dell’universo. 60

Comincia a profilarsi un concetto che sarà concetto chiave nella sua pittura e farà
sentire la sua presenza anche in poesia: il sentimento del tempo.
Il processo di stampaggio si può assimilare infatti a quello della scrittura, la
stampa avviene da sinistra verso destra e, man mano che l’azione di pressione si
ripete, il colore sul foglio tende a esaurirsi e a sbiadire. In questo sbiadire c’è il
tema della memoria, che sarà una delle tematiche ricorrenti delle poesie degli anni
Ottanta.

59
C. d’Orazio, Toti Scialoja in mostra al Macro di Roma, http://www.arte.rai.it/articoli/toti-
scialoja-in-mostra-al-macro-di-roma/29659/default.aspx
60
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 89.

61
Con la realizzazione delle Impronte Scialoja riesce a concretizzare il concetto del
tempo, concretizza l’Espressionismo astratto riproducendo sulla superficie della
tela l’attimo esatto della pittura. L’attimo necessario alla stampa dell’Impronta è
infatti come lo scatto di una fotografia istantanea. Dal momento in cui il foglio di
giornale intriso di colore è stato poggiato sulla superficie, l’Impronta esiste ed è
incancellabile e immodificabile, porta con sé la violenza o la dolcezza del gesto
con cui la mano dell’autore ha accompagnato la carta sulla tela:

Ogni volta stampo la stessa cosa: cioè me stesso espresso nel gesto necessario in
quel momento […]. Ovvero il mio grado di stanchezza, di invogliamento, di
eccitazione, di incertezza a determinare il verso, la conformazione
dell’impronta. Una certa somma, un certo accumularsi di questi interventi
determinano la superficie, cioè la realtà della visione. 61

A proposito del concetto del tempo in pittura Gillo Dorfles, parlando delle
Impronte di Scialoja, scrive:

Immettere il tempo entro la spazialità della superficie è stata un’antica


ambizione, una sempre rinnovata speranza della pittura; ma a quanti equivoci ha
portato! Non fu il dinamismo plastico del futurismo, né fu la simultaneità
sovrapposta del cubismo a raggiungere il segno. […] La sua (di Scialoja)
«temporalizzazione» dell’arte pittorica deriva da un elementare e ineluttabile
meccanismo: quello della successione multipla e della successione analogica: la
ripetizione di elementi identici (anzi: analoghi) a distanze topo-cronologiche
discontinue suscita, inevitabilmente un ritmo; e codesto ritmo trae con sé la
nascita, magica e impreveduta, difficilmente catalogabile ma pur sempre
controllabile, perché simbolica, d’un tempo emotivo: un particolare e universale
tempo spazializzato.62

Riproducendo il tempo del corpo sulla superficie si realizza l’idea di pittura


corporea perseguita in anni di ricerche:

Spazio è pura immobilità. Ciò che è vivo è per essenza non-immobile, è


patimento di tempo, anzi è tempo incarnato, vita in atto. La carne diviene verbo,
cioè senso aperto nel tempo.

61
Ivi, p. 85.
G. Dorfles, Scialoja, in ¸”Quaderni di arte attuale”, n. 2, Editi da Luigi De Luca a cura della
62

Galleria la Tartaruga, Roma 1959, p. 3. Corsivo mio.

62
Non solo il susseguirsi sulla superficie è tempo vivo e non trascritto. Anche lo
strato vuol dire tempo: attimo fatto di carne. Impronta è il contrario di forma.
[…] Occorre oggi arrivare ad una percezione reale del tempo; non solo
umanizzare il tempo, ma renderlo corporeo. Tempo uguale a respiro. Arrivare a
una pittura corporea, a una superficie viva dello stesso conformarsi e trascorrere-
corrompersi del corpo e delle membra umane. 63

Come si invecchia carichi delle proprie esperienze, così si stampano le Impronte,


che nello scorrere del tempo (il tempo cronologico) e con l’aumentare della
confidenza con il metodo dello stampaggio, diventano via via più mature,
conformi al “trascorrere-corrompersi del corpo e delle membra umane”:

La decima impronta non avrà la freschezza e l’acerbità della prima come per un
invecchiamento, per una saggezza acquistata, per un legame fatale con tutti gli
altri colori già messi […]. L’ultima impronta stampata sarà quasi voluta da tutte
le altre, da tutti gli strati già esistenti, e non certo per «bellezza» ma per
necessità di chiusura, di finale esaltazione o negazione. 64

Il concetto del ritmo, risultante dal rapporto tra lo spazio (superficie) e il tempo, si
fa avanti prepotentemente nell’arte di Scialoja, un’arte che nasce dal movimento
del corpo, dal gesto fisico. Un’arte «insuperabilmente antropomorfica»65 in cui il
gesto fisico crea la forma, crea l’Impronta del pittore sullo spazio fisico della
superficie che vive la stessa vita dell’autore. La composizione del quadro non è
spaziale ma gestuale, e Scialoja intende per ritmo questa gestualità, così che è la
vita stessa ad essere ritmo, ritmo reso visivo dalla pittura, scandito dallo sbattere
del foglio intriso di colore sulla tela. Si può dire che l’Impronta è psicosomatica
perché non rappresenta nessun corpo e nessuna parte di un corpo bensì sensazioni
intangibili:

Impronte di una immediata sensazione del proprio corpo, di una percezione


«psicofisica» del proprio corpo. Impronte di un «luogo» psichico, di una
pressione interna, di uno slancio indimensionato, il cui centro potrebbe essere

63
Ivi, p. 104.
64
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 85.
65
Ivi, p. 100.

63
localizzato nello stomaco, e onde che si allargano fino al basso ventre e al petto,
e alla gola e ai genitali, e all’orizzonte degli occhi e alla base delle ginocchia. 66

Negli anni Sessanta le Impronte si arricchiscono di inserti come merletti, garze,


carte di giornale, sabbia… Scialoja ha ancora una volta bisogno di rinnovarsi,
perché non più soddisfatto pienamente dal suo lavoro. Nel Giornale, nel dicembre
’59, scrive:

Assoluta incomunicabilità. Non c’è rapporto tra me e il quadro come non c’è
comunicazione tra nessuno e nessuno. Si può solo toccare, urtare. Toccare,
respingere. Urtare, imprimere, respingere.
Le impronte ripetono questa incomunicabilità. Non trasmettono nulla, non
vogliono «comunicare» nulla. Nulla da decifrare, nulla da dimostrare. C’è solo
l’atto, identico a sé, che si ripete, e vale per il suo urto puro, il suo puro
risorgere. […] Seguito a imprimere, seguito a urtare, anche se non resta
traccia.67

Il tempo, il ritmo, l’intervallo, sono concetti scaturiti dal reiterarsi del gesto
sempre simile della pittura di Impronte, che ha assunto le caratteristiche negative
dell’automatismo diventando solo gesto e non esprimendo l’emozione che c’è
dietro di esso. Dopo un periodo di serena e fiorente creatività, Scialoja si trova
davanti ad un nuovo ostacolo da superare. Nella ricerca pittorica ricompare il
concetto della superficie, fino ad ora vista semplicemente come risultato
dell’insieme dei gesti. La superficie nel ’61 diventa un oggetto che deve presagire
l’Impronta, non è più tela inerte ma vibrante della stessa vitalità del colore e del
gesto:

Anche la superficie o campo deve partecipare al ritmo, deve temporalizzarsi


esprimendosi in pause, intervalli cesure divisioni, lunghi righi verticali. I lunghi
righi erano a loro volta impronte di corde tese sulla superficie, imbevute di
colore e premute per lasciare la loro traccia. A un certo momento la corda stessa
che è servita all’impronta resta incollata, saldata alla superficie. 68

66
Ivi, p. 155.
67
Ivi, pp. 142-143.
68
Ivi, p. 168.

64
Il tentativo di modificare le Impronte con l’inserimento di oggetti estranei alla
pittura non ha tuttavia successo perché Scialoja non riesce più a identificarsi con
questo processo di creazione che ha perso la sua libertà:

Simbolo di un tempo meccanico rispetto al tempo profondo: il ticchettio


dell’orologio che si sente ed è sempre uguale rispetto al battere del cuore che
non si sente ed è sempre diverso. […]. La fisicità oggettiva della superficie
diventa spartizione intervallo spaziale cioè incolmabile con le corde.69

Il tempo si concettualizza in un’eterna ripetizione:

«Il tempo della pittura non può che basarsi sul tempo che Kierkegaard ha
definito come ripetizione. Il tempo è la ripetizione. Il tempo vuol dire la
riaffermazione della tua coscienza. Tu di volta in volta dici io sono, io sono
quello che ero ieri e quello che sarò anche domani», nell’eterno ritorno
dell’uguale.70

Il concetto di ripetizione era stato approfondito da Kierkegaard nell’opera La


ripresa. Ripresa, suggerisce la traduttrice Angela Zucconi, è il termine più adatto
a tradurre il titolo originale dell’opera:

La parola Gjentagelse rappresenta una difficoltà insormontabile. La voce


italiana ripresa, se considerata in tutti i suoi usi e accezioni, giustifica il rifiuto
da parte del traduttore della parola ripetizione. Si parla di ripresa nella musica (il
segno che indica il punto in cui si deve ripetere parte del pezzo musicale); per
chi gioca, la carta di ripresa è quella che serve a rientrare; così si parla della
ripresa di un motore, della ripresa di una gara. In danese la voce Gjentagelse
significa ripetizione e ripresa. Kierkegaard ha riportato espressamente il titolo in
testa alla seconda parte del libro, per chiarire che di ripresa si può parlare solo
sul piano dell’esperienza religiosa, mentre Constantin Constantius nel suo
viaggio a Berlino, cerca invano una ripetizione.71

69
Ibidem.
70
C. Crescentini, La diversità di Toti Scialoja. Procedimenti, verifiche ed equivalenze, dalle
Impronte a Per W. d. K. 20.3.1997 e ritorno, in 100 Scialoja. Azione e pensiero, Catalogo della
mostra (Roma 28 marzo – 6 settembre 2015), De Luca Editori d’Arte, Roma 2015, p. 15. La
citazione è tratta da una conversazione di Toti Scialoja sulla pittura, registrata per una trasmissione
della RAI, Autoritratto d’arte contemporanea: Toti Scialoja.
71
A. Zucconi, Introduzione del traduttore, in S. Kierkegaard, La ripresa, Angela Zucconi
(traduzione e introduzione a cura di), Edizioni di Comunità, Milano 1954, p. XIV, nota 3.

65
Nella Ripresa Kierkegaard analizza la sua definitiva rottura con la fidanzata
Regina Olsen. Parlare dell’amore per lei e della necessità di lasciarla, dà al
filosofo l’occasione per approfondire il tema della Gjentagelse:

Ripresa e reminescenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione


opposta, perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la
vera ripresa è ricordare procedendo. Perciò la ripresa, ammesso che sia possibile,
rende l’uomo felice, mentre la reminescenza lo rende infelice, a condizione però
che l’uomo si dia tempo di vivere.72

In questo senso “il tempo della pittura non può che basarsi sul tempo che
Kierkegaard ha definito come ripetizione”. La Gjentagelse, ripetizione e ripresa,
ha un andamento verticale, in cui ogni punto si ripete su un diverso livello,
facendo tesoro, nelle esperienze che si ripetono, delle esperienze passate e
raggiungendo così la riaffermazione della propria coscienza.
È questo andamento verticale che permette a Scialoja di superare la nuova crisi:
così le Impronte, arricchite di inserti materici, che da un punto di vista visivo
hanno un effetto gradevole ma non realizzano il pensiero dell’autore da quello
concettuale, vengono modificate. Il gesto, nato dall’automatismo psichico, si
trasforma in un minimale e intenzionale gesto verticale, le Impronte si
irrigidiscono in strutture di forme-colore create da una pennellata ferma e
continua, senza dubbio meno espressiva e corposa rispetto ai risultati ottenuti con
la libera gestualità creativa del periodo precedente. Scialoja chiama queste nuove
forme Quantità cromatiche. Nella sua pittura torna il colore che per molto tempo
era stato ridotto al bianco e nero:

Il mio «ritorno» al colore (dopo cinque o sei anni di pittura in bianco e nero), il
mio lento, lentissimo ritorno al colore, iniziato ormai da un anno e
continuamente interrotto e ripreso, è un ritorno che resterà per sempre tale, cioè
non condurrà ad una nuova pienezza di colore ad una nuova pittura di colore, ma
resterà sempre ormai un «movimento», una direzione, una intenzione di
avvicinamento, di approccio, di ripresa, di inizio. […] (I colori) Sono sempre gli
stessi ma il cuore è nuovo che li rinnova riscoprendo il mistero di un accordo tra
colori freddi o l’inserzione improvvisa di una striscia bianca o nera. 73

72
S. Kierkegaard, La ripresa, cit., pp. 3-4.
73
Ivi, p. 175-176. Corsivo mio.

66
E torna, il colore, nel 1964 a Parigi. Scialoja era ritornato nella capitale francese
nella speranza di trovare una soluzione alla crisi in cui la pittura delle Impronte lo
aveva gettato, ma la «situazione catastrofica, fallimentare, della pittura a Parigi»74
e un sentimento di nostalgia per la sua lingua madre, lo avevano condotto a
cercare un nuovo modo di esprimersi in maniera efficace. È in questo periodo che
nascono i Versi del senso perso, delle cui origini abbiamo parlato. I nonsense
scritti per il nipotino James portano Scialoja indietro nel tempo, alla sua infanzia,
facendogli riscoprire il gusto per la parola. Il periodo che va dagli anni del
soggiorno parigino, i primi anni ’60, fino agli anni ’80, è una fase in cui la musa
della creazione arride più allo Scialoja poeta che al pittore, il quale tornerà a
dipingere opere di un’importanza paragonabile a quella delle Impronte dopo un
viaggio a Madrid compiuto nel 1982. Al museo del Prado Scialoja vedrà infatti le
Pitture nere della Quinta del sordo di Goya e ne resterà folgorato:

L’incontro con la “pittura nera” di Francisco Goya della Quinta del sordo, che
Scialoja aveva per la prima volta – in quei giorni – l’occasione di vedere dal
vivo, si rivela cruciale: è un’apparizione. Da quel colore nero, puro, senza
disegno, da quella pennellata che costruisce la forma, Toti viene letteralmente
rapito, folgorato; come se una passione, un linguaggio sotterraneo e universale
fosse passato attraverso i secoli e la storia, riproponendosi allora davanti ai suoi
occhi con un’energia espressiva tutta nuova. 75

Le Pitture nere della Quinta del sordo vengono realizzate da Goya in un periodo
di isolamento forzato vissuto tra il 1820 e il 1823. Nel 1792 era stato reso
completamente sordo da una malattia e questa condizione per «la prima volta
oscura l’anima di Goya fino ad allora piena di luce»76. Tuttavia fino ai primi anni
Venti dell’Ottocento continua a dipingere su commissione i ritratti delle famiglie
nobili di Spagna. A proposito dei ritratti su commissione, il critico d’arte Yves
Bonnefoy osserva:

Il pittore si riconosceva artista «su commissione», conservando però la propria


onestà nell’esecuzione del compito, con un occhio non solo alla bellezza

74
Ivi, p. 161.
75
B. Drudi, “Una stupefatta immortalità”: i miei anni con Toti Scialoja, in Toti Scialoja. Opere
1983-1997, cit., p. 157. Corsivo mio.
76
F. Sánchez Cantón, Goya: la Quinta del Sordo, Sadea/Sansoni Editori, Firenze 1965, p. 3.

67
dell’opera ma anche alla verità di cui la società ha bisogno. […] Non è il re, né il
legislatore o il sacerdote, il cliente da cui Goya si sente sollecitato, ma l’essere
umano; e la committenza suprema, quella che sente il dovere di accettare, è
quella che permetterebbe all’uomo di accedere al meglio di sé. Cosa fare allora?
[…] Non è giunto finalmente il momento di seguire la causa della verità in modo
finalmente radicale, sforzandosi, pur tra mille difficoltà, di spazzar via
dall’immagine tutti i valori irreali, tutte le promesse infondate, tutte le false
speranze?77

Le Pitture nere, realizzate a olio direttamente sull’intonaco delle pareti della


Quinta, rappresentano la realizzazione di questa pittura “della verità in modo
radicale”:

Non bisogna avvicinarsi alle Pitture nere attraverso l’esame dei soggetti o delle
intenzioni. […] (Goya) ha constatato che la sua grande intuizione del nulla può
far irruzione tra queste ultime, per devastarne le immagini, con l’aiuto degli
stessi mezzi utilizzati dalla rappresentazione tradizionale – il tratto, un tocco di
colore, una nota di luce; a condizione, però, di lasciare che quelle prime fasi del
lavoro si aprano senza resistenza alle percezioni non più di cose o figure, ma
delle paure improvvise, delle reazioni di difesa, le emozioni del corpo che
prenderanno di sorpresa il pensiero.78

A Madrid, di fronte a Goya, Scialoja vede quello che è già nei suoi occhi:

Non vidi la processione di San Isidro ma una ridda di libere pennellate, uno
sfrenamento di gesti pittorici da cui, come in seconda istanza, emergevano o
trapelavano volti, scialli, cappellacci, mantelli e dove il nero era, in un modo
allucinatorio, tutto il colore possibile, dato e negato nello stesso momento. 79

Lo “sfrenamento di gesti pittorici” trovato – o voluto trovare – in Goya, avvia


l’ultima fase della pittura di Scialoja. Goya è decisivo per la svolta dell’ultima
crisi creativa, la svolta definitiva dell’artista:

Ho sentito il mio spazio di pittore, spazio ritmico, espressivo, l’ho sentito di


nuovo sterminato, frusciante, uno spazio in attesa di risveglio. Goya mi ha dato

77
Y. Bonnefoy, Goya, le pitture nere, A. Piovanello (traduzione e cura di), Donzelli Editore,
Roma 2006, p. 67.
78
Ivi, pp. 68-69.
79
B. Drudi, “Una stupefatta immortalità”: i miei anni con Toti Scialoja, cit., p. 157.

68
la chiave del risveglio che io potevo operare nel mio spazio. Spazio posseduto
da struggente volontà di esistenza.80

Nel 1982 Toti Scialoja ha sessantotto anni e, con lo spirito irrequieto e febbrile
che lo caratterizza, si butta a capofitto nella nuova direzione, entusiasta del
“risveglio” avvenuto in un’età già avanzata della vita.
Così, inaspettatamente, una nuova svolta vitale lo riconduce sulla strada giusta per
la comunicazione espressiva della sua realtà. La tecnica usata da Goya nelle
Pitture nere della Quinta del Sordo genera un cambiamento nella concezione
intellettuale dell’opera. La creazione del quadro non è più generata solamente
dall’automatismo psichico, perché quest’ultimo seguirà una traccia, un’idea, già
concepita nella mente del pittore:

Queste nuove pennellate si muovono nell’indistinto dell’automatismo psichico,


ma sono, nella loro oscurità, ostinatamente consapevoli. Mosse da un’intenzione
che precede, o meglio è preceduta per attimi dallo stesso spettro sfrangiato del
loro primo e immediato riconoscersi. […] Come una mano che si infili in un
guanto – mano bianca di previsione – guanto nero di predizione. 81

«Il quadro lo prevedi?» chiedeva a Toti sua moglie Gabriella Drudi nell’intervista
pubblicata su “Flash Art” nel 1985, e alla compagna il pittore rispondeva:

Certo che lo prevedo. Ancora prima di preparare la mia tavolozza. So che partirò
da un colore, che un altro seguirà […] C’è un piano, dove tutto è previsto, ma
quello che accade può essere totalmente diverso. È imprevedibile, per me, se nel
momento del fare una volontà oscura, un oscuro palpito mi porta a dare alla
pennellata un certo verso, piuttosto che un altro.82

Nella pittura di Scialoja torna il “palpito” e, con questo, le prorompenti pennellate


espressioniste delle sue prime opere astratte in un rinnovato rapporto con la
pittura gestuale. Il valore di illuminazione attribuito dal pittore a Goya è
probabilmente, come suggerisce Fabrizio D’Amico, semplicemente «la scintilla

80
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, cit., p. 229.
81
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 182.
82
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, cit., p. 230.

69
che gli accende una luce covata a lungo nella solitudine, non sempre serena, dello
studio romano»83. Lo stesso Scialoja nell’intervista di Gabriella Drudi diceva:

Non ci penso più a Goya, forse non ci ho mai pensato: è stato un mio simbolo, la
mia bandiera.84

Che Goya sia stato, in realtà, solo la tanto attesa “scintilla” lo conferma del resto
il Giornale di pittura. Già nel 1979 Scialoja rifletteva su un ritorno «al gesto, al
gesto unico, al grande gesto automatico che annulli l’altro da sé – la prigione. Che
annulli l’ostinazione mortuaria del prestabilito. […] Tornare al gesto fisico e
semplice, al grande gesto automatico che vale perché è il più somigliante»85.
Così, con la mediazione di Goya, la pittura di Scialoja si libera dalle scansioni
mentali degli anni Settanta e ritrova forza espressiva:

Se nelle prime opere ispirate a Goya le pennellate mantenevano un’andatura


scandita, ritmica, ora sono diventate più sciolte, impreviste e imprevedibili,
mentre in parallelo la spazialità già illimitata del quadro, sempre più si concentra
sul fulcro compositivo di un’azione scenica.86

A fare quest’osservazione alla XLI biennale di Venezia è Lorenza Trucchi, nota


critica d’arte, curatrice delle esposizioni del padiglione italiano di pittura in
quell’edizione della rassegna. Scialoja esponeva le sue opere su diretto invito
della Trucchi mostrando per la prima volta le sue opere più recenti. La risposta
del pubblico a questa nuova “fase Goya” di Scialoja fu ampiamente positiva:

Ho visto nel giro di pochi anni le mostre delle nuove e felici opere pittoriche
susseguirsi a ritmi incalzanti riaccendendo l’interesse del pubblico e della
critica. Finalmente giungevano per lui quei riconoscimenti forse da troppo
tempo attesi.87

83
B. Drudi, Biografia, in Topi, lucciole, conigli e formiche…, cit., p. 18. La citazione è di
Francesco D’Amico.
84
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, cit., p. 229.
85
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., pp. 181-182.
86
B. Drudi, Biografia, in Topi, lucciole, conigli e formiche…, cit., p. 18. La citazione è di Lorenza
Trucchi.
87
B. Drudi, “Una stupefatta immortalità”, cit., p. 157.

70
Con “l’illuminazione” dovuta a Goya cambia inoltre il concetto di tempo nel
quadro. Il tempo in pittura è sempre una conseguenza dello spazio ma Scialoja
sente ora di «imprimere allo spazio una volontà ciclica»88. Non più il
kierkegaardiano ripetersi ma un nuovo concetto di tempo:

È come se lo spazio cominciasse a roteare, nel senso stellare, nel senso cosmico,
roteare ciclicamente, e allora il tempo – quel tempo dell’esistere che ho sempre
cercato – non è più il tempo della scansione sul filo di un orizzonte, direzionato,
irreversibile, come flusso di quantità che si susseguono secondo una specie di
gradus da sinistra a destra, il percorso dalla nascita alla morte. No, questo tempo
è fatto di avvolgimenti su se stesso, è una specie di ciclo abbreviato, una scarica
ciclica per cui ogni pennellata possiede in sé la forza del germe e la forza della
chiusura, la forza dell’alba e della notte, la forza dell’animo, dell’eterno ritorno
su se stessi.89

Nessuna crisi interverrà più a interrompere il flusso creativo da cui Scialoja è


investito fino alla realizzazione di quello che è considerato l’ultimo quadro da lui
compiuto, un’opera dedicata a Willem De Kooning, realizzata per la morte
dell’amico artista nel marzo 1997.
Scialoja sarebbe morto poco meno di un anno dopo, il 6 marzo 1998, senza mai
smettere di dipingere.

II. 2 Scrittura e pittura

L’arte astratta è la più vicina alla poesia? Sì, forse si può dire questo: che l’arte
astratta è la più vicina alla lirica pura, alla parola che si modula in sillabe, le
quali hanno poi un senso e un canto.90

Non ci si deve dimenticare che parlare di Toti Scialoja vuol dire parlare di un
artista che possiede due linguaggi espressivi utilizzati entrambi in modo
magistrale e che tra i due linguaggi vige una sorta di equilibrio.

88
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, cit., p. 230.
89
Ibidem.
90
Ivi, p. 231.

71
Nell’esporre i mutamenti che, dalla prima esposizione personale a Genova nel
1940 alle ultime grandi tele astratte dell’ultimo fiorente periodo della pittura
gestuale, attraversano la sua pittura, abbiamo potuto notare come ogni passaggio,
ogni pensiero, relativo a una svolta creatrice o a un momento di crisi, sia annotato
nel Giornale di pittura.
Già il Giornale è una vera e propria opera letteraria che, oltre ad essere un utile
strumento di autoanalisi, permette a Scialoja di esprimere letterariamente il
pensiero reso visibile dalle sue opere pittoriche. Tracce di lirica sono sparse qua e
là lungo tutto il diario dell’artista; tracce di poesia antica, come nella descrizione
del febbrile bisogno di penetrare l’opera in cui Scialoja sembra fare un casuale
riferimento all’Ode 31 di Saffo nel “divenir verde come erba”91, spunto che
diviene una vera e propria poesia nella raccolta Le sillabe della Sibilla (1983-
1985):

Un Dio ti sta di fronte


se ti sente e ti vede
ridere dolcemente
- se ti tocca col piede.

Su di me cala il buio
e il rombo di una grotta
- mi strozza l’acquacotta
Che raspo col cucchiaio.92

Francesco Galluzzi espone il suo pensiero sulla scrittura e pittura di Toti Scialoja
in un articolo pubblicato sulla rivista di letteratura italiana “Italianistica”93. Lo
studioso trova che:

91
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 65.
92
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, Giovanni Raboni (a cura di), Garzanti, Milano 2002, p. 157. Il
rifacimento è all’Ode 31 della poetessa greca Saffo che riporto qui per intero nella traduzione di
Salvatore Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, Mondadori (i Meridiani), Milano 1974, p.
303: “A me pare uguale agli dèi/chi a te vicino così dolce/suono ascolta mentre tu parli/e ridi
amorosamente. Subito a me/il cuore si agita nel petto/solo che appena ti veda, e la voce/si perde
nella lingua inerte./Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,/e ho buio negli occhi e il rombo/del
sangue nelle orecchie./E tutta in sudore e tremante/come erba patita scoloro:/e morte non pare
lontana/a me rapita di mente.”
93
F.Galluzzi, Il ritmo del corpo. Pittura e scrittura di Toti Scialoja, in “Italianistica. Rivista di
letteratura italiana”, Vol.29, n. 3, 2000, pp. 451-459.

72
Malgrado le diversità di tono, quasi inevitabili considerando le diversità degli
statuti testuali, tra le poesie e il Giornale si deve riconoscere la somiglianza di
una certa texture della scrittura. Si avverte sotterraneo, anche nella urgenza
istintiva di esprimersi che caratterizza certe note del Giornale, lo stesso amore
emotivamente intellettuale di Scialoja per il “suono” della parola che costituirà
la molla del lavoro poetico.94

Quando poi nel 1961 Scialoja si mette a fare poesia “sul serio” - e qui le
virgolette sono necessarie perché Toti sarà definito poeta “serio” nel 1976 e fino a
quella data la sua poesia nonsense sarà accompagnata dall’aggettivo “giocoso”-
non smette più di esprimersi poeticamente.
La convivenza dei due linguaggi, poetico e pittorico, permette a Scialoja di
realizzare appieno il suo progetto di “dirsi” nell’Arte. L’equilibrio tra le due
forme di espressione, oltretutto, sembra permettergli una stabilità non altrimenti
raggiungibile. I nonsense verse nati a Parigi per divertire il nipotino James,
scaturiscono dalla penna del poeta non solo in un momento in cui a Scialoja
mancava la lingua italiana («mi trovavo ad abitare a Parigi, parlavo francese,
pensavo in francese, sognavo in francese. Avevo finito quasi col perdere il gusto
della parola italiana che è tutta corposa e concreta»95), ma in un momento in cui
il pittore è anche agitato da una forte crisi creativa. Tra il 1957 e il 1960 la sua
pittura era stata invasa dalla gioiosa scoperta delle Impronte, ma l’entusiasmo per
l’uso di questa tecnica si era esaurito presto, soprattutto perché non soddisfaceva
più l’artista da un punto di vista concettuale.
Così avviene che le Impronte si irrigidiscono, come abbiamo detto, nelle Quantità
cromatiche che Scialoja dipinge nel periodo meno prolifico della sua carriera
artistica. Tutte le poesie dei Versi del senso perso vedono la luce proprio nel
momento in cui la crisi pittorica è più forte. In un certo senso arrivano in soccorso
di Scialoja e sono versi che, pur attenendosi a regole precise («Io non amo i versi
liberi: quelli sì che sono davvero un nonsense. Poesia per me è un verso
convenzionalmente racchiuso in una forma»96) permettono all’autore di
esprimersi liberamente, di “dirsi” in maniera trasparente perché, ormai lo
sappiamo, l’infanzia di queste filastrocche è proprio quella di Scialoja.

94
Ivi, p. 456.
95
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, cit., p. 31.
96
Ivi, p. 33.

73
Non solo poesia oltretutto, perché i nonsense di Scialoja, proprio come i limerick
di Lear, sono sempre accompagnati da un disegno che in qualche modo ne
completa il senso. Altro fatto sorprendente: passati vent’anni dall’esposizione di
Genova in cui Toti aveva debuttato come artista figurativo per poi cambiare
presto rotta verso l’Espressionismo astratto, ecco che tornano le figure nei disegni
che accompagnano le sue poesie. Se teniamo conto poi che questi disegni sono
quanto di più “giocoso” Scialoja abbia mai rappresentato, il fatto sembra ancor
più particolare. Sono infatti illustrazioni degne di libri per bambini quelli delle
poesie, buffi animali antropomorfi che interagiscono con le pagine del libro come
il condor del nonsense “Ho un condor per condomino/che fa l’uomo di
mondo/simulando candor,/se lo incontro mi domino/ma cambio di color.”97
accompagnato dal disegno di un condor che, con scarpe eleganti e bastone, si alza
il cappello in segno di saluto uscendo dalla pagina del libro.
Il poeta “giocoso” lascia il posto a quello “serio” quando il poeta Antonio Porta
recita i suoi versi al convegno di Orvieto nel 1976. Per Toti fu una rivelazione,
capì di essere un “vero poeta” e la sua poesia cambiò:

mi sono accorto del nascere di una vena inattesa per cui la poesia non era più
rivolta a qualcuno in generale, o ai bambini in particolare, ma principalmente a
me stesso.98

Già nella raccolta del 1979, La stanza la stizza l’astuzia, si avvertono i primi
cambiamenti di tono, e il grande vuoto lasciato dai disegni che non
accompagnano più i versi. Siamo ormai vicini al superamento dell’ultima crisi
artistica di Scialoja, al viaggio in Spagna del 1982 dove, a Madrid, incontrerà
Goya.
Ci piace rilevare come la libera gestualità e il ritrovato Espressionismo che
soddisfano pienamente il pittore per il resto della durata della sua carriera
pittorica, corrispondano in poesia a un sempre più rigido schematismo e a
tematiche più cupe. La poesia non è più rivolta a qualcuno in generale «ma
principalmente a me stesso» e rivolgendosi a se stesso Scialoja propone una

97
T. Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, Torino 2009, p. 47.
98
T. Scialoja, La mia infanzia sono io, cit., p. 33.

74
poesia autobiografica interna alle ragioni della vita proprio come era la sua
pittura.
Quali siano le evoluzioni interne a questa lirica adulta, a questa “parola dell’età”,
è oggetto del capitolo seguente.

75
Capitolo III
Il carnevale della mosca. Le poesie degli anni Ottanta

Questa mosca si maschera da vespa


perché si sente mesta e un po’ nerastra
quando era vispa vispa e zampettava
quando era azzurra azzurra e ruzzolava
si mascherava sempre da zanzara.

28 gennaio 19981

Quando la mosca “era vispa vispa e zampettava” lo faceva “ a Monza, a Mosca, a


Londra,/e persino a san Pietro”2. Così scriveva Scialoja nei Versi del senso perso,
in una delle sue prime poesie, pubblicata da Bompiani in Amato topino caro. La
quartina scritta per il nipotino James era naturalmente accompagnata da un
disegno che, in quel caso, raffigurava un’impettita mosca con i tacchi a spillo e
una valigetta coperta dagli adesivi con i nomi delle città visitate nei suoi numerosi
viaggi. Nel 1998 però la mosca si sente “mesta e nerastra”, non riesce più a
trovare la carica azzurrina che le serve a mascherarsi da zanzara, una delle parole
preferite dal poeta dei nonsense verse.
Sono passati più di vent’anni dalla prima edizione Bompiani di Amato topino
caro, ne sono passati quasi quaranta da quando Scialoja viveva a Parigi e, con un
senso di profondissima nostalgia per l’italiano e per sua moglie, aveva iniziato a
scrivere le sue filastrocche per il nipotino. Il tempo alla fine si è fatto sentire
anche dall’eterno puer Scialoja, un tempo che come pittore aveva cercato di
fermare sulla tela e dal quale, come poeta, era riuscito a sfuggire, tornando a
vivere la propria infanzia a quasi cinquant’anni.
Anche gli animali fantastici del suo bestiario sono stati travolti dal fluire del
tempo. L’iterazione della congiunzione “quando”, nel componimento riportato,

1
T. Scialoja, Il carnevale della mosca, dalla raccolta Cielo coperto (1997-1998), in G. Raboni
(prefazione e cura di), Toti Scialoja. Poesie 1979-1998, Garzanti (gli Elefanti), Milano 2004, p.
527.
2
T. Scialoja, Tre per un topo, Quodlibet, Macerata 2014. Il libro è stato dato alle stampe come era
nell’originale del 1969 con la copertina in marocchino rosso per le nipotine di Scialoja. I numeri di
pagina non sono indicati. Riporto in nota la poesia per intero: “La stessa mosca ronza/e batte
contro il vetro/a Monza, a Mosca, a Londra,/e persino a san Pietro.”

76
introduce due temporali che descrivono i tempi felici per la mosca, tempi che oggi
per il poeta non ci sono più. Neanche Scialoja riesce a star dietro al suo zoo di
animali di carta e così cede alla vecchiaia, si abbandona al dolce gusto della
memoria che prende il posto della smemoratezza dei versi nonsense,
smemoratezza di senso ma anche smemoratezza del tempo, perché Scialoja
quando scriveva a cinquant’anni quelle poesie era un bambino che viveva
un’“infanzia aliena di morte”3.
Questo sentimento del tempo che avvolge tutto e a cui tutto è soggiogato investe le
tipiche figure delle poesie per bambini e le parole più care a Scialoja. Così è per la
zanzara appunto:

Zanzara è parola fragile, incorporea, attraversata dalla luce. Perché le parole


hanno densità, colori, nervature: sono figure in loro stesse. In effetti, la parola
zanzara somiglia all’insetto cui fa allusione e con cui convive nella nostra
mente, o meglio è l’insetto che somiglia a questa bella parola. 4

La zanzara è una di quelle parole che nei versi del senso perso portava con sé una
scia colorata, non solo per il gioco sillabico per il quale dalla parola-melagrana
scaturivano entrambe le parole zanzara/azzurro, ma proprio per l’immagine
presente nel nome dell’insetto che ha una sua energia icastica:

La zanzara mentre vola


pare azzurra, in Venezuela,
ma diventa verde e viola
quando è sotto le lenzuola.5

La poesia che abbiamo riportato in apertura di questo capitolo è del gennaio 1998.
Scialoja sarebbe morto meno di due mesi più tardi, all’età di ottantaquattro anni.
La mosca che era solita cambiare il suo nero in azzurrino non è più vispa e
preferisce mascherarsi da vespa, una parola meno cara a Scialoja, e un insetto al
quale fin dai primi nonsense spettava un destino più crudele di quello
dell’animaletto zuzzurellone:

3
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in “il verri”, Anno XXXII, n. 8, 1988, p. 12.
4
Ibidem.
5
T. Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, Torino 2009, p. 101.

77
In mezzo alla vasca
– finita la festa –
ci resta una vespa
svestita, che annaspa.6

Il dimostrativo “questa”, riferito alla mosca della poesia in apertura, fa pensare


inoltre che l’insetto mesto e nerastro sia il poeta stesso, non più un topino
americano come lo chiamava la nonna da piccolo.
Le due poesie che abbiamo riportato, tratte qui da Versi del senso perso, hanno
visto per la prima volta la luce nella raccolta del 1976 La stanza la stizza l’astuzia.
La “vespa svestita che annaspa” è un’immagine che potremmo definire forte
pensandola rivolta a un pubblico di bambini. Il 1976 è infatti l’anno del convegno
di Orvieto, quel convegno che, l’abbiamo ricordato più volte, segna una svolta
nella poesia di Scialoja. I versi pubblicati da questa data in poi (ad eccezione di
Ghiro Ghiro tonto (Stampatori 1979) e di Tre lievi levrieri (l’Attico Editore 1985)
che sono ancora libri per bambini – la seconda, a detta dello stesso Scialoja,
realizzata con fondi di cassetto del decennio precedente7–) «sono versi che
rallegrerebbero poco i bambini, che danno un senso di cancellazione»8.
Pur continuando a scrivere versi che nascono da un «metodo puramente
linguistico automatico, al modo dello scioglilingua, della filastrocca e del
nonsense»9, in queste poesie già comincia a farsi sentire una consistenza amara
che Scialoja avverte nella sua vita. Riportiamo un componimento in cui sono
presenti molti dei giochi di parole tipici di Scialoja ma il nonsense, tratto appunto
dalla raccolta del 1976, porta con sé una sensazione di amarezza e sospensione,
davvero il “senso di cancellazione” che Porta riscontrava nella raccolta:

Era gruvi, gruvi era


il tuo cacio con i fori,
era brughi, brughi era

6
Ivi, p. 110.
7
B. Frabotta, Toti Scialoja: le malinconie di un poeta comico, in Il comico nella letteratura
italiana, Silvana Cirillo (a cura di), Donzelli Editore, Roma 2005, p. 490.
8
A. Porta, La stizza nella stanza, in Animalie. Disegni con animali e poesie, Catalogo della mostra
(Bologna, 3 aprile - 3 maggio 1991), Grafis, Bologna 1991, p. 182.
9
T. Scialoja, Amato topino caro, Bompiani, Milano 1971, citazione dell’autore tratta dal risvolto
di copertina.

78
il tuo bosco con i fiori,
era frutti, frutti era
la speranza del tuo viaggio,
era preghi, preghi era
quel che avevi nello sguardo,
fu più rapida di un sorso
la tua anima di sorcio.10

Questa poesia mantiene gli aspetti tipici della filastrocca, costruita su rime
semplici, parole spezzate a formare un sostantivo e un verbo (“era gruvi, gruvi
era”) e la struttura sintattica della frase che si ripete sempre uguale: soggetto –
verbo – complemento. Il distico finale contiene quel senso di cancellazione
angosciosa che non si può considerare come rivolta ai bambini. Al topo/sorcio
che, l’abbiamo visto parlando dei nonsense, può considerarsi l’animale prediletto
da Scialoja, tocca sparire, anzi, brutalmente e improvvisamente morire in un
sorso, in un attimo.
Ci chiediamo, citando ancora dai Versi del senso perso: “Topo, topo,/senza
scopo,/dopo te cosa vien dopo?”11. Dopo quelli che Scialoja stesso aveva definito
“paesaggi di parole” ci sono i Paesaggi senza peso, prima vera svolta tragica del
poeta:

La poesia comica di Toti Scialoja che Calvino segnalò come il primo vero
esempio italiano di nonsense esplose all’improvviso, nella sua tarda maturità, si
prolungò per un ventennio, all’incirca dal 1960 al 1980 e, dopo una lenta
metamorfosi, dette il via a una abbondante vena lirica, che riempì fino alla sua
morte, avvenuta a Roma nel 1998, un altro ventennio di poesia «seria», elegiaca
e talvolta tragica e una ininterrotta sequela di plaquette, volumi, raccolte
complete o postume.12

Segno di cesura tra i due ventenni circoscritti dalla Frabotta è il noto intervento a
Orvieto da parte di Porta. La definizione di “vero poeta” da cui Scialoja si sentì
investito nel 1976 gli fece aprire gli occhi sul suo nuovo modo di scrivere:

10
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit. p. 124.
11
Ivi, p. 5.
12
B. Frabotta, Toti Scialoja: le malinconie di un poeta comico, cit., p. 489.

79
mi sono accorto del nascere di una vena inattesa per cui la poesia non era più
rivolta a qualcuno in generale, o ai bambini in particolare, ma principalmente a
me stesso.13

Dal suo nuovo modo di fare poesia Scialoja non tornò più indietro. Così vengono
meno nei suoi testi quelli che Scialoja stesso definiva «paesaggi di parole»:

Gioco fonemico che i bambini intendono d’istinto, che eccita la loro curiosità, li
muove alla scoperta della parola nuova come incantevole meccanismo sonoro.
Infatti l’ostacolo che rappresenta il vocabolo inatteso, nell’assonanza con gli
altri, contribuisce a creare «quei paesaggi di parole», come li definisce l’autore,
che liberano il bambino dalla soggezione al linguaggio e dentro i quali essi
entrano ed escono con felicità e naturalezza. 14

La prima raccolta poetica di Scialoja veramente riconosciuta come «seria» sarà


pubblicata in una plaquette nel 1981 con una frase che al titolo aggiungeva «non
trovasi da nessun libraio». Non per caso il titolo della plaquette, pubblicata dalla
Litografia Bruni di Roma, era Paesaggi senza peso. La Frabotta rileva come nel
compendio del 1989, Versi del senso perso, Scialoja abbia voluto inserire tutte le
raccolte pubblicate fino al 1985. Tra i versi del senso perso sono dunque incluse
da Scialoja anche quelle raccolte che cominciano ad allontanarsi dal puro e
semplice gioco fonemico che diverte i bambini, come se l’autore avesse voluto
comprendere in un primo tempo della sua poesia anche le raccolte che abbiamo
detto essere più gravi e dure: La stanza la stizza l’astuzia (Cooperativa scrittori
1976); Paesaggi senza peso (Litografia Bruni 1981); La mela di Amleto (Garzanti
1984). Della silloge non fa parte, nelle intenzioni dell’autore, Scarse serpi
(Guanda 1983). Riteniamo in realtà che anche le tre raccolte comprese da Scialoja
nel “primo periodo poetico” siano da inserire in una seconda stagione creativa,
che potremmo chiamare appunto dei Paesaggi senza peso, laddove il primo
periodo era quello dei “paesaggi di parole”. Niva Lorenzini, in un articolo
pubblicato sul “verri” dal titolo Gli esametri di Scialoja15, parla di un terzo tempo
della poesia di Scialoja che inizia con Le sillabe della Sibilla (Libri Scheiwiller
1988). Questa distinzione ci sembra la migliore perché i due tempi, quello della

13
T. Scialoja, La mia infanzia sono io, cit., p. 33.
14
T. Scialoja, Amato topino caro, cit., citazione dell’autore tratta dal risvolto di copertina.
15
N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, in “il verri”, nona serie, n. 3-4, 1994, pp. 17-19.

80
poesia nonsensical, più apertamente rivolta all’infanzia e quello che inizia con La
stanza la stizza l’astuzia, sono tempi poetici tra cui esiste una stretta continuità di
meccanismi lirici – potremmo definirli il tempo dei nonsense per l’infanzia e dei
nonsense per adulti – ma presentano anche delle differenze sostanziali che in
queste pagine vogliamo analizzare.
Suddividere in maniera troppo rigida e schematica i tempi della poesia di Scialoja
non è sicuramente corretto ai fini della comprensione del poeta, un artista, come
abbiamo visto parlando della sua pittura, capace di esprimersi efficacemente con
linguaggi espressivi molto diversi. Tuttavia in questa sede troviamo utile sfruttare
la suddivisione in tre tempi poetici per elaborare un’analisi più dettagliata.
Abbiamo affrontato il tempo dei “paesaggi di parole” nel primo capitolo di questo
lavoro, andiamo ora a vedere quali cambiamenti si verificano nel tempo dei
Paesaggi senza peso.

III. 1 Dai “paesaggi di parole” ai Paesaggi senza peso

In L’alibi di Scialoja16, un articolo pubblicato sulla rivista “Testuale”, la poetessa


e critica Milli Graffi definisce le poesie di quello che abbiamo indicato come il
secondo tempo di Scialoja come nonsense-poesia. La scrittrice inizia il suo
articolo chiedendosi quale sia la differenza sostanziale alla base della distinzione
tra nonsense e poesia:

È nonsense o è poesia? O le due insieme, oppure il nonsense attraversa un


contesto poetico? Quando ci si trova di fronte a una produzione di nonsense si
presenta inevitabile il problema della sua collusione con la poesia, ed è un
problema che continua a mantenere aree oscure.17

Citando gli studi compiuti in precedenza da Elizabeth Sewell, confluiti in un libro


dal titolo The field of nonsense, la Graffi fa sapere ai suoi lettori che le
conclusioni a cui la Sewell era arrivata affermavano che:

16
M. Graffi, L’alibi di Scialoja, in “Testuale”, Anno I, n. 1, Gennaio 1984, pp. 79-85
17
Ivi, p. 79.

81
Il nonsense mantiene la singolarità delle parole e si costruisce per
accumulazione di esse […] senza mai permettere la formazione di una gestalt
complessiva o di un contesto, mentre la poesia è creazione autonoma di
contesto, dove le parole giocano più per quanto prestano alle altre di risonanza,
effetto, colorazione che per la propria singolarità. 18

Questa distinzione, nel caso di Scialoja, porterebbe a una contraddizione enorme,


perché è indubbio che i suoi componimenti siano dei nonsense, ma è altrettanto
certo che il meccanismo alla base della scrittura dei suoi nonsense sia la
germinazione sillabica che scaturisce dalle parole-melagrane. Non solo si tratta di
nonsense, quindi, ma di nonsense in cui la risonanza di ogni singola parola è
determinante per far scaturire le parole che seguiranno. Il procedimento illustrato
parlando dei nonsense per l’infanzia, che prevede una smemoratezza di senso di
fronte alla parola, smemoratezza che permette alle parole-melagrane una
germinazione creatrice di poesia, vale anche per le poesie della svolta «seria» di
Scialoja. Uno scritto in quarta di copertina di La stanza la stizza l’astuzia riporta
una nota dell’autore che sostiene che le sue poesie nascono ancora da un metodo
puramente linguistico automatico e descrive così questo metodo:

azioni di sasso che rimbalza, una foglia che il vento rovescia: «si tratta di suoni
implicati in un gioco di scatole cinesi, trompe-l’oreille al cui meccanismo si
reagisce come davanti a un esercizio di illusionismo verbale» ha scritto qualche
anno fa Giulia Niccolai. Sulla falsa riga della word like a portmanteau di Carroll
l’autore ha proposto il termine «parola-melagrana». Così vorrebbe definire
quella parola che, in ogni sua poesia, contiene e fa germinare i semi sillabici e
anagrammatici di tutte le altre.19

Così il metodo di germinazione sillabica usato nei nonsense per l’infanzia


continua a essere usato anche in questo secondo tempo. Nell’intervista ad Andrea
Rauch, infatti, Scialoja dichiarava La stanza la stizza l’astuzia un libro di
nonsense per adulti:

L’esperienza per bambini è racchiusa tra gli anni Sessanta e Settanta. […] Nanni
Balestrini mi chiese un nuovo testo, delle poesie «un po’ meno infantili». E io ce

18
Ibidem.
19
T. Scialoja, La stanza la stizza l’astuzia, cit., citazione di Toti Scialoja tratta dalla quarta di
copertina.

82
l’avevo già un testo nuovo, delle poesie più salaci e «cattive»: La stanza la
stizza l’astuzia. Questo è già un libro di nonsense per adulti.20

Se il meccanismo generatore di nonsense rimane lo stesso, sono altri i


cambiamenti che si verificano rispetto alle poesie infantili di Scialoja. Innanzi
tutto le illustrazioni scompaiono; rimangono gli animali, ma in loro non c’è più
quella caratteristica un po’ schizofrenica che li distingueva nelle poesie del primo
tempo creativo:

Se sormontando l’alpe
un tal vede una talpa
e le intima l’alt
avrà colpa la talpa
a estrarre la Colt?21

Il fonema t, coniugato con la n e la l, genera una poesia la cui protagonista è una


talpa, non la talpa ballerina di tango con cui il poeta danzava in Una vespa! Che
spavento (“Quando la talpa vuol ballare il tango/il salone si svuota, ed io
rimango”22), ma una talpa che si muove in una zona di frontiera del dopoguerra, e
per questo gira armata di Colt ed è pronta ad estrarla qualora un tal le intimasse
l’alt. Simile contesto è individuato da Porta nella poesia:

Un esercito di pulci
sta passando in treno merci,
quando grido. «Arrivederci!»
fanno tutte gli occhi dolci.23

Le pulci non vanno più “Nel teatro di Acapulco”24 ma sono state arruolate
nell’esercito:

20
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, in Animalie, disegni con animali e poesie, Grafis,
Bologna 1991, p. 33.
21
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 102.
22
Ivi, p. 39.
23
Ivi, p. 105.
24
Ivi, p. 157: “Nel teatro di Acapulco/ogni pulce occupa un palco.”.

83
Immagine più amara delle tradotte militari non l’avevo mai trovata e va notato
che poiché si tratta di «un esercito» ne consegue che proprio tutte devono fare
gli occhi dolci, come all’interno di un’immensa «casa chiusa».25

Ci sono vizi da adulti che vengono presi di mira, come per esempio quello per il
gioco d’azzardo:

A Montecarlo
un tarlo ossesso
punta sul rosso
fino a forarlo.26

La toponomastica fantastica presente fin dai primi nonsense continua a designare i


destini dei protagonisti dei versi anche nei nonsense per adulti, quindi per auto-
generazione sonora il tarlo punta sul rosso fino a forarlo proprio perché si trova a
Montecarlo.
Ovviamente, non potevano sparire del tutto i tanto amati topi. Anche questi però
sono travolti dalla nuova vena “più salace e cattiva” pulsante in questa raccolta:

Oh, topo topo!


Se corri in tondo
come una trottola
non fai del moto:
sei solo in trappola.27

La crudele e incisiva battuta finale distrugge l’allegria del topo che corre come
una trottola in una ruota da criceto. La trottola viene nell’ultimo verso trasformata
in trappola, e il caro topo ne resta imprigionato.

Man mano che il tempo avanza gli animali si fanno sempre più rari nei
componimenti di Scialoja. In Paesaggi senza peso (1981) sono già quasi del tutto
scomparsi:

25
A. Porta, La stizza nella stanza, cit., p. 182.
26
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p.108.
27
Ivi, p. 106.

84
Non so come sia accaduto. Mi accorsi, a un certo punto, che invece che di
animalucci parlavo del paesaggio. E questo paesaggio mi conteneva: c’erano
dentro i fatti della mia vita, i rapporti con gli altri, il mito del giardino del nonno.
Un giardino piccolo, ma molto folto, dove fino a sei anni avevo conosciuto il
mondo dialogando con l’edera, le palme, la vasca dei pesci rossi… Ricordavo,
capisce? Tornava il mio passato, e l’infanzia, priva di morte, abbandonava le
mie poesie.28

La raccolta del 1981, Paesaggi senza peso con la precisazione – non trovasi da
nessun libraio – raccoglie le poesie di due anni (1979-80). Venne data alle stampe
come plaquette in 200 copie che Scialoja distribuì tra i suoi amici e che pubblicò
come quarta parte della raccolta La mela di Amleto nella silloge complessiva Versi
del senso perso nel 1989. Nella plaquette in realtà ci sono molte più consonanze
con le poesie di Scarse serpi (Guanda 1983) che con le poesie nonsensiche del
senso perso. Prima grande differenza è, si diceva, la quasi totale assenza degli
animali nei testi che continuano, come in La stanza la stizza l’astuzia, a non
essere illustrati. Compaiono un nibbio nel cielo di Gubbio, un’anguilla in un
pantano, un cane scarno, una serpe arrostita… Animali che fanno pensare ad un
paesaggio scabro e spoglio. Con i Paesaggi senza peso «la sua (di Scialoja) storia
di poeta comico può dirsi conclusa»29 secondo la Frabotta. La lirica si infittisce
infatti di elementi dissonanti e allucinatori, vengono meno gli accesi giochi
sillabici che costituivano i “paesaggi di parole” che, appunto, lasciano il posto ai
Paesaggi senza peso, testi in cui il «cortocircuito fonico o visivo»30 si fa più raro
per lasciar spazio a una maggiore introspezione. Il catalogo della mostra svoltasi a
Verona tra il 2006 e il 2007,31 Toti Scialoja. Opere 1983-1997, riporta alcune
lettere della corrispondenza tra Toti Scialoja e Luciano Anceschi che testimoniano
la profonda stima e amicizia che univa i due intellettuali. Ad Anceschi era
destinata una copia della plaquette. Da una lettera datata 9 novembre 1981
possiamo conoscere l’entusiasta risposta del critico al “librino”:

Caro Toti, il tuo librino è arrivato, ed è la cosa più gentile che mi sia capitata in

28
T. Scialoja, in Enrico Ragazzoni, Spoleto festeggia il pittore e il poeta, in “Europeo”, Anno
XXLVI, n. 27, 1990, p. 102.
29
B. Frabotta, Toti Scialoja: le malinconie di un poeta comico, cit., pp. 489-490. Corsivo mio.
30
N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, cit., p. 17.
31
R. Lauter e M. Vallora (a cura di), Toti Scialoja. Opere 1983-1997, Catalogo della mostra
(Galleria dello Scudo, Verona 9 dicembre 2006 -28 febbraio 2007), Skira, Milano 2006.

85
questi giorni. Bellissimo raro e incantevole il librino che – come capita a noi,
diciamolo pure così, “non trovasi da nessun libraio” – reca i versi più affabili
che io conosca da molti anni con un divertimento alto di disperato gioco a
ritrovare un mito o una favola per un nonsense che nel tuo caso è pieno di
significato. È una piuma in deserto, un leggerissimo cerchio tra pesanti quadrati,
una fantasia impegnatissima (di sé) – in un mondo assurdo, vuoto, insensato,
disgregato con felicissimo incanto.32

Anche Paolo Mauri, intervenendo nella giornata di Omaggio a Toti Scialoja, parla
dei Paesaggi senza peso:

I Paesaggi senza peso sono giochi intorno ai nomi delle località, non sono
illustrazioni delle medesime. È sempre la parola, così come anche nel “sogno
segreto/dei corvi di Orvieto” non è la cittadina di Orvieto a fare presa su Toti ma
è la parola Orvieto, che poi diventa utilizzabile all’interno della poesia e quindi
sostituibile, allungabile… 33

La poesia di apertura della plaquette introduce il tema dell’ubi sunt che


accompagna il poeta e il lettore per tutta la raccolta. La toponomastica infatti non
è più quella fantastica dei Versi del senso perso o di La stanza la stizza l’astuzia,
ma l’uso dei toponimi aiuta il poeta a soffermarsi sul proprio stato d’animo:

Dove sono le nevi


addormentate un tempo
nel silenzio di brevi
inverni senza vento?

Estate. Il chiar di luna


luccica sulle pietre.
Accanto alla fontana
Morrò sempre di sete.34

32
Corrispondenza 1972-1998. Anceschi, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, cit., p. 193.
33
P. Mauri, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja celebrato il giorno del centenario dell’autore il
16/12/2014 e promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca,
https://www.youtube.com/watch?v=4dmborVEehk.
34
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 203.

86
La poesia riprende la Ballade des dames du temps jadis di François Villon35 che
all’ottavo verso recita “Mais où sont les neiges d’antan?”. I primi due versi della
poesia di Scialoja traducono il verso di Villon e, per il consueto contagio sillabico,
generano il terzo e quarto verso della quartina: “Dove sono le nevi/addormentate
un tempo/nel silenzio di brevi/inverni senza vento?”. Dalla germinazione naturale
di parole – generate anche da un’eco dantesca “come di neve in alpe sanza vento”
Inferno XIV, 30 –, nasce una quartina calma, evocativa, che fa soffermare il
pensiero del lettore sui paesaggi innevati del suo passato grazie alla domanda
iniziale “Dove sono?”.
Più facile è cogliere il gioco della parola-melagrana e del toponimo Asia che
genera ansia, un sosia e la malvasia nella poesia:

Sono in Asia ed Asia sia


vedo un sosia che mi spia
l’ansia è falsa compagnia
stapperò la malvasia.

S’apre l’Arca ed Arca sia


sbarca all’alba qualche arpia
suona l’arpa per la via
rischierò la nostalgia.36

Se non ci si limita ad una lettura superficiale del componimento è subito chiaro


che chi scrive non è in Asia bensì in ansia. Paolo Mauri, nell’intervento
dell’Accademia Nazionale di san Luca, sostiene:

È evidente, a una lettura appena appena più attenta, lo slittamento. Lui non è in
Asia, ma in ansia, che è un po’ diverso. Dall’ansia decide di trasferirsi in Asia,
perché evidentemente gli dà più conforto essere in Asia, seppure mentalmente,
che non in ansia. E infatti, al terzo verso, recupera la parola da cui
probabilmente tutto è nato, e dice: “l’ansia è falsa compagnia”. 37

35
F. Villon, Ballate del tempo che se ne andò: poesie scelte, Roberto Mussapi (traduzione e cura
di), Il Saggiatore, Milano 2008, p. 34.
36
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 205.
37
P. Mauri, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja, cit.

87
Che il poeta sia in ansia a causa del sosia che lo spia e per questo sia costretto a
trovare rifugio in Asia, è una deduzione elementare.
È evidente dagli esempi riportati che i componimenti sono sempre più
cristallizzati in una struttura fissa formata da due quartine e che «ogni quartina è
uno spazio compiuto che si riflette nell’altra in modo speculare»38.
Lo Scialoja dei Paesaggi continua, come quello dei nonsense per l’infanzia, a
citare i poeti che gli sono cari, ma le sue citazioni sono più ricercate e mascherate:

Sull’orlo del cratere


nere rovine e vento
il triste esploratore
ha le ciglia d’argento.

Risuona sulle lastre


la scarpa ma non bastano
scheletri di ginestre
a schernire chi resta.39

Qui sono gli “scheletri di ginestre” “sull’orlo del cratere” ad evocare il paesaggio
descritto nella canzone La ginestra di Leopardi40, che viene ripresa da Scialoja
non solo al primo e al settimo verso che citano rispettivamente i versi 1-3 e 5-6
del componimento leopardiano: “Qui sull’arida schiena/del formidabil
monte/sterminator Vesevo” vv. 1-3 e “tuoi cespi solitari intorno spargi,/odorata
ginestra” vv. 5-6, ma anche ai versi 5-6 Scialoja riprende la canzone di Leopardi
stravolgendo l’ordine temporale da lui stabilito togliendoci ogni dubbio sul fatto
che “l’orlo del cratere” scialojano sia proprio quello del Vesuvio. I versi “Risuona
sulle lastre/la scarpa” riprendono i versi 17-20 di Leopardi: “Questi campi
cosparsi/di ceneri infeconde, e ricoperti/dell’impietrata lava,/che sotto i passi al
peregrin risona”.
Echi di un altro amato predecessore risuonano nella poesia:

38
M. Graffi, L’alibi di Scialoja, cit., p. 80.
39
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 226.
40
G. Leopardi, Canti, SEI (Società Editrice Internazionale), Torino 1947, pp. 260-277.

88
A Ostenda se una tenda
lesta e celeste sbatte
onde color lavanda
diventano di latte.

Il bel lido si lastrica


di nafta ed una goccia
di limone sull’ostrica
rapida la raggriccia.41

All’affezionato lettore di nonsense non può non venire subito in mente quel che si
dice delle ostriche: “Dicono che le ostriche si offrano per merenda/stendendosi sul
lastrico nelle strade di Ostenda.”42. Le ostriche si trovano ancora una volta,
seguendo le leggi della toponomastica fantastica dei nonsense più classici, a
Ostenda. Della città portuale belga questa volta ci viene offerto uno scorcio di
tende che sbattono al vento e di onde colorate. L’omaggio a Lewis Carroll è più
sottile ma non c’è dubbio che, anche in questo caso, le ostriche di Scialoja siano le
stesse della storiella raccontata ad Alice dai due gemelli cantastorie del romanzo
inglese. L’accostamento del “color lavanda” al bianco come il latte delle onde, dà
alla poesia una qualità tonale che richiama l’altra arte di Scialoja, quella pittorica.
Questo collegamento tra gli accostamenti cromatici delle poesie e le riflessioni sul
colore del Giornale di pittura, è stato colto da Francesco Galluzzi che scrive:

Trattandosi di un pittore, la riproposizione di certi accostamenti cromatici, come


il “bianco su bianco”, incontro di colori che dalla sua pittura trapassa nelle
riflessioni tecniche del Giornale («Un bianco fatto di sabbia sopra un bianco
fatto di pomice sopra un bianco di vetro tritato. Materia che diviene luce…» 43), e
ritorna nel brivido amoroso di una poesia. 44

La poesia alla quale Galluzzi pensa è la seguente:

Dove il fiume fa una curva

41
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 221.
42
Ivi, p. 241.
43
T. Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 87.
44
F. Galluzzi, Il ritmo del corpo. Pittura e scrittura di Toti Scialoja, cit., p. 456.

89
dove il vento piega l’erba
masticavi un fil di salvia
semiamara nella sera.

Ti sfilasti in tutta calma


una calza dopo l’altra
anche il cielo era una salsa
bianca fuori e dentro bianca.45

A proposito di questo componimento Scialoja scrive, in Come nascono le mie


poesie46:

Ricordo la fontana di Pompei, dove il bordo di pietra mostra un incavo nel punto
in cui i pompeiani poggiavano la mano per chinarsi a bere. Ecco, il mio tornare
ai luoghi comuni equivale al gesto di rimettere la mano nell’alveo, nella traccia
creata da tante altre antichissime mani. Fra le poesie che prediligo ce n’è una,
Dove il fiume fa una curva, che appunto inizia con due luoghi comuni. «Dove il
fiume fa una curva» è luogo imprecisato, tutti i fiumi fanno una curva. E così in
tutti i prati del mondo «il vento piega l’erba». Aver localizzato in due frasi fatte
una situazione interiore è come mettere la mano nell’incavo della pietra. La
levigatezza del luogo comune decolora tutto il resto: la sera, il biancore
insorgente, la salvia che diviene calza che diviene salsa, la densità bianca del
cielo, la successione dei gesti, l’esterno e l’interno dei corpi e delle materie. Si
può dire che la poesia come mi accade adesso è ancora nonsense? Credo di sì.
[…] La stessa materia traslucida, trasparente, è trasmigrata dai miei nonsensi per
l’infanzia alla poesia attuale, che spesso ha tonalità drammatiche, dolorose
anche. Rimane il modo involontariamente fantasmatico e disossato con cui vado
trattando le mie ombre come cose salde; ed ogni volta mi sorprendo di
abbracciare il vuoto.47

L’autoanalisi che Scialoja ci offre della sua poesia, oltre a rendere evidente che il
poeta continua a fare delle parole esattamente quel che ha fatto tra gli anni
Sessanta e Settanta – pur con le dovute differenze, che mostreremo – mette in luce
la convivenza delle “due anime” esistenti nel poeta-pittore. «Anche se sono pittore

45
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 210.
46
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in “il verri”, Anno XXXII, n. 8, 1988, pp. 9-20.
47
Ivi, p. 18.

90
non ho mai smesso di scrivere»48 dichiarava l’autore nel suo articolo sul “verri”.
Pittura e poesia convivono in lui e si fondono e si influenzano continuamente. La
riflessione sulla pittura che Scialoja portava avanti nel Giornale49 insisteva sul
bisogno di una pittura che fosse «scaglia fisica, strato tangibile»50 e sulla stessa
necessità insiste il discorso sulla parola che è prima di tutto sonorità e in quanto
tale ha una consistenza materica:

Se è vero che la parola è nata come grido animale, grido del dolore, dell’amore,
della paura o della gioia, si tratta in realtà di un atto concettuale, perché tale
grido intendeva affermare uno stato psichico, una connotazione fisica. Sono
ferito a morte, urlo. Sono innamorato, lancio il mio richiamo d’amore. 51

Così l’esegesi della poesia di Paesaggi senza peso viene fatta attraverso un
linguaggio che si addice più alle arti visive: la “levigatezza”, il “biancore”, la
“materia”… E la parola poetica, che è «qualcosa di concreto, di agito, di
tangibile»52, diversamente da quanto avviene nella pittura di Scialoja, che è
materica certamente ma inesorabilmente astratta, crea, come nella poesia
commentata dallo stesso poeta, delle piccole narrazioni figurative.
La sostanziale differenza che abbiamo detto esistere tra i nonsense per l’infanzia e
quelli per adulti, viene messa in rilievo da Giovanni Raboni nella prefazione alla
raccolta delle poesie “serie” di Scialoja53 di cui è stato il curatore:

Scialoja fa delle parole – o, se si preferisce, con le parole – esattamente le stesse


cose che ha fatto durante la sua precedente incarnazione, quando era o fingeva di
essere un poeta «per bambini»: le scompone, le accoppia, le ribalta, le fa
lievitare, le fa scomparire e riapparire, insomma le mette in scena e in
movimento in tutti i modi diabolicamente e angelicamente possibili senza mai,
per altro, usare loro violenza, anzi assecondandole. […] E continua ad essere
vero, non meno vero di prima, che pur ricollegandosi con piena evidenza e
oserei dire con assoluta lealtà alla grande tradizione del nonsense, da Edward
Lear e Lewis Carroll sino ai surrealisti, lui ci mette di suo e di davvero inaudito
la capacità di trasformare infallibilmente il non-senso in un segreto, silenzioso

48
Ivi, p. 12.
49
T. Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991.
50
Ivi, p. 17.
51
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, cit., p. 11.
52
Ivi., p. 20.
53
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit.

91
motorino d’avviamento del senso; non si limita, come i suoi illustri modelli, a
liberarsi (e liberarci) dal senso, ma lo sblocca, lo degrippa, lo fa ripartire…
Ma se tutto questo in Scarse serpi, continua, c’è anche, ripeto, qualcosa che
comincia, che compare per la prima volta: e questo qualcosa è una sottile, adulta
malinconia, è una luce fragile e ferita da primo inverno o da crepuscolo che
Scialoja, adesso, fa piovere sulla pur intatta, sulla pur inalterabilmente gioiosa
vitalità delle sue macchinazioni lessicali. E questo acquisto struggente è, lo si
capisce subito, per sempre; il paradiso è a questo punto definitivamente perduto,
comincia per Scialoja un lungo viaggio nella mestizia, nello sgomento,
nell’amarezza, alla cattura di sempre più mature sofferenze e inquietudini.54

Dalla corrispondenza con Luciano Anceschi, riportata nel catalogo della mostra di
Verona, riportiamo il commento del critico a Scarse serpi:

Grazie del librino. MOOLTO BELLO! Un piccolo libro che è un grande regalo.
Ci proponi invenzioni veramente straordinarie in un ordine che nessuno segue.
Hai combinato, trovando strane vie trasversali, intrecci molto piacevoli tra
“ariette” settecentesche, libretti d’opera, amabilità da nonsense, non senza
esercizi letterari tentati su trapezi più difficili. E tutto è veramente da gradire.
Invenzioni nuove, inserzioni sorprendenti (anche se minime) su testi illustri
trovando nuovi toni di musica, giochi vari di rarissimo stile, e sempre con un
suggerimento di enigma. Tu conosci risorse molto segrete in un tipo di intimità
tutto riferito alla lingua. Parlar di malinconia non è difficile,- io parlerei di ciò
che un tempo si diceva “grazia” con un divertimento pagato proprio caro, e
momenti di improvvisa ricapitolazione anche amara:

Una nebbia sorvola


veloce il fiume scuro
e rimorsi si arruolano
al rullo del tamburo.

La trasposizione dei rimorsi in un contesto di linguaggio militare che suggerisce


l’idea di un affollarsi rumoroso e rapido, non senza un’ombra di angoscia! … E
quante volte il gioco esperto nasconde nella manica improvvisi accenni ad un
racconto, di cui si dà un, come dire?, qualche momento più acuto – spostato
velocemente da un “campo” di riferimento ad un altro! E nel comporre un
associare talora parole consuete e attese e poi articolate in rapporti che le
esaltano nel modo più sorprendente e inaspettato… Non finirei più. Il librino è

54
G. Raboni, Prefazione a Toti Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., pp. 7-8.

92
pieno di incanti, e sono gli incanti di un mago spietatamente benevolo e
gentile.55

È possibile approfondire quanto sostenuto dai critici leggendo i testi di Scarse


serpi:

Fugge il soldato egizio


assordato dall’urto
dei denti a precipizio
ruzzola nel deserto

il suo elmetto e rintocca


rincorrendo la ruggine
la cavalletta zoppa
ripiomba nella polvere.56

Questa è una delle prime poesie della raccolta. Indubbiamente è una poesia
vibrante di sonorità, anzi, per dirla meglio, tintinnante di denti a precipizio,
rimbombante del rintocco dell’elmetto che viene rincorso da una cavalletta zoppa
– o è l’elmetto a rincorrere la ruggine? – che ripiomba pesante, come il piombo
appunto, nella polvere. “L’acquisto struggente”, qui quasi tendente al macabro,
che Raboni ci dice essere ormai acquisito per sempre, è già evidente e lo rivelano
anche i titoli delle sezioni date alla raccolta. Una in particolare si intitola Paesaggi
sul peggio, titolo che evoca un cambiamento rispetto ai Paesaggi senza peso
dell’81:

A picco sullo spurgo


del mare il marmo rotto
dai fili d’erba e un gorgo
di lampi sul soffitto.

Al tramonto ristagna
il mare tra gli scogli

55
Corrispondenza 1972-1998. Anceschi, in Toti Scialoja. Opere 1983-1997, cit., p. 195.
56
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 18.

93
un bambino in vestaglia
dondola granchi morti.57

Veramente un paesaggio amaro, da litorale degradato dove, nella romantica luce


rossastra del tramonto, un bambino dondola granchi morti. Simile scenario
lugubre è quello di un cimitero che compare, in questa stessa sezione della
raccolta, introdotto dal celebre incipit del Carme dei Sepolcri di Foscolo58:

All’ombra dei cipressi


sulle sponde di Cipro
il cancello d’ingresso
viene sprangato al vespro.

Oltre gli addii reciproci


e tornare sui passi
che potranno proporci
i cippi – i corvi bassi?59

Qui la risonanza dei versi di Foscolo è così forte che si fa quasi uno sforzo a non
proseguire automaticamente recitando il Carme “All’ombra dei cipressi e dentro
l’urne/confortate di pianto è forse il sonno/della morte men duro?” vv. 1-3. Altri
più sereni incipit sono maschere di topoi letterari che si svelano attraverso
citazioni fulminee di autori illustri:

C’era una volta un piccolo


naviglio controvento
di notte colò a picco
in un turbine argenteo.

Tardo pervenne il tuono


da una montagna bruna
fatta a tronco di cono

57
Ivi, p. 34.
58
U. Foscolo, Poesie, Licinio Cappelli Editore, Bologna 1939, pp. 66-95.
59
Ivi, p. 42.

94
tra gli squarci di luna.60

“C’era una volta un piccolo naviglio che non voleva non voleva navigar” si canta
in una filastrocca per bambini. Al sesto verso il piccolo naviglio si rivela niente
meno che quello con cui Ulisse aveva osato sfidare gli dèi oltrepassando le
colonne d’Ercole, e a renderlo chiaro è Dante che in Inferno XXVI, 133 scriveva
“quando n’apparve una montagna bruna”61.
Ancora Dante viene ripreso in una doppia citazione in una poesia in cui Scialoja
parla con le parole di Francesca da Rimini:

Nessun maggior dolore


che ricordare il tempo
felice – scarse rose
alla luce di un lampo.

Uno specchio incoraggia


le rose a lume spento
– or le bagna la pioggia
in sogno e move il vento.62

I primi tre versi di Scialoja sono una precisa citazione di Inferno V, 121-122; la
seconda citazione avviene negli ultimi due versi ed è tratta da Purgatorio III, 130.
Secondo la Graffi, le citazioni che Scialoja introduce nei suoi versi sono, talvolta,
così famose «da costituire qualcosa come un luogo comune, che (Scialoja) fa
passare poi sotto il vaglio della sua griglia della sonorità lasciando che tutti gli
altri aspetti referenziali del contesto cadano, provocando innanzi tutto un
estraniamento dalla citazione.»63.
Le riflessioni sulla pittura si insinuano nella poesia di Scialoja e la influenzano.
L’uso di citazioni tanto celebri porta con sé il gesto della pittura delle Impronte,
gesto che, anziché sbiadire nella progressione lineare, che voleva che lo
stampaggio delle Impronte avvenisse da sinistra a destra con il conseguente

60
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 21.
61
D. Alighieri, Commedia – Inferno, Carocci, Roma 2007, p. 301.
62
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 72.
63
M. Graffi, L’alibi di Scialoja, cit., p. 83. Corsivo mio.

95
sbiadire del colore nel processo con cui sulla tela si trasferiva lo scorrere del
tempo, in poesia è invece un gesto rivitalizzante: rinnova nel tempo presente il
suono di parole lontane che, dopo essere state logorate dall’abitudine – “Ricordo
la fontana di Pompei, dove il bordo di pietra mostra un incavo nel punto in cui i
pompeiani poggiavano la mano per chinarsi a bere”64 – vengono riattualizzate. In
questa poesia in particolare, inoltre, i tempi evocati attraverso le due citazioni di
Dante sono il passato “tempo felice” e il presente “or”. Il “ricordare” sarà la
parola chiave degli esametri che Scialoja scriverà più avanti e che saranno
pubblicati in due raccolte: Rapide e lente amnesie (Marsilio 1994) e Le
costellazioni (Marsilio 1997). Vedremo più avanti come il tempo della poesia
subirà, nel ’94, lo stesso cambiamento subito dal tempo della pittura di Scialoja
(cambiamento che si verificherà dopo la visita al museo del Prado a Madrid) e
come da lineare diverrà tempo circolare.
In tutte le poesie tratte da Scarse serpi riportate fin qui, si può notare come il
poeta attraverso luce e colore dia vita a degli spazi figurativi come quelli dei
Paesaggi senza peso. Nel caso del componimento con la doppia citazione di
Dante questo inserto figurativo e luminoso (“scarse rose/alla luce di un lampo”)
aumenta l’effetto di straniamento dalla citazione individuato dalla Graffi.
Luce e colore hanno un ruolo principale nella maggior parte delle poesie di
Scialoja di questo secondo periodo – ma lo avranno anche nella terza fase poetica.
Maria Pia Ammirati, in un articolo pubblicato su “Tempo Presente”65, scrive:

Potremmo dire che, usando la stessa distinzione tra pittura tonale e pittura
timbrica che Scialoja fa per i suoi quadri, la sua poesia sia divenuta man mano
sempre meno timbrica (meno forte nei contrasti e nelle giustapposizioni dei
colori) e sempre più tonale (prevalenza di ombreggiatura e di colori smorzati),
ma che decisamente sia andata convergendo verso la pittura e che si sia
idealmente fusa con i toni tragici dell’Espressionismo astratto dei quadri di
Scialoja.66

I toni tragici coinvolgono non solo le nature morte (“ombre della tettoia/ma il sole

64
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, ci., p. 18.
65
M. P. Ammirati, L’itinerario di Toti Scialoja, in “Tempo presente”, n. 157-158, 1994, pp. 71-74.
66
Ivi, p. 72.

96
basso investe/una bottiglia vuota/di birra e varie vespe.”67) ma anche le rare figure
umane dei componimenti:

Lo scaldabagno a gas
col verderame e il prato
delle fiammelle dis
sepolte in un quadrato

spettrale si riflette
– e un lampo – nei severi
occhi di chi ha di latte
la pelle e neri i nei.68

Le tonalità che si indovinano cupe già dai primi versi grazie al prato delle
fiammelle che evoca l’immagine di un cimitero, sono addirittura – lo scopriamo al
quinto verso – spettrali. Tutto il componimento è volto a trasmettere questa
percezione onirica da incubo. Percezione che viene accresciuta dall’uso della
spezzatura tra il terzo e il quarto verso (così che della parola dis-sepolte risuoni
con più forza la seconda parte) e dal forte enjambement che separa le due quartine
e fa iniziare la seconda con l’aggettivo chiave di tutta la poesia: spettrale.
Spettrale è anche la figura della persona che emerge dallo sfondo del testo grazie a
un lampo che le illumina i “severi occhi”, figura sinistra e pallida illuminata da
una luce fredda e improvvisa. Ci sono casi in cui lo spazio figurativo viene creato
attraverso la sofferenza e l’inquietudine del poeta che arrivano addirittura ad
influenzare il tempo in una sorta di processo empatico o di metamorfosi. Riporto
un caso esemplare:

Fuori piove se piango


senza sedermi senza
causa apparente spengo
la cicca lentamente
più che piangere spingo

67
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 84, vv. 1-4.
68
Ivi, p. 62.

97
lacrime sulla pelle
percorrendo la stanza
quanto è larga da un angolo
all’altro vanno lente
quelle gocce ingranaggio
più logoro che blando
le sento sulla lingua
certo non me ne viene
il minimo vantaggio
solo un odore d’acqua
piovana intrisa a cenere.69

Come scriveva Raboni, “il paradiso è a questo punto definitivamente perduto”, e


anche se – come osserva Luca Serianni – «i segni di continuità tra la fase
nonsensica e la fase drammatica non sono pochi»70 e tra la prima e la seconda ci
sono riprese intratestuali, queste ultime, nelle poesie della fase drammatica, hanno
un livello di tragicità maggiore. Il componimento appena riportato, inoltre, spezza
il ritmo ormai fissato, da Paesaggi senza peso, sulla composizione di due
quartine, e si allarga in un componimento di ben sedici versi. Il fatto che nello
scrivere una delle poesie più introspettive della raccolta Scarse serpi Scialoja
abbia avuto bisogno di più spazio, sembra già alludere a quanto avverrà in Rapide
e lente amnesie (Marsilio 1994), quando il poeta avrà bisogno di usare per
esprimersi un metro narrativo di diciassette sillabe.
Serianni, a proposito delle riprese intratestuali, riporta il seguente esempio citando
due poesie da La stanza la stizza l’astuzia e da una sezione intitolata Qui la vista è
sui tigli raccolta in Poesie 1979-1998:

Un cane percorreva l’ospedale Quale rondine ho scelto


un dado ruzzolava sul guanciale per richiamarti – quale
un cielo si affacciava al davanzale giravolta – quale ultimo
un sole traversava lo spiraglio stridio sull’ospedale?

69
Ivi, p. 77.
70
L. Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, in G. Antonelli e C. Chiummo (a
cura di), Nominativi fritti e mappamondi. Il nonsense nella letteratura italiana, Atti del convegno
di Cassino 9-10 Ottobre 2007, Salerno Editrice, Roma 2009.

98
un sale si addensava sul tuo ciglio
un tale mascherava lo sbadiglio Nel bicchiere la rosa
un giglio nel bicchiere d’ospedale.71 divide la sua acqua
con la mia attesa: in posa
così come a te piacque.72

In riferimento ai componimenti scrive Serianni:

Questo componimento (quello tratto da Versi del senso perso), in particolare, ha


un senso agevolmente decifrabile, oltre la litania di frasi descrittive, tutte
incardinate tranne l’ultima (nominale) sulla struttura soggetto-predicato
complemento: l’ambiente è quello di un ospedale, con ammalati, forse
lungodegenti, abbandonati a sé stessi nella noia di giornate interminabili. Lo
stesso nel secondo componimento, che non ha più nulla dell’effetto-filastrocca
(si vedano le insistite inarcature) ma che aggetta su un’immagine simile: il fiore
(qui la rosa, lì – con richiamo fonico del rimante sbadiglio che chiudeva il verso
precedente – un giglio) in un bicchiere, modesto segno di una presenza e di
un’attenzione in un ambiente freddo e impersonale come quello ospedaliero.73

Il componimento tratto da Qui la vista è sui tigli (1979-1985) in cui il verso di una
rondine viene scelto per richiamare un “te” indefinito ricorda un testo di Xenia di
Montale:

Avevamo studiato per l’aldilà


un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.74

Montale aveva scritto i versi delle due raccolte Xenia I-II in seguito alla morte di
sua moglie Drusilla Tanzi, affettuosamente chiamata Mosca a causa della forte
miopia della donna costretta a portare degli occhiali che le ingigantivano gli
occhi. Le poesie di queste raccolte sono incentrate sul tema del ricordo della

71
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 125.
72
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 101.
73
L. Serianni, Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja, cit., p. 311. Corsivo mio.
74
E. Montale, Satura – Xenia I, in Tutte le poesie, Mondadori (i Meridiani), Milano 1984, p. 1040.

99
compagna e quello qui riportato fa riferimento ad una credenza secondo la quale
alle anime non è permesso riconoscersi dopo la morte. I coniugi avevano
escogitato l’inganno del fischio per potersi ricongiungere, una volta giunti
nell’aldilà. Scialoja ha scelto uno “stridio sull’ospedale” per richiamare qualcuno,
e anche lui si trova nella condizione di attesa, proprio come Montale che, in attesa
della morte, modula il segno di riconoscimento stabilito con la moglie.
L’intera sezione Qui la vista è sui tigli traccia il profilo dell’assenza di qualcuno o
della mancanza di un amore (“ma una sveglia/ticchetta la tua assenza”75; “Non
m’ero ancora accorto/nell’oro – con l’amaro/chiarore di chi è morto – d’aver
smesso di amarti”76). La sezione, che nella silloge di poesie “serie” precede la
prima raccolta del terzo tempo di Scialoja – Le sillabe della Sibilla (Libri
Scheiwiller 1988) –, si conclude con una poesia che lascia una frase a metà e
spezza il respiro del lettore:

Ma s’io avessi creduto


che per te quel risveglio
improvviso – nel crudo
dell’alba – nel tuo «meglio

non esser nati» - avrebbe


spalancato una breve
eternità di calde
lacrime – mai ti avrei77

Il segno di interpunzione è volutamente assente e spalanca un vuoto, un baratro


che è riempito dal bianco della pagina, bianco che rappresenta assenza di parole.
La Graffi sostiene che Scialoja «arriva a toccare anche l’altro punto estremo della
poesia, la frontiera dell’impossibilità del dire, il momento in cui il silenzio è
rivendicato come proprietà del linguaggio, suo specifico indissolubile polo di
tensione»78. La scrittura dei nonsense aveva come unico scopo quello di
risvegliare l’amore e la sorpresa per le parole, e il suono era il mezzo attraverso il

75
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 96.
76
Ivi, p. 93, vv 5-8.
77
Ivi, p. 115.
78
M. Graffi, L’alibi di Scialoja, cit., p. 84.

100
quale risvegliare questo amore perché «ogni suono ha una sorpresa da trovare. Le
poesie di Scialoja mantengono l’attimo di sorpresa di ciò che sta per essere
trovato, o meglio che si sta trovando»79 e nelle sue poesie l’arrivo di una parola
assurdamente fuori contesto è come una deflagrazione. In questa poesia però
rimane il silenzio, rumore bianco senza punteggiatura, spazio infinito contenuto
dalla pagina. È forse la deflagrazione più assordante di tutti i nonsense.
Il nonsense «silenzioso motorino d’avviamento del senso»80, lascia il posto, con
questo silenzio, ad un nuovo sviluppo poetico, quello che abbiamo individuato
come terzo tempo.

III. 2 Il terzo Scialoja

Era stato lo stesso Scialoja, in uno scritto pubblicato nel catalogo dell’esposizione
svoltasi nel 1991 a Bologna81, a dichiarare che «nel nonsense la parola è alla
prova del nulla»82 e continuava:

Si fonda su nomi che non nominano. È lo spasimo, la voglia spasimante di un


senso più vero, forse il senso dell’essere. È un elisir di senso, ovvero la
baudelairiana «voglia dell’intangibile». 83

Gli elementi sui quali si fondano i nonsense di Scialoja sono le sillabe, che per lui
non sono altro che «sfaccettature di sensi, particelle baluginanti, catarifrangenti,
magnetizzate dalle loro possibili aggregazioni»84. È un’affermazione che è
opportuno citare introducendo la raccolta che apre il terzo momento poetico di
Scialoja e ne conferma la svolta rispetto ai nonsense per l’infanzia. La raccolta del
1988, Le sillabe della Sibilla, porta infatti già nel titolo l’idea dell’aggregazione di
sillabe ma si apre anche a un di più di senso. La Sibilla era l’oracolo che, nel
tempio di Apollo, scriveva i suoi vaticini su delle foglie di palma che poi lanciava

79
Ivi, p. 80.
80
G. Raboni, Prefazione a Toti Scialoja, cit., p. 8.
81
A. Rauch (a cura di), Animalie. Disegni con animali e poesie, cit.
82
T. Scialoja, Infanzia e nonsense, voglia dell’intangibile, in A. Rauch (a cura di), Animalie.
Disegni con animali e poesie, cit., p. 180.
83
Ibidem.
84
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, cit., p. 12.

101
in aria creando un oracolo ambiguo che, a causa dell’assenza di punteggiatura,
poteva essere interpretato in modi diversi.
Se nel secondo momento creativo di Scialoja, quello dei Paesaggi senza peso,
restava forte il legame con il nonsense che costruiva i “paesaggi di parole” e «non
vuole significare nulla. Non deve servire a nulla se non a se stesso. Un sé esatto
ma inconoscibile»85, con Le sillabe della Sibilla quella “voglia spasimante di un
senso più vero” sembra raggiunta. Il titolo dato alla raccolta non gioca solo
sull’allitterazione o sull’intreccio di sillabe, ma anche sul modo della Sibilla di
spargere le parole al vento.
Il rinnovato modo di dipingere ha influenzato ancora una volta il modo di scrivere
di Scialoja. Sappiamo che dopo la visita al museo del Prado a Madrid nel 1982,
dove Scialoja incontrò l’opera di Goya, il suo approccio alla pittura era cambiato;
Scialoja aveva recuperato la libertà della pittura gestuale ma c’era un qualcosa di
diverso in questa sua pittura rispetto a quella del suo primo periodo espressionista:
un’idea, una previsione del quadro. Nell’intervista con Gabriella Drudi Scialoja
afferma: «c’è un piano, dove tutto è previsto, ma quello che accade può essere
totalmente diverso»86. Niva Lorenzini, in una recensione dal titolo Toti Scialoja,
Le sillabe della Sibilla, pubblicata sul “verri”87, scrive:

Nelle Sillabe della Sibilla le coordinate strutturali che definiscono l’architettura


del testo sono presto riconoscibili: le sezioni intitolate a una sillabazione
frantumata della leopardiana A se stesso (la lirica, a sua volta, più segmentata
dei Canti) sviluppano, al di là dell’apparente provvisorietà tematica, un coerente
intreccio.88

I titoli delle otto sezioni in cui è suddivisa la raccolta sono infatti ricavati dai
segmenti che compongono gli ultimi tre versi del canto sublime dell’estremo
disinganno:

Or poserai per sempre,

85
T. Scialoja, Infanzia e nonsense, voglia dell’intangibile, cit., p. 180.
86
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, cit., p. 230.
87
N. Lorenzini, Toti Scialoja, Le sillabe della Sibilla (1983-1985), Milano, Scheiwiller, 1998, in
“il verri”, serie VIII, n. 10, 1989, pp. 139-143.
88
Ivi, p. 141.

102
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.89

In grassetto sono evidenziati i versi da cui le sezioni della raccolta prendono il


titolo. La scelta del componimento leopardiano, che corona Il ciclo di Aspasia, è
finalizzata a un progetto che vede Scialoja addentrarsi più profondamente di
quanto non avesse ancora fatto nel suo “lungo viaggio nella mestizia, nello
sgomento, nell’amarezza, alla cattura di sempre più mature sofferenze e
inquietudini”. Se Leopardi tocca il punto estremo dell’illusione nel suo amore non
ricambiato per Fanny Targioni Tozzetti, estremo è anche il disinganno che a
quell’illusione corrisponde: il mondo è solo fango, ormai è chiaro che “non val
cosa nessuna i moti” del cuore. L’intreccio coerente “al di là dell’apparente
provvisorietà tematica” individuato dalla Lorenzini nella raccolta di Scialoja, si
sviluppa intorno allo stesso tema del disinganno leopardiano: “La speranza s’è
persa”90. Più volte si perde la speranza nel corso della raccolta, quella stessa
speranza che già in Scarse serpi era una promessa illusoria, data e subito negata:

Tanto silenzio ad Anzio


non indica inazione

89
G. Leopardi, Canti, cit., pp. 220-221
90
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 175.

103
del lido anziano che anzi
ansimando propone

blande avanzate d’onde


sulla spiaggia deserta
dove il frangente effonde
speranze – poi le incarta.91

Le speranze effuse e poi incartate dal mare, offerte e sottratte dal moto delle onde,
si perdono più di una volta nelle Sillabe della Sibilla:

La speranza s’è persa


nella sala da pranzo
la tua mano imperversa
su ogni minima grinza.

Un chiarore invernale
ti snida i lineamenti
dal piatto alzi inclementi
occhi in cerca del sale.92

La speranza si è concretamente smarrita nel quotidiano, in una sala da pranzo che,


forse, è generata dalla parola-melagrana, ma, pur se le cose stessero così,
attraverso il gioco consueto, ci troveremmo stavolta in uno spazio reale. La
concretezza del gesto di chi nella sala da pranzo alza gli occhi dal piatto in cerca
del sale rende tutto tangibile.
Non meno carichi di concretezza sono i versi 5-6 dove si legge: “un chiarore
invernale/ti snida i lineamenti”. Sembra di vedere la luce tenue di un sole lontano
che si insinua in ogni piccola ruga, in ogni piega della pelle, rughe non nominate
ma suggerite dalla mano che “imperversa su ogni minima grinza”. La luce
invernale, inoltre, non può che corrispondere alla vecchiaia. La sezione che
comprende questo componimento si intitola Poter che, una sezione dominata dalla

91
Ivi, p. 37.
92
Ivi, p. 158.

104
luce fredda (“Piove un pallido sole/- illude chi s’infila/nel folto”93; “Fredda sera di
febbraio/le speranze allo sbaraglio”94) e dal senso della vista alla quale tocca
essere spettatrice di tutti i cambiamenti sopraggiunti con la nuova stagione (“Ma
ora come è mutato/il tuo volto”95; “chiedo al tuo volto l’ele/mosina di un
sorriso”96).
La Lorenzini sostiene che in tutta la raccolta «Protagonisti sono i sensi,
introiettati si direbbe nelle parole-figure dotate – è sempre Scialoja a precisarlo –
di «densità, colori, nervature.» »97.
Si veda a tale proposito la seguente poesia tratta dalla stessa sezione cui
apparteneva il componimento riportato in precedenza:

La sabbia è calda – il freddo


è nel vento e negli occhi
scontenti a cui non vendo
che fiammiferi spenti

in quell’istante – serve
la mano stretta a conca
sotto spalle ricurve
perché il mare stravinca.98

Le sensazioni tattili sono sparse su tutto il corpo, dai piedi che percepiscono il
calore della sabbia, alle braccia che rabbrividiscono al vento freddo, alla mano che
si chiude intorno al fiammifero per non farlo spengere. Fioca luce stentata nel
paesaggio ventoso che ci suggerisce, ancora una volta, un mare d’inverno.
Per quanto riguarda la prima sezione, Te, la Lorenzini annota:

Si veda Te, con la resa gestuale di un suono che non diviene voce (solo stridio
semmai, o silenzio) ma si spazializza in notazione visiva (il guardare, il
comparire, lo specchiarsi…).99

93
Ivi, p. 162.
94
Ivi, p. 165.
95
Ivi, p. 164.
96
Ivi, p. 162.
97
N. Lorenzini, Toti Scialoja, Le sillabe della Sibilla, cit., p. 141.
98
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 159.

105
Così è per un componimento in cui le due quartine sono una la conseguenza
dell’altra e dove la sonorità delle parole intesse trame che filtrano la vista e con
questa lo stato d’animo di chi osserva:

Si fa presto a dir Trieste


se la guardi tra le trine
di una tenda alla finestra
prova a dirlo se sei triste.

Si fa presto ad esser tristi


se si guarda alla finestra
contro un cielo nero inchiostro
quel che resta di Trieste.100

Tolta la tenda siamo dentro chi guarda Trieste senza più filtri, senza più distanza.
Ma la tenda era una distanza dal guardare Trieste o dal guardare la propria
tristezza? Già nella raccolta del 1981, Paesaggi senza peso, avevamo notato come
il passaggio tra interno ed esterno fosse frequente (“Sono in Asia ed Asia sia”,
dove il toponimo era una conseguenza dello stato di ansia in cui si trovava in
realtà il poeta). Nelle Sillabe della Sibilla la tenda alla finestra dell’interiorità è
stata del tutto rimossa e il passaggio tra il paesaggio esterno e lo stato d’animo del
poeta avviene in modo fluido.
La seconda sezione, La Natura, è invece dedicata ai suoni. Scrive la Lorenzini:

Dal riscontro visivo alla voce: la seconda sezione (La Natura) è fitta di intarsi
sonori che si solidificano sino alla presenza o si assottigliano in un silenzio
tattile. […] Fino a quando si raggiunge la fissità straniata di un cielo «gelido
fino a esistere»: in mezzo stanno modulazioni ibride, movimenti sospesi,
rallentati, in cui il tempo si dilata o si raggruma nell’istantaneo confine tra suono
e silenzio.101

Dalla casa le voci

99
N. Lorenzini, Toti Scialoja, Le sillabe della Sibilla, cit., p. 141.
100
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 127.
101
N. Lorenzini, Toti Scialoja, Le sillabe della Sibilla, cit., p. 141.

106
pervengono a chi tarda
in giardino – chi tace
nel buio ancora verde.

Chi corre verso l’edera


con fragore di ghiaia
ignora il cuor di tenebra
covato da una sdraia.102

La terza sezione, Il brutto, è pervasa da atmosfere cupe (il mondo perso, la


primavera annerita, la luce malcontenta, l’estate che delude):

Rotaie tra le spine


la capra alla catena
- sul ponte di confine
sventola una sottana.

L’ortica arde di febbre


se il sole è basso – un ansito
annuncia il treno e tenebre
in transito sui sensi.103

Queste tenebre che avvolgono i sensi transitano A comun danno. Nella sezione
così denominata vengono evocati personaggi storici o di antichi miti, anche loro
travolti nel canto leopardiano della disperazione. Compaiono: Medea, Ofelia,
Desdemona… tutti personaggi che, colpiti nei loro affetti, muoiono o vengono
uccisi. È in questa sezione inoltre che si nasconde il sibillino oracolo della Sibilla:

Scandendo: «Ibis redibis


– non – morieris in bello»
non persi d’occhio Anubi
buio dietro il cancello.

102
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 133.
103
Ivi, p. 148.

107
Udivo il suo uggiolio.
Entrò. Salì sui tubi.
Quid pluma levius? Dubbi
non ho sul Cane Dio.104

Che il componimento che riporta il vaticinio della Sibilla sia posto qui ad indicare
l’impossibilità di prevedere il destino, un destino che, per quanto imprevedibile,
opera sempre e comunque per un danno comune che travalica spazio e tempo? E
che il destino sia sorvegliato da una Madre Natura “matrigna”? Nella penultima
sezione della raccolta, Impera, un componimento suggerisce questa
interpretazione leopardiana:

Il naufragio è un elenco
di scomparsi – ogni lampo
conferma che il maltempo
è indomito e pedante.

Contro il molo si abbatte


il maroso prescritto
- ogni onda monta in cattedra
e spalanca il registro.105

Il registro è quello dei morti, dei naufraghi scomparsi perché il maltempo è


indomito come la Natura che lo genera, la stessa Natura “scura in volto” che, per
un capriccio, rovina un pranzo all’aria aperta:

Distendi un plaid senz’anima


sull’erba – in disaccordo
col plein air se una raffica
dissemina contrordini.

104
Ivi, p. 186.
105
Ivi, p. 202.

108
Non siamo a casa. Madre
natura è scura in volto.
Volano attorno ladre
vespe con ira svelta.106

Partendo da questi presupposti ci vuol poco ad affermare che “la vita//è una favola
idiota/piena di schianti ed urla”107 al punto che l’infinita vanità, la sezione con cui
si chiude la raccolta, è densa di echi di una morte invocata:

Sommessamente chiesi
alla luce di luglio
d’essere morto – chiusi
gli occhi – nel doppio buio

macchie ardenti – fiammate


oltre la vita – vedo
scorrere fotogrammi
di un rosso messo a nudo.108

Una morte desiderata “alla luce di luglio”, luce rossa, estiva, viva. Se abbiamo
ritenuto che l’inverno corrispondesse all’età d’oro dell’uomo, all’estate
corrisponde certamente la giovinezza, un’età che, per quanto prolungata nel
ritorno alla propria infanzia, lo dicevamo all’inizio di questo capitolo, è sfuggita
dalla presa di Scialoja che ha ammaestrato le farfalle del suo zoo di animali di
carta ad essere furiose per la fine di questa bella stagione: “farfalle vanno in
tondo/furiose della morte.”109 Di questo gruppo di farfalle furiose fa sicuramente
parte la “Farfallina d’estate” dei Versi del senso perso:

Con le ali dorate


ha le ore contate
la Farfallina d’estate.

106
Ivi, p. 138.
107
Ivi, p. 210, vv. 4-6.
108
Ivi, p. 219.
109
Ivi, p. 218, vv. 7-8.

109
Che fare? Anche l’Estate
ha le farfalle contate.110

Gli scarsi richiami intratestuali che si possono cogliere tra Le sillabe della Sibilla
e i Versi del senso perso sono passati sotto la lente del nichilismo leopardiano che
rende tutto più concreto e amaro: “e fango è il mondo”, la miseria è tangibile e
sporca. Un esempio di questo dilagare dell’amarezza lo riscontriamo nel
confronto tra i seguenti testi:

Se il vento assale il salice In mezzo alla vasca


l’impresa si rimanda – finita la festa –
di un soffio – resta in bilico ci resta una vespa
la vespa – si sbilancia svestita, che annaspa.111

oltre l’orlo – di testa


si cala dentro il calice
– ne spasima la Festa
sul Lago in brevi brividi.112

La situazione sembra la stessa in entrambi i componimenti. Il ritmo della poesia di


Le sillabe della Sibilla è rallentato dai forti enjambement dei primi versi. La
Lorenzini scrive:

La svolta di Scialoja, si diceva. Essa consiste nei ritmi rallentati, attoniti che
creano attorno alla sillaba lo spazio del silenzio, la traccia della labilità ma
insieme dell’energia di un’articolazione sonora che coniuga ad un tempo fissità
e levità, nelle loro gradazioni impercettibili e infinite. Nessun rinvio
all’oltresenso: tutto si consuma nella combustione episodica, nell’occasionale
corrispondersi di emozioni sillabiche che costruiscono i percorsi, le trame di
racconti di quotidianità straniata, di delirio finemente controllato, sull’orlo della
smemoratezza. […] Ecco: la parola di Scialoja sa approdare a questa
normalizzata tragicità anche se sullo sfondo rimane la malia giocosa della sillaba
che può, all’occorrenza, piegare a sé sintassi e rima, in un fascinoso e rovinoso

110
T. Scialoja, Versi del senso perso, cit., p. 246.
111
Ivi, p. 110.
112
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 140.

110
percorso. […] E tuttavia sulla tastiera del poeta-fanciullo le tonalità si
intersecano e si moltiplicano, tra armonia e contrasto, senza cessare di irretire e
sorprendere, come si conviene a chi affida alla parola il compito non solo di
esprimere, ma proprio di assumere nella sua invenzione vitale «l’enigma
dolente».113

Il critico Angelo Guglielmi, nell’intervento di Omaggio a Toti Scialoja del 16


dicembre 2014 promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca, diceva:

Da Giacomo Leopardi aveva imparato che la poesia non è un monito,


un’ammonizione, ma è un meccanismo che dà allegria e moltiplica la vitalità del
lettore.114

Lo stesso Toti, in un articolo pubblicato sulla rivista “Poesia”115, scriveva, a


proposito del potere catartico delle parole, una riflessione che ci piace immaginare
riferita alla raccolta del 1988, come se il poeta, nominandolo, avesse voluto
cercare di eliminare il dolore di cui sono pieni questi suoi testi:

Le parole della poesia, come aboliscono la morte desiderandola, così annullano


il dolore. Anche se di consueto usano direttamente nominarlo e affrontarlo nella
sua durezza – trasformandolo all’istante in forte e falso splendore. Infatti nella
poesia, a mio avviso, le parole aboliscono il dolore – per poter meglio contenere
tutto il Dolore del mondo.116

In una lettera che Anceschi aveva scritto nel 1988 come presentazione a Toti per
un incontro napoletano – che fu rinviato e finì per non svolgersi mai – ma al
quale, per ragioni di salute, Anceschi non sarebbe comunque riuscito a
partecipare, si legge:

Ho qui, intanto, tra le mani, il dattiloscritto delle Sillabe della Sibilla, e non so
davvero l’emozione che mi prende. Il tuo percorso, che conosco bene, ha
raggiunto qui, tra straordinarie esperienze, un punto di acutezza estrema a cui

113
N. Lorenzini, Toti Scialoja. Le sillabe della Sibilla, cit., pp. 140-143.
114
A. Guglielmi, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja celebrato il giorno del centenario
dell’autore il 16/12/2014 e promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca,
https://www.youtube.com/watch?v=PrVANfjwqaY
115
T. Scialoja, A lezione da Toti Scialoja, in “Poesia”, Anno I, n. 3, 1988, pp. 7-14.
116
Ivi, p. 7.

111
non manca, se pure mascherato, il respiro profondo di oscuri sensi tragici. Una
tragedia nascosta nella ilarità e leggerezza? 117

Nella raccolta successiva a Le sillabe della Sibilla, I violini del diluvio


(Mondadori 1991), il tema del disinganno e la luce invernale sono anche più
presenti. Raboni sostiene che:

All’altezza dei Violini del diluvio (1991) questa metamorfosi è avvenuta con tale
compiutezza che non resta più traccia, si direbbe, né dello stato precedente, né
del processo che l’ha dissolto: la perfetta enigmatica leggerezza e sfericità delle
metafore, la gabbia eterea e invalicabile formata dal gioco delle rime, delle
assonanze, delle allitterazioni, degli anagrammi, dei lapsus programmati
racchiudono ormai all’interno della loro radiosa trasparenza i bozzoli o le
spoglie di tutte le angosce, di tutti i terrori.118

Nessuna traccia del passaggio della smemoratezza dei nonsense, al contrario di


quanto avviene per la pittura di Scialoja. L’architetto Maurizio Montani ricorda
come il passaggio tra un’opera e l’altra abbia sempre lasciato un segno nello
studio del pittore, situato a piazza Mattei, nel ghetto di Roma:

Non dimenticherò mai questo pavimento meraviglioso di piazzetta Mattei che


era una specie di stratificazione archeologica dove, per terra, c’erano le tracce,
che spero non abbiano cancellato, come se il quadro che venisse dopo era venuto
da quello che l’aveva preceduto.119

Il diradarsi della leggerezza fino a scoprire del tutto “i bozzoli o le spoglie di tutte
le angosce, di tutti i terrori” ha un andamento più veloce del lento stratificarsi
delle tracce di vernice, è un’inesorabile discesa agli inferi, discesa senza ritorno di
cui c’è traccia nel componimento de Le sillabe della Sibilla che, nella sezione Il
brutto, recita:

117
L. Anceschi, Lettera di Luciano Anceschi per un incontro napoletano con Toti Scialoja,
Gabriele Stocchi (a cura di), Litografia Bruni, Pomezia 1988. Edizione fuori commercio. I numeri
di pagina sono assenti.
118
G. Raboni, Prefazione a Toti Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 8.
119
M. Montani, nell’evento in Omaggio a Toti Scialoja celebrato il giorno del centenario
dell’autore il 16/12/2014 e promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca,
https://www.youtube.com/watch?v=Tysy9fEV9kU

112
Se dal platano al prato
se dal prato al pantano
vanno foglie di scarto
a sbalzi e a volte planano120

Di allitterazione in anafora il percorso compiuto dalla foglia è sempre verso un


locus meno amoenus e finisce quando la foglia si invischia nel pantano che è
fangoso come il mondo di Leopardi.
Barbara Drudi scrive:

Toti tende a comporre i suoi versi in ritmi più serrati, ad esplorare i territori
dell’anima con un’amarezza profonda e un dolore di vivere, che si realizzano nel
volume I violini del diluvio.121

Con I violini del diluvio siamo precipitati con Toti in un pantano dal quale non
riusciamo più a tirarci fuori. La prima conseguenza è un inasprimento della
sillabazione, visibile nel componimento che apre la raccolta nella sezione
Malinconie canine:

Da dove vieni? Dove


hai passato la tetra
notte mentre la neve
illuminata ai vetri

esplorava la strada
livellando l’assurda
attesa e cani bradi
masticavano merda?122

L’asprezza del fonema tr coniugata a un vocabolario tetro che degrada fino al


turpiloquio, cresce fino ad arrivare a creare un componimento in cui il colore fa

120
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 147, vv. 1-4.
121
B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, in Rolf Lauter e Marco Vallora (a cura di), Toti
Scialoja. Opere 1983-1997, Catalogo della mostra (Galleria dello Scudo, Verona 9 dicembre 2006
-28 febbraio 2007), Skira, Milano 2006, p. 19.
122
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 253.

113
rima con dolore, dove le rose non sono più colorate ma, sussultanti per la “tua
assenza”, sono nella stanza come doloroso monito di ciò che è scomparso:

La rosa non è rossa


è appena rosa – è senza
tinta se a tratti è scossa
dal sussulto della tua assenza

che non chiede colore


non misura distanza
– è soltanto dolore
in qualche angolo della stanza.123

E il dolore penetra anche i ricordi in componimenti in cui il poeta confronta


passato e presente arrivando a trasmettere sensazioni di inesorabile solitudine:

Una volta quanto mi avrebbe fatto


patire il tuo incupito mutamento
– ora ceno con la testa nel piatto
quanto basta per rimediare al silenzio.

È sempre una tempesta nel bicchiere


ma il vento ora ha girato – ecco il naufragio
nella minestra – le erratiche lacrime
raccolte adagio – sollevando il cucchiaio.124

Chi mangia minestra e lacrime soffre perché una situazione che lo turbava un
tempo, ora lo lascia indifferente, “con la testa nel piatto”. Una spessa apatia si è
posata su tutte le emozioni che facevano sentire vivi ed è calata anche sugli affetti
provati una volta, che ora sono stravolti, diventati fantasmi:

Credo in una moltitudine

123
Ivi, p. 261.
124
Ivi, p. 317.

114
di fantasmi – che sono i tuoi sguardi
i tuoi gesti – ciò che decidi
di affidarmi – da quando s’è fatto tardi.

Credo in una solitudine


di confidenze – destini avversi
da risolvere su due piedi
– con la mano comprimi i ricci e mi osservi.125

Scrive Niva Lorenzini:

Il disperdersi, il dileguare progressivo della presenza e del senso, tra sogno e


attesa, libera negli stridenti accordi dei Violini del diluvio note basse, tenute, che
rallentano l’azione aprendo sulla dissestata geometria degli affetti spazi di
immobile estraneità. Come quegli sguardi muti, ostinatamente astigmatici, che
resistono senza volto, separati dal sentimento, allo spolparsi della voce-parola.126

Raramente l’azione non è rallentata, ma quando questo avviene, la resa poetica è


forse ancora più inquietante:

Dall’altra sponda implorano


– allargano le braccia –
negano a gesti – cadono
in ginocchio o di faccia.

È incongruo lo scompiglio
– la scena cruda – il pianto
assordante – non vogliono
morire – questo è il punto.127

Il componimento descrive una scena che ricorda la folla dei dannati sulla sponda
dell’Acheronte, o l’intreccio dei corpi dipinto da Gericault in La zattera della

125
Ivi, p. 301.
126
N. Lorenzini, Il presente della poesia. 1960-1990. Il Mulino, Bologna 1991, p. 214.
127
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 295.

115
Medusa. Al grido degli imploranti si unisce Scialoja in un – ormai – raro
momento di fuga dall’apatia, che quando avviene diventa grido o invocazione:

Canta – o mio cane – canta – non latrare


la luna è là – è alta – non hai altra
parvenza trascendente da bramare
oltre l’anima tua – che ti fu tolta.128

Notiamo come in molti componimenti il verso comincia ad allungarsi. I consueti


settenari non riescono più a contenere “tutto il Dolore del mondo” e Scialoja
comincia a sperimentare un modo di esprimersi diverso, più adatto ai sentimenti
della nuova età che sta vivendo:

I vecchi vogliono raccontare, raccontare la vita che hanno fatto, i loro ricordi, i
pensieri lontani; e così la poesia ha avuto bisogno di un verso lungo, un verso
lento, con cui io potessi proporre la mia memoria. Ed il verso più antico, più
lento e più sublime è l’esametro, che ho scoperto leggendo i versi nella
traduzione pascoliana di Omero.129

Il verso scaturito dalla lettura della traduzione pascoliana di Omero dei versi:

Datosi un colpo nel petto, al suo cuore drizzò la parola:


«Cuore, sopporta! Ben altro tu hai sopportato più cane»130

riportati a epigrafe della raccolta Rapide e lente amnesie (Marsilio 1994) è un


verso lungo, narrativo. Nell’Avvertenza che precede le cinquantatre poesie della
raccolta Scialoja avverte che non si tratta propriamente di esametri:

I versi di questa raccolta seguono una metrica inconsueta. Io li ho chiamati


esametri, e avevo le mie ragioni. […] Facendo mio lo schema delle diciassette
sillabe e dei due tronconi eccomi dove non è più luogo a dattili, spondei, trochei,
anapesti […] Per questo, come non si tratta qui di «versi liberi», nemmeno si

128
Ivi, p. 275.
129
T. Scialoja, Una rapida luce segreta, intervista telefonica a cura di Ivan Crico trascritta nel suo
blog https://rebstein.wordpress.com/2009/09/19/una-rapida-luce-segreta-di-ivan-crico/
130
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 351.

116
può parlare, accademicamente, di «esametri». Perché, adottata la mia regola
esatta, non mi sono minimamente curato di imitare l’esametro classico nella sua
varietà di piedi diversi (quindi di sillabe diminuite), ma ho intrapreso, con
mantenuto rigore, a muovermi entro uno schema regolato (per quanto inusuale)
dalle leggi della prosodia italiana. Che poi questi versi si voglia seguitare a
chiamarli «esametri», come io ho cominciato, a me va benissimo.131

La metrica di Scialoja si cristallizza adesso in due strofe di cinque versi di


diciassette sillabe formati da un ottonario e un novenario separati da una cesura; le
rime quasi scompaiono e quelle presenti sembrano essere occasionali e spontanee.
Sembra non esserci traccia del lavoro svolto in precedenza, ma in realtà le cose
non stanno propriamente così. La Lorenzini scrive:

Scialoja ci informa che quegli esametri sono da tempo una segreta pratica di
scrittura, una passione a lungo accarezzata: ci invita dunque a sentirli
contemporanei ai diversi modi del suo scrivere, quasi una nota costante che li
collega e ne ispessisce la trama.132

La nota costante è il senso costantemente inafferrabile. Rapide e lente amnesie


raccoglie componimenti di senso dato e tolto, in un continuo affermarsi che nega
se stesso. Fin dal titolo ci viene annunciato il grande ossimoro della raccolta in
cui:

Se si focalizza un qualsiasi indizio, si ottiene soltanto la perdita definitiva del


senso.133

Così in Osiris gli iris sono “apparsi scomparsi nella notte”134; in Una padovanella
“con stizza ma senza stizza”135 qualcuno si alza il bavero del cappotto. Queste
poesie seguono il “«qui lo dico qui lo nego» di tutte le foglie”136 di Tornaconto
del vento.
Il tempo del racconto segue lo stesso moto: c’è molto spazio lasciato alla
memoria, ma questo spazio non cede al dolceamaro gusto del ricordo. La memoria

131
Ivi, pp. 353-354.
132
N. Lorenzini, Gli esametri di Scialoja, in “il verri”, nona serie, n. 3-4, 1994, p. 17.
133
Ivi, p. 18.
134
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 372, v. 9.
135
Ivi, p. 361, v. 2.
136
Ivi, p. 355, v. 10.

117
è più che altro una reminescenza che passa rapida nella mente e lascia una traccia
che si cancella lentamente aprendo piccoli spiragli di luce sul presente.
Il dinamismo di queste amnesie “rapide e lente” ha il movimento delle onde del
mare:

Rapide e lente amnesie conviene chiamarle frangenti137

L’immagine delle onde del mare era stata usata da Foscolo per descrivere la
poesia di Ariosto. Quando Didimo Chierico, nel Viaggio sentimentale di Yorick, si
trovava a osservare «le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia,
gridò: Così vien poetando l’Ariosto.».138 L’accanimento per la metrica ha
sostituito in Scialoja quello per la semantica ma, come era già nelle ottave
rinascimentali dello scrittore ferrarese – tutt’altro che rigide ma, appunto, ondose
e fluttuanti – la staticità della versificazione non frena il movimento del ritmo,
serve solo a contenerlo. Scrive Barbara Drudi:

Come nella pittura, dove il gesto non si smarrisce, dove torna il ritmo della
pennellata a farsi grido dell’anima, così nella poesia, nel rigore metrico che,
volontariamente, cerca Scialoja, nulla è perduto: pulsa ancora incessante il ritmo
della sonorità della parola, il gioco e il gusto per l’allitterazione che apre allo
scambio semantico, quel ritmo che s’era visto nascere con le primissime poesie
nonsense.139

Prendiamo ad esempio la seconda strofa di Le processionarie:

Seguendo leggi leggere dettate dalla leggiadria


la fatuità non dirada dolore ma almeno ne sceglie
uno poco più lontano che avanza per la stessa via
percorsa con gran cautela con brulicante meraviglia
nel frattempo non cessava in sordina quella tua voce.140

137
Ivi, p. 366, v. 1.
138
U. Foscolo, Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia, ITALIA 1818, p. XVII.
139
B. Drudi, Toti Scialoja. Pittore e poeta, cit., p. 20.
140
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 377.

118
Dicevamo che anche il tempo oscilla continuamente tra presente e passato, le
rivelazioni che con la riscoperta di Goya si sono affacciate nella pittura di
Scialoja, hanno coinvolto anche il tempo che non è più scandito da una linea retta
ma «è fatto di avvolgimenti su se stesso, è una specie di ciclo abbreviato»141.
Questa nuova scansione del tempo si avverte anche negli esametri. Riporto la
poesia Le cicale:

Ad undici anni smaniando sul letto mi dicevo: «dovrò


morire» fuori l’azzurro lo strepito delle cicale
il precipizio di uno stridio che oramai il cuore non può
riascoltare dopo la rivelazione di quel gran male
la luce nel suo va e vieni in ombra il lenzuolo disfatto.

Una vacanza travolta in cerca di istanti scomparsi


uno spavento confitto come un raggio nello spiraglio
quando mi vide dormire la morte cominciò a svestirsi
sentivo un frusciare lento si spogliava ancora svogliata
guardavo ad occhi socchiusi lampi di mare sul soffitto.142

Un lampo di ricordo del passato, qui forse un incubo di Toti bambino, offre il
pretesto per una riflessione sulla morte. Volendo continuare la metafora del moto
delle onde, potremmo dire che il ricordo è l’onda che copre il bagnasciuga per un
tempo che dura un attimo, mentre il resto del componimento è l’orma umida
dell’acqua che resta sulla sabbia.
Il confondersi di passato e presente coinvolge i personaggi che si ripresentano alla
memoria del poeta; così è per il lentigginoso Enrico, nome del fratello di Toti in
Sera in giardino:

La rosa guardata a lungo col binocolo ha il gambo stanco


ma la sera non ha peso se è quella dell’intera vita
infatti salta leggera fa un salto a piè pari nel bianco

141
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
Opere 1983-1997, Catalogo della mostra (Galleria dello Scudo, Verona 9 dicembre 2006 -28
febbraio 2007), Skira, Milano 2006, p. 230.
142
Ivi, p. 383.

119
sul tavolo poggia il gomito Enrico da quando è riapparso
il volto acceso gremito di lentiggini trafiggenti.

Se Enrico mostra la lingua è solo per dirmi chi sono


la lingua color corallo in verità è color ruggine
stritola sotto le suole foglie morte per un perdono
labbra guardate a lungo col binocolo le lentiggini
passano gli orli si spargono si incollano sopra i denti.143

Alla vecchiaia e alla morte si accenna attraverso la metafora dei colori. Qui Enrico
rivela al poeta chi è mostrandogli una lingua che “in verità è color ruggine” non
“color corallo”; è una lingua di un rosso corroso dal tempo. Così in Velocità della
luce lo spettro visibile della luce solare viene rifratto nel violetto e nell’azzurrino
fino a diventare solo ombra:

La luce resta in attesa l’estate la rende insistente


anche la voce si espande cerca un luogo che la rimandi
il violetto dura venti passi si trasforma in celeste
l’ombra s’addensa alle spalle nell’orrido degli oleandri
chi si affaccia al belvedere il mare specchia ancora il giorno.

Lottare contro l’oracolo negarlo fino allo stremo


è l’avventura sordida data in sorte alla nostra specie
l’ombra s’addensa alle spalle di fronte il mare va in fumo
perché di notte fa buio? La velocità della luce
è costante ma nessuna galassia vive in eterno.144

Giovanni Raboni a proposito delle ultime raccolte poetiche di Scialoja scrive:

Con Rapide e lente amnesie (1994) e Le costellazioni (1997), […] e poi con
Cielo coperto, la raccolta postuma del ’97-98 che vede qui (nella silloge di
poesie di Scialoja edita da Garzanti nel 2002) per la prima volta la luce,
Scialoja parte (sono parole sue) dell’«emozione di due versi omerico-

143
Ivi, p. 395.
144
Ivi, p. 399.

120
pascoliani» per inventare la puntigliosa imitazione sillabica […] dell’esametro
dattilico puro, fornendo così a un’ispirazione sempre più dolorosa e notturna il
conforto o contrappeso di una sempre più solenne gravità ritmica […] capace di
impastare in un’unica materia sonora al tempo stesso concretissima e volatile le
buie ceneri dell’esperienza e il pulviscolo d’oro dell’immaginazione. 145

In Le costellazioni (Marsilio 1997) le metafore attraverso le quali si avverte il


presagio della morte sono le stesse di Rapide e lente amnesie. La fine della bella
stagione che è stata sleale e ha fatto volare il tempo in Autunno:

Col suo pugnale di foglie morte l’autunno ti trafigge


per quale torto? Quale ira? Dopo quanto rincorrerti?
Il colpo dal basso in alto è sgarro da cui non si sfugge
irrompe un fruscio sommerso un transito di giorni persi
intinti nel mormorio durante una estate sleale.

Inizio di una trafila sottratta ad ogni dilazione


capriccio di un calendario destinato al suo precipizio
hai avuto in dispregio di volta in volta le buone stagioni
strappandone a viva forza le felicità rannicchiate
ora il giorno può appannarsi la slealtà ti ha messo le ali.146

I colori che sbiadiscono nelle loro tonalità più fredde e opache in Dove va il
nero?:

Quando il verde si converte molto dolcemente al celeste


e il rosso è quello di un antico muro di mattoni unti
questi colori si stingono in un soffio d’alba intravista
prevedono un addensarsi di addii senza fine scontenti
un modo per dissipare il rimpianto che li rispecchia.

La paura della morte la diffonde un lilla minore


alla fine folgorato da un viola cupo a capofitto

145
G. Raboni, Prefazione a Toti Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 9. Corsivo mio.
146
T. Scialoja, Poesie 1979-1998, cit., p. 431.

121
il ceruleo si arrovella si conclude nel suo languore
ma il nero il nero… cosa fa il nero? Si finge sconfitto?
Il grigio lacero a un tratto si passa la lingua sugli occhi.147

Compare ancora una volta la vespa che cade nel calice durante una festa nella
poesia Festa sul lago. All’insetto è dedicato solo l’ultimo verso del
componimento:

la vespa discende a testa in giù dentro il calice vuoto.148

La stessa vespa calata nel calice prima in La stanza la stizza l’astuzia e poi in Le
sillabe della Sibilla, che abbiamo messo a confronto parlando della raccolta del
1988, fa la sua apparizione per l’ultima volta in Le costellazioni, nel 1997. La
risolutezza con cui la vespa volontariamente “discende” nel calice allude forse
all’accettazione da parte del poeta del proprio destino. L’apparizione della vespa,
la cui vicenda è sempre la stessa in tre diversi componimenti e in tre diversi tempi
creativi, ricorda il processo dello stampaggio delle Impronte che Scialoja operava
tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Abbiamo sostenuto che il
procedimento di pittura delle Impronte sia presente quando Scialoja fa
celeberrime citazioni da altri autori e che in quei casi il processo sia inverso al
senso del fluire del tempo che c’è nella sua pittura, quindi non c’è uno scolorire
dell’Impronta attraverso la citazione ma, al contrario, una rigenerazione di
quest’ultima. Quando le citazioni sono tra i testi dello stesso Scialoja però, il
procedimento sembra il medesimo della pittura: la vespa, presente in tre differenti
raccolte tutte caratterizzate da una diversa percezione o emozione dello scorrere
del tempo e della vita, si muove per l’ultima volta in Le costellazioni con un passo
lento e solenne, scandito dal verso di diciassette sillabe.
Il sentimento del tempo diventato quasi un’ossessione per Scialoja, porta il poeta
ad un ulteriore cambiamento nella sua ultima raccolta, Cielo coperto, pubblicata
per la prima volta nella silloge di poesie «serie» di Scialoja. La raccolta conta
sessantaquattro componimenti di cui solo i primi dodici non riportano a fine
poesia la data di composizione. Come in pittura si fissava l’attimo del dipingere

147
Ivi, p. 437.
148
Ivi, p. 422, v. 10.

122
nell’istante necessario a imprimere sulla tela l’Impronta, così in poesia una data
segnata a piè pagina segna il momento della scrittura. Cielo coperto raccoglie le
poesie scritte tra il 1997 e i primi mesi del 1998. L’ultimo componimento,
Memoria, è datato 22 febbraio 1998:

La memoria mormora come un mare ammansito


la memoria mormora con labbra che sembrano morenti
la memoria mormora come chi maschera malori
ma insieme rapidissima a stornare gli orli dell’oggi
che dico «dell’oggi»? d’ogni primo attimo del presente
per lei ogni nuovo respiro è già stato respirato
ogni prima scintilla spenta soffiata lontanissimo.149

“La memoria”, compagna della vecchiaia di Scialoja, protagonista indiscussa


delle sue raccolte di esametri, mette il punto finale alla produzione lirica del
poeta. Memoria che, parlando di Rapide e lente amnesie, avevamo associato al
mare, altro elemento principale della poesia degli esametri. Il mare è una parola
che ha la sua valenza metaforica, e lo stesso Scialoja rivela cosa significa la
presenza così insistente del mare nel componimento Quale mare?. Il mare, dice il
poeta, è la morte:

Da molto tempo da molto ma non so più da quanto tempo


la morte s’è complicata sfruttando la mia confusione
s’è fatta chiamare mare forse soltanto per vantarsi
allontanando i momenti deviandoli incessantemente
in altri momenti sparsi sulla grande contraffazione
se le onde seguitano a mentire ma sempre dormendo
sopra un mare tempestato di schiuma di colpo avariata
la morte si fa chiamare mare ma per approfittarne.

1º dicembre 1997150

149
Ivi, p. 536.
150
Ivi, p. 497.

123
Scialoja annuncia il suo ineluttabile destino in una poesia, datata 29 dicembre
1997, dal titolo Registro. Questo “registro” potrebbe essere lo stesso che in Le
sillabe della Sibilla era tenuto dalle onde del mare (“ogni onda monta in cattedra/e
spalanca il registro”), infatti, come nella poesia della raccolta dell’88, si ha la
sensazione amara che questo “registro” sia quello dove vengono segnati i nomi
dei morti:

Così inumidisce il dito sulla lingua rapido prima


di voltar pagina ripete con acribia il movimento
come frugando un dettaglio prima di voltar la pagina
del registro che ha davanti riporta il dito sulla punta
della lingua ripete il volo del dito ad un angolo
assillante mai dall’alto piuttosto dal lato più assente
preme alla fine il dito sul rigo di una nuova pagina
lo legge lo sillaba un nome a voce spiegata il mio nome
alza gli occhi dal registro non ha occhi non ha registro
non ha lingua non ha dito non ha le pagine dei nomi.151

La “mosca” che, nel componimento riportato in apertura di questo capitolo, non


aveva le energie necessarie a travestirsi da zanzara ma tentava comunque di
continuare la sua festa in maschera, ha smesso di “Lottare contro l’oracolo
negarlo fino allo stremo” 152. Ha “accettato il vero tempo”:

Sei venuta a morirmi accanto minima creatura alata


trasmettermi luogo e data della tua minuziosa morte
mostrarmi quanto tremore occorra per rendersi immobili
le contorsioni il battito frenetico delle tue corte
alucce insufficienti a contrapporre al nulla lo strazio.

Fatta immobile attendevo tu riprendessi a combattere


almeno con un solo battito anche impercettibile
invece avevi accettato il vero tempo che è immobile

151
Ivi, p. 511.
152
Ivi, p. 399, v. 6.

124
scambiato col mutamento e memoria di mutamento
il falso tempo del cosmo null’altro che squallido spazio.153

“L’infanzia aliena di morte” ha da molto abbandonato le poesie di Scialoja


sostituita da un sentimento del tempo che non dà più spazio a fughe o illusioni, è
solo tempo presente:

Tempo come presenza totale, cioè presente, non accavallamento ma presente e


null’altro dietro.154

153
Ivi, p. 443.
154
T. Scialoja, Giornale di pittura, cit., p. 26.

125
Conclusioni

Seguire il percorso poetico di Toti Scialoja vuol dire addentrarsi in una


rappresentazione figurativa del tempo.
Quel tempo – spazio concettuale – che Scialoja aveva fermato nelle Impronte:
l’istante in cui con la pressione sul foglio di giornale trasferiva il colore sulla tela,
il gesto con cui l’artista imprimeva duraturamente se stesso nel momento del farsi
dell’opera. In questo modo il tempo diventava concreto e visibile, il suo procedere
nei quadri di Impronte aveva lo stesso andamento del tempo cronologico e della
scrittura, ed era come una linea retta che, muovendosi da sinistra verso destra,
progredendo sbiadisce. Lo sbiadire nel tempo era inaccettabile per Scialoja
quando dipingeva le Impronte, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni
Sessanta. Nella sua pittura il concetto del tempo diventa centrale e si evolve fino a
diventare, grazie all’incontro con le opere di Goya a Madrid nel 1982, un tempo
ciclico, non più scandito sul filo di un orizzonte dall’andamento irreversibile, ma
tempo rotante:

ogni pennellata possiede in sé la forza del germe e la forza della chiusura, la


forza dell’alba e della notte, la forza dell’animo, dell’eterno ritorno su se stessi. 1

Come poeta Scialoja era sfuggito al tempo, sottraendosi al suo inesorabile scorrere
a quasi cinquant’anni, quando viveva a Parigi e iniziava a scrivere i bellissimi
nonsense per il nipotino James. Nel 1961 il suono delle rime baciate e il ritmo
delle filastrocche, insieme al riscoperto amore per la parola italiana, portano
infatti Scialoja a rivivere, in quel contesto, la propria infanzia “aliena di morte”. In
questa condizione priva di memoria Scialoja si scopre – e viene scoperto –
“poeta” in senso pieno. Scialoja insisteva nel ripetere che la condizione unica e
irreversibile per scrivere i versi nonsensici da lui composti per circa vent’anni
fosse proprio la smemoratezza. Smemoratezza di senso perché il nonsense crea
quei “paesaggi di parole” «che liberano il bambino dalla soggezione al

1
G. Drudi, Toti Scialoja, in “Flash Art”, n. 129, 1985, l’intervista è riportata in Toti Scialoja.
opere 1983-1997, Catalogo della mostra (Galleria dello Scudo, Verona 9 dicembre 2006 -28
febbraio 2007), Skira, Milano 2006, p. 230.

126
linguaggio»2, ma smemoratezza anche e soprattutto del tempo, perché quando
Scialoja scriveva i Versi del senso perso era lui stesso a rivivere la condizione di
infanzia, un’infanzia «infera, infernale regno di apparizioni»3:

Quando scrivevo poesie per bambini ero io stesso un bambino che diceva
poesie, che si divertiva e giocava. […] Il tempo andava all’infinito, lo spazio
andava all’infinito e la morte non esisteva.4

Quando arriva il suo riconoscimento a “vero poeta”, durante l’intervento di


Antonio Porta al convegno di Orvieto del 1976, Scialoja si scopre cambiato. Non
è il riconoscimento ottenuto a creare il cambiamento, perché questo si era già
verificato; ad Orvieto per Scialoja diviene chiaro che la sua poesia non era più
semplicemente poesia per l’infanzia:

Nanni Balestrini mi chiese un nuovo testo, delle poesie «un po’ meno infantili».
E io ce l’avevo già un testo nuovo, delle poesie più salaci e «cattive». 5

Con La stanza la stizza l’astuzia (Cooperativa scrittori 1976) inizia il secondo


periodo creativo di Scialoja, quello dei nonsense per adulti in cui la nuova vena
“salace e cattiva” cresce fino ad avere il suo culmine in Scarse serpi (Guanda
1983). La smemoratezza e l’assenza di morte dei Versi del senso perso hanno
abbandonato Scialoja e le sue poesie sono diventate delle creazioni piene di dolore
e di presagi di una morte inevitabile. A questo punto, l’uomo anziano non può che
rifugiarsi nella memoria e ricordare:

I vecchi vogliono raccontare, raccontare la vita che hanno fatto, i loro ricordi, i
pensieri lontani; così la poesia ha avuto bisogno di un verso lungo, un verso
lento, con cui io potessi proporre la mia memoria. 6

2
T. Scialoja, Amato topino caro, Bompiani, Milano 1971, citazione dell’autore tratta dal risvolto
di copertina.
3
T. Scialoja, Come nascono le mie poesie, in “il verri”, Anno XXXII, n. 8, 1988, p. 12.
4
T. Scialoja, La mia infanzia sono io…, in Animalie, disegni con animali e poesie, Grafis, Bologna
1991, p. 33.
5
Ibidem.
6
T. Scialoja, Una rapida luce segreta, intervista telefonica a cura di Ivan Crico trascritta nel suo
blog https://rebstein.wordpress.com/2009/09/19/una-rapida-luce-segreta-di-ivan-crico/

127
Partendo dall’«emozione di due versi omerico-pascoliani»7, a quel punto Scialoja
cominciò a comporre gli Esametri, poesie dal metro narrativo composte da versi
che contano diciassette sillabe. La prima raccolta scritta in esametri, Rapide e
lente amnesie (Marsilio 1994), oltre a rivoluzionare la metrica di Scialoja
sconvolge anche il flusso del tempo. Questo si piega, come era successo in pittura
dopo l’incontro con Le pitture nere di Goya, a una curva dall’andamento circolare
che ha in sé «la forza del germe e la forza della chiusura». La memoria sostituisce
la smemoratezza dei nonsense e la poesia del senso perso diventa
irreversibilmente poesia del ricordo:

Ricordavo, capisce? Tornava il mio passato, e l’infanzia, priva di morte,


abbandonava le mie poesie.8

7
T. Scialoja, Avvertenza, in Poesie 1979-1998, Garzanti (gli Elefanti), Milano 2004, p. 353.
8
T. Scialoja, in E. Ragazzoni, Spoleto festeggia il pittore e il poeta, in “Europeo”, Anno XXLVI,
n. 27, 1990, p. 102.

128
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Intervista telefonica a Toti Scialoja a cura di Ivan Crico:


https://rebstein.wordpress.com/2009/09/19/una-rapida-luce-segreta-di-ivan-crico/

Evento di Omaggio a Toti Scialoja del 16/12/2014 promosso dall’Accademia


Nazionale di san Luca:
http://nam.accademiasanluca.eu/nam/index.do?text=&cat=&page=&year=&ida=1
113&mult=2&lang=-1&ut=0

C. D’Orazio e G. Simongini, Toti Scialoja in mostra al Macro di Roma, intervista


radiofonica di “A3, il formato dell’arte”:
http://www.arte.rai.it/articoli/toti-scialoja-in-mostra-al-macro-di-
roma/29659/default.aspx

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